Dizionario della Resistenza. Storia e geografia della liberazione [Vol. 1]
 8806146890, 9788806146894

Table of contents :
Indice......Page 8
Introduzione......Page 22
Nota ai testi.......Page 26
Parte prima......Page 34
Antifascismo......Page 36
Crisi del regime fascista......Page 51
L’armistizio dell’8 settembre 1943......Page 63
L’occupazione tedesca in Italia......Page 74
Repubblica sociale italiana......Page 97
Il Regno del Sud......Page 109
La Resistenza in Europa......Page 129
Internamento militare italiano......Page 144
Deportazione dall’Italia (aspetti generali)......Page 155
Deportazione razziale: la persecuzione antiebraica in Italia, 1943-45......Page 172
I partigiani all’estero: la Resistenza fuori d’Italia......Page 179
La campagna d’Italia 1943-45......Page 224
Corpo italiano di liberazione......Page 238
Guerra partigiana......Page 248
Natura e funzione storica dei Comitati di liberazione......Page 260
Gli alleati e la Resistenza......Page 273
Rappresaglie , stragi, eccidi......Page 285
Resistenza civile......Page 299
Resistenza e territorio......Page 314
Stampa della Resistenza......Page 322
Chiesa e clero cattolico......Page 331
Liberazione......Page 354
Diritto e legislazione di guerra......Page 369
Parte seconda......Page 392
Basilicata, Calabria, Campania, Puglia......Page 394
Napoli......Page 407
Abruzzo......Page 419
Lazio......Page 431
Roma......Page 443
Marche......Page 455
Umbria......Page 474
Toscana......Page 486
Firenze......Page 496
Emilia Romagna......Page 501
Bologna......Page 514
Liguria, Genova......Page 518
Piemonte......Page 532
Torino......Page 542
Valle d’Aosta......Page 550
Lombardia......Page 555
Milano......Page 566
Veneto......Page 577
Zona Prealpi (Alpenvorland: Bolzano, Trento e Belluno)......Page 587
Bolzano e Alto Adige......Page 591
Belluno......Page 597
Trento e provincia......Page 603
Litorale Adriatico......Page 613
Udine......Page 626
Trieste......Page 630
Gorizia......Page 635
La provincia di Lubiana......Page 638
Istria......Page 640
Sardegna......Page 643

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Dizionario della Resistenza

Storia e geografia della Liberazione

Dizionario della Resistenza

Dizionario della Resistenza A cura di Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi

I Storia e geografia della Liberazione n Luoghi, formazioni, protagonisti

Dizionario della Resistenza A cura di Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi Volume primo Storia e geografia della Liberazione

Giulio Einaudi editore

Opera realizzata con la collaborazione della Coop Italia Consorzio nazionale delle cooperative di consumatori

© 2000 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Redazione: Anna Maria Farcito. Segreteria editoriale: Laura Piccarolo www.einaudi.it IS B N 8 8 - 0 6 - 1 4 6 8 9 - 0

Indice

p . XXI XXV

xxvn

Introduzione Nota ai testi Elenco delle abbreviazioni

Storia e geografia della Liberazione Parte prima LUIGI GANAPINI

Antifascismo 5 7 9

io 13 15 16

19

La fine dello stato liberale L’emigrazione politica in Francia Il «socialismo liberale» di Giustizia e libertà L’attività clandestina del Pedi Espansione del fascismo in Europa e nuove strategie di opposizione Guerra civile di Spagna e antifascismo italiano Regime e società: i volti del malcontento prima dell’8 settembre 1943 Nota bibliografica LUIGI GANAPINI

Crisi del regime fascista 20

23 25 27 29 3°

La «guerra parallela» La destituzione di Mussolini Le componenti politiche Le componenti economiche Il disagio sociale Nota bibliografica

Indice

vm

GIORGIO ROCHAT

L’armistizio dell’8 settembre 1943 p. 32 33 35 36 38 39 40

I termini della questione Le trattative per l’armistizio La proclamazione dell’armistizio La mancata difesa di Roma II collasso delle forze armate Un bilancio Nota bibliografica -

40

ILIO MURACA

La divisione A cqui ENZO COLLOTTI

L’occupazione tedesca in Italia 43 44 49 54 58

Come maturò l’occupazione Obiettivi e struttura dell’occupazione I rapporti con la Rsi Sviluppi dell’occupazione Nota bibliografica

58 60

- Alpenvorland Nota bibliografica

60 63

- Adriatisches Kiistenland Nota bibliografica

63

- Organizzazione Todt

64

- Kesselring Albert PIER PAOLO POGGIO

Repubblica sociale italiana 66 67 68 70 73 76

La formazione della Repubblica sociale italiana (Rsi) II Partito fascista repubblicano Le forze armate della Rsi Ideologia e politica Vecchie e nuove interpretazioni Nota bibliografica GLORIA CHIANESE

Il Regno del Sud 78 80

I presupposti della formazione del Regno La «Resistenza breve». Gli eccidi e le rivolte

Indice p. 84 87 88 90 91 94 95

II governo alleato e la monarchia I Cln meridionali I mass media: le radio libere e la stampa Le epurazioni Crisi economica e disagio sociale Nota bibliogràfica - Bari e il I Congresso dell’Italia liberata ENZO COLLOTTI

La Resistenza in Europa 98 100 101 103 104 106 108 110 112

Identità e differenza nei movimenti di Resistenza in Europa La Resistenza in Polonia II caso francese La Resistenza nei Balcani Unione Sovietica e Germania: aspetti diversi della Resistenza in Europa Gli alleati e la Resistenza La « Resistenza passiva » II ruolo della stampa clandestina e del movimento operaio Nota bibliografica NICOLA LABANCA

Internamento militare italiano 113 115 117 119

Gli internati militari italiani nel contesto della prigionia di guerra La sorte degli Imi tra Salò e Berlino La vicenda umana degli Imi Nota bibliografica - ALESSANDRO NATTA

12o

La Resistenza taciuta : Giuseppe Lazzati BRUNELLO MANTELLI

Deportazione dall’Italia (aspetti generali) 124 127 128 130 131 134 137 138 140 140

«Deportazione» e «deportati». Per una definizione del concetto II sistema concentrazionario nazista nell’ultima fase della seconda guerra mondiale II sistema concentrazionario fascista La macchina della deportazione degli italiani: alcuni dati complessivi La prima fase: 8 settembre - 30 novembre 1943 Dal dicembre 1943 all’agosto 1944 Dall’agosto 1944 all’aprile 1945 La deportazione dall’Adriatisches Kiistenland e il campo della Risiera di San Sabba La liberazione dei campi e il ritorno dei deportati Nota bibliografica

ix

Indice

X

LILIANA PICCIOTTO

Deportazione razziale: la persecuzione antiebraica in Italia, 1943-45 p. 141 142 144 145 147

La legislazione antiebraica fascista Le prime deportazioni ad Auschwitz La Carta di Verona e l’ordine di polizia del 30 novembre 1943 La «questione ebraica» in Italia dal 1944 a fine guerra Nota bibliografica ILIO MURACA

I partigiani all’estero: la Resistenza fuori d’Italia 148 152 155 161 164 170 176 180 183 185 191 191

Presupposti e modalità della Resistenza all’estero Iugoslavia La divisione italiana partigiana Garibaldi Località di maggiore interesse della Resistenza italiana in Iugoslavia Alcuni protagonisti della Resistenza in Iugoslavia Albania Grecia Isole del Mar Egeo Corsica Francia Conclusione Nota bibliografica GIORGIO ROCHAT

La campagna d’Italia 1943-45 193 194 195 196 198 199 201 202 204 205

La pianificazione strategica degli alleati L’Italia nella strategia tedesca Lo sbarco in Sicilia Lo sbarco di Salerno Verso la linea Gustav Cassino La continuazione della campagna La linea Gotica L’offensiva finale Nota bibliografica NICOLA LABANCA

Corpo italiano di liberazione 207 209 210

Le Forze armate italiane dopo l’8 settembre La marina e l’aeronautica La crisi dell’esercito

In d ice p. 212 213 215

Forze armate e Resistenza: una coesistenza difficile II ruolo dell’esercito nel Regno del Sud Nota bibliografica - FREDIANO SESSI

215

Gruppo Cremona MARIO GIOVANA

Guerra partigiana 217 219 222 223 225 228

La nascita del movimento partigiano Prerogative della guerriglia partigiana “Apprendistato” e disciplina dei militanti Autonomia d’azione e unità d ’intenti Lo scenario della guerra partigiana Nota bibliografica ENZO COLLOTTI

Natura e funzione storica dei Comitati di liberazione 229 231 233 234 235 236 239 240 241

Nascita e sviluppo dei Comitati di liberazione II dibattito all’interno dei Cln II Comitato centrale di liberazione nazionale di Roma (Ccln) II Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai) Alleati, governo e Cln, un dibattito aperto I colloqui di Roma e la delega al Clnai II dibattito delle « cinque lettere » lim iti imposti all’azione del Cln Nota bibliografica DAVID ELLWOOD

Gli alleati e la Resistenza 242 244 247 251 253

II quadro di riferimento I servizi segreti: N. 1 Special Force e Office of Strategie Services Le fasi La storiografia Nota bibliografica ENZO COLLOTTI - TRISTANO MATTA

Rappresaglie, stragi, eccidi 254 256 264 267

Introduzione Tipologia e periodizzazione Memoria e storiografia Nota bibliografica

xi

xn

Indice ANNA BRAVO

Resistenza civile p. 268 271 274 276 279 282

Forme di lotta La Resistenza e la figura femminile II senso comune storiografico II concetto di resistenza civile Resistenza civile e resistenza delle donne Nota bibliografica ANDREA ROSSI

Resistenza e territorio 283 285 287 289 290

I primi tentativi di resistenza e l’esempio balcanico II presupposto territoriale Le fasi della lotta e il controllo del territorio Le forze partigiane e la conoscenza del territorio Nota bibliografica GIANNI PERONA

Stampa della Resistenza 291 293 295 296 297 298 299

Definizione I produttori dei testi Gli stampatori e i diffusori I destinatari e il pubblico reale I contenuti Le forme della comunicazione Nota bibliografica M IMMO FRANZINELLI

Chiesa e clero cattolico 300 304 309 314 321

La guerra, cuneo tra Chiesa e regime L’impegno dell’episcopato per la moderazione del conflitto II clero dinanzi alla Rsi e al movimento partigiano I cappellani partigiani Nota bibliografica LUCIANO CASALI - GAETANO GRASSI

Liberazione 323 324 326

La questione istituzionale II dibattito politico «Liberazione»: gli altri significati del termine

Indice p. 326 328 329 333 334

La lotta partigiana durante l’inverno 1944-45 I Cln e gli alleati: un confronto critico Aprile 1945: la liberazione dell’Italia del Nord Conclusione Nota bibliografica -

334

PAOLO EM ILIO T AVIANI

L ’insurrezione dì Genova ETTORE GALLO

Diritto e legislazione di guerra 338 339 341 345 347 349 355 359

Istituzione del diritto internazionale bellico Le Convenzioni di Ginevra Gli altri trattati fra 1919 e 1945 L’assetto normativo nel ventennio fra le due guerre II Tripartito e la violazione reiterata dei trattati L’istituto della rappresaglia La legislazione di guerra dopo il 1945 Nota bibliografica

Parte seconda GLORIA CHIANESE

Basilicata, Calabria, Campania, Puglia 363 363 365 367 370 374

Assetto sociopolitico nel Mezzogiorno La protesta contadina in Calabria Le sollevazioni in Basilicata Fermento politico e lotta sociale in Puglia La resistenza e le rivolte in Campania Nota bibliografica GLORIA CHIANESE

Napoli 376 378 381 383 385 387

La “guerra totale” Da “guerra totale”a “guerra di sterminio” Sentimento antitedesco e antifascismo politico Le Quattro giornate: modalità della rivolta La “pace dimezzata” Nota bibliografica

xm

Indice LUIGI PONZIANI

Abruzzo

39i

393 396 398

399

Rievocazione e retorica resistenziale Il passaggio del fronte in Abruzzo Le condizioni di vita della popolazione La riaffermazione del fascismo Le connotazioni della Resistenza in Abruzzo L’internamento e il domicilio coatto Nota bibliografica GIANCARLO MONINA - GABRIELE RANZATO

Lazio 400 402 4°3 405 406 407 407 408 409 410 411

La scarsa diffusione della Resistenza nel Lazio Civitavecchia Viterbese e Alto Lazio Bassa Sabina Reatino Valle dell’Aniene Monti Prenestini Castelli Romani Ciociaria Il mancato coordinamento delle forze resistenziali Nota bibliografica GABRIELE RANZATO

Roma 412 413 4i 5 418 420 421 423

I caratteri della resistenza romana La difesa della città I partiti antifascisti durante l’occupazione tedesca L’inasprimento della lotta dopo lo sbarco alleato di Anzio L’attentato di via Rasella e le Fosse Ardeatine La liberazione Nota bibliografica PAOLO GIOVANNINI - DORIANO PELA

Marche 424 A

Territorio e popolazione II governo della Rsi e l’occupazione tedesca L’organizzazione delle bande partigiane

Indice p. 431 440 441 441

Le fasi di una lotta aspra e cruenta I campi di internamento Conclusione Nota bibliografica GIANFRANCO CANALI

Umbria 443 445 447 450 452 454

Formazione del movimento partigiano Sviluppo ed espansione delle forze partigiane Ruolo politico e militare delle formazioni La «lotta alle bande» La “grande stagione” della Resistenza umbra Nota bibliografica NICOLA LABANCA

Toscana 455 457 458 459 461 463 464

Connotazione della Resistenza in Toscana Le ragioni politiche Le prime formazioni partigiane II contesto di espansione del movimento partigiano La lotta di liberazione e le stragi nazifasciste La liberazione di Firenze Nota bibliografica NICOLA LABANCA

Firenze 465 466 468 469

Antifascismo e forze politiche Le azioni di lotta La liberazione della città Nota bibliografica

LUCIANO CASALI

Emilia Romagna 470 472 476 478 480 482

Le ragioni sociali, politiche e umane dell’antifascismo emiliano e romagnolo I primi passi della lotta partigiana La Resistenza in pianura La lotta armata La Resistenza sull’Appennino Nota bibliografica

xv

XVI

Indice LUCIANO CASALI

Bologna p. 483 484 486

Fascismo e opposizione Le modalità della Resistenza bolognese Nota bibliografica ANT ONIO GIBELLI

Liguria, Genova 487 489 492 494 497 500

L’inizio della lotta armata La resistenza politica e la lotta in città Le lotte operaie Lo sviluppo del partigianato L’insurrezione Nota bibliografica MARIO GIOVANA

Piemonte 501 503 504 506 507 508 510

Caratteri della Resistenza in Piemonte I Comitati politici e militari L’azione delle bande armate partigiane Le «zone libere» II difficile autunno-inverno 1944-45 I giorni della liberazione Nota bibliografica MARIO GIOVANA

Torino 511 513 516 518

La situazione sociopolitica Le agitazioni operaie Le fasi conclusive della lotta e la liberazione della città Nota bibliografica MARIO GIOVANA

Valle d’Aosta 519 520 522 523 523

L’impulso autonomista e le forze resistenziali L’incremento della lotta partigiana Le premesse al riconoscimento dell’autonomia Gli ultimi mesi di guerra Nota bibliografica

Indice LUIGI BORGOMANERI

Lombardia p. 524 525 527 530 533 534

Le condizioni sociopolitiche L’occupazione nazista e la repressione Le fasi organizzative del movimento di Resistenza La lotta partigiana Gli ultimi combattimenti Nota bibliografica LUIGI BORGOMANERI

Milano 535 537 540 541 545

Antifascismo e formazione del movimento partigiano Lotta operaia e lotta armata L’autunno-inverno 1944-45 L’insurrezione e la liberazione della città Nota bibliografica JEAN PIERRE JOUVET - RENATO SANDRI

Veneto 546 547 549 551 553 554 555

L’attenzione nazifascista al Veneto occupato La formazione delle bande partigiane Le missioni alleate La svolta dell’autunno-inverno 1944-45 La banda Carità Le componenti sociali e religiose Nota bibliografica CARLO ROMEO - LEOPOLD STEURER

Zona Prealpi (Alpenvorland: Bolzano, Trento e Belluno) 556 557 558

II ventennio fascista Le «opzioni» del 1939 La Zona d ’operazione delle Prealpi CARLO ROMEO - LEOPOLD STEURER

Bolzano e Alto Adige 560 561 562 563

I venti mesi della Zona d ’operazione delle Prealpi (Zop) II Cln dell’Alto Adige La liberazione La resistenza tedesca

xvn

xvm p. 564 565

Indice La Resistenza nel dopoguerra Nota bibliografica FERRUCCIO VENDRAMINI

Belluno 566 567 568 571

Occupazione e amministrazione nazista Le formazioni partigiane Le tragiche vicende de)l’autunno-inverno 1944-45 e ^ liberazione Nota bibliografica JEAN PIERRE JOUVET

Trento e provincia 572 574 575 577 579 581

II Trentino nefl’Alpenvorland dopo l’8 settembre La formazione delle bande partigiane 1944. Gli arresti, gli eccidi e le rappresaglie Gli episodi della lotta armata Per una valutazione della Resistenza in Trentino Nota bibliografica GALLIANO FOGAR

Litorale Adriatico 582 584 585 589 590 592

L’invasione della Iugoslavia e la guerriglia autoctona La costituzione del Litorale Adriatico L’azione armata e le «zone libere» Le fasi finali della lotta di liberazione e la repressione iugoslava Alcuni dei principali eccidi e distruzioni da parte tedesca e fascista Nota bibliografica MARCO PUPPINI

Udine 595 596 596 598

Le formazioni partigiane Le zone libere La lotta armata e le implicazioni politiche Nota bibliografica GALLIANO FOGAR

Trieste 599 600 601

Regime fascista e antisemitismo L’estendersi della guerriglia Friedrich Rainer e l’«arbitraggio» nazista

Indice p. 601 603

I contrasti politici e la guerra di liberazione Nota bibliografica MARCO PUPPINI

Gorizia 604 605 606 606

La situazione sociopolitica La lotta italoiugoslava al nazifascismo La liberazione e l’amministrazione iugoslava Nota bibliografica MILAN PAHOR

La provincia di Lubiana 607 608

L’annessione al Regno d’Italia II potenziale economico GALLIANO FOGAR

Istria 609 609 61 o 611

Requisiti della provincia istriana II fascismo e la guerra La lotta di resistenza Nota bibliografica LUISA MARIA PLAISANT

Sardegna 612 613 614 617

Configurazione dell’antifascismo in Sardegna La «resistenza mancata» II contributo dei combattenti sardi alla guerra di liberazione Nota bibliografica

x ix

Introduzione

Consapevoli che Dizionario è opera che in sé implica, tra l’altro, defi­ nizioni, categorie, elenchi disposti secondo un preciso ordine, il più delle volte «per bene intendere le cose» (come suggerisce Leonardo - Codice di Windsor 19086), abbiamo creduto di dovere proporre come titolo per il no­ stro lavoro di sintesi e di riflessione sulla Resistenza questo primo lemma, per indicare non tanto una somma di varie parole e significati, presi in sen­ so diacronico e sincronico, un’opera che si limiti a elencare e classificare, circoscrivendo fatti e concetti, ma piuttosto la presenza di voci, lemmi e percorsi, a volte anche con ordine alfabetico, che consentano, nel loro in­ sieme, di intendere e se si vuole interpretare (informare, descrivere, inter­ rogare, problematizzare) un fenomeno storico al tempo stesso cosi studia­ to (in Italia e all’estero) e così controverso, indagato e letto per molti anni dopo la fine della guerra da punti di vista che hanno cercato non solo di rac­ contare fatti ed eventi, ma di spiegarli a partire da a priori logici o ideolo­ gici che, spesso, ne hanno influenzato le forme della memoria e della storia (si veda al proposito il saggio di Claudio Pavone e Adriano Ballone, La Re­ sistenza: un percorso storiografico, in Appendice, voi. II). Tanto che ancora oggi sembra difficile parlare o scrivere di Resistenza italiana, con il dovu­ to distacco che merita ogni periodo che già appartiene al passato storico e alla memoria collettiva di un intero popolo. L’accentuazione geografica accanto a quella storica ci sembra rappresen­ ti inoltre uno spiccato elemento di novità per un’opera complessiva come questa, e non solo perché rompe l’idea cristallizzata e diffusa di una Resi­ stenza dal carattere unitario (che da tempo gli studi e le ricerche degli sto­ rici avevano abbandonato), ma perché dà spazio a una notevole mole di la­ vori regionali e locali che in questi ultimi anni hanno contribuito a resti­ tuire complessità e veridicità a un fenomeno ancora lontano dall’essere compreso e analizzato appieno in ogni suo risvolto. Prende corpo cosi, per il lettore, anche grazie alla geografia del movimento resistenziale, una quest che a tratti solleva ancora echi polemici: quale sia cioè il rapporto tra un’espe­ rienza così sconvolgente come fu la lotta di liberazione, anche per la plura­ lità delle sue anime, e l’Italia repubblicana, con il suo attuale assetto istitu­ zionale. E se è pur vero che gli italiani combattenti nelle file dei partigiani, nei diversi periodi di mobilitazione e fino alla liberazione, furono una mi­

xxn

Introduzione

noranza (ufficialmente riconosciuti con approssimazione intorno ai 220000), così come lo furono i fascisti militanti, tra i due estremi si collocò una mag­ gioranza non certo omogenea (il cui atteggiamento andava dalla resistenza passiva al collaborazionismo passivo, e attraverso le varie forme di attendi­ smo, di doppio gioco, di compromessi, di attenzione a salvaguardare in pri­ mo luogo la propria sopravvivenza e di collaborazionismo burocratico) del cui comportamento rendono conto non solo i diversi lemmi, ma anche le voci regionali e locali che insieme ai saggi di impostazione della prima par­ te costituiscono l’ossatura portante del Dizionario. Studi regionali e locali che qui sintetizzati da specialisti e ricercatori in maggior parte legati ai va­ ri Istituti di storia, associati all’istituto nazionale per la storia del movi­ mento di liberazione in Italia (Insmli), danno conto in modo unitario delle diverse forme ed espressioni di partecipazione alla Resistenza, al Centronord come nel Mezzogiorno. Articolato in due volumi, il Dizionario geografico e storico della Resisten­ za si divide in quattro parti: la prima è composta da saggi di impostazione generale, affidati a specialisti incaricati non solo di dar conto dei maggiori eventi e delle rispettive linee di lettura, ma di fare il punto sulle questioni storiografiche ancora aperte, sia sul piano della ricerca, sia sul piano dell’in­ terpretazione, in modo da fornire insieme un disegno di sintesi generale e una serie di piste di lavoro. Questa Parte prima fornisce dunque un quadro d’insieme di fatti e problemi che riguardano l’Italia, i suoi abitanti e le for­ ze politiche e militari in campo dall’8 settembre alle giornate della libera­ zione. Pur essendo autonomi uno dall’altro, i singoli capitoli consentono una precisa puntualizzazione storica della materia affrontata e lasciano aperti percorsi di approfondimento cui il lettore potrà dar seguito anche consul­ tando la bibliografia essenziale alla fine di ogni trattazione. La Parte seconda assicura al lettore una dettagliata analisi del fenome­ no storico regione per regione e consente di prendere in esame fatti ed even­ ti anche delle città che furono i centri maggiori della lotta partigiana, del­ l’avanzata degli alleati e dello scontro con l’occupante tedesco e con i fa­ scisti della Rsi (mentre per le altre città capoluogo di provincia e le molte località implicate nella guerra di liberazione, il rimando è al Volume secondo alla sezione Località). La Parte terza, cui è riservata quasi la totalità del Volume secondo, è co­ stituita da un lemmario che vuole rappresentare uno strumento informati­ vo e insieme di approfondimento di molte delle problematiche, dei fatti e dei protagonisti della Resistenza. I lemmi, affidati anche nel caso di brevi scritti informativi a specialisti e ricercatori dell’università o degli Istituti di storia, se non direttamente ai curatori dell’opera, sono suddivisi in ordine alfabetico in undici macrotemi: località; formazioni e organismi partigiani; zone libere; movimenti di massa, scioperi, organizzazioni unitarie; alleati e Resistenza; partiti e movimenti politici; stampa clandestina; stragi, eccidi, rappresaglie; luoghi di detenzione e tortura; lager nazisti; biografie. In mol­

Introduzio ne

xxm

ti casi, la selezione dei lemmi è esemplificativa e segue criteri legati o al ri­ lievo che un luogo, una persona, una famiglia o un foglio clandestino, per da­ re solo alcuni esempi, hanno assunto nella Resistenza; o ancora, come per il caso delle stragi o dei luoghi di detenzione e tortura, per fare un altro esempio, il criterio è rappresentato dagli studi prodotti e convergenti in un certo qual modo su risultati che allo stato attuale si possono considerare de­ finitivi o scientificamente affidabili. Certe sezioni del lemmario, come quel­ la delle zone libere o delle formazioni partigiane, tendono invece a essere esaustive. In ogni caso, proprio questo elemento della selezione esemplifica­ tiva (legata anche alla scelta della dimensione dell’opera), dà spazio a omis­ sioni ed esclusioni che tendono a essere attenuate dalla rete di rimandi al­ le altre parti del Dizionario o dalla presenza di un indice dei nomi e dei luo­ ghi (grazie ai quali si potranno ritrovare protagonisti, episodi, fatti o località, non inseriti con una voce specifica nel lemmario). In ogni caso, il criterio di scelta non è mai stato ideologico, ma ha teso sempre a dar conto del com­ plesso e dell’articolazione dei temi toccati. La Parte quarta del Dizionario tende a fornire al lettore alcuni strumenti di approfondimento ulteriore, con una sezione destinata alle sanzioni con­ tro il fascismo, una che sviluppa un percorso storiografico dal dopoguerra ai più recenti lavori, l’elenco delle medaglie d’oro, e la bibliografia genera­ le che integra quella già presente in fondo alle diverse voci della prima e della seconda parte e a molti dei lemmi della terza parte. L’indice dei no­ mi, per il quale si è adottato il criterio di inserire solo cognomi e nomi di uomini e donne antifascisti, combattenti e vicini alla Resistenza (escluden­ do così i militanti e combattenti delle forze di occupazione e della Rsi o vi­ cini ad esse), e l’indice dei luoghi completano l’opera. Un altro elemento di novità, per un lavoro di sintesi come questo, è rap­ presentato dalla presenza in tutte le sue parti di voci e lemmi che tengono conto dei cosiddetti quattro fronti del movimento resistenziale: dei soldati e degli ufficiali nei campi di internamento militare e dei politici e degli ebrei nei campi di concentramento e sterminio; dei partigiani italiani all’estero; dei soldati dell’esercito nella campagna d’Italia; e infine del movimento par­ tigiano. Con Claudio Pavone possiamo ricordare che la Resistenza come tale tentò di superare «innanzitutto nelle coscienze, l’opposizione tra società ci­ vile e Stato, fra moralità pubblica e moralità privata o, se si preferisce, fra etica della convinzione ed etica della responsabilità». Rappresentò un pro­ getto di lotta e di società a partire dalla guerra contro l’occupante nazista e contro il fascismo che aveva retto le sorti dell’Italia per un ventennio. I limiti e gli errori di un simile disegno sono ancora oggetto di indagine e di valutazione da parte degli storici, come lo è la somma dei vantaggi che es­ so ha arrecato alla Repubblica italiana. I curatori di questo Dizionario, consapevoli del carattere non esaustivo delle pagine qui raccolte, ma insieme della necessità di un’opera che faces­

x x iv

Introduzione

se il punto della ricerca e degli studi passati e in corso, e fosse in grado di fornire strumenti di conoscenza e di approfondimento, sperano di contri­ buire con il loro lavoro a far comprendere almeno in parte le molte ragioni che spinsero uomini e donne, di estrazione sociale e cultura diversa, a de­ cidersi di «trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune», co­ me scrive Giaime Pintor, per combattere, pur nelle differenze politiche, re­ ligiose e ideologiche, un’idea nefasta di nazione e di Europa quale fu quel­ la del fascismo e del nazismo. E . COLLOTTI - R. SANDRI - F . SESSI

Mantova-Firenze, agosto 2000.

N o t a ai t e s t i .

I testi che compongono i due volumi di questo Dizionario, strutturati in forma di saggio o di lemma in base alla sezione d’appartenenza, rispondono necessariamente a un canone unitario, seppure nella veste variegata costituita dalla pluralità degli autori. Nell’ambito delle norme di carattere generale che informano l’intero lavoro, desideria­ mo in modo particolare sottolineare i punti seguenti: - note bibliografiche: sono poste in calce al saggio o al lemma in corpo minore. Nell’elencazione delle opere è stato applicato il criterio dell’ordine alfabetico, poi­ ché si danno di preferenza le ultime edizioni, più facilmente reperibili; - rinvìi bibliografici: sono collocati nel testo tra parentesi quadre, per lo più col so­ lo cognome dell’autore e l’anno di edizione del volume, e si riferiscono alla nota bibliografica relativa alla voce; - rinvìi ad altre voci: sono espressi nel testo con l’asterisco (*) e rimandano a trat­ tazioni complementari o maggiormente approfondite dell’argomento in esame. Non si tratta di rinvii obbligati ma ragionati, che tracciano percorsi di consulta­ zione privilegiati e ulteriormente incrementabili mediante l’utilizzo di alcuni stru­ menti presenti in appendice al Volume secondo, quali il lemmario completo e gli indici dei nomi e dei luoghi; - sigle: l’uso ricorrente di sigle e acronimi è supportato dall’Elenco delle abbrevia­ zioni presentato all’inizio di ogni volume. Per quanto riguarda i saggi della Parte prima e della Parte seconda, si propone una prima volta la terminologia per este­ so seguita dalla sigla o dall’acronimo tra parentesi tonde. Si è inoltre preferito limitare, ove possibile, l’uso delle maiuscole a favore di una maggiore fluidità del testo. Per questo motivo le sigle presentano la sola lettera inizia­ le maiuscola - tranne gli acronimi tedeschi, in maiuscoletto; istituzioni e cariche pub­ bliche sono quasi sempre espressi con la lettera iniziale minuscola; enti, organismi e as­ sociazioni presentano la maiuscola solo alla prima parola dell’intero nome costitutivo; e infine, sempre in quest’ottica, si è operata una differenziazione contenutistica per quanto riguarda alcuni termini di ampio uso - tra cui proprio ‘resistenza’ - scegliendo di volta in volta l’iniziale maiuscola o minuscola secondo il contesto.

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Auswartiges Amt Azione cattolica Allied Control Commission (Commissione di controllo alleata) Associazione cristiana dei lavoratori italiani Archivio Centrale dello Stato Allied Force Head Quarters Andreas Hofer Bund (Organizzazione Andreas Hofer) Aufienkommandos Allied Military Government (Governo militare alleato) Allied Military Government Occupied T erritories (Governo mi­ litare alleato dei territori occupati) Associazione nazionale combattenti Associazione nazionale ex deportati Associazione nazionale ex internati Associazione nazionale partigiani d’Italia Associazione nazionale perseguitati politici antifascisti Armeeoberkommando Archivio dell’Ordinariato militare d’Italia Aufienposten Azienda rilievo e alienazione residuati Armata italiana in Russia Associazione volontari della libertà Befehlshaber der Sipo-SD Comitato centrale di liberazione nazionale Centro di documentazione ebraica contemporanea Confederazione generale del lavoro Confederazione generale italiana del lavoro Comitato internazionale della Croce rossa Corpo italiano di liberazione Comitato di liberazione nazionale Comitato di liberazione nazionale Alta Italia Cln regione Piemonte Cln regione Veneto Consiglio nazionale repubblicano della gioventù

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Elenco delle abbreviazioni

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Comitati proletari antifascisti Comitati popolari di liberazione Carteggio riservato Corpo di sicurezza trentino Cln della Toscana Comando unico militare per l’Emilia-Romagna Corpo volontari della libertà Deutsche Ausriistungswerke GmbH Democrazia cristiana Democrazia del lavoro Polizei- und Durchgangslager Etnikon Apeleuterotikon Metopon (Fronte nazionale di libera­ zione) Ente comunale di assistenza Ethikos Demokratikos Ellenikos Sundesmos (Unione nazionale greca democratica) Einsatzkommando Reinhard Ellenikon Laikos Apeleuterotikos Stratòs (Esercito popolare di liberazione greco) Esercito popolare di liberazione iugoslavo Forze armate della patria Fondo brigate Garibaldi Fronte clandestino militare della Resistenza Fronte della gioventù Federazione italiana associazioni partigiane Francs tireurs et partisans Federazione universitaria cattolica italiana Gruppi d’azione patriottica Generalbevollmàchtigter fiir den Arbeitseinsatz Gruppi di difesa della donna Geheime Staats - Polizei (Polizia segreta di stato) Giustizia e libertà Governo militare alleato Gruppo mobile operativo Guardia nazionale repubblicana Gruppi universitari fascisti Hòherer SS- und Polizeifiihrer Istituto campano per la storia della resistenza Istituto Gramsci, Roma Internati militari italiani Internationale Militàrische Organisation Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza Istituto storico della resistenza

Elenco delle abbreviazioni

Isr Firenze Isr Modena Isr Padova Isr Pesaro Isr Pontremoli Isr Torino Isr Trieste Isr Udine kds k l kpd

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Onarmo Onmi Ori Orpo Oscar Oss Ovra Pai Pedi Pcf Pei Pcs Pda Pfr Pii Pii Pnf Pp Pri Psda Psi Psiup Psuli Pwb

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Istituto storico della resistenza in T oscana Istituto storico della resistenza e di storia contemporanea in Mo­ dena e provincia Istituto veneto per la storia della resistenza Istituto pesarese per la storia del movimento di liberazione Istituto storico della resistenza apuana Istituto storico della resistenza in Piemonte Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli - Venezia Giulia Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione Kommandeure der Sipo-SD Konzentrationslager Kommunistische Partei Deutschlands (Partito comunista tedesco) Kriminalpolizei Leibstandarte Adolf Hitler Movimento giovanile comunista Main-d’ouvre immigrée Movimento di unità proletaria Milizia volontaria per la sicurezza nazionale Osvobodilna Fronta (Fronte di liberazione) Oberkommando der Wehrmacht Opera nazionale per l’assistenza religiosa e morale agli operai Opera nazionale maternità e infanzia Organizzazione della Resistenza italiana Ordnungspolizei Organizzazione soccorso cattolico agli antifascisti ricercati Office of Strategie Services Opera di vigilanza e repressione antifascista Polizia delTAfrica italiana Partito comunista d’Italia Partito comunista francese Partito comunista italiano Partito comunista sloveno Partito d’azione Partito fascista repubblicano Partito italiano del lavoro Partito liberale italiano Partito nazionale fascista Partito popolare Partito repubblicano italiano Partito sardo d’azione Partito socialista italiano Partito socialista italiano di unità proletaria Partito socialista unitario dei lavoratori italiani Psychological Warfare Branch

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Elenco delle abbreviazioni

Rap RSHA

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Soe Spd Spe SS SVP

Tigr Timo Udi UU UH VL WVHA

Zavnoh Zop

Reparti antipartigiani Reichssicherheitshauptamt (Ufficio centrale per la sicurezza del Reich) Repubblica sociale italiana Reparto servizi speciali Riistung und Kriegsproduktion Squadre di azione patriottica Special Air Service Sicherheits Dienst (Servizio di sicurezza) Special Force Servizio informazioni militari Servizio informazioni partigiane Sicherheitspolizei-Sicherheitsdienst Stato maggiore dell’esercito Sicherheits- und Ordnungsdienst Special Operations Executive Segreteria particolare del duce Servizio permanente effettivo Schutzstaffel (Squadre di sicurezza) Siidtiroler Volkspartei Trst Istra Gorica Rijeka (Movimento irredentista sloveno) Truppe italiane della Macedonia orientale Unione donne italiane Unione italiana del lavoro Unione lavoratori italiani Vernichtungslager Wirtschafts- und Verwaltungshauptamt (Ufficio centrale econo­ mico e amministrativo) Zemalisko antifasisticko vijece narodnog osvobodjenia Hrvatske (Consiglio territoriale antifascista di liberazione della Croazia) Zona d’operazione delle Prealpi

Storia e geografia della Liberazione

Parte prima

L U I G I G A N A P IN I

Antifascismo

La fine dello stato liberale. L’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti e le forme di protesta adottate dalle opposizioni spinsero Mus­ solini a rivendicare tutte le responsabilità del fascismo e a mettere in atto provvedimenti che segnarono la distruzione definitiva dello stato liberale. Solo in modo parziale il carattere nuovo del fascismo fu compreso dai de­ putati dell’opposizione che decisero nell’agosto 1924, dopo il ritrovamen­ to del corpo di colui che aveva denunciato in Parlamento le violenze eletto­ rali e le responsabilità dirette di Mussolini, Giacomo Matteotti, di abban­ donare la Camera fino a che non fosse stata ristabilita la legalità. Il carattere autoritario, antidemocratico e violento del fascismo fu pubblicamente mes­ so sotto accusa attraverso una intensa campagna giornalistica, in cui si di­ stinse tra le altre la testata diretta dal liberale Giovanni Amendola, « Il Mon­ do». In questo giornale fu pubblicato il memoriale di Cesare Rossi, già capo dell’ufficio stampa di Mussolini, che chiamava in causa la diretta respon­ sabilità del duce delle Camicie nere. L’azione dell’Aventino (come fu denominato il raggruppamento di for­ ze che si ritirò dall’attività parlamentare) si basava sulla convinzione che fos­ se ancora possibile riguadagnare le forme della lotta politica in un quadro di legalità democratico-borghese. Le speranze erano concentrate soprattutto in un intervento risolutore del sovrano Vittorio Emanuele III, che tuttavia si trincerava dietro la richiesta di un voto di sfiducia da parte della Came­ ra, fingendo di ignorare che la composizione di quest’ultima era proprio il frutto della situazione illegale sulla quale gli si chiedeva di intervenire. La stessa secessione aventiniana respinse la proposta del Partito comunista d’Italia (Pedi), formulata da Antonio Gramsci, perché l’assemblea delle op­ posizioni si costituisse in «antiparlamento» e rivendicasse la guida politica del paese. A seguito del rigetto della loro proposta, i deputati comunisti de­ cisero di rientrare in aula. Nel complesso l’atteggiamento della maggioran­ za dell’Aventino si fondava sulla convinzione che il fenomeno politico fa­ scista fosse una componente transeunte della crisi italiana del dopoguerra. Molto concorsero a rafforzare questa diagnosi presso i settori dell’opinio­ ne pubblica borghese, liberale o conservatrice, la paura del «pericolo ros­ so» e la speranza che fosse possibile addomesticare le squadre fasciste, do­ po averle utilizzate in funzione antisocialista e anticomunista. Gli ultimi

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mesi del 1924 videro le fila fasciste scompaginate per il discredito che le an­ dava circondando nel paese; ma l’incapacità dell’Aventino di elaborare pro­ poste politiche che rovesciassero definitivamente il quadro e restituissero alle forze democratiche la capacità di agire politicamente permise di recu­ perare il terreno perduto e Mussolini, il 3 gennaio 1925, di fronte alla Ca­ mera, osò proclamare la propria responsabilità morale e politica per quan­ to era accaduto: alla sfida l’Àventino rispose con un debole comunicato di protesta emesso solo 1*8 gennaio. Nel corso del 1925 due iniziative tra lo­ ro in contrasto contribuirono a chiarire la profondità della frattura che si andava delineando nella società italiana: a un Manifesto degli intellettualifa ­ scisti, proposto da Giovanni Gentile, che intendeva attestare il legame che si andava instaurando tra cultura e regime, si contrappose Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani al manifesto degli intellettuali fascisti promossa da Benedetto Croce, in cui veniva rivendicata l’autonomia della cultura dalla politica e venivano denunciate la sopraffazione violenta e la rot­ tura con gli ideali di libertà risorgimentali poste in essere dal fascismo. An­ che il Manifesto degli intellettuali antifascisti (come viene per lo più designa­ to) confermava i limiti dell’opposizione di stampo liberale con il richiamo orgoglioso a un’autonomia dell’intellettuale che, pur nobilmente intesa, la­ sciava libero il campo alle forze del fascismo. Per quanto altri esponenti del liberalesimo (tra cui lo stesso Giovanni Amendola, che di li a un anno mo­ rirà per le bastonature subite dai fascisti) o esponenti delle forze cattoliche (il popolare Francesco Luigi Ferrari) invitassero a cercare strumenti di op­ posizione più incisivi, l’impossibilità di uscire dal vicolo cieco dell’Aventi­ no era confermata sul piano politico come su quello culturale. Per parte loro le forze della sinistra, reduci da una sconfitta che ne ave­ va moltiplicato le scissioni, stentavano a dare un’analisi del fascismo che andasse oltre la denuncia della sopraffazione violenta e sapesse progettare una prospettiva di opposizione di lungo periodo. Le scissioni del 1921 (da cui nacque il Pedi) e degli anni successivi tra socialisti massimalisti e so­ cialisti riformisti avevano lasciato strascichi profondi che impedirono che prendesse corpo una prospettiva di una lotta unitaria contro il fascismo. La debolezza delle sinistre non fu tuttavia dovuta solo alle rivalità intestine. Per circa un decennio - fino alla metà degli anni trenta - la complessità del fenomeno fascista stentò a essere colta dall’insieme di tutte le forze di op­ posizione. Ridotto per lo più al comune denominatore della violenza, il fa­ scismo non fu visto nelle sue connessioni con il contesto sociale, nelle sue connivenze con l’ideologia d’ordine, con gli apparati dello stato; così come non ne fu colto il complesso carattere che gli permetteva di acquisire anche l’appoggio e la partecipazione di parte almeno delle classi popolari. Nel 1925 tuttavia alcuni gruppi, animati anche da una significativa pre­ senza di giovani che si rifacevano alla tradizione democratico-risorgimen­ tale, davano vita a pubblicazioni, quali il «Il Caffè» a Milano (Ferruccio Parri, Riccardo Bauer, Giovanni Mira) e il «Non mollare» a Firenze (Gae­ tano Salvemini, Ernesto Rossi e Nello Traquandi), in cui esprimevano l’in­

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soddisfazione delle scelte legalitarie fino allora perseguite. Da questi gior­ nali nascerà una prima organizzazione clandestina, Italia libera. Negli anni precedenti il giovane intellettuale torinese Piero Gobetti, soprattutto sulle pagine della rivista «Rivoluzione liberale», aveva elaborato diagnosi - a cui andava rifacendosi anche questa nuova opposizione - che raccordavano il fascismo ai caratteri profondi dello stato postunitario e alle insufficienze democratiche delle classi dirigenti italiane. Su una linea di opposizione di massa stava peraltro il Partito comunista a cui tuttavia l’isolamento nel con­ testo della società politica italiana impediva di elaborare una strategia arti­ colata, che tenesse conto delle contraddizioni dell’avversario per tessere al­ leanze sociali e politiche. La persecuzione antiproletaria, connaturata alle origini stesse del movimento fascista, aveva accompagnato ogni passo di Mussolini verso il potere e si perpetuava negli anni di consolidamento del regime. Dopo le leggi eccezionali del 1925-26, che portavano alla soppres­ sione delle opposizioni legali e chiudevano ogni spazio per la manifestazio­ ne legittima di ogni dissenso, l’istituzione del Tribunale speciale per la di­ fesa dello stato (25 novembre 1926) e l’ampio utilizzo di provvedimenti di polizia (quali il confino) mettevano nelle mani del regime potenti strumen­ ti per la persecuzione degli oppositori. Il Tribunale speciale inflisse un nu­ mero altissimo di condanne, tra le quali trentuno (dalla sua istituzione al 23 luglio 1943) comportarono la pena di morte: la sola «intenzione di uc­ cidere il capo del governo» comportò nel 1931 la fucilazione di Michele Schirru, un evento che suscitò scandalo per la mostruosità giuridica della motivazione. Altissimo il numero degli ergastoli comminati; negli ultimi an­ ni del regime, ci fu una recrudescenza con una ripresa delle pene capitali a carico degli antifascisti sloveni. Quanto al confino di polizia, fu esercitato tramite commissioni provinciali (tredicimila le condanne emanate in tutto il periodo). Esso si reggeva sull’attività ordinaria di polizia, sulla polizia spe­ ciale denominata Ovra e su un’opera di delazione capillare. Questa realtà non aveva solo un aspetto politico: soprattutto a livello delle classi popola­ ri era messa in pericolo la stessa possibilità di condurre una vita lavorativa normale e di godere delle minime garanzie civili. L ’emigrazione politica in Francia. La persecuzione continua e quotidia­ na fu alla base di un forte incremento di un’emigrazione che, pur facendo parte dell’ondata migratoria degli anni venti, aveva anche motivazioni po­ litiche. Le punte massime di questa emigrazione furono raggiunte nel 1923 e nel 1924 con totali che raggiunsero rispettivamente i 168 000 e i 202 000 emigranti (98 000 nel 1919; n o 000 nel 1926). Nel corso degli anni suc­ cessivi, il flusso migratorio andò diminuendo, ma quando il fascismo ten­ terà di mobilitare gli italiani all’estero attraverso la costituzione di Fasci, con l’intento di fare di ogni colonia italiana un avamposto per la propa­ ganda, la presenza di questa emigrazione politica si renderà evidente attra­ verso gli ostacoli che l’operazione del regime finirà per incontrare. Parti­ colarmente rilevante fu l’emigrazione in Francia, che intrecciò rapporti du­

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raturi con le organizzazioni sindacali socialiste e comuniste locali, partecipò alle battaglie democratiche della metà degli anni trenta e diede un forte con­ tributo alle formazioni che andarono a combattere contro il fascismo spa­ gnolo nel 1936. La Francia fu per questa emigrazione popolare d’origine politica lo sboc­ co più immediato per molti motivi: in parte per l’esistenza di canali di co­ municazione tradizionali soprattutto con l’Italia settentrionale, o anche più semplicemente perché era l’approdo più facile; ma lo fu anche perché essa era divenuta, in particolare a partire del 1925-26, il rifugio dell’emigrazio­ ne propriamente politica sia per la presenza di un governo presieduto dal radicale Herriot, sorretto dai voti socialisti, sia per la radicata tradizione di difesa degli esuli perseguitati politici. La Francia fu spesso la prima tappa per tutto il personale politico costretto ad abbandonare l’Italia per la mi­ naccia diretta o indiretta della violenza fascista o che comunque in Italia non avrebbe più avuto modo di far sentire la voce del proprio dissenso. Già nel 1922 l’anarchico Armando Borghi, esponente di spicco dell’Unione sin­ dacale italiana, aveva scelto l’esilio; nel 1923 Luigi Sturzo (abbandonata la segreteria del Partito popolare (Pp) per non creare ostacoli al Vaticano) si era rifugiato a Londra; negli anni successivi la schiera a Parigi s’infittì con nomi di rilievo quali Gaetano Salvemini, Giuseppe Donati, Carlo Sforza, Sandro Pettini (che per qualche tempo visse a Marsiglia). Uno degli episo­ di più tragici fu quello di Piero Gobetti, che mori esule a Parigi nel 1926 per le percosse inflittegli a Torino dai manganelli degli squadristi. A Pari­ gi si rifugiò nel dicembre dello stesso anno Filippo Turati, sottratto alla sor­ veglianza della polizia fascista da un gruppo di giovani (Ferruccio Parri, Sandro Pettini, Italo Oxilia, Carlo Rosselli, partecipi dell’esperienza di Ita­ lia libera). Rientrati in Italia, essi furono condannati a una lieve pena da un tribunale che rispettava ancora forme della legalità, ma furono inviati al confino di polizia e negli anni successivi ebbero un ruolo di primo piano nell’elaborazione di prospettive nuove per la lotta contro il fascismo. E a Turati si aggiunsero dopo il 1926 uno dopo l’altro nomi prestigiosi del so­ cialismo italiano prefascista, delle correnti democratiche e liberal-radicali: Claudio Treves, Emanuele Modigliani, Nullo Baldini, Angelica Balabanov, Pietro Nenni, Eugenio Chiesa, Egidio Reale, Randolfo Pacciardi e altri an­ cora. Nel 1927 Bruno Buozzi ricostituì in Francia la Cgdl, pochi mesi do­ po che essa era stata sciolta in Italia dal suo ultimo segretario, Lodovico D’Aragona. Il nuovo organismo fu riconosciuto dalla Federazione sindaca­ le internazionale e pubblicò un suo organo, «L’operaio italiano». In Francia, a partire dal 1926, vennero ricostituite le formazioni dei par­ titi italiani, con l’eccezione del Pp: nel dicembre 1926 la componente mas­ simalista del Partito socialista italiano (Psi) avviava la sua riorganizzazione all’estero su schemi tradizionali e riprendeva la pubblicazione dell’«Avanti»; i riformisti per parte loro diedero vita al Partito socialista unitario dei lavoratori italiani (Psuli) che, a differenza del Psi legato al Bureau international des parties revolutionnaires, aderiva all’Internazionale operaia so­

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cialista; il Psuli pubblicò dal 1928 «Rinascita socialista». Anche il Partito repubblicano (Pri) procedeva alla riorganizzazione e iniziava a pubblicare «L’Italia del popolo». Questi raggruppamenti raggiunsero un accordo per un’alleanza stabile grazie all’azione della Lega italiana per i diritti dell’uo­ mo (promossa nel 1922 sul modello della Ligue des droits de l’homme, che in Francia aveva una tradizione di battaglie per i diritti civili risalente agli ini­ zi del secolo, e in cui ebbero largo spazio Alceste De Ambirs e Luigi Campolonghi). Nell’aprile 1927, fu quindi costituita una Concentrazione di azio­ ne antifascista, fondata sull’autonomia dei partiti e delle organizzazioni an­ tifasciste esistenti in Francia; essa pubblicò a Parigi negli anni 1927-34 il giornale «La libertà», diretto da Paolo T reves. Un simile nucleo di persona­ lità politiche tendeva tuttavia a perpetuare le diagnosi e le aspettative che l’avevano caratterizzato nel corso degli anni precedenti e riproduceva mol­ te delle passate divergenze interne. La Concentrazione sembrò nei primi anni attestarsi su una posizione che ribadiva l’attesa fideistica nell’inelut­ tabilità della crisi del regime e i caratteri moderati del suo programma so­ ciale. Come nel 1924 la mal riposta fiducia nell’intervento regio, così negli anni successivi le diagnosi sulla debolezza economica, sul carattere grosso­ lano e incolto del nuovo regime oscuravano, agli occhi di questi pur corag­ giosi esponenti della democrazia sconfitta, i fattori che garantivano a Mus­ solini una non transitoria possibilità di tenere in mano il potere. Entro que­ sti limiti, l’attività degli esuli in Francia ebbe grande importanza in quanto servi a proporre in sede internazionale il problema del fascismo, in un mo­ mento in cui la risonanza della politica di Mussolini era vasta e ampio il suo successo e quello del movimento presso i ceti conservatori di diversi paesi europei. In Gran Bretagna, ad esempio, esponenti come Winston Churchill non dubitavano che la soluzione fascista fosse adatta per un paese come l’Italia. In queste condizioni assumeva un raro valore la testimonianza an­ che solo morale di uomini di cui erano riconosciuti l’autorevolezza e il va­ lore intellettuale. Il «socialismo liberale» di Giustizia e libertà. I limiti dell’analisi e delle prospettive politiche della Concentrazione si avviavano a essere tuttavia su­ perati da alcuni gruppi che pur si muovevano nello stesso ambito ideologi­ co e culturale ispirato alla democrazia liberale e al socialismo. Dopo la sop­ pressione di giornali quali «Il Caffè» e «Non mollare», uscì a Milano nel 1926 (dal marzo all’ottobre) «Il quarto stato», giornale clandestino diretto da Carlo Rosselli e da Pietro Nenni, che ebbe tra i suoi collaboratori Lelio Basso, Rodolfo Morandi e Giuseppe Saragat. Nel quadro di un ampio di­ battito ideologico sui limiti del riformismo socialista la rivista espresse una severa critica della condotta aventiniana e la volontà di avviare una lotta anche sul terreno illegale. Questo inizio di ripensamento teorico e politico ebbe un seguito nel dibattito che in terra di Francia portò nel 1930 alla riunificazione in un solo partito delle due organizzazioni socialiste (non senza qualche contraccolpo di espulsioni e di scomuniche tra gli oppositori della

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prospettiva d ’unificazione). Il mutamento introdotto nella Concentrazione dall’unificazione socialista, la necessità di un rinnovamento dei contenuti e dei metodi della lotta antifascista che a essa si accompagnava, ricevette­ ro un rafforzamento da una nuova presenza, il movimento Giustizia e li­ bertà (Gl). Esso fu fondato da Carlo Rosselli e da Emilio Lussu: provenienti entrambi dalle fila dell’interventismo democratico, fuggiti nel 1929 dal con­ fino di Lipari imposto loro dalla polizia fascista, i due si impegnarono a defi­ nire un quadro politico-ideologico che ambiva a definirsi di «socialismo li­ berale», così come suonava il titolo dell’opera di Carlo Rosselli conclusa e pubblicata a Parigi nel 1930. Dopo un periodo di rapporti non facili con le varie componenti dell’emigrazione, nel 1931 Gl fu accolta in seno alla Con­ centrazione, quasi come riconoscimento della necessità di riannodare più stretti legami con l’azione dei gruppi dell’opposizione interna italiana. Nel 1932 Gl rese pubblico un programma politico che aprì un vasto dibattito e un acceso confronto soprattutto con i socialisti e con i repubblicani, che nello stesso anno decisero di uscire dalla Concentrazione. Si apriva con que­ sto un processo di dissoluzione che si concluderà nel 1934 con lo sciogli­ mento della prima forma di alleanza tra le forze antifasciste in esilio. La motivazione decisiva fu la dichiarata volontà del Psi di portare in primo pia­ no le proprie caratteristiche di partito classista internazionalista, in aperta polemica con quello che era definito il riformismo borghese di Gl. Era de­ terminante, ai fini di questa scelta, la prospettiva, che si andava aprendo, di dialogo e alleanza col Pedi. Gli organi di stampa da cui questo nuovo orien­ tamento fu reso pubblico furono «Politica socialista» (1933-35) e ^ «Nuo­ vo Avanti» (1934-40). Dal canto suo, Gl pubblicò a Parigi dal 1932 al 1936 i «Quaderni di Giustizia e libertà», rivista teorica del movimento, cui fece seguito il setti­ manale «Giustizia e libertà» tra il 1934 e il 1940. In Italia Gl si era impe­ gnata fin dall’inizio in una intensa attività propagandistica, che tuttavia non riuscì, malgrado i tentativi di legarsi alla realtà delle fabbriche, ad an­ dare oltre gli ambienti intellettuali. Furono anche intraprese « azioni esem­ plari», come il volo di Luigi Bassanesi su Milano (11 luglio 1930) che fece piovere manifestini antifascisti sul capoluogo lombardo. L’organizzazione Gl in Italia venne di lì a poco duramente colpita con l’arresto, nel mese di ottobre del 1930, di Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi. Nel 1932 venne in­ dividuato e arrestato un gruppo torinese della stessa organizzazione (tra gli altri Franco Venturi e Vittorio Foa), che aveva tentato un allargamento del­ la propria base verso le fabbriche e aveva promosso il giornale «Voci d’of­ ficina». L ’attività clandestina del Pedi. In seno al proletariato industriale tu t­ tavia la presenza di Gl era ben minore di quella del Pedi, sezione italiana dellTnternazionale comunista. Malgrado le persecuzioni, il Pedi riuscì a conservare un significativo radicamento nel paese. La sua organizzazione era indubbiamente esile e le forze degli aderenti molto ridotte; ma il par­

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tito riuscì a mantenere una presenza relativamente costante e potè co­ struire, grazie a questo, un’immagine di se stesso capace di sostenere un mito: quello della possibilità di una rivoluzione che realizzasse anche in Italia ciò che i bolscevichi avevano costruito nell’Urss. L’attività dei co­ munisti si svolse in un clima costantemente drammatico non solo per la violenza della persecuzione, ma anche per la dura lotta politica in corso all’interno del partito per tutti gli anni tra le due guerre. Grazie anche al­ l’appoggio dell’Internazionale comunista il gruppo torinese guidato da An­ tonio Gramsci aveva esautorato Amadeo Bordiga, l’ingegnere napoleta­ no che era stato il primo segretario del nuovo partito, polemizzando con­ tro l’astrattezza dottrinaria delle sue posizioni e avviando la costruzione di un partito dotato di un apparato forte e autorevole. Se da un lato la crea­ zione di una struttura formata da «rivoluzionari professionali» poneva ri­ medio alle carenze dell’organizzazione tradizionale dei partiti socialisti, dall’altro delineava un modello di partito fortemente burocratizzato e cen­ tralizzato, la cui autonomia trovava inoltre un limite invalicabile nella di­ pendenza dalle direttive delTUnione Sovietica. Con l’elaborazione delle tesi presentate al III Congresso tenuto clandestinamente a Lione nel gen­ naio 1926, il nuovo gruppo dirigente tracciava indicazioni di fondo (l’ar­ retratezza del capitalismo italiano e la prospettiva dell’alleanza operai-con­ tadini) a cui, in diversi momenti e con diverse accentuazioni, i comunisti si sarebbero spesso rifatti, fino al secondo dopoguerra. Questa elabora­ zione teorica, che si fondava peraltro sulla convinzione che l’affermazio­ ne del fascismo fosse transitoria, si intrecciava con il processo di “bolsce­ vizzazione” dell’organizzazione. In parallelo con quanto avveniva in tutti gli altri partiti comunisti europei, le tesi di Lione delineavano la centralità del partito nel processo rivoluzionario e la centralità dell’Urss nella defi­ nizione della strategia politica dell’intero movimento operaio. L’arresto di Antonio Gramsci (8 novembre 1926), il suo processo (28 maggio - 4 giu­ gno 1928) e la condanna davanti al Tribunale speciale con trentadue altri dirigenti e militanti comunisti (tra i quali Umberto Terracini, Mauro Soccimarro e Giovanni Roveda) probabilmente eliminarono un ostacolo alla tendenza verso il centralismo e la disciplina assoluta di stampo staliniano, in quanto Gramsci già nell’ottobre 1926 aveva avanzato riserve sui carat­ teri della costruzione burocratica in corso. Dopo la caduta nelle mani fa­ sciste della gran parte del suo gruppo dirigente, il Pedi si organizzò con un Centro interno (affidato a Camilla Ravera), dapprima insediato a Genova e poi a Lugano, e con un Centro estero (diretto da Togliatti, Grieco, Ta­ sca, prima a Basilea nel 1927 e dal 1929 a Parigi, dove dal 1927 venne pub­ blicata la rivista teorica del partito «Lo Stato operaio»). La linea del par­ tito si andò modificando anche rispetto alla strategia delineata dalla te­ si di Lione: essa ribadiva che la crisi del capitalismo era irreversibile e che - particolarmente in Italia, per la storica debolezza del paese - il regime della borghesia (il fascismo) potesse essere affrontato e battuto solo con un attacco rivoluzionario, cui le masse operaie e contadine erano fin d’allora

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pienamente disposte. La situazione avrebbe richiesto, secondo le diagno­ si del partito strettamente connesse e dipendenti da quelle elaborate dal­ la direzione della III Internazionale, il rifiuto di ogni alleanza con gli espo­ nenti dei partiti liberali, democratici e in particolare della socialdemocra­ zia. Contro quest’ultima verrà lanciata l’accusa di «socialfascismo», in cui si condensavano le denunce più infamanti di corresponsabilità con le for­ ze reazionarie. Dalle prospettive del partito era anche cancellata la possi­ bilità di una fase intermedia, di stampo democratico (che pure le tesi di Lione avevano indicato attraverso la proposta di un’Assemblea costituen­ te) come obiettivo transitorio sulla strada della conquista del potere. Era­ no tesi che ponevano ostacoli insormontabili a ogni forma di alleanza o col­ laborazione con le altre forze dell’antifascismo, accentuando, in Italia co­ me all’estero, il carattere settario della formazione. All’interno del partito il dissenso su questa strategia, espresso da Angelo Tasca dapprima e suc­ cessivamente da Leonetti, Tresso e Ravazzoli e infine da Ignazio Silone, fu messo a tacere negli anni 1929-30 con l’espulsione e con una successi­ va accanita opera di denigrazione degli oppositori. Anche Umberto Ter­ racini dal carcere espresse il suo dissenso e ne subf come conseguenza un penoso isolamento; Antonio Gramsci, pur senza pronunciarsi direttamen­ te, era tu tt’altro che consenziente. La linea del Pedi era strettamente ade­ guata alle scelte dellTnternazionale, che indicava nei movimenti fascisti europei la forma ultima del dominio capitalista prima del suo crollo. Il pe­ so delle decisioni dellTnternazionale comunista venne anche rafforzato dal fatto che il maggior dirigente italiano, Paimiro Togliatti, si andava impe­ gnando sempre più a Mosca. La conseguenza più rilevante del dibattito de­ gli anni 1929-30 fu che l’Ufficio politico italiano (la direzione) - costitui­ to da quadri per la maggior parte di estrazione operaia - promosse in Ita­ lia uno sforzo organizzativo straordinario, con successi non disprezzabili sul piano delle adesioni al partito (si parla per il 1932 di circa sei-settemila iscritti a cui andavano aggiunti quasi tremila giovani) e su quello della cospirazione. L’attività clandestina del partito, che si svolse prevalente­ mente nelle regioni centrosettentrionali, fu rivolta a stimolare rivendica­ zioni di massa operaie e contadine, soprattutto nelle campagne che erano state fortemente colpite dalle crisi succedutesi in Italia dal 1927 in poi. Lo strumento principale fu la diffusione della stampa illegale: «l’Unità» clan­ destina comparve per la prima volta nel gennaio 1927 e ne uscirono due­ cento numeri fino al 1939; numerose anche le testate di altri giornali irre­ golari, ciascuna rispondente a un settore o a un’organizzazione specifica, non di rado fittizia per rafforzare l’impressione di irradiazione sistemati­ ca e capillare. Nel 1927 era stata ricostituita la Cgdl clandestina - che non riconosceva quella promossa da Buozzi in Francia - e venne creato il Soc­ corso rosso, una organizzazione destinata a raccogliere solidarietà e fondi per aiutare i compagni incarcerati e le loro famiglie. Fu il Soccorso rosso a promuovere una intensa campagna a favore di Antonio Gramsci. Egli mo­ rirà nel maggio del 1937, dopo dieci anni di carcere e sofferenze.

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In Italia queste iniziative del Pedi erano le punte più efficienti del ca­ lante dissenso verso il regime, sotto la pressione degli strumenti repressivi di quest’ultimo. Esistevano infatti anche formazioni minori che pur testi­ moniavano coerenze individuali, ma non segnalavano capacità di efficace opposizione politica. Occorre ricordare almeno l’Alleanza nazionale di Ma­ rio Vinciguerra, scoperta dalla polizia fascista nel 1930; Lauro De Bosis, fi­ glio di un’aderente all’organizzazione che era stata arrestata, compì l’anno successivo un raid aereo su Roma per inondare la capitale di manifestini an­ tifascisti. Egli scomparve poi nel volo di ritorno verso la Corsica. La linea introdotta dal Pedi con la “svolta” del 1930 non fu un muta­ mento sostanziale, ma semmai la scelta di rafforzare una linea di interven­ to già praticata in passato. La sua importanza fu comunque grande nella storia del partito perché ne promosse il radicamento nel contesto sociale del paese, contribuì alla formazione di un nucleo di quadri che sarà decisivo nelle lotte della Resistenza e concorse in modo determinante alla diffusione di un modello ideologico segnato dalla diffidenza contro tutte le forme di spontaneismo - identificate con l’esperienza della socialdemocrazia - ac­ compagnata dalla costante attenzione verso i problemi dell’organizzazione e della vigilanza contro ogni provocazione e infiltrazione poliziesca. L’ac­ cortezza cospirativa dell’apparato comunista illegale non valse a evitare che il dispositivo della repressione fascista colpisse molto duramente e ripetu­ tamente l’apparato clandestino tra il 1930 e il 1934, mandando a vuoto tu t­ ti i tentativi di ricostruire la rete. Già nel 1930 fu arrestato lo stesso Pie­ tro Secchia, uno dei migliori organizzatori dell’attività illegale. Al termine del periodo il Pedi fu costretto a smantellare il suo modello organizzativo, fondato sull’esistenza di un Centro interno e sulle cellule secondo il mo­ dello bolscevico. L’organizzazione si basò da allora in poi su contatti diretti tra il Centro estero e i singoli militanti all’interno. Malgrado i tentativi, at­ tuati tra la guerra d’Etiopia e la vigilia della guerra mondiale, di promuo­ vere agitazioni mimetizzandosi all’interno delle organizzazioni sindacali fa­ sciste per sfruttare i motivi di malcontento popolare, l’azione propagandi­ stica e il reclutamento furono d’allora in poi ridotti a proporzioni molto contenute. Espansione delfascismo in Europa e nuove strategie di opposizione. Verso la metà degli anni trenta si venne tuttavia delineando un mutamento so­ stanziale, che investì tanto i gruppi degli esiliati provenienti dalle fila liberaldemocratiche e socialiste quanto i militanti del Pedi. Il motivo di fondo fu costituito dal delinearsi di una nuova situazione internazionale segnata dall’imporsi del nazismo in Germania, dal moltiplicarsi dei movi­ menti fascisti in tutta l’Europa e dalla nuova aggressività sul piano inter­ nazionale da parte del Giappone, della Germania e infine dell’Italia. Men­ tre il primo sfidava l’autorità della Società delle Nazioni con l’invasione del Manciukuò (1933), la seconda procedette al riarmo in spregio alle clau­ sole del trattato di Versailles e l’Italia, infine, nel 1935 attaccò l’impero

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d ’Etiopia. Questi eventi ponevano in piena evidenza sia l’impotenza in­ trinseca della Società delle Nazioni a impedire i conflitti internazionali sia la crisi delle potenze uscite vincitrici dal primo conflitto mondiale; ma po­ nevano anche i problemi dell’inadeguatezza dello schieramento delle for­ ze democratiche in tutti i paesi europei. I gruppi antifascisti italiani, che erano stati relativamente isolati e fortemente divisi al loro interno dalla frattura con i comunisti, furono spinti a individuare nuove forme di al­ leanze e nuove strategie. Già a partire dagli anni della grande depressione si erano venute deli­ neando sili piano internazionale alcune analisi del fascismo che lo collega­ vano al capitalismo monopolistico e all’esasperazione degli antagonismi im­ perialisti. A partire da questa interpretazione esponenti socialisti come l’austriaco Otto Bauer avevano auspicato il superamento del conflitto tra socialismo e bolscevismo, in vista dell’unità della classe operaia, afferman­ do che esisteva un nesso inscindibile tra democrazia politica e democrazia sociale. Da queste proposizioni teoriche veniva un forte appello al proleta­ riato per difendere la democrazia con la lotta aperta, condotta unitaria­ mente e superando le divisioni organizzative. In Austria questa prospetti­ va trovò la sua prima applicazione nel 1934 nella lotta del proletariato di Vienna contro la repressione scatenata dal cancelliere clerico-fascista Dollfuss. Anche l’Internazionale socialista avviò un processo autocritico che si concretò nel manifesto di Praga (1934), in cui la direzione emigrata della socialdemocrazia tedesca riconosceva il fallimento del riformismo weimariano e invitava all’unità di lotta con la III Internazionale. In Francia tra il luglio e l’agosto 1934 comunisti e socialisti francesi giunsero alla definizio­ ne di un accordo per l’unità d’azione. Nello stesso anno, di fronte al deli­ nearsi di una minaccia fascista in Francia, il proletariato parigino scese in piazza; fu degli stessi mesi una rivolta dei minatori delle Asturie che se­ gnalava l’acutizzarsi dello scontro nella Spagna repubblicana. Anche dall’in­ terno della III Internazionale Clara Zetkin esprimeva la consapevolezza del caràttere internazionale del fascismo, della matrice classista della sua vio­ lenza, nonché il riconoscimento della sua capacità di cogliere anche il con­ senso di strati proletari. (Su questo tema si svilupperà anche una interes­ sante analisi di Paimiro Togliatti, il cosiddetto Corso sugli avversari, che ri­ mase tuttavia ignorato dalla cultura del partito fino al 1970). Dall’analisi delle basi sociali profonde del fascismo e dalla consapevolezza della com­ plessità delle componenti del movimento sarebbe nata anche una nuova strategia politica. Dopo la conquista del potere in Germania da parte del nazionalsociali­ smo anche le direttive dell’Internazionale comunista si avviarono a un mu­ tamento sostanziale, pur con qualche ritardo ed esitazione nell’abbandonare la teoria del «socialfascismo». La manifestazione più evidente si ebbe in campo internazionale, quando l’Urss nel 1934 scelse di uscire dall’isola­ mento diplomatico per aderire alla Società delle Nazioni. L’anno successi­ vo questa conversione verso nuove prospettive fu sanzionata come diretti­

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va politica a tutti i partiti comunisti aderenti dal rapporto di Georgi] Dimitrov al VII Congresso dell’Internazionale comunista (agosto 1935). La proposta politica dell’Internazionale si caratterizzò per l’abbandono delle illusioni concernenti una rapida crisi del fascismo e per il riconoscimento delle prospettive di una lotta di lunga durata. Sul piano ideologico venne­ ro lasciate cadere le tesi sul socialfascismo e sul carattere di crisi mortale del capitalismo che, secondo le diagnosi in precedenza dominanti, il trionfo nazista in Germania avrebbe rappresentato. Veniva in primo piano invece l’invito a costituire Fronti popolari, in unione con tutte le altre forze so­ cialiste e democratiche, per combattere la dittatura aperta del fascismo, rap­ presentante la fazione terroristica del grande capitale. Guerra civile di Spagna e antifascismo italiano. La politica dei Fronti po­ polari, che si realizzò in Francia e in Spagna, ebbe un limite soprattutto nel fatto di esplicarsi a livello istituzionale in alleanza con i ceti borghesi e quindi con la rinuncia a intervenire con riforme che incidessero sulla struttura del potere economico. Agivano in questo senso le componenti di politica internazionale, miranti ormai a non turbare i buoni rapporti con gli stati democratico-borghesi, nella prospettiva del fronte unico contro la minaccia nazifascista cui puntava anche l’Urss, riferimento obbligato per la condotta di tutti i comunisti. Nonostante questi limiti, la nuova for­ mulazione della politica di alleanze aveva il pregio di accettare la prospet­ tiva di una fase democratica che, pur essendo sempre considerata come un passaggio verso la conquista del potere, assumeva caratteristiche non pu­ ramente transitorie e strumentali e diventava decisivo obiettivo di una lot­ ta per l’abbattimento delle dittature fasciste. Il terreno di prova e il gran­ de momento di diffusione internazionale per l’antifascismo unitario pro­ spettato dai Fronti popolari fu la guerra civile in Spagna. Originata dalla ribellione di alcuni generali al legittimo potere della repubblica, la guerra assunse caratteri complessi, coinvolgendo la partecipazione di attori in­ ternazionali. Le grandi potenze si erano formalmente accordate, dietro pro­ posta dei conservatori britannici, su un patto di non intervento, ma Italia e Germania inviarono egualmente truppe e materiale bellico a sostegno dei fascisti spagnoli, facendo le prime prove della stategia terroristica che ca­ ratterizzerà pochi anni dopo la guerra mondiale. In soccorso della repub­ blica spagnola - preannuncio di quanto avrebbero dovuto fare gli antifasci­ sti negli anni a venire - accorsero combattenti volontari da tutti i paesi, che costituirono le Brigate internazionali, assommanti a circa quarantamila uomini. L’Urss inviò materiale bellico e istruttori, ma la sua presenza eb­ be anche il contraddittorio valore di un violento intervento repressivo so­ prattutto contro i militanti anarchici della Catalogna. La guerra di Spagna fu un banco di prova decisivo: da una parte dimostrava la determinazione feroce e la gratuità dell’intervento delle potenze fasciste, dall’altra de­ nunciava la totale incapacità delle potenze che si dicevano democratiche di reagire con efficacia. Tra gli uni e gli altri solo l’antifascismo interna­

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zionale trovò la strada per opporsi con forza e dignità alla violenza del to­ talitarismo nazista e fascista. Per l’antifascismo internazionale e per quello italiano in particolare la Spagna rappresentò dunque un momento decisivo di presa di coscienza in­ ternazionalista, antifascista e antimperialista. Essa rafforzò presso le cor­ renti dell’emigrazione antifascista italiana la convinzione che, ove fosse mancato un impegno militare diretto per fermare il fascismo in Spagna, es­ so sarebbe dilagato negli anni successivi sull’intero continente. Da questa prospettiva cominciarono a essere investiti anche gli ambienti politici - de­ mocratici, liberal-radicali o socialisti - in Francia, Inghilterra e Stati Uniti d’America. Per l’antifascismo italiano la guerra di Spagna fu la prima occasione di scontro armato contro il fascismo. Tradizioni risorgimentali e mazziniane, vive tra gli aderenti di Gl, e internazionalismo proletario, proprio dei co­ munisti e dei socialisti, furono le componenti ideali che animarono i vo­ lontari italiani, che non erano solo i fuorusciti, ma che vennero anche dall’Italia stessa, fuggendo alla dittatura per combatterla. Un segno dell’uni­ ficazione delle forze fu la costituzione nel 1937, a Lione, dell’Unione po­ polare italiana, organizzazione di massa aperta a tutti gli antifascisti senza preclusioni ideologiche. Il fascismo, dal canto suo, fomenterà un volonta­ rismo di segno contrario che servirà in parte anche come copertura all’in­ vio di vere e proprie truppe regolari. (Sul carattere effettivamente volon­ tario di tali forze fasciste - fatte le debite eccezioni - la storiografia ha avan­ zato molti dubbi). Regime e società: i volti del malcontento prima dell’8 settembre 1943. La situazione dell’opposizione politica antifascista in Italia versava in condi­ zioni molto precarie. Allo smantellamento della rete cospirativa del Pedi si aggiunse nel 1937 la caduta del Centro interno socialista: dal 1934 luogo non solo di organizzazione propagandistica ma anche di riflessione teorica sui problemi dell’unità operaia, ebbe come protagonista (accanto a Euge­ nio Colorni, Lucio Luzzatto, Mario Venanzi e altri futuri protagonisti del­ la lotta del 1943-45) Rodolfo Morandi, che negli anni 1931-32 aveva visto nel Pedi un veicolo per il rinnovamento di una politica della classe operaia e che, deluso, negli anni seguenti lo cercherà nella tradizione e nella cultu­ ra socialista, fino all’arresto nel 1937. Malgrado la presenza di centri di cul­ tura politica clandestina tanto importanti, capaci anche di raccordare le lo­ ro elaborazioni con le coeve tendenze europee, la metà degli anni trenta se­ gnò per il regime il conseguimento di un consenso di massa molto diffuso, grazie all’avvio della ripresa produttiva nel quadro dei prodromi dell’eco­ nomia bellica, alle bonifiche e soprattutto alla mobilitazione patriottica at­ torno all’impresa d ’Etiopia. L’apparenza di un totale dominio sulla società italiana era contraddetta da altri caratteri dell’adesione di massa: il tesse­ ramento al Partito nazionale fascista (Pnf) era obbligatorio per ricoprire incarichi o impieghi pubblici, la celebrazione dei riti politici collettivi ri­

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sentiva di un clima artefatto fino ai limiti del grottesco, l’irrigimentazione sindacale non cancellava l’intima ostilità delle aree sociali un tempo carat­ terizzate dalla penetrazione socialista. Tuttavia le debolezze di questa or­ ganizzazione del consenso non possono far dimenticare che il fascismo era in grado di condizionare ogni aspetto della vita sociale e culturale del pae­ se e - soprattutto rispetto ai giovani - di orientare senza contraddittori l’opinione pubblica del paese. Il Concordato con la Chiesa cattolica (1929) aveva creato una situazio­ ne largamente favorevole al regime, guadagnandogli simpatie più profonde anche in seno a ceti e gruppi sociali inizialmente tiepidi. (La stipulazione dei Patti provocò tra l’altro anche un approfondimento delle divisioni tra esuli laici o socialisti ed esuli popolari, nonché frizioni all’interno dei cat­ tolici stessi in esilio). Anche in questo caso tuttavia ambiguità e contraddi­ zioni non erano mancate: nel 1931 il conflitto per l’Azione cattolica (Ac) aveva portato alla superficie alcuni elementi di incompatibilità tra la ditta­ tura totalitaria e gli obiettivi di formazione religiosa e spirituale delle or­ ganizzazioni promosse dalla Chiesa. Benché non mancassero settori del mondo cattolico ben disposti a concedere il massimo credito all’ideologia e alla cultura del regime, soprattutto sul piano del corporativismo o su quel­ lo della diffusione della civiltà cristiana tramite le guerre coloniali, all’in­ terno di alcuni settori dell’Ac (come la Federazione universitaria cattolici italiani o il Movimento laureati) cominciò una pur silenziosa e cauta elabo­ razione di un atteggiamento di distacco, la rielaborazione di valori che in prospettiva avrebbero portato a un vero e proprio antifascismo di radice cristiana. Il tentativo di autentica organizzazione politica fu tuttavia rap­ presentato solo dal Movimento guelfo d ’azione, promosso da Piero Malve­ stiti nel 1928; questi fu scoperto dalla polizia nel 1934, processato e con­ dannato a quattro anni di carcere assieme ad altri collaboratori. La misura della capacità d’organizzazione politica sembra tuttavia per alcuni aspetti insufficiente per valutare la profondità delle contraddizioni di cui viveva la società italiana nel periodo fascista. Non sempre il rifiuto etico dell’oppressione e dei valori esaltati dal regime intendeva o poteva tradursi in esperienza politica. Il regime di dittatura comportava per i cit­ tadini diversi modi di rapportarsi alla realtà: dall’accettazione piena e con­ vinta, all’ambiguo consenso di chi intimamente non credeva all’ideologia propostagli, al «nicodemismo» - come fu chiamato - di chi sceglieva un as­ senso puramente formale, mantenendo intatta dentro di sé la fede in valo­ ri diversi. Tutte queste realtà difficilmente possono essere giudicate in mo­ do univoco. Come apparirà chiaro al momento delle scelte decisive - quel­ le del tragico 1943, dopo la destituzione di Mussolini, dopo l’armistizio e in presenza dell’occupazione tedesca -, saranno spesso tradizioni di lungo periodo, dal sovversivismo di stampo socialista o anarchico all’antifascismo cristiano o all’orgoglioso rifiuto d’origine crociana, a determinare le scelte individuali o collettive, spesso al di là dello spessore e della consistenza del­ le stesse forze politiche organizzate.

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L’antifascismo organizzato si presentò infatti all’appuntamento della guerra fortemente indebolito sia dalla lunga persecuzione - i maggiori diri­ genti erano per la gran parte in carcere - sia per il riaprirsi di vecchie lace­ razioni intestine, come testimoniarono le reazioni al patto di non aggres­ sione tedesco-sovietico del 1939. Tuttavia, dall’interno del paese e delle stesse giovani generazioni allevate nel culto del duce e del littorio, veniva­ no all’antifascismo molte personalità che avranno di lì a poco non scarso ri­ lievo sia nella lotta della Resistenza sia nella riconquistata democrazia. Una nuova incrinatura tra regime e società fu aperta dalla legislazione razziale fascista promulgata nel settembre 1938. Benché il paese vivesse comples­ sivamente con apatia e difficoltà la lunga parabola in cui si consumava la sconfitta militare e politica del fascismo, i gruppi antifascisti si impegna­ rono, a partire dall’autunno 1942, a ritessere le fila di un’opposizione non puramente morale. Erano gruppi molto ridotti: i cattolici si ritrovarono at­ torno a due nuclei - quello romano che si identificava nella vecchia guar­ dia popolare di De Gasperi e quello milanese che aveva al suo centro Piero Malvestiti. Essi diedero vita, nel corso dei quarantacinque giorni badogliani, al partito della Democrazia cristiana, di cui Demofilo (pseudonimo di Alci­ de De Gasperi) redasse il programma Idee ricostruttive. I gruppi educati alla propaganda di Gl si ritrovarono nel Partito d’azione (Pda), che si venne delineando nel corso del 1942, il quale avviò la pubblicazione del giornale clandestino «Italia libera» e tenne un congresso interregionale a Firenze al­ la fine dell’agosto 1943; i socialisti erano divisi al 25 luglio in due raggrup­ pamenti: gli uomini provenienti dall’estero (Nenni e Saragat) e il Centro interno del Movimento di unità proletaria, guidato da Lelio Basso. I due gruppi decisero nell’agosto 1943 là riunificazione dando vita al Partito so­ cialista italiano di unità proletaria. I comunisti infine, attraverso un Cen­ tro interno faticosamente ricostruito attorno a Umberto Massola nell’Ita­ lia settentrionale (Milano e Torino), si erano dimostrati in grado di inse­ rirsi nel malcontento operaio e di dar voce, con alcuni gruppi socialisti, alle rivendicazioni del marzo 1943. La III Internazionale era stata sciolta da Stalin nella primavera 1943 in omaggio alla politica di alleanza con i paesi capitalisti e il partito aveva assunto il nuovo nome di Partito comunista ita­ liano. I suoi aderenti venivano valutati a cinque-settemila in tutta la peniso­ la, ma bisogna tener presente che diversi gruppi locali si muovevano nella completa disinformazione delle direttive e della linea del partito. Un sin­ tomo interéssante e significativo delle condizioni dell’Italia e del movi­ mento antifascista fu rappresentato dalla comparsa, oltre ai partiti appena citati e a quelli meno consistenti ma pur dotati di una tradizione storica co­ me il Partito liberale, di un gran numero di formazioni politiche, per lo più effimere, che dopo la caduta di Mussolini cercarono di esprimere l’ansia di un rinnovamento politico. Nessuno di questi movimenti sarà tuttavia in grado di dare la spallata decisiva al regime e sarà necessario attraversare la tragedia dell’8 settembre perché l’antifascismo possa affrontare con una mo­ bilitazione di massa la lotta per il ristabilimento della democrazia in Italia.

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L U I G I G A N A P IN I

Crisi del regime fascista

La «guerra parallela». La seconda guerra mondiale segna per il fasci­ smo il momento della sua crisi irreversibile. L’antifascismo l’aveva pre­ conizzata fin dal primo momento; il Partito comunista d’Italia aveva af­ fermato nel 1940 che classi dirigenti e classi popolari stavano maturando, di fronte alla scelta bellicista, un rifiuto decisivo. La previsione era tut­ tavia molto in anticipo sui tempi in quanto sottovalutava il radicamento a tutti i livelli della società italiana dei sentimenti di lealismo monarchi­ co (che giocavano a favore del fascismo per il connubio tra il re e il duce) e la forza di penetrazione della mitologia imperialista e guerriera diffusa a piene mani dall’organizzazione educativa e propagandistica del regime. Se a molti pareva perciò che mancasse l’adesione entusiastica e convinta che aveva animato l’interventismo del 1914, era pur vero che gran parte dell’opinione pubblica, accanto ai timori per i pericoli e i lutti del con­ flitto, nutriva anche la fiducia che la solidità delle alleanze e la potenza tedesca e giapponese avrebbero garantito all’Italia un esito soddisfacente. L’andamento delle operazioni militari portò tuttavia in primo piano una realtà assai diversa. La decisione di entrare in guerra, il 10 giugno 1940, chiudeva in mo­ do definitivo la strada a tutte le speranze (diffuse negli ambienti politici e militari) di procrastinare ulteriormente il momento decisivo e mette­ va in evidenza tutti i dubbi e le perplessità che parte dei circoli dirigen­ ti, e in primo luogo la Corona, nutriva nei confronti della guerra al fian­ co della Germania. Sotto il profilo della condotta strategica della guerra Mussolini in certo modo riprendeva l’impostazione che l’Italia aveva già seguito all’aprirsi del primo conflitto mondiale. Come Salandra e Sonnino prima di lui, Mussolini pensava a una «guerra parallela», combattuta dall’Italia per i propri interessi e per i propri fini, relativamente svinco­ lata dagli obiettivi degli alleati. Come la strategia dell’Italia liberale, an­ che quella di Mussolini doveva trovare tuttavia molti ostacoli sul proprio cammino. Le difficoltà più immediate venivano prima di tutto dalla pre­ parazione delle forze armate. L’insufficienza delle risorse militari italia­ ne aveva consigliato fin dalla firma del patto d ’alleanza con la Germania (22 maggio 1939) di prospettare a Berlino l’opportunità di non aprire il conflitto armato prima del 1943. La decisione di Hitler di dare il via alle

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operazioni militari contro la Polonia (settembre 1939) aveva perciò mes­ so l’Italia in una posizione difficile, da cui il duce aveva tentato di uscire con la dichiarazione di «non belligeranza», destinata a salvare la sostan­ za della lealtà italiana verso la Germania senza impegnare militarmente il paese a scadenza immediata. L’andamento della fulminea campagna mi­ litare tedesca a est, lo stagnare delle operazioni sul confine franco-tede­ sco e infine l’avvio dell’offensiva del Reich nell’aprile 1940 sul fronte oc­ cidentale spinsero Mussolini ad abbreviare precipitosamente i tempi dell’attesa, nel timore che Hitler potesse concludere da solo la sua vitto­ riosa guerra-lampo. Ottenuto dal re l’affidamento del Comando supremo di tutte le truppe «operanti», Mussolini diede il via all’intervento con un’offensiva sul fronte francese. Sotto l’aspetto militare, benché la Fran­ cia avesse già subito colpi decisivi dall’offensiva del Reich hitleriano, l’esordio italiano fu tra i peggiori, in quanto le due offensive (una lungo la costa verso Nizza e l’altra sulle Alpi) vennero fermate dalla resistenza delle forze francesi, peraltro già sconfitte dai tedeschi. Già questa prima prova contribuiva a creare qualche sbandamento: tanto l’opinione pubblica, che si aspettava trionfali risultati sul piano mi­ litare e su quello politico, quanto gli esponenti stessi del partito e del re­ gime, spettatori degli avvenimenti da osservatori privilegiati che non con­ sentivano illusioni, avvertirono i primi segni dell’inadeguatezza italiana. La linea di condotta ispirata alla «guerra parallela» registrava cosi un pri­ mo smacco. Le successive delusioni vennero dalle operazioni contro la Gran Bre­ tagna. Quest’ultima rappresentava, nella scenografia delineata dalla pro­ paganda fascista, il nemico storico che strangolava l’Italia impedendole il dominio del Mediterraneo e l’espansione imperiale. Emblema dello stra­ potere capitalistico nemico dei popoli poveri e prolifici, l’impero britan­ nico si prestava inoltre ad arricchire la tematica demagogica mirante a presentare la guerra promossa da Germania, Italia e Giappone come lot­ ta di classe sul piano internazionale. I risultati delle operazioni militari non corrispondevano tuttavia alle ambizioni dell’ispirazione propagandi­ stica. Anche nei confronti della Gran Bretagna la strategia della «guerra parallela», unita all’insufficienza militare derivante in primo luogo da ar­ mamenti antiquati, per di più logorati anche dalle recenti prove in Etio­ pia e Spagna, impediva all’Italia di ottenere sul piano militare i successi che il fascismo aveva promesso. Non era tuttavia solo una questione di mezzi e organizzazione milita­ re. Per l’Italia fascista la sconfitta derivava dall’impostazione strategica complessiva del conflitto. Con la Germania sussisteva un latente dissidio che si nutriva di rivalità sul piano della politica di potenza; Mussolini e il suo entourage avvertivano giustamente che la condotta hitleriana mirava a dislocare in secondo piano l’Italia e a prefigurare un assetto postbellico segnato dall’assoluto predominio del Reich. Già dai primi anni di guerra la Germania aveva d’altra parte necessità di acquisire le basi per assicu­

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rarsi rifornimenti di materie prime assolutamente indispensabili per pro­ seguire il conflitto, soprattutto in quanto nei disegni di Hitler il momen­ to di scatenare un attacco a est, contro la Russia sovietica, si andava ap­ prossimando. Il terreno su cui si materializzò lo scontro implicito tra le condotte di guerra delle due potenze alleate furono i Balcani. La Germa­ nia mirava ad affermare la propria presenza al fine di assicurarsi i rifor­ nimenti di petrolio della Romania, mentre Mussolini, sentendosi erede delle tradizionali ambizioni italiane sull’altra riva dell’Adriatico, vole­ va porre un freno all’iniziativa del potente alleato. In questa prospettiva fu concepita da Mussolini l’idea di aggredire la Grecia, per assicurarsi un contrappeso rispetto all’espansione tedesca e per eliminare un paese che avrebbe costituito un punto d ’appoggio per la Gran Bretagna. Il disastro della campagna (iniziata nell’ottobre 1940) fu tanto più clamoroso in quan­ to la debolezza militare della Grecia era evidente e l’attacco era stato ac­ compagnato da affermazioni retoriche di Mussolini («spezzeremo le reni alla Grecia»). L’inverno 1940-41 fu caratterizzato da insuccessi italia­ ni tanto sul fronte greco quanto sui fronti africani (Africa settentriona­ le e orientale). Mussolini cercò di addebitare alle alte gerarchie militari la responsabilità dei rovesci. Suscitò particolare scalpore la rimozione di Pietro Badoglio (che si dimise nel dicembre 1940), un fatto che a molti apparve il segnale di un dissidio incolmabile tra esercito e regime. Su en­ trambi i fronti di guerra la situazione richiese l’intervento della Germa­ nia. Nell’aprile 1941 le truppe tedesche sbaragliavano le forze della Iu­ goslavia, alla cui spartizione partecipava l’Italia, ed entro la fine del me­ se le due potenze erano padrone di tutta la penisola balcanica, chiudendo ogni speranza britannica di aprire un fronte a partire dalla penisola gre­ ca. Analogamente, in Africa settentrionale le operazioni contro gli ingle­ si furono riprese solo con l’appoggio determinante delle truppe coman­ date dal generale Erwin J. Rommel. La necessità di ricorrere all’aiuto di Hitler sanciva in meno di un anno l’incapacità italiana a condurre la «guer­ ra parallela». Ciononostante, all’aprirsi delle ostilità della Germania con­ tro la Russia sovietica (giugno 1941), Mussolini impegnò l’Italia con la partecipazione di un corpo di spedizione militare, ancora una volta spin­ to da motivi di prestigio e dalla speranza di avere un peso maggiore al ta­ volo della pace. L’impegno sul fronte russo, reiterato nella primavera 1942 con l’invio di ulteriori contingenti di truppe, fu non solo estremamente gravoso e sanguinoso per i soldati, inviati a combattere con equipaggia­ mento e materiali inadeguati a fronteggiare gli spazi e le condizioni cli­ matiche del nuovo teatro di guerra, ma contribuì anche a rendere più dif­ ficile la lotta nell’Africa settentrionale. La dispersione delle forze e il pe­ so della potenza degli Stati Uniti d ’America (in guerra dal dicembre 1941 contro il Tripartito) segnarono per le forze italo-tedesche, a partire dall’ottobre-novembre 1942, l’avvio di una serie di sconfitte di proporzioni ir­ rimediabili.

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La destituzione di Mussolini. Per i primi due anni di guerra il regime riusciva a contenere ogni scontento, riducendo l’opposizione antifascista a un silenzio pressoché assoluto e riassorbendo con la repressione ogni frangia di protesta. Solo con l’inverno 1942-43 i segni della disfatta si fe­ cero evidenti e, pur nel contesto di un paese che complessivamente vive­ va la situazione in modo passivo, incoraggiarono il delinearsi di un dis­ senso sempre più netto. Non è tuttavia la parte più combattiva dell’opposizione al fascismo - quella che faceva capo alle forze democratiche sconfitte ed espulse dal quadro politico tra il 1922 e il 1926 - a costruire le premesse e a tessere la trama dell’azione cheNcondurrà, alla fine di luglio del 1943, alla caduta del capo del fascismo. E invece la figura istituzionale che aveva permes­ so l’ascesa di Mussolini al potere, il re Vittorio Emanuele III, a prospet­ tare per primo la possibilità di sbarazzarsi del duce per arrivare, tramite la sua eliminazione, se non a un rovesciamento delle alleanze internazio­ nali, almeno a un distacco dalla Germania e al ritiro dalla guerra. Gli obiet­ tivi del monarca non sono del tutto chiari ed espliciti, benché facilmen­ te intuibili. La sua condotta appare incerta, o come minimo estremamente prudente, quasi oscillando tra l’auspicio che sia Mussolini stesso a convin­ cere l’alleato della crescente impossibilità per l’Italia di reggere il conflitto e il desiderio di rimuoverlo per gestire la soluzione del dramma o in pri­ ma persona o tramite uomini più devoti alla Corona. La latente conflit­ tualità tra fascismo e monarchia sembra infatti uno degli elementi che condizionarono le mosse di Vittorio Emanuele III, lo frenarono o lo in­ centivarono sulla base delle speranze di garantire o dei timori di porre in forse la sopravvivenza della monarchia. Il primo avvio della congiura che porterà alla destituzione del duce si confonde con i pallidi segnali del malumore della Corona e dei circoli a essa legati o all’allarme di singole personalità (come la principessa Maria José, moglie del principe ereditario Umberto) sostanzialmente estranee alla politica ed è reso ancor meno definibile con certezza dalle speranze diffuse di un possibile sganciamento indolore dall’alleanza con i tedeschi attuato dallo stesso Mussolini. Fino alla primavera inoltrata del 1943 non si ebbe alcun passo significativo: il re dichiarava alle personalità più vici­ ne che, per intervenire in prima persona, gli occorrevano «fatti nuovi», che legittimassero la sua azione sul piano politico e costituzionale. Solo nel maggio il re avviò, tramite il conte Acquarone, ministro della Reai ca­ sa, contatti con esponenti liberali prefascisti (Marcello Soleri e Ivanoe Bonomi) e nello stesso tempo con una personalità del regime quale Dino Grandi, presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, che si era ormai orientato in senso contrario a Mussolini. La posizione di Grandi era un segnale rivelatore dello scoramento e della sfiducia correnti tra le stesse alte gerarchie fasciste. Fu comunque solo dopo lo sbarco angloa­ mericano in Sicilia (notte tra il 9 e il 10 luglio 1943) che la trama della

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congiura prese finalmente corpo. Il rovinoso arretramento delle truppe italiane, palesemente non disposte a battersi contro gli invasori, e il ge­ nerale disorientamento per la disfatta che si delineava sul suolo italiano stesso servirono a coagulare le due distinte componenti dell’opposizione antimussoliniana interna al regime. Diversi gerarchi si dichiararono in­ soddisfatti per la condotta della guerra e per la linea politica di Mussoli­ ni, chiedendo che il Gran consiglio del fascismo (che non era stato più riunito dal dicembre 1939) fosse convocato per un esame della situazio­ ne. Il re, che aveva da tempo dichiarato che si sarebbe mosso solo se si fossero realizzate nuove condizioni che lo mettessero in grado di assumere un’iniziativa istituzionalmente corretta, vedeva profilarsi la soluzione del suo problema. Nel frattempo Mussolini stesso aveva provveduto a sgombrare il cam­ po dalle illusioni che fosse possibile far uscire l’Italia dal conflitto senza rotture drammatiche con l’alleata Germania. Nell’incontro con Hitler a Feltre (19 luglio 1943, proprio mentre Roma era oggetto di un tragico bom­ bardamento angloamericano) non ebbe la capacità di prospettargli fino in fondo l’impotenza italiana a reggere ancora il conflitto; dallo stato maggiore tedesco ottenne solo l’invio di ulteriori truppe a difesa della penisola. In questo modo i «fatti nuovi» attesi da Vittorio Emanuele III anda­ vano concretizzandosi nelle modalità più rovinose. Da una parte l’Italia era invasa dalle truppe angloamericane, mentre dall’altra i tedeschi po­ nevano le premesse per attuare un piano d ’occupazione militare dell’Ita­ lia nel caso di un voltafaccia dell’alleato. Esso sarà messo in atto dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ma era stato già delineato dallo stato maggiore della Wehrmacht (Forze armate tedesche) ben prima dell’armi­ stizio. Anche per il dissenso interno al Partito nazionale fascista (Pnf) e soprattutto per l’orientamento dei gerarchi del Gran consiglio l’incontro di Feltre rappresentò un momento cruciale in quanto forni la prova che Mussolini non era in grado di sciogliere i legami dell’alleanza con il nazi­ smo. Dino Grandi, dopo aver inutilmente prospettato a Mussolini, nel corso di un colloquio del 22 luglio, la necessità che egli rimettesse al re i suoi poteri, prese contatti con altri esponenti (Giuseppe Bottai e Galeaz­ zo Ciano) e con essi definì più puntualmente un suo ordine del giorno, su cui furono raccolte le adesioni di quindici membri del Gran consiglio. Quest’ultimo si riunì a partire dalle 17,15 del 24 luglio e nel corso di un lungo dibattito fu messa sotto accusa la condotta politica di Mussolini, a partire dalle leggi eccezionali, e in particolare la decisione di portare l’Ita­ lia in guerra. Oltre a quello di Grandi, altri due ordini del giorno furono presentati: uno di Roberto Farinacci, molto critico verso Mussolini, ma in favore della continuazione della guerra nel rispetto dell’alleanza italotedesca, e uno di Carlo Scorza (segretario del Pnf), che invocava non me­ glio specificate «riforme e innovazioni nel Governo, nel comando supre­ mo, nella vita interna del paese», contenute tuttavia nel quadro della «pie­ na funzionalità degli organi costituzionali del regime». L’ordine del giorno

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di Grandi chiedeva «l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali» de­ gli organi statutari e costituzionali e invitava Mussolini a chiedere al re di «assumere, con l’effettivo comando delle forze armate [...] quella su­ prema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono». L’ordine del giorno fu approvato con diciannove voti a favore, sette con­ trari, un astenuto (Giacomo Suardo) e con la dichiarazione di Farinacci a favore del proprio ordine del giorno. Preso atto della decisione del Gran consiglio, Mussolini si recava il giorno seguente a colloquio dal re. Le deci­ sioni di quest’ultimo erano maturate nei dieci giorni precedenti. In un colloquio del 15 luglio aveva accertato la disponibilità del maresciallo Pie­ tro Badoglio ad assumere la carica di capo del governo e, dopo il 19 lu­ glio, aveva comunicato la sua decisione al generale Vittorio Ambrosio, ca­ po di stato maggiore dell’esercito, il quale, con la collaborazione dell’ex capo della polizia Carmine Senise e del generale Castellano, perfezionò i piani per la destituzione e l’arresto di Mussolini. Al termine di un collo­ quio con il re, breve e scarsamente onorevole per entrambi gli interlocu­ tori, Mussolini apprese da Vittorio Emanuele III la sua destituzione e, all’uscita, fu arrestato dai carabinieri. La notizia dell’avvenimento e quel­ la della nomina di Pietro Badoglio alla carica di capo del governo non pro­ vocarono apprezzabili reazioni né da parte dei principali capi fascisti né da parte della massa dei militanti. Prevalse invece una entusiastica ap­ provazione popolare in cui si confondevano l’esultanza per la caduta del regime e le speranze di una pace imminente. La partita era tuttavia ap­ pena iniziata: la conclusione del 25 luglio segna - è vero - la crisi defini­ tiva del regime, ma non cancella la presenza del fascismo che tornerà sul­ la scena a seguito dell’8 settembre. Le componenti politiche. Malgrado queste vicende siano decisive per la destituzione di Mussolini e per la fine della ventennale dittatura, se­ gnando una tappa da cui sarà impossibile recedere, altre componenti oc­ corre richiamare per comprendere come la congiura di palazzo non sia sta­ ta altro che il detonatore di una situazione che da lungo andava erodendo dall’interno l’edificio della dittatura e minando senza rimedio le fondamenta del consenso da parte della società italiana. L’ideologia e la cultura fascista erano state intimamente permeate da una componente bellicista e imperialista. Le origini stesse del movimen­ to fascista comportavano un richiamo determinante all’esperienza della prima guerra mondiale. Tutta la politica estera del regime aveva d’altra parte avuto come obiettivo principale le aspirazioni al ruolo di grande po­ tenza imperiale. L’ideologia del regime, fondata sui valori maschi della virtù guerriera e della forza, aveva sempre additato nella guerra il cimen­ to supremo da cui scaturiva la riprova delle virtù di un popolo e di una nazione. La guerra per l’affermazione definitiva dell’Italia come grande potenza mondiale era stata quindi vaticinata come il punto d’arrivo del­ l’esperienza del fascismo, il suo prodotto più significativo e più puro. Il

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carattere “fascista” della guerra era stato incentivato in ogni modo, sot­ tolineato non solo dagli “osanna” propagandistici all’indirizzo del duce, comandante supremo delle Forze armate, ma anche dall’organizzazione di corpi speciali - le Camicie nere - destinati a trasferire nell’esperienza militare e nell’esercito il lievito ideale della loro ispirazione fascista; l’ar­ ma aerea, che sarebbe stata in effetti lo strumento militare determinante (se non addirittura decisivo) del conflitto, si era sempre caratterizzata co­ me creatura del fascismo; all’interno della marina, pur tradizionalmente devota alla monarchia, le formazioni sommergibilistiche e antisommergibilistiche coltivavano uno spirito spavaldo e avventuroso d ’ispirazione dannunziana che aveva molte assonanze con la retorica dell’arditismo fa­ scista. Agli occhi dell’opinione pubblica la celebrazione continua del ca­ rattere fascista della guerra si doveva inevitabilmente tradurre in un pe­ ricoloso rovesciamento quando il paese cominciò a rendersi conto che le fortune del conflitto volgevano contro le forze del T ripartito, l’alleanza italo-tedesca-giapponese. I meriti che il regime avrebbe voluto attribuir­ si diventarono responsabilità gravissime, configurando un quadro di im­ previdenza, inefficienza e corruzione da cui il regime usciva distrutto agli occhi degli italiani. All’interno delle stesse Forze armate, d’altronde, si annidava un forte dualismo, costituito dalla doppia lealtà che il corpo de­ gli ufficiali per primo doveva sentire: da una parte verso il regime, che nel corso degli anni aveva cercato di accaparrarsi il loro appoggio anche con provvedimenti favorevoli alla carriera, e dall’altra parte verso il re, istituzionalmente capo dell’esercito. La necessità di potenziare sia le organizzazioni del partito sia le strut­ ture totalitarie dello stato fascista al fine di consolidare la stabilità del re­ gime e di renderlo più efficiente era comunque emersa già nel corso degli ultimi anni di pace e aveva attirato l’attenzione di non inconsistenti set­ tori dell’apparato fascista. La struttura pletorica del Pnf era apparsa ina­ deguata rispetto ai nuovi compiti che dopo la guerra d ’Etiopia si pro­ spettavano all’Italia fascista: alla persecuzione antisemita, sancita dalle leggi razziste del 1938, si era aggiunta negli anni seguenti una fragorosa campagna propagandistica “antiplutocratica” che aveva avuto il compito di segnalare ed esaltare i caratteri proletari e demagogici del conflitto in­ trapreso dalle potenze totalitarie. Questi nuovi indirizzi del fascismo, spesso interpretati come adesione gregaria al modello hitleriano, avevano invece i caratteri di un tentativo diretto a rendere più aggressivo e più coeso il partito fascista, ingigantendo i pericoli esterni, richiamando alla vita politica attiva anche i militanti squadristi delle origini, per lo più al­ lontanati e relegati in ambiti secondari quando s’erano rivelati poco com­ patibili con l’aspetto perbenista e consentaneo al blocco d ’ordine che il fascismo s’era prefisso di conseguire nella seconda metà degli anni venti. É coerente con questa ripresa dell’estremismo delle origini anche il ten­ tativo, promosso da Adelchi Serena (segretario del Pnf dal 30 ottobre 1940 al 26 dicembre 1941), di studiare i modi per potenziare il carattere

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totalitario del regime, di promuovere un più accentuato ruolo politico del partito e di dar vita a una riforma di alcuni istituti statali in modo da av­ viare il fascismo sulle orme dell’ammirato totalitarismo nazista. La via se­ gnata da Adelchi Serena restò un tentativo incompiuto, che Mussolini per primo non sembrò condividere; ma agli occhi di diversi studiosi odierni è il segnale che parte delle stesse gerarchie del fascismo e degli intellet­ tuali a esso fedeli avverti la necessità di rafforzare la presa del regime e dei suoi apparati sul paese, nella coscienza che le misure tradizionali fos­ sero ormai insufficienti in quanto la guerra stava incidendo con un cari­ co di sacrifici progressivamente insopportabili. Le componenti economiche. Per gli italiani le privazioni imposte dal conflitto cadevano in un contesto già fortemente segnato da un’economia di guerra che nasceva da lontano, ben prima dell’esplosione del conflitto mondiale e della nascita del nesso indissolubile con la Germania nazista. Gli aspetti congiunturali della vicenda italiana negli anni 1940-43 non possono venir scissi dalla vicenda complessiva del regime e dal disegno che presiede al governo dell’economia e delle alleanze sociali almeno a partire dalla guerra d ’Etiopia. Industria di guerra e grandi monopoli era­ no stati i soggetti privilegiati nella strategia economica del regime, stru­ menti della via scelta per uscire dalla crisi del 1929-34. Nelle vicende eco­ nomiche legate alla congiuntura bellica questi due cardini non possono certo essere rimossi. L’industria indirizzata alla produzione bellica, per ragioni intrinseche, sta al centro delle cure del regime e di conseguenza verso di essa vengono convogliate tutte le risorse, in termini di capitali, materie prime, forza lavoro. Già di per sé questo dato comporta che gli altri settori economici, le industrie indirizzate ai consumi di pace e la pro­ duzione agricola, sono destinati a pagare un crescente tributo e a subire un pesante depauperamento. La struttura storica dell’economia industriale italiana fa sì che questo processo, comune del resto a tutti i paesi in guer­ ra, assuma caratteri di forte discriminazione ai danni dei gruppi econo­ micamente meno forti. L’industria pesante, localizzata prevalentemente nelle regioni settentrionali, accentua i suoi caratteri di concentrazione tec­ nica e finanziaria che da una parte le assicurano un posto di rilievo nelle decisioni della politica economica fascista e dall’altra vengono incremen­ tati proprio dall’economia di guerra e dal circuito monetario escogitato a sostegno di quest’ultima. A evitare infatti che, con l’avvio del conflitto, si producessero sconvolgenti fenomeni inflazionistici, vengono messi in atto provvedimenti fiscali e creditizi che devono rastrellare le somme spe­ se in eccedenza dallo stato rispetto alle entrate normali in bilancio e di conseguenza neutralizzare l’emissione di carta-moneta realizzata al fine di finanziare la guerra. Già a partire dal 1935 vengono applicate una se­ rie di imposte sul patrimonio e sull’entrata, concernenti in prevalenza il ri­ sparmio esistente, cui si aggiungono dal 1940 specifiche misure sugli uti­ li di congiuntura e contro la speculazione borsistica. Tutte queste misure

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sono accompagnate e rafforzate da altre, miranti a convogliare verso il Tesoro le eccedenze finanziarie, tramite investimenti in titoli di stato. L’analisi dei risultati di questo complesso apparato normativo porta tut­ tavia a sottolineare che esso non sembra in grado di colpire gli utili e le speculazioni connesse alla politica autarchica, prima, e da quella di guer­ ra, poi, ma si limita a incidere sulle fonti tradizionali di ricchezza. I pro­ fitti delle imprese indirizzate alle produzioni di guerra non sono messi in discussione da questi provvedimenti, né tanto meno ne vengono toccati i poteri e il peso dei maggiori gruppi economici. La struttura monopo­ listica nel settore industriale negli anni di guerra si rafforza, favorita dall’accorpamento delle imprese industriali sotto la guida dei maggiori complessi. Il sistema di controllo sulla formazione della domanda, che co­ stituisce l’ulteriore strumento destinato a frenare l’inflazione in tutti i paesi in guerra (pur con significative differenze tra gli uni e gli altri), si appoggia in Italia al sistema corporativo e comporta la creazione e lo svi­ luppo di veri e propri monopoli, tanto nel settore industriale quanto nel settore agricolo, dove gli ammassi obbligatori si generalizzano e assumo­ no il carattere di enti monopolistici di controllo sull’offerta dei prodotti agricoli. Nel settore agricolo si assiste a un processo - per certi versi analogo a quello che si realizza nel settore industriale - che favorisce la riorganiz­ zazione capitalistica del settore, a detrimento dei piccoli produttori. Le esigenze razionalizzatrici dirette all’incremento della produzione grana­ ria fanno sentire il loro peso soprattutto a vantaggio delle grandi azien­ de, mentre per il piccolo coltivatore il prezzo politico dei cereali non è re­ munerativo; e mentre costui risente in modo più accentuato della tassa­ zione, del razionamento, del costo della vita, gli affittuari capitalistici che producono per il mercato sono i più avvantaggiati dal blocco dei fitti e dal progressivo alleggerimento del carico fiscale sulla conduzione. I ri­ chiami alle armi arrecano infine alla piccola proprietà direttamente colti­ vatrice un colpo gravissimo in quanto essa non è in grado di assumere sa­ lariati. In questo panorama gli enti ammassatori, che impongono prezzi di conferimento nettamente inferiori ai prezzi di mercato, favoriscono gli accaparratori in grado di giocare sugli aumenti futuri di prezzo e fin dal­ l’inizio del conflitto, dominati come sono dagli esponenti delle categorie più forti, sono fortemente indiziati di essere i protagonisti dei maggiori fenomeni di speculazione. Questo quadro della gestione dell’economia di guerra rivela una dram­ matica tensione che approfondisce il solco tra le classi privilegiate e la po­ polazione: il divario tra redditi che consentono un tenore di vita agiato e redditi al livello di sussistenza si accresce, mentre la distribuzione del red­ dito nel suo complesso si polarizza, incrementata dal blocco di salari e sti­ pendi. Alle speculazioni e alla stagnazione dell’incremento dei redditi fissi si aggiungono le disfunzioni organizzative. La macchina distributiva appa­

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re in difficoltà fin dal primo delinearsi di un sistema di contingentamen­ to dei beni di consumo. I fenomeni di imboscamento delle merci e il mer­ cato nero fanno la loro comparsa fin dai primissimi anni di guerra. In par­ te sono il prodotto della scelta di far convergere sul settore industriale tutte le risorse. Da questo punto di vista non si può negare all’Italia fa­ scista di essere perfettamente in linea con le politiche di tutte le potenze in guerra. Tuttavia per l’Italia la necessità di scambiare prodotti agricoli con materie prime portò nel giro di un paio d ’anni a un vertiginoso de­ cremento delle risorse per il fabbisogno interno. Le disponibilità alimen­ tari imposero una contrazione dei consumi della popolazione civile pari al quaranta per cento, in un paese che - come mostrano confronti inter­ nazionali elaborati all’epoca - si segnalava in Europa per la modestia dei livelli dei beni primari. Il tesseramento dei consumi - che progressiva­ mente si andò ampliando tra il 1940 e il 1942 - fu progettato fin dall’ini­ zio come se fosse destinato a soddisfare solo parzialmente le necessità del mercato alimentare. I traffici clandestini sembravano quasi concepiti co­ me naturale integrazione di una serie di misure che nel 1942, per ammis­ sione dello stesso ministero dell’Agricoltura, prevedevano di assicurare ai cittadini non più di un terzo del fabbisogno calorico giornaliero. Il peso dell’economia di guerra e il suo sostanziale fallimento rispetto all’obiettivo di garantire un certo equilibrio e la pace sociale - così com’è percepito dall’opinione pubblica e dai diversi strati sociali - si rivelano in primo luogo in uno dei settori nevralgici per la tenuta del «fronte inter­ no», quello dei consumi essenziali. Sullo sfondo stanno - è vero - anche altre componenti. Primeggia la constatazione del prevalere dell’economia monopolistica, a cui rispondeva un vasto settore del pensiero economico con l’invocazione del ritorno a un’economia liberista, alla fine del con­ flitto. Questa prospettiva, che trovò larga eco negli ambienti accademici, venne apertamente proclamata in un convegno dedicato al Nuovo ordine nell’Europa postbellica, tenuto a Pisa nel 1942. La definizione dei pro­ grammi tedeschi in merito alla nuova divisione internazionale del lavoro (il cosiddetto piano Funk, dal nome del ministro tedesco per l’Economia) sollevò in numerosi ambienti industriali non poche inquietudini, in quan­ to ne venne percepita la chiara tendenza a dislocare in secondo ordine la potenza industriale italiana. Nel settore agricolo i ceti danneggiati dal re­ gime dell’economia di guerra andavano covando un sordo rancore, che non trovava espressioni aperte, ma che soprattutto nel Meridione prepa­ rava in silenzio una dissociazione che, dopo il 25 luglio, si esprimerà nel lealismo monarchico e nell’assenza di reazioni in difesa del fascismo. Il disagio sociale. La gran parte delle masse popolari aveva tuttavia elementi più immediati di percezione della debolezza irrimediabile del re­ gime. Le difficoltà dei rifornimenti si traducevano in protesta dissimulata e mormorazione, in ostilità contenuta dalle misure repressive e polizie­ sche, ma non sfociarono se non occasionalmente in aperta manifestazio­

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ne. Furono le donne le prime - tra il 1941 e il 1942 - a dar vita a qual­ che occasionale episodio che rivelava il crescente disagio. L’altro grande motivo di scontento, di sfiducia e di crescente paura fu rappresentato dai bombardamenti aerei che con l’autunno 1942 incominciarono a colpire in modo tragico le città italiane. La difesa contro le incursioni si rivelò as­ solutamente inadeguata: ricoveri nelle città e armamenti antiaerei gareg­ giavano per inefficienza, promovendo (come osservavano gli stessi infor­ matori della polizia) il risentimento e l’odio verso il regime fascista più che verso le potenze nemiche. Nel 1941-42 i tedeschi vennero chiamati ad aiutare l’alleato con l’invio di cannoni per la difesa e di truppe specia­ lizzate. L’effetto di queste misure, che suonavano come un’aperta con­ fessione di incapacità a operare con efficacia, fu quello di incrementare l’allarme per le possibili prevaricazioni che il nazismo avrebbe potuto com­ piere contro l’Italia. Il momento culminante del divorzio tra regime e paese fu rappresen­ tato dagli scioperi che nel mese di marzo del 1943 presero vita nei mag­ giori centri industriali dell’Italia settentrionale. Dapprima gli stabilimenti Fiat di Torino e successivamente un vasto numero di aziende industriali del Milanese furono teatro di astensioni dal lavoro di varia durata. La pro­ testa aveva solide radici economiche, per il contesto generale di privazioni in cui era andata maturando e per il carattere particolarmente duro delle condizioni di lavoro, spesso soggetto alla disciplina militare negli stabilimenti indirizzati alla produzione di guerra. Gli scioperi furono percepiti da Mussolini come un grave segnale della inadeguatezza del regime a con­ trollare il paese; ma né la sostituzione di alcuni alti funzionari o esponenti politici (tra cui il capo della polizia Carmine Senise e il segretario del par­ tito Aldo Vidussoni) né la repressione nei confronti degli scioperanti val­ sero a restituire solidità al consenso verso il regime. Per quanto gli scio­ peri operai non abbiano avuto diretta e precisa relazione con l’articolar­ si della congiura monarchico-militare, essi rispondevano a un clima sempre più diffuso di insofferenza e di ostilità. La embrionale riorganizzazione dei partiti antifascisti che andava effettuandosi nell’inverno 1942-43 eb­ be un valido significato in questo contesto; e per quanto molto si discuta sul peso delle organizzazioni comuniste e socialiste nel promuovere gli scioperi stessi, queste agitazioni di massa segnarono comunque l’avvio di un conflitto sociale dai contorni inequivocabilmente politici. Nota bibliografica. A A .W ., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Feltrinelli, Milano 1974; G. Bianchi, 25 luglio. Crollo di un regime, Mursia, Milano 1963; R. D e Felice, Mussolini l’al­ leato. 1940-1945, 1. L ’Italia in guerra (1940-1943), Einaudi, Torino 1990; F. Ferratini Tosi, G. Grassi e M. Legnani (a cura di), L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella resistenza, Insmli, Angeli, Milano 1987; E. G entile, La via italiana al totalitarismo.Il partito e lo stato nel regime fascista, Nuova Italia Scientifica, Roma 1995; Insmli, L ’Italia dei quarantacinque gior­

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ni: 25 luglio - 8 settembre 1943. Studio e documenti, Insmli, Milano 1969; S. Musso, La ge­ stione della forza lavoro sotto il fascismo, Angeli, Milano 1987; G. Parlato, Il sindacalismo fa­ scista, II. Dalla grande crisi alla caduta del regime (1930-1943), Bonacci, Roma 1989; P. Pun­ toni, Parla Vittorio Emanuele III, Il Mulino, Bologna 1993; M. Sarfatti (a cura di), 1 938. Le leggi contro gli ebrei. La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Camera dei Deputati, Ro­ ma 1989; A. Ventura (a cura di), Sulla crisi del regime fascista. 1938-1943, Isr Padova, Mar­ silio, Venezia 1996; R. Zangrandi, 1943:25 luglio - 8 settembre, Feltrinelli, Milano 1964 (ed. riveduta L ’Italia tradita, 8 settembre 1943, Mursia, Milano 1971).

GIORGIO R O C H A T

L’armistizio dell’8 settembre 1943

I termini della questione. L’8 settembre 1943 è il giorno più nero della guerra italiana e della storia delle Forze armate nazionali. Vissuto in modo traumatico da decine di milioni di italiani sospesi tra la speranza e la pau­ ra, sentito quasi sempre come disfatta e vergogna, anche se subito inter­ pretato in modi diversi e spesso opposti, l’armistizio dell’8 settembre ha suscitato polemiche violentissime, non ancora chiuse, e una sterminata quantità di accuse, denunce e falsificazioni, di studi e memorie. Tutti gli av­ venimenti di qualche rilievo di quei giorni sono oggi conosciuti con sicurez­ za, ma su cause, comportamenti e conseguenze il dibattito è ancora aperto. II punto di partenza è ovviamente la piena sconfitta dell’Italia fascista, di cui non occorre ricordare le dimensioni. Basti dire che nell’agosto 1943 l’esercito aveva circa due milioni di uomini sul territorio nazionale, ma sol­ tanto una decina di divisioni di fanteria di qualche efficienza (anche se lar­ gamente inferiori alle divisioni meccanizzate tedesche e angloamericane), che non erano in grado di opporre alcuna resistenza di fronte a un’invasio­ ne degli angloamericani o della Germania nazista. Le città italiane erano esposte ai bombardamenti aerei praticamente senza difesa, il morale della popolazione era crollato, come le condizioni di vita e di alimentazione. L’esi­ genza di portare l’Italia fuori dalla guerra era così forte che il re Vittorio Emanuele III era stato costretto a destituire Mussolini il 25 luglio perché gli angloamericani non erano disposti a trattare con lui. Anche se il mare­ sciallo Pietro Badoglio, al momento di assumere la responsabilità del nuo­ vo governo, aveva dichiarato che la guerra a fianco della Germania conti­ nuava, il suo compito effettivo era di chiuderla. Uscire dalla guerra non era facile per più ragioni. La prima riguardava il vertice dello stato, un piccolo gruppo composto dal re, il capo del governo Badoglio, il capo di stato maggiore generale Vittorio Ambrosio, il capo di stato maggiore dell’esercito Mario Roatta, il ministro della Reai casa Pietro Acquarone, uomo di fiducia del re (i ministri e gli altri capi militari ebbero parti marginali in queste vicende). Il problema fondamentale di costoro era di assicurare la continuità del loro potere (e quindi dello stato monarchico) nel passaggio di campo. In concreto avevano un’assoluta incomprensione delle posizioni degli angloamericani e una grande paura dei tedeschi. Nell’estate 1943 gli alleati angloamericani non avevano ancora deciso

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come comportarsi se l’Italia avesse chiesto di arrendersi. La richiesta di una resa incondizionata, proclamata dal presidente Roosevelt in gennaio a Ca­ sablanca, non aveva risolto i contrasti tra i sostenitori di una linea dura - pre­ valentemente inglesi - e i favorevoli a una maggiore elasticità verso l’Italia sconfitta - prevalentemente statunitensi. Il contrasto fu risolto con un’am­ pia delega per le condizioni di armistizio al generale Dwight Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, cui interessava so­ prattutto di assicurarsi la collaborazione italiana per facilitare lo sbarco in preparazione a Salerno. Da parte tedesca non ci furono mai dubbi. La destituzione di Mussoli­ ni fu intesa come un preannuncio della defezione italiana. Subito dopo il 25 luglio circa otto divisioni tedesche entrarono in Italia settentrionale oc­ cupando i principali valichi delle Alpi e degli Appennini. Le otto divisioni dislocate nel Centro-sud, tutte di prima qualità (Panzer, Panzergrenadieren e paracadutisti), vennero completate e rafforzate. Il rovesciamento im­ mediato del governo Badoglio fu studiato e poi scartato, ma venne messo a punto il piano Alarich (poi Achse) per l’attacco e la neutralizzazione delle forze italiane al momento opportuno. Per la Germania era essenziale - per ragioni militari, economiche e di prestigio - mantenere il controllo dei Bal­ cani e spingere più a sud possibile l’occupazione della penisola italiana; la difesa a oltranza doveva avere luogo sulla linea degli Appennini per copri­ re l’Italia settentrionale. Quali erano i rapporti di forza ? Era in corso una notevole riduzione del­ le forze alleate nel Mediterraneo per la priorità dello sbarco in preparazione nella Francia settentrionale. Le divisioni e i mezzi da sbarco che restavano a Eisenhower erano sufficienti per l’azione di Salerno, ma non per movi­ menti di più ampio respiro (come uno sbarco a nord di Roma), né per ope­ razioni secondarie nei Balcani. Pur duramente impegnata in Russia, la Ger­ mania era ancora in grado di concentrare divisioni efficienti e aviazione suf­ ficienti a garantire il controllo dei Balcani, sopraffacendo la trentina di divisioni italiane ivi dislocate (650 000 uomini), e l’occupazione dell’Italia settentrionale, dove c’erano centinaia di migliaia di soldati italiani, ma non truppe efficienti. La situazione era più aperta in Italia centrale, come ve­ dremo trattando della mancata difesa di Roma; ma le forze italiane nei Bal­ cani e nell’Italia settentrionale erano in ogni caso destinate a essere so­ praffatte dai tedeschi. Non era colpa del governo Badoglio, ma il duro prez­ zo da pagare per liquidare la guerra di Mussolini. Le trattative per l ’armistizio. Per uscire dalla guerra fascista c’erano tre vie: a) ottenere dai tedeschi il consenso a un armistizio come premessa per

la neutralizzazione dell’Italia nel conflitto. Era la soluzione sognata dal governo Badoglio, ma del tutto irrealistica; in un conflitto cosi duro non era pensabile che le due parti accettassero un’uscita indo­ lore dell’Italia e la neutralizzazione del suo territorio;

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b) attaccare le forze tedesche nello stesso momento della destituzione

di Mussolini. Soluzione quanto mai ardua, che non fu presa in con­ siderazione perché il re e Badoglio non intendevano affrontare i te­ deschi senza concrete garanzie politiche e militari dagli angloame­ ricani; c) aprire trattative segrete con gli alleati tenendo a bada i tedeschi con la dichiarazione di volere continuare la guerra. Fu la decisione presa dal nuovo governo il 31 luglio. La scelta non era facile, perché il re e Badoglio erano condizionati dal timore di perdere il controllo della situazione interna, dal terrore delle rea­ zioni tedesche, dalla sfiducia nelle forze armate italiane, dalla necessità del segreto. Le trattative con i vincitori furono impostate e condotte nel mo­ do più angusto, con una serie di sondaggi e missioni affidati a diplomatici e militari senza istruzioni né credenziali precise [Aga Rossi 1993]. Le confuse aperture italiane ebbero successo perché gli alti comandi an­ gloamericani stavano preparando lo sbarco nella penisola con forze limita­ te e quindi erano fortemente interessati all’appoggio che potevano avere dalle forze armate italiane, di cui sopravalutavano l’efficienza. A fine lu­ glio il generale Eisenhower aveva già messo a punto le condizioni da porre, il cosiddetto «armistizio breve» poi firmato il 3 settembre, che prevedeva la fine delle ostilità, la collaborazione italiana, la consegna della flotta, i pie­ ni poteri delle autorità militari alleate. Roosevelt e Churchill accettarono di firmare un armistizio con il governo italiano che, in deroga al principio della resa incondizionata, ne riconosceva l’autorità e la continuità; ma de­ finirono un secondo elenco di clausole più dettagliate e pesanti che, ri­ prendendo la sostanza di una resa senza condizioni, stabilivano il pieno con­ trollo dei vincitori sullo stato italiano. Questo testo, noto come «armisti­ zio lungo», fu consegnato ai rappresentanti italiani all’ultimo momento e poi firmato da Badoglio a Malta il 29 settembre. Il 10 settembre il governo italiano (in realtà erano presenti Badoglio, il ministro degli Esteri Guariglia e i capi militari) decise di accettare l’armisti­ zio, che fu firmato il 3 a Cassibile, in Sicilia, dal generale Castellano in rap­ presentanza del governo e dal generale Bedell W. Smith, capo di stato mag­ giore di Eisenhower. La scelta del momento in cui rendere pubblico e ope­ rante l’armistizio era riservata a Eisenhower in rapporto all’imminente sbarco nella penisola (luogo e data non furono comunicati agli italiani). Per una valutazione degli eventi si deve tenere conto di due livelli. Il re e Badoglio avevano ottenuto molto: la fine delle ostilità, il loro riconosci­ mento come controparte (e quindi la continuità della monarchia e del go­ verno), l’accantonamento della formula della resa senza condizioni (la so­ stanza restava, perché erano i rapporti di forza a contare), la promessa solenne che il concorso italiano alla guerra angloamericana sarebbe stato adeguatamente valutato (come di fatto avvenne). Anche Roosevelt e Chur­ chill avevano ottenuto quanto loro premeva: la resa dell’Italia e la collabo­

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razione delle sue Forze armate, a cominciare dalla consegna della flotta che, come vedremo, aveva un grande valore. L’applicazione concreta dell’armistizio si basava invece su una serie di equivoci, non tutti in buona fede. Badoglio e i suoi contavano su uno sbarco alleato così forte da liberarli dalla minaccia tedesca su Roma, anche se era­ no stati informati che lo sbarco sarebbe stato a sud della capitale. Gli allea­ ti speravano di avere dalle forze italiane un appoggio importante per il loro sbarco a Salerno e l’avanzata su Napoli e Roma. In realtà entrambe le par­ ti si basavano su ipotesi non facilmente verificabili finché durava lo stato di guerra, e sottovalutavano la reazione tedesca, come dimostra il progetto di rinforzare la difesa di Roma con una divisione avioportata statunitense. L’equivoco più noto, quello sulla data della proclamazione dell’armisti­ zio, fu invece costruito più tardi. Per giustificare il crollo del vertice poli­ tico-militare all’8 settembre ebbe ampia diffusione a tutti i livelli la versio­ ne che l’annuncio dell’armistizio, previsto per metà settembre, fosse stato anticipato unilateralmente dagli alleati con il risultato di impedire a Bado­ glio e ai suoi generali di diramare ordini tempestivi per una reazione delle Forze armate italiane. In realtà gli angloamericani non ebbero mai esita­ zioni sulla data dello sbarco di Salerno, stabilita da tempo per l’alba del 9 settembre, e la comunicarono ai rappresentanti italiani non il 3 settembre, ma comunque con qualche anticipo (missione Taylor di cui diremo). La proclamazione dell’armistizio. Dalla documentazione esistente risul­ ta con chiarezza che Badoglio e i capi militari non pensarono mai di pote­ re e dover prendere l’iniziativa contro i tedeschi al momento della procla­ mazione dell’armistizio. La loro maggiore preoccupazione fu di mantenere il segreto sulle trattative con i vincitori; e infatti fino all’ultimo continua­ rono a diramare ai comandi dipendenti direttive basate sulla collaborazio­ ne con i tedeschi in caso di sbarchi angloamericani. Soltanto gli alti comandi in Italia ricevettero istruzioni segretissime di reagire a un tentativo tede­ sco di rovesciare il governo Badoglio. Nulla di più fu predisposto; si ha qua­ si l’impressione che il re, Badoglio e i capi militari avessero consumato tut­ te le loro energie nella decisione di arrendersi (ma si ricordarono di inviare tempestivamente in Svizzera beni e famiglie). L’8 settembre 1943, alle 18,30, il generale Eisenhower annunciò per ra­ dio che l’Italia aveva chiesto e ottenuto l’armistizio. Lo stato di confusione del vertice italiano è impietosamente documentato dalla riunione tenuta subito dopo, in cui il re, Badoglio, i generali Ambrosio, Sorice, Sandalli e Car­ boni, l’ammiraglio De Courten, Acquarone e Guariglia discussero seriamen­ te se denunciare l’armistizio appena annunciato come un trucco degli an­ gloamericani, concludendo fortunatamente che era necessario tenere fede all’impegno preso. Badoglio diede quindi l’annuncio dell’armistizio alla ra­ dio, aggiungendo che le Forze armate avrebbero reagito «ad eventuali attac­ chi da qualsiasi altra provenienza», un’indicazione tragicamente insufficiente per i comandi che dovevano fronteggiare l’immediata aggressione tedesca.

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Non è facile stabilire cosa Badoglio avrebbe dovuto dire in quel mo­ mento, se ordinare alle truppe di arrendersi in nome del re a forze sover­ chiami oppure di sparare contro i tedeschi (come era implicito nelle tratta­ tive con gli angloamericani). Non fu comunque la preoccupazione di evitare perdite che indusse il re e Badoglio a non prendere posizione, ma un’angu­ stia di prospettive etico-politiche, una concezione dello stato in cui conta­ va soltanto il vertice istituzionale e non le sorti dei cittadini; pesò anche la loro scarsa fiducia nelle Forze armate nazionali. Si può naturalmente di­ scutere sulle motivazioni. Il fatto indiscutibile è che, in un momento cosi drammatico, il re e il suo governo si sottrassero alla responsabilità che ave­ vano verso il paese e le truppe, lasciate senza ordini alla reazione tedesca, e si preoccuparono soltanto della loro salvezza personale. La mancata difesa di Roma. Il controllo di Roma all’indomani dell’ar­ mistizio aveva una straordinaria importanza politica (il governo Badoglio avrebbe avuto ben altro prestigio nella sua capitale che a Brindisi) e mili­ tare (toglierla ai tedeschi significava troncare i rifornimenti alle loro forze impegnate a Salerno). E le forze italiane disponibili non erano poche: due divisioni corazzate in corso di approntamento e quattro divisioni di fante­ ria contro due divisioni tedesche, una a nord e l’altra a sud di Roma. In realtà un confronto preciso delle forze contrapposte non è possibile, perché le due divisioni tedesche erano incomplete, ma furono rafforzate con re­ parti in transito o già sul posto. Anche tenendo conto dell’armamento as­ sai più moderno di queste divisioni, rimane una superiorità italiana netta, seppure non schiacciante. L’importanza della capitale era così evidente, che gli alleati erano disposti a inviarvi una divisione statunitense avioportata per rafforzare la difesa italiana. La divisione aveva un’efficienza limitata, perché non disponeva di armamento pesante, ma il suo arrivo avrebbe avuto un ec­ cezionale valore politico: se italiani e americani avessero combattuto fian­ co a fianco a Roma, il passaggio dell’Italia dalla parte degli alleati avrebbe assunto subito un significato effettivo. Senonché Badoglio e i suoi generali avevano così poca fiducia nelle loro truppe, che ritenevano di potere difendere la capitale soltanto se gli angloa­ mericani fossero sbarcati in T oscana. Nulla fu fatto per predisporre la dife­ sa, neanche il pieno di carburante dei carri armati. E quando la sera del 7 il generale Maxwell Taylor giunse a Roma per preparare l’impiego della divi­ sione avioportata, Badoglio e i suoi generali badarono soltanto a dimostrar­ gli che l’arrivo degli americani era impossibile e in sostanza non gradito. La mattina dell’8 settembre il contrordine di Taylor giunse appena in tempo per fermare gli aeroplani che stavano per decollare carichi di paracadutisti. Il re e Badoglio si preoccuparono soltanto di salvare se stessi. Poiché l’imbarco per la Sardegna, già prediposto, era messo in pericolo dai movi­ menti tedeschi su Ostia, all’alba del 9 abbandonarono Roma in automobi­ le diretti a Pescara, dove la sera salirono sulla corvetta Baionetta, che l’in­ domani li sbarcò a Brindisi. La «fuga di Pescara» poteva avere un senso per

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il re e Badoglio, che rappresentavano la continuità dello stato monarchico e quindi non dovevano cadere in mano ai tedeschi; ma con loro fuggirono anche i capi delle Forze armate (i ministri civili furono dimenticati a Ro­ ma) e una fiumana di generali che si disputarono l’imbarco sulla 'Baionetta con tanta furia da richiedere l’intervento dei carabinieri. La cosa più grave fu che i fuggiaschi non si curarono di lasciare ordini per le forze armate e la difesa di Roma. Alle 0,20 del 9 settembre la radio del Comando supremo trasmetteva ancora l’ordine: «in nessun caso pren­ dere l’iniziativa delle ostilità contro le truppe germaniche». Poi tacque, la­ sciando senza risposta le disperate richieste di istruzioni dei comandi peri­ ferici. Soltanto a Brindisi Badoglio si ricordò di impartire fiere disposizio­ ni di resistenza a un esercito che non c’era più. L’unico ordine dato alle truppe di Roma la mattina del 9 dal capo di sta­ to maggiore dell’esercito Roatta, già sulla via di Pescara, fu di ripiegare su Tivoli per coprire la fuga del re, abbandonando la capitale. Anche in as­ senza di ordini il 9 si ebbero una serie di combattimenti a Roma, con il con­ corso di civili, e nei dintorni; poi il 10 alcuni generali si assunsero la re­ sponsabilità di offrire la resa e il disarmo delle truppe italiane. Il maresciallo Kesselring, che aveva temuto di non potere tenere Roma e il fronte di Sa­ lerno, si ritrovò così padrone della situazione. Subito dopo il loro arrivo a Brindisi, Badoglio e i suoi generali si preoc­ cuparono di fabbricare una versione dei fatti che li assolvesse dalle loro re­ sponsabilità, una versione convalidata poi con inchieste guidate, memorie più o meno falsificate e una gran quantità di pubblicazioni. Roma non era stata difesa perché gli alleati avevano anticipato l’annuncio dell’armistizio, vanificando i preparativi in corso: una versione di cui le ricerche successive [Zangrandi 1964 e 1971; Aga Rossi 1993] hanno dimostrato l’inconsisten­ za. In subordine i generali riversarono ogni colpa sul generale Carboni, co­ mandante delle divisioni di Roma, che si era comportato con straordinaria leggerezza, ma non più dei colleghi che lo accusavano. Le vicende della marina confermano la difficoltà degli alti comandi di affrontare con lucidità il rovesciamento di fronte. L’armistizio prevedeva esplicitamente la consegna e il disarmo della flotta italiana; agli angloame­ ricani premeva che le corazzate e gli incrociatori non cadessero nelle mani dei tedeschi, cosa che li avrebbe costretti a mantenere nel Mediterraneo una forza navale consistente. L’ammiraglio Raffaele De Courten, che co­ me ministro e capo di stato maggiore della marina ne aveva il pieno con­ trollo, fu messo al corrente di questa clausola ai primi di settembre, ma non ritenne di informarne gli ammiragli che comandavano le squadre navali. Soltanto alcune ore dopo l’entrata in vigore dell’armistizio De Courten si decise a dare ordine alle navi di prendere il mare, dando però come obiet­ tivo alle corazzate di La Spezia (le più importanti) l’isola di La Maddalena, in contrasto con le richieste degli alleati. Un’applicazione delle clausole dell’armistizio (la cui importanza non poteva sfuggire all’ammiraglio e mi­ nistro) per lo meno tardiva ed elusiva. I comandanti delle squadre navali

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furono comunque gli unici a ricevere ordini precisi la sera dell’8 settembre, un privilegio che non ebbero i loro colleghi dell’esercito e dell’aeronautica. Ciò nonostante gli ufficiali delle corazzate persero tempo a discutere se ob­ bedire agli ordini o affondare le navi (come se fossero di loro proprietà). Le corazzate uscirono dal porto soltanto la mattina del 9, dirette a La Mad­ dalena, dando la possibilità all’aviazione tedesca di raggiungerle dinanzi al­ la Sardegna e di affondare la corazzata Roma. Dopo di che le altre navi si dec isero a dirigersi su Malta, dove furono messe in disarmo. Il collasso delle forze armate. In Italia e nei Balcani le forze tedesche era­ no largamente inferiori a quelle italiane per numero, ma godevano di due vantaggi decisivi. In primo luogo erano pronte a scattare con ordini chiari: ottenere il disarmo delle truppe italiane con qualsiasi mezzo (promesse, in­ ganni, minacce, fino all’uso delle armi) e assumere rapidamente il control­ lo di città, vie di comunicazione e installazioni militari; in subordine, fare il maggior numero possibile di prigionieri. In secondo luogo, buona parte delle unità tedesche erano efficienti e mobili, potevano spostarsi rapida­ mente e contare sull’afflusso di riserve e di aerei. Le forze italiane sul territorio nazionale erano composte quasi esclusi­ vamente da reparti di efficienza molto scarsa (le divisioni costiere) o non idonei al combattimento, come le centinaia di migliaia di uomini assorbiti da depositi, scuole, servizi, presidi, contraerea. Le divisioni disponibili era­ no in ricostituzione, oppure in corso di rientro dalla Francia. Nei Balcani la situazione era migliore: una trentina di divisioni di fanteria disseminate a cordone nella zona di Lubiana, lungo le coste dalmate, in Montenegro e in Albania, su gran parte del territorio greco, comprese ie isole dello Ionio e dell’Egeo. Erano divisioni logorate da oltre due anni di compiti di presi­ dio e lotta antipartigiana, con scarse capacità di movimento. Queste forze non erano in grado di tenere testa ai tedeschi; ma il loro collasso immediato, quasi senza combattimenti, fu determinato dalla man­ canza di direttive in una situazione di crisi. Anziani colonnelli e generali, educati ad attendere gli ordini superiori e senza un quadro di quanto sta­ va accadendo, si trovarono a dovere decidere su due piedi se accettare gli accomodamenti onorevoli proposti dai tedeschi, anche se si trattava di un primo passo verso il disarmo, oppure aprire il fuoco su quelli che fino a poco prima erano gli alleati di tre anni di guerra. Nella stragrande mag­ gioranza dei casi i comandanti cedettero, taluni per viltà, altri perché fa­ scisti, i più perché incapaci di reagire al disorientamento. Sul territorio na­ zionale le forze armate si dissolsero nel giro di quarantott’ore, dopo com­ battimenti sporadici: crollati i comandi, i soldati fuggirono in massa per tornare a casa o nascondersi con il generoso aiuto della popolazione. Mol­ te bande partigiane ebbero alla loro origine gruppi di soldati rifugiatisi in montagna all’8 settembre. Nei Balcani i tedeschi incontrarono maggiori difficoltà [Schreiber 1992]. In sintesi, una parte delle truppe italiane fu disarmata senza problemi; quel­

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le del Peloponneso, ad esempio, cedettero le armi, raggiunsero Atene e pre­ sero i treni che dovevano riportarle in patria, e invece erano diretti ai cam­ pi di prigionia. In Dalmazia, nel Montenegro, nella Grecia continentale ci vollero alcune settimane perché i tedeschi avessero ragione della resistenza delle truppe italiane, con pesanti rappresaglie e centinaia di fucilazioni. Una parte dei soldati passò con i partigiani. Nelle isole le vicende furono più complesse, anche per l’intervento di forze inglesi nell’Egeo. Un calcolo approssimativo dà circa ventimila militari italiani caduti nei combattimenti successivi all’armistizio. Il caso più tragico fu quello dell’iso­ la di Cefalonia, dove gli uomini della divisione Acqui combatterono per più giorni, poi vennero massacrati dopo la resa, con seimilacinquecento caduti (tra cui quasi tutti gli ufficiali). Un bilancio. La sopraffazione ed eliminazione delle Forze armate ita­ liane all’8 settembre fu l’ultima vittoria della Wehrmacht (Forze armate te­ desche). Gerhard Schreiber [1992] elenca nel suo studio il grandioso botti­ no: innanzi tutto 800 000 prigionieri, di cui 150 000 passarono al servizio tedesco (in parte volontariamente, in parte perché non ebbero scelta) e 650 000 furono portati nei campi di prigionia della Germania. Ricco anche il bottino di armi (1 300 000 fucili, 11 500 pezzi d’artiglieria, 16 600 auto­ mezzi), di materiali diversi (3 400 000 paia di scarpe, 3 500 000 coperte), di quadrupedi (59 000) e via dicendo. Un bilancio storico-politico è più difficile. Sottolineiamo alcuni punti: a) il disastro dell’8 settembre fu il prezzo da pagare per la guerra di Mus­ solini. Arrendersi era diventato necessario, ma uscire dalla guerra ave­ va un alto costo, perché la Germania non poteva rinunciare ai Balca­ ni e alla penisola e aveva i mezzi per reagire; b) le trattative di resa furono impostate e condotte malamente, ma eb­ bero successo per le esigenze militari degli alleati. La resa fu di fatto incondizionata e comportò il dominio angloamericano sull’Italia fino alla pace; c) il re, Badoglio e i capi militari rinunciarono a organizzare la resisten­ za delle Forze armate alla sicura aggressione tedesca, anche a Roma do­ ve i rapporti di forza erano favorevoli, per la priorità data al mante­ nimento del segreto e per poca fiducia nelle loro truppe. E fuggirono lasciando paese e Forze armate senza alcuna direttiva. Il disastro era inevitabile, ma ordini tempestivi avrebbero impedito un collasso co­ sì rapido; milioni di italiani si sentirono traditi e abbandonati. La fu­ ga di Pescara assicurò la continuità della monarchia a breve termine, ma ne segnò anche la delegittimazione per la maggioranza del paese.

L’armistizio fu sentito come disonore da una piccola minoranza che scel­ se di continuare la guerra dalla parte di Hitler e di Mussolini, ripescato per la Repubblica di Salò. Cinquantanni più tardi è stato interpretato come «morte della patria», fallimento definitivo dello stato italiano come valore

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etico e forte identità collettiva. Per un’altra minoranza l’8 settembre segnò la fine dell’Italia autoritaria e l’inizio di una dura riconquista dei valori di libertà e democrazia, della fondazione di una nuova identità nazionale. Per la maggioranza degli italiani fu un giorno di speranza subito cancellata dall’occupazione nazista. Nota bibliografica. La produzione sull’8 settembre è straordinaria per mole, ma quasi sempre a carattere di­ vulgativo: memorie dei protagonisti ricche di distorsioni e falsificazioni, libelli e opere pole­ miche, studi troppo spesso piegati a tesi precostituite. Ci limitiamo a segnalare due opere de­ gli anni sessanta che hanno impostato il dibattito su nuove basi e due degli anni novanta che forniscono una ricostruzione documentata ampia e difficilmente superabile. E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L ’armistizio italiano dell’8 settembre 1943, Il Muli­ no, Bologna 1993 (nonché la raccolta documentaria della stessa studiosa L ’inganno reciproco. L ’armistizio fra l ’Italia e gli anglo-americani del settembre 1943, Ufficio centrale beni archivisti­ ci, Roma 1993). Ricostruzione definitiva delle trattative per l ’armistizio e del comportamento del governo Badoglio all’8 settembre, l’opera è basata su amplissime ricerche negli archivi in­ glesi, italiani e statunitensi. Insmli, L ’Italia dei quarantacinque giorni: 25 luglio - 8 settembre 1943. Studio e documenti, Insmli, Milano 1969. Frutto di lunghe e innovative ricerche negli archivi italiani, il volume presenta un quadro articolato dell’attività del governo Badoglio, delle forze politiche e del­ le reazioni del paese ancora oggi fondamentale. G . Schreiber, Imilitari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reicb (19431945). Traditi disprezzati dimenticati (1990), U fficio storico dello stato maggiore dell’eserci­ to, Roma 1992. La prima parte del volum e è dedicata a un’accurata ricostruzione dei pia­ ni e interventi tedeschi in Italia nell’estate 1943 e poi del collasso delle Forze armate ita­ liane, a partire dagli archivi militari tedeschi assai più completi di quelli italiani. R. Zangrandi, 1943 :25 luglio - 8 settembre, Feltrinelli, Milano 1964 (ed. riveduta L ’Ita­ lia tradita, 8 settembre 1943, Mursia, Milano 1971). Sulla base di ricerche nuove e di una ri­ lettura di tutte le fonti note, l ’autore demolisce l ’interpretazione ufficiale allora dominante e denuncia con grande efficacia le responsabilità del re, di Badoglio, dei capi militari. Alcu­ ne forzature polemiche (in particolare la tesi di un accordo tra Kesselring e il vertice italia­ no, che non ha trovato riscontro nella documentazione) non tolgono all’opera il suo valore di riapertura del dibattito su basi documentate.

ILIO M URACA

La divisione Acqui Qualche volta, fra gli uomini, si combattono conflitti armati che si presentano di­ versi da tutti gli altri, nel loro significato spirituale e sociale, e sono spesso i l preludio ai tempi nuovi e un segnale di svolta nelle istituzioni e nei popoli. Con queste caratteristiche, si presenta la battaglia condotta dalla divisione di fante­ ria da montagna Acqui, comandata dal generale Gandin, nell’isola di Cefaionia, nel ma­ re Ionio, occupata dall’Italia dopo la guerra italo-turca.

Muraca

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Caratteristica principale di quel combattimento, che, per le modalità convenziona­ li con cui venne condotto, si distinse da quasi tutti gli altri svoltisi all’estero, dopo l ’8 settembre, fu la decisione plebiscitaria dei militari della divisione. La Acqui, che fino a quel momento aveva goduto di una tranquilla vita di guarni­ gione, venne improvvisamente posta di fronte a due soluzioni: la resa e la consegna del­ le armi ai tedeschi, che avrebbero assicurata la vita dei suoi uomini, benché incompati­ bile con l ’onore militare, e l ’altra, piena di incognite, che l ’obbligava a una resistenza armata, dall’esito molto incerto e senza poter contare su alcun aiuto esterno. La divisione era allora composta da 5 2 5 ufficiali, fra cui alcuni della marina m ili­ tare, addetti alle batterie costiere, e di 1 1 500 uomini di truppa. Il rapporto di forze, fra italiani e tedeschi, era a ll’inizio di 6 a 1. Ma di li a poco si ridusse considerevolmente, a motivo dell’accelerato afflusso di fresche unità alemanne, nel corso delle defatiganti trattative fra Gandin e il tenente colonnello Barge, comandante tedesco sull’isola. Momento determinante della decisione di combattere («sull’arma si cade, ma non si cede») fu l’ultimatum tedesco dell’11 settembre, con l’intimazione di cedere le armi, seguito, i l 13 successivo, dall’affondamento di alcune zattere piene di tedeschi, a opera di tre batterie d e l3 3 0 reggimento artiglieria e di due della marina italiana. A tale aper­ to atto di guerra i tedeschi risposero con un più pressante «ultim atum », accompagnato da ingiunzioni disonorevoli e la promessa, che mai avrebbero mantenuto, del rimpatrio degli italiani, una volta arresisi. Fu a questo punto che,premuto dalle insistenze dei suoi ufficiali e soldati, il generale Gandin invitò i suoi uomini a pronunciarsi su tre alterna­ tive: alleanza con i tedeschi, cessione delle armi, resistenza. I reparti, con un «referen­ dum» che avrebbe costituito la vera novità nei rapporti interdisciplinari, fino ad allora osservati, si pronunciarono all’unanimità per la terza soluzione : combattere. Così, alle ore 11,30 del 15 settembre, dopo l ’ingiunzione, questa volta italiana, di sospendere l ’ar­ rivo dei loro rinforzi, lo scontro con i tedeschi ebbe inizio. I primi combattimenti videro i tedeschi subire pesanti smacchi, tali da indurli a so­ stituire il tenente colonnello Barge con il maggiore Hirshfeld, tristemente noto per la sua crudele efficienza teutonica. Intanto il Barge aveva chiesto ulteriori rinforzi di artiglie­ ria e di unità da montagna, fra cui un battaglione di «alpenjager» composto da altoate­ sini, i quali si sarebbero dimostrati tra i più zelanti nel corso dei successivi eccidi. Inol­ tre, il XXII corpo d ’armata tedesco mise in atto nei cieli del Peloponneso un appoggio aereo quale mai si era visto. Il giorno 18 settembre, l ’accanita resistenza della guarni­ gione italiana fin ì per attirare l ’attenzione personale di Hitler, per il quale quell’evento rappresentava un episodio del tutto marginale nell’ampio quadro strategico del momen­ to . Di qui, il perentorio ordine del dittatore che m olti, nei processi di fine guerra, avreb­ bero cercato di scaricare sulle spalle di comandanti subordinati e che costituì, per gli stes­ si soldati tedeschi, abituati a l rispetto dei combattenti coraggiosi, un fatto eccezionale: «a Cefaionia, a causa del comportamento insolente e proditorio, non deve essere fatto alcun prigioniero di nazionalità italiana». L ’incauto e prematuro abbandono del passo di Kardakata, posizione chiave dell’iso­ la, da parte italiana, il continuo sbarco dei rinforzi e un infernale carosello in picchiata dei loro aerei Stukas finirono per far volgere le sorti della battaglia a favore dei tedeschi, malgrado i numerosi episodi di valore di m olti ufficiali, sottufficiali e soldati italiani. Così, alle ore 14 del 22 settembre, gli scontri ebbero termine e iniziò la carneficina dei sopravvissuti. Nelcorso deiprim i erano caduti 65 ufficiali e 1250 uomini di truppasnel­ le ore e nei giorni successivi, a seguito delle esecuzioni sommarie dei prigionieri e dei fe ­ riti, vennero falciati dalle armi automatiche tedesche i8 g ufficiali e 5000 tra sottuffi­ ciali e soldati.' Com piuto l ’orrendo crimine, bisognava fare scomparire le tracce di tanta vergogna.

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Salvo vane centinaia di salme, lasciate insepolte nelle fosse montane (alla cui tumula­ zione avrebbero provveduto, ma solo più tardi, gli isolani greci) o gettate in profonde ci­ sterne artificiali, nelle quali circa duecento di esse destinate a giacere per sempre, la mag­ gior parte dei corpi vennero cosparsi di benzina e bruciati. Il generale Hubert Lanz, il crudele responsabile dell’operazione, per sbarazzarsi delle salme degli ufficiali ideò il lo­ ro trasporto a l largo e, dopo un approssimativo zavorramento, per mano di diciassette marinai italiani, tutti in seguito trucidati, tranne uno, ordinò il loro affondamento. Il solo marinaio superstite ha potuto testimoniare in seguito su ll’allucinante operazione cui aveva preso parte. Ma la tragedia della Acqui non era ancora giunta a l suo epilogo. Durante il trasporto dei prigionieri sopravvissuti ai combattimenti e alle stragi, tre navi urtarono le mine e colarono a picco con il loro carico di tremila italiani, m olti dei quali, gettatisi in mare, vennero brutalmente falcidiati dalle mitraglie tedesche. Stessa sorte ebbe la guarnigione italiana della vicina isola di Corfù, comandata dal colonnello Lusignani, che resistè valorosamente : venti ufficiali e seicento, fra sottuffi­ ciali e soldati, persero la vita o vennero in seguito fucilati. Cosi la Acqui venne total­ mente distrutta. A Cefaionia e Corfù, i massacri non furono opera di SS o dì milizie po­ litiche tedesche, ma di soldati regolari della Wehrmacht.

ENZO CO LLO TTI

L’occupazione tedesca in Italia

Come maturò l ’occupazione. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’uscita dell’Italia dall’alleanza con la Germania, la maggior parte del terri­ torio italiano fu occupata dalla Wehrmacht (Forze armate tedesche), con eccezione della parte meridionale che era stata raggiunta dalle forze an­ gloamericane dopo lo sbarco in Calabria il 3 settembre. Prima dell’occupazione tedesca la premessa fu rappresentata dalla deci­ sione del Comando supremo tedesco (o k w ) di difendere palmo a palmo il territorio italiano, secondo l’ipotesi sostenuta dal feldmaresciallo Kesselring di arrestare il nemico più a sud possibile per tenerlo quanto più lonta­ no dal confine meridionale del Reich; la proposta di Kesselring ebbe la me­ glio su quella del feldmaresciallo Rommel di fare attestare le forze tedesche su una linea appenninica non distante dalla barriera naturale del fiume Po, nell’Italia settentrionale. A seguito di questa decisione, a partire dal no­ vembre, il feldmaresciallo Kesselring divenne comandante del gruppo di eserciti B e responsabile operativo dell’intero settore italiano. Ma la rapidità con la quale le forze tedesche poterono procedere al di­ sarmo dell’esercito e delle altre specialità militari italiane, non solo sul ter­ ritorio metropolitano ma anche nelle aree sotto occupazione italiana con particolare riferimento ai territori della penisola balcanica, si spiega con il fatto che i comandi tedeschi avevano programmato già dalia priihavera del 1943 l’eventualità di subentrare ai comandi italiani nella previsione di un collasso militare dell’alleata. Sicuramente nell’aprile, in occasione dell’incon­ tro di Klessheim, a un mese dagli scioperi del marzo del 1943, i dirigenti na­ zisti non avevano fatto mistero nei confronti di Mussolini dei timori di una possibile secessione dell’Italia dal conflitto. Himmler propose esplicitamente a Mussolini la formazione di unità speciali, sull’esempio delle SS, destina­ te a rafforzare il fronte interno e a garantire la tenuta del potere fascista. Il 19 maggio fu emanato il primo ordine dell’oKW (il piano Konstantin) per assicurare il dominio della Wehrmacht sui territori balcanici nel caso di ce­ dimento dell’Italia; nelle settimane successive fu approntato il piano Alarich per l’intervento diretto sul territorio italiano. I timori tedeschi, accresciuti dopo lo sgombero della Tunisia e lo sbarco angloamericano in Sicilia il 9 luglio, furono ovviamente accresciuti dal col­ po di stato del 25 luglio, che rivelò fra l’altro l’assoluta inconsistenza di ogni

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capacità di resistenza del vecchio fascismo. Nonostante le assicurazioni da­ te dai vertici politici e militari, pur dopo la formazione del governo Bado­ glio, di fedeltà all’alleanza con la Germania e la fatidica affermazione «la guerra continua», le diffidenze della dirigenza nazista non furono in alcun modo placate, tanto che, con il pretesto di rinforzare le difese italiane con­ tro il probabile e imminente sbarco alleato sul suolo italiano, la Wehrmacht accelerò l’invio nella penisola di forti contingenti militari, contribuendo a creare le premesse per una rapida reazione alla prevedibile secessione dell’Italia dal conflitto. Al di là delle motivazioni strategico-militari, l’occupazione dell’Italia rivestì per la dirigenza nazista, e per Hitler in particolare, un preciso si­ gnificato politico-propagandistico. Come Hitler affermò subito dopo l’ar­ mistizio italiano in un proclama al popolo tedesco, bisognava dare un mo­ nito non solo all’Italia ma a tutti gU alleati della Germania, che non pote­ vano permettersi di sottrarsi all’impegno bellico se non a prezzo di subire rumiliazione dell’occupazione militare. Al di là quindi della lezione alla più immediata destinataria, il monito di Hitler era diretto agli alleati e sa­ telliti - Romania, Ungheria, Bulgaria e Finlandia - che in quell’autunno del 1943 stavano già maturando l’intenzione di sottrarsi all’ormai inevita­ bile sconfitta al fianco del Terzo Reich. Dal punto di vista propagandisti­ co il mantenimento dell’Italia sotto il controllo della Germania poteva sal­ vare verso l’esterno la continuità del fronte delle potenze dell’Asse e del Tripartito, e la possibilità di riportare Mussolini al potere, secondo un’op­ zione anche personale di Hitler, avrebbe consolidato la finzione della so­ pravvivenza dell’alleanza tra i due capi storici di fascismo e nazismo e dei loro rispettivi popoli. Da questo punto di vista la rocambolesca liberazione di Mussolini dal suo luogo di isolamento (più che di detenzione) sul Gran Sasso segnò un vistoso punto a favore della propaganda e della politica naziste. Quando alla fine di settembre fu annunciata la costituzione del gover­ no neofascista della Repubblica sociale italiana (Rsi) la situazione fu resa più complessa dalla prospettiva di coesistenza di un duplice livello di ordi­ namenti e di ordini. Della presenza degli organi della Rsi doveva tenere con­ to anche l’autorità tedesca soprattutto con riguardo alla persona di Musso­ lini, per le ragioni politico-propagandistiche cui abbiamo già accennato. Obiettivi e struttura dell’occupazione. È difficile affermare con decisio­ ne che la dirigenza politica nazista avesse un disegno preciso sulla sorte da riservare all’Italia all’infuori del proposito puro e semplice di impedire che il territorio italiano sfuggisse materialmente alla sfera di controllo della Wehrmacht. Per la Germania l’importanza dell’Italia, al di là dell’obietti­ vo primario di carattere strategico, era esclusivamente subalterna e stru­ mentale. E bensì vero che Hitler intendeva rilanciare la posizione di Mus­ solini, ma paradossalmente l’unico modo per rivalutarlo consisteva nel ren­ derlo totalmente asservito alla Germania. Hitler in sostanza voleva avere

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mano libera in Italia, ma nello stesso tempo servirsi di un nuovo governo Mussolini per meglio realizzare la gestione dell’Italia occupata. Per altri esponenti nazisti, per esempio per Goebbels, i cui propositi sono conosciu­ ti attraverso i suoi Diari, in una visione più fredda degli interessi tedeschi la liberazione di Mussolini poneva limiti alla libertà dei tedeschi senza da­ re contropartite adeguate. Goebbels non pensava soltanto alla possibilità di approfittare delle circostanze per imporre all’Italia la sottrazione di ter­ ritori legati al vecchio irredentismo austriaco, ma anche e soprattutto all’op­ portunità, caldeggiata anche da Himmler e da altri gerarchi nazisti, di utiliz­ zare su larga scala la manodopera italiana per gli scopi di guerra del Reich. Inoltre, la perdita dei ricchi territori agricoli e dei distretti industriali dei territori sovietici che la controffensiva dell’Armata rossa stava strappando al controllo della Germania aveva orientato i responsabili dell’economia di guerra nazisti a cercare una compensazione nello sfruttamento delle risor­ se agricole e dell’apparato industriale dell’Italia settentrionale, al di là del­ la scontata previsione di usufruire con larghezza di lavoratori italiani. Quale che fosse l’esigenza di rispettare un minimo di autonomia per la Rsi, nel contesto di quella situazione che Lutz Klinkhammer ha definito di «alleato occupato», il regime vigente in Italia dall’8 settembre del 1943 al­ la liberazione all’inizio di maggio del 1945 fu sotto ogni punto di vista un regime di occupazione. Un regime fra l’altro reso particolarmente duro an­ che dai propositi di vendetta nei confronti dell’Italia, che non rimasero sol­ tanto a livello psicologico ma si estrinsecarono in misure vessatorie nei con­ fronti della popolazione italiana. Un’ordinanza del feldmaresciallo Kessel­ ring dichiarò sin dal 12 settembre 1943 il territorio italiano «territorio di guerra» soggetto alle leggi di guerra tedesche, affermando la responsabilità degli organi italiani nei confronti delle forze occupanti ai fini del manteni­ mento dell’ordine pubblico e anticipando la volontà di reprimere nel modo più spietato ogni tentativo del popolo italiano di sottrarsi a una incondi­ zionata soggezione alla forza d’occupazione. Altrettanto significativo per lo spirito di manifesta ostilità che lo animava fu anche l’ordine del feldma­ resciallo Keitel del 16 settembre che prescriveva il trasferimento forzato della popolazione lavoratrice maschile dall’Italia centromeridionale all’Ita­ lia settentrionale, lasciando a Kesselring la «libertà di impiegare tutte le mi­ sure adeguate», coercizione compresa, per arrivare allo scopo perseguito, che era quello di porre il contingente più largo possibile di manodopera a disposizione dei tedeschi. Le finalità ancora genericamente definite del controllo del territorio e del suo sfruttamento per l’economia di guerra si riflessero anche nelle mo­ dalità che presiedettero all’insediamento degli organismi dell’occupazione. La struttura dell’autorità di occupazione riprodusse anche in Italia uno schema e un’articolazione che erano usuali ai territori occupati dalla Wehr­ macht, con particolare riferimento all’Europa occidentale. Essa faceva ca­ po a tre ordini di autorità:

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1) dal punto di vista militare, il Bevollmàchtigter General, generale ple­ nipotenziario, nella persona del generale Toussaint, con funzione di comandante territoriale, che per riguardo a Mussolini fu ufficialmente designato come plenipotenziario accreditato presso il governo della Rsi, per fugare l’impressione (ma l’impressione soltanto) che si trat­ tasse del comandante in capo di una forza d’occupazione; 2) dal punto di vista politico, il Bevollmàchtigter des Grossen Reiches inviato Rahn, proveniente dall’esperienza acquisita nella Francia di Vichy, gerarchicamente dipendente dal ministero degli Esteri del Reich, rappresentante accreditato presso il governo nazionale fasci­ sta italiano; egli rappresentava il cervello politico dell’occupazione, impegnato a gestire il controllo politico del Reich e al tempo stesso a garantire la collaborazione della Rsi, riconoscendole un minimo di au­ tonomia ma esigendo anche il massimo di funzionalità in quanto ese­ cutrice e cinghia di trasmissione degli ordini della potenza occupante, ancorché formalmente alleata. Rahn fu il gestore di questa peraltro so­ lo apparente contraddizione nei rapporti tra la potenza d ’occupazione e gli organismi di una ricostituita o sopravvissuta amministrazione italiana; 3) dal punto di vista della polizia, il comandante delle SS e della poli­ zia, SS-Obergruppenfuhrer e generale di polizia Karl Wolff, che ope­ rava alle dirette dipendenze di Himmler, come sedicente consigliere speciale presso il governo nazionale fascista della Rsi. Come vedremo, i rapporti che si instaurarono fra questi tre organismi reciprocamente - e tra essi nel loro complesso da una parte e con il gover­ no fascista repubblicano dall’altra - furono tra gli aspetti fondamentali che caratterizzarono il meccanismo dell’occupazione. La struttura organizzativa dell’amministrazione tedesca fu legata an­ che a una parziale e nuova articolazione territoriale dell’Italia. Mentre in­ fatti in linea di massima il regime d ’occupazione si estendeva sul medesi­ mo territorio soggetto alla sovranità formale del governo fascista repub­ blicano, quest’ultimo era estromesso da determinati territori, che furono denominati «zone d ’operazione», le quali erano sottoposte non già all’Amministrazione militare come era usuale nella gestione dei territori occupa­ ti, bensì ad amministrazioni civili tedesche. Anche in altre parti d’Euro­ pa erano state insediate amministrazioni civili tedesche, e precisamente nei territori formalmente o di fatto annessi al Reich (come avvenne nel ca­ so dell’Alsazia-Lorena e del Lussemburgo) o nei quali questa gestione era considerata un passaggio transitorio in vista di una futura annessione. In Italia furono due le zone d’operazione estrapolate dal regime generale dell’occupazione e rette da alti commissari immediatamente dipendenti dal Fiihrer: la Zona d ’operazione Litorale Adriatico (Operationszone Adriatisches Kiistenland) e la Zona delle Prealpi (Alpenvorland), che avevano due caratteristiche in comune: si trattava in entrambi i casi di territori lun­

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go la frontiera settentrionale e nordorientale dell’Italia, contigui al Reich, e di aree che erano state teatro di conflitti nazionali con le popolazioni lo­ cali (la popolazione tedesca dell’Alto Adige e le popolazioni slave della Ve­ nezia Giulia) sotto il regime fascista. L’immediata contiguità territoriale le­ gittimò le motivazioni di carattere strategico con le quali il Reich tentò di giustificare il regime speciale cui furono sottoposte queste aree; la presen­ za di vecchie conflittualità nazionali legittimò la funzione di arbitro delle contrapposte fazioni e di promotore della pacificazione che si arrogò il Reich, la cui preoccupazione era rivolta, soprattutto nel vecchio territorio della Venezia Giulia, a contrastare e reprimere la penetrazione della ribel­ lione partigiana slava, che già prima dell’8 settembre del 1943 si era sensi­ bilmente diffusa al di qua del vecchio confine orientale dell’Italia. Indi­ pendentemente dalle esigenze strategico-militari, non vi è dubbio che le due zone (si vedano le rispettive voci del lemmario) erano destinate in un futuro più o meno prossimo a entrare a fare parte del Grande Reich germanico. Se si prescinde pertanto dalle due zone d ’occupazione particolari, il ter­ ritorio italiano fu nel suo complesso soggetto alla gestione della Militàrverwaltung, l’Amministrazione militare, con l’unica eccezione dei territo­ ri immediatamente prospicienti i fronti di combattimento che erano diret­ tamente ed esclusivamente soggetti ai rispettivi comandanti militari in quanto aree operative (comprese le zone costiere lungo le quali era possibi­ le attendersi uno sbarco angloamericano). L’Amministrazione militare costituì dunque l’organismo esecutivo del­ l’occupazione e in quanto tale essa fu posta alle dipendenze del generale Toussaint, per i suoi compiti di comandante territoriale dell’Italia. A capo dell’Amministrazione militare fu nominato il segretario di stato all’Economia del Reich Landfried, a sottolineare la preminenza che venne data ai compiti dello sfruttamento economico del territorio occupato. A sua volta la struttura periferica dell’Amministrazione militare si articolava in una se­ rie di presidi militari (le cosiddette Militàrkommandanturen); per l’Italia ne furono costituiti diciannove, destinati a utilizzare attraverso l’articola­ zione per province (in maniera tuttavia non rigida) la preesistente rete pre­ fettizia per realizzare il controllo amministrativo e territoriale del paese. Va da sé che in tal modo, fra l’altro, le strutture dell’Amministrazione tedesca tendevano a sovrapporsi capillarmente alle autorità fasciste, soffocandone ulteriormente ogni autonomia. Un regime a parte fu insediato, fino alla li­ berazione, nell’area urbana di Roma; questa fu sottratta alla normale ge­ rarchia della Militàrverwaltung: dopo la liquidazione del comando della co­ siddetta «città aperta» (il 23 settembre 1943) fu insediato a fianco del comando di presidio un gruppo esterno (Aufienstelle) dell’Amministrazio­ ne militare, come gruppo amministrativo alle dirette dipendenze del feld­ maresciallo Kesselring, per l’importanza strategica dell’area non lontana dal fronte meridionale e, presumibilmente, anche per la rilevanza politica del­ la capitale cui non erano estranee la presenza del Vaticano e dello stesso pontefice.

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La struttura della Militàrverwaltung rimase formalmente invariata per tutto il periodo dell’occupazione, sino alla resa delle forze tedesche in Ita­ lia, il 2 maggio 1945; ovviamente, via via che procedeva l’avanzata alleata si riduceva anche la sfera di giurisdizione degli organismi tedeschi. Tut­ tavia, mutamenti importanti soprattutto dal punto di vista personale, ma anche sotto il profilo politico, si verificarono anche al vertice delle auto­ rità d ’occupazione in Italia dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Alla fine del mese di luglio, come già era avvenuto nel Reich, anche in Italia fu deciso un accentramento di poteri nelle mani delle SS; l’equili­ brio delle forze si spostò così ulteriormente a favore dell’apparato terro­ ristico e della polizia. Il generale Toussaint fu ritrasferito nel protettorato di Boemia e Moravia, dal quale proveniva; al suo posto nell’ufficio di generale plenipotenziario fu nominato il capo delle SS e della polizia Wolff, il quale venne così a cumulare nella sua persona le due cariche più importanti, quella militare e quella determinante relativa ai poteri della polizia. Anche il capo dell’Amministrazione militare Landfried fu sosti­ tuito da un alto ufficiale della SS, lo SS-Gruppenfuhrer O tto Wàchter, proveniente dal Governatorato generale polacco, dove si era particolar­ mente segnalato per il suo zelo di persecutore degli ebrei. In tal modo, due alti ufficiali delle SS - Wolff e Wàchter - cumulavano e monopolizzavano i posti di maggiore responsabilità in Italia, esautorando ulteriormente le funzioni dell’ambasciatore Rahn, il quale si può considerare il vero prota­ gonista di una strategia per la “collaborazione” che doveva coinvolgetela Rsi. Tra gli organismi che operarono in Italia un peso particolarmente rile­ vante ebbero i rappresentanti di uffici e dicasteri del Reich specificamente interessati alla gestione e allo sfruttamento del territorio occupato. I più importanti fra essi furono il rappresentante del ministro per gli Armamen­ ti e la Produzione Bellica Albert Speer e il rappresentante del Gauleiter Sauckel, il plenipotenziario per l’impiego della manodopera, che era stato incaricato da Hitler di effettuare le razzie di lavoratori per l’economia di guerra tedesca nell’intera Europa occupata. Come già altrove, questi due uffici furono i più ostili ad accettare un inquadramento che potesse circ o­ scriverne o frenarne l’autonomia e la libertà d’azione. La questione del lo­ ro inserimento nelle strutture dell’occupazione, che è stata studiata da Lutz Klinkhammer sotto il profilo della struttura policratica del potere nel si­ stema nazionalsocialista, non comportava soltanto problemi e conflitti di competenza e di potere dal punto di vista tecnico-amministrativo. La ri­ vendicazione di autonomia che Speer e Sauckel invocavano per i loro rap­ presentanti in Italia, rifiutandone l’inserimento nelle strutture dell’Ammi­ nistrazione militare e rivendicandone la dipendenza gerarchica direttamente dalle rispettive centrali berlinesi, era di per sé una indicazione di carattere politico, in quanto metteva in evidenza le priorità assolute che dovevano essere rispettate tra le finalità dell’occupazione, al di là del dato meramen­ te militare. La nomina a capo dell’Amministrazione militare del sottose­ gretario all’Economia Landfried, che garantiva anche istituzionalmente la

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possibilità di intervento diretto di Speer, fu significativa del fatto che in tal modo veniva riconosciuto il principio generale della preminenza dei com­ piti dell’economia di guerra al di sopra di ogni altro obiettivo e di ogni al­ tro ufficio del regime di occupazione. I rapporti con la Rsi. Sulla scorta degli studi esistenti tra l’alternativa di una soluzione meramente militare della crisi dei rapporti italotedeschi e di una soluzione “politica”, secondo la schematizzazione proposta da Klinkhammer, il tentativo di perseguire la strada della collaborazione che il mi­ nistero degli Esteri del Reich affidò all’ambasciatore Rahn sottolinea come nella sostanza la dirigenza nazista scelse l’opzione della soluzione politica. Anche se nei fatti essa fu meno univoca di quanto non si possa pensare al­ la luce di un’analisi formalistica dei rapporti di potere - poiché il peso della situazione militare firn per imporsi in maniera sempre più netta, rischian­ do di abbattere ogni delimitazione soprattutto quando la repressione anti­ partigiana perse il carattere di semplice operazione di polizia e assunse quel­ lo di una operazione militare a tutto campo, che come tale implicava una strategia politica specie nei confronti della popolazione civile -, Rahn fu certamente il punto di riferimento del ministero degli Esteri del Reich ai fini di una risposta politica all’armistizio dell’8 settembre. In lui si può in­ dividuare, prima ancora che il protagonista empirico della politica di colla­ borazione con l’«alleato occupato», il teorico della necessità della collaborazione, il suggeritore di un duttile pragmatismo, il quale voleva che il Reich non rifiutasse di fare concessioni a tutti gli elementi potenzialmente acqui­ sibili alla causa della Germania, per indebolirne l’eventuale resistenza o im­ pedirne il passaggio ai nemici della Germania. Nulla di idealistico nel suo comportamento, soltanto la lezione della Realpolitik che ispirava una tatti­ ca di prudente benevolenza nei confronti dei sudditi del Nuovo ordine eu­ ropeo, proprio perché a trarne i benefici potesse essere la Germania. Rahn aveva elaborato una serie di regole di comportamento in questa direzione prima ancora di arrivare in Italia. Non fu perciò casuale che egli si adope­ rasse ben presto perché i tedeschi si creassero in Italia un interlocutore ca­ pace di appoggiare la soluzione “politica” e al tempo stesso di assecondare i compiti dell’occupante. Già il 22 settembre 1943 Rahn faceva presente al ministero degli Esteri del Reich la necessità di accelerare la proclamazione della Rsi sulla base di considerazioni del tutto pratiche e realistiche: la di­ sgregazione del vecchio apparato fascista a Roma non era un buon segnale unitamente alla difficoltà di trovare uomini disposti a dare fiducia al nuo­ vo governo. Soltanto un segnale positivo poteva riaprire un processo di ag­ gregazione, fare acquistare autorità al nuovo governo, di cui era auspicabi­ le il trasferimento più rapido possibile al Nord, per evitare che «polizia e burocrazia passino alla resistenza passiva». La proclamazione della Rsi do­ veva rappresentare appunto il segnale positivo destinato ad accelerare la ri­ costituzione di una base di potere e di consenso intorno ai fedeli di Mus­ solini. Rahn anticipò in questo modo quello che sarebbe stato un Leitmotiv

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costante della sua linea: sostenere l’esistenza di una struttura minimale ita­ liana, che come già era accaduto in altre aree dell’Europa occupata era ne­ cessaria per sollevare la forza occupante tedesca da compiti troppo gravosi e, al tempo stesso, proprio per meglio realizzare gli obiettivi dell’occupa­ zione, dare qualche soddisfazione foss’anche di solo prestigio a Mussolini, per rafforzarne il potere e l’immagine nei confronti dell’opinione pubblica e attenuarne l’isolamento. La tattica e la strategia di Rahn, che non erano una linea personale ma l’opzione di una parte consistente del vertice nazista e che potevano legit­ timarsi soltanto in quanto tali e non certo per le preferenze o le inclinazionali personali di qualche pur autorevole funzionario, si scontrarono sia con altre istanze dell’autorità d’occupazione sia con istanze e comportamen­ ti degli stessi neofascisti della Rsi. E vero che la linea sostenuta da Rahn di­ vergeva da quella della pura occupazione militare voluta dal vertice della Wehrmacht, ma questa ambivalenza derivava dalla scelta politica di Hitler di ostentare a tutti i costi l’ininterrotta alleanza cqn Mussolini e giustifica­ re la presenza diretta sulla scena politica del duce. E nostra convinzione che i conflitti e la concorrenza tra poteri che si configurarono anche in Italia come prolungamento dei rapporti policratici e della dinamica interna al re­ gime nazista che ne derivò non vadano esasperati formalisticamente (è il ri­ schio che corre il pur pregevole lavoro di Klinkhammer), anche perché alla verifica dei fatti se tra i diversi organismi tedeschi potevano sussistere di­ vergenze nel modo in cui intervenire nella situazione concreta che di volta in volta si presentava, nessuna divergenza era percepibile nel fine ultimo dell’occupazione, che era quello di assoggettare totalmente l’« alleato occu­ pato» alle esigenze e agli interessi della potenza occupante e di sottoporlo a un intransigente sfruttamento. Che il Reich abbia potuto conseguire so­ lo parzialmente questi obiettivi non dipese da mancanza di volontà o da scarsa chiarezza verso gli obiettivi stessi da parte delle autorità tedesche, ma da un complesso di fattori estranei all’onnipotenza della nazione occu­ pante, con i quali essa tuttavia doveva fare i conti: innanzitutto le condi­ zioni generali del conflitto e i contraccolpi anche psicologici che il diveni­ re della guerra provocava (i successi e le avanzate degli alleati influivano immediatamente sulla disponibilità della stessa amministrazione italiana o della popolazione civile a eseguire gli ordini dei tedeschi o a non ostacolar­ li) come cornice entro cui collocare le situazioni specifiche; e poi le reazio­ ni del movimento di resistenza e delle parti più consapevoli della popola­ zione; la condotta dei gruppi d ’interesse (per esempio gli industriali) che non potevano concentrarsi unicamente sull’oggi identificandosi in tutto e per tutto con la volontà dei tedeschi ma che dovevano guardare, in pro­ spettiva, anche al futuro; l’atteggiamento della Chiesa cattolica variamen­ te interpretabile ma non omologabile come fattore meramente passivo di fronte all’occupazione; i comportamenti individuali o collettivi che in va­ ria misura non coincidevano, in tutto o in parte, con le aspettative dell’oc­ cupante, ivi compresi i comportamenti della Rsi.

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Senza tenere conto di questi fattori la vicenda dell’occupazione non re­ gistrerebbe lo scarto tra il livello delle intenzioni e quello della loro con­ creta realizzazione in un contesto nel quale la contaminazione tra i diversi livelli era, si può dire, la norma. Tra le soluzioni estreme di un’adesione su­ pina alla volontà dell’occupante o di una radicale reazione contro di essa esisteva l’interstizio di una gamma vastissima, pressocché infinita, di solu­ zioni intermedie, che connotarono in Italia come in altre società in regime d ’occupazione i rapporti tra l’autorità occupante e l’area ai suoi ordini e al­ le sue direttive. All’interno di questi interstizi si apriva lo spazio politico che doveva consentire a Rahn lo sviluppo della sua strategia e della sua tattica e d’altra parte, proprio per l’ambivalenza che caratterizzava una simile situa­ zione, su questo stesso spazio si aprivano gli orizzonti operativi della resi­ stenza o di qualsiasi altro soggetto o comportamento che volesse sottrarsi a una presa di posizione netta a favore dell’uno o dell’altro degli schieramenti. Com’era evidente già in partenza, la decisione di tenere in piedi un si­ mulacro di governo fascista avrebbe dovuto porre un argine al potere dell’au­ torità tedesca. Ma questo limite non si configurava formalmente; in quanto autorità d’occupazione il potere degli occupanti era illimitato, tanto più che nessun conto venne fatto delle convenzioni internazionali che imponevano l’obbligo di tutelare la popolazione occupata innanzitutto. Al primo posto fu e rimase sempre l’impegno di tutelare la sicurezza delle forze d’occupa­ zione, che legittimò anzi ogni atto di ostilità nei confronti della popolazio­ ne civile. L’unico argine derivò da ragioni di opportunità politica, non tan­ to per la necessità di evitare risonanze propagandistiche negative (spesso anzi fu data notorietà clamorosa a fatti orrendi di sangue proprio a scopo intimidatorio), o di tenere conto della presenza di un alleato, ancorché «oc­ cupato». L’esigenza che i tedeschi ebbero di servirsi dell’autorità italiana come loro braccio esecutivo non escludeva che essi avessero un’opinione estre­ mamente negativa della Rsi, cosi come spesso negativo era il giudizio re­ trospettivo sull’esperienza del regime fascista, se non altro perché aveva portato all’esito della sconfitta militare e della capitolazione. Nei fatti, la struttura dell’occupazione tedesca - che per quanto riguardava l’Amministrazione militare in senso stretto si avvaleva di una équipe tedesca di po­ che centinaia di uomini: e ciò fa capire la necessità di potersi servire di una compagine locale, in Italia come altrove - si configurava come un sistema di controllo di quella italiana, che nulla di importante poteva fare senza il nullaosta tedesco. In secondo luogo, l’Amministrazione italiana si configu­ rava come l’organismo esecutivo delle disposizioni tedesche: soprattutto nei confronti della popolazione civile era l’Amministrazione italiana che com­ pariva in prima persona salvo i casi in cui, per ragioni di opportunità, non convenisse che a prendere direttamente l’iniziativa fosse l’autorità tedesca. Ciò avvenne in ripetute occasioni in cui l’autorità tedesca di fronte a ten­ sioni a sfondo sociale (problemi dell’alimentazione, condizioni di lavoro) tese a presentarsi come un fattore di pacificazione anche sociale e quindi a

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ostentare verso l’esterno una sorta di funzione di equilibrio e di arbitrato che indirettamente delegittimava gli organismi della Rsi. Solo ragioni di op­ portunità politica e di utilità funzionale e materiale spingevano l’occupante a servirsi delle strutture italiane. Se quelle tecniche sollecitarono spesso nei tedeschi giudizi di scarsa efficienza, quelle politiche della Rsi.si presta­ rono a valutazioni anche più spregiative e sferzanti. Cercando nella docu­ mentazione tedesca non è difficile cogliere, al di là della tendenza a dare una valutazione complessivamente negativa della mentalità «meridionale» o «mediterranea» della popolazione italiana, che sottintendeva un apprez­ zamento di sapore neppure troppo vagamente razzista, atteggiamenti di ve­ ro e proprio fastidio per la presenza degli organismi italiani. Talvolta essi furono percepiti addirittura come ostacoli, fattori di impedimento più che di agevolazione del compito delle forze d ’occupazione. La presenza di un’amministrazione italiana rimase comunque per i te­ deschi un male necessario; essa copriva funzioni amministrative, per male che fossero gestite, che i tedeschi da soli non avrebbero potuto assolvere. Nonostante le critiche che furono a essa rivolte - compresa quella genera­ lizzata di sabotaggio degli ordini dei tedeschi, che colpiva solo parzialmen­ te nel segno perché spesso non di consapevole sabotaggio si trattava ma sem­ plicemente di inefficienza o di negligenza dell’apparato burocratico -, fu per suo tramite che giunsero a esecuzione la maggior parte delle disposi­ zioni tedesche per quanto riguardava l’amministrazione corrente e le nor­ me generali per il mantenimento dell’ordine pubblico, condizione essen­ ziale sin dalle prime settimane dell’occupazione per dare il senso di un ri­ pristino della normalità e presentarsi all’opinione pubblica con un volto di moderazione, di pacificazione e appunto di normalizzazione. Meno favore incontrava nei tedeschi, paradossalmente nel momento in cui il neofascismo di Salò tendeva in qualche misura a nazificarsi radicalizzandosi, il processo di ideologizzazione del fascismo repubblicano. Al di là del fatto che i tedeschi percepirono nettamente che il nuovo reclutamento per il partito fascista repubblicano avrebbe rappresentato - più che un mo­ mento di mobilitazione della popolazione per la causa comune - un elemen­ to di divisione che, prima o poi, si sarebbe rivolto direttamente contro di loro, scarsa fiducia essi mostrarono in un rinnovamento del vecchio fasci­ smo. Per gestire il paese occupato avrebbero fatto volentieri a meno della necessità di rispettare, almeno formalmente, un alleato del quale non ap­ prezzavano i connotati politici. La definizione del neofascismo repubblica­ no che si trova in un rapporto della propaganda tedesca per la Venezia Giu­ lia, al di là dell’ambito territoriale, nel quale veniva considerato nulla più che «vino vecchio in un’otre nuova», nella sua sintetica concisione espri­ meva in modo molto efficace la sfiducia e il disprezzo che i tedeschi nutri­ vano per il tentativo di risuscitare il fantasma del fascismo. A ciò si deve aggiungere che la solidarietà che veniva affermata nella co­ mune lotta contro gli angloamericani, e più in generale la coalizione anti­ fascista e antinazista, non escludeva l’esistenza di obiettivi specifici e di in­

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teressi non necessariamente convergenti nelle due componenti dell’allean­ za italotedesca che era costretta a sopravvivere dalle circostanze. Anche a prescindere dalla ideologizzazione, che per il fascismo della Rsi era una con­ dizione essenziale per darsi un profilo politico autonomo, in una serie di circostanze precise le rivendicazioni politiche della Rsi incontrarono l’osti­ lità della forza d’occupazione, fornendo tra l’altro la riprova di quanto li­ mitato fosse il margine di autonomia che essa poteva concedere ^'« allea­ to occupato». Alludiamo in particolare al contenzioso che si apri fra l’auto­ rità d ’occupazione e la Rsi almeno in due circostanze: a proposito della formazione delle forze armate della Rsi e a proposito dell’istanza centrale della politica sociale che avrebbe dovuto mostrare il volto rivoluzionario del­ la Rsi, la cosiddetta «socializzazione» dell’industria. Si trattava di due istan­ ze non tecniche ma fortemente politiche, nelle quali convergevano i moti­ vi di un comportamento autonomo della Rsi e nello stesso tempo della sua specifica caratterizzazione sotto il profilo politico e sociale. In entrambi i casi il veto dell’autorità d’occupazione modificò profondamente le istanze della Rsi (come nel caso delle forze armate) o le vanificò nella sostanza (co­ me nel caso della socializzazione). Per quanto riguarda le forze armate, la Rsi ne aveva fatto una delle con­ dizioni per fare pesare la sua partecipazione alla guerra contro gli angloa­ mericani. Tornare sul fronte di combattimento con una propria forza ar­ mata era un segno della volontà di contare e quindi di aumentare il proprio peso contrattuale, ma era anche una condizione per accrescere il consenso all’interno, nei confronti della popolazione italiana. Mussolini contava di reclutare i nuovi reparti, oltre che con la leva, facendo appello ai soldati ita­ liani internati nei campi di concentramento in Germania: sarebbe stato que­ sto anche un modo per fare dimenticare la vergogna dei soldati prigionieri dell’alleato. Ma a parte il rifiuto della stragrande maggioranza dei prigionie­ ri di accettare l’ingaggio per l’esercito di Salò, gli ostacoli principali proven­ nero dai tedeschi: essi diffidavano di una forza armata italiana, temevano che una volta ottenute le armi, che dovevano essere fornite comunque dai tedeschi, le potesse rivolgere contro l’alleato; inoltre l’allestimento delle forze armate avrebbe ostacolato i progetti di reclutamento di manodopera in grande stile per il lavoro nell’economia di guerra tedesca. Alla fine accon­ sentirono alla formazione di quattro divisioni italiane (e non di venticinque come avrebbe voluto Graziani), a condizione che il loro addestramento av­ venisse in Germania e quindi sotto stretto controllo tedesco. E una volta al­ lestite, queste formazioni non ebbero un ruolo autonomo ma rigorosamen­ te subalterno e furono destinate principalmente alla lotta antipartigiana. Altrettanto significativa fu la vicenda della progettata socializzazione dell’industria, che per la Rsi avrebbe dovuto rappresentare un momento es­ senziale della sua caratterizzazione politico-ideologica e un gesto di rottu­ ra con il fascismo del ventennio e i compromessi che gli si imputavano con la monarchia e i ceti economici dirigenti. Le autorità d’occupazione tede­ sche, compresi i dirigenti degli affari economici, furono tra i più intransi­

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genti avversari di questa riforma. Essi l’awersarono in primo luogo dal pun­ to di vista ideologico, anche se non sembra questo l’aspetto centrale che ispirò il loro comportamento, al di là della loro diffidenza per i tentativi di aggiornamento del vecchio fascismo. Fu presente certo la diffidenza per un modello sociale che potesse presentarsi come alternativa al modello nazista, ma prevalsero soprattutto considerazioni di ordine pratico. Essi avversa­ vano qualsiasi cambiamento che rischiasse di intralciare i progetti di fina­ lizzare l’attività produttiva alle esigenze dell’economia di guerra tedesca. Per giunta, i settori principali dell’attività industriale rientravano nel con­ trollo diretto a opera del dicastero del ministro Speer, che non poteva tol­ lerare le interferenze dei socializzatori fascisti. A parte l’ostilità degli in­ dustriali, che non esitarono a fare ricorso all’aiuto dei tedeschi contro i fascisti, l’intransigente tutela della loro libertà decisionale contro ogni in­ tervento anche solo demagogico delle autorità fasciste fu la risposta dei te­ deschi ai conati riformatori della Rsi, a conferma del limitato margine di autonomia che essi erano disposti a riconoscerle. Quanto bastava per sal­ varle la faccia verso l’esterno, ma senza intaccare mai la libertà di manovra e il potere decisionale ultimo della potenza d’occupazione, a costo di im­ pedire che la Rsi potesse darsi un più marcato profilo rinnovatore. Fu que­ sto in realtà un limite invalicabile, che sottolineò come nel rapporto con l’«alIeato occupato» a quest’ultimo fosse consentito di allinearsi soltanto agli aspetti più odiosi della politica dell’occupante e di farsene esecutore verso la popolazione italiana, a prezzo di rinunciare a darsi qualsiasi auto­ noma e specifica caratterizzazione. Sviluppi dell'occupazione. Al di là della repressione degli atti compiuti contro la Wehrmacht, che era la finalità prima dell’occupazione in quanto diretta a tutelare la sicurezza delle forze tedesche, il comportamento nei confronti della popolazione fu caratterizzato da un crescendo di episodi di violenza che si scaricò in una quotidiana teoria di eccidi e di stragi, in di­ pendenza o meno del rafforzamento del movimento di resistenza e dello spostamento del fronte sotto l’incalzare dell’avanzata dal Sud verso il Nord degli eserciti angloamericani. Tuttavia, la quotidianità dell’occupazione fu caratterizzata anche dall’in­ tensa attività svolta ai fini dello sfruttamento dell’economia italiana e del­ la razzia di manodopera. Abbiamo già accennato all’impegno di Speer per subordinare la struttura dell’occupazione al fine ultimo e supremo di inse­ rire l’apparato produttivo italiano nella macchina dell’economia di guerra del Reich. Anche il dicastero dell’Agricoltura del Reich intervenne per sot­ tolineare l’importanza che assumeva la produzione agricola dell’Italia; in un documento del sottosegretario Backe del 25 febbraio 1944 si diceva espressamente che le perdite d i prodotti alim entari d ell’oriente devono essere com pensate dal più in ­ tenso sfruttam ento di questo paese; devono quindi essere costantem ente aum entate le contribuzioni d ell’Italia per l ’approvvigionam ento delle truppe dislocate fuori del

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nostro paese, a garanzia della situazione alimentare del Reich e per la formazione di eccedenze a favore del Reich.

Anche nell’agricoltura quindi la priorità assoluta doveva essere attri­ buita al sostentamento delle forze tedesche nell’Italia occupata, alle requi­ sizioni per creare scorte da inviare nel Reich; di qui spesso le decurtazioni di disponibilità per la popolazione italiana, che a partire dall’estate del 1944 subì anche la paralisi dei trasporti determinata oltre che dal crescente sa­ botaggio della resistenza dall’offensiva aerea angloamericana, che spesso fu all’origine anche del blocco della produzione industriale per l’interruzione di afflusso di materie prime alle fabbriche. Gli studi attestano l’utilizza­ zione più larga possibile, compatibilmente con le circostanze, dell’appara­ to industriale italiano, a parte la sottrazione di scorte spedite in Germania; impegnati nel lavoro per i tedeschi furono soprattutto il settore metalmec­ canico (compreso quello interessante gli autoveicoli), le costruzioni aereo­ nautiche e quello tessile. Documentati sono anche parziali asportazioni di impianti industriali per potenziare l’apparato tedesco e i propositi dei te­ deschi di procedere alla distruzione di impianti elettrici e industriali all’at­ to di abbandonare l’Italia. In effetti, le distruzioni più consistenti furono effettuate dalla Wehrmacht durante la ritirata da Roma alla linea Gotica, che trasformarono l’Italia centrale in vera e propria «terra bruciata». Non è fuori luogo ricordare, per mettere in evidenza la rilevanza del problema, che la preservazione degli impianti industriali dalla distruzione a opera del­ la Wehrmacht fu anche oggetto della trattativa per la resa delle forze te­ desche in Italia, dietro forte pressione degli alleati che nella prospettiva del­ la ricostruzione e del mantenimento di una situazione sociale relativamente tranquilla fecero della salvaguardia degli impianti industriali e delle centrali elettriche una delle condizioni che avrebbero reso possibile la capitolazio­ ne delle forze tedesche e attestato la stessa buona fede dei comandanti te­ deschi che negoziavano la resa. Per il periodo dell’occupazione si può affermare con sicurezza che l’ap­ parato industriale italiano, nella misura in cui aveva conservato una capaci­ tà produttiva, lavorò esclusivamente al servizio dei tedeschi. Alla riduzione dei ritmi produttivi contribuì anche l’irregolarità del rifornimento di mate­ rie prime, massime il carbone, che doveva essere assicurato dalla Germa­ nia; essa tuttavia non fu mai in grado di fare affluire le ottocentomila ton­ nellate mensili di carbone che sarebbero state necessarie per mantenere a pieno ritmo l’attività produttiva. Di qui i ripetuti tentativi di inviare in Germania impianti inattivi in Italia o contingenti di lavoratori, anche alta­ mente specializzati, che secondo le autorità d’occupazione non potevano essere impiegati nel territorio italiano. La quotidianità dell’occupazione fu caratterizzata sia da eccidi e stragi sia, soprattutto nelle aree urbane, dalle diverse forme di razzie e deporta­ zioni che a diversi livelli facevano parte di un sistema terroristico di domi­ nazione. A prescindere dalla caccia agli ebrei e dalla loro deportazione ver­

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so i campi di sterminio, che esasperò la persecuzione razziale già in atto dal 1938 e che vide anch’essa la fattiva collaborazione delle forze della Rsi, le deportazioni interessarono in primo luogo i politici della Resistenza o i par­ tigiani combattenti che venivano catturati nei rastrellamenti, quando non erano giustiziati sul posto. In questa categoria rientrano a giusto titolo an­ che le centinaia di lavoratori che furono arrestati e deportati in conseguen­ za degli scioperi ripetutamente verificatisi nei lunghi mesi dall’inizio alla fine dell’occupazione. Se all’origine l’autorità d’occupazione ebbe la ten­ denza, per calcolo o per inesperienza, a sottovalutare l’aspetto politico de­ gli scioperi e a sottolinearne le cause di carattere economico, facendo con­ cessioni sul terreno salariale e sulle condizioni di lavoro, con il passare dei mesi l’indissociabilità delle rivendicazioni operaie che unificavano istanze di miglioramenti economici e rivendicazioni di carattere sociale e politico (compresa la protesta contro l’asportazione di impianti e macchinari) fece prevalere una linea di maggiore intransigenza. La gestione delle agitazioni operaie in mano a specialisti delle SS, come nel caso del generale Zimmermann tra Milano e Torino, fu sintomatica sia dell’importanza che l’auto­ rità tedesca attribuiva al mantenimento della tranquillità nelle fabbriche, sia della maniera forte che sembrava prevalere di fronte all’iniziale flessi­ bilità e alla fiducia di potere rispondere alle agitazioni con qualche mode­ rata concessione. Ma già nel marzo del 1944 le proposte che il generale Leyers, responsabile dell’economia di guerra, considerato l’ala moderata della dirigenza tedesca in Italia, avanzava per fronteggiare gli scioperi de­ notavano il prevalere di una lìnea dura. Leyers prospettò le seguenti misu­ re coercitive per schiacciare gli scioperi: 1) prelievo di una certa percentuale degli operai scioperanti e loro trasporto in Germania per il lavoro obbliga­ torio; 2) chiusura delle aziende in cui si era scioperato; 3) trasporto dei mac­ chinari in Germania. Nel contesto della deportazione politica rientrano perciò a giusto tito­ lo i promotori e i protagonisti degli scioperi (non solo dal triangolo indu­ striale, ma anche da altre aree, per esempio dal comprensorio toscano, da Firenze, Prato, Empoli), duramente colpiti dalla repressione dell’occupan­ te. Viceversa, da questi casi bisogna tenere distinte le razzie di manodope­ ra che furono effettuate caoticamente per l’invio nel Reich o per l’impiego nell’Organizzazione Todt, in linea di principio in Italia per lavori di forti­ ficazione per conto della Wehrmacht a opera di diversi uffici tedeschi e an­ che italiani (la cosiddetta Organizzazione Paladino). Nell’ottica dei tede­ schi l’Italia, dopo l’armistizio dell’8 settembre, assunse particolare rilievo perché si trattava dell’unica riserva di forza-lavoro che ancora non era sta­ ta sfruttata dalle razzie di Sauckel. Attingere al potenziale umano dell’Ita­ lia senza troppe complicazioni (defatiganti erano stati i rapporti tra le po­ tenze dell’Asse per l’invio in Germania di lavoratori italiani anteriormente alla crisi del 1943) era per i tedeschi l’esito più positivo dell’uscita dell’Ita­ lia dal conflitto. Se già la cattura delle truppe italiane aveva offerto parziale sfogo a questo obiettivo, la possibilità di reclutare direttamente in Italia

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forza-lavoro, grazie anche all’attività a tempo parziale imposta all’appara­ to produttivo italiano, apriva agli uffici di Sauckel prospettive particolar­ mente promettenti. Allorché all’inizio di gennaio del 1944 Hitler chiese di procurare all’economia tedesca altri quattro milioni di lavoratori, Sauckel si impegnò a reperire in Italia un milione e mezzo di uomini, vale a dire un terzo abbondante del contingente reclamato da Hitler. L’operazione di reclutamento dei lavoratori italiani si dimostrò molto più complessa del previsto: per la molteplicità degli organismi che di essa dovevano occuparsi senza un adeguato coordinamento; per la debolezza stessa dell’apparato tedesco che era inadeguato ad affrontare un’impresa che si era rivelata superiore alle sue forze; perché quando, dopo i tentati­ vi di allettare i lavoratori italiani con le buone maniere e con i bandi di re­ clutamento, i tedeschi passarono alla maniera forte misero in movimento un meccanismo assolutamente controproducente. Nell’estate del 1944 l’in­ grossamento delle bande partigiane non fu favorito soltanto dalla buona sta­ gione ma anche e soprattutto dall’afflusso di decine di migliaia di giovani e di uomini in età lavorativa che prendevano la strada dei monti non tan­ to per una precisa opzione politica o ideologica ma principalmente per sot­ trarsi ai bandi di arruolamento militare della Rsi o al reclutamento per l’in­ vio di lavoratori nel Reich. L’operazione Sauckel si trovò cosi schiacciata tra l’incudine e il martello; per giunta, il tentativo di procedere al recluta­ mento forzato sottraendo manodopera alle fabbriche già impegnate per i tedeschi, in quanto si trattava di maestranze facilmente individuabili e pre­ levabili, aveva anch’esso il suo rovescio, perché contribuì a scatenare nuo­ ve ondate di scioperi e di agitazioni, che resero ulteriormente difficile il compito dei tedeschi. Non rimase perciò agli uffici tedeschi che la via delle razzie disordina­ te, generalmente nelle aree urbane, in cui venivano isolati interi quartieri di abitazioni alla ricerca di individui da spedire in Germania. Ma il siste­ ma non servì ad accrescere i contingenti di lavoratori per il Reich, si ripro­ pose viceversa come un altro dei mezzi di intimidazione terroristica cui era­ no sottoposte le popolazioni del territorio occupato. Il fallimento dell’ope­ razione Sauckel si può considerare pressocché totale: nel primo semestre del 1944 non erano stati spediti in Germania neppure cinquantamila lavo­ ratori dall’Italia. I risultati dei lavori del sottoscritto degli anni sessanta e gli aggiornamenti documentari recati da Klinkhammer sono nella sostanza coincidenti. Il fallimento dell’operazione non comportò tuttavia la sua ces­ sazione, ma soltanto l’affermazione di un decorso sempre più selvaggio. Co­ me scrive Klinkhammer, «gli inviati di Sauckel potevano reclutare con la forza i lavoratori soltanto in alcune grandi città, mentre le campagne, ma soprattutto l’intera Italia centrale, furono colpite soltanto marginalmente dalle loro misure». Difficile quantificare esattamente il contributo dei la­ voratori italiani al progetto Sauckel; non è inverosimile supporre che il nu­ mero dei deportati derivante dalla cattura di partigiani e di altri opposito­ ri del fascismo e dell’occupazione sia stato superiore a quello dei rastrella­

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ti per il lavoro nel Reich. Né, infine, Sauckel e gli altri ufficiali tedeschi po­ tevano ovviare al fallimento dell’intera operazione svuotando, come pure fecero, le carceri, dove assieme a detenuti comuni si trovavano anche per­ sone arrestate o rastrellate in vista della deportazione. Ai fini di una valutazione complessiva si può concludere che l’occupa­ zione dell’Italia, anche per la sua qualità di ex alleata e per il momento in cui avvenne - la fase di passaggio verso l’apertura del secondo fronte -, fu caratterizzata da una particolare brutalità di comportamento della Wehr­ macht, su cui gravarono sicuramente fattori psicologici (il «tradimento» presunto dell’Italia) e la consapevolezza che la guerra era ormai perduta, per cui soltanto una resistenza a oltranza poteva attenuarne le conseguen­ ze, anche dal punto di vista dei singoli combattenti. La strategia della col­ laborazione di Rahn servi più a mettere a disposizione dei tedeschi un ap­ parato locale che ne agevolò la gestione del territorio occupato che a pro­ teggere la popolazione italiana dalle sopraffazioni dell’occupante. Il filtro della Rsi fu assai debole anche per la sua totale subalternità ai tedeschi; non risparmiò all’Italia alcuna sofferenza, alcuna distruzione o alcuna offesa al­ la sua popolazione. Assicurò viceversa ai tedeschi un sostanzioso braccio esecutivo e contribuì a inasprire con la lotta contro l’occupante lo scontro interno e ad accentuarne gli aspetti di guerra intestina. Nota bibliografica. E. Collotti, L ’Amministrazione tedesca dell’Italia occupata (1943-1945). Studio e docu­ menti, Lerici, Milano 1963; F. W . Deakin, La brutale amicizia, I. Mussolini, Hitler e la caduta delfascismo italiano (1962), Einaudi, Torino 1990; L. Klinkhammer, L ’occupazione tedesca in Italia (1943-1945), Bollati Boringhieri, Torino 1993.

Alpenvorland Zona d’operazione delle Prealpi. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’oc­ cupazione del territorio italiano da parte della Wehrmacht, alla metà di settembre fu annunciata la creazione delle due speciali Zone d’operazione dell’Adriatisches Kiistenland* e delle Prealpi lungo la fascia settentrionale delle Alpi centrali, uffi­ cialmente motivata con esigenze di carattere strategico rese ancora più evidenti dal fatto di contenere l’accesso all’Italia attraverso il Brennero, la maggiore arteria di comunicazione, per strada e su ferrovia, tra Germania e Italia. Nei fatti, le moti­ vazioni del provvedimento erano più complesse, come nel caso della Venezia Giu­ lia, anche se la situazione altoatesina presentava peculiarità particolari. Come nel caso dell’Adriatisches Kiistenland anche l’amministrazione civile tedesca insedia­ ta nella Zona delle Prealpi, nella quale furono riunite le province di Bolzano, Tren­ to e Belluno, derivò la sua ispirazione oltre che dalle citate ragioni strategiche (che

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in parte spiegherebbero l’aggregazione al Trentino e Alto Adige della provincia di Belluno) dalle rivendicazioni sul Tirolo meridionale dell’elemento austriaco nell’am­ ministrazione del Reich, più fortemente animato da sentimenti di rivincita nei con­ fronti dell’Italia e dalla volontà di vendicarsi della politica di italianizzazione svi­ luppata nell’area di lingua tedesca soprattutto, dal regime fascista. In particolare il Gauleiter del Tirolo, Franz Hofer, prima ancora defl’armistizio italiano caldeggiò la rivendicazione dei Siid-Tirol incontrandosi, come risulta fra l’altro dai Diari di Goebbels, con l’ala più ostile aUTtalia del gruppo dirigente nazista, che vagheggia­ va ritorsioni anche territoriali contro l ’alleato per punirlo della sua inefficienza nell’ambito del Patto d ’acciaio. Quindi, al di là dei motivi più generali e contingenti, la creazione della Zona delle Prealpi, che come la Venezia Giulia fu sottratta alla sovranità italiana e per essa della Repubblica di Salò, va considerata come il tentativo di rovesciare il pro­ cesso di italianizzazione della provincia di Bolzano, rivalutando l’elemento tedesco e strumentalizzando l’irredentismo sudtirolese. Una delle prime conseguenze dell’in­ sediamento dell’amministrazione civile tedesca, affidata essenzialmente a persona­ le d ’origine austriaca, fu l’annullamento dell’accordo per le opzioni dell’ottobre del 1939 e l ’inizio del graduale rientro degli optanti che si erano già trasferiti nel Reich. La politica dell’amministrazione tedesca ebbe un volto costantemente bifronte: uf­ ficialmente essa si presentava come soluzione transitoria dettata dalle esigenze bel­ liche; di fatto creava condizioni che si giustificavano solo come presupposti di una soluzione definitiva - a prescindere dalla forma ultima dell’annessione al Grande Reich - , evidenti nella maggior parte dei provvedimenti adottati dalle autorità te­ desche. Questi infatti non incidevano soltanto nell’immediato ma preludevano a solu­ zioni di lungo termine. Fu operata una parziale ristrutturazione dei confini tra le province di Bolzano e di Trento, con il riaccorpamento alla provincia di Bolzano di comuni a maggioranza linguistica tedesca; venne ripristinato l’uso della lingua te­ desca in molti dei casi in cui l ’amministrazione italiana l’aveva sostituito; fu po­ tenziata la scuola di lingua tedesca - misure tutte che incontrarono il favore della popolazione locale; furono sostituiti o trasferiti molti impiegati di lingua italiana, favorendo l’immissione nelle amministrazioni locali e pubbliche di elementi di ori­ gine austriaca. Dal punto di vista istituzionale e della limitazione delle sovranità dello stato italiano gli aspetti fondamentali e più visibili furono rappresentati dal­ la sottrazione dell’amministrazione della zona all’ordinamento giudiziario italiano, conferendole autonomia di giurisdizione nelle tre province interessate; dalla proi­ bizione al Pfr di costituirsi sul territorio; dall’obbligo del servizio di guerra per i giovani soggetti alla leva in organizzazioni militari (Waffen-SS), di polizia o ausiUarie (Organizzazione Todt) sotto il controllo delle autorità tedesche. Per accentuare l’autonomia dell’area e sottolineare il coinvolgimento del pa­ triottismo locale nelle province di Bolzano e di Trento fu creata una polizia locale, il Siidtiroler Ordnungsdienst in provincia di Bolzano, il Corpo di sicurezza trenti­ no in quella di Trento. Entrambi alle dipendenze della polizia tedesca, costituirono l’ossatura della struttura di controllo dell’ordine pubblico e lo strumento diretto di collaborazione con l’autorità d ’occupazione. Un ulteriore terreno d ’influenza fu la diffusione della stampa in lingua tedesca nella provincia di Bolzano e la sostituzio­ ne della lingua italiana in molte occasioni ufficiali e della vita quotidiana. Come nel caso della Venezia Giulia, la Zona delle Prealpi fu oggetto di con­ tenzioso permanente tra la potenza d’occupazione e la Rsi, ma nessuna protesta val­ se a modificare un’evoluzione che mirava inequivocabilmente a separare l’area dal

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resto d’Italia. Il fatto che le rimostranze della Rsi rimanessero lettera morta fu una costante umiliazione per Mussolini e i capi fascisti, che si illusero della possibilità di influenzare alla conclusione del conflitto una soluzione che non danneggiasse l ’immagine dell’Italia. N ei fatti i tedeschi si comportavano da padroni, privilegia­ rono la popolazione di lingua tedesca e imposero le loro regole di vita e di compor­ tamento. Sin dal settembre il Sùdtirol fu teatro delle deportazioni degli ebrei, con la razzia della comunità meranese, la prima a essere deportata dall’Italia. N el luglio del 1944 nel rione di Gries alla periferia di Bolzano fu insediato il lager destinato a diventare, dopo lo sgombero di Fossoli, il principale campo di transito dall’Italia per la sua prossimità al Brennero. In questi due esempi si può simbolicamente com­ pendiare il significato che ebbe la Zona delle Prealpi nel quadro del sistema d ’occupazione e dell’estensione delle forme di dominio tipicamente naziste. Dal punto di vista militare la costruzione di fortificazioni per farne una «ridotta alpina», de­ stinata ad arrestare l ’eventuale avanzata alleata dal Sud e a consentire l’estremo ri­ fugio per Mussolini e i suoi fedeli, rimase in buona parte sulla carta, essendo rapi­ damente superata dagli eventi e dallo stesso rifiuto dei comandanti tedeschi di sa­ crificare le loro forze nella difesa a oltranza del corridoio di avvicinamento al Terzo Reich.

Nota bibliografica. R. D e Felice, Il problema dell’Alto Adige nei rapporti italo-tedeschi dall’Anschluss alla fi­ ne della seconda guerra mondiale, Il Mulin o , Bologna 1973; K. Stuhlpfarrer, Le zone d ’opera­ zione Prealpi e Litorale Adriatico. 1943-1945 (1969), Libreria Adami, Gorizia 1979.

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È la denominazione tedesca, che riesuma non a caso un termine geografico-amministrativo dell’epoca absburgica, della Zona d ’operazione Litorale Adriatico, una delle due speciali zone d ’operazione - l’altra era la Zona delle Prealpi (Alpenvorland*) - create dai tedeschi all’atto dell’occupazione dell’Italia. Affidata al Gauleiter della Carinzia Friedrich Rainer, la Zona del Litorale Adriatico comprendeva le vecchie province orientali d’Italia, incluse le province di Udine e di Lubiana, quest’ultima annessa al Regno d ’Italia dopo l’invasione della Iugoslavia (province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana). Come nel caso della Zona delle Preal­ pi, non si trattava di territori scelti a caso per installarvi amministrazioni civili te­ desche e per distinguerle dall’area territoriale soggetta all’Amministrazione militare e alla Rsi. Il fatto stesso che si trattasse di regioni di frontiera in continuità di­ retta con i territori meridionali del Reich, se accentuava il loro interesse dal pun­ to di vista strategico-militare come aree di transito verso il Sud diventato ormai teatro di guerra primario per la Wehrmacht, ne sottolineava anche l ’interesse dal punto di vista politico-amministrativo come prolungamento del Reich nella fascia dell’Italia settentrionale a ridosso della diagonale Venezia-Trento. Ufficialmente predisposte da Hitler sin dal 10 settembre 1943, le zone d’ope­

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razione ricevettero la prevista struttura nelle settimane successive. N el Litorale Adriatico l’amministrazione civile fu insediata il i ° ottobre. Essa era scorporata dall’apparato dell’occupazione nel resto dell’Italia dipendendo direttamente dal Fuhrer; contemporaneamente essa fu sottratta alla sovranità della Rsi i cui dicasteri non avevano alcuna giurisdizione nella Zona. Podestà e prefetti dell’area furono no­ minati direttamente dalle autorità tedesche; la normativa della Rsi entrava in v i­ gore solo se recepita da queste ultime. Fu creata un’amministrazione giudiziaria che aveva al suo vertice il Gauleiter Rainer, quasi fosse un capo di stato; fu vietato l ’ar­ ruolamento per le forze armate di Salò; venne creato un corpo armato locale, la Guardia civica, al servizio dei tedeschi; fu operato un massiccio reclutamento di ma­ nodopera per i tedeschi per rafforzare le difese costiere e per costruire opere di for­ tificazione soprattutto in Istria; venne compressa l’attività stessa del Pfr. A sottolineare l’intenzione di realizzare un rigido processo di germanizzazione fu concentrato nell’area un nucleo di personale amministrativo proveniente dalle vicine province dell’Austria, le cui intenzioni irredentistiche nei confronti dei vec­ chi territori che erano appartenuti alla duplice monarchia absburgica erano anche troppo esplicite. D i origine austriaca, nato a Trieste e attivo nel partito nazista il­ legale austriaco che operava in favore dell’Anschluss, il generale delle SS Odilo Globocnik, che giunse a Trieste con i suoi reparti speciali dopo avere operato in Polo­ nia nella Aktion Reinhardt nella rapina e nella distruzione degli ebrei, era anche il più alto responsabile delle SS e della polizia nella Zona (con eccezione della pro­ vincia di Lubiana che aveva un altro responsabile, il generale Ròsener). Al vertice di comando dell’Adriatisches Kiistenland si trovavano cosi due esponenti di punta del nazismo austriaco, Rainer e Globocnik, che con la loro stessa presenza garanti­ vano un orientamento ideologico e politico fortemente caratterizzato in senso irredentistico-annessionista e in senso apertamente razzista. La presenza dei tedeschi nell’area fu caratterizzata da due aspetti fondamenta­ li, distinti ma convergenti: il massiccio impegno nella lotta contro il movimento partigiano slavo, che era dilagato ancor prima dell’8 settembre e che all’atto dello sfaldamento dell’esercito italiano si rafforzò con la cattura delle armi italiane e con l ’occupazione di quasi tutto il territorio istriano, a ridosso di città come Gorizia e Trieste; la forte propaganda tesa ad affievolire in ogni modo i legami con l’Italia e a favorire, prima ancora che un movimento immediatamente annessionistico al Gran­ de Reich, la formazione di un patriottismo municipale come futura base di consenso per riconoscere nella potenza germanica l’unica garanzia per l’avvenire del porto di Trieste, che era stato compromesso dall’annessione all’Italia. Questi due Leitmotive fornirono la base di legittimazione alla presenza cosi massiccia dell’amministrazio­ ne tedesca. Alla fine di settembre del 1943 le forze tedesche conclusero il primo grande ciclo operativo che era destinato a distruggere le forze partigiane slave e a ricon­ quistare letteralmente il territorio. Migliaia furono le vittime dei feroci rastrella­ menti e degli aspri combattimenti, che tuttavia alleggerirono soltanto tempora­ neamente la pressione delle forze partigiane sui tedeschi. L’esigenza di dispiegare un potenziale eccezionale di violenza per la salvaguardia della sicurezza della W ehr­ macht fu affermata con intransigenza superiore anche a quella che guidò le ope­ razioni antipartigiane nel resto d ’Italia. N e fa fede tra l’altro il draconiano ordi­ ne con il quale il generale delle truppe da montagna Ludwig Kiibler, che alla fine di settembre del 1943 era stato nominato responsabile militare dell’area Litorale Adriatico, il 22 febbraio 1944 dichiarava guerra senza quartiere alle formazioni partigiane, autorizzando spietate rappresaglie contro la popolazione civile, con

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l ’incendio e la distruzione di intere località, l ’uccisione senza pietà dei partigiani e di coloro che erano anche soltanto sospettati di averli aiutati. Come ammoniva Kiibler, veniva data così attuazione nel Litorale Adriatico all’ordine di Hitler dell’ottobre del 1942 che era stato emanato per la lotta contro le bande nei terri­ tori orientali, nel quadro di una vera e propria guerra di sterminio. L’asprezza del­ la lotta in questa parte della vecchia Venezia Giulia raggiunse un livello pari solo a quello dei settori in cui lo scontro fu più cruento, anche perché ideologizzato co­ me scontro di razze e di civiltà. N ella Venezia Giulia i tedeschi, speculando sulla tradizione di antagonismi nazionali tra italiani e slavi, che era stata rinfocolata dalla politica di snazionaliz­ zazione realizzata dal regime fascista, si atteggiarono demagogicamente ad arbitri dei conflitti nazionali e a restauratori dell’equilibrio etnico e politico che era sta­ to scosso dall’avvento fascista. Attuarono perciò una strategia apparentemente contraddittoria di feroce repressione nei confronti del movimento partigiano sla­ vo in quanto portatore di disordine sociale e morale (il bolscevismo) e al tempo stesso di favoreggiamento della popolazione slava (per esempio con la parziale ria­ pertura delle scuole slovene che erano state chiuse dagli italiani), di insediamento di amministratori locali sloveni, allo scopo di dividere le popolazioni slave e di creare nelle loro file una corrente di collaboratori dei tedeschi. La contraddizione era solo apparente: l ’immagine che la propaganda tedesca volle dare del quadro delle nazionalità dell’area era quello di un mosaico di etnie tra le quali solo la su­ periore civiltà germanica avrebbe potuto ergersi a fattore di pacificazione e di giu­ stizia. Ma come se la denunciata frammentazione non fosse sufficiente, gli stessi tedeschi introdussero nel Friuli (lo stesso Friuli che Rainer aveva dichiarato co­ stituire una nazionalità autonoma da quella italiana, facendosi precursore di suc­ cessivi m ovimenti autonomistici) nell’estate del 1944 una comunità di cosacchi - che dopo avere collaborato con i tedeschi li avevano seguiti nella loro ritirata dall’Est sin nel Litorale Adriatico - , cui in cambio della fedeltà per la vita e per la morte promisero una nuova patria (nelle fonti tedeschi ricorre l’espressione Kosakenland). D i entità controversa (si trattò forse di poco più di ventimila tra ar­ mati e famiglie al seguito), i cosacchi furono insediati nella valle del T agliamento con il compito specifico di occupare e difendere il territorio contro il forte m ovi­ mento partigiano slavo e italiano, la cui distruzione diventava condizione essen­ ziale per la permanenza della comunità cosacca sul territorio. D i qui il loro impie­ go e la loro strumentalizzazione da parte dei tedeschi nella repressione antiparti­ giana condotta con tutta la possibile intransigenza. Il Litorale Adriatico divenne così un microcosmo del Nuovo ordine europeo nella versione nazista. Non si trattò di una operazione puramente propagandistica, che fu peraltro fortemente sostenuta dal quotidiano in lingua tedesca, la «Deutsche Adria-Zeitung», che usci a Trieste dal 14 gennaio 1944 al 28 aprile 1945. L’appel­ lo alla nostalgia per la fortuna di Trieste nel passato austriaco si coniugò costantemente con il tentativo di vincolare alla politica tedesca gli interessi del ceto ammi­ nistrativo e mercantile, legato alla tradizione di affari sul versante orientale del­ l’Adriatico, e delle stesse maestranze dell’industria cantieristica, facendo balenare le prospettive di una rinascita fuori dall’alveo italiano, in un orizzonte balcanico e mitteleuropeo interamente dominato dalla Germania. Alle blandizie della propa­ ganda si accompagnava, in dura dissonanza, la mano forte dell’occupatore. A Trie­ ste fu in funzione il lager della Risiera di San Sabba (Polizeihaftlager*) che sebbe­ ne designato come campo di transito e di prigionia fu un vero e proprio campo di sterminio, l’unico su suolo italiano e tra i pochissimi dell’Europa occidentale. Lo

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sterminio di ebrei e di partigiani italiani, sloveni e croati di cui fu protagonista la Risiera rimane la testimonianza di uno dei capitoli più tragici della storia della Ve­ nezia Giulia e di quella parte del nazionalismo italiano che in omaggio all’odio an­ tislavo accettò di asservirsi alla Germania nazista.

Nota bibliografica. E. Collotti, Il Litorale Adriatico nel Nuovo Ordine europeo. 1943-45, Vangelista, Milano 1974; A . S calpelli (a cura di), San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, 2 voli., Aned-Mondadori, Milano 1988 (rist. Lint, Trieste 1995); P. Stefanutti, Novocerkassk e din­ torni. L ’occupazione cosacca della Valle del Lago (ottobre 1944 - aprile 1945), Isr Udine, Udi­ ne 1995; K. Stuhlpfarrer, Le zone d ’operazione Prealpi e Litorale Adriatico. 1943-1945 (1969), Libreria Adami, Gorizia 1979; A. Walzl, L ’organizzazione dell’amministrazione civile nella zona di operazioni «Litorale Adriatico», in «Storia contemporanea in Friuli», n. 24 (1993), PP- 9 -4 2 -

Organizzazione Todt

Dal nome dell’ingegnere Fritz Todt, plenipotenziario per le costruzioni edili, responsabile dei progetti autostradali del Reich, a partire dal 1938 questa struttu­ ra, grazie anche all’introduzione del servizio del lavoro obbligatorio, potè disporre di larghi contingenti di manodopera per progetti civili e militari nell’ambito del pia­ no quadriennale e della preparazione economica per la guerra. La sua più impor­ tante realizzazione prima della guerra fu la costruzione del cosiddetto «vallo occi­ dentale» (la linea Siegfried) lungo la frontiera franco-tedesca. Durante la guerra re­ se enormi servizi per la costruzione di apprestamenti militari (fra essi il più colossale fu il cosiddetto Vallo atlantico, che avrebbe dovuto chiudere le porte del continente all’invasione del secondo fronte) e per i lavori di riparazione di strade, ferrovie, ca­ serme, abitazioni danneggiate da eventi bellici e dai bombardamenti aerei. La Todt non fu soltanto una struttura autonoma dalle autorità militari all’interno del Reich; dopo l ’inizio della guerra si installò in tutti i territori occupati e usufruì persino del­ la manodopera di deportati nei campi di concentramento. In Italia fu presentata dalla pubblicità come «la più grande impresa edile del mondo », formula con la qua­ le dopo l’armistizio del 1943 i tedeschi si prefiggevano di attrarre lavoratori per realizzare opere e apprestamenti militari in Italia al servizio della forza d ’occupa­ zione. Il reclutamento non era obbligatorio ma il servizio prestato presso la Todt era sostitutivo di altre forme di coscrizione (per esempio per le Forze armate, per l’invio in Germania) e generalmente si svolgeva in Italia, in condizioni relativa­ mente favorevoli rispetto ad altre forme di coazione, sotto stretta sorveglianza te­ desca. Particolarmente massiccio fu l’impiego di manodopera italiana in base a un vero e proprio reclutamento forzato nelle due Zone speciali d ’operazione Litorale Adriatico e delle Prealpi, dove più imponente fu la costruzione di fortificazioni o dove la presenza di una consistente attività partigiana (come lungo il vecchio con­ fine italoiugoslavo) richiedeva una sorveglianza e una manutenzione delle vie di co­ municazione più assidue.

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Kesselring Albert Nato a Marktsteft il 30 novembre 1885, morto a Bad Nauheim il 16 luglio i9 6 0 . Ufficiale di stato maggiore nella prima guerra mondiale, rimase in servizio nella Reichswehr della repubblica di Weimar tra coloro che avevano accettato la repub­ blica democratica come il male minore ripromettendosi la rivincita di Versailles e il ritorno della Germania alla potenza militare mondiale. L ’avvento del nazismo lo trovò consenziente con gli obiettivi di rinascita militare della Germania. Passato nel settore aereonautico ebbe un ruolo di primo piano nella crescita della Luftwaffe, cui dedicò competenza tecnica pari alla dedizione politica al regime nazista. Stretto collaboratore di Gòring, dalla metà del 1937 comandò il terzo distretto ae­ reo con sede a Dresda e dal i ° ottobre del 1938 la prima flotta aerea di stanza a Berlino. In tale qualità ebbe una parte di primo piano nella condotta bellica dopo l’aggressione alla Polonia il i ° settembre 1939 sostenendo in particolare c o n i bom­ bardamenti aerei l’attacco contro Varsavia. Trasferito successivamente al comando della seconda flotta aerea (con sede a Munster) sul fronte occidentale, prese parte all’offensiva contro la Francia, il Belgio e l ’Olanda e nell’estate del 1940 a quella contro l’Inghilterra. A pochi mesi d’impiego sul fronte orientale dopo l ’aggressio­ ne alTUnione Sovietica, nell’autunno del 1941 fu posto a capo del comando sud della Wehrmacht a sostegno delle forze tedesche impegnate in Africa settentrio­ nale e a contatto con il Comando supremo italiano. Feldmaresciallo per meriti di guerra, tra i comandanti della Wehrmacht si distinse oltre che per la sua tenace fe­ deltà al regime per la duplice esperienza che possedeva, nel settore terrestre (pro­ veniva infatti dall’esercito) e in quello aereonautico. Protagonista del rapporto con le Forze armate italiane, difese tenacemente l’au­ tonomia delle forze tedesche dal suo quartier generale di Frascati, da cui diresse dopo l’armistizio del 1943 l’occupazione dell’Italia, assumendo dal 21 novembre 1943 il Comando supremo dell’intero settore sud-ovest, dopo avere fatto prevale­ re rispetto al maresciallo Rommel il suo proposito di difendere palmo a palmo il ter­ ritorio italiano dall’avanzata alleata. L’8 marzo 1945, alla vigilia del crollo del Terzo Reich, fu chiamato da Hitler al Comando supremo del fronte occidentale. In Ita­ lia fu protagonista della tenace battaglia per rallentare l’avanzata verso il Nord de­ gli eserciti alleati e soprattutto della repressione contro il movimento partigiano che minacciava le forze d’occupazione tedesche alle spalle del fronte principale. Come attestano anche le sue memorie dal significativo titolo Soldat bis zutn letzten Tag («Soldato sino all’ultimo giorno»), che vorrebbe adombrare l’immagine del milita­ re professionale al di là di ogni opzione politica, nella primavera del 1944 Kessel­ ring rivendicò alla Wehrmacht la condotta della guerra contro le bande partigiane, sottraendola alle forze di polizia, considerando che l ’azione partigiana, della quale peraltro disconobbe costantemente la legittimità, rappresentava ormai un vero e proprio fronte di combattimento che non poteva essere più affrontato con azioni di polizia ma soltanto sul terreno operativo militare in senso stretto. A lui si devo­ no gli ordini draconiani emanati per il territorio italiano a proposito della «guerra contro le bande», in particolare là dove (come soprattutto nell’ordine del 17 giu­ gno 1944) liberava i comandanti subalterni da ogni responsabilità per i provvedi­ menti, anche i più radicali, adottati nella lotta contro la guerriglia, circostanza che di fatto equivalse a convalidare una guerra senza quartiere e ogni sorta di rappre­ saglie contro la popolazione civile. La recrudescenza di stragi ed eccidi che accom­

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pagnò la ritirata delle forze tedesche [Rappresaglie, stragi, eccidi*] fu sicuramente legittimata anche dalla libertà di azione che Kesselring consenti ai suoi subalterni. Per questi motivi (e anche come corresponsabile della strage delle Fosse Ardeatine), dopo la cattura a opera delle forze alleate Kesselring fu chiamato a rispondere di crimini di guerra dal Tribunale militare britannico di Venezia, dal quale il 6 mag­ gio 1947 fu condannato a morte. La sentenza fu successivamente commutata nella pena dell’ergastolo, ma nell’ottobre del 1952 egli era nuovamente in libertà, uffi­ cialmente per le cattive condizioni di salute, di fatto nell’ambito dell’assolutoria dei crimini della Wehrmacht nel clima della guerra fredda e della campagna per il riarmo tedesco.

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La formazione della Repubblica sociale italiana (Rsi). A partire dal 9 set­ tembre 1943 la radio tedesca diede notizia della costituzione di un gover­ no fascista provvisorio in Italia. Il 12 settembre Mussolini venne liberato dai tedeschi e portato in Germania. Superate le opposizioni della Wehr­ macht (Forze armate tedesche), favorevole all’occupazione pura e semplice del territorio italiano, il 23 settembre fu costituito il nuovo governo ca­ peggiato da Mussolini, che si riunì per la prima volta alla Rocca delle Canti­ nate il 27 settembre. Al fine di dare legittimità allo stato fascista repubbli­ cano, Mussolini cercherà di giungere in tempi brevi alla convocazione di un’Assemblea costituente. Cosa che risulterà impossibile, per cui la Rsi, pri­ va di una definizione costituzionale, rimase uno stato di fatto, fondato sul­ la forza militare germanica e sul seguito che riuscì a conquistarsi presso que­ gli italiani che, con varie motivazioni, scelsero di aderirvi. La leadership di Mussolini, al di là delle ambizioni di singoli gerarchi, era comunque fuori discussione innanzitutto per il ruolo simbolico del duce. La creazione della Rsi fu opera esclusiva dei tedeschi, in particolare di Hitler, sulla base di un preciso calcolo politico. Infatti la definitiva cancel­ lazione del fascismo italiano avrebbe avuto per il nazismo effetti deleteri sul piano politico-ideologico e propagandistico. Nondimeno la politica di Hitler puntò a sottoporre l’Italia a «un ferreo controllo e sfruttarne al mas­ simo le potenzialità economiche ed umane». Fu sempre Hitler che tracciò le linee di fondo su cui dovrà muoversi il fascismo repubblicano. Nei colloqui del 14-15 settembre, i punti messi all’ordine del giorno furono: vendetta contro i traditori fascisti e monar­ chici; rinascita del fascismo sul modello nazionalsocialista; ripresa della guer­ ra a fianco della Germania. Sulla base degli incontri di metà settembre, Mussolini impostò le linee principali della sua attività, che Goebbels, nei suoi Diari, così sintetizza: Il duce intende dapprima ricostruire il partito fascista. Poi, con l’aiuto di questo, vuole iniziare la ricostruzione dello Stato [...] si propone infine di indire una Costi­ tuente [...]. D ’altra parte, le sue misure dipendono moltissimo dagli sviluppi militari.

In sintesi si può dire che la nascita della Rsi dipese dal prevalere della posizione sostenuta dagli ambienti nazisti, in particolare dal ministero de­

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gli Esteri capeggiato da von Ribbentrop, rispetto a quella dei militari fa­ vorevoli a una oc cupazione diretta [L’occupazione tedesc a in Italia*]. Il Partito fascista repubblicano. Il Partito fascista repubblicano (Pfr), con a capo Alessandro Pavolini, è la prima istituzione della Rsi a essere costi­ tuita, in esplicita continuità con il Partito nazionale fascista. Esso raccoglie vecchi e nuovi fascisti che, dopo il 25 luglio e P8 settembre, hanno tenta­ to, spontaneamente, molecolarmente, di riaggregarsi; è un partito-movi­ mento che «risorge, prima ancora della liberazione di Mussolini, nel solco dell’occupazione tedesca, secondo un disegno dal basso, imprecisato, colti­ vato e incentivato dalle autorità germaniche in Italia e dalle direttive di Ber­ lino» [Santarelli 1967]. Diventa il luogo di incontro tra squadristi della pri­ ma generazione e giovani che vogliono battersi a fianco dell’alleato germa­ nico e contro i traditori. Le componenti interne sono variegate, magmatiche, con una prevalenza delle posizioni radicali che propugnano un «ritorno al­ le origini», e hanno l’ambizione di fare del partito l’asse portante, il centro decisionale dello stato repubblicano. Il fallimento del Congresso di Verona fa tramontare tale prospettiva; nel decreto di riconoscimento giuridico del Pfr del 23 gennaio 1944, il par­ tito diventa semplicemente una «milizia civile, al servizio della Rsi». Mus­ solini capisce che mettere lo stato nelle mani del partito significava preci­ pitare nel caos; nondimeno il partito, variamente concepito, è il luogo di aggregazione dei «veri fascisti», lo strumento per riproporre la concezione totalitaria della politica: dall’assistenza al popolo alla lotta armata. Il bizzarro accentramento di ogni forma di assistenza nelle mani del Pfr può essere visto «come elemento di continuità con il Partito nazionale fa­ scista in quanto “partito-stato” » [Gagliani 1999]. D ’altra parte la spinta verso il «partito armato», soggetto protagonista della guerra civile, percor­ re tutta la parabola del Pfr. Prima ancora della sua costituzione formale «sorsero, per lo più per iniziativa personale dei singoli Federali, squadre d’azione, una sorta di élite del nuovo fascismo» [Klinkhammer 1993]; essi raccolgono istanze estremiste mai sopite a cui gli eventi forniscono una ri­ balta. Il 5 novembre 1943 il neosquadrismo viene organizzato nelle squa­ dre di polizia federale. Un mese dopo, con la costituzione della Guardia na­ zionale repubblicana (Gnr), e per effetto delle incessanti lotte intestine che coinvolgono gli apparati della Rsi, le squadre vengono ufficialmente sciol­ te, in mezzo a intensi contrasti. Di lf a poco Pavolini dà ordine di costitui­ re «centri di arruolamento volontari» presso le federazioni. L’approdo uf­ ficiale al partito armato avviene nella forma della militarizzazione, a fian­ co e in concorrenza con le altre numerose forze armate della Rsi impegnate nella lotta contro antifascisti e partigiani. Pavolini sceglie esplicitamente il terreno della guerra civile, ritenendo fallimentare e velleitaria l’azione delle forze armate «apolitiche» di Graziani. Con la creazione delle Brigate nere, annunciata nella ricorrenza del 25 luglio, che prevede l’arruolamento di tutti gli iscritti al partito dai di­

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ciotto ai sessant’anni, il suo obiettivo è di dare impulso a un movimento an­ tipartigiano sulle stesse basi e con le stesse caratteristiche di quello resi­ stenziale; un movimento a cui dare riconoscimento politico in nome di uno scontro necessario e inevitabile. Il Pfr, secondo il suo segretario Pavolini, avrebbe avuto 251 000 iscrit­ ti al momento del Congresso di Verona (14 novembre '43), saliti a 487 000 nel marzo '44; cifre notevoli, anche se da prendere con prudenza, che te­ stimoniano dell’esistenza, oltre che di giovani più o meno ideologicamente motivati, di una minoranza fascista intransigente, a cui si sommava una par­ te di opinione pubblica moderata, disponibile ad appoggiare la Rsi, soprat­ tutto per timore dell’avanzante comuniSmo. In effetti la militarizzazione neosquadrista del partito viene decisa agli inizi dell’estate del '44 nel contesto di uno sforzo complessivo contro l’in­ sorgenza partigiana, che sta assumendo dimensioni preoccupanti e che i te­ deschi sono determinati a stroncare chiedendo il massimo impegno alla Rsi. In un panorama di rovine, il partito delle Brigate nere si propone come esercito politico, mobilitato su basi ideologiche, impegnato in una lotta fi­ nale contro il bolscevismo e la plutocrazia, sua alleata. Le forze armate della Rsi. Propugnatore della tesi di un esercito politi­ co fu anche Renato Ricci che, posto a capo della milizia (Mvsn) ancor pri­ ma della costituzione del governo repubblicano, riuscì a mantenere l’auto­ nomia della sua organizzazione, trasformata in Gnr il 24 novembre 1943, con l’incorporazione dei carabinieri e della Pai (Polizia dell’Africa italiana). D’altro canto i vari spezzoni che componevano la formazione coman­ data da Ricci non si amalgamarono, per cui la Gnr fu sottoposta alla pres­ sione esterna di altre formazioni militari concorrenti ed esposta alle frat­ ture interne. In particolare, i carabinieri manifestarono un’aperta ostilità, ricambiata, verso la Rsi, e soprattutto verso i tedeschi, e disertarono in mas­ sa, spesso aderendo alla Resistenza. Alla Gnr furono demandati compiti di polizia e di repressione antipar­ tigiana, sotto la sovrintendenza dei comandi tedeschi. Dall’agosto del '44, in coincidenza con il declino politico di Ricci, si procede al suo inserimen­ to nell’esercito. Stime precise sulla consistenza della Guardia sono impos­ sibili, anche per le forti variazioni temporali. Come dato di massima at­ tendibile si può assumere quello di centomila uomini, di cui solo diecimila circa utilizzabili in combattimento. La Gnr era l’organismo con le maggiori articolazioni locali. Le Brigate nere e le altre polizie fasciste si muovevano soprattutto in ambito cittadi­ no. Laddove non esisteva una forte presenza partigiana si creava un vuoto di potere, le popolazioni erano abbandonate a se stesse mentre si sviluppa­ vano il banditismo apolitico e la borsa nera. Il controllo del territorio nella Rsi era stato sempre aleatorio, nonostante la grande quantità di organismi e corpi armati che dovevano presidiarlo. Ol­ tre all’apparato di occupazione tedesco c’erano l’esercito e la Gnr, a cui si

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affiancavano la polizia (dal gennaio 1944 Polizia repubblicana) dipendente dal ministero degli Interni, nonché una congerie di polizie parallele, di par­ tito, milizie private, bande (bande Koch e Bardi-Pollastrini a Roma, banda De Sanctis a Ferrara, una dozzina di bande a Milano ecc.). Per non dire del­ la legione autonoma Ettore Muti e della X Mas di Junio Valerio Borghese. In effetti, coloro che dovevano garantire l’ordine erano protagonisti at­ tivi nel produrre caos, che assume la forma, non inconsueta nella storia ita­ liana, della privatizzazione dello stato, in questo caso spinta sino alla mol­ tiplicazione delle milizie armate: «La lotta per il controllo delle forze ar­ mate a disposizione del governo di Salò portò in pratica alla creazione di una serie di eserciti e di forze di polizia private» [Deakin 1990]. In particolare la X Mas esemplificava in modo compiuto il modello del­ le milizie volontarie a cui si ispiravano i più convinti aderenti alla Rsi. Se­ condo le parole dello stesso Borghese, «tutti quei volontari [...] erano ani­ mati esclusivamente dall’impegno di [...] mettere in luce e in bellezza lo spirito di combattività dell’italiano [...] che sapeva morire combattendo». Ma la X Mas era indipendente più che altro dall’apparato della Rsi mentre Borghese manteneva un collegamento diretto con il capo SS in Italia, Karl Wolff. L’indipendenza, apertamente rivendicata da Borghese, è persegui­ ta da quasi tutte le formazioni militari della Rsi che tendono ad assumere la fisionomia di formazioni fondate sull’adesione volontaria all’ultimo fa­ scismo. In questo quadro segnaliamo due casi che solo recentemente si sono co­ minciati a studiare: la scelta di militare nella Rsi da parte di un numero con­ siderevole di donne, e il contributo italiano, con un numero ancora più al­ to di volontari, alle formazioni delle SS combattenti. L’adesione femmini­ le alla Rsi avvenne sia attraverso il partito e le stesse Brigate nere sia con l’istituzione del Servizio ausiliario femminile (aprile '44), che giunse ad ar­ ruolare circa seimila donne, senza considerare altre forme di consenso e di collaborazione attiva. Non meno significativa fu l’adesione di circa venti­ mila italiani, in genere ex militari, alle Waffen SS, formazione militare in­ ternazionale che incarnava l’ideologia del Nuovo ordine europeo propu­ gnato dai nazisti. La ricostituzione di un esercito in grado di combattere a fianco dei te­ deschi contro gli alleati era un obiettivo obbligato e prioritario per la re­ pubblica di Salò; l’incarico di guidarlo, dopo qualche tentennamento, fu affidato a Rodolfo Graziani, nominato ministro della Difesa nazionale. Graziani cercò di costituire un esercito regolare, andando incontro a un falli­ mento che è molto significativo per intendere la natura della Rsi, le dimen­ sioni e il tipo di consenso di cui godette. I bacini di reclutamento a cui Gra­ ziani si rivolse furono da un lato i prigionieri in Germania, classificati come internati militari, dall’altro i giovani di leva (bando del 9 ottobre '43). Su entrambi i versanti incassò gravissimi insuccessi. Il fallimento della campagna di reclutamento tra i circa ottocentomila internati militari fu dovuto a un insieme di cause, riassumibili nell’ostilità

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dei prigionieri verso un regime che intendeva rivitalizzare il fascismo e pro­ lungare la guerra, a cui si aggiungeva la contrarietà di numerosi ambienti e centri di potere tedeschi, diffidenti nei confronti degli italiani e interessa­ ti a sfruttarli come manodopera. La Rsi fu costretta a puntare sulla coscri­ zione che però fu ampiamente disattesa, nonostante la minaccia della pena di morte prevista dal cosiddetto «bando Graziarti» (18 febbraio 1944). Nel marzo '44 solo ventimila reclute erano in addestramento in Germania, per cui non prima della metà di luglio furono inviate in Italia due divisioni, la San Marco e la Monterosa, ben presto falcidiate dalle diserzioni. Le altre due divisioni arrivarono rispettivamente a fine ottobre - la Littorio - e a fine dicembre - l’Italia. Il loro impiego al fronte fu quasi nullo, più consi­ stente invece nella repressione antipartigiana. La propaganda fascista si impegnò a fondo, con il coinvolgimento diret­ to di Mussolini, nel magnificare le condizioni in cui si trovavano gli italiani in Germania, utilizzati come lavoratori o addestrati per l’impiego bellico. La realtà era però completamente diversa: «Non eravamo considerati soldati, non eravamo considerati lavoratori, eravamo considerati degli italiani, ladri, di cui nessuno si poteva fidare» [testimonianza di P. Regazzoni]. I renitenti ai bandi di leva e i disertori che abbandonarono le forze ar­ mate di Salò non ingrossarono solo le fila dei partigiani, molti semplicemente si nascosero, non pochi vennero reclutati dall’Organizzazione Todt e da altri organismi tedeschi, a cui non importava nulla di delegittimare la Rsi. L’esercito apolitico a cui pensava Graziani, nell’illusione di potergli dare una dimensione di massa, risultò quindi del tutto irrealizzabile. «Il ve­ ro modello di formazione militare della Repubblica sociale non è l’esercito regolare di Graziani, ma la banda volontaria, irregolare, indisciplinata per definizione» [Ganapini 1999]; una sorta di riedizione delle compagnie di ventura. Ultimamente sono stati intrapresi studi importanti sui lavoratori italia­ ni che accettarono di lavorare per la Germania nazista o furono costretti a farlo. Il fenomeno deve ancora essere indagato in ragione delle sue dimen­ sioni e molteplici sfaccettature; ciò senza innescare alcun insulso revisioni­ smo. Infatti « si può ipotizzare che il concorso indiretto fornito dalla razzia di manodopera alla propagazione della guerriglia partigiana sia non infe­ riore a quello proveniente dalle diserzioni alla leva di Salò» [Legnarti e Vendramini 1990]. Ideologia e politica. Nazionalismo ed esaltazione della morte sono i va­ lori a cui si appellano i combattenti della Rsi, in continuità con l’interven­ tismo e l’arditismo, il fiumanesimo e lo squadrismo. Mentre la religione del­ la morte esprime una sensibilità diffusa e accomuna le posizioni radicali più vicine al nazionalsocialismo, anche se raramente esse si spingono sino a un proclamato neopaganesimo, l’estremismo neofascista è pressoché concorde nell’attaccare il mondo cattolico. La Chiesa e il Vaticano diventano bersa­

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glio di crescenti critiche per il loro mancato appoggio al fascismo repubbli­ cano e per non aver riconosciuto la Rsi. In un quadro politico-militare strettamente controllato dai tedeschi, lo spazio di manovra della Rsi era comunque limitato. Però Mussolini tentò di ritagliarsi qualche margine, puntando con decisione sulla «questione so­ ciale»: la sua idea era di utilizzare la politica sociale della Rsi come uno stru­ mento in grado di dare una base di massa alla repubblica, o almeno di far breccia nella classe operaia, considerata la forza decisiva, indebolendo l’antifascismo e soprattutto il comuniSmo. I successi della politica sociale re­ pubblicana furono comunque modesti, come dimostrarono gli esiti delle vo­ tazioni per le commissioni interne: anche nelle fabbriche dove gli operai aderirono (come all’Alfa Romeo di Milano) non si può dire che ciò esprimes­ se un consenso alla Rsi. Del resto la socializzazione, oltre all’indifferenza operaia, doveva scontare anche l’ostilità congiunta di industriali e tedeschi. Indubbia era la portata politica della posta in gioco, e non pochi furono gli sforzi fascisti per conquistare un consenso operaio, ma nelle fabbriche la partita fu vinta dai comunisti, più in generale dall’antifascismo. Il revisio­ nismo economicistico è smentito nettamente dalle fonti dell’epoc a: Gli scioperi avvenuti in queste ultime settimane non vanno intesi quali manife­ stazioni miranti a sostanziali miglioramenti economici-alimentari, bensì a un preor­ dinato movimento antitedesco e antifascista. (Notiziario Gnr, Torino, 23 luglio 1944).

La memorialistica su Salò riprende spesso temi già presenti nella pub­ blicistica e nella documentazione prodotta durante i seicento giorni. Co­ stituisce una parziale novità, che per ovvi motivi non poteva allora essere esplicitata, la tesi secondo cui la Rsi funse da scudo per l’Italia altrimenti destinata a subire la vendetta, motivata, di Hitler e dei tedeschi. Principale propugnatore di questa interpretazione è stato Filippo Anfuso [1957], ex ambasciatore Rsi a Berlino, che rafforza una lettura afasci­ sta e patriottica della Rsi già presente nelle memorie di Rodolfo Graziarli [1 9 5 9 ]-

Si noti che lo stesso schema, nonostante la perentorietà del punto sette del Manifesto di Verona («Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranie­ ri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica»), è stato ap­ plicato a proposito del ruolo di Mussolini nei confronti degli ebrei. Salò pro­ tesse gli italiani, Mussolini protesse gli ebrei: «Fu l’unico uomo politico eu­ ropeo che, tra il 1938 e il 1945, si prodigò concretamente per salvare la vita a centinaia di migliaia di ebrei in tutta Europa» [Pisano 1965]. La confutazione analitica di tali affermazioni, ampiamente condivise seppure in forma attenuata da una miriade di pubblicisti, poggia ormai su una buona base documentaria, dovuta soprattutto al lavoro degli studiosi del Cedec di Milano, che hanno dimostrato la consistenza della persecu­ zione avutasi in Italia, a partire dalle leggi antiebraiche, e il salto di qualità successivo all’8 settembre [Deportazione razziale: la persecuzione antie­ braica in Italia 1943-45*].

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I massacri compiuti sulla popolazione civile, specie nell’Appennino to­ sco-emiliano nella primavera-estate del 1944 - a cui si possono assimilare rastrellamenti come quello della Benedicta nell’Appennino ligure-piemon­ tese, con la fucilazione in massa di giovani disarmati -, dimostrano che la Rsi non funzionò da scudo protettivo come vorrebbero le interpretazioni che attualizzano le posizioni dei “moderati”. Per l’ala radicale Salò doveva costituire l’occasione storica della riautentificazione del fascismo; i “moderati” pensavano invece che potesse tro­ vare consensi e giocare un ruolo politico puntando le sue carte sul patriot­ tismo, cercando alleanze al di là del fascismo di regime, riuscendo così a da­ re sostanza a una «repubblica necessaria» per proteggere l’Italia, secondo la formula del ministro della Giustizia Piero Pisenti, uno degli esponenti ti­ pici del moderatismo Rsi. Guida spirituale dell’area moderata e patriottica fu, sino alla sua ucci­ sione, il filosofo Giovanni Gentile* [1943]: I fascisti hanno preso, com e ne avevano il dovere, l ’iniziativa della riscossa, e per­ ciò essi per primi d evono dare l ’esem pio di saper gettare nel fuoco ogni spirito di ven ­ d etta e di fazi o ne, e m ettere al di sopra dello stesso partito costantem en te la patria.

In quest’ottica è proprio il Pfr il principale ostacolo alla pacificazione nazional-patriottica. Ed è sempre la corrente nazionale presente a Salò che per prima elabora la concezione della “morte” della patria per effetto del crollo dell ’8 settembre. La pacificazione non poteva però spingersi sino a comprendere l’«antinazione», il nemico di sempre: il comuniSmo, contro cui era sorto il fascismo, contro il quale tutti gli italiani patrioti erano chia­ mati a combattere. Ugualmente di segno anticomunista furono i ripetuti tentativi di stabi­ lire un “ponte” con gli ambienti socialisti. In ogni caso i risultati consegui­ ti a Milano da Piero Parini, capo della provincia, con un’abile azione di re­ cupero nei confronti dell’opinione pubblica conservatrice, sono la dimo­ strazione dell’esistenza di un consenso potenziale alla linea nazionalista e moderata; il successo del «Prestito Città di Milano» del marzo '44 ci dice che gli ambienti borghesi e piccolo-borghesi delle aree industriali del Nord erano disponibili ad appoggiare un fascismo conservatore e nazionalpatriottico, capace di allearsi con le forze moderate antifasciste e fare da scu­ do contro la paura del comuniSmo. Però neppure il duce potè dare una ta­ le impronta a Salò, a causa dei tedeschi e degli alleati, degli azionisti e dei comunisti, per non dire degli intransigenti della sua parte e, in fondo, di lui stesso. Così l’ultimo fascismo fu altro da quello che, secondo alcuni, avreb­ be dovuto essere. La grande stampa era favorevole a una Rsi patriottica, l’obiettivo da perseguire era quello della pacificazione sociale, del dialogo, della concor­ dia nazionale. In questa ottica viene presentata la Costituente di Verona, a sostegno della quale interviene ripetutamente «Il Corriere della Sera». Ma è lo stesso Mussolini, ben disposto verso chi propugna un’unità di in­

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tenti che può rinsaldare la sua repubblica, a intervenire con nettezza, a fis­ sare dei punti fermi: O gn i direttore d i giornale com prenda la duplice n ecessità della disciplina di guerra e d ell’assoluta prem inenza da accordare alla guerra sopra qualunque argo­ m ento [...]. I capi delle provincie sono autorizzati a sopprim ere e sequestrare i gior­ nali che continueranno su u n ’andatura a carattere tipicam ente badogliesco. (M us­ solini ai capi provincia, 6 dicem bre 1943).

Molto diversi sono il tono e la linea politica della maggior parte dei gior­ nali provinciali, emanazione delle federazioni del Pfr, o di altri organismi del­ la Rsi. Il clima politico-spirituale in cui sono sempre più immersi i militanti di Salò emerge soprattutto nel pullulare di fogli locali, ancor più nei giornali delle formazioni combattenti. E del febbraio '45 questa autorappresentazio­ ne delle Brigate nere dovuta all’organo della brigata D. Gervasini di Varese: Le Brigate nere anelano al combattimento contro il nemico esterno ma sanno che in una guerra come l’attuale, guerra di religione, non c’è differenza tra il nemi­ co di fuori e il nemico di dentro. Non è lecito chiamare fratricida la lotta contro chi attenta alla vita e all’onore della Patria. Non è fratello infatti chi rinnega la Madre e le spara addosso.

Durante i seicento giorni di governo Rsi sui giornali si sviluppa lo scon­ tro tra moderati e intransigenti (insediati soprattutto nei fogli provinciali). Tra i primi Giorgio Pini, Bruno Spampanato, Concetto Pettinato, che uti­ lizzano giornali come «il Resto del Carlino», «Il Messaggero», «La Stam­ pa» per orientare in senso nazionalista unitario la politica della Rsi, vio­ lentemente rintuzzati dai seguaci di Pavolini e Farinacci. Una contrappo­ sizione che rimase irrisolta sino alla fine. Ma, al di là delle punte emergenti, dove vige l’illusione di un dibattito libero, la stampa subisce anch’essa la normalizzazione imposta dall’occupante, direttamente o tramite l’appara­ to del ministero della Cultura Popolare: gli scontri sull’idea di partito e di stato, sui contenuti della socializzazione e cosi via dovevano essere subor­ dinati alla questione chiave della collaborazione allo sforzo bellico della Ger­ mania. Mussolini, volente o nolente, era il garante di questa rotta, l’Italia fascista doveva seguire sino in fondo la Germania nazista. Vecchie e nuove interpretazioni. Occupazione militare del territorio e su­ bordinazione politica sono le coordinate entro cui i capi nazisti, e Hitler in particolare, decidono di dare vita alla Rsi. Lo spazio in cui possono muo­ versi i diversi e contrapposti gruppi fascisti e neofascisti, nonché Io stesso Mussolini, è delimitato e predeterminato in modo rigido e definitivo. Su questo aspetto non ci sono differenze sostanziali tra i vari centri di potere del Terzo Reich. La prevalente mancanza di autonomia della Rsi rispetto alla Germania nazista è quindi il dato strutturale imprescindibile per comprenderne l’ori­ gine, gli svolgimenti, le caratteristiche salienti. Il fatto che un tale stato fos­ se privo di sovranità - e di riconoscimenti in sede internazionale - non vuol

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dire che la Rsi non abbia svolto un suo ruolo storico, anche se esso non cor­ rispose a quanto Mussolini si prefiggeva con il suo ritorno sulla scena poli­ tica, alla guida dell’ultimo fascismo. Consapevole che la Germania doveva sfruttare al massimo le risorse umane e materiali italiane e avere piena libertà nella conduzione della guer­ ra, Mussolini cercò di «concentrare gli sforzi su quelle questioni che gli ap­ parivano in grado di assicurargli un minimo di autonomia politica» e «di dare una giustificazione storica alla Rsi» [De Felice 1997]. Sul primo punto lo sforzo maggiore venne condotto sul terreno ideolo­ gico: la Rsi si differenziava così dal nazismo e dallo stesso fascismo costretto al compromesso con la monarchia e le forze conservatrici; per il secondo Mussolini era convinto che il nuovo stato fascista dovesse schierare un pro­ prio esercito a fianco dei tedeschi. In entrambi i casi una finzione che con­ sentiva qualche margine di manovra ma non il protagonismo a cui il duce era abituato dall’epoca della sua militanza socialista, di qui il suo declino, stretto nella morsa degli eventi. Quale ruolo svolsero dunque la Rsi e il du­ ce nel contesto della guerra, dell’occupazione tedesca, e della guerra civi­ le ? Un nodo difficile da sciogliere per l’intreccio tra intenzioni e realizza­ zioni, realtà e immaginario, nonché rivelatore delle diverse opzioni degli in­ terpreti. Secondo Renzo De Felice, biografo del duce, tutto ruota attorno a una situazione di fatto, che esprimeva anche una temperie spirituale, un pas­ saggio d ’epoca prodotto dalla guerra e dai suoi esiti che Mussolini non sep­ pe cogliere, dimostrando di essere politicamente finito. Ne conseguiva che, tra i molti errori compiuti da Mussolini, tra il set­ tembre '43 e l’aprile '45, quello principale sarebbe stato di non aver capi­ to la condizione della «grande maggioranza degli italiani», che, ripiegati su se stessi, erano ormai sordi a ogni appello «patriottico» e «nazionale», privi di «qualsiasi interesse per la politica» [ibid.]. E un’interpretazione che rovescia le letture tradizionali della Resisten­ za, svuota e riduce a poca cosa la guerra civile e la stessa Repubblica di Salò. Sembra, per altro, del tutto in sintonia con il pessimismo crescente del du­ ce, il quale, avvicinandosi l’epilogo, sintetizza in breve quel che era succes­ so: «Siamo stati traditi dai tedeschi e dagli italiani». La storia di Salò si compendierebbe così in un duplice tradimento, perché gli uni hanno persegui­ to sino in fondo la propria storia senza badare all’alleato che avevano rimesso in campo, gli altri hanno cercato in ogni modo di sottrarsi, come è loro co­ stume, agli appuntamenti con la grande Storia verso cui il fascismo aveva inutilmente cercato di spingerli. Si può notare, forse più concretamente, che gli italiani cercavano di sot­ trarsi a un rapporto che l’ultimo fascismo presentava come una comunità di destino, in cui la Rsi incarnava una condizione di dipendenza e subal­ ternità, tu tt’altro che priva di connotati razziali. Questa era la situazione già a partire dai vertici del sistema di potere. Qui la posizione cruciale era quella del plenipotenziario Rudolf Rahn, il quale gestiva le relazioni tra il

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Reich e la Rsi, oltre che quelle dirette tra Hitler e Mussolini. Il terminale di Himmler era invece il generale delle SS Karl Wolff. I due perseguivano spregiudicatamente e autonomamente i propri obiettivi, realizzando tran­ sitorie alleanze contro altri centri di potere germanici in Italia, in primo luogo i vertici della Wehrmacht. Secondo Renzo De Felice, il duce temeva Rahn mentre cercava di appoggiarsi a Wolff, avendo compreso che il ple­ nipotenziario del Grande Reich non era disposto a concedere nulla di so­ stanziale, neppure per motivi tattici, alle velleità di autonomia della Re­ pubblica sociale. La sua condotta, da vero specialista nella gestione di ter­ ritori occupati, fu coerentemente ispirata all’obiettivo di ottenere il massimo dall’Italia con il minimo sforzo. Una politica che è stata così sintetizzata: Sostenere l’esistenza di una struttura minimale italiana, che era necessaria per sollevare la forza occupante tedesca da compiti troppo gravosi e al tempo stesso, proprio per meglio realizzare gli obiettivi dell’occupazione, dare qualche soddisfa­ zione foss’anche di solo prestigio a Mussolini, per rafforzarne il potere e l ’immagi­ ne nei confronti dell’opinione pubblica e attenuarne l’isolamento. [Collotti 1963].

La Rsi non doveva essere una pura e semplice finzione per poter svol­ gere il ruolo assegnatole; d’altra parte l’Italia doveva pagare duramente il tradimento e fornire il massimo possibile in termini di uomini e risorse al­ lo sforzo bellico della Germania. La memorialistica e la storiografia afasci­ sta sostengono che la Rsi riuscì a svolgere la funzione di scudo protettivo, sulla scorta dell’autolegittimazione fornita già all’epoca dai suoi capi. Que­ sto può essere vero nei confronti delle spinte puramente distruttive e re­ pressive che emergevano in determinati ambienti tedeschi, soprattutto mi­ litari. Dal punto di vista di una gestione efficace dell’occupazione c’era piut­ tosto una convergenza di fatto tra Salò e politica tedesca, corroborata dalla esplicita condivisione degli stessi nemici e delle stesse finalità. I margini di autonomia della Rsi furono ridotti e controllati; questo non impedì una quantità di manovre, ampiamente velleitarie, su più fronti, ali­ mentate dall’andamento della guerra, dalle divisioni interne del nemico e in definitiva dalla loro stessa inconsistenza. Per dare il giusto peso a vicen­ de che talvolta devono ancora essere indagate nei particolari non bisogna dimenticare che, per parte loro, i tedeschi non tenevano in alcun conto il governo e gli apparati dello stato socialrepubblicano allorché ritenevano uti­ le trattare e stipulare accordi con gli industriali, gli operai e le stesse for­ mazioni partigiane («tregue d’armi»). Una condizione difficile da accettare quanto impossibile da modificare e a cui l’apparato neofascista reagisce c ercando di mantenere in piedi la ri­ tualità burocratica, accompagnata sempre più dall’uso della forza di cui non aveva né il monopolio né, agli occhi dei più, la legittima titolarità. La rappresentazione della statualità, ridotta a simulacro violento e mor­ tifero, determina una situazione surreale, caratterizzata dal sovrapporsi di poteri tra loro incompatibili che coesistono nello stesso territorio su cui inu­ tilmente la Repubblica sociale cerca di far valere la sua sovranità.

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In realtà, solo la sfera ideologico-propagandistica consentiva un qualche spazio di autonomia; appena si usciva da essa il rapporto organico con la Germania, la più stretta collaborazione in vista del medesimo obiettivo, si imponeva con la forza delle cose. E significativa la conclusione a cui era pervenuto l’ingegnere Agostino Rocca, capo dell’Ansaldo, in un suo promemoria del novembre '43 sull’Organizzazione della produzione bellica: La soluzione più sem plice, rapida, efficace e m eno su scettib ile d i lunghe d i­ scussioni per organizzare la produzione bellica nazionale è di affidarne il com ando alle A utorità germ aniche, rinunciando ad una impresa difficile e grave per il futuro e irrisolvibile in m odo soddisfacente a breve scadenza [...]. Q u estion i d i su scetti­ bilità e di prestigio sem brano fuori luogo m entre è in gioco il destino del Paese e non dovrebbero contrastare una soluzione razionale.

Non meno del controllo diretto della Germania nazista sull’industria nazionale, le dimensioni del mercato nero, su cui si basa l’economia non mi­ litarizzata, sono un indicatore preciso dell’inconsistenza della Rsi come sta­ to, mentre la sua natura di governo di fatto dipendente dai tedeschi è ri­ velata dall’apporto che dà al prelievo della ricchezza nazionale come con­ tributo di guerra insindacabilmente gestito dall’«alleato germanico»: sette miliardi di lire al mese nel '43, saliti a dieci nel '44 e a dodici nel '45; a cui sono da aggiungere l’oro della Banca d ’Italia, il lavoro degli italiani alle di­ pendenze dei tedeschi in Germania e in Italia, il saccheggio delle risorse agricole, la produzione industriale bellica intensificata al massimo compa­ tibilmente con i bombardamenti e i sabotaggi. A giudizio di Gerhard Schreiber il «bottino di guerra» fatto in Italia fu molto più ricco di quello ottenuto dai tedeschi in qualsiasi altro paese. E non fu soltanto bottino di beni materiali. Per misurarlo occorre riportare interamente l’esperienza estrema di Salò all’interno della storia italiana con­ temporanea e in quella europea colta nel suo esito catastrofico, vale a dire l’esatto opposto di ciò che si è perseguito a livello di uso pubblico della sto­ ria nei decenni passati e che ora si vorrebbe sancire con la parificazione del­ le scelte compiute in buona fede. Nota bibliografica. F. Anfus o , Roma Berlino Salò 1936-1945.Memorie dell’ultimo ambasciatore del duce, Gar­ zanti, Milano 1950; L. Cajani e B. Mantelli (a cura di), Una certa Europa. Il collaborazioni­ smo con le potenze dell’Asse. 1939-1945, Annali della Fondazione Luigi M icheletti, n. 6, Bre­ scia 1994; E. Collotti, L ’Amministrazione tedesca dell’Italia occupata (1943-1945). Studio e documenti, Lerici, Milano 1963; F. W . Deakin, La brutale amicizia, I. Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo italiano (1962), Einaudi, Torino 1990; R. D e Felice, Mussolini l ’alleato. 1940-1945, II. La guerra civile (1943-1945), Einaudi, Torino 1997; D . Gagliani, Brigate ne­ re, Bollati Boringhieri, Torino 1999; L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Garzan­ ti, Milano 1999; G. Gentile, Ricostruire, in «Il Corriere della Sera», 28 dicembre 1943; R. Graziani, Ho difeso la patria, Garzanti, Milano 1950; L. Klinkhammer, L ’occupazione tede­

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sca in Italia (1943-1945), Bollati Boringhieri, Torino 1993; M. Legnani e F. Vendramini (a cura di), Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Angeli, Milano 1990; C. Pavone, Una guer­ ra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991; G. Pisano, Storia della guerra civile in Italia, f p e , Milano 1965; P. P. Poggio (a cura di), La Repubblica sociale italiana, Annali della Fondazione Luigi M icheletti, n. 2, Brescia 1986; E. Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Editori Riuniti, Roma 1967. Le fonti documentarie sulla Rsi sono molto disperse; materiali importanti si trovano al­ l’estero, particolarmente in Germania. Segnaliamo comunque due centri che possiedono docu­ mentazione rilevante. Presso l ’Archivio Centrale di Stato (Acs) di Roma è da vedere soprat­ tutto la documentazione della Segreteria Particolare del duce (Spd), per il periodo di Salò. Sempre all’Acs le carte del ministero della Giustizia, le carte della Presidenza del Consiglio, documenti della Gnr, della X Mas ecc. Presso la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia, oltre alla raccolta completa dei Notiziari della Gnr (e relativo spoglio analitico), si trova moltissi­ mo materiale di stampa e propaganda, nonché fondi archivistici minori.

GLORIA C H IA N E SE

Il Regno del Sud

I presupposti della formazione del Regno . Dopo 1’8 settembre x943 il Mez­ zogiorno ebbe una storia molto diversa dal resto d’Italia. Il trasferimento della monarchia a Pescara e, poi, a Brindisi e la formazione del Regno del Sud costituirono le premesse per la costituzione di un piccolo stato, che all’inizio includeva soltanto le quattro province di Brindisi, Bari, Taranto e Lecce e di fatto aveva poteri molto ridotti; esso però, configurandosi co­ me un interlocutore sia pure simbolico, sarebbe risultato assai utile per le­ gittimare la scelta dell’armistizio e, più in generale, per avvalorare la stra­ tegia .degli angloamericani in Italia. La vicenda del Regno del Sud va letta in rapporto ad ambiti molteplici: l’avanzata alleata nel Mezzogiorno; la bre­ ve, ma feroce, occupazione tedesca, che nel settembre 1943 fece conosce­ re alle popolazioni meridionali il sistema di terrore nazista; la continuità dello stato italiano, che trovò nell’istituto monarchico un supporto quanto mai efficace, la costituzione di un ceto politico che, attingendo a una cul­ tura prefascista e non antifascista, favori lo sviluppo del trasformismo nel­ la congiuntura dell’immediato dopoguerra. Se l’analisi si sposta dal piano politico-istituzionale a quello sociale, emer­ ge una società frammentata e disgregata che, conclusa l’esperienza della guerra, visse fino al 25 aprile 1945 una condizione di pace dimezzata. La vi­ ta quotidiana continuava a essere segnata dai disagi propri della guerra: il mercato nero, l’inflazione, la tragica carenza di abitazioni, ma nel medesimo tempo nascevano nuovi problemi in conseguenza dell’impatto con “l’alleato-nemico” angloamericano, i suoi comportamenti di sopraffazione e vio­ lenza, la cultura assai diversa da quella locale, di cui si era avuto qualche sentore attraverso l’emigrazione. Una realtà complessa, quindi, alla quale non sembra utile applicare la medesima periodizzazione del Nord. I “venti mesi” della Resistenza costi­ tuiscono un continuum attraverso cui maturò un’esperienza di rottura che cresceva in contrapposizione ai nazisti, alla Repubblica sociale, alla stessa ampia realtà della «zona grigia» e che culminò con la liberazione del 25 apri­ le 1945, restituendo a tutti gli italiani il diritto alla cittadinanza politica. L’esperienza del Regno del Sud, che si concluse con la liberazione di Ro­ ma il 4 giugno 1944, costituì la prima fase di un processo che vide rapida­ mente ricostituirsi un sistema di potere moderato. In questo ambito si af­

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fermarono culture politiche come il qualunquismo e il separatismo e si rafforzò la tradizione monarchica. Tutto ciò avrebbe influenzato profon­ damente il voto del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, che nel Mezzogiorno fu nettamente monarchico. Nel Sud la scadenza della libera­ zione acquisi un rilievo contenuto e fu intesa soprattutto come il ritorno al­ la pace per tutta l’Italia. In realtà il Nord restava lontano. Un discorso diverso va fatto per i partigiani meridionali che combatte­ rono nelle diverse formazioni della resistenza. Si trattava di soldati sban­ dati, che usufruirono della solidarietà della popolazione civile e scelsero, poi, la lotta armata. L’indagine storica inizia a indagare il loro contributo alla liberazione e c’è inoltre da osservare che, quando in gran parte torna­ rono al Sud, contribuirono, pur tra incomprensioni e diffidenze, allo svi­ luppo di una tradizione antifascista, raccordandosi in qualche modo a quan­ to avevano fatto, durante il regime, i confinati nelle regioni meridionali. Nel Regno del Sud la resistenza si sviluppò nelle settimane successive all’8 settembre 1943. Fu quindi un tempo breve, concentrato in pochi gior­ ni. C’è da dire che le forme di lotta antinazista vanno poste in rapporto con altri comportamenti di lotta maturati nell’ultima fase del conflitto e in par­ ticolare nel 1943, come gli assalti e i saccheggi ai forni e ai depositi di vi­ veri o il rifiuto generalizzato degli ammassi su cui Nicola Gallerano, ormai diversi anni fa, ha posto l’attenzione. Manifestazioni e scioperi si ebbero in occasione del 25 luglio 1943, si svilupparono, come d’altro canto in tut­ ta Italia, intorno al tema della pace. E ancora nei “quarantacinque giorni” ci furono manifestazioni più prettamente politiche, spesso ferocemente re­ presse in base alle disposizioni della circolare Roatta. Dopo l’8 settembre 1943 l’elemento nuovo fu il rapido “farsi nemico” dei tedeschi. Durante il conflitto, anche nell’ultima fase, l’insofferenza ver­ so i nazisti era un fenomeno molto contenuto, connesso in qualche modo all’ampia disponibilità di viveri di cui usufruivano le truppe naziste. Con­ tinuava invece a prevalere l’immagine del tedesco/soldato che aveva una funzione rassicurante. Dopo l’armistizio il mutamento fu brusco e l’occupazione nazista costi­ tuì una tragica coda del conflitto soprattutto in quelle zone, come il Caser­ tano, dove l’esperienza dei bombardamenti era stata, fino ad allora, molto parziale. L’esercito angloamericano risaliva lentamente il Mezzogiorno. Suc­ cessivamente alla liberazione della Sicilia il 3 settembre 1943 scattò l’ope­ razione Baytown in cui fu impegnata PVIII armata inglese che rapidamen­ te giunse a Catanzaro-Nicastro e poi si diresse verso la Puglia occupando Foggia, strategicamente importante per l’utilizzazione dell’aeroporto mili­ tare. L’operazione Avalanche, che iniziò l’8 settembre con lo sbarco a Saler­ no, trovò invece un’accanita resistenza da parte dei nazisti, che dapprima persero e, poi, riconquistarono Battipaglia. Soltanto il 16 settembre la V armata americana potè ricongiungersi all’V ili armata inglese. L’esercito an­ gloamericano occupò il 22 settembre Bari e il i° ottobre Napoli, da cui i

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tedeschi si erano ritirati dopo l’insurrezione delle Quattro giornate; il 3 ot­ tobre fu liberata Benevento. Poi iniziò la battaglia del Volturno che coinvolse l’area di Terra di Lavoro nel Casertano. Qui i nazisti si attestarono lungo successive linee di difesa: Viktor, Barbara e Bernhardt. E in questa zona si dispiegò pienamente il sistema del terrore nazista. Ventisette furono gli eccidi contro la popolazione civile. In Campania operavano la 15“, i6a e 29“ divisione Panzergrenadier, la i6a di­ visione corazzata, la divisione corazzata Gòring e il 66° Panzerkorps. Il 5 ot­ tobre Caserta fu liberata dagli alleati e i l i 2 e i l i 3 s i ebbe la battaglia del Vol­ turno. I nazisti spostarono la difesa lungo la linea Barbara tra il Volturno e il Garigliano. Ancora più dura fu la fase successiva in cui vennero impegnati la V armata e il X corpo d’armata britannico. La linea Barbara cadde soltanto al­ la fine del 1943. I momenti più aspri furono la battaglia per la conquista del Monte Camino (2-10 dicembre) e l’assalto a Monte Lungo (8-17 dicembre). A metà gennaio 1944 la V armata si attestò lungo la linea Gustav. La «Resistenza breve». Gli eccidi e le rivolte. Questo il quadro militare, ma in realtà furono le popolazioni civili a essere coinvolte nella escalation finale del conflitto. Nell’area casertana su un totale di 2274 civili morti e dispersi, di cui 709 trucidati, 2023 furono uccisi dopo l’8 settembre 1943. Vi fu una serie di «massacri ordinari» che rimandano alla configurazione del sistema di violenza nazista nell’Italia occupata. L’eccidio di Caiazzo del 13 ottobre 1943, in cui furono massacrati ventitré contadini accusati di aver fatto segnalazioni luminose agli alleati dai casolari in cui si erano rifugiati, è diventato il simbolo degli eccidi nazisti nel Mezzogiorno. In questo caso è stato possibile realizzare una forma di giustizia postuma, promuovendo il processo contro il responsabile della strage Wolfang L. Emden, comandante di plotone della III compagnia 290 Panzergrenadier Regiment, anche se sul piano giuridico ci si è dovuti fermare di fronte ai limiti assolutori della le­ gislazione tedesca sui crimini di guerra. Nel Mezzogiorno gli eccidi si ebbero principalmente in Terra di Lavo­ ro e nel Napoletano e sortirono l’effetto di far maturare l’odio contro i te­ deschi. Di fronte alla ferocia nazista la popolazione mise in atto strategie di sopravvivenza, di protezione della propria famiglia e della “roba” - la casa, gli animali, il podere - che tentava di sottrarre alle razzie, ai saccheg­ gi, alle devastazioni. Gli eccidi e le fucilazioni di singoli cittadini avveni­ vano in molti casi proprio perché i civili erano ritenuti responsabili di non aver consegnato viveri e bestiame. Le case e le masserie venivano saccheg­ giate e incendiate. In questo ambito rientravano alcuni comportamenti di ribellione con­ tro l’interminabile serie di soprusi, che scatenavano l’ulteriore reazione dei nazisti. Questa ad esempio fu la dinamica della strage di Bellona, in pro­ vincia di Caserta, il 7 ottobre 1943. Un soldato della Wehrmacht venne uc­ ciso dal fratello di una ragazza che aveva tentato di violentare. Per rappre­ saglia furono sterminati cinquantaquattro civili.

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Anche nel Napoletano si verificarono^ ripetuti massacri che rientrano nella tipologia che abbiamo menzionato. E il caso delle stragi di San Roc­ co - Marianella, Bacoli, Acerra, Giugliano, Marano, per ricordare gli epi­ sodi più significativi. Ma vi furono anche situazioni diverse. A Nola, ad esempio, dieci ufficiali del 48° reggimento artiglieria vennero fucilati l’n settembre 1943 perché il giorno precedente vi erano stati scontri in cui era caduto un militare tedesco. L’episodio è un esempio della tipologia di «guer­ ra patriottica» che Claudio Pavone ha individuato come una delle forme di resistenza antinazista. In Campania vi furono altri esempi analoghi. Il ge­ nerale Ferrante Gonzaga, comandante della 22“divisione costiera a Buccoli di Conforti, in provincia di Salerno, rifiutò di consegnare le armi e fu im­ mediatamente fucilato; lo stesso avvenne per Michele Ferraiuolo, coman­ dante del x6° reggimento costiero di stanza a Maddaloni. Da ricordare inol­ tre la fucilazione di sedici carabinieri ad Aversa il 16 settembre 1943, che avevano tentato di difendere il Palazzo dei telefoni di Napoli; vennero uc­ cisi insieme a due civili rastrellati. Mi sono soffermata sui massacri in Campania perché questa regione vis­ se più intensamente, anche se per un tempo breve, gli effetti dell’occupa­ zione nazista, ma le pratiche di sterminio coinvolsero anche le altre regio­ ni del Sud. In Basilicata, ad esempio a Rionero in Vulture, in provincia di Potenza, il 16 settembre 1943 due civili furono uccisi dai nazisti che spa­ ravano sulla folla che aveva assalito un deposito di viveri militare. Il 24 ven­ nero fucilati diciassette ostaggi per rappresaglia contro il ferimento di un soldato tedesco, si salvò soltanto un giovane perché creduto morto. Il mas­ sacro non può essere isolato dai fermenti che maturavano nel contesto regio­ nale e che avevano portato, già nell’agosto, alla costituzione della «repub­ blica contadina e antifascista» di Maschito e soprattutto alla rivolta di Mater a del 21 settembre. Infine la Puglia. Qui le province più duramente provate furono Bari e Foggia. Episodi di violenza nazista si susseguirono in una miriade di centri della provincia di Bari: Alberobello, Noci, Altamura, Andria, Spinazzola, Corato, Gravina di Puglia, Trani, Bisceglie. A Bari il generale Bellomo ri­ fiutò la resa della guarnigione italiana e organizzò la difesa della città e in particolare del porto. A Barletta l’n settembre 1943 la locale guarnigione si oppose all’assedio tedesco e vi furono scontri. Il 12 reparti della divisio­ ne Gòring occuparono la cittadina e undici vigili urbani e due netturbini vennero fucilati per rappresaglia. Segui un’accurata caccia all’uomo in cui furono uccisi venti civili. Furono inoltre fatti prigionieri i duemila milita­ ri del presidio. Nell’insieme l’occupazione nazista, breve a confronto con i “venti me­ si” del Nord, segnò una profonda cesura con la precedente esperienza del conflitto. Un nemico ravvicinato e terribile applicava una strategia di siste­ matica distruzione del territorio in cui rientrava il tragico susseguirsi di sac­ cheggi, razzie, evacuazioni coatte, rastrellamenti, massacri. In questo sce­ nario si collocavano i comportamenti di lotta delle popolazioni meridiona­

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li. Il Sud ebbe una sua breve e intensa Resistenza che avrebbe lasciato nella memoria collettiva qualche traccia e molte rimozioni. Roberto Battaglia si sofferma sull’importanza delle rivolte nel Sud e co­ si ne scandisce il percorso: Dalla fine di settembre alla prima metà di ottobre s’accende fino a che il fron­ te non si ferma e si consolida a Cassino, quest’ignorata rivolta del mezzogiorno che ha come momenti culminanti le quattro giornate di Napoli (28 settembre / i ° otto­ bre) e le tre giornate di Lanciano (4-6 ottobre). Ma non bisogna dimenticare Matera, che il 21 settembre si libera fulmineamente del tedesco e S. M. Capua Vetere e tutta la Terra di Lavoro con i suoi cinquecento morti di questi giorni. [1964, p. 129].

La rivolta di Matera precedette cronologicamente tutte le altre. L’in­ surrezione, come si è già detto, seguiva l ’eccidio di Rionero in Vulture. An­ che a Matera la rivolta si collocava in un clima di crescente insofferenza del­ la popolazione civile contro i soprusi dei nazisti, divampò infatti dopo l ’en­ nesimo episodio di rapina in una gioielleria del centro cittadino e vide la partecipazione di militari dell’esercito e della Guardia di finanza. L’uffi­ ciale Francesco N itti, rimasto a presidiare il comando di sottozona, distri­ buì armi agli insorti. Gli scontri si propagarono in tutta la città e un ruolo di leader fu svolto da Emanuele Manicone. I civili uccisi furono ventidue, i nazisti due. Le Quattro giornate di Napoli diventarono rapidamente il simbolo di una città che attraverso una ribellione spontanea si liberava dai nazisti pri­ ma dell’arrivo degli angloamericani. N e parlarono Radio Londra e Radio Bari e la rivista «Life», nel numero 19 del novembre 1943, si soffermava sull’insurrezione proponendo un falso di Robert Capa, in cui era riprodot­ ta l ’immagine di un ragazzo con elmetto e cartuccera, colto davanti a un’iscrizione murale antifascista di chiaro stampo badogliano. L’insurrezione napoletana vide un’ampia partecipazione popolare, an­ che in questo caso motivata dalla necessità di difendersi e reagire al siste­ ma di terrore nazista. L’evacuazione della zona costiera, i rastrellamenti de­ gli uomini successivi ai bandi del colonnello Scholl, la distruzione sistema­ tica delle fabbriche e del porto costituiscono una premessa importante per comprendere i comportamenti della popolazione civile. La rivolta napole­ tana fu inoltre il momento conclusivo di una fitta trama di rivolte che si pro­ pagarono dopo l ’8 settembre nel Napoletano. Gli insorti operarono separa­ tamente nelle varie aree della città e si costituirono comandi locali che, nei quattro giorni della rivolta, non riuscirono a formare un comando unificato. Sul carattere spontaneo delle Quattro giornate, sulla sua configurazio­ ne di rivolta soltanto antinazista o anche antifascista c ’è stata una lunga querelle storiografica. In realtà i moti nacquero spontaneamente, ma nel cor­ so degli eventi maturarono processi di organizzazione non soltanto popo­ lare, ma anche militare, che la rendono, per alcuni aspetti, comparabile con le più mature forme di resistenza del Centro-nord.

Nel 1945 fu istituita una commissione per il riconoscimento della qua­

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lifica di partigiano ai patrioti napoletani presieduta da Antonino Tarsia in Curia, uno dei protagonisti dell’insurrezione. Ma i fascicoli personali dei combattenti attendono ancora un paziente lavoro di indagine, pur costi­ tuendo una fonte preziosa per indagare le ragioni della scelta partigiana. Claudio Pavone ha ribadito che una motivazione forte nasceva dal bisogno di difendere una propria realtà vicina e domestica: La piccola patria la si sentiva minacciata in modo più immediato di quanto lo fos­ se la grande patria, l’Italia e le motivazioni a cui bisognava ispirarsi nell’impugnare le armi non sempre erano immediatamente trasferibili sul piano dei grandi ideali di redenzione politica e umana [...]. Le Quattro Giornate di Napoli che in tutte le sto­ rie della resistenza vengono ricordate come il glorioso episodio aurorale hanno un significato davvero esemplare della lotta prò aris etfoch. [Pavone 1991, pp. 138-39].

La rivolta di Lanciano, la terza ricordata da Battaglia, durò dal 4 al 6 ottobre 1943 e fu ferocemente repressa dai nazisti. La cittadina sarebbe stata liberata dagli alleati soltanto nel dicembre condividendo la generale situazione dell’Abruzzo, dove la battaglia del Sangro ebbe tempi lunghi che prolungarono l’occupazione nazista. Furono presi d’assalto alcuni camion della Wehrmacht; dopo la feroce uccisione del partigiano Trentino La Bar­ ba, che aveva diretto l’azione, la rivolta si propagò in tutta la cittadina, di antica tradizione antifascista. Ebbe le caratteristiche consuete: una forte partecipazione popolare, l’attiva presenza di soldati e ufficiali - un ruolo importante fu svolto dal generale Mercadante -, elevate capacità di autorganizzazione armata. La città fu incendiata e in gran parte distrutta, mori­ rono ventisette lancianesi. Sulla rivolta è stato espresso da Giorgio Bocca un giudizio di inopportunità, contestato da alcuni storici, come Enzo Santarel­ li e Costantino Felice, che hanno effettuato una diversa lettura inserendo la rivolta di Lanciano nella complessiva vicenda della resistenza abruzzese. Infine sono da ricordare le rivolte nel Casertano. Qui le tipologie sono molteplici e vanno poste in stretto rapporto con la lunga sequenza di ecci­ di e violenze che si susseguirono in Terra di Lavoro. La realtà più signifi­ cativa fu Santa Maria Capua Vetere dove vi furono accurati rastrellamen­ ti effettuati dalla i6 a Panzer Division. Un tedesco rimase ucciso e venti­ cinque cittadini furono presi in ostaggio. Dal 16 al 26 settembre si ebbero ripetuti tentativi d’assalto alla caserma dei carabinieri di San Prisco. Il 27 iniziarono gli scontri tra nazisti e insorti riportati anche nel diario di guer­ ra della i6 adivisione, come ha segnalato Lutz Klinkhammer. Seguì, il 5 ot­ tobre, la vera e propria insurrezione a cui parteciparono civili e carabinie­ ri. Nel corso della rivolta fu ucciso il collaborazionista Emilio Liguori e vi furono altri tentativi di caccia ai fascisti. La memoria della rivolta di Santa Maria Capua Venere ha avuto aspet­ ti contraddittori. In primo luogo l’episodio è stato a lungo rimosso e, poi, nel corso degli anni cinquanta, fu istruito un processo contro alcuni parte­ cipanti che vennero in seguito assolti. Osserva Giuseppe Capobianco, at­ tento studioso della resistenza nel Casertano:

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Lo scontro a fuoco di piazza Mazzocchi e la cattura dei tedeschi diventano ope­ ra esclusiva dei carabinieri, mentre i patrioti diventano «facinorosi» che hanno com­ piuto solo «episodi decisamente criminosi». [1995, p. 129].

In sintesi per il Mezzogiorno è opportuno parlare di «Resistenza bre­ ve», che si configura come un processo composito, ricco di fermenti nuo­ vi, con alcuni tratti caratteristici: l’impossibilità per la popolazione civile di subire in toto la strategia del terrore nazista, la dimensione di rivolta spon­ tanea, lo sviluppo di forme di organizzazione armata. Si trattò comunque di un’esperienza molto breve, che venne vissuta come una sorta di tragico epilogo della guerra. Su questo versante vi è una differenza profonda con il Centro-nord dove la Resistenza si configura anche come tentativo di “far­ si stato”, che maturava sia all’interno della banda partigiana, sia attraver­ so i vari istituti, tra cui in primo luogo i Comitati di liberazione nazionale (Cln), i quali mediavano il rapporto tra società civile e lotta armata. Non a caso la «Resistenza breve» del Mezzogiorno sedimentò una scarsa me­ moria storica e contribuì in misura limitata allo sviluppo di identità politi­ che collettive. Sarebbero state piuttosto le lotte contadine contro il latifon­ do a costituire 1’“evento” intorno a cui si sarebbe costruita una tradizione politica. Il governo alleato e la monarchia. L’occupazione nazista chiudeva l’espe­ rienza della guerra; l’avanzata angloamericana iniziava una nuova e diver­ sa fase. Nel Sud la guerra era terminata, ma il conflitto continuava nel pae­ se e nel mondo e la vita quotidiana stentava a uscire da un clima di ecce­ zionalità. L’elemento nuovo era la presenza del governo militare alleato, l’Amgot, entrato in funzione il 10 luglio 1943, il primo giorno dell’inva­ sione in Sicilia. Dopo la costituzione del Regno del Sud le province di Lec­ ce, Taranto, Brindisi e Bari passarono sotto la giurisdizione italiana e fu istituita la Commissione di controllo. Nel gennaio 1944 i due organismi si fusero e il Mezzogiorno fu suddiviso in varie Regions. Il 10 febbraio 1944 passarono all’amministrazione italiana la Sicilia, la Sardegna e i territori a sud della linea Salerno-Potenza-Bari, territori sui quali la Commissione di controllo alleata (Acc) svolgeva un’azione di rigido controllo. Il 20 luglio 1944 furono restituite allo stato italiano tutte le province liberate a ecce­ zione di Napoli città. Sul piano strategico la scelta di effettuare la campagna d’Italia aveva avuto un significato diverso per inglesi e americani. Per i primi essa s’inse­ riva in un progetto di controllo del Mediterraneo perché si riteneva che, una volta conquistata rapidamente l’Italia, ci si potesse poi indirizzare ver­ so i Balcani contenendo l’avanzata sovietica; per i secondi, in particolare per Roosevelt, il fronte italiano aveva un’importanza secondaria di fronte all’obiettivo dello sbarco in Normandia. E in realtà gli inglesi ebbero un ruolo privilegiato. Harold Alexander fu nominato comandante in capo del­ le forze alleate in Italia, mentre Wilson subentrò a Eisenhower nominato

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comandante supremo delle forze d’invasione dell’Europa continentale. La direzione effettiva dell’Acc passava all’inglese MacFarlane, poi, provviso­ riamente, all’americano Ellery W. Stone e infine, nel novembre 1944, all’in­ glese Harold Macmillan. L’Acc era suddivisa in subcommìssions, a loro vol­ ta articolate in sezioni, ma continui furono i mutamenti e le ristrutturazio­ ni nel sistema di governo alleato. L’obiettivo generale era di garantire una condizione di stabilità sociale nei territori progressivamente liberati per non intralciare in alcun modo le operazioni belliche. In primo luogo si cercava di assicurare alla popolazione civile un livello minimo di sussistenza per evi­ tare o contenere le proteste popolari, anche se tale obiettivo si dimostrò quanto mai difficile. Al contrario, in una prima fase dell’occupazione an­ gloamericana il problema della carenza alimentare divenne ancora pili acu­ to dell’ultimo anno di guerra. Medesimo discorso per la riattivazione di pon­ ti e strade, per il rapido ripristino delle centrali elettriche e della rete idri­ ca e, ancora, per i numerosi interventi sanitari realizzati per impedire che i militari alleati fossero contagiati dalle diverse epidemie che si diffonde­ vano a causa delle drammatiche condizione igieniche, come ad esempio il tifo a Palermo e Benevento e il tifo petecchiale a Napoli. L’obiettivo della stabilità sociale condizionava inoltre la scelta degli in­ terlocutori politici e sociali; si voleva infatti garantire la fuoriuscita dal fa­ scismo senza che ciò implicasse mutamenti radicali. In questo ambito si col­ locava il rapporto tra governo alleato e mafia che era già emerso durante l’occupazione in Sicilia. Il saggista Michele Pantaleone ha sostenuto che l ’ap­ porto mafioso fu decisivo anche ai fini del successo militare e ha sottoli­ neato il ruolo di personaggi come Lucky Luciano e Vito Genovese. Ma la mafia entrò in scena soprattutto dopo lo sbarco in rapporto al controllo so­ ciale del territorio. Assai numerosi furono i sindaci mafiosi insediati dagli alleati perché erano popolari, autorevoli e potevano addirittura in qualche caso ammantarsi di un alone di vittimismo antifascista. Il caso più noto fu quello del mafioso Calogero Vizzini, designato sindaco di Villalba dal te­ nente americano Beehr.

Ma prima di proseguire il discorso bisogna analizzare il ruolo di un al­ tro attore che intervenne sulla scena politica del Mezzogiorno, anche se si tratta di una comparsa piuttosto che di un protagonista, vale a dire il re con il suo governo Badoglio, pienamente legittimati dagli alleati. In particolare gli inglesi ritenevano che la monarchia fosse l’istituto più idoneo a garanti­ re una transizione indolore dal fascismo e che perciò fosse necessario con­ solidarla, nonostante avesse condiviso le responsabilità del regime. Nei giorni successivi l ’armistizio dell’8 settembre 1943 si svolse la trat­ tativa per la definizione del cosiddetto «armistizio lungo», firmato il 29 set­ tembre, che comportò clausole molto onerose. Il 13 ottobre l’Italia dichiarò guerra alla Germania e il suo status di cobelligerante fu riconosciuto da Sta­ ti Uniti, Inghilterra e Urss. La monarchia e il governo Badoglio uscivano rafforzati perché si presentavano come i garanti di una netta presa di di­ stanza dell’Italia dall’ex alleato nazista. Il risultato era importante soprat­

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tutto sul piano diplomatico; fu cosi costituito il I raggruppamento moto­ rizzato che partecipò alla battaglia di Montelungo. In precedenza era stato frustrato ogni tentativo di costituire gruppi di volontari antifascisti. Su pressione di Badoglio e degli stessi comandi allea­ ti, soprattutto inglesi, era fallito il tentativo, promosso dal generale Pavone, di costituire i Gruppi combattenti d’Italia, d’ispirazione repubblicana. In realtà la scelta di continuare la guerra a fianco dei nuovi alleati in­ contrò scarsissimo consenso tra la popolazione civile per la quale la presen­ za degli angloamericani significava in primo luogo la sospirata realizzazione della pace. Nessuno avrebbe mai pensato, né tanto meno desiderato rico­ minciare a combattere. La guerra contro i tedeschi era un affare che riguar­ dava l’esercito alleato, non i civili italiani e neppure le migliaia di soldati sbandati che, dopo P8 settembre, cercavano di tornare a casa. Lo status di cobelligerante influenzò infine la condizione dei prigionieri nei paesi diven­ tati alleati dopo l’armistizio. I soldati italiani potevano scegliere di diventa­ re cooperatori e di essere inseriti nelle unità ausiliarie dell’esercito angloa­ mericano. In ogni caso il Regno del Sud era una realtà; la monarchia era stata le­ gittimata dagli alleati e continuava nella strategia di garantire la propria sopravvivenza attraverso il superamento non traumatico del fascismo, stra­ tegia che aveva avviato con il 25 luglio e con la gestione autoritaria e re­ pressiva dei «quarantacinque giorni». Nel Mezzogiorno il consenso al so­ vrano cresceva assai rapidamente fino a configurarsi come un vero e pro­ prio mito che si andava sostituendo a quello di Mussolini. Le figure del re e dei diversi componenti di Casa Savoia - e anche del ramo cadetto dei d’Aosta - erano infatti ben presenti nell’immaginario collettivo continuando una tradizione di devozione al sovrano molto radicata. Nella tipologia di rapporto tra monarchia sabauda e Mezzogiorno emerge in primo luogo il concetto di fedeltà verso il monarca, il quale incarnava l’ordine sociale esi­ stente, gerarchico e ingiusto, e nel medesimo tempo svolgeva una funzione di protezione garantendo i livelli di sussistenza dell’intera popolazione. Nel sentimento di devozione verso il re vi era l’antico retaggio del rapporto tra suddito e monarca assoluto, ma in un contesto in cui il rapporto di prote­ zione sembrava sussistere prevalentemente sul terreno dell’immaginario col­ lettivo piuttosto che su problemi ed emergenze concrete. In questo gioca­ va anche un certo ridimensionamento che la figura del sovrano aveva co­ nosciuto durante il regime, quando era stata in qualche modo appannata dal mito di Mussolini. La figura del re diventava, per cosi dire, metatem­ porale, e ciò contribuiva ad assolvere la monarchia dalla lunga conniven­ za con il regime e dalla corresponsabilità nella scelta di entrare in guerra a fianco della Germania nazista. Nella transizione postfascista il sentimento di devozione verso il re con­ viveva agevolmente con la carenza di ogni autorità statale. Il Regno del Sud era privo di autorevolezza, il governo alleato sussumeva tutte le funzioni proprie di uno stato configurandosi fino in fondo come strumento di go­

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verno di un esercito di occupazione. Ciò contribuiva a far maturare una cri­ si profonda del sentimento di identità nazionale; si diffondevano culture politiche come la qualunquista e la separatista che mettevano in discussio­ ne l’idea di patria unitaria, si ponevano in contrapposizione con l’istanza antifascista e ben esprimevano lo stato di frammentazione e disgregazione della società civile. Sul piano dell’analisi politico-istituzionale è possibile giungere a qual­ che prima conclusione. Il Regno del Sud garantiva attraverso la continuità dell’istituto monarchico che non vi fossero cesure brusche, anche perché le esperienze resistenziali che, pure, si erano avute nel Mezzogiorno, erano state troppo brevi perché potesse maturare l’idea di uno stato in nuce, al­ ternativo al terrore nazista e al collaborazionismo fascista. La strategia di stabilità sociale perseguita con tenacia dal governo alleato contribuiva a fa­ re emergere in tempi rapidi un ceto politico postfascista e non antifascista. Una chiave di lettura di tale processo è data dalla disamina del rapporto tra monarchia, governo Badoglio e forze antifasciste, ma anche dall’analisi dei limiti intrinseci dei gruppi d’opposizione. Essi con decisione rifiutavano ogni forma di collaborazione con il governo, anche nel caso delle forze li­ berali e demolaburiste, decise peraltro a salvaguardare la permanenza del­ l’istituto monarchico. E tale posizione fu mantenuta anche dopo la costi­ tuzione del secondo gabinetto Badoglio, il 17 dicembre 1943, il cosiddetto «governo dei sottosegretari». I Cln meridionali. Al I Congresso dei Cln dell’Italia liberata (Bari, 2829 gennaio 1944), che sancì l’egemonia di Benedetto Croce, fu ribadita la necessità di giungere all’abdicazione del sovrano e di rifiutare qualsiasi for­ ma di collaborazione con il governo. Nel congresso fu eletta la Giunta ese­ cutiva che operò fino al maggio 1944. L’opposizione antigovernativa in­ fluenzò tutti i Cln meridionali che ebbero in comune, come limite intrin­ seco alla loro genesi, l’essere nati non durante, ma dopo la liberazione del Sud. Su di essi appare puntuale il giudizio di Guido Quazza: La storia del Cln diventa nel Mezzogiorno quasi esclusivamente la storia della battaglia di principio prò o contro l’abdicazione del re. I comitati sono organi di una lotta che si combatte senza preciso riscontro con l’opinione pubblica e senza soste­ gno di concrete forze da contrapporre a quelle tradizionali del governo regio, ormai in ripresa, e a quelle di gran lunga dominanti degli alleati [...]. I Cln sono profeti disarmati e, per di più, in disaccordo sul grado di intransigenza da mantenere in me­ rito al problema istituzionale. [1966, p. 21].

I Cln del Sud si configuravano come strutture poco autorevoli in cui spesso sorgevano conflitti tra i diversi raggruppamenti politici. Talora, so­ prattutto nelle piccole realtà, nascevano più Cln, ognuno dei quali cercava di essere legittimato; talora al loro interno s’inserivano personaggi che ave­ vano aderito al fascismo, alla ricerca di una nuova identità politica. Le due esperienze più significative furono quelle di Napoli e Bari che,

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comunque, operavano in un contesto difficile in cui facilmente potevano essere emarginate. Il Cln napoletano ebbe vita stentata, segnata da conflit­ ti interni, che si accentuarono dopo la svolta di Salerno. Entrò in crisi, an­ che nella realtà partenopea, il rapporto tra Pei, Pda e Psi che si ricompose soltanto dopo una travagliata discussione. In realtà la fase più fertile del Cln napoletano fu quella successiva alla conclusione del Regno del Sud per­ ché, con il trasferimento del governo a Roma, il comitato accentuò il suo carattere di organismo locale che, pur influenzando soltanto assai parzial­ mente gli equilibri politici, cercava di svolgere un ruolo di stimolo nella città. Diverso il caso di Bari. Qui il Cln fu influenzato maggiormente dalla componente azionista di cui esponenti di rilievo erano Tommaso Fiore e Michele Cifarelli; avverti inoltre lo stimolo di una componente più imme­ diatamente legata alla tradizione del radicalismo salveminiano, di cui il prin­ cipale esponente fu Vincenzo Calace. I Cln meridionali erano nell’insieme strutture deboli, ma il loro ruolo non fu nullo perché, comunque, furono espressione di una cultura politica ricca di fermenti nuovi che si ricollegava all’antifascismo e alla Resistenza e che, in quanto tale, acquisiva una valenza nazionale e non più soltanto lo­ cale. Questo elemento conviveva con lo scarso potere reale dei comitati che potevano, in talune occasioni, trasformarsi in luoghi dove maturavano ope­ razioni di segno trasformista. Tale complessità di aspetti rifletteva il più ge­ nerale clima politico del Mezzogiorno in cui, accanto al rapido affermarsi di istanze moderate e restauratrici, non mancavano segnali e fermenti in­ novativi. I «mass m edia»: le radio libere e la stampa. U n’ulteriore verifica è data dall’esperienza delle radio libere attivate dopo l’arrivo degli alleati. Sotto­ poste all’accurato controllo dello Psychological W arfare Branch (Pwb), Ra­ dio Bari e Radio Napoli furono luoghi in cui convergevano esperienze quan­ to mai significative. In particolare a Radio Bari potè operare, in conseguenza dell’impostazione aperta e vivace impressale dal maggiore Jan Greenlees del Pwb, un gruppo di giovani azionisti - tra cui Michele Cifarelli, Vittorio Fio­ re, Domenico e Nicola Pastina - che conviveva con i giornalisti di tenden­ za moderata alle dipendenze dell’ufficio stampa del Comando supremo. Ra­ dio Bari creò un vero e proprio palinsesto con trasmissioni assai popolari. La più famosa fu «Italia combatte», ma vanno menzionate anche altre, co­ me «La Voce dei lavoratori» e «La Voce dei giovani». Non mancarono però episodi di censura come il secco divieto, voluto direttam ente dal generale Alexander, di trasmettere servizi sul I Congresso dei Cln dell’Italia liberata. L ’em ittente cessò la sua attività su pressione del comando alleato nel marzo 1944. Buona parte del personale si trasferì nel capoluogo parteno­ peo e iniziò l’esperienza di Radio Napoli, rigidamente controllata dagli angloamericani. La radio napoletana diede minor spazio alle voci antifa­ sciste, talora emersero toni qualunquisti, ma fu comunque un laboratorio

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interessante soprattutto per la capacità di aggregare forze intellettuali mol­ to vivaci. Il Pwb esercitava una rigida censura anche sulla stampa; nessun giorna­ le poteva essere pubblicato senza autorizzazione del comando alleato che seguiva una politica fortemente restrittiva. Il 4 ottobre 1943 usciva «Il Risorgimento» che unificava le tre testate di «Roma», del «M attino» e del «Corriere di Napoli». In una prima fase vi furono due direttori: Paolo Scarfoglio ed Emilio Scaglione - il primo mo­ narchico, il secondo repubblicano - , che convissero soltanto qualche mese. Il 13 marzo 1944 subentrò, su suggerimento di Benedetto Croce, Floriano Del Secolo. La forte influenza del comando alleato si avvertiva costantemente, in particolare negli editoriali e in genere nella prima pagina. Dopo un po’ aumentò il numero delle pagine che passarono a quattro; ciò in qual­ che modo permise sia di dare maggiore voce alla città attraverso la cronaca locale sia di aggiungere la pagina culturale. Al giornale collaboravano figu­ re come Benedetto Croce, Guido Dorso, Adolfo Omodeo, Vincenzo Arangio Ruiz, Francesco Flora. Gli alleati avevano invece soppresso il giornale «La Barricata», pubbli­ cato durante le Quattro giornate e diretto da Alfredo Parente, che era stato “la voce” dell’insurrezione partenopea. Vita difficile ebbero anche gli altri giornali come «l’Unità», edizione meridionale, edito nel dicembre 1943 con frequenza settimanale, e «L’Azione», sempre edizione meridionale, edito nel marzo 1944. Un’esperienza interessante fu la testata «Battaglie Sindacali», organo della Confederazione generale del lavoro, in cui operavano azioni­ sti e comunisti dissidenti verso la politica togliattiana di unità nazionale. A Salerno erano pubblicati, tra gli altri, «L’Ora del popolo», settima­ nale della De che assunse particolare importanza dopo la svolta di Salerno, e «Il Soviet», periodico della locale federazione comunista che fu chiuso perché usciva senza autorizzazione. Ad Avellino è da segnalare «Italia Li­ bera», organo del Comitato irpino del fronte nazionale di liberazione, che di fatto era gestito da Guido Dorso. In seguito a dure polemiche antimo­ narchiche, in occasione del passaggio in città del I raggruppamento moto­ rizzato, gli alleati ne decisero la soppressione e il periodico potè riprende­ re le pubblicazioni soltanto nel 1945. In Puglia «La Gazzetta del Mezzogiorno» riuscì in quei mesi convulsi a non interrompere mai le pubblicazioni. Il giornale venne accusato di aver favorito la manifestazione del 28 luglio '43, in cui l’esercito sparò sui di­ mostranti provocando venti morti e oltre settanta feriti e fu arrestato il ca­ poredattore Luigi De Secly. Con l’arrivo degli angloamericani il quotidia­ no divenne “la voce” del comando alleato in un contesto in cui la stampa continuava a essere fortemente censurata sia dal governo badogliano che dal Pwb. Nonostante ciò si moltiplicarono le nuove testate fra cui l’azioni­ sta «L’Italia del popolo», la comunista «Civiltà proletaria», la democristia­ na «Il Risveglio» e, ancora, «L’Idea liberale», organo del partito liberaldemocratico, che agì in costante polemica con il Cln di Bari.

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La situazione della stampa nel Regno del Sud appariva abbastanza uni­ forme. Testate significative e di antica tradizione come «Il Risorgimento» e «La Gazzetta del Mezzogiorno» erano di fatto organi di propaganda del governo alleato, mentre le altre pubblicazioni antifasciste erano fortemen­ te penalizzate dalla censura angloamericana e prefettizia, anché attraverso la distribuzione della carta. Non mancavano i giornali legati agli ambienti demolaburisti, come «Il Gazzettino» di Potenza e «Il Giorno» di Napoli, che fu fondato da Paolo Scarfoglio dopo aver lasciato «Il Risorgimento». Da segnalare infine i giornali qualunquisti come le testate satiriche «Rinal­ do in campo», «Don Chisciotte» e, successivamente, «La parola del fesso». La strategia del governo alleato, anche sul versante dei mass media, era tesa a un controllo capillare che finiva per dare poco spazio e autonomia al­ le forze antifasciste. Ciò non impediva del tutto lo sviluppo di esperienze innovative che rielaboravano il tema della democrazia soprattutto sul pia­ no della sperimentazione di nuovi linguaggi politici. I mass media potevano cioè veicolare idee e linguaggi nuovi, ma a condizione di non scardinare il generale clima di stabilità. Le epurazioni. Lo stesso discorso va fatto a proposito dell’epurazione. Il governo alleato promosse un’ampia epurazione di commissari prefettizi, prefetti e questori, ma il ricambio avvenne nel segno di una forte conti­ nuità, insediando nell’apparato statale periferico personale politico prefa­ scista o legato agli ambienti dell’antifascismo moderato, quasi sempre mo­ narchico e conservatore. E in rapporto a ciò si ebbero alcuni episodi di pro­ testa popolare, in particolare quando furono designati prefetti compromessi con il fascismo. Fu il caso di Taranto nel febbraio 1944, dove si ebbero for­ ti disordini contro la nomina del prefetto Domenico Soprano, che era sta­ to destituito a Napoli perché accusato di essere stato collaborazionista dei nazisti nel settembre 1943; gli operai dei cantieri Tosi giunsero al seque­ stro di Soprano e l’esercito rifiutò di intervenire. Ma la vicenda di Sopra­ no era destinata a concludersi rapidamente. Processato dal Tribunale mili­ tare territoriale di Napoli, fu assolto nell’ottobre 1944. Anche a Cosenza fu necessaria una rivolta popolare il 4 novembre 1943, vale a dire dopo circa due mesi di governo alleato, perché fosse destituito il prefetto Endrich, fascista di antica data. L’epurazione quindi procedé con molta cautela, a eccezione del tenta­ tivo di Charles Poletti, che, soprattutto quando fu commissario a Napoli nel primo semestre del 1944, tentò una politica più radicale con centinaia di arresti e internamenti che comunque furono di breve durata. Tra gli epu­ rati troviamo Achille Lauro, internato nel campo di Padula, in provincia di Salerno, perché accusato di contrabbando con il Giappone. Qui fu inter­ nato anche Giuseppe Frignarli, direttore del Banco di Napoli, epurato nel dicembre 1943, ma l’antifascista Emilio Scaglione ritenne opportuno non dare alcuna notizia del provvedimento dalle pagine del «Risorgimento» che dirigeva.

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D ’altro canto, al di là di alcuni momenti di reazione popolare, la vicen­ da dell’epurazione non ebbe un grande rilievo perché rientrò nel processo di costituzione di un ceto politico che non era antifascista e si andava rior­ ganizzando con modalità trasformistiche. In questa fase di transizione ac­ quisivano grande importanza le figure di notabili demolaburisti, come Perrone Capano a Bari, De Caro a Benevento, Amatucci e Rubilli ad Avelli­ no, Reale a Potenza, che ritessevano le fila di un sistema clientelare ancora basato sul notabilato di memoria giolittiana. Emergeva inoltre un proble­ ma di continuità con il personale fascista dell’amministrazione periferica del­ lo stato. Il caso più significativo è costituito da Alfonso Menna, a lungo se­ gretario comunale a Salerno durante il fascismo, il quale, nonostante fosse stato sottoposto a processo epurativo, fu riconfermato in tale funzione dal sindaco e dalla giunta di nomina ciellenista. Il Menna fu poi sindaco di Sa­ lerno, nelle file democristiane, dal 1956 al 1970. In questa fase stentava ad avviarsi il processo di costruzione dei partiti di massa che avrebbe segnato in misura così determinante i circuiti politi­ ci della democrazia repubblicana. Nel Centro-nord i partiti erano legittima­ ti dalla Resistenza, nel Mezzogiorno sezioni di partito, organizzazioni sin­ dacali e circoli culturali, insomma tutto l’insieme delle strutture che avreb­ be accompagnato lo sviluppo della forma-partito erano ancora da venire e sarebbero fioriti non in seguito a un’asfittica lotta antifascista, ma in rap­ porto al ciclo di lotte contadine che, nei mesi del Regno del Sud, esprime­ va qualche iniziale sussulto. Insomma la società civile nella sua frammen­ tazione esprimeva bisogni e istanze che il ceto politico postfascista trasfor­ mista raccoglieva e mediava indirizzandoli verso culture politiche, come il qualunquismo e il separatismo, estranee o antagoniste all’antifascismo. Crisi economica e disagio sociale. In una situazione di “pace dimezzata” i problemi della sussistenza quotidiana continuavano a essere i più urgen­ ti. Tornavano gli sfollati, le città cominciavano a popolarsi di nuovo e ini­ ziava il flusso dei reduci che, anche in modi rocamboleschi, cercavano di tornare a casa e dei quali la figura di Gennaro Iovine nella Napoli m iliona­ ria di Eduardo De Filippo è diventata l’emblema. Ma i reduci non erano soltanto meridionali, nel Regno del Sud affluivano soldati sbandati di ogni provenienza e, già sul finire del 1944, furono costituiti i centri di raccolta per gli ex prigionieri provenienti soprattutto dalla Grecia e dagli altri pae­ si balcanici e, poi, dai campi dell’Africa settentrionale e orientale. Napoli e Taranto e, poi, Lecce e Bari, furono le città dove più numerosi sorsero i centri di raccolta e la massa di prigionieri si sarebbe ulteriormente accre­ sciuta negli anni successivi. Nelle città i flussi di mobilità accentuavano la percezione di una di­ mensione anomala della vita quotidiana. I reduci, nelle loro diverse com­ ponenti, costituivano un gruppo sociale nuovo, prodotto dalla guerra, che ben presto avrebbe dimostrato la propria pericolosità sociale. Ma non era­ no i soli. Vi erano i profughi civili, gli sfollati, i senzatetto, tutte categorie

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che avevano un immediato bisogno di assistenza. Venivano infine liberati gli ebrei italiani, ma soprattutto stranieri, che avevano affollato i campi di internamento sorti in gran quantità nel Sud a partire dal 1942. Tra essi ri­ cordiamo i campi di Campagna nel Salernitano, di Solofra nell’Avellinese, la colonia di lavoro di Torà e Piccilli nel Casertano, il campo di Alberobel­ lo in provincia di Bari e soprattutto il campo di Ferramonti in provincia di Cosenza, che accoglieva oltre mille ebrei provenienti principalmente dai paesi balcanici. Esso fu liberato nel settembre 1943, ma molti ex internati rimasero ancora per qualche tempo nel Mezzogiorno a causa dell’enorme difficoltà di effettuare spostamenti ed espatri. La guerra insomma aveva creato nuove fasce di emarginati e l’assisten­ za sarebbe diventata il terreno privilegiato per costruire ulteriori forme di consenso sociale e politico. La Chiesa aveva, già durante il conflitto, intui­ to tutta l’importanza del problema assistenza e poteva disporre di una rete assai capillare ampiamente collaudata. Negli anni di guerra erano sorte men­ se per i figli dei militari uccisi, oltre al consueto repertorio di iniziative co­ me i pacchi dono, cartoline per i soldati al fronte ecc. Le diverse iniziative erano sollecitate da una Chiesa, come quella meridionale, che aveva dato un costante appoggio al regime soprattutto attraverso alcune importanti fi­ gure di vescovi quale ad esempio Alessio Ascalesi, arcivescovo di Napoli. Ma con il trasformarsi del conflitto in guerra totale l’impegno della Chie­ sa si era indirizzato verso i civili, i senzatetto, gli sfollati, ed era stato con­ sistente soprattutto nelle città attraverso l’istituzione di mense, le distri­ buzioni di viveri e vestiario, ma anche mediante nuove forme di assistenza spirituale, quali la presenza di religiosi nei ricoveri durante le incursioni. E la Chiesa divenne rapidamente un interlocutore privilegiato del governo al­ leato il quale, muovendosi all’interno di una strategia di stabilità, guarda­ va con favore a un’istituzione che aveva un forte controllo sociale, supe­ rando ogni incertezza connessa alla compromissione del clero con il regime fascista. La Chiesa con la sua articolata rete di parrocchie era quindi in grado di dare assistenza, sia pure limitata, alle nuove figure di poveri e sbandati. Di­ mostrava così una capacità di risposta all’emergenza-guerra che né lo stato fascista in disgregazione, né lo stato fantasma del Regno del Sud erano sta­ ti in grado di assicurare. In tal modo la Chiesa si faceva stato proprio a parti­ re dal terreno della vita quotidiana, ma nel medesimo tempo costruiva una prospettiva che andava oltre la contingenza dell’immediato dopoguerra sen­ za porre brusche cesure con il sostegno dato al regime fascista. Il problema veniva semplicemente accantonato. Tutto ciò si accompagnava a una dura condanna morale che si ritrova di frequente nei bollettini delle diocesi e che diventa accorata dopo l’in­ sediamento del governo alleato. Torna con forza il tema della corruzione dei costumi e il discorso si indirizza in particolar modo alle donne e ai bam­ bini. Questi ultimi costituirono un soggetto privilegiato dell’iniziativa as­ sistenziale cattolica e fu fondamentale il ruolo di alcuni ordini religiosi, tra

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II Regno del Sud

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cui in primo luogo i Gesuiti, i quali crearono la rete capillare delle Case del fanciullo. Mancavano invece le iniziative assistenziali laiche. Gli stessi Cln non erano in grado di organizzare mense per i reduci o altre iniziative di im­ mediato soccorso, al contrario di quanto avveniva nel Centro-nord, dove, attraverso queste forme di intervento, si consolidava il rapporto tra istitu­ ti antifascisti e territorio. Medesimo discorso per gli Enti comunali di assi­ stenza (Eca) che, privi di finanziamenti, si limitavano a effettuare qualche rara distribuzione di viveri e vestiario. D ’altro canto le condizioni di vita della popolazione civile non erano migliorate durante il primo anno di governo alleato. Il Censimento per la Ricostruzione nazionale, promosso dall’Acc e dal governo italiano e realizzato dall’Istat nel settembre 1944 su tutto il territorio liberato, costituisce una fonte importante che consente un quadro comparativo. Ne escono confer­ mati lo stato di grave indigenza dei civili e la situazione di crisi dell’econo­ mia locale soprattutto nel settore dell’industria, che nel Sud risultava di­ strutta nella misura del cinquanta per cento e su cui pesava il grave pro­ blema della requisizione alleata. L’inflazione si era acuita in seguito all’immissione delle am-lire e il M ez­ zogiorno continuava a essere suddiviso in un insieme di economie locali che avevano scarse forme di comunicazione. Una di queste era senza dubbio il mercato nero, ossia un sistema illegale che lucrava sulla scarsa offerta di mer­ ci assicurando, a costi elevatissimi, il circuito della distribuzione. I “borsa­ ri” si procuravano i generi alimentari nelle campagne attraverso un rapporto diretto con i contadini in un contesto generalizzato di evasione degli am­ massi che coinvolgeva, ovviamente in proporzioni diverse, tutte le figure del mondo agricolo. Tutto ciò favoriva la penetrazione di mafia e camor­ ra. Ad esempio in Sicilia la mafia gestiva l’intero settore del contrabbando di grano. Il mercato nero, rigoglioso già negli ultimi anni del conflitto, ebbe nuo­ vo vigore con l’arrivo dell’esercito alleato perché si resero disponibili quan­ titativi enormi di merci che potevano essere sottratti ai rifornimenti alleati. L’Azienda rilievo e alienazione residuati (Arar) divenne inoltre un terreno privilegiato del contrabbando che in tal modo si procurava merci introva­ bili sul mercato legale come gomme o parti meccaniche. L’immagine del “baitista” che si aggrappa al camion alleato per rubare indisturbato è ri­ masta nella memoria diffusa, ma in realtà il mercato nero era sorretto da una capillare rete delinquenziale. Si organizzavano vere e proprie bande che agivano per zone e potevano disporre facilmente di armi, anche perché spes­ so vi operavano soldati angloamericani disertori. Il governo alleato condusse una politica di repressione, puntualmente documentata dall’attività dei tribunali militari alleati colpendo però quasi sempre i piccoli “borsari” . La rete del contrabbando era un sistema assai difficile da scardinare proprio perché, tutto sommato, svolgeva una fun­ zione di ridistribuzione delle risorse e contribuiva, un po’ paradossalmen­

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te, alla stabilità sociale; lo stesso governo alleato d ’altro canto non inten­ deva né poteva garantire la sussistenza della popolazione civile. Il mercato nero era un aspetto del clima di illegalità e violenza che se­ gnava la vita quotidiana del Regno del Sud. Le statistiche giudiziarie rela­ tive agli anni 1943-46 segnalano nel Mezzogiorno un incremento dei reati che parte dal 1944 e cresce ulteriormente nel biennio 1945-46, soprattut­ to per ciò che riguarda i dati relativi a rapine, estorsioni e sequestri di per­ sona. Tali forme di violenza erano percepite in qualche modo come normali nel particolare clima dell’occupazione alleata, anche perché in molti casi erano praticate dai soldati angloamericani. Erano infatti frequenti i casi di rapina ai danni dei civili italiani e non mancarono casi di stupro. Poliziot­ ti e carabinieri venivano disarmati, insultati e talora accusati di essere fa­ scisti; altre volte i militari alleati favorivano furti e saccheggi intimando al­ le forze dell’ordine italiane di allontanarsi e proteggendo i contrabbandie­ ri. A Cerignola, in provincia di Foggia, nel dicembre 1943 vi fu un continuo susseguirsi di crimini di militari angloamericani che irrompevano, ubriachi, nelle case. A Benevento medesima situazione a opera di reparti canadesi e, così pure, ad Avellino. A Teano, in provincia di Caserta, nel marzo 1944, dopo ripetuti casi di violenza sessuale, vi fu una dimostrazione di donne da­ vanti alla sede del Governo militare alleato (Amg) contro l’annunciato ar­ rivo di truppe coloniali. Tutto ciò accresceva nella popolazione civile la per­ cezione dell’esercito angloamericano come vincitore, acuiva il bisogno di tornare a una condizione di normalità e contribuiva ad accrescere l ’estra­ neità e il risentimento non soltanto verso il governo alleato, ma anche con­ tro l’amministrazione statale italiana, ritenuta priva di effettivo potere. Su tale disagio ebbe buon gioco la propaganda del Movimento per l’uomo qua­ lunque che riuscì a indirizzarlo contro il nascente stato antifascista. N o ta b ib lio g r a fic a . E.

A g a R o s s i, U n a n a z io n e a ll o s b a n d o , l ’a r m is tiz io ita lia n o d e l l ’8 s e tte m b r e 1 9 4 3 , I l M u ­

l i n o , B o lo g n a 1 9 9 3 ; R . B a t t a g li a , S to r ia d e lla R e s is te n z a ita lia n a . 8 s e tte m b r e 1 9 4 3 - 2 5 a p r ile 1945

,

E in a u d i, T o r i n o 1 9 6 4 ; P . B e v i la c q u a , L e c a m p a g n e d e l M e z z o g io r n o tra f a s c is m o e d o ­

p o g u e r r a . I l c a s o d e lla C a la b r ia , E in a u d i, T o r i n o 1 9 8 0 ; G . C a p o b ia n c o , I l r e c u p e r o d e lla m e ­ m o r ia . P e r u n a s to r ia d e lla R e s is te n z a in T e rra d i L a v o r o . A u tu n n o 1 9 4 3 , E s i , N a p o l i 1 9 9 5 ; S . C a p o g r e c o , F e r r a m o n ti.L a v i ta e g l i u o m in i d e l p i u g r a n d e c a m p o d i in te r n a m e n to fa s c is ta , G i u n ­ t in a , F i r e n z e 1 9 8 7 ; F . C a r a c c i o lo , ‘ 4 3 / 4 4 . D ia r io d i N a p o li, V a lle c c h i, F i r e n z e 1 9 6 4 ; G . C h ia n e s e (a c u r a d i) , M e z z o g io r n o 1 9 4 3 . L a s c e lta , la l o t t a , la s p e r a n z a , E s i , N a p o l i 1 9 9 6 ; I d . (a c u ­ r a d i) , M e z z o g i o r n o : p e r c o r s i d e lla m e m o r ia tra g u e r ra e d o p o g u e r r a , n u m e r o m o n o g r a f i c o d i « N o r d e S u d » , n . 6 ( 1 9 9 9 ) ; P . C in a n n i , L o t t a p e r la te rra e c o m u n is ti in C a la b r ia

( 1 9 4 3 - 1 9 5 3 ),

F e lt r i n e lli , M i la n o 1 9 7 7 ; R . C iu n i , L ’I ta lia d i B a d o g lio , R i z z o l i , M i la n o 1 9 9 3 ; L . C o r t e s i , G . P e r c o p o , P . S a l v e t t i e a lt r i, L a C a m p a n ia d a l f a s c is m o a lla R e p u b b li c a , 2 v o l i . , E s i , N a p o l i 1 9 7 7 ; F . C o s t a n t i n o , G u e r r a , R e s is te n z a , d o p o g u e r r a in A b r u z z o . U o m in i, e c o n o m ie , is t i t u z i o ­ n i, A n g e l i , M i la n o 1 9 9 3 ; C . C r is c i o , U n c u o r e a lla r a d io . 1 9 4 3 - 1 9 4 4 , C r is c i o , N a p o l i 1 9 5 4 ; B . C r o c e , Q u a n d o l ’I ta lia era ta g lia ta in d u e . E s tr a tto d i u n d ia r io . L u g lio 1 9 4 3 - G iu g n o 1 9 4 4 , L a t e r z a , B a r i 1 9 4 8 ; A . D e g l i E s p i n o s a , I l R e g n o d e l S u d ( d a l 1 0 s e tte m b r e 1 9 4 3 a l 5 g iu g n o 1 9 4 4 ) , R i z z o l i , M i la n o 1 9 9 5 ; G . D o r s o , L ’o c c a s io n e s to r ic a , a c u r a d i C . M u s c e t t a , L a t e r z a ,

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Bari e il I Congresso dei Cln dell’Italia liberata

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R o m a - B a r i 1 9 8 6 ; D . E l l w o o d , L ’a ll e a to n e m ic o . L a p o l i t i c a d e l l ’o c c u p a z io n e a n g lo -a m e r ic a n a i n l t a l i a , F e lt r i n e lli , M i la n o 1 9 7 7 ; N . G a l le r a n o (a c u r a d i) , L ’a ltr o d o p o g u e r r a . R o m a e i l S u d . 1 9 4 3 - 1 9 4 5 , A n g e l i , M i la n o 1 9 8 5 ; I d . , S u lla “s fo rtu n a " s to r io g r a fic a d e l R e g n o d e l S u d , i n I d . , S a le r n o 1 9 4 3 . C i n q u a n t a n n i d o p o lo s b a r c o , L a v e g l ia , S a le r n o 1 9 9 4 ; G . G r e c o , S ta m p a e R e ­ g n o d e l S u d . L a G a z z e t ta d e l M e z z o g io r n o , E s i , N a p o l i 1 9 7 6 ; G . G r e c o e N . O d d a t i (a c u r a d i) , S ta m p a q u o tid i a n a e p e r io d ic a d e lla C a m p a n ia . 1 9 4 3 - 1 9 4 4 , E s i , N a p o l i 1 9 7 5 ; C . S . R . H a r r is , A l l i e d M ili ta r y A d m i n i s tr a tio n o f l t a l y 1 9 4 3 - 1 9 4 5 , H e r M a j e s t y ’s S t a t io n e r y O f f i c e , L o n d o n 1 9 5 7 ; I c s r N a p o l i (a c u r a d i) , V e r b a li d e l C o m i ta to d i L ib e r a z i o n e N a p o le ta n o ( 1 7 - 1 2 - 1 9 4 3 / 9 - 8 - 1 9 4 6 ) , C o n s i g l i o r e g io n a le d e ll a C a m p a n ia , N a p o l i 1 9 9 5 ; I l P r im o C o n g re ss o d e i C o m i ta ­ t i d i L i b e r a z i o n e , p r e f a z i o n e d i T . F i o r e , I s t i t u t o p r o v in c i a le A p i c e l l a , M o l f e t t a 1 9 6 4 ; A . M . I m b r ia n i, V e n to d e l S u d : m o d e r a t i, r e a z io n a r i, q u a lu n q u i s t i ( 1 9 4 3 - 1 9 4 8 ) , I l M u l i n o , B o lo g n a 1 9 9 6 ; I s t i t u t o i t a l ia n o p e r g l i s t u d i f i l o s o f i c i , I ta ly a n d A m e r ic a 1 9 4 3 - 1 9 4 4 . I ta li a n , A m e r ic a n a n d I ta lia n A m e r ic a n E x p e r ie n c e s o f t h e L ib e r a tio n o f t h e I ta lia n M e z z o g i o r n o , L a C i t t à d e l S o ­ l e , N a p o l i 1 9 9 7 ; L . K l in k h a m m e r , L ’o c c u p a z io n e te d e s c a in I ta li a ( 1 9 4 3 - 1 9 4 5 ) , B o l l a t i B o r i n g h ie r i, T o r i n o 1 9 9 3 ; I n s m li , L ’I ta lia d e i q u a r a n ta c in q u e g io r n i: 2 5 lu g lio - 8 s e tte m b r e 1 9 4 3 . S tu d io e d o c u m e n t i, I n s m li , M i la n o 1 9 6 9 ; P . L a v e g l ia (a c u r a d i) , M e z z o g io r n o e f a s c is m o , E s i, N a p o l i 1 9 7 8 ; M . L e g n a n i, R e g i o n i e s ta to d a lla R e s is te n z a a lla C o s tit u z i o n e , I l M u l i n o , B o l o ­ g n a 1 9 7 5 ; V . A . L e u z z i e L . C i o f f i , A l l e a t i , m o n a r c h ia , p a r t i t i n e l R e g n o d e l S u d , S c h e n a , F a s a n o - B a r i 1 9 8 8 ; O . L iz z a d r i, I l R e g n o d i B a d o g lio , E d i z i o n i A v a n t i , M i la n o 1 9 6 3 ; L . M e r c u ­ r i, 1 9 4 3 - 1 9 4 5 . G l i a l l e a t i e l ’I ta lia , E s i , N a p o l i 1 9 7 5 ; L . P a g g i (a c u r a d i) , L e m e m o r ie d e lla R e p u b b li c a , L a N u o v a I t a lia , F i r e n z e 1 9 9 7 ; C . P a v o n e , U n a g u e rra c i v il e . S a g g io s u lla m o r a ­ li tà n e lla R e s is te n z a , B o l l a t i B o r i n g h ie r i, T o r i n o 1 9 9 1 ; A . P i z a r r o s o Q u i n t e r o , S ta m p a , r a d io e p r o p a g a n d a . G l i a ll e a ti in I ta li a . 1 9 4 3 - 1 9 4 6 , A n g e l i , M i la n o 1 9 8 9 ; A . P l a c a n ic a (a c u r a d i) , 1 9 4 4 . S a le r n o c a p ita le . I s t i t u z i o n i e s o c ie tà , E s i , N a p o l i 1 9 8 6 ; G . Q u a z z a , I l p r o b le m a s to r ic o , in G . Q u a z z a , L . V a lia n i e E . V o lt e r r a , I l g o v e r n o d e i C L N , G i a p p i c h e l l i , T o r i n o 1 9 6 6 ; S . S e t t a , L ’ U o m o Q u a lu n q u e . 1 9 4 4 - 1 9 4 8 , L a t e r z a , R o m a - B a r i 1 9 7 5 ; G . S h r e ib e r , L a v e n d e tta te d e s c a . 1 9 4 3 - 1 9 4 5 : le r a p p re sa g lie n a z is te in I ta lia ( 1 9 9 6 ) , M o n d a d o r i , M i la n o 2 0 0 0 .

B a r i e i l I C o n g r e s s o d e i C l n d e l l ’I t a l i a l i b e r a t a

L a g u e r r a d ’E t i o p i a e i l p r o t e t t o r a t o d ’A l b a n i a a v e v a n o c r e a t o a B a r i s p e r a n z e d i r i p r e s a e c o n o m i c a e c o n s e n s i v e r s o u n a p r o s p e t t i v a c h e g u a r d a v a a l l ’a r e a m e d i te r r a n e a , d i c u i la F ie r a d e l L e v a n te c o s t it u iv a in q u a lc h e m o d o u n s im b o lo . C o n il p r o c e d e r e d e l s e c o n d o c o n f l i t t o m o n d ia le la p o p o l a z io n e v is s e la q u o t id ia n a t r a g e ­ d ia d e lla g u e r r a r e a le s u c u i s i f r a n tu m ò il c o n s e n s o a o g n i t a t t ic a b e llic is t a . D o p o il 2 5 lu g lio s i e s p lic it o in p ie n o la s tr a te g ia a u to r ita r ia d e l g o v e r n o B a d o ­ g l i o . L ’o r d i n a n z a d e l c o r p o d ’ a r m a t a d e l 2 6 l u g l i o ' 4 3 e l a c i r c o l a r e R o a t t a , v i e t a n ­ d o o g n i m a n ife s ta z io n e p o litic a , fu r o n o e f f ic a c i s tr u m e n ti d i r e p r e s s io n e . I l 2 8 lu g lio g li a n tifa s c is ti o r g a n iz z a r o n o u n c o r t e o p e r r ic h ie d e r e la lib e r a z io n e d e i p r ig io n ie ­ r i p o lit ic i. C o n tr o i m a n ife s ta n ti, g iu n t i n e i p r e s s i d e lla fe d e r a z io n e fa s c is ta , s p a ­ r a r o n o i m i l i t a r i d e l 9 0 b a t t a g l i o n e a u t i e r i , s c h i e r a t i a d i f e s a d e l l ’e d i f i c i o , e a n c h e a lc u n i c e c c h in i a p p o s t a t i a lle f in e s t r e d e lla f e d e r a z io n e . F u r o n o u c c is i d ic i a s s e t t e c i t t a d i n i , t r a c u i G r a z i a n o , f i g l i o d i N i c o l a F i o r e . L e r e s p o n s a b i l i t à d e l l ’e p i s o d i o r i ­ m a s e r o o s c u r e e v e n n e r o e s e g u it i n u m e r o s i a r r e s ti d i a n tifa s c is ti. D i lì a p o c o f u c o ­ s t itu ito il F r o n te n a z io n a le d i a z io n e , a c u i a d e r ir o n o c o m u n is ti, a z io n is t i e s o c ia lis ti, n o n c h é s in g o li e s p o n e n t i d e lla D e (N a ta le L o ja c o n o e N . A n g e lin i) e d e l P ii ( G iu ­ s e p p e L a te r z a , L u ig i D e S e c ly ).

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Parte prima D o p o l ’8 s e t t e m b r e l a c i t t à r i m a s e a b b a n d o n a t a a s e s t e s s a ; i l g e n e r a l e B e l l o -

m o , c o m a n d a n t e d e lla m iliz ia p e r le P u g lie , o r g a n iz z ò la d if e s a d e l p o r t o , c h e c o ­ s t i t u i v a u n ’i m p o r t a n t e s t r u t t u r a l o g i s t i c a d e l f r o n t e a d r i a t i c o . L a c i t t à f u l i b e r a t a d a l l ’8 a d i v i s i o n e i n d i a n a i l 2 2 s e t t e m b r e m a s u b ì a n c o r a b o m b a r d a m e n t i t e d e s c h i , c o m e a d e s e m p i o l ’i n c u r s i o n e d e l 2 d i c e m b r e 1 9 4 3 i n c u i v e n n e r o c o l p i t e a l c u n e n a ­ v i lib e r t y a m e r ic a n e (tra e s s e la J o h n H a r v e y , c h e c o n t e n e v a u n g r a n q u a n t it a t iv o d i y p r ite ). L a su a e s p lo s io n e d e te r m in ò u n g r a v iss im o c a s o d i in q u in a m e n to c h im i­ c o , a n c h e p e r c h é n é i l p o r t o n é l ’a r e a u r b a n a c i r c o s t a n t e f u r o n o e v a c u a t e ; i l a v o r i d i b o n if ic a s a r e b b e r o in iz ia t i s o lta n to n e l 1 9 4 7 . C o n la c o s t it u z io n e d e l R e g n o d e l S u d B a r i fu tr a le q u a ttr o c it t à p u g lie s i c h e c o s t it u ir o n o il te r r ito r io d e l m in u s c o lo r e g n o e s v o ls e d i f a t t o u n r u o lo d i c a p ita le f i n o a l 1 9 4 4 . L a p r e s e n z a d e l r e , d e l g o v e r n o e d i q u a n t o r e s t a v a d e l l ’a p p a r a t o b u ­ r o c r a t ic o e m ilita r e fa c e v a s i c h e s i a v v e r t is s e c o n m a g g io r e a s p r e z z a u n c lim a a u ­ to r ita r io e o s t ile a o g n i r ip r e s a d i v it a d e m o c r a tic a . L a r io r g a n iz z a z io n e d e lle fo r z e a n t i f a s c i s t e a v v e n n e i n a p e r t a c o n t r a p p o s i z i o n e c o n l ’a p p a r a t o p e r i f e r i c o d e l l o s t a ­ t o , i n p a r t i c o l a r e c o n i l p r e f e t t o G i u s e p p e L i V o t i . T r a l ’o t t o b r e e i l n o v e m b r e 1 9 4 3 f u r o n o r im o s s i p o d e s t à e fu n z io n a r i d i p r e fe ttu r a . Il g o v e r n o t e n t ò in o g n i m o d o d i im p o r r e u o m in i d i a p e r to in d ir iz z o m o n a r c h ic o e , q u a s i s e m p r e , f u r o n o d is a t t e s e le in d ic a z io n i d e i C ln . C o m e s in d a c o a B a r i fu in s e d ia t o V . C a p u z z i, n o t o e s p o n e n t e d e m o lib e r a le , e lo s t e s s o a v v e n n e in m o lt i c o m u n i d e lla p r o v in c ia . L a p e r m a n e n z a d i g r a v i p r o b le m i d i s u s s is te n z a , in p r im o lu o g o il d is a g io a lim e n ta r e , f e c e s ì c h e i c o m m is s a r i p r e f e t t i z i f o s s e r o r it e n u t i c o n t r o p a r t e n e lle n u m e r o s e r iv o lt e p o p o la r i, d u r a n t e l e q u a li p i ù v o l t e s i g iu n s e a lla lo r o r i m o z io n e . I c o n t r a s t i n o n c e s s a r o n o a n ­ c h e d o p o il d e c r e t o d e l 4 a p r ile 1 9 4 4 , n . 2 1 1 , c h e a u t o r iz z a v a la f o r m a z io n e d i g iu n ­ t e c o m u n a li d i n o m in a p r e f e t t i z ia . A B a r i s i a r r iv ò c o m u n q u e a u n a m e d ia z io n e : c o ­ m e s in d a c o il p r e f e t t o L u c if e r o a c c e t t ò la p r o p o s t a d e l d e m o c r is t ia n o L o ja c o n o a v a n ­ z a t a d a l C ln . C ’è d a c o n s i d e r a r e i n o l t r e c h e v i e r a u n a f o r t e e b e n o r g a n i z z a t a p r e s e n z a d i m o n a r c h ic i c h e u s u f r u iv a n o d i e f f ic a c i s t r u m e n t i d i in f o r m a z io n e , in p r im o lu o g o i l s e t t i m a n a l e « I d e a L i b e r a l e » , o r g a n o d i D e m o c r a z i a l i b e r a l e , d i r e t t o d a l l ’a w o c a t o G iu s e p p e P e r r o n e C a p a n o . L a fa s e d i p iù a c u ta c o n t r a p p o s iz io n e fu le g a ta a u n e v e n t o im p o r t a n t e c o m e il I C o n g r e s s o d e i C ln d e llT t a lia lib e r a ta (B a r i, 2 8 - 2 9 g e n ­ n a io 1 9 4 4 ) , c o n t r o c u i m o n a r c h ic i e d e m o la b u r is t i o r g a n iz z a r o n o u n ’a s p r a c a m p a ­ g n a d e n ig r a to r ia m e t t e n d o in d u b b io la le g it t im it à e la r a p p r e s e n ta tiv ità d e g li is t i­ t u t i c ie ll e n is t i e m in a c c ia n d o r a d u n i d i r e d u c i, p o i v i e t a t i d a g li a lle a ti. I n r e a ltà o r g a n iz z a r e il c o n g r e s s o f u im p r e s a d a v v e r o d if f ic ile . B a r i e r a s ta ta s c e lt a c o m e s e c o n d a s e d e p e r c h é la C o m m is s io n e d i c o n t r o llo a lle a ta (A c c ), su p r e s ­ s io n e d e l g o v e r n o B a d o g lio , a v e v a n e g a to N a p o li. M a il c lim a e r a d i a p e r ta o s tilità . B a d o g lio in v iò a B a r i il g e n e r a le P ie t r o G a z z e r a c o m e c o m m is s a r io s tr a o r d in a r io p e r l ’o r d i n e p u b b l i c o e s o l t a n t o a l l a f i n e f u p o s s i b i l e m i t i g a r e l e m i s u r e r e s t r i t t i v e d e l g o v e r n o e fa r s ì c h e c e n t o v e n t i d e le g a ti, c in q u a n ta g io r n a lis ti, q u in d ic i a d d e t t i a lla s e g r e t e r ia e o t t o c e n t o c i t t a d i n i p a r t e c ip a s s e r o a lla s e d u t a in a u g u r a le d e l c o n ­ g resso . D e i la v o r i è s t a t o c o n s e r v a to u n r e s o c o n t o s te n o g r a fic o , e d it o n e l 1 9 4 4 , c h e c i r e s t it u is c e il p e c u lia r e c lim a d i q u e i g io r n i, v is s u t i, in p r im o lu o g o , c o m e u n a sc a ­ d e n z a c h e l e g it t im a v a , d i f r o n t e a l p a e s e e a g li a lle a t i, l e n o n n u m e r o s e f o r z e d e l l ’a n ­ t if a s c is m o m e r id io n a le . I d e le g a t i r a p p r e s e n ta v a n o v e n t u n o p r o v in c e ; se s i a n a liz ­ z a la lo r o p r o v e n ie n z a p o lit ic a , e m e r g e q u a n to e s s i f o s s e r o e s p r e s s io n e d e l le n t o e f a t ic o s o s v ilu p p o d e i p a r titi a n tifa s c is ti. I n m o lt i c a s i s in g o le p r o v in c e e r a n o r a p ­ p r e s e n t a t e s o lt a n t o d a u n o o d u e d e le g a t i e c iò s ig n if ic a v a c h e in m o lt e r e a ltà n o n

Chianese

Bari e il I Congresso dei Cln dell’Italia liberata

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esistevano i Cln ma soltanto embrioni di organizzazioni partitiche. La rappresen­ tanza politica era disomogenea, emergevano invece prestigiose figure di antifasci­ sti, tra cui in primo luogo Benedetto Croce e poi Carlo Sforza, Alberto Cianca, Fi­ lippo Caracciolo, Oreste Lizzadri - che rappresentava il Ccln - , Dino Gentili, Gui­ do Molinelli. Dopo l ’apertura di Michele Cifarelli, presidente del Cln di Bari, e di Arangio Ruiz, presidente del Cln di Napoli, fu eletto un ufficio di presidenza composto da Alberto Cianca e Tito Zanib o ni. Centrale fu il discorso di Cro ce che ripercorse le tappe del crollo del regime sostenendo l’urgenza di realizzare una piena democra­ zia, anche attraverso una critica all’operato della monarchia di cui, però, come è noto, non veniva messa in crisi la legittimità in quanto istituzione. La posizione di Croce fini con l’essere egemone nel congresso, ma emersero opi­ nioni diverse, di critica radicale all’istituto monarchico, espresse ad esempio da Ore­ ste Lizzadri, Tommaso Fiore, Adolfo Omodeo. I tre partiti di sinistra erano d’accordo su una mozione di aperta condanna della monarchia; dopo intense trattative prevalse però una posizione di mediazione che rifletteva l’indirizzo di Croce: la que­ stione istituzionale veniva rimandata e si chiedeva l’abdicazione del re e la forma­ zione di un governo espressione delle forze antifasciste. Fu deciso inoltre di isti­ tuire una Giunta esecutiva permanente con il compito di attuare i deliberati del congresso. Essa fu composta da Francesco Cerabona (DI), Vincenzo Arangio Ruiz (Pii), Velio Spano (Pei), Vincenzo Calace (Pda), Angelo Raffaele Iervolino (De), Oreste Lizzadri (Psi). Le tappe salienti dell’attività della giunta sono conosciute, anche perché ne so­ no stati conservati i verbali. Essa entrò rapidamente in una fase di stallo che si ac­ centuò dopo il discorso di Churchill a sostegno della monarchia, a cui seguiva la cri­ si del Ccln a causa delle dimissioni del presidente Bonomi. La svolta di Salerno co­ stituì un evento nuovo nella situazione politica che ridefim i termini del rapporto tra forze antifasciste, governo e monarchia. Il congresso ebbe una vasta eco. Oltre ai dettagliati resoconti della «Gazzetta del M ezzogiorno», ne parlarono Radio Londra, il «N ew York Times», il «Times», mentre a Radio Bari, su pressione delle forze monarchiche, fu impedito dagli alleati di trasmettere in diretta i lavori del congresso. Gaetano Salvemini, in una confe­ renza ad Harvard pochi giorni dopo, esortò il governo alleato a tenere conto del­ l’istanza antimonarchica espressa dal congresso. Il dibattito politico e storico ha sempre registrato posizioni differenziate. L’in­ dirizzo azionista (Ferruccio Parri, Leo Valiani, Fabrizio Canfora) ha sottolineato l’importanza del primo appuntamento dell’antifascismo meridionale e l ’opportu­ nità di una critica radicale alla monarchia e al governo Badoglio, mentre gli studiosi comunisti (Franco D e Felice, Paolo Spriano) hanno posto in risalto come la con­ trappo sizione tra forze antifasciste e Regno del Sud, ribadita dal congresso, finisse col creare una situazione di empasse che impediva ai partiti ogni iniziativa politica.

ENZO COLLOTTI

La Resistenza in Europa

Identità e differenza nei m ovim enti di Resistenza in Europa. La Resisten­ za italiana entrò in campo per ultima tra i grandi movimenti che dapper­ tutto nell’Europa occupata dalle potenze dell’Asse si battevano contro l’oc­ cupazione del territorio nazionale e soprattutto contro l’instaurazione di un Nuovo ordine nelle relazioni tra stati e popoli fondati su principi di domi­ nazione a senso unic o e di sfruttamento. Ciò sebbene, al pari dell’opposi­ zione interna contro il nazismo in Germania, essa potesse vantare il più lun­ go retroterra di tradizione di lotta contro il fascismo, che alimentò uno dei filoni che sfociarono nella lotta illegale contro l’occupazione della W ehr­ macht e il collaborazionismo della Rsi dopo l ’armistizio dell’8 settembre 1943. A quella data infatti sul territorio occupato dalle potenze dell’Asse erano operanti, dall’Ovest all’Est del continente, una pluralità di movimenti e di forme di resistenza, che mutuando dall’esempio della résistance france­ se la sintetica espressione del loro essere, tendevano a presentarsi in una unificazione concettuale prima ancora che in una unica tipologia. In realtà, se nella stagione della sua maggiore maturità, che coincise in parte anche con la presenza del movimento italiano - perché questo rap­ presentò il rovescio della secessione dalla guerra e dall’occupazione di una delle potenze dell’Asse e quindi la prima grande frattura del fronte nazista e fascista, consentendo l’ulteriore espansione delle forze partigiane in aree strategiche fondamentali, in Iugoslavia e in Grecia - , la resistenza si pre­ sentava sull’intera area del territorio occupato come un ininterrotto secon­ do fronte di combattimento, percepito come tale dai comandi tedeschi, l’esi­ to di questi sviluppi non era stato affatto rettilineo. Diverse furono le tap­ pe cronologiche attraverso le quali giunsero a maturazione i vari movimenti, diversa la tipologia e la loro fenomenologia. A questi due fattori di diver­ sità contribuì sicuramente la differente natura dell’occupazione e dell’op­ pressione da parte delle potenze dell’Asse e in particolare del Reich nazi­ sta nelle varie parti dell’Europa; ma contribuirono anche i precedenti sto­ rici e le disparate esperienze politiche e sociali che le popolazioni avevano vissuto all’interno delle rispettive società nazionali. A grandi linee la schematizzazione che anche a proposito della Resi­ stenza viene avanzata tra Europa occidentale ed Europa centrorientale (e sudorientale) ha una sua indubbia validità, anche se sono necessarie ulte­

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La Resistenza in Europa

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riori specificazioni analitiche all’interno di questi due grandi settori geo­ grafici, cui non corrisponde omogeneità politica e socio-economica. Se per­ tanto le motivazioni di ordine generale che spinsero le popolazioni alla re­ sistenza si possono individuare nella comune quanto generica opposizione all’occupazione straniera, le spinte specifiche che connotarono i caratteri e l’intensità stessa delle forme della resistenza dipesero da fattori interni alle società nazionali e dal rapporto storico con le rispettive istituzioni. Al di là tuttavia delle motivazioni specifiche la Resistenza si colloca come un capitolo particolare della storia della seconda guerra mondiale in quanto espressione di una determinata temperie culturale. Movimento di massa, e già per questo fattore di novità nella storia dell’Europa contemporanea e non solo delle guerre di questo secolo, la Resistenza è scaturita dalla presa di co­ scienza del proprio essere come nazione e come società che l’occupazione nazista e fascista, implicando un profondo sconvolgimento di valori oltre che di ordinamenti, provocò nelle più diverse parti dell’Europa, ancora scon­ volta dagli esiti della prima guerra mondiale, dalle conseguenze della gran­ de crisi, dai mutamenti di regimi politici e dall’irruzione di ideologie che cosi fortemente hanno caratterizzato l’Europa dopo il primo dopoguerra. Questo spiega fra l’altro perché, concentrata in un breve arco di tempo, nel limite massimo di cinque-sei anni ma spesso anche entro limiti più ristret­ ti, la Resistenza ha prodotto valori duraturi e ha per molti aspetti rappre­ sentato la base di consenso dei sistemi politici instaurati dopo la guerra e la liberazione. Talvolta si è voluto stabilire uno spartiacque sottolineando nell’aggres­ sione nazista all’Unione Sovietica, nel giugno del 1941, il momento del pas­ saggio alla Resistenza con i partiti comunisti di ingenti masse popolari. In realtà nella cronologia della Resistenza il coinvolgimento nel conflitto dell’Unione Sovietica non significò soltanto una motivazione in più per quei partiti comunisti che non si erano ancora impegnati a fondo nella Resistenza (ma in Italia il Pedi non aveva mai disertato la lotta antifascista, cosi come altrove, per esempio in Iugoslavia, l’impegno dei comunisti nella Resisten­ za precedette l’ingresso nella guerra dell’Urss). Significò piuttosto la mo­ bilitazione a favore della Resistenza del potenziale militare dell’Urss, la pre­ senza di contingenti cospicui dell’Armata rossa e di popolazioni alle spalle delle forze tedesche, l’elaborazione di tecniche di combattimento, di ge­ stione di ampie zone libere, quindi anche di rapporti tra forze combatten­ ti e popolazione in cui ruolo militare e ruolo politico (la funzione del parti­ to) si fondevano come espressione di un potere (quello dello stato sovietico) che rimaneva pur sempre prioritario e superiore a ogni altro tipo di gerarchizzazione scaturita dalla lotta; e sarà questa una delle differenze più rile­ vanti tra la Resistenza sovietica, pur sempre diretta dal potere centrale, e quella degli altri movimenti della Resistenza. D appertutto in Europa la Resistenza fu un fenomeno politico e milita­ re, le due componenti furono presenti ovunque, ma l’aspetto politico non va identificato necessariamente con il ruolo dei partiti politici, che fu im­

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portante (anche se non esclusivo) soprattutto nelle situazioni di più acu­ ta politicizzazione e in cui la spinta alla resistenza non proveniva da istan­ ze meramente patriottiche contro l’occupazione straniera. L’istanza preva­ lentemente patriottica caratterizzò la Resistenza soprattutto nelle situa­ zioni in cui l’invasione aveva rotto un equilibrio di totale lealtà politica e di forte stabilità sociale: è il caso dell’Olanda e della Norvegia, già meno del Belgio, o della Danimarca. In Olanda e in Norvegia la fedeltà alla Casa re­ gnante, i cui rappresentanti lanciarono dall’esilio londinese l’appello alla Resistenza, si identificò con le motivazioni stesse della Resistenza, il cui obiettivo ultimo consisteva nella cacciata dell’occupante e nel ripristino del­ le istituzioni parlamentari. Analoga ma più complessa la situazione in Belgio, dove la compresenza del sovrano (quasi prigioniero dei tedeschi, il che non gli risparmiò accuse di connivenza con l’occupante) con le forze della Resi­ stenza creò in più di una occasione conflitti istituzionali e dove il forte col­ laborazionismo di elementi filonazisti e di esponenti filotedeschi del grup­ po etnico fiammingo animò aspre contrapposizioni tra le forze della Resi­ stenza e i diversi livelli di una sopravvivenza della continuità nella vita amministrativa. Ancora diversa si presentò la situazione in Danimarca do­ ve sino all’agosto del 1943 l’occupazione tedesca volle salvaguardare la pre­ senza di una vita parlamentare e la continuità della monarchia come em­ blema soprattutto verso l’esterno della normalità e del carattere non op­ pressivo della presenza tedesca. Nei fatti la denuncia della Resistenza e lo stesso comportamento del sovrano, che rifiutò di sottoscrivere la persecu­ zione degli ebrei imposta dai tedeschi, fecero fallire il tentativo di esibire una sorta di occupazione consensuale: prigioniero dei tedeschi, il re di Dani­ marca fini per rappresentare il simbolo della lealtà nazionale e istituziona­ le, e in suo nome la Resistenza si batté per il pieno ripristino dell’indipen­ denza, delle libertà costituzionali e delle istituzioni democratico-liberali. La Resistenza in Polonia. Primo territorio a essere invaso, se si fa astra­ zione dalla Cecoslovacchia smembrata a Monaco nel settembre del 1938 e interam ente distrutta nel marzo del 1939 con l’aggregazione diretta al Reich nazista, la Polonia pervenne relativamente tardi a forme assai elabo­ rate e profondamente radicate nella società di vita clandestina e di resi­ stenza. Bisogna partire in primo luogo dalla constatazione della disgregazio­ ne totale del suo assetto statuale imposto e realizzato dai nazisti; in secon­ do luogo dalla lotta feroce contro ogni forma di sopravvivenza dell’identità nazionale polacca condotta dall’occupante, con lo scopo dichiarato di di­ struggerne i ceti dirigenti, l’intellettualità e i quadri accademici, il clero cat­ tolico - in quanto esponente del ceto dirigente e insieme di una intellet­ tualità nazionale - , e di provocare il generale imbarbarimento della popo­ lazione polacca; in terzo luogo dalla persecuzione sino all’estirpazione fisica integrale della popolazione ebraic a, che in Polonia aveva il suo più com­ patto e omogeneo insediamento: il processo di ghettizzazione, che rappre­ sentò la prima fase della «soluzione finale» in Polonia con l’addensamento

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di grandi masse di ebrei in ampie aree urbane, costituì di per sé l’accumu­ lazione di un potenziale esplosivo che ebbe un rapporto anche troppo stret­ to con la Resistenza. Al tempo stesso, tuttavia, la Polonia visse l ’esperienza di un paese e di una società profondamente divisi. La mancanza di un ve­ ro retroterra di vita democratica fra le due guerre non consentì che la ri­ sposta all’occupazione e all’oppressione nazista fosse rappresentata dal­ l’identificazione in una piattaforma di valori largamente condivisi: pesava una tradizione semidittatoriale, autoritaria, antisemita, di oppressione di mi­ noranze nazionali, di acuta lotta di classe, di contrapposizioni sociali parti­ colarmente aspre nelle campagne. Nel 1939, inoltre, la Polonia, dopo il pat­ to tedesco-sovietico, aveva vissuto una doppia lacerazione: l’occupazione tedesca da una parte con il suo carico di mera distruttività, ma anche l’in­ corporazione di una parte del suo territorio nazionale nell’Unione Sovietica. Questa duplice occupazione rappresentò un ulteriore ostacolo alla creazio­ ne di una piattaform a comune anche dal punto di vista nazionale: il sen­ timento antirusso che già fra le due guerre aveva animato la contrapposi­ zione nazionale e ideologica in senso antibolscevico alla Russia sovietica, anche in funzione dell’alleanza con la Francia e del cosiddetto «cordone sa­ nitario» contro la rivoluzione proveniente dall’Est, trovò nuovo alimento nella spartizione del 1939. E comprensibile perciò che la parte della classe dirigente polacca che si fece rappresentare dal governo in esilio a Londra e che ben presto pose al servizio dei francoinglesi rilevanti unità di combat­ tenti polacchi di terra, ma anche sul mare e nell’aria, guardasse alla pro­ spettiva del ripristino della sovranità nazionale polacca non solo in funzio­ ne antitedesca ma anche antisovietica (e non solo genericamente antirussa). Uno stato d ’animo che non sarebbe mai stato fondamentalmente modifica­ to, neppure dopo l’aggressione nazista all’Unione Sovietica e l’aggregazione di quest’ultima nella coalizione antinazista con le democrazie occidentali. Se nel caso della Grecia la spaccatura tra un orientamento filoccidentale e un orientamento filorientale, come anticipazione del conflitto tra i due bloc­ chi della guerra fredda, fu conseguenza della diplomazia delle potenze del tempo di guerra, la divisione sottesa alla Resistenza in Polonia fu assai ante­ riore, riprodusse stati d ’animo esistenti prima ancora che si formassero i primi nuclei di una resistenza. Una premessa, questa, necessaria per capire il lungo travaglio che attraversarono le diverse componenti della società po­ lacca prima che fossero in grado di esprimere quella forte, capillare resi­ stenza che non fu frutto solo di un elementare quanto salutare istinto di conservazione ma anche di valutazioni politiche e di volontà di rinnova­ mento politico e culturale. I l caso francese. La complessità e il groviglio di problemi che accompa­ gnarono la maturazione della Resistenza in Polonia furono apparentemen­ te estranei nel caso della Francia. Talvolta nella storiografia si produce l’im­ pressione che la Resistenza in Francia sia nata come per incanto dall’appello del generale De Gaulle del 18 giugno 1940. Ma anche in questo caso la realtà

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è più complicata delle semplificazioni con le quali è stata tramandata la tra­ dizione della Resistenza. Senza pensare alla grave crisi morale, e non solo politica e sociale, di cui parla Marc Bloch nella Strana disfatta è difficile com­ prendere la risonanza che ebbero l’appello alla riscossa di De Gaulle ma an­ che l’appello tradizionalista contro la democrazia della Terza Repubblica, sconfitta oltre che dai tedeschi dalla crisi morale, del maresciallo Pétain («Honneur et patrie»). Anche la Francia dunque era divisa, anche qui la Resistenza nacque dalla divisione; si ebbe la mobilitazione di una parte del paese contro l’altra parte, quella che si illudeva di potere ridare un ruolo al­ la Francia nell’Europa di Hitler venendo a patti con l’occupante e vendi­ carsi della democrazia e del Fronte popolare o che, nel caso dell’estremismo collaborazionista, si prospettava il destino del paese nella sua completa e supina nazificazione. Complessa nella varietà delle motivazioni, che coinvolsero nella Resi­ stenza uomini delle forze politiche tradizionali - radicali, socialisti, i comu­ nisti dopo le iniziali esitazioni di fronte al fenomeno Vichy e al decantarsi degli schieramenti internazionali - , politici e sindacalisti, forze sociali, ope­ rai e intellettuali, combattenti dell’eserc ito sconfitto, la Resistenza dovet­ te affrontare anche una pluralità di dislocazioni territoriali, adeguandosi alle condizioni della Francia dopo l’armistizio. Gli uomini più vicini a De Gaulle si sarebbero radunati in Inghilterra, dove affluirono con il grosso dell’esercito britannico imbarcato a Dunkerque anche i residui reparti com­ battenti francesi disposti a continuare la lotta. La grande riserva di uomini della Francia combattente fu rappresentata dalle guarnigioni delle colonie, vero retroterra della Francia libera, terreno d ’incontro con gli angloameri­ cani e concreta incarnazione di una residua sovranità del paese fuori dal continente europeo. Ciò che naturalmente avrebbe alimentato anche nella Francia della Resistenza, a cominciare da De Gaulle, l’illusione della so­ pravvivenza dell’impero e dell’unità alla Francia metropolitana dei terri­ tori coloniali. La distribuzione della Resistenza non fu determinata soltanto da fatto­ ri di carattere geografico - le aree urbane e quelle montagnose, dalle Alpi al Massiccio Centrale - , ma anche dalla ripartizione del paese in diversi set­ tori d ’occupazione, almeno fino al novembre 1942, quando il regime d ’oc­ cupazione fu generalizzato all’intero territorio nazionale, persistendo sino all’armistizio italiano la distinzione tra l’area d ’occupazione tedesca (la più parte del territorio) e quella italiana, destinata infine a essere assorbita nel­ la prima. All’inizio la linea di demarcazione era formata dall’area di occu­ pazione diretta al Centro-nord, incluso il comprensorio urbano parigino, e l’area controllata dal governo di Vichy costituì a sua volta anche una sorta di demarcazione territoriale della Resistenza, che al Centro-sud ebbe il suo epicentro urbano nella metropoli lionese: al Sud la possibilità di reclutare proseliti da parte della Resistenza era accresciuta dalla gran massa di rifu­ giati disponibili a impegnarsi nella lotta, tra cui emigrati di varie prove­ nienze antifasciste, ebrei, ex combattenti di Spagna, tedeschi, italiani, au­

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striaci, polacchi. L’occupazione totale e diretta dell’intero territorio fran­ cese avrebbe finito per favorire anche l’unificazione e l’omogeneizzazione della Resistenza nelle forze francesi dell’interno. La Resistenza nei Balcani. Una fenomenologia analoga nella varietà del­ le motivazioni accompagnò il rapido crescere della Resistenza anche in Iu­ goslavia e in Grecia, dove prevalse nell’immediato la spinta della reazione all’occupazione straniera. In aree periferiche della Iugoslavia, in Slovenia, il risentimento della politica di snazionalizzazione del fascismo nei confronti delle minoranze slave accelerò e agevolò la precoce formazione di nuclei ri­ belli che si unirono rapidamente alle formazioni del dissolto esercito iugo­ slavo. La straordinaria politicizzazione della Resistenza non fu tuttavia so­ lo il prodotto della rivolta spesso spontanea contro lo straniero. Nel caso della Iugoslavia, più che altrove, incisero fattori diversi e di più lunga in­ cubazione. Se nella sua fase di maggiore m aturità ed espansione la forza del­ la Resistenza iugoslava fu dovuta al superamento delle tradizionali conflit­ tualità nazionali e alla tensione verso posizioni egualitarie in un modello fe­ derativo, nel momento della spinta iniziale determinanti furono piuttosto motivazioni politiche e classiste, accanto indubbiamente a quelle patriotti­ che. Anche la Iugoslavia usciva con la sconfitta militare e la completa di­ sgregazione della sua unità statuale (divisa, come fu, nella Slovenia annessa a Italia e Germania; nella Croazia di Pavelic, come stato vassallo delle po­ tenze dell’Asse; nella Serbia, sotto “protezione” tedesca; nel Montenegro, sotto quella italiana; e in altre aree occupate da Ungheria, Italia e Bulgaria) dall’esperienza autoritaria della monarchia dei Karadjordjevic. In questo quadro la Resistenza rappresentò, quanto meno nell’ispirazione del parti­ to comunista che ne sarebbe stata ia forza egemone, la risposta al fallimento della classe dirigente che non aveva saputo dare alcuna soluzione ai pro­ blemi più acuti dello stato iugoslavo sorto dopo la prima guerra mondiale (in primo luogo ai rapporti tra le nazionalità e alla questione agraria), né as­ sicurare una coerente condotta internazionale (particolarmente evidente nello sbandamento prò o contro l’Asse che colse la Iugoslavia dopo lo sfal­ damento dell’influenza francese a seguito dell’affermazione della Germa­ nia nazista nell’area danubiana). Anche qui dunque la sconfitta militare coincise con la sconfitta politica di un vecchio ordine e sistema politico che non si reggeva su basi democratiche di consenso. La Resistenza pertanto si poneva come istanza di lotta contro lo straniero ma anche come ricerca di un nuovo equilibrio politico e di nuovi rapporti sociali; la partecipazione alla Resistenza non solo di nuclei operai più politicizzati di alcuni centri ur­ bani (in particolare di Zagabria) e di quadri intellettuali di estrazione so­ cialista e comunista, che spesso si erano formati un’esperienza militare nel­ la guerra di Spagna, ma anche di lavoratori delle campagne rispecchiava uno spettro di forze sociali destinato a imprimerle un segno fortemente inno­ vatore e riformatore. Qui più che altrove la Resistenza contro gli occupan­ ti fu il detonatore che fece esplodere un potenziale latente di rivolta e il grò-

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viglio di contraddizioni su cui si era retto il labile equilibrio del regno dei serbi, dei croati e degli sloveni: un messaggio insieme di liberazione nazio­ nale e sociale. Un percorso analogo a quello che animò la Resistenza in Grecia, in cui la spinta immediata decisiva fu comunque la ribellione all’occupazione dell’Italia fascista prima ancora che della Germania nazista, che sarebbe rimasta padrona unica del territorio dopo l ’armistizio italiano del 1943. Sicuramente più lento che in Iugoslavia fu in Grecia il processo di omo­ geneizzazione delle forze della Resistenza, più profonde furono le divisio­ ni, più acuto lo scontro tra le forze innovatrici radicali e quelle leali alla monarchia, la cui conservazione rappresentava uno dei postulati della stra­ tegia imperiale di controllo del M editerraneo che ancora nel 1944-45 era nei disegni e nelle aspettative di Churchill. La Grecia divenne cosi ben presto teatro del gioco d ’influenze delle potenze, di cui i singoli settori del­ la Resistenza furono spesso inconsapevoli pedine. E anche l ’area in cui l’aspirazione all’autodeterminazione della Resistenza fu più amaramente disattesa. Anione Sovietica e G erm ania:aspetti diversi della Resistenza in Europa.

Origini e caratteri peculiari ebbe la Resistenza in due situazioni estremamente diverse: in Germania e nell’Unione Sovietica. La Resistenza nell’Unione Sovietica ebbe sicuramente modalità in comune con gli altri movimen­ ti diffusi nel resto dell’Europa, ma mosse anche da un impulso particolare che ne influenzò alcuni dei caratteri fondamentali. La resistenza all’occupa­ zione nei territori sovietic i non ebbe carattere spontaneo né nacque dal bas­ so, non fu un modo di contestare con la prepotenza dell’occupante anche il sistema sovietico - fenomeno di indubbia rilevanza, ma riferibile soprat­ tutto a movimenti come quello di Vlasov che finirono per collaborare con i tedeschi - , fu viceversa quasi un prolungamento della battaglia dell’Armata rossa contro le truppe d ’invasione. Nessun movimento di resistenza ebbe infatti alle sue spalle, in diretta contiguità territoriale, un potere cen­ trale - il potere dello stato sovietico - e un’organizzazione militare regola­ re possente, per cui le forze della Resistenza, al di là dell’impegno anche eroico di uomini e donne dello spazio russo, si posero oggettivamente co­ me espressione della continuità del potere legittimo. La funzione di difesa patriottica che la Resistenza assunse, lungi dal c reare la crisi di identità politico-sociale che si accompagnò a tu tti i movimenti della Resistenza più eversivi, conferì una conferma di legittimazione al potere dello stato so­ vietico e contribuì, con la risonanza della vittoria di Stalingrado e il carat­ tere simbolico che essa venne ad assumere a livello europeo, all’afferma­ zione del prestigio dell’Unione Sovietica presso tutte le forze della Resi­ stenza in Europa, molto al di là dei confini della militanza comunista fortemente impegnata nella lotta c ontro l’occupazione. Le caratteristiche non solo politiche ma anche geografico-territoriali entro cui si svolse la Re­ sistenza fecero sì che essa venisse inclusa nei veri e propri c icli operativi

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dell’Armata rossa. Essa inoltre dispose con larghezza del potenziale di ar­ mamenti e di strumentazione tecnica (a tu tti i livelli: dalle armi leggere al­ le tipografie clandestine e addirittura portatili e aereotrasportabili) che po­ teva essere fornito da un grande apparato militare e da un’organizzazione industriale a esso strettamente collegata. Se nelle motivazioni soggettive dei partigiani e delle partigiane sovieti­ che - di cui recano testimonianza i Messaggi dei condannati a m orte della R e­ sistenza sovietica - non si rinvengono accenti etici e umani diversi da quel­ li che animarono i resistenti nelle altre parti d ’Europa, le condizioni og­ gettive che resero possibile l’impegno di ingenti masse di popolazione dei territori sovietici occupati furono sicuramente irripetibili. Abbiamo lasciato per ultima la Resistenza in Germania non perché, co­ me ripetutam ente accadde di sentire nei primi anni dopo la sconfitta del Terzo Reich, non sia esistita o ne vada messa in dubbio la consistenza, ma perché essa a sua volta ebbe modalità specifiche e limiti che ne sottolinea­ rono la diversità rispetto alla generalità degli altri movimenti. Se si consi­ dera la periodizzazione comune a questi ultimi, che si può fare coincidere con il corso stesso della seconda guerra mondiale, l’opposizione al nazismo in Germania ebbe sicuramente un ben più lontano retroterra assimilabile piuttosto al percorso dell’antifascismo in Italia. Se fu certamente molto lun­ go, questo percorso fu anche estremamente duro a causa del sistema terro­ ristico e repressivo al quale fu esposto: infatti il sistema concentrazionario fu destinato in origine essenzialmente alla repressione degli oppositori rea­ li, potenziali o anche solo presunti del regime nazista. Ciò che comunque differenziava alla base la situazione tedesca e che impedì ai diversi nuclei della Resistenza di coagularsi a livello di massa e dar luogo a forme di op­ posizione - non solo militare ma anche di propaganda o di sabotaggio co­ me quelle che si diffusero altrove - fu il fatto che mancava ai tedeschi una delle principali spinte alla Resistenza: l’impulso alla ribellione contro lo stra­ niero. Da questo punto di vista la Resistenza nelle sue forme più autenti­ che poteva essere unicamente delle minoranze più consapevoli - non solo nei settori del vecchio movimento operaio più disponibili e predisposti al­ la lotta contro il nazismo - , in seno all’apparato amministrativo e militare e nella società civile; esse sole, in grado di non subire il ricatto nazionale del regime e decise a identificare l’appello patriottico con una realtà altra dal regime nazista, potevano farsi carico del messaggio di una Germania mi­ gliore e contrapporsi frontalmente al regime. Naturalmente, se non si tiene conto della complessa articolazione del sistema nazista - della fusione tra stato e società cui esso tendeva e della misura del controllo politico e socia­ le che mirava a stabilire su tutti gli aggregati della società; del processo com­ plessivo di accentramento politico-amministrativo e culturale, e non solo poliziesco, che realizzò - è difficile comprendere sia i motivi per cui i nu­ clei della Resistenza si ritrovarono confinati in uno spazio tanto ristretto, sia le ragioni per le quali, soprattutto ai vertici di talune articolazioni dello stato, della W ehrmacht, dell’amministrazione e della diplomazia, le forme

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dell’opposizione (i ripetuti tentativi di complotto contro il vertice nazista sino aì fallito attentato a H itler del 20 luglio del 1944) scaturirono gene­ ralmente dall’incontro di avversari autentici del nazismo e di settori della sua fronda interna decisi a salvare il salvabile di fronte alla prospettiva del­ la disfatta totale. Da questo punto di vista la crisi del fronte interno durante la guerra e lo sviluppo della Resistenza furono due facce della stessa problematica. Le linee di una profonda divisione interna, che non erano state tracciate nep­ pure da misure di grave lesione dei diritti umani come era accaduto nel ca­ so della persecuzione degli ebrei, furono scavate dalle sconfitte militari e segnatamente dal rovescio della sorte della guerra sul fronte orientale, in prossimità immediata della disfatta di Stalingrado. Episodi come quelli dei giovani studenti della Weisse Rose, reduci dal fronte russo, che per primi fecero apertamente appello alla ribellione e al sabotaggio contro il regime nazista - in nome fra l’altro della solidarietà con le popolazioni del resto d ’Eu­ ropa, oppresse dalla Germania nazista, e di valori universalistici, al di là dell’ispirazione religiosa che li muoveva - , rappresentano il momento di convergenza politica e ideale più esplicito che determina la considerazione a pieno titolo della Resistenza in Germania nel più generale processo della Resistenza in Europa. G li alleati e la Resistenza. Ovunque la Resistenza fu condizionata dal comportamento delle potenze della coalizione antinazista. Se è vero che i movimenti della Resistenza non ebbero bisogno della spinta degli alleati per iniziare la lotta contro l’occupazione, altrettanto vero è che essi erano con­ sapevoli sin dall’inizio che non avrebbero potuto conseguire il successo con le loro sole forze. Anche quei movimenti, come quello iugoslavo, che mi­ rarono a ottenere il massimo risultato contando solo su se stessi, sapevano che l’esito finale della lotta sarebbe dipeso dall’impegno politico e militare delle potenze e dai rapporti tra esse intercorrenti; istintivamente, i movi­ menti della Resistenza, indipendentemente da intese specifiche, si senti­ vano parte di un ideale unico fronte contro il fascismo e il nazismo; tu tta­ via è dubbio che si possa parlare di una vera e propria strategia della coali­ zione antinazista nei confronti dei movimenti di resistenza. Ciascuna delle potenze elaborò una rete di rapporti e di aiuti in base a valutazioni più o meno precise del contributo che alle operazioni militari poteva venire dal­ la Resistenza. La più immediatamente coinvolta in questi rapporti fu per ovvie ragioni la Gran Bretagna, il cui punto di vista pesò a lungo, almeno fin quando essa conservò la guida strategica della guerra. Se si eccettua la concezione del tutto particolare che l’Urss ebbe della Resistenza diretta dall’Armata rossa come parte organica dei suoi piani, la solidarietà degli al­ leati con i diversi movimenti della Resistenza non andò oltre certi limiti. Sicuramente, gli alleati ne amplificarono anche dal punto di vista propa­ gandistico il significato, se non altro per favorire il processo di isolamento dei tedeschi rispetto alle popolazioni dei territori occupati, che ha trovato il

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suo monumento letterario nell’intenso racconto II silenzio d e l mare di Vercors, uno dei capolavori della letteratura clandestina, diffuso nel 1941; ne colsero gli aspetti di utilità militare, a cominciare dal servizio di informa­ zione cui diedero tuttavia una interpretazione sempre riduttiva, attenti a non conferire eccessiva forza ai singoli movimenti: essi infatti non intese­ ro mai sottolinearne l’importanza politica, temendo forse la formazione di volontà e di centri di potere e decisionali autonomi rispetto alle loro esi­ genze e alle loro prospettive oppure paventandone (in particolare gli ingle­ si) il prevalere, in talune situazioni (in Grecia o anche in Italia, meno in Francia), della componente comunista cui attribuivano intenzioni che spes­ so non appartenevano alla linea che gli stessi partiti comunisti avevano ela­ borato e concordato con le altre forze della Resistenza. La G ran Bretagna non lesinò aiuti alla Resistenza, istituì addirittura un apposito settore, il Soe (Special Operations Executive), per fornire di quadri tecnici e di collegamento le missioni inviate presso i singoli movimenti, partendo da una concezione eminentemente tecnica del tipo di aiuto che i gruppi partigiani potevano recare alla guerra degli alleati: il sabotaggio militare e industria­ le dell’apparato nemico (di cui si ebbero manifestazioni clamorose, come l’attacco riuscito agli impianti dell’acqua pesante in Norvegia, decisivo per ritardare i progetti tedeschi di fabbricazione della bomba atomica), privile­ giando nettamente questo livello rispetto alla prospettiva della formazione di grandi movimenti portatori di aspettative militari e politiche che ten ­ dessero a scavalcare i propositi degli alleati. Gli inglesi, quando si trovaro­ no a dovere affrontare situazioni complesse come quella iugoslava - carat­ terizzata dalla presenza di un’area filomonarchica largamente egemonizza­ ta dai cetnici (nazionalisti serbi), interessati più alla lotta contro i partigiani di Tito che a quella contro i tedeschi - , operarono con totale R ealpolitik dando al movimento guidato da Tito il riconoscimento corrispondente al peso che esso era in grado di dispiegare nella guerra contro le forze tede­ sche. Altrove invece, come in Grecia, non appena videro che le forze mag­ gioritarie nella Resistenza minacciavano di travolgere gli interessi della parte conservatrice e dello stesso impero britannico, non esitarono a inter­ venire contro di esse avendo le spalle coperte dall’accordo strategico-diplomatico con l’Urss. Non solo quindi gli obiettivi della Resistenza non coincidevano necessariamente, soprattutto sul breve periodo, con quelli del­ le potenze alleate, ma spesso gli stessi movimenti di resistenza subirono il riflesso negativo della conflittualità e della divisione tra le potenze al­ leate. Al di là della situazione greca, il caso in cui più profondo fu il conflitto tra le principali componenti della Resistenza, anche come riflesso delle di­ vergenze tra le potenze, fu certo quello della Polonia. Un caso particolar­ mente drammatico perché capillare era stato in Polonia il coinvolgimento dei più larghi strati della società nell’azione clandestina di promozione e ge­ stione di veri e propri contropoteri, per esempio nell’organizzazione di una fitta rete illegale culturale ed educativa necessaria a contrastare il progetto

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di imbarbarimento e di analfabetizzazione della popolazione polacca av­ viato dall’occupazione tedesca. Mentre quindi la Resistenza a livello sociale ed esistenziale era riuscita a creare in Polonia, secondo la definizione dello storico americano T. Gross - estensibile in qualche misura anche all’anali­ si di altre realtà della clandestinità - , una vera e propria contro-società, a livello politico e militare la Resistenza visse un’esperienza profondamente di­ versa. Almeno sino al 1943 la Resistenza si riconobbe prioritariamente nel­ la cosiddetta armata dell’interno, promossa con l’appoggio determinante del governo in esilio a Londra, il cui orientam ento filoccidentale si irri­ gidì ulteriormente allorché, dopo l’aggressione tedesca e l’inizio della con­ troffensiva sovietica, prese corpo anche l’organizzazione militare della Re­ sistenza comunista e filosovietica. L’insurrezione di Varsavia dell’agosto del 1944, avvenuta senza collegamento né con i sovietici, che erano alle por­ te di Varsavia, né con gli angloamericani, come riconosce la stragrande mag­ gioranza della storiografia, fu il risultato di una scelta politica, prima anco­ ra che militare, allo scopo di liberare Varsavia prima dell’arrivo delle forze sovietiche, con uno di quei gesti attraverso cui anche in altre parti d ’Euro­ pa (Francia, Italia e Grecia, per non parlare della Iugoslavia) la Resistenza aveva voluto affermare la sua indipendenza dalle grandi potenze e la sua ca­ pacità di autodecisione e di autogoverno. A Varsavia, però, le condizioni politiche e militari non consentivano, anche alla luce dei rapporti di forze, una simile scelta. La distruzione della città, che era già cominciata da par­ te tedesca con la repressione dell’insurrezione del ghetto (aprile-maggio 1943), fu adesso completata e radicalizzata senza più remora alcuna. Nessuna attenzione presso gli alleati aveva trovato, più di un anno pri­ ma, proprio l’insurrezione del ghetto, l’episodio più alto e significativo del­ la Resistenza ebraica, la manifestazione della volontà di non soccombere alla condanna a morte del popolo ebraico decretata dai nazisti. Gli insorti del ghetto sapevano benissimo che da soli contro le forze tedesche non avrebbero potuto conseguire alcun successo; tuttavia lanciarono egualmen­ te un messaggio che non era di disperazione ma l ’affermazione che era pos­ sibile combattere, anche se la strategia alleata non prevedeva alcuna forma d ’aiuto a iniziative estranee a ogni logica militare e votate alla sconfitta. Questo episodio rappresentò un aspetto più c omplesso di quella Resisten­ za ebraica che proprio in Polonia ebbe il suo epicentro, anche al di fuori dei ghetti e dei lager, nell’odissea dei partigiani ebrei protagonisti, tra l’altro, di uno dei romanzi di Primo Levi, Se non ora, quando? Maggiore attenzio­ ne per la Resistenza sul continente europeo gli angloamericani ebbero sol­ tanto in previsione dell’apertura del secondo fronte, alla vigilia dello sbar­ co in Normanflia (giugno 1944), quando i sabotaggi e le azioni di disturbo dei maquis alle spalle delle forze tedesche entrarono nei calcoli e nella stra­ tegia dell’offensiva alleata. La «Resistenza passiva». La fenomenologia della Resistenza conobbe una tipologia comune, al di là di ogni differenza specifica, nelle più diver­

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se aree dell’Europa, in ragione ovviamente dei caratteri socio-politici e geo­ grafici delle rispettive aree. Il coinvolgimento di larghi settori di popola­ zione, che secondo un’immagine efficace rappresentava l’acqua nella qua­ le potevano nuotare i pesci, ovvero i protagonisti di azioni esemplari, fu la condizione prima che consenti alla Resistenza di manifestarsi con le for­ me e i livelli di intensità più diversi. Oggi la storiografia tende a superare o a definire in maniera più sfumata alcune categorie tradizionali, come la distinzione tra Resistenza attiva e passiva, troppo compressa in una inter­ pretazione tu tta a ridosso degli avvenimenti nell’identificare la Resisten­ za attiva con forme di lotta armata e troppo poco attenta al significato che ebbe allora il consenso, anche tacito, di larghi settori delle popolazioni sen­ za la cui complicità nessuna forma di resistenza, anche solo morale, sarebbe stata possibile. Rivalutare il concetto di una Resistenza civile o «senz’ar­ mi» (come proposto da Sémelin) non significa ovviamente annullare l’area dei comportamenti attendisti o di quella «zona grigia» della quale si ten ­ ta di decifrare stati d ’animo e comportamenti, al di fuori di semplicistiche banalizzazioni. Non si tra tta di esaltare l’una o l’altra forma della Resi­ stenza né di stabilire gerarchie tra le sue diverse forme, ma solo di resti­ tuire la complessità di una situazione tipica di una società assoggettata in cui l’oppresso vive fianco a fianco con l’oppressore e nella sua battaglia trae forza proprio dall’anonimato. Incutere nell’occupante il sospetto che il nemico potesse essere dovunque - nel ragazzino che portava viveri ai partigiani, nella ragazza che distribuiva stampa clandestina piuttosto che nella donna di mezza età che fungeva da staffetta, nelle donne che orga­ nizzavano i mezzi di sopravvivenza per gli ebrei e i perseguitati braccati dalla polizia, negli operai che potevano fermare il lavoro: questo fu certa­ mente uno dei vantaggi psicologici della Resistenza, di cui essa si servì og­ gettivamente come arma. I fili della solidarietà - nelle forme più diverse: dall’assistenza alle azioni collettive come gli scioperi, dalla renitenza alla leva al rifiuto di rispondere ai bandi d ’arruolamento per il lavoro per il Ter­ zo Reich, all’assistenza agli ebrei o ai prigionieri alleati fuggiti ai campi di concentramento - crearono una rete infinita di comportamenti anche in relazione a una molteplicità di motivazioni, da quelle esistenziali più istin­ tive a quelle intellettualmente più elaborate. Una valutazione di quel cam­ pionario esemplare di motivazioni, rappresentato dalle Lettere d i condanna­ ti a m orte della Resistenza europea, conduce a scoprire nella pluralità delle motivazioni più soggettive - di carattere umano, etico, religioso, politico la presenza di un nucleo forte di valori comuni, legati all’amore e alla di­ gnità della vita e al rispetto degli altri, al di là di ogni frontiera, e allo scon­ tro per la vita e per la morte che nella storia della nostra civiltà fu provo­ cato dall’affermazione del fascismo e del nazismo. L’impegno totale di uo­ mini e donne in una lotta spesso impari, soprattutto nell’immediato, non si può spiegare senza la consapevolezza dell’offesa che veniva inferta al­ l’umanità.

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I l ruolo della stampa clandestina e d e l m ovim ento operaio. Tra le attività che animarono la Resistenza un ruolo determinante fu assolto in ogni conte­ sto dalla stampa clandestina. In maniera indiretta essa esaltò anche il con­ tributo degli intellettuali, che fu particolarmente vivo ed evidente in alcu­ ni contesti (e non solo in Francia, che produsse una stampa clandestina c|i elevato valore, anche letterario, e una rilevante editoria nell’illegalità). E quanto si verificò soprattutto in Polonia, dove il crollo e la sconfitta della classe politica dirigente e i propositi di distruzione di ogni capacità civile e intellettuale del popolo polacco manifestati dai tedeschi ribaltarono sui ce­ ti intellettuali e accademici una funzione di supplenza politica per la salvaguardia dell’identità nazionale che ne esaltò il ruolo dirigente. Essi non fu­ rono importanti soltanto per i messaggi che elaborarono, ai fini immediati della lotta, per esplicitare la coscienza di quanto era necessario sul momento per la sopravvivenza esistenziale e nazionale. Nell’ambito del loro totale impegno nella Resistenza, i più consapevoli capirono anche quanto fosse necessario e importante trasmettere alle generazioni future un messaggio positivo e la memoria cjelle sofferenze, ma anche delle pagine luminose scrit­ te nella clandestinità. E ciò che accomuna, nelle due parti dell’Europa inva­ sa, due personalità così diverse ma per certi versi cosi affini - e non solo per l’essere stati entrambi vittime della violenza nazista - come Marc Bloch ed Emanuel Ringelblum, il grande storico delle «Annales» e il creatore e custode degli archivi segreti del ghetto di Varsavia. Talvolta è stata esalta­ ta la capacità dell’intellettuale di brandire le armi, come segnale di una sua disponibilità all’azione (questa fu sicuramente la risposta al lungo digiuno di autonomia imposto dal regime fascista, come attesta ad esempio Giaime Pintor); ma il vero fatto nuovo della Resistenza fu, da parte degli intellet­ tuali, un’assunzione di responsabilità di tipo nuovo che nella crisi dei ruo­ li politici tendeva a farne la guida della nazione. La diffusione della stampa clandestina fu uno dei tratti più comuni ai movimenti di resistenza nelle diverse aree dell’Europa. Laddove si trattò essenzialmente di una Resistenza non armata l’opera delle tipografie ille­ gali risultò spesso tra le attività più rischiose e anche il livello più alto di opposizione; assolse al compito della controinformazione, della propagan­ da e della diffusione di un pensiero alternativo; divulgò le motivazioni del­ la Resistenza ma contribuì anche alla formazione, e non solo alla circola­ zione, di una nuova progettualità, oltre a elaborare la critica dei sistemi sconfitti dal fascismo e dal nazismo. Fu per molti aspetti il veicolo della spe­ ranza, aprì la strada alle aspettative di un mondo migliore. La circolazione ovunque, nelle diverse parti del continente, di un’idea di Europa contrap­ posta al Nuovo ordine dei fascismi, come concezione diversa dei rapporti tra i popoli e come consapevolezza della inscindibilità della sorte degli uni da quella degli altri e della indivisibilità della pace: una ricerca tematizza­ ta in questa direzione metterebbe in evidenza come questa fosse una delle grandi aspettative che animò la Resistenza e incoraggiò la società clande­

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stina a tenere duro, a operare positivamente per la sopravvivenza, a dare un senso ai sacrifici di una quotidianità tanto avara di gratificazioni quan­ to ricca di pericoli. L’organo clandestino redatto e diffuso in Francia da un antifascista italiano emigrato, emblema egli stesso dell’internazionalismo della Resistenza, Silvio Trentin - «Libérer et fédérer», dal nome dell’omo­ nimo movimento illegale - , fu uno degli esempi più significativi di questa nuova progettualità e delle aspettative europeistiche, legate a una conce­ zione precisa di una democrazia fondata su un largo sistema di autonomie nei rapporti tra gli stati ma anche all’interno di essi, che maturarono negli anni della Resistenza. Persino nelle situazioni estreme, come nel caso del­ la battaglia ultima degli insorti del ghetto di Varsavia, la stampa clandesti­ na diede voce all’anelito di libertà di chi non accettava di essere soffocato e trasmise in questo modo un messaggio da consegnare ai vivi, prima anco­ ra che alla storia, per incoraggiarne la volontà di lotta e di sopravvivenza. Non è infine da trascurare nella Resistenza il peso di componenti par­ ticolari della società, delle Chiese, delle università, del movimento operaio, come segmenti trasversali che operarono al di là e al di sopra dei compartimenti partitici. Importante fu il ruolo del movimento operaio non soltan­ to nel sabotaggio diretto della macchina dell’economia di guerra del Terzo Reich ma soprattutto nell’impedire la realizzazione del progetto di saccheg­ gio sistematico delle risorse e dell’apparato produttivo dei territori occu­ pati, con una funzione anche di salvaguardia delle prospettive produttive per il futuro. Esso fu anche protagonista di agitazioni collettive, di grandi scioperi di massa il cui significato andò ben oltre il danno immediato che potevano recare alla produzione bellica per gli occupanti, ben oltre le ri­ vendicazioni di settori particolari di lavoratori. Lo sciopero - di solidarietà o per ottenere migliori condizioni salariali, per la conservazione del posto di lavoro oppure contro la minaccia di smontaggio o di trasferimento di im­ pianti - fu sempre un segnale la cui risonanza non poteva restare chiusa en­ trò la cerchia dei suoi protagonisti materiali: il fatto che tanti individui, in­ sieme e contemporaneamente, assumessero un comportamento che sfidava l’ordine imposto dalle autorità d ’occupazione bloccando i trasporti piutto­ sto che un settore produttivo, produceva di per sé un effetto di risonanza e di diffusione, per imitazione o per incoraggiamento, di tanti altri com­ portamenti trasgressivi. In Olanda, in Francia, in Italia, per ricordare i ca­ si più macroscopici, lo sciopero fu uno dei segnali più forti di contestazio­ ne del potere dell’occupante e dei suoi collaboratori, certo tra i più effica­ ci dal punto di vista del coinvolgimento collettivo. Al di sopra di esso, la circostanza più alta in cui nella Resistenza le po­ polazioni invase fecero le loro prime prove di democrazia fu costituita cer­ tamente dalla gestione delle zone libere. Soprattutto nelle aree in cui l’espan­ sione partigiana operava su spazi relativamente ampi (sicuramente in Iugo­ slavia e nei territori sovietici, in condizioni diverse in Francia e in Italia), alla funzione militare di creare dei cunei nello schieramento nemico le zo­ ne libere affiancarono la realtà di molteplici isole in cui si esercitava l’au­

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togoverno delle popolazioni, quasi un’anticipazione della futura società per la quale la Resistenza aveva oggettivamente preparato i quadri. Il peso nei governi del dopoguerra, anche nelle due parti dell’Europa divisa dalla guer­ ra fredda, di uomini usciti dall’esperienza della Resistenza non è certo da sottovalutare nella considerazione del retaggio di questo capitolo della se­ conda guerra mondiale. La guerra poteva essere vinta dalle potenze della coalizione antinazista anche senza la Resistenza; ma senza di essa l’Europa non avrebbe riacquistato una sua identità, che consisteva in primo luogo nel rifiuto del Nuovo ordine delle potenze dell’Asse ma soprattutto nella prefigurazione di una nuova gerarchia di valori anche nei rapporti tra i po­ poli e tra gli stati. N o ta b ib lio g r a f ic a . A r t e d e lla L ib e r tà . A n tif a s c is m o , g u e rra e lib e r a z io n e in E u r o p a . 1 9 2 5 - 1 9 4 5 , M a z z o t t a , M i ­ l a n o 1 9 9 5 ; A A . W . , L a R e s is te n z a e u r o p e a e g li A l l e a t i , A t t i d e l I I C o n g r e s s o i n t e r n a z io n a le s u lla s t o r ia d e lla r e s i s t e n z a e u r o p e a ( M i la n o , 2 6 - 2 9 m a r z o 1 9 6 1 ) , I n s m li , L e r ic i, M i la n o 1 9 6 2 ; F . W . D e a k in , L a m o n ta g n a p i ù a lta . L ’e p o p e a d e l l ’e s e r c ito p a r tig ia n o ju g o s la v o , E in a u d i, T o ­ r i n o 1 9 7 2 ; E u r o p e a n R e s is ta n c e M o v e m e n ts . 1 9 3 9 - 4 5 . F ir s t I n te r n a tio n a l C o n fe r e n c e o n t h e H i s to r y o f t h e R e s is ta n c e M o v e m e n ts , P e r g a m o n P r e s s , O x f o r d i 9 6 0 ; S . H a w e s e R . W h i t e (a c u ­ ra d i) , R e s is ta n c e in E u r o p e . 1 9 3 0 - 1 9 4 5 , P e n g u in , L o n d o n 1 9 7 6 ; P . M a l v e z z i e G . P i r e l li (a c u r a d i) , L e tte r e d i c o n d a n n a ti a m o r te d e lla R e s is te n z a e u r o p e a , p r e f a z i o n e d i T h . M a n n , E i ­ n a u d i , T o r i n o 1 9 5 4 ; M e ssa g g i d e i c o n d a n n a ti a m o r te d e lla r e s is te n z a s o v ie tic a , T e t i , M i la n o 1 9 7 4 ; H . M i c h e l , L e s m o u v e m e n ts c la n d e s tin s e n E u r o p e ( 1 9 3 8 - 1 9 4 5 ) , P u f , P a r is 1 9 6 1 ; I d . , L a g u e r re d e l ’ O m b r e . L a R e s is ta n c e in E u r o p e , G r a s s e t , P a r is 1 9 7 0 ; J . S é m e l in , S e n z ’a r m i d i f r o n t e a H i t l e r . L a R e s is te n z a C iv ile in E u r o p a . 1 9 3 9 - 1 9 4 3 ( 1 9 8 9 ) , S o n d a , T o r i n o 1 9 9 3 ; G . V a c c a r i n o , S to r ia d e lla R e s is te n z a in E u r o p a . 1 9 3 8 - 1 9 4 5 . 1 p a e s i d e l l ’E u r o p a c e n tr a le : G e r m a ­ n ia , A u s t r i a , C e c o s lo v a c c h ia , P o lo n ia , F e lt r i n e lli , M i la n o 1 9 8 1 .

N IC O L A L A B A N C A

Internamento militare italiano

G li internati m ilitari italiani n el contesto della prigionia di guerra. «Chi non è con noi, è contro di noi»: questo fu, già una settimana dopo l’armi­ stizio dell’8 settembre 1943, l’ordine diramato dal Comando supremo te­ desco (o k w ) sul comportamento da tenere nei confronti di circa un milione di soldati e ufficiali italiani catturati da parte tedesca. La sfiducia accumu­ lata negli anni di guerra da parte del regime nazista nei confronti dell’alleato-subordinato fascista nonché lo sdegno di Hitler verso Mussolini e gli ita­ liani al 25 luglio 1943 si riversarono così su quei soldati lasciati all’armisti­ zio il più delle volte senza ordini dai propri comandi o sopravvissuti, come a Cefalonia, a scontri anche aspri e prolungati con i tedeschi. Furono quindi specifiche considerazioni di ordine politico (nei confronti dell’“alleato” Rsi), economico (la Germania dell’estate-autunno 1943 ave­ va sempre più bisogno di manodopera) e anche razziale a segnare assai pre­ sto e in modo particolarmente vessatorio la sorte di quei prigionieri di guer­ ra. La specificità della loro situazione fu ben presto evidente sin dalla de­ finizione utilizzata per loro dal regime nazista: essi non furono, come i militari catturati di altre nazioni, prigionieri di guerra ma, appunto, «in­ ternati militari italiani» (Imi). Un conflitto di massa e totale, soprattutto se di movimento, quale fu la seconda guerra mondiale, produce naturalmente una m oltitudine di pri­ gionieri di guerra. Già fra O ttocento e Novecento, a partire dalla costitu­ zione dei grandi eserciti nazionali basati sulla coscrizione obbligatoria e sulla mobilitazione, si erano avuti i primi accordi internazionali sul tra t­ tamento dei feriti e dei prigionieri. In particolare, sull’onda dell’esperien­ za della Grande guerra, circoli umanitari e ambienti diplomatici e milita­ ri delle maggiori potenze avevano rielaborato le convenzioni precedenti che disciplinavano il trattam ento dei prigionieri di guerra e concedevano a organismi super partes come il Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr) ampi poteri di controllo e di sostegno umanitario. Di tali conven­ zioni si avvalsero in genere i milioni e milioni di prigionieri di guerra del secondo conflitto mondiale: e questo pur nella eccezionale disparità delle condizioni della cattività legate alla differenza fra potenze cattrici, scac­ chieri operativi, campi, periodi e - tra i prigionieri - persino fra individuo e individuo.

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Ma il regime nazista non volle, nemmeno nella definizione giuridica, guardare agli italiani catturati all’8 settembre come a normali prigionieri di guerra. Essi, appunto definiti «internati militari italiani», non poterono avvantaggiarsi - se non per casi particolari ed eccezionali - della sorve­ glianza dei delegati del Cicr, delle norme consuete per l’alimentazione e per l’inoltro della corrispondenza verso e dalle famiglie, e soprattutto della re­ gola che escludeva (almeno formalmente) i prigionieri di guerra e in parti­ colare gli ufficiali dal dovere di prestare ausilio alla potenza cattrice con il proprio lavoro. La storia degli Imi ebbe cosi caratteristiche sue proprie nell’ampio panorama dei prigionieri di guerra della Germania nazista. A ri­ gore giuridico, la figura dell’«internato», peraltro soprattutto civile, era prevista nelle convenzioni internazionali solo per quei cittadini di uno sta­ to neutro confinante che avessero assunto comportamenti ostili all’occu­ pante straniero e che fossero stati appunto da questo «internati»: ma tale definizione era evidentemente inapplicabile agli italiani catturati in segui­ to all’armistizio. Il solo scopo della definizione (e del trattam ento conse­ guente) stava nella volontà tedesca di avere mano libera su questa gran mas­ sa di italiani. Ad aggravare ancor più la situazione degli Imi e a legittimare l’inclu­ sione - per certi versi - della loro esperienza nell’ambito della Resistenza sta il fatto che il regime nazista offrì la liberazione dai campi di prigionia e il rinvio in Italia a quei prigionieri italiani che si fossero arruolati nelle for­ ze armate tedesche e soprattutto nelle costituende forze armate repubbli­ chine. Una quota di prigionieri aderì a tale proposta, reiterata dal momen­ to della cattura sino ai primi mesi del 1944, quando gli Imi avevano già fatto l’esperienza del durissimo inverno 1943-44 nei lager, sottoposti a una de­ tenzione che li esponeva alla scelta fra l’eliminazione per fame nei campi e la morte per sfruttamento per lavoro coatto e militarizzato all’interno del sistema economico di guerra della Germania nazista. Ma il fatto che la stra­ grande maggioranza degli Imi, soldati e ufficiali, e percentualm ente più quelli che questi, rifiutò di aderire alla Rsi costituì - per Berlino non meno che per Salò - un affronto e un disconoscimento di massa di altissimo va­ lore politico. Si è insinuato che così facendo gli Imi non avessero rifiutato il nazifascismo ma, più genericamente, la guerra, cercando in qualche mo­ do di avvicinare il loro comportamento a quello genericamente attendista di settori della popolazione in patria. In realtà, l’accostamento è inaccetta­ bile perché 1) riguarda situazioni difficilmente paragonabili; 2) sottovalu­ ta - sia pure nel fuoco di una guerra totale e di occupazioni militari parti­ colarmente efferate come quelle naziste - la condizione eccezionale, quasi la “situazione estrema” in cui gli Imi, dopo i primi mesi di lager, vennero a trovarsi; 3) non coglie che da parte tedesca, allora in eccezionale neces­ sità di manodopera, il rifiuto degli Imi ad aderire alla Rsi aveva il senso po­ litico, oltre che di una conferma del carattere impopolare del regime neo­ fascista, di un rifiuto di collaborare a quella stessa guerra che sempre più evidentemente minava le basi del Terzo Reich.

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La sorte degli Im i tra Salò e Berlino. La possibilità di una scelta, di una “liberazione” in cambio di un’adesione, non era un caso isolato nell’ambi­ to di una guerra totale e ideologica quale fu il secondo conflitto mondiale. Con scelte drammaticamente analoghe dovettero confrontarsi, ad esempio, molti francesi catturati dai tedeschi, soldati di altre nazionalità presi dal­ l’esercito sovietico ed ex militari di ogni provenienza finiti nelle varie for­ mazioni della Resistenza europea. Ma il deliberato e prolungato ricatto ri­ volto dal regime nazista agli Imi, rafforzato nei lager da un trattam ento ves­ satorio che per gli italiani si rivelò più lieve solo se rapportato a quello du­ rissimo subito dai sovietici (quotidianamente esposti allo sterminio per ragioni allo stesso tempo ideologiche e razziali, in quanto comunisti e sla­ vi), non ebbe paragoni per sistematicità, ferocia ed esiti, anche mortali. Non si è forse riflettuto abbastanza, ad esempio, che se per i francesi - prigio­ nieri in molti casi sin dal giugno 1940 - si era escogitato il sistema della re­ lève ciò non fu fatto, in quelle forme, per gli italiani, che pure della Germa­ nia nazista erano stati sino al 1943 alleati. Fu così che, una volta rassegna­ to circa il rifiuto categorico da parte degli Imi di arruolarsi nelle armate del­ la Rsi, il regime nazista li impiegò senza riguardo nel lavoro coatto, co­ stringendovi persino non pochi ufficiali e relegando quelli che di loro non volevano lavorare in lager di punizione in cui la vita era ancora più a rischio. Il fatto che molti particolari di tutte queste vicende non fu subito o com­ piutamente noto in Italia - agli organizzatori della Resistenza antifascista come alle famiglie dei prigionieri - accrebbe la sofferenza degli Imi e se pos­ sibile accentuò il valore politico generale della loro «resistenza senz’armi» nei lager di prigionia in Germania, sino alla liberazione dai campi a opera delle armate delle potenze antifasciste, anglostatunitensi da ovest e sovie­ tiche da est. A proposito dei catturati all’8 settembre nei Balcani, in Italia o in Fran­ cia, e degli inviati ai campi di internamento (perché a una parte considere­ vole dei disarmati riuscì o fu permesso allontanarsi), dei caduti nelle pri­ missime operazioni di spostamento e delle vittime per fame o per stenti nei lager o negli arbeitskom m ando - soprattutto degli aderenti alla repubbli­ china neofascista - , le istituzioni italiane della repubblica, i protagonisti e gli storici non dispongono di cifre precise. Ma ormai, soprattutto dopo lo studio di Gerhard Schreiber e le successive puntualizzazioni di Giorgio Rochat e Claudio Sommaruga, il quadro è sufficientemente chiaro. Le cifre ufficiali dell’Italia repubblicana parlarono assai presto (a fronte di forse 408 000 prigionieri in mano inglese, 125 000 in mano statuniten­ se, 37 000 in mano francese e un numero difficilmente calcolabile in mano sovietica, dai 20 000 agli 80 000) di circa 615 000 italiani rimasti nel Reich: una cifra da aumentare per il tristo computo delle vittime dei lager e per il conteggio che pure andrebbe fatto degli altri internati rimasti più o meno a lungo nei Balcani. Su tutti il ministero della Difesa calcolava forse un due per cento di aderenti alla Rsi. Per tali ragioni a lungo si è ragionato a par­

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tire dalla cifra di 650 000 Imi, anche se appariva chiaro che gli aderenti do­ vevano essere stati più numerosi (per quanto tale rialzo non modificava af­ fatto il senso politico del no al nazifascismo espresso dalla stragrande mag­ gioranza dei militari italiani in Germania nel 1943-45). Più recentemente Schreiber ha offerto cifre più documentate per quanto ancora non defini­ tive: forse un milione di disarmati, 810 000 internati (di cui 58 000 cattu­ rati in Francia, 321 000 in Italia e 430 000 nei Balcani), 615 000 rimasti nei campi refrattari a ogni accordo con il nazismo e il neofascismo della Rsi. La differenza fra le ultime due cifre darebbe l’entità numerica dei «recupera­ ti all’alleanza» nazifascista, con la triplice avvertenza che si tratta di una cifra ottenuta più per sottrazione che per documentazione precisa, che fra i «recuperati» la diversità di motivazioni era altissima (dalla convinzione ideologica di pochi al timore della morte per fame e stenti di molti) e infi­ ne che di questi stessi una quota assai alta, per quanto difficilmente calco­ labile - in alcuni casi da un quinto a più della metà - , una volta tornata in Italia disertava dalle forze armate repubblichine e si dava alla macchia o al­ la Resistenza. Fossero insomma i 650 000 ricordati dalle cifre ufficiali o ancora di più, questi italiani dispersi fra Polonia, Germania e Balcani costituirono la po­ sta di un gioco politico e diplomatico fra Salò e Berlino che confermò la na­ tura subordinata del neofascismo repubblichino. Da parte tedesca furono elaborati diversi piani di utilizzo di questa gran­ de risorsa di manodopera: piani che ne prevedevano l’impiego in agricoltu­ ra, nelle fabbriche della produzione bellica, nei lavori di manovalanza per i danni bellici sofferti dalla Germania bombardata e persino a fini militari: ma di fronte alla considerazione, più volte provata, dell’inefficienza delle strutture militari italiane, furono coloro che miravano a vedere gli Imi co­ me una gigantesca risorsa di manodopera per lo sforzo bellico tedesco ad avere la meglio e a imporre il più rigido controllo sugli italiani prigionieri. La stessa trasformazione forzosa, nell’estate 1944, degli Imi che non ave­ vano aderito alla Rsi in «lavoratori volontari» (una trasformazione di de­ nominazione e di fatto seguita a un accurato esperimento in cui si era pro­ vato che un innalzamento dell’apporto calorico dell’alimentazione avrebbe fatto crescere la produttività degli Imi impiegati nell’industria bellica) di­ mostrava che il regime nazista, pur senza rinunciare a forme di lavoro coat­ to e di controllo militare, guardava agli Imi - una volta battute le pretese repubblichine - in termini di manodopera servile. Da parte della Rsi, d ’altro canto, riprendere il controllo sugli Imi avreb­ be significato ottenere un’attestazione di fiducia a livello diplomatico da Berlino e a livello politico-interno dalla popolazione italiana. Ma Hitler non aveva intenzione di riconoscere a Mussolini alcuno status di parità. D ’altro canto Salò si presentò divisa di fronte a Berlino, con Graziani, Canevari e i militari non sempre allineati sulle posizioni del duce redivivo. A Salò, se­ de del governo della Rsi, ci si rendeva conto che lasciare le famiglie di que­ ste centinaia di migliaia di uomini nell’incertezza sul futuro dei loro cari

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avrebbe indebolito ulteriormente la tenuta del regime, ma non tu tti i re­ sponsabili della repubblichina si sentivano tranquilli circa i sentimenti che questi Imi avrebbero professato, una volta eventualmente tornati in patria, nei confronti del neofascismo e dell’“alleato” tedesco. Anche dal punto di vista dell’assistenza, l’impegno della Rsi verso gli Imi fu quanto mai inin­ fluente (il primo treno merci di aiuti parti dalla stazione di Milano solo ai primi di giugno 1944!), aggravando un tratto di continuità del comporta­ mento dello stato italiano verso i suoi prigionieri di guerra (da Adua alla Grande guerra, appunto, sino agli Imi). Furono così la natura subordinata della Rsi, le sue divisioni, il suo carattere antipopolare a contribuire a che la sorte degli Imi fosse di fatto stabilita in Germania, dal regime nazista e dalla «resistenza senz’armi» dei prigionieri. La vicenda umana degli Imi. Intanto la condizione di prigioniero italia­ no, o meglio di Imi, aveva tratti comuni tra ufficiali, sottufficiali e soldati: umiliazioni, freddo, fame, stenti, malattie (fra tutte, oltre a quelle infetti­ ve, tremendamente ricorrente fu la tubercolosi) e infine, non di rado, mor­ te. Da questo punto di vista, quello della «società del lager», la scelta del regime nazista e ancor più della Rsi di cercare di ottenere una qualche ade­ sione da parte degli Imi diveniva così solo un aspetto del più generale uni­ verso concentrazionario: in esso la lotta per la sopravvivenza individuale, la totale soggezione al carceriere, lo sforzo di «essere uomini» (in lager do­ ve la spersonalizzazione sembrava costituire lo scopo finale) minavano, ol­ tre al fisico, il morale degli Imi. La società del lager conosceva però anche delle differenze. Nell’univer­ so concentrazionario della prigionia nazista di guerra, per gli italiani - uf­ ficiali o soldati che fossero - la posizione era diversa rispetto a inglesi e fran­ cesi, da un lato, e ai sovietici dall’altro: gli Imi erano assai più vicini a quest’ultimi che ai primi ed erano costretti a subire - oltre alle durezze della prigionia di guerra - un disprezzo ideologico e razziale evidente a partire dagli stessi epiteti rivolti loro da carcerieri e talora dalla popolazione tede­ sca («traditori», «porci badogliani», «macaroni»), un disprezzo non teori­ co o astratto e che, in una condizione di estrema riduzione dell’alimenta­ zione e di ogni sostegno, poteva finire per trasformarsi in pratica in una condanna a morte. Vi erano anche altre differenze importanti. Gli ufficiali furono segre­ gati dalla massa dei soldati in campi appositi, costretti all’inattività e all’ine­ dia, privati di ogni vestigia di ruolo e di status. Alcuni di loro reagirono in­ tellettualmente, e la Resistenza nei campi degli ufficiali si basò anche su una discussione collettiva e un riesame al tempo stesso politico e culturale del passato nazionale. La loro resistenza contro l’adesione alla Rsi fu parti­ colarmente importante anche sul piano simbolico, giacché i tedeschi rite­ nevano che un significativo consenso degli ufficiali avrebbe potuto trasci­ nare quello dei soldati. Per quanto fiaccati da mesi di fame e di stenti, mol­ ti di essi ebbero tuttavia la forza di reagire agli inviti, reiterati dall’estate

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1944, di collaborare con il lavoro allo sforzo bellico, e furono in gran par­ te per ciò puniti. Al più tardi alla fine del gennaio 1945, anche per gli uffi­ ciali - come già per i soldati - sarebbe venuto l’ordine di un forzoso pas­ saggio allo stato di lavoratori civili. La vicenda dei soldati fu in parte diversa. Presto, per loro il campo fu solo un ricovero notturno dopo una giornata di lavoro all’esterno, spesso massacrante sia per la fatica richiesta, sia per la sempre insufficiente ali­ mentazione. Le condizioni di lavoro erano assai diversificate e la monoto­ na vita di prigionia si articolava in situazioni fra loro assai diverse. Con i soldati, probabilmente, i tedeschi furono meno insistenti che con gli uffi­ ciali nelle loro richieste di adesione ideologica alla Rsi: ma il loro rifiuto, proprio per la lontananza dagli ufficiali e per le differenziazioni delle con­ dizioni materiali di lavoro (dalla campagna alla fabbrica, dal piccolo paese alla grande città), acquista un ancor più significativo valore. Come accen­ nato, nell’estate 1944 agli Imi fu dapprima proposto di trasformarsi in «li­ beri lavoratori» con atto di adesione volontaria: ma vista la rinnovata riot­ tosità dei soldati italiani e nella speranza che un miglioramento nella loro condizione di vita suscitasse un innalzamento della loro produttività (evi­ dentemente giudicata insufficiente), il regime nazista ordinò che entro i pri­ mi di settembre 1944 tale trasformazione avvenisse d ’autorità. Sarebbe dif­ ficile negare che da quel punto in poi si verificasse un qualche migliora­ mento nelle loro condizioni di vita: sarebbe però incauto sopravvalutarlo, considerati i guasti ormai prodotti nel fisico e nel morale degli Imi da me­ si e mesi di internamento e data la permanenza del controllo repressivo sul loro lavoro e sull’accasermamento, peraltro nel quadro di una Germania or­ mai insidiata alle sue stesse frontiere storiche da est e da ovest e sempre più impoverita e demoralizzata dalla pressione della guerra. Per tutti, intanto, i rapporti con l’Italia erano divenuti quanto mai la­ bili. Privati del controllo del Cicr, in assenza di un’assistenza da parte del­ la Rsi (la maggior parte degli addetti al cosiddetto «servizio assistenza in­ ternati» della Rsi rimpatriava in Italia già ai primi di febbraio 1945), le uni­ che ancore di salvezza morali e fisiche erano spesso la lettera e il “pacco” da casa. Ma dopo l’estate X944 e l ’attestarsi della linea Gotica, gran parte degli Imi provenienti dall’Italia centrale e meridionale fu abbandonata a se stessa, e alla solidarietà dei commilitoni di camerata. Le notizie in qualche modo circolavano, “radio scarpa” funzionava, ma la durezza di un altro in­ verno nei lager spiega, anche oggi agli occhi dei superstiti, le ultime ade­ sioni individuali ottenute nel 1944-45. La liberazione degli Imi venne in genere con la fine della Germania na­ zista. Alcuni erano già stati liberati dalle armate antifasciste avanzanti da est e da ovest. Ma nella grande maggioranza quelli che dapprima erano sta­ ti detenuti nei campi più lontani dai confini storici della Germania, in Po­ lonia o nei Balcani o in Francia, erano stati fatti arretrare nel cuore della fortezza nazista: per costoro la liberazione avvenne quindi verso l’aprile del 1 94 5 -

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Dopo un ultimo viaggio attraverso la Germania distrutta, gli Imi tor­ narono quindi a casa. Il loro rientro fu solo in parte organizzato ufficial­ mente dall’Italia, e fra luglio e dicembre 1945 la massa dei prigionieri rien­ trò in una patria ormai non più fascista, profondamente diversa da quella per la quale erano stati chiamati a combattere alcuni anni prima. Il ritorno a casa di ognuno di essi si differenziò per la molteplicità di situazioni fa­ miliari, lavorative, economiche che gli ex prigionieri trovarono: chi ritor­ nava nell’Italia sotto la linea Gotica, ad esempio, trovava una società che aveva già da più mesi iniziato ad assaporare un certo qual “dopoguerra” . Gli Imi non rientrarono però soli: assieme ad essi erano tornati o sarebbero tornati alla vita civile i partigiani dalle montagne, i pochi militari combat­ tenti, gli altri prigionieri dai più lontani continenti. T utti volevano voltare pagina col passato. Così fecero anche gli Imi, per quanto della loro vicen­ da non sempre si sapesse ancora molto. Di fronte all’epopea del partigianato, la pagina della prigionia di guerra scoloriva: così facendo si rischiava peraltro non solo di dimenticare la prigionia ma anche di assimilare prigio­ nie fra loro assai diverse, come quella in mano angloamericana e, appunto, quella in mano tedesca degli Imi. La repubblica e le istituzioni militari hanno sostanzialmente accantona­ to la pagina della prigionia di guerra e per lunghi anni hanno sottovalutato lo stesso carattere di «resistenza senz’armi» del rifiuto degli Imi di aderire alla Rsi. Di ricompense, benemerenze, riconoscimenti si è stati assai parchi. La stessa associazione di rappresentanza (Anei) per decenni ha volutamen­ te tenuto un basso profilo dal punto di vista dell’azione rivendicativa, limi­ tandosi a una funzione di rappresentanza soprattutto sotto l’aspetto mora­ le dell’esperienza dei reduci dell’internamento. Anche gli studi storico-mili­ tari si sono avvicinati relativamente tardi a questa complessa materia. Per lungo tempo solo isolate voci di testimoni, e la loro memorialistica, hanno cercato di ricordare agli italiani questa pagina di prigionia e di pe­ culiare resistenza di massa al nazifascismo. N o t a b ib lio g r a f ic a . A s s o c i a z i o n e n a z io n a le e x i n t e r n a t i ( A n e i) , R e s is te n z a s e n z ’a r m i. U n c a p i to lo d i s to r ia it a ­ lia n a ( 1 9 4 3 - 1 9 4 5 ) d a ll e te s t im o n ia n z e d i m i lit a r i to s c a n i in te r n a ti n e i la g e r n a z i s t i, L e M o n n ie r , F i r e n z e 1 9 8 4 (2* e d i z i o n e 1 9 8 8 ) ; A . B e n d o t t i , G . B e r t a c c h i, M . P e l l i c c i o l i e E . V a lt u lin a (a c u r a d i) , P r ig io n ie r i in G e r m a n ia . L a m e m o r ia d e g li in te r n a ti m i lit a r i, I l f i l o d i A r ia n n a , B e r g a ­ m o 1 9 9 0 ; E . C o l l o t t i e L . K l in k h a m m e r , I l f a s c is m o e l ’I ta lia in g u e r ra . U n a c o n v e r s a z io n e f r a s to r ia e s to r io g r a fia , E d i e s s e , R o m a 1 9 9 6 ; R . D e F e l i c e , M u s s o lin i l ’a ll e a to . 1 9 4 0 - 1 9 4 5 , I I . L a g u erra c i v il e ( 1 9 4 3 - 1 9 4 5 ) , E in a u d i, T o r i n o 1 9 9 7 ; N . D e l l a S a n t a (a c u r a d i) , I m i lit a r i it a lia ­ n i in te r n a ti d a i te d e s c h i d o p o l ’8 s e tte m b r e 1 9 4 3 , G i u n t i , F i r e n z e 1 9 8 6 ; U . D r a g o n i , L a s c e lta d e g li I M I . M ili ta r i ita lia n i p r ig io n ie r i in G e r m a n ia ( 1 9 4 3 - 1 9 4 5 ) , L e L e t t e r e , F i r e n z e 1 9 9 6 ; V . I la r i, S to r ia d e l s e r v iz io m ilita r e in I ta lia , V . S o ld a ti e p a r tig ia n i ( 1 9 4 3 - 1 9 4 5 ) , C e n t r o m ilit a r e d i s t u d i s t r a t e g i c i, R o m a 1 9 9 1 ; N . L a b a n c a (a c u r a d i) , F ra s te r m in io e s f r u tta m e n to . M ili ta r i in te r n a ti e p r ig io n ie r i d i g u e rra n e lla G e r m a n ia n a z is ta ( 1 9 3 9 - 1 9 4 5 ) , L e L e t t e r e , F i r e n z e 1 9 9 2 ; A . N a t t a , L ’a ltr a R e s is te n z a . I m i l i t a r i ita lia n i in t e m a t i in G e r m a n ia , i n t r o d u z i o n e d i E . C o l ­

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l o t t i , E i n a u d i , T o r i n o 1 9 9 7 ; R . R a in e r o (a c u r a d i) , I p r i g io n ie r i m i lit a r i ita lia n i d u r a n te la s e ­ c o n d a g u e r ra m o n d i a l e . A s p e t t i e p r o b le m i s to r ic i , M a r z o r a t i, M i la n o 1 9 8 5 ; G . S c h r e i b e r , I m i ­ li ta r i i t a lia n i in te r n a ti n e i c a m p i d i c o n c e n tr a m e n to d e l T e r z o R e i c h ( 1 9 4 3 - 1 9 4 5 ) . T r a d it i d i ­ s p r e z z a ti d im e n tic a ti ( 1 9 9 0 ) , U f f i c i o s t o r ic o d e l l o s t a t o m a g g io r e d e l l ’e s e r c i t o , R o m a 1 9 9 2 ; C . S o m m a r u g a , P e r n o n d im e n tic a r e . B ib lio g r a f ia r a g io n a ta d e l l ’in te r n a m e n to e d e p o r ta z io n e d e i m i­ lita r i it a lia n i n e l T e r z o R e i c h ( 1 9 4 3 - 4 5 ) , I . M e m o r ia lis tic a e sa g g is tic a , I n s m l i - A n e i - G u i s c o , s .l. 1 9 9 7 ; L . T o m a s s i n i (a c u r a d i) , L e d iv e r s e p r ig io n ie ita lia n e d e lla s e c o n d a g u e rra m o n d ia le , R e ­ g io n e T o s c a n a , F ir e n z e 1 9 9 5 .

ALESSANDRO NATTA

La Resistenza taciuta : Giuseppe Lazzatì Giuseppe Lazzatì si trovava a Merano l’8 settembre del 1943 come tenente degli A l­ pini; catturato dai tedeschi, fu deportato in Germania e visse la vicenda della prigionia nei campi di Deblin, Oberlangen, Sandbostel, Wietzendorf. Quegli anni, difficili e duri, non furono per lui un episodio marginale, una pausa, e tanto meno un tempo perduto : hanno avuto invece una importanza fondamentale nella vita dell’uomo, del cattolico e per la sua vocazione e scelta di maestro ài religione e di politica. E bene ricordare che l’internamento di centinaia di migliaia di militari italiani, da parte di chi lo inflisse e da parte di chi lo subì, venne inteso più come un episodio di lot­ ta politica che come una necessità o un fatto militare. Nella stessa denominazione usata dai tedeschi, «internati militari italiani» (Imi), si può cogliere un barlume di verità: si trattava di una figura nuova, un che di mezzo tra il prigioniero di guerra e il perseguita­ to politico, e nei confronti dei militari italiani, degli ufficiali in particolare, perché i sol­ dati vennero senz'altro destinati a l lavoro coatto, si stabilì una misura intermedia fra il trattamento riservato ai primi e quello di cui furono vittime i secondi. Nella terribile ge­ rarchia della persecuzione che caratterizzò l’universo concentrazionario gli internati ita­ liani vennero collocati a un particolare gradino, dopo gli ebrei, i politici, gli omosessua­ li, i prigionieri di guerra senza garanzia intemazionale (russi) : ecco gli italiani che ebbe­ ro la sorte di essere “tutelati” dalla Rsi. Ma anche gli italiani, è giusto ricordarlo, quando opposero un rifiuto alle profferte, al­ le pressioni, aUe lusinghe sia dei nazisti che dei fascisti ad aderire alla Rsi, a compiere una scelta politica a favore delfascismo o del nazismo, compirono un gesto che assumeva il ca­ rattere e il significato di una presa di posizione politica e di una sfida. Così l’internamen­ to diveniva qualcosa di diverso dalla prigionia, dall’attesa, per quanto penosa e triste, che il conflitto si risolvesse sui campi di battaglia, e si trasformava anch’esso in un momento, in un episodio del conflitto stesso, assumendo il carattere di un pronunciamento e di una resistenza politica e ideologica. Naturalmente questa consapevolezza fu una conquista fa­ ticosa, difficile, travagliata. Ed è ben comprensibile l’asperità delpassaggio se si ha presente in quale crollo rovinoso di idee, di convinzioni, e anche di presunzioni, venissero travolti, con la sconfitta militare dell’Italia, centinaia di migliaia di soldati, decine di migliaia di ufficiali, giovani per la maggior parte o tuttavia a lungo ingannati dalfascismo. A ll’inìzio, subito dopo l’8 settembre, i motivi e le ragioni del rifiuto opposto ai fa­ scisti e ai tedeschi furono molti, i più diversi, i più semplici e tuttavia sufficienti nell’im­ mediato : dalla fedeltà al giuramento militare al cumulo di risentimenti nei confronti di

N a tta

L a R e s is te n z a ta c iu ta : G iu s e p p e L a z z a ti

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un alleato arrogante, alle ferite dolorose degli scontri dopo l ’armistizio (da Cefaionia a Lero), alla volontà dei deportati di non essere nuovamente gettati nell’avventura o nel rischio della guerra. Ma poi per restare volontariamente nei lager e reggere con dignità fu necessario dare una motivazione politica nazionale di quella scelta e dei sacrifici, dei ri­ schi sempre più evidenti e penosi che essa comportava;fu necessario dare un fondamen­ to ideale, una persuasione diffusa e comune a quella Resistenza, in qualche misura ana­ loga al sentimento, alla determinazione antifascista di chi si batteva, anche con le armi, in Italia e in altri Paesi europei. Il rifiuto, la non collaborazione, la Resistenza, per uomini come Lazzari furono una decisione coerente con le persuasioni ideali e politiche che già avevano maturato .Non mi riferisco per Lazzati solo a un cardine come quello della fede, e di una fede che non con­ sentiva più alcuna compromissione 0 tolleranza con ideologie o politiche come quelle del fascismo e del nazismo. Il presidente della Gioventù cattolica milanese, l ’organiz­ zatore dei «Milites Christi», era impensabile che potesse cedere, farsi soldato del Reich di Hitler o della repubblica di Mussolini. E ben si comprende il consìglio al compagno di fede, a Deb Un, «resisti finché ce la fai, ma se sei un vero cristiano devi resistere fino all’ultimo». Ma in quella scelta non vi erano solo una ispirazione e una motivazione religiosa. Già prima che l ’Italia fosse coin­ volta e travolta nella guerra, Lazzati era venuto impegnandosi in campo politico.N el so­ dalizio, alla Cattolica, con Dossetti e Fanfani si era fatto partecipe e protagonista della preparazione dell’educazione politica dei cattolici in vista di una fase nuova, auspicata e prevista, della vita della nostra nazione dopo la caduta delfascismo. Cosi la prigionia, il lager (non voluti certo, ma accettati come scelta inevitabile, doverosa) diventano una prova, e più dura, perfino spietata, che si potesse immaginare, diventano il vaglio defi­ nitivo sotto il profilo personale : non una scoperta, ma una conferma di una vocazione, di un compito o di una missione ai quali Lazzati obbedirà poi in tutto il corso della sua vita, nell’impegno politico, nell’Azione cattolica, nell’opera culturale-educativa. E importante sottolineare il modo in cui Lazzati ha vissuto la prigionia, non solo come altri hanno osservato - nella pienezza che per i credenti hanno tutti i tempi della storia, che sono comunque tempi di Dio e dell’uomo, ma come un’occasione che con­ sentiva anch’essa un fare, un costruire qualcosa che poteva valere per altri oltreché per sé. Fare il maestro, educare in senso religioso o laico, preparare all’impegno civile e politi­ co in un lager o in una università non costituisce una differenza radicale. Forse è in que­ sta vocazione pedagogica, in questa volontà e capacità di farsi maestri e anche apostoli il dato che caratterizza e anche differenzia Lazzati: il cimento del lager diventa occasio­ ne per mettere se stessi al servizio degli altri, per farsi consigliere e guida nella difesa del­ la dignità dell’uomo, nella resistenza all’oppressione, alla forza, all’imbarbarimento; nella ricerca e affermazione delle ragioni nuove della nostra identità nazionale; dei va­ lori da porre a base della società e dello stato italiano, e dell’Europa. Ancora oggi è bene ricordare e mettere in luce che se nei lager tanta parte degli uffi­ ciali seppe resìstere ciò non avvenne per caso. Decisiva fu l’opera di informazione, di educazione, di propaganda che in molti lager, e via via in forme sempre più organizzate, venne compiuta da quanti avevano una qualche competenza e passione civile e politica, da quanti avvertivano, come un dovere, questa esigenza di aiutare e di orientare. Per Laz­ zati abbiamo documenti e testimonianze che provano questo impegno immediato e co­ stante dal primo inverno a Deblinfino a Sandbostel e a Wietzerdorf, non solo di confor­ to, di consìglio, con il fascino e l’autorità che gli venivano dall’autenticità della fede e dall’altezza della cultura, ma anche di formazione politica - e già il commento del Van­ gelo diveniva opera di «sobillazione» - , in particolare ma non solo dei cattolici, che re­ sterà la professione fondamentale di tutta la sua vita.

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Lazzatì appare come un “sacerdote laico"; ma sono stati tanti ad assumere un poco questa funzione di guide spirituali, di educatori sotto il profilo etico-politico, filosofi, storici, letterati di diversa formazione culturale e orientamento politico, impegnati tut­ ti con l’esempio e con la parola nella difesa della dignità dell’uomo. N el lager era spa­ lancato l’abisso dell’egoismo, della riduzione selvaggia all’animalità, ma rifulsero an­ che in modo straordinario la nobiltà dell’uomo, lo spirito di solidarietà e di fraternità. Impegnati e uniti nel proposito e nella volontà di resistere e di far resistere il maggior nu­ mero possibile di ufficiali italiani contro il fascismo ; decisi e determinati in questo do­ vere di prepararsi e di preparare altri, per il momento del ritorno all’azione, per il rin­ novamento e il progresso dell’Italia. Le iniziative furono le più varie. A Sandbostel Lazzatì fece un corso sull’essenza del cattolicesimo, ma sono da ricordare in quella sorta di università anche i corsi non meno ricchi di attualità politica di Enzo Paci di storia della filosofia, di Ignazio Cazzaniga di storia romana, di Carmelo Cappuccio sulla «Divina Commedia», e anche, se mi è con­ sentito, le mie lezioni sull’illuminismo. Sono stati tanti i maestri volontari che poi ebbero una presenza rilevante nelle uni­ versità e nella cultura italiana. Il loro impegno fu determinante per il distacco, il rifiu­ to, la condanna via via più limpida e netta del nazifascismo da parte di tanti giovani. E questo carattere antifascista della resistenza nei lager ebbe una grande importanza per le prospettive politiche del nostro paese. Forse il significato e la portata di questa vicenda non furono immediatamente compresi all’indomani della liberazione, ma non c’è dub­ bio che ebbe un peso significativo il fatto che decine e decine ài migliaia di reduci ita­ liani si sentissero partecipi alla Resistenza antifascista, e molti di loro fossero convìnti ài essere stati àalla stessa parte àei partigiani che in Italia avevano combattuto con le armi. In questa opera ài mutua educazione e ài formazione ài una coscienza etico-politi­ co democratica Lazzatì si impegnò in pieno con la sua personalità di cattolico in ognif i­ bra e di antifascista fermissimo, sempre aperto all’ascolto e a l àialogo. Già allora a me accadde ài apprezzare molto la laicità àel suo comportamento, pari alla sicurezza e al ri­ gore iielle sue convinzioni, in quel tempo àelfurore che àentro i reticolati àawero non lasciava molto spazio alla tolleranza. Nel ricorào il momento più significativo resta quel­ lo ài una sorta ài seminario iàeologico-politico che si tenne a Sanàbostel per un con­ fronto tra le granài correnti ài pensiero e le diverse tendenze polìtiche, poiché anche nei campi degli ufficiali vi era stato un qualche processo di aggregazione ài forze - àalla si­ nistra, comunista e socialista, agli azionisti, ai liberali e al gruppo àei cattolici, forse il più consistente, ma ài varia ispirazione. Il tema - ben rivelatore - era la «questione sociale», ma al ài là àel confronto spe­ cifico quell’incontro mirava alla ricerca ài una convergenza, come àel resto accaàeva in Italia, per l’opera comune ài liberazione e ài rinascita àel nostro paese. Ciò che allora soprattutto mi colpi in Lazzatì fu la netta affermazione àella neces­ sità che la rifonàazione àella nazione e àello stato, per realizzarsi veramente, coinvol­ gesse prima ài tutto le masse àel popolo, le forze sociali e culturali che la vecchia Italia aveva tenuto ai margini, fuori àel potere. E l’altro punto sul quale era del tutto esplicito : che non sì poteva tornare all’Italia prefascista, che bisognava fonàare una democrazia nuova, forte e aperta, sui grandi va­ lori della libertà, àella giustizia, àelpluralismo e delle solidarietà. Si trattava, è chiaro, dell’ispirazione e dell’orientamento che saranno propri del cattolicesimo àemocratico, ài quel gruppo àella sinistra àella De, ài «Cronache sociali», che si raccolse attorno a Dossettì, e che àeve essere ricoràato non solo perché in esso Lazzatì avrà un posto im­ portantissimo (anche se l’esperienza ài Dossettì e ài Lazzatì nel campo politico vero e proprio si concluàe presto, tra il 1951 e il '53) ma soprattutto perché quell’ala - àe-

N a tta

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mocratìca e progressista - della De ebbe un ruolo essenziale nella costruzione della re­ pubblica, dell’unità della nazione, dei principi e del programma della Costituzione. Anche per questo giova ricordare esperienze come quelle dell’internamento e della resistenza nei lager. Su di esse abbiamo avuto,forse sbagliando, un atteggiamento di trop­ po grande riserbo, quasi di pudore, e la testimonianza di Lazzati è sotto questo profilo esemplare. Non mi riferisco solo alle sue lettere di internato cosi contenute, sobrie, do­ ve è raro, e si comprende, il richiamo alla durezza, alle sofferenze, agli aspetti disumani del lager- «non vorrei esagerare il sacrificio» - , alla resistenza necessaria - «io sento an­ che troppo la mia dignità e so bene il mio dovere» - , alla speranza, e anche a quell’im­ pegno di riflessione e d ’azione già intenso per costruire da cristiani la città dell’uomo a misura dell’uomo. Ma anche dopo: nessuna forma di reducismo, nessuna rivendicazio­ ne di meriti, non oltre il senso e la soddisfazione del dovere compiuto. Io continuo a ri­ tenere che questo fosse il comportamento giusto; e tuttavia con più chiarezza e costanza anche da parte nostra avremmo dovuto richiamare la resistenza nei lager - nelle moti­ vazioni, valori e realtà anche eroica - come parte feconda di un patrimonio e di un im­ pegno comuni che sono poi quelli che hanno trovato espressione nella Costituzione.

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«D eportazione» e «deportati». Per una definizione d el concetto. Nel pe­ riodo che va dalla crisi dell’estate 1943 alla liberazione circa ottocentomila italiani (nella stragrande maggioranza maschi, ma non mancarono alcune migliaia di donne) vennero trasferiti (per la quasi totalità a forza) nel territo­ rio del Terzo Reich. Lf i loro destini si incrociarono con quelli di altri cen­ tomila connazionali, giunti in Germania negli anni precedenti (dal 1938 in poi) sulla base di intese intergovernative tra Roma e Berlino, ma ormai - dopo il 25 luglio 1943 - trattenuti contro la loro volontà dalle autorità nazionalsocialiste. Dal maggio 1945, crollato il regime nazista e conclusasi la guerra in Europa, questi novecentomila esseri umani, o meglio quelli di lo­ ro che erano ancora in vita, condivisero le traversie di un lento e difficile ritorno in una patria che spesso era poco interessata ad ascoltare le loro vi­ cende, tra loro peraltro assai diversificate, e a farle diventare parte inte­ grante della storia nazionale. Fu cosi che nella pubblica opinione si diffuse un uso generico dei ter­ mini «deportati» e «deportazione», divenuto quest’ultimo sinonimo di tra­ sferimento coatto dall’Italia occupata alla Germania; successivamente la cir­ colazione di notizie sul sistema concentrazionario nazista e la diffusione dei nomi di alcuni dei suoi campi (in particolare Auschwitz, Dachau, Mauthausen - storpiato quest’ultimo di frequente in Italia in «M athausen», pro­ nunciato scorrettamente il secondo, «Dachàu» e non «Dàchau») provoca­ rono una seconda - e più grave - deformazione concettuale: tu tti coloro che erano stati «deportati» (nel significato estensivo a cui ho accennato) avreb­ bero conosciuto i lager (termine tedesco - sta per «deposito» - entrato nell’uso comune dopo la seconda guerra mondiale e utilizzato scorretta­ mente come sinonimo di Konzentrationslager - k l - , cioè «campo di con­ centramento»); di conseguenza, si originò un corto circuito in base al qua­ le si presumeva che chiunque fosse stato in Germania dall’autunno del 1943 alla fine della guerra avesse conosciuto gli orrori del k l ; inoltre (ulteriore inesattezza), quest’ultimo era inteso come immediatamente identico a «cam­ po di sterminio». Vale perciò la pena, prima di entrare nel vivo della rico­ struzione storica, dedicare un po’ di spazio alla precisazione del concetto stesso di «deportazione». Come si è detto in precedenza, dei circa novecentomila italiani e italia­

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ne presenti in territorio tedesco negli ultimi venti mesi della seconda guer­ ra mondiale solo ottocentomila vi erano stati trasferiti dopo P8 settembre 1943; gli altri centomila erano arrivati prima, in seguito agli accordi eco­ nomici bilaterali che avevano previsto l’invio nel Reich di manodopera agri­ cola e industriale italiana (complessivamente, dal 1938 al 1943, circa cinquecentomila lavoratori - uomini e donne - erano stati assorbiti dall’eco­ nomia di guerra tedesca. Il 27 luglio Heinrich Himmler, nella sua qualità di capo della polizia tedesca, bloccò i rimpatri di coloro che erano ancora al lavoro in Germania). Lo status degli operai e dei braccianti italiani preci­ pitò a quello di lavoratori coatti. I membri di questo gruppo non possono in alcun modo essere definiti «deportati» anche nel senso più estensivo pos­ sibile, in quanto il loro trasferimento nel Reich non fu attuato tramite misu­ re coattive. Gli altri ottocentomila potrebbero invece (con un’eccezione, sia pur numericamente esigua, di cui dirò oltre) essere considerati tali, tu t­ tavia la loro collocazione all’interno delle complesse articolazioni del siste­ ma nazionalsocialista e della sua multiforme attrezzatura concenti-azionaria fu talmente diversificata (e, dal cruciale punto di vista della sopravviven­ za, la loro sorte fu così disomogenea) da far diventare la categoria di «de­ portazione» troppo generica, e perciò di scarsa utilità analitica e conoscitiva. Il gruppo più numeroso all’interno degli ottocentomila era rappresen­ tato dagli Internati militari italiani (Imi), termine affibbiato dalle autorità militari e politiche del Terzo Reich a ufficiali, sottufficiali e soldati delle Forze armate del Regno d ’Italia catturati dalla W ehrmacht nei giorni im­ mediatamente successivi all’8 settembre 1 943 in territorio metropolitano, nella Francia meridionale e nei Balcani. Classificandoli in tal modo, invece c he - come di consueto - «prigionieri di guerra» (Kriegsgefangenen), Berli­ no potè sottrarli al patrocinio della Comitato internazionale della Croce ros­ sa (Cicr) di Ginevra e nello stesso tempo mantenere in vita con maggior spessore simbolico l’idea dell’Asse tra le due maggiori potenze fasciste (Ger­ mania e Italia, quest’ultima sotto le vesti della Rsi). Gli Imi, in tutto seicentocinquantamila, vennero detenuti fino all’agosto 1944 in campi di pri­ gionia militare dipendenti dalle regioni militari (Wehrkreise) in cui era sud­ diviso il Reich; gli ufficiali nei cosiddetti O f lager (campi per ufficiali), i sottufficiali e i soldati negli Stammlager (campi-madre). Nell’agosto 1944 gli Imi vennero trasformati, con atto d ’imperio, in lavoratori civili coatti, e fu­ rono trasferiti nei cosiddetti Arbeiterlager (campi per lavoratori stranieri, sottoposti a un regime di coazione). I campi di prigionia militare erano su­ bordinati all’autorità del Comando supremo delle Forze armate tedesche (Oberkommando der W ehrmacht - o k w ) e non avevano nulla a che fare (come del resto quelli per lavoratori stranieri, di cui si dirà più oltre) con i k l, che dipendevano invece dall’apparato SS, ormai strettam ente intrec­ ciato con le strutture di polizia dello stato (dal 1936 Heinrich Himmler era infatti sia comandante supremo SS, sia capo della polizia tedesca; nell’ago­ sto 1943 sarebbe diventato anche ministro degli Interni). Oltre il novanta per cento degli Imi riuscì a sopravvivere alla prigionia: i caduti furono cir­

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ca quarantamila. A mio parere è più corretto e più utile analiticamente de­ finire la loro vicenda «internamento militare», e riferirsi a loro con il ter­ mine Imi. Un secondo gruppo, di circa centomila, comprende i lavoratori portati in Germania dopo P8 settembre 1943; di costoro un piccolo nucleo (alcune mi­ gliaia) aveva accettato le proposte di assunzione nel Reich propagandate dagli uffici aperti nell’Italia occupata dal plenipotenziario generale per l’im­ piego della manodopera (Generalbevollmàchtigter fiir den Arbeitseinsatz g b a ) Fritz Sauckel, perciò nel suo caso non si può parlare di coazione di­ retta. Gli altri (la maggioranza) furono catturati durante rastrellamenti ope­ rati dalle unità tedesche e dagli apparati armati di Salò nelle retrovie del fronte o nel corso di azioni antipartigiane e vennero trasferiti in Germ a­ nia per essere utilizzati nella produzione di guerra come lavoratori coat­ ti. Giunti a destinazione, furono alloggiati negli Arbeiterlager, dipendenti di norma dalle imprese che li impiegavano oppure dagli Uffici del lavoro {Arbeitsàmter). Mi pare che per definirli sia corretto servirsi dei concetti di «rastrellati» e «lavoratori coatti». Un terzo e numericamente più ridotto gruppo, di circa quarantamila per­ sone in tutto, comprende infine coloro che vennero deportati dall’Italia avendo come destinazione il sistema concentrazionario nazista vero e pro­ prio, dipendente dalla struttura SS. Di loro appena il dieci per cento (circa quattromila) riuscì a sopravvivere. Ritengo opportuno attribuire solo a que­ sto gruppo l’appellativo di «deportati», restringendo perciò il senso del ter­ mine «deportazione» a quello di «deportazione nei campi di concentra­ mento e cù sterminio nazisti». In tal modo è possibile collocare al posto giusto ogni tassello del quadro generale, assai complesso, che raccoglie le vicende degli italiani e delle ita­ liane trasferiti coattivamente in Germania nel periodo successivo all’armi­ stizio. Due ulteriori precisazioni si impongono: prima di tutto la categoria «deportazione», così come ho cercato ora di definirla, deve essere in realtà scomposta ulteriormente, poiché il sistema concentrazionario nazista era diventato, dalla seconda metà del 1941 in poi, la somma di due distinti ap­ parati governati da logiche differenti. Al sistema dei k l , avviatosi nel 1933 con Dachau e poi sviluppatosi negli anni successivi (parossisticamente dal 1939 in poi) con l’obiettivo di m ettere fuori gioco e tendenzialmente eli­ minare oppositori politici (dal 1933), non conformisti e potenziali opposi­ tori sociali (dal 1936), persone in grado di coagulare resistenza nei territo­ ri occupati dalla W ehrmacht (dal 1939), si aggiunse il sistema dei campi di sterminio (definiti successivamente dalla storiografia tedesca Vemichtungslager - v l ) , pensati come installazioni deputate a eliminare fisicamente in massa e in tempi brevi gli ebrei d ’Europa. I v l erano concepiti sul model­ lo dei k l ; amministrativamente legati a essi, ne differivano però per fina­ lità e funzionamento. Collocati tu tti (erano complessivamente sei) in terri­ torio polacco occupato, quattro v l (Chelmno, Beìzec, Sobibor, Treblinka) funzionarono fino al 1943, quando vennero chiusi (Chelmno venne riaper­

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to brevemente nell’estate del 1944 allo scopo di uccidere gli ebrei ancora in vita del ghetto di Lodz, gli altri tre furono smantellati subito dopo la chiusura); degli altri due Majdanek (piazzato all’interno del k l omonimo nei pressi di Lublino) operò soltanto nell’estate del 1942, Auschwitz II (cioè Birkenau, che era una sezione del gigantesco k l di Auschwitz) c ontinuò in­ vece la sua attività sterminatrice sino alla fine di gennaio 1945, quando il campo fu liberato dalle truppe sovietiche. Tra i quarantamila deportati ita­ liani occorre perciò distinguere tra i circa diecimila ebrei gettati nelle spire della «soluzione finale» e perciò mandati in gran parte (circa ottomila, di cui meno di quattrocentocinquanta i sopravvissuti) ad Auschwitz (dove nei mesi precedenti il genocidio era stato centralizzato), mentre i restanti fi­ nirono - per motivi che esamineremo più oltre - in k l (Bergen Belsen, Ravensbrùck, Buchenwald, Flossenburg); e gli altri trentamila che, classifica­ ti dagli occupanti e dai loro alleati fascisti repubblicani tra gli oppositori politici o sociali, vennero inviati in k l (Dachau, Mauthausen, Buchenwald, Ravensbriick, Flossenbiirg). In secondo luogo, la distinzione che ho propo­ sto tra lavoratori coatti rastrellati, Imi, e deportati ha in qualche misura an­ che un carattere idealtipico: è necessario non confondere vicende e percorsi tra loro molto diversi, ma anche tenere presente da un lato che il confine tra una categoria e l’altra poteva essere, in casi particolari, non così netto (ci furono per esempio campi di punizione per internati militari non disposti a collaborare in alcun modo e campi di punizione per lavoratori riottosi che erano ben poco differenti dai k l ) , dall’altro che vicende di vario genere (dal comportamento personale giudicato ostile dai carcerieri, a scelte attuate dal­ le autorità naziste per motivi di carattere assolutamente estraneo alla vita del c ampo) potevano far sì che il lavoratore coatto o l’internato militare fi­ nisse in k l . I l sistema concentrazionario nazista n ell’ultim a fase della seconda guerra mondiale. Com’è noto, solo dopo l’8 settembre 1943 l ’Italia fu coinvolta

appieno nel sistema concentrazionario nazista, che dalla sua costituzione coeva al regime si era profondamente trasformato. Non soltanto dal 1941 ai k l si sarebbero affiancati i v l , ma con lo scoppio della guerra il numero dei deportati in k l sarebbe paurosamente aumentato; si sarebbe passati dai trentamila circa del periodo 1933-37, quando a finire in campo erano essen­ zialmente tedeschi antinazisti, ai sessantamila registrati nel 1941 (tra cui numerosi stranieri e tedeschi arrestati semplicemente perché giudicati dalla polizia «asociali», troppo critici verso Hitler e i suoi paladini, colpevoli di scarso rendimento nel lavoro), ai centoventitremila del gennaio 1943 che sa­ rebbero diventati duecentoventiquattromila sette mesi dopo e ben cinquecentoventiquattromila dopo altri dodici mesi per poi toccare la punta di settecentocinquantamila nel gennaio 1 9 4 5 (si tenga conto, per meglio valuta­ re queste cifre, che la mortalità annuale, calcolata sugli otto principali k l e naturalmente escludendo dal computo i v l , fu del quarantasei per cento). Fu dal 1 9 4 3 che i k l diventarono la babele di lingue e nazionalità de­

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scrittaci da Primo Levi nelle sue opere, e fu dall’anno precedente - in con­ seguenza del prolungarsi della guerra e dell’acuta carenza di manodopera che afflisse in misura via via crescente l ’economia di guerra del Terzo Reich che l’apparato SS prese in seria considerazione l’idea di servirsi dei depor­ tati come di una grande riserva di braccia a bassissimo costo. Fino ad allora infatti nei k l il lavoro aveva avuto un carattere essenzialmente afflittivo, ancorché - dal 1938 - le SS avessero costituito proprie imprese economi­ che che utilizzavano come lavoratori schiavi proprio i KL-Hàftlinge (deno­ minazione ufficiale dei deportati). Si trattava però essenzialmente di man­ sioni di fatica in attività di scavo, sterro, sfruttamento di cave e così via. Nel 1942 divenne invece all’ordine del giorno impiegare i deportati nella produzione industriale, appaltandoli alle imprese private che avevano rice­ vuto commesse dallo stato e che - per sfuggire ai bombardamenti alleati stavano dislocando le loro officine fuori dalle aree urbane, non di rado pri­ vilegiando le zone rurali attorno ai k l . Non per caso il 10 marzo 1942 Hein­ rich Himmler aveva disposto la costituzione dell’Ufficio centrale delle SS per le questioni economiche e amministrative (Wirtschafts- und Verwaltungshauptamt - w v h a ) , alla cui testa avrebbe collocato, il 16 seguente, il ge­ nerale delle SS Oswald Pohl. Nello stesso mese al neocostituito w v h a sa­ rebbe stato sottoposto l’ispettorato per i campi di concentramento, ufficio SS da cui dipendeva la gestione e l’organizzazione della rete dei k l . Il 30 aprile successivo Pohl avrebbe diramato a tu tti i comandanti dei campi una lettera circolare in cui fissava le linee dell’impiego nel lavoro dei deporta­ ti; in essa si raccomandava di sfruttarne il più possibile e senza alcun limi­ te le capacità produttive. In tal modo veniva codificata la prassi di «an­ nientamento mediante il lavoro» (Vemìchtung durch Arbeit), considerate le condizioni abitative e di (sotto)alimentazione degli ospiti dei campi di con­ centramento. In applicazione della stessa logica, un anno più tardi sareb­ bero stati chiusi i quattro v l dove gli ebrei deportati venivano uccisi indi­ scriminatamente, a prescindere dalla loro età e dalle loro condizioni di sa­ lute. Da allora in avanti il luogo del genocidio sarebbe stato Auschwitz, dove si sarebbe provveduto a un’accurata selezione convoglio dopo convo­ glio, separando chi era destinato all’eliminazione immediata perché giu­ dicato non idoneo a produrre (vecchi, bambini, donne incinte, malati ecc.) da chi invece appariva in possesso di sufficienti forze per essere - almeno per qualche mese - utilizzato come lavoratore schiavo. E in questo sistema concentrazionario trasform ato in u n ’immensa riserva di braccia praticamente gratuite (per le SS) che giunsero i deportati dall’Italia. Il sistema concentrazionario fascista. Il fatto che il fascismo mussoliniano non abbia costruito una rete di campi di concentramento paragonabile a quella nazionalsocialista e - ancor di più - non abbia attuato misure di annientamento così radicali come quelle messe in pratica dal Terzo Reich ha contribuito in misura decisiva a far passare in secondo piano sia le re­ sponsabilità del fascismo della Rsi nella deportazione degli ebrei verso

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Auschwitz e di coloro che erano classificati come oppositori politici verso i k l , sia l’esistenza di un apparato concentrazionario edificato dal regime monarchico-fascista nell’ultimo periodo della sua ventennale esistenza. Ep­ pure esso giocò un ruolo importante nella deportazione propriamente detta: non pochi dei campi di concentramento in funzione prima dell’8 settembre 1943 vennero riutilizzati; da alcuni di essi - come vedremo - partirono i primi trasporti diretti oltre Brennero; infine, le strutture e gli apparati pre­ disposti in precedenza si dimostrarono ottimi supporti per gli occupanti e per i loro alleati di Salò. Dal giugno 1940 all’agosto 1943 il ministero degli Interni aveva dispo­ sto l’apertura di oltre cinquanta campi di concentramento. Circa la metà era collocata nelle Marche e negli Abruzzi, regioni montagnose e mal col­ legate e perciò considerate particolarmente idonee; gli altri si trovavano in Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Lucania, Ca­ labria e nelle isole di Lipari, Ponza, Tremiti, Ustica e Ventotene. Negli an­ ni 1941 e 1942 entrarono inoltre in funzione numerosi campi di concen­ tram ento dipendenti dalle autorità m ilitari, situati per la quasi totalità nell’Italia centrosettentrionale. Nella rete del ministero degli Interni furo­ no rinchiusi oppositori politici, ebrei stranieri (circa seimilacinquecento nel 1943), ma anche ebrei italiani giudicati come particolarmente pericolosi per motivi politici o sociali; nel maggio 1940, infatti, il ministero indirizzò alle prefetture due circolari in cui sollecitava la compilazione di elenchi di cit­ tadini «di razza ebraica» da internare, disposizione che venne prontam en­ te eseguita. A essere rinchiusi nei campi gestiti dai militari (di per sé la cosa era contraria alle disposizioni in vigore, che sancivano essere l’internamento competenza esclusiva del ministero degli Interni, ma ciò non impedì affat­ to al ministero della Guerra di costruire una propria rete concentrazionaria) furono quasi esclusivamente civili slavi, provenienti sia dai territori iu­ goslavi occupati, sia dall’Istria, dove si sviluppò molto presto un conside­ revole movimento partigiano. Solo dalla cosiddetta provincia di Lubiana (la porzione di Slovenia annessa al Regno d ’Italia) furono circa venticinquemila i deportati nel sistema concentrazionario fascista; tra i campi più noti quello di Gonars, in Friuli, e quello - terribile - di Rab, nell’isola omoni­ ma (in italiano Arbe), dove furono internati anche ebrei iugoslavi. Come per altri aspetti, anche per quanto riguardava il sistema concen­ trazionario fascista il 25 luglio 1943 non giunse a segnare una svolta; oltre a mantenere in vigore le leggi razziste del 1938 il governo Badoglio non toccò la legislazione sull’internamento, limitandosi a disporre (con una cir­ colare emanata dal capo della polizia Carmine Senise il 29 luglio) la libera­ zione dei reclusi a esclusione dei comunisti, degli anarchici, e degli «allo­ geni» (cioè degli slavi) della Venezia Giulia e dei territori (iugoslavi) occu­ pati, nonché di quegli italiani ebrei che avessero «svolto attività politica» o avessero commesso «fatti [di] particolare gravità», formula come si vede ben lungi dall’essere chiara. Per quanto riguarda gli ebrei stranieri ogni de­ cisione fu rinviata, e quando la loro liberazione fu decisa era troppo tardi:

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il telegramma giunse alle prefetture solo il 10 settembre 1943. All’annun­ cio dell’armistizio alcuni campi aprirono i loro cancelli, altri invece conti­ nuarono l’attività; tutto dipese dalle scelte dei direttori. Al 26 novembre 1943 risultavano ancora funzionanti dodici delle installazioni concentrazionarie fasciste costruite nel corso della guerra: Fabriano, Civitella del Tronto, Corropoli, Isola del Gran Sasso, Nereto, Notaresco, Tossiccia, Fra­ schette di Alatri, Civitella della Chiana, Montalbano di Rovezzano, Bagno a Ripoli, Scipione di Salsomaggiore. Se ne aggiunsero, c ome vedremo, nu­ merosi altri, a quel punto con la funzione non più di luogo di detenzione, ma di struttura di transito verso la rete dei k l e - per gli ebrei - verso il k l v l di Auschwitz. La macchina della deportazione degli italiani-.alcuni dati complessivi. Nel periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 partirono dall’Ita­ lia o da territori all’epoca facenti parte del territorio del Regno centoventitre trasporti (tutti, tranne pochissimi, per ferrovia; si tenga presente che la dimensione di ogni convoglio era estremamente variabile; da poche de­ cine di persone in qualche caso a oltre mille in - pochi - altri) diretti verso la rete concentrazionaria nazista (il primo si mosse il 16 settembre, da Me­ rano, con destinazione Auschwitz; l’ultimo il 22 marzo 1945, da Bolzano, diretto a Dachau). Tra essi, ben quarantaquattro deportarono ebrei di na­ zionalità italiana e straniera. Può essere significativo ricordare chi fu ad ar­ restarli; dati c erti ci sono solo per una parte degli ebrei, 4699 persone in tutto, di cui il cinquantatre per cento (2489) fu catturato da forze tedesche, il quaranta per cento (1898) da unità italiane, il restante sette per cento (312) da italiani e tedeschi assieme. Già questo dato, per quanto parziale, ci fornisce un’immagine impressionante dell’apporto delle strutture fasci­ ste repubblicane allo sterminio. Non minore fu il ruolo dell’apparato di Salò nella deportazione degli oppositori politici. Le destinazioni principali dei trasporti furono tre, il k l di Dachau (me­ ta di trentasette), il k l - v l di Auschwitz (ne accolse trentadue), il k l di Mauthausen (dove ne giunsero ventuno); altre destinazioni furono il k l di Buchen­ wald (destinazione di quindici), il k l femminile di Ravensbruck (otto tra­ sporti), e infine i k l di Bergen-Belsen e Flossenburg (entrambi furono rag­ giunti da cinque convogli). Va da sé che, con l’eccezione di Auschwitz dove coloro che vi furono deportati vennero in significativa parte eliminati nelle camere a gas subito dopo l’arrivo, l’immatricolazione in un k l voleva dire soltanto l’inizio di un calvario che - attraverso dislocazioni in sottocampi dove erano state in­ stallate lavorazioni industriali, trasferimenti in altri campi per esigenze pro­ duttive o di altro genere, spostamenti connessi con l’andamento delle ope­ razioni belliche - poteva portare ogni deportato anche molto lontano dalla sua destinazione originaria. Per quanto riguarda le località di partenza, ben settanta convogli partirono da Trieste, a dimostrazione dell’importanza del­ la città e del suo territorio nella storia della deportazione dall’Italia (com’è

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noto, nelle province di Udine, Gorizia, Trieste, Fiume e Pola la sovranità italiana fu sospesa; trasform ate in Zona d ’operazione Litorale Adriatico - Adriatisches Kiistenland - , esse dipendevano amministrativamente dal Gau di Klagenfurt ed ebbero strutture SS e di polizia autonome da quelle che operavano nella Rsi. A Trieste ebbe inoltre sede un’installazione concentrazionaria, quella della Risiera di San Sabba, che univa in sé le caratteri­ stiche di campo di transito, k l e v l ) ; tredici da Bolzano, dove dall’inizio di agosto 1944 ebbe sede un grande campo di transito per ebrei e politici (Po­ lizei- und Durchgangslager - Dulag); sette da FossoU di Carpi, che fu dal 5 dicembre 1943 alla metà di marzo 1944 un campo di concentramento per ebrei posto sotto la giurisdizione del ministero degli Interni della Rsi, in seguito e fino alla fine di luglio 1944 passò sotto il comando tedesco co­ me Dulag; sei da Verona, cinque da Milano, tre ciascuno da Roma e Torino, gli altri da Firenze (due), Gorizia (due), Bergamo, Borgo San Dalmazzo (via Drancy, Francia), Cairo M ontenotte, Genova, Mantova, Merano, Monfalcone, Novi Ligure, Peschiera del Garda, Pola, Atene (deportò gli ebrei di Rodi e del Dodecaneso, all’epoca di nazionalità italiana), Sulmona. La prima fase: 8 settembre - 30 novembre 1 9 4 3 . Il primo trasporto verso Auschwitz partì da Merano il 16 settembre, e fu seguito appena quattro giorni dopo dal primo convoglio verso Dachau, che mosse da Peschiera del Garda. Tuttavia nelle prime settimane mancavano ancora da parte sia del­ l’occupante tedesco sia del fascismo repubblicano strutture centralizzate in grado di gestire la macchina deportatoria; i tedeschi le avrebbero costitui­ te all’inizio di ottobre, mentre Salò avrebbe messo a punto i propri appa­ rati persecutori solo verso la fine di novembre. Di conseguenza i primi tra­ sporti diretti oltre Brennero furono il risultato di azioni di carattere loca­ le; la deportazione degli ebrei meranesi ad Auschwitz fu opera di nazisti sudtirolesi inquadrati nel Sicherheits- und Ordnungsdienst ( s o d - una for­ mazione di polizia formata da optanti per il Reich) in collaborazione con un nucleo della Sicherheitspolizei-Sicherheitsdienst (Sipo-SD - era la strut­ tura investigativa e repressiva in cui si intrecciavano SS e polizia statale) appena giunto dalla Germania; con il trasporto del 20 settembre vennero trasferiti a Dachau, per disposizione delle autorità militari di occupazione, circa millenovecento militari detenuti nel carcere militare di Peschiera del Garda. Tra essi, oltre a persone accusate di reati comuni, c’erano noti an­ tifascisti che avevano rifiutato di servire in armi la causa del regime. Trat­ tandosi però di carcerati, essi furono presi in carico, dal punto di vista bu­ rocratico, non dalla branca politica della Sipo-SD (cioè dalla Gestapo), ma da quella che si occupava di reati comuni (la Kriminalpolizei - Kripo). Per tale motivo a Dachau, dopo essere stati inizialmente (dal 22 settembre al 28 novembre) classificati come Schutzhàftlinge (cioè politici, e quindi se­ gnalati da un triangolo rosso cucito sulla divisa di tela a righe), vennero con­ siderati «asociali» (e inseriti perciò nel gruppo Arbeitszwang Reich, che de­ finiva gli assegnati al k l per «devianza» sociale) e venne loro attribuito quin­

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di un triangolo nero. Il 18 settembre precedente era stata la volta di un nu­ meroso gruppo di ebrei francesi, che - persa la precaria protezione in pre­ cedenza accordata loro dalle truppe italiane di occupazione - da Saint-Martin de Vésubie avevano attraversato le Alpi ed erano giunti nel Cuneese, a essere rastrellato dagli uomini della X II compagnia del 2° battaglione del 30 reggimento della divisione corazzata W affen SS Leibstandarte Adolf Hitler (l s s a h ) . Reclusi a Borgo San Dalmazzo nella caserma degli alpini, trasformata dal comando della l s s a h in Polizeihaftlager (campo di prigionia di polizia), gli ebrei francesi vennero deportati il 21 novembre successivo nel Dulag di Drancy, in territorio francese, e di li trasferiti ad Auschwitz. Sostanzialmente simili tra loro le caratteristiche dei due trasporti par­ titi l’8 ottobre, il primo da Cairo M ontenotte destinato a M authausen, sottocampo di Gusen, il secondo da Sulmona per Dachau; in entram bi i casi vennero deportate persone in precedenza detenute in campi di concentramento fascisti. Da Cairo (dove si trovava uno dei luoghi di deten­ zione posti sotto il controllo delle autorità militari) partirono circa mille internati originari della Venezia Giulia e dell’Istria; da Sulmona greci, al­ banesi, iugoslavi e circa centosessanta italiani, tu tti detenuti in prece­ denza nei campi abruzzesi. A Roma alcune centinaia di prigionieri di guer­ ra britannici caduti in mano tedesca vennero aggiunti al convoglio. No­ tevoli particolarità presenta invece un terzo trasporto partito lo stesso giorno, questa volta da M antova, e diretto anch’esso come il primo a M authausen. L o componevano militari italiani catturati dai tedeschi che - a rigore - avrebbero dovuto essere inviati in campi di prigionia e non in k l . La prima retata frutto di una precisa disposizione proveniente da Ber­ lino fu la grande caccia all’ebreo che ebbe per teatro il ghetto di Roma nei giorni 16 e 17 ottobre 1943; vennero arrestate 1259 persone, 1023 delle quali sarebbero state deportate il giorno successivo con destinazio­ ne Auschwitz. E particolarm ente degno di nota che 839 (P82 per cento) di loro siano state uccise immediatamente nelle camere a gas, e che appe­ na 17 (pari all’x,7 per cento) siano sopravvissute fino alla liberazione. A operare nel ghetto romano fu uno specifico gruppo d ’intervento (Einsatzkommando), forte in tutto di una decina di persone, guidato dal capi­ tano delle SS e della polizia (Hauptsturmfuhrer) Theodor Dannecker. Stret­ to collaboratore del capo dell’Ufficio IV B 4 (Questioni riguardanti gli ebrei) all’interno dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (Reichssicherheitshauptam t - r s h a ) , Adolf Eichmann, Dannecker aveva accu­ mulato una notévole esperienza nella Francia occupata, dove dall’autun­ no 1940 fino al settembre 1942 aveva organizzato la deportazione degli ebrei francesi, ma nulla sapeva di Italia e di Roma. Potè tuttavia giovar­ si dell’ampia schedatura degli ebrei residenti (italiani e non) che l’Italia monarchico-fascista aveva attuato dal 1938 in poi, nonché della collaborazione diretta di una squadra di agenti della questura romana (al comando del commissario Gennaro Cappa), che gli preparò un indirizzario com­

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p leto . I 3 6 5 p o liz io tti te d e sc h i (in p arte d ella Sipo-SD, in p arte d ella p o ­ lizia m ilitare, in p arte d ella p o liz ia d e ll’o rd in e - O rd n u n g sp o lize i - O rpo) ch e si scaten aron o all’alba d e l 16 sap evan o p erciò p e r fe tta m e n te d o ­ v e andare.

Nei giorni successivi l’Einsatzkommando di Dannecker si spostò più a nord e all’inizio di novembre mise in atto retate a Firenze, Siena, Bologna e M ontecatini Terme. Ne furono vittime più che altro ebrei stranieri rifu­ giatisi negli anni precedenti in Italia. Il 9 del mese, tramite un convoglio par­ tito da Firenze e Bologna, circa quattrocento vennero deportati ad Ausch­ witz. Alla liberazione, di tu tti loro soltanto una donna era ancora in vita. Di li a poco fu la volta di Torino, Milano, Genova e delle cittadine della ri­ viera ligure. Anche qui la maggioranza degli arrestati furono ebrei stranieri. Essi vennero concentrati al carcere milanese di San Vittore, un’ala del qua­ le era amministrata direttam ente dalla Sipo-SD (ne era responsabile l’uffi­ ciale SS Theo Saewecke, condannato all’ergastolo per crimini di guerra nel 1999 dal Tribunale militare di Torino) e furono deportati ad Auschwitz il 6 dicembre 1943. Il trasporto fece sosta a Verona, dove imbarcò altri ebrei catturati a Firenze e Bologna e non inseriti nel precedente convoglio, e do­ ve furono aggiunti altri vagoni piombati provenienti da Trieste. La cifra to­ tale dei deportati dovrebbe essere stata almeno di seicento; solo quattor­ dici sopravvissero fino al 1945. Va sottolineato come, diversamente da Ro­ ma, dove PEinsatzkommando di Dannecker aveva potuto contare per il rastrellamento del ghetto su un buon numero di poliziotti tedeschi, in tu t­ ti gli altri casi il capitano delle SS e della polizia disponeva soltanto dello sparuto gruppo di agenti ai suoi ordini. A Firenze come a Bologna, a Tori­ no come a Milano, a Genova come a Siena, perciò, le retate antiebraiche furono possibili soltanto per la diretta collaborazione degli organi di poli­ zia italiani, che non si limitarono a fornire al nucleo SS elenchi, indirizzi, censimenti, ma attuarono di persona gli arresti senza bisogno di disposi­ zioni specifiche da parte delle autorità di Salò, che giunsero solo dalla metà di novembre in poi. Dopo i rastrellamenti e le deportazioni che ho appena richiamato Dan­ necker lasciò l’Italia, mentre i membri del suo Einsatzkommando venne­ ro inseriti nelle strutture che la polizia tedesca istituì a Verona (una sorta di copia dell’apparato berlinese del r s h a ) . Nelle ultime settimane del 1943, infatti, si registrò una svolta: la Rsi radicalizzò l’antisemitismo espressosi nelle leggi del 1938 dandogli una curvatura chiaramente sterminazionista: il congresso del Partito fascista repubblicano svoltosi a Verona il 14 no­ vembre 1943 (l’unico della sua breve storia) dichiarò che gli ebrei «appar­ tenevano] a nazionalità nemica». Il 30 successivo il ministero degli In­ terni della Rsi dispose, in applicazione di quanto deliberato a Verona, che gli ebrei fossero «concentrati in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamen­ te attrezzati». Di conseguenza l’intero apparato di polizia della Rsi fu tra­ sformato in una macchina antisemita finalizzata alla concentrazione de­

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gli ebrei (che equivaleva - nel contesto specifico - alla loro eliminazione fisica). D a l dicembre 1943 a ll’agosto 1944. I campi previsti dalla disposizione del 30 novembre 1943 vennero prontamente realizzati (ventitré in tutto: Aosta, Asti, Calvari di Chiavari, Borgo San Dalmazzo, Ferrara, Bagno a Ripoli, Forli, Roccatederighi, Bagni a Lucca, Civitella Val di Chiana, Urbisaglia, Mantova, Vò Vecchio, Scipione di Salsomaggiore, Monticelli Ter­ me, Perugia, Reggio Emilia, Sondrio, Teramo, Vercelli, Verona, Piani di Tonezza, Servigliano Marche; altrove furono le carceri a svolgere lo stesso ruo­ lo) e restarono in attività fino ai primi mesi del 1944. Contestualmente all’apertura dei campi provinciali, il 5 novembre iniziava la sua attività il campo di concentramento speciale, anch’esso citato nel telegramma invia­ to da Guido Buffarini Guidi alle questure il 30 novembre; la località scel­ ta fu Fossoli di Carpi, in provincia di Modena, ben collegata alla rete fer­ roviaria e dove dal 1942 esisteva un campo per prigionieri di guerra i cui detenuti (militari britannic i) erano caduti in mano tedesca nei giorni suc­ cessivi all’armistizio ed erano stati deportati in k l (presumibilmente con il trasporto per Dachau dell’8 ottobre). Il campo di concentramento fascista repubblicano fu piazzato in un’area adiacente il vecchio campo di prigionia, dove già in precedenza erano in corso lavori di ampliamento; fino al 15 mar­ zo 1944 rimase sotto la piena autorità di Salò (il suo comandante - prima Domenico Avitabile, poi Mario Taglialatela - era un funzionario di questu­ ra e rispondeva direttam ente alla prefettura di Modena), in seguito passò di fatto sotto il controllo degli uffici di polizia tedeschi in Italia, che lo clas­ sificarono come Dulag. Ancorché predisposto dal ministero degli Interni della Rsi come campo di concentramento per ebrei, ospitò nei mesi in cui rimase aperto anche per­ sone catturate per attività politica antifascista; come per molti ebrei, anche per gli antifascisti il primo luogo di detenzione fu comunque rappresentato dalle carceri delle località in cui erano stati catturati. U n’altra conseguen­ za della decisione di Verona e dell’ordinanza applicativa del ministero fu un’ondata di retate ai danni degli ebrei scampati all’Einsatzkommando di Dannecker; ora ad agire in prima persona furono le questure italiane (sen­ za alcuna disposizione tedesca e senza particolari appoggi logistic i da parte degli occupanti). Arresti in massa si ebbero a Venezia, Asti, Reggio Emi­ lia, Firenze, Parma, Bergamo, Forlì, Livorno, Lucca, Milano, Pistoia e nelle rispettive province. Gli ebrei internati furono poi consegnati agli uomini di Dannecker, che da Verona ne organizzarono la deportazione ad Ausch­ witz (il trasporto partì da Milano e Verona il 30 gennaio 1944, con oltre seicento deportati; solo venti sopravvissero). La nuova situazione verificatasi in Italia fu oggetto di attente valutazio­ ni a Berlino; nel corso di una serie di incontri tra Eberhard von Thadden, alto funzionario del ministero degli Esteri (Auswàrtiges Amt - a a ) , Theo Dannecker e Friedrich Bosshammer, maggiore delle SS e della polizia (Sturm-

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bannfiihrer) e stretto collaboratore di Eichmann, venne deciso di costituire anche in Italia, sul modello di quanto era stato fatto negli altri territori oc­ cupati, un distaccamento stabile dell’Ufficio IV B 4, che centralizzasse la persecuzione antiebraica e operasse in stretto collegamento con la polizia lo­ cale, la cui collaborazione si era rivelata (come ovunque) indispensabile per la conduzione dei rastrellamenti. A guidarlo fu designato Bosshammer, il quale fin dal 19 maggio 1943 - nel quadro delle misure decise dal governo del Reich, in previsione di un collasso dell’Italia monarchico-fascista, che avevano portato il 18 dello stesso mese alla costituzione di uno stato mag­ giore a Monaco (sotto il comando del generale Erwin Rommel) incaricato di preparare organizzativamente l’invasione del territorio italiano - aveva ri­ cevuto da Eichmann il compito di predisporre piani, in stretto contatto con I ’a a , per attuare anche nel nostro paese la deportazione degli ebrei. Il mag­ giore delle SS si insediò a Verona il 31 gennaio 1944, inserì nel suo ufficio i membri dell’Einsatzkommando guidato in precedenza da Dannecker e ini­ ziò la sua attività in stretto contatto con i corpi di polizia di Salò. In quan­ to responsabile della sezione italiana dell’Ufficio IV B 4, Bosshammer era inserito nell’articolazione locale dell’Ufficio IV (Gestapo), incaricato di com­ battere i «nemici del Reich» e guidato sul posto dal maggiore delle SS e del­ la polizia Franz Kranebitter, che a sua volta dipendeva dal capo della Sipos d in Italia (Befehlshaber der Sipo-SD - b d s ) Wilhelm Harster. Va precisa­ to però che l’ufficio di Bosshammer godeva di una larga autonomia, poiché era in contatto diretto con la centrale antiebraica berlinese comandata da Eichmann. Così strutturato, l’Ufficio IV funzionò come cervello operativo della deportazione dall’Italia; Kranebitter era responsabile della deporta­ zione in k l degli oppositori politici, Bosshammer di quella degli ebrei verso Auschwitz. Entrambi si servirono come Dulag del campo di Fossoli, diret­ to dal 15 marzo 1944 dal sergente (Untersturmfiihrer) delle SS e della poli­ zia Karl Titho. Le due sezioni dell’Ufficio IV avevano ciascuna propri rap­ presentanti nelle sedi distaccate del b d s , denominate Aufienkommandos (a k ; complessivamente erano otto: Torino, Genova, Milano, Venezia, Bo­ logna, Firenze, Perugia e Roma, a cui bisogna aggiungere il posto di fron­ tiera di Como e i presidi - AuBenposten - di Padova e Forlì, dipendenti ri­ spettivamente dagli a k di Venezia e di Bologna). Negli otto mesi che intercorsero tra la prima decade di dicembre 1943 e la prima settimana di agosto 1944 (quando il Dulag di Fossoli fu smantella­ to) partirono dal territorio sottoposto alla giurisdizione della Rsi (quindi con esclusione del Litorale Adriatico, di cui si dirà più oltre) venticinque trasporti, di cui sette (che viaggiavano sotto la sigla r s h a ) deportarono ad Ausch­ witz ebrei destinati alla selezione (e quindi in cospicua parte all’eliminazio­ ne immediata); sei condussero nei k l di Bergen-Belsen, Buchenwald e Ravensbrùck ebrei che, per decisione dell’Ufficio IV B 4, non vennero inviati ad Auschwitz perché o cittadini britannici (libici con passaporto britanni­ co), o cittadini turchi (la Turchia era neutrale), o figli e coniugi di matrimo­ ni misti; dodici deportarono in k l persone arrestate in quanto oppositori

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politici. Questi ultimi erano contrassegnati dalla sigla Sipo-SD. Tra i mag­ giormente emblematici il convoglio partito il 5 gennaio 1944 da Roma per Mauthausen, che trasportava circa quattrocento rastrellati tra gli ambienti della Resistenza romana (c’erano militari che P8 settembre si erano sottrat­ ti alla cattura e antifascisti attivi. Val la pena di notare c he al momento del­ la liberazione soltanto una ventina erano ancora in vita: il c inque per cen­ to); quello partito il 13 gennaio dalle Carceri Nuòve di Torino per la stessa destinazione, il primo dal capoluogo piemontese, con c inquanta militanti del­ la Resistenza; il successivo che mosse da Genova il 16 dello stesso mese; i grandi trasporti del mese di marzo, che deportarono tra gli altri numerosi operai catturati in seguito agli scioperi antifascisti e antinazisti dell’inizio del mese (uno si mosse da Milano il 4 verso Mauthausen con circa cento de­ portati; un secondo parti da Firenze l’8 marzo e - dopo aver fatto sosta a Fossoli e a Verona - giunse nello stesso k l con circa seicento; un terzo si co­ stituì a Bergamo il 16 successivo - anch’esso diretto a Mauthausen - con ol­ tre seicentocinquanta deportati provenienti in gran parte da Torino, Mila­ no, Genova, Savona, e daH’hinterland milanese); il convoglio che si avviò l’8 aprile da Novi Ligure con circa centonovanta rastrellati alla Benedicta*, a cui vennero aggiunti altri antifascisti durante una sosta a Milano; e infine i due trasporti diretti al k l femminile di Ravensbriick, del 27 giugno (da To­ rino) e del 2 agosto successivo (da Verona). Complessivamente sette trasporti partirono da Fossoli (altri vi fecero sosta dopo essere stati formati altrove e caricarono altri deportati), sei erano di ebrei e uno di politici. Molto impor­ tante è Punico convoglio di deportati di passaporto italiano che non fu av­ viato dal territorio nazionale, quello del 3 agosto dal Dulag di Haydari pres­ so Atene; esso deportò ad Auschwitz gli ebrei di Rodi e del Dodecaneso (ol­ tre milleottocento, tra cui numerosi bambini), che il 23 luglio precedente erano stati fatti evacuare dalle isole natie in direzione di Coo e della capita­ le greca. Solo centosettantanove sopravvissero. Come si può vedere dalle cifre, la deportazione degli oppositori politi­ ci in k l acquistò una rilevanza crescente con il passare dei mesi dopo la cri­ si dell’8 settembre, in stretta connessione con lo sviluppo dell’attività partigiana e delle reti di resistenza, nonché con la difficoltà di controllare il territorio che gli occupanti tedeschi e le autorità fasciste repubblicane an­ davano incontrando. Sulla base delle ricerche effettuate, che a tu tt’oggi hanno approfondito prevalentemente ambiti regionali o ancora più ristret­ ti ma non si sono ancora misurate con la dimensione nazionale, un po’ più della metà di coloro che furono deportati nei k l erano effettivamente le­ gati in qualche modo alla Resistenza antifascista e antinazista; gli altri fu­ rono vittime di rastrellamenti e retate, trovandosi cioè nel luogo sbagliato nel momento sbagliato. T utti possono comunque essere ricompresi nella ca­ tegoria di chi era ostile all’ordine nazifascista. Il 15 giugno, nell’ambito del­ la riorganizzazione della lotta antipartigiana, i massimi responsabili delle SS e della polizia (tedesca) in Italia fissarono ima procedura in base alla qua­ le coloro che fossero stati rastrellati durante un’azione di controguerriglia

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dovevano essere divisi in tre categorie: partigiani veri e propri, sospetti fian­ cheggiatori, renitenti ai bandi Graziani. Questi ultimi andavano spediti in Germania - sotto sorveglianza - per essere impiegati come lavoratori coat­ ti; i primi (qualora non fossero stati immediatamente passati per le armi) andavano deportati in k l ; i membri della seconda categoria, infine, pote­ vano essere inseriti nel primo o nel secondo gruppo a discrezione dei fun­ zionari della Sipo-SD che coadiuvavano le forze della Orpo materialmente incaricate di condurre l’operazione (ai comandi regionali della Orpo erano subordinati anche i corpi armati della Rsi, G nr o altro che fossero). Sostanzialmente le disposizioni ora citate non facevano altro che siste­ matizzare una prassi già praticata fin dall’inizio del 1944. Va da sé che la tripartizione accennata valeva non solo per i territori dove erano insediate formazioni ribelli, ma anche per le aree urbane in cui si fossero manifesta­ te forme rilevanti di resistenza civile (tale fu il caso, ad esempio, delle aree industriali investite dagli scioperi del marzo 1944 e dalle ondate successi­ ve). Considerate le circostanze in cui avveniva la ripartizione dei rastrella­ ti e l’ampio margine di discrezionalità di cui potevano disporre gli uomini della Sipo-SD, la selezione ebbe non di rado un tasso relativamente alto di casualità, determinando l’invio in k l anche di persone arrestate perché si trovavano incidentalmente in aree investite da retate o rastrellamenti. D a ll’agosto 1944 a ll’aprile 1945. All’inizio di agosto 1944 il campo di Fossoli cessò di funzionare come Dulag; la rottura della linea Gustav da parte delle forze alleate e la loro avanzata in Italia centrale, con il conse­ guente ripiegamento della W ehrmacht sulla linea Gotica, lo rendevano trop­ po esposto, e indussero i comandi delle SS e della polizia tedesca a trasfe­ rire il campo di transito in una località ancora sicura, più a nord. Venne scelto il sobborgo bolzanino di Gries. Nel nuovo Dulag vennero spostati solo i prigionieri politici ancora detenuti a Fossoli, mentre gli ebrei furono deportati oltre Brennero (la grande maggioranza - circa duecentocinquanta - ad Auschwitz; tre piccoli gruppi - circa novanta in tutto - che erano figli o coniugi di matrimonio misto a Buchenwald, Ravensbriick, BergenBelsen); la direzione del campo rimase affidata a Karl Titho, che ricoprì ta­ le carica fino all’arrivo degli alleati e alla liberazione; con il personale di sor­ veglianza tedesco operavano anche alcuni ausiliari di polizia ucraini. Fos­ soli non venne comunque smantellato: dal 12 agosto al 29 novembre 1944 il campo fu gestito dal rappresentante in Italia del g b a Sauckel e utilizzato come luogo di raccolta dei lavoratori (in gran parte coatti) da inviare nel Reich (in quei mesi il g b a disponeva in Italia di altri quattro campi: Sesto San Giovanni, Tortona, San Michele presso Verona, Treviso-Cittadella). Nel periodo di attività del Dulag di Bolzano-Gries partirono dall’Italia occupata (lasciando sempre da parte il Litorale Adriatico) quattordici tra­ sporti in tutto, di cui ben tredici dal campo sudtirolese; solo uno (a quanto risulta molto piccolo, di una decina di persone, diretto a Dachau) si mosse da Verona. Lo spostamento del Dulag e la contemporanea riduzione dello

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spazio rimasto sotto il controllo tedesco e fascista repubblicano (ormai la sola Pianura padana) contribuirono a centralizzare i meccanismi della de­ portazione. Dei convogli da Bolzano solo uno fu diretto ad Auschwitz; partì il 24 ottobre 1944 e deportò nel k l - v l slesiano un consistente gruppo di ebrei (oltre un centinaio) e anche un nucleo di politici (questi ultimi viag­ giavano sotto la sigla Sipo-SD, mentre gli ebrei sotto quella della r s h a ; giun­ ti a destinazione i politici non furono sottoposti alla selezione per le came­ re a gas, ma inviati direttam ente al lavoro coatto). Anche in altri sei tra­ sporti diretti verso vari k l furono inseriti ebrei; ormai Auschwitz era un obiettivo irraggiungibile: alla metà di gennaio 1945 il k l - v l era lambito dal fronte e qualche giorno dopo sarebbe stato raggiunto e liberato dalle trup­ pe sovietiche. Gli altri sei convogli deportarono esclusivamente detenuti politici e partirono con scadenza approssimativamente mensile. Significa­ tivo, per le dimensioni, fu il grande trasporto per Flossenbiirg del 5 set­ tembre 1944, con circa millecinquecento deportati. L’ultimo vagone piom­ bato partì per Dachau il 22 marzo 1945, con una ventina di persone. Qual­ che giorno dopo il b d s veronese cercò di organizzare un ulteriore trasporto di ebrei e di politici verso Flossenbùrg, ma l’interruzione della linea ferro­ viaria del Brennero, provocata dai bombardamenti alleati, costrinse gli uo­ mini di Eichmann e di Himmler a desistere. Il Dulag continuò comunque a funzionare come k l fino alla fine di aprile; solo il 29 e il 30 del mese - do­ po lunghe trattative tra Titho e rappresentanti della Croce rossa interna­ zionale - coloro che vi erano ancora reclusi poterono riacquistare la libertà. La deportazione d a ll’Adriatisches Kiistenland e i l campo della Risiera di San Sabba. Come già abbiamo osservato, ben settanta trasporti (il cin-

quantasette per cento del totale) partirono dalla Zona d ’operazione Lito­ rale Adriatico verso Auschwitz e verso i k l ; il primo si avviò da Trieste per Dachau il 28 ottobre 1943, con oltre duecento deportati (era il sesto dall’Ita­ lia), l’ultimo il 24 febbraio 1945, per Ravensbriick, ma fu poi deviato a Ber­ gen Belsen (il centoventiduesimo, e penultimo, dal nostro paese). Ventidue convogli in tutto deportarono ebrei, gli altri quarantotto prigionieri politi­ ci. Dei primi, diciannove si diressero ad Auschwitz, solo tre (partiti rispet­ tivamente il 28 novembre 1944, P i i gennaio e il 24 febbraio 1945) ebbero come destinazione Ravensbriick. La maggioranza di questi trasporti viag­ giava sotto la sigla r s h a , altri furono contrassegnati dalla doppia abbrevia­ zione r s h a e Sipo-SD, alcuni solo da quest'ultima. Dato che la classificazio­ ne Sipo-SD connotava i convogli dei politici, ciò significa da un lato che tal­ volta vennero deportati assieme ad Auschwitz sia politici sia ebrei, dall’altro che qualche ebreo venne incluso dai nazisti nel novero dei deportati politici. Tra le più dure azioni antisemite avvenute nel Litorale Adriatico pos­ siamo annoverare i rastrellamenti delle comunità ebraiche di Trieste e Go­ rizia, fra ottobre e novembre 1943 (i rastrellati furono inviati ad Auschwitz il 7 dicembre successivo); la cattura e la deportazione degli ebrei iugoslavi internati nel campo di concentramento istituito dal regime monarchico-fa­

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scista nell’isola di Rab (Arbe) durante l’occupazione italiana (convogli del 29 marzo e del 27 aprile 1944); i ripetuti rastrellamenti antiebraici condotti a Fiume e dintorni; il trasferimento alla Risiera di San Sabba degli ebrei de­ tenuti nel campo di concentramento fascista repubblicano di Vò Vecchio (Padova) e la loro successiva deportazione ad Auschwitz il 31 luglio 1944. Dei quarantotto trasporti diretti alla rete dei k l è da segnalare che in pa­ recchi casi si superarono i duecento deportati per convoglio; in particolare, l’8 dicembre 1944 partirono per Dachau circa quattrocentocinquanta pri­ gionieri (tra cui numerosi croati e sloveni); P i i gennaio successivo circa cin­ quecento diretti a Flossenbùrg; il 2 e il 24 febbraio circa trecentocinquanta li seguirono, destinati rispettivamente a M authausen e a Dachau. L’analisi della deportazione nel Litorale Adriatico sarebbe però incom­ pleta se non si tenesse conto che proprio a Trieste era situato il Polizeihaftlager (campo di detenzione di polizia) della Risiera di San Sabba, che tra le sue funzioni aveva anche quella di essere un v l ; i deportati erano uccisi tra­ mite camere a gas mobili (furgoni costruiti appositamente in modo che i gas di scarico fossero immessi in una camera stagna in cui prima erano stati rin­ chiusi gli esseri umani da eliminare; già utilizzati nel corso della cosiddet­ ta «operazione eutanasia» - o «azione T4» che dir si voglia - per uccidere malati mentali e handicappati gravi, furono impiegati dalle Einsatzgruppen - gruppi di intervento delle SS e della polizia incaricati di sterminare ebrei e quadri del Partito comunista sovietico - sul fronte orientale. Se ne fece uso anche nel v l di Chelmno). Complessivamente, il numero di deportati uccisi nella Risiera fu superiore a duemila. Con la costituzione del Litorale Adriatico (il 10 settembre 1943) era stata decisa anche la nomina di un rap­ presentante ufficiale di Himmler e dell’apparato SS nella zona. A tale cari­ ca venne designato il generale delle SS e della polizia (Gruppenfiihrer) O di­ lo Globocnik, che si insediò il 19 ottobre successivo con il titolo di coman­ dante superiore delle SS e della polizia (Hòherer SS- und Polizeifuhrer h s s p f ) . Globocnik, austriaco d ’origine (era nato proprio a Trieste il 21 apri­ le 1904), aveva accumulato un’imponente esperienza nello sterminio di mas­ sa come responsabile della cosiddetta Aktion Reinhardt, cioè lo sterminio di quasi due milioni di ebrei polacchi (e di altri paesi europei) nei tre v l , appositamente costruiti, di Belzec, Sobibor e Treblinka. In quell’occasione era stato messo ai suoi ordini uno speciale Einsatzkommando (gruppo d ’in­ tervento) definito «R» dalla lettera iniziale di Reinhardt; lo costituivano specialisti dell’omicidio formatisi nell’ambito dell’azione T4 e lo comanda­ va Christian W irth, maggiore delle SS e commissario di polizia (sarebbe sta­ to ucciso il 26 maggio 1944 dai partigiani che operavano nel Litorale Adria­ tico). Nelle settimane successive al suo arrivo a Trieste Globocnik si fece raggiungere dall’Einsatzkommando R, le cui tre sezioni (R I, R II, R III) si piazzarono rispettivamente nella Risiera, a Fiume e a Udine. Loro compito specifico era la lotta al movimento partigiano e la distruzione degli ebrei. Nonostante il Litorale Adriatico fosse direttam ente sottoposto all’au­ torità del Reich, anche lì l’apporto del collaborazionismo indigeno fu assai

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importante e per molti versi indispensabile, fornendo alle strutture dell’oc­ cupante quella conoscenza del territorio che mancava loro. Accanto all’am­ ministrazione italiana, c he continuava nelle sue attività ordinarie (compre­ sa quella di polizia) e al battaglione italiano Tagliamento al comando del co­ lonnello Juliani, fu costituita una milizia di autodifesa territoriale forte di novemila uomini e in ogni provincia venne piazzato un reparto (circa tre­ cento uomini ciascuno) di ausiliari di polizia reclutati in loco. La liberazione dei campi e i l ritorno dei deportati. Il primo grande lager a essere liberato fu Auschwitz, alla fine di gennaio 1945; l’ultimo fu Mauthaus­ en, il 5 maggio successivo. Ma nelle settimane seguenti non pochi dei so­ pravvissuti continuarono a morire per gli effetti delle sofferenze patite. Fra la tarda primavera e l’autunno i sopravvissuti al sistema concentrazionario nazista, circa il dieci per cento dei deportati dall’Italia, poterono rientrare in patria e raggiungere le loro case (quelli almeno che le trovarono ancora in piedi) e i loro familiari (nella misura in cui anch’essi erano sopravvissuti al­ la guerra. Per non pochi degli ebrei deportati non fu così). Trovarono un paese che usciva da una fase tragica della sua esistenza e che - nonostante avesse contribuito in maniera significativa alla propria liberazione - non era molto disposto ad ascoltarli. Alcuni decisero di continuare a testimo­ niare, altri si chiusero in un silenzio che ruppero solo molti anni dopo. Ci vollero quasi trent’anni perché la deportazione cominciasse a diventa­ re parte integrante della storia d ell’Italia nella seconda guerra mondiale e a essere conosciuta, almeno nelle sue grandi linee, dall’opinione pubblica. Nota bibliografica. F.

C e r e j a e B . M a n t e l l i (a c u r a d i) , L a d e p o r ta z io n e n e i c a m p i d i s te r m in io n a z is ti, A n g e l i ,

M i la n o 1 9 8 6 ; M . C o s l o v i c h , I p e r c o r s i d e lla s o p r a v v iv e n z a , M u r s ia , M i la n o 1 9 9 4 ; L . K l in k h a m ­ m e r , L ' o c c u p a z io n e te d e s c a in I ta li a ( 1 9 4 3 - 1 9 4 5 ) , B o l l a t i B o r i n g h ie r i, T o r i n o 1 9 9 3 ; L . P i c ­ c i o t t o F a r g io n , I l lib r o d e lla m e m o r ia , M u r s ia , M i la n o 1 9 9 1 ; S p o s ta m e n ti d ì p o p o la z io n e e d e ­ p o r ta z io n e in E u r o p a d u r a n te la s e c o n d a g u e r ra m o n d ia l e , C a p p e l li, B o l o g n a 1 9 8 7 ; I . T ib a l d i , C o m p a g n i d i v ia g g io , A n e d - A n g e l i , M i l a n o 1 9 9 4 .

L IL IA N A P IC C IO T T O

Deportazione razziale: la persecuzione antiebraica in Italia, 1943-45

La legislazione antiebraica fascista. Nel settembre del 1943, gli ebrei in Italia erano circa 33 000 tra cittadini italiani e profughi stranieri, capitati nella penisola animati dalla speranza di potersi imbarcare per altri paesi, ma bloccati dagli eventi bellici. Già da qualche anno la situazione per gli ebrei locali era tragica dal pun­ to di vista materiale e piena di disagio dal punto di vista morale. Dal set­ tembre del 1938 infatti, data dell’emanazione della prima legge antiebrai­ ca, regnavano l'insicurezza e l’inquietudine: i bambini e gli adolescenti non avevano la possibilità di frequentare la scuola pubblica, i capofamiglia di prestare la loro opera negli uffici della pubblica amministrazione, nella scuo­ la e nelle università, erano limitati nelle loro attività, che fossero impren­ ditori o venditori ambulanti. Gli ebrei erano stati radiati dall’esercito, da­ gli albi professionali, dalle banche, dalle imprese di interesse pubblico. I matrimoni con cattolici erano proibiti. T utto ciò avveniva nel quadro di una campagna di stampa diffamatoria e umiliante cui davano manforte am­ bienti colti e universitari per i quali l’antisemitismo divenne una moda, se non proprio una profonda convinzione. La legislazione antiebraica, che non aveva certo molto da invidiare quan­ to a durezza e puntiglio a quella messa in atto dalla Germania nazista, fu accompagnata da una miriade di piccole ordinanze e circolari amministra­ tive che rese difficile e umiliante la vita quotidiana degli ebrei, come quel­ la che proibiva gli annunci funebri sui giornali, l’avere il proprio nome nell’elenco dei telefoni, il frequentare luoghi di villeggiatura, lavorare nel mondo dello spettacolo, operare in qualità di ostetrica o infermiera, per non fare che qualche esempio casuale. E, ancora, via dai libri scolastici testi scrit­ ti da ebrei, via dalle strade nomi di ebrei illustri, via dagli edifici degli ospe­ dali e dagH asili nomi dei rispettivi benefattori ebrei. Essi vennero anche accuratamente schedati, registrati, contati da pre­ fetture, questure, amministrazioni comunali, uffici locali del fascio. Quanto ai profughi stranieri, furono sottoposti a decreto di espulsione e quando questo si dimostrò impossibile da realizzare per la chiusura delle vie marittime, il 10 giugno del 1940 furono sottomessi a provvedimento di internamento in appositi campi o luoghi di prigionia. Insomma, il quadro fino al rovesciamento di Mussolini il 25 luglio 1943 era di una pesante per­ secuzione da parte dello stato fascista.

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Le prim e deportazioni ad A uschw itz. Con F8 settembre del 1943 e l’oc­ cupazione tedesca, la persecuzione passò per alcuni mesi alla diretta gestione nazista subendo una svolta e tendendo decisamente verso l’assassinio. Le prime violenze antiebraiche furono messe in atto sul lago Maggiore e a Merano a metà settembre, ma la vera e propria estensione, dopo gli al­ tri paesi occupati, della politica della «soluzione finale della questione ebrai­ ca» avvenne il 26 dello stesso mese a Roma. In tale data, il comandante della Gestapo a Roma H erbert Kappler con­ vocò il presidente dell’Unione delle comunità israelitiche, Dante Almansi, e il presidente della Comunità israelitica di Roma, Ugo Foà, per comuni­ care loro l’imposizione di una taglia di cinquanta chili di oro da versare en­ tro trentasei ore, pena la deportazione di duecento membri della comunità. Dopo un’affannosa corsa contro il tempo per raccogliere il prezzo del riscatto, la somma fu consegnata, con la remota speranza che nulla di peg­ gio sarebbe accaduto. Invece, proprio il giorno dopo il pagamento del ri­ scatto, il 29, i tedeschi irruppero nei locali della Comunità ebraica portan­ do via carte, schedari e denaro contante. Il 13 ottobre successivo furono le biblioteche del Collegio rabbinico e della comunità a ricevere la sgradita vi­ sita, culminata nella rapina di preziosi libri antichi. Il compito di affrontare e risolvere la cosiddetta «questione ebraica» era abitualmente affidato, in ogni paese occupato, alla Gestapo (Geheime Staatspolizei - Polizia segreta di stato), una delle sezioni dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (r s h a ) , e precisamente al suo Ufficio IV B 4, capeg­ giato da Adolf Eichmann. A Roma però, la polizia tedesca, da subito alle prese con una situazio­ ne precaria dal punto di vista dell’ordine, non era pronta a tali compiti. Sic­ ché da Berlino, all’inizio di ottobre, fu mandato in Italia uno speciale pic­ colo distaccamento di polizia all’ordine di uno specialista in retate di ebrei, Theodor Dannecker. Egli scatenò il 16 ottobre 1943, con il suo distaccamento, coadiuvato da 365 uomini della polizia e dell’esercito tedesco di stanza a Roma, il gran­ de rastrellamento che ebbe nel quartiere ebraico, l’antico ghetto, il suo epi­ centro. Gli arrestati furono 1035, dopo il rilascio di circa una ventina di persone (perché non ebrei o perché coniugi o figli di matrimonio misto) al­ la fine rimasero nelle mani tedesche 1022 ebrei. Il 18 ottobre i prigionieri, stanchi e disperati, furono trasportati su autofurgoni a uno scalo ferrovia­ rio secondario di Roma (stazione Tiburtina) e caricati su di un convoglio formato da diciotto carri merci. Per la prima volta gli ebrei italiani venivano sottoposti al progetto di sterminio comunicato alle alte sfere naziste da Heydrich a Gross Wansee (periferia di Berlino) il 20 gennaio del 1942 e, dalla primavera precedente, operativo negli altri paesi occidentali occupati. Alla data della retata di Ro­ ma infatti cinquantasei convogli carichi di ebrei erano già partiti dalla Fran­ cia e tredici dal Belgio. La destinazione per tutti era il campo di sterminio

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D eportazione razziale

di Auschwitz in Alta Slesia (Polonia) nel cui sottocampo Birkenau il regi­ me nazista aveva sistemato impianti per l’assassinio di massa: a partire dal marzo 1942 erano state messe in funzione le camere a gas sistemate in due vecchie case agricole e dal marzo 1943 erano entrati in funzione i grandi moderni edifici che comprendevano locali per asfissiare quotidianamente i deportati e crematori per bruciarne i corpi. Ad Auschwitz, la morte a ciclo continuo raggiunse una spaventosa scala industriale: si calcola che dalla pri­ mavera del 1942 al novembre del 1944 (data della sospensione dell’assassi­ nio di massa), le vittime ebraiche furono circa un milione e centomila. Il treno degli ebrei romani giunse sulla banchina dello scalo ferroviario secondario di Auschwitz la notte del 22 ottobre 1943; qui rimase fermo e sigillato in attesa del proprio turno, fino all’alba del giorno successivo. I de­ p o rtati, dopo un viaggio particolarm ente penoso perché tra loro c ’era­ no decine di bambini di tutte le età, torm entati dalla fame, dalla sete, dal­ la sporcizia, dal puzzo dei corpi rimasti in promiscuità per cinque giorni e cinque notti, subirono la selezione. I destinati al gas furono 839. AJla libe­ razione, del convoglio di Roma rimanevano in vita diciassette persone. La notizia del rastrellamento del 16 ottobre 1943 giunse immediata­ mente in Vaticano dove il giorno stesso l’ambasciatore tedesco Ernst von Weizsaecker fu convocato dal segretario di stato cardinale Maglione che gli chiese di «voler intervenire in favore di quei poveretti» e gli comunicò che «è doloroso oltre ogni dire che proprio a Roma, sotto gli occhi del Padre comune siano fatte soffrire tante persone unicamente perché appartengo­ no ad una stirpe determinata». Weizsaecker domandò allora: «Che cosa fa­ rebbe la Santa Sede se le cose dovessero continuare?»; la risposta di Ma­ glione fu: «la Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di dire la sua parola di disapprovazione». Il giorno dopo, l’ambasciatore riferì ai suoi superiori nei seguenti termini la tem uta reazione vaticana: Gli ambienti a noi ostili di Roma approfittano dell’accaduto per forzare il Va­ ticano ad uscire dal suo riserbo. E noto che i vescovi delle città francesi dove si era­ no verificate azioni analoghe hanno preso nettamente posizione. Il Papa nella sua qualità di pastore supremo della Chiesa e vescovo di Roma non potrà mostrarsi più discreto di loro.

Oltre a una ferma lettera privata di protesta di monsignor Hudal, ret­ tore della Chiesa tedesca a Roma, al generale Stahel, però, l ’unica reazio­ ne ufficiale fu il 25-26 ottobre uno sbiadito fondo su «L’Osservatore ro­ mano» con accenni quanto mai vaghi alla deportazione degli ebrei romani, in maggioranza già assassinati due giorni prima ad Auschwitz. L’ambascia­ tore, il 28 ottobre potè inviare al m inistro degli Esteri tedesco un tran­ quillizzante messaggio nel quale con cinismo diceva: «si può ritenere che la questione spiacevole per il buon accordo tedesco-vaticano sia liquidata». Gli arresti a Roma continuarono, pur se in maniera meno sistematica e repentina, anche dopo la grande razzia. Il «distaccamento operativo» si spostò verso Firenze; entro la fine di

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novembre le maggiori città del Nord avevano subito una ]udenaktion. Dan­ necker organizzò, dopo quello da Roma, altri due trasporti: per il convoglio partito il 9 novembre 1943, gli ebrei rastrellati furono portati dalle locali carceri alle stazioni ferroviarie, rispettivam ente di Firenze e di Bologna; per il convoglio partito il 6 dicembre 1943, il carico avvenne a Milano, Ve­ rona e Trieste. Per tutto il periodo in cui fu lui a organizzare i carichi, di fatto, le carceri delle grandi città funzionarono come luoghi di transito per i deportando Alla fine di dicembre del 1943 egli giunse con i suoi uomini a Verona do­ ve terminò il suo compito di organizzatore esperto della “caccia all’ebreo” . Compito cui fu peraltro nuovamente chiamato di 11 a poco, per continuare la sua carriera omicida, in Ungheria. La Carta di Verona e l ’ordine di polizia d e l3 0 novembre 1943. Quanto alle vicende della Repubblica sociale italiana (Rsi) tra settembre e dicem­ bre del 1943, Roma fu tolta a Mussolini che l’avrebbe voluta ancora come sua capitale e l’amministrazione fascista fu interamente spostata al Nord, sulle rive del lago di Garda, secondo gli ordini impartiti da Hitler tramite il plenipotenziario del Reich, Rudolf Rahn. La stessa ambasciata tedesca prese stanza al Nord nelle vicinanze del governo fascista. Fin dall’inizio fu data pubblicità al progetto di u n ’Assemblea costi­ tuente. In realtà, ci si limitò a convocare a Verona per il 14 novembre del 1943 i delegati delle organizzazioni del Partito fascista dell’Italia setten­ trionale chiamati ad approvare un manifesto politico già predisposto. Tale manifesto, detto Carta di Verona, fu fatale per gli ebrei che erano già riu­ sciti a sfuggire ai rastrellamenti degli uomini di Dannecker perché, di fat­ to, il governo della Rsi ne reclamava ora la gestione. Consisteva in diciotto punti regolanti materie istituzionali, giuridiche, sociali; al punto sette reci­ tava: «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guer­ ra appartengono a nazionalità nemica». Con questa dichiarazione la Rsi le­ gittimava sul piano formale la persecuzione antiebraica già avviata dai te­ deschi, mentre sul piano sostanziale avrebbe, come si vedrà, impegnato la sua polizia a fornire ai nazisti i contingenti per la deportazione. Fu dato immediato seguito al testo ideologico e programmatico della Carta di Verona con l’ordinanza del capo della polizia n. 5, 30 novembre 1943, che disponeva l’arresto e l’internamento di tu tti gli ebrei e il seque­ stro dei loro beni: 1 . T u t t i g li e b r e i, a n c h e s e d is c r im in a t i, a q u a lu n q u e n a z io n a lit à a p p a r te n g a n o e c o m u n q u e r e s id e n t i n e l te r r ito r io n a z io n a le d e b b o n o e s s e r e in v ia t i i n a p p o s it i c a m ­ p i d i c o n c e n t r a m e n t o . T u t t i i lo r o b e n i, m o b ili e im m o b ili, d e v o n o e s s e r e s o t t o p o s t i a i m m e d i a t o s e q u e s t r o i n a t t e s a d i e s s e r e c o n f i s c a t i n e l l ’i n t e r e s s e d e l l a R s i , l a q u a ­ le li d e s tin e r à a b e n e f ic io d e g li in d ig e n t i, s in is tr a ti d a lle in c u r s io n i a e r e e n e m ic h e . 2 . T u t t i c o lo r o c h e , n a t i d a m a tr im o n io m is t o , e b b e r o in a p p lic a z io n e d e lle le g ­ g i r a z z ia li v ig e n t i il r i c o n o s c im e n t o d i a p p a r te n e n z a a r a z z a a r ia n a , d e b b o n o e s s e r e s o t t o p o s t i a s p e c ia le v ig ila n z a d a g li o r g a n i d i p o liz ia .

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S ia n o p e r ta n to c o n c e n t r a ti g li e b r e i in c a m p o d i c o n c e n tr a m e n to p r o v in c ia le , in a t te s a d i e s s e r e r iu n it i in c a m p i d i c o n c e n tr a m e n to s p e c ia li a p p o s ita m e n te a t­ tr e z z a ti.

In virtù di questi gravissimi provvedimenti ogni ebreo in circolazione era passibile di arresto, questa volta da parte delle autorità italiane sicché si può dire che pur non essendo la Rsi diretta responsabile della deporta­ zione degli ebrei, a partire dal 30 novembre assunse in prima persona il com­ pito di m ettere in atto tutte le azioni preliminari volte a rintracciarli e ar­ restarli. In effetti nei mesi seguenti, i fermi vennero attuati direttam ente dalle questure della Rsi, dopo minuziose ricerche domiciliari. Una successiva ordinanza del 10 dicembre 1943, firmata dal capo della polizia Tullio Tamburini, attenuava solo in parte la portata dell’ordine ge­ nerale di arresto, esentandone gli anziani oltre i settantanni e gli ammala­ ti gravi. Nell’attesa che venisse allestito un grande campo di concentramento, come prescritto dalla legge, ne furono istituiti di provvisori in edifici di for­ tuna come scuole, collegi, castelli abbandonati. Se ne costituì una fitta re­ te, di breve durata, ma ugualmente in grado di rifornire i tedeschi del con­ tingente sufficiente a formare un nuovo grande convoglio verso AuschwitzBirkenau, partito da Milano il 30 gennaio del 1944. I prigionieri erano affluiti nel carcere di San Vittore a Milano, dai campi provinciali di Cal­ vari di Chiavari, di Bagno a Ripoli, di Bagni di Lucca, di Tonezza del Cimone, di Forlì e altri. La Rsi scelse, per istituire il grande e definitivo campo di concentra­ mento menzionato dalla legge, un terreno agricolo nella frazione di Fossoli, a cinque chilometri dalla cittadina di Carpi. L’ordine relativo fu impar­ tito dalla prefettura di Modena al podestà di Carpi il 2 dicembre 1943. La «questione ebraica» in Italia dal 1944 a fin e guerra. Nel frattempo, a Berlino, ci fu una nuova svolta nella gestione della «questione ebraica» in Italia. Nell’ambito dell’Ufficio Eichmann, il 4 dicembre si valutò la nuova situazione venutasi a creare in Italia dopo l’ordine del governo della Rsi di arrestare tu tti gli ebrei e le possibilità che esso offriva «per un lavoro più proficuo che per il passato relativamente alla questione ebraica». Si decise che le funzioni del «distaccamento operativo» di Dannecker erano esauri­ te e che da allora in poi si sarebbe potuto affidare il compito di deportare gli ebrei a un ufficio stabile, incaricato di collaborare sistematicamente con la polizia italiana. Per tale richiesta di collaborazione alle autorità italiane fu delegata la normale via diplomatica, cioè l’ambasciata tedesca. L’ulteriore esecuzione della «soluzione finale» sarebbe stata affidata al nuovo funzionario addet­ to, Friedrich Bosshammer, facente parte dell’Ufficio Eichmann a Berlino, che sarebbe venuto in Italia in sostituzione di Dannecker. Bosshammer giunse dunque in Italia agli inizi di febbraio del 1944 creando un nuovo uf-

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fido aggregato alla sede della Gestapo a Verona. Proprio nei primi giorni del suo incarico, si recò alla stazione ferroviaria di Verona per un sopral­ luogo al convoglio di deportati che era partito da Milano il 30 gennaio. Con l’apertura dell’Ufficio IV B 4, anche l’Italia si uniformava appieno alla procedura della «soluzione finale» messa in atto negli altri paesi euro­ pei: arresto, concentramento in apposito campo, organizzazione di una par­ tenza verso Auschwitz una volta raggiunto un numero sufficiente di deportandi. Occorreva dunque per i tedeschi reperire un luogo di transito da dove esplicare le operazioni di evacuazione in modo sistematico e ordina­ to. Giunse a proposito il fatto che il governo italiano, due mesi prima, aves­ se scelto Fossoli come campo di concentramento; Bosshammer decise di ser­ virsene come campo di transito. Verso la fine di febbraio, alla direzione ita­ liana del campo egli ne sovrappose un’altra, tedesca, esautorando di fatto la prima. Fino alla fine di luglio del 1944, Fossoli vide un incessante flusso di disgraziate famiglie arrestate dovunque. Regnava tra di esse il disorien­ tamento, la rassegnazione, l’angoscia per le prossime partenze. Friedrich Bosshammer organizzò tu tte le partenze da Fossoli: cinque per Auschwitz-Birkenau, due per Bergen Belsen di ebrei, diretti in quel la­ ger in quanto titolari di cittadinanza inglese o turca. Alla fine del luglio 1944 il fronte delle operazioni militari era notevolmente avvicinato alla zo­ na di Modena, i ponti sul fiume Po erano stati bombardati dagli alleati. La Gestapo decise allora di evacuare il campo di transito di Fossoli verso una zona più sicura e posta geograficamente più a nord. Un nuovo campo ven­ ne istituito nei pressi di Bolzano-Gries in una zona di capannoni abbando­ nati. Là furono trasferiti il personale tedesco di Fossoli e i prigionieri poli­ tici, circa un centinaio. Viceversa, al momento della chiusura, il i ° agosto gli ultimi ebrei furono tu tti frettolosamente deportati. Vennero trasporta­ ti con automezzi fino al Po al di là del quale, in mancanza di ponti, furono traghettati con barche. La loro partenza per Auschwitz avvenne direttamente dalla stazione ferroviaria di Verona. Con questo ultimo convoglio furono fatti partire anche gli ebrei considerati non deportabili (cioè protetti dal fatto di essere figli o coniugi di matrimonio misto). Per essi alcuni va­ goni vennero staccati oltre confine e diretti verso campi di concentramen­ to in territorio tedesco anziché il campo di sterminio di Auschwitz. Bosshammer, terminata con la liquidazione di Fossoli la sua opera di re­ sponsabile dell’azione antiebraica in Italia, passò ad altro servizio. Auschwitz però continuò a ricevere ebrei italiani, provenienti dal cam­ po di transito di Bolzano e dal luogo che fungeva da campo di transito per le regioni nordorientali dell’Italia chiamate Litorale Adriatico, il campo della Risiera di San Sabba presso Trieste. L’ultimo convoglio arrivato ad Auschwitz fu quello partito da Bolzano il 24 ottobre 1944. Con esso si chiu­ de la storia della deportazione degli ebrei dall’Italia verso lo sterminio, ma non si conclude la storia delle deportazioni poiché altre ve ne furono fino al tardo febbraio del 1945, dirette verso i campi di concentramento di Ravensbrùck e Flossenburg, geograficamente posti più lontano dalle li­

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D eportazione razziale

nee di avanzata sovietica, rispetto ad Auschwitz, liberato il 27 gennaio del 1945Il bilancio della politica antiebraica messa in atto in Italia è di 7013 de­ portati (830 si salvarono e tornarono in patria); a essi vanno aggiunti 303 morti in patria per eccidi, maltrattamenti o suicidi. Nota bibliografica. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto ilfascismo, Einaudi, Torino 1993; R. Finzi, Vuniversità italiana e le leggi antiebraiche, Editori Riuniti, Roma 1997; G. Marise e G. Cardosi, Sul confine, Zamorani, Torino 1998; G. Mayda, Ebrei sotto Salò, Feltrinelli, Milano 1978; M. Michaelis, Mussolini e la questione ebraica (1978), Comunità, Milano 1982; L. Pic­ ciotto Fargion, Il libro della memoria, Mursia, Milano 1991; M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei, Zamorani, Torino 1994; Id., Gli ebrei nell’Italiafascista, Einaudi, Torino 2000; S. Zuc­ cotti, L’olocausto in Italia, Mondadori, Milano 1988.

ILIO M U R A C A

I partigiani all’estero: la Resistenza fuori d’Italia

Presupposti e modalità della Resistenza all’estero. La Resistenza dei mi­ litari italiani al tedesco, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, si è sviluppata inizialmente, in maniera organica e determinata, soltanto all’estero, specie là dove le condizioni delle unità ivi dislocate lo hanno con­ sentito. La distanza dai nostri confini, l’assetto di guerra e di permanente mobilitazione in cui esse si trovavano, per il persistere di una estesa guer­ riglia, la maggiore coesione e prontezza operativa dei reparti, rispetto a quel­ li della madrepatria, la necessità di combattere per aprirsi la via di casa e, a volte, il positivo atteggiamento dei movimenti di liberazione locali, sono stati tutti fattori che hanno stimolato la volontà di opporsi allo strapotere e all’arroganza germanica e di misurarsi con essa, in una impresa che, fin dall’inizio, poteva considerarsi disperata. Purtroppo, il fatto che i maggiori comandanti all’estero siano stati te­ nuti all’oscuro dell’imminente armistizio, a differenza dei loro pari grado in Italia, ha giocato un ruolo dirompente nel creare quella situazione di di­ sordine e di smarrimento che, nel giro di pochi giorni e, spesso, di poche ore, avrebbe causato il crollo psicologico e la dissoluzione della maggior par­ te delle loro grandi unità. Ma è stato proprio questo drammatico disorientamento dei vertici del­ l’istituzione militare, senza precedenti nella storia del paese, a dare inizio, per decisione spontanea di comandanti e di semplici gregari, a quella lotta armata che, nel contribuire in misura significativa alla liberazione di quei territori stranieri, dei quali essi erano stati occupanti, ha finito per riscat­ tare la loro dignità di soldati e, attraverso esperienze nuove, delineare un assetto diverso di quei principi di democrazia con i quali l’istituzione stes­ sa avrebbe dovuto in seguito misurarsi. Per una migliore comprensione di come quella lotta armata è andata ma­ turando, è opportuno indicare, per sommi capi, la scansione dei tempi del­ le più importanti decisioni del Comando supremo e dello stato maggiore dell’esercito dell’epoca, le sole che dovevano contare, in quel frangente, e che condizionarono il comportamento dei comandanti delle quattro arma­ te e delle loro trentacinque divisioni ubicate all’estero, con una forza di trecentomila uomini circa. 29 luglio 1943: il generale Roatta, capo dello Sme (che successivamente sa­ rebbe passato alla Rsi), dopo cinque giorni, inutilmente trascorsi, dalla

Muraca

I partigiani all’estero: la Resistenza fuori d ’Italia

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caduta di Mussolini, informa segretamente i comandanti delle varie ar­ mate, a eccezione dei due dei Balcani meridionali, sulle misure da pren­ dere contro eventuali colpi di mano germanici; 10 agosto: prosegue l’afflusso delle divisioni tedesche nella penisola, anche senza il consenso del Comando supremo. I maggiori comandi italiani dei Balcani continuano a essere tenuti all’oscuro di quanto sta accadendo; 3 settembre: firma dell’armistizio a Cassibile, in Sicilia. Badoglio, capo del governo e del Comando supremo, autorizza la diramazione, ma solo per alcuni comandanti d ’armata e impegnandoli al massimo riserbo, della «memoria 44», con l’indicazione delle misure da attuare contro i tede­ schi in caso di aperti atti di aggressione. L’ordine esecutivo dovrà esse­ re diramato dallo stesso Comando supremo; solo eccezionalmente, i mag­ giori comandi dipendenti potranno agire di loro iniziativa. Ancora una volta, rimangono esclusi dalla «memoria 44» i comandanti delle arma­ te dei Balcani meridionali, della Grecia e dell’Egeo. Questi riceveran­ no tali disposizioni poco prima dell’armistizio se non addirittura alcune ore dopo il suo annuncio; 8 settembre-, comunicazione alleata dell’armistizio. In una tempestosa riu­ nione, Badoglio viene indotto a leggerne via radio il testo, prima della sua fuga da Roma. Peraltro, la frase con cui si dispone che «le forze ita­ liane reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi provenienza», è am­ bigua e tale da suscitare in tutti i comandanti di unità le più svariate in­ terpretazioni e congetture; 9 settembre: nei palazzi, ormai vuoti, del Comando supremo e dello stato maggiore dell’esercito, squillano inutilmente i telefoni; i pochi ufficiali rimasti non sanno cosa rispondere alle pressanti richieste di chiarimen­ ti e di aiuto, provenienti da ogni parte. Tanto più che il previsto ordi­ ne esecutivo della «memoria 44» non è stato ancora trasmesso; 11 settembre: solo dopo che il re e il governo sono giunti al riparo, a Brin­ disi, viene trasmesso il messaggio che dichiara i tedeschi come «nemici». Per quelli che avevano già scelto di resistere, spesso disobbedendo agli ordini superiori, il messaggio è inutile e tardivo; così la Resistenza fuori d’Italia, da parte di intere unità ancora militarmente bene organizzate, co­ me di singoli individui, trae proprio origine da questi comportamenti al li­ mite dell’insubordinazione. Essi sono la conseguenza delle incertezze e dell’attendismo dei comandanti più elevati sui quali tuttavia, è bene preci­ sarlo, grava la responsabilità della tutela della vita di decine di migliaia di uomini. Abituati a ricevere continue direttive dall’alto, che legittimassero il loro operato, e a una vicinanza, spesso subordinata, dei comandi tedeschi - che avevano loro delegati ovunque -, i comandanti di armata e di divi­ sione, nella maggioranza dei casi, finiscono per consentire ai loro dipen­ denti di decidere del proprio destino lasciandosi facilmente ingannare o con­ vincere a cedere ai metodi, a volte blandi a volte crudeli, degli ex alleati, decisi a ottenere la resa delle unità italiane a qualsiasi costo, anche stermi­

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nandole, come avvenne a Cefaionia e Corfù. Nasce così, del tutto sponta­ neo, il fenomeno dei “partigiani all’estero”. Una scelta di campo fatta, da ufficiali e soldati, in sintonia con i più naturali sentimenti popolari; una scelta particolarmente difficile per tutti, specie sotto l’aspetto psicologico, soprattutto per i quadri, in quanto operata al di fuori di ogni tradizione mi­ litare e del tipo di obbedienza in cui si erano formati nelle accademie, nel­ le scuole e nei reggimenti di antica tradizione monarchica; una scelta attra­ verso la quale accettavano sistemi di governo, di gerarchia e di combattimen­ to diversi, se non opposti, a quelli tradizionali, in una logica nuova, dove nessuno di essi poteva vantare altri precedenti se non quelli del rispetto e del prestigio guadagnati sul campo. Quest’ultimo aspetto, specie per gli ufficiali, rappresenterà l’ostacolo più duro da superare. Molti di essi, infatti, prima di venire fiaccati dagli scontri quotidiani, dalla fame e dalle malattie, saranno travolti e, in segui­ to, emarginati dalle formazioni combattenti, proprio da questo modo nuo­ vo di intendere diritti e doveri, in una mutazione di comportamenti impo­ sta dai nuovi compagni di lotta già ideologicamente motivati e altrettanto risoluti a far rispettare le regole di una guerriglia che, una volta scelta, non avrebbe consentito né ripensamenti né defezioni. Immediatamente si posero, acutissimi, i problemi dei rifornimenti di munizioni e dell’approvvigionamento. Ma non solo. Un cenno merita an­ che la dibattuta questione dell’indottrinamento politico dei resistenti al­ l’estero, da molti erroneamente ritenuto obbligatorio. In effetti, un malde­ stro tentativo di educazione politica all’inizio ci fu, specie per gli ufficiali, ritenuti inguaribilmente “borghesi”. Ma in seguito, visto il suo scarso successo e di fronte alle coraggiose rea­ zioni di alcuni comandanti che rivendicavano un trattamento di alleanza paritaria, l’indottrinamento venne sospeso e impartito solo su base volon­ taria, senza alcuna discriminazione per chi vi si rifiutava. Anche l’uso delle uniformi italiane non venne mai contestato o vietato dai partigiani locali, tranne nei casi in cui l’usura aveva ormai ridotto quei capi di corredo a inutili stracci. Ma, anche quando il ricambio era costitui­ to dalle calde uniformi inglesi, gradi, stellette e mostrine continuarono ad apparire sui brandelli delle giacche grigioverdi e sui copricapo, dei quali nes­ suno volle privarsi, quale irrinunciabile distintivo nazionale. L’uso stesso della stella rossa, spesso sovrapposta al fregio dell’arma di appartenenza, non venne mai imposto, ma fu sempre una libera scelta di quei militari che vedevano, in tale simbolo, un segno di rottura con il passato. Tant’è che, al rientro nell’Italia liberata, quel segno venne subito rimos­ so. Occorre inoltre considerare il contesto territoriale in cui la Resistenza all’estero si svolse; un contesto assai poco conosciuto, straniero per lingua, religione, costume e consuetudini, popolato, specie nei Balcani meridio­ nali, da etnie diverse, ancora più povere di quelle delle regioni contadine dalle quali la maggior parte dei militari proveniva. Ma anche in quel nuo­ vo habitat il soldato italiano ha saputo dimostrare le sue qualità umane, di

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adattamento, di generosità, ingegnosità e, soprattutto, esprimere, nelle cir­ costanze più tragiche, una inaspettata capacità di soffrire senza quasi mai cedere alla tentazione di arrendersi, di consegnarsi ai tedeschi, i quali, con incessanti appelli e un insidioso volantinaggio, continuavano a invitarlo nei loro vicini presidi offrendo in cambio la salvaguardia della vita. No­ nostante tutto questo, i rapporti fra italiani e partigiani locali non furono esenti da contrasti e pregiudizi, che spesso sfociarono in punizioni crude­ li e persino fucilazioni anche per reati di modesta entità, come quelli del furto di alimenti a danno del popolo, o per presunte colpe, specie di uffi­ ciali e sottufficiali, commesse in periodi antecedenti al loro passaggio ai partigiani. Numerose furono le vittime di tale duro trattamento, anche se occorre aggiungere che un identico, estremo rigore veniva adottato pure nei confronti dei nativi. A tali difficoltà va aggiunta, per gli italiani, la ne­ cessità di barcamenarsi nell’intrico delle etnie diverse, proprie dei territo­ ri balcanici. Queste, con i loro differenti moventi, politici e religiosi, gio­ cavano un ruolo primario nella condotta delle operazioni e nell’alternanza delle alleanze, in una lotta senza quartiere fatta anche di estreme barba­ rie, alla quale però il soldato italiano, per istintiva ripulsa, ha saputo sem­ pre rimanere estraneo. Per quel che riguarda il numero di coloro che, dopo l’8 settembre, scel­ sero la Resistenza all’estero, la loro stima è estremamente aleatoria. Una co­ sa appare incontrovertibile, e cioè che si è trattato di una maggioranza as­ soluta di militari in servizio comprendente ogni arma e specialità, anche ma­ rina e aeronautica, sia pure in percentuali proporzionalmente ridotte. Ma non è stato tanto il numero a contare, quanto il significato di una scelta di libertà che, alla fine, ha fatto registrare una elevatissima percentuale di ca­ duti, valutabili in oltre diecimila (più le migliaia di caduti nei giorni suc­ cessivi all’armistizio dell’8 settembre, da Cefalonia alla Corsica). Una menzione particolare meritano i medici e i cappellani, inquadrati nelle unità italiane all’estero, poi passate alla Resistenza. I primi hanno for­ nito un elevato esempio del dovere, militare e professionale, continuando nella loro missione umanitaria a favore degli italiani, dei partigiani locali e dei civili, in condizioni di assoluta assenza di luoghi di ricovero, di medici­ ne e, spesso, di qualsiasi attrezzatura chirurgica. Molti di loro non hanno esitato a prendere le armi, ovunque il momento lo richiedeva. A loro vol­ ta, i cappellani hanno condiviso i rischi e i sacrifici dei soldati a essi spiri­ tualmente affidati. Decine e decine furono i medici e i sacerdoti caduti, spesso eroicamente, nell’esercizio della loro missione. Va a onore delle Forze armate italiane avere espresso, dalle loro fila, sol­ dati come quelli, capaci di continuare a fare il loro dovere in condizioni di pericolo e difficoltà estreme, portando in esse i valori e i sentimenti nazio­ nali e accettando di confrontarsi con valori e sentimenti spesso con questi in contrasto. Al termine del conflitto, per molti di essi, il “partigianato all’estero” si sarebbe volto in un danno, tanto da assoggettarli a ingiustifi­ cati trattamenti discriminatori, che hanno finito per danneggiarli nel lavo­

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ro e nella carriera. Malgrado ciò, nessuno di essi ha mai rinnegato quella dura e preziosa esperienza. Iugoslavia. Dal 1935 la Iugoslavia aveva cominciato a gravitare gra­ dualmente verso la politica di Hitler, fino ad aderire al patto Tripartito con Germania e Italia. M ail 27 marzo del 1941, a seguito di un improvviso mo­ to popolare, il governo filotedesco retto da Cvetkovic Dragisa e Macek Vlatko era costretto a cadere. Pronta la reazione germanica che il 18 apri­ le dello stesso anno, dopo due settimane di debole resistenza, con l’aiuto di Italia, Bulgaria e Ungheria provocava la capitolazione del paese, obbligan­ do il governo e re Pietro II a rifugiarsi in Medio Oriente. Alla rapida campagna di guerra avevano concorso, da parte italiana, la IX e la II armata, che si stabilirono nei territori di Slovenia, Dalmazia, Er­ zegovina e Montenegro, sino ai confini del Kosovo con l ’Albania. Alla Ger­ mania toccarono la Serbia e la Croazia, quest’ultima affidata alla guida di un crudele filofascista, Ante Pavelic. Da quel momento, quella che poteva apparire una occupazione facile si trasformò, via via, in una delle più accanite e sanguinose resistenze che la storia d ’Europa abbia mai conosciuto.

Già il 21 dicembre 1941, con la costituzione della I brigata Proletaria, voluta da Josip Broz «Tito», un operaio fuoruscito educato a Mosca, na­ sceva il nuovo esercito popolare che avrebbe raccolto attorno a sé le varie etnie della nazione iugoslava, fondendole in una unità di intenti e di vo­ lontà contro gli occupanti italiani, tedeschi, bulgari e ungheresi, come mai in seguito si sarebbe più verificato. A causa di questo spirito combattivo le truppe italiane sperimentarono, per oltre due anni, la guerriglia, cui cerca­ rono di far fronte con forme spesso improvvisate di strategia non disgiunte, malgrado la proverbiale tolleranza del soldato, da atrocità che si rivelarono però incapaci di arrestare o ridurre il fenomeno della Resistenza iugoslava. In questa situazione, che aveva provocato nelle unità un tasso di logora­ mento altissimo, mai compensato da adeguati ricambi di uomini e di mate­ riale, si giunse all’8 settembre del 1943, quando le unità italiane si trova­ rono distribuite nel modo che segue. Alle dipendenze del Comando supremo: in Erzegovina, due divisioni Marche e Messina; in Montenegro, quattro divisioni - Emilia, Ferrara, Ve­ nezia e la divisione alpina Taurinense - , inquadrate nella IX armata; alle dipendenze dello stato maggiore dell’esercito: in Slovenia, Croazia e Dal­ mazia, otto divisioni - Cacciatori delle Alpi, Isonzo, Lombardia, Macerata, Murge, Bergamo, Zara, Eugenio di Savoia - , inquadrate nella II armata. In totale la Iugoslavia, all’atto dell’armistizio, contava ben quattordici di­ visioni per un totale di circa duecentomila uomini, comprese le divisioni co­ stiere. Per alcune di quelle più vicine al territorio nazionale si era parlato di rimpatrio, allo scopo di presidiare qualche posizione chiave di confine contro possibili operazioni offensive da parte dei tedeschi. Questa opera­ zione, affidata al generale Gambara e per la quale sarebbero stati necessa­

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ri lunghi tempi di attuazione, si risolse in un caotico rimescolamento di co­ mandi, perché disposta all’ultimo momento e con complicati accorpamenti di unità. Di conseguenza il tentativo fallì miseramente e si concluse, subi­ to dopo l’armistizio, in una enorme retata di prigionieri italiani ai valichi di Trieste e di Fiume. Non mancarono episodi di resistenza, ma si trattò di fatti isolati come quello del generale Cerruti, comandante la divisione Ison­ zo il quale, piuttosto che darsi prigioniero, preferì passare coi partigiani e combattè per tutto il mese di settembre al loro fianco come semplice sol­ dato nei boschi della Slovenia. Due le cause principali di tale repentino collasso di un complesso di di­ visioni le quali, essendo state sempre in stato di all’erta e pronte al com­ battimento, potevano considerarsi in condizioni di comportarsi ben diver­ samente, anche nella critica situazione in cui si erano venute a trovare. La prima fu la repentinità dell’annuncio dell’armistizio che, nel tenta­ tivo di mantenerlo segreto, rivelatosi vano, non venne reso noto e gettò nel­ lo scompiglio e nella più profonda costernazione soprattutto i quadri. La seconda è da ricercare nell’assoluta mancanza di una sagace visione politi­ ca della situazione, che avrebbe fatto propendere molti combattenti per un accordo con i partigiani iugoslavi. Questi, alla prova dei fatti, si sarebbero dimostrati i più affidabili e sinceri alleati di quegli italiani che scelsero la via della collaborazione con l’esercito popolare di liberazione del maresciallo Tito. Tuttavia, intese del genere cominciarono a prendere piede, fra italia­ ni e “titini”, mano a mano che ci si allontanava dal confine italiano. Infat­ ti, dopo i primi momenti di smarrimento, negli ufficiali e soldati, ormai pri­ vi di ordini e nella necessità di decidere da soli, insorse il senno della ra­ gione e del calcolo. L’Italia, dopo i primi e precipitosi imbarchi dai pochi porti dove ancora i tedeschi non erano sopraggiunti, appariva loro sempre più lontana. Prendeva piede, nella coscienza di quegli uomini, un senti­ mento di rabbia per il modo in cui si erano svolte le cose. Alla rabbia su­ bentrò la volontà di sopravvivere e di restare liberi, contro il pericolo rap­ presentato dal tedesco che li aveva vinti, spesso col raggiro, e li voleva ora umiliati e prigionieri. Da questi sentimenti nacque la Resistenza. I primi episodi, di notevole valore e significato, si svolsero a Spalato da parte della divisione Bergamo comandata dal generale Emilio Becuzzi. Que­ sti, inizialmente, accettò la collaborazione coi partigiani, favorendo il loro ingresso in città e concedendo loro ampia possibilità di rifornirsi di armi e materiale. Grazie a questi aiuti, Spalato potè resistere agli attacchi della di­ visione corazzata SS Prinz Eugen fino al 27 settembre, dopo che i soldati italiani avevano subito gravissime perdite a opera dei ripetuti bombardamenti tedeschi, e che il Becuzzi aveva abbandonato il campo, assegnando la difesa della città e la responsabilità dell’alleanza coi partigiani ad altri ge­ nerali del presidio. Occupata Spalato, entrò in funzione un tribunale di guerra tedesco, che condannò a morte gli ufficiali ritenuti responsabili dell’aiuto dato ai “titini”. Il i° ottobre, i generali Salvatore Pelligra, Alfon­ so Cigala Fulgosi e Raffaele Policardi, con quarantasette altri ufficiali di

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ogni grado della Bergamo, venivano trasportati fuori città e freddamente abbattuti a raffiche di mitraglia. Tutti ebbero a dimostrare un contegno no­ bile e coraggioso. Dopo la guerra, molti parenti di costoro ottennero il rin­ vio a giudizio del generale Becuzzi, che ritenevano il maggiore responsabi­ le dei fatti che avevano portato all’uccisione dei loro congiunti. I corpi de­ gli ufficiali fucilati, dissepolti dopo anni di ricerche, riposano ora nel tempio votivo del Lido di Venezia. Ma la Resistenza degli uomini della divisione Bergamo continuò. Un fol­ to gruppo di carabinieri, usciti in pieno assetto di guerra da Spalato, for­ marono il battaglione Garibaldi, subito accolto con entusiasmo nelle fila della I brigata Proletaria e destinato a una lunga, tormentata ed eroica cam­ pagna di guerra, fino alla liberazione della Iugoslavia. A esso, con il molti­ plic arsi dei militari che avevano scelto di combattere i tedeschi, si affiancò un altro battaglione, il Matteotti, composto, come il primo, da qualche cen­ tinaio di uomini, fra i quali molti ufficiali, e anch’esso impegnato in un lun­ go ciclo operativo attraverso tutta la Iugoslavia. Al comando del Garibaldi si avvicendarono due coraggiosi ufficiali dei bersaglieri. Il tenente Ilare Mongilardi resse il comando fino al mese di set­ tembre del '44 quando, ferito, venne rimpatriato. Guarito, volle tornare fra i suoi uomini con l’intento di organizzare un collegamento stabile con il Comando supremo. L’operazione, non sappiamo se con il consenso o me­ no di Tito, non gli portò fortuna. Dell’ufficiale, salito probabilmente su un aereo alleato diretto in Italia per ottenere un cifrario dallo stato maggiore, si perse ogni traccia. A lui subentrò in comando il sottotenente Giuseppe Maras, che condusse il Garibaldi sino alla fine della campagna iugoslava, conclusasi quando in Italia la guerra era già finita da un pezzo, rischiando varie volte l’estinzione per le durissime prove cui venne sottoposto in com­ battimento. Il battaglione, dopo aver partecipato alla conquista di Belgrado, si tra­ sformò in brigata Italia, su cinque battaglioni, incorporando centinaia di militari italiani liberati dalla prigionia o scesi dai monti dove le alterne vi­ cende del dopo armistizio li avevano sospinti. Al rientro in Italia, ove ven­ ne accolta con grandi manifestazioni di entusiasmo, la brigata divenne di­ visione. Anche il battaglione Matteotti, prima di essere inserito nella bri­ gata, condusse numerose e coraggiose operazioni, compresa la conquista di Belgrado al comando del tenente Aldo Parmeggiani. Il comportamento del comando dell’Epli (l’esercito popolare di liberazione iugoslavo) verso que­ ste unità fu di norma esemplare, nel senso che venivano adottate, nei con­ fronti degli italiani, le stesse regole in vigore per i partigiani del posto. So­ lo le diversità di razza, di lingua, di conoscenza dei luoghi, di costume e di religione potevano costituire notevoli ostacoli. Ma tornare indietro da quel­ la scelta volontaria di resistenza, dimostrare in qualche modo di non con­ dividerne i metodi o di criticarne l’ideologia, avrebbe potuto rappresenta­ re, specie per i quadri ritenuti inguaribilmente “borghesi”, un pericolo: quel­ lo dell’emarginazione dall’unità e dell’incorporamento in gruppi di ufficiali

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destinati alla triste sorte di un vagare senza fine, in attesa del rimpatrio. Là dove, poi, si aggiungeva il sospetto di precedenti crimini a danno del po­ polo iugoslavo, commessi durante l’occupazione, il pericolo diventava mor­ tale. I tribunali del popolo, in alcune zone e in non pochi casi, non perdo­ narono quelle presunte responsabilità neppure a ufficiali che avevano ab­ bracciato onorevolmente la causa partigiana, condannandoli a morte. Poteva anche succedere di essere destinati a una unità di soli iugoslavi, fra le più intransigenti e combattive, per un periodo cosiddetto di «rieducazione», come avvenne per il sottotenente dei bersaglieri Ilio Muraca e altri suoi col­ leghi, ingiustamente accusati di «comportamento fascista». Fu per queste differenze di mentalità, di comportamento, di idee - anche se mai si cercò di imporre quelle comuniste - e soprattutto di modi di combattere e di coman­ dare che, inizialmente, in Dalmazia molte unità di guerriglieri italiani, a li­ vello di compagnia e persino di battaglione, persero i loro quadri dopo un avvio coraggioso e promettente. Più a sud, nell’Erzegovina, le divisioni Marche e Messina, sorprese anch’esse dalla notizia della resa dell’Italia, reagirono con episodi sporadici di resistenza che, per il presidio di Ragusa (Dubrovnik) colpito da un sopras­ salto di orgoglio, esplosero in veri e propri combattimenti contro i tedeschi. Il comandante della Marche, generale Giuseppe Amico, liberato avventu­ rosamente dai suoi soldati, li arringò, infiammandoli e inducendoli a una lotta memorabile che si svolse all’interno delle torri e sugli spalti dell’anti­ ca fortezza veneziana. Il maggiore Piras, che si era messo alla testa del suo battaglione, cadde fra i primi, dopo che era rimasto ferito anche il viceco­ mandante della divisione Prinz Eugen. Non si verificò la sperata insurre­ zione della cittadinanza, a causa di una forte presenza di partigiani non sim­ patizzanti con gli italiani e di unità “ustascia” decisamente ostili. Quando cessò il combattimento, il generale Amico venne ucciso da un sicario dei te­ deschi. Il comandante della Messina, generale Guglielmo Spicacci, che ave­ va condotto un’abile azione di contenimento delle unità tedesche fino ai sobborghi di Ragusa, dovette rinunciare a un’ulteriore resistenza a seguito degli accordi intervenuti fra il vicecomandante della Prinz Eugen e il co­ mandante italiano del settore dell’Erzegovina. Come avvenuto per altri ge­ nerali, è probabile che i tedeschi ricordassero l’atteggiamento ostile dello Spicacci il quale alcuni mesi dopo, durante la prigionia, scomparve in cir­ costanze misteriose. Ma fu soprattutto in Montenegro che si espresse, a opera di due divi­ sioni rimaste famose, il travaglio drammatico dell’esercito italiano, coin­ volto nelle eccezionali circostanze di un armistizio improvviso e nel diso­ rientamento dei maggiori comandanti. La divisione italiana partigiana Garibaldi. Nel Montenegro, annesso all’allora Regno d’Italia, il mattino dell’8 settembre 1943 era dislocato il XIV corpo d ’armata, dal quale dipendevano quattro divisioni: Emilia, Tauri­ nense, Venezia e Ferrara.

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In serata, la notizia dell’armistizio giunse improvvisa ai comandi italia­ ni attraverso la radio, con il laconico comunicato del generale Badoglio. Venne contemporaneamente a mancare ogni collegamento via radio con Ro­ ma. La mancanza di precise direttive sul comportamento da assumere sia verso i tedeschi sia verso gli iugoslavi generò gravi incertezze, in una si­ tuazione politico-militare estremamente confusa e nella quale non era faci­ le orientarsi. A fronte di questa situazione degli italiani, i tedeschi, che avevano già pronto un piano operativo in previsione della caduta dell’Italia, iniziarono ad attuarlo la notte stessa, fra l’8 e il 9 settembre. Esso era diretto essen­ zialmente a occupare i porti sull’Adriatico, a impossessarsi delle armi e dei depositi italiani e a catturare il maggior numero di militari italiani per adi­ birli al lavoro, avendo la Germania un estremo bisogno di manodopera. Nel primo rapporto, tenuto dal comandante del corpo d’armata, gene­ rale Ercole Roncaglia, i quattro comandanti di divisione precisarono la lo­ ro volontà di non arrendersi, tranne che da parte della Ferrara, per l’oppo­ sizione di un buon numero dei suoi ufficiali. Il XIV corpo d ’armata dipendeva dal comando Gruppo armate est, il cui comandante, generale Rosi, il 10 settembre venne catturato da para­ cadutisti tedeschi, mentre il suo sostituto, generale Dalmazzo, subito do­ po fu costretto alla firma della resa. Ma le divisioni Taurinense, comanda­ ta dal generale Lorenzo Vivalda, e Venezia, comandata dal generale Giovan Battista Oxilia, insieme alla divisione Emilia (comandante generale Ugo Buttà), erano ben decise a non capitolare, tanto che una batteria del grup­ po Aosta, della Taurinense, su ordine del maggiore Carlo Ravnich, sparò le prime cannonate del dopo armistizio contro una colonna tedesca in avvici­ namento. Quel che maggiormente convinse gli italiani a non arrendersi e a resiste­ re fu l’ordine, firmato dal generale Dalmazzo, nel quale, nel preannunciare il movimento dei militari verso la prigionia, si stabilivano sanzioni spietate contro quegli ufficiali e soldati che avessero abbandonato i ranghi o conse­ gnato le armi ai partigiani. L’ordine fu portato a conoscenza di tutti, per cui i due comandanti di divisione chiesero democraticamente il parere dei loro subordinati, che fu pressoché unanime a favore della resistenza. L’Emilia, dislocata a Cattaro, importante porto del Montenegro, fu la prima a essere investita in forze dai tedeschi. Nella furiosa battaglia che ne nacque, furono fortemente impegnati anche i battaglioni Exilles e Pinerolo della Taurinense. Ma le sorti dei combattimenti, inizialmente favorevo­ li agli italiani, volsero al peggio per l’intervento della 7“divisione SS, di re­ parti collaborazionisti croati e dell’incessante carosello in picchiata degli ae­ rei Stukas. Dopo la giornata del 15, l’Emilia aveva già subito ben 597 caduti e 963 feriti. Il generale Buttà decise allora di far imbarcare a Cattaro i reparti più vicini alla costa, sotto la protezione dei battaglioni Exilles e Fenestrelle e delle batterie della marina. I due battaglioni, stremati e a corto di muni­

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zioni, furono costretti ad arrendersi il 16 mattina dopo aver favorito l’eso­ do di centinaia di connazionali. Nei giorni successivi, i reparti della Taurinense furono assaliti dai te­ deschi. Respinto il primo attacco, vennero continuamente inseguiti fino a rimanere fortemente decimati, salvo il gruppo d’artiglieria Aosta, che rag­ giunse indenne Gornje Polje ove si trasformò in brigata Aosta, con un or­ dinamento più consono alla guerriglia partigiana che stava per cominciare. Fra quelle unità vi erano il 150 battaglione della Guardia di finanza, quat­ tro compagnie della Guardia alla frontiera e una compagnia della Ferrara, oltre a elementi sparsi dei servizi. Nel pomeriggio del 23 settembre, anche la divisione Venezia ebbe il pri­ mo scontro, questa volta con i partigiani di Tito, che tentavano di scaccia­ re i cetnici di Draza Mihailovic dal Montenegro. Ma il capitano Mario Ri­ va, comandante di un caposaldo, resistè a lungo, suscitando l’ammirazione dei partigiani attaccanti. Da questo eroico episodio nacquero quella stima e quell’intesa fra la Venezia e il II korpus dell’Epli iugoslavo che dovevano portare all’alleanza, conclusa il 10 ottobre, fra il generale Oxilia e il gene­ rale Peko Dapcevic. Per cui a un mese dall’armistizio la Taurinense e la Ve­ nezia facevano già formalmente parte dell’Epli, pur conservando i caratte­ ri di unità dell’esercito italiano. L’accordo fu ufficialmente riconosciuto dal governo italiano. Il 12 ottobre aerei tedeschi mitragliarono l’aeroporto di fortuna di Berane; un’ora dopo due aerei italiani lo sorvolarono lanciando un cifrario e un elogio del generale Ambrosio, capo di stato maggiore an­ cora in carica. Poco dopo, il 13, arrivava per radio la notizia della dichia­ razione di guerra dell’Italia alla Germania. Il 15, i resti della Taurinense, non inquadrati nella brigata Aosta, raggiunsero Kolasin, dove incontrarono i militari della divisione Venezia. In quel momento, le forze italiane che operavano con il II korpus di Tito erano costituite dalla Venezia, da due brigate della Taurinense, dal battaglione genio della Taurinense e da alcu­ ni gruppi di italiani di varie provenienze. Per essi era giunta l’ora della re­ sa dei conti coi tedeschi. Segui infatti una grossa battaglia, ma quando i te­ deschi, il giorno 22, occuparono Berane, sede del comando della Venezia, trovarono solo più i magazzini in fiamme. La Venezia era già salita in mon­ tagna, insieme ai resti della Taurinense, ove si riordinò su sei brigate par­ tigiane sul modello di quelle di Tito. Numerose erano state le perdite in morti, feriti e dispersi da ambo le parti, tra cui la morte in combattimento del capitano Mario Riva. Nel me­ se di novembre le brigate italiane furono intensamente impiegate per la si­ curezza delle retrovie. La V brigata Venezia occupò Brodarevo, ma cadde in un’imboscata di musulmani e tedeschi subendo gravi perdite. Anche l’attacco di Sjenica si risolse in una cocente sconfitta, dovuta al mancato intervento dell’aviazione italiana di stanza sul suolo italiano, alla sottovalutazione delle forze nemiche, alla fame e al freddo. Le perdite, in questa occasione, furono molto alte. In seguito, mentre la brigata era an­ cora in marcia verso Bijelo Polje fu attaccata da tedeschi e cetnici con for­

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ze preponderanti, talché solo una parte di essa riuscì a liberarsi. Fu gio­ coforza sciogliere l’unità e passare i superstiti ad altri reparti. Fortunata fu invece la battaglia di Kremma, del 18, nella quale si fece onore la I brigata Venezia, che sbaragliò il presidio bulgaro ottenendo un grosso bottino in armi, munizioni e quadrupedi. Intanto, una colonna di alpini rimasti isolati si era costituita in batta­ glione italiano Taurinense, al comando del capitano Piero Zavattaro Ardizzi, che si distinse in vari combattimenti suscitando l’ammirazione dei comandi iugoslavi. Questi primi tre mesi costarono uno sforzo eccezionale alle truppe, che ne uscirono con onore ma anche con alte perdite. I fatti consigliarono pertanto un riordinamento organico che si risolse, il 2 di­ cembre 1943, nella costituzione di una sola grande unità, la divisione ita­ liana partigiana Garibaldi. Primo comandante venne nominato il generale Giovan Battista Oxilia, vicecomandante il generale Lorenzo Vivalda, c apo di stato maggiore il tenente colonnello Carlo Ciglieri. Ogni brigata aveva la forza di milletrecento uomini circa. Inoltre la di­ visione disponeva di un gruppo di carri armati, un gruppo di artiglieria, un autogruppo e un battaglione genio. Col personale eccedente si costituirono battaglioni di lavoro; essi ebbero vita grama e divennero riserva di uomini per le brigate. Il 5 dicembre la Garibaldi, appena sorta, dovette subire una nuova offensiva tedesca. Le forze germaniche, provenienti da più direzio­ ni con largo impiego di artiglieria, carri e aviazione, tentarono l’accerchia­ mento del II korpus dell’Epli. L’evacuazione di Pljevlja fu drammatica e, per i malati, una tristissima odissea. Le brigate riuscirono in qualche modo a cavarsela. La III fu sorpresa priva di collegamenti e venne attaccata du­ ramente; il suo comandante, maggiore Cesare Piva, cadde eroicamente. Alla critica situazione operativa si aggiunse quella altrettanto proble­ matica degli approvvigionamenti. Ciò malgrado, le tre brigate continuaro­ no a sostenere scontri, a volte durissimi, con i tedeschi, e a mantenere un elevato spirito combattivo. Nel gennaio del 1944, in condizioni metereologiche pessime, tra bufe­ re di neve e un freddo eccezionale le attività operative furono intense per tutti i reparti della divisione. Il 10 febbraio fu sciolta la III brigata (capi­ tano Berté) e i suoi reparti andarono a ripianare le carenze delle altre bri­ gate. La situazione logistica si fece sempre più difficile per la carenza di ogni genere di cose: viveri, vestiario, armamento adeguato. Come se non bastasse, sul finire di gennaio si aggiunse un’epidemia di tifo esantematico che fece ampi vuoti nei reparti. Per alleggerire la zona del Sangiaccato, mol­ to provata dal punto di vista alimentare, fu deciso di trasferire in Bosnia la II e la III brigata. A quest’ultima il trasferimento, iniziato nel febbraio, riu­ sci difficilissimo sia sul versante logistico sia su quello tattico, dovendo per­ correre sentieri di montagna fortemente innevati e con grandi dislivelli e con il quotidiano problema di provvedere ai viveri. La situazione in Bosnia si manifestò peggiore di quella lasciata e l’aggressione del tifo falcidiò ulte­ riormente le due brigate. Mancava praticamente tutto, dai medicinali al sa­

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le. Le ansie, gli agguati, le marce, il freddo, le continue pattuglie, gli inin­ terrotti combattimenti e lo scarsissimo vitto coabitarono tristemente con le epidemie di tifo. Queste ultime resero difficile a molti proseguire le mar­ ce e numerosi militari vennero fatti prigionieri, finendo in Germania.

La II brigata non ebbe sorte migliore della III. A Kalinovik, un posto di medicazione divenne ospedale, ma senza medicine e stipato da trecento degenti che presto aumentarono. Il 4 aprile, al corrente di questa situazio­ ne, i tedeschi iniziarono un’offensiva ad ampio raggio con l’aiuto di trup­ pe cetniche, ustascia e musulmane. Fu indispensabile ripiegare, lasciando un ufficiale medico con centinaia di malati che non si potevano trasporta­ re. Le marce degli altri furono durissime, con episodi da leggenda. Cadde il comandante Marchisio, fu lasciato indietro il capitano Zavattaro, mala­ to di tifo, che rientrerà in seguito. Il 18 aprile i superstiti della brigata ar­ rivarono a Zabljak, ridotti a 221. II 15 marzo il generale Oxilia, richiama­ to in Italia con l’incarico di sottocapo di stato maggiore dell’esercito, lasciò il comando della Garibaldi al generale Lorenzo Vivalda. Tornò la primave­ ra e con essa i combattimenti intensi, in uno dei quali rimase ferito il mag­ giore Ravnich, che rifiutò di abbandonare la sua brigata e che il 2 luglio, con il grado di tenente colonnello, assunse il comando della divisione Ga­ ribaldi in sostituzione del generale Vivalda, anch’egli rimpatriato. Appro­ fittando di un periodo di relativa quiete, fu svolta un’intensa ed efficace attività di riordino dei reparti. Si riuscì ad assegnare un certo numero di complementi anche ai batta­ glioni italiani M atteotti e Garibaldi della brigata Italia, che avevano fino a quel momento operato in Bosnia e in Serbia. Dal canto loro, i due batta­ glioni, reduci da una tremenda offensiva tedesca, cedettero alla Garibaldi un certo numero di feriti e di carabinieri anziani, che vennero avviati a pie­ di al suo comando condotti dal sottotenente Ilio Muraca. Essi lo raggiun­ sero dopo un mese di dure marce e pericoli. I l r o agosto ebbe inizio una delle più vaste operazioni tedesche, la Ruebezhal, denominata dagli iugo­ slavi in Montenegro l’8a offensiva, la più rovinosa per la potenza e il nu­ mero delle unità impiegate, per la fulmineità e la persistenza con la quale venne condotta. Essa non colse di sorpresa il comando partigiano che gettò nella lotta tutte le proprie forze, anche se di molto inferiori al nemico. Fu­ rono sedici giorni di combattimento duro e continuo contro forze germa­ niche scelte e decise a eliminare il pericolo partigiano e la divisione Gari­ baldi. Questa operò per la prima volta con le sue brigate unite, sotto il co­ mando del tenente colonnello Ravnich che dimostrò ancora una volta le sue qualità di combattente sagace e coraggioso. Dal fiume Lim al massiccio del Durmitor (m. 2522) dove, secondo i te­ deschi, avrebbe dovuto avvenire la definitiva mattanza e dove infatti fu­ rono ristretti gli italiani e buona parte del XII korpus, si susseguirono gior­ ni terribili. Insieme ai reparti combattenti erano concentrati sul Durmitor anche gli ospedali e numerosi gruppi di ammalati e feriti barellati, traspor­ tati fino là sulle spalle di infermieri o di malati meno gravi oppure su qua­

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drupedi stentati dalla fame. Secondo il costume partigiano essi dovevano essere a tutti i costi portati in salvo. Si resistè al limite. La notte del 22, ap­ profittando di una diminuita pressione della Wehrmacht, ospedali e servi­ zi riuscirono a sfuggire all’accerchiamento in lunghe colonne, in silenzio as­ soluto e in fila per uno. Ma il mattino dopo la Garibaldi era ancora abbar­ bicata sui picchi e fra le gole del Durmitor. La si poteva già considerare come una “divisione sacrificata”, senonché la virtù del comandante e la te­ nacia di tutti salvarono l’eroica Garibaldi, che si infilò forse nell’unico, stretto varco rimasto fortunosamente aperto e uscì dalla sacca. In un campo di atterraggio di fortuna, realizzato a Gornje Brvenica, ar­ rivarono una notte trentasei aerei da trasporto americani e italiani scortati da cinquanta caccia. Dalla interminabile fila di degenti furono evacuati 1059 feriti e ammalati gravi, sedici aviatori alleati recuperati e alcuni membri del­ la missione angloamericana. Finalmente il 28 agosto il comando della Ga­ ribaldi e la II e IV brigata raggiunsero la zona tranquilla di Velimlje, ormai lasciata libera dai tedeschi. La I brigata volse ancora verso est per travol­ gere, col battaglione genio, una linea difensiva di cetnici nella zona di Savnik, liberando così la 3“ divisione dell’Epli. A settembre, la situazione ge­ nerale della guerra volgeva ormai in senso favorevole agli alleati; i russi ave­ vano preso contatto in Iugoslavia con l’Epli e Belgrado era caduta. Ma le tre brigate continuarono a essere impiegate in varie operazioni di rastrella­ mento e in diversi settori del Montenegro, in coordinamento con unità dell’Epli. Anche in queste circostanze gli italiani continuarono a dare il me­ glio di sé. Intanto l’Epli, attraverso sanguinosi combattimenti, andava rioc­ cupando una a una le località del territorio perduto. Il 21 febbraio 1945 giunse finalmente al comando della Garibaldi il so­ spirato ordine di concentrare la divisione a Dubrovnik. L’8 marzo i repar­ ti della Garibaldi cominciarono a imbarcarsi concludendo così il loro ciclo operativo in Iugoslavia. I rimpatriati furono 3800, tutti armati; l’8 set­ tembre erano partiti in 20 000. Di essi 3800 erano rientrati precedentemente per ferite o malattie; 4600 tornarono dalla prigionia; 7200 furono considerati dispersi. Le perdite complessive furono circa 10 000; ben il cin­ quanta per cento, inghiottito dalla guerra partigiana di un paese straniero. Le decorazioni al valor militare furono: 13 medaglie d’oro; 88 medaglie d’ar­ gento; 1351 medaglie di bronzo; 713 croci di guerra. Da parte iugoslava, la I, la II e la III brigata furono decorate con l’Ordine per i meriti verso il po­ polo con la stella d’oro e con l’Ordine della fratellanza ed unità con coro­ na d’oro. La divisione italiana partigiana Garibaldi aveva meritato inoltre due solenni encomi del Comando supremo di Tito. Quando i “garibaldini” sbarcarono a Brindisi per essere immessi nel campo di contumacia di Ta­ ranto, quasi tutti fecero domanda per continuare a combattere in Italia, fi­ no alla liberazione totale della patria, mentre i tedeschi erano ancora atte­ stati sulla linea Gotica. La divisione fu perciò trasformata in reggimento, che riarmato e addestrato secondo il modello inglese, venne destinato al gruppo di combattimento Folgore, impegnato al fronte. Solo la fine della

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campagna d ’Italia evitò che quei “garibaldini” subissero una nuova espe­ rienza di guerra, alla quale tuttavia non si erano rifiutati. Molti di essi avevano intanto chiesto di poter combattere, per la libertà, contro il Giappone, l’ultima delle nazioni del blocco Roma-Berlino-Tokyo ancora in guerra. Località di maggiore interesse della Resistenza italiana in Iugoslavia. Alta valle del Lim (14-20 ottobre 1943). Qui ebbe inizio il tentativo tedesco di annientamento della Venezia, la divisione italiana “ribelle”. La pressione nemica costrinse gli italiani a successivi e ordinati ripiegamenti.

Banja Luka (Bosnia). Il 31 dicembre 1943, il battaglione partigiano ita­ liano Giacomo Matteotti partecipò di notte, insieme a dodici brigate par­ tigiane iugoslave, all’assalto della munita piazzaforte tedesca di Banja Luka, occupandola per tre giorni e asportando dai magazzini ingenti quantità di materiali vari. Il 5 gennaio 1944, nel corso del ripiegamento, il Matteotti ingaggiò una furiosa battaglia contro una colonna corazzata tedesca, bloc­ candola per un giorno e una notte, consentendo così agli ospedali mobili partigiani di portarsi in salvo. Il Matteotti ebbe pesanti perdite: due mor­ ti, undici dispersi (catturati dai tedeschi e poi fucilati), quindici feriti. Bijelo Polje (19-23 giugno 1944). Da metà maggio si svolse un’offensi­ va tedesca, al fine di rioccupare i territori liberi oltre il fiume Lim. A essa partecipò la I brigata Garibaldi, che venne a trovarsi nei medesimi villaggi in cui erano caduti tanti alpini nel gennaio precedente. Il 19 giugno entrò in azione un battaglione della divisione Prinz Eugen, che obbligò italiani e iu­ goslavi a ripiegare per tornare sulla sinistra del fiume.

Bosnia (20 febbraio - n aprile 1944). A causa delle difficoltà di ap­ provvigionamento in Montenegro, dove si stavano esaurendo le risorse ali­ mentari, la II e la III brigata Garibaldi vennero trasferite in Bosnia, dove avrebbero dovuto trovare un ambiente migliore e maggiori possibilità di rifornimento viveri. Invece, esse andarono incontro alla quasi totale di­ struzione, in una marcia devastante per le difficoltà del percorso nella ne­ ve alta e la mancanza di contatti con i partigiani. Perso l’orientamento e senza viveri, il comando della III brigata e un battaglione furono intercet­ tati e catturati da una banda ustascia, mentre il resto del reparto, nel tenta­ tivo di istituire un qualche collegamento con i partigiani, veniva affrontato da formazioni locali, rischiando a sua volta di essere annientato. Riusciro­ no a sfuggire alla cattura solo accettando un impari combattimento. Il 23 marzo dei 1600 soldati partiti dal Montenegro solo 340 arrivarono a desti­ nazione. La maggior parte di costoro, in seguito, si ammalò di tifo petec­ chiale, che provocò un’ecatombe; la brigata potè considerarsi distrutta. An­ che la II brigata, a Kalinovik, dovette fare i conti con il maltempo, con l’estrema penuria di viveri e con il terribile tifo; le abbondanti nevicate ca­ dute sulle montagne resero difficile la raccolta delle magre risorse presso una popolazione poverissima già da troppo tempo sfruttata. Finalmente i resti della brigata, arrivati al fiume Piva che dovettero attraversare su due

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cavi d’acciaio improvvisati, giunsero in territorio libero. Dei 1500-1600 sol­ dati italiani partiti due mesi prima, solo 221 raggiunsero la salvezza. Durmitor. Il 10 agosto 1944, quello che restava della divisione Gari­ baldi era schierato lungo il fiume Lim, da cui parti l’ottava offensiva tede­ sca intesa a sgomberare gli itinerari di ritirata dai Balcani meridionali. Sul­ la destra del fiume, la divisione si era assicurata qualche posizione di rilie­ vo, ma una robusta colonna nemica investi lo schieramento partigiano con l’obiettivo di raggiungere Berane, che venne occupata la sera del 13. Men­ tre la I e la IV brigata Garibaldi si ritiravano verso Kolasin, incalzate da truppe autocarrate, la II, rimasta sulla destra del Lim, fu costretta a ripie­ gare su Mojkovac a marce forzate. Al Passo Vratlo la I brigata impegnò un breve combattimento allo scopo di ritardare la marcia dei tedeschi, che ave­ vano mobilitato tutte le risorse disponibili per assestare il colpo risolutivo al movimento partigiano titino. Il rullo compressore tedesco sospinse le co­ lonne dei fuggiaschi in una zona povera e priva di risorse, alle falde del Dur­ mitor, il monte sacro ai partigiani montenegrini. La confusione e il diso­ rientamento per la situazione, che apparve subito tragica, resero impossi­ bile governare e rifornire quella grande massa di uomini che, con ordini contraddittori, si spostavano avanti e indietro senza trovare una via d’usci­ ta, con il rischio di essere annientati o catturati. Finché la pressione tede­ sca si allentò per un evento inatteso: l’armistizio della Romania, il 20 ago­ sto, distrasse improvvisamente alcune divisioni germaniche da quel fronte. La divisione Garibaldi, lasciata di retroguardia, si mantenne ancora una volta salda e riparò a Velimlje. Ma la situazione era pervenuta a un punto tale che, per salvare il salvabile, si era perfino pensato di sciogliere i repar­ ti, nel tentativo di uscire alla spicciolata dal cerchio delle innumerevoli unità tedesche che sembrava implacabilmente compatto. Gruda-Kobila (14-15 settembre 1943). La divisione Emilia, schierata intorno a Cattaro, attaccò i tedeschi attestati a difesa del campo d’aviazio­ ne di Gruda. Quando l’occupazione del campo sembrava ormai prossima, i tedeschi ricevettero rinforzi e, con il decisivo intervento dell’aviazione, costrinsero le unità italiane al ripiegamento. Hocevina (3 gennaio 1944). La III brigata Garibaldi, che aveva subito incalcolabili perdite il 5 dicembre a causa di un attacco di carri armati te­ deschi che avevano fatto irruzione in mezzo ai reparti in sosta sulla strada, si sottrasse alla distruzione e alla cattura con un’avventurosa marcia not­ turna, fino al confine con la Bosnia. Furono necessari alcuni giorni per rior­ ganizzare i reparti. Dopo di che, lo schieramento venne fatto avanzare an­ cora verso Pljevlja. Ma la reazione tedesca non si fece attendere. Il 3 gen­ naio, intorno a Hocevina si accese un combattimento che durò l’intera giornata, con alterne vicende. L’attacco tedesco non riuscì tuttavia a far ar­ retrare la brigata italiana, specialmente per il valore e l’abilità manovriera di un reparto di carabinieri. Kolasin (26 settembre - 8 ottobre 1943). La divisione Venezia, alleata inizialmente coi cetnici, combattè i partigiani a Kolasin con un battaglione

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dell’830 fanteria, il quale rimase attestato sul suo caposaldo resistendo te­ nacemente anche ai ripetuti assalti compiuti nel corso di una notte intera. Dai colloqui intercorsi il giorno successivo fra il capitano Riva, comandan­ te della compagnia italiana, e un generale iugoslavo, ammirato da tanto co­ raggio, scaturì l’accordo di collaborazione con la Venezia, conclusosi il 10 ottobre 1943. Pljevlja (4-6 dicembre 1943). I reparti italiani procedettero a una nuo­ va e definitiva ristrutturazione. Il 2 dicembre si costituì a Pljevlja la divi­ sione italiana partigiana Garibaldi. Ma i tedeschi avanzarono con una ro­ busta colonna di carri armati e il 5 entrarono di sorpresa nella cittadina, do­ ve compirono il massacro di quegli italiani che non erano stati avvertiti della minaccia incombente dai partigiani iugoslavi, che invece avevano evacuato in tempo la località. L’azione tedesca, rapida e decisa, provocò la perdita de­ gli automezzi, di molte artiglierie, dei rifornimenti giunti per via aerea dal­ l’Italia, di indumenti invernali, di armi e di una quantità considerevole di munizioni, tanto da pregiudicare notevolmente l’efficienza della grande unità, appena costituita, per i mesi successivi. Sjenica (7-16 novembre 1943). I partigiani decisero l’occupazione di Sjenica, abitata in maggioranza da musulmani ostili e presidiata da un forte con­ tingente tedesco. Al comandante della 2a divisione Proletaria furono asse­ gnate la maggior parte delle formazioni italiane, recentemente riordinate. A causa delle forti perdite l’azione italoiugoslava esaurì la propria forza di pro­ pulsione, mentre i tedeschi, ricevuti i rinforzi, passarono all’attacco minac­ ciando di accerchiamento l’intero schieramento contrapposto. Incominciò, di conseguenza, un ripiegamento che si trasformò in rotta poiché i battaglioni iugoslavi, maestri nella tattica del “mordi e fuggi”, nel momento più critico si sottrassero a ulteriori gravi conseguenze, mentre le brigate italiane li cer­ cavano invano per stabilire un collegamento. Una colonna tedesca proseguì verso Brodarevo, che occupò il giorno 16 compiendovi un massacro. I tede­ schi continuarono a sparare sui soldati italiani che si erano arresi. Perirono sessantatre militari. Al termine dell’operazione, tre ufficiali italiani vennero trucidati a Sjenica. A essi vanno aggiunti i venticinque caduti del 7 novembre. Srem. La brigata partigiana italiana Italia, costituita il 28 ottobre 1944 subito dopo la liberazione di Belgrado su quattro battaglioni (Garibaldi, Matteotti, Mameli e Fratelli Bandiera), al comando del sottotenente Giu­ seppe Maras, si schierò nel dicembre '44 sul fronte dello Srem contro le truppe tedesche ivi attestate. La brigata, con le altre truppe partigiane, fu impegnata nella cruenta battaglia di posizione subendo la perdita di venti soldati e numerosi feriti. Il 12 aprile 1945 ebbe inizio lo scontro decisivo e le truppe germaniche furono sgominate. Nel corso dei sanguinosi combat­ timenti si distinse il valore della brigata Italia che, per prima, il 20 maggio 1945 entrò a Zagabria liberata. Le perdite del nemico furono notevoli: 454 morti, 70 feriti, 76 1 pri­ gionieri. A sua volta la brigata subì 140 morti, 596 feriti e 188 dispersi. Svecanje. Un gruppo di cinquanta carabinieri in forza al comando di

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corpo d’armata, fuggiti da Spalato dopo l’armistizio con tre ufficiali del bat­ taglione partigiano italiano Giuseppe Garibaldi (tenente colonnello Attilio Venosta, tenente Felice Mambor, tenente Luigi Tinto), costituito di quasi tutti carabinieri, si recarono all’alba del 17 settembre 1943 sulla strada che scendeva verso il mare, in località Svecanje (Omis). In tale località trova­ rono, già sistemato in mezzo alla strada, un piccolo cannone italiano An­ saldo da 65/17, manovrato da militari italiani (tenente Orazio Giannini, sottotenente Giovanni del Piero, sottotenente Avio Clementi, sergente Ma­ rio Giannesini e soldato Vito Palazzolo). Essi dovevano bloccare un’auto­ colonna motocorazzata tedesca che scendeva da Imotski verso Spalato per occupare il porto e sgominare la divisione Bergamo con il relativo coman­ do (circa quattordicimila uomini) che ormai da molti giorni, dopo l’armi­ stizio, manteneva il controllo della città insieme ai partigiani. La colonna nemica fu intercettata e la battaglia divampò subito. Il combattimento in­ furiò per circa un’ora, fino a quando, per un casuale colpo di fortuna, i proiettili del cannone italiano colpirono due autoblinde incendiandole; nel­ lo stesso momento anche il cannone fu colpito nella culla e reso inservibi­ le. Il sottotenente Del Piero e il carabiniere Piccolini rimasero feriti. I te­ deschi invertirono la rotta, lasciando sul terreno due autoblinde e sette mor­ ti, e tardarono comunque il loro arrivo a Spalato di circa dieci giorni. Trubjela (10 ottobre 1943). Truppe tedesche, con carri armati e auto­ blinde, intercettarono gli alpini della Taurinense, in crisi di trasferimento, nel punto più critico dell’attraversamento della principale rotabile e di una massicciata della linea ferroviaria. Non vi fu combattimento, ma le perdi­ te per sfuggire alla cattura furono ingenti. Vukovet e Matesevo (17-20 ottobre 1943). Il 17 ottobre venne inter­ cettata una consistente colonna tedesca e di collaborazionisti italiani, di­ retta a Matesevo, con l’evidente intento di portare una minaccia sul retro del dispositivo italiano. All’inizio del 18, una compagnia italiana, denomi­ nata Italia, difese accanitamente le sue posizioni a costo di elevate perdite, compreso il suo comandante. Alcuni protagonisti della Resistenza in Iugoslavia. Tito Livio Agradi, te­ nente in Servizio permanente effettivo (Spe) di artiglieria alpina, dopo i’armistizio divenne capo di stato maggiore della brigata Taurinense e in se­ guito della I brigata Garibaldi. Lionello Albertini, maggiore in Spe, assunse, dopo l’armistizio, il co­ mando di una brigata della Venezia e poi della IV brigata Garibaldi. Giuseppe Amico, generale di divisione. Comandante, nel gennaio del 1942, della divisione Marche dislocata in Dalmazia, ne tenne il comando fino al 13 settembre 1943 quando, catturato dai tedeschi, fu vilmente tru­ cidato per aver resistito ai tedeschi nel presidio di Ragusa (Dubrovnik). Giannino Barbieri. Caduto il 18 novembre 1943 a Matesevo, dopo es­ sersi esposto allo scoperto, nel tentativo di fermare l’avanzata tedesca, con un pezzo d’artiglieria.

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Cesare Bellocchio, sottufficiale degli alpini, caduto in Bosnia a Vlasenica l’8 marzo 1944 difendendo strenuamente la sua posizione. Roberto Berio, maggiore di stato maggiore in Spe, capo dell’ufficio ope­ razioni della Venezia, e dal 2 luglio 1944 capo di stato maggiore della divi­ sione Garibaldi. Leonida Berté, capitano in Spe della Guardia di finanza, vicecoman­ dante e poi comandante della III brigata Venezia, dopo la ritirata da Pljevlja (5 dicembre 1943). Da vicecomandante della III brigata Garibaldi guidò i superstiti, durante il massacrante trasferimento in Bosnia, dopo la morte del comandante, capitano Marchisio. Nello Bibolini, aiutante maggiore di un battaglione di fanteria, impe­ gnato a contrastare il passo a truppe tedesche all’attacco delle posizioni di Andrijevica. Caduto in combattimento il 18 ottobre 1943. Pier Franco Bonetti, attaccato a Radulic, il 7 gennaio 1944, da una ban­ da musulmana, si difese accanitamente finché, dopo ore d’impari combat­ timento, fu colpito a morte. Paride Brezzo, tenente di complemento; nella difesa di Brodarevo, il 16 novembre 1943, combattè con i suoi mortai il nemico fino all’ultimo. Con­ quistato il villaggio, i tedeschi lo colpirono ripetutamente col calcio del fu­ cile; due giorni dopo, a Sjenica, lo finirono con un colpo alla nuca. Sebastiano Buggea, soldato porta arma, il 5 dicembre 1943, a Pljevlja, cercando la posizione dalla quale meglio contrastare l’occupazione della città, si pose in un tratto fortemente battuto e continuò a sparare finché fu stroncato da una raffica tedesca. Battista Carrando, soldato portaordini, si offriva volontariamente per recapitare un messaggio urgente in una situazione di grave pericolo, alle fal­ de del Durmitor. Colpito a morte durante il tragitto, si trascinò ancora avan­ ti, nel tentativo di raggiungere il comando della Garibaldi. Gilberto Cerutti, il 6 dicembre 1943, al Podpec, prese parte a un duro scontro per fermare un’imponente colonna tedesca. Gravemente ferito e ri­ masto isolato, riuscì a sottrarsi alla cattura e a rientrare al reparto. Carlo Cestrone, capitano, comandante di un battaglione, si distinse in vari scontri coi tedeschi e, dal 20 ottobre 1944 fino al rimpatrio, fu co­ mandante della II brigata Garibaldi. Alfonso Cigala Fulgosi, generale di divisione. Nel settembre 1942 assun­ se il comando della XVII brigata costiera in Dalmazia e successivamente, generale di divisione, il comando del presidio di Spalato; qui, l’8 settembre I943> per mantenere inalterata la fedeltà al giuramento, organizzava e ali­ mentava la resistenza ai tedeschi finché, sommerso dalle preponderanti for­ ze avversarie e catturato il i° ottobre 1943, affrontava U plotone di esecu­ zione al grido di «Viva l’Italia». Carlo Ciglieri, tenente colonnello, capo di stato maggiore della Tauri­ nense e poi della divisione Garibaldi fino al i° luglio 1944. Divenne, nel corso della carriera, comandante generale dell’Arma dei carabinieri. Ugo De Negri, nato a San Leucio (Caserta); tenente di complemento del

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Genio. Ingegnere, socialista nella clandestinità, al momento dell’armistizio era in forza nella guarnigione italiana dell’isola di Brac (Dalmazia). Anzi­ ché imbarcarsi per l ’Italia, come avrebbe potuto, preferì raggiungere il bat­ taglione partigiano italiano Giacomo Matteotti. Partecipò ai vari combatti­ menti in cui esso fu impiegato. Il 4 febbraio 1944, fu estromesso dal Mat­ teotti per divergenze politiche. Si seppe in seguito che, il 22 febbraio 1944, mentre da Jaice (Bosnia) veniva accompagnato al comando del I korpus pro­ letario, fu assassinato dalla staffetta che Io accompagnava per ordine di Bazinovic Nedelka, responsabile politico della III brigata Krajiska, cui l ’uffi­ ciale apparteneva.

Benedetto Fraccaro, sergente comandante di plotone, nell’attacco del 15 settembre 1944 alla munita posizione di Kolasin, benché ferito, conti­ nuò a combattere fino alla conquista della quota, dove morì. Mario Giuseppe Garesio, vicecomandante di una brigata, ne assunse an­ che il comando nei pressi di Bijelo Polje, dopo il ferimento del comandan­ te, riuscendo a disimpegnarsi dal combattimento con una manovra ardita (19-22 giugno 1944). Luigi Enrico Godioz, ferito il 6 dicembre 1943, a Podpec, nel corso del

tentativo di ritardare l’avanzata di una imponente colonna tedesca, conti­ nuò a far fuoco con la sua arma automatica che riuscì a portare in salvo, benché rimasto isolato. Angelo Graziani, capitano d ’artiglieria, incaricato dopo l’armistizio del comando di un gruppo, sostenne in varie occasioni, col tiro dei suoi can­ noni, la fanteria amica. Dal i° al 15 febbraio 1945 partecipò alla libera­ zione dell’Erzegovina e della sua capitale, Mostar. Alla fine della campa­ gna, curò il rimpatrio di migliaia di soldati italiani dal porto di Dubrovnik. Adriano Host, tenente di complemento della divisione Bergamo, asser­ tore convinto e intransigente dell’italianità fiumana, ufficiale di alto valo­ re morale e spirituale, con grande ascendente sui propri uomini. Il 9 set­ tembre 1943 si sottrasse alla cattura e passò nelle file dei partigiani iugo­ slavi. Raccolse nove ufficiali e cinquanta soldati italiani sfuggiti dalla prigionia e formò la Taljanska céta (Compagnia italiana), da cui nacque a Livno (Bosnia) il battaglione italiano partigiano Giacomo Matteotti. Host ne assunse il comando e lo condusse con valore fino al 4 febbraio 1944 quan­ do, per contrasti politici con gli iugoslavi, fu estromesso dal reparto assie­ me alla quasi totalità degli ufficiali italiani che ne facevano parte. Rimpa­ triò via mare il 12 giugno 1944, e passò in Spe. Gli fu conferito in seguito il grado di generale di divisione. Carlo Isasca, generale, vicecomandante della divisione Venezia, di senti­ menti antitedeschi, si adoperò fin dall’inizio con alto senso dell’onore mili­ tare perché non si cedessero le armi ai tedeschi. Subito dopo la liberazione della Iugoslavia venne condannato da un tribunale del popolo e giustiziato, per presunti ma non comprovati crimini commessi prima dell’armistizio a dan­ no dei partigiani. Giuseppe Laudato, si distinse nei combattimenti intorno a Cattaro e, uni­

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tosi a un gruppo di italiani, continuò la lotta in Bosnia. All’attacco di Soklac Brdo cadde colpito a morte nell’atto di occupare la posizione nemica. Antonio Leccese, colonnello medico, capo dei servizi sanitari della di­ visione Venezia prima e della Garibaldi poi. Benché fisicamente allo stre­ mo, si trascinò per settimane fra le montagne, con ammalati e feriti al se­ guito. Ricongiuntosi alla divisione, durante una letale epidemia di tifo pe­ tecchiale contrasse la malaria insieme ai suoi ricoverati, che continuò ad assistere fino alla morte benché privo di medicinali. Giovanni Leone, comandante di battaglione nella VI brigata Venezia, ricongiuntosi alla divisione dopo il tragico ciclo operativo in Bosnia, rias­ sunse il comando di un reparto combattente che guidò fino al rimpatrio, l’8 marzo 1945. Eugenio Liserre, inserito nel comando della II brigata Garibaldi, sfuggi a Pljevlja alla cattura e seguì poi il reparto in Bosnia, riuscendo con pochi superstiti a riparare in Montenegro, dove continuò a operare al comando di una compagnia, distinguendosi nel combattimento intorno a Grahovo. Tommaso Manfredi, il 23 gennaio 1944, a Vrbica, mentre con la sua ar­ ma automatica difendeva una posizione avanzata, ricevette l’ordine di ripiegamento. Ma, accortosi che il suo reparto poteva essere accerchiato, re­ stò a contrastare con il fuoco l’azione nemica, fino all’estremo sacrificio. Landò Mannucci, inquadrato nella I brigata Venezia e poi nella II bri­ gata Garibaldi, assunse il comando di un battaglione dopo le due battaglie di Kremma. Seguì poi la brigata in Bosnia da dove rientrò in Montenegro, ricoprendo il ruolo di capo di stato maggiore dell’unità fino al rimpatrio, l’8 marzo 1945. Pietro Marchisio, capitano degli alpini in Spe, addetto al comando di un corpo d’armata, rifiutatosi di cedere le armi lasciò il suo incarico per as­ sumere il comando della I brigata Venezia e, poi, della II Garibaldi. Guidò valorosamente il reparto in varie azioni, da Kremma al Passo Jabuka e a Brajkovac. Preparò con cura l’avventurosa spedizione della brigata in Bo­ snia dove morì, colpito dal tifo petecchiale, alla testa dei superstiti, trasci­ nandosi a dorso di mulo e sorretto a spalla dai suoi alpini, che non volle mai abbandonare. Aurelio Mattii, comandante di un battaglione della I brigata Venezia e poi della II Garibaldi. Prese parte a ogni combattimento e ne seguì tutte le vicissitudini, compreso il terribile ciclo operativo in Bosnia, fino al rim­ patrio. Altero Mensi, sottufficiale comandante di plotone; già distintosi in prece­ denti azioni, il 5 gennaio 1944 a Brajkovac, durante un ripiegamento, rimase sulla sua posizione per proteggere la compagnia fino al supremo sacrificio. Domenico Misitano, capo di stato maggiore della I brigata Venezia e della II Garibaldi, che guidò durante il ripiegamento dalla Bosnia. In se­ guito comandante di un battaglione fino al rimpatrio. Ilare Mongilardi*, tenente dei bersaglieri. Manuel Mossi, comandante di un battaglione alpino, attaccato il 7 gen­

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naio 1944 a Jagoce da preponderanti forze tedesche, rifiutò di arrendersi e si difese tenacemente, incitando i compagni, finché non venne ferito a morte. Ilio Muraca*, generale di corpo d’armata. Bruno Necchi, comandante di un battaglione della I brigata Venezia e della II Garibaldi e, al ritorno dalla Bosnia, vicecomandante di brigata.

Giovanni Battista Oxilia, generale di divisione, comandante della Ve­ nezia fino al i° dicembre 1944 e, poi, della divisione Garibaldi, fino al mo­ mento del suo rimpatrio, il 20 febbraio 1944, per assumere in Italia l’inca­ rico di sottocapo di stato maggiore dell’esercito. Fu uno dei primi generali a schierarsi decisamente contro i tedeschi, dopo essersi rifiutato di cedere loro le armi. Giuseppe Paglialunga, il 3 gennaio 1945, a Hocevina, con il fuoco del suo fucile mitragliatore fermò una colonna nemica. Benché ferito, restò sul posto di combattimento finché non cadde sulla propria arma. Villi Pasquali, ufficiale veterinario, dopo l’armistizio divenne ufficiale di fanteria comportandosi eroicamente in vari combattimenti. Il 10 no­ vembre 1943, a Brijestovo contrastò con una sola arma automatica un at­ tacco nemico, sostituendo il porta arma ferito finché, a sua volta, non fu colpito a morte. Salvatore Pelligra, generale di brigata. Comandante dell’artiglieria del XVII corpo d ’armata, l’8 settembre 1943 era a Spalato dove, rifiutato l’in­ vito a porsi in salvo imbarcandosi per l’Italia, organizzò la resistenza ai te­ deschi provocando loro gravi perdite finché il presidio venne sopraffatto; il 10 ottobre 1943 affrontò coraggiosamente il plotone di esecuzione tedesco. Francesco Perello, comandante di battaglione della brigata alpina Tau­ rinense e poi della I brigata Garibaldi. Partecipò a vari combattimenti, fra cui quello di Podpec. Ferito, fu rimpatriato il 3 settembre 1944. Serafino Piana, incaricato di una missione oltre le linee tedesche, ven­ ne scoperto; ingaggiò il combattimento, nonostante fosse bersaglio delle ar­ mi automatiche nemiche. Ripetutamente colpito, preferì morire sull’arma piuttosto che arrendersi (Radulic, 7 gennaio 1944). Cesare Piva, maggiore in Spe, assunse il comando della III brigata Ve­ nezia, che divenne poi III brigata Garibaldi. Partecipò eroicamente alle ope­ razioni intorno a Sjenica finché il 5 dicembre 1943 venne colpito a morte dal fuoco di carri armati tedeschi, mentre cercava di riordinare il reparto sorpreso in marcia. Angelo Prestini, comandante di un battaglione della brigata Taurinen­ se, poi brigata Garibaldi, partecipò alle varie operazioni dell’unità, dal 2 lu­ glio 1944 fino al rimpatrio. Ferdinando Puddu, comandante di battaglione nella brigata alpina Tau­ rinense, divenuta poi I brigata Garibaldi, fino al 19 giugno 1944 quando, ferito in combattimento, nei pressi di Bijelo Polje, dovette lasciare il co­ mando. Ivio Quintarelli, vicecomandante della VI compagnia, si distinse nella difesa di quota 1039, a Kolasin. In seguito, ferito al Vukovet, rientrò nel­

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la II brigata Garibaldi e partecipò al ciclo operativo in Bosnia, risultando poi disperso.

Carlo Ravnich, maggiore in Spe, trasformò in fanti i suoi artiglieri al­ pini, che portò, poche ore dopo l’8 settembre, al combattimento a Cekanje, facendo fuoco di sua iniziativa su una colonna tedesca. Comandò poi la bri­ gata alpina Taurinense, diventata I brigata Garibaldi. Ferito in combatti­ mento a Bijelo Polje, assunse, il 2 luglio 1944, il comando della divisione Garibaldi, che guidò con polso fermo fino al rimpatrio, l’8 marzo 1945. Combattente valoroso e capace, contrastò i vari tentativi degli iugoslavi di imporre regole diverse da quelle vigenti nell’esercito italiano. Ottenne due promozioni al merito di guerra. Spirito Reyneri, maggiore in Spe presso un comando di corpo d ’arma­ ta, si uni alla divisione Taurinense, nella quale assunse il comando del batta­ glione Ivrea e poi della III brigata Garibaldi. Mori colpito dal tifo petec­ chiale in Bosnia, tre giorni dopo essere caduto prigioniero durante un ra­ strellamento tedesco. Mario Riva, capitano, comandante del caposaldo quota 1039 di Kolasin, la cui strenua difesa suscitò l’ammirazione dei partigiani e promosse l ’ac­ cordo della divisione Venezia con il II korpus dell’Epli. Cadde alla testa del battaglione Italia, il 18 ottobre 1943 a Vukovet.

Luigi Rizzo, comandante di battaglione nella I brigata Venezia e nella II brigata Garibaldi. Fu protagonista della prima battaglia di Kremma e

dell’occupazione della cittadina; cadde in combattimento nella seconda bat­ taglia di Kremma il 20 novembre 1943. Maurizio Ruatta, sergente maggiore, incaricato di attaccare la munita posizione tedesca di Kokoti, insistette nell’impresa trascinando con l ’esem­ pio i suoi uomini, fino alla conquista dell’obiettivo. Eugenio Scatolin, attaccato il 5 gennaio 1943 a Godocelje da forze pre­

ponderanti reagì col fuoco del suo fucile mitragliatore. Benché ferito rifiutò di essere sostituito resistendo sulla posizione fino alla morte. Gustavo Antonio Silvani, capitano medico, addetto a un reggimento di artiglieria alpina, assunse poi la direzione del servizio sanitario della divi­ sione Garibaldi che disimpegno con efficienza, se pure in condizioni di ec­ cezionale difficoltà per mancanza di medicinali e di adeguate attrezzature chirurgiche. Ezio Stuparelli, capo di stato maggiore della divisione Venezia, non eb­ be indugi a orientare la grande unità in senso antitedesco. N e sostenne va­ lorosamente le sorti nei primi difficili mesi, programmandone con capacità le operazioni. Venne fucilato dai partigiani dopo la liberazione, su condan­ na di un tribunale del popolo, per presunti crimini prima dell’8 settembre

I943‘ Leo Taddia, sottotenente di fanteria, nella divisione Venezia, fu poi co­ mandante di reparto nella VI brigata partigiana Venezia e, in seguito, nel­ la II Garibaldi. Partecipò a vari combattimenti compreso quello dello Knesak. Comandante di battaglione fino al rimpatrio, P8 marzo 1945.

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Attilio Venosta, nato a Sondrio, tenente colonnello dei carabinieri del XVIII corpo d’armata. Il 13 settembre 1943, a Spalato, fu il promotore del­ la costituzione del battaglione partigiano Giuseppe Garibaldi, composto quasi esclusivamente da carabinieri. Soprintese anche alla formazione del battaglione partigiano italiano Giacomo Matteotti a Livno (Bosnia, otto­ bre 1943). Dotato di profondo senso umanitario, seppe riscuotere la stima degli iugoslavi e svolse efficace e discreta azione di protezione degli uffi­ ciali italiani, spesso in conflitto con essi. Rimpatriò il 12 giugno 1944 e, ri­ preso il servizio, divenne generale di divisione. Lorenzo Vivalda, generale di divisione, comandante della Taurinense all’atto dell’armistizio e vicecomandante della Garibaldi, di cui assunse il comando dopo il generale Oxilia dal 20 febbraio 1944 al 10 luglio 1944, com­ portandosi con perizia, grande senso di responsabilità e attaccamento ai suoi alpini. Bruno Voltolini, mortaista a Cekanje, il 17 settembre 1943, ferito du­ rante un furioso combattimento, volle persistere nell’azione finché, colpi­ to più gravemente una seconda volta, venne costretto a lasciare il posto di combattimento. Fernando Zanda, ufficiale di artiglieria alpina, addetto alla linea pezzi che, il 9 settembre 1943, apri le ostilità sparando senza esitare i primi col­ pi contro i tedeschi. Il 6 dicembre 1943, a Podpec, fatto segno a intenso fuoco nemico e rimasto con pochi uomini, portò a termine la difficile ope­ razione della ritirata della sua unità. Piero Zavattaro Ardizzi, capitano in Spe al comando del battaglione al­ pino Ivrea, si distinse in numerose operazioni della divisione Taurinense nel periodo post-armistiziale. Riunitosi alla divisione Garibaldi, assunse il comando della IV brigata fino al rimpatrio. Combattente intrepido ed esem­ pio continuo per i suoi uomini, nel corso della sua carriera raggiunse il mas­ simo grado dell’esercito. Angelo Zecchinelli, tenente del battaglione alpino Ivrea, distintosi in vari combattimenti assunse il comando del 50 battaglione della IV brigata Garibaldi. Albania. Nella primavera del 1939, a seguito della politica di conquista fascista, Mussolini, consigliato dal genero e ministro degli Esteri, conte Ga­ leazzo Ciano, ordinò l’occupazione dell’Albania. I rapporti fra i due paesi datavano anteriormente alla prima guerra mondiale e, sul piano storico, da secoli, da quando cioè alcune colonie di albanesi, per il timore dei turchi e data la vicinanza delle coste italiane, si erano insediati nelle Puglie, ove tut­ tora vivono i loro discendenti. Tuttavia, quei rapporti conobbero periodi alterni di cooperazione e amicizia e di diffidenza reciproca, anche a moti­ vo delle spiccate diversità etnico-culturali fra i due popoli. Dopo una rapida campagna di guerra, praticamente senza storia, l’Al­ bania divenne stato italiano e Vittorio Emanuele III, che l’aveva definita terra «di quattro sassi», senza però ostacolare il progetto di Mussolini, ne

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divenne a malincuore anche il re. Seguì un breve periodo di idillio fra i due paesi, durante il quale l’Albania cercò di realizzare, da quella innaturale unione, il massimo vantaggio nei settori economico, industriale e agricolo, ma senza poter dare quasi nulla in cambio. Com’era naturale, si addivenne anche all’integrazione delle rispettive forze armate. Decine di cadetti alba­ nesi cominciarono annualmente a uscire, con i gradi di ufficiale, dalle acca­ demie e dalle scuole militari italiane, senza tuttavia adattarsi ai metodi disci­ plinari di quegli istituti ma esprimendo sempre uno spiccato spirito di au­ tonomia e una pervicace libertà di critica. Date queste premesse, era da attendersi la fatale conclusione dell’esperienza militare italiana di quegli uf­ ficiali, i quali, quando le sorti dell’Italia, dopo l’8 settembre '43, volsero al peggio, disertarono in massa passando dalla parte dei tedeschi e divenendo feroci oppositori degli italiani o defilandosi in attesa degli eventi. Al momento dell’armistizio, nella capitale Tirana e nel resto dell’Alba­ nia era di stanza il Gruppo armate italiano est, composto da due corpi d’ar­ mata, su sei divisioni (Perugia, Parma, Brennero, Firenze, Isonzo e Puglie) e un raggruppamento celere. Malgrado il nome altisonante di Gruppo ar­ mate, la situazione di quelle unità fu definita, dal generale Albert, all’epo­ ca suo capo di stato maggiore di deplorevole stato, in fatto di effettivi, di armamenti, di mezzi di trasporto e di di­ slocazione, a fronte di una crescente attività dei partigiani albanesi e di una pre­ senza di grossi presidi tedeschi, presso i nostri campi di aviazione, nonché di loro grandi unità mobili, in corrispondenza dei confini dell’Albania.

Inoltre, il morale della truppa risentiva dell’andamento sfavorevole del­ la guerra, della debilitante azione della guerriglia, del lungo servizio oltre­ mare e della scarsa possibilità di licenza per quei militari. Per finire, le no­ tizie dell’invasione della Sicilia e della Calabria avevano profondamente in­ ciso sul morale dei soldati appartenenti a quelle regioni. Così stando le cose, non deve meravigliare il fatto che, immediatamente dopo l’armistizio, ci fu un’azione travolgente delle masse motocorazzate te­ desche che penetrarono in profondità, fino a Tirana. Apparve subito eviden­ te come quell’operazione era stata preparata dai loro comandi, i quali era­ no a conoscenza delle trattative di armistizio in corso fra il governo Bado­ glio e gli angloamericani. Per contro, i generali italiani vennero colti alla sprovvista poiché non erano stati per nulla informati dell’imminente resa italiana e, pertanto, continuavano ad agire come alleati dei tedeschi. In ef­ fetti, il generale Rosi, comandante del Gruppo armate, che non aveva ri­ cevuto, fino a quel momento, alcuno dei promemoria emanati dal Coman­ do supremo sul comportamento da tenere in caso di aggressione tedesca, subì la più assoluta sorpresa alla notizia dell’armistizio, avuta per radio po­ chi minuti dopo le ore 18 dell’8 settembre. Non ebbe altro tempo che quel­ lo di ordinare la messa in atto delle operazioni di raccolta delle sue divisio­ ni, secondo un piano già predisposto, al fine di radunare il più possibile le truppe delle centinaia di presidi, piccoli o grandi, sparsi in tutto il paese.

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Da quel momento, considerata l’estrema difficoltà di esecuzione di un or­ dine così improvviso che avrebbe richiesto intere giornate di preparazione, fu tutto un susseguirsi di fatti che resero evidente la lentezza di reazione dell’apparato militare italiano, dotato di pochi mezzi di trasporto, oltre a una lunga, indescrivibile confusione di ordini che si accavallavano e che ve­ nivano smentiti. Da parte tedesca, invece, si realizzò l’intervento, accura­ tamente pianificato, di almeno quattro divisioni provenienti dai confini con la Grecia, dal lago di Ocrida, dall’Erzegovina e dal Montenegro. Esse, pe­ netrando nell’interno del paese, vennero dirette a catturare i maggiori co­ mandi, a scompaginare la loro rete dei collegamenti e a presidiare, al più presto, la costa albanese, per il timore di un imminente sbarco angloameri­ cano. Qualsiasi ostacolo che si frapponeva a questi scopi, fosse rappresen­ tato da colonne, salmerie o unità di reparti italiani in ordine di battaglia, doveva essere rimosso o neutralizzato, anche usando i mezzi più drastici. In tale disegno, i tedeschi vennero validamente fiancheggiati dai collabo­ razionisti albanesi, i crudeli Balli Komintar schieratisi prontamente al loro fianco. Va detto anche che, sin dalle prime ore del 9 settembre, i comandi germanici avevano provveduto a scatenare, con editti e volantini, una fe­ roce campagna, promettendo l’indipendenza del paese «dall’odiato italia­ no» e l’annessione del Kosovo, sottratto alla Iugoslavia. Così, già il giorno 10, avanguardie motorizzate tedesche erano giunte a Durazzo, ove avvennero alcuni scontri con il presidio italiano appoggiato dal fuoco delle batterie della marina militare; Durazzo era uno dei pochi porti che il Comando supremo aveva ordinato di mantenere a ogni costo, per con­ sentire l’imbarco delle truppe. Nello stesso giorno cadde anche il porto di Valona. L’indomani il generale Rosi, comandante in capo, veniva arrestato da un “commando” germanico nella sua sede di Tirana e sostituito dal ge­ nerale Dalmazzo, di sentimenti filotedeschi, comandante la IX armata. Nel frattempo la divisione Firenze, dopo aver inutilmente concordato un’ardimentosa azione diretta a raggiungere e a liberare Tirana, con il con­ senso segreto del generale Dalmazzo, puntava su Krujé, dove avvennero aspri scontri con i tedeschi, causa di notevoli perdite e, in seguito, di sanguinose rappresaglie. Una delle due colonne di attacco a Kruje era comandata dal ge­ nerale Gino Piccini, il quale, attraverso alterne vicende che lo videro pre­ sente in Albania fino alla liberazione, sarebbe divenuto l’unica alta autorità a difesa degli italiani rimasti nel paese. Alla fine del combattimento di Krujé il generale Azzi, comandante la divisione Firenze, sulla base dei precedenti accordi avuti con il comandante dell’esercito nazionale albanese, Axi Lieschi, e con la sua missione britannica di collegamento, costituì il Comando truppe italiane della montagna. Capo di stato maggiore del nuovo coman­ do venne nominato il tenente colonnello Goffredo Zignani, il quale, dopo uno sfortunato scontro del suo battaglione, cadeva fucilato dai tedeschi insieme ad altri ufficiali, tra i quali il colonnello Fernando Raucci e il capitano Dio­ nigi Tortore. Il generale Azzi riuscì a organizzare alcuni comandi di zona ita­ liani, affiancandoli ai corrispondenti comandi partigiani albanesi. Si tratta­

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va di una massa considerevole di uomini, inquadrati in ben sei battaglioni, con mortai, salmerie e automezzi al seguito, cui si andavano affiancando cen­ tinaia di altri militari provenienti dalle divisioni disciolte. Ma un complesso di oltre diecimila uomini non poteva adattarsi a lungo a una guerra parti­ giana, con gli enormi problemi di rifornimento e di sussistenza che esso com­ portava, per giunta in un paese privo di risorse. E nemmeno avrebbe potu­ to resistere alle azioni concentriche che i tedeschi organizzarono subito do­ po, allo scopo di sgomberare gli itinerari di rifornimento che, dai Balcani meridionali, conducevano all’Austria. Era perciò facile intuire come ai pri­ mi, favorevoli accordi con gli albanesi, sarebbero seguite quelle difficoltà, di carattere politico, operativo, logistico e di coesistenza, che furono le cau­ se del progressivo smembramento del Comando truppe della montagna. E ciò malgrado i coraggiosi tentativi di Azzi di garantire la vita dei suoi uo­ mini il più a lungo possibile. Di conseguenza, via via che le difficoltà au­ mentavano, essi furono costretti o indotti a cedere le armi e il loro prezioso equipaggiamento, sempre più bramato dagli albanesi, e a disperdersi presso i contadini del posto, ai quali dovettero sacrificare i loro residui capi di cor­ redo in cambio di una dura e stentata sopravvivenza, spesa nei lavori più umili e pesanti. In quei frangenti, come si legge in una relazione del tenen­ te colonnello Goffredo Zignani, «l’Armata era già in via di totale disfaci­ mento, senza che il [suo] Comando nulla avesse tentato, per opporre un va­ lido argine allo sfacelo». A nulla era valso il sacrificio del tenente colonnel­ lo Luigi Goytre e del maggiore Carlo Pirzio Biroli, caduti il 13 settembre nel tentativo di contrastare l’ingresso dei tedeschi a Tirana. Delle sei divisioni - di cui la Brennero, composta in buona parte di al­ toatesini, dimostrò subito di non voler combattere i tedeschi - , se ne salva­ rono al momento solo due: la Firenze e la Perugia. La prima, grazie alla sua ubicazione nella zona del Durbano, eccentrica rispetto alla direzione di mar­ cia tedesca, aveva raccolto molti sbandati delle altre divisioni e si era di­ retta verso i monti, per allearsi con i partigiani; mentre la Perugia, posta nel settore del Kosovo e, perciò, in vicinanza della costa, effettuava fati­ cose marce per raggiungere il mare, lungo itinerari impervi, costretta, lun­ go il suo cammino, a difendersi continuamente dalle colonne tedesche e, ancor più, dalle formazioni di partigiani e di briganti albanesi che depre­ davano soprattutto i gruppi isolati di italiani. Alla divisione toccò la sorte più dura, poiché era rimasta la sola a opporsi al dilagare dei tedeschi, nel disperato tentativo di difendere i punti di approdo ove fortunosamente riu­ sciva ad arrivare. Per giunta, questi approdi venivano spesso cambiati dal Comando supremo in Italia, in quanto risultavano non più accessibili alle navi della salvezza in arrivo dalle coste pugliesi. Fu grazie al sacrificio di quegli uomini che, a Santi Quaranta, uno degli ultimi approdi, riuscirono a imbarcarsi alcune migliaia di militari, generalmente sbandati, feriti o am­ malati, ai quali veniva concessa la precedenza. L’operazione costò cara alla Perugia, a cominciare dal suo comandante, il generale Ernesto Chiminello, che venne giustiziato. Corse voce che la te­

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sta del generale, staccata dal busto, venisse mostrata come un trofeo ai suoi soldati inorriditi. Non si sa con certezza se ciò avvenne realmente, e se per mano degli albanesi o su istigazione tedesca. Il 5 ottobre, a Porto Edda (Sarandé), dove alcuni reparti della Perugia, ormai privi di capacità offensiva, erano ritornati nel tentativo di imbarcarsi a loro volta, avvenne l’esecuzio­ ne in massa di quei prigionieri, ufficiali e sottufficiali che si erano prece­ dentemente opposti ai tedeschi. Essi vennero mitragliati e poi gettati in ma­ re; circa centoventi di loro trovarono la morte, davanti agli occhi dei loro compagni resi impotenti a intervenire. Sulle colline di Santi Quaranta (Sarandé), il 1290 reggimento fanteria della Perugia si prodigò oltre ogni limite per tenere testa ai tedeschi che volevano impadronirsi di quell’ultimo appro­ do, come testimonia la vicenda dei suoi ufficiali superiori caduti: il colon­ nello Gustavo Lanza, e i tenenti colonnello Domenico Pennestri, Giuseppe Manzelli ed Emilio Cirino. Quest’ultimo fu catturato dai tedeschi dopo il rientro dall’Italia, dove era stato inviato a chiedere soccorsi: egli era voluto tornare in Albania, malgrado ne venisse fortemente dissuaso, per tener fe­ de alla parola data. Ci fu anche un tentativo di resistenza, da parte del generale Carlo Spatocco, comandante del IV corpo d’armata, che cercò di porre un argine a quella fiumana di sbandati che si riversava lungo le coste. Ma il suo sforzo fu destinato al fallimento per l’intervento dei tedeschi, i quali avrebbero ri­ cordato quell’atteggiamento di ribellione del generale. Infatti, un anno più tardi, dopo aver tentato la fuga dalla prigionia, Spatocco venne ripreso e, in seguito, barbaramente trucidato perché caduto esausto durante una mar­ cia di trasferimento nella neve alta. Un altro episodio, altrettanto doloroso, fu l’agguato e la strage dei cen­ todieci carabinieri guidati dal colonnello Giulio Gamucci e diretti verso la costa, a opera di una formazione albanese il cui capo, Xedal Starawescha, dal torbido passato, benché identificato, non fu mai punito per il suo de­ litto. A tali atti efferati vanno aggiunti gli infiniti episodi di spoliazione di gruppi di soldati italiani, specie di quelli che, disarmati e sbandati, cerca­ vano di raggiungere la costa adriatica. Indumenti e denaro in cambio del permesso di transito, attraverso le inospitali montagne del paese, venivano puntualmente richiesti a quegli sventurati dai Balli Komintar, al servizio dei tedeschi, o da banditi di ogni risma improvvisatisi partigiani. Allo stes­ so tempo, quei gruppi di soldati italiani avviati, senza scorta, ai punti di ca­ rico indicati dai tedeschi per il trasferimento verso la prigionia, subivano le frequenti imboscate di partigiani regolari albanesi, avidi delle loro armi e di qualsiasi bene essi portassero con sé. Malgrado questa tragica situazione, spuntavano ancora qua e là isole di resistenza da parte di molte unità italiane, sia pure di consistenza modesta, le quali, in un soprassalto d’orgoglio, si erano date alla montagna impo­ nendosi al rispetto dei poco affidabili compagni di lotta. N o n sapremo mai esattam ente [scrive G abrio Lombardi in un suo libro] quan­ ti ufficiali, sottu fficiali e m ilitari di truppa non sono tornati dai Balcani, per non

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aver voluto consegnare le armi ai tedeschi. Non sapremo mai le circostanze precise con cui, da molti, il sacrificio è stato sopportato.

Si salvarono dalla cattura circa centosettanta militari della divisione Pe­ rugia, i quali, insieme a quelli di altre unità disperse, costituirono il battaglione Antonio Gramsci, inizialmente al comando di un sergente toscano, Giovan­ ni Cardinali, uomo valoroso e deciso destinato poi a cadere eroicamente in combattimento. Alla sua morte il comando venne assunto da Giuseppe Mon­ ti, che ebbe come commissario politico Bruno Brunetti. Questa piccola unità fu un modello di guerriglia italiana inedito, costituito da “irriducibili”. Non ebbe ufficiali in posizione di comando, ma scelse liberamente e democratica­ mente i suoi capi, che «furono capaci - come scrive Alfonso Bartolini - di par­ lare ai soldati con il linguaggio della semplicità, linguaggio che i soldati sep­ pero comprendere». Il battaglione, dopo prove di coraggio nelle quali dette molto filo da torcere ai tedeschi, venne quasi interamente distrutto nella di­ fesa della cittadina di Berat. Ma, pur così ridotti, i sopravvissuti non si arre­ sero e continuarono a prendere parte a una lunga serie di operazioni, fino a ricomporsi in battaglione grazie all’arrivo di altri italiani, i quali, richiamati dalle sue gesta e dalle sue particolari regole di vita e di comando, lasciavano i loro nascondigli e la loro miserabile vita di braccianti sempre affamati per tor­ nare a essere veri soldati. Rilevante l’azione della squadra guastatori del bat­ taglione che fece saltare ponti, abbatté alberi, provocò frane rendendo in­ transitabili lunghi tratti di itinerari, indispensabili ai tedeschi. Il Gramsci, sostenuto validamente da Enver Hoxha, capo del governo albanese, che vedeva in quella unità, profondamente politicizzata, un vero modello di “democrazia militare”, concluse la sua intensa attività parteci­ pando alla conquista della capitale Tirana, penetrando fino al centro della città. Qui venne concesso al battaglione di sfilare, da liberatore, il 28 no­ vembre del 1944. Trasformata in brigata e, più avanti, in divisione su due brigate per il continuo afflusso di militari italiani, alla Gramsci venne con­ cesso l’onore assai raro, per soldati stranieri, di rientrare in Italia comple­ tamente armati, nell’uniforme dell’esercito cui erano appartenuti. Egual­ mente eroico fu il contributo dato alla liberazione dell’Albania da due bat­ terie del disciolto 410 reggimento artiglieria, comandate dai capitani Vito Menegazzi e Filippo Maria Cotta. Essi, con prodigi di tecnica, «seppero sormontare ogni difficoltà, in un paese mancante di tutto e, facendo mira­ coli, permisero di riportare in batteria quei pezzi che erano stati abbando­ nati, con amareggiato sconforto, mesi avanti». La loro attività fu ininter­ rotta, sempre sulla linea del fuoco, su posizioni e per operazioni di appog­ gio tattico al limite dell’impossibile. Con ingegnosità tutta italiana, quegli artiglieri seppero porre rimedio perfino alla temporanea indisponibilità dei muli per il trasporto dei pezzi e alla mancanza dei congegni di puntamento per il tiro. Ma non furono i soli. In Albania, specie nelle città di Tirana e di Durazzo, molti altri militari italiani rimasti alla macchia si dettero alla lotta clandestina, esercitando una preziosa e rischiosa opera informativa e compiendo atti di sabotaggio al materiale tedesco.

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Alla fine della guerra il rientro dall’Albania di quelle migliaia di italia­ ni fu lungo e travagliato. Si tese a discriminare coloro che avevano parte­ cipato alla lotta da coloro che erano stati forzati ad abbandonare le forma­ zioni combattenti. Inoltre, al governo di Enver Hoxha stavano particolar­ mente a cuore tutti coloro che, militari o civili, possedevano una qualche specializzazione, di cui l’Albania era completamente priva e che doveva­ no servire per la ricostruzione. Venne costituito, a Tirana, il Circolo Gari­ baldi, attorno al quale il generale Piccini, coadiuvato da ufficiali e soldati, cercò di organizzare il graduale rientro delle migliaia di militari che giun­ gevano dai luoghi più remoti del paese, in condizioni da far pietà per le sof­ ferenze patite. Il rimpatrio di circa diciannovemila militari fu faticosamen­ te concordato col governo albanese dal sottosegretario alla Difesa italiana dell’epoca, il comunista Mario Palermo. Fu comunque un ritorno lento, che pareva non finire mai, di soldati provati nel fisico e nel morale: la tragica conclusione di una guerra di conquista inutile e ingiusta, voluta dal fasci­ smo, di un paese che non li aveva mai completamente accettati. Per tutti co­ storo, indipendentemente da ciò che avevano fatto, valgono le parole del comandante dell’esercito di liberazione albanese, che nel prendere conge­ do dai militari della divisione Gramsci, in procinto di rientrare in Italia, eb­ be a dire: V oi avete dim ostrato che altro era il fascism o, altro il popolo italiano. N o i vi siam o riconoscenti. N o i avrem o cura dei vostri cim iteri di guerra e delle tom be co­ m uni d i cui avete dissem inato le nostre m ontagne.

Grecia. L’invasione della Grecia da parte delle truppe italiane avvenne il 28 ottobre del 1940, dopo che il governo di Metaxas aveva respinto un offensivo ultimatum del governo fascista che gli imponeva di cedere all’Ita­ lia, come garanzia della sua neutralità, alcune aree strategiche del territo­ rio greco. La campagna che seguì, avventatamente decisa e affrettatamen­ te preparata, si risolse in una serie di iniziali insuccessi, malgrado il valore dimostrato dagli italiani, che provocarono lo sfondamento del dispositivo offensivo e l’invasione di una fascia confinaria, sin dentro il territorio al­ banese. La resistenza disperata delle truppe italiane e poi l’intervento, da est con l’aggressione alla Iugoslavia, di unità motocorazzate germaniche, che minacciarono di aggirare l’intero schieramento greco, volsero il conflitto a favore delle forze italotedesche e alla sua conclusione nella primavera del 1941. In pochi giorni, tutto il territorio ellenico, fino all’isola di Creta, cad­ de in mano alle truppe dell’Asse, che ne disposero l’occupazione e la spar­ tizione. Questa si realizzò con l’affidamento agli italiani del controllo di centinaia di presidi, sparsi su tutto il territorio, mentre i tedeschi preferi­ rono uno schieramento per grossi blocchi di unità, dotate di elevata capa­ cità di manovra. Da quel momento la Grecia, culla di civiltà e di libertà, conobbe un regime durissimo di occupazione, che portò il popolo a livelli

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di miseria mai conosciuti prima di allora. Non così accadde sulle montagne e nei paesi dell’interno, ove lo spirito indipendente di quelle popolazioni insorse e creò una sempre più accesa resistenza contro italiani e tedeschi. I soldati italiani, sensibili alle condizioni in cui il popolo greco si era ridotto, si industriarono di porvi rimedio in qualche modo, non disdegnando di in­ trattenere relazioni sempre più amichevoli con le famiglie nei presidi in cui facevano servizio. Si venne così a creare una situazione decisamente ano­ mala per un esercito di occupazione; a differenza dei tedeschi i quali, criti­ cando senza mezzi termini il comportamento italiano, continuarono ad adot­ tare verso i locali comportamenti e misure spesso assai crudeli. «Come con­ seguenza, - scrive un reduce dalla Grecia, - la rilassatezza disciplinare si fece prontamente sentire nei Comandi e nelle unità, finendo per corrode­ re le loro qualità militari», come si sarebbe presto constatato al momento del crollo dell’Italia. La perniciosa malaria, la mancanza di licenze e di com­ plementi che sostituissero i militari da anni assenti da casa, le notizie dell’in­ vasione della Sicilia e della Calabria fecero il resto, deprimendo il morale specie di quei reparti che non erano attivamente coinvolti nelle operazioni antiguerriglia. L’8 settembre ebbe, su una siffatta situazione, l’effetto di una valanga devastatrice, ingigantito dalla sorpresa che colse tutti, dai maggiori co­ mandanti fino all’ultimo soldato. Sul suolo greco si ebbe così a registrare la più cocente delusione sul comportamento delle unità italiane. All’annunzio dell’armistizio un coacervo di cause, lontane e vicine - quali una complica­ ta catena di dipendenze e di comandi, l’ingiustificabile mancanza, nei re­ sponsabili, di spirito reattivo all’improvviso e grave momento, l’assenza del più elementare acume politico nei gradi più elevati -, portarono a non in­ travedere l’unica via dignitosa che si doveva e poteva intraprendere in quel­ la situazione: la resistenza all’arroganza tedesca e alle sue mendaci promesse di rimpatrio e l’affiancamento, senza esitazioni e senza timori per il futu­ ro, alle formazioni partigiane locali. Mancando questa scelta, tempestiva e consapevole, fu inevitabile la diaspora delle unità italiane sparpagliate sul­ l’ampio territorio, tranne per poche ma significative eccezioni. Mentre mol­ te eccezioni vi furono nel comportamento delle unità dislocate nelle isole dell’Egeo e in quelle del Dodecaneso. La mancanza di indicazioni e di qualsiasi accenno sull’imminente armi­ stizio, l’impossibilità di assumere un atteggiamento deciso verso i tedeschi e, soprattutto, di raccogliere in tempo le forze disseminate sul territorio, ebbe­ ro comunque tragiche ripercussioni sul determinarsi degli avvenimenti. In Grecia era dislocata l’XI armata, comandata dal generale Carlo Vecchiarelli, con sede Atene. In seguito a incauti e poco preveggenti accordi intercorsi tra l’Oberkommando della Wehrmacht e il Comando supremo italiano, essa si era trasformata in armata mista italotedesca e, qualche gior­ no dopo la caduta del fascismo, era addirittura passata alle dipendenze del comando tedesco del Gruppo armate sud-est, con sede a Salonicco. Questa dipendenza dell’ultima ora, per assicurare una unità di intenti italotedeschi,

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contro probabili sbarchi angloamericani, possibili dopo la caduta dell’Africa settentrionale, si dimostrò esiziale per le decisioni che Vecchiarelli avreb­ be potuto prendere; ammesso che egli, venuto a conoscenza dell’armistizio, lo stesso giorno dell’annuncio, fosse in condizioni di attuare misure ade­ guate contro un ex alleato che si era praticamente infiltrato in tutti i suoi maggiori comandi. Le divisioni italiane sul territorio greco erano sette: Forlì, Pinerolo, Ac­ qui, Casale, Siena, Modena, Cagliari, più la brigata speciale Lecce. Le ul­ time due divisioni dipendevano direttamente dal comando tedesco di Sa­ lonicco; la Acqui era dislocata a Cefalonia e a Corfù e la Siena nella muni­ ta isola di Creta, considerata dai tedeschi una fortezza contro sbarchi alleati dal Sud. Le isole dell’Egeo dipendevano invece dal Comando superiore For­ ze armate Egeo, con due divisioni, la Regina e la Cuneo, oltre a numerose unità di artiglieria di marina per la difesa costiera. Totale delle forze ita­ liane: circa 7000 ufficiali e 165 000 militari di truppa. I tedeschi disponevano a loro volta di cinque divisioni, di cui una co­ razzata e, a Creta, di una brigata da fortezza più una divisione di fanteria. Le loro unità erano tutte disposte per blocchi altamente manovrieri, men­ tre quelle italiane, cui era stato affidato il dispersivo compito antiguerriglia su tutto il territorio greco, erano schierate in innumerevoli presidi e con scarse possibilità di movimento. Alcuni di questi, l’8 settembre, stavano ancora eseguendo azioni di rastrellamento, in combinazione con unità ger­ maniche. Nelle isole dell’Egeo era schierata la brigata motorizzata tedesca Rhodos, composta in parte da ex detenuti, che diverrà tristemente famosa per il suo comportamento criminale verso gli italiani dopo l’armistizio. Il dominio dell’aria era completamente in mano tedesca e le poche decine d’ae­ rei italiani ancora efficienti ebbero l’ordine, l’8 settembre, di rientrare nel­ le basi nazionali per sfuggire alla cattura. In questa situazione di dipendenza tedesca e di combinazione di forze, nel clima di disorientamento succeduto all’armistizio che per i soldati vo­ leva soprattutto significare la fine della guerra, intere divisioni italiane si disgregarono, anche a motivo del clima di rilassatezza morale in cui erano cadute. Interi reggimenti finirono per essere facile preda dei tedeschi e av­ viati nei campi di internamento. Altri, disperdendosi, finirono sbandati sui monti, sfuggendo così alla cattura ma lasciando che i partigiani greci si im­ padronissero del loro armamento. La divisione Pinerolo, comandata dal generale Adolfo Infante, forte di ventitremila uomini, con i reggimenti di supporto Lancieri di Aosta e Mi­ lano fu la sola grande unità organica che si salvò dal disfacimento genera­ le. Dislocata in Tessaglia, sebbene a contatto con i tedeschi, avvertì subito la gravità della situazione e reagì con determinazione al palese atteggiamen­ to aggressivo dell’ex alleato. Dopo aver risposto, col fuoco, all’intimida­ zione di cedere l’aeroporto di Larissa, Infante, resosi conto dello stato di disfacimento in cui erano cadute le altre divisioni, che avevano ceduto le armi secondo l’ordine del generale Vecchiarelli, dispose il trasferimento del­

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la sua grande unità in una zona del Pindo. Qui firmò un patto di coopera­ zione con i partigiani delTEsercito popolare di liberazione greco (Elas) di fede comunista e dell’Unione nazionale greca democratica (Edes) di fede monarchica ( n settembre 1943), sottoscritto anche dal capo della missione inglese in Grecia. Per effetto di tale accordo, la Pinerolo cessò di esistere co­ me grande unità organica, in quanto mancavano le condizioni, operative e logistiche, perché una massa così numerosa di uomini potesse operare con successo in una situazione di guerriglia come quella ellenica, lacerata da fa­ zioni spesso antagoniste, da quelle comuniste alle monarchiche. I militari, distribuiti in piccole unità, dovevano pertanto acquisire snellezza e legge­ rezza, in modo da adeguarsi alle formazioni partigiane. Ne seguì un ciclo di operazioni contro colonne, strutture e presidi tedeschi che entusiasmò i gre­ ci. Ma ben presto ci si rese conto che, specie ai comunisti greci, non inte­ ressava tanto la collaborazione degli italiani quanto il loro equipaggiamen­ to e armamento, grazie ai quali prevalere sulle fazioni opposte. Così, dopo che molti altri ufficiali e soldati si erano presentati a Infante per combat­ tere contro i tedeschi, da parte ellenica fu deciso, con una iniziativa unila­ terale e contraria al patto stipulato, di interrompere la collaborazione. Il 14 ottobre il comando dell’Elas comunicò al generale Infante che le truppe ita­ liane non trovavano ulteriore possibilità di impiego. Così, dopo essere stati abilmente divisi in modeste aliquote, distanti e frazionate tra loro, i solda­ ti italiani subirono l’umiliazione del disarmo e vennero avviati in tre campi di concentramento approntati dai greci, a Grevenà, Neraida e Karpenision. In questi campi, veri e propri lager dove ben presto finì per mancare tutto, dai viveri ai medicinali, alcune migliaia di militari italiani persero la vita per malattia, denutrizione, nonché per i rastrellamenti tedeschi, che non risparmiarono neppure i feriti e i moribondi, incapaci di fuggire. La missione militare alleata decise, a un certo punto, di affidare la gestione dei campi al maggiore inglese Philip Warrel, che divenne un benemerito nel sal­ vare migliaia di prigionieri ridotti allo stremo. Gli inglesi decisero la corresponsione di un aiuto in denaro, da una ster­ lina e mezzo al mese per uomo, con cui sopperire alle necessità più urgenti di viveri in una zona ove era difficile procurarseli e dove solo l’avidità avreb­ be potuto far breccia nel cuore dei nativi. Warrel ottenne anche che mólti italiani venissero dislocati presso le famiglie del posto, come aiuto nel la­ voro dei campi. Ma si trattava di uomini ormai ridotti a larve, debilitati nel fisico e nel morale, ai quali, tuttavia, un residuo di voglia di libertà e di di­ gnità impediva di arrendersi ai tedeschi. Questi, infatti, continuavano a mi­ nacciarli o a blandirli in tutti i modi, con frequenti messaggi, perché scen­ dessero dai loro rifugi da lupi e si consegnassero ai loro vicini presidi. Ma inutilmente. Solo un reparto organico rimase in vita e combattè fino alla liberazione, nelle fila della Resistenza greca: il raggruppamento Truppe italiane della Macedonia orientale (Timo) formatosi, dopo l’8 settembre, con uomini del­ la Pinerolo e di altre unità sbandate. Ma molti militari italiani confluirono

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ancora, alla spicciolata, nelle varie formazioni dei patrioti ellenici, per cui non pochi poterono rientrare in Italia a fronte alta, consapevoli di aver con­ tribuito alla liberazione del paese. In pratica, non ci fu unità partigiana, in territorio greco, che non avesse uno o più italiani, come combattenti o adi­ biti nelle più svariate mansioni, soprattutto in quelle che richiedevano una qualche specializzazione. Mancò, comunque, in Grecia, a motivo della frammentazione del mo­ vimento partigiano e dell’acceso antagonismo fra le sue opposte fazioni, quell’amichevole collaborazione con gli italiani che si riscontrò invece in Iugoslavia, dove il maresciallo Tito, capo unico del movimento di libera­ zione, usò nei loro confronti un trattamento equo, rivelando abilità politi­ ca e qualità di indiscusso comandante e stratega. ìsole del Mar Egeo. Le unità italiane delle innumerevoli isole minori dell’Egeo, normalmente costituite da modesti presidi insufficientemente armati e in precario collegamento coi comandi superiori, usufruirono del lo­ ro stato di isolamento che le pose nella condizione di decidere liberamente e, al tempo stesso, le tenne lontane dallo stato di confusione e di prostra­ zione in cui caddero unità più numerose e a contatto con i tedeschi. Così che, se anche in questo particolare ambiente isolano, dove regnava una rou­ tine quotidiana di operazioni senza storia né gloria, si verificarono casi di sbandamento morale, avvennero egualmente episodi significativi di resi­ stenza. Fu questo il caso delle isole maggiori, al comando di ufficiali deter­ minati, i quali si valsero, per tenere all’erta i loro soldati, proprio dell’am­ biente isolano, che li teneva al riparo da pericolose distrazioni, evitando l’eccessiva familiarità con i locali e conservando così quella disciplina e quel­ lo spirito di corpo necessari nei momenti di crisi. Per contro, costoro do­ vettero fare assegnamento esclusivamente sulle loro forze, a motivo dell’as­ senza pressoché totale di partigiani locali nonché della lontananza dell’Ita­ lia, troppo distante e distolta da gravi problemi per poter essere loro di qualche aiuto. A Rodi, sede del comando superiore dell’Egeo tenuto dall’ammiraglio di squadra Igino Campioni, era dislocata la divisione Regina, oltre a unità della marina e dell’aeronautica. Nell’isola era anche presente la divisione tedesca Rhodos, dotata di carri armati Tigre. In totale, trentasettemila ita­ liani contro diecimila tedeschi. Dopo l’8 settembre, vennero avviate trat­ tative con i tedeschi e, quasi contemporaneamente, con una missione in­ glese, paracadutata sull’isola per studiare la possibilità di sbarchi alleati nel Dodecaneso, secondo una strategia cara al primo ministro inglese Churchill - il quale era convinto di poter ripetere positivamente il suo infausto ten­ tativo di sbarco ai Dardanelli della prima guerra mondiale. Ma l’aiuto in­ glese, a Rodi come in altre isole dell’Egeo, non avvenne che in scarsa e af­ frettata misura, fra ritardi e incomprensioni reciproche tra italiani e ingle­ si, c osì che la lotta si ridusse a uno scontro episodico e frammentario tra italiani e tedeschi che infiammò tutta l’isola per un paio di giorni, con di­

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mostrazioni individuali di valore e il duello delle artiglierie italiane che fu­ rono le protagoniste dei combattimenti. Dopo la resa, ordinata T ri set­ tembre, l’ammiraglio Campioni, che si era rifiutato di imporre a tutti i re­ parti dell’Egeo di considerare nullo il proclama Badoglio e di consegnare le armi ai tedeschi, venne deportato e, successivamente condannato a morte da un tribunale fascista di Salò, nel maggio del 1944. Ma anche quando gli scontri, a Rodi, cessarono, la resistenza non si esaurì. Numerosi italiani, sottrattisi alla cattura, continuarono nella clandestinità la lotta contro i te­ deschi. Basti ricordare che, nei mesi che seguirono, ben novanta militari, di cui quaranta senza alcun processo, furono fucilati. Cessati i combattimenti, la massa dei militari rimase fedele al governo legale e preferì essere deportata piuttosto che collaborare con i tedeschi, mentre gli ufficiali vennero allontanati dai soldati. Di questi ultimi, im­ barcati su piroscafi diretti al Pireo, molti non arrivarono a destinazione per­ ché alcuni natanti furono affondati durante la navigazione. Fra il 9 e l’ir settembre, a Rodi, i caduti in combattimento erano stati otto ufficiali e centotrentacinque militari di truppa, oltre trecento i feriti. Ignote le perdite germaniche, che si suppone sensibili. Nell’isola di Coo era dislocato un reggimento della stessa divisione Re­ gina, tranne un battaglione ubicato a Lero. Gli inglesi, nell’intento di assi­ curarsi un campo di atterraggio dopo la perdita di quello di Rodi, integra­ rono la difesa dell’isola con mitragliere e cannoni antiaerei, insieme a un commando. Qui, la cooperazione con gli italiani fu più attiva, ma rimase aleatoria a causa di futili questioni di responsabilità di comando. Finché i tedeschi, forti della loro superiorità aerea e regolata la partita con Cefalonia, sbarcarono il 3 ottobre, in ondate successive sostenute dal lancio di pa­ racadutisti. Sfortunatamente il convoglio tedesco venne scambiato per quel­ lo inglese, atteso nelle stesse ore, e la sorpresa fu completa. La resistenza opposta dai fanti della Regina fu comunque tenace e generosa. Si battero­ no con disperazione, quasi da soli perché gli inglesi, considerata perduta la partita, si imbarcarono frettolosamente per la vicina e ospitale costa turca. Dopo due giornate di scontri violenti, la resa del presidio italiano fu inevi­ tabile, essendo rimaste inascoltate le richieste d’aiuto. Alla resa seguì la rap­ presaglia tedesca: centotrenta ufficiali furono passati per le armi insieme al loro valoroso comandante, colonnello Felice Leggio. Lero era presidiata da milleduecento uomini, assegnati prevalentemente a reparti della marina al servizio di numerose batterie antinave e antiaeree, e a un battaglione rinforzato della divisione Regina; comandante era il ca­ pitano di vascello Luigi Mascherpa. L’isola costituiva un’importante base per i sommergibili. All’annuncio dell’armistizio, improvviso come altrove, Mascherpa, dimostrandosi uomo risoluto e pronto a combattere, dispose su­ bito lo stato di emergenza e, dopo tre giorni, caduta Rodi, assunse d’inizia­ tiva il comando di tutte le forze marittime dell’Egeo, reso vacante dalla cat­ tura di Campioni. Dall’Italia lo raggiunse la promozione ad ammiraglio. Il 12 e il 13 giunsero a Lero due missioni inglesi che disposero per l’arrivo di

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successivi scaglioni di truppe alleate, fino a raggiungere la forza di quattro­ mila uomini, ben armati ed equipaggiati, al comando del generale Tilney. Dal 26 settembre l’aviazione tedesca iniziò una pesante e continua azione di bombardamento, provocando grandi danni alle batterie costiere e la perdi­ ta di circa duecento uomini. Ma Tilney e Mascherpa si dimostrarono soli­ dali nelle decisioni e pronti a resistere, e il morale delle truppe ne risentì po­ sitivamente. Il 12 novembre, numerose unità navali germaniche si diresse­ ro di notte, frazionate in scaglioni, verso quattro punti di approdo dell’isola; ma la sperata sorpresa non riuscì e l’isola fu tutta in allarme. Alcune zatte­ re vennero affondate, ma l’intervento senza tregua dell’aviazione tedesca fa­ vorì egualmente lo sbarco di alcune unità. Inglesi e italiani si batterono stre­ nuamente, passando spesso al contrattacco. I tedeschi ricorsero anche al lan­ cio di paracadutisti da quote bassissime, tanto che molti si sfracellarono al suolo o vennero uccisi in fase di atterraggio. Il giorno 15, con Y arrivo di al­ tri rinforzi e un incessante attacco al suolo di stormi di caccia - recuperati da tutte le basi aeree tedesche della Grecia -, la situazione volse al peggio. La battaglia continuò per tutto il 16, anche dopo l’ordine di cessare la resi­ stenza da parte del comando dell’isola. I tedeschi, che avevano subito 520 perdite contro le 600 inglesi e un centinaio italiane, dato che le loro forze erano state solo parzialmente impegnate, catturarono 3200 militari britan­ nici e 5000 italiani. Diversi ufficiali vennero uccisi ancora vicino ai loro pez­ zi o capisaldi. L’ammiraglio Mascherpa ebbe la stessa sorte del suo superiore Campioni. Processato da un tribunale fascista, venne fucilato a Parma. Lero è una delle più nobili pagine di storia della marina militare e dell’Italia. Samo, nelle isole Sporadi meridionali, fu l’ultima e la più arretrata del­ le isole dell’Egeo a cadere in mano dei tedeschi. Questi, usando la “tattica del carciofo”, sapientemente applicata, ebbero ragione uno a uno dei nu­ merosi presidi italiani dell’arcipelago, concentrando di volta in volta, in cia­ scuno di essi, il maggior numero di aerei, di mezzi da sbarco e di uomini di cui potevano disporre e ottenendo sempre, di volta in volta, la quantità del­ le forze necessarie al successo dell’impresa. A Samo era dislocata la maggior parte della divisione Cuneo, forte di novemila uomini. Subito dopo la resa di Rodi il comandante della divisio­ ne, generale Mario Soldarelli, assunse d ’iniziativa il comando terrestre dell’Egeo e tentò di coordinare le operazioni nel vasto scacchiere operativo. Ma il compito si rilevò ben presto difficile, in quanto dall'Italia non giun­ geva alcun aiuto e gli stessi alleati, impegnati sul fronte di Cassino, mal­ grado i perentori inviti di Churchill a fare di più per il Dodecaneso, non po­ tevano disporre di forze sufficienti per contrastare l’offensiva germanica, ormai vittoriosa e in fase finale. Tuttavia il comando inglese del Medio Oriente inviò egualmente nell’isola una propria missione e, di seguito, un battaglione di fanteria con due compagnie di paracadutisti greci, oltre a qualche mitragliera antiaerea. Il 17 novembre, vinta la resistenza di Lero, i tedeschi spostarono tutto il peso del loro attacco aereo su Samo, fatto che provocò alcune decine di morti e scosse profondamente il morale della po­

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polazione. Resosi conto della situazione e considerata la possibilità di tra­ sbordare i suoi uomini nella vicina Turchia, Soldarelli chiese al comando inglese se era davvero intenzionato alla difesa di Samo e, in tal caso, di in­ viare i rinforzi necessari. La risposta fu che inglesi, greci e partigiani dell’iso­ la, questi ultimi per sfuggire alle sicure rappresaglie tedesche, avrebbero evacuato l’isola. A questo punto, Soldarelli, ottenuto il permesso dai tur­ chi, organizzò il trasbordo dei suoi uomini che, a iniziare dal 21 novembre, interessò circa cinquemila soldati. Essi furono trattenuti dal governo turco come «internati» e, in seguito, inviati in Palestina. Fra i militari rimasti, non tutti aderirono all’ordine di resa, dandosi alla macchia in condizioni di grande disagio. Alcuni militari della legione della milizia, che avevano ot­ tenuto di spostarsi nell’esercito, furono passati per le armi. Nell’isola di Creta, sede della divisione Siena, al comando del generale Angelico Carta, data la caratteristica dell’isola, di “fortezza tedesca”, la su­ periorità delle forze germaniche troncò ogni iniziativa di resistenza, anche se Carta e numerosi suoi uomini si erano dichiarati per la lotta contro i te­ deschi. Tuttavia, alcuni fra i più decisi ufficiali e soldati, dopo l’armistizio, lasciarono le caserme e si diressero verso le zone impervie dell’isola, con al seguito un battaglione della Guardia di finanza. Ma i locali non accettarono di affiancare la resistenza armata e i militari italiani scelsero di essere inter­ nati piuttosto che collaborare coi tedeschi. Moltissimi di essi andarono cosi incontro alla morte, per il siluramento di due delle navi che li trasportava­ no; nei naufragi persero la vita oltre quattromila uomini. Dopo Cefalonia, fu a Creta che, malgrado non si fosse giunti allo scontro aperto coi tedeschi, si verificarono le perdite maggiori per circostanze esterne. Alcuni nuclei di italiani, rimasti nell’isola e datisi alla montagna, condivisero la vita avventu­ rosa dei partigiani, costituendosi in bande; episodi simili si andavano intan­ to verificando ovunque nelle isole ove c’era stata resistenza. Emblematica la vicenda dell’isola di Rodi dove un sardo, Pietro Carboni, capo cannoniere della marina, condusse per mesi una vita randagia e solitaria da partigiano, aggredendo e uccidendo i tedeschi in numerosi agguati, tanto da vedersi po­ sta sul capo una grossa taglia. Questa vistosa ricompensa indusse un pasto­ re greco alla denuncia dell’irriducibile marinaio il quale, dopo mesi d ’inin­ terrotta latitanza, sorpreso in una grotta, venne ucciso da una pattuglia te­ desca, non prima di averne pugnalato a morte il suo comandante. Corsica. L’occupazione dell’isola francese da parte italiana (11 novem­ bre 1942) non faceva parte del piano di rivendicazioni territoriali di Mus­ solini, ma venne attuata per reagire allo sbarco degli angloamericani sulle coste dell’Africa settentrionale, in Algeria e Marocco, a seguito del quale il ruolo strategico della Corsica, da trascurabile, era divenuto primario. Nell’isola erano sorti, già negli anni precedenti, vari movimenti di resi­ stenza, denominati Combat, Liberatori, Francs T ireurs, Front nationale e Pietri, che avevano creato un clima insurrezionale, peraltro ben controlla­ to dalle forze italiane e tedesche.

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Quelle italiane, all’atto dell’armistizio, erano costituite dal VII corpo d’armata, comandato dal generale di divisione Giovanni Magli e composto essenzialmente dalle divisioni Friuli e Cremona, da due divisioni costiere (225“ e 226“) e da tre unità a livello di reggimento. Erano presenti anche modeste forze navali e dell’aeronautica. Le forze tedesche, invece, erano rappresentate dalla brigata SS Reichfhurer, giunta nel mese di luglio del 1943 in previsione di un atteggiamento rinunciatario dell’Italia, con il com­ pito di contrastare eventuali sbarchi alleati e proteggere la ritirata della 90“ divisione corazzata germanica, dislocata in Sardegna. La notizia dell’armistizio non trovò del tutto impreparato il generale Ma­ gli, avendo già ricevuto alcune disposizioni sulle azioni da intraprendere in caso di atti ostili da parte tedesca. Perciò, dimostrandosi comandante di ca­ rattere e in grado di tenere alla mano i suoi uomini, egli represse con fermezza le iniziali manifestazioni di entusiasmo dei soldati, dette ordini per la ricon­ quista del porto di Bastia, occupato dai tedeschi con un colpo di mano, e con un’intuizione politica che pochi altri generali ebbero, concesse la libertà ai prigionieri politici, stipulando un patto di collaborazione con i partigiani cor­ si e il loro capo, il capitano Colonna d’Istria. Questi, forte dell’appoggio ita­ liano, dette subito ordine di insurrezione generale contro il tedesco. Non si comportò con altrettanta fermezza il comandante della Sarde­ gna, generale Antonio Basso, il quale, considerato che i tedeschi erano di­ sposti a lasciare spontaneamente l’isola, interpretò tale fatto in linea con le disposizioni del Comando supremo e non si oppose all’esodo della 90* di­ visione corazzata dal porto di Bonifacio verso la vicina Corsica, mettendo­ le addirittura a disposizione un itinerario di sgombero per agevolarne il mo­ vimento. Questo comportamento ebbe come effetto di rendere molto più difficile il compito del generale Magli, che si trovò di fronte anche quella di­ visione corazzata oltre alla brigata SS Reichfhurer. Con il suo comporta­ mento, il generale Basso agi in contrasto con gli ordini dello stato maggio­ re generale italiano che, da Brindisi, continuava a ordinargli di impedire, in tutti i modi, la ritirata della grande unità tedesca, in ottemperanza alle intese avute con gli angloamericani. Tuttavia vi furono almeno due episodi di ribellione al temporeggiante e ambiguo atteggiamento di Basso: l’eroico attacco condotto dal capitano di vascello Carlo Avegno, con alcuni ufficia­ li e marinai, al presidio tedesco che aveva occupato il porto di La Madda­ lena, e il sacrificio del tenente colonnello Giovanni Alberto Bechi Luserna, capo di stato maggiore di quella unità, il quale, recatosi presso un reparto di ammutinati della divisione paracadutisti Nembo, per esortarli all’obbe­ dienza e alla lotta contro il tedesco, fini da loro stessi ucciso. Per il resto, Basso, che dopo la guerra subì un processo per disobbedienza agli ordini dal quale uscì assolto, non fece altro che disporre un lento e cauto insegui- ' mento delle unità tedesche, finché esse non lasciarono l’isola riversandosi in Corsica con venticinquemila uomini. Di essi faceva parte il battaglione paracadutisti Rizzati, composto da fascisti fedeli alla Germania. Dal canto suo, il generale Magli, ristabiliti i contatti con il governo Badoglio l’u set-

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tembre e ricevuto l’ordine di considerare i tedeschi come “nemici”, iniziò apertamente le ostilità. Una delle prime reazioni del comandante tedesco, generale Senger und Etterlin, fu quella di occupare gli aeroporti in mano italiana e di assicurar­ si un itinerario lungo la costa orientale, fino à Bastia, per porre in salvo le sue truppe e imbarcarle verso la Provenza francese. La battaglia, dopo una iniziale e rapida marcia della 90* divisione verso il Nord, protetta dalla SS Reichfhùrer, si accese particolarmente furiosa sul­ le colline prospicienti Bastia e, in particolare sul Colle del Teghime. Le di­ visioni Friuli e Cremona, marciando quasi sempre a piedi al contrario delle mobili unità tedesche, dotate di mezzi corazzati, espressero tutto il loro spi­ rito combattivo nel contenere il flusso dei nemici verso le zone di imbarco. Solo nell’ultima fase della lotta intervennero due battaglioni di colore del­ l’esercito di liberazione di De Gaulle e un battaglione coloniale, sbarcati nel frattempo ad Ajaccio, quando ormai gli italiani avevano sopportato il pe­ so maggiore dei combattimenti. Grazie alla loro azione, il 4 novembre, in una Bastia ormai distrutta dalle artiglierie, entrò per prima una compagnia di bersaglieri italiani. Così, anche i tedeschi, che avevano dovuto abbando­ nare nella ritirata, diventata una vera fuga, gran parte dei loro materiali e la­ sciare sul terreno centinaia di caduti, ebbero a subire la loro Dunkerque del­ la seconda guerra mondiale. Tant’è che la 90“ divisione ebbe bisogno di al­ cuni mesi prima del reimpiego (Italia / linea Gotica, poi Colle Maddalena). Elevate anche le perdite italiane: seicento i caduti e circa ottocento i feriti. Alcuni mesi dopo,-reparti della Cremona e della Friuli che, in virtù del­ le norme armistiziali, avevano ceduto quasi tutto il loro armamento ai fran­ cesi, rientrarono in Italia ove formarono gli omonimi gruppi di combatti­ mento per partecipare, questa volta, alla liberazione dell’Italia. Gli eventi della Corsica dimostrarono come un generale capace e solda­ ti determinati, anche dopo un rovinoso armistizio, avessero potuto tener testa all’agguerrito esercito tedesco. Comandanti e uomini come quelli non mancavano di certo nelle unità italiane. Francia. Fonti memorialistiche e testimonianze sparse attestano che un numero non trascurabile di emigrati italiani partecipò alle vicende della re­ sistenza clandestina e armata nella Francia occupata dal 1941 al 1944. Al­ lo stato attuale delle ricerche e delle ricostruzioni storiografiche, risulta dif­ ficile tracciare un profilo esauriente di tale concorso e tanto più quantifi­ carne l’entità. Nondimeno, la presenza di italiani nelle diverse forme ed espressioni del movimento di resistenza al nazismo sui vari scacchieri del­ la lotta dell’“esagono”, specie della regione parigina, nel Lionese, nella zo­ na di Marsiglia e nel Nizzardo, trova riferimenti sicuri e talora di rilievo. Bacino di reclutamento soprattutto di elementi che militarono nei gruppi dei Francs tireurs et partisans (Ftp) promossi dal Partito comunista fran­ cese (Pcf) furono, in particolare, la vasta area dell’emigrazione operaia ita­ liana di lungo periodo stabilitasi nella repubblica e quella di specifico con­

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notato politico antifascista affluita nel paese dopo l’avvento del regime mussoliniano. Malgrado le condizioni oltremodo scabrose in cui si erano venu­ ti a trovare i cittadini italiani residenti a seguito dell’aggressione nazista al­ la Francia nel giugno del '40, che li aveva esposti alle reazioni dell’opinio­ ne locale e a dure misure di polizia (talché molti scelsero di naturalizzarsi francesi), e malgrado le successive repressioni attuate dal regime di Vichy nelle zone lasciate dai tedeschi alla sua amministrazione contro la massa de­ gli immigrati, impugnando anche la legislazione che dal 1927 era stata va­ rata a favore dei flussi di stranieri, dai primi conati del movimento di resi­ stenza si registrò la militanza di parecchi elementi di nazionalità italiana nei nuclei operativi del sabotaggio e dell’insorgenza armata. Se indubbiamen­ te, nel generale ritardo dello sviluppo dell’azione diretta francese contro gli occupanti - dovuta essenzialmente agli equivoci e alle suggestioni introdotti nella realtà del paese dalla nascita del regime del maresciallo Pétain -, in­ fluì non marginalmente, sul versante del contributo degli emigrati, anche l’ambiguo atteggiamento tenuto fino al 1941 dal Pcf e dai nuclei emigrati del Pei in conseguenza del patto russo-germanico, tuttavia, una volta mu­ tata la collocazione dell’Urss sul fronte dei contendenti, l’impulso comuni­ sta all’azione clandestina e partigiana fu determinante, e a esso si associò in posizione saliente l’emigrazione politica italiana sopravvissuta alla bufe­ ra dell’occupazione. Già nell’ottobre del 1941, un Comitato d ’azione per l’unione del popolo italiano - ricostituzione sotto nuova denominazione dell’Unione popolare italiana promossa da comunisti, repubblicani e socia­ listi - prendeva a svolgere propaganda contro le complicità del regime di Vichy con i tedeschi; nel '42, il Comitato denuncerà, attraverso le pagine dell’organo di stampa degli «italiani liberi», «L’Unione del Popolo», la pro­ paganda annessionista del regime fascista nel Nizzardo e l’occupazione del­ le truppe della IV armata italiana, ai cui ufficiali e soldati indirizzava ap­ pelli perché disertassero e rientrassero in patria a combattere i nazisti. Ruo­ lo centrale nell’indirizzare alla resistenza gli strati dell’emigrazione assumeva però il movimento della cosiddetta Main-d’ouvre immigrée (Moi), promos­ so dal Pcf e la cui sezione italiana, organizzata da Giuliano Pajetta «Gior­ gio Camen», e attiva particolarmente sulla Costa Azzurra, incitava i lavo­ ratori ad arruolarsi nel distaccamenti degli Ftp del settore di Antibes, mo­ bilitati grazie all’iniziativa del comunista Cesare Blengino «Martelli». Nel panorama dell’azione dei nuclei partigiani sorti al Nord e al Sud del­ la Francia si faceva luce lo straordinario apporto di un’intera famiglia di co­ munisti goriziani, i Fontanot, emigrati nel 1923 per sfuggire alle persecu­ zioni fasciste. Mentre i fratelli Giacomo e Giuseppe Fontanot erano rin­ chiusi, nel '42 (dopo un precedente arresto e una detenzione nel campo di Gurs), nel campo di concentramento di Tourelles, a seguito della loro par­ tecipazione alla commemorazione del centenario della battaglia di Valmy, i loro figli, Nerone «René» e Giacomo, operai metallurgici, si impegnavano con i gruppi partigiani. Nerone Fontanot, portatosi a Chatellerault (Vienne), si metteva alla testa di un nucleo di Francs tireurs e conduceva una serie di

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arditi attacchi a treni, posti di blocco e depositi di munizioni tedeschi: nel settembre del '43, catturato, aveva cercato la fuga dalla prigione segando le sbarre dèlia cella, ma, scoperto, era stato orrendamente torturato e infi­ ne fucilato il 27 settembre del '43 con sette partigiani francesi. Giacomo Fontanot, sedicenne, deportato con il padre nel campo di Tourelles e quin­ di a Rouillé, liberato dai partigiani si era unito a loro nella foresta di SaintSauant; catturato durante un combattimento, venne fucilato il 26 giugno del '44. Nel contempo, nella zona di Parigi, inserito nel comando di un grup­ po di ventitré volontari membri della formazione organizzata dal Moi e ca­ peggiata dal poeta armeno Missak Manouchian unitamente al rumeno Jo­ seph Boczov, si faceva luce con spericolate azioni Spartaco Fontanot, cu­ gino di Nerone e di Giacomo, anch’egli operaio, autore di colpi di mano di larga risonanza come l’attacco, nella capitale francese, con la sua squadra, al comandante del Gross Paris, generale Von Schaunburg, e dell’uccisione, in pieno centro parigino, del responsabile del lavoro obbligatorio in Fran­ cia, Ritter. Denunciato da una spia e catturato dalla Gestapo con tutto il suo gruppo, Fontanot venne fucilato il 21 febbraio del '44: insieme a lui, oltre a diciotto partigiani di varia nazionalità (fra cui, una donna), caddero altri quattro italiani, Rino Della Negra, Cesare Luccarini, Antonio Salvadori e Amedeo Usseglio. Morirono tutti al canto della Marsigliese. Nel mar­ zo del '44, a Tolosa, veniva assassinata dai tedeschi una valorosa partigia­ na della XXXV brigata degli Ftp, la diciannovenne Rosina Bert, rimasta ferita nel corso di un attentato e che i suoi carcerieri, prima di ucciderla, seviziarono con inaudita ferocia. Nel quadro della lotta degli Ftp occorre infine ricordare che uno dei suoi massimi organizzatori fu il militante co­ munista livornese Ilio Barontini, reduce da molteplici e avventurose espe­ rienze di comando di volontari in Cina, in Etiopia e in Spagna, nonché di guerriglia; designato capo di stato maggiore degli Ftp, Barontini rientrerà in Italia dopo l’8 settembre del 1943 e darà un contributo fondamentale al­ la creazione dei Gruppi d ’azione patriottica delle brigate Garibaldi. L’intervento italiano nella lotta di liberazione dei francesi acquistò una precisa connotazione politico-militare, dopo l’8 settembre del '43, nel Mez­ zogiorno del paese occupato dai tedeschi. A Nizza, in clandestinità, si co­ stituì il Comitato di liberazione (Cil, o Cln), animato da Ernesto Marabotto e composto da Marcella Migliorini per il Pda, dal comandante «Vincenzo» per il Pei e da Luigi Longhi per il Psi; nel contempo, i comunisti intensifi­ cavano l’azione del loro centro, riorganizzato nell’autunno del '41 da Aldo Lampredi «Guido» ed Emilio Bonviso «Berettina», cui si aggiunsero poi Giuliano Pajetta, già commissario politico nelle Brigate internazionali du­ rante la guerra di Spagna, Stefano Schiapparelli, Italo Nicoletto - anch’egli militante in Spagna nelle Brigate internazionali - ed Emilio Sereni, già mem­ bro del Centro estero del partito (condannato durante i quarantacinque ■ giorni del governo del maresciallo Badoglio a vent’anni di reclusione, quin­ di arrestato in Francia e detenuto ad Antibes, prima di essere trasferito nel penitenziario di Fossano).

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Come risposta allo sbarco degli angloamericani in Marocco e in Algeria, la IV armata italiana, agli ordini del generale Mario Vercellino, si era tra­ sferita nella Provenza francese, occupando la cosiddetta «zona libera fran­ cese» fino a quel momento sotto il governo collaborazionista di Vichy. L’ar­ mata era composta di sei divisioni di fanteria, di cui una celere, una di al­ pini e tre addette alla difesa costiera. Dopo la caduta del fascismo, i tedeschi fecero affluire in Italia nuove forze, con il consenso del Comando supremo, il quale, per contropartita, ottenne il rientro in patria di tre di quelle sei di­ visioni per destinarle alla difesa della piazza marittima di La Spezia e nel­ la zona di Bologna. In seguito, durante il convegno italotedesco di Casalecchio (15 agosto '43) si giunse all’accordo per il rientro dell’intera arma­ ta. I movimenti di rimpatrio iniziarono il 25 agosto e si sarebbero dovuti concludere entro il 9 settembre. Il comando dell’armata, sin dal 10 agosto, aveva ricevuto la conferma del­ le istruzioni giunte precedentemente sull’atteggiamento da tenere nei con­ fronti dei tedeschi nel caso di azioni ostili da parte loro; istruzioni che si tra­ dussero nel compito di sorvegliare costantemente le mosse dell’alleato ger­ manico. Nel frattempo, i movimenti delle unità italiane si svolgevano in un clima di incertezza, anche se nulla era stato ancora reso noto sull’imminente armistizio. Con un provvedimento assai criticabile sul piano tattico, il gene­ rale Vercellino aveva disposto che le truppe marciassero a piedi, avendo de­ voluto tutti i mezzi di trasporto per il carico dei materiali. Un tale ordine do­ veva rivelarsi estremamente grave, tale da compromettere ogni possibilità di manovra delle truppe inquadrate in interminabili colonne lungo le rotabili che, dalla Provenza, portavano alla costa ligure o ai passi alpini. In questa de­ licata situazione di trasferimento, la IV armata, a eccezione di una sola divi­ sione già oltre il confine italiano, fu colta dall’annuncio dell’armistizio con le sue forze disseminate lungo centinaia di chilometri di itinerario, fra Tolone e La Spezia. Da parte loro i tedeschi, da tempo in allarme per la temuta defe­ zione dell’Italia, avevano costituito solidi perni di manovra, altamente mobi­ li e corazzati, attorno ai centri di controllo dei maggiori assi stradali. Avven­ ne cosi che, la sera stessa dell’8 settembre, le loro unità poterono bloccare il porto di Tolone e occupare, con arditi colpi di mano, i ponti della maggiore rotabile costiera e lo sbocco delle valli da e per l’Italia. Il comando dell’ar­ mata, con una tardiva reazione, ordinò a quel punto l’improvvisa costituzio­ ne di alcuni centri di resistenza, sparsi qua e là lungo il percorso, ma di diffi­ cile realizzazione data la frammentazione cui i reparti erano stati indotti dal­ le formazioni di marcia. Dette inoltre l’ordine di non consegnare le armi ai tedeschi, cercando di aprirsi, in qualche modo, la via per l’Italia. Tutto questo sarebbe dovuto avvenire mantenendo un atteggiamento “non offensivo” verso gli ex alleati, a meno di aperti atti di aggressione da parte loro. Come era da attendersi, queste disposizioni crearono una situa­ zione caotica e di smarrimento presso tutte le unità. Il blocco delle centra­ li telefoniche, subito attuato dai tedeschi, fece il resto; a esso segui l’im­ provvisa irruzione, in quasi tutti i comandi di divisione, di loro gruppi di

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armati, dotati di mezzi blindati e decisi a tutto. Ne consegui che, nel cor­ so della notte del 9 settembre, gran parte delle unità italiane in trasferi­ mento fu sopraffatta mentre altre, già giunte in Liguria, si disgregarono in un clima di drammatica confusione, materiale e morale. Cadeva altresì anche l’ultima ipotesi della costituzione di ridotti mon­ tani difensivi nella valle della Dora Riparia, della Varaita e della Maira, per lo smembramento delle unità a ciò incaricate, mentre nulla poteva essere più organizzato con quelle rimaste in territorio francese, ormai in fase di completo disfacimento. In tale situazione, dopo la caduta in mano tedesca di Torino (ore r6 del 10 settembre) e la resa ai tedeschi del comandante del­ la piazza, il generale Vercellino, che in quelle ore critiche molti dichiararo­ no «introvabile», in quanto in continuo spostamento, decise per il gravis­ simo ordine di scioglimento della sua grande unità. IÌ suo proclama lascia ancora oggi perplessi, poiché in pratica metteva immediatamente in libertà oltre centomila uomini, la gran parte dei quali non sapeva cosa fare e dove andare. Per tale decisione, al termine della guerra Vercellino ebbe a subire un processo che lo mandò però assolto in quanto valse la tesi, da lui vigo­ rosamente sostenuta, che ogni resistenza, da parte di unità ormai impedite a muoversi e a manovrare, si sarebbe risolta in un bagno di sangue, coin­ volgendo pesantemente anche la popolazione civile. Non mancarono tuttavia episodi di volontario e isolato valore, nel ten­ tativo di opporsi al dilagare delle forze germaniche, dirette soprattutto al porto di La Spezia e alla cattura della flotta italiana che, fortunosamente, era già riuscita a prendere il largo. I fatti di maggiore resistenza si verifica­ rono a Grenoble, a Chambery, al Passo del Moncenisio, alla stazione di Niz­ za, nel caposaldo improvvisato del Frejus e nella difesa del Col di Tenda. Ma la maggior parte di quegli uomini, e in particolare coloro che, con lo scioglimento dell’armata, vedevano aprirsi le vie di casa, non capì perché avrebbe dovuto continuare a combattere, visto che la guerra, per l’Italia, era ormai finita e in maniera tanto tragica. Così, in quelle ore di smarrimento, vistosi abbandonato a se stesso, ognu­ no cercò di trovare una propria risposta agli interrogativi che si facevano sempre più pressanti e angosciosi. E venne l’ora delle scelte, personali o di gruppo, magari consultandosi fra compaesani o chiedendo lumi agli ufficiali considerati più vicini o affidandosi addirittura al caso. Varie furono le vie che si presentarono, ma tutte piene di incognite. A parte le decine di mi­ gliaia di militari finiti inesorabilmente in cattività, ai restanti si offrivano diverse alternative, prima fra tutte la collaborazione con il tedesco, inqua­ drati nelle unità della neonata Repubblica sociale di Mussolini. Campi, ca­ serme e persino hotel francesi vennero utilizzati come centri di raccolta e di smistamento, in attesa che i militari reclusi si decidessero per questa scel­ ta. Si può, tuttavia, affermare che la stragrande maggioranza di essi rifiutò ogni forma di collaborazione e accettò invece la prigionia come segno di un dovere che continuava a esistere e che si realizzò drammaticamente nella cosiddetta «resistenza passiva» dei campi di internamento.

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Ci fu anche chi si dispose alla fuga in Francia, accettando di firmare come «lavoratore internato» in attesa della buona occasione per evadere. Alcuni si presentarono in incognito ai posti di reclutamento della Legione straniera, dove vennero arruolati e spediti in varie guarnigioni nelle quali dovettero assoggettarsi a una disciplina, un addestramento e, spesso, un im­ piego ancora più duro e rischioso di quello cui erano abituati da militari dell’esercito italiano. Di questi, non pochi risultarono ottimi combattenti e, secondo quanto segnalato dall’Ufficio storico dell’Armata di Terra, ri­ scossero encomi e decorazioni. Più tardi, mano a mano che la situazione in Francia andava evolvendo a favore della causa alleata, divenne sempre più frequente la scelta per le formazioni del maquis, e della Resistenza francese, favorita dall’opera di persuasione che molte donne esercitarono nei confronti dei militari italia­ ni ospitati presso i civili o alla macchia. Numerosi erano gli immigrati ita­ liani, specie politici, che avevano aderito, ancora prima della guerra, al mo­ vimento clandestino francese. Costoro, attraverso l’opera dei Comitati ita­ liani di liberazione (Cln), sorti clandestinamente in ogni dipartimento, riuscirono a dimostrare che non tutti gli italiani erano d’accordo con la po­ litica di aggressione di Mussolini alla Francia. Questa propaganda procurò molti aderenti anche tra i militari della IV armata, soprattutto a opera dei Comitati di militari italiani, nati in seno ai Comitati proletari antifascisti (Cpa) sin dai primi mesi dell’occupazione italiana. Questi ultimi, malgrado gli eterogenei orientamenti politici, propugnavano la lotta comune al fasci­ smo ed ebbero molto credito per le nuove idee che propagandavano. Dopo l’8 settembre, l’organizzazione acquistò maggiore efficacia ed ebbe addi­ rittura un suo comando centrale a Parigi, che diresse diversi gruppi di ita­ liani destinati a operare, essenzialmente con azioni di sabotaggio, a fianco della Resistenza francese in diverse località del paese. Si sono riscontrate presenze di connazionali, in numero variabile, nei dipartimenti del maquis della Savoia, Vaucluse, Ardeche, Var - Alpi Marittime, Dróme, Vosgi e la Marna, con preferenza per quelli vicini alla frontiera italiana. Da segnalare il caso del generale Baudino, fuggito insieme a dieci altri militari dal campo di prigionia di Vittel, il quale riuscì a prendere contatti con alcuni resistenti francesi, conquistandone la fiducia. Molti altri ufficiali italiani, fra cui ancora un generale, Magliano, evasi dai campi di prigionia in Italia e in Francia, concorsero, a cavaliere della fa­ scia confinaria, alle operazioni del maquis, anche da semplici fanti, non es­ sendo facile, per essi, ottenere il riconoscimento del loro grado. Così come risultò difficile, durante la Resistenza, che i militari italiani, malgrado le molte richieste, venissero inquadrati in un reparto omogeneo, fatto intera­ mente di connazionali. Si conosce soltanto il caso del battaglione 21/XV, nel quale la III compagnia, di un centinaio di uomini, era composta da ita­ liani, di cui sei ufficiali di inquadramento e due tenenti medici. L’unità operò nella valle del Tenée, nel febbraio del '45, lungo le valli della costie­ ra di Mentone, con azioni di sorveglianza e di disturbo ai presidi tedeschi,

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lungo il confine italofrancese. Alla fine del conflitto, i resistenti italiani in Francia subirono sorti differenti. Spesso, non riconosciuti come combat­ tenti, furono inviati a centinaia nei campi di concentramento, in attesa che venisse chiarita quale era stata la loro posizione durante l ’occupazione ita­ liana. M olti di essi subirono l ’affronto di una durissima prigionia, in com­ pagnia di soldati tedeschi. Diversa sorte ebbero coloro che si erano arruo­ lati stabilmente nelle unità regolari delTEsercito di liberazione del genera­ le De Gaulle, ai quali non si potè negare lo status di combattenti. Diverso fu il caso dei militari della IV armata colti dall’armistizio a cavaliere dei confini oppure già oltre. Una parte di loro, riuniti in formazioni partigiane di vario tipo e coloritura politica, spesso al comando dei loro ufficiali, com­ batterono nella Resistenza piemontese di cui divennero le colonne portan­ ti. Fra di esse, particolarmente nota la brigata Rosselli, che frequentemente operò al di qua o al di là del confine, a seconda delle operazioni di rastrel­ lamento condotte dai tedeschi e dai reparti dell’esercito repubblichino, co­ me la divisione alpini Monterosa, dalla quale tuttavia si contarono nume­ rose diserzioni verso le unità partigiane.. L’eterogeneità del reclutamento delle varie divisioni della IV armata spie­ ga come tanti soldati provenienti dal Sud, impossibilitati a raggiungere le lo­ ro famiglie, combatterono nelle formazioni dell’Italia settentrionale, distin­ guendosi per il loro valore e spirito di sacrificio e rimanendo fortemente at­ taccati al ricordo di quelle esperienze vissute con i compagni del Nord. Conclusione. A commento di questa sintesi storica, è bene riflettere sul­ la opportunità di un approfondimento critico dei reali significati che sot­ tendono le vicende sin qui descritte, per evitare il rischio di una cultura pu­ ramente retorica e agiografica sia del periodo sia delle modalità in cui la Re­ sistenza degli italiani all’estero è sorta e si è espressa. Occorre parimenti evitare la concezione astratta di un impossibile continuismo fra vecchi e nuovi modi di intendere diritti e doveri in seno all’istituzione militare, sen­ za tuttavia che vengano meno le regole immutabili del dovere, dell’onore e del sacrificio, in difesa del proprio paese e delle sue libere istituzioni. Per contro, si dovranno cogliere le novità profonde che la Resistenza, in Italia e all’estero, ha introdotto nella storia della nazione italiana e, in particolare, quegli elementi di rottura e di svolta originati da soggetti che, da una posizione spesso subalterna, ne sono divenuti spesso i principali pro­ tagonisti, guidando la rivolta della coscienza collettiva contro l ’abbandono dei capi e il loro tradimento. Nota bibliografica. Per eventuali approfo ndimenti, si rimanda ai nove volumi della collana storica sulla «R e­ sistenza dei militari italiani all’estero», redatta da una Commissione di studio presieduta dal generale Ilio Muraca. Essa è stata istituita dal ministero della Difesa, nel 1988, con la par­

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tecipazione di ex combattenti all’estero, di reduci dall’internamento e dei capi uffici storici degli stati maggiori delle tre Forze armate. I volumi, editi dalla Rivista militare sono: M. Franzinelli, I Cappellani militari italiani nella Resistenza all’estero, I, 1993; L. Nisticò, IMe­ dici militari italiani nella Resistenza all’estero, II, 1994; L. Viazzi, La Resistenza dei militari ita­ liani all’estero. Montenegro. Sangiaccato. Bocche di Cattaro, III, 1994; P. Juso, La Resistenza dei militari italiani all’estero. Isole dell’Egeo, IV, 1994; L. Viazzi e L. Taddia, La Resistenza dei militari italiani all’estero. La divisone Garibaldi in Montenegro, Sangiaccato, Bosnia e Erzegovi­ na, V, 1994; S. Barba, La Resistenza dei militari italiani all’estero. Francia e Corsica, VI, 1995; G. Giraudi, La Resistenza dei militari italiani all’estero. Grecia continentale e isole dello Ionio, VII, 1995; A. Bistarelli, La Resistenza dei militari italiani all’estero. Iugoslavia centrosettentrionale, VIII, 1996; M. Coltrinari, La Resistenza dei militari italiani all’estero. Albania, IX,

I990'E importante segnalare che il voluminoso carteggio, reperito e consultato dalla Com­ missione di studio di cui sopra, è conservato presso l’Ufficio storico dello stato maggiore del­ l’esercito, ed è a disposizione degli studiosi. Esso è stato essenzialmente tratto dagli archivi di Londra (Richmond), di Washington (Nationals Archives), di Parigi (Ufficio storico dell’Armée de terre), di Belgrado (Ufficio storico dell’ex armata iugoslava), di Atene (dichiara­ zioni di partigiani greci), oltre che dalle relazioni e dalla documentazione personale dei re­ duci, conservata presso le direzioni generali del personale di ciascuna Forza armata, presso il ministero della Difesa. Si rimanda, inoltre, alle seguenti pubblicazioni, delle molte edite nel tempo: A. Bartolini, Per la Patria e la libertà. Isoldati italiani nella Resistenza all’estero, dopo l ’S settembre, Mur­ sia, Milano 1986; M. Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, Roma 1973.

GIORGIO R O C H A T

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La pianificazione strategica degli alleati. Sin dal momento dell’interven­ to degli Stati Uniti nel conflitto mondiale il presidente Franklin D. Roose­ velt e il generale George C. Marshall, la più alta autorità militare, vollero imporre la priorità della guerra contro la Germania rispetto a quella contro il Giappone, come avrebbero desiderato gran parte dell’opinione pubblica offesa dall’attacco di Pearl Harbour, la marina e i gruppi di pressione tra­ dizionalmente interessati all’espansione statunitense nel Pacifico. Roose­ velt e Marshall identificavano giustamente la Germania come il nemico più temibile per l’entità dei suoi successi in Europa (il crollo dell’Unione So­ vietica sembrava vicino) e la potenzialità e modernità del suo apparato in­ dustriale. In realtà lo straordinario sviluppo della loro mobilitazione belli­ ca avrebbe consentito agli Stati Uniti di condurre con uguale slancio la guer­ ra sui due fronti, pur concentrando le maggiori risorse contro la Germania. Nella decisione di Roosevelt e Marshall contavano la necessità di so­ stenere lo sforzo bellico britannico, ma più ancora la convinzione che il ruo­ lo di potenza mondiale che gli Stati Uniti intendevano assumere avesse bi­ sogno di una vittoria campale di rilievo indiscutibile: e quindi il loro obiet­ tivo di fondo era un grande sbarco in Francia con un’indiscutibile vittoria sulle armate tedesche, che collocasse gli Stati Uniti in una posizione di for­ za nella determinazione degli equilibri del dopoguerra. Il governo e gli sta­ ti maggiori britannici facevano peraltro rilevare che una grande offensiva in Francia presupponeva uno sviluppo e un addestramento delle forze sta­ tunitensi che richiedevano tempo. E contrapponevano una strategia “peri­ ferica” che mirava a disperdere e logorare le risorse tedesche con una serie di offensive ai margini del continente europeo, in sostanza nel Mediterra­ neo, dove gli angloamericani potevano contare su una netta superiorità ae­ ronavale. Roosevelt e Marshall guardavano a questa strategia periferica con sospetto, perché vi vedevano soprattutto la difesa di interessi tradiziona­ li dell’impero britannico; ma erano costretti ad accettarla, poiché nel 1942 le condizioni di approntamento delle loro forze armate non permettevano ancora di pensare a uno sbarco in Francia, mentre l’opinione pubblica sta­ tunitense reclamava un impegno diretto contro i tedeschi. Nell’estate 1942 fu quindi deciso uno sbarco nel Nordafrica francese per stringere il con­ trollo sul Mediterraneo e appoggiare le forze inglesi che, sconfitte dagli ita-

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lotedeschi di Rommel, si stavano riorganizzando in Egitto con ingenti rifor­ nimenti americani.

L’8 novembre 1942 gli angloamericani sbarcarono in Marocco e in Al­ geria, per poi proseguire verso la Tunisia, che Hitler aveva deciso di difen­ dere a oltranza. Nel gennaio 1943 Roosevelt e Churchill si incontrarono a Casablanca per decidere come proseguire le operazioni dopo la conquista di tutta l’Africa settentrionale. Poiché le forze per il grande sbarco in Fran­ cia non potevano essere pronte che nel 1944, gli americani accettarono co­ me mossa successiva lo sbarco in Sicilia che presentava più vantaggi: ritor­ nare in Europa in condizioni che permettevano di sfruttare la superiorità aeronavale, mettere alle corde il regime fascista e possibilmente provocare la resa italiana, riaprire il Mediterraneo al traffico mercantile verso il Me­ dio Oriente e l’india con grande risparmio di naviglio rispetto alla circum­ navigazione dell’Africa. Era prima necessario concludere le operazioni in Tunisia, dove le forze italotedesche affluite si batterono brillantemente fi­ no alla metà del maggio 1943. La successiva decisione di proseguire l’offensiva sbarcando nella peniso­ la italiana venne quasi da sé. L’invasione della Francia era stata fissata al giu­ gno 1944 e non pareva possibile lasciare inoperose fino ad allora le grandi forze ormai disponibili; portare la guerra sul continente aveva un’importanza politica e propagandistica evidente, tanto più che il successo pareva relati­ vamente facile e Roma rappresentava un obiettivo di grande risonanza. Nel­ la conferenza di Washington del maggio 1943 gli americani accettarono an­ cora una volta i piani inglesi, ma posero delle condizioni: l’impegno in Ita­ lia non doveva intralciare la preparazione dello sbarco in Francia, quindi una serie di divisioni e un buon numero dei vitali mezzi da sbarco sarebbero sta­ ti tenuti in riserva e man mano trasferiti in Inghilterra. L ’Italia nella strategia tedesca. L’ultima decisione strategica della guer­ ra di Mussolini fu di inviare in Tunisia quanto era possibile per protrar­ re una resistenza senza speranza, ancora una volta a rimorchio delle scel­ te hitleriane. Dopo di che restava ben poco da decidere: per fronteggiare gli sbarchi angloamericani c’erano nell’estate 1943 un cordone di divi­ sioni costiere sulle spiagge, povere di armi, mezzi, addestramento e mo­ rale; e una quindicina di divisioni regolari, quasi tutte di fanteria appie­ data, dislocate quattro in Sicilia, quattro in Sardegna, due in Corsica, una in Campania e cinque intorno a Roma. Il loro compito era il contrattac­ co immediato delle truppe sbarcate, ma la possibilità di respingere l’in­ vasione dipendeva dalla presenza di truppe tedesche motocorazzate. Po­ co più che simbolico sarebbe stato il concorso di quanto restava dell’avia­ zione e della marina italiane dinanzi alla forte superiorità aeronavale nemica. La Germania non aveva la possibilità di contrastare appieno l ’offensiva angloamericana nel Mediterraneo per le enormi esigenze del fronte russo e la dispersione di truppe d ’occupazione dai Balcani dia Francia, ma conser­

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vava margini di manovra non trascurabili. L’obiettivo di fondo di Hitler era di bloccare o almeno rallentare l’offensiva degli angloamericani, per gua­ dagnare tempo (anche nell’illusione di minare la loro volontà di vittoria) e tenere la guerra lontana dalle frontiere tedesche. Non aveva esitato a but­ tare le riserve disponibili in Tunisia nella speranza di mantenere a lungo una testa di ponte in Nordafrica; ma nell’estate 1943 non aveva le forze ne­ cessarie per respingere uno sbarco sul continente, in parte perché conside­ rava prioritario conservare le unità per reagire c on forza a una probabile defezione italiana, in parte perché la mancanza di informazioni sulle in­ tenzioni del nemico lo obbligava a disperdere le sue forze dalla Francia me­ ridionale ai Balcani (l’insufficienza del servizio informazioni fu sempre un grave handicap per i tedeschi). Per la strategia hitleriana l ’Italia, come già il Mediterraneo e la Libia, era comunque un fronte secondario da tenere con la minore quantità pos­ sibile di uomini e mezzi, salvo quando pareva possibile un successo di pre­ stigio importante, come per la testa di ponte di Tunisia o lo schiacciamen­ to dello sbarco di Anzio. Lo sbarco in Sicilia. Lo sbarco in Sicilia, il 10 luglio 1943, fu condotto con uno straordinario spiegamento di forze: 1380 navi, 1840 mezzi da sbarco, la VII armata statunitense (generale George Patton) e l’VIII armata bri­ tannica (generale Bernard Montgomery) con otto divisioni e 150 000 uo­ mini messi a terra il primo giorno, più quattro altre divisioni di rincalzo im­ mediato. In totale sbarcarono in Sicilia 480 000 soldati, in parte provenienti direttamente dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, agli ordini del gene­ rale Harold Alexander, che dipendeva dal generale Dwight Eisenhower, co­ mandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo. A contrastarli c’erano la VI armata del generale Alfredo Guzzoni con 250 000 soldati (ma so­ lo i 40 000/50 000 delle quattro divisioni di fanteria avevano una certa efficienza) e due, poi quattro divisioni tedesche bene equipaggiate, anche se incomplete, in tutto 67 000 uomini agli ordini del generale Hans V. Hube e del maresciallo Albert Kesselring, comandante di tutte le forze tedesche in Italia. Gran parte delle truppe italiane cedettero rapidamente; quelle tedesche condussero una serie di energici contrattacchi, ma dopo il loro fallimento si limitarono a una difensiva aggressiva per coprire la ritirata attraverso lo stretto di Messina, che le forze aeronavali angloamericane rinunciarono a contrastare. L’evacuazione delle forze italotedesche, circa 100 000 uomini, si concluse il 17 agosto; i tedeschi avevano avuto 10 000 tra morti e pri­ gionieri, gli italiani 5000 morti e 1 16 000 prigionieri, più un buon numero di sbandati che tornarono a casa. Gli angloamericani persero 22 000 tra morti, feriti e dispersi, oltre a 20 000 ammalati di malaria. In complesso l’offensiva angloamericana si segnalò più per l’eccezionale sforzo organizzativo (soltanto lo sbarco di Normandia del 6 giugno 1944 ebbe dimensioni maggiori, ma non un numero -così alto di soldati messi a

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terra il primo giorno) che per i risultati conseguiti in combattimento. Le truppe tedesche seppero disimpegnarsi con perdite limitate contro forze so­ verchiami. Il maggior successo della breve campagna fu l’accelerazione im­ pressa alla crisi politica italiana e alla caduta del regime fascista. Lo sbarco di Salemo. I piani per l’invasione dell’Italia furono messi a punto tra luglio e agosto 1943, quando il buon andamento delle operazio­ ni in Sicilia e la vicina resa italiana autorizzavano un certo ottimismo. Mal­ grado la diminuzione delle forze a disposizione di Eisenhower (soprattutto dei mezzi da sbarco), furono preparate tre distinte operazioni su Salerno, Reggio Calabria e Taranto. Le ultime due furono facili. Il 3 settembre, do­ po un terrificante quanto inutile bombardamento d’artiglieria (le truppe nemiche si erano già ritirate), due divisioni dell’VIII armata del generale Montgomery traversarono lo stretto di Messina e iniziarono a risalire la Ca­ labria; i tedeschi, che temevano di essere tagliati fuori da sbarchi più a nord, si limitarono a deboli azioni di retroguardia, ma distrussero ponti, gallerie e viadotti con tanta efficacia, che gli inglesi impiegarono una dozzina di giorni a raggiungere la zona di Salerno. Il 9 settembre una divisione ingle­ se sbarcò nel porto di Taranto con la collaborazione delle autorità italiane e, approfittando dell’assenza di unità tedesche, raggiunse due giorni dopo Bari e Brindisi, poi si fermò in attesa di rinforzi. Soltanto a fine settembre, con l’arrivo di due nuove divisioni, gli inglesi si spinsero fino ai grandi ae­ roporti di Foggia, dove trovarono le prime forze tedesche. La scelta della zona di Salerno per l’operazione principale fu dettata dal fatto che si trattava dell’unico tratto di costa pianeggiante compreso nel raggio d’azione dei caccia che dalla Sicilia dovevano assicurare la coper­ tura aerea; inoltre non era grande la distanza dal porto di Napoli, base ne­ cessaria per lo sviluppo della campagna. La debolezza delle forze tedesche in Italia avrebbe probabilmente consentito di rischiare uno sbarco più a nord, all’altezza di Roma; ma la diminuzione delle loro forze rendeva i co­ mandi angloamericani poco propensi a rinunciare alla copertura aerea (che in effetti si rivelò determinante). La scarsezza di mezzi da sbarco consen­ tiva di mettere a terra soltanto la V armata statunitense (generale Mark Clark) con tre divisioni e mezza, nella prima giornata, ma la dispersione del­ le forze di Kesselring e la speranza di una reazione italiana al momento dell’armistizio lasciavano sperare in una rapida avanzata (era previsto di raggiungere Napoli in tre giorni). E significativo che fu predisposto l’invio a Roma della 82* divisione avioportata (da supportare con lo sbarco di ar­ tiglieria e mezzi anticarro alla foce del Tevere) per rinforzare le truppe ita­ liane nella capitale, nella fiducia che potessero tenere testa ai tedeschi fino all’arrivo delle divisioni sbarcate a Salerno. La partenza della 82“ divisione fu sospesa in extremis, la mattina dell’8 settembre, quando gli americani compresero che il governo italiano non avrebbe difeso Roma. La situazione del maresciallo Kesselring era effettivamente precaria. L’alto comando tedesco dubitava di riuscire a difendere l’Italia centrome­

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ridionale perché sopravvalutava sia le capacità di reazione delle Forze ar­ mate italiane al momento dell’armistizio dato per imminente, sia il nume­ ro delle divisioni angloamericane e le loro possibilità di manovra (erano ri­ tenuti possibili sbarchi in Toscana o più a nord). Il gruppo armate del ma­ resciallo Erwin Rommel aveva quindi il compito di garantire in ogni caso il possesso dell’Italia settentrionale, con sei divisioni, mentre a sud il compi­ to essenziale di Kesselring era di rallentare l’avanzata angloamericana in modo da salvare le sue divisioni per la difesa dell’Italia settentrionale. Era­ no divisioni preziose perché tutte scelte e mobili, anche se in parte incom­ plete, dislocate due in Calabria, tre in Campania, una nella zona di Foggia, due intorno a Roma, una in Sardegna e mezza in Corsica. Le previsioni furono sconvolte in quarantott’ore. La V armata sbarcò nella pianura di Salerno all’alba del 9 settembre, ma fu subito bloccata dal­ la ferma resistenza della i6a divisione Panzergrenadieren, dislocata in quella che era anche per Kesselring la zona più idonea a uno sbarco. E l’immediata reazione tedesca all’annuncio dell’armistizio italiano ebbe dovunque un suc­ cesso superiore a ogni aspettativa: la sera del 10 settembre le forze armate italiane nella penisola si erano dissolte e in particolare si erano arrese le di­ visioni di Roma, liberando da ogni minaccia le retrovie di Kesselring. Que­ sti potè dirigere su Salerno tutte le truppe disponibili con l’obiettivo di ri­ buttare a mare la V armata. La battaglia nella testa di ponte di Salerno durò otto lunghi giorni. Le divisioni angloamericane (salite a sei) non riuscirono a far valere la loro su­ periorità di uomini e mezzi, anche per una serie di errori e in certezze di molti comandanti (a cominciare da Clark) e furono respinte quasi sulla spiag­ gia dai ripetuti contrattacchi che i tedeschi condussero con la loro consue­ ta elasticità e determinazione. Per respingere questi contrattacchi furono decisivi l’intervento in massa dell’aviazione e il fuoco dei grossi calibri del­ le navi, mentre avevano poco successo gli attacchi della Luftwaffe alla gran­ de flotta angloamericana. Il 16 arrivarono le avanguardie delle divisioni di Montgomery. Le truppe tedesche avevano esaurito la loro capacità com­ battiva e Kesselring ordinò la ritirata, protetta da retroguardie aggressive (cui si deve la prima serie di eccidi ai danni della popolazione), tanto che gli angloamericani entrarono soltanto il i° ottobre in Napoli (insorta il 27 settembre). Nel frattempo le forze tedesche di Sardegna e Corsica erano riuscite a rientrare sul continente attraverso l’Elba quasi senza contrasto. La battaglia di Salerno ebbe un peso decisivo nell’impostazione della campagna d’Italia. Gli angloamericani avevano avuto perdite contenute (do­ dicimila tra morti, feriti e dispersi), ma si erano convinti di poter contra­ stare le più agili e aggressive truppe tedesche soltanto con l’impiego di tut­ ta la loro superiorità di materiali; la loro progressione sarebbe perciò stata improntata a molta prudenza. Dall’altra parte, la battaglia aveva dimostra­ to ai tedeschi che Roma e l’Italia centrale potevano essere difese con suc­ cesso, mentre in autunno fu chiaro che gli angloamericani non avrebbero tentato uno sbarco nei Balcani, come Hitler aveva temuto. Il gruppo armate

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di Rommel fu sciolto, Kesselring riebbe il comando di tutte le forze tede­ sche in Italia e ottenne i rinforzi necessari per la battaglia difensiva sulla li­ nea Gustav. Verso la linea Gustav. Per tenere testa a forze superiori, Kesselring dove­ va sfruttare il terreno montuoso, che per sua fortuna non mancava. Sul ver­ sante tirrenico la linea su cui esercitare la massima resistenza era chiara: al confine tra Lazio e Campania, i monti Aurunci offrono uno sbarramento dal mare a Cassino non così alto, ma difficilmente superabile per la man­ canza di strade attraverso un terreno rotto e impervio. Davanti ai monti scorre il Garigliano con i suoi affluenti, che le piogge invernali trasforma­ vano in un ostacolo pericoloso e infido. La strada da Napoli a Roma (l’uni­ ca via per gli automezzi) passa attraverso la stretta di Cassino, dominata dal ripido monte su cui sorge la celebre abbazia benedettina. Poi il terreno sa­ le rapidamente fino alla dorsale appenninica. Una posizione ideale per la di­ fensiva, su cui fu preparata la linea Gustav (detta anche linea invernale), con largo impiego di bunker in cemento armato nella stretta di Cassino, campi minati e ostacoli passivi su tutto il fronte, strade, postazioni e os­ servatori per l’artiglieria. I tedeschi impiegarono tre mesi a ritirarsi da Salerno a Cassino, prima con una difesa elastica condotta con le truppe mobili, poi irrigidendo la di­ fensiva sul fiume Volturno. Furono favoriti dall’inizio precoce di un in­ verno che sarebbe stato eccezionalmente lungo e rigido; in ottobre le piog­ ge gonfiarono i fiumi e trasformarono il terreno in un mare di fango. Pri­ ma di arrivare dinanzi alla linea Gustav la V armata del generale Clark aveva avuto il doppio di perdite che a Salerno e cinquantamila malati. Intanto le forze tedesche aumentavano fino a una quindicina di divisioni, in buona parte di fanteria appiedata, quindi atte soltanto alla difensiva statica, però con un nucleo di divisioni mobili per i contrattacchi. Al di là dell’intransitabile dorsale appenninica, il versante adriatico pre­ sentava caratteristiche diverse, ma ugualmente favorevoli ai tedeschi: un terreno collinoso solcato da una serie di fiumi in piena, che l’VIII armata doveva espugnare uno alla volta con fatica e perdite, per poi trovarsene di­ nanzi un altro. In ottobre le truppe di Montgomery superarono il Biferno, poi il Trigno, in novembre il Sangro, in dicembre il Moro, a fine anno con­ quistarono Ortona con duri combattimenti, poi si fermarono. Intanto gli aeroporti intorno a Foggia diventavano la base di ingenti forze aeree per il bombardamento della Germania meridionale (e saltuariamente delle città dell’Italia settentrionale): una guerra a parte rispetto alla campagna d’Ita­ lia, dato che la superiorità aerea angloamericana riuscì a rendere difficili, ma non a interrompere i rifornimenti alle forze di Kesselring. Nel frattempo la strategia degli alleati era stata definita: priorità assoluta allo sbarco in Normandia previsto per il giugno 1944 (su questo gli america­ ni erano inflessibili), rinuncia a portare la guerra nei Balcani (una prospetti­ va cara a Churchill, ma bocciata da tutti i militari, poco desiderosi di cacciarsi

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in una regione montuosa priva di obiettivi significativi), preparazione di uno sbarco nella Francia meridionale nell’estate 1944 in appoggio a quello prin­ cipale di Normandia. La campagna d’Italia perdeva importanza strategica (an­ che se a fine 1943 assorbiva diciotto divisioni), il suo compito diventava quel­ lo di trattenere e logorare forze tedesche; e invece acquistava un peso cre­ scente nei mass media. Nell’inverno 1943-44 il fronte italiano era l’unico in Europa su cui i soldati britannici e americani combattevano, quindi la stam­ pa e l’opinione pubblica se ne interessavano appassionatamente. Cassino e Roma diventavano obiettivi assai più grandi del loro peso strettamente mili­ tare, e ciò avrebbe condizionato comandanti e soldati. All’inizio del 1944 i comandi alleati vennero riorganizzati: Eisenhower e Montgomery partirono per assumere in Inghilterra l’uno il comando su­ premo dell’invasione della Francia, l’altro quello delle relative forze di ter­ ra. Il generale Henry M. Wilson divenne comandante in capo per il Mediterraneo, Alexander conservò il comando delle forze di terra in Italia e Clark quello della V armata, il generale Oliver Leese assunse il comando delTVIII; entrambe le armate erano ormai composte da contingenti nazionali diversi, britannici e statunitensi, indiani e neozelandesi, polacchi e francesi. Dalla parte tedesca, Kesselring aveva la responsabilità di tutte le forze in Italia (com­ prese quelle impiegate contro i partigiani) e il generale Heinrich von Vietinghoff il comando della X armata, che riuniva le truppe sulla linea Gustav. Cassino. La prima mossa fu ambiziosa e sfortunata; dopo una serie di attacchi volti a impegnare le riserve nemiche, il 20 gennaio 1944 il II cor­ po americano tentò di sfondare a sud di Cassino, andando incontro a un sanguinoso disastro, mentre il 22 due divisioni rinforzate (seguite da altre due) sbarcarono ad Anzio per prendere alle spalle la linea Gustav. I tede­ schi reagirono con elasticità e rapidità, bloccando ogni avanzata, mentre Hitler concedeva grossi rinforzi per ributtare a mare le forze sbarcate, co­ me monito per ogni tentativo di invasione. Febbraio vide ripetuti attacchi da entrambe le parti; le migliori truppe della V armata si dissanguarono sul­ le montagne intorno a Cassino in vani tentativi di sfondamento, mentre la nuova XIV armata tedesca si impegnava allo stremo per eliminare la testa di ponte di Anzio. Anche questa volta le truppe sbarcate furono salvate dall’intervento in massa dell’aviazione e dal tiro dei pesanti cannoni nava­ li. Quando i combattimenti cessarono, sei divisioni erano trincerate nella testa di ponte (scomoda per i tedeschi come minaccia alle loro spalle, ma forse più scomoda per gli alleati che dovevano mantenerla e rifornirla sen­ za un vero porto) e la linea Gustav era appena stata intaccata. In questo contesto si inserisce la distruzione dell’abbazia di Montecassino. Con una sensibilità rara da parte loro, i tedeschi ne avevano posto in salvo i monaci e i preziosi archivi e non vi avevano dislocato truppe, pur presidiandone i dintorni. Per gli attaccanti, l’abbazia in vetta alle monta­ gne su cui si dissanguavano assumeva un significato di minaccia incombente; 1comandanti alleati perciò ne chiesero e ottennero la distruzione, effettuata

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il 15 febbraio da un massiccio bombardamento aereo e poi completata dall’artiglieria. Un atto di barbarie, privo di significato sul piano militare (anzi vantaggioso per i tedeschi, che a questo punto occuparono le rovine) e ben sfruttato dalla propaganda nazifascista. Il 15 marzo gli alleati tornarono all’attacco direttamente su Cassino, su cui furono scaricate mille tonnellate di bombe e centonovantamila granate d’artiglieria senza riuscire a distruggere le posizioni fortificate dei paraca­ dutisti tedeschi, mentre la battaglia tornava a infuriare sulle montagne. Poi la stanchezza delle truppe impose una sosta. Il fatto era che, sebbene da en­ trambe le parti fossero schierate centinaia di migliaia di uomini, la parte più dura della battaglia e la quasi totalità delle perdite gravavano sui battaglio­ ni di fanteria, circa 3500 uomini sui 15 000/18 000 delle divisioni angloa­ mericane, 2000/2500 sui 10 000/12 000 uomini delle divisioni tedesche (quando erano al completo, cosa abbastanza rara). Una divisione alleata che aveva perso 2500 uomini in combattimento o per malattia, un settimo della sua forza, era di fatto inutilizzabile, perché i suoi battaglioni di fan­ teria erano decimati (e gli artiglieri, gli autisti o gli addetti ai servizi non potevano sostituire i fanti). E per la fanteria il fronte di Cassino era un in­ ferno: fango e paludi in basso e nude rocce in alto, pioggia, freddo e mine dovunque, rifornimenti difficili, un fuoco d’artiglieria terrificante (e per i tedeschi anche l’intervento dell’aviazione). I reparti si logoravano prima ancora di andare all’attacco. La superiorità complessiva degli angloamericani non era poi cosi mar­ cata per la fanteria (nel migliore dei casi, dovevano attaccare due contro uno, anziché cinque contro uno come raccomandavano i manuali). L’avia­ zione poteva intervenire soltanto nei giorni di bel tempo, i carri armati era­ no bloccati dal terreno; l’artiglieria tedesca aveva meno munizioni, ma mi­ gliori osservatori per dirigere il tiro. Inoltre gli ufficiali statunitensi tende­ vano a compensare il loro minore addestramento con una notevole durezza verso i loro soldati, mentre inglesi, polacchi, indiani e neozelandesi aveva­ no ormai difficoltà a rimpiazzare le perdite. Una parte crescente dei solda­ ti tedeschi erano giovani reclute, ma sottufficiali e ufficiali avevano gran­ de esperienza e ascendente; e a tutti i livelli si distinguevano per capacità di iniziativa ed elasticità dinanzi ai continui imprevisti della battaglia, men­ tre gli angloamericani erano troppo rigidi e legati ai piani prestabiliti (e non pochi comandanti si rivelarono non all’altezza delle loro responsabilità, spe­ cialmente tra gli americani). La nuova battaglia di Cassino fu preparata con cura. Le forze alleate erano salite a trenta divisioni (il massimo di tutta la campagna, mentre i te­ deschi ne avevano ventidue di minore consistenza), quasi tutte sul fronte tirrenico, dove vennero affiancate la V e l’VIII armata. Fu quest’ultima a sferrare un pesante attacco nella zona di Cassino l’i 1 maggio, incontrando la solita tenace resistenza tedesca. Lo sfondamento venne dove non era at­ teso, nel settore dei monti Aurunci (tra Cassino e il mare) che fino a quel momento non era stato attaccato perché intransitabile per automezzi e car­

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ri armati. Le quattro divisioni francesi, composte in gran parte da tunisini, algerini e marocchini, impiegarono tre giorni a superare la linea tedesca con forti perdite, poi avanzarono senza sosta attraverso le montagne, fino a sboccare il 2r alle spalle dello schieramento nemico. La X armata tedesca, esaurite le riserve, dovette abbandonare Cassino per evitare di essere chiu­ sa in trappola. Nel frattempo anche le divisioni di Anzio erano passate all’of­ fensiva. Clark fu criticato perché, invece di sbarrare la strada ai tedeschi in ritirata, si preoccupò soprattutto di arrivare per primo a Roma. Buona par­ te delle truppe di Kesselring riuscì così a mettersi in salvo, mentre gli ame­ ricani entravano a Roma il 4 giugno, appena in tempo perché due giorni do­ po lo sbarco in Normandia avrebbe monopolizzato l’attenzione dei mass me­ dia e dell’opinione pubblica. N ell’ultima battaglia gli alleati avevano perso quarantaduemila uomini, i tedeschi quasi altrettanti contando i prigionieri. Si può discutere il ruolo che il fronte di Cassino ebbe nella guerra mondiale (le cui sorti si decisero altrove, in Russia e poi in Francia), ma per tutti coloro che vi combattero­ no, tedeschi, statunitensi, inglesi, indiani, neozelandesi, polacchi, francesi e nordafricani, Cassino rimase un ricordo incancellabile di sacrificio, sof­ ferenza e onore, un’epopea ancor oggi non dimenticata. ha continuazione della campagna. Ancor prima della liberazione di Ro­ ma governi e alti comandi angloamericani avevano iniziato a discutere vi­ vacemente su come continuare le operazioni in Italia. La priorità della gran­ de offensiva in Normandia (che in giugno e luglio registrò progressi lenti e costosi) non era ovviamente in discussione. Roosevelt e gran parte dei co­ mandi statunitensi chiedevano di appoggiare questa offensiva con uno sbar­ co nella Francia meridionale, che attirasse le riserve tedesche e aprisse un nuovo fronte rifornito attraverso Marsiglia. Poiché il grosso delle truppe, degli aerei e dei mezzi per questo sbarco doveva essere prelevato sulle for­ ze in Italia, la spinta offensiva a nord di Roma sarebbe stata fortemente ri­ dimensionata. Churchill e gran parte dei comandi britannici insistevano in­ vece sulla necessità di continuare le operazioni in Italia con energia, in mo­ do da arrivare al Po in autunno e poi avanzare su Trieste, Lubiana e Vienna. Più che la liberazione dell’Italia settentrionale (da cui pure la Germania traeva un forte apporto in prodotti industriali e agricoli), a Churchill inte­ ressava anticipare le armate sovietiche nella marcia su Vienna, per conser­ vare un peso nell’assetto postbellico dell’Europa sudorientale. Trieste e Vienna erano però obiettivi lontani e aleatori, mentre la bat­ taglia di Francia era ancora indecisa. All’inizio di luglio fu quindi stabilito che lo sbarco in Provenza avrebbe avuto luogo il 15 agosto con tre divisio­ ni americane e quattro francesi provenienti dall’Italia. In realtà quando lo sbarco fu effettuato il fronte tedesco in Normandia era già crollato e quin­ di gli alleati poterono progredire con facilità, raggiungendo Digione in me­ no di un mese. Non cercarono invece di forzare le Alpi, ma si limitarono a raggiungere e presidiare la frontiera italofrancese.

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Proprio mentre il suo ruolo strategico veniva ridimensionato, la cam­ pagna d’Italia dimostrava la sua capacità di attirare riserve tedesche. La Germania non poteva rinunciare all’Italia settentrionale, quindi Kesselring ricevette nell’estate otto nuove divisioni (non poche considerando il terri­ bile logoramento delle armate naziste in Russia e in Francia) e i mezzi per riportare in efficienza le sue unità semidistrutte tra Cassino e Roma. Mal­ grado il terreno permettesse l’impiego delle unità corazzate, gli alleati non riuscirono in giugno a condurre un inseguimento risolutivo; poi la resisten­ za tedesca si irrigidì. Come al solito Hitler ordinava di difendere a oltranza ogni palmo di terreno; più realisticamente i suoi generali si limitarono a gua­ dagnare tempo con una costosa ma efficace difesa elastica, per permettere l’approntamento della linea Gotica e attendere la pioggia e la neve. Siena fu raggiunta dalle truppe alleate il 3 luglio, Arezzo il 15, Livorno il 19, Fi­ renze il 4 agosto. Sul versante adriatico i combattimenti furono minori; An­ cona fu liberata il 18 luglio, poi l’avanzata proseguì fino al fiume Metauro. Gli attacchi dei partigiani disturbarono notevolmente la ritirata delle truppe tedesche che reagirono colpendo soprattutto la popolazione, con una serie di eccidi in Toscana e poi altri di maggiore entità freddamente effet­ tuati a ridosso della linea Gotica. Riuscirono così a garantire una relativa sicurezza nella zona di operazioni, ma non ad arrestare gli attacchi nelle lo­ ro retrovie. La linea Gotica. Dalla fine di agosto 1944 all’aprile 1945 la campagna d’Italia si svolse soprattutto sulla linea Gotica, il sistema di fortificazioni tracciato dai tedeschi all’incirca tra Pisa e Rimini, appoggiato agli Appen­ nini per gran parte dei suoi 340 chilometri. Soltanto l’ultimo tratto a est era pianeggiante, ma fitto di fiumi, canali e paludi che nel piovoso autun­ no ostacolavano i movimenti dei carri armati. I lavori difensivi erano stati condotti in gran fretta nell’estate, ma non erano terminati. Si contavano 2400 postazioni per mitragliatrici e 480 per l’artiglieria, 120 chilometri di reticolati e nel settore est una serie di fossati anticarro; le torrette di pan­ zer interrate e i bunker in cemento armato erano però relativamente pochi. Il maggior elemento di forza della linea Gotica veniva dalla geografia: mon­ tagne aspre, una breve pianura inzuppata d’acqua, dai primi di settembre pioggia e fango, poi neve e gelo. Nell’autunno-inverno 1944-45 i tedeschi avevano sul fronte italiano cir­ ca cinquecentomila soldati, gli alleati seicentomila. Il grosso di queste trup­ pe era impegnato nelle retrovie; sulla linea Gotica si fronteggiavano in me­ dia una ventina di divisioni alleate e venti/ventiquattro tedesche. Queste ultime erano più piccole, sempre a corto di uomini e mezzi, in maggioran­ za fanteria appiedata di efficienza variabile (dagli eccellenti paracadutisti ai mediocri reparti reclutati in Europa orientale, con piccoli nuclei di fa­ scisti italiani frazionati tra le unità tedesche), con quattro/cinque divisioni mobili Panzer e Panzergrenadieren continuamente spostate per tamponare le falle. Le divisioni alleate erano più grosse e meglio provviste, ma etero­

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genee: statunitensi, britannici, canadesi, polacchi, indiani, neozelandesi, sudafricani, brasiliani, anche una brigata greca e una ebraica, poi i gruppi di combattimento dell’esercito italiano e formazioni partigiane. Nel corso dell’inverno l’alto comando angloamericano per il Mediterra­ neo passò da Wilson ad Alexander, il comando delle armate in Italia da Alexander a Clark, la V armata americana (sull’Appennino toscano) da Clark a Lucian K. Truscott, 1’VIII armata britannica (in Romagna) da Leese a Ri­ chard L. McCreery. Dalla parte tedesca Kesselring lasciò l’alto comando a von Vietinghoff prima per tre mesi per un incidente, poi definitivamente, poiché il 9 marzo Hitler lo pose a capo di tutte le sue forze in Occidente. La X armata (parte orientale del fronte) passò da Vietinghoff a Traugott Herr, la XIV armata (a ovest) da Joachim Lemelsen a Zigler, poi a Frido von Senger und Etterlin. Gli alleati avevano una superiorità aerea assoluta, tanto che ogni volta che attaccavano avevano il vantaggio della sorpresa, perché i tedeschi non avevano più una ricognizione. Tuttavia l’impiego dell’aviazione contro le linee tedesche venne limitato dal maltempo e dal terreno montuoso; e mal­ grado la distruzione di tutti i ponti sul Po, i rifornimenti tedeschi conti­ nuarono a passare di notte su traghetti e ponti sotto il pelo dell’acqua. An­ che la superiorità alleata in carri armati non era decisiva. Ciò che contava sulla linea Gotica, come già a Cassino, erano la fanteria e l’artiglieria, do­ ve il rapporto tra alleati e tedeschi era all’incirca di due a uno (con un cal­ colo approssimativo, settantamila fanti contro quarantamila in settembre). In Francia gli alleati godevano di una superiorità molto più alta. Lo sfondamento della linea Gotica fu affidato all’VIII armata, tornata sul versante adriatico che era considerato più favorevole perché pianeg­ giante. Il 25 agosto 1944 polacchi e canadesi traversarono il Metauro con successi iniziali relativamente facili, presto bloccati dall’accorrere delle ri­ serve tedesche. Un grosso attacco di carri fu spezzato, poi cominciarono piogge di una violenza insolita per il mese di settembre. L’VIII armata con­ tinuò ad avanzare faticosamente, il 21 settembre raggiunse Rimini e il fiu­ me Marecchia, affacciandosi alla pianura romagnola; ma aveva perso cin­ quecento carri armati e quattordicimila uomini. I tedeschi avevano avuto perdite maggiori, ma il loro fronte aveva retto. Nel frattempo la V armata aveva raggiunto l’Appennino e a metà set­ tembre aveva attaccato i valichi tra Firenze e Bologna. Le posizioni della linea Gotica furono superate a prezzo di molto sangue, ma i tedeschi si ag­ grapparono al terreno retrostante. A fine ottobre le esauste divisioni di Clark si arrestarono a trenta chilometri in linea d ’aria da Bologna. Con un noto messaggio trasmesso per radio il 13 novembre Alexander annunciò che le grandi operazioni erano terminate. In realtà l’VIII armata aveva ripreso a progredire lentamente: il 9 novembre raggiunse Forlì, il 4 dicembre Ra­ venna, il 16 Faenza. A fine anno si arrestò sul piccolo fiume Senio. In questi mesi la parte occidentale della linea Gotica era rimasta tran­ quilla, tanto che i tedeschi vi inserirono alcuni battaglioni delle divisioni

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fasciste, su cui facevano poco affidamento. Il 26-27 dicembre cinque bat­ taglioni tedeschi sferrarono un attacco nella zona di Barga, trascinando al­ cuni reparti italiani; dopo un brillante successo iniziale furono costretti a tornare sulle posizioni di partenza. Le condizioni atmosferiche eccezionalmente sfavorevoli furono proba­ bilmente la causa principale del mancato sfondamento della linea Gotica, perché limitarono l’azione dell’aviazione e dei carri armati. Influì anche la ripetuta sottrazione di buone divisioni per l’occupazione della Grecia e per l’ulteriore rinforzo del fronte francese. Le cause immediate furono la crisi del munizionamento d’artiglieria a fine anno e soprattutto le insopportabi­ li perdite della fanteria. Per esempio, in venti giorni di dicembre il corpo canadese perse 2800 uomini, che possono sembrare pochi in rapporto alla sua forza totale ma che erano circa la metà della sua fanteria. Non sorprende quindi se il numero dei canadesi che rifiutavano di continuare a combatte­ re andasse aumentando. Dopo cinque anni di guerra i comandi britannici e dei Dominions facevano il possibile per risparmiare i loro uomini, anche perché era sempre più difficile sostituirli; ma per quanto potente fosse il bombardamento di aerei e cannoni, alla fine erano i mal ridotti battaglioni di fanteria che dovevano tornare all’attac co. E significativa l’importanza che vennero assumendo le unità partigiane che affiancavano gli alleati sul­ la linea Gotica, poche centinaia di uomini male equipaggiati, ma con un al­ to spirito aggressivo. Sul piano operativo il successo tedesco era incontestabile. Inferiori per uomini e mezzi, senza più aviazione e con le retrovie insidiate dai partigia­ ni, sempre costrette a subire l’iniziativa degli angloamericani, le truppe te­ desche riuscirono a contenere tutti gli sfondamenti cedendo terreno non vi­ tale. I loro soldati erano sempre più giovani, ma addestrati e bene inqua­ drati, capaci di tener testa ai veterani inglesi, canadesi e polacchi, anche se con perdite gravissime. Sul piano strategico, mantenere in efficienza una ventina di divisioni era per la Germania certamente più costoso che per gli alleati attaccare la linea Gotica, se si pensa che alla fine del 1944 i tedeschi avevano sul Reno circa il doppio di forze che in Italia, ma contro novanta divisioni angloamericane. L ’offensiva finale. Da gennaio ad aprile 1945 si verificarono soltanto azioni limitate. I tedeschi disponevano ancora di una ventina di divisioni, ma il loro livello andava calando per il collasso dei rifornimenti e la scar­ sezza di uomini. All’inizio della primavera la ventina di divisioni alleate era­ no invece in buona efficienza; clima e terreno garantivano l’impiego in mas­ sa dei carri armati. Inoltre l’aviazione alleata era pronta a gettare nella bat­ taglia tutti i suoi quattromila aerei, anche i grossi quadrimotori, rinunciando a proseguire i bombardamenti sulla Germania. L’VIII armata attaccò il 9 aprile lungo la via Emilia in direzione di Bo­ logna e più a nord verso Argenta, con due gruppi di combattimento dell’eser­ cito italiano e largo appoggio di partigiani. La V armata si mosse il 14 apri­

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le dalle posizioni appenniniche mirando ad aggirare Bologna da ovest. La re­ sistenza tedesca fu accanita per i primi giorni, poi crollò. Il 21 aprile le trup­ pe alleate entrarono in Bologna con i partigiani; il giorno prima von Vieting­ hoff aveva ordinato la ritirata generale sul Po, contro gli ultimi ordini di Hitler. Era troppo tardi, il 23 aprile la V e l’VIII armata chiusero il cerchio intorno al grosso delle forze tedesche. Nei giorni seguenti le forze alleate di­ lagarono in tutta l’Italia settentrionale, mentre le truppe tedesche prima di arrendersi compivano un’ultima serie di massacri di civili. I partigiani si bat­ terono per entrare nelle città prima degli angloamericani; il 25 aprile diven­ ne poi il giorno simbolico della liberazione. In realtà la resa delle truppe te­ desche in Italia fu firmata il 29 aprile, ma i combattimenti si protrassero fi­ no al 2 maggio. Mussolini venne fucilato dai partigiani il 28 aprile, Hitler si suicidò il 30. La guerra in Europa si concluse l’8 maggio 1945. Nel quadro della seconda guerra mondiale la campagna d’Italia ebbe cer­ tamente un ruolo secondario. Le sue motivazioni strategiche essenziali era­ no già raggiunte alla fine dell’estate 1943 con la resa dell’Italia, l’apertura del Mediterraneo al traffico mercantile, la conquista degli aeroporti di Pu­ glia. Dopo di che il compito affidato alle truppe angloamericane fu sostan­ zialmente di impegnare e consumare forze tedesche, come consentiva l’ab­ bondanza di risorse degli alleati. La liberazione dell’Italia e le sorti della sua popolazione non avevano rilievo nei piani degli angloamericani, anche se è giusto riconoscere che gli aiuti americani salvarono le regioni centromeri­ dionali dalla fame e che la fiducia nell’arrivo degli alleati incoraggiò la cre­ scita della resistenza italiana. Nel suo rapporto finale sulla campagna il generale Alexander scrisse che le perdite alleate complessive ammontavano a 312000 uomini contro 536 000 tedeschi. Il totale delle perdite alleate sembra attendibile, ma non è possibile scomporlo in morti, prigionieri, feriti e malati ricuperabili o in­ validi. Le perdite tedesche includono il grosso dei prigionieri dell’aprile 1945; senza costoro, dovrebbero essere più o meno pari a quelle degli al­ leati. In termini puramente militari, il logoramento inflitto a una Germa­ nia ormai alle corde era stato effettivo. Si può naturalmente discutere se il prezzo pagato dagli alleati fosse accettabile. Ai caduti degli eserciti con­ trapposti bisogna comunque aggiungere circa diecimila civili massacrati dai tedeschi e circa quarantamila vittime dei bombardamenti aerei angloame­ ricani, per fermarci alle perdite direttamente riconducibili alle operazioni (gli italiani caduti per causa bellica dall’8 settembre 1943 al 1945 furono oltre 215 000). Nota bibliografica. La bibliografia di parte alleata sulla campagna d ’Italia è sterminata. Tutti gli eserciti coin­ volti hanno pubblicato relazioni ufficiali, studi e memorie, ma bisognerebbe tener conto di un arco assai più ampio di lavori. Ci limitiamo a segnalare le storie generali della campagna

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tradotte in italiano: D . Graham e S. Bidwell, La battaglia d ’Italia. 1943-1945 (1986), Rizzo­ li, Milano 1989; W . G. F. Jackson, La battaglia d ’Italia (1967), Baldini & Castoldi, Milano 1970; E. Morris, La guerra inutile. La campagna d ’Italia. 1943-1945 (1993), trad. it. di R. Rambelli, Longanesi, Milano 1995; G. A. Shepperd, La campagna d ’Italia. 1943-1945 (1968), Garzanti, Milano 1970. I due volumi migliori sono quelli di Shepperd (il più ricco e organi­ co) e di Graham-Bidwell. Il volume di Morris si segnala per un atteggiamento critico talvol­ ta eccessivo e per la superficialità e gli errori con cui tratta i partigiani. La produzione tedesca è più scarsa, e scarsissima quella tradotta in italiano, in sostanza edizioni ridotte delle memorie dei generali Albert Kesselring e Frido von Senger und Etterlin. Una felice eccezione sono gli studi di Gerhard Schreiber, a cominciare da La linea gotica nel­ la strategia tedesca, in G. Rochat, E. Santarelli e P. Sorcinelli (a cura di), Lìnea gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani, A tti del Convegno di Pesaro (27-29 settembre 1984), Insmli, Angeli, Milano 1986, pp. 25-67. Altri studi di Schreiber sono apparsi in riviste e atti di con­ vegni, come anticipazione di una sua storia generale della campagna dalla parte tedesca. La produzione italiana è ricca di contributi settoriali su singoli aspetti della campagna (dagli eccidi tedeschi alle azioni dei partigiani), quanto povera di studi specifici sulle opera­ zioni. Rinviamo soltanto al già citato volume G. Rochat, E. Santarelli e P. Sorcinelli (a cu­ ra di), Lìnea gotica 1944. Eserciti,popolazioni,partigiani.

NICO LA LABA NCA

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Le Forze armate italiane dopo l ’8 settembre. Fra il settembre 1943 e l’apri­ le 1945 alcune centinaia di migliaia di italiani operarono in reparti militari regolari del Regno del Sud, a fianco delle truppe anglostatunitensi. Una par­ te di loro combattè in prima persona per la liberazione della penisola. Sol­ dati, marinai, avieri presero così parte alla campagna d’Italia, nelle acque del Mediterraneo, nei cieli dei Balcani. Seppure subordinato e assai infe­ riore dal punto di vista quantitativo rispetto a quello delle armate angloa­ mericane, il loro fu un contributo politicamente e talora anche militarmente importante ai fini della liberazione della penisola. La valutazione politica e poi storiografica di quell’apporto è stata diversificata. La repubblica ha teso in genere a enfatizzarlo. Le Forze armate hanno cercato in quella fase storica l’estrinsecazione di una definitiva pre­ sa di distanza dal fascismo, per il quale pure avevano combattuto sino al lu­ glio 1943. Quell’apporto legittimava l’atto di nascita di un esercito diverso, anche se questo avrebbe assunto caratteri più definiti solo verso il 1948. Gli storici invece vi hanno letto sempre più la subordinazione della «cobellige­ ranza» del Regno del Sud rispetto agli alleati. In particolare già vent’anni fa Giorgio Rochat aveva ammonito a non «dimenticare o sottovalutare la crisi profonda che travolse le forze armate italiane» nel 1943-45, sugge­ rendo di ricercare gli «elementi di continuità e di rottura con le istituzioni militari dell’Italia fascista e poi dell’Italia repubblicana» [Rochat 1978]. Ciò non significa sottovalutare il tratto della discontinuità, nella stessa prospettiva della storia interna delle strutture militari e del rapporto fra isti­ tuzioni e società che esse esprimevano. Ché anzi l’esercito - dall’Unità sino ad allora quantitativamente e politicamente uno dei più importanti capi­ saldi dell’assetto statuale nazionale e unitario - fu tra il 1943 e il 1945 ri­ dotto a ruolo e a dimensioni quasi trascurabili (si pensi al ruolo che, dall’Unità, aveva avuto l’esercito come puntello della Corona e come strumen­ to a garanzia dell’ordine pubblico), nonché assoggettato a duro controllo straniero. Si trattava però di una discontinuità tanto forte quanto subita, causata dal peso dell’eccezionale duplice sconfitta (nella guerra fascista e all’8 settembre) più che da una qualche autonoma volontà di rompere con il passato. Peraltro proprio le vicende di quei difficili mesi - anche se in ambiti po­

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co ricordati dalle rituali celebrazioni o dalla storiografia più tradizionale rivelarono ancora una volta la forza propria e peculiare delle istituzioni mi­ litari nazionali. Si pensi alla capacità con cui le Forze armate tennero e man­ tennero alle armi quelle centinaia di migliaia di italiani, in un momento in cui gran parte dello stato nazionale subiva al Sud un indebolimento o una sospensione. O si pensi al tentativo (avversato da più parti, dal movimento della resistenza a quello del «tutti a c asa») e per certi versi alla capacità - in un momento in cui la radicalità della Resistenza era capace di rimettere in di­ scussione le sorti del paese - di restaurare più antichi valori e prassi di sot­ tomissione alle istituzioni dello stato: uno stato certo lambito, investito, an­ che intaccato dalle novità e dalla radicale contestazione di quegli anni (si pensi, nel nostro ambito, all’esperienza dei partigiani irregolari immessi nel­ le file regolari dei Gruppi di combattimento del 1944-45) ma a esse tutto sommato sopravvissuto, in un’ottica appunto di trasformazione ma soprat­ tutto di continuità. E proprio su tale continuità che si dovrà riflettere in se­ de di giudizio finale non solo dell’apporto dei reparti regolari del Regno del Sud alla guerra di liberazione ma del rapporto fra questi e la Resistenza. All’indomani dell’armistizio e nei mesi successivi il Regno del Sud po­ teva mettere in campo forse seicentomila uomini delle sue diverse forze ar­ mate. Il crollo numerico rispetto al passato ancora vicino della guerra fa­ scista era notevole. Il solo esercito dell’Italia fascista contava, alla primavera 1943, grosso modo su 3 500 000 uomini (di cui almeno mezzo milione di reclute appena chiamate afle armi) e 150 000 ufficiali: fra tutti 2 000 000 in patria, 650 000 nei Balcani, forse 200 000 tra Francia e Corsica (a essi si aggiungevano più di 600 000, prigionieri, in mano degli anglostatunitensi e dei sovietici). Nei giorni convulsi successivi all’8 settembre, l’esercito tedesco ne avrebbe di­ sarmato forse un milione, incamerandone direttamente una quota, perden­ done il controllo di forse duecentomila e deportandone - come «internati militari italiani» - il resto. Fra gli altri chi potè, e volle, andò a casa: degli “sbandati” solo una piccola parte fu recuperata e, anche nel corso dei me­ si, riportata (ma rimasta?) ai reparti. Di queste truppe i comandi militari italiani non avevano piena e imme­ diata disponibilità, per ragioni tanto geografiche quanto diplomatico-mili­ tari. All’indomani dell’8 settembre la maggior parte di esse era dislocata nelle isole (e si tenga presente che sino al febbraio 1944 la potestà statuale del Regno si esercitava sulla Puglia meridionale e sulla Sardegna, c ui solo nel febbraio 1944 furono aggiunte la Sicilia, la Calabria, la Lucania e la Campania sino a Salerno, completate nell’estate sino a Roma). Inoltre gli al­ leati controllavano da presso la ricostituzione dei reparti militari grazie alle clausole armistiziali (che lasciavano a essi la facoltà di determinare il nu­ mero e la consistenza delle unità militari italiane, e non solo di quelle com­ battenti) e alla concreta offerta di mezzi militari, logistici e alimentari a un’Italia prima nemica e sconfitta e ora «cobelligerante». E agli alleati ser­ viva una sicura manovalanza più che truppe combattenti senza munizioni

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e di cui, battute nella guerra fascista e poi all’8 settembre disarmate dai te­ deschi o dispersesi, al fondo si fidavano poco. Il generale Ber ardi, capo di stato maggiore dell’esercito, scrisse più tardi nelle proprie memorie di aver dovuto assistere impotente alla riduzione dell’esercito italiano del Sud «al livello di un esercito di colore». La marina e l ’aeronautica. Una situazione solo in parte analoga era quel­ la della marina militare. Essa era stata il pegno militare forse più inaspettato ma anche il più rilevante fra quelli ottenuti dagli alleati con P8 settembre: per dare un’idea del pregio di quel pegno si ricorderà che erano allora presenti 6800 ufficiali di marina, per un terzo in servizio permanente effettivo (e nel complesso un terzo di quelli in servizio all’armistizio), e 76 000 marinai (me­ no della metà imbarcati, gli altri a terra, una parte con destinazioni di carat­ tere bellico, la maggior parte addetti ai servizi). Soprattutto, oltre agli uomini, erano passate in mano anglostatunitense circa 260 000 tonnellate di naviglio militare, delle 400 000 (di cui però un terzo per unità non pronte all’impie­ go) che costituivano la marina militare italiana alla data dell’armistizio (le re­ stanti erano rimaste ai tedeschi o, in prevalenza, si erano autoaffondate o per­ dute in combattimento). Navi e uomini furono impiegati in missioni diverse: da quelle più propriamente di guerra o comunque speciali alle attività anti­ sommergibile, da quelle di dragaggio e di scorta convogli a quelle di traspor­ to e di addestramento, soprattutto nel Mediterraneo e in Adriatico, ma an­ che nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano. Ma il guadagno maggiore, per par­ te degli alleati, consistette forse non tanto in quest’apporto effettivamente operativo e attivo, quanto nella certezza di aver eliminato un potenziale fa­ stidioso avversario in quel Mediterraneo che, pur declassato a scacchiere non prioritario dopo lo sbarco in Normandia, aveva comunque una sua impor­ tanza per Londra come per Washington. Come accadde anche per le altre Forze armate italiane, non sempre i massimi comandi del Sud colsero con prontezza, dopo l’8 settembre, l’en­ tità del crollo del ruolo della marina. L’allora capo di stato maggiore so­ gnava di allestire reparti molto più grandi e operativi di quanto era effetti­ vamente in suo potere e di quanto gli alleati erano disposti a concedere. Non è forse senza significato che, ancora un paio di anni dopo la fine del­ la guerra, nel ringraziare l’omologo della marina italiana, il capo di stato maggiore della marina statunitense ricordava «i servizi resi [dalla marina militare del Regno del Sud] alle forze operanti alleate sia a terra che a bor­ do» (e qui l’ordine di precedenza è importante). E anche recentemente si è messa in evidenza la «modesta ma preziosa opera di appoggio delle opera­ zioni terrestri svolte dalle navi e la altrettanto modesta opera svolta a ter­ ra dall’organizzazione tecnico-logistica della Marina militare». Contenuto fu anche l’apporto che alla guerra alleata venne dal passag­ gio al Sud di una parte dell’aeronautica italiana. Della forte arma aerea per cui si erano battuti Balbo e Douhet (più di 3700 velivoli al giugno 1940, cui si erano aggiunti quasi 6600 nel corso della guerra) erano rimasti alla vigi­

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lia dell’8 settembre poco più di 2000 aerei, di cui efficienti forse 800 (com­ presi quelli delle aviazioni leggere dell’esercito e della marina), divisi fra caccia, trasporto e bombardamento, e idrovolanti; cospicuo il personale, circa 180 000 uomini. A metà settembre 1943 erano rimasti o erano ripa­ rati nei territori controllati dal Regno del Sud poco più di 200 velivoli, la metà dei quali in efficienza; a fine dicembre erano 278, di cui 194 pronti al volo. In un quadro così poco esaltante il fatto più significativo, e che è stato considerato uno dei primi segni formali da parte alleata di voler dav­ vero implementare la cobelligeranza italiana, fu la consegna all’aeronauti­ ca del Sud di un certo numero di velivoli inglesi e statunitensi che, per quan­ to non aggiornatissimi, furono assai bene accolti dagli italiani. Fu così pos­ sibile per l’arma azzurra contare alla fine delle ostilità quasi 450 velivoli, di cui però solo 236 in efficienza, e 31 000 uomini, di cui 7000 alle dipendenze esclusive dei comandi alleati e 9000 inquadrati in battaglioni a terra addetti a compiti di mera manovalanza. Lo scacchiere in cui quest’aeronautica fu più impiegata fu quello dei Bal­ cani, dove - preso il volo dalle basi pugliesi - i velivoli operarono in sup­ porto di reparti partigiani e regolari iugoslavi, alleati e italiani. Gli alleati tennero infatti a non impiegare l’aeronautica italiana sul cielo della peni­ sola, dove d’altronde - vista la debolezza della Luftwaffe - erano più che sufficienti i mezzi da caccia e soprattutto da bombardamento anglostatu­ nitensi. Il tipo di attività svolta dalle forze aeree del Sud risulta evidente anche dalle statistiche ufficiali, che parlano per il 1943-45 di circa undici­ mila voli con ventiquattromila ore di volo a carattere più o meno bellico, ma anche oltre dodicimila ore di volo a carattere non direttamente bellico (logistico, trasporto ecc.). In conclusione per marina e aeronautica da un punto di vista storico (le medaglie e i riconoscimenti post factum elargite dalla repubblica sono altra cosa) non è infondato sostenere che - in parte forzatamente per il carattere di queste forze armate in parte per le scelte generali dei comandi alleati - il loro apporto alla guerra di liberazione fu logistico non meno che combat­ tente. (Altra cosa, è ovvio, fu l’attività di organizzazione di piccoli reparti che operarono sulla linea del fronte o in missioni speciali, al di là delle linee stesse, in diretta collaborazione con nuclei di partigianato; e altra cosa an­ cora, per quanto le istituzioni cercarono poi di appropriarsene il merito, fu­ rono le scelte individuali di ufficiali o soldati, di marinai o avieri, che, indivi­ dualmente, trovandosi in territorio occupato, decisero di far parte del mo­ vimento di resistenza e salirono in montagna. In questi casi il rapporto fu diretto, ma le istituzioni militari in quanto tali vi ebbero poca influenza). La crisi dell’esercito. Analogamente potrebbe dirsi per l’attività di altri corpi militari, che qui è possibile poco più che menzionare, come carabi­ nieri e Guardia di finanza (al marzo 1944, solo per avere un’idea della con­ sistenza, rispettivamente più di ventitremila e settemila uomini nel Regno del Sud). Essi operarono nel 1943-45 nelle retrovie ma - come istituzione -

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all’interno dei normali compiti d’istituto e di mantenimento dell’ordine pubblico. In buona parte diverso è invece il discorso per l’esercito. È qui possibi­ le essere più analitici sia per la maggiore rilevanza storica sia per la mag­ giore - per quanto ancora niente affatto definitiva - disponibilità di studi e documentazione. Il caso dell’esercito del Regno del Sud è infatti esem­ plare della crisi che attraversò in quegli anni le Forze armate, della subor­ dinazione dell’Italia del Sud rispetto agli alleati, dei fermenti rinnovatori ma anche della continuità di uomini e idee rispetto al passato. Della quantità di uomini recuperati si è già detto. Si trattava di unità in gran parte demoralizzate, scarsamente armate, spesso frutto di amalgama di più reparti discioltisi. Come e ancor più che per le altre forze armate agli alleati premeva farne soprattutto unità logistiche, mentre i comandi italia­ ni premevano perché almeno un’aliquota fosse dichiarata combattente (e armata come tale, vista la grande penuria di mezzi al Sud, dagli stessi al­ leati). Si trattava di uomini anche difficilmente radunabili se, ancora al gen­ naio 1944, dei circa 360 000 disponibili (di cui 20 000 ufficiali) tuttora la metà si trovava in Sardegna. Nonostante questo le priorità degli alleati era­ no chiare: se alla fine del 1943 le truppe italiane ausiliarie erano 95 000, al­ la fine del 1944 erano salite a 164 000 e allo scadere delle ostilità a 195 000. A tale prevalente quantità andrebbe aggiunta un’aliquota, assai notevole in rapporto al totale residuo dei militari italiani, che fu impiegata in compiti amministrativi e a tutela dell’ordine pubblico. Si parla di circa 150 000 uo­ mini all’aprile 1945. C’era in questo la volontà alleata di limitare la rico­ stituzione e di non armare più di un certo numero di reparti combattenti italiani. Ma è difficile non leggere in queste cifre anche la rinnovata espres­ sione di una lunga tradizione militare italiana, portata a sopravvalutare in tempo di guerra - per ragioni tanto politiche quanto di conservatorismo professionale - la quota di uomini lasciata, a presidio, in patria. I militari italiani effettivamente combattenti furono quindi un’aliquota minoritaria del totale del contingente disponibile. Essi furono inquadrati in unità diverse nei nomi e nelle funzioni. Alla fine del settembre 1943, in pre­ visione della dichiarazione di guerra alla Germania, gli alleati non autoriz­ zarono che la costituzione di un I raggruppamento motorizzato, della forza nominale di cinquemila uomini. Tale consistenza fu poi portata, con qual­ che forzatura e stratagemma da parte degli alti comandi italiani, a novemila. Il raggruppamento conobbe un battesimo del fuoco, invero non fortuna­ to, e poi un più meditato impiego nel dicembre, fra Montelungo e Monte Marrone, non lontani da Cassino. Il numero delle perdite, lo stato di de­ moralizzazione delle truppe e degli ufficiali, la penuria di mezzi convinsero il comandante a richiedere agli alleati di ritirare il reparto dalla prima linea: cosa che questi fecero, mentre i comandi italiani provvedevano a sostituire l’alto ufficiale. Al più tardi alla fine del marzo 1944 il raggruppamento mo­ torizzato fu comunque sciolto e nacque il Corpo italiano di liberazione (Cil), con forza autorizzata di venticinquemila uomini e con la perdita del carat­

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tere della motorizzazione, non facile da mantenere per un Regno del Sud co­ si povero in termini di mezzi, di risorse, di combustibile ecc. Il Cil fu fatto operare, con maggior successo ma anche in teatri e in combattimenti che non previdero più l’impiego a massa, sul versante adriatico della campagna d’Ita­ lia: da Lanciano a Chieti all’Aquila, per poi convergere su Teramo e da lì verso Macerata, Filottrano, Jesi e Urbino. Solo alla fine del luglio 1944 - do­ po la liberazione di Roma e nel quadro di una campagna d’Italia ormai chia­ ramente secondaria rispetto al fronte di Normandia - gli alleati autorizza­ rono la costituzione di sei Gruppi di combattimento (cui fu dato il nome di Cremona, Friuli, Folgore, Legnano, Mantova e Piceno: ma quest’ultimo, per penuria di uomini e di mezzi, fu ridotto poi a centro di addestramento). Ta­ li corpi, in pratica delle divisioni leggere, avrebbero contato fra tutti più di cinquantamila uomini e, soprattutto, sarebbero stati impiegati in prima li­ nea nello sforzo finale della primavera 1945 contro e al di là della linea Go­ tica, nel settore emiliano-romagnolo, da un lato verso Portomaggiore, Codigoro e Venezia, dall’altro verso Imola, Bologna, Modena, Mantova e Vero­ na, in operazioni più marcatamente di movimento e penetrazione. L’importanza politica e diplomatica del fatto che il Regno del Sud schie­ rasse truppe combattenti, anche se all’inizio minuscole, fu in sé notevole e non abbisogna qui di ulteriori sottolineature: gli alti comandi italiani di Brindisi, Salerno e poi Roma potevano sperare di far leva su queste realtà militari per superare le clausole più dure dell’armistizio e dare vita alla di­ plomaticamente maldefinita «cobelligeranza». Ma la questione era dibat­ tuta già al tempo: sarebbero bastati a tutto ciò, sostenevano i più critici, poche migliaia di uomini in divise «lacere» e nemmeno in grigioverde, co­ me si rammaricava lo stesso capo di stato maggiore dell’esercito del tempo ? In ogni caso non è sufficiente a dare un quadro dell’apporto militare ita­ liano alla campagna d’Italia e della sua rilevanza, né ricordare la limitatez­ za dei reparti regolari combattenti rispetto a quelli ausiliari o comunque te­ nuti indietro, né indicare il carattere secondario dei teatri in cui gli alleati decisero che essi fossero impiegati. Assai importante è l’analisi interna del­ la composizione e della vita di questi stessi reparti. La demoralizzazione era diffusa. Soldati e ufficiali, in forme diverse, so­ prattutto nei primissimi mesi dopo l’8 settembre, si chiedevano per chi e perché combattere. La penuria di mezzi e un avaro controllo degli alleati riducevano le possibilità operative. Nonostante che gli alti comandi aves­ sero predisposto che i reparti combattenti fossero formati prevalentemen­ te di uomini provenienti dalle regioni ancora sotto il tallone nazifascista, la demoralizzazione, l’assenza di iniziativa e persino le diserzioni (eufemisti­ camente definite «assenze arbitrarie») costituivano il problema principale e quotidiano degli ufficiali. Forze armate e Resistenza :una coesistenza difficile. Se la situazione mutò, fu prima per condizioni oggettive esterne (il delinearsi, col passare del tem­ po, della guerra di liberazione nazionale; lo sviluppo della lotta politica dal

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primo governo Badoglio alla svolta di Salerno sino al governo Bonomi; la trasformazione delle unità combattenti italiane e il loro effettivo impiego; le m i g l i o r i e nell’approvvigionamento e nell’alimentazione; l’armamento con­ cesso da parte degli alleati ecc.) che per scelte interne dei comandi. Non è inutile ricordare che sempre in quei primi mesi ci fu chi, in reparto o dai supremi comandi, pensò al ripristino dell’antica maniera forte: fucilazioni e persino decimazioni. E presto tornarono a funzionare i Tribunali milita­ ri, a conferma di un’eredità antica nella gestione dei reparti da parte delle istituzioni militari italiane. Detto questo non dovrebbe essere dimenticato che - tutto sommato buona parte dei soldati inseriti in queste formazioni combattenti doveva considerarsi e deve essere oggi considerato come un volontario. Dopo l’8 settembre e in un Regno del Sud che né voleva né poteva combattere a fon­ do l’imboscamento e le diserzioni, il rimanere in linea era comunque una scelta. Una scelta certo diversificata a seconda dei casi, dei soggetti e dei momenti (consapevole impegno, passiva permanenza in ruoli precedenti, speranza che tutto finisse al più presto, garanzia di un - seppur minimo reddito quotidiano, spirito di avventura), ma comunque una scelta. Il clima nelle unità, per quelle condizioni esterne di cui si è detto, co­ minciò a mutare con il Cil e soprattutto, dopo la liberazione della Toscana e delle altre regioni del Centro Italia sotto la linea Gotica, con l’inserimento nei Gruppi di combattimento di reparti (ancorché frazionati) di ex parti­ giani. Nel quadro della nuova atmosfera politica intervenuta nel paese do­ po la liberazione di Roma e mentre venivano apportate le prime migliorie nella vita dei reparti, contraddittoriamente dal basso si cercò di creare quell’amalgama tra forze regolari e forze irregolari, tra soldati e partigiani che era sempre stata nel programma militare delle forze democratiche ita­ liane, dalle lotte risorgimentali in poi. L’istituzione militare faceva resistenza e lo scontro di mentalità non po­ teva essere più radicale fra partigiani discesi dalle montagne e ufficiali mo­ narchici che cercavano di rimettere in sesto un esercito. Gran parte degli ufficiali non comprendeva, come scrisse il capo di stato maggiore dell’eser­ cito del tempo, che fosse «discussa la bandiera, discussa la preghiera per il re, discussi i generali, discussa la disciplina, discussa la diserzione». L’ap­ porto degli ex partigiani fu quindi contrastato più che facilitato e - finita la guerra - essi furono in gran parte allontanati dall’esercito, nel quale pu­ re alcuni avevano espresso intenzione di rimanere, dirottati sulla polizia, e anche qui emarginati. La loro esperienza marcò una soluzione di continuità all’interno dell’istituzione militare e indicò un «contributo di riforma dell’esercito»: ma alla fine dei conti fu un contributo non solo non valo­ rizzato ma proprio trascurato. Il m olo dell’esercito nel Regno del Sud. Di tutte queste contraddizioni del 1943-45 quello che l’istituzione ritenne nell’immediato dopoguerra e poi sempre più negli anni della Guerra fredda - passando così dagH eventi

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alla memoria ufficiale e all’uso pubblico della storia - fu il «continuista» motto dell’esercito che fa il suo dovere, in maniera indifferenziata, sotto ogni regime e bandiera; a questo si affiancò, più tardi, grosso modo a par­ tire dagli anni settanta, nel quadro politico di una trasformazione civile dell’Italia e di una riforma che si pensava radicale delle Forze armate, la ri­ vendicazione di un contributo attivo e consapevole dell’esercito del Regno del Sud e dei suoi soldati alla liberazione dell’Italia, in un’ottica ideologica di concordia tra forze armate regolari e partigianato. Una tale interpreta­ zione fu seriamente messa in discussione, a livello storiografico, solo nella seconda metà degli anni settanta. Da questi studi più recenti, e dalla documentazione prodotta, almeno tre considerazioni conclusive paiono possibili. La prima concerne il Regno del Sud dopo l’armistizio e la sua assai ristretta autonomia diplomatica e politica, persino dopo la dichiarazione di guerra alla Germania. Una seconda considerazione riguarda, anche per conseguenza della prima, la ridotta esten­ sione delle sue forze armate in valori relativi (rispetto al vicino passato del­ la guerra fascista) e assoluti, e quindi la radicalità della crisi di ruolo delle forze armate del Regno del Sud. La terza e ultima considerazione riguarda la comparabilità di un apporto militare italiano cosi ridimensionato e cosi angustamente controllato dagli alleati. In particolare, si è talora avanzato l’accostamento del caso italiano badogliano a quello francese degaullista (un accostamento che coinvolge poi un giudizio sul rapporto fra Regno del Sud e Resistenza). In realtà tale pa­ ragone è affatto improprio. Diversa era la caratura degli uomini (nessun ge­ nerale italiano potè essere paragonato per meriti politici a un De Gaulle o per fama militare a un Ledere); diversa era la considerazione diplomatica di parte alleata, fra un’Italia che era comunque una potenza già avversaria e sconfitta, anche se adesso cobelligerante, e una Francia vittima dell’oc­ cupazione nazifascista; diverso era, infine, l’apporto militare. Se De Gaulle volle e fu autorizzato a creare un complesso militare che alla liberazione del­ la Francia contava assai più di un milione di uomini, in gran parte operati­ vi e combattenti, a Vittorio Emanuele III e ai suoi governanti, da Badoglio a Bonomi, gli alleati concessero la possibilità di armare la metà di uomini e di portarne in prima linea, e solo negli ultimi mesi dello sforzo finale, for­ se sessantamila. La presenza a Berlino fra i vincitori, il 9 maggio 1945, del generale francese De Lattre de Tassigny (e di Ledere de Hauteclocque al­ la firma della capitolazione giapponese il 2 settembre successivo) e la par­ tecipazione di reparti francesi alla stessa liberazione della capitale erano atti nemmeno pensabili nei confronti dei militari del Regno del Sud, i*cui reparti operativi furono anzi simbolicamente tenuti per quanto possibile lontani dall’ingresso in Roma liberata nel giugno 1944. Ciò non vuol dire considerare prive di interesse le vicende italiane o as­ solvere preventivamente la classe dirigente politica e militare del Regno del Sud e annullarne le specifiche responsabilità (come sembra leggersi per certi versi in taluni pur importanti e documentati studi recenti, dall’impostazione

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Gruppo Cremona

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revisionistica, sulla storia diplomatica del Regno del Sud dopo l’8 settembre) ma semplicemente contestualizzare dall’esterno le vicende di cui si è detto. Se a tali limiti esterni si aggiunge infatti la notazione circa la forza del­ la continuità dell’apparato militare rispetto alle sue tradizioni precedenti, nonostante i radicali mutamenti degli anni della Resistenza e i forti tenta­ tivi di riforma tentati già in quei mesi dall’interno (e il pensiero va soprat­ tutto all’immissione di volontari ex partigiani nelle file regolari dei Grup­ pi di combattimento), si avrà una più esatta considerazione del rilievo sto­ rico importante ma ridotto - rispetto a quello decisivo del movimento di resistenza - dell’apporto dello stato monarchico-badogliano ai fini della li­ berazione e delle sorti successive d’Italia. Nota bibliografica. P. Berardi, Memorie di un capo di stato maggiore dell’esercito (1943-1945), Ocpu, Bologna 1954; G. Boatti, Un contributo alla riforma delle forze armate nel 19 44-45 :l’esperienza del grup­ po di combattimento «Cremona», in «Italia contemporanea», n. 122 (1976); G. Conti, I l pri­ mo raggruppamento motorizzato, prefazione di R. D e Felice, Ufficio storico dello stato mag­ giore dell’esercito, Roma 1984; S. E. Crapanzano, I I I raggruppamento m otorizzato italiano (1943-1944). Narrazione, documenti, Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, Roma 1949; G. Fioravanzo, La Marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto, U fficio storico del­ lo stato maggiore della marina militare, Roma 1963 («La Marina italiana nella seconda guerra mondiale», voi. XV); Igruppi di combattimento, Ufficio storico dello stato maggiore dell’eser­ cito, Roma 1950; Il corpo italiano di liberazione, Ufficio storico dello stato maggiore dell’eserci­ to, Roma 1950; Le unità ausiliarie dell’esercito italiano nella guerra di liberazione, U fficio stori­ co dello stato maggiore dell’esercito, Roma 1977; A. Lodi, L ’aeronautica italiana nella guerra di liberazione. 1943-1945, U fficio storico dello stato maggiore dell’aeronautica militare, Ro­ ma 1950; L. Rizzi, L ’esercito italiano nella guerra di liberazione, in «Il movimento di libera­ zione in Italia», n. 135 (1979); G. Rochat, La crisi delle forze armate. 1943-1945, in «Rivista di storia contemporanea», n. 3 (1978), ora in Id ., L ’esercito italiano in pace e in guerra. Studi di storia militare, Rara, Milano 1991 ; Id ., La Resistenza militare nell’eloquenza dei numeri, in « Sto­ ria e memoria», V (1996), n. 2.

FREDIANO SESSI

Gruppo Cremona L a divisio n e C rem ona, un ità d e ll’esercito ita lia n o d i stanza in C orsica, l ’8 se tte m ­ bre d e l 1 9 4 3 , à ’intesa con i l com an do d e lle truppe fra n cesi, che a vevan o c o m in cia to lo sbarco s u ll’isola f in d a l 13 se tte m b re , e la b o rò un p ia n o p e r la c o m p le ta lib e ra zio n e d e ll’isola d a lle truppe tedesche. A lla fin e d i se ttem b re, la divisio n e si trasferì in Sarde­ l l a d o v e rim ase f in o ai p rim i d i settem b re d e l 1 9 4 4 , occu pandosi dei se rv izi d i ordine p u b b lic o , vigilan za, m a n ovala n za, n o n ch é della sua riorgan izzazion e m ilita re. Trasferita sul continente il 2 5 settembre 1 9 4 4 , la divisione, al comando del genera­

le di brigata Clemente Primieri, assunse il nome di Gruppo di combattimento e si ordinò

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Parte prima

su d u e reggim enti d i fa n te ria , un reggim ento d i artiglieria e reparti com plem en tari con un organico che p reved eva 4 3 2 u fficia li e 8 5 7 8 tra so ttu fficia li e u o m in i della truppa. In realtà, seppure m anchino ancora d a ti certi su l nu m ero reale d i m ilita ri in fo r z a a l rag­ gru ppam ento, alla fin e d e l 1 9 4 4 i l com an dan te della C rem ona denun ciava la m ancan­ za d i alm en o 1 4 0 0 u o m in i p e r coprire i l fa b b iso g n o m in im o d e ll’un ità. P arte d e ll’V i l i arm ata brita n n ica, guidata d a l generale M cC reery, i l 3 gennaio 1 9 4 5 i l G ru ppo d i c o m b a ttim e n to C rem ona ricevette l ’ordine d i portarsi su lle p o sizio n i d e l fro n te a n ord d i R aven n a , p e r m ettersi a lle dip en d en ze d e l I corpo d ’arm ata canadese. Tra i l 12 e i l 14 gennaio, la C rem ona so stitu ì un ità della I d ivisio n e canadese su un fro n te d i circa 1 5 ch ilo m e tri, lim ita to a o rien te d a l m are e a o ccid e n te da lla fe rro via A lfon sin e-R aven n a . P o co lon tan o c ’era la brigata G a rib a ld i M ario G o rd in i, com an da­ ta da A rrigo B o ld rin i. S u lfr o n te o p p o sto , la j i o “ d ivisio n e tedesca, giu n ta da lla N orvegia , e la 1 1 4 “ d iv i­ sio n e Jaeger. Fin da su b ito la C rem ona s u b ì m o lte p e rd ite , d o v u te anche alla eccessiva lunghezza d e lfr o n te , in rela zion e agli e ffe ttiv i della truppa. C osi i l generale P rim ieri o tten n e un ac­ corciam en to della linea d e l fro n te d i 5 ch ilo m etri e i l sostegno d i 1 8 0 partigia n i, della p ro v ìn c ia d i Perugia. E tu tta via i l nu m ero degli u o m in i ancora non bastava. A partire da fe b b ra io , si aggregarono a lla C rem ona v o lo n ta ri d i varie età e d estrazion e so cia le, in m assim a p a rte ex g aribaldin i, a ccom u n a ti d a l desiderio d i com b a ttere p e r affrettare la li­ b era zion e d e ll’Ita lia . In ta l m o d o , i vo lo n ta ri rappresentarono oltre i l cin qu an ta p e r cen­ to d e ll’organico com plessivo della C rem ona e ne co stitu iro n o l ’elem en to d e cisiv o . In ogni reparto f u designato un responsabile che affiancava l ’u fficiale com a n d an te. V enne cosi a fo rm a rsi un vero e pro p rio com an do om b ra partig ian o a ll’interno d ella C rem ona. C o si rafforzato, i l gruppo d i c o m b a ttim e n to partecipò a diverse a zio n i d i guerra, in ­ calzan do le truppe n em ich e e liberan do diverse c ittà , q u a li A d ria , C avarzere, C hioggia, M estre, f in o a incontrarsi a V enezia con u n ità inglesi giu n te d a l m are. In 1 0 8 giorni d i guerra, i l G ru ppo C rem ona e b b e co m p lessivam en te 1 7 8 m o rti, fra cu i 13 u fficia li, 6 0 5 fe r iti, fra c u i 2 9 u fficia li, e 8 0 dispersi, m o lto p ro b a b ilm e n te ca­ d u ti, tra i q u a li 2 u fficia li. Tra i n em ici, fe c e 3 2 5 6 prigion ieri.

M A R IO GIO VANA

Guerra partigiana

La nascita àel movimento partigiano. L’armistizio dell’8 settembre 1943 e la conseguente crisi non soltanto dell’apparato militare regio ma dell’in­ tera struttura dei poteri statali, non coincisero con il manifestarsi della guer­ ra partigiana nel Centro-nord d’Italia. Tra l’annuncio della firma dell’atto armistiziale e le decisioni inerenti l’avvio della guerriglia e delle varie for­ me in cui si articolò la Resistenza dei venti mesi, intercorsero alcuni giorni di convulsi tentativi da parte degli antifascisti e anche di singoli apparte­ nenti alle forze armate per arginare lo sbandamento nell’esercito e convin­ cere i comandi delle unità ad assumere atteggiamenti di difesa contro i mo­ vimenti aggressivi della Wehrmacht fruendo dell’appoggio dei civili arma­ ti dagli stessi comandi. Già dalle settimane successive al 25 luglio 1943, quando si era delineata l’eventualità di un movimento di occupazione te­ desco, convalidata dall’afflusso continuo di truppe naziste dal Brennero e dalla loro dislocazione in posizioni strategiche attorno ai dispositivi milita­ ri italiani, i partiti antifascisti del Fronte nazionale avevano operato in que­ sta prospettiva: i loro sforzi, e le loro direttive interne per i militanti, era­ no stati improntati alla linea di appoggio alle Forze armate per la paventa­ ta emergenza, e le iniziative di mobilitazione di base - tipica quella del tentativo di costituzione in alcuni grandi centri della Guardia nazionale erano state orientate nell’ottica di fare appello al concorso di civili in schie­ ramenti difensivi predisposti e diretti dai comandi militari. La decisione di intraprendere la guerra partigiana intervenne quando le sollecitazioni all’ini­ ziativa di questi comandi si rivelò priva di esiti positivi, mentre si compiva la disintegrazione dei reparti ed emergeva senza possibilità di equivoco che l’organismo militare non avrebbe posto in essere alcuna misura per tenta­ re dì bloccare, o quanto meno ritardare, il contropiede nazista, salvando co­ sì anche il proprio onore e la propria dignità. Nei medesimi episodi di rag­ gruppamenti di ex appartenenti alle forze armate all’indomani dell’8 set­ tembre, con intenzioni di opporsi armi alla mano ai tedeschi, non era sempre già collettivamente matura la scelta della guerra partigiana. Il nucleo di mi­ litari, per lo più appartenenti alla disciolta IV armata del generale Vercelli­ no, subito radunatisi a Boves, nei pressi di Cuneo, con evidente spirito di rifiuto della resa, comprendeva presumibilmente una maggioranza incer­ ta e disorientata di fronte alle prospettive da conferire al proprio gesto; e,

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Parte prima

difatti, la banda partigiana che sorgerà dal suo seno dopo il primo attac­ co tedesco del 19 settembre '43, inquadrerà unicamente un’aliquota del primitivo assembramento, abbandonato da una buona percentuale degli ex militari. Il proposito dei circa milleseicento fra militari, civili (la maggio­ ranza, milleduecento) ed ex prigionieri alleati radunati a Bosco Martese, vi­ cino a Teramo, in Abruzzo, da alcuni ufficiali effettivi, era di resistere fi­ no al sopraggiungere delle truppe alleate; attaccato dai tedeschi il 26 set­ tembre, e sopraffatto dalla superiorità numerica del nemico dopo una strenua lotta di tre giorni, il raggruppamento si scioglieva, sia pure fornen­ do alla guerra partigiana che si svilupperà nella zona la maggioranza dei suoi quadri. Nel Comitato militare unitario costituito a Milano alle dipendenze di quello che diverrà il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai) si confrontarono, dall’inizio dell’autunno al dicembre del '43, due differenti impostazioni da conferire alla guerra partigiana. Da un lato Ferruccio Parri, rappresentante delle unità che stavano dando vita alle formazioni Giu­ stizia e libertà (Gl), sosteneva l’esigenza di un assetto militare ricalcato an­ che gerarchicamente sul modello tradizionale dell’esercito, integrato da vo­ lontari civili, con tempi relativamente lunghi di organizzazione della propria operatività; un esercito - come è stato rilevato - «patriottico» e non «par­ tigiano», nazionale, democratico, ma non «politicizzato», che certo acco­ gliesse i politici ma tentasse soprattutto di inquadrare soldati e ufficiali del disciolto organismo regio [De Luna 1987, p. 64]. Una concezione che po­ stulava un complesso e graduale processo di unificazione dei nuclei, di ap­ parati logistici e di servizi bene registrati e di pronta efficienza, per un “eser­ cito” i cui criteri bellici dovevano essere di prevalenti attività affidate a pic­ coli nuclei di sabotatori e di incursori finché le offensive alleate non avessero reso opportuno l’intervento di unità più consistenti. Sul versante opposto, i comunisti ponevano l’esigenza di una guerriglia immediata, facendo appello al volontariato popolare, evitando ogni irrigidimento in schemi organizzati­ vi di stampo militare tradizionale, in piena autonomia tattica degli attori, radicati sul territorio e nella società da cui doveva trarre le loro risorse, i con­ sensi e i sostegni. La realtà medesima della situazione superava la concezio­ ne di Parri; sia perché i residui dell’esercito regio si dissolvevano compietamente, sia perché le bande che sorgevano dovevano affidare la loro soprav­ vivenza alla rapida capacità e possibilità di armarsi e autoalimentarsi nelle aree di insediamento, in un paesaggio nel quale tedeschi e fascisti tendeva­ no a esercitare controlli oltremodo stretti sulle comunicazioni e sulle risor­ se, sia, ancora, perché le bande partigiane sorgevano spontaneamente per lo più a opera di civili “politicizzati”, richiamavano militari scottati dalle espe­ rienze sotto le vecchie formule e le vecchie gerarchie e soprattutto giovani animati da volontà di lotta ma alieni dal sottoporsi ai vincoli formali delle screditate gerarchie dell’esercito. Il disegno iniziale di Parri era dunque ri­ duttivo e irrealistico perché, anzitutto, riduceva il valore eminentemente po­ litico della ribellione popolare a formule di tecnica organizzativa militare;

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inoltre, si prestava a fornire alibi a obliqui progetti di attendismo che si de­ lineavano sotto pretesti di necessità di consolidamento organizzativo in ta­ lune iniziative di ex ufficiali superiori delle Forze armate, talora non esenti da intenti di compromessi e tregue col nemico, nonché, in certi casi, di con­ temporanea lotta contro i comunisti (secondo quanto accadeva in Piemonte con la rete di militari facente capo all’ex intendente della IV armata, gene­ rale Piero Operti, per questo destituito dal comando delle formazioni re­ gionali e incriminato). Infine, una piattaforma del genere minacciava di ri­ durre il movimento a mera appendice tattica dello scacchiere angloamerica­ no, svuotandolo di ogni contenuto autentico di moto popolare, espressione anche di istanze profonde di rinnovamento politico, sociale e culturale. Ben presto, per la spinta stessa dei fatti, Parri accolse e fece proprio il punto di vista dei comunisti sostenuto da Luigi Longo, comandante delle brigate d’assalto Garibaldi in via di formazione (l’uno e l’altro diverranno vicecomandanti del Corpo volontari della libertà - Cvl - che dalla tarda estate del 1944 unificò rappresentanza e comando del movimento parti­ giano, sia pure tra difficoltà e tensioni, sotto la guida del generale Raffae­ le Cadorna). Dall’ultimo scorcio di settembre si erano costituite le prime bande e di­ staccamenti Gl e della Garibaldi nelle valli di Cuneo e di altre province del Piemonte, in Friuli - Venezia Giulia, in Romagna, lungo la catena appen­ ninica, a Firenze, Genova, Torino, Milano. Le formazioni Garibaldi e Gl divennero così gli assi portanti del movimento partigiano che nelle setti­ mane e nei mesi successivi si estese sia per lo sviluppo di tali formazioni, sia per l’apporto delle formazioni genericamente denominate Autonome (dal cui seno presero corpo poi, in buona parte, le brigate cattoliche, fa­ centi capo alla De) e, meno consistenti, le formazioni M atteotti, promosse dal Psi. Prerogative della guerriglia partigiana. Al modello delle formazioni Gari­ baldi si conformarono tutti gli ordinamenti delle formazioni partigiane, sot­ to l’aspetto della struttura interna, in primo luogo. Le varianti, tuttavia, furono molteplici; la principale forse riguardò la figura del Commissario, non introdotta, salvo eccezioni, nelle formazioni Autonome; ma il quadro complessivo fu sostanzialmente omogeneo. D’altra parte, quel modello ven­ ne adottato, in generale, anche sul terreno delle scelte di commisurare i pro­ pri impianti logistici e operativi alle possibilità locali, alle circostanze of­ ferte dai diversi livelli di potenziali bellici raggiunti e dettate dagli svilup­ pi delle reazioni nemiche. Nella preparazione e nello svolgimento della battaglia partigiana vi fu, pertanto, un alto grado di soluzioni empiriche, di affidamento all’inventiva e alla fantasia dei protagonisti, di adattamento, in genere avveduto e profittevole, alle condizioni dei differenti contesti geo­ grafici, sociali ed economici nei quali le bande dovevano agire. Le specifi­ cità più rilevanti del movimento partigiano italiano derivarono da queste articolazioni, frutto degli slanci della lotta ma altresì in gran parte dell’espe­

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rienza concreta, nella necessaria aderenza alle diversità non solo morfolo­ giche, ma sedimentate da molti fattori, dei teatri operativi. Tuttavia, le modalità classiche della guerriglia partigiana - mobilità, rapidità di attacchi e ritirate, rinuncia a difese rigide frontali, tecniche di dispersione di fronte alle reazioni nemiche, opzioni offensive commisura­ te alle esigenze di «durare nel tempo per colpire» - non furono subito pa­ trimonio di tutte le bande. Così non fu subito chiara dovunque, neppure nell’organizzazione ispirata dai comunisti, la possibilità e la necessità di con­ durre la guerriglia “di corsa” attraverso piccoli nuclei, nel contempo mi­ rando a conferire alle unità partigiane consistenze di un esercito che po­ tesse impegnare forze in operazioni intese a controllare fasce cospicue di territorio e a preparare una insurrezione di massa. In questi ritardi ebbe un’influenza iniziale la convinzione che, per effetto delle vittorie alleate sui fronti e, in particolare, delle loro offensive nella penisola (magari comple­ tate da sbarchi al Nord), la guerra nelle zone occupate non sarebbe stata di lunga durata; ma contarono altresì in molti punti del dispositivo partigia­ no l’inesperienza, in altri l’attaccamento a criteri statici e formalistici di im­ piego delle forze e di sfruttamento del terreno, in altri ancora remore di va­ rio genere, a cominciare dalle preoccupazioni legate ai timori di esporre le popolazioni inermi alle violenze delle rappresaglie nazifasciste, prontamente manifestatesi in tutta la loro crudezza (da qui scaturiranno accordi paraliz­ zanti di non belligeranza in alcune zone). Causarono gravi rovesci soprat­ tutto le insistenze nell’adottare tecniche difensive insostenibili. Nella val­ le cuneese del Casotto, affollata di renitenti alle leve fasciste, per lo più di­ sarmati, nel marzo '44 il comando del maggiore Martini Mauri predispose un dispositivo di difesa per capisaldi che il nemico circondò e travolse, pro­ vocando il totale sbandamento della formazione e un numero elevatissimo di perdite fra i partigiani. All’opposto, nello stesso settore del Cuneese oc­ cidentale, in Valle Maira, la banda di Italia libera e i garibaldini che vi sta­ zionavano, in vista del rastrellamento tedesco da cui sarebbe stata investi­ ta la zona, frazionarono le loro compagini in piccole unità logisticamente autosufficienti e dotate di autonomia tattica (i “giellisti” selezionarono ac­ curatamente i reparti, inviando fino a due terzi degli uomini dell’organico, reputati non ancora in grado di reggere lo scontro, presso le basi della vici­ na Valle Grana e dotando i rimasti dell’armamento migliore disponibile): i nuclei, in tal modo, sventarono il disegno nemico di distruggerli e i rastrellatori conclusero l’operazione senza risultati tangibili e con perdite di netto più alte di quelle dei partigiani. Alla fine di settembre del 1944, quat­ tro brigate concentrate sul Monte Grappa, con poco più di mille partigia­ ni, decisero di resistere frontalmente, nelle trincee e nei camminamenti sca­ vati durante la Grande guerra, contro le forze tedesche, dotate di artiglie­ ria pesante e coadiuvate da reparti di collaborazionisti cosacchi e di Salò, che avevano circondato il massiccio (con un totale di quindicimila milita­ ri). La decisione risultò fatale, proprio perché sostenuta a fondo e con va­ lore. Dopo tre giorni di aspri combattimenti le formazioni vennero anni­

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chilite, con la perdita di circa 600 donne e uomini, di cui 171 impiccati a Bassano e in altre località ai piedi del Monte Grappa. Fu questo il rastrel­ lamento nazifascista locale nel quale il Cvl soffrì le perdite più alte. Si confermava, quindi, un’altra costante basilare per valutare l’efficienza di direzione della guerriglia: il basso tasso di perdite partigiane in un ciclo offensivo del nemico era, in genere, direttamente proporzionale alle capa­ cità o meno dei c omandi di applicare le tattiche di movimento più oppor­ tune e di gestire accortamente l’economia delle proprie forze evitando scon­ tri prolungati e attardamenti su posizioni prefissate. I canoni fondamentali dell’efficienza di guerriglia penetrarono in pa­ recchi casi lentamente nel bagaglio partigiano; si ebbero scarti, pressoché sempre forieri di rovesci, negli imperativi di evitare il concentramento del­ le forze, leggerezze nell’intraprendere operazioni di assedio a presidi nemi­ ci che la disparità delle riserve e dei mezzi a disposizione di quest’ultimo per risolvere l’accerchiamento avrebbe dovuto sconsigliare, sfilacciamenti e disfunzioni nei tentativi di condurre operazioni su una scala relativamente vasta non tenendo conto a sufficienza di quella che era una delle principa­ li debolezze partigiane nella manovra con unità numerose sul campo, oltre alla scarsa attitudine di forze non addestrate a movimenti sincroni: la dif­ ficoltà di collegamenti tempestivi, per mancanza degli strumenti atti a con­ sentirli, ossia le apparecchiature radiotelefoniche (i lanci alleati non le for­ nivano, e fu una deficienza delle più serie). A tale grave limite si cercò parzialmente di rimediare con lo sviluppo della rete di staffette, particolarmente fitta in alcune zone, colleganti la pia­ nura e la montagna in aree contigue. Questo compito di decisiva impor­ tanza militare fu assolto in misura consistente da donne, decine e decine delle quali, cadute in mano nemica, vennero suppliziate, pressoché sempre dopo la tortura e le vessazioni che i nazifascisti riservavano alle partigiane. II protagonismo o la scarsa riflessione di taluni capi esposero le bande ad avventure arrischiate. La smania, non priva di spavalderie e di esibizio­ nismo, di “colpisti” solitari e di comandanti inclini all’azzardo, se realizzò imprese clamorose, non di rado mise a repentaglio oltre misura le sorti del­ la formazione, le vite e i beni dei civili, costantemente alla mercé di un ne­ mico crudele dal quale i partigiani non erano in grado di porli al riparo: e questo aspetto era già un fattore permanente di tensioni nelle delicate rela­ zioni fra combattenti e popolazioni che attraverseranno fatalmente tutta la vicenda di guerriglia. In ultimo, il principio cardine della mobilità delle for­ ze, di necessità, subì variazioni nelle zone libere, vincolando le bande alle posizioni occupate e da amministrare, con la conseguenza di obbligarle a pericolose staticità e di aumentare nei civili aspettative di difesa che i par­ tigiani non avrebbero potuto soddisfare se non correndo l’alea di sconfit­ te distruttive. Là dove - per motivi di prestigio o per calcoli errati - la per­ manenza sulle posizioni conquistate si spinse alla decisione di rinserrarsi a difesa di perimetri cittadini (come nel caso della cittadina piemontese di Al­ ba, occupata nell’autunno del '44), i nazifascisti ne trassero facili successi,

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i partigiani momenti di inutile sconcerto in cui si consumarono riserve di munizioni vitali, e gli strascichi dell’episodio non favorirono il clima delle relazioni con la popolazione. “Apprendistato” e disciplina dei militanti. Il movimento traeva riferimen­ ti ideali e pratici dalle impostazioni mazziniane e dalle esperienze di guerri­ glia condotte dai volontari di Garibaldi, dalle vicende della guerra civile spa­ gnola del '36-39, dalla guerra di liberazione accesasi nell’Europa occupata dai nazifascisti, in particolare nei paesi balcanici e dell’Oriente europeo. I soli comunisti, per altro, possedevano dirette conoscenze di tecniche di guer­ riglia apprese partecipando al conflitto spagnolo e alla Resistenza francese. Gli elementi partigiani provenienti dalle disciolte forze armate che avevano preso parte alle operazioni in Iugoslavia denunciavano, per lo più, parecchi limiti nell’esatta conoscenza di quelle esperienze, su cui lo stato maggiore dell’esercito non aveva mai condotto studi approfonditi, né dotato i quadri di comando di cognizioni adeguate, sia pure nell’ottica della repressione. Le stesse risonanze delle vicende di guerriglia risorgimentali erano alquanto ap­ prossimative: le «Istruzioni» di Mazzini e di Garibaldi per la guerriglia era­ no note, al più, a settori dei promotori di bande partigiane, per vaghi ac­ cenni; fra i capi storici del pionieristico impianto partigiano realizzato nelle valli cuneesi del Gesso e della Grana al domani della constatata impossibi­ lità di contare sulla resistenza militare, dagli uomini di Italia libera, i soli Tancredi Galimberti - mazziniano fervente - e Dante Livio Bianco aveva­ no letto gli scritti del Bianco di Saint Jorioz sulla guerra per bande. In ve­ rità, ci fu un “apprendistato” partigiano affidato all’intuizione e all’intelli­ genza empirica dei protagonisti; e non va dimenticato che, subito al di sot­ to dei vertici delle bande che potevano anche talora inglobare capi dotati di nozioni teoriche o di esperienze sul campo nella guerriglia, si affermavano progressivamente i quadri intermedi formati da giovani del tutto digiuni di preparazione militare, talvolta saliti nelle formazioni senza avere mai im­ bracciato un’arma, promossi comandanti di unità in ragione unicamente del­ le prove di coraggio e di ponderatezza fornite al fuoco del combattimento: l’organico dei comandanti di squadra e di distaccamento - con elementi che guadagneranno via via anche incarichi superiori - poggiava su questo per­ sonale, cresciuto essenzialmente alla scuola quotidiana dell’impervia pratica delle imboscate, dei colpi di mano, dell’astuzia nel muoversi tra le maglie de­ gli occupanti e dei loro micidiali rastrellamenti, del vincere le mille impre­ vedibili evenienze della vita alla macchia, quasi sempre con un addestra­ mento preventivo al combattimento poco meno che rudimentale. Vi fu una significativa coincidenza fra le leve delle generazioni giovani indette dalla Repubblica sociale italiana (Rsi) per costruire le proprie forze armate e l’incremento numerico delle formazioni. I flussi più massicci di volontari alle bande si verificarono, infatti, in corrispondenza della pub­ blicazione dei bandi di chiamata alle armi della Repubblica di Salò, segna­ tamente nell’autunno-inverno '43-44 e nella primavera del 1944. Ulterio­

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ri, sensibili incrementi numerici alle bande si registrarono soprattutto nel luglio-agosto di quello stesso anno, allorché le offensive alleate al Sud e gli sbarchi angloamericani nella Francia meridionale parvero preannunciare una vicina ritirata dei tedeschi dalle regioni centrali e settentrionali del pae­ se. Gli afflussi del primo arco di mesi recarono alle unità partigiane, in ge­ nere, elementi che mantennero il loro impegno partigiano e fornirono alle bande, in particolare, solidi quadri intermedi per i successivi sviluppi del­ le formazioni; la vera e propria ondata di volontari che investi, specialmente al Nord, parecchie basi partigiane nell’estate del '44, andò viceversa sog­ getta a celeri riflussi non appena si profilò la stasi delle operazioni alleate sui fronti e si delineò la prospettiva di un secondo inverno di lotta. I comandi stessi delle formazioni dovettero provvedere, in certe situazio­ ni, ad alleggerirle dall’eccesso di volontari la cui opzione era stata palesemen­ te dettata dalla previsione di una breve permanenza nelle file dei partigiani, oppure risultati inidonei a reggere, per debolezza fisica, alla prova durissima dell’autunno 1944 e nella prospettiva dell’inverno incombente. In generale, il problema della selezione dei volontari rappresentò un’esigenza permanen­ te dei comandi. Essi da un lato non potevano rifiutare l’arruolamento, pur non essendo in grado di appurarne intenzioni e qualità prima del vaglio della guerriglia; dall’altro lato, si trovarono a fronteggiare l’acuirsi - a volte oltre ogni limite, soprattutto nell’estate del 1944 - di tutte le necessità derivanti dall’appesantimento delle formazioni. Ciò sotto il profilo della loro efficien­ za, non meno che per i rapporti con la popolazione. Non bastavano le severe norme di autodisciplina. Rigorose regole di comportamento emanate dai co­ mandi erano indispensabili per regolare la “vita alla macchia” sia ai fini della sicurezza della formazione, sia per il rispetto dei diritti dei cittadini delle co­ munità locali. I codici vennero applicati anche con il ricorso alla pena di mor­ te - senza grazia né condoni - nei confronti di volontari della libertà che li avessero violati, dopo averne conosciuto il contenuto all’atto dell’arruolamento (così come contro gruppi di sbandati che operando ai margini delle zone dei partigiani e assumendone le vesti compivano delitti contro la popolazione). Documenti dei comandi regionali dei Cvl, diari e archivi delle formazioni re­ gistrano l’ampiezza e la severità dell’applicazione di tali regole. (Costituisce materia di raffronto emblematico la circolare del maresciallo Kesselring che dalla primavera del 1944 garantì copertura e impunità per gli eccessi compiu­ ti dai reparti tedeschi nelle operazioni antipartigiane; altrettanto dicasi del fatto che in tale periodo non un solo ufficiale o milite di Salò venne tradotto in giudizio da tribunali fascisti, per le crudeltà e le esazioni compiute contro la popolazione nel corso di rastrellamenti e della repressione. La violenza, an­ che al di là della patologia criminale, costituiva una componente intrinseca della lotta antipartigiana e un titolo di merito per chi la praticava). Autonomia d ’azione e unità d ’intenti. Rimase il fatto che l’efficienza miL^re bande poggiava sulla strenua decisione di capi e volontari, non­ ché sui moduli operativi di nuclei numericamente ridotti e affiatati anche

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quando si svolgevano operazioni con relativamente largo impiego di for­ ze coordinate. A fondamento del migliore rendimento bellico offensivo partigiano stavano le azioni condotte da squadre e distaccamenti dotati di m a r g in i di autonomia, anche in ragione delle difficoltà di conseguire sin­ cronie e puntualità nei movimenti di ampi spiegamenti di unità di fronte alle molte variabili indipendenti delle situazioni di guerriglia. Una distinzione che emerse dalla pratica della condotta dei volontari fu quella tra partigiani inclini a dimostrare le migliori qualità di combat­ tenti nelle attività dei colpi di mano e delle veloci incursioni contro i di­ spositivi nemici, e partigiani che, al contrario, reggevano con più fermezza ed equilibrio dei primi gli eventi dei periodi di scontri suscitati dai ra­ strellamenti. La figura del “colpista”, al limite del partigiano che predili­ geva l’azione solitaria e fulminea sentendosi a disagio nelle graduate ma­ novre collettive e nelle circostanze di protratti, e logoranti, periodi di di­ fesa dagli attacchi nemici, acquistò una propria identità abbastanza definita e non mancò di richiedere ai comandi dosaggi e scelte nella destinazione d ’impiego dei singoli. Il «microcosmo partigiano» descritto dallo storico Guido Quazza racchiudeva anche questa gamma di vocazioni non riduci­ bili nelle strettoie di codici militari tradizionali e che erano parte costitu­ tiva dell’originalità, della spontaneità e della natura non banalmente “guer­ resca” del partigiano come dei connotati di solidarietà interne al suo col­ lettivo combattente. Mediamente, le formazioni che meglio ressero nella guerriglia, nella so­ pravvivenza alla macchia e nei rapporti con la popolazione, furono quelle che si caratterizzarono per la fusione tra addestramento e azione militari e maturazione politica democratica delle proprie file. L’acquisizione più rilevante e diretta del movimento partigiano italia­ no da esperienze maturate altrove, può considerarsi l’ordinamento e le tec­ niche di azione dei Gruppi d ’azione patriottica (Gap), importate dai mi­ litanti comunisti, che avevano preso parte alla loro creazione e alle loro at­ tività nella Resistenza francese. I Gap, nella duplice versione di gruppi cittadini impiegati in operazioni di sabotaggio e in ritorsioni contro ele­ menti nemici, e di unità accampate nelle campagne - e fu questa l’espe­ rienza diffusa in Emilia dalle formazioni garibaldine -, vivendo occultate, tra un’azione e l’altra, tra le popolazioni contadine e grazie alla loro soli­ darietà (spesso duramente pagata), scrissero alcune delle pagine più ardi­ mentose e clamorose della guerra partigiana. E sufficiente, anche se par­ ziale, ricordare i sacrifici dei gappisti torinesi, fra l’autunno del 1943 e la primavera del 1944, comandati da Giovanni Pesce (che successivamente e fino alla liberazione diresse la lotta altrettanto cruenta della III brigata Gap a Milano); o la battaglia di Porta Lame a Bologna, alla metà del novembre ’44, quando 230 uomini della VII Gap, usciti dai sotterranei dell’Ospedale Maggiore, nel quale si erano accantonati, per recare aiuto a unità parti­ giane che avevano attaccato i tedeschi alla Bolognina, affrontavano i reparti e i mezzi corazzati tedeschi in pieno centro cittadino ritraendosi nelle cam­

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pagne della cintura cittadina dopo aver inflitto al nemico l’umiliazione di uno scacco nel cuore del loro munitissimo presidio, immediata retrovia del fronte. Così, va ricordata la battaglia per la liberazione di Ravenna, all’inizio del dicembre del 1944, aperta dalla XXVIII brigata Gap, sulla base del pia­ no tattico in precedenza elaborato dal suo comandante Arrigo Boldrini, con­ giuntamente al comando delle truppe della V ili armata, avanzate da Rimi­ ni. La brigata aveva sostenuto per un anno la guerriglia, avendo le sue ba­ si nelle pinete, nelle valli e paludi a nord di Ravenna. Infatti, carattere saliente della guerra partigiana italiana rimane in pri­ mo luogo quello di aver voluto e saputo sfruttare ogni specificità della topo­ grafia delle zone occupate dai nazifascisti per adattarvi le proprie iniziative: montagne, pianure, colline, ambiti urbani videro dovunque operare forma­ zioni secondo modalità suggerite dalla diversità delle condizioni del terreno. Una seconda particolarità fu il carattere sostanzialmente unitario della con­ dotta dello sforzo bellico, nonostante divisioni politiche e spinte concor­ renziali tra le formazioni che certo non mancarono e accesero conflitti an­ che cruenti, ma che non impedirono lo sviluppo del movimento a compagine con connotati di esercito unitario combattente a tergo del fronte principa­ le: il che guadagnò al Cvl i riconoscimenti degli alleati e sanzionò la riven­ dicazione italiana di un concorso attivo, durante venti mesi, alla loro batta­ glia. Un terzo fattore distintivo della guerra partigiana italiana fu la salda­ tura che essa realizzò in più occasioni fra protesta e resistenza delle masse lavoratrici dei centri industriali negli scioperi economici attraversati da evi­ denti segni di opposizione politica ai nazifascisti e azione delle bande fora­ nee a sostegno di quelle manifestazioni, certificando in tal modo i nessi in­ scindibili che univano moto popolare e conduzione della guerriglia. A prescindere dal movimento partigiano sovietico, che risulta avere ri­ vestito dimensioni cospicue ma che era organizzato e diretto a tergo delle linee tedesche dallo stato maggiore dell’Armata rossa (e del quale, comun­ que, restano da appurare in sede storica entità effettive e consuntivi belli­ ci), il movimento partigiano italiano fu secondo soltanto, in Europa, per spie­ gamento di forze e intensità operativa, a quello iugoslavo. Lo scenario della guerra partigiana. Anche se rivolta a sfruttare creativa­ mente ogni particolarità topografica, la guerriglia italiana si sviluppò su di un territorio aperto all’estrema rapidità di manovra e di intervento del ne­ mico, per la consistenza e la diffusione delle infrastrutture stradali - e del­ le comunicazioni in generale - anche in buona parte delle catene alpine, prealpine e appenniniche. Anche per queste ragioni, oltre che per le altre cause storico-politiche di maggiore portata, la guerriglia partigiana si con­ figurò a “grandi macchie di leopardo”, con aree e province a forte densità e combattività partigiana, rispetto ad altre zone del Centro e del Nord del paese. Occorre ricordare che cinque e a volte sei divisioni tedesche furono impegnate in permanenza nel controllo del territorio e nella repressione an­

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tipartigiana. Tra queste grandi unità d’élite, come la divisione Hermann Gòring che, prima di venire inviata sul fronte orientale (dove fu distrutta), imperversò nell’Italia centrale e sugli Appennini, fino alla strage di Marzabotto; o la 9oa divisione corazzata, la cui incursione nell’estate del 1944 nel­ la Francia meridionale venne strategicamente sconfitta per il rallentamen­ to di una settimana a essa imposto dalla resistenza manovrata dalla brigata Carlo Rosselli, comandata da Nuto Revelli, nell’Alta Valle Stura e attorno al Passo della Maddalena. A fianco delle divisioni della Wehrmacht, delle SS e degli altri corpi speciali nazisti, dall’autunno del r944 operarono de­ cine di migliaia di collaborazionisti di altri paesi (i cosacchi insediati in Carnia, trasformata in Kosakenland in Nord Italien); reparti di miliziani di Vichy, operanti soprattutto nel Piemonte orientale e in Alta Lombardia; re­ parti della divisione Azzurra dei franchisti spagnoli, sopravvissuti alla ritirata dal fronte orientale, e operanti soprattutto in Friuli - Venezia Giu­ lia; reparti di ucraini e mongoli del generale Vlasov, operanti in particola­ re nell’Appennino emiliano, lombardo, ligure. Naturalmente a tale complesso di forze repressive occorre aggiungere le divisioni Graziani e la costellazione di tutti i corpi speciali della Repubbli­ ca di Salò (X Mas, Brigate nere, Reparti antipartigiani - Rap -, legione Mu­ ti ecc.) il cui compito pressoché esclusivo fu quello della caccia ai partigia­ ni, condotta con estrema ferocia, sovente al di là dei metodi della controguerriglia tedeschi. Per una valutazione oggettiva della guerriglia italiana occorre tenere conto anche di due altri dati. In primo luogo della cooperazione diretta, sulle prime linee del fronte, tra formazioni partigiane e le armate alleate, come avvenne per la brigata Maiella, che dopo la liberazione del territo­ rio di Teramo proseguì la campagna fino all’altipiano di Asiago nell’apri­ le del 1945; per la XXVIII brigata, che dopo la liberazione di Ravenna continuò a combattere a fianco del Gruppo di combattimento Cremona e di reparti dell’VIII armata britannica, fino all’armistizio; per la divisione Modena Montagna, la divisione Lunense e altre brigate che nell’inverno 1944-1945 combatterono a fianco di truppe statunitensi, brasiliane e in­ glesi sulla linea Gotica, particolarmente in Garfagnana e sull’Appennino tosco-emiliano. In secondo luogo, occorre segnalare che nei primi mesi del 1945, dopo il durissimo inverno, molte formazioni partigiane avevano dispiegato in pie­ no la propria azione costringendo il nemico ad abbandonare il territorio fino alla periferia delle grandi città, o a rinunciare agli illusori piani di estrema difesa. Tra il febbraio e l’aprile del 1945, nella zona di Mortirolo, nell’Al­ ta Valle Camonica, formazioni di Fiamme verdi, sconfiggendo ripetutamente forti reparti di Salò, dimostrarono sul terreno l’assoluta inconsistenza del disegno fascista di costituire in tale area il «ridotto alpino» nel quale si sa­ rebbero dovute rinserrare le alte gerarchie. E così già nel febbraio-marzo del 1945 le formazioni partigiane della VI Zona ligure, liberando la Valle Scrivia e le altre valli confluenti su Genova, crearono le condizioni per l’in­

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surrezione della città - prime protagoniste le Squadre di azione patriottica, Sap - che si concluse con la resa, al Cln e al comando partigiano, del gene­ rale Meinhold e della intera divisione della Wehrmacht ai suoi ordini. L’in­ surrezione a Torino e in altre città del Nord, guidata dalle Sap, fu resa pos­ sibile dal difficile lavoro clandestino di preparazione con le operazione con­ dotte dalla guerriglia che aveva cominciato a scendere in pianura, ancora prima dell’ordine di insurrezione nazionale lanciato dagli organi politici e militari della Resistenza. Gli alleati entrarono a Milano, Genova, Torino e in molti altri capoluoghi urbani quando i combattimenti erano cessati, salvati gli impianti industriali, in funzione le amministrazioni provvisorie nomina­ te dai Cln (va detto però che a volte l’ondata popolare sfuggì per qualche giorno al controllo della Resistenza; furono compiute azioni da parte di grup­ pi armati, autoproclamatisi partigiani, che gettarono più di un’ombra su quelle limpide giornate). Concludendo si deve dire che la guerriglia partigiana non vinse di per sé la «guerra dei venti mesi». Non vinse, né lo avrebbe potuto poiché non era ovviamente nel suo potenziale bellico conseguire questo traguardo. Fu, misurata sulla scala degli eventi militari del conflitto mondiale, alla stregua di ogni fenomeno analogo, una «piccola guerra» ausiliaria - per riprendere la definizione di Clausewitz - costruita giorno per giorno da avanguardie politiche e spontanee generalmente non allenate alle incombenze militari, altrettanto generalmente non imbevute di enfasi arditesche o di compiaci­ mento per l’affermazione della propria esistenza come combattente con le armi alla mano. Nel crogiuolo della guerriglia confluirono, anche qui come universalmente la storia dimostra per siffatte circostanze, coscienze inti­ mamente comprese della propria scelta; personalità di idealisti e di militanti politici; una moltitudine di giovani della generazione fascista privi di re­ troterra culturali e di bussole ideologiche che reagivano quasi istintivamente agli inganni e alle oppressioni della dittatura; soldati di mestiere determi­ nati a tenere fede al proprio giuramento alla monarchia o, semplicemente, offesi nel profondo dalle inettitudini degli apparati militari fascisti e desi­ derosi di riscattare l’onorabilità delle forze armate; lavoratori ansiosi di af­ fermare, accanto ai diritti di indipendenza e libertà della comunità nazio­ nale, rivendicazioni sociali a lungo ignorate: con questi, si trovarono mi­ schiati temperamenti desiderosi di avventura, inquietudini di emarginati senza spessori ideali, pronti alle occasioni più disparate di tumulto cruen­ to, spiriti trascinati dalla parte della Resistenza per motivi quasi acciden­ tali e poi sovente, ma non sempre, inmedesimatisi nei suoi fini. Discipli­ nare questa multiforme società in guerra, decantarne i cascami e le scorie dal vigoroso nocciolo sano, portarla a entità di esercito unificato e render­ la protagonista di una pagina memorabile di emancipazione del paese dal servaggio straniero e dalla violenza totalitaria del fascismo che valesse a ren­ dere meno gravosa la condizione di vinta con cui l’Italia del 1945 sarebbe andata al tavolo della pace, costituì l’impresa non facile dell’antifascismo. La guerra partigiana assolse al compito per cui era stata proclamata, al di là

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delle impervie vicende che l’avevano contrassegnata e anche dei vizi che aveva, del tutto umanamente, contenuto nel suo magmatico corpo com­ battente. N ota bibliografica. R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana. 8 settembre 1943 - 25 aprile 1945, Einaudi, Torino 1964; D . L. Bianco, Guerra partigiana, Einaudi, Torino 1954; G. Bocca, Storia dell’Ita­ lia partigiana. Settembre 1943 • maggio 1945, Laterza, Bari 1966; G . D e Luna, L ’insurrezione nella resistenza italiana, in AA. W . , L ’insurrezione in Piemonte, A tti del Convegno di Torino (18-20 aprile 1985), Isr Piemonte, Angeli, Milano 1987; La guerriglia in Italia. Documenti del­ la Resistenza militare italiana, introduzione di P. Secchia, Feltrinelli, Milano 1969; L. Longo, Un popolo alla macchia, Editori Riuniti, Roma 1964; G . Oliva, I vinti e i liberati. 8 set­ tembre 1943 - 25 aprile 1945. Storia di due anni, Mondadori, Milano 1994; P. Secchia e F. Frassati, Storia della Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1965.

EN ZO CO LLO TTI

Natura e funzione storica dei Comitati di liberazione

Nascita e sviluppo dei Comitati di liberazione. Nella discussione storio­ grafica sui Comitati di liberazione confluiscono alcune delle tematiche che sono al centro della valutazione dei caratteri della Resistenza e della sua collocazione nel passaggio dal regime fascista all’Italia del dopo fascismo. Derivati dai centri di coordinamento che dopo il 25 luglio del 1943, ma in taluni casi anche anteriormente, si diedero i partiti antifascisti in via di rior­ ganizzazione, per stimolare il governo Badoglio a operare un’opzione deci­ samente antifascista e non di mero supporto al colpo di stato della monar­ chia, e per promuovere la mobilitazione popolare contro la guerra ma an­ che contro U fascismo e le prevedibili reazioni della Germania all’auspicata secessione dell’Italia dalla guerra, i Comitati di liberazione da semplici or­ ganismi delle opposizioni (o come si chiamarono altrimenti nei diversi con­ testi locali: Fronte di azione antifascista a Milano, Comitato democratico antifascista a Roma) si affermarono, nel corso della lotta di liberazione, co­ me la vera guida politica della Resistenza. Una periodizzazione che tenesse conto del loro sviluppo e della loro gra­ duale affermazione come organismo dirigente della Resistenza deve consi­ derare, da una parte, i rapporti che maturarono all’interno dei comitati stes­ si tra le loro diverse componenti, al di là della schematizzazione, spesso in uso, tra una moderata e una progressista (espressione con cui viene general­ mente indicata la sinistra); dall’altra, i rapporti conflittuali o comunque di competizione che si svilupparono tra l’evoluzione dei comitati e la loro am­ bizione e tendenza a porsi come unica fonte di comando e di legittimazio­ ne delle forze della Resistenza e il governo del Sud, prima e dopo la svolta di Salerno, prima e dopo la liberazione di Roma, nel passaggio tra la ge­ stione Badoglio e la gestione Bonomi, che non coinvolse soltanto problemi delicati di confronto politico tra i partiti, ma soprattutto la complessa que­ stione del rapporto tra schieramento antifascista e assetto istituzionale; a cominciare dalla collocazione della monarchia in questo contesto. Infine, ina non come ultimo fattore, deve essere considerato il quadro dei rappor­ ti che si stabilirono tra l’evoluzione dei Comitati di liberazione e gli alleati angloamericani, nella duplice accezione derivante dalla loro qualità di au­ torità politiche e militari, responsabili per il settore italiano, e in termini immediati dello sviluppo concreto delle operazioni sul nostro territorio,

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che di volta in volta contribuirono a determinare la linea dei comporta­

menti alleati e a ispirare l’atteggiamento nei confronti delle forze della Re­ sistenza. Non c’è dubbio, ad esempio, che la problematica di fronte alla quale si trovarono le forze alleate nel quadro della liberazione della Toscana e le ri­ vendicazioni di fronte alle quali esse furono poste dal Comitato di libera­ zione, rappresentarono fatti qualitativamente nuovi rispetto alle esperien­ ze che essi avevano vissuto pur in presenza di avvenimenti di grande rilie­ vo politico quale era stata la liberazione di Roma. Cambiava l’atteggiamento degli alleati, ma era cambiata anche la prospettiva cui si ispiravano i Co­ mitati di liberazione che, dopo l’inverno del 1944 e la ripresa dell’iniziati­ va della primavera e dell’estate, in una delle fasi culminanti dell’espansio­ ne della Resistenza, si potevano sentire sufficientemente forti per porsi co­ me interlocutori e non soltanto come strumenti subalterni nei confronti degli alleati. Se non si può attribuire ai Comitati di liberazione la funzione di avere dato origine dia Resistenza, nella qude finirono per rifluire componenti le più diverse di un ampio spettro di forze sociali, politiche e culturali, quali del resto erano rappresentate anche nell’esercito regio in disfacimento all’at­ to dell’armistizio, ai Comitati di liberazione vanno attribuiti sicuramente due connotati fondamentali. Furono essi che, mutuando la loro denomina­ zione dall’esempio della Resistenza francese, avrebbero assunto la funzio­ ne di guida e di direzione politica del movimento resistenzide; e furono es­ si che assicurarono all’interno del movimento la continuità con la tradizio­ ne del pensiero politico e di impegno personde di uomini dell’antifascismo, dell’interno e dell’emigrazione, con particolare riferimento alla presenza nel­ la Resistenza di uomini che avevano fatto le loro esperienze politiche e mi­ litari tra le file del volontariato internazionde nella guerra di Spagna. Se sul territorio della Repubblica socide i Comitati di liberazione nazionde (Cln*) - e per essi la loro massima espressione, il Comitato di libe­ razione nazionde Alta Itdia (Clnai*) - si posero come gli antagonisti più diretti, come i fattori di contestazione della sovranità e del controllo del territorio nei confronti della repubblica neofascista (prima ancora che dei tedeschi occupanti), anche nei riguardi del governo legittimo la rivendica­ zione di autonomia dei Cln costituiva un elemento di novità e insieme di rottura che non si lasciava appiattire su di una acritica adesione alla linea governativa, di Badoglio prima e di Bonomi poi. Se non si può parlare di una vera e propria linea di contestazione dei Cln anche nei confronti dei governi di Sderno e, successivamente, di Roma, è indubbio che gli stessi devono essere considerati, d d punto di vista di un nuovo embrionde ordi­ namento istituzionde, qudcosa di molto di più di semplici organismi im­ pegnati nel coordinamento operativo della Resistenza. Bene d di là d d rappresentare semplicemente la linea dei partiti anti­ fascisti politicamente più avanzata di quella del governo legittimo, i Cln eb­ bero la tendenza a porsi non soltanto come fattore di pressione, per spo­

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Natura e funzione storica dei Comitati di liberazione

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stare in senso più spiccatamente antifascista un equilibrio che appariva for­ temente condizionato al Sud (ma anche dopo la liberazione di Roma) da fre­ ni e resistenze moderate e conservatrici individuabili in settori dello stato e della società (la monarchia, l’apparato burocratico, l’ambiente ecclesia­ stico) e direttamente o indirettamente favorite dagli alleati, spesso più che per scelta politica per convenienza pratica e opportunità amministrativa, oltre che per reale ignoranza della situazione e della società italiana. Sicu­ ramente non vi fu negli uomini che promossero i Cln la consapevolezza im­ mediata delle potenzialità di scardinamento dello status quo, politico-am­ ministrativo, implicite nel fatto stesso di dare vita a organismi politici che tendevano a sostituirsi nella guida delle popolazioni ai poteri costituiti. Ma nel momento di massima espansione dei Cln e al culmine della operatività del Clnai non vi fu solo la consapevolezza della distanza che si andava crean­ do tra le aspirazioni al rinnovamento complessivo dei meccanismi istitu­ zionali e i poteri tradizionali dello stato e delle amministrazioni, vi fu il pro­ posito di forzare la rottura del vecchio equilibrio e di fare dei Cln la base di legittimazione di un nuovo potere. Il dibattito all’interno dei Cln. La discussione sulla continuità dello sta­ to, i cui termini sono stati ripetutamente e con grande chiarezza ricostrui­ ti e richiamati da Claudio Pavone [1995], ha uno dei suoi punti di riferi­ mento fondamentali nella funzione di rottura esercitata dai Cln. Il fatto che gli equilibri politici esistenti e i reali rapporti di forza, anche all’interno dei Cln, non consentissero la piena realizzazione di quelle istanze non annulla l’importanza della tensione che fu sottesa costantemente nella fase della re­ sistenza all’affermazione dei Cln come organismi la cui funzione aveva fi­ nito per superare di gran lunga il mero coordinamento tra i partiti antifa­ scisti. Al di là del dibattito politico svoltosi nel corso della Resistenza, e rinnovatosi nella storiografia, sulla funzione dei Cln come poteri alternati­ vi rispetto all’assetto istituzionale esistente, innegabile fu la funzione dei Cln quali strumenti e centri promotori della politicizzazione della Resi­ stenza. La ramificazione territoriale e professionale dei Comitati di libera­ zione (dai Cln regionali a quelli provinciali e comunali fino a quelli azien­ dali e di settore), che è stata anche una specificità della Resistenza italiana nel contesto europeo, ha rappresentato uno strumento di diffusione capilla­ re e periferica del movimento resistenziale, alla stessa stregua della sua di­ latazione attraverso l’inserimento nei Cln degli organismi di massa (il Fron­ te della gioventù, le organizzazioni femminili, quelle sindacali) voluto dai comunisti e non sempre immediatamente accettato dagli altri partiti, che nei fatti risultò funzionale alla penetrazione in vasti settori della società e a un radicamento che non poteva essere affidato unicamente alla presenza sul territorio delle formazioni partigiane. Anche in questo caso la funzione dei Cln fu in un certo senso quella di operare una sintesi tra i connotati spontaneistici della resistenza e la spinta prioritaria all’organizzazione. Se la Resistenza non può essere circoscritta ai Cln, come è stato giusta­

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mente sottolineato da tutti gli studiosi più avvertiti (sin dal primo e pio­ nieristico saggio di Mario Delle Piane [X946], a Catalano [1956] e Quazza [1976], a Pavone [1995] e Grassi [1977]), è tuttavia attraverso i Cln che passano il principale canale di politicizzazione della Resistenza e l’apporto alla formazione di una classe dirigente nuova. Sono gli uomini del Cln, so­ prattutto nel Centro-nord, che rappresentano l’alternativa politica di una esperienza totalmente nuova di direzione politica e talvolta anche di auto­ governo e di amministrazione libera, come nella breve ma esaltante espe­ rienza delle zone libere, rispetto allo status quo dell’amministrazione del Mezzogiorno e di Roma. Quando, all’atto della liberazione, i Cln cerche­ ranno di insediare nelle principali cariche pubbliche uomini provenienti dall’esperienza della Resistenza, sottolineeranno ancora una volta la ten­ denza a porsi come protagonisti, anche nel reclutamento della nuova clas­ se dirigente, di un’alternativa di tipo politico, di mentalità, di aspirazioni rispetto allo scorrimento automatico della carriera burocratica, al di là del­ le complicate vicende di una epurazione che non sarebbe stata comunque condotta con la severità e insieme con l’equità che sarebbero state neces­ sarie per spezzare, con le continuità personali, le radici ben più profonde di quella continuità istituzionale con la quale i Cln si posero in conflitto tanto tendenziale quanto permanente. Anche a questo proposito è bene tuttavia evitare l’equivoco di schema­ tizzazioni generalizzanti. I Cln rappresentarono la sintesi e l’unità politica della Resistenza non perché prevalesse in essi un’assoluta unanimità di in­ tenti. L’unità dei Cln e della Resistenza fu il risultato di una costante lot­ ta politica, e si realizzò il più delle volte su posizioni di mediazione. Era su queste che in generale si misurava la possibilità di realizzare il principio dell’unanimità delle decisioni, principio ma non regola assoluta. I verbali del Clnai, e quelli dei Cln che per comodità chiameremo minori, che conoscia­ mo, attestano l’esistenza di un dibattito politico talora assai intenso e an­ che acceso, e consentono altresì di evitare l’impressione del prevalere di un monolitismo di posizioni: i partiti della sinistra non erano un blocco com­ patto, spesso anzi si trovavano su posizioni divergenti; tra essi la maggiore capacità di mediazione in termini di soluzioni politiche accettabili da tutti fu dimostrata dal Pei, forse in ragione della consapevolezza che esso ebbe della sua forza. Ma neppure i partiti attribuibili alla componente moderata si potevano considerare aprioristicamente schierati su posizioni scontate; in particolare la componente democratico cristiana e quella liberale spesso, nel Clnai e nei Cln regionali al Nord, si comportarono in conformità agli altri partiti e in senso difforme dalla linea che gli stessi partiti avevano as­ sunto nell’area liberata e in seno al governo. La rete dei Cln, che si sarebbe estesa e ramificata soprattutto nell’area centrosettentrionale, ebbe tuttavia una diffusione a livello nazionale, non solo nell’area occupata della penisola, ma anche nel Mezzogiorno liberato dagli alleati. Proprio in questa parte del paese i Cln conservarono fonda­ mentalmente la caratteristica originaria di comitati di coordinamento tra i

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partiti antifascisti, non essendo investiti da compiti legati a un impegno di­ retto di lotta e trovandosi, d ’altronde, fortemente limitati nella loro ope­ ratività dalla presenza immediata delle autorità alleate. Separati dal resto dell’Italia occupata e dalla stessa Roma, nella quale si trovavano a risiede­ re alcuni tra i principali leader antifascisti (pur nella singolare condizione che indurrà Enzo Forcella a definire quella romana «Resistenza in conven­ to»), i Cln del Mezzogiorno sembrano concentrare la loro funzione essen­ zialmente nel dibattito prò o contro la monarchia. E in questo senso il pri­ mo congresso dei Cln, che si svolse a Bari il 28 e il 29 gennaio del 1944, pur constatando l’impossibilità di dare una soluzione immediata alla que­ stione istituzionale, si trovò unanime nel chiedere l’abdicazione di Vitto­ rio Emanuele III, «considerato responsabile delle sciagure del Paese», se­ condo la linea sostenuta con autorevolezza, fra gli altri, da Benedetto Cro­ ce e su cui era stato espresso anche il consenso del Comitato centrale di Roma. Nessuna effettività ebbe, peraltro, né poteva avere, la Giunta esecuti­ va nominata dal congresso di Bari. Il Comitato centrale di liberazione nazionale di Roma (Ccln). Due diver­ si complessi di circostanze caratterizzarono l’evoluzione dei Cln a Roma e nella restante area centrosettentrionale. Il Cln romano nato per diretta de­ rivazione dal preesistente comitato antifascista si identificherà con il Cln centrale; fu presieduto da Bonomi ed era composto dai rappresentanti dei partiti democratico del lavoro, d ’azione, comunista, socialista, liberale e de­ mocratico cristiano. La presenza a Roma e nel Mezzogiorno dei democra­ tici del lavoro (al quale appartenevano o erano vicini personalità del rifor­ mismo prefascista, dallo stesso Bonomi a Meuccio Ruini) fu importante nel conferire un forte peso politico alle posizioni centriste e moderate. Ma la presenza nel Ccln di esponenti di primo piano dei partiti antifascisti (da De Gasperi a La Malfa a Nenni) non riuscì a conferirgli automaticamente una funzione corrispondente all’ambizione espressa dalla sua stessa denomina­ zione. Ciò si potè constatare già nell’attività clandestina prima della libe­ razione di Roma; più marginale ancora essa si rivelò dopo la liberazione del­ la capitale, quando la coesistenza con il governo legittimo e il passaggio dello stesso Bonomi alla guida del governo ne sottolinearono ulteriormen­ te la marginalità. Istanze fortemente polemiche come quelle espresse dal Ccln il 16 ottobre 1943, che chiedevano contro Badoglio la creazione di un «Governo straordinario» che assumesse «tutti i poteri costituzionali dello stato» e conducesse la guerra di liberazione, tali da prefigurare un vero e proprio dualismo di potere, rimasero sostanzialmente sulla carta, sconfitte dalla tendenza moderata a rinviare comunque la soluzione della questione istituzionale e a confermare come un compromesso unitario fosse possibi­ le solo sulla richiesta di abdicazione del re, come avverrà al congresso di Bari, ossia a un livello che non comprometteva la sostanza della continui­ tà istituzionale. In seguito, nell’aprile del 1944, la formazione del secondo

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gabinetto Badoglio con la partecipazione dei comunisti, dopo la svolta di Salerno, avrebbe recato l’ulteriore conferma del carattere velleitario, certo una fuga in avanti, della dichiarazione del 16 ottobre. Si attenuava sicu­ ramente il dualismo potenziale con il governo regio, ma si apriva un duali­ smo di altra natura con lo sviluppo dei Cln nell’Italia centrosettentrionale. E soprattutto si metteva in evidenza che a dirigere la resistenza al Nord non era e non poteva essere il Ccln. Del resto, nella stessa Roma, l’effetti­ va operatività del Ccln, e del comitato militare che doveva esserne l’espres­ sione sul piano tecnico-operativo, incontrò i forti limiti che erano determi­ nati dalla condizione particolare della città e dalla impossibilità di svilup­ pare in essa, in un contesto sociale del tutto peculiare, una mole e una qualità di attività illegali paragonabili a quelle registrabili nelle metropoli del Nord. Il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai). Al Nord la mag­ giore effettività del potere dei Cln fu facilitata dall’assenza del governo regio e dalla presenza della struttura politico-amministrativa della Rsi, co­ me bersaglio e antagonista diretto contro cui rivolgere l’azione della Resi­ stenza. Ma fu resa possibile soprattutto dalla maggiore spinta di carattere popolare della Resistenza - al di là della più massiccia mobilitazione la pre­ senza di una forte classe operaia fu un dato qualitativamente rilevante dei caratteri della Resistenza nelle regioni settentrionali e in particolare nel triangolo industriale - e dalla possibilità di rendere almeno in parte effet­ tiva la rivendicazione di potere e di rappresentatività dei Cln. Al pari della formazione del Ccln che era una derivazione del Cln ro­ mano, il nucleo futuro del Clnai fu rappresentato dal Cln di Milano, erede anch’esso di un preesistente comitato delle opposizioni. Non fu tuttavia scontato che il Cln milanese - il cui comitato militare, per impulso soprat­ tutto di Ferruccio Parri, si pose immediatamente l’obiettivo di sviluppare la lotta armata contro l’occupazione tedesca e la Rsi - diventasse l’embrio­ ne del centro animatore della Resistenza, in presenza dello sviluppo preco­ ce della lotta armata nell’area piemontese e del livello di coordinamento già raggiunto dal Cln torinese in un contesto in cui lo sviluppo dell’attività par­ tigiana e più in generale resistenziale era stato favorito sia dalle caratteri­ stiche del territorio, sia dalla presenza lungo l’arco di confine alpino di in­ genti forze dell’esercito dissoltosi l’8 settembre 1943, sia dalla tradizione di antifascismo e di radicamento operaio tipici del capoluogo piemontese. Tuttavia, la presenza a Milano delle rappresentanze per il Nord dei partiti antifascisti, nonché l’insediamento dei comandi generali delle più impor­ tanti formazioni partigiane (in testa la Garibaldi e la Giustizia e libertà), contribuirono insieme all’eccentricità geografica di Torino a far sì che il cen­ tro di gravità si spostasse verso il capoluogo lombardo, facendone la vera capitale della Resistenza. La formazione del Clnai e soprattutto la sua ma­ turazione, sino a farne l’organismo capace di dirigere la lotta politica e l’ini­ ziativa militare della Resistenza, comportò un lento processo di assesta­

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mento e anche di definizione delle posizioni, che non coinvolse soltanto i due principali interlocutori del dibattito, i comunisti (Pei) e il Partito d’azio­ ne (Pda), che muovevano da punti di vista diversi sulle modalità con le qua­ li condurre l’iniziativa militare, ma anche i rappresentanti dei servizi an­ gloamericani in Svizzera, con i quali sin dal 3 novembre del 1943 gli espo­ nenti della Resistenza presero contatto per assicurare alle formazioni armate l’indispensabile rifornimento di armamenti, ma anche per precisare sul pia­ no politico obiettivi e strategia della Resistenza. Prima ancora di ogni de­ lega dal Ccln romano il Cln del Nord si poneva cosi, nei fatti, come Porga­ no dirigente della Resistenza, diventando fra l’altro il punto di riferimen­ to obbligato dei Cln regionali, attraverso i quali si strutturò, dalla Toscana alle Tre Venezie, l’articolazione periferica facente capo al Clnai. Formal­ mente data dal 31 gennaio 1944, a un paio di giorni dalla chiusura del con­ gresso di Bari, l’investitura del Clnai da parte del Ccln a dirigere la resi­ stenza al Nord; ma la vera legittimazione alla sua funzione dirigente il Clnai la ribadiva dal consenso che gli veniva dagli organismi periferici e soprat­ tutto dall’autorità che andava acquistando nella conduzione concreta della lotta, tanto da proporsi come contropotere rispetto alla potenza d’occupa­ zione e della Rsi, anche se spesso si trattava di un contropotere fondato più su una autorità morale e politica, in cui si riconosceva la sintesi di un indi­ rizzo politico alternativo, che non di un potere dotato di effettiva sovra­ nità politica. Il fatto ad esempio che degli scioperi si facesse garante il Clnai nel suo complesso, conferiva loro un sigillo politico che ne faceva non una manifestazione semplicemente di classe o di settore, ma l’espressione di quella «guerra di popolo» che era nelle proposte più avanzate della Resi: stenza, ossia l’espressione di un processo di trasformazione della società che era in atto con e nella Resistenza. Alleati, governo e Cln, un dibattito aperto. Sulla base di queste premes­ se, non solo non è difficile valutare le riserve di cui gli alleati circondarono l’iniziativa politica della Resistenza, ma soprattutto la"distanza che il com­ plessivo processo di politicizzazione del movimento resistenziale, indisso­ ciabile dallo sviluppo dell’iniziativa militare, stava creando rispetto alle sue posizioni più moderate, quali erano sfociate nella mancata insurrezione di Roma e nella delega di fatto agli alleati della liberazione della capitale, ma soprattutto all’indirizzo moderato del nuovo governo Bonomi e per con­ verso all’istanza di fare dei Comitati di liberazione il punto di riferimento e l’asse portante di un complessivo processo di rinnovamento del paese e della società italiana, e non soltanto dell’organismo tecnico-politico depu­ tato alla condotta immediata della guerra di liberazione. La storiografia ha sottolineato (in particolare attraverso gli studi di Catalano e di Quazza, ol­ tre agli autori già citati) la costante tensione tra le componenti degli stessi Cln tra le spinte ad anticipare le forme di un nuovo assetto istituzionale, fondate su una forte pressione dal basso e su una forte valorizzazione del­ le istanze di autonomia, di autodeterminazione e di autogoverno, e le resi­

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stenze di tipo moderato, sostanzialmente convergenti nel ridurre il rinno­ vamento dopo il fascismo al ripristino delle regole democratico-liberali, ti­ piche dell’Italia prefascista. La spinta al rinnovamento non si esaurì nella condotta della lotta con­ tro i tedeschi e i fascisti della Rsi, che innescava aspettative di profonde riforme della società per il fatto stesso di dare vita a un diffuso movimen­ to di politicizzazione. Essa si manifestò principalmente nel modo in cui fu­ rono posti gli obiettivi per il futuro; il vero dibattito tra i partiti del Cln non fu quello sulle modalità per realizzare gli obiettivi immediati della lot­ ta, ma quello sulla valorizzazione della lotta ai fini della definizione dell’av­ venire del paese, di come inserire e trasformare gli organismi dirigenti del­ la lotta - i Cln - nel processo di ricostruzione e di rifondazione della de­ mocrazia in Italia. Tutte le componenti del movimento di resistenza furono consapevoli dei poli e dei limiti entro i quali si giocavano le alternative po­ litiche per il futuro. Di questo dibattito furono protagonisti in primo luo­ go i partiti del Cln, ma nel quadro e nei limiti imposti sia dall’esistenza del governo Bonomi, come garante della continuità istituzionale, sia dalla pre­ senza determinante degli alleati, che costituivano sotto il profilo interna­ zionale l’argine entro il quale si doveva collocare anche la Resistenza ita­ liana per evitare di entrare in rotta di collisione con gli equilibri costruiti tra le potenze della coalizione antifascista. L’intreccio di queste tematiche richiama con forza due momenti cen­ trali degli sviluppi del 1944, anno di assestamento e di crescita della Resi­ stenza ma anche delle decisioni fondamentali che preludevano alla conclu­ sione vittoriosa della guerra contro il fascismo e il nazismo. Da una parte va considerata Pufficializzazione del riconoscimento del Clnai come organismo dirigente della lotta al Nord da parte del governo Bonomi e degli alleati; dall’altra l’apertura del dibattito tra i partiti del Cln sulle prospettive future da dare agli organismi nati e maturati nel corso del­ la resistenza. Apparentemente, le modalità e i contenuti del riconoscimen­ to ponevano limiti tali da rendere impraticabile ogni tentativo di superar­ ne i vincoli. Nei fatti, esse attestavano l’esistenza di una dinamica politica che, scaturita dalle condizioni stesse della lotta, tendeva a forzare e a spo­ stare su posizioni più avanzate la valorizzazione dei risultati della Resistenza al di là dell’obiettivo primario di sconfiggere tedeschi e fascisti. I colloqui di Roma e la delega a l Clnai. I tempi e i modi della delega che il governo Bonomi conferì al Clnai sono significativi della divergenza in­ terpretativa che permase costantemente alla base dei loro reciproci rappor­ ti. Gli uomini del Cln furono consapevoli di dovere ovviare alla mancanza di rappresentatività, ricercando in tempi brevi la copertura dell’autorità del governo legittimo. Soprattutto dopo la svolta di Salerno nell’aprile del 1944 furono anche consapevoli dei limiti che venivano posti alla spinta resisten­ ziale dal compromesso raggiunto tra i partiti antifascisti e dalla tregua sul­ la questione istituzionale. Ma essi valutarono che fosse prioritario nei pri­

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mi mesi del 1944 rafforzare l’autorità centrale della struttura ciellenistica. Era bensì vero che sin dal 31 gennaio del 1944 il Ccln romano (nella pro­ spettiva di una immediata liberazione di Roma che poi doveva rivelarsi il­ lusoria) aveva investito il Clnai (anche se ancora formalmente non costi­ tuito) della funzione di «governo straordinario del Nord», ma per rendere effettiva quella delega occorreva l’intervento del governo del Sud (allora ancora sotto la guida di Badoglio) e degli alleati che su di esso esercitavano uno stretto controllo. Il 22 aprile, dopo avere dato il suo consenso alla so­ luzione politica adottata per il governo del Sud, il Clnai chiese esplicita­ mente il conferimento dei poteri di rappresentanza, considerato anche l’at­ to preliminare per potersi garantire i mezzi necessari per la conduzione del­ la lotta. A una prima tardiva ma generica risposta di Badoglio del 3 giugno, poco più di una manifestazione di simpatia e di intenzioni di assistenza, se­ gui a distanza di altri due mesi il messaggio a nome del nuovo governo di Bonomi, che fu trasmesso al Clnai il 25 agosto e contenente un parziale ri­ conoscimento della richiesta del Clnai, ma che non poteva certo nasconde­ re la reticenza fondamentale messa in rilievo dagli storici della Resistenza. Era infatti evidente che, rispetto all’ambizione del Comitato di darsi con il documento del 2 giugno un vero e proprio «programma di governo», de­ stinato a incidere anche sugli assetti futuri, il messaggio di Bonomi ne re­ stringeva l’operatività a quanto fosse immediatamente e strettamente fun­ zionale ai compiti dell’« azione dei patrioti». Basti ricordare, tra l’altro, che con il documento del 2 giugno il Clnai aveva fissato tra gli obiettivi della lotta il suo sbocco nell’insurrezione nazionale che non era intesa, eviden­ temente, solo nel suo aspetto operativo in senso stretto, ma conteneva si­ curamente implicazioni politiche nella direzione dell’esercizio di un effet­ tivo potere di governo, tanto più impegnativo proprio nella fase di trapas­ so dei poteri. In questa direzione, del resto, il Comitato si era già mosso e si stava muo­ vendo nell’esplicazione di una intensa attività politico-amministrativa (se non, per dirla con Catalano, di una vera e propria azione legislativa) che nel­ la misura in cui tendeva a mobilitare popolazione e forze sociali contro il potere della Rsi, voleva anche forzare comportamenti istituzionali e prefi­ gurare i principi della fase di transizione destinata ad aprirsi nel momento stesso della liberazione. Non c’è dubbio che l’obiettivo prioritario veniva fissato nello stretto controllo attribuito ai Cln del passaggio dei poteri am­ ministrativi in sede locale, ma anche nel rinnovamento di istanze centrali dell’amministrazione pubblica (a cominciare dalle forze armate e dalle for­ ze di polizia, avviando un «funzionamento della amministrazione dell’or­ dine pubblico che dia garanzia di incensurabile correttezza politica come strumento efficiente di una nuova legalità e di un nuovo ordine») e antici­ pando provvedimenti in campo legislativo destinati a sradicare alcune dellepiu odiose misure del regime fascista, auspicando fra l’altro, con una sen­ sibilità che era mancata ai governi del Sud, «l’assicurazione del completo annullamento della legislazione razziale e del libero esercizio dei culti». Una

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esemplificazione dalla quale risultava evidente come il messaggio di Bono­ mi della fine di agosto lasciasse aperto un ampio spazio di divaricazione tra le istanze rivendicate dal Clnai e l’ambito in cui il governo di Roma inten­ deva circoscrivere la delega allo stesso Clnai. Delle due prospettive nelle quali agiva il Clnai, quella rivolta agli obiettivi immediati della lotta e quel­ la rivolta ad anticipare sviluppi duraturi per il futuro, la delega di Bonomi riguardava rigorosamente soltanto la prima. Se già attraverso le schermaglie con il governo Bonomi emergeva co­ stantemente la tensione latente tra due linee che evidenziavano un conflit­ to non soltanto potenziale tra Nord e Sud, ma anche all’interno dei com­ ponenti stessi dei Comitati di liberazione, gli accordi di Roma, con i quali si conclusero nel dicembre del 1944 i colloqui della missione del Clnai con gli alleati e con il governo italiano, confermarono che di fronte al profilar­ si di posizioni fortemente difformi, se non contrapposte, sul riconoscimento da dare ai risultati che la Resistenza aveva conseguito e poteva ancora con­ seguire, era possibile conservare l’unità della Resistenza e l’appoggio degli alleati e del governo soltanto attestandosi sul livello minimo di compro­ messo raggiungibile. Resistendo a tutte le spinte centrifughe al suo interno, la Resistenza salvò la propria unità, e nella situazione data e nel contesto internazionale in cui essa si muoveva si trattava di un risultato più che positivo; ma essa pagò anche il prezzo di uno spostamento dei suoi equilibri interni a favore della componente moderata, proprio nel momento in cui i successi esterni, vale a dire il suo rafforzamento militare oltre che civile, misurabile soprat­ tutto nel crescente isolamento di tedeschi e fascisti della Rsi, sembravano rafforzare le sue componenti più attivistiche e maggiormente rivolte a pre­ figurare l’assetto futuro del paese. Il risultato degli incontri di Roma fu obbligato: la Resistenza aveva bisogno del riconoscimento ufficiale degli al­ leati e per questo dovette sottostare alla condizione di accettare la sua su­ bordinazione operativa al Comando supremo alleato; i limiti posti dal ri­ conoscimento del governo Bonomi non discendevano soltanto dall’argine complessivo che gli alleati avevano posto ai politici italiani; derivavano an­ che dalla volontà del governo di Roma di impedire che la lotta politica al Nord assumesse equilibri più avanzati di quelli affermatisi nel governo le­ gittimo e creasse una situazione che sottraesse il Nord alle sue possibilità di controllo. Come spesso accade, le forze moderate sfruttarono anche la pressione esterna che proveniva dal contesto internazionale (la crisi greca), che rendeva comunque improponibile un modo di procedere isolato della Resistenza al Nord. Politicamente e tecnicamente i risultati degli incon­ tri di Roma, che ridimensionavano fortemente le istanze del Clnai, si po­ tevano riassumere come segue: «assunzione da parte del Clnai dei poteri di governo, ma fino alla creazione del Governo militare alleato e impegno ad eseguire in questo momento tutti gli ordini che esso darà, a partire da quello di scioglimento delle formazioni e di consegna delle armi» [Grassi I977]-

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Il dibattito delle «cinque lettere». I risultati degli incontri di Roma non si possono considerare come una semplice sovrapposizione o una forma di prevaricazione rispetto agli sviluppi che si stavano realizzando al Nord. Il dibattito aperto sin dal settembre all’interno del Clnai stava registrando l’acutizzazione dello scontro tra i partiti antifascisti in vista della libera­ zione e soprattutto delle prospettive a essa posteriori. Gli accordi di Roma anticiparono la conclusione di quel dibattito a favore delle forze moderate, nel quadro di una discussione nella quale il nodo centrale della sorte dei Cln poneva gli interrogativi fondamentali sull’assetto futuro della società ita­ liana e sui caratteri della nuova democrazia. Aveva acceso il dibattito la «lettera aperta» che il Pda aveva rivolto il 20 novembre del 1944 agli altri partiti del Clnai con la proposta di «fare del Cln, dopo l’insurrezione, la ba­ se non solo del governo centrale, ma anche dell’amministrazione periferi­ ca». Era in sostanza la richiesta dell’avocazione di tutto il potere ai Cln, con un evidente tentativo di forzare i limiti che la delega del governo Bonomi aveva già posto al Clnai e che gli accordi con gli alleati si apprestavano a ri­ badire, se possibile con ancora maggior forza. Una istanza che non si può considerare una semplice fuga in avanti, ma che va rapportata con tutta evi­ denza a una valutazione assai negativa degli sviluppi politici che si erano realizzati al Sud, nell’Italia liberata. Il punto chiave restava comunque la rivendicazione dei Cln come fonte di un nuovo potere popolare. La linea del Pda incontrò larga adesione da parte del Pei che, secondo la risposta in data 26 novembre, condivideva il principio base del consoli­ damento dei Cln «come organi effettivi del nuovo potere democratico». In questo quadro i comunisti proponevano un allargamento sostanziale delle basi su cui poggiavano i Cln con l’immissione in essi dei rappresentanti del­ le organizzazioni di massa. Sulla funzione dei Cln nella fase di transizione al di là del momento della clandestinità non vi erano divergenze sostanzia­ li rispetto alle posizioni del Pda. Le divergenze vennero viceversa esplici­ tate dagli altri partiti, in chiave moderata da liberali e democratico cristia­ ni, da sinistra da parte del Partito socialista. Facendosi forti del fatto che nel frattempo era giunta in porto la ricomposizione del governo Bonomi, entrato in crisi alla fine del 1944, liberali e democristiani ribadivano la lo­ ro opposizione a proiettare le funzioni dei Cln al di là del momento insur­ rezionale, negando che da essi potesse derivare l’investitura dei titolari del­ le nuove cariche pubbliche. In sostanza da parte loro si negava che i parti­ ti del Cln potessero predeterminare le basi del nuovo assetto democratico del paese. Liberali e democristiani contestavano il difetto di rappresentati­ vità dei partiti del Cln, ma sicuramente temevano entrambi che una solu­ zione come quella proposta da Pda e Pei potesse portare a uno spostamen­ to degli equilibri a favore delle sinistre; i democratico cristiani, in partico­ lare, erano convinti che lo svincolarsi dalle regole ciellenistiche avrebbe rivalutato il peso specifico dei cattolici nella società italiana e attribuito lo­ ro una funzione di equilibrio (centrista) che altrimenti sarebbe stata fru­

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strata dall’eguaglianza solo apparente tra le componenti del Cln. Il contri­ buto al dibattito del Partito socialista, reso noto il 20 gennaio del 1945, fu quello più polemico; esso riapriva la discussione nell’ambito della stessa si­ nistra, respingendo la proposta di immettere le organizzazioni di massa nel­ la struttura ciellenistica; probabilmente vedeva in questa ipotesi la possi­ bilità che i comunisti si assicurassero una egemonia che esso contestava, ma sicuramente paventava un ulteriore appannamento della tutela degli inte­ ressi della classe operaia a opera di una incontrollata espansione dei Cln in una direzione che a esso sembrava troppo generica e interclassista, o tale da smentire la ragion d’essere della sua presenza nel Cln in quanto partito di classe. Già Catalano [1956] aveva ben visto, nel suo studio sul Clnai, che a que­ sto punto non era più in gioco la funzione immediata dei Cln, ma che si av­ vertiva ormai «di essere in clima di lotta politica post-liberazione, e ogni partito tende a definirsi sempre meglio nel suo programma e nei suoi sco­ pi, per quanto continui a rendere omaggio all’unità dei Cln». In realtà quando si arrivò al dibattito, cosiddetto delle cinque lettere, in concomitanza con l’evoluzione dei rapporti con gli alleati e con il decorso della crisi che portò alla formazione del secondo governo Bonomi, in cui soltanto la presenza del Pei garantiva la voce delle sinistre, era già in atto uno spostamento degli equilibri a favore delle forze moderate che sarebbe stato suggellato dall’esito degli accordi con gli alleati, dalla conclusione stes­ sa della sorte futura del Corpo volontari della libertà (Cvi), cui non era assi­ curata alcuna sopravvivenza al di là della cessazione della lotta armata, di cui anzi gli alleati avevano chiesto esplicitamente la smobilitazione al pari dello smantellamento della struttura ciellenistica. Anche oltre la valutazio­ ne di Catalano, ci si può legittimamente porre il problema se il confronto delle posizioni che si ebbe sulle prospettive future dei Cln non abbia in cer­ to senso anticipato lo scontro tra le istanze di profondo rinnovamento, ta­ le da infrangere il tabù della continuità dello stato, della società e delle isti­ tuzioni e il freno opposto dalla componente moderata che pur aveva parte­ cipato alla Resistenza in direzione di un mero ripristino dei meccanismi istituzionali prefascisti, che si sarebbe riprodotto all’atto della crisi del go­ verno Parri nel novembre del 1945. Limiti imposti all’azione del Cln. Il Clnai fu consapevole dei limiti che erano stati posti all’espansione delle istanze della Resistenza. Ancora più riduttivo fu il significato che gli alleati e il governo Bonomi vollero dare al­ l’atto stesso dell’insurrezione, che fu spogliata il più possibile dei caratteri di una presa del potere. La missione nel Nord non ancora liberato del sot­ tosegretario ai territori occupati, Medici-Tornaquinci, nel marzo del 1945, alla vigilia dell’insurrezione e del crollo definitivo del fronte nazifascista, ebbe il compito preciso di trasmettere alle forze della Resistenza quello che in realtà non era una semplice informazione, ma un vero e proprio ordine degli alleati perché tutte le forze della liberazione accettassero il duplice «/-

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timatum (è una espressione di Catalano) relativo alla privazione di ogni po­ tere alle formazioni che uscivano dalla Resistenza, sul piano militare con il disarmo dei partigiani e lo scioglimento di fatto del Cvl e sul piano politi­ co con la totale subordinazione dei Cln alle autorità alleate, relegandoli al più a una funzione meramente consultiva. La parabola dei Cln - visibile nella forma più emblematica attraver­ so l’evoluzione dei rapporti tra esso e gli alleati e il governo di Roma - fu l’espressione della lotta che si era acuita tra le tendenze al rinnovamento della società italiana e le forze che ne frenavano il cambiamento. Anche la sostituzione in extremis alla testa del Clnai di Alfredo Pizzoni, che aveva comunque ben meritato ma il cui profilo politico era ritenuto troppo de­ bole, con l’assai più politico Rodolfo Morandi, entrava in questa prospet­ tiva, nell’ottica di affidare l’estrema tutela delle istanze della Resistenza a una personalità che ne potesse garantire con maggiore autorità e convin­ zione le residue speranze di contare in modo non superficiale nella diffici­ le transizione che era alle porte. La vicenda del governo Parri non può es­ sere considerata soltanto l’esito di una sconfitta in quanto riflesso del de­ clino e della scomparsa degli organi ciellenistici. Il fatto che i Cln non fossero riusciti alla luce dei rapporti esistenti a trasformarsi da strumenti «provvi­ sori» (come sempre li videro i moderati) a fattore permanente di ispirazio­ ne della nuova democrazia italiana, non diminuisce la funzione storica che essi esercitarono in quanto fattori di mobilitazione di energie e di passioni, che andarono molto al di là della funzione istituzionale dei Cln. La Resi­ stenza non si esaurì nei Cln: senza di essi non sarebbe stata concepibile, ma non si può ritenere che potessero rappresentare e imbrigliare tutto il po­ tenziale di mobilitazione politica che in essi aveva trovato il momento di sintesi e di compromesso. I Cln furono il luogo di compensazione di ten­ sioni che rifiutavano di sottostare alla rigida formalizzazione di equilibri e che si alimentavano delle spinte autonome di uomini e di donne che nella lotta contro l’occupazione tedesca e la reviviscenza del fascismo di Salò ave­ vano maturato ideali di rinnovamento destinati ad attraversare i decenni a venire, al di là delle soluzioni strettamente istituzionali. Nota bibliografica. F. Catalano, Storia d el Clnai, Laterza, Bari 1956; M. D elle Piane, Funzione storica dei Comitati di liberazione nazionale, La N uova Italia, Firenze 1946; G. Grassi (a cura di), Ver­ so i l governo delpopolo. A tti e documenti del Clnai. 1943-1946, Feltrinelli, Milano 1977; Il Primo Congresso dei Comitati di Liberazione, prefazione di T. Fiore, Istituto provinciale Apicella, M olfetta 1964; C. Pavone, La continuità dello stato .Istituzioni e uomini, ora in A lle ori­ gini della Repubblica. Scritti su fascism o, antifascismo e continuità dello stato, Bollati Boringhieri, Torino 1995; G. Quazza, La Resistenza italiana. Appunti e documenti, Giappichelli, Torino 1966; Id., Resistenza e storia d ’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Feltrinelli, Milano 1976; G . Quazza, L. Valiani e E. Volterra, Il governo dei CLN, Giappichelli, Torino 1966; L. Valiani, G. Bianchi e E. Ragionieri, A zionisti, cattolici e comunisti nella Resistenza, Insmli, Angeli, Milano 1971.

D A V ID ELLW O O D

Gli alleati e la Resistenza

Il quadro di riferimento. Considerando il movimento di resistenza ita­ liano nel suo insieme, è possibile individuare cinque fattori che hanno de­ terminato l’atteggiamento dei comandi alleati nel suo confronto fin dal­ l’inizio. x. La Resistenza in Italia cominciò tardi rispetto ai movimenti negli altri paesi e cioè dopo che la vittoria alleata era pressoché assicurata. Non potendo prevedere la capacità combattiva ancora insita negli eserciti tedeschi, i singoli alleati pensavano già alle coalizioni e alle sfere di in­ fluenza che avrebbero potuto sorgere dopo il conflitto, e in quest’otti­ ca consideravano l’organizzazione - anche se non necessariamente l’applicazione quotidiana - della loro strategia militare e politica. 2. Per i comandi dell’Allied Force Head Quarters (Afhq), il movimen­ to italiano faceva parte di una scena mediterranea complessa e insta­ bile, in cui le guerre resistenziali in Grecia e in Iugoslavia erano con­ siderate decisamente più significative di quelle italiane. In partico­ lare, l’impegno di sostegno alla Resistenza iugoslava era già molto consolidato al momento della resa italiana, mentre in Grecia nello stesso periodo stavano sorgendo quei problemi che sarebbero poi sfo­ ciati nell’insurrezione di Atene del dicembre 1944. In gran parte igna­ ra di queste considerazioni, la Resistenza italiana doveva sempre ga­ reggiare con le lotte balcaniche per attirarsi l’attenzione del coman­ do alleato. 3. In Grecia e in Iugoslavia la questione delle forze comuniste e delle loro intenzioni si era già presentata come problema politico di pri­ maria importanza, e ben presto si scopri che lo stesso fenomeno si stava ripetendo in Italia. Mentre si presumeva che queste forze rice­ vessero gli ordini da Stalin, mediati dalla leadership locale, non vi era certezza alcuna che questi ordini sarebbero stati eseguiti, né si cono­ scevano le ultime intenzioni di Stalin. La paura di un movimento di massa armato, dominato dalle forze comuniste, caratterizzò in modo variabile l’atteggiamento alleato fin dall’inizio, crescendo con il pro­ lungamento della campagna e l’affermazione del potere sovietico nell’Europa centrale, e in particolare nella vicina Iugoslavia.

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Gli alleati e la Resistenza

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4. La divisione storica e socioeconomica fra Nord e Sud in Italia rafforzò l’impressione degli alleati che la Resistenza fosse fin dall’inizio un mo­ vimento minoritario, limitato ad alcuni elementi della popolazione del Nord. Gli angloamericani avevano vissuto la loro esperienza ita­ liana nel Sud, dove si erano impegnati soprattutto nel lavoro di rico­ struzione delle strutture dello stato tradizionale. Ben sapevano che il fascismo non era stato sconfitto da un movimento di opposizione, ma era crollato sotto il peso dei propri errori. Oltre al fascismo rimane­ va lo stato costituzionale, formalmente legittimo, capeggiato dal re. Gli stessi alleati, pur essendo consapevoli della necessità di un profon­ do rinnovamento politico nel paese, non si erano incaricati, e non ne avevano alcuna intenzione, di promuovere questo rinnovamento. In­ sistevano quindi sull’urgenza delle priorità militari, sulla promessa della Carta atlantica riguardante l’autodeterminazione per tutti a guerra finita e sulle imprescindibili prerogative di uno stato tradi­ zionale che facesse capo a Roma. 5. Al momento dell’invasione e poi della resa italiana, il grado di cono­ scenza degli alleati a proposito della situazione politica e sociale del paese era limitatissimo, connotato da una mancanza di dati e di com­ prensione nel Foreign Office e nel Dipartimento di stato, nei servizi segreti e nei comandi militari di ogni livello. Ben presto si crearono fonti di informazione mediante agenti specializzati mandati dietro le linee, informatori ed ex prigionieri di guerra. Ma le lacune rimaneva­ no, e la mancanza di un’immagine dellTtalia precisa dopo vent’anni di fascismo produsse non pochi vuoti di comunicazione tra comando alleato e leadership della Resistenza durante e dopo il conflitto. A questi fattori permanenti se ne aggiunsero altri, prodotti dall’evolu­ zione della campagna nel paese. In primo luogo occorre tenere ben presen­ te che la guerra in Italia durò molto più a lungo del tempo previsto dagli al­ leati, con ripetuti crolli delle loro ambizioni, delle speranze e dei progetti. Il risultato più significativo fu quello di trasformare in rottura la profonda con­ traddizione strategica fra inglesi e americani, circa il significato da attribuir­ si alla campagna in Italia. Con l’uscita di scena di sette divisioni americane nel giugno 1944, gli inglesi si trovavano a gestire quasi da soli la campagna militare nell’estate-autunno di quell’anno, campagna che avrebbe dovuto portare a termine la guerra in Italia ma che fu bloccata dalla straordinaria resistenza tedesca lungo la linea Gotica. Questa relativa assenza militare americana aveva il suo corrispettivo politico: furono gli inglesi a condurre gli affari dell’Afhq, i rapporti con i governi italiani e a sostenere i contatti diretti con la Resistenza. In parti­ colare, il comandante supremo per la maggior parte della durata della cam­ pagna, il cauto e conservatore generale Alexander, affiancato dal suo con­ sigliere politico, l’energico e abilissimo futuro primo ministro, Harold Mac­ millan, davano un’impronta all’azione alleata nel Mediterraneo che ha

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lasciato segni ovunque. Trascurare l’impatto militare e politico di questi uo­ mini e del loro staff, secondo la consuetudine della storiografia italiana, vuol, dire dare giudizi squilibrati e incompleti. E ormai ampiamente documentata l’ostilità che caratterizzò l’ottica in­ glese su tutto ciò che riguardava l’Italia, un impulso punitivo che voleva ve­ dere l’Italia inchiodata al fianco degli imputati quando sarebbe avvenuto il negoziato di pace. Ma col passare del tanto tempo e tra tante delusioni nel comportamento degli inglesi si aprivano contraddizioni che una più abile leadership politica della Resistenza avrebbe potuto sfruttare, come notò il presidente del Clnai, Pizzoni, nelle sue memorie (pubblicate solo nel 1993). «Patologicamente» antitaliano (come ebbe a dire Alexander) il ministro de­ gli Esteri Eden, l’atteggiamento di Churchill si rivelò spregiudicato e mu­ tevole. I più possibilisti diventarono coloro che erano a più diretto contat­ to con la realtà italiana: Alexander e Macmillan, in primo luogo, e poi gli ufficiali del servizio segreto responsabili del sostegno alla Resistenza, lo Spe­ cial Force. Ciononostante, anche se si parlò più volte di forze volontarie, di apportare rinforzi alla Resistenza, di aumentare le divisioni italiane sul fronte, di tutto ciò si fece molto poco. Infine, mentre gli alleati parlavano nella loro propaganda in termini di onnipotenza materiale e invincibilità militare, le difficoltà inaspettate del­ la campagna italiana ne rivelarono la rigidità degli schemi operativi e i li­ miti della disponibilità effettiva dei mezzi bellici, degli aerei in particola­ re. Erano occorsi ventuno mesi per avere un’assegnazione “simbolica” di aerei nell’autunno del 1943, in mezzo al «caos operativo ed organizzativo su chi doveva fare, cosa e come doveva farlo», secondo un ufficiale dell’avia­ zione americana [Bradbury in A A .W . 1995]. Solo nel marzo-aprile 1944 le forze aeronautiche di sostegno si presentarono come arma con uno status riconosciuto e in grado di operare sistematicamente. Ma le priorità inter­ venute, le difficoltà di continuità operativa, di navigazione, di scarsa co­ noscenza dei territori, di coordinamento e soprattutto di affidabilità metereologica trasformavano il sostegno via aerea delle forze combattenti in un’impresa difficilissima. La fonte sopracitata parla di 2652 voli riusciti su 4280 compiuti, ma l’ex comandante dello Special Force cita il caso del me­ se di ottobre 1944: delle diciannove notti previste per i voli e i lanci, quat­ tordici videro tutti gli aerei a terra per avversità metereologiche [Woods in A A .W . 1990]. I servizi segreti:N .i Special Force e Office o f Strategie Services. La gestio­ ne diretta dei rapporti fra alleati e Resistenza costituiva la responsabilità formale di due organizzazioni create in virtù di tale scopo: il N. 1 Special Force inglese (Sf) e l’Office of Strategie Services americano (Oss). Nono­ stante il passare degli anni e l’apertura di numerosi archivi angloamericani, a cui si sono aggiunte sempre più numerose le raccolte di testimonianze di­ rette, le operazioni di questi due enti rimangono per molti versi oscuri, so­ prattutto per quanto riguarda i rapporti con gli alti comandi e gli altri enti

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alleati, le relazioni con i governi (per esempio quello svizzero), la selezione del personale e le fonti di informazione e contatti. Lo Special Force dipen­ deva direttamente dallo Special Operations Executive (Soe), un’organiz­ zazione con sede a Londra e al Cairo, la cui conoscenza si è accresciuta ne­ gli ultimi anni, come risulta da numerosi studi e discussioni. Manca tu tt’ora, comunque, la «storia ufficiale» dello Special Force in Italia (il volume equi­ valente per la Francia è uscito nel 1966). Nonostante le sue origini risalissero al 1940, fu soltanto nel 1943 che il Soe riuscì a costituire un organismo utile per gli scopi della c ampagna mili­ tare in Italia, e a mettersi in grado non solo di raccogliere informazioni tat­ tiche, ma anche di lanciare operazioni da commando lungo le coste del Nord occupato, e poi di proseguire il suo obiettivo militare supremo, quello di «creare il massimo disturbo alle linee di comunicazioni nemiche, soprat­ tutto nelle zone meno esposte agli attacchi aerei» [Woods in A A .W . 1990]. Lo Special Force prese contatti con la Resistenza al Nord - attraverso la Svizzera - a partire dal novembre 1943, ma soltanto dagli inizi del giugno 1944 furono intrapresi i contatti operativi con le forze resistenziali, parten­ do da un’operazione per la liberazione di Ancona. Da quell’epoca in poi fu­ rono spedite quarantotto missioni inglesi (composte da uno a quattro agen­ ti) dietro le linee e ne vennero appoggiate altre quarantotto costituite da per­ sonale italiano. Il numero di missioni registrato nelle settimane precedenti la liberazione finale fu di trentasette britanniche e diciassette italiane. Indubbiamente lo Special Force ebbe una parte di rilievo nei rapporti con la Resistenza italiana, e questo fu il risultato di una maggiore atten­ zione da parte degli inglesi per la campagna in Italia, di un’esperienza nel settore già consolidata nei Balcani, in Grecia e altrove, e di un metodo di lavoro già consolidato. Ma il quadro delle operazioni dell’Oss e dei suoi fiancheggiatori italiani (soprattutto l’Organizzazione della resistenza ita­ liana - Ori) emerso a poco a poco rivela una gamma di interventi paragonibili per vastità e forse anche per incisività a quelli degli inglesi. Mentre lo Special Force operava in un contesto militare strettamente controllato dall’alto da Londra e dall’Afhq - dove ogni forma di “forza spe­ ciale” fu vista con grande diffidenza - l’Oss godeva di un’autonomia ope­ rativa molto ampia, privilegiando priorità e procedure strada facendo. Coor­ dinare le attività dei partigiani e mantenere i legami con i Cln, questi era­ no gli obiettivi sia dello Sf sia dell’Oss. Ma spesso le missioni americane prevedevano responsabilità più ambiziose: facilitare l’evacuazione di ex pri­ gionieri di guerra o aviatori abbattuti; mantenere linee di comunicazione tra i Cln e il Sud; raccogliere intelligence strategico e tattico; non solo pro­ muovere ma anche effettuare azioni di combattimento (a questo scopo gli inglesi usavano occasionalmente un altro organismo “speciale”, gli Special Air Service - Sas). Per affiancare le loro azioni sovente gli inglesi selezio­ navano individui affidabili dai ranghi dell’esercito italiano o da altre forze armate collocate nel Sud; l’Oss si dimostrò invece più disposto a reclutare i suoi effettivi italiani direttamente dalle fila dei partigiani. Soprattutto,

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l’Oss poteva contare su una partecipazione sentita da parte di soldati e uf­ ficiali provenienti dalla comunità italoamericana degli Stati Uniti. Più controversa è rimasta la questione della valenza politica delle ope­ razioni dei due servizi. Tra i superstiti, gli inglesi e chi ha sostenuto la lo­ ro posizione in sede storiografica insistono sulla separazione assoluta in­ tercorsa tra compiti militari e interessi politici nell’attività di sostegno alla Resistenza, enfatizzando l’esclusivo predominio dei primi. Ma gli americani o filoamericani non hanno esitato a mettere in rilievo la dimensione politi­ ca del lavoro di tutti i servizi segreti in una situazione come quella italiana, e hanno spesso accusato gli inglesi di essersi interessati alla parte più con­ servatrice della Resistenza a scapito di quella più radicale, almeno nei pri­ mi mesi della lotta [Craveri 1980]. In realtà la lotta stessa ha spesso eliminato queste differenze. Se in par­ tenza gli inglesi si presentavano più prevenuti e gli americani più spregiu­ dicati politicamente, il peso e l’esperienza del singolo capo missione han­ no contato più di ogni altro fattore nel determinare l’atteggiamento assun­ to sul campo. Solo alle missioni inglesi fu comunque assegnato il compito di facilitare l’arrivo del governo militare alleato nei territori liberati nelle ultime settimane di guerra, e di individuare in tale sforzo le «fonti dell’or­ dine». Sino dalla presentazione nel 1962 dei primi documenti provenienti dal confronto alleati-Resistenza, a opera di Pietro Secchia e Filippo Frassati, è stato possibile delineare con una certa precisione l’atteggiamento e la men­ talità dello Special Force. Ancor prima che gli alleati scoprissero quanto fos­ se significativo l’apporto comunista alla forza politica e militare del movi­ mento di liberazione, i dirigenti del Clnai, durante la prima riunione del 3 novembre 1943 con i capi del Soe in Svizzera - presenti Valiani e Parri -, vennero informati che «la resistenza non doveva essere altro che un’attività frazionata in piccoli gruppi di sabotatori e di informatori, controllata dalle missioni angloamericane» (mentre il Clnai rivendicava «la possibilità e la necessità della formazione di un esercito popolare, in grado di condurre ope­ razioni militari su vasta scala, con una guida politica e militare propria, cen­ tralizzata e unitaria»). In quest’ottica la Resistenza avrebbe dovuto sempre e comunque aspet­ tare gli ordini degli alleati e soprattutto avrebbe dovuto prepararsi al dram­ matico giorno finale dell’insurrezione limitandosi ad aprire la strada alle forze armate alleate in arrivo. Non erano affatto gradite “insurrezioni” pre­ liminari, cioè la liberazione autogestita di intere zone di territorio. Nella prima fase, in particolare, i comandanti dello Special Force non volevano sentire parlare di motivazioni politiche, di esponenti di partito o di discus­ sioni sul futuro del paese, facendo capire che una corretta professionalità militare avrebbe dovuto escludere tali considerazioni. Ma seguendo le fasi dell’esperienza diretta, dietro le linee, si possono individuare sia gli ele­ menti di continuità sia gli elementi di cambiamento nell’atteggiamento del­ lo Special Force, come degli altri protagonisti alleati.

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Le fasi. Va sottolineato che la tappa iniziale, quella dell’inverno 19431944, è la più carente di informazioni su contatti e attività intraprese per organizzare i rapporti tra alleati e Resistenza. Non ci possono essere dub­ bi comunque sulla frammentarietà dei rapporti, sui conflitti tra i vari orga­ nismi angloamericani interessati alla questione, sull’estrema scarsità delle risorse a disposizione, senza parlare del rifiuto esplicito delle forze aeree di prestare una minima parte dei loro mezzi alla causa della Resistenza. Cio­ nonostante fu durante questa fase che si stabilì l’importante contatto con l’Organizzazione Franchi capeggiata da Edgardo Sogno, il quale, secondo un messaggio interno dello Special Force del 1944, sarebbe divenuto in se­ guito «il nostro organizzatore capo nel nord-ovest dell’Italia». Riguardo alle ambizioni del Clnai la diffidenza era palese e, nonostan­ te la promessa implicita nel corso della riunione del 3 novembre, solo il 23 dicembre vi fu il primo lancio - di materiale per appena trenta uomini - al­ le forze che si riconoscevano nel Comitato di liberazione. Secondo Secchia e Frassati, si potè constatare un aumento di lanci dopo il fallimento relati­ vo dello sbarco ad Anzio (gennaio 1944) e del primo attacco su Montecassino. Sono ipotesi che rimangono da confermare. Ma fu soltanto a prima­ vera avanzata - dopo gli scioperi di marzo e dopo la creazione del coman­ do militare unificato del Cvl - che l’appoggio degli alleati alla Resistenza conobbe un’evoluzione positiva, e che gli alti comandi misero i servizi se­ greti in grado di intervenire sul territorio con efficacia. Il 23 maggio il «Times» di Londra pubblicò un’intervista con Alexan­ der, il quale dichiarò che la Resistenza teneva occupate ben sei delle venti­ cinque divisioni presenti in Italia («un’assurda esagerazione», però, secon­ do lo storico inglese Richard Lamb [1996]). Negli ambienti dell’Afhq in quel periodo circolava la cifra di circa 70 000 combattenti, un numero che, secondo il comando militare del Cvl nelle sue ripetute richieste trasmesse tramite lo Special Force e l’Oss, si sarebbe potuto raddoppiare se fosse sta­ to messo a disposizione un rifornimento più ampio e regolare di armi, di equipaggiamento e di denaro. Il 6 giugno il generale Alexander invitò, con un noto messaggio, le for­ ze della resistenza a partecipare alla grande campagna militare estiva e an­ nunciò che la fine della guerra era vicina. Ebbe così inizio la stagione più lunga e fruttuosa dei rapporti fra alleati e resistenza armata. Arrivò la pri­ ma missione dello Special Force dietro le linee. I rifornimenti passarono da poche tonnellate nei primi mesi dell’anno a più di 100 tonnellate nel mag­ gio, più di 200 in giugno, e quasi 270 in luglio, punta massima superata so­ lo nell’ultimo mese della guerra. Il 12 maggio si inserì la prima missione die­ tro le linee dell’Oss, sulle alture dietro Genova. Dai primi di luglio, la Commissione di controllo alleata fondò il suo Patriots Branch (Sezione patrioti), allo scopo di sistemare i rapporti con la Re­ sistenza e, soprattutto, con i partigiani rimasti “disoccupati” dopo la libera­ zione dei loro territori nel Centro e nel Nord-est della penisola. Il 12 agosto,

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dall’Afhq, arrivò al Nord il generale Cadorna per coordinare e sorvegliare le operazioni del Cvl. Macmillan comunicò al Foreign Office, alla fine del mese di agosto, che «la Resistenza italiana ha dato e sta dando risultati di prim’ordine», e l’alto commissario inglese incaricato presso il governo ita­ liano, Sir Noel Charles, stimò il numero di partigiani tra i cento e i due­ centomila. Nel frattempo, con l’avanzamento degli alleati in Toscana il sistema di controllo angloamericano dovette confrontarsi con il movimento della Re­ sistenza inteso come organizzazione militare e politica - e non come risul­ tante di un insieme di bande disparate - che operava attraverso una com­ pagine di comitati di liberazione. Le conseguenze del confronto sono ormai note: la lotta per circoscrivere e poi ridurre i poteri del Ctln, la rigida insi­ stenza del governo di Roma per il rispristino del sistema di potere tradi­ zionale, la varietà delle esperienze a livello locale. I comandi alleati predica­ rono e praticarono la flessiblità, ma non poterono fare a meno di preoccu­ parsi della potenzialità di rottura implicita in questi esperimenti autonomi. Contemporaneamente, con l’emergere della questione comunista nel pa­ norama italiano, nei comandi alleati sorsero preoccupazioni destinate a cre­ scere riguardo ai problemi politici che avrebbero potuto presentarsi al Nord con le sue masse urbane. Così a mano a mano che la campagna estiva si av­ vicinò al suo culmine, e mentre vennero diramate tre importanti esortazio­ ni alle forze partigiane a dare il massimo in vista della vittoria finale (il 6, l’8 e il 20 settembre), al Clnai furono mandate istruzioni che insistevano sul mantenimento dell’ordine, sulla difesa degli impianti di pubblic a utili­ tà, sul disarmo e sul potere supremo del Governo militare alleato (Amg), il quale sarebbe arrivato «subito» dopo la liberazione. A livello psicologico, gli alleati svilupparono in questo periodo una se­ rie di tattiche per rendere meno difficoltosa la gestione delle forze parti­ giane durante la fase di transizione da combattenti a ex combattenti: for­ me cerimoniose di smobilitazione, certificati di benemerenza firmati dal ge­ nerale Alexander, promesse di aiuti per la casa, il mantenimento, il lavoro (promesse che difficilmente vennero mantenute e che in seguito generaro­ no delusioni e malumori). Per i Cln, le ricompense assunsero la forma di consultazioni informali con il governatore dell’Amg locale e di inserimen­ to come uno (ma solo uno) degli elementi costitutivi dei rinati organi di go­ verno municipale. A metà ottobre tuttavia gli alleati constatarono il fallimento dei loro obiettivi sulla linea Gotica e decisero di «ridurre molto gradualm enteil sostegno propagandistico alla Resistenza. Cominciò così il lungo e sofferto inverno 1944-45, dominato dalle tattiche adottate dagli alleati per mante­ nere il movimento sotto un controllo invisibile e misurato ma completo. L’avvenimento più noto di questo periodo è il messaggio di Alexander del 13 novembre 1944, con il quale il comandante supremo annunciò la fine della stagione delle ostilità invitando i partigiani a conservare armi e mu­ nizioni fino all’arrivo di nuovi ordini e a difendersi dall’inverno ostile. Men­

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tre la maggioranza dei testimoni inglesi ha difeso l’operato di Alexander, almeno uno di essi in seguito dissentì: lo scrittore e storico Basii Davidson commentò che il radiomessaggio «ha praticamente ordinato ai partigiani di sciogliersi e ha invitato il nemico a liquidarli». Alla domanda circa i motivi che spinsero gli alleati a un comportamen­ to così grossolano e disastroso, non si è ancora trovata una risposta del tutto soddisfacente. Alla fine di ottobre Churchill e il ministro responsabile del Soe, Lord Seelborne, avevano concordato che la Resistenza italiana merita­ va ogni sostegno e Alexander stesso stava lavorando in questa direzione. Il messaggio non annunciò di fatto il declino dei lanci di rifornimenti, che l’Oss in particolare continuò a inviare nei limiti delle possibilità materiali. Re­ stano ancora da chiarire il processo decisionale che ha portato allo sfortu­ nato annuncio, i motivi per cui fu trasmesso via radio in forma non cifrata e le ragioni della sua emanazione il giorno precedente l’arrivo di una im­ portante delegazione del Clnai composta da Parri, Pajetta, Pizzoni e Sogno. Nel corso dell’importante negoziato che seguì gli obiettivi alleati si ba­ sarono sui concetti di disarmo, di smobilitazione e del passaggio completo di qualunque potere acquisito dalla Resistenza nelle mani dell’Amg al mo­ mento della liberazione. In cambio il movimento avrebbe potuto godere di un certo riconoscimento “informale”, e avrebbe potuto usufruire di una de­ terminata quantità di armi e di denaro. In seguito, gli «accordi di dicembre» (le cui trattative furono concluse il 7 dicembre 1944) vennero considerati come il momento culminante dei rapporti alleati-Resistenza, segnale di un giusto apprezzamento alleato del­ lo sforzo compiuto e dei sacrifici patiti. Ma forti della loro esperienza in Grecia e delle abili manovre del “regista” Macmillan (che voleva separare la dimensione militare da quella politica nella trattativa, costringendo il Clnai a un confronto per niente confortante con il governo Bonomi), gli al­ leati riuscirono ad applicare al comando del movimento una specie di ca­ micia di forza che non soddisfece nessuno al Nord. Essi desiderarono sicu­ ramente rinforzare il Clnai nella sua autorità effettiva, poiché in questo mo­ do le spinte provenienti da particolari direzioni politiche avrebbero potuto essere neutralizzate senza ricorrere a scontri frontali. D’altro canto era pre­ vista una serie di controlli militari, finanziari e politici alle strutture del Nord sia durante sia dopo le fasi conclusive della guerra, per garantire che il sistema ciellenistico non diventasse - nelle parole del diffidentissimo Foreign Office - «un mostro di Frankenstein», capace di sfidare l’autorità co­ stituita del governo di Roma. Sicuramente i fatti di Atene - e della Iugoslavia di Tito - influirono enormemente sul punto di vista degli alleati alla fine del 1944. L’indebolimento dei tedeschi faceva presagire il ripetersi della vicenda greca e infini­ te furono le precauzioni prese per prevenire i rischi inerenti alla possibilità di un crollo caotico del potere nazifascista. La piò elaborata di queste pre­ cauzioni fu l’operazione Cinders, che prevedeva l’impiego di duecentoquaranta aerei e il lancio su Torino delle brigate di paracadutisti preceden­

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temente inviate ad Atene, nel caso fossero scoppiati conflitti armati a se­ guito di un troppo rapido ritiro tedesco. Tutte le missioni alleate nel Nord ricevettero istruzioni dettagliate in questo senso, mettendo la zona in po­ sizione di avanguardia dell’Amg. Nei quartieri generali le preoccupazioni per uno sbocco insurrezionale e persino rivoluzionario della lotta di liberazione continuarono a crescere per tutto l’inverno; negli archivi si conservano svariati rapporti sulla peri­ colosità delle forze comuniste e sulla minaccia proveniente dalla Iugoslavia. AU’Afhq vennero contemplate varie contromisure, compreso l’annulla­ mento degli «accordi di dicembre» e il rifiuto di fornire ulteriori aiuti alle forze garibaldine, ma furono tutte scartate perché considerate troppo ri­ schiose o provocatorie. Il nervosismo che si diffuse raggiunse anche i capi di stato maggiore riuniti a Washington, i quali, il 28 febbraio, emanarono un ammonimento contro «qualsiasi tentativo [da parte del Clnai] di pre­ sentarsi in qualità di governo alternativo a quello di Roma». Harold Mac­ millan sentenziò: «il disarmo è quello che conta più di ogni altra cosa; le questioni politiche sono una scusa per conservare un potere armato». L’evoluzione della liberazione finale colse molti di sorpresa, compreso il controllo alleato. L’«intervallo rivoluzionario» di breve durata tra l’usci­ ta dei tedeschi e l’arrivo degli alleati registrò caos, violenza e disordini in molte località ma non causò nessuno dei disastri temuti nei comandi allea­ ti. Infatti, il i° maggio, il capo della Commissione di controllo alleata lodò gli «straordinari successi» dei partigiani nel promuovere la liberazione fi­ nale e nell’organizzare il periodo successivo, e ordinò la massima flessibi­ lità nel trattamento dei Cln. Questi ultimi, nonostante la convinzione di essere indispensabili sul territorio e le speranze di poter continuare il loro operato, rispettarono gli accordi previsti e, contando almeno in un ricono­ scimento della loro autorità morale da parte degli alleati, rinunciarono a ogni potere. Le forze della resistenza si presentarono alle cerimonie di smobilitazio­ ne e deposero le armi, anche se nei comandi alleati nessuno dubitava che vi fossero ancora molte armi nascoste; il 2 giugno vennero pubblicati i decre­ ti che ponevano fine ufficialmente a ogni ruolo dei Cln. Tutto ciò avvenne dopo alcune settimane durante le quali molti governatori alleati lasciarono lavorare i «designati politici» nelle prefetture, nelle questure e nei munici­ pi; il singolo governatore dell’Amg, infatti, godeva di molti poteri e di am­ pia libertà di azione. Ne derivò quella grande varietà di esperienze che ca­ ratterizzò il processo di liberazione e l’arrivo degli alleati a livello locale. In tal modo la forza politica della Resistenza armata, intesa come sfida potenziale alle strutture e alle leggi dello stato tradizionale, fu effettiva­ mente neutralizzata. Se sul piano militare, dopo un lungo e faticoso rodag­ gio, era stata ottenuta una certa efficacia nel lavoro congiunto, che risultò indispensabile ai successi ottenuti dalla Resistenza organizzata, per contro, sul piano della politica nazionale e internazionale, non furono mai supera­ te le forme di diffidenza, o peggio di indifferenza, che caratterizzarono in

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modo evidente l’ottica angloamericana della lotta di liberazione in Italia. Né durante il conflitto né dopo, infatti, il movimento ebbe mai una riso­ nanza o una propaganda paragonabili a quello francese o a quello dei Bal­ cani, e la storiografia internazionale l’ha trascurato quasi del tutto. Alla ba­ se di questo comportamento vi era la motivazione che Ferruccio Parri die­ de dieci anni dopo: «non si voleva una forza effettivamente cobelligerante che potesse vantare i diritti che De Gaulle aveva rivendicato». La storiografia. Gli studi storici su alleati e Resistenza tendono ad at­ tribuire all’azione alleata una razionalità che in realtà ha avuto solo spora­ dicamente. Dal momento in cui la campagna alleata in Italia subì il suo pri­ mo grande smacco, la mancata liberazione di Roma prima del Natale 1943 - seguito subito dal secondo, la tragedia-farsa di Montecassino, durata dal febbraio al maggio 1944, e poi dal terzo, il fallimento dell’assalto “finale” alla linea Gotica nell’agosto-settembre 1944 -, la storia reale si è staccata sempre più dalla storiografia, in attesa del suo momento di ricomposizione. Non è verosimile aspettarsi una tale ricomposizione dagli storici ameri­ cani, poco interessati alla tematica, ma neanche da quelli inglesi, pur sem­ pre affascinati dalle vicende italiche. Sia Richard Lamb [1966] che Eric Morris [1995] perpetuano la vecchia consuetudine inglese di considerare la Resistenza una vicenda del tutto marginale nel quadro della campagna ita­ liana; Morris giunge anche a denunciare «il mito» della Resistenza come basato su «una menzogna», e cioè che si trattò di un secondo Risorgimen­ to che vide il coinvolgimento della popolazione intera del Nord. Ignoran­ do quindi del tutto l’intenso dibattito italiano degli ultimi trent’anni sulla vera natura e i limiti del fenomeno resistenziale, la più recente storiografia britannica è servita solo a confermare stereotipi e pregiudizi. Una parziale eccezione a questa regola si trova nel lavoro, molto origi­ nale, di Roger Absalom [1991]. Si tratta di un esame dettagliato - usando un approccio mutuato dall’antropologia - del mondo degli helpers, cioè di quelle centinaia di individui e di famiglie che hanno portato soccorso - spes­ so correndo gravi rischi personali - ai quasi 50 000 ex prigionieri di guerra alleati in fuga dopo l’8 settembre, oltre agli altri dispersi dietro le linee ne­ miche nel corso della campagna. Unendo una minuziosa ricerca archivisti­ ca a una profonda conoscenza dei territori coinvolti e della realtà contadi­ na, perlopiù teatro di queste vicende, Absalom è riuscito a ricostruire la realtà di una forma di resistenza civile al di là di qualunque quadro ideolo­ gico, risalendo a forme tradizionali di antiautoritarismo, dì sentimento uma­ no e di «un più antico pragmatismo». Le origini della fase contemporanea della storiografia scientifica sulla questione alleati-Resistenza, intesa in senso strettamente militare-politico, risalgono alla metà degli anni settanta, dopo l’apertura di quantità sostan­ ziali di documenti di archivio a Londra e a Washington, a trent’anni dalla fine della guerra. I lavori più significativi dell’epoca cercarono soprattutto di superare il vecchio concetto del “condizionamento”, secondo il quale gli

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alleati, in modi mai definiti, avrebbero fatto sentire la loro influenza per garantire un certo tipo di sbocco politico - conservatore, anticomunista alla vicenda resistenziale. L’opera di chi scrive cercava di analizzare il si­ gnificato della nuova realtà della «sovranità limitata» entro le vicende del­ la guerra in Italia e le sue implicazioni politiche. Dimostrava inoltre il mag­ gior interessamento inglese alla situazione italiana rispetto agli americani e cercava di collegare il comportamento dei più alti ranghi britannici (non ne­ cessariamente quelli sul posto) a una certa concezione del futuro trattato di pace: premiante per la Gran Bretagna, punitiva per l’Italia [Ellwood 1985]. Alla luce della nuova documentazione, numerosi ricercatori italiani si sono cimentati in lavori di lungo corso, producendo risultati molto signifi­ cativi. Collegando l’evoluzione della diplomazia internazionale tra guerra e guerra fredda con le specifiche vicende italiane dopo l’8 settembre, Elena Aga Rossi è riuscita a dimostrare i pregi e i difetti della strategia alleata di fronte alla sfida della Resistenza [Ferrantini Tosi, Grassi e Legnani 1988]. Per Aga Rossi, comunque, la battaglia storiografica italiana odierna è quel­ la che conta, e la sua produzione in quest’ambito ha avuto lo scopo di sfa­ tare i miti di una strategia alleata motivata politicamente in senso antico­ munista e antiresistenza. Basata su una rigorosa documentazione archivi­ stica, l’argomentazione enfatizza l’esclusività operativa delle priorità militari degli alleati. Il volume più completo sui rapporti tra alleati e Resistenza è quello di Massimo De Leonardis [1988], basato su approfondite ricerche archivistiche a Londra. Costruita per dimostrare l’infondatezza di tante caratteriz­ zazioni “dietrologiche” del comportamento inglese, l’argomentazione di De Leonardis trova ampiamente razionali le scelte strategiche e il comporta­ mento sul campo di battaglia degli inglesi, i quali avrebbero avuto sempre ben presente la preminenza delle priorità militari, lontano da ogni consi­ derazione politica. Che un tale approccio non fosse comunque sempre applicabile viene di­ mostrato ampiamente dai lavori sulla situazione nella Venezia Giulia pro­ posti da Giampaolo Valdevit [De Felice 1997], alcuni fra i contributi più nuovi e significativi degli anni ottanta e novanta. Offrendo una sintesi di storia locale e internazionale, Valdevit è riuscito a districare gli elementi essenziali del confronto fra «tre Resistenze» (italiana, iugoslava e greca) e a dimostrare efficacemente che la priorità assoluta alleata non era a favore di una soluzione o di un’altra, ma volta ad assicurare il controllo, indistur­ bato, a garanzia di una transizione immediata e incontrastata dalla libera­ zione all’occupazione (temporanea). Infine va sempre tenuta presente la ricchissima produzione memoriali­ stica, che ha attraversato i decenni dalla liberazione a oggi. Un uso partico­ larmente proficuo di questo materiale è stato proposto da Claudio Pavone [i99ìl> il quale, fondendolo con fonti d ’archivio del movimento resisten­ ziale, ha ricostruito un panorama di valutazioni dei comandanti partigiani circa l’attività e il comportamento, osservati direttamente, degli alleati, ma

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anche a proposito della loro presunta strategia generale. Soffermandosi sul­ le reazioni alle speranze così spesso deluse, sulle perplessità per la lentezza dell’avanzata angloamericana e sulla necessità di presentarsi uniti e co­ munque “diversi” dalle altre realtà italiane incontrate dagli alleati fino a quel momento, il volume offre inoltre un riscontro diretto con gli atteggia­ menti maturati nei confronti del nemico tedesco. La memorialistica è stata poi arricchita negli anni 1990-95 dalle serie di testimonianze, prodotte in ambiente italiano, che raccolgono le esperienze di numerosi protagonisti del N. 1 Special Force e dell’Oss [AA.VV. 1990; A A .W . 1995] Da segnalare inoltre due significativi volumi di saggi di sin­ tesi e analisi prodotti per il cinquantesimo anniversario della liberazione, curati da Francesca Ferratini Tosi [Ferratini Tosi, Grassi e Legnani 1988] e Franco De Felice [1997]. Nota bibliografica. A A .W ., N . 1 Special Force nella Resistenza italiana, Fiap / Special Forces Club, Bologna 1990; A A .W ., G li americani e la guerra di liberazione in Italia. Office o f Strategie Services (O S S .) e la Resistenza, Presidenza del Consiglio dei M inistri, Roma 1995; R. Absalom, A Strange Alliance. Aspects ofEscape and Survivalin Italy. 194}-1945, Olschki, Firenze 1991; E. Aga Rossi, L ’Italia nella sconfitta. Politica intema e situazione intemazionale durante la Secon­ da guerra mondiale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli-Roma 1985; R. Craveri, La Cam­ pagna d ’Italia e i servizi segreti. La storia dell’O R I (1943-1945), La Pietra, Milano 1980; F. D e Felice (a cura di), Antifascismi e Resistenze, Carocci, Roma 1997; M. D e Leonardis, La Gran Bretagna e la Resistenza partigiana in Italia (1943-1945), Edizioni Scientifiche Italiane, N a­ poli 1988; D . Ellwood, Italy 1943-1945. The Politics o f Liberation, Leicester University Press, Leicester 1985; F. Ferratini Tosi, G. Grassi e M. Legnani (a cura di), L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella resistenza, Insmli, Angeli, Milano 1988; R. Lamb, La guerra in Italia. 1943-1945 (1993), trad. it. di R. Petrillo, Corbaccio, Milano 1996; G . Lett, Rossano. Vi­ cende della Resistenza italiana, Eli, Milano 1958; H . Macmillan, Diari di guerra.Il Mediterra­ neo dal 1943 a l 1945 (1984), Il M ulino, Bologna 1987; E. Morris, La guerra inutile. La cam­ pagna d ’Italia. 1943-1945 (1993), trad. it. di R. Rambelli, Longanesi, Milano 1995; C. Pa­ vone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991; A. Pizzoni, A lla guida del CLNAI. Memorie per i figli, Credito Italiano - Einaudi, To­ rino 1993; M. Salvadori, Storia della Resistenza italiana, Neri Pozza, Venezia 1955; P. Sec­ chia e F. Frassati (a cura di), La Resistenza e gli alleati, Feltrinelli, Milano 1962.

ENZO COLLOT T I - TR IST A N O M A T T A R a p p r e s a g lie , s tr a g i, e c c id i

Introduzione. Tra i cittadini italiani che persero la vita nella fase del se­ condo conflitto mondiale che va dal settembre 1943 al maggio 1945, alme­ no diecimila furono, secondo gli studi più attendibili, i civili caduti nel cor­ so di eccidi, stragi e rappresaglie operate da forze di occupazione tedesche (Wehrmacht, SS, polizia) e dalle forze collaborazioniste della Rsi, oltre ai partigiani. Più che in altre parti dell’Europa occidentale l’occupazione in Italia da parte della Wehrmacht (Forze armate tedesche) fu caratterizzata da uno stillicidio di episodi di violenza che ne contrassegnarono giorno per giorno il percorso. Se con le fonti ancora disponibili dopo il venir meno ormai di tanti testimoni (dai notiziari giornalieri della Guardia nazionale repubbli­ cana - Gnr - ai molti rapporti redatti dalle autorità militari tedesche, alle informazioni in possesso del movimento di resistenza e dei servizi alleati) fosse possibile ricostruire un’accurata cronologia degli atti di violenza (qua­ le tuttora manca) e l’accertamento dell’esatta rispondenza dei fatti e del nu­ mero delle vittime - come fonti spesso indirette o anonime (per esempio la­ pidi e cippi posti negli anni immediatamente successivi alla liberazione) han­ no tramandato -, avremmo un puntuale riscontro di questa affermazione. Le ragioni di tanti tragici eventi sul territorio italiano sono complesse. Esse non possono essere addebitate unicamente al pregiudizio nei confronti degli italiani - per motivi di carattere razziale (come tende per esempio a sottolineare lo storico tedesco Gerhard Schreiber [2000]) oppure per moti­ vi prevalentemente psicologici (la reazione al «tradimento» degli italiani) da parte della Wehrmacht. La realtà dell’armistizio fu sicuramente una com­ ponente fondamentale alla base degli eccidi, delle stragi e delle rappresa­ glie, poiché fu causa della commistione tra forze tedesche sparse sul terri­ torio italiano e la popolazione italiana, sin dall’inizio uno dei motivi della difficile convivenza. Una seconda e forse più importante circostanza derivò dalla decisione dell’oKW (Comando supremo Forze armate) di difendere pal­ mo a palmo il territorio italiano dopo lo sbarco alleato nel golfo di Salerno. Di conseguenza l’intero territorio italiano divenne teatro delle operazioni militari e via via che le forze tedesche venivano spinte dall’avanzata allea­ ta verso il Nord la guerra attraversò il territorio italiano in modo capillare a partire dal Centro-sud. La condizione psicologica dell’armistizio favorì

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quindi la catena diffusa di atti di violenza che venne a sommarsi alle circo­ stanze tattiche in cui si svolgevano le operazioni militari. Un ulteriore ele­ mento che contribuì all’inasprimento della lotta fu sicuramente l’emergere graduale dell’attività partigiana, fino al suo assestamento in quello che lo stesso feldmaresciallo Kesselring avrebbe definito un vero e proprio fron­ te di combattimento; gli episodi cruenti si moltiplicarono perciò nel riima di una generalizzata repressione che vedeva partigiani dappertutto e che quindi trasformava la popolazione civile in cellule di connivenza con il ne­ mico, senza alcuna verifica che ciò corrispondesse o meno alla situazione reale. In questo contesto giocò senza dubbio una parte non irrilevante il dif­ fuso senso di insicurezza che cingeva i reparti tedeschi e in misura ancora più rilevante i singoli appartenenti alle diverse unità delle forze tedesche. Infine, la particolare durezza con cui fu trattata la popolazione italiana e lo stesso spirito vendicativo che ispirò la condotta dei tedeschi non si sa­ rebbero tradotti in violenza diffusa se questa non fosse stata in qualche mi­ sura legittimata dalle misure repressive e ostili alla popolazione immedia­ tamente adottate dall’autorità d’occupazione. Infatti già dagli esordi fu chia­ ro che il carattere oppressivo della presenza tedesca non costituiva la risposta alla ribellione della popolazione, ma una regola di condotta imposta, nella migliore delle ipotesi, anche per prevenire l’esplosione di una potenziale ostilità. La violenza fu esercitata sin dall’inizio come dimostrazione di for­ za e di superiorità dell’occupante nella prassi quotidiana; l’incendio e l’ec­ cidio di Boves a metà settembre e la strage di Caiazzo il 13 ottobre 1943 fanno parte di questa fenomenologia. Al di là del fatto che il primo provvedimento adottato dai tedeschi fu il di­ sarmo, la cattura e la deportazione in massa dei soldati italiani e chi tentò di resistere al disarmo fu sterminato senza pietà (come a Cefalonia), basta citare le prime disposizioni firmate da Keitel per rendersi conto del clima che si prefigurò nei confronti degli italiani e che finì per legittimare forme generalizzate di violenza e di prepotenza. Il 12 settembre X943 Keitel tra­ smise, e fece eseguire con tutta l’asprezza nec essaria, l’ordine di Hitler di passare per le armi tutti gli ufficiali italiani che avessero consegnato armi ai ribelli o che avessero fatto causa comune con essi e di deportare per il la­ voro all’Est tutti i soldati e i graduati che si fossero trovati nelle stesse cir­ costanze. Seguì il 17 settembre l’obbligo di evacuazione in massa della po­ polazione maschile dalle aree meridionali, che le forze tedesche dovevano abbandonare, con l’impiego di ogni mezzo, procedendo spietatamente con­ tro ogni forma di resistenza anche passiva. Particolarmente feroce e sistematica divenne la repressione quando su­ bentrò la convinzione che per combattere il movimento partigiano non fos­ sero più sufficienti operazioni di polizia ma occorresse acquisire un’ottica di tipo squisitamente militare. Ciò significò che, anche senza generalizza­ re gli ordini draconiani - come quello emanato dal generale Kùbler nel Li­ torale Adriatico il 24 febbraio del 1944, che rendeva operative in quella zo­ na dell’Italia occupata e sottratta alla sovranità della Rsi le disposizioni di

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Hitler del 18 ottobre 1942 per la condotta della guerra contro le bande all’Est -, nel quadro di quella che sarebbe stata una vera e propria guerra di sterminio, le disposizioni emanate da Kesselring nella primavera-estate del 1944 comportarono un coinvolgimento sempre più pronunciato della popolazione civile nella repressione antipartigiana. Già le disposizioni del feldmaresciallo del 17 marzo e del 7 aprile pre­ lusero a una nuova connotazione nella lotta contro i partigiani. La guerra alle bande doveva essere concentrata e unificata nel vertice militare, come Kesselring aveva costantemente rivendicato, svincolandola dalla gerarchia delle forze di polizia e delle SS. Il coinvolgimento delle popolazioni civili, co­ me componente della nuova strategia, perseguiva lo scopo di spezzare il con­ senso o la copertura che le popolazioni offrivano ai partigiani - o i compor­ tamenti che come tali venivano considerati - indipendentemente da gesti attivi di collaborazione. Conseguenza di questa svolta fu anche la libertà («carta bianca», scrive esplicitamente Klinkhammer) concessa ai comandi dei singoli reparti nella scelta dei mezzi repressivi e nella misura della loro durezza. L’impunità accordata per la condotta inflessibile della repressio­ ne fu un punto chiave della svolta nella controguerriglia. Essa fu confer­ mata da Kesselring nell’ordine del 17 giugno 1944, nel quale prescriveva: La lotta contro le bande d eve essere condotta perciò con tu tti i m ezzi a dispo­ sizion e e con la m assim a asprezza. Io coprirò ogni com andante che nella scelta ed asprezza del m ezzo vada oltre la m isura a noi d i solito riservata.

Tipologia e periodizzazione. Quello delle stragi di civili è un fenomeno complesso a livello tipologico, sia dal punto di vista delle circostanze sia da quello delle motivazioni, oltre, ovviamente, alle rispettive ragioni delle vit­ time e degli esecutori. Tale complessità rende del tutto irriducibile la sua rappresentazione storica a categorie generiche e fuorvianti, quali quella del­ la «inevitabilità» o di una presunta «casualità» del coinvolgimento della po­ polazione nella violenza del conflitto, o addirittura metastoriche quali la presunta «diabolica perfidia» germanica. Essa impedisce inoltre l’elaborazione di un criterio interpretativo unitario, sufficientemente valido a spie­ gare la totalità del fenomeno. Tuttavia, anche se si verificarono molti epi­ sodi di violenza gratuita e fine a se stessa, non strettamente motivati da scelte di carattere operativo dei comandi militari germanici e dei responsa­ bili dei singoli reparti, è indubbio che nella maggior parte dei casi gli studi fino a oggi effettuati hanno messo in luce la relazione generalmente esi­ stente tra quella che è stata correttamente definita (da Michele Battini e Paolo Pezzino) «guerra ai civili» - cioè una sistematica politica di saccheg­ gi, uccisioni e terrorismo, pianificata per punire e terrorizzare la popola­ zione civile e privare così la resistenza armata dell'humus in cui sviluppar­ si e rafforzarsi - e l’andamento del conflitto in generale e la repressione dell’attività partigiana in particolare. Non è certo casuale il dato - oppor­ tunamente rilevato da Lutz Klinkhammer - secondo il quale una parte estre-

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inamente rilevante degli eccidi e delle stragi ebbe a verificarsi, in momen­ ti diversi, in zone e territori che i tedeschi avevano dichiarato come zone di operazioni dell’esercito, quando e dove, pertanto, era più massiccia la presenza di truppe e reparti operativi. Ma al di là di questa prima precisa­ zione di fondo, rimane la necessità di affrontare la complessità dell’argo­ mento operando una serie di differenziazioni. Una prima distinzione, a livello terminologico, è stata proposta in sede giudiziaria in relazione all’entità del singolo episodio, facendo valere il ter­ mine di «strage» per le uccisioni di almeno cinque persone e di «eccidio» per quelle con un numero di vittime inferiore (da due a quattro), e a essa, per quanto discutibile, ci atterremo in questa sede. Una più significativa differenziazione dei massacri di civili è operabile tenendo conto dell’articolata casistica delle motivazioni, in base alla quale sarebbe possibile distinguere almeno tra: a) rappresaglie in conseguenza di atti di guerra compiuti da partigiani (come nel caso delle stragi delle Fosse Ardeatine o di via Ghega a Trie­ ste), che possono coinvolgere come vittime sia civili che ostaggi; b) stragi compiute a danno di civili per ritorsione e/o vendetta, ma non direttamente connesse ad attività partigiana (Barletta, Fosse del Fri­ gido); c) stragi ed eccidi compiuti in occasione di operazioni di rastrellamen­ to, a carico di partigiani catturati e prigionieri (la Benedicta, Montegrappa) o di civili (Vallucciole); d) stragi a scopo terroristico o preventivo, compiute in aree ad alta den­ sità di presenza partigiana, o comunque ritenute di alto interesse stra­ tegico, miranti a spezzare il legame tra resistenza e popolazione, sen­ za nesso diretto con specifiche azioni di guerra (Padule di Fucecchio); e) stragi ed eccidi con motivazioni razziali (lago Maggiore, Pisa); f) stragi di soldati italiani sbandati (Santa Maria di Vallecannella); g) stragi ed eccidi compiuti senza apparente motivo, o comunque di dif­ ficile spiegazione (Caiazzo, Capistrello, Collelungo di Cardito); h) stragi operate autonomamente dalle forze della Rsi (Ferrara). A eccezione del primo caso e, evidentemente, dell’ultimo, tutte le mo­ dalità sopra richiamate sembrano c orroborare l’ipotesi avanzata da alcuni studiosi tedeschi (Friedrich Andrae, Gerhard Schreiber) secondo cui in ge­ nere il comportamento delle truppe tedesche non nasce necessariamente da una reazione ad atti ostili da parte italiana, ma si colloca piuttosto in un qua­ dro di pregiudiziale ostilità nei confronti degli italiani dopo l’8 settembre, una diffusa adesione alla volontà espressa da Hitler di voler fare tabula rasa dell’ex alleato «traditore». La casistica qui sommariamente delineata non può certo essere letta in termini rigidamente schematici, dato soprattutto il frequente intrecciarsi concreto, nel corso di episodi e avvenimenti tanto drammatici quanto spesso confusi, di elementi e fattori che appartengono a casistiche anche diverse. Frequente è ad esempio la compresenza, in occa­

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sione di stragi di vittime civili, di ostaggi e di partigiani e/o resistenti. A ren­ dere ancora più difficile una distinzione netta sta poi il fatto che spesso le fonti di parte tedesca liquidano, in modo significativo, sotto il generico ter­ mine di «banditi» anche i contadini eliminati nel corso di rastrellamenti an­ tipartigiani o di azioni di rappresaglia. Dal punto di vista della distribuzione geografica degli episodi è possi­ bile individuare almeno tre aree principali caratterizzate da una maggiore e omogenea diffusione del fenomeno dei massacri di civili, tutte corri­ spondenti a tre momenti diversi dell’arretramento del fronte. La prima area da prendere in considerazione è quella della regione com­ presa tra il golfo di Napoli e la valle del Volturno da un lato, e l’Abruzzo e la valle del Sangro dall’altro, lungo la linea Gustav e sul piano. Qui i massacri furono numerosi e diffusi, nonostante la breve durata della fase di occupazio­ ne tedesca, ed ebbero, data l’inesistenza di formazioni partigiane, una fun­ zione eminentemente «preventiva», volta cioè a punire la spontanea ribel­ lione dei civili ai saccheggi, al lavoro coatto, alle brutalità compiute dalle trup­ pe tedesche, ma anche a prevenire, appunto, l’insorgere di ogni possibile forma di resistenza in una regione in cui il ribellismo popolare appariva diffuso (in­ surrezioni di Matera, Capua, Lanciano). Il territorio che risulta maggiormente colpito è quello dell’antica Terra di Lavoro, in provincia di Caserta. La seconda e ampia area è quella posta alle spalle della linea Gustav, tra la bassa valle del Tevere e il Piceno, dove nella stasi del fronte di Cassino tra l’inverno del 1943 e la primavera del 1944 e con il venire meno dell’ipo­ tesi di una rapida liberazione di Roma, si assiste alla nascita e al diffonder­ si - nel Lazio, in Umbria, nelle Marche e in Abruzzo - di gruppi di oppo­ sizione e unità partigiane, la cui attività iniziò a danneggiare le retrovie pro­ vocando la repressione delle forze armate tedesche, nel cui ambito la diffusione e il ricorso alla pratica della rappresaglia fu sempre più frequen­ te. Le zone che videro un maggior numero di stragi e rappresaglie sono la parte montuosa del Lazio intorno a Rieti, la Tuscia e le montagne intorno al Gran Sasso. Di gran lunga più rilevante è infine la terza e vasta area, costituita dal­ le zone appenniniche a valle e alle spalle della linea Gotica. In esse il nu­ mero degli episodi di violenza ai danni della popolazione civile e delle rap­ presaglie fu significativamente superiore al resto del paese e appare distri­ buito con una certa omogeneità sull’intero territorio, anche se è possibile individuare all’interno di esso tre aree ristrette in cui il fenomeno si acuì in modo particolare: l’Aretino e l’Alta Val d’Arno, la Versilia e la regione com­ presa tra il Serchio e il Magra, l’Appennino bolognese nella zona del Mon­ te Belvedere e del Monte Sole (è stato stimato che in questi ultimi due set­ tori sia stato assassinato circa il venticinque per cento del totale delle vit­ time delle stragi naziste in Italia). Un richiamo a parte per il carattere diverso - rispetto al resto del pae­ se - e quasi annessionistico che l’occupazione tedesca vi assunse, e che si rifletté anche sulla condotta della repressione antipartigiana e il coinvolgi­

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mento in essa delle popolazioni civili, va fatto poi per l’area del confine orientale, dove esse acquisirono - soprattutto nelle aree dell’interno (Car­ so, Istria, Friuli orientale) -, almeno in alcune fasi, connotazioni in una cer­ ta misura avvicinabili a quelle della «guerra di sterminio» promossa sul fron­ te orientale. Sul piano della localizzazione delle stragi, un’altra differenziazione uti­ le è individuabile tra centri urbani e aree montane e campagne: essa per­ mette di rilevare come la maggioranza degli atti di violenza sulla popolazio­ ne civile sia avvenuta in villaggi e paesi delle zone più arretrate della peni­ sola, a danno di una popolazione rurale coinvolta, spesso senza motivo, nella repressione dell’attività partigiana - che nell’area delle catene appenninica e alpina aveva i propri insediamenti -, negli sfollamenti, nelle requisizioni e nelle altre violente pratiche connesse alle operazioni militari nelle aree del fronte. I centri urbani di pianura e della costa, con le dovute eccezioni (tra le quali spicca il caso di Napoli, coinvolta direttamente dal fronte nel cor­ so delle Quattro giornate del 28 settembre - i° ottobre 1943), risultano in generale maggiormente toccati dalla repressione delle attività di resistenza specie da parte degli organismi di polizia (Gestapo, Sipo, s d ) e delle SS, anch’essa destinata a sfociare, com’è noto, in clamorosi atti di rappresaglia ^i danni di ostaggi, di prigionieri politici, di civili rastrellati a vario titolo. È nei centri urbani, non a caso, che di solito funzionano i luoghi della morte e della tortura nei quali scompaiono a centinaia dirigenti e militanti della Resistenza (Forte Bravetta e via Tasso a Roma, le Molinette a Torino, il car­ cere di via Spalato a Udine, la caserma Piave di Palmanova, e i tanti poli­ goni di tiro, sedi di ispettorati speciali ecc.). Un’ulteriore possibile scansione interna del fenomeno esaminato è quel­ la cronologica. Essa, se rapportata alla ripartizione per aree geografiche pro­ posta, ha il merito di pervenire a una prima, estremamente sommaria in­ terpretazione in relazione all’andamento del conflitto e alle tappe dell’oc­ cupazione tedesca. Ed è pertanto secondo questo criterio che appare utile ripercorrere in termini generali l’intera vicenda dello stragismo nazifascista: Dal punto di vista cronologico si possono distinguere almeno cinque fa­ si principali. Qui di seguito, come esplicitazione delle fasi, vengono fatte alcune citazioni, a puro titolo esemplificativo, di luoghi di stragi, eccidi e rappresaglie che tuttavia non costituiscono la totalità del fenomeno (che può essere completato con la lettura della Parte seconda e delle voci relati­ ve alle località). La prima è limitata al settembre 1943, e corrisponde alle settimane dell’occupazione e allo stabilizzarsi del controllo tedesco sulla pe­ nisola; nel corso di questa fase gli episodi di violenza sui civili non sono an­ cora molto numerosi, ma appaiono per certi aspetti già indicativi dell’at­ teggiamento di rivalsa delle truppe tedesche neisconfronti della popolazio­ ne - oltre che dell’esercito - dell’ex alleato. E questo il caso di alcuni massacri di civili e di militari italiani catturati, compiuti dalle truppe in ri­ tirata di fronte all’avanzata angloamericana in Sicilia, ancora prima della proclamazione dell’armistizio - fatto questo che ne evidenzia maggiormente

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il carattere di violenza diretta proprio contro la popolazione civile (è il ca­ so della strage del 12 agosto 1943 a Castiglione di Sicilia, dodici vittime) e, nei giorni immediatamente successivi, in Basilicata (Rionero in Vulture, 11 settembre, quindici civili), Puglia (Barletta, 11 settembre, undici vigili urbani e due netturbini; Santa Maria di Vallecannella, 25 settembre, undi­ ci m i l i t a r i ) e soprattutto nel Napoletano (Marano, 10 settembre, otto mili­ tari e un civile; Nola, 11 settembre, dieci militari per rappresaglia; Giu­ gliano, 30 settembre, quattordici civili). Rientrerebbe in questo contesto - in senso lato - anche la vicenda di gran lunga più rilevante tra quelle che videro coinvolti i militari italiani, avvenuta, però, al di fuori del territorio nazionale: il massacro dei superstiti della divisione Acqui che aveva cerca­ to di organizzare una resistenza sull’isola di Cefalonia (14-23 settembre, circa 5000 vittime). Se per il Meridione si tratta in genere di stragi con­ nesse più o meno direttamente con il passaggio del fronte nel corso dell’ar­ retramento in direzione della prima grande linea difensiva di assestamento - la linea Gustav -, sempre in questa fase iniziale sono rilevabili anche epi­ sodi di segno diverso, che indicherebbero piuttosto una reazione brutale al­ l’incontro imprevisto con forme di resistenza inattese (Boves, 19 settembre, ventitré vittime civili; Collebrincioni, 23 settembre, nove partigiani; Canfanaro, in Istria, 16 settembre, ventisei civili), oppure che rientrano nella più generale casistica della guerra razziale (come nel caso delle stragi di ebrei sul lago Maggiore, che provocarono nella seconda metà di settembre cinquantatre vittime tra ebrei italiani e stranieri residenti nelle diverse loca­ lità sul lago). Una seconda fase può essere individuata nel periodo compreso tra l’ot­ tobre 1943 e il maggio 1944, che corrisponde all’assestamento dell’occu­ pazione tedesca, allo sviluppo della resistenza e ai conseguenti primi cicli di rastrellamenti. Oltre alle numerose stragi compiute nell’area di passaggio del fronte in Campania (tra le quali: Acerra, 3 ottobre, ottantotto vittime; Bel­ lona, 7 ottobre, cinquantaquattro vittime; Caiazzo, 13 ottobre, ventitré vit­ time; Conca della Campania, 1-2 ottobre, quaranta vittime civili), Abruz­ zo (Limmari di Pietransieri, 15-20 novembre, centoquarantatre civili - sen­ za dubbio la più agghiacciante tra le stragi perpetrate nel Mezzogiorno, anche perché del tutto immotivata; FrancaviÙa a Mare, 30 dicembre, ven­ ti civili) e Lazio (San Giovanni di Blera, 29 ottobre, quattordici vittime; Collelungo di Cardito, 28 dicembre, quarantadue vittime civili; rastrella­ menti antipartigiani nella provincia di Rieti tra marzo e aprile 1944, con stragi a Morro Reatino, venti vittime, Poggio Bustone, nove civili e undi­ ci partigiani, Cumulata, dodici civili, Leonessa, ventitré vittime), molte del­ le quali quasi del tutto dimenticate, si colloca in questa fase la strage delle Fosse Ardeatine, uno dei crimini di guerra nazisti più noti. Di non minore rilevanza, inoltre, le stragi di civili compiute nel corso delle prime opera­ zioni organizzate contro gli ormai consolidati insediamenti partigiani nel­ l’area appenninica. Tra questi, il rastrellamento del Monte Santa Giulia e le conseguenti stragi di Monchio, Susano, Costrignano, nel Modenese (il

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18 marzo 1944, con un totale di centotrenta vittime), o la strage di Cervarolo (il 20 marzo, ventitré morti) nell’area emiliana; le stragi di Vallucciole (il 13 aprile, centootto vittime civili), Partina (sempre il 13 aprile, ven­ tinove vittime), Mommio (5 maggio, trentacinque civili, nell’ambito di un rastrellamento che vede un totale di oltre centoquaranta vittime, in mag­ gioranza partigiani) in quella toscana; il rastrellamento e la conseguente stra­ ge di Arcevia (cinquantatre partigiani e sette civili) nelle Marche. Nell’area alpina, accanto alle fucilazioni in massa di partigiani e ostaggi seguite al ra­ strellamento alla Benedicta (6-1 x aprile, centoquarantasette vittime e cir­ ca centosettanta deportati) e alla rappresaglia del Passo del Turchino (19 maggio, fucilazione di cinquantanove ostaggi) in Liguria, si registrano, tra gli altri episodi, l’incendio e il massacro di Peveragno (ro gennaio, venti­ nove vittime) e le sanguinose rappresaglie di Cumiana (3 aprile, fucilazione di cinquantuno civili) e di Coazze (10-26 maggio, quarantadue partigiani) in Piemonte, e la strage di Peternel (22 maggio, ventidue vittime) nel Friu­ li orientale. Ma accanto a queste vanno anche ricordate le stragi e le rap­ presaglie che, nello stesso periodo, colpirono duramente l’Operationszone Adriatisches Kiistenland (Litorale Adriatico): le rappresaglie di Trieste (23 aprile, impiccagione di cinquantuno ostaggi) e Opicina (3 aprile, fucilazio­ ne di settantuno ostaggi), le stragi effettuate nel corso dell’occupazione dell’Istria (Capodistria, 2 ottobre 1943, dieci civili; Villanova d’Arsa, 4 ot­ tobre, diciotto vittime; Crissini, 7 ottobre, cinquantotto vittime; Saini e Boccordi, 8-9 gennaio 1944, cinquantaquattro civili), il massacro di quasi tutti gli abitanti del villaggio croato di Lipa (30 aprile, duecentocinquantasette abitanti uccisi), nell’allora provincia del Carnaro. Anche il risorto fascismo repubblicano inizia in questa fase una sua pratica stragista, con rappresa­ glie che per certi aspetti ricalcano la tradizione squadristica (Ferrara, 14-15 novembre 1943, undici vittime; Lovere, 22 dicembre, tredici partigiani; Reggio Emilia, 28 dicembre, otto vittime, tra cui i sette fratelli Cervi). Nella terza fase, che comprende i mesi dal giugno all’ottobre 1944, si assiste a una vera e propria escalation della violenza nei confronti della po­ polazione civile italiana, in concomitanza con un più deciso impulso da par­ te tedesca alla lotta antipartigiana, che passò dalla repressione di fatti che si possono ancora considerare come occasionali e isolati a una vera e pro­ pria offensiva pianificata sul territorio. A sancire, a livello decisionale, que­ sto salto di qualità, giunsero le già citate draconiane disposizioni operative del feldmaresciallo Kesselring del 17 giugno 1944, che diedero sostanzial­ mente «mano libera» ai comandanti dei reparti operativi, garantendo loro la copertura anche sulle scelte di mezzi repressivi che andassero al di là dei limiti fino ad allora tenuti in considerazione; ordini che sostanzialmente ap­ plicavano anche all’Italia occupata il Bandenbefehl che il feldmaresciallo Keitel, capo di stato maggiore d ell’oKW, aveva emanato il 16 dicembre 1942 per l’Europa occupata. Un immediato riscontro di tale escalation sta nella constatazione che proprio in questa fase si concentra il più alto numero di stragi ed eccidi, che comportarono il maggior numero complessivo di vitti-

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me e interessarono tutta l’Italia centrosettentrionale. E la fase di massima espansione della lotta partigiana, della diffusione della renitenza ai bandi della Rsi, della liberazione di Roma e del ripiegamento tedesco verso l’Appennino tosco-emiliano - che infatti viene coinvolto in modo quanto mai diffuso e massiccio in quella che è ormai un’autentica «guerra ai civili». Le rappresaglie sono ormai diventate un fenomeno diffuso, un vero e proprio strumento di lotta, e tendono a non colpire più solamente i partigiani veri o presunti ma anche l’intera popolazione di una determinata area, consi­ derata in blocco come sospetta di connivenza. Sono esempi significativi di questo salto di qualità nell’uso della violenza ai civili le numerose stragi compiute dai tedeschi nel corso di quella terribile estate in Lazio (Pratarelle di Vicovaro, 7 giugno, ventitré civili; Vignanello, 7-8 giugno, quarantadue vittime), in Toscana (Forno e Frigido, 13 giugno, sessantacinque civi­ li e sedici partigiani; Castelnuovo Val di Cecina - Niccioleta, 13-14 giugno, ottantatre minatori/partigiani; Civitella della Chiana, 29 giugno, centosettantatre vittime civili; San Pancrazio di Bucine, 29 giugno, settantuno ci­ vili; Castelnuovo dei Sabbioni - Meleto, 4 luglio, centosettantasei civili; La Romagna - Massarosa, 6-11 agosto, sessantanove civili; Sant’Anna di Stazzema, 12 agosto, cinquecentosessanta civili; Valla sul Bardine, 19 agosto, centoquattordici civili; Padule di Fucecchio, 23-24 agosto, centosettantacinque civili; Vinca, 24 agosto, centosettantaquattro civili; Bergiola Foscalina, 16 settembre, settantadue civili; Fosse del Frigido, 16 settembre, centoquarantasei civili - per citarne soltanto alcune tra le più efferate), in Umbria (Gubbio, 22 giugno, quaranta civili), in Emilia (Bettola, 23 giugno, trentadue civili; Neviano degli Arduini, 1-2 luglio, trentacinque vittime; Tavolicci, 27 luglio, sessantaquattro civili; Lizzano in Belvedere, 27 set­ tembre, ventinove civili; Gaggio Montano, 29 settembre, settantuno civi­ li; Marzabotto-Montesole, 29 settembre - 5 ottobre, settecentosettanta vit­ time). E sufficiente una superficiale considerazione della successione delle date e dei luoghi - nel caso delle stragi in Toscana ed Emilia, in questa fa­ se - per rendersi conto del fatto che si tratta in buona misura di vere e pro­ prie campagne pianificate, di un fenomeno organizzato, di una successione di rastrellamenti - con conseguenti rappresaglie e stragi - che comportano ormai di fatto il superamento di ogni distinzione, nella repressione anti­ partigiana, tra civili e resistenti veri e propri. Ma un inasprimento analogo è avvertibile con chiarezza anche nelle aree di retrovia del fronte lungo l’ar­ co alpino, dove la risposta all’iniziativa partigiana contempla ormai sempre più diffusamente (anche se in misura nettamente minore rispetto all’area appenninica) anche la rappresaglia sui civili, l’incendio di villaggi, l’arresto in massa e l’avvio alla deportazione. Indicativi di questa generalizzazione d dà’escalation della violenza sono dunque anche numerosi massacri verifi­ catisi in questa fase lungo l’intero arco alpino, dalla Liguria (Molini di Triora, 3-5 luglio, ventinove vittime; Badalucco - Montalto Ligure, 17 agosto, venti civili) al Friuli (Torlano, 25 agosto, trentatre vittime; Paluzza e altre località della valle del But, 21-22 luglio, cinquantadue vittime), passando

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per il Piemonte (Fondotoce, 20 giugno, fucilazione di quaranta partigiani e due civili; Rozzo e Lovario, 19 luglio, quattordici civili; Roasio, 9 agosto, uccisione di diciannove ostaggi; Borgo Ticino, 13 agosto, dodici vittime), la Valle d’Aosta (Leverogne, 13 settembre, fucilazione di dodici civili), la Lombardia (Bovegno, 15 agosto, dodici civili e due partigiani) e il Veneto (Recoaro, 11 giugno, quindici vittime, e 10 agosto, diciannove vittime; Bassano, 26 settembre, impiccagione di trentuno partigiani nell’ambito del va­ sto rastrellamento nell’area del massiccio del Grappa; Villamarzana, 15 ot­ tobre, uccisione per rappresaglia di quarantaquattro civili e partigiani per opera di militi della Rsi e ufficiali tedeschi). La fase successiva, la quarta, comprende i mesi che vanno dal novem­ bre 1944 al marzo 1945 e corrisponde alla lunga stasi invernale del fronte lungo la linea Gotica e ai rastrellamenti di molte zone libere. L’area inte­ ressata è ormai praticamente ridotta all’Italia settentrionale a monte della linea del fronte che, dalla Versilia al corso del Senio, si stabilizza nel gen­ naio 1945. La distribuzione sul territorio e le modalità delle stragi che si verificano in questa fase sembrano indicare un notevole allentamento del­ le azioni terroristiche dirette contro i civili, a favore piuttosto di una mag­ giore attenzione alla pressione sulle formazioni partigiane, le intendenze, i Gap nelle immediate retrovie del fronte. Si può affermare che in generale, a partire dall’autunno avanzato del 1944, ha inizio una lenta ma progressi­ va diminuzione della violenza dei metodi repressivi tedeschi a danno dei ci­ vili, anche se non mancarono certo rilevanti eccezioni in senso contrario, soprattutto a ridosso della stessa linea del fronte o nelle immediate retro­ vie (Vecchiazz ano -Forlì, 8 novembre, nove civili; Avenza-Carrara, n no­ vembre, dieci civili; Regnano Castello, 23 novembre, tredici civili; Raven­ na - Madonna dell’Albero, 27 novembre, cinquantasei vittime; Cortile, i° dicembre, sedici civili; Bagnolo in Piano, 3 marzo, otto vittime; Nonantola, 9 marzo, dieci civili), ma anche in Liguria (Castelvittorio, 3-5 dicembre, ventuno vittime; Torre Paponi, 16 dic embre, ventotto civili) e in Piemon­ te (Castellino Tanaro, 14-16 novembre, dodici civili). Mentre, per contro, l’estendersi dei rastrellamenti e dell’azione repressiva sia in montagna che nelle città fece dell’inverno 1944-45 il periodo più critico per il movimen­ to partigiano, segnato da una fase di netto regresso della capacità offensi­ va e dalla diminuita capacità di controllo del territorio (e i rastrellamenti nelle zone libere, come nel caso di quello della Carnia tra fine novembre e primi di dicembre, comportarono anche un rilevante numero di vittime tra la popolazione). E significativo che in questa fase siano state eseguite con immutata intensità numerose esecuzioni per rappresaglia di partigiani cat­ turati dopo scontri o rastrellamenti sia in Emilia (Legoreccio, 17 novembre I 9 44 > ventiquattro partigiani; Castelfranco Emilia, 17 dicembre, undici partigiani; Vercallo, 21 dicembre, dodici partigiani; Varano dei Melegari, 10 gennaio 1945, diciassette partigiani) sia in Piemonte (Corio Canavese, 17 novembre 1944, trentatre partigiani) e in Lombardia (Cornalba, 25 no­ vembre - i° dicembre, quindici partigiani). Frequenti anche le esecuzioni

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di ostaggi detenuti a vario titolo prelevati dalle carceri (Portofino, 2 di­ cembre, ventidue vittime; Sabbiuno, 14-23 dicembre, vittime un centinaio di detenuti politici, di cui cinquantotto identificati; Villa Cadé, 8 febbraio 1945, ventuno ostaggi; Calerno di Sant’Ilario, 14 febbraio, venti ostaggi; Cravasco, 24 marzo, diciassette ostaggi; Udine, 19 gennaio, sedici ostaggi, e 11 febbraio, ventidue partigiani). Un’improvvisa recrudescenza del fenomeno delle stragi di civili, rispet­ to alla stasi del periodo precedente, caratterizza l’ultima fase da prendere in esame, che è breve dal punto di vista della durata, ma segnata ciononostan­ te da episodi di rilievo. Si tratta del periodo conclusivo, che va dall’aprile ai primi giorni di maggio del 1945 e corrisponde alla fase insurrezionale, ai gior­ ni della liberazione e al ripiegamento tedesco verso il confine alpino. Le stra­ gi, relativamente numerose, che si verificano in questo periodo, avvengono per lo più lungo le principali vie di ritirata delle truppe tedesche e hanno in genere il carattere di rappresaglie immediate contro attacchi partigiani mi­ ranti a rallentare la ritirata stessa. In Piemonte gli episodi più rilevanti av­ vengono a Narzole (26 aprile, quindici civili), Grugliasco (29 aprile, cinquantanove partigiani e sette civili), Santhià (29-30 aprile, cinquantadue vit­ time tra partigiani e civili). In Lombardia le ultime stragi avvengono il 27 aprile a Spino d’Adda (dieci vittime), Volongo (sedici, tra partigiani e civi­ li), Rodengo Saiano (dieci partigiani). Particolarmente colpite le regioni dell’arco alpino nordorientale, lungo le direttrici di ritirata verso il territo­ rio austriaco: in Veneto e in Friuli i tedeschi lasciano una vera scia di san­ gue, con gli episodi più gravi a Villadose (24 aprile, diciassette civili), Saonara (27 aprile, cinquanta civili), Castello di Godego (29 aprile, ottanta ci­ vili), Pedescala e dintorni (29 aprile - 2 maggio, ottantatre civili), Cervignano (29 aprile, ventidue civili). Le ultime stragi tedesche colpiscono la popola­ zione italiana a guerra finita - quando la stessa Berlino è ormai in mano al­ le truppe sovietiche - e avvengono in località prossime alla frontiera: anco­ ra in Friuli, il 2 maggio, a Ovaro e Comeglians (ventisette vittime in totale) e ad Avasinis (cinquantuno civili), e in Trentino (rappresaglia in Val di Flem­ me del 4 maggio, trentuno vittime). Sono, in gran parte dei casi, atti estre­ mi di violenta ritorsione (alcuni di essi avvengono mentre già si festeggia la fine della guerra), l’ultimo colpo di coda sferrato contro la popolazione dal­ la macchina da guerra tedesca prima di abbandonare l’Italia. Per tali carat­ teristiche è difficile ritenere che essi siano il frutto di un inasprimento pia­ nificato dai comandi (del resto il successore di Kesselring, generale von Vietinghoff-Scheel, aveva di fatto revocato alcune delle più dure misure del predecessore): si è forse più vicini al vero nell’attribuirli al riemergere per certi aspetti spontaneo di un costume, di una pratica di «guerra ai civili» or­ mai introiettata al punto di divenire quasi un fatto «naturale». Memoria e storiografia. La memoria storica di questi fatti è tuttora pre­ sente nel paese a motivo, oltre che della loro intrinseca rilevanza, dell’ampia diffusione che il fenomeno ebbe su gran parte del territorio nazionale, che

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visse a partire dall’occupazione tedesca uno stillicidio quotidiano di violenze talmente capillare da consentire l’affermazione che poche furono le zone non coinvolte, sia pure in forma e misura diversa. Si tratta però di una memoria storica che, pur variamente coltivata a livello locale - è ancora diffusa nelle regioni centrosettentrionali, mentre appare quasi rimossa nel Mezzogiorno -, si presenta molto disomogenea sul piano nazionale. Essa infatti, se ha assun­ to nel tempo alcuni eventi a immagine simbolica della violenza nazista in Ita­ lia (le Fosse Ardeatine, le stragi nell’area di Monte Sole - Marzabotto, Boves), non è stata fino a oggi in grado di imprimere nella memoria collettiva numerosi altri episodi, non meno indicativi di un ricorso diffuso all’esercizio del terrore nei confronti dei civili, quali ad esempio le stragi compiute tra Campania e Abruzzo (Acerra, Bellona, Limmari) nell’autunno del 1943, quan­ do la pratica stragista fece diffusamente la sua comparsa a ridosso della co­ siddetta linea Gustav, o alcune di quelle verificatesi in Toscana al di qua e al di là della linea Gotica (Civitella di Chiana, Fucecchio, Valla, Vinca, Sant’An­ na di Stazzema) nella fase più acuta del coinvolgimento dei civili nella guer­ ra, tra l’estate e l’inizio d’autunno del 1944. Si tratta inoltre, come emerge da alcuni studi recenti (Giovanni Conti­ ni, Leonardo Paggi), di una memoria in molti casi “divisa”, vale a dire che anche quando si è trasmessa con una certa coralità all’interno delle comu­ nità locali, non si è tuttavia risolta in una visione unitaria, spesso neppure nella ricostruzione dei fatti prima ancora che della loro interpretazione. All’origine di memorie contrapposte vi è quasi sempre la valutazione del ruolo dei partigiani e della responsabilità che alla loro azione viene attri­ buita per le rappresaglie operate dai tedeschi o da tedeschi e fascisti. Non si tratta semplicisticamente di una rivincita postuma della propaganda na­ zista, che proprio sulla Resistenza voleva scaricare la responsabilità delle stragi, ma di una più complessa stratificazione della memoria, che al di là di ogni episodio specifico finisce per fondersi e confondersi con la valuta­ zione tout court della Resistenza e con gli atteggiamenti di quella zona gri­ gia che oggi torna prepotentemente alla ribalta negli studi in materia. Quasi immediatamente oggetto di rievocazioni e cerimonie commemo­ rative, la vicenda delle stragi è entrata con difficoltà tra gli obiettivi della ricerca storica. Questo indugio nella presa di coscienza del loro rilievo dal punto di vista storiografico è stato almeno in parte dovuto anche al ritardo o addirittura all’inesistenza di una loro elaborazione giudiziaria. Testimo­ nianze e documentazioni al riguardo si devono già, infatti, per lo più all’at­ tività inquisitoria, prima ancora che istruttoria, degli organismi delle forze alleate, che subito dopo la liberazione del territorio indagarono sui fatti più rilevanti allo scopo di raccogliere materiale per eventuali processi per cri­ mini di guerra. Un’analoga attività investigativa fu avviata anche da auto­ rità italiane (diverse procure militari aprirono istruttorie contro responsa­ bili tedeschi e più spesso nei confronti di collaborazionisti della Rsi). Sap­ piamo però che, a parte i numerosi processi per collaborazionismo celebrati in varie località dellTtalia centrosettentrionale, e quelli a carico di Kappler

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e Reder da parte della magistratura militare italiana, delle procedure giu­ diziarie per crimini di guerra previste dagli alleati l’unica che sia giunta al­ la sentenza fu il processo Kesselring. La sospensione dell’attività persecutoria nel dopoguerra, ormai nel qua­ dro della guerra fredda che scoraggiò le iniziative volte a fare luce sui cri­ mini nazisti e portò all’interruzione delle indagini, ebbe una ricaduta di­ retta sulle possibilità della ricerca a causa della scarsa o nulla accessibilità alla documentazione. Il ricordo delle stragi, divenuto luogo comune della memoria, non sollecitò una più rigorosa ricerca di carattere storiografico, appiattendosi nei rituali commemorativi. Ciò spiega il ritardo con il quale la tematica delle stragi è tornata in anni recenti all’attenzione della storio­ grafia sotto la spinta di sollecitazioni di diversa natura: nell’ambito della storiografia italiana, per la possibilità di accedere a nuove fonti archivistiche, specie angloamericane, e per il risveglio di memoria che ha consentito di promuovere nuove ricerche, sollecitate anche dal tentativo di alcuni co­ muni di riaprire istruttorie per crimini commessi nei mesi dell’occupazione tedesca; nell’ambito della storiografia tedesca, per la rivisitazione del com­ portamento della Wehrmacht durante la seconda guerra mondiale, al fine soprattutto di verificare il luogo comune che intendeva scaricare su SS e forze di polizia la responsabilità di stragi compiute in tutta Europa e di ap­ purare la condotta della guerra di sterminio nei territori orientali, grazie anche all’apertura di nuovi fondi archivistici soprattutto nell’ex Urss. Ne è seguita, nella nuova temperie politico-culturale, la comparsa di una ricca serie di contributi che, problematizzando la questione delle stragi nel quadro più complessivo della condotta di guerra della Germania nazista, ha sollevato con rilievo sin qui inedito (anche per suggestione di studi più ge­ nerali come quelli di Browning) quesiti e interrogativi relativi non solo al rapporto tra movimenti di resistenza e rappresaglie, ma soprattutto alla re­ sponsabilità etica e giuridica dei comandi tedeschi, alla luce della struttura dì potere e di comando nella Wehrmacht (terreno privilegiato nello studio di Klinkhammer). Tuttavia, la linea interpretativa prevalente al di là del nes­ so Resistenza-rappresaglia sembra investire nel complesso la condotta del­ la guerra come guerra totale e di sterminio. Ciò, beninteso, non significa trasferire automaticamente all’Italia categorie concettuali e interpretative pienamente pertinenti per altre realtà (la guerra di sterminio all’Est), ma si­ gnifica saggiare quale influenza possono avere avuto, anche in Italia, espe­ rienze compiute in misura radicalizzata in altre aree d’Europa, se si è giun­ ti a infrangere la soglia di una condotta bellica conforme alle regole del di­ ritto internazionale di guerra. E questa la linea interpretativa che si rinviene soprattutto nei lavori sulle stragi in Toscana, ossia nell’area dell’Italia cen­ trale che fu più coinvolta dalla sequenza dei massacri (negli studi a cura di Leonardo Paggi e Paolo Pezzino, e di Paolo Pezzino e Michele Battini), che richiamano con forza la priorità assoluta che i tedeschi attribuirono alla si­ curezza delle loro forze rispetto alla tutela della popolazione civile e offro­ no una visione critica delle responsabilità della Wehrmacht, attenuandone

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fortemente la differenza di comportamento al confronto con le SS e le unità della polizia. Un punto di vista che appare condiviso da storici tedeschi co­ me Friedrich Andrae e Gerhard Schreiber, nei quali è fortemente presen­ te anche la componente del pregiudizio nazionale e razziale nei riguardi del­ la popolazione italiana e soprattutto l’intenzionalità della condotta terroristi­ ca della guerra da parte della Wehrmacht, indipendentemente dal peso della minaccia della Resistenza nei confronti della sua sicurezza. Alla luce degli studi sin qui apparsi possiamo considerare che la cono­ scenza della tipologia delle stragi difficilmente potrà arricchirsi di nuove fattispecie. Ciò tuttavia non vuol dire che non vi siano ancora molti episo­ di da chiarire, al di là della possibilità, a distanza di mezzo secolo dalle stra­ gi, di aprire nuovi procedimenti giudiziari. Accertare la verità dei fatti e ri­ costruirne esattamente i protagonisti (i reparti, i comandanti, gli uomini che hanno eseguito le stragi), le circostanze collaterali e ambientali, la di­ namica stessa degli eventi rimane ancora in molti casi uno dei desiderata della ricerca. Tra l’altro, sempre da approfondire rimane anche il tema del­ le corresponsabilità dei reparti della Rsi, quale che fosse la specialità cui ap­ partenevano, nel contesto più generale della collaborazione della Repub­ blica di Salò. Nota bibliografica.

F. Andrae, La Wehrmacht in Italia (1995), Editori Riuniti, Roma 1997; M. Battini e P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997; E. Collotti, «Occhio per occhio, dente per dente! »: un ordine di repressione te­ desco nel Litorale Adriatico, in «Il Movimento di liberazione in Italia», n. 86 (gennaio-mar­ zo 1967), pp. 3-20; G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997; L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli, Roma 1997; T. Matta (a cura di), Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Eletta, Milano 1996; L. Paggi (a cura di), La memoria delnazismo nell’Europa di oggi, La Nuo­ va Italia, Firenze 1996; Id. (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, Manifestolibri, Roma 1996; P. Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Il Mulino, Bologna 1997; A. Portelli, L ’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999; G. Schreiber, La vendetta tedesca. 1943-1945: le rappresa­ glie naziste in Italia (1996), Mondadori, Milano 2000.

ANNA BRAVO

Resistenza civile

Forme di lotta. Con la significativa eccezione delle enclaves di alto pre­ stigio e potere, nori esistono nella Resistenza compiti o settori dove non compaiano donne. E cosi nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e propaganda, nel tra­ sporto di armi e munizioni, nell’organizzazione sanitaria e ospedaliera, nel Soccorso rosso, la struttura delegata a sostenere i militanti in difficoltà e le loro famiglie. Dello schieramento resistenziale fanno parte anche le mili­ tanti dei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti del­ la libertà, l’organizzazione femminile di massa fondata nell’autunno '43 da alcune esponenti dei partiti del Cln. Nell’opera dei Gruppi, e in una certa misura anche delle partigiane, rien­ trano molte pratiche tipiche della resistenza civile, un termine oggi usato per indicare l’area dei comportamenti conflittuali delle popolazioni che in tutta l’Europa sotto dominio nazista accompagnano, a volte precedono, la resistenza armata, e che si valgono non delle armi ma di strumenti come il coraggio morale, i’inventiva, la duttilità, le tecniche di aggiramento della violenza, la capacità di manovrare le situazioni, di cambiare le carte in ta­ vola ai danni del nemico. Ma le donne attive in questo campo sono molte di più di quelle integrate nella Resistenza e riconosciute come tali. Il punto di inizio della resistenza civile italiana sono i giorni successivi all’8 settembre, quando i tedeschi si sono ormai impadroniti dei quattro quinti del paese e decine di migliaia di soldati si sbandano sul territorio cer­ cando di sfuggire alla caccia degli occupanti. Ne nascono storie straordi­ narie, uscite dall’anonimato solo di recente. Come quella di M. S., una non più giovane donna torinese di classe operaia che non esita ad accogliere e rivestire in borghese i primi militari che bussano alla sua porta, ma che su­ bito si rende conto del carattere di massa dell’emergenza. Fa allora incetta di indumenti in tutto il quartiere, da conoscenti e vicini fino alle suore di un istituto di carità, e trasforma la propria casa in un efficientissimo centro di raccolta dove sull’onda del passaparola gli sbandati si presentano sempre più numerosi. M. S. li sfama, li fa riposare in un dormitorio improvvisato nelle cantine, li riveste da capo a piedi, preoccupandosi persino di tingere in nero le scarpe militari, punto debole di ogni travestimento. Poi li accom­ pagna uno per uno alla stazione, dove cerca di eludere i controlli polizie­

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schi baciandoli e abbracciandoli come fossero parenti in visita [Bravo e Bruzzone 1995]. Sebbene sia raro incontrare altrettanto spirito imprenditorale è altret­ tanta cura per la verosimiglianza, in quei giorni un numero imprecisato ma vastissimo di donne - anche se non solo di donne - si impegna in una mo­ bilitazione che imprime il suo segno nel paesaggio. Come scrive Luigi Meneghello, uno dei maggiori protagonisti/interpreti della Resistenza, si ve­ devano file praticamente continue di gente [...] tutti abbastanza giovani, dai venti ai trentacinque, molti in divisa fuori o rdinanza, molti in b o rghese, con capi spaia­ ti, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio . Abbondavano i vestiti da prete [...]. Pareva che tutta la gioventù italiana di sesso maschile si fosse messa in strada, una specie di grande pellegrinaggio di giovanotti, quasi in maschera, co­ me quelli che vanno alla visita di leva. [1986].

È una gigantesca operazione di salvataggio, forse la più grande della no­ stra storia [Galli Della Loggia 1991], che viene condotta in assenza di di­ rettive politiche e in gran parte per iniziativa di donne cosiddette comuni; un fenomeno che non si ripeterà più con queste caratteristiche e dimensio­ ni. Ma nei venti mesi successivi, la resistenza civile italiana prende altre forme. Tra queste, sabotaggi e scioperi per ostacolare lo sfruttamento del­ le risorse nazionali perseguito dai nazisti; tentativi di impedire la distru­ zione di cose e beni essenziali per il dopo; lotte in difesa delle condizioni di vita; isolamento morale del nemico, una pratica decisiva per minarne la tenuta psicologica; rifiuto da parte di magistrati e altri dipendenti pubbli­ ci di prestare giuramento alla Repubblica di Salò (Rsi). Spicca anche, ed è probabilmente l’aspetto più diffuso, la protezione verso chi è in pericolo: basta ricordare la lunga ospitalità offerta ai prigionieri alleati evasi dai cam­ pi di concentramento italiani dopo l’armistizio [Absalom 1991]; l’aiuto agli ebrei, banco di prova della resistenza civile in tutta Europa; e, certo non ultimo, l’appoggio alle formazioni partigiane attraverso infinite, piccole e grandi iniziative. Sarebbe dunque assurdo considerare la resistenza civile come separata e contrapposta a quella armata anche perché, almeno in al­ cuni casi, non di rifiuto delle armi si tratta ma dell’impossibilità di procu­ rarsele. E vero invece che il termine abbraccia un ventaglio di comportamenti eterogenei, apparentati essenzialmente dal fatto di essere compiuti senza armi e a opera di soggetti a loro volta cosi diversi che ad accomunarli è qua­ si solo la condizione di cittadini di uno stesso paese: sono uomini di varia età, ceto, cultura, posizione professionale, politicizzati e non; a volte bambine e bambini, religiose e religiosi, ma soprattutto donne - proletarie e aristo­ cratiche, contadine e borghesi -, spinte all’esterno dalla necessità di prov­ vedere a se stesse e alla famiglia e spesso più capaci di esporsi nella con­ vinzione, a volte nell’illusione, che la figura femminile possa destare mino­ re sospetto.

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Una molteplicità di motivazioni riflette questa molteplicità di protago­ nisti: contano la fede e le indicazioni politiche, ma spesso contano di più la stanchezza della guerra, la pietas cristiana, l’odio per tedeschi e fascisti, la so­ lidarietà, a volte l’orgoglio patriottico, di gruppo, di mestiere, ideali anar­ chici e antimilitaristi, spirito di insubordinazione e di avventura. L’8 set­ tembre '43 per le donne c’è una sfumatura particolare: gli sbandati sono giovani uomini in pericolo che si rivolgono loro come a figure forti e salvi­ fiche, vale a dire materne. E proprio a causa di questa vulnerabilità le don­ ne li considerano spesso figli virtuali, e per proteggerli danno vita a un matemage di massa che rappresenta una delle espressioni specificamente fem­ minili della resistenza civile italiana. Al suo interno spicca l’azione individuale. C’è chi opera in modo estem­ poraneo, come la parru c chiera che durante una retata nasconde un parti­ giano fra le clienti. Chi in modo continuativo, come la diciottenne impie­ gata di uno stabilimento ausiliario che va regolarmente al comando tedesco a chiedere i lasciapassare per gli operai, e regolarmente inserisce nell’elen­ co partigiani e qualche ebreo; se la sua collaborazione con il Cln resta infor­ male, in altri casi il medesimo incarico può portare all’inserimento negli or­ ganici, a dimostrazione di quanto sia difficile in quell’orizzonte concitato e frammentato applicare criteri omogenei. Frutto ora di una tessitura minuziosa, ora di precipitazioni impreviste, le lotte collettive sono per lo più non violente, ma non sempre: lo testimo­ niano gli assalti ai magazzini di viveri e ai treni carichi di derrate o com­ bustibili e alcune aggressioni contro esponenti e favoreggiatori di Salò - in quest’ultimo caso però è difficile distinguere tra i fatti, le dicerie, le ver­ sioni amplificate. Variano molto le modalità organizzative. La mobilitazione può riecheg­ giare le parole d’ordine dei partiti antifascisti o dei Gruppi di difesa, può esserne il risultato diretto, può valersi dei loro canali; altre volte - è il ca­ so di M. S. - nasce da strutture di concertazione informale lontane dal cir­ cuito politico e fondate su un tessuto sociale di paese, di quartiere, di par­ rocchia, su reti parentali, di colleganza, di amicizia. Variano anche i risultati: si salvano persone e si vanificano i piani nazi­ sti, come quando le donne di Carrara resistono agli ordini di sfollamento totale emanati nel luglio '44 per garantire alle truppe tedesche una via di ritirata attraverso territori sgombri [Commissione pari opportunità Massa e Carrara 1994]; si strappano miglioramenti delle condizioni di vita e si de­ legittimano le istituzioni della Rsi. Ma l’azione è in ogni caso frutto di una decisione personale non meno difficile della scelta partigiana. Così come solo una minoranza prende le armi, solo una minoranza si impegna infatti nella lotta senza armi, e sarebbe ingiusto servirsene per accreditare il mito di un’unanime mobilitazione antifascista e antinazista; vale invece la pena sottolineare che da noi la solidarietà verso gli ebrei scatta nel momento in cui risulta chiaro che è la loro vita a essere in pericolo, ma anche che la Ger­ mania ha ormai perso la guerra.

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Su questo sfondo, il significato della resistenza civile trova ancora più risalto. Si tratta nel suo insieme di un enorme lavoro di tutela e trasforma­ zione dell’esistente - vite, rapporti, cose - che si contrappone sul piano sia materiale sia simbolico alla terra bruciata perseguita dagli occupanti; di un rifiuto a sottomettersi le cui conseguenze possono andare dalla denuncia al­ la deportazione e alla pena di morte per chi fornisca documenti falsi ai ri­ cercati, dia aiuto a partigiani o - recita un decreto della Rsi del 9 ottobre 1943 - dia rifugio a prigionieri e militari alleati o ne faciliti la fuga. Alcu­ ne donne di Carrara vengono arrestate, alcuni soccorritori dei prigionieri di guerra sono uccisi; la piemontese quindicenne Natalina Bianco, “colpe­ vole” di aver portato viveri ai fratelli partigiani, finirà a Ravensbruck, co­ sì pure la studentessa padovana Milena Zambon, attiva in una rete che fa passare in Svizzera i prigionieri alleati [Gios 1987]. Del resto, nell’ordine senza diritto imposto dall’occupazione basta un rifiuto occasionale di ob­ bedienza a innescare ritorsioni gravi. L’impegno nella resistenza civile può dunque contare e costare quanto quello nella resistenza armata. Ma dei suoi protagonisti e protagoniste e del loro destino sappiamo ancora poco, e quel poco a volte emerge pèr caso, co­ me avviene nel '98 con la storia dell’agente di custodia di San Vittore An­ drea Schivo, deportato e ucciso a Flossemburg per aver «agevolato i dete­ nuti politici ebrei coi loro bambini [...] soccorrendoli con delle uova, mar­ mellata, frutta, di tutto quanto poteva essere possibile e utile» [Laudi 1998]. La Resistenza e la figura femminile. Consapevoli di quanto sia impor­ tante la conflittualità diffusa, le forze della resistenza la sollecitano in va­ rie forme; la considerano, però, più un indispensabile complemento della lotta armata che l’espressione di un antagonismo che germina dalla società. Nelle interpretazioni allora più seguite, la politica si identifica infatti con l’azione delle avanguardie organizzate, non con la transeunte iniziativa po­ polare; la vera battaglia contro il nazismo è quella che si combatte con le armi in pugno, mentre le lotte inermi e “spontanee” sono ritenute una for­ ma minore dell’antifascismo, una componente utile ma secondaria, in qual­ che caso guardata con diffidenza da chi ricorda le non lontane mobilitazio­ ni reazionarie delle masse italiane. Quanto alle donne, la Resistenza offre loro la prima occasione storica di politicizzazione democratica [Guidetti Serra 1977; Mafai 1987] e dun­ que le contraddizioni sono ancora più forti. Sebbene la guerra sottoponga l’intera struttura sociale a tensioni vistose, non ne smantella infatti l’im­ pronta patriarcale: restano forti sia l’ideologia secondo cui le donne appar­ tengono alla famiglia e al privato e sono incompatibili con la sfera pubbli­ ca e la politica, sia i luoghi comuni sull’inaffidabilità femminile. Partecipe di quella cultura anche se intenzionato a cambiarne molti aspetti, il movi­ mento resistenziale da un lato teme 1’“egoismo” familistico delle donne, dall’altro cerca di guadagnarle alla causa, ma soprattutto in quanto «madri e spose» [Pieroni Bortolotti 1978]. Nasce da qui una prevalente ottica “con­

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tinuista”, che vede nell’opera delle donne il prolungamento di ruoli natiirali di assistenza e di cura, espansi al di fuori del privato in deroga alla “nor­ male” divisione degli spazi. Che a singole esponenti politiche siano asse­ gnati incarichi di rilievo in qualcuno dei territori provvisoriamente libera­ ti dai partigiani e amministrati dai Cln è un segnale importante, ma coesiste con il fatto che in nessuna di queste zone viene riconosciuto alle donne il diritto di voto per l’elezione degli organismi di autogoverno. Non solo: perdurano - ed è stupefacente se si pensa agli sconvolgimen­ ti della guerra - l’assimilazione fra vita quotidiana e routine e quel suo ri­ svolto simmetrico che identifica emergenza e caduta peccaminosa nel lassi­ smo. Nessuna delle forze in campo si dimostra immune dall’uno o dall’al­ tro stereotipo. La Chiesa rimprovera alle donne di sfuggire la domesticità con il pretesto della situazione eccezionale, di non saper più educare cri­ stianamente le figlie, di indulgere a sregolatezze di ogni tipo, da abbiglia­ menti provocanti a frequentazioni scandalose. All’estremo opposto, in una lettera della IX brigata Matteotti «alle Compagne» [Archivio centrale Udi 1995] le si invita a impegnarsi per procurare quanto necessario alla forma­ zione, «abbandonando la vita metodica e casalinga». Che nella lettera della M atteotti ci si rivolga alle militanti di un organi­ smo riconosciuto dal Cln mostra che i pregiudizi non colpiscono soltanto le donne cosiddette comuni. Ne scontano gli effetti sia le donne dei Gruppi sia le stesse partigiane, gran parte delle quali sono impegnate nel lavoro lo­ gistico, un insieme di compiti complesso e pericoloso senza il quale nessun esercito potrebbe esistere. Meno che mai quello resistenziale, in cui il rap­ porto fra chi combatte e chi è impegnato in compiti di sostegno supera di molto lo standard delle truppe regolari. Eppure le partigiane vengono co­ munemente definite con il termine vago e miniaturizzante di «staffetta» il che non esclude affatto ammirazione e gratitudine ma conferma la diffi­ coltà a vedere le donne fuori da un ruolo ancillare. Quanto ai Gruppi di difesa, il loro intervento investe terreni cruciali per la vita materiale e simbolica della collettività e per una prospettiva di maggiore giustizia. Basta ricordare le lotte di fabbrica e contro le deporta­ zioni, la già citata resistenza agli sfollamenti forzati, gli onori resi pubbli­ camente e collettivamente ai partigiani caduti e alle vittime dei tedeschi, la difesa intensiva delle condizioni di vita condotta con grande attenzione a principi di equità nella gestione delle poche risorse lib id i. E un’assunzione di responsabilità che mette in campo pratiche e attitudini storicamente as­ sociate alle donne e fatte proprie dal primo emancipazionismo; ma lo sfor­ zo di trasformarle in compito politicamente riconosciuto rappresenta un passo in più, una opzione forte per la presenza femminile nei futuri orga­ nismi democratici. Peccato che questa potenzialità non trovi risposte ade­ guate [Rossi-Doria 1994]. I criteri che regolano il riconoscimento della qualifica di resistente di­ cono molto sulla cultura e sulla mentalità dell’epoca. È dichiarato partigia­ no chi ha portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata «re­

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golarmente inquadrata nelle forze riconosciute e dipendenti dal Cvl», e ha compiuto almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio. A quanti sono stati in carcere, al confino, in campo di concentramento la qualifica viene rico­ nosciuta solo se la prigionia è durata oltre tre mesi. Almeno sei mesi sono necessari nel caso di servizio nelle strutture logistiche, mentre a chi, dal­ l’esterno delle formazioni, abbia prestato aiuti particolarmente rilevanti, viene attribuito in qualche regione il titolo di benemerito. Resta dunque saldo uno dei fondamenti tradizionali della cittadinanza, che lega la sua espressione più alta al diritto/dovere di portare le armi, facendo degli iner­ mi per necessità o per scelta figure secondarie quanto meno sul piano sim­ bolico. Si sancisce anche l’assoluta dominanza del legame politico - di par­ tito, di gruppo, di organismo di massa - rispetto ad altri tipi di vincolo e mediazione. Nello stesso schieramento antifascista si fatica a prèndere co­ scienza delle implicazioni di questo dualismo. Vengono così esclusi molti soggetti, dai reduci dei lager agli oppositori non collegati alle formazioni ufficiali e ai partiti del Cln; e la grandissima parte delle donne. Le cifre ufficiali di 35 000 partigiane e 70 000 operanti nei Gruppi di difesa sono ragguardevoli, a maggior ragione se si tiene con­ to che il desiderio/bisogno di sottrarsi ai bandi di arruolamento nelle trup­ pe della Rsi non riguarda le donne; ma per ammissione ormai generale sottorappresentano ampiamente la presenza femminile. Non mancano ambivalenze neppure verso le partigiane combattenti, protagoniste di una rottura tanto più perturbante perché segue al ven­ tennio fascista di enfasi sfrenata sulle funzioni materne. Quanto allarme cresca intorno alla figura della donna in armi è mostrato dalle leggende che circolano fra tedeschi e fascisti e fra la popolazione, narrando di rea­ li o immaginarie condottiere sempre bellissime e sempre ferocissime. E il riemergere del mito della guerriera, che ha il suo rovescio nella diffiden­ za con cui molti guardano alle partigiane concrete, donne per lo più gio­ vani uscite da casa per entrare non solo nella sfera della politica ma in quella della violenza armata, ritenuta massimamente incompatibile con la femminilità. Può essere così anche fra i resistenti. Il coraggio con cui la dirigenza par­ tigiana bolla come arretratezze i pregiudizi maschili [Pavone 1991] e apre alle donne, non azzera i dubbi sulla loro attitudine al combattimento né i timori di promiscuità nelle bande, e convive con una pratica di divisione dei compiti modellata sulla gerarchia di genere. Per molte che combattono, poche accedono a ruoli politici o militari di rilievo, pochissime diventano comandanti o commissari politici. Il grado più alto attribuito alle donne è quello di maggiore, che riguarda comunque una piccola minoranza; quelli più diffusi, tenente e sottotenente. L’avarizia nell’assegnazione di ricono­ scimenti militari riguarda tutta la Resistenza europea, ma nei paesi latini si arriva a casi limite: da noi una donna si vede attribuire la qualifica di sol­ dato semplice proprio dal giovane partigiano che lei stessa aveva messo a capo di una formazione quando esercitava in via provvisoria il comando del

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i ° settore della piazza di Torino; a un’altra classificata come partigiana sem­ plice viene riconosciuto dal comando alleato il grado di ufficiale superiore e la liquidazione in denaro corrispondente [Alloisio e Beltrami 1981]. Nell’insieme, il modo con cui nel mondo resistenziale si guarda alle don­ ne registra un interessante intreccio fra volontà ugualitaria, slanci innova­ tivi e cedimenti ai vecchi stereotipi. Non per caso. Sono in gioco la divi­ sione sessuale dei compiti e la separazione degli spazi fra donne e uomini, nodi cruciali del sistema di genere resi più dirompenti dalle materie che in­ vestono: partecipazione politica, uso delle armi, rapporti uomo-donna nel­ la vita di formazione e in prospettiva nel futuro. Della complessità della si­ tuazione non tutti si rendono conto; su come affrontarla si danno a volte indicazioni opposte. Emerge così un quadro movimentato, dove giocano in modo decisivo le differenze culturali, politiche, geografiche, ideologiche, e le inclinazioni personali; gioca, soprattutto, la volontà delle protagoniste di contrattare spazi di autonomia e di autoaffermarsi di fronte ai compagni. E significativo che i Gruppi di difesa della donna insistano di continuo per sostituire il termine «staffetta» con definizioni professionali (informa­ trice, collegatrice, portaordini, infermiera) utili per superare l’immagine in­ distinta della donna che aiuta, dà.una mano, si presta; che invitino calda­ mente le militanti a esigere la presenza femminile negli organismi politici e in ogni struttura di base, a non aver paura di sbagliare, ad agire di propria iniziativa, a sapersi imporre [Archivio centrale Udi 1995]. E significativo che molte partigiane rivendichino uguali diritti e responsabilità, e che alcune accettino di curare i compagni feriti, ma rifiutino fermamente di servirli [Bruzzone e Farina 1976]. Il senso comune storiografico. Sebbene qualsiasi generalizzazione impli­ chi una forzatura, si può dire che per decenni gran parte della storiografia abbia aderito alle idee-base della Resistenza, presentandola come un even­ to quasi esclusivamente armato e identificandone la politica nei partiti e ne­ gli organismi di massa. Quanto agli stereotipi sulla femminilità, gli storici sembrano averli.vissuti in modo molto meno conflittuale e vitale che non i resistenti, tanto da aver quasi ignorato l’esperienza delle partigiane e ancor più quella dei Gruppi o delle «donne comuni». Non che della presenza femminile si sia taciuto del tutto. E anzi raro che non venga nominata e magari insignita di aggettivazioni iperboliche; ma, appunto, semplicemente nominata, non assunta a tema di ricerca. Nel­ la memorialistica se ne parla come di un aiuto provvidenziale ricordato a volte con tenerezza e commozione; nei lavori di sintesi compare come lo scenario della lotta armata, quasi una componente ambientale che aderisce, sabota o si astiene in una partita giocata tra fascisti e partigiani. Il vuoto di analisi traspare dai vuoti di linguaggio. Si parla di «contri­ buto», un termine che marca il divario fra l’atto fondativo e il suo contor­ no o supporto, e lascia talmente nel vago il suo oggetto che la medesima pa­ rola viene usata per indicare l’attività delle partigiane ma anche l’insieme

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delle pratiche femminili ritenute utili alla resistenza. Si parla di rapida po­ liticizzazione (senza però minuziosamente verificarla) oppure di umanita­ rismo istintivo (una categoria che andrebbe a sua volta spiegata perché la solidarietà non scatta sempre né per chiunque). E, ancora, di oblatività femminile, vale a dire materna; ma una maternità tradizionale, vincolata al privato e allo spazio domestico, e destinata a tornarci finita l’emergenza. Il risultato è che un intero universo di comportamenti resta confuso nel paesaggio della guerra civile, perché non esistono né un orizzonte simbo­ lico capace di accoglierli, né un termine che li ricomprenda e li caratteriz­ zi. Tra alcune figure esemplari - la partigiana eroica, la madre salvifica, all’estremo opposto la spia - e le donne come massa indifferenziata non c’è posto per le protagoniste concrete, che non hanno nome né identità rico­ nosciuta, tanto meno una fisionomia politica. Le stesse divergenze fra par­ tigiane, fra organizzazioni femminili e-al loro interno, vengono lasciate tra parentesi in una immagine di quieto unanimismo [Rossi-Doria 1994], a con­ ferma che p$r gli storici il rapporto donne-politica restava a dir poco insi­ gnificante. E un elemento di continuità con il passato che in Italia viene acuito dalla prevalenza della cultura cattolica, da una mentalità debitrice della tradizione contadina e dalla tendenza ancora diffusa nelle sinistre a subordinare la cosiddetta questione femminile alla soluzione dei problemi sociali. Un destino in linea di massima simile è toccato alla mobilitazione di­ sarmata dei civili e alle iniziative autorganizzate, sulle quali, all’opposto di quanto è avvenuto per il partigianato e i gruppi politici, c’è stata pochissi­ ma ricerca e riflessione, e quasi soltanto ad opera di esponenti della nonviolenza. Esaltato l’aspetto di prezioso sussidio alla resistenza armata, igno­ rati gli elementi di autonomia e i caratteri specifici, le lotte di questo tipo affiorano dalle ricerche in ordine sparso, mentre a partire dagli anni set­ tanta sono spesso sussunte nella categoria delle lotte operaie e popolari e in quella del mondo contadino. Questa “distrazione” si tramanda per decenni - dagli anni cinquanta, quando il clima di processo alla Resistenza mantiene in primissimo piano la lotta armata e i suoi valori, agli anni sessanta-settanta che vedono la con­ centrazione sul tema della Resistenza tradita e sulla radicalità di classe. Più degli orientamenti politici e culturali di fase, pesa una forma mentale che neppure concepisce di poter estendere il titolo di resistente a chi non abbia portato le armi. Per gli Imi (i 650 000 militari internati in Germania dopo l’8 settembre), che rifiutano in stragrande maggioranza di arruolarsi nell’eser­ cito della Rsi, si parla di «resistenza passiva», un termine già in uso all’epo­ ca, che per la cultura occidentale ha un segno negativo e che risulta davve­ ro stonato. Come si fa a definire «passivo» un no opposto ai nazisti dall’in­ terno di un campo di prigionia? Lo scarto è ancora maggiore per la sistemazione storico-teorica. Sul no­ do guerra di liberazione / guerra civile c’è stato e c’è tuttora un dibattito a volte aspro cresciuto intorno a un’opera spartiacque [Pavone 1991]; il te­

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ma lotta armata / lotta non armata e il modello di cittadinanza uscito dalla Resistenza sono rimasti - e per molti aspetti ancora rimangono - ai margi­ ni della storiografia accademica come della divulgazione. Nell’insieme, l’esiguità di ricerca e celebrazione ha contribuito a dare l’idea che l’opposizione civile sia stata pressoché inesistente, e quella delle donne limitata a una “materna” azione di aiuto ai partigiani. Tuttavia, nella seconda metà degli anni settanta per le donne c’è una svolta. E allora che, in un felice interscambio con il femminismo e il nuo­ vo interesse per gli “invisibili” della storia, alcune studiose e protagoniste denunciano, sia pure con diversa radicalità, i limiti della Resistenza e dei suoi interpreti nei confronti delle donne, rivendicando il diritto di parti­ giane e deportate politiche al pieno accesso alla sfera del pubblicamente me­ morabile [Bruzzone e Farina 1976; Guidetti Serra 1977; Pieroni Bortolotti 1978; Beccaria Rolfi e Bruzzone 1978; Alloisio e Beltrami 1981]. Negli stessi anni Lidia Menapace, partigiana e militante della nonviolenza, allar­ ga il discorso alle donne che non hanno avuto alcun riconoscimento e che non hanno neppure pensato a chiederlo: Se si prende come metro di misura delle donne nella resistenza questa presen­ za [...], come si può valutare se dopo la liberazione la sua eco e il suo risultato sia­ no stati adeguati? [1979].

Grazie a questi studi, si apre la strada per nuove ricerche all’interno della storia delle donne intesa come disciplina autonoma e politicamente motivata. Una strada che in questi ultimi anni, e non solo in Italia, ha guar­ dato sia alle partigiane sia alle donne cosiddette comuni, sia alle azioni col­ lettive sia a quelle individuali e di piccolo gruppo, nel tentativo di com­ prenderne i significati rispetto al quadro complessivo e di ridefinire conte­ nuti e confini del termine «Resistenza». Perché il tema dell’opposizione nella società guadagni terreno bisogna invece aspettare la fine del decennio successivo, quando l’irruzione della storia sociale mette fine al lunghissimo predominio dei temi politico-istitu­ zionali e pone le premesse per una nuova sensibilità. Uno sguardo sommario al presente mostra una situazione fluida. Gli sto­ rici più avvertiti concordano sull’importanza anche teorico-politica di que­ sti temi: che senso ha, per esempio, continuare a discutere sulla dimensio­ ne numerica della Resistenza riferendosi ai criteri di oltre cinquant’anni fa ? Ma c’è anche una diffusa tendenza a ritenere la resistenza civile «affare del­ le donne» - le protagoniste di allora, le ricercatrici del presente - eluden­ done il carattere di critica generale al senso comune storiografico. Il concetto di resistenza civile. Usato in precedenza episodicamente e sen­ za un forte statuto storiografico, questo concetto è stato messo a punto alla fine degli anni ottanta dal francese Jacques Sémelin, storico di formazione psicosociologica e militante della nonviolenza. Per Sémelin [1993], la resi­ stenza civile si identifica nelle iniziative conflittuali disarmate delle istitu­

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zioni politiche, professionali, religiose, o delle popolazioni, o di entrambe; e rappresenta la risposta specifica della società civile contro il dominio che il nazismo pretende di esercitare sulla sua vita e sulle sue strutture. Una collocazione di primo piano ha naturalmente il sostegno alla lotta armata, ma il fatto nuovo è che vengono assegnati un nome e una rilevanza inedita alle pratiche dell’autodifesa sociale, di cui l’autore offre una ricca casistica rela­ tiva al Centro e Nord Europa. Si va dai grandi scioperi minerari francesi e belgi del maggio-giugno 1941 contro il crollo dei livelli di vita, al rifiuto di aderire a qualsiasi associazione nazificata da parte di insegnanti, medici, fun­ zionari e altri gruppi, compresi gli sportivi, che in Norvegia con il blocco di ogni attività agonistica contribuiscono ad aprire gli occhi a molti giovani; dalle denunce pubbliche di alcune Chiese nazionali, alle lotte della prima­ vera-estate '43 in Francia e nei Paesi Bassi contro la deportazione in Ger­ mania di centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici, alla meravigliosa mobilitazione del popolo danese che nell’ottobre '43 riesce a portare in sal­ vo in Svezia la grandissima maggioranza dei “suoi” ebrei. Consapevole di muoversi su un terreno delicato, Sémelin fissa chiara­ mente alcuni punti: la resistenza civile non è in competizione con la lotta armata, non comprende qualsiasi atteggiamento conflittuale ma solo quelli dotati di un’intenzione o di una funzione antinazista, non equivale auto­ maticamente a lotta nonviolenta, e quest’ultima non è un dogma da segui­ re in qualsiasi contesto. Ma è altrettanto fermo nel rivendicare la matrice comune a queste lotte e la loro autonomia, e nel confutare le interpretazioni che le riducono ad appendici del movimento partigiano; proprio per questo le analizza nei primi anni dell’occupazione, quando l’aspetto armato era an­ cora assente o in nuce, e insiste sulla necessità di valutarne le differenze al­ la luce delle specificità nazionali e di fase, come il tipo di collaborazione praticato dai governi, le tradizioni locali, le modalità della politica nazista, la coesione sociale preesistente, vale a dire il grado di riconoscimento nel­ le istituzioni e i sentimenti di appartenenza alla collettività. Due obiettivi gli stanno soprattutto a cuore: «demilitarizzare» la Resistenza, mostrando che si può lottare efficacemente in molti altri modi e su molti altri terreni; e indicare nella società il luogo di un antagonismo non interamente com­ prensibile e rappresentabile dalla lotta armata, facendo dei cittadini e dei gruppi sociali non i comprimari ma i protagonisti, portatori di obiettivi pro­ pri anziché cassa di risonanza dello scontro partigiani/nazisti. Si offre in questo modo un solido terreno di unità a grandi lotte, com­ portamenti sparsi e a volte dati per scontati, episodi altamente creativi - è così ad esempio per i momenti di resistenza vissuti nella situazione estre­ ma del lager con la creazione di strutture politiche clandestine, e più spes­ so attraverso lo sforzo di contrastare l’esperimento di controllo totale dei comportamenti perseguito dall’ideologia concentrazionaria. Per quanto ri­ guarda l’Italia, trovano identità e visibilità innanzitutto i deportati e le de­ portate, gli Imi, ma anche molti soggetti imprevisti: come quegli impiegati pubblici, uomini e donne, che all’indomani dell’8 settembre riempiono cen­

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tinaia di fogli di via con i nomi degli sbandati, per farli viaggiare verso ca­ sa come se fossero in regolare licenza [Ferrandi 1994]; o quei dipendenti comunali romani che, ben prima di essere coordinati dal Cln, organizzano un ingegnoso sistema per procurare ai ricercati una “regolare” falsa iden­ tità, scegliendo per il domicilio edifici bombardati ed evacuati, per il luogo di provenienza irraggiungibili comuni a sud del fronte, per gli stati di fa­ miglia numeri d’ordine di serie anteguerra; e, ancora, quei loro colleghi e colleghe che insieme agli sterratori del Verano disseppelliscono le bare dei fucilati cui i nazisti vietano di apporre segni di riconoscimento, le aprono, prendono nota delle ferite, dei tratti fisici, dei vestiti, e le contrassegnano perché possano essere identificate in futuro [Lunadei 1996]. Per descrivere la parte avuta dalle donne in questa guerra, il concetto di resistenza civile è uno sfondo propizio. Lo è per la loro amplissima par­ tecipazione; per gli strumenti, che sono quelli comunemente associati al femminile, resi più visibili dall’assenza delle armi; per i contenuti, che mo­ strano come fra tedeschi e fascisti e strati di popolazione esista un con­ tenzioso su temi cruciali dell’esistenza collettiva e pertinenti ai ruoli e all’esperienza delle donne - per esempio il diritto a condizioni vitali mi­ nime, l’atteggiamento dei militari verso i civili, la tutela dei più deboli, il rispetto dovuto ai morti, i limiti che il conflitto non deve oltrepassare. Lo è anche per le motivazioni, dove non si stabiliscono gerarchie fra quelle politiche e quelle di altra natura, che del resto non affiorerebbero senza un precedente disconoscimento della legalità fascista e senza l’individua­ zione almeno embrionale di una legittimità altra. Lo è soprattutto se si tie­ ne conto di come le caratteristiche dell’Italia del ’43-45 modellino il con­ flitto e l’azione sociale. L’8 settembre il paese esce da vent’anni di un regime che ha frantuma­ to l’opposizione, infiltrato le strutture sociali e avviato la “nazionalizza­ zione” delle masse; i sentimenti civici, già storicamente deboli, sono sbri­ ciolati, le risorse miserrime; le vecchie istituzioni statali hanno perduto ogni credibilità, mentre i partiti e le nuove organizzazioni di massa mancano di radicamento, quadri, mezzi, conoscenze, una condizione che di per sé cir­ coscrive il loro ruolo nella mobilitazione popolare (ma anche la loro capa­ cità di direzione sulle prime bande). Si capisce così perché la resistenza civile italiana appaia particolarmen­ te discontinua, meno strutturata, meno “politica” di quanto non sia in Fran­ cia, Danimarca, Olanda. Perché, in altre parole, siano tanto importanti quel­ le iniziative informali e di piccolo raggio che spesso sono state ricomprese nella categoria seducente quanto vaga di spontaneità, quei già ricordati com­ portamenti fondati su parentele, quartiere, caseggiato, parrocchia, comu­ nità - precisamente gli ambiti in cui le donne sono storicamente più pre­ senti e autorevoli: donne che hanno saputo far continuare la vita nei tre an­ ni di guerra ricavandone esperienza e consenso sociale, molto spesso madri dotate di un solido potere nella famiglia e di un’influenza particolarmente forte sulla condotta dei figli.

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Non si tratta di esaltare 1’“impoliticità” ma di ribadire come proprio questa accentuata compresenza di iniziative solitarie, di gruppo, di massa, que­ sto affiancarsi di reti politiche e di forme di concertazione diverse rappre­ senti una delle ricchezze della nostra resistenza civile. E anche ciò che ren­ de complicato definirla, perché è complicato valutare l’incidenza di ciascu­ na modalità, soprattutto dell’accordo informale, che può a volte coincidere con il legame politico, a volte essere utilizzato per mascherarlo; che, so­ prattutto, ha lasciato ben poche tracce nella documentazione. L’importan­ te è assumere questi e altri problemi come oggetti storiografici di spicco, parte eminente di un movimento che non è né il braccio disarmato della lot­ ta partigiana né un sottoprodotto dei partiti, e neppure un limbo inorga­ nizzato, impolitico, istintuale. Se si pensa alla difficoltà degli storici a superare un’interpretazione “maternalista” e alla difficoltà delle stesse donne a pensarsi fuori dai ruoli fa­ miliari e di cura, si tratta di un passo decisivo. Si potrebbe anzi dire che la resistenza civile si addice alle donne, e viceversa, tanto che rischiano di es­ sere lasciate in ombra la sua componente maschile e persino l’esperienza delle partigiane combattenti. Resistenza civile e resistenza delle donne . Dopo essere state le prime a mi­ surarsi con il concetto, (alcune) storiche hanno però messo in guardia da una identificazione troppo stretta fra resistenza civile e resistenza delle don­ ne. Sgombrare il campo dalla gerarchia armati/inermi è solo un primo pas­ so. Se anche nella resistenza civile le donne, numerosissime nelle realtà di base, raramente prendono parte ai processi di consultazione e decisione, e ancora più raramente sono cooptate nelle leadership, non è solo perché un’or­ ganizzazione clandestina o semiclandestina non può rispettare criteri di av­ vicendamento della dirigenza, né regolari meccanismi di confronto e con­ trollo. Conta anche il pregiudizio sulle capacità politiche femminili, che non viene smontato di per sé dalla scelta non armata o addirittura nonviolenta. Ma persino ai livelli più informali agiscono strutture in cui le donne pos­ sono scomparire. Innanzitutto la famiglia, che nell’Europa occupata è il ber­ saglio delle deportazioni, dello sfruttamento diffuso, del terrore, e nello stesso tempo un luogo primario di iniziativa e reclutamento; lo è tanto più facil­ mente in Italia, data la particolare forza ed estensione dei legami familiari. Può allora succedere che una donna, spinta e legittimata a esporsi in nome e per tramite della famiglia, venga assorbita dalla sua immagine di unità or­ ganica, di soggetto unitario che “compare” come protagonista in sua vece, mentre la figura di moglie e madre torna a sovrastare quella della resisten­ te e la sua iniziativa a essere classificata come contributo. Non solo: se ci si attenesse alla formulazione originaria del concetto di resistenza civile, lo stesso numero delle donne considerate attive scemereb­ be radicalmente. Sémelin riservava infatti quel termine alle iniziative ten­ denzialmente di massa e organizzate, preferendo nel caso di piccoli gruppi sparpagliati la categoria più debole di disubbidienza o dissenso. Lo stesso

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vale per quella modalità largamente femminile rappresentata dall’azione so­ litaria, su cui pesa per di più il debole riconoscimento assegnato per decen­ ni alla lotta individuale, vista come surrogato poco pregevole di quella collettiya. È un paradosso della resistenza civile antinazista usare pratiche asso­ ciate al femminile e uno stile politico e modelli organizzativi tipicamente maschili. Anche in questo universo bisogna allora mettersi in cerca dei luoghi e modi delle donne per farli emergere laddove non trovino visibilità e per di­ stinguerli dallo sfondo che potrebbe offuscarne le caratteristiche. Tra que­ ste, una delle più evidenti è la capacità di “usare” una contraddizione tipi­ ca del tempo di guerra, in cui sfumano i confini già mutevoli tra sfera pri­ vata e sfera pubblica e nello stesso tempo si rafforza il legame simbolico che identifica la f e m m i n i l i t à con la prima, la mascolinità con la seconda. Mol­ te azioni nascono proprio nella zona a statuto incerto fra pubblico e pri­ vato e si realizzano grazie a rapporti a loro volta di confine. Donne - una minoranza di donne - scrivono e ciclostilano in case che sono nello stesso tempo abitazioni e centri di resistenza. Stringono relazioni a partire dalla vita quotidiana trasformandole in circuiti magari provvisori di iniziativa antinazista. Coinvolgono parenti e vicine. Frequentano i mercati facendo insieme spesa e propaganda politica. E sistematicamente fanno del riferi­ mento al privato e al familiare il massimo strumento di diversione e mani­ polazione del nemico: contrabbandano le riunioni per incontri amicali, tra­ sformano una militante politica in una parente sfollata, un ricercato in fi­ glio, marito, amante - come la brava moglie torinese che per proteggere un antifascista sorpreso a casa sua dichiara di avere una relazione amoro­ sa con lui, e affronta il processo e la perdita della rispettabilità [Bravo e Bruzzone 1995]. Fanno di un libro il contenitore per una rivoltella, del pro­ prio corpo un nascondiglio di documenti, di un fiore un simbolo o un se­ gnale. Assumono la maschera della ragazzina ingenua o della giovane bella e svagata. Il fatto è che molte hanno intuito uno dei punti deboli del nemico, il bi­ sogno di sottrarsi momentaneamente al clima di muro contro muro per go­ dere di un simulacro di rapporti svincolati dalla guerra: fame di privato, si potrebbe chiamare. E di questa intuizione fanno un uso sapiente, spostan­ do nell’universo delle armi le armi della sfera privata e personale: seduzio­ ne, capacità di recitare più ruoli, appello agli affetti, fragilità esibita, impu­ denza calcolata, spesso la tattica del piccolo dono - un pezzo di pane bianco, una sigaretta - offerto al nemico in segno di pace. C’è precisamente questo raffinato gioco delle apparenze alla base degli episodi infinite volte narrati di donne che superano i posti di blocco con le loro sporte piene di volanti­ ni o munizioni - piene di politica e di guerra - esibendo i simboli della rou­ tine domestica o della femminilità inoffensiva. A venire in primo piano è soprattutto il registro materno. Può essere il matemage individuale o di massa che tutela le vite in pericolo; può essere

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il lavoro di cura indirizzato ai resistenti dall’interno e dall’esterno delle for­ mazioni partigiane, o l’assistenza alle popolazioni promossa da gruppi fem­ minili; può essere l’uso tattico dei simboli della maternità, o il richiamo al suo carattere universale, in nome del quale si autolegittimano l’interven­ to presso tedeschi e fascisti per ottenere un rilascio o la rinuncia a una rap­ presaglia, ma anche la sfida, la riprovazione, lo scoppio di collera vendica­ tiva in cui riaffiora il tradizionale diritto delle madri a insorgere in difesa dell^ comunità [Bravo 1991]. E altrettanto importante guardare a organizzazioni come i Gruppi di di­ fesa, sia per il loro programma di affermazione di diritti e opportunità, sia perché una struttura politica interessata a rivendicare la titolarità delle azio­ ni femminili rappresentava già un argine all’assorbimento delle donne nel­ la famiglia e un tramite per valorizzare le iniziative sparse: nelle direttive dei Gruppi del novembre 1944 che invitano alla mobilitazione per impedi­ re la partenza dei treni destinati alla Germania - «liberare i soldati nelle caserme» e «nelle carceri i detenuti condannati alla deportazione» - ci si richiama esplicitamente all’8 settembre come modello da seguire e come pa­ trimonio femminile a cui rifarsi. Nonostante la maggiore attenzione di questi ultimi anni, lo stato della ricerca non permette una valutazione definitiva. Segnala piuttosto l’urgen­ za di mettere insieme una casistica più ampia, senza rinunciare allo spar­ tiacque dell’intenzione e della funzione antinazista ma valutando in quale modo fossero vissute dalle donne di allora; e l’importanza di rendere visi­ bili le rotture e le continuità, le nuove idee e le tradizioni di sapere fem­ minile attivate nel faccia a faccia con la guerra, senza cedere alla mitizza­ zione del materno ma senza dimenticare che si tratta di un fatto e di un sim­ bolo troppo ricchi e complessi per prestarsi a un’interpretazione univoca. Quanto al concetto di resistenza civile, pur avendo una storia in larga parte autonoma dal discorso di genere, ha già dato molto, innanzitutto spo­ stando alcune storie importanti dalla memoria privata a quella pubblica: la vicenda di M. S. è rimasta per decenni affidata al ricordo della figlia; la di­ ciottenne procacciatrice di lasciapassare non riteneva neppure di aver fat­ to la Resistenza. Quel concetto resta perciò uno dei riferimenti più signi­ ficativi, anche per la duttilità con cui si è aperto al confronto con gli studi delle donne, in particolare a proposito dell’azione individuale, Fòjse, è pro­ prio da questo interscambio che posso.no venire gli insegnamenti più lim­ pidi per la coscienza contemporanea. E infatti attraverso la figura femmi­ nile, tradizionale simbolo della condizione inerme e della vocazione alla pa­ ce, che trovano il massimo di verosimiglianza l’idea che anche per gli indifesi è possibile opporsi e la prospettiva di una lotta accessibile a molti più sog­ getti, dalla madre di famiglia al prete al non violento, ma anche a chi è an­ ziano o infermo. «Fai come me» è un invito che il resistente civile può esten­ dere enormemente, al di là di quanto possa fare il partigiano in armi; e che appunto per questo testimonia come anche aspettare, non vedere, non “im­ mischiarsi”, sia stata una questione di scelte.

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ANDREA ROSSI

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Iprim i tentativi di resistenza e l ’esempio balcanico. Quando il Comando supremo del regio esercito, dopo le vicende dell’armistizio, emana, nel di­ cembre 1943, le sue prime direttive per l’organizzazione della lotta contro i nazifascisti, le riserve sulle reali capacità di organizzare una capillare or­ ganizzazione di guerriglia contro gli occupanti sono numerose. Le maggiori fra queste derivano dalla conformazione geografica della penisola italiana che, a detta di molti esponenti dello stato maggiore sabaudo, solo in poche regioni presenta zone in cui le formazioni partigiane si possano organizzare con sufficiente tranquillità. In particolare, nella valle del Po e nelle altre lo­ calità di pianura, l’eventualità di condurre azioni contro i tedeschi viene ra­ dicalmente esclusa per l’evidente impossibilità di raggiungere le condizio­ ni minime di sicurezza per i resistenti. Con il senno di poi questi giudizi appaiono sin troppo prudenziali, quan­ do non addirittura clamorosamente errati; occorre però fare alcune consi­ derazioni sul particolare momento storico in cui vengono svolte le prime analisi sul nascente fenomeno resistenziale del Centro-nord. Lo sviluppo che avrà in seguito il movimento di liberazione nazionale, infatti, è del tut­ to inimmaginabile negli ultimi mesi del 1943, quando l’improvvisazione è ancora la regola che sta alla base della creazione dei primi focolai di oppo­ sizione all’esercito occupante. Le valutazioni del regio esercito nascono in gran parte dalle esperienze concrete avute dai militari italiani nei tre anni di guerra dal 1940 al 1943. Di conseguenza gli studi più approfonditi sul tema della guerriglia riguardano l’unica realtà di opposizione capillare e strutturata che il nostro esercito ha conosciuto, ovvero quella iugoslava. L’esperienza balcanica è in definitiva il solo esempio al quale possono fa­ re riferimento anche i numerosi militari che nell’autunno 1943 stanno con fatica organizzando le prime bande armate nel Centro e nel Nord dell’Ita­ lia. Sono numerosi infatti gli elementi provenienti dall’esercito che hanno avuto esperienze belliche in Slovenia, Bosnia e Croazia, spesso a diretto con­ tatto con la guerriglia di Tito. Le linee di somiglianza fra la nascente attività resistenziale italiana e quella iugoslava sono però limitate alle questioni militari e strategiche; il territorio balcanico, nel quale le forze armate di Tito hanno potuto svilup­ parsi sino a divenire un temibile strumento di guerra, è assai diverso da

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quello italiano: minime zone pianeggianti, aspre catene montuose separate da vallate spesso strette e allungate, centri urbani in genere di dimensioni medie e piccole, assai distanti fra loro e collegati da strade di percorrenza disagevole. L’influenza di questo quadro ambientale sullo sviluppo delle vi­ cende belliche in Iugoslavia è decisiva fin dal 1941, quando avviene l’in­ vasione tedesca e italiana. Le forze collaborazioniste croate, già a pochi me­ si dalla nascita del governo fantoccio guidato da Ante Pavelic, perdono il controllo di vaste aree del territorio, rimanendo confinate in quelle che ri­ marranno sino al termine della guerra le uniche regioni in cui gli ustascia potranno esercitare liberamente il loro potere: la costa adriatica e le gran­ di città come Zagabria e Sarajevo. Il fenomeno delle zone libere, che in Ita­ lia avrà sempre proporzioni ridotte e per lo più estemporanee, presenta qui dimensioni estensive, dovute alla conformazione geografica sopra descrit­ ta. Dal 1942 la lotta dell’Asse contro i partigiani assume infatti le caratte­ ristiche di complesse azioni militari volte a riconquistare i territori con­ trollati da Tito. Tolte queste occasioni, caratterizzate da un dispiegamen­ to di forze di grandi proporzioni, le truppe italiane e tedesche si avventurano nell’entroterra ben consce di entrare in una zona interamente controllata dall’avversario. Come è noto, questo genere di dominio territoriale si presenterà nel no­ stro paese soltanto di rado. Anzi, la situazione italiana per come si presen­ ta nelle settimane immediatamente successive all’armistizio è invece deci­ samente favorevole agli occupanti. In pochi giorni la Pianura padana è com­ pletamente nelle mani dei tedeschi, i quali si insediano anche in tutte le città del Nord e del Centro. Le zone montuose alpine e appenniniche, com’è intuibile, diventano sede di alcune sacche di resistenza spontanea, anima­ ta dagli uomini dell’esercito. Questi primi tentativi però falliscono dopo breve tempo, in genere con esiti sanguinosi; a Massa gli alpini del batta­ glione Val di Fassa si oppongono con decisione alla Wehrmacht (Forze ar­ mate tedesche), venendo però dispersi in pochi giorni. A Varese il colon­ nello Carlo Croce si asserraglia nelle fortificazioni sul colle San Martino, dando vita a un’accanita e tragica resistenza, che si concluderà nel novem­ bre 1943. Non diverso lo scenario dei fatti che avvengono nel Cuneese, do­ ve le poche unità organiche sopravvissute allo sfacelo della IV armata ven­ gono affrontate nei pressi di Boves, con spaventose conseguenze per i civi­ li del luogo. Meglio va ai patrioti e ai militari della banda Maiella, futura brigata partigiana, i quali riescono a rimanere compatti, superando alcune dure prove contro i nazisti. Ciò che emerge con chiarezza, all’inizio dell’inverno 1943-44, è che i tedeschi considerano ben poche zone del territorio italiano da loro occupa­ to come insicure o scarsamente controllate. Questa opinione, diffusa nei comandi della Wehrmacht e delle SS, è in realtà contraddetta da alcune an­ ticipazioni di ciò che avverrà nella primavera del 1944. Gli «sbandati», co­ me ancora vengono chiamati i militari e i civili che si sono uniti alle prime formazioni dislocate nelle valli delle Alpi occidentali e nei folti boschi del­

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l’Italia centrale, sono già in grado di tenere testa alle unità della milizia e alle poco affidabili formazioni di polizia appena costituite dal governo di Salò. Le Camicie nere della Tagliamento nel Biellese, così come i fascisti fiorentini del battaglione Muti nei dintorni di Prato, si trovano di fronte avversari agguerriti e decisi, che hanno saputo prendere vantaggio dalle ca­ ratteristiche del terreno in cui si trovano a operare. I collaborazionisti si ren­ dono conto ben presto che fuori dai centri urbani i rischi per loro sono con­ tinui. Come si vede, non si tratta del pieno controllo territoriale da parte dei partigiani, come nei Balcani; è una situazione diversa, per certi versi an­ cora più insidiosa in quanto, specie nel Centro Italia, i tedeschi devono im­ pegnarsi in prima persona a provvedere alle retrovie, destinando ai compi­ ti di polizia antipartigiana un numero sempre crescente di reparti non solo delle SS ma anche dell’esercito. Nel contempo i patrioti hanno dalla loro la possibilità di poter sfruttare appieno le risorse delle zone montuose e colli­ nari, dove poco per volta riescono a creare rifugi sicuri. Il presupposto territoriale. L ’habitat dove maggiormente si sviluppa il movimento partigiano è fin da subito quello della montagna; tutto l’arco alpino, da occidente a oriente, diventa sede di formazioni sempre più cor­ pose e agguerrite. Cerchiamo ora di concentrare l’attenzione sui motivi che conducono i primi nuclei, superata la critica fase iniziale dell’autunno 1943, a raggrupparsi nei rilievi piemontesi, lombardi e veneti. La prima ragione è ovvia, e riguarda l’impossibilità di «scendere in pianura» alme­ no in questo primo periodo, che vede un controllo continuo e capillare di tutta la regione pianeggiante a cavallo del Po. Anzi, sino alla fine della guerra quest’ultima rimarrà l’unica area in cui effettivamente il governo della Repubblica sociale italiana (Rsi) può esercitare il suo potere. Il se­ condo motivo deriva dall’appoggio spontaneo che le popolazioni contadi­ ne di montagna offrono da subito ai patrioti, sin dai giorni immediata­ mente successivi all’8 settembre, quando i militari si rivolgevano a queste famiglie per ottenere abiti civili. Il nesso con il territorio emerge a questo punto immediatamente. Nel­ le vallate alpine italiane le popolazioni hanno un’approfondita conoscenza delle zone in cui si trovano. Di conseguenza l’immediata adesione dei con­ tadini alla causa della lotta di liberazione fa sì che le impervie aree di al­ cune province del Nord diventino pressoché impraticabili per chi viene “dalla pianura”, cioè le truppe occupanti, mentre assumono sempre più fre­ quentemente la valenza di concreto rifugio per i patrioti. Il copione più classico che si potrà osservare infatti in queste aree sin dalla primavera del 1944 sarà quello dei partigiani “in vetta”, pronti a procedere a rapide in­ cursioni nei territori pianeggianti, e dei nazifascisti che partendo dal basso cercano in ogni modo di percorrere i ripidi sentieri che conducono verso le quote dove si trovano i rifugi delle formazioni patriottiche. In questo con­ testo, le unità della Rsi, così come quelle della Wehrmacht, spesso^sono co­ strette a partire da posizioni sfavorevoli per i loro rastrellamenti. E in gran

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parte per questo motivo che le forze dell’Asse dovranno sempre utilizzare reparti di consistenza superiore alle forze partigiane. La conseguenza è im­ mediata: vengono impegnate in operazioni di polizia truppe altrimenti ben più utili al fronte. Bastano infatti pochi agguerriti distaccamenti per pro­ vocare sensibili danni alle comunicazioni verso il fronte meridionale, o tra le varie località dell’industrializzato Settentrione. Lo sviluppo che avrà que­ sto tipo di lotta conoscerà ben pochi momenti di tregua. Di rado, nel pe­ riodo che va tra la primavera e l’estate del 1944, le unità della Guardia na­ zionale repubblicana (Gnr) o delle SS riescono ad assestare colpi in qual­ che modo definitivi alle formazioni partigiane che si trovano sulle quote più alte. Anzi, come nel Cuneese o in Valtellina, sempre più spesso le Ca­ micie nere sono costrette ad arretrare i loro presidi più isolati, in quanto le forze partigiane assumono il controllo di territori sempre più ampi. Alquanto diverso è lo scenario che nel contempo si osserva nelle zone collinari del Centro Italia. Le difficoltà che devono affrontare i partigiani toscani, umbri, marchigiani e laziali sono in molti casi superiori a quelle dei loro compagni del Settentrione. Se immutato appare l’appoggio delle po­ polazioni, di gr^n lunga inferiore è l’aiuto che proviene dalla conformazio­ ne territoriale. E la flora in questo caso a offrire protezione; i folti boschi del Casentino, della provincia di Perugia o del Maceratese sono rifugi idea­ li per coloro che hanno deciso di darsi alla macchia. Molte formazioni so­ no però costrette, proprio per questo motivo, a evitare di soffermarsi a lun­ go negli stessi luoghi, e la mobilità, oltre che una strategia di combattimento, diventa ben presto la condizione essenziale di sopravvivenza per le forma­ zioni dei patrioti. Gli occupanti, in queste zone, spesso riescono ad avere la meglio sui partigiani se questi non riescono a disimpegnarsi per tempo. Non sono infrequenti, specie nell’inverno 1943-44, i casi in cui le bande ri­ mangono intrappolate da azioni di accerchiamento in genere poco attuabi­ li nelle Alpi e nelle Prealpi; alcuni casi sono tristemente noti, come Monte Quoio nel Senese o Cingoli in provincia di Macerata. Qui, a differenza del Nord, le unità della Rsi sono spesso sufficienti per mantenere un certo con­ trollo del territorio, almeno fino alla primavera del 1944. Veniamo infine alla condizione delle zone pianeggianti, e in particolare alla valle del Po. Per comprendere lo sviluppo della lotta di liberazione in pianura occorre effettuare una veloce analisi della situazione nelle estreme propaggini appenniniche emiliane e romagnole. Nell’autunno 1943 e nel successivo inverno alcune formazioni partigiane, specie emiliane, dopo aver tentato di realizzare una rete resistenziale in pianura decidono di organiz­ zare i primi nuclei sulle alture a ridosso della via Emilia. I risultati, all’ini­ zio, sono talmente deludenti da fare dubitare sulla reale capacità di con­ durre azioni di guerriglia sia nel piano che sui colli. Le ragioni sono espres­ se in una cruda analisi che compiono i partigiani bolognesi alla vigilia del 1944: il retroterra delle città emiliane è poco profondo, i boschi sono radi o inesistenti, come nel Modenese o nel Bolognese, e comunque è scarsa la conoscenza dei rilievi più aspri e reconditi delle colline, gli unici luoghi do­

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ve potrebbero essere dislocati i rifugi dei patrioti. Ciò per un duplice mo­ tivo: le uniche guide affidabili, ovvero i contadini, non frequentano, per ovvi motivi, le zone di più difficile accesso; inoltre, almeno in un primo mo­ mento, nutrono una certa diffidenza verso il movimento partigiano. La conseguenza è immediata: nelle città nasce quasi immediatamente la guerra dei Gruppi d’azione patriottica (Gap), mentre il movimento parti­ giano in collina avrà un consistente sviluppo solo nella primavera del 1944. Le campagne padane, frattanto, presentano realtà di lotta resistenziale mol­ to diverse fra loro a seconda delle regioni e delle località. Infatti in pianu­ ra, quindi pressoché a parità di condizioni territoriali, le forme e l’intensità della guerriglia sono differenti in modo sensibile. In Romagna gli uomini di Arrigo Boldrini sono attivi praticamente da subito in ogni borgo, mentre in Emilia la situazione varia tra la stasi più o meno completa riscontrabile nel Ferrarese ai fermenti già presenti nel Reg­ giano o nel Modenese. Nelle pianure delle regioni vicine, osserviamo un Ve­ neto in cui a fatica si riescono a creare i primi nuclei nelle zone pianeggianti del Padovano o del Veronese; stesso copione nella vicina provincia di Man­ tova o in quella attigua di Cremona. Le fasi della lotta e il controllo del territorio. La primavera del 1944 vede ovunque rinforzarsi le formazioni dei patrioti, come è noto grazie ai bandi di arruolamento della Rsi. In questo contesto, specie nelle regioni del Centro Italia, molti decidono di accorrere nelle forze partigiane perché appare ormai evidente che la liberazione è prossima, e gli alleati, dopo lo sbarco di Anzio, in pochi mesi sembrano in condizione di risalire senza problemi la penisola. I tedeschi concentrano la maggior parte delle forze disponibili al fronte, mentre i fascisti, in particolare in Toscana, Umbria e nelle Marche, sempre più spesso ritirano i loro presidi dalle località meno raggiungibili e difendi­ bili lasciando larghe fasce del territorio sotto il completo controllo dei par­ tigiani. In questa fase va rimarcato come, nell’estate del 1944, sono spesso i carabinieri incorporati a forza nella milizia i primi a permettere (e spesso a proteggere) lo svilupparsi di aree liberate. Già il marzo e l’aprile del 1944 vedono il nascere di zone libere nell’Umbria e in Toscana, in particolare in aree in cui il territorio rende più favorevole questo tipo di lotta nei con­ fronti dell’occupante. Va detto infatti che specie nel Senese o nelle zone montuose dell’Àretino, quelli che prima erano gli svantaggi della confor­ mazione territoriale appaiono, con il progressivo aumentare della superfi­ cie sotto il dominio partigiano, degli indubitabili punti a favore dei patrio­ ti. Se, come avviene sul Pratomagno, oltre alla vetta principale i partigiani riescono a controllare le altre alture circostanti, anche le vie di comunica­ zione fra i rilievi diventano, prima o poi, intransitabili per i nazifascisti. E un momento indubbiamente favorevole al movimento partigiano; gli sviluppi saranno però diversi durante il passaggio del fronte. In molti casi, infatti, le giornate precedenti alla liberazione si rivelano quelle in cui av­ vengono le più feroci reazioni contro le zone libere. I tedeschi riprende­

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ranno in più di una occasione quanto i fascisti hanno lasciato in mano ai partigiani, con l’aggiunta di alcune operazioni contro le bande atte a crea­ re una zona di sicurezza nei punti dove si appoggeranno le difese naziste. Un caso fra i più tipici è quello di Niccioleta, località mineraria nei pressi di Massa Marittima, dove a una prima liberazione eseguita dal locale Cln segue la rioccupazione da parte della Wehrmacht e una selvaggia rappresa­ glia condotta dai tedeschi guidati dai fascisti del posto. Altre volte il tran­ sito attraverso le aree già conquistate dai partigiani favorisce sensibilmente l’avanzata alleata, ma è la scarsa decisione degli angloamericani a vanifica­ re gli sforzi dei patrioti, come in Versilia o sull’Appennino pistoiese. L ’estate del 1944 è comunque il momento di maggiore espansione del­ le zone libere soprattutto in località distanti dal fronte, a dimostrazione di come i partigiani abbiano progressivamente sfruttato tutti i vantaggi delle aree in cui si trovano a operare; va detto però che l’appoggio delle popola­ zioni resta sempre una condizione essenziale per realizzare la riconquista del territorio. Montefiorino, Torriglia e la Carnia dimostrano poi una vol­ ta di più come per affrontare le forze partigiane i nazifascisti debbano im­ piegare formazioni sempre più agguerrite. Nella maggior parte dei casi Gnr e Brigate nere non sono in grado di controllare in alcun modo le località lo­ ro affidate dai tedeschi, mentre nell’impiego contro i partigiani sono ne­ cessari attenti piani di battaglia, con studi approfonditi del territorio. Co­ sì ad esempio fa la legione Tagliamento nel suo infruttuoso tentativo di di­ sperdere i partigiani che da mesi si sono insediati sul Passo del Mortirolo, o il battaglione esplorante della i6 adivisione SS nei giorni precedenti la fe­ roce azione su Monte Sole (eccidio di Marzabotto). In entrambi i casi è si­ gnificativo rilevare come queste siano unità “d’élite”, non diversamente dai battaglioni della X Mas e dei paracadutisti che vengono utilizzati ad Alba o nell’Ossolano. Si tratta di reparti addestrati militarmente, spesso condotti da veterani della guerra 1940-43, ben diversi dalle inaffidabili unità paramilitari del Partito fascista repubblicano (Pfr), buone tu tt’al più per forni­ re i plotoni di esecuzione o le spie da infiltrare fra i partigiani. Con l’autunno, le speranze di una veloce liberazione del Settentrione vengono progressivamente frustrate; nell’ottobre 1944 una serie di rastrel­ lamenti riduce al minimo l’attività bellica dei patrioti, che sono spesso co­ stretti a ritirarsi nei loro rifugi originari sulle Alpi. Dove ciò non è possibi­ le, come per le unità di pianura, la guerra, nonostante tutte le difficoltà, prosegue. I partigiani di queste zone sfruttano ora le esperienze di mesi di lotta per sopravvivere in condizioni spesso proibitive. Fossi, scoli di boni­ fica, casolari, case vallive nelle zone lagunari diventano con il tempo rifugi sicuri, nei quali poter depositare le armi e nascondersi durante i rastrella­ menti. Con il fronte ormai assestato nella pianura romagnola, i partigiani giocano un ruolo decisivo nel rendere poco praticabili e malsicure le retro­ vie. Anche in questo caso si può vedere come coloro che si dimostrano me­ no conoscitori del territorio in cui si trovano, sono i fascisti. Le misure riguardanti il taglio degli arbusti, delle siepi, di coltivazioni

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come la canapa o il granoturco, che spesso vengono adottate in Emilia e nel Veneto, fanno ben intendere quanto il panico sia alla base di decisioni tan­ to inutili quanto scarsamente realizzabili. Di conseguenza avviene una vol­ ta di più quanto si è già potuto osservare in precedenza: gli occupanti devo­ no impiegare in zone un tempo tranquille, come la Pianura padana, un con­ sistente quantitativo di truppe in quel momento indispensabili al fronte. L’inverno 1944-45 prova ovunque duramente il movimento partigiano; la montagna viene difesa dai patrioti in condizioni terribili e sono frequenti i casi in cui azioni concertate di truppe nazifasciste riescono a disarticola­ re le formazioni dei patrioti, come avviene nel Pontremolese nel gennaio 1945. E qui infatti che si sviluppa l’operazione Totila, durante la quale ele­ menti scelti delle divisioni della Rsi assieme a reparti di spietati collabora­ zionisti russi disperdono alcune tra le migliori unità emiliane e toscane. An­ che nella pianura avvengono paurose repressioni, ma non sonovrari i casi in cui i partigiani reagiscono con forza ai rastrellamenti fascisti. E ciò che ac­ cade ad esempio a Concordia, nella pianura modenese, dove la brigata ne­ ra mobile Pappalardo subisce pesanti perdite nel corso di un’azione magi­ stralmente condotta dai patrioti del posto; è l’ulteriore dimostrazione di co­ me i partigiani abbiano ottenuto la padronanza del territorio soprattutto attraverso la sua capillare conoscenza, raggiunta in mesi di lotta senza tre­ gua. Ora, però, nelle zone in cui i patrioti fino a qualche mese prima pote­ vano contare di trovare rifugio, si attacca quasi ovunque, dal Piemonte al­ la Romagna. Le forze partigiane e la conoscenza del territorio. La primavera sposta de­ finitivamente l’equilibrio delle forze a favore del movimento di liberazio­ ne, che riconquista ovunque larghe fasce della montagna e delle aree pia­ neggianti. Sono questi i «blocchi di partenza» da cui, nell’aprile, scatterà l’insurrezione generale. In questa fase il controllo territoriale appare l’ele­ mento decisivo per la sicura avanzata delle armate alleate. Gli angloameri­ cani, infatti, risalgono spediti le strade e le città dell’Emilia e del Veneto già saldamente in mano partigiana. Nelle Prealpi le formazioni patriottiche «scendono dal monte a liberare il piano», compiendo il percorso inverso delle incursioni nazifasciste; gli occupanti si trovano quindi sbarrate le vie di fi^ga verso il Nord e sono così costretti alla resa. E l’epilogo di venti mesi di guerriglia in cui le forze partigiane sono pas­ sate dall’improvvisazione di chi prescinde da qualsiasi conoscenza delle zo­ ne di operazione all’efficienza propria di chi ha saputo imparare a sfrutta­ re a proprio vantaggio ogni caratteristica del territorio. Le forze dell’Asse nel loro periodo di occupazione non sono mai state in grado di sradicare il fenomeno partigiano, anche nei momenti di mag­ giore crisi di quest’ultimo, in gran parte per la loro scarsa cura nello studio delle zone di operazione dei patrioti. È solo nell’ultimo inverno di guerra che la Wehrmacht inizia a considerare il territorio in modo diverso da un semplice scenario in cui si svolgono gli eventi. I manuali di “lotta alle ban­

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de” di questo periodo, infatti, contengono upa concreta differenziazione del­ le tattiche a seconda delle regioni italiane. E comunque troppo tardi: le mi­ gliori forze tedesche sono impiegate al fronte, e i reparti della Rsi non di­ mostrano capacità militari sufficienti per contrastare l’offensiva partigiana. Salò è, anche in questo caso, l’elemento debole della catena. I fascisti non riusciranno mai ad avere la padronanza tipica dei patrioti delle aree in cui si svolge la guerriglia; risulta ancora oggi difficile capire le motivazio­ ni di questa carenza. Ciò che però si può osservare nell’analisi delle strate­ gie di lotta antipartigiana è un’attenzione per il territorio addirittura infe­ riore a quella germanica, con l’esclusione di quelle poche unità che, come si è detto, hanno un autentico impianto militare. Sconcerta come le mag­ giori deficienze siano tipiche di quei reparti residenziali che più dovrebbe­ ro invece conoscere pregi e difetti delle proprie zone di operazioni, come le Brigate nere o la Gnr. Il numero di queste formazioni è poi inversamente proporzionale alla loro capacità operativa, ben lontana dagli standard me­ di delle unità partigiane, non solo per capacità militari ma anche in fatto di tattica e strategia; questi ultimi elementi, come è evidente, sono strettamente legati alla conoscenza delle caratteristiche territoriali. In conclusione non c’è traccia nelle fila della Rsi di quella evoluzione tattica e strategica che porta nel corso di un anno e mezzo i reparti parti­ giani ad avere il controllo di aree operative sempre più vaste. Nell’aprile 1945 l’insurrezione del Nord avrà invece proprio in questo aspetto uno de­ gli elementi del suo successo definitivo. Nota bibliografica.

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GIANNI PERONA

Stampa della Resistenza

Poche congiunture storiche hanno visto la stampa svolgere un ruolo tan­ to importante quanto la Resistenza: essa è portatrice di messaggi operati­ vi, politici, propagandistici, morali, tutti d’importanza cruciale per i pro­ duttori come per i destinatari, comunicatrice di una cronaca vera da op­ porre alle falsità della stampa fascista, affermazione d’identità e simbolo di libertà per il fatto stesso di esistere. Per pubblicarla, trasportarla, riprodurla si mobilitano energie immense, si corrono rischi gravi e, letteralmente, si può morire. Definizione. Per il fatto stesso che assolve compiti smisurati, una stam­ pa della Resistenza è quasi impossibile da definire. Quello che ci rimane è una varietà di carte, tutte di formato e materia poverissima - dal volanti­ no fino, al massimo, al foglio piegato con quattro pagine zeppe di scrittura per risparmiare la carta -, documentazione di una galassia di attività pro­ duttive di testi, i quali sono pertinenti al movimento di liberazione per le intenzioni e i contenuti, per i destinatari a cui si rivolgono (qualche volta anche attraverso precarie emittenti radiofoniche), per le condizioni in cui vengono redatti, ma a volte solo per le circostanze in cui sono pubblicati o quelle in cui sono diffusi. Quest’ultimo è evidentemente il caso dei giorna­ li aviolanciati o contrabbandati per via terra, prodotti in una situazione di legalità ma la cui lettura, detenzione e diffusione al di là delle linee di fron­ te sono ipso facto atti di resistenza. Più facile è dare una definizione per la stampa che viene edita nei ter­ ritori occupati dai tedeschi o posti sotto l’autorità di regimi collabora­ zionisti: consideriamo appartenente alla Resistenza quella che viene pro­ dotta e diffusa senza autorizzazione da organizzazioni illegali e che per i suoi contenuti miri a ostacolare la realizzazione dei piani dell’occupante. Non si può invece automaticamente includervi la stampa proveniente da organizzazioni non illegali, anche se essa può talora avere contenuti di op­ posizione ed essere oggetto di provvedimenti repressivi specifici, come quelli che colpiscono pubblicazioni cattoliche di pur minima rilevanza, qua­ li sono i bollettini parrocchiali. Ancora meno, evidentemente, può esser­ vi compresa quella realizzata da collaborazionisti nel corso di faide poli­ tiche che danno luogo a conflitti anche violenti, e quindi a sanzioni o proi­

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bizioni, e magari a episodiche e strumentali espressioni di critica antifa­ scista o antitedesca. Insomma, anche la definizione più comprensiva non può essere ricava­ ta da una mera analisi interna, ma solo da riferimenti istituzionali - in so­ stanza l’intestazione a organizzazioni politiche o militari antifasciste -, da eventi esterni - l’occupazione straniera - e dalla cronologia: solo questi dati consentono di distinguere la parte “resistenziale” all’interno di serie con­ tinue di lunga durata come quelle dell’«Avanti! » socialista o dell’«Unità» comunista, giornali di cui ci interessano qui solo le edizioni pubblicate nell’Italia centrale e settentrionale durante l’occupazione, ma non i nume­ ri anteriori all’8 settembre 1943, né quelli apparsi in Francia negli anni pre­ cedenti, legalmente o illegalmente, o nell’Italia liberata tra il 1943 e il 1945. La dimensione internazionale dell’antifascismo e il coinvolgimento di persone o gruppi in movimenti di resistenza di paesi differenti pongono poi altri problemi di definizione. Un caso limite è «La voce del soldato», dif­ fusa dai comunisti italiani nella zona di occupazione italiana in Francia tra la fine del 1942 e il 1943, un giornale che indubbiamente fa parte della Re­ sistenza francese in quanto si oppone al perseguimento degli scopi di una potenza occupante in Francia, ma che nella storia della militanza politica italiana appartiene decisamente alla fase antifascista - se vogliamo disfat­ tista, certo non resistenziale - nella quale si mira ancora all’abbattimento del fascismo per opposizione non frontale né tanto meno armata, bensì per disgregazione interna, con strumenti politici. Per chiarezza, diciamo dun­ que che qui considereremo ogni resistenza nel suo contesto nazionale: l’azio­ ne degli italiani in Belgio, Francia, Grecia, Iugoslavia ecc., anche quando produce stampa, deve essere considerata come appartenente ai movimenti di liberazione di questi paesi. Infine l’azione antifascista fuori d ’Italia, in paesi che non conobbero alcuna occupazione, non rientra nella nostra ti­ pologia: ad esempio le produzioni della «Voce dell’America» o le emissio­ ni di Radio Londra redatte da italiani, anche se è impossibile concepire una storia della Resistenza che non ne tenga conto. Entro questi limiti considereremo la stampa in riferimento ai produt­ tori dei testi, agli stampatori e diffusori, ai destinatari e al pubblico reale, ai contenuti, alle forme della comunicazione. Nessuna classificazione è pos­ sibile invece in base a una tipologia dei supporti materiali o comunque dei caratteri formali: non per la frequenza, poiché nella lotta clandestina la pe­ riodicità è poco più di un’intenzione o di un’illusione; né per le tecniche di stampa, tanto casuali che un volantino occasionale ben stampato può ave­ re qualità tipografiche ignote a riproduzioni di giornali importanti, a volte tirate da matrici manoscritte o al più dattiloscritte (si è calcolato che la metà dei volantini e non pochi importanti giornali della Resistenza, fra i quali tutta la serie di «La nostra lotta, organo [poi Bollettino] del Partito comu­ nista italiano», furono tirati al ciclostile, in centinaia di migliaia di copie); né per ampiezza di pubblico, dato che un testo scritto in copia singola per una radio ebbe certo udienza assai più vasta che uno prodotto in molti esem­

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plari ma diffuso in ambiti ristretti. Insomma, nella Resistenza i concetti stessi di giornale e di stampa sono poco più che metafore. Iproduttori dei testi. Nella Resistenza italiana come in tutte quelle eu­ ropee la stampa ha importanza soprattutto per i suoi produttori. Essa è un’affermazione d’identità, che prova non solo attraverso i suoi messaggi, ma per la struttura organizzativa implicita nella sua produzione materiale, l’esistenza e la forza del gruppo clandestino che la produce. Ma non è me­ no importante come strumento di una efficace pedagogia democratica atti­ va: soprattutto le organizzazioni comuniste, ma non solo quelle, insistono moltissimo perché in ogni pur minuscola articolazione dei movimenti clan­ destini si producano “giornali”, nei quali devono scrivere quanti più mili­ tanti possono, anche i più modesti. Una vera letteratura critica clandestina è poi prodotta per discutere la stampa del proprio o quella degli altri grup­ pi, valutarne la correttezza, suggerirne i miglioramenti possibili, sostener­ ne o attaccarne le tesi. Per conseguenza si può avere una tipologia per ampiezza crescente del­ l’ambito di produzione. Al primo posto sta il giornale murale partigiano, che si elabora quasi ogni giorno al livello del distaccamento: il circolo dei suoi autori coincide praticamente con quello dei lettori, esso viene prodot­ to in copia unica o quasi, su carta povera e con strumenti rudimentali, e per­ ciò ne sopravvivono pochissimi esemplari. Un gradino al di sopra, ma mol­ to diverso, è il giornale di brigata o di unità militare partigiana più grande, fino ai comandi regionali o centrali delle diverse tendenze (i principali so­ no quelli autonomi, garibaldini, giellisti, matteottini). Diversamente dal di­ staccamento, a partire dalla brigata partigiana non si hanno infatti unità fisiche, che suppongono una convivenza regolare dei loro membri: il gior­ nale è dunque uno degli strumenti più importanti con i quali i responsabi­ li dei comandi cercano di creare un sentimento di appartenenza se non uno spirito di corpo, di uniformare le tendenze ideali e politiche dei partigiani, di prevenire le tendenze centrifughe che caratterizzano tutto il mondo del­ la resistenza armata soprattutto davanti a situazioni di crisi militare o po­ litica. Vengono poi le produzioni degli organi politici: i comitati di liberazio­ ne e i partiti. I comitati di liberazione non appaiono spesso come produt­ tori di stampa: quelli centrali o regionali producono dei bollettini e dei no­ tiziari con numerazione progressiva, che vengono protocollati con la corri­ spondenza ordinaria e hanno una diffusione limitata, qualche centinaio, forse qualche decina di copie. I loro redattori sono dirigenti politici che pubblicano commenti e direttive, e si propongono di unificare la rappresen­ tazione della Resistenza, raggruppando e riassumendo le informazioni che raccolgono dalla periferia, bilanciando nelle cronache complessive l’appor­ to delle diverse componenti militari e politiche, e cercando così di sopperi­ re a quella totale mancanza di visibilità che è il risultato naturale della co­ spirazione e che rischia di confinare ogni gruppo clandestino in un duplice

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isolamento di settarismo ideologico e di particolarismo locale. In questa pro­ duzione occulta e un po’ burocratica spiccano episodi di pubblicità effime­ ra e di quasi legalità nelle cosiddette «repubbliche» della Resistenza, i pic­ coli territori liberati per qualche settimana tra l’estate e l’autunno del 1944 nell’Italia settentrionale: l’Alto Monferrato, la Carnia, Montefiorino, l’Ossola ecc. Il medesimo personale politico che fa parte dei comitati produce anche, sotto il titolo dei diversi partiti, giornali di carattere più simile a quelli tra­ dizionali dell’antifascismo dell’esilio, e altri di argomento sindacale, inte­ stati a comitati di agitazione oppure a organizzazioni di lavoratori di di­ versi settori produttivi. Anche in queste pubblicazioni, più importante del­ la diffusione è l’affermazione identitaria da parte di strutture partitiche o sindacali la cui base reale è, nel migliore dei casi, precaria ed effimera, e de­ cimata dalle frequenti ondate di repressione nelle fabbriche. La continuità con la tradizione è sottolineata dalla ripresa di titoli antichi, identici o lie­ vemente variati, soprattutto nella sinistra («Avanti! », «l’Unità» nelle sue varie edizioni, «Nuovi quaderni di Giustizia e Libertà»), pratica rafforza­ ta dalla spiccata tendenza comunista ad appropriarsi di simboli e immagi­ ni della tradizione: «Il grido di Spartaco, giornale dei comunisti piemon­ tesi» echeggia a un tempo «Il grido del popolo» socialista apparso a Tori­ no fino alla prima guerra mondiale e i vari giornali ora libertari ora pacifisti che usavano il nome di Spartaco. Ma spesso si constata un rifiorire di sim­ boli, emblemi e metafore libertarie ripresi dal prefascismo e innestati in movimenti nuovi: «Il ribelle» è titolo che si trova presso i cattolici lom­ bardi, i partigiani piceni anarchizzanti, i garibaldini parmensi e quelli li­ guri, Non poco significativo è il richiamo alle distinzioni e alle ortodossie di partito implicito nella soppressione di quasi tutte queste testate subito dopo la liberazione. •Quanto alla stampa sindacale, non può essere discusso in questa sede il problema se tutta la protesta operaia, e quindi la stampa che la riguarda, possa essere ricondotta per intero nella definizione di Resistenza. Questa fu a lungo la tesi comunista, che gli studi storici hanno reso bisognosa di sfumature e precisazioni. Ma il problema riguarda gli attori dei conflitti sui luoghi di lavoro, non gli autori dei testi di agitazione, militanti che mani­ festano una dichiarata intenzione di connettere le lotte salariali al movi­ mento di liberazione. Pertanto è legittimo includerli nel nostro elenco di redattori della stampa resistenziale. Importante e in larga misura ancora non compiuto è lo studio della par­ tecipazione femminile alla creazione della stampa resistenziale: ma una va­ lutazione d’insieme ne coglie soprattutto la marginalità. Come in tutta la seconda guerra mondiale, rispetto all’emergere clamoroso della mobilita­ zione femminile nella prima, così nella Resistenza la voce delle donne è de­ bole e soprattutto poco caratterizzata. Esse sono autrici spesso di testi che altri firmano, collaboratrici esterne che recano ai combattenti i messaggi delle spose, delle sorelle, delle madri, mai protagoniste. Confinate in orga­

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nizzazioni specificamente femminili, in particolare i Gruppi di difesa della donna, esprimono nella stampa soprattutto la solidarietà con i combatten­ ti antifascisti e la mobilitazione civile antifascista. Gli stampatori e i diffusori. La stampa e la diffusione di pubblicazioni clandestine sono tra le attività più importanti e rischiose che svolgono nei diversi movimenti di resistenza i civili. Le difficoltà materiali sono il pri­ mo ostacolo da superare perché la carta e gli inchiostri sono scarsi e di cat­ tiva qualità, ma più grave è il problema della clandestinità. Il circuito com­ merciale delle materie prime è relativamente ristretto e fortemente con­ trollato nelle condizioni di guerra; procurarsi grosse partite è impossibile se non si hanno complicità tanto ramificate quanto sicure. Altre difficoltà sor­ gono per ottenere la collaborazione dei tipografi, per i quali è difficilissimo osservare le regole cospirative. Le macchine stampanti anche più piccole e semplici, o le macchine da scrivere sulle quali si battono di notte le matri­ ci per le riproduzioni policopiate, producono rumori caratteristici, facil­ mente individuabili da possibili delatori. Se si dispone di un’attrezzatura completa occorrono poi collaboratori per farla funzionare, e la sicurezza co­ spirativa diminuisce con l’aumento delle persone coinvolte. Infine i carat­ teri dattilografici o tipografici appartenenti a macchinari logori sono per natura facilmente identificabili. Perciò non è raro che tipografie di paese, attrezzate per produrre annunzi funebri e bandi municipali, compromes­ se nel lavoro clandestino, vengano devastate o bruciate durante azioni di rappresaglia, e ancora più frequente, anche se mal documentabile, è il com­ prensibile rifiuto dei tipografi di mettersi a disposizione dei cospiratori an­ tifascisti. Per conseguenza, non potendosi realizzare simultaneamente un gran nu­ mero di copie, è caratteristica della stampa della Resistenza l’avere diverse tirature. I destinatari di tu tti i tipi di pubblicazioni sono anzi sollecitati a essere rieditori e diffusori almeno di parte dei messaggi che ricevono: noti­ zie e commenti locali si mescolano perciò spesso a quelli ricevuti in edizio­ ni filologicamente “contaminate” che comunque ampliano e articolano la diffusione in estensione e in profondità. La consacrazione di molte risorse alla riproduzione ha tuttavia anche effetti negativi, perché riduce lo spazio della spontaneità. Coesistendo sulla stessa pagina con i “modelli” autoriz­ zati, i testi creati nelle periferie perdono nella loro collocazione sinottica molta della loro originalità, come confermano le impressioni di lettura do­ minate dall’ideologizzazione e dalla ripetizione degli stereotipi. _^In ultima analisi, le tecniche di diffusione finiscono con l’avere quasi più importanza della capacità di produrre testi. Ne è significativa prova una specificità della stampa comunista che si potrebbe chiamare dei “numeri spe­ dali”: si tratta di opere particolarmente rilevanti per l’immagine pubblica del partito oppure per la conoscenza della sua linea, anche se la loro pro­ duzione non è specificamente pertinente alla Resistenza. Spiccano il di­ scorso tenuto da Paimiro Togliatti al Teatro della Pergola, a Firenze, nell’au-

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1944, e la biografia esemplare dell’eroe nazionale Dante Di Nanni, scritta a Torino dopo la disastrosa fine del Gap della città. Più che gli au­ tori stessi, dunque, in questi casi sono i responsabili della riproduzione e diffusione che trasformano questi opuscoli in opere canoniche, conferendo loro eccezionale autorità col farli circolare in migliaia di esemplari. Nella distribuzione materiale della stampa, decisivo è il ruolo delle don­ ne, mediatrici per eccellenza di tutto il sistema di comunicazioni della Re­ sistenza. Le tecniche sono ereditate dalla lunga esperienza antifascista di passaggi attraverso le frontiere con valigie a doppio fondo, riproduzioni in formati ridottissimi e su carte molto sottili. Ma il più delle volte le ragazze che trasportano stampa non hanno apparati tecnici a disposizione, e so­ prattutto sfruttano con intelligenza e coraggio l’ambiguo status della donna nel contesto della guerra. Su questo argomento solo da poco la storiografia ha avviato una riflessione avvertita, ma non ancora corredata da estese ri­ cerche che ne misurino adeguatamente la portata e i costi umani. Tuttavia nell’insieme il semplice rapporto numerico tra la relativamen­ te esigua schiera degli autori e lo stuolo di donne e uomini che stampano, copiano, riproducono, diffondono è sufficiente a riconoscere in questo am­ plissimo apparato la vera struttura portante della stampa della Resistenza. Al limite, nella distribuzione dei volantini per gli scioperi è l’intera comu­ nità dei destinatari che fa circolare il ridotto numero delle copie che rag­ giungono ogni stabilimento. Per conseguenza, la cospirazione a certi livel­ li diviene impossibile e la repressione è estesissima, anche se la rende me­ no visibile nei documenti e nelle memorie il fatto che spesso essa è volta a colpire, attraverso i diffusori di messaggi, gli organizzatori della protesta politica e sindacale. fn nn n

I destinatari e il pubblico reale: Dall’analisi dei testi non è difficile co­ struire figure immaginarie di destinatari, mentre è molto più arduo valuta­ re chi sia stato effettivamente raggiunto dalla diffusione. Notizie di gior­ nali distrutti, di rifiuti di accettare il volantino o il giornaletto occasionale, trapelano dalla memorialistica e dai documenti coevi, indizi di atteggiamenti non eroici ma non immotivati da parte di un pubblico spesso terrorizzato: per la detenzione di un volantino partigiano un ragazzo viene fucilato a Pra­ to Sesia sotto gli occhi di sua madre. Ma non si può dubitare che in gene­ rale il messaggio clandestino susciti curiosità e interesse, e venga letto da molti. II profilo del lettore che si ricava da questo genere di stampa è piutto­ sto schematico e rivela in essa una forte componente parenetica e propa­ gandistica: molte pubblicazioni sono specificamente rivolte ai partigiani, oppure agli operai, alle donne, ai membri di un partito, e ogni tipo si divi­ de in categorie. I partigiani sono autonomi, giellisti, garibaldini, “matteottini” ecc., le donne sono spose, sorelle e madri, più raramente fidanzate, insomma vi è una forte tendenza a definire ruoli molto precisi e conven­ zionali in rapporto a una pluralità di circuiti chiusi della comunicazione.

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Normalmente l’assunto su cui il messaggio si basa è che il destinatario con­ divida il sistema di valori dell’autore, sistema che è comunque presentato come indiscutibile, sicché il destinatario è configurato in qualche modo co­ me un allievo, spesso come un catecumeno. Le testimonianze dei giovani attori della Resistenza, registrate in in­ finite memorie, sembrano confermare che questa relazione di dipendenza culturale era accettata e in larga misura reale: le diverse componenti dell’an­ tifascismo apparivano di grande novità e alterità rispetto alla trita conven­ zionalità delle forme di comunicazione fasciste, e si proponevano efficace­ mente come modelli. La stampa contribuì perciò largamente a costruire l’im­ magine della Resistenza come un mondo separato, incompatibile con quello regolato dalle norme naziste e fasciste, e foriero di un futuro diverso. Per i meccanismi già illustrati, i testi diffusi dal centro si proponevano come mo­ delli, a volte imposti dalla disciplina di partito ma più spesso liberamente adottati da parte di lettori ai quali si chiedeva di farsi a propria yolta auto­ ri. In ultima analisi però è molto difficile rendere conto dell’area reale di lettura, e quella che ci è meglio documentata è la circolazione all’interno dei militanti più impegnati nella vita politica. I contenuti. Una parte relativamente ampia della stampa, soprattutto dei comandi militari e dei più importanti comitati di liberazione, è dedica­ ta alle informazioni sulla guerra partigiana. Queste sono raccolte attraver­ so una fitta rete di staffette che portano ai centri relazioni più estese, dal­ le quali, spesso semplicemente ritagliando i passi più significativi, si rica­ vano i comunicati sintetici da diffondere. Uno spazio particolare è dedicato in tutti i giornali alle biografie dei caduti, che si distinguono perché sono anche le sole a indicare nomi e cognomi veri di persone. Deformate, non sempre attendibili, spesso puerilmente esagerate nel numerare le perdite nemiche, le informazioni militari che la stampa dà sono tuttavia una delle fonti più organiche per la conoscenza della Resistenza, e lo furono anche per i suoi stessi attori. Attraverso il collegamento sulla pagina di fatti altri­ menti sconosciuti, il senso complessivo della miriade di piccole e meno pic­ cole azioni di guerriglia assume infatti l’aspetto di un’attività coordinata, all’interno della quale ogni partecipante si vede attribuito un ruolo effetti­ vo. Senza forzature testualiste, si può dire che le informazioni “creano” la Resistenza in quanto movimento organizzato. Un’altra porzione larghissima di contenuti è dedicata ai commenti po­ litici, però con numerose restrizioni. Non molto si dice di ciò che avviene in altre parti del mondo, se non per commentare le disfatte delle forze dell’Asse Berlino-Tokyo. Di più si fa per analizzare la situazione italiana, per attaccare il fascismo della “repubblichina” di Salò, denunziarne misfatti e corruzione, dare indicazioni di comportamento nei suoi confronti: ad esempio contro la socializzazione delle aziende e contro il sindacalismo col­ laborazionista. Quasi Inai si parla di una politica degli occupanti, rappre­ sentati genericamente come spietati e criminali oppressori. La stampa del­

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la Resistenza è largamente responsabile di aver rafforzato un’immagine mo­ nolitica dell’apparato militare, economico e politico dell’occupazione, alla cui azione di rapina economica e di violenza non ci si può opporre se non con la forza. In generale essa cerca, correttamente, di non confondere nel­ la condanna del nazismo la nazione tedesca, ma l’intercambiabilità dei ter­ mini nazista e tedesco, pur se negata in via di principio, si verifica spesso nella pratica della scrittura, anche se poi la stessa germanicità delle forze occupanti si sfalda nei rendiconti delle diserzioni di cechi, ucraini, geor­ giani passati dalle truppe raccogliticce dei presidi alla Resistenza nel 1944. Neppure ha spazio vastissimo l’Italia liberata, la cui vita politica è in­ vece oggetto di dileggio quotidiano da parte della stampa fascista. La Resi­ stenza sconta in questo caso il disagio di un rapporto difficile con il Regno del Sud, così a lungo ostile a una rinascita del sistema politico antifascista, e ovviamente registra con particolare attenzione i non frequenti successi dei partiti del Comitato di liberazione nazionale. Ma le tematiche politiche più trattate sono quelle che riguardano il mo­ vimento di liberazione nel Centro .e nel Nord, il progetto insurrezionale sempre rinviato, e poi i programmi dei partiti, gli obiettivi generali e le pro­ spettive della ricostruzione, nell’intento educativo di cui si è già detto. Per­ ciò attraverso la stampa là Resistenza si presenta al tempo stesso come un universo e una prefigurazione del futuro. Ma appare anche rinchiusa in se stessa e quasi sopraffatta dagli immensi problemi di una quotidianità im­ prevedibile, soprattutto nella crisi del tardo autunno 1944 quando giorno per giorno s’improvvisano le risposte al messaggio di Alexander che smo­ bilita i partigiani, alla rottura della coalizione del primo governo Bonomi, alla crisi che si apre in Grecia con il conflitto tra partigiani e forze britan­ niche. Le forme della comunicazione. Pur nella costante povertà dei mezzi, la stampa presenta una certa varietà di forme, delle quali però non è facile sta­ bilire una tipologia. Una vistosa differenza di composizione si rileva tra la stampa di ispira­ zione comunista e le altre, per il diverso rilievo che danno ai caduti. Se per esempio i giornali cattolici insistono sul tema del martirio e dedicano spes­ so agli scomparsi la prima pagina, quelli comunisti evitano di dare una ca­ ratterizzazione per così dire “negativa” in apertura, e confinano il più delle volte in ultima i profili biografici dei compagni morti. Tuttavia in genera­ le la preoccupazione di dare solo notizie positive e incoraggianti fa scom­ parire anche altre informazioni demoralizzanti. Gli stessi cattolici brescia­ ni che pubblicano nell’ottobre 1944 sul loro giornale «Il ribelle» le prime fotografie di Dachau conosciute in Italia e alludono alla deportazione del loro capo spirituale Teresio Qlivelli, evitano poi di commentare il massacro che pur documentano. Perciò nella denunzia della crudeltà nazista non si va oltre la segnalazione di specifici episodi, e la deportazione è quasi al­ trettanto poco trattata quanto la persecuzione degli ebrei.

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Nei giornali delle organizzazioni militari molto spazio è dedicato a una rappresentazione dell’ambiente in cui operano i partigiani, a cominciare dai titoli che evocano i monti e la tradizione alpina: «Il partigiano alpino», «Quelli della montagna», «Quelli del Col Bione», titoli a volte accompa­ gnati da immagini abbastanza curate. Ma in genere la presenza di un’ico­ nografia pur semplice e sommaria propone un’immagine scherzosa della vi­ ta in banda, il cui protagonista è un combattente in una tuta goffa, delibe­ ratamente affine a un operaio più che a un soldato. Relativamente più libera nelle produzioni al ciclostile, le cui matrici me­ glio si prestano a registrare disegni - non mancano perfino testate disegna­ te a mano, copia per copia - e impaginazioni libere, la stampa diventa auste­ ra e fitta di testi nelle composizioni tipografiche. Le ragioni economiche so­ no evidenti, ma certamente anche qui si rivela un predominio del testo scritto su qualunque altra forma di comunicazione. Nota bibliografica.

F. Ferratini Tosi, G. Marcialis, L. Rizzi e A. Tasca (a cura di), Catalogo della stampa pe­ riodica delle Biblioteche dell’istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Ita­ lia e degli Istituti associati. 1900-1975, Insmli, Cooperativa Tipografi, Modena 1977; Fonda­ zio ne Giangiacomo Feltrinelli, Resistenza e costituzione, catalogo delle fonti conservate pres­ so la Biblioteca e l’Archivio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 1998; M. Liprandi, Verbotenì, Eda, s.l. [ma Torino] s.d. [ma 1976]; F. Rosengarten, The Italian AntiFascist Press (1919-1945), The Press of Case Western Reserve University, Cleveland 1968; D. Tarizzo, Come scriveva la Resistenza. Filologia della stampa clandestina. 1943-45, La Nuo­ va Italia, Firenze 1969; N. Torcellan, La-Resistenza, in G. De Luna, N. Torcellan e P. Murialdi, La stampa italiana dalla Resistenza agli anni Sessanta, Laterza, Roma-Bari 1980, pp. 91167.

M IM M O FR A N ZIN ELLI

Chiesa e clero cattolico

La guerra, cuneo tra Chiesa e regime. Al momento della deposizione di Mussolini, il 25 luglio 1943, i rapporti tra Santa Sede e regime sono da tem­ po in crisi: le frizioni provocate nel 1938 dalla legislazione razziale e dall’al­ leanza con la Germania, l’entrata in guerra e poi il precipitare degli eventi militari in senso sfavorevole all’Asse hanno allontanato il clero dal fasci­ smo. Differentemente da quanto era avvenuto nel 1935 con l’aggressione all’impero etiopico e nel 1936 con la partecipazione italiana al conflitto ci­ vile spagnolo, dal 1941 - tramontata l’illusione di una guerra-lampo - la parte preponderante degli ecclesiastici non è allineata con l’ideologia belli­ cista di Mussolini. Del tutto episodico e circoscritto si rivela il consenso religioso alla cam­ pagna sul fronte orientale, legato all’effimera speranza che l’invio del cor­ po di spedizione, con un contingente di cappellani e di missionari, favori­ sca la conversione della Russia. Nelle parrocchie si organizzano iniziative devozionali sul genere della «giornata della fede», con raccolte di fondi per rifornire di materiale devozionale i sacerdoti al seguito delle truppe, ma i rovesci bellici del 1942 raggelano i propositi di conquista spirituale e di­ sperdono le ultime aspettative di vittoria. Ancora prima del “dimissionamento” di Mussolini da parte del sovra­ no, il duce ha perduto la fiducia di alcuni protagonisti dell’associazionismo confessionale precedentemente impegnatisi personalmente nel fiancheg­ giamento del regime. E il caso di monsignor Ferdinando Baldelli, promo­ tore dell’Opera nazionale per l’assistenza religiosa e morale agli operai (Onarmo); impegnatosi nel 1941 in un ciclo di radioconferenze sulle ragio­ ni della guerra, ancora il 20 gennaio 1943 relaziona al duce in termini en­ tusiastici sull’attività della Consulta ecclesiastica centrale per l’assistenza religiosa agli operai: Il nostro lavoro di penetrazione ha potuto raggiungere l’animo di tanti nostri lavoratori, i quali, in questo particolare momento sono tesi, con volontà ferrea, al raggiungimento della vittoria delle armi italiane ed al riconoscimento del sacrosan­ to diritto alla vita del nostro popolo.

Poco più tardi monsignor Baldelli, nella persuasione del fallimento mi­ litare e politico del fascismo, matura convincimenti politici di segno diver­

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so, collegandosi con De Gasperi e intensificando i rapporti col Vaticano. Il 22 gennaio 1945 Pio XII costituisce la Pontificia commissione d’assisten­ za e ne affida la presidenza al promotore dell’Onarmo, nel frattempo orien­ tatosi su posizioni antifasciste. Durante la guerra i canali diplomatici della Santa Sede dispiegano un notevole attivismo in direzione degli angloamericani, nella prospettiva del prossimo crollo del fascismo e dell’instaurazione in Italia di un sistema so­ ciopolitico moderato e ordinato gerarchicamente, sostanzialmente diver­ so da quello preconizzato dai movimenti politici d’opposizione storica al regime. Durante i cento giorni dell’interludio badogliano si tentano nuovi ap­ procci alla politica, col rilancio dell’associazionismo confessionale (Azione cattolica - Ac -, Associazione cristiana dei lavoratori italiani - A di -, cap­ pellani del lavoro ecc.) per rinsaldare i legami con i ceti operai nel momen­ to in cui il crollo del sistema monopartitico potrebbe aprire un varco alla pe­ netrazione delle forze della sinistra. Esponenti del laicato cattolico si ado­ perano per preparare una nuova classe dirigente in grado di occupare il vuoto lasciato dal fascismo e di gestire gli enti creati dal regime per i giovani, le donne, gli operai, i poveri. Nell’agosto 1943 il presidente della Gioventù cattolica, Luigi Gedda, prospetta al maresciallo Badoglio l’inserimento dei due milioni e mezzo di iscritti all’Ac negli organi di massa ereditati dal ven­ tennio - dall’Opera nazionale maternità e infanzia alla Gioventù italiana del littorio agli enti comunali di assistenza - per togliere spazio alla presa del «fuoriuscitismo comunista». Quella di Gedda è un’iniziativa né personale né isolata, considerato che «Civiltà Cattolica» raccomanda il potenziamento delle tradizioni cristiane in chiave antimarxista e che i più autorevoli vescovi invitano i fedeli alla collaborazione leale e disciplinata col governo militare, in funzione d’ordi­ ne. Rappresentativo delle tendenze episcopali l’invito rivolto il 17 agosto da monsignor Agostini ai vicari foranei della diocesi di Padova affinché «si vigili contro l’insinuarsi del comuniSmo materialista e contro tutto ciò che può sapere di sovversivismo». La dichiarazione di Roma «città aperta» realizza il 14 agosto un’aspi­ razione vaticana, per scongiurare al cuore della cattolicità - con la garanzia del mantenimento dell’ordine pubblico da parte di tutti i contendenti - le lacerazioni di uno scontro intestino di carattere guerrigliero e dagli sbocchi insurrezionali. . Le gerarchie ecclesiastiche si propongono di mantenere l’evoluzione del­ la situazione politica italiana entro binari moderati, nel quadro di un regi­ me conservatore che rafforzi le garanzie concordatarie. Le modalità di di­ vulgazione dell’armistizio, col crollo dell’apparato politico-amministrativo e il dissolvimento delle forze armate italiane, scuotono alle fondamenta i programmi della Santa Sede. Le prime indicazioni fornite a mandatari del clero settentrionale - ad esempio a padre Carlo Varischi, che a metà set­ tembre giunge nella capitale da Milano, su incarico di padre Gemelli, per

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ricevere direttive - raccomandano il mantenimento dell’assoluta apoliticità. A nulla servono le pressioni esercitate da alcuni dirigenti del neocostituito governo repubblicano che, come il maresciallo Graziani, desidererebbero dal pontificato un segnale di orientamento dei cittadini. Emblematiche le posizioni espresse da monsignor Ambrogio Marchioni, segretario della nun­ ziatura d ’Italia, al ministro delle Forze armate repubblicane nel colloquio del 18 ottobre 1943: La Chiesa, e tanto più il Vaticano, non può spingerli a seguire una situazio­ ne politica cosi complessa e delicata come Fattuale; né si può consigliarli a unir­ si ai tedeschi (come desidererebbe il maresciallo, ad evitare la guerriglia delle bande armate e il susseguente brigantaggio), perché questo sarebbe un inter­ vento politico a favore di uno dei belligeranti e a favore di una parte dei citta­ dini contro l’altra, della medesima nazione. Il clero compie, invece, il proprio do­ vere sacerdotale, inculcando la calma, la tranquillità, l’ordine per fare in modo che azioni inconsulte non producano gravi rappresaglie a danno di tanti inno­ centi o dell’intera popolazione. Sino alla liberazione di Roma (4 giugno 1944) la diplomazia vaticana da una parte si muove con la massima cautela, dall’altra manifesta un no­ tevole dinamismo, evidenziato dalle numerose udienze concesse da Pio XII a gruppi di militari e a personalità angloamericane. Di particolare rilievo i ripetuti colloqui del pontefice con Myron C. Taylor, inviato personale di Roosevelt, caratterizzati, nelle parole del papa, dalla necessità di dispiega­ re un’efficace azione di contenimento del bolscevismo, prefigurata in ter­ mini che si sarebbero poi definiti - dopo la conclusione del conflitto - nei canoni della «guerra fredda». Taylor, in un rapporto confidenziale del 13 dicembre 1944 al suo presidente, scrive che la Santa Sede punta su De Ga­ speri per la fase politica postbellica, e sottolinea che «la preoccupazione principale del Papa è la diffusione del comuniSmo in Europa e in Italia». La prospettiva di un prossimo decisivo scontro tra democrazie occidentali e movimento comunista, ritenuta inevitabile dalle gerarchie ecclesiastiche, comporta il mantenimento della monarchia e la permanenza dei militari al­ leati nel periodo intercorrente tra la fine della guerra e il consolidamento della democrazia. Ai vertici della Santa Sede si nutre una sostanziale sfi­ ducia nella effettiva possibilità di costruire un regime democratico, «am­ mirevole in teoria, ma nella pratica e nelle presenti intenzioni del Paese un dubbio beneficio per il popolo italiano», secondo quanto afferma Pio XII il 29 luglio 1944 in un colloquio col rappresentante britannico in Vaticano, Osborne. Per il dopoguerra si prefigura una situazione nella quale, col po­ tenziamento del Concordato, la presenza ecclesiastica nella vita nazionale rappresenti un fattore di condizionamento moderato sui piani politico e sociale. Se questi sono gli orientamenti espressi in via riservata per influenzare i governanti alleati in senso antisovietico, ufficialmente la diplomazia vati­ cana si preoccupa di evitare gesti interpretabili come il sostegno all’uno o

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all’altro schieramento, confermando piuttosto il tradizionale principio se­ condo cui i cattolici debbono seguire le direttive dei rispettivi governi, pu­ re nella differenziazione tra regimi totalitari (nazismo e bolscevismo) e non. I riferimenti al modello giusnaturalista fondato sulla valorizzazione della civiltà cristiana si coniugano col rafforzamento della figura del pontefice, saldo riferimento per il gregge dei fedeli minacciato dalla temperie bellica. I timori di un consolidamento delle sinistre rendono problematico il rap­ porto dell’episcopato col movimento partigiano; d’altra parte, il fiancheg­ giamento post-concordatario al regime di ampia parte delle gerarchie ec­ clesiastiche ha lasciato profonde diffidenze in campo antifascista. Anche le relazioni col governo di Mussolini si rivelano difficili. Duran­ te la guerra la Santa Sede non concede il riconoscimento giuridico a nuovi governi in situazioni in cui rimanga in vita un governo legale, ragion per cui la Repubblica sociale italiana (Rsi) evita di avanzare in modo formale la richiesta di relazioni diplomatiche ufficiali col Vaticano. Il rifiuto si rive­ lerebbe tanto più rovinoso in quanto sul piano ideologico il governo di Salò si presenta - in linea di continuità col ventennio - come garante dei valori del cattolicesimo romano. A livello politico la questione religiosa non divie­ ne comunque un elemento dirimente, considerato che se la Rsi riconosce nei propri principi programmatici (Manifesto di Verona) alla confessione cat­ tolica apostolica romana il carattere di religione di stato, il Regno d’Italia non pone in discussione il Concordato che P ii febbraio 1929 aveva trac­ ciato i principi della politica religiosa mussoliniana. In ogni caso, la con­ vinzione che il governo legale sia quello monarchico è diffusa in ampi set­ tori del clero. Episodi di particolare gravità, quale la perquisizione notturna dell’ab­ bazia di San Paolo, il 4 febbraio 1944, con violazione del diritto di extra­ territorialità da parte della cosiddetta banda Koch (formazione irregolare della polizia politica fascista, protetta dai tedeschi), aggravano i rapporti tra Santa Sede e Rsi. Il ritrovamento negli edifici attigui alla basilica di cin­ que alti ufficiali, di una decina di ebrei e di una cinquantina tra disertori e renitenti alimenta i sentimenti anticlericali dei repubblicani. La violazione della extraterritorialità spinge la Santa Sede a strutturare su basi più sicu­ re l’assistenza a esponenti politici antifascisti i quali - dal democristiano De Gasperi al socialista Nenni, dal liberale Casati all’azionista De Ruggie­ ro - beneficiano della protezione vaticana che li sottrae alle ricerche dei na­ zifascisti. Le udienze concesse da Pio XII nell’estate 1944 a gruppi di mi­ litari alleati vengono sbandierate dai propagandisti della Rsi come prova del «tradimento» della Chiesa, dimentica dei privilegi ottenuti grazie alla po­ litica religiosa di Mussolini. I cattolici guardano con un’attenzione ancora maggiore al pontefice, e il radiomessaggio natalizio del 1944 desta grande impressione, soprattutto nell’affermazione che la legge naturale e le «verità rivelate» debbono co­ stituire i pilastri della ricostruzione di un ordine mondiale stabile, diretto da una classe politica composta dai «migliori e più eletti membri della cri­

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stianità». Le parole del papa vengono generalmente interpretate come un’opzione preferenziale verso sistemi di governo democratici, rispettosi dei diritti del cittadino di esprimersi sui doveri e sui sacrifici cui lo si sot­ topone. Nei confronti dei gruppi cattolici impegnatisi nel movimento resisten­ ziale, esponenti della gerarchia ecclesiastica, segnatamente monsignor Gio­ vanni Battista Montini, esercitano pressioni per collocarne l’attività nella prospettiva di un partito unitario dei cattolici italiani, la Democrazia cri­ stiana, a base interclassista. Direttive in tal senso vengono fornite in via ri­ servata a quei nuclei che - come il Movimento dell’uomo, a Milano, pro­ mosso da padre Turoldo - nell’unità d’azione antifascista con strutture clan­ destine comuniste intravvedono possibili scenari di una futura espressione politica pluralista del cattolicesimo italiano. In Lombardia è monsignor Adriano Bernareggi, vescovo coadiutore di Bergamo e assistente dei lau­ reati di Ac, a patrocinare, in colloqui riservati con ecclesiastici antifascisti, la causa del partito unico, ritenuto più idoneo a contrastare l’influenza del­ le sinistre nel paese. Nella capitale i movimenti della Sinistra cristiana e dei Cattolici comu­ nisti sollevano le preoccupazioni e si attirano le critiche del Vaticano, per l’attiva partecipazione alla Resistenza in contrasto con la strategia della San­ ta Sede di evitare a Roma ogni forma di lotta armata. Nel gennaio 1944 il periodico clandestino «Voce operaia», organo dei Cattolici comunisti, in­ terpreta la recisa condanna pontificia degli «atti inconsulti» come il più au­ torevole avallo all’operato degli antifascisti: Gli unici «gesti inconsulti» sono le azioni delinquenziali dei fascisti, atti di tradimento, atti di connivenza con il nemico. Contro tali gesti, come contro le razzie, le rapine, i saccheggi nazisti, nessuna violenza sarà mai sufficiente, nes­ suna riprovazione adeguata.

L ’impegno dell’episcopato per la moderazione del conflitto. La regola­ mentazione del conflitto e l’attenuazione della violenza hanno costantemen­ te rappresentato, in campo sociale, il saldo criterio orientativo dell’episcopa­ to settentrionale, col corollario di conferire legittimità alle autorità statali nella misura in cui esse si dimostrassero in grado di evitare la radicalizzazione dello scontro civile. Le prime manifestazioni di ribellione armata, specialmente in ambito cittadino, con attentati e incursioni, si attirano la condanna più risoluta da parte dei vescovi, che vi scorgono il germe della guerra civile e della sov­ versione. Manca la percezione delle dimensioni del conflitto e della sua ine­ luttabilità in una situazione di occupazione militare straniera, cosicché le azioni militari vengono interpretate e deprecate come una forma intollera­ bile di violenza privata. Ne scaturiscono prese di posizione oggettivamen­ te collaborazioniste, con l’individuazione di tedeschi e fascisti quali legit­ timi tutori dell’ordine pubblico e l’equiparazione dei partigiani a ribelli pri­ vi di motivazioni ideali. Quando poi, nella prima metà del 1944, la presenza

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partigiana appare una realtà difficilmente contenibile, diversi presuli assu­ mono un ruolo di mediazione e si propongono di favorire accordi di tregua d’armi tra i contendenti. I diari di alcuni vescovi spiegano le ragioni di tale intervento che - nell’imbarbarimento della guerra - assegna al presule una funzione di tutela dell’interesse collettivo, proiettando la Chiesa su di un terreno squisitamente civile. Nella diocesi di Novara monsignor Leone Ossola propone nel luglio 1944 la sospensione di qualsiasi atto di rappresaglia e il rispetto delle opere di pubblica utilità (ovvero la cessazione dei sabo­ taggi) con motivazioni di interesse nazionale e nel riconoscimento della co­ mune matrice cattolica dei belligeranti. Si tratterebbe di deporre praticamente le armi: non spegnere più nes­ suna vita italiana, salvare il salvabile e conciliare il conciliabile nell’attesa del riabbraccio fraterno universale e particolare, al fine di non seminare al­ tri odi, non più fomentare ma invece sedare quelli già suscitati, allo scopo ultimo di ridare l’Italia agli italiani nella riaffermazione pratica e sincera della religione unica e universale. Dal giugno 1944, con l’entrata degli eserciti alleati nella capitale e lo spostamento della linea del fronte verso il Nord, difficoltà di collegamen­ to con la Santa Sede costringono i vescovi a operare in un’inedita situazio­ ne di autonomia da Roma; l’intensificazione dei rapporti a livello interdiocesano si accompagna all’emanazione di lettere collettive ai fedeli. L’orien­ tamento generale riafferma il tradizionale principio di legittimità secondo il quale sono da condannarsi tutti gli atti qualificabili come perturbazione dell’ordine: dagli scioperi ai sabotaggi, dalla disobbedienza civile alla rivolta armata. Le prime azioni partigiane vengono energicamente condannate dai vescovi delle diocesi settentrionali. Monsignor Giuseppe Nogara già il 15 settembre 1943 rivolge al clero di Udine l’invito a coadiuvare le autorità nel mantenimento dell’ordine e del­ la disciplina, per «impedire disordini, violazioni della giustizia, lotte parti­ giane». Un paio di mesi più tardi l’arcivescovo sollecita i fedeli alla mode­ razione: Trattate con prudenza, rispett o ed umanità le truppe di o ccupazio ne; guar­ datevi dal fare atti di sabotaggio e rappresaglie e dal compiere violenze. Oltre che essere inconsulti ed inutili, essi non fanno che peggiorare la situazione e provocano contromisure, maggiori restrizioni ed anche severe punizioni, che possono colpire povere vittim e innocenti ed intere popolazioni.

La preoccupazione per i civili è la molla che spinge monsignor Nogara a esporsi personalmente, con interventi anche rischiosi, nella mediazione tra partigiani, fascisti e tedeschi. Nella particolare situazione dell’occupa­ zione tedesca, il rispetto delle sue esortazioni equivarrebbe alla rinunzia ad ogni forma di lotta armata, e difatti i comunisti e gli azionisti polemizzano in ripetute occasioni col vescovo, tacciato di arrendevolezza verso i nazifa­ scisti, paventando che i tentativi di sviluppare un dialogo tra partigiani e nazifascisti possano sfociare in forme di collaborazionismo. Alcuni presuli

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condannano nel modo più netto rappresaglie ed «eccessi» delle truppe d’oc­ cupazione e delle formazioni repubblicane, specialmente quando le ritor­ sioni investono i civili. La «Lettera degli Arcivescovi e Vescovi della Regione piemontese al Clero e al Popolo nella Pasqua 1944» stigmatizza «ogni forma di odio, di vendetta, di rappresaglia e di violenza, da qualunque parte venga e qua­ lunque giustificazione ostenti», raccomandando «al di sopra di tutto la pra­ tica dell’amor fraterno, l’aiuto al bisognoso, la misericordia per l’indigen­ te». Il documento avvalora posizioni di natura attesistica, risultando sgra­ dito sia ai partigiani sia ai fascisti. «Il Piemonte Repubblicano» del 9 maggio contesta la generalizzata condanna delle violenze: Oggi siamo in tempi d’eccezione, tempo di guerre e non c’è dubbio che «tra due parti belligeranti» ogni italiano, Vescovo o no, ha l’obbligo di ricordare che una di esse si è macchiata e quotidianamente si macchia di orrendi delitti, in­ flessibilmente condannati anche dallo stesso Codice della guerra. E allora, a parte altre considerazioni, come si spiega la locuzione «da qualunque parte ven­ ga» ? A non volerla gesuiticamente mascherare, è locuzione che non può degna­ mente stare sulle labbra e sulla penna di ogni italiano ben pensante. Sul fronte opposto non si può ovviamente convenire sulla riprovazio­ ne di ogni forma di scontro civile, del quale si attribuisce la responsabilità a «tanti sconsigliati che ricorrono alla violenza e all’insidia contro le au­ torità locali e le truppe d’occupazione», membri di «bande armate che qua e là battono le campagne perpetrando furti e violenze», responsabili di «guerriglie sanguinose che coinvolgono e terrorizzano pacifiche popola­ zioni». Le pastorali più sbilanciate sul. versante del biasimo delle azioni parti­ giane vengono criticate dalla stampa clandestina antifascista, che in Emilia Romagna contesta le posizioni del vescovo di Bologna, cardinale Nasalli Roc­ ca, e in Toscana polemizza con le valutazioni del vescovo di Firenze, car­ dinale Elia Dalla Costa, i quali invitano le popolazioni a rispettare le trup­ pe di occupazione e a desistere da qualsiasi forma di ribellione. I contrasti si esacerbano laddove i presuli si propongono quali mediatori per la stipu­ lazione di tregue d’armi tra i tedeschi e i ribelli, come a Savona nel dicem­ bre 1944. Il pur rilevante ventaglio di posizioni personali deve comunque venire collocato all’interno di una struttura ecclesiastica - ordinata gerarchica­ mente e accentrata attorno al pontefice - che nei campi sociale e politico ha costantemente ribadito l’avversione di principio al comuniSmo, specialmente da parte dei vescovi. Spesso l’anticomunismo si accompagna all’incomprensione delle ragioni della ribellione armata e all’insistenza sul ri­ spetto dell’autorità costituita. In alcune realtà lo scarto tra curia vescovile “lealista” e clero filopartigiano è rilevante, con l’intuibile difficoltà dei sacerdoti a reggere una si­ tuazione di latente conflittualità con i superiori, in tempi nei quali una scel­ ta di coscienza contraddice la tradizione gerarchico-verticistica della Chie-

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sa. Un parroco bergamasco, don Baldini, ha ben delineato le riserve sue e del clero antifascista verso il presule monsignor Adriano Bernareggi: Dalla curia eravamo apprezzati finché le cose andavano bene e visti di ma­ locchio quando le cose andavano male, ad esempio quando mi hanno preso. Quando eravamo in carcere, le autorità ecclesiastiche ci erano vicine e alcune volte ci difendevano , ma con prudenza: troppa. Anche a Brescia si verificano situazioni analoghe, ad esempio tra mon­ signor Giacinto Tredici e il parroco di Cividate, don Carlo Comensoli, rim­ proverato per il suo impegno con i partigiani, ma anche utilizzato per fa­ vorire la negoziazione di tregue d ’armi. Il vescovo condanna aspramente gli attentati che nel dicembre 1943 segnano la comparsa della guerriglia urba­ na a Brescia; i suoi rapporti con le autorità italiane e tedesche sono im­ prontati a correttezza, nella costante preoccupazione di limitare la violen- ■ za della guerra civile. Le lettere pastorali per la Quaresima del 1944, diramate nella seconda' decade di febbraio, forniscono un interessante spettro delle posizioni dei vescovi e degli orientamenti da essi forniti alle popolazioni. Le norme mo­ rali poste a modello dei fedeli contengono peraltro indicazioni di condotta abbastanza generiche. In linea di massima i riferimenti all’apologetica cat­ tolica interpretano la guerra e le disgrazie umane come l’esito del distacco da Dio, se non addirittura come punizione divina per la progressiva seco­ larizzazione della società. Fenomeni di costume come la diffusione dei bal­ li o dei cinematografi, l’attenzione alla moda o la tendenza alla promiscuità sessuale vengono additati quali corresponsabili delle rovine mondiali, in una chiave moralistica sovrastante ogni interpretazione politica, economica e sociale di fenomeni complessi e storicamente determinati. La disgregazio­ ne del mondo rurale, accelerata dalla guerra, è valutata negativamente, con accenti pessimistici per l’emergere di una mentalità individualistica e di nuovi modelli urbani non più centrati sulla dimensione religiosa. Le solle­ citazioni alla preghiera e aÙa carità, al perdono e alla rassegnazione sfociano talvolta nella condanna in blocco del «mondo moderno», dimentico del messaggio cristiano e nemico della Chiesa. In sostanza, dagli innumerevo­ li danni provocati dalla crisi bellica si ricavano motivazioni per riproporre con forza una visione teocratica della società, negando l’autonomia della sfera politica e delle dinamiche sociali. Emblematica dell’impostazione ri­ gidamente «spirituale» la lettera di monsignor Giacinto Tredici, vescovo di Brescia, immersa in un’aura atemporale; ai fedeli si raccomanda di elevare l’anima a Dio e di conformare il loro comportamento al trinomio adorazione-ringraziamento-pentimento, in una visione superiore delle cose. Solamen­ te nelle ultime righe compare un riferimento alle difficoltà del momento, con l’esortazione alla preghiera, che ci renderebbe migliori ed insieme ci otterrebbe la misericordia di Dio a sollie­ vo dei mali che ci affliggono, a salvezza della Patria diletta che si trova in un momento così grave, e del mondo intero che ha bisogno di pace.

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Tra i pochi presuli riferitisi esplicitamente a questioni di attualità spic­ ca il vescovo di Parma, monsignor Evasio Colli, con una riflessione centra­ ta sul binomio giustizia-carità che investe la necessità di un nuovo ordine sociale. Il presule analizza il modello comunista per respingerne i presup­ posti dottrinari e l’attuazione nell’Urss; assai più sfumati e generici, inve­ ce, i riferimenti agli altri ordinamenti sociali condannati dalla Chiesa, men­ tre sul versante costruttivo monsignor Colli ripropone i valori familisti e caritativi della tradizione cristiana. Nella primavera 1944 i vescovi settentrionali diramano quattro lettere collettive, nelle quali compaiono significativi riferimenti al momento bellico. La Conferenza episcopale triveneta esprime una condanna circostanziata dei metodi adottati dalle forze occupanti: ne seguono tensioni e polemiche con le autorità tedesche e fasciste, preoccupate per l’impatto del documento tra le popolazioni. La situazione più delicata è senz’altro quella del Friuli e della Venezia Giulia, per le ripercussioni in campo religioso dello scontro tra l’irredentismo slavo e il nazionalismo italiano, con le tensioni tra la Osoppo e i garibaldini, culminate il 7 febbraio 1945 nell’eccidio di Porzus. Nel turbine della guerra riacquista attualità e suggestione l’esempio dei grandi vescovi medievali, testimoni dei valori della civiltà cristiana e ga­ ranti della sua sopravvivenza. Alla figura del vescovo Ambrogio si ispira il cardinale Schuster, personificazione sacrale del protagonismo ecclesiale nel­ la società dilaniata dal conflitto civile. La sua azione si esplica sui terreni della diplomazia in forma variegata, attraverso trattative intavolate con i diversi attori, da Mussolini ai generali germanici ai comandanti partigiani. Tramite la nunziatura apostolica di Berna l’arcivescovo di Milano prospet­ ta alla Santa Sede, nell’ultimo scorcio del 1944, l’arbitrato tra tedeschi e alleati, in un contesto di contenimento del comuniSmo; la proposta non è accolta dalle gerarchie ecclesiastiche per la sua difficile praticabilità stanti gli orizzonti generali del conflitto e il suo carattere internazionale. I co­ mandi partigiani valutano con sospetto l’attivismo di Schuster e del suo se­ gretario don Giuseppe Bicchierai, timorosi di trovarsi scavalcati e delegit­ timati; il 29 gennaio 1945 un comunicato del Clnai respinge - su pressione comunista - l’intermediazione del cardinale, riconducendone l’operato a un’iniziativa personale priva di una sponda politica tra gli antifascisti. Coerentemente all’orientamento ideale e alle sensibilità dei singoli, l’epi­ scopato assume posizioni diversificate dinanzi al fenomeno resistenziale, generalmente oscillanti dalla condanna all’invito alla moderazione, soltan­ to in casi sporadici di appoggio - ovviamente in gran segreto - del movi­ mento partigiano. Nei riguardi dei sacerdoti impegnati nell’attività clande­ stina i vescovi mantengono un atteggiamento cauto e distaccato, evitando sia di avallarne il ruolo sia di sconfessarli, pure criticandoli privatamente. Il dialogo tra i presuli e i giovani ecclesiastici è spesso ostacolato dal diva­ rio di riferimenti teologici, politici e generazionali degli interlocutori. Dietro le preoccupazioni dei vescovi s’intuiscono la difficoltà e l’inade­ guatezza culturale della gerarchia nel confrontarsi con i processi di moder­

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nizzazione e nell’analizzare le ragioni della guerra. Hanno pesato, a tale pro­ posito, fattori quali il coinvolgimento ecclesiastico nei rituali bellicisti del fascismo, dall’educazione militarista dell’infanzia all’inquadramento mili­ tare della gioventù, con l’attivismo esplicato dal clero dei balilla e dai cap­ pellani preposti alle forze armate. Il rischioso impegno profuso da numero­ si parroci nell’aiuto agli ex prigionieri, ai renitenti all’arruolamento, agli ebrei e ai partigiani contiene una dose di testimonianza profetica che non si ravvisa nei comportamenti delle gerarchie diocesane. Elemento ricorrente nell’atteggiamento della generalità dei vescovi è l’insistenza sulla rinascita religiosa come premessa per la riconciliazione na­ zionale e la pacificazione degli animi. Le posizioni dell’episcopato riecheg­ giano una consuetudine di affiancamento al potere politico, mentre i gio­ vani ecclesiastici impegnatisi nella lotta clandestina possono addurre le va­ lutazioni di san Tommaso sulla correttezza della ribellione dinanzi alla tirannia. La disponibilità mostrata da una minoranza di vescovi verso sacerdoti intenzionati a collaborare col movimento partigiano può altresì venire va­ lutata quale visione lungimirante e sensibile ai possibili sviluppi della si­ tuazione politica. In un momento di notevole incertezza sulle prospettive generali, il diversificarsi del clero dinanzi al fenomeno resistenziale, lungi dal configurarsi quale elemento di divisione dell’aggregato ecclesiastico, è un elemento di garanzia per l’avvenire della Chiesa che, al di sopra delle differenziazioni contingenti dei suoi membri, mantiene la salda unità ga­ rantita dall’inquadramento rigidamente gerarchico e si delinea quale sal­ do riferimento delle forze moderate preoccupate dal rafforzamento delle sinistre. Per quanto riguarda la componente apertamente collaborazionista, a dif­ ferenza della Francia - dove circa un terzo dell’episcopato appoggiò con evidenza il governo di Vichy - in Italia i vescovi schieratisi con la Rsi sono un’infima minoranza, per lo più isolata anche in ambito ecclesiastico. Il ca­ so più eclatante è quello di monsignor Terzi, titolare dal 1934 della dioce­ si di Massa e Carrara, indotto da motivazioni anticomuniste a sostenere in modo esplicito il governo della Rsi e l’occupazione tedesca. Dopo la libe­ razione della Toscana il presule abbandona Massa, sostituito provvisoria­ mente da monsignor Sismondi in veste di amministratore apostolico. Alla cessazione del conflitto la sua permanenza alla guida della diocesi viene con­ testata dalla grande maggioranza del clero, che alla fine dell’aprile 1945 si esprime contro il suo ritorno: a monsignor Terzi non restano che le dimis­ sioni, accolte dalla Santa Sede alla metà del giugno 1945. Il clero dinanzi alla Rsi e a l movimento partigiano. Nel periodo a ridosso dell’armistizio numerose strutture religiose, dai centri diocesani sino alle più sperdute parrocchie, intensificano l’assistenza in favore dei più biso­ gnosi, contribuendo alla tenuta del tessuto sociale con iniziative solidari­ stiche configurabili come un intervento di supplenza dell’autorità civile ora­

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m a i disgregata e impotente. Il magistero ecclesiastico recupera credibilità e autorevolezza a partire dal concreto operare quotidiano, adempiendo a una funzione di estremo rilievo sul piano pubblico. Superata la prima fase dell’emergenza, le posizioni politiche del clero centrosettentrionale si dividono. Una minoranza esprime convinto e pub­ blico sostegno alla Rsi, appoggiando il movimento Crociata italica (che ha come organo l’omonimo settimanale cremonese animato da don Tullio Cal­ cagno) e le iniziative promosse dal gruppo clerico-fascista veneziano Italia e civiltà. Con toni meno esagitati, un’altra frazione ecclesiastica sostiene il governo di Salò interpretando in chiave legittimistica il precetto di rispet­ tare l’autorità costituita; in questa corrente si collocano figure di autorevoli presuli e la corrente moderata dei cappellani militari alle dipendenze del provicario castrense monsignor Giuseppe Casonato. La maggioranza dei sacerdoti evita di assumere atteggiamenti “com­ promettenti”, in un senso o nell’altro; i fascisti - che vorrebbero dal clero chiari inviti ai fedeli alla collaborazione con gli organi civili e militari della Rsi - interpretano tale riservatezza come sintomo di un dissenso politico che potrebbe tramutarsi da un momento all’altro in ostilità aperta. All’indomani dell’8 settembre 1943 l’immediata e spontanea forma di attività antifascista da parte di numerosi parroci consiste nell’aiuto con­ cesso a ebrei e a ex prigionieri militari alleati che, specialmente in Lom­ bardia, tentano di raggiungere le vallate confinanti con la Svizzera. I par­ roci bergamaschi allestiscono una rete cospirativa che consente a numero­ si ex internati nel campo di Grumellina di raggiungere il confine attraverso la Valtellina, la Val Vigezzo, la Val Malenco. Da Brescia i padri filippini dell’Oratorio della Pace inviano clandestinamente verso la Valcamonica nu­ merosi ricercati, poi accompagnati da guide fidate alla frontiera elvetica. Dinanzi all’angoscioso problema dei fuggitivi l’atteggiamento dei ve­ scovi non è omogeneo; a Cremona monsignor Cazzani evita ad esempio di consigliare al clero diocesano alcuna linea di condotta, con un’abdicazione implicita dal ruolo di guida sino ad allora esercitato nei campi più dispara­ ti, dalla morale alla politica. Le disposizioni divergono e si rarefanno vie­ più davanti all’atteggiamento da assumere verso i gruppi armati. In un fran­ gente così delicato e denso di rischi una parte del basso clero deve decide­ re autonomamente quale posizione assumere, senza più contare - come sempre in passato - sull’orientamento dei superiori. Talora la scoperta del­ l’autonomia adempie a una funzione liberatoria e l’aiuto agli sbandati e ai clandestini si evolve progressivamente nella scelta deliberata di favorire i gruppi partigiani. Il rapporto tra le formazioni resistenziali e i sacerdoti in cura d’anime nelle vallate alpine - sebbene meno evidente del fenomeno dei religiosi ag­ gregatisi alle formazioni ribellistiche - riveste una certa importanza alla lu­ ce di fattori quali la religiosità tradizionale dei contadini (la parte più co­ spicua degli organici partigiani) e dell’ambiente sociogeografico in cui si esplica la resistenza.

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Caratteristiche quali la mobilità della guerriglia, le difficoltà dell’eser­ cito occupante a controllare il territorio, la fragilità della struttura ammi­ nistrativa fascista determinano frequenti vuoti di potere, con relativo ab­ bandono delle popolazioni a se stesse. In un contesto fluido e privo di pun­ ti di riferimenti costanti la parrocchia tende ad assumere un ruolo di rilievo per la sopravvivenza delle piccole comunità montane. Il sostegno fornito dal clero secolare al movimento partigiano, ampio e diffuso specialmente nelle vallate alpine, è difficilmente documentabile, stanti le esigenze di riservatezza imposte dalla clandestinità. Una fonte di prim’ordine è costituita dai riscontri degli arresti di sacerdoti per l’accusa di fiancheggiamento dei ribelli. In Valle d’Aosta già agli inizi della primavera 1944 i rapporti tra la Chie­ sa e la Rsi sono burrascosi: il parroco di Succinto viene imprigionato con l’accusa di avere celato nella propria abitazione numerose armi da fuoco; il vescovo si trova costretto a trasferire ad altra sede il parroco di Saint-Pierre su intimazione del capo della provincia, irritato per la sua predica antifa­ scista; al parroco di Armaz si estorce in carcere la confessione di avere col­ laborato con i ribelli; un religioso della congregazione dei frati Bianchi è deferito alla Commissione provinciale per l’assegnazione al confino; le au­ torità fasciste chiedono al vescovo «esemplari provvedimenti» a carico del parroco di Pont Canavese e di alcuni altri sacerdoti rei di avere officiato so­ lenni onoranze funebri a partigiani passati per le armi. Nelle varie regioni settentrionali la situazione è altrettanto grave. Il car­ dinale Schuster nell’estate 1944 ottiene dai comandi della polizia germani­ ca la liberazione di oltre una ventina di ecclesiastici lombardi, ma il 24 ot­ tobre ragguaglia con toni pessimistici la Segreteria di stato sulle misure re­ pressive attuate contro una parte del suo clero: «Ho parecchi sacerdoti parroci fuggiaschi, perché colpiti da mandato di cattura. Altri sono carce­ rati, altri a domicilio». Schuster può estrinsecare un’intensa azione diplomatica presso i massi­ mi dirigenti fascisti e tedeschi in favore degli ecclesiastici imputati di filori­ bellismo senza timore di passare per antifascista, grazie alle posizioni pub­ bliche da lui assunte in favore del regime, mentre altri suoi confratelli ven­ gono sospettati di proteggere i partigiani. Nel gennaio 1945 il Comando militare regionale ligure segnala al maresciallo Rodolfo Graziani che stretti collaboratori del cardinale Boetto, arcivescovo di Genova, avrebbero allesti­ to in Liguria una rete clandestina del «movimento di liberazione nazionale». Le ispezioni esperite dal Servizio informazione difesa sulla corrispon­ denza postale evidenziano, nel corso del 1944, l’ostilità di settori sempre più ampi del clero verso il governo di Salò e la riduzione delle prese di po­ sizione filofasciste. Il rapporto redatto alla metà di febbraio contiene os­ servazioni di segno contrastante: Sentimenti anglofili in un collegio di Roma, «tensione» verso gli eventi del Sud. Per contro, voci di prelati chiedono la vendetta di Dio contro « i cosidet­ ti liberatori» e invitano alla preghiera per allontanare dal paese il pericolo di

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una eventuale vittoria delle potenze angloamericane, anticattoliche. Entusia­ smo e fede di cappellani al servizio della Patria. (Acs, Spd Cr Rsi).

Un mese più tardi la situazione presenta ben altri connotati: Si rileva, ad eccezione di rarissime manifestazioni di patriottismo, un tono fortemente pacifista: implorazioni di pace e di bontà, vaghi accenni alla Patria e ai doveri dei cittadini verso di Essa, assenza assoluta di incitamento, di opera di risveglio delle coscienze e di riprovazione per i sistemi di lotta del nemico.

Sono commentati gli arresti di sacerdoti che avrebbero svolta opera con­ traria al governo repubblicano. Risuonano, in diversi brani estrapolati dalle missive di persone dai sen­ timenti fascisti, commenti critici per «l’atteggiamento dei preti». Nel rap­ porto del Servizio segreto militare per il mese di luglio si osserva che sempre più violenta è la reazione di molti italiani, che si professano sincera­ mente e profondamente religiosi, contro « l’indegno» comportamento dei pre­ ti che, per tornaconto politico, mascherato di carità cristiana, svolgono nella massa una subdola azione disintegratrice, concorrendo potentem ente con altri nemici interni ed esterni a minare la resistenza morale delle popolazioni. (Ib id .).

In agosto i toni si fanno accesi, quasi a sollecitare un’azione repressiva di massa: Si invocano energici provvedimenti per porre un freno all’azione, ritenuta delittuosa, che gran parte del clero esplica e si prospettano i pericoli e le nefa­ ste conseguenze che deriveranno alla Chiesa dal suo atteggiamento. (Ib id ).

Le lacerazioni della guerra civile si ripercuotono dentro il clero, con ca­ si non infrequenti di delazione e di provocazione tra confratelli. Padre An­ tonio Intrecciatagli, cappellano militare della legione Tagliamento, prende parte ad esempio alle intimidazioni e alle violenze contro don Giuseppe Del Signore, parroco di un villaggio montano nei pressi di Locamo, colpevole di avere ospitato un partigiano ferito. Padre Antonio Cattaneo, responsa­ bile provinciale dell’organizzazione di assistenza spirituale in Sondrio alle truppe fasciste, nell’estate 1944 relaziona ai superiori sui rapporti burra­ scosi intrattenuti con gli ecclesiastici locali: Vi è molta battaglia subdola da parte del clero della Valtellina contro i cap­ pellani militari; non si sa ancora di preciso il motivo di questa guerra poco lea­ le da parte del clero. (Aomi).

Sono soprattutto i tedeschi a macchiarsi di violenze contro i parroci. Don Fiore Menguzzo, parroco ventottenne di Molina di Stazzema, della diocesi di Pisa, cappellano militare in Albania internato in Germania e rim­ patriato per motivi di salute, viene accusato di avere aiutato i partigiani e impiccato il 12 agosto 1944 davanti alla chiesa; la soldataglia incendia la ca­ nonica con i lanciafiamme e brucia vivi il padre, la sorella, la cognata e due nipotine del sacerdote.

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Nelle stragi perpetrate dall’esercito occupante rimangono spesso coin­ volti i sacerdoti. Talvolta i religiosi sono passati per le armi mentre difen­ dono la popolazione dalle rappresaglie; emblematica la morte di don Ubaldo' Marchioni, in contatto con 11 raggruppamento partigiano Stella rossa, uc­ ciso da una raffica di mitra il 29 settembre 1944 nella chiesa di Casaglia, dove si sono raccolti ottantaquattro civili fuggiaschi, trucidati dalle SS nel cimitero attiguo all’edificio sacro. Il parroco di Fiano (Lucca), don Aldo Mei, arrestato e torturato per strappargli informazioni sui ribelli, il 4 ago­ sto 1944 - condannato alla pena capitale - è costretto a scavarsi la fossa e poi viene ucciso. Prima dell’esecuzione trova il tempo di scrivere nel bre­ viario le imputazioni: i a Condanna a morte per aver protetto e nascosto un giovane di cui volevo salva l’anima; 2a per aver amministrato i sacramenti ai partigiani, e aver cioè fatto il prete. Il terzo motivo non è nobile come i precedenti - aver nascosto la radio.

Anche per i religiosi passati per le armi la distinzione tra parroci e cap­ pellani partigiani è talvolta sfumata, tanto più che mancano - tranne casi eccezionali - investiture formali dell’incarico di assistenza spirituale alle formazioni resistenziali. Significativa la controversia sorta nel dopoguer­ ra in Emilia attorno alla qualifica di don Giovanni Fornasini, parroco di Sperticano e collaboratore della brigata Stella rossa, ucciso a bruciapelo il 12 ottobre 1944 da un ufficiale tedesco al quale aveva rinfacciato le ucci­ sioni indiscriminate perpetrate nella zona di Marzabotto. La motivazione della medaglia d’oro alla memoria concessa il 19 maggio 1950 si riferisce esplicitamente all’azione resistenziale del sacerdote, definito partigiano, «pastore e soldato»; del resto già nell’estate 1945 il Cln regionale lo ave­ va inserito nell’elenco dei combattenti deceduti per cause militari, come cappellano partigiano. La sorella del sacerdote contesta una lapide com­ memorativa nella quale don Fornasini è definito «partigiano» e si rivolge al Tribunale amministrativo regionale per ottenerne la cancellazione, con esito negativo. Le testimonianze di persone che hanno frequentato il reli­ gioso nel 1944 riferiscono che egli aveva improntato il suo comportamen­ to secondo la seguente massima: Io sono parroco di tutti, nessuno escluso. Anche i partigiani sono dei battezza­ ti come i miei parrocchiani: se loro non scendono, io salgo.

Pure collaborando con la brigata Stella rossa il prete dissentiva dal co­ mandante della formazione sull’intensificazione della lotta armata, da lui sconsigliata per il rischio di attirare rappresaglie contro i civili. Le nude statistiche dei religiosi periti di morte violenta dal settembre 1943 al maggio 1945 evidenziano le lacerazioni di un clero coinvolto nelle traversie della guerra civile e dell’occupazione; su un totale di 425 vittime, 191 sono cadute per mano dei fascisti, 125 sotto i colpi dei tedeschi e 109 uccise dai partigiani. In linea generale queste ultime morti si collocano a ri­

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dosso della liberazione o addirittura nel periodo successivo alla fine del con­ flitto, con un significato vendicativo di “resa dei conti”. Il parroco di Mignegno, piccolo sobborgo di Pontremoli (Massa e Carrara), il 30 gennaio 1945 annota nel Liber Chronicus: Oggi grande sorpresa! Un altro collega trucidato. Questa volta non dai te­ deschi, ma bensì dai partigiani. Egli è il parroco di Cornano, don Sante Fonta­ na. Partigiani comunisti si prestarono al tragico gioco di una vendetta persona­ le collo specioso pretesto che il reverendo era di animo filofascista. Di sera, ver­ so le otto, fu invitato à uscire evidentemente con qualche inganno: non lontano dal paese una scarica l ’uccise! I Chronicon, libri cronistorici annotati dai parroci con un diverso gra­ do di meticolosità a seconda delle raccomandazioni dei vescovi, consento­ no di ricostruire dall’angolatura prospettica dei singoli sacerdoti il reticolo di posizioni assunte nelle varie diocesi dal clero nella temperie del conflitto armato. Laddove gli studiosi hanno censito e analizzato le preziose regi­ strazioni diaristiche si è rivelato come orientamento prevalente il ricono­ scimento ai partigiani della rappresentanza degli interessi patriottici, men­ tre i fascisti appaiono per lo più percepiti come i complici dell’inviso occu­ pante tedesco. Ciò nondimeno il rapporto con i gruppi armati organizzatisi alla macchia è non di rado turbato da riserve per una serie di motivi ricon­ ducibili essenzialmente al prelievo di viveri, all’opportunità di azioni ar­ mate in prossimità dei villaggi col rischio di rappresaglie sui civili, ai con­ notati ideologici di sinistra manifestati da alcune formazioni. I cappellani partigiani. I primi gruppi partigiani non dispongono di un servizio di assistenza religiosa, poiché nello sbandamento seguito all’ar­ mistizio, con le forze armate lasciate prive di direttive, i reparti si disgre­ gano e l'avvio della resistenza segna una discontinuità rispetto all’eserci­ to regolare. Del tutto particolare la situazione delle forze armate dislocate oltre i confini nazionali: nella penisola balcanica e nelle isole dell’Egeo molti re­ parti italiani si collegano con le bande partigiane nella lotta comune contro i tedeschi. In queste circostanze i cappellani militari assumono generalmen­ te il ruolo di animatori della resistenza armata svolgendo, in aggiunta alle consuete mansioni di assistenza spirituale, prestazioni di emergenza in cam­ po sanitario. Tra questi religiosi si ricordano: a Cefalonia padre Romualdo Formato del 330 reggimento artiglieria, che il 24 settembre 1943 con ani­ mo straziato porge gli estremi conforti a circa trecentocinquanta ufficiali mandati a morte dai tedeschi; a Lero padre Igino Lega, del comando mari­ na, che per quasi due mesi incoraggia i militari a resistere contro i tedeschi e poi, dopo la resa, li consiglia di respingere le proposte di reclutamento nel­ la Rsi; in Albania don Tarcisio Scannagatta della divisione Perugia e padre Angelo Lecchi dell’ospedale da campo n. 46, i quali vivono una dura espe­ rienza di battaglie, di malattie e di rapporti contrastati con i patrioti loca­

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li: Scannagatta dopo la cattura viene internato a Norimberga, mentre Lec­ chi funge da cappellano della brigata Antonio Gramsci. I sacerdoti rimasti coi militari nella resistenza all’estero testimoniano un impegno personale apprezzato dai combattenti anche sul piano psicologico, specialmente da quei soldati - e sono la grande maggioranza - tradizionalmente legati al cat­ tolicesimo e che interpretano la presenza del sacerdote nella vita partigia­ na come elemento di continuità con la precedente esperienza bellica. I reli­ giosi catturati dopo un periodo trascorso alla macchia sono internati in Ger­ mania, dove tra l’autunno 1943 e la tarda primavera 1945 languono ben 270 c appellani; un altro centinaio rimpatria quando la guerra è ancora in corso, avendo aderito alla Rsi o trovandosi in gravi condizioni di salute. L’ordinariato militare, struttura ecclesiastica guidata dall’anziano mon­ signor Angelo Bartolomasi e preposta all’assistenza spirituale alle forze ar­ mate, dopo l’armistizio ha mantenuto i propri uffici a Roma e fornito alle forze armate repubblicane 483 sacerdoti, sforzandosi - non sempre con suc­ cesso - di evitare l’inclusione negli organici di soggetti schierati politicamente. A Lecce, sotto il controllo degli alleati, si costituisce un organo di assistenza religiosa all’esercito badogHano, diretto da monsignor Germano Galassini e di fatto autonomo dalla curia castrense. I cappellani del Corpo italiano di liberazione operano in una situazione problematica, talora c on­ testati da soldati insofferenti della disciplina e poco motivati. Don Loren­ zo Bedeschi, del IX reparto d’assalto, si mette in luce per il contributo for­ nito ai vertici militari per la «propaganda per lo spirito combattivo e per il morale». L’urgenza di risolvere il delicato problema della presenza religiosa tra i partigiani viene prospettata alla Santa Sede dal cardinale Schuster, il 24 ot­ tobre 1944, con una comunicazione alla Segreteria di stato nella quale le motivazioni spirituali si coniugano con le preoccupazioni politiche: Le truppe dei partigiani sono totalmente destituite di assistenza religio sa, e tra loro ha buon gioco il comuniSmo. Si domanda: è opportuno, e come, con­ cedere cappellani ? In tal caso, siccome questi passano da un punto all’altro per varie diocesi, avrei bisogno di facoltà apostoliche per autorizzarli dovunque.

Superati gli ostacoli nelle comunicazioni, un mese più tardi il segretario di stato monsignor Tardini risponde con un breve messaggio, suggerendo ai vescovi delle diocesi interessate dal fenomeno partigiano di accordarsi per estendere le cure sacerdotali alle formazioni irregolari. Comunque, dal punto di vista dell’inquadramento, i preti dei partigiani non dispongono dell’investitura dell’ordinariato militare e quindi - differentemente dai lo­ ro confratelli arruolati sotto le bandiere della Rsi - sarebbero da conside­ rarsi come volontari. Dopo la liberazione di Roma alcuni preti partigiani si preoccupano di riferire alla curia castrense sul proprio operato. Vittorio Dadone, cappella­ no capo del Cvl piemontese, vorrebbe legittimare il suo ruolo e regolariz­ zare di conseguenza la situazione del clero da lui informalmente dipenden­

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te: in un memoriale del 4 novembre 1944 egli precisa che in diversi casi i sacerdoti inseritisi nel movimento resistenziale sono stati costretti dalle cir­ costanze a «celarsi con nomi e generalità diverse dalle proprie, anche per evitare rappresaglie sui congiunti». Monsignor Bartolomasi, oramai alla fi­ ne del suo lungo incarico di arcivescovo della cappellania militare, analizza l’istanza di Dadone e definisce i religiosi in servizio nelle formazioni parti­ giane cappellani de facto e non già dejure , considerato che né il Concorda­ to né i successivi decreti della Sacra Congregazione concistoriale prevedono l’eventualità di un servizio di assistenza spirituale a formazioni irregolari. Alle difficoltà formali si sommano perplessità di natura politica, indiretta­ mente richiamate dal cardinale Marmaggi, della Sacra Congregazione del Con­ cilio, che chiede alla curia castrense se abbia «preso qualche provvedimen­ to» nei confronti di due sacerdoti intervenuti nel dicembre 1944 a Roma al congresso della Resistenza in veste di cappellani partigiani. Le titubanze del dignitario ecclesiastico concernono in sostanza la liceità della collaborazione di religiosi con gruppi politico-militari egemonizzati dalle sinistre. Nel novembre 1944 la sostituzione di monsignor Bartolomasi con mon­ signor Carlo Alberto Ferrerò assicura il ricambio generazionale, collocan­ do al vertice dell’istituzione ecclesiastico-militare un prelato irreprensibile sul piano politico, nella prospettiva dell’uscita dalla guerra e della perma­ nenza sacerdotale nelle Forze armate in tempo di pace. Tra gli ex cappellani militari passati all’assistenza spirituale dei parti­ giani vi è don Costanzio Chiaretti, in servizio sino all’armistizio a Gorizia e a Mentone col 390 battaglione alpini, quindi promotore del Cln di Leo­ nessa (Rieti) e cappellano della brigata Antonio Gramsci. Vittima di una delazione, viene massacrato sulla piazza del paese laziale insieme a venti­ cinque suoi concittadini. Il vescovo di Rieti ne descrive gli estremi momenti nel rapporto inviato il 24 aprile 1944 alla curia castrense: Confessò, come potè, ed assolvette i suoi compagni. Caduti questi, fece a sua volta la confessione pubblica, domandando a Dio perdono dei suoi falli, e cadde a sua volta, atterrato da un colpo alla testa, vibratogli col calcio di un fu­ cile. Ebbe ancora la forza di rialzarsi e gridare: «Perdono, Signore, benedite l ’Italia» e si accasciò. (Aomi).

Sempre per una delazione viene imprigionato il 4 gennaio 1944 padre Giuseppe Morosini, già cappellano in Dalmazia col 40 reggimento artiglie­ ria della divisione Bergamo e poi cappellano dei partigiani di Monte Mario. Incarcerato nel terzo braccio di Regina Coeli, per tre mesi si rifiuta di for­ nire informazioni sui partigiani; la Santa Sede riesce a rinviare la fucila­ zione per qualche tempo, finché il 3 aprile il sacerdote è condotto dinanzi al plotone d’esecuzione: i militari sparano fuori bersaglio, ma un ufficiale tedesco impone al comandante del picchetto di freddare il religioso con un colpo alla nuca. L’episodio desta una certa sensazione e suscita commenti negativi, cosicché il 22 maggio 1944 il foglio collaborazionista «Crociata Ita­ lica» stampa un corsivo del cappellano don Antonio Ciceri:

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Una cosa può essere certa per deduzione inconfutabile: che se i Tedeschi hanno agito cosi col fratello sacerdote, il fratello sacerdote non deve aver agi­ to sempre con l’insegnamento di Cristo. Infatti quando il sacerdote ha fatto il sacerdote e non il partigiano, quando si è servito della chiesa e della parola nel­ la chiesa non per alimentare odii, non per smarrire gli animi, non per creare sbandamenti morali, non per impedire ai giovani di presentarsi al servizio mi­ litare ma per insegnare l ’ordine, la quiete, l’armonia e la disciplina, allora non solo non è stato mai disturbato nel compimento del suo ministero, ma è stato rispettato, onorato e favorito.

Alcuni vescovi deliberano di inviare sacerdoti presso i nuclei partigiani attivi nella propria diocesi: ciò si verifica ad esempio in Piemonte, dove il salesiano Andrea Gallo, già cappellano in Africa settentrionale, opera in un contesto ecclesiasticamente e militarmente regolare: Avevo avuto l’incarico speciale dal vescovo di Susa di visitare periodica­ mente i paesi della più alta montagna privi di parroco. Cosi diceva il documento, ma a voce mi si disse che tali parrocchiani [...] non erano altro che i partigiani. Il comando tedesco ebbe la dabbenaggine di vistare un simile foglio e io pote­ vo circolare industurbato. (Dalla relazione stilata il 10 giugno 1945 da don Gal­ lo per l’ordinariato militare). (Aomi). All’inizio del 1944, nella diocesi di Piacenza - comprensiva della Val di Ceno e dell’Alta Val Taro in provincia di Parma - il canonico della cattedrale monsignor Ugo Civardi assume il ruolo di coordinatore dell’as­ sistenza spirituale al movimento partigiano, con esplicita approvazione vescovile. La prima formazione a usufruire di un cappellano - don Lui­ gi Carini, parroco di Vidiano - è di orientamento laico: Giustizia e li­ bertà (Gl). Nella relazione redatta alla fine della primavera 1945 monsi­ gnor Civardi ha sintetizzato le mansioni espletate tra i combattenti an­ tifascisti: L’opera dei cappellani abbracciò specialmente l’assistenza religiosa vera e propria (messa festiva al campo, istruzioni, preparazione ai sacramenti e a fe­ stività ecc.); l’accostamento individuale dei giovani; l’assistenza ai feriti, am­ malati e prigionieri; la raccolta e sepoltura delle salme dei caduti; in vari luoghi si organizzò la confessione e la raccolta di indumenti; lo scambio di prigionie­ ri, l’assistenza alle famiglie. Parecchi cappellani parteciparono alle azioni (co­ me sacerdoti); tutti fecero opera di distensione degli animi e cercarono di fre­ nare gli impulsi e le azioni violente. (Ibid ).

Nei rastrellamenti del luglio 1944 rimangono uccisi, in provincia di Par­ ma, cinque sacerdoti antifascisti. In linea generale i religiosi si adattano senza eccessivi problemi ai ritmi e al clima della guerriglia. Nelle brigate Garibaldi, dove la maggioranza dei comandanti e dei commissari politici è di orientamento comunista, si regi­ strano comportamenti difformi da formazione a formazione; in alcuni casi il comando chiede all’autorità religiosa di inviare un sacerdote per l’assi­ stenza spirituale, in altri il problema viene semplicemente ignorato, per va­

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lutazioni di natura laicista. Da parte dei comandi regionali si raccomanda la massima disponibilità all’accoglimento di religiosi più per finalità politico-patriottiche che per ragioni di sensibilità religiosa. Il «Vademecum del Volontario della Libertà» diramato il 25 agosto 1944 dal Comando milita­ re unico dell’Emilia Romagna così stabilisce: N elle formazioni dei Volontari della Libertà è rigorosamente proibito ogni atteggiamento antireligioso; tutte le confessioni religiose possono esservi pro­ fessate. I Sacerdoti, spec ialmente della montagna, sono in gran parte c oi Pa­ trioti: molti di essi hanno già pagato c on la vita questo l o ro aiuto alla causa del­ la Libertà Nazionale. (IG, Fbg).

Cino Moscatelli, comandante generale garibaldino della Valsesia e dell’Ossola, nel luglio 1944 concorda col vescovo di Novara l’aggregazione di un vicario foraneo ai partigiani, col grado di ufficiale. La nomina è comu­ nicata ai garibaldini con una circolare che esorta gli uomini a rispettare e ad apprezzare «il cappellano garibaldino don Davide, un giovane sacerdo­ te dalla mente illuminata e, all’occorrenza, dal valido braccio». Moscatelli, personalmente di orientamento ateo, si occupò con estrema premura dell’as­ sistenza spirituale alle sue formazioni: compose e fece stampare la «Pre­ ghiera dei garibaldini» e raccomandò ai comandanti di organizzare messe al campo, analoghe a quelle celebrate per le formazioni regolari. Le ragioni di un simile comportamento risiedono nella volontà di dimostrare l’assolu­ ta legittimità patriottico-religiosa delle bande partigiane. Lo spirito di condivisione ideale e pratica c on cui molti sacerdoti vivono quotidianamente la lotta partigiana è sintetizzato dal messaggio indirizza­ to il 30 agosto 1944 da don Franco (Angelo Stoppa), cappellano della 5* di­ visione Garibaldi Piemonte, ai suoi uomini, in un’autorappresentazione del proprio ruolo condizionata dall’esigenza di rimuovere le intuibili diffiden­ ze dei giovani antifascisti: Il prete è venuto da voi unicamente perché desiderato da chi vi comanda ed ha acconsentito a tale desiderio perché vi ammira, vi ama e desidera fare del bene a voi, che siete ritirati sui monti per difendere ciò che ancora resta della nostra Patria dall’aggressione del secolare nemico, il quale ora valendosi di un pugno di galeotti e di delinquenti d ’ogni specie compie vessazioni, deportazio­ ni ed atrocità di ogni genere sulle inermi popolazioni. Ma restate sereni e fidu­ ciosi: la giustizia divina cui nulla sfugge segue i colpevoli a passi lenti ma sicuri. Sotto i vostri volti, fieri e quasi selvaggi per il lungo vivere fra i disagi e stenti, ho trovato anime profondamente desiderose di verità luminose. Il Signore ha appagato il vostro desiderio donandovi un sacerdote, ascoltate le sue parole che sono quelle di eterna vita e il nostro D io, come quando era da Mosè pregato, pla­ cato dei nostri peccati, rivolgerà in noi il suo sguardo vivificatore e tutto il nostro popolo gioirà in lui e ci porterà la giustizia, la vittoria e la pace. La Madonna ha detto: «La salvezza viene dai monti» e dall’alto del Mombarone, dai piedi di G e­ sù redentore, dal suo santuario d ’Oropa, discenderanno le squadre dei prodi che libereranno dalla furia devastatrice le terre della nostra Italia. A tutti coll’au­ gurio invio il mio cordiale saluto e la paterna benedizione. Don Franco. (Ibid.).

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I cappellani partigiani assumono particolare rilievo tra le Fiamme ver­ di, per l’orientamento cattolico di queste formazioni, che assegna una collocazione di rilievo all’aspetto religioso. In occasione del Natale e della Pa­ squa si celebrano solenni riti al campo, funzionali anche all’intensificazione dello spirito di cameratismo tra gli uomini. Tra le figure di cappellani partigiani che hanno pagato con la vita l’im­ pegno a fianco dei ribelli vi è don Elio Monari, docente del seminario vesco­ vile di Modena, arruolato nella brigata Italia e catturato il 5 luglio 1944 dai tedeschi al termine di uno scontro con i partigiani, consegnato quindi alla banda Koch che lo sevizia per estorcergli informazioni e una decina di giorni pili tardi lo fucila a Firenze, seppellendolo in una fossa comune. Il par­ roco emiliano don Giuseppe Borea, cappellano della divisione Val d’Arda, catturato dai fascisti evade dal carcere e torna alla vita partigiana, ma il 27 gennaio 1945 cade nuovamente nelle mani dei repubblicani e il 7 febbraio è condannato a morte dal Tribunale straordinario provinciale di Piacenza: Formatisi sulle nostre montagne - estrema conseguenza della capitolazione monarchica - i nuclei dei fuori legge, il Borea ripudia il suo sacro ministero di pastore e di conciliatore di anime, nel segno della Fede e nell’amore della Pa­ tria. Gettata la tunica, chiusa la chiesa trasformata in un deposito di armi e di munizioni e in un nascondiglio di banditi, indossava gli abiti dei partigiani, van­ tandosi del distintivo del Corpo volontari della libertà, partecipando armato al­ le azioni compiute da gente al soldo del nemico contro fascisti repubblicani e tedeschi. (Aomi). La relazione stilata quattro mesi più tardi da monsignor Civardi sul cle­ ro antifascista di Parma e di Piacenza inquadra in termini ben diversi la fi­ gura del religioso passato per le armi: Il cappellano patriota Bòrea divise con i partigiani disagi e pericoli di ogni sorta. Per quanto attivamente ricercato e sollecitato anche dai Superiori a fug­ gire, non volle abbandonare la zona; catturato e imprigionato, si inscenò a suo carico un processo farsesco nella forma, tragico nella sostanza e spudoratamen­ te calunnioso. Mori forte e sereno benedicendo all’Italia. (Ibid). II coinvolgimento di alcuni religiosi nel movimento resistenziale trava­ lica l’ambito religioso e, sotto la pressione delle circostanze, sfocia nella par­ tecipazione all’attività militare. Emblematico l’itinerario guerrigliero di don Francesco Foglia, cappellano del 30 alpini, segnalatosi per il coraggio di­ mostrato in combattimento il 5 maggio 1942 nel Montenegro. Dopo l’ar­ mistizio il reverendo è tra i promotori del partigianato in Val di Susa e in­ segna alle reclute a maneggiare gli esplosivi, guadagnandosi l’appellativo di «don dinamite». Arrestatoli 12 gennaio 1944, rimane rinchiuso per un paio di mesi nelle carceri di Torino e poi viene internato in Germania, prima a Mauthausen e poi a Dachau, dove rimarrà sino al termine della guerra. Nel Friuli don Aldo Moretti - in licenza di convalescenza dall’Africa settentrionale - assicura il radicamento della Osoppo svolgendo, col nome di copertura di «don Lino», le mansioni di comandante militare e di coor­

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dinatore del servizio di assistenza spirituale. L’arcivescovo di Udine, al cor­ rente della delicata attività espletata dal sacerdote, lo convoca in più occa­ sioni per verificare con lui le possibilità di attenuare la radicalità del con­ flitto armato. Nel dopoguerra si ripropone con forza l’esigenza di regolarizzare ai fi­ ni ecclesiastici e militari l’assistenza spirituale prestata alle formazioni re­ sistenziali. I sacerdoti rivoltisi agli uffici dell’ordmariato militare per do­ cumentare il loro stato di servizio e ottenere l’equiparazione ai cappellani delle Forze armate regolari vedono respinta la loro richiesta, con motiva­ zioni di natura formale. Rappresentativo dei diversi casi l’esito del ricorso inoltrato dal piemontese don Ezio Ratti, già cappellano della brigata Vit­ toria; la curia militare, sollecitata dal distretto militare di Torino a c once­ dere il nulla osta per l’aggiornamento del foglio matricolare del sacerdote, il 6 febbraio 1947 così decreta: Il cappellano in oggetto non è stato chiamato come cappellano né nomina­ to tale con decreto. Nulla risulta a quest’Ordinariato della sua qualifica di vo­ lontario partigiano. La sua posizione nei confronti dei quadri di mobilitazione è quella prevista dagli ac cordi Lateranensi, non dovendosi includere in tali qua­ dri che i cappellani nominati con decreto. (Ib id .).

Vi è poi il caso di qualche cappellano partigiano appassionatosi all’am­ biente militare e deciso a prestare regolare servizio nelle Forze armate del­ la repubblica. Don Domenico Orlandini aveva operato nella Resistenza reg­ giana e in contatto con l’Air Force era riusc ito a salvare numerosi ex pri­ gionieri di guerra; nel suo curriculum rientravano poi l’esperienza della «repubblica di Montefiorino» e - in contrapposizione con i comunisti - la costituzione della brigata Italo delle Fiamme verdi. Il 24 agosto 1945 il ve­ scovo di Reggio Emilia lo raccomanda all’ordinariato militare («Benché al comando di partigiani, non fece mai uso personalmente delle armi, ma l’ope­ ra sua fu di direzione e di comando, e fu utile e buona perché mentre ha di­ feso tanti piccoli paesi dalla furia tedesca, ha saputo anche far evitare ai suoi partigiani quegli eccessi che altrove si lamentano»), che lo assegna a un reggimento di fanteria stanziato in Liguria. Il suo ministero pastorale inizia sotto brutti presagi e si rivela deludente: Il cappellano che venni a sostituire mi avvertì c he l’ambiente nel quale en­ travo era fortemente ostile ai partigiani e che quindi la mia posizione avrebbe forse potuto riuscirmi penosa; purtroppo fu profeta: sino dai primi momenti fui oggetto di diffidenza e di sospetto e mi si fece vigilare; con futili pretesti si fe­ ce in modo che le mie visite ai reparti distaccati fossero rare il più possibile e si giunse al punto di rimproverare qualche ufficiale perché si trovava spesso con me. Ciò ha servito a mettermi in una situazione di disagio; le mie relazioni coi superiori sono improntate a freddezza e la mia azione fra i soldati è necessa­ riamente difficile. (Ibid., Relazione da Savona, 15 febbraio 1946).

Don Orlandini vede dunque tramontare il suo sogno di cappellano mi­ litare e decide di tornare alla diocesi d’origine.

Franzinelli

Chiesa e clero cattolico

L’esistenza di un oggettivo contrasto tra militanza resistenziale e car­ riera ecclesiastico-militare è provata tra l’altro dal fatto che gli stessi cap­ pellani già in servizio con le formazioni italiane attive all’estero nella lotta antinazista una volta rimpatriati finiscono in grande maggioranza per riti­ rarsi dall’esercito. Il clima rovente della guerra fredda è il maggiore responsabile della man­ cata valorizzazione dell’esperienza compiuta dai cappellani antifascisti. An­ cora nel 1964 la richiesta della Federazione del clero all’ordinariato milita­ re di voler promuovere congiuntamente un raduno per «la celebrazione del­ le glorie del clero italiano in occasione del ventennale della Resistenza» riscuote la freddezza dell’arcivescovo monsignor Arrigo Pintonello, preoc­ cupato dell’inserimento del convegno «nella cornice generale delle varie ce­ lebrazioni politiche promosse dai fautori della resistenza, che in ultima ana­ lisi risulterebbe solo una speculazione di parte, fomentatrice di odi e non certo fautrice di cristiana carità». Nota bibliografica. A A N V ., Aspetti religiosi della Resistenza, Aiace, Torino 1972; A A .W ., Il clero toscano nella Resistenza, La Nuova Europa, Firenze 1975; A A .W ., Il contributo del clero bresciano al­ l ’antifascismo e alla Resistenza, Ce.Doc., Brescia 1976; Actes et documents du Saint Siège rektifs à la Seconde Guerre Mondiale, voli. V-IX, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vatica­ no 1969-81; G. Belotti, I cattolici di Bergamo nella Resistenza, 2 voli., Minerva Italica, Ber­ gamo 1978 e 1986; P. Blasina, Vescovo e clero nella diocesi di Trieste-Capodistria. 1938-1945, Isr Trieste, Trieste 1993; B. Bocchini Camaiani, Ricostruzione concordataria e processi di se­ colarizzazione, Il Mulino, Bologna 1983, pp. 159-215; Id., Vescovi e parroci durante la Resi­ stenza :alcuni casi emblematici, in A A .W ., L ’insurrezione in Piemonte, Angeli, Milano 1987, pp. 260 -94; M. Casella, L ’Azione cattolica alla caduta delfascismo, Studium, Roma 1984; G. De Rosa (a cura di), Cattolici, Chiesa, Resistenza, Il Mulino; Bologna 1998; M. Diaferia, 19431945: Pontremoli, una diocesi italiana tra Toscana, Liguria ed Emilia attraverso i libri cronisto­ rici parrocchiali, Isr Pontremoli, Pontremoli 1995; E. Di Nolfo (a cura di), Vaticano e Stati Uniti 1939-1952 .Dalle carte di Myron C. Taylor, Angeli, Milano 1978; J.-D. Durand, L ’Eglise catholique dans la crise de l ’Italie (1943-1948), Ecole Fran9aise de Rome, Roma 1991; M. Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Pagus, Treviso 1991, pp. 275-94; Id., I cappellani militari italiani nella Resistenza all’estero, Commis­ sione resistenza militari italiani all’estero, Roma 1993; I. Garzia, Pio XII e l ’Italia nella se­ conda guerra mondiale, Morcelliana, Brescia 1988; L. Gherardi, Le querce di Monte Sole, Bo­ logna, Il Mulino, Bologna 1988; P. Gios, Resistenza, parrocchia e società nella diocesi di Pa­ dova. 1943-1945, Marsilio, Venezia 1981; Id., Un vescovo tra nazifascisti e partigiani. Mons. Carlo Agostini, vescovo di Padova (25 luglio 1943 - 2 maggio 1945), Isep, Padova 1986; A. Kersevan e P. Visentin (a cura di), Giuseppe Nogara: luci ed ombre di un arcivescovo, Quader­ ni del Picchio, Udine 1992; R. Marchis (a cura di), Cattolici, guerra e resistenza in Piemonte, Irs Torino, Angeli, Milano 1987; Martirologio del clero italiano nella seconda guerra mondiale e nel periodo della Resistenza, Azione cattolica italiana, Roma 1963; G. Miccoli, Problemi di ricerca sull’atteggiamento della Chiesa durante la Resistenza, in «Italia contemporanea», n. 125 (1976), pp. 43-60; Id., Chiesa e società nella provincia di Udine fra occupazione tedesca e Resi­ stenza, in Id., Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 338-70; Id., I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Rizzoli, Milano 20 00; L. Paganelli, Don Elio

Parte prima Monari. Chiesa e società a Modena tra guerra e Resistenza, Mucchi, Modena 1990; A. Riccar­ di, La Chiesa a Roma durante la Resistenza, in «Quaderni della Resistenza laziale», n. 2 (1977), pp. 89-150; G. Rovero, Il clero piemontese nella Resistenza, in A A .W ., Aspetti della Resi­ stenza in Piemonte, Book Store, Torino 1977, pp. 41-95; I. Schuster, G li ultimi tempi di un regime, La Via, Milano 1946; S. Soave, Chiesa e cattolici nella Resistenza. Il caso valdostano, in «Mezzosecolo», n. 2 (1976-77), pp. 329-69; A. Tintori, Memorie dell’Appennino (1943-45). Preti nella Resistenza, Mucchi, Modena 1992; F. Traniello, I l mondo cattolico nella seconda guerra mondiale, in F. Ferratini Tosi, G- Grassi e M. Legnani (a cura di), L ’Italia nella se­ conda guerra mondiale e nella resistenza, Insmli, Angeli, Milano 1988, pp. 325-69; I. Vaccari, Il tempo di decidere. Documenti e testimonianze sui rapporti tra il clero e la Resistenza, Isti­ tuto per lo studio della Resistenza, Modena 1986; G. Villani (a cura di), Pretifiorentini. Gior­ ni di guerra (1943-1945). Lettere a l Vescovo, Lef, Firenze 1992.

LUCIANO CASALI - GAET ANO GRASSI

L iberazione

La questione istituzionale. La nascita del Comitato di liberazione nazio­ nale (Cln) avvenne il 9 settembre 1943 a Roma come trasformazione del vec­ chio comitato delle opposizioni «per chiamare gli italiani alla lotta e alla re­ sistenza e per riconquistare allTtalia il posto che le competeva nel consesso delle libere nazioni». La fuga del re e del governo Badoglio, la constatazio­ ni che i vertici delle Forze armate non intendevano distribuire le armi a quan­ ti volevano battersi al fianco dell’esercito contro i tedeschi determinarono un vero e proprio salto di qualità nell’intero gruppo dei partiti antifascisti. Appariva evidente che non c’era nulla da sperare da parte delle autorità co­ stituite e dello stato: occorreva assumere direttamente l’iniziativa di fronte al caos politico e militare e all’occupazione tedesca, creando una struttura che assumesse i ruoli di governo straordinario e di organo di unità naziona­ le. Nato di fronte all’emergenza dell’8 settembre in una visione se non ri­ voluzionaria almeno fortemente innovativa del futuro del paese, il Cln si trovò ben presto a dover affrontare più concretamente il significato da at­ tribuirsi al concetto di liberazione, anche in conseguenza del riconoscimen­ to che gli alleati avevano offerto a Badoglio e a Vittorio Emanuele III, po­ nendo cosi nella sostanza le premesse per una ampia continuità dello stato e delle sue strutture. La questione istituzionale divenne perciò il primo ele­ mento di confronto all’interno dei singoli comitati e fra i diversi comitati che nascevano nel contesto territoriale del paese. Come ha rilevato Rober­ to Battaglia [1964, p. 134], fra il settembre e il novembre 1943 «la polemi­ c a verso il re e Badoglio si fa tanto più accesa e intransigente man mano che si scende dal nord al sud», contraddicendo all’idea tradizionale che si ha del Mezzogiorno «fedele al re ad ogni costo». In ogni caso, al concetto di «li­ berazione nazionale» cominciarono ad affiancarsi o a sostituirsi (e lo si sa­ rebbe rivisto ancor di più nel corso del 1944) quelli di «rivoluzione antifa­ scista» o di «rivoluzione democratica nazionale». In ogni caso, al di là dei diversi significati che si tese a dare su singoli porzioni territoriali al concet­ to di liberazione, a volte coincidenti con quelli di repubblica e di democra­ zia diretta (come fu nel caso della Repubblica di Caulonia o di alcuni terri­ tori liberati dai partigiani durante l’estate 1944), nel corso dei venti mesi che precedettero l’insurrezione dell’aprile 1945 si fissano tradizionalmente alcuni momenti che tesero a determinarne “ufficialmente” il significato po­

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litico o a chiarirne il recepimento a livello di massa. Dalla liberazione di Na­ poli al congresso di Bari, dalla svolta di Salerno alla liberazione di Roma e a quella di Firenze, per giungere - dopo il riconoscimento del Comitato di li­ berazione nazionale Alta Italia (Clnai) e la liberazione di Ravenna - all’in­ surrezione della Pianura padana: sono momenti sufficientemente caratte­ rizzanti un continuo mutamento degli aspetti innovativi o meno contenuti nel concetto di liberazione, resi espliciti dal «dibattito delle cinque lettere» e sintetizzato dallo slogan coniato da Pietro Nenni, che sottolineava il pre­ valere dopo il 25 aprile del «vento del sud», dopo le speranze di un soffio radicalmente innovativo portato dal «vento del nord». In ogni caso se mai c’è stata nella storia unitaria italiana una congiuntura nella quale la pro­ spettiva della rifondazione dello stato su basi autonomistiche, cioè della resti­ tuzione del potere dal centro alla periferia, si è delineata, essa si chiama Resi­ stenza. [Roteili 1981, p. 342].

Problema istituzionale e considerazioni sul tema del decentramento e dell’autonomia costituirono evidentemente due nodi centrali della riflessio­ ne, il secondo anche in conseguenza della consolidata consapevolezza che uno degli elementi caratterizzanti il fascismo era da collocarsi nell’abuso di pote­ ri diretti dello stato accentratore, poteri che sarebbe stato comunque neces­ sario “limitare”. L’autogoverno dunque e un più diretto contatto fra ammi­ nistratori e amministrati non potevano non costituire un anello del dibattito tra le forze politiche. Non va dimenticato che le bande partigiane furono di per sé portatrici di una genuina ed estesa componente “autonomistica”, ca­ ratterizzata dalla spinta egualitaria fra i suoi componenti, dalla richiesta di elezione dei comandi, dallo stesso radicamento territoriale delle formazioni che stabilivano un «contatto democratico» con gli abitanti delle rispettive zo­ ne e le “difendevano” anche dall’intrusione delle bande vicine. Le stesse Di­ rettive per la lotta armata, emanate dal comando militare per l’Alta Italia nel febbraio 1944, sottolineavano con efficacia tali caratteristiche. Più complesso e, tutto sommato, irrisolto fu tuttavia il problema relati­ vo alla “base” che doveva garantire questo decentramento, cuore di un di­ battito che contrapponeva non solo gli schieramenti politici, ma che pene­ trò profondamente al loro interno, dando vita ad articolazioni “orizzonta­ li” complesse fra la capitale e il Nord, dove la Resistenza tese a divenire fenomeno di massa e a coinvolgere più o meno direttamente gran parte del­ la popolazione, investendola cosi anche di tali problemi, che al Sud erano rimasti invece questione dibattuta fra i soli vertici di partito. Il dibattito politico. Se l’impalcatura dell’autonomia dovesse essere co­ stituita dai singoli partiti o dal Cln fu tema complesso che attraversò gli schie­ ramenti. Nel Partito d’azione (Pda) si intrecciarono quanti intendevano va­ lorizzare uno stato «illuminato e forte, capace di esprimersi attraverso un esecutivo stabile e dotato di ampi poteri» [Pavone 1975, p. 57] e quanti (Di­ rettive di lavoro, in «La Libertà», 2 giugno 1944) puntavano sui comitati

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Liberazione

unitari come embrione dei nuovi istituti. Il Partito comunista in linea di prin­ cipio sosteneva che la dottrina del partito non andava “affogata” nella coali­ zione e riteneva che le riforme sarebbero state più facilmente conquistabili dal centro che non da una periferia divisa e probabilmente contraddittoria e ingovernabile; ma Paimiro Togliatti il 6 agosto 1945, al I Congresso dei Cln della provincia di Milano, non esitò a esaltare i comitati come base di quella «democrazia diretta» che era da ricercare quale componente essen­ ziale del nuovo stato. D ’altra parte spesso le affermazioni si riducevano a una generica aspirazione a una maggiore partecipazione popolare alla «cosa pubblica» in semplificata contrapposizione con la prassi fascista, e non ne­ cessariamente «decentramento» significava di per sé «rivoluzione» né la «ri­ voluzione» doveva passare attraverso la strada del «decentramento». Si pensi all’immagine delle regioni compresa nelle Idee ricostruttive della De dell’agosto 1943, basata su una «rappresentanza degli interessi» tutto som­ mato corporativa; o ai non ben precisati contorni che assumeva la «demo­ crazia progressiva» come regime di transizione dal capitalismo al socialismo; o all’ambiguo (nel suo populismo) messaggio che il Partito repubblicano ita­ liano (Pri) aveva inviato al congresso di Bari nel gennaio 1944: Sulle rovine della monarchia accentratrice, autoritaria, burocratica, fiscale, militaresca si deve edificare lo stato delle libere assemblee, perché l’intelligen­ za e la saggezza e il coraggio del popolo costruiscano l’avvenire.

O, infine, alla compresenza e sovrapposizione di temi assolutamente in­ conciliabili del Programma del Movimento di unità proletaria per la re­ pubblica socialista (i° agosto 1943), che prevedeva «una coordinata auto­ nomia delle comunità loc ali e regionali; la stabile efficienza dei poteri cen­ trali con responsabilità degli eletti; organi e modalità di effettivo controllo». Secondo Ettore Roteili la parabola del potere di rifondazione dello sta­ to con al proprio centro il Cln raggiunse U proprio culmine con la libera­ zione di Roma e con la creazione (il 18 giugno 1944) del governo presiedu­ to da Ivanoe Bonomi, nato non per designazione sovrana, ma su indicazio­ ne diretta del comitato che scavalcava cosi la monarchia. Ma fu poi lo stesso governo Bonomi a imporre solidi elementi di continuità là dove, con la li­ berazione del Centro-nord, cominciarono a porsi forti richieste di rotture e di potenziamento dei comitati c ontro il vecchio ordinamento statale. A fare agire potenti freni non furono tanto gli alleati quanto lo stesso gover­ no italiano, come mostrò emblematicamente l’imposizione del prefetto a Firenze su designazione governativa, contro il parere del Cln toscano che intendeva abolire tale tradizionale figura di controllo o, in via subordina­ ta, trasformarla in un organismo di coordinamento di nomina ciellenistica, privo quindi di ogni funzione di revisione degli atti della periferia. Dalla fi­ ne di agosto del 1944, anziché indurre gli alleati ad assecondare le iniziative di riforma dello stato proposte dal Cln toscano, il governo Bonomi invoca­ va «la loro autorità per respingerle» [Roteili 1981, p. 354]. Non diversaniente a Ravenna, liberata agli inizi di dicembre, la radicale modifica degli

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enti locali, che prevedeva la istituzionalizzazione dei Cln e il passaggio da una amministrazione comunale a una gestione “politica” del territorio at­ traverso la creazione di Giunte popolari a base ciellenistica, venne ridi­ mensionata attraverso i lacci di una dipendenza dal sindaco e costretta a una semplice funzione di decentramento amministrativo che i Cln poteva­ no costruire in diretto rapporto con le masse popolari e le loro organizza­ zioni, senza tuttavia modificare la tradizionale struttura. «Liberazione»: gli altri significati del termine. Se tali furono gli elementi essenziali del dibattito tra le forze politiche e del diversificato sentire da par­ te dei vari Cln, non va tralasciato il fatto che, a livello popolare, spesso il ter­ mine «liberazione» assunse significati più radicali e rappresentò una compo­ nente non secondaria fra quelle che indussero i singoli individui ad aderire allo schieramento e all’impegno contro la Rsi e il fascismo. Anche se non so­ no ancora adeguatamente approfondite le ricerche su tali elementi della men­ talità popolare e sulla loro effettiva diffusione, non mancano esempi - relati­ vi soprattutto alla Pianura padana - che inducono a ritenere largamente dif­ fusa una interpretazione classista del concetto di liberazione, sia all’interno del mondo operaio sia nei territori agricoli gestiti a mezzadria classica. In mol­ ti casi «liberazione» venne ad assumere il significato di «liberazione dal pa­ drone», accentuando cosi, fra le «tre guerre» individuate da Claudio Pavo­ ne, quella componente sociale che si riallacciava direttamente alle lotte suc­ cessive al primo conflitto mondiale. Né mancò, all’interno dei Gruppi di difesa della donna, una lettura che faceva trarre dai comitati di liberazione la pos­ sibilità di riprendere il percorso emancipazionista, egualitario e modernizzatore che avrebbe portato alla «liberazione della donna» e che il fascismo, nel­ la sua fase di regime, aveva bruscamente e drasticamente interrotto. L. C. La lotta partigiana durante l ’inverno 1944-45. L’ultimo inverno di guerra pose a dura prova le capacità di resistenza delle forze partigiane, ma non ne minò le radici, ormai consolidate dalle vicende combattentistiche e dalle espe­ rienze organizzative di un intero anno di lotte. «Il movimento partigiano era sopravvissuto, decimato ma intatto, ai terribili mesi invernali» [Ginsborg 1989, 1; p. 83]. Non è facile cogliere il momento di cesura e di passaggio dal­ la fase della crisi a quella della ripresa, individuare, come scrive Battaglia, il momento preciso in cui dopo aver toccato il fondo, s’incomincia a risalire la china. Il fatto è che mentre più gravi si fanno le minacce e i pericoli, già si ma­ nifestano le prime e decise reazioni e non è possibile pertanto separare, se non" per comodità d’esposizione narrativa, ciò che nella realtà storica si presenta in­ vece tutt’insieme. [1964, p. 453].

La cronaca dei mesi dell’inverno 1944-45 è fitta di episodi di questa «via di mezzo», di questa sostanziale continuità fra la crisi e la rinascita della Resistenza.

Casali - Grassi

Liberazio ne

Il rastrellamento della VI Zona partigiana, ad esempio, condotto Halle truppe tedesche della 64* divisione Turkestan e dai fascisti della Monterosa, della X Mas e delle Brigate nere, si svolge quasi senza soluzione-di con­ tinuità per tutto il periodo invernale: iniziato a metà novembre 1944 con il chiaro scopo di annientare le formazioni partigiane che operavano nel set­ tore ligure-alessandrino, esso riprende nella sua seconda fase agli inizi del mese di gennaio 1945. Quasi tutte le unità della «repubblica di Tortìglia» [scrive Pansa] avevano superato l’attacco senza sfaldarsi irrimediabilmente e i patrioti, sia pure fra­ zionati e moralmente scossi, erano rimasti sui monti.

E, come riconoscono gli stessi uomini di Salò in un documento del 30 dicembre 1944, i partigiani fortemente sbandati dalle ultime azioni di rastrellamento, compio­ no però isolatamente azioni intese a procurarsi viveri e indumenti [...]. In ca­ verne ben mascherate vivono tuttora centinaia di partigiani armati che aspet­ tano il momento propizio per uscirne fuori. [Pansa 1967, pp. 313-14].

Ma è soprattutto nelle zone di media e bassa valle, nelle campagne e nel­ le città che si registra in questo periodo una notevole vitalità del movimento clandestino. Come risulta dal «Bollettino delle azioni partigiane» che, re­ datto ogni quindici giorni dal servizio informazioni del comando generale, costituisce lo specchio più immediato della guerra di liberazione del Nord (la raccolta completa è conservata a Milano, presso lTnsmli, nell’archivio Cvl), la cronaca militare non presenta momenti di sosta per tutto l’inver­ no. I bollettini elencano tutta una serie di frequenti colpi di mano contro le truppe di occupazione e i reparti fascisti: interruzioni stradali e ferro­ viarie, attentati ai piloni ad alta tensione, requisizione di mezzi di traspor­ to, imboscate, attacchi a presidi e caserme. Mentre nelle fabbriche si for­ mano squadre di operai con l’incarico di prevenire gli atti di sabótaggio dei tedeschi, nelle città i Gap si rendono protagonisti di numerosi atti di rap­ presaglia alle fucilazioni dei partigiani. Il tutto unito a una costante azione di propaganda: non è raro vedere registrata negli stessi bollettini la presen­ za di partigiani e civili nei maggiori cinema di Milano che chiamano i cit­ tadini alla lotta contro il freddo, la fame e la deportazione. Anche sui monti e nelle valli alpine, quando da gennaio riprende l’of­ fensiva nazifascista, le formazioni partigiane rispondono colpo su colpo, con dure perdite ma anche con efficaci contrattacchi ai massicci rastrellamenti nemici. Come scrive Dante Livio Bianco nella sua descrizione degli attacchi di febbraio alla Val Grana e alla Val Maira, «l’ultimo nazifascista» che si ri­ tira è «collegato a vista, anzi a tiro di sten col primo partigiano che ripren­ deva possesso» della zona rastrellata [1973, p. 140]. E ciò che si ripete nelVal Borbera, nelle Langhe e nell’Oltrepo pavese. I rapporti di forza fra i partigiani e i tedeschi e fascisti non sono sostanzialmente mutati alla ripre­ sa della lotta (soprattutto in relazione al costante impegno di forze che la

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presenza partigiana comporta); ma mentre, da un lato, i resistenti possono usufruire del materiale bellico che gli alleati hanno ricominciato a spedire, con i lanci di febbraio e recuperano gli uomini e le posizioni di prima dell’au­ tunno, dall’altro i nemici ormai risentono, sia per questioni “morali”, sia per gli sfaldamenti che si verificajio nelle proprie file, dell’andamento negativo della guerra su ogni fronte. E a partire da questo periodo che un numero sempre crescente di uomini lascia le formazioni fasciste, impiegate specifi­ camente dalle truppe tedesche nella lotta contro i resistenti. [Rochat 1972, pp. 439-41, sulle direttive emanate ai primi di marzo dal comando regionale piemontese in merito ai problemi derivanti da questo fenomeno di disgre­ gazione e dalla necessità di inquadrare il personale di nuovo arruolamento nelle formazioni partigiane]. I Cln e gli alleati: un confronto critico. Si tratta di una lunga sequenza di episodi di guerra partigiana alla quale fa riscontro, a livello politico, la ripre­ sa in sede di Cln della discussione sulle questioni di fondo che si ponevano in vista degli atti finali della vita clandestina dei comitati, come ad esempio il problema delle cariche e quello della smobilitazione delle formazioni (sia pu­ re entrambi già rigidamente condizionati dagli accordi di Roma). In realtà, nel riorganizzare le proprie strutture e nel predisporre gli apparati utili all’in­ surrezione, il movimento resistenziale si trova ad affrontare, in sede tanto politica quanto militare, soluzioni sostenute da differenti concezioni della lot­ ta partigiana. I rappresentanti degli alleati (e gli esponenti dei partiti e delle forze politiche moderate che ne seguono più da vicino le posizioni) desidera­ no portare alle estreme conseguenze il «memorandum» di novembre e limi­ tare al massimo la sfera d’azione del movimento partigiano: pretendevano per sé soli il diritto di accettare la resa dei tedeschi; [...] inoltre esortavano i partigiani a non intraprendere azioni indipendenti ma a concen­ trare piuttosto le loro energie nel salvataggio del maggior numero possibile di installazioni elettriche e industriali dalla politica tedesca di «terra bruciata». [Ginsborg 1 98 9 , 1, p. 84].

Fino a giungere alle pretese più avvilenti, illustrate dal colonnello ame­ ricano Riepe a Parri e Cadorna nella seconda missione al Sud (marzo-apri­ le 1945), del completo esautoramento dei poteri conquistati sul campo dalle forze partigiane: il piano angloamericano sarebbe stato di «trasferire e con­ centrare le unità partigiane in 30-40 campi; fornire ivi, a cura degli Allea­ ti, la necessaria assistenza in modo da riposarle, rifocillarle, rivestirle, con­ segnare eventuali attestati e premi in denaro; ritirare le armi» e spedire a casa le formazioni in un periodo all’incirca di tre-quattro settimane [il rap­ porto si legge in Parri 1976, pp. 124-32]. Il tutto, come si vede, in netto contrasto con i disegni e le finalità concepite dalle forze più avanzate del movimento partigiano, decise a porre gli alleati nelle fasi finali della lotta di fronte a fatti compiuti e a far valere nei loro confronti, al momento dell’assunzione dei poteri, il ruolo svolto dai Cln e dalle formazioni milita­

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Liberazione

ri in due anni di resistenza. Gli alleati prevedono, com’è ovvio, di aver bi­ sogno del contributo offerto dal movimento partigiano, ma si accingono a svuotarne gradualmente, nella risalita al Nord, ogni effettiva rilevanza po­ litica e strategica. Anche la ripresa delle forniture belliche, avvenuta di re­ cente con i lanci di febbraio, riguarda per la maggior parte viveri, indumen­ ti ed esplosivi, mentre si rivela scarso l’invio di «armi individuali efficienti per un’offensiva di massa» e «scarsissimo il munizionamento: pochi minu­ ti di fuoco e nulla di più sono concessi all’esercito dei volontari della libertà alla vigilia della prova decisiva» [Battaglia 1964, pp. 477-78]. Contro ogni tentativo angloamericano di bloccare sul nascere o almeno di porre a freno le iniziative autonome delle forze partigiane, di trattenerle quindi sui mon­ ti e di impedire - anche nel timore più volte manifestato di possibili azio­ ni secessioniste - ogni vasto movimento insurrezionale, gli uomini della Re­ sistenza cercano di rafforzare i propri quadri organizzativi e di portare a buon fine le iniziative di autogoverno già meditate all’interno dei partiti politici più progressisti e discusse nei comitati di liberazione. Contro il «nuovo attendismo» delle forze moderate (l’espressione è di Vit­ torio Foa), si assiste allo sforzo incessante, promosso sotto l’impulso degli uo­ mini della sinistra, di sostenere ad ogni livello, in molteplici settori della vi­ ta pubblica, l’autosufficienza del movimento partigiano prima dell’ingresso degli angloamericani nelle città e prima della loro effettiva presa di potere. Gli esempi sono molteplici. A fianco dello «studio sui compiti operativi» di sabotaggio e di controsabotaggio per la difesa del patrimonio industriale, ai quali sono chiamati in via prioritaria dal quartier generale alleato, tutti i comandi partigiani, dai comandi piazza ai comandi regionali, riprendono in esame e riformulano i piani strategici, già elaborati nella primavera del 1944, per l’insurrezione delle città. Nello stesso periodo si discutono i progetti per la trasformazione e il possibile reimpiego delle formazioni partigiane in re­ golari unità militari, anche al fine di anticipare i provvedimenti relativi alla situazione che potrà venirsi a creare a liberazione avvenuta. Allo stesso mo­ do, nell’intento di creare una «giustizia politica già in pieno funzionamento» che gli alleati «non abbiano interesse a toccare» (come si legge in una circo­ lare del Clnai che risale all’agosto 1944), il Clnai si accinge a creare gli orga­ ni e le procedure della nuova amministrazione giudiziaria. Aprile 1945: la liberazione dell’Italia del Nord. L’offensiva alleata verso la valle del Po riprende il 9 aprile. Lo schieramento dei due eserciti, quello te­ desco, comandato dal generale von Vietinghoff, e quello americano, coman­ dato dal generale Clark, succeduto ad Alexander, si presentava a prima vista con un numero pressoché identico di unità: le due armate alleate, la V e l’VIII, erano composte da un totale di diciassette divisioni; le due armate tedesche da ventuno divisioni (di cui però cinque impegnate alle frontiere). Inferiori numericamente, gli alleati disponevano di una notevole superiorità dal pun­ to di vista degli armamenti: 3000 pezzi d’artiglieria contro 1000, 3x00 carri armati contro 200, la cifra schiacciante di 5000 aerei contro 60. [I dati sulle

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divisioni sono ricavati da Shepperd 1970, pp. 496-97; circa il numero degli armamenti, riportiamo i dati ritrovabili quasi su ogni manuale: cfr. Battaglia 1964; Bocca 1966, Candeloro 1990; Oliva 1994]. Impostata secondo diver­ se direttrici di marcia, l’una verso nord-est, l’altra verso sud-ovest, e prepa­ rata da ripetuti attacchi aerei e bombardamenti di artiglieria, l’offensiva de­ gli alleati riesce a ottenere abbastanza rapidamente i risultati previsti: anzi­ tutto, quello di far cadere l’uno dopo l’altro i primi fronti difensivi preparati dai tedeschi; poi, quello di annullare definitivamente la linea del Po come pos­ sibile fronte per una difesa a oltranza delle truppe germaniche. L’insurrezione popolare, che si muove poco dopo l’annuncio della ri­ presa dell’offensiva alleata, segue in parallelo le fasi del ripiegamento delle truppe tedesche e ne provoca nei centri più importanti dell’Italia del Nord il progressivo aggravarsi. Tuttavia non è facile seguire, sia pure cartine alla mano, il decisivo apporto fornito dalle formazioni partigiane alla travol­ gente avanzata dell’esercito angloamericano oltre la linea Gotica. L’aspet­ to militare è solo uno dei momenti dell’insurrezione partigiana. Nell’Italia del nord non c’era un Palazzo d’inverno di cui impadronirsi, una Bastiglia da distruggere. C’erano tante fabbriche da difendere dalle distruzioni dei tedeschi, tante caserme da occupare per neutralizzare i fascisti e le brigate nere, tanti edifici pubblici, dai municipi alle prefetture, da conquistare per in­ sediarvi il nuovo potere della democrazia e della libertà. [De Luna 1987, p. 67].

Nella molteplicità di eventi che caratterizzano la fase di preparazione e di svolgimento dell’insurrezione finale, assistiamo a una serie di operazioni che influiscono con identica efficacia sull’andamento della lotta militare del Nord. Le formazioni partigiane occupano i punti strategici dell’Appennino e agi­ scono per tagliare le vie della ritirata tedesca (il 1o-11 aprile si svolgono i com­ battimenti di Licciana sulla strada della Cisa, il 12 è occupata la centrale elet­ trica di Teglia, in provincia di La Spezia). Pochi giorni più tardi, il 18 aprile, i comitati di agitazione di Torino scatenano uno sciopero generale, che si al­ larga rapidamente dai ferrovieri a tutti gli operai dei centri industriali del Pie­ monte e dà la misura dello stato di debolezza e di impreparazione degli av­ versari a fronteggiare le agitazioni di massa nelle città. Il 19 il Clnai chiama all’insurrezione nazionale e intima a tutte le forze d’occupazione tedesche e ai loro complici di « arrendersi o perire ! »; il 21 richiede «l’attiva e la cosciente partecipazione di tutte le popolazioni delle città e delle campagne» e dirama ai Cln, ai comitati di agitazione, agli operai, ai tecnici e agli impiegati le di­ rettive per l’insurrezione. Il comando generale Cvl, a sua volta, il 23 aprile richiama all’attenzione di tutti i comandi militari i punti principali di tali di­ rettive [Grassi 1977, pp. 308-14; Rochat 1972, pp. 498-500]. Si assiste a un duplice processo insurrezionale, diretto da un lato a porre le città nelle mani degli organi di autogoverno e delle nuove autorità nominate dai Cln; dall’al­ tro, a liberare i centri urbani con l’azione, non sempre coordinata, delle squa­ dre cittadine, di Gap e di Sap e delle formazioni foranee. L’Emilia è la prima regione a insorgere. Già il 19 aprile Bologna è in

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movimento per le operazioni condotte dai partigiani della divisione Bolo: gna, formatasi ai primi del mese mediante l’unificazione dei reparti di pia­ nura e di montagna. La città è liberata il 21 di aprile: l’insurrezione parti­ giana avviene quasi contemporaneamente all’ingresso in città delle avan­ guardie alleate e degli uomini del gruppo di combattimento Legnano (del Corpo italiano di liberazione). Diversa è la situazione che si registra nelle altre città dell’Emilia (il 22 aprile insorge Modena, il 24 è la volta di Reg­ gio e di Parma), dove l’iniziativa popolare e cittadina precede l’arrivo de­ gli alleati, e le grandi divisioni partigiane dislocate sulle montagne, prima di scendere a valle, sono impegnate in furiosi combattimenti contro le re­ sidue sacche di resistenza tedesche. Mentre gli alleati sono ancora in Emilia (la liberazione di Piacenza av­ verrà solo nella giornata del 29 aprile) l’insurrezione prende corpo nelle tre maggiori città del Nord. A Genova inizia nella notte fra il 23 e il 24 apri­ le. I tedeschi, al comando del generale Gunther Meinhold, disponevano di circa quindicimila elementi, fra soldati della Wehrmacht e uomini della Rsi, e di un numero considerevole di pezzi di artiglieria piazzati sulle alture pro­ spicienti la città e lungo la cintura di difesa esterna. La riviera ligure costi­ tuiva, nei piani tedeschi per l’Italia del Nord, un’importante testa di pon­ te per la ritirata verso la Pianura padana. I ciellenisti anticipano i tempi dell’insurrezione e proclamano lo stato di emergenza, senza attendere l’ar­ rivo delle formazioni foranee - com’era stabilito nei piani insurrezionali della città - quando si rendono conto, sulla base delle offerte pervenute dal­ lo stesso generale nemico, che i tedeschi si stanno preparando all’evacua­ zione della città. Respingono quindi ogni offerta di compromesso e scate­ nano l’attacco delle Sap. Per tutto il 24 e il 25 aprile circa tremila sapisti, con la collaborazione di migliaia di civili, occupano gli edifici pubblici, in­ terrompono i rifornimenti idrici ed elettrici e bloccano la rete ferroviaria ligure, conquistando gran parte dei più importanti punti strategici della città. Il generale Meinhold minaccia di bombardare il centro urbano di Ge­ nova, il Cln rifiuta ogni patteggiamento annunciando la possibile fucila­ zione dei soldati tedeschi prigionieri dei partigiani. A uno a uno cadono i presidi dei nazifascisti e la stazione radio situata sulle colline di Granarolo. Stella serata del 25 il generale tedesco invoca la resa e firma le condi­ zioni avanzate dal Cln ligure. La battaglia per la liberazione, tuttavia, non è ancora conclusa: restano i presidi del settore orientale e del porto di Ge­ nova, alle dipendenze del capitano di vascello Max Berninghaus, che non accetta le condizioni di resa e ordina la difesa a oltranza. Solo il 26 aprile, con il concorso delle formazioni di montagna discese sulla città (reparti del­ le divisioni Mingo e Cichero), i sapisti genovesi conducono l’attacco finale per il salvataggio del porto di Genova. Nello stesso giorno a Torino, dóve si era assistito con lo sciopero del 18 aprile a una sorta di prova generale dell’insurrezione, la situazione si pre­ sentava ormai pronta per il segnale decisivo. Intorno a Torino stazionava­ no le formazioni partigiane che, secondo il piano prestabilito, avrebbero

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dovuto fare il loro ingresso nella città a dar man forte ai nuclei sapisti po­ sti a difesa delle fabbriche. Le forze partigiane che gravitavano su Torino erano, a ovest, quelle dipendenti dai comandi III e IV Zona (rispettivamen­ te del Canavesano-Lanzo e della Val Pellice - Susa e Chisone); a est, quelle del Monferrato (comando V ili Zona). Quest’ultime, che avevano liberato Chieri il 15 aprile, si trovavano ormai a circa dieci chilometri dalla città. Tutto è pronto per l’insurrezione, ma l’ordine esecutivo tarda a scattare, per l’atteggiamento ambiguo e dilatorio del colonnello John Melior Stevens, rappresentante alleato in Piemonte, che teme un’eccessiva radicalizzazione della lotta partigiana troppo tempo prima dell’arrivo degli alleati. La situazione si presentava molto delicata: a ovest due divisioni tede­ sche, al comando del generale Schlemmer, in ritirata dal Piemonte orien­ tale, impedivano, con artiglieria e mezzi corazzati, l’intervento delle for­ mazioni partigiane di montagna. Il peso dell’insurrezione è sopportato qua­ si per intero, per tutto il 26 e il 27 aprile, dalle formazioni di città. Dopo aver occupato tutte le fabbriche più importanti ed essersi impossessati dei presidi di periferia e dei ponti sul Po, i partigiani costringono gli uomini della guarnigione tedesca a ritirarsi nel centro della città. Il Cln rifiuta la proposta avanzata dal comando tedesco di trasformare Torino in «città aper­ ta» e di permettere il libero transito delle divisioni. La battaglia continua durissima in ogni quartiere: alla periferia, dove si combatte per ostacolare l’ingresso delle forze tedesche; al centro, dove è sempre viva la resistenza nemica. Nella notte fra il 27 e il 28, i resti delle truppe germaniche rimaste in città rompono lo sbarramento partigiano e raggiungono a nord-èst l’au­ tostrada per Milano. Mentre il 28 aprile il grosso delle formazioni di mon­ tagna (l’8a divisione Garibaldi, la 3“ Gl e la divisione di Mauri) raggiunge Torino, il generale Schlemmer rinuncia definitivamente all’attraversamen­ to della città e ordina alle truppe di muoversi verso il Canavese. Gli alleati giungono a Torino il i° maggio, sei giorni dopo l’inizio del­ la battaglia insurrezionale. Il 3 maggio, dopo aver tentato di aprirsi la riti­ rata con distruzioni e stragi indiscriminate (Grugliasco e Collegno), al ge­ nerale tedesco non resta che arrendersi nelle mani degli alleati. Meno difficile e complessa l’insurrezione di Milano. Come scrive Valia­ ni (che con Pertini e Sereni fa parte del comitato insurrezionale), «tutto quello che si decide di fare è ben fatto, tutto riesce, tutti gli ostacoli crol­ lano» [Valiani 1947, p. 334]. Il 24 aprile la III brigata Garibaldi prende d’assalto una caserma fascista della periferia; il 25 il Clnai proclama lo sta­ to d’eccezione e lo sciopero generale. Il 26 gli operai occupano le fabbriche (prima fra tutte la Pirelli) e le squadre partigiane si diffondono per tutta la città, dalla periferia alla circonvallazione e alla cerchia dei Navigli; nello stesso giorno la Guardia di finanza occupa la prefettura e il Clnai proclama l’assunzione di tutti i poteri di amministrazione e di governo. Il 27 aprile giungono in città le prime colonne di partigiani (la 4“ divisione Gramsci) che muovono dall’Oltrepo pavese; le formazioni dell’Ossola scendono a Bu­ sto Arsizio, i reparti di pianura conquistano a una a una tutte le altre zone

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periferiche. Milano si era meritata la definizione di «capitale della resi­ stenza», ma l’insurrezione, già al suo inizio, sfondò la porta aperta dell’eva­ cuazione disordinata e convulsa dei comandi e delle truppe di occupazio­ ne. Basti considerare che i civili caduti in quei giorni tra gli insorti furono trentuno. Conclusione. Gli alleati entrarono a Milano il 29 aprile. Con questa da­ ta si apre un nuovo capitolo di storia. Nello stesso giorno il Clnai fece pub­ blicare su tutti i quotidiani la notizia dell’esecuzione di Mussolini, come la conclusione necessaria di una fase storica che lascia il nostro paese ancora co­ perto di macerie materiali e morali; [...] la conclusione di una lotta insurrezio­ nale che segna per la patria la premessa della rinascita e della ricostruzione. [Grassi 1977, p. 334].

La stessa data può essere considerata a tu tt’oggi come punto finale del­ la liberazione del nostro paese, anche se di fatto la lotta resistenziale con­ tinuò, nei giorni seguenti e fino al 2 maggio, giorno della resa delle truppe tedesche in Italia, con notevole vigore e spargimento di sangue e moltepli­ ci episodi di battaglia in tutto il settore nordorientale, dalla Pianura pada­ na ai valichi alpini verso l’Austria. Particolarmente aspri e sanguinosi fu­ rono gli scontri nella fascia pedemontana veneta, da Schio a Ponte delle Al­ pi e al Piave, dove si contrapposero le formazioni partigiane scese dalle montagne e ingrossate dai patrioti insorti, a forti reparti motocorazzati te­ deschi che prima di arrendersi o disperdersi compirono anche le ultime fe­ roci rappresaglie. Le truppe alleate entrarono in Padova, quando la città si era già liberata, dopo due giorni di insurrezione, durante la quale caddero poco meno di quattrocento insorti e partigiani. Se pure cerchiamo di porre una conclusione alla cronaca delle giornate di lotta contenute in questa voce, possiamo tenere come punto fermo la stessa giornata del 29 aprile e definire la liberazione, sulla linea tracciata dal Clnai in quella dichiarazione, come la fase della Resistenza nella quale, sia pure lentamente e a fatica, si svolsero le tappe più significative per la costruzione della vittoria partigiana e si crearono le premesse per la crea­ zione del futuro democratico del nostro paese. E ciò anche se, dal punto di vista militare e politico, la vittoria può essere considerata un fatto di mode­ sta rilevanza nel quadro generale della seconda guerra mondiale, e l’insur­ rezione riusci a realizzare solo gli obiettivi “minori” dei piani partigiani: l’ordine pubblico e la difesa degli impianti industriali (previsti del resto an­ che nei progetti del quartier generale alleato), senza evitare le conseguenze del disarmo e della smobilitazione. Le stesse iniziative di autogoverno, rea­ lizzate solo in parte nella fase insurrezionale e nel periodo d’“interregno” dei Cln prima del passaggio dei poteri di governo agli alleati, nulla cambia­ rono o aggiunsero poco di nuovo a quanto era stato deliberato in prece­ denza, nei faticosi accordi imposti alle forze partigiane del Nord.

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Parte prima Nota bibliografica.

R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana. 8 settembre 1943 - 25 aprile 1945, Einaudi, Torino 1964; D . L. Bianco, Guerra partigiana, Einaudi, Torino 1973; G . Bocca, Storia del­ l ’Italia partigiana. Settembre 1943 - maggio 1945, Mondadori, Milano 1995; G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, X . La seconda guerra mondiale. Il crollo delfascismo .La Resisten­ za (1939- 1945), Feltrinelli, Milano 1990; L. Casali, D . Gagliani e M. Salvati (a cura di), Donne reali donne immaginate, Clueb, Bologna 1997; G. D e Luna, L ’insurrezione nella Re­ sistenza italiana, in L ’insurrezione in Piemonte, Irs Torino, Angeli, Milano 1987, pp. 60-77 (con saggi di D . Ellwood, C. Dellavalle, G. Perona); P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopo­ guerra a oggi, 2 voli., Einaudi, Torino 1989; G. Grassi (a cura di), «Verso il governo delpopolo». A tti e documenti del Clnai. 1943-1945, Feltrinelli, Milano 1977; M. Legnani (a cura di), Re­ gioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, Il Mulino, Bologna 1975 (saggi di C. Pavone, F. Catalano, E. Ragionieri); G. Oliva, I vinti e i liberati. 8 settembre 1943 - 25 aprile 1945. Storia di due anni, Mondadori, Milano 1994; G. Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po. La Resistenza in provincia di Alessandria, Laterza, Bari 1967; F. Parri, Scritti 1915-1975, a cura di E. Collotti, G. Rochat, G. Solaro Pelazza e P. Speziale, Insmli, Feltrinelli, Milano 1976; C. Pavone, Autonomìe locali e decentramento nella Resistenza, in M. Legnani (a cura di), Regioni e Stato cit.; Id. (a cura di), Le brigate Garibaldi nella resistenza. Documenti, di­ cembre 1944 - maggio 1945, Feltrinelli, Milano 1979, voi. III; G. Rochat (a cura di), A tti del comando generale del Cvl (Giugno 1944 - Aprile 1945), Angeli, Milano 1972; E. Rotei­ li, Costituzione e amministrazione dell’Italia unita, Il Mulino, Bologna 1981; G. A. Shepperd, La campagna d ’Italia. 1943-1945 (1968), Garzanti, Milano 1970; L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma. Diario di un uomo nella guerra di un popolo, La Nuova Italia, Firenze

1947 -

PAOLO EMILIO TAVIANI

L ’insurrezione di Genova L ’insurrezione di Genova fu l ’unico caso europeo del secondo conflitto mondiale in cui un intero corpo d ’armata si sia arreso alle forze partigiane. Venne definita dagli storici l ’insurrezione modello. Le conseguenze della vittoria genovese furono decisive per la fine della guerra in Ita­ lia : due corpi d ’armata germanici (che già avevano ricevuto l ’ordine da von Vietinghoff di ritirarsi e organizzare una forte linea di difesa sul Po), quello di stanza nel Genovesato e quello schierato sul lembo occidentale della lìnea Gotica (Sarzana - La Spezia), furono completamente dissolti. Un altro corpo d ’armata dislocato in Piemonte, che avrebbe dovuto coprire il fian­ co occidentale della linea Kesselring sul Po, rimase isolato. Le forze partigiane piemon­ tesi poterono valorosamente sconfiggerlo, raggiunsero prima dei francesi i valichi alpini, conquistarono Torino dove l ’insurrezione era divampata alle prime notizie genovesi (mat­ tina del 24 aprile). I nazisti furono dunque costretti a rinunciare a quella ormai famosa «ultima linea di resistenza a oltranza su l Po». Dovettero evacuare Milano e la guerra terminò in Ita­ lia con due settimane d ’anticipo.

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Rapida cronaca dell’insurrezione. 10 marzo 1945 il generale Meinhold confida a l professor Giampalmo, la cui consorte Elisabetta era tedesca, che sarebbe stato disposto, a l momento opportuno, a trattare con il Cln Li­ guria per risparmiare la distruzione del porto di Genova. 11 marzo il professor Giampalmo comunica la notizia a l professor Romanzi («Stefano» in co­ spirazione), fiduciario del Cln nel settore dei medici. 11 aprile colloquio notturno segreto fra il generale Meinhold e il professor Rom anzi. 15 aprile Hitler toglie a l generale Meinhold e attribuisce alla marina militare la competenza per la distruzione di Genova. 17 aprile il cardinale Boetto invia tramite monsignor Siri e don Cicali una lettera a l coman­ dante della marina Beminghaus. 19 aprile il console generale di Germania von Ertzdorf comunica a monsignor Siri che i na­ zisti sarebbero disposti a evitare la distruzione del porto a patto che il Cln si impe­ gni a non intralciare per quattro giorni l ’evacuazione dei reparti germanici dalla città. Lo stesso 19 aprile, mattina in montagna, VI Zona, a ¥ oppiano, frazione di Rovegno, mio incontro con la mis­ sione alleata. G li alleati, in accordo con il governo di Roma, indicano come obiet­ tivo precipuo : evitare che si costituisca un ultimo fronte sulla linea del Po - il co­ siddetto piano Kesselring. 23 aprile ore 21 convoco il Cln nell’istituto San Nicola. Non si può trattare con le SS finché non si abbia in mano un consistente numero di prigionieri. Quindi insurrezione. Circa i tempi due incubi:da un lato, essendo gli alleati ancora a Sarzana come evitare la tra­ gica esperienza di Varsavia? D ’altro lato se le armate tedesche dislocate fra La Spe­ zia e Savignone raggiungono la linea Kesselring del Po si avranno decine di migliaia di morti e l ’indefinibile prolungamento della guerra. Mezzanotte del 23 aprile il Cln delibera l ’insurrezione. 24 aprile, ore 4 del mattino il comando piazza ordina l ’attuazione del Piano Z. Ore 9 divampa la battaglia al centro, in piazza De Vetrari e nelle vie adiacenti. Ore 10 il palazzo del comune, la questura, le carceri di Marassi, i telefoni sono in mano ai patrioti. A i quattro comandi di settore - Sestri Ponente, ValPolcevera, Genova Cen­ tro, Albaro Nervi - è un continuo affluire di nuove squadre che si costituiscono con le armi tolte ai repubblichini. Ore 12 Sestri Ponente, Comigliano, Pontedecimo ,B olzaneto, Rivarolo, Quarto e Quinto cadono in mano agli insorti. Manca, tuttavia, la continuità territoriale con i l centro cittadino. La sera del 24 i focolai di battaglia sono ancora m olti e l ’esito non definito. Però, a differenza del­ la sera prima, il Cln adesso può trattare in termini di sicurezza : ha nelle proprie ma

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ni un numero cospicuo di prigionieri, certamente settecento. Probabilmente mille. Decide d ’inviare una lettera a l generale Meinhold. Ore 24 il professor Romanzi parte per Savignone su un’autoambulanza della Croce rossa: porta la lettera del Cln e quella àel cardinale B oetto. 25 aprile, ore 5 4 5 il professor Romanzi arriva a Savignone. Ore 9 le Sap di Sestri espugnano il Castello Raggio. Si stabilisce così il collegamento fra le delegazioni del Ponente e il centro cittadino. Ore 9 4 5 si arrendono i presidi di Voltri e di Prà, le batterie di Arenzano. Ore 10 il colloquio Meinhold-Romanzi è durato due ore. Il generale decide di recarsi a Ge­ nova. Quale sede delle trattative viene di comune accordo scelta la residenza prov­ visoria del Cardinal Boetto e di monsignor Siri: Villa Migone. Ore 10,30 le Sap hanno conquistato Piazza Acquaverde, le caserme di Sturla, l ’ospedale di R i­ varo lo, le gallerìe della Camionale in Val Polcevera. Ore 12 alcuni ardimentosi studenti universitari raggiungono e conquistano con una squadra di sopisti di San Teodoro la stazione radio sull’altura di Granatolo. Ore 13 le Sap espugnano, con gravi perdite, il ponte di Sturla. Ore 13,30 il generale Meinhold e il professor Romanzi arrivano a G enova. Superando notevo­ li difficoltà raggiungono Villa Migone, dove si trova già il console tedesco von Ertzdorf. Ore i j iniziano le trattative di resa. Rappresentano il Cln l ’operaio Remo Scappini e l ’av­ vocato Errico Martino. Ore 17,30 un grosso contingente dei reparti acquartierati nel porto (ma non i mortai) si arren­ de ai partigiani. Ore 18 rimangono ancora in mano germanica, oltre ai mortai del porto, la stazione Princi­ pe, l ’altura di San Benigno, alcune piazze e strade in Albaro, l ’albergo Eden di Ner­ vi e Monte Moro con le sue batterìe. Ore 19,30 firma, a Villa Migone, dell’atto di resa. Prevede l ’entrata in vigore per le ore 9 del 26 aprile. Prima che la resa venisse firmata i prigionieri in mano nostra erano 1360. Numerosi altri sono stati e saranno catturati dai partigiani che stanno calando dal­ la montagna. 26 aprile, ore 4,30 il comandante della marina germanica Beminghaus si oppone a ll’ordine del genera­ le Meinhold e in nome del Fùhrer lo condanna a morte. Continueranno dunque a combattere i reparti di marina che da lui dipendono : i mortai del porto e quelli pe­ santi di Monte Moro. Ore 9 sfidando la pioggia di proiettili dei mortai del porto riesco a raggiungere la stazione

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L’insurrezione di Genova

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radio di Granatolo e do ai genovesi e a l mondo l ’annuncio della resa : «Genova è li­ bera». Ore 9 4 5 incontro in prefettura: due ufficiali delle SS mi comunicano che Meinhold è stato condannato a morte e Genova sarà bombardata con i mortai della marina. La mia risposta: «Alla prima bomba su Genova uccideremo tutti i vostri prigionieri». Ore 12 due reggimenti germanici, in ritirata da La Spezia, raggiungono Rapallo. Ma, fra le 13 e le 18, le divisioni e le brigate garibaldine si attestano nei punti nevralgici del­ la città, rinforzando o sostituendo i sapisti; prendono possesso d el centro ; supera­ no le ultime resistenze della marina tedesca in porto. Intanto altre forze partigiane della montagna tengono saldamente in mano i passi della Bocchetta, dei G iovi, del­ la Scoffera e di Uscio : da qui scendono a bloccare la via Aurelia fra Rapallo e Ner­ vi. Cosi le colonne tedesche provenienti da La Spezia si frantumano, si assottigliano, si dissolvono. Ore 22 le avanguardie americane raggiungono Nervi: trovano i tram in servizio e la città or­ dinata sotto il governo del Cln. 2 j aprile, ore 13 il generale Alm ond, comandante in capo della V armata americana, rende visita nell’H otel Bristol a l Cln Liguria: reca in segno d ’omaggio un mazzo di fiori.

ET TO R E GALLO

Diritto e legislazione di guerra

Istituzione del diritto intemazionale bellico. Quando si parla di «diritto e legislazione di guerra» occorre distinguere se si intenda riferirsi alla legi­ slazione che ciascuno stato detta a fini interni, e da cui soltanto poi deriva il diritto positivo bellico interno, oppure se si voglia alludere alla legisla­ zione internazionale di guerra, che ha fonti e caratteri diversi dal primo. Di fronte alla storia un paese come l’Italia che, dopo avere proceduto, nella prima fase della seconda guerra mondiale, all’occupazione di notevoli terri­ tori di altri stati subisce a sua volta, nella seconda fase (dopo l’8 settembre), l’occupazione del proprio suolo metropolitano, appare interessante innanzi­ tutto soffermarsi sull’esposizione del diritto e della legislazione internazio­ nale di guerra, o diritto bellico internazionale; almeno nei limiti in cui es­ so influisce a definire situazioni e fatti della Resistenza, e i rapporti dram­ matici che si sono instaurati sul nostro territorio. In realtà, il diritto bellico interno, quello delineato essenzialmente dal codice penale militare di guerra e dalla legge di guerra di cui al regio de­ creto 8 luglio 1938, n. 1415, indica soltanto in qual modo l’Italia, ade­ guandosi alle consuetudini e alle Convenzioni internazionali, intenda com­ portarsi in caso di guerra. Si tratta, perciò, di norme che restano impegna­ tive soltanto per noi, e nemmeno sempre, giacché per la loro osservanza codice e legge pongono talvolta la cosiddetta «condizione di reciprocità». In tal caso, quelle disposizioni sono tamquam non essent se il belligerante avversario non abbia uguali norme nel suo ordinamento o non dichiari co­ munque, in caso di guerra, di volerle osservare, o almeno ne dimostri di fat­ to l’osservanza nel corso degli eventi bellici. L’altro diritto bellico, invece, è un ramo del diritto internazionale che, a seconda della fonte da cui le disposizioni derivano, può essere obbligatorio per tutti i belligeranti, o soltanto per quelli che hanno sottoscritto le Convenzioni o vi hanno successivamente aderito. Vediamo allora quali sono le fonti del diritto bellico internazionale. A differenza di quanto accade nell’ordinamento interno, viene in esa­ me innanzitutto il diritto non scritto, che peraltro domina per importanza tutto il diritto internazionale, al quale è collegata la norma che riconosce agli stati la potestà di far sorgere lo stato di guerra mediante una semplice dichiarazione di volontà. Nonostante il rifiuto di talune Costituzioni con­

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temporanee (come quella italiana: art. n Cost.) delle guerre di aggressione, anche solo come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, nel diritto non scritto della comunità internazionale sembra restare ferma la guerra, come istituto originario e primordiale, così come permangono, del re­ sto, la rappresaglia e altri mezzi di autotutela o di coazione. Tuttavia, nel corso dei secoli, se ancora l’umanità non è riuscita di fatto a escludere que­ sta potestà degli stati, sono state elaborate norme che, seppure dirette a da­ re concretezza all’astratto diritto di guerra, hanno finito per determinare consuetudinariamente, con precisione e rigore, quali sono le azioni di vio­ lenza bellica consentite agli stati in tempo di guerra. Certo, questi limiti eb­ bero per lungo tempo più che altro valore di principi etici, religiosi o di ca­ valleria, ma alla fine penetrarono nel campo internazionale diventando vere e proprie norme giuridiche. Illuminismo e rivoluzione francese vi apporta­ rono notevole contributo: è di Rousseau, infatti, il famoso principio secondo cui la guerra non è rapporto fra uomo e uomo, ma fra stato e stato, nel qua­ le i privati individui non sono nemici, né come uomini né come cittadini, ma soltanto eccezionalmente come «soldati» [Rousseau 1953]. Grande in­ fluenza sul maturarsi della civiltà in questo campo eserc itarono anche gli Stati Uniti d’America con le note «Istituzioni per il governo degli Eserciti degli Usa in campagna». Un complesso di norme deontologiche di grande liberalismo e umanità che furono alla base poi dei successivi trattati inter­ nazionali e fecero da modello a nuove norme interne adottate da molti sta­ ti. E fu proprio a opera di queste ricorrenti sollecitazioni che, a far epoca dalla fine del secolo scorso, il diritto consuetudinario andò trasformandosi in diritto scritto, attraverso quelle Convenzioni fra stati che, sempre più numerose, andavano via via coinvolgendo un numero sempre maggiore di paesi. Per tal modo, fini per entrare nelle pluriconvenzioni, codificandosi, un crescente numero di principi etici, religiosi, umanitari, e con essi cresceva la civiltà delle norme che apportavano sempre nuove limitazioni alle atti­ vità belliche degli stati [Balladore Pallieri 1954]. Simili affermazioni non devono, tuttavia, trarre in inganno, giacché il procedimento di acquisizione di taluni benefici umanitari fu molto lento, mentre fu sempre presente la preoccupazione di tenere viva la facoltà di su­ scitare la guerra, e anche le provvidenze adottate si rivolsero particolar­ mente ai belligeranti: come il progressivo miglioramento del trattamento dei feriti, degli ammalati, dei naufraghi e dei prigionieri di guerra. Solo nel secondo dopoguerra, dopo le stragi dei tedeschi in Europa e dei giapponesi in Oriente, si cominciò per la prima volta a prevedere, in una delle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, qualche provvidenza per la «protezione delle persone civili in tempo di guerra». Le Convenzioni di Ginevra. Abbiamo già detto che le grandi iniziative “convenzionali” si dispiegano nel secolo xix. Le prime due Convenzioni in­ ternazionali, in materia di diritto bellico, che vai la pena di ricordare, sono

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quella di Ginevra del 22 agosto 1864 per il miglioramento del trattamen­ to dei militari feriti nelle guerre “terrestri”, e la dichiarazione di Pietrobur­ go dell’11 dicembre 1868 sui cosiddetti proiettili esplosivi, entrambe ono­ rate dalla sottoscrizione di molti stati. Subito dopo ci fu un’iniziativa dello zar Alessandro II, diretta a favori­ re un più completo regolamento con un maggior numero di materie in una «Dichiarazione internazionale concernente le leggi e i costumi della guer­ ra». L’iniziativa non ebbe fortuna, ma lanciò un’idea che fu ripresa dalla Conferenza della pace riunitasi all’Aja nel 1899 e che il 29 ottobre di quel­ l’anno giunse alla conclusione dell’Atto finale. A questo sono annesse ben sei Convenzioni, tre delle quali sono chiamate, per verità, «dichiarazioni». A eccezione della prima, tutte le altre si riferiscono ad argomenti vari di di­ ritto bellico. Grande fu il concorso di ratifiche che queste Convenzioni ri­ cevettero dai soggetti internazionali, sicché oggi può dirsi che questa Con­ ferenza dell’Aja è considerata quale elemento fondamentale per la costru­ zione di un primo diritto positivo internazionale. Assieme ad essa, tuttavia, si usa altresì richiamare la II Conferenza della pace dell’Aja, che si riunì nel 1907 per ritoccare e integrare l’opera del 1899. Il 18 ottobre 1907 si ebbe così l’Atto finale cui vennero annesse quattordici Convenzioni, dodici del­ le quali, eccezion fatta per le prime due, si riferiscono tutte alle attività de­ gli stati in guerra, regolando minuziosamente e interamente i temi maggio­ ri del diritto bellico [Pillet 1918; Wehberg 1931]. Ma siamo già ormai nel secolo xx, che si presenta come estremamente ambiguo in fatto di diritto bellico giacché, da una parte, tende a umanizzare sempre più la guerra - e successivamente presenta addirittura un volenteroso tentativo di allonta­ narla dalle vertenze internazionali -, ma poi fallisce proprio nei due gran­ di conflitti mondiali che sconvolgeranno stati e società, perché nel primo conflitto l’umanizzazione non farà grandi progressi e nel secondo non solo non si riesce a evitare la guerra, ma questa, anzi, a opera di nazisti e fasci­ sti, imbarbarisce sempre più fino a raggiungere eccessi di inutile e disuma­ na ferocia, soprattutto nei confronti delle popolazioni civili inermi. Continuando nella indicazione delle principali Convenzioni, va segnalato il Protocollo firmato a Ginevra il 17 giugno 1925, concernente la proibizione dell’impiego in guerra dei gas asfissianti, tossici o simili, e dei mezzi batteriologici, reso esecutivo in Italia con regio decreto 6 gennaio 1928, n. 194. Segue la Conferenza di Ginevra, che porta alla stipulazione di due Con­ venzioni e di un Atto finale il 27 luglio 1929, che ancora una volta dedica l’attenzione al miglioramento della sorte dei feriti, dei malati e dei naufra­ ghi negli eserciti di campagna e della marina, e all’eterno argomento del trattamento dei prigionieri di guerra. Gli atti furono resi esecutivi con re­ gio decreto 23 ottobre 1930, n. 1615. Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale fondamentali furono le Convenzioni di Ginevra, discusse nella Conferenza apertasi il 12 agosto * 9 4 9 e poi firmate l’8 dicembre 1949, ma rese esecutive in Italia con legge 27 ottobre 1951, n. 1739.

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Ancora una volta si ritorna sul trattamento dei prigionieri di guerra, sul miglioramento della sorte dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle forze armate sia in campagna sia sul mare. Il che testimonia dell’arretramento ve­ rificatosi durante il secondo conflitto mondiale a seguito dell’infame trat­ tamento inflitto dai nazisti soprattutto nei lager, dove prigionieri, feriti e ammalati erano stati internati. Un’intera Convenzione è poi dedicata finalmente alla «protezione del­ le persone civili in tempo di guerra». Lo strazio che ne fecero i bombardamenti, anche alleati, da una parte, e le feroci stragi eseguite freddamente e senza alcuna necessità dai nazisti, spinsero le potenze a dettare finalmente qualche norma in proposito: purtroppo poi regolarmente trascurata, nelle lo­ ro guerre intestine, da alcuni popoli della ex Iugoslavia, ma anche altrove nel mondo. Ma è questo argomento che ben a ragione ulteriormente preoccupa, e che ritorna come unico tema, nella Conferenza per la riaffermazione e lo sviluppo del diritto internazionale umanitario che si riunisce ancora a Gi­ nevra il 9 giugno 1977. Vengono trattati due Protocolli addizionali alle Con­ venzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, di cui si è appena detto, oltre a un Atto finale. I documenti vengono aperti alla firma a Berna il 12 dicembre 1977, ma l’Italia li ratifica soltanto con la legge 11 dicembre 1985, n. 762. 1 due Pro­ tocolli concernono la protezione delle vittime dei conflitti armati interna­ zionali, l’uno, e dei conflitti armati non internazionali, l’altro. Gli altri trattati fra 1919 e 1945. Di proposito abbiamo espunto dalla se­ gnalazione cronologica delle principali Convenzioni alcune grandi pattui­ zioni di superlativa importanza che, avendo lasciato un segno profondo nel­ la storia del diritto internazionale, meritano una separata e particolare in­ dicazione. Ci riferiamo: a) al sistema di sicurezza collettiva, stabilito dal Patto della Società delle Nazioni, stipulato a Ginevra nel 1919; b) al Trat­ tato di Locamo del 16 ottobre 1925, detto anche Patto renano; c) al Tratta­ to di Parigi del 27 agosto 1928, comunemente noto come Patto Briand-Kellogg (e ai patti locali da esso derivati); e infine d) al sistema di sicurezza in­ staurato dalla Carta delle Nazioni Unite proclamata a San Francisco il 26 giugno 1945, alla fine del secondo conflitto mondiale, ivi compresi l’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945, e il disposto della sentenza del Tribu­ nale di Norimberga. Com’è apparso evidente dai paragrafi che precedono, il cosiddetto jus ad bellum, vale a dire il potere di promuovere la trasformazione dell’ordi­ namento internazionale dall’assetto di pace a quello di guerra, è spettato in piena e libera discrezione ai soggetti sovrani fino al primo conflitto mon­ diale. Trascurando, infatti, alcuni deboli tentativi, cui peraltro abbiamo accennato (II Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1907 concernente il re­ cupero di crediti contrattuale dei cittadini nei confronti di altro stato con­ traente; o il preavviso inequivocabile per dare inizio alle ostilità, imposto

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ai contraenti dalla III Convenzione dell’Aja sotto la stessa data), ciò che conta è che, nei casi precedentemente accennati, l’illiceità dell’esercizio non veniva a influire sullo stato di guerra che si sarebbe comunque rego­ larmente instaurato, salvo qualche responsabilità del trasgressore, secon­ do i comuni principi del fatto illecito (obbligo di risarcimento, esposizio­ ne alla rappresaglia ecc.). Dopo il primo conflitto mondiale, invece, e particolarmente con il ri­ sultato pattizio delle importanti Convenzioni, di cui si parlerà in questo pa­ ragrafo, ciò che si esige dai contraenti è l’esclusione o la grande limitazione del ricorso alla guerra, e le conseguenze, per chi non si attiene agli impegni assunti, sono ben più gravi di quelle sopra accennate, perché comportano addirittura provvedimenti di repressione della guerra nei confronti del tra­ sgressore da parte degli altri stati. a) Questo era, infatti, l’aspetto essenziale del sistema di sicurezza col­ lettiva instaurato a Ginevra dal Patto della Società delle Nazioni. I limiti di questo lavoro non ci consentono di affrontare la complessità del sistema [nella dottrina italiana utili approfondimenti si trovano in Balladore Pallieri 1930; e in Curti Gialdino 1970], dobbiamo tuttavia precisare alcuni punti fermi. Innanzitutto, già nel Preambolo del patto i membri della Società assu­ mevano certi obblighi - che il patto specificava - di non ricorrere alla guer­ ra. Alla violazione dell’obbligo di astensione provvedeva l’art. 16, secondo il quale l’illecito ricorso alla guerra integrava di per se stesso un atto di guer­ ra nei confronti di tutti gli altri stati membri: sicché questi erano imme­ diatamente tenuti a rompere con lo stato violatore ogni relazione commer­ ciale o finanziaria, impedendo ai loro cittadini relazioni di qualsiasi tipo, persino personali, con quelli dello stato violatore. Erano queste appunto le famose «sanzioni economiche» che furono imposte al nostro paese nel 1935 in occasione della guerra italoetiopica. L’Italia protestò duramente, indu­ cendo nei cittadini ignari l’impressione di una grave ingiustizia subita, do­ po avere con l’Etiopia «pazientato 40 anni» rispetto alle continue provo­ cazioni. Sta di fatto, però, che se anche ci fossero state buone ragioni, l’Ita­ lia non versava certo in istato di legittima difesa (salvo a respingere eventuali azioni di pattuglie ai confini) e risultava, perciò, clamorosamente in viola­ zione del patto. In realtà, poi, al nostro paese fu risparmiata la parte più grave delle sanzioni, perché il Consiglio non allertò i vari governi a predi­ sporre gli effettivi militari, navali e aerei mediante i quali i membri della Società avrebbero dovuto rispettivamente contribuire alle forze armate de­ stinate a far rispettare all’Italia gli impegni verso la Società. Su tale pru­ denza probabilmente influì la posizione della Germania nazista che aveva espresso all’Italia fascista rumorosa solidarietà, rifiutando per sua parte l’applicazione delle sanzioni economiche. Erano gli anni in cui si andava ma­ turando l’idea dell’Asse Roma-Berlino, e la Società delle Nazioni (Francia e Inghilterra in testa) temeva giustamente l’affacciarsi sull’orizzonte euro­

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peo del fanatismo imperialista nazista, dal quale si sperava ancora di tene­ re separata l’Italia. Del resto, l’art. 11 del patto non risparmiava nemmeno le guerre “leci­ te”; vale a dire quelle per le quali, anche alla stregua del patto, non opera­ va l’obbligo di astensione. Secondo lo spirito del sistema di sicurezza in­ staurato, una guerra, anche lecita, che coinvolgesse uno dei membri della Società, interessava la Società intera, sicché questa era tenuta, comunque, a prendere - giusta lo stesso art. 11 - tutte le disposizioni atte a salvaguar­ dare efficacemente la pace delle nazioni. Per quanto si sia dubitato che le norme del patto imponessero effettivamente siffatti provvedimenti [Curti Gialdino 1970, p. 860, col. II], sta di fatto che - come si è detto - le san­ zioni economiche all’Italia sono state effettivamente applicate, e non si può negare che qualche disturbo lo abbiano in c oncreto arrecato a una nazione che si trovava impegnata in una guerra nell’Africa equatoriale. b) Il Trattato di Locarno concluse il 16 ottobre 1925 la Conferenza che si era aperta il 5 precedente fra i delegati di Belgio, Cecoslovacchia, Fran­ cia, Germania, Gran Bretagna e Italia. I quali sottoscrissero l’Atto finale, cui erano allegati cinque progetti di trattato - uno di garanzia, che è quel­ lo che c’interessa, e gli altri di arbitrato, che non riguardavano però né l’Inghilterra né l’Italia. I trattati furono poi firmati a Londra il i° dicem­ bre 1925. Come si nota, era un trattato che si concludeva mentre si andava svol­ gendo la stipula del Patto della Società delle Nazioni al quale, in effetti, è fatto continuo riferimento. Il Patto renano - come pure fu chiamato - era un patto di garanzia fra le predette nazioni, che si fondava particolarmente sugli strumenti tecnici indicati per raggiungere il traguardo della pace. In primo luogo, esso am­ pliava l’area di proscrizione della guerra rovesciando il principio di regola a eccezione contenuto nello statuto ginevrino fra guerre ammesse e guerre proscritte. In secondo luogo, innovando al diritto internazionale generale e allo stesso ordinamento della Società delle Nazioni, estendeva il bando della guerra anche al semplice uso della forza in contesto non bellico. Si al­ lude, cioè, a quelle forme di autotutela che, pur non significando “guerra”, implicano tuttavia “violenza militare” diversa dalla legittima difesa, come la “rappresaglia”, 1’“intervento” ecc. In terzo luogo - ed è questo forse l’aspetto essenziale degli accordi - è importante ed estremamente realistico il sistema che veniva escogitato per il regolamento pacifico delle controversie che fossero insorte fra Germania e gli altri sottoscrittori dell’Atto finale (escluse - come si è detto - Inghil­ terra e Italia). Il diritto di autotutela si trasformava così, almeno per le controversie riguardanti i diritti soggettivi (controversie giuridiche), in una pacifica soluzione arbitrale rimessa a un’istanza internazionale, la cui pronunzia vincolava le parti (la Corte permanente di giustizia poteva essere adita

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anche unilateralmente). Non così per le controversie di altra natura (po­ litiche, economiche, finanziarie ecc.), per le quali era prevista soltanto la sottoposizione al Consiglio della Società delle Nazioni, giusta l’art. 15 del Covenant. c) E veniamo al momento dominante, al Trattato di Parigi del 27 agosto 1928 che, per il suo stile lapidario e per il tono elevato con cui fu formulato, «era tale - è stato detto - da esercitare sui governi la suggestione dell’incon­ tro con la storia» [Curti Gialdino 1970, p. 862, col. I], Come già accennato, il trattato viene anche detto Patto Briand-Kellogg, rispettivamente dal nome del ministro degli Esteri francese e del segretario di stato statunitense che ije furono i grandi iniziatori e che lo condussero at­ traverso un importante epistolario. Di questo, Agostino Curti Gialdino \ibid., nota 29] cita un passo, dovuto alla penna di Kellogg, da cui traspare lo spi­ rito che animava i protagonisti e l’entusiasmo che attraversava la comunità internazionale. Il brano è riportato nella traduzione francese del testo in­ glese data dal Livre bleu franqaisn. 12 [citato da Mandelstam 1933], che noi, per semplicità di lettura, trascriviamo nella versione italiana. L’ideale che ispira lo sforzo intrapreso [scriveva Kellogg a Briand il 27 feb­ braio 1928] con tanta sincerità e speranza dal vostro e dal mio governo è av­ vincente e seducente a cagione della stessa sua purezza e semplicità, onde oc­ corre guardarsi dall’occuparsi di questo ideale [...] in uno spirito tecnico.

Il concorso di adesioni al trattato fu grande: è vero che peraltro molte furono le riserve che accompagnavano il consenso, ma deve dirsi che esse erano dirette soltanto a limitare l’adesione unicamente alle norme del trat­ tato, con esclusione delle intese interpretative intercorse fra gli stati pro­ motori nei carteggi di chiarimento reciproco, e soprattutto della condizio­ ne formulata dal governo inglese, in verità piuttosto singolare. Gli inglesi, infatti, avevano dichiarato di voler conservare libertà d ’azione relativa­ mente a certe regioni del mondo, la cui integrità e prosperità costituivano un vitale interesse per la pace, e la cui protezione rappresentava per il go­ verno britannico una misura di autodifesa. La sostanza del patto era integrata dai primi due articoli. Nell’art. 1, in­ fatti, veniva solennemente dichiarata, dagli stati contraenti, la condanna del ricorso alla guerra per la soluzione delle controversie internazionali, non­ ché l’espressa rinunzia degli stati al detto ricorso, nei loro reciproci rap­ porti, in quanto strumento di politica nazionale. L’art. 2, poi, esprimeva il riconoscimento degli stati contraenti affinché il regolamento, o la soluzio­ ne di qualsiasi controversia o conflitto, non dovessero mai essere persegui­ ti se non con mezzi pacifici. Considereremo più innanzi la rilevanza di queste importanti Conven­ zioni nell’evoluzione del diritto internazionale di guerra, avvertendo però che il punto d, concernente la Carta di San Francisco, verrà trattato a con­

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clusione del saggio, nell’ultimo paragrafo, quando saranno delineati lo sta­ to e le tendenze attuali del diritto bellico internazionale. Oltre alle consuetudini e alle Convenzioni generali, stipulate in tempo di pace per regolare il diritto di guerra (di cui finora si è parlato), esistono anche altre fonti minori, le Convenzioni belliche. Vale a dire quelle Con­ venzioni, limitate nel tempo e nello spazio, che i belligeranti stessi conclu­ dono direttamente fra di loro, in considerazione di varie e urgenti esigen­ ze militari. La responsabilità di siffatte Convenzioni spetta ai rispettivi co­ mandanti e non abbisognano di ratifiche da parte del capo dello stato o di altri organi a ciò competenti secondo il diritto interno degli stati [per ap­ profondimenti cfr. Monaco 1949; Balladore Pallieri 1954, pp. 113 sgg.]. Esse assumono nomi diversi a seconda delle esigenze cui servono: ven­ gono chiamate «cartelli» - ad esempio - le Convenzioni mediante cui i co­ mandanti si scambiano prigionieri, oppure «sospensione d’armi» o «tre­ gue» quelle Convenzioni belliche stipulate sul campo fra i comandi per so­ spendere le ostilità, durante brevissimi periodi e in limitati settori, allo scopo - ad esempio - di dare sepoltura ai propri morti o per altre emergenze non durevoli (un terremoto scoppiato nel villaggio dove i due belligeranti si fron­ teggiano), o infine «capitolazioni» le convenzioni che regolano la resa di un corpo o di una fortezza. Certo, lo stato può sempre intervenire per disapprovare, ma gli effetti già verificati restano, comunque, fermi. L ’assetto normativo nel ventennio fra le due guerre. Fra le due guerre si è consolidato sul piano normativo, e sotto il profilo obbiettivo, il concetto di “stato di guerra” come trasformazione dell’ordinamento internazionale di pace in un diverso assetto (che esso viene ad assumere a seguito della ma­ nifestazione di una volontà di guerra) contrassegnato dalla sospensione (o dall’estinzione) della vigenza di taluni gruppi di norme e dall’applicabilità invece di altri. Sicché, tanto colui che quella volontà ebbe a manifestare quanto colui che ne è stato destinatario, sono svincolati da ogni obbligo convenzionale di cooperazione reciproca e perciò liberi corrispettivamente di usare la violenza delle armi in vista del totale annientamento della resi­ stenza avversaria. Conseguentemente, sul piano intersoggettivo, si deter­ mina fra quei due soggetti una relazione giuridica che è governata dalla vi­ genza della nuova normativa [Curti Gialdino 1970, p. 854]. L’evoluzione in quel ventennio del diritto bellico internazionale (e del­ la sua concreta legislazione) è contrassegnato proprio dal lento modificarsi della primitiva assoluta libertà degli stati di manifestare quella volontà di guerra in una progressiva limitazione, dapprima delle forme e dei modi del­ la manifestazione, poi dei casi in cui poteva essere espressa, e alla fine in una vera e propria tendenza a escludere lo jus belli per sostituirlo con si­ stemi di pacifiche intese arbitrali. Un processo non ancora concluso, nonostante gli entusiasmi che aveva suscitato nella stragrande maggioranza dei governi, soprattutto nel ven­

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tennio fra le due guerre, e nonostante la sua vivace ripresa, al termine del secondo conflitto mondiale, nel sistema di sicurezza instaurato nel mondo dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. La resistenza da parte di alcuni stati - malgrado la partecipazione alle Convenzioni di pace - a non abban­ donare, nemmeno sul piano teorico, il diritto a ricorrere alla guerra, è di­ mostrata purtroppo dal non dimesso effettivo ricorso che se n’è fatto an­ che negli anni più vicini. E ciò che più preoccupa, poi, è l’analoga resistenza dimostrata, anche da parte di grandi paesi che consideriamo paladini della libertà e della democrazia nel mondo, a consentire l’instaurazione di istan­ ze giudiziarie internazionali per la repressione, in pace e in guerra, di cri­ mini contro l’umanità. E tuttavia, nonostante questo, la tendenza progressiva non può essere negata. Già nelle Convenzioni precedenti il primo conflitto mondiale l’esclu­ sione - come s’è visto - della guerra per il recupero di crediti contrattuali, e il vincolo fra i contraenti a motivate dichiarazioni o a condizionati ulti­ matum, rappresentavano i primi rudimentali limiti e gli auspici per un de­ grado continuo dello jus belli. Ma nel ventennio fra le due guerre mondiali il movimento ideologico con­ tro la guerra si fa pesantemente sentire nelle maggiori e più autorevoli convenzioni. Forse il Patto della Società delle Nazioni mostra ancora qual­ che titubanza e una certa generale debolezza, ma è il più lontano nel tem­ po a prendere posizione. E tuttavia già nel preambolo si parla di «accetta­ zione di certi obblighi di non ricorrere alla guerra» e, nell’art. 10, di impe­ gno a tener ferme contro ogni aggressione esterna l’integrità territoriale e l’indipendenza politica attuali di tutte le nazioni aderenti, rinunciando a ri­ correre alla guerra contro ogni membro della Società e contro ogni altra par­ te che si conformerà alle conclusioni del rapporto (artt. 13, n. 4, e 15, n. 6). Certo, c’è però anche il cedimento di cui all’art. 12, n. 1, dove si vieta il ri­ corso alla guerra se prima non sia decorso un tempo di tre mesi dall’awertimento. Insomma gli internazionalisti sono nel vero quando affermano che, nonostante la proibizione della violenza bellica in alcuni casi, non resta escluso, se la violenza tuttavia si verifichi, che l’ordinamento internazio­ nale si trasformi da assetto di pace in assetto di guerra, proprio a cagione di quella violenza. Ma ciò è limitato al Patto della Società delle Nazioni. Quando sopravvengono, però, gli altri due - il trattato di Locarno, ma soprattutto quello di Parigi -, nonostante il richiamo alla sicurezza instau­ rato dalla Società delle Nazioni (che sembra espresso più che altro per in­ dicare l’area ideologica da cui prendono le mosse le ulteriori progressioni) il linguaggio cambia radicalmente. In questi, guerra di aggressione e guer­ ra come strumento di politica nazionale sono a gran voce condannate, vie­ tate senza condizioni, dichiarate addirittura criminose. Del resto, che que­ sto fosse lo spirito esaltante del Patto Briand-Kellogg fu da più parti e rei­ teratamente affermato, specie nei primi anni della sua vigenza. Basta uno sguardo ai lavori che l’International Law Association tenne dal 6 al 10 set­ tembre 1934 nella sessione di Budapest: un’associazione, questa, di gran­

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dissima autorità internazionale, dove politici e studiosi eminenti come Hud­ son, Dehn, e Campbell Lee, fra gli altri, misero drammaticamente in luce l’antitesi che ormai si verificava tra il vecchio diritto dei belligeranti, or­ mai abbattuto, e il nuovo diritto dei non belligeranti, che affermava l’ini­ doneità della guerra illegale a fondere diritti a favore di chi a essa volesse ancora ricorrere. Del resto, era ciò che aveva sostenuto senza veli l’anno precedente il se­ gretario di stato statunitense Stimson al New York Council on Foreign Relations, quando aveva affermato che «la guerra stessa come azione - e non soltanto l’esercizio del potere di promuovere lo stato di guerra - cade sot­ to la sanzione di illegalità introdotta dal trattato di Parigi». D ’altra parte, sebbene un po’ più generica, tale fu sostanzialmente la Risoluzione con­ clusiva dei lavori di Budapest, soprattutto con quelle «regole interpretati­ ve del Patto» che la Conferenza preconizzò «che sarebbero entrate nella Storia» [Curti Gialdino 1970, p. 868]. E vero che, nonostante tutto questo, autorevoli internazionalisti [Balladore Pallieri 1930 e 1931, pp. 169-70; Wright 1933; Curti Gialdino 1970, p. 869] insistono nel rilevare come il diritto convenzionale sulla preven­ zione della guerra, nel periodo fra i due conflitti mondiali, non abbia inteso sopprimere lo jus ad bellutn, nel senso di eliminare, con l’interdi­ zione della violenza bellica, quel potere di instaurare lo stato di guerra, che de­ riva dal diritto generale. E che la spiegazione di questo risultato sia nella per­ sistente esitazione degli stati a dimettere uno strumento cui per secoli avevano liberamente affidato la tutela dei loro interessi supremi, lo abbiamo noi stessi rilevato più sopra. Ad ogni modo, però, alla vigilia del secondo conflitto mon­ diale, qualunque fosse per essere l’intendimento degli stati che concorrevano alla stipula di quelle Convenzioni, possiamo affermare che si era almeno for­ mato sicuramente un principio generale in grazia del quale illecito era divenuto il ricorso alla guerra come strumento di politica nazionale, e tamquam non essent gli eventuali risultati che l’aggressore avesse conseguito.

Il Tripartito e la violazione reiterata dei trattati. Le tre dittature che ave­ vano stipulato il Patto Tripartito Roma-Berlino-Tokyo vivevano fuori del mondo di idee che l’umanità era- andata maturando a cavallo fra i due ulti­ mi secoli. L’Italia, chiusa nei suoi confini dalla gelosia nazionalista e impe­ rialista del regime, aveva perduto anche i contatti culturali con l’Europa delle democrazie e con il resto del mondo. I pochi spiriti illuminati che avrebbero potuto ancora sostenere quei collegamenti, e una lotta per la li­ bertà del pensiero politico, della scienza e della cultura in genere, o vive­ vano nelle carceri o erano stati costretti a trasferirsi all’estero o erano co­ munque ridotti al silenzio. Abbiamo già accennato al primo atto di trasgressione che proprio l’Ita­ lia ebbe a compiere dando inizio nel maggio del 1935 alla guerra contro l’Etiopia (dopo l’aggressione giapponese alla Cina in Manciuria del 1933): vera e propria guerra di conquista, conclusasi con la debellatio, l’esilio del­ l’imperatore in Inghilterra e l’inclusione del territorio nell’impero che l’Ita­

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lia fondava. Come si è ricordato, furono inflitte sanzioni economiche dalla Società delle Nazioni ma, per le ragioni già dette, non ci furono altre con­ seguenze. Tutto sommato, la questione era “coloniale”, mentre c’era un pe­ ricolo ben più grave che sovrastava l’Europa, la crescita inarrestabile di Hi­ tler in Germania e le rivendicazioni di territori europei che andava affac­ ciando. In fondo, quanto a colonie, le grandi democrazie avevano la coda di paglia e non insistettero: nonostante - a quanto si afferma - l’Italia aves­ se anche usato strumenti bellici vietati dai trattati (gas asfissianti e proiet­ tili esplosivi). Ma se già il regime fascista, dunque, era fuori del mondo umanitario, del sistema di solidarietà fra i popoli, di messa al bando della violenza nel­ le relazioni internazionali, la Germania nazista rappresentava qualcosa di ben più pericoloso, giacché a quel carico negativo aggiungeva in positivo una determinazione di aggressione estremamente razzista, che contempla­ va, nell’idea di una razza ariana superiore, il diritto di sottomettere e do­ minare quelle inferiori d’Europa e del mondo. Una concezione universale antitetica a quella delle Convenzioni, diventate per le tre dittature - come direbbe il Poeta - «oggetto di riso e di trastullo». E cosi Hitler, dopo avere incontrato a lungo - sostenuto dal suo com­ plice italiano - la pazienza e la remissività d’Inghilterra e di Francia, che spe­ ravano di poterlo moderare soddisfacendone qualche aspirazione (mentre egli ne approfittava per armarsi sempre più), anch’egli alla fine, abbando­ nando ogni parvenza d’intesa pacifica, aggrediva improvvisamente nel 1939 la Polonia, invadendone il territorio. Si trattava di una clamorosa violazio­ ne degli impegni che il Reich aveva assunto nei confronti della Polonia e di ogni altro firmatario del Patto Briand-Kellogg, sicché la Germania si espo­ neva volontariamente alla violenza bellica delle altre parti contraenti. Secondo quanto prevedeva il Trattato di Parigi, infatti, al Regno Uni­ to e alla Francia non restò che dichiarare lo stato di guerra nei confronti della Germania. Del resto, qualche tempo dopo, un’altra improvvisa ag­ gressione, quella aerea nipponica alle forze navali statunitensi di Pearl Harbor, estendeva drammaticamente il secondo conflitto mondiale. Il nazismo tedesco, dunque, iniziava così una guerra già condannata in partenza dal Patto di Parigi (e non soltanto da quello), e la continuava ben sapendo che qualunque vantaggio ne avesse tratto sarebbe stato effimero, perché - secondo i trattati - prima o poi gli sarebbe stato ritolto. Ma so­ prattutto la continuava invadendo l’Europa intera e facendo strazio di ogni altro limite che via via, fra le due guerre, le Convenzioni avevano stabilito. Nessuna remora umanitaria: i prigionieri - specie se politici - venivano condannati a una lenta eliminazione in campi di concentramento, i parti­ giani di tutta Europa torturati, mutilati e poi impiccati o fucilati. Perfino le inermi popolazioni civili erano atrocemente sterminate in massa, senza riguardo né per donne, né per vecchi, né per bambini. In molti casi, rin­ chiuse nelle case e bruciate vive negli incendi. Per tacere, infine, del genocidio razziale degli ebrei.

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A un certo punto dell’immane conflitto, proprio perché l’infamia ave­ va superato il limite del non ritorno, la crudeltà imperversava in modo di­ sumano. Abbiamo calcolato che, nel corso degli oltre cinque anni di guer­ ra, la Germania è riuscita a violare tutte le Convenzioni che aveva sottoscritte per l’eventualità della guerra, o addirittura contro la guerra, da quelle dell’Aja del 1899 e successive integrazioni del 1907 fino al Patto renano e al Patto di Parigi, per non parlare del Patto della Società delle Nazioni. Il tentativo di giustificare certe feroci disgressioni definendole «rap­ presaglie», cozza innanzitutto contro il Trattato di Locamo che, innovan­ do al diritto internazionale generale, aveva escluso la «rappresaglia» persi­ no in contesto non bellico. Senonché, poi, la Germania ha violato, comun­ que, almeno in Italia, il concetto stesso dell’istituto della rappresaglia e il suo contenuto, distorcendoli e tramutandoli in una barbara strage. Ma di ciò parleremo nel prossimo paragrafo. Del resto la patente violazione del Patto di Locamo è particolarmente in ciò che la Germania ha fatto del Bel­ gio e dei Paesi Bassi, con i quali aveva sottoscritto quei particolari patti di arbitrato e di garanzia, cui Inghilterra é Italia erano rimaste estranee. Il ve­ ro è che la Germania, sottomettendo al suo potere assoluto l’Europa inte­ ra, riteneva di avere dimostrato l’inutilità dei trattati internazionali. Quanto alle forze armate della Rsi, e in particolare alle forze di polizia, specie quelle che venivano impiegate nella guerra antipartigiana o che fian­ cheggiavano le SS, il discorso non è molto diverso. La giurisprudenza dei Tribunali militari e delle Corti d’Assise straordinarie, prima, e delle Sezio­ ni speciali di Corte d ’Assise, poi, ha escluso - ma solo in un secondo mo­ mento - dall’accusa di «collaborazionismo» soltanto la Gnr che, avendo sostituito i carabinieri, deportati in Germania, si è ritenuto che avesse prevalentemente funzioni di ordine pubblico. Il «collaborazionismo», neologismo dispregiativo creato nel 1943, proprio in occasione delle leggi di repressione del fenomeno, indica il limite penalmente rilevante dell’at­ tività di collaborazione col tedesco invasore. Ma là dove essa si è manife­ stata ha assunto molto spesso la stessa disumana intensità, e in ogni caso si è posta come attività di concorso che ha agevolato e comunque facilitato l’opera atroce dei nazisti. Ci sono stragi, inumane e ingiustificate, come quella ormai storica di Villamarzana, nel Polesine, alle quali i tedeschi furono estranei, che portano la firma spietata dei soli fascisti. L ’istituto della rappresaglia. Prendiamo in esame il problema della «rap­ presaglia». Storicamente non nasce come strumento di guerra, poiché in origine ha carattere di privata “ragion fattasi” allorquando, al tramonto del­ l’ordinamento giuridico della romanità, che assicurava legalità e giustizia nel territorio dell’impero, la parcellizzazione della giustizia nell’ordinamento barbarico e poi feudale (cui dopo il Mille s’affiancava anche il comune) ren­ deva precaria l’istanza di giustizia del cittadino che fosse stato spogliato fraudolentemente dei suoi beni in altro stato, o anche nel suo ma a opera

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di cittadino straniero. Se lo stato di provenienza dell’aggressore non inten­ deva rendere giustizia, al primo afflusso di cittadini di quello stato in quel­ lo dell’offeso, questi aveva diritto di rivalersi sui beni dei malcapitati, qua­ si sempre ignari dei precedenti. Questo atto del “riprendersi” il maltolto, o l’equivalente, fosse pure ai danni di terzi estranei, purché dello stato cui apparteneva l’offensore, ve­ niva chiamato appunto nell’alto medioevo «ripresala», da cui poi nel tem­ po «rapresàglia» e, alla fine, «rappresàglia» [Bartolo 1602; Muratori 1738]. Un simile costume, però, com’era facile aspettarsi, dava luogo a ritor­ sioni e a controritorsioni, e creava spesso gravi disordini nei due stati inte­ ressati. Così stati feudali e comuni furono costretti a intervenire accordan­ dosi nel senso di un sistema misto. Si esigeva, cioè, che l’offeso tentasse in un primo momento di ottenere giustizia dallo stato dell’offensore, e solo quando quella giustizia fosse stata negata lo stato di origine dell’offeso, o il comune, concedevano le cosiddette «lettere di rappresaglia», una specie di pubblica autorizzazione all’offeso a esperire la rivalsa [Del Vecchio e Ca­ sanova 1894]. Si instaurava così un controllo pubblico sulla legittimità del­ l’operazione: la quale, però, non cessava di avere carattere privato, in quan­ to restava affidata all’iniziativa e all’opera individuali. E così continuerà ancora per secoli, fino a quando non comincerà a delinearsi l’idea della re­ sponsabilità internazionale del sovrano per gli illeciti compiuti dai propri sudditi ai danni dei sudditi di altro sovrano. Ciò comporterà che a quella responsabilità corrisponda il dovere dello stato dell’offeso di assumere la pubblica protezione degli interessi dei pro­ pri sudditi, sicché la rappresaglia da questo momento diventerà istituto di diritto pubblico internazionale, inteso alla tutela di privati interessi dei cit­ tadini. E sarà istituto che, nel diritto consuetudinario, durerà a lungo se - come abbiamo più sopra ricordato - ci vorrà la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1907 per vietare agli stati di ricorrere alla violenza bellica per il recupero di crediti contrattuali di cittadini, nei confronti di altro stato aderente alla Convenzione. Del resto, poi, quando si formeranno i grandi sistemi di sicurezza e le grandi comunità di stati, le controversie civili, sia fra cittadini e stati, sia fra gli stati stessi, troveranno adeguata risposta nel­ le istituzioni giudiziarie sovranazionali delle Unioni di stati e delle Orga­ nizzazioni delle Nazioni Unite, sicché la funzione storica dell’istituto del­ la rappresaglia degli stati, in funzione di tutela di interessi privati dei cit­ tadini, cesserà definitivamente. Ma l’istituto si era frattanto trasferito interamente al diritto pubblico in­ ternazionale come autotutela di un diritto soggettivo dello stato, offeso dal­ l’atto illecito di altro stato: e così era nata la rappresaglia in senso moderno, purtroppo tuttora largamente praticata mediante vera e propria violenza bel­ lica, come ancora, mentre stiamo scrivendo, ci mostrano gli eventi del mondo. Così oggi si conosce una rappresaglia del tempo di pace e una rappresa­ glia che i belligeranti usano nel corso delle operazioni belliche. In prima ap­ prossimazione potrebbe sembrare strano che, mentre i belligeranti si stan­

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no combattendo, e quindi stanno già esplicando violenza bellica l’uno sull’al­ tro reciprocamente, possa sorgere necessità di ricorrere anche a quella del­ la rappresaglia. Ma ciò si verifica proprio perché il diritto internazionale bellico detta le sue norme a regolare il modo e i limiti delle reciproche vio­ lenze dei belligeranti, sicché ogniqualvolta l’uno si comporta in modo ille­ cito rispetto a quelle regole e infligge perciò un danno eccessivo non con­ sentito dalle Convenzioni scatta il diritto dell’offeso alla rappresaglia. La quale, a sua volta, rispetto a quelle regole avrebbe carattere d’illecito, se non ci fosse la previa illiceità dell’altro belligerante a dissolvere l’antigiuridicità del comportamento reattivo [Gallo 1995]. ' Anche la rappresaglia, però, è soggetta a precise regole che il diritto con­ suetudinario e quello convenzionale hanno elaborato nel corso dei tempi nel contesto del diritto internazionale. Sostanzialmente esse valgono per ambo le specie di rappresaglia, sia di pace che di guerra, anche se a noi in realtà interessa quest’ultima. 1. Innanzitutto è da ricordare che la rappresaglia è rapporto da stato a stato. Si è già visto che è appunto lo stato ad assumere, da una parte, la re­ sponsabilità degli atti illeciti compiuti da suoi organi o da suoi cittadini e, dall’altra, la tutela del diritto soggettivo violato, sia nei confronti dei cit­ tadini (o dei belligeranti), sia direttamente nei confronti dello stato stesso. E questa una delle più importanti condizioni di legittimazione della rap­ presaglia, perché se il fatto illecito non può essere, per qualsivoglia ragio­ ne, imputato allo stato, la reazione può essere diretta esclusivamente nei confronti degli autori (ipotesi dei territori occupati dal nemico), ma diven­ ta illegittima se esercitata su altri cittadini dello stato, salvo che non risulti unaJoro relazione di solidarietà con gli autori del fatto. È questo un aspetto - ad esempio - della strage delle Fosse Ardeatine che non è mai stato preso in considerazione né dalla dottrina né dalla giuri­ sprudenza dei tribunali militari. Nei confronti di quale stato ha preso legit­ timazione quella asserita rappresaglia? Il territorio entro il quale si è verifi­ cato l’episodio di via Rasella era sottoposto a occupazione nemica, e proprio a opera dei nazisti tedeschi. Semmai vi era un concorso dell’amministrazio­ ne della sedicente Rsi che proprio i tedeschi avevano imposto. Nessuno ha mai potuto dimostrare che l’episodio di via Rasella, così come ideato e at­ tuato, fosse stato voluto dal governo dello stato legittimo rifugiato nell’Ita­ lia del Sud, legittimo belligerante per la formale dichiarazione di guerra. Né la responsabilità di quel fatto poteva in allora essere a esso attribuita per il generico aiuto prestato alla lecita ribellione della Resistenza alle truppe ne­ miche occupanti: proprio perché sul piano del diritto consuetudinario in­ ternazionale bellico non è illegittimo favorire l’aspirazione alla liberazione del territorio occupato dal nemico, ma semmai soltanto la compartecipazio­ ne all’organizzazione ed esecuzione di uno specifico episodio bellico [Mona­ co 1939]. 2. In ogni caso, era necessaria l’illiceità del fatto che provoca la rappre­ saglia. Purtroppo in allora era questo il punto debole dell’impresa partigia-

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na: ma non certo per le ragioni espresse, dopo mezzo secolo, dai magistra­ ti delle indagini preliminari del Tribunale di Roma, che hanno fatto ricor­ so all’onore militare e alla slealtà della vicenda richiamando gli artt. 174 e 175 del codice di procedura militare di guerra. Va, infatti, detto innanzi­ tutto che il Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 12 ago­ sto 1949 ha chiarito (precisazione prima inesistente) che cosa si debba in­ tendere per «mezzi e modi vietati dalla legge o dalle convenzioni interna­ zionali, o comunque contrari all’onore militare». L’art. 37, infatti, al comma 1 fa riferimento, per vietarla, alla «perfidia», e la definisce negli atti «che fanno appello, con l’intenzione di ingannarla, alla buona fede dell’avversa­ rio» e la esemplifica in “alcune simulazioni” : come l’intenzione di voler ne­ goziare, o la simulazione della resa, la simulazione di statuto diverso dal pro­ prio ecc.; ma il tutto è poi completato dal comma 2 dove si chiarisce che «gli stratagemmi di guerra non sono vietati», definendoli come «atti che han­ no lo scopo di indurre in errore l’avversario o di fargli commettere impru­ denze, senza fare appello alla sua buona fede», esemplificandoli in «ma­ scheramenti, inganni, operazioni simulate e false informazioni». Nella specie non ci furono appelli di sorta alla buona fede del nemico, ma solo un inganno, un mascheramento rappresentato dall’innocuo casso­ netto delle immondizie posto sulla strada, destinato in realtà a servire da contenitore dell’esplosivo. Senonché poi, quand’anche si fosse di opinione diversa (ma è da esclu­ dersi), quegli artt. 174 e 175 del codice di procedura militare di guerra non erano applicabili perché l’art. 165 prevede che, fra gli altri, i reati contem­ plati dalla Sezione I del Capo III (e la Sezione I va dall’art. 174 al 184 in­ cluso), quando sono commessi da cittadini italiani contro lo stato nemico o i sudditi di esso, sono punibili in seguito a disposizione del comandante su­ premo, e solo in quanto lo stato nemico garantisca parità di tutela penale allo stato italiano e ai suoi cittadini. Ma né il luogotenente del re né il ge­ nerale Cadorna, quale comandante del Cvl, avevano mai emanato disposi­ zione in tal senso, né il governo nazista aveva garantito parità di tutela al­ lo stato italiano per gli eccidi di Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, la Benedicta, Pedescala ecc., tanto per citarne qualcuno fra i tanti. Il vero è che, semmai, al tempo di via Rasella l’illiceità derivava dal fat­ to che per i tedeschi valeva ancora la II Conferenza della pace dell’Aja del 18 ottobre 1907 che non riconosceva la qualità di «belligeranti volontari» se i combattenti non portassero un segno distintivo ben visibile da lontano (oltre ad altre condizioni che però nelle forze partigiane erano presenti). Una siffatta pretesa era impensabile e inaccettabile circa quarantanni do­ po, nel contesto del secondo conflitto mondiale. La Resistenza dell’intero continente europeo, distrutto e occupato dal­ le truppe naziste, alle cui armatissime potenti divisioni poteva opporre po­ che centinaia di eroici volontari con scarso e modesto armamento, sarebbe stata immediatamente annientata se si fosse ostentata addirittura con segni distintivi visibili da lontano. E questa una condizione ammissibile in que­

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gli anni in cui tutto il volontariato militare era rappresentato da truppe di civili incluse nelle forze armate regolari, che combattevano al loro fianco: non essendovi divise sufficienti per improvvisate coscrizioni era giusto pre­ tendere che i volontari portassero almeno un segno distintivo. Ma l’espressione della Resistenza è stata altra cosa, del tutto nuova co­ me fenomeno paramilitare, che aveva necessariamente, in territorio fer­ reamente e crudelmente occupato, un carattere essenziale e vitale: la clan­ destinità. Pretendere - ad esempio - che i partigiani dei Gap girassero per le città con i segni distintivi della loro qualità era un non senso. D ’altra par­ te, però, era ormai fenomeno diffuso in tutto il continente e, da ultimo, non soltanto in quello europeo. E perciò il I Protocollo aggiuntivo alle Con­ venzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 ne ha preso atto, disponendo all’art. 44, comma 3, quanto segue: Per facilitare la protezione della popolazione civile contro gli effetti delle ostilità, i combattenti sono obbligati a distinguersi dalla popolazione civile quan­ do prendono parte ad un attacco o ad un’operazione militare preparatoria di un attacco. Tuttavia, dato che vi sono situazioni nei conflitti armati in cui, a cau­ sa della natura delle ostilità, un combattente armato non può distinguersi dal­ la popolazione civile, egli conserverà lo statuto di combattente a condizione che, in tali situazioni, porti le armi apertamente: a) durante ogni fatto d ’armi; e b) durante il tempo in cui è esposto alla vista dell’avversario, mentre prende parte ad uno spiegamento militare che precede l’inizio di un attacco al quale deve partecipare.

Non più, dunque, segni distintivi, ma soltanto ostensione delle armi du­ rante l’attacco o quando il combattente è in vista dell’avversario mentre prende posizione per l’attacco. Il che è fuori dubbio per i partigiani di via Rasella quando attaccarono con bombe a mano la parte immune e armatis­ sima della lunga colonna tedesca dopo l’esplosione. Ciò comporta che i magistrati italiani, giudicando quel fatto nel 1998, dovessero tener conto di un’esperienza che le Convenzioni internazionali avevano a posteriori giudicato positivamente, eliminando una condizione as­ surda per una moderna resistenza armata alle truppe di occupazione. Non c’era, dunque, nulla d’illecito nell’azione dei partigiani di via Rasella innanzi alla Giustizia italiana, c’era solo un unico “pretesto” per i tedeschi in que­ gli anni lontani, fondato su di una Convenzione di quarantanni prima che ignorava - per usare le parole del Protocollo del '49 - quelle «situazioni nei conflitti armati in cui, a causa della natura delle ostilità [Resistenza], un com­ battente armato non può distinguersi dalla popolazione civile». (Finalmente, la Corte d’Appello di Roma, nella primavera del 1999, ha riparato all’anti­ ca ingiustizia facendo proprie le ragioni qui esposte). 3. Terza condizione di legittimità della rappresaglia è che sia stato previa­ mente esperito, mediante indagini, almeno il tentativo di scoprire i colpevoli. 4. Quarta condizione, che la rappresaglia sia rigorosamente proporzio­ nata all’offesa.

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Ambo queste due ultime condizioni derivano dal diritto c onsuetudina­ rio più antico e attengono strettamente alla natura stessa dell’istituto. Co­ me già più sopra si è rilevato, nei tempi in cui la rappresaglia aveva a og­ getto le cose mobili, le «lettere di rappresaglia» che venivano concesse dal­ le autorità dovevano dare atto della denegata giustizia da parte dello stato cui apparteneva il cittadino offensore [Quadri 1956] e dovevano prescri­ vere, come espressa condizione di legittimità, che la ripresa del maltolto o del suo equivalente rimanesse negli esatti limiti del danno subito. Questi li­ miti ontologici rimasero fermi anche quando l’istituto entrò nell’ordina­ mento militare di guerra, come dimostra l’art. 176 del codice penale mili­ tare di guerra che punisce con la reclusione militare da tre a dieci anni il co­ mandante che ordina di eseguire atti di ostilità fuori dei casi consentiti dalla legge o dalle Convenzioni internazionali, oppure non ne ordina la cessa­ zione quando ha ricevuto comunicazione ufficiale che l’avversario ha dato riparazione al fatto illecito. Dove appare evidente che la “riparazione” che si esige è rappresentata dalle restituzioni o dal risarcimento quando si trat­ ti di cose, o dal pareggio delle vite umane quando l’illecito che vi ha dato causa aveva sacrificato degli uomini. Analoga disposizione è nell’art. 8 del­ la Legge di guerra del 1938. Ebbene, nessuna di queste due condizioni si è verificata nella strage delle Fosse Ardeatine. Non la previa indagine, per­ ché tedeschi e fascisti hanno dedicato il loro tempo a predisporre le liste dei fucilandi, e nel pomeriggio del giorno successivo all’attacco di via Rasella la strage delle Fosse Ardeatine era già compiuta. Non il «principio di pro­ porzione» perché alle Fosse sono stati abbattuti civili in misura superiore al decuplo dei caduti tedeschi di via Rasella: superiore, perché per distra­ zione ne furono fucilati cinque in più. Almeno tre, dunque, delle quattro condizioni di legittimazione della rap­ presaglia delle Fosse Ardeatine erano mancanti, cui s’aggiungeva la crudeltà con la quale la rappresaglia fu eseguita, il cui divieto aggiunge illiceità. Del resto, quanto a divieti, i tedeschi ben sapevano, per averlo sottoscritto, che il Trattato di Locamo del 16 ottobre 1925 aveva escluso - come abbia­ mo visto - ogni forma di autotutela che, pur non significando guerra, impli­ casse tuttavia «violenza militare». Salvo la legittima difesa, Locamo aveva perciò espressamente vietato sia la «rappresaglia», sia l’«intervento» e forme analoghe. I tedeschi lo sapevano da quasi vent’anni, ma imperversarono con lo stragismo per tutta Europa incuranti della “carta straccia” del Trattato di Locamo. Cosi grave fu l’impressione per queste vergognose, consapevoli vio­ lazioni commesse dai nazisti per tutto il corso della seconda guerra mondia­ le, che si ritenne necessario dagli stati firmatari del già citato I Protocollo ad­ dizionale alle quattro Convenzioni ginevrine del 12 agosto 1949 di ribadire con forza l’assoluto divieto di rappresaglia sulle singole persone e sull’intera popolazione civile del territorio occupato. E per completare il correlativo tema, ricordiamo che la legge 21 marzo 1958, n. 285, avendo inquadrato nelle Forze armate dello stato il Corpo volontari della libertà, assieme alla sua bandiera (depositata all’Altare del­

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la Patria in piazza V en ezia a R om a), aveva fa tto d ei partigiani ordinari b e l­ ligeranti e d elle loro im prese « a tti d i guerra», rivendicando co sì allo stato la titolarità d i q uelle azioni, com e il p ili in discu sso degli « a tti p o litic i» qual è l ’atto d i guerra. La con seguenza è ch e la com p eten za a giudicare della m a­ gistratura ordinaria d oveva essere soltan to negativa: riconoscere n on esservi lu ogo a p rocedere trattan dosi d i « a tto d i guerra».

E così è avvenuto con sentenza della magistratura competente, dopo cinquant’anni, nella primavera del 1999. La legislazione di guerra dopo il 1945. Per verità, già nel corso dell’ultimo conflitto si era manifestato un vibrato movimento di denunzia dei crimini che i nazisti andavano perpetrando in Europa sotto il pretesto di legittime rappresaglie. Ricordiamo la forte dichiarazione comune del 25 ottobre 1941 del presidente Roosevelt e del primo ministro Winston Churchill, e la de­ nuncia resa il 13 gennaio 1942 a Palazzo San Giacomo dai nove governi eu­ ropei in esilio che indicavano al mondo come «crimini di guerra» l’esecu­ zione di ostaggi e il massacro di civili compiuti dai nazisti. Concluso il se­ condo conflitto mondiale con l’abbattimento del Triplice Asse, il cammino verso la prevenzione della guerra e la sicurezza collettiva ha ricevuto un im­ pulso importante e una svolta decisiva con il sistema instaurato dallo Statu­ to delle Nazioni Unite. Il Patto di San Francisco, infatti (26 giugno '45), so­ lo apparentemente regolava una cooperazione analoga a quella della Società delle Nazioni: in realtà, invece, si discostava nettamente dal Covenant in quanto, mediante un perentorio divieto generale della minaccia e dell’uso della forza (art. 2, n. 4), interdiceva alla radice ogni forma di guerra. Unica eccezione è quella prevista dall’art. 51 concernente l’autodifesa individuale (e collettiva) contro un attacco armato. In positivo, poi, c’era la finalità, enunciata dall’art. 1, n. 1, circa la soluzione pacifica delle controversie e il regolamento delle situazioni suscettibili di condurre a una rottura della pa­ ce. Finalità imposta ai membri dall’art. 2, n. 3. A rafforzare queste certezze sopravveniva l’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945 [in International Criminal Law 1965, pp. 227-38] col quale si stabiliva la punizione dei maggiori criminali di guerra dell’Asse europeo, che trovava poi effettiva sanzione nella sentenza i° ottobre 1946 del Tri­ bunale internazionale di Norimberga. In forza del detto accordo, tutte le Convenzioni sottoscritte fra i due conflitti, atrocemente violate da nazisti e fascisti, trovavano finalmente applicazione concreta sulla pelle dei gran­ di criminali politici che avevano straziato il mondo, mostrando urbi et orbi che le Convenzioni non sono soltanto pezzi di carta che si possono tran­ quillamente irridere quando faccia comodo. Sta di fatto che questo primo esempio universale non solo ha dato la stura all’analogo Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente del 12 novembre 1948, ma anche al fiorire dei vari tribunali militari degli stati dove le stragi si erano compiu­ te a carico dei comandanti e degli ufficiali responsabili. Per la prima volta nel mondo si era stabilito il principio secondo cui ca­

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pi di stato, responsabili di governo, comandanti di grandi unità militari e loro esecutori di rango non potevano più contare sull’impunità per i crimi­ ni di guerra che avessero commesso. L’art. 6, lett. a, dello Statuto del Tri­ bunale militare internazionale, annesso all’Accordo di Londra, pur defi­ nendo i delitti contro la pace in realtà non faceva che concretare le conse­ guenze delle guerre di aggressione, delle guerre che già le Convenzioni denunziavano come criminose violazioni dei trattati, degli agreements, del­ le assurances. Infatti è innanzitutto il Patto Briand-Kellogg a occupare nella senten­ za di Norimberga il posto d’onore delle violazioni commesse dai nazisti me­ diante le guerre di aggressione: guerre che i giudici pongono a fondamento dell’imputazione per crimini contro la pace, in quanto ritengono che il Trat­ tato di Parigi avesse attribuito carattere non soltanto illecito, ma anche cri­ minoso al ricorso alla guerra come strumento di politica nazionale. Sicché viene a cadere anche il sospetto di applicazione retroattiva della legge pe­ nale. Sotto questo riguardo, anzi, è importante che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite dell’n dicembre 1946 abbia confermato i principi di diritto internazionale bellico riconosciuti dallo Statuto della Carta di No­ rimberga e dalla sua sentenza. Ed è proprio tutto questo a mettere in luce quella “svolta decisiva” ri­ spetto al più modesto ordito del Covenant, cui abbiamo più sopra alluso, in quanto la Carta di San Francisco non pone soltanto un obbligo agli sta­ ti di non esercitare il potere di promuovere lo stato di guerra, ma in realtà di quel potere li priva, cosi sopprimendo, o almeno gravemente degradan­ do, lo jus ad bellum. Persino l’aggredito non ha il potere di promuovere la guerra, egli ha solo a sua disposizione la legittima difesa strìdo sensu, che è però coperta dalla protezione del diritto in via esclusiva. Non, insomma, una guerra di legittima difesa, ma legittima difesa soltanto, pura e sempli­ ce, come causa di esclusione dell’antigiuridicità della reazione: esclusione cui partecipano anche gli stati che intervengono a difesa dell’aggredito. L’ag­ gressore resta così completamente isolato, con le mani in quel pericoloso strumento di guerra di aggressione che comporta le gravi inderogabili re­ sponsabilità mostrate da Norimberga. Certo, l’eliminazione dello jus ad bellum , la soppressione dell’orgogliosa «competence de guerre» cui gli stati tanto tenevano, comporta che, nono­ stante l’aggressione e la reazione di legittima difesa, non venga tuttavia a in­ staurarsi quello “stato di guerra” che consentiva ai belligeranti di compiere liberamente attività fra di loro e nei confronti dei terzi neutrali, che invece nello stato attuale debbono considerarsi illecite. In altri termini, sono illeci­ te perché l’aggressore è esposto alla illiceità di tutte le operazioni militari che ledono interessi protetti dall’ordinamento internazionale di pace, in quanto la sua aggressione non ha modificato l’ordinamento di pace in quello di guer­ ra, come invece si verificava anche sotto l’impero del Covenant. Ciò vuol dire anche che viene meno la tanto vantata «eguaglianza dei belligeranti»: solo l’aggredito, infatti, è protetto dal diritto nella sua legittima difesa.

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Aggiungasi che ulteriori Protocolli, adottati a Ginevra l’8 giugno 1977 e aperti alla firma a Berna il 12 dicembre successivo (ma l’Italia li ha rati­ ficati soltanto con legge n dicembre 1985, n. 762), hanno ribadito ancora il divieto assoluto di rappresaglie e di repressioni collettive contro le per­ sone e l’intera popolazione civile, imponendone la protezione alle Nazioni Unite. Tutto bene, allora? Non proprio, diremmo. L’altezzosa pretesa degli stati di potere trasformare a loro libito in qua­ lunque momento l’ordinamento di pace in quello di guerra, è dura a mori­ re: e non solo nell’animo dei governi ma anche della stessa dottrina inter­ nazionalista che mostra qualche compiacente debolezza in proposito nei confronti delle perplessità che si vanno sollevando attorno a taluni temi. Così si è cominciato proprio dall’abbandono del principio di eguaglianza fra i belligeranti in caso di aggressione, che sarebbe causa di gravissimi in­ convenienti. L’eguaglianza dei belligeranti - si è detto - è chiave di volta del diritto bellico classico, e perciò nessun belligerante si rassegnerebbe a combattere in condizioni d ’inferiorità. Ma in questa obiezione sembra si nasconda un equivoco. Non è, infatti, lo stato aggredito che viene a tro­ varsi in situazione d ’inferiorità, giacché questo, versando in stato di «le­ gittima difesa», è libero di esperire tutte quelle azioni anche illecite che val­ gano a respingere l’illecita attività bellica del nemico (e quindi, certo, an­ che controrappresaglie) senza assumere per questo alcuna responsabilità, mentre l’aggressore le responsabilità se le accolla tutte, compreso il possi­ bile “intervento” degli stati firmatari delle Convenzioni. Ed è proprio il fatto di dover mettere in conto questa disuguaglianza che può scoraggiare l’aggressore, anche perché sa che, alla fine delle ostilità, lo attende No­ rimberga. Quanto poi alla questione sollevata circa la problematicità dell’accerta­ mento della qualità di “aggressore”, non si dimentichi che il Consiglio di sicurezza dell’Onu dovrebbe frattanto rapidamente addivenire all’accerta­ mento. Purtroppo, la verità è un’altra. Il problema non è nelle norme pattizie, e comunque nel generale diritto bellico internazionale. Il diritto ha compiuto la sua piena maturazione e nel dopoguerra le Convenzioni, quasi tutte pres­ soché universali, hanno ormai dato certezza alla nascita di un diritto belli­ co che, superando antiche consuetudini e vecchie viscosità del diritto bel­ lico classico, ha finalmente costituito un ordinamento universalmente rico­ nosciuto che è fra i più moderni, umanitari e civili. Fra l’altro non si dovrebbe dimenticare che esistono anche Dichiara­ zioni universali dei diritti dell’uomo come quella pronunciata il 10 dicem­ bre 1948 nella sessione di Parigi dell’Assemblea generale dell’Onu, e Con­ venzioni come quella europea «per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», firmata a Roma il 4 novembre 1950 (e molte leggi interne di guerra di vari stati che a quei principi si adeguano sponta­ neamente). Queste Convenzioni, riguardando i diritti fondamentali dell’uo­

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mo, non possono non spiegare vigenza anche durante operazioni di violen­ za bellica di cui dovrebbero rappresentare limite invalicabile. Si pensi all’art. 3 della Convenzione di Roma, che vieta la tortura, all’art. 4, che esclude i lavori forzati, e particolarmente all’art. 17, secondo cui: N e ssu n a d isp o siz io n e d ella p r e se n te C o n v e n z io n e p u ò essere in terp retata

c o m e im p lican te un d iritto per u n o stato , gruppo o in d iv id u o d i esercitare u n ’a t­ tiv ità o c o m p iere u n atto m iran te alla d istr u z io n e d e i d ir itti e d elle lib ertà ri­ c o n o sc iu ti nella p r esen te C o n v e n z io n e o porre a q u esti d ir itti e a q u este lib ertà lim ita z io n i m aggiori d i q u elle p r e v iste in d e tta C o n v en zio n e .

È ben vero che, però, l ’articolo successivo autorizza le parti contraen­ ti, in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della N a­ zione, ad assumere qualche misura in deroga. M a intanto «nella stretta mi­ sura in cui la situazione lo esiga», e poi (comma 2) «senza alcuna deroga all ’art. 2 [diritto alla vita]», e infine «a condizione che tali misure non siano in contraddizione con le altre obbligazioni derivanti dal diritto internazio­ nale». Il che comporta che là dove il diritto internazionale nega l ’eguaglian­ za fra belligeranti, l ’aggressore non è coperto da queste norme di salvaguardia. Insomma il diritto bellico internazionale ha raggiunto un grado apprez­ zabile di civiltà, e perciò - come dicevamo - non è qui il problema. Il pro­ blema, a parte qualche incertezza interpretativa, sta nel come far rispettare queste norme scritte da coloro stessi che le hanno promosse o vi hanno co­ munque aderito, e quelle non scritte, che fondano la loro autorità nella con­ suetudine, o i principi generalmente riconosciuti, da tutti gli stati membri della comunità umana. Finora purtroppo s’è visto come vanno le cose nel contesto internazio­ nale. Quando si tratta di diritto bellico dovrebbe spettare al Consiglio di sicurezza delle N azioni U nite farlo rispettare, m ettendo in m ovim ento, da una parte, ogni provvidenza idonea a promuovere arbitrati e risoluzioni pa­ cifiche delle vertenze insorgenti e, dall’altra, se ciononostante aggressione vi fosse, rapidamente identificando e isolando l ’aggressore, e allertando le potenze disponibili per interventi a favore d ell’aggredito in guisa da sco­ raggiare le iniziative dell’aggressore. Sappiamo, invece, che tutto dipende dalla buona volontà di alcuni sta­ ti, specie da quelli che, m ezzo secolo e più dopo la fine del secondo con­ flitto mondiale, detengono ferreamente il diritto di “v eto ” e se ne servono con molta disinvoltura, ogniqualvolta il loro interesse, anche indiretto, di­ verga da quello dell’Onu. Per queste e altre analoghe ragioni gli organi delle N azioni U nite sono spesso inoperanti, o quanto meno titubanti e lenti, e talvolta anche con­ traddittori, sicché tutto il sistema di sicurezza va in crisi e, quel ch ’è peg­ gio, viene investito da scontento e generale sfiducia.

Gallo

Diritto e legislazione di guerra

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Nota bibliografica. G. Balladore Pallieri, Il problema iella guerra lecita nel diritto intemazionale comune e nell’ordinamento giuridico della Società delle Nazioni, in «Rivista di diritto internazionale», 1930, pp. 342 e 509, e 1931, pp. 32 e 149; Id., Trattato di diritto intemazionale, sez. I, voi. VI. Diritto bellico, Roma 1954, in particolare pp. 99 sgg.; Bartolo, Tractatus represaliarum, in Opera omnia, voi. X , Venezia 1602; G. Cansacchi, Nozioni di diritto intemazionale bellico, Torino 1968; P. A. Capotosti, Rappresaglie esercitate dall’occupante per atti ostili della popo­ lazione nemica, in «Rassegna di diritto pubblico», II (1947); Id., Qualificazione giurìdica del­ l’eccidio delle Fosse Ardeatine, in «Il Foro penale», 1950, p. 624; A. Curti Gialdino, «G uer­ ra (diritto internazionale)», in Enciclopedia del diritto, voi. X IX , Giuffrè, Milano 1970; G. Del Vecchio e L. Casanova, Le rappresaglie nei Comuni medioevali e specialmente in Firenze, Bologna 1894, passim fino a p. 93; E. Gallo, La rappresaglia come arma di guerra, in A A .W ., Eserciti, popolazione, Resistenza sulle Alpi Apuane, A tti del Convegno internazionale di studi storici (1993), Massa 1995; International CriminalLaw, London 1965; Mandelstam, L ’interpretation du Pacte Brìand-Kellogg par les Gouvemements et les Parlements des Etats signataires, in «Revue générale de droit international», 1933, p. 542; R. Monaco, La responsabilità in­ temazionale dello Stato per fatti di indivìdui, in «Rivista di diritto internazionale», 1939, p. 260; Id., Les conventions entre belligerants, in Recueildes Cours de l’Académie de droit inter­ national de La Haye, L’Aia 1949; G. Morelli, Nozioni di diritto intemazionale, Cedam, Pa­ dova 1967; L. A. Muratori, Dissertatio LVde represaliis, in Id., Antiquitates ItaliaeMedii Ae­ vi, tomo IV, Società Palatina, Milano 1738, pp. 741 sgg.; A. Pillet, Les conventions de la Haye du 29 juillet 1899 et du 18 octobre 190J, Paris 1918; R. Quadri, Diritto intemazionale pub­ blico, Priullo, Palermo 1956, p. 206 (il quale ricorda la sentenza arbitrale 31 luglio 1928 fra Portogallo e Germania, nella quale la previa richiesta di riparazione, rimasta senza alcuna ri­ sposta, fu espressamente posta come condizione di legittimità della rappresaglia); J.-J. Rous­ seau, Droit internationalpublic, Paris 1953, pp. 545 sgg.; Wehberg, La contribution des Conférences de laPaix de La Haye auprogrés du droit international, voi. I li, Paris 1931, pp. 533 sgg.; Wright, The meaning of thè Pact of Paris, in «American Journal International Law», 1933, pp. 58-61.

Parte seconda

GLORIA. C H IA N E SE

Basilicata, Calabria, Campania, Puglia

Assetto sociopolitico nel Mezzogiorno. Il Mezzogiorno visse in maniera sostanzialmente simile l’ultima fase del conflitto: l’intensificarsi dei bom­ bardamenti, il crollo del fascismo, i «quarantacinque giorni». Diversa fu in­ vece, tra le varie regioni e tra le differenti aree della medesima regione, l’espe­ rienza dell’occupazione nazista e del governo angloamericano. Calabria, Ba­ silicata e Puglia furono rapidamente sgombrate, mentre in Campania il processo fu più complesso, l’area salernitana fu prescelta dagli alleati per l’operazione Avalanche, a Napoli esplose la rivolta delle Quattro giornate e in Terra di Lavoro, nel Casertano, i nazisti si attestarono lungo successive linee: Viktor e Barbara e Bernhardt. Comune a tutto il Sud fu il crollo del­ l’esercito e dello stato periferico, che si ebbe peraltro nell’intero paese. La vicenda del Regno del Sud segnò poi la prima fase della transizione postbellica e fu caratterizzata da due elementi comuni: - l’assenza di un vero e proprio stato perché l’autorità del governo Ba­ doglio era minima avendo l’amministrazione alleata potere discrezio­ nale su tutti gli aspetti dei rapporti politici e sociali; - la rapida formazione di un ceto politico postfascista e non antifasci­ sta, moderato e per lo più monarchico. Ciò favorì una “vischiosità” dell’assetto istituzionale che di fatto pro­ dusse un ricambio dei gruppi dirigenti segnato dal trasformismo e da una forte continuità con il regime fascista, anche perché l’epurazione fu assai poco incisiva. Lo sviluppo dei partiti e delle organizzazioni di massa rima­ se asfittico. Un elemento innovativo fu costituito, già tra il 1943 e il 1944, dall’inizio delle lotte nelle campagne, che assunsero la forma delle “repub­ bliche contadine” e delle occupazioni di terre. Questi i tratti salienti della società meridionale nei mesi del Regno del Sud. Ogni regione però combinò in modo diverso gli elementi indic ati e in tal senso può essere utile ripercorrere i singoli itinerari, seguendo le tappe dell’avanzata angloamericana che scandì i tempi della liberazione del Mez­ zogiorno. La protesta contadina in Calabria. Il 3 settembre 1943, dopo la liberazio­ ne della Sicilia, scattò l’operazione Bayton e l’VIII armata inglese giunse ra­ pidamente a Catanzaro-Nicastro. La guerra in questa regione era rimasta lon­

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tana fino ai bombardamenti dell’estate 1943, che penalizzarono soprattutto Reggio Calabria. In precedenza la vita quotidiana non aveva subito muta­ menti radicali e nelle famiglie povere i sussidi dei richiamati avevano creato un qualche consenso [Masi 1996, pp. 507-45]. In Calabria nell’estate 1943 operava il XXXI corpo d’armata dipendente dalla VII armata, che include­ va, tra le altre, la 29“ e la 26“divisione Panzergrenadier dislocate, rispettiva­ mente, nella Calabria meridionale e a Catanzaro. Dopo il 25 luglio non era­ no state particolarmente intense le manifestazioni di protesta per la caduta del regime, mentre, specie dopo l’8 settembre, si intensificò la pratica dei sac­ cheggi ai depositi militari, per lo più di viveri, che costituiva una forma di ri­ sposta della popolazione civile alla drammatica carenza alimentare. A ciò si associava, nelle campagne, la generalizzata evasione degli am­ massi, che coinvolgeva le diverse figure di produttori e di lavoratori agri­ coli. In molti casi i piccolissimi proprietari, evadendo gli ammassi, cerca­ vano di garantirsi un piccolo approvvigionamento necessario per la sussi­ stenza; per le altre fasce di proprietari invece questa pratica era sollecitata dagli elevati profitti che si potevano ricavare dal mercato nero. In tal sen­ so le possibilità d’arricchimento veloce erano legate, come ha osservato Pie­ ro Bevilacqua, «ad una condizione fondamentale: violare le regole, le leg­ gi, l’intero sistema di regolamentazione imposto dallo stato fascista» [1980, p. 341]. La conseguenza di tutto ciò fu la diffusissima presenza del merca­ to nero che si andò ulteriormente accentuando nei mesi del Regno del Sud. La Calabria non ebbe di fatto occupazione nazista perché i tedeschi de­ cisero di ritirarsi più a nord senza contrastare l’avanzata angloamericana. Le operazioni in Calabria furono effettuate dalla 5“divisione di fanteria bri­ tannica e dalla i a divisione di fanteria canadese. Quest’ultima occupò Reg­ gio Calabria il 3 settembre, poi le truppe avanzarono verso Nicastro, che raggiunsero l’8. Tutto il territorio calabrese fu liberato il 22 settembre [San­ toni 1983, pp. 409-36]. Subentrò poi rapidamente una situazione di “pace dimezzata” in cui il conflitto era cessato, ma continuavano a sussistere i problemi e le contraddizioni del quotidiano di guerra. Soprattutto conti­ nuavano i disagi alimentari e ciò indusse i contadini nell’autunno 1943 a effettuare le prime occupazioni di terra. Tra il 16 e il 18 settembre vi fu­ rono occupazioni spontanee in molte località del Crotonese, in provincia di Catanzaro: Strangoli, Ciro, Melissa. Le terre venivano arate e seminate e costituivano una risorsa concreta per avere, di li a qualche mese, un po’ di cibo, ma la motivazione della protesta contadina scaturiva, già in questa primissima fase, anche da un bisogno di terra, antico e fortissimo, che ac­ quisiva vigore dai mutamenti politici del paese [Cinanni 1977]. Le occupazioni di terra furono sollecitate dal rientro dei soldati conta­ dini che, dopo l’8 settembre, tendevano a ritornare nei paesi d ’origine e, do­ po l’esperienza del fronte, si ritrovavano ad affrontare gli enormi disagi del­ la sussistenza quotidiana. L’elemento nuovo della situazione sociale calabrese era in sintesi l’emer­ gere di una conflittualità nelle campagne che si sarebbe delineata piena­

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mente nelle successive fasi del ciclo di lotte contadine contro il latifondo. Tali fermenti innovativi si accompagnavano alla “vischiosità” dello stato postfascista, al lento ricambio del ceto politico e all’inefficacia del proces­ so epurativo, ulteriormente ridimensionato dopo il passaggio della regione all’amministrazione italiana nel febbraio 1944. Soltanto in qualche caso la protesta popolare riuscì a imprimere una maggiore incisività al quadro po­ litico. A Cosenza, città di antiche tradizioni democratiche, che aveva co­ nosciuto nel primo dopoguerra un intenso movimento contadino mante­ nendo negli anni del regime un tessuto di antifascismo clandestino, esplo­ se il 4 novembre 1943 la rivolta popolare contro la permanenza del prefetto fascista Enrich. Fu invasa la prefettura e furono imposti come prefetto e sindaco i comunisti Fausto Gullo e Francesco Spezzano. Gli alleati non ra­ tificarono tale scelta pur prendendo atto del diffuso disagio; vennero inse­ diati i socialisti Pietro Mancini e Francesco Vaccaro. Insomma la Calabria uscì dalla guerra senza brusche cesure e ciò in­ fluenzò la transizione postbellica. L’elemento nuovo fu il configurarsi, già durante il Regno del Sud, della protesta contadina. Ma sul piano istituzio­ nale lo stato postfascista si andava riorganizzando nel segno di una forte continuità. Le sollevazioni in Basilicata. In Basilicata vi furono molti elementi co­ muni con la situazione calabrese, ma anche qualche significativa differen­ za. In primo luogo la ritirata dell’esercito nazista lasciò segni più profondi e favorì lo sviluppo di comportamenti di ribellione. A Rionero in Vulture, in provincia di Potenza, il 16 settembre 1943 due civili furono uccisi dai nazisti, i quali avevano sparato sulla folla mentre veniva assalito un depo­ sito di viveri. Il 24 furono uccisi diciassette ostaggi per rappresaglia contro il ferimento di un soldato tedesco; si salvò soltanto un ragazzo perché rite­ nuto morto. Poco prima era insorto il piccolo paese di Maschito, sempre in provincia di Potenza. Dopo la ritirata dei tedeschi fu proclamata la “re­ pubblica” e la popolazione si diresse verso il Consorzio agrario dove fu or­ ganizzata la distribuzione di viveri, impedendone così il saccheggio. Il po­ destà fu deposto e venne insediato come sindaco Domenico Bochicchio. La repubblica durò qualche tempo, ma agli inizi di ottobre, su decisione del comando alleato, cinque dirigenti della rivolta furono arrestati, poi libera­ ti, poi nuovamente arrestati e sottoposti, nel maggio 1944, a procedimen­ to giudiziario da cui, alla fine, vennero assolti. A Matera la popolazione insorse il 21 settembre 1943 dopo un ennesi­ mo episodio di rapina dei nazisti in una gioielleria del centro cittadino; la rivolta vide la partecipazione dei militari dell’esercito e della Guardia di finanza ed ebbe carattere popolare esprimendo anche figure di capipopolo come Emanuele Manicone. L’ufficiale Francesco Nitti, rimasto a presi­ diare il comando di sottozona, distribuì armi agli insorti: gli scontri si pro­ pagarono in tutta la città e alla fine si ebbero ventidue civili e due nazisti uccisi.

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La rivolta di Matera ebbe la configurazione di un moto spontaneo di rea­ zione alle violenze naziste e maturò a conclusione della lunga vicenda della guerra. Ma non va dimenticato che in città, ma un po’ in tutta la regione, era rimasta memoria delle violenze dello squadrismo fascista, particolarmente aspre in molti c omuni della provincia; durante gli anni del regime la rete an­ tifascista clandestina era stata sorretta anche attraverso l’influenza di alcu­ ni confinati, come Guido Miglioli a Lavello. Nel settembre la Basilicata visse un momento convulso e rimase di fat­ to senza difesa, anche perché il comando della VII armata, da cui dipende­ vano il XIX, il IX e il XXI corpo d’armata addetti alla difesa del Mezzo­ giorno, si trasferì in Puglia a Francavilla Fontana. L’avvertire una situa­ zione di “terra di nessuno” attivò risorse e strategie e la popolazione si rese conto di doversi garantire da sola la sopravvivenza dal terrore nazista. Poi arrivarono gli alleati. Anche in Basilicata si ricostituì rapidamente un ceto politico postfascista di segno trasformista di cui un esempio è dato dalla fi­ gura di Vito Reale, esponente nittiano negli anni precedenti all’avvento del fascismo. Dopo la formazione del Regno del Sud sostenne il governo Ba­ doglio intorno a cui coagulò l’intero gruppo locale degli ex nittiani, racco­ gliendo un’indicazione che il Nitti gli aveva trasmesso dall’esilio con una lettera del 29 luglio 1943. Fu ministro dellTnterno nel primo governo Ba­ doglio, aderì alla Democrazia del lavoro e fu poi insediato dagli alleati come sindaco di Potenza. Condusse dalle pagine del «Gazzettino», periodico che di fatto dirigeva e controllava, una polemica molto aspra contro il Comita­ to di liberazione nazionale (Cln), in particolare in occasione del I Congres­ so dei Cln dell’Italia liberata (Bari, 28-29 gennaio 1944) [Calice 1976, pp. 38-44]. Reale è appunto un esempio del processo di divaricazione tra società e ceto politico nel Regno del Sud. La società fu segnata dalla radicalità dei mutamenti politici che si susseguirono nel 1943: crollo del fascismo, fine della guerra, occupazione tedesca, occupazione angloamericana. Il ceto po­ litico postfascista sembrò rincorrere tutto questo con operazioni di cortissi­ mo respiro che recuperavano antiche modalità trasformiste. Anche in Ba­ silicata, come in Calabria, però, maturarono nell’ambito politico istanze nuove che scaturivano dalle lotte contadine. Si è già accennato all’espe­ rienza della “repubblica” di Maschito nel settembre 1943 che esprimeva un bisogno di governo, di ridistribuzione delle poche risorse disponibili che ve­ niva affidata a rappresentanti legittimati dalla comunità. La protesta dei con­ tadini assunse poi la forma dell’occupazione delle terre demaniali e dei la­ tifondi, che si svilupparono con particolare intensità nell’autunno 1944, sollecitate e rinvigorite dai decreti Gullo, cioè da uno strumento del go­ verno d’unità nazionale di cui potevano avvantaggiarsi i contadini del Sud. Anche in Basilicata, come già in Calabria, un elemento importante fu co­ stituito dal ritorno dei reduci. Le lotte si svilupparono nelle aree della mon­ tagna lagonegrese e potentina e del Melfese. Vennero occupate terre incol­ te, ma non solo, terre demaniali, e anche latifondi privati. Si chiedeva la

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“terra”, ma anche la proroga dei contratti d’affitto. A partire da questi mo­ vimenti si andavano ricostituendo le organizzazioni sindacali a cui i conta­ dini decidevano di iscriversi in massa. Accanto a ciò si ebbero fenomeni di aperto rifiuto di ogni forma di ul­ teriore coinvolgimento nella guerra a fianco degli alleati, come invece pre­ vedeva lo status di cobelligerante che il Regno del Sud aveva faticosamen­ te raggiunto. Nino Calice ricorda che, sempre nel Melfese, ci fu un rifiuto dei richiami da parte di molti giovani delle classi interessate e ciò favori la costituzione di bande armate che si diedero alla macchia nei boschi del Vul­ ture [1976, p. 50]. In sintesi la Basilicata presenta durante il Regno del Sud un quadro politico-sociale abbastanza mosso. La breve esperienza del sistema di terrore nazista produsse, oltre le consuete strategie di sopravvivenza, anche com­ portamenti di rivolta, e cominciavano a delinearsi motivi e istanze delle lot­ te contadine che avrebbero caratterizzato il Mezzogiorno nel dopoguerra. Il sistema politico invece rimaneva rigido, tendevano a prevalere forme di aggregazione che ricalcavano i moduli del tradizionale trasformismo e lo sviluppo dei partiti di massa appariva ancora lontano. Sullo sfondo il go­ verno alleato che di fatto svolgeva mansioni di stato in un contesto che ri­ maneva di emergenza. Fermento politico e lotta sociale in Puglia. La regione pugliese visse in primo luogo l’esperienza di essere per qualche mese capitale del Regno del Sud. A Brindisi si rifugiò il re e s’insediò il governo; in realtà però fu Bari a essere la città di maggiore rilievo politico. Qui sussisteva una consolida­ ta tradizione antifascista che si era articolata in un filone comunista, di cui erano esponenti Luigi Allegato, Raffaele Pastore, Domenico De Leonardis, Antonio Di Donato, Raffaele Assennato e Michele Pellicani, e un filone li­ beralsocialista in cui troviamo Tommaso ed Enzo Fiore. Ampia era stata l’influenza crociana e della casa editrice diretta da Giuseppe Laterza. Anche a Taranto vi era una consolidata tradizione antifascista. Nell’ot­ tobre del 1942 sei cittadini, tra cui due operai dell’Arsenale, furono con­ dannati dal Tribunale speciale a pene tra uno e otto anni di carcere «per as­ sociazione contro lo stato e radioaudizioni nemiche» [Dal Pont, Leonetti, Maiella é Zocchi 1961, p. 482]. Tre giorni dopo il 25 luglio 1943 vi fu un eccidio compiuto dall’eserci­ to italiano. Ventiquattro militari del 90 battaglione autieri spararono con­ tro un corteo di dimostranti mentre, recandosi al carcere cittadino per li­ berare i detenuti politici, tentavano di assalire la sede del locale fascio, po­ sta di fronte a quella del comando alleato. L’episodio è stato ricostruito con precisione [Barra 1978, pp. 162-68]. I morti furono diciassette, ma i dati restano controversi. Se si esaminano le classi d’età e la composizione sociale dei caduti, risulta che ben dieci avevano un’età compresa tra i dodici e i ventanni. Nove erano studenti universitari e della scuola media superiore, vi erano poi uno scultore, un barbiere, un venditore ambulante, un fatto­

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rino, un maestro e un insegnante, un impiegato e un commesso. Interes­ sante è anche la vicenda del processo. Fu rinviato a giudizio soltanto un ser­ gente del 4 0 battaglione San Marco che si trovava a Bari in licenza, il qua­ le, dapprima, avrebbe sfilato nel corteo di dimostranti e, poi, si sarebbe in­ serito a fianco dei militari. Venne assolto il 7 gennaio 1944 dal Tribunale militare di Taranto con formula dubitativa e invano gli antifascisti chiese­ ro la riapertura del processo. Sempre a Bari si ebbe dopo l’8 settembre un importante episodio di re­ sistenza patriottica. Il generale Nicola Bellomo organizzò la difesa del por­ to cittadino, laddove il comandante del locale presidio, generale Caruso, non aveva predisposto alcuna difesa. Lo stesso Bellomo fu poi condannato in un affrettato processo del Tribunale alleato perché ritenuto responsabi­ le dell’uccisione di due ufficiali inglesi, e venne fucilato l’i 1 settembre 1945. Scontri tra nazisti e militari italiani vi furono anche a Barletta dove erano dislocate alcune migliaia di soldati del 150 reggimento costiero. Il presidio ita­ liano fu costretto a trattare la resa quando entrò in città la divisione Gòring. Per rappresaglia furono uccisi undici vigili urbani e due netturbini e, poi, an­ cora altri quaranta cittadini. Inoltre vennero catturati circa duemila soldati. In località Murgetta Rossa, nei pressi di Spinazzola, il 17 settembre 1943 ventuno soldati furono catturati dai tedeschi e fucilati. I loro corpi venne­ ro lasciati senza sepoltura. Procedeva l’azione di sistematica distruzione del territorio. L’acquedotto pugliese fu minato in più punti e ciò impedì per di­ versi giorni il rifornimento idrico. Ancora il 25 settembre altri undici ita­ liani, in questo caso militari sbandati, furono uccisi a Santa Maria di Val­ lecannella, frazione di Cerignola in provincia di Foggia. In Puglia, quindi, la fase dei «quarantacinque giorni» e il settembre 1943 segnarono un momento convulso in cui la popolazione in più modi speri­ mentò la struttura fortemente repressiva del governo badogliano e la vio­ lenza del terrore nazista. Questo aspetto si combinò con la peculiare confi­ gurazione dello stato periferico; prefetti e questori, nei casi in cui vennero rimossi, furono sostituiti da personale monarchico e vennero insediati sindaci di indirizzo liberale e conservatore. Non mancarono le reazioni popolari che si sovrapponevano e si intrec­ ciavano alle proteste per la sopravvivenza. In realtà, dopo l’8 settembre la conflittualità sociale s’intensificò muovendosi sui medesimi terreni prescel­ ti durante gli ultimi anni del conflitto. Utilizzando le segnalazioni di prefetti e questori è stata fatta un’accurata ricognizione delle proteste in provincia di Bari per tutti i mesi del Regno del Sud [Cornei 1985, pp. 310-14]. Le pro­ teste avevano motivazioni diverse, s’indirizzavano contro il carovita, l’obbligo dell’ammasso per il grano a uso familiare oppure richiedevano aumen­ ti dei sussidi militari e salariali. Spesso erano protagoniste le donne. Aveva­ no modalità abbastanza simili che in molti casi implicavano l’assalto ai dazi comunali, ai forni o alle abitazioni di quanti erano ritenuti responsabili del­ lo stato di affamamento della popolazione soprattutto attraverso l'imbosca­ mento di viveri. I commissari prefettizi erano la figura istituzionale contro

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cui più spesso si rivolgeva la protesta popolare. Furono coinvolti molti cen­ tri della provincia di Bari: Andria, Corato, Barletta, Bari, Gravina, Gioia del Colle, Minervino, Mola di Bari, Trani, Spinazzola. Soprattutto dai pri­ mi mesi del 1944 iniziò a delinearsi un rapporto più stretto con le strutture politiche, in partic olare con le locali sezioni comuniste, dove, talora, veni­ vano distribuiti i viveri procurati con assalti ai forni o ai depositi annonari. Le forme della protesta sociale riprendevano modalità antiche delle lot­ te contadine, ma apparivano in questa fase fortemente segnate dalla con­ tingenza della guerra, dalle emergenze che ne erano scaturite, tra cui in pri­ mo luogo quella alimentare [Leuzzi e Cioffi 1988, pp. 19-72]. Il fatto che s’indirizzassero contro il commissario prefettizio, il sindaco o, più rara­ mente, contro il comando angloamericano, indicava che istituzioni e figu­ re locali erano percepite come un sistema di potere che egemonizzava le ri­ sorse della sussistenza. Anche la rivolta contro il prefetto di Taranto del 2 febbraio 1944 ebbe un carattere composito e prese le mosse dal problema alimentare. In que­ sto caso furono gli operai dei cantieri Tosi e, poi, i lavoratori dell’Arsena­ le a mobilitarsi per ottenere distribuzioni di pane e farina. I manifestanti si indirizzarono verso la prefettura, segui una vera e propria “c accia” del prefetto Domenico Soprano. Soldati e marinai si rifiutarono di sparare con­ tro i manifestanti e il prefetto fu costretto alle dimissioni. Tensioni e fermenti che venivano dalla società solo parzialmente trova­ rono riscontro nelle strutture di aggregazione politica. Il discorso vale in particolar modo per i Cln che, anche in Puglia, si configuravano come i luo­ ghi in cui si svolgeva un dibattito politico più o meno intenso, ma in qual­ che modo separato dalla società locale. Lo stesso Cln di Bari rifletteva tali limiti, anche se era notevole lo sforzo di confrontarsi sui nodi decisivi del­ la situazione politica generale e in primo luogo sul problema del rappor­ to/scontro tra forze antifasciste, monarchia e governo badogliano. Esso si era costituito come Fronte nazionale d’azione a fine agosto 1943 con l’ade­ sione del Pei, Psi, Pda, Pii e singoli esponenti democristiani. Scadenza im­ portante fu il I Congresso dei Cln dell’Italia liberata (28-29 gennaio 1944), che acquisì un rilievo ben superiore all’ambito locale. Il Cln di Bari fu re­ sponsabile di tutto l’aspetto organizzativo. Il congresso definì con chiarez­ za la contrapposizione tra forze antifasciste e Regno del Sud, fu segnato dall’indiscussa egemonia di Benedetto Croce e chiese con forza l’abdica­ zione del re. Venne alla fine eletta la giunta esecutiva che avrebbe dovuto attuare le decisioni del congresso, ma fu di fatto superata dalla nuova fase del dibattito politico apertosi con la «svolta di Salerno». Il Cln di Bari fu fortemente influenzato dalla presenza azionista che ve­ deva al suo interno una componente di formazione liberalsocialista, di cui erano esponenti Tommaso Fiore e Michele Cifarelli, segretario del Cln, e una componente maggiormente legata alla tradizione del radicalismo salveminiano, al cui interno prevaleva la figura di Vincenzo Calace, che a lungo aveva operato nel movimento di Giustizia e libertà (Gl).

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Anche la presenza del Pei era vivace, c’era molta continuità tra il per­ sonale politico dell’immediato dopoguerra e quello precedente all’avvento del fascismo; lo stesso avveniva nel Psi. Tra i comunisti si ebbero difficoltà e conflitti politici e organizzativi che non impedirono però lo sviluppo del partito, soprattutto nella provincia. Importante anche il ruolo del Pii che si costituì nel dicembre 1943, fu largamente influenzato dalle posizioni di Benedetto Croce e aderì al Cln. Giuseppe Laterza, che aveva operato durante il fascismo con la sua nota ca­ sa editrice, fu eletto presidente. Da segnalare infine, un po’ in tutta la Puglia, la presenza del Partito de­ molaburista, che ebbe le caratteristiche consuete che abbiamo ritrovato nel­ le altre regioni meridionali: la polemica aspra contro le forze antifasciste, il sostegno alla monarchia e al governo Badoglio, l’attivazione di una rete clien­ telare e trasformista. La Puglia fu un centro importante dei tentativi di rior­ ganizzazione legittimista che venivano coordinati da Filippo Naldi, il quale dirigeva l’ufficio stampa del governo. Un profilo del personaggio, che ne evi­ denzia il comportamento abile e spregiudicato, è tratteggiato da Agostino Degli Espinosa nel suo libro-cronaca II Regno del Sud [1995, pp. 290-99]. Il 5 gennaio 1944 Naldi organizzò il I Congresso del Partito demolabu­ rista a cui parteciparono i sottosegretari governativi; alla presidenza vi era Giuseppe Perrone Capano. A Taranto, poco dopo, il 25 gennaio, si tentò di organizzare il congresso dei combattenti delle federazioni di Bari, Taran­ to, Brindisi, Lecce, Benevento, che ebbe un carattere filomonarchico e a cui parteciparono i ministri Vito Reale e Raffaele De Caro. L’iniziativa era stata promossa dagli ambienti demolaburisti nel tentativo di costruire una scadenza da opporre al congresso dei Cln, che si sarebbe svolto a Bari di lì a qualche giorno. Sempre a Taranto inoltre operavano le squadre antico­ muniste di soldati dell’unità polacca comandata dal generale Anders, che si distinsero per le numerose aggressioni alle sedi dei partiti di sinistra. In conclusione i mesi del Regno del Sud per la Puglia segnarono una fa­ se molto intensa. L’occupazione nazista, pur nella sua brevità, lasciò segni più profondi che in altre aree del Mezzogiorno. Inoltre ci fu una maggiore visibilità delle due istituzioni, governo Badoglio e monarchia, che affan­ nosamente cercavano di costruire una propria legittimazione. La società si muoveva su percorsi paralleli con al centro i problemi del­ la sussistenza, intorno a cui si coagulavano anche istanze nuove di trasfor­ mazione. In Puglia il sistema dei partiti era ancora da costruire, ma appa­ rivano più vivaci alcune strutture, come il Cln di Bari, mentre, sul versan­ te delle forze conservatrici, si evidenziava lo sforzo di aggregazione dei demolaburisti. La resistenza e le rivolte in Campania. La Campania fu coinvolta in mi­ sura maggiore nello scontro tra i due eserciti nazista e angloamericano. Con lo sbarco di Salerno iniziò l’operazione Avalanche; i nazisti opposero un’ac­ canita resistenza che si concentrò in alcune località della provincia quali Al-

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banella, Altavilla, Battipaglia e il valico di Chiunzi. Soltanto il 16 settem­ bre 1943 la V armata potè ricongiungersi all’VIII armata inglese. Nel Salernitano si ebbero forme di resistenza assai diversificate. In pri­ mo luogo va segnalato un episodio di resistenza patriottica. Il 9 settembre 1943 il generale Ferrante Maria Gonzaga, comandante della 22a divisione costiera a Buccoli di Conforti, in provincia di Salerno, rifiutò di arrendersi e fu ucciso all’istante. Si ebbero poi numerosi casi di resistenza individuale. Ad esempio a Castagneto di Cava dei Tirreni il maggiore Pasquale Capone sparò contro un gruppo di nazisti che stavano per fucilare alcuni civili ra­ strellati. Fu catturato e fucilato poco dopo che il padre venne trucidato. A Scafati, il 28 settembre, vi fu una vera e propria insurrezione che eb­ be per protagonista Vittorio Nappi. La rivolta iniziò con l’assalto al locale deposito di armi e prosegui per l’intera giornata del 28; vi parteciparono anche alcune pattuglie alleate inviate in perlustrazione. Si evitò che venis­ se distrutto il ponte sul Sarno. La stessa Radio Londra diede notizia della rivolta. Da segnalare alcuni attestati di riconoscimento che furono fatti a Nappi. Il podestà, prima di dimettersi, scrisse una lettera di elogio al co­ mando dei carabinieri e al comando alleato; a sua volta il parroco eviden­ ziò che la difesa del paese aveva evitato la distruzione della chiesa [Secchia 1987, pp. 413-14]. Nel settembre 1943 la Campania subì il terrore nazista, l’accurato la­ voro di distruzione del territorio e di ogni risorsa produttiva, la lunga se­ quenza di rastrellamenti, violenze, evacuazioni coatte, stragi, eccidi. La re­ gione fu di fatto abbandonata a se stessa perché il XIX corpo d’armata, che avrebbe dovuto provvedere alla difesa del territorio, in realtà si disfece. In un primo momento i nazisti si arroccarono lungo una linea che collegava Salerno, Eboli e Benevento, poi si dislocarono lungo linee diverse: Viktor, Barbara e Bernhardt. In particolare fu coinvolta l’area di Terra di Lavoro, dove si ebbero ben ventisette eccidi. Il massacro di Caiazzo del 13 ottobre è diventato un po’ l’emblema di questa tragica fase di terrore. Le vittime furono ventitré, tutte civili, di cui nove bambini. Essi furono uccisi perché accusati di aver fatto segnalazio­ ni luminose agli alleati dai casolari in cui si erano rifugiati. La strage fu rea­ lizzata dai soldati della III compagnia 290 Panzergranadier Regiment. Le vittime hanno avuto una giustizia postuma, sollecitata dall’azione tena c e di Giuseppe Agnone che ha recuperato la documentazione alleata prodotta im­ mediatamente dopo l’eccidio. Su questa base sono stati avviati procedimenti penali del tribunale italiano di Santa Maria Capua Vetere e da quello tede­ sco di Coblenza contro Wolfgang Lehnigk Emden, comandante del ploto­ ne che eseguì il massacro. Il processo ha costituito un importante esempio di «recupero della memoria», anche se sul piano giuridico ci si è dovuti fer­ mare di fronte ai limiti assolutori della giustizia tedesca sui crimini di guer­ ra [Agnone e Capobianco 1990]. Qualche giorno prima, il 7 ottobre, era avvenuta la strage di Bellona, un piccolo paese in provincia di Caserta. Questa volta la dinamica fu di­

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versa perché i nazisti seguirono il criterio della rappresaglia. Un soldato te­ desco era stato ucciso dal fratello di una ragazza che aveva tentato di stu­ prare. Furono rastrellati trecento civili, condotti in una cava di tufo, e cinquantaquattro persone furono uccise a piccoli gruppi. Si trattava di citta­ dini di Bellona, ma anche dei paesi vicini, di militari sbandati, di sfollati. A tu tt’oggi, a differenza della strage di Caiazzo, non è stato avviato alcun procedimento giudiziario contro i responsabili del massacro. E il medesimo discorso vale per l’assassinio del sedicenne Carlo Santagata, che reagì agli insulti e ai dileggi di alcuni nazisti, che lo avevano fermato a un posto di blocco, sparando contro di essi. Il ragazzo fu catturato, seviziato e impic­ cato a un ramo di gelso dove il suo corpo fu “esposto” secondo una ritua­ lità di morte propria dei nazisti. E, ancora, quaranta civili furono stermi­ nati a Conca della Campania, sempre per rappresaglia, dopo l’uccisione di tre tedeschi causata da scontri tra nazisti, militari italiani e, pare, un uffi­ ciale inglese. I rastrellamenti e il massacro furono effettuati tra il i° e il 2 ottobre. Dell’eccidio non rimane alcuna traccia, soltanto una croce di pie­ tra nel cimitero del paese. Nel Casertano, oltre ai massacri e agli eccidi vi furono anche tentativi di resistenza con tipologie molteplici [Capobianco 1995]. La realtà più si­ gnificativa fu Santa Maria Capua Vetere, dove il 5 ottobre ebbe luogo un’insurrezione a cui parteciparono civili e carabinieri. Nel corso della rivolta fu ucciso il collaborazionista Enrico Liguori e vi furono altri tentativi di «cac­ cia ai fascisti». E la memoria dell’episodio tende a separare ruoli e meriti: 10 scontro militare contro i nazisti sarebbe stato opera dei carabinieri, men­ tre gli altri insorti sarebbero stati gli autori di «episodi criminosi». In sintesi le settimane successive all’8 settembre 1943 costituirono per la Campania una fase di intenso travaglio a cui pose fine l’arrivo dell’esercito angloamericano. La fine della guerra non implicò affatto un ritorno alla nor­ malità. In un contesto in cui era ormai crollata ogni credibilità dello stato si riproponevano, aggravati, i problemi della sussistenza, ma si liberavano an­ che nuove energie che mettevano in crisi antichi e consolidati equilibri so­ ciali. Nelle campagne, analogamente a quanto si verificava nelle altre regio­ ni del Mezzogiorno, si sviluppavano rivolte contadine che avevano una for­ te continuità con i comportamenti collettivi che si erano manifestati durante 11conflitto, quali l’evasione generalizzata degli ammassi e le proteste contro il carovita. Nei mesi del Regno del Sud le lotte contadine assunsero la forma delle rivolte che coinvolgevano l’intero paese, contrapponendosi duramente al sistema di potere locale compromesso con il regime fascista. Questa pri­ missima fase della protesta nelle campagne è stata descritta cogliendone i nes­ si con i successivi sviluppi delle lotte contadine senza, però, esplicitarne pie­ namente i nessi con l’emergenza-guerra [Marrone 1979]. Ài fini del nostro discorso può essere utile porre a confronto tre esempi di rivolte contadine che si ebbero a Calitri, Sanza e Montesano sulla Marcellana. A Calitri, piccolo paese in provincia di Avellino, che all’epoca aveva cir­ ca diecimila abitanti, la rivolta scoppiò il 29 settembre, poco prima dell’ar­

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rivo degli alleati, e s’indirizzò contro le autorità locali: podestà, marescial­ lo dei carabinieri, segretario del fascio locale, tutti percepiti come collabo­ razionisti, ma soprattutto come “affamatori”. Alla rivolta parteciparono an­ che due confinati politici: Antonio Lucew, d ’origine croata, e Walter Zavatti. La folla andò all’assalto della casa di Ricciardi, ammassatore di grano, da dove si sparò contro i dimostranti e venne ucciso Pasquale Di Nora. Fu­ rono allora saccheggiati i magazzini dell’ammasso granario e venne invasa e bruciata la casa del Ricciardi, che fu ucciso insieme alla figlia. Il 10 otto­ bre, sopraggiunti i rinforzi di polizia, vennero arrestate quaranta persone, poi liberate per intervento degli alleati. La rivolta sembra riproporre il mo­ dello tradizionale di sommossa contadina contro i notabili locali, che era­ no percepiti come fascisti, ma soprattutto venivano ritenuti responsabili di aver affamato la popolazione. Tre anni dopo, il 27 dicembre del 1946, fu­ rono arrestate novantadue persone tra cui il sindaco socialista, che, nel frat­ tempo, era stato eletto. Per cinquantasette venne confermato l’arresto con numerose accuse, tra cui quella di strage. Quarantacinque imputati furono assolti e altri dodici condannati a pene comprese fra i tre e gli otto anni. Dieci anni di carcere furono invece inflitti ad Antonio Lucew, già confina­ to durante il regime, dal quale il collegio di difesa aveva preso le distanze durante il processo. A Sanza, piccolo paese nel Vallo di Diano in provincia di Salerno, il 10 ottobre 1943 fu istituita una vera e propria repubblica. Fu scacciato il po­ destà ancora in carica e venne ac clamato sindaco il contadino Tommaso Ciorciari. La piccola repubblica si caratterizzò per alcuni drastici provve­ dimenti, come, ad esempio, il licenziamento di alcuni dipendenti comuna­ li responsabili di aver vessato i contadini. Ma soprattutto furono occupate le terre del locale agrario, Tommaso Morena. La repubblica durò circa un mese, poi intervennero i carabinieri di Sala Consilina che arrestarono Cior­ ciari, il segretario comunale e trenta braccianti che furono poi processati e condannati per associazione illecita, usurpazione di pubbliche funzioni e abu­ so di autorità [Laveglia 1978, pp. 425-26]. La terza rivolta si ebbe a Montesano sulla Marcellana, anch’esso piccolo paese nella Valle di Diano. Prima dell’insurrezione vi erano già state mani­ festazioni di protesta che si erano indirizzate in particolare contro le guar­ die campestri, colpevoli di avere denunziato i contadini per piccoli reati co­ me il pascolo abusivo, il furto di legna nei boschi comunali, il piccolo con­ trabbando. Durante la festa del patrono, san Rocco, era stato destituito il commissario prefettizio e insediato un nuovo sindaco. Il 19 dicembre scop­ piò la vera e propria rivolta, che comportò anche l’assalto alla casa del se­ gretario comunale: ma venne duramente repressa e negli scontri con le for­ ze dell’ordine furono uccisi otto civili. Seguì il processo che si concluse con la condanna dei promotori dell’insurrezione [ibid., p. 424]. Le tre rivolte, che si svilupparono a poca distanza I’una dall’altra, non ebbero alcuna forma di collegamento e il loro isolamento contribuì in qual­ che modo a rafforzarne le caratteristiche radicali e utopiche. C’è in co-

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mime una forte domanda di giustizia, di più equa ripartizione delle risor­ se disponibili che viene affidata ad amministratori legittimati dalla comu­ nità. Nel corso delle rivolte vi furono forme di violenza indirizzate contro i responsabili locali del sistema di potere, che venivano puniti sia perché avevano imboscato le risorse alimentari sia perché avevano vessato con comportamenti arroganti i contadini. La risposta dello stato badogliano e del governo alleato fu unicamente repressiva. I contadini e i loro dirigen­ ti furono arrestati, processati e condannati in tutti i tre casi di rivolta pre­ si in esame. In conclusione la Campania negli ultimi mesi del 1943 fu segnata da eventi intensi e convulsi. L’occupazione nazista comportò stragi ed eccidi, ma anche importanti momenti di resistenza. Il rapido passaggio al dopo­ guerra apri una fase nuova che per la popolazione civile ebbe però molti ele­ menti di continuità con l’emergenza-guerra. La formazione del Regno del Sud non venne assolutamente percepita come l’inizio di uno stato postfa­ scista, bensì come qualcosa di transitorio del tutto subordinato al governo angloamericano. Città come Salerno e Napoli svolsero per pochi mesi un ruolo che andava oltre l’ambito locale. Salerno fu la capitale di un regno inesistente, Napoli fu la sede dove s’incrociarono figure ed eventi impor­ tanti nello scenario politico nazionale. Basti pensare al discorso di Togliat­ ti al Modernissimo che sancf la «svolta di Salerno»; ma tutto ciò era una sovrapposizione rispetto alla società locale, che si muoveva su un percorso parallelo in cui prevaleva un sentimento di estraneità allo stato postfascista. Cresceva invece un rapporto di fedeltà al re che si andava configuran­ do come un vero e proprio mito, sussumendo nell’immaginario collettivo ruoli e funzioni che erano stati di Mussolini. La monarchia diventava così il luogo che in qualche modo garantiva una sorta di continuità rassicuran­ te in una fase storica che aveva destrutturato nel profondo certezze e com­ portamenti della vita quotidiana. E i risultati del referendum istituzionale avrebbero sancito, per Napoli e per l’intero Mezzogiorno, una netta op­ zione monarchica in contrasto con la scelta repubblicana che prevalse nel Centro-nord. In tal senso l’esito del referendum del 2 giugno 1946 confi­ gurava un vero e proprio conflitto territoriale nel paese. Nota bibliografica.

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GLORIA C H IA N E SE

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La “guerra totale”. La tradizione della Resistenza a Napoli è rappresen­ tata dalle Quattro giornate, l’insurrezione popolare che, tra il 28 settembre e il i° ottobre 1943, costrinse le truppe naziste, già in ritirata, ad abban­ donare la città. La rivolta durò appunto quattro giorni e maturò nello sce­ nario di eccidi, deportazioni, saccheggi, distruzione del territorio propria dell’occupazione nazista dopo l’8 settembre 1943. Sul piano storiografico essa ha dato luogo a una lunga querelle sulla sua configurazione: rivolta spon­ tanea o organizzata? Insurrezione antinazista o anche antifascista? Sul pia­ no della memoria diffusa assai importante è stato il ruolo del film Le quat­ tro giornate di Napoli realizzato da Nanni Loy nel 1962 che ha veicolato un’immagine della rivolta tesa a confermarne la dimensione spontanea e a convalidare una serie di stereotipi, come quello dello scugnizzo protagoni­ sta dell’insurrezione. In realtà i moti del settembre 1943 non possono essere analizzati isola­ tamente, ma si collocano in un continuum che rimanda alla storia della città tra crollo del fascismo e dopoguerra. Napoli visse l’esperienza della “guer­ ra totale” soprattutto sul piano dei bombardamenti, che con particolare in­ tensità si susseguirono tra il 1942 e il 1943. Il 25 luglio e i «quarantacinque giorni» si calarono in una città attonita che esprimeva, come d’altra parte tutto il paese, il bisogno forte che la guerra finisse al più presto. L’occupa­ zione nazista, il rapido farsi nemico dei tedeschi, fino ad allora percepiti come alleati non amati ma in qualche modo rassicuranti, fu invece il tra­ gico epilogo che il conflitto comportò, segnando un’ulteriore trasformazio­ ne della violenza bellica: il nemico era vicinissimo, la guerra non significava più soltanto bombardamenti, sfollamento, fame, ma implicava una dimen­ sione di sterminio della popolazione civile, di vera e propria “persecuzio­ ne delle vite” che anche Napoli e il Mezzogiorno conobbero nel settembre J9 4 3 Una prima chiave di lettura delle Quattro giornate è quindi data dall’ana­ lisi del rapporto tra insurrezione e storia della città, ma può essere utile an­ che indagare il nesso tra la rivolta partenopea e la Resistenza del Centro-nord. Napoli è la prima grande città europea che insorge contro i nazisti, ma le modalità della sua liberazione sono diverse da quelle di una prolungata azione di guerriglia - «i venti mesi» per l’appunto - che producono strut­

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ture come la banda partigiana o istituti come i Comitati di liberazione na­ zionale (Cln), i quali consentono alla Resistenza di svolgere un ruolo di ve­ ro e proprio stato, alternativo al sistema di terrore nazista e alla Repubbli­ ca sociale italiana (Rsi). Le Quattro giornate entrano nella storia della Re­ sistenza, ma con una propria specificità che rimanda alla configurazione della lotta antifascista e antinazista del Mezzogiorno, che fu intensa, ma troppo breve per poter sedimentare un patrimonio politico e civile. C’è da osservare però che la città aveva una tradizione antifascista che aveva attraversato il ventennio fascista. Ben ventuno furono i processi del Tribunale speciale in cui furono coinvolti cinquantasette cittadini napole­ tani. Tra essi Manlio Rossi Doria ed Emilio Sereni, condannati nel 1930 a quindici anni di reclusione «per costituzione del Pei e propaganda», Euge­ nio Reale, Gennaro Rippa, Carlo Rossi, Clemente Maglietta, Salvatore Cacciapuoti. Nel 1942 furono condannati per «disfattismo, offese al duce e ascolto di radio nemiche» sette operai delle Imam di Napoli. L’attività antifascista si collocava sullo sfondo di una città che aveva co­ nosciuto mutamenti e trasformazioni. Ad esempio lo sviluppo del settore industriale, incrementato dalla legge speciale del 1904, aveva dapprima ri­ sentito gli effetti della crisi del 1929, ma poi aveva trovato nuovo vigore negli anni della guerra d ’Etiopia e in prossimità del secondo conflitto mon­ diale. Infatti vi era stato un certo incremento dell’industria cantieristica e metalmeccanica in funzione bellica che si era accompagnato a un netto svi­ luppo dell’attività portuale. Napoli fu uno dei maggiori porti d’imbarco del­ le truppe in partenza per l’Africa e ciò favorì il consenso alla politica im­ perialistica del regime. La guerra poteva creare opportunità di sviluppo dell’economia cittadina; era quindi ben vista soprattutto nel caso della guer­ ra d ’Etiopia, che si svolgeva in territori lontani e incideva in misura molto parziale sulla vita quotidiana. L’esperienza del secondo conflitto mondiale segnò invece profonda­ mente la città con le caratteristiche proprie della “guerra totale” e la popo­ lazione civile visse un rapporto ravvicinato e quotidiano con la morte. Il 1943 rappresentò, in sintonia con quanto avvenne nel resto d’Italia, una fase convulsa in cui si disfece l’autorevolezza e la credibilità del regime fa­ scista, a partire dalle strutture periferiche dello stato e del Partito nazio­ nale fascista (Pnf). Prefetto e podestà erano ritenuti incapaci di provvede­ re alla sussistenza della città che, nel primo semestre dell’anno, fu sotto­ posta a continui e intensi bombardamenti i quali depressero ulteriormente lo spirito pubblico. Il Pnf con la sua ramificata ma inefficiente rete di grup­ pi rionali era accomunato nel medesimo giudizio, sintetizzato nello stereo­ tipo del gerarca corrotto e arrogante. Si tratta di processi complessi, su cui si avrà modo di tornare, che co­ stituiscono una premessa importante per comprendere quanto radicato fos­ se in tutti i ceti sociali il bisogno che la guerra terminasse, anche perché era ormai diffusa la convinzione che il conflitto fosse perso, convinzione raffor­ zata dallo sbarco angloamericano in Sicilia del 10 luglio 1943.

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Il 25 luglio e la fine del fascismo furono vissuti in quest’ottica. Certo vi furono anche a Napoli manifestazioni significative con la distruzione di fa­ sci littori, busti di Mussolini, devastazioni di sedi dei gruppi rionali ecc., insomma la simbologia che accompagnò in tutt’Italia il crollo del regime; alla base di tali proteste vi era la speranza che l ’esautorazione di Mussolini implicasse di per sé la fine della guerra. Numerose anche le manifestazioni in provincia. A Pozzuoli, il 28 luglio, fu ucciso lo studente sedicenne An­ tonio Jaccarino, durante un tentativo d ’assalto alla locale sede del fascio. N ei «quarantacinque giorni» maturò ulteriormente il bisogno di pace, le forme di proteste collettive nascevano spontaneamente e s’indirizzavano contro i disagi annosi della guerra. Frequenti ad esempio erano le manife­ stazioni di donne che premevano per la distribuzione di generi razionati e assalivano i depositi di viveri. Da “guerra totale” a “guerra dì sterminio”. Lo scenario mutò con l’8 set­ tembre 1943. L’occupazione nazista successiva all’armistizio segnò un’ulte­ riore svolta del conflitto che da “guerra totale” acquisì alcuni tratti propri della “guerra di sterminio”. Il nemico diventava il tedesco e la popolazione civile era coinvolta in una lunga sequenza di rastrellamenti, deportazioni, evacuazioni, saccheggi, eccidi e stragi. Morte e distruzione erano provoca­ ti non soltanto dai bombardamenti, ma anche, e forse soprattutto, da sol­ dati in carne e ossa dislocati sul territorio e diventati all’improvviso nemi­ ci. Napoli conobbe una breve e intensa stagione di terrore. Il 6o° batta­ glione genieri, aggregato al XIV corpo d’armata corazzato, aveva il compito di spoliazione del territorio. Ma soprattutto iniziarono i rastrellamenti di uomini con la collaborazio­ ne delle autorità locali. Kesselring, comandante delle forze tedesche nell’Ita­ lia centromeridionale, ebbe l’ordine, il 16 settembre 1943, da Keitel, capo dell’oicw (Comando supremo della Wehrmacht), di inviare nell’Italia set­ tentrionale «perlomeno la popolazione maschile abile nella zona sottoposta al suo comando, preferibilmente nelle grandi città, ricorrendo ad ogni tipo di misura coercitiva» [Collotti 1963, pp. 227-28]. Il prefetto Soprano emanò un decreto per il servizio obbligatorio del la­ voro nazionale: tutti gli uomini compresi nelle classi di nascita dal 1910 al 1925 si sarebbero dovuti presentare alle rispettive sezioni comunali. Alla scarsa affluenza di napoletani fecero seguito i massicci rastrellamenti dei nazisti al cui comando vi era il colonnello Scholl. La persecuzione dei civi­ li era parte di una strategia militare tesa a garantire all’esercito tedesco in ritirata l ’assoluta sicurezza del territorio. In questo ambito rientravano i successivi provvedimenti quali lo sgombero degli abitanti della fascia co­ stiera cittadina, la distruzione degli impianti industriali e portuali soprav­ vissuti ai bombardamenti e degli edifici pubblici. C ’era quindi una precisa strategia che si articolava in tre elementi: rastrellamento di manodopera maschile, evacuazione coatta del territorio, sistematica distruzione di tut­ te le risorse logistiche e produttive.

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In questo scenario lo stato italiano si dissolveva o collaborava con l’oc­ cupante nazista. Il comandante del XIX corpo d’armata Pentimalli e il com­ missario militare della provincia di Napoli Del Tetto rinunciarono alla di­ fesa della città. Furono poi processati nel dicembre 1944 e condannati a vent’anni di reclusione per «abbandono di comando». In seguito Pentimalli usufruì di amnistia. Il prefetto badogliano Domenico Soprano fu anch’egli collaborazionista; sottoposto a processo dal Tribunale militare territoriale redasse una memoria difensiva in cui tendeva a dimostrare di essere stato costretto a collaborare con i nazisti per evitare ulteriori rappresaglie contro la città, di aver spesso rischiato la vita e di avere in qualche modo meriti antifascisti. Fu assolto nel dicembre 1944. Infine i fascisti si riorganizzarono capeggiati da Domenico Tilena e par­ teciparono attivamente ai rastrellamenti. L’occupazione nazista comportò, accanto agli elementi ricordati, stragi ed eccidi di militari e civili. Conviene soffermarsi dettagliatamente su que­ sto aspetto del sistema di terrore nazista per due motivi. In primo luogo le stragi per i tedeschi scaturivano dalla necessità di non tollerare alcuna rea­ zione da parte della popolazione civile e venivano perciò attuate con mo­ dalità che andavano ben oltre le forme di violenza legittimate dallo stato di guerra. Non a caso nel settembre 1943 si costruiva nella memoria colletti­ va l’identità tra nazista e massacratore. In secondo luogo i comportamenti dei civili erano improntati a reazioni tutto sommato spontanee tese a pro­ teggere familiari e beni di sussistenza. Non è possibile nel caso di Napoli, ma più in generale del Mezzogiorno, utilizzare l’argomentazione della vio­ lenza tedesca come risposta ad azioni partigiane. La strategia del terrore aveva carattere preventivo. Tre giorni dopo l’armistizio a Nola vi fu l’eccidio di dieci ufficiali del 48° reggimento artiglieria. Il giorno precedente i tedeschi, entrati nella lo­ cale caserma Principe Amedeo, avevano chiesto il disarmo del presidio. I militari italiani si erano opposti e vi erano stati scontri in cui era caduto un soldato tedesco: la rappresaglia arrivò puntuale con la fucilazione, appun­ to, di dieci militari. L’episodio è un esempio della tipologia di «guerra pa­ triottica» che Claudio Pavone ha individuato come una delle coordinate per leggere i comportamenti di resistenza, ma esso va inquadrato in uno sce­ nario più ampio in cui entra in campo anche la popolazione civile. Il 26 set­ tembre un gruppo di giovani fu sorpreso e mitragliato dai tedeschi mentre tagliava dei fili telefonici. I loro cadaveri furono esposti secondo una ritua­ lità di morte che i nazisti avrebbero ripetuto tante volte nel biennio 19431945Scontri fra truppe tedesche e popolazione civile si verificarono tra il 30 settembre e il i° ottobre. Secondo la ricostruzione del Pecorari, te­ nente comandante la compagnia dei carabinieri di Nola, sarebbero state distribuite ai civili le armi della locale caserma e sarebbero state organiz­ zate azioni in sei diverse località del paese fino al sopraggiungere delle truppe alleate.

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Nel caso di Nola troviamo tre elementi tipici della violenza nazista: la rappresaglia contro i militari, l’uccisione di civili, la pratica dell’esposizio­ ne dei cadaveri. Ma la memoria dell’evento si è concentrata, oltre che sul consueto tema della barbarie nazista, sul ruolo di civili e militari che è sta­ to visto in termini di contrapposizione. Alcune ricostruzioni hanno teso a valorizzare le figure dei militari puntualizzando che in particolare negli scon­ tri dèi 10 settembre non vi fu presenza di civili. Altre fonti hanno invece sottolineato l’importanza dell’azione di questi ultimi che si sviluppò però dopo l’eccidio dei militari. Sempre il 10 settembre fu commesso un eccidio a Marano, in località Castello Scilla. I tedeschi devastarono una masseria e alcuni soldati inter­ vennero in difesa. Il giorno dopo furono catturati otto militari e il proprie­ tario, vennero costretti a scavare le proprie fosse e fucilati dinanzi alle fa­ miglie e altri civili. I nazisti impedirono per alcuni giorni che i corpi fosse­ ro rimossi. La dinamica di questo eccidio, che avviene a brevissima distanza dall’armistizio, coinvolge ancora dei militari e si configura come una rap­ presaglia contro un loro comportamento di protezione verso i civili. Anche in questo caso torna la pratica dell’oltraggio ai cadaveri a cui si impedisce, per un po’, la sepoltura. Ma forme di solidarietà potevano essere espresse anche dai civili verso i militari. A San Rocco - Marianella sei contadini furono rastrellati e fuci­ lati perché accusati di aver nascosto alcuni soldati sbandati in un pagliaio, dove i nazisti irruppero senza successo. Il cadavere di una delle vittime, «Zi’ Paolo», venne seviziato. A Bacoli e nei paesi limitrofi vi fu un susseguirsi di saccheggi e uccisio­ ni. Tre giovani furono fucilati mentre si trovavano nelle vicinanze di un de­ posito di armi, un uomo venne ucciso perché accusato di tagliare i fili te­ lefonici e anche l’addetto al faro di Capo Miseno fu giustiziato perché avreb­ be fatto segnalazioni agli angloamericani che avevano occupato l’isola di Procida. Sempre a Bacoli un ragazzo, Michele Lettieri, il 10 settembre rea­ giva all’uccisione di un soldato italiano e, «preso da irrefrenabile e santa ira», sparava sui nazisti riuscendo però a mettersi in salvo. Tradito da un coetaneo fu consegnato ai nazisti e fucilato. Sul finire di settembre si ebbero i massacri di Acerra e Giugliano. Nel primo caso la strage si collocava nel consueto scenario di “guerra totale”. Il 16,17,18 luglio vi erano stati bombardamenti intensissimi e il paese era sta­ to in gran parte sfollato. Dopo l’8 settembre iniziarono le razzie e i saccheg­ gi a cui, in qualche caso, parteciparono i civili e, appunto in tali circostanze, fu uccisa la sedicenne Gilda Ambrosino. Il 30 settembre ci fu un rastrella­ mento e oltre duecento uomini vennero concentrati dinanzi alla chiesa. Tra essi anche il parroco, colpevole di non aver interrotto le funzioni dopo l’en­ trata in chiesa dei nazisti. Inutile si rivelò la mediazione del vescovo. Il 2 ottobre si ebbe un vero e proprio tentativo di rivolta e vennero uccisi al­ cuni tedeschi; segui puntuale la reazione nazista: furono ripresi i saccheg­ gi, le devastazioni, l’uccisione di civili fino all’arrivo delle truppe angloa­

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mericane il 3 ottobre. I cittadini uccisi furono ottantotto, di cui sei non identificati, d’età compresa tra uno e settantadue anni. Sull’eccidio abbiamo l’estratto della Cronaca diocesana e la relazione al comando alleato dell’allora commissario prefettizio C. Petrella. Il vescovo si sofferma soprattutto sulle violenze naziste, ma non manca di menziona­ re alcuni atti di pietà alimentando lo stereotipo del “tedesco buono”: Alcuni soldati tedeschi, evidentemente cattolici, cercavano di soppiatto di agevolare i poveri cittadini f...] altri senza farsi vedere dai loro graduati getta­ rono essi stessi dalle finestre materassi e biancheria perché non bruciasse, altri dichiaravano la loro repugnanza nell’eseguire tali ordini. [Capasso 1975, p. 16]. Riserve sono state espresse sulla rivolta, che viene ritenuta poco pru­ dente considerando l’esiguità degli uomini e delle armi, e ciò in qualche mo­ do avrebbe facilitato «le rappresaglie degli innocenti». La figura del ve­ scovo ebbe un ruolo importante, soprattutto dopo l’entrata degli alleati, perché organizzò la rimozione dei cadaveri e anche le prime misure di soc­ corso in un paese devastato e incendiato. Nel 1953, su iniziativa degli espo­ nenti democristiani Riccio e Andreotti, fu avanzata la proposta che il pre­ lato fosse decorato con medaglia al valore civile, proposta da lui respinta «perché i sacerdoti, più degli altri, devono dare esempio di adempimento al proprio dovere». Egli comunque divenne il depositario di una memoria della strage che accentua il motivo delle atrocità, sullo sfondo di uno sce­ nario tutto legato alla contingenza della guerra. A Giugliano, sempre il 30 settembre 1943, quattordici civili furono mi­ tragliati e lasciati insepolti per otto giorni; qui il bilancio complessivo del­ le vittime fu di quaranta morti e sessanta deportati. A Mugnano, il 10 ot­ tobre, vennero fucilati quattro religiosi. Tirando un po’ le fila è possibile individuare negli eccidi in provincia di Napoli alcune caratteristiche comuni. A eccezione di Nola, dove, almeno in una prima fase, la rappresaglia nazista nasce in rapporto a un tentativo di resistenza militare, negli altri casi saccheggi, incendi, fucilazioni segui­ rono dinamiche proprie di una strategia del terrore che era indirizzata con­ tro i civili, considerati alla stregua di un nemico interno. La memoria delle stragi, quando sussiste, è una memoria colta, spesso attraversata da conflitti sull’interpretazione delle singole vicende. La fero­ cia dei tedeschi è vista come una sorta di forza naturale che la guerra fa pie­ namente esplicitare. In alcuni casi emergono perplessità sulle azioni di re­ sistenza, le quali però non diventano il tema portante della memoria col­ lettiva che, piuttosto, ha come Leitmotiv la crudeltà dei tedeschi. Sentimento antitedesco e antifascismo politico. Nell’ultima fase del con­ flitto la popolazione civile fu costretta a elaborare nuove strategie di dife­ sa della propria sopravvivenza. In primo luogo si cercava di sottrarre se stessi, i familiari, i beni alla ferocia nazista attivando, soprattutto da par­ te delle donne, comportamenti di protezione. Gli uomini venivano nasco­

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sti per sottrarli ai rastrellamenti e spesso, per i ragazzi, si ricorreva al tra­ vestimento femminile. Il chiuso della casa, delle cantine, dei pozzi, delle grotte, dei cunicoli diventava lo spazio dove era possibile salvare gli uo­ mini e ciò rafforzava la pratica di vivere in spazi angusti e spesso sotter­ ranei, che i civili avevano già ampiamente sperimentato durante i bom­ bardamenti. Si nascondevano gli uomini napoletani, ma anche i soldati sbandati che iniziavano ad affluire in città e i prigionieri evasi. Un segna­ le di quanto fosse diffusa tale pratica è dato dal bando emesso dal coman­ do germanico pubblicato sul «Roma» del 22 settembre 1943: si promette­ vano «lire mille e viveri» a coloro che avrebbero denunciato «la presenza di prigionieri di guerra indiani, francesi, russi e angloamericani in libertà quanto di soldati nemici e agenti giunti a mezzo di paracadute o per mare e inoltratesi nell’interno del paese». Nascondere gli uomini era diventata una pratica assai diffusa che si ag­ giungeva alle altre, ormai consuete, della quotidianità di guerra: la ricerca di cibo, le lunghe ore nei ricoveri, io sfollamento per le fasce più ricche di cittadini. Più in generale nel settembre 1943 la lotta per la sopravvivenza significava sottrarsi alla persecuzione dei civili che i nazisti praticavano e su cui si costruì lo stereotipo tedesco-massacratore. Ciò contribuì a svilup­ pare un forte sentimento antitedesco che avrebbe convissuto nel dopoguerra con la convinzione che la ferocia nazista era stata in qualche modo acuita dal «tradimento italiano». Il crollo del consenso al regime fascista, il forte bisogno di pace, l’odio antitedesco sarebbero stati determinanti per lo sviluppo di comportamenti collettivi di rivolta perché ponevano al centro il rifiuto della guerra e delle sofferenze che essa aveva comportato per militari e civili, ma non avreb­ bero determinato meccanicamente lo sviluppo di una coscienza antifascista e democratica. Il regime fascista veniva criticato nella misura in cui aveva voluto la guerra a fianco della Germania nazista e l’aveva persa senza ga­ rantire adeguata protezione alla popolazione civile. Va anche detto però che, a partire dal 25 luglio, si sviluppò a Napoli e in Campania un antifascismo politico che in qualche modo si raccordava al filone dell’antifascismo clandestino. Il 26 luglio fu edito a Capua «Il Pro­ letario», giornale operaio comunista che fu distribuito anche a Napoli. Qui operavano il Gruppo Spartaco, con l’apporto di militanti socialisti e comu­ nisti bordighiani, e il Gruppo di azione socialista, formato da anarchici, sin­ dacalisti e comunisti dissidenti. Insomma un universo frastagliato in cui confluivano istanze diverse che avrebbero influenzato la ricostituzione della federazione comunista napoletana dove, tra l’ottobre e il dicembre 1943, si sarebbero avuti conflitti acuti fino a giungere a una vera e propria scissione. Interessante anche l’esperienza del «IX maggio», quindicinale del Grup­ po universitario fascista (Guf) napoletano tra il 1940 e il 1943, che fu la “voce” di una generazione di giovani intellettuali la quale maturò il pro­ prio distacco dal fascismo attraverso l’esperienza della guerra; tra essi tro­

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viamo: Antonio Ghirelli, Renzo Lapiccirella, Aldo Masullo, Anna Maria Ortese, Luciana Viviani. L’antifascismo politico e culturale sedimentava nella realtà napoletana, ma il problema è di analizzare se e attraverso quali modalità esso s’intrecciava con il sentimento antitedesco e il distacco dal fascismo, che maturavano a livello di massa nel settembre 1943 culminando con le Quattro giornate. Le Quattro giornate : modalità della rivolta. Si è visto come la rivolta fos­ se stata preceduta da un insieme di violenze e stragi nella provincia napo­ letana che si collocavano nello scenario dell’occupazione nazista. Esempi di ribellioni individuali e di piccoli gruppi indicavano che era impossibile sot­ trarsi al continuo riproporsi di ruberie, saccheggi, rastrellamenti, evacua­ zioni, distruzione del territorio, eccidi. Di qui la necessità che si sviluppasse un’azione collettiva. Le Quattro giornate sono in tal senso una risposta te­ sa a salvaguardare, in primo luogo, la sopravvivenza della città. L’insurre­ zione si sviluppò in forme autonome e parallele in zone diverse. Il 26 set­ tembre, poco prima che scoppiasse l’insurrezione, gruppi di cittadini, in prevalenza donne, assalirono i camion dove erano stipati gli uomini ra­ strellati che dovevano essere, di li a poco, deportati in Germania. Gli ostag­ gi vennero liberati. Seguirono, il 27 settembre, assalti a caserme del centro cittadino, nel quartiere Vasto e in via Foria, ma anche al Vomero, nella for­ tezza di Castel Sant’Elmo. Iniziarono poi gli scontri sia nelle strade del centro sia nelle vie d’ac­ cesso alla città. Furono innalzate barricate e venne impedito il transito in strade che potevano consentire il ritiro delle truppe tedesche o l’arrivo di rinforzi. Si erano frattanto costituiti i comandi zonali. Il quartiere Vome­ ro fu uno degli epicentri della rivolta; qui nei pressi del campo sportivo, do­ ve erano stati rinchiusi quarantasette ostaggi, si verificarono ripetuti scon­ tri tra insorti e nazisti, a cui segui una trattativa tra il comando zonale e il maggiore Ratchel: gli ostaggi furono liberati e ai soldati tedeschi fu con­ sentito di raggiungere la sede del comando tedesco all’albergo Parco. Gli scontri si estesero poi a tutta la città fino al ritiro delle truppe naziste. In sintesi la tipologia di rivolta che si ricava dalla dinamica delle Quat­ tro giornate ha questa configurazione: assalto dei cittadini alle caserme per rifornirsi di armi, scontri a fuoco, blocco delle vie d ’accesso cittadine, trat­ tative tra insorti e comando tedesco, estensione della rivolta a tutto il ter­ ritorio cittadino, abbandono della città da parte delle truppe naziste. L’insurrezione ebbe c aratteristiche di lotta spontanea e armata. Già nei giorni precedenti molti napoletani erano stati coinvolti in assalti, per lo più a depositi alimentari, che avevano in qualche modo legittimato la pratica del saccheggio. Spesso erano i tedeschi a effettuarli consentendo, alla fine, alla popolazione civile di entrare nei depositi devastati. In molti casi i na­ zisti sparavano sulla folla. L’altro elemento da considerare è che il disfaci­ mento dell’esercito dopo l’8 settembre rese disponibile un gran numero di armi, a cui si poteva accedere con grande facilità. I civili divennero così con­

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sapevoli che era possibile procurarsi armi per la propria difesa. Non a caso tra le prime azioni vi furono, come si è visto, assalti alle caserme. Da ri­ cordare inoltre il massacro di via Ottaviano, nel quartiere napoletano di Ponticelli, dove i soldati della Wehrmacht, il 29 settembre, uccisero tutti gli uomini che rastrellarono per strada. Il giorno seguente venne linciato il segretario del fascio, Ferdinando Travaglini, sospettato di aver aiutato i te­ deschi nell’opera di rastrellamento. Nella scelta di insorgere assunse grande importanza la convinzione che l’esercito alleato fosse in prossimità della città. Recentemente Lutz Klink­ hammer ha osservato che la rivolta fu possibile «soltanto perché le truppe alleate erano già nelle vicinanze». L’importanza di questo elemento fu senza dubbio grande, ma non spiega di per sé le ragioni e le dinamiche dell’insur­ rezione. L’imminente arrivo degli angloamericani avrebbe potuto indurre la popolazione a subire ancora per un po’ l’occupazione tedesca, invece funse da stimolo per insorgere. La rivolta si configurò come una possibile scelta. Le Quattro giornate nacquero come moto spontaneo ma svilupparono processi di organizzazione. I comandi zonali furono le strutture mobili e temporanee che guidarono gli insorti. Non si giunse alla completa unifica­ zione ma vi furono azioni coordinate. Mancò comunque un comando uni­ ficato e ciò a conferma del carattere diffuso della rivolta che si articolava in azioni decise di volta in volta dai gruppi zonali. Poco incisivo inoltre fu il ruolo dell’antifascismo organizzato. Luigi Cor­ tesi ha posto diversi anni fa il problema dell’insufficiente presenza del Fronte nazionale di liberazione napoletano. Una deludente riunione dei rappresen­ tanti delle forze antifasciste fu effettuata soltanto il 30 settembre 1943 e Caracciolo cosi la commenta: Lascio la seduta c o n un senso di profondo rammarico . Napoli e la sua col­ lera, Napoli e la sua insurrezione, le sofferenze e il sangue di Napoli meritava­ no ben altra sorte. [1963, p. 45].

Anche gli antifascisti comunisti parteciparono in forma sparsa; tra essi troviamo molti dissidenti come Eugenio Mancini, i fratelli Villone, Anto­ nino Tarsia in Curia, Gino Vittorio, e altri che furono poi emarginati dal­ la ricostituita federazione comunista napoletana. I dati relativi all’insurrezione sono a tu tt’oggi orientativi: 178 i morti e 162 i feriti. La fonte è la documentazione della Commissione per i ricono­ scimenti della qualifica di partigiano istituita nel 1945 e presieduta da An­ tonino Tarsia in Curia, fonte che attende ancora un meticoloso lavoro di scavo. La configurazione sociale degli insorti rimane incerta. Una compo­ nente cospicua furono i giovani renitenti ai bandi di Soprano e di Scholl e i soldati sbandati. La presenza di militari è confermata da Corrado Barbagallo [s.d.], il quale rilevò che sette comandanti dei gruppi zonali erano ci­ vili, dieci militari e in un caso vi era la contemporanea presenza di un co­ mandante civile e uno militare. Ne esce confermato l’aspetto di “guerra patriottica” che le Quattro giornate assunsero per una fascia di soldati e uf-

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fidali che si opponevano alla resa dell’esercito italiano d nazisti. Il maggio­ re Francesco Amicarelli, monarchico e badogliano, ufficide del 40° reggi­ mento fanteria, che comandò il settore della città attraversato da via Sdvator Rosa ne costituisce l’esempio più efficace. Una componente degli insorti che è stata molto enfatizzata è costituita dagli “scugnizzi”, di cui in redtà non è stata mai quantificata la presenza. Questa figura è stata molto importante per costruire l’immagine delle Quat­ tro giornate come rivolta spontanea e popolare. Agli “scugnizzi” è stato de­ dicato il monumento di Mazzacurati e Persichetti del 1964. Sullo sfondo c’era il mutato clima politico della città dove, agli inizi degli anni sessanta, era ormai in crisi definitiva l’esperienza laurina e maturavano nuovi equi­ libri politici che consentivano la formazione di amministrazioni comunali di centrosinistra. Ciò in sintonia con quanto avveniva su seda nazionde. Con l’entrata dei socialisti nella compagine governativa cresceva l’atten­ zione verso la Resistenza e il nuovo ceto politico che si andava costituendo necessitava di essere legittimato anche attraverso la cultura dell’antifasci­ smo. Nel caso delle Quattro giornate l’evento culturde più significativo fu appunto il film, già ricordato, di Nanni Loy Le quattro giornate di Napoli, che lesse l’insurrezione in chiave di rivolta spontanea e popolare. Il film sol­ levò un ampio dibattito in sui si levarono le voci di Adriano Ferrario, Pie­ ro Gobetti, G. Rondolino, Mino Argentieri. La “pace dimezzata". Ma in redtà sul piano della memoria civile l’in­ surrezione partenopea non ha sedimentato una tradizione forte. La memo­ ria della rivolta è rimasta asfittica e per una lunga fase è stata rimossa. Il ri­ cordo dell’insurrezione è stato in qudche modo schiacciato tra la memoria del vissuto di guerra e quella della prolungata occupazione angloamericana; troppo poco per costituire un’immagine fondante della Napoli postbellica. Sarebbe invece rapidamente prevdsa quella, festosa e plebea, della Napoli laurina. Tirando un po’ le fila è possibile trarre qudche conclusione. Le Quat­ tro giornate furono una rivolta che scaturì dalla scelta della popolazione na­ poletana di opporsi d sistema di terrore nazista. Essa va letta nel contesto della fase finde del conflitto, dell’improwiso configurarsi del tedesco co­ me nemico, fase che concludeva il lungo itinerario del vissuto di guerra. L’odio antinazista si combinava con la profonda sfiducia non soltanto ver­ so lo stato fascista che si era disgregato, ma anche verso il governo bado­ gliano, sfiducia che avrebbe comportato una crisi profonda di qudsiasi ipo­ tesi di identità nazionde. La sopravvivenza veniva dunque affidata a risorse e strategie individuali o di piccoli gruppi e in particolari circostanze, come per l’appunto nel set­ tembre 1943; essa poteva implicare la scelta di prendere le armi, perdtro facilmente disponibili, per difendere se stessi, la propria famiglia, i propri beni. In td senso le Quattro giornate nacquero come rivolta spontanea di resistenza civile e raggiunsero l’obiettivo di impedire la deportazione degli

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oltre ottomila napoletani rastrellati. Nel corso degli eventi acquisirono la configurazione di rivolta armata. L’insurrezione partenopea si colloca nello scenario della campagna d’Ita­ lia e la sua dinamica fu influenzata dal rapido avvicinarsi dell’esercito an­ gloamericano e dalla decisione di Kesselring di abbandonare Napoli per at­ testare le truppe tedesche più a nord, lungo il Volturno e, poi, il Garigliano. Ma ciò non toglie significato alla rivolta se si privilegia, come campo d’analisi, l’ambito dei comportamenti collettivi della popolazione civile. C’è da osservare infine che con l’arrivo dell’esercito angloamericano la città iniziò una nuova e diversa fase, che si può definire di “pace dimezza­ ta” . La pace, tanto agognata, fu raggiunta assai prima di quanto avvenne nel resto d’Italia e del mondo. Ma ciò non implicò che la vita quotidiana uscisse da una dimensione di eccezionalità. Napoli fu sino alla fine del 1946 sottoposta all’amministrazione del Governo militare alleato (Amgot), a dif­ ferenza degli altri territori del Mezzogiorno che furono ben presto restituiti al Regno del Sud. Si trattò di una lunga fase di transizione in cui la città si confrontò con la nuova forma di occupazione del governo angloamericano. La storiografia ne ha evidenziato alcune caratteristiche: - l’Amgot operò da vero e proprio stato in quanto di fatto controllava tutti gli aspetti della vita civile che venivano, però, rigidamente po­ sposti alle esigenze belliche della campagna d ’Italia. Le condizioni di vita della popolazione, soprattutto in una prima fase, non migliora­ rono; al contrario alcuni problemi, come ad esempio l’inflazione, si acuirono. La strategia dell’Amgot era tesa a promuovere interventi funzionali a garantire un clima di stabilità sociale, ma non aveva co­ me obiettivo il raggiungimento di una situazione di normalità; - lo stato italiano sussunto nel Regno del Sud era assente come istitu­ zione. A ciò si accompagnava invece l’enorme sviluppo del consenso verso la figura del re che diede luogo a un vero e proprio “mito” per cui la monarchia fu rapidamente assolta dalle sue responsabilità di con­ nivenza con il regime fascista. Ciò favori un processo di distacco ed estraneità verso qualsiasi forma-stato. Al crollo di autorevolezza e cre­ dibilità del fascismo seguiva il rifiuto di culture politiche unitarie e antifasciste e il Movimento dell’uomo qualunque s’incuneò in questo fertile terreno; - le forze antifasciste ebbero vita difficile e asfittica. Il Cln nacque de­ bole, fu assente dal moto delle Quattro giornate e rappresentò una voce poco autorevole negli equilibri politici cittadini, rigidamente con­ trollati dall’Amgot. Lo stesso sviluppo dei partiti di massa fu un pro­ cesso che, nel caso napoletano, decollò dopo la congiuntura dell’im­ mediato dopoguerra. La storia di Napoli tra guerra e dopoguerra ha quindi una sua periodizzazione. Nella fase conclusiva del conflitto si accentuava per la popolazio­ ne civile la dimensione di “guerra totale” e in questa fase sono da colloca­

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re anche i «quarantacinque giorni». Il settembre 1943 segna un ulteriore passaggio. Il conflitto acquista i tratti della “guerra di sterminio”, sollecita strategie diverse per la sopravvivenza che includono anche comportamen­ ti di rivolta collettiva. Infine la città vive la lunga stagione dell’occupazio­ ne angloamericana in cui matura pienamente la crisi del sentimento di iden­ tità nazionale; si creano le premesse per una diffusa estraneità alla formastato antifascista e repubblicana che diventeranno pienamente esplicite al referendum istituzionale. Nota bibliografica.

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LUIGI PONZIANI

Abruzzo

Rievocazione e retorica resistenziale. L’Abruzzo conosce un’ampia lette­ ratura relativa alla guerra e alla Resistenza. Ma, nonostante il progresso com­ piuto dagli studi, ancora oggi essa risponde, in larga parte, a esigenze lega­ te alle rievocazioni celebrative in cui gli anniversari diventano occasioni pressoché ineludibili. Ne risulta che a essere privilegiati sono gli episodi di battaglie, di stragi, di resistenza armata, i fatti eroici, vale a dire tutto quan­ to vi è di visibilmente e immediatamente spendibile sull’altare della retori­ c a resistenziale. La conseguenza più evidente sta nel fatto che ci troviamo dinanzi a una sorta di “metastoria” della guerra e della Resistenza in cui il mito si fa ritualità. Un carattere questo particolarmente evidente nelle pub­ blicazioni ufficiali: i racconti, le rievocazioni, le testimonianze, le stesse ope­ re narrative o poetiche tendono a privilegiare aspetti che maggiormente ri­ spondono a particolari canoni interpretativi. Intanto, completamente as­ senti, oppure sullo sfondo, risultano le cause lontane (il regime fascista) e vicine (la scelta della guerra) che hanno portato allo scatenamento del con­ flitto; quasi una rimozione il cui peso in termini di dramma individuale af­ fiora talvolta solo in alcuni diari o lettere di soldati e partigiani che si accin­ gono a pagare con la morte la scelta compiuta. Vi è poi una esaltazione - spes­ so acritica - degli aspetti solidaristici che la drammaticità degli avvenimenti rese possibili e che risulta particolarmente evidente quando si sofferma sui rapporti tra le popolazioni e i prigionieri di guerra fuggiti dai campi di pri­ gionia dopo l’8 settembre. Una solidarietà che acquista i contorni dì una ve­ ra e propria saga nella quale a risaltare sono gli aspetti di umana compren­ sione e di solidale partecipazione in un dramma individuale e collettivo che travalica le lingue e le ideologie (che restano sullo sfondo) e affratella nella comune sventura. Persi in tal modo i riferimenti specifici della presenza dei prigionieri in Abruzzo, del loro darsi alla macchia, del loro stesso status giu­ ridico, l’incontro con le popolazioni avviene (secondo questa letteratura) su un terreno di acritica partecipazione a un dramma a cui bisogna resistere con la forza della mutua comprensione in nome di ideali primigeni. Ma an­ che quando la rievocazione si è soffermata sugli episodi più cruenti della guerra o della lotta di resistenza, ciò che è stato messo in risalto è il mo­ mento eroico - specialmente individuale - descritto secondo canoni che si fanno agiografici: accanto al gesto trovano posto la generosità dell’eroe, la

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sua giovinezza, la sua gentilezza d’animo che va a contrapporsi, inelutta­ bilmente, con ia teutonica - e perciò barbara - freddezza. Il racconto dei fatti più drammatici, delle stragi, non assurge quasi mai - e spesso per di­ chiarata volontà - a ricostruzione storica, ma si colloca su un piano che sta a mezza strada tra la cronaca (talvolta volutamente cruda) che indulge nel­ la descrizione della violenza e la narrazione letteraria; d ’altro canto le stes­ se rievocazioni giornalistiche diventano anch’esse occasione per offrire una interpretazione puramente eroica e quindi non politica dei fatti di resisten­ za, quasi che, al di là delle motivazioni ideologiche che pure sono a base di tali schemi interpretativi, una diversa lettura ne sminuisca i significati più profondi di ribellione istintiva e quindi più “vera” contro i soprusi negatori di ogni umanità. Ma l’apoliticità richiamata può diventare quasi specu­ larmente anche esaltazione di quei caratteri popolari, ricchi di simpatia e di umanità, pure presenti in alcune situazioni. In tal modo l’eroe partigiano, persa ogni identità immediatamente politica, assurge a eroe risorgimentale intorno a cui la descrizione dei particolari contribuisce a configurarne l’apo­ teosi: il comandante partigiano Armando Ammazzalorso, che il 16 giugno 1944 sfila a Teramo alla testa della sua formazione, procede su un cavallo bianco, la sua biografia e il suo stesso nome ne esaltano l’epicità, il suo di­ scorso alla folla liberata è incentrato sui temi del perdono e della magnani­ mità; ogni cosa contribuisce a definire un personaggio che, lungi dall’esse­ re espressione di una concreta congiuntura ideale, politica, militare e isti­ tuzionale, assurge a lungimirante e rarefatta ipostasi della Resistenza. Anche quando tra la fine di settembre e i primi di ottobre del 1943 in numerose località della regione si crea un clima insurrezionale, in talune si­ tuazioni sfociato in aperta ribellione come a Lanciano, queste diventano, nella rievocazione, riaffermazione di una sorta di indipendenza municipa­ le di chi con civica coralità si appresta a combattere contro il “tedesco in­ vasore”. Nella descrizione affiora poi quell’“epica del quotidiano” in gra­ do di stemperare ogni motivazione politica e ideologica nella riafferma­ zione di una gestualità minuta che riconduce, pur nella drammaticità del momento, alla difesa del luogo natio, degli affetti più ravvicinati, in un oriz­ zonte - nonostante tutto - di rassicuranti certezze. All’interno di una si­ mile ricostruzione la stessa distinzione tra tedeschi e nazisti (ma più che di­ stinzione dovremmo dire privilegiamento naturale del primo termine), se per un verso riconduce a una rievocazione apolitica della Resistenza, per al­ tro verso ne sottolinea gli effettivi limiti di consapevolezza che in larga par­ te dobbiamo riconoscerle. Il passaggio delfronte in Abruzzo. Già attraverso il profilo della lettera­ tura di guerra e resistenziale che abbiamo, anche se sommariamente, trac­ ciato, balza evidente la peculiare importanza dell’Abruzzo nell’ambito del­ la più generale storia nazionale. La regione infatti presenta un insieme di caratteri che ne fanno un versante originale di studio sia da un punto di vi­ sta politico e istituzionale, sia sociale e psicologico. Ciò non soltanto per

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riaffermarne un ruolo cerniera nella ricostruzione degli avvenimenti posti a cavallo del conflitto fino alla liberazione, quanto per verificarne gli ele­ menti caratterizzanti in grado di offrire una lettura diversa sia nei confronti delle regioni liberate del Sud che di quelle del Centro e del Nord che co­ nobbero altra storia non solo perché furono liberate più tardi, ma anche perché ebbero modo di sviluppare una più matura organizzazione di resi­ stenza e dovettero rapportarsi in termini altrettanto diversi nei confronti della Repubblica di Salò e degli occupanti tedeschi. I dati caratterizzanti della situazione abruzzese possono essere riassun­ ti in alcuni elementi che cercheremo di approfondire anche in rapporto a quanto vi è ancora da compiere sul terreno della ricerca: il passaggio del fronte e il suo ristagno, la presenza e parziale affermazione della Repub­ blica sociale italiana (Rsi) nelle sue strutture civili e militari e nei conse­ guenti risvolti politici; la presenza massiccia dell’esercito tedesco che uti­ lizza la regione come grande retroguardia; infine la corale, multiforme dis­ sociazione della popolazione da quello che resta dello stato fascista e che perviene, talvolta, sino alla resistenza armata da valutare nelle sue molte­ plici sfaccettature. Per circa otto mesi (tra il novembre 1943 e il giugno 1944) il fronte ri­ stagna su quella che fu chiamata linea Gustav. Questo lungo stallo fa sì che immediatamente a ridosso delle linee si sperimenti la tecnica della terra bru­ ciata che precipita le popolazioni in una sorta di limbo nel quale nulla è più sicuro e ogni riferimento certo viene cancellato. Si assiste cioè a un coinvolgimento totale delle popolazioni che è tipico in presenza di eserciti in movimento. Il passaggio del fronte assume le caratteristiche di un crocevia sul quale tendono a confluire, accavallarsi, sommarsi e scomporsi innume­ revoli fattori: la morte e il dolore, la salvezza individuale e la liberazione politica, la fame, la penuria e la speranza del cibo, la violenza morale e la minorità civile, la ribellione individuale e la lotta armata organizzata, l’at­ tesa piena di speranza e lo sconforto. Questo crogiolo di situazioni, di sen­ timenti e di stati d ’animo si consuma in un ambiente ravvicinato (il fronte può essere il fiume della fanciullezza, la cresta di un monte dove si condu­ ce il bestiame al pascolo, il bosco comune per l’uso di legnatico) che deter­ mina un forte impatto psicologico e nel quale vi è scarsa possibilità di di­ scernere il luogo della guerra da quello della quiete, la vita del soldato da quella del partigiano o della popolazione civile, il momento della resisten­ za da quello della necessità della sopravvivenza. È in questa terra di nessu­ no che si sperimentano forme di autogoverno delle comunità in cui, invece della esasperazione di esigenze primarie individuali, tendono ad affermar­ si comportamenti di solidarietà e di mutuo soccorso che rinviano a una pri­ mordiale quanto efficace organizzazione sociale: la guardia al bestiame, la salvaguardia dei rifugi più sicuri, l’impedimento dello sciacallaggio e delle ruberie nelle case abbandonate. II passaggio della guerra in Abruzzo determina un sommarsi di violenza: ai bombardamenti sulle linee del fronte si aggiungono i bombardamenti ae­

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rei alleati sulle città più importanti sede di nodi ferroviari. A L anciano ne­ gli otto mesi di guerra trovano morte cinquecento civili e vengono distrutte la stazione nella sua totalità e le industrie cittadine, vengono danneggiati o distrutti circa 8500 vani; a Pescara, soltanto nei due bombardamenti del 27 agosto e del 14 settembre 1943 perdono la vita rispettivamente milleseicen­ to civili circa, nel primo caso, e un numero oscillante tra le seicento e le due­ mila unità (un computo esatto non è stato mai compiuto) nel secondo caso; nel primo bombardamento che colpisce Sulmona il 27 agosto il numero dei morti fu ingente, forse trecento; a Francavilla al Mare tra il dicembre 1943 e il marzo successivo i tedeschi condussero a termine la distruzione pres­ soché totale di tutto il patrimonio edilizio della località balneare. La conse­ guenza più diretta di questa duplice violenza che si abbatté sulla regione fu il fenomeno davvero ingente dell’esodo di massa. A quello di migliaia di persone che dalle località più vicine alle linee di fuoco si mossero verso l’in­ terno e verso il nord della regione si aggiunse quello altrettanto drammati­ co causato dagli ordini di sfollamento decisi dai tedeschi. Si cominciò fin dall’autunno dall’ampio territorio che dal fiume Sangro arriva alla Pescara (ben sedici comuni tra cui Lanciano, Ortona, Orsogna, Francavilla) per ar­ rivare all’ordine di sgombero deciso nell’aprile 1944 per tutti i comuni co­ stieri che da Pescara giungevano a Pedaso nelle Marche. Un vero e proprio esodo biblico che coinvolge larga parte della popola­ zione regionale, anche se è difficile offrire un quadro quantitativo del fe­ nomeno. Alcune cifre tuttavia possono essere significative: la città di Chieti (anche per il suo status, ancorché ambiguo, di «città aperta») accolse tra la fine dell’anno e i primi mesi del 1944 circa centomila profughi, vale a di­ re più del triplo della popolazione normalmente residente; in alcuni mo­ menti la città arrivò a essere popolata da oltre centoquarantamila civili. Nel corso della primavera Teramo, che aveva una popolazione di c irca trenta­ mila abitanti, ospitò un numero approssimativo di quindicimila sfollati; Sul­ mona, che normalmente non raggiungeva i ventimila abitanti, fu costretta a ospitare alcune migliaia di sfollati provenienti, oltre che da Roma, dai va­ ri comuni dell’Alto Sangro trasformati in terra bruciata. Crediamo a ri­ guardo che sia possibile affermare come la quasi totalità della popolazione regionale (assommante a poco più di un milione) abbia conosciuto direttamente o indirettamente il fenomeno. Questo perciò diventa un terreno di grande importanza per uno studio che voglia abbracciare il tema delle con­ dizioni sociali, dei quadri comportamentali, dei risvolti psicologici di una popolazione che si trova repentinamente e violentemente sradicata dal pro­ prio ambiente, in balia di eventi sui quali pressoché nulla è la capacità di intervento. he condizioni di vita della popolazione. Se si esclude qualche studio ba­ sato sulla c orrispondenza censurata utilizzata anche come fonte affatto ori­ ginale per altri percorsi di ricerca, gli elementi materiali che condizionaro­ no la vita degli sfollati e in genere della popolazione tutta devono ancora

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essere conosciuti e interpretati in larga parte. Intanto va ricostruito nei suoi elementi oggettivi l’intero fenomeno: quanti sono gli sfollati; quali i centri di raccolta, quali le provvidenze messe in atto dalle singole autorità comu­ nali (ma anche dai privati e dalla Chiesa), quale l’atteggiamento delle po­ polazioni dei centri di ricevimento, quale infine la condizione sociale (ad esempio a Chieti è certo che molti profughi erano contadini che conduce­ vano con sé anche il bestiame). E chiaro che da questa base tendono a di­ panarsi vari percorsi di ricerca che dalle condizioni materiali di esistenza arrivano a toccare gli aspetti relativi alla mentalità e alla psicologia. La ne­ cessità di procurarsi cibo assume indubbiamente importanza capitale a fron­ te di uno stravolgimento dei normali canali di approvvigionamento e distri­ buzione (pur nelle difficoltà determinate dalla guerra) messi in atto dalle au­ torità fasciste e dagli stessi tedeschi. La ricerca del pane quotidiano diviene l’assillo per migliaia di uomini e donne che dalle città sciamano nelle cam­ pagne. La storiografia sull’argomento tende a mettere in risalto il sostan­ ziale rovesciamento che si determina nel rapporto tra città e campagne; un contrasto che nella memoria collettiva rinverdisce l’antica querelle cittadi­ na contro il villano, connotandola di nuovi e drammatici significati. Su ta­ le argomento il problema non è tanto verificare se la favorevole congiun­ tura abbia consentito ai contadini attraverso l’evasione degli ammassi e le vendite clandestine la creazione di profitti di guerra, peraltro non reinve­ stibili, dal momento che il crollo della produzione industriale non consenti­ va l’acquisto di nulla, tantomeno l’acquisto di nuovi terreni che in effetti non vi fu; quanto verificare se e in che modo gli stessi contadini siano sta­ ti travolti dalla guerra, sia attraverso la distruzione del patrimonio edilizio, sia dalla necessità di un forzato consumo alimentare che lo sfollamento ren­ deva obbligatorio. In tale contesto lo stesso rapporto città-campagna rela­ tivamente alle possibilità di alimentazione tende ad assumere un profilo più sfumato e forse a stemperarsi ancor più, specialmente in una regione dove ancora predominanti sono la produzione e l’occupazione agricola. A ridosso della guerra nell’Abruzzo e nel Molise gli addetti alle indu­ strie produttrici di beni strumentali e di consumo per ampi mercati am­ montavano appena al 9,2 per cento; le stesse attività produttive erano stret­ tamente connesse con i prodotti della terra (mulini, frantoi, pastifici) e so­ prattutto con un mercato assai ristretto spesso riconducibile ai capoluoghi di circondario e alle città capoluogo di provincia. Anche la produzione di determinate derrate più direttamente legate all’andamento stagionale, co­ me gli ortaggi o la frutta, e la loro minuta commercializzazione, non rende possibile una netta distinzione tra la città e la campagna che in talune si­ tuazioni entra e si confonde con il panorama della città urbanizzata; e que­ sto è ancora più evidente nei piccoli centri della fascia collinare a ridosso del litorale. Ne consegue che anche in presenza degli sfollati e dell’inevi­ tabile rallentamento delle attività produttive di tipo artigianale o industriale, il fenomeno della penuria di cibo non raggiunse mai effetti di eccessiva drammaticità. Insomma il piccolo commercio e l’autoconsumo contribui­

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scono, pur in un quadro di lacerazione sociale, a contenere la penuria en­ tro limiti accettabili. Questo ovviamente non significa che anche in Abruz­ zo non ebbe modo di manifestarsi, in stretta concomitanza con le prosai­ che necessità di alimentazione, di riscaldamento che assorbirono le menti e le azioni di tutti, il fenomeno che va sotto il nome di mercato nero. Tut­ tavia anche in questo caso l’approfondimento va compiuto cercando di svin­ colarne la ricostruzione e la casistica da un’ottica tendenzialmente mora­ leggiante oppure secondo una demonizzazione politica. Il mercato nero pre­ senta infatti al proprio interno una molteplicità di sfaccettature e tocca strati larghissimi di popolazione che trovano nel contrabbando e nella commer­ cializzazione dì tutto ciò che può essere acquistato o venduto una risorsa fondamentale ai fini della sopravvivenza. D ’altro canto le lacerazioni che la guerra determina all’interno della società civile rendono possibili e mo­ ralmente accettabili comportamenti altrimenti discutibili e censurabili. In secondo luogo, però, il «mercato nero», specialmente nelle dimensioni spe­ culative pure presenti, può rappresentare una chiave di lettura di fenome­ ni di rottura di particolari equilibri sociali e culturali (oltre che economici) che legano il periodo della guerra a quello del dopoguerra e della ricostru­ zione. Anche per l’Abruzzo, dunque, si tratta di indagare non solo le con­ dizioni che resero possibile tale fenomeno, ma soprattutto l’evoluzione dei quadri mentali di riferimento e i mutamenti sociali ed economici avvenuti in stretta connessione con gli eventi bellici. La riaffermazione del fascismo. Il ristagno del fronte nel Basso Abruzzo e la tendenziale trasformazione del restante territorio in una grande retrovia pongono altri interessanti interrogativi cui va data ancora una risposta. La situazione politica e istituzionale (e i risvolti sociali e psicologici che tut­ to ciò contribuisce a determinare) è sottoposta a una duplice e divaricante pressione; la vicinanza delle linee accentua tutti gli elementi di provvisorietà e alimenta i sintomi di disgregazione delle strutture amministrative e istitu­ zionali della Rsi; d’altro canto la stabilizzazione del conflitto rende possi­ bile un parziale rafforzamento, al di là degli aspetti squisitamente militari, delle strutture della Rsi. Su questo specifico terreno mancano approfondi­ menti relativi all’intera regione ma, come alcune ricerche hanno già messo in evidenza, esso costituisce un settore attraverso cui vagliare, nel vivo di un periodo cruciale, alcuni nodi di primaria grandezza: l’affermazione della con­ tinuità dello stato attraverso la Rsi e le sue articolazioni periferiche, il rap­ portarsi a esse non solo da parte di coloro che vi erano direttamente coin­ volti (impiegati, funzionari) ma anche delle popolazioni alla ricerca, nel bi­ sogno, di un qualunque rassicurante riferimento; la rinascita, infine, di una embrionale vita politica attorno al Partito fascista repubblicano (Pfr) che fungesse da filtro tra la società sconquassata dalla guerra e le istituzioni. A partire dalla liberazione di Mussolini e dalla ricostruzione a metà set­ tembre di uno stato fascista la sua continuità fu assicurata non solo dal fat­ to che comuni, province, le stesse prefetture, anche se spesso decapitate nei

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responsabili d ’alto grado, mantennero una loro attività di routine, ma anche perché, soprattutto a partire dall’ottobre, la ripresa generale della macchina burocratica avvenne con una certa regolarità. All’Aquila il prefetto Rodolfo Biancorosso, nominato dal vecchio governo a partire dal i° agosto 1943, fu collocato a riposo il 10 dicembre e sostituito dall’ex consigliere nazionale Vittorio Monti; a Pescara il 25 ottobre venne nominato Celso Morini, an­ ch’egli ex consigliere nazionale; a Chieti Giannino Romualdi, che era stato nominato da Badoglio dal 10 settembre, aderì a Salò e rimase in carica fino al 15 giugno per passare poi alla prefettura di Livorno; a Teramo Vincenzo Ippoliti assunse la carica il 25 ottobre per passare, a ridosso della liberazione della città, a reggere la prefettura di Ancona. Una continuità, però, che non riguarda soltanto le gerarchie dello stato, ma anche i livelli più bassi della burocrazia e abbraccia tutti i settori della pubblica amministrazione. Il giu­ ramento di fedeltà alla Rsi prestato dagli impiegati costituisce un elemento di spiccata rilevanza dal momento che per un verso testimonia di una so­ stanziale (anche se spesso forzosa) adesione alla nuova compagine fascista in nome di una “fedeltà” acriticamente intesa; peraltro il loro ergersi comun­ que a diaframma - fragile fin quanto si vuole - fra occupanti tedeschi e ge­ rarchie fasciste e i bisogni elementari della popolazione, contribuirà a sal­ varne la gran parte dall’accusa di collaborazionismo e di tradimento. Si trat­ ta quindi anche in questo caso di scavare in termini nuovi in un campo ancora tutto da arare. Molte a riguardo sono le domande, e, tra queste, se vi siano stati, e in che misura, casi di aperta dissociazione; quali le motivazioni ad­ dotte per giustificare i comportamenti avuti. Una ricognizione che deve av­ valersi non solo della documentazione coeva presente negli archivi di stato, ma anche dei fondi archivistici relativi alle commissioni per l’epurazione; un altro modo questo per legare anche formalmente guerra e dopoguerra non so­ lo in relazione alle istituzioni esteriormente intese, ma agli uomini che in ul­ tima analisi ne assicurano la continuità. Anche lo stato degli studi relativo all’organizzazione politica fascista pre­ senta grandi lacune, soprattutto se si pensa che la rinascita di un fascismo repubblicano, di organizzazioni sindacali, di strumenti di propaganda o non viene registrata, oppure viene affrontata in termini sbrigativi e liquidatori che certamente non aiutano a comprendere i termini veri su cui si combattè la battaglia tra fascismo e antifascismo. Tutto questo è tanto più vero per l’Abruzzo dove la provvisorietà della presenza fascista dopo l’armistizio non viene riconosciuta nei suoi concreti addentellati, ma identificata tout court con l’occupante tedesco al quale è associata in un giudizio di condanna mo­ rale e politica. Eppure crediamo che anche su questo terreno vada compiu­ to uno sforzo di approfondimento dal momento che nella regione, tra l’ottobre 1943 e la liberazione, operarono in vario grado e con diversa capacità di incidenza organismi del Pfr (federazioni, sezioni), sindacati, polizia di par­ tito (Guardia nazionale repubblicana - Gnr), giornali; una presenza che te­ stimonia di un qualche radicamento non immediatamente riconducibile a mera coercizione e alla presenza degli occupanti tedeschi.

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A circa un mese dalla liberazione di Mussolini la riorganizzazione del Partito fascista può dirsi avviata e la nascita il 23 settembre del nuovo sta­ to gli darà ulteriore slancio. Il 16 ottobre si tiene a Teramo la prima as­ semblea del rinato fascio repubblicano, il giorno prima a Chieti un mani­ festo annuncia la ricostituzione della Federazione fascista. Al Congresso di Verona del 14 novembre partecipano delegati delle federazioni abruzzesi a eccezione di Chieti, segno forse di una persistente difficoltà a cui non do­ veva essere estraneo il fatto che il fronte tagliava a metà la provincia. Una certa vitalità mostra il fascismo teramano se nel giro di un paio di mesi può annoverare la costituzione di venti fasci in tutta la provincia per un nume­ ro complessivo di oltre cinquecento iscritti. Un numero destinato a cresce­ re se alla fine di gennaio il solo fascio del capoluogo poteva contare 482 iscritti. Alla fine di dicembre gli aderenti al fascio dell’Aquila (il solo esi­ stente nella provincia) erano circa settecento, vale a dire il venti per cen­ to degli iscritti al vecchio Pnf. Si tratta di cifre apparentemente di scarso significato, ma che andrebbero ampliate attraverso una ricognizione più cir­ costanziata che ne dia una dimensione più verosimile e soprattutto corre­ lata con altri momenti di organizzazione politica e sindacale. A Teramo, ad esempio, fin dal 28 ottobre 1943 e sino al 3 giugno 1944 viene pubblicato l’unico periodico («Tempo Nostro», un settimanale) di una federazione fa­ scista repubblicana in Abruzzo; dal 15 marzo poi, gli si affianca un quindi­ cinale, « Il Lavoratore», emanazione delle Unioni provinciali fasciste dei la­ voratori. Si tratta dunque di fonti di primaria importanza per cogliere lo spirito che anima l’ultimo fascismo abruzzese nel quale si affastellano e si accavallano spesso contraddittoriamente la denuncia della monarchia, il tra­ dimento dei “molti”, la condanna del capitalismo e della religione, l’aspi­ razione a ritornare a un fascismo delle origini, la rivendicazione di un nuo­ vo ordine sociale del quale la “socializzazione” avrebbe dovuto essere car­ dine. Quest’ultimo sarà uno degli argomenti più dibattuti sui fogli teramani e, al di là della fumosità di linguaggio e dell’astrazione degli obiettivi, te­ stimonia di uno sforzo di attenzione ai temi sociali che cercava di mettere in pratica i postulati del nuovo stato. L’attivismo dimostrato su questo ver­ sante dal prefetto Ippoliti rappresenta l’estremo tentativo di ricostruire un minimo di consenso sociale attorno a slogan di tipo anticapitalistico, a prov­ vedimenti “emblematici” di lotta alla borsa nera, di riequilibrio salariale, di provvidenze che nelle condizioni difficili di quei mesi andassero incon­ tro alle più elementari esigenze degli sfollati. Ci troviamo di fronte, alme­ no in alcuni casi, a una capacità di resistenza, se non di presa, del neofasci­ smo che va attentamente valutata: nel gennaio 1944 tra i 482 iscritti al fa­ scio di Teramo circa un terzo, 153, non erano stati aderenti al vecchio Pnf. Un’analisi di questo tipo offrirebbe certamente nuovi elementi di cono­ scenza che ineriscono non solo alla sfera sociale e politica, ma anche a quel­ la etica, vale a dire alla risposta che molti (e non solo coloro che fecero la scelta antifascista o quella della non collaborazione) diedero al problema del “tradimento”.

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L’ingombrante presenza dell’esercito tedesco rappresenta un altro ele­ mento da valutare non tanto nei suoi risvolti militari immediati che si cono­ scono con una certa precisione, quanto nelle attività per così dire di “co­ rollario” che sviluppò: uccisioni indiscriminate di civili, compresi donne e bambini (a Onna, Filetto, Pietransieri, Capistrello), requisizioni, razzie ve­ re e proprie, lavoro coatto per le esigenze locali e contingenti, e quello de­ finitivo con relativo instradamento verso il Nord e la Germania. Qui si apre un campo di approfondimento che riguarda essenzialmente il rapporto fra le strutture e i poteri della Rsi e l’esercito occupante che non può essere ri­ solto in termini di semplice soggezione e sottomissione. Spesso infatti i po­ teri di Salò, alla continua ricerca di un’autonoma ragion d’essere, costitui­ rono un fragile diaframma tra la macchina stritolante dell’esercito tedesco e le popolazioni. Questo va affermato non per sminuire le responsabilità di­ rette dell’ultimo fascismo, ma per sottoporre a verifica concreti comporta­ menti che ebbero conseguenze sia per il giudizio da trarre nel dopoguerra dagli atteggiamenti individuali e collettivi, sia per quanto riguarda la me­ moria conservatane che rappresenta anch’essa fonte di indubbio valore. Su questo versante assumono qualche rilievo anche i tentativi che andavano ol­ tre i poco persuasivi appelli esortanti alla riconoscenza nei confronti degli alleati tedeschi i quali con la loro presenza avrebbero impedito che, dopo il tradimento di Badoglio, «cose di vitale importanza fossero nascoste, per­ dute o perfino messe in mano al nemico comune». A Teramo, ad esempio, viene inaugurata una Casa dell’Asse avente lo scopo precipuo di rafforzare il legame tra popolazione e tedeschi e si sviluppa una certa attività - per­ sino culturale - avente lo stesso obiettivo. Certamente non si hanno molte testimonianze e informazioni in merito, ma anche questi itinerari di ricer­ ca andrebbero percorsi come occasione per collocare la stessa presenza te­ desca in un ambiente e in una dimensione attenti a definirne con maggior senso critico il suo rapportarsi ad altri poteri (quelli della Rsi) e alla popo­ lazione. Le connotazioni àella Resistenza in Abruzzo. Affermare che gli avveni­ menti che passano sotto il nome di Resistenza vadano studiati in maniera completamente nuova non costituisce una diminuzione di significato, ma è anzi occasione per comprenderne le più profonde motivazioni anche lad­ dove queste traggono origine da ragioni non squisitamente politiche e idea­ li. Occorre così definire gli elementi (che in qualche modo già sono stati ri­ chiamati) che si accavallano e si confondono e concorrono alla formazione di stati d’animo e atteggiamenti in larga parte inusitati. La Resistenza in tal modo (e la cosa è ancor più valida per l’Abruzzo) perde i connotati di una ribellione consapevole e motivata per acquistare quelli più sfumati, ma non meno significativi, della non partecipazione, della non collaborazione, della dissociazione. In tempi assai ristretti e pregni di contraddittori con­ dizionamenti, migliaia di uomini sono costretti a scegliere fra più istituzio­ ni, a tener fede a giuramenti diversi con gli inevitabili risvolti etici che tut­

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to questo comporta: rispondere ai bandi di arruolamento, rivolgersi ai vec­ chi o nuovi organismi civili e amministrativi, diventano momenti per tanti aspetti discriminanti. Ma anche la “non scelta” può diventare altro modo per prendere le distanze da un regime tuttora vitale e condizionante, at­ traverso un percorso non facilmente differenziabile dalla «resistenza passi­ va». Lo scavo di questi aspetti avviene sul terreno della ricostruzione di iti­ nerari individuali e collettivi: fra i soldati sbandati dopo l’8 settembre, fra gli impiegati, fra i richiamati, fra i condotti al lavoro; in questa direzione si riesce a cogliere la formazione e il carattere costitutivo di una coscienza antifascista e antinazista. Una traccia assai significativa del graduale affer­ marsi nei più larghi strati popolari di un sentimento di chiara opposizione è rintracciabile d ’altro canto nei resoconti giornalieri della Gnr che inizia­ no per l’Abruzzo dal gennaio 1944. La sostanziale veridicità dei resoconti costituisce un ulteriore elemento di conoscenza questa volta direttamente proveniente dall’interno di organi del regime. In un crescendo di allarme si comunica che vi è «malcontento generale» dovuto alla grave penuria ali­ mentare, oppure che «la popolazione rimane assente e apatica»; se ne po­ ne in risalto la «totale indifferenza» e il «completo assenteismo», oppure si denuncia il cattivo esempio che «viene dal cosiddetto elemento intellettua­ le»; a Chieti, dove gli sfollati rappresentano un dramma impossibile da con­ trollare, i resoconti parlano di una popolazione «fortemente depressa [che] subisce [...] con passiva rassegnazione»; a Pescara vi è sfiducia ed esaspe­ razione, mentre a Teramo si è preoccupati perché «i giovani continuano a dimostrare grande indifferenza per il momento storico che attraversa l’Ita­ lia». Il quadro che ne esce consente di cogliere (pur in questa succinta car­ rellata) un ventaglio di stati d’animo che aiutano a comprendere il clima di progressivo isolamento (anche se non di aperta ribellione) nel quale opera­ rono gli uomini e i poteri dell’ultimo fascismo. Ma anche quando la Resi­ stenza assume gli aspetti della lotta armata, la sua origine quasi sempre va ricondotta a motivazioni istintive e primigenie capaci tuttavia di determi­ nare aperta opposizione: la necessità di difendere gli averi - in primo luo­ go il bestiame -, la volontà di distruzione dei registri di leva dei comuni, la semplice aspirazione a “farla finita” con la guerra e raggiungere le zone li­ berate. Ma l’opposizione armata ha modo di manifestarsi anche perché in Abruzzo ha grande rilevanza il fenomeno dei prigionieri di guerra, che so­ prattutto dopo l’8 settembre sciamano in tutta la regione e nei cui confron­ ti evidente risulta l’atteggiamento di disponibilità e protezione tenuto da tante famiglie. La loro presenza, tuttavia, funse in tanti casi da momento scatenante di una opposizione altrimenti latente. La loro traccia è larga­ mente diffusa sia nella memorialistica e diaristica, sia nei tentativi di rico­ struzione storiografica dei momenti più salienti della vicenda resistenziale; si tratta ora di verificare la consistenza di questo fenomeno individuando una mappa dei campi di prigionia, il numero dei prigionieri fuggiti, la loro nazionalità, le zone di raggruppamento e la loro incidenza nel dar corpo al­ la resistenza armata come nel caso evidente degli slavi. In conclusione oc­

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corre passare dalla esaltazione eroica di tale presenza alla sua definizione e circoscrizione in termini di impatto umano, solidaristico, politico, militarescon le popolazioni, gli eserciti, i partigiani. E questa molteplicità, e talvolta contraddittorietà delle esperienze vis­ sute - dalla rivolta di Lanciano (5-6 ottobre 1943), non dissimile nelle sue motivazioni interne dalle pressoché coeve ribellioni municipali di altre città del Sud, alla brigata Maiella che rinvia al rapporto tra Resistenza e alleati, alla più matura lotta partigiana del Teramano scaturita dalla battaglia di Bo­ sco Martese (25 settembre 1943) -, a dar conto della sostanziale giustezza dell’opinione espressa da chi ha definito l’Abruzzo «il ponte fra Resisten­ za anarchica del sud e quella organizzata, articolata, politica, di alcune re­ gioni del centro e del nord». [Bocca 1970] Proprio in questo composito convergere di motivazioni ideali, sponta­ neismo ribellistico e organizzazione politica sta la caratteristica essenziale della Resistenza abruzzese. L’attesa febbrile dell’arrivo degli alleati, la spon­ tanea avversione per il “tedesco”, il momento organizzativo presente so­ prattutto nelle zone di più antica tradizione antifascista, creano certamente «una tensione da vigilia insurrezionale, come la conoscerà il nord dician­ nove mesi dopo» [ibid], tuttavia essa non si esaurirà in una fiammata, ma darà vita a quella «guerra per bande» che, se non avrà la caratteristica del­ l’unitarietà e del coordinamento, si svilupperà con continuità nel corso dei nove mesi di lotta partigiana raggiungendo notevoli gradi di intensità e di consapevolezza politica. L ’internamento e il domicilio coatto. Ma è anche su un altro terreno fi­ nora inesplorato che occorre appuntare l’attenzione, vale a dire quello dei campi di concentramento. La loro presenza acquista in Abruzzo una rile­ vanza particolare dal momento che su un totale nazionale di quarantatre campi almeno diciannove (a Civitella del Tronto, Nereto, Notaresco, Te­ ramo, Tossicia, Corropoli, Isola del Gran Sasso, Tortoreto, Chieti, Città Sant’Angelo, Vasto, Lanciano, Tollo, Casacalenda, Casoli, Lama dei Peligni, Avezzano, Sulmona, Ateleta) trovano ubicazione nella regione. A que­ sta presenza occorre ancora aggiungere quella delle località destinate al do­ micilio coatto che devono essere in gran parte persino individuate (in pro­ vincia di Teramo si conoscono i domicili coatti di Cermignano, Penna Sant’Andrea, Atri). Si tratta dunque di un complesso di diverse migliaia di persone che tra il 1940 e il 1945 vissero la condizione affatto particolare dell’internamento e attorno a cui si atteggiarono e rapportarono strutture politiche e di polizia prima dello stato fascista, poi di quello badogliano, quindi di quello della Rsi, in un intreccio di continuità e di differenziazio­ ni ancora tutte da studiare. Se per alcuni dei campi del Teramano esiste una documentazione di base che può rappresentare un primo punto di parten­ za, ancora tutte da individuare e studiare sono le fonti relative alla restante regione. Per quanto ne sappiamo la maggioranza degli internati era costi­ tuita da ebrei, tedeschi, polacchi o apolidi; in taluni campi come a Tossicia

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e Isola del Gran Sasso negli ultimi mesi prima della liberazione prevalgono cinesi e zingari di nazionalità slava; in altri, come nel caso di Corropoli (ma anche di Teramo), la maggioranza degli internati è rappresentata da italia­ ni antifascisti, irredentisti slavi della Venezia Giulia e dell’Istria, iugoslavi di fede comunista e, insieme, greci, inglesi, indiani. Un crogiolo di razze e na­ zionalità, ma anche di fedi religiose e politiche che consente uno scandaglio che approfondisca i rapporti tra la struttura dei campi e gli internati da un lato e i poteri costituiti e le popolazioni dall’altro. Si tratta infatti di campi che vengono allestiti ben prima della costituzione della Rsi (che li eredita) a partire dal 1940 e a ridosso della legislazione razziale fascista e dell’inizio della guerra. Occorre dunque cogliere gli elementi di continuità tra i vari periodi, ad­ dirittura gli incrudimenti intervenuti, come sembra, durante i quarantacinque giorni badogliani, come viene vissuta la crisi dell’8 settembre, come cambia l’atteggiamento delle popolazioni, quali rapporti si creano con que­ ste, da quelli del piccolo commercio che per gli internati comporta l’alie­ nazione dei beni più cari, alla solidarietà umana. Aspetti questi ultimi par­ ticolarmente delicati e tuttavia utili e importanti da conoscere per le situa­ zioni imbarazzanti di eventuale rifiuto 0 di corresponsabilità che potrebbero coinvolgere anche le popolazioni civili. E tuttavia anche questo costituisce il modo non retorico di rapportarsi ad avvenimenti che segnarono le co­ scienze di milioni di uomini. Nota bibliografica.

G. Attese, La guerra in Abruzzo e Molise. 1943-1944, Edigrafital, Teramo 1998; G. Boc­ ca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari 1970 ; W. Cavalieri, V Aquila : dall’armistizio alla Repubblica. 1943-1946. La seconda guerra mondiale all’Aquila e provincia, Studio 7, L’Aqui­ la 1994; C. Felice, Guerra, Resistenza, dopoguerra in Abruzzo. Uomini, economie, istituzioni, Angeli, Milano 1993; Id. (a cura di), La guerra sul Sangro. Eserciti e popolazioni in Abruzzo. 1943-1944, Angeli, Milano 1994; E. Fimiani, Guerra e fame. Il secondo conflitto mondiale e le memorie popolari, Itinerari, Lanciano 1997; N. Gallerano (a cura di), L ’altro dopoguerra. Ro­ ma e il Sud. 1943-1945, Angeli, Milano 1985; F. Mazzonis (a cura di), Cattolici, Chiesa e Resi­ stenza in Abruzzo, Il Mulino, Bologna 1997; L. Ponziani, Guerra e Resistenza in Abruzzo tra memoria e storia. Itinerario per una ricerca, Interlinea, Teramo 1994.

GIANCARLO MONINA - GABRIELE RANZATO

Lazio

La scarsa diffusione della Resistenza nel Lazio. La Resistenza nel Lazio si distingue notevolmente dalle altre esperienze regionali poiché le partico­ lari condizioni in cui potè svilupparsi determinarono una scarsa diffusione e una limitata capacità offensiva del movimento partigiano, che fu in gra­ do di realizzare episodicamente anche azioni di un certo rilievo, ma non di condurre una vera e propria «guerra di guerriglia». Le formazioni attive nella regione non assunsero mai una considerevole importanza quantitati­ va e rimasero confinate all’interno di dimensioni territoriali ridotte. Inol­ tre, generalmente mancò loro uno stabile coordinamento e una direzione unitaria, che solo le bande comuniste e quelle a composizione militare, ca­ ratterizzate da maggiore disciplina e capacità organizzativa, riuscirono ten­ denzialmente a realizzare. La Resistenza laziale svolse un’importante attività di propaganda, di raccolta di informazioni, di assistenza alla popolazione civile e ai prigionieri alleati e, in una certa misura, rese insicure, attraverso sabotaggi e imbosca­ te, le retrovie tedesche, costringendo i comandi germanici a moltiplicare le misure di vigilanza. Ma il contributo militare che essa forni allo sforzo bel­ lico degli alleati, a lungo impegnati sul fronte di Anzio, non fu della stessa portata di quello apportato dal movimento partigiano in altre regioni. I dati ufficiali del ministero della Difesa indicano per tutto il Lazio io 863 partigiani combattenti, di cui 1272 caduti e 323 mutilati; 9961 pa­ trioti civili, di cui 187 caduti e 4 mutilati. Queste cifre, nonostante qualche legittimo dubbio, sono comunque le più attendibili a disposizione, anche in assenza di una letteratura storiografica consolidata. Poiché per oltre la metà questi dati riguardano la città di Roma, se ne ricava l’indizio di una porta­ ta modesta dell’impegno resistenziale nella regione. La varietà delle condizioni ambientali da zona a zona, siano esse di ca­ rattere storico o geografico, non consente una trattazione unitaria della Re­ sistenza laziale: ogni area, all’interno della stessa provincia, ha una propria storia originale. Prima di passare ad analizzare le specificità di ogni singo­ la zona, è però necessario procedere alla descrizione di alcuni elementi ge­ nerali che in qualche misura possono considerarsi comuni. La regione ha una conformazione morfologica varia, ma circa i due terzi della sua estensione sono occupati da territori collinari e pianeggianti, sco­

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perti e facilmente accessibili, tali da non favorire un agevole sviluppo della lotta armata. Gli elementi geografici concorrono però solo in parte a deter­ minare i limiti della resistenza armata laziale, dovuti in maggior misura alla configurazione dei rapporti economico-sociali che caratterizzavano la regio­ ne, all’esiguità del tempo a disposizione per sviluppare un’efficace attività di guerriglia e alla massiccia presenza delle forze militari tedesche. Negli anni quaranta l’economia della regione era, al di fuori di Roma, quasi esclusivamente agraria, con una forte concentrazione della proprietà della terra, un prevalere delle terre lasciate a pascolo su quelle coltivate, una scarsa diffusione, a differenza che nel resto dell’Italia centrale, della mezza­ dria e un quadro sociale le cui figure dominanti erano braccianti precari e con­ tadini poveri. Facevano eccezione a questo quadro le famiglie contadine in­ sediate nelle aree delle bonifiche realizzate da Mussolini - in particolare l’Agro Pontino - che proprio per questa condizione di privilegio in relazio­ ne al contesto degradato erano vincolate al regime. In alcune zone, e in par­ ticolare in quella viticola dei Castelli e nel Viterbese, si erano sviluppati, sin da fine Ottocento, movimenti contadini di lotta che furono all’origine di consolidate tradizioni politiche. Ma l’avvento del fascismo aveva spento in gran parte quelle tradizioni creando tra i lavoratori un ambiente di preva­ lente diffidenza e rassegnazione. Così, si può dire che complessivamente la regione, tranne in alcune aree limitate, presentava un quadro sociale e poli­ tico poco favorevole alla diffusione della resistenza armata. A determinare la scarsa diffusione e l’insufficiente consolidamento del movimento partigiano nel Lazio, fu però, più di ogni altro elemento, la bre­ vità dell’arco temporale entro cui esso si trovò a dover operare. Dai giorni successivi all’annuncio dell’armistizio con le Nazioni Unite dell’8 settembre 1943 alla liberazione della regione da parte delle truppe alleate trascorsero soltanto nove mesi, meno della metà del tempo su cui potè contare il movi­ mento partigiano al di là della linea Gotica. Un tempo insufficiente per uno sviluppo consistente delle formazioni partigiane, se si pensa che nel Nord la maggior parte delle bande acquisirono fisionomia e stabilità soltanto nella primavera-estate del 1944. Vi era inoltre, legato al fattore tempo, un elemen­ to psicologico che favoriva l’«attesismo». La vicinanza del fronte, attestato­ si all’altezza di Cassino sin dall’ottobre del 1943, e poi l’apertura di un se­ condo fronte sul litorale, dopo lo sbarco ad Anzio del 22 gennaio 1944, la­ sciavano pensare a un’assai prossima liberazione, che scoraggiava iniziative di tipo militare le cui conseguenze avrebbero pesato drammaticamente sul­ la popolazione civile e sugli stessi combattenti partigiani. Altro elemento importante era la diffusa presenza delle forze armate ger­ maniche. Già dopo il 25 luglio i tedeschi, sicuri del «tradimento» dell’Ita­ lia, avevano fatto affluire nella penisola nuove truppe, nel quadro di un vero e proprio piano di occupazione. Nel Lazio, a Frascati, avevano insediato il comando del gruppo di armate dellTtalia centrale e meridionale, affidato al feldmaresciallo Albert Kesselring, che, al momento dell’annuncio dell’armi­ stizio, allineava a nord, tra il lago di Bolsena e Tarquinia, la 3“divisione Pan-

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zergrenadieren, e a sud-ovest, sul litorale tra Fiumicino e Pratica di Mare, la 2a divisione paracadutisti. Inoltre numerosi battaglioni erano stati dislocati in tutta la regione con l’evidente intento di controllare ed eventualmente at­ taccare le forze militari italiane. In seguito alle vicende che contraddistin­ sero la «difesa di Roma» e alla conseguente occupazione del territorio, la presenza nella regione di forze militari tedesche aumentò sensibilmente, sia per l’importanza assegnata alla città di Roma, sia per l’attestarsi del fronte, a partire dall’ottobre, lungo la linea Gustav, al confine meridionale della re­ gione, sia, infine, per il passaggio delle truppe in ritirata. Meno determinante fu invece la presenza delle forze armate della Repubblica sociale, che si an­ darono riorganizzando con molte difficoltà e che, salvo in qualche rara oc­ casione, svolgevano solo compiti di supporto neE’azione repressiva tedesca. Nel quadro di questi principali caratteri comuni la Resistenza laziale si sviluppa in modo differenziato a seconda delle zone, così che tracciarne un profilo implica necessariamente un’articolazione per aree omogenee. La pri­ ma approssimativa distinzione da compiere è comunque quella fra i terri­ tori posti a nord e quelli a sud di Roma. La prossimità del fronte e la spe­ ranza di un’imminente liberazione fanno sì che a sud della capitale le ban­ de partigiane si formino immediatamente e si distinguano per un’attività “scoperta”, intrecciata cioè con la vita civile dei piccoli centri abitati. In quest’area ia curva del fenomeno resistenziale raggiunge l’apice nel gennaio del 1944 per poi rapidamente calare, quando l ’apertura del secondo fronte sul litorale di Anzio e la conseguente estensione della zona di guerra im­ pongono un sensibile riflusso. A nord di Roma, invece, il movimento par­ tigiano matura nel tempo e acquista un ruolo significativo nei primi mesi del 1944, dopo che le forze della Resistenza hanno dovuto constatare che la liberazione sarebbe stata meno prossima di quanto creduto, rendendo ne­ cessario un nuovo impegno di lotta. Nell’area laziale settentrionale le con­ dizioni geografiche più favorevoli, con rilievi frequenti e rifugi migliori, de­ terminano la formazione di un partigianato semimontano che alterna for­ me di resistenza sui monti ad azioni all’interno dei centri abitati. Scendendo nel dettaglio, si possono distinguere cinque zone omogenee per il Nord: i territori del litorale tirrenico nei pressi di Civitavecchia, Vi­ terbo e l’Alto Lazio, la Bassa Sabina, il Reatino e la valle del fiume Ame­ ne. Per il Sud si possono individuare tre aree: i Monti Prenestini, i Castel­ li Romani e la Ciociaria. E da tenere presente che alcune di queste zone era­ no tra loro collegate da un frequente scambio di uomini e di mezzi, in particolare tra le aree di Viterbo e di Civitavecchia a nord e tra i Castelli e i Monti Prenestini a sud. Civitavecchia. In questa zona, che comprende il litorale tirrenico dell’Al­ to Lazio e i centri abitati lungo la via Aurelia, il movimento partigiano si sviluppa particolarmente sui rilievi interni dei Monti della Tolfa e trova ali­ mento e protezione tra la popolazione di Civitavecchia sfollata nelle aree montane a seguito del pesante bombardamento del 14 maggio 1943.

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Nella zona di Allumiere opera la banda Maroncelli - dal nome del suo organizzatore Ezio Maroncelli -, una delle formazioni esterne del Movi­ mento comunista d’Italia (Bandiera rossa), molto attivo nella capitale. Ben organizzata militarmente, la banda, che ha anche un commissario politico - Antonio Morra, figura-simbolo dell’antifascismo civitavecchiese -, com­ pie varie azioni di sabotaggio, agendo inizialmente in condizioni di grande libertà di movimento e di quasi impunità, grazie al fatto che le stesse auto­ rità locali, impaurite, procurano ai partigiani falsi documenti di identità, mentre i proprietari terrieri li riforniscono di viveri e denaro. Nel novem­ bre 1943 il gruppo riesce a sfuggire a un pesante rastrellamento spostando maggiormente il suo raggio di azione verso l’interno, nella zona tra Tolfa e Civitella Cesi. Altra importante formazione della zona è quella comandata da Fernan­ do Barbaranelli, antifascista storico, che opera tra i Monti della Tolfa e i paesi di Bieda, Barbarano e Vetralla. La banda Barbaranelli è protagonista di numerosi attacchi a soldati tedeschi e azioni di sabotaggio contro mezzi militari, spesso in coordinamento, specie nell’ultima fase resistenziale, con altre formazioni del Viterbese. In quest’area il movimento partigiano riesce a liberare prima dell’arri­ vo degli alleati, tra il 4 e il 9 giugno 1944, alcune importanti località come Bieda, Barbarano, Civitella Cesi, Veiano, Tolfa e Allumiere. Di qui anche la capacità di alcuni Cln locali, come quelli di Tolfa e Allumiere, di desi­ gnare e imporre propri sindaci, il che non avviene a Civitavecchia e a San­ ta Marinella, dove l’assenza di un movimento partigiano rende particolar­ mente deboli i locali Comitati. Viterbese e Alto Lazio . La provincia di Viterbo, che si estende a ovest del fiume Tevere fino al litorale tirrenico e a nord fino ai confini con la Toscana e l’Umbria, è attraversata da due importanti vie di comunicazione, la Cassia e la Flaminia, lungo le quali sorgono i più importanti centri abitati della zona. Il territorio è morfologicamente vario ed è caratterizzato dalla presenza di due importanti rilievi vulcanici: a sud del capoluogo, i Monti Cimini con il lago di Vico; a nord, i Monti Volsini con al centro il lago di Bolsena. Grazie alle favorevoli caratteristiche geografiche e a una certa tradizio­ ne politica antifascista si sviluppa nell’area un movimento partigiano che per importanza e forme di attività è paragonabile a quelli espressi dalle re­ gioni centrosettentrionali. A promuovere l’organizzazione dei primi grup­ pi partigiani è un insegnante viterbese, Mariano Buratti, del Partito d’azio­ ne (Pda), che raccoglie sui Monti Cimini, nella zona di San Martino, un gruppo di giovani antifascisti attivi sin dalla fine degli anni trenta nel capoluogo. Ai giovani studenti viterbesi si aggregano anche alcuni militari sbandati, per lo più meridionali, e già nel corso di settembre la banda del Cimino (anche detta Buratti) si distingue per alcune azioni rilevanti, tra cui l’abbattimento di un aereo di ricognizione tedesco. Nel tentativo di raffor­ zare l’organizzazione, ai primi di ottobre Buratti si lega, attraverso il capi­

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tano medico Manlio Gelsomini, al Centro militare clandestino diretto da Roma dal colonnello Montezemolo, spostando la collocazione politica del­ la banda vicino alle posizioni monarchico-badogliane.

Nella zona opera anche un’altra formazione, organizzata dal comunista Fernando Biferali, che riesc e a realizzare un’intensa attività di propagan­ da, varie azioni di sabotaggio e intermittenti collegamenti con le altre for­ mazioni della provincia. Il 24 ottobre 1943, per stroncare l’attività partigiana i tedeschi danno inizio a una vasta operazione di rastrellamento sia sul Monte San Martino, dove vengono uccisi molti combattenti del gruppo di Buratti, sia a San Gio­ vanni di Bieda (oggi Villa San Giovanni in Tuscia), dove il 29 ottobre i pa­ racadutisti tedeschi massacrano quattordici uomini del paese e ne preleva­ no una trentina. Nelle settimane successive i nazisti compiono altre stragi, a Montalto di Castro e nei dintorni di Capranica, dove il 17 novembre ven­ gono uccisi diciotto giovani sardi, ex militari stabilitisi nella zona dopo lo sbandamento dell’8 settembre. Mentre le prime formazioni vengono scompaginate, si costituisce il Co­ mitato di liberazione nazionale (Cln) locale formato dai rappresentanti del gruppo Italia indipendente, da comunisti, azionisti e repubblicani. La com­ ponente repubblicana, particolarmente attiva nella zona, costituisce la for­ mazione combattente Colleoni rafforzata dall’inserimento di militari del 30 reggimento granatieri che opera ai confini con l’Umbria, con continue azio­ ni di sabotaggio lungo la strada per Orvieto e nei dintorni del lago di Boisena. Anche qui, alla fine di ottobre, l’azione repressiva tedesca provoca nu­ merose vittime, in particolare a Bagnoregio dove era stanziata una guarni­ gione della Wehrmacht (Forze armate tedesche). Nell’Alto Lazio è attiva, a partire da novembre, anche una formazione dalle caratteristiche singolari, priva di connotazione politica e tenuta in­ sieme dal carisma del suo comandante, Sante Arancio. Questi crea una ve­ ra e propria comunità autonoma con una complessa articolazione delle fun­ zioni di autogoverno. Formata prevalentemente da militari, la banda di Arancio estende la sua attività fino alla Maremma toscana compiendo nu­ merose azioni militari e punitive contro le autorità fasciste. Tra il dicembre 1943 e il gennaio 1944, l’arresto di alcuni dei maggiori dirigenti come Buratti e Gelsomini - che poi cadrà alle Fosse Ardeatine e l’apertura del secondo fronte mutano le prospettive della Resistenza nel Viterbese, spostando verso la zona, divenuta importante sotto il profilo del­ le operazioni belliche, l’attenzione del Cln romano e del Centro militare di Montezemolo, che vi costituiscono una Giunta militare con compiti di coor­ dinamento delle attività partigiane. Tra le formazioni politiche le più atti­ ve sono quelle comuniste che hanno come base Viterbo, dove operano set­ te Gruppi d’azione patriottica (Gap), ed estendono sempre più il loro rag­ gio d’azione nell’area settentrionale della regione. A Civitacastellana si costituisce un gruppo democristiano che compie diverse azioni di sabotag­ gio dirette a interrompere i collegamenti tedeschi con il Monte Soratte, do­

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ve ha sede il quartier generale di Kesselring. Anche le bande a composizio­ ne militare riprendono l ’attività con nuovo vigore grazie a un rinnovo dei comandi inviati dal Fronte di Roma.

In primavera l’attività militare riprende con nuova forza passando dal­ le semplici azioni di sabotaggio a veri e propri scontri armati contro pattu­ glie tedesche isolate. Il 27 maggio 1944 la Resistenza subisce però una gra­ ve perdita con la morte di Biferali, avvenuta a Viterbo durante un’azione per liberare alcuni prigionieri dal carcere cittadino. In questa zona la resistenza armata ha il suo momento di maggiore in­ tensità nei giorni che precedono l’arrivo degli alleati, con numerose azioni di disturbo nelle retrovie tedesche: il 5 e 6 giugno a Civitacastellana i par­ tigiani attaccano le truppe germaniche; il 6 a Vignanello vengono liberati trecento prigionieri alleati, con la conseguente durissima rappresaglia te­ desca che provoca la morte di quarantadue civili. Uno degli ultimi dram­ matici episodi avviene a Bagnoregio, dove l’intervento dei partigiani di Tuscania a protezione del paese non ne riesce a impedire l’incendio da parte dei tedeschi. Bassa Sabina. A nord di Roma, tra la valle dell’Aniene e quella del Te­ vere lungo il percorso della via Salaria fino ai Monti Sabini, si estende la Bassa Sabina, comprendente i centri abitati di Monterotondo e Poggio Mir­ teto. In quest’area, dopo le drammatiche giornate che seguono l’8 settem­ bre, la previsione di una ravvicinata liberazione di Roma convince gli anti­ fascisti della zona a non impegnare energie e mezzi nella costituzione di ve­ re e proprie bande. Nei primi mesi l’attività militare e politica viene dunque affidata a iniziative sporadiche e individuali che si concentrano nei dintor­ ni di Monterotondo, dove già nel settembre prende corpo un embrionale Cln che dirige l’opera di assistenza a favore dei prigionieri alleati e dei mi­ litari italiani sbandati. Per iniziativa del Pei si crea nella zona anche una piccola formazione militare che a partire da dicembre compie numerose azioni di sabotaggio sulla via Salaria e alcune operazioni offensive, tra cui l’assalto a un drap­ pello tedesco in località Casini e un’azione coordinata contro una compa­ gnia nemica presso il bosco di Repozzo. Di origine militare sono invece i gruppi organizzati a Poggio Mirteto e nei suoi dintorni: a Stimigliano, Filacciano, Ponziano. Nella zona di Torrita Tiberina, in un territorio che va dal Tevere al Monte Soratte, opera la banda dei Sette Comuni, comanda­ ta dall’ex colonnello del Servizio informazioni militare (Sim) Vincenzo To­ schi e dall’avvocato democristiano Giorgio Mastino Del Rio. Impegnata in azioni per la liberazione dei prigionieri rinchiusi nei carri piombati diretti al Nord, la banda realizza, il 19 settembre, un’azione di grande efficacia provocando l’esplosione di un treno tedesco carico di munizioni. Sempre a Poggio Mirteto agiscono diversi piccoli gruppi di origine mi­ litare che passano progressivamente sotto il controllo dei comunisti adot­ tandone la tattica gappista delle azioni agili e veloci. Alla loro iniziativa si

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deve la fortunata operazione della notte tra il 25 e il 26 gennaio 1944, quando i gruppi coordinati provocano una lunga interruzione della linea ferroviaria Roma-Orte. Nel mese di marzo le disgregate bande comuniste della zona si coordinano e unificano nella brigata Autonoma Stalin, co­ mandata da Ennio Melchiorre e Alcide Monici, che tuttavia riesce a esse­ re scarsamente attiva a causa dei frequenti rastrellamenti operati in segui­ to nella zona. L’apertura del fronte di Anzio e il dilatarsi dei tempi della liberazione conducono a un rafforzamento complessivo del movimento partigiano a nord di Roma, sia per l’ulteriore sforzo organizzativo condotto dagli anti­ fascisti locali, sia per il crescente interesse da parte dei centri politici e mi­ litari romani. In particolare l’organizzazione comunista invia uomini e di­ rettive con l’obiettivo principale di rendere difficile il transito del traffico tedesco lungo la via Salaria. Nella zona di Monterotondo aumentano le azioni di sabotaggio e la stes­ sa reazione tedesca, che qui si fa sentire già alla fine di febbraio, trova una forte resistenza nel movimento partigiano. Alla grotta del Peschio i tede­ schi subiscono numerose perdite, riuscendo però a infliggere un grave col­ po alla formazione comunista con la cattura del comandante Maffeo Tommassini. L’attività partigiana locale è rinvigorita dalla disponibilità di una radiotrasmittente, trasferita da Tivoli e collocata sul Monte Gennaro, che permette scambi di informazioni con la V armata e procura, alla fine di mag­ gio, il lancio di armi e materiali. In quella occasione, però, sono catturati vari partigiani e viene ucciso Edmondo Riva, che sul Monte Gennaro co­ mandava un distaccamento molto attivo. Nei giorni precedenti la libera­ zione si intensifica l’attività partigiana contro i tedeschi in ritirata e il 9 giu­ gno Monterotondo è liberata per iniziativa di una banda comunista. Reatino. In questa zona, che si estende a nord dei Monti Sabini fino ai confini con l’Umbria e l’Abruzzo e comprende l’Agro e i Monti Reatini, vi è una forte prevalenza di territorio montuoso in cui trovano rifugio molti militari sbandati. Il duro regime di occupazione e la scarsa preparazione po­ litica delle popolazioni locali impediscono però lo sviluppo di un consistente movimento partigiano autoctono. Nei primi mesi del 1944 lo “sconfinamento” di alcune formazioni um­ bre e marchigiane permette la liberazione di alcuni territori a nord di Rieti: al 16 marzo risultavano controllate dai partigiani umbri della brigata Gram­ sci le zone di Leonessa, Poggio Bustone e Albaneto. Sono tra le prime «^one libere» della Resistenza italiana ma hanno vita breve poiché alla metà di mar­ zo sopraggiungono nella zona reparti della divisione tedesca Sardinia (la ricostituita 9oa Panzergranadier Division, unità d’élite tedesca) per garantire il controllo dei centri abitati e proteggere il traffico militare sulla via Sala­ ria. La stretta repressiva delle forze nazifasciste si inasprisce particolar­ mente a partire dalla fine di marzo, dopo che un distaccamento della Rsi di duecento uomini guidati dal questore di Rieti raggiunge Poggio Bustone, ma

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viene respinto dai partigiani con gravi perdite, tra cui lo stesso questore. Il giorno successivo truppe tedesche tornano nei paese e lo incendiano. Il 31 marzo Rivodutri, Capparo e Mabbro subiscono la stessa sorte. Negli stessi giorni Morro Reatino è occupata dai nazifascisti e venti civili vengono fu­ cilati. Nei primi giorni di aprile i rastrellamenti si spostano verso Leonessa dove un distaccamento tedesco fucila ventitré civili di fronte alla popola­ zione, mentre nelle vicinanze un altro reparto uccide tredici civili e sei par­ tigiani. Rastrellamenti e azioni punitive proseguono per tutto il mese con un saldo nell’area del Reatino - ivi compresa Rieti dove quindici antifasci­ sti sono prelevati dalle carceri e fucilati - di seicentocinquanta vittime. Valle dell’Attiene. Quest’area, che si estende lungo il fiume Aniene ver­ so i Monti Simbruini, ha una particolare importanza militare in quanto at­ traversata dalla via Tiburtina che collega Roma con la zona sudorientale del­ la regione. Il movimento partigiano vi ha uno sviluppo piuttosto modesto, sia per la presenza di numerose forze tedesche, che vi hanno situato una par­ te delle sedi dei propri servizi, sia per l’assenza di una consolidata tradizione antifascista. Le poche formazioni che vi operano hanno vita effimera in quan­ to vengono sgominate già dai primi rastrellamenti del mese di ottobre in cui vengono eliminati e dispersi i gruppi partigiani di Mandela e di Agosta. A Subiaco si costituisce un comitato di salute pubblica che garantisce assistenza alla popolazione e ai prigionieri individuando i ricoveri e facen­ do opera di mediazione con il comando tedesco. Si formano anche due pic­ cole squadre collegate al Fronte militare clandestino che limitano però il lo­ ro intervento alla sola attività informativa. Un tentativo più consistente di mettere in piedi nella zona un’attività partigiana è compiuto dai comuni­ sti, i quali organizzano alcuni gruppi che tuttavia non riescono a svolgere azioni particolarmente incisive dal punto di vista militare. Nei primi mesi del 1944 entrano in attività alcuni gruppi di Arcinazzo e Vallepietra, che vengono però presto dispersi da un massiccio rastrella­ mento da parte dei tedeschi, i quali compiono anche crudeli rappresaglie sulle popolazioni civili, tra cui quella del 26 maggio presso la Madonna del­ la Pace in cui perdono la vita quattordici civili. Monti Prenestini. In quest’area montuosa a est di Roma, attraversata da due importanti vie di comunicazione, la Prenestina e la Casilina, il movi­ mento partigiano è collegato con quello limitrofo dei Castelli e, per la po­ sizione relativamente più defilata rispetto al fronte di guerra, ne costitui­ sce a volte un temporaneo entroterra. Le formazioni locali non hanno una direzione unitaria e, a parte una si­ gnificativa presenza comunista - la banda di Enrico Giannetti a Paliano, e a Palestrina quella di Dante Bersini di Bandiera rossa -, sono prevalente­ mente di tipo militare. L’attività partigiana, dopo un periodo di assestamen­ to, si intensifica nelle prime settimane del 1944, anche grazie all’arrivo di un gruppo di ex prigionieri russi già trasferitisi da Monterotondo ai Castelli

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e successivamente aggregati a una banda di Palestrina. Nei giorni dello sbar­ co di Anzio le bande compiono numerosi atti di sabotaggio e imboscate, specie lungo la via Prenestina. A differenza del movimento partigiano dei Castelli quello dei Monti Prenestini riesce a mantenere una significativa continuità d’azione, so­ prattutto per la scarsa presenza delle forze tedesche, le quali tuttavia, alla metà di febbraio, in seguito a un rastrellamento nella zona di Rocca Cave scompaginano le formazioni costringendole a limitare la zona delle loro ope­ razioni. Proseguono tuttavia nei mesi successivi gli attentati a militari te­ deschi e le distruzioni di materiale bellico, cosi che ai primi di marzo i co­ mandi germanici impongono il coprifuoco a Paliano e tentano di accerchiare il gruppo dei russi, che riesce però a sfuggire. L’efficacia dell’azione partigiana è tale che tedeschi e fascisti repubbli­ cani debbono mobilitare, nella prima domenica di maggio, più di tremila uomini per compiere un imponente rastrellamento che ha un forte con­ traccolpo sulle forze partigiane. Tuttavia nei giorni che precedono l’arrivo degli alleati nella zona le bande si riorganizzano e riprendono le azioni mi­ litari che culminano con la liberazione di Paliano e San Vito Romano da parte dei partigiani. Castelli Romani. La forte tradizione antifascista e lo stretto collega­ mento con Roma fanno di questa zona, che comprende i tredici comuni dei Colli Albani, situati a sud della capitale, una delle aree di maggiore espan­ sione della lotta partigiana nella regione. Già durante i quarantacinque gior­ ni le forze politiche antifasciste, con il rientro dei prigionieri e dei confina­ ti politici, si sono riorganizzate, e, dopo l’8 settembre, il Pei e il Pda danno vita alle prime formazioni, a cui si affiancano anche alcuni gruppi a carat­ tere militare, formati per lo più da sbandati del XVII corpo d’armata. Il movimento partigiano dei Castelli si forma in stretto rapporto con gli organismi politici romani, in particolare con il comando militare dei tre par­ titi della sinistra che ne ispira le scelte e le direttrici di azione. La giunta militare del Cln di Roma è qui rappresentata da Pietro Amendola che ope­ ra nella zona. Nella fase iniziale l’attività del movimento è prevalentemen­ te rivolta al proselitismo e alla ricerca di armi, anche se non mancano le azioni di sabotaggio, con il taglio delle linee telefoniche e telegrafiche e lo spargimento di chiodi a quattro punte sulle strade. Alla fine di ottobre il co­ mando militare di zona, a seguito di una delazione, viene decimato, e in con­ seguenza molte squadre, specie quelle a prevalenza militare, si sciolgono. In seguito tuttavia il movimento si riorganizza con la costituzione di un comando unico affidato all’azionista Giuseppe Levi Cavaglione. Si assiste co­ sì a una trasformazione della lotta partigiana che vede prevalere la compo­ nente politica e la creazione di squadre di commandos analoghe ai Gap cit­ tadini. I risultati non tardano: il 26 novembre otto squadre eseguono una serie di azioni coordinate di sabotaggio lungo tutte le principali strade del­ la zona permettendo all’aviazione alleata di bombardare gli automezzi te­

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deschi immobilizzati. Nei mesi successivi le azioni si moltiplicano, grazie sia a una notevole disponibilità di armi automatiche ed esplosivi, sia al so­ praggiungere dalla zona di Monterotondo del gruppo degli ex prigionieri russi che si dislocano nel settore di Velletri e Cisterna. Tra le numerose iniziative intraprese fino allo sbarco di Anzio è da re­ gistrare l’azione coordinata di varie squadre che, nella notte tra il 19 e il 20 dicembre, consente di far saltare il ponte delle Sette Luci, sulla linea ferro­ viaria Roma-Formia, e il tratto di binari tra i caselli 15 e 16 della Roma-Cassino. Il bilancio per i tedeschi è pesantissimo: a seguito del primo sabotag­ gio deraglia un convoglio militare mettendo fuori combattimento quattrocento uomini tra morti e feriti; il secondo provoca la distruzione di un treno carico di munizioni e carburante. La precisione e l’efficacia dell’azione in­ ducono i tedeschi a crederne autori commandos alleati e per questo a essa non seguono rappresaglie. La geografia politica delle formazioni vede una forte prevalenza comu­ nista, agli ordini diretti del comando tripartito, e una significativa presen­ za azionista, socialista e cattolica. Non mancano tuttavia gruppi composti da elementi militari particolarmente attivi nei giorni dello sbarco di Anzio, quando la lotta armata dei Castelli raggiunge 3 suo culmine con frequenti azioni di sabotaggio nelle retrovie tedesche. Tuttavia il periodo dell’offensiva alleata successiva allo sbarco segna an­ che il momento di ripiegamento delle formazioni partigiane, che, strette tra i due eserciti e sotto la pressione dei sempre più frequenti bombardamenti alleati, sono costrette a trasferirsi o a sciogliersi. La fuga delle popolazio­ ni sottrae al movimento partigiano Vhabitat in cui svilupparsi e il tentativo di riorganizzare il movimento, nell’aprile 1944, viene stroncato dall’arre­ sto di tutto il gruppo dirigente. Ciociaria. Questa zona del Lazio meridionale, situata tra la valle del Sac­ co e la valle del Liri, e attraversata dalla via Casilina, si viene presto a tro­ vare nelle immediate retrovie del fronte. Ciò determina una massiccia pre­ senza delle forze armate germaniche che attuano l’evacuazione di molti cen­ tri abitati, compreso il capoluogo, Frosinone, rendendo particolarmente difficoltoso lo sviluppo di un’efficace attività di resistenza. Il movimento partigiano è pertanto caratterizzato da un’estrema dispersione, e la sua or­ ganizzazione è affidata a iniziative sporadiche, per lo più promosse da sin­ gole personalità, come il gruppo di Fiuggi costituito per iniziativa del pro­ fessore Raffaele Conti, o da militari sbandati, come la banda dei Monti di Pedicino, comandata dal tenente Armando Zanetti. A fine 1943 entrano in azione anche alcune formazioni politiche, tra cui particolarmente attiva la banda comunista di Collepardo, che opera anche in territorio di Alatri e Veroli. Ma nei primi mesi l’attività di tutte le formazioni si limita per lo più, anche per la scarsa disponibilità di armi, ad alcune azioni di sabotaggio. L’apertura del secondo fronte, dopo lo sbarco di Anzio, dà una scossa al movimento partigiano che riesce a darsi una struttura centralizzata di co­

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mando con la costituzione del locale Cln affiancato da un comitato milita­ re. In conseguenza si intensificano in tutta l’area le azioni di sabotaggio e si sviluppa anche un’efficace attività gappistica di piccoli gruppi, organiz­ zati dal comunista Raul Silvestri e dislocati tra Ripi, Boville, Ceprano, Veroli e Frosinone. In primavera i tedeschi mettono in atto vaste operazioni di rastrella­ mento che colpiscono duramente il movimento partigiano, in particolare quello dei Monti Pedicini che viene decimato e disperso. A farne le spese è anche la popolazione civile, sottoposta a frequenti perquisizioni e continui servizi di lavoro coatto, raramente contrastati dalle formazioni partigiane. Fa eccezione la banda di Fiuggi che l’8 aprile 1944 riesce a liberare nume­ rosi prigionieri impiegati nel servizio di lavoro obbligatorio. Ai primi di maggio, con l’offensiva alleata, cambiano nuovamente le condizioni per l’attività di resistenza a causa dell’intensificazione dei bom­ bardamenti e del passaggio in ritirata delle truppe tedesche. Il fronte in mo­ vimento fa terra bruciata e i partigiani si limitano ad alcune azioni di di­ sturbo nelle retrovie germaniche. I l mancato coordinamento delle forze resistenziali. Da questa rassegna ri­ sulta evidente il carattere multiforme e frammentario della Resistenza la­ ziale che nelle diverse zone ebbe differenti tempi e modalità di sviluppo. La prossimità del Cln centrale non riuscì a creare le condizioni per la for­ mazione di un’organizzazione unitaria e coordinata del movimento parti­ giano nella regione. Malgrado l’intento delle forze antifasciste di impri­ mergli un’unica direzione militare e un comune indirizzo politico, la giun­ ta militare del Comitato centrale di liberazione nazionale (Ccln) fu troppo condizionata dai diversi orientamenti dei partiti che ne facevano parte per poter svolgere il compito di un vero e proprio “governo di guerra”. Le di­ visioni interne e le difficoltà di comunicazione con l’esterno, a causa della diffusa presenza di forze tedesche in tutta la regione, limitarono le funzio­ ni della giunta militare allo scambio di informazioni, al reperimento di mez­ zi finanziari e, talvolta, al rifornimento di armi e di esplosivi. Una qualche maggiore efficacia nell’imprimere una guida alla lotta ar­ mata ebbero invece le autonome iniziative del Pei e del Fronte militare clan­ destino. Se non una vera e propria struttura di comando i comunisti riu­ scirono - grazie all’attività svolta da Pompilio Molinari, responsabile del comitato militare provinciale del Pei, e da Alfio Marchini, del Comando Italia centrale delle brigate Garibaldi - a dare al movimento partigiano da essi promosso un carattere abbastanza omogeneo, con una diffusa organiz­ zazione di stile gappistico, costituita da piccoli nuclei, capaci di compiere rapide azioni e di sfuggire agilmente ai rastrellamenti nazifascisti. Una tat­ tica offensiva che presto si impose per la sua efficacia anche presso altre formazioni partigiane a carattere politico. Il Fronte militare clandestino che, a partire dalla capitale, aveva esteso la sua attività a tutta l’Italia centrale, riuscì a coordinare, sotto il comando del

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colonnello Ezio De Michelis, molte bande a composizione militare. Ma do­ po un primo periodo di intensa attività di sabotaggio, nelle formazioni con­ trollate dal Fronte prevalse un atteggiamento di tipo difensivo che non cor­ rispose alle aspettative delle forze alleate. Tale condotta fu dovuta in buo­ na parte a un’obiettiva debolezza di queste bande, incapaci di impegnare considerevolmente le truppe tedesche, ma anche alla preoccupazione di man­ tenere integre le forze nella prospettiva di un possibile conflitto con la si­ nistra resistenziale dopo la liberazione di Roma. Ciò rese impossibile una collaborazione - che fu poco più che occasionale - con le bande a orienta­ mento politico. É comunque da rilevare che nel Lazio il movimento partigiano fu in buo­ na misura il risultato di spinte immediate e volontaristiche difficilmente classificabili sotto il profilo politico. La maggior parte delle “mappe” e de­ gli “organigrammi” della Resistenza laziale sono spesso frutto di sistema­ zioni a posteriori, non prive a volte di notevoli forzature. Se questa consi­ derazione ridimensiona il ruolo dei partiti nel promuovere la lotta contro gli occupanti e i loro collaboratori, essa valorizza la presenza e il ruolo del­ le spontanee forze antifasciste della regione. Nota bibliografica.

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Icaratteri della resistenza romana. La resistenza romana non ha avuto le dimensioni di quella che ha caratterizzato le grandi città del Settentrione del paese. Pur nell’incertezza dei dati quantitativi è indubitabile che il nu­ mero di coloro che vi furono coinvolti in modo attivo è, in relazione alla popolazione, certamente inferiore a quello dei combattenti partigiani di Mi­ lano, Torino, Genova, Bologna. E poiché «i nuclei armati romani non rag­ giunsero mai, come nel Nord, l’importanza di vere e proprie formazioni che diedero o accettarono battaglia» [Piscitelli 1965] - 6200 sono coloro che a Roma e provincia sono stati riconosciuti come «partigiani combattenti» -, anche le azioni di guerra, terroristiche o di sabotaggio, furono a Roma nel complesso più limitate. Tutte le altre attività resistenziali - assistenza ai combattenti, riforni­ mento di armi, collaborazione informativa, preparazione e diffusione del­ la stampa clandestina, propaganda e proselitismo - e le stesse forme di re­ sistenza passiva o civile, pur così difficilmente quantificabili, non sembra­ no essere state tali da configurare, al di fuori di alcune borgate periferiche, un clima di ostilità verso gli occupanti tedeschi e le autorità della Repub­ blica sociale (Rsi) pari a quello che si manifestò in molti centri urbani set­ tentrionali. Diverse testimonianze indicano invece un prevalere, tanto nel centro cittadino che in molti rioni popolari, della preoccupazione di far fron­ te ai bisogni più elementari nelle difficili condizioni belliche e di un deside­ rio di estraneazione dalla lotta proteso alla fuoriuscita dalla guerra, comun­ que fosse. Atteggiamento che fu dettato non da semplice chiusura nel pro­ prio particulare ma da quell’intima, istintiva avversione alla guerra - qualsiasi guerra - che fu denominatore comune di tanti gesti di solidarietà della po­ polazione romana - a volte con grave pericolo - verso chiunque vi si voles­ se sottrarre, fossero soldati sbandati del regio esercito o prigionieri di guer­ ra in fuga. Un indicatore significativo del più circoscritto impegno nella lotta di li­ berazione e di una più superficiale penetrazione tra i romani dei sentimenti ostili verso i tedeschi e i loro collaboratori è costituito dal fatto che, a dif­ ferenza di quanto sarebbe accaduto nelle città settentrionali - dove duran­ te l’insurrezione e all’indomani della liberazione si registrarono numerosis­ simi casi di giustizia sommaria di fascisti proprio in conseguenza dello spiri­

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to di vendetta maturato nel corso della lotta -, a Roma, nonostante che es­ sa avesse conosciuto, con la strage delle Fosse Ardeatine, il più terribile epi­ sodio di rappresaglia subito in Italia da un grande centro abitato, il trapasso dall’occupazione tedesca all’insediamento degli alleati e del governo Bono­ mi fu sostanzialmente pacifico. E anche nei mesi successivi, se si esclude l’episodio di linciaggio di cui fu vittima il direttore del carcere di Regina Coeli, ritenuto complice e corresponsabile del massacro delle Ardeatine, non vi si registrarono vendette o rese di conti politiche. Lo rilevava con un qualche stupore ma in modo assai efficace il giorna­ lista democratico Giulio Colamarino, quando, a qualche mese dalla libera­ zione della città, scriveva: Ci guarderemo bene dal farci esaltato ri dello spirito di vendetta. Ma, co me semplici osservatori, c i si co nsentirà tuttavia di stupirc i che la mattina del 5 giu­ gno non si sia verificato a Ro ma alcun episodio, non diciam o di fredda vendetta, ma di «naturale» e passionale esplosione antifascista, come scatto di molla trop­ po a lungo compressa. Che almeno un inquilino, uno solo, dopo essere stato per tanti mesi visitato e braccato dagli agenti della polizia fascista, si fosse precipita­ to a regolare i conti col portiere spia... Niente; neppure questo; tutto festa e gau­ dio. [«Cosmopolita», 2 settembre 1944].

Tuttavia, nonostante questa minore determinazione antifascista e la scarsa c ombattività di buona parte della popolazione romana, che per con­ trasto esalta il valore e il sacrificio delle minoranze attive che furono pro­ tagoniste della Resistenza, la capitale è stata teatro di due episodi - la di­ fesa della città dall’occupazione tedesca e l’attentato di via Rasella - che, per il loro valore intrinseco e soprattutto per il loro significato simbolico, costituiscono dei momenti nodali dell’intera vicenda resistenziale italiana. Si può dire anzi che la partecipazione popolare - alcune centinaia di uo­ mini - alla difesa di Roma per ostacolare, a partire dal 9 settembre 1943, l’occupazione della capitale da parte delle forze armate tedesche, sia l’epi­ sodio che dà inizio non solo alla Resistenza romana ma a tutta la guerra di liberazione in Italia. Tanto più perché, avendovi contribuito solo in limita­ ta misura i partiti antifascisti - ancora in via di organizzazione -, quel con­ corso spontaneo di popolo può ben rappresentare la genuina volontà di re­ sistenza della parte migliore degli italiani. Dopo la fuga del re, mentre le isti­ tuzioni venivano meno e in tutto il paese l’esercito, privo di direttive precise, disorientato, si disperdeva, si arrendeva o si mostrava incapace di far fron­ te all’aggressione tedesca, degli uomini assumevano su di sé i compiti dello stato e mostravano con il loro esempio, con il semplice gesto di impugnare le armi in difesa della capitale, quale era la strada da percorrere. La difesa della città. Fin da quel primo episodio si presenta sulla scena romana il conflitto, che poi attraverserà anche le forze della Resistenza, tra coloro che vogliono battersi contro i tedeschi e coloro che, convinti dell’ine­ vitabile e prossimo arrivo degli alleati, preferiscono attendere, evitare di

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opporsi, almeno apertamente, ai tedeschi, per non provocarne le violente reazioni. L’atteggiamento di molte autorità militari e di polizia che rifiuta­ no, di fronte alle reiterate richieste di vari partiti, la distribuzione di armi al popolo e in qualche caso anzi lo disarmano, è dettato, più che dal timo­ re di un possibile uso “rivoluzionario” di quelle armi, proprio dalla valuta­ zione che una resistenza armata all’occupazione tedesca della città sia vana e controproducente. Senza una guida e con scarso armamento la partecipazione popolare sarà inevitabilmente episodica e frammentaria. Alcuni scontri con una rilevan­ te presenza di civili si hanno nel centro cittadino, soprattutto intorno alla stazione Termini, dove vi sono alcuni alloggiamenti riservati a militari te­ deschi, e, successivamente, quando questi attaccheranno il treno riservato allo stato maggiore italiano. Ma il più ingente intervento popolare è diret­ to soprattutto ad appoggiare le azioni di difesa dei pochi reparti militari che cercano di ostacolare l’ingresso in Roma delle truppe germaniche. Cosi l’area in cui si concentra il maggior numero di semplici cittadini che prende parte alla difesa della città è la zona sud-ovest, compresa tra la via Àrdeatina e la via Portuense, dove parte delle divisioni granatieri di Sar­ degna e Lancieri di Montebello si sono attestate e bloccano l’avanzata tede­ sca. Sul ponte della Magliana, sulla Montagnola dell’Eur, alla «casa rossa» della borgata Laurentina, alla Cecchignola combattono e cadono accanto ai soldati dell’esercito numerosi civili. Ma è soprattutto intorno alla via Ostien­ se, là dove, attraverso la porta San Paolo, essa sbocca in città, che affluisce il maggior numero di romani incitati da alcuni uomini dei partiti antifasci­ sti a battersi contro i tedeschi per impedirne l’accesso nel centro cittadino oltre il cerchio della mura aureliane. Qui, dove più cruenta sarà la batta­ glia, molti di loro restano uccisi e se il nome tra i caduti più frequentemente ricordato è quello di Raffaele Persichetti, per la sua qualità di intellettuale - era professore di storia dell’arte al liceo Visconti -, non meno eroico fu l’esempio dato dalle molte decine di uomini e donne - 241 furono i caduti civili nella difesa di Roma secondo il computo ufficiale, ma alcune stime li portano a circa 400 - di ogni condizione che diedero la vita in quella cir­ costanza estrema. Si trattò, certo, di un’impresa disperata destinata alla sconfitta. Il ma­ resciallo d’Italia Enrico Caviglia, che era stato invano sollecitato da Emi­ lio Lussu, rappresentante del Partito d’azione (Pda), a mettersi alla testa dei difensori della capitale, ricordando l’episodio annotava nel suo diario: Possibile che si creda ancora che in quel momento si potesse resistere, davanti all’esercito tedesco, con le barricate e i petti degli eroici cittadini romani ? Roman­ ticismi: Balilla!

Ma non era romanticismo. Molti di quegli uomini sapevano di essere poco più che inermi di fronte alla superiore forza del nemico, ma sapevano anche che in quel momento occorreva mettere in pericolo la propria vita per compiere un gesto esemplare che avesse il valore simbolico di rottura

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con il passato fascista, di riscatto, di sacrificio rivolto a compensare le cor­ responsabilità di buona parte del popolo italiano con il regime che lo aveva portato a quella disastrosa guerra. Ipartiti antifascisti durante l’occupazione tedesca. Una volta occupata Ro­ ma, i tedeschi trovano come unica autorità italiana con cui trattare il co­ mando della Città Aperta, creato nell’agosto precedente dal governo Ba­ doglio a seguito della sua dichiarazione unilaterale del carattere di «città aperta» della capitale diretta a risparmiarle i bombardamenti alleati. Il suo capo, il generale Calvi di Bergolo, genero del re, consente inizialmente a coo­ perare con gli occupanti in cambio del mantenimento di un autonomo con­ trollo della città. Ma presto i tedeschi, sbarazzatisi di Calvi di Bergolo, de­ portato in Germania, trasformano il comando in un organismo di collaborazione a essi completamente subordinato. Per contro i partiti antifascisti, ancora caratterizzati da esili strutture or­ ganizzative e da uno scarso numero di militanti, si uniscono per dar vita al­ la resistenza. Già il 9 settembre 1943 il comitato antifascista che li riunisce si era costituito in Comitato di liberazione nazionale (Cln) facendo un ap­ pello «per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni». Proteso in primo luogo ad assumere su di sé i compiti di direzione di tutto il movi­ mento di liberazione italiano in un difficile equilibrio tra governo Badoglio, alleati e forze della Resistenza che operavano autonomamente a nord, il Cln doveva subordinare a questo obiettivo prioritario ogni altra iniziativa di ambito loc ale. Per promuovere e dirigere la lotta sul piano cittadino le fun­ zioni operative furono perciò di fatto assunte fin dal mese di ottobre da una Giunta militare, di cui faranno parte Giuseppe Spataro per la De, Manlio Brosio per i liberali, Mario Cevolotto per i demolaburisti, Giorgio Amendo­ la per i comunisti, Sandro Pertini per i socialisti e Riccardo Bauer per il Pda. In realtà la Giunta militare non riuscirà mai a svolgere questi compiti e di fatto si limita a funzionare «come un comitato paritetico di partiti con mansioni di coordinamento, di scambio di informazioni, di reperimento di mezzi finanziari, di rifornimento di armi e di esplosivi» [Piscitelli 1965]. E ciò sarà dovuto principalmente a due fattori. In primo luogo al fatto che, dando i sei partiti del Cln un diverso apporto - e anzi alcuni nessuno all’azione militare, era impossibile che le operazioni fossero poi dirette da un comando collegiale, costituito su basi paritetiche, in cui chi contribuiva poco o nulla avesse lo stesso potere decisionale di chi dava il massimo con­ tributo. Ma la scarsa capacità di direzione operativa della Giunta militare sarà determinata soprattutto dalla divergenza di fondo che nel suo seno, co­ me nel Cln centrale, si determinerà tra comunisti, azionisti e socialisti da un lato, e democristiani, liberali e demolaburisti dall’altro, sul tipo di azio­ ni da compiere. Poiché i primi erano decisi a condurre la lotta principal­ mente attraverso veri e propri atti di guerra, inclusi anche attentati terro­ ristici contro gli occupanti, i fascisti e le loro spie, mentre i secondi ritene­

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vano che ci si dovesse limitare alla propaganda e al sabotaggio. Questa po­ sizione attesista era in buona misura orientata dalla Santa Sede, fortemen­ te ostile alla resistenza armata, sia per evitare spargimenti di sangue giudi­ cati inutili, sia per la preoccupazione che la crescita di proseliti della lotta armata potesse favorire i partiti estremi - comunista e socialista - nella pre­ sa del potere dopo la liberazione del paese. La Chiesa, la cui tradizionale influenza fu amplificata dalla protezione che essa offri a molti fuggitivi - an­ tifascisti, ebrei ecc. - e dal fatto che essa, benché impotente a impedire del tutto i bombardamenti alleati sulla città, riuscf per la sua stessa presenza a limitarne la portata, costituì pertanto una forte remora all’espansione del­ la guerra partigiana in Roma.

L’impossibilità di arrivare a un accordo tra le forze antifasciste ma al tempo stesso la necessità di mantenere l’unità del Cln determineranno allo­ ra un’autonomia di fatto di ogni singolo partito nell’intraprendere le azio­ ni che ritenga più opportune. E in questo quadro prevale allora l’iniziati­ va del Pei, che può contare sia su una più consolidata struttura organizza­ tiva - facente perno su pochi ma sperimentati «rivoluzionari di professione» passati durante il regime attraverso la clandestinità, il carcere, il confino -, sia su una nuova leva di giovani entusiasti, attratti dal partito soprattutto per la sua determinazione a battersi. Proprio questa determinazione e l’in­ tensa opera di proselitismo sviluppata soprattutto nelle borgate e nei luo­ ghi di studio e di lavoro, producono fin dai primi mesi una notevole cre­ scita del partito che farà da supporto alle azioni di resistenza compiute nell’arco dei nove mesi di occupazione tedesca da circa tremila militanti. Le operazioni militari compiute dal Pei nell’ambito della capitale lungo tutto il periodo sono condotte sotto la guida di un comitato militare citta­ dino alle cui decisioni partecipa con un ruolo preminente un rappresentan­ te - Giorgio Amendola - della direzione del partito. Sul piano organizzati­ vo la città è stata suddivisa in otto zone, a ciascuna delle quali corrisponde un comitato direttivo politico-militare responsabile delle azioni da effet­ tuare al suo interno. Ma come nelle altre principali città italiane l’organiz­ zazione di base attraverso cui il Pei realizza la resistenza armata è costi­ tuita dai Gruppi d’azione patriottica (Gap), che si caratterizzano per una notevole autonomia operativa. Sotto la guida di un organo di coordina­ mento, comandato da Antonello Trombadori - poi, dopo il suo arresto, da Carlo Salinari -, se ne creano quattro, cui partecipano complessivamente una trentina di militanti. A questi Gap, che entrano in azione per la prima volta il 18 ottobre 1943 con un attacco con bombe a mano contro un cor­ po di guardia della Milizia in viale Mazzini, si debbono le azioni più nu­ merose, temerarie ed efficaci compiute dalla Resistenza romana. A partire da dicembre i Gap comunisti cominciano ad attaccare diret­ tamente gli occupanti tedeschi e di lf al marzo 1944 colpiscono con fre­ quenza quasi quotidiana mezzi e uomini del nemico. Si assaltano di prefe­ renza automezzi militari singoli e autocolonne, vagoni ferroviari, installa­ zioni elettriche, garage e depositi di carburante. Ma soprattutto si infittisce

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la serie degli attentati a danno di individui o di gruppi. Tra questi i più ri­ levanti sono, nel solo mese di dicembre, un attacco con bombe, il giorno 18, contro i militari tedeschi che escono da uno spettacolo a loro riservato al ci­ nema Barberini; l ’attentato dinamitardo, il giorno successivo, contro l ’Hótel Flora, dove ha sede il Tribunale di guerra germanico; l ’assalto con spezzo­ ni al tritolo, il giorno 28, da parte di un solo gappista in bicicletta contro il posto di guardia tedesco del carcere di Regina Coeli. Il 15 gennaio 1944 viene assalita a colpi di bombe a mano l ’autorimessa del comando tedesco in via San Nicola da Tolentino; qualche giorno dopo è fatta saltare con un potente ordigno la sala di ristoro riservata alle truppe germaniche presso la stazione Termini. C ’è poi uno stillicidio di attacchi a camion e autocarri in cui periscono scorte e conducenti. I fascisti repubblicani continuano a re­ stare vittime di attentati, di cui il più clamoroso è quello con lancio di spez­ zoni a miccia di cui nel marzo è bersaglio in via Tomacelli un corteo di vo­ lontari della Guardia nazionale repubblicana (Gnr).

Nessun altro partito riesce ad avere Gap o formazioni militari che a Ro­ ma agiscano con la stessa frequenza ed efficacia. Il Pda, che pure ha il me­ rito di avere preso la prima importante iniziativa di resistenza armata, com­ piendo, il 20 settembre 1943, un attentato dinamitardo contro la caserma della Milizia di viale Romania, opera con una sola squadra assimilabile a un Gap e abbastanza sporadicamente. Le sue azioni sono peraltro quasi esclu­ sivamente di sabotaggio poiché obiettivi più ambiziosi sono preclusi da una certa gracilità organizzativa. I socialisti hanno un’organizzazione militare più fitta e articolata, molto attiva, soprattutto in alcuni quartieri periferici come Centocelle e il Quadraro, nel compiere sabotaggi - grazie in partico­ lare a un’efficiente squadra di ferrovieri - e attentati individuali. Ma non sarà mai in grado di realizzare azioni con rilevanti effetti distruttivi. Gli al­ tri partiti del Cln, per scelta o per scarsezza di aderenti, non hanno un or­ ganismo militare. Solo la De ha un manipolo di uomini che dalla città so­ stiene la lotta di alcune sue bande che operano nella regione, procurando loro armi, rifornimenti e rifugi sicuri. Al di fuori del Cln operano nella Resistenza romana molte piccole for­ mazioni, tra le quali hanno una certa incisività d’azione i cattolici comuni­ sti di Franco Rodano e il partito cristiano-sociale di Gerardo Bruni. Ma in questo ambito il ruolo di maggior peso lo ha un’organizzazione di comuni­ sti dissidenti, il Movimento comunista d ’Italia, detto più comunemente Bandiera rossa dal nome del suo organo di stampa clandestino. Con un se­ guito consistente, soprattutto nelle borgate, il gruppo si caratterizza per nu­ merose azioni, che però paga spesso con gravi perdite per eccesso dì auda­ cia e difetto di misure di sicurezza, come accade nell’assalto al Forte Tiburtino del 22 ottobre 1943 che si conclude con la cattura di ventidue partigiani, di cui dieci verranno fucilati il giorno seguente. Molto attivo nell’opera di proselitismo, senza esercitare però filtri troppo severi, sarà particolarmente soggetto alla penetrazione di spie, provocatori ed elemen­ ti interessati a creare dissidi all’interno dello schieramento antifascista.

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Nella capitale opera inoltre un Fronte militare clandestino della resisten­ za (Fcmr), creato e comandato dal colonnello Cordero Lanza di Montezemolo, che agisce in rappresentanza del governo Badoglio. Questa struttura di­ rige e coordina l’attività di alcune bande partigiane che agiscono nell’Italia centrale, ma la sua prevalente attività è diretta a raccogliere informazioni - consistenza delle forze nemiche, schieramento e movimenti delle truppe, di­ slocazione di fortificazioni e depositi - che vengono trasmesse agli alleati gra­ zie a un efficace sistema di collegamenti radio. Il Fronte organizza inoltre squa­ dre armate all’interno della città il cui compito non è però quello di svolgere ordinari atti di ostilità contro l’occupante, ma di entrare eventualmente in azione nell’imminenza dell’attacco alleato sulla città per favorirne il successo.

In realtà, quando dopo lo sbarco di Anzio del 22 gennaio 1944 si pre­ senta l’occasione di compiere le azioni di appoggio che gli vengono solle­ citate dagli stessi alleati, le squadre cittadine del Fronte militare, come; peraltro le bande che operano nei dintorni della capitale, restano inerti. E possibile che questa generale inerzia sia dipesa anche da una corretta valu­ tazione da parte dei comandi e dello stesso Montezemolo del fatto che al­ lo sbarco non sarebbe seguita quella rapida avanzata che avrebbe giustifi­ cato l’intervento delle squadre. Ma è più probabile che essa fosse dovuta soprattutto a una scarsa consistenza delle forze da mettere in campo, più pensate per svolgere funzioni di ordine pubblico e di opposizione alle even­ tuali iniziative armate dei partiti di sinistra al momento del ritiro dei tede­ schi che per attuare delle vere e proprie azioni militari. L ’inasprimento della lotta dopo lo sbarco alleato di Anzio. Lo sbarco al­ leato desta invece speranze e illusioni nel Cln che già qualche giorno avan­ ti aveva indicato quale suo principale compito quello di «promuovere e di­ rigere la partecipazione popolare alla battaglia per la liberazione di Roma». Le sue componenti più combattive si protendono pertanto verso uno sfor­ zo di mobilitazione che si riflette in una più intensa attività terroristica e di sabotaggio, e si propaga attraverso gli organi di stampa clandestini. «L’Italia libera», organo del Pda, esce il 27 gennaio con il titolo «E questo il momento atteso ! Uomini, donne di Roma in linea !» Il 10 febbraio il gior­ nale comunista «l’Unità» esorta allo «Sciopero generale insurrezionale! » e chiama il «Popolo romano alle armi! » Ma le già modeste capacità di mobi­ litazione dei partiti antifascisti unite alle incertezze riguardo all’effettivo ar­ rivo degli alleati, che erano in realtà di là da venire, fanno si che il proces­ so insurrezionale neppure si avvii. Per contro le forze di polizia dell’occu­ pante, che si avvalgono dell’ausilio dei corpi della Rsi e di bande irregolari - come quelle famigerate di Pietro Koch, Gino Bardi e Guglielmo Pollastrini - muovono tempestivamente al contrattacco e possono con maggiore fa­ cilità colpire duramente le organizzazioni della Resistenza perché «la con­ creta preparazione dell’insurrezione aveva fatto saltare molte cautele, sco­ perti preziosi collegamenti, esposto militanti e gruppi fino a quel momento restati al coperto di una severa clandestinità» [Amendola 1973].

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Le forze che hanno minore esperienza cospirativa si rivelano più vulne­ rabili. In poche settimane vengono arrestati una gran parte dei dirigenti del Pda, tra cui il responsabile dell’organizzazione militare, Pilo Albertelli. Vit­ time di infiltrazioni e delazioni, cadono anche numerosi militanti di Ban­ diera rossa. In pochi giorni viene decapitato il Fronte militare con la cat­ tura del colonnello Montezemolo e dei suoi principali collaboratori. Anche i comunisti sono duramente colpiti, con l’arresto dei due responsabili del­ la Santa Barbara dei Gap, Giorgio Labò e Gianfranco Mattei, e di alcuni tra i più attivi militanti. Più immuni dalle retate poliziesche restano inve­ ce i socialisti, che anzi in quegli stessi giorni di gennaio riescono a liberare dal carcere di Regina Coeli i loro dirigenti Sandro Pertini e Giuseppe Saragat con un colpo di estrema audacia. Nei primi mesi dell’occupazione i tedeschi, che già avevano mostrato il loro volto più feroce con la razzia del Ghetto del 16 ottobre 1943 prele­ vando dalle loro case e mandando ai campi di sterminio più di mille mem­ bri della comunità ebraica, avevano risposto ai colpi ricevuti dalla Resi­ stenza alternando passività a reazioni di spietata durezza. Adesso, pressati dall’incombere degli alleati, esasperati dagli attentati subiti e dalla presso­ ché totale mancanza di solidarietà e collaborazione da parte dei romani, incrudeliscono sempre più. Molti degli arrestati nelle recenti operazioni di polizia vengono immediatamente fucilati al Forte Bravetta. Altri, de­ tenuti già da qualche mese, vengono ora spicciativamente processati e con­ dannati a morte. Tra questi, un gruppo di militanti di Bandiera rossa e don Giuseppe Morosini, il prete che aveva collaborato con il Fcmr per riforni­ re di armi alcune bande fuori città, la cui figura sarà immortalata nel film Roma città aperta di Roberto Rossellini. La popolazione, invano richiama­ ta al servizio di lavoro obbligatorio, è sottoposta a sempre più frequenti ra­ strellamenti. Il 31 gennaio un’ampia zona del centro tra la stazione Termi­ ni e via Nazionale è circondata, duemila uomini vengono prelevati e invia­ ti in parte a lavori di sterro sul fronte di Anzio, in parte direttamente in Germania. L’atteggiamento aggressivo e persecutorio che ora gli occupanti mo­ strano apertamente verso la cittadinanza - non c’è quasi casa, anche nei quar­ tieri borghesi, che non contenga un nascondiglio per sottrarre gli uomini al­ le razzie - crea le condizioni per un’intensificazione dell’azione gappista. Tra febbraio e marzo aumentano notevolmente sabotaggi e attentati. Inol­ tre le organizzazioni comuniste cercano con più frequenza di collegare le loro azioni ai momenti di risentimento popolare in modo da creare un tes­ suto di solidarietà tra resistenti e popolazione. Questo è il senso dell’inter­ vento, il 3 marzo, dei Gap davanti a una caserma di viale Giulio Cesare as­ sediata dalle mogli degli uomini rastrellati che vi sono rinchiusi. Dopo che un SS ha ucciso con un colpo di pistola una donna che tentava di raggiun­ gere il marito - la Teresa Gullace alla cui morte si ispirerà la più famosa sce­ na del film di Rossellini -, i Gap attaccano il cordone dei militi, abbatten­ done alcuni e consentendo a diversi prigionieri di fuggire.

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L ’attentato di via Rasella e le Fosse Ardeatine. In questo clima matura la più importante azione di guerra compiuta dalla Resistenza romana, l’atten­ tato di via Rasella, attuato da un Gap il 23 marzo 1944. Preparata da tem­ po, l’azione ha di mira una colonna di polizia tedesca che di ritorno dalle esercitazioni è solita compiere lo stesso percorso nel centro cittadino. Al suo passaggio per la via è fatta esplodere una forte carica di dinamite nascosta in un carrettino della spazzatura, condotto li da Rosario Bentivegna, l’uomo che ebbe il ruolo chiave nell’operazione poiché dovette poi accendere la miccia con grande tempismo. Sulla colonna, già in buona parte sterminata dall’esplosione, si abbattono quindi le bombe a mano di altri quattro gappi­ sti appostati in una strada laterale, che ingaggiano poi uno scontro a fuoco con la scompigliata retroguardia tedesca. Tutti i gappisti che hanno parteci­ pato all’azione - nove uomini e una donna - riescono a fuggire senza danni. Sul selciato restano i corpi di trentadue soldati uccisi. La reazione dei tedeschi è furibonda. Accorrono sul luogo sparando a casaccio nella via e nei dintorni; rastrellano invano passanti e residenti. Non hanno alcun elemento per la ricerca dei responsabili; il fatto che gli attenta­ tori non abbiano lasciato sul terreno né un morto né un ferito la rende a tempi brevi impossibile. Sono completamente impotenti. Hitler, immedia­ tamente informato, esige una vendetta spietata: il quartiere raso al suolo, una rappresaglia di cinquanta uomini per ogni soldato caduto, secondo la testimonianza di Eugen Dollman, comandante delle SS a Roma. Ma pre­ vale negli alti comandi tedeschi la decisione di non colpire indiscriminata­ mente la città, per timore che la prevalente indifferenza dei romani si pos­ sa volgere in ostilità creando seri problemi per le operazioni militari che si svolgono sul vicino fronte. Si opta perciò per una rappresaglia, nel rappor­ to di dieci italiani per un tedesco, di cui saranno vittime i prigionieri poli­ tici e gli ebrei detenuti a Regina Coeli e nel carcere tedesco di via Tasso. Il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, capo dei servizi di si­ curezza germanici nella città, si incarica di redigere in tutta fretta, con la collaborazione del questore di Roma, Pietro Caruso, la lista dei 330 uomi­ ni - un soldato tedesco era deceduto alcune ore dopo l’attentato - da ucci­ dere. Nella lista ci sono tutti i principali esponenti della Resistenza im­ prigionati, tra cui Albertelli, Montezemolo, Aladino Govoni - comandan­ te militare di Bandiera rossa -, il professor Gioacchino Gesmundo - tra i più attivi gappisti comunisti. Nel pomeriggio del giorno 24 quegli uomini divenuti 335 per un errore di calcolo -, condotti in località Fosse Ardeati­ ne, vengono fatti entrare in alcuni cunicoli naturali che si internano nel ter­ reno e abbattuti sistematicamente a gruppi di tre dai soldati tedeschi, tra i quali si distingue per solerzia di carnefice il capitano Erich Priebke. A com­ pletamento della strage le grotte in cui i cadaveri delle vittime sono rima­ sti ammassati vengono fatte crollare con cariche di dinamite. Nella Giunta militare, riunitasi due giorni dopo il massacro, il rappre­ sentante della De, Spataro, disapprova l’attentato, soprattutto per le sue

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conseguenze, e propone che si emetta un comunicato che richiami le for­ mazioni combattenti a richiedere l ’approvazione preventiva di ogni loro azione da parte della Giunta stessa. In realtà una tale misura non solo avreb­ be di fatto bloccato ogni forma di resistenza armata ma suonava implicita­ mente come sconfessione dell’azione di via Rasella. Viene perciò respinta anche dal rappresentante liberale Brosio e lasciata cadere. Tuttavia l ’as­ sunzione di responsabilità dell’attentato, che di lì a qualche giorno il solo Pei avrebbe reso nota attraverso il suo organo clandestino, è il riflesso del disaccordo sulla valutazione dell’episodio in seno al Cln, anche se esso in un successivo comunicato di condanna dell’eccidio delle Ardeatine lo avreb­ be definito «atto di guerra di patrioti italiani». La controversia su via Rasella ha avuto poi un’eco lunghissima. Ma qual­ siasi considerazione in proposito deve tener conto dei seguenti elementi di giudizio. L’attentato ha conseguito per le finalità della Resistenza un gran­ de risultato di portata simbolica e pratica: ha potuto rappresentare, con tut­ ta la risonanza internazionale che il fatto di essere avvenuto nella capi­ tale implicava, la decisa volontà degli italiani di lottare contro il fascismo e i tedeschi; ha mostrato la vulnerabilità di questi ultimi, incoraggiando a imprese più audaci coloro che già si battevano contro di essi; con la sua esaltante esemplarità ha spinto molti uomini in tutta Italia a combattere gli occupanti e i loro collaboratori. La responsabilità della rappresaglia, im­ prevedibile nella criminalità della sua portata - oltre ai militanti antifa­ scisti furono massacrati settantacinque ebrei imprigionati solo per il fatto di essere tali e alcune decine tra detenuti comuni, rastrellati e semplici so­ spetti - , appartiene solo a chi l ’ha compiuta; soggiacere al ricatto delle rap­ presaglie implicava la fine di ogni resistenza armata. La legittimità dell’at­ to di guerra compiuto fu non tanto di natura giuridica quanto di natura morale, come lo è quella di qualsiasi azione violenta diretta ad abbattere una tirannide che abbia il monopolio della legittimità giuridica. Il fatto che la decisione di compiere l ’attentato fu del solo Pei non ne limita la legitti­ mità poiché quell’atto non contraddiceva alcuna disposizione, né del Cln né del governo Badoglio, ed era anzi assolutamente coerente con le esor­ tazioni dell’uno e dell’altro a colpire il nemico comunque e dovunque si presentasse l ’occasione. La liberazione. Se sul piano generale l’azione di via Rasella è stata di grande importanza per la causa della Resistenza, nell’ambito romano essa ha avuto un duro contraccolpo. La rappresaglia delle Ardeatine priva le or­ ganizzazioni antifasciste - in particolare il Pda e Bandiera rossa - di nu­ merosi quadri e militanti. La città, come avevano previsto i tedeschi, è più intimorita che esasperata. La resistenza armata sparisce quasi compietamente dalle zone centrali e si concentra nelle borgate. In particolare a Centocelle e nell’area tra il Quarticciolo e il Quadraro, dove è molto attiva una banda socialista di cui fa parte quel Giuseppe Albano, detto «il Gobbo del Quarticciolo» - allora figura quasi mitica di combattente - , divenuto tri­

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stemente famoso per essersi messo a capo, dopo la liberazione, di una banda di criminali con ambigue connessioni politiche. Ma essendo più ristretta l’area in cui si continuano a registrare i più frequenti sabotaggi e attentati è più facile per gli occupanti rispondere puntualmente. Cosi in aprile i te­ deschi, dopo un attentato attribuito al Gobbo di cui restano vittime tre lo­ ro soldati, attuano un massiccio rastrellamento al Quadraro - «nido di ve­ spe», lo definiva il console tedesco Moelhausen - catturando circa duemi­ la uomini che vengono deportati in Germania. La stessa resistenza armata comunista subisce una battuta di arresto. Per quanto dopo le Ardeatine vi siano propositi di non dare tregua al nemi­ co per mostrare che la volontà di combattere non è stata fiaccata, i nume­ rosi progetti di altri clamorosi attentati vengono lasciati cadere. Influisce, certo, su questa maggiore inerzia il clima della svolta di Salerno che impo­ ne uno sforzo di concordia con le forze politiche e militari del fronte anti­ tedesco contrarie a operazioni terroristiche di grande portata. Ma si avverte altresì una certa stanchezza nei Gap, che si manifesta anche in un allenta­ mento delle cautele cospirative. Cosicché il loro nucleo più attivo - quello di via Rasella - è praticamente smantellato a seguito della cattura e del tradi­ mento di uno dei suoi membri più arditi, Guglielmo Blasi, che provoca l’ar­ resto o la fuga fuori città di tutti gli altri. La città è affamata. I tedeschi hanno ridotto a cento grammi giornalie­ ri la razione di pane. Tutto il mese di aprile vede frequenti assedi di forni da parte di numerosi gruppi di donne tra cui sono attive le militanti comu­ niste. Ma non è facile passare da queste agitazioni immediatamente rivendicativ'e all’azione politica. Perciò lo sciopero generale promosso dal Cln per il 3 maggio e per il quale i comunisti si impegnano al massimo è un qua­ si totale fallimento. La città è provata e non segue. Le forze antifasciste ot­ tengono solo la verifica della loro scarsa capacità di mobilitazione. Ormai i tedeschi si apprestano ad abbandonare Roma. Le forze antifa­ sciste discutono sulla convenienza di attaccarli, costringerli a una più rapi­ da fuga e precedere così gli alleati nell’occupazione della capitale, per mo­ strare, come si farà in seguito in tante città del Nord, di saper collaborare alla liberazione del paese. Ma da un lato la capacità militare delle forze del Cln, alquanto ridimensionata dai colpi subiti, non è all’altezza di un com­ pito così impegnativo. Dall’altro vi è la netta ostilità del Fronte militare clandestino - la cui volontà, dopo la formazione del governo di unità na­ zionale, non può essere trascurata da nessuna componente del Cln - che te­ me, in consonanza con il re e Badoglio, che il contributo dato alla libera­ zione della città dalle forze partigiane della sinistra possa pesare sui futuri equilibri politici in senso sfavorevole alla monarchia. E infine vi è il fatto che la città, dove già da qualche mese fioriscono le tardive collaborazioni con la Resistenza di vecchi fascisti, il doppio gioco e il proliferare di ambigui gruppi politici dai toni estremisti ma collegati con i militari monarchici, non si mostra molto disponibile a pagare il prezzo di sangue e distruzioni che azioni armate meno che simboliche sarebbero certamente costate.

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Il 5 giugno le truppe alleate entrano in città senza che - si può dire - si sia sparato un colpo contro i tedeschi da parte delle forze antifasciste. La conclusione della Resistenza non è dunque stata a Roma all’altezza del suo inizio e dell’abnegazione di quell’avanguardia di suoi cittadini che vi ha messo in pericolo, o perduto, la vita. La lotta, che tra l’inverno e la prima­ vera 1943/44 aveva conosciuto un certo vigore, si è poi in gran parte esau­ rita sotto i colpi degli occupanti e nelle angustie dei compromessi politici. «Nonostante tutto quel che di serio si è potuto fare a Roma, - ha scritto Emilio Lussu, - tedeschi e fascisti hanno scarsamente sofferto, mentre il danno da loro arrecato ai romani è stato infinitamente superiore». Si fa tor­ to alla generosità di coloro che seppero sacrificarsi se si copre questa realtà sotto l’orgoglio resistenziale. Nota bibliografica. G. Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, Milano 1973; F. Calamandrei, La vita indivisibile. Diario 1941-1947, Giunti, Firenze 1998; S. Corvisieri, «Bandiera Rossa» nella Resistenza romana, Samonà e Savelli, Roma 1968; Id., Il Re Togliatti e il gobbo. 1944: la pri­ ma trama eversiva, Odradek, Roma 1998; C. De Simone, Roma città prigioniera, Mursia, Mi­ lano 1994; R. Katz, Morte a Roma, Editori Riuniti, Roma 1994; E. Lussu, Sulpartito d’Azio­ ne e gli altri, Mursia, Milano 1968; R. Perrone Capano, La Resistenza in Roma, Macchiatoli, Napoli 1963; E. Piscitelli, Storia della Resistenza romana, Laterza, Bari 1965; A. Portelli, L ’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999; G. Ranzato, Il linciaggio di Carretta. Roma 1944 ■ Violenza politica e ordinaria violenza, Il Saggia­ tore, Milano 1997; V. Tedesco, Il contributo di Roma e della provincia nella lotta di liberazio­ ne, Amministrazione provinciale, Roma 1967; A. Trombadori, Dati sul contributo delle for­ mazioni partigiane del PCI alla lotta armata di liberazione nazionale a Roma e nel Lazio, in « Qua­ derni della Resistenza laziale», n. 6 (1976).

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Territorio e popolazione. Il territorio marchigiano, in prevalenza colli­ nare e montuoso, con la sua disposizione a pettine delle vallate e dei crina­ li, propone una morfologia che gli studi e la memorialistica della Resisten­ za hanno prevalentemente descritto come un ambiente geografico assai fa­ vorevole all’attività delle bande armate partigiane, ma anche come elemento di non lieve ostacolo alle operazioni di guerriglia. Difficile da attraversare rapidamente - sia per le asperità morfologiche, sia per l’arretratezza e la scarsa praticabilità (in particolare per i mezzi militari pesanti) della rete stra­ dale dell’entroterra -, il territorio regionale risulta essere un importante ele­ mento di vantaggio per l’approntamento difensivo delle bande partigiane, come pure per l’organizzazione di attacchi improvvisi ai convogli in tran­ sito e per il controllo della viabilità. Di contro, come hanno sottolineato al­ cuni autori, tale situazione ambientale è fonte di seri problemi anche per il movimento resistenziale, rendendo difficili gli spostamenti verso i centri abitati per i collegamenti e i rifornimenti. In quest’ottica si spiegano, al­ meno in parte, il sostanziale isolamento delle singole bande e le difficoltà a instaurare collegamenti stabili con i Comitati di liberazione nazionale (Cln) provinciali e cittadini, che vengono delineandosi come caratteristiche pe­ culiari della Resistenza marchigiana. Sempre a livello morfologic o, un altro elemento di difficoltà per i par­ tigiani è rappresentato dalla presenza di vaste zone montuose brulle, prive di copertura boschiva e quindi esposte alla visibilità del nemico. Inoltre in tali aree, scarsamente abitate, i pochi residenti - per lo più pastori e conta­ dini poveri - spesso non sono in grado di offrire un sufficiente aiuto mate­ riale ai partigiani; tanto che - come ha osservato Massimo Salvadori, fra i primi a cimentarsi con la storia della Resistenza marchigiana - in una qual­ siasi frazione di montagna la presenza prolungata di venti o ventic inque uo­ mini da sfamare, oltre alla popolazione ordinaria, bastava a creare il più del­ le volte ardui problemi di sostentamento [Salvadori 1962]. D ’altra parte, in termini più generali, la realtà di una società rurale frantumata, caratte­ rizzata dalla prevalente conduzione a mezzadria dei terreni con una mas­ siccia polverizzazione dei poderi, dalla presenza diffusa nelle zone di alta collina e di montagna di un ceto numeroso di contadini poveri e dalla no­ tevole dispersione degli insediamenti abitativi (i due terzi dei residenti nel­

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le Marche risultava vivere in case sparse o in piccoli paesi e borghi scarsa­ mente collegati fra loro), favorisce più gli uomini della Resistenza rispetto ai nazifascisti, data la scarsa possibilità di questi ultimi di controllare effi­ cacemente e contemporaneamente la molteplicità dei centri abitati. In ef­ fetti fascisti e tedeschi non riescono mai a mantenere dei presidi stabili nel­ la maggior parte delle località dell’interno, con il risultato che in queste zo­ ne l’esercito occupante e anche le autorità della Repubblica sociale italiana (Rsi) riescono a far sentire il loro peso soltanto nelle occasioni in cui essi potevano essere fisicamente presenti. Nella valutazione habitat in cui si muovono le bande partigiane, ac­ canto all’aspetto propriamente geografico, devono essere considerati le mo­ dalità e i livelli di interazione fra movimento resistenziale e popolazione, prestando attenzione al diverso articolarsi della gerarchia sociale. I segnali e le testimonianze che sono emersi da questo punto di vista lasciano trape­ lare, in linea di massima, una certa propensione a simpatizzare con il mo­ vimento resistenziale, non aliena a tramutarsi in vicinanza e pieno appog­ gio al fenomeno del partigianato, benché espressa in forme non sempre uni­ voche e associata a non marginali atteggiamenti di cautela, diffidenza e rifiuto. Settori cospicui della popolazione marchigiana vivono questo dram­ matico periodo - e quindi anche il fenomeno della resistenza armata - prin­ cipalmente con sentimenti di grande apprensione e di paura. Comunque, se si guarda al quadro generale sembra di poter dire, usando una metafora abu­ sata, che «l’acqua in cui nuotarono i pesci partigiani» si rivela più che suf­ ficiente per permettere loro di vivere e di operare, sia nei centri urbani, do­ ve agiscono le più agili formazioni dei Gruppi d’azione patriottica (Gap), sia soprattutto in campagna e in montagna, dove sono dislocate le bande partigiane di più ampie dimensioni. E necessario peraltro considerare, a proposito del rapporto fra Resi­ stenza e popolazione, che gli straordinari eventi che investono i civili a par­ tire dall’8 settembre 1943 sino all’estate-autunno 1944 assumono nella re­ gione una veste di particolare “rapidità”, per cui appare altresì limitato il tempo per comprendere il significato degli stessi e quindi per organizzare in modo del tutto consapevole e razionale la propria condotta. Si tratta per la popolazione marchigiana di una stagione di grandi sollecitazioni, che la­ scerà segni a volte indelebili nei vissuti soggettivi e in intere comunità, giun­ gendo a produrre spinte decisive verso la modificazione di abitudini di vi­ ta consolidate; una fase concitata e drammatica che determina, con rilevanti scarti nelle diverse aree che compongono la pluralità marchigiana, signifi­ cative scosse nel corpo sociale, a livello esistenziale e politico [Pela 1997]. Non esistono studi specifici sul profilo socioprofessionale del partigia­ nato, ma sembra possibile affermare, in base ad alcuni sondaggi sugli sche­ dari di alcune formazioni operanti nella regione, che sono i ceti medio-bassi - braccianti, operai, artigiani -, con una significativa presenza delle pro­ fessioni intellettuali, i settori della società marchigiana che più fattivamente danno impulso e sostengono la Resistenza, mentre restano in una posizio­

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ne sostanzialmente attendista la media e alta borghesia urbana e semiru­ rale, che al possesso della terra affianca l’esercizio di professioni liberali e commerciali. L’appoggio dei civili alla lotta di liberazione assume svariate forme, ma trova indubbiamente un suo momento centrale e quasi emblematico nel so­ stegno che la popolazione rurale dà alle bande, sostenendole sia a livello ma­ teriale (vitto, alloggio, servizi di staffetta e di avvistamento, e via dicendo) che morale. Nelle Marche, anche nelle zone più isolate e fino ad allora pres­ soché estranee ai circuiti politici, la campagna sostiene senza tentennamenti di rilievo il movimento partigiano, che dal canto suo ha saputo proporsi co­ me stimolo per accrescere la consapevolezza civile e politica, non venendo mai meno, tranne poche eccezioni, al dovere di rispettare e se possibile pro­ teggere - evitando in primo luogo di mettere a repentaglio le loro vite - i contadini presso cui trova ospitalità e rifugio. Il governo della Rsi e l ’occupazione tedesca. La ricostituzione del Parti­ to fascista (Pfr) e soprattutto l’organizzazione della Rsi avviene in tempi piuttosto brevi, seppure con difficoltà che non verranno mai superate. L’o­ stacolo maggiore è rappresentato dalla sostanziale incapacità da parte del risorto fascismo repubblicano di raccogliere adesioni fra la popolazione, sia urbana che rurale. La breve vicenda della Rsi, fra il settembre-ottobre 1943 e il maggio-giugno del 1944 - quando con l’avanzata alleata si assiste, con la pressoché totale defezione dei vertici politici, a una precipitosa e caoti­ ca fuga verso il Nord dei fascisti repubblicani più compromessi -, si svolge senza che in nessun momento essa riesca a sviluppare un legame effettivo con il tessuto socioeconomico della regione. Una c aratteristica che non po­ teva non influire in modo decisivo sulla possibilità di riassumere il controllo della situazione dal punto di vista politico e sociale, ma che altresì deter­ mina la quasi completa impotenza dell’amministrazione fascista periferica. Questa, infatti, vede ben presto fortemente limitato il proprio potere, tro­ vandosi a operare in un ambiente in prevalenza ostile, in una situazione di dissesto sociale e produttivo e in concorrenza con un alleato potente e pre­ varicatore, che occupa il territorio (emettendo propria moneta, requisendo fabbriche e materie prime) e impone le proprie priorità alle autorità italiane. In definitiva, l’unico organismo fascista che riesce a esprimere una propria identità e a mettere in campo (almeno per alcuni mesi) una certa efficienza è la Guardia nazionale repubblicana (Gnr), con compiti di tutela dell’ordi­ ne pubblico, di difesa delle sedi e di esponenti del partito, di repressione e cattura nei confronti di antifascisti, partigiani, renitenti alla leva e sban­ dati. Ma proprio su questo scoglio si arena anche l’ultimo effettivo baluar­ do del fascismo; infatti ai primi segni di resistenza organizzata delle bande partigiane, l’efficienza della Gnr (in verità in diverse località dell’interno composta da carabinieri) mostra notevoli limiti, tanto da indurre ben pre­ sto i tedeschi a farsi carico direttamente delle operazioni di controguerri­ glia [Paolucci 1973].

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Se le strutture della Rsi procedono faticosamente nel tentativo di sta­ bilire la loro sovranità sul territorio regionale, l ’esercito tedesco provvede, nell’arco di pochi giorni, a occupare i centri urbani e al controllo delle prin­ cipali vie di comunicazione. I quattro capoluoghi di provincia erano già ca­ duti in loro mano fra il 12 e il 13 settembre 1943. N ei mesi successivi poi, con la creazione di un comando militare operante nella regione, vengono gettate le basi per la rapida instaurazione di un vero e proprio regime di oc­ cupazione, i cui obiettivi prioritari sono, sin dall’inizio, essenzialmente due: lo sfruttamento della produzione agricola e il reclutamento di manodopera da trasferire nel Reich e da impiegare in loco in lavori di difesa e fortifica­ zione per la Wehrmacht (Forze armate tedesche), fenomeno che raggiunge la massima espansione nella primavera-estate del 1944 con i lavori di ap­ prestamento della linea Gotica. Obiettivi perseguiti con particolare cura, soprattutto fino al maggio 1944, allorché, con l’approssimarsi del fronte, il regime di occupazione si trasforma in un durissimo regime militare.

Ma fino ad allora l’amministrazione militare tedesca preposta al controllo delle attività rivolte alla popolazione civile, il Militarverwaltungstruppe, in­ sediatosi nel novembre 1943 a Macerata, opera con regolarità sull’intero ter­ ritorio marchigiano. Inizialmente da parte tedesca viene esperito il tentati­ vo di appoggiarsi alle autorità locali e alla stessa popolazione, al fine di su­ perare i notevoli problemi di ordine pratico insiti nel perseguimento degli scopi prefissi. Ben presto però le autorità germaniche sono costrette a con­ statare che da un lato l’appoggio tecnico dell’apparato amministrativo ita­ liano era pressoché inesistente, dall’altro che la popolazione, ormai estranea al fascismo, non dimostrava alcuna disposizione a collaborare con gli occu­ panti, mentre le azioni dei “ribelli’ divenivano via via sempre più di osta­ colo per l’attività di requisizione di prodotti agricoli e alimentari [Collotti 1973]. In effetti, a partire dalla primavera del 1944, l’estensione del movi­ mento resistenziale induce le forze occupanti ad attuare una serie di rastrel­ lamenti a tappeto in vaste zone di tutte e quattro le province marchigiane, al fine di limitare, se non stroncare, l’attività delle bande partigiane. Si trat­ ta di operazioni militari in grande stile, in cui sono impiegati un numero con­ siderevole di uomini e mezzi, che instaurano nella popolazione - con rap­ presaglie, distruzioni, requisizioni, arresti, torture e fucilazioni - un clima di disperazione e terrore. Nel marzo del 1944, quando tedeschi e fascisti pro­ ducono lo sforzo maggiore per contrastare l’attività partigiana, sono impie­ gati circa diecimila uomini in azioni di rastrellamento e controguerriglia. Di questi non più di tremila sono militi repubblicani, fra i quali spiccano gli uo­ mini della legione Tagliamento, mentre la restante parte è costituita da re­ parti dell’esercito tedesco, fra cui gli uomini della divisione Hermann Gòring, corpo di élite specializzato in questo tipo di operazioni. L'organizzazione delle bande partigiane. Nelle Marche, come in altre re­ gioni, è la creazione dei Cln a dare il primo segnale della rinascita dell’atti­ vità politica, ma i comitati, sorti in tutti i centri più importanti, non rie­

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scono subito a qualificarsi come movimento organizzato deciso a impegnarsi nella lotta contro l’occupazione tedesca e i fascisti repubblicani. Contrasti interni, talvolta aspri, fra gli esponenti dei vari partiti rappresentati, timo­ re della reazione nazifascista e soprattutto una posizione attendista, a cui non sfuggono neppure i comunisti, inducono in un primo tempo i Cln a ri­ tenere inopportuna la formazione di bande partigiane in montagna e a pre­ ferire la creazione di piccole formazioni di sabotatori operanti nei centri ur­ bani, i Gap. Accade così che le decisioni delle organizzazioni politiche, are­ nate sulla polemica sorta rispetto alla strategia da adottare, sono di fatto superate dagli eventi. Molte delle bande partigiane operanti nelle Marche durante l’inverno 1943-44 si costituiscono e muovono i primi passi senza alcun collegamento con i Cln, risolvendo autonomamente i problemi ini­ ziali di armamento e mezzi necessari per condurre la lotta. Di conseguenza, quando nei mesi successivi i Cln decidono di appoggiare senza più riserve la resistenza armata e si propongono come organismi di coordinamento e gui­ da, devono affrontare non poche difficoltà per ottenere un completo rico­ noscimento e per svolgere quindi fino in fondo le proprie funzioni. Lo stes­ so Cln regionale, sorto con un pronunciato carattere anconetano, incontra rilevanti problemi di autolegittimazione. Peraltro all’interno di tali organi­ smi operano alcune delle figure di maggior spicco della Resistenza marchi­ giana, come Gino Tommasi ed Egisto Cappellini. Uomini che riescono a farsi riconoscere da tutti, compresi i comandi partigiani, come rappresen­ tanti autorevoli di un organismo di raccordo della lotta armata, recuperando, almeno in parte, lo iato iniziale fra “quelli che stavano in città” e “quelli che erano saliti in montagna”. Oltre ai Gap, attivi in numerosi centri urbani (in particolare a Pesaro, Fano, Senigallia, Jesi, Ancona, San Benedetto del Tronto e Ascoli Piceno), l’organico delle formazioni combattenti partigiane, nelle sue linee essen­ ziali, era composto in provincia di Ascoli Piceno dalle bande del capitano Bianco, dalla banda Paolini, dal gruppo bande Batà, dai gruppi Mazzini e dalla banda Decio Filipponi; in provincia di Macerata dal gruppo bande Pri­ mo maggio, poi riorganizzato nella brigata Garibaldi Spartaco (compren­ dente sei battaglioni); in provincia di Ancona dalla brigata Garibaldi An­ cona (comprendente tre battaglioni e due gruppi distaccamento ad Arcevia e Fabriano); in provincia di Pesaro-Urbino dalla V brigata Garibaldi Pesa­ ro, dalla brigata Bruno Lugli e dal battaglione autonomo Montefeltro. Se­ condo le stime proposte da Giuseppe Mari [1965], fra gli ultimi mesi del 1943 e l’estate del 1944 nella regione operano almeno sessanta bande, per un totale di uomini impegnati in azioni armate aggirantesi intorno alle tre­ mila unità, con una significativa partecipazione - soprattutto al Nord - de­ gli slavi scappati dai campi di internamento. A costoro vanno poi aggiunti i membri dei Cln e i gappisti, valutati agli inizi di giugno del 1944 intorno al migliaio sia gli uni che gli altri. Uno spoglio dettagliato delle forme del­ la presenza e dell’organizzazione partigiana esiste tuttavia solo per la pro­ vincia di Pesaro-Urbino, dove le formazioni organizzate nella V brigata Ga­

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ribaldi Pesaro (comandata da Ottavio Ricci «Nicola») raggiungono un or­ ganico complessivo di quasi mille unità.

Pur se faticosamente e con risultati non sempre univoci, sono intrapre­ si diversi tentativi per cercare di dare un’organizzazione unitaria ai gruppi combattenti. Tale orientamento, promosso soprattutto dai dirigenti comu­ nisti, deve però fare i conti con la composizione assai eterogenea di non po­ che bande e con lo scarso apprezzamento per questa soluzione dimostrato dai vari comandanti. In tal senso appare di difficile realizzazione e quasi velleitario il tentativo dell’incaricato del Comando generale delle Garibal­ di Alessandro Vaia di realizzare l’unificazione dei gruppi combattenti mar­ chigiani sotto un comando di divisione. Dopo diversi incontri, riunioni e discussioni, intorno alla metà di aprile 1944 tutti i comandanti di brigata sembrano aderire alla proposta di Vaia, impegnandosi a dipendere operati­ vamente dal comando della divisione Garibaldi Marche, ma di fatto nep­ pure in giugno, quando ormai l’organigramma della resistenza armata po­ teva dirsi formalmente costituito, si riesce a eliminare del tutto il pesante limite rappresentato dalla scarsa collaborazione di alcuni importanti rag­ gruppamenti partigiani di tendenza apolitica e militare, che continuavano sostanzialmente ad agire in modo autonomo. In pratica l’organigramma ap­ pena proposto non è mai completamente rispettato da tutte le bande e an­ che nell’estate del 1944 l’atto finale della lotta, con la liberazione delle prin­ cipali città, è caratterizzato da una sostanziale difficoltà di coordinamento. Soffermandosi ad analizzare i principali connotati della Resistenza mar­ chigiana, risalta innanzitutto la ricordata presenza di bande di varia com­ posizione e ispirazione politica. Se nel Nord della regione una rete di tipo po­ litico più sviluppata, alimentata da una radicata tradizione di lotte sociali e di impegno civile e da un antifascismo organizzato attivo per tutti gli an­ ni del regime fascista, favorisce la nascita e il rapido consolidamento della brigata Garibaldi Pesaro - con una tendenza comunista ampiamente con­ divisa, rappresentante l’elemento basilare di aggregazione e organizzazio­ ne - , nel resto della regione ciò non può realizzarsi in mancanza di un si­ mile retroterra o si verifica solo in forme più mediate. Diverse sono le ban­ de partigiane costituite su iniziativa di ex militari, i quali, pur se non si proclamano mai apertamente badogliani, propendono tuttavia per una lot­ ta all’insegna dell’ideale patriottico, non disgiunta talvolta da lealismo mo­ narchico. L’obiettivo in questo caso è esclusivamente quello di fronteggia­ re i “tedeschi invasori”, senza recepire ulteriori istanze di carattere socia­ le e politico. Il caso più frequente nelle Marche, però, è probabilmente quello di bande “miste”, dove elementi di varia formazione e provenienza, con idee politiche non omogenee e spesso non chiarite, si adoperano per or­ ganizzare una lotta in cui potevano stare fianco a fianco - senza disagio per nessuno - individui animati da spirito e motivazioni differenti: elementi dell’antifascismo politico militante - con una salda coscienza politica - ac­ canto a ex militari, renitenti alla leva dell’ultima ora, evasi dai campi di pri­ gionia, soggetti che aderiscono alla lotta resistenziale per motivi del tutto

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individuali, magari per vendicare soprusi e umiliazioni subite a opera di fa­ scisti. Se un elemento comune è dato rinvenire nei diversi tipi di bande par­ tigiane questo sembra potersi situare principalmente sul piano di una mo­ ralità prepolitica: l’emergenza della lotta e le comuni condizioni di disagio e di pericolo inducono a far prevalere sui propri interessi di parte o stille convinzioni politiche le esigenze della solidarietà di gruppo, che rappresenta in effetti il cemento unificante di ogni banda, in grado di farla sopravvive­ re anche nei momenti più difficili. Un altro aspetto peculiare della Resistenza marchigiana è rappresenta­ to dalla dislocazione a macchia di leopardo delle aree di attività delle ban­ de. In linea di massima le zone di acquartieramento (non le stesse per tut­ ta la durata della lotta, ma comunque per i gruppi maggiori abbastanza sta­ bili) sono individuate nell’Appennino o nelle fasce subappenniniche, ma le aree di azione in cui agiscono le singole bande sono in parte diverse e dise­ gnano sul territorio una mappatura a macchia, dove prevalentemente re­ stano esclusi - sia per motivi di spostamento che di sicurezza e operatività tutta la fascia costiera (con i principali centri urbani) e l ’immediato entro­ terra, riservati all’azione dei Gap. La maggiore concentrazione di partigiani si ha sulle pendici del Monte San Vicino (Ancona), nell’Alta Val di Fiastra (Macerata) e nella zona di Cantiano (Pesaro-Urbino), dove operano le formazioni più numerose. Importanti luoghi di stazionamento sono anche le pendici del M onte Ascensione e l ’Amandolese (Ascoli Piceno); i monti che circondano le zone di FabrianoSassoferrato (Ancona) e le zone di Camerino-Matelica (Macerata); l’intero territorio compreso fra il Monte Catria, il Monte Nerone e l’Alto Montefeltro (Pesaro-Urbino). Per quanto concerne il raggio di azione, mentre per molte formazioni operanti nelle zone meridionali è piuttosto ridotto, in ge­ nere non oltre i quindici chilometri, nella provincia di Pesaro-Urbino i par­ tigiani si muovono su spazi più ampi, riuscendo a condurre azioni di guerri­ glia mediamente più consistenti che altrove. A tale proposito notevole è la differenza, in termini di possibilità di azio­ ne, fra le varie bande. Al di là della consistenza numerica e dei mezzi a di­ sposizione, elementi che pure rivestono una evidente importanza, sono so­ prattutto il diverso grado di organizzazione, le strategie di lotta adottate e le capacità in tal senso dimostrate dai comandanti a segnare differenze as­ sai nette. Infine, fra i connotati propri della lotta resistenziale non si può non men­ zionare la cronica carenza di armi, munizioni, mezzi di trasporto e quant’altro occorrente per la guerriglia partigiana. Le condizioni in cui si sviluppa la lotta sotto questo punto di vista non appaiono affatto semplici: la neces­ sità di “organizzare tutto” e al tempo stesso di essere in grado di combat­ tere in tempi brevi, si configura, per la realtà marchigiana, come un aspetto di grande rilievo e di non facile soluzione, da cui dipende la possibilità o meno di costituire e far funzionare in modo efficiente una banda. In tal sen­ so deve essere precisato che i lanci di armi e materiali da parte degli allea­

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ti, che pure hanno luogo, sono piuttosto scarsi e soggetti a discriminazione di tipo politico, cosicché alcune formazioni, specie quelle del Pesarese, no­ toriamente comuniste, hanno ben poche possibilità di usufruirne.

Riassumendo si può parlare di un partigianato nel complesso più spon­ taneo che organizzato, più individualista che unitario, poco incline ad ac­ cogliere supinamente gli indirizzi dei Cln e gli orientamenti dei partiti. Un partigianato in bilico fra istinto combattivo e razionalità strategica, in stato di perenne “emergenza”, ma comunque sufficientemente motivato e aggres­ sivo da risultare pericoloso. A questo proposito la più recente storiografia locale - pur collocando gli eventi all’interno di un contesto storico in cui l’attività resistenziale deve essere certamente vista come espressione di pic­ coli gruppi armati, in grado di agire, in prevalenza, a livello di azioni di sa­ botaggio e di disturbo dell’esercito occupante -, è incline a riconoscere, nel­ la sostanza, quanto affermato - forse con eccessiva enfasi - nelle prime ope­ re sulla Resistenza intorno al peso non marginale dell’attività dei gruppi partigiani operanti sul territorio marchigiano tra la fine del 1943 e l’estate 1944 [Romagna 1995]. Le fasi di una lotta aspra e cruenta. Approssimativamente, dagli inizi di ottobre del 1943 ai primi di giugno del 1944 le formazioni partigiane atti­ ve nella regione compiono circa cinquecento azioni, di cui un quarto nei primi quattro mesi (solitamente definiti come il periodo «difensivo») e il re­ sto nei mesi successivi (periodo «offensivo»). Fra giugno e luglio, poi, le azio­ ni partigiane, secondo la ricostruzione proposta da Giuseppe Mari [1965], sono almeno quattrocento. Tali azioni possono essere classificate secondo due tipologie. La prima com­ prende quelle di approvvigionamento, destinate alla cattura di armi e muni­ zioni attraverso il disarmo di fascisti e carabinieri, come anche a procurare rifornimenti per il sostentamento della banda e all’apertura degli ammassi, con ingenti distribuzioni alla popolazione; mentre la seconda raggruppa quelle più propriamente di guerriglia: imboscate, punizioni di spie e delatori, atti di sa­ botaggio, attacchi a presidi fascisti, incursioni in carceri e via dicendo.

I primi episodi della Resistenza marchigiana risalgono già al settembre e all’ottobre 1943, quando in varie località si assiste a scontri armati tra sol­ dati dell’esercito italiano o tra i primi gruppi di resistenti civili e le truppe tedesche, che rapidamente provvedono all’occupazione militare delle città e dei luoghi di interesse strategico - come i porti, gli aereoporti, le stazio­ ni e le linee ferroviarie, i centri di raccolta viveri e materiali, le caserme. Ad Ascoli Piceno, ad esempio, si registra un cruento scontro armato tra i soldati del locale presidio militare e la colonna tedesca in procinto di occu­ pare la città. Nel Maceratese diversi giovani ufficiali dell’esercito italiano, non appena intuiscono il profilarsi di un richiamo alle armi nelle file dei re­ pubblichini, preferiscono salire immediatamente sulle montagne dell’en­ troterra per dare vita ai primi episodi di renitenza e poi di organizzazione di gruppi armati.

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I primi nuclei di resistenti cominciano a operare con azioni di sabotag­ gio e di prelevamento delle armi e dei materiali dalle caserme abbandona­ te o dalle caserme dei carabinieri. Talvolta tutto procede senza conflitto, ma in alcuni casi, come a Beiforte del Chienti, Sarnano, Serrapetrona, Caldarola, San Severino (Macerata), hanno luogo i primi scontri a fuoco con i tedeschi e con i fascisti. II 23 settembre, mentre a Monastero (Macerata) si forma la banda Ni­ colò, nucleo centrale del gruppo di bande che occuperà la zona tra Aman­ dola e San Ginesio, a Colfiorito (Macerata) i civili della zona insieme ad al­ cuni nuclei partigiani rendono possibile la fuga di circa millecinquecento prigionieri di guerra iugoslavi dal locale campo di prigionia. Il giorno suc­ cessivo il tenente Mario Batà costituisce a Frontale, sul Monte San Vicino (Macerata), il primo nucleo di una delle più agguerrite bande partigiane del­ la regione, iniziando con l’organizzazione di un posto tappa e ristoro per gli sbandati e i prigionieri di guerra evasi. Anche in altre località dell’entroterra marchigiano si aggregano i primi nuclei delle future maggiori bande partigiane, e gli ostacoli iniziali da affrontare per tutti sono due: il reperi­ mento di luoghi sicuri per rifugiarsi e il recupero di armi e viveri. Il mese di ottobre si apre con una rappresaglia tedesca a SanxSeverino Marche, in cui resta ucciso il bracciante Umberto Gazzerotti. E uno dei primi contadini a cadere sotto i colpi degli occupanti. Molti altri lavorato­ ri dei campi pagheranno con la vita, tra l’ottobre del 1943 e l’estate del 1944, l’aiuto offerto ai partigiani combattenti. In questo stesso giorno e nella stessa località si verifica uno dei primi scontri armati tra soldati tede­ schi e una banda partigiana, quella guidata da Mario Depangher. Lo scon­ tro avviene in seguito a un’incursione dei tedeschi nel centro abitato alla ricerca di patrioti. I partigiani intervengono in un primo tempo attaccando i tedeschi all’interno della città e successivamente arroccandosi a difesa sull’altura di San Pacifico, poco fuori l’abitato. Qui si sviluppa un lungo combattimento, al cui termine i tedeschi contano quattro morti e dieci fe­ riti, i partigiani due feriti. Il combattimento ha una certa rilevanza, perché mostra alla nascente resistenza come una tattica di guerriglia accorta e un’or­ ganizzazione degli uomini adeguata possano mettere in seria difficoltà re­ parti tedeschi armati di tutto punto. Il i° novembre un reparto tedesco procede al rastrellamento dell’abita­ to di Camazzasette, frazione di Urbino, sparando colpi di arma da fuoco con­ tro civili: due donne rimangono uccise, mentre ventotto uomini vengono catturati e portati via. I tedeschi cercano Erivo Ferri, figura di spicco dell’an­ tifascismo pesarese, che però riesce a beffare gli assalitori e a fuggire. Nei giorni successivi Ferri si reca a Cantiano (Pesaro), dove in breve tempo or­ ganizza la base più importante della guerriglia partigiana del Pesarese. Nel corso di novembre si registrano diversi scontri a fuoco tra i parti­ giani e i tedeschi, tra cui si segnalano quelli di Cingoli, di Frontale e di Vil­ la Spada di Treia (Macerata). Il 12 i partigiani guidati da Batà preparano una pista di lancio e atterraggio per velivoli alleati nella zona di San Vici­

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no che si rivelerà di grande importanza per le bande partigiane stazionanti in quella zona, in quanto permetterà loro di usufruire di materiali, viveri e soprattutto armamenti paracadutati sulla pista in più occasioni, nel corso dei primi mesi del 1944. Tre giorni dopo lo stesso comandante Batà viene catturato dai tedeschi durante un’azione e dopo estenuanti interrogatori e un sommario processo è passato per le armi. Tra il dicembre 1943 e il gennaio 1944 i Gap - tra cui molto attivi quel­ li di Fano, Pesaro, Jesi, Senigallia, Ancona e San Benedetto del Tronto compiono numerose azioni dirette al reperimento di armi per i partigiani del­ la montagna e al sabotaggio di attrezzature o installazioni utili al nemico.

Il 14 gennaio 1944 si tiene una riunione del Cln regionale per discute­ re la situazione delle bande. Secondo i rappresentanti di alcune componenti politiche, come gli azionisti, le bande sono male armate e con troppi ragazzi inesperti; si propone quindi la strategia dell’armamento progressivo, cioè un arruolamento limitato di uomini accompagnato da un addestramento ri­ goroso. Alla fine prevale tuttavia la tesi dell’arruolamento di massa, so­ prattutto per accogliere i giovani renitenti alla leva della Rsi, che copiosa­ mente stanno salendo in montagna. Questa è la linea sostenuta soprattut­ to da Egisto Cappellini, che nel Cln rappresenta i comunisti. Ha cosi inizio un periodo contrassegnato dalla costituzione di nuovi distaccamenti parti­ giani e dallo svolgimento di un intenso lavoro di preparazione psicologica, morale e tecnica dei nuovi combattenti. Il 17 gennaio un bombardamento alleato a Chiaravalle provoca quasi duecento morti e numerosi feriti. Il 23 dello stesso mese un altro bombar­ damento, su Urbania, provoca altre centinaia di morti e feriti. Sino alla fine del mese di gennaio le operazioni dei partigiani, come già si è accennato, sono quasi sempre dirette all’approvvigionamento di vive­ ri, attrezzature e armamenti. Le imboscate, gli atti di sabotaggio e gli scon­ tri con il nemico sono ancora scarsi, ma almeno due di essi meritano di es­ sere ricordati: il danneggiamento dei trasformatori della centrale elettrica di Bellisio Solfare a opera del distaccamento Gramsci, che avrà come conse­ guenza la paralisi di ogni attività per molti giorni alla vicina miniera di zolfo Cà Bernardi (su cui i tedeschi contano molto), e l’assalto ai fascisti di Co­ munanza (Ascoli Piceno) da parte dei gruppi partigiani guidati da Decio Filipponi e Titta Gentili, i quali, con un’azione estremamente audace, attac­ cano in piena notte il locale presidio fascista e, dopo aver messo fuori com­ battimento l’intera guarnigione, asportano dalla caserma della Gnr armi e munizioni. Il 2 febbraio i partigiani che operano nell’alta valle dell’Esino bloccano un treno carico di reclute nella stazione di Albacina (Ancona) e dopo aver attaccato e sopraffatto la scorta aprono il treno rimandando a casa tutte le reclute (circa seicento uomini). T ra il9 e il 12 marzo si combatte la batta­ glia di Rovetino (Ascoli Piceno). In questa località alcuni reparti tedeschi, nel corso di un rastrellamento, individuano e costringono a impegnare un estenuante combattimento (durerà per tre giorni) i partigiani della banda

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Paolini. Alla fine dello scontro i tedeschi contano forti perdite, ma i parti­ giani, pur avendo avuto perdite molto inferiori, si vedono costretti a sban­ darsi per non correre il rischio di restare accerchiati. L’i i marzo ad Acquasanta (Ascoli Piceno), le case delle frazioni di Poz­ za e Umito sono incendiate dai tedeschi, che accusano i contadini di appog­ giare i partigiani: una bambina resta uccisa. Seguono poi degli scontri, nella zona, tra partigiani e tedeschi. Il numero dei morti italiani, alla fine, è alto: quarantaquattro persone tra civili e partigiani, alcuni uccisi in combattimen­ to, altri fucilati. Il 18 la banda Batà, operante nella zona di Montemonaco (Ascoli Piceno), viene attaccata da una colonna nazifascista composta da al­ meno mille uomini. Nel combattimento i tedeschi uccidono sedici partigiani e diversi civili, ma lasciano sul terreno molti morti. Il 19, dodici uomini del­ la banda partigiana di Carpignano, dopo un violento scontro a fuoco con i na­ zifascisti, vengono catturati e trasportati a Macerata, dove sono interrogati e percossi perché rivelino i punti precisi della zona in cui sono dislocate le bande. Ma i prigionieri non parlano e vengono condannati a morte. Tre gior­ ni dopo i tedeschi conducono sette di loro a Montalto, dove intanto sono sta­ ti catturati altri partigiani che si trovavano sul posto. Tutti i prigionieri ven­ gono condotti sul ciglio della strada, non lontano dal paese, e abbattuti a sca­ riche di mitra. Verranno massacrate alla fine ventisette persone, mentre altri quattro partigiani di quel gruppo erano già stati fucilati il giorno precedente a Vestignano. Il 22 marzo reparti tedeschi assistiti da pezzi di artiglieria attaccano i par­ tigiani della Nicolò a Monastero (Macerata). E uno degli scontri più cruenti e più importanti che si verificano nelle Marche. Alla fine di una giornata di aspri combattimenti i partigiani riescono a mantenere le loro posizioni e a respingere l’attacco, procurando numerose perdite ai nemici, mentre trentaquattro sono i morti nelle loro file. Il 24 una colonna tedesca e fascista del presidio di Macerata attacca Chigiano e altri paesini alle propaggini del Mon­ te San Vicino. E la battaglia di Valdiola. I partigiani del gruppo Mario so­ no costretti ad abbandonare le armi depositate alla Valdiola, ma infliggono al nemico gravi perdite e nei giorni successivi, grazie all’aiuto delle bande partigiane vicine, riescono a recuperare le posizioni perse. Intanto però i nazifascisti hanno proceduto a bruciare le case dei contadini, accusati di ospitare i partigiani, e in località Braccano compiono una strage uccidendo civili inermi, per lo più agricoltori del posto. Inoltre al ponte di Chigiano (Macerata) trucidano, sfregiandoli orrendamente, cinque partigiani cattu­ rati durante l’operazione. Il 24 e il 25 marzo si sviluppa una forte offensiva fascista anche in pro­ vincia di Pesaro-Urbino, nella zona del Monte Catria e del Monte Nerone. Lo scontro decisivo è nei pressi di Cantiano, in località Vilano-Pontedazzo, dove i partigiani, asserragliatisi dietro una linea di trincee, impegnano il nemico per l’intera giornata in un combattimento furioso. Alla fine i te­ deschi sono costretti a ripiegare e lasciano sul campo molti morti. Nei gior­ ni successivi si verificano altri scontri tra i partigiani e i tedeschi in varie

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località dell’Alto Pesarese. Ma nonostante la preponderanza nemica, i par­ tigiani, ben organizzati, riescono a tenere testa ai nemici senza subire gra­ vi perdite. Il 7 aprile a Fragheto, frazione di Casteldelci (Pesaro), i tedeschi, che stanno compiendo in quella zona un ampio rastrellamento, uccidono tren­ tanove persone, tutti abitanti del luogo non coinvolti nella lotta partigia­ na. Vengono trucidati nelle case uomini, donne, vecchi, bambini. Un’inte­ ra famiglia di nove persone, i Gabrielli, viene sterminata. Poco lontano da Fragheto altri o tto giovani, renitenti alla leva, vengono fucilati dai militi fascisti. In questi stessi giorni le azioni partigiane riprendono di intensità; scon­ tri di una certa importanza con i tedeschi si verificano nei pressi di Visso (Macerata), tra Genga e Sassoferrato e presso Filottrano (Ancona), a Carpegna (Pesaro). Nei giorni successivi l’attività partigiana si intensifica an­ cor più, al fine di rendere difficile la vita ai tedeschi proprio nella zona antistante la linea Gotica, dove maggiore è lo sforzo di organizzazione e di preparazione difensiva dei tedeschi stessi. Tutti i distaccamenti, i Gap, le squadre sono impegnati in scontri armati contro i militi fascisti o contro i tedeschi, ma soprattutto danno il via a una sistematica opera di sabotaggio alle comunicazioni, alle linee elettriche, ai rifornimenti e alla linea ferro­ viaria su una zona molto vasta, che dal Fabrianese si estende fino a Sant’An­ gelo in Lizzola, verso nord, e fino a Pesaro, verso est. Il 10 aprile il distaccamento Nino affronta, alle Grottaccie di Cingoli (Macerata), una colonna di soldati tedeschi e militi fascisti che sta muoven­ do verso l’abitato per rastrellare e catturare i giovani in età di leva non pre­ sentatisi ai bandi di arruolamento. Il fattore sorpresa determina un esito di­ sastroso per i nazifascisti: decine tra morti e feriti. Il 12 il battaglione Ni­ colò subisce un altro duro attacco da parte di contingenti tedeschi e fascisti nella zona di Monastero (Macerata). Dopo una intera notte di combatti­ menti i nazifascisti, costretti alla ritirata, lasciano sul terreno dodici mor­ ti. II 22 cade Engels Profili, una delle figure di maggior spicco della Resi­ stenza nel Fabrianese. Era stato arrestato il 12 a Serraloggia e successiva­ mente interrogato e torturato. Non essendo riusciti a farlo parlare, i fascisti lo fucilano e poi gettano il corpo in una scarpata sulla strada nazionale 76, nei pressi di Cancelli di Fabriano. Il 25 ha inizio un altro rastrellamento a tappeto da parte dei tedeschi in varie località della regione. Viene occupata Cingoli (Macerata), dove sono uccisi numerosi civili - tra cui molti contadi­ ni - e bruciate diverse case. Il 26 aprile si compie l’eccidio di Valdiola. I tedeschi, che stanno ope­ rando un ampio rastrellamento nella zona, irrompono nella casa colonica di Venturino Falistocco, catturano i quattro uomini presenti (tre contadini e un carbonaio) e alla presenza del resto della famiglia li fucilano, quindi dan­ no fuoco ai corpi. Anche alcuni partigiani sono catturati nel corso di que­ st’ondata di rastrellamenti e vengono passati per le armi, mentre altri ca­ dono in combattimento. E un’azione condotta dai nazifascisti con grande

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spiegamento di mezzi e di uomini; sono impegnati infatti contingenti di pa­ racadutisti della divisione Gòring, truppe alpine della divisione Fùhrer, bat­ taglioni di SS e reparti neofascisti italiani. Sul fronte partigiano sono inte­ ressati diversi battaglioni e distaccamenti: il Capuzzi, il Vera, il Ferro e il Mario. In linea di massima i partigiani cercano di contrastare il nemico e di sganciarsi senza subire perdite gravi, e la cosa riesce quasi ovunque, tanto che, nonostante la netta preponderanza delle forze avversarie, essi inflig­ gono perdite consistenti. Il 28 aprile i partigiani del distaccamento Picelli portano a termine una complessa e importante operazione di guerriglia: isolato il paese di Piandimeleto (Pesaro-Urbino), uno dei centri base dei nazifascisti da cui muovo­ no le forze di lavoro che costruiscono le fortificazioni della linea Gotica, assaltano la caserma della Gnr. Tutti i soldati presenti vengono disarmati e costretti a preparare un carico imponente di armi, munizioni e materiali. Tra la fine di aprile e i primi di maggio vengono condotti attacchi im­ portanti contro tedeschi e fascisti a Pievebovigliana, Visso, Ussita, Tolenti­ no, Sarnano, San Ginesio (Macerata), Montelabbate, Schieti, Pergola, Cartoceto, Carpegna (Pesaro-Urbino) e numerose altre località di tutte e quattro le province marchigiane. Il 4 maggio in prossimità di Arcevia (Ancona), al Monte Sant’Angelo, un rastrellamento operato da circa duemila soldati tedeschi e da militi fascisti si conclude con un eccidio: vengono barbaramente uccise e poi bruciate qua­ rantatre persone, tra cui un’intera famiglia di contadini e una bambina di sei anni (la famiglia Mazzarini). I tedeschi continuano poi il rastrellamento, dan­ do la caccia ai partigiani di casa in casa, nelle frazioni della zona. Vengono catturati quasi subito altri diciotto partigiani, torturati e poi fucilati. Quindi vengono fatti prigionieri settanta giovani del luogo, che sono immediatamente avviati al campo di concentramento di Sforzacosta (Macerata). Il 5 maggio il 10 battaglione della V brigata Garibaldi Pesaro compie un attacco contro i militi fascisti di Cagli (Pesaro-Urbino). L’azione, conclusa­ si con la distruzione del palazzo in cui ha sede la caserma della Gnr, provo­ ca un imponente rastrellamento dei nazifascisti, che nei giorni successivi fanno oggetto di continue incursioni tutta la zona compresa tra il Monte Nerone e il Monte Catria. Il 15 maggio i partigiani della banda Mazzini, che operano nella valle del Marecchia, investono San Leo, dov’è dislocato un importante presidio fascista. Dopo due giorni di combattimento gli assalitori hanno ragione dei nemici. I partigiani, disarmati i militi fascisti, prendono possesso del luo­ go, distruggono i documenti per la chiamata alla leva e instaurano un vero e proprio governo locale, che resterà in piedi fino ai rastrellamenti di luglio. In questi giorni sono molto attivi anche i partigiani fanesi, che operano azio­ ni di sabotaggio sulle strade e sulla linea ferroviaria e riescono a esercitare un’azione sempre più marcata di “governo locale”, seppur clandestino. Il 19 maggio, nelle zone montane del comune di Apecchio (Pesaro-Urbino), nel corso di un’azione di rastrellamento condotta da reparti delle SS,

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vengono catturati e trucidati tre partigiani, di cui due contadini. L’azione di rastrellamento tedesca ha l’obiettivo di intercettare gli uomini del 20 bat­ taglione della V brigata Garibaldi Pesaro, particolarmente attivi in quei giorni con azioni di disturbo lungo le strade Apecchiese e Aretina. Il con­ tatto e lo scontro con i partigiani avviene alle pendici del Monte dei Sospiri e si protrae per un’intera giornata, al termine della quale i tedeschi, battu­ ti, decidono di ritirarsi. In questo stesso giorno una incursione a Sarnano (Macerata) delle bande Nicolò e Primo maggio si conclude con un cruento scontro a fuoco con i nazifascisti. In provincia di Ancona il gruppo sabotatori del comando di brigata, su richiesta degli alleati svolge giornalmente numerose azioni di sabotaggio su strade, linee telefoniche e ferroviarie. Vengono divelti, tra l’altro, 280 metri di binario nella galleria Fabriano-Cancelli. Il 4 giugno squadre del battaglione Ferruccio attaccano forze tedesche, facendo quindici morti. Lo stesso giorno il 20 battaglione della V brigata Garibaldi Pesaro, dislocato tra Sestino e l’Alpe della Luna, subisce un am­ pio rastrellamento tedesco, con impiego di armi pesanti e mortai. Tre mor­ ti tra i partigiani, ma i nazifascisti, dopo diversi attacchi, vengono definiti­ vamente respinti. Il 5 i partigiani della Primo maggio attaccano i tedeschi a Polverina (Macerata) provocando perdite tra il nemico. Tra l’8 e il 15 i Gap di Fano, Colbordolo, Schieri e le Squadre di azione patriottica (Sap) di Fermignano, Cartoceto, Montebaroccio (Pesaro-Urbino) operano numero­ se azioni. Il 10 il distaccamento Maggini distrugge alcuni ponti tra Montecarotto e Arcevia, mentre l’Alvaro attacca un presidio tedesco a Castelplanio (Ancona). Tra il 10 e il 13 giugno il Vera, operante nel Maceratese, attacca in più località i tedeschi e procura al nemico diciassette morti. Il 12 il Filipponi disarma una intera compagnia di militi fascisti (duecentocinquanta uomi­ ni), mentre nuclei delle Sap di Jesi liberano i prigionieri politici dalle car­ ceri di Osimo e della stessa Jesi (Ancona). A Serra Sant’Abbondio (PesaroUrbino) il Gramsci impegna in uno scontro di notevoli proporzioni e infi­ ne caccia dalla zona le pattuglie tedesche incaricate di razziare beni e animali nelle case coloniche. Il 16 giugno il Mario attacca i tedeschi a Serrapetrona (Macerata) e in­ terrompe un ponte nei pressi di Albacina. Due giorni prima aveva effet­ tuato incursioni, sabotaggi e infine attaccato i tedeschi presso San Severi­ no, facendo un morto e due feriti. Il 19 il Fastiggi, mentre tenta un recu­ pero di materiali, si scontra con reparti tedeschi. Il 19 e il 20 i tedeschi, nel corso di un rastrellamento, catturano centoquattordici ostaggi e bruciano case ad Acquaviva e Paravento (Pesaro-Urbino). Tra il 20 e il 30 giugno il Nino e il Ferro effettuano diverse azioni nel­ la zona tra Chigiano e Poggio San Vicino (Macerata). I tedeschi, intanto, intensificano le fucilazioni anche di civili, per terrorizzare la popolazione e bloccare l’attività della resistenza in vista dell’approssimarsi del fronte. 20 giugno: a Jesi i tedeschi, nel corso di un rastrellamento, conducono in

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località Montecappone e fucilano, dopo averli torturati, sette giovani, accu­ sati di essere partigiani. Lo stesso giorno a Morro (Camerino) i tedeschi uc­ cidono tredici persone del posto per rappresaglia contro un gesto “irriveren­ te” di alcuni giovani (avevano preso, il giorno precedente, una mitragliatrice a un tedesco caduto in uno scontro a fuoco con le avanguardie inglesi).

Tra il 21 e il 22 giugno vengono trucidati dai tedeschi nei dintorni di Fa­ briano ventuno civili, tra cui anche vecchi e donne, tutti vittime della fero­ cia tedesca che si sta producendo negli ultimi giorni di saccheggio e di ter­ rore. Il 22 fra Collegiglioni e Nebbiano (Ancona) i tedeschi passano per le armi i quattro membri della famiglia colonica Baldini. A Fabriano (Ancona) viene sterminata la famiglia Arcangeli, assieme al proprietario della tenuta. 24 giugno. Eccidio di Pozzuolo e Capolapiaggia: i tedeschi accerchiano e danno l’assalto ad alcune piccole frazioni in prossimità di Camerino in cui stazionano delle unità partigiane. Colti di sorpresa, i partigiani non riesco­ no a difendersi e vengono fatti prigionieri insieme a decine di civili. Tutti verranno passati per le armi. In totale i morti sono cinquantanove. Sempre il 24 il Fazzini subisce un forte attacco tedesco e ripiega dopo aver avuto trentacinque morti. Il 26 i partigiani del Patrignani, dopo aver individua­ to il centro di spionaggio di Arcevia (Ancona), passano per le armi tredici spie fasciste ritenute responsabili dell’eccidio di Sant’Angelo. Alla data del 25 giugno, tutti i battaglioni della V brigata Garibaldi ope­ rante nel Pesarese raggiungono Col d’Antico, nuovo campo base da cui par­ tono le spedizioni dei distaccamenti. Distruzione di ponti, dissestamento di strade, attacchi alle colonne tedesche in transito, sabotaggi, disarmi di militi fascisti: queste le azioni principali. Tra il 27 e il 30 l’Alvaro attacca più volte sulla strada c he da Jesi conduce a Macerata. Morti fra i tedeschi e numerosi automezzi distrutti. Il 28 giugno il Sassoferrato attacca un presidio tedesco presso Ponte de­ gli Angeli (Ancona): undici tedeschi morti e cinque feriti. Nel corso di que­ sti giorni il distaccamento Toscano, operante nella zona tra Fossombrone e Acqualagna (Pesaro-Urbino), si scontra più volte con forze nemiche mol­ to superiori in numero e in armamenti, subendo gravi perdite (diciassette caduti e diversi feriti). T r a i l 2 8 e i l 3 o del mese i tedeschi in ritirata fuci­ lano in varie località della regione i partigiani catturati. Il 30 giugno un contadino di Arcevia uccide un ufficiale tedesco, re­ sponsabile di aver stuprato una donna. I tedeschi, per rappresaglia, pren­ dono oltre cento ostaggi, tra cui anche donne e bambini, minacciando la strage. Ma le artiglierie degli alleati, giunte in prossimità del paese, co­ stringono i tedeschi ad accelerare le operazioni di ritirata, in modo tale che il proposito della strage viene abbandonato. Ai primi di luglio si conclude una vasta operazione di rastrellamenti com­ piuta dai fascisti della Tagliamento nell’Urbinate, decisa in seguito all’intensificarsi della pressione partigiana nella zona. Numerose le azioni terro­ ristiche dei fascisti nel corso di questa operazione, anche ai danni di civili inermi (sedici i contadini uccisi).

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Il 10 luglio sono liberate dai partigiani, con due giorni di anticipo sull’ar­ rivo delle truppe alleate, San Severino, Castel Raimondo e Matelica (Ma­ cerata). Il 9 è U giorno della battaglia di Filottrano. Gli alleati, coadiuvati dalle forze del gruppo Maiella (del Corpo italiano di liberazione - Cil), do­ po aver superato una dura resistenza tedesca si aprono la strada per libera­ re Ancona. Il 12 a Offagna (Ancona) un reparto tedesco trucida, nella sua casa colonica, Giovanni Lucantoni e quattro suoi familiari, accusandoli di avere fatto segnalazioni agli aerei alleati. In questo periodo forte è la pressione dei tedeschi sul territorio del Pe­ sarese, interessato dal passaggio della linea Gotica; i partigiani continua­ no tuttavia l ’offensiva ostacolando i movimenti del nemico sulla strada Flaminia e sulle strade del basso Foglia. Importanti com battimenti so­ stengono anche le formazioni che operano nell’Anconetano, tra cui il Patrignani, il Magini, il Sassoferrato, i Lupi di Serra, PAlvaro, il N ino, il Fer­ ro, il Tigre.

Il 17 luglio la V brigata Garibaldi raggiunge gli alleati a Umbertide, in Umbria, dopo aver attraversato il fronte (il comando del 2° battaglione propone di marciare verso nord ma alla fine si decide di puntare a sud per ricongiungersi con gli alleati). Successivamente i partigiani collaborano an­ cora per alcuni giorni con gli inglesi in attività di esplorazione e avansco­ perta. Il 26 luglio i tedeschi sferrano un rastrellamento contro la brigata Bru­ no Lugli, investendola nelle zone di Fontecorniale e Monte San Bartolo (Pesaro-Urbino). Dopo ripetuti scontri i partigiani decidono di ritirarsi. Suc­ cessivamente si metteranno a disposizione del comando alleato per parte­ cipare ai combattimenti insieme alle pattuglie di avanguardia inglesi che operano nella zona. Nel corso di questo mese i partigiani della V brigata Garibaldi Pesaro e della Bruno Lugli operano a fianco delle truppe alleate con numerosi inca­ richi: cattura di prigionieri, indicazioni degli apprestamenti difensivi dei tedeschi, guida, servizio volontario di polizia civile, partecipazione diretta ai combattimenti in unione alle pattuglie di avanguardia alleate. Intorno al­ la fine di agosto e i primi di settembre tutte le maggiori città della provin­ cia sono liberate: Fano, Urbino, Pesaro. Secondo un consuntivo redatto in occasione del trentesimo anniversa­ rio della liberazione in provincia di Pesaro-Urbino i partigiani caduti in com­ battimento sono X25ei57l e vittime civili; in provincia di Ancona rispet­ tivamente 228 e 101; in provincia di Macerata 380 e 28, in quella di Asco­ li Piceno 163 e 28. Gli stranieri che fanno parte delle formazioni partigiane marchigiane sono 702, di cui 77 cadono nel corso di azioni o vengono fu­ cilati. I marchigiani che dopo la liberazione della regione si arruolano come volontari nel Cil sono 638 e 32 i caduti in combattimento. Infine i mar­ chigiani che combattono in formazioni partigiane all’estero (Iugoslavia, Gre­ cia, Albania, Francia) sono 801. Di costoro 103 cadono in combattimento e 4 sono fucilati.

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I campi di internamento. Sin dall’entrata in guerra italiana, nell’estate del 1940, sono istituiti nelle Marche alcuni campi di internamento per stra­ nieri. Quelli di Pollenza e Treia (poi trasferito a Petriolo), in provincia di Macerata, vengono destinati all’internamento delle donne, con una cifra massima di internate nel primo di 85 e nel secondo di 42 e di «ebree stra­ niere» rispettivamente di 28 e di 15; mentre in quello di Urbisaglia (Ma­ cerata) sono rinchiusi gli uomini (per un totale in un primo momento di cir­ ca 120, poi ridotto a una presenza media di 94), fra cui diversi illustri ebrei italiani, come Raffaele Cantoni (nel dopoguerra presidente dell’Unione del­ le comunità israelitiche italiane), ma in maggioranza vi sono internati «ebrei stranieri», che in alcune fasi raggiungono le 53 unità. Altri campi minori maschili sono creati a Fabriano e Sassoferrato (Ancona).

Tali campi sono poi chiusi su ordine delle autorità tedesche nell’autun­ no del 1943 e sostituiti da due nuovi allestiti a Servigliano (Ascoli Piceno) e Sforzacosta (Macerata), in strutture in precedenza adoperate per i pri­ gionieri di guerra, dove sono collocati sia uomini che donne. Intanto, con l’occupazione tedesca, molti dei trentacinque «ebrei apolidi» ancora pre­ senti a Urbisaglia erano stati deportati ad Auschwitz. II campo di Sforzacosta, dalla fine di ottobre sotto il diretto comando tedesco, nel gennaio del 1944 accoglie centoquindici persone, in gran parte provenienti da Urbisaglia, Pollenza e Petriolo, fra cui circa cinquanta ebrei. Sul finire dello stesso mese, il ministero dell’interno della Rsi ordina - su richiesta del locale comando della Wehrmacht - il trasferimento di tutti gli internati a Fossoli, ma benché la prefettura informi il ministero dell’awenuta esecuzione del provvedimento, in realtà nei primi giorni di febbraio cinquanta^ebrei sono trasferiti a Pollenza, nell’ex campo femminile di Vil­ la Lauri. E solo alla fine di marzo, quando giunge a Pollenza un reparto di SS, che si provvederà a inviare effettivamente a Fossoli i quarantaquattro internati rimasti, dopo che sei o sette erano riusciti a fuggire nel corso di due attacchi partigiani. Poi il campo non è più utilizzato. In quello di Servigliano, gestito da fascisti della Rsi, vi sono internati all’inizio di ottobre gli ebrei italiani e stranieri abitanti nella provincia di Ascoli Piceno, catturati su ordine delle autorità militari tedesche. A costo­ ro - nel gennaio successivo - si aggiungono altri ebrei provenienti dalle pro­ vince di Teramo e di Frosinone e un considerevole gruppo di anglomaltesi, cosicché nel marzo del 1944 si trovano nel campo 359 persone, di cui 61 ebrei. Il 3 maggio, a seguito di un bombardamento alleato a bassa quqta, si verifica un’evasione in massa dal campo, approfittando della momentanea fuga dei militi di guardia. Evadono anche numerosi ebrei, nascondendosi nelle vicinanze, ventisei dei quali sono però ripresi. Di fronte a quanto suc­ cesso, le forze di polizia tedesca si impossessano del campo, uccidendo an­ che un ebreo, mentre i trentuno ebrei rimasti sono trasportati a Fossoli, per essere a breve deportati ad Auschwitz. Dopo di che Servigliano rimane pres­ soché vuoto, almeno sino alla fine di maggio, quando vi sono condotti da

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Corropoli (Teramo) cinquanta uomini, di cui quarantaquattro ebrei. Quin­ di P8 giugno un attacco partigiano innesca una seconda evasione prima del­ la liberazione del campo, avvenuta il 25 giugno, a opera di un reparto po­ lacco [Voigt 1996]. Conclusione. Nella fase successiva alla liberazione della regione si regi­ strano atti di violenza e di giustizia sommaria contro fascisti e militi repubblicani, collaborazionisti e delatori, fino a tutto il 1946 e oltre. Le sti­ me elaborate dal ministero dell’interno nel novembre del 1946 (con crite­ ri e metodologie non precisate) indicano ottantaquattro fascisti uccisi nella regione, di cui cinque nella provincia di Pesaro-Urbino e settantanove in quella di Macerata, dove la guerra partigiana aveva conosciuto momenti di particolare asprezza. Tuttavia, se tali cifre permettono una prima appros­ simazione, vanno valutate con estrema cautela, soprattutto in mancanza di elenchi nominativi sui quali effettuare utili riscontri [Giovannini 1999]. La storiografia resistenziale marchigiana, per quanto concerne il quadro generale degli avvenimenti, come anche il loro porsi nel contesto più am­ pio, appare ancora fortemente debitrice nei confronti delle ricostruzioni di Salvadori e Mari (entrambi protagonisti e testimoni di primo piano degli eventi storici raccontati), risalenti alla prima metà degli anni sessanta, ca­ ratterizzate da un taglio dichiaratamente memorialistico (nella premessa Mari definisce il suo lavoro «più che una storia, ancora una testimonian­ za») e almeno in parte influenzate dalle appartenenze politiche dei due au­ tori, senza però scadere nella faziosità. Pur se negli ultimi anni non sono mancati alcuni significativi contributi a livello documentario, su singoli aspetti certamente di rilievo o che a partire da un singolo episodio ne han­ no indagato la realtà, la memoria e Ù mito [Bugiardini 1995], lo sviluppo degli studi in tale settore è parso spesso dipendente dalle scadenze cele­ brative e non estraneo a forme di campanilismo, mentre manca tuttora un’indagine di ampio respiro, che metta a frutto le stimolanti aperture me­ todologiche e tematiche della recente produzione storiografica nazionale ed estera sull’argomento. Nota bibliografica.

G. Bertolo, Le Marche, in A A .W ., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Feltrinelli, Milano 1974; S. Bugiardini, Memorie di una scelta. Ifatti di Ascoli Piceno e di Col­ le San Marco, Maroni, Ascoli Piceno 1995; E. Collotti, Notizie sull’occupazione tedesca delle Marche attraverso i rapporti della Militàrkommandantur di Macerata, in A A .W ., Resistenza e Liberazione nelle Marche, Atti del I Convegno di studio nel XXV della Liberazione, Argalia, Urbino 1973; P. Giovannini, La violenza politica nel dopoguerra, in P. Giovannini, B. Montesi e M. Papini (a cura di), Le Marche dalla ricostruzione alla transizione. 1944-1960, Il La­ voro Editoriale, Ancona 1999; G. Mari, Guerrìglia sull’Appennino, Argalia, Urbino 1965; V. Paolucci, La Repubblica sociale nelle Marche, Argalia, Urbino 1973 ; M. Papini (a cura di), La guerra e la Resistenza nelle Marche, in «Storia e problemi contemporanei», n. 15 (1995); D.

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Pela, Una notte che non passava mai. La guerra e la Resistenza nella memoria dei contadini mar­ chigiani, Il Lavoro Editoriale, Ancona 1997; E. Ro magna, La Resistenza armata nella provin­ cia di Pesaro e Urbino. Situazione degli studi e proposte di ricerca, in A. Bianchini e G. Pedrocco (a cura di), D al tramonto all’alba. La provincia di Pesaro e di Urbino tra fascismo, guerra e rico­ struzione, voi. II, Clueb, Bologna 1995; M. Salvadori, La Resistenza nell’Anconetano e nel Pi­ ceno, Opere nuove, Roma 1962; E. Santarelli, Aspetti sociali e politici della guerriglia partigia­ na nell Appennino umbro-marchigiano, in G. Nenci (a cura di), Politica e società dalfascismo alla Resistenza. Problemi di storia nazionale e storia umbra, Il Mulino, Bologna 1978; Id., Partigianato e movimento operaio tra Marche e Romagna: ipotesi di ricerca, in G. Rochat, E. San­ tarelli e P. Sorcinelli (a cura di), Linea gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani, Atti del Convegno di Pesaro (27-29 settembre 1984), Insmli, Angeli, Milano 1986; K. Voigt, Il rifu­ gio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, voi. II, La Nuova Italia, Firenze 1993.

G IAN FR ANC O CANALI

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Formazione del movimento partigiano. Nella fase iniziale l’universo par­ tigiano umbro si presenta come un magma politico e sociale riguardante al­ cune centinaia di uomini organizzati in un pulviscolo di bande. In questa frammentazione si riflette quella di un territorio regionale composto da un insieme di società ed economie di zona chiuse nella loro autosufficienza: es­ se sono il frutto della strutturazione mezzadrile delle campagne, soprattut­ to collinari, operata nel lungo periodo da piccoli e medi centri urbani di na­ tura commerciale e artigianale. Sull’insieme di questi ambiti analoghi e scar­ samente interrelati insiste la storica divaricazione intraregionale prodotta dalla considerevole presenza della grande industria nella zona di Terni. Sol­ tanto nell’inverno 1943-44, attraverso l’impegno profuso dai diversi centri dirigenti politico-militari - sia regionali che nazionali - si rende possibile iniziare un processo di militarizzazione e politicizzazione, che però condu­ ce solamente all’avvio di sporadiche forme di coordinamento operativo tra le bande e ad aggregazioni non molto salde di alcune unità di guerriglia in formazioni più ampie. In generale, vicende nazionali e fattori locali con­ corrono nel determinare una situazione essenzialmente connotata dal man­ cato raggiungimento di una direzione politico-militare riguardante l’intero territorio regionale o, almeno, una parte significativa di esso. Ciò trova ra­ gione anche nel fatto che la lotta partigiana in Umbria si svolge in un arco di tempo non lungo, sostanzialmente dieci mesi. Questa situazione rende difficile tracciare un profilo sintetico della Re­ sistenza umbra, che non mortifichi né la “singolarità” delle diverse forma­ zioni, né la rigida difesa che esse fecero della loro autonomia. Per questo, o anche per questo, la produzione storiografica relativa alla Resistenza um­ bra è caratterizzata soprattutto da numerose indagini parziali e da un’ab­ bondante memorialistica, non priva di vizi celebrativi ed encomiastici. Per evitare il rischio di incorrere in eccessive semplificazioni conviene soffermare in particolare l’attenzione sulla fase della costruzione del movi­ mento partigiano: ciò, rimandando immediatamente al problema basilare della scelta o, per meglio dire, delle scelte, consente di individuare alcuni caratteri centrali del fenomeno, visto che spesso sono proprio le forme, i modi e le motivazioni delle scelte ad avere un’influenza determinante sul­ la formazione e sullo sviluppo delle diverse Resistenze.

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In questa analisi ravvicinata appare opportuno partire da coloro che all’8 settembre risultano aver già scelto, e cioè gli antifascisti politici che - da lun­ go o breve tempo - hanno aperto un “contenzioso” con il fascismo. In questo gruppo molto circoscritto - i cui componenti si addensano principalmente nei due capoluoghi della regione - sono presenti molti elementi di eterogeneità. Si tratta di differenze di carattere generazionale e sociale, che spesso hanno significativi riflessi sul piano politico. Insieme ai più “vecchi” militanti anti­ fascisti - uomini che in alcuni casi hanno combattuto il fascismo fin dalle ori­ gini, come il popolare Venanzio Gabriotti, amministratore dei beni della cu­ ria, a Città di Castello, o i comunisti Alfredo Filipponi, operaio, a Terni, ed Emidio Comparozzi, affermato dentista, a Perugia -, si trovano gli opposito­ ri della generazione di mezzo, i quali sono parte di un fenomeno più vasto che negli anni della guerra di Spagna vede sorgere un nuovo antifascismo mol­ to differenziato politicamente e articolato socialmente, dallo studente di estra­ zione borghese al giovane proletario. Vi sono poi le ultime reclute, che sono il frutto dell’antifascismo esistenziale sviluppatosi, a partire dai primi anni di guerra, soprattutto tra i giovani. Ne sono due rappresentanti tipici i respon­ sabili delle scritte antifasciste comparse sui muri di Perugia nel 1941, Primo Ciabatti e Riccardo Tenermi, all’epoca maestri elementari. All’interno di questo universo la componente comunista si configura co­ me la più nutrita e attiva. Per quanto riguarda l’avvio della lotta partigiana, un ruolo di particolare rilievo viene svolto da un ristrettissimo gruppo di ri­ voluzionari di professione o comunque di esperti politico-militari, la prepa­ razione dei quali è avvenuta nei corsi di studi seguiti al confino - è cosi per Gino Scaramucci - o, più drammaticamente, è stata un risultato della par­ tecipazione alla guerra civile spagnola - come nel caso di Armando Fedeli, Alberto Mancini, Dario Taba. Per questa ragione ad alcuni di essi viene af­ fidato un compito di primo piano nell’organizzazione e nella direzione della lotta armata. La possibilità di dar vita a un impegno militare viene esami­ nata dagli^apparati dirigenti comunisti ancor prima dell’annuncio dell’ar­ mistizio. E quanto avviene in una riunione, organizzata a Roma il 3 set­ tembre 1943 dalla direzione del Pei, dove si incontrano Luigi Longo, Gior­ gio Amendola, Mauro Scoccimarro e alcuni dirigenti regionali e provinciali dell’Italia centrale (tra essi Armando Fedeli, per la provincia di Perugia, e Gino Scaramucci, per la provincia di Terni). Le risoluzioni prese in questa sede diventano le coordinate entro le quali, all’indomani dell’8 settembre, i comunisti umbri si muovono per dar vita al movimento di lotta armata. Ma nelle due province, a causa della situazione determinatasi nel corso del ven­ tennio, i risultati di questa mobilitazione si rivelano alquanto diversi. A Perugia, dove il fascismo era riuscito a impedire il costituirsi di nu­ clei significativi di opposizione clandestina, l’organizzazione comunista si presenta nel settembre 1943 con una struttura non consolidata e con un nu­ mero limitato di aderenti. Ciò costituisce la ragione per cui, soltanto nei primi giorni di ottobre, essa riesce a organizzare sul Monte Malbe una ban­ da di piccole dimensioni.

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Nel polo industriale ternano, invece, l’opposizione comunista al regime - presente soprattutto nell’ambiente operaio urbano -, animata da profon­ de motivazioni di classe, aveva cercato costantemente di tenere in piedi una, sia pur fragile, trama organizzativa. In seguito a questa lunga attività cospirativa il Pei ternano può contare nella seconda metà del '43 su un di­ screto numero di iscritti e simpatizzanti. Ciò consente al «responsabile mi­ litare» comunista, Alfredo Filipponi, di avviare una mobilitazione che dai militanti viene vissuta come un vero e proprio reclutamento, cui non si vuo­ le, né forse si può, sottrarsi. Nella seconda quindicina di settembre intor­ no a Terni risultano già costituite tre bande; tra esse la più organizzata e numerosa (circa quarantacinque uomini) è quella operante in Valnerina al comando dello stesso Filipponi. Gli operai comunisti della grande industria ne costituiscono la base. Accanto alla componente “politica” si colloca quel­ la “militare”, nella quale sono compresi soprattutto gli appartenenti alle Forze armate che, dopo lo sfascio del regio esercito, operano - o sono co­ stretti a operare - immediatamente la propria scelta per uno dei due schie­ ramenti in campo. Tra essi vi sono gli ufficiali che, per sfuggire al disarmo e alla cattura da parte dei tedeschi, si portano con il proprio reparto - o par­ te di esso - in montagna, o anche i soldati meridionali che non possono rag­ giungere i luoghi di origine. Esemplare al riguardo è il caso del capitano Guido Rossi, che si rifugia sui Monti Martani con i mezzi e una parte de­ gli uomini del 228° autoreparto misto. Ma, come i fatti dimostreranno, die­ tro questa scelta si nasconde, non di rado, un disegno «attendista», che por­ ta alcune di queste unità a divenire facile bersaglio dei primi rastrellamen­ ti messi in atto da fascisti e tedeschi. E così nelle esperienze della banda Libertà, operante sui monti di Stroncone al comando del tenente Elvenio Fabbri, e della stessa formazione del capitano Guido Rossi. Vi è infine la componente costituita dagli internati e dai prigionieri di guerra, fuggiti dai diversi luoghi di restrizione presenti sia nel territorio re­ gionale che nelle regioni vicine. Coloro che danno un significativo apporto alla guerriglia in Umbria sono però - nella stragrande maggioranza - ex pri­ gionieri iugoslavi, in particolare quelli fuggiti dai campi di concentramento di Colfiorito e di Pissignano. Con una lunga e sanguinosa esperienza di lotta di liberazione e guerra civile alle spalle, i partigiani slavi - in gran par­ te comunisti - assumono un ruolo determinante nel dare impulso, organiz­ zazione e indicazioni tattiche allo scontro militare. Essi costituiscono ban­ de proprie o miste con partigiani italiani, le quali, per lo più, saranno effi­ cacemente inquadrate all’interno di unità di livello superiore. In qualche occasione però l’accentuato spirito nazionalistico di questi combattenti fi­ nirà per produrre momenti di tensione e di contrapposizione con i parti­ giani umbri. Sviluppo ed espansione delle forze partigiane. Mentre, in montagna, tra i primi nuclei partigiani operanti nello stesso territorio - o in territori limi­ trofi - inizia una fase complessa di presa di contatto, che in qualche caso

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porterà a fusioni o ad accorpamenti, in diversi centri urbani, anche mino­ ri, si avvia una fitta trama di incontri, nei quali si gettano le basi della co­ stituzione di gruppi armati clandestini, destinati a diventare importanti unità di guerriglia. Protagonisti di questi conciliaboli sono in prevalenza uf­ ficiali e sottufficiali tornati alle proprie case dopo l’8 settembre, ma accan­ to a essi si segnala una significativa presenza di civili appartenenti al ceto medio (liberi professionisti, proprietari terrieri, studenti universitari). A Gualdo Tadino, il 12 settembre, in una riunione organizzata dal tenente Vincenzo Morichini nella sede dell’istituto Salesiano viene costituito il Gruppo di azione antifascista. Il 13 settembre è un liberale, Bonuccio Bonucci, a propiziare la formazione di una banda facendo incontrare ufficia­ li e civili a San Faustino, nell’alta valle del Tevere. A Spoleto, il 16 settem­ bre, il capitano Ernesto Melis svolge un ruolo decisivo nell’organizzare un gruppo armato, che prenderà il suo nome. A Foligno, sempre nella secon­ da decade di settembre, è l’istituto San Carlo il luogo nel quale si svolge la fase di preparazione alla lotta armata di alcuni ufficiali e studenti universi­ tari cattolici. Questa attività cospirativa svolta in città viene però ostacolata dalla pubblicazione - il 20 settembre - di un bando per il reclutamento di mano­ dopera da adibire al servizio del lavoro. In esso si ordina l’immediata pre­ sentazione a tutti gli uomini appartenenti alle classi dal 1921 al 1925. Ciò spinge una parte di coloro che si stanno organizzando nei centri urbani ad anticipare i tempi dell’avvio della lotta in montagna. E quanto fanno, per esempio, il gruppo dei «sancarlisti» di Foligno e quello di Spoleto coman­ dato da Melis, i quali si trasferiscono con i propri equipaggiamenti - ri­ spettivamente - nella parte centrale e in quella meridionale dell’Appenni­ no umbro. Si tratta comunque di una scelta non isolata. Infatti, nell’ultima deca­ de di settembre, tra i soldati tornati a casa dopo lo sfacelo del regio eserci­ to e tra i giovani ancora estranei all’esperienza militare sono molti coloro che, per sfuggire a una precettazione al lavoro piena di incognite, decido­ no di darsi alla macchia. Per una considerevole parte di essi non si tratta ancora - e in qualche caso non lo sarà mai - di una scelta attiva verso la lot­ ta armata. Oltre alla casualità degli incontri fatti in montagna, in questa fa­ se un ruolo decisivo nel far maturare scelte individuali - e, non di rado, di gruppo - viene svolto sia dalla famiglia che dalla comunità. In ogni caso di­ verse sono le bande alle quali questi uomini spontaneamente danno vita. Alcune di esse si aggregheranno a formazioni più strutturate da un punto di vista politico-militare; mentre altre manterranno una propria autonomia, finendo spesso per essere connotate da un forte carattere localistico e da una scarsa attività sul piano militare. La fase di organizzazione e di avvio della guerriglia che caratterizza l’au­ tunno del 1943 è molto lenta. Per lo più l’attività primaria delle bande ruo­ ta intorno alla necessità di dotarsi di un adeguato equipaggiamento logisti­ co e militare. Sabotaggi alle linee telefoniche e telegrafiche, rimozioni o

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danneggiamenti di segnali stradali, aggressioni a militi e a carabinieri iso­ lati allo scopo di disarmarli, prelievo di generi alimentari di prima necessità dai magazzini di ricchi agricoltori: sono per lo più queste le azioni che ini­ zialmente danno visibilità alle forze partigiane. Al riguardo merita di essere sottolineato il fatto che la gran parte dei gruppi armati mostra di muoversi con grande cautela per evitare sanguino­ se rappresaglie sulla popolazione civile e, più in generale, per cercare di li­ mitare i costi umani della guerriglia. Ne è una inequivocabile dimostrazio­ ne il comportamento che molti partigiani tengono nei confronti di militi e carabinieri catturati per essere disarmati. Il più delle volte essi vengono semplicemente diffidati dal continuare la ferma nelle forze armate della Re­ pubblica sociale italiana (Rsi) e, quindi, rispediti incolumi ai loro domicili. Non si attengono invece a questa linea di prudenza le bande nelle qua­ li si registra una significativa - o addirittura un’esclusiva - presenza di ex prigionieri slavi. Tra esse si segnala una formazione di piccole dimensioni dislocata nella parte orientale del Monte Subasio. Essa è comandata da uno studente montenegrino, Milan Tomovic, e, oltre agli slavi, inquadra alcuni giovani di Spello e Foligno. Ma ancor più significativa è l’esperienza degli slavi evasi il 13 ottobre dal carcere di Spoleto, i quali si organizzano in ban­ da nelle zone montuose dell’Alta Valnerina. In un primo momento questa formazione - il cui comando è affidato a Svetozar Lakovic «Toso» - si ag­ grega alla banda Melis, ma l’orientamento politico-militare del comando di quest’ultima - anticomunista e «attendista» - porta in tempi brevi a una separazione. Poco dopo essa invece stabilisce una salda e proficua unità d’azione con la banda “politica” comandata da Alfredo Filipponi. Questa aggregazione, cementata da un condiviso orientamento politico-militare, fa­ vorisce un rapido e intenso sviluppo dell’attività di guerriglia. Sullo scor­ cio dell’anno in Valnerina si registra una lunga serie di azioni partigiane, in particolare attacchi diretti contro automezzi o presidi militari. In seguito a ciò le autorità fasciste sono costrette a chiudere sei stazioni dei carabinieri in altrettanti comuni di montagna (Santa Anatolia di Narco, Borgo Cerre­ to, Sellano, Preci, Cascia e Monteleone di Spoleto). Questa iniziale capacità offensiva della guerriglia serve peraltro effica­ cemente a evidenziare la debole struttura delle forze armate della Rsi, le quali - poco motivate e scarsamente equipaggiate - non riescono a far fron­ te in maniera autonoma alle più combattive formazioni partigiane. Ed è questa una situazione destinata a durare per tutto l’arco dei dieci mesi, mal­ grado il frenetico attivismo con il quale il capo della provincia di Perugia, Armando Rocchi, cerca di dar vita a un’efficace guerra antipartigiana. Ruolo politico e militare delle form azioni. A cavallo del nuovo anno si apre una nuova fase di espansione per la Resistenza umbra. Diversi fat­ tori - tra i quali l’intensificarsi della “caccia” al renitente da parte delle autorità fasciste e la fama, ingigantita dalla voce popolare, delle poten­ zialità militari della guerriglia - determinano un afflusso di nuove reclu­

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te verso le formazioni partigiane. Una discreta aliquota di questi nuovi combattenti è costituita da giovani contadini renitenti alla leva. Infatti in alcune zone a prevalente economia agricola la Resistenza finisce per configurarsi come il punto di coagulo non solo della sopravvissuta tradi­ zione democratica e socialista radicatasi nel periodo prefascista, ma - an­ che e soprattutto - delle inquietudini e delle tensioni verso il regime ac­ cumulatesi durante il ventennio. Oltre all’incremento degli effettivi delle formazioni già operanti, si as­ siste alla costituzione di nuove unità combattenti in zone dell’Umbria sin li non investite dalla lotta armata. Nei pressi di Gualdo Cattaneo si forma la banda comandata dal tenente Romeo Bocchini. Nella zona compresa tra Bettona, Deruta e Collemancio si costituiscono due nuove formazioni “po­ litiche”, esigue numericamente ma immediatamente assai considerate nel­ l’immaginario delle comunità locali: la Leoni e la Francesco Innamorati. La prima è azionista ed è comandata da Mario Grecchi, un giovane allievo del Collegio militare di Milano, e da Augusto Del Buontromboni, proprietario terriero della zona. La seconda è, invece, costituita per decisione del comi­ tato federale del Pei perugino, che intende cosi colmare il vuoto lasciato dalla mal riuscita esperienza della banda di Monte Malbe, scioltasi nel no­ vembre. Il comando della Innamorati è affidato a Dario Taba. Parallelamente le formazioni dotate di maggior vitalità e prospettiva di durata si consolidano da un punto di vista militare e politico. Si tratta, in particolare, di quelle dislocate sul versante umbro della dorsale appennini­ ca. Nella parte settentrionale è la banda originariamente costituitasi a San Faustino a diventare il punto di aggregazione di nuove “leve” partigiane e di diverse unità sorte spontaneamente nella zona. Si forma cosi la brigata Proletaria d’Urto - San Faustino, che si struttura in quattro battaglioni e arriverà a contare oltre trecento effettivi. Nella parte centrale dell’Appennino umbro un analogo processo di polarizzazione si svolge intorno alla ban­ da dei giovani «sancarlisti» folignati e, anche in questo caso, si conclude con la costituzione di una brigata, la Garibaldi, articolata in quattro batta­ glioni con una forza media di oltre trecento unità. A sud, nella zona dell’Alta Valnerina e del Nursino, il processo di unificazione non può che trova­ re il suo punto di riferimento nel gruppo armato nel quale combattono uni­ ti partigiani slavi e partigiani umbri. Viene formata la brigata garibaldina Antonio Gramsci, la quale nel periodo di massima espansione raggiungerà una forza complessiva di circa millecinquecento partigiani, organizzati in sette battaglioni - dei quali due formati da slavi (Tito I e Tito II). Per sot­ tolineare il particolare clima di collaborazione stabilitosi nella nuova for­ mazione, vale la pena di ricordare come, in una prima fase, il suo comando venga affidato a Svetozar Lakovic, mentre ad Alfredo Filipponi sia riser­ vato il ruolo di commissario politico. Se il processo di militarizzazione non sembra trovare significativi osta­ coli, quello di politicizzazione genera nella Garibaldi e nella Proletaria d’Ur­ to - San Faustino momenti di dissenso e di tensione. Nella Garibaldi ven­

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gono avanzate ampie riserve - superate a fatica - rispetto all’introduzione della figura del commissario politico, vista come uno snaturamento del ca­ rattere originale - “autonomo” e “apolitico” - della formazione. La Prole­ taria d’Urto - San Faustino esprime nell’ibridismo del suo nome le diverse anime politiche, comunista e liberale, che presiedono alla sua formazione e al successivo sviluppo. Comunque il più efficace ammortizzatore di tensio­ ni e contrasti interni alle brigate è costituito dal fatto che, in sostanza, que­ ste aggregazioni dimostreranno di possedere un valore più formale che real­ mente operativo. In questa complessiva opera di istituzionalizzazione un ruolo importante viene esercitato dai diversi Comitati di liberazione nazionale (Cln) locali, ai quali invece le unità combattenti avevano spesso riconosciuto il solo com­ pito di “assistenza logistica”. Un’attività di impulso e di indirizzo sul pia­ no politico-militare - soprattutto per la Garibaldi e la Gramsci - viene svol­ to anche da Celso Ghini, ispettore delle brigate Garibaldi per le Marche e per l’Umbria, che raggiunge le formazioni umbre in febbraio. Peraltro Ghi­ ni tenterà di avviare - con scarsi risultati - una forma di collaborazione ope­ rativa tra le formazioni operanti sui due versanti, umbro e marchigiano, dell’Appennino centrale. A marzo arriva in Umbria anche Alfio Marchini, inviato dalla Giunta militare del Comitato centrale di liberazione nazionale (Ccln) con lo scopo di creare una brigata garibaldina attraverso il raggruppamento delle diver­ se bande locali presenti nella zona compresa tra il lago Trasimeno, Chiusi e Orvieto. L’obiettivo viene raggiunto con la costituzione della brigata Ri­ sorgimento, nella quale sono aggregate cinque piccole formazioni territo­ riali, sin lf poco attive. In questo contesto di larga espansione delle forze partigiane si avvia quella che può essere considerata la “grande stagione” della Resistenza um­ bra. Essa è favorita da un potente alleato naturale, e cioè le abbondanti ne­ vicate dell’inverno 1943-44, che - rendendo impraticabili le carraie di mon­ tagna e isolando le zone operative partigiane - contribuiscono a preparare un terreno di scontro favorevole alla guerriglia. Soprattutto a partire da gennaio la Guardia nazionale repubblicana (Gnr) è costretta a registrare, ormai in larga parte del territorio regionale, un diffuso e quotidiano stilli­ cidio di azioni di guerriglia: attacchi a caserme, presidi militari, mezzi di trasporto, pattuglie isolate; saccheggi di ammassi e distribuzione di generi prelevati alla popolazione; incursioni contro sedi municipali con rituale di­ struzione delle carte (liste di leva e di conferimento del bestiame, registri delle tasse ecc.). Nei comuni più isolati, in seguito alla forte carica aggressiva messa in campo dalle bande partigiane, militi e carabinieri sono costretti, per sal­ vaguardarsi, a dar vita a pericolose situazioni di doppio gioco e conniven­ za con i partigiani. In seguito a ciò in buona parte della fascia appennini­ ca centrale si determina quello che Celso Ghini ha definito - non senza una certa enfasi - il «territorio libero umbro-marchigiano», che riguarda,

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in una prima fase, la zona operativa della Gramsci (Norcia, Cascia, Leo­ nessa, Poggio Bustone) e, successivamente, si estende sino al territorio del comune di Pietralunga, dove opera la Proletaria d’Urto - San Faustino. Pur non essendo una vera e propria zona libera sottoposta ad amministrazioni no­ minate dalle forze partigiane, si tratta senza dubbio di un territorio, che, per brevi periodi, risulta militarmente occupato, al cui interno i partigia­ ni possono muoversi con relativa tranquillità. Al riguardo è significativo quanto avviene nella zona libera posta sotto il controllo della Gramsci: il comando della brigata stabilisce la propria sede nell’albergo Italia a Ca­ scia; l’ospedale di Norcia diventa luogo di ricovero di partigiani malati e feriti; sempre a Norcia la tipografia viene ampiamente utilizzata per stam­ pare manifesti e giornali («l’Unità» e «Il Fuoco»), Il 16 marzo 1944 vie­ ne addirittura pubblicato e affisso un manifesto indirizzato «alle popola­ zioni della zona libera», nel quale la brigata si propone come «unica auto­ rità esistente». Si tratta di uno stato di cose che - come è evidente - non può essere a lungo tollerato dalle diverse forze dell’apparato repressivo tedesco. La «lotta alle bande». Nonostante l’incapacità dimostrata dai fascisti nel fronteggiare autonomamente la guerriglia, l’azione repressiva messa in atto dai tedeschi non sembra presentare, almeno sino al marzo 1944, un ca­ rattere di sistematicità. Le operazioni antiguerriglia condotte dalla forza d’occupazione sono il più delle volte risposte sporadiche ad attacchi parti­ giani, che però diventano particolarmente puntuali se nel corso dello scon­ tro rimangono uccisi militari tedeschi. Appare opportuno ricordarne alcu­ ne. Il 30 novembre 1943 a Mucciafora viene condotto un rastrellamento contro la banda di Toso, nel corso del quale sono uccisi molti partigiani e fucilati sette capifamiglia del luogo. Il 20 gennaio 1944, sul Monte Torre Maggiore, nei pressi di Terni, l’azione repressiva si indirizza contro una del­ le bande “comuniste” costituitesi subito dopo P8 settembre. Ma l’opera­ zione non riesce per inerito del sacrificio del partigiano Germinai Cimarelli, che col fuoco della sua mitragliatrice riesce a ritardare l’avanzata dei rastrellatoti. L’8 marzo, nella zona di Deruta, una vasta operazione di con­ troguerriglia, causata probabilmente dall’uccisione di quattro soldati tede­ schi, investe e travolge la formazione Leoni. Il comandante Mario Grecchi, restato alla mitragliatrice per consentire agli altri partigiani di sganciarsi, viene catturato e, in seguito, fucilato. Anche una parte della formazione In­ namorati incappa in questo rastrellamento e, in seguito a ciò, viene deciso sia il trasferimento della formazione in altra zona, sia l’impiego di un’ali­ quota degli effettivi nell’attività clandestina a Perugia. Il 3 febbraio, nella zona di Cancelli, e il 14 marzo, nella zona di Colfiorito, due ampie e com­ plesse operazioni di controguerriglia investono la brigata Garibaldi; ma non riescono a ottenere risultati significativi. Il secondo rastrellamento appare come una risposta diretta ai dodici tedeschi uccisi dai partigiani in uno scon­ tro a fuoco avvenuto il 9 marzo, nei pressi di Sellano.

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La situazione muta sensibilmente nella primavera del 1944. Spaventata da un movimento partigiano in costante crescita che è ormai diventato una seria minaccia per le più importanti vie di comunicazione dell’Italia centra­ le, la forza d’occupazione avvia una fase più dura e sistematica di «lotta alle bande». Questo drastico mutamento nell’attività di repressione della guer­ riglia trova un’immediata applicazione in Umbria. Dalla fine di marzo sino alla prima metà di maggio un lungo ciclo di rastrellamenti, condotti con un ampio dispiegamento di uomini e mezzi e spesso con la collaborazione dei fascisti, investe in tempi diversi tutta la dorsale appenninico-centrale, so­ prattutto nelle zone dove, più forte si è dimostrata l’insorgenza partigiana. Inizia il 27 marzo un reparto corazzato da ricognizione, che setaccia una va­ sta zona a est di Gubbio. I tedeschi colpiscono con durezza - e lo faranno anche in seguito - partigiani, veri o presunti, e civili inermi. Tra il 29 mar­ zo e il 7 aprile è la zona operativa della Gramsci a essere sottoposta a ra­ strellamento. Nel corso di questa operazione si distingue per ferocia il fa­ migerato 20 battaglione del 30 reggimento della divisione Brandenburg. Il 17 aprile la macchina repressiva tedesca si indirizza contro i reparti della Ga­ ribaldi operanti nella zona di Collecroce. Poi si sposta a nord e, a partire dal 7 maggio, si scaglia contro la Proletaria d’Urto - San Faustino. Villaggi montani messi a ferro e a fuoco, esecuzioni sommarie, eccidi, arresti di massa, deportazioni: le aberrazioni e le atrocità commesse dai te­ deschi nel corso di questi rastrellamenti raggiungono livelli talmente esor­ bitanti che lo stesso capo della provincia di Perugia le denuncia con toni fermi alle autorità superiori. Ma, attraverso la brutalità dei mezzi impiega­ ti, i reparti antiguerriglia riescono a raggiungere importanti obiettivi: scom­ paginare le fila delle formazioni armate e terrorizzare le popolazioni civili per dissuaderle dal prestare aiuto ai partigiani. In effetti il bilancio di questo ciclo di rastrellamenti risulta veramente duro per la Resistenza umbra. Nello sbandamento generale molti partigiani cercano scampo tornandosene alle proprie case; altri - tra i quali gli slavi per superare il momento critico sono costretti ad accettare ambigui e poco onorevoli periodi di tregua. Diversi esponenti di primo piano del movimen­ to di liberazione trovano la morte nel corso di queste operazioni; tra essi, Venanzio Gabriotti e Primo Ciabatti, uccisi nello stesso giorno, il 9 maggio, in due diverse località. Un caro prezzo viene pagato anche dai sacerdoti che si sono esposti collaborando, più o meno direttamente, con i partigiani. Don Concezio Chiaretti, ricordato come il «cappellano» della Gramsci, viene fu­ cilato a Leonessa il 7 aprile. Altri sacerdoti, come don Alfonso Guerra di Nocera Umbra, sono arrestati e riescono a evitare il plotone di esecuzione - o la deportazione - soltanto grazie all’intervento delle superiori autorità religiose. A Morena, don Marino Ceccarelli - soprannominato dai tedeschi il «prete bandito» - riesce fortunosamente a sfuggire alla cattura. Nonostante ciò, il piano tedesco di annientamento del movimento par­ tigiano non si realizza. Terminati i rastrellamenti, le poche unità combat­ tenti rimaste in efficienza non tardano a riorganizzarsi e a reagire, metten­

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do in atto una rabbiosa c ontrorappresaglia, che si indirizza in maniera pre­ valente contro i fascisti. Sono, in particolare, alcune unità della Gramsci ad avviare una “caccia” senza tregua contro spie e collaboratori dei tedeschi, che causa diverse vittime. In generale si assiste a un mutamento del rapporto che molti partigiani hanno con il «nemico interno»: alla magnanimità caratterizzante i primi mesi della guerriglia si sostituisce una volontà di annientamento che porta all’attuazione di forme di giustizia sommaria. In più di un’occasione la cat­ tura di militi e carabinieri si traduce in esecuzione sommaria sul posto per i primi e in rilascio con diffida per i secondi. Si tratta di comportamenti che indicano come sia soprattutto in questa fase - e, in particolare, nelle zone nelle quali i metodi repressivi sono stati più cruenti - che la contrapposi­ zione armata tra fascismo e antifascismo subisce un imbarbarimento e as­ sume i connotati violenti propri della guerra civile. La “grande stagione” della Resistenza umbra. La ripresa organizzativa del­ le forze partigiane umbre viene favorita da un avvenimento di grande ri­ lievo militare: lo sfondamento del fronte di Cassino da parte degli alleati. Infatti la notizia del cedimento tedesco galvanizza le unità di guerriglia su­ perstiti e favorisce un ulteriore afflusso di combattenti. Nei dintorni di Agello viene anche costituita una nuova formazione, la brigata Primo Cia­ batti, nella quale confluiscono molti mezzadri della zona e alcuni partigia­ ni della Innamorati. All’indomani della liberazione di Roma, il ricostituito fronte resisten­ ziale scatena una sorta di offensiva finale contro le truppe tedesche impe­ gnate in un disordinato ripiegamento. A questa «mobilitazione generale» partecipano attivamente anche le piccole formazioni - come le bande di­ slocate sui Monti Martani - che, fortemente legate al territorio di origine, erano sin li rimaste attardate su posizioni attendiste e di autodifesa. In par­ ticolare, si assiste alla diffusione in molte zone del territorio umbro di una guerra partigiana combattuta prò aris etfocis. La battaglia di Montebuono è l’episodio-simbolo con il quale tradizionalmente viene ricordato l’impor­ tante ruolo svolto dai partigiani per salvaguardare le comunità dalle razzie e dalle distruzioni messe in atto dalle truppe tedesche in ritirata. Sono i par­ tigiani-contadini di Montebuono ad attaccare, l’8 giugno, un’autocolonna tedesca che ha razziato bestiame nella zona. Ma l’arrivo di rinforzi per i te­ deschi imprime una svolta tragica alla battaglia; dieci partigiani trovano la morte in questa azione. Lo slancio eccezionale dimostrato in questa fase dalle formazioni ar­ mate trova alimento anche nella rapidità dell’avanzata alleata e nella stret­ ta successione con la quale vengono liberate le città dell’Umbria meridio­ nale e centrale: il 13 giugno Terni, il 14 Orvieto, il 15 Spoleto, il 16 Foli­ gno, il 20 Perugia. Infatti ciò lascia supporre come ormai prossima la fine dell’occupazione nella regione. Ma la scelta degli alti vertici militari tede­ schi di dar vita, a partire dal 20 giugno, a una battaglia di arresto sulla li­

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nea Albert (Grosseto - lago Trasimeno - Numana) - e, in seguito, a una «ri­ tirata aggressiva» - vanifica questa aspettativa e spezza in due il territo­ rio umbro, ritardandone di oltre un mese la completa liberazione. A causa di ciò le forze della Resistenza si trovano a vivere due esperienze comple­ tamente diverse. Nella parte dell’Umbria liberata, la prima fase del dopoguerra appare ca­ ratterizzata da un difficile incontro del quale sono protagonisti alleati e par­ tigiani. Del resto tra essi - se si escludono pochi aviolanci - non si era in pre­ cedenza stabilito alcun significativo e prolungato rapporto di collaborazione. Il governo militare alleato accoglie, dunque, con un evidente atteggiamento di diffidenza e sospetto la volontà di protagonismo apertamente manifestata dal movimento di liberazione. In generale, imposta la smobilitazione delle formazioni armate e largamente disattese le richieste dei Cln, gli alleati ac­ cettano soltanto di utilizzare per un breve periodo alcune unità partigiane in operazioni di pattugliamento del territorio e di mantenimento dell’ordine pubblico. A Terni tali compiti sono affidati ai partigiani della brigata Gram­ sci, mentre a Perugia vengono riservati a quelli della Mario Grecchi, una for­ mazione costituita poco prima della liberazione da militanti del Fronte gio­ vanile comunista e da alcuni partigiani superstiti della Leoni. Nell’Alta Umbria, invece, le formazioni armate continuano la lotta con­ tro gli occupanti tedeschi, soprattutto fornendo un considerevole apporto - sul piano militare - alle operazioni belliche delle truppe alleate. In que­ sto si distingue principalmente la brigata Proletaria d ’Urto - San Faustino. La complessiva azione partigiana è però costretta a misurarsi con la si­ tuazione, difficile e pericolosa, determinata da un’ulteriore svolta draco­ niana impressa alla repressione della guerriglia dal feldmaresciallo Kessel­ ring con il famigerato ordine del 17 giugno 1944, una vera e propria legit­ timazione di ogni forma di arbitrio commesso dai comandanti dei reparti nella conduzione della «lotta alle bande». Infatti i durissimi effetti dì que­ sta svolta non tardano a manifestarsi nel territorio umbro occupato. Misu­ re di repressione terroristiche sono sempre più indirizzate, in maniera in­ discriminata, contro la popolazione civile. Il lento percorso di ripiegamen­ to delle truppe tedesche attraverso l’Umbria settentrionale è contrappuntato da episodi cruenti di rappresaglia. I primi sono tra i peggiori. A Gubbio, il 20 giugno, alcuni gappisti uccidono un ufficiale medico e ne feriscono un secondo. Due giorni dopo scatta la «misura di ritorsione»: vengono fucila­ ti quaranta civili inermi, tra i quali due donne. A Serra Partucci, il 24, per rappresaglia contro il ferimento di un soldato tedesco sono passati per le ar­ mi cinque civili. Il 27, nei pressi di Petrelle, per «vendicare» due soldati te­ deschi viene fatta saltare una casa nella quale sono stati rinchiusi dieci uo­ mini del posto. Nella notte tra il 27 e il 28 giugno, a Penetola, per sospet­ ta connivenza con i partigiani, i componenti di tre nuclei familiari sono rinchiusi in una casa, che poi viene data alle fiamme. A quanti tentano di uscire si riserva una raffica di mitra. Il bilancio di questa spietata esecu­ zione è di dodici morti, tra essi vi sono donne e bambini.

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Si chiude cosi - con questa scia di sangue che avrà una drammatica con­ tinuazione per tutta l’estate nell’Appennino tosco-emiliano - il periodo dell’occupazione tedesca nella regione. I diversi conteggi effettuati per dare una misura numerica delle forze impegnate nella resistenza in Umbria sembrano convergere approssimati­ vamente in una cifra di oltre 43 00 unità per quanto riguarda i partigiani e di circa 2000 unità per quanto riguarda i patrioti, facendo così ammontare il numero totale dei «mobilitati» a una cifra superiore alle 6300 unità. Merita, infine, di essere menzionata la scelta ulteriore compiuta da al­ cune centinaia di partigiani umbri, e cioè quella di continuare a combatte­ re tedeschi e fascisti arruolandosi volontari, tra la fine del '44 e i primi me­ si del '45, nei gruppi di combattimento del ricostituito esercito italiano, in particolare nel Cremona. Questi partigiani, provenienti per lo più dalle città dove più forte era stato il movimento resistenziale (Perugia, Terni, Foligno, Città di Castello, Spello, Umbertide), portano nella nuova esperienza mili­ tare gli ideali di libertà e di antiautoritarismo che erano stati alla base della loro precedente scelta. La guerra di liberazione nei reparti regolari dell’eser­ cito viene da essi vissuta come un vero e proprio prolungamento della lot­ ta partigiana. Nota bibliografica. R. Battaglia, Un uomo, unpartigiano, Einaudi, Torino 1965; B. Bocchini Camaiani e M. C. Giuntella (a cura di), Cattolici, Chiesa, Resistenza nell’Italia centrale, Il Mulino, Bologna 1997; S. Bovini (a cura di), L ’Umbria nella Resistenza, 2 voli., Editori Riuniti, Roma 1972; L. Brunelli e G. Canali (a cura di), L ’Umbria dalla guerra alla Resistenza, Editoriale Umbra, Foligno 1998; L. Capucelli (a cura di), Antifascismo e Resistenza nella provincia di Perugia (do­ cumenti e testimonianze), in « Cittadino e Provincia», V (giugno 1975); R. Covino, Partito co­ munista e società in Umbria, Editoriale Umbra, Foligno 1994; G. Gubitosi, Il diario di Alfre­ do Filipponi, comandante partigiano, Editoriale Umbra, Perugia 1991; G. N enci (a cura di),

Politica e società in Italia dalfascismo alla Resistenza. Problemi di storia nazionale e storia um­ bra, Il Mulino, Bologna 1978.

NICOLA LABANCA

Toscana

Connotazione della Resistenza in Toscana. Da storico e da protagonista, scrivendo nei primi anni cinquanta Roberto Battaglia [1953] aveva già iden­ tificato alcuni caratteri salienti della Resistenza in Toscana. Fra questi an­ noverava la radicalità, la brevità, la precocità, la forza e la maturazione po­ litica di quel movimento, politico, sociale e militare. L’ampia pubblicistica e la discreta memorialistica seguite a quel volume hanno nel complesso con­ fermato e se possibile enfatizzato quei caratteri. Non sono mancati distin­ guo e critiche, anche assai recentemente. Ma non sarebbe legittimo sotto­ valutare che, in questa regione, proprio con la Resistenza furono poste le basi di un’egemonia del tutto nuova rispetto a quell’antico passato di una “Toscanina” moderata e prevalentemente (per quanto nient’affatto esclu­ sivamente) mezzadrile che pure il regime fascista e i ceti dirigenti locali ave­ vano di fatto sotto il ventennio prolungato. Di fronte a ciò, e in Toscana più che altrove, proprio nei pochi ma drammatici mesi dell’occupazione na­ zista, del neofascismo della Repubblica sociale italiana (Rsi), della Resi­ stenza antifascista e del passaggio del fronte, emerse e mise radice una clas­ se dirigente profondamente rinnovata. Certo, rispetto alla volontaristica fiducia di Battaglia lo sguardo dell’os­ servatore odierno coglie molti più problemi e articolazioni laddove un tem­ po erano state viste solo certezze più o meno monolitiche. La proliferazio­ ne di pubblicazioni giubilari e di memorie, di fonti e di studi ha infatti per­ messo di c ogliere - peraltro per la Toscana non diversamente che per il resto dell’Italia - le diversità fra quanto stava scritto nelle relazioni ufficiali e quanto in realtà era avvenuto nell’operato delle formazioni partigiane o dei Comitati di liberazione nazionale (Cln), le varie linee di frattura tra pro­ grammi e realtà delle diverse componenti politiche del movimento resi­ stenziale, l’ampiezza dell’attesismo, persino i punti e i momenti di crisi nel rapporto tra forze della Resistenza e popolazione, come talora (ma non sem­ pre: e questo è già un dato importante) avvenne all’indomani delle sangui­ nose stragi nazifasciste. Ci si è interrogati sulle diverse aspettative che uo­ mini, partiti, classi sociali avevano riposto nella Resistenza: e l’insistenza di Claudio Pavone sul tema delle «tre guerre» è certamente servita. Ma la conflittualità sociale della Toscana tra fine della guerra e dopoguerra non era sconosciuta agli storici: era anzi a tutti evidente che proprio sul punto

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(fondamentale per tutta la vicenda toscana) del rapporto fra Resistenza e contadini, l’unità politica del fronte antifascista fu qui assai presto persa, nell’incandescente dopoguerra delle lotte mezzadrili. Ma, ancor più radicalmente, sarebbe anche plausibile chiedersi fino a che punto sia davvero possibile scrivere una storia della Resistenza sin dall’inizio unitaria e comune a tutta la Toscana, o se sia meglio vedere ta­ le unitarietà regionale come un processo che proprio in quegli anni si rafforza: in una regione fatta di grandi centri urbani (molti dei quali fra 1943 e 1944 bombardati e sfollati) e tante isolate fattorie mezzadrili, ar­ ticolata in una campagna irrigua, appoderata e relativamente ricca del cor­ so dell’Arno, e in un’altra assai più povera e isolata dei più alti rilievi e dei monti dell’Appennino, spesso divisa fra aree di grandi e moderne fab­ briche metallurgiche e meccaniche dei capoluoghi e aree di borghi mino­ ri e talora ancora murati, dai mestieri artigianali spesso poveri e antichi. Sarebbe quindi legittimo interrogarsi circa i caratteri, e i limiti, con cui Firenze riuscì in quei mesi a essere davvero il capoluogo dell’intera re­ gione (sul versante del potere nazifascista come su quello della Resisten­ za). E questo anche per la scarsa soggezione provata dalla Resistenza, per considerazioni logistiche e politiche, nei confronti dei confini ammini­ strativi, tanto di quelli provinciali (con un rimescolamento continuo di formazioni, di uomini e di idee, ad esempio, fra il Senese e il Grossetano, o l’Aretino e il Fiorentino, o fra questo e il Pistoiese) quanto di quelli stes­ si regionali (con lo sconfinamento programmatico, e non solo per sfuggi­ re ai rastrellamenti nazifascisti, di formazioni a cavallo con l’Emilia a nord, l’Umbria a est e il Lazio a sud). Questi interrogativi - considerati sia singolarmente, sia nel loro com­ plesso - non eliminano però né il rilievo della Resistenza nell’ambito del­ la storia regionale né quello della Resistenza toscana nell’ambito del più generale movimento nazionale di liberazione: si pensi solo, dopo le forme assunte dalla liberazione di Roma, al protagonismo autonomo della Resi­ stenza toscana di fronte alle avanzanti armate anglostatunitensi, sino alla liberazione di Firenze. Semmai, di fronte a un problema storico di tale rile­ vanza - e pur senza sottovalutare i risultati già raggiunti e le potenzialità documentarie della massa di pubblicazioni oggi disponibili - è difficile ne­ gare come da parte della storiografia più avvertita e seria sia ancor oggi man­ cata non la constatazione di quel rilievo e di quel ruolo più sopra notati, quanto proprio una ricostruzione d’insieme della Resistenza. Può sembra­ re paradossale rispetto all’egemonia pure raggiunta da una cultura politi­ ca che proprio dalla Resistenza aveva tratto fondazione e legittimazione: ma l’unica “storia” a livello regionale oggi disponibile non è a quella cultu­ ra riconducibile, è stata edita ormai quasi un quarto di secolo fa, ha una struttura aneddotica, apparve già allora e appare tanto più ai nostri giorni insufficientemente documentata e ideologicamente di parte. Sono così cer­ tamente disponibili ottimi studi di singoli episodi, di formazioni partigia­ ne e di storia locale, ma è un dato di fatto che mancano a tu tt’oggi studi

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complessivi su temi rilevanti quali le dimensio ni dell’antifascismo, l’impat­ to della guerra, la Rsi loc ale, l’attività delle formazioni politiche clandesti­ ne che innervarono la lotta partigiana, per non dire il rinnovamento della classe politica della regione; importanti sondaggi ma ancora da estendere e verificare sono stati fatti in termini di storia sociale del tempo di guer­ ra, o di storia della resistenza passiva, non armata, civile. In fondo, lo stes­ so limitato spazio dedicato qualc he anno fa alla Resistenza in una impor­ tante impresa collettiva di storia regionale non ha fatto altro che fotogra­ fare l’inadeguatezza della storiografia rispetto alla corposità del problema storic o. Le ragioni politiche. In Toscana il collaborazionismo della Rsi ebbe un volto probabilmente peculiare, con la sua miscela di tratti tutti accentuati: fossero essi la ripresa del vecchio squadrismo o l’accentuato tentativo di “conciliazione” da parte dei neofascisti (basterebbe ricordare i nomi di Pa­ volini e Gentile o, a un livello più locale, Chiurco) nei confronti di quella grande parte della società toscana che evidentemente - fosse esso antico an­ tifascismo o antifascismo di guerra - non concedeva alcuna legittimità alla Rsi. Ma con l’avanzare della campagna d’Italia e la ritirata delle forze te­ desche, prima metodica sino alla linea Gustav e poi affrettata in particola­ re dopo la liberazione di Roma (e l’apertura del secondo fronte in Nor­ mandia), la Toscana era divenuta terra di prima linea. La rilevanza strate­ gica del controllo dei passi appenninici e delle coste della Toscana era ben chiara ai responsabili militari e politici nazisti, che da tempo lo avevano pre­ visto nei piani di occupazione del territorio nazionale italiano: e, d ’altron­ de, il carattere strategico era ben presente anche agli angloamericani, che per preparare la propria marcia verso il Nord e verso la Pianura padana ne batterono incessantemente con i bombardamenti i grandi capoluoghi, i prin­ cipali snodi ferroviari e logistici, i più importanti insediamenti industriali ed economici. Per tale somma di ragioni in Toscana lo spazio per ogni ini­ ziativa potenzialmente autonoma della Rsi venne assai presto annullata, la Wehrmacht (Forze armate tedesche) assunse il controllo diretto della re­ gione e gli organi della repubblichina funzionarono sostanzialmente - fin­ ché non si liquefecero - soprattutto come attivi e sanguinari corresponsabi­ li deEa lotta all’antifascismo e alla resistenza partigiana, come insostituibili soggetti della deportazione politica e razziale, come subordinati comprimari nello sfruttamento nazista delle risorse economiche regionali e nel loro tra­ sferimento verso il Reich. In tale contesto operò l’antifascismo toscano del tempo di guerra. Non si comprenderebbero l’insediamento, il radicamento e la forza della Resi­ stenza se non si tenesse a mente - oltre alla crisi degli anni di guerra - l’an­ tica compresenza nella regione, in faccia al tradizionale moderatismo li­ berale, di un tessuto socialista e democratico-popolare venato da robuste presenze sovversive, libertarie e anarchiche, come anche di un movimento cattolico-popolare. Era stata questa opposizione a spiegare tanto l’asprez­

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za delle lotte del biennio rosso e nero quanto la feroce determinazione del primo squadrismo fascista. Cui avevano fatto seguito un radicamento ec­ cezionalmente ampio ma anche geograficamente e socialmente definito del fascismo (per gli iscritti al Partito nazionale fascista - Pnf - e alla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale - Mvsn - la Toscana fu sempre in te­ sta alle graduatorie nazionali, ma al particolare peso di capoluoghi come Fi­ renze e Livorno faceva da contrappeso un’altrettanto peculiare debolez­ za del contado rurale) e soprattutto un antifascismo popolare (oltre che di alcune aree professionali e intellettuali) notevolmente profondo, resisten­ te, diffuso e in alcune aree particolarmente determinato. Il movimento di Resistenza prese alimento da tale sempre più profonda divaricazione, che spezzava ogni illusione di un qualsiasi ritorno al pacifico passato di una moderata e immobile Toscana mezzadrile: sia perché non poteva esserci pace in anni di guerra totale, sia perché la regione non era solo mezzadria, sia perché nelle stesse fattorie la pace sociale si vedeva sempre più in­ crinata. Nell’organizzazione e nella direzione di questo movimento di resistenza le forze organizzate dell’antifascismo ebbero un grande ruolo, per quanto non dovunque ugualmente decisivo: soprattutto i comunisti, la cui rete si stava ristrutturando proprio allora, ma anche altre forze (azioniste, socialiste, libe­ ralsocialiste, cattoliche, moderate) che, pur fra illusioni, contrasti e difficoltà, si riorganizzarono dopo il 25 luglio 1943.1 quarantacinque giorni videro le prime prove di questi gruppi politici, i primi incontri e i primi avvicenda­ menti fra generazioni diverse dell’antifascismo. Ma anche in Toscana, se si esclude chi si pose quasi subito il problema della lotta clandestina e dell’ar­ mamento, l’antifascismo vecchio e nuovo fu se non sorpreso certo preso in contropiede dalla notizia dell’armistizio. Le prime formazioni partigiane. A11’8 settembre anche in Toscana erano funzionanti numerosi comitati interpartiti che cercarono di ottenere dalle strutture statuali in disfacimento quella reazione antitedesca e quella con­ segna delle armi cui soprattutto i comunisti posero particolare attenzione. Scontri minori tra formazioni regolari dell’esercito, talora supportati da po­ polani e antifascisti armati, non mancarono pertanto qua e là nella regione: ma fu solo a Piombino che, in complesse ma eccezionali condizioni, si eb­ be un vero e proprio scontro militare, con gli antifascisti uniti che riusci­ rono a premere e a portare sulle proprie posizioni anche strutture militari così da bloccare, almeno per qualche giorno, i piani tedeschi. Tale precocità e maturità della Resistenza si riflesse poi nella quasi im­ mediata nascita, già fra la seconda e la terza decade del settembre, sulle pendici di alcuni rilievi (nel Massetano, nel Casentino, nel Pistoiese, sul­ le Apuane) di primissime bande di patrioti. Sempre più in collegamento con i comitati antifascisti dei paesi e delle città, queste si moltiplicarono e si rafforzarono nel corso dell’autunno successivo, sino a illudere taluni antifascisti della possibilità di dare vita a formazioni di grande consistenza

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e dall’inquadramento rigidamente e tradizionalmente militare. In tal sen­ so influirono sia l’oggettivo e veloce irrobustimento di tali formazioni (vuoi per l’afflusso dalle città e dai centri vuoi per l’accettazione da par­ te contadina di questa nuova realtà), sia la presenza alla macchia di uffi­ ciali e sottufficiali del regio esercito, sia l’illusione di una guerra parti­ giana breve, che presto avrebbe dovuto sfociare in più grossi e decisivi combattimenti. Fra l’altro influiva, nel senso del rafforzamento delle ban­ de, anche l’afflusso in montagna di una parte dei numerosi ex prigionie­ ri di guerra stranieri sino all’8 settembre chiusi nei campi e dopo quella data liberati o fuggiti, e da allora o dispersi alla ricerca della linea del fron­ te o aiutati dalla popolazione contadina a sfuggire alle ricerche nazifasciste. Avvenne così che alcune di quelle più consistenti e accentrate for­ mazioni (nel Massetano, sul Casentino, sul Pistoiese ecc.) furono identi­ ficate e scompaginate dalle forze nazifasciste, nel quadro più generale del primo difficile inverno della Resistenza italiana, che vide anche provvi­ sori ritorni a casa o dispersioni, indice - più che di sconfitta - di pausa tattica e di riorganizzazione. L’accettazione da parte delle varie forze antifasciste della prospettiva della guerra più lunga, il dispiegarsi ormai chiaro della subordinazione dei repubblichini ai nazisti e delle nuove vessazioni del potere nazifascista in cerca di una sua stabilizzazione, il bando di leva per la Rsi del febbraio 1944 (corredato in itinere dalla minaccia della fucilazione per i disertori) favori­ rono il ricostituirsi, il moltiplicarsi e il rafforzarsi delle formazioni. I l contesto di espansione del movimento partigiano. In esse l’emergere di alcuni caratteri segnalava una maturazione e al tempo stesso una svolta: il legame, non privo di aspetti conflittuali ma in sostanza forte, tra Resisten­ za e mondo contadino; il collegamento tra formazioni in montagna e orga­ nismi politici in paese e in città; l’emergere di un ruolo centralizzante del capoluogo, dei singoli partiti politici e più in generale del Cln della Tosca­ na (Ctln) come momento di raccordo regionale. Un altro e ben noto carat­ tere, la prevalenza raggiunta nella regione dalle forze più avanzate della Re­ sistenza (i comunisti e, laddove erano presenti, gli azionisti e i socialisti), si darà qui per acquisito. Fra tali caratteri il più importante fu indubbiamente il rapporto tra Re­ sistenza e contadini: questi ultimi mezzadri, talora grandi proprietari, ma spesso poveri boscaioli o piccoli proprietari immiseriti. Fu tale rapporto che permise alle formazioni di crescere, con tutte le difficoltà legate all’afflus­ so alla macchia di giovani inesperti ma anche con tutta la forza che ciò da­ va alla Resistenza. D’altro canto anche nelle città o nei centri non sfollati un segnale im­ portante veniva dal sempre più ampio discredito riscosso presso i ceti me­ di e soprattutto presso la classe operaia dalle strutture del potere nazifa­ scista, riscontrato non senza preoccupazione dalle forze occupanti tede­ sche. Gli scioperi del marzo 1944, ancorché non sempre localizzati nei

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maggiori stabilimenti, furono da tal punto di vista significativi: per la riu­ scita di essi molto si impegnò il Pei, anche con il contemporaneo compi­ mento in città, ad esempio a Firenze, di imprese spettacolari dei Gruppi d’azione patriottica (Gap). Per quanto senza la durezza e la durata degli scioperi dei maggiori centri operai del triangolo industriale del Nord - e più che a Firenze, dove erano assai controllati, o a Livorno o ad Arezzo, ormai sfollate -, entrarono in agitazione moltissimi lavoratori delle im­ prese medie e piccole della Toscana: a Santa Croce sull’Arno, a Prato e a Empoli, e altrove nel Pisano, nel Pistoiese, nel contado e persino nel cen­ tro del capoluogo regionale, dove - nelle maggiori fabbriche - già da me­ si erano attivi «comitati di agitazione» ed erano state avanzate, e talora ottenute, migliorie economiche. Un altro aspetto importante era ormai il forte contatto stabilito dalle ban­ de con gli organismi politici interpartitici dei paesi e delle città. Lo stesso Pei, ormai da tempo, aveva dato indicazione di costruire ove possibile i Cln, an­ che quando - e non era infrequente nelle piccole località - non vi fossero altri partiti disponibili e pronti sul terreno della lotta clandestina. Ciò non voleva dire che il partito non passasse poi autonomamente sul campo della lotta ar­ mata: lo dimostrano le non trascurabili azioni delle Squadre di azione pa­ triottica (Sap), anche di paese, dove spesso tale denominazione veniva a coin­ cidere con la cellula locale. Ma in genere era la ricerca di un ampio fronte di lotta a essere prevalente: da qui i Cln. E sarebbero stati proprio i Cln ad as­ sumere in Toscana, nell’ultima fase della lotta e poi nell’immediato post-liberazione, un ruolo prominente nell’amministrazione e nella politica locale. Che tali contatti fossero importanti non vuol dire che fossero uniformi (ché anzi essi variarono a seconda di molte circostanze) o senza eccezioni. Così, anche in Toscana operarono formazioni meno sollecite a seguire le di­ rettive dei Cln. Ciò fu evidente soprattutto verso la fine della primavera, quando - in molte parti della Toscana proprio alla vigilia dello sforzo fina­ le e delle prime liberazioni di paesi e città - fu posto il problema del pas­ saggio dalla fase delle bande e delle formazioni più o meno isolate alla fase della costruzione di un vero e proprio “esercito di liberazione”, con l’irreggimentazione e l’indivisionamento dei reparti. Fu così che - mentre al­ tre formazioni, secondo le direttive dei partiti e del comando militare del Ctln, andarono stabilendo (almeno sulla carta) reciproci rapporti gerarchi­ ci - non poche bande toscane rimasero (vollero o furono lasciate rimanere) semplici reparti o distaccamenti. E forse a tale fenomeno, peraltro com­ prensibile in una regione così differenziata, non dovevano risultare estra­ nei la stessa antica realtà di un panorama municipale policentrico di borghi piccoli e medi o lo stesso retaggio di un tessuto politico democratico, con tratti libertari e sovversivi. Tra la fine dell’inverno e la primavera era ormai lontana quella prima fase della resistenza in cui l’impostazione maggiormente aveva risentito del­ le concezioni più militari, e il rilievo e la maturità politica del movimento antifascista - assieme a una presa di coscienza da parte delle popolazioni -

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erano evidentemente legati anche al rafforzamento dei partiti politici (a par­ tire dal Pei) e dei loro canali di comunicazione, come la stampa di partito. Rimanevano però soprattutto (ma non solo) nella Toscana meridionale, ed era questo un altro carattere peculiare della Resistenza toscana, talune for­ mazioni a guida militare, collegate ai centri badogliani del Regno del Sud. Esse si limitavano ad azioni di disturbo e di sabotaggio e parevano soprat­ tutto attendere l’avvicinarsi del fronte della campagna d’Italia. Il loro mo­ deratismo non doveva essere estraneo alla logica di una parte dei ceti diri­ genti della Toscana, che il crollo del fascismo e la guerra avevano allonta­ nato dal regime e spostato su posizioni - prima che antifasciste - soprattutto d’attesa e d’ordine. La lotta di liberazione e le stragi nazifasciste. Le minacce e poi il nuovo bando di leva, con scadenza in maggio, finirono per rafforzare il movimen­ to di resistenza e il reclutamento partigiano. Parallelamente le sempre più frequenti azioni militari contro la Rsi e i suoi rappresentanti, mentre per­ mettevano con le requisizioni la sopravvivenza in montagna di bande più numerose e consistenti e la “bonifica” del territorio da spie e collaborazio­ nisti dei tedeschi, contribuivano a rafforzare il prestigio del movimento. Tutto ciò avveniva mentre fra gli antifascisti forte era il dibattito politico: le notizie circa l’azione di via Rasella e il massacro sulla via Ardeatina a Roma e quelle attorno al ritorno di Togliatti e alla svolta di Salerno crearono di­ scussione e divisioni anche in Toscana. L’uccisione di Giovanni Gentile* (15 aprile 1944) si situava in questo scenario, segnato sia dal rafforzamen­ to delle strutture clandestine sia dal dibattito fra gli antifascisti.

Nel frattempo le forze nazifasciste avevano avviato un altro giro di vi­ te nel sistema di repressione, con un’ulteriore depredazione e deportazione delle risorse, economiche e umane, della regione. Quello che dell’economia toscana poteva servire al mantenimento delle truppe occupanti e allo sfor­ zo bellico della Germania (dalle risorse naturali ai materiali agli impianti) continuò a essere portato verso il Nord. Inoltre si tenga sempre conto che il fronte stava arretrando e che la fortificazione della linea Gotica era una priorità assoluta per le forze tedesche che direttamente, o attraverso l’Organizzazione Todt, prelevarono fra primavera ed estate decine di migliaia di uomini per i lavori più o meno coatti sull’Appennino. Ma non si tratta­ va solo di far piazza pulita di risorse e di lavoro: si voleva anche dare un colpo alla Resistenza e alle popolazioni che la sostenevano. A ValluccioleStia e a Mommio-Fivizzano, nell’aprile e nel maggio, il sistema dello ster­ minio e delle stragi contro la popolazione e la resistenza aveva già dimo­ strato tutto il proprio potenziale di orrore. Fu nel giugno 1944 però che la Toscana pari un ancor più terribile con­ tributo di sangue. Alle vittim e della deportazione politica e razziale, ai ca­ duti sul campo della battaglia partigiana, al sacrificio richiesto alle popola­ zioni da una guerra ideologica e totale (bombardamenti compresi) si ag­ giungevano ora le vittim e dello sterminio.

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Il fronte era ormai vicino alla regione: il primo paese toscano a essere li­ berato fu molto probabilmente Pitigliano, P i i giugno. Le strutture della Rsi erano ormai in gran parte liquefatte, con i gerarchi fuggiti al Nord o al­ la ricerca di qualche impossibile credenziale in vista di un futuro diverso, i reparti della Gnr sciolti o sbandati e passati alla macchia. L’occupazione te­ desca si riduceva a un fatto militare. E per logiche militari (logiche nelle quali è stata letta una “consonanza” con la prassi inaugurata nel 1941 sul fronte orientale) le truppe tedesche provvedevano a una “bonifica” del ter­ ritorio alle loro spalle, nella prospettiva più o meno imminente della ritira­ ta. Dal canto suo il movimento partigiano, come abbiamo visto rafforzato­ si per logiche locali, rispondeva all’appello del generale Alexander e sem­ pre più, oltre che contro l’avversario interno neofascista, si slanciò contro le forze dell’occupante nazista. La logica delle stragi e della guerra di sterminio era tedesca, come di­ mostrano i precedenti dell’aprile-maggio, e si appuntò su paesi inermi abi­ tati ormai da anziani, donne e bambini: ma le stragi avvenivano non di ra­ do quando e dove la Resistenza era più forte. Forno-Frigido, Niccioleta Castelnuovo Val di Cecina, San Pancrazio, Civitella della Chiana, Guardistallo-Montescudaio assistettero a stragi nazifasciste con almeno cinquan­ ta vittime ciascuna (ma Civitella quasi centocinquanta). Tedeschi e Rsi le presentarono in genere, ma non sempre, come “rappresaglie”. A mano a mano che la regione veniva liberata, e il fronte scorreva ver­ so nord, il copione si ripeteva. L’avanzata anglostatunitense e l’azione del­ la Resistenza risalivano la penisola in terra toscana: Grosseto era libera­ ta il 15 giugno, Siena il 3 luglio, Arezzo il 16 e Livorno il 19, Firenze P ii agosto, Pisa il 2 settembre, Lucca il 5 e Pistoia l’8 (Massa e Carrara, rima­ ste al di qua della linea dell’avanzata alleata, lo saranno solo il 10-11 apri­ le 1945). Ma insieme a queste, altre date, drammaticamente più tristi, ave­ vano scandito la preparazione della ritirata nazifascista. Erano eccidi di­ versi, per quanto accomunati dalla logica della guerra di sterminio. Eccidi talora diffusi e disseminati, per quanto non meno efferati anche quando con un minor numero di vittime; eccidi tal’altra impressionanti anche so­ lo nella loro triste contabilità: fra questi non si può non ricordare nel lu­ glio Cavriglia (191 vittime) e Pietramala - San Polo di Arezzo (58), nell’ago­ sto San Giuliano Terme (68), Massarosa (60), Fucecchio (178) e Vinca-Fivizzano (175), e poi ancora fra settembre e ottobre Farneta di Lucca (100) e le Fosse del Frigido di Massa (146). Su tutti gravò però l’ombra nera del 12 agosto di Sant’Anna di Stazzema, con lo sterminio di quello che rima­ neva del paese e almeno 432 vittime. La reazione popolare e politica, da parte della Resistenza, a questa scia di sangue non poteva non essere com­ plessa, diversificata, stratificata, fatta di ammissioni e rimozioni; ancor più lo è stata la sua memoria, talora (ché sarebbe affatto improprio dire sem­ pre) marcata da una divisione fra la memoria dei parenti delle vittime e quella degli altri compaesani rimasti indenni, fra comunità e comunità: una divisione sulla quale mezzo secolo di guerra fredda ha poi potentemente la­

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vorato. In alcuni dei primi seri studi su taluni dei fatti di sangue qui ri­ cordati sono stati riavanzati interrogativi sul comportamento delle forze armate della Resistenza e sono state sottolineate le permanenze di una «me­ moria divisa». D ’altro canto, non pare legittimo sottovalutare il dato di fatto per cui la stessa estrema diffusione dei casi di massacri non ha im­ pedito a livello locale e regionale il rafforzarsi di un’egemonia progressista e il radicarsi, nel dopoguerra, di una memoria positiva, se non proprio un mito, della Resistenza. La liberazione di Firenze. Mentre le popolazioni sopportavano con l’avvi­ cinarsi del fronte il peso più doloroso della guerra, mentre la Resistenza era all’attacco (per quanto messa in grande difficoltà dal procedere più lento del previsto dell’avanzata delle forze angloamericane, dovuto a una più accanita difesa da parte tedesca di alcune località di valore tattico, ad esempio l’Anda­ ta, e più in generale alla caduta di priorità della campagna italiana per gli al­ leati rispetto al secondo fronte di Normandia), mentre le forze nazifasciste erano in ritirata, andava precisandosi lo scenario politico della ormai prossi­ ma liberazione di Firenze. In essa un ruolo determinante assunse il Ctln. Il fatto che Roma non fosse stata liberata dalle forze della Resistenza confermava infatti il Ctln nell’obiettivo di porsi, rispetto agli alleati, come autonomo potere italiano: un obiettivo rinforzato da quanto accadde via via in terra toscana (con Siena e Livorno liberate dagli alleati: il caso di Arezzo, in buona parte sfollata, era considerato a sé stante, e quello di va­ rie località minori di provincia, in cui pure il movimento di liberazione ave­ va fatto trovare agli alleati alcune cariche politiche e amministrative già oc­ cupate da uomini designati dai Cln locali, non poteva avere un valore poli­ tico paragonabile a quello del capoluogo regionale). All’approssimarsi del fronte il ricostituito comando militare unico del Ctln chiese alle forze par­ tigiane dislocate non lontano dalla città di contribuire alla liberazione del capoluogo. Fu così quindi che dal Mugello, dal Pratomagno e dal Casenti­ no, dagli Appennini e dal Chianti divisioni e bande conversero sul capoluogo, svolgendo un ruolo importante (insieme alle Sap) come avanguardia degli angloamericani prima nella periferia della città, poi dentro Firenze martoriata dalle truppe tedesche in ritirata e infestata da cecchini, rifiu­ tando lo scioglimento richiesto dai comandanti alleati. Nel frattempo il Ctln si presentava agli alleati come autonomo potere italiano, esonerando gli ul­ timi responsabili repubblichini e compiendo le prime designazioni. La Toscana, però, dopo la liberazione di Firenze e dopo l’altro slancio con il quale alla fine di settembre le truppe tedesche erano state ricacciate sino agli Appennini, non era ancora tutta liberata. Una linea che andava dalla punta dell’Abetone (in provincia di Pistoia) sino alla costa di Forte dei Marmi, passando per Camaiore e Barga, tagliava a metà la provincia di Luc­ ca e ne lasciava la parte settentrionale assieme all’intera provincia di Mas­ sa e Carrara (Apuania) in mano ai tedeschi. La liberazione di questo ampio triangolo di terra toscana avvenne solo assai più tardi, con la metà dell’apri­

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le 1945. In queste zone il peso del fronte e della guerra fu se possibile an­ cora più greve. Lo scenario politico già delineatosi a Firenze, però, era ben diverso da quello romano e preludeva a quello che si sarebbe presentato al Nord con il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai), con una Resistenza maturata in un altro duro inverno di lotta. Nota bibliografica. 1943-1945. La liberazione in Toscana. La storia la memoria, introduzione di I. Tognarini, Pagnini-Aiccre, Firenze 1995; R. Absalom, Ver una storia ài sopravvivenze. Contadini ita­ liani e prigionieri evasi britannici, in «Italia contemporanea», n. 140 (1980); Id., Il mondo contadino e la guerra : 1943-45. Alcune modeste proposte per una storia da rifare, in «Passato e presente», IV (1985), n. 8; P. L. Ballini, L. L otti e M. G . Rossi (a cura di), La Toscana nel secondo dopoguerra, Angeli, Milano 1991; R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana. 8 set­ tembre 1943 - 25 aprile 1945, Einaudi, Torino 1953; M. Battini e P. Pezzino, Guerra ai ci­ vili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997; M. G. Bencistà e G . Verni, Militari e Resistenza in Toscana, in G . Perona (a cura di), Le forma­ zioni autonome nella Resistenza. Documenti, Angeli, Milano 1996; L. Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, La N uova Europa, Carrara 1972; G . Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997; C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1975; La Resistenza e gli alleati in Toscana. I CLN della Toscana nei rapporti col governo militare al­ leato e col Governo dell’Italia liberata, A tti del I Convegno di Storia della Resistenza in To­ scana (Firenze, 29-30 settembre - i ° ottobre 1963), Provincia - Isr Firenze, Firenze 1964; L. Paggi (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, Manifestolibri, Roma 1996; Storia d ’Italia. Le regioni, IV. La Toscana, a cura di G. Mori, Einaudi, Torino 1986 (cfr. i saggi di M. Palla, Ifascisti toscani; G . P. Santomassimo, Immagini dell’antifascismo toscano-, e M . G. Rossi, Il secondo dopoguerra-.verso un nuovo assetto)-, I. Tognarini (a cura di), Guer­ ra di sterminio e Resistenza. La provincia di Arezzo. 1943-1944, Esi, Napoli 1990; Id., Lapo-

polazione toscana e i “problemi della guerra.”. Aspetti della vita sociale attraverso i carteggi e le relazioni ufficiali, in L. Arbizzani (a cura di), A l di qua e a l di là della Linea Gotica. Aspetti sociali,politici e militari in Toscana e Umilia Romagna, Regioni Toscana ed Emilia Romagna, Bologna-Firenze 1993; Id. (a cura di), Vrincipali eccidi e stragi in Toscana, in Cinquantesimo anniversario della Resistenza e della liberazione in Toscana, supplemento a «Toscana notizie», 5 luglio 1995; Toscana occupata. Rapporti delle «Militarkommandanturen». 1943-1944, trad. it. di R. Mauri Mori, Olschki, Firenze 1997; G. Verni, La Resistenza in Toscana, in «R i­ cerche storiche», XV II (1987), n. 1.

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Antifascismo e forze politiche. Fra i caratteri della lotta di resistenza e della liberazione di Firenze sono stati più volte messi in evidenza, a ragio­ ne, la raggiunta maturità del fronte antifascista e l’autonomo porsi del fio­ rentino Ctln (Comitato toscano di liberazione nazionale) rispetto agli al­ leati. Quando questi entrarono nella città, infatti, trovarono da subito sia una forza armata partigiana che non intendeva smobilitarsi ma contribuire in prima persona alla completa liberazione del capoluogo sia, già insediate, le principali cariche politiche e amministrative locali nominate dal Ctln. Consapevolmente il movimento antifascista fiorentino aveva così voluto ri­ spondere alla mancata insurrezione di Roma. Per tutto il ventennio, a livello di opposizione organizzata, come ha scrit­ to Carlo Francovich [1961], in tutta la regione «il movimento antifascista più attivo [era stato], assieme agli anarchici, il Pei» e in città «l’unico par­ tito che conservava] una struttura organizzativa [era] il Pei», a partire dai suoi insediamenti nei quartieri operai e popolari. Ma Firenze - oltre che per questi comunisti e per gli altri pur significativi centri di opposizione an­ tifascista (socialisti, liberali o cattolici) - va ricordata per il ruolo di rilievo da tempo avuto nella genesi di importanti aggregazioni di forze: dal primo Non mollare a Italia libera, dal movimento liberalsocialista sino a. Giusti­ zia e libertà (Gl), gran parte dei quali poi confluiti nel Partito d’azione (Pda). Tale articolazione del fronte antifascista finì poi per rispecchiarsi in un cer­ to «comitato interpartiti» che nei quarantacinque giorni successivi al 25 lu­ glio 1943, grazie alla liberazione dei detenuti politici e alla nuova atmosfe­ ra dettata da una speranza di pace, assistè a un vigoroso ampliamento dell’antifascismo organizzato e della nascita o della ripresa dell’attività, più o meno clandestina, dei partiti. Come altrove, all’8 settembre il mancato ac­ coglimento da parte dei rappresentanti locali dello stato, soprattutto mili­ tari, dell’invito di consegnare le armi ai partiti che le richiedevano e l’occupazione della città da parte delle forze tedesche obbligarono il fiorentino «comitato interpartiti», presto denominatosi Comitato toscano di libera­ zione nazionale (Ctln), sulla via della clandestinità. Mentre la popolazione era alle prese con la deportazione in Germania dei soldati italiani catturati dai tedeschi, con la delusione della guerra che continuava e le prime angherie del sistema di occupazione e di repressione

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nazifascista (fra tutte la deportazioni degli ebrei, evidenziata già dall’irru­ zione nella sinagoga ai primi di novembre), alcuni caratteri distintivi della resistenza fiorentina non tardarono a mettersi in evidenza sin da quei me­ si di lotta clandestina. Il Pda, facendo leva sulle competenze in esso raccolte e sui contatti na­ zionali, si impegnò nell’assistenza ai prigionieri stranieri di guerra, nella co­ stituzione di centri di informazione e di supporto alla resistenza armata (preparazione di documenti falsi ecc.) nonché nella elaborazione program­ matica. Il Pei mise a frutto la propria esperienza nell’organizzazione clan­ destina per far nascere e rafforzare le prime bande armate sulle montagne circostanti il capoluogo, nella convinzione che la lotta contro il nazifasci­ smo sarebbe stata lunga, e per prepararsi alla costituzione di nuclei di ar­ diti e di quella più larga rete operativa che doveva permetterne le azioni esemplari in città (cioè dei futuri Gruppi d’azione patriottica - Gap - e Squadre di azione patriottica - Sap); d’altro canto prestò grande attenzio­ ne al lavoro di massa, nelle fabbriche con il delinearsi dei primi «comitati di agitazione», e in genere nei confronti dei ceti popolari, con un’intensa produzione di stampa clandestina. Tutto questo accompagnato da una pa­ rallela battaglia contro ogni attesismo. I primi mesi non furono facili. Il Ctln era ancora lungi dall’essere il prin­ cipale, concorde e unitario motore della lotta clandestina e le prime azioni clandestine evidenziarono qualità e limiti dei singoli ambienti e partiti. Il Pda subì i primi colpi e lo stesso Ctln si vide privato del suo primo coman­ do militare, voluto in particolare da Pii e Pda per coordinare e controllare le attività militari di tutti i partiti, ma affidato a ufficiali del disciolto re­ gio esercito, ancora poco avvezzi alle ferree regole della lotta irregolare. Le azioni di lotta. A metà ottobre avveniva però il primo scontro ar­ mato, cercato dalla Rsi, con una formazione della resistenza sulle pendici di Monte Morello, appena fuori dalla città. Il i° dicembre 1943 un Gap eliminava il colonnello Gobbi, comandante del distretto militare, snodo cru­ ciale del potere della Rsi ora che questa aveva emanato il primo dei suoi bandi di leva - per sfuggire al quale numerosi giovani andarono a infoltire le formazioni partigiane dei monti circostanti e della provincia. Mentre i partiti rafforzavano le proprie strutture e la stampa clandestina, i Gap e le formazioni alla macchia, si affinava la riflessione del Ctln. Su proposta del Pda il comitato fiorentino, ai primi di novembre, sulla scorta di quello na­ zionale deliberò di non riconoscere altre autorità che quelle emanate dal Cln e, soprattutto, il 3 gennaio 1944 stabilì di muoversi nella prospettiva della liberazione della città con forze proprie, e di prepararsi ad assumere i poteri di governo provvisorio per il capoluogo e per la provincia impe­ gnandosi a designare, avanti la liberazione, proprie nomine per tutti gli uf­ fici e le funzioni pubbliche. Tali avanzate posizioni programmatiche - su cui a ragione si è molto insistito, da Codignola a Ragghiami - furono vo­ tate all’unanimità da parte di tutti i partiti del Ctln, compresi quelli più mo­

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derati: e tale unità fu sempre ricercata e spesso ottenuta, anche nei momenti più delicati, come nel caso - proprio in quei mesi - della risposta (anche questa unitaria e di ripulsa da parte del Ctln) al cardinale Elia Dalla Costa che ai primi di dicembre aveva avuto parole di pubblica condanna per l’azio­ ne dei Gap contro Gobbi. Le prese di posizione del Ctln (e - sul piano pubblico - le spettacolari azioni dei Gap, come già la singolare e coordinata serie di simultanei atten­ tati in luoghi simbolo del potere nazifascista la sera del 15 gennaio 1944) te­ stimoniavano la maturità e la forza della Resistenza fiorentina. Parallelamente crescevano nelle maggiori fabbriche l’azione dei «comitati di agita­ zione» e le richieste operaie, si ingrossavano le formazioni alla macchia (nel febbraio veniva ricostituito un nuovo comando militare unico del Ctln) e si stringevano i legami con i centri nazionali dell’antifascismo. Un successo collettivo della Resistenza fiorentina, anche se per ottenerlo era stata in particolare l’organizzazione del Pei a impegnarsi (con un lavoro nelle fabbriche e con la contemporanea esecuzione da parte dei Gap di azioni spettacolari), fu la mobilitazione operaia negli scioperi del marzo. Da allora, anzi, secondo Barbieri [1958], il Ctln e tutta la Resistenza fiorentina conob­ bero una «vita nuova». Ora, se gli scioperi rappresentarono un elemento im­ portante, interno, dell’indubbio rafforzamento dell’azione della Resistenza lo­ cale fra aprile e maggio - culminata poi fra giugno e luglio nella preparazione della liberazione -, bisogna però riconoscere che, anche a Firenze, fu il tanto atteso nuovo slancio della campagna d’Italia delle forze angloamericane (e, in primis, la liberazione di Roma) a porre nuove urgenze e nuovi compiti alla Re­ sistenza, la quale dal canto suo vi arrivò ormai matura e forte. Ancora una volta non mancarono rischi e difficoltà. Rischi esterni, co­ me quelli che stavano soprattutto nella macchina repressiva tedesca e fasci­ sta - la quale aveva ormai accumulato una lunga serie di colpi (fra cui la sco­ perta della trasmittente clandestina denominata Radio Co.Ra.) e di orrori, a riassumere i quali basterà ricordare le efferate azioni commesse da Carità e dalla sua banda, in città e nel loro rifugio di Villa Triste. E difficoltà in­ terne, come quelle insite nelle diversità delle posizioni all’interno del mo­ vimento antifascista o addirittura in tentativi di salvataggio trasformista di individui, ambienti e ceti. La discussione più aspra all’interno della Resi­ stenza si ebbe forse dopo il 15 aprile con l’attentato, da parte di un Gap, al filosofo e presidente dell’Accademia repubblichina Giovanni Gentile (azio­ ne contro la quale il giornale clandestino del Pda prese aperta posizione): ma è da rimarcare il fatto che, diversamente che a livello nazionale, in am­ bito locale il dibattito anche aspro non perse di vista la necessità dell’uni­ tà, cosicché, nel comune intento della lotta al nazifascismo, si trovò un acco­ modamento, con il Pei che si astenne sulla mozione di condanna votata dal Ctln e con il Pda che non insistè oltre nelle accuse. Forse, ancora più pe­ ricolose di questi dibattiti erano infatti certe manovre tese a un “salvatag­ gio” in extremis di ambienti più o meno pesantemente compromessi col regi­ me. Fra tali manovre, la più complessa fu quella capitanata dal generale

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Somma che fra giugno e luglio si presentò accampando certe investiture da Roma di fronte al Ctln: il quale però seppe in ultima analisi non farsi con­ dizionare. La liberazione della città . Dopo la liberazione di Roma, e quindi fra giu­ gno e luglio, il Ctln si era ormai posto nella prospettiva della liberazione a breve termine della città. Ancora su proposta del Pda il Ctln votava il 15 giugno un ordine del giorno per la mobilitazione generale (obiettivo impe­ gnativo, anche se diverso dall’insurrezione, per la quale erano orientati i comunisti). Le sedute del Ctln si fecero più frequenti e il suo stesso meto­ do di lavoro divenne più complesso, affiancato come fu da commissioni e sottocommissioni, ognuna per le numerose aree di quella società che il co­ mitato avrebbe dovuto presto governare. A giugno il comando militare uni­ co aveva già preparato un piano militare per l’insurrezione, prevedendo la partecipazione di forze partigiane della provincia che sarebbero state ap­ positamente fatte convergere attorno al capoluogo. Fra le tante provvidenze grandi e piccole di questi mesi merita una menzione l’operato, a prima vi­ sta appartato e secondario ma (sulla prospettiva del lungo periodo) di rile­ vanza assolutamente eccezionale per una città d’arte, di coloro che si preoc­ cuparono di salvare il patrimonio artistico di musei e chiese di Firenze dal­ le requisizioni e dalle razzie tedesche: un operato in cui, oltre a numerosi coscienziosi funzionari, fondamentali furono l’impegno e la passione di Ro­ dolfo Siviero*. Mentre ormai erano fuggite da Firenze le cariche repubblichine e la città rimaneva in mano ai tedeschi, la Resistenza non rallentava la propria azio­ ne politica e militare, in vista della liberazione. Ancora il 27 luglio le auto­ rità tedesche avevano alimentato le illusioni di considerare Firenze città aperta, cosa che avrebbe facilitato chi contava su un passaggio indolore; ma il 29 emanavano l’ordine di sgomberare un’ampia fascia dei lungarni, ipo­ tizzando di costringere allo spostamento circa centomila persone, con il van­ taggio per i tedeschi di gestire uno spazio d’arresto contro le truppe an­ gloamericane in avanzata senza il pericolo dei Gap alle spalle; il 3 agosto veniva dichiarato addirittura lo stato di emergenza, con il divieto per gli italiani di uscire dalle proprie abitazioni; nella notte fra il 3 e il 4 i tedeschi facevano saltare i ponti siili’Arno, da qualche giorno minati. Il Ctln rispon­ deva chiamando i fiorentini alla lotta con un vibrante appello. Già da qualche tempo, però, all’avvicinarsi del fronte, il comando mili­ tare aveva chiesto alle forze partigiane dislocate nell’area di concentrarsi e di contribuire alla liberazione del capoluogo. Dal Mugello, dal Pratomagno, dal Casentino e dal Chianti, oltre che dai dintorni più immediati, divisio­ ni e bande convergevano così verso la città. La mattina dell’11 agosto il suo­ no della Martinella, la storica campana di Palazzo Vecchio, aveva dato al­ la città il segnale dell’inizio della liberazione. Il Ctln si insediava con pieni poteri nel palazzo della prefettura, nominando i consigli comunali e pro­ vinciali. Gli alleati dovevano quindi accettare che, a partire dal sindaco,

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tutte le cariche fossero ricoperte da designati dal movimento di Resisten­ za. E solo il 16 agosto il Ctln cedette i propri poteri agli alleati. Dal punto di vista dei militari anglostatunitensi, il rilievo lasciato al Ctln si comprende anche alla luce dell’apporto dato alla liberazione del capoluogo dalla resistenza armata dei patrioti della città e dei partigiani discesi dai monti, organizzati nelle divisioni Arno - poi Potente - e nelle brigate Rosselli - poi divisione Giustizia e libertà -, a parte i partigiani cristiani delle brigate Perseo e Teseo. E vero che, anche per il capoluogo toscano, gli alleati avrebbero preferito disarmare, una volta avvicinatisi alla città, le forze partigiane. Ma, poiché queste si erano rifiutate e inoltre impadronir­ si di Firenze sembrò subito militarmente tu tt’altro che facile (con le trup­ pe naziste intenzionate a non cedere facilmente terreno, i ponti saltati, i quartieri infestati di cecchini, tutta l’area ancora esposta - lo rimase sino a fine agosto - ai colpi dell’artiglieria tedesca), gli alleati accettarono che all’avanguardia della pressione contro i tedeschi ci fossero proprio i parti­ giani e i patrioti dei Gap e delle Sap. I calcoli alleati non furono errati: la “battaglia” per Firenze, avviata l’i 1 agosto, potè dirsi conclusa solo il 2 set­ tembre. Gli alleati poterono permettersi di tardare a entrare in città, men­ tre sui partigiani venne a cadere un gravoso compito, che si tradusse in un ultimo sacrificio di sangue. Fu per questo complesso di fenomeni, politico-istituzionali e militari, che già Roberto Battaglia - pur senza perderne di vista i limiti e i compro­ messi - definì la liberazione di Firenze come «la rivincita della Resistenza per quanto era accaduto a Roma, la sconfitta decisiva sul piano non solo cit­ tadino ma nazionale dell’attesismo»: un evento il cui studio, purtroppo, ne­ gli ultimi tempi è stato lasciato quasi del tutto alla penna dei giornalisti e dei cultori di fatti locali. Nota bibliografica.

O. Barbieri, Votiti sull’Am o, Editori Riuniti, Roma 1958; V. Branca, Vonte Santa Trini­ tà. Veramore di libertà,per amore di verità. Firenze nella Resistenza e nella Liberazione, Marsi­ lio, Venezia 1987; P. Calamandrei, Diario. 1939-1943, a cura di G. Agosti, La Nuova Italia, Firenze 1983; L. Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Sellerio, Pa­ lermo 1985; S. Contini Bonacossi e L. Ragghiami Collobi, Una lotta nel suo corso, Neri Poz­ za, Venezia 1954; E. Dalla Costa, Storia vera di Firenze città aperta, Editrice Fiorentina, Fi­ renze 1945; C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1961; G. Frul­ lini, La liberazione di Firenze, Sperling & Kupfer, Milano 1982; Gracco [Angiolo Gracci], Brigata Sinigaglia, Poligrafico dello Stato, Roma 1945; I compagni di Firenze. Memorie della Resistenza. 1943-1944, Istituto Gramsci Toscano e Ctln, Firenze 1984; P. Paoletti, Firenze: giorni di guerra. Testimonianze, documenti e fotografie inedite, Ponte alle Grazie, Firenze 1992; E. Roteili (a cura di), La ricostruzione in Toscana dal CTLN ai partiti, 2 voli., Il Mulino, Bo­ logna 1980-81.

LUCIANO CASALI

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Le ragioni sociali,politiche e umane dell’antifascismo emiliano e romagnolo.

La complessità delle vicende regionali del 1943-45 non può essere comple­ tamente intesa se non partendo dalla comprensione di due opposte dina­ miche. Da un lato, l’esigenza dei comandi militari tedeschi di mantenere il maggior controllo possibile di un territorio chiave per i collegamenti stra­ dali e ferroviari nord-sud della penisola (ponti sul Po, valichi appenninici) sia nella fase della lenta ritirata dall’Italia meridionale sia durante la stabi­ lizzazione del fronte sulla linea Gotica. Dall’altro, il riemergere in gran par­ te delle province di una forte conflittualità sociale e politica (che si tradus­ se dalla primavera del 1944 anche in guerriglia partigiana), una conflittua­ lità che trovava le proprie radici e ragioni nel cinquantennio che aveva preceduto la marcia su Roma e la vittoria del fascismo, quasi a riannodare un “filo rosso” che era stato interrotto dallo squadrismo e dal ventennio. Molti rigagnoli con diverse origini e complicati percorsi sembrano conflui­ re nel fiume impetuoso che diverrà la Resistenza in Emilia Romagna: i vec­ chi antifascisti provenienti dalla tradizione socialista, comunista, repubbli­ cana e cattolica del primo dopoguerra; le donne, desiderose di riprendere quel cammino verso l’eguaglianza e l’emancipazione che era stato brusca­ mente interrotto e ricondotto indietro; i ceti medi produttivi e intellettua­ li, delusi nelle aspettative di promozione sociale che lo squadrismo e il pri­ mo fascismo avevano fatto sperare; i giovani, che non avevano trovato al­ cun coronamento pratico di quanto pensavano di intravedere nelle promesse teoriche del corporativismo e nelle rivendicazioni del programma di San Se­ polcro; gli operai, che avevano abbandonato le campagne credendo di po­ ter trovare nel contesto urbano maggiori sicurezze salariali e migliori con­ dizioni di vita e di autorealizzazione; i mezzadri, che ancora speravano di poter fare propria quella terra che da generazioni lavoravano; i braccianti, che avevano continuato a congiurare e lottare contro i nuovi padroni fa­ scisti e che da sempre auspicavano il ritorno di quelle istituzioni e organiz­ zazioni che avevano fondato alla fine dell’Ottocento, attraverso le quali avevano progressivamente migliorato qualità della vita e tecniche di pro­ duzione. Ma furono soprattutto le donne e i mezzadri a costituire il cuore e l’anima della Resistenza emiliana, nella quale riversarono tutte le loro ener­ gie e tutte le loro speranze di costruire un mondo migliore.

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È stato scritto che è senza dubbio esatto parlare dell’Emilia come del­ l’avamposto o come del punto più avanzato della Resistenza proprio per quel­ la fusione tra partigiani e popolo che qui si è realizzata, mentre in altre zo­ ne è indubbiamente restata a uno stadio meno evoluto [Battaglia 1964]. Tuttavia questi caratteri popolari (dei quali le donne e i contadini costitui­ rono l’elemento fondante e peculiare) non appaiono da una lettura dei da­ ti ufficiali relativi alla composizione sociale del movimento partigiano né dagli elenchi di quanti ottennero il riconoscimento di partigiano combat­ tente al termine della guerra di liberazione. A un esame meramente statistico le grandi masse popolari, che costi­ tuirono il supporto indispensabile per una lotta che fu sociale e politica, ol­ tre che militare, e prevalentemente combattuta in pianura, scompaiono e spariscono soprattutto le donne, che in quella lotta gettarono la loro gran­ de volontà di apparire con tutta la loro dignità di persone: Ipartigiani dell’Emilia Romagna

Partigiani combattenti Patrioti Caduti

Uomini 57366 16163 5816

Donne 6479 1941 268

Totale

63845 18104 6084

Lo stesso vale per la composizione sociale, che comunque non è possi­ bile analizzare per l’intero territorio regionale, in quanto ci troviamo di fronte a elenchi nominativi incompleti e quasi sempre privi di indicazioni accettabili relative all’attività lavorativa. Il sovradimensionamento degli operai, sia in omaggio alla ideologia prevalente dell’epoca sia in conseguenza della confusa denominazione dei braccianti agricoli - troppo spesso classi­ ficati come operai di campagna -, non ci permette una ricostruzione pun­ tuale dell 'identikit dei partigiani emiliani. Là dove (come a Modena e Ra­ venna) è stato possibile condurre un’analisi più attenta attraverso le sche­ de individuali di riconoscimento dei partigiani, ci troviamo di fronte a dati che evidenziano una predominante componente contadina, anche se non rendono ragione di tutto il tessuto connettivo che fu necessario per man­ tenere efficiente la macchina politico-militare della Resistenza: case di la­ titanza, staffette, rifugi, collaboratori, procacciatori di cibo e di assistenza. Il protagonismo delle donne e dei contadini è un fatto del tutto insolito e sollecita a un nuovo tipo di storia che è ancora in gran parte da scrivere. A ricomporre questo quadro, che è umano prima ancora che politico e sociale, non servono le molte pagine che ricercatori, studiosi e giornalisti hanno fatto stampare; le vicende della Resistenza emiliana, per la loro com­ plessità e per la ricchezza della partecipazione popolare, rischiano di esse­ re lette e interpretate in una chiave che confina con la retorica, e in molte occasioni si è trattato di un confine che è stato varcato, così da far diven­ tare non credibile la narrazione delle vicende di quei venti mesi fra l’8 set­ tembre 1943 e l’aprile 1945. In altri casi, il volere a tutti i costi rappresen­

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tare scientificamente quelle stesse vicende ha portato a narrazioni fredde e asettiche che egualmente tradiscono la realtà legata a quei fatti che si vor­ rebbe far comprendere sino in fondo. Solo L ’Agnese va a morire, che Renata Viganò pubblicò nel 1949, rie­ sce a ricostruire quelle atmosfere e a ridarci il clima in cui una donna, l’Agnese appunto, all’interno di un mondo contadino scopre la necessità di combattere: ed è una scelta che nasce dalle piccole cose quotidiane, dalla vita di tutti i giorni, dal contatto con la realtà di un mondo e di una cultu­ ra contadini che inducono alla via della Resistenza perché è la scelta na­ turale, spontanea, istintiva che si “deve” fare per sé e per gli altri: «Io non capisco niente, ma quello che c’è da fare, si fa», rispondeva Agnese quan­ do qualche nuovo problema, apparentemente insormontabile, si presenta­ va, dando prova di quel pragmatismo che ha da sempre costituito la base vitale della quotidianità emiliana, al di là di ogni ideologia astratta e teo­ rizzante. Ma, soprattutto, le pagine di Renata Viganò hanno la capacità di farci comprendere quanto sia stato complesso e difficile costruire la Resi­ stenza e come le adesioni individuali e di gruppo siano state il frutto di una non semplice né immediata serie di riflessioni e di avvenimenti che sono maturati un poco alla volta, come conseguenza anche di piccole cose, cia­ scuna delle quali all’apparenza ininfluente. La scelta, coraggiosa, di schie­ rarsi e di partecipare non fu mai frutto di un insito eroismo o di un precostituito schieramento patriottico o di classe, ma sempre il risultato di una lenta e complessa maturazione le cui parti non sono sempre valutabi­ li o misurabili singolarmente. Iprim i passi della lotta partigiana. E nota l’affermazione di Giorgio Boc­ ca: «Il sonno dell’Emilia è durato quasi otto mesi», a sottolineare un note­ vole ritardo dell’inizio della lotta di liberazione nelle province a sud del Po in relazione a quanto invece era accaduto soprattutto in Piemonte. I dub­ bi e l’ironia di Bocca sono validi se tentiamo di definire la lotta di libera­ zione per l’Emilia all’interno di parametri che non le si adattano, ma che invece meglio si confanno a regioni (come il Piemonte appunto) nelle qua­ li è realistico accettare una periodizzazione direttamente connessa con le fasi combattute della seconda guerra mondiale. Se nell’Occidente dell’Ita­ lia la Resistenza nacque come diretta conseguenza dell’8 settembre e dello sfaldamento dell’esercito italiano - di cui molti quadri, soldati e ufficiali si ritirarono in montagna dando inizio a una ribellione armata contro l’inva­ sione tedesca e la rinascita del fascismo - , in Emilia le origini della Resi­ stenza non furono assolutamente legate alla presenza di reparti del regio esercito e nessun reparto militare scelse la via della montagna. In altri ter­ mini, se si parte da una lettura della Resistenza che accetti le categorie in­ terpretative proposte da Claudio Pavone come componenti essenziali per l'avvio della lotta di liberazione (guerra civile, guerra patriottica e guerra di classe), va detto che la seconda - cioè la guerra patriottica, la lotta con­ tro l’invasore straniero - non rappresentò una molla sufficiente per far sce­

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gliere alla gran parte degli emiliano-romagnoli la via che portava a imbrac­ ciar^ volontariamente le armi dalla parte dell’antifascismo. E dunque necessario leggere la storia della Resistenza regionale attra­ verso categorie interpretative e con una periodizzazione diverse da quelle tradizionali, se vogliamo individuare i motivi che ne fecero un fenomeno che fu comunque diverso da quello delle altre regioni dell’Italia occupata.

La prima considerazione dalla quale è necessario partire è che la Resi­ stenza in Emilia Romagna non scoppiò immediatamente come fenomeno popolare e spontaneo indotto dall’arrivo degli invasori tedeschi, né fu de­ terminante la riorganizzazione del fascismo sotto la nuova veste repubbli­ cana, a prescindere dal successo che comunque quest’ultimo riuscì a conse­ guire in alcune zone. Al di là di fenomeni circoscritti di origine totalmente o parzialmente spontanea dei nuclei combattenti - i più importanti dei qua­ li furono quelli legati alle figure di Silvio Corbari nelle colline fra Ravenna e Forlì, dei fratelli Cervi nell’Appennino reggiano e della banda Rossi-Barbolini nella zona di Montefiorino - fu necessario costruirla e, per farlo, fu­ rono indispensabili la presenza e l’attivismo delle organizzazioni partitiche e sociali di massa che agirono sulla profonda avversione alla guerra che era maturata nelle popolazioni e sulla volontà, largamente diffusa, di ridare spa­ zio alle rivendicazioni e alle conquiste di carattere sociale che il fascismo aveva interrotto e sconfitto nel 1919-22. La situazione che Giachetti, ispettore del Pei per l’Emilia Romagna, il­ lustrava nell’inverno 1943 in relazione a Bologna può essere estesa a tutte le province della regione: il cosiddetto lavoro sportivo denunciava notevoli difficoltà a decollare, nonostante la presenza dì precise disposizioni e mal­ grado il forte impegno dei gruppi dirigenti delle singole federazioni. Già dal maggio 1943 l’indicazione di dare vita a gruppi di azione armati e decisi a tutto era stata lanciata da Paimiro Togliatti attraverso i microfoni di Radio Milano libertà, ed era stata raccolta, come direttiva da applicarsi, in alcune province della regione. Ma né allora né durante il mese di agosto (quando l’arrivo di truppe tedesche in Italia rese evidente l’intenzione di Hitler di impadronirsi del paese) i tentativi di creare reparti guerriglieri avevano ot­ tenuto risultati concreti nelle province di Bologna, Modena, Ravenna e Reg­ gio, che avevano messo all’ordine del giorno il problema di costituire grup­ pi armati di difesa. Anche la semplice raccolta di armi aveva dato risultati tu tt’altro che entusiasmanti. A Bologna, per esempio, l’arsenale raccolto con­ sisteva, secondo quanto scriveva Giuseppe Alberganti, in sei rivoltelle, quat­ tro delle quali a tamburo, in pessime condizioni. Anche se non si hanno no­ tizie documentate, le altre province non godevano certamente di una con­ dizione migliore: fino all’8 settembre e allo sbandamento generale delle forze armate italiane non fu cosa facile trovare armi in circolazione. N on era egualmente facile trovare uomini che fossero disposti a passa­ re immediatamente a una fase di attività militare offensiva; e non solo fra quanti militavano nel Pei o gli erano vicini ideologicamente e organizzati­ vamente.

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Ancora il 20 aprile 1944 la romagnola «Voce del Popolo», organo del Partito italiano del lavoro, scriveva che nessuno voleva andare in monta­ gna perché tanto gli inglesi stavano per arrivare; nel gennaio i comunisti non avevano mancato di lanciare richiami e rimproveri a quanti erano an­ cora assenti da un impegno ufficiale sul terreno politico (oltre che militare) antifascista. A Bologna si scriveva su «La Lotta» che «i socialisti [doveva­ no] procedere con maggiore decisione»; a Ravenna e a Forlì un volantino li definiva «quei pavidi che si nascondevano] dietro i sofismi con cui credeva­ no] di giustificare l’inazione». Ma anche fra i giovani aderenti al Pei non era facile reclutare chi passasse decisamente dal rifiuto della leva fascista all’utilizzazione delle armi contro le truppe tedesche o i militari della Re­ pubblica sociale italiana (Rsi). Alla fine del 1943, in Emilia, oltre a un gruppo parmense - che aveva seguito una linea di decisa contrapposizione nei confronti dell’invasione te­ desca e della riorganizzazione fascista -, ai forlivesi di Pieve di Rivoschio, alla banda di Giovanni Rossi e Giuseppe Barbolini, solo l’organizzazione ravennate, sotto l’impulso di Arrigo Boldrini (e andando contro le indica­ zioni tattiche della direzione comunista, che privilegiava le formazioni ar­ mate da crearsi in alta montagna), aveva realmente posto le basi per una struttura militare di una qualche efficienza e operatività. Nelle altre zone, la popolazione attendeva gli eventi, ma soprattutto era certa che l’arrivo degli alleati sarebbe stato imminente. A questo occorre aggiungere che ci si trovò, già nella notte fra l’8 e il 9 settembre e con una opposizione armata che fu limitata agli episodi di Sassuolo e di Parma, di fronte a un’accurata e solida occupazione del territorio da parte dei tedeschi che avevano indivi­ duato nella Pianura padana (e precisamente nella zona fra Parma e Piacen­ za) uno dei luoghi dove concentrare le truppe che avrebbero dovuto assu­ mere il controllo dell’ex alleato. Per di più, pur essendo stato caratterizzato il neofascismo dallo scoppio di lotte intestine fra gruppi e fazioni (tra quan­ ti avrebbero voluto la prevalenza dei fattori socialisti e diciannovisti, quanti auspicavano una maggiore continuità con i caratteri del precedente ven­ tennio e chi metteva in primo piano la continuazione della guerra e la fe­ deltà all’alleato germanico), il territorio padano era stato comunque rapi­ damente organizzato sotto il controllo del neonato stato repubblicano con l’ausilio delle forze armate di occupazione, e non ebbero luogo forme con­ siderevoli di contestazione al nuovo regime, anche se apparvero immedia­ tamente aspetti di limitato consenso e scarse adesioni nei confronti degli appelli a iscriversi al Partito fascista repubblicano (Pfr). In altri termini, nella pianura a sud del Po ci si trovò di fronte alla costituzione di uno sta­ to certo dilaniato da contraddizioni interne, specialmente per quanto ri­ guardava la definizione dei gruppi dirigenti, sostenuto dalla presenza te­ muta, ma determinante, di forti reparti tedeschi, con la consapevolezza di un limitatissimo consenso attivo; ma nello stesso tempo si trattava di uno stato contro il quale solo piccoli gruppi di oppositori avevano preso la de­ cisione di combattere a viso aperto. In non pochi casi, anche se fino ad ora

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è stato possibile reperire una completa documentazione solo per un nume­ ro limitato di episodi, patti di pacificazione o di mutua tolleranza fra neo­ fascisti e opposizione (anche comunista) avevano costellato la ricomparsa del fascismo dopo la parentesi dei quarantacinque giorni badogliani. L’inizio dell’opposizione militare, politica e sociale nell'Emilia data dai primi del novembre 1943. Due furono gli avvenimenti che mossero gli emi­ liani e i romagnoli e li allontanarono dal loro atteggiamento di attesa: la chiamata alle armi che la Rsi fece per continuare la guerra al fianco dei ca­ merati germanici - bando che scadeva appunto agli inizi di novembre - e, contemporaneamente, l’esplodere delle prime azioni non solo dimostrative che vennero portate a termine dai piccoli e poco numerosi gruppi armati or­ ganizzati e dei quali la stampa di Salò fu involontaria propagandista. Furo­ no questi improvvisi scoppi di bombe e colpi di pistola che trasformarono il dubbio di molti (ancora incerti se accettare l’ordine di presentarsi ai di­ stretti militari o darsi alla macchia in attesa dei liberatori angloamericani) nella decisione di disobbedire agli ordini dello stato di Mussolini, dando vi­ ta, per la prima volta in Italia nel corso della seconda guerra mondiale, al fenomeno della renitenza e della diserzione di massa. Il 17 novembre 1943 lo dichiarava in maniera esplicita Roberto Fari­ nacci: In meno di dieci giorni a Roma, Torino, Brescia, Milano, Imola e in altre località, il numero dei fascisti proditoriamente assassinati dalla ciurmaglia badogliana è già impressionante. L’altro ieri a Ferrara con sei colpi di rivoltella è stato freddato Ghisellini, nobile figura di combattente.

L’elenco delle azioni era tuttavia largamente incompleto, anche soltan­ to in relazione a quanto era avvenuto in Emilia. Un altro dirigente fascista era stato ucciso a Medicina il 3 novembre e nella stessa notte a Bologna era­ no stati feriti tre tedeschi, mentre a San Martino in Rio i fratelli Cervi di­ sarmavano la caserma dei carabinieri. Il 4 venivano feriti due dirigenti fa­ scisti nel Ravennate; il 9, in pieno centro a Piacenza, veniva attaccato un autocarro tedesco e il giorno dopo a Forlì tre tedeschi erano uccisi. L’11 la banda di Silvio Corbari attaccava e disarmava ben sei caserme dei carabi­ nieri a Galeata, Santa Sofia, Civitella, Cusercoli, Ricò e Meldola; il 12 ad Alfonsine venivano attaccati gli allievi ufficiali della Rsi provocando un fe­ rito; il 13, ancora i fratelli Cervi tendevano un agguato al segretario della federazione fascista di Reggio Emilia e lo ferivano. Il 3 novembre Arrigo Boldrini vedeva fallire un attentato contro Guelfo Negri, membro del triunvirato che reggeva la federazione fascista di Ravenna. Un vero e proprio improvviso scoppio di azioni che culminava il 14 con la morte del federale Ghisellini, apparsa ancora più rilevante in quanto avvenuta durante i lavo­ ri del congresso di Verona. Era la stessa stampa fascista che diventava cassa di risonanza per le pri­ me azioni nelle quali cadevano vittime dirigenti fascisti e soldati tedeschi, e propagandava l’esistenza e l’efficacia militare di uomini armati che si op­

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ponevano, con successo, all’instaurazione completa dello stato mussoliniano. Fu proprio il rilievo dato dalla propaganda repubblicana al ferimento e alla morte dei dirigenti fascisti e soprattutto all’uccisione di Ghisellini a co­ stituire uno dei maggiori veicoli che incentivò (e fece scoprire) la scelta di disobbedire agli ordini della Rsi e soprattutto all’ordine che in quel mo­ mento era particolarmente inviso: presentarsi alla chiamata di leva per con­ tinuare una guerra che si vedeva perduta e di cui non si condividevano né comprendevano gli scopi. La Resistenza in pianura. La pianurizzazione per l’Emilia non rappre­ sentò una decisione condizionata dalle difficoltà alimentari e logistiche dell’inverno 1944-45, dopo il Proclama di Alexander, ma una scelta che da­ tò dall’autunno 1943 per la provincia di Ravenna e dalla primavera 1944 per Reggio, Modena e Bologna, dopo che, per queste due ultime, era risultata non positiva la decisione di convogliare tutti i volontari sull’Appennino (la spedizione modenese era stata intercettata e sconfitta da reparti fascisti a Pieve di Trebbio il 12 marzo 1944; i bolognesi erano stati individuati a Montombraro e a Lizzano in Belvedere alla fine del novembre 1943) o sulle Al­ pi: a partire dal 12 dicembre oltre cento bolognesi raggiunsero ia Val del Mis (Belluno) e si unirono al distaccamento Buscarin. Combattere in pianura, pur consapevoli della complessità della scelta e della pericolosità di un’orga­ nizzazione che avrebbe dovuto coinvolgere la quasi totalità della popolazio­ ne, era una decisione che veniva direttamente dalla volontà del mondo con­ tadino che, secondo le vecchie tradizioni, operava le proprie scelte, politi­ che e di schieramento, come gruppo familiare e come tale agiva. La volontà dei giovani di non presentarsi alle armi secondo la chiamata di Salò e di col­ legarsi conseguentemente con quanti a Salò si opponevano trovava il consen­ so dei più anziani che si riconoscevano politicamente negli organizzatori dell’opposizione e quindi si dichiaravano disposti a collaborare per allarga­ re i collegamenti o per ospitare più semplicemente uomini, armi, propagan­ da. Ben consapevoli che tale schieramento non costituiva una sinecura ed era tuttaltro che privo di pericoli. Sin dal novembre 1943, quindi, quando i giovani chiamati alle armi decisero di non presentarsi, gli interi nuclei fa­ miliari mezzadrili operarono una scelta che collegava immediatamente la lot­ ta militare con lo schieramento politico e quindi con la lotta sociale e riven­ dicativa. Per quanto riguarda il Ravennate, è lo stesso Arrigo Boldrini - che assie­ me a Ennio Cervellati aveva suggerito sin dall’n settembre 1943 la possi­ bilità di una lotta di pianura - a mettere a punto la complessità dell’orga­ nizzazione: Grazie all’impegno delle popolazioni fu possibile assicurare l’esistenza di un vero e proprio esercito partigiano con oltre 7000 combattenti. Se per un esercito moderno si dovettero mobilitare all’interno di ogni paese belligerante da 3 a 5 cittadini per ogni soldato combattente per la produzione di guerra, i rifornimenti e i servizi vari; per il movimento partigiano, specie in pianura, oc­

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corsero da 7 a 8 collaboratori per ogni patriota armato allo scopo di assicurare i servizi necessari. Non solo. Contrariamente a quanto accadeva nelle formazioni di mon­ tagna, non era certo possibile dare una struttura militare stabile alle briga­ te e ai distaccamenti; i partigiani vivevano in piccoli gruppi, dispersi per le campagne, sovente presso gli stessi familiari, e si riunivano solo per realiz­ zare attacchi e colpi di mano: Le forze partigiane erano dunque disperse un po’ ovunque e avevano degli effettivi che variavano da zona a zona a seconda delle condizioni. Tutto ciò ren­ deva particolarmente difficile la funzione e il ruolo del comando provinciale e di settore che in gran parte venne esplicato attraverso la fittissima rete dei collegamenti per emanare gli ordini, ricevere informazioni, conoscere la situazio­ ne dei distaccamenti.

Anche dal punto di vista umano la condizione del combattente di pia­ nura era psicologicamente più impegnativa e difficile di quella del garibal­ dino di montagna, che viveva in una collettività di uomini fra i quali pote­ va trasmettersi l’entusiasmo, che potevano sostenersi a vicenda e godere di momenti di riposo, non erano quotidianamente sottoposti alla stressante pressione dei fascisti e dei tedeschi né dovevano ogni momento temere che le spie o il caso fortuito ne mettessero a repentaglio i rifugi e la vita, la lo­ ro e quella di chi li ospitava. Di ciò si rese conto già nel corso della lotta il comando della XXVIII brigata (Ravenna), che sottolineava anche la larga autonomia, operativa e di pensiero, che stava alla base della stessa mobili­ tazione dei combattenti della pianura, un’autonomia indubbiamente mag­ giore di quella che caratterizzava le formazioni armate di montagna, nor­ malmente contraddistinte da una forma disciplinare e organizzativa più o meno simile a quella delle truppe regolari. Una notevole autonomia che tuttavia ebbe anche conseguenze politiche, dal momento che in tali zone la Resistenza doveva porre senza dubbio so­ lide radici popolari e di massa le quali fecero sì che venissero superate le di­ visioni e le lacerazioni politiche. Non è forse un caso che nel Ravennate nacque e si sviluppò una sola formazione partigiana, la XXVIII brigata Ga­ ribaldi, all’interno della quale trovarono collocazione combattenti che pro­ venivano da tutti i partiti politici, diversamente da quanto accadde nelle al­ tre province e regioni, dove (almeno all’inizio) tendenzialmente ogni partito ebbe le proprie strutture militari più o meno autonome ed efficienti. An­ che nel Carpigiano la mobilitazione partigiana non conobbe una divisione politica, ma tutti i combattenti operarono all’interno delle sette brigate Ga­ ribaldi che si erano progressivamente costituite. Va infine ricordato che lo stretto collegamento fra popolazione e com­ battenti e quindi fra lotta sociale e lotta militare determinò, specialmente nel Ravennate, una forte volontà di partecipazione alla direzione della co­ sa pubblica. Già durante gli ultimi mesi dell’occupazione tedesca iniziò una

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sperimentazione di autogoverno con forme di democrazia diretta che si tentò di far sopravvivere all’arrivo degli alleati. Sia pure attraverso note­ voli difficoltà e continui contrasti con i liberatori inglesi, che avrebbero vo­ luto rimettere in funzione tutte le tradizionali forme della democrazia li­ berale, a Ravenna le giunte popolari governarono di fatto la provincia fino alla primavera del 1946, all’elezione delle giunte comunali. Un forte decen­ tramento e la partecipazione assembleare dei cittadini fecero sì che il pri­ mo impatto con la ricostruzione e la creazione della nuova democrazia av­ venisse attraverso una collaborazione di massa che servì a superare i pro­ blemi non piccoli delle distruzioni e delle difficoltà alimentari. Si trattò indubbiamente di un unicum che non riuscì a trovare spazi e consensi nei partiti politici italiani, ma che comunque dimostrò una forte volontà inno­ vativa e una notevole fantasia creativa negli uomini e nelle donne che ne tentarono l’attuazione. La forte autonomia decisionale che veniva delineata come prerogativa dei partigiani della pianura e la sperimentazione politico-amministrativa che ebbe nel Ravennate il suo punto di massima espansione individuano alcu­ ni dei requisiti peculiari della mentalità popolare largamente diffusa nella regione: una forte caratterizzazione di volontà partecipativa alle decisioni con tendenza alla insubordinazione politica e partitica qualora il luogo del­ le decisioni tendesse ad allontanarsi e tutte le volte in cui un processo di de­ cisione verticistico tendeva a prendere il sopravvento. La stessa impossibi­ lità di far funzionare un comando regionale (cioè un centro decisionale ac­ centrato e lontano) ne fu un segno evidente. Il Cumer (Comando unico militare per l’Emilia-Romagna) nacque formalmente agli inizi del luglio 1944, tuttavia riuscì ad avere qualche influenza organizzativa solo sulle pro­ vince orientali della regione e un pieno controllo della sola provincia di Bo­ logna. Ma andrebbero anche ricordate la decisione delle brigate modenesi di montagna di disobbedire, nel settembre 1944, alla disposizione di scen­ dere in pianura per partecipare alle operazioni che avrebbero dovuto por­ tare alla liberazione di Bologna, e il contrasto dell’inverno dello stesso an­ no sui modi di condurre la lotta armata in attesa dell’insurrezione prima­ verile: Bologna chiedeva una tregua o un rallentamento dell’attività militare, Modena e Reggio la intensificarono operando attacchi anche nella confi­ nante provincia di Mantova. ha lotta armata. La gestione sociale della Resistenza significò una più complessa attività politico-militare che non si limitò agli scontri armati, ma che doveva necessariamente mettere al centro della propria attenzione il controllo del territorio. Il 26 marzo 1944, durante la cosiddetta prima gior­ nata dei Gruppi d’azione patriottica (Gap), la provincia di Ravenna fu scon­ volta in una sola notte da 243 azioni che sottolinearono la presenza parti­ giana sull’intero territorio. Nella pianura fra Reggio e Ravenna zone sem­ pre più vaste divennero di fatto libere a partire dall’estate; dall’autunno, in particolar modo, nella bassa modenese i partigiani istituirono più o meno

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regolarmente posti di blocco nelle ore notturne lungo le strade di maggior traffico per verificare documenti e motivazioni di chi transitava; sistema­ ticamente le caserme vennero disarmate o rese inoffensive. A ll’incapacità della Rsi di provvedere all’alimentazione dei cittadini e alla regolare distri­ buzione dei viveri tesserati si sostituì l ’iniziativa partigiana che provvide alla macellazione clandestina del bestiame, al recupero dei grassi, alla for­ nitura di latte, burro, formaggio.

Nella notte fra il 19 e il 20 dicembre 1944 poco meno di duecento par­ tigiani dalle province di Modena e di Reggio si recarono armati e in bici­ cletta a Gonzaga, nel Mantovano, per mettere fuori combattimento quei presidi che premevano eccessivamente sulle province confinanti: un lungo trasferimento notturno che dimostrava da un lato un perfetto controllo del territorio e dall’altro la volontà di mantenerlo intervenendo su tutto ciò che poteva diminuirne l’efficacia. D ’altra parte si trattava di un territorio su cui volevano nel modo più assoluto conservare la sovranità, escludendone gli avversari che, a loro volta tranne rare eccezioni, avevano accettato di re­ stare confinati all’interno delle principali città senza tentare di recuperare quelle aree di cui avevano perso il controllo. La particolare cura con la quale furono messi a punto l’organizzazione del territorio, i rapporti con la popolazione, la discussione di nuove forme di democrazia, l’elaborazione di nuovi patti e contratti non misero comun­ que in secondo piano gli aspetti direttamente militari della Resistenza. Nel­ la pianura si combatterono vere e proprie battaglie manovrate, alcune delle quali particolarmente complesse (come quella che portò alla liberazione di Ravenna e del territorio immediatamente a nord della città il 4 dicembre 1944, o quella di Cortile-Limidi nel Modenese il i° dicembre, o la sacca di Fornovo del Parmense nell’aprile 1945); altre furono il segno di innegabile capacità operativa, come gli scontri di Porta Lame (7 novembre) e della Bolognina (15 novembre) nel territorio urbano del capoluogo regionale. Un’at­ tività militare e politica che venne riconosciuta dall’avversario: dopo una lunga e complessa trattativa durata dal 14 al 22 novembre i tedeschi accet­ tarono di trattare con i partigiani della bassa modenese uno scambio di pri­ gionieri riconoscendo di fatto nella brigata Walter Tabacchi un esercito re­ golare e non un gruppo di franchi tiratori. Non è possibile fornire una visione complessiva dell’attività militare di cui furono protagonisti i combattenti emiliano-romagnoli. Tuttavia quan­ to si ricava dai notiziari che il comando regionale pubblicò a partire dal giu­ gno 1944 può aiutare a comporre un quadro di riferimento, sia per quanto concerne il numero delle azioni compiute, sia soprattutto la qualità delle stesse, il cui quaranta per cento si attuò colpendo concretamente gli avver­ sari e provocando morti o feriti. Né va sottovalutato il fatto che obiettivo prioritario degli attacchi partigiani emiliano-romagnoli furono i temuti si­ gnori della guerra tedeschi che, in particolare a partire dall’estate 1944, di­ vennero oggetto della guerriglia e subirono una quantità di attacchi netta­ mente superiore a quelli di cui furono vittime i fascisti.

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Parte seconda La Resistenza in Emilia Romagna (giugno 1944 - aprile 1945)

Bo Numero delle azio ni Azioni che causarono morti e/o feriti (%) Azioni contro i tedeschi (%) A2Ì011Ì contro i fascisti (%)

Fe

Fo Mo

Pr

PcRa

Re

Totale

1544 24

366 1695 *68

119 6x4 866

5396

49,7 * 43,0 * 22,7 *

39,1 40,3 42,6 47,4 37,5 20,2

* *

* *

*

*

40,6 44,3 20,5

27,0 38,2 43,5 42,0 20,7 26,1

* Dato irrilevante.

Si trattò di una guerra dura che tedeschi e fascisti condussero all’inse­ gna della violenza più estrema, simbolicamente riassumibile nella strage di Marzabotto (indubbiamente la più nota anche a livello internazionale), ma costellata di innumerevoli uccisioni di massa, rappresaglie, eccidi: portati a termine, in pianura come in montagna, dagli italiani o dai tedeschi o da for­ mazioni miste, allo scopo di intimorire, vendicarsi, ripulire le retrovie da pericolose sacche di guerriglia o di potenziali informatori degli angloame­ ricani. Un particolare timore dei partigiani della Pianura padana e della lo­ ro alleanza con le masse popolari percorreva gli stessi comandi superiori te­ deschi. Dall’autunno 1944 il solo modo che veniva suggerito per risolvere realmente la questione delia vivibilità del territorio fra il Po e gli Appenni­ ni era costituito da drastici interventi che portassero alla eliminazione to­ tale sia dei banditi sia dei loro fiancheggiatori: il modello Marzabotto di­ venne quello sempre più proposto o auspicato e più volte I ’a o k (Armeeoberkommando) 14 avverti che solo applicando ad altre zone, di pianura e di montagna, la tattica che era stata usata contro la brigata Stella rossa - ma in verità la si era usata contro gli abitanti di Monte Sole - si sarebbe giun­ ti a controllare come era necessario i territori dell’Emilia Romagna. In qualche modo Marzabotto non fu un unicum e l’uccisione di tante vittime innocenti non avvenne per mera fatalità o per un malinteso ecces­ so di zelo di qualche comandante di reparto nell’applicazione degli ordini. I combattimenti sull’Appennino tosco-emiliano e tosco-romagnolo portano i segni di tante Marzabotto in cui forse solo casualmente il numero dei non combattenti uccisi e delle case incendiate e distrutte non raggiunse l’enti­ tà numerica di Monte Sole. Va ricordato che il secondo eccidio per quantità degli uccisi fu consumato sull’Appennino modenese il 18 marzo 1944 e co­ stò centotrenta vittime. Secondo Luciano Bergonzini nel corso dei venti mesi dell’occupazione furono compiuti da parte nazifascista 273 stragi ed eccidi, molti dei quali accompagnati o seguiti da incendi, distruzioni e sac­ cheggi, ma abbiamo il fondato dubbio che la ricognizione sia ancora in­ completa. La Resistenza sull’Appennino . Se la Resistenza costituì per la pianura un forte impulso alla modernizzazione sociale e politica, ciò risultò tanto più valido per l’Appennino. La forte presenza comunista nelle formazioni partigiane della montagna aveva introdotto in quell’ambiente, da sempre

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caratterizzato da una indiscussa diffusione delle idee sociali e politiche le­ gate alla dottrina cattolica, nuove mentalità e nuovi comportamenti che sem­ bravano disgregare, o almeno mettere in discussione, quel mondo - che era passato indenne attraverso il ventennio fascista -, anche se nell’immedia­ to furono soprattutto gli aspetti più esteriori a colpire e a essere messi sotto accusa. Durante i quaranta giorni della repubblica di Montefiorino (fra 18 giugno e i primi dell’agosto 1944) camicie rosse e bandiere rosse erano spun­ tate ovunque; presso i reparti e per le vie dei borghi si era usato un linguag­ gio desueto alla montagna. Non poteva non colpire il fatto che si teneva un comportamento poco rispondente alle tradizioni e alle abitudini di quei luo­ ghi. Contro tutto ciò, a poco erano serviti gli ordini di far sparire i simbo­ li più appariscenti del sovversivismo. Non si valutava che tali espressioni potevano essere più il risultato di una esplosione anche malintesa di libertà che una maturata consapevolezza di schieramento partitico: ostentare sim­ boli comunisti rappresentava in molti casi solo una ingenua espressione di antifascismo. Forse solo all’interno di questo clima è possibile comprendere i giudizi così fortemente negativi nei confronti di formazioni partigiane che invece avevano offerto evidenti segni di capacità militare e politica, come aveva­ no dimostrato la creazione e la gestione della repubblica di Montefiorino nel corso dei mesi estivi, repubblica che si era retta grazie al forte legame di affinità e di comprensione stabilitosi fra partigiani e abitanti della mon­ tagna e non certamente in seguito al terrore e alle violenze introdotti da combattenti che provenivano dalla pianura. E come avrebbero dimostrato operazioni militari di grande rilievo, quali la difesa della stessa Montefio­ rino ai primi di agosto, i combattimenti contro il grande rastrellamento te­ desco del gennaio 1945, gli scontri del marzo-aprile che (a Modena e Reg­ gio) prepararono la discesa in pianura delle formazioni partigiane e le ope­ razioni che portarono alla liberazione; ma come dimostrarono soprattutto la XXVIII brigata Mario Gordini e la divisione Armando, che fra il di­ cembre 1944 e il gennaio 1945 entrarono come reparti operativi nelle file rispettivamente dell’VIII e della V armata. Anche se parecchia attenzione è stata dedicata alle vicende militari del­ le brigate di montagna, ben poca ne ha trovata la ricostruzione della vita sociale e il suo mutamento nei comuni a sud della via Emilia. Indubbiamente nei territori della repubblica di Montefiorino, come nel­ le valli dell’Imolese in cui operò la XXXVI brigata Bianconcini, l’incontro fu proficuo. Fra Imola e Brisighella l’autunno 1944 vide anche il moltipli­ carsi di aspri combattimenti nei quali i partigiani colpirono pesantemente i tedeschi che tentavano di assestarsi sulla linea Gotica o si stavano riti­ rando di fronte all’offensiva alleata: Ca’ di Guzzo, monte Battaglia, Ca’ di Malanca furono combattimenti a volte vittoriosi a volte tragici, che mo­ strarono le capacità di scontro aperto dei partigiani. La gestione dei territori liberi - oltre a Montefiorino, Bobbio, Val Ceno, Val Taro, Val d ’Enza e Val Parma - costituì indubbiamente di per sé un

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elemento di coinvolgimento delle popolazioni, nonostante le difficoltà (e i limiti) che caratterizzarono le repubbliche partigiane della regione. Nota bibliografica.

L. Arbizzani, Azione operaia, contadina, di massa, De Donato, Bari 1976; R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana. 8 settembre 1943 - 25 aprile 1945, Einaudi, Torino 1964; L. Bergonzini, La lotta armata, De Donato, Bari 1975; Id., La svastica a Bologna (settembre 1943 aprile 1945), Il Mulino, Bologna 1998; L. Casali, Sovversivi e costruttori. Sul movimento ope­ raio in 'Emilia-Romagna, in Storia d ’Italia. Le regioni, XIII. L ’Emilia-Romagna, a cura di R. Finzi, Einaudi, Torino 1997, pp. 473-549 (cui rinviamo anche per le citazioni e i riferimen­ ti non altrimenti giustificati); L. Casali e D. Gagliani, Cumer. Il «Bollettino militare» del Co­ mando unico militare Emilia-Romagna (giugno 1944 - aprile 1945), Patron, Bologna 1997; B. Dalla Casa e A. Preti (a cura di), Bologna in guerra. 1940-1945, Angeli, Milano 1995; N. Galassi, Partigiani nella Linea Gotica , University Press, Bologna 1998. Un elenco, tendenzialmente completo, delle azioni partigiane è consultabile in: http:// www.dds.unibo.it/guerraeresistenza.

LUCIANO CASALI

Bologna

Fascismo e opposizione. Città di 480 000 abitanti (880 000 nell’intera provincia), è il capoluogo dell’Emilia Romagna; al centro di un territorio a vocazione fortemente agricola, con una moderna industria, non solo di tra­ sformazione, sviluppatasi soprattutto nel corso degli anni venti e trenta, ol­ tre che nel secondo dopoguerra. Circondata da una provincia con forti tra­ dizioni socialiste e repubblicane (a partire dalla Imola di Andrea Costa), la città è stata caratterizzata da una notevole presenza di ceti sociali più tra­ dizionalisti e conservatori, come commercianti e grandi proprietari terrie­ ri. Dopo una breve gestione amministrativa socialista (1913-20), Bologna ebbe particolare rilievo per l’organizzazione e la vittoria del fascismo agra­ rio, di cui furono principali esponenti Leandro Arpinati e Dino Grandi, e che si caratterizzò per la notevole violenza e la forte aggressività nei con­ fronti degli avversari politici, oltre che per l’autonomia nei confronti di Be­ nito Mussolini, che ebbe notevoli difficoltà a conquistare la leadership dei fascisti bolognesi. Il 21 novembre 1920, la manifestazione per festeggiare l’elezione del sindaco socialista Ennio Gnudi, raccolta in piazza Vittorio Emanuele (ora piazza Maggiore), venne aggredita, armi alla mano, dai fascisti, mentre una sparatoria si accendeva anche nella sala consigliare di Palazzo d ’Accursio. O tto cittadini furono uccisi in piazza, mentre moriva, per un colpo di pi­ stola, anche il consigliere di minoranza Giulio Giordani, un ex combat­ tente prontamente trasformato in protomartire fascista. Un mese dopo, l’azione squadristica colpiva con pari violenza la città di Ferrara: era l’ini­ zio dello squadrismo agrario e da quel momento i fascisti delle due città diedero vita a una complessa attività di guerriglia che, progressivamente e tra l’indifferenza delle autorità statali, in due anni riuscì a conquistare l’in­ tero territorio regionale. Il 29 maggio 1922 avvenne l’occupazione di Bo­ logna, senza alcuna reazione da parte del comando della piazza militare; nel luglio successivo gli squadristi di Bologna e Ferrara, perfettamente or­ ganizzati, marciarono su Ravenna e la conquistarono dopo alcuni giorni di intensi e cruenti combattimenti; in agosto si tentò, invano, di sconfiggere gli Arditi del popolo di Parma che, sotto la direzione di Guido Picelli, si barricarono in O ltretorrente respingendo tutti gli assalti. Complessiva­ mente, fra il 1919 e il 1926 furono ottantacinque gli oppositori uccisi dai

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fascisti nella provincia; a essi andrebbero aggiunti quelli che furono am­ mazzati durante le numerosissime «operazioni» condotte fuori dal terri­ torio bolognese. Già nell’estate 1921 il tentativo di Mussolini di riassorbire la dissidenza bolognese (che trovava le proprie origini in una decisa volontà antisociali­ sta unita a una vivace attenzione alla «gestione sociale» dei lavoratori, una componente che fu particolarmente sottolineata anche durante i primi me­ si della Repubblica sociale italiana - Rsi) risultò vana. Come scrisse Dino Grandi - spalleggiato da tutti gli agrari emiliani, alla testa dei quali si tro­ vava l’anziano senatore Giuseppe Tanari -, si negava al duce «l’esclusivo diritto di disporre, coll’autorità del pater familias di romana memoria, del­ la fortuna del movimento» fascista. Fu una volontà di autonomia che, co­ me un fiume carsico, tese più volte a riaffiorare anche nel corso del ven­ tennio: se Grandi fu ben presto promosso a incarichi ministeriali e infine destinato al dorato “esilio” dell’ambasc iata italiana a Londra, Arpinati, dopo prestigiosi incarichi governativi e di direzione degli organismi spor­ tivi, fu condannato al confino e infine venne isolato nella tenuta di Malacappa fino al 1943, quando Mussolini ne tentò un improbabile “recupero” per formare il governo della Rsi. Fu un rifiuto che, comunque, non impedì ai gappisti, nell’aprile 1945, di giustiziare Arpinati, ritenuto responsabile dell’eccidio di Palazzo d’Accursio e di tutta la prima fase dello squadrismo bolognese. In pratica, Bologna vide per tutta la durata del regime il sistematico al­ lontanamento di qualsiasi dirigente che tendesse a emergere e che tentasse un’attivazione politica e sociale della X Legio, mentre la fronda fu, nel cor­ so degli anni trenta, particolarmente vivace e diffusa, soprattutto fra gli studenti universitari e all’interno del sindacato. Molti sospetti (mai dissol­ ti) circolarono a proposito di «mandanti fascisti» che avrebbero armato la mano del quindicenne Anteo Zamboni che, il 3 ottobre 1926, tentò di uc­ cidere Mussolini in pieno centro a Bologna, all’incrocio fra via dell’indi­ pendenza e via Ugo Bassi: linciato seduta stante, fu finito con un colpo di pistola e con dodici pugnalate. Fu soprattutto dall’interno delle organizzazioni fasciste che seppe svi­ lupparsi nella provincia una intensa attività di opposizione, e l'utilizzazio­ ne delle “strutture legali” rappresentò uno degli strumenti attraverso i qua­ li seppe mantenersi viva la propaganda “sovversiva” e in particolar modo quella del Pei, cui alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale si aggiunsero intellettuali e docenti universitari «liberalsocialisti» e azionisti, come Carlo Ludovico Ragghiami, Edoardo Volterra, Mario Jacchia, Cesare Gnudi, Guido Calogero. Furono 1532 i bolognesi inviati al confino o al car­ cere fra il 1926 e il 1943; 164 quelli che combatterono in difesa della re­ pubblica spagnola. Le modalità della Resistenza bolognese. All’indomani del 25 luglio 1943 furono solo i tre partiti della sinistra che si unirono in organismi unitari

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(Comitato pace e libertà): sarebbe stato necessario attendere l’estate dell’an­ no successivo per vedere la nascita del Comitato di liberazione nazionale (Cln) e del Comando unificato militare Emilia-Romagna (il Cumer), aper­ to anche all’adesione dei democratici cristiani e dei liberali, oltre che dei repubblicani. D ’altra parte la direzione operaista di Giuseppe Alberganti non favoriva da parte dei comunisti, sino all’estate successiva, la creazione di quella guerriglia contadina di massa che invece costituì il carattere do­ minante in gran parte di altre province emiliane e di quelle romagnole. Una rigida lettura delle disposizioni - che indicavano quale unico terreno favo­ revole alla guerriglia quello caratterizzato da territori impervi e di alta mon­ tagna - e l’esito sfortunato di alcuni deboli tentativi iniziati da piccoli grup­ pi sull’Appennino bolognese e modenese scoraggiarono la formazione di re­ parti armati a sud di Bologna se non a opera di gruppi «dissidenti» o non completamente «controllati» dalle organizzazioni antifasciste, come la bri­ gata Stella rossa nella zona di Marzabotto (che mantenne sempre una pro­ pria autonomia operativa) e la XXXVI brigata Bianconcini, voluta dai comu­ nisti di Imola. I bolognesi, invece, per tutto l’inverno 1943-44 inviarono i propri volontari nel Bellunese, dando vita a un complesso fenomeno di “mi­ grazione” politico-militare che fu di rilevante importanza per la nascita del­ la Resistenza nell’Alto Veneto. Il coinvolgimento delle campagne in una lotta che così divenne forte­ mente politica e sociale (di grande rilievo la proposta di nuovi patti coloni­ ci e capitolati con la rivendicazione del superamento del contratto fascista di mezzadria, e la lotta contro la trebbiatura che impedì l’asportazione del grano verso la Germania), l’arrivo di Giuseppe Dozza, designato sindaco in vista della (mancata) liberazione dell’autunno 1944, l’impegno delle don­ ne, che impressero una forte connotazione emancipazionista alla lotta: tut­ to questo diede un forte impulso e segnò a partire dall’agosto 1944 il pas­ saggio a una resistenza di massa con forti connotati sociali, ma caratteriz­ zata anche da notevoli episodi militari. Particolarmente significativi alcuni combattimenti urbani, come l’at­ tacco al comando tedesco situato all’Hótel Baglioni (18 ottobre 1944) e le battaglie dell’Università (20 ottobre), di Porta Lame (7 novembre) e della Bolognina (15 novembre); di grande impatto propagandistico l’assalto che dodici gappisti diedero il 9 agosto al carcere di San Giovanni in Monte, li­ berando 340-400 prigionieri in mano ai tedeschi. L’alto livello organizza­ tivo raggiunto in quei mesi è misurabile dalle azioni condotte il 3 e il 10 set­ tembre: Castel Maggiore, Medicina e Castenaso - tre località della cintu­ ra - furono liberate per alcune ore da gruppi armati: distruzione dei registri, distribuzione di viveri, comizi in piazza mostrarono all’intera popolazione la forza politica e militare della Resistenza e ne diffusero le idee. I combattimenti di ottobre-novembre - di poco successivi alla strage di Marzabotto e di poco precedenti l’eccidio di circa cento partigiani avvenu­ to a Sabbiuno il 14 e 23 dicembre - misero tuttavia in crisi l’intero sistema operativo partigiano di Bologna, anche grazie a un efficiente sistema di spio­

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naggio attivato da fascisti e tedeschi. Si giunse così a una vera e propria sta­ si operativa che si prolungò fino all’inizio della primavera 1945, in parte fa­ vorita anche dal comando tedesco: il generale Frido von Senger und Etterlin allontanò da Bologna la brigata nera mobile Pappalardo guidata da Franz Pagliani, quasi a indicare la possibilità di una tregua. Il 21 aprile 1945, mentre le formazioni partigiane entravano in azione sul territorio della “bassa”, impedendo una ritirata tedesca verso il Po, re­ parti polacchi avanzavano lungo la via Emilia guidati da due ragazze gappiste di Castel San Pietro e liberavano Bologna. Nota bibliografica. L. Arbizzani, Azione operaia, contadina, di massa, D e Donato, Bari 1976; L. Bergonzini, La lotta armata, D e Donato, Bari 1975; Id., La svastica a Bologna (settembre 1943 - aprile 1945), Il Mulino, Bologna 1998; L. Casali (a cura di), Bologna 1920. Le origini delfascismo, Cappelli, Bologna 1982; L. Casali e D . Gagliani (a cura di), Cumer. Il «Bollettino militare» del Comando unico militare Emilia-Romagna (giugno 1944 - aprile 1945), Patron, Bologna 1997; B. Dalla Casa e A. Preti (a cura di), Bologna in guerra. 1940-1945, Angeli, Milano 1995.

ANTONIO GIBELLI

Liguria, Genova

L ’inìzio iella lotta armata. Nella previsione - circolante nel maggio del 1943 - di uno sbarco alleato in Sardegna, il golfo di Genova e il territorio ligure assumevano rilevanza strategica come obiettivo di un successivo at­ tacco verso il Nord Italia e la Germania. In seguito alla caduta del fascismo, col profilarsi di un ribaltamento della collocazione italiana nel conflitto e in vista di una imminente occupazione del paese, i tedeschi decisero il raf­ forzamento della loro presenza militare anche in Liguria, facendovi affluire dalla Francia ben tre divisioni che si aggiunsero alle forze già dislocate nel­ la regione. Alla vigilia dell’armistizio le truppe germaniche contavano cosi nell’area tra Liguria e Piemonte quattro divisioni di fanteria: la 94“nel set­ tore genovese, la 76“ in quello alessandrino, la 65“ tra Voghera e Piacenza, la 305“ a ridosso di Spezia. Approfittando come dovunque delle incertez­ ze, della mancanza di direttive sicure e dello sbandamento delle truppe ita­ liane, nei giorni successivi all’8 settembre essi procedettero all’occupazione del territorio, dove la Wehrmacht (Forze armate tedesche) fissò un coman­ do denominato MK 1007. Anche i campi di concentramento per prigionie­ ri alleati situati nella regione, in particolare nelle vicinanze di Genova (a Mignanego e a Calvari), furono consegnati ai tedeschi senza resistenza, ma alcuni gruppi di prigionieri di diversa nazionalità riuscirono a dileguarsi e a nascondersi nell’area appenninica. Unico episodio di rilievo in questa fa­ se di disarmo e cattura delle truppe italiane fu il tentativo, in gran parte riuscito, della flotta ancorata nel porto della Spezia di sfuggire alla cattu­ ra salpando verso Malta o autoaffondandosi. Da segnalare anche - per i suoi sviluppi successivi - il caso del reparto X Mas di stanza tra La Spezia e Lerici, al comando di Valerio Borghese, che pur subendo consistenti de­ fezioni non si sbandò ma decise la continuazione della guerra dalla parte e alle dipendenze dei tedeschi. In tal modo era in gran parte definito il quadro entro il quale si sareb­ bero svolte nei mesi successivi le vicende della resistenza ligure. Teatro di un possibile sbarco alleato - di cui si tornò a parlare in più occasioni - , via di transito, lungo la dorsale tirrenica e attraverso i valichi appenninici, dei movimenti militari verso il Nord, lambita nella sua parte spezzina dagli scontri lungo la linea Gotica nella seconda metà del 1944, sede di un ap­ parato industriale di importanza vitale per la produzione bellica, la regio­

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ne mantenne in tutto il periodo una posizione centrale come retrovia del fronte e quindi un forte rilievo nello scontro militare e politico-sociale che oppose le forze di occupazione naziste appoggiate dalla Repubblica socia­ le (Rsi) al movimento di liberazione. La dissoluzione delle forze armate italiane, la debolezza e il sostanziale in­ successo delTiniziativa repubblichina per la loro riorganizzazione, la disper­ sione di un gran numero di armi e munizioni nel momento del tracollo crea­ rono le condizioni per l’avvio della guerriglia in tutto il territorio. Dappri­ ma si trattò di bande sparse, composte da pochi uomini, in genere prigionieri alleati fuggiti dai campi o militari italiani sbandati e impossibilitati a rag­ giungere le proprie case, che avevano l’unico scopo di sopravvivere nascon­ dendosi, sottraendosi alla cattura e a nuovi arruolamenti. L’iniziativa indivi­ duale, il ribellismo, un generico antifascismo e talvolta un atteggiamento di pura passività diedero l’impronta alla vita di questi gruppi nella fase inizia­ le. Quando non furono catturati e uccisi e riuscirono a organizzare la so­ pravvivenza nonché a dotarsi di un minimo armamento, questi ribelli ven­ nero ben presto raggiunti da altri uomini, provenienti spesso dalle città sul­ la base di una scelta consapevole, talvolta già ricercati per le loro attività antifasciste, o spinti dal desiderio di sottrarsi alle successive chiamate di le­ va della Rsi. Nel primo caso si trattava soprattutto di militanti comunisti, alcuni dei quali già temprati dalla persecuzione, dal carcere e dal confino, o da esperienze fortemente formative come la partecipazione alla guerra di Spagna, la cui mobilitazione per la lotta armata fu in larga parte promossa e organizzata dal partito. Abbastanza numerosi erano anche i quadri di ispi­ razione azionista, un po’ meno quelli di formazione socialista e cattolic a, nonché i casi di ufficiali dell’esercito di orientamento monarchico e libera­ le. Tra spontaneità e organizzazione, tra scelte etiche e ideologiche, tra ri­ bellismo e militanza politica, la natura di queste bande venne cosi rapida­ mente subendo una metamorfosi che tuttavia non si sarebbe compiuta se non intorno alla metà del 1944 con l’inquadramento in un vero e proprio esercito partigiano. Tra ottobre e dicembre in tutta la regione si formò una quindicina di queste bande. Inizialmente le più consistenti erano due operanti in pro­ vincia di La Spezia e nella Val di Vara, che contavano quaranta/cinquanta uomini ciascuna e che provocarono uno dei primi rastrellamenti condotti in forze da reparti della Wehrmacht e della X Mas. Di un certo rilievo an­ che i gruppi formatisi nell’imperiese, favoriti dall’ampiezza e dalla diffici­ le praticabilità dell’area montana compresa tra Francia, Piemonte e Ligu­ ria: nella zona operavano inizialmente alcune decine di uomini, tra i quali emerse subito per autorevolezza, coraggio e dedizione la figura del medico Felice Cascione, più tardi catturato e ucciso in circostanze drammatiche. Più o meno nello stesso periodo prese consistenza e cominciò ad assumere una sorta di primato e di funzione guida una banda sorta nell’entroterra chiavarese, la cosiddetta «banda di Cichero», dal nome di una piccola fra­ zione appenninica, situata a poca distanza dalla costa ai piedi del monte Ra-

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maceto, dove si spostò un gruppo di sbandati già ricoverato in una zona più esposta e probabilmente già nota alle forze nazifasciste. Qui essi furono rag­ giunti a più riprese da un gruppo di militanti politici di varia estrazione, tra cui i comunisti Giovanni Serbandini «Bini» e Giovan Battista Canepa «Marzo» (già combattente della guerra di Spagna) e il cattolico Aldo Gastal­ di «Bisagno», sottotenente del 150 reggimento del genio di stanza a Chia­ vari, destinato ad assumere un ruolo di spicco per rigore morale, audacia e ascendente sui partigiani. La banda riuscì a consolidarsi, a crescere nume­ ricamente, a fondere con successo istanze militari e istanze politiche finendo col divenire una vera e propria scuola di partigianato e di democrazia dal basso, e fornendo numerosi quadri di rilievo all’organizzazione partigiana ligure. Diversi gruppi di sbandati si addensarono in quella fase anche nel­ l’area montuosa compresa tra Genova e Alessandria, divenuta punto di con­ fluenza di numerosi renitenti del capoluogo ligure nonché delle cittadine circostanti come Ovada, Acqui e Novi. La resistenza politica e la lotta in città. Nel frattempo la resistenza poli­ tica aveva cominciato a organizzarsi a Genova e nelle altre città. I partiti antifascisti, che erano usciti allo scoperto nel periodo badogliano comin­ ciando a ritessere le loro file, la mattina stessa del 9 settembre tennero un incontro nel corso del quale venne costituito il Comitato di liberazione na­ zionale, subito investito di una funzione regionale e quindi denominato Cln ligure. Alla riunione erano presenti Filippo Guerrieri e Paolo Emilio Taviani per i democratici cristiani, Errico Martino per i liberali, Eros Lan­ franco per gli azionisti, Giuseppe Bianchini per i comunisti, Vannuccio Faralli e Marcello Cirenei per i socialisti. A questi si unirono successivamen­ te altri esponenti delle diverse forze politiche, ossia Giulio Marchi e Augusto Solari della De, Bruno Minoletti del Pii, Lino Marchisio del Pda, Amedeo Ugolini del Pei, Dante Bruzzone del Psi. Altri militanti agivano nell’orbi­ ta del Cln senza partecipare alle riunioni per ragioni di prudenza cospirati­ va, essendo troppo esposti, altri ancora - specialmente comunisti - erano già attivi autonomamente sul terreno della lotta armata di città e nell’or­ ganizzazione delle lotte operaie. Verso la fine dell’anno l’azione investiga­ tiva delle autorità repubblichine provocò la scoperta dell’attività cospirati­ va di diversi esponenti del Cln, che riuscirono a sfuggire all’arresto spo­ standosi in altre sedi, mentre Lanfranco, caduto nelle mani della polizia, fu arrestato e deportato a Melk (Mauthausen) dove verrà ucciso. I compiti del Cln, che presto si dotò di un comitato militare, e delle for­ ze politiche che in esso si riconoscevano, erano molteplici: raccolta e invio di armi alle bande, raccolta di fondi per alimentare la propaganda e la guer­ riglia, contatti con gli alleati e con le loro missioni sul territorio, coordina­ mento della lotta armata, definizione dei principi in base ai quali essa do­ veva svolgersi e degli obiettivi a cui doveva tendere. In pratica la presenza e l’azione del Cln e delle forze politiche, largamente solidali anche se do­ tate ciascuna di specificità politico-organizzative, di diversa consistenza e

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di diversa ispirazione, ebbero l’effetto di dare forma al ribellismo sponta­ neo delle bande e di offrire una prospettiva coerente ai sentimenti di larga parte della popolazione, disorientata di fronte allo sfascio delle istituzioni, ostile all’occupante straniero per i suoi metodi brutali e ormai priva di ri­ serve di credito e fiducia nei confronti degli esponenti fascisti a causa del disastro nel quale il regime aveva trascinato il paese. Nelle aree urbane cominciò anche a svilupparsi l’azione di piccoli nuclei armati, i Gruppi d’azione patriottica (Gap), che colpivano esponenti del fa­ scismo repubblicano e del regime di occupazione con azioni improvvise, at­ tentati individuali, assalti a caserme, azioni terroristiche. Le azioni più cla­ morose nella prima fase furono l’attacco del 24 settembre contro due milita­ ri tedeschi a Sestri Ponente, l’assalto a una caserma della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) a Sampierdarena, l’uccisione del console Oggioni a Sa­ vona e del capo manipolo delle Camicie nere Oddone a Genova (28 otto­ bre), i sabotaggi di tralicci dell’alta tensione sulle alture di Genova. L’or­ ganizzazione dei Gap fu sostenuta interamente dai comunisti ma il Cln, non senza titubanze iniziali per le rappresaglie indiscriminate che le azioni ine­ vitabilmente provocavano, se ne assunse la responsabilità in considerazio­ ne dell’importanza che simili iniziative avevano nel minare la sicurezza del­ le autorità nazifasciste nel cuore stesso delle città occupate. Protagonista principale e capo riconosciuto di questa intelaiatura di guer­ riglia urbana fu Giacomo Buranello, giovane di famiglia operaia, studente di ingegneria con larghi interessi filosofici e culturali. Approdato alla scelta comunista alla vigilia della guerra, Buranello si distinse per audacia e deter­ minazione in numerose azioni, dovette abbandonare la città per breve tem­ po all’inizio del 1944 in quanto ricercatissimo dalla polizia, ma vi fece ri­ torno in occasione dello sciopero programmato per il i° marzo. Ricono­ sciuto da agenti in borghese in un bar il 9 marzo, venne catturato dopo una lotta furibonda (nel corso della quale riuscì a uccidere un agente e a ferir­ ne un altro) e fucilato dopo un giorno e una notte di sevizie. Malgrado l’eliminazione di Buranello, le azioni dei Gap proseguirono e si intensificaro­ no nella prima metà del 1944, conseguendo risultati clamorosi come quan­ do il 15 maggio un gappista con divisa della Wehrmacht entrò nel cinema Odeon, riservato alle truppe tedesche, e vi depositò una bomba la cui esplo­ sione causò la morte di cinque militari nazisti e il ferimento di altri quin­ dici. In risposta all’attentato quarantadue prigionieri politici da tempo de­ tenuti nel carcere di Marassi e diciassette partigiani catturati pochi giorni prima nel corso di un rastrellamento nella zona ligure-alessandrina furono condannati a morte. L’esecuzione ebbe luogo il 19 maggio sul colle del Tur­ chino. I maggiori protagonisti e comandanti dei Gap genovesi furono, oltre a Buranello, Germano Jori, Wladimiro Diodati (esponente di una famiglia antifascista di origine pistoiese che vide tutti i suoi membri impegnati a va­ rio titolo nella Resistenza, tra i quali il fratello Franco, sopravvissuto alla fu­ cilazione nella quale morirono altri diciassette partigiani, a Cravasco, il 13 marzo 1945), Balilla Grillotti e altri.

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Con le stesse tecniche e con risultati altrettanto significativi i Gap agi­ rono anche nelle altre province liguri. A Savona nel dicembre del 1943 fu effettuato un attacco contro una trattoria frequentata da fascisti e tedeschi, con cinque morti e sedici feriti, tra i quali due tedeschi. L’azione provocò una delle prime violente rappresaglie con l’uccisione di sette antifascisti ar­ restati in precedenza, tra cui l’avvocato Cristoforo Astengo, decorato del­ la prima guerra mondiale, esponente del movimento Giustizia e libertà (Gl), uno dei primi organizzatori del partigianato. Fra La Spezia e Migliarina all’inizio del 1944 una squadra di tre gappisti attaccò con bombe a mano un convoglio ferroviario che trasportava militi della X Mas uccidendone diversi. Un altro aspetto rilevante dell’attività antifascista fu il contatto con gli alleati per ottenere appoggi alla lotta partigiana. Una prima missione allea­ ta sbarcò da un sommergibile inglese presso Lavagna nel settembre del 1943 e stabili un collegamento col Cln. Nell’attività di contatto con gli alleati si distinse nel periodo iniziale un’organizzazione denominata Otto, dal nome del promotore, il professor Ottorino Balduzzi, medico, che in novembre riuscì a far salpare nottetempo da Voltri un barcone a bordo del quale si trovava un alto ufficiale inglese già prigioniero, Gordon T. Gore. La mis­ sione giunse in Corsica e di qui ad Algeri, dove recò un messaggio del Cln Alta Italia (Clnai) al comando alleato, trasmettendo contemporaneamente via radio un segnale concordato per attestare il successo dell’iniziativa. Una missione dotata di apparecchi trasmittenti sbarcò successivamente a Moneglia, attivando un rapporto stabile tra le emittenti di Algeri e il Clnai. I componenti della Otto, compreso Balduzzi, saranno scoperti e arrestati al­ la fine di marzo del 1944 e a quel punto l’organizzazione verrà sostituita da un’altra denominata Franchi e capeggiata da Edgardo Sogno, con funzioni analoghe. Presso il comando della VI Zona ligure nell’ultima fase della guer­ ra di liberazione saranno presenti due missioni alleate: una, americana, al comando del colonnello Leslie Vanoncini; l’altra, inglese, al comando del tenente colonnello Peter MacMullen, comprendente il maggiore Basii Da­ vidson. La diffidenza dei governi alleati, particolarmente di quello inglese, nei confronti del partigianato caratterizzato da una prevalenza delle forze comuniste, non fu sempre condivisa dagli esponenti delle missioni, i quali strinsero spesso rapporti fraterni con i maggiori protagonisti della guerri­ glia esprimendo nei loro confronti, anche in rapporti ufficiali, giudizi lu­ singhieri. Grazie ai contatti con gli alleati furono promossi, specie dall’esta­ te del 1944, diversi aviolanci nelle aree via via occupate dai partigiani, con l’invio di equipaggiamenti, armi e munizioni. Questa attività ebbe tuttavia un carattere sporadico e non raggiunse mai dimensioni cospicue. Per quanto riguarda la prima fase dell’occupazione tedesca, va anche ri­ cordato che i nazisti, con la collaborazione delle autorità repubblichine, a partire dall’inizio di dicembre procedettero alla deportazione sistematica dei cittadini ebrei. La comunità ebraica contava a Genova, secondo il cen­ simento del 1908, 1381 persone, molte delle quali si erano allontanate dal­

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la città dopo lo scoppio della guerra. Gli ebrei residenti a Genova o in al­ tre località della regione (particolarmente Chiavari, dove alcuni si erano spostati nella speranza di sfuggire alla persecuzione) che vennero deporta­ ti furono 229, di cui solo sedici riuscirono a salvarsi. Le lotte operaie. Accanto al partigianato (del resto ancora assai fragile nell’inverno tra il 1943 e il 1944) e agli attentati nelle città, un terzo fat­ tore di instabilità per il sistema di potere nazista e fascista repubblicano fu rappresentato da una imprevista combattività operaia. Fu questo fattore a provocare - fin dall’inverno tra il 1943 e ^ 44 ~ ^ fallimento del proget­ to nazista di pacificazione e di controllo sociale dell’area industriale ligure, decisivo ai fini dello sfruttamento integrale delle risorse produttive della regione, la cui condizione primaria consisteva nella passività della maggio­ ranza della popolazione e in primo luogo nella disciplina della classe operaia di fabbrica. Nello stesso tempo l’insubordinazione operaia provocò l’usci­ ta allo scoperto in funzione repressiva delle autorità repubblicane, sovente con interventi armati dentro gli stabilimenti e sanguinose rappresaglie, che ebbe l’effetto di far cadere la maschera sulla natura e le funzioni della Rsi e di liquidare la residua area di consenso intorno a essa. Se infatti gli atten­ tati potevano essere attribuiti a estremisti criminali, presumibilmente assol­ dati dal nemico, e l’esistenza delle bande partigiane interpretata come ma­ nifestazione di banditism o comune (in ogni caso su entrambi i fenomeni si cercò, finché fu possibile, di minimizzare), difficilmente simili stereotipi propagandistici potevano essere applicati alle agitazioni di migliaia di ope­ rai, ancorché lette ufficialmente come frutto di una sobillazione politica di elementi esterni agli ambienti di lavoro. Gli scioperi presero avvio a Genova nel novembre del 1943. Sulla scia di un movimento già sviluppatosi a Milano e a Torino agitazioni sparse scop­ piarono nelle aree di maggior concentrazione operaia (Sampierdarena, Sestri, Rivarolo, Voltri), con la richiesta di aumenti salariali che vennero accorda­ ti. Alla fine del mese entrarono in sciopero i tranvieri, per protestare con­ tro l’arresto di alcuni di loro accusati di attività sovversive. L’agitazione ebbe il sostegno di alcune squadre armate che sabotarono le linee e riuscì pienamente, trovando spazio per la prima volta sulla stampa locale: l’edi­ zione pomeridiana del «Lavoro» del 27 novembre portava in prima pagina con grande rilievo un comunicato del capo della provincia Basile che am­ moniva gli scioperanti con la minaccia di punizioni esemplari. Le agitazioni operaie ripresero alla metà di dicembre a partire dall’Ansaldo Artiglierie (duemila scioperanti il 16 dicembre secondo le fonti tede­ sche) per poi estendersi ad altre fabbriche fino ad assumere, anche per l’in­ tervento propulsivo e propagandistico dei comunisti, il carattere di sciope­ ro generale (circa cinquantamila scioperanti intorno al 19 dicembre), sulla base di rivendicazioni eminentemente salariali e alimentari. Negli stessi giorni gli scioperi si sviluppavano anche a Vado, in Valbormida e a Savo­ na, dove un corteo operaio venne disperso dai tedeschi. La prova di com­

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pattezza e di combattività fornita dagli operai, in aperta violazione delle ferree regole autoritarie degli occupanti e del fascismo repubblicano, fu sor­ prendente. Lo stesso generale Paul Zimmermann, appartenente al Coman­ do supremo delle SS e della polizia tedesca in Italia e «incaricato speciale della repressione degli scioperi», intervenne di persona a Genova e a Sa­ vona visitando alcuni stabilimenti, per promettere gli aumenti richiesti e minacciare severe misure contro nuovi turbamenti della «tranquillità del la­ voro». A quel punto due operai (Armando Maffei e Renato Livraghi), en­ trambi di Bolzaneto, trovati in possesso di bombe e arrestati, erano stati condannati dal Tribunale militare e fucilati, nel tentativo di riportare la po­ polazione alla passività e al silenzio attraverso il terrore. La tensione giunse al massimo nel corso di un nuovo grande sciopero sviluppatosi tra il 13 e il 19 gennaio 1944, anche questa volta partito dall’Ansaldo e ben presto estesosi ad altre aziende fino a coinvolgere circa qua­ ranta/cinquantamila lavoratori. Negli uffici tedeschi cominciavano a pren­ dere campo i sostenitori di una reazione più dura contro il dilagare delle agitazioni, ma furono le autorità fasciste a incaricarsi della rappresaglia im­ mediata, anche per rispondere agli attentati che avevano accompagnato lo sciopero (il 14 una squadra guidata da Buranello aveva ucciso un ufficiale tedesco ferendone un altro): otto prigionieri politici vennero prelevati dal­ le carceri, giudicati dal Tribunale speciale e fucilati nella notte del 15. L’insuccesso rivendicativo e le durissime conseguenze della lotta di gen­ naio ebbero un effetto di contenimento dell’agitazione operaia, contri­ buendo al relativo insuccesso dello sciopero promosso per l’inizio di marzo dal Clnai, che avrebbe dovuto coinvolgere simultaneamente tutti i lavora­ tori del Nord occupato, e che fu in effetti il più clamoroso episodio di lotta sociale nell’Europa sotto controllo nazista. I tentativi di avviare l’agitazio­ ne a Genova vennero soffocati sul nascere. Molti operai furono arrestati preventivamente nella notte tra il 29 febbraio e il i° marzo, mentre le mag­ giori aziende venivano presidiate dalla polizia militare tedesca e dalla poli­ zia italiana. Gli episodi più significativi si verificarono nel Savonese. A Sa­ vona già in febbraio c’era stata un’agitazione degli operai della Scarpa & Magnani. A Savona, a Vado Ligure, a Finale e nella Valbormida si ebbero scioperi bianchi in quasi tutte le maggiori aziende (Brawn Boveri, Ilva, Sams, Servettaz, Piaggio). A Pietra Ligure entrarono in agitazione millecinquecento operai. Dovunque si scatenò la reazione nazifascista con l’ir­ ruzione di reparti armati tedeschi e italiani dentro le fabbriche, rastrella­ menti interni, arresti e deportazioni. I deportati savonesi furono sessantasette, di cui solo otto faranno ritorno. A Spezia scioperarono circa seimila operai dell’Oto Melara, della Termomeccanica, dei Cantieri del Muggiano, dello Jutificio Montecatini e di altre fabbriche nonché di un’officina dell’Ar­ senale, che pure era presidiato in permanenza da ingenti forze. Anche qui si ebbero circa sessanta arresti. La durezza del controllo preventivo e della repressione segnò una pausa nelle lotte, ma non riuscì a determinare la pacificazione forzosa della clas­

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se operaia. Nuovi scioperi si svilupparono nei mesi successivi, in particola­ re a giugno, ancora una volta nell’area a ponente di Genova e nella Valpolcevera, sede dei più grandi stabilimenti elettrotecnici, siderurgici e mecca­ nici. Lo stato di agitazione pressoché permanente, considerato dalle auto­ rità fasciste principalmente sotto il profilo dell’ordine pubblico, era per i tedeschi soprattutto un ostacolo al pieno sfruttamento delle risorse indu­ striali in funzione della produzione bellica. Ciò accentuò al loro interno la frizione tra i settori militari che tendevano alla repressione indiscriminata, alla deportazione in massa degli operai - con preferenza per i più qualifi­ cati -, nonché allo smantellamento dei macchinari per il loro trasferimen­ to in Germania, e i responsabili dell’economia che intendevano giocare fi­ no in fondo la carta della prosecuzione in loco della produzione, tendendo perciò a una condotta più flessibile di fronte alle richieste operaie. I fauto­ ri della linea di mediazione trovarono un interlocutore importante all’in­ terno del maggiore gruppo genovese, l’Ansaldo, nella persona dell’ammini­ stratore delegato Agostino Rocca, preoccupato di salvaguardare l’unità pro­ duttiva dell’azienda, compreso il patrimonio di circa trentamila lavoratori in buona parte qualificati, in vista della fine della guerra, proteggendolo an­ che dalle spoliazioni tedesche. La linea dura sembrò prevalere di fronte al­ le agitazioni di giugno, quando si verificò il più grave episodio di deporta­ zione di massa di tutto il periodo: alle ore 14 del 16, quando il lavoro era ormai ripreso, reparti armati tedeschi e italiani circondarono quattro tra le maggiori fabbriche di Genova (San Giorgio, Siac, Piaggio e cantiere nava­ le Ansaldo) prelevando circa millecinquecento lavoratori che furono im­ mediatamente caricati su vagoni ferroviari e deportati a Mauthausen, da cui non tutti tornarono. Lo sviluppo del partigianato. Ostacolato dalle condizioni ambientali in­ vernali che ne mettevano in discussione il radicamento e il consolidamento organizzativo, esposto per questo ai rastrellamenti nazifascisti che punta­ vano alla bonifica del territorio finché le bande erano ancora deboli e prive di adeguati armamenti, il movimento partigiano dovette subire nella pri­ mavera del 1944 una dura sconfitta che lasciò per un momento ai tedeschi e ai repubblichini l’illusione di poterlo contenere nei limiti di un banditi­ smo disperso e privo di effettiva rilevanza. Ai primi di aprile (tra il 6 e il 10) ingenti forze della Wehrmacht, quattro compagnie della Gnr di Genova e di Alessandria e un reparto di bersaglieri accerchiarono l’area del Monte Tobbio, situato tra i torrenti Lemme e Stura, salendo contemporaneamen­ te in cinque colonne dai comuni di Lerma, Campoligure, Masone, Pontedecimo e Busalla. Nella zona si erano stanziate una brigata garibaldina di notevole consistenza (denominata III Liguria) e un gruppo comandato dal capitano Gian Carlo Odino, di orientamento liberale, che nel complesso raccoglievano circa settecento uomini, confluiti in gran parte dopo la sca­ denza del bando di arruolamento delle classi 1922-25. Per lo più si trattava di giovani privi di armamento, di esperienza e di solide motivazioni, che per­

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tanto non erano in grado di opporre una seria resistenza e che vennero pre­ si dal panico sbandandosi. Un gran numero di uomini fu catturato nei pressi di un ex convento, la cosiddetta «Benedicta», mentre gli assalitori non eb­ bero che scarse perdite (otto morti e dodici feriti). I partigiani uccisi furo­ no, secondo i calcoli più attendibili, 145, i catturati e deportati circa 360. Un certo numero, comprendente Odino, fu trattenuto in ostaggio e fucila­ to nel maggio successivo nel corso della rappresaglia contro l’attentato al cinema Odeon di cui abbiamo detto. La terribile lezione della Benedicta sembrò decretare la sconfitta della resistenza armata e restituire ai nazifascisti il controllo del territorio, con effetti di monito per tutti gli sbandati disorganizzati e di freno allo svilup­ po del partigianato. Ma non fu così. Nuove forze continuarono ad affluire alle bande, che cominciarono a dotarsi di una migliore organizzazione strut­ turandosi in distaccamenti, brigate, divisioni e sottoponendosi gradual­ mente a una direzione unica, il Comando unificato regionale ligure forma­ to su impulso delle direttive provenienti dal comando generale del Corpo volontari della libertà (Cvl), sorto per coordinare la guerriglia in tutta l’Ita­ lia occupata. Il comando unificato ligure, formato alla fine di giugno, fu composto dal generale Cesare Rossi, indipendente, da Giulio Bertonelli del Pda, Antonio Ukmar del Pei, Enrico Raimondo della De, Giovan Battista Bianchi del Pri, Renato Martorelli del Psi e Mario Albini del PI. Questo c omplesso di fattori, uniti alla stagione favorevole, portò a una cresc ita con­ sistente e costante degli effettivi partigiani, che giunsero a controllare in maniera più o meno stabile intere aree dell’entroterra appenninico intensi­ fic ando le azioni di disturbo nei confronti delle c aserme, dei presidi, dei convogli nazifascisti. Il comando militare regionale provvide alla suddivi­ sione del territorio a fini operativi in quattro zone, corrispondenti grosso modo alle quattro province. Secondo una rilevazione effettuata alla fine di giugno dai c omandi delle brigate Garibaldi, a quella data le forze partigia­ ne dell’area ligure ammontavano a quasi tremila uomini, con una presenza preponderante nell’imperiese (circa 1900 uomini contro i circa 350 a Sa­ vona, 600 a Genova, 800 a Spezia). Altre rilevazioni successive evidenzia­ rono un incremento notevole, segno che il movimento partigiano aveva per così dire superato la soglia critica del consolidamento. Alla metà di luglio gli effettivi risultavano superiori a 5800, con una crescita particolarmente imponente nello Spezzino e nel Genovesato (dove raggiungevano quasi il numero di 1500). Ad agosto i calcoli indicano una cifra complessiva supe­ riore a 8500 uomini. Diverse e superiori sono le stime delle autorità nazi­ fasciste. Le fonti della Repubblica sociale calcolano ad esempio le forze par­ tigiane nella regione in 3600 alla fine di febbraio, 6000 ad aprile, 7500 a maggio e già 14 000 a giugno, segnalando infine una cifra di 27 000 uomi­ ni all’ultima rilevazione disponibile, quella di ottobre. La presenza di reparti armati partigiani di una certa consistenza nel’area appenninica, alle spalle delle forze di occupazione dislocate sulla co­ ita e nelle città, in grado di controllare o almeno di rendere insicure le vie

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di comunicazione verso il Nord, costituiva una minaccia per le forze te­ desche. Lo stillicidio delle azioni partigiane appariva ormai ininterrotto. Le fon­ ti tedesche calcolavano ad esempio in trecentoventi il numero delle azioni condotte dai ribelli solo tra giugno e agosto, mentre quelle della Rsi le fa­ cevano ammontare nello stesso periodo a oltre cinquecento. La possibilità di uno sbarco alleato nel golfo ligure sconsigliava d’altra parte di sguarnire la difesa costiera e di impiegare vaste forze nell’occupazione e nel control­ lo stabile dell’entroterra. Ciò contribuisce a spiegare l’efficacia solo tem­ poranea e il sostanziale fallimento delle azioni di rastrellamento condotte nell’estate, a dispetto delle forze e dei mezzi abbastanza ingenti impiegati e della ferocia delle rappresaglie indiscriminate contro la popolazione civi­ le, autorizzata da esplicite direttive degli alti comandi tedeschi a scopo di intimidazione. Alle forze tedesche si unirono, nella repressione del parti­ gianato, quelle italiane, che alla fine di luglio erano state rafforzate dal rien­ tro delle divisioni addestrate in Germania, composte in gran parte da in­ ternati che avevano accettato l’inquadramento nelle forze armate della Rsi. Si trattava della divisone alpina Monterosa e della divisione di fanteria ma­ rina San Marco, cui si unirono reparti della divisione Littorio e della divi­ sione Italia prima dislocate altrove, per un totale di circa ventisettemila uo­ mini. Insieme alle divisioni di fanteria germanica, ai reparti di Alpenjeger e ad altri reparti tedeschi già stanziati nella regione queste truppe vennero a costituire nell’agosto del 1944 la nuova armata Liguria al comando del ge­ nerale Augusto Graziani. Ondate di rastrellamenti si ebbero a maggio contro le bande spezzine e nella zona a ridosso di Chiavari, a luglio nella provincia di Savona e nell’im­ periese. I rastrellamenti colpirono duramente il movimento partigiano sen­ za tuttavia riuscire a sradicarlo dall’area appenninica, e coinvolsero in ecci­ di e brutalità intere popolazioni. A maggio Uvillaggio di Cichero, dove ave­ va preso corpo la formazione omonima, fu sottoposto a una rappresaglia condotta da fascisti e tedeschi, saccheggiato e incendiato, mentre sette par­ tigiani, attirati con uno stratagemma, furono massacrati. All’inizio di luglio i civili della località Triora, nell’imperiese - dove si era insediato un con­ sistente gruppo di partigiani che aveva condotto numerose azioni di guer­ riglia e colpito duramente i tentativi tedeschi di penetrazione nella Valle Argentina -, furono violentemente investiti dalle colonne tedesche nel cor­ so di un rastrellamento: il fuoco di fucileria provocò numerose vittime, men­ tre il paese intero veniva dato alle fiamme e distrutto e altri civili trovava­ no la morte nelle case incendiate. Analoga sorte toccò a numerosi paesi del­ la zona, come Castelvittorio, mentre le formazioni partigiane riuscivano a sfuggire all’accerchiamento senza subire perdite significative. In agosto un nuovo imponente rastrellamento fu condotto nell’area spez­ zina con l’impiego di diverse migliaia di uomini della Wehrmacht, SS, Bri­ gata nera e Gnr spezzine, Monterosa e X Mas, contro i circa milleottocen­ to della i adivisione Liguria nella quale si era recentemente unificato il gros­

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so del partigianato spezzino, e con l’uso di armi pesanti. La maggior parte delle formazioni si sbandò al primo urto senza essere in grado di opporre resistenza né di procedere a un ordinato ripiegamento. Alcune colonne più organizzate impegnarono tuttavia il nemico in combattimenti accaniti, in­ fliggendogli perdite non trascurabili. Il rastrellamento prosegui per alcuni giorni e gli attaccanti si scatenarono anche contro i civili. Molti furono quel­ li presi in ostaggio e uccisi, moltissime le frazioni incendiate. Nel comune di Zeri fu distrutto, devastato o incendiato l’ottanta per cento circa delle abitazioni e furono uccisi diciannove civili tra cui due sacerdoti. Al termi­ ne delle operazioni le perdite partigiane accertate ammontavano a circa cen­ tocinquanta uomini (ma considerando i feriti e i dispersi furono molto mag­ giori). Verso la fine del mese si svolse inoltre un imponente rastrellamento in quella che era ormai denominata VI Zona ligure, e che comprendeva una vasta area appenninica tra Genova e Piacenza, occupata dalla cosiddetta 3“ divisione Liguria comandata da Bisagno, le cui prime origini risalivano al gruppo di Cichero e che pertanto era comunemente denominata divisione Cichero. I suoi effettivi ammontavano ormai a circa novemila uomini, di­ slocati in tre brigate e dotati di una solida struttura organizzativa e logisti­ ca. Le formazioni partigiane controllavano qui un’importante zona di rac­ cordo tra Liguria, Piemonte, Lombardia ed Emilia, e in particolare parec­ chie decine di chilometri della statale n. 45 da Genova a Piacenza nonché numerose strade provinciali, vallate e passi montani. Malgrado la durezza dell’attacco, condotto su più fronti anche con l’impiego di armi pesanti, le forze partigiane riuscirono a reggere l’urto, impegnarono i nemici in diver­ se battaglie frontali infliggendo loro gravi perdite e uscirono dalla prova praticamente intatte. I rastrellamenti proseguirono ininterrotti nell’autun­ no e nell’inverno successivi, sottoponendo le formazioni partigiane a prove molto dure ma senza conseguire risultati decisivi. Nell’azione repressiva si distinsero per ferocia e accanimento alcuni esponenti del fascismo repub­ blicano: tra di essi si possono ricordare autentici criminali come Vito Spiotta, comandante delle Brigate nere di Chiavari, e l’esponente delle SS italia­ ne Luciano Luberti, che operò nell’Albenganese. Entrambi si macchiarono di numerosi delitti e vennero poi condannati a morte dalle Corti d’Assise straordinarie, ma nel caso di Luberti la condanna venne poi commutata e più volte ridotta finché egli riuscì a tornare libero. L ’insurrezione. Nella seconda metà del 1944, malgrado l’inasprimento dello scontro e delle contromisure nazifasciste (che continuarono tra l’altro a prevedere, senza mai metterla in atto, una deportazione totale degli ope­ rai e un trasferimento in blocco degli impianti industriali), la forza del mo­ vimento di liberazione registrò una crescita e un consolidamento che neppu­ re la stagione invernale, gli effetti smobilitanti del messaggio di Alexander nonché le ultime grandi offensive di controguerriglia scatenate all’inizio del 1945 riuscirono a mettere in discussione. Alla vigilia della liberazione si cal­

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cola che circa diciassettemila uomini dotati di un passabile armamento e di una discreta organizzazione occupassero l’area appenninica sull’arco delle quattro province, alle dipendenze del Comando militare unificato ligure. Nella VI Zona i partigiani, saliti a circa cinquemilacinquecento nel febbraio del 1945, incrementarono ulteriormente le loro forze fino a superare i set­ temila combattenti (anche se, prudenzialmente, il piano per l’insurrezione elaborato dal comando della VI Zona valutava il loro numero effettivo in seimila). Le formazioni erano ormai articolate in cinque divisioni (la Min­ go, la Pinan-Cichero, la Cichero, la divisione Gl Matteotti, la Coduri) più quattro brigate Autonome. La composizione del comando di zona era pre­ valentemente comunista, il che creò non pochi attriti e generò malconten­ to in quanti, come il prestigioso Bisagno, erano riluttanti a una eccessiva politicizzazione della lotta armata e in particolare a un’egemonia comuni­ sta sulle formazioni partigiane della più importante zona strategica della Li­ guria. Si arrivò per questo a un soffio da gravi incidenti quando si diffuse la notizia che Bisagno fosse prossimo alla destituzione. Quanto alle altre pro­ vince, la situazione era la seguente: nella I Zona (Imperiese e parte del Sa­ vonese) operavano due divisioni garibaldine (la Felice Cascione e la Silvio Bonfante) per un totale (comprese le Squadre di azione patriottica - Sap) di circa duemilasettecento uomini; nella II Zona (Savona) la divisione Gin Bevilacqua, numerose brigate non divisionate e Sap per un totale di circa duemilatrecento uomini; nella IV Zona (Spezia) la i a divisione Liguria ol­ tre a reparti non divisionati e Sap per un totale di circa duemilacinquecento uomini. Comprese le formazioni sapiste dipendenti dal comando piazza di Genova (circa tremilacinquecento uomini), si trattava dunque nel com­ plesso di circa diciassettemila uomini. Tutto questo secondo calcoli abba­ stanza prudenziali. All’inizio di aprile, soprattutto dopo l’arrivo a Massa Carrara delle trup­ pe alleate che si verificò il 10-11 del mese, la situazione cominciò a mettersi in movimento. L’8 si tenne clandestinamente a Sampierdarena una confe­ renza generale dei comitati di agitazione sindacale, dalla quale parti l’ini­ ziativa per una serie di scioperi che avrebbero dovuto sfociare nella mani­ festazione generale insurrezionale. Il 16 presero avvio gli scioperi. Di 11 a poco circolò la notizia di una richiesta avanzata dai tedeschi per via diplo­ matica di predisporre indisturbati la ritirata in cambio della rinuncia alla distruzione del porto e di impianti industriali già predisposta, e comincia­ rono a manifestarsi gli indizi di una fuga alla spicciolata di fascisti, con l’ab­ bandono delle sedi civili e militari. Era il segnale che la situazione stava pre­ cipitando, anche per la pressione ormai dirompente delle armate alleate. La richiesta venne rinnovata da parte del comando germanico tramite il car­ dinale di Genova Boetto, con l’annuncio che l’evacuazione era ormai ini­ ziata. La proposta tedesca venne respinta dal Cln, mentre le squadre armate cittadine si mobilitavano dando di fatto inizio all’insurrezione nella zona di ponente (Sestri, Pegli, Cornigliano). Nella notte tra il 23 e il 24 aprile le Sap occuparono le stazioni ferroviarie di Sestri, Cornigliano, Pegli, Pra’ e

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Cogoleto, conquistarono i presidi delle maggiori fabbriche dell’area, libera­ rono le cittadine di Masone e di Rossiglione. Nella stessa notte presso il col­ legio San Nicola, nella parte alta della città, si riuniva il Cln ligure col co­ mando militare regionale. Il Cln decise il lancio di un appello solenne all’in­ surrezione generale. All’alba del 24 la sommossa era in pieno svolgimento. Obiettivo delle azioni in corso era l’interruzione di tutte le vie di comunicazione per im­ pedire ai tedeschi e ai fascisti un ripiegamento concentrato verso la Pianu­ ra padana e la fissazione di un’ultima linea di resistenza sul Po. Il risultato appariva in gran parte raggiunto nel corso della giornata. Chiusa o ostaco­ lata la ritirata verso il Nord, i tedeschi mantenevano rilevanti punti di re­ sistenza in varie parti della città, specie a levante e nel centro, dove si svi­ lupparono combattimenti sanguinosi ai quali si uni parte della popolazione. Agli ordini del generale Meinhold, comandante della piazza di Genova, se­ condo le notizie in possesso del Cln erano schierati circa seimila uomini. I tedeschi disponevano inoltre, sul Monte Moro, di postazioni di artiglieria pesante dalle quali potevano colpire il porto e la città. Alle forze tedesche bisogna aggiungere quelle repubblichine (X Mas, Brigate nere, bersaglieri, fanteria) per un totale di circ a settemila uomini. L’ordine di confluenza sul­ la città delle forze partigiane di montagna, decisivo per riequilibrare le for­ ze in campo, tardò a essere applicato per il precipitare degli avvenimenti, sicché la situazione venne facendosi alquanto rischiosa. A quel punto tut­ tavia, vista la mancanza di una via d’uscita, il generale Meinhold, sempre tramite il cardinale Boetto, si piegò a incontrare direttamente gli uomini del Cln. La riunione si tenne nella residenza provvisoria del cardinale, che si tro­ vava nella Villa Migone nel quartiere di San Fruttuoso. Qui si svolsero le trattative per la resa, che venne firmata nella serata del 25 dallo stesso Meinhold e da Remo Scappini, un operaio comunista di origine empolese che da tempo era a capo dell’organizzazione comunista genovese e che era stato nel frattempo investito della carica di presidente del Cln. La mattina del 26 un altro esponente del Cln, il democristiano Paolo Emilio Taviani, annunciò alla radio l'avvenuta capitolazione tedesca, ma non tutti gli uffi­ ciali nazisti accettarono la decisione. Il comandante dei reparti di marina Berninghaus, dopo aver sconfessato Meinhold e decretato la sua condanna a morte, si dispose alla resistenza asserragliato nell’area portuale, mentre le batterie di Monte Moro sparavano alcuni colpi sulla città. Colonne nazifa­ sciste, forti ancora di qualche migliaio di uomini, tentarono di forzare i bloc­ chi impegnando i reparti cittadini della resistenza - cui si erano unite nel frattempo le avanguardie delle formazioni di montagna - in furibondi com­ battimenti, costati altre centinaia di morti. Ben presto tuttavia anche le ul­ time resistenze dovettero cessare. Nello stesso giorno giunsero nel territo­ rio della provincia le avanguardie motorizzate della V armata alleata che en­ trarono nella città, ormai liberata, nel pomeriggio del 27, sotto la guida del generale Almond. Tra il 23 e il 26 aprile erano state liberate, con l’azione

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combinata di forze partigiane di città e di montagna, anche le altre pro­ vince, dalle quali era nel frattempo iniziata la ritirata delle truppe tedesche e italiane e la fuga degli esponenti del fascismo repubblicano. Nel bilancio del movimento di liberazione ligure saranno successiva­ mente riconosciute la qualifica di partigiano combattente a 23 290 persone (di cui 2794 caduti e 2594 mutilati e invalidi), e quella di patriota a 10602 persone (di cui 685 caduti e due mutilati e invalidi). [L’insurrezione di Ge­ nova*]. Nota bibliografica. C. Brizzolari, Un archivio àella resistenza in Liguria, D i Stefano, Genova 1974; C. G en­ tile, Tra città e campagna .guerra partigiana e repressione in Liguria, in «Storia e memoria», n. 2 (1997); A. Gibelli, Genova operaia nella Resistenza, Isrl, G enova 1967; Id. (a cura di), La resistenza in Liguria. Profilo e guida bibliografica, Amministrazione Provinciale di Genova, G e­ nova 1985; G . Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, G enova s.d. [ma 1985]; A. R. Materazzi (a cura di), Americani dell’OSS e partigiani nella sesta zona operativa ligure, Bastogi, Foggia 1993; A. Miroglio, La liberazione in Liguria, Forni, Bologna 1970; G. P. Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, Laterza, Bari 1967; J. Petersen, L ’amministrazione tedesca a Genova e in Liguria. 1943-1945, in «S to­ ria e memoria», n. 2 (1993).

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Piemonte

Caratteri della Resistenza in Piemonte. I profili salienti della resistenza ar­ mata e clandestina nella regione - riservando una trattazione a parte, per talu­ ni suoi caratteri politico-militari specifici, al movimento nell’allora provincia piemontese di Aosta - possono essere individuati in quattro ordini di grandez­ ze. Il primo è riconducibile alla immediatezza, al domani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e del crollo delle Forze armate regie, del fenomeno della or­ ganizzazione partigiana. Già nelle giornate tral’n e i l i 2 settembre, due grup­ pi di cittadini armati, aderenti al Partito d’azione (Pda), salivano nelle valli cuneesi del Gesso e del Grana a costituirvi gli embrioni dei nuclei che entro breve daranno vita alle bande Italia libera e quindi alle formazioni Giustizia e libertà (Gl) della provincia: li guidavano, rispettivamente, Tancredi Galim­ berti «Duccio», futuro comandante regionale delle stesse formazioni, Dante Livio Bianco - «Livio», «Muzio», «Leutrum», che lo sostituirà nell’incarico e quale membro del Comando regionale militare del Comitato di liberazio­ ne nazionale (Cln) allorché «Duccio» cadrà assassinato dai fascisti nel dicem­ bre del '44 - e Benedetto Dalmastro «Detto». Al tempo stesso, militari sban­ dati, per lo più appartenenti alla IV armata i cui reparti erano rifluiti in di­ sordine dalle zone di occupazione delle Alpi Marittime francesi, si radunavano nei pressi della cittadina di Boves, a poca distanza da Cuneo, e, unitamente a civili armatisi, si apprestavano a difesa contro attacchi tedeschi: il 19, infat­ ti, una colonna di SS investi il piccolo centro, incendiò 443 case e uccise 32 inermi abitanti. Il gruppo bovesano aveva ancora preminenti connotati di as­ sembramento di militari deliberati a non arrendersi ai tedeschi ma indecisi, o divisi, sulle prospettive da conferire alla lotta: tuttavia, da esso, a opera del­ lo studente universitario Ignazio Vian - più tardi catturato e impiccato a To­ rino -, sorgeva una banda “autonoma” dinamicamente proiettata nell’azione partigiana e che, fino all’attacco nemico allo scadere del dicembre '43 da cui usci scompaginata, rimase il nucleo più attivo del partigianato locale. Peral­ tro, questo attivismo offensivo ne aveva diminuito le opportunità di consoli­ dare la propria organizzazione per i possibili tempi lunghi della lotta - in quel­ la fase sovente sottostimata dall’iniziativa partigiana, nella previsione di una vicina conclusione della guerra al Nord - e quindi di un più accorto dosaggio delle tattiche d’attacco e delle esigenze di radicamento sii territorio, cui si ri­ facevano invece i criteri adottati dalle bande di Italia libera.

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AlTincirca nello stesso inizio d ’autunno, in Valle Po, militanti comuni­ sti gettavano le basi delle formazioni Garibaldi piemontesi: ne erano pro­ motori Ludovico Geymonat «Luca», Giancarlo Pajetta «Mare», Antonio Giolitti - «Antonio», «Paolo» - e Pompeo Colajanni «Barbato»; frattan­ to, nella valle cuneese del Casotto si profilava la costituzione di una consi­ stente forza raccolta dal maggiore effettivo d’artiglieria Enrico Martini «Mauri», matrice di quello che diverrà il i ° gruppo divisioni Autonome del Monferrato-Langhe dopoché, nel marzo del '44, a seguito del rovescio subi­ to nel corso di un massiccio rastrellamento, lo stesso Martini avrà trasferito i resti dei suoi reparti nell’anfiteatro collinare tra le province di Cuneo e Asti con dilatazione operativa fino ai confini con il Savonese. Il secondo connotato di spicco del moto regionale è dato dalla diffusio­ ne che esso assunse rapidamente, sviluppandosi, a partire soprattutto dalla primavera del '44, in un articolato tessuto di bande in crescita numerica che coprirono progressivamente vasti comprensori del territorio, stendendovi una rete pressoché senza soluzione di continuità di forze combattenti. In questo quadro si inserisce il terzo elemento di rilievo del panorama resi­ stenziale piemontese: l’impiego di tutti i moduli di lotta armata e clandesti­ na in ogni condizione ambientale, impiego senza dubbio favorito dalla confor­ mazione della geografia regionale, dotata di estesi rilievi, bacini e solchi val­ livi del sistema alpino agganciati alle pianure, nonché di vaste zone collinari in parte saldate alle propaggini dell’Appennino ligure. La guerra partigiana si attuò in montagna, in pianura - attraverso unità mobili -, nelle zone colli­ nari e negli ambiti urbani - segnatamente nel capoluogo regionale, Torino, dove agivano i Gruppi d’azione patriottica (Gap) e dove si installava dal­ l’agosto '44 nei luoghi di produzione l’organizzazione delle Squadre di azio­ ne patriottica (Sap) con il compito precipuo di difendere l’apparato produt­ tivo industriale nella fase insurrezionale. Una fitta trama di “servizi” d ’ap­ poggio dell’attività partigiana (informazioni, supporti logistici, stampa di materiali di propaganda, fabbricazione di documenti falsi, trafile per age­ volare l’esodo in Svizzera di prigionieri alleati ecc.) si allargava nelle pieghe di una società strettamente controllata dai nazifascisti, brutalmente espo­ sta alle loro rappresaglie e alle prese inoltre con le ognora maggiori penurie causate dalla guerra. Infine, quarto fattore di tutta evidenza del moto regionale, l’elevato quo­ ziente di protagonisti - il più alto in assoluto di tutto lo schieramento par­ tigiano del Centro-nord -, che coinvolgeva uomini e donne di ogni strato sociale e dei più diversi orientamenti ideali e politici nella partecipazione alle unità combattenti, e li vedeva fornire un quotidiano, multiforme con­ corso popolare larghissimo - non quantificabile nella diversissima molte­ plicità delle proprie manifestazioni - che senza dubbio rappresentò il lievi­ to sostanziale alla battaglia delle formazioni durante i venti mesi e alla loro sopravvivenza nelle congiunture più aspre del conflitto. Confluivano, in queste corali manifestazioni, sedimenti di tradizioni socialiste e comuniste del movimento dei lavoratori; retaggi di liberalismo della borghesia prò-

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duttiva e intellettuale non spenti dalla ventennale dittatura; antiche fedeltà monarchiche mantenutesi con un certo distacco dal fascismo e comunque in primo luogo legate all’ideale della Corona sabauda; radicate estraneità al regime - specie nelle campagne, profondamente influenzate dal conserva­ torismo e dal pacifismo del basso clero; sentimenti, quando non di coltivata opposizione alla dittatura, di “afascismo”, vieppiù alimentato dalle tragedie della guerra: gli olocausti dei corpi alpini nelle steppe della Russia avevano segnato irreversibilmente la separazione delle popolazioni cuneesi dal fa­ scismo e non saranno fattori ultimi dei consensi e degli appoggi alla guerra partigiana in quelle contrade. I Comitati polìtici e militari. Dato basilare per il tempestivo e abba­ stanza ordinato sviluppo della Resistenza nella regione fu il pronto accor­ do delle correnti politiche antifasciste per la costituzione a Torino del Cln, che assunse, a partire dal tardo autunno del '43, pratiche funzioni di or­ gano di direzione regionale del movimento e si avvalse fin dagli esordi del­ la collaborazione di un nucleo di ufficiali effettivi: parecchi di questi sa­ ranno tra gli artefici del solido e autorevole impianto di coordinamento della guerra partigiana piemontese, compresa l’impostazione dei piani per la futura insurrezione. Il Cln regione Piemonte (Clnrp) si dotò di un co­ mitato finanziario, di un corpo di ispettori e, a partire dal maggio del '44, di un proprio organo di stampa, «La Riscossa italiana», edito con periodi­ cità irregolare stante le difficoltà di fruire di tipografie nel sorvegliatissimo capoluogo torinese (un numero fu stampato in Francia e lanciato in Piemonte da aerei alleati). Pressato da esigenze di reperire risorse finanziarie per sostenere le ban­ de, il Clnrp - presieduto di fatto dal liberale professore Paolo Greco, al qua­ le, alla vigilia dell’insurrezione, si sostituirà ufficialmente il collega di par­ tito professore Franco Antonicelli, reduce dal carcere - affidò in un primo momento, con un voto di maggioranza (contrari i delegati comunisti), il co­ mando delle formazioni all’ex intendente della IV armata generale Piero Operti, in possesso della cassa della disciolta unità e disposto a garantire in cambio dell’incarico un consistente flusso di denaro. Palesatosi tuttavia pre­ sto il disegno del generale di indirizzare l’organizzazione partigiana a una sorta di duplice guerra, contro i nazifascisti e contemporaneamente contro i comunisti, l’Operti, nel gennaio '44, fu destituito e altresì posto sotto ac­ cusa per direttive attendiste e trattative per accordi locali di non bellige­ ranza col nemico. Lo sostituì un comitato militare consultivo composto dai delegati dei partiti coadiuvati da tecnici militari: lo coordinava il generale Giuseppe Perotti, uno dei pochi ufficiali superiori postosi subito agli ordi­ ni del Cln. A questo organismo si dovettero le linee essenziali dell’ordina­ mento del fronte partigiano regionale, il suo disciplinamento unitario - nei limiti realizzabili in circostanze tanto complesse - e la predisposizione del­ le coordinate che di massima avrebbero retto la sua struttura di comando nel periodo successivo.

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La vigilanza poliziesca e l’imprudenza di un membro del comitato causa­ rono, il 31 marzo '44, la cattura della maggioranza dei suoi componenti, in procinto di riunirsi nel duomo di Torino. Un simulacro di processo dinan­ zi al Tribunale speciale, con una sentenza preordinata dalle gerarchie della Repubblica sociale italiana (Rsi), decretò la condanna a morte di otto degli imputati: il generale Perotti, il docente universitario Paolo Braccini, del Pda, l’operaio comunista Eusebio Giambone, il capitano d’artiglieria Fran­ co Balbis, l’operaio mosaicista Quinto Bevilacqua e lo studente universita­ rio Erik Giachino - entrambi socialisti -, il bibliotecario Massimo Monta­ no e l’impiegato Giulio Biglieri. Quattro condanne all’ergastolo - ai tenenti colonnelli Gustavo Leporati e Giuseppe Giraudo, al delegato democristia­ no Silvio Geuna e al socialista Garlando - e una a due anni di detenzione al liberale Cornelio Brosio completarono la rappresaglia (furono assolti per insufficienza di prove il democristiano Valdo Fusi e il socialista Luigi Chignoli). La mattina del 5 aprile, al poligono torinese di tiro del Martinetto, gli otto condannati a morte caddero - come attestano i verbali d’esecuzione - al grido di «Viva l’Italia libera! » Laboriosamente, nel giugno, fu ricostituito un organo di direzione mi­ litare regionale, conferendogli la fisionomia di comando a tutti gli effetti (Comando militare regionale piemontese - Cmrp) con a capo il generale Ales­ sandro Trabucchi «Alessandri» e composto dai comandanti regionali delle formazioni differenziate: Francesco Scotti «Grossi» per le Garibaldi, Tan­ credi Galimberti e, dopo la sua scomparsa, con una breve supplenza di Car­ lo Ronza «Oreste», Dante Livio Bianco per le formazioni di Gl, Andrea Camia «Battista» per le Matteotti. Il generale Trabucchi vi rappresentava le formazioni Autonome, il cui comando generale andava al colonnello Mas­ simo Contini - «Elle», «Lorati» - , sostituito, dopo il suo arresto nell’apri­ le del '45, dal generale Carlo Drago «Nitto». L ’azione delle bande armate partigiane. A giugno del '44, superata la fa­ se asperrima dell’inverno e la crisi del comando unitario, si apri la stagione del pieno slancio offensivo del fronte partigiano, in concomitanza con il procedere dell’avanzata alleata lungo la penisola e con l’apertura del fron­ te in Normandia. La fase ultima dell’inverno e l’inizio della primavera ave­ vano sottoposto le bande a crude prove, con il passaggio delle operazioni tedesche contro di esse da circoscritti attacchi di forze di polizia a offensi­ ve di controguerriglia affidate a reparti della Wehrmacht (Forze armate te­ desche) e delle SS, e contrassegnate dalla sistematica applicazione di ritor­ sioni contro i civili inermi: come nella cittadina di Cumiana, nella valle.del Sangone, dove, il 3 marzo, quarantaquattro ostaggi erano stati massacrati. Ne era derivata la dispersione dei nuclei partigiani organizzativamente me­ no consolidati, con un grave rovescio nella valle cuneese del Casotto, dove un attestamento a difese rigide nella zona predisposto dal comando di Mar­ tini Mauri e la presenza di un gran numero di giovani renitenti alle leve del­ la Rsi per lo più disarmati erano stati causa, sotto l’urto nemico, di ingen­

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ti perdite alle bande, falcidiate dall’uccisione di circa trecento volontari e in pratica sfaldatesi. Nell’insieme, tuttavia, il movimento aveva superato la prova: l’esperienza aveva orientato le bande meglio impostate all’adozione delle tecniche clas­ siche della guerriglia permettendo loro di sottrarsi allo smantellamento. I bandi di chiamata alle armi della Rsi delle classi più giovani, intanto, regi­ stravano elevate percentuali di renitenze e riversavano nel partigianato nuo­ ve reclute. Sorgevano così gli aggregati maggiori della struttura del movi­ mento con il progressivo raggrupparsi delle forze in brigate e divisioni, men­ tre si definivano gli ambiti dei comandi unificati periferici, le Zone: tutto ciò non senza tensioni e contrasti concorrenziali tra le formazioni di diver­ so “colore”, in un panorama partigiano in cui lo stesso affollamento dei com­ battenti sul territorio tendeva a complicare le relazioni interne allo schiera­ mento per gli spazi di influenza di ciascuna forza e la spartizione delle ri­ sorse locali, e non senza il proporsi di delicate questioni negli stessi rapporti tra le bande e il mondo contadino, principale fonte del sostentamento dei volontari, esposto ai molti gravami e inconvenienti di questa convivenza. Si collocano in questi albori dell’estate partigiana le intese dei partigia­ ni Gl del Cuneese con i maquisards del corrispondente settore delle Alpi Marittime. Dopo un primo, avventuroso incontro delle delegazioni dei due movimenti al Colle Soutron, tra le valli Maira e Ubaye, il 12 maggio '44, Galimberti sottoscrisse il 24 successivo, a Barcelonette, con il delegato dei­ la 2èmeRégion des Mouvements Unis de Resistence, colonnello Lecuyer « Sapin», un’intesa preliminare per scambi di collegamenti e di armi, nonché per concordare azioni comuni sui due versanti alpini. Il 30 maggio, a Saretto, in Valle Stura, una delegazione guidata da Livio Bianco, con man­ dato del Cln regionale, e una della 2ème Région (Alpes Maritimes) capeggia­ ta dal comandante della regione stessa, Max Juvenal «Maxance», sotto­ scrissero due accordi, uno politico e uno militare: nel primo, si dichiarava che fra i due popoli non esistevano motivi di risentimenti per il recente pas­ sato, essendo stati entrambi vittime di regimi di oppressione e di corruzio­ ne, si affermava la piena solidarietà comune nella lotta contro il nazifasci­ smo come necessaria fase preliminare all’instaurazione di regimi di libertà democratiche e di giustizia sociale nel quadro di una comunità europea, si riconosceva nel regime repubblicano la forma migliore di reggimento de­ mocratico; nel secondo documento si prevedevano, nell’ambito di perma­ nenti collegamenti, piani di azioni comuni per sabotaggi ed eliminazioni delle guarnigioni tedesche di frontiera. Il richiamo alla pregiudiziale re­ pubblicana eccedeva i poteri della delegazione italiana e il Clnrp, sollecita­ to dal Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai), non lo ratificò, imponendone la cancellazione (che non avvenne). L’intesa militare si rea­ lizzò unicamente con la presenza per un breve periodo in Valle Maira di un ufficiale francese - il comandante Jean Lippmann «Lorraine» - e con l’aiu­ to prestato a unità di maquisards costrette a svalicare in Italia durante i pro­ dromi dell’insurrezione in Francia. Il governo del generale De Gaulle scon­

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fesso gli accordi e la sostituzione sui crinali di confine delle forze del ma­ quis con reparti di France Libre pose fine a ogni collaborazione. Le «zone libere». L’estate vedeva all’attacco un dispositivo partigiano esteso e aggressivo in via di completare le proprie articolazioni sul campo, incombente da vicino sugli stessi centri cittadini maggiori, compreso il capoluogo regionale - incontrollabile dalla rada struttura periferica di presi­ dio delle milizie della Rsi, ulteriormente indebolita dal venire meno di con­ sistenti appoggi dei tedeschi per gli impegni di questi sui fronti di guerra. Le bande fruivano ora di lanci alleati di armi ed equipaggiamenti, incre­ mentati anche dall’Organizzazione Franchi di Edgardo Sogno attraverso contatti con la Svizzera e le centrali del Sud. Si inaugurava il periodo di massima espansione della Resistenza: quello delle zone libere che, per al­ cuni punti del Piemonte, si protrarrà fino all’autunno, incuneando fasce di territorio sotto totale controllo partigiano in un paesaggio su cui la Rsi eser­ citava una sovranità sempre più nominale e i nazisti praticavano un effet­ tivo potere soltanto dove riuscivano a mantenere la presenza di unità mi­ litari. Dagli inizi del giugno al luglio-agosto '44 i partigiani presero possesso, in successione: nel Cuneese, delle valli del Gesso, della Stura, del Maira e del Varaita, occupando quindi il vasto anfiteatro delle Langhe; nel Biellese, della valle del Sesia; nell’Astigiano, verso la fine dell’estate, delle colline dell’Alto Monferrato; infine, si impadronirono delle valli novaresi dell’Ossola (poste sotto la diretta giurisdizione politico-militare del Clnai). Sorse­ ro, in queste zone liberate, esperimenti di amministrazione civile avviati dai comandi partigiani, di diversa durata, portata e incidenza. Alcuni eb­ bero appena il tempo di essere abbozzati - come nella Valle Maira, sede di un Cln di valle composto da rappresentanti del Pda e del Pei e presieduto dal socialista Chiaffredo Belliardi -, troncati di fatto dalla controffensiva e dall’occupazione tedesca dopo alcune settimane; altri raggiunsero, come nelle zone delle Langhe occupate dalle formazioni Garibaldi, l’obiettivo di mobilitare almeno parzialmente la popolazione e lo stesso clero per libere elezioni di Giunte popolari comunali dotate di autonomie decisionali in ma­ teria amministrativa; altre iniziative, ancora, come nelle aree delle stesse Langhe presidiate dagli autonomi, rivestirono mero carattere di affidamen­ to di compiti similari da parte dei comandi militari a delegazioni civili di loro designazione. Nell’Alto Monferrato e nell’Ossola, tra ottobre e no­ vembre del '44, si ebbero invece organismi interpartitici che si attribuiro­ no funzioni di governo - l’uno quale Giunta popolare di governo provvi­ sorio, l’altro quale Giunta provvisoria di governo di Domodossola e della zona - , talché si parlò di Repubblica dell’Alto Monferrato e di Repubblica dell’Ossola, quest’ultima contrassegnata da arditi progetti innovativi che videro, tra l’altro, un abbozzo di riforma dei testi scolastici. Latitudine e risultati effettivi di tali esperienze furono necessariamen­ te relativi alla durata e alla somma di problemi posti dall’occupazione, alla

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impreparazione medesima dei civili a incombenze di autogoverno, alla per­ manente minaccia nemica. La scelta medesima di occupare stabilmente fa­ sce di territorio sollevò perplessità nel fronte resistenziale: da un lato, per­ ché si rischiava di vincolare pericolosamente le unità partigiane a compiti di difesa statica difficilmente a lungo sostenibili in caso di offensive nemi­ che; dall’altro, perché le occupazioni implicavano impegni di regolazione della vita civile, dei rifornimenti e delle risorse alimentari in zone accer­ chiate, e riversavano sulle formazioni oneri oltremodo gravosi, mentre si esponevano gli abitanti, in caso di ritirata dei partigiani, a spietate rappre­ saglie. Le zone libere affermavano, in ogni modo, un momento di crescita del movimento e una dimostrazione di volontà di far maturare la coscien­ za civile e politica delle popolazioni unitamente allo sforzo di ordinare, nei modi possibili, scenari economici sovente allo stato del depauperamento e dell’anarchia di mercato. Il difficile autunno-inverno 1944-45. Nell’infuocata estate del '44, le oc­ cupazioni di territori, di conserva con l’incedere offensivo delle formazio­ ni, parevano contenere presagi di un vicino sbocco della lotta, ritmati dal procedere impetuoso degli alleati verso il Settentrione italiano e dai rove­ sci tedeschi sullo scacchiere europeo. I comandi germanici concentrarono le loro decresciute disponibilità di forze antipartigiane sull’obiettivo di te­ nere sgombre le vie di collegamento dal Piemonte alla Francia e di possibi­ le flusso dal confine alpino degli angloamericani in avanzata, dopo lo sbar­ co in Provenza dell’agosto, verso quei contrafforti. E fu nel settore-chiave della Valle Stura, a Pianche, sul nodo stradale in direzione del Colle della Maddalena, che, il 17 agosto, la 90“ divisione corazzata tedesca, avviata in appoggio alle unità in ritirata dal Sud della Francia, urtò nella resistenza di poco più di cento partigiani della brigata Gl Carlo Rosselli, impiegando quindi una settimana a raggiungere il passo. La Rosselli fu costretta a ri­ piegare oltralpe, ma riuscì - non senza acri contrasti con le autorità milita­ ri golliste - a evitare la perdita della propria autonomia e venne inserita nel­ lo schieramento alleato sul fronte alpino, operandovi per l’intero inverno '44-45. L’episodio di Pianche ebbe citazioni nei bollettini di guerra ger­ manici, a evidente - e inusuale - riconoscimento della sua importanza. Le attese legate alle offensive alleate - per le quali gli angloamericani avevano richiesto il massimo sforzo alle formazioni - svanirono al princi­ pio dell’autunno con il rallentare e poi l’arrestarsi delle spinte verso il Nord Italia. La caduta di Domodossola il 14 ottobre, dopo cinque giorni di com­ battimenti, segnò la fine della Repubblica dell’Ossola; il 10 ottobre era ca­ duta la cittadina cuneese di Alba, dopo ventitré giorni di una occupazio­ ne decisa dal comando autonomo (peraltro, in contrasto con le direttive del Cmrp, che aveva messo in guardia le formazioni dal prendere posses­ so di centri abitati di una certa ampiezza, e nonostante il parere negativo del comando garibaldino delle Langhe). Tramontava la stagione accalora­ ta delle offensive partigiane. Fermi gli alleati al Centro Italia e sui crinali

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alpini, i tedeschi, avvalendosi anche dell’ausilio delle truppe della Rsi fat­ te rientrare dalla Germania, intendevano assicurarsi le spalle, e scagliarono una rinnovata serie di cicli di rastrellamenti su tutto l’arco della regione. Provate dalle battaglie dell’estate, con le riserve di munizioni gravemente intaccate e non reintegrate a sufficienza dai lanci alleati, alle soglie di un gelido inverno che spogliava i ripari di fogliame dei boschi, rendeva impro­ ba la vita alla macchia e inaridiva le fonti di alimentazione, le formazioni minacciavano di entrare in crisi. Il 13 novembre, la diffusione via radio del messaggio del maresciallo Alexander, comandante militare del settore Mediterraneo, con l’invito ai partigiani a smobilitare fino alla primavera, lasciò intravedere una prospettiva di disgregazione del movimento. Ma le reazioni del comando generale del Corpo volontari della libertà (Cvl) e del Cmrp non dettero spazio a ipotesi di scioglimento delle bande. Le diretti­ ve impartite prevedevano misure per adattare l’azione partigiana alla gra­ vità del momento, optando per tattiche più defilate, spostando unità dal­ le montagne alle pianure, scegliendo anche forme di occultamento in luo­ ghi che rendessero arduo individuare i gruppi: ma nessuna cessazione di attività. Nel complesso, l’impalcatura partigiana resse, tra pesanti sacrifici, in un clima di terrore che attanagliava città e campagne. Le formazioni si alleg­ gerirono degli elementi meno validi, adottarono misure di mimetizzazione, in talune situazioni rallentarono l’attività bellica, e il temuto sbandamento fu scongiurato. I cicli dei rastrellamenti nazifascisti, in una serie di settori partigiani, soprattutto nelle Langhe e nel Canavese, nelle valli di Lanzo e nel Biellese, furono durissimi, le perdite dei volontari elevate; talvolta, lo scompaginamento dei comandi e dei reparti si rivelò faticoso da rimontare; in alcune condizioni s’impose il passaggio in Francia attraverso le monta­ gne e là i volontari vennero disarmati. Nondimeno, ai primi avvisi della ri­ presa offensiva alleata sui fronti e all’addolcirsi dei rigori dell’inverno, il fronte partigiano riparti all’attacco accelerando la dissoluzione dell’appa­ rato fascista e incalzando i tedeschi. Igiorni della liberazione. Allo scadere del marzo '45 tutte le misure per la fase insurrezionale erano pronte: pronta la suddivisione in otto zone dello scacchiere militare regionale (I, Biellese; II, Valle d’Aosta; III, Valli di Lan­ zo - Canavese; IV, Valli del Pellice, Chisone, Sangone e Susa; V, Cuneese; VI, Langhe; VI bis, Monferrato; VII, Alessandrino; V ili, Monferrato); pron­ ti duecentocinquanta Cln locali per assumere i poteri; pronta l’intelaiatura delle cariche provinciali. Il Clnrp che, forte dell’intensità del moto resisten­ ziale nella regione - e anche di una sua primogenitura nell’insediarsi agli inizi della lotta -, aveva sempre tenuto a rimarcare qualche margine di autonomia verso lo stesso Clnai (in particolare elaborando ed emanando proprie dispo­ sizioni legislative), confidava di ottenere dagli alleati il riconoscimento dei poteri di direzione che si era guadagnato nei venti mesi. A deludere le aspet­ tative in tal senso, a fine marzo, giunse clandestinamente a Torino il sotto­

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segretario al ministero dell’Italia occupata Aldobrando Medici-Tornaquinci, incaricato di illustrare ai membri del Cln le invalicabili strettoie e le tempo­ raneità delle loro funzioni dettate dalle clausole degli alleati. La missione se­ gnalava le preoccupazioni angloamericane per la massiccia prevalenza in Pie­ monte delle forze inquadrate dai partiti di sinistra, comunisti in testa: il timo­ re era palesemente che si ripetesse una vicenda insurrezionale analoga a quella verificatasi in Grecia. La svolta insurrezionale fu preannunciata dallo sciopero generale del 18 aprile indetto a Torino dalle cellule sindacali clandestine e dal Cln (in seno al quale i soli socialisti espressero iniziali riserve, superate dall’intervento di Rodolfo Morandi). Sorpresi e disorientati dall’imponenza della dimo­ strazione, che aveva paralizzato la città e si allargava ad altri centri della re­ gione, i fascisti registrarono un completo crollo dei loro apparati. La sera del 24 aprile, il Cmrp emanò a tutte le formazioni il Piano E 27 per l’insurrezione a partire dal 25. Le squadre di fabbrica delle Sap occuparono gli stabilimenti e iniziò l’assalto ai nidi di resistenza fascisti. I tedeschi, dopo aver minacciato di cannoneggiare il capoluogo regionale se non si fosse con­ sentito il transito in città delle loro due divisioni, la 5“ e la 34“, in ritirata verso l’Eporediese, di fronte al fermo diniego del generale Trabucchi ri­ nunciarono a forzare le difese partigiane e sfilarono ai margini della città, non senza compiere un massacro di sessanta civili e volontari a Grugliasco. Si ebbe anche una oscura manovra del comando della missione alleata del tenente colonnello John Stevens, paracadutato in Piemonte nel dicembre '44, al fine di ritardare la convergenza delle formazioni foranee su Torino e di fare fallire l’insurrezione nel capoluogo. Ma la manovra fu sventata dalla determinazione dei comandi partigiani. Il 26, il Clnrp redasse il manifesto che annunciava l’assunzione dei poteri e recava le firme dei suoi compo­ nenti: il presidente, Franco Antonicelli, Paolo Greco del Pii, Andrea Guglielminetti ed Eugenio Libois della De, Mario Andreis e Alessandro Ga­ lante Garrone del Pda, Rodolfo Morandi e Giorgio Montalenti del Psiup, Giorgio Amendola e Amedeo Ugolini del Pei. Il i° maggio, una smilza avanguardia alleata entrò in Torino già presi­ diata dai partigiani che liquidavano i residui centri di cecchinaggio; gli organi di governo del Cln erano insediati e i servizi pubblici essenziali in funzione. Gli altri capoluoghi della regione furono liberati in modo so­ stanzialmente incruento, salvo Cuneo, dove un’azione combinata delle formazioni provenienti dalla montagna e delle Sap cittadine si protrasse fi­ no al 28 aprile, quando i reparti tedeschi defluirono verso Torino subendo ancora l’attacco partigiano tra Savigliano e Cavallermaggiore. Alla liberazione, lo schieramento partigiano piemontese comprendeva cinquanta divisioni, nove brigate indivisionate (una Autonoma, sei di Gl, due di Rinnovamento), i nuclei dei Gap e delle Sap delle differenti forma­ zioni. La struttura di questo organico presentava: dodici divisioni Autono­ me, sedici Garibaldi, dodici di Gl, sette divisioni Matteotti, tre Rinnova­ mento del Cuneese, di orientamento democratico-repubblicano e che ave­

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vano operato nella Valle del Pesio al comando di Piero Cosa avendo Gio­ condo Giacosa quale commissario politico. Sotto la dizione di Autonome, si raggruppavano unità di differente orientamento e composizione. Mentre, infatti, le forze inquadrate nelle Langhe al comando del maggiore Martini Mauri si richiamavano alla con­ tinuità con il disciolto regio esercito e di fatto alle tradizioni sabaude, ta­ lora rimarcando una dipendenza condizionata dal Clnrp e dal suo organo di direzione militare, la divisione Adolfo Serafino delle valli del Chisone e del Germanasca, e la divisione Sergio De Vitis di Valle Sangone erano a mag­ gioranza di orientamento repubblicano e inquadravano forze di diversa co­ loritura politica: la prima aveva una brigata a tendenza comunista, la se­ conda comprendeva una brigata Garibaldi, una Gl, una monarchico-liberale e una a tendenza socialista. In totale, in Piemonte - inclusa la provincia di Novara, le cui unità par­ tigiane furono smobilitate in Lombardia - sono stati riconosciuti dalle appo­ site commissioni (ma i computi erano ancora nel 1997 soggetti a verifiche, con 8216 qualifiche sottoposte a revisione): 43685 partigiani, di cui - in cinque province, Novara esclusa - 1478 donne, 17 357 patrioti, di cui 1200 donne, 17 057 benemeriti (qualifica assegnata nella regione ai collaborato­ ri non appartenenti alle unità in armi), di cui 1076 donne. Nei venti mesi di lotta, il movimento aveva sacrificato 5794 volontari, di cui 86 donne, e aveva avuto 4566 fra mutilati e invalidi. Non esistono rilevazioni attendi­ bili sul totale dei civili uccisi per rappresaglie dai nazifascisti, o comunque morti a causa di fatti di guerra nel periodo. Alcuni indicatori parziali - ad esempio, quello fornito dall’unica rilevazione su scala provinciale delle vit­ time civili dei venti mesi effettuata in materia nel Cuneese, con 2500 morti registrate, seppure in notevole percentuale senza accertamento delle cau­ se dei decessi - fanno presumere che il loro numero ascenda, su scala re­ gionale, a parecchie migliaia di uomini e donne. Del pari non sicuramente accertato è il numero complessivo reale delle deportazioni in Germania di partigiani e civili, stimato approssimativamente nell’ordine di venticinquemila. Nota bibliografica.

D. L. Bianco, Guerra partigiana, Einaudi, Torino 1954; V. Castronovo, Dalla Resistenza alla ricostruzione, in Id., Storia d ’Italia. Le regioni, I. Il Piemonte, Einaudi, Torino 1977, pp. 524-601; M. Diena, Guerriglia e autogoverno, Guanda, Parma 1970; M. Giovana, La Resi­ stenza in Piemonte. Storia del CL. N. regionale piemontese, Feltrinelli, Milano 1962; G. Pero­ na (a cura di), Formazioni autonome nella Resistenza. Documenti, Angeli, Milano 1996; A. Po­ ma e G. Perona, La Resistenza nel Biellese, Guanda, Parma 1974; M. Renosio, Colline parti­ giane. Resistenza e comunità contadina nell’Astigiano, Angeli, Milano 1994; A. Trabucchi, I vìnti hanno sempre torto, La Nuova Italia, Firenze 1947; G. Vaccarino, G. Rovero e G. Neppi Modona, Aspetti della Resistenza in Piemonte, Book Store, Torino 1977; A. Young, La mis­ sione Stevens e l ’insurrezione di Torino, in AA. W ., L ’insurrezione in Piemonte, Atti del Con­ vegno di Torino (18-20 aprile 1985), Isr Torino, Angeli, Milano 1987, pp. 94-142.

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La situazione socìopolitica. Nel ventennio della dittatura, note costan­ ti delle fonti informative di polizia e di quelle delle segreterie del Partito nazionale fascista (Pnf) locale agli organi di governo fino alla vigilia del con­ flitto mondiale, erano indicazioni della freddezza di Torino verso il regi­ me, del distacco della città dalle manifestazioni più rumorose del fascismo, del persistere nelle masse lavoratrici di atteggiamenti di noncuranza, quan­ do non di ostilità, nei suoi confronti. A datare dalla dichiarazione di guer­ ra alla Francia, nel giugno del '40, prefetto, questore, agenti dell’Opera di vigilanza e repressione antifascista (Ovra) registravano profonde contra­ rietà dell’opinione pubblica all’avventura militare, crescenti malumori per le incipienti difficoltà degli approvvigionamenti, i’accentuarsi di indizi di generale distacco dal regime, accanto all’affiorare di più specifici avverti­ menti del possibile risorgere di una opposizione politica non limitata alle attività clandestine comuniste, tenacemente sempre sopravvissute alle re­ pressioni, seppure attraverso sparse e ridotte cellule di militanti. A metà del '42, il deteriorarsi della situazione economica, la succes­ sione delle pesanti incursioni aeree e il rarefarsi dei generi di prima ne­ cessità su di un mercato dominato dalla speculazione di “borsa nera”, con i salari operai sempre meno in grado di sopperire alle esigenze dei lavora­ tori, acutizzavano il malcontento al punto che tra la fine dell’agosto e il settembre si verificavano episodi di fermate della produzione in alcune fab­ briche; nel gennaio e febbraio del '43 le proteste si ripetevano. Frattanto, proprio a Torino, Pei e Psiup davano corso all’intesa stipulata in Francia dai due partiti in esilio per un Comitato di fronte nazionale di azione da allargarsi alle altre forze dell’opposizione, il primo sorto in Italia. Il i° marzo avevano inizio i blocchi delle produzioni alla Fiat Mirafiori, estesi­ si poi, fino al 18 del mese, ad altri grandi complessi cittadini e ripresi in altri punti della regione, scioperi spontanei, con rivendicazioni salariali e di approvvigionamenti alimentari cagionate dall’intollerabilità delle con­ dizioni di vita, ma nelle quali si era prontamente inserita l’iniziativa co­ munista per caricarle di significato politico, anzitutto propagandando la parola d ’ordine della pace accanto a quelle delle rivendicazioni salariali. La dura repressione fascista - ottantasette deferiti al Tribunale speciale non valse a placare i fermenti.

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Il colpo di stato del 25 luglio '43 sopravvenne in questa atmosfera sur­ riscaldata: gli operai scesero in sciopero per tre giorni, folle di cittadini si ri­ versarono nelle piazze inneggiando alla caduta del regime, cinquecento de­ tenuti politici furono liberati a forza dalle carceri cittadine, la Casa del fa­ scio venne assalita e saccheggiata. Né la reazione popolare parve intimorita dallo spiegamento dell’esercito e dalle intimazioni del comandante il presi­ dio, generale Enrico Adami Rossi. Si costituì in quei giorni il comitato dei partiti antifascisti (Pei, Psiup, Gl-Pda, De, Pii), sotto la denominazione di Fronte nazionale. Il delinearsi, in agosto, di un evidente pericolo di reazio­ ni tedesche, spinse il Fronte a sollecitare un intervento presso Adami Ros­ si per offrirgli la collaborazione dei civili: una delegazione accompagnata dal senatore Alfredo Frassati - giolittiano, ex ambasciatore a Berlino ed ex proprietario del quotidiano «La Stampa» - e dal presidente della Corte d’Appello, Domenico Riccardo Peretti Griva - vicino al Pda - fu ricevuta dal generale-prefetto, che rifiutò ogni offerta e minacciò di arresto gli in­ terlocutori. I militanti del Pda aprirono allora un centro per iscrizioni a una costituenda Guardia nazionale e i comunisti assunsero le prime misure per l’emergenza che si avvertiva prossima. La vicenda dei venti mesi della Resistenza in Torino va collocata in que­ sto contesto, in cui erano lievitati molteplici fattori di stanchezza e di ri­ bellione popolare verso il regime, erano riemersi un po’ alla volta uomini e filoni di opposizione al fascismo mantenutisi fedeli alle proprie ispirazio­ ni - sia pure nel silenzio durato per anni o nella tormentata clandestinità di piccoli cenacoli di partito (era il caso dei comunisti) -, si erano conservati saldi rigetti morali e culturali nei confronti della dittatura. La stessa fedeltà monarchica, radicata in tanta parte dell’universo cittadino per gli antichi retaggi della capitale sabauda, conteneva talvolta più di un fattore di riser­ va, e talora di sostanziale rifiuto, del primato fascista nella direzione del paese, delle sue milizie di partito, delle sue prevaricazioni ed esteriorità che avevano teso a offuscare l’immagine e a emarginare le funzioni della Coro­ na; le cui responsabilità nell’avvento della dittatura, dai fedeli di Casa Sa­ voia, venivano riportate a circostanze di forza maggiore, ma si volevano se­ parate dagli eccessi del regime e, in ogni modo, non intaccavano la fede nel­ la maestà suprema dell’istituto. L’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre precedette di poco l’arrivo in città di una modesta avanguardia tedesca, che prese possesso senza col­ po ferire dei punti-chiave urbani e ricevette la resa altrettanto incruenta della guarnigione militare. Il generale Adami Rossi era rimasto sordo ad ogni tentativo del comitato antifascista di indurlo a distribuire armi ai ci­ vili e si era recato di persona incontro alle truppe del Terzo Reich per gui­ darle in Torino, anticipando così la propria adesione alla nascente Repub­ blica sociale italiana (Rsi). Nelle ore successive al tracollo del dispositivo militare e alla comoda diserzione dell’apparato dello stato di fronte ai na­ zisti, mentre ricomparivano cautamente i fascisti, volatilizzatisi il 25 luglio, i cinque partiti del Fronte antifascista deliberarono la costituzione del Co­

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mitato di liberazione nazionale (Cln). Occorre tenere presente come, date le condizioni di clandestinità e di dispersione da cui usciva l’opposizione antifascista, le rappresentanze politiche fossero sovente il risultato di desi­ gnazioni effettuate da ristrette cerehie di persone: i soli a possedere un te­ nue tessuto organizzativo e relativi legami con le centrali di partito erano i comunisti. Nondimeno, la formula dell’unità ciellenistica venne entro bre­ ve ampiamente recepita dall’opinione pubblica come autorità che racco­ glieva in sé la legittimità della rivolta popolare antitedesca e antifascista e ne rappresentava la guida naturale. Autunno e inverno '43 e inizio della primavera '44 furono soprattutto contraddistinti, nella realtà resistenziale torinese, dall’incalzare anche spet­ tacolare dell’azione dei Gruppi d’azione patriottica (Gap) comunisti, co­ mandati dapprima da Ateo Garemi, quindi da Giovanni Pesce «Visone», cui succedette Walter Nerozzi - «Bruno», «Negrini» -, e dalle agitazioni operaie. I Gap ripetevano un’esperienza mutuata dalla Resistenza france­ se e “importata” dai militanti comunisti italiani che vi avevano partecipa­ to: essi attuarono una serie di sabotaggi e di attentati che costrinsero il ne­ mico a barricarsi nelle sedi del circuito cittadino come in una catena di aree assediate, il che rendeva visibilmente la condizione di isolamento e di ti­ more nella quale tedeschi e fascisti vivevano. Ma l’apparato poliziesco e re­ pressivo di questi ultimi - che costituiva poi l’essenza della loro funzione subalterna - si impegnò a fondo per contenere l’offensiva terroristica, che metteva in gioco le sue stesse capacità di controllo della città, e i gruppi gap­ pisti subirono perdite ingenti: tanto da trovarsi, allo spuntare della prima­ vera del '44, praticamente in crisi e comunque costretti a ridurre drastica­ mente le proprie incursioni. L’azione operaia, viceversa, metteva in luce, da un lato, la drammaticità della situazione economica in cui versavano i lavoratori, dall’altro il potenziale di rottura che essi opponevano ai nazifa­ scisti, anche con alcune punte politiche di impronta estremistica che preoc­ cupavano i comunisti e che il Pei faticherà a riassorbire. Le agitazioni operaie. L’epicentro delle contestazioni di massa rimane­ va nelle officine della Fiat. E gli scioperi del novembre-dicembre '44 pre­ sero corpo, infatti, nel grande complesso industriale come risposta a dila­ zioni nei pagamenti dei salari decise dalla direzione dell’azienda, allargan­ dosi quindi alle altre maggiori fabbriche cittadine e della provincia, e anche a piccole e medie industrie, con pieno successo. Le autorità e l’organizza­ zione sindacale fascista tentarono una mediazione siglando un “accordo” che i lavoratori giudicarono subito insoddisfacente, rinnovando l’intensità della protesta che non si affievolì nemmeno di fronte a successivi interventi tedeschi e della direzione della Fiat per fissare nuovi protocolli d ’intesa. Una volta ancora, gli scioperi ebbero carattere fortemente autonomo e spon­ taneo, scontando sia il persistente, labile legame del Pei - che era, peraltro, la sola forza politicamente traente in quel settore - con le masse lavoratri­ ci, sia la più generale debolezza e le contraddizioni del Cln rispetto ai prò-

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blemi delle rivendicazioni operaie. In seno al comitato era stato creato un Comitato clandestino sindacale di cui facevano parte comunisti, socialisti e democristiani; ma i suoi membri erano divisi sulla opportunità di conser­ vare le Commissioni interne, demagogicamente sostenuta dal sindacato fa­ scista nell’ambito di una tattica aggirante che tendeva, assieme, a legitti­ mare presso i lavoratori il suo ruolo e a coinvolgerli in rapporti contrattua­ li diretti a svuotarne gli impulsi di opposizione politica. In realtà, la situazione del movimento dei lavoratori e delle sue agita­ zioni si svolgeva tra complesse manovre in cui fascisti, tedeschi e industriali perseguivano ciascuno obiettivi propri, e l’attivismo comunista spingeva a posizioni di scontro frontale e di endemica rivolta - un “estremismo” del­ la Federazione del Pei torinese che verrà condannato dalla direzione del partito - tese a forzare una massa operaia stretta da inderogabili esigenze di cogliere miglioramenti salariali, ottenere soccorsi in viveri e generi di pri­ ma necessità. L’autorità militare tedesca, interessata in primo luogo al re­ golare andamento della produzione di guerra, non esitava a sconfessare le tattiche del sindacato fascista e a farsi parte attiva per accordi che venisse­ ro incontro in qualche misura alle richieste dei lavoratori (e non esitava nep­ pure a ostacolare il reclutamento di lavoratori per la Germania a opera delle organizzazioni tedesche). Gli industriali tendevano a salvare i loro rappor­ ti con i committenti nazisti e gli stabilimenti da eventuali piani di sman­ tellamento degli impianti per inviarli nel Reich; nel contempo, essi si preoc­ cupavano di contenere il malcontento degli operai e di preservare il patri­ monio che questi costituivano per l’azienda anche in vista della ricostruzione postbellica. Ne derivavano incertezze e pause di riflessione nella massa dei lavoratori dinanzi alle parole d’ordine di sollecitazione a incessanti azioni di lotta; né la conduzione dell’azione sindacale da parte dei dirigenti co­ munisti (i soli che nel fronte antifascista ne fossero gli effettivi protagoni­ sti) pareva adeguata alle difficoltà obiettive in cui essi si dibattevano quan­ do il nemico offriva piattaforme di trattativa salariale e avanzava promes­ se di rifornimenti di beni indispensabili. Da qui l’andamento non lineare in termini economico-sindacali delle agitazioni, che dal novembre al dicembre '43 e poi nel gennaio '44 si pro­ dussero nelle fabbriche, segnando in pratica sconfitte delle rivendicazioni operaie e disorientamenti del movimento. Tuttavia, il permanente atteg­ giamento di ostilità della massa lavoratrice, il ripetersi delle agitazioni, l’evi­ dente incapacità del sindacato fascista di accreditarsi come interlocutore credibile e i limiti che puntualmente rivelavano le concessioni dei tedeschi - ormai chiaramente decisi a ignorare le mediazioni dell’alleato -, accom­ pagnate da minacce e repressioni sempre più violente, facevano salire la temperatura della protesta e indicavano un radicalizzarsi della situazione. Le elezioni per le Commissioni interne indette nei luoghi di lavoro forni­ vano in generale eloquenti risposte: la percentuale dei votanti era bassissi­ ma, dalle urne uscivano irridenti messaggi al rinato fascismo. Il deteriorarsi della situazione indusse i comunisti, che nel frattempo avevano creato in

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parecchi stabilimenti torinesi dei Comitati di agitazione, a proporre la pro­ clamazione di uno sciopero generale. Inizialmente, nel gennaio 1944, la di­ rezione comunista, in previsione di possibili eventi risolutivi sul fronte di guerra, aveva previsto uno sciopero a carattere insurrezionale; ma, allon­ tanatasi questa prospettiva, l’agitazione era stata programmata con obiet­ tivi salariali e alimentari, di fatto riproponendo i temi delle lotte del no­ vembre-dicembre. Le agitazioni scattarono in febbraio, e culminarono nel marzo '44, con il concomitante appoggio di forze partigiane esterne che prolungavano dal­ le basi di montagna le loro azioni fino alla periferia della città. Se i risul­ tati sindacali della lotta non potevano dirsi soddisfacenti, l’esito politico della manifestazione di forza del movimento dei lavoratori fu senza dubbio più che significativo: gli stessi partiti del Cln che meno si erano mostrati propensi alla linea agitatoria propugnata dai comunisti - la De e il Pii - co­ glievano l’eco di una sollevazione che faceva toccare con mano al nemico l’isolamento nel quale si trovava, e anche la sua relativa impotenza, mal­ grado la durezza delle repressioni, di fronte a masse popolari che non si pie­ gavano. La cronaca e la storia dei venti mesi dal '43 al '45 in Torino ruotano principalmente attorno al clima di rivolta della città operaia, al vuoto di consenso che l’opinione pubblica creava alla parvenza di autorità del regi­ me della Rsi, alla paura che incutevano i tedeschi senza tuttavia riuscire a frenare una diffusa omertà e collaborazione con la ramificata organizza­ zione della Resistenza e, comunque, con le manifestazioni della sotterra­ nea reazione, variamente palesata o sottesa, al binomio fascisti-nazisti. Il tentativo fascista di presentare un volto di socialità aperta e persino rivo­ luzionaria, che facesse dimenticare le sostanziali sudditanze del regime del ventennio agli interessi della conservazione della destra economica rifa­ cendosi alle vantate origini del movimento, non dava segno di ingannare la stragrande maggioranza dei lavoratori. La realtà di pochezza e di isola­ mento del fatiscente regime della Rsi trovava, in un certo senso, una cas­ sa di risonanza veritiera nelle desolate ammissioni del giornalista Concet­ to Pettinato, direttore del quotidiano «La Stampa», che nel maggio del '44 descriveva, in un articolo dal titolo «Se ci sei batti un colpo», il dilagare incontenuto dei «cavalieri della macchia», partigiani per valli e ogni dove, a certificazione dell’inconsistenza dell’ultima creatura politica di Benito Mussolini. L’occupazione alleata di Roma nel giugno '44 apri nuove prospettive all’azione della Resistenza intensificando la guerriglia partigiana ma con­ temporaneamente affacciando il rischio che i tedeschi, in vista di una riti­ rata generale verso i confini, mutassero i loro programmi di sfruttamento delle risorse italiane e decidessero di trasferire in Germania il più possibi­ le di impianti industriali e intensificassero le deportazioni di manodopera. Quando, il 12 giugno, si diffuse la voce del progetto tedesco di trasferire l’officina 17 di Mirafiori, impegnata nella produzione di motori d’aereo,

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nelle gallerie del lago di Garda, iniziò la mobilitazione operaia. Il 21, il com­ missario prefettizio decretava la serrata a tempo indeterminato degli stabi­ limenti di Mirafiori, con il risultato di estendere le agitazioni anche ad altri stabilimenti unendo rivendicazioni salariali e lotta contro i trasferimenti degli impianti. Dal 17 al 27 giugno le industrie torinesi erano in gran parte bloccate; il 22, gli aerei alleati colpivano con estrema precisione l’officina 17, sgombra di maestranze per la serrata, tanto da far pensare che la stessa direzione del­ la Fiat avesse sollecitato l’incursione. Tutto il quadro della situazione tori­ nese era contraddistinto da questi segnali di tensione. Tedeschi e industriali capirono di dover procedere con molta cautela; e difatti lo spostamento de­ gli impianti sul Garda fu attuato con lentezza - nell’autunno, l’officina 17 non sarà ancora attiva nella nuova sede - e furono accantonati sia i piani di smantellamento generale dell’apparato industriale del paese, sia il proget­ to di deportarne gli operai. L’agitazione aveva quindi conseguito un risul­ tato di fondo; e, del resto, nelle fabbriche si lavorava ormai a smontare e nascondere pezzi dei macchinari più importanti, e si preparavano i nuclei delle Squadre di azione patriottica (Sap) destinati a difendere gli stabilimenti nella fase insurrezionale. Il movimento, infatti, si poneva ormai in un’ottica di preparazione dello scontro conclusivo: era evidente alle varie forze in gioco - tedeschi, fascisti, industriali, direzione delle masse operaie, settori moderati e conservatori del Cln e alleati - che i problemi della in­ surrezione torinese riguardavano un confronto non soltanto sul piano mili­ tare, poiché essi avrebbero posto in luce anche il ruolo egemonico o meno di forze che convivevano nella coalizione antifascista - quello dei settori padronali rispetto alle masse lavoratrici - e, in definitiva, determinato il si­ gnificato concreto da conferire alla battaglia di liberazione, sia di fronte agli alleati, sia nel contesto economico e sociale segnato dalla presenza di un mo­ vimento operaio cui l’avanguardia comunista imprimeva sollecitazioni di lotta guardate con timore dagli industriali come dagli angloamericani. Le fasi conclusive àella lotta e la liberazione àella città. A misura che il movimento di Resistenza nella regione si era sviluppato, era apparso ogno­ ra più evidente che Torino costituiva il suo centro direttivo politico e mili­ tare, di cui al nemico non riusciva di sradicare, nonostante la sistematicità delle repressioni e il terrore imposto in città, i nodi direttivi e organizzati­ vi. Al tempo stesso, la concentrazione operaia del capoluogo regionale, il peso che in essa e, più in generale, nei rapporti di forze entro il movimen­ to partigiano piemontese esercitavano le unità inquadrate nelle Garibaldi dall’iniziativa comunista, suscitavano preoccupazioni per la fase insurre­ zionale soprattutto nei comandi alleati, ma anche in settori della coalizio­ ne antifascista: lo stesso Pda, in una prima fase, si pronunciava per una in­ surrezione senza il concorso delle unità foranee. Il confronto politico della vigilia insurrezionale si concentrò attorno a tale questione, sulla quale i co­ munisti erano intransigenti, sospettando diffuse manovre dirette a far abor­

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tire la sollevazione e la liberazione della città prima dell’arrivo delle trup­ pe alleate (tanto da prevedere l’eventualità di scatenare da soli la battaglia conclusiva). Frattanto, cadevano nel vuoto i richiami alla «socializzazione» promossa dalla Rsi, accolti con pressoché totale e talora beffarda indiffe­ renza dalle masse operaie; e cadevano altresì nel nulla gli estremi tentativi fascisti di dividere il fronte delle opposizioni alimentando una scomposta campagna “antiborghese” tesa ancora a conquistare i favori dei lavoratori e culminata nella designazione a podestà di Torino di un operaio, Michele Fassio. A partire dal febbraio del '45 furono accelerati tutti i preparativi in vi­ sta della scadenza finale della lotta. Si insediò il Cln cittadino, destinato a diventare Giunta popolare alla liberazione, composto da: Ludovico Gey­ monat e Augusto Doro per il Pei, Fausto Penati e Cornelio Fazio per il Pda, Mario Passoni e Domenico Chiaramello per il Psiup, Giovanni Bovetti e Giacinto Zaccheo per la De, Guido Verzone e Michele Barosio per il Pii, Piera Verretto-Perussone e poi Maria Savio in rappresentanza dei Gruppi di difesa della donna, Cecco Giovine e poi Giovanni Cairola per il Fronte della gioventù, Alfredo Lucca per il Fronte degli intellettuali, Amedeo Ravina, comunista del gruppo Stella rossa per il Comitato di agitazione sin­ dacale, cui si aggiunsero ancora il comunista Gatti, il socialista Ostellino, il democristiano Bertolotti e il liberale Giovanni Cera; segretario del co­ mitato Giorgio Vaccarino, del Pda. Il 10 di quel mese, raggiunta l’intesa unitaria sulle modalità per la liberazione di Torino, fu emanato dal Co­ mando militare regionale piemontese (Cmrp) il piano di movimento delle forze partigiane foranee destinate a convergere sul capoluogo: il piano in­ dicava i perimetri della III (Valli di Lanzo - Canavese), IV (Valli del Pellice - Chisone - Sangone e Susa) e VIII Zona (Monferrato) quali aree di mas­ simo impegno delle formazioni, con duemilatrecento uomini provenienti dal­ la II (Valle d ’Aosta), V (Cuneese) e VI Zona (Langhe), per un totale di circ a diecimila partigiani. Il 20 aprile, il Cmrp avvertì i comandi partigiani che stavano per iniziare le operazioni conclusive scandite in tre fasi, di cui la se­ conda, liberate le varie zone, contemplava la liberazione di Torino, e la ter­ za l’aiuto da fornire alle operazioni alleate. Il 18 aprile, lo sciopero procla­ mato come prova generale dell’insurrezione da attuare aveva paralizzato la città e dato il segnale del completo isolamento delle autorità della Rsi, le cui strutture erano di fatto in piena dissoluzione. I fascisti avevano reagito con rabbia, aggredendo e assassinando civili, istigati da una stampa che tradiva, con i suoi toni esagitati, lo sconcerto e l’impotenza dell’agonizzante regime. Accanto al comando regionale del Cln si insediava il comando piazza di Torino, preposto ai cinque settori militari in cui era stata suddivisa la città e del quale assumeva il comando un esponente delle formazioni Garibaldi, Italo Nicoletto «Andreis». Nelle ore concitate di questa vigilia, si dispiegò la manovra intessuta dal comandante la missione alleata, tenente colonnel­ lo John Stevens, paracadutato in Piemonte nell’inverno, con lo scopo evi­ dente di bloccare i movimenti verso Torino delle unità foranee, di isolare

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le forze cittadine e quindi far fallire l’insurrezione, in attesa che le avan­ guardie alleate precedessero nel capoluogo la marcia partigiana. Un falso or­ dine di sospendere il movimento verso la città raggiunse le forze delTVIII Zona dopoché il Cmrp aveva emanato, la sera del 24 aprile, quello di ese­ guire il Piano insurrezionale E 27. I comandi partigiani, dopo breve esita­ zione, subodorando l’inganno non ne tennero conto e l’avvicinamento alla città fu ripreso. Ma, nel frattempo, le forze cittadine avevano iniziato l’insurrezione, le Sap preso possesso delle fabbriche da difendere e i combat­ timenti si sviluppavano nella cerchia urbana. Un immediato pericolo ven­ ne dalla richiesta dei tedeschi al Cmrp, tramite l’Arcivescovado, di con­ sentire per quarantott’ore il transito attraverso la città delle due divisioni, la 5ae la 34*, forti di trentacinquemila uomini e in spostamento verso l’Eporediese, con la minaccia, in caso contrario, di cannoneggiare la città. Il ge­ nerale Trabucchi respinse l’intimazione e le truppe tedesche sfilarono ai bordi di Torino. Quando, il i° maggio, una smilza avanguardia alleata si affacciò alla città, Torino era libera: funzionavano i principali servizi pub­ blici, il nerbo degli impianti e degli stabilimenti produttivi era stato salva­ to; in prefettura si era insediato il socialista Piero Passoni, in questura l’azio­ nista Giorgio Agosti, a Palazzo Civico il sindaco della città, il comunista Giovanni Roveda. Nel corso dei venti mesi di lotta, il capoluogo del Piemonte aveva dato alla Resistenza 1098 residenti caduti nelle formazioni partigiane e un nu­ mero di deportati calcolato approssimativamente in alcune migliaia di cit­ tadini. Al poligono di tiro cittadino del Martinetto erano stati fucilati cinquantanove resistenti. Nota bibliografica.

G. Carcano, Torino antifascista. Vent’anni di opposizione (1922-1943), Edizioni Anppia, Torino 1993; C. Della Valle, Le lotte operaie - Torino, in Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 183-253; G. De Luna, Torino in guerra, in Sto­ ria di Torino, V ili. Dalla Grande Guerra alla Liberazione (1915-1945), a cura di N. Tranfaglia, Einaudi, Torino 1998, pp. 80 4-26; P. Greco, Cronaca del Comitato Piemontese di Libe­ razione Nazionale. 8 settembre 1943 - 9 maggio 1945, in G. Vaccarino, G. Rovero e G. Neppi Modona, Aspetti della Resistenza in Piemonte, Book Store, Torino 1977, pp. 183-254; R. Luraghi, Il movimento operaio torinese durante la Resistenza, Einaudi, Torino 1958; G. Vac­ carino, Dalla clandestinità alla Giunta : il CLN della città di Torino, in Consiglio comunale di Torino, Atti consiliari, Serie storica, 1945-1946. La Giunta Popolare, «Il governo del Co­ mune di Torino dalla Liberazione alle prime elezioni amministrative del dopoguerra», Tori­ no 1995, pp. 9-14; A. Young, La missione Stevens e l ’insurrezione di Torino, in À A .W ., L ’in­ surrezione in Piemonte, Atti del Convegno di Torino (18-20 aprile 1985), Isr Torino, Ange­ li, Milano 1987, pp. 94-142.

M ARIO GIOVANA

Valle d’Aosta

L ’impulso autonomista e le forze resistenziali. Alle origini del movimento partigiano nell’allora provincia piemontese di Aosta - che comprendeva la città di Ivrea e l’Eporediese - vi furono le iniziative degli elementi auto­ nomisti della valle e dei comunisti. Esponente riconosciuto dei primi era il notaio Emile Chanoux, fondatore nel 1925 con l’abate Joseph Tréves del movimento Jeune Vallèe d ’Aoste che rivendicava la tutela delle pecu­ liarità etnico-culturali e linguistiche delle popolazioni locali, il riscatto dei valdostani da una lunga emarginazione economica e un’ampia autonomia amministrativa per il vasto complesso montano. Il movimento era stato soppresso dal regime fascista nel 1932, nel contesto di una drastica politi­ ca di negazione, di repressione di ogni specificità locale e di snaturalizza­ zione perseguita dalla dittatura. La crisi seguita al crollo militare dell’8 set­ tembre '43 aveva rinfocolato le spinte autonomiste. Il 19 dicembre Cha­ noux partecipava, insieme all’avvocato Ernest Page, in rappresentanza delle popolazioni valdostane, a un convegno indetto a Chivasso d’intesa con rappresentanti delle popolazioni alpine valdesi per riaffermare i dirit­ ti di queste minoranze: dal convegno scaturiva una Dichiarazione comune nella quale alcune delle proposte fondamentali del notaio aostano - au­ tonomie locali di tipo cantonale svizzero in uno stato federale e repubbli­ cano - trovavano pieno accoglimento. L’iniziativa comunista per la Resi­ stenza si basava, invece, sulla tenace persistenza lungo il ventennio fascista di nuclei, seppure modesti, di militanti e sull’immediata azione promotri­ ce di gruppi pronti alla guerra partigiana svolta da Emile Lexert «Milò» e Giovanni Chabloz «Carlo». Da questa duplice radice nasceva un movi­ mento che, tra l’autunno e l’inverno '43-44, enucleava lungo tutto l’arco delle valli aostane parecchi gruppi in fase di organizzazione militare, at­ tuava i primi sabotaggi e le prime azioni offensive contro i presidi fascisti, sia pure con un avvio della lotta generalmente lento - in parte dovuto al­ le difficoltà di armamento, in parte, sembrerebbe, all’influenza di Cha­ noux, preoccupato di conferire stabilità al tessuto partigiano e garantirgli largo consenso fra le popolazioni. Un Comité de Liberation dei promotori del movimento di varia ispira­ zione ideale e politica si assunse il compito di coordinale le iniziative resi­ stenziali: lo componevano Emile Chanoux, Lino Binel, Emile Lexert, Ame­

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deo Berthod, Giuseppe Brean, Guglielmo Caracciolo. Alle soglie della pri­ mavera '44, mentre il fallimento delle leve e dei richiami alle armi della Re­ pubblica sociale italiana (Rsi) portava ai gruppi partigiani numerose reclu­ te e prendeva consistenza la guerriglia, si decantava anche il panorama de­ gli assetti interni al movimento con separazioni di nuclei dai primitivi reparti: dalla banda del comunista Lexert si distaccavano, infatti, Celesti­ no Perron «Tito», Silvio Gracchini «Silvio» e Giulio Bertoccino «Guerra», che davano vita al gruppo Tito in Valtournanche, al 130 gruppo Chanoux a Trois Ville e al gruppo Edelweis nella conca di Fénis. Erano le avvisaglie dell’insorgere di complessi problemi di differenziazione politica e di con­ trasti concorrenziali per il controllo delle valli che, se non frenavano gli svi­ luppi della guerriglia, prospettavano acute tensioni nel movimento e mi­ nacciavano di intaccarne l’azione unitaria: a tentare di scioglierne i nodi il Comitato di liberazione regione Piemonte (Clnrp) aveva delegato Duccio Galimberti, comandante regionale delle formazioni Giustizia e libertà (Gl) e membro del Comando militare regionale piemontese (Cmrp), anche per il fatto che nella “bassa” si stabiliva - a maggio del '44, provenendo dalle Val­ li di Lanzo - la brigata Gl Mazzini al comando di Pedro Ferreira, che pren­ deva a gravitare sulla Valle di Champorcher ma con l’intento di estende­ re la propria influenza su tutto il territorio valdostano. Contemporanea­ mente, le formazioni Garibaldi proiettavano le loro forze dal Biellese nella bassa valle, unità delle formazioni M atteotti si organizzavano nella zona di Saint-Vincent, formazioni Autonome, a sfondo autonomistico e non, con­ trollavano alcune valli laterali. Si delineavano, sul filo delle questioni inerenti il controllo del territorio da parte delle varie forze partigiane, insofferenze di taluni capi valdostani per intromissioni dall’esterno nelle quali tenden­ ze autonomistiche talora si fondevano con intenti di arginare soprattutto l’espandersi delle bande garibaldine cui lo stesso Chanoux recava Uproprio autorevole apporto. L ’incremento della lotta partigiana. La spinta offensiva partigiana, da maggio del '44, assumeva dimensioni crescenti: il i° del mese veniva oc­ cupata Verrès, quindi reparti della Mazzini, unitamente a quelli della ban­ da garibaldina Mont Zerbion, liberavano la Valle di Champorcher, re­ spingendo poi un tentativo fascista di riconquistarne il capoluogo. I ra­ strellamenti antipartigiani cominciavano a segnare la Valle d ’Aosta di rappresaglie contro i civili: l’abitato di Vérana apriva la serie dei centri in­ cendiati, cui sarebbero seguiti quelli di Perloz, Trois-Villes, Fénis; la vio­ lenza nazifascista avrebbe altresì infierito sugli inermi, uccidendo undici abitanti di Nus, otto di Saint-Pierre, sette di La Clusaz, quattro di Arnad, massacrando dodici civili a Leverogne. La cattura, il 18 maggio, da parte dei fascisti, e la tragica fine di Emile Chanoux scompaginavano il comita­ to aostano, causando l’esodo in Svizzera di parecchi dei suoi membri, ma soprattutto provocando una brusca accentuazione dei contrasti tra le for­ mazioni di matrice locale e di orientamento autonomista, presenti in pre­

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valenza nella inedia e alta valle, e quelle della bassa valle. Il Cln regionale e il Cmrp, in specie con la mediazione del presidente di fatto del Clnrp, Paolo Greco, e l’intervento attivo di Galimberti, ottenevano una sparti­ zione delle responsabilità di comando che si contava ricreasse un equili­ brio unitario fra i diversi settori partigiani: il comando della bassa valle era assegnato a Pedro Ferreira, quello della media e alta valle al capitano Ce­ sare Ollietti «Mésard», punto di riferimento degli autonomisti ma anche di latenti spinte annessioniste filofrancesi che si sarebbero manifestate in modo aperto nell’estate-autunno nelle stesse file di comando della sua for­ mazione e verso le quali egli verrà accusato di connivenze o, comunque, di comportamenti ambigui. La tarda primavera e l’estate registravano il deciso balzo in avanti del­ l’azione offensiva partigiana con l’occupazione di Cogne il 5 luglio, quindi delle intere valli Valsavaranche e Valgrisenche, e in entrambe sorgevano amministrazioni locali dei Cln; venivano attaccate le principali vie di co­ municazione e un’azione di duecentosessanta uomini provocava l’interru­ zione dell’importante nodo stradale della Mongiovetta; sabotaggi alle linee dell’alta tensione, distruzioni lungo la linea ferroviaria, continui agguati di nuclei partigiani nei punti critici dei transiti del traffico davano di fatto al­ le bande il controllo di gran parte del territorio: nell’agosto, i nazifascisti erano a malapena in grado di fruire delle comunicazioni sull’asse centrale del fondo valle. Scendeva in lotta, il 12 luglio, anche la classe operaia di Co­ gne con un massiccio sciopero. I comandi stabilivano intanto relazioni e ac­ cordi di collaborazione con i maquisards del contiguo settore alpino, in un cli­ ma di fervide attese per una conclusione della vicenda di guerra in Italia che molti indizi facevano presumere non lontana. Dopo complesse tratta­ tive si raggiungeva un’intesa per il comando di zona - la II, nel dispositivo piemontese del Cmrp -, affidato al generale Emilio Magliano «Arnaud», quantunque i contrasti nel movimento non accennassero ad affievolirsi e, anzi, si radicalizzassero le spinte autonomistiche. Lo sbarco alleato nella Francia meridionale il 15 agosto '44 e l’avanza­ ta angloamericana fino ai crinali alpini rovesciarono totalmente la situazio­ ne. I tedeschi, che fino ad allora avevano considerato secondario il settore valdostano, erano costretti ad assumere la linea del suo fronte montano co­ me sbarramento a difesa delle posizioni a tergo del fronte italiano e pertan­ to fecero confluire in valle forti contingenti di truppe integrati da unità del­ le milizie e delle divisioni dell’esercito della Rsi. Circa duemila nazifascisti iniziarono dal settembre a rioccupare la valle con rapide offensive e nell’au­ tunno completarono le operazioni investendo sistematicamente le posizio­ ni partigiane e smantellandole. La crisi invernale del movimento si rivela­ va gravissima, acutizzata dalle difficoltà che le formazioni valdostane in­ contravano con le pretese dei comandi gollisti di sottomettere le formazioni della valle ai loro ordini e con le avvisaglie di una violenta campagna an­ nessionista fomentata da agenti d ’oltralpe ma sostanzialmente incrementa­ ta dall’atteggiamento degli esponenti del comitato di Chanoux, rifugiatisi

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in Svizzera dopo l’arresto del notaio: questi, fallite le trattative con la con­ federazione per l’annessione della valle, si erano decisamente appoggiati al­ la Francia e avallavano le rivendicazioni avanzate da De Gaulle sulla zona. Le premesse a l riconoscimento dell’autonomia. Costrette gran parte del­ le unità partigiane con i loro comandi a rifugiarsi in Francia a causa della durezza dei rastrellamenti tedeschi e delle asprezze di un inverno partico­ larmente rigido, l’attività di guerriglia si riduceva a sparsi colpi di mano di gruppi incalzati senza sosta dal nemico. Gli allarmi, destati dall’intensificarsi delle attività annessionistiche nella valle e dai malumori delle forti sol­ lecitazioni autonomistiche prive di qualsiasi garanzia sul futuro statuto della zona, trovavano un portavoce autorevole e impegnato presso il Clnrp e lo stesso Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai) nello storico val­ dostano Federico Chabod, partigiano e protagonista delle esperienze di au­ togoverno in Valsavaranche. Dalla seconda metà di agosto del '44, in coin­ cidenza con il prospettarsi di una vicina offensiva francese per occupare la valle, Chabod aveva moltiplicato i suoi avvertimenti e i suoi appelli ai par­ titi della coalizione antifascista affinché elaborassero e rendessero nota una precisa dichiarazione di garanzie di autonomia amministrativa e linguisti­ ca per i valdostani, ammonendo sulle conseguenze di ritardi e incertezze in un panorama di montanti iniziative annessionistiche. Il 2 settembre '44 gli appelli dello storico avevano ottenuto un primo, parziale risultato con la Dichiarazione del Clnrp sul tema della autonomia culturale da concedersi alla valle; il 6 ottobre era il Clnai a emanare il Ma­ nifesto ai valdostani contenente l’affermazione che era dovere dellTtalia li­ bera assicurare il riconoscimento dei diritti del popolo della valle con un re­ gime di «ampia autonomia linguistica, culturale, amministrativa» nell’am­ bito di una comunità democratica rispettosa degli interessi locali e del decentramento dei poteri amministrativi; infine, il 16 dicembre successivo, il Presidente del Consiglio dei ministri del governo di Roma, Ivanoe Bo­ nomi, firmava un Messaggio per i patrioti e la popolazione della Valle d’Ao­ sta nel quale esplicitamente era affermato come fin da quel momento alla valle fosse garantita quell’autonomia amministrativa e culturale caldeggia­ ta da tutti i partiti. L’atto del governo centrale poneva le premesse ai de­ creti del Luogotenente del Regno del 7 settembre 1945 e quindi alla for­ mulazione dello Statuto Speciale del 26 febbraio 1948 con il riconoscimento della Regione Autonoma Valle d’Aosta. Ma l’ultimo periodo della Resi­ stenza e la fase immediatamente seguente la liberazione vedevano il pro­ blema valdostano ancora al centro di vivaci contestazioni e polemiche nel­ la valle, dove, fino dii’ultimatum indirizzato il 7 giugno '45 dal Presidente degli Usa al generale De Gaulle perché cessasse l’azione annessionista in Piemonte - pena la sospensione di ogni rifornimento militare alle sue for­ ze - , le agitazioni filofrancesi continuarono; gli autonomisti, per parte lo­ ro, non smisero di premere sull’autorità delegata dal governo del Cln, so­ stenuti da accalorate manifestazioni popolari, non prive di momenti di esa­

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sperata protesta per i ritardi del governo di Roma nel realizzare l’auspic ato ordinamento. G li ultimi mesi di guerra. La graduale possibilità di ripresa politico-militare della Resistenza valdostana dalle vicissitudini dell’inverno '44-45 si delineò tra la fine del gennaio e il febbraio '45 grazie anche agli sforzi del Clnrp e della delegazione del Clnai in Svizzera. Il 24 gennaio fu ricostitui­ to il Cln aostano - per due volte entrato in crisi - con la presidenza della socialista Ida Viglino - «Marco», «Piera» - e Alessandro Pollio Salimbeni «Ugo» per il Pda, Amato Berthet «Giorgio» per la De, Fabiano Savioz «Pie­ ro» per il Pei, ai quali un mese più tardi si aggiunse Carlo Torrione «Nun­ zi» per il Pii. Il 30 gennaio si procedette alla nomina da parte del Cmrp del nuovo comandante della zona, Eugenio Page «Ardes», proposto dai socia­ listi, e del commissario politico, il comunista Annibaie Caneparo «Renati». Al termine di lunghe e non facili trattative fra delegati del Clnai, rappre­ sentanti politici e militari francesi e missioni alleate, si ottenne che le for­ ze partigiane rifugiatesi in Francia - e trattate con ostilità dai comandi gol­ listi - venissero riarmate per rientrare in valle, e il movimento venisse rior­ ganizzato e rifornito con lanci sotto il controllo di due missioni alleate, Clarinda e Incisor. I nuclei rimasti in valle ripresero, agli albori della pri­ mavera '45, a operare su tutto il fronte. Alla liberazione, Porganico partigiano della Valle d’Aosta comprende­ va due divisioni: la i “, al comando di Giuseppe Cavaliere «Guarini», com­ missario politico Claudio Manganoni «Teli», su tre brigate: LXXXVII Au­ tonoma, CLXXXIII Garibaldi E. Lexert, CI Marmore e Sap G. Elter, per un totale di 878 partigiani combattenti e 492 patrioti; la 2“, al comando di Leone Dujany «Léon», c ommissario politico Sergio Lazzerin «Tano», su cinque unità: XVII M atteotti, CLXXVI e CXII brigata Garibaldi, XVI M atteotti Linty, III M atteotti Lys, per complessivi 1401 partigiani e 740 patrioti. Nel corso della resisteva armata e clandestina, secondo computi dei so­ dalizi resistenziali, 216 cittadini valdostani, di cui tre donne, sono caduti nella lotta, 30 sono rimasti mutilati, 98 feriti, 1540 sono stati internati, 98 sono dec eduti nei campi di prigionia militari, 20 sono stati deportati, 29 - su 351 volontari - sono caduti nelle formazioni combattenti all’estero; la po­ polazione civile ha contato 182 vittime, 454 edifici sono andati distrutti, per un insieme di 425 cittadini sinistrati. Nota bibliografica.

M. Giovana, La Resistenza in Piemonte. Storia del C L N . regionale piemontese, Feltrinel­ li, Milano 1962; Il contributo della Valle d ’Aosta alla guerra di liberazione, Presidenza del Con­ siglio, Ufficio storico per la guerra di liberazione, Roma 1946; R. Nicco, La Resistenza in Val­ le d ’Aosta, Musumeci, Quart 1990; C. Passerin d’Entrèves, La tempeta dessu notre montagne, s. e., Aosta 1946; S. Soave, Federico Chabodpolitico, Il Mulino, Bologna 1989.

LUIGI BORGOMANERI

Lombardia

Le condizioni sociopolitiche. Quarta fra le regioni italiane per estensio­ ne territoriale (23 801 km2), la Lombardia si presentava all’ultimo censimen­ to prebellico (1936) come la più popolosa con 5 836479 abitanti, 1301351 dei quali - pari al 47,5 per cento della popolazione attiva - addetti alla pro­ duzione industriale contro il 36,5 per cento del Piemonte e il 38 per cen­ to della Liguria. Il più elevato numero di insediamenti rappresentativi di tutti i settori vitali dell’industria nazionale, concentrati in particolare in Milano - Sesto San Giovanni, lungo la direttrice Milano-Legnano-Varese, nel Bergamasco e nel Bresciano (specialmente in Val Trompia), unitamen­ te alla ricca agricoltura della pianura irrigua della Bassa Padana e alla più alta produzione bovina e suina (rispettivamente 1509 005 e 477 304 capi al censimento del 1942), ne facevano la regione più importante dal punto di vista socioeconomico. Se le violenze squadriste e la ventennale repressione poliziesca avevano avuto ragione della combattività del proletariato indu­ striale e di quella espressa dalle leghe bracciantili, particolarmente forti nel­ le componenti cattoliche e socialiste del basso Cremonese e del Mantova­ no, le privazioni alimentari e il continuo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro imposti dallo sforzo bellico, congiunti ai rovesci militari dell’Asse e alle conseguenze dei bombardamenti alleati, determinarono anche in Lombardia un generalizzato e progressivo crollo del fronte interno, che eb­ be la prima e più vistosa manifestazione nello sciopero semispontaneo della fabbrica Magnaghi di Milano (ottobre 1942) - forse primo concreto risul­ tato della riattivazione del Centro interno del Partito comunista d ’Italia (Pedi; fine 1941 - inizi 1942) -, avvenuta nel capoluogo lombardo a opera di Umberto Massola e Piero Francini. La futura centralità antifascista di Milano, elemento maggiormente ca­ ratterizzante la geografia politico-resistenziale della Lombardia, oltre che per l’accennata importanza economica, si venne profilando già nei 1942 con l’intrecciarsi di una serie di iniziative politiche e riorganizzative intrapre­ se dalle diverse forze democratiche: nel maggio, assente Ferruccio Parri ar­ restato, Ugo La Malfa, Adolfo Tino, Vittorio Albasini Scrosati, Riccardo Lombardi e altri rappresentanti dei gruppi più attivi nel paese vi tennero la riunione costitutiva del Partito d ’azione (Pda), mentre dall’autunno il grup­ po dei neoguelfi milanesi, facente capo a Piero Malvestiti, Gioacchino Ma-

Borgomaneri

Lombardia

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lavasi e Edoardo Clerici, e finanziato dal giovane industriale Enrico Falck, intensificò con gli ambienti cattolici trentini e romani lo scambio di espe­ rienze che, nel luglio 1943, avrebbe portato alla stesura del cosiddetto «Pro­ gramma di Milano» e alla nascita della Democrazia cristiana, e, ancora, il 10 gennaio 1943, nell’abitazione del medico Lionello Beltramini, Lelio Bas­ so, Ermanno Bartellini, Domenico Viotto, Roberto Veratti, Corrado Bonfantini e altri diedero vita al Movimento di unità proletaria (Mup). La per­ cezione che la situazione politica generale andasse maturando spinse inol­ tre alla laboriosa tessitura di una trama unitaria che, dalla costituzione di un Fronte di azione antifascista - formato a Monza alla fine del 1942 so­ stanzialmente da comunisti e socialisti -, si concretò il 4 luglio 1943 a Mi­ lano in un Comitato d’azione antifascista che - seppure ancora limitato a compiti di collegamento - rappresentò tuttavia l’embrione del futuro Co­ mitato di liberazione nazionale (Cln) e la cui importanza era già significa­ tivamente testimoniata dalle personalità delegate a rappresentarvi i partiti che vi aderirono: Concetto Marchesi e Giorgio Amendola (Pei), Ugo La Malfa (Pri), Lelio Basso e Roberto Veratti (Mup), Giovanni Gronchi (De), Riccardo Lombardi (Pda), Antonio Greppi (Psi), Alessandro Casati (Pii). Gli spazi di relativa agibilità politica e organizzativa apertisi con gli av­ venimenti del 25 luglio 1943 favorirono poi negli altri capoluoghi provin­ ciali la nascita più o meno spontanea di ulteriori comitati a composizione varia, mentre le aspettative di pace, alimentate dalla caduta del regime e radicalizzate anche dagli effetti dei massicci bombardamenti alleati, sfociaro­ no in scioperi e agitazioni i cui contenuti politici - pace immediata e allon­ tanamento dei fascisti dai luoghi di lavoro - prevalsero ampiamente sulle richieste rivendicative e salariali: dalla Motomeccanica, dalla Om e dalla Bianchi di Milano, dalla Pirelli e dalla Breda di Sesto San Giovanni sciope­ ri e manifestazioni si estesero ad altri complessi industriali di Varese, Sa­ ranno, Pavia, Bergamo e Dalmine costando alla Lombardia, con ventitré morti e oltre cento feriti (non inclusi i deceduti nella rivolta del carcere mi­ lanese di San Vittore), il più alto tributo di sangue versato regionalmente alla repressione militare badogliana. L ’occupazione nazista e la repressione. All’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre 1943, i generosi quanto improvvisati tentativi di dar vita a una Guardia nazionale in funzione antitedesca, frustrati in primo luogo dalla cul­ tura antipopolare e dalla condotta dei comandi di presidio che rifiutarono di armare e inquadrare militarmente il volontariato operaio, non valsero a supplire i ritardi e la debolezza organizzativa dell’antifascismo, e i nazisti poterono facilmente disarmare i reparti italiani non ancora dissoltisi nel ma­ rasma generale. Muovendo dall’area Verona - Parma - Reggio Emilia - Mo­ dena - Bologna, dove erano state dislocate in agosto, forze del II SS-Panzer-Korps - formato dalle divisioni SS-Panzergrenadieren Leibstandarte Adolf Hitler (l s s a h ) e 2 4 “ Panzer - investirono l’intera Pianura padana rag­ giungendo poi le zone più interne della Lombardia, del Piemonte e del Ve­

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neto. Il giorno 9, dopo alcuni scontri, venne occupata Mantova, nei cui pres­ si furono poi temporaneamente concentrati i rastrellati lombardi e piemon­ tesi, e nella notte del 10 il grosso di un gruppo tattico varcò il Po in direzio­ ne di Pavia proseguendo poi per Vercelli, mentre il 30 battaglione del 20 reggimento Panzergrenadieren, agli ordini del futuro massacratore di Boves, maggiore Joakim Peiper, proseguì lungo la sponda destra del Po occupando Voghera. Nella stessa giornata vennero disarmate le guarnigioni nell’area compresa tra la riva meridionale del Garda, Brescia, Bergamo e il corso del Po fino a Cremona, dove in un tentativo di resistenza caddero una quindi­ cina di soldati del 30 reggimento artiglieria di corpo d’armata e i sottote­ nenti Mario Flores e Francesco Vitali. Il 12 settembre gruppi del 10 reggi­ mento Lssha iniziavano le operazioni di occupazione di Milano, Como e Va­ rese, e il giorno successivo neutralizzavano le guarnigioni di Gallarate, Busto Arsizio e Legnano. Mentre i rapporti divisionali germanici segnalavano ma­ nifestazioni di ostilità, lanci di sassi e «atteggiamenti sediziosi» registratisi tra la popolazione milanese e bresciana, a saccheggi, furti e arresti indiscri­ minati si accompagnarono immediatamente le prime uccisioni: il 12 set­ tembre quattro civili nel capoluogo lombardo e, nel Mantovano, don Euge­ nio Leoni, colpevole di aver dato rifugio a sbandati italiani; il 14 - secondo un documento del comando della l s s a h - vennero fucilati tredici comunisti in una non meglio specificata area del Milanese e il 19, nella vailetta Aldriga di Curtatone (Mantova), dieci soldati italiani. Negli stessi giorni, accanto alle strutture d’occupazione militare vennero immediatamente insediati i comandi della Sicherheitspolizei-Sicherheitsdienst (Sipo-SD) incaricati del­ la repressione poliziesca e della persecuzione antiebraica (Ufficio IV B 4 della Gestapo): l’albergo Regina di Milano fu requisito dall’AuGenkommando Mailand retto dal capitano Theodor Saevecke, da cui dipendevano i co­ mandi periferici di Varese, Bergamo, Pavia e Novara; a Monza, sede del generale Willy Tensfeld, comandante le SS nell’Italia nordoccidentale, fu installato un altrettanto tragicamente efficiente comando diretto dal fami­ gerato maresciallo delle SS Siegfried Werning; a Como il Grenzbefhelstelle West, agli ordini del capitano Josef Vòtterl e, infine, a Cremona, Mantova e Brescia (dove dall’estate del 1944 operò il capitano Erich Priebke) altrettan­ ti comandi periferici alle dirette dipendenze del comando centrale della Sipo-SD in Italia, dislocato a Verona agli ordini del generale Wilhelm Harster. Mentre sotto l’ala protettrice nazista si venivano ricostituendo le fede­ razioni provinciali del neonato Partito fascista repubblicano (Pfr) e i più violenti figuri risfoderavano le passate vocazioni squadriste - dalle squa­ dre d’azione milanesi sarebbe in breve tempo derivata la famigerata legio­ ne autonoma impiegata nella repressione antipartigiana in Lombardia e in Piemonte -, le boscaglie del Ticino e dell’Adda nell’Abbiatense e nel Lodigiano diedero provvisorio asilo a ex prigionieri di guerra alleati e milita­ ri sbandati, alcuni dei quali - organizzati da comunisti nella brughiera gallaratese, nei boschi del Vigevanese e in quelli di Turano (Lodi) - cercaro­ no di darsi un embrione di organizzazione armata. Contemporaneamente

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in diverse località delle Prealpi, al comando di ex ufficiali del disciolto eser­ cito o guidate da militanti comunisti o soccorse da alcuni neocostituiti Cln locali (Bergamo, Brescia, Como, Lecco, Acquate, Monza, Varese), si ven­ nero formando le prime bande, le più consistenti delle quali si stanziaro­ no nel Varesotto sul Monte San Martino, nel Bresciano sul Monte Martello e nella zona attorno a Lovere e Clusone, e nel Lecchese nei rifugi attorno a Piani Resinelli, a Pizzo d ’Erna e sui monti sopra Erba. Le difficoltà di collegamento e di rifornimento, la mancanza di legami organici con il terri­ torio, l’inesperienza e l’ignoranza circa le norme basilari della guerra parti­ giana o - più marcatamente nel caso dei gruppi a impronta tradizionalmente militare - una concezione staticamente difensiva della lotta minarono le già precarie possibilità di sopravvivenza delle bande che, tra il novembre 1943 e il gennaio 1944, furono distrutte o disgregate dai primi pesanti ra­ strellamenti. Contemporaneamente la repressione nazista, agevolata dalla servizievole disponibilità delle ricostituite strutture poliziesche repubbli­ chine, cominciò a colpire estesamente l’organizzazione politica clandesti­ na dei centri urbani acuendo la crisi delle piccole formazioni di montagna: tra l’ottobre 1943 e il febbraio 1944 vennero arrestati i componenti e gli attivisti del Cln monzese (i socialisti Enrico Arosio, Davide Guarenti, Er­ nesto Messa, Antonio Passerini Gambacorti e Carlo Prina, insieme al de­ mocristiano Francesco Caglio, furono poi fucilati a Fossoli il 12 luglio 1944); ai primi di novembre fu la volta del rappresentante liberale nel Cln milanese, Angelo Scotti (poi deceduto in Germania); il 25 novembre ven­ ne incarcerato il democristiano Luigi Meda; 1’11 dicembre furono arrestati a Milano il responsabile, Leopoldo Gasparotto, e tutti gli altri membri del primo comitato militare azionista; a Bergamo in novembre cadde l’organiz­ zazione dell’architetto Arturo Turani (fucilato il 23 marzo 1944 con l’ope­ raio Giuseppe Sporchia) e in dicembre la rete creata dal primo Cln; P8 gen­ naio 1944 toccò al Cln di Pavia (Galileo Vercesi, organizzatore delle prime bande a ispirazione democristiana, fu poi fucilato a Fossoli il 12 luglio men­ tre il colonnello Angelo Balconi, Luigi Brusaioli e Guido Panigadi moriro­ no in deportazione). Nelle stesse settimane altri arresti colpirono il Cln di Voghera e quello di Mortara, paralizzandolo per alcuni mesi, e nella secon­ da quindicina del febbraio 1944 la caduta al completo del comitato milita­ re del Pei milanese portò allo sfascio della prima organizzazione gappista e alla perdita dei collegamenti con le pochissime bande rimaste in monta­ gna. Agli arresti si accompagnarono le rappresaglie nei centri abitati: un fucilato a Vigevano il 20 ottobre 1943; tre comunisti e un anarchico a Bre­ scia nella notte fra il 13 e il 14 novembre, otto antifascisti all’Arena di Mi­ lano il 19 dicembre, sei partigiani a Poltragno e sette a Lovere il 22 dicem­ bre e, ancora a Milano, altri cinque il 31 dicembre al poligono di tiro del­ la Cagnola. Le fasi organizzative del movimento di Resistenza. Compresse sul nascere le possibilità di sviluppo del partigianato di montagna, la Resistenza in Lom­

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bardia dall’ottobre 1943 al marzo 1944 fu contrassegnata dall’ostinato im­ pegno comunista indirizzato da un lato all’organizzazione delle lotte di fab­ brica e degli imponenti scioperi del dicembre 1943 e del marzo 1944 (que­ st’ultimo a Brescia registrò tuttavia soltanto la parziale adesione della Breda e della Om), dall’altro allo scatenamento del terrorismo urbano praticato dalle poche decine di militanti faticosamente inquadrati nei Gruppi d’azio­ ne patriottica (Gap). Diretti da ex volontari antifascisti in Spagna, poi pas­ sati nelle file dei Francs tireurs partisans francesi (Francesco Scotti, Vitto­ rio Bardini, Ilio Barontini, Cesare Roda, Egisto Rubini e Angelo Spada), i Gap furono immediatamente impiegati nei maggiori centri della regione e insieme ai distaccamenti di montagna, nel gennaio 1944, vennero inquadra­ ti nella III brigata d ’assalto Garibaldi Lombardia. Scesi in campo a Mila­ no - primi fra tutti quelli dell’Italia occupata - con la distruzione del depo­ sito di benzina dell’aeroporto di Taliedo (2 ottobre 1943), misero a segno decine di audaci azioni tra cui l’eliminazione in pieno giorno del federale fa­ scista Aldo Resega (18 dicembre), l’attentato al questore di Milano Camillo Santamaria Nicolini (3 febbraio 1944) e l’attacco alla Casa del fascio di Se­ sto San Giovanni (10 febbraio), finché furono traditi e tra il 18 febbraio e il 10 maggio vennero praticamente tutti catturati dall’Ufficio politico inve­ stigativo della Gnr al servizio della Gestapo. Il comandante Rubini, il com­ missario politico Oreste Ghirotti e il gappista Vito Antonio La Fratta si sui­ cidarono dopo bestiali torture (più probabilmente furono assassinati in car­ cere), altri vennero fucilati a Fossoli (12 luglio) e a Milano (3 x luglio) mentre diversi tra i rimanenti, tutti deportati, perirono in Germania. Con il ritorno della buona stagione, e in previsione dell’offensiva allea­ ta primaverile, il Pei cercò di riorganizzare e rinforzare le poche bande so­ pravvissute ai rastrellamenti in Valcamonica, in Valsassina e sulla Grigna e di costituirne altre nelle vallate prealpine e sulle colline dell’Oltrepo pave­ se, grazie all’afflusso dei renitenti alla leva repubblichina del 19 febbraio 1944 e dei militanti compromessisi durante lo sciopero del marzo, mentre il Pda contattò e sostenne - senza mai riuscire però a influenzarli politicamente - gruppi autonomi nell’Alta Valtellina e in Valcamonica dove, suc­ cessivamente, da altri gruppi autonomi di ispirazione cattolica nati dall’im­ pegno organizzativo di Teresio Olivelli e Gastone Franchetti si sviluppa­ rono le brigate inquadrate nel raggruppamento Fiamme verdi Italia del Nord, le cui relazioni con le contigue formazioni garibaldine giunsero, in alcuni casi, a momenti di estrema drammaticità. Più tarda la costituzione dei distaccamenti creati dai socialisti, le cui forze rimasero sempre regio­ nalmente minoritarie (ma molti militarono nelle Garibaldi) e risultarono si­ gnificativamente presenti solo nell’Oltrepo. Nonostante la ripresa prima­ verile, fino all’estate del 1944 il partigianato montano lombardo rappre­ sentò il fanalino di coda dell’intero movimento. Data per assolutamente non credibile l’entità delle bande autonome apolitiche (non meno di dieciquindicimila patrioti e militari, diverse migliaia dei quali Fiamme verdi) ri­ portata il 28 luglio 1944 in una relazione del servizio informazioni del Co­

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mando supremo italiano, lo stato della situazione organizzativa e il ritardo nello sviluppo del movimento armato - che, confrontato con lo sviluppo e la consistenza delle lotte operaie, rappresenta uno degli altri punti caratte­ rizzanti la Lombardia - emergono significativamente dall’esame della si­ tuazione in cui versavano le formazioni garibaldine, peraltro maggioritarie per presenza ed effettivi, alla fine primavera del 1944. Il 10 giugno, rilevata la complessiva esistenza di quattrocentoquaranta partigiani distribuiti in tre distaccamenti nel Bresciano e in Valcamonica (centoventi uomini), alcuni altri attorno a Morbegno (trecento uomini) più venti volontari nel Pavese e un totale di ventisette gappisti, il comando ge­ nerale delle Garibaldi scriveva alla propria delegazione regionale: in Lombardia esiste una sola brigata Garibaldi, 3“ Lombardia, ma praticamen­ te inesistente perché [...] disorganizzata dai colpi della polizia [...]. Cosa volete che sia una brigata inesistente di fronte alle nove del Piemonte, sei dell’Emi­ lia, quattro del Veneto e quattro delle Marche? In ognuna delle vostre vallate: Brescia, Sondrio, Pavia, dove avete già dei distaccamenti organizzati, nel Ber­ gamasco, nel Varesotto dove ci sono certamente dei distaccamenti partigiani di cui voi non sapete nemmeno l’esistenza, [...] dovete organizzare una brigata Garibaldi. [La sezione organizzazione ed effettivi del Comando generale alla Dele­ gazione per la Lombardia, in Carocci, Grassi, Nisticò e Pavone 1979, II, p. 30].

Oltre che nelle già segnalate difficoltà iniziali e negli effetti della dura repressione nazifascista, il ritardo lamentato da Luigi Longo - e che, pur con diverse motivazioni, coinvolgeva anche le formazioni di altro colore po­ litico - non si esaurisce nella particolare configurazione geografica della re­ gione (forte e diffusa urbanizzazione, estesa e articolata rete stradale e dif­ ficoltà di collegamento tra montagna e pianura) né nell’essere sede del go­ verno, dei ministeri, degli uffici e dei comandi militari della Repubblica sociale italiana (Rsi), quantunque ne derivasse un’accentuazione del con­ trollo del territorio, ma è principalmente riconducibile ad altri fattori: nel caso del Pei va ricondotto da un lato al forte operaismo delle federazioni lombarde che, prima fra tutte quella milanese, per una lunga fase non si im­ pegnarono a sostegno della lotta armata quanto invece nell’organizzazione e nell’attivazione delle lotte del proletariato industriale, retaggio, questo, anche di una lunga e non completamente risolta battaglia contro l’influen­ za bordighista, particolarmente sentita nel Milanese e ancora predominan­ te nei centri operai della Valle Olona, egemonizzati dall’organizzazione co­ munista Alto milanese dei fratelli Venegoni; dall’altro alla ritrosia della stes­ sa classe operaia che, riappropriatasi a partire dagli scioperi del marzo 1943 della propria identità e del proprio terreno storico di lotta, si mostrò rilut­ tante a investire energie in nuove forme di lotta a lei sconosciute, ancor più foriere di pericoli mortali, e a sostenere le quali non era stata inoltre ideo­ logicamente e politicamente educata. A ciò si aggiunga la debolissima pe­ netrazione comunista nel mondo contadino, storicamente influenzato dal­ la tradizione cattolica e da un clero parrocchiale che, quantunque non sen­ za contraddizioni al proprio interno e in numerosi casi pagando in prima

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persona, per convinzione religiosa e intuibili ragioni morali - non disgiun­ te a volte dalla preoccupante prospettiva di una lotta armata di massa te­ muta come preludio a una insurrezione comunista -, si impegnò ed esercitò la propria influenza limitatamente all’ambito assistenziale, certamente anch ’esso necessario. A completare il quadro evidenziato si aggiunga la locale povertà dei le­ gami di massa del Pda, l’altro più coerente sostenitore, insieme al Pei, del­ la guerra partigiana, nonostante la presenza di Ferruccio Parri, ma com­ pletamente impegnato nel coordinamento del comitato militare del Cln, e di Leo Valiani (risalito dal Sud nell’autunno del '43). La svolta di Salerno e i successi delle offensive alleata e sovietica su tut­ ti i fronti impressero un’accelerazione al processo di unificazione delle forze partigiane nel Corpo volontari della libertà (Cvl) e alla costituzione del lo­ ro comando generale (10 giugno 1944), creando, unitamente alla crisi del sistema periferico dei presidi repubblichini e al nuovo afflusso di reniten­ ti, le condizioni per l’esplosione estiva anche del partigianato lombardo. Quantunque da considerarsi frutto dei più intensi sforzi dell’intero schie­ ramento antifascista, l’espansione del movimento armato in Lombardia si caratterizzò per il nuovo impegno del Pda e per il salto di qualità impresso alla propria organizzazione dal Pei che, con la sostituzione di numerosi qua­ dri nelle diverse province - e con la creazione delle Squadre di azione pa­ triottica (Sap) -, riuscì in parte a forzare l’attesismo delle federazioni più recalcitranti. Dalle Prealpi all’Oltrepo bande e distaccamenti si trasforma­ rono in poche settimane in brigate e divisioni immediatamente lanciate all’attacco, trovandosi però a dover affrontare la nuova ondata di rastrel­ lamenti estivi in una delicata fase di transizione e appesantite dalla elevata presenza dei renitenti al «bando del perdono» del 25 maggio. La lotta partigiana. La prima offensiva partigiana lombarda portò all’oc­ cupazione di un’ampia zona tra la Valsassina e la Valvarrone. Avviata sul finire del maggio 1944 dai garibaldini delle costituende XL e LV brigata, operanti in Valtellina e Valchiavenna, si concluse sanguinosamente il 16 giu­ gno 1944 con l’incendio di Buglio, riconquistato da un migliaio di tedeschi e fascisti dopo un aspro combattimento. Nel Bergamasco si intensificò in particolare l’attività delle brigate Gl Camozzi e della LUI Garibaldi che nello scontro di Fonteno (31 agosto - i ° settembre 1944) catturò una cin­ quantina di tedeschi; nel Bresciano reparti di Fiamme verdi occuparono va­ ste aree della Valle Camonica, mentre per due volte, in giugno e in set­ tembre, la LIV Garibaldi liberò l’intera Valle Saviore e nell’Oltrepo pave­ se, tra il 10 e il 24 settembre 1944, i garibaldini della LI e della LXXXVII, occupato progressivamente il territorio tra Romagnese, il Penice, Ponte Niz­ za, Zavattarello e Varzi, insieme a giellisti e matteottini diedero vita per due mesi a una zona libera comprendente la media e alta Valle Staffora, le vallate dell’Ardivestra e della Schizzola e le alte valli del Coppa, dello Scu­ ropasso e del Tidone.

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Mentre nelle province di Cremona e Mantova il decollo del movimen­ to armato era - e avrebbe continuato a essere tra alterne vicende - frenato, oltre che da oggettive difficoltà ambientali e dalla repressione poliziesca, dall’influenza del clero (più impegnato tuttavia in alcune zone del Manto­ vano) e dall’attesismo dei moderati e di una parte delle locali federazioni comuniste, nel Milanese l’estate fu contrassegnata dall’aggressiva ripresa della guerriglia gappista, ora guidata da Giovanni Pesce, e dalla rapida e ine­ guagliata espansione delle Sap. Nate anche da una intuizione del garibaldi­ no Italo Busetto, che ribaltando l’inefficiente concezione difensiva delle squadre di fabbrica e di villaggio ne sostenne l’impiego offensivo con forze territorialmente strutturate in brigate agli ordini di comandi centralizzati, le Sap - il cui modello venne ripreso anche da azionisti, socialisti e democristiani - consentirono nei centri urbani e in pianura il superamento dei li­ miti oggettivamente elitari del gappismo e il passaggio alla lotta armata di massa, rappresentando al contempo il tessuto connettivo con il partigiana­ to montano e la struttura organizzativa più adeguata al pronto inquadra­ mento del futuro volontariato insurrezionale. All’offensiva partigiana e al rapido deteriorarsi della situazione politi­ co-militare i fascisti risposero militarizzando il partito - da cui la costitu­ zione delle Brigate nere provinciali - e, insieme ai nazisti, intensificando la repressione. A Lodi vennero arrestati quasi tutti i membri del Cln, a Cre­ mona alcuni della giunta militare, a Milano il generale Giuseppe Robolotti (fucilato a Fossoli il 12 luglio 1944), comandante il comitato militare del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai), l’avvocato Luciano Elmo e l’intero centro militare liberale, a Sesto San Giovanni il responsa­ bile militare del Pda, ingegnere Umberto Fogagnolo (fucilato in piazzale Loreto il 10 agosto), e numerosi altri ancora. Oltre alle fucilazioni esegui­ te in date e località diverse nel corso dei rastrellamenti, nel Milanese ven­ nero passati per le armi tre ferrovieri il 16 luglio allo scalo di Greco, cin­ que abitanti di Robecco sul Naviglio il 21, cinque partigiani e quattro agri­ coltori il 26 a Galgagnano, sei gappisti il 31 all’aeroporto Forlanini di Milano, quindici patrioti il 10 agosto in piazzale Loreto e altri quattro il 28 in via Tibaldi; a Bergamo quattro antifascisti il 21 luglio; a Lodi cinque sappisti il 22 e altri undici, fucilati dalla X Mas, a Borgo Ticino (Varese) il 18 agosto. L’arenarsi autunnale dell’avanzata alleata sulla linea Gotica, ufficial­ mente pubblicizzato dal messaggio di Alexander (13 novembre 1944), pose definitivamente fine alle speranze in una rapida liberazione dell’Italia set­ tentrionale e consentì ai nazifascisti lo scatenamento di una vasta offensi­ va antipartigiana che assunse una portata devastante tra il novembre 1944 e il gennaio 1945, per proseguire in alcune zone fino all’aprile seguente. Condotti da ingenti forze e con l’impiego di nuove tattiche antiguerri­ glia, i rastrellamenti si susseguirono in particolare contro l’Oltrepo pavese, le cui agguerritissime formazioni - incuneate fra quelle altrettanto com­ battive dell’Appennino emiliano e ligure - minacciavano le spalle del fron­

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te (2124 garibaldini, 650 matteottini e 645 giellisti al censimento di otto­ bre) e, praticamente fino all’aprile 1945, contro la Valtellina e la Valcamo­ nica, strategicamente rilevanti, oltre che per la presenza di numerose cen­ trali idroelettriche, per il controllo degli accessi alla Svizzera e alla provin­ cia di Bolzano attraverso i passi dello Spluga, dello Stelvio, dell’Aprica e del Tonale. Continuamente braccate, affamate, prive di equipaggiamento invernale, provate dai combattimenti e dalle estenuanti marce forzate in proibitive condizioni climatiche e interrotti i collegamenti, alcune brigate si disgregarono, altre si ridussero agli elementi più temprati. Esaurite le pos­ sibilità di resistenza armata, numerosi partigiani delle formazioni prealpi­ ne ripararono in Svizzera, altri si rifugiarono nelle baite sulle quote più al­ te, mentre quelli delTOltrepo si distribuirono nei cascinali più isolati o si intanarono a piccoli gruppi in buche precedentemente preparate, spesso in­ dividuati e trucidati dai nazifascisti, tra le cui file emerse la ferocia del fa­ migerato Sicherheitsabteilung italiano del colonnello Fiorentini ucciso nel­ l’inverno '44-45 da una pattuglia partigiana. Diverse formazioni Autono­ me e Fiamme verdi, alimentando ancor più le già preesistenti tensioni con i garibaldini e sconfessate dal Clnai e dal comando generale del Cvl, scese­ ro a patteggiamenti con il nemico - tranne la divisione Tito Speri -, mentre le Garibaldi, benché stremate e a eccezione del tradimento del comandan­ te la LXXXVI in Val Taleggio, mostrarono nel complesso una relativa te­ nuta riuscendo alcune - come quelle dell’Oltrepo, la LUI nel Loverese e al­ cuni distaccamenti della XL in Valmalenco - a conservare un minimo di po­ tenzialità operativa. Con il movimento partigiano in profonda crisi e con la ripresa delle manovre attesiste e antiunitarie favorite dalle dimissioni del governo Bonomi (25 novembre 1944), il peso della lotta ricadde sui Gap e sulle Sap, al 30 novembre inquadrate regionalmente in una quarantina di brigate (ventiquattro, documentate, le sole Garibaldi in Milano e provin­ cia) impiegate per alleggerire la pressione sulle formazioni di montagna, sostenere le masse nella campagna invernale lanciata dal Pei contro «il fred­ do, la fame e il terrore nazifascista» e compensare la perduta centralità an­ tifascista del proletariato industriale, impegnato in uno stillicidio di agita­ zioni rivendicative ma ormai pressoché privo di potere contrattuale ed espo­ sto alle rappresaglie naziste a causa del drastico calo della produzione per mancanza di combustibile e materie prime. Non è completamente riscon­ trabile il numero delle azioni compiuto da gappisti e sappisti lombardi nell’autunno-inverno 1944-45; allo stesso modo manca ancora un esaustivo c ensimento dei partigiani fucilati pubblicamente nelle diverse province (so­ lamente in quella milanese, da stime incomplete, risultano oltre sessanta tra l’ottobre 1944 e il marzo 1945) o di quanti, secondo un costume sempre più adottato dai fascisti negli ultimi mesi di lotta, vennero soppressi al momento della cattura o nottetempo. Le difficoltà furono inoltre aggravate dalla per­ dita di alcuni tra i più preziosi dirigenti come Sergio Kasman, Eugenio Cu­ nei, Mauro Venegoni, Bruno Venturini, assassinati; o di altri come Ferruc­ cio Parri, Enrico Mentasti, Enrico Mattei, Giuliano Pajetta, Giulio Alon­

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zi e l’intero comando regionale lombardo, catturati. Arresti e infiltrazioni poliziesche colpirono, spesso nei quadri di comando, quasi tutte le forma­ zioni, paralizzandone l’attività come nel Lodigiano, nel Cremonese e nella pianura bresciana o scompaginandole letteralmente, come nel Mantovano, dove delle sei brigate del raggruppamento Garibaldi Sap Padana inferiore - faticosamente organizzate tra l’agosto e l’ottobre 1944 da Walter Audisio - non restavano a dicembre che alcuni distaccamenti della CXXI e del­ la CXXII Garibaldi Sap, che riuscirono tuttavia a partecipare nella notte tra il 19 e il 20 dicembre 1944 alla vittoriosa battaglia di Gonzaga condot­ ta da prevalenti forze gappiste e sappiste della “bassa” emiliana. G li ultim i combattimenti. Al febbraio 1945 la ripresa dell’iniziativa nell’Oltrepo, il combinato attacco sappista del 6 del mese contro ventidue caserme e sedi nazifasciste a Milano e la capacità di tenuta fin dall’inizio dimostrata dalle Fiamme verdi nella lunga battaglia per il controllo del Pas­ so del Mortirolo, iniziata il 22 e protrattasi fino alla vigilia dell’insurrezione, segnarono il superamento della prova invernale e la maturità operativa acquisita dalle forze rimaste in campo. A partire da marzo, la crescente attività delle brigate riorganizzate, la creazione di nuove, e l’espansione e la ristrutturazione di quelle Sap in di­ visioni compensarono le perduranti difficoltà nel Cremonese e nel Man­ tovano e la pressione cui continuavano a essere sottoposte le formazioni valtellinesi e camune, mentre nei centri industriali ripresero vigore le agi­ tazioni operaie, chiamate ora, insieme al movimento partigiano, a debella­ re anche le trame del variegato schieramento moderato-nazifascista gra­ vitante attorno ai tentativi di mediazione antinsurrezionale della curia mi­ lanese. L’attuale stato della documentazione e delle ricerche impedisce una esau­ riente valutazione dell’entità delle forze nazifasciste, eccezion fatta per Mi­ lano dove all’aprile 1945, secondo fonti germaniche comunque non riscon­ trabili, sarebbero stati presenti circa 3600 tedeschi, 3750 militi della Gnr, 2800 della legione Muti, 3000 della V ili brigata nera Aldo Resega, 1200 ar­ diti della legione autonoma di polizia Caruso, 300 miliziani francesi di Jo­ seph Darnand. La liberazione dei capoluoghi provinciali avvenne per lo più in modo in­ cruento: prima Mantova, evacuata spontaneamente dai nazifascisti il 23 aprile, poi gli altri centri dove i locali presidi si arresero senza reagire tra il 26 e il 28. Solo a Varese e a Lecco vennero ingaggiati scontri a fuoco con i fascisti che deposero le armi entro il 27. Aspri combattimenti, in cui per­ sero la vita partigiani e civili, si accesero invece alle porte dei centri mino­ ri con le numerose autocolonne in ritirata verso Milano, il Passo del Tona­ le e la Valtellina, l’ultimo ridotto della Rsi vagheggiato da Pavolini. Il capoluogo lombardo insorse il pomeriggio del 24 senza scontri di ampia portata con il nemico che evacuava la città, disgregandosi. I caduti tra gli insorti furono alcune decine. All’arrivo delle divisioni garibaldine dell’Oltrepo (27

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aprile) e della Valsesia e della Valdossola (28 aprile), Milano era già libera. Nel pomeriggio entrarono in città le prime avanguardie americane. Ai pri­ mi di maggio si arresero anche gli ultimi presidi nazifascisti ai passi dello Stelvio e del Tonale. L’apposita commissione paritetica, nominata dalla presidenza del Con­ siglio dei ministri, il 31 agosto 1947 riconobbe alla Lombardia 3938 caduti, 1697 feriti, 15056 partigiani combattenti, 8943 patrioti e 13 296 beneme­ riti, ai quali vanno aggiunti i numerosi resistenti - in maggior parte impe­ gnati in strutture più prettamente politiche - che non vennero riconosciu­ ti perché giudicati non in possesso dei requisiti richiesti essenzialmente in base a criteri burocratico-militari. Nota bibliografica. G. Carocci, G. Grassi, G. Nisticò e C. Pavone (a cura di), Le brigate Garibaldi nella Re­ sistenza. Documenti, agosto 1943 - maggio 1945, 3 voli., Feltrinelli, Milano 1979; L. Cavalli e C. Strada, N el nome di Matteotti. Materiali per una storia delle Brigate Matteotti in Lombar­ dia. 1943-1945, Angeli, Milano 1982; G. D e Luna, P. Camilla, D . Cappelli e S. Vitali (a cu­ ra di), Le formazioni GL nella Resistenza, Angeli, Milano 1985; G. Perona (a cura di), Le for­ mazioni autonome nella Resistenza. Documenti, Angeli, Milano 1996; G. Rochat (a cura di), A tti del comando generale del Col (Giugno 1944 - Aprile 1945), Angeli, Milano 1972; E. Se­ reni, C L N . Il Comitato di liberazione nazionale della Lombardia al lavoro nella cospirazione nell’insurrezione nella ricostruzione, Percas, Milano 1945.

LUIGI BORGOMANERI

Milano

Antifascismo e formazione del movimento partigiano. Ubicata al centro di una fertile e ben coltivata provincia comprendente, all’epoca, 246 co­ muni con circa 2 200000 abitanti, di cui quasi 1 200000 residenti nel capoluogo, tra la fine del secolo scorso e gli inizi del Novecento Milano di­ venne sede della maggior parte delle principali industrie del paese e il più importante centro industriale, commerciale e finanziario nazionale. Culla del fascio primigenio - Mussolini vi fondò il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro il Movimento dei fasci di combattimento -, la metropoli ambro­ siana fu durante il ventennio l’epicentro degli sforzi organizzativi dell’an­ tifascismo, immancabilmente e ripetutamente frustrati dall’efficienza dell’Opera di vigilanza e repressione antifascista (Ovra). Il Partito comunista d’Italia (Pedi) in particolare, nonostante le reiterate cadute dei centri in­ terni più volte ricostituiti a Milano, riuscì con maggiore continuità a svi­ luppare la propria attività di propaganda e di proselitismo in direzione del proletariato industriale, tessendo una trama che, seppure lacerata dagli ar­ resti ricorrenti, consentì comunque di mantenere un tenue collegamento con alcune delle maggiori fabbriche e con alcuni nuclei storici di Sesto San Gio­ vanni e dell’hinterland. L’antifascismo di alcuni settori minoritari del laica­ to cattolico più impegnato si espresse nell’attività propagandistica del Mo­ vimento dei guelfi, diretto da Gioacchino Malavasi e Piero Malvestiti (nel 1944 segretario della De per l’Alta Italia); Psi e movimento Giustizia e li­ bertà (Gl) - la cui attività fu sempre condizionata dai deboli e precari rap­ porti con le masse - riuscirono, attraverso l’iniziativa di personalità come Rodolfo Morandi, Roberto Veratti, Lucio Luzzatto, Ernesto Rossi e altri ancora, a creare intese unitarie e nel 1934 un Fronte unico antifascista cui parteciparono anche i comunisti, alcuni repubblicani e neoliberali. Nel 1943, mentre i socialisti si muovevano ancora alla ricerca di una de­ finizione politico-organizzativa interna alle due anime poi confluite nel Psiup, e gli altri partiti antifascisti, da poco riapparsi, scontavano l’assen­ za di legami di massa, la ricostituzione del Centro interno comunista (1941), la ripresa dei contatti con le cellule delle maggiori aziende milanesi e seste­ si e il credito maturato negli anni della dittatura crearono le premesse del­ la futura impetuosa penetrazione del Pei tra la classe operaia, a partire da­ gli scioperi del marzo 1943. Rafforzatosi tra la fine del 1942 e il luglio del

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1943 con la creazione di un comitato unitario composto da Pei, Psi, Mup, Pda, De e Pi, poi divenuto comitato delle opposizioni, il fronte antifascista fu non di meno colto di sorpresa dagli avvenimenti dell’8 settembre 1943. Le richieste avanzate alle autorità militari di armare e inquadrare al co­ mando di ufficiali alcune migliaia di operai e il tentativo di costituire una Guardia nazionale si arenarono per la dissoluzione dell’esercito e il cedi­ mento del generale Ruggero, comandante il presidio di Milano, mentre il concentramento nel Comasco di alcune centinaia di operai sestesi in armi venne sciolto dai carabinieri. Tra il pomeriggio del 10 e il 12 settembre Mi­ lano venne occupata da reparti della divisione Waffen SS - Leibstandarte A. Hitler che per giorni si abbandonarono a violenze e saccheggi indiscri­ minati. I primi caduti furono un operaio della Pirelli, colpito il 10 settem­ bre dalle parti della Stazione Centrale in uno dei rarissimi tentativi di op­ posizione armata, e tre civili, più un quarto fucilato, uccisi per aver preso parte all’assalto di un magazzino militare abbandonato nella zona di piaz­ zale Corvetto. I rapporti del comando divisionale germanico, nel segnalare manifestazioni di ostilità della popolazione e il ferimento di un ufficiale del­ le SS, comunicavano inoltre la fucilazione di tredici comunisti rei di aver recuperato materiale della contraerea italiana nell’area di Milano. Il 13 set­ tembre, con l’insediamento all’Hótel Regina del comando della Sicherheitspolizei-Sicherheitsdienst - da cui dipendeva la Gestapo -, iniziò la caccia a ebrei e antifascisti già schedati, e negli stessi giorni Aldo Resega ricosti­ tuì il partito fascista divenendone segretario federale; Franco Colombo, un ex sergente della Milizia, diede vita alla squadra d’azione Ettore Muti (due­ cento uomini circa al dicembre 1943), poi battaglione e infine, dal 16 mar­ zo 1944 (con reclutamento nelle carceri di San Vittore o tra delinquenti schedati negli anni precedenti dalla questura del Regno), Legione autono­ ma mobile, con oltre tremila militi - alla fine del 1944 - inquadrati in ven­ tuno compagnie e squadre operative impiegate in una feroce repressione an­ tipartigiana nel Milanese e in Piemonte. Il panorama resistenziale milanese, e in particolare l’avvio, lo sviluppo e la conduzione della lotta armata e delle lotte operaie, furono dominati per tutta la lunga fase iniziale quasi esclusivamente dall’organizzazione comu­ nista e dalle brigate Garibaldi alle quali poi si affiancarono socialisti, giellisti e repubblicani. I democristiani, delle cui formazioni i bollettini del co­ mando piazza del periodo agosto 1944 - aprile 1945 riportano solo sporadi­ che azioni, si impegnarono fondamentalmente nel fiancheggiamento della lotta e nel soccorso a ex prigionieri di guerra, ebrei, ricercati e arrestati, ser­ vendosi della rete assistenziale e di organizzazioni clandestine dello scouti­ smo cattolico, la più attiva delle quali fu l’Organizzazione soccorso catto­ lico agli antifascisti ricercati (Oscar) che, guidata da don Aurelio Giussani e don Andrea Ghetti, ebbe i propri centri più attivi nelle sedi milanese e varesina del Collegio San Carlo. I primi tentativi di dare vita a una oppo­ sizione armata furono diretti dall’avvocato Galileo Vercesi (fucilato a Fos­ soli il 12 luglio 1944), ma solo negli ultimi mesi sorsero nel Legnanese e nel

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Gallaratese alcuni gruppi di orientamento democristiano i quali, poi in­ quadrati nel raggruppamento brigate Fratelli di Dio, non risulta tuttavia abbiano svolto un’attività armata preinsurrezionale, e pertanto le rimanenti brigate del popolo sono da considerarsi, almeno operativamente, insurre­ zionali. I liberali, contrari del resto a una impostazione di massa della lot­ ta, lavorarono invece con nuclei ristretti - il più noto e attivo dei quali fu l’organizzazione Franchi facente capo a Edgardo Sogno - legati ai servizi alleati ai quali trasmettevano informazioni di carattere economico e mili­ tare, fungendo anche da raccordo con alcune formazioni autonome operanti però fuori dal Milanese. Immediatamente dopo l’occupazione nazista, in­ terrottisi i naturali collegamenti con numerose fabbriche a causa dei mas­ sicci licenziamenti attuati dal padronato nelle incertezze della nuova con­ giuntura produttiva, il Pei, costituito il comando generale delle brigate Ga­ ribaldi il 20 settembre 1943 in un appartamento delle case popolari di via Lulli 30, mobilitò le proprie esigue forze nell’immediata attivazione dei Gruppi d’azione patriottica (Gap). Superate, dopo un intenso lavoro di chia­ rificazione, remore di carattere morale, ideologico e personale, a un primo nucleo tratto dalle maggiori fabbriche di Sesto San Giovanni (inizialmen­ te 170 distaccamento), seguirono i distaccamenti Gramsci (Sesto San Gio­ vanni e Niguarda), 5 Giornate (Porta Romana e Porta Vittoria), Matteotti (Porta Ticinese) e Rosselli (zona Far ini-Affori), con una forza di quarantacinquanta volontari i quali, insieme alle prime bande sui monti del Lecchese e del Comasco, formarono la III brigata Garibaldi Lombardia. Diretta dal comitato militare del Pei, composto da Vittorio Bardini, Cesare Roda ed Egisto Rubini, e con la supervisione politico-militare di Francesco Scotti e l’assistenza tecnica di Ilio Barontini - tutti ex garibaldini di Spagna poi at­ tivi nei Francs tireurs partisans della Francia meridionale -, la brigata compì tra l’ottobre 1943 e il gennaio 1944 cinquantasei azioni, di cui trentatre in città, infliggendo al nemico sensibili perdite. Tra le azioni più eclatanti: la di­ struzione del deposito di benzina dell’aeroporto di Taliedo (2 ottobre 1943), la collocazione di una bomba nell’ufficio informazioni tedesco della Sta­ zione Centrale (7 novembre), l’eliminazione in pieno giorno del federale fa­ scista Aldo Resega (18 dicembre), l’attentato al questore di Milano Camil­ lo Santamaria Nicolini (3 febbraio 1944) e l’attacco alla Casa del fascio di Sesto San Giovanni (10 febbraio). Lotta operaia e lotta armata. Gli sforzi di normalizzazione dell’occupa­ zione nazista e di accreditamento politico e sociale della neonata Repub­ blica sociale italiana (Rsi) vennero parallelamente colpiti dalle lotte operaie che seguirono alla ripresa dei contatti perduti e alle prime manifestazioni di combattività della Breda, della Caproni e della Magnaghi (inizi di no­ vembre 1943). Sull’onda dello sciopero torinese del 18 novembre, facendo leva sul crescente malcontento per l’ulteriore aggravarsi delle condizioni di vita e di lavoro, e saldando rivendicazioni economiche a parole d’ordine po­ litiche, il Pei paralizzò produzione e trasporti urbani dal 13 al 18 dicembre

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con uno sciopero che coinvolse decine di migliaia di operai del Milanese e smascherò la demagogica strumentalità della politica pseudoperaista di Salò e le ambiguità del comportamento padronale. La tensione nelle fabbriche giunse al massimo con lo sciopero generale del marzo 1944 che tuttavia, no­ nostante il clamoroso successo politico della mobilitazione, lasciò nelle mas­ se milanesi amarezza e delusione per il mancato ottenimento di migliora­ menti economici e per le deportazioni selettive attuate dai nazisti. Ad acui­ re lo scoraggiamento si aggiunse inoltre la caduta dell’intera organizzazione gappista che, avvenuta nell’ultima decade del febbraio 1944, privò gli scio­ peranti dell’attesa copertura armata in occasione di una scadenza di lotta equivocata come insurrezionale e quindi carica di aspettative liberatorie. Mentre il Comitato di liberazione nazionale (Cln) lombardo, per la centra­ lità dei suoi interventi politici e organizzativi, assurgeva ufficialmente al rango di Cln per l’Alta Italia (Clnai) investito di poteri di governo straor­ dinario del Nord (31 gennaio 1944), gli sforzi intrapresi da Pei e Pda, i pri­ mi due partiti organicamente impegnatisi nell’avvio della lotta armata, sem­ brarono annullati dai rastrellamenti e dalla repressione poliziesca: tra il no­ vembre 1943 e il gennaio 1944 furono attaccati e sciolti due gruppi armati di alcune decine di uomini costituiti dal Pei nelle boscaglie lungo l’Adda e il Ticino; l’u dicembre 1943 Poldo Gasparotto, comandante le costituen­ de bande Gl poi assassinato a Fossoli il 22 giugno 1944, fu catturato insie­ me al comitato militare azionista; il 20 dicembre all’Arena civica vennero fucilati otto partigiani e altri cinque il 31 al poligono di tiro della Cagnola; tra il 18 e il 24 febbraio 1944 caddero il comitato militare del Pei e la mag­ gior parte dei Gap (Egisto Rubini, comandante la III brigata Lombardia, sottoposto a orribili torture, si suicidò nel carcere di San Vittore il 25 feb­ braio '44) e tra la fine di aprile e gli inizi di maggio l’Ufficio politico inve­ stigativo della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) riuscì ad arrestare gli ultimi gappisti in circolazione. Dopo un vuoto di circa due mesi i primi sintomi di ripresa si manife­ starono in città nel giugno avanzato con l’aggressivo risveglio dell’attività gappista guidata dal nuovo comandante Giovanni Pesce, trasferito a Mila­ no dopo aver valorosamente diretto i Gap torinesi, e in provincia tra mag­ gio e giugno con la comparsa di squadre armate impiegate a difesa degli scio­ peri delle mondine e in azioni di sabotaggio alle mietitrebbiatrici per im­ pedire la consegna del grano all’ammasso. Le nuove squadre, denominate di azione patriottica (Sap), si ramificarono sempre più nei quartieri, nelle aziende e nelle campagne e, affermatesi rapidamente come modello orga­ nizzativo del partigianato urbano e di pianura nell’Italia occupata, rappre­ sentarono il salto di qualità che conferì alla lotta armata un carattere di mas­ sa. La creazione nel mese di giugno del comando provinciale retto da Ita­ lo Busetto «Franco», da Alessio Lamprati «Nino», vicecomandante, e da Giuliano Pajetta «Monti» - a ottobre sostituito da Amerigo Ciocchiatti «Ugo» -, accelerò lo sviluppo del movimento sappista e alla CX brigata Ga­ ribaldi Sap, costituita in agosto, si aggiunsero a settembre in Milano la CXI, la

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CXII, la CXIII, la CXIV, la CXVII e la CXX, mentre nelle fabbriche se­ stesi, roccaforte del movimento, nacquero la CVII (Pirelli), la CVIII (Breda), la CIX (Ercole e Magneti MarelH) e la CLXXXIV (Falck), per un to­ tale di circa tremila uomini, il dieci-quindici per cento dei quali, capaci anche di azioni di stampo gappista, rappresentò il nerbo delle cosiddette squadre di punta mentre il rimanente - riluttante a un vero e proprio im­ pegno armato - venne impiegato nel sabotaggio in fabbrica, in azioni di pro­ paganda, disarmi e semine di chiodi squarciagomme, azioni di minore ri­ lievo militare ma che, moltiplicandosi sempre più nel tempo e sul territo­ rio, concorsero a preparare e ad alimentare il clima insurrezionale. Anche nella provincia, divisa in cinque zone, il movimento dilagò a macchia d ’olio e, a partire dalla Valle Olona, dove sulla base della forte e combattiva orga­ nizzazione comunista dissidente dei fratelli Venegoni nacque la CI bri­ gata, diede vita alla CHI e alla CIV nel Vimercatese, alla CXIX nella Brianza centrale, alla CLXV e alla CLXVI nel Lodigiano e alla CLXVIII nel Magentino, brigate madri dalle quali per dilatazione delle forze e per necessità logistico-operative derivarono tra il settembre e il dicembre 1944 altre no­ ve formazioni con una forza che, pur soggetta a più o meno accentuate oscil­ lazioni causate dalla repressione nazifascista, è comunque realisticamente valutabile attorno ai tremilacinquecento uomini. L’avanzata angloamerica­ na sul fronte italiano e le conseguenti aspettative di una rapida conclusio­ ne del conflitto nella penisola - nonché la costituzione del comando gene­ rale del movimento partigiano unificato nel Corpo volontari della libertà (Cvl), cui seguì a Milano la nascita del comando piazza (18 agosto 1944) -, nei mesi successivi diedero impulso anche alla nascita di formazioni di al­ tro colore politico la cui consistenza e attività dichiarate nel tardo autunno 1944 non trovano, al di là di inverosimili ricostruzioni a posteriori, adegua­ ti riscontri nella documentazione ufficiale del comando piazza e diedero adito, all’interno dello stesso comando, a più di una confutazione polemi­ ca tra il rappresentante delle Garibaldi e quelli delle Matteotti e delle bri­ gate del popolo, mentre, in rapporto alla esiguità (dichiarata) delle forze, i distaccamenti Gl, diretti da Sergio Kasman e poi da Giuseppe Signorelli, si segnalarono per il generoso e sanguinoso contributo di lotta. Ai rovesci militari e all’intensificata attività gappista e sappista i nazi­ fascisti risposero nell’estate del 1944 riprendendo e accentuando provve­ dimenti terroristici. La polizia di sicurezza germanica, servendosi quasi sem­ pre di plotoni della legione Muti, fece fucilare il 16 luglio tre ferrovieri al­ lo scalo di Greco, il 21 cinque civili a Robecco sul Naviglio - dove alcune case vennero bruciate e cinquantasei uomini deportati -, il 31 sei gappisti all’aeroporto Forlanini e il 10 agosto quindici partigiani in piazzale Loreto. Il 26 luglio a Galgagnano la Gnr fucilò cinque partigiani di un gruppo alla macchia lungo l’Adda e quattro agricoltori sospettati di favoreggiamento, e il 22 agosto cinque sappisti della CLXXIV Garibaldi al poligono di tiro di Lodi (all’epoca provincia di Milano), mentre la Muti, solitamente usa ad assassinare nottetempo e in periferia i propri arrestati, il 28 fucilò in piena

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città quattro garibaldini della CXIII. Per contrastare il terrorismo nazifasci­ sta - e convinti dell’imminente sfondamento alleato delle difese tedesche i comandi intensificarono le azioni gappiste e sappiste e il Pei, attraverso i Comitati d’agitazione clandestina, cercò di rivitalizzare la combattività in fabbrica avviando con lo sciopero del 21 settembre un nuovo ciclo di lotte che avrebbe dovuto infiammare il clima insurrezionale ridando al contem­ po contenuti di classe alla lotta operaia alla vigilia della fase conclusiva. L ’autunno-inverno 1944-45. L’attacco autunnale contro le zone libere, i devastanti rastrellamenti del novembre-dicembre 1944 e la recrudescen­ za della repressione in pianura, uniti alle ripercussioni della stasi delle ope­ razioni militari angloamericane e del messaggio di Alexander, gettarono in profonda crisi l’intero movimento resistenziale - sottoposto anche all’of­ fensiva dell’attendismo moderato -, mentre il crescente calo della produ­ zione bellica, conseguente alla drastica riduzione delle forniture tedesche di materie prime e combustibile, privò la classe operaia di forza contrat­ tuale, cosicché il 23 novembre il tentativo di chiudere con uno sciopero di solidarietà le lotte aziendali riprese da settembre registrò una riuscita de­ ludente e fu inoltre duramente represso: alla sola Pirelli le SS, guidate per­ sonalmente dal comandante la polizia di sicurezza, capitano Saevecke, ar­ restarono 183 operai, 167 dei quali furono deportati nei lager. L’autunnoinverno 1944-45 fu inoltre contrassegnato da una catena di arresti e omicidi che colpirono gravemente le diverse formazioni e il cuore degli organismi dirigenti: allo smembramento della brigata del Fronte della gioventù, di al­ cune brigate Sap urbane e foranee e della III Gap si aggiunsero l’arresto dell’intero comando regionale lombardo - caduto insieme al suo comandan­ te Giulio Alonzi -, di Giuliano Pajetta - rappresentante garibaldino nel co­ mando piazza - e di altri membri, nonché quello di Ferruccio Parri, l’eliminazione nottetempo di numerosi quadri e militanti e l’assassinio di Mau­ ro Venegoni, Sergio Kasman ed Eugenio Curiel; sia in città che in provincia ripresero inoltre le fucilazioni: cinque sappisti il 13 ottobre 1944 a Turbigo, cinque partigiani a Merlate il 16 dicembre, altri cinque, tra i quali l’intero comando della CLXVII Garibaldi, il 31 a Lodi, un matteottino e tre gari­ baldini il 6 gennaio 1945 a Milano, nove appartenenti al Fronte della gio­ ventù il 14 gennaio e cinque gappisti il 2 febbraio 1945 al campo Giuriati, cinque sappisti il 2 febbraio ad Arcore, sette il 9 marzo a Pessano e quat­ tro il 31 marzo a Cassano d ’Adda. Nell’infuriare della reazione, nel gennaio 1945, Giovanni Pesce, allon­ tanato da Milano nel settembre 1944 perché individuato, venne richiama­ to a ricostituire la III Gap, mentre il movimento sappista fu incaricato di compensare la perdita della centralità operaia spostando la lotta dalle fab­ briche alla strada per dare applicazione e sostegno alla parola d’ordine del­ la «lotta contro il freddo, la fame e il terrore nazifascista». Accanto alle azioni armate si moltiplicarono, in stretta collaborazione con i Cln azien­ dali e rionali e i comitati clandestini d’agitazione, gli interventi per guida­

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re e proteggere la popolazione durante il taglio degli alberi di diversi viali milanesi e sestesi, negli assalti ai treni carichi di carbone, nelle manifesta­ zioni di protesta organizzate dai Gruppi di difesa della donna e nei comizi volanti in fabbrica che rappresentarono la risposta all’effimera euforia fa­ scista dell’ultimo discorso pubblico di Mussolini al Teatro Lirico (16 di­ cembre 1944). Tra il dicembre 1944 e il febbraio 1945 i comandi partigia­ ni, primo fra tutti quello garibaldino, iniziarono la ristrutturazione delle forze dando vita a nuove brigate poste agli ordini di comandi divisionali che consentirono un pronto assorbimento del volontariato preinsurrezionale e un più efficace coordinamento operativo. Nello stesso torno di tem­ po, dopo che anche le brigate Matteotti erano riuscite dall’inverno a darsi una più efficiente struttura organizzativa sotto la spinta di Sandro Pertini, si registrarono i primi segnali di una inversione di tendenza con il rilan­ cio dell’attività gappista e con il più alto livello di combattività e affidabi­ lità operativa espresso dalle Sap, la cui capacità offensiva si evidenziò la se­ ra del 6 febbraio 1945 con il simultaneo assalto contro ventidue caserme, comandi e sedi nazifasciste attaccati a raffiche di mitra e lanci di bombe a mano. Il ruolo economico, sociale e politico di Milano - sede del Clnai, delle segreterie dei partiti antifascisti dell’Italia occupata e dei comandi generali di tutte le formazioni e ormai riconosciuta come la capitale della resistenza - ac­ centuò con l’approssimarsi della liberazione l’importanza e il significato em­ blematico della sua insurrezione come irrinunciabile affermazione di auto­ nomia e atto di legittimazione dell’antifascismo più coerente e delle aspet­ tative popolari di rinnovamento politico-istituzionale. Al convulso infittirsi delle trame attendiste e antinsurrezionali facenti capo a gruppi industriali, servizi alleati, curia, tedeschi, fascisti e alcune componenti del fronte resi­ stenziale, i partiti della sinistra e i loro comandi militari opposero una pre­ potente ripresa dell’attivismo sappista e gappista passando dalle 450 azioni del dicembre 1943 alle 610 del gennaio 1945, che divennero 632 in febbraio, 646 in marzo e 781 nei primi ventitré giorni dell’aprile 1945. Contempo­ raneamente, tra marzo e i primi d’aprile intensificarono le agitazioni di fab­ brica e, a partire dal 3 aprile, muovendo dal Gallaratese e dal Bustese mo­ bilitarono il proletariato industriale in una catena di scioperi rivendicativi che, in particolare a Sesto San Giovanni, assunsero una connotazione aper­ tamente politica evidenziando un’alta carica di combattività. L ’insurrezione e la liberazione della città. Alla vigilia dell’insurrezione, secondo stime presentate dai diversi comandi - ma ampiamente dilatate da un’ottica politica già postinsurrezionale - le forze partigiane avrebbero con­ tato quasi tredicimila sappisti in città e altrettanti in provincia, a fronte dei quali nel dopoguerra - pur tenendo conto dei criteri burocraticamente re­ strittivi adottati - la Commissione lombarda riconoscimento partigiani con­ teggiò invece 6626 partigiani combattenti, 4389 patrioti e 5865 benemeri­ ti (cioè volontari insurrezionali). Di contro, le forze tedesche, secondo fonti

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non verificabili, assommavano a circa 3600 uomini e quelle delle varie for­ mazioni fasciste (compresi trecento miliziani francesi e le forze di polizia) a oltre 12000. Diversamente dai piani operativi minuziosamente preparati dal coman­ do piazza milanese - e di dubbia applicazione perché concepiti con criteri rigorosamente militari poco aderenti alla realtà della situazione - l’insurre­ zione nacque spontaneamente, nella tarda mattinata del 24 aprile 1945, da uno scontro accesosi e poi generalizzatosi nella zona di Niguarda tra gari­ baldini della CX e militi fascisti. Quasi contemporaneamente Leo Valiani, Sandro Pertini ed Emilio Sereni, in nome del comitato insurrezionale da loro diretto, diramarono l’ordine dello sciopero insurrezionale a partire dal­ le ore 13 del 25, mentre i comandi generali partigiani fissarono l’inizio delle operazioni alle 14 dello stesso giorno. Nel pomeriggio del 24, primo cadu­ to dell’insurrezione, morì Gina Galeotti Bianchi, comunista, appartenente ai Gruppi di difesa della donna. Nella nottata i Gap assaltarono la caserma di Niguarda e i matteottini della XXXIII brigata e una squadra della divi­ sione Pasubio occuparono l’autocentro della polizia in via Castelvetro, men­ tre Egidio Liberti (azionista, capo di stato maggiore nel comando piazza di Milano) e Sandro Faini (socialista, capo dell’ufficio informazioni) guidaro­ no un altro gruppo all’attacco, parzialmente riuscito, del parcheggio dei blindati tedeschi all’interno della Fiera campionaria. Alle ore 8 del 25 apri­ le, riunitosi presso il collegio dei Salesiani di via Copernico e nominato pre­ sidente Rodolfo Morandi, il Clnai approvò all’unanimità la proclamazio­ ne dell’insurrezione ed emanò il decreto dell’assunzione di tutti i poteri da parte del Clnai e dei Cln regionali, provinciali e cittadini. All’incirca alla stessa ora presso il convento delle Stelline, in corso di Porta Magenta 79, si riunì il comando generale del Cvl, mentre il comando piazza stabilì prov­ visoriamente la propria sede operativa nel commissariato di via Carlo Po­ ma. Nei fatti, compresso fino dalla sua costituzione tra la presenza a Mila­ no del comando generale del Cvl e quelli delle diverse formazioni, il co­ mando piazza non esercitò alcuna funzione dirigente e la liberazione venne diretta dal superiore comando del Cvl e da quelli facenti capo ai diversi par­ titi. Tra mezzogiorno e le prime ore del pomeriggio tutte le principali fab­ briche milanesi e sestesi vennero occupate 'dai sappisti che dovettero re­ spingere puntate nemiche alla Motomeccanica, al deposito Atm di viale Mo­ lise, alla Cge - dove i fascisti, per intimorire gli scioperanti, fucilarono due patrioti davanti ai cancelli della fabbrica - e alla Om, dove giellisti, mat­ teottini e garibaldini sostennero quattro óre di combattimenti. Scontri a fuoco si verificarono fino a sera inoltrata in diversi punti della città con cec­ chini e, soprattutto, con autocolonne in fuga e macchine fasciste che scor­ razzavano rafficando all’im pazzata. Occupate le sedi del «Corriere della Sera», della «Gazzetta dello Sport» e del «Popolo d’Italia» in piazza Ca­ vour, si utilizzarono gli impianti per stampare le edizioni insurrezionali dell’«Unità», dell’«Avanti» e di «Italia libera», organo del Pda. Alle ore 17, attraverso la mediazione del cardinale Schuster - proteso a scongiurare la pa­

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ventata insurrezione comunista -, Mussolini, sperando di poter ancora pat­ teggiare la resa, incontrò all’Arcivescovado il generale Cadorna e i rappre­ sentanti del Clnai Achille Lombardi, Achille Marazza e Guido Arpesani. Richiesta una sospensione delle trattative impegnandosi a riprenderle un’ora più tardi, si recò in prefettura da dove alle 19,30 circa, con numerosi ge­ rarchi e una scorta di SS, lasciò invece Milano alla volta di Como nell’in­ tento di riparare in Svizzera. All’alba del 26 aprile, dopo una breve sparatoria con un gruppo di re­ pubblichini in corso di Porta Nuova, il 40 battaglione della Guardia di fi­ nanza guidato dal colonnello Alfredo Malgeri prese possesso del palazzo della prefettura in corso Monforte e alle 8, nominato dal Clnai, Riccardo Lombardi assunse la carica di prefetto e il socialista Antonio Greppi quel­ la di sindaco. Alle ore 9 dalla stazione radio di Morivione il comandante delle brigate Matteotti, Corrado Bonfantini, annunciò la liberazione di Mi­ lano. Gli ultimi violenti scontri si ebbero attorno alla Innocenti di Lambrate che, rioccupata da un reparto germanico, venne liberata dopo due ore di fuoco, e in piazza Napoli, dove una dozzina di fascisti asserragliatisi nel presidio rionale della Gnr si arresero quando l’edificio fu scoperchiato dal lancio di mine anticarro. Noti per essere stati seviziatori di partigiani, ven­ nero tutti passati per le armi sui posto. Nella serata del 26 aprile Milano era praticamente liberata. Forti e ben armati reparti germanici, trincerati all’in­ terno del collegio dei M artinitt in via Pitteri, alla Casa dello studente in viale Romagna e nel palazzo dell’aeronautica in piazza Italo Balbo (attuale piazza Novelli), si arresero il 28 all’arrivo delle divisioni partigiane dell’Oltrepo, mentre la Sicherheitspolizei e la Gestapo, rinchiusesi all’Hòtel Re­ gina con reparti della Wehrmacht (Forze armate tedesche), si consegnaro­ no agli americani la mattina del 30. Il 27 aprile alle ore 17, provenienti dall’Oltrepo, giunsero in città i pri­ mi seicento partigiani della divisione Garibaldi Gramsci e il 28, alle ore 13, entrarono da viale Certosa le brigate della Valsesia, guidate dal commissa­ rio politico Cino Moscatelli (mentre il comandante Eraldo Gastone già ave­ va assunto prò tempore l’inc arico di sindaco di Novara e il capo di stato mag­ giore Luigi Grassi era stato nominato responsabile della piazza militare del­ la città). Alle ore 3 del mattino del 29 i corpi di Benito Mussolini e G aretta Petacci e di quindici tra i massimi esponenti di Salò (i primi giustiziati a Giulino di Mezzegra, gli altri a Dongo) vennero scaricati in piazzale Lore­ to, dove quindici patrioti erano stati fucilati ed “esposti” da un plotone del­ la legione Ettore Muti, per ordine del comando tedesco di Milano, il 10 agosto 1944. Qualche ora dopo sullo stesso piazzale venne fucilato Achille Starace, ex segretario del Partito nazionale fascista (Pnf; dai dati raccolti dal mini­ stero degli Interni all’inizio degli anni cinquanta, tra il 25 aprile e il 2 mag­ gio 1945 a Milano i fascisti di Salò condannati a morte dai tribunali straor­ dinari o passati per le armi sommariamente furono seicentoventidue; altri ventidue risultarono scomparsi).

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Nella tarda mattinata del 29 entrarono in Milano le prime avanguardie della V armata statunitense. Alle ore 19 il colonnello Charles Poletti, com­ missario per la Lombardia del governo militare alleato, ricevuto in prefet­ tura dai rappresentanti del Clnai e del Corpo volontari della libertà, di­ chiarò: Siamo andati a spasso per Milano. Abbiamo trovato ordine, disciplina. Sia­ mo stati anche in piazzale Loreto. Esprimiamo la nostra soddisfazione al Clnai e ai partigiani per il magnifico lavoro fatto. Siamo contenti di essere arrivati. Apprezziamo quello che il Clnai ha fatto e farà.

I negozi erano riaperti, i mezzi pubblici circolavano, si panificava e ve­ nivano erogati gas ed energia elettrica. Non si verificarono casi di saccheg­ gio. Vi furono episodi di violenze, vessazioni, ricatti che nulla avevano a che fare con la “politica”; ma per misurarne la sostanziale irrilevanza oc­ corre considerare almeno quanto segue. Nella città, fino al 24 aprile, i comandi, uffici, acquartieramenti tede­ schi erano stati trentasei, con un totale di trecento/settecento militari, fun­ zionari, addetti. I comandi, gli acquartieramenti, i centri di polizia e delle polizie speciali (compresi due centri della milizia collaborazionista di Vichy al comando del ministro-colonnello Darnand) delle forze di Salò, alla stes­ sa data erano centotredici per un totale di 11500/12 000 militari, legiona­ ri, agenti. Fornitissimi magazzini di armi, in prevalenza leggere e indivi­ duali, furono abbandonati; altre rilevanti quantità d’armamento furono get­ tate dai nazifascisti in fuga da Milano oltreché dai reparti in transito. Le decine e decine di migliaia di cittadini che, dopo le sparatorie del primo giorno, scesero in strada festanti, raccolsero quelle armi e si aggregarono in assembramenti massicci (nei quali facile era la mimetizzazione di malin­ tenzionati e delinquenti) che finirono per sommergere le formazioni parti­ giane e le Sap, organizzate e con comandi responsabili verso il Cvl. Que­ sto, avvalendosi anche del contributo della Guardia di finanza (in collega­ mento col Clnai nel periodo clandestino), riuscf a tenere complessivamente l’ordine. Non fu facile e si ebbero smagliature sulle quali già nel periodo immediatamente successivo venne montata una diffusa campagna di di­ scredito del moto popolare nella quale la grettezza dei benpensanti si fuse con il veleno dell’ideologia tanto violenta quanto vittimistica del fascismo, le cui radici ripresero presto a proliferare seppure in tinte a volte diverse. L’opera delle associazioni partigiane e combattentistiche, della Comu­ nità israelitica e delle amministrazioni locali, con la collaborazione delle Forze armate e del ministero della Difesa, ha condotto alla realizzazione del Campo della gloria inaugurato al Cimitero Maggiore di Milano il 24 aprile 1997 da un messaggio del Presidente della Repubblica e con una gran­ de manifestazione civica. In esso sono sepolti i resti mortali o incisi sulle lapidi i nomi di 4134 cit­ tadine e cittadini milanesi caduti per la libertà tra l’8 settembre 1943 e la primavera del 1945: 552 nei campi della Shoah; 324 nei campi degli inter­

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Milano

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nati militari italiani (Imi) in Germania; 1323 Cefalonia, Lero e nelle tren­ ta isole dell’Egeo; 459 nei campi di annientamento per deportati politici in Germania; 166 militari e partigiani nelle file del movimento di liberazione di altri paesi europei; 150 nelle forze armate che combatterono a fianco de­ gli alleati nella campagna d ’Italia; 2351 partigiani del Cvl a Milano e nelle altre province del paese. Nota bibliografica.

L. Borgomaneri, Due inverni, un’estate e la rossa primavera. Storia delle Brigate Garibal­ di Sap a Milano e provincia. 1943-1945, Angeli, Milano 1995; L. Cavalli e C. Strada, Il vento del nord. Materiali per una storia del PSTUP a Milano. 1943-1945, Angeli, Milano 1982; Id., Nel nome di Matteotti .Materiali per una storia delle Brigate Matteotti in Lombardia. 1943-1945, Angeli, Milano 1982; L. Ganapini, Una città, la guerra. Lotte di classe, ideologie, forze politi­ che a Milano. 1939-1951, Angeli, Milano 1988; G. Grassi, Milano capitale della Resistenza, in F. Ferratini Tosi, G. Grassi e M. Legnani (a cura di), L ’Italia nella seconda guerra mondia­ le e nella Resistenza, Insmli, Angeli, Milano 1988, pp. 50 9-22; Istituto milanese per la storia della Resistenza e del movimento operaio (a cura di), Milano nella Resistenza. Bibliografia e cronologia della Resistenza milanese (marzo 1943 - maggio 1945), Vangelista, Milano 1975; A. Scalpelli, Il generale e il politico. Le disarmonìe del potere nel Comando piazza di Milano, An­ geli, Milano 1985.

JEAN PIERRE JOUVET - RENATO SANDRI

Veneto

L ’attenzione nazifascista a l Veneto occupato. Nel territorio italiano oc­ cupato, fra il settembre 1943 e l’aprile 1945, dalle forze tedesche e da quel­ le della Repubblica sociale italiana (Rsi), il Veneto fu tra le regioni mag­ giormente soggette al controllo e alla repressione del ribellismo da parte del­ le unità militari e poliziesche nazifasciste, designate soprattutto a questo compito. La ragione principale di tale priorità era ed è di facile compren­ sione: derivava infatti dalla posizione geogràfica occupata dal Veneto nel­ l’ambito del teatro di guerra del Mediterraneo nordorientale, e questo nella previsione, via via sempre più concreta, della necessità di un rapido ripie­ gamento verso il Reich delle truppe di Kesselring. La regione rappresenta­ va, in questo senso, il “passaggio obbligato” più agevole e relativamente più sicuro per i convogli militari diretti, a mezzo ferrovia o per strada, verso i valichi del Brennero e di Tarvisio. Una realtà non sottovalutata dall’Oberkommando der Wehrmacht (Keitel e Jodl) e, in Italia, dallo stato maggio­ re di Kesselring e dai comandi di Toussant, von Richthofen e Wolff, nem­ meno però dagli angloamericani i quali, subito dopo l’8 settembre, intensi­ ficarono i bombardamenti aerei sulle linee ferroviarie, le strade, i viadotti e i ponti della Val d’Adige e di tutte le altre vie di comunicazione primarie (nazionali e interprovinciali) comprese fra la valle padana centrorientale, le Prealpi e le Alpi Venete. Nel Veneto il crollo del regio esercito nei giorni successivi all’armistizio avvenne quasi pacificamente, tranne in casi isolati come quello di Verona, protagonista l’8° artiglieria del colonnello Eugenio Spiazzi, e pochi altri. A Peschiera del Garda, ad esempio, una colonna della Wehrmacht (Forze ar­ mate tedesche) agli ordini del maggiore Rudolph Lehmann fu impegnata in uno scontro a fuoco dalla guarnigione della caserma 24 Maggio. A Monte­ bello Vicentino un sottotenente, Guido Golzo, e il sergente veronese Lui­ gi Piccoli, già presidente della Gioventù diocesana scaligera di Azione cat­ tolica (Ac), furono falciati, il mattino del 10 settembre, da soldati tedeschi ai quali avevano tentato di impedire il transito su un ponte stradale. Mor­ ti e feriti italiani, e qualche tedesco, anche a Dolcè, Pescantina, Parona (al­ la periferia di Verona), Bassano del Grappa, Vittorio Veneto, Abano Ter­ me, Recoaro, Este, Dolo, Treviso, Belluno, Badia Polesine e altrove. Furono in prevalenza militari italiani sbandati e gruppi di ex prigionie­

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ri alleati evasi dai campi, spesso con l’aiuto di antifascisti, sacerdoti, citta­ dini, a formare le prime bande di ribelli sui monti e nelle vallate del terri­ torio invaso dalle truppe del Reich rappresentato capillarmente anche nel Veneto: a Verona e a Vicenza dalla Milìtarkommandanture 1009; a Pado­ va, Treviso, Venezia e Rovigo dalla Kommandanture 1004. La provincia di Belluno era stata inclusa, con proclama del Fiihrer datato 10 settembre 1943, nella Operationszone Alpenvorland (Zona d’operazione delle Preal­ pi), assieme alle province di Bolzano e Trento. Al vertice dell’Alpenvorland Hitler aveva nominato, col titolo di Oberste Kommissar, Franz Hofer, Gauleiter del Tirolo (di conseguenza il nostro esame ometterà ogni richiamo al­ la resistenza bellunese, che fu di grandissima rilevanza per combattività, sacrifici, coinvolgimento della popolazione [L’occupazione tedesca in Ita­ lia*; Alpenvorland*]. Intanto a Verona, dove aveva installato il suo quartier generale, il ge­ nerale delle SS Wilhelm Harster definiva il piano strutturale per l’attiva­ zione di una rete capillare di Kommandeure der Sipo-SD (k d s : comandi re­ gionali), Aufienkommandos (a k : equivalenti ai nostri commissariati di Pub­ blica sicurezza) e Aufienposten (a p : uffici distaccati sottoposti agli a k ). Si trattava, in definitiva, del tessuto poliziesco nazista che doveva soffocare qualsiasi opposizione antitedesca e antifascista. Sempre da Verona, Theodor Dannecker in un primo tempo e successiva­ mente Friederich Robert Bosshammer, avvicendatisi alla direzione dell’Ufficio B 4 della Gestapo per l’Italia, diramarono le ordinanze riguardanti l’annientamento di ciò che ancora rimaneva della sventurata comunità ebraica italiana, e questo anche in aperta violazione delle norme della legislazione razziale fascista che tutelava i coniugi misti e i loro figli. Responsabili delle “sezioni venete” dell’Ufficio B 4 furono, nel periodo indicato, Alvin Eisenkolb, Wilhelm Berkefeld, Hans Haage, Hans Arndt e Karl Titho. Nonostante la tempestiva attivazione dell’apparato di sicurezza creato da Harster, con la collaborazione subordinata della Guardia nazionale re­ pubblicana (Gnr) di Renato Ricci e in seguito di altre forze della Rsi pre­ poste a combattere gli avversari del nazifascismo (X Mas, Brigate nere, bat­ taglioni M, polizie speciali ecc.), la resistenza veneta divenne una realtà fin dall’ottobre 1943, dopo il Convegno di Bavaria del Montello (7 ottobre). Già prima essa aveva dato prova della sua volontà operativa costituendo il Cln Regione Veneto (Clnrv; 10 settembre) e i Cln nelle province, e con l’aggregazione di piccole bande armate - come anzidetto - dislocate sui monti del Vicentino e del Trevigiano. La formazione delle bande partigiane. Centro propulsore della lotta fu, all’inizio, l’Università di Padova, i cui studenti, in maggioranza, seguirono l’esempio del rettore Concetto Marchesi (costretto alla clandestinità dal 10 dicembre 1943), del prorettore Egidio Meneghetti e di una quindicina di docenti e assistenti, fra i quali Norberto Bobbio, Ernesto Laura, Ugo Morin, Giuseppe Zwirner, Otello Pighin, Lanfranco Zancan, Enrico Opocher;

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e anche di altri noti intellettuali, cattolici o liberal-cattolici, che facevano capo al Collegio universitario Antonianum, come il professore Luigi Carraro, l’ingegnere Stanislao Ceschi, il dottor Mario Saggin. Dopo la partenza da Padova di Marchesi e l’arresto del professor Silvio Trentin, nel Clnrv si alternarono Meneghetti, del Pda, i comunisti Vitto­ rio Ghidetti (arrestato alla fine di gennaio), Giuseppe Gaddi (arrestato e deportato in maggio), Lionello Geremia e Aldo Damo; per la De Mario Sag­ gin e Giovanni Ponti; per il Psiup Alessandro Candido, Giovanni Tonetti, Giancarlo Matteotti e Antonio Cavinato; per il Pii Antonio Monica e An­ giolo Tursi. Dell’Esecutivo militare (poi Comando militare) del Clnrv fecero parte, in periodi diversi, Trentin, Meneghetti, Jerszy Sas Kulczycky, Celeste Ba­ stianetto, Guido Calò, Emilio Scarpa, Giuseppe Calore, Attilio Gombia, Giordano Lo Prieno, Leandro Biadene, Antonio Cavinato, Bruno Marton, Arturo Buleghin, Fermo Solari e Angiolo Tursi. Intanto il capitano di fregata Kulczycky (che sarà fucilato a Fossoli il 14 luglio 1944) e altri ufficiali delle dissolte Forze armate italiane davano vita nel Triveneto alle Fadp (Forze armate della patria) nel tentativo, pre­ sto naufragato, di dare un assetto organico alle bande già operanti sulle colline di Valdobbiadene e di Miane, alle falde del Grappa e sulle Grave del Piave. Altre bande si stavano rafforzando e perfezionando nelle tecniche del­ la guerriglia nelle valli vicentine del Chiampo e dell’Agno, sull’altopiano di Asiago, a Conco, nel Pasubio, nelle veronesi Val d’Alpone e Val d ’Illasi, nelle zone di Montagnana e di Cittadella (nel Padovano), nel Basso Po­ lesine; ma soprattutto nei comuni trevigiani di Motta di Livenza, Gorgo al Monticano, Cessalto, Chiarano e Meduna di Livenza, cioè a est e a sud­ est di Oderzo, fino ai confini con le province di Udine e di Venezia. In questo vasto territorio, benché tutto pianeggiante e quindi poco adatto al­ le imboscate e ai colpi di mano partigiani, gli studenti universitari Gio­ vanni Girardini e Piero Sanchetti, l’ex ferroviere Fioravante Marcolin (re­ duce dalle brigate internazionali in Spagna e dal confino a Ventotene), il maestro elementare Raoul Ramato, l’avvocato Mario Luzzato (ex podestà di Motta di Livenza), il medico condotto Federico Gasparini, il possiden­ te terriero Carlo Lippi, i comunisti Carlo Piva e Antonio Furlan, il socia­ lista Arturo Galletti e suo figlio Alfredo, Angelo Artico, Ugo Rusalen e l’avvocato Oreste Pellegrini costituirono quattro squadre partigiane, tra­ sformatesi in seguito in altrettanti battaglioni, protagonisti di azioni guer­ resche rischiosissime e di moltissimi sabotaggi, purtroppo pagati ad alto prezzo: Girardini, Furlan e Artico furono impiccati dai nazifascisti; Pel­ legrini e Rusalen fucilati, parecchi altri caddero nel corso di scontri a fuo­ co o morirono nei lager nazisti. Tra le imprese compiute dalla resistenza mottense nel primo autunnoinverno ricordiamo in particolare l’attacco incendiario alla sede della Con­ federazione dei lavoratori dell’industria, trasferita da Roma a Motta di Li-

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Veneto

venza nell’ottobre 1943; l’interruzione, ripetuta più volte, della linea fer­ roviaria Treviso-Portogruaro; l’interruzione della linea Motta di Livenza San Vito al Tagliamento; l’occultamento e il parziale riarmo di una cin­ quantina di ex prigionieri di guerra alleati nelle campagne dell’agricoltore Antenore Mazzotto a Sant’Anastasio di Cessalto. Dai molti gruppi di sbandati post - 8 settembre, formati quasi esclusi­ vamente da militari fuggiaschi, si passò ai primi Gruppi d ’azione patriotti­ ca (Gap) cittadini e alle prime bande di provincia, male armate e organiz­ zate ancora in modo approssimativo; poi il “salto di qualità” avvenne con la costituzione dei battaglioni e, nella primavera del 1944, delle prime bri­ gate partigiane vere e proprie, quasi tutte, comprese le Autonome, disci­ plinate secondo le norme stabilite dagli organi centrali della Resistenza e le direttive a esse impartite dai rispettivi Cln. Ma diverse situazioni territo­ riali, divergenze politico-ideologiche o dispute su questioni logistiche e di comando crearono a volte dissensi e contrapposizioni anche acute (come av­ venne tra l’Autonoma Pasubio e la garibaldina Ateo Garemi). Le missioni alleate. Dall’inverno '43-44 alla liberazione, le missioni dei servizi speciali alleati o del Servizio informazioni militari (Sim) italiano che entrarono e operarono nel Veneto furono quaranta - delle centocinquanta complessivamente inviate nel Centro-nord: paracadutate, sbarcate sulle co­ ste, mediante l’attraversamento del fronte o dei confini francese e iugosla­ vo. Inoltre, della trentina di missioni distrutte completamente al loro arrivo o, comunque, scomparse nel nulla, almeno sei erano destinate al Veneto. Ci sembra di per sé indicativo dell’importanza strategica della regione il nu­ mero delle missioni che in essa operarono: Special Operations Executive britannico (Soe), Office of Strategie Services statunitense (Oss), Sim ita­ liano, missioni miste interservizi; anche tre missioni dei Servizi militari francesi (Sécurité militaire), spostatesi in Alto Adige (area di interesse per la politica di De Gaulle). Le missioni-radio operanti nel Veneto trasmisero alle loro basi tra i sei e i settemila messaggi segreti (secondo fonti diverse dalle nostre un nume­ ro molto superiore) e ne ricevettero cinquemila all’incirca. Le missioni agivano su due direttrici, a volte rigorosamente distinte, al­ tre volte intersecate l’una all’altra: raccolta e trasmissione di informazioni sullo stato delle infrastrutture delle comunicazioni (ponti, strade, ferrovie), fortificazioni, concentramenti e movimenti di truppe nemiche, notizie ri­ levanti sulla situazione politico-sociale nei territori occupati ecc.; presenza tra le formazioni partigiane per i rifornimenti d’armi e d’altro materiale lo­ gistico a mezzo aviolanci, per coordinarne l’azione e assicurare i collegamenti con i comandi alleati o con lo stato maggiore italiano. Circa le missioni a scopi strettamente informativi qui si cita ad esempio solo la più forte tra quante operarono sul Veneto: la Margot-Hollis, para­ cadutata dall’Oss nel luglio '44, con capomissione il veneziano Pietro Ferraro. Dopo una prima fase di assestamento essa ramificò i suoi informato­

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ri in tutta la regione e nell’Alpenvorland, fino ad avere a Fortezza (Bolza­ no) una propria antenna costituita dagli impiegati delle ferrovie veronesi Giorgio Zordan, Fortunato Stringa e Iginio De Chirico, che riuscirono a fornire preziose informazioni sulla situazione lungo la linea ferroviaria e le strade del Brennero, e sulle vie di arroccamento della Val Pusteria. La rete della Margot-Hollis ebbe fino a duecento membri/informatori. Tra questi decine furono gli arrestati, torturati, uccisi o deportati. Altret­ tanto accadde per le altre missioni d’informazione. Per tutti citiamo gli esempi di G. De Bortoli responsabile di una missione dell’Ori (Organizza­ zione della resistenza italiana) che si suicidò in una cella a Verona, temendo di non poter resistere oltre alle torture inflittegli dopo la cattura; e del capi­ tano statunitense R. S. I. Hall, responsabile della missione Eagle (Oss), cat­ turato dai tedeschi nelTAmpezzano, incarcerato a Verona, poi trasferito a Bolzano per ulteriori interrogatori, torturato e infine impiccato. Tra luglio e agosto '44 nella zona pedemontana e prealpina del Veneto nordoccidentale si ebbero numerosi aviolanci di forti e qualificate missio­ ni del Soe britannico rivolte al movimento partigiano veneto. Tra queste: il X3 agosto sull’altopiano di Asiago la SSS/2 Freccia, co­ mandata dal maggiore inglese John Wilkinson; il 31 agosto la missione mi­ sta Soe/Sim, comandata dal maggiore Harold W. Tilman, famoso esplora­ tore e scalatore himalaiano (che si trasferì subito nel Bellunese presso la di­ visione Garibaldi Nannetti). Negli stessi giorni scese la missione guidata dal capitano inglese Paul N. Brietsche per raggiungere il comando unico delle quattro brigate partigiane attestate sul Monte Grappa. In quel periodo in di­ verse località del Veneto furono paracadutate altre tre missioni miste (Soe/ Sim), una missione dell’Oss, una missione del Sim sull’altopiano di Asiago e destinata al Trentino orientale - il cui comandante, capitano Antonio Ferrazza, gravemente ferito nell’atterraggio morì nei giorni successivi. Giun­ se anche dalla Iugoslavia - via Friuli - una missione mista Soe/Sim coman­ data dal maggiore inglese Hedley Vincent. Lo sviluppo della lotta di libe­ razione veneta nei mesi precedenti non bastava a spiegare la concentrazione in agosto di tante missioni alleate e italiane sul territorio della regione. Mol­ te erano state le azioni della resistenza dalla primavera al luglio '44. N e ricordiamo alcune, a titolo di esempio.

Padova, 8 marzo 1944. Cinque gappisti assaltano il distretto militare in­ ducendo alla fuga una sessantina di reclute. Padova, 2 maggio. Sabotatori del Gap cittadino incendiano, in pieno cen­ tro, un autoparco tedesco. Valle del Chiampo (Vi), aprile-luglio. La brigata Autonoma Vicenza (poi Pasubio) conquista tutti i presidi nemici nell’Alta valle, cattura, disarma e rilascia una quarantina di militi Gnr alla stazione ferroviaria di Chiam­ po, attacca colonne di automezzi, sostiene duri combattimenti con repar­ ti motorizzati tedeschi; da metà luglio a settembre la valle è di fatto zo­ na libera.

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Verona, 17 luglio. Sei gappisti liberano dal carcere degli Scalzi il sindaca­ lista comunista Giovanni Roveda, che era stato catturato a Roma nel di­ cembre del ’43 dalla banda fascista di Pietro Koch. Valle dell’Agno, Val Posina, Val Leogra, valli del Pasubio (Vi), giugno-ago­ sto. Distaccamenti della garibaldina A. Garemi sostengono numerosi combattimenti e rendono precaria la circolazione del nemico sulle vie tra pianura veneta e valle dell’Adige. Asiago (Vi). Le formazioni Autonome che poi si uniranno nella divisione alpina Monte Ortigara occupano progressivamente buona parte dell’al­ topiano (a eccezione del capoluogo e di alcuni altri centri). Montecchio Maggiore (Vi), 23 luglio. Distaccamenti della brigata garibal­ dina Stella attaccano la caserma annessa al sottosegretariato della mari­ na ivi stanziato facendo prigionieri circa duecento militari della Rsi e im­ possessandosi di un ingente quantitativo di armi e munizioni. Monte Grappa (Vi), luglio-agosto. Il massiccio montano dominante due fondamentali vie di comunicazione stradali e ferroviarie viene progressi­ vamente occupato da quattro brigate (Gl, Autonoma, Garibaldi, Mat­ teotti) a comando unificato e con forze complessivamente di oltre un mi­ gliaio di partigiani, una consistente parte dei quali, salita in montagna durante l’estate, ancora disarmata. Si tratta di esempi maggiori ma non esaustivi dell’attività partigiana nel Veneto - fino a settembre -, densa di scontri, rastrellamenti, sacrifici; tut­ tavia la spiegazione del concentramento delle missioni nella regione in quell’estate va trovata solo nel collegamento tra la lotta fino ad allora so­ stenuta dal movimento di liberazione e la prospettiva che sembrava immi­ nente per l’intera campagna d’Italia. Il numero delle missioni, gli ordini di cui esse erano latrici, i lanci di armi promessi, le notizie recate verbalmen­ te dai loro membri: tutto preludeva all’ingresso nel Veneto degli eserciti al­ leati, con lo sfondamento della linea Gotica, con sbarchi dal mare e dal cie­ lo (in quei giorni reparti tedeschi distrussero a titolo precauzionale l’aero­ porto di Asiago). La svolta dell’autunno-inverno 1944-45. Con settembre si verificò inve­ ce il completo rovesciamento della prospettiva (e delle attese). Era ancora in corso la battaglia di Rimini quando Kesselring scagliò l’offensiva contro il partigianato veneto. Per ogni evenienza la regione doveva venire “ripu­ lita”, con metodi simili a quelli usati dai tedeschi nella “guerra di stermi­ nio” condotta nelle retrovie del fronte orientale (o in Iugoslavia). Tre furono le grandi operazioni di rastrellamento, a ondate successive, in quella tragica fine estate, nel Veneto: la Pauke (nella valle del Chiampo e sui Lessini orientali), la Hannover (sull’altopiano di Asiago) e la Piave (sull’al­ topiano del Cansiglio e sul Grappa). Vi parteciparono, oltre all’Ost-Bataillon 263 (collaborazionisti ucraini e georgiani), due compagnie dell’Einsatzkommando Burger, il 20 battaglione del reggimento Bozen, il Luftwaffen Si-

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cherungs Regiment Italien, reparti dell’SS und Polizeifuhrer oberitalien Mitte (inviati da Bolzano dall’SS generalmajor Karl Brunner), dell’SS-Polizei Regiment 12 e della Feldgendarmerie, altre unità dell’Alpenvorland, squadre delle Brigate nere di Verona, Vicenza e Treviso e infine il 63° bat­ taglione M Tagliamento, da poco trasferito dall’Appennino a Recoaro. Le conseguenze furono disastrose. Dai centosette civili e partigiani del­ la Stella e della Pasubio uccisi, e gli oltre duemilacinquecento edifici - a co­ minciare dalle chiese fino alle ultime baite - distrutti tra la piana di Valdagno e Crespadoro di Chiampo, alla strage di boscaioli della Todt-Speer per­ petrata tra inaudite sevizie da un reparto della Tagliamento nel bosco di Granezza d ’Asiago; dai seicento partigiani e partigiane del Monte Grappa caduti combattendo o massacrati (tra i quali centosettantuno impiccati a Bassano e in altre località nelle vicinanze del massiccio) alle migliaia di de­ portati da quelle vallate nei lager. Erano stati compiuti errori militari anche gravi; preminente il tentativo di difesa “rigida” tra le trincee del Grappa. Non risultano casi di tradimen­ to; risulta invece che Anna Giglioli (nata a Reggio Emilia nel 1920) rifiutò la deportazione e chiese di venire fucilata, come il marito Angelo Valle (già sottotenente del regio esercito, nato a Bari nel 1917) messo a morte poco prima a Carpané - del Grappa - il 26 settembre 1944. Fu esaudita. Trentaquattro militari - ufficiali o soldati in maggioranza inglesi, alcuni sudafricani e indiani, ex prigionieri saliti in montagna dopo l’armistizio caddero in combattimento o vennero fucilati o impiccati. A fine settembre il maresciallo Kesselring si trasferì a Recoaro con il Co­ mando supremo tedesco in Italia. A poca distanza, il 25 marzo '45, il mag­ giore Wilkinson, capo della missione britannica SSS/2 Freccia, cadde, ar­ mi alla mano, nell’ultima delle tante imboscate tesegli dalla Feldgendarme­ rie di Schio. Dopo i rastrellamenti del settembre 1944, la Resistenza veneta, benché gravemente mutilata, rialzò la testa. Protagoniste della “riscossa” furono soprattutto le formazioni che erano riuscite a contenere al minimo la furia tedesca, o che non ne erano-state investite frontalmente. Le azioni si svilupparono soprattutto nelle città e in pianura. Alcuni esempi: Venezia, 25 novembre 1944. Due sabotatori, Dionisio Pagan e Giordano Penzo, fanno saltare quattro motonavi, da seicento e da duecentocinquanta tonnellate (in dicembre anche un burchio carico di cemento e un pontone munito di una potente gru). Bassano del Grappa, 17 febbraio 1945. Quattordici partigiani della briga­ ta Martiri del Grappa fanno saltare il Ponte degli Alpini sul Brenta, “ultimo ponte” per tedeschi e fascisti fra la Valsugana e la pianura vi­ centina. Venezia, 12 marzo. Partigiani della brigata Francesco Biancotto irrompo­ no sul palcoscenico del Teatro Goldoni e tengono un comizio davanti a

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centinaia di spettatori, compresi numerosi tedeschi, militi fascisti e marò della X Mas, paralizzati dalle armi puntate dei patrioti. Nella pianura si erano raccolti gruppi organizzati di partigiani scesi dal­ le montagne; le Sap (Squadre di azione patriottica) tessevano, in prevalen­ za, la cospirazione degli antifascisti; mentre in provincia di Rovigo, parti­ colarmente nel Polesine - valli del Po, fin dall’inverno '43-44 si erano sus­ seguiti colpi di mano ed episodi di guerriglia in un clima di particolare reciproca ferocia, culminato nella strage di quarantatre partigiani e civili - dopo l’uccisione di quattro fascisti - a Villamarzana da parte di un re­ parto di Brigate nere. Nelle campagne padovane e vicentine dall’autunno operarono con effi­ cacia e continuità i gruppi di sabotatori della brigata Gl Silvio Trentin al comando del già citato Otello Pighin, assistente universitario. Anche parecchie missioni militari incrementarono i loro organici e i lo­ ro sforzi operativi. Si può dire che dall’inverno '44-45 in pochi dei 580 co­ muni del Veneto non esistesse almeno una fonte di informazioni collegata, direttamente o indirettamente, con qualche missione o Cln o formazione partigiana. Cosi un territorio di oltre 18000 km2 era sottoposto alla “sor­ veglianza” dei movimenti del nemico. Sotto controllo erano soprattutto le linee ferroviarie (anche le secondarie); gli allestimenti difensivi sull’arco prealpino, dalla Lessinia al Bellunese, che il comando tedesco stava celer­ mente approntando in vista della primavera, con l’impiego di migliaia di lavoratori-forzati; i transiti militari stradali e lo stato dei ponti, prima e do­ po i bombardamenti. La resistenza militare e civile si svolgeva tra insidie crescenti. L’ondata dei grandi rastrellamenti aveva diffuso scie ed echi di terrore o di passive chiusure. La repressione nazifascista aveva riscontro nella “disponibilità” o nell’adesione di settori della popolazione molto esigui, ma con punte di violenza e di capillarità delatoria soprattutto nelle città e in alcuni centri della pianura. La banda Carità. L’insediamento della banda Carità a palazzo Giusti di Padova, con succursale nella villa di via Fratelli Albanese a Vicenza dal no­ vembre '44, ebbe conseguenze durissime per la resistenza delle due pro­ vince e del Veneto in generale. Il responsabile della milizia, Mario Carità, con la sua banda, dall’8 set­ tembre '43 aveva imperversato a Firenze, al servizio della Gestapo e del Sicherheitsdienst ( s d ) nazisti, specializzandosi in infiltrazione nelle file anti­ fasciste e praticando le più orrende torture degli arrestati (a volte conse­ gnati alla banda dagli stessi tedeschi, per ottenerne confessione), riuscendo ad aprire nella lotta di liberazione fiorentina molte tra le ferite più gravi e dolorose. Abbandonato il capoluogo toscano in giugno, la banda Carità si era stan­ ziata a Bergantino (Rovigo), limitrofo alle province di Verona e di Manto­

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Parte seconda

va: in attesa di definitiva destinazione essa segnò ampie zone delle tre pro­ vince con arresti, violenze, sevizie su catturati poi tradotti alla deportazio­ ne in Germania. Decine e decine furono i resistenti che dopo crudeli interrogatori ven­ nero rinchiusi nelle celle e nei sotterranei di palazzo Giusti e della succur­ sale vicentina, prima della deportazione o della morte. Otello Pighin, arre­ stato nel corso di un’imboscata l’8 gennaio 1945, venne ucciso dopo due giorni di silenzio non domato dalla tortura; altri ebbero la stessa sorte. Buo­ na parte del Clnrv, col suo presidente Egidio Meneghetti, fu catturata (il presidente venne deportato nel lager di transito di Gries - Bolzano); al­ trettanto era accaduto al Cln di Vicenza. Ettore Gallo (il futuro presiden­ te della Corte Costituzionale), arrestato dai tedeschi e consegnato a palaz­ zo Giusti, scampò all’esecuzione cui era stato condannato in marzo, al ter­ mine degli interrogatori, per il sopravvenire della liberazione (Carità, allontanatosi a fine marzo da Padova, nel maggio del '45 venne freddato assieme a una donna dalla pattuglia della polizia militare alleata che lo sor­ prese in un albergo della Val Gardena dove aveva trovato rifugio). Non va dimenticata infine l’opera dell’antifascismo veneto per salvare i cittadini ebrei braccati: circa cinquecento furono catturati dai nazifasci­ sti e deportati nella Risiera di San Sabba a Trieste o direttamente nei cam­ pi di sterminio tedeschi; ma almeno altrettanti si salvarono grazie ai na­ scondigli assicurati dalla rete ciellenistica, da sacerdoti intrepidi o da sem­ plici cittadini animati da sentimenti umanitari e antirazzisti. Le componenti sociali e religiose. La resistenza veneta ebbe a substrato l’ostilità contro “il tedesco” non ancora spenta sulle montagne della Gran­ de guerra, addirittura rinfocolata per le esperienze compiute e sofferte con “l’alleato” della seconda guerra mondiale, in Grecia, in Iugoslavia, in Rus­ sia, soprattutto dalle truppe alpine: anche da qui il lealismo militare dei pri­ mi nuclei di ufficiali e soldati che all’8 settembre rifiutarono di cedere alla Wehrmacht (Forze armate tedesche). Ebbero naturalmente funzione determinante per l’aggregazione e la lot­ ta le personalità e le prese di posizione delle élite intellettuali della sinistra e dei cattolici, soprattutto tra studenti e ceti colti, come la predicazione, la tenacia organizzativa, la passione dei vecchi militanti socialisti, comunisti, azionisti (tanti i reduci dalla galera, dall’esilio, dalla guerra di Spagna). E la rinascita significativa della De, che in molte zone aveva alle spalle il ri­ cordo delle «leghe bianche» distrutte - come le «leghe rosse» - dallo squa­ drismo degli anni venti. Dalla interazione tra queste componenti sommariamente accennate la resistenza veneta si caratterizzò peculiarmente come guerra di liberazione nazionale (a eccezione del Polesine, dove la miseria illimitata del proleta­ riato agricolo e l’ottuso dominio del grande padronato agrario, in preva­ lenza fascista, connotarono lo scontro di odio di classe aspro, senza media­ zioni).

Jouvet - Sandri

Veneto

Poco si comprenderebbe della guerra di liberazione nel Veneto se si omettesse dalla riflessione il ruolo esercitato dalla Chiesa e soprattutto dal­ la rete delle parrocchie, alla base popolare della lotta. L’egemonia spirituale della Chiesa, il suo controllo sociale diffuso e profondo nel Veneto risalivano indietro nei secoli. Molti sacerdoti, “alla polacca”, vollero consigliare o anche seguire il moto di ribellione naziona­ le di donne e di uomini loro parrocchiani e che tali dovevano rimanere. L’assassinio di don Luigi Bevilacqua - pugnalato davanti a sua madre e gettato morente tra le fiamme della chiesa parrocchiale di San Pietro Mussolino nella valle del Chiampo il io luglio '44 -, le altre uccisioni o le per­ secuzioni violente di sacerdoti per mano nazifascista non furono episodi isolati, bensì punte di un grande iceberg-, accanto alle caute pastorali dei ve­ scovi ci furono anche le loro visite ripetute ai paesi distrutti e alle popola­ zioni sanguinanti; la prudenza delle parrocchie si accompagnò all’impegno via via crescente di molti sacerdoti nel fiancheggiare montanari, donne, ope­ rai entrati in lotta. Complessivamente i partigiani - delle province qui esaminate - caduti in combattimento, fucilati, impiccati, deceduti a seguito delle ferite ripor­ tate o in deportazione furono 2670.1 soldati e i civili non più ritornati dai campi di internamento militare o dai campi di deportazione politica e di sterminio razziale furono circa quattromila. Centinaia e centinaia furono i caduti dei giorni successivi all’armistizio (veronesi soprattutto) tra ufficiali e soldati della divisione Acqui a Cefalo­ ma; tra i partigiani in Francia e nei Balcani, o nel Corpo italiano di libera­ zione (Cil) che risalì dal Sud a fianco degli eserciti alleati. Nota bibliografica.

A A .W ., Ritomo a Palazzo Giusti (Testimonianze dei prigionieri di Carità a Padova. 19441:945), La Nuova Italia, Firenze 1972; A A .W ., La tradotta arriva (Le Forze armate nella Re­ sistenza e nella liberazione del Veneto), Co mitato regionale delle federazioni venete Combat­ tenti e Reduci, Venezia 1978; A A .W ., IlVeneto nella Resistenza, Associazione degli ex con­ siglieri della Regione Veneto, Venezia 1997; E. Brunetta, Correnti politiche e classi sociali alle origini della Resistenza nel Veneto, Neri Pozza, Vicenza 1974; A. Ciocchiatti, Cammina Frut, Vangelista, Milano 1972; G. Corletto, Masaccio e la Resistenza fra il brenta e il Piave, Neri Pozza, Vicenza 1959; E. Franceschini, Uomini liberi. Scritti sulla Resistenza, Piemme, Casa­ le Monferrato 1993; G. Gaddi, Guerra di popolo nel Veneto, Bertani, Verona 1975; G. Sabadin, La Resistenza veneta, Marton, Treviso 1980; C. Saonara, Le missioni militari alleate e la Resistenza nel Veneto, Marsilio, Venezia 1990; E. M. Simini (a cura di), Garibaldini dal Garda al Brenta, da Montagnana a Bolzano, Marcolin, Schio 1990 ; T. Tessari, Le origini della resistenza militare nel Veneto, Neri Pozza, Vicenza 1959; A. Ventura (a cura di), La società ve­ neta dalla Resistenza alla Repubblica, Atti del Convegno di studi di Padova (9-11 maggio 1966), Isr Padova, Cleup, Padova 1997.

CARLO ROMEO - LEOPOLD STEURER

Zona Prealpi (Alpenvorland: Bolzano, Trento e Belluno)

Il ventennio fascista. Per comprendere appieno la situazione che si pre­ senta in provincia di Bolzano alla caduta di Mussolini e all’indomani dell’8 settembre 1943, bisogna richiamare almeno le vicende più importanti di questa terra nel ventennio fascista. Il trattato di Saint-Germain (1919) aveva assegnato al Regno d’Italia, oltre al Trentino, anche il territorio tra Salorno (il cosiddetto «confine linguistico») e il Brennero (la displuviale al­ pina), spezzando l’unità del Tirolo storico e inglobando all’interno dei con­ fini una forte minoranza di lingua tedesca, di circa duecentomila unità. Al periodo del Governatorato militare del generale Pecori Giraldi segue quel­ lo del Commissariato generale civile per la Venezia Tridentina (retto dal liberale Luigi Credaro). I partiti sudtirolesi, cattolici e liberali, unitisi nel Deutscher Verband (Lega tedesca) elaborano vari progetti di un’autonomia amministrativa e politica per la provincia di Bolzano, mentre i socialdemo­ cratici tentano un collegamento coi socialisti italiani. Il 24 aprile 1921 squa­ dre fasciste, guidate da Achille Starace, giungono a Bolzano aggredendo un corteo di sudtirolesi; negli scontri viene ucciso il maestro Franz Innerhofer. L’anno successivo (2 ottobre 1922) i fascisti organizzano una «marcia su Bolzano» che porta alla destituzione di Credaro e del sindaco Julius Perathoner, in carica da vent’anni. Con l ’avvento di Mussolini al potere la politica in Alto Adige si indi­ rizza senza mezzi termini verso l’obiettivo di snazionalizzazione della mi­ noranza tedesca. Molti elementi di questo programma provengono dalle ela­ borazioni dello studioso nazionalista roveretano Ettore Tolomei (18651952), che dalle pagine del suo «Archivio per l ’Alto Adige» già dal 1906 aveva sostenuto e diffuso argomenti storici, linguistici, geopolitici a favo­ re dell’italianità dell’Alto Adige.

Negli anni venti l’italianizzazione procede soprattutto nell’amministra­ zione, nella toponomastica, nei simboli e monumenti, nella scuola. Un de­ creto legge Gentile del '23 introduce l’italiano come lingua unica d’inse­ gnamento. La reazione è il ricompattamento in nome della solidarietà et­ nica da parte della minoranza tedesca, al di là di ogni differenziazione ideologica e sociale. Nasce, ad esempio, la cosiddetta Katakombenschule (scuola delle catacombe), cioè l’organizzazione di corsi illegali per insegna­ re ai bambini i rudimenti della lingua tedesca. Alcuni maestri vengono ar-

Romeo - Steurer

Zona Prealpi

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restati e condannati al confino. Protagonista di quest’appello alla resisten­ za culturale è il canonico Michael Gamper, animatore della stampa cattoli­ ca locale. La Chiesa e la stampa cattolica, soprattutto dopo il Concordato del 1929, restano l’unico ambito che sfugge all’italianizzazione. Nel progetto del regime la creazione della provincia di Bolzano (1926) instaura quel “filo diretto” con Roma che, scavalcando Trento, dovrebbe accelerare l’italianizzazione, anche tramite una politica di forte immigra­ zione. In quest’ultima si possono individuare varie fasi e gruppi sociali: militari, impiegati pubblici, operai edili (per la costruzione delle grandi in­ frastrutture, ad esempio le centrali idroelettriche) soprattutto negli anni venti; poi una massiccia immigrazione operaia nella seconda metà degli an­ ni trenta, legata all’avvio della grande zona industriale di Bolzano (Lancia, Acciaierie Falck, Ina, Italiana Magnesio ecc.). Il tentativo di trapiantare nuclei di famiglie contadine nelle valli, attraverso l’azione dell’Opera na­ zionale combattenti e in seguito dell’Ente di rinascita agraria, non sortisce effetti significativi (a parte il caso di Sinigo - Borgo Vittoria). Il gruppo italiano rimane così concentrato nei centri maggiori, soprattutto nel capoluogo che dai 28000 abitanti del 1910 passa ai circa 60000 della fine de­ gli anni trenta. Le «opzioni» del 1939. Lungo gli anni trenta all’interno della comunità sudtirolese cominciano a cedere sia i riferimenti culturali legati alla vecchia Austria sia il ruolo della leadership cattolica e liberale orientata ai valori del­ la Heimat tirolese. All’indomani dell’ascesa di Hitler al potere anche in Al­ to Adige si attivano circoli clandestini di propaganda nazionalsocialista (Vòlkischer Kampfring Siidtirols). A far presa, soprattutto sulle giovani ge­ nerazioni e sugli intellettuali, sono i successi che la politica hitleriana con­ tinua a mietere riguardo le minoranze tedesche all’estero e l’appello alla Volksgemeinschaft (comunità di popolo). Nel marzo 1938, nonostante le so­ lenni proclamazioni di Mussolini negli anni precedenti, si compie l’Anschluss dell’Austria. Entrambe le dittature si trovano nella necessità di risolve­ re il problema dell’Alto Adige, che può disturbare l’alleanza Roma-Berlino. Hitler aveva già scritto nel Mein Kam pf che «la sorte di 200000 sudtirole­ si non può distogliere la politica estera tedesca dalla ricerca di un’alleanza con l’Italia». Tali convinzioni vengono suggellate dalla solenne dichiara­ zione resa al duce in occasione della visita in Italia del maggio '38, che il Fuhrer compie dopo l’Anschluss: «Il Brennero è il confine che la Provvi­ denza ha posto tra i nostri due popoli». Nel giugno e nell’ottobre del 1939 vengono così sottoscritti tra i due go­ verni gli accordi detti «di Berlino» o delle «opzioni». Gli abitanti di lingua tedesca e ladina dell’Alto Adige e di alcune zone del Trentino e del Bellu­ nese sono posti di fronte all’alternativa di mantenere la cittadinanza italia­ na (e abbandonare di fatto ogni residua speranza di resistenza all’assimila­ zione) oppure di assumere quella germanica e trasferirsi nel Reich. Mentre la Germania nazista mira a un esodo totale, l’Italia fascista ha l’obiettivo

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Parte seconda

di un trasferimento parziale della popolazione alloglotta. Sotto la regia di Heinrich Himmler, capo delle SS alle quali viene affidata la diretta gestio­ ne del trasferimento delle minoranze tedescofone in tutta l’Europa sudo­ rientale nella prospettiva di una «pulizia etnica e razziale» dei territori con­ quistati, l’opzione diventa un vero e proprio plebiscito: più dell’ottanta per cento (circa duecentomila) degli aventi diritto sceglie la Germania. A ciò contribuiscono fattori ideologici e sociali, la capillare propaganda nazista, l’ambiguità e il ritardo della contropropaganda fascista, lo sfaldamento del­ la comunità sudtirolese. Nei tre mesi dell’opzione (settembre-dicembre 1939) si verifica una drammatica lacerazione, che si prolungherà per tutto il periodo bellico e oltre, tra i propagandisti della «partenza» e i «Dableiber» («quelli che rimangono»). Questi ultimi, sotto il nome dell’eroe tiro­ lese Andreas Hofer che nel 1809 si era opposto a Napoleone, tentano di contrastare la massiccia propaganda nazista appellandosi alla fedeltà verso le tradizioni, alla Heimat e alla fede cattolica. Sono sostenuti dal basso cle­ ro e dal vescovo di Trento (allora l’Alto Adige era diviso tra le diocesi di Trento e Bressanone). Il vescovo di Bressanone Johannes Geisler opta in­ vece per la Germania. Il termine ultimo per il trasferimento nel Reich è al­ la fine del 1942, ma l’inevitabile complessità delle procedure economico-finanziarie per la stima e la vendita dei beni immobili, e soprattutto l’anda­ mento degli eventi bellici, bloccano di fatto il trasferimento. Nel 1943 ancora due terzi degli optanti si trovano in provincia. La Zona d ’operazione delle Prealpi. Nei mesi di febbraio e marzo 1943 l’Alto Adige è una delle prime province a ospitare reduci deU’Armata ita­ liana in Russia (Armir) in campi contumaciali. I racconti che filtrano no­ nostante la censura della propaganda alimentano l’ostilità sia verso il regi­ me fascista che verso l’alleato germanico, ritenuto il vero responsabile del­ la guerra. Ciò avviene proprio nel momento di massimo impegno della propaganda nazista dell’Arbeitsgemeinschaft der Optanten, l’organizza­ zione politica degli optanti in attesa di trasferimento. Il 25 luglio 1943 non provoca nei centri della provincia le manifesta­ zioni delle grandi città italiane. Da registrare sono soltanto qualche spora­ dica demolizione di simboli e agitazioni operaie nella zona industriale di Bolzano, contro la sempre più consistente entrata nel regno di truppe co­ razzate germaniche, accolte con entusiasmo dalla popolazione tedescofona, con l’attesa di una «liberazione». Nella notte dall’8 al 9 settembre la provincia passa militarmente in ma­ no germanica, anche con la collaborazione della s o d (Sicherheits-und Ordnungsdienst), la milizia territoriale composta di sudtirolesi. Proprio per la presenza capillare di quest 'ultima risulta pressocché impossibile ai militari italiani presenti in provincia sottrarsi all’arresto e alla deportazione. Dal 10 settembre la provincia di Bolzano è inserita, assieme a quella di Trento e Belluno, nella Operationszone Alpenvorland (Zona d ’operazione delle Prealpi - Zop), sotto il controllo del Gauleiter tirolese Franz Hofer.

Romeo - Steurer

Zona Prealpi

Q uest’ultimo è alle dirette dipendenze del Fiihrer e dotato di un potere esclusivo in campo legislativo, esecutivo e giudiziario. Sulla sovranità nel­ la Zop (di fatto annessa al Reich) si avranno nei venti mesi successivi timi­ de rivendicazioni diplomatiche da parte della Repubblica sociale italiana (Rsi), ma la politica di Hofer non lascerà dubbi sulle reali intenzioni alme­ no per quanto riguarda l ’Alto Adige.

CARLO ROMEO - LEOPOLD STEURER

Bolzano e Alto Adige

I venti mesi della Zona d ’operazione delle Prealpi (Zop). L e o r d i n a n z e d e l c o m m is s a rio s u p re m o ( r e in tr o d u z io n e d e l te d e s c o n e lla to p o n o m a s tic a e n e l l ’a m m i n i s t r a z i o n e , r i a g g r e g a z i o n e a l l a p r o v i n c i a d i B o l z a n o d e i c o m u n i d i L iv in a llo n g o e A m p e z z o e d i q u e lli d e lla B a s s a A te s in a , p r o ib iz io n e d e l­ la r ic o s titu z io n e d e l P a r tito n a z io n a le fa s c is ta (P n f), s e v e ra r e g o la m e n ta ­ z io n e n e lla Z o p d e lla m o b ilità d i p e r s o n e in e n tr a ta e in u s c ita , c h iu s u ra e s e q u e s tro d e lla s ta m p a c a tto lic a d i lin g u a te d e s c a , lim ita z io n e n e lla c irc o ­ l a z i o n e d e l l a s t a m p a i t a l i a n a e c c .) i n t e r r o m p o n o n e i f a t t i q u a l u n q u e c o n ­ t a t t o c o n i l r e s t o d ’I t a l i a , p u r c o n l ’a l i b i d e l l e n e c e s s i t à m i l i t a r i . N a s c e u n m o v im e n to f a s c is ta c la n d e s tin o c h e t i e n e c o n t a t t i c o n S a lò ( U ff ic io z o n e a l­ p in e , r e t t o d a l c o n te C a s a lin i e p o i d a A n to n io B o n in o ) c o n q u e s ti o b i e t t i ­ v i: i n f o r m a r e M u s s o lin i d e g li e f f e t t i a n n e s s io n is tic i c h e a v e v a n o le o r d i ­ n a n z e d i H o f e r ; s o l l e c i t a r e d i c h i a r a z i o n i u f f i c i a l i s u l l ’i t a l i a n i t à d e l l a Z o p ; c o s titu ir e u n a b r ig a ta A lp in a , f o r m a ta d a lle le v e ita lia n e d e lla p r o v in c ia e d e v ita r n e c o s i P a r ru o la m e n to n e lle f o rz e a r m a te g e rm a n ic h e . I n r e a ltà a n c h e s u lla s ta m p a d i S a lò c a d d e u n v e lo d i s ile n z io s u lle d u e z o n e d i o p e r a z io n i. N e lla g e s tio n e d e l s u o “r e g n o ” H o f e r f a ric o rs o d i v o lta in v o lta al c o n ­ s e n so o al te r r o r e . I n A lto A d ig e p e r la p o p o la z io n e s u d tiro le s e la r e s titu ­ z io n e d e llo s p a z io ( n e g a to d a l fa s c is m o ) a lla c u ltu r a p o p o la r e e a lle s u e o r ­ g a n iz z a z io n i (d a lle b a n d e m u s ic a li, a g li S c h ù tz e n , a lle a s s o c ia z io n i g io v a n i­ li e c c .) v i e n e v i s t a d a m o l t i c o m e u n a f o r m a d i r i n a t a a u t o n o m i a c u ltu r a le . T a li s p a z i s o n o o v v ia m e n te s tr u m e n ta liz z a ti ai f in i d e lla g u e r ra e d e lla p r o ­ p a g a n d a . E d o v e a n u lla p u ò il c o m p e n s o id e a le , H o f e r c e r c à il c o n s e n s o c o n v a n t a g g i m a t e r i a l i . C o n u n ’o r d i n a n z a d e l d i c e m b r e 1 9 4 3 i s a l a r i d e i l a v o ­ r a t o r i d e l l ’i n d u s t r i a , d e l c o m m e r c i o , d e i s e r v i z i p u b b l i c i e d e l r a m o b a n c a ­ r io v e n g o n o a u m e n ta ti d e l t r e n ta p e r c e n to . C iò te n d e s o p r a ttu tto a e v ita re m a lc o n te n ti n e lla z o n a p iù “ c a ld a ” d e lla p ro v in c ia , o v v e ro t r a i la v o r a to ri d e lla n e o n a ta z o n a in d u s tr ia le d i B o lz a n o , im p o r ta n te p e r la p r o d u z io n e b e llic a , in c u i s o n o d if fu s e “ c e llu le ” f o r te m e n te p o litic iz z a te . L ’e f f e t t i v o e s e r c i z i o d e l p o t e r e , n o n o s t a n t e l a f a c c i a t a “ b i l i n g u e ” , p a s ­ s a in o r d in e g e r a r c h ic o a i K r e is le ite r , i s in d a c i c o m m is s a ria li c h e s o s titu i­ v a n o i p o d e s tà f a s c is ti, e al lo r o a p p a r a to b u r o c r a tic o ( ric a lc a to s u lla s t r u t ­ t u r a d e l p a r t i t o n a z i o n a l s o c i a l i s t a ) . N e i v a r i c a m p i d e l l ’e c o n o m i a v e n n e r o in s e d ia ti d e i K o m m is s a r is c h e L e ite r ( g e re n ti), n e lle c u i m a n i s ta v a il d e s t i ­ n o d e lle d i t t e e im p re s e c o m m e rc ia li, in d u s tr ia li, b a n c a r ie e a rtig ia n e .

Romeo - Steurer

Bolzano e Alto Adige

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L ’i s t i t u z i o n e d e l l a Z o p n o n r i s p a r m i ò l ’e s p e r i e n z a d e g l i a s p e t t i p i ù b r u ­ t a l i d e l l ’o c c u p a z i o n e n a z i s t a . C i r c a t r e n t a a p p a r t e n e n t i a l l a c o m u n i t à e b r a i ­ c a d i M e r a n o , r i m a s t i a n c o r a i n p r o v i n c i a d o p o l ’e m a n a z i o n e d e l l e l e g g i s u l l a r a z z a d e l 1 9 3 8 , s o n o i p r i m i e b r e i d e p o r t a t i d a l l ’I t a l i a ( 1 2 s e t t e m b r e ) , a n c h e i n v i r t ù d e l l ’a t t i v a c o l l a b o r a z i o n e d i e l e m e n t i l o c a l i , p e r a l t r o m a i p r o ­ c e s s a ti n e l d o p o g u e r r a . D i lo r o to r n e r à so lo u n a d o n n a d a i c a m p i d i s te r ­ m in io . N e l lu g lio 1 9 4 4 , d o p o la c h iu s u ra d i q u e llo d i F o s s o li, v ie n e in s ta lla to a lla p e r if e r ia d i B o lz a n o (v ia R e s ia ) u n D u r c h g a n g s la g e r (c a m p o d i t r a n s i ­ t o ) , g e s t i t o d a l l e S S , c h e f u n z i o n ò s i n o a l l a f i n e d e l l ’a p r i l e 1 9 4 5 . V i p a s s a ­ r o n o a lm e n o u n d ic im ila p r ig io n ie r i ( p a rtig ia n i, o s ta g g i, e b r e i, z in g a ri) d e ­ s t i n a t i a lla d e p o r ta z io n e in G e r m a n ia e s i v e r if ic a r o n o m o lti e p is o d i d i s e ­ v i z i e e d e s e c u z i o n i s o m m a r i e . E d a r i c o r d a r e p o i l ’a t t i v i t à d e l T r i b u n a l e s p e c ia le (S o n d e rg e r ic h t) d i B o lz a n o , c h e d a l n o v e m b r e 1 9 4 3 a lla f in e d e lla g u e rra d e c r e ta p iù d i tr e n ta c o n d a n n e a m o rte p e r p a rtig ia n i ita lia n i e r e ­ n i t e n t i e d is e r to r i s u d tir o le s i. N e l g e n n a io d e l 1 9 4 4 il c o m m is s a r io s u p r e ­ m o e m a n a l ’o r d i n a n z a d i a r r u o l a m e n t o d i t u t t i g l i u o m i n i a b i l i d e l l e c l a s s i 1 8 9 4 - 1 9 2 6 . N e l c a s o d e i D a b le ib e r ( c itta d in i ita lia n i) c iò a v v ie n e i n c o n ­ tr a s to c o l d i r itto in te r n a z io n a le . P e r i c a si d i o b ie z io n e d i c o s c ie n z a e la d i­ s e r z i o n e è p r e v i s t o l ’a r r e s t o d e i f a m i l i a r i

(Sippenhaft). C i o n o n o s t a n t e

in A l­

to A d ig e s a ra n n o p iù d i tr e c e n to i d is e rto r i s u d tiro le s i. V e n g o n o c o s t i t u i t i i r e g g i m e n t i d i p o l i z i a B o z e n ( d i c e m b r e '4 3 ) , A l p e n v o r l a n d ( s e t t e m b r e '4 4 ) , S c h l a n d e r s ( n o v e m b r e ) , B r i x e n ( o t t o b r e ) , i m p i e ­ g a ti s o p r a t t u t t o n e lla l o t t a a n tip a r tig ia n a n e l B e llu n e s e e n e l F e ltr in o . F u ­ r o n o t r e n t a d u e s o l d a t i d e l l ’X I c o m p a g n i a d e l 3 0 b a t t a g l i o n e d e l B o z e n , i n a d d e s t r a m e n t o a R o m a , a c a d e r e n e l l ’a t t e n t a t o d i v i a R a s e l l a . N o n o s ta n t e la p r o v in c ia n o n s ia d i r e t t a m e n t e i n te r e s s a ta d a o p e r a z io n i b e llic h e , n e i v e n ti m e s i d e lla Z o p le s o f f e re n z e d e lle p o p o la z io n i c iv ili si f a n n o s e m p r e p i ù p e s a n ti . O l t r e a lle p r e s ta z i o n i d i g u e r r a e a lle r e q u is iz io ­ n i (p e r i c o n ta d in i b e s tia m e e v iv e ri), p e s a n ti c o n s e g u e n z e h a n n o i tr e d ic i g r a n d i b o m b a r d a m e n ti a e re i su B o lz a n o , m ir a n ti a c o lp ire la lin e a f e r r o ­ v i a r i a d e l B r e n n e r o , d i v i t a l e i m p o r t a n z a p e r i r i f o r n i m e n t i a l l e t r u p p e d ’o c ­ c u p a z io n e in I ta lia e c h e c a u s a n o p iù d i d u e c e n to m o r ti e la d is tr u z io n e o il d a n n e g g i a m e n t o d i u n t e r z o d e g l i e d if ic i.

Il

Cln dell’A lto Adige.

L ’a t t i v i t à d e l C l n a l t o a t e s i n o c o m i n c i a a l l ’i n i z i o

d e l 1 9 4 4 . E s p r e s s io n e d e lla B o lz a n o d irig e n z ia le e im p ie g a tiz ia , s te n ta a im ­ p o r r e in iz ia lm e n te il p r o p r io r u o lo d i g u id a su lle c e llu le a u to n o m e d e lle f a b ­ b r ic h e . P r o p r io il “ c a n a le d e lle f a b b r i c h e ” , e c io è i t r a s p o r t i q u a s i q u o t i ­ d ia n i t r a le c a s e m a d r i m ila n e s i e t o r in e s i e g li s ta b ilim e n ti b o lz a n in i, r is u l­ t a i m p o r t a n ti s s i m o p e r i c o lle g a m e n ti c o n il C l n A l t a I t a l i a - C ln a i ( m a te r ia le d i p to p a g a n d a , d e n a r o , e n t r a t e e u s c ite c la n d e s tin e ). G u id a to d a M a n lio L o n g o n (P d a ), d o n D a n ie le L o n g h i (D e ), A n d r e a M a s c a g n i, E n r ic o P e d r o tti e R i n a l d o D a l F a b b r o (P e i), il C l n a l t o a t e s i n o c e r c a n o n s o lo d i r a p p r e s e n ­ ta r e i p a r t i t i d e m o c r a tic i ita lia n i, m a d i c o in v o lg e re a n tin a z is ti s u d tiro le s i

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Parte seconda

a t t r a v e r s o c o n t a t t i c o n l ’i m p r e n d i t o r e E r i c h A m o n n ( c h e s a r à n e l d o p o ­ g u e rra f o n d a to re e p rim o p r e s id e n te d e lla S u d tiro le r V o lk s p a rte i). V is ta l ’i m p o s s i b i l i t à d i o r g a n i z z a r e f o r m a z i o n i a r m a t e p e r l a m a n c a n z a d i u n r e ­ t r o t e r r a f a v o r e v o l e , l ’o r g a n i z z a z i o n e è a t t i v a s p e c i e n e l l ’a z i o n e d i p r o p a ­ g a n d a c la n d e s tin a , s o p r a ttu tto n e i c o n ta tti c o n la R e s is te n z a tr e n tin a , v e ­ n e t a e l o m b a r d a e , d a l l u g l i o 1 9 4 4 i n p o i , n e l l ’a s s i s t e n z a a g l i i n t e r n a t i d e l la g e r d i B o lz a n o . I C ln d i M ila n o e d i P a d o v a in v ia n o r ip e tu ta m e n te ( tra ­ m i t e E n r i c o S e r r a ) d e n a r o e m a t e r i a l e p e r l ’a s s i s t e n z a e l ’o r g a n i z z a z i o n e d i f u g h e , o p e r a in c u i si d is tin g u e F e r d in a n d o V is c o G ila r d i. I

te n ta tiv i d i a z io n i b e llic h e d a p a r te d e l C ln b o lz a n in o , in p a rtic o la re

il r e p e r im e n to d i e s p lo s iv o , h a n n o tu tta v ia e s ito s f o r tu n a to . I l g ru p p o d i s e t­ te o p e r a i g u id a ti d a W a lte r M a s e tti v ie n e a r r e s ta to e m o r ir à a M a u th a u s e n . N e l d i c e m b r e 1 9 4 4 l ’i n t e r o g r u p p o d i r i g e n t e d e l C l n d i B o l z a n o v i e n e i n ­ d i v i d u a t o d a lla G e s t a p o . D u r a n t e i d u r i i n t e r r o g a t o r i d e l m a g g io r e d e l sd A u g u s t S c h if fe r ( c o n d a n n a to a m o r te d a g li a lle a ti n e l 1 9 4 7 ) m u o r e p e r s e ­ v iz ie lo s te s s o L o n g o n . Q u a lc h e m e s e p r im a d a l te r z o p ia n o d e l I V c o r p o d ’a r m a t a , s e d e d e g l i i n t e r r o g a t o r i , s i e r a g e t t a t o i l c o n t e G i a n n a n t o n i o M a n c i, a n im a to r e d e lla r e s is te n z a tr e n tin a .

La liberazione. O g n i a t t i v i t à c l a n d e s t i n a c e s s a , o q u a s i , f i n o a l l ’a r r i v o , a g l i i n i z i d e l l ’a p r i l e 1 9 4 5 , d i B r u n o D e A n g e l i s , i n v i a t o d a l C l n a i ( e s a t t a ­ m e n te d a lle F ia m m e v e r d i) p e r o r g a n iz z a r e il p a s s a g g io d e i p o t e r i in v is ta d e lla r e s a te d e s c a . D e A n g e lis r ic o s titu is c e il C ln p r o v in c ia le (c o n L u c ia n o B o n v ic in i re s p o n s a b ile p o litic o e L ib e ro M o n te s i, « c a p ita n o F ra n c o » , c o ­ m e re s p o n s a b ile m ilita re ), r e c lu ta e in q u a d r a m ilita rm e n te o g n i f o rz a d i­ s p o n ib ile . S i t r a t t a s o p r a t t u t t o d i o p e r a i d e lla z o n a in d u s tr ia le d i B o lz a n o e d i a p p a r te n e n ti a u n a f o rm a z io n e g io v a n ile a u to n o m a d e f in ita s i « a p o liti­ c a » , d i te n d e n z a n a z io n a lis ta , la b r ig a ta G io v a n e I ta lia , c h e h a a v u to c o n ­ t a t t i c o n l a X M a s ( d a c u i a v e v a r i c e v u t o u n c a r i c o d ’a r m i ) . L e t r a t t a t i v e d i D e A n g e lis c o n i c o m a n d i g e rm a n ic i (g e n e ra le H e in r ic h v o n V ie tin g h o f f, c o m a n d a n te d e l G r u p p o a r m a te su d -o v e s t) si in tre c c ia n o c o n q u e lle c h e il g e n e r a le K a r l W o lf f ( c o m a n d a n te in c a p o d e lle S S e p le ­ n ip o te n z ia r io d e lla W e h r m a c h t - F o rz e a r m a te te d e s c h e - in Ita lia ) d a te m ­ p o s ta s v o lg e n d o c o i s e rv iz i s e g re ti d e g li a lle a ti in S v iz z e ra . T r a d iv e rs e a l t r e m i s s i o n i d e l l ’O f f i c e o f S t r a t e g i e S e r v i c e s , u n r u o l o p a r t i c o l a r e n e l l e t r a tta tiv e a lto a te s in e h a la m is s io n e N o r m a (d e l c a p ita n o C r is to f o r o D e H a r tu n g e n ) , c h e p e r m e tte q u a lc h e c o n t a t t o c o n il g e n e ra le C la r k . I l G a u le ite r H o f e r , d e lu s o n e lla s u a r ic h ie s ta d i p o te r c o s titu ir e u n T ir o lo in d ip e n d e n te s o tto la s u a a u to r ità , d e n u n c ia le tr a t t a t i v e in c o rs o a K e s s e lrin g . M a o r m a i è t r o p p o t a r d i . I l 2 9 a p r i l e 1 9 4 5 a C a s e r t a v i e n e f i r m a t o l ’a r m i ­ s tiz io , c h e d o v r e b b e e n t r a r e in v ig o r e il 2 m a g g io . N e l f r a tte m p o D e A n ­ g e lis in s is te p e r il p a s s a g g io d e i p o t e r i m ilita r i e c iv ili n e lla p r o v in c ia a l C ln . V i e t i n g h o f f p r e f e r i r e b b e a t t e n d e r e l ’a r r i v o d e g l i a l l e a t i , a c c o g l i e n d o l e r i ­ c h i e s t e d i E r i c h A m o n n e d e l p r e f e t t o K a r l T i n z l . Q u e s t ’u l t i m o , p r o p r i o i n q u e i g io r n i, è s ta to c o n t a t t a t o d a l c a p ita n o H e n r i C la irv a l, u n u ffic ia le d e i

Romeo - Steurer

Bolzano e Alto Adige

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s e rv iz i s e g re ti fra n c e s i in m is s io n e a B o lz a n o , c h e a s s ic u ra la b u o n a d is p o s i­ z i o n e d a p a r t e d e l l a F r a n c i a r i g u a r d o a u n r i t o r n o d e l l a p r o v i n c i a a l l ’A u ­ s tr ia (C la irv a l v e r r à in s e g u ito a llo n ta n a to d a g li a m e ric a n i). L a s itu a z io n e p r e c ip ita c o l v e rific a rs i d i s c o n tri sa n g u in o s i. A M e ra n o il 3 0 a p r ile , d o p o u n v a n o t e n t a t i v o d i o c c u p a z io n e d e l m u n ic i p i o , u n c o r ­ te o d i ita lia n i c h e fe s te g g ia la n o tiz ia d e lle in s u r r e z io n i n e lle c ittà d e l N o r d Ita lia v ie n e d is p e rs o a fu c ila te , c o l b ila n c io d i n o v e m o r ti e u n a d e c in a d i f e r iti. A L a s a il 2 m a g g io s o n o f u c ila ti n o v e o p e r a i ita lia n i d e lla T o d t. A B o l­ z a n o , s e c o n d o u n a c c o r d o te m p o r a n e o c o n c lu s o la s e ra d e l 2 , il p a ttu g lia ­ m e n to d i d e p o s iti, c a s e rm e , s tr a d e d o v r e b b e e s s e re m is to , c io è d i p a r tig ia n i e m i l i t a r i t e d e s c h i . I n q u e l m o m e n t o l ’o r g a n i g r a m m a d e l l e f o r z e p a r t i g i a ­ n e , q u a le r is u lta d a i d o c u m e n ti d is p o n ib ili, d a lle te s tim o n ia n z e e d a lla m e ­ m o r ia lis tic a , è a lq u a n to c o n f u s o . O l t r e a lle t r e f o rm a z io n i B a ri, L iv o r n o e P a s u b ia n a c h e , s o tto la g u id a d i L ib e ro M o n te s i, c o s titu is c o n o la d iv is io n e A lto A d ig e , v i s o n o i n f a t t i la g ià m e n z io n a ta b r ig a ta G io v a n e I ta lia (G in o B e c c a ro ) e n u m e r o s e f o rm a z io n i n a te d a lle c e llu le a u to n o m e d e lla z o n a i n ­ d u s tr ia le . P r o p r io n e lla “ z o n a ” h a n n o in iz io g li in c id e n ti c h e in s a n g u in a n o la m a t t i n a d e l 3 m a g g io . L e c a u s e s o n o d a a s c riv e rs i i n p r im o lu o g o a lla c o n ­ f u s io n e n e i c o m a n d i d e lle tr u p p e d e lla W e h r m a c h t in c a o tic a r itir a ta v e rs o il B r e n n e r o ( s p a r a t o r ie l u n g o la s t r a d a s t a ta l e e v i c in o a lla f e r r o v ia ) ; i n s e ­ c o n d o l u o g o , a l l a m a n c a n z a d i c o o r d i n a m e n t o a l l ’i n t e r n o d e l l e v a r i e f o r m a ­ z io n i p a r tig ia n e ( te n ta tiv o d i d is a rm o d e lle s e n tin e lle te d e s c h e n e lla z o n a in d u s tria le ); in f in e , a v e r a e p r o p r ia r a p p re s a g lia d a p a r te g e rm a n ic a (p re s ­ so lo s ta b ilim e n to L a n c ia ). I l n u m e r o d e i m o r ti a s s o m m a a v e n tic in q u e p a r ­ tig ia n i e v e n t i c iv ili. M e n t r e a n c o r a in c i t t à si s p a ra W o lf f e V ie tin g h o f f f ir ­ m a n o i l d o c u m e n t o i n b a s e a l q u a l e B r u n o D e A n g e l i s a s s u m e l ’a m m i n i ­ s tr a z io n e d e lla p ro v in c ia in n o m e d e l g o v e rn o ita lia n o . S i c o m p ie c o s ì u n p r im o s ig n if ic a tiv o p a s s o v e r s o il m a n te n im e n to d e l B r e n n e r o d a p a r t e d e l­ l ’I t a l i a .

La resistenza tedesca.

Q u a n d o , d o p o l ’8 s e t t e m b r e 1 9 4 3 , i p r i n c i p a l i e s p o ­

n e n t i d e i D a b le ib e r s o n o c o s t r e t t i a fu g g ire (c o m e il c a n o n ic o M ic h a e l G a m p e r ) o s o n o a d d i r i t t u r a d e p o r t a t i ( c o m e F r i e d l V o l g g e r ) , l e r e d i n i d e l l ’o r g a ­ n iz z a z io n e A n d r e a s H o f e r B u n d (ah b ) v e n g o n o p r e s e in m a n o d a l g io rn a lis ta H a n s E g a r t e r . Q u e s t i s i p r e o c c u p a d e l l ’o r g a n i z z a z i o n e d e l l ’AHB n e l d i f f i c i ­ l e c o n t e s t o l o c a l e , d e l l ’a s s i s t e n z a a i p e r s e g u i t a t i e d e i c o n t a t t i c o n g l i a l l e a ­ ti. A ttr a v e r s o la V a l V e n o s ta ric e v e e m a n d a in f o rm a z io n i a i s e rv iz i s e g re ti a lle a ti in S v iz z e ra (M c C a ffe ry ) tr a m ite c o rrie ri. N e l m a rz o d e l 1 9 4 5 si p r e ­ p a r a n o in V a l V e n o s ta le b a s i d i a p p o g g io p e r u n p r o g e tta to la n c io d i p a r a ­ c a d u t i s t i f r a n c e s i , n e l l ’e v e n i e n z a c h e i t e d e s c h i s i t r i n c e r i n o n e l c o s i d d e t t o « r id o tto a lp in o » . G li a v v e n im e n ti su c c e ss iv i v a n ific a n o ta le p r o g e tto . D o p o l ’o r d i n a n z a d i a r r u o l a m e n t o d e l g e n n a i o 1 9 4 4 , c r e s c e i l f e n o m e ­ n o d e l l a d i s e r z i o n e e d e l l ’o b i e z i o n e d i c o s c i e n z a . U n c a s o p a r t i c o l a r e è q u e l ­ lo d e l l a V a l P a s s i r i a , i n c u i u n c o n s i s t e n t e g r u p p o d i d i s e r t o r i a r m a t i (la c o ­ s id d e tta b a n d a G u fle r), in c o n ta tto c o n E g a rte r , c o s trin g e a u n a p o s iz io ­

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Parte seconda

n e d if e n s iv a i n a z is ti e la sod lo c a le , v e n d ic a n d o c o n f u r ti, in c e n d i e o m i­ c id i g li a r r e s t i e le p e r s e c u z io n i a i d a n n i d e lle f a m ig lie d e i d i s e r t o r i . N e l d o p o g u e rra a lc u n i d i q u e s ti g io v a n i s a ra n n o p r o c e s s a ti e a s s o lti in u n p r i­ m o te m p o (B o lz a n o , 1 9 4 9 ), in s e g u ito c o n d a n n a ti in a p p e llo ( T r e n to , 1 9 5 1 ) d a u n a s e n te n z a c h e n e g h e rà lo ro la q u a lific a d i p a rtig ia n i (c o m e n e l ca so d i J o h a n n P irc h e r). G e n e r a l m e n t e l a m a t r i c e c r i s t i a n a d e l l ’o p p o s i z i o n e s u d t i r o l e s e a l n a z i ­ s m o è e v id e n te n o n so lo n e lla d i r e t t a p a r te c ip a z io n e d e l c le r o , m a n e l s i­ g n if ic a to d i “ te s tim o n ia n z a ” c h e h a n n o n u m e r o s i e p is o d i. T r a q u e s ti s p ic ­ c a q u e llo d i J o s e f M a y r N u s s e r, p r e s id e n te d io c e s a n o d e lla G io v e n tù c a t­ t o l i c a d i B o l z a n o , a n i m a d e l m o v i m e n t o d e i D a b l e i b e r e f o n d a t o r e d e l l ’AHB n e l 1 9 3 9 . A r r u o la to a f o r z a n e lle S S n e l 1 9 4 4 , r i f i u t a d i p r e s t a r e il g iu r a ­ m e n to a l F u h r e r , p e r m o tiv i re lig io s i. N e lla d e p o r ta z io n e a D a c h a u , m u o ­ r e d i fa m e in u n v a g o n e b lin d a to . A ltr o e p is o d io d e g n o d i m e n z io n e è q u e l­ lo d e l r e g g im e n to B r ix e n . C o m p o s to d i n u m e r o s i D a b le ib e r , d u r a n t e la c e ­ rim o n ia d e l g iu r a m e n to (fe b b ra io 1 9 4 5 ), d i f r o n te al G a u le ite r H o f e r , ta c e c o m p a tto al m o m e n to d i p r o n u n c ia re la fo rm u la . V ie n e d is a rm a to e in v ia ­ t o p e r p u n iz io n e s u l f r o n t e o r ie n ta le , i n S le s ia . L e g a t a i n q u a l c h e m o d o a l l ’a t t i v i t à d e l l ’AHB è l a p r e s s i o n e e s e r c i t a t a , tr a m ite E r ic h A m o n n , su l p r e f e tto K a rl T in z l e su i c o m a n d i d e lla W e h r ­ m a c h t p e r la lib e r a z io n e d i c e n t o t r e n t a s e i o s ta g g i in te r n a z io n a li ( p o litic i, re lig io s i, f a m ilia ri d i u o m in i d i s ta to ) in v ia ti d a H im m le r i n V a l P u s te r ia s o tto la so rv e g lia n z a d i u n r e p a r to d i S S . G li o s ta g g i v e n g o n o lib e r a ti e c o n ­ s e g n a ti a g li a lle a ti. I l c r u d o b ila n c io f in a le d e lle v i t t i m e d e lla r e s is te n z a s u d ­ tiro le s e è il s e g u e n te : v e n t i q u a t t r o f u c ila ti, c e n to s e s s a n ta s e i d e p o r t a t i n e i c a m p i d i c o n c e n tra m e n to , c e n to q u a r a n ta im p rig io n a ti.

La Resistenza nel dopoguerra.

D a l m a g g io f in o a l 3 1 d ic e m b r e 1 9 4 5 p r e ­

f e tto d e lT A lto A d ig e , s u b o r d in a to al g o v e rn o m ilita re a lle a to , è B r u n o D e A n g e lis . O l t r e a i p r o b le m i d i o r d in e p u b b lic o v i s o n o n u m e r o s e q u e s tio n i c h e p r o v o c a n o te n s io n e t r a i g r u p p i lin g u is tic i e c h e t r o v e r a n n o s o lu z io n e d i p l o m a t i c a s o l o c o n l ’a c c o r d o d i P a r i g i d e l 5 s e t t e m b r e 1 9 4 6 . V i è a n z i t u t ­ to la r ic h ie s ta d i a u to d e te r m in a z io n e p o r t a t a a v a n ti d a lla S u d tir o le r V o lk s p a r t e i ( s v p ), n a t a c o m e p a r t i t o d i r a c c o l t a e t n i c o , m a l e g i t t i m a t o a g l i o c c h i d e l l ’a l l e a t o p r o p r i o d a l l a p r e s e n z a d e g l i a n t i n a z i s t i s u d t i r o l e s i ( A m o n n , E g a r t e r , V o l g g e r e c c . ) . P e r q u e s t o m o t i v o I ’s v p n o n p r e n d e p a r t e a i l a v o r i d e l C l n p r o v i n c i a l e , e p e r l o s t e s s o m o t i v o t r e c e n t o a p p a r t e n e n t i a l l ’AHB r i ­ f iu ta n o il « b r e v e tto A le x a n d e r » , in q u a n to la s u a f o rm u la z io n e in ita lia n o s a r e b b e p r e g i u d i z i a l e . I n q u e s t i m e s i l ’o p e r a t o d i D e A n g e l i s v i e n e v a r i a ­ m e n te i n t e r p r e t a t o . D a p a r t e s u d tir o le s e è c o n s id e r a to il p r in c ip a le o p p o ­ s i t o r e , i n s e d e l o c a l e , d e l l ’i s t a n z a d i a u t o d e c i s i o n e . D a p a r t e i t a l i a n a g l i s i a d d e b i t a n o u n a c o n d o t t a t r o p p o c o n c ilia n te e u n d ia lo g o “ d i r e t t o ” c o n la S v p c h e e s c lu d e il C ln lo c a le . N e p p u r e l ’e p u r a z i o n e , a f f i d a t a a u n c o m i t a t o c o m p o s t o d a e l e m e n t i d i e n tr a m b i i g r u p p i lin g u is tic i, a v rà s ig n ific a tiv i e f f e tti. M e n tr e a ltro v e sa rà

Romeo - Steurer

Bolzano e Alto Adige

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la g u e r r a .f r e d d a a d a c c e le ra re il p r o c e s s o d i r im o z io n e c o lle ttiv a , in A lto A d i g e l a c o n t r a p p o s i z i o n e e t n i c a e v i t e r à u n r i p e n s a m e n t o a l l ’i n t e r n o d i e n ­ t r a m b i i g r u p p i l i n g u i s t i c i . P a r a d o s s a l m e n t e l ’A l t o A d i g e è u n o d e i p o c h i c a si in c u i u n c e r to n a z is m o p o tr à p r e s e n ta r s i c o m e “ a n tif a s c is ta ” e u n c e r ­ to fa s c is m o c o m e “ a n tin a z is ta ” . N e l g r u p p o ita lia n o la c o n tin u ità n e l d o ­ p o g u e r r a d i n o n p o c h i e le m e n ti (in c a m p o a m m in is tr a tiv o , g io r n a lis tic o , c u l t u r a l e , g i u d i z i a r i o ) d e l v e n t e n n i o f a s c i s t a s a r à g a r a n t i t a d a l l ’e s i g e n z a d i d i f e s a n a z i o n a l e . N e l g r u p p o t e d e s c o l ’a p p e l l o a l l ’u n i t à d e l l a m i n o r a n z a p o r ­ t e r à a u n a v is io n e d i s t o r t a e a lla “ r im o z io n e ” d e l r e c e n te p a s s a to n o n c h é a l r e in s e r im e n to n e lla v ita p u b b lic a e d i p a r tito d i e le m e n ti c o m p ro m e s s i c o l r e g i m e n a z i s t a . T u t t o c i ò , o l t r e a l c o n t e n z i o s o s u l l ’a s s e t t o a u t o n o m i s t i c o d e l ­ l a p r o v i n c i a , r i m a n d e r à d i m o l t i d e c e n n i l ’a v v i o d e l p r o c e s s o d i c o n v i v e n ­ z a e c o lla b o ra z io n e d e m o c ra tic a .

Nota bibliografica. A A .W ., Tedeschi, partigiani, popolazioni nell'Alpenvorland, Marsilio, Venezia 1984; A A .W ., Option Heimat opzioni, Tiroler Geschichtsverein, Bolzano 1989; A A .W ., Italien und Sùdtirol. Italia e Alto Adige. 1943-45, in «G eschichte und Region / Storia e Regione», III (1994), Folio, Bolzano; U. Corsini e R. Lill, Alto Adige. 1918-1946, Athesia, Bolzano 1988; R. D e Felice, Il problema dell’Alto Adige nei rapporti italo-tedeschi dall’Anschluss alla fine del­ la seconda guerra mondiale, Il M ulino, Bologna 1973; C. Gatterer, In lotta contro Roma (1968), Praxis 3, Bolzano 1995; L. Happacher, Il lager di Bolzano, Saturnia, Trento 1979; G. Lazagna, Il caso del partigiano Pircher, La Pietra, Milano 1975; C. Romeo, Sulle tracce di Karl Gufler il bandito, Raetia, Bolzano 1993; F. Steinhaus, Ebrei/Juden. Gli ebrei dell’Alto Adige negli anni Trenta e Quaranta, La Giuntina, Firenze 1994; L. Steurer, La deportazione dall’Italia. Bol­ zano, in AA .V V ., Spostamenti di popolazione e deportazione in Europa. 1939-45, a cura di R. Falcioni, Cappelli, Bologna 1987; L. Steurer, M. Verdorfer e W . Pichler, Verfolgt, verfemt, vergessen, Sturzfliige, Bolzano 1993; K. Stuhlpfarrer, Le zone d ’operazione Prealpi e Litorale Adriatico. 1943-1945 (1969), Libreria Adami, Gorizia 1979; C. Villani, Ebrei fra leggi razziste e deportazioni nelleprovincie di Bolzano, Trento e Belluno, Società Studi Trentini, Trento 1996.

FERRUCCIO VENDRAM INI B e llu n o

Occupazione e amministrazione nazista.

L a p r o v in c ia d i B e llu n o , d o p o

l ’a r m i s t i z i o , f u s o t t o p o s t a a l l ’a m m i n i s t r a z i o n e t e d e s c a , s e n z a d e l e g h e a l l ’a u ­ t o r i t à d e lla R e p u b b li c a s o c ia le i t a l i a n a (R s i). C iò d e t e r m i n ò u n o

status p o -

l itic o - m ilita r e a n o m a lo r i s p e t t o a lle a ltr e p r o v i n c e v e n e t e e , d i c o n s e g u e n ­ z a , s p e c ific h e c a r a tte r is tic h e d e l su o m o v im e n to d i r e s is te n z a . L e g a t a i d e a l m e n t e a l l ’I t a l i a , l a p o p o l a z i o n e c o l t i v a v a a l l o r a i l r i c o r d o d e i m o ti r is o r g im e n ta li d e l 1 8 4 8 , d e lle b a tta g lie d e l 1 8 6 6 p e r la su c c e s s iv a a g g re ­ g a z i o n e a l r e g n o s a b a u d o , d e l l a p r i m a g u e r r a m o n d i a l e q u a n d o s o f f e r s e l ’o c ­ c u p a z io n e a u s tr o - te d e s c a ( 1 9 1 7 -1 8 , il c o s i d d e t t o « a n n o d e lla f a m e » ), B e llu n o e r a d i v e n t a t a p e r a n t o n o m a s i a « l a c i t t à d e g li a l p i n i » c h e si e r a n o o p p o s t i a g li a u s tr ia c i i n i n n u m e r e v o li e p is o d i d i v a lo r e , p r i m a su lle D o lo m iti e p o i s u l P ia ­ v e . Q u a n d o , il 13 s e tte m b r e , f u o c c u p a ta d a lle tr u p p e te d e s c h e , si e r a n o g ià d e ­ c i s e l e s u e s o r t i i n b a s e aU ’o r d i n e d i H i d e r d i c o s t i t u i r e l a Z o n a d ’o p e r a z i o n e d e lle P r e a lp i, c o n a n a lo g h e m o d a lità r i s p e t t o a lla Z o n a d e l L ito r a le A d r ia tic o , su l c o n fin e o rie n ta le (1 0 s e tte m b r e 1 9 4 3 ). A T r e n t o e s o p r a t t u t t o a B o lz a n o il r a p p o r t o c o n le n u o v e a u to r ità fu d iv e r s o r i s p e t t o a B e llu n o : q u i si m a n if e s tò s u b ito d i f f i d e n z a v e r s o g li o c ­ c u p a n ti, a tte g g ia m e n to c o n d iv is o a n c h e d a l c le ro . F u u n a d e lle c o n d iz io n i c h e f a v o rir o n o lo s v ilu p p o s u c c e ss iv o d e l m o v im e n to r e s is te n z ia le . M e n tr e a T r e n to e a B o lz a n o si p o te r o n o c o s titu ir e i c o s id d e tti c o r p i d i s ic u re z z a , c o n c o m p iti d i p o liz ia lo c a le , s o tto c o m a n d a n ti te d e s c h i (a lc u n e c o m p a g n ie f u r o n o p o i u s a te n e l c o n tr o llo d e l t e r r i t o r i o b e llu n e s e ), a B e llu n o , a l c o n ­ t r a r i o , l ’a r r u o l a m e n t o f u s o s p e s o p e r l e c o n t i n u e f u g h e d a l l e c a s e r m e d i u o ­ m in i c h e a n d a v a n o a r a f f o r z a r e il m o v im e n to p a r tig ia n o . I p o c h i r im a s ti n e l c o rp o d i s ic u re z z a b e llu n e s e f u ro n o in v ia ti, s e n z a a rm i, in te r r ito r io a lto a ­ te s in o p e r s v o lg e re s e r v iz i a u s ilia ri. U n ’a l t r a d i f f o r m i t à r i s p e t t o a l l e a l t r e d u e p r o v i n c e d e l l ’A l p e n v o r l a n d c o n s is te n e l f a t t o c h e a B e llu n o il G a u l e i t e r F r a n z H o f e r n o n t r o v ò u n p e r ­ s o n a g g io p o litic a m e n te r a p p r e s e n ta tiv o p e r a s s u m e re la c a ric a d i c o m m is ­ s a rio p r e f e tt o . Q u e s ti d o v e v a c o lla b o r a r e c o n la v e r a a u t o r i t à p o litic a p r o ­ v in c ia le c h e e r a il c o n s ig lie re g e r m a n ic o H u b e r t L a u e r. T u t t e le p e r s o n a lità lo c a li in te r p e lla te o p p o s e ro u n r if iu to , p e r c u i a q u e lla c a r ic a f u n o m in a to , a lla fin e , u n f u n z io n a r io d e lla s te s s a p r e f e tt u r a , C a rlo S ilv e tti. G li o c c u p a n ti m a n if e s ta r o n o la v o lo n tà d i o p p o r s i a n c h e a i t e n t a t i v i d e i

Vendratnini

Belluno

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n e o f a s c is ti d i m e tte r e s ta b ili r a d ic i in c ittà . L a R s i a v e v a in iz ia lm e n te d a to a d d i r i t t u r a il v i a a p i a n i t e s i a p o r t a r e i n p r o v i n c i a d i B e llu n o g o v e r n o e m i ­ n is te r i. M u s s o lin i a v r e b b e d o v u to a llo g g ia re n e lla v illa d i A c h ille G a g g ia ( e s p o n e n te d e lla S a d e ), c h e si tr o v a a p o c h i c h ilo m e tr i d a l c a p o lu o g o . I n q u e l l a l o c a l i t à , p o c h i m e s i p r i m a ( 1 9 l u g l i o ) , c ’e r a s t a t o u n i n c o n t r o t r a i l d i t t a t o r e ita lia n o e H i t l e r , c u i s e g u i la s e d u ta d e l G r a n c o n s ig lio c h e s a n ­ z i o n ò l a c a d u t a d e l r e g i m e . L ’a c c o g l i e n t e e d i f i c i o e r a r i m a s t o p r o b a b i l m e n t e im p re s s o n e lla m e m o r ia d i M u s s o lin i. P re v a ls e p o i la s c e lta d i s p o s ta r s i su l la g o d i G a r d a . A n c h e g li u f f ic i d e l s o t to s e g r e t a r ia to a lla m a r in a , a lle s titi a B e l l u n o n e l 1 9 4 3 , d o v e t t e r o e s s e r e s m a n t e l l a t i , n e l f e b b r a i o d e l l ’a n n o s u c ­ c e s s iv o , a c a u s a d e lle p r e s s io n i d e l G a u le ite r , e il p e r s o n a le a b b a n d o n ò la c i t t à p e r r a g g iu n g e re il V ic e n tin o . R im a s e in c i t t à la s c a rn a b r ig a ta n e r a G a s p a rri, c o m a n d a ta d a p e r s o n e c h e n o n e r a n o n e p p u r e d i o rig in e b e llu n e s e e c h e f in i, c o n r a n g h i s e m p r e p iù s p a r u ti, p e r d a r e a iu to a g li o c c u p a n ti n e l s e t ­ to r e in f o r m a tiv o e n e lla re p re s s io n e a n tip a r tig ia n a . P e r q u e s ti m o tiv i si p u ò d ir e c h e la r e s is te n z a b e llu n e s e a s s u n s e c a r a tte r is tic h e p iù d i g u e r ra d i li­ b e r a z io n e c h e d i g u e r ra c iv ile , a n c h e se e p is o d i d i a s p ro c o n f litto t r a ita lia ­ n i, c o n e lim in a z io n i d e lle p e r s o n e c o n s id e r a te c o m e s p ie , s i v e r if ic a r o n o in tu t t a la p ro v in c ia .

Le formazioni partigiane.

U n c o m ita to a n tif a s c is ta si e r a f o r m a to a B e l­

lu n o g ià a lla f in e d e l 1 9 4 2 c o n i r a p p r e s e n ta n ti d e i p a r titi: G io r g io B e ttio l (P e i), A le s s a n d r o C o p p e llo tti (D e ), G iu s e p p e M a r io P r o s d o c im i (P ii), G i o ­ v a n n i S e r r a g i o t t o ( P s i ) , E r n e s t o T a t t o n i ( P d a ) . D o p o l ’a r r i v o d e i t e d e s c h i , il g r u p p o s i tr a s f o r m ò in C ln p r o v in c ia le , c u i fa c e v a c a p o u n e s e c u tiv o m i­ l i t a r e , a n c h ’e s s o c o m p o s t o c o n r a p p r e s e n t a n t i d i p a r t i t o : A r n a l d o C o l l e s e l l i (D e ), E n z o D a V a l (P ii), D e c im o G r a n z o t t o (P s i), E n r i c o L o n g o b a r d i (P e i), A ttilio T is s i (P d a ). F u r o n o p r o m o s s e v a r ie in iz ia tiv e a l f in e d i r a c c o g lie re a d e s i o n i p e r u n ’o r g a n i z z a z i o n e c l a n d e s t i n a , c h e , s p e c i e s e c o n d o l e i n t e n z i o ­ n i d e g li u ffic ia li d e l d is c io lto e s e rc ito , d o v e v a in iz ia lm e n te a ttr e z z a r s i s e g re ­ t a m e n te p e r in te r v e n ir e so lo i n u n p e r io d o s u c c e s s iv o . A F e ltr e il r e s p o n ­ s a b ile d e lla o r g a n iz z a z io n e r e s is te n z ia le f u il t e n e n t e c o lo n n e llo A n g e lo Z a n c a n a r o ( 1 8 9 4 - 1 9 4 4 ) . E g li a v e v a p r e s o p a r t e a lla g u e r r a d i L ib ia d e l 1 9 1 1 - 1 2 , p o i a lla p r i m a g u e r r a m o n d ia le , i n f in e , n e l s e c o n d o c o n f l i t to m o n d ia le , a l­ l a c a m p a g n a d i R u s s i a . E r a l ’u f f i c i a l e d e l r e g i o e s e r c i t o i n s i g n i t o d e l m a g ­ g io r n u m e r o d i d e c o ra z io n i. P ro m o to r e d e lla c o s titu z io n e d i g r u p p i c la n d e ­ s t i n i n e l l ’i n t e r o m a n d a m e n t o d i F e l t r e , f u a r r e s t a t o e p o i r i l a s c i a t o d a l l a p o ­ liz ia te d e s c a n e lla p r im a v e r a d e l 1 9 4 4 . S i a p p r e s ta v a a la s c ia re la c i t t à p e r a s s u m e r e il c o m a n d o d i f o rm a z io n i p a r tig ia n e in m o n ta g n a , q u a n d o il 19 g iu g n o v e n n e s o r p r e s o n e lla s u a c a s a d a u n g r u p p o d i s ic a ri f a s c is ti c h e lo u c c is e a f r e d d o , a s s ie m e a l f ig lio L u c ia n o . R a c c o ls e le f ila d e l m o v i m e n t o il c a p ita n o P a r id e B r u n e tti e si c o s titu ì a llo ra la b r ig a ta G a r ib a ld i A n to n io G r a m s c i, il c u i c o m a n d o e b b e s e d e n e lle V e tte f e ltr in e . I n a g o s to , u n d i ­ s ta c c a m e n to d i v e n tid u e p a r tig ia n i d e lla G ra m s c i - tr a i q u a li q u a ttr o t r e n ­ tin i - si p o r tò n e lla p ro v in c ia d i T r e n to , in s e d ia n d o s i n e lla z o n a d e l T e s i­

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Parte seconda

n o . N a c q u e la c o m p a g n ia G h e r le n d a , d iv e n ta ta in s e tte m b re b a tta g lio n e , c o n n o v a n ta p a r tig ia n i, c h e c o m p ì b r illa n ti a z io n i p r im a d i v e n ir e tr a v o lta d a i g r a n d i r a s t r e l l a m e n t i a b b a t t u t i s i s u l V e n e t o n e l l ’a u t u n n o d e l 1 9 4 4 . I n C a d o r e f u d e te r m in a n te la p r e s e n z a d i u n u o m o d i s c u o la . N a t o a V e ­ n e z ia n e l 1 9 1 4 , A le s s a n d ro G a llo « G a r b in » , c o m u n is ta , r a d u n ò a tto r n o a sé i g io v a n i p r o n ti a c o s titu ir e i p r im i n u c le i p a r tig ia n i, d a c u i e b b e r o in i­ z i o l e v i c e n d e d i u n ’a l t r a b r i g a t a g a r i b a l d i n a d e l l a p r o v i n c i a d i B e l l u n o , s i ­ g n if ic a tiv a m e n te in tito la ta al p a tr io ta c h e a v e v a g u id a to i c a d o rin i c o n tr o g li a u s tr ia c i n e i m o ti r is o r g im e n ta li, P ie r F o r t u n a to C a lv i. A n c h e la s c r i t ­ tr ic e G io v a n n a Z a n g r a n d i, s ta f f e tta p a r tig ia n a , sc ris se n e l lib ro

ri d i

I giorni ve­

« G a r b i n » , c o m a n d a n te d e lla C a lv i, c a d u to in c o m b a ttim e n to a L o z z o

d i C a d o r e d u r a n t e u n ’a z i o n e m i l i t a r e c o n t r o a l c u n i c a m i o n t e d e s c h i ( 2 0 s e t ­ te m b re 1 9 4 4 ). • I n u n ’a l t r a v a l l a t a b e l l u n e s e , l ’A g o r d i n o , l e f o r m a z i o n i s i r i u n i r o n o s e m ­ p r e s o tto il n o m e d i u n p a t r i o t a d e l R is o r g im e n to ita lia n o , C a rlo P is a c a n e . I l g ru p p o p iù p o litic iz z a to fu q u e llo c o a g u la to s i a tto r n o a u n so lid o n u ­ c le o a n tif a s c is ta e s is te n te n e lla z o n a a s u d - o v e s t d i B e llu n o , t r a i c o m u n i d i S e d ic o e L e n tia i. A lle f ig u r e d i E lis e o D a l P o n t e d i F r a n c e s c o D a G io z si a g g iu n s e ro d ir ig e n ti c o m u n is ti in v ia ti d a l p a r tito d a a ltr e c ittà d e l V e n e to ; p r e s e c o s ì le m o ss e q u e lla fo rm a z io n e c h e p e r p r im a r e s tò s ta b ilm e n te in m o n t a g n a ( n o v e m b r e 1 9 4 3 ) e c h e e b b e il n o m e d i u n a n t i f a s c i s t a f e l t r i n o c a d u to n e lla g u e r r a d i S p a g n a , L u ig i B o s c a r in . D a lla V a l B e llu n a si s p o s tò i n V a l M e s a z z o , v ic in o a l M o n t e T o c ; q u i la f o r m a z io n e r i c e v e t t e g li u o ­ m in i c h e la f e d e r a z io n e c o m u n is ta d i B o lo g n a a v e v a in v ia to a B e llu n o , a c a u s a d e lle in iz ia li d if fic o ltà d i c r e a r e u n n u c le o d i l o t t a n e l c a p o lu o g o e m i­ lia n o . S i r ite n e v a c h e la lo r o p r e s e n z a n e l B e llu n e s e fo s s e p r o v v is o r ia ; i n ­ v e c e r i m a s e r o q u a s i t u t t i f i n o a l t e r m i n e d e lla l o t t a p a r t i g i a n a . T r a il d i ­ c e m b r e d e l '4 4 e i p r i m i m e s i d e l '4 5 d e c i n e d i c o m u n i s t i e m i l i a n i s i i n s e r i ­ r o n o n e l B o s c a rin , c h e d iv e n n e p o i F e r d ia n i e q u in d i b r ig a ta G a r ib a ld i N in o N a n n e tti (n o m e d i u n c a d u to b o lo g n e s e n e lla g u e rra d i S p a g n a ). S i c e m e n ­ ta r o n o i le g a m i t r a le d u e c ittà , c h e si s o n o p o i v ic e n d e v o lm e n te d e d ic a te la p id i e p ia z z e a ric o rd o d e lla l o tta c o m u n e . C o n la c re s c ita d e l m o v im e n to si fe c e u r g e n te la n e c e s s ità d i sc e g lie re u n a n u o v a z o n a , m e n o i s o l a t a . L ’a r e a m i g l i o r e f u i n d i v i d u a t a n e l C a n s i g l i o , u n a lto p ia n o d o v e c o n f in a v a n o le p r o v in c e d i B e llu n o , U d in e e T re v is o : d a lì p o te v a n o m e g lio p a r tir e le p u n t a t e o f fe n s iv e v e r s o la p ia n u r a v e n e ta .

L e tragiche vicende d ell’autunno-inverno 1944-45 e la liberazione.

U n e p i­

s o d i o a c c e l e r ò l ’u n i f i c a z i o n e d i t u t t e l e f o r z e e l ’i n s e r i m e n t o d e i “ t e r r i t o ­ r i a l i ” , c o lle g a ti c o n il C o m i t a t o d i l i b e r a z i o n e n a z i o n a l e (C ln ) p r o v i n c i a l e e c o n il s u o e s e c u tiv o m ilita r e , n e lle f o rm a z io n i g a r ib a ld in e g ià in m o n ta g n a : la lib e r a z io n e d e i d e t e n u t i p o litic i d a l c a r c e r e d i B a ld e n ic h (B e llu n o ), il 15 g iu g n o 1 9 4 4 [ B a ld e n ic h , O p e r a z io n e * ] . N e l l ’e s t a t e d e l ' 4 4 l a g r a n d e p r e s e n z a d i p a r t i g i a n i , d i f f u s i i n t u t t a l a p r o v in c ia , c o s trin s e i te d e s c h i a c h iu d e r s i s e m p re p iù n e i lo ro p r e s id i m ili­

Vendramini

Belluno

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t a r i . A l c u n e z o n e f u r o n o c o m p l e t a m e n t e l i b e r e , m a n o n s i r a v v i s ò l ’o p p o r ­ t u n i t à , se n o n in p o c h i c a s i, d i c r e a r e o r g a n is m i p o p o la r i a u to n o m i. I l m o ­ v i m e n t o s u b ì a n c h e g r a v i c o l p i , c o m e l ’u c c i s i o n e d i d i e c i p a r t i g i a n i s u l P o n ­ t e S a n F e lic e , t r a S e d ic o e T r ic h ia n a : u n g ru p p o d i p a r tig ia n i d e lla b r ig a ta T o llo t, a c a u s a d i u n a d e la z io n e , f u p r e s o tr a d u e fu o c h i e q u a lc u n o tr o v ò s c a m p o so lo g e tta n d o s i s u l g r e to d e l P ia v e . L a c r e s c ita c u lm in ò a g li i n iz i d i a g o s to , q u a n d o la b r i g a t a N a n n e t t i f u p r o m o s s a a d i v i s i o n e d ’a s s a l t o G a r i b a l d i , m a s i s t a v a n o g i à d e l i n e a n d o p r o ­ b l e m i r e l a t i v i a l l ’a r m a m e n t o , a l v e s t i a r i o , a l l ’a l i m e n t a z i o n e . L a c r i s i p r o f o n ­ d a s i v e r i f i c ò q u a n d o , e s a u r i t a l a s p i n t a d e g l i a l l e a t i v e r s o i l N o r d d ’I t a l i a , g li o c c u p a n ti e b b e r o m o d o d i p r e d i s p o r r e m a s s ic c e a z io n i d i r a s tr e lla m e n ­ to , a n c h e c o n lo s c o p o d i te r r o r iz z a r e le p o p o la z io n i lo c a li. S i c o m in c iò c o n A u n e n e l F e ltrin o , c h e f u q u a s i c o m p le ta m e n te b r u c ia ­ t a (1 1 a g o s to ). S e g u ì la V a lle d e l B io is ( A g o r d in o ) , d o v e i t e d e s c h i, g i u n t i d a p i ù p a r t i , n o n d e t t e r o s c a m p o a lla p o p o la z io n e : t r a il 2 0 e il 2 1 f u r o n o b r u ­ c ia ti i n te r i p a e s i, c o m e G a r e s e C a v io la , e f u r o n o u c c is e o ltr e q u a r a n ta p e r ­ s o n e in e r m i. P e r q u e s ti f a t t i , c o m p iu ti s o t t o il c o m a n d o d i A lo is S c h in tlh o lz e r - a l t r i m e n t i n o t o p e r a v e r e s c a te n a to r a p p r e s a g lie c o n t r o g li e b r e i a u s t r i a ­ c i - , f u c e l e b r a t o u n p r o c e s s o d a v a n t i a l l a C o r t e d ’A s s i s e d i B o l o g n a c h e v i ­ d e S c h i n t l h o l z e r c o n d a n n a t o a l l ’e r g a s t o l o i n c o n t u m a c i a ( l u g l i o 1 9 7 9 ). T o c c ò p o i a l C a n s ig lio * , a c c e rc h ia to t r a a g o s to e s e tte m b r e d a n u m e r o ­ s e f o r z e te d e s c h e e d e lla R s i; le f o r m a z io n i p a r tig ia n e si d iv is e r o i n g r u p p i, s g u s c ia n d o f r a le t r u p p e n e m ic h e . P o c h is s im e f u r o n o le p e r d ite . Il 2 9 s e t­ t e m b r e f u l a v o l t a d e l l a b r i g a t a G r a m s c i ; a n c h ’e s s a u s c ì d a l l ’a c c e r c h i a m e n ­ t o i n d e n n e , a t t r a v e r s o u n s e n t i e r o d i c u i p o c h i c o n o s c e v a n o l ’e s i s t e n z a . L a c o n d o t t a m ilita r e f u ta t t i c a m e n t e o p p o r tu n a e lo s g a n c ia m e n to d a l­ le z o n e m in a c c ia te e v itò g li e c c id i, c h e si c o n s u m a r o n o in v e c e s u l M o n t e G r a p p a , c o m p r e s o il v e r s a n t e f e l t r i n o ( in q u e l p e r i o d o s u l G r a p p a f u r o n o u c c i s e c e n t i n a i a d i p e r s o n e e a l t r e c e n t i n a i a f u r o n o i d e p o r t a t i ) . L ’o f f e n s i ­ v a d e g li o c c u p a n ti e b b e c o n s e g u e n z e n e g a tiv e su llo s te s s o u m o r e d e lla g e n ­ te , c h e v e d e v a il t e r r i t o r i o s o tto il d o m in io a s s o lu to te d e s c o , t a n t o p iù c h e s i a n d a v a v e r s o l ’i n v e r n o e d e r a o r m a i s i c u r o c h e l ’o f f e n s i v a a l l e a t a n o n s a ­ re b b e s ta ta rip re s a . I l m o v im e n to si r ic o s titu ì su b a s i p iù u n ita r ie , d a n d o m a g g io re s p a z io a u o m i n i d e l l ’e s e c u t i v o m i l i t a r e d e l C l n , o r g a n i s m o c h e e r a s t a t o d i f a t t o s u ­ p e r a to . T u t t e le f o r z e p a r tig ia n e f e c e r o c a p o a l C o m a n d o Z o n a P ia v e . O l t r e a d u e d iv is io n i g a r ib a ld in e , la N a n n e t t i su l v e r s a n te s in is tr o d e l P ia v e (c o ­ m a n d a n te F ra n c e s c o P e s c e ) e la B e llu n o s u l v e r s a n te d e s tr o c o m p r e n d e n te a n c h e i l C a d o r e ( c o m a n d a n t e L u i g i D a l l ’A r m i ) , f e c e r o r i f e r i m e n t o a l C o ­ m a n d o Z o n a P ia v e t r e b r ig a te A u to n o m e : la V I I A lp in i ( d is lo c a ta s u lla s i­ n i s t r a o r o g r a f ic a d e l f iu m e , n e lle v ic in a n z e d i B e llu n o ) , la P ia v e ( a t t o r n o a l P a s s o S a n B o ld o e R e v in e L a g o su l v e r s a n te d i V itto r io V e n e to ) , la V a lc o rd e v o le in A g o r d in o e n e llo Z o ld a n o . I l C o m a n d o Z o n a e il C ln p r o v in c ia le s i r i u n i r o n o p e r i l o r o p e r i o d i c i i n c o n t r i i n u n ’u n i c a s e d e , q u e l l a d i P l o i s d ’A l p a g o , v i c i n o a l C a n s i g l i o , z o n a d o v e r i m a s e i l c o m a n d o d e l l a N a n n e t t i .

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Parte seconda L ’i n v e r n o 1 9 4 4 - 4 5 v i d e p o c h i u o m i n i i n m o n t a g n a : p a r e c c h i p a r t i g i a n i ,

p e r s o p ra v v iv e re , f in ir o n o c o n la T o d t, c h e a v e v a a v v ia to i la v o r i d i f o r t i ­ f i c a z i o n e p e r u n a e v e n t u a l e e s t r e m a d i f e s a d e l l ’e s e r c i t o t e d e s c o n e l l e A l p i c e n tr o rie n ta li. L a r e p r e s s i o n e c o n t i n u ò d u r i s s i m a . L ’i i g e n n a i o 1 9 4 5 f u r a s t r e l l a t a la c o n c a d e U ’A l p a g o e v e n n e r o f e r m a t i o l t r e q u a r a n t a g i o v a n i , s p e c i e d e l c o ­ m u n e d i T a m b re , m o lti d e i q u a li fu ro n o d e p o r ta ti n e i la g e r d i s te rm in io ; p o c h is s im i fe c e ro r ito r n o . N e lla g e n d a r m e r ia d i B e llu n o , c o m a n d a ta d a l t e n e n te d e lle S S G e o r g e K a rl, a s s is tito d a c o lla b o r a to ri a lto a te s in i, m o r i s o tto le t o r tu r e a n c h e u n a d o n n a , D o m e n ic a F ilip p in d i E r t o . I te d e s c h i m is e ro le m a n i s u u n o d e g li in iz ia to r i d e lla r e s is te n z a b e llu n e s e , F r a n c e s c o D a G io z . N a t o a S e d ic o il 3 o tto b r e 1 8 9 6 , e r a e m ig ra to in I s tr ia p e r la v o ro e a v e v a p a r te c ip a to a i m o ti o p e r a i d e l 1 9 2 1 n e lle m in ie r e d i A lb o n a . A v e v a p o i tr o v a to o c c u p a z io n e in F ra n c ia , p a e s e d a l q u a le to r n ò p e r c u ra rs i; v e n n e in v e c e c o n f in a to a P e r u ­ g ia e s o lo p iù t a r d i p o t è e s s e r e r ic o v e r a to n e l s a n a to r io d i A g o r d o . N o m i­ n a t o s e g re ta r io d e lla f e d e r a z io n e c o m u n is ta d i B e llu n o , p a r te c ip ò a lla r e s i­ s te n z a c o m e is p e tto re ; p re s o d a u n a r o n d a te d e s c a e p o r ta to in g e n d a rm e ­ r i a , s u b ì i n e n a r r a b i l i s e v iz ie p e r p o i e s s e r e i m p i c c a t o a l P e r o n d i S e d ic o il 17 fe b b ra io 1 9 4 5 . I l m a r z o d e l 1 9 4 5 f u il m e s e p iù tr a g ic o p e r il B e llu n e s e . S o lo a lc u n i e p i­ s o d i : i q u a t t r o f r a t e l l i S c h i o c c h e t u c c i s i a s s i e m e i l 1 0 m a r z o a S a n t ’A n t o ­ n io T o r ta i (T ric h ia n a ); i d ie c i p a r tig ia n i im p ic c a ti a l B o s c o d e lle C a s ta g n e s e m p re lo s te s s o g io r n o ; a ltr i q u a t t r o g io v a n i im p ic c a ti n e lla c e n tr a le p ia z ­ z a C a m p i t e l l o d i B e l l u n o i l 1 7 . M e r i t a r i c o r d a r e q u e s t ’u l t i m o f a t t o p e r s o t ­ t o l i n e a r e il c o m p o r t a m e n t o d e l v e s c o v o d i B e llu n o e F e l t r e , m o n s i g n o r G i ­ r o l a m o B o r t i g n o n . P e r l ’i m p i c c a g i o n e f u s c e l t a l a p i a z z a p r i n c i p a l e d e l l a c i t t à , c h e s o lita m e n te e r a d e s t in a t a a g li i n c o n t r i f e s to s i, a lle c h ia c c h ie r e e a llo s tr u s c io . S u i q u a t t r o la m p io n i c e n tr a li f u r o n o a p p e s i S a lv a to r e C a c c ia ­ to r e d i A g rig e n to , G iu s e p p e D e Z o rd o d i P e ra ro lo , V a le n tin o A n d re a n i d i L i m a n a e G i a n n i P i a z z a d i B e l l u n o ; l a g e n t e f u c o s t r e t t a a d a s s i s t e r e a l l ’e s e ­ c u z io n e . D o p o l a g u e r r a q u e s t a p i a z z a f u c h i a m a t a d e i M a r t i r i e v i s o r g e il m o n u m e n to a lla R e s is te n z a id e a to d a llo s c u lto r e p a r tig ia n o A u g u s to M u r e r . U n o d e i p a n n e l l i d i q u e s t o m o n u m e n t o r i c o r d a i l g e s t o d e l l ’a l l o r a a m ­ m in is tr a to r e a p o s to lic o d e lla d io c e s i - a p p u n to f r a te G ir o la m o B o r tig n o n , p o i v e s c o v o - c h e p a r ti d a l v e s c o v a d o , si fe c e la rg o t r a i te d e s c h i c h e a v e ­ v a n o a p p e n a im p ic c a to i g io v a n i, s a lì s u u n a sc a la , li b a c iò e b e n e d is s e . B o r ­ t i g n o n , n e l l ’a p r i l e d e l 1 9 4 5 , d o p o a v e r e i n v i a t o a F r a n z H o f e r l e t t e r e d i r i ­ c h ia m o p e r o t t e n e r e u n a m a g g io r e u m a n i t à n e l t r a t t a r e le p o p o l a z i o n i e il c le ro lo c a le , si r e c ò a f a r v is ita a i d e t e n u t i n e l c a m p o d i c o n c e n tr a m e n to d i B o lz a n o . N e l d o p o g u e r r a il s u o c o m p o r ta m e n to f u g iu d ic a to c o m e u n o d e i p i ù c o r a g g i o s i d i m o s t r a t o d a l l ’a l t o c l e r o d u r a n t e l ’o c c u p a z i o n e t e d e s c a . L a R e s is te n z a r is p o s e in te n s if ic a n d o le a z io n i m ilita r i, p e r g iu n g e r e i n ­ f i n e a i c o m b a t t i m e n t i v o l t i a l i b e r a r e d i v e r s e l o c a l i t à p r i m a d e l l ’a r r i v o d e ­ g li a lle a ti. N e lla c i t t à d i B e llu n o c i f u r o n o a n c o r a d e i m o r ti ( p a r tig ia n i e g e n ­

Vendramini

Belluno

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t e i n e r m e ) , s i a a P o r t a F e l t r e c h e n e l l ’O l t r a r d o . L ’u l t i m a g r a n d e b a t t a g l i a , c o n m ig lia ia d i p r ig io n ie r i te d e s c h i, e b b e lu o g o t r a B e llu n o e P o n t e n e lle A lp i, d o v e e r a n o a r riv a te le a v a n g u a rd ie d e lle tr u p p e a lle a te c h e a v e v a n o b lo c c a to , a s s ie m e a i p a r tig ia n i, la s tr a d a c h e p o r ta v a in C a d o r e e v e r s o P A u ­ stria . F u ro n o

così

a r r e s ta te le c o lo n n e d i q u a n to e r a r im a s to d e l I V c o r p o

d ’a r m a t a c o r a z z a t o t e d e s c o , s u c u i i n t e r v e n n e r o , m it r a g li a n d o , g li a e r e i a l­ le a ti. E r a il i ° m a g g io 1 9 4 5 . T r a i c a d u ti d e lle fo rm a z io n i p a r tig ia n e 8 6 im p ic c a ti, 2 2 7 fu c ila ti, 7 a r ­ si v iv i, 11 m o r ti p e r s e v iz ie , 5 6 4 c a d u ti in c o m b a ttim e n to , c h e , a s s ie m e a 1 6 6 7 d e p o r t a t i e c i r c a 7 0 0 0 i n t e r n a t i , c o s t it u i s c o n o il t r i b u t o d i s a n g u e e d i e r o is m o d a t o a lla l o t t a d i lib e r a z io n e .

Nota bibliografica. M. Bernardo, Il momento buono. Il movimento ga ribaldino bellunese nella lotta di libera­ zione del Veneto, Ideologia, Roma 1969; R. Cessi, La Resistenza nel Bellunese, Editori Riu­ niti, Roma i9 60 ; A. Ciocchiatti, Cammina Frut, Vangelista, Milano 1972; G. Landi, Rap­ porto sulla Resistenza nella Zona Piave, a cura di L. Casali, La Pietra, Milano 1984; A. Sire­ na, La memoria delle pietre. Lapidi e monumenti ai partigiani in provincia di Belluno, Quaderno di «Protagonisti», n. 8 (1995); F. Vendramini (a cura di), Aspetti militari della resistenza bel­ lunese e veneta. Tra ricerca e testimonianza, ivi, n. 5 (1991); G. Zangrandi, Igiorni veri. 19434 5, M ondadori, Milano 1963.

JEAN PIERRE JOUVET T r e n to e p ro v in c ia

Il 'Trentino nell’Alpenvorland dopo l ’8 settembre.

A n c h e a T re n to , co m e

i n t u t t e l e a l t r e c i t t à i t a l i a n e e s u i f r o n t i d i g u e r r a , l ’a n n u n c i o d e l l ’a r m i s t i ­ z i o c o n g l i a n g l o a m e r i c a n i , d a t o p e r r a d i o d a R o m a l a s e r a d e l l ’8 s e t t e m b r e 1 9 4 3 , c o ls e t u t t i d i s o r p r e s a : c o m a n d i m ilita r i, a u t o r i t à g o v e r n a tiv e , c iv ili e r e lig io s e e la m a s s a d e lla p o p o la z io n e , c o m p r e s i g li a n tif a s c is ti, li b e r a t i d a l c a r c e r e o d a l c o n f in o d o p o i f a t t i d e l 2 5 lu g lio . A T r e n to le m a n if e s ta z io n i d i g iu b ilo f u r o n o , in q u e lle o re , r a d e e is o ­ la te a c a u s a d e llo s c o n c e r to g e n e r a le m a a n c h e p e r il tim o r e v iv o e d if fu s o d i u n a im m e d ia ta re a z io n e d e i te d e s c h i, p o ic h é r e p a r ti d e lla W e h r m a c h t (F o rz e a r m a te te d e s c h e ) e d e lle S S , a r m a ti d i t u t t o p u n to , e r a n o p r e s e n ti a T r e n to , R o v e re to , R iv a d e l G a r d a , L a v is e in a ltr e lo c a lità d e lla p r o v in c ia d o v e si e r a n o s ta n z ia ti n e i g io r n i s u c c e s s iv i a lla c a d u ta d i M u s s o lin i, e n ­ tra n d o d a l B ren n ero . I l p r im o a o r d in a r e a i s u o i u o m in i lo s ta to d i a lle r ta f u il t e n e n t e c o lo n ­ n e llo d e i c a r a b in ie r i M ic h e le d e F in is , c o m a n d a n te il g r u p p o d i T r e n to . A l­ c u n i u ffic ia li s u p e rio ri d e lle n o s tr e F o rz e a r m a te te n ta r o n o r ip e tu ta m e n te d i m e t t e r s i i n c o n t a t t o , p e r a v e r e i s t r u z i o n i , c o n il c o m a n d o d e l V I c o r p o d ’a r m a t a , c h e a v e v a s e d e a B o l z a n o , m a n o n r i u s c i r o n o n e l l o r o i n t e n t o . C o ­ s ì r im a s e r o t u t t i a llo “ s c o p e r to ” , s e n z a d i r e t t iv e e s e n z a s a p e r e c h e c o s a f a ­ r e n e l c a s o la c o n f u s a s itu a z io n e fo s s e p r e c ip ita ta a l p e g g io : a T r e n t o e a R o ­ v e r e t o , d o v ’e r a n o d i s l o c a t i i c o n t i n g e n t i m i l i t a r i i t a l i a n i p i ù c o n s i s t e n t i , m a a n c h e p re s s o i b a tta g lio n i d e l 6 1 0 e d e l 6 2 ° f a n te r ia , d e l 4 6 ° a rtig lie ria e d e l 5 0 a lp in i, d e c e n tr a ti a L e v ic o , B a s é lg a d i P in é , i n V a l d i N o n , a l P a s s o d e lla M e n d o la , a l P a s s o d e lle P a la d e e n e lla z o n a d e l la g o d i C a ld a ro . N e l l a n o t t e s t e s s a f r a l ’8 e i l 9 s e t t e m b r e s i s c a t e n ò i m p r o v v i s a l a b u f e r a . R e p a r t i a u t o t r a s p o r t a t i e a n c h e c o r a z z a t i d e l l ’e s e r c i t o t e d e s c o , p r o v e n i e n t i d a l l ’A l t o A d i g e , i r r u p p e r o i n T r e n t o c o n b r u t a l e d e t e r m i n a z i o n e , a t t a c c a n d o e o c c u p a n d o f u lm in e a m e n te il c o m a n d o p r e s id io i n v ia C a le p in a , la c a s e r m a C e s a r e B a ttis ti d e l 6 2 ° r e g g im e n to f a n te r ia m o to r iz z a ta i n v ia le d e g li A lp in i, la c a s e rm a d e l 4 0 a u to c e n tr o e d e l 5 0 ° a u to r a g g ru p p a m e n to a l M a s D e s e r to , la c a s e r m a C h i a r i e d e l 4 6 ° a r t i g l i e r i a s u l l a s t r a d a p e r R o v e r e t o , l ’i s p e t t o r a t o T r u p p e A lp in e in p ia z z a d e lle E r b e e i n o ltr e i p o s ti d i g u a r d ia m ilita r i e d i p o ­ liz ia a d d e t t i a lla s o r v e g lia n z a d e lla p r e f e tt u r a , d e lla q u e s tu r a , d e lle p o s te , d e l l ’o s p e d a l e m i l i t a r e , d e l c a m p o d ’a v i a z i o n e e d e l l e o f f i c i n e C a p r o n i .

Jouvet

Trento e provincia

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E g u a l m e n t e e n e r g i c a , p o c o p i ù t a r d i , l ’a z i o n e t e d e s c a a R o v e r e t o , c o n s a n g u in o s i a tta c c h i a lla c a s e r m a d e i b e r s a g lie r i d i v ia S tic c o la e a lla c a s e r ­ m a d e g li a lp in i, d i f r o n t e a lla c h ie s a d e l S u ff r a g io , i n c e n d ia ta c o n i la n c ia fia m m e . L a r e s is te n z a d e lle n o s tr e tr u p p e a T r e n to e a R o v e re to f u a c c a n ita , m a im p r o v v is a ta e d is a r tic o la ta p e r la m a n c a n z a d i u n q u a ls ia s i p ia n o d if e n s i­ v o . A lla f in e rim a s e r o su l te r r e n o d e g li s c o n tr i c in q u a n ta m ilita ri ita lia n i, m e n t r e i f e r i t i , r i c o v e r a t i a l l ’o s p e d a l e m i l i t a r e e a q u e l l o d i S a n t a C h i a r a , e r a n o c ir c a d u e c e n to . F r a i c a d u ti il m a g g io re A lb o in o d e J u lis , d i C o lle c o r v i n o , i n p r o v i n c i a d i P e s c a r a , e il s o t t o t e n e n t e A l b e r t o P ic c o , d i M ila n o . I l 9 e il 1 0 s e t t e m b r e l a g r a n d e m a s s a d e i p r i g io n i e r i i t a l i a n i f u c o n c e n ­ t r a t a a tto r n o al c a m p o d i a v ia z io n e d i G a r d o lo , in a tte s a d e l tr a s f e r im e n to in G e rm a n ia . I l 1 0 s e tte m b r e , m e n tr e M u s s o lin i e r a a n c o r a p r ig io n ie r o d i B a d o g lio a C a m p o I m p e r a t o r e , s u l G r a n S a s s o , H i t l e r d e c id e v a p e r s o n a l m e n t e d i “ s t a c­ c a r e ” d i f a t t o il T r e n t i n o d a l l T ta l ia , in c l u d e n d o l o a s s ie m e a lle p r o v i n c e d i B o l z a n o e d i B e l l u n o n e l l ’A l p e n v o r l a n d ( Z o n a d ’o p e r a z i o n e d e l l e P r e a l p i ) a f f id a ta , c o n il tito lo d i A lto C o m m is s a rio d e l R e ic h , a F r a n z H o f e r , G a u le ite r d e l T iro lo , m e n tr e a ltr e p r o v in c e ita lia n e (U d in e , G o r iz ia , T r ie s te , P o la , F iu m e e L u b ia n a ) v e n iv a n o a lo ro v o lta s e p a ra te d a lla m a d r e p a tr ia p e r c o s t i t u i r e l ’O p e r a t i o n s z o n e A d r i a t i s c h e s K u s t e n l a n d ( Z o n a d ’o p e r a z i o n e L i ­ to r a le A d r ia tic o , c o n a c a p o F r ie d r ic h R a in e r, G a u le ite r d e lla C a rin z ia ). S u b i t o d o p o l ’o c c u p a z i o n e d i T r e n t o d a p a r t e d e i t e d e s c h i r i a p p a r i v a i n c i t t à l ’e x p r e f e t t o f a s c i s t a I t a l o F o s c h i , c h e e r a s t a t o s o s t i t u i t o d a l g o v e r n o B a d o g lio , in a g o s to , c o n T o m m a s o P a v o n e , s p a r ito n e l f r a tte m p o d a lla c ir ­ c o la z io n e . R ito r n a v a n o a lla r i b a l t a a n c h e d e c in e d i g e r a r c h i e g e r a r c h e t t i f a s c i s t i c h e s i e r a n o t i r a t i p r u d e n t e m e n t e i n d i s p a r t e a l l ’i n d o m a n i d e l 2 5 l u ­ g lio . F o s c h i si in s e d iò p e r la s e c o n d a v o lta in p r e f e tt u r a e p e r p r im a c o s a o r d i n ò a l t e n e n t e c o l o n n e l l o d e F i n i s l ’a r r e s t o d i n u m e r o s i a n t i f a s c i s t i , m a il c o m a n d a n te d e i c a r a b in ie r i r e s p in s e la r ic h ie s ta n e l c o rs o d i u n a c c e s o a l­ te r c o . F o s c h i tu tta v ia , p r iv o d i m a n d a to te d e s c o , d o v r à la s c ia re il p o s to a b u ­ s i v a m e n t e o c c u p a t o a l l ’a v v o c a t o A d o l f o d e B e r t o l i n i , v e c c h i o l i b e r a l e n o n c o m p r o m e s s o c o l r e g im e f a s c is ta , s u lla c u i c o n d o t t a d u r a n t e il p e r i o d o d e l ­ l a R e p u b b l i c a s o c ia le i t a l i a n a (R s i) i g i u d i z i s o n o a s s a i d i s c o r d i ( a c c u s a to d i c o lla b o ra z io n is m o c o i te d e s c h i f u c o m u n q u e a s s o lto in is tr u tto r ia ) . I

f a s c is ti r ito r n a v a n o a T r e n to , m a s e n z a p o te r e . Q u e s to e r a t e n u t o s a l­

d a m e n te , a t u t t i i liv e lli, d a i f u n z io n a r i lo c a li d i H o f e r , p r o t e t t i d a u n im ­ p o n e n t e “ s e r v i z i o d ’o r d i n e ” n a z i s t a e i n s e g u i t o a n ch e d a l C o r p o d i s i c u ­ r e z z a t r e n tin o (C s t, a d d e s tr a to d a u f fic ia li n a z is ti). L a “ r e g o la r e ” o c c u p a z io n e te d e s c a i n t u t t o il T r e n t i n o è a s s ic u r a ta d a u n c a p illa r e s c h i e r a m e n to d i f o r z e r e p r e s s i v e . S S e G e s t a p o s t a b il i s c o n o il lo r o c o m a n d o in u n a v illa d i v ia B r ig a ta A c q u i a T r e n to e d e c e n tr a n o r e ­ p a r t i sp e c ia li a V a r o n e , n e lla C a s a d e l V e r b o D iv in o ; a d A rc o , a V illa Ig e a ; a R iv a d e l G a r d a , a V illa F lo ra ; a ltr e s ì a P re d a z z o , A la , B o rg o V a ls u g a n a , R o v e re to .

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Parte seconda A F a i d e lla P a g a n e lla v e n g o n o a tti v a t e u n a s c u o la n a z is ta d i p o liz ia e

u n a p o te n te s ta z io n e r a d io r ic e tr a s m itte n te in g r a d o d i c o lle g a rs i in q u a l­ s ia s i m o m e n to , t r a m ite u n “ p o n t e ” m o b ile in s ta lla to a P io v e , s o p r a T r e n ­ to , c o n B e rlin o e c o n il q u a r tie r g e n e r a le d e l fe ld m a re s c ia llo K e s s e lrin g , c o ­ m a n d a n te in c a p o d e lle tr u p p e te d e s c h e su l f r o n te d i g u e r ra ita lia n o . C o m a n d i d e lla W e h r m a c h t e d e lla F e ld g e n d a rm e rie si tr o v a n o a T r e n ­ to , R o v e re to , C a v a le s e , P re d a z z o , A la , B o rg o V a ls u g a n a , L a v is , R iv a d e l G a r d a , M a d o n n a d i C a m p ig lio . C i s o n o p o i i c o m a n d i d e lla T o d t, d e lla S p e e r e d e l l a F l a k . T r e s o n o i p o s t i d i “ c o n f i n e ” c h e d i v i d o n o l ’A l p e n v o r l a n d d a l t e r r i t o r i o d e l l a R e p u b b l i c a d i S a l ò : a d A l a , s u l l ’a s s e d e l B r e n n e r o , a s u d -o v e s t d i R iv a d e l G a r d a , v e rs o L im o n e , e a T o rb o le , a s u d -e s t d i R i­ v a , v e rs o M a lc e sin e .

La formazione delle bande partigiane.

N o n o s ta n t e u n d is p o s itiv o d i s i­

c u r e z z a te d e s c o c o s ì b e n e a r tic o la to , la R e s is te n z a tr e n t i n a n o n ta r d a a o r ­ g a n iz z a rs i e a e n tr a r e i n a z io n e . I s u o i p rin c ip a li p r o m o to r i so n o : a T r e n to l ’a v v o c a t o G i a n n a n t o n i o M a n c i , E g i d i o B a c c h i ( m u t i l a t o d e l l a p r i m a g u e r ­ r a m o n d ia le , e m ig ra to d a M a n to v a ), E r n e s ta e G ig in o B a ttis ti (ris p e ttiv a ­ m e n te v e d o v a e f ig lio d e l m a r tir e ; r i p a r a t i p o i i n S v iz z e r a , G ig in o B a tt i s t i r i e n t r e r à i n I t a l i a n e l s e t t e m b r e 1 9 4 4 p a r t e c i p a n d o a l l ’a t t i v i t à d e l l a g i u n t a d e lla r e p u b b lic a p a r tig ia n a d e lla V a ld o s s o la , f in o a lla s u a c a d u ta ) , B e p p in o D is e r to r i (a n c h e lu i s c o n f in a to i n S v iz z e ra ), L o d o v ic o A n d r e a t t a , G iu lio , R o d o l f o e G i o v a n n i P a r o l a r i , l ’i n g e g n e r e G u i d o G e r o s a , i l d o t t o r I v o M o n a u n i, F e r ru c c io S a n d r i, G iu s e p p e G a d d o , il p r o f e s s o r R ic c a rd o E n d r iz z i, il d o t t o r M a r i o P a s i, il d o t t o r N ilo P ic c o li; a C a v a le s e , i n V a l d i F ie m m e : il f a rm a c is ta F ra n z e lin , A n n a C la u s e r-B o s in , A rie le M a ra n g o n i, A n d r e a M a ­ sc a g n i (n ip o te d e l m u s ic is ta P ie tr o M a s c a g n i, n o m in a to d a l fa s c is m o A c c a ­ d e m i c o d ’I t a l i a n e l 1 9 2 9 ) , p a d r e C o s t a n t i n o A m o r t e p a d r e J e b s t r e i b i t z e r d e l lo c a le c o n v e n to d e i C a p p u c c in i. V e rs o la fin e d i s e tte m b r e M a n c i (P d a ), G u id o d e U n te r r ic h te r (D e ), G iu ­ s e p p e O t t o l i n i (P e i), G u i d o P i n c h e r i (P s i) e B e p p in o D i s e r t o r i (P ri) f o n d a ­ n o u n c o m i t a t o a n t i f a s c i s t a c h e p u ò e s s e r e c o n s i d e r a t o , i n e m b r i o n e , il p r i ­ m o C o m i t a t o d i l i b e r a z i o n e n a z io n a le (C ln ) d i T r e n t o , d e l q u a le e n t r a n o a f a r p a r t e in o t t o b r e a n c h e E g id io B a c c h i e G iu s e p p e F e r r a n d i, s o c ia lis ti. I n t a n t o p ic c o li g r u p p i d i “r ib e lli” si f o rm a n o n e l B a sso S a rc a , n e lle v a l­ li d i C e m b r a , d i S o le e d i N o n , a B r e n to n ic o , s u l B o n d o n e , i n V a l L a g a rin a , n e l T e s i n o e s u l l ’a l t o p i a n o d i F o l g a r i a . S i t r a t t a , p i ù c h e a l t r o , d i e x m i ­ lita r i s b a n d a ti, d e c is i a n o n p ie g a rs i ai n a z ifa s c is ti. D is p o n g o n o d i p o c h e a rm i e n o n h a n n o m e z z i d i s o s te n ta m e n to ; n o n o b b e d is c o n o a d ir e ttiv e p o ­ litic h e o m ilita r i c e n tr a liz z a te e p e r il m o m e n to si l im ita n o a v iv e r e a lla m a c ­ c h ia in b a ite , g r o tte e c a s o la ri is o la ti s u i m o n ti, p r e p a r a n d o s i a d a f fr o n ta r e i p r i m i r i g o r i d e l t a r d o a u t u n n o e d e l l ’i n v e r n o . T u t t a v i a n o n s i a r r e n d o n o . R e s p in g o n o n e lla g r a n d e m a g g io ra n z a in v iti e b a n d i d i H o f e r e d e i n o n lo n ­ t a n i c o m a n d i d e lla R s i, e p ia n o p ia n o s i o r g a n iz z a n o in b a n d e , e le g g o n o i lo ro c o m a n d a n ti, e s e g u o n o p ic c o li s a b o ta g g i a lin e e e le ttr ic h e , fe rr o v ie , p o n ­

Jouvet

Trento e provincia

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t i s t r a d a l i , a u t o m e z z i m i l i t a r i t e d e s c h i ; t r o v a n o il m o d o d i p r o c u r a r s i n u o ­ v e a r m i e d e s p lo s iv i, o c c u lta n d o li in u n a c a v e r n a su l M o n te S a n G io v a n n i, s o p ra R iv a , e in a ltr i lu o g h i p re s s o c c h é in a c c e s s ib ili, d i o tte n e r e s o v v e n ­ z io n i e “p r e s titi” in d e n a r o e in f in e c o m in c ia n o la g u e rrig lia v e r a e p r o p ria a f fr o n ta n d o p a ttu g lie n a z is te . A T r e n t o , in p a r tic o la r e , a g is c e u n g r u p p o p a t r i o t ti c o g u id a to d a R ic ­ c a r d o E n d riz z i, r ite n u to d a l te n e n te d e lle S S S ie g frie d H o lz , c o m a n d a n te d e lla G e s ta p o d i T r e n t o , « n e m ic o d a liq u id a r e a q u a ls ia s i c o s to » . U n a ltr o g r u p p o , c a p e g g ia to d a L a m b e r to R a v a g n i e U g o T a r t a r o t t i , è a ttiv o a R o ­ v e re to .

1944. G li arresti, gli eccidi e le rappresaglie.

N a tu ra lm e n te i te d e s c h i n o n

si f a n n o p re g a r e p e r r e a g ire s e c o n d o i lo ro m e to d i. N e l g e n n a io e f e b b ra io d e l '4 4 a r r e s t a n o n u m e r o s i e s p o n e n t i d e l l a R e s i s t e n z a t r e n t i n a , f r a i q u a l i A ld o P a o la z z i, G in o R o s s i e L u ig i T a z z a r i, c o m p a g n i d i l o t t a d i M a r io P a s i , m e d i c o r a v e n n a t e t r e n t e n n e c h e p r e s t a s e r v i z i o p r e s s o l ’o s p e d a l e d i S a n ­ t a C h i a r a e u n o d e i p r i n ci p a l i a n i m a t o r i d e l l a g u e r r i g l i a . P a s i r i e s c e p e r ò a s fu g g ire a lla c a t t u r a p e r il r o t t o d e lla c u f fia , u n e n d o s i a u n a f o r m a z io n e p a r ­ tig ia n a o p e r a n t e s u i m o n t i d e l B e llu n e s e . A n c h e la s u a f i d a n z a t a , I n e s P is o n i , e v i t a a p p e n a i n t e m p o l ’a r r e s t o , t r a s f e r e n d o s i p r e s s o l a f a m i g l i a P a s i a d A lf o n s in e d o v e p a r te c ip a a lla l o t t a d i lib e r a z io n e q u a le o r g a n iz z a tr ic e d e i G r u p p i d i d ife s a d e lla d o n n a . I n f e b b r a io i te d e s c h i d a n n o v i t a a l C o r p o d i s ic u re z z a t r e n t i n o (C s t), f o rm a to d a v o lo n ta r i e d a g io v a n i d i le v a re c lu ta ti c o n la fo rz a ; t u t t i d e l c a p o lu o g o e p ro v in c ia , m a a d d e s tr a ti e c o m a n d a ti d a u ffic ia li d e lle S S , d i c u i p o r ta n o la d iv is a . C o m p ito p r im a r io d e l C s t la l o tta c o n tr o le f o rz e d e lla r e ­ s is te n z a ( c h e e s t e n d e r à a n c h e n e l V e r o n e s e , n e l V ic e n tin o e n e l B e llu n e s e ) . N e l m e s e d i m a g g io s i r e g is tr a n o i p r im i r a s tr e lla m e n ti e le p r im e r a p ­ p re s a g lie d e lle S S e d e l C s t in V a l d i F ie m m e e n e lla la te r a le V a l C a d in o , d o v e o p e r a , in p r o s s im ità d i m a lg a C a s e r a tte , a q u o ta 2 0 0 0 , la b r ig a ta C e ­ s a r e B a tt i s t i . C a d o n o i n u n s a n g u in o s o s c o n t r o il v i c e c o m a n d a n t e L u ig i C o r r a d in i e a ltr i s e t te p a t r i o t i. S u b ito d o p o v e n g o n o c a t t u r a t i a B o rg o V a ls u g a n a A n g e lo P e r u z z o e il p a d o v a n o M a n lio S ilv e s tr i, e p iù ta r d i, a C a v a le ­ se , A r m a n d o B o r to lo tti « M a n d o » , c o m a n d a n te d e lla C e s a r è B a ttis ti, T u llio F r a n c h e A lb e r to D e l F a v e ro . P ro c e s s a ti d a l S o n d e r g e ric h t d i B o lz a n o , B o r ­ t o l o t t i , F r a n c h , S il v e s t r i e P e r u z z o il 2 9 lu g lio f u r o n o c o n d a n n a t i a m o r t e e im p ic c a ti, o fu c ila ti (M a n lio S ilv e s tri, p a d o v a n o , d o p o a v e re p a r te c ip a to c o n la b r ig a ta G a r ib a ld i a lla d if e s a d e lla r e p u b b lic a s p a g n o la d a l 1 9 3 6 al 1 9 3 9 , n e l 1 9 4 0 e r a s t a to c o n s e g n a to d a l g o v e r n o d i V ic h y a lle a u t o r i t à f a ­ s c is te c h e lo a v e v a n o c o n d a n n a to a c in q u e a n n i d i c o n f in o ; t o r n a t o in li­ b e r t à c o n la c a d u ta d i M u s s o lin i, v e n n e im p ic c a to a S a p p a d a ). D e l F a v e ro , p u r e lu i c o n d a n n a to a lla p e n a c a p ita le , e b b e la s te s s a c o m m u ta ta i n d ie c i a n n i d i re c lu s io n e , g ra z ie a lla s u a g io v a n e e tà . P o c o d o p o i tr a g ic i r a s tr e lla m e n ti d i m a g g io n e lla V a l d i F ie m m e e n e l­ la V a l C a d in o , il m a g g io re d e lle S S R u d o lf T y ro lf , c o m a n d a n te d e lla G e -

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Parte seconda

s ta p o d i B o lz a n o , p r e d is p o s e il p ia n o p e r u n e f f e r a to e c c id io d i p a t r i o t i r i ­ v a n i e d e l B a s s o S a r c a . C o l l a b o r a r o n o c o n T y r o l f il c a p i t a n o d e lle S S G e o r g S c h m i d t , c a p o d e l l ’sD d i B o l z a n o , i l c a p i t a n o d e l l e S S H a n s B u n t e , c o ­ m a n d a n te d e i d is ta c c a m e n ti S S d i R iv a d e l G a r d a e d i A r c o , i m a re s c ia lli d e l l e S S E r i c h K r o n e z e L u d w i g E g g e r , e a l t r e f i g u r e s e c o n d a r i e d e l l ’a p p a ­ r a t o p o l i z i e s c o d e l l ’A l p e n v o r l a n d . E c c o l ’a g g h i a c c i a n t e c r o n a c a d e l l ’e c c i d i o . E d a p o c o s p u n t a t a l ’a l b a d e l 2 8 g i u g n o 1 9 4 4 . P i o v e . T r e a u t o c a r r i c h e tr a s p o r ta n o u n a q u a r a n tin a d i m iliti d e lle S S e d e lla G e s ta p o , p a r t i t i d a lla s e d e d e l l e S S d i T r e n t o , g i u n g o n o a l l ’i m p r o v v i s o a d A r c o e a R i v a d e l G a r ­ d a , d o v e g li u o m in i d e lla s p e d iz io n e , q u a s i t u t t i a lto a te s in i, b a lz a n o a t e r ­ r a im p u g n a n d o le a rm i. L a s e q u e n z a d e lle u c c is io n i h a in iz io i n t o r n o a lle 6 a R iv a . Q u i le S S a b ­ b a t t o n o d a v a n ti a lla s u a a u to r im e s s a , a c o lp i d i p is to la , il m e c c a n ic o e a u t o tr a s p o r ta to r e A u g u s to B e tta ; il g io v a n e s tu d e n te E n r ic o M e r o n i, d e l g r u p ­ p o F ra n c h e tti, v ie n e tr u c id a to n e lla se d e d e lla G e s ta p o al G ia r d in o V e rd e ; il b r i g a d i e r e d e i c a r a b i n i e r i A n t o n i o G a m b a r e t t o , n a t i v o d i S a n G i o v a n n i Ila rio n e (V e ro n a ) - re d u c e d a l f r o n te g re c o -a lb a n e s e e in f o r m a to r e d e i p a r ­ tig ia n i - , è u c c is o n e lla s u a s ta n z a ; c o s i è a n c h e p e r lo s t u d e n te E u g e n io I m ­ p e r a e F ra n c o G e r a r d i, d i L im o n e . A d A rc o i fu c ila to ri d i B u n te a m m a z ­ z a n o f r e d d a m e n te G iu s e p p e M a r c o n i d a v a n ti a lla m o g lie ; G iu s e p p e B a l­ l a n ti v ie n e c o lp ito a m o r te s u lla s tr a d a d e l c im ite r o ; v e n g o n o u c c is i a n c h e G io v a n n i B re s a d o la e F e d e r ic o T o ti. A N a g o , lu n g o la s tr a d a p e r R o v e re to , c a d e s o tto i c o lp i d e lle S S u n a ltr o in tr e p id o p a tr io ta , G io a c c h in o B e rto ld i. N o n è f in ita . A R o v e r e to g li u o m in i d e l c a p ita n o W i n k l e r u c c id o n o n e l s u o s t u d i o l ’a v v o c a t o A n g e l o B e t t i n i , s o c i a l i s t a e a m i c o f e d e l e d i G i a n n a n t o n i o M a n c i. U n d ic i m o r ti in p o c h e o r e p e r m a n o n a z is ta , p e r ò c o n il c o n tr a s s e ­ g n o d i u n a f u n e s ta c o s c ie n z a ita lia n a : q u e lla d i F io re L u te r o tti, u n n a tiv o d i P e r g i n e , r i t o r n a t o d a l l a p r i g i o n i a i n G e r m a n i a s u l f i n i r e d e l l ’a u t u n n o 1 9 4 3 a p r e z z o d i u n p a t t o c o n la G e s ta p o : f in g e rs i a m ic o d e i p a r tig ia n i d e l B a s ­ so S a rc a , in p a r tic o la re d i G a s to n e F r a n c h e tti, p e r c a r p ir n e le c o n f id e n z e e p o i tra d irli. S e m p r e il 2 8 g iu g n o , o il g i o r n o s e g u e n t e , S S e a g e n t i d e lla G e s t a p o a r ­ r e s ta r o n o a R iv a G iu s e p p e P o r p o r a , G io r g io T o s i e R e m o B a lla rd in i; a P in z o lo G a s to n e F r a n c h e t t i , m e n tr e s ta v a s a le n d o s u lla c o r r ie r a p e r T r e n to ; a R o v e r e t o l ’a v v o c a t o G i u s e p p e F e r r a n d i ; a T r e n t o G i n o L u b i c h . M a i l c o l p o p i ù d u r o i n f e r t o a lla R e s is te n z a t r e n t i n a f u o p e r a p e r s o n a le d e l m a g g io r e T y r o l f : l ’a r r e s t o d i M a n c i , a v v e n u t o n e l s u o s t u d i o a T r e n t o , d o v e s i t r o v a ­ v a a s s i e m e a u n g i o v a n e n i p o t e e a d u e d i p e n d e n t i , a n c h ’e s s i f i n i t i i n c a r c e ­ re . O ltr e c h e c a p o d e l C ln p ro v in c ia le , M a n c i e ra u n p ro ta g o n is ta c a rism a ­ t i c o d e l l ’a n t i f a s c i s m o t r e n t i n o , f i n d a g l i a n n i v e n t i , q u a n d o a v e v a a d e r i t o a l m o v im e n to d i G i u s t i z i a e l i b e r t à (G l) a s s ie m e a i c o m p a g n i d i c o s p ir a z io ­ n e G ig in o B a ttis ti, E g id io B a c c h i e d E m ilio P a ro la ri. D e l s u o g ru p p o f a c e ­ v a n o p a r t e a n c h e a ltr i a n tif a s c is ti, t r a i q u a li C a r lo e V a le r ia J u lg ( V a le r ia W a c h e n h u s e n , i n s e g n a n t e , d i o r i g in e a u s t r i a c a e il m a r i t o C a r l o J u l g , p r ò -

Jouvet

Trento e provincia

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f e s s o re d i T r e n t o , e r a n o s t a ti c o n d a n n a ti n e l 1 9 3 8 d a l T r ib u n a le s p e c ia le r is p e ttiv a m e n te a d ie c i e q u a tto r d ic i a n n i d i r e c lu s io n e . L ib e r a ti a lla c a d u ­ t a d i M u s s o l i n i , d o p o l ’a r m i s t i z i o s i t r a s f e r i r o n o n e l R a v e n n a t e p r e n d e n d o p a r t e a lla R e s is te n z a . C a rlo o p e r ò n e lla z o n a d i C e r v ia , m e m b r o p e r il P e i d e l C ln d i q u e lla lo c a lità ; V a le ria f u d ir ig e n te p r o v in c ia le d e i G r u p p i d i d i­ f e s a d e lla d o n n a a f ia n c o d i N a ta lin a V a c c h i, im p ic c a ta a R a v e n n a il 2 5 a g o ­ s to 1 9 4 4 ), t u t t i p ro c e s s a ti e c o n d a n n a ti d a i tr ib u n a li fa s c is ti e in p a r te , n e l p e r i o d o d e l l ’A l p e n v o r l a n d , m i l i t a n t i n e l l a R e s i s t e n z a . P e r a l c u n i g i o r n i M a n c i f u t e n u to in c a r c e r e a T r e n to . V e n n e p o i tr a s f e r ito n e lla s e d e d e lla G e s t a ­ p o d i B o l z a n o , n e l p a l a z z o c h e e r a s t a t o o c c u p a t o , f i n o a l l ’8 s e t t e m b r e 1 9 4 3 , d a l V I c o r p o d ’a r m a t a i t a l i a n o . D u r a n t e g l i i n t e r r o g a t o r i f u t o r t u r a t o f e r o ­ c e m e n te , t a n t o c h e , te m e n d o d i n o n p o t e r r e s is te r e o ltr e , il m a t t i n o d e l 7 lu g lio , p o c o p r im a d i u n a e n n e s im a “ s e d u ta ” c o n i s u o i a g u z z in i, r iu s c ì a r a g g i u n g e r e u n a f i n e s t r a e a l a n c i a r s i n e l v u o t o d a l t e r z o p i a n o d e l l ’e d i f i ­ c io , m o r e n d o p o c h i m in u ti d o p o . A n c h e G a s to n e F r a n c h e tti e G iu s e p p e T o r to r a f u r o n o s e v iz ia ti d a g li s g h e rri d e lla G e s ta p o , m a n o n riv e la ro n o n u lla c h e p o te s s e c o m p r o m e tte re i l o r o c o m p a g n i d i l o t t a . P r o c e s s a t i d a l T r i b u n a l e s p e c i a l e t e d e s c o (il S o n d e r g e r ic h t) , v e n n e r o c o n d a n n a ti a m o r te il 6 a g o s to e f u c ila ti il 2 9 , d o p o c h e e r a s ta ta r e s p in ta la lo ro d o m a n d a d i g ra z ia . L o ste s s o tr ib u n a le in f lis ­ s e s e i a n n i d i c a r c e r e a l l ’a v v o c a t o F e r r a n d i e a G i n o L u b i c h , t r e a G i o r g i o T o s i.

Gli episodi della lotta armata.

L a R e s is te n z a t r e n tin a , b e n c h é g ra v e m e n te

m u tila ta d a lle v ic e n d e d i q u e i m e s i, n o n s i p ie g ò a l te r r o r e . L ’a t t i v i t à c o s p i r a t i v a d i M a s c a g n i e d e l s u o g r u p p o , p e r l a r i o r g a n i z z a ­ z io n e d e l m o v im e n to , d a lla V a l d i F ie m m e si s p o s tò a n c h e in a ltr e z o n e d e l T r e n t i n o ( e d e l l ’A l t o A d i g e - S u d T i r o l o ) . R a v a g n i e a l t r i r e s i s t e n t i d e l R o v e r e ta n o , d a te m p o in c o lle g a m e n to c o n la b r ig a ta G a r ib a ld i G a r e m i, a v e ­ v a n o p a r te c ip a to a lla c o s titu z io n e d i d is ta c c a m e n ti d e lla m e d e s im a a tto r n o a l P a s u b io , s u i m o n t i t r a le p r o v in c e d i V ic e n z a e d i T r e n t o , d o v e g li s c o n ­ t r i c o l n e m ic o e b b e r o a s p ro c u lm in e il 1 4 -1 5 a g o s to n e i p r e s s i d i F o lg a ria , a lla m a lg a Z o n ta . P u r e in a g o s to u n d is ta c c a m e n to d i v e n tid u e p a r tig ia n i d e l b a tta g lio n e b e llu n e s e G . G h e r le n d a - al c o m a n d o d i I s id o ro G ia c o m in , g ià s o tto te n e n te d e g li a lp in i d i F o n z a s o - si p o r tò d a lle A lp i F e ltr in e n e lla c o n c a d e l T e s in o ( T r e n to ) . P re s s o il la g o d i C o s ta b r u n e lla - n e l L a g o ra i, C im o n R a v a , c im a d ’A s t a - s i c o s t i t u ì u n a c o m b a t t i v a f o r m a z i o n e . D i e s s a f e c e r o p a r t e G a ­ s to n e V e lo d i F e ltr e , g li a ltr i b e llu n e s i e m o lti g io v a n i e m e n o g io v a n i v o ­ l o n ta r i d e l T e s in o , a lc u n i a lle p r im e a r m i, a ltr i r e d u c i d a lle c a m p a g n e d e lla s e c o n d a g u e r ra m o n d ia le : si r ic o rd a n o p e r t u t t i D o r ib e r to B o s o , G ia c o m o M a r i g h e t t o e i f ig li A n c illa e C e le s tin o , i f r a te lli C lo r in d a e R o d o lf o M e n g u z z a t o , G i o v a n n i M u r a r o . D o p o a lc u n i s c o n t r i a f u o c o , il 1 4 s e t t e m b r e il d i s ta c c a m e n to g a r ib a ld in o a s s a ltò la c a s e r m a d i C a s te lte s in o , f a c e n d o c in q u a n ta c in q u e p r ig io n ie r i e im p o s s e s s a n d o s i d e lle lo r o a rm i. I m m e d ia ta la

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Parte seconda

r e a z io n e n a z is ta a C o s ta b r u n e lla , c o n m o r ti, f e riti, d is tr u z io n i. F r a i c a d u ­ t i a n c h e il c o m a n d a n te I s id o r o G ia c o m in . N u o v o r a s tr e lla m e n to te d e s c o n e l T e s in o f r a il 9 e il 12 o tt o b r e , e a n ­ c o r a s a n g u e , in c e n d i, s a c c h e g g i, c a t t u r a d i c iv ili p e r f a r n e o s ta g g i. N e g li s c o n t r i e n e lle s u c c e s s iv e e s e c u z io n i p e r s e r o la v i t a G i a c o m o M a r i g h e t t o , il p a d re d e i d u e p a rtig ia n i, C lo r in d a M e n g u z z a to , D o r ib e rto B o so , G io v a n ­ n i M u r a r o , G a s t o n e V e lo e a ltr i p a t r i o t i. F r a g li a r r e s t a t i a n c h e d o n N a r c i ­ so S o rd o , c h e s o c c o m b e rà n e l la g e r d i G u s e n . D u r a n t e l ’i n v e r n o i r a s t r e l l a m e n t i t e d e s c h i e l e g r a v i s s i m e d i f f i c o l t à l o ­ g is tic h e d is p e r s e r o la b r ig a ta G r a m s c i o p e r a n te s u lle V e t t e f e ltr in e , d a lla q u a l e d i p e n d e v a i l G h e r l e n d a g i à t a n t o d u r a m e n t e c o l p i t o . C o s i a n c h ’e s s o si s c io ls e ; i s o p r a v v i s s u t i , a p ic c o li g r u p p i , si n a s c o s e r o i n lu o g h i r e m o t i . A l­ t r i g r u p p i t r o v a r o n o il m o d o d i r a f f o r z a r s i , c o m e la b r i g a t a E u g e n i o I m p e ­ r a , g u id a ta d a D a n t e D a s s a tti e G io v a n n i P a r o la ri, c h e a g ì in t u t t o il B a s ­ so S a rc a e d e b b e d is ta c c a m e n ti a N a g o , T o rb o le , T e n n o e C a m p i. D ’a l t r a p a r t e l a c o s p i r a z i o n e e l e a z i o n i d e l l a R e s i s t e n z a s i i n t r e c c i a v a n o a l l a s i s t e m a t i c a i n i z i a t i v a r e p r e s s i v a d e l l ’a u t o r i t à t e d e s c a e d e l s u o b r a c c i o e s e c u tiv o , il C s t. N e g li u ltim i g io r n i d i n o v e m b r e f u r o n o a r r e s t a t i a C a v a ­ le s e A n n a C la u s e r-B o s in e su a so re lla M a riu c c ia , p a d r e G iu s e p p e d e G a s p e ­ r i, p a d r e C o s ta n tin o A m o r th ( m o rto in s e g u ito a M a u th a u s e n ) , p a d r e C a ­ sim iro J e b s tr e ib itz e r , M a rio Z o rz i ( d e c e d u to a n c h e lu i a M a u th a u s e n ) , N e l­ la L illi e a ltr i. I l 1 9 f e b b r a i o 1 9 4 5 c a d e v a u n ’a l t r a e r o i c a p a r t i g i a n a : A n c i l l a M a r i g h e t t o « O r a » , d i C a s te l T e s in o . L a g io v a n e s ta ff e tta - c o m b a tte n te si tro v a v a q u e l g io rn o , a s s ie m e a l f ra te llo C e le s tin o e a d a ltr i p a tr io ti, in u n r ifu g io m o n ­ ta n o s e m is e p o lto n e lla n e v e a lta , m a c h e e ra s ta to s e g n a la to a l n e m ic o d a u n a s p ia . P r im a d i v e n ir e c o m p le ta m e n te a c c e r c h ia ti i f r a te lli M a r ig h e tto e i lo ro c o m p a g n i c e rc a ro n o d i d is im p e g n a rs i s p o s ta n d o s i in u n a v ic in a z o n a b o s c o s a , in s e g u iti d a l f u o c o d e i r a s tr e lla to ri. U n p a r tig ia n o f u f e r ito n o n g r a v e m e n te e « O r a » e b b e u n o sc i s p e z z a to d a u n p r o ie ttile , c o s ì f u ra g ­ g iu n ta e u c c is a c o n u n a r a ff ic a d i m itr a d a u n s o ttu f f ic ia le d e l C s t, q u a ttr o m e s i d o p o su o p a d r e G ia c o m o . A tr o c e fu la m o r te d e l d o tto r M a rio P a s i, d e lla c u i a z io n e a T r e n to a b ­ b ia m o g ià s c r itto . D o p o il s u o tr a s f e r im e n to n e l B e llu n e s e , P a s i e r a d iv e n ­ ta to , c o l n o m e d i b a tta g lia d i « M o n ta g n a » , c o m m is s a rio p o litic o d e lla b r i ­ g a t a g a r i b a l d i n a N i n o N a n n e t t i ( p o i d i v i s i o n e d ’a s s a l t o ) , p a r t e c i p a n d o a i m ­ p r e s e s e n s a z io n a li c o m e la lib e r a z io n e d a lle c a r c e r i d i B e llu n o , il 15 lu g lio 1 9 4 4 , d i s e tta n ta f r a d e te n u ti p o litic i e p a tr io ti. C a ttu r a to n e lla n o tte d e l 10 n o v e m b re , d o p o u n a riu n io n e d i c a p i p a r tig ia n i, e r a s ta to te n u to p r i­ g io n ie r o e t o r t u r a t o d a lla G e s ta p o p e r m e s i, f in o a l p u n t o d i a v e r p e n s a to a l s u ic id io . S c ris s e i n f a t t i in u n b ig lie tto c h e r iu s c ì a f a r u s c ire d a l c a r c e r e e c h e si c o n s e rv a : « C a r i c o m p a g n i, m a n d a te m i d e l v e le n o ; n o n re s is to p iù » . P a s i f u im p ic c a to d a lle S S d e l te n e n t e G e o r g K a rl, a s s ie m e a d a ltr i n o ­ v e p a r tig ia n i, n e l B o s c o d e lle C a s ta g n e , s o p r a B e llu n o , il 1 0 m a r z o 1 9 4 5 . P o ic h é n o n s i re g g e v a in p ie d i a c a u s a d e lle s e v iz ie s u b ite , il v a lo r o s o m e ­

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Trento e provincia

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d ic o r a v e n n a te , c h e e r a s ta to t r a i p r im i a n im a to r i d e lla R e s is te n z a t r e n t i ­ n a , f u t r a s p o r t a t o d a i s u o i c a r n e f i c i s u l l u o g o d e l l ’i m p i c c a g i o n e s d r a i a t o s o ­ p r a u n a s c a la a p io li. N e i g i o r n i d e l l a l i b e r a z i o n e d e l T r e n t i n o , p e r c o r s o d a m i g l ia i a d i t e d e ­ sc h i in fu g a , s c o n tri e d e c c id i c o n tin u a r o n o a n c o ra p e r p iù d i u n a s e ttim a ­ n a p a r tic o la rm e n te n e i c o m u n i d i Z ia n o , C a s te llo M o lin a e S tra m e n tiz z o . Il i ° m a g g io u n r e p a r to d i S S f u c ilò a C a s te llo A m e r ig o S c e b e r e i g io ­ v a n i o p e r a i V itto r io B e tta e C ir o C o r r a d in i. I l 2 m a g g io a ltr i te d e s c h i i n ­ f e r o c iti d a lla s c o n f itta in c e n d ia v a n o il p a e s e d i Z ia n o , u c c id e v a n o in u n o s c o n t r o a f u o c o il p a r t i g i a n o R a f f a e le V a n z e t t a e t r u c i d a v a n o n o v e c iv ili i n ­ n o c e n ti. I l 5 m a g g io la v io le n z a n a z is ta si s c a te n ò c o n u c c is io n i e d e v a s ta ­ z io n i a S tr a m e n tiz z o e n e l v ic in o v illa g g io d i M o lin a . I n q u e i g io rn i d i in c e n d i e d i s tra g i, n e i lu o g h i in d ic a ti c a d d e r o c o m ­ p le s s iv a m e n te q u a r a n ta n o v e c itta d in e e c itta d in i, o ltr e a tr e n t a t r e in s o r ti e p a r t i g i a n i , t r a i q u a l i il l o r o c o m a n d a n t e S ilv a n o R e lla . A n c h e a R i v a d e l G a r d a l a l i b e r a z i o n e f u c r u e n t a . I p a r t i g i a n i d e l l ’I m p e r a im p e g n a ro n o in c o m b a ttim e n ti sa n g u in o s i te d e s c h i e fa s c is ti d i u n a c o ­ l o n n a g u i d a t a d a l l ’e x s e g r e t a r i o d e l P a r t i t o n a z i o n a l e f a s c i s t a ( P n f ) C a r l o V id u s s o n i. C a d d e r o in q u e g li u ltim i c o m b a ttim e n ti i p a r tig ia n i G iu lio P e d e r z o lli, A n d r e a B e r l a n d a , V i t t o r i o D u s a t t i e g li o p e r a i d e lla F i a t - J u n k e r C e s a re M a ff io d o e A lv a ro B e lle tta ti, c h e e r a n o s ta ti m o b ilita ti n e lle o f fic i­ n e b e llic h e a lle s tite d a l r u k (R iis tu n g u n d K rie g s p r o d u k tio n ) d e l g e n e ra le H a n s L e y e rs n e lle g a lle rie d e lla G a r d e s a n a o c c id e n ta le , f r a R iv a e L im o n e . N e m m e n o T r e n t o s f u g g ì a lla r a b b i a te d e s c a . I l 2 m a g g io c a d d e r o g li i n ­ s o r ti U g o M a c c a n i, L u c ia n o L u c c h i e A lfre d o C o n t. S c o n tr i a fu o c o a n c h e il g io r n o s e g u e n te e n e l m a ttin o d e l 4 m a g g io , q u a n d o f in a lm e n te a r r iv a r o ­ n o in c ittà i p r im i c a r r i a r m a ti a m e ric a n i. N e lla p r im a s e ttim a n a d i m a g g io si c o n c lu d e v a c o s ì, n e l c a p o lu o g o e n e l ­ le v a l l a t e d e l T r e n t i n o , il m o v i m e n t o r e s i s t e n z i a l e . E d o v e r o s o s o tto lin e a r e la p a r te c ip a z io n e e il c o n tr ib u to d e lle m is s io n i m ilita ri ita lo -a lle a te : N o r m a , o p e r a n te d a lla z o n a d i B ra ie s ; I m p e r a tiv e , o p e ­ r a n t e p r im a in V a l d i F ie m m e , p o i a B o lz a n o ; V ita l, c h e tr a s m is e a lla s u a b a s e , n e l S u d , c e n tin a ia d i m e s s a g g i d a u n a c a v e r n a s ita a lle p e n d ic i d e l g r u p p o d e l B r e n t a ( p e r l a c u i s a l v e z z a d a u n p o s s i b i l e raid d e l n e m i c o i l g i o ­ v a n e m ila n e s e d i o r ig in e tr e n t i n a , S e rg io B ro s o , m o r ì a M a u th a u s e n ) .

Per una valutazione della Resistenza in Trentino.

U n a v a lu ta z io n e c o n ­

c lu s iv a d e lla R e s is te n z a t r e n t i n a d e v e e s s e re c o n te s tu a liz z a ta n e l q u a d r o d e l l ’A l p e n v o r l a n d . I n p r o v i n c i a d i B e l l u n o , d o v e l a l o t t a a r m a t a p e r l ’i n d i p e n d e n z a e l ’u n i t à d e lla n a z io n e e r a c o m in c ia ta d a l 1 8 4 8 e la c u i c o n tig u ità c o l V e n e to in t e ­ ra g iv a m o le c o la rm e n te n e lla d if fu s io n e d e lla “r ib e llio n e ” - c h e d iv e r rà p r o ­ g r e s s i v a m e n t e g u e r r a n a z i o n a l e d i l i b e r a z i o n e - , l ’A l p e n v o r l a n d e b b e i l s u o a s s e n e l l ’o c c u p a z i o n e p r o c l a m a t a , p o i n e l t e r r o r e p r a t i c a t o s u l a r g a s c a l a . I l c h e n o n e s c lu s e la r ic e rc a d i c o lla b o ra z io n is m i. L e p e c u lia r ità s to r ic h e , e t ­

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Parte seconda

n i c h e , l i n g u i s t i c h e d e l l ’A l t o A d i g e - c o n i l s o v r a p p i ù d e l l e m a l e f a t t e d e l v e n te n n io - f o r n ir o n o in v e c e c o n s is te n ti r is c o n tr i a lla p o litic a d i F r a n z H o ­ f e r v o l t a a e s p a n d e r e c o n s e n s o (il c h e o v v i a m e n t e n o n e s c lu s e il r i c o r s o a l­ la v io le n z a s u g li o p p o s ito r i) . [ B e llu n o * ; B o lz a n o e A lto A d ig e * ] . A T r e n t o l ’i n d i r i z z o p o l i t i c o d e l G a u l e i t e r c o m b i n ò , c o n c i n i c a a c c o r ­ t e z z a , l a r i c e r c a d e l l ’a d e s i o n e - o a l m e n o d e l l ’a c q u i e s c e n z a p o p o l a r e - c o n la m e to d ic a re p re s s io n e d i o g n i s c in tilla , a n c h e p o te n z ia le , d i r ib e llio n e . C a ra tte ris tic h e d e l p rim o v e rs a n te fu ro n o : n e s su n a in te rd ip e n d e n z a c o n S a l ò ; i m p i e g o n e l l ’a m m i n i s t r a z i o n e d i p e r s o n a l e p e r q u a n t o p o s s i b i l e d i ­ v e rs o d a l v e c c h io a p p a r a to d e l re g im e ; s tim o la z io n e c u ltu ra le e p r a tic a d i r e m i n e s c e n z e e n o s t a l g i e d e l l ’o r d i n e d e l l ’i m p e r o d a r e s t a u r a r e c o n t r o i l m a l ­ g o v e r n o i t a l i a n o ( d o p o l ’i r r e d e n t i s m o d e i s u o i v o l o n t a r i e d e i s u o i m a r t i r i , il T r e n t i n o a v e v a c o n o s c iu to la n a z io n e in c u i e r a e n t r a t o n e l 1 9 1 8 e f in o a l 1 9 4 3 s o lo a ttr a v e r s o la r a p p r e s e n ta z io n e c i a b a t t o n a e n e l c o n te m p o b u r o c ra tic o -c e n tr a lis tic a d e l re g im e ). S u l v e r s a n t e d e lla r e p r e s s io n e o c c o r r e r i f l e t t e r e s u lle o g g e ttiv e s p e c if i­ c ità r is u lta n ti, c i s e m b ra , d a lla n o s tr a e s p o s iz io n e : p e r e s e m p io s u llo s te r ­ m in io d i u n d ic i r e s is te n ti t r a R o v e r e to e R iv a il 2 8 g iu g n o , f u lm in a ti o g n u ­ n o n e lla r is p e ttiv a a b ita z io n e o s tu d io p r o fe s s io n a le c o n la r in u n c ia p e r fin o a l l ’i n t e r r o g a t o r i o ( o l t r e c h e a l l e c o n s u e t e e s i b i z i o n i d e i c a d a v e r i s u s c e t t i b i ­ li d i ris v e g lia re la c o m m o z io n e p o p o la re ) o a l sim u la c ro d i le g a lità a r c h ite t­ ta to c o n p ro c e s s i a p e n e d if fe r e n z ia te . T e rr o r is m o “ m ir a to ” in s o m m a : so ­ l o s u l p e r i m e t r o d i c o n f i n e d e l l a p r o v i n c i a l a v i o l e n z a e l ’e s a z i o n e v e n n e r o e s e r c ita te n e lle fo rm e u s u a li (p e r e v id e n ti r a g io n i p r o fila ttic h e ) . E , d a to f o n ­ d a m e n ta le , il c o n tr o llo te d e s c o su l te r r i t o r i o t r e n t i n o f u a r e t e f ittis s im a , a s fis s ia n te , p a r i a l rilie v o s tr a te g ic o d e lla p r o v in c ia , c h ia v e d e lla p r in c ip a le v ia d i c o m u n ic a z io n e t r a la G e r m a n ia e H f r o n te ita lia n o e d e lle s u e lin e e d ’a r r o c c a m e n t o ( V a l s u g a n a e V a l d i N o n s o p r a t t u t t o ) . , C o s i la R e s is te n z a t r e n t i n a v a v a lu ta ta p e r il v a lo r e m o ra le e c iv ile d e l­ l a p a s s i o n e e d e l l ’i m p e g n o d i q u a n t i l a s o s t e n n e r o - r a g a z z e , c i t t a d i n i , s a ­ c e r d o ti - t r a d if fic o ltà q u a lita tiv a m e n te e s tre m e . D ’a l t r a p a r t e l a p r o v i n c i a d i T r e n t o c o m i n c i ò a p a g a r e , d a l l ’8 s e t t e m b r e 1 9 4 3 , il d u r o p r e z z o a l n a z if a s c is m o a n c h e a l d i f u o r i d e l p r o p r io te r r ito r io . T r e n t a q u a tt r o s u o i c itta d in i, m ilita ri, c a d d e r o n e i c o m b a ttim e n ti e n e lla s tra g e d e lla d iv is io n e A c q u i a C e fa lo n ia e C o r f u , q u a ttr o in A lb a n ia a K u c y , d u e in G re c ia , d u e in C o rs ic a , u n o in B o s n ia , q u a ttr o in F ra n c ia e t r e n t a ­ n o v e in v a rie lo c a lità ita lia n e . I tr e n tin i d e p o r ta ti n e i la g e r te d e s c h i f u ro n o c irc a d ie c im ila (n e lla g r a n d e m a g g io ra n z a m ilita ri) e d i e s si o tto c e n to so c ­ c o m b e t t e r o d u r a n t e l a p r i g i o n i a . A l c u n i t r e n t i n i r i s a l i r o n o l ’I t a l i a n e l l e f i ­ le d e l C o r p o ita lia n o d i lib e ra z io n e ; a ltr i c o m b a tte r o n o n e i r e p a r ti c h e d o ­ p o l ’a r m i s t i z i o s i u n i r o n o a l l e f o r z e p a r t i g i a n e i n z o n a b a l c a n i c a : v a l g a p e r t u t t i l ’e s e m p i o d e l s o t t o t e n e n t e d e l l a d i v i s i o n e a l p i n a T a u r i n e n s e P a o l o G r a f f e r - fra te llo d e l g r a n d e s c a la to re d o lo m itic o G io r g io , c a p ita n o d i a v ia ­ z io n e c a d u to in c o m b a ttim e n to a e r e o il 2 0 n o v e m b r e 1 9 4 0 n e l c ie lo d i S a n ­ t i Q u a r a n t a - c h e f u u f f i c i a l e d e l l a d i v i s i o n e G a r i b a l d i d e l l ’e s e r c i t o i t a l i a ­

Jouvet

Trento e provincia

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n o c o m b a t t e n t e i n M o n t e n e g r o , D a l m a z i a , B o s n i a - E r z e g o v i n a c o n l ’e s e r ­ c ito d i lib e r a z io n e iu g o s la v o f in o a lla p r im a v e r a d e l 1 9 4 5 .

Nota bibliografica. A A .W ., Tedeschi, partigiani, popolazioni nell’Alpenvorland, M arsilio, Venezia 1984; A A .W ., Option Heimatopzioni, Tiroler G eschichtsverein, Bolzano 1989; P. Agostini, Tren­ tino, provìncia del Reich, Temi, Trento 1975; U. Corsini, La politica tedesca nell' Alpenvorland e l ’atteggiamento delle popolazioni nelle tre province di Bolzano, Trento, Belluno, Trento 1978; R. D e Felice, Il problema dell’A lto Adige nei rapporti italo-tedeschi dall’Anschluss alla fine del­ la seconda guerra mondiale, Il M ulino, Bologna 1973; A. Radice, La Resistenza nel Trentino. 1943-1945, M anfrini, Rovereto i9 6 0 ; K. Stuhlpfarrer, Le zone d ’operazione Prealpi e Lito­ rale Adriatico. 1943-1945 (1969), Libreria Adami, Gorizia 1979; F. Vendramini (a cura di), Aspetti militari della resistenza bellunese e veneta. Tra ricerca e testimonianza, Quaderno di «Pro­ tagonisti», n. 5 (1991); C. Villani, Ebrei fra leggi razziste e deportazioni nelle provincie di Bolza­ no, Trento e Belluno, Società Studi Trentini, Trento 1996; G. Zangrandi, Igiorni veri. 1943-45, Mondadori, Milano 1963; A. Zieger, I600 giorni dell’Alpenvorland, in «Il Popolo Trentino», gennaio-febbraio 1948. Si segnala che presso il M useo del Risorgimento di Trento sono conservati gli appunti relativi al programma del M ovim ento socialista trentino del febbraio 1944, redatto da'Manci, Ferrandi, Pincheri e Bacchi (consegnati dai familiari di quest’ultimo al direttore del M u­ seo). Il M anifesto giunse anche in Svizzera dove venne pubblicamente diffuso.

GALLIANO FOGAR L ito r a le A d ria tic o

L ’invasione della Iugoslavia e la guerrìglia autoctona.

N el

19 4 0

le p r o ­

v i n c e d i G o r i z i a , T r i e s t e , d e l l ’I s t r i a ( P o l a ) e d e l C a r n a r o ( F i u m e ) c o n t a v a n o a s s ie m e a lla p r o v in c ia d i U d in e p iù d i 1 6 0 0 0 0 0 a b ita n ti p r e s e n ti d i c u i o l­ t r e 4 3 0 0 0 0 s l o v e n i e c r o a t i . M a d o p o i l 1 9 18 e l ’a v v e n t o d e l f a s c i s m o , c ’e r a s ta ta u n a f o r te e m ig ra z io n e s lo v e n a e c r o a ta d i d e c in e d i m ig lia ia d i p e r s o ­ n e . D u r a n t e l ’o c c u p a z i o n e t e d e s c a ( 1 9 4 3 - 4 5 ) l a V e n e z i a G i u l i a , a s s i e m e a l ­ la p r o v in c ia d i U d in e , d iv e n n e u n a c e r n ie r a lo g is tic o -s tra te g ic a f r a la G e r ­ m a n i a m e r i d i o n a l e ( O s t m a r k , g i à r e p u b b l i c a d ’A u s t r i a ) , i l f r o n t e s u d i t a ­ lia n o e q u e llo d a n u b ia n o - b a lc a n ic o . Il te r r ito r io d e lla V e n e z ia G iu lia e d e l F riu li (v e c c h i c o n fin i) è n e lla s u a p a r t e s e t te n t r i o n a l e f o r t e m e n t e m o n tu o s o c o n le c a te n e d e lle A lp i e P r e a l­ p i C a r n ic h e e d e lle A lp i e P re a lp i G iu lie . L e G iu lie , d a l c o rs o d e l fiu m e F e l­ la , p ie g a n o a s u d s c e n d e n d o s o t t o i m ille m e tr i c o n s t r u t t u r e s e lv o s e e c a r ­ s i c h e c h e f u r o n o , a s s i e m e a l l ’a r e a c a r n i c a , t e a t r i d e l l a g u e r r a p a r t i g i a n a : l a S e l v a d i T a r n o v a , l ’a l t o p i a n o d e l l a B a i n s i z z a , i C a r s i g o r i z i a n o e t r i e s t i n o , r o c c i o s i e r i c c h i d i v o r a g i n i ( f o i b e ) . A s u d d e l l a c a t e n a c a r n i c a c ’è l a v a s t a p ia n u r a f riu la n a p e r c o r s a d a l T a g lia m e n to c h e è il f iu m e p r in c ip a le ; p i a n u ­ r a c h e s i e s t e n d e f i n o a l l ’I s o n z o . T a g l i a m e n t o e I s o n z o s f o c i a n o n e l l ’A l t o A d r i a t i c o . N e l l ’I s t r i a l e a r e e c a r s i c h e s i a l t e r n a n o a u n p a e s a g g i o c o l l i n a r e e a t e r r e n i a rg illo s i r ic o p e r ti d i v e g e ta z io n e . N e l 1 9 4 0 l ’i n d u s t r i a d e l l a r e g i o n e g i u l i a e f r i u l a n a a v e v a i s u o i c e n t r i p r in c ip a li a T r ie s te ( 2 5 2 2 4 9 a b ita n ti) c o n la n a v a lm e c c a n ic a , s id e ru rg ic a , p e tr o lc h im ic a , a r m a to ria le , a s s ic u ra tiv a ; a M o n f a lc o n e (1 8 2 0 2 a b ita n ti) c o n la n a v a lm e c c a n ic a e la c h im ic a (s o d a c a u s tic a ); a M u g g ia ( 1 2 0 2 8 a b ita n ti) c o n la n a v a lm e c c a n ic a . A F iu m e (5 6 2 4 9 p r e s e n ti) , o ltr e a u n s ilu r ific io m i­ l i t a r e e i l c a n t i e r e n a v a l e c ’e r a u n a r a f f i n e r i a d i o l i m i n e r a l i . I n F r i u l i , c o l s u o c a p o l u o g o U d i n e ( 6 3 0 8 9 a b i t a n t i ) , l ’i n d u s t r i a t e s s i l e e r a d i s l o c a t a n e i p re s s i d i P o rd e n o n e (2 2 5 0 5 a b ita n ti) e a G o r iz ia ( 4 6 6 4 0 ). G li in s e d ia m e n ­ t i p r i n c i p a l i d e l l ’i n d u s t r i a e s t r a t t i v a s i t r o v a v a n o a I d r i a ( a s i n i s t r a d e l l ’A l ­ to Is o n z o ) c o n la m in ie r a d i m e r c u rio , a P re d il- R a ib l p re s s o T a rv is io in p r o ­ v i n c i a d i U d i n e ( z i n c o e p i o m b o ) e i n I s t r i a c o n i l b a c i n o c a r b o n i f e r o d e l l ’A r ­ s a , d o v e i l 2 8 f e b b r a i o 1 9 4 0 , a p o c o p i ù d i t r e m e s i d a l l ’e n t r a t a i n g u e r r a d e l l ’I t a l i a , u n o s c o p p i o d i g a s c a u s ò 1 8 5 m o r t i e 1 4 9 f e r i t i t r a i m i n a t o r i i t a ­ lia n i (a n c h e d i a ltr e p ro v in c e d e l re g n o ), s lo v e n i e c ro a ti. U n a tra g e d ia a n ­

Fogar

Litorale Adriatico

583

n u n c i a t a d a i t r e d i c i m o r t i d e l 1 9 3 7 e d a i n o v e d e l 1 9 3 9 . L ’i n c h i e s t a s u l l e g ra v i re s p o n s a b ilità d ire z io n a li, c h e c o in v o lg e v a a n c h e d u e a lti g e ra rc h i f a ­ s c i s t i , f u p r a t i c a m e n t e i n s a b b i a t a . I n F r i u l i p r e v a l e v a l ’e c o n o m i a a g r i c o l a , c o n n o te v o li p o te n z ia lità c e re a lic o le e v in ic o le m a c o n f o r ti s q u ilib r i so c ia ­ li e c o n t r a t t u a l i f r a g r a n d e p r o p r i e t à , m e z z a d r ia e a f f i t t u a r i , a g g r a v a ta d a l­ la c risi d e i p r im i a n n i t r e n t a e d a lla p o litic a d e l re g im e c h e s a n z io n ò la r i ­ v i n c i t a d e lla r e n d i t a p a r a s s i t a r l a m e n t r e il b r a c c i a n t a t o r im a s e i n d if e s o . A n ­ c h e i n I s t r i a l ’a g r i c o l t u r a e r a p r e d o m i n a n t e m a a v e v a s p e s s o c a r a t t e r i d i a u t o s u s s i s t e n z a . I n o l t r e l ’a g r i c o l t u r a i s t r i a n a e r a a f f l i t t a d a m a l i a n t i c h i e r e c e n t i p e r l a s c a r s i t à d ’a c q u a , l a p e r d i t a d i m e r c a t i d o p o i l 1 9 1 8 , i l t a ­ g lie g g ia m e n to fis c a le a n c h e p e r r a g io n i p o litic h e , c o n p ig n o r a m e n ti e s e ­ q u e s t r i e l ’i n s e d i a m e n t o d i c o l o n i i t a l i a n i s u i t e r r e n i c o n f i s c a t i a g l i s l a v i o b o n ific a ti. L ’i n v a s i o n e d e l l a I u g o s l a v i a d e l 6 a p r i l e 1 9 4 1 d a p a r t e i t a l o - t e d e s c a , e i l s u o s m e m b r a m e n to , e b b e r o e f f e tt i p r o f o n d i su lle p o p o la z io n i s lo v e n e e c r o a ­ te d e lla V e n e z ia G iu lia . L e in g e n ti a n n e s s io n i ita lia n e in Iu g o s la v ia p o r t a ­ r o n o a lla c r e a z io n e d e lla p r o v i n c i a “ i t a l i a n a ” d i L u b ia n a (4 5 4 4 k m 2 e 3 3 9 7 5 1 a b i t a n t i d i c u i 9 1 6 1 2 n e l c a p o l u o g o ) , a l l ’i n c o r p o r a z i o n e d i q u a s i t u t t o i l l i ­ to r a le d a lm a tic o c o n la c o s titu z io n e d e lle n u o v e p r o v in c e d i S p a la to e C a tt a r o e l ’i n g r a n d i m e n t o d i q u e l l e d i Z a r a e d i F i u m e , p e r c o m p l e s s i v i 1 1 1 7 8 k m 2 e c irc a 8 0 0 0 0 0 a b ita n ti (o ltre a l M o n te n e g ro ) . M a q u e s te a n n e s s io n i u n ir o n o a u to m a tic a m e n te « il d e s tin o d e lle t e r r e s la v e d e lla V e n e z ia G iu lia a q u e llo d e lla S lo v e n ia e C ro a z ia » [A p ih 1 9 6 6 ]. G i à n e l l ’e s t a t e d e l 1 9 4 1 s o r s e r o n e l l a r e g i o n e i p r i m i n u c l e i p a r t i g i a n i s l o v e n i c h e s i c o l l e g a r o n o c o l m o v i m e n t o p a r t i g i a n o d ’o l t r e c o n f i n e e i l s u o F r o n te d i lib e r a z io n e ( O s v o b o d iln a F r o n t a - O f , in o rig in e F r o n te a n tim ­ p e r i a l i s t a ) , c r e a t o a L u b i a n a n e l g i u g n o 1 9 4 1 . L ’O f f u p r o m o s s o d a l P a r t i ­ to c o m u n is ta s lo v e n o (P c s) c h e a s s u n s e la g u id a p o litic a e m ilita re d e lla lo t ­ t a p e r l ’u n i t à e l ’i n d i p e n d e n z a d i t u t t i g l i s l o v e n i n e l q u a d r o d e l l ’e s e r c i t o p a r tig ia n o iu g o s la v o d ir e tto d a T ito . A l tr e tta n to f e c e ro i c o m u n is ti c ro a ti. L a g u e r rig lia « a l d i q u a d e lle A lp i» s a ld ò a n c h e m ilita r m e n te la V e n e z ia G iu lia al te a tr o d a n u b ia n o -b a lc a n ic o d o v e la I I a rm a ta ita lia n a e ra d u r a ­ m e n te im p e g n a ta d a i p a r tig ia n i iu g o s la v i. L a r e p r e s s io n e p o liz ie s c a , g iu d i­ z ia r ia e m ilita re n e lla V e n e z ia G iu lia e n e i t e r r ito r i a n n e s s i si fe c e s e m p re p iù d u ra . N e l d ic e m b re 1 9 4 1 fu ro n o fu c ila ti a T rie s te su c o n d a n n a d e l T r i­ b u n a l e s p e c i a l e l ’i n t e l l e t t u a l e c o m u n i s t a s l o v e n o P i n o T o m a z i c e a l t r i s u o i q u a ttr o c o m p a g n i. A u n a c in q u a n tin a d i im p u ta ti, in g r a n p a r te s lo v e n i e in m a g g io ra n z a d i e s tra z io n e p o litic a n a z io n a lis ta , f u ro n o c o m m in a ti 6 6 6 a n n i d i c a rc e re , m e n tr e a s e g u ito d e lle t o r tu r e s u b ite a ltr i t r e m o r ir o n o in c arcere. A s e g u ito d e g li o r d in i d r a c o n ia n i d i M u s s o lin i a i c a p i m ilita ri a G o r iz ia a lla f in e d i lu g lio d e l 1 9 4 2 , c i f u r o n o n e lla r e g io n e e o ltr e c o n f in e d e p o r ta ­ z io n i d i m a s s a d i m ig lia ia d i c iv ili, c o m p r e s i v e c c h i, d o n n e e b a m b in i, d i­ s t r u z i o n i d i v illa g g i e d e s e c u z io n i. N e l lu g lio '4 2 , n e l r e t r o t e r r a d e lla p r o ­ v in c ia d i F iu m e f u r o n o f u c ila ti n o v a n tu n o c iv ili e d e p o r t a t i o t t o c e n t o n e l

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Parte seconda

v illa g g io d i P o d h u m c h e f u d i s t r u t t o . N e llo s te s s o p e r io d o f u r o n o u c c is i d e ­ c in e d i a b ita n ti d i s e tte v illa g g i s lo v e n i b r u c ia ti n e l r e t r o t e r r a tr ie s tin o m e n ­ t r e v a la n g h e d i a r r e s t i c o l p ir o n o a n t i f a s c i s t i i t a l i a n i e s la v i. L ’a r e a g i u l i a n a e f r i u l a n a t r a i l 1 9 4 1 e i l 1 9 4 5 f u u n o d e i p i ù a s p r i t e a ­ t r i d e lla g u e r r a p a r tig ia n a i n I ta lia c h e q u i e b b e , o ltr e a lla p r e c o c ità d e l s u o s v ilu p p o , u n c a r a tte r e p lu r in a z io n a le ( ita lia n i, s lo v e n i, c r o a ti) e a r tic o la z io n i p o litic h e , id e o lo g ic h e e m ilita r i d iv e r s if ic a te . U n a r e a ltà c h e p r o d u s s e f o r ­ t i te n s io n i t r a il m o v im e n to ita lia n o e q u e llo s la v o , m e d ia te f a tic o s a m e n te d a a c c o r d i p o l i t i c i e m ilit a r i f r a il P a r t i t o c o m u n i s t a i t a l i a n o (P e i) e q u e llo s l o v e n o ( P c s ) , f r a i l C o m i t a t o d i l i b e r a z i o n e A l t a I t a l i a ( C l n a i ) e l ’O f . S i a l ’O f c h e i l g o v e r n o p a r t i g i a n o c r o a t o ( Z a v n o h ) r i v e n d i c a v a n o l ’a n n e s s i o n e a lla Iu g o s la v ia s o c ia lis ta d e lla V e n e z ia G iu lia e d i u n a p a r t e c o s p ic u a d e l F riu li o rie n ta le . T u tta v ia q u e s ti a c c o rd i, p e r q u a n to te m p o r a n e i e p a rz ia li, c o n c o rs e ro a e v ita r e u n a r o t tu r a d r a m m a tic a d e l c o m p o s ito f r o n te p a r ti­ g ia n o d u r a n te la lo tta . A lla g u e rrig lia a u to c to n a s lo v e n a n e lle p r o v in c e d i T r ie s te e G o r iz ia s e ­ g u ì p i ù t a r d i q u e l l a c r o a t a i n I s t r i a . A lla f i n e d e l '4 2 u n n u c l e o a r m a t o c r o a ­ to riu s c ì a d is lo c a rs i su l M o n te M a g g io re m e n tr e il P a r tito c o m u n is ta c r o a to c r e ò i n I s t r i a d iv e r s i C o m i t a t i p o p o la r i d i lib e r a z io n e (C p l). N e lle p r o v i n ­ c e d i G o r i z i a e T r i e s t e f r a i l '4 1 e i l '4 3 e n t r a r o n o i n a z i o n e b a t t a g l i o n i s l o ­ v e n i d a c i n q u a n t a a c e n t o e p i ù u o m i n i e d i s t a c c a m e n t i ( odred). Q u e s t e f o r ­ z e d ie d e r o v ita , a s s ie m e a u n i t à g iu n te d a o ltr e c o n f in e , a lle b r i g a t e S im o n G r e g o r c i c e I v a n G r a d n i k . L e b r i g a t e e r a n o l ’a r t i c o l a z i o n e m o b i l e d i b a s e d e l l ’e s e r c i t o p a r t i g i a n o i u g o s l a v o . U n i t à s l o v e n e f e c e r o a n c h e u n a p u n t a t a n e lla S la v ia v e n e t a ( B e n e c ija : v a lli d e l N a t i s o n e e T o r r e , R e s ia , i n p r o v i n ­ c ia d i U d in e ) m a la r e a z io n e ita lia n a le c o s tr in s e a r ip ie g a r e , c o n p e r d ite , o l­ t r e il v e c c h io c o n f in e .

La costituzione delLitorale Adriatico.

D o p o l ’a r m i s t i z i o d e l l ’8 s e t t e m b r e

’4 3 e i l c o l l a s s o m i l i t a r e i t a l i a n o n e l l a r e g i o n e , a n c h e s e c o n t r a s s e g n a t o d a te n a c i re s is te n z e d i v a r i r e p a r ti a i te d e s c h i d e lla 7 1 “ d iv is io n e d i fa n te ria - g ià d a t e m p o p a d r o n i d e i p r in c ip a li n o d i lo g is tic i f in o a lle s o g lie d i T r i e ­ s te - , la V e n e z ia G iu lia e il F r iu li f u r o n o s e p a ra ti d a l r e s to d e llT ta lia o c ­ c u p a t a . I n b a s e a l l ’o r d i n a n z a d i H i t l e r d e l 1 0 s e t t e m b r e '4 3 s u l l a s i s t e m a ­ z i o n e d e i t e r r i t o r i o c c u p a t i , l a r e g i o n e , a s s i e m e a l l ’e x p r o v i n c i a “ i t a l i a n a ” d i L u b ia n a , f u c o s titu ita in Q p e r a tio n s z o n e A d ria tis c h e s K u s te n la n d (Z o n a d ’o p e r a z i o n e L i t o r a l e A d r i a t i c o ) e a f f i d a t a a l g o v e r n o d e l G a u l e i t e r d e l l a C a rin z ia F rie d ric h R a in e r, c o n p o te r i a s s o lu ti in t u t t i i c a m p i d e lla v ita p o ­ litic a , so c ia le , e c o n o m ic a e d e lla g iu r is d iz io n e . A c a p o d e lle S S e p o liz ia d e l L ito ra le f u n o m in a to d a H im m le r il g e n e ra le S S O d ilo L o ta rio G lo b o c n ik (n a to a T r ie s te n e l 1 9 0 4 ), a m ic o d i R a in e r e p r o v e n ie n te d a lla P o lo n ia d o ­ v e a v e v a o r g a n iz z a to il m a s s a c r o d i d u e m ilio n i d i e b r e i. I n q u e l 1 0 o t t o b r e '4 3 , d a t a u f f ic ia le d i c o s t i t u z i o n e d e l L it o r a l e , e r a g ià i n c o r s o la c o n t r o f f e n s iv a te d e s c a p e r o c c u p a r e il r e t r o t e r r a d e lle p r o v in c e d i G o r i z i a e T r i e s t e e l ’I s t r i a d o v e , s u b i t o d o p o l ’a r m i s t i z i o , a l d i s s o l t o p o t e r e

Fogar

Litorale Adriatico

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ita lia n o e r a s u b e n tr a to il c o n tr o p o te r e p a r tig ia n o s lo v e n o e c r o a to s o s te n u ­ to d a u n m o to in s u rre z io n a le p o p o la re . I d irig e n ti d e l m o v im e n to p ro c la ­ m a r o n o l ’a n n e s s i o n e d e l L i t o r a l e s l o v e n o ( p r o v i n c i a d i G o r i z i a e T r i e s t e ) e c r o a to ( p r o v in c ia d i P o la e F iu m e ) a lla S lo v e n ia e C r o a z ia . N e l c o r s o d e l s e t ­ t e m b r e '4 3 f u r o n o u c c i s i i n I s t r i a , s p e c i e d a p a r t e c r o a t a , a l m e n o c i n q u e ­ c e n t o p e r s o n e , i n m a g g io r a n z a i t a l i a n i m a a n c h e s la v i i c u i c o r p i f i n ir o n o n e l ­ le fo ib e . F u u n a g iu s tiz ia s o m m a ria - s e m b ra c o n tr o le d ir e ttiv e im p a r tite in n e s c a ta d a lle s o f f e re n z e e p e r s e c u z io n i p a t i t e s o tto il r e g im e f a s c is ta m a a n c h e d a v e n d e t t e p e r r a n c o r i e c o n t r a s t i p a e s a n i e d a l l ’i n t e r v e n t o , i n q u e l c o n f u s o c lim a in s u r r e z io n a le , d i e le m e n ti c rim in a li. L e p o p o la z io n i slo v e n e e c r o a te , in v e c e , a iu ta r o n o i n t u t t i i m o d i le m ig lia ia d i s o ld a ti ita lia n i s b a n ­ d a t i c h e , p r o v e n ie n ti d a lla B a lc a n ia , c e r c a v a n o d i r a g g iu n g e re le lo r o c a s e . L e u n ità te d e s c h e a tta c c a n ti (o ltre q u a r a n ta m ila u o m in i) d e l g r u p p o a r ­ m a te B d i R o m m e l (N o rd Ita lia ), d o p o c irc a tr e s e ttim a n e d i s c o n tri, d i­ s g re g a r o n o le f o r m a z io n i in s u r r e z io n a li e p a r t e d e lle s te s s e b r ig a te s lo v e n e i n c o rs o d i r io r g a n iz z a z io n e ( G re g o r c ic , K o s o v e l, P re m l-V o jk o ). L a s te s s a s o r te to c c ò a lla b r ig a ta P r o le ta r ia ita lia n a d i s e tte - o tto c e n to o p e r a i d e l C a n ­ t i e r e n a v a l e d i M o n f a l c o n e c h e e b b e u n c e n t i n a i o d i c a d u t i . N e l l ’i n s i e m e p a r tig ia n i e in s o r ti e r a n o f r a i d ie c i e i q u in d ic im ila c o m b a tte n ti. P o i g l i a t t a c c h i p r o s e g u i r o n o i n I s t r i a e n e l l a z o n a cji F i u m e d o v e i n s o r t i e u n i t à c r o a t e (I e I I b r i g a t a i s tr ia n a ) e i ta li a n e c o m e la b r i g a t a T r i e s t e d i G . Z o l ( s e i- s e tte c e n to u o m in i) , l a c o m p a g n ia d i R o v ig n o , la f o r m a z io n e ita lo -s lo v e n a - c r o a t a d e i m i n a t o r i d e l l ’A r s a , i l b a t t a g l i o n e V o l o n t a r i F i u m a n i , i l b a t ­ ta g lio n e G a r ib a ld i (c in q u e -s e ic e n to ) - f o r m a to t u t t o d a m ilita ri - , v e n n e r o d e c i m a t i d a l l a s t r a p o t e n z a n e m i c a . L ’I s t r i a f u m e s s a a f e r r o e f u o c o d a i t e d e ­ s c h i c o n b o m b a r d a m e n t i a e r e i e r a p p r e s a g lie f e r o c i su lle p o p o la z io n i.

L ’azione armata e le «zone lìbere».

L a re s is te n z a ita lia n a c h e s u b ito d o ­

p o l ’8 s e t t e m b r e a v e v a f o r m a t o i C l n a U d i n e , P o r d e n o n e e i n a l t r i c e n t r i f r i u l a n i , a G o r i z i a , T r i e s t e , M u g g i a e n e l l ’I s t r i a n o r d o c c i d e n t a l e , r i c o s t i t u ì l e s u e f o r z e n e i p r i m i m e s i d e l '4 4 . S u i n i z i a t i v a d e l P e i r i s o r s e l a b r i g a t a G a r i b a l d i F r i u l i f o r m a t a s i n e l l ’o t t o b r e '4 3 n e l l e P r e a l p i G i u l i e a s s i e m e a l g r u p p o d i G i u s t i z i a e l i b e r t à ( G l ) d e l P a r t i t o d ’a z i o n e ( P d a ) e c h e e r a e n ­ t r a t a i n c r i s i p e r l ’o f f e n s i v a n e m i c a . N e i m e s i s u c c e s s i v i l a b r i g a t a s i s t r u t ­ tu r ò n e lla d iv is io n e G a r ib a ld i F r iu li su c in q u e b r ig a te n e lle A lp i e P re a lp i C a rn ic h e m e n tr e n e lle P re a lp i G iu lie si f o rm ò la d iv is io n e G a r ib a ld i N a tis o n e s u d u e b r ig a te : c o m p le s s iv a m e n te f r a i s e t te e g li o tto m ila u o m in i, c o n u n n o te v o le a u m e n to (fra i d ie c i e i q u in d ic im ila , c o m p r e s e le O s o p p o ), n e l c o r s o d e l l ’e s t a t e d e l ' 4 4 . D a l l a f i n e d i m a r z o d e l ' 4 4 c o m i n c i ò a o p e r a r e i n F riu li la b r ig a ta O s o p p o f o n d a ta d a lla D e e d a l P d a . L a O s o p p o , a p p o g g ia ­ t a d a l c l e r o d i n u m e r o s e p a r r o c c h i e , e r a u n a r e a l t à c h e e s p r i m e v a l ’a m b i e n t e s o c ia le c o n t a d i n o e c a tt o l ic o d i g r a n p a r t e d e l F r iu li. A v e v a f r a le s u e f ile a n c h e r e d u c i d e lla d iv is io n e a lp in a J u lia , d is tr u tta n e lla tra g ic a r i ti r a t a d i R u s s i a . M a c ’e r a n o a n c h e e l e m e n t i p o l i t i c i z z a t i d e l l a D e ( c h e f i n i c o l p r e ­ v a le re n e l c o m a n d o c e n tr a le ) , d e l P d a e so c ia lis ti.

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Parte seconda N e lle G a r ib a ld i f riu la n e , la c u i b a s e e r a sim ile a q u e lla d e lle O s o p p o

( c o n ta d in i, m o n ta n a r i e n u c le i d i p ic c o la b o rg h e s ia ) m a c o n u n a s p ic c a ta p r e s e n z a d i c o m u n is ti e d i o p e r a i sp e c ie n e l M o n fa lc o n e s e e G o r iz ia n o , p r e ­ v a l s e u n a l i n e a d i s i n i s t r a p u r n e l l ’a m b i t o d i q u e l l a u n i t a r i a d e l C l n . M a l a lin e a “ c ie lle n is tic a ” f u a b b a n d o n a ta d a g r a n p a r te d e i c o m u n is ti m o n fa lc o n e s i e t r i e s t i n i n e l l ’a u t u n n o d e l ' 4 4 a f a v o r e d i q u e l l a i u g o s l a v a , d o p o l a c a t ­ t u r a e u c ci s i o n e d e i d i r i g e n t i d e l P e i d i T r i e s t e L u i g i F r a u s i n , A n t o n i o V i n ­ c e n z o G i g a n t e e a l t r i . I l P e i l o c a l e u s c ì d a l C l n s c e g l i e n d o l ’o p z i o n e i u g o ­ sla v a e f o n d e n d o s i c o l p a r t i t o s lo v e n o . C iò a c u tiz z ò n e l F riu li o r ie n ta le e a T r i e s t e l e t e n s i o n i s u lla q u e s t i o n e n a z i o n a l e c o lle g a te a lle r i v e n d i c a z i o n i s lo ­ v e n e e c r o a t e s u l l a V e n e z i a G i u l i a . A m o l t i c o m u n i s t i i t a l i a n i d e l l ’a r e a ; l a I u g o s l a v i a a p p a r v e c o m e l ’a v a n g u a r d i a d e l l ’U n i o n e S o v i e t i c a e l a g a r a n z i a p e r l ’a v v e n t o d e l p o t e r e s o c i a l i s t a . I n F r iu li le O s o p p o r id u s s e r o lo s p a z io al m o n o p o lio g a r ib a ld in o c h e p r e o c c u p a v a , s p e c ie n e l F riu li o r ie n ta le , p e r la v ic in a p r e s e n z a s lo v e n a a g u i­ d a c o m u n i s t a . F u u n o d e i f a t t o r i c h e o s t a c o l a r o n o l ’u n i f i c a z i o n e d e l l e d u e f o r z e . T u t t a v i a s o l u z i o n i u n i t a r i e s i r e a l i z z a r o n o p e r a l c u n i m e s i i n V a l ce l lin a ( b rig a ta I . N ie v o A ) e n e lle P r e a lp i G iu lie (c o m a n d o u n ic o f r a la I b r i ­ g a ta O s o p p o d i o tto -n o v e c e n to u o m in i e la d iv is io n e G a r ib a ld i N a tis o n e d i m ille c in q u e c e n to -d u e m ila e fo rm a z io n e d e lla d iv is io n e G a r ib a ld i O s o p p o ). S u lle m o n ta g n e c a r n ic h e la O s o p p o si a r tic o lò i n d u e d iv is io n i. N e l l ’a r e a g o r i z i a n a e t r i e s t i n a i s u p e r s t i t i d e l l e u n i t à i t a l i a n e d e l '4 3 f o r ­ m a r o n o il b a t t a g l i o n e T r i e s t i n o d e l C a r s o c h e , in g r o s s a t o s i , d i e d e v i t a il 5 a p r i l e '4 4 , a s e g u i t o d i a c c o r d i f r a i l c o m a n d o d e l l e G a r i b a l d i i n I t a l i a e q u e l ­ lo d e l I X k o r p u s s lo v e n o , a lla b r i g a t a G a r i b a l d i T r i e s t e c o n d u e c e n to n o v a n ta c o m b a t t e n t i in iz ia li s a liti a c ir c a q u a t t r o c e n t o e p o i a m ille . M a u n a p a r t e d i e s s i f u d i r o t t a t a i n S lo v e n ia o l t r e il c o n f i n e . L a G a r i b a l d i T r i e s t e e s u c c e s s iv a m e n te a n c h e la G a r ib a ld i N a tis o n e , d o p o il s u o p a s s a g g io n e l d i c e m b r e '4 4 s o t t o il c o m a n d o d e l k o r p u s c h e p r o v o c ò il d i s t a c c o d e lla O s o p ­ p o , o p e r a r o n o f r a l ’I s o n z o e i l v e c c h i o

co n f i n e ,

d o v e la g u e r ra fu d u ris s im a

p e r la p o v e r tà d e lle r is o r s e lo c a li, le r i p e t u t e o f fe n s iv e te d e s c h e e il g e lid o c l i m a i n v e r n a l e . N e l l ’a p r i l e d e l 1 9 4 5 l a G a r i b a l d i T r i e s t e f u i n q u a d r a t a n e l ­ la G a r ib a ld i N a tis o n e a s s ie m e a lla b r i g a t a F r a te lli F o n t a n o t , c o s t it u i t a n e l d i c e m b r e ’4 4 i n S l o v e n i a c o n o l t r e s e t t e c e n t o c i n q u a n t a u o m i n i ( o p e r a i d e i c a n tie r i n a v a li, s tu d e n ti, e x m ilita ri) e d ip e n d e n te d a l V I I k o r p u s slo v e n o c h e e r a c o m p o s t o d a t r e d i v i s i o n i e v a r i odred p e r u n a f o r z a o s c i l l a n t e f r a i d ie c i e i tr e d ic im ila u o m in i c o m e q u e lla d e l I X k o rp u s . A T r i e s t e , M u g g i a e n e l M o n f a l c o n e s e o p e r a r o n o i G r u p p i d ’a z i o n e p a ­ t r i o t t i c a ( G a p ) c o m e i n F r i u l i . N e l l ’I s t r i a n o r d o c c i d e n t a l e , s u i n i z i a t i v a d e i c o m u n i s t i d i M u g g i a , s i f o r m ò n e l l ’a p r i l e ' 4 4 i l b a t t a g l i o n e A l m a V i v o d a , u n ità a u to n o m a d e lla G a r ib a ld i T rie s te , c o n u n a f o rz a m e d ia d i c e n to c in q u a n t a - d u e c e n t o u o m i n i . P r e s o n e l l a m o r s a n e m i c a n e l n o v e m b r e '4 4 f u d i s g r e g a t o . N e l r e s t o d e l l ’I s t r i a d o v e p r e v a l s e i l m o v i m e n t o c r o a t o , i l p r i n ­ c ip a le r e p a r to ita lia n o f u il b a tta g lio n e P in o B u d ic in (d a l n o m e d e l c o m u ­ n i s t a i t a l i a n o d i R o v i g n o u c c i s o d a i f a s c i s t i ) f o r m a t o s i n e l l ’a p r i l e d e l ' 4 4 c o n

Fogar

Litorale Adriatico

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c e n to v e n ti u o m in i s a liti in g iu g n o a q u a ttr o c e n to . C o m b a ttè in q u a d r a to n e lla b r ig a ta c r o a ta V la d im ir G o r t a n (c irc a s e tte c e n to u o m in i s a liti p o i a o l­ t r e m i l l e ) . N e l l ’o t t o b r e 1 9 4 4 G o r t a n e B u d i c i n , p e r s o t t r a r s i a l l e s u p e r i o r i f o r z e te d e s c h e , si tr a s f e r ir o n o a s s ie m e a lla 4 3 “ d iv is io n e is tr ia n a c r o a ta , d i c u i fa c e v a n o p a r te , in C ro a z ia n e l G o r s k i k o ta r e p o i n e lla z o n a d i O g u lin . I n q u e s ti s e tto r i il B u d ic in c o m b a ttè « n e lla m o r s a d e l g e lo » s u b e n d o g r a v i p e r d i t e ; n e l l ’a p r i l e 1 9 4 5 r i e n t r ò i n I s t r i a p a r t e c i p a n d o a g l i s c o n t r i f i n a l i . A t to r n o a C a p o d is tria , Is o la e P ir a n o o p e r a r o n o a lc u n i G a p ita lia n i c o lle ­ g a ti c o n g li s lo v e n i e c o n i C ln d e lle t r e c ittà . N e l l ’e s t a t e d e l ' 4 4 G a r i b a l d i e O s o p p o a s s u n s e r o i l c o n t r o l l o d i g r a n p a r t e d e l l ’A l t o F r i u l i c r e a n d o l a z o n a l i b e r a d i C a r n i a ( 2 8 5 0 k m 2 e 9 0 0 0 0 a b ita n ti) e la z o n a lib e r a o r ie n ta le n e lle P re a lp i G iu lie (3 0 0 k m 2 e 2 0 0 0 0 a b i­ ta n ti). U n ità p a rtig ia n e so rs e ro a n c h e in p ia n u r a c o n b a tta g lio n i G a p g a ri­ b a l d i n i e u n a d i v i s i o n e t e r r i t o r i a l e d e l l ’O s o p p o , c o m p l e s s i v a m e n t e o l t r e d u e m i l a u o m i n i . L ’I n t e n d e n z a M o n t e s c r e a t a d a l c o m u n i s t a m o n f a l c o n e s e S ilv io M a r c u z z i ( to r tu r a to e u c c is o d a i fa s c is ti) r i f o r n ì f in o a lla f in e d e lla g u e r r a s ia le G a r ib a ld i e O s o p p o c h e il I X k o r p u s . N e l s e t te m b r e 1 9 4 4 , q u a n d o c o m i n c i a r o n o i g r a n d i a t t a c c h i t e d e s c h i f a v o r i t i d a l l ’a r r e s t o d e l ­ l ’a v a n z a t a a l l e a t a s u l l a l i n e a G o t i c a , G a r i b a l d i e O s o p p o p r e s i d i a v a n o l a z o ­ n a lib e r a c a r n ic a (A lp i e P r e a lp i C a rn ic h e ) c o n c irc a c in q u e m ila u o m in i e q u e lla o r ie n ta le c o n c irc a tre m ila . C o n i p a r tig ia n i in m o n ta g n a e in p ia n u ­ r a , la s ic u re z z a d e lla r e g io n e - c e r n ie r a e r a in p e r ic o lo d a o v e s t a e s t d o v e , o l­ t r e l ’I s o n z o , o p e r a v a i l I X k o r p u s s l o v e n o c o n d u e g r o s s e d i v i s i o n i ( 3 0 2 e 3 i a) . I l k o r p u s a v e v a c r e a t o u n ’a m p i a z o n a l i b e r a f r a l ’I s o n z o e i l v e c c h i o c o n f i n e e d e f f e t t u a v a a t t a c c h i a n c h e n e l l ’i n t e r n o d e l l a S l o v e n i a , l u n g o l a f e r r o v ia P o s tu m ia e L u b ia n a c o n p u n t a t e f in o a lla S a v a . A s e g u ito d e g li a t ­ t a c c h i t e d e s c h i l a z o n a d e l k o r p u s s i r i d u s s e a u n ’a r e a c h e c o m p r e n d e v a l a S e lv a d i T a r n o v a , la B a in s iz z a f in o a lla z o n a d i C e r k n o ( C ir c h in a ) . G li a t ­ ta c c h i c o n tr o il k o r p u s c u lm in a r o n o n e lla g r a n d e o f fe n s iv a d e l m a rz o 1 9 4 5 c h e fa llì, p u r p r o v o c a n d o a l k o r p u s g ra v i p e r d ite . N e lla « p r o v in c ia d i L u b ia n a » ( in c o rp o ra ta n e l L ito r a le A d ria tic o ), o p e ­ r a v a a n c h e i l V I I k o r p u s p a r t i g i a n o s l o v e n o . P r i m a d e l l ’8 s e t t e m b r e '4 3 i p a r t i g i a n i s l o v e n i a v e v a n o r e s i s t i t o a p i ù o f f e n s i v e i t a l i a n e . D o p o l ’a r m i ­ s tiz io il k o r p u s a m p liò le z o n e lib e r e p r e e s is te n ti n e lla r e g io n e d i L u b ia n a e a ltr o v e e lib e r ò te m p o r a n e a m e n te a n c h e a lc u n e c ittà . L a c o n fo rm a z io n e d e l te r r ito r io d e lla “ p r o v in c ia ” e r a m o d e r a ta m e n te m o n tu o s a m a c o n v a s te a r e e b o s c o s e c h e c o p r iv a n o o l t r e il q u a r a n t a p e r c e n to d e lla s u a s u p e rf ic ie . A l l a f i n e d e l '4 3 i l V I I k o r p u s , i m p e g n a t o i n u n a d u r a l o t t a c o n t r o l e f o r z e d e l c a p o d e lla p o liz ia e S S d e ila p ro v in c ia , g e n e ra le E r w in R ò s e n e r, e d e l g e n e r a le L e v R u p n ik , n o m i n a to d a R a in e r p r e s i d e n t e d e lla p r o v in c ia s te s s a , e r a c o m p o s t o d a t r e d i v i s i o n i ( 1 4 “, 1 5 “ e i 8 a) o l t r e a b a t t a g l i o n i e v a r i

odred.

N e l g e n n a io 1 9 4 4 il c o m a n d o slo v e n o in v iò la 1 4 “ d iv is io n e d i t r e b r i ­ g a te (1 0 6 2 u o m in i) n e lla B a s s a S tir ia (S tir ia slo v e n a ), c io è in q u e lla p a r te d e lla S lo v e n ia g ià a n n e s s a a l R e ic h n e l 1 9 4 1 . Q u e s ta r e g io n e e i “ t e r r ito r i o c c u p a ti” d a i te d e s c h i d e lla C a rin z ia e C a rn io la e ra n o g o v e r n a ti d a G a u -

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Parte seconda

le ite r a u s tria c i ( U ib e r r e ith e r p e r la S tiria , S ie g frie d K u ts c h e r a e p o i R a in e r - c h e d o p o l ’8 s e t t e m b r e f u i n v i a t o a T r i e s t e - p e r g l i a l t r i ) . P e r “ g e r m a n i z ­ z a r e ” le n u o v e c o n q u is te i G a u le ite r a v e v a n o e s p u ls o d e c in e d i m ig lia ia d i a b i t a n t i s lo v e n i. M a q u e s ta s p e d iz io n e , d i v a lo r e p o litic o o ltr e c h e m ilita ­ re , fin i m a le p e r c h é la 1 4 “ d iv is io n e v e n n e a c c e rc h ia ta d a g ro ss e f o rz e t e ­ d e s c h e s u b e n d o g ra v is s im e p e r d ite (o ltre d u e c e n to u o m in i f r a m o r ti, f e r iti e d is p e r s i e n u m e r o s i c o n g e la ti). N e l c o rs o d e lla l o t t a il V I I k o r p u s d o v e t ­ t e a f f r o n ta r e a n c h e le u n ità c o lla b o r a z io n is te s lo v e n e d e i « d o m o b r a n c i» , s o s te n u te d a i v e c c h i p a r titi c o n s e rv a to r i e a n tic o m u n is ti slo v e n i e d a u n a p a r te d e l c le ro lu b ia n e s e . U n a u n ità d i d o m o b r a n c i (1 8 5 0 u o m in i) si f o rm ò a n c h e n e lla V e n e z ia G iu lia , s o s te n u ta d a R a in e r n e l q u a d r o d e lla s u a p o li­ tic a d i r e c lu ta m e n to a n tip a r tig ia n o d i c o r p i v o lo n ta r i lo c a li. P e r d im o s tr a ­ r e l a d i f f e r e n z a f r a i l R e i c h e l ’I t a l i a f a s c i s t a , e g l i f e c e c o n c e s s i o n i l i n g u i ­ s tic h e , s c o la s tic h e e a m m in is tr a tiv e a g li s lo v e n i, c e r c a n d o la c o lla b o r a z io ­ n e d e i l o r o g r u p p i c o n s e r v a t o r i . N e l l ’a u t u n n o ' 4 4 s i s t a n z i ò n e l l a r e g i o n e i l C o r p o v o lo n ta r i s e rb i p r o v e n ie n te d a lla S e rb ia (q u a ttro m ila u o m in i) e n e l c o r s o d e l l ’i n v e r n o '4 4 - 4 5 l a d i v i s i o n e d i n a r i c a c e t n i c a ( c i r c a s e t t e m i l a ) . T u t ­ t e q u e s te u n ità p a s s a r o n o s o tto il d i r e tto c o m a n d o d e l g e n e ra le G lo b o c n ik p e r la lo tta a n tip a r tig ia n a . A l l a f i n e d i s e t t e m b r e '4 4 i t e d e s c h i a t t a c c a r o n o i n f o r z e l a z o n a l i b e r a o r ie n ta le d e lla G a r ib a ld i O s o p p o e a o v e s t la V a lc e llin a , r iu s c e n d o a s f o n ­ d a r e d o p o d u r i c o m b a t t i m e n t i . L ’8 o t t o b r e s e g u ì l a m a s s i c c i a o f f e n s i v a t e ­ d e s c a c o n u n i t à c o s a c c h e e i t a l i a n e d e l l a X M a s , c o n t r o l ’a l t a C a r n i a ( 1 8 0 0 k m 2 s u i 2 8 5 0 ) , c io è il “ c u o r e ” d e l l a z o n a lib e r a . D o p o il 1 3 o t t o b r e i p a r t i ­ g ia n i, a n c h e p e r lo s c a rs o m u n iz io n a m e n to (u n o s ta c o lo g r a v e p e r la d if e ­ sa ), d o v e t t e r o d iv id e r s i i n p ic c o li g r u p p i p e r s o t t r a r s i a lla d is tr u z io n e . S u ­ b i t o d o p o l ’o f f e n s i v a r i p r e s e v i o l e n t a n e l l e P r e a l p i C a r n i c h e , s v i l u p p a n d o ­ s i i n v a r i e f a s i t r a l a f i n e d i o t t o b r e e il 2 0 d i c e m b r e '4 4 q u a n d o , d o p o q u a s i u n m e s e d i s c o n tr i, il n e m ic o o c c u p ò a n c h e q u e s ta z o n a . C e n tin a ia f u r o n o i c a d u ti o u c c is i d o p o la c a ttu r a o n e i la g e r n a z is ti. F r a i t r e n t a e i q u a r a n ­ ta m ila c o s a c c h i e c a u c a s i, d i c u i v e n tic in q u e m ila a rm a ti, si in s ta lla r o n o n e l l ’A l t o F r i u l i . N o n s i t r a t t ò d i o c c u p a z i o n e p r o v v i s o r i a , d e t t a t a d a m e r e r a g io n i c o n g iu n tu r a li. I l 1 0 n o v e m b r e 1 9 4 3 , il g o v e r n o d e l R e ic h - c o n u n c o m u n ic a to a f irm a d e l fe ld e m a re s c ia llo K e ite l e d e l m in is tr o p e r le R e g io ­ n i o r ie n ta li R o s e n b e r g - a s s ic u rò u n in s e d ia m e n to a o c c id e n te a i c o s a c c h i e g e o r g i a n i c o l l a b o r a z i o n i s t i i n r i t i r a t a d i n n a n z i a l l ’o f f e n s i v a s o v i e t i c a . T a ­ l e a s s i c u r a z i o n e e b b e t r a d u z i o n e p r a t i c a n e l l ’a c c o r d o t r a i l g e n e r a l e d e l l e S S G lo b o c n ik e il g e n e r a le c o s a c c o D o m a n o v I v a n o v ic d e l lu g lio 1 9 4 4 , c h e a s ­ s e g n a v a a c o s a c c h i e g e o r g i a n i s t a z i o n a n t i i n P o l o n i a l ’i n s e d i a m e n t o n e l l ’A l ­ to F riu li, d e f in ito K o s a k e n la n d in N o r d I ta lie n . F u r o n o g r a n d i le s o f f e re n ­ z e d e l l a p o p o l a z i o n e i t a l i a n a n e l « T e r r i t o r i o c o s a c c o n e l l ’I t a l i a d e l N o r d » . I n C a r n ia v e n n e r o u c c is i c e n to c in q u a n ta u o m in i, d o n n e e b a m b in i e t r e sa ­ c e rd o ti. P iù d i c e n to d o n n e e ra g a z z e s u b iro n o s tu p ri m e n tr e c e n tin a ia d i v e c c h i, d o n n e e ra g a z z i f u r o n o p e r c o s s i e s e v iz ia ti. O l t r e m ille c iv ili v e n ­ n e r o in t e r n a t i . N e lla s o la C a r n ia f u r o n o in c e n d ia te o ltr e c in q u e c e n to c a s e

Fogar

Litorale Adriatico

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e q u a ttr o c e n to c a s o la ri e s a c c h e g g ia te m ig lia ia d i a b ita z io n i; s e im ila a b ita n ti p e r d e tte r o t u tto . D a n n i g ra v is s im i v e n n e r o a r re c a ti al p a tr im o n io z o o te c ­ n ic o e fo re s ta le . M a d is tr u z io n i d i p a e s i, e c c id i e d e p o r ta z io n i f u ro n o c o m ­ p i u t i a n c h e n e lla fa s c ia p r e a lp in a e p e d e m o n ta n a f in o a i p r im i d i m a g g io d e l ' 4 5 . N e l l ’i n v e r n o '4 4 - 4 5 g r a n d i r a s t r e l l a m e n t i v e n n e r o c o m p i u t i a n c h e c o n ­ tr o le fo rm a z io n i d i p ia n u ra .

Le fasi finali della lotta di liberazione e la repressione iugoslava.

C o n l ’a v ­

v ic in a r s i d e lla p r im a v e r a G a r ib a ld i e O s o p p o s i r ic o m p o s e r o s u p e r a n d o la c r i s i i n v e r n a l e . N e l l ’u l t i m a f a s e d e l l a l o t t a n u m e r o s i v o l o n t a r i r i n f o r z a r o ­ n o le d u e f o r m a z io n i p a r te c ip a n d o a lle g io r n a te f in a li d e lla lib e r a z io n e . M a ci fu ro n o s c o n tri v io le n ti u n p o ’ d a p p e r tu tto a n c h e c o n tro u n ità te d e s c h e c h e i n r i t i r a t a d a l f r o n t e s i d i r i g e v a n o v e r s o l ’A u s t r i a . L e t r u p p e a l l e a t e , o l ­ t r e p a s s a to il P ia v e a lla f i n e d i a p r ile , t r o v a r o n o le s t r a d e p r e s i d i a te d a i p a r ­ tig ia n i. I l i ° m a g g io 1 9 4 5 U d in e e r a lib e r a ta e c o s ì a ltr i c e n tr i d e l F riu li. L a d iv is io n e n e o z e la n d e s e d i F re y b e rg p u n tò su T rie s te c h e ra g g iu n s e n e l p o m e r ig g io d e l 2 m a g g io , a f f ia n c a n d o s i a lle u n i t à d e l I X k o r p u s e d e lla I V a r m a t a i u g o s l a v a , g i u n t e i n c i t t à i l g i o r n o p r i m a m e n t r e e r a i n c o r s o l ’i n s u rre z io n e . I s u p e rs titi m a m u n iti c a p is a ld i te d e s c h i si a rre s e ro . A T rie s te , d o p o il f a l l i m e n t o d i u n a c c o r d o f r a il C l n e il F r o n t e s lo v e n o , e r a n o s c o p ­ p i a t e d u e i n s u r r e z i o n i : q u e l l a d e l C l n a l l ’a l b a d e l 3 0 a p r i l e e p o c h e o r e d o ­ p o q u e l l a d e i c o m u n i s t i i t a l o s l o v e n i c o n i b a t t a g l i o n i d e l l ’U n i t à o p e r a i a . L ’i n s u r r e z i o n e c o n t r o u n n e m i c o a n c o r a f o r t e e b e n e a r m a t o f u f a v o r i t a d a l l ’a n n i e n t a m e n t o d a p a r t e d e l l e f o r z e i u g o s l a v e d e l p r e s i d i o e s t e r n o t e d e s c o s u l v i c i n o c i g l i o n e c a r s i c o e q u i n d i u n i t à d e l k o r p u s e d e l l ’a r m a t a i n t e r v e n ­ n e r o a n c h e n e g li s c o n t r i i n c i t t à . U n g r o s s o n u c le o d e l 9 7 0 c o r p o d ’a r m a t a te d e s c o d e l g e n e ra le L u d w ig K u e b le r, f o rz a p rin c ip a le d e lla W e h r m a c h t n e l L ito r a le A d r ia tic o , f u in v e c e a c c e r c h ia to e c o s t r e t t o a lla r e s a d a u n i t à d e l­ la I V a r m a ta iu g o s la v a t r a F iu m e e V illa d e l N e v o s o , il 7 m a g g io . I p r ig io ­ n ie ri fu ro n o v e n tid u e m ila . L ’a s p r a l o t t a p a r t i g i a n a n e l l a r e g i o n e c o s t ò g r a v i p e r d i t e . I p a r t i g i a n i c a ­ d u t i d e lle a ttu a li p r o v in c e d e lla r e g io n e f u ro n o 4 7 8 4 d i c u i 1 3 0 6 c o m b a t­ t e n t i n e l l e f o r m a z i o n i d e l l ’E s e r c i t o p o p o l a r e d i l i b e r a z i o n e d e l l a I u g o s l a v i a (E p li), in g r a n p a r t e s lo v e n i. I c a d u ti d e lle b r ig a te G a r ib a ld i, O s o p p o e a l­ l ’e s t e r o f u r o n o 3 4 7 8 [ A A . W . 1 9 8 7 - 9 2 ] . M a s o n o c i f r e i n c o m p l e t e s e s i t e n ­ g o n o p r e s e n t i l e f o r t i p e r d i t e s u b i t e d a i p a r t i g i a n i i t a l i a n i d e l l ’I s t r i a o l t r e c h e d e g li s lo v e n i e c r o a ti d e i t e r r i t o r i p a s s a ti a lla I u g o s la v ia c o l t r a t t a t o d i pace. A T r i e s t e , c e s s a t i g li s c o n t r i a lla s e r a d e l 2 m a g g io * il c o m a n d o iu g o s la v o c o n o r d in e n . 1 d e l g io rn o s u c c e ss iv o d ic h ia r ò la c ittà a n n e s s a a l « r e s to d e l­ la Iu g o s la v ia » . I l C ln d o v e tte r ie n tr a r e n e lla c la n d e s tin ità p e r c h é c o n s id e ­ r a t o c o m p lic e d e l n e m ic o in q u a n to c o n tr a r io a lla s o lu z io n e iu g o s la v a , a i « p o t e r i p o p o la r i» e a l n u o v o r e g im e c o m u n is ta iu g o s la v o . F u q u e s to il f a t ­ to r e p r in c ip a le d e lle r e p r e s s io n i a t t u a t e d a lle a u to r ità iu g o s la v e in c i t t à e a l­ t r o v e e n o n q u e llo d e l “ g e n o c i d i o ” , c io è d e llo s t e r m i n io d e g li i t a l i a n i . A r ­

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Parte seconda

r e s ti, u c c is io n i s o m m a rie g e tta n d o p o i i c o r p i n e lle fo ib e , d e p o r ta z io n i d i f a s c is ti a u te n tic i e d i n o n fa s c is ti, c o m p re s i

diversi m ilitanti dei Cln di

T rie ­

s t e e G o r i z i a , a c c o m p a g n a r o n o i l p e r i o d o d e l l a g e s t i o n e i u g o s l a v a (2 m a g ­ g i o - 1 2 g i u g n o 1 9 4 5 ) . L ’e n t i t à d i q u e s t e r e p r e s s i o n i p r o v o c ò p r o t e s t e a n c h e d a p a r t e d i d ir ig e n ti c o m u n is ti s lo v e n i e d e g li a n g lo a m e ric a n i. U n a p a r te d e i d e p o r ta ti f u r im p a tr ia ta n e l 1 9 4 5 e n e g li a n n i s e g u e n ti. N o n m a n c a r o ­ n o le v i t t i m e d i v e n d e t t e p e r r a n c o r i p e r s o n a li e n u m e r o s e f u r o n o le d e ­ n u n c e a n o n i m e , c o m e n e l p e r i o d o d e l l ’o c c u p a z i o n e t e d e s c a , t a n t o c h e i l T r i ­ b u n a l e d e l p o p o l o p u b b l i c ò s u l l a s t a m p a l ’a v v i s o c h e n o n s a r e b b e r o s t a t e p r e s e i n c o n s id e r a z io n e . A n c h e s e c o n d o f o n t i a n g lo a m e r ic a n e , i n t u t t a la V e n e z ia G iu lia e a Z a r a f u ro n o u c c is i o m o rir o n o n e i c a m p i d i c o n c e n tr a ­ m e n to d a lle q u a t t r o a lle s e im ila p e r s o n e f r a m ilita r i e c iv ili.

Le

f o r z e a lle a ­

te , in u n a z o n a d o v e i d u e e s e r c iti a n g lo a m e r ic a n o e iu g o s la v o s i s o v r a p p o ­ n e v a n o , n o n i n t e r v e n n e r o d i r e t t a m e n t e p e r c o n t r a s t a r e l ’o p e r a t o d e g l i i u ­ g o s la v i, in a tte s a d e lla c o n c lu s io n e d e lle t r a t t a t i v e f r a T it o e il c o m a n d o a l l e a t o d e l M e d i t e r r a n e o ( A l e x a n d e r ) , a v v e n u t a i l 9 g i u g n o 1 9 4 5 . L ’i n t r a n ­ s ig e n z a d i T ito d o v e tte c e d e r e d i f r o n t e a l d is im p e g n o s o v ie tic o . I l 12 g iu ­ g n o le f o r z e iu g o s la v e a b b a n d o n a r o n o T r ie s te , G o r iz ia e P o la c h e e n t r a r o ­ n o a f a r p a r te d e lla Z o n a A a n g lo a m e ric a n a , m e n tr e q u a s i t u t t o il r im a n e n te t e r r i t o r i o d e l l a r e g i o n e c o n l ’I s t r i a e F i u m e ( Z o n a B ) r e s t ò s o t t o l ’a m m i n i ­ s tr a z io n e iu g o s la v a .

Alcuni dei principali eccidi e distruzioni da parte tedesca e fascista. Trieste-Istria, 1 9 4 3 . 13 settembre, Dignano (Pola). Fucilati dai tedeschi sedici componenti della com­ pagnia partigiana italiana di Rovigno d’Istria. Ottobre, Grisignana (provincia di Pola). Sedici civili uccisi dai tedeschi. Uccisioni compiute anche in chiesa. Ucciso davanti al convento di San Francesco di Pirano il sacerdote don Simone Milanovic. Segnalazioni del vescovo di Trieste monsignor Antpnio Santin. Ottobre, Gimino (Zminj-Pola). Duecentonove tra civili e partigiani uccisi dal bom­ bardamento tedesco. 2 ottobre, Capodistria. Fucilati dieci civili. 2 ottobre, Caresana (Mackovlje) presso Trieste. Uccisi dodici civili. Incendiate ven­ ti case del vicino paese di Prebenicco (Prebenig). 2-11 ottobre, Bergozza (Brgndac-Pinguente, provincia di Pola). Fucilati trentasette civili. 4 ottobre, Villanova d ’Arsa (Nova Vas - provincia di Pola). Fucilati diciotto civili. 4 ottobre e giorni seguenti, Pisino. Bombardamento e mitragliamento aereo e ter­ restre tedesco con la morte di numerosi civili fra cui donne e bambini. Dopo l’oc­ cupazione tedesca della città, venne fucilato un numero imprecisato di civili. 6-7 ottobre, Arsa e Albona (provincia di Pola). Uccisi sessanta civili. 7 o t t o b r e , C r e s i n i (Kresini-Gimino, p r o v i n c i a d i Pola). Uccisi c i n q u a n t o t t o c iv ili. 9 ottobre, Carmedo (Krmed-Rovigno, provincia di Pola). Uccisi trentuno civili. 10 ottobre, Abrega di Parenzo. Fucilati dodici partigiani.

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16 ottobre, Canfanaro (Kanfanar). Uccisi ventisei civili. 31 ottobre e giorni seguenti, Castagna, Pavletici, Villanova, Cittanova, Momiano, Grisignana, Castelvenere (provincia di Pola). Fucilati o impiccati in azioni an­ tipartigiane tedesche centosessantanove civili. G o r iz ia , T r ie s te , P o la , F iu m e ,

1944-45.

8-9 gennaio 1944. A Sajini (Dignano d’Istria) e Bocordi (Bokordici - Cittanova d’Istria) uccisi complessivamente cinquantaquattro civili. Febbraio. Incendiati dai tedeschi i paesi di Komen (Comeno), Rihemberk (Rifembergo) e Tomasevizza (Tomacevica), fra Trieste e Gorizia, a seguito della di­ struzione di un’autocolonna tedesca il 2 febbraio da parte dei partigiani slove­ ni. Gran parte delle popolazioni sono deportate. 9 febbraio, Canfanaro. Impiccato dai tedeschi il parroco don Mario Zelco. Marzo-aprile. Incendiato U paese di Ballico presso Dignano. Uccisi dai tedeschi trentuno civili, in gran parte vecchi, donne e ragazzi, in yari paesi dei comuni di Pisino e Antignana (Cesari, Villa Treviso, Villa Padova, Sisovid, Jeseni, Kringa, Frankovici, Pisinvecchio, Skopljak, Jakovici). Distruzioni ed eccidi segna­ lati alle autorità dal vescovo di Trieste monsignor Santin. 31 marzo, Ravne di Gargara (Gorizia). Uccisi venti militari italiani della divisione Isonzo e dieci civili. 3 aprile, Trieste, poligono di Opicina. Fucilati settantadue ostaggi e partigiani trat­ ti dalle carceri, per rappresaglia per la morte di sette militari tedeschi. Uno de­ gli ostaggi, rimasto solo ferito, riesce a salvarsi.

8 a p rile ,

P is in o . T r e d ic i

ci v ili

im p ic c a ti d a i te d e s c h i.

23 aprile, Trieste. Cinquantuno ostaggi tratti dalle carceri, impiccati dai tedeschi in uno stabile del centro cittadino, per rappresaglia per la morte di cinque sol­ dati tedeschi in un attentato. 30 aprile, Lipa di Ielsane (Lippa, provincia di Fiume). Massacrati dalle SS duecentocinquantasei civili, in gran parte vecchi, donne e bambini. Il villaggio viene incendiato. 29 maggio, Prosecco frazione di Trieste. Impiccati dieci ostaggi tratti dalle car­ ceri. 10 agosto. Saccheggiati e incendiati fra Trieste e Fiume i villaggi di Trestenico (Trstenik), Racia (Racja), Dane, Raspor, Vodice. Deportati centinaia di civili. 16 agosto. Incendiati dai tedeschi i villaggi di Malchina (Mavhinje), Ceroglie (Cerovlje), Medeazza (Medja Vas), Visogìiano (Vizovlje) del comune di Duino-Aurisina presso Trieste. 9 settembre, Fiume. Fucilati dieci partigiani tratti dalle carceri. 30 settembre, Trieste. Il quotidiano «Il Piccolo» comunica la fucilazione di di­ ciannove partigiani e ostaggi. 2 ottobre, Pola. Impiccati dai tedeschi ventidue ostaggi fra cui il dottor Angelo Coatto, giunto da Vicenza per dirigere la divisione neuropsichiatrica dell’ospe­ dale civile. 10 a p r i l e 1945, F i u m e . F u c i l a t i t r e d i c i p a r t i g i a n i . Friuli, provincia di Udine, 1944-45. 6 gennaio 1944, Pradamano. Fucilati tredici partigiani. 22 maggio, Peternel. I tedeschi uccidono ventidue civili fra cui un’intera famiglia con donne e bambini, gettandoli in una casa data alle fiamme.

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Parte seconda

24 maggio, Forni di Sotto. Incendiato il paese. Quattrocento abitazioni distrutte, milleottocento abitanti senza casa. Incendiata anche la chiesa. 29 maggio, Premariacco e San Giovanni al Natisone. Ventisei partigiani impicca­ ti: tredici nel primo e tredici nel secondo paese. 9 giugno, Esemon di Sotto. Saccheggiato l’intero paese e venti case incendiate. 21 luglio, Bordano. Incendiato il paese. 21 e 22 luglio, Malga Promosio, Lanza, Cordin, Bosco Moscardo, Paluzza, Sutrio. Una banda di SS e di fascisti, travestiti da partigiani, massacra cinquantadue civili, fra cui donne e bambini, durante una loro scorreria nella Valle del But. 25 agosto, Torlano. Trentatre civili fra cui donne e bambini, mitragliati e arsi in una stalla da fascisti e tedeschi. 8 settembre, Barcis. Il paese è interamente distrutto dai tedeschi. 29 settembre. I tedeschi incendiano i paesi di Nimis, Attimis, Faedis e uccidono trenta civili dopo la rioccupazione della zona libera orientale. 9 ottobre, Imponzo. Seviziato e ucciso da militari cosacchi don Giuseppe Treppo, sacerdote vicario del paese che aveva difeso alcune donne dalle loro violenze. 25 novembre, Porcia. Impiccati nove partigiani e fucilati altri quattro. 27 novembre, Pordenone. Fucilati tredici partigiani. Dicembre, Cividale e Gemona. Fucilati in giorni diversi quattordici partigiani. 10 dicembre, Tramonti di Sotto. Fucilati dalla X Mas dieci partigiani. 30 gennaio 1 9 4 5 , Tarcento. Fucilati dieci partigiani. 11 febbraio, Udine. Fucilati ventitré partigiani. 9 aprile, Udine. Fucilati ventinove partigiani. 28 aprile, Terzo di Aquileia. Fucilati tredici civili. 29 aprile, Cervignano. Ventitré civili e partigiani uccisi da una colonna delle SS in ritirata. 30 aprile, Feletto Umberto. Uccisi quindici civili fra cui un’intera famiglia. 1-2 maggio, Ovaro. Uccisi dai cosacchi ventidue civili e il parroco don Pietro Cortiula. 2 maggio, Avasinis. Un reparto di SS, fra cui anche italiani, superata la debole re­ sistenza di alcuni partigiani irrompono nel paese e massacrano cinquantatre abi­ tanti fra cui bambini tra i due e gli undici anni. 3 maggio, Venzone. Ucciso da un maggiore delle SS monsignor Faustino Lucardi al quale gli stessi tedeschi avevano ordinato di portare una intimazione ai par­ tigiani.

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Fogar

Litorale Adriatico

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MARCO PUPPINI U d in e

Le formazioni partigiane.

N e l p r im o d o p o g u e r ra U d in e è c a p o lu o g o d i

u n a p r o v i n c i a d i q u a s i 7 0 0 0 k m 2, u n a d e l l e p i ù v a s t e p r o v i n c e i t a l i a n e , c o n ­ f in a n te a e s t c o n la Iu g o s la v ia - a ttu a lm e n te c o n la re p u b b lic a d i S lo v e n ia e a n o r d c o n l ’A u s t r i a . P r o v i n ci a d a l t e r r i t o r i o m o n t a n o a n o r d e a e s t , s e ­ g n a to d a i c o n tr a f f o r ti d e lle A lp i e P re a lp i C a rn ic h e e d e lle A lp i G iu lie , p ia ­ n e g g i a n t e n e l l a f a s c i a c e n t r a l e e m e r i d i o n a l e , b a g n a t a q u e s t ’u l t i m a d a i m a ­ r e A d ria tic o . N e l 1 9 2 3 , a c q u is ta p a r te d e l te r r ito r io d e lla v ic in a p ro v in c ia d i G o r i z i a , s m e m b r a t a d ’a u t o r i t à d a l f a s c i s m o , c h e p e r d e q u a t t r o a n n i d o ­ p o c o n la p a rz ia le ric o s titu z io n e d i q u e lla p ro v in c ia . N e l se c o n d o d o p o ­ g u e r r a , c o n l a c r e a z i o n e d e l l a p r o v i n c i a d i P o r d e n o n e , l ’e s t e n s i o n e s i r i d u ­ c e a g l i a t t u a l i 4 8 9 0 k m 2. I l t e r r i t o r i o , a e c o n o m i a p r e v a l e n t e m e n t e a g r i c o ­ la , è c a r a tte r iz z a to d a p ic c o la p r o p r ie tà n e lla z o n a m o n ta n a e d a m e d ie e g r a n d i a z ie n d e a c o lo n ia e m e z z a d r ia e so lo in p a r t e a c o n d u z io n e d i r e t t a in p ia n u ra . L a s te s s a c ittà d i U d in e , 6 3 0 8 9 r e s id e n ti al c e n s im e n to d e l 1 9 3 6 , è c e n tr o c o m m e rc ia le e d i se rv iz i, c o n u n a p a rz ia le p r e s e n z a in d u s tr ia le n e i s e t to r i te s s ile e s id e r u r g ic o . I l m o v im e n to a n tif a s c is ta è f o r t e d u r a n t e g li a n n i d e l r e g im e in p a r tic o la re a P o r d e n o n e , c e n tr o in d u s tr ia le te s s ile , e n e l­ la z o n a m o n ta n a , m a a n c h e n e i q u a r tie r i p e r ife r ic i o p e r a i e n e lla fa s c ia d e i c o m u n i a n o r d d e l c a p o lu o g o . I n p a r tic o la r e n e l 1 9 3 3 -3 4 s o n o a r r e s ta ti e d e f e r i t i a l T r i b u n a l e s p e c i a l e c e n t o q u a r a n t a c o m u n i s t i a t t i v i n e l l ’o r g a n i z ­ z a z io n e friu la n a . C o n f in a n te a e s t c o n i d i s tr e tti d e lle A lp i G iu lie d o v e s in d a l 1 9 4 2 s o n o a t t i v e le f o r m a z io n i p a r tig ia n e s lo v e n e , a n c h e la p r o v in c ia d i U d in e c o ­ n o s c e u n a p re c o c e p r e s e n z a p a r tig ia n a c o n la c o s titu z io n e , n e l m a rz o d e l 1 9 4 3 , d i u n p rim o d is ta c c a m e n to g a rib a ld in o ita lia n o d ip e n d e n te d a i c o ­ m a n d i s lo v e n i. D o p o il 2 5 lu g lio 1 9 4 3 , s o r g e i n c i t t à u n C o m i t a t o a n t i f a ­ s c i s t a u n i t a r i o . C o n l ’a r m i s t i z i o , l ’i n t e r a p r o v i n c i a e n t r a a f a r p a r t e d e l L i ­ to r a le A d r ia tic o , s o tto d ir e tta a m m in is tra z io n e te d e s c a . Il 15 s e tte m b re , a f­ f ia n c a to d a u n r a g g r u p p a m e n to d i G iu s tiz ia e lib e r tà (G l), si c o s titu is c e n e l F riu li o r ie n ta le il p r im o b a tta g lio n e g a r ib a ld in o F riu li, c h e d iv ie n e b r ig a ta i l m e s e s u c c e s s i v o . N e i q u a r t i e r i e n e i c o m u n i a n o r d d e l 'c a p o l u o g o - R i z ­ z i, C o lu g n a , F e le tto - si f o rm a n o a c u r a d e lla F e d e r a z io n e c o m u n is ta i p r i ­ m i G r u p p i d ’a z i o n e p a t r i o t t i c a ( G a p ) . I l 2 5 n o v e m b r e è p u r e c o s t i t u i t o i l C l n p r o v i n c i a l e , s e m p r e c o n s e d e n e l c a p o l u o g o f r i u l a n o . D a t a l ’e s t e n s i o n e

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Parte seconda

d e lla p r o v in c ia e le c o n s e g u e n ti d if f ic o ltà d i c o lle g a m e n to , la D e s tr a T a ­ g l i a m e l o s a r à c o m p e t e n z a d e l C o m i t a t o d i l i b e r a z i o n e n a z i o n a l e (C ln ) d i P o r d e n o n e m e n tr e il c o m ita to p r o v in c ia le o p e r e r à n e lla S in is tr a T a g lia m e n t o , z o n a c u i s i f a r à d ’o r a i n n a n z i r i f e r i m e n t o . N e l d i c e m b r e d e l 1 9 4 3 , e s p o n e n t i d e l l a D e , d e l P d a , d e l c l e r o e u f f i c i a l i d e l l ’e s e r c i t o d a n n o v i t a i n ­ v e c e a lla b r ig a ta O s o p p o .

Le zone libere.

D a i m e s i d i m a r z o - a p r i l e d e l 1 9 4 4 l ’a t t i v i t à p a r t i g i a n a s i

f a in te n s is s im a . N e lla ta r d a e s ta te s o n o p r e s e n ti n e lla fa s c ia m o n ta n a s e t­ te n tr io n a le la d iv is io n e G a r ib a ld i F riu li e la I I , I I I e I V b r ig a ta O s o p p o . T r a l u g l i o e a g o s t o v i e n e l i b e r a t a u n a z o n a d i q u a s i 2 5 0 0 k m 2, l a z o n a l i b e ­ r a d e lla C a rn ia e d e l F riu li, d o ta ta d a i p r im i d i s e tte m b re d i u n p r o p r io o r ­ g a n o d i g o v e r n o , n o n o s ta n te le p r o te s te d e l C ln p r o v in c ia le c h e la v e d e c o ­ si s o t t r a t t a a lla p r o p r ia c o m p e te n z a . N e lla f a s c ia c o llin a r e o r ie n ta le s o n o p r e s e n ti la d iv is io n e G a r ib a ld i N a tis o n e e la I b r ig a ta O s o p p o . A n c h e q u i v i e n e l i b e r a t a u n a z o n a d i c i r c a 3 0 0 k m 2, l a z o n a l i b e r a F r i u l i o r i e n t a l e . N e l ­ l a “ b a s s a ” f r i u l a n a o p e r a n o i r e p a r t i d e l l ’i n t e n d e n z a M o n t e s , c h e r i f o r n i ­ s c e s ia l e f o r m a z i o n i i t a l i a n e c h e iu g o s la v e , e il b a t t a g l i o n e o s o v a n o M u r a t t i . I n c ittà , in f in e , è p r e s e n te il b a tta g lio n e G a p u d in e s e , a u to r e d i u n a s e r i e d i a z i o n i a u d a c i s s i m e . N e l c o r s o d e l l ’e s t a t e , n e l l ’i n t e r a p r o v i n c i a s o ­ n o a ttiv i t r a i d ie c i e i q u in d ic im ila p a r tig ia n i, in q u a d r a ti n e lle d iv e r s e f o r ­ m a z io n i, c o a d iu v a ti d a m ig lia ia d i c o lla b o ra to ri. D iffic ile si p r e s e n ta in p ro v in c ia la q u e s tio n e d e lla u n ific a z io n e d e i c o ­ m a n d i d e lle f o r m a z io n i p a r tig ia n e , e il C ln p r o v in c ia le , q u a le o r g a n o r a p ­ p r e s e n t a n t e l ’u n i t à p o l i t i c a d e l l a R e s i s t e n z a , s i v e d e s p e s s o s c a v a l c a t o d a l ­ l ’a u t o n o m a a t t i v i t à d e l l e s t e s s e f o r m a z i o n i . I n p r i m a v e r a s o n o i c o m a n d i d e lla O s o p p o c h e v i si o p p o n g o n o , p e r d if fid e n z e a n tic o m u n is te . C o m a n ­ d a n te e d e le g a to p o litic o d e lla O s o p p o so n o p e rò a r re s ta ti e d e s titu iti su o r d i n e d e l C l n , r a t i f i c a t o d a l C o m i t a t o m i l i t a r e r e g i o n a l e v e n e t o , p e r l ’i n e f ­ f i c i e n z a m i l i t a r e d i m o s t r a t a c o n l ’o c c u p a z i o n e t e d e s c a d e l l a s t e s s a b a s e d e l ­ la b r i g a t a a P ie lu n g o il 1 9 lu g lio . I l c o lp o d i m a n o d i a lc u n i r e p a r t i p o r t a p e r ò a lla lib e r a z io n e e a l p a r z ia le r i p r i s ti n o d e i v e c c h i c o m a n d i. E c o s i s o ­ s p e s a l ’u n i f i c a z i o n e a l i v e l l o p r o v i n c i a l e ; n e l l a t a r d a e s t a t e s i f o r m a n o c o ­ m a n d i u n if ic a ti so lo in a lc u n e s itu a z io n i p a r tic o la r i, c o m e n e lla z o n a lib e r a d e l F riu li o r ie n ta le e n e lla “ b a s s a ” friu la n a , c o m a n d i c h e c a d r a n n o d e f in i­ tiv a m e n te in a u tu n n o .

La lotta armata e le implicazioni politiche.

L a r e a z io n e te d e s c a e fa s c is ta

a l l ’o f f e n s i v a p a r t i g i a n a d e l l ’e s t a t e d e l ' 4 4 è d u r i s s i m a . L a c i t t à d i U d i n e è s e d e d e i c o m a n d i p ro v in c ia li d e lla O r d n u n g p o liz e i e d e lla S c h u tz p o liz e i te d e ­ s c h e e d e lla X X X V I I I b r ig a ta n e r a , c h e c o o r d in a n o le a t tiv ità re p re s s iv e d e lle v a r ie s e d i m a n d a m e n ta li. T r a le r a p p r e s a g lie d i m a g g io r e r ile v a n z a p o s ­ s ia m o r ic o r d a r e la p u b b lic a im p ic c a g io n e d i v e n tis e i p a r tig ia n i - d i c u i t r e ­ d ic i p r o v e n ie n ti d a l c o m u n e d i F e le tto - a P re m a ria c c o e S a n G io v a n n i al

Puppini

Udine

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N a t i s o n e i l 2 9 m a g g i o 1 9 4 4 , l ’u c c i s i o n e d i q u a r a n t a d u e c i v i l i i n C a r n i a a l ­ le m a lg h e P ra m o s io , L a n z a e C o r d in e d i a ltr i d ie c i in d u e p a e s i v ic in i d a l 1 7 a l 2 0 l u g l i o , l ’u c c i s i o n e d i t r e n t a t r e c i v i l i a T o r l a n o d i N i m i s , n e l l a z o ­ n a lib e r a o r ie n ta le , il 2 5 a g o s to . N u m e r o s i i p a e s i b r u c ia ti e s a c c h e g g ia ti, in p a r tic o la re n e lla z o n a m o n ta n a . C o n l ’a u t u n n o l a s i t u a z i o n e s i f a d i f f i c i l e s i a d a l p u n t o d i v i s t a p o l i t i c o , c o n la r i c h ie s ta d e lla R e s is te n z a iu g o s la v a d i p a s s a g g io a lle p r o p r i e d i p e n ­ d e n z e d e lle f o rm a z io n i ita lia n e o p e r a n ti n e lla z o n a o r ie n ta le , s ia m ilita re , c o n l 'a v v i o d e l l a g r a n d e o f f e n s i v a t e d e s c a . T r a l a f i n e d i s e t t e m b r e e i p r i ­ m i g io r n i d i o t t o b r e c a d o n o le d u e z o n e lib e r e . N e lla f a s c ia m o n t a n a e c o l­ lin a r e s o n o in s e d ia ti d a lle a u to r ità n a z is te v e n tid u e m ila c o s a c c h i e c a u c a s i­ c i , m i l i t a r i d e l l ’A r m a t a r u s s a d i l i b e r a z i o n e , p r o v e n i e n t i d a i f r o n t i o r i e n t a ­ li c o n f a m ilia ri a l s e g u ito . M o lte s o n o le f u c ila z io n i p e r r a p p r e s a g lia d i o s ta g g i d e t e n u t i n e lle c a r c e r i c itta d in e d i v ia S p a la to ; p o s s ia m o q u i r ic o r ­ d a r e s o l o q u e l l e d i m a g g i o r r i l e v a n z a . C o s i , l ’8 n o v e m b r e 1 9 4 4 v e n g o n o p r e ­ le v a ti d a lle c a rc e ri e f u c ila ti n o v e o s ta g g i a S tra s s o ld o d i C e rv ig n a n o ; u n d e ­ c im o rie s c e a fu g g ire p r im a d e lla fu c ila z io n e . I l 3 1 g e n n a io 1 9 4 5 s o n o f u c i­ la ti a T a r c e n to , T ric e s im o e G e m o n a i n t u t t o s e d ic i p a r tig ia n i e u n o v ie n e im p ic c a to . II 7 f e b b r a io h a lu o g o u n a d e lle p iù a u d a c i a z io n i d e l b a tta g lio ­ n e D ia v o li ro s s i d e lle f o rm a z io n i G a p friu la n e , g u id a te d a G e lin d o C ito s s i « il M a n c in o » , c h e p o r t a a lla l ib e r a z io n e d i s e t t a n t a t r e p r ig io n i e r i d a lle s te s ­ se c a r c e r i d e l c a p o lu o g o friu la n o . L ’11 f e b b r a io in r is p o s ta s o n o f u c ila ti c o n ­ t r o il m u r o d e l c im ite r o d i U d in e v e n t i t r é p a r tig ia n i, q u in d ic i d e i q u a li p r o ­ v e n ie n ti d a l p ic c o lo c o m u n e d i C a v a s s o N u o v o . Il 9 a p rile , in f in e , a lla v i­ g ilia d e lla lib e r a z io n e , v e n g o n o f u c ila ti v e n tin o v e p a r tig ia n i n e l c o r tile d e l carc e re . P o litic a m e n te , le r ic h ie s te iu g o s la v e d iv id o n o la r e s is te n z a friu la n a . I n d ic e m b r e la d iv is io n e G a r ib a ld i N a tis o n e a b b a n d o n a il F r iu li e si p o r ta i n S lo v e n ia , q u a le f o r m a z io n e i t a lia n a a g li o r d in i d e i c o m a n d i s lo v e n i. I n g e n n a i o è i n v e c e l a O s o p p o p r o v i n c i a l e a f a r c a d e r e l ’u n i f i c a z i o n e d e i c o ­ m a n d i a v v ia ta lo c a lm e n te in C a r n ia , z o n a n o n i n te r e s s a ta a lla c o n te s a t e r ­ r i t o r i a l e t r a r e s i s t e n z a i t a l i a n a e i u g o s l a v a . N e l l o s t e s s o p e r i o d o l ’O s o p p o è a v v ic in a ta d a e s p o n e n ti fa s c is ti c h e p ro p o n g o n o u n f ro n te c o m u n e a n ti­ c o m u n i s t a e a n t i - i u g o s l a v o . L a p r o p o s t a è r e s p i n t a a n c h e p e r l ’i n t e r v e n t o d e i c o m a n d i a lle a ti. I l 7 f e b b r a io 1 9 4 5 u n r e p a r to G a p a r r e s t a a lle m a lg h e T o p li U o r k [P o rz ù s , e c c id io d i* ] i c o m p o n e n ti d e l c o m a n d o d e lla I b r ig a ta O s o p p o u c c id e n d o li in s e g u ito i n m o m e n ti d iv e rs i. I l p a z ie n te la v o r o d i r i ­ c u c itu r a d i e s p o n e n ti d i e n tr a m b e le fo rm a z io n i rie s c e so lo in p a r te a e v i­ ta r e la c e ra z io n i d e fin itiv e . L a r i ti r a t a te d e s c a e c o s a c c a t r a la f in e d i a p r ile e i p r im i d i m a g g io d e l 1 9 4 5 è c o s t e l l a t a d i e c c id i, t r a i q u a li la f u c ila z io n e il 2 8 e 2 9 a p r ile d i t r e n ta s e i p a rtig ia n i p r e m a tu ra m e n te in s o r ti n e i c o m u n i d i A q u ile ia e C e rv i­ g n a n o , n e lla b a s s a p ia n u r a o r ie n ta le . I l c a p o lu o g o v ie n e lib e r a to t r a il 2 9 a p r ile e il i ° m a g g io , m e n tr e a n c o r a g a r ib a ld in i e o s o v a n i s ta n n o t r a t t a n d o

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Parte seconda

p e r c re a re a lm e n o n e lla fa s e fin a le u n c o m a n d o u n if ic a to . N e l p o m e rig g io d e l i ° m a g g io a r r iv a n o i n c i t t à g li a lle a ti. I l 2 le t r u p p e n a z is te i n r i t i r a t a c o n s u m a n o g li e c c id i d i O v a r o e d i A v a s in is d i T r a s a g h is .

Nota bibliografica.

G. Gallo, La resistenza in Friuli. 1943-1945, Isr Udine, Udine 1988.

GALLIANO FOGAR T rie s te

Regime fascista e antisemitismo.

A l l a v i g i l i a d e l l ’i n t e r v e n t o i n g u e r r a

d e l l ’I t a l i a , l a s o c i e t à t r i e s t i n a o f f r i v a u n q u a d r o c h e i n s u p e r f i c i e a p p a r i v a t r a n q u i l l i z z a n t e . C ’e r a i l c o n s e n s o a l r e g i m e d e l l a m a g g i o r a n z a d e i c e t i p i c ­ c o l o e m e d i o - b o r g h e s i “ e d u c a t i ” a i d e n t i f i c a r e l ’i t a l i a n i t à c o l f a s c i s m o e p e r ­ m e a ti d a u n m a r c a to s e n s o d i s u p e r io r ità n a z io n a le , c u ltu r a le e s o c ia le su l m o n d o c o n ta d in o s la v o d i c u i p e r ò si ig n o r a v a n o le c o m p o n e n ti o p e r a ie e i n te lle ttu a li. I l c o n f r o n to /s c o n tr o f r a g li o p p o s ti p a t r i o t ti s m i a v e v a a s s u n ­ t o c o n n o ta z io n i c la s s is te o ltr e c h e d i n a z io n a lis m o e tn ic o . M a i n q u e s to c o n ­ s e n s o c o m in c ia r o n o a e m e r g e r e f r a t t u r e e te n s io n i. L e le g g i r a z z is te d e l 1 9 3 8 a v e v a n o c o l p i t o u n a p a r t e i n t e g r a n t e d e l l a b o r g h e s i a p a t r i o t t i c a e d ’o r d i n e c h e a n n o v e r a v a m i l i t a n t i d e l l ’i r r e d e n t i s m o a n t i a u s t r i a c o , e s p o n e n t i d e l m o n ­ d o im p r e n d ito r ia le e c u ltu r a le e a n c h e a d e r e n ti a l fa s c is m o . I l c e n s im e n to d e g li e b r e i tr ie s tin i r e g is tr ò c o m e ta li a n c h e i p a r e n ti “ a r ia n i” c o n v iv e n ti c o n f a m ilia ri e b r e i, e le v a n d o il n u m e r o d e g li s c h e d a ti a o ltr e 7 7 0 0 c o n tr o i 5 4 0 0 e b re i re s id e n ti a T rie s te n e l

19 3 8 ,

sc e si n e l 1 9 3 9 , p e r e m ig ra z io n i e

t r a s f e r i m e n t i , a i 2 9 0 8 i s c r i t t i a lla lo c a le c o m u n i t à . P e r il q u o t i d i a n o « I l P i c ­ c o lo » , il p iù d if fu s o in r e g io n e , d i r e t t o d a l g e r a r c a R in o A le s s i, il m o n d o d e m o c r a tic o e r a in f lu e n z a to d a « q u e l s o ttile S p irito e b r a ic o c h e p o r t a n e lle v e n e c o m e u n ’i n f e z i o n e d a c u i g u a r i r à s o l o c o n l a m o r t e » ( 2 7 l u g l i o 1 9 3 9 ) . D o p o i l p a t t o t e d e s c o - s o v i e t i c o d e l l ’a g o s t o '319, « I l P i c c o l o » e l o g i ò « l a l i ­ n e a m a e s tr a d e lla p r a t i c a s ta lin ia n a » c h e a v e v a e lim in a to g li in t e l l e t t u a l i e b r e i « t r a d i t o r i » , g u a d a g n a n d o s i il « m e r ito » d i « a v e r ria c c e s o la v e c c h ia f i a m m a d e l l ’a n t i s e m i t i s m o » ( 2 4 a g o s t o ) . C i r c a c i n q u e c e n t o a l u n n i e q u a ­ r a n t a s e i d o c e n t i f u r o n o a l l o n t a n a ti d a lle s c u o le s t a ta l i i n b a s e a lle d i r e t t iv e d e l m in is tr o B o tta i, q u i a p p lic a te c o n z e lo . D a u n m a r e d i in d if f e r e n z a a f ­ f i o r a r o n o c a u t i d i s s e n s i . A l l ’e s p u l s i o n e d e g l i e b r e i d a g l i a l b i p r o f e s s i o n a l i p a r t e c i p a r o n o a n c h e m i l i t a n t i d e l l ’i r r e d e n t i s m o p a s s a t i a l f a s c i s m o f r a c u i L u ig i R u z z ie r (p o i s e g r e ta r io d e lla lo c a le f e d e r a z io n e d e lla R e p u b b lic a s o ­ c i a l e i t a l i a n a - R s i - c o n l ’o c c u p a z i o n e t e d e s c a ) , C e s a r e P a g n i n i ( c h e i n a ­ z is ti n o m in e r a n n o p o d e s tà ), C a rlo C h e rs i e a ltri. A lc u n i d i q u e s ti fa c e v a n o p a r t e d e l l ’A s s o c i a z i o n e i t a l o g e r m a n i c a p r e s i e d u t a d a F r a n c e s c o G i u n t a , g i à c a p o d e l l o s q u a d r i s m o t r i e s t i n o n e g l i a n n i v e n t i . L ’a s s o c i a z i o n e n o n e r a c h e i l p a r a v e n t o p e r i m a n e g g i d e l c o n s o l e t e d e s c o E r n s t v o n D r u f f e l c o n l ’a l a e s t r e m i s t a d e l f a s c i s m o l o c a l e e c o n l ’a t t i v i t à s p i o n i s t i c a d e i g r u p p i n a z i s t i

6oo

Parte seconda

d e lla r e g io n e . S o rs e a n c h e u n C e n tr o p e r lo s tu d io d e l p r o b le m a e b r a ic o , v e r a e p r o p r i a c e n t r a l e i n f o r m a t i v a , d i r e t t o d a E t t o r e M a r t i n o l i , a n c h ’e g l i e x ir r e d e n tis ta , c h e p a s s ò p o i a l s e rv iz io d e i n a z is ti. Q u e s t o c l i m a , i n a s p r i t o d a l l ’i n t e n s i f i c a r s i d e l l e r e p r e s s i o n i c o n t r o l ’a n ­ tifa s c is m o ita lia n o e s la v o e d a r in n o v a te , s a n g u in o s e , s c o rr e r ie s q u a d ris tic h e i n c i t t à , i n q u i n ò il s in c e r o p a t r i o t t i s m o d i u n a g r o s s a p a r t e d e lla p o p o ­ la z io n e ita lia n a c o n d iz io n a ta d a lla « m in a c c ia sla v a » . A m o lti ita lia n i s fu g ­ g i v a i l f a t t o c h e « l ’o d i o c o n t r o l ’I t a l i a » , s t a t o d o m i n a n t e e p e r s e c u t o r e , « n o n e r a u n f i n e b e n s ì l a l o g i c a c o n s e g u e n z a d e l l ’o p p r e s s i o n e » p e r c u i l ’a n t i f a s c i s m o d e g l i s l a v i « n o n p o t e v a c h e i d e n t i f i c a r s i n e l l ’a n t i t a l i a n i t à » [ K a c in W o h in z 1 9 9 2 ]. I l « p a r o s s is m o d e lla v io le n z a » a n c h e c o n tr o le p o p o la ­ z i o n i c i v i l i c a r a t t e r i z z ò l ’u l t i m a f a s e d e l r e g i m e a T r i e s t e e n e l l a r e g i o n e a p a r t i r e d a l l ’i n v a s i o n e d e l l a I u g o s l a v i a ( 1 9 4 1 - 4 3 ) .

L ’estendersi della guerriglia.

I l p r o lu n g a rs i d e l c o n f litto e le c r e s c e n ti r e ­

s tr i z i o n i e c o n o m ic h e e a li m e n ta r i c o lp ir o n o sia le m a s s e o p e r a ie c h e i c e t i m e d i im p ie g a tiz i. L o s p ir ito p u b b lic o c o m in c iò p r e s to a v a c illa re . C r e b b e ­ r o i m a l u m o r i c o n t r o i l p a r t i t o c h e g e s t i v a l ’e c o n o m i a d i g u e r r a , c o m e r i f e ­ riv a n o a R o m a i r a p p o r ti d e i q u e s to ri d i T rie s te , G o r iz ia , P o la , F iu m e . S i d if f u s e la « s f id u c ia v e r s o g li u o m in i d e l n o s t r o g o v e r n o c o n s id e r a ti in c o m ­ p e te n ti e p r o f itta to r i» e n e l n o v e m b r e 1 9 4 2 a n c h e la c o n v in z io n e « d i u n a i m m i n e n t e d i s f a t t a d e g l i e s e r c i t i d e l l ’A s s e » ( R a p p o r t o 3 1 d i c e m b r e 1 9 4 2 d e l q u e s t o r e d i T r i e s t e a l m i n i s t e r o d e l l ’i n t e r n o , D i r e z i o n e g e n e r a l e d e l l a p u b b lic a s ic u re z z a , D iv is io n e a ffa ri g e n e ra li e r is e r v a ti, A c s , b u s ta 7 7 ). C r e b b e a n c h e l a p r e o c c u p a z i o n e f r a g l i i t a l i a n i p e r l ’a t t i v i t à p a r t i g i a n a s l o v e n a i n u n a r e g i o n e d i v e n u t a o r m a i u n ’a r t i c o l a z i o n e d e l f r o n t e b a l c a n i ­ c o . L a g u e rrig lia c o m in c iò a la m b ir e a n c h e i d in to r n i d e lle c ittà . N e l g e n ­ n a i o d e l ’4 3 i l q u e s t o r e d i G o r i z i a s e g n a l ò c h e l e a u t o r i t à n o n r i u s c i v a n o a d a rg in a rla e c h e « il p e ric o lo c o m u n is ta s o v ra s ta p u r tro p p o q u e s ta d e lic a ta z o n a d i c o n fin e » (R a p p o rto 2 5 n o v e m b re 1 9 4 2 d e l q u e s to re d i G o riz ia , R o ­ m a , I b im e s tre 1 9 4 3 , A cs, b u s ta r i ) . S d e g n o e d e m o z i o n e p r o v o c a r o n o i n q u e s t o p e r i o d o l e a t r o c i t à d e l l ’i s p e t ­ to r a t o S p e c ia le d i p u b b lic a s ic u re z z a p e r la V e n e z ia G iu lia , in s e d ia to a T r ie ­ s t e n e l l ’a p r i l e 1 9 4 2 , p e r s t r o n c a r e i l m o v i m e n t o s l a v o e l ’a n t i f a s c i s m o i t a ­ lia n o c h e e r a in g r a n p a r t e d i e s tr a z io n e o p e r a ia e c o m u n is ta e c h e a T r ie s te e a M o n f a lc o n e a v e v a a lla c c ia to r a p p o r t i d i c o lla b o r a z io n e c o n i c o m u n is ti s lo v e n i. G li e s p o n e n ti e c o n o m ic i e « I l P ic c o lo » r e s ta r o n o a n c o r a ti al re g im e f i­ n o a l l ’u l t i m o , s c h i e r a n d o s i q u i n d i c o n i m i l i t a r i d e l g o v e r n o B a d o g l i o c h e li a s s ic u r a v a n o d a lla m in a c c ia « s la v o - c o m u n is ta » e d a q u e lle d e lle m a s s e o p e r a i e . L a g e s t i o n e m i l i t a r e d a l 2 5 l u g l i o a l l ’8 s e t t e m b r e ' 4 3 , o s s e s s i o n a t a d a l l ’o r d i n e p u b b l i c o , r e p r e s s e l e m a n i f e s t a z i o n i o p e r a i e ( a M o n f a l c o n e u n m o r to e d iv e r s i f e r i t i t r a le m a e s tr a n z e d e l C a n tie r e ) , r e s p in s e le r ic h ie s te d e l c o m i t a t o d e i p a r t i t i a n t i f a s c i s t i e c o n t i n u ò a s e r v i r s i d e l l ’i s p e t t o r a t o S p e c ia le , tr a s c u r a n d o in v e c e i m o v im e n ti d e lle f o r z e te d e s c h e c h e a s s u n ­

Fogar

Trieste

601

s e r o il c o n tr o llo d e i p r i n c ip a li n o d i s tr a te g ic i e lo g is tic i f i n o a lle s o g lie d i T rie s te .

Friedrich Rainer e l ’«arbitraggio» nazista.

A l c o lla s s o m ilita r e ita lia n o

d e l l ’8 s e t t e m b r e , c h e p r o v o c ò l a d i s g r e g a z i o n e d e l l ’a s s e t t o p o l i t i c o - t e r r i t o r i a l e a c q u is ito c o n la g u e r r a d e l ’i 5 - i 8 , s u b e n t r ò il c o n t r o p o t e r e t e m p o r a ­ n e o s l o v e n o e c r o a t o n e l l e p r o v i n c e d i G o r i z i a , T r i e s t e , n e l l ’I s t r i a , c h e i m ­ p e g n ò le f o rz e te d e s c h e a n c h e c o n la p a r te c ip a z io n e d i n u m e r o s i ita lia n i. L e p rin c ip a li c ittà c a d d e ro s u b ito in m a n o te d e s c a m e n tr e la lo tta p ro s e g u i n e l te rrito rio . D o p o l ’a r m i s t i z i o s i a p r ì u n a n u o v a d r a m m a t i c a f a s e n e l l a s t o r i a d e l l a c ittà , c h e a v e v a d a to m o lti c a d u ti su i v a r i f r o n ti d e lla g u e r ra fa s c is ta e p e r ­ d u to q u a s i t u t t e le su e n a v i. A lla f in e d e lla g u e rra , d e lle s e tta n ta d u e n a v i d e l L lo y d T r ie s tin o n e r im a r r a n n o q u a t t r o c o n la p e r d i t a d i c e n tin a ia d i m a ­ r ittim i s c o m p a rs i in g ra n p a r te n e l M e d ite rr a n e o . C o n l a c r e a z i o n e d e l l a Z o n a d ’o p e r a z i o n e L i t o r a l e A d r i a t i c o e l ’i n s e ­ d ia m e n to in c i t t à d e l G a u l e i t e r a u s tr ia c o F r ie d r ic h R a in e r il 15 o tt o b r e , T r i e s t e e l a r e g i o n e e n t r a r o n o n e l l ’o r b i t a d i r e t t a d e l T e r z o R e i c h c o n i s u o i s is te m i, a c o m in c ia r e d a lla d e p o r ta z io n e e s te r m in io d e g li e b r e i a c u i il r e ­ g im e f a s c is ta a v e v a p r e p a r a to il t e r r e n o . D e i 1 2 3 5 e b r e i d e p o r t a t i n e l L i­ to r a le n e s o p r a v v is s e r o v e n tin o v e . R a in e r m irò a r id im e n s io n a r e la p r e s e n ­ z a ita lia n a (d a c u i e s c lu d e v a i friu la n i p e r c h é la d in i), a llin e a n d o la a q u e lla s lo v e n a e c r o a ta , p e r im p o r r e n e lla r e g io n e , « m o s a ic o d i p o p o li» e s g o v e r­ n a t a d a l l ’I t a l i a , l ’a r b i t r a g g i o t e d e s c o , c r e a n d o l e c o n d i z i o n i p e r u n a f u t u r a u n i o n e a l R e i c h . E s a l t ò s t r u m e n t a l m e n t e i l r u o l o d e l l a c i t t à a i t e m p i d e l l ’A u ­ s t r i a ( « f i n e s t r a d ’E u r o p a s u l M e d i t e r r a n e o » e « r e g i n a d e l l ’A d r i a t i c o » ) , r u o ­ lo c h e si s a r e b b e r a f f o r z a t o n e l p iù v a s to s p a z io g e o p o litic o g e r m a n ic o . P r o ­ m o s s e il r e c lu ta m e n to d i c o r p i d i a u to d if e s a lo c a le « d a l b o ls c e v is m o » , s ia i t a l i a n i c h e s la v i, e im p o s e il la v o r o o b b l i g a t o r io d i g u è r r a a g li u o m i n i d a i s e d i c i a i s e s s a n t ’a n n i . R i c e r c ò l a c o l l a b o r a z i o n e d e i c e t i c o n s e r v a t o r i d e l l a b o r g h e s ia s lo v e n a c o n c e d e n d o lin g u a , sc u o le , g io rn a li c a ric h i d i lin g u a g g io n a z i o n a l i s t i c o e a n t i c o m u n i s t a m a t u t t i a l l i n e a t i e c o n t r o l l a t i s o t t o « l ’a r b i ­ tra g g io » n a z is ta . A T r ie s te si a p p o g g iò a i g r u p p i e c o n o m ic i g ià p r im e g g ia n ti a i te m p i d e l l ’i m p e r o e p o i f a s c i s t i z z a t i , n o m i n a n d o p r e f e t t o s u l o r o p r o p o s t a l ’a l t o g e r a r c a B r u n o C o c e a n i ( v i c e p r e s i d e n t e d e l l ’U n i o n e I n d u s t r i a l i ) , e p o d e s t à l ’a v v o c a t o C e s a r e P a g n i n i , b e n c h é e n t r a m b i f o s s e r o e x i r r e d e n t i s t i . A i f a ­ s c is ti d e lla R s i r is e r v ò s o lo c o m p iti d i p o liz ia e a n tip a r tig ia n i s o t t o il c o n ­ t r o l l o d e l l ’a m i c o g e n e r a l e S S O d i l o L o t a r i o G l o b o c n i k , c a p o d e l l a p o l i z i a e S S n e l L ito ra le , n a to a T rie s te n e l 1 9 0 4 . G lo b o c n ik e R a in e r e ra n o c re s c iu ti a s s i e m e n e l l e f i l e d e l l ’a u s t r o n a z i s m o , l a c o m p o n e n t e p i ù f a n a t i c a d e l n a z i ­ sm o g e rm a n ic o .

I

contrasti politici e la guerra di liberazione.

C o n tr o la g u e r r a p a r tig ia n a

R a in e r , G l o b o c n i k e il g e n e r a le K u b l e r , c o m a n d a n t e d e lla W e h r m a c h t n e l

6o2

Parte seconda

L ito r a le , a p p lic a ro n o i c o n s u e ti s is te m i n a z is ti d e lle e s e c u z io n i c o lle ttiv e , d e lle c a m e re d i to r tu r a d e lla G e s ta p o , d e lle d e p o r ta z io n i d i m a s sa d e g li a b i­ t a n t i d e i n u m e r o s i p a e s i d i s t r u t t i . N e l s o lo m e s e d i a p r ile d e l 1 9 4 4 f u r o n o u c c is i a T r ie s te , p e r r a p p re s a g lia , c e n t o v e n t i t r e p a r tig ia n i e o s ta g g i c iv ili ita lia n i, slo v e n i e c ro a ti, t r a t t i d a lle c a rc e ri ( s e tta n ta d u e fu c ila ti al p o lig o ­ n o , c i n q u a n t u n o i m p i c c a t i p u b b l i c a m e n t e i n p i e n o c e n t r o c i t t à , o l t r e a lle s e ttim a n a li e s e c u z io n i n e l la g e r c itta d in o d e lla R is ie ra ). I l r e c lu ta m e n to d i s p i e , l ’a s s u n z i o n e d i c e n t i n a i a d i c i v i l i i t a l i a n i e a n c h e s l o v e n i p e r g l i a p p a ­ r a t i n a z i s t i , l ’a z i o n e d e l l ’i s p e t t o r a t o S p e c i a l e e d e g l i u f f i c i p o l i t i c i d e l l a m i ­ liz ia , la v a la n g a d i d e n u n c e a n o n im e , p r o v o c a r o n o p e r d i t e a s s a i g r a v i a lla R e s i s t e n z a i t a l i a n a d e l C l n ( c o m u n i s t i , P a r t i t o d ’a z i o n e , d e m o c r i s t i a n i , s o ­ c ia lis ti, lib e ra li) e a q u e lla d e g li s lo v e n i. T r ie s te f u in o ltr e d u r a m e n te c o l­ p i t a d a i b o m b a r d a m e n ti a e r e i c h e c a u s a r o n o c ir c a s e ic e n to m o r ti e m ig lia ia d i f e r iti e d i s in is tra ti. Il c lim a d e lla c i t t à d iv e n n e a n g o s c ia n te . G r o s s i p r o b le m i tr a v a g lia ro n o la R e s is te n z a ita lia n a a T r ie s te a c a u s a d e lle r i v e n d i c a z i o n i iu g o s la v e s u t u t t a l a V e n e z ia G i u l i a (e u n a p a r t e d e l F riu li o rie n ta le ) e la c o m p r e s e n z a in c i t t à d i d u e p a r t i t i c o m u n is ti, q u e llo i t a l i a n o e q u e l l o s l o v e n o , i l s e c o n d o f o r t e d e l l ’e g e m o n i a p o l i t i c a e m i l i t a r e c o n q u i s t a t a f r a l ’I s o n z o e i l v e c c h i o c o n f i n e . I l P e i t r i e s t i n o e r a p e r i l r i n ­ v io a l d o p o g u e r ra d e lle q u e s tio n i c o n f in a rie , c h e p e r ò n o n a p p a g a v a i c o ­ m u n is ti s lo v e n i. G l i a ltr i p a r t i t i d e l C ln ita lia n o si o p p o n e v a n o a lle a n n e s ­ s io n i iu g o s la v e . N e s o r s e ro p o le m ic h e e te n s io n i r ic o r r e n ti, te m p o r a n e a ­ m e n te r is o lte d a g li a c c o r d i lo c a li e n a z io n a li f r a P e i e P c s , f r a le G a r ib a ld i e i l I X k o r p u s , f r a i l C o m i t a t o d i l i b e r a z i o n e A l t a I t a l i a ( C l n a i ) e l ’O s v o b o d iln a f r o n ta (O f). A c c o rd i c h e n e l s e tte m b re 1 9 4 4 fu ro n o u n ila te ra lm e n te r e v o c a ti d a i c o m u n is ti s lo v e n i im p e g n a ti a f o n d o n e lla lo ro s tr a te g ia a n ­ n e s s i o n i s t a . O r m a i e r a i n g i o c o a n c h e l a s o r t e d i T r i e s t e . N e l l ’a u t u n n o '4 4 , c a t t u r a t i e u c c is i d a i n a z is ti i d ir ig e n ti d e lla f e d e r a z io n e lo c a le (L u ig i F ra u s in , N a t a l e C o la r ic h , A n t o n i o V i n c e n z o G i g a n t e e a ltr i) , il P e i t r i e s t i n o c a m ­ b iò lin e a s c h ie ra n d o s i s u lle p o s iz io n i iu g o s la v e . U s c i d a l C ln e si f u s e c o l p a r tito slo v è n o c h e a s s u n s e la d ir e z io n e d e l m o v im e n to o p e r a io o tte n e n d o l ’a p p o g g i o d e l l a m a g g i o r a n z a d e l l a c l a s s e o p e r a i a c h e v e d e v a n e l l a I u g o s l a ­ v i a d i T i t o l ’a v a n g u a r d i a d e l l ’U n i o n e S o v i e t i c a . I g i à p r e c a r i e q u i l i b r i e a c ­ c o r d i s i s f a ld a r o n o m e n tr e il r a p p r e s e n ta n te d e l P e i A lta I ta lia e d i T o g lia tti p r e s s o i v e r tic i s lo v e n i, V in c e n z o B ia n c o , f o r z a n d o le d i r e t t iv e r ic e v u te , o r ­ d i n ò a i c o m u n i s t i i t a l i a n i d e l l a r e g i o n e d i s o s t e n e r e l ’u n i o n e a l l a I u g o s l a v i a . D o p o q u e s ti s v ilu p p i il C ln t r ie s t i n o v e n n e a t r o v a r s i q u a s i is o la to in u n a c i t t à p r o s t r a t a d a l l ’o c c u p a z i o n e t e d e s c a e d i v i s a p e r l a f r a t t u r a t r a c l a s ­ se o p e r a ia e p ic c o la e m e d ia b o r g h e s ia p a tr io ttic a , d is o r ie n ta ta e t e n d e n ­ z ia lm e n te a tte n d is ta . I l c o lla b o r a z io n is m o c o n s e r v a to r e , t r a m ite il p r e f e t ­ to e il p o d e s tà , s o lle c itò il C ln a f a r b lo c c o c o n f a s c is ti e te d e s c h i p e r im ­ p e d i r e l ’o c c u p a z i o n e i u g o s l a v a d e l l a c i t t à . I l C l n , r e s p i n t e l e p r o p o s t e d e l C o c e a n i e f a l l i t o l ’a c c o r d o in extremis r i c h i e s t o d a l F r o n t e s l o v e n o p e r u n c o m ita to c itta d in o c o m u n e in c u i il C ln s a r e b b e s ta to in n e t t a m in o r a n z a d i f r o n te a u n a m a g g io ra n z a p r ò -Iu g o s la v ia , f u c o n s id e r a to d a g li s lo v e n i c o ­

Fogar

Trieste

603

m e u n n e m ic o . Il P e i A lta I ta lia , la c u i lin e a e r a s ta ta o s c illa n te e c o n tr a d ­ d i t t o r i a , c h ie s e a l C l n a i c h e il C l n t r i e s t i n o f o s s e s c io lto p e r c o lla b o r a z io ­ n is m o , m a s e n z a e s ito . I l 3 0 a p r i l e ' 4 5 c i f u r o n o d u e i n s u r r e z i o n i a p o c h e o r e l ’u n a d a l l ’a l t r a : q u e lla d e l C ln e q u e lla d e l F r o n te ita lo s lo v e n o . Il i °

m a g g io g iu n s e ro in

c i t t à le t r u p p e iu g o s la v e p r e c e d e n d o d i u n g io r n o q u e lle a n g lo a m e r ic a n e s u c u i il C ln c o n ta v a . L e u n i t à g a r ib a ld in e o p e r a n ti c o l I X k o r p u s ( N a tis o n e e T rie s te ) f u r o n o e s c lu s e d a lla lib e r a z io n e d e lla c ittà p e r o r d in e d e l P a r tito c o m u n i s t a s l o v e n o . I l 3 m a g g i o '4 5 i l c o m a n d o i u g o s l a v o d i c h i a r ò T r i e s t e a n n e s s a « a l r e s to d e lla Iu g o s la v ia » . I l C ln f u c o s tr e tto a r ie n tr a r e n e lla c la n ­ d e s t i n i t à . S e m p r e n e l m a g g i o '4 5 T o g l i a t t i , i n u n t e l e g r a m m a a S t a l i n , c r i ­ tic ò la lin e a d i T ito su T rie s te [G u a ltie ri 1 9 9 5 ]. P e s a n te f u il b ila n c io d e lle p e r d i t e d e lla R e s is te n z a a T r ie s te . A g u e r r a f in ita e n e l so lo c o m u n e d i T r ie s te , i c a d u ti s ia d e lle f o r m a z io n i d e lla R e s i­ s te n z a ita lia n a (6 0 8 ) s ia d i q u e lla iu g o s la v a (5 1 7 ) e d e l C o r p o ita lia n o d i li­ b e r a z io n e — C il — (1 3 ) a m m o n ta r o n o a 1 1 3 8 , o ltr e a i c iv ili d e p o r t a t i n e i la ­ g e r e a i m ilita ri p e r iti n e i v a ri c a m p i in G e rm a n ia .

Nota bibliografica.

A A .W ., Caduti, dispersi e vittime civili dei Comuni della Regione Friuli - Venezia Giulia nella seconda guerra mondiale, voi. IV, tomi I e II, Isr Udine, Udine 1991; A A .W ., Il set­ tembre 1 9 4 3 nell’Isontìno e nella regione. Armistizio. Occupazione tedesca. Resistenza, Comita­ to per il 50° della Liberazione, Provincia di Gorizia, Anpi-Aned-Anppia-Avl, Isr Udine, Isr Trieste, in collaborazione con l’Università di Trieste, Centro Servizi polo universitario di Gorizia, Provveditorato agli Studi di Gorizia, Gorizia 1996; Actor Spectator (C. Schiffrer), Le trattative fra il CLN e l ’OF, in «La Voce libera», 11 febbraio 1946; A. Andri e G. Mellinato, Scuola e confine. Le istituzioni educative della Venezia Giulia. 1 9 1 5 - 1 9 4 5 , «Quaderni di Qualestoria», n. 5, Trieste 1994; E. Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia ( 1 9 1 8 - 1 9 4 3 ) , Laterza, Bari 1966; B. Babic, Primorska ni klonila. Spomini na vojna leta [«Il Litorale non capitolò. Ricordi sugli anni di lotta»], Zalozba Lipa, Ko per-Capodistria 1982; S. Bon Gherardi, La persecuzione antiebraica a Trieste. 1 9 3 8 - 1 9 4 5 , Isr Trieste, Del Bianco, Udine 1972; A. Cherini e P. Valenti, Navi di linea e traffici delLloyd in 1 5 0 anni di attività. 1 8 3 6 - 1 9 8 6 , Lloyd Triestino, Trieste 1986; B. Coceani, Mussolini, Hitler, Tito alle porte orien­ tali, Cappelli, Bologna 1948; E. Collotti, Il Litorale Adriatico nel Nuovo Ordine europeo. 1 9 4 3 4 5 , Vangelista, Milano 1974; G. Fogar, Sotto l ’occupazione nazista nelle province orientali, Isr Trieste, Del Bianco, Udine 1968; Id., L ’antifascismo operaio monfalconese fra le due guerre, Comitato unitario antifascista Italcantieri Monfalcone, Vangelista, Milano 1982; G. Grassi (a cura di), Verso il governo del popolo. A tti e documenti del Clnai. 1 9 4 3 - 1 9 4 5 , Insmli, Feltri­ nelli, Milano 1977; R. Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana. Dalla Resistenza al trat­ tato di pace. 1 9 4 3 - 1 9 4 J , Editori Riuniti, Roma 1995; M. Kacin Wohinz, Orientamento na­ zionale, politico e culturale degli sloveni e dei croati nella Venezia Giulia fra le due guerre, in «Qualestoria», XVI (aprile 1988), n. 1; Id., Gli sloveni della Venezia Giulia alla,fine degli an­ ni Trenta, ivi, XX (agosto 1992); P. Pallante, Il Partito comunista italiano e la questione na­ zionale. Friuli - Venezia Giulia. 1 9 4 1 - 1 9 4 5 , Isr Udine, Del Bianco, Udine 1980; J. Pirjevec, Il giorno di S. Vito .Jugoslavia 1 9 1 8 - 1 9 9 2 . Storia di una tragedia, Nuova Eri, Torino 1993; K. Stuhlpfarrer, Le zone di operazioni Prealpi e Litorale Adriatico. 1 9 4 3 - 1 9 4 5 (1969), Libreria Adami, Gorizia 1979; R. Ursini-Ursic, Attraverso Trieste. Un rivoluzionario pacifista in una città di frontiera, Studio 1, Roma 1996.

MARCO PUPPINI G o riz ia

La situazione sociopolitica.

P o s ta a ttu a lm e n te in F riu li - V e n e z ia G i u ­

lia , a i p i e d i d e i c o n t r a f f o r t i d e lle A lp i G i u l i e l u n g o il c o n f i n e c o n la S lo v e ­ n ia e su lle r iv e d e l f iu m e I s o n z o , la c i t t à d i G o r iz ia e r a c a p o lu o g o d e lla C o n te a P rin c ip e s c a d i G o r iz ia e G r a d is c a , a u s tr ia c a d a l x v i s e c o lo . P a s s a ­ t a d e f i n i t i v a m e n t e a l R e g n o d ’I t a l i a n e l 1 9 1 8 d o p o e s s e r e s t a t a i m m e d i a t a r e t r o v i a d e l f r o n t e d e l l ’I s o n z o d u r a n t e l a p r i m a g u e r r a m o n d i a l e , d i v i e n e c a p o lu o g o d i u n a p r o v in c ia d i q u a s i 4 5 0 0 k m 2 c o n u n a p o p o la z io n e d i 3 2 0 0 0 0 a b ita n ti, c o m p r e n s iv a d i u n a fa s c ia p ia n e g g ia n te a b ita ta in p r e v a ­ le n z a d a p o p o la z io n e ita lia n a e d i e tn ia friu la n a , e d i u n a p a r te m o n tu o s a s o p r a ttu tto s lo v e n a . L a p ro v in c ia è a b o lita e in b u o n a p a r te a g g re g a ta a q u e l­ la d i U d in e n e l 1 9 2 3 p e r n e u tr a liz z a r e p o litic a m e n te la m a s s ic c ia p r e s e n z a slo v e n a ; v ie n e r ic o s titu ita n e l 1 9 2 7 s e n z a i m a n d a m e n ti d i M o n f a lc o n e , P o s tu m ia , T a rv is io e S e sa n a , c o n u n te r r ito r io d i 2 7 2 9 k m 2 e u n a p o p o la z io ­ n e c h e n e l 1 9 3 6 a m m o n ta a 2 0 0 1 5 2 a b ita n ti. L a c ittà c a p o lu o g o n e llo s te s ­ so p e r io d o c o n ta 4 6 6 4 0 a b ita n ti, e d è c e n tr o d i im p o rta n z a c o m m e rc ia le e s e d e d i m a n if a ttu r e te s s ili e m e ta llu rg ic h e c h e o c c u p a n o n e g li a n n i v e n ti o l­ t r e d u e m ila o p e ra i. D a ta la p o s iz io n e d e lla c ittà al c o n f in e f r a te r r ito r i a b i­ t a t i d a p o p o la z io n e d i n a z io n a lità ita lia n a e s lo v e n a , la p o litic a f a s c is ta d i s n a z io n a liz z a z io n e è p a r tic o la r m e n te d e c is a , c o n la c h iu s u ra d i c irc o li, a s­ s o c i a z i o n i , c o o p e r a t i v e e c o n l a p r o i b i z i o n e d e l l ’u s o p u b b l i c o d e l l a l i n g u a s l o ­ v e n a , c o n v io le n z e s q u a d r i s t ic h e c h e c o n t i n u a n o l u n g o t u t t o il v e n t e n n i o . I n r is p o s ta si s v ilu p p a n e g li a n n i v e n ti il m o v im e n to ir r e d e n tis ta slo v e n o d e lla T r s t I s t r a G o r ic a R ije k a (T ig r), a u to r e d i u n a s e rie d i a z io n i a r m a te . N e l d ic e m b r e d e l 1 9 3 5 il M o v im e n to n a z io n a le r iv o lu z io n a rio d e g li s lo v e ­ n i e d e i c r o a ti, s o r to d a lla c ris i d e l T ig r , a r riv a a u n a c c o r d o c o n il P a r tito c o m u n i s t a d ’I t a l i a ( P e d i ) . L ’o r g a n i z z a z i o n e c o m u n i s t a d e l l a V e n e z i a G i u ­ lia , r a d ic a ta s o p r a t t u t t o n e i c a n tie r i n a v a li d i M o n f a lc o n e , n e lla b a s s a p ia ­ n u r a f riu la n a e su l C o llio , è la p iù e s te s a e o p e r a tiv a e s is te n te i n I ta lia n e ­ g li a n n i t r e n t a . F r a 1 9 3 4 e 1 9 3 5 s o n o o p e r a t i q u a s i d u e c e n to a r r e s ti d i m i­ l i t a n t i c o m u n is ti i n t u t t a la z o n a , a lc u n i v e n g o n o c o n d a n n a ti d a l T r ib u n a le sp e c ia le a m o lti a n n i d i c a r c e re . A n c h e b u o n a p a r te d e l c le ro slo v e n o , im ­ p e d ito a u s a re la p r o p r ia lin g u a n e lle a t tiv ità p a s to ra li, m a tu r a p o s iz io n i a n ­ tifa s c is te . C o n lo s c o p p io d e lla g u e rra , m o lti g io v a n i s lo v e n i d e lla z o n a s o n o d i s c r i m i n a t i c o n l ’a r r u o l a m e n t o n e i c o s i d d e t t i B a t t a g l i o n i s p e c i a l i . L a c i t t à

Puppini

Gorizia

£05

d i v i e n e r e t r o v i a d e l f r o n t e b a l c a n i c o d o p o l ’i n v a s i o n e i t a l i a n a d e l l a I u g o s l a ­ v ia ; m o lte fa m ig lie s lo v e n e d e lla z o n a v e n g o n o re c lu s e n e i lo c a li d e l c o to ­ n ific io d i S d ra u s s in a , a d ib ito a p r ig io n e , e a s s e g n a te in s e g u ito a l c a m p o d i i n t e r n a m e n t o d i G o n a r s , i n p r o v i n c i a d i U d i n e , o a d a l t r i c a m p i c o n sim ili

La lotta italoiugoslava al nazifascismo.

L e v a lla te c a rs ic h e r e tr o s ta n ti la

c ittà c o n o s c o n o u n a p re c o c e p r e s e n z a p a r tig ia n a , c o n la fo rm a z io n e d e l b a t ­ t a g l i o n e G r e g o r c i c n e l l ’a g o s t o d e l 1 9 4 2 . I l b a t t a g l i o n e d i v i e n e b r i g a t a n e l ­ l ’a p r i l e d e l 1 9 4 3 e d è a f f i a n c a t o d a l l a b r i g a t a G r a d n i k ; a l l a f i n e d e l 1 9 4 3 l e f o rm a z io n i s o n o in q u a d r a te n e l I X k o r p u s iu g o sla v o . S in o a l s e tte m b r e d e l 1 9 4 3 è l ’e s e r c i t o i t a l i a n o a s v o l g e r e i n z o n a r a s t r e l l a m e n t i c o n t r o l e f o r m a ­ z io n i p a r tig ia n e , c o n u c c is io n i e in te r n a m e n to a n c h e d i c iv ili. N e i g io r n i c h e s e g u o n o l ’a r m i s t i z i o l a c i t t à e i l s u o r e t r o t e r r a s o n o f r o n t e d e l l a c o s i d ­ d e tta « b a tta g lia d i G o r iz ia » , c h e v e d e im p e g n a ti c irc a q u in d ic im ila te d e ­ sc h i d e lla 7 i a d iv is io n e d i f a n te ria , d e l 4 4 0 g r a n a tie r i e d e l I I c o rp o c o ra z ­ z a to d e lle S S , e q u a ttr o -c in q u e m ila p a r tig ia n i d e i d is ta c c a m e n ti d e l L ito r a ­ le a l c u i i n t e r n o è in q u a d r a ta a n c h e la b r ig a ta P r o le ta r ia , f o r m a ta d a u n m ig lia io d i o p e r a i ita lia n i in b u o n a p a r t e p r o v e n ie n ti d a i c a n tie r i n a v a li d i M o n fa lc o n e . C ittà e d in to rn i s o n o o c c u p a ti d a i te d e s c h i v e rs o la fin e d e l m e s e . I n o t t o b r e si f o r m a il C o m i t a t o d i lib e r a z io n e n a z io n a le (C ln ) d i G o ­ r i z i a c o n l a p r e s e n z a d e i p a r t i t i c o m u n i s t a , s o c i a l i s t a , d e m o c r i s t i a n o e d ’a z i o ­ n e ; in s e g u ito a d e r ir à a l c o m ita to a n c h e il P a r t it o lib e r a le . I l C ln r a p p r e ­ s e n ta in p ro v in c ia la c o m p o n e n te ita lia n a d e lla R e s is te n z a . D o p o g li a c c o r d i p r e s i d a e s p o n e n ti d e lla G a r ib a ld i F r iu li e d e lla R e s i­ s te n z a iu g o s la v a n e l v illa g g io c a rs ic o d i J m e n ie il 13 n o v e m b r e 1 9 4 3 , a n c h e il C ln d i G o r iz ia p e r v ie n e , il 2 9 a p r ile 1 9 4 4 n e l p a e s in o d i G a b r ia , a d a c ­ c o r d i c o n r a p p r e s e n ta n ti d e l I X k o r p u s . E s s i p r e v e d o n o il r in v io a f in e g u e r ­ r a d e lle d is p u te te r r ito r ia li, e rib a d is c o n o la p r e m in e n z a d e lla l o tta al n a z i­ fa s c is m o c o n d o tta c o n o rg a n iz z a z io n i a u to n o m e , ita lia n e e iu g o s la v e , m a c o o r d i n a t e d a u n a p p o s i t o c o m i t a t o . I l C l n d i G o r i z i a , d ’a l t r o c a n t o , n o n è a f fia n c a to d a f o rm a z io n i p a r tig ia n e ita lia n e , le d iv is io n i g a r ib a ld in e e o so v a n e a t t i v e n e l v ic in o F r i u l i n o n s o n o p r e s e n t i i n c i t t à , e il c o m i t a t o è a p ­ p o g g ia to d a r e p a r ti in f iltr a ti n e lla G u a r d ia c iv ic a , i s t itu ita a s u o te m p o d a i t e d e s c h i , e n e i c a r a b i n i e r i . N e l l ’e s t a t e d e l 1 9 4 4 l ’a t t i v i t à m i l i t a r e p a r t i g i a ­ n a c o n o s c e in o g n i m o d o u n g r a n d e s v ilu p p o . L e f o rm a z io n i d e l I X k o rp u s l i b e r a n o d i f a t t o u n ’a m p i a a r e a s u l l e A l p i G i u l i e e s u l C o l l i o r e t r o s t a n t i G o ­ r iz ia , d o v e in s e d ia n o c o m ita ti d i F r o n te p o p o la r e e o r g a n is m i c iv ili, m e n tr e n e lla p ia n u r a a g is c o n o i r e p a r ti d e lla I n te n d e n z a M o n te s , d ip e n d e n te d a lla G a r ib a ld i F riu li m a c o n la rg h i m a rg in i d i a u to n o m ia , c h e rifo rn is c e d i v iv e ­ r i e m a te r ia li s ia le f o r m a z io n i iu g o s la v e c h e q u e lle ita lia n e . I n c i t t à v e n g o ­ n o p iù v o lte f a t t e s a lta re le lin e e f e rr o v ia r ie p e r U d in e e T a rv is io e le c e n ­ t r a l i i d r o e l e t t r i c h e s u l l ’I s o n z o . N u m e r o s e l e r a p p r e s a g l i e n a z i s t e n e i v i l l a g ­ g i d e l C a r s o e d e l C o l l i o ; e m b l e m a t i c a l a d i s t r u z i o n e d e l l ’a b i t a t o d i P e t e r n e l , s u l C o llio , d o v e i te d e s c h i il 2 2 m a g g io 1 9 4 4 u c c id o n o , b r u c ia n d o li v iv i, v e n tid u e a b ita n ti. U n n u m e r o im p re c is a to d i p a rtig ia n i, c a ttu r a ti n e i d in ­

6o6

Parte seconda

t o r n i , v i e n e f u c i l a t o a l l ’i n t e r n o d e l c a s t e l l o d i o r i g i n e m e d i e v a l e c h e d o m i ­ n a la c ittà . 4 0 4 so n o i re s id e n ti in c ittà , n e i su o i a ttu a li c o n fin i, c a d u ti n e l c o rs o d e lla l o t t a d i lib e r a z io n e c o n le f o rm a z io n i p a r tig ia n e iu g o s la v e e i t a ­ lia n e . A lla f i n e d i a g o s to d e l 1 9 4 4 i r a p p r e s e n t a n t i d e l I X k o r p u s c h i e d o n o il p a s s a g g io d e g li u o m in i d e l C ln a lle lo r o d ip e n d e n z e . I l C ln r i f i u t a , m a l a s u a p r e s e n z a è i n d e b o l i t a a n c h e d a l l ’a r r e s t o e d a l l a d e p o r t a z i o n e i n G e r m a n i a d i q u a ttr o d e i s u o i m e m b r i (tre n o n f a r a n n o r ito r n o ) .

La liberazione e l ’amministrazione iugoslava.

N e l l ’a u t u n n o i r a p p o r t i t r a

r e s is te n z a ita lia n a e iu g o s la v a si d e te r io r a n o in t u t t a la r e g io n e e a n c h e in p r o v in c ia , m e n tr e si f a d iffic ile la s te s s a s itu a z io n e m ilita re . A lla v ig ilia d e l­ la lib e r a z io n e v ie n e r ic o s titu ito u n c o m ita to m is to ita lo s lo v e n o . I l 2 9 -3 0 a p rile 1 9 4 5 la c ittà è tr a v e r s a ta d a m ig lia ia d i c e tn ic i, c o m b a tte n ti m o n a r ­ c h ic i iu g o s la v i a lle a ti d e i n a z is ti, c h e si a b b a n d o n a n o a sa c c h e g g i e u c c i­ d o n o o ltr e c in q u a n ta p e r s o n e , t r a le q u a li d iv e r s i o p e r a i c h e d if e n d o n o a r ­ m a ti le f a b b r ic h e c itta d in e . I l i ° m a g g io a r riv a n o i r e p a r ti d e l I X k o r p u s s lo v e n o . T r a il i ° m a g g io e il 12 g iu g n o la c i t t à è s o tto a m m in is tr a z io n e iu ­ g o s la v a . V ie n e a r r e s ta to o ltr e u n m ig lia io d i p e r s o n e , b u o n a p a r t e d e lle q u a ­ l i p e r ò v i e n e r i m e s s a i n l i b e r t à q u a l c h e t e m p o d o p o . N o n c ’è c o n c o r d a n z a d i v e d u t e t r a g li s to r ic i s u l n u m e r o d e i g o r iz ia n i c h e m u o io n o n e i c a m p i d i d e p o r ta z io n e iu g o s la v i o , i n m is u r a m in o re , n e lle f o ib e c a rs ic h e . E s a g e r a to a p p a r e il n u m e r o d i 6 6 5 in c is o su l la p id a r io s itu a to n e l c e n tr o c itta d in o , m e n t r e d a t a l u n i è c o n s i d e r a t a r i d u t t i v a l a c i f r a d i 3 5 8 p r o p o s t a d a l l ’i s t i ­ tu to f riu la n o p e r la s to r ia d e l m o v im e n to d i lib e ra z io n e . F r a i d is p e rs i n e i c a m p i iu g o s la v i a n c h e d u e m e m b r i d e l C ln d i G o r iz ia , c h e a v e v a n o s o s ti­ t u i t o i d e p o r t a t i i n G e r m a n i a d e l l ’a u t u n n o d e l 1 9 4 4 , c o n t r a r i a l l ’a n n e s s i o ­ n e d e lla c i t t à a lla r e p u b b lic a iu g o s la v a . F ra g iu g n o 1 9 4 5 e s e tte m b re 1 9 4 7 , G o riz ia è a m m in is tr a ta d a l g o v e rn o m ilita r e a lle a to . N e l s e tte m b r e 1 9 4 7 , c o n il T r a t t a t o d i p a c e d i P a r ig i, la c ittà r ito r n a e n tr o i c o n fin i d e llo s ta to ita lia n o m e n tr e b u o n a p a r te d e l te r ­ r ito r io p r o v in c ia le p a s s a a lla r e p u b b lic a d i Iu g o s la v ia .

Nota bibliografica.

AA.W ., Caduti, dispersi e vittime civili dei Comuni della Regione Friuli - Venezia Giulia nella seconda guerra mondiale, III. Provincia di Gorizia, Isr Udine, Udine 1990; F. Dolinar e L. Tavano (a cura di), Chiesa e società nel goriziano fra guerra e movimento di liberazione, Isti­ tuto di storia sociale e religiosa - Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei, Gorizia 1997; T. Sala, Gorizia 1942 : il secondo fronte partigiano al confine orientale nelle relazioni di'polizia e comandi militari, in «Il M ovim ento di Liberazione in Italia», n. 111 (aprile-giugno 1973).

MILAN PAHOR L a p r o v in c ia d i L u b ia n a

L ’annessione a l Regno d ’Italia.

S e c o n d o le f o n ti s to ric h e f u H itle r a

s m e m b r a r e il R e g n o d e lla Iu g o s la v ia , e s u c c e s s iv a m e n te a d is tr ib u ir n e le v a ­ r ie p a r t i f r a p a e s i v ic in i e a lle a ti. S e c o n d o le s u e d ir e ttiv e d e l 3 e d e l 12 a p r i­ l e 1 9 4 1 a l l ’I t a l i a v e n n e a s s e g n a t a l a p a r t e m e r i d i o n a l e d e l l a S l o v e n i a c e n ­ t r a l e , v a l e a d i r e l a N o t r a n j s k a (o C a r n i o l a I n t e r n a ) - l a c u i p a r t e o c c i d e n t a ­ l e e r a g i à s t a t a i n g l o b a t a n e l R e g n o d ’I t a l i a c o n i l t r a t t a t o d i R a p a l l o - , l a D o le n js k a (o C a r n io la I n f e r io r e ) - la c u i p a r t e s e t te n t r i o n a l e f u t e n u t a d a l­ l a G e r m a n i a , c h e l ’a n n e s s e a l l a S t i r i a I n f e r i o r e - e L u b i a n a . L e n u o v e d e ­ lim ita z io n i n o n te n e v a n o n e s s u n c o n to d e lla p r e e s is te n te s u d d iv is io n e t e r ­ r ito r ia le , m a s o lta n to d e lle e s ig e n z e d i c a r a tte r e s tr a te g ic o e m ilita r e d e g li o c c u p a n ti. L e lin e e d e f in itiv e v e n n e r o m e s s e a p u n to d a u n a c o m m is s io n e m is ta c h e n e d e l i m i t ò i c o n f i n i d u r a n t e l ’e s t a t e d e l 1 9 4 1 . L a d e m a r c a z i o n e d e l l a p r o v in c ia d i L u b ia n a v e n n e a c o in c id e r e a n o r d e a e s t c o n il n u o v o c o n f i­ n e ita lo te d e s c o e ita lo c r o a to , s e c o n d o g li a c c o r d i s tip u la ti t r a g li s ta ti in c a u ­ s a i l 1 8 m a g g i o e l ’8 l u g l i o 1 9 4 1 ; a s u d e a o v e s t e s s a c o n f i n a v a i n v e c e c o n l ’a c c r e s c i u t a p r o v i n c i a d i F i u m e e c o n q u e l l a d i T r i e s t e e G o r i z i a . C o s ì d a i m o n ti d i G o r ja n c i v e rs o s u d e o v e s t la f r o n tie r a c o r re v a lu n g o la lin e a p r e e ­ s is te n te d e lla e x B a n o v in a d e lla D r a v a . I n s e n s a to e r a il c o n f in e p r e s s o la c i t t à d i L u b ia n a , p o ic h é ta g lia v a f u o r i d a lla c i t t à n o n s o lta n to il v ic in o r e ­ tr o te r r a , m a a d d ir ittu r a a lc u n i s o b b o rg h i. L a p r o v i n c i a d i vL u b i a n a c o m p r e n d e v a u n c o m u n e a u t o n o m o ( L u b i a n a ) e c in q u e d i s t r e t t i (C rn o m e lj, N o v o m e s to , K o c e v je , L o g a te c , L u b ia n a ) c o n n o v a n t a q u a t t r o c o m u n i , p e r u n a s u p e r f i c i e t o t a l e d i 4 5 4 4 k m 2. Q u a n d o , p e r l ’o r d i n e d i M u s s o l i n i , l ’a m m i n i s t r a z i o n e c i v i l e i t a l i a n a p r o c e d e t t e a l c e n s im e n to d e lla p o p o la z io n e il 3 1 lu g lio 1 9 4 1 , r is u lta r o n o r e s id e n ti 3 3 9 7 5 1 a b ita n ti; la s tr a g r a n d e m a g g io r a n z a d e lla p o p o la z io n e e r a c o s titu ita d a slo ­ v e n i ( 9 3 , 8 p e r c e n t o ) , m a c ’e r a n o a n c h e 1 3 5 8 0 t e d e s c h i , 5 0 5 3 c r o a t i , 5 1 1 s e rb i, 4 5 8 ita lia n i e 1 3 7 6 d i a ltr e n a z io n a lità . L o s t a t o i t a l i a n o a f f r e t t ò l ’a n n e s s i o n e d e l l a p r o v i n c i a d i L u b i a n a a l R e ­ g n o d ’I t a l i a . C i ò a v v e n n e g i à i l 3 m a g g i o 1 9 4 1 - q u a n d o t r a I t a l i a e G e r ­ m a n i a n o n e r a a n c o r a s t a t o s t i p u l a t o l ’a c c o r d o s u l l a d e l i m i t a z i o n e d e i c o n ­ f i n i ( d e l l ’8 l u g l i o s e g u e n t e ) - c o n i l r e g i o d e c r e t o n . 2 9 1 , c h e l a C a m e r a d e i fa s c i e d e lle c o r p o ra z io n i c o n f e r m ò n e lla s e d u ta d e l 1 0 g iu g n o , m a f u c o n ­

6o8

Parte seconda

v a l i d a t a s o l t a n t o il 1 5 a p r ile 1 9 4 3 d a lla C o m m is s io n e le g is la tiv a p e r g li a f ­ f a r i i n t e r n i e d e lla g iu s t i z i a d e l S e n a t o . S o lo il 2 7 a p r ile 1 9 4 3 il r e e il d u c e f ir m a r o n o la r is o lu z io n e c ir c a la c o n v e r s io n e in le g g e d e l r e g io d e c r e to s u l l ’a n n e s s i o n e . Q u a n t o a l l ’a n n e s s i o n e d i a l t r e p r o v i n c e ( F i u m e - R i j e k a , L i ­ to ra le c ro a to - H r v a ts k o P rim o rje , p ro v in c e d i S p a la to -S p lit e d i C a tta ro K o t o r , B o c c h e d i C a t t a r o - B o k a K o t o r s k a ) s i a s p e t t ò l ’a c c o r d o c o n i l n u o ­ v o s ta to in d ip e n d e n te d i C ro a z ia (N e z a v is n a D r z a v a H r v a ts k a ) s tip u la to a R o m a il 1 8 m a g g io 1 9 4 1 .

Il potenziale economico. D a l p u n t o d i v i s t a e c o n o m i c o l a p r o v i n c i a d i L u b ia n a e r a p iù p o v e r a r i s p e t t o a lle a ltr e p a r t i d e lla S lo v e n ia . L a m a g g io ­ r a n z a d e g li a b ita n ti si o c c u p a v a d i a g r ic o ltu ra e d i a lle v a m e n to e la p r o p r ie tà a g r i c o l a e r a m o l t o f r a z i o n a t a ; i l b o s c o c o p r i v a q u a s i 1 9 0 0 0 0 k m 2, c i r c a i l q u a r a n t a p e r c e n t o d e l l ’i n t e r a s u p e r f i c i e . N e l t e r r i t o r i o p o i d i v e n t a t o p r o ­ v in c ia d i L u b ia n a si c o n ta v a n o n e l 1 9 3 9 2 2 0 0 0 0 c a p i d i b e s tia m e (tra b o v i­ n i, s u in i, e q u in i, o v in i e c a p rin i). L ’i n d u s t r i a e r a r e l a t i v a m e n t e p o c o s v i l u p p a t a , p o i c h é l e a r e e p r i n c i p a ­ li s i tr o v a v a n o f u o r i d a lla p r o v in c ia : M a r ib o r , C e lje , K r a n j, J e s e n ic e ; s c a r ­ se g g ia v a n o a n c h e le m a te r ie p r im e ( tr a n n e il le g n a m e ) c u i si d o v e v a p r o v ­ v e d e r e c o n l ’i m p o r t a z i o n e . I m a g g i o r i b a c i n i c a r b o n i f e r i e r a n o i n f a t t i o l ­ t r e c o n f in e (T rb o v lje , H r a s tn ik , Z a g o rje ), m e n tr e su l te r r ito r io e s is te v a n o s o lta n to p ic c o le m in ie r e , c o m e q u e lle d i K o c e v je e K rm e lj. L e u n ic h e d u e im p o r ta n ti c e n tr a li e le ttr ic h e , q u e lla id r ic a a Z a g ra d e c e q u e lla te r m ic a a L u b ia n a , c o p r iv a n o in m in im a p a r t e il f a b b is o g n o in t e r n o , p e r c u i il n o v a n t a d u e p e r c e n t o d e l l ’e n e r g i a e l e t t r i c a s i d o v e v a i m p o r t a r e . L ’u n i c a g r a n ­ d e r is o r s a d e lla r e g io n e e r a c o s titu ita d a lla p r o d u z io n e d i le g n a m e . I b o ­ s c h i c o p r iv a n o c ir c a 1 9 0 0 0 0 k m 2d i t e r r ito r io a lim e n ta n d o la f io r e n te i n ­ d u s tr ia d e l le g n o . N e lla p r o v in c ia si c o n ta v a n o d u e c e n to q u a r a n ta se g h e rie , c o n c e n tr a te s o p r a t t u t t o n e lle z o n e d e l la g o d i C e r k n ic a , d i K o c e v je e p r e s ­ so le D o le n js k e T o p lic e ; la p r in c ip a le z o n a c a r ta r ia in d u s tr ia le e r a s itu a ta n e l l a l o c a l i t à d i V e v c e . L ’I t a l i a e r a m o l t o i n t e r e s s a t a a i m p o r t a r e i l l e g n a ­ m e , e s o l l e c i t a v a l ’a m m i n i s t r a z i o n e c i v i l e a d a u m e n t a r e i l t a g l i o d e i b o s c h i e la s u c c e s s iv a im p o r ta z io n e ; i m a s s im i v a lo ri r e la tiv i a lla p r o d u z io n e e al c o m m e r c io n e l s e t to r e si r e g i s t r a r o n o n e l g iu g n o d e l 1 9 4 3 . T r a g li a ltr i s e t ­ t o r i p r o d u t t i v i a v e v a n o u n a q u a l c h e i m p o r t a n z a l e i n d u s t r i e t e s s i l i , c o n g li s t a b i l i m e n t i a L u b i a n a , N o v o m e s t o e G r o s u p l j e , , l ’i n d u s t r i a d e l c u o i o , c o n g l i s t a b i l i m e n t i d i V r h n i k a , M o k r o n o g , S t i c n a e Z u z e m b e r k , l ’i n d u s t r i a c h i ­ m ic a ( M o s te ) e m e t a l l u r g i c a (la S a t u r n u s d i L u b ia n a ) . I l p r o b l e m a d e l l a v a ­ lu ta , c o s titu ito d a l r a p p o rto tr a lira e d in a ro , v e n n e a c o m p lic a re u lte r io r ­ m e n te la s itu a z io n e e c o n o m ic a . N e lla p r o v in c ia e s is te v a n o s e d ic i i s t itu ti f i n a n z i a r i e d i c r e d i t o , a i q u a l i s i a g g i u n s e u n a f i l i a l e d e l l a B a n c a d ’I t a l i a . Il te n ta tiv o d i in s e rim e n to d i d u e a ltre g ra n d i b a n c h e , la B a n c a C o m m e r­ c ia le I ta lia n a e il B a n c o d i R o m a , n o n e b b e in v e c e il s u c c e s s o s p e r a to .

GALLIANO FOGAR Is tria

Requisiti della provincia istriana.

L a p e n is o la is tr ia n a , la c u i s u p e rfic ie è

d i 4 3 0 0 k m 2, c o m p r e n d e g e o g r a f i c a m e n t e a n c h e T r i e s t e ; d a l p u n t o d i v i s t a a m m in is tr a tiv o , p e r ò , la g r a n p a r t e d e l s u o te r r i t o r i o f u a s s e g n a ta a lla n e o c o s titu ita p ro v in c ia d e llT s tr ia c o n p r e f e ttu r a a P o la (4 6 2 5 9 a b ita n ti e se d e d i u n c a n t i e r e n a v a le ) c o n il r e g io d e c r e t o 1 8 g e n n a i o 1 9 2 3 . L a n u o v a p r o ­ v in c ia , d i c u i fe c e r o p a r t e a n c h e le is o le d i C h e rs o e L u s s in o , a v e v a u n a s u ­ p e r fic ie d i 3 7 0 5 k m 2 e , s e c o n d o il c e n s im e n to d e l 1 9 3 6 , 2 9 6 4 6 0 a b ita n ti. Il 2 4 fe b b ra io 1 9 2 4 f u c o s titu ita la p ro v in c ia d e l C a rn a ro c o n p r e f e ttu r a a F iu m e ( 5 6 6 7 1 a b ita n ti) , n e lla q u a le v e n n e r o in c o r p o ra te a n c h e a lc u n e p a r ­ t i d i q u e l l e d i T r i e s t e e d e l l ’I s t r i a , p e r c u i l a s u a s u p e r f i c i e r i s u l t ò d i 1 0 1 1 k m 2. N e l 1 9 3 9 u n c e n s i m e n t o “ r i s e r v a t o ” s u l l a c o m p o s i z i o n e e t n i c a d e l l e r e g io n i m is tilin g u i o r d in a to d a l g o v e rn o fa s c is ta r e g is tr ò p e r la V e n e z ia G i u ­ lia 1 0 2 2 5 9 3 a b ita n ti, c o m p re s a la c ittà d i Z a r a in D a lm a z ia ( 2 5 3 0 2 a b i­ t a n ti) m a e s c lu s o il F riu li. D i e s s i 4 0 2 0 9 1 e r a n o “ a llo g lo tti” ( 3 9 ,5 % ) , f r a s lo v e n i ( 2 5 2 9 1 6 , il 2 4 ,7 % ) e c r o a t i ( 1 3 4 9 4 5 , il 1 3 ,2 % ) . I l p r e f e t t o d i P o la c o m u n ic ò c h e n e lla s u a p ro v in c ia la p o p o la z io n e c o n ta v a 3 0 2 9 8 0 a b ita n ti, d i c u i 1 4 0 8 0 5 “ a llo g lo tti” in g r a n p a r t e c r o a ti e il r e s to s lo v e n i. V a te n u t o c o n t o c h e f r a l e d u e g u e r r e n u m e r o s i f u r o n o g l i s l o v e n i e c r o a t i che emigra­

rono

a n c h e d a lla p r o v in c ia d i P o la [ A A . W . 1 9 8 5 ; P e rs e lli 1 9 9 3 ; S a la 1 9 7 3 ;

V a lu s s i 1 9 7 2 ]. Il p a e s a g g i o i s t r i a n o p r e s e n t a m a r c a t e d i v e r s i t à . L e z o n e f e r t i l i d e l l ’I s t r i a m e d ia n a (Is tria v e rd e ) e q u e lle in d u s tr ia liz z a te d i T rie s te si a lte r n a n o a d a r e e c a r s i c h e d a l c l i m a a s p r o , e c o n u n ’i d r o g r a f i a s o t t e r r a n e a c o n i f i u m i T i m a v o e R e c i n a - F i u m a r a ; i f i u m i d e l l ’I s t r i a c h e s f o c i a n o n e l l ’A l t o A d r i a t i c o s o n o , o ltr e a l T im a v o , la D r a g o g n a , il Q u i e t o e il R is a n o . L a m o r fo lo g ia t e r ­ r e s tr e è s p e ss o c o llin o s a , tr a n n e c h e p e r la c a te n a d e l M o n te M a g g io re (U c k a ) c h e to c c a i 1 3 9 6 m e tr i. Il p o p o la m e n to u r b a n o , c o n c e n tr i g r a n d i e p ic c o ­ l i , p r e v a l e f r a T r i e s t e e P o l a e i n a l c u n e z o n e d e l l ’I s t r i a « l i b u r n i c a » f r a P o ­ l a e F i u m e ; q u e l l o r u r a l e , c o n p i c c o l i v i l l a g g i s p a r s i e u n ’a g r i c o l t u r a d i s u s ­ s is te n z a o s ilv o - p a s to r a le , p r e d o m in a in d iv e r s e a r e e in te r n e .

Il

fascismo e la guerra.

I l fa s c is m o in n e s tò n e l m o n d o is tr ia n o u n a v io ­

le n z a e s tr a n e a a l c o n te s to a u s tro u n g a r ic o . A lla d e v a s ta n te v io le n z a sq u a d r is tic a s e g u ì q u e lla p ia n if ic a ta d i s ta to c o n tr o i s t i t u t i e p o p o la z io n i s la v e ,

6i o

Parte seconda

m a a n c h e ita lia n e , c h e s c o n v o ls e e q u ilib r i, r a p p o r ti i n te r e tn ic i d i c o n v iv e n z a e s itu a z io n i e c o n o m ic h e g ià p r e c a r ie . L a p r e s e n z a s lo v e n a e c r o a ta , m o lto f o r te n e lla c a m p a g n a , a v e v a a n c h e n u c le i d i b o rg h e s ia c itta d in a ( p o rta to r i d i u n a c o s c ie n z a n a z io n a le ) e d i o p e r a i s i m p a t i z z a n t i p e r il m o v i m e n t o s o ­ c ia lis ta [ A A . W . 1 9 8 5 ]. L ’e n t r a t a i n g u e r r a d e l l ’I t a l i a n e l 1 9 4 0 , c h e a p r i u n a f a s e d i i n t e n s i f i ­ c a te r e p r e s s io n i, m is e p e r ò i n c r is i g li a s s e tti p o litic i e d e c o n o m ic i d e llo s t a to in u n a r e g io n e s e m p r e p i ù g r a v i t a n t e v e r s o il q u a d r o p o litic o - m ili­ ta r e d a n u b ia n o -b a lc a n ic o d o v e e r a e s p lo s a la g u e r ra p a r tig ia n a d i T ito . C o n P 8 s e t t e m b r e ' 4 3 , l o s f a s c i o m i l i t a r e i t a l i a n o e l ’i n s u r r e z i o n e p o p o ­ la r e s lo v e n a e c r o a ta im p re s s e ro u n a s v o lta r a d ic a le a i r a p p o r ti d i f o rz a tr a s ta to d o m in a n te e p o p o la z io n i o p p re s s e , sa n z io n a n d o la lo ro v o lo n tà d i u n io n e a lle r i s p e t t i v e n a z io n i s lo v e n a e c r o a t a n e lla I u g o s la v ia p a r t i ­ g ia n a d i T ito .

La lotta di resistenza.

I te d e s c h i d o v e tte r o im p e g n a rs i in o p e ra z io n i

c r u e n t e d i c o n q u i s t a e c o n t r o l l o d e l t e r r i t o r i o ( s e t t e m b r e - o t t o b r e '4 3 ) , c o n a e r e i, c a r r i e r a p p r e s a g lie f e r o c i s u lle p o p o la z io n i (2 5 0 0 v i t t i m e s e c o n d o u n a f o n t e i t a l i a n a e 2 0 0 0 c a d u t i f r a g l i i n s o r t i ) . L ’ì s t r i a d e l ' 4 3 f u , a s s i e ­ m e a l l ’a r e a g o r i z i a n a , i l m a g g i o r f r o n t e d i g u e r r a d e l l ’I t a l i a s e t t e n t r i o n a l e . S u l l ’o n d a d i u n o s p o n t a n e i s m o d i f f u s o s o r s e r o s u b i t o d i v e r s e u n i t à i t a l i a ­ n e e ita lo c r o a te a B u ie , R o v ig n o , G r is ig n a n a , A lb o n a e a ltr o v e . F r a i c ir ­ c a d o d ic im ila c o m b a tte n ti ita lia n i, s lo v e n i e c r o a ti d i q u e l s e tte m b r e , ci fu la c o m p a g n ia r o v ig n e s e d a c u i p o i s o rs e il b a tta g lio n e ita lia n o P in o B u d i­ c in , in q u a d r a to s i c o n q u a ttr o c e n to u o m in i n e lla b r ig a ta c r o a ta V la d im ir G o r t a n d e lla 4 3 “ d iv is io n e is tr ia n a . Il B u d ic in n e s e g u ì le s o r ti in I s tr ia e d a l l ’a u t u n n o 1 9 4 4 i n C r o a z i a . P i ù v o l t e r i c o s t i t u i t o , e b b e c e n t i n a i a d i p e r ­ d i t e , r i e n t r a n d o i n I s t r i a n e l l ’a p r i l e 1 9 4 5 . N e l l ’I s t r i a c e n t r o s e t t e n t r i o n a l e si f o rm ò la b r ig a ta tr ie s tin a d i G io v a n n i Z o l d i s e i-s e tte c e n to u o m in i c h e c o m b a t t è d u r a m e n t e f i n o a e s s e r e d is g r e g a ta i n n o v e m b r e p e r d e n d o a n c h e il s u o c o m a n d a n te . U n g r u p p o d i s u p e r s t i ti f o r m ò il b a t t a g l i o n e g a r ib a ld i­ n o G . Z o l n e l l ’o r g a n i c o d e Ù ’O d r e d I s t r i a n o ( s l o v e n o ) e d o p o d r a m m a t i c h e v i c e n d e c o n f l u ì n e l b a t t a g l i o n e T r i e s t i n o d e l C a r s o d a c u i s o r s e n e l l ’a p r i ­ le '4 4 la b r i g a t a G a r i b a l d i T r i e s t e ( 2 9 0 u o m i n i , p o i 4 0 0 ) d i p e n d e n t e d a l I X k o r p u s s lo v e n o . N e lla z o n a d i F iu m e u n b a tta g lio n e G a r ib a ld i f o r m a to t u t ­ to d a m ilita ri (c in q u e -s e ic e n to ) si b a t t é a f ia n c o d i u n ità c r o a te n e l s e tte m ­ b r e - o t t o b r e '4 3 f i n o a e s s e r e d e c i m a t o . C o l r i f l u s s o d e l l a f a s e i n s u r r e z i o ­ n a l e i n I s t r i a d i f r o n t e a lla s t r a p o t e n z a n e m i c a ( n o v e m b r e '4 3 ) , c o m i n c i ò la lu n g a g u e r ra p a r tig ia n a , r e s a u lte r io r m e n te d if fic o lto s a d a lla c o n f o r m a ­ z i o n e s f a v o r e v o l e d e l t e r r i t o r i o . N e l l ’a p r i l e d e l ' 4 4 g l i a n t i f a s c i s t i d i M u g g i a ( a 1 2 k m d a T r i e s t e ) - c h e s u b i t o d o p o l ’8 s e t t e m b r e a v e v a n o f o r m a t o i G r u p p i d ’a z i o n e p a t r i o t t i c a ( G a p ) - c o s t i t u i r o n o i l b a t t a g l i o n e A l m a V i v o d a , c o n u n a fo rz a d i c e n to c in q u a n ta -d u e c e n to u o m in i, c h e f u s o p ra ffa t­ t o n e l n o v e m b r e 1 9 4 4 . C o m ita ti d i lib e r a z io n e n a z io n a le (C ln ) ita lia n i e G a p o p e r a r o n o n e l l ’I s t r i a n o r d o c c i d e n t a l e ( C a p o d i s t r i a , I s o l a , P i r a n o ) . F u

Fogar

Istria

6n

i n I s t r i a , f r a V i l l a d e l N e v o s o ( I l i r s k a B i s t r i ca ) e F i u m e , c h e l a I V a r m a t a i u g o s l a v a c o s t r i n s e a l l a r e s a i r e s t i d e l X C V I I c o r p o d ’a r m a t a t e d e s c o i l 7 m a g g io 1 9 4 5 [ S c o tti e G iu r ic in 1 9 7 5 ].

Nota bibliografica.

A A .W ., L ’Istria fra le due guerre. Contributi per una storia sociale, Isr Trieste, Ediesse, Roma 1985; G. Perselli, I censimenti della popolazione dell’lstria con Fiume e Trieste e di al­ cune città della Dalmazia tra il 1850 e il 1936, Unione Italiana Fiume, Università Popolare di Trieste, Trieste-Rovigno 1993; T. Sala, 1939. Un censimento riservato del governo fascista su­ gli «alloglotti», in «Bollettino dell’Isr Trieste», I (ottobre 1973), n. 1; G. Scotti e L. Giuricin, Rossa una stella. Storia del battaglione italiano «Fino Budicin» e degli italiani dell’Istria e di Fiu­ me nell’esercito popolare di liberazione della Jugoslavia, Centro di ricerche storiche, Rovigno 1975; G. Valussi, Il confine nordorientale d ’Italia, Istituto di sociologia internazionale, Lint,

Trieste 1972.

LUISA MARIA PLAISANT S ard eg n a

Configurazione dell’antifascismo in Sardegna.

N e g li a n n i c h e p r e c e d e tte ­

r o la « m a r c ia su R o m a » e s in o a l 1 9 2 3 , a n n o in c u i a v v e n n e la “ f u s io n e ” t r a u n a p a r t e d e l P a r t i t o s a r d o d ’a z i o n e ( P s d a ) e i l P a r t i t o n a z i o n a l e f a s c i ­ s t a ( P n f ) , s t e n t ò a e m e r g e r e i n S a r d e g n a u n ’o p p o s i z i o n e p o l i t i c a e m o r a l e a l fa s c is m o . E m ilio L u s s u f u t r a i s a rd is ti c h e r if iu ta r o n o o g n i c o m p r o m e s ­ so c o n il n u o v o re g im e . R e d u c e d e lla G r a n d e g u e r ra , d iv e n u to b e n p r e s to u n leader p e r t u t t i g l i e x c o m b a t t e n t i , i l l e g g e n d a r i o c a p i t a n o d e l l a b r i g a t a S a s s a r i , a l r i e n t r o n e l l ’i s o l a , s v o l s e u n r u o l o i m p o r t a n t e n e l l a f o n d a z i o n e d e l P s d a e n e d i v e n n e d e p u t a t o d a l 1 9 2 1 . C o n l ’a v v e n t o d e l f a s c i s m o L u s ­ s u , c h e s i e r a s e g n a la to p e r i s u o i i n t e r v e n t i p o le m ic i a lla C a m e r a , d iv e n ta ­ v a o g g e t t o d i c o n t i n u e p r o v o c a z i o n i e a g g r e s s i o n i ; i n v i a t o a l c o n f i n o a L ip a r i n e e v a s e n e l 1 9 2 9 r ip a ra n d o in F ra n c ia d o v e fo n d ò c o n i f ra te lli C a rlo e N e llo R o s s e lli il m o v im e n to d i G i u s tiz ia e l i b e r t à (G l). F ig u r a d i p r im o p i a n o d e l l ’a n t i f a s c i s m o e u r o p e o , a n c h e d a l l ’e s i l i o m a n t e n n e i c o n t a t t i c o n l ’a n t i f a s c i s m o s a r d o g r a z i e a l l a m e d i a z i o n e d e i g r u p p i d e l l ’e m i g r a z i o n e s a r ­ d a i n C o r s ic a e a M a rs ig lia . R i e n t r a t o in I ta lia d o p o la c a d u ta d i M u s s o lin i, L u s s u v is s e c la n d e s tin o a R o m a s in o a lla lib e r a z io n e d e lla c i t t à , c o o r d in a n ­ d o l ’a t t i v i t à m i l i t a r e d e l P a r t i t o d ’a z i o n e ( P d a ) . L a c a d u t a n e l 1 9 3 0 d e l n u c l e o s a r d o d i G l , c o n l ’a r r e s t o d e i s a r d i s t i C e ­ s a r e P i n t u s e F r a n c e s c o F a n c e llo , f u u n o d e i p iù d u r i c o lp i i n f e r t i a lle a v a n ­ g u a rd ie p o litic h e d i q u e s to a n tifa s c is m o m a tu r o , a t r a t t i c o s p ira tiv o , n o n a n c o r a p ie g a to d a lle le g g i s p e c ia li. C o n a n a lo g a d u r e z z a e r a n o s t a ti c o lp iti i d irig e n ti c o m u n is ti p iù a ttiv i e d a l 1 9 2 8 e ra s ta ta s c o p e rta a R o m a u n a r e ­ te o rg a n iz z a tiv a c la n d e s tin a , c o n ra m ific a z io n i a n c h e in S a rd e g n a . P e r i c o ­ m u n is ti G io v a n n i A g o s tin o C h ir o n i, A n d r e a L e n tin i e G io v a n n i L a y , p e r c i t a r n e s o l o a l c u n i , c i ò a v e v a i n f a t t i s i g n i f i c a t o l ’a r r e s t o e d u r e c o n d a n n e a l c a rc e re e al c o n fin o . A ltr i c o m u n is ti c o m e A n to n io G ra m s c i, in c a rc e re d a l 1 9 2 7 , e L u ig i P o la n o , c o s t r e t t o a e m ig r a re in U n io n e S o v ie tic a d a l 1 9 2 5 , a v e v a n o d i f a tto in te r r o tto i c o n ta tti c o n la S a rd e g n a . A l d i là d e lle a p p a r ­ te n e n z e d i p a r tito , n e g li a m b ie n ti d e lla b o rg h e s ia in te lle ttu a le e d e lle p r o ­ fe s s io n i, si e s p re s s e n e lla c la n d e s tin ità u n a n tifa s c is m o e lita rio c h e sp e sso si e s a u riv a n e l r if iu to d i p r e n d e r e la te s s e ra e n e lla te s tim o n ia n z a q u a s i si­ l e n te d i v ite a p p a r ta te . Q u e s to « a n tif a s c is m o d e g li a v v o c a ti» , c o s i c h ia m a ­ to p e r il p r e v a le r e t r a le p r o f e s s io n i d i q u e lla f o re n s e , e b b e m a n if e s ta z io n i

Plaisant

Sardegna

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m o lto s im ili a S a s s a r i e a N u o r o , d o v e si d is t in s e r o t r a g li a lt r i G o n a r io P i n ­ n a , L u ig i O g g ia n o , P ie tr o M a s tin o , S a lv a to r e M a n n ir o n i e D in o G ia c o b b e . Q u e s t ’u l t i m o a v r à u n r u o l o d i p r i m o p i a n o n e l l a g u e r r a d i S p a g n a . N e l c o rs o d e g li a n n i tr e n ta , al d i là d i a lc u n e fo rm e d i r e s is te n z a c la n d e ­ s tin a o rg a n iz z a ta c h e e b b e ro p e r p r o ta g o n is ti s o p r a ttu tto i c o m u n is ti, o d e l­ la f i tt a r e te d i sc a m b i e d i c o r ris p o n d e n z e p r o p rie d e g li a m b ie n ti s a rd is ti, è im p o s s ib ile d o c u m e n ta r e c o m p iu ta m e n te la r e a le p o r t a t a d e l d is s e n s o al r e g im e , p e r q u a n to n u m e r o s is s im e s ia n o le e s p r e s s io n i d i m a le s s e r e d e lla p o ­ p o l a z i o n e , s o p r a t t u t t o n e lle a r e e c o m e il S u lc is - I g le s ie n te , d o v e p i ù a l t a è la c o n c e n tr a z io n e o p e r a ia e p iù lu n g a la tr a d iz io n e d i lo t t e s in d a c a li e p o li­ tic h e . S ig n ific a tiv a la p r e s e n z a d e i s a rd i n e lla g u e r ra d i S p a g n a : a l d i là d e l n u m e ro a ssa i e le v a to d e i p a r te c ip a n ti, si t r a ttò d i u n im p o rta n te b a n c o d i p r o v a p e r la fo rm a z io n e d i p e r s o n a lità a u te n tic a m e n te d e m o c r a tic h e e a n ti­ f a s c i s t e , n e l q u a d r o d i u n a r i s c o p e r t a d e i v a l o r i d e l l a s o l i d a r i e t à e d e l l ’i d e n ­ t i t à r e g io n a le . T r a g li a n a r c h ic i u n a f ig u r a d i r ilie v o è q u e lla d i T o m m a s o S e r ra , il q u a le , d o p o a v e r p a r te c ip a to a lla g u e r r a d i S p a g n a , f u a ttiv o n e lla re s is te n z a ro m a n a d a l s e tte m b re d e l 1 9 4 3 . C o n l ’e n t r a t a i n g u e r r a d e l l ’I t a l i a , m e n t r e r i p r e n d e v a a s p i r a r e i l “ v e n ­ t o ” s a rd is ta , c o n f o rti a c c e n ti riv e n d ic a z io n is ti e q u a lc h e c o lo ritu ra s e p a ­ r a tis ta , p r e s e r o c o rp o a lc u n i p ia n i in s u rre z io n a li, d i m a tr ic e c o s p ira tiv a , v o l­ t i a s g a n c i a r e l a S a r d e g n a d a l l a g u e r r a . D a l l ’a u t u n n o d e l 1 9 4 1 L u s s u a v v i a v a t r a tta tiv e d ip lo m a tic h e c o n i s e rv iz i s e g re ti a n g lo a m e ric a n i p e r u n a p o s s i­ b i l e a z i o n e m i l i t a r e n e l l ’i s o l a . I l s u o p i a n o p r e v e d e v a u n o s b a r c o d i

mandos

com­

d i v o l o n t a r i , l ’o r g a n i z z a z i o n e d i f o r m a z i o n i p a r t i g i a n e c h e , g r a z i e

a l l ’a i u t o d e l l a p o p o l a z i o n e , a p p o g g i a s s e r o l o s b a r c o a n g l o a m e r i c a n o , l ’a b b a ttim e n to d e l re g im e f a s c is ta e la c r e a z io n e in S a rd e g n a d i u n g o v e rn o p r o v v i s o r i o n a z i o n a l e . I l p i a n o n o n a n d ò i n p o r t o e s i c o n c l u s e c o n l ’a r r e ­ s t o d e l l ’a n t i f a s c i s t a n u o r e s e S a l v a t o r e M a n n i r o n i , i n d i c a t o d a L u s s u q u a l e r e f e r e n t e p o l i t i c o d e l l ’i n i z i a t i v a . La

«resistenza mancata».

A n c h e i n S a r d e g n a l a n o t i z i a d e l l ’a r m i s t i z i o

c o n g l i a n g l o a m e r i c a n i , l ’8 s e t t e m b r e d e l 1 9 4 3 , c o l s e t u t t i i m p r e p a r a t i , p o ­ p o la z io n e e d e s e r c ito . N e lle o r e s u c c e s s iv e a l p r o c la m a d i B a d o g lio , c o n le t r u p p e t e d e s c h e p r e s e n t i n e l l ’i s o l a v e n n e r o a v v i a t e , d a p a r t e d e l c o m a n ­ d a n te d e lle F o rz e a rm a te , g e n e ra le B a sso , tr a tta tiv e a m ic h e v o li m ira n ti a c o n s e n tir n e il p a c if ic o d is ta c c o . I c o n t a t t i c o n il g e n e r a le L u n g e r h a u s e n si c o n c lu s e ro n e lla n o t t e c o n la p a r te n z a d e lla 9 0 “ d iv is io n e c o r a z z a ta te d e s c a - in t u t t o c irc a tr e n ta m ila u o m in i - a l c u i p a s sa g g io , p e r in iz ia tiv a p e r s o ­ n a l e d i a l c u n i u f f i c i a l i e s o l d a t i d e l l e F o r z e a r m a t e 'i t a l i a n e , s i v e r i f i c a r o n o e p is o d i d i r e s is te n z a . T a le f u , a d e s e m p io , lo s c o n tro a v v e n u to il m a ttin o d e l 9 s e tte m b r e p r e s s o il p o n t e M a n n u su l f iu m e T ir s o , d o v e i te d e s c h i f o r z a ­ r o n o il p o s to d i b lo c c o . V i si o p p o s e r o s tr e n u a m e n te v e n tin o v e u o m in i d e l 4 0 3 0 b a tta g lió n e d e l 1 3 2 0 re g g im e n to d i f a n te r ia . L o s c o n tro si c o n c lu s e c o n d u e te d e s c h i u c c is i e u n m o r to e s e i f e r i t i t r a g li ita lia n i. U n a c o n d i z i o n e d ’i d e n t i t à l a c e r a t a e s o f f e r t a - s o s p e s a t r a l a f e d e l t à a l

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Parte seconda

g i u r a m e n t o a l r e , i l m u t a m e n t o d i f r o n t e v i s s u t o c o m e t r a d i m e n t o e l ’u m i ­ l i a z i o n e d e l l ’a r m i s t i z i o a v v e r t i t o c o m e s c o n f i t t a - s a r à q u e l l a v i s s u t a a l t e r ­ n a t i v a m e n t e d a i p r o t a g o n i s t i d e l l ’e p i s o d i o i n c u i p e r d e r à l a v i t a i l t e n e n t e c o lo n n e llo A lb e r to B e c h i L u s e rn a , c a p o d i s ta to m a g g io re . Q u e s ti v e n n e u c ­ c is o il 9 s e tte m b r e 1 9 4 3 a M a c o m e r d a i s o ld a ti d e lla d iv is io n e p a r a c a d u ti­ s ti N e m b o , c h e lo a c c u s a v a n o d i t r a d i m e n t o m e n t r e e g li c e r c a v a d i d is s u a ­ d e r l i d a U ’u n i r s i a i t e d e s c h i . M a i l f a t t o p i ù r i l e v a n t e d i q u e s t a r e s i s t e n z a m a n c a ta f u q u e llo v e r if ic a to s i il 13 s e tte m b r e d e l 1 9 4 3 a L a M a d d a le n a e c h e v id e c o in v o lti u ffic ia li d i m a r in a e s o ld a ti ita lia n i c o n tr o le t r u p p e t e ­ d e s c h e . S i t r a t t ò d i u n ’o p p o s i z i o n e s p o n t a n e a , c h e c o n t r a d d i c e v a g l i o r d i ­ n i d e l l ’a m m i r a g l i o B r i v o n e s i m a c h e r a p p r e s e n t ò , p u r n e l d i s p e r a t o g e s t o d ’i n s u b o r d i n a z i o n e , l ’e s t r e m o t e n t a t i v o d i d i f e n d e r e l a d i g n i t à e l ’o n o r e d e l l a p a t r i a o r m a i p e r d u t i . S i t r a t t ò d e l l ’u n i c a b a t t a g l i a c h e e b b e c o m e t e a ­ tr o la S a rd e g n a d u r a n te la s e c o n d a g u e rra m o n d ia le e c h e si c o n c lu s e c o n v e n t i q u a t t r o m o r ti t r a g li ita lia n i e o t t o t r a i te d e s c h i. L a S a r d e g n a , d u n q u e , u s c i v a d a l t e a t r o d i g u e r r a c o n l ’o m b r a d i u n a b a t ­ t a g l i a m a n c a t a . Q u e s t o s e m p l i c e f a t t o f i r n i n q u a l c h e m o d o p e r s e g n a r e l ’a v ­ v io s te n ta to d e i C o m ita ti d i c o n c e n tr a z io n e a n tif a s c is ta , la c u i s c a rs a r a p ­ p r e s e n ta tiv ità e in c is iv ità p o litic a n e a v r e b b e r o su g g e rito a ssa i p r e s to la sm o ­ b i l i t a z i o n e . L ’i s t i t u z i o n e n e l g e n n a i o d e l 1 9 4 4 d i u n a l t o c o m m i s s a r i a t o p e r l a S a r d e g n a , c o n i l c o m p i t o d i s o v r i n t e n d e r e a l l ’a m m i n i s t r a z i o n e c i v i l e e m i l i t a r e d e l l ’i s o l a , f i r n p e r c r e a r e u n d u a l i s m o d i p o t e r i , d a c u i i c o m i t a t i r i ­ s u l t a r o n o a n c o r a p i ù i n d e b o l i t i . R i p r e n d e v a il d i b a t t i t o p o l i t i c o e n o n t a n ­ to n e i p a r titi, c h e s te n ta v a n o a r io rg a n iz z a rs i, q u a n to p iu tto s to su lla s ta m ­ p a . L e p a g i n e d e l q u o t i d i a n o d i C a g l i a r i « L ’U n i o n e s a r d a » o s p i t a r o n o u n a r i p r e s a d e l l a querelle a u t o n o m i s t i c a . S i d i s c u t e v a d e l l a s p e c i f i c i t à d e l l ’i s o l a e d e lle s o lu z io n i p o litic o - is titu z io n a li d a a d o tta r e a g u e r r a f in ita , s e lo s ta ­ t o f e d e r a lis tic o c o n u n a p ie n a a u to n o m ia le g is la tiv a p e r la S a r d e g n a o u n « r e g i m e e c o n o m i c o s p e c i a l e » n e l l ’a m b i t o d i u n m o d e s t o d e c e n t r a m e n t o a m ­ m i n i s t r a t i v o . D i g r a n d e r i s o n a n z a f u l ’a p p e l l o l a n c i a t o d a l l o s c r i t t o r e G i u ­ s e p p e D e s s i , s u l l e p a g i n e d e l q u o t i d i a n o d i S a s s a r i « L ’I s o l a » , a f a v o r e d e l ­ la c o s titu z io n e d i u n c o r p o d i v o lo n ta r i s a r d i d a in v ia r e a l f r o n te , n e lla c o n ­ v in z io n e c h e a n c h e la S a r d e g n a d o v e s s e p a g a r e il s u o t r ib u t o d i s a n g u e n e lla l o t t a d i l i b e r a z i o n e . I l s e t t i m a n a l e « R i s c o s s a » d i e d e v o c e , d a l l ’e s t a t e d e l 1 9 4 4 , a u n a p p a s s io n a to d i b a t t i t o t r a i g io v a n i n a t i e c r e s c iu ti d u r a n te il f a ­ s c is m o - i q u a li e r a n o a p p r o d a t i a lla d e m o c r a z ia a ttr a v e r s o u n lu n g o “ v ia g ­ g io ” d i a f f r a n c a m e n to d a l r e g im e - e g li a n z ia n i, e s p r e s s io n e d u r a n t e il v e n ­ te n n io d i u n a n tifa s c is m o s ile n te e a p p a r ta to , a c u i i p r im i rim p r o v e r a v a n o d i a v e r a c c e tta to e s u b ito il r e g im e e d i n o n e s s e rs i o c c u p a ti d e lla lo r o e d u ­ c a z io n e p o litic a .

Il

contributo dei combattenti sardi alla guerra di liberazione.

I n q u e s to

c o n te s to c a ric o d i r is e n tim e n ti p e r u n p a s s a to c h e d iv id e e d i r a m m a ric o p e r la b a tta g lia m a n c a ta , è p a s s a to a lu n g o s o tto s ile n z io il c o n tr ib u to o f ­ f e r t o d a i s a r d i a l l a g u e r r a d i l i b e r a z i o n e . I n n a n z i t u t t o a l l ’e s t e r o , d o v e g i o ­

Plaisant

Sardegna

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v a n i c a p i t a n i e s o t t u f f i c i a l i d e l l ’e s e r c i t o , s o r p r e s i d a l l ’a r m i s t i z i o n e i p a e s i d i o c c u p a z io n e , a b b a n d o n a ti d a g li a lti c o m a n d i e in a s s e n z a d i o r d in i s tr a ­ te g ic i, r iu s c ir o n o a n o n d is p e r d e r e le lo r o t r u p p e e a o r g a n iz z a r e la r e s i­ s te n z a c o n tr o i te d e s c h i u n e n d o s i a i n u c le i p a r tig ia n i g ià o p e r a n ti n e l t e r r i ­ to r io e c o n q u is ta n d o n e la f id u c ia e il r is p e tto . C iò a c c a d d e in G r e c ia , d o v e m o r ir o n o t r a g li a ltr i G u g lie lm o P o n t a n o e A n to n io Z e d d a . I n I u g o s la v ia , f o rs e il c a p ito lo p iù im p o r ta n te d e lla p a r te c ip a z io n e d e i s a r d i a lla r e s is te n ­ z a a l l ’e s t e r o , p e r t a n t i s o l d a t i e u f f i c i a l i d i u n e s e r c i t o a l l o s b a n d o i d e s t i n i f u r o n o o b b lig a ti: o f in ir e d e p o r t a t i in G e r m a n ia c o n la p r o m e s s a d e l r i t o r ­ n o a c a s a , o d i v e n t a r e p a r t i g i a n i i n q u a d r a t i n e l l ’e s e r c i t o p o p o l a r e d i l i b e r a ­ z io n e iu g o s la v o . Q u a n d o f u p o s s ib ile sc e g lie re d i r e s ta r e in I u g o s la v ia le m o ­ t i v a z i o n i f u r o n o l e p i ù v a r i e : d a l g u s t o p e r l ’a v v e n t u r a a l p e s o d i t r a d i z i o n i f a m i l i a r i a n t i f a s c i s t e , a l l ’o d i o v e r s o i t e d e s c h i , a l l a s o l i d a r i e t à n e i c o n f r o n ­ t i d e lle p o p o la z io n i d e i p a e s i o c c u p a ti. A p a r tir e d a q u e s te e d a a ltr e r a g io ­ n i i s a rd i r a ff o r z a r o n o la p r o p r ia s c e lta n e l c o n te s to d i u n a l o tta d u r a e s e n ­ z a c o m p r o m e s s i , f a c e n d o p r o p r i i l s e n s o d e l l a d i s c i p l i n a e d e l l ’o r g a n i z z a ­ z i o n e e p o n e n d o s i i n l u c e . p e r i l c o r a g g i o , l o s p i r i t o d ’i n i z i a t i v a e l ’a b i l i t à i n c o m b a ttim e n to . I s a rd i e r a n o n u m e r o s i n e lla d iv is io n e G a r ib a ld i, le c u i o r i­ g i n i e r a n o a l c u n i b a t t a g l i o n i d e l l ’e s e r c i t o i t a l i a n o , e n e l l a d i v i s i o n e I t a l i a , l a c u i f o r m a z i o n e , s u c c e s s i v a a l l ’a r m i s t i z i o , f u s o s t e n u t a p r i n c i p a l m e n t e d a l l ’a p ­ p o r to d e l v o lo n ta r ia to a n tif a s c is ta ita lia n o . T r a i t a n t i p r o ta g o n is ti d a r i­ c o rd a re i fin a n z ie ri C a rlo C a re d d u , G io m m a ria M a rra s e D a r io P o rc h e d d u ; e l a s t o r i a d e l p a s t o r e G i o v a n n i C u c c u , i l q u a l e , d ’i n d o l e r i b e l l e e i n s o f f e r e n ­ t e d e l l ’a u t o r i t a r i s m o f a s c i s t a , c o m b a t t e n t e p a r t i g i a n o d e l l a b r i g a t a T o m s i c i n S l o v e n i a , c o m p ì u n a s f o l g o r a n t e c a r r i e r a n e l l ’e s e r c i t o i u g o s l a v o s e g n a ­ l a n d o s i p e r i l c o r a g g i o i n c o m b a t t i m e n t o e l a d e s t r e z z a n e l l ’u s o d e l l e a r m i . L a p a r te c ip a z io n e d e i s a rd i a lla g u e r r a d i lib e r a z io n e in I ta lia f u c e r ta ­ m e n t e f e n o m e n o r i l e v a n t e , p u r n e l l ’a s s o l u t a d i v e r s i t à d e l l e p r o v e n i e n z e e d e lle m o tiv a z io n i in d iv id u a li. S e n u m e r o s i f u r o n o g li e x c o n f in a ti o e x p r i ­ g io n ie r i p o litic i c h e , li b e r a t i o lib e r a tis i g r a z ie a lla f u g a , a n d a r o n o a i n ­ g r o s s a r e l e f i l e d e l l e d i v i s i o n i p a r t i g i a n e , l ’a p p o r t o p i ù c o n s i s t e n t e f u r a p ­ p r e s e n ta to d a e x m ilita r i i q u a li, a v e n d o s c e lto d i f a r la f i n it a c o n il fa s c is m o e d i l o t t a r e c o n t r o l ’o c c u p a n t e t e d e s c o , s e p p e r o d i s t i n g u e r s i a s s u m e n d o r u o ­ l i d i d i r i g e n z a n e l l ’e s e r c i t o d i l i b e r a z i o n e . L ’a t t a c c a m e n t o a i v a l o r i m i l i t a r i - e m e r s i n e l l ’e s p e r i e n z a d e l l a b r i g a t a S a s s a r i d u r a n t e l a p r i m a g u e r r a m o n ­ d i a l e - , l a n e c e s s i t à d i r i c o n q u i s t a r e l ’o n o r e p e r d u t o , l a v o l o n t à d i r i d i s e ­ g n a r e i d e s tin i d e l p r o p r io p a e s e e d e lla p r o p r ia is o la f u r o n o a lla b a s e d i t a n ­ te v ic e n d e in d iv id u a li, d i p ic c o li e d i g r a n d i e ro is m i. C o m e la s to r ia d i P ie ­ r o B o r r o t z u , il q u a le a d e r ì a lla g u e r r a p a r t i g i a n a , o l t r e c h e p e r d i f e n d e r e la p a t r i a , p e r s o l i d a r i e t à n e i c o n f r o n t i d e l l e p o p o l a z i o n i s o f f e r e n t i a c a u s a d e l l ’o c ­ c u p a z i o n e e p e r a m i c i z i a n e i c o n f r o n t i d e i c o m p a g n i d ’a r m e . O p e r ò n e l l a p r o v i n c i a d i L a S p e z i a , d o v e f u u n o d e i c a p i m i l i t a r i d e l l a b r i g a t a d ’a s s a l ­ t o L u n i g i a n a . C a t t u r a t o d a i t e d e s c h i v e n n e g i u s t i z i a t o n e l l ’a p r i l e d e l 1 9 4 4 d o p o a v e r o tte n u to d a l p lo to n e d i e s e c u z io n e , p e r la fie re z z a e la d ig n ità d i­ m o s t r a t e , d i e s s e r e f u c i l a t o f r o n t e a l n e m i c o . N e i G r u p p i d ’a z i o n e p a t r i o t ­

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Parte seconda

ti c a (G a p ) si d is tin s e t r a g li a ltr i S ilv io S e r r a , u n « e r o e s c o n o s c iu to » . A t t i ­ v o n e l l a r e s i s t e n z a r o m a n a s i n d a l l ’8 s e t t e m b r e d e l 1 9 4 3 , e n t r a t o a f a r p a r ­ t e d e l G a p c e n t r a l e , S e r r a p a r t e c i p ò a l l ’a t t e n t a t o d i v i a R a s e l l a e a d a l t r e a z io n i c o n tr o i te d e s c h i. I n s e g u ito a lla lib e r a z io n e d i R o m a si a r ru o lò n e l n u o v o e s e rc ito ita lia n o , c h ie d e n d o d i e s s e r e m a n d a to a l f r o n t e s u lla lin e a G o t i c a . U n a g r a n a t a t e d e s c a l o c o l p ì a m o r t e i l p r i m o g i o r n o - d e l l ’o f f e n s i v a g e n e r a le , il 1 0 a p r ile 1 9 4 5 , s u l f r o n t e d i A lf o n s in e . U n a l t r o s a r d o d i O r i ­ s ta n o è F la v io B u s o n e r a , il q u a le o p e r ò n e l V e n e to im p e g n a n d o s i n e lle a z io ­ n i d e lle p r im e s q u a d re p a r tig ia n e d e lla z o n a d i P a d o v a e d iv e n ta n d o a n c h e i l l o r o m e d i c o . C a d u t o i n u n a g g u a t o d e i f a s c i s t i f u i m p i c c a t o n e l l ’a g o s t o d e l 1 9 4 4 . A l l ’e s p e r i e n z a d e l l a r e p u b b l i c a p a r t i g i a n a d i T o r r i g l i a , n e l p i a c e n t i ­ n o , s i l e g a i l n o m e d e l l ’u f f i c i a l e d e i c a r a b i n i e r i d i T e m p i o F a u s t o C o s s u i l q u a l e , d o p o a v e r o r g a n i z z a t o l a d i s e r z i o n e i n m a s s a d i g r u p p i d e l l ’A r m a e d e s s e r s i m e s s o a c a p o d e l l a c o m p a g n i a d e i C a r a b i n i e r i p a t r i o t i , c o n t r i b u ì a lla lib e ra z io n e d e l p a e s e d i B o b b io d a i te d e s c h i. S p e sso i s a rd i si d is tin s e ro p e r u n p r o f o n d o s e n s o d e lla g iu s tiz ia e g r a n d i d o ti d i sa g g e z z a e d i e q u ilib rio , c o m e n e l c a s o d e l n u o r e s e C la u d io D e F e n u il q u a le , e n t r a t o n e i G a p b o lo ­ g n e s i d o p o l ’8 s e t t e m b r e , s v o l s e f u n z i o n i d i p r e s i d e n t e n e i t r i b u n a l i p a r t i ­ g ia n i e m e tte n d o le s e n te n z e c o n tr o f a s c is ti e n a z is ti. E s e m p la r i p e r la c o e r e n z a m o r a le , la s o lid a r ie tà e lo s p ir ito d i s a c rific io d im o s tr a ti n e i c o n f r o n ti d e i p r o p r i f r a te lli i n p r ig io n ia f u r o n o le e s p e rie n ­ z e d i v ita d e i d e p o r ta ti P ie tr o M e lo n i, u n o d e g li a n im a to r i d i fo rm e a ttiv e d i r e s is te n z a n e i c a m p i d i c o n c e n tr a m e n to , e B a rto lo m e o M e lo n i, f ig u ra d i p r im o p ia n o d e lla r e s is te n z a v e n e ta . U n a s to r ia “ c o m u n e ” è q u e lla d e l so l­ d a t o L u ig i P o d d a , il q u a le , a s s ie m e a u n g r u p p o d i c o m m ilito n i s a rd i, a p ­ p r o d ò a lle f o r m a z io n i p a r tig ia n e d e l b a tta g lio n e t r ie s tin o so lo d o p o e s s e re p a s s a t o a t t r a v e r s o v a r i e e s p e r i e n z e , i n c l u s o l ’a r r u o l a m e n t o n e l l a r e p u b b l i ­ c a d i S a lò e la s u c c e s s iv a d i s e r z io n e , c h e t e s ti m o n i a n o il le n to p r o c e s s o d i f o rm a z io n e d i u n a c o s c ie n z a a n tifa s c is ta . I s a rd i s v o ls e ro u n r u o lo im p o r ta n te n e lla r e s is te n z a r o m a n a d o v e f u p r e ­ s e n te , s in d a l 9 e 1 0 s e tte m b r e 1 9 4 3 , E m ilio L u s s u . N e i m e s i su c c e s s iv i a l­ l ’a r m i s t i z i o , a n c h e g r a z i e a l l a s u a p r e s e n z a , t r a i s a r d i p r e s e n t i n e l l a c a p i ­ ta le si r ia n n o d a r o n o m o lti fili i n t e r r o t t i e r ia f f io r ò q u e lla tr a m a d i r a p p o r ­ t i s o c ia li, d i a s s o n a n z e c u ltu r a li e id e a li c h e a v e v a e s p re s s o n e l p r im o d o ­ p o g u e r ra q u e l g r a n d e m o v im e n to d i o rig in e c o m b a tte n tis tic a e d i id e a li a u ­ to n o m is tic i c u lm in a to n e lla fo n d a z io n e d e l P s d a . C o n a ltri d irig e n ti sa rd i a z io n is ti, q u a li F r a n c e s c o F a n c e llo , L u ig i P i n t o r e S te f a n o S ig lie n ti, L u s s u d iv e n n e u n p u n to d i r ife r im e n to o r g a n iz z a tiv o d e lla re s is te n z a al n a z ifa ­ s c is m o . P a r tic o la r m e n te n u m e r o s i i s a rd i p r e s e n ti n e i n u c le i d i m ilita r i a t ­ t i v i a R o m a c o n t r o l ’e s e r c i t o t e d e s c o . I c a r a b i n i e r i G e r a r d o S e r g i e C a n d i ­ d o M a n c a d e l F r o n t e c l a n d e s t i n o d i r e s i s t e n z a f u r o n o t r a i s a r d i u c c is i a lle F o s s e A r d e a tin e . S ig n if ic a tiv a a n c h e la p a r te c ip a z io n e a lla r e s is te n z a r o ­ m a n a d i a lc u n e d o n n e s a rd e tr a c u i A n to n ie tta M a r tu r a n o P in to r , r a p p r e ­ s e n t a n t e e s e m p la r e d i u n a f a m ig lia c h e o f f r ì u n o d e i p iù a lti c o n t r i b u t i a lla l o t t a a n t i f a s c i s t a e a l l a R e s i s t e n z a , I n e s B e r l i n g u e r S i g l i e n t i e l ’a z i o n i s t a B a -

Plaisant

Sardegna

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s t i a n i n a M u s u M a r t i n i , l a c u i a t t i v i t à s i e s p l i c ò n e l l ’o f f r i r e r i f u g i o a i r i c e r ­ c a ti, p o r ta r e c o n f o r to a i c a r c e r a ti e o r d ir n e le e v a s io n i, e n e l s o c c o rr e r e le fa m ig lie d e lle v ittim e . N u m e r o s e le d e c o r a z io n i a l v a lo r m ilita r e d e i s a rd i c o m b a tte n ti n e lla g u e r ra d i lib e ra z io n e .

Nota bibliografica.

M. Brigaglia (a cura di), Riscossa, settimanale politico, letterario e di informazioni, Edes, Cagliari 1974; M. Brigaglia, F. Manconi, A. Mattone e G. Melis (a cura di), L ’antifascismo in Sardegna, Della Torre, Cagliari 1986; E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni (Parigi 1933), Einaudi, Torino 1965; Id., Per l ’Italia dall’esilio, Della Torre, Cagliari 1976; Id., Diploma­ zia clandestina, ibid.; D. Porcheddu, I sardi nella resistenza, Taim, Cagliari 1997; P. Sanna (a cura di), I quotidiani nel periodo del Cnl, Edes, Cagliari 1975; S. Sechi, La partecipazione dei sardi alla resistenza, in M. Brigaglia, F. Manconi, A. Mattone e G. Melis (a cura di), L ’anti­ fascismo in Sardegna cit., pp. 134-206; F. Spanu Satta, Il Dio seduto, Chiarella, Sassari 1978.

Stampato per conto della Casa editrice Einaudi presso la Libropress s r l., Castelfranco V.to (Treviso) nel mese di ottobre zooo c .L . 1 4 6 8 9

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