Dono 8878851833, 9788878851832

I tempi che viviamo sono dominati dal mercato e dalle sue narrazioni: perfino nel linguaggio quotidiano è difficile sfug

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Dono
 8878851833, 9788878851832

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Roberto Repole DONO

Rosenberg & Sellier

GEMME, o della cura delle parole Rosenberg & Sellier, la storica casa editrice torinese che ha fatto di cura e competenza le sue cifre distintive, oggi interpreta il desiderio di innovazione immaginando un nuovo ruolo per libri, letture e parole. Nascono così le GEMME, voci d’autore che offrono messaggi ricchi e spesso inattesi: parole da curare che possono a loro volta curarci, dandoci nuove prospettive per leggere il mondo e per trasformarlo. Queste sono le prime dieci. Maria Luisa Altieri Biagi | Parola Amos Luzzatto | Vita Luisa Muraro | Autorità Roberto Repole | Dono Stefano Levi Della Torre | Amore Chiara Saraceno | Eredità Andrea Segrè | Spreco Stefano Zamagni | Mercato Piero Coda | Domanda Francesco Poli | Immagine Rosenberg & Sellier. 130 anni di storia e una passione sempre nuova.

SOMMARIO

VOLUME I Perché dono? Senza dono, che Natale è? Per imparare l’arte di vivere Quando ricevere è insopportabile In dono venenum Im-munizzarsi. Se l’altro fa paura Non di solo mercato vive l’uomo Logica del pareggio e umanità amputata I mercati non sono un destino C’è ancora la generosità di una volta Un altro dono è possibile? Dono genera dono La logica della sproporzione Libera reciprocità Riconoscenza e riconoscimento

Dalla fraternità responsabile alla giustizia La “sporgenza” del dono All’origine è la grazia L’offerta che non mortifica il merito E se il cuore di tutto fosse Dono? In consegna… Per approfondire VOLUME II Questo libro che non è un libro

Perché dono?

Si dice che la speranza sia l’ultima a morire. Ho scelto la parola dono, perché ritengo che se c’è una malattia che sta contagiando il nostro mondo e si sta, poco a poco, propagando nei nostri cuori, questa sia proprio la morte della speranza. La crisi delle grandi ideologie pare essersi accompagnata, infatti, ad altre ugualmente serie: quella politica, quella economica; e, soprattutto, la crisi del senso etico e, più ampiamente, dell’umano. Tutto questo concorre troppo spesso a dare la sensazione che l’unica cosa che ci è concessa sia di vivere alla giornata: senza più la possibilità di fare progetti a lunga scadenza, senza poter sognare un altro mondo, senza più guardare ai giovani come a una risorsa fresca e ricca, anziché considerarli un problema da affrontare o, peggio, una minaccia da cui difendersi. Eppure la speranza non può morire, finché ci sono donne e uomini che donano qualcosa di sé. Perché, se c’è qualcuno che dona, ci sono dei legami e delle relazioni. E, come aveva intuito Gabriel Marcel, la

speranza sboccia solo laddove si è coinvolti in qualche legame e in qualche amore. Provare a riflettere sul fatto che ci sono molti predisposti a donare e su cosa sia profondamente in gioco in questa azione vuol dire affermare che, malgrado le più fosche previsioni, c’è ancora spazio per la speranza. Si può, cioè, confidare che un altro mondo è possibile; e che non deve necessariamente prevalere la parte più tenebrosa e distruttiva della nostra umanità, ma può invece fiorire quella più lucente e costruttiva. Il dono, però, è solo all’apparenza qualcosa di semplice. Per questo nelle pagine che seguono si cercherà di comprendere di cosa si tratti, quale sia il suo significato per il nostro essere uomini, quando sia opportuno e quando invece possa risultare addirittura inopportuno, quali domande susciti il fatto che l’uomo doni. Lo si farà, aprendosi un piccolo sentiero tra le molte e ricche pagine che sociologi, filosofi e teologi hanno già scritto sul dono. E non a caso. Perché chiedersi che cosa sia il dono vuol dire continuare a domandarsi che cosa sia l’uomo. E forse – perché no – se mai ci sia e chi sia Dio.

Senza dono, che Natale è?

È una fredda mattina di Natale. Da più di un mese Eleonora attende con impazienza quel giorno. Eleonora è una bambina alta, energica e tenace. Potremmo anche tranquillamente darle 11 o 12 anni; ma nella realtà ne ha compiuti solo 8. Per questo coltiva pensieri e desideri di una bimba della sua età. Da tempo con l’aiuto di papà e mamma ha scritto una bella lettera a Babbo Natale, domandandogli in dono la Wii. L’ha richiusa in una busta; vi ha scritto in bella calligrafia l’indirizzo e, per mano della mamma, l’ha anche spedita. Da lì in poi è cominciato il conto alla rovescia. Al desiderio che finisca la scuola e finalmente inizino le vacanze natalizie si è così accompagnata l’attesa che arrivi presto il 25 dicembre, quando – ne è certa – sotto l’albero di Natale approntato con la sorella più grande nella loro cameretta, si materializzerà il dono tanto atteso. Negli anni passati è sempre successo così e non c’è motivo di temere che quest’anno le cose vadano in modo diverso.

Papà e mamma, del resto, le hanno fatto intuire che Babbo Natale non dovrebbe dimenticarsi di lei. Le hanno detto che ai bambini buoni, ubbidienti, rispettosi, impegnati… in genere porta i regali desiderati. È a quelli “birichini” e svogliati che o non porta nulla o porta del carbone o qualcosa di simile. Ed Eleonora ha fatto il suo piccolo “esame di coscienza” per convincersi che – certo! – talvolta è un po’ esuberante e fa qualche capriccio, ma nella sostanza è una bimba brava. I nonni, peraltro, così come le maestre e le mamme delle sue compagne di scuola non fanno che confermarla spesso in questa convinzione. Per questo in quella mattina di Natale si ritrova sveglia prima del solito. E come una saetta si fionda ai piedi dell’albero addobbato. Ci sono diversi pacchetti luccicanti. Francesca, sua sorella, comincia a scartare con entusiasmo e gioia quelli indirizzati a lei. Eleonora inizia invece a impallidire sotto lo sguardo ammiccante e tenero di papà e mamma. C’è qualche pacchettino che porta il suo nome. Ma è fin troppo evidente che sono poco voluminosi per contenere la Wii. Rivolge ancora uno sguardo ai piedi dell’albero per vedere se per caso si è sbagliata e non ha guardato con attenzione. Ma il suo pallore si intensifica e qualche lacrima a stento trattenuta comincia a rigare il suo volto. È a questo punto che mamma e papà la prendono per mano e la portano di fronte alla porta della scala interna. Gliela aprono e la invitano a scoprire cosa c’è oltre la soglia. Lì c’è un pacco gigante. E appena lo scorge Eleonora è come vivificata, si accende di gioia incontenibile, si catapulta a strappare letteralmente la carta che attornia il pacco e, quando finalmente vede che si tratta del dono atteso, lo porta alla sorella per farlo vedere e contemplare anche a lei. Papà e mamma si godono la scena; e per non dirle la verità, ovvero che quel pacco gigantesco non ci stava insieme a tutti gli altri sotto

l’albero, dicono a Eleonora che sbadatamente la sera prima hanno chiuso quella porta. Probabilmente nella notte Babbo Natale era un po’ di fretta: non avendo il tempo di forzare la porta ha lasciato il pacco dove ha potuto. È una vicenda come molte altre analoghe, evidentemente. Si può leggere con sufficienza, come se si trattasse di una “faccenda da bambini”, così distante dal presunto e (troppo spesso anche) presuntuoso mondo “reale” degli adulti; oppure ci si può interrogare con estrema serietà. Perché a Eleonora in assenza di quel dono tanto atteso Natale sarebbe apparso come una “promessa tradita”? Perché la mancanza di un dono può indurre tristezza, sfiducia, delusione, specie in quel giorno? Del resto, come nota con finezza Godbout, nella nostra società moderna i più poveri o coloro che sono più soli e non hanno, dunque, la possibilità di ricevere e fare doni patiscono terribilmente il momento delle feste natalizie. Essi «aspettano con impazienza il ritorno degli scambi freddi, neutri, questo grande regalo della società mercantile, dove si paga tutto e dove non si deve niente a nessuno, dove si può essere solo senza essere (troppo) infelice, senza sentire la mancanza di rapporti. È meno facile dimenticare la solitudine tra il 24 dicembre e il 1° gennaio». Ma perché, all’inverso, il dono porterebbe gioia, serenità, generosità, facendo sentire meno soli? Perché – ancora – è comune che vi sia un giorno convenzionale, come Natale, in cui le persone che si amano o si conoscono si scambiano dei doni, in un clima di festa? Perché insomma l’offerta o lo scambio di un dono si associano a una certa ritualità? È solo l’ultima trovata del consumismo dilagante o è, al contrario, una possibile “spina nella carne” in una società spesso materialista e individualista? È evidente che le questioni, anche solo partendo da un episodio come quello evocato, si potrebbero moltiplicare a dismisura. Può essere sufficiente registrare che in genere viene spontaneo associare la parola “dono” a una realtà che incanta, eleva, interrompe il tempo

ordinario, fa piacere ed è facilmente associabile al benessere, quando non lo si riduca ovviamente alla ricchezza e al progresso economico. Allo stesso modo appare abbastanza immediato immaginare quanto una vita assolutamente priva di doni, di qualunque genere, potrebbe risultare fredda e insopportabile.

Per imparare l’arte di vivere

Ma torniamo a Babbo Natale. La sua presenza così ingombrante nella società moderna suggerisce tutta una serie di questioni. Sono domande che uno studioso come Godbout – una delle guide che ci sta accompagnando nel mondo dei doni – non esita a porsi. «Perché gli adulti giudicano tanto necessario che i bambini credano a Babbo Natale, – si chiede, – al punto che molti bambini fanno finta di crederci per far loro piacere? Perché questo essere che ha una sola funzione, donare, e una esistenza effimera? Perché questo dispositivo grazie al quale i bambini possono credere che i regali non vengano dai genitori?». E ancora: «Perché il dono diventa anonimo, o quasi, e in ogni caso proviene da uno sconosciuto, all’interno dei legami sociali primari più intensi?». Per rispondere in maniera esaustiva a tutti questi interrogativi sarebbe necessario approfondire i motivi che hanno indotto alla creazione di un personaggio così pittoresco. La cosa, per quanto avvincente, ci porterebbe tuttavia lontano dall’obiettivo di vagliare cosa sia “in gioco” nel dono e nell’atto di donare o ricevere. A tale

scopo può invece risultare proficuo notare che si tratta di un Babbo, ovvero di un padre. Meglio: è un padre che assomiglia a un nonno. Non a caso, le fattezze che assume ne evocano la figura: è anziano, ha la barba bianca e prende i bambini sulle ginocchia. Si può dire con più puntualità che Babbo Natale rappresenta un antenato. L’esistenza avvolta nel “mistero” e la sua provenienza remota, il fatto che percorra lunghi tratti di strada per giungere e che la sua presenza – quando si dà – sia per pochissimo tempo, prima di scomparire dalla vita normale dei bambini, lo attestano in modo chiaro. È un simbolo attraverso cui si ricompone il legame con gli avi, con coloro cioè che sono stati e si potrebbe essere indotti a ritenere solo dei cadaveri e che invece si fanno presenti. Il “presente” del dono stabilisce cioè un legame tra generazioni e, insieme, induce a riconoscere e valorizzare tale legame. Sembra un modo per dire che si è in debito, non solo nei confronti dei propri genitori, ma anche rispetto ai loro stessi genitori; e, via via, nei riguardi di quanti ci hanno preceduto e con i quali si è, proprio per questo, congiunti in qualche modo. Così come rappresenta un modo per apprendere che si riceve da altri che non sono solo i genitori e neppure coloro che i bambini vedono nella loro vita ordinaria. Babbo Natale infatti dilata nel tempo il contesto chiuso della famiglia moderna, ristabilendo un legame con il passato; e allarga al contempo lo spazio perché unisce i bambini al resto dell’universo, facendoli uscire dal loro piccolo guscio. La figura di Babbo Natale è emblematica non solo per l’importanza che ha assunto, ma perché evoca l’accettazione da parte di molte culture, anche diverse tra loro, di quei riti che, in modo analogo, comportano l’offerta o lo scambio di un dono e hanno come protagonisti i morti e i bambini. Sia nei paesi europei che in quelli extraeuropei si possono osservare diverse festività in cui i morti portano doni ai bambini. Può essere particolarmente significativa, in tal senso, la pratica riportata dalla etnologa e antropologa Giovanna

Salvioni e diffusa in Sicilia, particolarmente a Palermo. «Nella notte tra il 1° e il 2 novembre si pensava che i morti uscissero dal loro paese tenebroso e si avviassero alla spicciolata nel centro dei paesi e delle città, – dice Salvioni, – per sottrarre ai migliori pasticceri, giocattolai, sarti ecc., dolci, giocattoli, abiti che avrebbero donato ai bambini appartenenti alla propria parentela». È soprattutto istruttivo tuttavia sviscerare il motivo per cui siano proprio morti e bambini a essere protagonisti di tali offerte di doni. I morti sono coloro la cui vita si è interrotta. I bambini sono invece viventi; ma la loro vita è appena sorta e tra gli umani sono quanti esprimono maggiormente la fragilità dell’esistenza. Dunque il fatto che molti riti che comportano offerta o scambio di doni li vedano protagonisti indica che attraverso il dono dell’uno all’altro ci si prende cura di una vita che è strutturalmente fragile. Ovvero che senza il dono non sembra esserci possibilità di vita umana. Non è un caso, in tal senso, che l’offerta in diversi riti di svariate tradizioni sia rappresentata dal cibo. Perché dare da mangiare è donare ciò che permette di vivere; è offrire la vita. Si tratta di qualcosa che, a ben vedere, è alla base non solo dei rituali natalizi o di quelli analoghi evocati, ma anche di un rito molto più comune e frequente come l’invito a pranzo di qualcuno. Quando lo invitiamo, – dice un teologo stimolante come Lafont, – affermiamo che «i viveri di cui non può fare a meno, fosse anche per un sol giorno, per continuare a vivere, li troverà da noi: gli daremo oggi del nostro, dei nostri viveri, della nostra vita, perché egli possa viverne. Invitare a pranzo è in definitiva offrire la vita». Tali riti tuttavia non sono al margine della vita normale e feriale. Essi al contrario ne illuminano la realtà. Dicono che il dono crea, alimenta e rinforza il legame sociale e l’alleanza tra le persone, in modo da permettere l’esistenza stessa di una società. Uno studioso come Hénaff, nel suo Il prezzo del dono vorrebbe mostrare che esiste una differenza sostanziale tra il dono praticato nelle civiltà arcaiche e

quello praticato dai moderni. Concordo con chi invece sostiene che c’è un sostrato comune a ogni genere di dono: appunto la creazione e la cura dei legami tra le persone, permettendo così la società. E allora riti come quelli della consegna dei doni da parte di Babbo Natale hanno un forte valore simbolico e pedagogico. Sin da bambini si apprende qualcosa di fondamentale per la società attraverso di essi: il legame e la relazione tra le persone. Proprio per questo sono loro che aiutano ad apprendere l’arte stessa del vivere.

Quando ricevere è insopportabile

L’indagine istruita su un rito così comune e apparentemente semplice come quello dei doni portati da Babbo Natale ha già permesso di giungere a due considerazioni piuttosto rilevanti. La prima, facilmente condivisibile, è che il dono evoca immediatamente sentimenti di favore, incanto e bellezza. È bello ricevere dei doni. Forse – si può aggiungere – è almeno altrettanto bello (se non addirittura di più) poter donare qualcosa a qualcuno. La seconda considerazione, sulla quale non è così scontato un consenso universale, è che il dono sottende alla creazione, ricostituzione ed espressione del legame sociale. Donare e accettare doni di ogni genere è la possibilità per gli umani di stringere legami, rinforzarli e ricostituirli laddove fossero minacciati. Non si tratterebbe pertanto di qualcosa che caratterizza gli interstizi di società umane, perché si costituirebbero sulla base di ben altri fattori – come troppo spesso si ritiene oggi – in una società dominata dal mercato e dalle sue presunte leggi. Si tratterebbe invece di una realtà senza la quale la società stessa si troverebbe minacciata nella sua

esistenza e alla radice; e con essa il legame e la relazione tra le persone. Uno studioso come Marcel Mauss, che con il suo celebre Saggio sul dono ha aperto la strada allo studio e alla riconsiderazione di tale realtà, lo sostiene in modo inequivocabile. Il dono è per lui il fondamento (roc) della società. L’una e l’altra considerazione dovrebbero indurre, dunque, a ritenere che ci sia una sorta di semplicità e di immediatezza del dono. Eppure l’esperienza reale sembra spesso incaricarsi di smentire tutto ciò. Non solo perché non pare sempre così scontato e immediato donare: oggetti, oltre che attenzione, tempo, energie, affetto, sostegno, conoscenze… ma anche perché non sembra neppure scontato e immediato ricevere doni: quasi che quella del ricevere fosse un’esperienza sempre gratificante e liberante. Per sostenerlo mi avvalgo anche in questo caso di un breve racconto. L’episodio, realmente accaduto, mi è stato raccontato. Ma è evidente che si tratta di un avvenimento analogo a molti altri comuni nella nostra vita quotidiana. L’ambiente è quello di una comunità religiosa maschile. Si tratta di “consacrati” che vivono insieme, pur svolgendo servizi diversi. Molti tra loro insegnano nel liceo parificato della famiglia religiosa a cui appartengono annesso alla loro abitazione; gli altri svolgono servizi per la congregazione. Per poter dedicare tutte le energie al loro ministero hanno deciso di avvalersi dell’aiuto della signora Carla, che si occupa della spesa, rassetta la casa, cucina il pranzo. Ovviamente Carla è regolarmente assunta. Pertanto tra loro e lei esiste un rapporto di lavoro. Ciò non toglie che, dato il contesto, ci sia anche una certa confidenza. I religiosi si informano delle sue condizioni personali e familiari, cercando di farla sentire parte della loro casa. E Carla dal canto suo li considera persone con le quali intrattenere un rapporto che vada anche aldilà di quanto pattuito. Le relazioni generalmente

funzionano bene. Talvolta, tuttavia, si rileva da una parte o dall’altra qualche eccesso per cui occorre ricordarsi reciprocamente che esiste in ogni caso anche un rapporto di lavoro. In un clima di questo genere si spiega comunque perché la signora Carla ci tenga a fare un regalo di compleanno a ciascuno dei religiosi. E perché questo vada incontro ai loro desiderata, raccoglie consigli dagli altri. Così accade anche in occasione del compleanno di fratel Guglielmo. Mentre si avvicina il giorno in cui egli compie gli anni, Carla si informa. Ma fratel Guglielmo lo viene a sapere e le manda un messaggio chiaro: non accetterà il dono. Per questo la domestica si trova costretta a desistere dal suo intento. Nel frattempo fratel Guglielmo spiega agli altri religiosi quale sia il motivo del suo testardo rifiuto. Egli teme che quel dono – qualunque esso sia – rappresenti un pericolo. Esso potrebbe instaurare un debito che va a compromettere il normale rapporto di lavoro. Accettarlo – è questo il timore di fratel Guglielmo – potrebbe significare essere meno liberi di chiedere ciò che è dovuto per patto lavorativo; o risultare meno liberi di rifiutare eventuali richieste che Carla potesse un giorno fare, come delle vacanze non dovute o un aumento dello stipendio. Insomma, a ben vedere, la vicenda conferma quanto già affermato in precedenza. È infatti evidente che tale dono instaura e rinsalda un legame: nella fattispecie quello tra Carla, dipendente, e la comunità di religiosi, datori di lavoro. In questo caso si evidenzia però anche come il legame possa essere pericoloso, costringente: una potenziale fonte di ricatto. È un episodio analogo a diversi altri in cui ci si può trovare normalmente coinvolti. Capita spesso di venire implicati in situazioni speculari rispetto a quella descritta, dove si avverte la stessa pericolosità del dono. Una cospicua elargizione da parte del datore di lavoro, per esempio, può ingenerare la sensazione di “venire

comprati”, di perdere la propria autonomia e la propria capacità di contrattare ciò che è dovuto. Allo stesso modo le attenzioni insistenti e gli evidenti privilegi di cui è oggetto una giovane e bella studentessa possono indurre il sospetto che il docente voglia essere ricompensato in qualche modo. Ma anche in situazioni di tutt’altro genere, ricevere un dono può apparire imbarazzante e inaccettabile. È così, per esempio, nel caso di una ragazza non ancora pienamente convinta di sposare il suo fidanzato, che si vede recapitare un diamante da parte sua e un grandissimo mazzo di fiori da parte dei suoi genitori. Ci sono doni – occorre riconoscerlo – che appaiono lacci da cui liberarsi più che una gioia a cui abbandonarsi.

In dono venenum

Che il dono sia attraversato da una ambiguità a lui sottesa, che possa essere pericoloso e all’occorrenza debba essere guardato con diffidenza è cosa risaputa e ha lasciato tracce in diversi luoghi. Alcuni detti, come il latino do ut des o come il suo equivalente negativo non si dà niente per niente, ne rappresentano uno. Con esso si manifesta l’idea che ogni dono contempla come finalità intrinseca di essere in qualche modo ripagato. Ma lo stesso si deve dire di favole, come quella di Biancaneve, in cui la regina interpreta il ruolo di una sconosciuta che dona la mela avvelenata; o di racconti, come quello biblico, in cui Eva offre il frutto del peccato ad Adamo; o, ancora, di miti, come quello di Pandora, che apre il vaso donato da Zeus da cui scaturiscono tutti i mali della terra. In questi, come in altri racconti analoghi, è impressa l’idea che il dono possa rappresentare una minaccia per chi lo riceve, perché può risultare qualcosa di deleterio e dannoso.

Do ut des «Ti dò, affinché tu mi dia»: racchiude l’idea che quando si dona, in realtà, esista sempre un interesse recondito, sperando che ne derivi un profitto. Anche la lingua, tanto antica quanto moderna, porta la traccia del sospetto con cui deve essere guardato il dono. Il linguista Émile Benveniste afferma che in gran parte delle lingue indoeuropee la parola “donare” affonda le proprie radici in un verbo che significa, all’origine, tanto “dare” quanto “prendere”.

Le radici del termine “donare” Benveniste ricorda i cinque termini diversi per nominare il dono in greco. Uno di questi è dósis, che evoca “la dose”; e non suggerisce tanto l’idea dell’offerta, ma stabilisce piuttosto una certa parentela con l’idea del veleno. Non è casuale che anche in italiano, questo stesso termine, “dose”, possa designare tanto la medicina quanto la dose del veleno o della droga che uccide. Nel latino il munus indica tanto il dono quanto l’obbligo. La stessa ambiguità è segnalata dalle lingue moderne: per esempio, il termine inglese per dono (gift) corrisponde a quello tedesco per dire veleno (Gift). Dunque non è sufficiente parlare di dono o di donazione. È sempre necessario specificarne le finalità. «Certo noi doniamo, – dice Fred Poché. – Ma che cosa? In vista di cosa? A che fine? Ancora una volta,

dire che si dona non significa che si offra necessariamente qualcosa di positivo a un’altra persona». Si pensi, per citare un luogo di ambiguità tipicamente contemporaneo, ai gadget che si associano alla vendita di qualche prodotto, al fine di incentivare le vendite e dunque i profitti. Lo aveva già notato in un aforisma dei Minima moralia Adorno, guardando alla società moderna in occasione di un suo viaggioesilio negli Stati Uniti nel 1944. Diceva: «Gli uomini disapprendono l’arte del dono. C’è qualcosa di assurdo e di incredibile nella violazione del principio di scambio; spesso anche i bambini squadrano diffidenti il donatore, come se il regalo non fosse che un trucco per vendere loro spazzole e sapone». È fin troppo evidente che, qualche decennio dopo, tale meccanismo si è perfino raffinato. Ma il dono non è ambiguo e pericoloso solo perché potrebbe nascondere la richiesta di un subdolo scambio. Per certi aspetti può risultare paradossalmente ancora più nefasto quel dono che avrebbe la pretesa di essere puro, pienamente disinteressato, totalmente a perdere, e perfettamente unilaterale. Quel dono, insomma, in cui chi fa il dono (il donatore) non si attende assolutamente nulla da chi riceve il dono (il donatario). E da questo punto di vista, dopo secoli di cristianesimo e di una certa enfasi – anche retorica – sulla pura grazia e sull’amore puro che non chiede mai nulla in cambio, occorre mantenersi vigili. Lo fa notare con finezza un teologo come Pierangelo Sequeri, quando pone l’accento sul fatto che un certo modo di parlare del dono di Dio finisce spesso per risultare inodore, incolore, insapore e persino indolore: perché, alla fine, indifferente a colui a cui il dono è fatto! Si pensi alla declinazione di un tale modello di dono sul piano orizzontale nei rapporti umani. Ci può essere un modo di “dispensare carità” che lascia costantemente l’altro nella condizione di dipendenza assoluta e attraverso il quale, se si tratta per esempio di un mendicante, si certifica ancora di più la sua esclusione strutturale

dalla società. Come si possono dispensare elemosine in modo così gratuito da non incrociare neppure lo sguardo di coloro che le ricevono e da non permettere di uscire da una condizione di dipendenza durevole. E ciò può accadere non soltanto a livello di quelle che Ricœur chiama “relazioni corte”, bensì anche per quelle che lo stesso filosofo definisce “relazioni lunghe”. Ci sono infatti dei doni umanitari devoluti a Paesi più poveri, in denaro, viveri, medicine, presenza di personale specializzato… che possono incentivare una sempre maggiore dipendenza di quegli stessi Paesi da coloro che elargiscono doni; che non favoriscono un cambiamento delle politiche, perché divengano più eque; e che, infine, rinforzano un potere di chi offre il dono rispetto a chi lo riceve. Si comprende, allora, perché Pouillon abbia potuto asserire che «l’azione di donare, che sembra materializzare una relazione di simpatia, riveste di fatto una dimensione aggressiva. Infatti il regalo crea un debito». Non si può evidentemente condividerne il carattere perentorio. Ma serve a segnalare un pericolo: che si renda oggetto di dono quanto dovrebbe essere dato in nome della giustizia; e che vi sia tra gli umani qualcuno che sarebbe deputato solo a donare, mentre altri sarebbero chiamati solo e sempre a ricevere. Vale in questo caso come monito la frase di una donna che riceveva il pasto alla Mensa dei poveri: «Vorrei tanto essere anch’io – diceva – dalla parte di coloro che donano».

Im-munizzarsi. Se l’altro fa paura

Se il dono può essere ambiguo, se può risultare avvelenato, se c’è il pericolo che rappresenti un ricatto e costringa in un modo o nell’altro a ricambiare, non stupisce che da un regime di solo dono ci si possa anche difendere. Specie qualora il pericolo sia di venire sottomessi o di rimanere strutturalmente dipendenti o costantemente in balia degli altri e della loro eventuale generosità. Per riuscire a sopravvivere, c’è anche il bisogno di far tornare i conti in pareggio. È necessario che si creino dei rapporti di equità e di scambio giusto. Si pensi, per esemplificare, a come in un tempo come quello attuale in cui il lavoro scarseggia, la stessa possibilità di avere un impiego venga subita come un dono elargito dalla somma bontà di chi ne ha il potere; e non invece come un diritto in forza della dignità umana. È sconvolgente – quando non si sia ancora persa la coscienza – sentire in alcuni concorsi radiofonici (come mi è capitato di udire) che tra i premi messi in palio per chi partecipa e vince vi sia anche un posto di lavoro!

Ma si pensi, all’inverso, a come in questa stessa congiuntura i datori di lavoro accondiscendano al lavoro per i giovani, senza però remunerarli, facendo leva sulla loro disperata gratuità. In situazioni come queste si comprende bene come si abbia anche la necessità di uno scambio equo. Può tornare utile prendere in considerazione la ricostruzione della nascita del mercato avanzata da qualche studioso. Secondo questa rivisitazione della storia delle idee il mondo premoderno conosceva una forma di comunità. Si trattava, però, di una comunità sacrale, che era tale in forza del riconoscimento di un Assoluto esterno a essa; creava al suo interno relazioni di tipo gerarchico, perché conferiva potere non solo all’Assoluto, ma anche a chi lo rappresentava. Tutto cambia, tuttavia, quando questo tipo di sodalizio sacrale esaurisce la sua funzione. Proprio a questo punto con la modernità nasce l’individuo. Ognuno si è scoperto individuo, e – dice Luigino Bruni – «si è trovato per la prima volta in un modo generalizzato e radicale di fronte a un altro individuo, un altro come sé ma diverso da sé, dove ogni “io” rappresentava per l’altro “io” un “non”, un problema. Si è trovato davanti qualcuno che non gli è né sotto né sopra: ma a fianco». Dunque si darebbe la possibilità di una collettività non più priva di individui e neppure soltanto gerarchica, bensì di uguali: una comunità di individui. Ma la modernità sembra avere avuto timore di un tale tipo di fratellanza, poiché per realizzarla ci si sarebbe dovuti abbandonare alla relazione con l’altro, senza difese e senza mediazioni. Ben sapendo che l’altro può essere il mite Abele o il fratricida Caino. E, siccome si proveniva da un contesto di disparità tra individui, l’altro ha finito con l’apparire molto di più con le sembianze di Caino e molto meno con quelle di Abele. Perciò si è ritenuto di poter costruire una società, solo immunizzandosi dall’altro, prendendo le distanze, mettendosi al riparo dal rischio di un’immediata relazione con lui. Se si pensa con Hobbes che homo homini lupus, cioè ciascun

uomo è un lupo per un altro uomo, allora l’unico modo di mantenere una comunità di individui è quella di trasformarla in una società fondata non sull’immediatezza dei loro rapporti e confidando nella loro reciprocità, bensì sulla base di un contratto sociale. Dice in maniera efficace Esposito: «Se la relazione tra gli uomini è di per sé distruttiva, l’unica via d’uscita da questo stato insostenibile di cose è la distruzione della relazione stessa. Se l’unica comunità umanamente sperimentabile è quella del delitto, non resta che il delitto della comunità». Un delitto che permette la nascita di una società in cui gli uomini possono convivere sulla base di un contratto sociale; ma dove ciò che viene perso è la possibilità di una fraternità, in cui l’altro rappresenti una benedizione, come dice il libro della Genesi e non, invece, una maledizione. È in forza del Leviatano, figura biblica con cui Hobbes identifica lo Stato, che gli individui possono ormai stare insieme: in un modo tale, però, che dall’altro, nella sua concretezza, si prendano le distanze; e nell’assunto implicito che la relazione rappresenti un pericolo e contare sul dono altrui sia deleterio. Non solo lo Stato moderno nasce su queste basi. Anche il mercato ha sostanzialmente qui la sua origine. Rileva ancora Bruni che le due grandi vie di fuga dall’altro che la modernità ha saputo inventare «sono state il Leviatano e il Mercato, i nuovi mediatori che vengono introdotti per evitare la sofferenza legata a una relazionalità tra individui liberi e uguali, ma anche potenzialmente assassini – a cui oggi occorre aggiungere anche la tecnologia». Attraverso il mercato, infatti, si vuole mettere fine alla dipendenza del singolo con l’altro, alla possibilità che confidando nel suo munus, nel suo dono, ci si ritrovi obbligati nei suoi confronti. Un teorico come Smith dice, non a caso, che ciascun commerciante o artigiano deriva il suo guadagno dall’impiego non di uno ma di centinaia o di migliaia di clienti. In tal modo, pur essendo in certa misura legato a tutti loro, riesce a dipendere indissolubilmente da nessuno.

Nel mercato si danno allora relazioni strutturalmente anonime e impersonali, mai ferite dall’altro in carne e ossa e dal suo volto. L’incontro è mediato dal denaro. L’intento è quello di immunizzarsi da rapporti gerarchici e sempre asimmetrici, quali erano quelli di una società pre-moderna, consentendo ancora, tuttavia, una relazione interpersonale. Quando il mercato diviene, però, l’unico modo di concepire i rapporti umani, non potrà che derivarne una mutilazione dell’umano dagli effetti profondi e potenzialmente devastanti.

Non di solo mercato vive l’uomo

Ogni grande idea va misurata anche dalla verifica dei suoi effetti. La teoria che ha contrassegnato il pensiero di Smith e la creazione del mercato moderno – lo si è visto – ha avuto l’indubbio merito di voler arginare un tipo di relazione tra gli umani dove ce n’erano alcuni in posizione di superiorità rispetto ad altri. La conseguenza che, però, tale idea ha prodotto è un mondo in cui si è andati sempre più difendendosi dalla relazione con l’altro in quanto tale: nella sua concretezza, immediatezza e drammaticità. Come nel caso dei vaccini, volendo immunizzarsi da un tipo di relazione che non portava alla uguaglianza, si è divenuti refrattari a ogni tipo di relazione; e – ma in fondo è l’altra faccia della stessa medaglia – si è finito per leggere e interpretare ogni tipo di rapporto interumano secondo la logica del mercato. È ancora Luigino Bruni a evidenziare in modo puntuale e illuminante l’effetto che ciò ha finito per avere nel mondo contemporaneo. «La storia dell’Occidente (e oggi del mondo), – scrive, – poteva essere diversa se la sfera del mercato fosse stata confinata in un suo ambito

ben preciso, e fosse cresciuta la sfera privata nella quale sperimentare la felicità che solo rapporti tra pari, di intimità e densità affettiva, producono. In realtà la storia di questi ultimi due secoli ha mostrato un’altra traiettoria: la sfera del mercato ha invaso sempre più ambiti civili, e anche la sfera privata (si pensi, per esempio, all’evoluzione del diritto di famiglia), e ci siamo ritrovati con una “relazionalità” di mercato che è diventata la nuova relazionalità del xxi secolo». Non si vuole negare la necessità che vi siano degli ambiti in cui si stabiliscano delle relazioni di mercato, in cui è necessario che si diano anche transazioni anonime, impersonali e mediate. Quel che appare sempre più evidente è che un mondo in cui la possibilità stessa del dono, e dunque di un altro genere di relazioni, è strutturalmente espunta: è un mondo che finisce per divenire esso stesso un mercato e nulla più. In tal senso il sottotitolo che Roberto Mancini ha dato a un suo recente libro sul dono, Meditazioni sulla società che credeva d’essere un mercato, è di grande impatto per esprimere quel che sta accadendo oggi. Aiuta ad accorgersi di una realtà che è costantemente davanti ai nostri occhi, ma rispetto alla quale si potrebbe essere ciechi: l’unica logica con la quale si approcciano i rapporti tra le persone sta finendo per essere quella del mercato. Su questa base, le persone stesse vengono sempre più considerate alla stregua delle “cose”, come possibili portatrici di un profitto o come, al contrario, un impedimento in relazione a un guadagno previsto. Anche il linguaggio a cui ci si sta insensibilmente abituando può essere preso a testimone di ciò. Come è possibile, infatti, pensare che un essere umano sia un esubero se non sulla base di una logica che guarda alle persone alla stregua delle “cose” e del mondo impersonale? O come si può ritenere che qualcuno si possa rottamare, come un auto o degli elettrodomestici dismessi, se non

perché si è finito per ritenere che l’unica relazionalità possibile sia quella mercantile? Non si può allora che condividere quel che Roberto Mancini denuncia: «La patologia che ritengo particolarmente pericolosa nelle dinamiche della mentalità oggi prevalente – dice – consiste nella credenza di massa per cui si prende per vero che la società sia un mercato globale e insuperabile, le cui ferree regole non ammettono deroghe per nessuno. In realtà la società ospita e conosce il mercato, ma non è affatto un mercato. Così come una scuola o una università, un ospedale o un municipio, un paese o il mondo intero hanno importanti aspetti economici nel loro funzionamento, ma non sono aziende». Per fare eco alle parole evangeliche con cui Gesù prende le distanze dal Tentatore e sottintendendo implicitamente che con una autentica tentazione ci stiamo oggi misurando, si potrebbe affermare che “non di solo mercato vive l’uomo”. Siamo anche altro. Siamo ben altro. Ciò è talmente vero che la stessa economia, privata della pratica di una giustizia più ampia e senza poter contare – anche al suo interno – su relazioni generose e gratuite, diventa inefficiente. Lo ha messo in evidenza in modo lucido papa Benedetto XVI, in una lettera enciclica che merita di essere letta e meditata. Dice il pontefice nella Caritas in veritate: «Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza. Infatti, il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non

può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una cosa grave».

Il Tentatore offre Nei vangeli si narra del fatto che Gesù va nel deserto, dove è tentato da Satana. Quest’ultimo appare qui nella sua veste di Tentatore, perché tenta anche Lui, il Figlio di Dio, in diversi modi. Si tratta di una veste con cui, peraltro, il serpente astuto si era già presentato all’inizio del racconto biblico (di tipo chiaramente simbolico), quando ha offerto il frutto dell’albero alla prima donna. A Satana, che tenta Gesù, il quale sta digiunando, di trasformare le pietre in pane, Egli risponde che «non di solo pane vive l’uomo».

Il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica Con giustizia commutativa si intende quella che regola i rapporti tra i singoli. Distributiva è, invece, la giustizia che regola i rapporti tra la società e i suoi membri. Infine, con giustizia sociale si intende la ricerca di una maggiore equità, volta a eliminare – anche a mezzo dell’azione politica – la miseria, la disuguaglianza, lo sfruttamento o l’oppressione di alcune fasce di popolazione (per esempio i lavoratori). Alla luce di ciò, appare come fondamentale e profetica l’affermazione di Benedetto XVI, secondo cui la giustizia che il mercato deve ricercare non può essere solo quella commutativa!

I mercati non sono un destino

Se è vero che un regime di puro dono potrebbe nascondere i suoi tranelli, è ancora più vero che una società trasformata in mercato diviene fredda, invivibile e perfino atroce. Per questo, non è soltanto possibile ma addirittura doveroso approfondire ulteriormente la riflessione sul dono e sul fatto che sia possibile donare generosamente, senza calcoli, senza essere animati da una prospettiva di pareggio, senza seconde intenzioni e senza speculare sull’omaggio, trasformandolo in fonte di potere e di dominio sull’altro. Anche per sfatare un’idea e un sentimento che, insidiosi, si stanno insensibilmente annidando al fondo delle nostre menti e dei nostri cuori. L’idea di un mondo dove l’unica legge possibile sia quella mercantile che, staccata da altri aspetti fondamentali della nostra umanità, significa la “legge della giungla”: ovvero, che il più forte divora il più debole. E il sentimento che rispetto a tutto ciò non si possa che rimanere inerti e impotenti.

I modi in cui i media danno le notizie sulla crisi economica, a partire dai suoi inizi nel 2008, inducono spesso tale idea e tale sentimento. Intanto, c’è una parola che risuona come fosse la panacea di tutti i mali: sacrificio. Si dice da più parti che occorre “fare dei sacrifici”. Altre volte, si esprime la stessa realtà con metafore ancora più crude, come per esempio “lacrime e sangue”. Si tratta, a ben vedere, di un concetto sottilmente ma radicalmente differente dal dono. Nell’idea di sacrifico è implicito, che non vi sia qualcosa da far emergere e germogliare, quanto piuttosto che vi sia qualcosa da distruggere. E forse non è un caso che quando si ricorre a questo linguaggio, si finisce inesorabilmente per incappare nella sensazione che siano i benestanti a domandare il sacrificio di quanti già stentano a vivere. In secondo luogo, si parla dei mercati come se fossero una mano invisibile che ci governa ineluttabilmente. È divenuto abituale, dopo che si sono fatte manovre economiche volte a “tranquillizzare i mercati” che escano sui giornali titoli del tipo: I mercati non sono contenti; I mercati chiedono ulteriori sacrifici; I mercati non sono stati rassicurati o, all’inverso, I mercati si sono placati. Sembra di avere a che fare con una realtà sovrumana che decide del destino mondiale e per l’umanità intera con i suoi capricci. È quando si fa del mondo un mercato e nulla più che esso, con la sua legge del pareggio e dell’interesse, appare come una necessità cui non ci si può sottrarre. Ma quando si considera la realtà – quale è – come qualcosa di ben più ampio del mercato e della logica che lo sostiene, allora persino lui risulta orientabile, discutibile, governabile. È in tal senso molto istruttivo quanto richiama Benedetto XVI nella già citata enciclica Caritas in veritate. Egli ricorda che «l’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e sopratutto la comunità politica. […] Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul

debole. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso». E affinché ciò non accada è necessario che il mercato stesso sia riferito all’uomo, alla sua coscienza morale e, dunque, alla sua libertà e responsabilità. Il riconoscimento che il dono si possa dare, che vi sia la possibilità di atti generosi e di azioni che non sono compiute in vista di un interesse personale, mentre dice che la logica del pareggio e dell’interesse non sono l’unica logica possibile, racconta di conseguenza che l’uomo è libero e che è, dunque, in suo potere orientare anche il mercato. Approfondendo meglio, infatti, il donare è qualcosa che esprime lo specifico dell’uomo proprio in quanto è strettamente connesso alla libertà umana. Non si può, per così dire, mettere in conto il dono, darlo per scontato, perché altrimenti non sarebbe più dono. Così come non è possibile anticipatamente “calcolare” quel che la libertà umana può realizzare. Ma «il dono e la libertà – osserva Perone – sono una sovrabbondanza che obbliga a ripensare l’ordine della realtà»: sono, cioè, qualcosa di non necessario, di non scontato, che quando si realizzano obbligano, però, a ripensare la realtà, a tenere conto anche di loro. Al punto che si può continuare a pensare un mondo che non risponda alla sola logica del mercato: la quale, quando è lasciata a se stessa, risulta disumana e violenta. Considerare il dono e la sua possibilità vuol dire ritenere ancora che l’uomo è libero; che sta a lui scegliere che tipo di società vuol realizzare; e che non è destinato ad accontentarsi di un mondo ridotto a mercato globale. Perché – come nota giustamente Mancini – uno dei tratti indispensabili del dono è proprio la libertà. Infatti quando nella relazione c’è costrizione, obbligo, manipolazione o

menzogna non si può parlare di dono. Il fatto stesso che si dia il dono, in tutte le sue forme, ha a che fare con la libertà umana. Ma laddove c’è la libertà, la riduzione del mondo a un mercato in cui i forti prevaricano i deboli non è più un destino, come troppo spesso siamo indotti oggi a credere.

C’è ancora la generosità di una volta

Nell’introduzione a uno dei suoi più importanti studi, Lo spirito del dono, Godbout esplicita una profonda e determinante convinzione a proposito della propensione degli uomini a donare. Essa «si riassume nell’ipotesi secondo la quale il desiderio (drive) di dare è altrettanto importante per comprendere la specie umana quanto quello di ricevere. Che dare, trasmettere, restituire, che la compassione e la generosità sono altrettanto essenziali quanto prendere, appropriarsi o conservare, quanto il desiderio o l’egoismo; o ancora che “l’attrattiva del dono” è altrettanto o più forte dell’attrattiva del guadagno, e che dunque è altrettanto essenziale delucidarne le regole quanto conoscere le leggi del mercato o della burocrazia per comprendere la società moderna». La prova che questa convinzione non è viziata né da utopia né da facile ottimismo risiede nel fatto che anche una società come la nostra, in cui tutto tende a essere ridotto a mercato, non è riuscita a spegnere “lo spirito del dono”. C’è ancora chi dona. C’è ancora la generosità di una volta. Certo, mentre alcune espressioni di tale generosità ricalcano quanto avveniva nel passato recente o remoto, sono sorte modalità

decisamente nuove e inedite. Ma questa propensione a dare, questa “attrattiva del dono” – come la definisce Godbout – non è venuta meno. È praticamente impossibile offrire un quadro esaustivo dei modi in cui ancor oggi si dona. Lasciandoci guidare da una preziosa ricognizione offerta da Gasparini si riesce tuttavia a distinguere tra forme di dono tradizionali, rinnovate e nuove. Tra le prime vanno ricordate «quelle che si radicano nelle credenze e nei comportamenti religiosi, nell’ambito della famiglia e della parentela, nella cerchia locale, nell’esperienza artistica». Per esemplificare, ci si può riferire a forme di dono ai poveri, praticate dalle comunità cristiane attuali in modo analogo a quanto avveniva nel passato, come l’elemosina, l’offerta di cibo o di indumenti, l’ascolto delle necessità di chi è bisognoso; rimanendo nello stesso contesto, si profilano ancora oggi figure che offrono la propria vita, in forma anche pubblica e solenne, come il prete, il monaco o il religioso. Tra le forme di dono che, invece, riguardano la famiglia, si può richiamare il rapporto fisico e morale dei partner nel matrimonio, il dono della vita e la cura della loro crescita che i genitori fanno ai figli e, all’inverso, la cura dei genitori anziani e non autosufficienti da parte dei figli adulti; sempre in quell’ambito persistono forme di dono che coinvolgono la parentela, come l’impegno di cura svolto dai nonni baby-sitter che si donano ai nipoti. Così come continuano a esistere forme di aiuto materiale o affettivo all’interno del vicinato, specie in contesti locali di dimensioni piccole o medie. E persiste il dono dell’artista attraverso la sua opera: essa va, infatti, aldilà del compenso ricevuto; così come eccede il compenso l’applauso che il pubblico pagante tributa al cantante o all’attore. «Parecchie altre forme di dono, – afferma sempre Gasparini, – si presentano con una doppia anima, quella del radicamento in realtà socio-culturali tradizionali o consolidate e quella dell’innovatività di

associato mette gratuitamente a disposizione le sue competenze e può usufruire di quelle altrui. Si tratta di una realtà che mostra molto bene come il nostro stesso tempo possa essere oggetto di dono, in diversi modi. Si pensi al tempo dedicato all’ascolto, a quello adoperato per una ripetizione gratuita, al tempo impiegato per accompagnare una persona non autosufficiente dal medico, ecc. Proprio queste ultime forme di dono, così tipiche delle società moderne, sfuggono chiaramente a quella logica del pareggio e dell’interesse di cui si è parlato in precedenza. O, per richiamare quanto dice sempre Godbout, tali doni hanno in sé qualcosa che è impossibile incasellare e comprendere nella logica secondo la quale quando si agisce si mettono sempre in atto dei mezzi con l’intenzione di raggiungere un determinato fine. «Qualcosa ci sfugge nel dono e dà le vertigini alla ragione moderna, dice. Il che non vuol dire che il dono sia irrazionale». Sembra piuttosto voler semplicemente rispondere a un’altra logica, a qualcosa che eccede l’idea del pareggio e dell’interesse; ma che è talmente importante da permettere la sopravvivenza di realtà come lo stesso mercato dominate da tale logica. Non si pensa mai abbastanza, infatti, al fatto che l’economia può vivere e proliferare anche grazie al molto donare di cui è intessuta la società: dall’apporto offerto dai pensionati alle diverse forme di volontariato; dal sostegno ai poveri e agli emarginati al lavoro educativo verso bambini e ragazzi.

Un altro dono è possibile?

Non possiamo eludere oltre una domanda divenuta focale per il discorso che si sta affrontando. È necessario anzi esaminarla in modo più netto e preciso di quanto sia stato fatto sinora. Si sono, infatti, considerati gli esiti nefasti di una società ridotta a mercato e nulla più. E se ne è verificata la falsità perché, anche all’interno di questo mondo, sembra esserci ancora chi dona generosamente; e dunque pare proprio che “lo spirito del dono” non si sia spento. Ma, ecco la questione che non è più dilazionabile: il dono è realmente possibile? Sono davvero possibili atti generosi, in cui si dona per il solo gusto di dare e in cui quest’azione, di qualunque tipo si tratti, risponde a una logica altra rispetto a quella dello scambio, del pareggio e dell’interesse? O non sarà piuttosto che l’ambiguità del dono messa in evidenza all’inizio del nostro percorso di riflessione sia da prendere così sul serio da dover concludere che, in realtà, il dono autentico è impossibile? Potrebbe essere che il dono non sia altro che l’apparenza del dono?

Si tratta di questioni davvero cruciali. E dalle risposte dipende la possibilità di ritenere concreta l’idea che un altro mondo sia ancora possibile rispetto a quello freddo e troppo spesso violento che lo vede ridotto a un mercato e nulla più. Ma da quelle risposte deriva anche la visione che si ha dell’uomo, delle sue bellezze e delle sue potenzialità; e proviene, infine, la possibilità di mettere a punto con più chiarezza che cosa sia, se c’è e quando c’è, il dono. Al fine di fare chiarezza attorno a tali questioni può essere utile un compagno di viaggio come Derrida: è evidente che la radicalità del suo pensiero impone, quanto meno, di confrontarsi con esso. Per Derrida il dono è l’impossibile. Ciò non significa, tuttavia, che per lui non esista. Affermare che il dono è l’impossibile vuol dire che quando c’è non può apparire. Qualora esso apparisse, cioè si realizzasse il presente del dono, allora non ci sarebbe dono. Perché? Perché Derrida distingue in modo netto il dono dal circolo economico. Nell’economia c’è lo scambio, dunque un circolo: tra chi dà qualcosa e chi restituisce a colui che ha dato qualcosa d’altro. Ora, il dono deve essere una realtà non economica: dunque, un fenomeno in cui non ci sia alcun genere di scambio e di circolo. Ritenere, pertanto, che perché si dia il dono ci deve essere il donatore (colui che fa il dono), il dono (ciò che è offerto) e il donatario (chi riceve il dono) significa di fatto parlare del dono snaturandolo. Infatti per Derrida laddove c’è un donatario e la coscienza da parte sua di aver ricevuto un dono, immediatamente il dono non ci può più essere: perché anche solo la percezione di averlo ricevuto induce ad avvertire il debito e il dovere di contraccambiare. Il pensiero di Derrida è così radicale da considerare un modo di annullare il dono anche solo la gratitudine che il donatario prova. Attraverso la riconoscenza, infatti, è come se il dono fosse in qualche modo “ripagato”; è come se si realizzasse di nuovo il circolo dell’economia e pertanto qualche cosa di totalmente altro dal dono. Ma vale qualcosa di analogo anche per il donatore: se, infatti, ha la coscienza di aver

modo critico rispetto al pensiero metafisico occidentale. Ciò lo porta, anche nella sua scrittura sul dono, a vedere l’implicito, a smascherare ciò che sembrerebbe palese, a smontare quel che parrebbe evidente per ricomporlo in altro modo, alla ricerca di una maggiore comprensione. Ciò non di meno la riflessione di Derrida impone altre questioni. È proprio vero che laddove si realizza uno scambio, di qualunque genere sia, lì siamo sempre sul piano economico? È lo stesso tipo di scambio quello che avviene quando a chi mi vende un vestito io pago alcune centinaia di euro o quello per cui a chi mi ha donato del tempo per ascoltarmi e consolarmi in un momento di solitudine o disperazione io regalo un libro per il suo compleanno? Sono questioni da tenere aperte se si vuole cogliere in modo sempre più profondo dove c’è dono e che cosa sia.

Dono genera dono

Intanto non è vero che non esiste concretamente un dono in cui non avviene alcuno scambio. È la riflessione di Jean Luc Marion a permetterci di rilevarlo; un pensiero che proprio per questo è utilmente accostabile a quello di Jacques Derrida. Non certo per dovere di esaustività, la quale esula dalle intenzioni di questo breve scritto. Quanto piuttosto perché si tratta di un altro importante contributo che permette di chiarificare ulteriormente se ci sia dono e di approfondire che cosa esso sia. Marion sa molto bene come il dono debba essere profondamente diverso dallo scambio e dal commercio. E condivide con Derrida la preoccupazione di mostrare che nel dono si accede a una logica davvero altra rispetto a quella del pareggio e della perfetta corrispondenza tra causa ed effetto. Cosa fondamentale per mettere a punto il significato del pensare dell’uomo. Tutto un certo modo di pensare, infatti, si è mosso e si muove alla ricerca del perché razionale di tutto quel che è e accade. Ma il dono è proprio ciò che sfugge, a ben vedere, a una tale “razionalità”. Perché «doniamo sempre senza contare afferma Marion in tutti i sensi del termine». Non si può risalire, cioè, al perché si doni. Per questo pensare il dono è accedere a una logica altra rispetto a quel pensiero

in cui si va sempre a caccia del perché e della causa. E il pensiero più profondo e radicale dell’uomo è proprio quello che pensa ciò che non sembrerebbe pensabile; è ciò che scardina in ogni punto la logica – così fondamentale nell’economia – del calcolo, della ricerca esatta del perché e della piena corrispondenza tra causa ed effetto, tra dare e ricevere, tra mezzi che si mettono in campo e fine che si intende raggiungere. Ciò che, tuttavia, non si può accettare del pensiero di Derrida – secondo Marion – è che non sia possibile un dono concreto; un dono, cioè, che appare e che si realizza, come una realtà in cui si accede a qualcosa di realmente diverso dallo scambio. Se anzi guardiamo alla specificità del dono, senza pensarlo sempre nell’orizzonte dello scambio economico e del do ut des, appare chiaro come il dono sia realmente possibile. Evidentemente «ciò significa descrivere e comprendere il dono senza arrivare a un donatore ricompensato, a un donatario sdebitato e a un dono valorizzato». Perché laddove avvenisse qualcosa del genere, si sarebbe ancora nello scambio e, dunque, nel circolo economico; ovvero in qualcosa di differente dal dono. Ora, a ben considerare, esiste la possibilità di un dono in cui il donatore scompare o rimane sconosciuto e, dunque, senza la possibilità di essere compensato. «Quando faccio un dono a un’associazione – esemplifica Marion – resto evidentemente sconosciuto, pur trattandosi comunque di un dono, perché perdo ciò che dò. Ci sono poi casi in cui l’anonimato del donatore è addirittura necessario, perché implicano che egli sia morto, che non esista più, come nel caso dell’eredità. In questo caso, non soltanto è possibile, ma è addirittura necessario che non vi sia più il donatore, ed è talvolta possibile ereditare da qualcuno che non abbiamo mai conosciuto». Allo stesso modo, è possibile pensare a un dono fatto a un donatario che non si conosce e non ha la possibilità di restituire. Si pensi al dono a un’associazione umanitaria, in cui non si sa chi alla

fine ne beneficerà. Ma si può considerare, allo stesso modo, che cosa accade quando si pianta un albero: esso sarà visibile e fruttuoso per persone che non vedranno mai colui che lo ha piantato e che non potranno in alcun modo contraccambiare. Qualcosa di analogo lo si deve dire del dono di chi scrive un libro: lo scrittore offre qualcosa, senza sapere chi leggerà il suo libro e senza poter essere, perciò, ringraziato. Ci sono poi doni che non sono oggetti e che prima o poi potrebbero, perciò, diventare merce di scambio. «Cosa posso donare, infatti, di più prezioso – si chiede Marion – della mia attenzione, della mia cura, del mio tempo, della mia fedeltà o della mia vita?» Quando si dona qualcosa del genere non si ha a che fare con un oggetto concreto, di cui si potrebbe sempre calcolare il prezzo. Eppure, non si può certo dire che non ci sia dono. Anzi, è proprio in queste occasioni che si sperimenta maggiormente il donare gratuitamente. Un caso, in particolare, evidenzia per Marion questo donare, possibile e concreto, eppure così diverso dallo scambio commerciale: si tratta della paternità. Il padre dona la vita al figlio, ma per essere padre deve poi mettersi in certo senso tra parentesi, deve lasciar essere il figlio. Ciò che gli dona è la vita. E la vita non si tocca, non si vede, non ha un valore commerciale. Infine, il figlio, che riceve la vita non può restituirla a suo padre. Egli non può “sdebitarsi” in alcun modo. Potrà prestare le cure al padre, ma non potrà mai rendergli quella vita che da lui ha ricevuto. Egli sarà fedele al dono ricevuto dal padre, solo donando per così dire in avanti: diventando padre a sua volta e donando la vita a qualcun altro, che non sia più il padre. Per questo non si finisce di essere e sentirsi in debito verso chi ci ha donato la vita! Come si vede, si tratta di un pensiero che ci aiuta a vedere come ci sia concretamente qualcosa che esula dal circolo economico, che risponde davvero a tutt’altra logica. Esso concorre, per questo, a mostrare la specificità di ciò che è dono. Così come è di stimolo a

considerare che il dono genera dono. Si è fedeli al dono, solo donando a propria volta. Una domanda, tuttavia, continua a rimanere senza risposta: è proprio vero che ricambiare il dono significa sempre e comunque allontanarsi da quel che il dono è e “sporcarlo” o annullarlo?

La logica della sproporzione

Quanto le riflessioni fin qui fatte evidenziano in modo netto e inequivocabile è che siamo certi di avere a che fare con il dono e il donare quando siamo alle prese con la gratuità, con il dare senza

cercare compensazione, l’offerta scevra dall’intenzione di venire ripagati. Insomma, si tratta di qualcosa di davvero antitetico rispetto allo scambio commerciale. Al punto che, se nel caso dell’economia la logica in atto è quella del pareggio, in quello del dono essa è, per così dire, la logica della sproporzione, del disequilibrio, della sovrabbondanza. Quando dono a qualcuno o quando, all’inverso, ricevo un dono da qualcuno si crea una sproporzione. Non si è più in perfetto equilibrio. Come afferma Gasparini, «la logica del dono è […] diversa da quella dell’equivalenza e della giustizia in senso formale; essa è di sua natura generatrice di squilibri». A riprova di ciò si può richiamare ciò che convenzionalmente si dice quando si riceve un dono: “ma non dovevi”, “non era davvero il caso”, “perché ti sei disturbato?”… Attraverso espressioni di questo genere si esprime la coscienza che ci è stato dato qualcosa di non dovuto, dunque, di gratuito; e che, pertanto, si è realizzato qualcosa che spezza l’equilibrio, che non pone più il donatore e il donatario in una condizione di perfetto pareggio. Ma, al contrario, si può evocare la “stonatura” che si avverte quando, di fronte al dono, si sente il bisogno di sdebitarsi il più in fretta possibile, di restituire subito e di controbilanciare con una propria offerta il dono ricevuto. Perché un tale atteggiamento potrebbe essere il segno che il dono non è gradito; ovvero, che non è gradita quella situazione di asimmetria che con esso si genera. Perciò è illuminante quel che, ancora una volta, ricorda uno studioso come Godbout. Egli sostiene opportunamente che «nel dono non c’è equilibrio. Il dono è un sistema di debito volutamente mantenuto. L’equilibrio sancisce la fine della relazione di dono, tanto quanto la sancisce il fatto di non rendere mai. Se il mio vicino, venuto a chiedermi in prestito dello zucchero, torma a rendermelo il giorno seguente, ciò significa che egli non vuole instaurare un rapporto con me, che preferisce “mantenere le distanze”».

Tale affermazione è assai utile a evidenziare, però, che sono proprio questa asimmetria e questo squilibrio a realizzare una relazione e confermare un legame tra chi dona e chi riceve il dono. Si può, cioè, notare come, paradossalmente, è solo questa sproporzione che il dono porta con sé a permettere e a consentire una relazione tra le persone. Laddove, al contrario, non c’è che equilibrio perfetto, quanto è compromesso è proprio la relazione e il legame tra le persone. Il che significa – e a questo punto dovrebbe apparire con chiarezza – che quel che è in gioco nel dono non è altro che la relazione, il rapporto, il legame tra le persone. Del resto, alla luce di quanto si è detto finora, ciò appare evidente e logico. Infatti, come si è evidenziato, lo scambio economico serve a immunizzarsi dall’altro in quanto persona. Con il circolo economico si instaura sempre, com’è ovvio, un certo tipo di rapporto. Ma si tratta di un rapporto formale, volto a mettere tra parentesi ogni genere di rapporto di tipo personale. Nello scambio del mercato, l’altro appare come il “non importa chi”, direbbe un pensatore come Gabriel Marcel. Egli è deprivato di quei tratti che lo rendono unico e irripetibile; ovvero, che lo fanno persona. Il perfetto equilibrio serve, pertanto, a mantenere un contatto che non generi nessun legame e non porti ad alcun rapporto davvero personale. Al contrario, il disequilibrio del dono crea un rapporto tra persone. Nel disinteresse del donare, per così dire, si esprime in realtà un interesse così profondo da non avere eguali: è l’interesse per l’altra persona, per la sua esistenza, per la sua vita unica e irripetibile. Proprio per questo, non pare corretto dire che perché ci sia dono deve essere bandito sempre e comunque ogni genere di scambio. Una affermazione di questo tipo potrebbe, invece, fare del dono qualcosa di così gratuito e disinteressato da disintegrare quel che di più profondo il dono porta e custodisce: la relazione con l’altro, l’interesse per lui e il legame con lui. In tal senso, un certo scambio capace di mantenersi dentro questa logica del disequilibrio, della

sproporzione e della sovrabbondanza non è soltanto possibile, ma può essere addirittura cercato nel dono. Quando a Natale si fa “lo scambio dei doni” è troppo evidente – qualora ciò avvenga in verità – che in tale scambio accade qualcosa di straordinariamente umano e personale. Rimane ovviamente una questione che richiede di essere approfondita: che cosa fa sì che questo genere di scambio sia appunto “in verità”? Che cosa lo mantiene in questa logica del disequilibrio? Che cosa, in definitiva, ci fa dire che un rapporto è veramente personale e non invece formale?

Libera reciprocità

L’analisi di Godbout è ancora una volta utile a distinguere lo scambio che si può realizzare nel dono, che si mantiene in questo orizzonte di gratuità e all’interno di una logica squilibrante, da quello commerciale che, invece, si colloca all’interno di una logica del pareggio, del puro do ut des. Dice, infatti, Godbout: «Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone». Ciò che in altri termini fa sì che si possa distinguere uno scambio nell’orizzonte del dono da quello commerciale è il fatto che il donatore quando dona qualcosa, del tempo, delle cure, dell’affetto… lo fa sempre senza alcuna garanzia di una restituzione. Qualora, infatti, egli donasse mettendosi al sicuro e premunendosi che il suo dono venga contraccambiato con un contro-dono dello stesso identico valore (in termini materiali, ma anche in termini “spirituali”: con la gratitudine, il rispetto, il ricordo…) allora il dono sarebbe annullato in partenza. Senza rischio, infatti, non ci può essere mai autentico dono. Si potrebbe approfondire questo aspetto che concerne l’atteggiamento del donatore, svolgendolo al positivo e dicendo che egli può donare solo in quanto, consegnando il dono, consegna anche

se stesso, con fiducia, nelle mani di colui a cui dona. Se in chi dona c’è questa consegna fiduciosa iniziale nell’altro e questo esporsi alla eventuale generosità altrui, allora, qualora si realizzi un contro-dono da parte del donatario (attraverso la gratitudine espressa, l’affetto, un gesto di benevolenza o un dono materiale), esso sarà sempre qualcosa di radicalmente diverso dallo scambio commerciale. Ponendosi ancora nella scia di Godbout, si può approfondire ulteriormente tutto ciò, dicendo che: «Donare significa […] privarsi del diritto di reclamare qualcosa in contraccambio». La qual cosa può essere davvero illuminante per comprendere come il possibile contro-dono da parte del donatario è una realtà radicalmente diversa dallo scambio di mercato. Infatti, «se non c’è esigenza di contraccambio, se non c’è diritto al contraccambio, allora si può dedurre che, qualora il contraccambio ci sia, esso sarà libero, almeno giuridicamente, nel senso che un eventuale contraccambio non si verificherà in virtù di un contratto o di un’obbligazione contratta dal ricevente». Il dono, cioè, è tale proprio perché libera sempre l’altro dalla necessità di restituire. Esso gli dona piuttosto la libertà di donare a sua volta. Infatti, proprio perché chi dona davvero si priva del diritto di esigere qualcosa in cambio, egli permette a chi riceve il dono di essere totalmente libero di donare a sua volta. Con il dono si rende il ricevente libero di donare. Donare è, cioè, liberare l’altro dall’obbligo di restituire, di ricambiare. Ed è proprio questa libertà, in fondo, quel che consente di riconoscere che, nel dono, ci può tranquillamente essere uno scambio, in oggetti o simbolico: senza che questo significhi che ci sia circolo economico e scambio commerciale. Del resto, quando si guardi al nostro donare in termini veramente concreti, risulta difficile essere certi che lo stesso atto del donare sia davvero l’azione iniziale e non, invece, una certa qual reazione a un dono ricevuto. È cioè complesso giungere alla certezza che il donare non sia già in qualche modo una risposta: perché si è stati colpiti,

toccati, coinvolti o comunque mossi dall’altro. Un ragazzo può infatti decidere di offrire un gelato alla sua compagna e, in tal senso, fare il primo passo: ma questo dono può essere una risposta alla bellezza che lo ha colpito o alla simpatia che lo ha coinvolto. Così, il dono in denaro che l’automobilista fermo al semaforo fa al mendicante è un’azione che può rappresentare, in realtà, una reazione al suo sguardo implorante e commovente e da cui si è sentito toccato e scosso. Questo intreccio benefico di dare e ricevere conferma, in maniera ancora più netta, come il cuore del dono sia proprio la relazione. Una relazione, che già c’è e che va custodita e confermata, attraverso il dono; o una relazione che, per mezzo del dono, si auspica per il futuro. Proprio per questo non si può comprendere il dono come se fosse qualcosa che si consuma nell’istante in cui si dà qualcosa a qualcun altro. Riguardando la relazione, esso si comprende solo nell’orizzonte di un tempo più ampio: il passato di una relazione che c’è già; e il futuro di un rapporto che non c’è ancora, ma che si desidera. È condivisibile, pertanto, l’acuta osservazione di Ermenegildo Conti, secondo cui «la rappresentazione del dono (la sua fotografia) non riesce a racchiuderlo e conservarlo: non solo non esprime le intenzioni dell’autore, ma blocca anche nell’istante un legame che si distende nel tempo. Il prima o il dopo (non necessariamente tutti e due) stabiliscono il senso di quanto avviene nella consegna di un oggetto». Perché il senso è, appunto, una relazione e un legame tra persone vive. Persone che nel dono esprimono e realizzano una reciprocità libera. Una reciprocità, cioè, che proprio perché libera e personale è radicalmente diversa da quella che si instaura in qualunque altro tipo di scambio.

Riconoscenza e riconoscimento

Se guardassimo con un certo distacco al processo di comprensione della logica sottesa al dono e a quel che troppo comunemente – a torto – si ritiene, cioè che se c’è un qualunque tipo di scambio non c’è mai dono, potremmo con facilità notare una cosa. Non è stato sufficiente concentrarci solo su chi dona, sulla sua situazione e sulle sue intenzioni. Ma è come se, nel momento in cui ci si è fissati su di lui, ci si fosse sentiti spinti a considerare anche chi il dono lo riceve e, eventualmente, lo ricambia. A riprova, se ce ne fosse bisogno, che nel dono è anzitutto in gioco la relazione tra i due, e di conseguenza le altre relazioni che a partire da quella si dischiudono. Perché – non lo si deve dimenticare – ricevere un dono ed essergli fedeli non spinge solo a donare, a nostra volta, a chi ci ha dato qualcosa; ma spinge ad estendere il dono verso altri. Ciò che afferma Marion riguardo il fatto che la vita ricevuta dal padre induca a dare la vita a qualcun altro che non sia il padre rimane profondamente vero. Ancor più quanto più si tratta di doni di ordine “spirituale”. All’insegnante, per esempio, che ci ha fatto il dono della scienza che possedeva o al musicista che ci ha insegnato a suonare il pianoforte, noi possiamo contro-donare gratitudine, affetto, memoria. Ma non avrebbe alcun senso restituire loro quel che ci hanno trasmesso.

Siamo fedeli a quel dono e a chi ce lo ha fatto insegnando e trasmettendo a qualcun altro, a nostra volta, quel che abbiamo appreso. L’attenzione su chi riceve il dono deve tuttavia rimanere desta, se si vuole ulteriormente approfondire in che senso il cuore del dono è la relazione e che cosa, in definitiva, ci si dona quando attraverso il dono si stringe o si consolida un legame. Un pensatore come Paul Ricœur è, in tal senso, di grande aiuto. Egli ha infatti posto in evidenza come quel che caratterizza il dono è il fatto che chi lo riceve ne è grato. È quindi il suo ricevere con gratitudine il segno che quel che è stato donato non risponde all’obbligo, ma è eccedente e sovrabbondante. La gratitudine dice, allo stesso tempo, che anche il contraccambiare il dono ricevuto non è un obbligo, ma ha la sua radice in «una generosità uguale a quella che ha suscitato il dono iniziale». È questa gratitudine a scomporre, per Ricœur, il rapporto tra dono e contro-dono. Come a dire che, laddove la gratitudine manca, questo rapporto di qualcuno che dà e qualcun altro che dà in contraccambio non può che essere circolo economico. Ma laddove c’è gratitudine, allora essa si inserisce nei meccanismi del dono e del contro-dono e li trasforma. La gratitudine scompone infatti questo rapporto, per ricomporlo in un modo radicalmente nuovo: quello del dono, appunto. Lo scompone sul piano del valore degli oggetti che ci si scambia, i quali acquistano un peso che non è più quello del loro valore economico, ma è il peso che solo un dono ha e assume. E chi ha mai fatto l’esperienza di donare o di ricevere, può comprendere in maniera semplice e immediata. Si può donare o ricevere un biglietto, una foto, un peluche… che sul piano economico hanno un valore pressoché nullo: ma la gratitudine è capace di dare a quegli oggetti un valore indicibile!

E lo scompone anche sul piano del tempo. Perché, quando c’è gratitudine, il tempo del contro-dono non è l’immediato, come nello scambio commerciale, ma è – dice Ricœur – un tempo senza misura esatta. Tant’è che il tempo che intercorre tra il dono ricevuto e il contro-dono effettuato è uno degli elementi che permettono di distinguere il circolo del mercato dalla relazione di dono. Nel dono, il tempo che intercorre tra il dono accolto e quello ricambiato è infatti di aiuto per approfondire e interiorizzare proprio questa gratitudine. E, con ciò, “lavora” per approfondire il legame con colui da cui si è ricevuto un oggetto, uno sguardo, l’ascolto, l’affetto, un aiuto… Si può dire che questa gratitudine è quella riconoscenza che, non a caso, si dice anche riconoscimento. Si tratta di una traccia del fatto che, nel dono, ciò che è infatti in gioco è il riconoscimento reciproco, di chi fa il dono e di chi lo riceve; e dunque la possibilità di una reciprocità buona, in cui l’altro non appare come uno da cui difendersi, ma qualcuno a cui affidarsi. È talmente fondamentale, per penetrare a fondo il “mistero” del dono, l’attenzione a ciò che accade anche in chi riceve che – come osserva il filosofo Paul Gilbert – è possibile la perfezione del dono solo se c’è, in chi riceve, la disponibilità ad accogliere. Perché, per ricevere un dono l’essere umano deve impegnare tutta la sua volontà, deve compiere un “lavoro”. E perché non ci si può dimenticare che l’atto del donare richiede sempre la passività di qualcuno che riceve il dono. Senza quella passività, che abbia la forma del bisogno o dell’accoglienza gioiosa poco importa, il dono non sarebbe possibile. Pertanto, anche l’azione del donatore comporta sempre, a ben vedere, un suo ricevere qualcosa dal donatario. In ciò risulta più evidente che mai come ciò che il dono custodisce e cui mira è la relazione personale. Tanto che, alla fine, qualunque cosa ci si dona, si dona sempre se stessi! Nel dono, come suggerisce Sergio Labate, quel che avviene è che ci si ospita reciprocamente, l’uno nello spazio dell’altro. E qualunque cosa ci si offra, anche l’oggetto più

semplice e commercialmente meno importante, assume sempre un valore simbolico. Quel piccolo presente è, infatti, il segno tangibile che io sono presente all’altro e che l’altro è presente in me.

Dalla fraternità responsabile alla giustizia

Può essere utile sostare ancora un istante sul fatto che chi fa il dono patisce, ovvero è chiamato ad accogliere, anche colui a cui il dono è fatto. Perché soltanto sviscerando questa dimensione, si può meglio comprendere quando il dono è realmente tale e quando, invece, è una sua parodia: in quanto rappresenta, in realtà, un atto di potenza, prevaricazione e sottomissione dell’altro. Il già citato Paul Gilbert fa opportunamente notare come tutta una lunga tradizione di pensiero abbia posto l’accento sull’azione del donare. Ma è altrettanto importante, per penetrare la profondità del dono, cogliere e mettere in luce anche la passione che lo connota. Quando dono del cibo o dei vestiti al povero, oppure uno sguardo o l’ascolto all’amico, ricevo anche sempre di poter donare. Io dò, perché mi è dato di dare. Per questo, se è vero che colui che riceve da me è in debito nei miei confronti, non è meno vero che anch’io lo sono nei suoi. Osserva con perspicacia Gilbert: «Ricevo da te di essere in atto; sono pertanto nei confronti di te in debito di me stesso, donato a me stesso». L’altro, cioè, è colui che mi permette di

essere libero, generoso, grazioso. Senza di lui, io stesso che dono non potrei essere e scoprirmi. Per questo chi dona veramente non ha paura di sentire, a sua volta, un debito nei confronti di colui o coloro a cui dona. E per questo non c’è donare autentico che non sia attento a quel che il donatario dà e può ancora donare. Ricordo, a tal proposito, un episodio illuminante. Avevo invitato a casa per un pranzo una coppia di emigrati, economicamente più poveri di me. Lo avevo fatto con generosità, cercando di offrire tutta l’accoglienza possibile. Al loro arrivo, si presentarono con un dolce, che avevano acquistato. Mi espressi con parole rituali, dicendo che non avrebbero dovuto disturbarsi, che non era davvero il caso. L’uomo rispose ai convenevoli, dicendo che invece “doveva” farlo, che ne era il caso, perché sapeva come si stava in società. Fu per me molto istruttivo. Non potevo permettermi di dimenticare che quell’uomo poteva essere più povero, ma era anzitutto un uomo, unico e libero come me; e che, dunque, quel pranzo offerto era autenticamente umano, perché ci dicevamo che, pur in modi diversi, eravamo l’uno in debito della vita con l’altro. Perché tale sottolineatura può risultare fondamentale? Perché dice, in altri termini, che esiste una fraternità tra gli uomini, che nel dono si esprime e si costruisce. Infatti, se ciascuno è, per la sua parte e secondo le sue possibilità, sempre donatore e donatario, è anche responsabile dell’altro e suo debitore e non si può considerare superiore all’altro. Come nota Levinas: «La fraternità corrisponde proprio a “io sono responsabile di altri”. Caino era il fratello di Abele perché ne era responsabile. Doveva rispondere al volto di Abele». Nella fraternità, si potrebbe aggiungere, emerge non solo questo rispondere all’altro, ma anche la libertà e l’unicità di ognuno così come il bisogno della libertà e della generosità dell’altro, per essere e vivere.

Nel fatto che doniamo e riceviamo è custodita ed espressa questa fraternità umana. Una fraternità, dice Ricœur, che «precede l’uguaglianza». Perché è più profonda dell’uguaglianza, in quanto racchiude quel che di più profondamente umano ci contraddistingue: il nostro amare libero e generoso. Ciò nonostante, è qualcosa che non potrà mai soppiantare l’uguaglianza e la giustizia. Se e quando lo fa, infatti, si perverte e, con essa, si perverte anche la logica del dono che la sostiene e la esprime. Non si può pensare di realizzare, in altri termini, un mondo in cui ci si abbandoni al solo dono, alla sola fraternità. Perché si trasformerebbe molto presto in un mondo profondamente iniquo. Ma in che senso pensare allora e nonostante tutto, che la fraternità precede l’uguaglianza? Nel senso che la fraternità, l’amore, il dono fanno germogliare la vera giustizia: infatti, la liberano da una interpretazione utilitaria, “io ti dò, perché tu mi dia”, per orientarla verso una interpretazione disinteressata, “poiché tu mi hai dato, anche io ti dò”. Proprio in questo si sperimenta quanto continui a essere fondamentale il dono in un mondo che, cercando unicamente la perfetta equità, finisce per essere sempre più iniquo e disumano. Quando, infatti, il dono continua ad animare e a far germogliare la giustizia nel suo senso più ampio e bello, ciò induce – come dice sempre Ricœur – non a essere giusti per assicurare l’equilibrio degli interessi, «ma perché il più sfavorito è in ultima analisi una persona singolare, insostituibile, non intercambiabile, ciò che, nella prospettiva biblica si dice: immagine di Dio, creatura assoluta, assolutamente amata da Dio».

Uguaglianza e giustizia È sempre Ricœur a farlo notare con finezza. «L’elemosina – dice – è servita per troppo tempo, non solo come tappabuchi, ma per nascondere la miseria e rendere tollerabile, persino accettabile, le enormi ineguaglianze. Il nostro modo di donare – si domanda ancora il noto pensatore francese – attraverso tutte le istituzioni caritative, non è sovente una maniera di eludere il problema della giustizia sociale?» Del resto, la parte più bella della storia dell’umanità ne è una prova concreta. La giustizia si è allargata, nei confronti delle donne, degli schiavi, degli stranieri… in forza della novità del dono e dell’amore. L’idea dell’amore verso i nemici ha consentito, in molti luoghi, che la giustizia non diventasse distruttrice verso chi si è macchiato di colpe gravi e irreparabili. Segno che ancor oggi la vera modernizzazione non passerà, come spesso si pensa, per il perseguimento miope di una perfetta equità che, lasciata a se stessa, può risultare terribilmente violenta, quanto per il dono capace di far germogliare una giustizia più grande.

La “sporgenza” del dono

Proprio perché al cuore di ogni autentico donare c’è una relazione tra persone, uniche, irripetibili e non riducibili a oggetto, allora il dono contempla questa “misteriosa danza” del dare e del ricevere, dentro la logica della sproporzione di cui si è detto. È quanto a ben vedere distingue il dono autentico da ogni genere di “dono avvelenato”. Laddove, infatti, il mio dare è solo funzionale al ricevere dall’altro, non c’è autentico donare: perché non avviene mai il riconoscimento dell’altro come qualcuno che è davvero altro da me, come individuo libero, come uno che mi chiama e mi invoca, da fuori di me. Ma anche laddove si ha un dare che non prevede nessun ricevere e non vuole alcun debito nei confronti del donatario, il dono è compromesso: perché anche in tal caso l’altro non è riconosciuto come tale, come persona che offre qualcosa, e perché io che dono non mi riconosco, a mia volta, bisognoso, non onnipotente, non sufficiente a me stesso.

La “misteriosa danza” del dare e del ricevere Ora, questa “misteriosa danza” del dare e del ricevere dentro una logica di sovrabbondanza appare, per noi umani, come una sporgenza su qualcosa che ci oltrepassa e ci trascende. Qualcosa che possiamo eludere, rifiutare, considerare insensato; o una domanda cui non si può rispondere. Ma è pur sempre una sporgenza su un paesaggio altro, su una realtà che ci oltrepassa, che non rientra sotto il nostro controllo. Non è un caso che molti pensatori, come si è accennato, si riferiscano al dono come a qualcosa che travalica i confini di una razionalità fredda e calcolante. Qualcosa di analogo può essere detto per i casi in cui si riceve senza offrire mai nulla di se stessi, senza accoglienza grata: perché un tale ricevere non comporta il riconoscimento di chi dona. Non è un caso che un pensatore come Gabriel Marcel abbia distinto il subire dal ricevere e dall’accogliere. Ricevere, al contrario del subire, comporta sempre una attività; ed è sempre un accogliere l’altro. È sempre, per così dire, una passività attiva. E il dono, per essere tale, non può certamente essere subito. Deve essere accolto e ricevuto: perché con esso deve essere accolto – e dunque riconosciuto – chi il dono lo fa. Nel dono, infatti, ciò che passa dall’uno all’altro è una realtà che media la ricchezza indescrivibile costituita dalle persone: tanto il donatore, quanto il donatario. Pertanto, ricevendo un dono, in realtà si accoglie la persona che lo offre: con tutto il carico di attività che accogliere e ricevere significano. Del resto, l’esempio dell’accoglienza di chi ci fa il dono di una visita a casa nostra riesce a esprimere immediatamente questa dimensione di attività che l’accoglienza comporta. Si può mettere meglio a fuoco questo concetto considerando la passività che contraddistingue il donare. Lo si è visto: c’è un ricevere di chi è donatario; ma c’è un ricevere e un accogliere anche di chi il dono lo fa. E, più in generale, nel fatto stesso che si doni si esprime la

consapevolezza che siamo manchevoli, che abbiamo bisogno di ricevere e che non siamo, perciò, padroni della nostra vita. Si tratta di qualcosa che costituisce una sporgenza su una realtà trascendente, poiché esprime la presa d’atto che siamo in debito della stessa vita che viviamo. L’esistenza che viviamo, che possiamo orientare, della quale possiamo decidere, che potremmo anche eventualmente interrompere… non proviene da noi. Siamo, piuttosto, un dono dato a noi stessi. Un dono che ha avuto bisogno della cura di molti per trasformarsi in vita attiva e adulta. Cura che ha il nome di infiniti altri doni: quello di chi ci ha nutrito e riparato, ci ha insegnato a parlare, ci ha trasmesso una scienza, ci ha insegnato un lavoro e quello di chi ci ha amati… C’è un dato estremamente simbolico di questo nostro strutturale ricevere: il nutrirsi. Per quanto questa azione dipenda da noi, è sempre implicito anche il ricevere ciò che la terra, il lavoro e l’arte di molti altri uomini ci mettono a disposizione. In quest’atto si esprime simbolicamente il fatto che siamo in debito della stessa vita che viviamo. Per vivere, abbiamo costante bisogno di “prendere” la vita da fuori di noi; abbiamo bisogno che la vita ci sia costantemente data. In questo ricevere doni che accompagna una esistenza – se solo la osserviamo con sguardo non superficiale – si inscrive la domanda che riguarda il mistero della nostra stessa vita. Una domanda che eccede rispetto alla nostra realtà. Lo stesso si deve dire del nostro donare. Nel dare, noi riconosciamo l’altro. Affermiamo con questo gesto semplice e a volte spontaneo che c’è qualcuno che ci trascende, che ci oltrepassa e che è degno di apprezzamento e fiducia. Nel donare a qualcuno, noi non solo lo riconosciamo e lo affermiamo come altro da noi; ma confidiamo in lui, ci consegniamo a lui. Anche in questo il dono si affaccia su un sentiero che potrebbe portarci molto lontano. È il sentiero offerto dalla percezione che

l’altro, l’ulteriore, lo sconosciuto, colui che non dipende da me… rappresenta la verità di quel che io stesso sono. È un sentiero che appare come una promessa: quella che nel donare generoso, nel dare senza calcolo, nel disinteresse con cui dimostriamo interesse per l’altro, è inscritto il segreto della vita. Forse le parole di Gesù orientano in questa direzione e indirizzano verso il luogo di questa sporgenza, quando dice che “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”.

All’origine è la grazia

Il recente riferimento a Gesù potrebbe indurre a domandarci quanto la storia e il pensiero cristiani possano avere influito sulle modalità con cui il dono si è concretamente espresso. Gli esempi fatti incentivano ancor più una tale domanda. In altri termini, l’essere giunti a cercare una giustizia più grande che dichiara la pari dignità di ognuno può essere considerato un frutto dell’idea ebraicocristiana secondo cui ogni uomo è immagine di Dio? Il fatto che il dono abbia potuto farsi carne in ospedali, in case di riposo per anziani, in luoghi di accoglienza e cura per persone portatrici di handicap gravi… può essere connesso con il dono della vita da parte di Gesù e dall’annuncio cristiano di Cristo crocifisso e risorto? Tali domande sono legittime, dal momento che non mancano pensatori i quali ritengono che anche altre svolte culturali, tipiche del nostro tempo, possano avere radici nel cristianesimo. C’è chi pensa, per esempio, che la stessa secolarizzazione abbia a che fare con la grande idea cristiana dell’incarnazione del Figlio di Dio. In modo analogo ci si può perciò domandare se anche molti aspetti della nostra civiltà occidentale, che sono stati beneficamente segnati da una “logica del dono”, non dipendano da un certo influsso cristiano.

Ciò non può tuttavia esimerci dal constatare quel che molti studiosi del dono sostengono, ovvero che esso è una realtà trasversale ai tempi e alle culture. Per questo, è fondamentale non soffocare troppo frettolosamente la domanda che si pone Godbout. Egli dice di rimanere stupito della forza che ci spinge a donare; e dopo aver constatato che il dono non è un fenomeno marginale e che non può venire ricondotto ad altri fenomeni sociali, si domanda «cosa mai sia questa forza che spinge, in tutte le società, a donare». Perché, cioè, si è spinti a dare? Perché, nonostante tutto, non si riesce a spegnere questa tendenza degli esseri umani? E dove ha origine questa spinta a donare, una spinta almeno altrettanto forte, se non di più, di quella che induce a prendere e trattenere? È a proposito di questa specifica questione, più ancora che dell’impatto storico che il cristianesimo ha avuto sul mondo occidentale, che può tornare quanto mai utile confrontarsi con la “visione” cristiana della vita. Nel cristianesimo, infatti, non è soltanto centrale l’idea – che deriva dalla prima pagina della Bibbia – secondo la quale ogni essere umano è immagine di Dio ed è quindi portatore di una dignità inalienabile. Nella stessa Bibbia, infatti, si afferma anche che l’intero universo e, in modo assolutamente particolare, tutti gli esseri umani sono stati creati da Dio in Cristo. L’idea – riscoperta dal pensiero teologico in modo sempre più lucido nell’ultimo secolo – è cioè che Dio vuole e crea gli uomini “pensando”, per così dire, a Gesù, al suo Figlio fatto uomo. Si potrebbe dire, continuando a utilizzare il linguaggio usato sinora, che è il dono di se stesso rappresentato dal fatto di diventare uomo nel suo Figlio a essere all’origine di quel dono che è la vita degli uomini. All’origine di tutto, per i cristiani, c’è cioè la grazia; ovvero il dono. Perché all’origine c’è Gesù. È pensando a Lui e in vista di Lui che Dio ha voluto e creato l’uomo; ogni uomo. Pertanto, nella visione cristiana delle cose, ogni essere umano, a qualunque epoca

appartenga, qualunque sia il colore della sua pelle, qualunque sia la sua cultura… porta in sé l’immagine di Gesù. Ciò può essere di grande aiuto nell’offrire qualche ragione del fatto che c’è negli esseri umani una tendenza a donare che non sembra possibile soffocare del tutto, neppure nelle circostanze più avverse. Ogni uomo porta in sé l’immagine di Colui che rappresenta in se stesso un dono all’umanità. Gesù è il dono di Dio per gli uomini. E in tal modo Egli ha anche interpretato la sua esistenza ed è concretamente vissuto. Gesù ha infatti manifestato di essere il dono di Dio per noi uomini nel modo in cui è vissuto: donando tutto se stesso, fino a quell’offerta suprema rappresentata dalla sua morte sulla croce. Ogni uomo è fatto a immagine sua. Per questo sente e avverte, in qualche modo, che la sua umanità è tanto più vera e autentica, quanto più egli si dona e fa della sua esistenza un’offerta per altri. Riprendendo il pensiero di un autore come Marion si potrebbe dire che qui è in gioco quella ridondanza del dono per la quale non si mantiene il dono ricevuto se non donando a propria volta: come il figlio, che mantiene la vita ricevuta dal padre, donando vita e generando a sua volta un figlio. In modo analogo, si può dire che l’uomo è fedele al fatto di provenire dal dono che Dio fa di suo Figlio, solo donando se stesso a sua volta: solo consegnando, cioè, la sua vita ad altri, in conformità alla consegna che Gesù ha fatto di sé. All’interno di una tale prospettiva può venire illuminato anche quel che abbiamo sentito affermare da pensatori come Levinas o Ricœur, per i quali la fraternità viene prima della giustizia. Infatti, quando si pensa che ogni uomo è immagine di Gesù, ovvero del Figlio di Dio che diviene un nostro fratello, allora si ritiene che l’uomo è anche fratello di tutti gli altri uomini, che sono come lui fratelli di Cristo. Riposa qui, secondo la visione offerta dal cristianesimo, il motivo per cui la fraternità è più radicale della giustizia. Infatti, per ciò che è e in

virtù di come è fatto, ognuno sente che l’altro non rappresenta anzitutto una minaccia o qualcuno con cui far pareggiare i conti; ma un fratello da riconoscere, amare e di cui essere responsabile. Ciò che ci fa accostare l’altro con sospetto o sfiducia non è originario, ma giunge in seconda battuta a corrompere l’umano. Per questo, la domanda più radicale non dovrebbe essere, in realtà «perché si dona?»; ma, all’inverso «perché non si dona?»

L’offerta che non mortifica il merito

L’affermazione secondo la quale all’origine, per il cristianesimo, c’è la grazia perché all’origine c’è Gesù, potrebbe riaprire, acuendola, una questione nella quale ci siamo già abbondantemente imbattuti. Si tratta della possibilità di una reciprocità e di uno scambio nel dono. In altri termini, della possibilità di affermare – come si è fatto – che quel che è realmente in gioco, nel dono, è la relazione. Infatti, al di là della questione specifica dei debiti che la cultura occidentale ha nei confronti del cristianesimo, non c’è alcun dubbio che il dono rappresenti non solo un concetto centrale a quest’ultimo, ma che il modo in cui lo si pensa al suo interno abbia influenzato e influenzi, in un modo o nell’altro, la maniera di concepirlo nel mondo occidentale. Come riconosce Sequeri: «Il modo di concepire “Dio” e la sua “grazia” […] influisce pesantemente, nel bene e nel male, sul modo di concepire il dono, lo scambio, il legame sociale in genere». Ora, dicendo che all’origine dell’uomo c’è il dono di Dio stesso nel suo Figlio, sembra di doverne dedurre che si ha a che fare qui con un dono puro, senza possibilità di contropartita alcuna, senza la benché minima reciprocità. Se, infatti, io sono donato a me stesso, se tutto quel che sono lo devo a Dio, se io semplicemente non sarei se Dio

non mi avesse dato di essere… allora io posso solo ricevere da Lui e nulla donargli a mia volta. E quando interpretassi il mio donare umano come qualcosa che deve assomigliare a quello di Dio, è chiaro che esso risulterà tanto più autentico e vero quanto più ricercherà un dono in cui non sia possibile alcuna reciprocità. In realtà, se si guarda alla storia di Gesù, così come ci è testimoniata dagli scritti del Nuovo Testamento e come luogo concreto in cui si vede quale forma assume il dono di Dio fatto all’uomo, si è portati a notare che questa grazia non si presenta come dono assoluto, ovvero sciolto da qualunque legame. Certamente, lì appare che l’iniziativa è di Dio; lì si fa evidente che è Lui che, liberamente e per amore, ha deciso di uscire da sé e donarsi all’uomo. Al punto che è questo uscire da sé, in Cristo, a rendere ragione della creazione stessa dell’uomo. Ma quanto, con ciò, è donato all’uomo è una esistenza libera, è la possibilità di decidere di se stesso. Proprio per questo, vediamo un Gesù che dona tutto Dio agli uomini. E questo dono non è condizionato in alcun modo dall’uomo. Ciò non toglie, tuttavia, che esso ricerchi e addirittura susciti la risposta umana. Il dono divino cerca infatti la fede dell’uomo: che può esserci o può ritrarsi. Capita così di leggere spesso, nei vangeli, di un Gesù che è profondamente interessato alla adesione di fede dell’uomo: quasi che la sua consegna di Dio non possa andare a buon fine, se l’uomo stesso non lo riconosce e non lo accoglie nella fede. Si tratta di una questione così centrale nel cristianesimo da aver condizionato fortemente la vicenda dell’Occidente cristiano. Infatti, la divisione della Chiesa avvenuta con la Riforma protestante si è consumata anche attorno al modo di intendere la relazione tra Dio e uomo, tra grazia divina e risposta umana. Tra chi poneva un accento così forte sul dono di Dio da negare ogni forma di merito dell’uomo e chi invece riconosceva che quel dono, pur gratuito per eccellenza, non elimina il merito dell’uomo. Riconoscere la persistenza di questo merito umano è un modo per onorare il volto di Dio, che dona, ma

non annulla; e per onorare, così, il volto di un uomo, che è in debito della stessa sua vita nei confronti di Dio, ma non è per questo irresponsabile o servo di un “sovrano capriccioso”. Quel che il dono di Dio offre è infatti di essere suoi figli, nel e per mezzo del Figlio Gesù. Un tale amore che non elimina la risposta umana e il suo merito è capace di far comprendere anche come la fraternità tra gli uomini sia – come sostengono Levinas e Ricœur – più radicale e profonda della giustizia. Senza che questo significhi che la giustizia tra gli umani – che ha a che fare anche con il merito di ciascuno – possa venire troppo frettolosamente negata o oltrepassata. Proprio perché il dono di Dio suscita, infatti, quella reciprocità fraterna che si fonda sul rischio del donare e che cerca, stabilisce e rinforza la relazione tra le persone, essa è capace, quando è necessario, di farsi ricerca e lotta per legami di equità. Per legami, cioè, in cui è indispensabile salvaguardare quel che a ciascuno è dovuto, e quel che ognuno è tenuto a dare. Perché, come sarebbe inumano fare di ciò che può essere solo donato (come l’amore, la misericordia o il proprio corpo) un oggetto di scambio, così risulterebbe disumano rendere oggetto di dono quanto è invece dovuto (come il lavoro, il giusto salario o la possibilità di formare una famiglia).

E se il cuore di tutto fosse Dono?

Si è a tal punto preso sul serio il fatto che nonostante tutto gli uomini donino e non cessino di farlo, da continuare a chiedersi da dove venga questo slancio al donare. Non si tratta, come è facile comprendere, di una questione cui si possa rispondere attraverso una indagine di tipo scientifico. È una questione che rimanda, invece, alle grandi domande della nostra esistenza: da dove veniamo? Verso che cosa andiamo? Qual è, se c’è, il senso della vita? È una di quelle questioni da annoverare tra le domande radicali e fondamentali che l’uomo si è posto da sempre e che continua, ancor oggi, a porsi. Non è un caso che il dono abbia incrociato l’interesse di molti filosofi: uomini che non si chiedono solo come funzionino le cose e come trasformarle, ma che conservano il gusto delle “domande di fondo”. Al punto di non spegnere neppure la domanda sul perché, noi uomini, cerchiamo e domandiamo! Per questo è sembrato sensato quanto meno ricordare la proposta che proviene dal cristianesimo, ovvero dalla fede in Gesù, e dal pensiero che da questa fede scaturisce.

Dal momento che non si tratta, cioè, di una di quelle questioni che si possono affrontare con la logica della scienza, è all’interno di un pensare diverso rispetto a quello scientifico che questa domanda deve essere custodita e affrontata: perché, in ogni caso, la domanda esiste ed è seria; e perché la logica scientifica, per quanto importante, non è l’unica possibile, né quella in ogni caso adatta ad affrontare le questioni più profonde della nostra vita. Guardando alla visione della realtà che proviene dalla fede in Cristo, si è potuto così affermare che l’uomo è spinto a donare perché proviene dal dono stesso che Dio ha fatto del suo Figlio. L’uomo porta in sé l’immagine di Cristo: per questo, come Lui rappresenta il dono di Dio e lo ha manifestato vivendo in una logica di dono amorevole e totale, così l’uomo – che sappia o no di Gesù – sente una spinta a dare. E, in definitiva, avverte uno slancio a entrare in relazione e a stringere legami fraterni con gli altri uomini. Al punto che quel che dovrebbe continuare a stupire, a sconvolgere e a inquietare è perché l’uomo, spesso, non si abbandoni a questa forza di dono. Si tratta, come si vede, di una prospettiva che anche in questo nostro mondo può continuare a dare speranza. Infatti, comunque si interpreti questa spinta a donare, per il fatto stesso che esiste permane la possibilità di un mondo che non si riduca a un mercato! Un altro mondo è possibile, se solo si è capaci di risvegliare in noi e di suscitare negli altri quella forza che ci porta a riconoscere in ogni altro uomo un fratello da amare e di cui sentirsi responsabili; e se solo si rimane capaci di arginare quella “voce” che ci porta, invece, a difenderci, a sospettare e aver paura dell’altro. Si può tuttavia osare di andare ancora più lontano. Nella visione cristiana, non è solo possibile riconoscere che noi ci sentiamo spinti a donare, perché siamo stati voluti e creati in Cristo e in vista di Lui. In questo orizzonte di pensiero, è anche possibile scoprire che è così (che all’origine della nostra esistenza c’è, cioè, il dono e la grazia),

perché questo ha a che fare con il fatto che Dio stesso è dono. È così perché, in altri termini, al cuore di tutto non c’è altro che Amore e Dono. Per i credenti in Gesù, infatti, Cristo non è soltanto capace di fare luce su quel che noi umani siamo. Egli ci manifesta anche chi è Dio. Per il fatto stesso che appare come un dono e per il fatto di aver vissuto donando tutto se stesso, mostrandoci così la possibilità di una vita pienamente dedicata agli altri, totalmente dedita alla ricerca degli altri e di una relazione con loro, ci ha anche aperto uno spiraglio sulla realtà di Dio. Infatti, presentandosi come il Figlio di Dio e come la sua Parola, ovvero la sua più piena espressione, Gesù ci ha manifestato che Dio stesso non è altro che Amore, cioè Dono. Dio è infatti il Padre, che è tale in quanto dona tutto ciò che è, l’intera sua vita, al Figlio. E il Figlio si accoglie totalmente come donato dal Padre e risponde con tutto se stesso, donandosi pienamente a Lui. In un vincolo, in un legame, che è lo Spirito. Il quale, in quanto è il legame di amore che unisce il Padre e il Figlio ed è Colui verso cui si dirige il dono del Padre e del Figlio insieme, non a caso è stato chiamato dalla tradizione cristiana semplicemente Dono. Dono in Dio stesso, e Dono deposto nel cuore degli uomini. Perché il Padre dona suo Figlio agli uomini affinché, insieme a Lui, possa deporre nel loro cuore il Dono, lo Spirito: e così venire a vivere, non accanto, ma dentro la stessa esistenza umana. È qualcosa che può far venire le vertigini. È una feritoia che ci fa intravvedere come il cuore di tutto ciò che è, e quello della nostra stessa vita umana, non sia che Dono, in quanto vita di Tre che sono Uno, poiché realizzano pienamente e eternamente ciò cui tende il dono: la presenza dell’uno nell’altro e l’ospitalità dell’altro in sé.

Non è mai facile congedarsi. Né lo è la conclusione di uno scritto. Perché anche questa, a ben pensare, rappresenta un atto di congedo. Dopo aver preso la parola, scrivendo, ci si rimetterà a tacere. Dopo essersi fatti presenti, parlando, ci si ritrarrà, facendo silenzio. Un po’ come avviene nella consegna di un dono. Dapprima si avanza e ci si manifesta; poi si affida il dono all’altro e, con il dono, si consegna se stessi. Da quel momento in poi, con quell’atto di dono e abbandono di sé, comincia qualcosa di nuovo. Qualcosa che non lascia indenne né chi il dono lo ha fatto, né chi il dono lo ha ricevuto. Il tempo lavorerà a far crescere il legame tra i due; e a permettere che quel dono porti frutto, consentendo altri legami. Mi piace pensare che stia per avvenire qualcosa del genere. Per questo è bene che l’ultima parola sia capace di esprimere ciò che mi stava più a cuore quando, per scrivere del dono, ho preso la parola. Mi pare che si potrebbe dire così: nessuno è così povero da non avere qualcosa da donare agli altri; ma nessuno, allo stesso tempo, è così ricco da non aver bisogno della gratuità e del dono di altri. Siamo sempre, simultaneamente, datori e riceventi, donatori e donatari. Qualunque cosa ci doniamo – che sia un sorriso o del cibo, una parola di conforto o un vestito, una conoscenza o un posto in cui alloggiare – doniamo sempre noi stessi. Per questo il fulcro del dono è la relazione; e per questo ciò che nel donare si crea e si custodisce è il legame tra persone. Un legame così forte e importante da risolversi nel fatto che ci si rende presenti agli altri e si diviene ospiti degli altri. Gabriel Marcel ha scritto pagine densissime su questo concetto di presenza. Egli ha mostrato che si può essere distanti da qualcuno, nel tempo come nello spazio, e ciò non di meno ospitare la presenza altrui, vivendo così dell’altro. Specularmente, si può essere fisicamente distanti da una persona e continuare tuttavia a rendersi a

lei presente, concedendole di vivere di noi. Nel presente del dono è in gioco proprio questo farsi presente dell’uno all’altro. Pensarlo con serietà ha un doppio significato. Ha il significato di mantenere e sviluppare la consapevolezza che nessuno è padrone della sua vita. La nostra stessa vita, in realtà, non è nostra. Custodirne la coscienza non è irrilevante: perché quando lo si fa, ci si continua a interrogare, a domandare e a pensare. Cosa non da poco in un mondo che rischia di essere sempre più povero di umanità, proprio perché più privo di pensiero, che non sia quello meramente scientifico e tecnico. Ma pensare con serietà il dono ha un secondo significato: quello di riconoscere che esiste l’imprevedibile, l’incalcolabile, l’indeducibile. Per questo parlare del dono è fare, oggi, un atto di speranza. Anche in un mondo in cui sembra che l’unica logica possibile sia quella dell’equivalenza e, dunque, del profitto e anche in un mondo che pare diventato un mercato, non siamo condannati a questa immagine di mondo né a questa povertà umana. Doniamo: e perciò siamo anche altro e possiamo diventare anche altro. Doniamo, perciò il futuro non è un destino già scritto; e ciò che sarà, dipende anche dalla nostra libertà. Parlare del dono è parlare anche della nostra responsabilità: poiché doniamo siamo infatti liberi e responsabili. Per questo, finché c’è dono, c’è speranza.