Donne e microcosmi culturali. Materiali etnografici italiani

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DONNE E MICROCOSMI CULTURALI a cura di

Adriana Destro

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DONNE E MICROCOSMI CULTURA

a cura di

Adriana Destro

PÀTRON EDITORE BOLOGNA

1997

Copyright © 1997 by Pàtron editore Via Badini 12, 40050 Quarto Inferiore - Bologna I diritti di traduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. È inoltre vietata la riproduzione, anche parziale, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

Prima edizione, novembre

Ristampa SME AO

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1997

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CHE IL LIBRO SCIENTIFICO

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1997

MUOIA

Il libro scientifico è un organismo che si basa su un equilibrio delicato. Gli elevati costi iniziali (le ore di lavoro

necessarie

all’autore,

ai redattori,

ai compositori, agli illustratori) sono ricuperati se le vendite raggiungono un certo volume. La fotocopia riducendo le vendite contribuisce alla crescita del prezzo ed elimina alla radice la possibilità economica di produrre nuovi libri, soprattutto scientifici. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita. La fotocopia non soltanto è illecita, ma minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la scienza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica è nella situazione di chi raccoglie un fiore di una specie protetta: forse sta per cogliere l’ultimo fiore di questa specie.

Stampato nello Stabilimento Editoriàle Pàtron

40050 Quarto Inferiore - Bologna

INDIGE

PREMESSE

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E. Withaker A Studiare mondi «conosciuti». Una lettura americana di temi AA LL IO EIA

13

A. Bartolucci Donne guaritrici del reggiano. Tecniche tradizionali e traSONNO

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A. Olivi Mangiare «per due» o mangiare «quel che c'è». Regimi alimentari della madre in Romagna (1930-1950) .................

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A. Destro Maternità e paternità. Simbolizzazioni e celebrazioni festive CIT MEI RARE, SRO STIANO VSS RO TIT

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C. Natali Ruoli sessuali e divisione del lavoro in una comunità egualiTANA I EA ARIA A

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C. Orsatti A: proposito: del Sr SAR

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PREMESSA

Nel presentare questo libro devo partire da una costatazione relativa agli studi italiani. Molte aree geografiche e tematiche italiane sono ancora quasi inesplorate. Benché il lavoro di indagine stia crescendo e stia offrendo risultati sempre più abbondanti e precisi, siamo ben lontani dal possedere una etnografia esauriente di ciò che si può definire il caso italiano. Prendendo spunto da questo stato di cose, i saggi che si presentano cercano di dare ragione o di mostrare le opportunità odierne del lavoro antropologico in Italia ed implicitamente mettono in vista alcuni e non secondari elementi, in primo luogo, la non facile rarrabilità delle situazioni italiane. I contributi delle varie autrici hanno cioè fra i loro scopi quello di presentare fenomeni che sono oscurati dalle forme abitudinarie del vivere comune, fenomeni cioè che per la loro scarsa visibilità sociale sono attingibili solo attraverso ricerche dirette, minuziose e pazienti. Per chiarire il discorso va detto che il caso italiano può essere visto da vari punti di vista. Può essere inquadrato entro il fenomeno della globalizzazione culturale o nella prospettiva che parte o è proiettata sulle particolarità locali o personali. I differenti punti di partenza spesso si incrociano, altre volte si distanziano. È importante rendersi conto, in ogni caso, che in Italia le realtà a livello particolare o ristretto si incuneano nei processi di modernizzazione o di universalizzazione della vita sociale. Le prime non sono disancorate e nemmeno poco importanti per l'affermazione, la vitalità dei secondi. Questa costatazione non solo può permettere di uscire dalle visioni binarie ma può soprattutto rettificare l’idea che le prospettive del particolare e del globale siano totalmente inconciliabili. L’attenzione delle autrici è stata sollecitata dal fatto che nella società della tecnica, dei rzedia e delle strutture globalizzanti si dipende ancora, e in certi casi in modo rilevante, dai fattori frammentari, arcaici o dal sezso comune. E come dire che all’interno dei processi moderni globalizzanti, delle grandi trasformazioni epocali, è

8

Premessa

facile rilevare che alcune forme culturali settoriali o marginali non mostrano tendenza a scomparire. Esse piuttosto si dialettizzano, si trasformano, risorgono. A volte diventano mezzi o occasioni di ripensamento critico, di confronto, di rilancio, di passaggio al nuovo o all’universale. All’interno dei processi della modernità, al progressivo sradicamento dall'ambito locale e della ricontestualizzazione nell'ambito globale di vari fenomeni culturali, esistono cioè fatti e situazioni particolari che vanno tenuti presenti per non svuotare di senso lo stesso fenomeno delle modernizzazioni incalzanti e coinvolgenti. In sostanza, le analisi qui raccolte vogliono essere un tentativo di arricchire la raccolta di studi di pratiche o di tendenze socio-culturali dell’Italia settentrionale relativamente meno documentate di quelle cerificate nelle aree centro-meridionali. In questo senso, si è ritenuto opportuno dare più spazio possibile alla varietà dei microcosmi, dei luoghi e degli strati sociali sondando «terreni» differenti fra loro (Piemonte, Trentino, Veneto, Emilia-Romagna) e tenendo

in considerazione tanto realtà contadine quanto realtà urbane o semi urbane. Alcuni sfondi comuni o condizioni di partenza vanno rese note subito. Il volume è il risultato del lavoro di un gruppo di ricerca del Centro di Studi Etno-antropologici dell Università di Bologna. Esso ha affrontato da alcuni anni una serie di temi e di situazioni riguardanti il rapporto tra i sessi, le aree femminili tradizionali, le strutture familiari in trasformazione. Per valutare il significato dei saggi, dunque, è utile tener conto che la questione affrontata riguarda in primo luogo (ma non esclusivamente)

la posizione della donna. Alcuni lati del

problema femminile sono stati affrontati direttamente e con ampiezza, altre volte sono entrati nella discussione come fattori non isolati

o isolabili da una situazione più generale centrata sulla famiglia, sulla divisione sessuale, sulle immagini della corporalità. Il libro non intende essere introduzione generale e tanto meno un quadro organico delle attuali realtà italiane nelle differenti situazioni geo-culturali. Offre solo una rassegna di indagini frutto di lavoro di campo non certo concluso ma anzi in costante e lento sviluppo. Esso presenta soprattutto casi-spie o sintomi. Può servire per porsi

interrogativi. Può essere utile per scoprire l'abbondanza delle fonti italiane o le risorse inesplorate dalla nostra etnografia. Si è detto che il volume non vuol possedere il carattere di una introduzione. Eppure in qualche modo il primo saggio offre un qua-

Premessa

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dro introduttivo interessante e molti spunti di riflessione. Partendo dalla propria decennale esperienza in Italia, E. Withaker presenta in rapida successione una varietà di considerazioni su ciò che è possibile ottenere dal lavoro antropologico nel nostro paese. Fornendo punti di orientamento e considerazioni di chi è esterno, illustra risorse e prospettive che si offrono a ricercatori nazionali e stranieri. L’autrice si basa in buona misura su dati emiliano-romagnoli relativi a pratiche nutritive, alla evoluzione delle abitudini sanitarie italiane e più o meno indirettamente all’influsso esercitato dalla medicina ufficiale su alcuni costumi tradizionali. In un’area emiliana, di recente modernizzazione, anche A. Barto-

lucci ha individuato e ricostruito atteggiamenti e credenze riguardanti le tecniche curative tradizionali. Nel saggio ci sono alcuni riferimenti al rapporto pratiche ufficiali e credenze della gente. La rilevazione diretta ha evidenziato infatti interessanti convinzioni che riguardano i «guaritori-segnatori» (soprattutto donne) nei contesti odierni. Ha inoltre messo in luce specifiche modalità di trasmissione del sapere di tali operatrici. Fra l’altro, l'autrice ha sottolineato come, per la guaritrice, la consegna ad altri soggetti femminili o maschili delle proprie tecniche di guarigione sia un momento personale delicato e, per il ricercatore, una spia utile per interessanti valorizzazioni del fenomeno curativo. Attraverso la memoria delle madri romagnole, appartenenti alle generazioni della prima metà del Novecento, A. Olivi ripercorre alcune trasformazioni culturali del mondo femminile. Passa in rassegna gli eventi minimi della gestione familiare della maternità che mettono in discussione gli enfatici quadri usualmente divulgati a proposito del valore sociale del parto. La lente attraverso la quale l’autrice ha osservato il mondo materno e quello familiare più immediato sono stati il cibo e i regimi alimentari applicati alla donna, con modalità differenziate, durante la gravidanza e il puerperio. Ancora a proposito della maternità (nonché della paternità), A. Destro reperisce in ambiente montano piemontese alcuni codici comportamentali. Ricorda situazioni di difficoltà e di depauperamento, che sono durate fino agli anni Sessanta, sulle quali si incentrava un'idea di unità familiare molto rigida. Su questo sfondo, l’autrice analizza il ruolo della madre entro attività festivo-devozionali sintomaticamente conservate fino ad oggi. Si tratta di attività che — proprio per influsso di alcune rigidità familiari mai tramontate — ancor

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Premessa

oggi oscurano la madre in favore della figlia e in ultima analisi del padre. La vita egualitaria di una comunità di «zappatori della terra» dell'appennino emiliano è il punto centrale dell’analisi di C. Natali. L’autrice illustra il modo in cui attualmente, in un sistema di rapporti che si basano sulla comunione e sulla parità fra uomo e donna, si siano introdotte alcune differenziazioni. Dalla analisi risulta che è il momento della nascita dei figli quello in cui si ricorre ad una ideologia della natura per giustificare la divisione sessuale del lavoro e per introdurre nuovi parametri, nuove modalità, in altre parole, nuovi

caratteri della vita comune. Due dei saggi del volume si occupano di corporalità. Nel primo C. Orsatti discute di moduli o di categorie che riguardano il «proprio corpo». Le sensazioni, le percezioni che si costruiscono attorno ad esso danno senso al mondo femminile. L’autrice, che ha lavorato con

informatrici provenienti da varie regioni (ma soprattutto con donne trentine e bolognesi) si propone di sottolineare quali siano le prospettive che permettono la costruzione della emotività e dell’identità femminile. Passa in rassegna le condizioni favorevoli e sfavorevoli («agio e disagio»), i rapporti con la madre e le altre donne, l'influsso dei media. Nel secondo saggio, incentrato sulla città di Modena, C. Galli guarda più da vicino il trattamento del corpo, dalla cura all’abbellimento. Parte dall’analisi della quotidianità della popolazione giovane ed inserita in uno dei più ricchi ambiti urbani d’Italia. Discute in qual misura l’interpretazione del corpo delle persone intervistate non corrisponda all’immagine che ordinariamente ne ha la società. La stessa presentazione del corpo si propone nelle interviste come un meccanismo sia di presenza che di assenza dalla realtà sociale. L’ultimo saggio ha una propria particolare originalità e mette in vista materiali ed esigenze interessanti. Analizzando un ricco materiale d'archivio, A. Vanzan dà un contributo etnografico molto particolare e stimolante. L’oggetto di cui si occupa l’autrice è la conversione di uomini e di donne musulmani al cristianesimo nei sec. XVI-XVII. Con un approccio particolare, cioè con uno sguardo da orientalista, l'autrice rende visibile e valorizza una documentazione

che non dei cità

è stata spesso è stata messa rapporti più o — tra soggetti

trascurata dalle varie storie locali o quanto meno in relazione con i problemi del contatto culturale, meno forzati — e non privi di oggettiva drammatiappartenenti a mondi culturali differenti.

Premessa

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Vale la pena aggiungere una nota di chiusura. In antropologia, proporre discussioni di materiali di' campo non è, riteniamo, un fatto superfluo o di interesse secondario. Il lavoro di campo non è mai stata una opzione o una libera scelta. Oggi è un bisogno sempre più urgente perché ci si trova sempre più impegnati in una pluralità di fenomeni vivi e incalzanti. Ciò che ci si augura è che i saggi qui raccolti possano rappresentare per i giovani studiosi di oggi un passo

verso una più chiara e stimolante consapevolezza del valore della indagine diretta, delle sue specificità, dei doveri che impone e dei coinvolgimenti personali e scientifici che comporta. Bologna, marzo 1997. AD.

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STUDIARE MONDI «CONOSCIUTI». UNA LETTURA AMERICANA DI TEMI E DI MATERIALI ITALIANI Elizabeth D. Whitaker

Gli antropologi non si conformano più all’antica immagine dell’uomo bianco che fuma la pipa nella capanna del capo di un popolo esotico, lontano, sconosciute. Oggigiorno gli antropologi indigeni, spesso istruiti nei paesi sviluppati, fanno le loro ricerche proprio su questi ultimi. Gli occidentali studiano la cultura occidentale, le minoranze etni-

che, i profughi, gli immigrati, oppure la stessa maggioranza. A livello teorico l’antropologia sta contemporaneamente volgendo lo sguardo verso l’interno della disciplina e verso la figura del ricercatore o della ricercatrice. Continua però a distinguersi per una propria prospettiva

comparativa e evolutiva, perché mette in parallelo le culture del mondo e inserisce la storia umana in un percorso biologico. Nella ricerca si

tiene dunque presente che, a livello di opportunità teoriche, sono queste le più potenti risorse di cui oggi disponiamo, quelle che nel bene e nel male hanno guidato il lavoro antropologico fin dal principio. Partirò da alcune considerazioni elementari e ben note sulla cultura e la lingua. L’antropologia si è sempre basata sul principio che chi proviene da una situazione culturale diversa, non condividendo l’educazione e la mentalità del popolo nativo, è in grado di vedere e capire meglio la struttura stessa della popolazione, il funzionamento della società e della cultura. Il presupposto di questo convincimento è chiaro: la persona immersa nella propria cultura e in tutto ciò che essa comprende — la religione ovvero la cosmologia, le norme che guidano il comportamento, il sapere, ecc. — fa più fatica a sottrarsi e a distanziarsi al fine di poter analizzare il proprio modo di pensare e l'estensione della influenza della propria cultura. Può essere utile riportare subito la mia esperienza di antropologa straniera in Italia. Un lungo rapporto con l’Italia mi ha dato la possibilità di osservare e riflettere sull’antropologia da due punti di vista. In primo luogo, nell’arco di dieci anni di ricerche in Emilia Romagna (paesi dell'Appennino e città di provincia) ho vissuto una trasformazione. Da ricercatrice straniera che ignorava

la cultura e la lingua sono diventata una corpaesana che gode dell’inti-

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E. D. Whitaker

mità e dei doveri dell’amicizia nella realtà sociale in cui lavora. Ho trovato soprattutto che, più forte è la familiarità con la gente, più necessario è uno studio del cosiddetto serso cormzuze, credenze e verità

mai messe in dubbio che ci spingono a comportarci in un certo modo specifico (e non corzune ad altre genti). Il senso comune è diverso dal

sapere, è più sottile e più nascosto. Ma quando si riesce a scoprirlo si vede che funziona come il termometro della società e della cultura. Nelle mie ricerche ho cercato il senso comune a proposito della salute, nella maniera in cui viene difesa contro i diversi fattori che la minacciano. Mi sono concentrata sulla maternità e sull’infanzia e più specificamente sull’allattamento, per precisare meglio un punto di riferimento. Studiando le idee relative alle pratiche nutritive in ambiti ristretti ho potuto scoprire alcuni principi riguardanti l’importanza di fattori come i microbi, la febbre, gli organi (il fegato e l’intestino), il sudore, i colpi di aria o di vento e le perturbazioni atmosferiche. Per dar concretezza e approfondire il discorso sulla salute, e non limitarmi a pure affermazioni verbali, durante la mia ricerca, un mio collega chiedeva alla gente di mo-

strargli l’armadietto delle medicine, chiedeva cioè di lasciargli vedere ciò che effettivamente era ritenuto necessario avere a disposizione. Vorrei sottolineare un secondo punto. Per chi fa ricerca nel proprio paese non esiste l'ostacolo della lingua straniera.Va tuttavia tenuto in mente che, in tale caso, viene persa l'opportunità di imparare proprio attraverso la lingua. Rimane peraltro vero che si può sempre acquisire nuova esperienza, nel campo della lingua, imparando uno dei dialetti nelle regioni italiane in cui si fa ricerca. Dover imparare una nuova lingua fa capire il modo in cui, per tramite della parola stessa, la società intende il mondo esterno e interno. Spesso i fraintendimenti e gli errori linguistici aiutano, nello stesso modo in cui aiutano gli errori di costume. Nonostante l'imbarazzo che creano, fanno cioè capire le regole della società in cui ci si trova. D'altra parte, molte ricerche sono state eseguite da persone che capivano male la lingua locale: si ignora come e quanto le insufficienze linguistiche abbiano influenzato i loro risultati.! Il materiale italiano: opportunità e doveri Nell'arco drammatici

di un

solo secolo, l’Italia ha subito cambiamenti

a livello politico, economico,

demografico

e sociale.

Studiare mondi «conosciuti».

Una lettura americana di temi ecc.

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Nella storia occidentale, l’Italia è infatti fra gli ultimi paesi a unificarsi politicamente e a trasformarsi' da società agricola di grandi famiglie estese, con alta mortalità e alta natalità, miseria e malnutrizione diffuse (che persistono fino al dopoguerra) a paese industriale di piccole famiglie semplici (nucleari), con bassa mortalità/natalità e grande benessere. Tutto ciò va ricordato perché vuol dire che molti cambiamenti si sono verificati entro l’arco di vita degli attuali anziani. Nella seconda metà del Novecento,

il tasso di mortalità

decresce, e da circa 30 morti per mille abitanti l’anno arriva ai 10 negli anni Cinquanta, e cala anche al di sotto di questo livello negli ultimi anni. Nel frattempo, alla fine del Novecento, il tasso di nata-

lità scende; da circa 40 nati per mille abitanti l’anno a 10 per mille negli anni Ottanta?. Oggigiorno cade anche sotto i 10 nati per mille e in certe regioni rimane molto inferiore alla media nazionale, che è già fra le più basse del mondo. Queste divergenti tendenze del secondo dopoguerra hanno generato una forte e rapida crescita di popolazione. Essendo oggi le due cifre in parità, si annullano e non c'è crescita naturale della popolazione; anzi in certi anni la tendenza è negativa.

Dietro questi dati evidentemente, va appena accennato, affiora una vasta trasformazione sociale. Accanto al cambiamento quantitativo della mortalità — che in gran parte è stato una diminuzione della mortalità infantile — c’è stata una trasformazione qualitativa. Le maggiori cause di morte di un secolo fa sono state le malattie contagiose e infettive che colpivano tutte le età, ma soprattutto i bambini e gli anziani. Al contrario, attualmente sono le cosiddette malattie della «civiltà», cioè le malattie croniche (malattie cardiache, ipertensione, tumori) che cagionano la maggior quantità di morti (che si sono

spostate in grande parte verso l’area della vecchiaia). che fra le cause di morte, al posto della fatica, della della scarsità di cibo troviamo la vita sedentaria e la zione. Tutti fattori che hanno grande influenza e non tà e sul sovrappeso.

É cosa risaputa vita all'aperto e super alimentasolo sull’obesi-

Questi cambiamenti, a livello di salute, sono i risultati di muta-

menti nell’organizzazione e nell’estensione della famiglia, dalla diminuzione del numero dei figli, alla scolarizzazione e alla sconfitta dell’analfabetismo, all’urbanizzazione, allo spopolamento rurale, alla riduzione dell’affollamento degli alloggi, delle fabbriche, delle scuole. Basta menzionare esempi come l'istallazione di sistemi sanitari

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per le acque, il controllo della qualità degli alimenti, l’igiene pubblica e il miglioramento-ampiamento dell'assistenza medica, che hanno avuto molta parte in questo cambiamento, per sottolineare l’importanza dei mutamenti sociali-ecologici-economici. E bene ricordare che la maggior parte del calo della mortalità e della natalità è avvenuta prima del valido intervento della medicina moderna. Pure la limitazione delle nascite è stata realizzata prima della comparsa dei mezzi anticoncezionali moderni. Con ciò, però, non si vuol dire che

in passato l’assistenza medica non abbia avuto alcun merito (quando, sotto forma di cura, ha somministrato conforto morale che è

andato ben al di là della più o meno efficace terapia e che probabilmente spesso è risultato realmente utile). Ciò rimane valido anche se non sempre tale assistenza oggigiorno si dimostra all’altezza dei bisogni e capace di rispondervi’. In alcuni casi, non va dimenticato, è stata comunque capace di contenere il tasso di mortalità, laddove era più difficile ridurlo. A livello politico, il paese ha visto rovesci e cambiamenti enormi. Dopo secoli di invasioni e di conquiste da parte di poteri stranieri e di dominio papale nacque una nazione unita. Ai primi governi che seguirono l'Unità d’Italia mancarono i mezzi finanziari e una politica di interventi statali capaci di impiantare un’amministrazione adeguata ai grossi bisogni della popolazione di allora. Essi però hanno costruito un tesoro nazionale: i registri sulla famiglia, relativi alla produzione economica, alle malattie e a quasi ogni altro dato di «contabilità». Grande fu l'apporto del fascismo in fatto di interventismo statale che, anche se inconsapevolmente, i governi della Repubblica portarono poi a termine. Il rapporto fra l’individuo e lo Stato è di conseguenza mutato. Nel campo della salute, il prezzo di una migliore cura medica è stato la medicalizzazione della vita privata. Si è assistito, in molte situazioni, alla perdita dell’abilità e del sapere personale e famigliare anche per le cose più intime come l’alimentazione, la procreazione e l'allevamento dei figli (sfere dell’esistenza umana precedentemente tenute sotto il controllo di autorità morali tradizionali piuttosto che sotto quella di riformatori medici e politici). La voce dei capi-famiglia, degli anziani, dei preti e di altre autorità tradizionali è stata soppiantata da quella dello Stato e da quella dei suoi esperti. In particolare, dai concetti sociocentrici riguardanti i poteri e le forze negative (derivanti ad esempio dalla discordia fra famiglie), i proble-

Studiare mondi «conosciuti».

Una lettura americana di temi ecc.

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mi sociali e i «miasmi ambientali» della società tradizionale, si è

passati alle idee individuocentriche di autonomia corporale e di malessere della società moderna4. Allo stesso tempo, il consolidamento politico ha contribuito ad una certa unificazione culturale delle diverse regioni. All’Unità, le regioni furono divise non solo da differenze linguistiche (nel 1861, il 90% della popolazione non sapeva parlare italiano), ma anche dalle differenti storie politiche, economiche e sociali, che si ripercossero sulla cultura e sulla mentalità. Con lo sviluppo di un sistema capillare di ferrovie, di strade e più tardi di mezzi elettronici, l'informazione — anche attraverso la letteratura, la gente, le merci — si diffonde per

tutto il paese. Cosicché si può affermare che sotto alcuni aspetti, le differenze regionali si sono andate notevolmente riducendo, anche se sono nell’insieme rimaste ancora rilevanti. Tutti questi cambiamenti appaiono contenuti o addirittura com-

pressi entro un breve periodo, se raffrontati a quelli avvenuti negli altri paesi industrializzati. L'Italia è una società giovane. Di conseguenza, l’esperienza della generazione più anziana (che è stata testimone dei mutamenti) varia sostanzialmente da quella di chi è più giovane. Varia anche la rispettiva interpretazione della storia, perché la storia non consiste solo in ciò che è scritto ma in quello che si è vissuto, cioè dipende dalla portata culturale e personale del passato (della propria società e della propria famiglia). Apprezzare la storia e la sua forte ricaduta sulla vita contemporanea può arricchire molto l’antropologia. Quando, qualche anno fa, incontrai una classe di dodicenni, questi ragazzi mi fecero capire che credevano che (a partire dalla seconda guerra mondiale) l’Italia fosse uguale all America come era rappresentata nella trasmissione americana «Happy Days». Naturalmente i loro genitori e nonni, invece, si ricordavano della miseria nera, delle case distrutte, della mancanza di cibo, della guerra, cioè rammentavano corpi e armi che avevano visto sparsi per terra. Avevano ancora in mente l’epoca in cui non avevano la luce, l'auto,

le diverse comodità di oggi. Utilizzavano altre fonti e altre informazioni. Ricordavano in sostanza un altro mondo. L'Italia è dotata non soltanto di una grande quantità di ricche e variegate esperienze individuali, ma anche di dati storici, demografici e catastali. Possiede una grande letteratura. È più che evidente che tutti questi «beni culturali» contribuiscono a definire e sono parte del territorio e della cultura rzateriale. Si tratta di risorse che offrono

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E. D. Whitaker

molte opportunità, ma anche innumerevoli doveri (o autentici obblighi scientifici). Si deve cioè tener conto dell’importanza che la popolazione stessa attribuisce ai materiali storici e alla storia?. Detto questo, va peraltro tenuto in mente che la grande abbondanza di materiale non esime da alcun obbligo, anzi richiede metodi di analisi precisi e opportuni. Con un materiale tanto abbondante e vario, se il ricercatore o la ricercatrice non precisa bene l'argomento e un calendario della ricerca, rischia di annegare in un mare di informazioni. E questo un punto da non sottovalutare anche se rimane valido il presupposto che «tutto conta» nella ricerca. Storia, evoluzione e demografia: la famiglia in Italia

Nel campo della demografia, in Italia esiste un’infinità di materiale che illustra la mortalità infantile, il matrimonio, le cause di morte, la natalità legittima e illegittima, i mezzi contraccettivi, le

famiglie, le abitazioni ed altro. Da tali documenti è possibile rilevare in quale misura i cambiamenti demografici hanno portato la famiglia a un nuovo stato di organizzazione e a nuovi rapporti fra gli individui. La transizione è stata determinata e resa visibile dalla variabilità compositiva della famiglia (piccole famiglie di genitori e figli, famiglie estese con genitori dei coniugi, famiglie multiple di fratelli o di sorelle con i loro sposi, figli e genitori). La famiglia, in passato, appariva sbilanciata verso gruppi con numerosi bambini, con frequenti morti e nascite. È sotto gli occhi di tutti il fatto che oggi si è uniformemente passati ad una famiglia più semplice (genitori e uno o due figli). Ciò che è importante non scordare, è che il passaggio ha avuto molteplici effetti a livello affettivo, lavorativo e scolastico. Un secolo fa, tutta la famiglia contadina, compresi bambini e anziani, lavorava nei campi e contemporaneamente era occupata in lavori domestici.

Anche facendo lavori diversi, i suoi membri passavano le giornate e le serate insieme. Le famiglie contadine avevano due capi (uomo e donna) responsabili della gestione dell'azienda, che erano stimati in

uguale misura. Con la trasformazione economico-sociale, la famiglia non lavorò più come un'entità di produzione che veniva pagata una volta all'anno. All’interno della economia famigliare, gli anziani furono marginalizzati, i bambini furono mandati a scuola. I genitori assunsero lavori indipendenti con remunerazione individuale (e gli uo-

Studiare mondi «conosciuti».

Una lettura americana di temi ecc.

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mini cominciarono a passare sempre più spesso le sere nei sempre

più numerosi locali). Questi cambiamenti hanno portato a una forte valutazione del lavoro maschile salariato. Hanno però distolto l’uomo dalla responsabilità domestica e dal coinvolgimento famigliare e hanno confinato la donna in lavori scarsamente pagati anche laddove e quando lavorava per uno stipendio”. Oggi al posto della convivenza fisica e del distacco affettivo, c'è lontananza spaziale e intimità affettiva8. Un altro risultato della trasformazione economica-sociale è stato un mutamento nell’assistenza della madre e del figlio”. Durante la seconda metà del Noveeento, tale assistenza è cambiata radicalmen-

te. Da secoli gli istituti assistenziali, in fondo, sono state le opere pie per la madre peccatrice o il figlio abbandonato, gestite dalle congregazioni di carità. La madre che era curata da un istituto (durante la gravidanza o il parto) era costretta a consegnare il figlio al personale dell'istituto stesso. Doveva anche allattare due o tre bambini non suoi. Pian piano questi istituti si trasformarono in asili e scuole materne per la cura giornaliera dei bambini, con una presenza statale nella direzione che sostituì sempre di più quella della Chiesa e delle congregazioni. Gli assistiti furono figli di lavoratori e lavoratrici dell'industria e di braccianti agricoli che non avevano la possibilità di allevarli. Si aprirono altri istituti di carattere medico per la prevenzione e la cura di malattie della maternità e dell’infanzia. L’Italia fornisce buone opportunità a quanti sono interessati all’intreccio fra cultura, e la biologia umana. Uno dei casi più conosciuti di co-evoluzione è la millennaria coincidenza — nei paesi mediterranei come l’Italia (anzitutto la Sardegna, la Sicilia, le regioni più a Sud e le paludi del Po) — di una infezione malarica seria (per la presenza in dette zone delle zanzare malariche) accanto a certi adattamenti culturali e biologici che agiscono in modo complementare. Questi adattamenti includono variazioni genetiche che risultano in un'alta frequenza di anemie di globuli rossi (talassemia, deficienza di G6PD). Le anemie, che rappresentano una delle pochissime variazioni genetiche a livello umano degli ultimi 10.000 anni, alterano la funzione dei globuli rossi (come portatori di ossigeno). Esposti a malattia sono però solo gli individui che ricevono geneticamente tale anemia da entrambi i genitori. In altre condizioni — e cioè nella maggioranza dei casi — l’anemia si riceve da un solo genitore e per questa ragione si è protetti dalla malaria. Alle persone già ereditaria-

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mente predisposte all’anemia, il consumo delle fave fresche può causare seri problemi e far correre pericoli. Proprio nella stagione in cui le zanzare si riproducono le fave sono più tossiche, più nocive per il plasmodio della malaria (cfr. Brown 1986; Katz e Schall 1979)!°. La fava protegge dalla malaria perché contiene sostanze che impediscono al plasmodio di continuare il ciclo vitale nella fase in cui vive nel sangue umano. Le persone eterozigote hanno il doppio vantaggio di essere protette sia per via genetica sia grazie al consumo di fave. Si

può dunque dire che, nel tempo, il costo dell’anemia — in termini di malattia e morte — viene bilanciato dal vantaggio protettivo agli individui eterozigoti contro un antico e invincibile male. Nell’ultimo secolo, la commistione tra storia ed evoluzione si

rende evidente nel crescente tasso di mortalità e morbilità dei tumori del sistema riproduttivo femminile (mammella, sistema ovarico, endometrio). Se confrontato a condizioni di vita molto antiche — che

si incontrano ancora oggi fra i popoli che praticano una vita di caccia e raccolta e che persistevano fino a poche generazioni fa fra le popolazioni agricole dell'Europa — a livello riproduttivo il corpo oggi si sviluppa molto precocemente. La funzionalità riproduttiva viene al contrario molto ritardata. La prima mestruazione appare verso i 12 o i 13 anni, anziché verso i 16 o i 18. Mentre la prima gravidanza segue dopo più di un decennio, invece che nel giro di due o tre anni. Il tasso della procreazione cala, è cioè molto inferiore a quello (4 o 5

figli per ogni donna) che è stato tipico nel corso della storia evolutiva degli esseri umani. Ed infine, l’allattamento viene abbreviato e passa dai tre-quattro anni a pochi mesi, se addirittura non vi si rinuncia del tutto (cfr. Cohen 1989; Konner e Shostak 1987; Wood 1985).

Questi cambiamenti si sono verificati contemporaneamente allo sviluppo di certe tendenze riguardanti l'alimentazione e l’attività fisica. Si sono prodotti quando cioè è stato possibile un maggiore consumo di grassi accanto a un uso molto minore di fibre vegetali, una forte riduzione del movimento e del tempo passato all’aria aperta e un raddoppiamento della proporzione del grasso corporeo. Storicamente questi fattori sono stati rilevanti per lo sviluppo precoce del corpo e per l’insorgenza delle malattie croniche in generale e di quelle del sistema riproduttivo femminile in particolare (cfr. Eaton, Konner e Shostak 1988; Nesse e Williams 1994). Non sono peraltro

meno rilevanti come fattori di rischio per le donne di oggi (cfr. Eaton et al. 1994; La Vecchia 1991). Il menarca precoce, la procrea-

Studiare mondi «conosciuti».

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zione scarsa e ritardata e la menopausa tardiva sono conosciuti come fattori che aumentano il rischio dei'‘tre tipi di tumore menzionati. In alcune culture, lo stress fisico e nutritivo fa sì che le donne

raccoglitrici saltino relativamente molti cicli ovarici. Questo effetto acutizza una situazione generale in cui le donne hanno cicli in un numero complessivamente inferiore di almeno un terzo rispetto a quello delle donne di una società industrializzata. Un elevato numero di cicli può avere conseguenze sul rischio del tumore ovarico e dell’endometrio dovuto a fattori ormonali e al danno mensile al tessuto. E la grande distanza tra il menarca e il primo concepimento che contribuisce all’elevato numero dei cicli mestruali, e che inoltre aggrava il rischio del tumore alla mammella perché espone il tessuto (svegliato e attivato dalla prima mestruazione) ai carcinogeni chimici

per un periodo protratto. La prima gravidanza ha l’effetto di completare lo sviluppo del tessuto e di ridurre la divisione delle cellule, diminuendo così la loro suscettibilità alla carcinogenesi. Come si sa, l'allattamento ha funzioni protettive, soprattutto se viene prolungato oltre il primo anno, viene praticato frequentamente e senza l’aggiunta di latte artificiale. In realtà queste condizioni vengono realizzate assai raramente!. Di fatto, in genere, la tendenza concretamente rilevata è quella

di ridurre il numero e la frequenza delle poppate, abolendo quelle notturne. Anche questa pratica ha alcuni effetti sulla salute. Anche altre consuetudini sono rilevanti per l’analisi. L’uso di mettere il bambino appena nato a dormire da solo in un lettino, spesso in una camera separata, sembra essere collegato alla crescente frequenza di morte improvvisa, la maggiore causa di mortalità infantile in Italia e in altri paesi industrializzati (cfr. McKenna 1986; McKenna e Mosko 1990). Questa malattia non esiste fra i primati o gli altri animali e si mostra estremamente rara fra i popoli non-industrializzati. In un sondaggio condotto su 90 società simili fra loro, non si è riscontrato nessun caso di sonno isolato e prolungato del bambino in una camera diversa da quella dei genitori. La norma più comune fra popolazioni tradizionali attuali (simili a quelle esistenti in Europa fino a un secolo o due fa) è proprio questa: il figlio dorme nello stesso letto della mamma o dei genitori. Tutto questo va inquadrato in alcune considerazioni generali. In quanto esseri umani, tutti noi nasciamo in uno stato di immaturità

neurologica in confronto ad altri animali, per cui abbiamo bisogno di

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uno stimolo esterno durante la notte per svegliarci dagli episodi di apnea che ci colpiscono. Questo sembra più necessario durante l’epoca di massima mortalità causata da «sindrome di morte improvvisa», cioè dai due ai sei mesi. I piccoli sono capaci di dormire a lungo e profondamente come i grandi, ma sono meno capaci di risvegliarsi. Cosicché dormire insieme e praticare un allattamento frequente rappresentano usi culturali protettivi!. Quando la famiglia estesa — in cui la posizione dei genitori verso l'esterno è stata definita dalla figliolanza e dai ruoli produttivi di entrambi — si ridusse e si semplificò, i rapporti si concentrarono sul legame coniugale. In questa situazione, il lattante si è trasformato in un piccolo invasore ed è stato espulso dal letto matrimoniale. La culla lo porta lontano dall’epicentro della sessualità e dalla competizione col padre per il seno — ora considerato un organo sessuale piuttosto che riproduttivo — della madre (cfr. Maher 1992). Questo esempio illustra in quale mi-

sura le cose che sembrano banali, «naturali» e quotidiane siano delineate o determinate dalla cultura, dalla storia e abbiano spesso effetti collaterali sulla saluteP. Il «mondo femminile»

Ho osservato processi e avvenimenti che riguardano le donne, ma spero di non aver dato l’impressione che la famiglia appartenga alla donna. Anzi, un aspetto della trasformazione sociale su cui ho posto l’attenzione è stato proprio l’insorgenza di questo pregiudizio, nato con lo scioglimento della famiglia unita nella produzione (domestica e economica) e nella riproduzione. Questa tendenza è vera-

mente nefasta: non solo perché impedisce agli uomini, anche a quelli responsabili che si assumono lavori domestici, (sempre che le donne lo permettano) di godere pienamente della vita domestica e della cura dei figli, ma anche perché pone un ostacolo artificiale alla coscienza e al sapere. In questo senso la letteratura demografica dà per scontato che siano le donne a determinare la fertilità, e che il calo

del tasso di natalità sia il risultato delle decisioni o dei cambiamenti biologici femminili. Nelle mie ricerche invece ho sentito molte donne anziane dire che sono stati i mariti a volere una famiglia piccola e a informarsi sui metodi anticoncezionali. Provenendo da famiglie numerose, spesso entrambi hanno voluto evitare di mettere al mon-

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do molti figli in condizioni di miseria e, avendo scelto di coltivare meno terra o di lavorare nell’industria, non hanno sentito la necessi-

tà di crescere una grande manodopera famigliare. Ho notato la tendenza a pensare alla fertilità solo in termini femminili — da parte sia degli studiosi che della gente comune — anche nella reticenza ad accettare l’importanza della sterilità maschile e nel cercare nuovi mezzi contraccettivi per l’uomo! Qualche anno fa parlai della mia ricerca ad una ricercatrice italiana. Le dissi che nella mia ricerca trattavo dell'Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia (ONMI, creata nel 1925 dal governo fascista con un vasto programma di prevenzione e assistenza alle madri e ai figli). Le dissi che mi interessavano i rapporti tra i generi. Con voce stupita mi

fece subito notare che PONMI non aveva niente a che fare con tali rapporti e che l'Opera si era occupata solo di figli abbandonati, di madri illegittime e dei loro figli. Questa ricercatrice veramente non crede che si possa imparare qualcosa sul genere tramite la storia del’ONMI. A suo parere bisogna guardare direttamente le donne, senza fare nessun riferimento agli uomini. Tuttavia anche se PONMI non avesse fatto altro che dare sussidi, sarebbe difficile credere che

il genere e i rapporti fra donne e uomini non abbiano influito sulla loro condizione. La storia dell'Opera è colma di questioni relative al genere, dalle condizioni culturali che produssero natalità illegittima e abbandoni

alla divisione sessuale (presente nella direzione e nelle

attività dell’Opera stessa), dai cambiamenti socio-economici che portarono i genitori lontani da casa e crearono la necessità di dare asilo ai loro figli, fino alle malattie sociali e alla loro prevenzione e cura. Mi dispiacerebbe se, in nome di un femminismo estremo, chiudessi-

mo gli occhi a qualsiasi ipotesi capace di portare ad una migliore conoscenza della storia e del genere. È opportuno fare un’altra osservazione. Uno dei modi più facili e comuni per concentrarsi sul mondo femminile è quello di guardare gli avvenimenti biologici femminili: menarca e mestruazione, gravidanza, parto, allattamento, menopausa. Questo approccio in realtà

comporta gli stessi rischi di sempre e contro i quali abbiamo lottato per anni e anni. Tende a ridurre la femminilità e l’esperienza della donna in una essenza materiale, semplice, fissa e universale. Non

intendo qui mettere in dubbio l’esistenza dei suddetti processi biologici, ma allo stesso tempo non voglio che sia esagerata la loro importanza rispetto alla totalità di una vita complessa e varia come quella

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umana. Guardiamo come la cultura li definisce e li struttura, guardiamo al di là dell'esperienza dell’individuo. Vedremo che la cultura è capace di influenzare la funzionalità biologica in modo diretto, con effetti sulla esperienza personale. Nella mia ricerca, che è stata fortemente concentrata sul mondo femminile, ho trovato che le idee me-

diche e politiche sulla maternità del periodo fascista hanno creato impedimenti alle madri proprio nel campo dell’allattamento. Il metodo di pesare il bambino ad ogni pasto (la famosa «doppia pesata» e il rispetto di un «orario» preciso che impone un intervallo di molte ore fra i pasti (eliminandoli di notte) interferiscono con la psicobio-

logia dell’allattamento e fanno diminuire rapidamente la produzione di latte materno (Whitaker 1994).

Se vogliamo passare a parlare dei ruoli politici, economici e sociali, bisogna prima aprire una parentesi. Da più di un secolo, alcuni studiosi cercano di trovare nella biologia le radici di eventuali differenze sessuali fra i ruoli maschili e femminili, poggiando le loro conclusioni su una mal capita teoria dell'evoluzione biologica. Questo non è il luogo per fare un discorso sull'evoluzione e mi limito quindi a nominare quattro fattori: la teoria di Darwin e dei suoi discepoli è basata sulla scelta, nella grande maggioranza delle specie (compresii primati) di un consorte da parte della femmina (per il caso dei primati, cfr. Small 1993). Non è il maschio a scegliere. La riproduzione sessuale non è l’unica via di procreazione e molte specie si riproducono in modo asessuato, quindi tutti gli individui sono femmine; nello sviluppo embriologico tutti gli esseri iniziano come femmine e solo dopo un certo punto alcuni (di solito il 50% circa, ma non sempre) diventano maschi grazie alla produzione degli appositi ormoni. Se è già difficile collegare le caratteristiche morfologiche ai geni, più problematico è tracciare comportamenti — anche quelli più istintivi e degli animali più semplici — a partire da radici genetiche. Di fatto non siamo in grado (e forse non lo saremo mai) di spiegare effettivi usi e costumi uma-

ni relativi al genere nei termini di specifici, fondamentali, immutabili

processi biologici. Non è evidentemente corretto impiegare la teoria dell'evoluzione a capriccio, senza fare riferimento a questi quattro

punti, soprattutto nell’analisi della società umana. Sarebbe molto più interessante cercare di capire il motivo per cui la cultura occidentale, la scienza stessa, tenta — con grande successo — di rifiutare le realtà

biologiche in cui la scelta proviene dalla femmina, la riproduzione è asessuale e lo sviluppo embriologico ha caratteri femminili.

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Tutto questo lo scrivo per dire che anche le ricerche che pretendono di spiegare differenze sociali fra i generi in base alla biologia sono prodotti degli esseri umani che spesso ci rivelano più cose della cultura che della biologia. Gli esperti assecondano i pregiudizi popolari quando sostengono, nel nome dell’evoluzione biologica, che gli uomini scelgono questa o quella caratteristica nella moglie per assicurarsi che sia feconda, o che gli uomini adulteri stanno soltanto seguendo le loro tendenze naturali, mentre le mogli accettano l'infedeltà del coniuge per antichi motivi connessi al bisogno di cibo e alla protezione della prole. Al museo «Natural History» di Washington (D.C.) quando gli zoologi hanno capito che sono le leonesse a cacciare, la direzione ha dovuto cambiare il pannello della mostra in cui appariva un re leone aggressivo e potente in piedi a poca

distanza dalla leonessa languida e voluttuosa sdraidata per terra con i piccoli. Le femmine di tutte le specie si proteggono e si procurano da mangiare, al di là delle lotte territoriali dei maschi”. Va tenuto in mente che fra le popolazioni dedite alla raccolta e alla caccia, non esiste affatto la dominanza di un genere sull’altro, e l’uno non viene valorizzato più o meno dell’altro. La dominanza è uno dei risultati dell'economia agricola e poi industriale degli ultimi 10.000 anni. Non siamo cioè di fronte ad una condizione immutabile dell'umanità. L’enfasi normalmente posta sulla caccia è stata anch'essa rivista quando gli antropologi hanno riscontrato che era la raccolta l’attività più costante e più affidabile per procurarsi gran parte del cibo. Entro questa dialettica tra caccia e raccolta, rimane comunque il fatto che la carne è molto apprezzata e ciò per motivi ben validi (potere nutritivo, sapore forte e carica energetica). Vale la pena sottolineare che la raccolta, riservata spesso alla donna, richiede attrezzi e forza fisica notevole non solo per cercare e trasportare il cibo (e spesso un figlio) a lunga distanza, ma anche per scavare la terra per trovare radici e per altre attività. Inoltre, nella divisione del lavoro, c'e varia-

bilità e scambio di parti fra uomo e donna: i compiti cioè non sono sempre rigorosamente circoscritti. Ci sono uomini che fanno la raccolta e donne che cacciano; durante la giornata lavorativa i cacciatori raccolgono cibi vegetali e le raccoglitrici pescano e cacciano. Purtroppo ancora oggi si leggono descrizioni scritte da studiosi che, nel loro entusiamo per la caccia e nella loro cecità per tutto ciò che riguarda il mondo femminile, non tengono conto di questa plasticità

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e, di conseguenza, del ruolo produttivo della donna (cfr., ad esempio, Cavalli Sforza e Cavalli Sforza 1993). Detto questo, non intendo negare la possibilità che certi aspetti della vita femminile o di quella maschile abbiano una base biologica. Anzi affermo che i fondamenti dell’umanità e di ogni individuo sono al cento per cento biologia e al cento per cento cultura e sono inestricabilmente collegati. Voglio pertanto insistere che dobbiamo applicare la massima cautela nel campo dei ruoli sessuali e del genere. Non credo che si possa comprendere tutta la variabilità di questi ruoli, nel mondo e attraverso il tempo, con una interpretazione uni-

voca. Accanto all’apparente diffusa dominanza maschile (cfr. Ortner 1974) vanno presi in considerazione il potere domestico — meno visibile e pubblico — delle donne nelle società che non permettono loro spazio politico o economico (ad esempio nei paesi mediterranei, cfr. Rogers 1985) e la mancanza di vero potere degli uomini dei ceti sociali bassi, in queste come in altre società.

Questioni di maschilismo che possono influenzare la ricerca Dunque per studiare il mondo femminile in Italia bisogna eliminare i tenaci preconcetti sul potere, sulla «naturale» sottomissione della donna, sulla superiorità dell’uomo, o sulla ignoranza del passato messa a confronto con le illuminate conoscenze di oggi. Per quanto riguarda il Novecento, pare anzi che le donne dei paesi mediterranei abbiano perso molto del loro potere sia domestico che economico-sociale. Con lo scioglimento della società agricola e della famiglia estesa, e la disuguaglianza dei salari fra uomini e donne, gli uomini si sono sottratti alle responsabilità domestiche, che venivano valorizzate sempre di meno in confronto ai lavori remunerati. La produzione industriale ha preso il posto della produzione familiare di attrezzi agricoli e edili, di tessuti e di abiti. Mentre ha liberato gli uomini dal lavoro serale a casa, ha fatto nascere nuovi standards per la pulizia e la mantenuzione della casa, e li ha fatti diventare compiti o incombenze della donna. Si tratta di compiti che si aggiungono al lavoro extra-domestico e alla cura del marito, dei figli, dei genitori e dei malati. Nella famiglia di oggi, se la donna non ha un impiego rimane prigioniera in casa, isolata dagli altri e priva di ogni autorità (cfr. Collier 1989; Counihan 1984). Cosicché i coniugi rimangono dipen-

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denti dai consigli degli esperti per sapere come condurre bene la gestione domestica perché sono venute meno le risorse tradizionali della società di un tempo in cui, di regola, la famiglia era autonoma e chiusa ad ogni interferenza esterna. D'altra parte, i giovani di oggi hanno più opportunità e più scelte. Le loro aspettative, in molti campi, sono tuttavia in grande misura precondizionate dalla cultura maschilista. Basta ricordare che, nel campo del lavoro, è convinzione diffusa che il lavoro della donna valga meno di quello dell’uomo. La eccessiva valorizzazione del lavoro nelle società industriali tende purtroppo a svalorizzare il lavoro domestico e molte donne senza impiego dicono che «fanno niente». L’idea che anche le dorme che lavorano, in realtà non lavorano, può

avere un effetto sull’atteggiamento della gente verso lo stesso lavoro dell’antropologa. Se la ricercatrice non prende sul serio le proprie ricerche e le proprie domande, le risposte che riceve non fanno che essere conseguenti a questo suo atteggiamento. Non va dimenticato

che ciò non è in disaccordo col fatto che può essere una fortuna se la gente risponde in modo spontaneo o meno artificioso. Qualche anno fa sono stata intervistata da un giornalista italiano. Per sottolineare il tema dell’ONMI come istituzione che non riguardava solo le donne ma anche gli uomini, feci un’analogia. Dissi che, così come l’opera Don Giovanni non riguarda principalmente Don Giovanni bensì Leporello, PONMI non riguardava solo le donne ma anche gli uomini. Nell’eccitazione che vidi negli occhi del giornalista, con mia grande meraviglia, lessi un’idea (che egli poi scrisse): nello stesso modo in cui il protagonista minore, Leporello, cerca di apparire più importante di Don Giovanni, i fascisti hanno voluto far sembrare PONMI più importante di quanto sia stata in verità. Questo episodio mi ha convinta

che esiste una comune inclinazione a disprezzare le cose che riguardano le donne. Fino a pochi anni fa, fra tutti gli istituti fascisti, gli storici del dopoguerra hanno ignorato PONMI, apparentemente perché svolgeva un'attività in favore delle donne e dei bambini. Si è detto inoltre che non fu né originale né efficace, nonostante il fatto che la letteratura del periodo indichi chiaramente come molti fascisti l'avessero considerato l’istituto più importante, dopo il partito, e di maggior incidenza (benché localizzato sulla mortalità e morbilità infantile). Tutto ciò porta a dire che in antropologia è necessario esaminare le cose scritte dagli studiosi, dagli storici stessi con lo stesso sguardo critico con cui consideriamo ogni altro «prodotto culturale».

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All’interno dell’antropologia stessa ci sono problemi di maschilismo. La vecchia immagine dell’antropologo presentata all’inizio di questo saggio fa riferimento all’uomo solitario e autonomo. Non c'è posto in questa immagine per un coniuge o un figlio. Anche se in verità molte ricerche vengono condotte da donne e uomini sposati e con prole, di solito si programma la ricerca e si scrivono i risultati senza mai prendere in considerazione la famiglia di chi fa ricerca. Conosco una studiosa americana cinquantenne, una forte e risoluta femminista della sua generazione, che ha lottato molto per la sua carriera e che si è dovuta comportare come uomo, o addirittura impegnare più di quanto un uomo normalmente faccia. Quando l’ho sentita dire ad una dottoranda (che era sul punto di partire per l’Indonesia) che non le conveniva portare il marito, perché era un «accessorio» scomodo per la ricerca, rimasi stupita e delusa. Mi resi però perfettamente conto che per quella studiosa non esisteva altro modo di vedere le cose. Dovremmo essere grati per i sacrifici e le fatiche di questa donna e delle sue coetanee. Ci hanno portato al punto in cui possiamo riconoscere apertamente e apprezzare la femminilità. E ora però di andare oltre la negazione della femminilità, che ha portato all'esito infelice di contribuire alla sopravvalutazione di caratteristiche considerate maschili e al deprezzamento di quelle femminili. Dovremmo rivalutare le caratteristiche «femminili» (tipicamente date come propensione all’abnegazione e al sacrificio, minore facilità all’aggressione e alla violenza, maggiore cura del prossimo) senza smarrirci in una inutile ricerca di origini puramente biologiche o culturali. Dovremmo anche accogliere e coinvolgere l’eventuale famiglia nella ricerca e nella scrittura. Oltre a dare sostegno morale, il marito, la moglie, i genitori anziani e i figli possono agire nell’interesse della ricercatrice o del ricercatore, aprendo la comunicazione con certi ceti della popolazione. Le loro osservazioni sono un tesoro inestimabile. Riguardo al mondo femminile, in Italia, l’aiuto della famiglia può contribuire allo studio delle grosse differenze tra le generazioni rispetto all’infanzia e alla gioventù, all'istruzione, al fidanzamento, al matrimonio, alla maternità, alla vita familiare,

alla menopausa, al potere domestico, economico, politico e sociale!. Concludo facendo notare che il mondo femminile non è stabile attraverso lo spazio e il tempo nonostante che la biologia sia relativamente costante. Anzi è e rimane legato strutturalmente alla società, anche laddove il legame sociale agisce in maniera flessibile. Il mon-

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do femminile, per le donne stesse, non è lo stesso nel corso delle generazioni.

L'antropologo-a nel proprio paese Come abbiamo osservato, le notevoli differenze culturali (e evi-

dentemente anche genetiche, cfr. Cavalli Sforza e Cavalli Sforza 1993) fra le regioni dell’Italia rappresentano una grande opportunità per l'antropologia. Malgrado il grande successo del processo di unificazione culturale dell’ultimo secolo, come si sa, persistono usi e co-

stumi particolari nelle diverse regioni. Sovrapposta alla cultura regionale c'è quella nazionale, cioè la lingua ufficiale, un sistema monetario, un'economia interna legata a quella mondiale e un sistema politico-amministrativo che impiega una grande percentuale di lavoratori e che influisce sulle mentalità tramite le scuole e le università. Fino a pochi anni fa, gli antropologi in Italia studiavano piccoli paesi come comunità isolate e chiuse (che, salvo poche eccezioni, non esistono)

al di fuori dei legami fra il paese, la città e il mondo circostante. Se non era del tutto giusto allora, tanto meno opportuno è oggi. L'arte del «community study» è antiquata e artificiale, e non comprende le realtà della vita moderna. La letteratura, la stampa, le comunicazioni, l'industria, lo stato, e la gente entrano in tutte le comunità, che

per parte loro fanno scorrere o canalizzano risorse umane e culturali entro la circolazione nazionale. Più sopra ho fatto cenno alle difficoltà derivate da una vicinanza-familiarità con l'argomento della ricerca e alla possibilità di superarle con un’analisi del senso comune. Ho trovato che in Italia il senso comune non corrisponde esattamente alla ben nota formula di Geertz (1983). Più spesso si presenta rigoroso e basato sull’esperienza (le altre qualità sono naturalezza, praticabilità, semplicità o letteralità). Questo è interessante, perché ci rivela certi aspetti della società e della cultura. Rivela cioè in genere che non si riscontra una ostilità tra il sapere popolare e quello degli esperti della medicina, dell’industria, del governo. Esiste oggi una conoscenza e una valutazione del tecnicismo e del razionalismo e ormai una stretta relazione tra la cultura popolare e la cultura specialistica e fra le singole culture dei differenti individui. Per quanto riguarda il corpo e la salute, la medicalizzazione inoltre si è accompagnata ad altri

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cambiamenti sociali che sono entrati nella trasformazione dello stesso senso comune. Un'altra circostanza da prendere in considerazione è l’importanza di un progetto preciso e di un metodo ben definito. Ciò che è sempre necessario fare è opporsi all'approccio deduttivo e condurre induttivamente la ricerca e la raccolta dei dati partendo da una teoria e da un'ipotesi ben strutturata. L’antropologo-a inoltre dovrebbe fra l’altro essere aperto a cambiamenti di direzione nella ricerca. Porto un mio esempio. Lo scontro tra le mie idee americane impregnate di naturalismo (a proposito del modo di pensare la salute e l'allevamento dei bambini in Europa) e la realtà del «terreno» fatta di atteggiamenti interventisti e di tecnicismo, mi ha obbligata a ripensare la mia ricerca e a cercare spiegazioni diverse da quelle che avevo ipotizzato. Avevo sbagliato nell’interpretare la protezione data alla maternità. Questa protezione mi era sembrata la conseguenza di una maggiore cura della madre. Nel corso del lavoro, ho invece trovato una legislazione italiana che conteneva principi che spesso non prendevano affatto in considerazione le madri. Per il giorno d’oggi, ho rilevato frequenti abusi, purtroppo pesanti e costosi per la società ed ho anche riscontrato risultati negativi per le donne (nel campo del lavoro)". Pure la persona e la personalità esercitano un effetto sulla ricerca. Influiscono sulla capacità di procurare informazione e sulle cose che l'antropologo vede e capisce. Noi antropologi dovremmo discutere apertamente il modo in cui le identità delle persone che fanno ricerca influenzino il lavoro in maniera positiva o perfino negativa!8. Dovremmo riflettere sulla posizione di chi fa ricerca entro la struttura sociale in cui lavora e sul modo in cui tale posizione dipende in larga misura dallo stato civile. È questo un punto rilevante. Nel mio caso, ho osservato cambiamenti diretti nei miei contatti e nei rapporti con la gente in base alle tappe compiute con il matrimonio e la nascita dei figli. Quando ero nubile, il fatto non piaceva: ero lontana da casa, senza marito, senza genitori o parenti e la gente, all’epoca, si fidava poco di me. E molto comune fra le società attribuire maggiore stima (e diritti) alla persona tenendo presenti le tappe della sua esistenza e negarglieli nel caso di mancata conformità ad esse. Ci si può accertare di questo processo anche in Italia laddove è messo in luce in molti appellativi femminili (signorina, nubile, ragazza madre, signora, vedova, zitella, ecc.). In seguito, con il matrimonio e la pro-

creazione ho consolidato pregressivamente la mia posizione sociale.

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Fra l’altro, ho avuto occasione dopo il matrimonio di trarre profitto dalla ricerca riguardante il fascismo che mio marito stava conducendo. La circostanza mi ha permesso di mettermi in contatto con persone che altrimenti non avrei conosciuto. Per contro, la passione per

la bicicletta che condivido con mio marito mi ha dato l’opportunità di incontrare e parlare a lungo con soli uomini adulti. Per varie ragioni ho potuto godere meno della compagnia di adolescenti e di gente giovane. In conclusione, per fare ricerca anche all’interno della propria cultura, si deve istaurare un necessario distacco e si deve usare uno sguardo critico, senza però negare simpa-

tia e coinvolgimento!?. Dobbiamo cercare di essere aperti per potere osservare e esaminare usi, costumi, convinzioni e senso comune, un

compito particolarmente arduo nel proprio paese o nella zona urbana in cui si abita?°. Ma non è meno difficile in altri luoghi. Di fatto, col passare del tempo e colla formazione di stretti legami amicali nel luogo della ricerca, la situazione descritta per il proprio paese si ripete. La posizione dell’antropologo cioè diventa più delicata e il suo compito diventa ugualmente difficile. In altri termini, se il ricercatore è troppo dentro, perderà di fatto l'occorrente distacco. Sarà opportuno o necessario tenerne conto (cambiando eventualmente area, zona, città o regione) e mantenere fermi i propri criteri sia sugli

aspetti culturali generali (lingua inclusa) sia sul senso comune. Rimane cioè inalterato il bisogno di non rinunciare al lavoro di vaglio e di non cambiare il tipo di osservazione.

Conclusione

Vorrei concludere con qualche considerazione a proposito del mondo femminile italiano. Si tratta di impressioni, visto che il mio lavoro riguarda l’antropologia medica piuttosto che gli studi di genere. Inizialmente, mi sono interessata di deficienze nutritive e di pellagra, che in passato erano condizioni endemiche negli Stati Uniti del Sud e nelle regioni centro-settentrionali italiane (inclusa l'Emilia Romagna). Ciò che ho preso in considerazione è stata la relazione fra mortalità indotta da tali malattie e trasformazione agricola, unificazione politica e transizione demografica (XIX e il XX secolo). In una seconda fase, mi sono poi rivolta allo studio dei programmi medicopolitici del fascismo che miravano ad incrementare la popolazione e

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soprattutto allo studio della stessa OMNI, che ho già nominato più volte. L’ho studiata nel contesto della specializzazione della medicina professionale degli anni Venti-Trenta. Ciò che ho notato è stato un adeguamento delle donne alle norme che i medici con incessante impegno richiedevano ma che peraltro non erano in grado di ottenere. Tre sono le caratteristiche del mondo femminile che ho osservato: variabilità, mutamento e contraddizione. La prima riguarda le differenze — nella esperienza e partecipazione femminile tra generazioni, fra classi sociali e professionali, tra aree geografiche — non solo nel campo della cura infantile, ma anche nelle condizioni materiali, nell’educazione, nelle visioni del mondo, nei rapporti matrimonialfamiliari, nella familiarità colle pratiche mediche professionali. La seconda caratteristica riguarda drammatici cambiamenti familiari e socio-economici. Come si è visto durante la transizione verso la industrializzazione, il lavoro domestico

(inclusa la cura dei figli)

venne valutato sempre meno rispetto ai lavori salariati. Le famiglie stanno meno insieme. Oggi diminuisce il distacco fra familiari, così come cambia il posto dei figli nella famiglia e si enfatizza il legame coniugale. Quando l’agricoltura non è più la base dell'economia, si realizza su più vasta scala l’ideale borghese della madre casalinga, isolata in casa. Negli ultimi due decenni, si è restaurata la relazione di coppia conosciuta un secolo fa, ma su nuove basi. Il coinvolgimento della donna nella forza lavoro è tornato ai livelli registrati subito dopo l'Unità. Le giovani coppie sempre più condividono responsabilità economiche e domestiche, anche se lavorano separatamente e hanno meno bambini rispetto al passato. Negli ultimi cinque o dieci anni, le coppie hanno anche intrapreso sport pesanti (come ciclismo o jogging). Alcune donne stanno sfidando l’idea comune che la maternità sia una condizione molto delicata e vulnerabile: si impegnano nelle consuete attività anche durante la gravidanza e l’allattamento. Si comportano esattamente come facevano le donne di tre o quattro generazioni fa. Questi cambiamenti hanno avuto molto a che fare con nuove credenze sulla salute e con le ideologie di genere. Detto per inciso, spesso, le due agiscono concordemente. Sulla terza caratteristica, la contraddizione, va ricordato che, ad

esempio, nel periodo fascista il seno femminile era concepito sia come simbolo dell’affetto materno che come strumento di produzione, di tipo industriale-scientifico. Le donne dovevano rifiutare le

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odiose maniere del femminismo, il lavoro fuori casa e le attività

borghesi del tempo libero. Erano però obbligate a compiere le loro funzioni domestiche con precisione clinica, futurista. Oggi, non si può non essere colpiti dall'immagine della donna come oggetto sessuale, passivo, muto, decorativo. Foto di donne quasi svestite o nu-

de, appaiono in tutti i media. Ci si trova di fronte ad una vera contaminazione ambientale. Un giorno, sopra il lavello di cucina di una coppia di anziani pensionati, ho visto appesi ad uno stesso chiodo un calendario con foto pornografiche ed un crocefisso: le gambe di Gesù venivano a trovarsi fra i seni nudi di una donna accovacciata.

Malgrado la loro diffusione, queste immagini non trovano alcuna corrispondenza nella vita reale. Mentre molte donne si sforzano di vestirsi il più elegantemente possibile, non tutte cercano di essere sessualmente attraenti. Nel loro comportamento possono essere deferenti verso l’uomo, ma non sono certo afasiche. Possono essere

invece assertive, capaci e caparbie nel lavoro e nello studio, responsabili in casa. Molte sembrano trovare gli uomini e il machismo divertente, se non lievemente ridicolo. Da parte loro, gli uomini non assecondano l’immagine del predatore sessuale destinatario di costanti attenzioni femminili, né quella di mammone ed erotico insieme o quella di inetto incompetente in casa. Molti uomini, inclusi i nonni, accudiscono e portano a scuola i bambini, cucinano e quan-

t'altro senza danno per la loro mascolinità. Parecchi uomini si sentono offesi se si pensa che possono essere in fondo attratti dalle immagini pornografiche dei media. In sostanza, non c’è un singolo mondo femminile o maschile. Tali mondi significano cose diverse per persone diverse. Hanno significati instabili o contraddittori. Sembra che sfortunatamente la memoria culturale ignori tutto questo. In Italia si sono dimenticate la povertà, le aree domestiche sovraffollate, la durezza di vita entro le

famiglie vissute fino al secondo dopoguerra. La cultura pubblica tende oggi ad enfatizzare l’immagine della famiglia ristretta, benestante, costituita da un marito economicamente produttivo, da una moglie ornamentale, da uno o due figli, come se ciò fosse una condizione eterna dell’umanità piuttosto che una anomalia storica. Tutto questo può essere estremamente limitante ed avere effetti reali sulle scelte e le opportunità di uomini e di donne. Non va però dimenticato che le idee e le immagini correnti vengono anche srascherate da precisi

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individui che le denunciano e le mettono in causa. E così facendo

aprono la via ad ulteriori forme di rimodellamento del mondo, anche di quello femminile.

Note ! Non è tutta colpa loro: purtroppo il corso dell’apprendimento di una nuova lingua è piuttosto lungo, e spesso l’antropologo-a non ha il tempo o le risorse finanziarie per intraprendere lo studio prima di compiere la ricerca e di pubblicare i risultati. 2 Per le fasi e le transizioni della natalità e della mortalità, vedere McKeown 1979; Omran 1971; Schofield, Reher e Bideau 1991.

3 In questo contesto ho in mente il cambiamento della medicina occidentale tracciato da Foucault 1963 e analizzato in seguito da Kunitz 1991. 4 Per ciò che riguarda l’opera di controllo sociale sulla sessualità, sulla procreazione e sull’allevamento dei figli da parte dei riformatori politici e dei medici, si veda Cambi e Ulivieri 1988. Per la trasformazione del modo di capire il male, il malessere, e la malattia a seconda dei cambiamenti della famiglia e della società tradizionale, cfr. Scheper Hughes e Lock 1987. ? Ci sono innumerevoli ottime ricerche sull’influenza della storia sulla cultura di oggi. Alcune delle più conosciute sono quelle di Blok 1974, Schneider e Schneider 1976 e Silverman 1979. 6 Un tale metodo può comprendere sia la partecipazione che la osservazione, può includere questionari e interviste e implicare la raccolta e la critica di prodotti culturali (libri, giornali, trasmissioni in televisione o per radio, pubblicità), di metodi demografici, di analisi quantitive, ma può riguardare anche ricerche genetiche o biologiche (come, ad esempio, analisi del sangue o della saliva). ? All'epoca dell'Unità, lavoravano tutti sia per un salario che per la produzione e la gestione domestica. Solo nel dopoguerra ci fu il sufficiente benessere per permettere a molte donne di rinunciare al lavoro fuori casa. Negli ultimi decenni l’atti-

vità lavorativa della donna, quella ufficiale, sta ritornando ai livelli dell’epoca dell'Unità (cfr. le statistiche dell’ISTAT, anche Federici 1984).

8 Riguardo alla demografia, alla storia, e alla famiglia in Italia, cfr. Barbagli 1984; Kertzer 1984; Livi Bacci 1977.

? Per uno studio, dal punto di vista di un osservatore non italiano, del trattamento della «madre illegittima» nel Novecento, cfr. Kertzer 1993. 10 Inoltre è probabile che certi adattamenti culturali (seccatura, bagnatura, e sbucciatura delle fave) e tabù che vietano l’uso delle fave a persone ad alto rischio (al primo posto le donne gravide e i bambini) abbiano avuto un effetto notevole sulla tossicità della fava. ll L’allattamento ha pure un effetto protettivo attraverso le generazioni: la madre stessa che (nella propria infanzia) è stata allattata corre rischi minori in confronto a quella nutrita col biberon. 2 Il neonato gode di uno stimolo continuo grazie alla presenza di un’altra persona nel letto: il movimento del corpo, il ritmo tra il respiro e il silenzio, l’esala-

Studiare mondi «conosciuti».

Una lettura americana di temi ecc.

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zione dell’anidride carbonica che induce il piccolo a respirare, e altri aspetti del microambiente come l'umidità, la temperatura, gli odori. L’allattamento è protettivo perché il latte contiene sostanze immunologiche che proteggono il piccolo da molte malattie infettive (e anche da certe produzioni di microorganismi date come immunizzanti) considerate responsabili di alcuni morti. Questo è particolarmente importante dopo i due mesi, quando l'immunità ereditaria diventa scarsa ma il sistema immunologico del bambino non è ancora sviluppato. I bambini che vengono allattati col sistema antico si svegliano spesso per mangiare, un’abitudine condivisa da altri primati che previene l’ipoglicemia. Anche il pianto violento e prolungato che fa stancare (la madre e il bambino) è un evento molto meno probabile se non viene a mancare il contatto corporale fra i due. 3 Per una interessante ricerca, che ha suscitato varie polemiche sulla cultura occidentale e sulla femminilità, cfr. Martin 1987. 14 Non è senza rilievo che fino a due o tre decenni fa il metodo contraccettivo più comune fosse il coito interrotto, e che esso venga ancora praticato tra le coppie

più anziane (quarantenni e cinquantenni). Oggi la pillola è invece il metodo preferito dai giovani ed è difficile convincerli ad adoperare il preservativo nonostante il rischio dell'AIDS. b Anzi, si difendono dai maschi forestieri che cercano di espellere il maschio o i maschi del gruppo e certe volte di uccidere i piccoli per poi sostituirli con una nuova figliata. 16 Più genericamente può far luce su tante esigenze, aspettative e possibilità. In altri termini, qualsiasi argomento dovrebbe prendere in considerazione le differenze generazionali. Per ciò che interessa le generazioni, interviene il problema della conoscenza del dialetto. Esistono cioè buoni motivi per imparare il dialetto: alcune generazioni anziane usano appunto il dialetto. Y Un notissimo esempio è dato dalla politica dei datori di lavoro che cercano di evitare di assumere lavoratrici a causa delle lunghe assenze e dell'orario ridotto della madre-lavoratrice. 18 Invece persiste la tendenza, quasi esclusiva, ad ossessionarsi a proposito dei rapporti di disuguaglianza economica e politica tra i paesi ricchi e poveri, del modo in cui tali rapporti influiscono sul dialogo tra l'antropologo e il soggetto, sulle modalità in cui la conoscenza e la cultura di quest’ultimo evolvono. 19 Sulla base dei risultati ottenuti vorrei convincere i genitori ad abbandonare la doppia pesata e l’orario nell’allattamento, ma so che non è compito mio. Nel caso dell’allattamento, domina l’idea che i bambini devono mangiare molti grammi di latte in precisi e pochi pasti. E l’esatto contrario del detto dei bisnonni: «i bambini devono mangiare poco e spesso». Se una mamma quindi vede che il suo latte sta diminuendo, non si lascia facilmente convincere (altrettanto vale per il medico o l’ostetrica) a dare il latte fuori l’orario dei pasti, anche se tutti dicono astrattamente che la produzione dipende dallo stimolo della suzione. Non è sempre facile scalzare credenze basilari come quella suddetta. Comunque sarebbe molto difficile contestare il senso comune senza una vera rivoluzione del pensiero.

20 L'opposizione distacco-simpatia introduce un confronto, una tensione. Allo stesso tempo questi due poli si presentano come complementari. L'opposizione si manifesta nel contrasto tra la capacità di vedere le situazioni in un contesto

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comparativo e la necessità di rispettare le credenze del popolo anche se sembrano sbagliate o dannose. È un problema morale, a volte più acuto per gli antropologi che vanno in paesi esotici (e quasi sempre più poveri dei loro), dove le credenze o i comportamenti possono avere (0 sembrano produrre) vere ricadute, perfino mortali.

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Una lettura americana di temi ecc.

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DONNE GUARITRICI DEL REGGIANO. TECNICHE TRADIZIONALI E TRASMISSIONI GENERAZIONALI Antonella Bartolucci

La sofferenza, il male, la malattia incombono sull’uomo. Sono parte dell’esistenza, sono una delle condizioni possibili di esserenel-mondo e possono gravare seriamente sul nostro tempo vitale. È la irrisolta presenza del male, del negativo che suggerisce all’uomo sensazioni profondamente dolorose e misteriose, che lo sospingono nella sua affannosa ricerca di una spiegazione del dolore, verso proposte di vario ordine ed efficacia. Nell’uomo di oggi può sopravvivere un bisogno arcaico che continua a chiedere risposte che sono spesso troppo affrettatamente liquidate dalla scienza. Nell’unità fondamentale della psiche umana il momento non razionale mitico-magico e quello logico-razionale coesistono, costituendo due modi di mettersi in relazione con il mondo. Arricchiscono la realtà umana di prospettive, comportamenti, progetti differenti, senza che vi sia dualismo conflittuale!. Intento di questa indagine è individuare alcuni atteggiamenti o credenze relative alla malattia, vissuti e trasmessi come semplici consuetudini sociali, oppure sviluppati come automatismi inconsci o an-

cora messi in atto nascostamente perché ritenuti devianti. L’indagine si è limitata al lato terapeutico. Ho scelto cioè un tipo di manifestazione, quello dei «guaritori-segnatori», di quegli operatori di guarigione che, attraverso le loro «tecniche terapeutiche» hanno, come obiettivo primario, il corpo. Il problema che si affronta in questo quadro è il nesso fra il perdurare della medicina tradizionale e la sua messa in opera soprattutto da parte di donne. Oggi vediamo, che non è solo l’ignoranza o la mancanza di medicinali a spingere la persona verso le terapie tradizionali, ma vi è anzi un ricorso ad esse da parte di ceti agiati, di persone colte che hanno avvertito pericoli e disfunzioni della medicina ufficiale. Essi hanno demitizzato la scienza medica e hanno scoperto che nei modi e nelle tecniche della medicina popolare c’era forse qualcosa di più efficace, di alternativo. Agli occhi di molti, non importa che l’operatore di

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guarigione sia la vicina di casa o un’altra persona e, soprattutto, non importa quale tecnica userà. Ciò che importa è l'efficacia del trattamento, anche solo sperata o immaginata. Per la ricerca sul campo, la scelta del territorio di San Martino in Rio e Correggio ha avuto solamente valore esemplificativo. Parte cioè dal convincimento, che qualsiasi altra area-campione avrebbe probabilmente portato a conclusioni non dissimili, cioé alla scoperta di aspettative umane analoghe. In altri termini, ritengo che possono cambiare le «tecniche di guarigione» ma non il fine ultimo, che è quello di allontanare, esorcizzare il dolore e la malattia, attraverso tecniche che appartengono a conoscenze «locali», «particolari» e accessibili. A questo proposito, sono chiarificatrici alcune citazioni di M. Kilani: «Nell’antropologia, va notato subito che, il particolare non si esclude dal plurale. Anzi, sin dalla sua costituzione, si è data un progetto, quello di trascendere i particolarismi e di pensare l'umanità nel suo insieme. Una tale tensione fra universalismo e particolarismo ha sempre caratterizzato la disciplina. L'attuale gusto per l’altro, per il diverso e per la differenza assume, nella nostra società contemporanea, aspetti multiformi e talvolta contraddittori. [...]. L’antropologo deve evitare la trappola di una disciplina che si chiuda nella classificazione di costumi strani e lontani e nella passiva ricostruzione delle culture scomparse o in via di sparizione» (Kilani 1994, 15-16). In altri termini, seppure implicitamente, non si limita al caso isolato, ma mette sistematicamente in rapporto il locale e il globale, utilizzando il primo in funzione della penetrazione del secondo. «Se questa disciplina continua ad interessarsi alle società dette “primitive” o alle società “tradizionali”, è nella prospettiva di riflettere sul funzionamento generale del sociale e del culturale, e di individuare categorie analitiche universali capaci di spiegare al tempo stesso la diversità delle società umane e l’unità del genere umano» (Kilani 1994, 16).

Il campo: etnografia di un territorio radicalmente mutato Il lavoro di campo si è svolto nel territorio di San Martino in Rio, Correggio e aree rurali circostanti in, provincia di Reggio Emilia. La ricerca svolta tra il 1992 e il 1995, ha reso evidente che, la medicina

Donne guaritrici nel reggiano. Tecniche tradizionali, ecc.

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popolare, in alternativa alla medicina ufficiale, mutata o mutilata, è sopravvissuta. Ha continuato ad agire nella semiclandestinità, soprattutto nelle aree rurali, in ognuna' delle quali si trovano figure di «guaritori» che continuano ad agire e a fornire una sorta di «servizio sociale» rivolto anche al centro urbano. San Martino in Rio è situato in pianura fra i Comuni di Rubiera, Correggio (distante solo 5 Km.) Reggio Emilia e Campogalliano, confinando per un tratto con la Provincia di Modena. Occupa una superficie complessiva di Kmq. 22,60; oltre al capoluogo, il territorio è costituito dalle frazioni di: Gazzata, Stiolo, Trignano, Marzano e Villanova. Attualmente la po-

polazione residente è di 5.587 abitanti (dati relativi al 1994). Correggio è situato fra i Comuni di Reggio Emilia, Carpi, Bagnolo, Rio Saliceto e San Martino in Rio. Occupa una superficie di 77,90 Kmq.; le frazioni del capoluogo sono: Mandrio, San Martino Piccolo, Fazzano, S. Biagio, Canolo, Mandriolo, Fosdondo, S.Prospero, Budrio, Lemizzone e Prato. Gli abitanti sono circa ventimila

(dati del 1992). Inserita nello sviluppo industriale, questa zona appare oscillare culturalmente tra generali spinte massificatrici e antiche peculiarità proprie. É questa una zona in cui non solo ho potuto vedere e frequentare i «guaritori», ma di cui ho potuto conoscere leggende, riti, usi quotidiani e luoghi comuni, che fanno da sfondo alle loro vicende. Oggi San Martino in Rio e Correggio sono giunti al termine della propria trasformazione da comuni «agricoli» a comuni «industrialiagricoli». Nuove attività produttive hanno cambiato radicalmente la loro fisionomia socio-economica. E così, i contadini di questo territorio, dalle condizioni di arretratezza, di indigenza e di sfruttamento dei secoli scorsi, sono pervenuti a risultati produttivi, tecnologici, professionali e imprenditoriali non inferiori a quelli delle popolazioni agricole europee più avanzate. Il mondo contadino, relegato quasi ai margini della civiltà, si trova di fronte all’era industriale con tutte le sue contraddizioni. Il capo-famiglia, un tempo gestore di tutta l’amministrazione finanziaria e dell’organizzazione del lavoro, ha esaurito la sua funzione. I figli si allontanano, studiano, vogliono tentare altre strade, altre attività. Quello che fu un mondo di sacrifici e privazioni diventa ancora più insopportabile. L’aspirazione odierna di molti è quella di allontanarsi e cercare un inserimento in altri ambienti. Il contadino che ancora

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resta sulla terra non sa come reagire, gli mancano idee chiare circa questo capovolgimento. Non sa se approvare o condannare, non conosce la sua posizione o la rapporta male a quella degli altri. A volte si aggrappa disperatamente alla sua terra, difendendola con egoismo. Pervenuto a livelli produttivi importanti, teme quello che potrebbe derivare dalla sua perdita. Oppure la trascura, abbagliato da una occupazione più stabile e regolare, ma non priva di rischi. C'è un grande disorientamento che affiora anche nel nuovo ruolo della donna. Non si riescono a cancellare i rapporti di vita fino ad ora esistiti, ma si sente la necessità di modificarli. I rapporti umani di un tempo sono al centro della memoria. Tutta una tradizione di vita, tuttavia, viene messa in discussione. Il caso di Agostina C. è emblematico: [...] a dodici anni ero già a servire da una famiglia di contadini! E molto che lavoro io, sono più di quarant'anni io che pago i contributi. A dodici anni tiravo la gomma per annaffiare nei campi, in mezzo al frumento... svenivo, sa cosa vuol dire? Invece di andare a tavola, andavo sotto il portico, nel biroccio dell’erba a sdraiarmi. [...] andavo alla carità coi miei fratelli, io ero la più maggiore, che avevo otto o nove anni e ne avevo quattro con me. Perciò dico sempre che oggi hanno un mondo che

hanno tutto quello che vogliono, invece c'è uno spreco per il mondo! I miei figli dicono che sono una «nessia» [scema], lavoro sempre, sempre. Dicono: «scarpe grandi, cervello fino, quello è il contadino», perché un contadino, gli dai un ferro e due tenaglie, fa più di un operaio, più di un tornitore in fabbrica! Voglio dire che, magari quelli che han studiato si trovano impicciati e non sanno dove mettere le mani, è così veh! Studiano tanto, però ci vuole anche la pratica. Ci vuole eh, lo studio ci vuole [...]. Non cambiano solo i tempi, ma anche i caratteri delle persone...una volta certo i limiti erano troppi perché, diciamo la verità, le mogli avevano soggezione dei mariti, luomo magari la rispettava meno la donna di adesso, ma adesso la donna ha preso anche un pò troppo possesso... comanda lei eh! D'accordo è più brava in casa però non... lei ha molte più capacità di guidare una famiglia, ma... non c’è più nessun valore, perché una donna, come può raddrizzare una famiglia, può anche distruggerla completamente! Adesso guar-

dano le telenovelas e non sanno che hanno una famiglia. Oggi abbiamo, hanno perché io non ce l’ho micca, hanno tanto stu-

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dio però hanno anche poca educazione; voi direte che sono una donna all’antica da come ragiono, perché io vivo nel mio ambiente, sempre qui a casa... noi abbiamo una casa molto vecchia, brutta ma io vivo tanto bene a casa mia, io... non mi fa

gola nessuno [...]. Anche ai bambini bisogna fargli conoscere che cos'è la natura, che cos'è la campagna. Oggi poverini saranno più intelligenti, non discuto, perché hanno studiato, però quando vengono in campagna, «puvrèin, in òrob» [poverini so-

no ciechi] non conoscono neanche una formica?.

Dalle interviste il dato emergente più importante, come già detto, è la prevalenza femminile}: in un totale di 15 intervistati 13 sono donne, quasi tutte «specialiste» in più di una pratica di guarigione. Per le donne, grande è l’importanza data all'attività di «segnatore». Questa attività si insinua e non altera l'andamento della vita quotidiana. Le testimonianze, infatti, sottolineano che, qualora si necessiti

un intervento di guarigione, in qualsiasi momento della giornata, i lavori di casa o dei campi vengono interrotti. La pratica assume quindi, predominanza su qualsiasi altra occupazione quotidiana, mettendo in primo piano il servizio offerto al paziente, ma si tratta di una predominanza che è vista come una integrazione o ampliamento del lavoro femminile, non un immiserimento o degradazione. L'alternativa alla medicina ufficiale: la «segnatura» come atto terapeutico Così come viene vissuta oggi dall’individuo e gestita dalla società, la malattia racchiude i motivi o i presupposti emotivi e sociali che giustificano il ricorso crescente a risposte terapeutiche «alternative»

rispetto alla medicina ufficiale. E infatti noto che proprio nelle aree industriali e terziarie più avanzate, nuovi cambiamenti e nuove differenziazioni stanno sconvolgendo l’intera scena dei rapporti fra popolazione e assetto sanitario. Stanno rimettendo in discussione l’apparato «biomedico» che appariva fino a qualche anno fa inarrestabilmente vittorioso. Assistiamo così al recupero di elementi magicoprotettivi della tradizione, con il conseguente costituirsi dei più diversi sincretismi. Sorgono varie figure di «operatori di guarigione» e dilaga, in forme solo in parte nuove, la vecchia e mai estinta pratica del ricorso parallelo al «guaritore». Attualmente coesistono due forme di indagine e cura del fatto morboso, che concorrono in una

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stessa struttura sociale, nel senso che, comunemente, accanto ai portatori dell’atteggiamento scientifico nei riguardi della malattia (medici, biologi, chirurghi, psichiatri ecc.) continuano a sussistere i portatori dell’atteggiamento non-scientifico (guaritori, maghi, divinatori, ecc.). Ciò svela una duplice esigenza, scientifica ed empirica, dei gruppi sociali. D. Ci sono molte persone che vengono da lei dopo che sono andate al pronto soccorso? R. Molte vengono anche prima, molte vanno là... (al pronto soccorso) poi dopo vengono... ‘.

[...] Alcuni vengono prima da me, allora sottointendo che abbiano più fiducia nella medicina ufficiale e, nel qual caso prescrivo naturalmente medicine o pomate; ma altri vengono da

me dopo essere stati dal «guaritore» a farsi «segnare»... è probabile che altri, dopo essere venuti da me, si rechino poi dopo anche dal guaritore”.

La rivalutazione della figura del «guaritore» nel contesto di una «medicina popolare»® e il revival della farmacopea erboristica, sono senz'altro fenomeni di contraddittoria valenza. Si configurano come laica e concreta apertura al nuovo e al diverso, e in casi specifici, anche come fuga nell’area della irrazionalità. Sono sintomi di malessere. Nell’attuale situazione esiste un crescente, diffuso rifiuto verso

un modello di pratica medica ufficiale, sempre più parcellizzato, spersonalizzante, burocratico. I più recenti esiti della ricerca scienti-

fica, hanno finito anch'essi per illuminare il progressivo impoverimento della comunicazione psico-affettiva tra medico e paziente e, insieme, i criteri stessi di efficacia elaborati da un sapere, ancora

forte sul terreno istituzionale, ma già superato sul terreno appunto della ricerca?. Nello specifico della mia indagine, più che per il loro rapporto con la controversa dicotomia popolare-non popolare, le terapie riscontrate, vanno esaminate nell'orizzonte di una eziologia e terapia delle malattie strutturatasi nel mondo arcaico e prescientifico che ha lasciato notevoli rimedi, anche di tipo ideologico, nell'età moderna e

contemporanea. In questo complesso di idee e di credenze, i meccanismi di origine dei mali e la loro guarigione, vengono trasferiti o attribuiti a un mondo di potenza, variante secondo il variare delle

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culture. Ad un accertamento delle cause naturali del male viene a sovrapporsi o a sostituirsi una ricerca delle cause extra-naturali o addirittura «soprannaturali». A tutto ciò, in ogni caso, in modo un pò sorprendente, corrisponde una terapeutica di tipo empirico. Le «tecniche di guarigione tradizionale», hanno per lo più le proprie origini nella credenza del potere arcano dei sirzboli, dei gesti, delle ir2zzagini, delle parole. All’interno delle «pratiche di guarigione» da me evidenziate, si individua immediatamente un nucleo fondamentale di cure, raggruppabili sotto il termine di segnatura: «Il dato più emblematico è costituito dal fatto che la pratica terapeutica di base, la segnatura, consiste nel toccare il corpo del paziente, tracciando una o più croci, tanto che per indicare l’attività di un guaritore si dice che segna» (Papa 1989, 82).

Le pratiche terapeutiche raggruppabili sotto il nome di «segnatura», costituiscono un nucleo fondamentale attorno al quale si accomunano la maggior parte delle cure delle patologie o degli infortuni di cui si occupano i «guaritori» delle aree prese in esame. Le patologie per le quali il guaritore interviene a tutt'oggi sono: il «fuoco di Sant'Antonio», le «storte», la «verminosi» e «il colpo della strega». R. Bertani dice: «Il guaritore o più probabilmente, la guaritrice locale viene chiamata “medgòna”, “strìa” [...]. Colei che segna, interviene con un segno, formato da una parte orz/e, lo scongiuro, le preghiere o più semplicemente le parole (segrete, tramandate solo con l’approssimarsi della morte) e da una parte manuale, rappresentata da segni di croce e.apposizioni delle mani» (Bertani 1981, 62). Elencherò ora in sintesi gli stati morbosi presi in esame. I/ «fuoco di S. Antonio». Detto anche «fuoco sacro», questa patologia è la manifestazione, talora molto dolorosa, di un fatto infiammatorio che

colpisce uno dei nervi intercostali, con presenza sulla cute, lungo il decorso del nervo colpito, di caratteristiche vescicole, simili morfolo-

gicamente a quelle della varicella. A questa malattia, il cui nome scientifico è «herpes zoster»! è stato dato il nome di «fuoco di S. Antonio». Il santo, cui fa riferimento, è S. Antonio Abate, monaco

egiziano del IV secolo, considerato protettore degli animali domestici (simboleggiati dal maiale che di solito viene raffigurato al suo fianco). Al suo nome venne intitolato un Ordine di monaci, gli Antoniani, che si dedicavano al soccorso degli storpi e dei pellegrini, ma che soprattutto assistevano i malati di «fuoco sacro». Sulle porte

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degli ospedali degli Antoniani erano dipinte le fiamme, simbolo del fuoco che tormentava i malati. Per analoga ragione troviamo nell'iconografia di S. Antonio Abate anche la presenza di una fiaccola o di una fiamma ardente del palmo della mano. Questo simboleggia il fuoco dell’inferno sconfitto dal santo e riferito anche all’ardore devastante della peste, contro la quale fu invocata in più occasioni la sua protezione taumaturgica!. L’infiammazione è facilmente provocata o dall’indebolimento del sistema immunitario (per questo motivo colpisce con più facilità gli anziani) ma anche da eventi stressanti. Si manifesta con una chiazza

rossa che si rigonfia e nei successivi due o tre giorni si formano delle vescicole che infine si trasformano in croste. Le vescicole non sono distribuite su tutto l'organismo, ma si presentano raggruppate a «grappolo» intorno a una linea immaginaria (il decorso del nervo). Le sedi più colpite sono: il torace, il collo, il volto e la regione lombo-sacrale. Il dolore inizia due o tre giorni prima dell’apparire delle prime chiazze rosse, ma può durare anche dopo la caduta delle croste. È intenso e molto fastidioso, corrisponde ad una sensazione di bruciore fortissimo!. Le terapie mediche sono molto lunghe e spesso, nei casi più gravi, necessitano di ospedalizzazione. Tra gli intervistati 6 «guaritori» su 15 «segnano il fuoco di S. Antonio», tutte donne, tre delle quali «segnano» anche altre patologie. Le interviste fatte alle «guaritrici» del «fuoco di S. Antonio» sono risultate le più difficoltose. Reticenze o incapacità di esprimersi, ha reso le informatrici meno esplicative. Esse sono soprattutto trattenute dal timore recondito di «dire quello che non si può dire», e di rischiare di perdere il «potere» necessario per una buona riuscita della loro pratica terapeutica. Tav. 1 Nome

età

professione

elementi mediatori

Lella A.

60

casalinga

matita e formula orale

Elvira

92

casalinga

(non dichiarati)

Rina G. Adele R. Carmen F. Agostina C.

83 81 48 57

contadina ex mondina, contadina cartomante contadina

pollice e preghiera fuoco del camino, scopino e preghiera mano e preghiere piattino, medaglietta formula, cotone e olio

La cura del «fuoco sacro» è quella che più di altre dà l’idea di qualcosa di z4gico in tutta lassua essenza. Le varie «formule», comu-

Donne guaritrici nel reggiano. Tecniche tradizionali, ecc.

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nicate quasi solo oralmente e spesso con rituali ben definiti, devono apparire ai non-iniziati egualmente oscure‘e misteriose. E anche l’uni-

ca pratica per la quale solitamente l’operatore richiede di rimanere da solo con il paziente, quindi non è possibile assistere alla «segnatura», particolarmente segreta. Si opera quindi la «segnatura del male» circondando la parte del corpo, colpita dalle vescicole, di croci (il numero è solitamente dispari, spesso c’è l’uso del 3 o di un suo multiplo). Contemporaneamente, il guaritore spiega al paziente, in maniera par-

ticolareggiata, come le vesciche abbiano un loro sviluppo, più o meno lungo a seconda del tipo di persona (quello anziano è più a rischio). La guarigione coincide comunque con la scomparsa del dolore, generalmente una delle prime aspettative del paziente. La malattia si ritiene sconfitta al momento della conclusione della «segnatura» per tre giorni consecutivi quando, come si dice, «non si allarga più». Le «storte». Le distorsioni e le slogature, o più comunemente le «storte», un tempo colpivano spesso chi conduceva una vita dura e faticosa come i contadini ed i braccianti. Il metodo di guarirle mediante una misteriosa pratica di «segnatura» eseguita da qualche vecchia della famiglia o del vicinato, risulta una delle pratiche curative ancora oggi più diffuse e ricorrenti: ben 10 «guaritori» su 15 «segnano le storte». Tav. 2 Nome

età

professione

elementi mediatori

Anna S.

52

magliaia

tegamino, acqua, croci, manipolazione

Odilla B.

60

contadina

formula, manipolazione

Rina G.

83

contadina

formula, croci, preghiere

Iris F.

55

contadina

tegamino, acqua, croci, formula, rito finale:

Vittoria M.

65

ex-casara, casalinga

gettare l’acqua tegamino, acqua, croci, formula, rito finale: gettare l’acqua

Sesto V.

84

contadino

formula, mani, acqua corrente

Adele R.

81

contadina

Odilla V.

76)

contadina

formula, tegamino, acqua, croci, rito finale: gettare l’acqua acqua, catino, sale, croci, manipolazione, rito finale: gettare l’acqua

Luca L.

15

studente

tegamino, acqua, croci, preghiere, rito fina-

Agostina C.

57

contadina

le: gettare l’acqua formula, manipolazione

La distorsione comporta lo spostamento di un elemento di un’articolazione, dovuto a un brusco movimento, ad esempio nell’attività atletica, o a una caduta su terreno accidentato, o a un trauma”. Per

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A. Bartolucci

praticare questo tipo di cura bisogna venire in possesso delle «formule magiche». È questa una peculiarità anche di altre pratiche. Di solito si entra in tale possesso solo. quando una anziana, sentendo ormai prossima l’ora della morte, pensa di svelare il suo segreto — come si vedrà — ad una figlia od a una nuora che ha particolarmente in simpatia. Anche in questo caso la figura femminile è predominante. Come per tutte le altre pratiche, tramandate esclusivamente in forma orale, troviamo, anche in questa, differenze di «formule» e di

«elementi mediatori». In genere le «storte» vengono «segnate» in una sola seduta, ma si possono distinguere due tipi di procedura. Una prima modalità prevede l’uso del fegazzizzo. Oggi viene usato prevalentemente un recipiente qualsiasi, di latta o alluminio, ma si tende comunque a conservarlo e destinarlo solo ed esclusivamente per questo uso. Questo strumento serve come «prova», per accertare che si tratti di una «storta», per misurare la sua gravità, oppure per controllare che la segrazura abbia un buon risultato. Alcuni «guaritori» conservano e usano sempre lo stesso pentolino di terra cotta ereditato con gli altri elementi del «lascito». Alla base della prova del tegamino, con lievi differenziazioni da guaritore a guaritore, c'è l’uso di piccoli bastoncini (stuzzicadenti o fiammiferi). Un tempo, al posto degli stuzzicadenti, si usavano gli steli integri di paglia di frumento o di altre graminacee. Due pezzi di paglia lunghi circa 5 centimetri, venivano incrociati proprio sul nodo che hanno a metà e venivano legati con della «tìa» [fibra di canapa]. Oggi si procede quindi, alla formazione di 3 piccole croci badando, nel farle, di legare con del filo di cotone i due legnetti per l'appunto incrociandoli. Si mettono le croci nel «tegamino» che va riempito d’acqua e posto sul fornello per la bollitura; un tempo si metteva il recipiente di terra cotta sul fuoco del camino o sulla stufa a legna. Appena l’acqua inizia a bollire, si fa per 3 volte il segno della croce e si bisbigliano, in alcuni casi, le «parole», la «formula» o più semplicemente delle preghiere, che solitamente sono in dialetto e non di rado si riferiscono ad un santo taumaturgo, specifico per ogni patologia: [...] Sopra le gambe c’è il Santo. S. Mauro è per le ossa, S. Faustino è sopra il mal di testa, S. Rocco è sopra il mal di gola e S. Lucia è sopra la vista. Allora ce li spiegavano questi «lavori», adesso non li spiegano più!°.

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Finita questa prima fase, si toglie il «tegamino» dal fuoco e si versa il suo contenuto così come sta, a «bocca in giù, dentro una bacinella, o catino; qui accade un'fatto particolare, dovuto ad un logico effetto termico. L’acqua che appare sparsa nella bacinella comincia a risalire pian piano nel «tegamino» capovolto, portandosi dietro anche le croci!”. Se questo avviene si è certi che si tratti proprio di una «storta» e si prosegue nella fase della «segnatura» dell’arto dolorante. Chi usa solo una croce conserva le altre due nel caso si debba ripetere la pratica nei due giorni seguenti. Bisogna aggiungere che questa prima modalità, non serve solo come prova dell’esistenza della patologia. Chi usa il «tegamino» poi si serve dell’acqua e delle croci anche successivamente. Infatti, quando l’acqua si è raffreddata, l'operatore la usa per cospargere il punto dolente, sia agli arti inferiori che superiori. Nel secondo tipo di procedura non troviamo l’uso del «tegamino» e quindi neppure l’acqua riscaldata. La «segnatura» mantiene comunque l’uso delle «parole» e dei «segni di croce». Viene soprattutto impiegata acqua corrente tiepida, ponendo direttamente l’arto sotto il rubinetto del lavandino o del bidè. In altri casi non viene utilizzata acqua, ma si opera una forte manipolazione dell’arto dolorante o addirittura

del «nervo»

(più probabilmente

del tendine).

Quest'ultimo, secondo gli stessi «guaritori», è il vero colpevole del

dolore. Come si può notare dalla tabella, circa la metà degli intervistati,

nell’ambito della «segnatura delle storte», usa una sorta di chiusura della pratica, per così dire un ro finale, considerato di estrema im-

portanza per la buona riuscita al fine della guarigione. Una volta compiuta la «segnatura», cioè la «guaritrice» prende il catino con l’acqua, si reca all’esterno della casa e butta via l’acqua gettandosela dietro le spalle. Il gesto è però sempre orientato in modo preciso: si

getta l’acqua verso il sole. Facendo cioè attenzione a non buttarla contro la casa, recitando altre «formule» o preghiere: Adesso,

se vuol venire dietro di me, che devo andare fuori

poi... Allora vado fuori diritto, poi dopo ha visto, mi giro (verso la casa) e poi dopo... D. Butta l’acqua del catino dietro le spalle: [...] Alcune signore ci hanno detto che girano le spalle al sole? R. No, io faccio, insomma, come mi ha insegnato mia suocera,

io ho sempre fatto così.

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A. Bartolucci

D. Molti dicono solo: «dobbiamo buttare l’acqua dietro le spalle?» R. Dietro è, certo che quando vai fuori, per forza vai fuori avanti no? Però dopo ti volti! | D. Si, per non buttarla contro la casa? R. Eh si (ride).

D. Anche le tre croci ha buttato? R. Sì, sì, sì eh, poi non vado neanche a prenderle sù, le lascio là. D. Perché secondo lei, assieme all’acqua che cosa si butta via? R. Eh, si butta via il male, dicono eh! [...] Insomma, se ne deve andare il male, praticamente è così!8.

Con l’acqua si lava via il male, in questo caso la «storta», e la si getta via, in senso allegorico assieme all’acqua, fuori casa, dietro le spalle, in un luogo lontano, altro, nell’ignoto da cui il male proviene o anche nel passato. Le ipotesi sul senso del gesto possono essere molte. Ci si può chiedere se si ritenga che l’acqua «assorba il male», o se esistono concetti di contaminazione. Nessuna spiegazione mec-

canicistica è qui ammissibile o verificabile. Probabilmente però l’acqua è mezzo, veicolo, ed in quanto tale anche via di liberazione. Esistono riprove in altri ambiti. Nel «rito di chiusura» della pratica impiegata dai pranoterapeuti! alcuni, dopo la «seduta», devono scaricare il male assorbito con le loro mani dal paziente, attraverso il lavaggio di queste ultime sotto l’acqua corrente. AI di là di ogni altra considerazione è interessante notare che questa pratica da spesso delle guarigioni in pochissimi giorni, anche là dove a volte falliscono i più sofisticati metodi della medicina moderna. La «verminosi». Nei trattati scientifici la «verminosi» è definita l’elmintiasi. L’infestazione cioè da «vermi» è prevalentemente dovuta a due nematodi, l’«ossiuro»?° e l’«ascaride»?. Le elmintiasi sono

maggiormente diffuse nelle zone a basso tenore di vita, dove le condizioni igieniche sono carenti??. Gli ossiuri possono provocare anche disturbi neurologici quali insonnia, irritabilità, vertigini e convulsioni; disturbi gastoenterici come vomito, nausea, dolori addominali. Più

consistente è la sintomatologia per l’ascaridiosi, le cui manifestazioni sono molteplici: vomito, dispepsia, anoressia, coliche addominali, enteriti, occlusioni intestinali??

Nella medicina popolare numerosi stati morbosi infantili vengono attribuiti ai «vermi» intestinali, ritenuti causa di una sintomatolo-

gia molto estesa. Gli eventi ehe si ritiene scatenino i «vermi»?4 sono

Donne guaritrici nel reggiano. Tecniche tradizionali, ecc.

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l’abuso di dolciumi, il consumo di carne cruda. Si ritiene anche che i

«vermi» risiedano normalmente nel corpo di bambini e di adulti, «in uno stato di equilibrio, compatti entro una sacca o a guisa di ciambella o di gomitolo» (Guggino 1983, 73). I «vermi», dunque, sono in tutti e stanno sopiti dentro lo stomaco, assolvendo anche a funzioni metaboliche. Finchè si trovano in

questo stato non sono pericolosi, anzi appartengono alla natura. Un evento casuale li fa rompere la sacca o sciogliere il gomitolo, cosicchè i «vermi» possono salire alla gola, degenerare in altre malattie e addirittura condurre alla morte per soffocamento. Di norma la prima diagnosi o supposizione del male viene avanzata dai parenti, dalla madre, dalle vicine di casa. Anche i «guaritori dei

vermi» risultano quasi sempre donne. Sono le depositarie di un sapere cresciuto — e coltivato entro gli stessi spazi della maternità — negli anni. E necessitato generalmente dalle situazioni di isolamento, introversione del mondo contadino femminile. L'uomo sta sempre fuori casa, la donna anche se lavora nei campi o altrove, è sempre colei che deve preoccuparsi di ogni problema che riguarda la casa e i figli in tenera età, e dunque la loro salute, a partire dal momento del parto. Spesso la diagnosi veniva fatta dalle mamme a causa del «puzzo di vermi» presentato dal loro piccolo. Si trattava di un odore che veniva percepito realmente, ma che aveva un’altra origine: era infatti odore di acetone, spesso presente nei disturbi digestivi causati dai «vermi», ma anche in altre dispepsie di natura diversa. Oggi le mamme conoscono bene l’acetonemia, tanto che talvolta errano per eccesso. Nel materiale raccolto, su 15 intervistati, 3 «segnano i vermi» e sono tutte donne. La cura dei «vermi» è ormai quasi in disuso ed è, laddove sopravvive, praticata insieme ad altre tecniche curative. Il fatto che, il racconto di questa pratica si riduca a pochi ed essenziali elementi, potrebbe indicare l’esistenza di una censura volontaria delle parti «segrete», come avviene in quasi tutte le altre terapie di guarigione.

TAV. 3 Nome

età

professione

elementi mediatori

Odilla B. Adele R. Agostina C.

60 81 57

contadina contadina contadina

segni di croce col pollice sull’ombelico, formula segni, parole (scongiuro) parole, segni di croce con le mani sull’ombelico

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A. Bartolucci

In questa pratica distinguiamo due momenti, quello verbale e quello gestuale, fra loro fortemente legati. Il momento verbale è costituito da una preghiera, ma soprattutto dallo scorgiuro in cui, a volte, si fa riferimento al santo taumaturgo (diverso a seconda della

tradizione): «[...] il mito non è solo la parte recitata del rito, ma è il rito recitato. La parola è la cosa e produce una cosa, un evento. Il momento “fattuale” è nelle parole» (Guggino 1983, 75). Nel momento gestuale, gli atti che accompagnano la formula si adeguano a una prassi generale, ma corrispondono anche a quanto in una precisa orazione si esprime o si sottende.

Così, prima di

recitare le parole, la «guaritrice» segna con la croce sé stessa e il paziente, poi procederà sul corpo di quest’ultimo, tracciando un segno, composto di segni più piccoli, corze dei passi eseguiti aprendo e chiudendo le dita tra l’indice e il pollice, il cui gesto complessivo sarà anche qui un «segno di croce». Il tutto viene ripetuto per 3 volte. Possono essere tracciati dei segni sul ventre, più precisamente nella zona ombelicale, dell’ammalato. [...] Tanti esami, ci hanno fatto l'ecografia, beh insomma, mo-

rale della favola, sono andata tre giorni a fila, il secondo giorno gli han fatto l’ecografia perché dovevano prepararlo per l’intervento, dovevano operarlo perché aveva un «grumo»? così nell'ombelico, perché i «vermi», l’acetone, si segrazo nell’ombelico. Aveva un nodo così, in modo che ha cominciato a sparire

un pò, a stendersi, allora ci hanno fatto gli esami per prepararlo e ci hanno detto: «mo, signora, ma sa che domani non facciamo l’intervento, aspettiamo, ma qua c’è un r77r4acolo, ma chissà

sembra che questo “grumo” stia sparendo»?5.

Una caratteristica di questa pratica terapeutica, è quella di essere raccontata in modo «spettacolare». Attraverso il racconto (relativo ai sintomi e alla terapia) si mette in evidenza una elevata drammaticità, quasi a voler «esorcizzare» l’immagine di una malattia terrificante per il collegamento simbolico vermi-morte. Infatti nel racconto di Agostina C., a proposito del suo intervento su un bambino ricoverato in ospedale per una occlusione intestinale, lo svolgimento terapeutico assume i toni del yz:r4colo. Si passa dall’impotenza della medicina ufficiale, alla terapia tradizionale, ora resa «magica», carica

di conoscenza attraverso piccoli antîdoti noti e familiari, che rendono la malattia un evento leggibile, dunque dominabile.

Donne guaritrici nel reggiano. Tecniche tradizionali, ecc.

53

Il «colpo della stresa». Va appurato che, a livello popolare, la manualità costituisce uno degli elementi fondamentali di alcune terapie tradizionali. Tale affermazione prende vigore soprattutto per ciò che riguarda la pratica, denominata in forma dialettale «al snèster». Una eccessiva forzatura della colonna vertebrale, in occasione

di sollevamento di pesi o di bruschi movimenti, può dar luogo al cosiddetto «colpo della strega», che consiste in un lieve slittamento o spostamento dalla sede abituale di uno dei dischi di cartilagine che si trovano fra una vertebra e l’altra. Il sintomo più comune è il dolore acuto e diffuso nella zona lombare, resistente agli analgesici. Può manifestarsi una certa rigidità muscolare, specialmente il mattinos; ; Sono 3 i «guaritori» da me intervistati che praticano la segnatura del «colpo della strega», specialisti anche nella la cura delle «storte». TAV. 4 Nome

età

professione

elementi mediatori

Egle S. Iris F. Sesto V.

82 55 84

contadina contadina contadino

coppettazione e massaggio coppettazione, massaggio, croci, formula segni con i giunchi della ginestra, formula

Proprio in queste due pratiche si evidenzia l’importanza della manualità. Infatti, associato ai diversi elementi mediatori, ritroviamo

sempre l’uso del yz4ssaggio come metodologia dominante di tutto il procedimento. Attraverso la palpazione è possibile individuare la zona colpita dalla patologia sulla quale mettere in atto la procedura terapeutica. Contribuisce, in questo caso, la grande esperienza empi-

rica del guaritore?8. Una affermazione, a questo proposito, la ritroviamo anche nell’intervento del dottor A. Bacca: [...] I «guaritori» hanno capacità e proprietà in base all’esperienza acquisita nel tempo, in base all’esperienza casuale e storica, tramandata nei secoli, da madre in figlio, da madre in figlia. Logicamente non hanno basi scientifiche. D. Hanno una conoscenza di tipo empirico, e riconoscono la parte dopo averla sentita varie volte... R. l’avranno sentita in un determinato modo, quindi riescono...

sanno come trattarla per esperienza e logicamente sanno fare bene solo una determinata cosa; non è che riescono a trattare

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A. Bartolucci

la stessa sintomatologia, non lo stesso problema anatomico. Per esempio, la stessa sintomatologia in modi diversi: conoscono quella metodologia e la attuano??. x

Per meglio comprendere il procedimento manuale, basato nella maggior parte dei casi sull’uso dei bicchieri, bisogna risalire ad uno dei capisaldi della tradizione della medicina popolare, secondo il quale molte malattie hanno origine nel sangue. L’uso delle coppette, noto anche come coppettazione, è una delle più antiche terapie mediche esistenti, citata negli scritti di Ippocrate e praticata dai Greci fin dal IV secolo a.C. Per secoli e secoli, questa terapia è stata utilizzata per curare praticamente qualunque malattia°. Lo scopo primario della coppettazione era la rimozione del sangue «cattivo» (cioé, il plasma con presenza di tossine) dal corpo, attraverso la riattivazione della circolazione sanguigna, che questo tipo di tecnica provoca. Spesso la cura era accompagnata da interventi o ambientazioni di tipo rituale. Veniva praticata nelle notti di luna piena, non si poteva praticare se c’era nebbia o se il vento soffiava dal sud, e si usava gettare dell’acqua fredda sul viso del paziente perché gli «spiriti» fuggissero e andassero a rifugiarsi altrove. I salassi, praticati con le sanguisughe, avevano obbiettivi simili alla coppettazione. La coppettazione non è una semplice pratica arcaica. E ancora ritenu-

ta di rilevante utilità. I principi fondamentali restano gli stessi, ma la tecnica si è evoluta in una cura più specialistica, conosciuta come su-

zione a ventosa, ritenuta una cura efficacie per molte patologie, ma usata, soprattutto, per strappi e stiramenti. E utile anche per migliorare il tono muscolare, riattivare una circolazione pigra e per ridurre la concentrazione delle tossine nei muscoli e nei tessuti molli?!. Questo metodo viene utilizzato anche nella medicina orientale per curare artriti, dolori addominali, ascessi e altre malattie provocate da colpi di freddo. Per eseguirlo occorre: un bicchiere, un fazzolettino di garza, una monetina, un pezzo di filo. Si mette la monetina sulla garza, si forma un sacchetto che viene legato con il filo e si accende tutto l'involucro. Si pone poi quest’ultimo, acceso, sulla parte del corpo da curare e si copre in fretta con il bicchiere che si fa scorrere velocemente avanti e indietro?’ due o tre volte. Dopo qualche minuto si stacca il bicchiere premendo il dito sulla pelle. Comportandosi, per mancanza di ossigeno, come una ventosa, il bicchiere attira il sangue nel punto in cui è stato collocato, riattivando la circolazione”.

Donne guaritrici nel reggiano. Tecniche tradizionali, ecc.

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Sebbene lo scopo fondamentale delle coppette (o dei bicchieri) sia quello di creare un vuoto d’aria al di sopra di una zona cutanea, il loro impiego è cambiato nel corso del tempo. I Greci creavano il vuoto d’aria usando una coppetta munita di stantuffo. I Romani, invece, ponevano uno stoppino o una candela accesa direttamente sulla pelle del paziente e poi lo ricoprivano con la coppetta. Il principio rimane identico: quando l'ossigeno, all’interno della coppetta, è consumato del tutto, la fiammella si spegne; man mano che l’aria calda contenuta nella coppetta si raffredda, la carne viene risucchiata verso l’interno. Il sangue «cattivo», per mezzo della coppettazione, arriva alla superficie cutanea (da qui la presenza di segni rossi sulla cute, considerati un indice dell’efficacia della cura). La respirazione cutanea si accellera e aumenta lo scambio di anidride carbonica e ossigeno in quell’area. Il sangue ricco di ossigeno scorre verso l’area stagnante, all’interno del corpo, e permette così il ritorno all’equilibrio?4. [...] per «al snèster» nella schiena, vuol vedere la roba che adopero? Sono le «parole» che non posso dire! Questo bicchiere è vecchio, avrà almeno quarant'anni, non bisogna mai lavarlo, lo adopero per «al snèster» (strappo muscolare) quando uno si china e dopo magari non riesce più ad alzarsi, e sente quel dolore... nella schiena: io dò fuoco a questo pezzo di stoffa, dentro al bicchiere e si mettono le cento lire sotto il bicchiere, poi quando lo rovescio sulla parte che fa male, il «fumo» che si forma nel bicchiere, tira sù tutta la pelle e il bicchiere si riempie di carne. [...] E venuto un signore qua di Prato, portato da suo genero, che proprio non andava... con il blocco alla schiena: gli ho segnato questo «snèster»; alla mattina è riuscito ad alzarsi da solo. Era tanto contento, tanto contento”.

L’uso della coppettazione è messa in atto quando i massaggi non sono sufficienti a lenire il dolore. Viene comunque usata la stessa tecnica per risolvere definitivamente lo stato infiammatorio. II «lascito»: la fase della trasmissione come vera e propria eredità di un patrimonio

Con il termine «lascito» si intende la trasmissione del complesso di tecniche terapeutiche, ossia le forzule, i segni, le preghiere, volto

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A. Bartolucci

alla guarigione di una o più patologie, che un «guaritore» cede alla persona prescelta la quale, da quel momento, diviene, essa stessa, «guaritore». La trasmissione del «lascito» avviene quasi sempre oralmente (solo in rari casi si lascia uno «scritto»). Nelle parole, che vengono pronunciate mentalmente o sottovoce, in modo che non siano percepibili dal paziente o da chi assiste alla pratica, risiede la parte più specifica e ritualizzata dell’arte terapeutica del «guaritore». Come per tutte le cose tramandate in forma orale, anche in questo caso, assieme alla «trasmissione», si ha anche una «traslazione» delle

parole, la cui consistenza dipende dalla fantasia, più o meno nutrita del ricevente. Questo mette in evidenza il fatto che oggi ci si trovi spesso dinnanzi a varie formule di segatura, fortemente differenziate tra loro?”. La variabilità non indebolisce comunque né la loro funzione ritual-preformativa, né la loro efficacia. A questo proposito è interessante ciò che M.Cortelazzo evidenzia a proposito del contatto tra lingua comune e lingue speciali (come ad esempio la lingua scientifica). Egli definisce tale contatto bidirezionale. «Nel trasferimento dal subsistema di una lingua speciale al sistema del lessico comune una parola tecnica può mantenere il suo contenuto semantico o può acquistare un senso metaforico.[...] Anche quando mantiene il proprio contenuto semantico, una parola trasferita dalla lingua speciale alla lingua comune perde in specificità (in quanto perde il contatto con le altre parole speciali, con le quali era legata da rapporti semantici) ma acquista in espressività; il fatto stesso di provenire da un lessico speciale le dà una connotazione, un margine evocativo che la differenziano dalle altre parole del campo semantico di cui entra a far parte» (Cortelazzo 1988, 253-254). Riconducibili alla fase di trasmissione del «lascito», possono es-

sere alcune enunciazioni di B. Mortara Garavelli a proposito della narrazione: «Base testuale della narrazione è un enunciato che registri un'azione o un processo. [...] Se la forma elementare del descrivere è la riproduzione della realtà, l'analogo del narrare è la comunicazione di avvenimenti. La comunicazione implica l’esistenza di un parlante e di un interlocutore, che può anche non essere presente nel contesto pragmatico (nel luogo e nel tempo in cui la comunicazione avviene). [...] I generi testuali tramandati oralmente e riformulati talora con notevoli varianti nelle singole esecuzioni, mantengono tuttavia la fissità convenzionale della struttura e l'autonomia dal contesto dell’enunciazione che sanciscono la loro natura di «discorsi di

Donne guaritrici nel reggiano. Tecniche tradizionali, ecc.

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riuso» e la loro ripetibilità. [...] Agli schemi formali corrispondono spesso modelli di comportamento in cui determinati gruppi sociali possono riconoscersi»

(Mortara Garavelli 1988, 161-162).

Il momento del «lascito» è uno dei tempi più significativi dell’intero sistema terapeutico tradizionale. Sebbene la trasmissione si esprima con sfumature diverse, in tutte le interviste si notano due aspetti: da un lato emerge il ricordo personale del «lascito» ricevuto; dall’altro viene descritta la scelta della persona a cui, a propria volta, verrà concesso. Ogni trasmissione da «guaritore a guaritore», è una

fase, un momento di una storia culturale molto ampia. Il «lascito» (che spesso viene denominato dalle intervistate il doro, quasi a volerne sottolineare l’importanza) viene trasmesso ereditariamente, anche se non sempre in ambito familiare. Il «lascito» implica così una idea di patrimonio, non semplicemente di apprendimento di conoscenze o di successione delle funzioni. Di solito si concretizza quando il «guaritore» in stato di infermità, di vecchiaia, sente di non farcela più a mantenere l'impegno di curare. Anche se nei mesi e negli anni precedenti vi era stata una partecipazione alle tecniche e ai saperi, il «potere» di utilizzare liberamente la «virtù» avviene quindi più frequentemente con la morte dell’individuo da cui la si eredita?8. Preliminare alla trasmissione vera e propria del «lascito» è la scelta del successore. Deve essere necessariamente una persona di fiducia. Si deve essere certi che si addosserà l’onere e l’onore di un tale servizio (non solo verso la famiglia ma verso l’intera comunità). L’elemento più importante quindi è la certezza che il prescelto non fermerà il ciclo delle prestazioni curative. Su questa certezza ci si è basati da sempre e si è assicurata la continuità del «lascito»??. Il «lascito» è per lo più ricevuto e concesso in ambiente familiare. Anche se, come è stato detto, c'è preponderanza di «guaritrici» donne piuttosto che di uomini non esiste una regola esplicita che orienti la scelta verso un sesso piuttosto che verso l’altro. Solo nell'intervista ad Agostina C. troviamo una prescrizione ben precisa, alla quale attenersi: D. Quindi deve essere femmina? R; Sì, perché se è maschio non può... almeno io che sono donna, perché ci sono anche degli uomini che hanno questi «poteri», però io, essendo una donna, ho dovuto darlo a una donna. D. Tutte queste cose gliele ha spiegate la sua bisnonna? R. Precisamente.

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A. Bartolucci

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Stando a questa testimonianza, dunque, anche se non ci sono regole precise, è fuori dubbio che il «lascito» conservi il carattere di un passaggio, come si vedrà meglio più avanti, di consegne da donne a donne. La consegna da donna a donna può addirittura effettuarsi fuori dall’ambito familiare. È cioè predominante il legame tra donne su quello tra parenti. Il sapere è mediato prima dalle sfere femminili e poi da quelle familiari. La trasmissione del «lascito» attraverso due canali preferenziali Esaminiamo ora, con più concretezza, gli ambiti in cui avviene il «lascito». All’interno della famiglia due sono i rapporti privilegiati: quello tra nuora e suocera e l’altro tra nonne e nipoti. E proprio in questi tipi di rapporto che si esplicita l’atto della trasmissione, caricandosi di un senso tra l’affettivo e l’etico. Un tempo il «passaggio» ideale avveniva da suocera a nuora. Questo fatto mette in luce una parte importante del tessuto relazionale tradizionale della famiglia allargata. In passato era abitudine, al matrimonio, che la donna andasse a

vivere in casa del marito; ciò sottolinea la nascita di uno stretto rapporto tra la donna e i familiari del marito stesso, in particolare con la suocera: quest’ultima prendeva addirittura, il nome di «nonna». Tra nuora e suocera intercorreva quindi un legame confidenziale e affettivo, quasi a compensare, da una parte, l’assenza delle figlie. Queste a loro volta, almeno potenzialmente, uscivano di casa per lo stesso motivo per cui entrava la huora. Per quest’ultima la madre del marito, sulla stessa base, per la stessa ragione, assume la posizione di una «nuova» madre. La conseguenza di questa usanza appare chiara: il rapporto suocera-nuora esclude spesso il rapporto madre-figlia. Di fatto cioè la figlia è separata dalla madre al momento del matrimonio e la linea di trasmissione delle conoscenze dirette può essere reciso di netto. D. Una cosa che ho scoperto è, che la nonna in effetti è la suocera, per l’abitudine di andare a vivere presso la famiglia del marito dopo il matrimonio e, molte donne hanno avuto il «la-

scito» proprio dalla suocera, è vero? R. Beh, allora, allora quando ti sposavi... anch'io sono andata con la suocera, subito sono stata con la mamma di mio marito: la suocera ti considerava quasi una figlia ecco, ci andavi in casa, ti voleva bene.

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D. Era come una figlia acquisita? R. Eh, una figlia acquisita ecco, adesso invece c’è... quella gelosia che non la possono vedere la suocera, pochi la sopportano, delle donne ecco! Beh, c'è da dire che poi le facevano poi anche comodo perché sai, una volta si faceva... le donne andavano in campagna, andavano a lavorare però la nonna, la suocera, la nonna che loro la chiamavano la nonna, rimaneva a casa

coi bimbi. D. Era la «arzdòra» [reggitrice]? R. La «arzdòra», eh, eh. E ancora:

D. Lei a chi darà il suo «lascito»? R. Lo lascierò a mia nuora. Ora mi dice sempre: «mi insegni, mi insegni...», ma è troppo presto, dopo mi prende il mio «brevetto». Quando sarò più anziana, le insegnerò volentieri tutto quello che dovrà sapere, anche perché lei lo farà con piacere, questo è importante.

Dall’ultima frase di questa intervista, emerge un aspetto molto importante, riguardante la scelta del successore, che viene espresso in forme esplicite o implicite. La persona che riceverà il «lascito» deve essere forte, sensibile, capace di mettere in atto la «virtù» che

ha accettato. Deve desiderarla, ma soprattutto deve essere buona, cioè una persona che «non vuole fare del male». Oggi questo aspetto lo si ritrova costantemente là dove il «lascito» passa da zonna a nipote, cioè nell’altro rapporto privilegiato preso in esame, convalidando il carattere di consegna da donne a donne, dove si delinea una unione particolare all’interno delle relazioni familiari, ma soprattutto di un «nucleo» fatto di esperienze vissute insieme, di condivisione di spazi del quotidiano in un'atmosfera di grande affetto e stima. [...] D. Lei ha qualcuno a cui lasciare le sue «parole», lo «scritto»?

R. Si, dico che lo lascio a mia nipote, che poi «diventerà»,

perché deve essere una persona che crede in queste cose. Anche l’altro giorno le dicevo: «prima di morire, quando capirò poco, questo “lavoro” te lo lascio». Lei è molto contenta se le dò il mio «lascito», lo prende volentieri.

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Se un tempo la condivisione del quotidiano, all’interno della casa maritale, si svolgeva nel rapporto nuora:suocera, sempre in stretto contatto nell’accudire i figli o nelle faccende dii oggi ha preso sopravvento il rapporto nonna-nipote. Nell'era ee la donna lavora e spesso, quando è possibile, l’unico punto di riferimento, per la gestione dei figli, rimangono i nonni. Questi ultimi, sovente, trascorrono con i propri nipoti gran parte della giornata, più dei genitori stessi. In questo modo i nipoti diventano a loro volta, un referente affettivo estremamente importante, sul quale riversare aspettative e progetti. In altri casi la scelta del nipote, maschio o femmina, si rende

obbligatoria quando esiste la prescrizione di dare il «lascito», inderogabilmente 4/ più giovane della famiglia, a patto però che questi sia consenziente. La persona «più giovane» è colei che presumibilmente potrà curare più a lungo. Coinvolgere un giovane garantisce meglio la continuità. Una cosa è certa: il «lascito», bisogna chiederlo e soprattutto desiderarlo. Questo è un requisito basilare, richiesto dal cedente, per la continuità nel tempo della sua pratica di guarigione. Se il «lascito» è inteso come una forma di eredità di un «patrimo-

nio», esercitare la funzione di «guaritore» implica l'accettazione dei rischi, della fatica di gestione dell’immagine sociale che l’esercizio di questa funzione porta con sé. È per questo che accanto ad individui che desiderano svolgere questo ruolo, ve ne sono altri che cercano di sottrarvisi o comunque di limitarne l’ambito di applicazione. Nell’indagine effettuata tra San Martino in Rio e Correggio, non vi è la presenza di un momento, o di un giorno particolari per la cessione del «lascito». Importante per il «guaritore» è l’uso di lasciarlo a qualcuno che, all’approssimarsi della fine, fisica o pratica, trasmetterà i propri poteri attraverso un «tu-per-tu» assolutamente

segreto, affinchè tali poteri non svaniscano. La scelta del successore non può essere affidata al caso. È consuetudine diffusa quindi, che la cessione avvenga quasi sempre in tarda età, quando si è finalmente trovata la persona giusta. Molti «guaritori», specialmente i più giovani, non hanno ancora scelto il successore. La medicina popolare, nelle aree di maggior persistenza, appare non solo come un complesso di modelli culturali e comportamentali ma anche come una rete viva di operatori. A vario livello e in differenti direzioni «specialistiche», essi rispondono alle richieste di una utenza a tutt'oggi abbastanza ampia”.

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La donna e l’arte curativa

Per la donna, dare cibo e dare cure sono azioni interconnesse.

«La donna d’esperienza è la depositaria di un sapere e di un saperfare diffuso, strettamente legato al suo ruolo dentro alla famiglia ma anche alla cerchia più vasta del vicinato e del paese» (Falteri 1989, 163). Analogamente, Z. Zanetti (1859-1929) un medico condotto peru-

gino che operò nelle campagne umbre e che aveva maturato l’interesse per il folclore durante i suoi studi a Firenze nel titolo stesso del suo libro, La medicina delle nostre donne, mette in evidenza la

diffusione capillare del sapere terapeutico nel sociale. Si tratta di un sapere non di una corporazione professionale, di un intero sesso, che costruisce su di esso la propria identità#. La donna, prosegue Z. Zanetti, è: «sempre ministra di pietà e di amore [...] mossa da quel desiderio di giovare, da quell’istinto di commiserazione che nella sua natura sono tanto potenti» (Zanetti 1892, 172).

Se le ragioni dell'impegno femminile nelle pratiche curative, individuate da Z. Zanetti appaiono oggi discutibili, non si può negare certamente che il sapere terapeutico popolare avesse, per lunga tradizione, una diffusione di massa in particolare tra le donne costantemente presenti sulla scena della nascita, della malattia, della morte, «E nel contesto di questo sapere capillarmente diffuso che può affermarsi un soggetto collettivo come soggetto terapeutico, quando una intera comunità o parte di essa diventa autore della guarigione» (Papa 1989, 78). Sono le donne che si occupano dell’allevamento e della cura dei figli, che intervengono nei momenti di «crisi» tra i quali le situazioni di malattia o di morte. Diventano così le principali intermediarie quando condizioni di difficoltà colpiscono l’ambiente famigliare o il vicinato. Per questo rinforzano, attraverso una specificità riconosciuta socialmente, un proprio ruolo. La ricerca, in questo ambito culturale, risulta estremamente si-

gnificante riguardo a quanto l’effetto dell’impatto con la cultura cristiano-cattolica debba essere stata estremamente subita, in special modo dalla donna. Da espressione positiva dell’imponderabile quale era, essa viene trasformata in veicolo del «male», quindi sede di ambiguità, D'altronde, non si può presumere che in epoca pre-cristiana, la donna fosse «positiva». Così dice J. Michelet: «Per mille

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anni l’unico medico del popolo fu la strega [...] La massa di ogni stato, e si può dire il mondo, non domandava parere che alla Saga, o

Donna saggia. Se non riusciva a guarirli, la ingiuriavano, le davano della strega. Ma in generale, per una reverenza mista al timore, la chiamavano Buona donna o Bella donna, con lo stesso nome che si dava alle fate» (Michelet 1980, 4).

Il fatto poi che in prevalenza i «guaritori» siano in realtà «guaritrici», costituisce una aggravante. La prevalenza numerica relega le

pratiche delle donne in un contesto separato e riduttivo. Nel migliore dei casi, esso viene visto come una sorta di regressione culturale, dovuta a resistenza al cambiamento. La regressione sarebbe operata soprattutto da chi vive'una condizione di subalternità. [...] Sono cose particolari, cioè non si parla mai di queste «cose», raramente,

anche in compagnia con gli amici, così però...

anche sono convinta perché... c'è qualcuno che ha una sorta di timore per queste... Spesso mi chiamano «strega» eh, però la «strega bouna», [la strega buona].

Il ruolo delle donne in magia è teoricamente così importante e che sono credute maghe, depositarie di poteri, a causa della particolarità della loro posizione sociale. Esse sono ritenute qualitativamente diverse dagli uomini e dotate di poteri specifici: i mestrui, le azioni misteriose del sesso e della gestazione non sono che i segni delle qualità loro attribuite. [...] Da ciò la loro situazione religiosa, diversa o inferiore. Ma è proprio per questo che esse sono votate alla magia, la quale conferisce loro una posizione opposta a quella che occupano nella religione» (Mauss 1991, 122). E ancora: «Le donne sono ritenute dovunque più adatte degli uomini alla magia, più per i sentimenti sociali di cui sono oggetto le loro qualità, che per i loro caratteri fisici [...]. Le si crede ancora più diverse dagli uomini di quanto, in effetti, non siano; si crede che

siano sede di azioni misteriose e, per ciò stesso, legate ai poteri magici. D'altra parte, dato che la donna è esclusa dalla maggior parte dei culti e che il suo ruolo, quando vi è ammessa, è del tutto passivo, le sole pratiche lasciate alla sua iniziativa confinano con la magia. Il carattere magico delle donne dipende così strettamente dalla loro qualificazione sociale, da essere soprattutto un fatto di opinione» (Mauss 1991, 23-24).

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All’interno di questo quadro va fatta una considerazione d’insieme. Le donne intervistate in questa ricerca, esplicitano un certo serso

di rivalsa verso le precarie situazioni ‘esistenziali passate, sia materiali che psicologiche, riscattate, ad un certo punto, attraverso la messa in opera delle pratiche di guarigione. Ciò ha conferito loro un ruolo importante all’interno della comunità. Le donne intervistate sono nella maggior parte contadine, con un grado di istruzione che oscilla tra l’analfabetismo, nelle più anziane, e una scolarità limitata alle elementari. TAV. 6 Nome

età

professione

residenza

1) Elvira 2) Iolanda C. 3) Rina G. 4) Egle S. 5) AdeleR. 6) Odilla V. 7) Vittoria M. 8) Lella A. 9) Odilla B. 10) Agostina C. di TristB! 12) Anna S. 13) Carmen F.

92

casalinga

Correggio

83 83 82 81 75 65 60 60 57 55 52 48

contadina contadina contadina contadina contadina casara, casalinga casalinga contadina contadina contadina magliaia cartomante, casalinga

S. Martino in Rio Gazzata Correggio S. Faustino Stiolo Trignano S. Martino in Rio Gazzata S. Biagio Prato S. Martino in Rio Correggio

Analizzando quindi, le storie di vita di queste donne si evidenzia subito un fatto. La «guaritrice» si oppone ad un sapere codificato che è appannaggio della medicina ufficiale e si pone al di sopra del sapere femminile generico. La chiesa cattolica ha storicamente avvallato una certa gerarchia. AI vertice di tale gerarchia stavano il potere ecclesiastico come riferimento di controllo e la prerogativa maschile della costruzione di tale sapere. In questi termini si comprende allora che le istituzioni vengono vissute come espressione della cultura unica appartenente ai gruppi sociali dominanti. La denuncia, nel momento in cui viene fatta da donne, anche se in modo implicito, diviene una doppia denuncia: al sapere dominante e maschile”, Il dolore è spesso vissuto come prezzo di una colpa, tanto grave, da essere pagato per tutta la vita. G. Benassi, in questa logica, vede la vita come espiazione e gli essetî umani estremamente ricattabili. L’inferiorità sociale è frutto non di una colpa di chi la vive, ma di chi

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stabilisce unilateralmente cos'è culturalmente importante e cosa non lo è; è propriamente il frutto di una violenza prevaricatrice operata da un gruppo sociale sull’altro. Su questo sfondo i riti delle «guaritrici» hanno il sapore di una ribellione contro l’esclusione e di una rassicurazione in favore dell’esistenza (che non può essere solo intesa come prezzo da pagare). C’è la ricerca di salvaguardia dell'identità individuale e del proprio gruppo di appartenenza; c’è il bisogno di contrastare l’abbassamento o lo sradicamento. É tutto questo testimoniano le guarigioni avvenute là dove la malattia è un sintomo di somatizzazione. Ove esiste cioè un malessere profondo che ha radici nella sofferenza per l'esclusione e l'annullamento di sé?.. [...] loro, i miei, soprattutto i miei famigliari hanno molto rispetto del «lavoro» che faccio e poi non, cioè sono convinta anche che, a volte incute un certo #70re il mio «lavoro» [...] Anche mia nuora, che io ho una nuora che stenta molto a

credere a «queste cose», però aveva male a un ginocchio; è venuta da me e gli è passato il male al ginocchio, ah! Aveva fatto tante terapie, lo dice sempre; infatti adesso lei ha un rispetto grandissimo per me, insomma per il lavoro che faccio! D. Secondo lei, sono più donne o uomini che si dedicano a queste «pratiche»? R. Io ho conosciuto più donne, però anche un uomo, ma in

maggioranza donne. D. Lei mette la sua sensibilità a frutto per queste cose? R. Tutto si paga, «me quel ch’a fag a l'ho paghè», [io quello che ho fatto l’ho pagato] veramente??.

Dall’ultima frase dell’intervista a Carmen F. è chiaro il senso che,

per lei, qualsiasi accadimento negativo nella propria vita, sia una pena da scontare, da «pagare», in rapporto ad eventuali cattive azioni compiute quasi a chiudere un debito. L’intervista che, più chiaramente di altre, mette in evidenza il senso di riscatto nei confronti di un’esistenza molto povera e complicata, è quella di Adele R. In ogni suo racconto relativo al passato, emerge un senso di subalternità rispetto tutto e tutti. Frase dopo frase, si rafforza la rivalsa personale proprio attraverso il resoconto delle capacità e proprietà empiriche, quasi a voler, attraverso i suoi molteplici «poteri» messi al servizio degli altri, annullare tutto il ma-

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le e la precarietà della sua esistenza, riappropriandosi così di una identità il cui valore era stato continuamente messo alla prova: [...)] Mia madre aveva, che avrei voluto avercelo, ma i miei

fratelli non mi hanno dato niente, faccio prima, era un «pignattino» così di terra... Ma non sa mica, ho fatto due anni come

«bifolca»... D. Quando si è sposata è andata ad abitare con i genitori di suo marito?

R. Si, ma non c'erano più. Era da solo e aveva una sorella che gli ha portato via tutto, perfino la spazzola per lavare. E poi sa? Credeva che fossi ignorante io! Mi voleva dare sua figlia! «Te la tieni poi tu, tua figlia!» D. Lei, a Novellara era sotto padrone? R. Si, ero contadina sotto padrone. D. E suo marito? R. Era operaio e non aveva niente. D. Quante sorelle e fratelli aveva? R. In otto eravamo. Ci ha tirato su mia madre da sola, perché la più vecchia aveva 15 anni quando mi è morto mio padre; e mio nonno che aveva dei soldi... D. E lei quanti anni aveva? R. Io avevo 4 anni. C'era un mio fratello che aveva 2 anni, l’altro che lo doveva avere, dunque non ha mica fatto sacrifici mia madre? Sa che dopo che sono venuti a casa i miei fratelli, ho servito 70 giorni un mio fratello, che adesso gli hanno tagliato le gambe tutte e due! Beh, 70 giorni! Preferivo andare a mietere: sù con una minestrina, un giorno dovevo pelare una gallina, un giorno dovevo tritare un fascio di legna per fare fuoco, perché ogni tanto ci voleva una minestrina, poi tenere pulita la camera; sono andata a scaricare del fieno con tutti i lavori che legavano il fieno: una vita da «briganti», con neanche un cucchiaio di latte nello stomaco. D. Lei da chi ha imparato a «segnare» tante pratiche? R. Il «giradito» a Vercelli , insomma in Piemonte, dove facevo la mondina... Per le «storte» mi ha insegnato mia madre. Mia madre era buona... ma sa anche che cosa so «segnare»? Un «malocchio». Quello lì me lo ha insegnato una zingara. D. Per «segnare» è importante credere? R. Ah, bisogna crederci, perché se uno non ci crede è inutile. [...] Ma gliel'ho detto con il mio padrone, gliel'ho detto con sua madre: «io sono contenta della mia povertà e l’educazione che mi ha insegnato mia madre...» Beh, che cosa vuole che le

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dica, io do retta anche alle civette. Secondo come urlano, il

verso che fanno... quando avevo via i miei fratelli, sentivo il verso che facevano e sapevo sé cambiavano posto si o no. Il proverbio dice: «la civetta o che ne prende o che ne mette». Bisogna intendersene del verso che fa. Io mi tengo in mente i miei «proverbi» che mi hanno insegnato.

La resistenza della donna che vuole esplicitarsi in un ruolo soprattutto positivo, va letta come estremo tentativo di denunciare che, il nuovo non si accetta, come il vecchio da cui nasce, perché è

estraneo. La donna ritiene di non aver contribuito a determinare né il vecchio né il nuovo., Non le resta, quindi, che opporre al sapere «ufficiale» e ai segni plurimi del suo progredire il segno attuale del sapere di chi è subalterno. La donna dunque ha scelto il dono della guarigione come fatto odierno di affermazione. Per concludere, l’accentuazione del valore di questi segni è importante. Ciò affinché la memoria non sia mera registrazione di contingenze storiche, ma tappa di un percorso che faccia della lettura delle vicende e degli errori passati un prezioso strumento di consapevolezza sul piano individuale e politico. In questa direzione il progresso non potrà che nascere come esigenza interna di cambiamento

di un gruppo sociale che si sente rispettato nella propria identità culturale?4. Qualche considerazione d'insieme Le pratiche terapeutiche prese in esame, rendono necessaria una nuova presa di visione del sistema di cura, che si presenta oggi con modalità ed espressività rinnovate, non semplicemente sopravvissute negli anni. Richiedono anche un esame della domanda di salute per l’individuo di oggi. Questa ricerca ha cercato cioè di evidenziare i motivi salienti di un preciso mutamento culturale che parte da lontano. Vedere la cultura contemporanea come continuità di quella passata, non vuol dire in questo caso, conservazione, bensì un’evoluzione che accorpa sopravvivenze, spinte originali e adattamenti??. Il mondo contadino, negli anni che hanno preceduto la industrializzazione, aveva confini molto ristretti: il paese, la frazione, i campi, la piazza, la chiesa, la casa. Nella famiglia di tipo patriarcale si nasceva, ci si sposava, si moriva all’ombra della casa. Gli spaccati delle

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interviste testimoniano come, la famiglia allargata, a poco a poco, si sgretola. Col sopravvento dell’industrializzazione, a partire dal 1965 circa, la campagna viene abbandonata e la città si popola di nuove famiglie. I modi di vita di un tempo non hanno più spazio. Al ritmo contadino, scandito dalle stagioni e dal sorgere del sole, si sostituisce il ritmo esterno e impersonale del mondo industriale. Le ritualità che oggi accompagnano le tappe del ciclo della vita si presentano con una sostanziale diversità: l'abbandono della dimora come spazio rituale privilegiato. Altri ambienti sostituiscono la casa e nuovi stimoli simbolici partono e si esauriscono in spazi diversi. Oggi le pratiche di guarigione si svolgono prevalentemente in uno spazio dell’abitazione del «guaritore» (per lo meno quando il paziente può raggiungere quest’ultima autonomamente). Per giungere ad un esito positivo, necessitano di una forte attenzione all’individuo come persona (più che alle diverse tecniche usate da uno o dall’altro curatore) che

si esplica nello spazio del vivere quotidiano, come luogo del recupero di abitudini tradizionali. La figura del «guaritore» affonda le sue antiche radici nella società contadina, e ne porta tutti i segni e i valori. Il suo non era un «mestiere», non era codificato da alcun diploma o attestato, in quanto nessuno aveva bisogno di una verifica, ufficiale e documentata del suo sapere. Il «guaritore» a tutt'oggi presta semplicemente aiuto a

chi gliene chiede. La medicina popolare non si serve dei mezzi di comunicazione

di massa,

nè si costituisce

in centri della salute.

L’idea di ricorrere al «guaritore» nasce da un discorrere quotidiano, da un passa-parola tra conoscenti, amici, parenti. Esiste un altro carattere distintivo dei «guaritori». Sono reticenti e narrano poco le esperienze che hanno vissuto. Nella categoria dei «guaritori-segnatori», talvolta, si è presentata la difficoltà di ottenere informazioni: i più hanno consentito a descrivere a grandi linee i loro interventi, altri a farmi assistere a qualche pratica di guarigione. Ma, con circospezione, hanno eluso domande più dirette, giustificandosi attraverso gli obblighi, le prescrizioni del «lascito» stesso, che vieta loro di dire le «parole» o le formule, a rischio della vita stessa. Dal momento che il «lascito» viene, da sempre, ceduto solo all’approssimarsi della morte (o in seguito a malattia che renda impossibile la continuazione della pratica di cura) descriverlo o riportare le «frasiformule» suscita paura. La paura è espressa con la frase: «a gh’è da murir» [c'è da morire]. I «gwaritori» sono diffidenti e restii a parlare

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delle loro capacità guaritrici perché temono il pregiudizio sociale e l'isolamento. A fronte di una apparente a dalla descrizione delle pratiche attuali di «guarigione» a S. Martino in Rio e Correggio, è emerso un variegato insieme di tecniche di cura. Curarsi oggi può essere l’esito di un interscambio tra i diversi sistemi, apparentemente contraddittori. Al proprio interno, tali sistemi però, presentano contazzinazioni che

li rendono estremamente flessibili. Ad esempio, oggi, è divenuto possibile un collegamento tra il «guaritore» e il medico, dal momento in cui, molti di questi ultimi si interessano alla cosidetta medicina non ortodossa, dedicandosi a l’agopuntura, la omeopatia, l’iridologia, la musicoterapia, la chiroprassi, l’erboristeria, ecc. Abbiamo visto anche

come il ricorso al «guaritore» possa essere complementare a quello medico. Ne sono prova i casi in cui Ja medicina tradizionale si serve della medicina ufficiale e prescrive farmaci in vendita nelle farmacie. Il dualismo comportamentale nelle scelte terapeutiche, indica una coesistenza o una sua possibilità. La medicina ufficiale e quella cosidetta «alternativa», non sono reciprocamente incompatibili. Patrimonio esclusivo del «guaritore» resta però un campo di intervento assai vasto: dall’ansia alle somatizzazioni più svariate, a tutte quelle malattie non visibili attraverso le radiografie e altri esami clinici. Tuttavia, va ricordato che anche in questo campo esistono parallelismi. La medicina ufficiale sfrutta l effetto placebo, cioè la somministrazione di un medicamento inerte che ha efficacia simbolica, attraverso

il quale si evidenzia un miglioramento della sintomatologia e può, in base alla fiducia in chi lo prescrive, ridare benessere, sollievo, appetito ecc. Analogamente, la credenza del malato nell’efficacia delle tecniche del «guaritore», indipendentemente dalla effettiva validità scientifica di tali procedure, può essere sufficiente a produrre la guarigione. Di recente, in modo sistematico, l’attenzione della medicina ufficiale

si è spostata dalla malattia all’ammalato e il concetto di malattia si è relativizzato nel rapporto ammalato-società. In particolare, nel contesto qui trattato, bisogna osservare come a livello diffuso, ormai si parli di malattie psicosomatiche, dove, in termini più consapevoli di quelli propri alla cultura popolare, si ripropone il rapporto corpo-psiche. Nella prassi terapeutica ufficiale, tuttavia, finisce con lo sfuggire il concetto di totalità. In questo senso, per quanto rozza, incerta negli esiti, si rivela più coerente la sapienza medica popolare. Il suo valore risiede, non nella sua esattezza, ma nella sua adeguatezza”.

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Note LiChglor 193512)

2 Intervista ad Agostina C. (7 ottobre 1994) di S. Biagio (Correggio, R.E.). 3 In totale i guaritori intervistati sono risultati 15 e altri 9 solo evidenziati, cioè ne conosciamo l’esistenza ma non sono stati contattati direttamente. L’età degli informatori va dai 48 ai 92 anni. Quasi tutti sono di estrazione contadina, a basso

tasso di scolarità: tra i più anziani solo alcuni hanno frequentato la terza elementare. Più della metà continuano a tutt'oggi l’attività di coltivatori altri, vista la predominanza dell’età avanzata, sono pensionati o casalinghe. Fa eccezione uno studente di 14 anni. 4 Cfr. Seppilli 1989, 9. Cfr. di Nola 1989, 92. Intervista a Iris F. (18 maggio 1993) di Prato (R.E.). Intervista al dott. Paolo T. (15 febbraio 1994) di San Martino in Rio (R.E.).

«Non esiste una sola “medicina popolare”: tale espressione segnala soltanto il manifestarsi di un limite alla espansione della medicina ufficiale “verso il basso” o “verso la periferia”. Rinvia esclusivamente alla persistenza o in ogni caso all’esistenza, almeno in talune classi subalterne, di costrutti medici e orizzonti ideologici di riferimento che rispetto alla medicina ufficiale, si presentano come oppositivi o comunque “altri”. [...] Così, perché termini come “medicina popolare” o “medicina folclorica” escano dalla genericità e dall’ambiguità occorre, volta a volta, precisarne ra Gi JN 0

il significato facendo riferimento a contesti sociali storicamente determinati» (Sep-

pilli 1989, 7-8).

Ti bid9: 0 Il nome «zoster», di origine greca, qualifica la zona maggiormente colpita, ossia il torace. «L’herpes zoster, è una infiammazione di una delle radici posteriori del midollo spinale» (Rothenberg 1975, 649). l! Cfr. Di Pietro 1981, 49-50. ? Cfr. Farnetani, Settimanale OGGI, n° 11, 15 marzo 1995.

3 «Le due parti dell’articolazione possono scivolare l’una sull’altra per rimettersi subito dopo e spontaneamente, nella posizione precedente. Se ciò non avviene si parlerebbe di lussazione. Nello spostamento brusco, però, i tendini che tengono insieme l'articolazione, si tendono e si stirano. Ciò provoca un violento dolore, cui

può seguire un rigonfiamento della zona traumatizzata e se, a causa dello strappo, si verifica anche la rottura di qualche vaso dell’articolazione, sulla cute appare una ecchimosi, una chiazza rosso-bluastra» (Lucisano 1993, 34). 14 Cfr. Bertani 1984, 200. D Parlerò del «lascito» in seguito, come trasmissione delle tecniche da una

persona ad un’altra. !6 Intervista ad Adele R. (4 aprile 1993) di S. Faustino (R.E.). 7 La legge fisica che spiega il meccanismo dell’acqua che, rovesciata sul catino, risale poi nel tegame si basa su un fatto verificabile: «L'aria raffreddandosi diminuisce di volume, per contro riscaldandosi aumenta di volume, così l’aria che è presente nel tegamino raffreddandosi diminuisce di volume; in questo modo si contrae creando una depressione all’interno, lasciando libero uno spazio all'acqua che, poco a poco, può risalire dal catino al tegamino, così la pressione si stabilizza. Un esempio

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può essere l’uso della siringa, dove tirando lo stantuffo, l’aria contraendosi si ritira richiamando l’acqua. E lo stesso meccanismo di una pompa: si viene a creare una contro-pressione. Il fatto che l’acqua possa risalire dal catino nel tegame più o meno in fretta, dipende dallo spessore della parete del recipiente così, più è sottile e prima l’acqua si raffredda. Quindi, la velocità di entrata dell’acqua dipende dal tipo di contenitore» (Intervento e consulenza dell’Ing. Enzo Corradini di Modena).

18 Intervista a Iris F. (18 maggio 1993) di Prato (R.E.). Sono venuta a conoscienza di questo «rito finale», dopo aver osservato personalmente, in questa procedura, un amico pranoterapeuta di Modena. 20 «Ossiuro: piccolissimo verme filiforme che vive come parassita nell’intestino, specialmente dei bambini» (cfr. Diz. Garzanti 1988, 1307). 21 «Ascaride: verme dal corpo cilindrico, parassita dell'intestino tenue dei vertebrati (cl. Nematodi)».

(Cfr. Diz. Garzanti 1988, 143).

22 «L'’ossiurasi è diffusissima tra i bambini. La contraggono portando le mani sporche alla bocca e ingerendo di conseguenza le uova annidate tra la polvere. L’ossiuro è un verme di piccole dimensioni il cui ciclo si compie nell'intestino; l’ovoposizione avviene fuori dall’orifizio anale. La migrazione e l’ovoposizione determinano un forte prurito anale e perianale; il bambino, grattandosi e portando le mani alla bocca, si reinfesta. [...] L’ascaridosi è ritenuta una forma di elmintiasi molto più grave. Anch’essa colpisce prevalentemente i bambini e si contrae sempre per scarsa osservanza di norme igieniche, come l’ingestione di verdure non ben lavate, dal momento che le uova si annidiano soprattutto nel concime stallatico. Nelle loro migrazioni dai bronchi alla trachea, alla faringe, gli ascaridi, giunti al retrobocca possono essere eliminati con le espettorazioni dovute ad irritazioni provocate dalla loro presenza; di norma, però, scendono verso lo stomaco» (Guggino 1983, 78).

2 Cfr. Guggino 1983, 78. 24 Con «vermi» si intendono, sia gli agenti patogeni della malattia che la malattia stessa, così sono gli stessi «vermi» a venire segnati, diventando i protagonisti sia della patologia che della terapia. 25 Per «grumo» si intende probabilmente, una occlusione intestinale, provocata dalla forma più grave di elmintiasi: l’ascaridosi. 26 Intervista ad Agostina C. (7 ottobre 1994) di S. Biagio (Correggio, R.E.). 21 Cfr. Lucisano 1993, 35. 28 Cfr. Bertani 1981, 63.

29 Intervista al dott. Bacca A. (6 ottobre 1995) di Sassuolo (MO) specialista in osteopatia. 30 Cfr. Chiarli 1989, COP.

31 Ibid. nota n° 30. 32 «Secondo un metodo giapponese, le coppette vengono posizionate e lasciate al loro posto per circa un minuto, poi spostate e riposizionate sul corpo, lungo i tradizionali meridiani dell’agopuntura» (Chiarli 1989, COP). 33 Cfr. Cella 1994, 38. 34 Ibid. nota n° 30. 35 Intervista a Iris F. (17 marzo 1993) di Prato (R.E.). 36 A.Van Gennep, nei Riti di passaggio, mette in evidenza il duplice problema che ogni società deve affrontare — vale a dire la coesione e la continuità — si precisa

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A. Bartolucci

ulteriormente in relazione agli individui che la compongono. Come assicurare la coesione e la durata sociale nonostante il mutamento degli individui e le crisi dell’ambiente interno, è il problema fondamentale. Ogni società si preoccupa di fare in modo che il mutamento degli individui, i loro passaggi da una condizione a un’altra avvengano senza che siano compromesse la coesione e la continuità sociale: «I riti di passaggio non si presentano nella loro forma compiuta, oppure non si manifestano ben chiaramente, se non al momento del primo passaggio da una categoria sociale o da una situazione a un’altra» (Gennep 1988, 153).

37 Cfr. Bertani 1984, 200.

380Ce Papa! 1989, 79, 285131 40 Intervista ad Agostina C. (7 ottobre 1994) di S. Biagio (Correggio, R.E.).

41 Solo dopo le prime interviste, ma soprattutto parlando del «lascito», ho capito che spesso la «nonna» in realtà era la madre del marito, quindi la «suocera» della guaritrice, con la quale vi era un rapporto di grande affezione e fiducia, al contrario forse, dei pregiudizi attuali, che pongono nuora e suocera, frequentemente in disaccordo. 42 Intervista a Irma M. (20 giugno 1995) di S. Martino in Rio (R.E.). 4 Intervista a Odilla B. (9 marzo 1993) di Gazzata (R.E.). 44 Intervista a Rina G. (14 marzo 1993) di Gazzata (R.E.).

% Cfr. Seppilli 1989, 7. 40 Cfr. Faltieri 1989, 160.

Cfr. Papa 1989, 78. 48 Cfr. Nora 1985, 43-44.

4 Intervista a Carmen F. (15 febbraio 1994) di Correggio (R.E.). 50 Cfr. Benassi 1985, 50.

21 IBid350; 92 Ibid., nota n° 49. 3 vw Intervista ad Adele R. (4 aprile 1993) di S. Faustino (R.E.). 24 Cfr. Benassi 1985, 51-54. 5 Cfr. Nora 1983, 98. 28195: "7 Cfr. Guggino 1983, 82.

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Tetraplegia flaccida Gastroenterite

3

Cause di morte

Cause di morte Insufficiente sviluppo i Pol

i G CINEELAEE RAS

TAB. 10: Anno 1948.

N° Morti nel primo anno di vita (o frazione)

Cause di morte

6 I

Insufficiente sviluppo Broncopolmonite

2 z 1

Insufficienza cardiaca Gastroenterite Asfissia

Le tabelle riportate mostrano una forte correlazione fra alimentazione-denutrizione e mortalità infantile. Numerose morti sono attribuite a «insufficiente sviluppo» o «debolezza congenita». Indicano cioè una situazione in cui i bambini non ricevono quantità di cibo sufficienti a consentirne la crescita. Molti decessi sono invece causati da malattie dell'apparato digerente e indirettamente da malattie infettive e parassitarie legate all'assunzione di cibo. Le principali cause che determinano malattie gastrointestinali nel primo anno di vita, sono riconducibili alla consuetudine, molto diffu-

Mangiare «per due» o mangiare «quel che c'è»

sa in ambiente

rurale, di premasticare il boccone

97

da destinare

all’infante. Quanti bocconi ho visto masticare, il biassò lo chiamavano, che se una famiglia era povera che non aveva neanche i soldi per il

latte di mucca, subito gli davano le cose masticate?!.

Il biassòt consente al bambino un precoce accesso alla dieta alimentare degli adulti. Attraverso questa pratica, il bambino può ingerire cibi solidi prima ancora di aver sviluppato l'apparato masticatorio. Questa scappatoia risulta molto utilizzata dove non vi è la possibilità di alternative alimentati. È in tal modo che, sostanzialmente, la madre, sacrificando parte della sua razione dna riesce a nutrire anche il figlio. I rischi sono altissimi. Infatti, la consuetudine di conformare il cibo alle capacità del bambino, se da un lato ne permette il nutrimento, allo stesso tempo può provocare conseguenze spesso irreparabili sull'apparato gastrointestinale: [...] li riducevano proprio male, con delle dissenterie atroci, delle gastroenteriti acutissime che un bambino difficilmente riesce a superare”.

In sostanza, i sacrifici che le madri compiono per salvaguardare i propri figli spesso si rivelano insufficienti, se non dannosi o mortali. E questa la grande sconfitta delle madri. Le condizioni socioeconomiche degli anni Quaranta sono tali per cui le madri sono obbligate a scegliere l’unica alternativa possibile che gli eventi presentano loro. Il successo non è però assicurato in tutti i casi. L’autoprivazione

materna e la riduzione dei bisogni alimentari delle madri, in conclusione, rappresentano la sola direzione possibile per la sopravvivenza dei figli, ma di fatto non garantiscono realmente e totalmente. Spesso al sacrificio si uniscono amarissime e disperanti sconfitte.

Conclusioni

Esaminare alcuni aspetti della cultura materna nella Romagna degli anni Trenta-Cinquanta ha consentito di far luce sul processo riproduttivo, in cui la donna viene presa in considerazione talvolta

98

come soggetto agente, ma

A. Olivi

spesso come oggetto dell’elaborazione cul-

turale collettiva. Questi due aspetti mostrano correlazioni profonde. Da una parte, emerge la constatazione che la posizione della donna all’interno della famiglia e più in generale all’interno della società, è una posizione di dipendenza e inferiorità, che vede la donna debole. Dall’altra si riscontra che attraverso la procreazione alla donna vengono riservate quote di potere e di solidarietà femminile, altrimenti inaccessibili. All’interno dei dati esposti, analizzare il rapporto tra il «potere» delle donne e il controllo sociale che opera su di esse, significa in primo luogo verificare i costi sostenuti per la conquista e la gestione di tale «potere». Il costo risulta essere alto e misurabile in termini di benessere di madre e figlio. La donna deve risultare in grado di far fronte al mantenimento del figlio, accollandosi personalmente l’onere del suo sviluppo. Esiste a livello collettivo la convinzione che il corpo femminile racchiuda in sé, a priori, tutti gli attributi necessari alla maternità, in termini di abilità, competenze e naturale predisposizione, indispensabili per la crescita della prole. Motivo

per cui sulla madre ricadono tutte le responsabilità più gravose, ma anche limitazioni e controlli. Esaminando la questione entro un contesto economico-sociale ristretto e quindi verificabile, si evince infatti che il mantenimento dei figli, inteso principalmente come cura e nutrimento, dipende, nella mentalità comune,

dalla madre, a sua

volta subordinata al gruppo. Non sfugge che, nella realtà, il nodo di problemi è complesso. Il fatto che una madre sia in grado di fornire un adeguato nutrimento al figlio è determinato dalla combinazione di vari fattori. Nella funzione materna entrano in gioco troppe variabili riconducibili al sistema socioeconomico, quali lo stato fisico della madre, il suo livello nutritivo, le condizioni lavorative, il rapporto

con la famiglia, per poter sostenere che per una donna sia naturale mettere al mondo bambini e crescerli indipendentemente dalle circostanze esterne. Nella ricerca, a livello globale, è interessante notare come la donna sia riuscita a trarre tutti i vantaggi possibili derivanti dalla circostanza della maternità, cercando per quanto possibile di limitare al minimo i danni per se stessa e per il figlio. Ha di norma sfruttato al massimo l'abbondanza alimentare che le viene concessa durante la gravidanza, rivendicando, in virtù del suo stato, desideri

e bisogni solitamente repressi e insoddisfatti. Laddove è sorretta da una forte solidarietà parentale, utilizza il sostegno accordatole

Mangiare «per due» o mangiare «quel che c'è»

99

dopo il parto per rimettersi in forze ed essere in grado di sostenere un buon allattamento. Prolunga il più possibile l'allattamento al seno per proteggere la salute del figlio e per non essere costretta a dividere con lui la già scarsa razione alimentare che in tempi normali le viene destinata. Vi è in questa pratica una chiara intenzione di autoconservazione e di tutela della prole. Dietro a comportamenti apparentemente dettati esclusivamente dalla tradizione e dall’abitudine, si scoprono strategie indirette messe in atto dalle madri nel corso degli anni, per salvaguardare nel limite del consentito, il proprio benessere e quello dei figli. In sostanza, la porzione di «potere» spettante alla donna che diventa madre deriva in gran parte dalla sua capacità di adattamento e dalla sua abilità nel trarre tutti i vantaggi possibili da ciò che la realtà le offre. Questa risulta essere, nella maggior parte dei casi, l’unica possibilità che le madri riescono ad offrire alla loro prole. i C'è un altro aspetto che va sottolineato. E la nascita che rappresenta la concretizzazione delle aspirazioni implicite di sicurezza della madre. Il figlio, ormai presente, è la fonte di questa sicurezza, e a volte di «potere». Per difendere la nuova posizione la madre deve assolutamente essere in grado di garantire in maniera ottimale la salute del figlio. 3 La mistica dell’allattamento passa anche per questo fine. E solo

attraverso il valore nutritivo del proprio latte che la madre è in grado di difendere la posizione conquistata all’interno della gerarchia sociale al momento del parto. La conquista è tanto importante da indurre la madre ad assumere apertamente la piena responsabilità della cura dei figli (sottoponendosi al gruppo). Dimostrando la sua attitudine al ruolo materno, in definitiva, entra più profondamente nel tessuto sociale della famiglia. Non sfugge che in questo tipo di processo procreativo, nelle condizioni inderogabili connesse alla cura e alla crescita della prole affidata alla donna, la società si riproduce sempre uguale a se stessa.

A. Olivi

100

Appendice I Campione delle persone intervistate Tav. 1 Nome

Età

N° figli

Titolo di studio

Professione

Venere 4P Pi Giuseppina M.

80 mal

2 1

laurea nessuno

insegnante operaia

Eleonora A. Giulia B. Serafina M. Luigia P. Maria R. Venere M. Maria P.

88 89 76 88 84 72 87

6 3 2 3 2 Z 2

nessuno licenza elementare licenza elementare licenza 2° elementare nessuno licenza 2° elementare diploma scuola superiore

sarta aiutante calzolaio casalinga casalinga casalinga bracciante agricola casalinga

Elena V.

82

5)

nessuno

casalinga

Elda N.

83

2

diploma scuola superiore

casalinga

Francesca R.

76

3

nessuno

casalinga

Rina M. Pia M. Lea M. Ada P. Paolina B. Alda M. M. Giordana E. Rina B. Assunta S. Ida C.

75 87 79 79 81 83 70 50 935 93%

2 3 2 2 2 4 2 2 3 3

diploma di levatrice scuola elementare diploma di levatrice nessuno scuola professionale nessuno diploma di levatrice scuola professionale diploma di levatrice nessuno

levatrice casalinga levatrice cuoca/magazziniera infermiera ricamatrice levatrice infermiera levatrice casalinga/aiuto levatrice

Santina M. Giovanna U.

81 76

Il 2

nessuno nessuno

contadina contadina

Nerina A.

74%

/

nessuno

casalinga

* persone decedute nel corso della stesura del lavoro

Note ! Cfr. Douglas 1984, 6. 2 Per società tradizionali si intendono condizioni arcaiche del mondo contadino o pre-industriale. Il termine dunque copre una varietà di situazioni ed è qui usato complessivamente per indicare condizioni del recente passato. ? Cfr. Douglas 1984, 6. 4 La legislazione fascista introdusse un nuovo concetto di maternità con l’obbiettivo di capovolgere la precedente eterogeneità di metodi di alimentazione infantile. La standardizzazione della maternità non emergendo come dato particolarmente rilevante nei resoconti delle intervistate, non viene approfondita in questa ricerca.

Mangiare «per due» o mangiare «quel che c'è»

101

Per un riferimento più ampio alla connessione fra storia, politica e pratiche nutritive infantili cfr. Whitaker 1994, 131-177. ? Cfr. Zanolla 1980, 427-428. ° «Le donne sono le detentrici e le trasmettitrici del sapere [...]. Esse presidia-

no i due grandi poli dell’esistenza, la nascita e la morte, conoscono le tecniche del parto, prestano assistenza alla puerpera e al neonato, vegliano durante le malattie» (Camporesi 1980, 26). ? Durante il regime fascista venne introdotta una serie di leggi tesa a tutelare il lavoro femminile. In realtà l’effetto della legislazione fascista fu piuttosto quello di indebolire la posizione delle donne sul mercato del lavoro in nome della priorità dei loro compiti famigliari e riproduttivi. Inoltre il congedo di maternità escludeva ancora negli anni Quaranta le categorie di lavoratrici più cospique, in particolare quella delle contadine, delle artigiane e delle lavoratrici a domicilio. Cfr. Saraceno 1992, 120-125. 8 Cfr. Rainisio 1996, 41. ? Intervista a Elda N. (23 novembre 1995) di Ravenna.

!0 «L’ostetrica diplomata rappresenta la posizione di cerniera tra vecchio e nuovo, tra gli insegnamenti delle scuole e le consuetudini, condivide con gli specialisti i criteri epistemologici della scienza medica, tuttavia è costretta a mediare di fronte alle tradizioni locali e in tal caso appare alquanto disponibile a rispettare soprattutto quelle credenze che fornivano rassicurazione» (Rainisio 1996, 80). ll Intervista a Assunta S., diplomatasi levatrice a soli 18 anni, (15 marzo 1996) di

Casola Valsenio. «Consigliavo di mangiare molta verdura, dicevo di non mangiare roba insaccata, roba molto salata o grassa, di non bere vino o liquori». Intervista levatrice, (29 novembre 1995) di Ravenna.

a Lea M.,

3 Intervista a Rina M. (28 novembre 1995) di Casola Valsenio. 14 Cfr. Sorcinelli 1992, 54-56. 5 Intervista a Nerina A. (29 maggio 1996) di Ravenna. 16 Cfr. Maher 1992, 180.

7 Le «voglie» sono state materia di discussione da parte della medicina ufficiale fin dai secoli XVI-XVII. Oggi si ritiene che le «voglie» siano un prodotto delle trasformazioni che intercorrono nella donna durante la gestazione. La gravidanza, infatti, acuisce e muta la sensibilità ai sapori e agli odori, produce cambiamenti di sensazioni e di umori, è un periodo di trasformazione dell’equilibrio psichico. Cfr. Ferraro, Nuziante Cesaro 1989, 161. A questo proposito una levatrice intervistata, diplomata presso la clinica ostetrico-ginecologica di Bologna nel 1943, riferisce che: «Se la persona è ipersensibile, ci sono anche le voglie, l’avevamo studiato e l’ho dovuto credere, è un attimo solo in cui una donna può essere particolarmente ipersensibile». Intervista a Rina B. (28 novembre 1995) di Casola Valsenio. 18 Cfr. Rainisio 1996, 50-52. 19 Intervista a Giordana E. (29 febbraio 1996) di Casola Valsenio. 20 Intervista a Rina M. (28 novembre 1995) di Casola Valsenio. 21 Intervista a Rina B. (28 febbraio 1996) di Casola Valsenio. 22 Cfr. Rainisio 1996, 51. 23 Cfr. Rivera 1989, 67.

102

A. Olivi

24 «Il parto e la maternità sono momenti privilegiati per osservare la condizione delle donne, sono momenti critici in cui le fitte maglie delle relazioni sociali e parentali convergono. Il parto si configura come una grande scena in cui tutti i personaggi legati alla protagonista, manifestano i caratteri specifici dei loro ruoli» (Accati 1980, 336).

2 «[...]Ìmettere al mondo molti bambini può rappresentare per le donne la fonte principale di potere e di stima, oltre ad essere un vantaggio per gli uomini»

(Maher 1992, 174).

26 Cfr. Minicuci 1985, 58.

27 Intervista a Giordana E. (26 febbraio 1996) di Casola Valsenio. 28 Intervista a Paolina B. (9 dicembre 1995) di Bagnacavallo.

29 «Al centro del sistema alimentare antico[...]campeggia il brodo, l'elemento liquido, il cibo che, anche nella sfera delle analogie, rimanda agli archetipi alimentari remoti come il latte, alle origini della vita e quindi alla restaurazione e al prolungamento dell’esistenza» (Camporesi 1989, 204). 30 Intervista a Lea M. (29 novembre 1995) levatrice di Ravenna.

31 Cfr. Pancino 1984, 204. 32 La condizione per così dire di «impurità» nella quale si trova la donna dopo aver affrontato il parto, esonera totalmente l’uomo da qualsiasi tipo di partecipazione. Questa condizione espone la madre a molti pericoli, ma nello stesso tempo la rende pericolosa anche agli altri, specialmente all'uomo, che non può condividere i segreti che regolano la nascita. Cfr. Baldini 1991, 92-99. 3 Intervista a Paolina B. (9 dicembre 1995) di Ravenna. 34 Intervista a Santina M. (15 marzo 1996) di Casola Valsenio. > La pajeda è un tradizionale e caratteristico oggetto di ceramica composto di cinque o nove pezzi (solitamente di cinque: scodella, tagliere, ongaresca, saliera e suo coperchio), uniti e sovrapposti l’un l’altro. Tale oggetto prende il nome dal modo di dire secondo cui, la donna che avesse da poco partorito era definita 115 la paja, sulla paglia, cioè ancora convalescente a letto, sul pagliericcio. Fra le classi abbienti, l’usanza di regalare tale oggetto alla puerpera è durata fino al secolo XVIII, diminuendo progressivamente nei secoli successivi. Cfr. Baldini 1991, 74-75. 36 Intervista

a Elda N. (23 novembre 1995) di Ravenna.

37 Intervista a Rina B. (28 febbraio 1996) di Casola Valsenio. 38 Intervista a Rina B. (28 febbraio 1996) di Casola Valsenio. 39 In gergo romagnolo, quando si contano diversi esemplari di galline o simili, si usa come unità di misura il paio, facendo riferimento al numero di zampe dell’animale. 16 paia di capponi non corrispondono quindi a 32 esemplari, ma a 16 animali con due zampe. 40 Intervista a Giulia B. (5 ottobre 1995) di Ravenna. 4 «[...] i dolci a base di uova indicavano l’analogia fra vita nuova, rinascita e trionfo sulla morte» (Camporesi 1989, 19). 4 Cfr. Maher 1992, 164. Intervista a Rina B. (22 febbraio 1996) di Casola Valsenio. Cfr. Maher 1992, 169. Intervista a Giulia B. (5 ottobre 1995) di Ravenna.

A _s» » Mv a è

40 Intervista a Giuseppina M. (25 luglio 1995) di Ravenna. ES

? Intervista

a Venere M. (6 ottobre 1995) di Bagnacavallo.

Mangiare «per due» o mangiare «quel che c'è» 48 4° 20 2 22

103

Intervista a Lea M. (29 ottobre 1995) di Ravenna. Cfr. Whitaker 1994, 141. Intervista a Pia M. (29 ottobre 1995) di Ravenna. Intervista a Ida C. (16 marzo 1996) di Casola Valsenio. Intervista a Assunta S. (15 marzo 1996) di Casola Valsenio.

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MATERNITÀ E PATERNITÀ. IDEOLOGIE E SIMBOLIZZAZIONI FESTIVE A FESTIONA (1976-1995) Adriana Destro

Se si accetta il punto di vista che una ideologia è il modo attraverso il quale si vede il mondo o non lo si vede affatto (cfr. Katz

Rothman 1994, 139) è certo che molte ideologie relative alla famiglia non consentono visioni chiare o addirittura rendono ciechi. A livello ideologico, la famiglia è stata sovente interpretata come un corpo unico, caratterizzato da immagini e da rappresentazioni condivise. Questa visione si basa su principi di assoluta somiglianza e di pari idealità dei membri di un gruppo domestico. Non solo le ideologie più correnti interpretano i membri di un nucleo sulla base di comunanze aprioristiche, ma esse vedono il gruppo Sita attraverso principi naturalistici, come quello dell’unità di sangue!. La naturalità anzi diventa un principio di costruzione sociale e la famiglia, per questa via, appare destinata a «far da modello a tutti i corpi sociali» (Bourdieu 1995, 125)?. Al centro di questo nodo di visioni e di percezioni, il ruolo materno e quello paterno sono visti come valori che impongono vincoli incontestabili. Tali valori possono scaturire da concezioni morali comunitarie

o da ampi intrecci generazionali (cfr. Kavouras 1994). Pos-

sono, per opposto, essere semplicemente calibrati su alcuni ruoli interni al nucleo domestico, o su uno solo. Il ruolo materno in particolare dà ampio campo a valutazioni e giudizi che coinvolgono molta parte delle aree della socialità. È però talvolta soggetto a distorsioni o ad ambiguità. Per un verso, ad esso sono ricondotti atteggiamenti o sentimenti forti, da quello che esalta il fatto procreativo o che lo sacralizza a quello che riconduce ogni evento ai bisogni che crescono attorno alla madre. Per altro verso, lo si vincola a concezioni o tendenze che spesse volte non riflettono una idea autonoma e consapevole delle donne e nemmeno, sebbene ciò possa sembrare paradossale, quella del loro ambiente più immediato. Altre sono le convinzioni che crescono attorno alla figura del padre e al ruolo paterno. E risaputo che, soprattutto nelle società occi-

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A. Destro

dentali, è sull'uomo più che sulla donna che si fondano i concetti che strutturano la vita socio-giuridica. Non solo la paternità è il perno giuridico della struttura familiare ma concretamente il padre «riceve ed accoglie» i figli come propria spontanea e legittima continuazione sociale. Il padre si fa succedere dal figlio. Quest'ultimo assume la posizione del genitore, eredita il suo posto e la sua influenza attraverso, come usualmente si enfatizza, il suo sangue. A tutti i livelli,

dunque, la trasmissione identitaria più visibile e più riconosciuta è quella che unisce padre e figli. Le posizioni della maternità e della paternità e la dissimetria che le divide interrogano. Ci si può chiedere se esistono situazioni in cui il gruppo familiare unito e coeso si scompone in parti, o se esistono momenti in cui le enfasi sui ruoli rivelano elementi che sono oscurati dall'idea di corpo unico. La comunità di Festiona: vita ordinaria e rituali

Cogliere la vita di una comunità significa individuare i modi abituali, ma non per questo poco influenti, della sua esistenza. Festiona? è una piccolo borgo alpino cuneese (Valle Stura) che conta poche centinaia di abitanti stabili. Fino al secondo dopoguerra, ha vissuto ripiegata su se stessa, sulle proprie risorse. Pochi cultigeni di base (segala, grano, patate) a basso rendimento hanno fornito l’essenziale per la sussistenza. Ancora pochi decenni fa, Festiona ha ricavato qualche risorsa in più dalla produzione di legname (castagno, noce e faggio), da un certo numero di carbonaie e da un allevamento di bestiame all’ingrasso, allevato per conto terzi. Negli ultimi cent'anni, la scena comunitaria festionese è stata complessivamente percorsa da due grossi cambiamenti. Il primo riguarda l'andamento della popolazione. Fra la fine secolo e gli anni Venti-Trenta, gli abitanti sono andati via via diminuendo a causa di ricorrenti esodi verso la vicina Francia4. Ne sono risultati gravi depauperamenti del tessuto sociale e delle reti parentali e amicali. Una seconda serie di eventi si incentra su una forte operosità e adattabilità della popolazione rimasta. Nell’intervallo fra le due guerre, ma soprattutto dopo gli anni Sessanta, Festiona ha infatti avuto un risveglio economico e culturale. sLa popolazione, inizialmente costituita solo da piccoli allevatori e da contadini poveri o marginali si è econo-

Maternità e paternità. Ideologie e simbolizzazioni festive ecc.

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micamente risollevata attraverso il lavoro salariato esterno. Con l’acquisizione di salari regolari, tutta la vita paesana si è arricchita di nuovi mezzi non meno che di nuove aspirazioni. Si sono create alcune spinte verso una rivalsa nei riguardi del mondo esterno (cfr. Destro 1984, 23-27).

Anche nei momenti di grande sforzo e di pesante solitudine, la donna ha contribuito intensamente alla difesa in un primo tempo e alla ripresa comune in un secondo. Ha cioè sempre rappresentato la risorsa interna più stabile. A differenza dell’uomo essa normalmente non emigrava. Restava insieme ai figli ed ai vecchi ad aspettare il ritorno di chi era partito. Cosicché le storie di donne che hanno avuto esperienze esterne alla comunità sono relativamente poche se non proprio rare: alcune giovani donne sono partite per «andare a servizio» in città o in Francia e non sono più tornate. Il loro mancato

rientro, forse più delle assenze dei coetanei, ha cancellato ogni traccia della loro esistenza e ha così creato autentici vuoti ai livelli più intimi di sfere familiari e lavorative già povere. Dalle testimonianze raccolte si può inferire che sul piano individuale il matrimonio è stato causa di tensioni sia per l’uomo che per la donna. I tempi di costruzione dell’unione matrimoniale sono stati lunghi, le attese per giungere alle nozze interminabili. Spesso, per una ragazza l’espatrio di un pretendente significava cioè una lunga lontananza, un rinvio senza fine delle nozze. Da parte dei ragazzi, le cose erano altrettanto serie perché una promessa di matrimonio, una volta fatta, era un impegno difeso dalle famiglie. Solo alcuni espatriati però riuscivano a mettere insieme i mezzi per tornare a casa,

sposarsi e rimanere. Il senso di tutto questo è che cercare marito o trovare

moglie è stato un cammino

arduo o, in certa misura, un

obbiettivo vano. Le testimonianze relative alle difficoltà incontrate in campo matrimoniale, ancora vent'anni fa, erano drammatiche’. Le storie personali dei festionesi si ripetevano o si rispecchiavano a vicenda®: le necessità materiali della famiglia di origine (o, come si esprimono i festionesi, il «troppo lavoro» e i sacrifici che esse richiedevano) sono state un vero ostacolo al matrimonio degli uomini rimasti in paese. Essi restavano a casa, legati ai bisogni di genitori, di fratelli-sorelle e non erano in grado di pensare ad una famiglia propria. E così che, come risulta dai documenti parrocchiali”, si è verificata tra il 1870 e il 1930 una forte diminuzione dei matrimoni. In questo periodo, gli

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A. Destro

uomini di oltre cinquant'anni, che al momento della morte erano ancora celibi, raggiungevano livelli altissimi (a volte perfino il 30%). I tassi delle nubili erano inferiori, circa la metà (il 14-15% della popolazione femminile, con qualche punta del 17%). Il celibato e il nubilato insieme o più esattamente il «non-matrimonio» — ossia la impossibilità di entrare nello scambio matrimoniale — hanno dunque rappresentato fattori socio-ambientali che hanno tragicamente segnato il tessuto comunitario.

I pochi dati'qui menzionati possono far intuire quanti disagi e quante delusioni abbiano creato i mancati matrimoni, la scarsa natalità, le costrizioni familiari in periodi di decrescita demografica. Fanno capire come le unioni matrimoniali oltre a non essere sufficienti a mantenere un buon ricambio, a volte erano un vero inciampo nelle relazioni ordinarie fra mondo maschile e mondo femminile e negli abituali rapporti fra coetanei e fra famiglie. Vista la scarsità di risorse umane

era molto offensivo, ad esempio, il rifiuto di concedere la

figlia o, ancor peggio, il venir meno ad un impegno matrimoniale preso con troppo anticipo o sotto l'impulso di previsioni ottimistiche. Recedere da un accordo matrimoniale poteva anzi riversare sull’intera comunità disagi, rinunce e forse rancori. Su questo sfondo si possono leggere i sentimenti comunitari e le ideologie di indissolubile unità familiare che tutti si sentivano in dovere di abbracciare, così

come si possono leggere i conflitti e le concrete difficoltà di coesistenza dei festionesi. In altri termini, l'investimento emotivo e ovviamente economico

che si operava nel matrimonio era molto alto e altrettanto alte erano le aspettative. Cosicché, le delusioni che l'andamento matrimoniale regressivo imponeva alla popolazione erano molte e molto amare e non facevano che irrigidire le posizioni delle famiglie. Sicuramente l’autoritarismo degli anziani, la durezza della vita, un eccessivo valo-

re attribuito alla distinzione dei sessi ha compiuto il resto. Solo il ricordo deformato e nostalgico dei più anziani riesce oggi a nascondere questo stato di cose sotto parole rassicuranti: «a quel tempo ci si accontentava di poco». Si è detto che fra le due guerre, ma soprattutto alla fine della seconda, si è avviata una ripresa economica basata sui risultati positivi del lavoro salariato e dell’allevamento bovino (ormai di proprietà). Dopo gli anni Sessanta — fa mia osservazione diretta è iniziata nel 1976 — è intervenuto un netto cambiamento nello stile di vita dei

Maternità e paternità. Ideologie e simbolizzazioni festive ecc.

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festionesi. Ma si è introdotto anche un nuovo distacco fra chi restava in paese e chi andava in fabbrica a Cuneo e dintorni. È questo il momento in cui, disponendo di maggiori possibilità economiche, Festiona ha intensificato un suo interesse per attività festive antiche (che risalgono al XVII sec.)8. Sono attività che si costruiscono attorno alla figura di S. Magno, un santo singolare, non chiaramente documentato 1996, 31-33).

nei martirologi romani

(cfr. Destro

1984,

183-345;

La struttura della festa o meglio dei «cicli di S. Magno» — che è conosciuto nelle valli piemontesi come protettore del bestiame e degli alpeggi — non è ricostruibile in poche frasi. Occorre dare qui solo le linee essenziali dei personaggi e degli eventi. La figura del santo si basa su una vicenda mitizzata che si snoda entro un ampio spazio cultural-simbolico e ruota attorno alla condizione di soldato o «santo militare» di S. Magno. La vita del santo romano (Legione Tebea), che è raffigurato nelle icone e nelle statue con corazza e lancia?, approda ad un epilogo drammatico cioè al martirio (sulle Alpi Marittime). Sul luogo del martirio tra il 1704 e il 1716 è stato eretto il Santuario di Castelmagno in memoria e per il culto del santo. Annualmente vi si compiono pellegrinaggi e raduni non privi di caratteri culturali singolari (cfr. Destro 1984 e 1996). Festiona si è riconosciuta nelle celebrazioni di $. Magno che si svolgono ad Agosto nella sua parrocchia!, piuttosto che in quelle che ruotano attorno al santuario di Castelmagno. E ciò anche se queste ultime rappresentano un modello o un riferimento di fondo. Festiona ha mantenute vive le proprie attività festive malgrado ricotrenti difficoltà e gravi disagi (spopolamento, contrasti con le autorità ecclesiastiche, guerra). Nel corso degli ultimi vent'anni, la festa è

stata in parte ristrutturata su criteri di partecipazione collettiva più moderna. Ma ciò che è da rilevare è il fatto che i gruppi familiari, anno dopo anno, si sono dedicati alla festa senza ritrarsi in inutili rimpianti o auto-commiserazioni. Anzi la festa è sempre stata vista come un ritorno ciclico delle famiglie sotto la protezione del santo!! sotto i segni rassicuranti dell'abbondanza e del benessere. I contributi maschili e femminili più di spicco si possono raggruppare attorno alle funzioni di alcuni protagonisti o arbitri della festa. a) Le figure principali delle celebrazioni sono i quattro massari. I massari sono gli officiali, ossia i responsabili della Compagnia di laici intitolata a S. Magno *. La funzione del massaro e degli altri confra-

112

A. Destro

telli del santo è quella di conservare emblemi e simboli del santo entro la Compagnia, di preparare e gestire annualmente le onoranze del santo (cfr. Destro 1984). I massari sono sempre stati scelti fra i capi-famiglia più in vista. La loro carica dura quattro anni; anno dopo anno un massaro «uscente» (anche detto porta-bandiera) è sostituito da un «entrante». Il gruppo del massarato è guidato da un «priore». All’interno delle istituzioni parrocchiali, i massari hanno avuto uno statuto giuridico incerto perché la Compagnia di S. Magno non è mai stata eretta canonicamente!. La mancanza di una regolare fondazione ha privato questa associazione di reale personalità giuridica. Non ha conferito ai suoi membri la veste statutaria che è stata attribuita agli affiliati di altre compagnie. Va detto però che la irregolare struttura della Compagnia di S. Magno non ha reso meno celebri i suoi officiali. Anzi, semmai è vero il contrario. La sua configurazione ha forse permesso lo sviluppo di qualche prerogativa in più. È stata una spinx

ta verso un certo tipo di protagonismo

(un pò eclettico) e verso

alcune forme di autogestione della gente. Nella Compagnia si entrava come devoti. Si aderiva cioè in quanto si desiderava essere «compagni» del santo, addirittura suoi «armati» o «alabardieri» secondo le usuali forme di identificazione con santi e protettori. Questi compagni «armati» del santo si incontrano ancora oggi a Festiona. Sono i confratelli di S. Magno, personaggi

emblematici e centrali nella vita delle devozioni paesane. Da tempo immemorabile essi hanno assunto il titolo di Abadia, un nome stori-

co, anticamente attribuito alle compagnie dei «folli» o delle «questue», alle «società di giovani»!4. Si tratta di aggregazioni giovanili che hanno dato un carattere speciale alle feste e riunito attorno a sé un pubblico pieno di risorse. Tradizionalmente queste associazioni di celibi vagabondi hanno avuto funzioni profane e ludiche socialmente molto importanti. Nella infinita varietà di prestazioni che hanno messo in scena si sono dedicati a parodie e a burle, talvolta grossolane, ai danni delle associazioni religiose, dei riti devozionali, del clero stesso. Non di rado sono cadute in eccessi e hanno scatenato reazioni ecclesiastiche. E difficile abbracciare la complessità storica e il carattere eccezionale dei «folli». Fra le cose più sorprendenti o paradossali resta in pri-

mo piano il fatto che storicamente le feste dei folli sembrano nascere in ambito ecclesiastico. Heers precisa: «esaltazione del disordine e del

Maternità e paternità. Ideologie e simbolizzazioni festive ecc.

113

sovvertimento delle gerarchie [le feste dei folli] sono nate tutte in seno alla Chiesa. Sono stati i chierici, quasi sempre con l’appoggio, almeno nei primi tempi, dei loro decani e perfino dei loro vescovi, che le hanno imposte ed una popolazione sbalordita» (1983, 25)!6. Oggi, a Festiona, l’Abadia è il risultato finale di una lunga evoluzione di costumi, che non sono automaticamente rapportabili alle usanze e agli scopi della vita parrocchiale. Detto questo va però aggiunto che a Festiona l’abà non è considerato solo un personaggio comico e farsesco. Il titolo di abà è per consuetudine attribuito a chiunque si metta al seguito del santo (cioè della sua statua) e sfili per le vie del paese durante i riti religiosi con in mano una rudimentale alabarda (ornata di nastri e di fiori). Tutti coloro che sono stati

devoti del santo e lo hanno pubblicamente celebrato in questo modo, sono stati conosciuti come abà. C'è di più. Anche gli officiali della Compagnia, i massari stessi, sono stati e sono considerati abà, per il semplice fatto che per devozione portano emblemi militari, sfilano e costituiscono un tutt'uno con gli «armati» o gli «alabardieri». La complessità dei protagonisti festivi festionesi si fa evidente se si considera che oggi, le caratteristiche burlesche dell’abà sono complessivamente molto ridotte, ma non è caduta la sua inclinazione al gioco e alle gare. L’abà conserva alcuni suoi originali valori ludicosimbolici, anche se da molto tempo è ampiamente integrato nell’ordine della vita comunitaria. Non va nascosto che l'evoluzione ha creato problemi. Una lunga storia di dissensi o contrasti si interpone fra Abadia e clero (cfr. Destro 1984). Nei documenti parrocchiali sono

cioè riscontrabili i segni di un'opposizione non lieve fra mondo ricreativo delle burle-giochi e attività ecclesiastiche, fra i folli abà e i tranquilli e sicuri massari. Ad ogni buon conto, nel corso delle generazioni, si è a poco a poco creato un visibile e fertile intreccio: oggi massaro e abà non sono più distinguibili. Grazie a lunghe consuetudini, dunque, la saldatura delle due figure è incontestabilmente compiuta. La saldatura è visibile nei massari. Sono gli attuali massari che visibilmente riunificano entrambe le tradizioni. Ricongiungono, cioè, se mai sono state realmente distinte, la figura del devoto confratello della Compagnia di S. Magno e quella del giovane «folle». Le funzioni e i compiti del massaro all'incirca coincidono o integrano quelle dell’abà. Sono in parte devozionali e in parte ludici e simbolicamente innestano la vita ordinata parrocchiale su quella permissiva o trasgressiva del «disordine» farsesco.

114

A. Destro

I titoli dati ai protagonisti della festa sono indicativi. Sono soprattutto i normali confratelli di Sì Magno che oggi vengono chiamati collettivamente Abadia, mentre per gli officiali della Compagnia si usa più spesso il titolo individuale di massaro, o quello doppio di massaro-abà. Una sola vera distinzione esiste ormai: il massaro è al vertice della Compagnia e di ogni attività, il semplice abà è invece uno del popolo, un membro della Compagnia senza speciali caratteri.

Parlando di funzioni, è opportuno sottolineare che le donne non hanno mai avuto cariche ufficiali nelle commemorazioni di S. Magno. Infatti non sono membri della Compagnia di S. Magno. Le mogli dei massari vengono semplicemente chiamate massare e normalmente assumono titoli paralleli a quelli che assumono i loro mariti («massara

entrante»,

«priora»,

«massara

uscente»).

Non

sono

neppure contate come parte della Abadia, anche se spesso appaiono in mezzo agli «armati». b) La festa di S. Magno — affermano concordemente i festionesi —

appartiene ai contadini (e non alla parrocchia). Anche in passato non mancano, nelle «scritture» o «conti»! prove di questo atteggiamento di rivendicazione del «possesso» della festa. Proprio i «conti» mostrano in effetti che le famiglie festionesi si sono sempre caricate del compito di procurarsi soldi e mezzi! per «far andare avanti la festa». Tutto il lavoro preparatorio delle celebrazioni di S. Magno e la direzione delle cerimonie da sempre sono in mano ai massari-abà e ai loro più stretti collaboratori. Essi rispondono al bisogno di dar lustro a S. Magno e di offrire ricreazione ai confratelli e ai compaesani. Come si è visto, è però il background dell’abà che rende la festa una occasione per «fare allegria», per darsi al gioco delle carte e delle bocce o alle bevute!?. All’interno della famiglia, uomini e donne contribuiscono alla festa in modo differente. Le «collette» di denaro — distribuite su vari tempi (alcune su tre settimane, altre si dipanano lungo vari mesi) — sono fatte dagli stessi massari-abà. Ormai somigliano poco o nulla alle antiche questue dei giovani vagabondi e permissivi. Passando di famiglia in famiglia, i responsabili della Compagnia si rendono presenti presso i compaesani. Sollecitano la loro partecipazione e la loro offerta. Chiedendo un contributo, devono cioè invitare in modo ufficialestutti i compaesani ai riti religiosi e ai «rinfreschi» che punteggeranno la festa. Anche i gruppi più marginali,

Maternità e paternità. Ideologie e simbolizzazioni festive ecc.

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che sicuramente non si impegneranno attivamente, per dovere di cortesia e per senso di equità, sono inclusi nella lista delle visite. Non invitarli significherebbe recare offesa, discriminare, interrompere l'armonia collettiva. Le visite dei massari, al di là del fine concreto di mettere insieme il denaro per le celebrazioni, idealmente sono dirette a riconoscere il valore di ogni singolo nucleo familiare?0. La colletta, in conclusione, è ancor oggi una attività che dà visibilità e preminenza alla funzione degli uomini e delle loro famiglie. Una volta che sono stati invitati dai massari-abà, i capi-famiglia infatti donano denaro a nome del proprio nucleo. Entrano per questa via, insieme ai propri familiari, nella festa. Dal canto loro, le donne sono

meno coinvolte nelle collette; lo sono di più in vari atti di ospitalità e di accoglienza che si svolgono nelle loro case. Nel giorno di S. Magno, soprattutto le massare si occupano delle riunioni conviviali. Offrono dolci e bevande, mentre la banda suona (e qualcuno balla?!) per la intera giornata. I «rinfreschi» sono il compito più qualificante e più delicato delle massare. Fino agli anni del dopoguerra, era il lavoro maschile delle ro:de, che sosteneva finanziariamente la festa. Alcuni giovani (celibi o sposati) offrivano il proprio aiuto, per lavori occasionali o stagionali, a qualche famiglia priva di braccia maschili. Si trattava di un servizio volontario. Il ricavato veniva versato alla Compagnia come offerta per la festa (cfr. Destro 1884, 287-296). I contributi femminili erano costituiti da /izzosine, da filo o lingeria, prodotti cioè della filatura della canapa o lavori di cucito che le donne ponevano in vendita o all'asta (attraverso i massari). Non sono mai stati gestiti integralmen-

te dalle donne e non sono mai stati considerati rode. A differenza di ciò che accadeva per gli uomini, la commemorazione del santo, per le donne, non era dunque occasione per rendersi visibili entro il tessuto familiare o comunitario. Le risorse materiali che le donne offrivano per «far andare avanti la festa» erano viste come semplici estensioni delle loro usuali attività. Ritualità e ideologia relative alle relazioni parentali

Si può ritenere il rituale un insieme o una catena di azioni e di espressioni verbali. Queste azioni — se correttamente compiute’? possono trasmettere impulsi essenziali alla vita sociale. Le celebra-

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zioni di Festiona, in questo senso, offrono uno spettro di temi particolarmente ricco. In altri termini, la\festa come d’uso «custodisce un

forte potere di integrazione dei valori tradizionali d'espressione, delle tensioni, del rovesciamento rituale, della redistribuzione» (Vovelle 1997, 41).

In questa sede è opportuno limitarsi ad alcuni aspetti delle operazioni simboliche festionesi. E utile cioè delineare particolari rappresentazioni che mettono in luce nozioni relative alla famiglia e ai rapporti che si creano attorno alla maternità e alla paternità. Il punto critico cui bisogna far attenzione è il rapporto fra istituzione familiarese festa. Soprattutto per quanto riguarda il presente (1995) le manifestazioni festive sembrano lontane dai problemi delle famiglie??. In passato invece, per gli effetti del depauperamento demografico, del non-matrimonio, della povertà nella festa probabilmente si riversavano i problemi esistenziali più gravi, dalle frustrazioni personali alle ostilità fra famiglie. In altri termini, il problema della solidità familiare ha influito non poco sulla festa dei festionesi. Una generazione dopo l’altra, il corpo unico è stato il terreno sul quale si sono fronteggiate tutte le parti, ove si è rivendicato il proprio diritto e il proprio valore, anche quello rituale. La festa che ruota attorno alle famiglie (e alle prerogative dei loro capi) è stata l'occasione in cui si dava risalto tanto alle

tensioni quanto alle speranze, alle immagini ideali e alle pratiche concrete. Il complesso rituale di Festiona, si è già notato, è il risultato di molti intrecci che derivano dall’innesto della funzione del massaro su quella dell’abà. In questo senso, è indicativa la norma che regola l'ingresso di un uomo nel massarato #4. Come condizione di partenza, ad un individuo che aspira ad essere eletto massaro, è richiesto di

essere sposato. Il candidato deve cioè possedere uno status familiare solido ed elevato, godere del prestigio di capo-famiglia. Occorre dunque ripartire dal simbolismo dei massari e dal fatto che, escludendo i non sposati, il massarato ha stabilizzato i ruoli familiari e tenuto sotto controllo tutto l’intreccio domestico. I massari portano pubblicamente sulle loro spalle simbologie e qualificazioni familiari in quanto, nelle fasi salienti della festa, sono accompagnati dalle mogli. Visualizzano nei loro atti e nei loro gesti la condizione coniugale. Gli aspetti più solidi della figura del massaro-

Maternità e paternità. Ideologie e simbolizzazioni festive ecc.

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abà derivano dunque, e senza ombra di dubbio, dal fatto che l’uomo entra nella costruzione sociale insieme alla propria compagna. Chi non è sposato non può partecipare a detta costruzione o può farlo come soggetto subordinato e dipendente dall’uomo sposato. Il celibe, che non è legato ad una moglie, non entra nel flusso vitale che alimenta il gruppo, così come non vi entra il «giovane delle burle» e delle compagnie dei «folli», raffigurato nell’abà. Anzi proprio perché ricorda o ripresenta il modello celibatario (che non entra in nessun processo sociale di consolidamento), lo statuto dell’abà — che coesi-

ste con quello delle massaro nella persona fisica di quest’ultimo — getta qualche ombra sulla più importante funzione del massaro. L’antinomia si risolve o si è risolta nel tempo assoggetando l’abà al massaro. Se è cioè vero che nel massaro-abà coesistono l’uomo sposato e il suo opposto è anche vero che storicamente si è voluto valorizzare al massimo la figura del massaro e rendere l’officiale strumento di difesa e di riproduzione per contrastare l’abà. In questo senso, accompagnare o legare il massaro ad una moglie è stato un passo necessario e definitivo. Senza espungere l’abà (ma anche senza esaltario più di tanto) la prassi religiosa e il senso comune hanno saldato le due figure in un progetto complessivo incardinato sul massaro e sulla istituzione parental-familiare. Ad altro livello si può dire che a Festiona esiste una semantica delle figure femminili (che viene evocata o illustrata in poche, scarne

immagini) che risponde ad alcuni bisogni comunitari. Si è sviluppata in un duplice concetto, frequentemente e tipicamente usato dagli anziani. Il primo concetto ruota attorno all’idea che all’interno del corpo unico familiare «la donna basta a se stessa». Meno chiaramente formulato e molto più sotterraneo del precedente, il secondo concetto esprime la convinzione che «affare» delle donne è quello di fare figli. La donna è immaginata a partire da due angolature: l'una evidenzia una forte individualità, l’altra una non meno profonda genericità. Sostanzialmente nella prima immagine si trova una idea di chi è la donna: essa è colei che possiede i mezzi per soddisfare i propri bisogni, è cioè dotata di risorse personali, capace di dare risposte, di provvedere a necessità proprie e altrui. Soprattutto nei decenni della solitudine (quando gli uomini erano espatriati) la donna ha mostrato di possedere doti di costanza e di resistenza senza paragone che si sono tradotte in funzioni protettive della famiglia. In breve, in questo quadro la donna è detentrice di conoscenze tecni-

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A. Destro

che o di saperi essenziali della vita montanara. Nella seconda raffigurazione il carattere di uniformità prende il sopravvento e introduce un inevitabile appiattimento dei caratteri femminili?. Una donna non ha altro da fare che mettere al mondo figli: ogni donna in questo è uguale a qualsiasi altra. Le particolarità cioè scompaiono se si pone attenzione alla funzione materna. Si può dire anzi che la maternità finisce per accreditare anche la capacità di «badare a se stessa» come fattore omogeneizzante. In contrasto con questi elementi di fondo, nella festa di Festiona le donne non sono omogenee; spesso sono fra loro differenziate oltre che contrapposte agli uomini. Per di più, ed è questo il punto, non

sono

mostrate

né come

autonome

o bastanti a se stesse, né

come riproduttrici biologiche (cioè madri). Tutta la popolazione femminile partecipa alla festa e soprattutto vi partecipano le donne che appartengono ai nuclei familiari dei massari. Queste donne però sono figure prese in considerazione solo come mogli oppure come figlie dei massari. Ciò significa che esistono alcune parti femminili che vengono assunte solo da chi è moglie o figlia del massaro. Le massare, in verità, hanno compiti limitati: accompagnare

i

mariti, senza mai distinguersi o distanziarsi dai ruoli che essi assumono. Assistono alla messa in onore di S. Magno in prima fila, si occupano di alcuni dettagli (arredi, fiori, cura dei cestini, della statua e quant'altro connesso al santo) e portano in processione un grosso

cero. In modo evidente e non inaspettato, dunque, la ritualizzazione delle donne si pone su uno sfondo che rappresenta poco le categorie del saper «bastare a se stessa» e del «fare figli», le condizioni della specificità o della naturale vicinanza di tutte le donne. La festa introduce però parametri che non si riscontrano nella

vita comune. Le massare, non avendo propri ruoli istituzionali 26 partecipano in modo vistoso e con forza a quelli altrui introducendo sulla scena il ruolo di aiuto. «Entro il doppio statuto del massaroabà, le massare sono di volta in volta mobilitate su più fronti: ora per sorvegliare, ora per guadagnare maggiore concretezza al massaro e dar quindi ordine alla costruzione globale». (Destro 1984, 267-268). Tutto il processo fa cioè supporre che l’azione cerimoniale delle massare non sia che una replica delle loro attività familiari 27. Ma fa percepire anche che, a motivo della festa, esse sono donne che sono su un altro piano rispetto alle normali festionesi. Il giorno della festa, invece, le figlie dei massari hanno il compito,

Maternità e paternità. Ideologie e simbolizzazioni festive ecc.

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a loro molto gradito, di portare sulla testa un piccolo «cesto» in cui viene depositato, alla fine della messa solenne, il pane benedetto di

S. Magno. Il pane è uno strumento simbolico antico al quale, come si vedrà, si attribuiscono effetti apotropaici. La coreografia dei «cestini» ha una propria attrattiva. I cestini, oggetti di fattura locale, sono vistosamente bordati di fiori artificiali (di carta o di stoffa) e di nastri. I nastri scendono dalla testa delle

ragazze che li sorreggono e le coprono per tutta la lunghezza del corpo?5. Una «ondata» di nastri variopinti dunque campeggia nel mezzo dei raduni e sintetizza il momento festoso. Sono ben visibili accanto ai massari-abà, che portano una feluca piumata, bastoni, alabarde e stendardo (cfr. Destro 1984) e agli «armati» comuni della

Compagnia che portano anch’essi una alabarda ornata di fiori. Le ragazze sono festeggiate dalle coetanee, un pò enfatizzate dai parenti. Si fanno notare come raffigurazione della religiosità popolare che contorna e dà risalto ai confratelli armati di S. Magno, ma anche per qualche elemento legato alle loro giovani e promettenti persone. Anche qui le figure femminili messe in vista sono lontane dalle immagini di cui si è detto sopra. Non raffigurano né l’auto-sufficienza, né le capacità ordinarie della madre. A livello complessivo, è chiaro che per il massaro lo stato di uomo socialmente rispettabile e inserito, perché sposato, è reso più

attivo e completo dalla condizione di essere padre di una ragazza. Una regola importante va sottolineata. I festionesi sostengono che se

il massaro non ha una figlia non è eleggibile, non entra nel massarato. In passato, in casi del genere, il massaro era costretto a chiedere aiuto a parenti, a vicini e ad amici per ottenere «in prestito» una

figlia per la durata della festa. Fino a non molti anni fa, a causa di gravi depauperamenti demografici, questa singolare collaborazione non è stata un fatto raro. Anzi ha reso ancora più complessi i vincoli fra le famiglie, i parenti, le generazioni. Cosicché, si può dire che

possedere una figlia ha sempre segnalato la condizione di chi era inserito in un ampio ciclo riproduttivo della comunità e di chi disponeva di un privilegio naturale che diventava automaticamente privilegio comunitario sociale. Il «prestito», cioè la assunzione di risorse simboliche altrui, è

stato praticato in modo sintomatico sole per figlie giovani, adolescenti. Non sfugge che la divaricazione d’età fra madri e figlie giovani è sintomatica. È tutta giocata in favore di quest'ultime perché le

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A. Destro

prime portano alcuni vincoli. La donna matura viene ignorata perché è meno idealizzabile (oltre che meno controllabile). Non è centrale

nella scena celebrativa perché possiede una naturalità non duttile e non convertibile in favore di altri. Invece l'adolescente gioca ruoli che agevolmente possono essere usati per sostenere quelli degli adulti. In questo senso, le ragazze dei «cestini» si presentano come il principale mezzo di naturalizzazione e di istituzionalizzazione del ruolo paterno e della famiglia unita. La loro presenza rende chiaro che il massaro-abà è il principale o il vero detentore di prerogative naturali o di parti simboliche sulle quali crescono le ideologie. Appare ormai chiaro che l’ideologia del corpo urico non solo non sottolinea la maternità, ma la oscura. Nelle fasi festive, la lascia nettamente in ombra. Le mogli dei massari (che pur sono le madri delle ragazze dei cestini) non hanno simboli propri, fatta eccezione, come si è detto, per grossi ceri (che portano alla messa e durante la processione). Non si può ignorare che i ceri ricordano la simbologia pasquale della luce e alludono alla prassi liturgica della parrocchia. Non attribuiscono alla donna che significati riflessi, totalmente disgiunti dalla sua maternità, dai principi costruttivi che essa contiene. Dalla analisi fatta risulta che la identità del massaro-abà non viene creata principalmente sulla base della sua posizione parrocchiale o delle sue capacità organizzative. In ugual misura è creata a partire dalla famiglia, dalle funzioni riproduttive e coesive del corpo urico che egli guida e protegge. Le buone qualità dell’uomo, le sue inclinazioni religioso-devozionali non bastano se egli non è in grado di agire in pubblico come capo-famiglia, marito e padre (almeno temporaneo e fittizio). In queste circostanze è soprattutto la finzione della figlia «prestata» che è molto istruttiva perché mostra una relazione che eccede la parentela reale e che estende i significati parentali per ragioni o necessità sociali. Essa documenta uno sforzo di adeguamento ad un ideale, cioè esprime la convinzione che occorre stare entro una rete di relazioni che devono valorizzare il capo-famiglia, il suo ruolo, il suo gruppo. In breve, l’essere padre garantisce un incremento di funzionalità dell’officiale rispetto alle esigenze sociali della gente?9. C’è un riscontro sul piano cerimoniale: attraverso la paternità, la figura del massaro ha una volta per.tutte inglobato o assorbito quella dell’abà. Più è rappresentato come padre, dunque, più il massaro nega o è negato come abà. Se l’abà è un uomo «senza limiti» e senza

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legami che deve essere contenuto, ‘al massaro tocca il compito di assumere ritualmente i caratteri dell’uomo «misurato», che sta entro

precisi compiti e diritti che accetta tutte le sembianze e i valori della paternità (oltre che quelli della coniugalità). In questo senso, c’è una osservazione complessiva da fare. Nel suo incontro con la festa, la ideologia patricentrica ha dovuto utilizzare la donna per imporre limiti ad un tipo di uomo irregolare che non ne aveva, per trasformarlo in massaro. A questo livello, la figura del massaro, come si è ben visto, deve molto all’apporto ideale e pratico delle donne. Il massaro infatti appare vero arbitro della festa laddove e fin dove utilizza le simbologie provenienti dalle donne (mogli, figlie) e da ciò che esse incarnano nella famiglia. Nella comunità (così come nella festa) la donna è considerata mezzo di vigilanza e di correzione. Le donne e non solo le massare sorvegliano le bevute e gli eventuali eccessi degli uomini. «Controllano il vino» dicono alcuni mariti scontenti della sorveglianza delle loro mogli. Le donne inoltre posseggono il controllo totale delle risorse che vengono investite nei riti di convivialità («rinfreschi») anche di quelle ottenute o

acquistate dai mariti. E soprattutto all’interno degli ambiti domestici più riservati che esse controllano con autorità e decisione ciò che va fatto, che è conveniente per la festa e vietano ciò che è sconveniente. Non sfugge che è anche grazie a questo modellamento, sapiente e nel tempo inevitabile, che gli uomini e i protagonisti della festa sono diventati uomini affidabili e rispettati. Si deve aggiungere un elemento non di poco conto. Globalmente c'è stata una trasformazione o un «passaggio di mano» dall’abà al massaro di tutta la ritualità ludica e della spettacolarità del gioco. Il gioco a Festiona non è mai morto, neppure nei «tempi magri». Anzi,

nella festa si è sempre imposto il desiderio di difesa, la voglia di rafforzamento, il senso di sé anche attraverso la conquista del divertimento. Nella gente è sempre esistita l’urgenza di affermarsi mettendo in vista momenti o atteggiamenti differenti da quelli abituali, soprattutto da quelli domestici. In altri termini, si sono cercati mezzi che potessero momentaneamente e ciclicamente superare o sconfiggere i vincoli e le restrizioni imposti dai nuclei parentali. Il gioco ha strappato molti individui dai limiti della vita familiare, povera ed introversa e li ha avvicinati molto ad un mondo più libero, più spontanceo o più infantile. Tant'è che ai bambini oggi sono dedicate le competizioni e le gare più popolari.

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A. Destro

Per le donne, le figure più domestiche del nucleo familiare, le

tendenze sono però state diverse. In passato, le mogli e le madri sono state lasciate alla loro domesticità, quella pressante e ineludibile. A loro non è mai stato concesso di giocare. Per quanto è stato possibile (cioè in ogni occasione e con ogni tipo di divieto familiare e ecclesiastico) le donne, fino alle ultimissime generazioni, sono state

tenute lontane dalle gare, dai giochi e dai balli. Assenze e negazioni

Nella analisi fatta uno degli elementi che affiora in modo evidente è l’esistenza di una ideologia familiare in cui, fra tutte le figure femminili, la figlia del massaro ha un ruolo esplicito e formalizzato. Tutto è legato al pane benedetto. Tradizionalmente il pane era destinato alle «bestie malate», cioè veniva dato da mangiare agli animali in caso di pericolo epidemico e di contagio. Ancor oggi il pane viene conservato per devozione nelle famiglie?, anche in quelle che ormai non hanno più bestiame. Malgrado gli evidenti cambiamenti nella gestione delle aziende agricole e zootecniche, i festionesi continuano ad affermare che «senza pane non c’è festa» oppure che quello del santo «è pane speciale che non ammuffisce». Così facendo mostrano di: volere salvaguardare l'elemento che rende necessaria e naturalmente coerente la festa, che sostiene le aspettative, i bisogni che vi si aggregano attorno (protezione contro l’insicurezza, salute del bestiame, visibilità del legame comunitario ideale, ecc.).

In altri termini, la modernità non ha interrotto un processo di identificazione con strumenti arcaici, la cui custodia e il cui uso è

ancora oggi affidato al massarato. Ha solo introdotto alcune mediazioni culturali. La entità sacra (limitata e contenuta nel pane) è so-

prattutto una categoria interpretativa del mondo reale. In questo senso, il sacro è una ineludibile «manifestazione di potenza» che si visualizza e che viene vissuta in o attraverso uno specifico oggetto o prodotto culturale. E una modalità per dare ordine, coerenza, coscienza alla gente?! Sul piano festivo concreto, il punto fondativo è costituito dal fatto che le sole persone che hannocontatti reali con il pane — se si

eccettua il parroco che lo benedice — sono il massaro e sua figlia. Sono gli unici agenti che usazo il pane come strumento simbolico. La

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seconda lo trasporta nel cestino in giro per il paese appenaè stato benedetto, mentre il primo lo distribuisce alle famiglie festionesi appena concluso il «ciclo di S. Magno» (cioè la domenica successiva le celebrazioni religiose). La presentazione e la distribuzione del pane sono compiti ostentativi del padre e della figlia e creano un nesso importante fra loro. Per capire il legame fra chi genera e chi è generato occorre passare ad un altro livello di analisi. In ambienti tradizionali, un individuo alla nascita? è sempre stato visto come patrimonio di un gruppo e

attribuito ad una famiglia, in particolare ad un capo-famiglia. Questi lo ha ricevuto come sua diretta continuazione. In questo quadro, la madre non è vista come una produttrice per sé, bensì per altri. Va brevemente aggiunto, invece, che mettere al mondo un figlio rimane un fatto individuale, distintivo, È espressione della corporalità e della idealità di una singola donna. Inoltre partorire, «mettere al mondo» si eleva al di sopra della esperienza immediata e personale. A livello sociale generale, inevitabilmente muta in modo durevole molte situazioni collettive, non semplicemente singolarizza la madre entro confini stabili e imperituri. Distingue universi differenti, distanzia quanto meno chi produce e chi non produce, chi produce per sé e chi produce per altri. Tutti questi elementi offrono senso e visibilità alla maternità solo se non esiste o non si è in presenza di ideologie accecanti. È opportuno ritornare ai festionesi. A Festiona, sebbene nelle generazioni passate il dovere femminile primario sia stato quello di «fare figli», il compito procreativo della donna non è stato visto come un fatto particolarmente distintivo. A causa di molte disattenzioni o di prese di posizione in favore della paternità è stato spesso sottovalutato o dimenticato. Per l'esattezza, la maternità non è stata messa

in mostra quanto lo sono state la paternità o la coniugalità. Un antico pudore o una implicita intenzione di gettar poca luce sull’essenzialità delle madri in quanto tali ha dominato la vita festionese. Nel caso della festa, gli eventi e gli effetti non mutano. Il ruolo della maternità appare un fatto o un dato naturale, necessario e coinvolgente, ma indistinguibile da altre funzioni della donna, specialmente da quelle di moglie. Ciò si individua soprattutto nella massara. A livello esplicito la massara viene vista solo in una condizione di interface. È una connessione tra massaro e figlia. È — per dirla esplicitamente — perchèè necessario che il massaro abbia una figlia

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che anche sua moglie, alla fine ma solo indirettamente, cade sotto lo stesso obbligo. Tuttavia, in sé per sé; nessuno chiede che la massara sia madre anche se se ne fa un obbligo assoluto al massaro. Non esiste alcuna formulazione di identità del tipo: la massara è la madre delle ragazze con il cestino. Non si insiste neppure sul fatto che le figlie «accompagnano le massare» nelle cerimonie di S. Magno. Impera invece la convizione, più volte espressa, che la massara non ha «nulla da fare» e che deve seguire il marito negli atti che egli deve compiere. In sostanza, esiste un’ideologia che mette in campo e isola le figlie senza porre loro madri (e il rapporto che esse hanno con tali madri) alla base di un sistema di significato. Per valutare il flusso della costruzione sociale e inquadrare l'ideologia del corpo unico a Festiona, è importante esaminare un pò meglio il significato attribuito alle «figlie dei massari». Alla posizione privilegiata di queste ragazze, i festionesi danno alcune spiegazioni. L’avere pensato di metter in vista le adolescenti — commentano alcuni informatori — corrisponde al desiderio di contrapporre agli «armati» figure più graziose, più realistiche e certamente più pacifiche. La loro presenza nelle sfilate per le vie del paese sottolineerebbe gli ambiti familiari protetti e privati. Rappresenterebbe dunque ciò che è locale, interno e conosciuto rispetto a ciò che è esterno, proveniente da mondi lontani o forestieri (come la stessa Legione Tebea). Fra le spiegazioni dei fe-

stionesi risalta un ulteriore elemento: le ragazze sarebbero naturalmente connesse al pane benedetto. La sfera femminile sarebbe connessa o legata al cibo, al pane, alle sostanze curative (in campo umano o animale). Una spiegazione di questo tipo lascia incerti se si pensa che il pane benedetto di S. Magno, che pure è portato nei cestini issati sulle teste delle figlie dei massari, non è mai toccato dalle ragazze. Esse cioè si limitano a presentarlo, per così dire, alla popolazione in festa. Il pane è posto e tolto dai cesti solo dai massari-abà, i primi e veri agenti rituali. Va ricordato inoltre che le figlie sono evidenziate nel momento contingente della festa ma private di sbocchi rituali. Non hanno un proprio futuro rituale. Dopo essere state figlie del massaro, possono semplicemente o eventualmente, diventare mogli di un massaro. Su questa base, ci si potrebbe interrogare sulla ragione per la quale non si è dato risalto ai ragazzi insieme o al posto delle ragazze. Una possibile risposta potrebbe partire dalla con-

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statazione che i figli non sono al livello espressivo delle figlie perché sono collocati strutturalmente ad un livello più elevato. I figli o i nipoti del massaro-abà prima o poi sono destinati a succedere al padre o a qualche altro parente. Agiranno in proprio, non saranno sostegno di altri personaggi. Per approfondire il discorso sul ruolo delle ragazze occorre riferirsi ad altri fattori. Lasciando da parte le simbologie della fertilità, della verginità, della gestione tutelare della famiglia che il femminile può far immaginare, ci si può concentrare su elementi più concreti. La comunità probabilmente agisce attraverso le figlie anziché attraverso i figli anche perché una ragazza incarna e vive una precisa trasmissione culturale. L'istruzione che passa facilmente da madre a figlia renderebbe quest’ultima più disponibile a ripetere riti e costumi. Allevate fin da piccole e a lungo (quattro anni) nel rispetto di certi simboli non li abbandonerebbero facilmente, soprattutto se la loro iniziazione è stata precoce ed il loro ruolo infantile è stato vissuto con partecipazione. Mentre i ragazzi cioè competeranno per aver la carica di massaro, le loro sorelle conserveranno (almeno ci si augura) precise memorie, precisi saperi. In sintesi, la donna è agganciata ad un meccanismo festivo senza passare attraverso investiture:

non è eletta, non diventa la responsabile della custodia di segnali essenziali della festa (bastoni, feluce, alabarde) ma conserva alcuni

saperi tradizionali, senza i quali tutto è perduto. Un fatto finale va notato. Ancora quindici anni fa, le ragazze dei cestini erano adolescenti. Assumevano i loro compiti festivi alla vigilia del loro ingresso nella vita adulta, del loro «passaggio» epocale alle responsabilità familiari e comunitarie. Negli ultimissimi anni, le ragazze sono spesso molto giovani, addirittura bambine. Sono cioè molto più lontane dalla vita domestica adulta e più vicine al mondo dei giochi. Se possibile, sono ancor più chiaramente portatrici di segni di fedeltà e di attaccamento all'ambiente. A causa del cambiamento dei tempi si scelgono cioè bambine perché sono duttili e interne alle famiglie. È come dire che impegni del genere di quelli che sono loro richiesti sono quasi improponibili oggi ad una adolescente, tendenzialmente più libera ed estroversa. Le adolescenti, nell’arco di quattro anni di carica crescono — pensano i festionesi — e potrebbero mostrarsi via via sempre meno sottomesse o indispo-

nibili per un ruolo rituale arcaico e strutturato su simbologie conservative.

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Note conclusive

La ideologia della figura femminile, sottomessa componente del corpo unico, memore dei doveri e dei compiti si trova davanti ad una doppia sfida. In primo luogo, le modalità necessarie per assumere modelli e funzioni sono cambiate molto velocemente nel tempo. I massari-abà, un tempo unici arbitri della festa, oggi sono sempre meno soli ed autonomi ai vertici della festa. Lo testimonia il fatto che ormai dipendono per molte decisioni da una concreta approvazione delle mogli. La famiglia odierna dunque dà molto più spazio alla massara (pur continuando a non investirla di valori rituali indipendenti). Nelle trattative che precedono la scelta del massaro «entrante», le mogli infatti possono far sentire la propria opinione o porre il proprio veto. In definitiva, i mariti accettano la carica solo se le mogli accettano insieme a loro. Tutto ciò non fa che sottolineare l’idea di corpo unico, di doveri e di impegni comuni entro i quali dovrebbero crescere le figlie che, a tempo debito, dovrebbero essere in grado di mostrarsi fedeli esecutrici delle regole e delle pratiche della festa. Nella realtà ciò che cresce è la funzione di moglie, della compagna-alleata coniugale e null’altro. La seconda sfida proviene dal fatto che sono proprio le ragazze coloro che tendono a lasciare Festiona appena possibile, attraverso il matrimonio con gente di fuori. E questo un argomento che non si può qui affrontare. E certo però che le crisi subite dalla comunità sono anche legate al fatto che le giovani festionesi, da molti anni hanno mostrato di aspirare a lasciare il paese, la fatica dei campi, la vita di montagna. In conclusione, la maternità non è passata attraverso alcuna ri-

tualità o atto fondante che la potesse difendere. Ciò che pare sia prevalso a Festiona è la mancanza del bisogno di rendere la maternità un fatto da esplorare, consolidare o valorizzare. Quel che è

peggio è che attualmente non esistono occasioni per far recuperare alla madre le opportunità che ha perduto perché le donne giovani, le future madri sono un elemento di grande mobilità e di forte estroversione. Il capitale reale e simbolico che esse possiedono è orientato verso destinatari lontani ed inaccessibili. E molto probabile che esse diventino sempre più fattori di contrasto nei rapporti fra le generazioni. sa: Non aver dato alla maternità il posto che le competeva, non aver

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cioè tenuto in dovuto conto che essa è la condizione di accesso alle forze che costruiscono la società ha condotto ad una precisa perdita. Le madri, quelle che possono essere madri fra breve, sono ormai

drammaticamente sfuggite di mano”. Note ! «Niente sembra più naturale della famiglia: questa costruzione sociale arbitraria sembra situarsi dalla parte della naturalità e dell’universale» (Bourdieu 1995, 125).

? La metafora del corpo è molto usata in tutto ciò che riguarda il mondo parentale. Per quanto concerne la presente discussione, si usa il termine corpo per intendere un luogo di concentrazione di esperienze profonde della esistenza umana. Per alcune considerazioni d’insieme, a vari livelli e in varie situazioni, sulla corporalità

ctr. Le Breton 1992 e Destro 1994. ? Mi richiamo ad una indagine di campo svolta tra il 1976 ed il 1981 e proseguita poi nel 1992 e nel 1995. 4 «Lasciando da parte ogni intento di verificare il momento di avvìo e le cause di tali fenomeni, preme qui rilevare che la consapevolezza odierna definisce l’espatrio un puro mezzo di scampo. Esso ha avuto effetti massicci su tutti gli strati della popolazione perché ha intaccato e alterato lo status degli uomini, distanziandoli e ponendoli, a volte, su piani diversi e antitetici» (Destro 1984, 33). ? «Le strutture di parentela e la famiglia come corpo si perpetuano solo a prezzo di una continua creazione del sentimento familiare, principio di visione e di divisione che è nello stesso tempo principio affettivo di coesione, ossia adesione vitale all'esistenza di un gruppo familiare o dei suoi interessi» (Bourdieu 1995, 126). 6 Le storie festionesi non sono molto dissimili da quelle di altre regioni montane settentrionali. Sui problemi della distribuzione e variabilità della proprietà familiare e della condizione familiare montana cfr. Viazzo-Albera 1992, 165-175. ? I documenti sono raccolti nell’archivio parrocchiale di S. Margherita (Festiona). Sono abbastanza ben conservati ma non completi. Sono stati consultati soprattutto per ciò che riguarda le associazioni laicali di culto e gli stati d’anime. 8 Fino alla fine del secolo scorso o all’inizio di questo secolo, le Compagnie sono state numerose (SS. Sacramento, Suffragio, S. Defendente, Dottrina Cristiana, SS. Rosario, SS. Angeli Custodi, Figlie di Maria). Hanno però prodotto una documentazione scarsa, sicuramente meno importante e meno continuativa di quella prodotta dalla Compagnia di S. Magno. ? Per il carattere militare di S. Magno e le recenti trasformazioni che l’immagi-

ne del santo ha subito cfr. Destro 1996. 10 L'attività devozionale festionese è stata strutturata all’interno di compagnie e di confraternite laicali che hanno costellato la vita del paese per intere generazioni. La vicenda della Legione Tebea è complessa e storicamente non priva di oscurità. In particolare mancano nei martirologi romani testimonianze chiare relative alla figura di S. Magno, mentre ne esistono di S. Maurizio, di S. Defendente e di altri loro compagni, anch'essi santi militari.

I! Sulla ricostruzione del culto dei santi su basi storiche cfr. Boissevain 1992.

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A. Destro

In passato, esistevano vari tipi di massari, tanti quanti erano le compagnie. Erano scelti dalla comunità e presiedevano varie attività cultuali. 3. Manca ogni traccia di fondazione canonica della Compagnia nella documentazione che si trova nell’archivio parrocchiale di $. Margherita (Festiona). Il caso,

come si sa, non è del tutto insolito. Ciò che qui val la pena sottolineare è che nonostante tutto questa Compagnia è stata la più florida e la più longeva di tutte, segno che la sua funzione era largamente riconosciuta dal popolo e dal clero. 14 Nei microcosmi paesani piemontesi, le «società di giovani» oggi assumono o

riproducono modalità più o meno note. Un esempio interessante è illustrato ampiamente da Sibilla (1996) che descrive la badoche valdostana come una attività in pieno

rigoglio. 5A volte sono state interpretate come associazioni poste a far da contrappeso ai «flagellanti» o ai «battutti» (cfr. Destro 1984, 257-260). 16 Parlando della complessità storica e tipologica dei chierici, Heers sottolinea che le feste di ribaltamento dell'ordine nascono «arricchendosi ed esasperandosi nell’ambito spesso ristretto, perfino alquanto chiuso, di compagnie di religiosi: corpi collegiali, confraternite, comunità di parrocchiani più ricchi [...]. La festa comica, burlesca e quindi ben presto satirica, è per nascita e definizione paraliturgica: un divertimento di iniziati per stupire gli altri, scandalizzarli e infine cercar di coinvolgerli» (1983, 30). I Le Compagnie tenevano contabilità dettagliate delle entrate e delle spese connesse alle festa. I massari sono stati molto impegnati in queste «scritture»: le hanno sempre considerate proprie responsabilità anche se dovevano essere sottoposte all'approvazione formale dell’autorità ecclesiastica locale (parroco). 8 Anche se non se ne può qui discutere, va notato che in questa situazione il clero si è sempre adoperato per usare, con toni a volte perentori, il proprio diritto di controllo su ciò che i massari-abà intendevano fare o sul modo in cui volevano condurre la festa (cfr. Destro 1984).

x

19 Il bere fa parte della gestualità maschile più diffusa nel mondo montanaro. E parte di ciò che Driessen chiama «coreografia della socialità maschile» (1991, 249). Si tratta di un atto «omosociale» (1991, 246) che aggrega perché non è mai solitario, e addirittura pone le basi della differenziazione sessuale (all’interno delle relazioni familiari) e sociale (in termini di dominanza-sottomissione maschile).

20 Non stupisce che, in questa situazione, la famiglia di ciascun massaro sia costantemente sotto osservazione e sotto giudizio. Gli atteggiamenti e i comportamenti

delle quattro famiglie dei massari sono al centro di mille commenti. La gente sta attenta ai loro movimenti, alle loro riunioni dentro e fuori il paese, ai tempi delle loro visite. Si sente dire: «oggi i massari sono andati a trovare Tizio, ieri sono andati da Caio». 21 Il problema del ballo meriterebbe un discorso a parte. Visto come elemento di disordine e di cattivo costume è sempre stato causa di dissapori tra Compagnia e Parrocchia. Heers afferma che, in questo senso, sempre «i balli costituiscono altrettante occasioni di provocazione, aprono la breccia nelle cornici familiari o sociali ben stabilizzate» (1983, 18). 22 Alla ritualità si può applicare un criterio espresso da Bohannan: «la ‘giustez-

za’ può essere fisica e materiale o può essere culturale, segnata da criteri di appropriatezza o efficienza [...] nella vita sociale una sequenza prevedibile di azioni o avvenimenti è importante» (1995, 95-96).

Maternità e paternità. Ideologie e simbolizzazioni festive ecc.

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? La situazione di Festiona sul piano economico e strutturale è mutata rapidamente negli ultimissimi anni. Sono sorte molte seconde case e quelle dei residenti sono state in larga misura ristrutturate. È stata costruita anche una nuova piazza, più a valle di quella che fiancheggia la Parrocchia. 24 L’unica formalità richiesta all’abà, come si è visto, è quella di seguire la processione portando pochi simboli: l’alabarda e a volte il «piumetto» sul cappello. © Filippini (1995), discutendo del parto cesareo, dà un quadro del dibattito scientifico-religioso e delle concezioni sul parto e sulla maternità a fine 700. Offre anche varie notizie di come venissero viste le donne in documenti ufficiali e scientifici all’epoca. 26 In passato esisteva la Compagnia delle Figlie di Maria, per le donne. Era però una associazione che non corrispondeva al modello di una associazione laicale. Il suo statuto prevedeva norme di sorveglianza della buona condotta delle ragazze, loro ammissione ai sacramenti, controllo sui balli e sui loro atteggiamenti pubblici. 27 Ciò non significa che oggigiorno le massare siano semplicemente delle casalinghe. Alcune di loro lavorano al di fuori della mura domestiche, sono operaie o impiegate. Una massara di qualche anno fa era una insegnante della scuola elementare locale. 28 Sul significato attribuito ai nastri colorati cfr. Sibilla 1996, 51. 29 Entro questo quadro va capito che, di fatto, un uomo con figli è «entro i limiti», possiede una identità certa e durevole e tutte le possibilità relazionali che la comunità è disposta a concedere a chi è affidabile ed inserito. 30 Nel pane di S. Magno si ha un esempio di cancellazione della erronea distinzione fra beni che servono alla vita e alla salute e beni che «tengono in buone condizioni il cuore e la mente» (Douglas-Isherwood 1984, 80). 31 Cfr. Filoramo 1994, 27-28. È da tenere presente che il processo odierno non va considerato come semplice devianza (di tipo folkloristico) da una retta interpretazione cristiana dei simboli o come risultato ineluttabile della storia (che genera necessariamente novità). Si tratta, di un uso simbolico di mezzi della vita ordinaria attuale. Il sacro è canalizzato da segnali o da mezzi di sostegno della memoria collettiva entro i sistemi comunicativi e cognitivi di oggi.

32 Non si può qui aprire la discussione sull’immaginario che si costruisce attorno al nuovo nato e a chi non è ancora nato. Tali soggetti sono sempre stati visti da punti di osservazione differenti (giuridico, religioso, politico). Per una lettura storica dell’intreccio epistemologico-politico, ad esempio, del «cittadino non-nato» cfr. Filippini 1995, 102-155. 33 Va aggiunto a chiusura di quanto detto che oggi, all’interno di molti mutamenti, fra le giovani coppie, esiste qualche sintomo di crescita della natalità. Si tratta di tendenze ancora deboli, ma capaci di introdurre nuove speranze. Siamo cioè di fronte a fattori positivi che purtroppo sono ancora ben lontani dall’aver raggiunto il livello che potrebbe finalmente dar sostegno e visibilità alla maternità.

Bibliografia Barbagli M. e Kertzer D.I. (a cura di), 1992. Storia della famiglia italiana

1750-1950. Bologna, Il Mulino.

130

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Maternità e paternità. Ideologie e simbolizzazioni festive ecc.

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RUOLESESSUALI E DIVISIONE DEL LAVORO IN UNA COMUNITA EGUALITARIA: GLI ELFI DI GRAN BURRONE Cristiana Natali

Per le sue caratteristiche di coesione interna e di longevità la comunità degli Elfi di Gran Burrone rappresenta un’eccezione nel panorama italiano. Gli esperimenti comunitari a carattere non religioso che sono stati tentati in Italia negli anni Settanta e Ottanta, infatti, hanno avuto vita breve, e quelli che ancora sopravvivono

hanno attraversato gravi periodi di crisi (cfr. De Sario e Masnovo 1989, oltre a Francescato e Francescato 1974)!. Ma se questa capacità di durare nel tempo da parte di una comunità non religiosa, egualitaria, parzialmente atecnologica e basata su un’economia agricolo-

pastorale e di raccolta è già di per sé degna di nota, ancora più interessante è il dato che emerge a uno sguardo più ravvicinato: la

presenza di elementi apparentemente contraddittori rispetto al quadro identitario fondamentale della comunità. Il più importante di questi elementi, come vedremo, va certamente individuato nell’affie-

volirsi del carattere intercambiabile dei ruoli, previsto dall’egualitarismo originario, dovuto all’insorgere di una vera e propria divisione sessuale del lavoro. Si tratta evidentemente di un fattore dotato di grandi potenzialità destabilizzanti. Eppure a tutt'oggi (1996) la presenza di questa contraddizione de iure non sembra avere prodotto de facto alcuna conseguenza di rilievo sulla stabilità e sulla coesione del gruppo. Ciò impone una riflessione sull’elasticità e sulla capacità di continua autorigenerazione di quella che si rivela essere l’ideologia «profonda» di questo tipo di comunità: non, #7 prizzis, l’egualitarismo, bensì un’ideologia della natura carica di implicazioni differenzialiste. Uno sguardo sulla comunità elfica? La comunità degli Elfi è costituita da una trentina di adulti e da venti bambini, distribuiti su quattro insediamenti o «villaggi»?. Per

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C. Natali

raggiungere i villaggi, situati tra i monti dell'Appennino tosco-emiliano ad un’altitudine di 800-900 metrî, è necessario percorrere a piedi i sentieri che, dalla statale che corre nel fondovalle, si arrampicano,

attraversando i boschi, lungo i pendii delle montagne. La distanza da coprire varia dai quattro ai sei chilometri, e richiede circa trenta-quaranta minuti di cammino. A causa del relativo isolamento in cui vivono, del rifiuto consapevole della moderna tecnologia, che attira spesso critica o derisione (gli Elfi hanno rinunciato alla luce elettrica e alla fornitura di gas, e utilizzano solo raramente veicoli a motore) e

del loro aspetto originale (barbe e capelli lunghi, abiti colorati, cappelli di foggia strana) imembri della comunità hanno rapporti soltanto occasionali con gli abitanti dei paesi vicini. Tre villaggi della valle hanno tra loro contatti quasi giornalieri e sono omogenei dal punto di vista dell’assetto economico e sociale: uomini e donne vi abitano con i figli, e insieme lavorano la terra e allevano gli animali. Un altro insediamento è abitato da un solo nucleo familiare e, pur essendo talvolta sede di feste collettive, ha contatti sporadici con gli altri villaggi. La ciclicità dei prodotti e la loro ripartizione costituiscono le basi della comunità elfica, che pratica una «economia mista di montagna» (cfr. Pianta 1982) che vede alternarsi agricoltura, allevamento, sfrut-

tamento del legname, raccolta e bracciantato stagionale in pianura. Vengono divisi tra i vari villaggi i prodotti dell’attività agricola comune, il raccolto delle castagne, i beni che vengono donati alla collettivi-

tà. All’interno di ogni villaggio vi è una cassa comune per l’acquisto di generi indispensabili che non vengono prodotti sul posto. Il contributo che viene fornito alle casse comuni è determinato dalla possibilità e dalla volontà individuali. Le entrate monetarie provengono da impieghi stagionali, da prestazioni lavorative saltuarie — come la raccolta di legna secca per gli anziani della zona —, dalla vendita di generi alimentari effettuata in fiere di paese due volte l’anno. La moneta e il baratto sono i mezzi con cui si realizzano gli scambi della comunità, rispettivamente all’esterno o all’interno. Per l'acquisto di caffè, sigarette, generi alimentari, attrezzature, ci si rivolge ai negozi dei paesi vicini, a rivendite all'ingrosso in città, o ad aziende agricole, pagando naturalmente in moneta. Il baratto, riservato agli scambi interni (che più spèsso assumono la forma di doni) e a quelli con altre comunità affini, è decisamente preferito, e viene privilegiato nelle relazioni con gli amici e con i contadini.

Ruoli sessuali e divisione del lavoro in una comunità egualitaria

135

La produzione della comunità è in rapporto al diretto fabbisogno: ciò che è necessario per vivere viene prodotto nell’ambito di x

una stagione (raccolti) o nella successione dei giorni (uova, latte).

Notevoli quantità di cibo vengono preparate e tenute in serbo per l'inverno, stagione in cui la natura è più avara nel fornire frutti e ortaggi.

L’economia della comunità è quindi un’economia di sussistenza: la produzione di eccedenze è irrilevante, essendo rappresentata unicamente da un modesto surplus di farina di castagne. L’assenza di eccedenze non è dovuta alla povertà del suolo o ad una situazione climatica sfavorevole — la valle offre anzi notevoli possibilità di messa a coltura, testimoniate da uno sfruttamento dei terreni che nel passato era assai più ampio di quello odierno — bensì è da attribuire ad un «sottosfruttamento» delle risorse (Sahlins 1972) che è strettamente

connesso ad una concezione non alienante del lavoro. Le attività vengono svolte senza fretta, spesso in compagnia, e sono interrotte

qualora si palesi la stanchezza o un avvenimento particolare attiri l’attenzione. Viene perseguito il fine di lavorare con piacere, anche perché è opinione condivisa che qualsiasi attività, dal tagliare la legna al preparare la cena, debba essere accompagnata da uno stato d’animo sereno e attento per essere condotta a termine con risultati positivi. I momenti di socializzazione hanno spesso la priorità rispetto

agli impegni della campagna* e le occasioni per far festa non mancano: oltre alle feste tradizionali (Natale, Capodanno, Epifania, Pasqua) vi sono i compleanni, le feste di plenilunio, la festa delle castagne. L’eccezionale longevità della comunità elfica nel contesto italiano esige un tentativo di spiegazione. Ho ritenuto di potere individuare, quali fattori che rendono ragione della sopravvivenza di questa comunità, le seguenti peculiari caratteristiche: 1) la rigorosa e continua selezione attuata nei confronti sia dei visitatori (chi si rende responsabile di comportamenti giudicati scorretti viene allontanato dalla comunità), sia degli appartenenti al gruppo (che, comunque, beneficiano di una soglia di tolleranza più elevata); 2) la possibilità di mobilità interna, garantita dalla presenza dei quattro diversi insediamenti, che diminuisce il rischio di allontanamenti definitivi dal gruppo. Mentre per chi vive, infatti, in una comunità costituita da un solo insediamento l’unica alternativa ad una permanenza contrastata è rappresentata da una partenza definitiva, agli Elfi è offerta l’opportu-

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C. Natali

nità, qualora subentrino conflitti interpersonali, di spostarsi in un diverso villaggio per periodi più o meno lunghi. In tal modo spesso i contrasti hanno il tempo di rimarginarsi. E ciò anche perché la vita della comunità, scandita da feste e da lavori collettivi, offre ripetute

occasioni di incontro e quindi di riconciliazione’. Un'ultima caratteristica essenziale della comunità — che però non la distingue da altre aggregazioni simili — è l’occasionale permanenza all’estero, per periodi che possono protrarsi oltre l’anno, di alcuni dei membri (spesso a coppie, a volte in piccoli gruppi). Tra le mete privilegiate vi sono le Canarie, l’India e altri paesi dell'Estremo Oriente, il Brasile e altri luoghi dell’America meridionale. Questo

tipo di mobilità è possibile in quanto la prestazione lavorativa del singolo — contributo ai lavori agricoli, domestici e alla manutenzione — si esaurisce nell’ambito del ciclo stagionale. Ciascuno, con il proprio lavoro, produce il cibo di cui si nutrirà nel corso dell’anno”, e un'assenza, anche se prolungata, non pregiudica la produttività del lavoro collettivo. I viaggi rappresentano tra l’altro una risposta alla sete di novità che contraddistingue una piccola comunità rurale chiusa: l’esperienza del viaggio non solo appaga i protagonisti, ma diventa, al ritorno, narrazione per i bambini e per gli adulti, e anche esperienza he simaterializzo in muovi oggetti, nuove ricette o nuove canzoni che divengono poi patrimonio comune. Gli incontri avvenuti all’estero possono anche evolvere in relazioni di amicizia che portano all'ingresso, temporaneo o stabile, di nuove persone nella comunità. Il «cerchio», assemblea dei villaggi Non esistono nella comunità capi riconosciuti o persone investite

di incarichi speciali. Le questioni importanti per la vita di ciascun villaggio vengono discusse assemblearmente in sedi informali. Le decisioni che coinvolgono l’intera comunità, invece, esigono l’incontro dei residenti di tutti i villaggi. È quindi la A incontro per eccellenza, l'occasione privilegiata per le discussioni i Anche queste si realizzano in modo informale, davanti ad un fuoco acceso all'aperto, o in cucina, e vi partecipa solo chi è vivamente interessato: più che di una riunione si tratta in genere di una conversazione che si sviluppa finosad affrontare questioni determinanti per la vita della comunità. Se però alcuni membri del gruppo avvertono

Ruoli sessuali e divisione del lavoro in una comunità egualitaria

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il bisogno di parlare con #u#t gli altri, in un luogo e in un tempo prestabiliti, per affrontare un problema preciso, la voce si sparge: dopo un certo periodo, anche lungo, in uno dei villaggi «si fa il cerchio». Fino alla prima metà degli anni Ottanta ogni decisione collettiva veniva presa in questa sede, e quindi il «cerchio» (il cui termine è mutuato da un’analoga tradizione presente tra gli Indiani americani) aveva una periodicità bi-trimestrale. In seguito le conver-

sazioni occasionali sono state considerate sufficienti, e l'esigenza di questo incontro formale di tutti i villaggi si è progressivamente affievolita (nel periodo della ricerca, un intero anno, si è tenuto una sola

volta). : Il «cerchio», come si è detto, viene convocato in occasione di una festa. I partecipanti siedono in circolo, e ciascuno prende la parola per far conoscere il proprio parere sul problema in discussione, senza che vi sia un ordine prestabilito degli interventi. Le decisioni, in questo come negli altri casi, non vengono prese a maggioranza: si tenta di raggiungere l’unanimità attraverso la persuasione di chi ha opinioni differenti dal resto del gruppo. Qui la cosa importante maggiormente la decidi nelle feste. È il momento più grosso di incontro [...]. [La decisione] non si raggiunge all’alzata di mano, non si fa l’assemblea. Si raggiunge finchè le argomentazioni che portano a una cosa non trovano nessuno che è contrario. Convincendo, parlando insieme. Però se uno non è d’accordo se ne parla tutti insieme, sai? Non è un problema. Cioè come, per esempio, ultimamente si parlava: «Facciamo venire il trattore, facciamo venire la falciatrice a Casa Sarti, facciamo tutte queste cose qua». Io non ero d’accordo. Non tanto sul trattore ma sulla falciatrice, perché per me il momento del fieno è un momento troppo bello, troppo magico, tutti insieme a far festa, che stai due mesi. Però in effetti molti mi hanno detto: «Guarda che il tempo è lungo per fare questo. E basta già farlo a Piccolo Burrone e a Gran Burrone, già ne hai più di un mese da falciare, già ti passa la voglia; e poi il resto puoi sempre dedicarti di più agli orti, ai cereali». E io che sul momento ero un po’ così, sulle macchine un po’ restio, però, ho trovato che quello che mi dicevano tanti fratelli

mi andava bene. Ero un po’ chiuso nel dire solamente questo e sentivo che gli altri mi parlavano col cuore; e allora, allora ti apri, allora ti viene anche da dire: «Eh, sì, va bene, proviamol».

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C. Natali

La divisione sessuale del lavoro: origine ed evoluzione

La ricerca ha evidenziato la presenza, tra gli Elfi, di una netta divisione del lavoro su base sessuale. Proprio questa divisione rende ragione della apparente «spontaneità» della vita comunitaria, svelando l’esistenza di un livello implicito e accettato di suddivisione delle mansioni8. La divisione del lavoro si esplica chiaramente in certi ambiti, che sono di esclusiva competenza maschile o femminile. In altri è molto sfumata, e si riduce ad una differenza quantitativa: sia gli uomini sia le donne, ad esempio, si occupano della preparazione del cibo, ma alcune donne lo fanno spesso e alcuni uomini quasi mai. In dettaglio gli ambiti di lavoro caratterizzati dall’attività maschile sono: allevamento degli animali, loro utilizzo (per trasporto di materiali e derrate alimentari) e macellazione; abbattimento degli alberi; manuten-

zione degli edifici e lavori di falegnameria; preparazione del forno per la cottura dei cibi. I settori di competenza esclusivamente femminile riguardano tessitura, maglieria, rammendo, tintura di stoffe e

confezione degli abiti. Alle attività che occupano più tempo nell’arco della giornata — cura dei bambini; preparazione del cibo e dei prodotti alimentari quali conserve, marmellate, formaggi; pulizia degli ambienti, delle stoviglie e degli abiti; lavori negli orti e nei campi; raccolta — concorrono infine sia gli uomini sia le donne, con compiti intercambiabili. Il confronto con una ricerca risalente al 1985 e avente per oggetto la stessa comunità? induce a concludere che la divisione sessuale del lavoro abbia un’origine assai recente. Pare essere, infatti, una diretta conseguenza della nascita di un numero consistente di bambini che, in precedenza, rappresentando nella valle solo una presenza occasionale e limitata nel tempo, non avevano potuto indurre cambiamenti strutturali nella vita del gruppo. Scrive Gaia a conclusione del suo lavoro: A distanza di un anno dal periodo della mia prima permanenza, colpisce la qualità e quantità di cambiamenti avvenuti nella comunità [142]. In questo momento, settembre 1986, c’è una prevalenza di coppie con figli (o in attesa di essi) [143]. Quello che non era stato previsto, o meglio non pensato, è l'insorgere, come conseguenza diretta, di una serie di mansioni, ruoli legati

Ruoli sessuali e divisione del lavoro in una comunità esualitaria

139

al sesso molto più evidenti e vincolanti di quanto non si avvertisse in precedenza [...]. Vista dal di fuori la comunità effettivamente pare ora assomigliare ad una società contadina tradizionale, dove gli uomini compiono in genere i lavori più gravosi, i lavori che richiedono un maggiore dispendio di energia fisica; generalmente sono gli stessi uomini che si curano del bestiame, lo portano al pascolo e alla monta periodica. E vero, peraltro, che queste stesse occupazioni sono fuori dalla portata delle donne, limitate nei movimenti dall’allattamento dei piccoli, la cui frequenza quotidiana e durata nel tempo diventa ostacolo gravoso ad ogni possibilità di allontanamento dal villaggio [146-147].

Il processo di divisione sessuale del lavoro, che già si delinea nella descrizione di Gaia, si acuisce negli anni seguenti: alle nascite di Peico, Melissa, Timsel, Elendil nel 1985 seguono infatti quelle di Inti, Duende, Bilbo, Kiwani, Hopi, Sarim, Sanghita negli anni suc-

cessivi!°, Si assiste negli adulti a un mutamento radicale dell’atteggiamento nutrito nei confronti della vita nella comunità. Subentra infatti la consapevolezza della necessità di «pensare di più al futuro» (Emile), che si realizza concretamente

nella ristrutturazione

degli

insediamenti, che vengono tra l’altro dotati di acqua corrente, e nella ricerca di una maggiore stabilità nei settori produttivi dell'agricoltura e dell’allevamento. La presenza dei bambini comporta una riorganizzazione della vita quotidiana I bambini portano un ritmo che non c’era prima: per mangiare, per andare a dormire. Anche un ritmo abbastanza regolare !,

e ciò a sua volta dissuade da una permanenza prolungata quei visitatori, precedentemente molto numerosi, che cercavano un ambiente in cui le regole da osservare fossero poche: [Una volta c’era molta più gente che andava e veniva], molta di più. Soprattutto molti scoppiati della città, mezzi pazzi anche, che adesso non ce la fanno a stare qua, perché noi abbiamo il nostro ritmo, il nostro ordine se vuoi, le nostre storie con i

bambini.

Vengono inoltre apertamente ridiscussi i modelli di comportamento e l’uso del linguaggio!, nella consapevolezza del valore dell'esempio all’interno del processo educativo.

140

C. Natali

Appare evidente quindi come la nascita dei bambini abbia rappresentato un avvenimento che hasprodotto enormi cambiamenti nella vita del gruppo. E interessante notate, però, come essa venga

considerata anche la causa di processi che in realtà erano già in corso. Allora [prima della nascita dei bambini] c’era la camera comune, una stanza tutta piena di posti da dormire e le persone dormivano lì tutte insieme; anche le coppie. Invece da quando sono arrivati i bambini c'è come la struttura familiare. Cioè siamo una famiglia grande formata da tante famiglie piccole. Allora non si dorme più insieme, per dire, perché se c'è un bambino piccolo si sveglia di notte, disturberebbe gli altri. Tante cose a livello pratico hanno fatto sì che alla fine ognuno ha la sua camera, la sua stanza, separate. Magari quando cresceranno ricominceremo a stare più insieme!.

Esaminando però le dichiarazioni degli intervistati alla luce della ricerca di Gaia, che risale all’epoca di poco precedente all’avvento delle nascite, è possibile stabilire come in realtà le stanze individuali fossero già in quel periodo un dato acquisito: arredate con cura da chi vi abitava, presentavano le caratteristiche di ambienti in cui gli occupanti vivevano stabilmente (Gaia 1986, 11). La stanza comune, ammobiliata in maniera sommaria, era già allora riservata, come ac-

cade oggi, ai visitatori esterni o ai residenti di altri villaggi che vengono ospitati per qualche notte. Si può ritenere allora che nei membri del gruppo vi sia stato un processo di rielaborazione della storia recente della comunità che è servito probabilmente a spiegare un fenomeno la cui accettazione risultava problematica. La contraddizione tra il desiderio di privacy e l'assunto della necessità della condivisione totale della vita, è stata

risolta attraverso una ricostruzione del passato che individua nella nascita dei bambini la causa del progressivo ritirarsi in stanze separate. Per i membri del gruppo questa spiegazione del concatenarsi degli avvenimenti è diventata la versione riconosciuta dello svolgersi dei fatti: in questa forma si è sedimentata nella memoria collettiva della comunità; in questa forma verrà trasmessa ai bambini e viene oggi trasmessa a chi si aggrega al gruppo. Qui all’inizio, prima dei bambini, si viveva tutti in una stanza comune, 7777 banno raccontato, io non c'ero; ed era tutti insieme

Ruoli sessuali e divisione del lavoro in una comunità egualitaria

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perché era freddo, eran tutti i villaggi da fare. [...] E durato per mesi, anche per anni tutti a vivere insieme. Poi pian piano sono nati i bambini, allora è cambiata la situazione!.

Non esistono nella comunità archivi per registrare gli episodi salienti della vita del gruppo, e la copia della ricerca di Gaia, di notevole valore documentario, che veniva custodita

a Gran Burrone, è or-

mai andata perduta. In assenza di una storia scritta si è venuta a determinare una possibilità analoga a quella che si offre alle culture a tradizione orale. Ci si è trovati, presumibilmente, nell’opportunità di «ripensare» gli inizi, dî ricostruire il proprio passato affinché esso potesse essere letto come la storia di un’evoluzione coerente che conduceva fino al presente (cfr., tra i tanti casi riferiti nella letteratu-

ra antropologica, quello riportato da Cardona 1976, 91). Conseguenze sulle dinamiche sociali e decisionali Abbiamo visto come, a seguito delle numerose nascite, la neces-

sità di occuparsi dell’allattamento, delle cure e della sorveglianza dei bambini abbia condotto le donne a restringere le proprie attività all'ambito domestico, e abbia fatto sì che venisse lasciato agli uomini il monopolio di alcune attività economiche che prima venivano svolte in comune.

Le opinioni espresse nelle interviste mettono

in luce

come questo fenomeno sia avvertito dai membri della comunità. Se si fa il discorso di maggioranza o minoranza, cioè di quantità, probabilmente sono più gli uomini che stan fuori e le donne che stanno [in casa]: si ripropone un po’ uno stereotipo così. Però nello stesso tempo c’è la possibilità poi che ognuno faccia quello che vuole. Però, va beh, le donne per un periodo quando hanno il bambino, specialmente piccolo, quando hanno l’allattamento, devono stare più vicino alla casa!°.

Se io non avrei i bambini non mi legherei tutto il giorno alla cucina. Magari starei dietro a fare i lavori che fanno gli uomini. Avrei più libertà per farlo, no? Allora diciamo: io adesso che ho i bambini sto con un uomo. Se io vado nel bosco, chiaramente l’uomo sta a casa. Anzitutto l’uomo non riesce a stare dietro ai bambini e alla casa come siamo abituate noi, per cui si trova in difficoltà. Però se io non avrei i bambini, andrei al bosco e farei lo stesso”.

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C. Natali

La separazione tra i sessi, riconosciuta ed evidente per quanto

riguarda le occupazioni lavorative, si estende anche all'ambito più intimo e privato delle relazioni interpersonali. I legami che vengono rafforzati dallo svolgere insieme una stessa attività (come andare a far legna nel bosco, mansione tipicamente maschile e di squadra) si esprimono spesso attraverso una preferenza accordata ai membri dello stesso sesso per scambio di confidenze e compagnia. Se da un lato lo svolgimento di mansioni in comune conduce infatti a privilegiare specifici argomenti di discussione (la cura degli animali piuttosto che le strategie per diminuire il carico del lavoro di pulizia degli indumenti dei bambini), dall’altro la pro-

tratta prossimità con i membri dello stesso sesso si riflette sulla scelta della persona a cui esternare emozioni, problemi, desideri. Anche

se l’esistenza di questa modalità relazionale non contraddice l’istanza egualitaria, è però un indice valido di come il processo di separazione tra i sessi si sia stabilizzato e abbia portato alla creazione di due gruppi (quello delle donne e quello degli uomini) che vengono

percepiti come distinti. Ciò è confermato dalle osservazioni di Lorenza: In città i gruppi di amici sono formati indifferentemente da uomini o donne, magari dipendendo dagli interessi personali, non so: da quello che hai studiato, da quello che studi, o dal lavoro che fai, o dai divertimenti che hai, così. E qua [invece] c'è un po’ più questa tendenza di formare il gruppo degli uomini, il gruppo delle donne. [...] per esempio alla sera, di notte, si trovano gli uomini e parlano e parlano e parlano e non si stufano mai e hanno un sacco di cose da raccontarsi. Se invece ci fossero le donne, non gli interesserebbe tanto, cioè non avreb-

bero tutte queste cose da dire, hai capito? gli argomenti son differenti da quelli che donne magari parlano di più o di bambini, cosa fare per abbellire, cose così. Mentre altri discorsi!

Forse perché anche hanno le donne. Le o delle stanze, o di gli uomini ... fanno

Anche nelle parole di Emile troviamo conferma di questa predilezione per la conversazione tra uomini, che però si spiega non solo con le caratteristiche della vita comunitaria, ma anche, pure se non esclusivamente, con un gusto per il dela acceso (B#23, 0275; 21 Ibid., 2 giugno 1752, c. 40-41. 192 CAT B 12, 14 gennaio 1687, c. 187. Inutile rilevare che anche questa conversione sembra esser dettata dalle circostanze. 193 CAT G 9, febbraio 1728°

!94 Ibid., 28 ottobre 1738.

La Pia Casa dei Catecumeni in Venezia

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195 Ibid., 9 Agosto 1731. 196 Tbid., 10 agosto 1734. 197 Si tratta probabilmente di un persiano. 198 Ibid., 24 agosto 1736. 19 Tbid., 3 marzo 1739. 200 Ibid., gennaio 1727. 201 Ibid., 2 luglio 1741. 202 ASV, Deliberazioni Costantinopoli 1682-1700, registro 35, c. 232v.-233. 20 CAT G 9, gennaio 1730. 204 Tbid., 21 agosto 1737. CRV nOrarz) 206 Così un certo Barbaro, di Sant'Aponal, riferisce di aver fatto battezzare un bimbo turco di quattro anni in pericolo di morte. CAT B 14, 26 marzo 1697, c. 114.

207 Il 7 gennaio 1687 vengono accolti due moretti e una bimba avendoli fatti levare con mandato penale dalle mani di persona che li teneva nascosti per venderli, (CNMI. 208 Probabilmente figlioccio di Reniero Zen (1722-1792), governatore della Casa dei Catecumeni: cfr. Aikema- Mejers, 1989, 223. Il quadro riporta la data del battesimo, avvenuta il 27 novembre 1770. 2024 Cir. Nassini, 1887, 2; 750751.

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