Don Camillo & Peppone. L'invenzione del vero
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Alessandro Gnocchi

Don Camillo &

Peppone l’invenzione del vero

Rizzoli

Proprietà letteraria riservata © 1995 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano ISBN 88-17-84403-9

Prima edizione: maggio 1995

Don Camillo Peppone l’invenzione del vero

PROLOGO

Dalla parte di Peppone

«Nossignore» spiegò Peppone «noi non coercizziamo nessuno perché tutti staranno a casa per conto loro, e nessuna legge li obbliga ad andare in chiesa. E un semplice esercizio della libertà democratica. Perché gli unici che possono giudicare se un sacerdote va bene 0 no siamo noi, che lo abbiamo sulle costole

da quasi vent'anni.» Don Camillo, «Ritorno all’ovile»

A ogni capitolo, un prete: per parlare di don Camillo, del suo mondo e del suo creatore. Nelle pagine che seguono, il clero ha avuto la sua parte e non ne serve di più. Se c’è qualcuno che ha da farsi sentire in questo prologo è il povero Peppone. E di motivi ne può snocciolare parecchi, quante sono le macchie sul fazzolettone rosso che porta al collo. Innanzitutto, come scriverebbe in uno dei suoi proclami, per una questione di giustizia sociale. E si sa che, quando Peppone sente parlare di giustizia sociale, si cava il cappello come davanti al miracolo della creazione dell’universo. E pur vero che, per lui, don Camillo non è un prete clericale, e così finisce per concedergli anche quello che non vorrebbe. Ma il popolo vuole la sua parte. Come negargliela? A Mondo

piccolo, che poi è il cuore

di Guareschi,

tutti hanno diritto di parola. E non si devono temere sorprese. Per grosse che siano le uscite di qualche squinternato, non lo saranno mai quanto quelle che tutti i giorni si sentono per strada, in televisione o si leggono sui giornali. Anche da queste parti esistono degli stupidi. Ma si tratta di stupidi in proprio. Alla fine si scopre che non hanno gettato il cervello all’ammasso e non straparlano mai per conto terzi. In altre parole, pur col cervello di traverso, sono delle persone per bene. Se anche a Mondo piccolo andasse di moda scrivere con la vernice sui cartelli indicatori, oltre al nome

del paese,

Repubblica di questo o di quest'altro, qui si leggerebbe «Paese tal dei tali. Repubblica dei galantuomini».

Ma Peppone non parla soltanto a nome del popolo. Se avanza delle pretese, lo fa anche a nome di una buona metà del cuore di Guareschi. Perché il cuore di questo scrittore è fatto

a modo

suo, come

tutto il mondo

che racconta. Così, se don Camillo, per ragioni squisitamente politiche, è il suo ventricolo destro, Peppone è quello sinistro. E si sa che, senza uno dei due, il cuore

non marcia. Per pompare il sangue nelle vene di Mondo piccolo servono entrambi. Sarebbe un guaio se uno si fermasse un solo momento. Per questo, quando uno commette una stupidaggine, l’altro si affretta a imitarlo. Alla fine si tratta di una questione di circolazione. Una questione tecnica. Si capisce così che il ventricolo destro e quello sinistro non esistono solo per necessità politiche, ma anche, e soprattutto, per esigenze letterarie. Solitamente le stupidaggini di Peppone e don Camillo sono di una certa importanza e la macchina di Mondo piccolo ne rimane squassata. Ma è questione di poco. Un sussulto che dura lo spazio di una pagina. Al massimo di un capitolo. Tanto più che, nella maggior parte dei casi, i due si rincorrono facendo cose egregie. In città non si esiterebbe a definirle stupende e a ricamarci sopra chissà quali teorie. Invece alla Bassa, come in tutta la campagna del mondo, si finisce per considerarle solo cose di buon senso. Ma si sa che oltre non si può andare, perché sono tutte cose fatte secondo le regole del buon Dio. Semplice dovere, insomma. Infine Peppone parla a nome delle pagine in cui vive. Si capisce che le ama. Se le sente addosso come i suoi capelli imperlati di sudore, come il suo fazzolettone rosso o come la medaglia al valore guadagnata durante la prima guerra mondiale. Gli spiacerebbe che qualcuno non le capisse per il verso giusto e ne parlasse a vanvera. Come si può fargli un torto simile? Se qualcuno gli spazzolasse la schiena di legnate, non sorgerebbero problemi. Uno come lui sopporta ben altro e ci si potrebbe anche ridere sopra. Ma vederlo immusonito e con un filo di magone perché don Camillo, lo Smilzo e tutta l’altra mercanzia messa al mon10

do dal signor Guareschi non sono trattati come si deve strapperebbe il cuore anche al più freddo dei critici. È vero che il parroco gli ha giocato dei tiri mancini. Ma solo lui ha il diritto di cantargliene quattro. Neanche i suoi compari possono permettersi di oltrepassare il limite. Dunque è lui il più titolato a giudicare don Camillo. E su questo è d’accordo lo stesso Guareschi. Tanto da metterlo nero su bianco in Don Camillo nel racconto «Ritorno all’ovile». In quell’occasione, il parroco l’ha fatta grossa e il vecchio vescovo ha pensato bene di spedirlo in montagna. Così arriva in paese un pretino che comincia a sistemare la chiesa a suo criterio. Il povero Peppone resiste fin che può, ma un bel momento,

durante la Messa,

si alza e va a rimettere un grande candelabro al posto in cui l’aveva sistemato don Camillo. La folla risponde in coro con un «Bene», reazionari compresi. La questione finisce davanti al vescovo, che sa prendere le persone per il verso giusto, e Peppone parla a nome di tutti, reazionari compresi. «“‘Monsignore” disse, ed era pallido e sudava perché era costretto a parlare sottovoce. “Se l’autorità ecclesiastica ha dei motivi particolari per fare così, padronissima. Però ho il dovere di avvertire che fino a quando non ritornerà il titolare effettivo della parrocchia nessuno più andrà in chiesa.” «Il vecchio vescovo allargò le braccia. «“Figlioli” esclamò “vi rendete conto della gravità di quanto state dicendo? Questa è una coercizione.” «“Nossignore” spiegò Peppone “noi non coercizziamo nessuno perché tutti staranno a casa per conto loro, e nessuna legge li obbliga ad andare in chiesa. (...) Perché gli unici che possono giudicare se un sacerdote va bene o no siamo noi, che lo abbiamo

sulle costole da

quasi vent’anni.”»

Così Peppone buca la pagina. Ne esce per mettere in guardia chiunque voglia allungare le mani su don Ca11

millo. Chi può avere l’ultima parola sul parroco sono lui e la sua gente che l’hanno tra capo e collo da una ventina d’anni. Naturalmente, l’ultima parola è sempre assolutoria. E quando don Camillo, appena tornato, gli rompe sotto il naso un mazzo di carte come fosse un crostino di pane, se ne va brontolando con la faccia scura. Poi raccon-

ta il fatto alla sua banda chiamando quel pretaccio figlio d’un cane. Ma con intimo compiacimento. Quel sentimento non è troppo celato, se Guareschi lo mette tanto in evidenza. Dentro vi si annida la forza a cui Peppone attinge per assolvere qualsiasi peccato di don Camillo. Non suona neanche tanto strano pensare a questo sindaco malgarbato dal fazzoletto rosso al collo come a una specie di confessore del suo parroco. Ecco il motivo per cui questo prologo deve dargli voce. E non è tutto. Perché Peppone sarà sicuramente il lettore più spietato di quello che segue. I preti non fanno troppa paura al confronto. Fra i tanti che sbucano da queste pagine, troveranno pure un confratello che fa al caso loro. Ma Peppone, chi lo tiene buono? E poi, potrebbe chiedere, perché un libro su don Camillo e non

su di lui, che pure ne ha fatto di lavoro per tenere vivo questo benedetto Mondo piccolo messo in piedi dal signor Guareschi Giovannino? Già, perché? Qui conviene spiegarlo a tutti e tre: al meccanico Peppone, al segretario del Pci Giuseppe Bottazzi e al sindaco Bottazzi Giuseppe. Su tre persone, almeno una potrà essere disposta all’indulgenza. Il fatto è che anche Peppone, pur se nominato di meno, si trova fino al collo dentro questo libro. Come in

don Camillo, anche in lui c’è qualcosa di strettamente legato alla nascita del loro mondo. C’è qualcosa di originario, che porta dentro di sé l’intera forza e l’intero mistero della vita. Il loro cuore, la loro infanzia, il loro

linguaggio, quanto basta a Guareschi per creare un universo letterario, sono gli stessi. Per tutta la prima parte,

quella che fornisce la chiave di lettura per tutto il resto, al nome di don Camillo si potrebbe benissimo sostituire 12

quello di Peppone. Basterebbe cambiare qualche citazione e il risultato sarebbe lo stesso: l’anima di Mondo piccolo, la sua genesi sarebbero lì. Le tre figure di preti che fanno da filo conduttore hanno qualcosa di speciale: sia nel cuore di Guareschi sia nella nascita del suo mondo. Piacerebbero senz’altro anche al sindaco Bottazzi. Lo zio Oliviero Maghenzani, padre Lino Maupas e fra Salimbene da Parma riportano l’universo guareschiano al momento della sua creazione. Quando tutta la materia sta prendendo la sua forma. Quando anche i più piccoli elementi stanno assumendo la loro fisionomia. Sono tre figure universali, capaci di parlare con tutte le creature di questo mondo. E capaci di dar loro la voce. A ogni essere di Mondo piccolo hanno dato un po’ della loro anima

e, tuttavia, non

si sono

svuotate.

Hanno

mantenuto tutta la loro forza dentro il cuore di Guareschi. E questo è un piccolo miracolo letterario. Per rendersi conto di quanto Peppone entri in tutto ciò bisogna osservarlo lavorare nella sua officina. Possibilmente mentre cava dei riccioli da artista da un pezzo di ferro. Mentre picchia gran martellate sull’incudine, si instaura un rapporto straordinario tra lui e il ferro arroventato. In quel momento diviene creatore. La materia, nelle sue mani, diviene docile quasi per miracolo. Viene riportata alle sue origini e forgiata nuovamente. Coi capelli che gli cascano sulla fronte e la camicia a quadrettoni, ricorda da vicino Guareschi intento a lavo-

rare di fino sulle sue storie, sui suoi personaggi e sul linguaggio del suo mondo. Ci sono la stessa forza e la stessa ricerca della precisione nel lavoro di Peppone e in quello del suo creatore. Ogni colpo di martello, come ogni battuta sul tasto della macchina per scrivere, sono una

lotta con

la materia,

a cui è necessario

dare una

forma. Fabbro e scrittore si impegnano nella medesima impresa. Si guardano attorno e, con quello che si trovano sottomano, ricostruiscono la realtà a loro estro. Lo aveva

spiegato benissimo Guareschi riprendendo in un artico13

lo pubblicato su «Candido» il 18 marzo 1951 un’espressione di Giuseppe Verdi. In una lettera del 20 settembre 1876 alla contessa Clara Maffei, il musicista riassumeva

la sua concezione dell’arte in un passaggio fulminante: «Copiare il vero può essere una buona cosa, ma inven-

tare il vero è meglio, molto meglio». L’invenzione sta in quella leggera sfasatura che l’artista imprime come un suo marchio sulla realtà. È la cifra del genio. Non è un caso che Guareschi pensasse le sue storie in dialetto. E neppure che chiedesse di essere lasciato in pace quando lo vedevano trafficare con qualche lavoro manuale, visto che in quel momento prendevano corpo i suoi personaggi. Era un modo per essere più ancorato alla terra e al suo profumo: alla terra e al suo bisogno di trasformarsi sempre in qualcosa di nuovo. Anche di tornare terra, certo, quando il buon Dio lo vuole. Perché

Giovannino e Peppone sono entrambi convinti che è inutile dare troppa retta al progresso. Ogni volta bisogna tornare da capo. Qualsiasi gesto, qualsiasi parola che non siano inutili devono portare dentro la forza violenta del primo giorno. Corrano pure quelli di città. Un bel momento tutto andrà a catafascio, ma Peppone non se ne darà troppo peso. Continuerà a martellare sull’incudine come ha sempre fatto, da quando è cominciato il mondo. Questa affinità elettiva col suo creatore spinge Peppone a fuggire dalla pagina. Sicuramente si è messo qualche volta a guardare il signor Guareschi martellare sulla sua macchina per scrivere. Magari con quella tenerezza del padre che osserva di nascosto un figlio. Una volta lasciato libero da legami letterari, questo omaccio è capace di tutto. Anche di fare il sentimentale. Allora eccolo mentre guarda il suo Giovannino neonato, in braccio al socialista Giovanni Faraboli. Sa bene

che quella splendida figura di sindacalista d’altri tempi sarà il modello su cui lo scrittore lo dipingerà nelle sue storie. Poi eccolo quando lo segue giocare e farsi grande. È una bella soddisfazione per una creatura letteraria 14

potersi compiacere del proprio creatore. Per squinternato che potesse essere, il signor Guareschi era proprio una brava persona. E poi, con le storie ci sapeva fare. Certo gliel’ha combinata bella mettendogli vicino don Camillo. A lui, campione

dei rossi del suo paese,

non avrebbe dovuto farlo. È vero che su quel parroco è difficile appiccicare etichette. Però, messo a far la sua parte in un periodo in cui la sinistra e il progressismo sembravano lanciati verso radiosi orizzonti, poteva apparire soltanto come un prete di destra e reazionario. Non bisogna aver paura dei termini. Tanto più che allo stesso Peppone stavano bene. Per capirlo, basta rovesciare per un momento la questione. Cosa se ne sarebbe fatto il povero sindaco di un pretino progressista in marcia verso sinistra? Sarebbe morto d’inedia trovandosì tra i piedi un acconto di prete che, dal pulpito, avrebbe cercato solo di dargli ragione. Per farglielo capire, Guareschi, in Don Camillo e i giovani d’oggi, gli mette in paese don Chichì, l’esatto contrario di don Camillo. Ed è un disastro. Peppone sente in fretta che aria tira. Al cuore di Mondo piccolo mancherebbe il suo ventricolo destro e il sangue non circolerebbe per il verso giusto. E poi, alla fine, quel don Chichì finisce per essere un prete molto più clericale di don Camillo. Che clericale, non lo si sottolinea mai abbastanza, non lo è per nulla.

Ma c’è dell’altro. Pur tenendo ferma la teoria dei ventricoli, Peppone sente di somigliare troppo a don Camillo. E qui sorge un problema. Va bene: don Camillo è un

pretaccio

reazionario,

nero

come

l’animaccia

sua. Ma allora lui, Peppone, cos'è? Si fa presto a dire destra

o sinistra.

Poi, alla fine,

qualcuno la butta in politica e i conti bisogna pur tirarli. Se sbirciasse tra le pagine di questo libro, il povero Peppone avrebbe di che inquietarsi. Troverebbe dei confratelli che portano don Camillo quasi alla guerriglia con i comunisti. Ma vedrebbe anche chi sente odore di eresia in quel suo legame inestirpabile con i rossi del paese. Che fare? Sarebbe opportuno passare oltre. Ma anIO

che Peppone, alla fine, vuole vederci chiaro. Anche al suo paese alla gente piace dividersi per Coppi e Bartali, tra vespisti e lambrettisti, tra innocentisti e colpevolisti. Il fascino del taglio netto è arrivato pure qui e chiede un tributo. Caschi la mannaia. Ma Mondo piccolo non si spacca in due. Assieme a don Camillo fa un salto di lato. Anzi,

essendo un puntino nero che si muove a suo piacimento, può vagare nello spazio e nel tempo. Se proprio lo si vuole colorare gli si potrebbe dare una passata con le sfumature della Vandea. I cieli e le campagne di quel fazzoletto di Francia si addicono abbastanza alla gente di Peppone e don Camillo. Perché, sia chiaro, in Van-

dea ci va pure Peppone. Da quelle parti, don Camillo potrebbe trovarsi bene nei panni di un prete «refrattario». Venivano chiamati così quei sacerdoti che non ne volevano sapere della rivoluzione atea e razionalista. Ostili a un potere che tentava in ogni modo di cancellare il loro Dio e, quindi, la

loro civiltà. Reazione, solo reazione. Gridano la ragione e il partito di Peppone. Ma hanno ben poco da fare. Come quando il sindaco, sul più bello di un comizio antimili-

tarista, sente le note dell’inno del Piave: ci mette un at-

timo a mandare al diavolo il partito e a proclamare inseparabile il bene del Re e della patria. Più che la ragione può il cuore. Il sindaco, così come il parroco, è «re-

frattario» a tutto quanto minaccia il suo mondo. E una reazione fatta a modo suo quella di don Camillo, e dunque anche quella di Peppone. Se c’è un pregio che i progressisti riconoscono ai reazionari è la «lucidità»: la spietatezza dell’analisi e della proposta. Il parroco e il sindaco di Mondo piccolo non possono vantare neppure quello. Sono dei visionari che portano la loro gente verso scenari in cui dominano sempre le regole eterne del buon Dio. Sono costretti loro malgrado a esserlo perché sentono che il loro universo è continuamente minacciato dall’aggressione del razionalismo e del progresso. Proprio come i preti «refrattari» della 16

Vandea, che portavano interi villaggi a vivere nelle foreste, al riparo dalle armate del dio rivoluzionario. E così sì spingono fino a creare nuove sintesi tra una radicale libertà e la loro fede di sempre. Gettano il loro seme dentro il cuore del futuro. Non è cosa da poco dare del reazionario, sia pur visionario, a Peppone. Sembra ancora un tiro mancino di don

Camillo.

Ma ci sono

delle attenuanti.

Intanto, su

questa strada lui e il parroco si accorgono di essere assieme a tutto il loro popolo: e, quando si parla di popolo, Peppone si mette sull’attenti. Poi, questo don Camillo non è un cattivo soggetto. Avrà pure l’animaccia nera come il carbone. Ma è pur sempre l’animaccia di un prete «refrattario». Così come la sua è quella di un comunista «refrattario». Insomma è l’animaccia di un «prete prete». Che, alla fine, è ciò che don Camillo si sforza di essere. Peppone, a questo punto, può correre avanti per vedere se quanto si dice del suo amico parroco gli garba. Ma, per chi lo voglia, è opportuno spendere qualche riga sulla struttura di quel che segue. Il libro è diviso in quattro parti e ogni parte è divisa in tre capitoli. A ogni capitolo il lettore incontra una figura di sacerdote che lo conduce alla scoperta di un aspetto di Mondo piccolo. In sostanza si tratta di dodici percorsi, o meglio dodici incursioni, nell’universo guareschiano. La presenza di tanti preti potrebbe trarre in inganno. Il libro non tratta solo il risvolto religioso e teologico della saga di Don Camillo. Cerca di scoprire le sue molte facce,

a cominciare

da quella letteraria, mai trat-

tata sistematicamente fino ad ora. La figura di don Camillo diventa la chiave che permette di entrare nel mondo di Guareschi e di capire che quest'uomo è stato un grande scrittore. A voler essere precisi, un grande scrittore cattolico. Su questo argomento si sofferma in particolare la prima parte, quella dedicata alla genesi dell’universo guareschiano. Le altre tre vengono di conseguenza. Quella dedica17

ta ai sacerdoti che possono aver contribuito,

o credono

di averlo fatto, alla nascita e all’irrobustimento della fi-

gura di don Camillo. Quella sulla dottrina, che va da un'accusa di eresia alla richiesta di redigere un catechismo entrambe indirizzate allo scrittore. Quella con le tre letture dell’opera guareschiana fatte da tre preti di oggi molto diversi fra loro. Al termine, un’appendice raccoglie alcune lettere scritte da sacerdoti a Guareschi: un’occasione in più per arrivare alle fonti di Mondo piccolo. Per arrivare fino in fondo, in questo ritorno alle fonti, però, bisogna andare a Roncole Verdi. Lì, nella casa di Guareschi, si trova l’archivio dello scrittore. Ma si tro-

vano anche i suoi figli, Carlotta e Alberto, che di quell'archivio sono diventati cuore, polmoni e anima. A ogni ricognizione scoprono nuove piste. E per seguirle hanno messo su una vera e propria centrale operativa aperta a tutti gli appassionati guareschiani. Ci sono loro all’origine di questo libro. C’è la loro dedizione, insieme ferma e garbata, alla memoria

e al-

l’opera del padre. Parecchie figure di prete che stanno qui dentro sarebbero rimaste sepolte a lungo senza il loro lavoro. E, insieme a esse, sarebbe rimasto nascosto un frammento dell’anima di Guareschi. Che è molto, mol-

to più grande di quanto si possa immaginare leggendo queste pagine. Perché un’anima capace di creare e far vivere un mondo intero è l’anima di un grande scrittore. E anche qualcosa di più.

PARTE PRIMA

Genesi

«L'ambiente è un pezzo della pianura padana: e qui bisogna precisare che, per me, il Po comincia a Piacenza.

«Il fatto che da Piacenza în su sia sempre lo stesso fiume, non significa niente: anche la Via Emilia, da Piacenza a Milano, è in fondo la stessa strada; però la Via Emilia è quella che va da Piacenza a Rimini. «Non si può fare un paragone tra un fiume e una strada perché le strade appartengono alla storia e i fiumi alla geografia. «E con questo? «La storia non la fanno gli uomini: gli uomini subiscono la storia come subiscono la geografia. E la storia, del resto, è în funzione della geografia. » Don Camillo, «Prologo»

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Le ragioni dell’infanzia Oliviero Maghenzani

Infilarsi in Mondo piccolo, in fondo, è abbastanza facile.

Basta prendere un racconto qualsiasi della saga guareschiana e masticarlo parola dopo parola. Bisogna trattenere il fiato solo per un momento, durante il primo capoverso, che non è mai troppo lungo. Subito dopo ci si trova a vagare tra filari di pioppi, case coloniche, strade impolverate e argini maestri: è la Bassa. Il più è fatto. O meglio, il più sembra fatto. Ci vuol poco a capire di aver compiuto solo il primo passo. Perché il paesaggio, pur essendo di rigorosa pianura, è più complicato di quanto si potesse immaginare. E gli esseri che lo abitano ragionano secondo logiche speciali che, sui due piedi, non è sempre facile decifrare. Si è entrati per l'ingresso principale in un universo che, subito dopo la soglia, presenta un’infinità di altre porte. Davanti al lettore si apre un ventaglio vastissimo di percorsi narrativi. Mondo piccolo è un congegno letterario molto più complesso di quanto si possa immaginare a una prima ricognizione. E vero che, come racconta Guareschi in Don Camillo e il suo gregge, venne alla luce durante una febbrile antivigilia di Natale trascorsa in tipografia nel 1946. Ma la sua gestazione era durata parecchio.

Con

gli anni, nel cuore,

nel cervello e nel-

l’anima dello scrittore della Bassa sono andati sedimentando ricordi, sensazioni, intuizioni che, lentamente, so-

no diventati un mondo interiore. Si sono trasformati in un microcosmo, un Mondo piccolo, con le sue leggi, il suo linguaggio, i suoi luoghi, i suoi personaggi, i suoi santi e i suoi diavoli. Tutti elementi necessari per traZI

sformarlo in un universo letterario. Quel 23 dicembre 1946 si trattava solo di farlo incontrare con il suo creatore finalmente in vena di creare. Esplorare le strade di questo mondo è quindi tutt’altro che facile. Anche se si rivela immediatamente piacevole e gratificante. Ma piacevolezza e gratificazione formano solo un aspetto del grande talento letterario guareschiano. Dopo aver compiuto il primo passo ci si deve muovere ancora, in una sorta di pellegrinaggio che porta al cuore di questo universo. Che poi è il cuore di Guareschi. Un'opera letteraria, come qualsiasi opera d’arte, non può essere astratta dal rapporto con il suo autore. È un universo che non può prescindere dal rapporto continuo e vivificante con il demiurgo che le ha dato la luce. Altrimenti si riduce a una costruzione puramente intellettuale che si compiace di se stessa, priva di emozioni, di valori, di vita.

Mondo piccolo ha dunque un cuore antico. E fin dal suo principio, quando ancora si andava formando nella testa del suo creatore, vi compaiono figure di preti. Alcune sono solo accennate, buttate giù con tratti veloci. Ma sono ugualmente essenziali. Nel narrare guareschiano acquistano una forza evocativa invincibile. Provocano vortici che risucchiano la mente e il cuore dello scrittore e restituiscono alla pagina storie di grande forza letteraria. Sono vittime sacrificali che accettano di perdere se stesse e i propri contorni nelle vicende di un universo che continuamente, e silenziosamente, le cele-

bra.. E così che spunta, per esempio, il profilo dello zio Oliviero Maghenzani. A voler essere precisi, Oliviero non fece in tempo a diventare prete. Morì a quindici anni, mentre era preso dal grande desiderio di farsi missionario. Non può essere definito propriamente un prototipo di don Camillo. Ma è ugualmente importante per capire il mondo in cui il pretone guareschiano, molti anni più tardi, dovrà muoversi. Quel ragazzo animato dalla voglia bruciante di diventare missionario ha lascia22

to un segno indelebile su Guareschi. Innanzitutto nel nome, visto che, per esteso, lo scrittore si chiama Gio-

vannino Oliviero Giuseppe. Ma questa è solo una prima traccia simbolica. Lo zio Oliviero ha fatto molto di più: è entrato nei cromosomi letterari del nipote attraverso i racconti di «Nonna Giuseppina». Questa «Nonna» è uno dei tanti personaggi che Guareschi ha preso di peso dalla vita di tutti i giorni per ficcarli nelle sue storie. Una volta sulla pagina, poi, anche «Nonna Giuseppina» ha subìto il trattamento letterario che l’ha resa adatta al nuovo ruolo e al nuovo mondo. Nella realtà si chiamava Filomena ed era la bisnonna materna di Giovannino. La sua figura evoca immediatamente uno dei luoghi e una delle epoche da cui trae linfa Mondo piccolo: Fontanelle di Roccabianca, il borgo in cui Guareschi è nato, e l’Ottocento, un secolo

che sullo scrittore ha sempre esercitato un fascino irresistibile. Bisnonna Filomena era una di quelle vecchine vestite di nero, sedute su una sediolina impagliata, sempre prese a raccontare. La sua voce dava corpo alle storie e alle cronache

della sua giovinezza. Ricordi, novelle, ro-

manzoni d’appendice rivivevano sul filo del suo discorso. Cominciò così a prendere forma nel piccolo Giovannino la nostalgia per un mondo che aveva appena intravisto. Una sorta di Strapaese sospeso a mezz'aria tra gli ultimi decenni dell’Ottocento: un paese dell’anima al principio del suo tramonto. Il 25 aprile 1932 su «La fiamm», il giornale del Guf,

Guareschi scrisse «Esplorazione a Strapaese. Vita e miracoli del festival». Era un periodo di grande gloria letteraria per Strapaese. Dalla sua parte aveva personaggi come Mino Maccari, Ardengo Soffici, Leo Longanesi, Gio-

vanni Papini. Tutta gente che gravitava in qualche modo sulla Toscana e sulle grandi riviste che vi fiorivano: «Lacerba», «Il Selvaggio», «La Voce».

Il giovane Guareschi ne respirò alla sua maniera l’aria e si aprì una strada tutta sua verso quel mondo: una sorta di via emiliana a Strapaese, la via della nostal23

gia e dei ricordi. Lo spiega benissimo, quando racconta su «La fiamma» cosa è il «festival», la sala da ballo viaggiante che arrivava nei paesi della Bassa durante i giorni di festa. «I giovani intanto si pigiano davanti alle entrate del “festival” e, quando l’ “invito” è finito, restano solo i vecchi

ad applaudire i suonatori. «Anch'io son rimasto e non vado, non

entrerò nel

“festival” oggi; fa troppo caldo. Entrerò stasera. Mi piace troppo vivere un po’ di ricordi anche se non son miei, ma dei vecchi che mi parlano ora dei loro tempi e delle feste e dei suonatori dei loro tempi.» Questa «Esplorazione a Strapaese» è da tenere nel debito conto. Rappresenta il primo passo consapevole del cammino letterario dello scrittore verso il suo Mondo piccolo. Non a caso lo utilizzerà vent'anni più tardi per scrivere il racconto

«La banda», ora raccolto in L’anno

di don Camillo. Bisnonna Filomena, con le sue storie, è il vecchio se-

colo che travasa i suoi ricordi nei primi anni del Novecento. Ma non è solo una dimensione del tempo che diviene letteraria svincolandosi dal peso degli anni. È anche un luogo, Fontanelle di Roccabianca, che per Guareschi vuol dire l'infanzia felice. Ci vuol poco a capire che Fontanelle non è solo la culla dei suoi giochi di bambino, ma anche quella delle sue storie di scrittore adulto. Tra le tante cose che ha raccontato in proposito sì può pescare a caso sicuri di non sbagliare. Per esempio il pezzo scritto nel 1966 per «Oggi» e ripreso poi per il racconto «Ero bello col sottanone», pubblicato in Vita în famiglia. «Nei paesi era così: la mamma,

la mattina, lavata la fac-

cia del bambino con acqua fresca e sapone da bucato, gli infilava il sottanone e gli consegnava una mezza micca di pane e lo metteva fuori dalla porta. Allora non 24

c'erano automobili: strada, piazza, argini, tutto era dei bambini. ff) «Allora le strade erano coperte da almeno dieci centimetri di candida polvere, era una cosa meravigliosa sedersi nella polvere morbida e calda. Gio’, tu non ci crederai, ma quel tepore mi scalda ancora.» Quel tepore scaldava ancora il cuore di Guareschi quando ormai la sua avventura terrena stava per finire. È il segno che, per tutta la sua vita, il suo pensiero si è dilatato divenendo anche memoria. È stato strumento efficace di una continua ricerca dentro di sé. Ha incontrato e riportato alla luce momenti apparentemente banali della vita e dei ricordi di un bambino. Tutto materiale che la sapienza letteraria dello scrittore ha trasformato in storie senza tempo. La scrittura guareschiana ha fatto da lente di ingrandimento avida insieme di dettagli e di grandi panorami. Poi ha giustapposto immagini, vicende, uomini su scenari in cui anche il minimo particolare

assume una vitalità impressionante. Ma non è tutta qui la miniera in cui ha scavato Guareschi. A Fontanelle ci si arriva sulla scia dello zio Oliviero e della bisnonna Filomena. Poi bisogna fare un passo di lato e approdare al podere Bosco, che nelle storie guareschiane diviene il Boscaccio. Tra documenti di famiglia e altri scritti è possibile descriverlo, come avviene

in Chi sogna nuovi gerani?

«Il podere Bosco è piazzato nella località dello stesso nome a sud-est di Roccabianca e ci si arriva seguendo la strada provinciale per Cremona. Ha la forma di un rettangolo allungato, col lato maggiore di circa cinquecento metri. Una carrareccia corre lungo il lato maggiore, dalla parte di mezzogiorno,

e, fra la carrareccia e la li-

nea di confine, c’è una striscia erbosa larga una decina di metri e una grande siepe spessa due metri. I piloni che danno consistenza a quell’alto e massiccio muro 25

verde sono roveri, robinie, olmi, piopponi, noci. Il siepone del Bosco è qualcosa di smisurato e fiabesco.» AI Bosco abitava Antonio Guareschi, detto Tugnèn Bazzîiga, con la moglie Dorotea e nove figli. Il maggiore, Primo Augusto, più tardi avrebbe sposato la nipote di Nonna Filomena e avrebbe messo al mondo Giovannino. Il Bosco era una specie di paradiso per i bambini che vi abitavano e per lo scrittore in cerca di ispirazione. I suoi abitanti finiscono quindi nei racconti guareschiani. Ma anche questo, però, accade secondo regole stabilite dall'autore. Tutto viene spostato di una generazione.

Il nonno

di Giovannino

diviene

suo

padre,

lui si

mette nei panni di Primo Augusto e i suoi zii divengono i suoi fratelli. Un altro passo verso la creazione di Mondo piccolo. Nel 1942 Guareschi comincia a pensare di farne un libro, che vorrebbe

intitolare

«Racconti del Boscaccio.

Libro all’antica». Con la cura che gli è abituale ne schizza persino il frontespizio e stende una tabella con i nomi e le età dei personaggi. Prepara una scaletta con alcuni capitoli abbozzati. I tempi non sono ancora maturi. Ma le storie sono belle e le pubblica quello stesso anno sul «Corriere del pomeriggio». Tra queste spiccano «Al Boscaccio», «La ragazza aspetta» e «Il tranvai al Boscaccio». Sono tre dei racconti guareschiani più belli. Tre pennellate con cui viene dipinto un mondo intero in maniera tanto efficace come sanno fare pochi altri narratori. Non a caso Guareschi decide di porli all’inizio di Don Camillo quando, nel 1948, raccoglie per la prima volta in volume le storie apparse su «Candido» dal Natale 1946. Fanno capolino dal prologo che porta un titolo quanto mai esplicito: «Qui, con tre storie e una citazione, si spiega il mondo di “Mondo piccolo”». È il «fiat lux» dello scrittore. Il suo universo ha preso forma. È tanto ben definito nella mente di Guareschi che ne esiste persino una fotografia: è una veduta di Castelmassa, un paese in riva al Po, in provincia di Rovigo. Riposava 26

nel cassetto di Guareschi dal 1941, quando aveva percorso un tratto del grande fiume raccontandolo per il «Corriere della Sera». Sette anni più tardi gli parve tanto simile al paese di don Camillo che la mise in copertina. Mondo piccolo è nato. Distillato attraverso un meccanismo letterario ad alta precisione che si svela tutto nel prologo a Don Camillo. Guareschi vi si presenta come un cronista che racconta un anno di politica, dal Natale 1946 al Natale 1947. Nulla di più legato alla realtà e di più lontano da costruzioni letterarie, in apparenza. Ma si andrebbe fuori strada seguendo questa direzione. La capacità creativa, la fantasia letteraria non sono affatto antagoniste della ragione e dell’analisi della realtà. Anzi, più la ragione è possente e più diviene possibile creare costruzioni fantastiche. La capacità di inventare mondi nuovi è direttamente proporzionale a quella di analizzare la realtà in cui si vive. Paradossalmente, ma non troppo, il cronista possiede più elementi di uno scrittore qualsiasi per creare nuove trame. Leggendo quel prologo, però, si comprende che il cronista, in questo caso, è anche un grande inventore di storie. «L’ambiente è un pezzo della pianura padana: e qui bisogna precisare che, per me, il Po comincia a Piacenza.

«Il fatto che da Piacenza in su sia sempre lo stesso fiume, non significa niente.

(=) «Il Po comincia

a Piacenza,

e a Piacenza comincia

anche il Mondo piccolo delle mie storie, il quale Mondo piccolo è situato in quella fetta di pianura che sta tra il Po e l'Appennino.» Con due pennellate viene sconvolta la geografia del mondo reale. Fiume e pianura perdono i loro diritti naturali e ne acquistano altri, letterari. Lo spazio è defraudato dei suoi normali punti di riferimento. Si dilata lungo direttrici inedite sulle quali trascina atmosfere e sen27

timenti. Tutto è costretto ad agire secondo nuove linee di forza. E un'azione forte, quasi violenta. Come lo sono qualsiasi creazione e qualsiasi nascita. Il passaggio da una realtà a un’altra presuppone un cambiamento radicale. Prendono il sopravvento nuove leggi, nuove esigenze. Solo con un’azione simile lo scrittore riesce a preparare lo spazio adatto ad accogliere il suo mondo. Specialmente se è ancorato ai luoghi del cuore, più che a quelli geografici, come avviene per la creazione guareschiana. «Il paese di Mondo piccolo è un puntino nero che si muove, assieme ai suoi Pepponi e ai suoi Smilzi, in su e in giù lungo il fiume, per quella fettaccia di terra che sta tra il Po e l'Appennino.» Mondo piccolo è un microcosmo che si muove a suo piacimento e poi si ferma inaspettatamente. Nei luoghi in cui sosta, basta guardare una casa colonica affogata in mezzo al granturco e alla canapa, dice Guareschi, e subito nasce una storia. In questi luoghi si misura la capacità creativa, la fantasia letteraria dello scrittore. Qui si sente, quasi fisicamente, quanto ci si è allontanati dalla realtà. L'anima del microcosmo vi crea dei vortici in cui attrae autore e lettore e li porta in una nuova dimensione. E ancora Guareschi che lo dice in maniera quanto mai suggestiva.

«Questa è la Bassa, terra dove c’è gente che non battezza i figli e bestemmia non per negare Dio, ma per far dispetto a Dio. E sarà lontana quaranta chilometri o meno dalla città; ma, nella piana frastagliata dagli argini, dove non si vede oltre una siepe o al di là di una svolta, ogni chilometro vale per dieci. E la città è roba di un altro mondo.»

A questo punto il paesaggio reale è stato completamente smontato. Lo scrittore, però, ha già provveduto a riu28

tilizzarne tutti i pezzi per costruirne uno inedito secondo il progetto che covava da anni. La singolarità di questo nuovo microcosmo dipende essenzialmente da due elementi: la nuova sequenza in cui i diversi elementi vengono rimontati e le proporzioni assolutamente rivoluzionate. Costruire un’opera secondo queste regole non è facile. A chiunque può riuscire di giustapporre due elementi che normalmente non lo sono nella realtà. Ma si tratta solo di una figura letteraria. Dar vita a un mondo in cui quella figura diventi credibile e coerente richiede invece molta fatica. Presuppone riflessione, capacità di analisi e di sintesi insieme, potenza nella produzione. In altri termini, arte narrativa.

Ciò che lega l’immaginazione, di cui molti sono capaci, alla creazione vera e propria, a cui arrivano in pochi, è l’arte. Fantasia, alcuni la definiscono. Può anche

essere una definizione pertinente, se per fantasia si intende la facoltà di creare e organizzare immagini, cose e caratteri assolutamente slegati nella realtà. La fantasia, allora, costituisce una virtà della capacità narrativa. Di-

viene la forma più pregnante e fertile dell’arte di raccontare. Mondo piccolo è frutto di quest'arte. È un tessuto disseminato di luoghi che gli forniscono coerenza e rendono credibili le figure letterarie che vi si muovono. «Bisogna rendersi conto che, in quella fettaccia di terra tra il fiume e il monte, possono succedere cose che da altre parti non succedono. Cose che non stonano mai col paesaggio.»

Un mondo simile è percorso da campi di forza propri, lungo i quali gli elementi della vita quotidiana vivono nuovi eventi. Per questo nelle storie di Guareschi si incontrano luoghi dotati di forti concentrazioni di significato. Sono zone in grado di produrre effetti che sfuggono alla logica quotidiana. Un esempio inequivocabile si 29

trova in «Il tranvai al Boscaccio», che nel prologo a Don Camillo diviene la «Seconda storia». Al Boscaccio deve passare la linea tranviaria che collegherà la città con la località Gazzola. Ma alla gente del posto la faccenda non piace per niente. Neanche al cane Gringo l’arrivo del tram piace, tanto da attaccare gli operai, che non ci pensano due volte ad ammazzarlo con una badilata. «Lo seppellimmo a piede dell’argine, e quando io ebbi pestata la terra e tutto ritornò come prima, mio padre si tolse il cappello. «Anch'io mi tolsi il cappello. «Il tram non arrivò mai a Gazzola: era d’autunno e il fiume si era gonfiato e scorreva giallo di fango; una notte l’argine si ruppe e l’acqua corse per i campi e allagò tutta la parte bassa del podere: il campo di trifoglio e la strada diventarono un lago. «Allora sospesero i lavori e, per evitare ogni futuro pericolo, fermarono la linea al Boscaccio, otto chilome-

tri da casa nostra. «E quando, calmatosi il fiume, andammo con gli uomini a riparare la falla, mio padre mi strinse forte la mano. «L’argine s’era rotto proprio là dove avevamo sepolto Gringo. «Di tanto è capace l’animaccia di un cane! «Io dico che questo è il miracolo della Bassa.»

Quel punto lungo l’argine, attorno a cui vaga l’animaccia di Gringo, è uno dei tanti piccoli cuori che pompano la vita nelle strade di Mondo piccolo. E non ha nulla di pagano o di magico, come potrebbe apparire a un OSservatore superficiale. Il miracolo della Bassaè tutto di sapore cristiano. È l’evento inatteso che spiazza tutti. È il fatto folgorante che costringe l’uomo a voltarsi verso Dio. Qui nessuno pretende di manipolare la natura per ottenere un effetto prodigioso. Il miracolo è un evento che lega inaspettatamente Cielo e terra. Nelle storie 30

di Guareschi vi partecipano il Dio di Mondo piccolo, che poi è il Cristo, e gli abitanti di quel microcosmo, che sono impregnati di cristianesimo anche se bestemmiano Dio per fargli dispetto. E questo dialogo tra umano e divino che regge tutta la costruzione guareschiana. Un mondo letterario creato con tanta cura, in cui ogni dettaglio acquista un significato particolare, rischierebbe di essere solo un bellissimo esercizio intellettuale. Ma l’opera di Guareschi non è solo bella e accurata, è anche forte. Ha un’anima e un cuore, oltre che un cervello.

Qui torna a far capolino lo zio Oliviero, che sembrava perduto nella genesi di questo universo. Invece quella figura che pensava tanto a Dio da voler diventare missionario non si è persa. É entrata nell’infanzia di Giovannino e ne ha conquistato l’anima. É diventata uno di quei vortici attorno a cui si sono ancorate tutte le figure che altrimenti si sarebbero perse nel tempo. Poi, lentamente, quelle figure hanno preso corpo e hanno succhiato la voglia di Dio che bruciava il giovane Oliviero. È custodita qui la pietra angolare di Mondo piccolo. Senza il ricordo struggente dell’infanzia e senza un senso del divino tanto radicato, l’universo di Guareschi sarebbe stato molto diverso. Sicuramente meno bello. O, forse, non sarebbe neanche nato.

Ci sono alcune righe di un racconto pubblicato in L’anno di don Camillo che esprimono meglio di tanti discorsi questo concetto. Al termine di «Diario di un parroco di campagna», tutto il paese è riunito per ascoltare la musica di Giosuè Scozza, gloria musicale locale sbucata dal Seicento. Ma, dopo l’esecuzione dei primi pezzi, la gente si stanca e chiede a gran voce la musica di Verdi. L'orchestra la esegue ed è un trionfo. Peppone cerca di salvare l’onore di Scozza e spiega che la roba storica è sempre bella anche se è brutta. «- Però Verdi... - tentò di obiettare lo Smilzo.

«Ma Peppone gli saltò sulla voce: - Cosa c'entra Verdi? Verdi non è mica un artista, Verdi

è un uomo

con

un cuore grande così.» 31

Peppone, forse, non lo sapeva, ma stava parlando anche del suo padre letterario. Guareschi era un uomo con un cuore grosso così: al cui confronto, dire artista è dire poco. Davvero poco.

Le stigmate dell’amore francescano Padre Lino Maupas

C'è un amore folle e quasi cuore di don Camillo. Non è contro. Si rischia di rimanere te che mena sventole pesanti

disperato che si agita nel facile sentirlo al primo indisorientati da questo precome mattoni e, poco do-

po, si ferma a parlare con il Cristo Crocifisso.

Bisogna inoltrarsi lentamente nel suo mondo per sentire quell'amore farsi sempre più vivo e prendere forma. Allora si capisce che a don Camillo non interessano soltanto le anime della sua gente. Lui vuol bene agli uomini così come sono, anima e corpo. Prova una tenerezza indescrivibile davanti a quell’impasto di carne, terra, sangue e spirito che si trova davanti ovunque guardi. E spesso non pensa neppure che questo è un merito che il suo Cristo terrà nel giusto conto. Gli sembra un amore di ordinaria amministrazione. Si è trovato davanti questa gente, sicuro che gliel’abbia portata fin sulla soglia della canonica il grande fiume. E, si sa, il grande fiume non sbaglia mai. Ruba ovunque, senza fare distinzioni, in qualsiasi posto si trovi a passare. Poi mescola, modifica, impasta e ridona la vita. Quello che ne esce è tutto da amare. Bello o brutto, buono o catti-

vo, santo o maledetto. E solo il fiume sa quanto di tutto questo ci sia in ogni uomo di Mondo piccolo. Ma lo sa anche don Camillo, che porta chiarissime le stigmate dell’amore francescano per il Creatore e le sue creature. È il segno più marcato lasciato da uno dei suoi parenti più stretti, quasi un fratello. Forse il sacerdote che ha lasciato il solco più profondo nel suo essere prete. Un frate francescano che a Parma considerano 33

un santo e di cui è in corso il processo di beatificazione, padre Lino Maupas. Questo religioso è una delle chiavi più importanti per entrare nel mondo di Guareschi e capirne la genesi. Con la sua presenza a Parma ha creato un corto circuito tra due momenti fondamentali della vita dello scrittore emiliano: l’infanzia da un lato e gli anni di lager e di carcere dall’altro. Tra queste fasi esistenziali decisive è sempre corsa una carica di energia creativa inesauribile. Il «fiat» che ha dato vita a Mondo piccolo e poi lo ha alimentato è scaturito da lì. Dalle lunghe chiacchierate tra il piccolo Giovannino, il Giovannino prigioniero numero 6865 dei campi di concentramento,

e, più tardi, il

Giovannino detenuto nel carcere di San Francesco a Parma. Dialoghi pieni di malinconia e di rimpianto che comunque hanno saputo trovare uno spiraglio verso una voglia invincibile di vivere e di creare. Così, mentre Giovannino si faceva sempre più di aria e di ricordi, Mondo piccolo è venuto alla luce ed è cresciuto. E se il lager ne ha segnato il momento della nascita, il carcere, una decina di anni più tardi, ha affondato gli artigli su una creatura ormai fatta. Ma non ha lasciato ferite. La forza del «fiat» originario ha trasformato quelle zampate in nuova linfa. Per governare l’energia originaria scaturita da quel corto circuito Guareschi ha lavorato sodo. Una fiammata simile può anche incenerire un mondo letterario al suo primo istante di vita. A questo punto del suo lavoro uno scrittore rischia di non dosare al meglio gli elementi a sua disposizione. O, peggio ancora, di non trovare il legame che li tiene tutti. Guareschi ha trovato padre Lino e il suo amore per tutto il prossimo senza distinzioni. Una sorta di specchio per la sua grande devozione a San Francesco d'Assisi. Su questo amore è corsa l'energia che ha dato, e ancora dà, vita a Mondo piccolo. È questo il cemento che ha reso contigue una all’altra tutte le creature dell’universo guareschiano. Le ha saldate una volta per sempre in una catena fatta di passione per il prossimo impossibile DA

da rompere. L’amore tra gli uomini poi si è trasformato in amore tra le parole. Così la vita di un mondo è divenuta la vita della pagina. Padre Lino era di casa in tutto il parmigiano, città e campagna, quando Guareschi era ancora un ragazzino. Morì nel 1924 e sicuramente Giovannino, nel suo peregrinare da Fontanelle a Marore per arrivare fino al collegio di Parma dove era ginnasiotto, se non lo incontrò di persona, ne sentì parlare in casa e tra la gente. Quel francescano lasciava il segno ovunque passasse. Le sue tracce formavano un gomitolo che si arrotolava attorno alla chiesa dell’Annunziata, dove era arrivato nel 1893.

Si fermavano soprattutto nell’Oltretorrente, la zona povera della città, dove la miseria alimentava qualsiasi sentimento, dalla solidarietà alla rivolta.

Il frate camminava tra la gente e cercava di togliere la miseria alle radici dei sentimenti che si mescolavano nei cuori. I corpi non potevano essere slegati dalle anime di uomini che morivano di fame. Bisognava curare tutto, carne e spirito. Lo stesso metodo che utilizzava assistendo i ragazzi del riformatorio e i carcerati, che ne avevano fatto un fratello. In carcere a Parma per la vicenda De Gasperi, Guareschi ebbe ancora modo di incontrare la figura di padre Lino. Il francescano era morto da trent'anni, ma era

solo un dettaglio trascurabile. Era come vivere accanto a lui. La presenza di quel frate sicuramente riusciva a riscaldare anche il ricordo del tempo trascorso nei lager tedeschi. Durante la deportazione, del resto, lo scrittore

era stato per molti dei suoi compagni di prigionia quello che il frate era stato per i carcerati di Parma. Il saio e il rosario di padre Lino erano dai tempi di Parma corredo del cuore di Guareschi. La prigione era solo il luogo privilegiato per incontrare ancora il francescano. Fu così che lo scrittore pensò addirittura alla sceneggiatura per un film su di lui. Dopo alcuni contatti per raccogliere consigli e materiale, il progetto non arrivò a compimento. Forse l’incalzare degli avvenimenti costrinse Guareschi a mettere da parte il lavoro. E poi dal 35

corto circuito tra infanzia e lager aveva già preso forma letteraria Mondo piccolo. Il carcere poteva solo rafforzare quella creazione in cui padre Lino c’era già tutto. Vi scorrazzava dentro la tonaca di don Camillo. Le scariche che correvano lungo quel robusto filo sarebbero servite a rafforzare l’universo letterario cresciuto nella Bassa, a

ridosso del grande fiume. Ecco perché ha lo stesso incedere del pretone di Guareschi,

il francescano

dell’Oltretorrente

quando

si

mette in testa di far del bene. Come la volta in cui raccolse un lattante rimasto senza mamma e marciò diritto sul municipio. Si fermò solo davanti al sindaco e, senza troppe cerimonie, gli chiese: «Come vuol che faccia ad allattarlo io?». E ilsindaco si impegnò a trovare un rimedio il più presto possibile. Pare di vedere Peppone dall’altra parte della scrivania, così come

appare in «Bellissimo», uno dei racconti

pubblicati in Gente così Fiero di prendere sotto la sua tutela,

a nome

del partito, un bambino

abbandonato

da-

vanti alla Casa del popolo. Le maniere di padre Lino non passavano certo inosservate. Tutto quanto gli veniva offerto, e anche qualcosa di più, scompariva tra le maniche e le tasche del suo saio. Carne, uova, pane, latte, vino, abiti. Poi ricompari-

va nelle case della povera gente che altrimenti non avrebbe mangiato o non avrebbe avuto di che vestirsi. Don Camillo agisce allo stesso modo. Così, per esempio, essendo un buon cacciatore, gli capita di sfruttare la sua abilità. Come nel racconto «In piedi e seduti», in Lo spumarino pallido. In vista di Capodanno, il parroco pensa di regalare un pollo a ogni povero del paese. Ma, non avendo un soldo per comprarne, decide di usufruire dei fagiani della vicina riserva. Arrivato sul punto di abbattere l’ultimo, si prende una scarica di pallini nel sedere e, dopo essere stato dal medico, si presenta a rapporto dal Cristo. «- Gesù, il mio cuore è pieno d’angoscia perché mi rendo conto del male che ho commesso. 36

«- No, don Camillo: tu menti. Il tuo cuore è, invece,

pieno di gioia, perché pensi alla felicità che tu darai domani a trenta poveretti. «Don Camillo si levò in piedi, retrocesse di due passi e si sedette pesantemente sulla panca della prima fila. «Il sudore gli scendeva copioso dalla fronte inondandogli il viso che si faceva sempre più pallido. «- Alzati — disse a un tratto la voce del Cristo Crocifisso. - Ego te absolvo.» Hanno tratti molto simili il Cristo di don Camillo e quello di padre Lino. Il loro Dio non scorda mai di essersi fatto carne e di aver camminato sulla terra. Non teme di sporcarsi e tanto meno lo possono temere i suoi ministri. Alla radice dell’agire di questi sacerdoti c’è un affetto verso il bisognoso che spinge a farsi partecipe del suo patire con il cuore, la mente e l’azione. Il volto del

loro Dio li rende capaci di camminare senza passare oltre il volto del povero. Sanno che il solo esistere del povero è preghiera. E invocazione senza troppi fronzoli, senza ardite costruzioni teologiche. Don

Camillo, come

padre Lino, torna ai rudimenti

della sua fede. Sembra muoversi solo dopo aver letto e imparato a memoria i vecchi catechismi, quelli zeppi di princìpi e di insegnamenti stringati. Tanto stringati da chiedere eroismo, e un po’ di follia,

a chiunque voglia

metterli in pratica. Però questi sono i primi passi della sua religione. Sa che non sono una meta, ma un punto di partenza: sono la via da imboccare ogni mattina. Dal catechismo di don Camillo e padre Lino spuntano con prepotenza le sette opere di misericordia corporali e le loro sette sorelle spirituali. Queste vie maestre, nei secoli, si sono incrociate e sono divenute il tessuto di

una civiltà. Hanno dominato uno stile di convivenza ricalcato sul volto di Cristo. Hanno trasformato ogni giorno la vita in un dialogo con Dio. L’opera corporale di visitare gli infermi si sposa con quella di consolare gli afflitti, il visitare i carcerati col perdonare le offese e via di questo passo. 34

Dal canto loro, i giorni hanno fatto il loro dovere e sono divenuti il crogiolo in cui le parole e le opere della misericordia si sono saldate e hanno disegnato su ogni uomo la figura del prossimo. Il prete di Guareschi ha imparato dal suo fratello francescano a calcare l’accento sul termine «ogni» e non a parlare genericamente di «uomo», quando si tratta di scoprire il prossimo. La loro non è soltanto solidarietà nei confronti dei bisognosi. Sarebbe troppo poco, null’altro che la versione secolarizzata delle opere di misericordia. Quando si parla di solidarietà vien fuori troppo spesso il termine «noi» e si dimenticano il «tu» e l’«io». In tal modo ci si mette al sicuro in una terra di nessuno dove non si è costretti a mettersi in gioco. Don Camillo e padre Lino non ci stanno. Il pretone rischia in proprio, si prende una fucilata e va a rapporto dal Cristo felice per quel che ha fatto. Il frate gira giorno e notte la città e bussa alle porte dove sa di poter trovare ciò che serve alla sua gente. Ogni povero, per loro, è un «tu» che chiede di essere aiutato, un amico. Sanno

che tra amicizia e solidarietà non c’è travaso. Qualunque pensiero, qualunque azione che presuppongano il «noi» saranno sempre troppo lontani dall’idea di giustizia. Camminano molto più avanti i pensieri e le azioni che sgorgano dall’«io». In un dialogo a tre, in cui Dio faccia da termine

di riferimento

e mediatore,

non

c’è

posto per la prima persona plurale. Ci possono entrare solo il «tu» e l’«io». Anche nell’attenzione agli altri, secondo Guareschi non bisogna gettare il cervello all'’ammasso. Bisogna entrarci in prima persona e misurare ogni giorno le proprie forze posandole sulle sofferenze degli altri. Solo così, alla fine, don Camillo riesce a trovarsi d’accordo sulle

cose essenziali con Peppone. Alla fine, parroco e sindaco, sentono di essere due brave persone capaci di rimboccarsi le maniche per trovare una soluzione ai guai della loro gente. Gli esempi più limpidi si trovano nelle storie dell’al38

luvione. Quando il grande fiume dilaga nella campagna e nei paesi e azzera tutto. Buoni e cattivi, fedeli e senzadio si trovano tutti, improvvisamente, poveri. Senza casa,

senza lavoro. Anche gli affetti sembrano divenuti provvisori. In questi casi, anima e corpo del parroco e del sindaco si fondono in un violento vortice di pietà e amore per il prossimo. Davanti a una povertà radicale non disertano dal loro ruolo. Anzi lo esaltano fino a renderlo eroico. Allora la gente comincia a rinsavire. Nelle sue vene riprende a scorrere il sangue, ritorna il barlume divino che a volte la miseria offusca. Rinasce la fiducia nella vita e si spezza la catena della disperazione. Solo così don Camillo, nel racconto

«La campana»,

pubblicato in Don Camillo e il suo gregge, può dare un senso alla Messa che celebra nella chiesa allagata, mentre tutta la sua gente si è rifugiata sull’argine maestro. «Don Camillo incominciò la Messa. E quando venne il momento di parlare ai fedeli, a don Camillo non interessò il fatto che la chiesa fosse deserta: egli parlava per quelli là sull’argine. «L’acqua aveva già coperto il terzo gradino e incominciava a distendere un sottile, gelido e luccicante velo sul pavimento della chiesa. «La porta era spalancata e si vedeva la piazza con le case annegate e il cielo grigio e minaccioso. «- Fratelli — disse don Camillo. - Le acque escono tumultuose dal letto dei fiumi e tutto travolgono: ma un giorno esse ritorneranno, placate, nel loro alveo e ritornerà a splendere il sole. E se, alla fine, voi avrete perso

ogni cosa, sarete ancora ricchi se non avrete persa la fede in Dio. Ma chi avrà dubitato della bontà e della giustizia di Dio sarà povero e miserabile anche se avrà salvato ogni sua cosa. Amen.» Qui, tra l’acqua del grande fiume e la terra della Bassa,

prende forma uno dei luoghi letterari di Mondo piccolo più carichi di significato. Guareschi riporta le sue creature al momento in cui hanno cominciato a vivere. Gli DO

uomini si trovano soli e disarmati. Sono radicalmente poveri davanti al mondo e alla vita. Sono tornati a essere l’impasto di acqua e di terra che lo scrittore ha raccolto in riva al fiume. Sono dei corpi in bilico tra la possibilità di sgretolarsi una volta per tutte nella furia dell’inondazione, oppure di salvarsi aggrappandosi alla propria anima. E una prova difficile per loro, ma in special modo per lo scrittore. Basta un soffio, una parola messa nel posto sbagliato per distruggere un mondo. In quel momento la creatura rischia di credersi solo fango o, nel tentativo disperato di sopravvivere, di eleggersi a solo spirito immortale. E la tentazione in cui è caduto l’uomo moderno che ha voluto separare una volta per tutte l’anima dal corpo. E questo il peccato che Guareschi non gli perdona. Non è il terrore dei numeri o delle macchine che prende lo scrittore quando condanna il progresso. Piuttosto, la sua forza visionaria è in grado di vedere gli scenari lividi e rarefatti in cui l’uomo abdica dalla sua condizione. Ed è proprio questo che lo inquieta. Tutto può accettare Guareschi, tranne la diserzione. Allora la sua letteratura

diviene militante. Il mondo moderno ha contratto una malattia mortale e per guarirlo bisogna colpirlo con scenari altrettanto potenti e violenti: le costruzioni che vanno a catafascio, la terra che torna alla terra, l’acqua che

annega le case e la gente. Ma su tutto questo corre sempre il soffio dello spirito pronto a far rivivere la terra e l’acqua che, da sole, non saprebbero mai stare insieme. Non sbaglia troppo chi, nella riga di orizzonte disegnata tra cielo e acqua, intravvede l’ombra di un’arca. Questa idea di salvezza diventa la forza eterna di ricominciare che costringe a vivere le creature di Guareschi. Il loro creatore le ha spogliate di tutto il superfluo. Ma lo ha fatto solo per dar loro una potenza che sa di racconto biblico. C’è molto dei vecchi patriarchi in don Camillo e Peppone quando corrono sulle acque tra la loro gente. Le loro barche, come l’arca di Noè, sono spinte dal dito di Dio. E vanno a salvare gli uomini dalla tentazione di non essere più se stessi. 40

Guareschi, con la forza della sua fede e con la po-

tenza della sua abilità letteraria, costringe gli uomini a rimanere uomini. Esseri fatti di terra e di soffio divino. Non teme di avere a che fare con i corpi, perché sa che vi si annidano le anime. Ancora una volta, è l’infanzia il

sentiero su cui lo scrittore si inoltra per abbracciare la carne e lo spirito. È l’incoscienza sicura e felice succhiata dal ricordo di padre Lino quella che trova su quella strada. E la forza del suo amore per il prossimo quella che soffia sul volto di tutte le sue creature. Così le fa capaci di essere anche povere e, per questo, le rende degne di essere amate. In tal modo gli uomini di Mondo piccolo sono stretti da un legame che li trasforma. Non sono più dei semplici vicini, ma ognuno diviene prossimo all’altro. Pare di leggere un commento al passo del Vangelo di Luca in cui si racconta la guarigione dei dieci lebbrosi. Tutti chiedono a Cristo di essere guariti. Lui li manda a presentarsi ai sacerdoti e, mentre questi vi stanno andando,

vengono risanati. Solo uno di loro, un samaritano, torna sui suoi passi a ringraziare chi lo ha guarito. In questo episodio è rinchiusa la chiave per aprire il cuore del sentirsi prossimo: l’improvvisazione. Potrebbe sembrare un concetto bizzarro. Ma il Vangelo lo dice e i suoi fedeli lo vivono. L’improvvisazione è la capacità di non tentennare, di non indugiare davanti a qualsiasi situazione. Il samaritano non ci pensa due volte e, prima di mostrare a tutti che è guarito e può essere riammesso nella società, si ferma a dire il suo grazie. Non è una virtù facile da praticare, l’improvvisazione. La vita di tutti i giorni abilita alla velocità e alla sveltezza. Ma è tutt’altra cosa rispetto alla prontezza e all’improvvisazione. La velocità è figlia dell'abitudine a svolgere un compito o un’azione. La prontezza nasce invece da una costante attenzione allo scorrere della vita. Solo chi è pronto può fermarsi al momento giusto e agire al di fuori degli schemi abituali e delle convenzioni sociali. Nel racconto

di Luca, sono stati certamente

molto 41

svelti i nove che si sono precipitati dai sacerdoti a certificare la loro guarigione. Il samaritano, invece, è stato pronto: è riuscito a cogliere la vita nel suo significato ultimo e si è sentito prossimo a Cristo. Ha dato retta al sentimento della riconoscenza prima che a quello dell'appartenenza a un gruppo. In tal modo ha mostrato una capacità di improvvisare non comune. Fra i tratti del sacerdozio di padre Lino e don Camillo questo genere di improvvisazione è uno dei più marcati. Basta allungare una mano nella loro vita per trovare episodi che lo raccontino. Come quello in cui il frate trovò i soldi per pagare l’affitto a una famiglia sfrattata. Tornando al convento una sera incontrò un uomo che suonava un organetto. Ne provò pietà e gli diede i pochi spiccioli che aveva in tasca. Quello andò a prendere qualcosa da mangiare per la sua famiglia lasciando il suo strumento. Padre Lino non ci pensò due volte. Mise un suo amico alla manovella e lui improvvisò uno spettacolo di ballo. Al termine il mantello che aveva steso per terra era zeppo di monete: quanto bastava per pagare l’affitto alla famiglia sfrattata. Anche don Camillo, dal canto suo, non è a corto di

improvvisazione. In un mondo di senzadio che entrano di nascosto in chiesa e dove i morti ragionano più che i vivi, se non ne avesse non potrebbe sopravvivere. Ma anche Guareschi aveva prontezza e improvvisazione da vendere. Così ha fatto di ogni creatura di Mondo piccolo il suo prossimo. E ha disseminato per le strade, nelle case, sugli argini questa voglia di sentirsi uomo tra gli uomini. Per questo anche le figure secondarie, quelle che compaiono per un solo racconto, pitturate con una pennellata rosso fuoco o blu oltremare, sono cariche della forza di improvvisare, della prontezza a farsi prossimo. In L'anno di don Camillo c'è un racconto che lo spiega limpidamente e somiglia parecchio all’episodio della danza improvvisata da padre Lino. Si intitola «Nel paese del melodramma» e parla di un giovanotto sull’orlo del suicidio che, prima di farla finita, decide di

farsi una grande mangiata anche se non ha un quattri42

no. Questa decisione, dettata da una fame ancora più forte della voglia di morire, è la sua salvezza. AI momento di pagare, propone

a Ganassa, l’oste, di risarcire le

610 lire del conto con una cantata. È la proposta più scellerata del mondo. Ma l’oste accetta e lui si inchioda davanti al ritratto di Giuseppe Verdi. Ne afferra gli occhi, che brillano come

due gemme

nel buio, e non li

molla fino a quando non ha passato in rassegna tutto il repertorio. «Cantò e, quando vide spegnersi le due gemme nell’ombra, capì che aveva finito di cantare. «Ganassa era lì, coi gomiti sul banco, il testone stret-

to tra le manacce pelose e non tirava neanche il fiato. E i tre o quattro del gruppetto in fondo alla sala pareva si fossero messi d’accordo con Ganassa. «Il giovanotto si mosse e si avviò verso la porta perché il fiume lo aspettava. Quando passò davanti al banco, Ganassa si riscosse: si levò su, aperse il cassetto e vi

frugò dentro e depose sul marmo trecentonovanta lire. «- Signore, il resto delle mille lire — disse con voce

cupa Ganassa. «Il giovanotto rimase incantato da quel gesto straordinario. Poi l’atmosfera del melodramma prese anche lui e sorridendo rispose: «- Resto mancia. «- Grazie, signore — rispose Ganassa.» Non serve dilungarsi troppo sulla prontezza e sull’improvvisazione di cui sono capaci questi personaggi. Entrambi riescono a lasciar correre per conto loro le cose ordinarie della vita e a tirarsi di lato per guardar bene in faccia il loro prossimo. Serve solo aggiungere che, quando il giovanotto se ne sta andando verso il fiume, viene raggiunto da Peppone. L’omaccio gli porta la sua moto aggiustata e col pieno di benzina, ma non vuole nulla. E, se c'è bisogno di una spiegazione, è pronta sulle labbra del sindaco comunista. 43

«- Giovanotto, dicano quel che vogliono, ma, politica a parte, il Padreterno è sempre il Padreterno.» Questa capacità di rispecchiarsi nel volto degli altri, a Mondo piccolo è uno stile di vita. Ed è il grimaldello che scardina le fonti dei conflitti sociali. Nei momenti critici l'interesse di parte viene soppiantato dal desiderio del bene comune. Don Camillo e Peppone si stringono la mano durante l’alluvione. Ma si alleano anche per mettere d’accordo a modo loro i contendenti durante gli scioperi. Però non lo fanno costringendo le parti a mollare un po’ ciascuno. Sarebbe troppo poco e non durerebbe. Tutti sono invitati a lasciar da parte la sveltezza per farsi prossimo. Bisogna scartare di lato e guardare verso un nuovo orizzonte. Capitò anche a padre Lino di trovarsi in occasioni simili. Nell'estate del 1922, per esempio. Allora arrivarono a Parma le squadre fasciste per bloccare sul nascere una manifestazione dei sindacati. I due schieramenti si trovarono uno davanti all’altro nei pressi della chiesa del francescano, che non esitò a mettersi in mezzo per evitare la malparata ai manifestanti. In breve successe l’imprevedibile. I fascisti di Parma, davanti a padre Lino, deposero ogni intento bellicoso. Non faceva per loro andare contro il frate in cui si riconosceva tutta la città. E così dovettero vedersela con i loro compagni di spedizione. Un itinerario di questo genere, lungo le strade di Mondo piccolo, lo si può percorrere solo a fianco di questo frate. E lui una delle chiavi di volta dell’intera costruzione. Guareschi lo sapeva bene, tanto che non resistette alla tentazione di portarlo a spasso un paio di volte per il suo mondo. Quasi volesse mostrargli che ce l'aveva messa tutta per non tradire il suo animo e il suo messaggio. Così padre Lino, anche se non viene mai chiamato per nome, compare in due racconti pubblicati su «Candido»: «Il frate cercone» e «Roba del 1922». Nel primo il frate si imbatte in Peppone. In un primo momento il sindaco lo tratta in maniera sgarbata.

44

Poi, però, si mette sulle sue tracce e non si placa fino a quando il povero religioso non gli dà il santino che lui prima aveva rifiutato. Solo allora si sente a posto con la sua coscienza. E vero che cerca di bollare il proprio atteggiamento come frutto dell’oscurantismo medievale. Ma non gli importa. Il cuore e la parte di cervello che non ha buttato all’ammasso del partito gli dicono che quel santino è il salvacondotto per avventurarsi nei territori dove non arriva la sola ragione. Nel secondo,

Guareschi affida al Magrino, il prota-

gonista della storia, la sua speranza che quel frate continui a essere compagno di strada di ogni uomo. «Una volta fatto santo, smette di essere un uomo e di-

venta un simbolo. E se diventa un simbolo, tutta la gente che lo ricorda come lo ricordo io, lo sente più lontano dal suo cuore.» Potrebbe sembrare irriverente. Ma Guareschi non poteva fargli lode più grande. Perché quella è la natura della santità di gente come padre Lino. Messa in una nicchia non avrebbe più nulla da dire. In mezzo alla sua gente, invece, racconta ogni giorno le storie di uomini che si sforzano di annusare l’odore di Dio. Le stesse che lo scrittore ha raccolto in riva al grande fiume.

La vita nelle parole Fra Salimbene da Parma

Se fosse nato qualche secolo fa, don Camillo avrebbe in-

dossato il saio. Nel Duecento, per esempio, sarebbe stato un francescano del tipo che piace all’immaginario popolare. La sua mole sarebbe straripata dall’abito di San Francesco scorrazzando in lungo e in largo per la Bassa parmense. Perché lì, comunque, sarebbe andato a

portar Cristo tra la gente. Poi sarebbe stato preso in consegna dal confratello fra Salimbene da Parma che lo avrebbe messo di peso nella sua Cronaca. Non è azzardato immaginare il pretone di Guareschi in una delle tante vicende raccontate da Salimbene. Sembra fatto apposta quel suo gran libro che corre una fetta del XII secolo e quasi tutto il XIII. Vi si sposano autobiografia, storia dell’ordine francescano,

avvenimenti

della grande politica e piccoli fatti del vivere quotidiano. Tutto lasciato a galleggiare su un mare di notazioni bibliche. Quanto serve per far vivere un figlio della Bassa assetato dei dialoghi con Cristo come don Camillo. Quella Cronaca in cui uomo e Dio si danno la mano, dove la storia sacra si specchia nelle microstorie di tutti i giorni, ricorda da vicino il mondo di Guareschi. Entrambi cronisti, entrambi parmensi, entrambi presi dal gusto di narrare, Salimbene e Guareschi erano fatti per incontrarsi. E s’incontrarono. Se è necessario collocare in un momento preciso il loro primo incontro è a portata di mano l’anno di Grazia 1941. Era appena uscita La scoperta di Milano. Guareschi scrisse al suo vecchio insegnante di latino, il professor Ferdinando Bernini, per avere un parere su quella sua prima opera. In ri416

sposta ebbe un giudizio lusinghiero e una copia della Cronaca di Salimbene con questa dedica: «A Nino Guareschi le memorie di un altro umorista del nostro paese». I due mondi erano entrati in comunicazione anche formalmente. Per capire quanto fossero vicini conviene sentire il parere di padre Berardo Rossi dell'Antoniano di Bologna, studioso del cronista francescano e conoscitore del-

l’opera guareschiana. «Il punto di partenza comune» spiega «è la parmigianità. E una specie di morbo che si attacca all’anima dello scrittore e ne guida la penna. Sulla pagina si traduce in un gusto spiccato per il raccontare. Per quanto riguarda Guareschi e Salimbene, il racconto si traduce in uno sforzo quasi titanico di ricerca della semplicità e dello scrivere pulito. Beninteso, ciò non significa banalità e povertà della narrazione. Al contrario, è il corrispettivo letterario della ricchezza che offre ogni giorno la vita. Entrambi avevano i mezzi per scrivere forbito, e anche per riuscirci molto bene. Ma sia l’uno sia l’altro avevano un gran rispetto per il lettore. Vorrei dire che lo amavano persino. Almeno quanto le loro creature fatte di parole.» Se si raschiano con cura questi tratti comuni allo scrivere di Guareschi e Salimbene si scova un grande amore per la libertà. Quella del lettore, che non deve essere costretto a percorsi labirintici quando è possibile camminare lungo linee rette. Quella dei personaggi, che hanno un cuore, un’anima e quindi devono agire anche indipendentemente da quanto passa per la testa del loro creatore. «Il risultato di tutto questo» dice padre Berardo Rossi «è un racconto limpido, senza sbavature. Perfettamente comprensibile in ogni sua fase, sia dove c’è da ridere sia dove c’è da piangere. Se non se ne fosse convinti, basta porre mente all’uso del linguaggio, un altro elemento che accomuna i due scrittori. L'Università cattolica di Lovanio ha condotto un’indagine sui lemmi, cioè le proposizioni principali di un discorso, impiegati da Sa47

limbene nella sua Cronaca. Ebbene, ne ha trovati circa duecento. Ciò mi ricorda da vicino la scrittura di Guareschi.»

A spiegarne il motivo è Guareschi stesso nel prologo a Don Camillo. «Io, nel mio vocabolario avrò sì e no duecento parole, e

son le stesse che usavo per raccontare l’avventura del vecchio travolto da un ciclista o quella della massaia che, sbucciando le patate, ci rimetteva il polpastrello.»

Quelle «duecento parole» sono qualcosa di troppo simile ai duecento lemmi di Salimbene per non suscitare curiosità. Tanto più se si tiene presente che Guareschi spiegò di pensare le sue storie in dialetto e di tradurle in italiano solo al momento di scrivere. Il dialetto è solitamente un linguaggio che procede per lemmi. La parlata dialettale è spesso costruita attorno a proposizioni principali dalle quali sgorga il discorso. È una specie di cascata che nasce dai concetti forti assimilati dalla terra e dalla storia di una piccola comunità. L’opera guareschiana sembra la traduzione letteraria di questo procedere del discorso. Ogni descrizione, ogni dialogo sono fortemente ancorati a un principio forte, sia per quanto riguarda i valori, sia per quanto riguarda la costruzione della frase. Non sarebbe tanto strano se alle sue «duecento parole» corrispondessero altrettante proposizioni principali ricorrenti. Non sarebbe strano e, soprattutto, porrebbe Guare-

schi in una situazione molto singolare nel panorama letterario. Il suo linguaggio fatto di «duecento parole» lo ha sempre messo in cattiva luce agli occhi della critica. Sciatto, banale, povero è stato definito. Invece era sem-

plice e limpido, che è proprio il contrario. Ma queste sono solo le due caratteristiche che balzano agli occhi a una prima lettura. Il pregio di Guareschi va ben oltre. Semplicità e limpidezza sono figlie di veri e propri virtuosismi linguistici. La lingua parlata a Mondo piccolo è priva di vocabo48

li senza peso, inoperanti. Le creature guareschiane non amano le parole piene di rughe, consumate, scheletriche. Mal si adatterebbero ai loro profili spigolosi e vivi. Uomini, animali, cose di Mondo piccolo amano le parole inaugurali, che si presentano alle labbra come fossero al loro primo mattino. Solo così lo scrittore può conservare intatti gli angoli taglienti del suo pensiero. Solo così può dar voce a comportamenti e ragionamenti di personaggi che, altrimenti, non avrebbero legami con la realtà. Diversamente, il grande fiume non potrebbe portare con sé tante storie e raccontarle a chi sappia sedersi sull’argine ad ascoltare. Gli animali non potrebbero ragionare come uomini quando neanche questi lo fanno. I sindaci comunisti e i parroci non si troverebbero la vigilia di Natale in canonica a pitturare le statue del presepe. Tutto ciò suonerebbe falso se non fosse raccontato con un linguaggio assetato, insieme, di rigore e di invenzione. O, meglio, di rigorosità nell’invenzione.

L’idea di una lingua simile è ben chiara nella testa di Guareschi. Basta sentirlo parlare del latino su «Candido» nel 1956. «Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati a essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un pubblico discorso e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto “sonoro”, potrà parlare un’ora senza dire niente. «Cosa impossibile col latino.»

Cosa impossibile anche col linguaggio di Mondo piccolo. La pagina della saga guareschiana è una rasoiata che conduce diritto al cuore di ogni storia. E tutte le storie hanno il buon gusto di concludersi dove è necessario. 49

Non un passo prima, non un passo dopo. Finiscono nel momento in cui hanno accompagnato il lettore dentro al mistero che celavano tra le righe. Basta un assaggio per assicurarsene. Non è troppo complicato. Parola dopo parola si mastica un racconto. Poi un altro. Poi si torna al punto di partenza. Perché Guareschi è uno scrittore fatto così. Si lascia leggere tutto d’un fiato, ma attanaglia in fretta. Con quel suo scrivere limpido costringe il lettore a tornare sui suoi passi. Allora si riprende dall’inizio e la prospettiva cambia radicalmente. Si capisce che quelle storie sono, tra le altre cose, anche dei gioielli linguistici. Sono piccoli congegni letterari ad altissima precisione. Ogni vocabolo è nell’unico posto in cui potrebbe stare. Là dove vogliono l'atmosfera e lo spirito a cui deve.dare corpo. A ogni rilettura, si scopre un angolo del laboratorio del Guareschi scrittore. Uno dei primi racchiude il sapiente uso delle ripetizioni. Passano sempre inosservate al lettore della prima passata. Ma ci sono e hanno un peso importante nel narrare guareschiano. Il fatto che non si notino subito significa solo che non infastidiscono, anzi sono necessarie. Basta scegliere un passo a caso. Per esempio, la conclusione del racconto «Diario di un parroco di campagna», in L’anno di don Camillo. «- Però Verdi... — tentò di obiettare lo Smilzo.

«Ma Peppone gli saltò sulla voce: — Cosa c’entra Verdi? Verdi non è mica un artista, Verdi

è un uomo

con

un cuore grande così.» In meno di quattro righe, il nome di Verdi torna quattro volte. Sempre, però, con peso e intonazione diversi. Tanto da sembrare sempre una parola diversa. Il segreto sta nel fatto che Guareschi riesce a trasformare in scrittura la lingua parlata. I dialoghi, una volta in pagina, mantengono tutta la loro forza vitale. Se è possibile, ne acquistano altra perché lo scrittore pulisce tutto attraverso il filtro delle sue duecento parole. Lo stesso avviene per le altre parti dei racconti: descrizioni di paesaggi, 50

di situazioni, di personaggi. Nei racconti guareschiani prende corpo e si depura tutta la forza narrativa della Bassa. Storie, leggende, letteratura vi cadono dentro tra-

scinando l’anima dei secoli da cui vengono. Così nascono pagine di grande potenza narrativa. Lo si scopre anche negli aspetti elementari. Guareschi è uno dei pochi scrittori italiani capaci di far sentire l’acqua scrosciare quando scrive che piove. E non gli servono troppe parole. Allo stesso modo ci si sente martellare dal sole della Bassa tra le poche righe con cui parla dell’estate della sua terra. Basta qualche parola incastonata al punto giusto e l’ambiente è creato. Lo scrittore Giuseppe Marotta lo aveva capito prima ancora che il suo amico Giovannino desse vita al suo Mondo piccolo. A Guareschi, che gli chiedeva un parere sul suo progetto, rispondeva nel novembre del 1946: «Metto la mano sul fuoco per quanto riguarda le belle possibilità del Giovannino. Vedrai se mi sbaglio; tu non allinei parole ma cose, questo è importantissimo».

Alla prova dei fatti, il parere di Marotta si rivela talmente giusto che le cose allineate da Guareschi risultano vive. Tutte. Dal bastone con cui Peppone spazzola la schiena a don Camillo, alla nebbia che sale dal grande fiume per avvolgere un mondo intero. Bisogna sbirciare ancora in un altro angolo del laboratorio del Giovannino scrittore per capire quanto il suo narrare sia un congegno linguistico mai abbastanza apprezzato. Si arriva in tal modo a un punto nodale: si scopre come il linguaggio di Mondo piccolo sia funzionale alle sue atmosfere e ai suoi personaggi. Don Camillo, Peppone, lo Smilzo e le altre cento creature dell’universo guareschiano si muovono in ambienti lavorati a lungo dal loro creatore. Sono luoghi carichi di nostalgia, dilatati da uno struggente rimpianto per i posti dell’infanzia, colmi dei valori che danno vita a un mondo intero. In questi spazi rarefatti, creati dall’improvvisa dilata51

zione delle distanze, si misura la forza di uno scrittore.

Giunto a questo punto deve saper conferire anima e spessore letterario alle sue creature. Deve trovare le parole adatte per raccontare le loro azioni e disegnare gli ambienti in cui si sentano vivi. Per questo il linguaggio si fa essenziale. Deve diventare strumento di esplorazione e di creazione al tempo stesso. Si libera di tutto quanto non è strettamente necessario e utilizza in maniera quasi lacerante il poco che rimane. Perciò impone alle sue poche parole una torsione creatrice di senso. Le ruota verso orizzonti che mai prima avevano osato guardare. In «Diario di un parroco di campagna» c’è un passaggio addirittura didascalico in proposito. È uno scambio di battute tra don Camillo e Peppone circa il ritrovamento di alcuni vecchi registri parrocchiali. «Reverendo - disse Peppone. — In giro si fa un gran parlare di certe notizie che lei avrebbe trovato nei libracci dell’armadio. Siccome non è merce politica ma c’è in ballo l’onore del paese, potrei sapere cos’è questa storia? «Don Camillo allargò le braccia: «- Cos'è questa storia? — rispose don Camillo. - Storia. «= Storia in che senso? «- Storia nel senso di geografia — spiegò don Camillo. - È sempre la geografia che fa la storia.»

La battuta del parroco sulla geografia che condiziona la storia presenta una duplice torsione di senso. In primo luogo nell'economia del racconto perché in una sola battuta lo indirizza verso la sua giusta conclusione. In secondo luogo, perché riconduce al prologo di Don Camillo: in un passo, Guareschi vi dice esattamente la stessa cosa. E non è un caso che lo faccia proprio in uno dei passaggi fondamentali della sua opera, dove spiega: D2

«La storia non la fanno gli uomini: gli uomini subiscono la storia come subiscono la geografia. E la storia, del resto, è in funzione della geografia. «Gli uomini cercano di correggere la geografia bucando le montagne e deviando i fiumi e, così facendo, si illudono di dare un corso diverso alla storia, ma non modificano un bel niente, perché, un bel giorno, tutto

andrà a catafascio. E le acque ingoieranno i ponti, e romperanno le dighe, e riempiranno le miniere; crolleranno i palazzi e le catapecchie, e l’erba crescerà sulle macerie e tutto ritornerà terra. E i superstiti dovranno lottare a colpi di sasso con le bestie, e ricomincerà la storia. «La solita storia». Questa torsione di senso dei termini «storia» e «geografia» è uno dei vortici che risucchiano il lettore nel cuore dell’opera guareschiana. La storia figliata dalla geografia non va intesa come una rinuncia alla costruzione della propria vita da parte degli abitanti di Mondo piccolo. E, piuttosto, frutto della loro consapevolezza di vivere in un universo radicalmente cristiano dove Dio e creature sono continuamente a contatto. Ognuno al suo posto e rispettoso dell’altro. Perché Dio, e quindi l’uomo che ne è immagine, sono innanzitutto relazione. Questo è uno dei tratti fondamentali che accomunano Guareschi

a Salimbene.

Il cronista francescano,

se-

condo i canoni del suo tempo, costruiva la sua opera miscelando vicende divine e vicende terrene. Quasi le giustapponeva a trovare nelle prime la ragione delle seconde. Guareschi, sette secoli più tardi, impiega strumenti diversi. Ma lo scopo è identico. E la resa sulla pagina anche. Si respira aria di grande saga medievale nei racconti guareschiani. Con un balzo di secoli si recupera il senso del racconto che è andato perdendosi con la modernità. Se al termine «sacramento» si dà il suo significato originale di «segno», allora si può definire quella di Guareschi una «scrittura sacramentale». A ogni svol DI

ta, in ogni parola porta il segno di una realtà invisibile capace di sovrastare e dare un senso alle cose degli uomini. Come i grandi pittori e i grandi cronisti medievali, lo scrittore della Bassa riesce quasi a dare corpo a quella realtà inesprimibile. Gli basta reinventare i tempi e le distanze che trova nella vita di tutti i giorni. Per esempio dando un significato nuovo alla «storia» e alla «geografia». Lo stesso trattamento viene riservato anche ad altri termini. Per esempio «Mondo». Guareschi lo comprime fino a farlo diventare «Piccolo». Talmente «Piccolo» da ridurlo a un puntino che si muove a suo piacimento lungo l’argine del grande fiume. Ma la torsione di senso è talmente forte che questo «Mondo piccolo» è in grado di dilatarsi oltre ogni confine. Pur ridotto alla punta di uno spillo, è capace di accogliere tutto, di tollerare chiunque, di dare a qualsiasi creatura la vita che le com-

pete. Perché un mondo simile è figlio di un sincero dialogo con il «Mondo grande», quello divino di cui è «sacramento». In altri casi, invece, la torsione di senso acquista ruo-

li diversi. Serve per risolvere questioni che nascono sul momento. E assume anche toni che danno il vero spessore dell’umorismo di Guareschi. Il primo esempio che capita sottomano è al termine del racconto «Cronaca spicciola», in Gente così. «Ma il sindaco Peppone non si scompose quando gli raccontarono il fatto. «- L'Italia è un Paese mediterraneo - rispose. L'importante è di saper nuotare. «Questo episodio fu funestato dal fatto che lo stesso Peppone prese lo spunto dall’avvenimento per proporre l'istituzione di una “scuola nubile” nel senso di “scuola di nuoto”. «Ma era sempre il Peppone de “La Squilla Polare” nel senso di “Squilla Padana” e così nessuno ci fece caso.» D4

Gli strafalcioni di Peppone non sono fini a se stessi. Se lo fossero, farebbero solo ridere. Invece, come

tutti gli

elementi umoristici di Mondo piccolo, sono portatori di allegria, danno luce al racconto. Ciò perché risolvono con un guizzo le situazioni letterarie da cui sgorgano, senza mai forzarle. Per questo sono altrettanto autentici dei momenti drammatici. Hanno dentro il cuore la stessa quantità di verità. Solo Peppone potrebbe dire cose simili. Allo stesso modo, tutti gli altri personaggi sono di volta in volta autori di battute o protagonisti di gag che solo loro saprebbero sostenere. Di questo devono ringraziare il loro creatore che, anche nei dettagli infinite-

simali, ha versato tutta la sua sapienza letteraria. In un ambiente narrativo del genere vive una vita intensa il paradosso. L’«affermazione contraria alle opinioni dei più», il percorso logico che spiazza è una figura che Guareschi impiega spesso. Ma non si tratta mai di un uso fine a se stesso. Non serve solo ad attirare l’attenzione del lettore. Serve per risolvere situazioni che, altrimenti, si chiuderebbero in un vicolo cieco. Quando il dialogo tra uomo e Dio o tra uomo e uomo è al limite della rottura, allora il paradosso interviene frantumando

le regole ordinarie e ripiana le difficoltà. L’uso che ne fa Guareschi è uno dei tratti caratteristici di Mondo piccolo. Da questo universo sgorgano figure e situazioni paradossali a ogni pagina. A cominciare dal prete e dal sindaco comunista che si trovano d’accordo quasi su tutto, per concludere col grande fiume che comincia dove gli pare e non lascia intendere dove finisca. Un ambiente simile diviene difficile da governare per uno scrittore che non sia dotato di grande capacità narrativa.

Va assecondato

e, insieme,

incanalato.

E

questo uno dei punti in cui Guareschi dimostra di avere nella sua scrittura potenza da vendere. Si trova a suo agio in una situazione insidiosissima: in un mondo letterario ragionevole, ma non completamente; dove la logica sembrerebbe ovvia se non fosse in agguato a ogni curva il suo contrario; dove spesso uomini, bestie e cose =5)

smettono di ragionare per il verso giusto e vanno improvvisamente di traverso. Con l’uso sapiente del paradosso lo scrittore riesce a muoversi dove il linguaggio ordinario non è più valido. In tal modo, il suo universo diviene assolutamente permeabile alla sua azione linguistica e, quindi, plasmabile. Dal punto di vista della resa letteraria, il paradosso è uno strumento notevole. Chiunque si soffermi a indicarne l'assurdità cade inevitabilmente nel ridicolo: non fa altro che sottolineare ciò che è noto in partenza, cioè che il paradosso è paradossale. Fa la stessa figura di chi non ha capito una battuta o uno scherzo e si ostina a prenderli sul serio. É proprio in una situazione simile che si sono trovati coloro che hanno dato giudizi avventati su Mondo

piccolo e, in particolare, sull’amicizia tra

don Camillo e Peppone. Non avendone capita la vera ragione, hanno tenuto conto solo della scorza fatta di scaramucce e di tregue politiche. Il paradosso, però, è anche segno che si è giunti nei pressi delle frontiere del linguaggio. Chi lo usa si è avvicinato a qualcosa di inesprimibile. Ancora un passo e al viaggiatore si impone il silenzio. Col suo Mondo piccolo Guareschi è giunto sulla soglia del «Mondo grande», del mistero divino. Qui la sua arte narrativa affronta un’altra prova: l’uso del silenzio. E lui non vi si sottrae. I suoi personaggi galleggiano spesso sul silenzio. Peppone con i suoi dubbi e le sue paure. Don Camillo in cerca della strada maestra che talvolta non riesce a scorgere davanti a sé. Il Cristo che diviene muto anche agli orecchi del parroco quando gli uomini non si sforzano di guardare nell’orizzonte divino. Neppure il paradosso è in grado di risolvere questi casi. Perciò Guareschi sospende a mezz’aria per un momento uomini e cose. Tutto tace. Il silenzio prende il sapore della nebbia che sale dal fiume, oppure quello dell’aria

arroventata

dal

sole.

E, faticosamente,

diviene

ascesi della parola: la purifica e la rende nuovamente capace di mettere in relazione l’uomo e il suo Dio. Nell’opera guareschiana il silenzio è la condizione 56

essenziale per dar vita a parole parlanti, piene di vita. Non è affatto il contrario del linguaggio. È, piuttosto, ciò che apre la via alla potenza del linguaggio. Non è per vezzo che lo scrittore dice di impiegare duecento parole. Il suo bagaglio linguistico si è andato sfrondando del superfluo per dare più forza a quanto rimane. Ogni parola ha bisogno del suo silenzio per essere vera e operante. E non è possibile impiegarne tante quando se ne è consapevoli. Si rischierebbe di perdere di vista il punto di equilibrio tra il peso delle parole e quello della loro assenza, cioè uno degli elementi che fanno di un universo letterario un universo vivo. La creazione di Mondo piccolo è dunque anche un’avventura linguistica. Guareschi ha creato un congegno ad altissima precisione del quale è andato perfezionando i meccanismi.

Quello essenziale, però, gli è stato

chiaro fin dall’inizio. Dal principio ha saputo muoversi attorno ai limiti del linguaggio. E lo ha fatto in maniera originale. Chiunque impieghi con consapevolezza e rigore la parola si trova su una sorta di piattaforma. E se la vuole ampliare, lo deve fare standovi sopra. Non gli è permesso barare: varcandone il limite senza aver prima gettato un passaggio oltre il confine cade nell’impossibilità di farsi capire. Il premio per chi vince questa sfida sta nell’aver posto la frontiera linguistica un po’ più lontano di quanto fosse prima. È chiaro, però, che il suo modo

di

parlare sembrerà inizialmente poco comprensibile ai più. Dovrà attendere un poco per essere condiviso. Chi, invece, si tiene al centro della piattaforma crea agevolmente discorsi chiari; in questo caso il rischio maggiore consiste nell’uso banale della parola. Tanto banale da rendere vuoto, e quindi ancora una volta incomprensibile, il discorso. Mentre nel primo caso si cade nell’incomprensibilità della forma, nel secondo si rischia quella del contenuto. Guareschi,

col suo Mondo

piccolo, ha raccolto en-

trambe le sfide e le ha saldate in una sola avventura letteraria. Anziché allargare la piattaforma è andato via via DA

restringendola fino a ridursi volontariamente al centro. A quel punto si è costretto a usare pochissime parole. Ma lo ha fatto in prossimità del confine, del baratro dell’incomprensione. Per questo il suo bagaglio linguistico, ormai ridotto all’essenziale, ha assunto una carica di si-

gnificato fuori dall’ordinario. Le sue duecento parole sono divenute tutte parole di frontiera, pronte a partire verso nuovi orizzonti. Non si spiega in altro modo come la limpidezza del suo scrivere si sposi all’arditezza delle sue costruzioni. E non si spiega altrimenti neppure il fatto che il suo universo abbia trovato immediatamente tanti lettori pronti a entrarvi e amarlo. Mondo piccolo poteva vivere solo grazie a un congegno linguistico simile. Un mondo come questo, nato dal ricordo struggente dell’infanzia, trova qui la sua massima capacità espressiva. Il bambino, e ciò che del bambino

rivive volentieri

l’adulto,

è follemente

innamorato

del limite. La sua immaginazione lavora allo spasimo per creare limiti immaginari. Tenta sempre di rimpicciolire lo spazio a sua disposizione, suddivide in tante piccole prigioni la stanza in cui potrebbe correre liberamente. Se si pensa ai racconti che si preferiscono da ragazzi sì intuisce il fondo di verità di questo fatto. Il fascino di Robinson Crusoe non sta nella scoperta di un’isola deserta. Sta piuttosto nell’impossibilità di allontanarsene. E qui che ritrovano la loro originaria bellezza cose elementari come un’ascia o un pugno di frumento. L'arca di Noè attrae follemente perché diventa un mondo isolato in cui ogni ragazzino ha sperato di trascorrere almeno qualche giorno. In un ambiente tanto rimpicciolito, ogni uomo e ogni animale ritrovano tutto il loro significato originario. Allo stesso modo, le parole di Mondo piccolo sono parole superstiti. Assumono la stessa carica vitale degli oggetti salvati da Crusoe o delle coppie di animali imbarcate da Noè. La vita vi torna a scorrere come alle origini, con la stessa prepotenza. È il rifluire della forza creatrice dopo il grande silenzio. 58

L’uomo torna a parlare con parole elementari e vere. Chiede pane se ha fame, acqua se ha sete, l’evento

del Golgota quando vuole giustizia. Legge, e se non sa leggere ascolta con meraviglia. Scrive, e se non sa scrivere nemmeno il suo nome, come avviene per tante creature di Mondo

piccolo, fa un segno di croce.

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PARTE SECONDA

Tipi e figure

«Don Camillo era uno di quei tipi che non hanno peli sulla lingua (...).

«Naturalmente, don Camillo, venuto il tempo delle elezioni, sì era espresso în modo così esplicito nei riguardi degli esponenti locali delle sinistre che, una bella sera, tra il lusco e il brusco, mentre tornava în canonica, un pezzaccio d’uomo inta-

barrato gli era arrivato alle spalle schizzando fuori da una siepe e, approfittando del fatto che don Camillo era impacciato dalla bicicletta, al manubrio della quale era appeso un fagotto con settanta uova, gli aveva dato una robusta suonata con un palo, scomparendo poi come inghiottito dalla terra. «Don Camillo non aveva detto niente a nessuno. Arrivato în canonica e messe în salvo le uova, era andato in chiesa a

consigliarsi con Gesù, come faceva sempre nei momenti di dubbio.» Don Camillo, «Peccato confessato»

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DA

1

Mama

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La pianura in cima al monte Don Alessandro Parenti

Don Camillo è un prete di pianura. Una di quelle creature impastate da Guareschi con la terra della Bassa e messe sulla pagina con le radici che continuano a bere l’acqua del grande fiume. Talmente di pianura che la sua gran tonaca nera riesce a far tutt'uno con la polvere bianca delle strade di Mondo piccolo. Talmente di pianura che viene da chiedersi come se la sarebbe cavata in montagna. E una domanda a cui vale la pena di rispondere perché nell’universo di Guareschi si entra anche per questa via. Ci si può incamminare su una mulattiera e continuare a salire senza chiedersi dove finisce. Quando sarà il momento ci si troverà in un villaggio di montanari che ricordano da vicino gente come Peppone, lo Smilzo e don Camillo. È uno dei tanti prodigi letterari di questo scrittore. Capace come pochi di parlare della sua terra mettendoci un soffio di universalità che la rende familiare a chiunque. Dopo avere letto qualche sua pagina non ci si stupisce se, in fondo a una strada impolverata che corre in riva al Po, si sbuca in un paesino di montagna. Oppure se, passo dopo passo, un sentiero tra i monti alla fine deposita il viaggiatore sull’argine maestro del grande fiume. Guareschi stesso andò ad annusare l’aria di montagna per capire se era quella giusta per il cervello e il cuore dei suoi personaggi. Nell'aprile 1946 la sua penna 63

scovò un paesino che valeva la pena di essere messo alla prova. Per quattro settimane su «Candido» pubblicò altrettanti racconti del «Gazzettino di Roccapezza». L'esperimento non fu di suo gradimento. C’era già il parroco, don Patirai. E c’era pure il capopopolo Peppone. Ma qualcosa non funzionava. Ognuno a modo suo era troppo bigotto per essere il don Camillo o il Peppone di Mondo piccolo. La loro anima non era ancora ben formata. Era punteggiata di vuoti che la faziosità riempiva troppo facilmente. Altre figure e altre situazioni, invece, stavano già in piedi. Per esempio, il farmacista repubblicano fino al midollo. Oppure la storia della moglie di un socialista che si presentò in canonica per far battezzare il bambino col nome di Stalingrado. I semi gettati tanto tempo prima cominciavano a dare segnali di vita. Ma avevano bisogno di lavorare ancora un poco sottoterra. Nella testa di Guareschi c'erano uomini fatti in maniera speciale: capaci di litigare anche per un niente, ma senza rancore. Capaci di mettere il cuore in uno sguardo o in una parola, anche se buttati là di sbieco. Uomini tesi allo spasimo verso la costruzione di un villaggio che fosse di tutti. Qualcosa che somigliasse a quella che solitamente si chiama comunità. Era necessario attendere ancora otto mesi. Alla vigilia di Natale di quello stesso anno Mondo piccolo vedeva la luce. Nel racconto

«Peccato confessato», don Ca-

millo si buscava una spazzolata maiuscola da Peppone. Poi rimetteva le cose a posto con un pedatone che il sindaco comunista attendeva rassegnato. «“È dieci minuti che l’aspettavo” disse. “Adesso mi sento meglio.” «“Anch’io”

esclamò

don

Camillo

che aveva

ora il

cuore sgombro e netto come il cielo sereno. «Gesù non disse niente. Ma si vedeva che era contento anche lui.» Era il loro modo di darsi la mano. Un po’ brusco, forse, ma sincero. Una volta d’accordo il Cristo, don Camillo e 64

Peppone, il resto del paese non poteva che vivere nell’armonia. Il mondo di Guareschi, dunque, dopo una puntata in montagna, tornò in pianura. Ma ormai la via tra l’alto e il basso era segnata e lo scrittore si apprestava a correrla in un senso e nell’altro senza mai smarrirsi. L’incontro decisivo coi monti avvenne il 16 luglio 1948. Guareschi corse in lungo e in largo la Valtellina e ci trovò qualcosa che gli ricordava l’aria che tira in riva al Po. Basta leggere l’ultimo brano di un articolo che quell’anno scrisse per «Valtellina e Val Chiavenna». L’ultima tappa del suo itinerario ideale per entrare nel cuore della valle. «Nel ritorno è necessario fermarsi a Trepalle che è (fra i paesi d'Europa abitati tutto l’anno) il più alto. Al centro di Trepalle (500 anime) sorge il più bel monumento della Valtellina: don Alessandro Parenti con la sua scuola e la sua chiesa che sono le più alte d'Europa (2.100 metri). E le ha tirate su lui, assieme all’asilo per i più piccolini. «Trepalle: un nome da racconto buffo. E invece è una cosa straordinariamente seria, e io vi dico di andare

a far visita a don Parenti, presidente della repubblica extradoganale di Trepalle. E lassù da 20 anni, è secco e solido e, quando parla, gesticola e urla. E così ogni tanto si affaccia da una nuvola un angioletto e dice al parroco della chiesa più alta d'Europa: “Reverendo, per favore, un po’ più sottovoce. Qui su c’è gente che riposa”.» Sul tetto d’Italia abitava un altro don Camillo. Un prete dalle maniere spicce che somigliava parecchio a quello che portava la tonaca su e giù per le storie di Mondo piccolo. Dopo averlo lasciato in libertà in riva al fiume per una domenica, Guareschi ritrovava il suo pretone, o qualcuno che gli somigliava parecchio, solidamente piantato in cima alla Valtellina. E questo non era il don Patirai di Roccapezza. Era uno che faceva il prete col 65

cuore. Ci metteva l’anima per tener la gente di Trepalle aggrappata alla sua terra. Da Lazzate, il paese in provincia di Milano dove era nato, aveva portato lassù l’orgoglio dell’identità e la forza di difenderla. Per cui Trepalle poteva essere solo Trepalle e nient'altro. Un villaggio dove gran parte della gente viveva di freddo, di neve e di contrabbando. E talvolta, a causa del gran daffare per tenere gli uomini sulla via del Signore, il parroco non poteva guardare con attenzione se qualcuno mettesse un piede fuori da quella segnata dal monopolio. Quando accadeva un incidente serio tra contrabbandieri e guardie di finanza, don Parenti non ci pensava due volte. Inforcava il suo «Galletto» e arrivava sul posto tagliando le curve come meglio poteva. Poi, tirando e mollando da entrambe le parti, portava tutti a un patto ragionevole. A Guareschi bastò un giorno per masticare tutto e trasformarlo in racconti. Il 10 ottobre 1948 comparve su «Candido» la prima storia della serie «Gente così». Era ambientato

a Trebilie, una manciata di case buttate in

cima a un monte. C'erano l’arciprete che pareva don Parenti, il sindaco Giusà, il contrabbandiere Giàn e tutta

le gente necessaria a rendere vivo un paese. Il nome del posto era un rifacimento letterario di Trepalle. Ma eventuali dubbi sulla fonte dei racconti era fugata dall’inizio del primo episodio, che si intitolava «Trebilie». Dentro vi fa bella mostra un passo che ricorda da vicino l’articolo che Guareschi scrisse per «Valtellina e Val Chiavenna».

«Senza scomodare i meridiani e i paralleli, la latitudine e la longitudine che son porcherie inventate dagli uomini per mettere in gabbia questo disgraziato mondo e ridurlo a un sacco di stupidi numeri col bel risultato che il progresso va avanti e la civiltà va indietro, se vogliamo intenderci

su Trebilie, basterà dire che Trebilie

è un

paese che sta lassù, a casa di Dio. «Quando si dice “lassù, a casa di Dio” significa che ogni tanto un angioletto si affaccia da una delle nuvole 66

che viaggiano nel cielo di Trebilie e dice: “Ohei, giovanotti, facciamo un po’ più piano che qui c’è gente che riposa”.» Doveva trattarsi dello stesso angioletto che si permetteva di richiamare don Parenti quando alzava un po’ troppo la voce. Oltre alle storie pubblicate sul suo giornale, lo scrittore dedicò a Trebilie anche il suo primo film. Uscì poco dopo i racconti, nel 1949, e si intitolava Gente così

Quel paesino era entrato nel cuore di Guareschi. Vi aveva scavato il suo angolino e non ne era più uscito. Era bastata una giornata perché l’uomo della Bassa trovasse il posto dove mandare Peppone, don Camillo e la loro gente a ossigenarsi. E difficile immaginare le storie di Trebilie senza legarle a quelle di Mondo piccolo. L’universo letterario guareschiano ormai aveva acquisito una forza tale da poter vivere ovunque. Quel puntino che si spostava a suo piacimento tra il fiume e l'Appennino, poteva benissimo arrivare fino in cima alle Alpi. Probabilmente Guareschi non avrebbe scavato con tanta forza nel cuore di don Parenti se prima non avesse dato vita, parola dopo parola, a quello di don Camillo. Ma quello di don Camillo avrebbe battuto in maniera diversa se il suo creatore non avesse incontrato il parroco di Trepalle. Nella saga di Mondo piccolo il pretone della Bassa è costretto due volte a salire in montagna. In entrambi i casi si tratta di una punizione per le sue intemperanze. I racconti si trovano nei volumi Don Camillo e Don Camillo e il suo gregge. Si tratta di «Delitto e castigo» e «Ritorno all’ovile», nel primo caso; di «Storie dell'esilio e del ritorno», nel secondo.

Lo schema è più o meno lo stesso. La politica guasta gli animi in paese. Don Camillo perde le staffe e muove le mani con eccessiva libertà. Allora il vecchio vescovo pensa bene di mandarlo in soggiorno obbligato in una parrocchietta di montagna. Però, in «Delitto e castigo» e «Ritorno all’ovile» du67

ra tutto una quindicina di pagine e l’azione si svolge in pianura, al paese di don Camillo. Le sessanta pagine di «Storie dell’esilio

e del ritorno», invece, hanno

il loro

cuore in montagna, tra le pietre di Monterana. La spiegazione, con molta probabilità, sta in una questione di date: nel 1947, quando scrisse i primi due racconti,

Guareschi

non

aveva

ancora

incontrato

don

Parenti e la sua gente. Quattro anni più tardi, ai tempi delle storie dell’esilio, il parroco di Trepalle aveva già camminato a lungo per le strade di Mondo piccolo a fianco dello scrittore. Per questo il fulcro dei racconti si sposta. E per questo nelle «Storie dell’esilio e del ritorno» la figura di don Camillo acquista toni drammatici di una forza letteraria addirittura violenta. Bisogna seguire il pretone che porta a spalle il Cristo Crocifisso della sua chiesa fino al luogo del suo confino per rendersene conto. Sentire il sangue che gli cola dal viso, dalle ginocchia. Provare la sua stessa sete e avere la sua stessa forza di non gettarsi alla prima fonte per bere. Affondare con lui nel buio e nel fango mentre la gente è ancora al caldo nei letti. Non avere più un’ombra di forza e stare in piedi solo per la disperazione. «Quella disperazione che viene dalla speranza. «Sì trovò nella chiesa deserta e squallida ma ancora non era finita perché don Camillo doveva ora sfilare la croce nera e nuda e infilare, nei ferri murati dietro l’altare, il piede della sua croce. E fu una lotta da gigante ma, alla fine, il Cristo Crocifisso era lassù.»

Per raccontare in maniera tanto viva la lotta di un prete con la montagna, Guareschi doveva aver visto un prete e una montagna che gli si erano impressi nel cervello e nel cuore. Poi, al momento di metterli sulla pagina li aveva lavorati con le sue duecento parole. Li aveva levigati dove era necessario. Aveva reso taglienti gli spigoli dove l’anima del lettore deve appoggiarsi solo con un soffio. 68

Tra il primo esilio e il secondo era dunque successo qualcosa che aveva lasciato il segno. Altrimenti non si spiegherebbe perché in due volumi successivi lo scrittore inserisse due vicende apparentemente simili. Sembra quasi che abbia voluto ritornare sulla prima per aprirne il cuore. Per dilatarla fino a farci entrare tutta la fatica di vivere, la tentazione della disperazione e la voglia di speranza che aveva trovato tra la gente di montagna. C'è dell’altro, però. Non è solo la stretta parentela tra don Parenti e don Camillo che lega le storie di Mondo piccolo con quelle di «Gente così». Pur tra mille differenze e mille sfumature,

Guareschi

riesce a dare alla

gente di montagna e a quella di pianura la stessa voglia di costruire il villaggio, di vivere insieme. Tra le tante vicende di Mondo piccolo ce ne sono due che mostrano con precisione che cosa Guareschi intendesse per «costruire il villaggio». Era un desiderio che portava dentro il cuore da tanto tempo. Se l’era persino portato in campo di concentramento, dove era stato durante la seconda guerra mondiale. Ci aveva ragionato, ci si era appassionato. E ora che aveva della gente viva tra le pagine dei suoi racconti non poteva fare a meno di trasmettergli quella sua voglia di civiltà, di saper vivere in comune. Il grande cuore di Mondo piccolo era pronto a sostenere lo sforzo dei suoi abitanti per starci tutti insieme, per trovare un posto a tutti e far

convivere anche gli opposti. Tra le tante facce di un racconto come «La maestra vecchia», raccolto in Don Camillo, c'è anche quella che

porta i tratti del vivere insieme. La maestra, la signora Cristina, aveva insegnato l’abc a tutto il paese ed era una

sorta

di monumento

nazionale.

Poi, un

giorno,

morì chiedendo di essere portata al camposanto senza musica, con la cassa portata a spalle e con la «sua» bandiera, quella con lo stemma sabaudo. La questione venne portata in consiglio comunale. Non era cosa da poco in tempi di repubblica. Peppone fece parlare tutti. E tutti, a loro modo, dissero che non

era il caso di accontentare la signora Cristina. Poi 69

«Peppone si raschiò un poco in gola e prese la parola. «In qualità di sindaco” disse “vi ringrazio per la vostra collaborazione, e come sindaco approvo il vostro parere di evitare la bandiera richiesta dalla defunta. Però, siccome in questo paese non comanda il sindaco ma comandano i comunisti, come capo dei comunisti vi dico che me ne infischio del vostro parere,

e domani la si-

gnora Cristina andrà al cimitero con la bandiera che vuole lei perché io rispetto più lei morta che voi tutti vivi, e se qualcuno ha qualcosa da obiettare lo faccio volare giù dalla finestra! Il signor prete ha qualcosa da dire?” «“Cedo alla violenza” rispose don Camillo che era rientrato nella grazia di Dio. «E così il giorno dopo la signora Cristina andò al cimitero nella bara portata a spalle da Peppone, dal Brusco, dal Bigio e dal Fulmine. E tutt'e quattro avevano al collo i loro fazzoletti rossi come

il fuoco, ma sulla bara

c'era la bandiera della signora maestra. «Cose che succedono là, in quel paese strampalato dove il sole picchia martellate in testa alla gente e la gente ragiona più con la stanga che col cervello, ma dove, almeno, si rispettano i morti».

Il modo migliore per assaporare questo racconto è quello di fissare lo sguardo sulla scena finale rendendolo il più leggero possibile. Allora ci si sente sollevare verso l'alto. La bandiera della signora Cristina e i quattro fazzoletti rossi si fanno sempre più piccoli. Prima nella cornice della piazza, poi in quella del paese intero e infine tra le strade e i campi della Bassa. Però non vengono sopraffatti da quel paesaggio che va facendosi immenso. Nel momento in cui dovrebbero soccombere e scomparire, divengono talmente forti da inghiottire tutto il resto: uomini, cose, luoghi. L'immagine si fa tanto piccola e rarefatta da vincere ogni resistenza. Tutto ciò che vi entra partecipa dell'armonia che un’immagine talmente piccola e talmente viva è capace di produrre. Ogni contrario si appiana in ciò che fino a prima era antagonista. 70

Tutto vi entra e si costituisce la comunità. Il villaggio ha trovato una delle pietre su cui fondarsi. In Don Camillo e il suo gregge c'è un altro racconto che deve essere letto nella stessa prospettiva. Si intitola «L'altoparlante». Peppone è in piazza per tenere un discorso alle reclute che partiranno per il servizio di leva. Ma le spara talmente grosse contro l’esercito che don Camillo, un bel momento, per indurlo a ragionare, apre

l’altoparlante e dà fiato all’inno del Piave. Allora, anche per il sindaco le cose cambiano. Non parla più dopo aver buttato il cervello all’ammasso del partito, ma col suo cuore. «- Dovunque è Italia, dappertutto è monte Grappa quando il nemico si affaccia ai confini sacri della patria! Dite ai diffamatori del popolo italiano che, se la patria chiamasse, i vostri padri, ai quali brillano sul petto le medaglie al valore conquistate nelle pietraie insanguinate, giovani e vecchi si ritroveranno fianco a fianco e combatteranno dovunque e contro qualunque nemico, per l’indipendenza dell’Italia e al solo scopo del bene inseparabile del Re e della patria! «Ma sì, il Re. E il Re volò via assieme alla patria sulle ali del Piave salutato dalle urla deliranti di una piazza gremita.» Questo brano e il precedente mostrano come la vita di Mondo piccolo riproduca nei rapporti umani un movimento ternario. Anzi trinitario, perché si limita a ripetere in terra ciò che anima la vita del Dio che l’ha creata. Solitamente si pensa al tre come a un numero perfetto. Ma quando si insinua nella capacità di relazione diviene tutt'altro che una cifra tranquilla. L’intrusione del «Terzo» immerge tutti in una tempesta dalle conseguenze difficilmente immaginabili. Ridisegna il percorso abituale del confronto tra amico e nemico. E, a mag-

gior ragione, frantuma il mito dell’unità massificata che ha inseguito la società moderna fin dai suoi albori. Fa emergere il paradosso, la lacerazione, la frammentazio71

ne. Ma poi è in grado di ricomporle un passo più avanti, dove i contrari smarriscono

la ragione del loro con-

flitto. La civiltà guareschiana si dirige proprio lì, un passo oltre il conflitto. Ai funerali della maestra vecchia si rischia fino all’ultimo la guerra tra chi vuole e chi non vuole la sua bandiera. Poi irrompe il «Terzo». In questo caso è il rispetto dei morti. Una delle vie lungo le quali gli abitanti di Mondo piccolo si incamminano volentieri al confronto con Dio. Allora la questione cambia radicalmente, il suo asse punta verso una nuova direzio-

ne. I fazzoletti rossi di Peppone e compagni si fondono con lo stemma sabaudo della signora Cristina e diventano patrimonio di tutti. Diventano il cuore della comunità. Lo stesso fenomeno si ripete durante il discorso alle reclute. Solo l’universo guareschiano può dare cittadinanza a un sindaco comunista che suscita l’entusiasmo della gente facendo tutt'uno della patria repubblicana e del Re. Lo scontro tra don Camillo e Peppone viene neutralizzato ancora una volta da un sentimento comune. È il ricordo della vita trascorsa insieme in trincea. È il rispetto per la morte che ha guardato tutti in faccia almeno una volta. Tutto questo non fa di Mondo piccolo una comunità idealizzata, dove non esistono conflitti. Ne fa invece

una comunità autentica, dove l'armonia porta sempre con sé una parte di conflitto. Ogni giorno sorge una piccola guerra che chiede di essere disinnescata. Dando vita al «Terzo», che rappresenta l’istinto di relazione, Guareschi ha regalato al suo mondo la possibilità di essere abitato da uomini veri. In questo modo ha ancorato la gente alla propria cultura, fatta di memoria e voglia di futuro, ed è sbocciato un paese. Poi, al su-

peramento di ogni conflitto, questo paese è andato assestandosi. Ha acquistato una sorta di sovranità capace di dosare la particolarità che preserva e il soffio di universalità che integra nel divenire della storia degli uomini e della storia di Dio. 70)

Nell’universo guareschiano, l’effervescenza e l’imperfezione del «tre» sono orientati al dinamismo e all'avvenire. Il senso della vita che ne scaturisce non ha mai paura della novità e dello straniero. A Mondo piccolo può entrare chiunque. Le sue pagine sono punteggiate di gente che vi ficca il naso per non lasciarlo mai più. Un po’ come avviene per i milioni di lettori che conquista in tutto il mondo. Il punto di equilibrio tra particolarità e universalità rischia la rottura laddove un elemento rappresentativo dei tre poli rischia di lasciare per sempre la comunità. In proposito ci sono due battute molto simili che legano le storie di Mondo piccolo con quelle ambientate a Trebilie. Quando nel paesino di montagna il contrabbandiere Giàn riceve una lettera si insospettisce pensando che venga dal governo. E al postino che lo rassicura sul fatto che al governo ora c’è gente come si deve risponde Secco: «- Mammalucchi e basta senza distinzione di partito! Quando uno è come si deve non va al governo!».

Poco più tardi, quando nel film Don Camillo e l’onorevole Peppone il sindaco viene eletto alla Camera, la moglie del neodeputato non la prende tanto bene. E al marito sul piede di partenza dice: «Quando si hanno moglie e figli, non si va in giro a fare il deputato».

E Peppone, incoraggiato anche da don Camillo, non parte. Diversamente la comunità franerebbe. Crescerebbe in maniera disarmonica. Senza uno dei tre elementi fondatori non saprebbe più distinguere tra il superfluo e il necessario. Diventerebbe un agglomerato qualsiasi e morirebbe di se stessa. Su questo punto ci si potrebbe ingannare se si facesse prevalere la versione cinematografica di Mondo pic73

colo su quella letteraria. È un errore che commette spesso chi si avvicina all’opera di Guareschi dopo aver visto i film che ne sono stati tratti. In questo caso si potrebbe dire che, per esempio, in Don Camillo monsignore... ma non troppo sia Peppone che il suo vecchio parroco si trovano a Roma: uno in Parlamento e l’altro in Vaticano, lontani dalla loro gente. Ma c’è una spiegazione. Anche in quel film, don Camillo e Peppone trovano modo di tornare al loro paese per litigare in santa pace. All’ombra del Cristo Crocifisso che sa sempre metterli d’accordo. Poi, è vero, tornano a Roma. Ma ormai la pellicola è finita e la capitale rimane molto lontana. Il cuore dei protagonisti e degli spettatori, ancora una volta, ha finito ni perdersi tra le strade della Bassa. Inoltre, la sceneggiatura del film non fu tratta da nessun racconto di Mondo piccolo. Guareschi la scrisse dietro insistenza della casa di produzione, che intendeva sfruttare al meglio il successo cinematografico delle sue storie. E visto che, al termine

del film precedente,

Peppone aveva conquistato un seggio in Parlamento, bisognava ripartire da lì. Anche nel Compagno don Camillo, sia libro che film, il sindaco e il parroco lasciano il paese. In quel caso vanno addirittura in Unione Sovietica. Ma ci vanno insieme e portano, opportunamente mascherato, il Cristo. Il loro legame è indissolubile. La dimostrazione più evidente si palesa quando don Camillo viene spedito in montagna per punizione. Entrambe le volte il vescovo lo deve richiamare al paese. La prima perché Peppone, durante la Messa, affronta il sostituto in malo modo

con

l'approvazione di tutta la gente, «reazionari compresi». La seconda perché, in pochi giorni, la comunità si ricostituisce attorno a don Camillo e al suo Cristo Crocifisso nel suo luogo d'’esilio: per nascere, sposarsi e morire, i momenti cruciali della vita, corre lassù. E il paese riprende a vivere in riva al fiume solo quando il suo parroco ritorna sulla jeep di Peppone tenendo alto il suo Crocifisso come una bandiera. 74

In questa maniera, un mondo

intero riconosce e te-

stimonia il tratto essenziale del suo vivere: con il «Terzo» comincia l'infinito. Ed è evidente che il «Terzo» per eccellenza dell’universo guareschiano è il Cristo. È lui che spinge la gente di Mondo piccolo a compiere il passo decisivo oltre il conflitto, nella pace tra uomo

e Dio,

e quindi tra uomo e uomo. È sulle sue tracce che corre la penna dello scrittore fino ad arrivare tanto in alto da vedere la bandiera della signora Cristina e i fazzoletti rossi di Peppone e compagni farsi un puntino e frantumare tutto quanto causa discordia. Non a caso Don Camillo si conclude la vigilia di Natale con il parroco e il sindaco chiusi in canonica a pitturare le statue del presepe. Alla fine, il cuore della vita è il mistero di quel bambino che si radica nella terra e nell’anima degli uomini per farsi crocifiggere. Diventa la via sulla quale si incammina il dinamismo di Mondo piccolo. Per questo Guareschi ha scritto parecchi racconti sul Natale. Sono quelli in cui la logica del «Terzo» che riassume e armonizza tutti gli opposti si fa più stringente. Tanto scarna da essere violenta per uomini poco usi a incontrare il sacro. Ma non è il caso delle creature guareschiane. Il Dio che torna ogni anno a farsi bambino è sempre lì a due passi, «pronto a rimettere a posto tutto». Ma è necessario passare attraverso il suo cuore e rispettare i suoi riti e i suoi ritmi. È il bambino di Peppone a spiegarlo con la violenza e la dolcezza di cui solo i bambini sono capaci quando parlano di Dio. La sera di Natale il piccolino non ha recitato la poesia di rito al padre. Nel tentativo di Peppone di ridurre il Natale a un giorno come tutti gli altri, è andato perso il momento giusto. L’omone, però, ritira il cervello dall’ammasso e si ricorda di avere un cuore e un’anima. Torna a casa libero dall’incubo della normalizzazione e aspetta inutilmente che il figlio gli reciti la poesia.

«Nel pomeriggio Peppone portò a spasso il piccolino e, quando furono lontani dal paese, fece l’ultimo tentativo: 75

«- Adesso che siamo soli me la dici la poesia? «- No - rispose il piccolino. «- Qui nessuno ti sente! «- Ma il Bambino Gesù lo sa - sussurrò il piccolino. «Questa era la più bella poesia che il piccolino potesse dire, e Peppone lo capì.»

Lungo le strade del mito Don Giuseppe Saibene

E facile perdersi, alla Bassa. Fra le sue mille strade im-

polverate, ci vuole un niente per infilare quella sbagliata. Allora ci si trova chissà dove e si comincia a capire che questa fetta di pianura non è tutta uguale. Ogni tratto di argine, ogni filare di pioppi, ogni casolare porta per mano storie diverse. E figlio a suo modo di questa terra battuta dal sole e dalla nebbia. E facile perdersi, alla Bassa. Ma a Mondo piccolo è quasi d’obbligo. Poco male per il lettore di buona volontà. Anzi, meglio. Solo così riesce a entrare nel cuore di storie e di personaggi che, altrimenti, toccherebbe solo di sfuggita. All’inizio, è il metodo di lettura più genuino e ricco di frutti. Ma il passeggero malaccorto rischia grosso. In tal caso Mondo piccolo si rivela presto un terreno ricco di trappole. E allora ci vuol poco a perdere di vista il significato originario di questo universo. Diventa difficile distinguere tra la memoria dell’autore, i frammenti della sua infanzia, i dettagli di cronaca, i sedimenti di filosofia

e di teologia che qui vivono una vita intensa. E diventa impossibile penetrare lo spirito che fa da collante a tutti questi elementi. Si finisce per prendere in considerazione un solo aspetto di quest'opera singolarmente ricca. E quindi si legge tutto in una sola chiave, troppo spesso superficiale. Quasi sempre quella dell'umorismo e del fenomeno di costume. Non si arriva al cuore. È Guareschi stesso che mette in guardia davanti a questo pericolo. Sembra scritta apposta una pagina della «Seconda storia» del prologo a Don Camillo. Il pro77

gresso sta arrivando al Boscaccio sotto forma di tranvai. I campi cominciano a brulicare di gente con strani arnesi da lavoro. La cosa piace poco alla gente del posto. Quindi il padrone del podere, una notte, pensa bene di far allagare di liquame il prato dove quelli di città dovranno lavorare. E questi, dopo averci sguazzato loro malgrado, vanno a protestare. «Verso sera vennero ancora i sei di città accompagnati dalle guardie e da un signore vestito di nero, stanato fuori chi sa dove. «“I signori asseriscono che avete allagato un campo per ostacolare il loro lavoro” affermò l’uomo vestito di nero, irritato perché mio padre stava seduto e non lo guardava neanche. «Mio padre fece il suo fischio e vennero sull’aia tutti i famigli che, fra uomini, donne

e bambini

erano

cin-

quanta. «“Dicono che io ho allagato stanotte il prato prima del frassino” spiegò mio padre. «“Sono venticinque giorni che il campo è allagato” asserì un vecchio. «“Venticinque giorni” dissero tutti, uomini, donne e bambini. «“Si saranno sbagliati col prato di trifoglio che è vicino al secondo frassino” concluse il vaccaro. “È facile sbagliarsi, per chi non è pratico”.» Non doveva essere molto pratico Gilbert Ganne, il giornalista francese che, nel 1953, arrivò in Italia per raccontare il mondo di Guareschi. Il 9 giugno «L’idée litteraire» pubblicava un suo reportage dal titolo «À Nosate à la recherche de Peppone et don Camillo». Nosate è un piccolo centro in provincia di Milano, sdraiato nella piana in riva al Ticino, tra il canale Villoresi e il Naviglio Grande. Negli anni Cinquanta vi faceva il parroco don Giuseppe Saibene, che il giornalista francese dipinse come un prototipo di don Camillo. L’articolo era zeppo di episodi che somigliavano a quelli rac78

contati da Guareschi in Mondo piccolo. Tutti incentrati sulla rivalità tra il prete e il sindaco comunista, Giuseppe Giudici. Dal punto di vista giornalistico era un buon colpo. Venuto in Italia alla ricerca di un don Camillo, Ganne

lo aveva trovato. E il sacerdote era tutt'altro che reticente. Si sentiva ritagliata addosso la tonaca del pretone della Bassa. Ne aveva il fisico, lo spirito e il coraggio. Merce che il Padreterno distribuiva con generosità tra i preti di quella generazione. Poteva persino vantare la frequentazione di Guareschi. Aveva una certa confidenza con lo scrittore che vedeva benevolmente don Saibene entrare e uscire a suo piacimento dalle pagine dei suoi racconti. Il parroco di Nosate non era il prototipo di don Camillo. Però poteva essere il prototipo dei prototipi. Uno dei sacerdoti che, a buona ragione, potevano pensare di essere parenti stretti del pretone guareschiano. Il suo sedicesimo di nobiltà letteraria se l’era conquistato sul campo. Ma se l’obiettivo era quello di leggere nel cuore di Mondo piccolo, allora Ganne aveva sbagliato strada. Era partito dal fondo e si era trovato subito in un vicolo chiuso. Non aveva tenuto conto che i personaggi erano i figli e non i padri del mondo creato da Guareschi. Una volta messe a punto le coordinate del suo universo, lo scrittore aveva trovato sotto la sua penna don Camillo, Peppone, lo Smilzo e tutte le altre creature, pronte a vivere sulla pagina. Ma era un miracolo letterario che si manifestava dopo anni di incubazione. Per trovare l’anima del parroco, del sindaco e dei loro compagni non bastava un reportage dalla provincia italiana: bisognava entrare nell’anima di Guareschi. Don Camillo era solo un simbolo di un mondo molto più complesso che vagava come un puntino lungo la Bassa, tra terra e cielo.

«“È facile sbagliarsi per chi non è pratico”.» Comunque, non importa sapere quanto ci fosse di reale nel racconto del cronista francese. Chissà quanti altri 79

don Camillo avrebbe scovato se avesse setacciato con cura l’Italia. E sicuramente ne avrebbe trovati altrettanti senza prendersi la briga di lasciare il suo Paese. A questo punto, la via da seguire è un’altra. Bisogna considerare attentamente l’identificazione con don Camillo che lo stesso don Saibene alimentava. Un fenomeno come questo, che non fu isolato, dice quanta forza abbia l’universo guareschiano. Quasi ogni paese italiano ha avuto un don Camillo e un Peppone interpretati, magari controvoglia, dal parroco e dal sindaco. Si tratta di un sentiero impervio che parte dalla cronaca per arrivare dove l’aria è più rarefatta. Porta in luoghi dove è difficile respirare sia per lo scrittore sia per il lettore. La cronaca, se osservata con-cura, mostra che l’iden-

tificazione con qualche personaggio di Mondo piccolo parte sempre da don Camillo. Trovato il parroco, si passa alla contrapposizione con Peppone, che non deve necessariamente essere il sindaco. Basta che sia animato da spirito anche vagamente anticlericale. Il secondo passo è la costanza delle scaramucce tra i due protagonisti: vale a dire lo schema su cui si adagia la trasposizione di Mondo piccolo nella realtà. Infine, si arriva alla ricostruzione di episodi simili a quelli narrati da Guareschi. In alcuni casi si tratta di fatti veri, in altri soltanto di episodi verosimili. Ma tutto questo poco importa. Agli effetti dell’identificazione, nell’uno e nell’altro caso, hanno lo

stesso valore. Se da questi, che sono gli effetti, si risale il sentiero che porta alle cause, ci si trova davanti a qualcosa che somiglia molto da vicino al mito. E qui che l’aria comincia a farsi rarefatta, perché il mito porta l’uomo dentro il mistero del cuore divino. La

sua

collocazione

naturale,

a

rigore,

non

sta

in

un’opera letteraria del XX secolo. Sta piuttosto alle radici di una civiltà. Prima ancora che ne cominci la storia. Quindi conviene usare con misura le parole. Soprattutto è necessario avanzare su questa via tenendola come un'ipotesi da verificare nel corso della salita. 80

Mondo piccolo non è un mito legato in senso stretto alle origini di una visione religiosa del mondo. E non pretende di essere tra i fondamenti di un modo di concepire la vita. Essendo una storia di matrice cristiana, ar-

riverebbe almeno con duemila anni di ritardo. Però l’efficacia con cui agisce sui lettori ricalca quella dei racconti mitici. Se porta dentro una valenza di questo genere la si trova solo percorrendo la strada a ritroso. Bisogna partire dagli effetti per capire se, da qualche parte, abbiano una «causa mitica». Nessuna teoria preconfezionata. Nessuna idea a priori. Il mito è un racconto che trasmette agli uomini una verità attorno alla divinità che li ha generati. Parla della vita e delle opere di Dio. Per questo motivo, qualunque sia la sua natura, è sempre un precedente, un esempio.

Detta i tempi e i modi dell’agire di ogni uomo che lo faccia proprio. Tempi e modi che poi si trasformano in una serie di riti che tengono viva la memoria della verità mitica tra gli uomini. Per un momento vale la pena di trasferire questo schema sul piano letterario. Si scopre ben presto che Mondo piccolo agisce allo stesso modo sul lettore. Lo scrittore ha creato un universo con i suoi luoghi, i suoi tempi, le sue leggi e i suoi personaggi. Poi, una volta entrato nel cuore dei lettori, questo universo ne ha spinti molti a trovare nella realtà quegli stessi elementi. E, in molti casi, li ha spinti a ricrearli. Diventa un precedente,

un racconto esemplare capace di esercitare un’attrazione invincibile. È così che rinascono un po’ ovunque don Camillo e Peppone. È così, per esempio, che si sente raccontare del parroco che zittisce con le campane il comizio comunista, come fece don Saibene. Setacciando la cronaca, si scoprono tanti piccoli ruscelli che vanno ad ali-

mentare una cascata grandiosa. Negli ultimi decenni è difficile trovare un altro mondo letterario capace di produrre un effetto simile. In questo l’opera di Guareschi ha tratto giovamento dalla sua versione cinematografica. Il successo dei libri e 81

quello dei film si sono alimentati a vicenda. Ma, in particolare, quello cinematografico ha contribuito a rendere più incisivo, e insieme più evidente, l’«effetto mitico» di quello letterario. La politica, le necessità tecniche, le esigenze di cassetta hanno reso il Mondo piccolo del cinema ben diverso da quello che Guareschi aveva raccontato nei suoi libri. Meno

ricco, meno

vivo, meno

vero.

Costretto, per

questi motivi, a reggersi sull’eterna contesa tra Peppone e don Camillo. Questo fu uno degli elementi che lo portarono a sfondare là dove i libri non erano ancora arrivati. Senza contare che ci arrivava portato dalle facce di Gino Cervi e Fernandel. Due tra i pochi attori capaci di reggere con gli occhi discorsi interi tagliati dalle sceneggiature scritte da Guareschi. A questo punto il fenomeno di identificazione si era completato. Non solo c'erano preti che si ritenevano i veri don Camillo. Ma il don Camillo cinematografico veniva considerato dal pubblico un prete vero. In proposito, Fernandel amava ricordare la lettera di una coppia di coniugi che chiedeva a don Camillo di battezzare il loro figlio. Una lettera lunghissima alla quale l’attore non seppe dire un no secco. Rispose che don Camillo, per quel giorno, era impegnato nella sua parrocchia, ma che non avrebbe mancato di far celebrare una messa cantata per il piccolo. In risposta ebbe una lettera del parroco di quella gente che concludeva: «Ci sono delle bugie che non sono affatto dei peccati». Questo è solo uno dei tanti episodi simili legati a

Mondo francese.

piccolo che segnarono A suo

modo,

la carriera dell’attore

Fernandel

seguì il destino

dei

tanti don Saibene sparsi ovunque. La sola differenza tra lui e loro stava nel fatto che l’attore fu obbligato dal mestiere a mettersi nella tonaca del prete di Guareschi. Ma poi, una volta dentro, anche lui ne rimase in qualche modo prigioniero. Il don Camillo e il Peppone del grande schermo permettono di compiere ancora un altro passo dentro la «lettura mitica» dell’opera guareschiana. La loro con82

trapposizione è talmente esasperata da diventare schematica e quasi irreale. Ma conviene considerarla come accade alla gran parte degli spettatori che, dopo aver visto il film, hanno letto i libri di Guareschi. Risciacquata

nelle storie del grande fiume riacquista la sua giusta di-

mensione,

ma

rimane

una

chiave di lettura forte, alla

quale non ci si può più sottrarre. E spinge ancora sulla «pista mitologica». Esistono miti che vengono chiamati della polarità e della reintegrazione. Alcuni, molto importanti, raccon-

tano la fraternità e l’amicizia fra princìpi opposti, fra gli eroi e i loro avversari, fra angeli e diavoli. Addirittura si arriva a ipotizzare la convertibilità dei ruoli. Tutto ciò manifesta la forza di attrazione tra personalità diverse nate da un unico principio e destinate, nei tempi ultimi, a riconciliarsi. Riesce difficile non pensare a don Camillo e a Peppone. E riesce ancora più difficile non pensare che Guareschi disse più volte di essere lui stesso il suo parroco e il suo sindaco insieme. I due personaggi erano figli della stessa penna e dello stesso cuore. Potevano solo essere destinati a riconciliarsi nei tempi ultimi, come vuole il mito. Cioè alia fine di ogni racconto, come imponevano

le esigenze letterarie. Ma come desiderava anche il cuore dello scrittore che non tollerava incomprensione nelle terre di suo dominio. Del resto non si può intendere diversamente neanche la presenza dell’angioletto e del diavoletto al principio di ogni capitolo. Troppo simili per non essere fratelli e, alla fine, per non volersi bene. Basta guardarli al termine del prologo a Don Camillo. Sulle spalle dell’autore si danno un gran da fare a parlargli nelle orecchie mentre lui scrive: «Me l’hanno raccontata così». Lungo questa pista si giunge nella regione in cui gli opposti vivono insieme. E la regione che porta sulla soglia del mistero divino: ciò che, per eccellenza, è in gra-

do di conciliare i contrari. Questo aspetto è uno dei più arcaici con cui viene espresso il paradosso della realtà divina, vista dalla parte dell’uomo. Ma è anche uno dei 83

più universali. È ciò che assimila le religioni più disparate a una tradizione rigorosa come quella cristiana. Jahvè è insieme buono e collerico, misericordioso e geloso. Il Dio dei mistici e dei teologi cristiani è terrificante e mite. E da questo assunto partono le speculazioni più ardite del pensiero cattolico. In questa luce, le figure di Peppone e don Camillo assumono un significato speciale. Divengono dei simboli. Dei segni che danno accesso alla conoscenza di una verità immateriale. È la sorte che capita anche ad altre figure di Mondo piccolo. Il grande fiume e la piazza del paese, per esempio. Ma conviene tener per mano il pretone e il sindaco, perché son quelli che possono condurre più lontano. Bisogna guardarli mentre sono insieme. Non perderli mai d’occhio. Sia che litighino, sia che si lancino

occhiate feroci, sia che si trovino in parrocchia a pitturare le statuette del presepe. La bellezza del loro stare insieme si rivela soltanto a un’attenta concentrazione. Solo a questa condizione si lascia apprezzare e diventa nutrimento. Qualsiasi viaggiatore può passare per il loro paese. Ma se non avrà il tempo e il raccoglimento necessari, 1 simboli non si apriranno alla sua intelligenza. Invece bisogna riempirsi l’anima della loro figura calda, carnale e spirituale allo stesso tempo. Lasciarla correre dagli occhi al cuore senza che uno dei due sfugga per un momento. Altrimenti si disintegrerebbe il disegno che lo scrittore ha concepito. É necessario averli sempre davanti agli occhi. Perché lo spirito utilizza volentieri le immagini per afferrare la realtà ultima delle cose. In un altro modo difficilmente riuscirebbe a esprimerla. Guareschi lo sa benissimo. Non a caso riduce il suo linguaggio a duecento parole. Tutte espressioni elementari che riconducono ognuna a una sola immagine. E non a caso dà vita a una letteratura violentemente figurativa. Don Camillo e Peppone divengono così, secondo una «lettura mitica», simboli della vita divina. Assolvono

il loro compito facendo da tramite tra uomo e Dio. Una 64

sorta di corto circuito tra Cielo e terra. E tanto più lo divengono quanto più il loro creatore riesce a fonderli in un’immagine sola. Quando la fatica di creare il simbolo raggiunge pienamente il suo scopo, parroco e sindaco hanno compiuto il loro percorso. Hanno condotto il lettore fino al simbolo perfetto: il Cristo Crocifisso, l’asse

su cui ruota Mondo piccolo. La conclusione di questo percorso davanti al Cristo suggerisce un ulteriore piano di lettura delle storie di Guareschi:

l’interpretazione

sacrificale

della vita; dove

sacrificale è inteso come «fare sacro». L’opera guareschiana può anche essere letta come un sentiero lungo il quale l’uomo impara a «fare sacra» la sua esistenza. Non è certo una chiave da scartare. Anzi, in certi momenti assume toni talmenti potenti da sembrare quella fondamentale. Come quando, nel racconto «La processione», don Camillo esce solo dalla chiesa portando

alto il Cristo Crocifisso, nonostante

il

divieto dei rossi. Quel prete che spalanca le porte della sua chiesa e avanza sotto il sole nella piazza deserta diventa l’occhio di un vortice in grado di risucchiare chiunque. In quel momento la sua forza raccoglie tutto il paese in riva al grande fiume della vita. Fatto sacro dall’intesa tra don Camillo e Peppone, che hanno ceduto la scena al simbolo che li lega, il Cristo Crocifisso.

Vita quotidiana e grammatica del miracolo Don Rino Davighi

A prima vista, di don Camillo ha soltanto il sottanone nero, come usano ancora i preti della sua generazione. Per il resto, don Rino Davighi ricorda padre Brown, il sacerdote detective dei racconti di Chesterton. Stessa testa tonda, stessa aria sorniona, stesso modo

indagatore

di guardarsi attorno. Poi comincia a raccontare di quando era parroco nella Bassa e la musica cambia. Polesine, la sua parrocchia, non era molto diversa da oggi. Una manciata di case buttate giù come tante altre in riva al Po, dove nasce il Mondo piccolo di Guareschi. Negli anni Cinquanta era un paese rosso come il fuoco e per i preti non tirava aria buona. Don Davighi ci rimase dieci anni tondi, dal 1950 al 1960, il periodo più bello della sua vita. Ne parla con tanta nostalgia e tanta dolcezza che, ben presto, il ricordo di padre Brown annega dentro la figura mastodontica di don Camillo. Non sarà un armadio a tre ante come il pretone di Mondo piccolo, ma dentro c’è la stessa mercanzia. Quando don Davighi arrivò a Polesine per volere del vescovo di Fidenza, il personaggio guareschiano era già nato da quattro anni. Ben presto i due preti, quello di carta e inchiostro e quello di carne e ossa, divennero compagni di strada. «Sia chiaro, non sono il modello di don Camillo» dice il sacerdote. «Credo che non ne esista uno in particolare. È solo che, tra preti padani, alla fine ci si intende. Il fatto di bagnare i piedi in Po ci ha lasciato gli stessi segni. «Guareschi veniva a trovarmi tre o quattro volte al 86

mese. Ci eravamo conosciuti perché era impossibile vivere da queste parti senza avere a che fare con lui. Gli volevo bene per quello che era e per quello che scriveva. Così, spesso, me lo trovavo in canonica. Si parlava di tutto. Di macchine agricole, di politica e della cronaca spicciola di paese. Gli piaceva ascoltare i piccoli fatti di tutti i giorni che somigliavano parecchio alle sue storie. Tanto più che a rendere saporite le nostre chiacchiere c'erano i bollettini di guerra dei miei scontri con il mio Peppone. «Mi è capitato qualche volta di raccontargli fatti che poi ho trovato nelle sue storie. In genere erano modificati secondo il suo estro letterario, ma il riferimento era

inequivocabile. A volte, invece, rimanevo sorpreso perché i suoi scritti anticipavano le nostre battaglie di paese. Era davvero straordinario quell’uomo. È riuscito a parlare della sua terra come pochi altri scrittori hanno fatto. L'ha resa talmente viva nelle sue pagine da riuscire a montare finzione e realtà in incastri stupendi e irripetibili.»

Per capire quanto realtà e fantasia si aggroviglino nelie storie di Guareschi, basta aprire a caso una pagina di Mondo piccolo. Ecco, per esempio, che spunta «Cartaccia elettorale». Il racconto, poi pubblicato in L’anno

di don Camillo, uscì su «Candido» del 26 aprile 1953. Le elezioni per il secondo Parlamento repubblicano si sarebbero svolte un mese e mezzo dopo, il 7 giugno. Gli animi erano già caldi. Come non bastasse, si aggiunse la polemica per la legge che introduceva il premio di maggioranza all’eventuale gruppo di liste che avesse conseguito il 50% più uno dei voti validi. Il provvedimento, voluto dal governo, fu subito battezzato dalle minoranze

di destra e di sinistra «Legge truffa». Di motivi per battagliare ce n’erano dunque parecchi. In questo clima Guareschi scrisse quel racconto. La storia è curiosa. Stufi dei tanti manifesti dei partiti che imbrattano un sacco di muri, al paese di Peppone tutte le forze in campo decidono di limitarne il numero. A ognuno la sua spettanza e la usi come vuole. Ai rossi, pe87

rò, non stanno bene le prediche di don Camillo. Le giudicano un eccesso di propaganda che pende dalla parte dei loro avversari. Un qualcosa in più oltre ai pochi manifesti assegnati. Allora, una domenica eccoli comparire tutti insieme alla Messa con le facce che non promettono nulla di buono. Finito di celebrare, il sacerdote attra-

versa la chiesa ormai vuota con passo lento e deciso. «Arrivato che fu sulla porta, Peppone e i rossi si ritrassero e don Camillo si fermò. «Vide e non disse niente. «La canonica era sempre lì a sinistra, ma aveva la facciata completamente coperta di manifesti con falce e martello e la scritta “Vota PCI”. «Quando si dice “coperta completamente” si vuol significare che, mentre don Camillo tuonava dal pergamo, una squadra di quindici filibustieri, armata di quindici scale, quindici pennelli e quindici secchie piene di colla, aveva tappezzato la facciata della casa, non lascian-

do scoperto un solo millimetro di roba.»

Al paese di don Davighi successe una cosa molto simile, proprio in quel periodo. «Eravamo agli inizi di aprile e, anche se mancavano ancora due mesi buoni alle elezioni, l’aria era già calda» ricorda il sacerdote. «Con il sindaco comunista,

i democristiani strinsero l’accordo sui

manifesti. Nessuno ne avrebbe affissi fino all’ultimo momento e lo si sarebbe fatto in quantità ridotta. Ma il sindaco, forse pressato dai pezzi grossi del suo partito, infranse l’accordo. Non ci pensai due volte. Convocai i giovani della Dc e li spedii in città a farsi stampare i manifesti in gran segreto. Poi, la notte, li mandai a far quello che dovevano fare. Tappezzarono tutta la facciata del Comune e quella della casa del segretario politico del Pci. Neanche le finestre rimasero libere. «Fu un bel colpo. Non ricordo se lo raccontai a Guareschi, certo che la coincidenza delle date è curiosa. In

ogni caso lui lo venne a sapere certamente perché in tutta la zona se ne fece un gran parlare. Se si ispirò a 88

quel fatto non mi stupisce che abbia invertito i ruoli. Non era da don Camillo manovrare come feci io quella volta gli attivisti democristiani.

Questo

dimostra,

se ce

ne fosse bisogno, il rigore con cui scriveva. I suoi personaggi non erano delle marionette buone a tutti gli usi. Rappresentavano la nostra Bassa, è vero. Ma prima di tutto erano espressione del suo mondo interiore. Don Camillo, col suo Peppone,

aveva meno

mano

libera di

quanta ne avessi io col mio.» Il Peppone di don Davighi si chiamava Enzo Carini. Tipo spiccio, comunista a modo

suo, aveva tanto cuore

quanto era sterminata la sua fede nella redenzione proletaria. Sembrava ritagliato da una pagina di Guareschi. «Facemmo presto a capirci» dice il sacerdote. «Bastò il primo scontro, che poi raccontai puntualmente al mio amico scrittore. Al sindaco non garbava che in paese funzionasse un asilo gestito dalle suore e lo fece chiudere. Il mio predecessore tentò di protestare. Andò in Comune,

ma rimediò soltanto una sbatacchiata maiuscola

che col protocollo ufficiale aveva poco a che fare. «Quando arrivai in paese, studiai la situazione e decisi un piano d’azione. Per poter riaprire l’asilo dovevo affrontare il sindaco. Cominciai in bella maniera a spiegargli le mie ragioni. Poi, quando vidi che stava esplodendo lo anticipai. Gli misi un pugno sotto il naso e gli feci un discorso in dialetto, breve ma efficace: “State at-

tento perché se l’altro prete lo avete buttato dalle scale, con me non attacca. Dalle scale vi ci butto io”. Cominciammo a intenderci. Eravamo fatti della stessa pasta. Si capisce che dalla stima istintiva si passò in fretta all’amicizia. Al fondo c’era la condivisione di un valore irrinunciabile per la convivenza civile: l’amore spassionato per gli altri, la capacità di vedere in chi sta sull’altra barricata prima la persona e poi l’avversario politico.» Questo è un principio molto caro a Guareschi e don Camillo lo macina costantemente in ogni parola di ogni racconto. Non combatte i comunisti, ma il comunismo.

I comunisti sono figli della sua terra e un sacerdote vivo e sincero come lui non può che amarli. 89

«Pur con tutta la teoria che i capi versavano nelle loro teste» dice ancora don Rino «alla prova dei fatti le cose cambiavano. Calato nella realtà il comunismo di casa nostra

non

poteva lottare veramente

col Signore.

Per

questo potevo permettermi di tirare scherzi mancini al sindaco. In omaggio alla missione pastorale, innanzitutto, ma un tantino anche per mio diletto personale. Una volta, per esempio, invitai la gente del paese a recitare il rosario per la Madonna Pellegrina proprio a casa sua. Non seppe come reagire a quell’invasione. Mi diede pubblicamente del canchero, ma in cuor suo non se la prese troppo. E non osò neppure disertare la funzione. Si ritirò in un angolo e, senza che gli altri lo vedessero,

fece il suo bravo segno di croce.» Tra sindaco comunista e parroco c’era un'intesa di fondo che riusciva a risolvere anche le liti più infuocate. Don Davighi nella realtà, come don Camillo nella finzio-

ne letteraria, furono fortunati trovando i loro rispettivi avversari. Non bisogna scordare che, nel primo dopoguerra, trecento preti emiliani caddero vittime dell’odio politico. Lo stampo da cui erano usciti Peppone, Carini e una gran quantità di comunisti della loro terra invece era di foggia buona. La matrice era quella di Giovanni Faraboli, un socialista fino al midollo che, ai primi del

Novecento, fondò le cooperative rosse nella Bassa padana. Faraboli era l’anima del socialismo della sua terra. A Fontanelle di Roccabianca, a un tiro di schioppo da Busseto, era una specie di re. Così, quando il 1° maggio del

1908, in quel borgo, venne al mondo Giovannino Guareschi, nessuno trovò strano che gli facesse a suo modo da padrino. Si affacciò al balcone di «Casa Balocchi», dove abitavano i Guareschi, e mostrò il fagottino al po-

polo riunito per la festa dei lavoratori. «Compagni, ecco un nuovo campione dei rossi socialisti» disse sopra quel gran brulicare di bandiere rosse, cravatte nere a fiocco e cappelli a tese larghe. Non ci aveva azzeccato. Però la gran fede nella redenzione sociale, l’amore per gli ultimi e l'attaccamento 90

all'anima romantica di quel socialismo entrarono sotto la pelle del piccolo Giovannino e non se ne andarono più. Faraboli, con una concezione tutta sua della lotta di classe, ne fu sempre la sintesi. Niente odio, ma servizio

per i più deboli. Il vecchio socialista li difese prima dai sindacalisti fanatici che venivano dalla città e poi dalle squadre fasciste che scorrazzavano per la Bassa. Durante il Ventennio, si rifugiò in Francia tra il 1926 e il 1945. Tornò al suo paese dopo la guerra più solo e più socialista di prima. I suoi compagni si ricordarono di lui solo quando morì, nel 1955. Arrivò Giuseppe Saragat a Fontanelle per l'inaugurazione del monumento di prammatica. Poi calò ancora il silenzio. Fu sempre nel cuore di Guareschi, che ne respirò l’anima e la soffiò sul suo Peppone. Ma Faraboli spunta qua e là dentro altri personaggi di Mondo piccolo. Probabilmente lo scrittore pensava a quel vecchio socialista quando disegnò la figura di Maguggia in «Vecchio testardo», uno dei racconti di Don Camillo. I tratti biografici del personaggio non ricalcano interamente quelli di Faraboli. Ma lo spirito che invade quell’anima socialista, il senso religioso a cui è impron-

tata quella vita da senzadio Guareschi li ha annusati a Fontanelle. Nel ’22, si legge nel racconto, in paese arrivarono le squadre che andavano a bruciare le cooperative socialiste.

«Qui la politica non c’entra” disse il vecchio Maguggia a quello che pareva il capo della banda. Questa cooperativa l’ho fondata io e l’ho sempre amministrata io e i conti hanno sempre quadrato e voglio che quadrino fino all’ultimo. In questo foglio c’è la nota della roba esistente in bottega: datemi lo scarico e poi bruciate quel che volete.” (...)

«Poi si fermò in fondo alla piazza a veder bruciare la cooperativa e, quando di tutto l’edificio non rimase più che qualche tizzone, si cavò il cappello e tornò a casa.» 91

Passano gli anni e Maguggia si trova al cospetto di don Camillo in un momento cruciale. Il vecchio sembra sul punto di morire, ma non ne vuol sapere dei conforti religiosi. «‘Maguggia” implorò don Camillo “pensateci un momentino. Intanto io pregherò Dio che vi illumini la mente.” «“E perfettamente inutile” rispose il vecchio. “Dio me l’ha sempre illuminata, altrimenti non avrei potuto vivere obbedendo a tutti i suoi comandamenti. Ma non mi confesso perché voi pensereste che il vecchio Maguggia ha fatto il galletto con i preti fin che stava bene e poi, quando se l’è vista brutta, gli è venuta la fifa e ha mollato. Vado all’inferno piuttosto!”» Poi, una volta ristabilito, il vecchio socialista si presentò in chiesa da don Camillo.

«“Adesso è diversa da allora” disse Maguggia. “E siccome desidero ringraziare il Padreterno seguendo la via ordinaria, vorrei comunicarmi.”»

Con senzadio di questa pasta non è difficile andar d’accordo per un prete come don Camillo. Basta saperli prendere per il verso giusto. Oppure aspettare che vengano loro. Anche

se, a sentirli, non

attendono

che di

morire per far dispetto al prete facendosi seppellire col funerale civile e la banda che suona l’Inno di Garibaldi. Prima o poi inciampano in qualche evento che le loro teorie non riescono a spiegare. Allora vanno dal parroco. Perché quel canchero riesce a rendere simpatico anche il Padreterno. Oppure perché è anche lui sulla stessa barca dei suoi parrocchiani e se sta dall’altra parte è solo colpa della tonaca che gli hanno messo addosso. O, più semplicemente, perché gli vogliono bene, nonostante tutto. E vero che don Camillo combatte il comunismo ma non i comunisti, il partito ma non Peppone. Ma è altret92

tanto vero che il sindaco, da parte sua, in più di un rac-

conto, trova modo di dire al parroco che lo stima perché non è un «prete clericale». Per entrambi, l’altro è innanzitutto un uomo e quindi un compagno di strada per vocazione. Avversario, e non nemico, lo diviene solo

per caso. Il cuore dell’amicizia tra don Camillo e Peppone è tutto qui. E non è poco. Perché è uno dei cardini su cui si reggono le storie di Mondo piccolo. Se ne trovano mille esempi nelle pagine di Guareschi. Uno dei più efficaci è «Giallo e rosa», il racconto che chiude Don Ca-

millo. Manca poco a Natale: il prete e il sindaco sono seduti al tavolo della canonica. Non tira aria buona in paese perché uno della banda di Peppone ha ammazzato un avversario politico. Non è facile discorrere in queste condizioni. Allora don Camillo, che sta ritoccando le

statue del presepe, pesca dalla cassetta il Bambinello e lo mette nella manona del sindaco.

«Peppone si trovò in mano la statuetta senza me, e allora prese un pennellino e cominciò di fino. Lui di qua e don Camillo di là della za potersi vedere in faccia perché c’era, fra baglio della lucerna.»

sapere coa lavorare tavola, senloro il bar-

Poi, nel bel mezzo del lavoro, il sacerdote prende la sta-

tuetta del somarello e la posa delicatamente vicino alla Madonna curva sul Bambinello.

«Questo è il figlio di Peppone, questa è la moglie di Peppone e questo è Peppone” disse don Camillo toccando per ultimo il somarello. «“E questo è don Camillo!” esclamò Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al O. Bah! Fra bestie ci si comprende sempre” concluse don Camillo. «Uscendo, Peppone si trovò nella cupa notte padana, ma oramai era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello.» Chl

Quel tepore Peppone lo assapora solo grazie all'amicizia di don Camillo. Il suo amico prete, però, non gli indica scorciatoie speciali che conducano all’incontro con Dio. Mette in tavola quello che, da povero parroco di campagna, ha trovato nella sua anima, magari a fatica.

Il significato straordinario di questo episodio non sta nell’idea bizzarra di un prete che mette in mano la statua di Gesù Bambino a un sindaco comunista. Sta invece nel fatto che quell’omone rosso come il fuoco ha bisogno proprio di quel Bambinello e che don Camillo lo sappia. E lo sappia con tanta certezza da compiere con assoluta naturalezza un gesto apparentemente scriteriato, quasi blasfemo. Solo per questo, alla fine, i due riescono a mettersi d’accordo sulle cose essenziali. E-.se vola qualche sberla serve solo a rimettere al loro posto le idee. «Discorrevo anche di questo con Guareschi» racconta don Davighi. «Perché spesso non riuscivo neppure io a capire come potessi andare d’accordo con un sindaco tanto comunista. L’ho inteso leggendo le storie di Mondo piccolo. Io e Carini ci comportavamo come Peppone e don Camillo. Ci davamo battaglia per il bene della nostra gente e sapevamo di essere entrambi sinceri. Era un dovere che sentivamo innanzitutto dentro noi stessi. Era naturale che ognuno finisse per sconfinare sul terreno dell’altro.

A

quel

punto,

potevamo

solo

andar

d’ac-

cordo. «Alcune volte, a forza di sconfinare,

si verificavano

anche episodi grotteschi. Successe, per esempio, quando decidemmo di metter su un cineforum. Cominciai io e quelli della Casa del popolo mi imitarono subito. Tiravamo a fregarci a vicenda per avere più gente possibile in sala. Lo facemmo a tal punto che, nella stessa giornata, noi della parrocchia avevamo in cartellone Lo spretato, mentre i comunisti davano Bernadette.»

E anche questo episodio non avrebbe stonato tra i tanti di Mondo piccolo. Come gli altri che don Davighi, una volta aperta la porta dei ricordi, continua a sfornare. Basta starlo ad ascoltare e i riferimenti alle storie di 94

Guareschi vengono da soli. Per esempio quando racconta della processione per la benedizione del Po. «Ci andavamo ogni anno per chiedere al Signore che lo aiutasse a tenere la testa a posto e non venisse con le sue acque nelle nostre case» spiega don Rino. «Una volta i comunisti decisero che la processione non si sarebbe fatta. Era come invitarmi a nozze. Radunai i miei con più fegato e andammo in riva al fiume. Diedi la benedizione e tornammo in chiesa. Per le strade non si sentiva volare una mosca. Ma il giorno dopo, Carini e compagni si cavarono tanto di cappello. Non si aspettavano una reazione del genere.» Questo fatto ricorda molto da vicino il racconto «La processione», pubblicato nel primo volume delle storie di Mondo piccolo. La curiosità sta nel fatto che il racconto precede di qualche anno l’episodio reale. Don Camillo uscì in volume nel 1948, mentre don Davighi arrivò a Polesine due anni dopo. Ma poco conta. Anzi rafforza quanto Guareschi pensava della sua creazione letteraria. Lo spiegò in uno scritto poi pubblicato come introduzione a Lo spumarino pallido, una raccolta postuma del 1981. «L'ambiente di queste storie è la mia terra: la Bassa parmense, la pianura emiliana in riva al Po. (...)

«I tipi sono veri: e le storie sono tanto verosimili che, più d’una volta, un mese o due dopo aver inventato una storia, il fatto accadeva realmente e lo si leggeva sui giornali. «Addirittura la realtà superava la fantasia: perché, quando io scrissi la storia di Peppone il quale, per liberarsi di un aereo che, durante un comizio, gettava mani-

festini avversari, tira fuori dal pagliaio una mitraglietta, non arrivai a farlo sparare. “Andiamo nel fantastico” dissi fra me. Due mesi dopo a Spilimbergo, non solo i comunisti spararono su un aereo che lanciava manifestini anticomunisti, ma anche lo abbatterono.»

Eppure, a saperli prendere per il verso giusto, quei comunisti che non esitavano a mettere in campo la con95

traerea diventavano le persone più mansuete di questo mondo. «Bastava non farsi intimidire e la loro corazza era subito perforata» spiega don Davighi. «Io mi riconosco in tutti i segni caratteristici della pastorale di don Camillo.

Ma se ne dovessi indicare uno

in particolare,

quello sarebbe la fermezza nella proclamazione dei princìpi. Su quella non si poteva sgarrare. E non era tanto difficile. Serviva solo fare la voce più grossa degli altri al momento giusto. «Un anno mi venne all’orecchio che i rossi si stavano organizzando per rifiutare in blocco la benedizione di Pasqua delle case. Non mi persi d’animo. In chiesa, durante una Messa, dissi che non c’era nessun problema. Chi non gradiva la benedizione non doveva che metterlo per iscritto. Il giorno dopo passai per le case del paese con chierichetto e aspersorio. Nessuno osò farmi trovare la porta chiusa. «Un'altra volta i comunisti annunciarono il comizio di un senatore di Fidenza, che io conoscevo benissimo.

Veniva a parlare del valore della famiglia e dell’importanza in cui il suo partito teneva questa istituzione. Cominciai subito a friggere. Innanzitutto per la palese menzogna che vi vedevo al fondo. E poi perché sapevo benissimo che quel senatore aveva moglie e qualche amante. Lasciai iniziare il comizio e poi mi comportai come al solito. Calcai il cappello in testa e arrivai fin sotto il palco per il contraddittorio. Intanto la mia povera mamma era chiusa in casa a recitare il rosario per tenermi lontano dai pericoli. Non mi fu neanche necessario aprire bocca. Quando il senatore mi vide lì a due passi e mi riconobbe, trovò il modo di togliersi dall’imbarazzo. Finì in fretta e furia, salì in macchina e se ne andò.» Mentre parla, questo don Camillo con la faccia da

padre Brown si va facendo sempre più simile al pretone di Guareschi. E c’è almeno un altro tratto del loro essere sacerdoti in cui sembrano gemelli. E la capacità di leggere la presenza di Dio nella vita di tutti i giorni. Non si tratta solo dei colloqui con il Cristo dell’altar maggiore. Con quelli, don Camillo e i suoi confratelli 96

dovrebbero avere una certa familiarità. L’unica differenza sta nel fatto che il prete e il Cristo di Mondo piccolo discorrono a voce alta. Ma è solo un dettaglio. Il grande dono di questi due sacerdoti è quello di saper riconoscere le impronte di Dio sulle strade che gli uomini calpestano tutti i giorni. É la capacità di vedere «il dito di Dio», come lo chiama don Davighi, che entra

nella storia di ognuno e la trapassa come fosse un foglio di carta velina. Non è facile farlo con rigore e sicurezza. Si rischierebbe spesso di gridare al miracolo dove si nasconde solo un tiro mancino della natura. D'altra parte, bisogna avere il coraggio di mostrare l’evento straordinario là dove se ne sente la presenza. Come fanno puntualmente don Camillo e don Rino con la loro gente. Del resto, come

dice Chesterton, l’aspetto più straordi-

nario dei miracoli è che avvengono veramente. «Cominciamo col dire che miracolo non significa prodigio come lo intendiamo spesso noi uomini» spiega don Davighi. «Il miracolo è un intervento divino che sorprende l’essere umano. Non è detto che sia solo la felice soluzione di una situazione troppo ingarbugliata per le nostre forze. Può anche scaturire da fatti drammatici che non si risolvono secondo i desideri degli uomini. È un fatto che lascia tutti con la bocca aperta. Punto e basta. «È bene spiegarlo subito perché a Polesine vidi qualcosa che lasciò tutti con la bocca aperta in un fatto drammatico. E non mi si deve fraintendere. Capitò, dopo alcuni anni che ero in parrocchia, che si ammalasse un certo Parmigiani. Fu ricoverato in ospedale in gravi condizioni e rifiutò sempre il conforto religioso. Tornò al paese rimesso a nuovo e più spavaldo che mai. Tanto che, durante una processione, tagliò la strada al corteo religioso per andare all’osteria. Quel gesto lasciò il segno. La gente ne parlò parecchio, quasi con ammirazione. Oltretutto, lui l’aveva sottolineato proclamando che, alla sua

morte,

non

avrebbe

voluto

neanche

sentire

l’odore del prete. «Pochi giorni dopo, capitò il fatto. Tornando dal97

l’osteria verso casa, Parmigiani crollò a terra morto, proprio nel punto in cui aveva tagliato la processione. Lasciamo da parte subito interpretazioni che tirino in ballo a sproposito il castigo divino. Ma quella morte ci lasciò tutti di sasso, dal parroco ‘al più acceso degli anticlericali. Ci costrinse tutti a voltarci verso Dio e guardarci dentro l’anima. Ci costrinse, tutti insieme, a capire cosa vuole veramente Dio dagli uomini e a cambiare direzione. Fu quello il miracolo, non la morte di Parmigiani. Perché

ogni conversione,

anche

quella a cui è

chiamato ogni giorno il credente, quando avviene è qualcosa di miracoloso. Il fatto mi lasciò talmente sbigottito che quell’uomo fu l’unico in tutta la mia storia di sacerdote a cui non me la sentii di celebrare il funerale religioso. Era stata la sua volontà. E il modo in cui era morto l’aveva rimarcata con tale forza che, neanche facendomi violenza, riuscii a infrangerla. Potei solo pre-

i gare per la sua anima.» Anche don Camillo si trova faccia a faccia con i miracoli. Le storie di Mondo piccolo ne sono costellate. Miracoli falsi e miracoli veri che tendono allo spasimo la sua anima, il suo cuore

e il suo cervello di uomo

e di

prete. Fatti che chiedono con prepotenza di essere capiti e spiegati. Eventi di fronte ai quali bisogna avere il coraggio e l’incoscienza di interpretare il linguaggio di Dio. In Don Camillo, si trovano due racconti che sembra-

no fatti apposta per spiegarlo: «L’uovo e la gallina» e «Notturno con campane». Nel primo, si parla di una polemica scoppiata in paese in seguito a una notizia curiosa: ad Ancona, una gallina benedetta dal parroco aveva poi scodellato un uovo che portava in rilievo un emblema sacro. Neanche a farlo apposta, anche una gallina di don Camillo ne depone uno simile. Allora il prete convoca Peppone con tutto il suo stato maggiore e li affronta a muso duro. Cosa possono dire, ora, dopo tutto quanto hanno scritto sul loro giornale murale? E il sindaco che risponde a nome di tutti. 98

«“Davanti a un miracolo così” borbottò “cosa volete che possiamo dire?” «Don Camillo irrigidì il braccio e parlò con voce solenne: «“Dio, che ha fatto il cielo e la terra e l’universo e tutto quello che c’è dentro l’universo, compresi voi

quattro scalzacani, per dimostrare la sua onnipotenza non ha bisogno di mettersi d’accordo con una gallina” disse lentamente don Camillo. «E strinse il pugno, e stritolò l’uovo. (...)

«Uscì come una saetta e rientrò stringendo per il collo la gallina Nera. «“Ecco” disse torcendole il collo. “Ecco, gallina sacrilega che ti permetti di immischiarti nelle sacre cose del culto!”» È chiaro che al pretone di Guareschi questo genere di prodigi piacciono poco. E tanto meno possono sembrare miracoli ai suoi occhi. Non ha nulla di magico «il dito di Dio» che viene a frugare nell’esistenza degli uomini. Piuttosto è una sovrabbondanza di vita che cade improvvisamente sulla terra e sorprende tutti. Lo si capisce andando dritti al cuore dell’altro racconto, «Notturno con campane». La storia è semplice. Una sera tardi, davanti

a don Camillo, compare il Bion-

do. Ha una pistola in mano e non ha tempo da perdere. Approfittando della lotta partigiana ha commesso un delitto e ora non riesce trovar pace per il rimorso. Vuole che il prete lo assolva. Altrimenti lo ammazza.

«Don Camillo, datemi l'assoluzione o sparo!” «“No.”

«Il Biondo fece scattare il grilletto e il grilletto scattò. Ma il colpo non partì. «Allora don Camillo lo fece partire lui un colpo: e il colpo partì e arrivò giusto a segno perché i cazzotti di don Camillo non facevano mai cilecca. «Poi si buttò sul campanile e, alle undici di notte, scampanò a festa per venti minuti. E tutti dissero che 99

don Camillo

era diventato

matto:

tutti meno

il Cristo

dell’altare che scosse il capo sorridendo, e il Biondo che, correndo attraverso i campi come pazzo, era arriva-. to in riva al fiume e stava per buttarsi nell’acqua nera;

ma il suono delle campane lo raggiunse «E il Biondo tornò indietro perché me una voce nuova per lui. E questo fu perché una pistola che fa cilecca è un

e lo fermò. aveva udito coil vero miracolo fatto di questo

mondo, ma la faccenda di un prete che si mette a scam-

panare a festa alle undici di notte è roba davvero dell’altro mondo.»

A Guareschi bastano quattro righe dell’ultimo capoverso per spiegare cosa sia un miracolo. E lo fa mettendone in luce la radice profondamente cristiana. Non vi è nulla di magico o di portentoso. Piuttosto è il manifestarsi dell'evento inatteso dalla logica umana. Non la pistola che fa cilecca, in questo caso, ma il prete che si mette a

scampanare alle undici di notte. Con il miracolo, Dio spiazza senza indugio l’uomo, appollaiato sulle sue piccole certezze. Ma è proprio questo spiazzamento che rilancia l’essere umano verso dimensioni inaudite e ignote, verso nuove possibilità. Dove l’uomo fallisce, lì ricomincia la sua vita. Dove la storia sembra finire, lì nasce

il futuro. È quello che accade al Biondo quando, col suono delle campane, improvvisamente viene investito da una voglia prepotente di vivere e di guardare in una nuova direzione. In fondo, la conversione non è altro che una

chiamata inattesa da parte di Dio. Non è strano che tutto questo si verifichi con tanta semplicità e chiarezza nelle storie di Mondo piccolo. L'universo creato da Guareschi sembra fatto apposta per accoglierle e cullarle. È uno spazio in cui l’inatteso è di casa. Non potrebbe essere altrimenti, pieno com’è di uomini balzani che ragionano spesso di traverso. È proprio quell’andare lungo percorsi obliqui, con la mente e con l’anima, che porta all’incontro con il divi100

no. Per questo, ogni momento, ogni luogo e ogni essere di Mondo piccolo sono disponibili alla folgorazione, all’evento. Solo un mondo letterario veramente vivo può reggere situazioni come queste senza cadere nel grottesco. La prova che Guareschi sia riuscito a crearlo è a portata di mano. Dalle sue pagine non escono solo personaggi come don Camillo, Peppone e le altre cento anime squinternate fatte di carta e inchiostro. Ma ne escono anche uomini in carne e ossa come don Davighi, che potrebbe raccontare interi capitoli della saga di Mondo piccolo. Oppure come il sindaco Carini, che in quei capitoli cammina a pieno diritto. Perché da quelle parti, in quegli anni, un parroco che si rispettasse doveva uscire sul sagrato e sbattere la faccia contro quella di un sindaco comunista. E sentirsi dar del prete in maniera malgarbata. «Ma in fondo» conclude don Rino «lo facevano solo per farmi un complimento.»

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PARTE TERZA

Dottrina

«Adesso c’è il fatto che in queste storie parla spesso il Cristo Crocifisso. Perché î personaggi principali sono tre: il prete don Camillo, il comunista Peppone e il Cristo Crocifisso. «Ebbene, qui occorre spiegarsi: se è preti si sentono offesi per via di don Camillo, padronissimi di rompermi un candelotto in testa; se î comunisti si sentono offesi per via di Peppone, padronissimi di rompermi una stanga sulla schiena. Ma se qualcun altro si sente offeso per via dei discorsi del Cristo, niente da fare; perché chi parla nelle mie storie non è il Cristo, ma il mio

Cristo: cioè la voce della mia coscienza. «Roba mia personale, affari interni miei. «Quindi: ognuno per sé e Dio per tutti. »

Don Camillo, «Prologo»

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Le radici della libertà

Padre Paolino Beltrame Quattrocchi

Nelle vene di Mondo piccolo scorre una voglia matta di paradosso. Scorre con la violenza di un fiume in piena e la spinge il cuore di Guareschi. Perché questo è uno scrittore sagomato in un impasto che somiglia parecchio a quello delle sue creature. Sempre pronto a scartare di lato come un cavallo impazzito e a correre per conto proprio. Nelle vene di Mondo piccolo scorre una voglia matta di paradosso. Che, in fondo, è una voglia ancora più matta di libertà. Il paradosso rende liberi il pensiero dai lacci di una logica troppo avara, il linguaggio dalle parole inutili, l’uomo dal compromesso. Rende talmente liberi che Guareschi, per dimostrare quanto amasse la libertà, andò due volte in prigione. Prima nei lager tedeschi e poi nelle galere italiane. L’8 settembre 1943 fu sorpreso dall’armistizio mentre prestava servizio ad Alessandria come tenente di artiglieria. Fatto prigioniero dai nazisti, gli fu prospettata, come a tutti i suoi commilitoni, una scelta radicale: stare

coi tedeschi o seguire la via dell’internamento. Guareschi non ci pensò due volte. Il suo dovere poteva essere solo quello per cui aveva prestato giuramento: la fedeltà al re. Prese volontariamente la via del lager. Se il sovrano, come

gli venne

fatto notare, non aveva mantenuto

fede alla sua parola, erano solo affari suoi. Undici anni più tardi fu la volta della prigione italiana. Su «Candido» pubblicò due lettere a firma Alcide De Gasperi. Risalivano al periodo della resistenza. In una, su carta intestata del Vaticano, si chiedeva alle for105

ze alleate di bombardare la periferia di Roma per favorire la rivolta della popolazione contro i tedeschi. Nell’altra si diceva a un capo della resistenza di contare su quel bombardamento. De Gasperi reagì con una querela. Al processo furono ascoltati solo testimoni dell’accusa. Fu respinta la richiesta di perizia calligrafica richiesta dalla difesa. Guareschi fu condannato per diffamazione, ma non per aver pubblicato il falso. L'argomento forte della condanna consisteva nell’alibi morale di De Gasperi: uno statista del suo livello, sosteneva lui stesso, non

poteva aver scritto quelle lettere. Non si pensò neppure per un momento che anche il direttore di «Candido» potesse disporre di un alibi morale. Davanti a una decisione di questo genere, Guareschi non ricorse in appello e volle scontare tutta la condanna. Ne spiegò i motivi in un articolo dal titolo inequivocabile: «No, niente appello». La stoffa era la stessa in cui aveva ritagliato i suoi giorni nei lager. Basta scorrerne le ultime battute. «No, niente appello. La mia dignità di uomo, di cittadino e di giornalista libero è faccenda mia personale e, in questo caso, accetto soltanto il consiglio della mia coscienza. «Riprenderò la mia vecchia e sbudellata sacca di “prigioniero volontario” e mi avvierò tranquillo e sereno in quest'altro lager. «Ritroverò il vecchio Giovannino fatto d’aria e di sogni e riprenderò, assieme a lui, il viaggio incominciato nel 1943 e interrotto nel 1945. «Niente di teatrale, niente di drammatico. Tutto semplice e naturale. «Per rimanere

liberi bisogna,

a un

bel momento,

prendere senza esitare la via della prigione.»

Quanto fu semplice e lineare prendere decisioni simili per Guareschi, tanto fu doloroso accettarle per chi gli stava vicino. Anche se in quell’articolo lo scrittore era 106

stato chiarissimo e determinato. Forse tanto chiaro e de-

terminato da far paura.

«Io sono un piccolo borghese, un qualsiasi padre di famiglia che, avendo dei figli, ha dei doveri.

«Primo dovere: quello di insegnare ai figli il rispetto per la dignità personale. «Se non avessi dei figli potrei infischiarmene, venire a patti, a compromessi. Potrei rinunciare a tutta o una parte della mia dignità. «Così non si può.»

C'è qualcosa di ferocemente paradossale in queste poche righe: è la libertà di portare fino alle conseguenze estreme una norma di vita. Oltre lo scenario disegnato dall'opinione comune,

al di fuori delle coordinate

che

guidano la condotta della maggioranza. C'è tutta l’anima di Mondo piccolo lungo questa via. Guareschi andò prima nel lager e poi in prigione camminando su una delle strade impolverate della Bassa. Quelle dove martella il sole, dove alita la nebbia o dove

si può incontrare la morte che gira in bicicletta. Conta poco che nel 1943 i racconti di don Camillo non avessero ancora visto la luce. Lo scrittore li aveva già dentro se stesso. Fu lì che trovò la strada verso il campo di concentramento e la forza di sopravvivere. Il primo atto della prigionia si trasformò in un lungo viaggio dentro al proprio cuore. Lo annotava in una pagina del Diario clandestino, che scrisse durante la prigionia. «Il russo, il filo d’erba, la nuvola, l’allodola, il raggio di sole, il timbro della cartolina, il colore della garitta: tut-

to qui suggerisce un pensiero, tutto serve a convincere questi uomini che essi sono ancora parte di un mondo

VIVO. «E credono di scoprirlo, questo mondo, e invece lo creano loro stessi con gli elementi che hanno portato seco dal di fuori. Non un nuovo mondo scoprono, ma un vecchio mondo: il loro mondo. Scoprono se stessi.» 107

Il Cristo, don Camillo, Peppone e la Bassa gli stavano tendendo la mano fermi sulla porta della sua anima. Lui non poté far altro che varcare la soglia. Ma solo per uscire insieme a quelle creature pronte a vivere sulla pagina. E ad accompagnarlo in galera per il secondo atto. Non a caso, durante quelle due esperienze, lo scrit-

tore incontrò un don Camillo in carne e ossa. Lo raccontò lui stesso in una lettera dal carcere di Parma. Era il giorno di Natale del 1954 e scriveva ad Alessandro Minardi, caporedattore di «Candido»: «(...) In quanto a don Camillo, bisogna che te ne parli: anche perché non si chiama don Camillo, bensì Padre Paolino. «E io lo conobbi nel settembre del 1945 a Pescantina, perché egli era là, con la Pontificia commissione d’Assistenza, ad accogliere noi reduci dai lager. «Ha celebrato lui la Messa questa mattina perché il cappellano era malato e, quando io udii la sua voce, sussultai, perché era la voce del mio don Camillo. E quando iniziò il suo sermone io ancora sussultai perché, se il mio don Camillo fosse non un povero prete di campagna, ma

uno

smagliante

oratore

come

Padre

Paolino,

così parlerebbe ai suoi fedeli». Padre Paolino si chiama, per esteso, Padre Paolino Bel-

trame Quattrocchi, è un monaco e ora sta alla Trappa di Frattocchie,

a Roma.

Guareschi

lo incrociò

solo in

due occasioni. Ma i loro incontri sono carichi di grande forza simbolica. Questo religioso sembra essere il segno della presenza sacerdotale anche nei momenti più dolorosi e faticosi della vita dello scrittore. Una finestra aperta verso il cielo. In fondo, un segno di libertà. Subito dopo il 25 aprile 1945, Padre Paolino si trovava a Pescantina, pochi chilometri a nord di Verona. Il suo compito era quello di accogliere i prigionieri italiani di ritorno dalla Germania. Di là passò anche il tenente Guareschi. Come emiliano finì proprio nel settore di Padre Quattrocchi, che ebbe modo di scambiare qual108

che battuta con lui. Nulla di speciale, come ha racconta-

to il religioso in un convegno dedicato allo scrittore del-

la Bassa e come

ricorda tutt'ora volentieri.

«Ma se lui,

dopo nove anni - così intensi per giunta —, ha ricordato ancora

l’evento, con il nome,

la fisionomia, la voce di

Padre Paolino, mai più rivisto fino a quel Natale del ’54, vuol dire che l’esperienza di Pescantina fu veramente forte nel suo animo, e vi lasciò un segno profondo. «Uno di quei misteriosi itinerari della Provvidenza che Guareschi amava tirare in ballo, con squisita sensibi-

lità evangelica, nei suoi ispirati dialoghi tra il Cristo, don Camillo e Peppone.» Quell’itinerario aveva appena iniziato a correre lungo un cerchio destinato a chiudersi nove anni più tardi. Allora l’incontro tra Padre Paolino e Guareschi fu ancora più intenso. Il religioso, che in quegli anni viveva a Parma, pensò di fare qualcosa per lo scrittore che aveva imparato ad amare attraverso i suoi racconti. Trovò modo di sostituire il cappellano del carcere per la Messa di Natale. Ma non bastava. Voleva che a Guareschi arrivasse un messaggio speciale. Così decise che all’omelia avrebbe parlato alludendo a «Giallo e rosa», il racconto che chiude Don Camillo. Quello in cui Peppone si trova in canonica a pitturare le statue del presepe e se ne esce nella notte tenendo in mano il tepore del Bambinello. «Ho ancora davanti agli occhi la scena» racconta Padre Quattrocchi. «All’incrocio di due grandi corridoi, nel centro, era stato eretto il solito altare domenicale. Davanti a me, in piedi, erano ammassati i detenuti. Sul

lato sinistro le donne. Aguzzando lo sguardo non faticai a riconoscere nell’ultima fila gli inconfondibili baffoni di Giovannino Guareschi. Era fatta! «A un certo momento so d’aver detto press’a poco così: Gesù nasce per portare nel mondo l’amore. In mezzo al buio della notte egli fa splendere per tutti una luce di speranza e d’amore alla quale nessuno può sottrarsi. «Anche il più arrabbiato miscredente non può fare a meno, fosse solo per un istante, di lasciarsi avvolgere dal fascino di quel Bambino. 109

«E se per caso fa tanto di prendere in mano anche solo una statuetta di gesso del più povero tra i presepi, e magari gli viene in mente di ritoccarne le tinte sbiadite, anche nella notte più cupa continuerà a sentire ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa. «La citazione era inequivocabile. L’allusione in codice all'ultimo capitolo del Don Camillo aveva colpito nel segno. Notai il sussulto di Guareschi che abbassò il capo, passandosi sugli occhi il dorso della mano. «Poi, in sacrestia, Guareschi mi si buttò nelle braccia

lasciandomi i segni di due lacrimoni sul collo. Lacrime preziose di gioia, di pace e di libertà in un fondo di dolce sofferenza. Non ci dicemmo una parola. Solo un grazie. Poi lui fuggì via come una saetta.» L’uomo della Bassa aveva ritrovato tutto il suo mondo in quell’omelia. Padre Paolino gli aveva portato per mano Peppone e don Camillo ritagliandoli da una delle pagine più belle di Mondo piccolo. Una pagina in cui la voglia di libertà si lega alla nostalgia di Dio. «Peppone sospirò ancora. «“Mi sento come in galera” disse cupo. «‘C’è sempre una porta per scappare da ogni galera di questa terra” rispose don Camillo. “Le galere sono soltanto per il corpo. E il corpo conta poco.” «Oramai il Bambinello era finito e, fresco di colore

e così rosa e chiaro, pareva che brillasse in mezzo alla enorme mano scura di Peppone. «Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo. E dimenticò la galera.» Con don Camillo, Peppone e il Bambinello, Padre Paolino aveva portato a Guareschi anche il Giovannino che aveva vinto la sua battaglia nel lager. Quello che era riuscito a rimanere libero e a non odiare nessuno. Era il Giovannino che poi avrebbe diviso il cuore e il cervello con le sue creature di inchiostro e di carta. Lo stesso Giovannino che nel suo Diario clandestino aveva scritto: 110

«Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e fai

la guardia perché io non esca. «E inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. «E questo è ancora niente, signora Germania: perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti. (...) «L'uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce

n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. «E questa è la fregatura per te, signora Germania».

Sta qui la sorgente della voglia di libertà che allaga le pagine di Mondo piccolo. Bisogna fermarsi attorno a questa fonte e fissare a lungo il filo d’acqua che vi scorre senza mai fermarsi. Basta concentrarsi sulle increspature che ravvivano la superficie per vederle in breve diventare onde capaci di andare molto lontano. Oltre i campi di concentramento, oltre le galere. La signora Germania non è solo la faccia truce della guerra che aveva caricato il tenente Giovannino Guareschi su un carro bestiame e lo aveva rinchiuso in un lager. È qualcosa di molto diverso, di più mostruoso. È il segno di un mondo inumano che mostra di avanzare inesorabilmente. Un groviglio di numeri, di formule e di automatismi che mangia l’aria agli uomini e alle cose. Un ordigno vorace che non sente neppure il sapore di ciò che ingoia. Davanti al quale ogni essere perde i suoi contorni. Che fagocita l’aria pulita della campagna come fosse l’atmosfera puzzolente della città. La signora Germania è la maschera sotto cui si presenta il mondo moderno. È la maschera dietro cui si nasconde la prepotenza di innescare nell’uomo il gesto automatico per estirparne quello libero. I campi, l’argine, il grande fiume di Guareschi non sono quadretti inoffensivi di una civiltà contadina all’ultimo sussulto prima della morte. Guardano di sbieco il progresso, perché traboccano di amore per l’uomo e per la sua libertà. L’arte narrativa di questo scrittore è troppo potente 111

per fermarsi a cantare qualcosa di morto. Il cuore della «sua» Bassa batte ancora con prepotenza. Non c’è un solo passo nelle storie di Mondo piccolo che sia solo descrittivo. La scrittura va di pari passo con la vita che non vuole cedere davanti a chiunque tenti di imbrigliarla. Il traguardo ultimo delle storie guareschiane è fondere la libertà e il mondo in una nuova armonia. La sintesi che ne sgorga è quel puntino carico dei suoi Pepponi e dei suoi don Camillo che vaga su e giù tra il Po e l'Appennino. È qualcosa che Guareschi aiuta a fuggire dalle aberrazioni del mondo moderno, perché lo riporta alle origini e lo ripone nelle mani di Dio. Ma l’equilibrio tra libertà e mondo è da riconquistare a ogni passo. Qualsiasi movimento dell’uomo rischia di mandarlo in frantumi. É-una sintesi che deve essere continuamente recuperata. E ciò che la minaccia sommamente è la paura. Il volto disumano di un’epoca che sta soppiantando con l’automatismo il gesto spontaneo è troppo inquietante per non lasciare il segno. Per questo anche gli abitanti di Mondo piccolo, ormai divenuti gente di frontiera, trovano nella paura un interlocutore invadente. La loro forza sta nella capacità di non lasciare che la grande nemica instauri un monologo. Sono capaci di costringerla al dialogo e, in tal modo, rompono il suo sortilegio. Oltre alla via tracciata dai fantasmi del terrore, se ne apre un’altra, quella segnata dall’uomo. Si è ristabilita la libertà di scegliere nuovamente il cammino che porta a compimento la vocazione dell’essere umano. Secondo Guareschi, al principio di questo cammino è piantato il Cristo Crocifisso. Un elemento ancora più originario. È il testimone perenne della grazia fondata sulla morte del Figlio di Dio. È il fulcro dell’evento che libera dalla schiavitù della carne l’uomo fiducioso nell’opera salvifica di Cristo. La libertà di cui vive la gente di Mondo piccolo è frutto della liberazione operata da Dio dal potere del peccato: è la redenzione. Nel penultimo racconto di Don Camillo, «La paura 112

continua», tutto questo viene sintetizzato in un dialogo tra don Camillo e il Cristo dell’altar maggiore. Nel momento decisivo il parroco si sfoga: «“Quando su un pericolo si può ragionare non si prova paura. La paura è per i pericoli che si sentono ma non si conoscono. È come se camminassi a occhi bendati su una strada sconosciuta. Brutta faccenda.” «“Non hai più fede nel tuo Dio, don Camillo?” «Da mihi animam, caetera tolle. L’anima è di Dio, i cor-

pi sono della terra. La fede è grande, ma questa è una paura fisica. La mia fede può essere immensa, ma se sto dieci giorni senza bere ho sete. La fede consiste nel sopportare questa sete accettandola a cuore sereno, come una prova impostaci da Dio. Gesù, io sono pronto a sopportare mille paure come questa per amor vostro. Però ho paura.” «Il Cristo sorrise. «“Mi disprezzate?” «“No, don Camillo, se tu non avessi paura, che valo-

re avrebbe il tuo coraggio?”».

È difficile aver coraggio quando si vive in un mondo accerchiato. É faticoso e spesso neppure compreso. Capita troppe volte che l’uomo libero venga frainteso dai suoi simili sui quali vorrebbe versare la sua voglia di libertà. Le creature di Mondo piccolo sono imperlate dal sudore che nasce da questa fatica: don Camillo e Peppone quando prendono decisioni non condivise dai loro; figure matte come quelle del Crik o di Giaròn, che solcano la Bassa come navigatori solitari; e più di tutti il Cristo che sempre benedice questa gente votata a logiche messe di traverso. È la stessa fatica con cui si è misurato il cuore di Guareschi. Ma è stata proprio questa difficoltà a spingerlo, assieme alle sue creature, oltre il limite dell’atteggiamento comune. Fino sulle soglie del mistero che sta all’origine della libertà: la presenza dell’uomo davanti al suo Dio. 113

In questo territorio si disegna il simbolo dell’abbraccio. L'uomo incontra Dio e poi si volge verso il suo simile. Può essere chiunque a Mondo piccolo. Ma sarà sempre qualcuno che porta dentro la sua anima tutta la forza di quel simbolo. L’incontro che ne scaturisce consolida le fondamenta dell’universo guareschiano. Il mondo che sta di fuori obbedisce ad altre regole. Si sta trasformando in una gigantesca macchina ideata per distruggere l’uomo e la sua libertà. Solo un miracolo può fermare questo ordigno. Un evento che ponga dentro l’azione di ogni uomo la carica di libertà della redenzione. Eventi simili formano una lunga catena nelle storie guareschiane. Si materializzano ogni volta che una creatura compare di prepotenza per portare aiuto. In qualsiasi situazione e di fronte a chiunque i personaggi di Guareschi sono pronti a diventare prossimo e a tendere la mano. Anche il più impalpabile di quei gesti non va perduto, perché dentro porta la forza del sacrificio. L’anima di Mondo piccolo lo fa suo, lo mastica e lo trasforma in una vita più grande e più libera. Tutto questo avviene perché da quelle parti regna un rapporto di amicizia e di fiducia con Dio. Solo a queste condizioni i personaggi guareschiani trovano la forza di essere liberi e quindi di agire in situazioni altrimenti disperate. Tanto disperate da essere paralizzanti. Nel racconto «Sul fiume» lo spiega il Cristo Crocifisso a don Camillo: «Un uomo aveva due figli gemelli che erano la sua unica ricchezza e un giorno, mentre attraversava un ponticello, questo si ruppe e tutt'e tre caddero nei gorghi. E l’uomo era in grado di trarre a salvamento un solo figlio per volta e non sapeva quale portare a riva, perché salvando uno perdeva l’altro. Allora, per non perderli entrambi, ne portò verso la riva uno e l’altro lo affidò a

Dio. Ed ecco affiorare un enorme pesce che sospinse il bambinello alla riva e così entrambi i figli furono salvi e fu salva anche l’anima dell’uomo che aveva avuto fede 114

in Dio. Don Camillo: quando un dubbio tormentoso ti afferra, interroga la tua coscienza e se la tua coscienza non ti sa rispondere interroga la tua fede in Dio». Questo è uno dei tanti episodi da cui esce prepotente il rapporto originario, nativo, tra le creature di Mondo piccolo e la libertà. Che altro non è se non il rapporto nativo con la libertà che aveva Guareschi stesso. I due aspetti si fondono fino a trarne alcune splendide pagine,

sicuramente

autobiografiche,

nel racconto

«Triste

domenica», inserito in Don Camillo e il suo gregge. Il parroco viene invitato da Bia Grolini ad andare in città per vedere cosa sta combinando suo figlio. Dal collegio ha ricevuto una lettera che non promette niente di buono. Il parroco parte con propositi bellicosi. Ma poi si trova davati un cosino da nulla divorato da una gran voglia di correre e giocare. Così, al momento di salutarlo non riesce a trattenersi: «Fece per aliontanarsi ma dovette voltarsi subito: Giacomino era ancora là e lo si vedeva soltanto dagli occhi in su, ma quegli occhi erano così disperatamente pieni di lacrime che don Camillo si sentì la fronte piena di sudor freddo. «Non si sa come fu: il fatto è che don Camillo si trovò a stringere con le sue mani micidiali due sbarre dell’inferriata e vide che le sbarre si piegavano lentamente. E quando l’apertura fu sufficiente don Camillo allungò un braccio dentro la finestra, agguantò per la collottola il ragazzino e lo cavò fuori».

In una lettera del 1952 a Julien Duvivier, il regista dei primi due film su don Camillo, Guareschi dice che que-

sto episodio è quello fanciullezza, quando del collegio guardava li e il suo cuore era scrittore, solo vedere sieme a don Camillo

che ama di più. Lo riporta alla sua da dietro le sbarre della finestra la strada nei pomeriggi domenicacarico di tristezza. Forse, spiega lo nel film il collegiale che fugge aspotrà liberarlo da quella tristezza. DI

- Viene da lontano la voglia di libertà di quest'uomo. È incisa nei suoi cromosomi ed è riuscita a liberare la vita di un intero universo letterario. Ma ha contagiato anche i lettori. Basta leggere il racconto del collegiale per capirlo. Il senso della liberazione corre violento sulla pagina tanto da compiere un piccolo miracolo. Nonostante la grande cura dei particolari che inchioda lo sguardo sulla scena, il volto di don Camillo si confonde tra il ne-

ro del suo mantello e l’aria dei campi. Per una volta si libera dai tratti marcati di Fernandel: su quella sagoma lunga e massiccia si possono cercare quelli che aveva negli occhi il suo creatore. La parola scritta ha vinto sull’immagine cinematografica. Forse, non c'è momento di libertà più alto per un personaggio fatto con la carta e con l’aria della sua terra.

Analisi di un’eresia

Don Lorenzo Bedeschi

Quando pubblicò la prima raccolta di racconti di Mondo piccolo, Guareschi aveva le idee ben chiare. Sapeva come don Camillo, Peppone e soci erano nati. E sapeva quali reazioni avrebbero potuto incontrare. Perciò, al termine del prologo fu esplicito.

«Adesso c’è il fatto che in queste storie parla spesso il Cristo Crocifisso. Perché i personaggi principali sono tre: il prete don Camillo, il comunista Peppone e il Cristo Crocifisso. «Ebbene, qui occorre spiegarsi: se i preti si sentono offesi per via di don Camillo, padronissimi di rompermi un candelotto

in testa; se i comunisti si sentono

offesi

per via di Peppone, padronissimi di rompermi una stanga sulla schiena. Ma se qualcun altro si sente offeso per via dei discorsi del Cristo, niente da fare; perché chi parla nelle mie storie, non è il Cristo, ma il mio Cristo:

cioè la voce della mia coscienza. «Roba mia personale, affari interni miei.

«Quindi: ognuno per sé e Dio per tutti.»

Poteva apparire solo un espediente letterario per accrescere l’attenzione del lettore. Oppure poteva essere giudicato addirittura un accorgimento inutile: era il 1948 e Guareschi era già famoso come giornalista e come scrittore. I comunisti non lo amavano certamente data l’efficacia con cui li aveva sempre combattuti. Palmiro Togliatti, il segretario del Pci, lo aveva persino definito «tre volbI7

te cretino»: non gli era piaciuta l’invenzione dei trinariciuti, i militanti comunisti dotati di una terza narice per scaricare il cervello e permettere l’ingresso in testa delle direttive di partito. Su quel fronte, Peppone non poteva guastare più di tanto rapporti che già non erano idilliaci. I preti, dal canto loro, non avrebbero

dovuto costi-

tuire un problema. Don Camillo era popolare dal 1946 e nessuno si era mai offeso per come il suo autore lo aveva dipinto. Anzi il pretone della Bassa aveva incontrato una simpatia tale da spingere Guareschi a raccogliere in volume le storie uscite su «Candido». Invece furono proprio alcuni settori del mondo cattolico a sollevare problemi dottrinali attorno all'opera guareschiana. L’autore fu addirittura accusato di eresia e il libro fu indicato tra quelli che il Santo Uffizio avrebbe dovuto mettere all'Indice. Il 1° febbraio 1953, la «Gazzetta del Popolo» pubblicò un pezzo dal titolo inequivocabile: «Il Don Camillo sarà messo all’Indice?». L’autore, il vaticanista Benny Lai, era esplicito.

«Da qualche tempo severe critiche vengono mosse negli ambienti vaticani all'ormai famoso romanzo di Guareschi Don Camillo. L'accusa principale è di aver trattato con eccessiva bonomia il problema della lotta del comunismo contro la Chiesa. Sono critiche piuttosto vivaci che, spostate nel campo strettamente dogmatico, possono essere tutt'altro che infondate. «Nel Don Camillo, infatti, tutti i vari episodi tendono

a dimostrare che vi è la possibilità di fare coesistere, tramite un modus vivendi, marxismo e religione cattolica. Errore d’impostazione — si afferma autorevolmente —molto grave, tanto da essere già condannato dalla Chiesa. (I «L’autore ha commesso un vero e proprio errore dogmatico immergendo i vari personaggi del romanzo, seguaci di due diverse e opposte dottrine, in una conci118

liante atmosfera. Atmosfera che rientra in quell’“irenismo” messo ufficialmente al bando da Pio XII nell’agosto 1950 con l’enciclica Humani

Generis, e irenismo

si-

gnifica appunto collaborazione ideale fra due opposte posizioni dogmatiche. 5) «Resta perciò da vedere se il Santo Uffizio, seguendo le critiche, deciderà di mettere l’opera all’Indice.»

La notizia rimbalzò su una gran quantità di giornali. Da parte sua, Guareschi non aspettò troppo a rispondere. L’83 febbraio, su «Candido» scrisse in un pezzo intitolato «Al signor Benny Lai»: «E figuriamoci se il Santo Uffizio accuserebbe di ignorare le persecuzioni contro i cattolici e di non aver capito il vero volto del comunismo proprio il sottoscritto che ha fatto del suo giornale il settimanale bollettino illustrato degli orrori sovietici. (:-.) «L'informazione del signor Benny Lai è paradossale e inaccettabile, anche perché Don Camillo è stato solennemente messo all’Indice dal Partito comunista la sera del 4 ottobre 1951, a Reggio Emilia, durante il contraddittorio che il sottoscritto ha tenuto davanti (dicono i

giornali locali) a ventimila persone. «In tale occasione, “l'Unità” del 5 ottobre consacra-

va la scomunica di Don Camillo decretando che: “Né cristiana né cattolica è la impostazione e la vita dei personaggi di Guareschi”. «Ora non è possibile che il Santo Uffizio possa accorgersi due anni dopo che se ne sono accorti i comunisti dell’errata impostazione cristiana e cattolica di un libro noto e arcinoto quale il Don Camillo».

L’opera di Guareschi non fu mai messa all’Indice e la ricostruzione dei fatti potrebbe anche fermarsi qui se non saltasse agli occhi un particolare piuttosto strano: quello delle date. Il polverone venne sollevato nel 1953, vale a TS

dire cinque anni dopo la pubblicazione del libro e addirittura sette dopo l’uscita dei racconti su «Candido». Se si aggiunge pure che Don Camillo non fu certo un libro di quelli che passano inosservati, allora la prospettiva cambia. Significa che in quel lasso di tempo erano cambiati i criteri di giudizio. E già allora ci fu chi, dietro questa uscita, vide qualcosa che non andava. Il 3 febbraio, «L'Italia» pubblicò un pezzo dal titolo «Fantasie giornalistiche su Don Camillo e l’Indice» che diceva: «Coloro che vogliono vedere errori così pericolosi da poter far cadere nell’Indice il romanzo di Guareschi sono, a quanto pare, più zelanti tutori della fede e della morale dello stesso Sommo Pontefice; e in effetti le loro

illazioni e le loro fantasie, che non si peritano di ricorrere a citazioni di Encicliche pontificie, appaiono alquanto irrilevanti e temerarie.

(...)

«Il romanzo di Guareschi, al pari del film che ne è stato tratto, è così chiaramente “animato” — come afferma il Centro Cattolico Cinematografico — “da un sentimento di umana bontà e comprensione che finisce col prevalere sui contrasti di parte” da risultare nettamente positivo. Dire il contrario significa quindi voler intorbidire le acque, non si capisce per quali fini».

A questo punto è necessario compiere un passo indietro e tornare al 1952. Fu in quell’anno che presero corpo le accuse di irenismo all’opera di Guareschi. È bene seguirne con attenzione la genesi e la trasformazione per capire quale fosse la loro vera natura. La voce che si distinse fra tutte fu quella di don Lorenzo Bedeschi. Studioso di storia della Chiesa e specialista del movimento

modernista,

don Bedeschi

un bel

momento pensò bene di mettere sotto torchio lo scrittore della Bassa. Lo spingeva a ciò l’impulso di «un nostro preoccupato sacerdozio», come spiegava in un pezzo del 18 maggio 1952 uscito su «La settimana del clero». L’inizio dell’articolo, 120

che si intitola «L’irenismo

di

Don Camillo è un pernicioso equivoco», è quanto mai conciliante, forse troppo. «Scriviamo queste note» dice don Bedeschi «con lealtà umile perché rispettiamo in Guareschi una sua efficace e potentissima arte espressiva.» Subito dopo, ecco le sciabolate. «Quello che più ci sentiamo di non condividere e che maggiormente ci preoccupa in questo schema meccanico di rapporti fra Peppone e don Camillo è proprio quell’ “irenismo” condannato dal Papa. Con molto intuito commerciale Guareschi non lo ha approfondito. Si è limitato superficialmente a descrivere polemiche esterne fra i due protagonisti, dando addosso ora all’uno ora all’altro senza troppo impegno, e senza giungere a conclusioni. ts) «Il comunismo e l’anticomunismo appaiono quindi come una competizione agonistica determinata da dispettucci e da astuzie più o meno intelligenti, mentre c’è sotto una terribile realtà di abdicazioni o di affermazioni di sostanza. «Ma questo Guareschi non vuole che lo si sappia o che si pensi. Con arte oppiacea dissuade lo spettatore dal sospettarlo. (o «Ma quello che infine ci sentiamo di non accettare è don Camillo. Questo nuovo personaggio rivestito di tonaca nera non è prete. Gli manca l’essenza: una spiritualità interiore e una preoccupazione sofferente per le anime».

Il «preoccupato sacerdozio» portò don Bedeschi a impantanarsi in un piccolo guazzabuglio. Il sacerdote prese le mosse dal Don Camillo cinematografico, tanto che parla di spettatori e non di lettori; poi passò attraverso il libro e arrivò ad attaccare la persona di Guareschi. Il guazzabuglio, però, non è tanto piccolo se si tiene conto di alcuni elementi. Il film, uscito quello stesso anno nelle sale, non era firmato dallo scrittore, ma dal re121

gista francese Julien Duvivier. Guareschi aveva scritto la sceneggiatura. Ma il cineasta aveva trovato modo di massacrarla spiegando che «Guareschi non aveva capito Guareschi». Don Bedeschi pescò a piene mani dalla pellicola, senza comunque cogliere nel segno, e trasferì le critiche sul libro, uscito quattro anni prima. E viene persino il sospetto che il libro gli fosse sfuggito. Non si spiega, altrimenti, che l’accusa di irenismo non venga supportata da un solo esempio tratto dal volume. In questo e in altri scritti di Bedeschi non viene citato un elemento circostanziato che provi l’accusa di eresia. Al massimo vengono ricordati alcuni episodi, riguardanti esclusivamente la figura di don Camillo. Ma sono chiaramente tratti dal film perché sono citati nello stesso ordine e con lo stesso taglio con cui compaiono nella pellicola. Così il piatto forte diviene l’attacco personale a Guareschi, accusato di contrabbandare

il comunismo

come

merce da mammolette per esclusivi interessi di bottega. Vale comunque la pena di prendere in considerazione questa polemica sull’irenismo, anche se non ebbe nessun seguito. E un percorso lungo il quale ci si può inoltrare in uno dei tanti panorami che rendono affascinante Mondo piccolo. A questo proposito è opportuno partire dal primo capitolo della saga guareschiana, Don Camillo. Quello a cui don Bedeschi faceva riferimento. Basta aprirlo a caso, perché i racconti vanno tutti bene. «La processione», per esempio. Pepponee i suoi si sono messi in testa che la processione che porta il Cristo dell’altar maggiore fino all’argine si farà soltanto se sarà ammessa la bandiera del Pci. Tira aria di fucilate in paese, e don Camillo decide di andare da solo col suo Cristo a benedire il fiume. Sulla strada trova la banda di Peppone decisa a sbarrargli il passo, costi quel costi. Ma lui non si intimorisce e continua. Poi, in riva al fiume, dice quello che ha

nel cuore.

«“Gesù” disse ad alta voce don Camillo “se in questo sporco paese le case dei pochi galantuomini potessero 122

galleggiare come l’arca di Noè, io vi pregherei di far venire una tal piena da spaccare l’argine e da sommergere tutto il paese. Ma siccome i pochi galantuomini vivono in case di mattoni uguali a quelle dei tanti farabutti, e

non sarebbe giusto che i buoni dovessero soffrire per le colpe dei mascalzoni tipo il sindaco Peppone e tutta la sua ciurma di briganti senza Dio, vi prego di salvare il paese dalle acque e di dargli ogni prosperità.” «“Amen” disse dietro le spalle di don Camillo la voce di Peppone. «‘Amen” risposero in coro dietro le spalle di don Camillo gli uomini di Peppone che avevano seguito il Crocifisso.»

Quando il Pontefice condannò l’irenismo, nel 1950, si riferiva alla pericolosa contiguità tra alcuni settori del clero francese e il protestantesimo. È difficile immaginare che pensasse a un atteggiamento come quello raccontato da Guareschi. Innanzitutto perché non vi si scorge la «terribile realtà di abdicazione» a cui si riferisce don Bedeschi. Poi perché non sembra regnarvi il clima genericamente conciliante che caratterizza l’irenismo. Infine perché, già da questo scorcio, si intuisce bene qual è il terreno d’intesa tra don Camillo e Peppone: il pretone e il sindaco comunista finiscono per intendersi perché

sono disposti a vedere nell’altro l’uomo anziché il nemico, il fratello anziché il figlio dell’ideologia. E questo è un atteggiamento cristiano fino alla radice. Forse è il primo segno che marchia il cristiano nel rapporto col prossimo. Non ci sono cedimenti sulla Verità da parte di don Camillo. Mai. Non si troverà un solo episodio in cui il parroco viene meno al suo dovere di annunciarla e difenderla. Ma se ne trovano a decine in cui è disposto a farsi compagno di strada dei suoi parrocchiani per portar loro la voce di Dio. Non a caso il sacerdote e Peppone trovano una salda intesa quando il sindaco butta a mare l’ideologia e fa funzionare partito e Comune come fossero una famiglia. Solo allora don Camillo, oltre a tendergli la mano, lo abbraccia. 123

A rafforzare questa interpretazione c’è anche uno scritto dello stesso Guareschi. Si tratta di una lettera che lo scrittore inviò nel 1950 a Duvivier e ad Angelo Rizzoli, regista e produttore del Don Camillo cinematografico. Eccone uno dei passaggi fondamentali. «La tesi dei racconti di “Mondo piccolo” è, grosso modo, questa:

far risaltare la differenza sostanziale che esiste tra la “massa” comunista e “l’apparato comunista”. «Indurre cioè l’uomo della massa a ragionare col suo cervello e con la sua coscienza: fargli cioè capire che le direttive che vengono dal centro possono essere seguite soltanto fino a quando non vadano a ledere quelli che sono universalmente riconosciuti come sani e onesti principi. «Indurre cioè la massa fondamentalmente onesta (Peppone) a ritirare i cervelli versati all’ammasso del Partito comunista. «Trasformare cioè la obbedienza cieca pronta assoluta in obbedienza ragionata. (2) «In definitiva lo scopo di “Mondo piccolo” è quello di cavar fuori dalla massa irragionevole e anonima l’individuo.» Duvivier fece un film diverso, massacrando la sceneggiatura e lo spirito di Guareschi. Nulla, comunque, che giustificasse l’attacco di don Bedeschi. E sicuramente non imputabile allo scrittore. L'amicizia tra don Camillo e Peppone, il loro sentirsi figli della stessa terra e fratelli della stessa gente si radicano nell’essere persone vere che sfuggono a qualsiasi massificazione. Uno è un prete e l’altro è un sindaco comunista. Si fanno la guerra. Ma non sono funzionari dei rispettivi schieramenti. Sono due combattenti che, dopo essersi sparati da una trincea all’altra, in un momento di tregua si passano la pagnotta. Non è un atteggiamento tanto strano. E l’unica via lungo la quale i soldati al 124

fronte possono sopportare una situazione anomala e devastante come la guerra. Sempre che la guerra non sia ideologica. E, per fortuna loro e dei loro compaesani, don Camillo e Peppone non sono schiavi dell’ideologia perché vogliono bene agli uomini. Proprio come il loro creatore. E ancora in un racconto tratto da Don Camillo che tutto questo viene illustrato. In poche righe Guareschi racconta come si possano intendere due uomini che si spoglino dei paraocchi di partito. In «Sciopero generale», don Camillo salva in extremis Peppone dal commettere una grossa sciocchezza: far saltare un ponte mentre vi passano sopra dei carabinieri. Poi, però, si tratta di spiegare l’operato agli uomini del sindaco. E don Camillo fa da suggeritore. «“Perché? C’è nel regolamento del tuo partito che dovete sparare contro i carabinieri? E allora spiega a quelle zucche che, in fondo, anche i carabinieri sono figli del

popolo sfruttati dal capitalismo.” «“Sissignore: dal capitalismo e dai preti!” approvò Peppone. “Anche i carabinieri sono figli del popolo sfruttati dal capitalismo e dai preti clericali!” «Don Camillo era bagnato come un pulcino e non aveva voglia di litigare. Si limitò a consigliare Peppone di non dire stupidaggini. «“Prete clericale non significa niente.” «Significa qualche cosa, invece” ribatté Peppone. “Voi, per esempio, siete un prete, sì, ma non un prete clericale”.» Quel «clericale», secondo

Peppone

è il marchio

del-

l’ideologia che un sacerdote, come ogni altro uomo, ri-

schia di portarsi addosso. Don Camillo non ne è segnato. Ma questo non significa che davanti al sindaco sia disposto a cedere. Anzi, vuol dire che non è disposto a cedere per niente. L’ideologia si può sempre barattare con un’altra ideologia. La faziosità si può sempre barattare con un’altra faziosità. L'essere uomo mai. 125

Don Camillo, come Peppone del resto, non corre mai il rischio di tradire ciò in cui crede perché incontra gli altri nel loro essere uomini, creature di Dio. Lo dice lui stesso in maniera quasi didascalica in un racconto uscito nel 1953 su «Candido» e ora pubblicato in L’anno di don Camillo col titolo «Da Natale...». Il parroco, incontrato Peppone il giorno di Natale, gli fa gli auguri. «- A me? — ridacchiò Peppone. - A uno scomunicato? Questasì che è coerenza! «- E la stessa coerenza del medico che, riconoscen-

do affetto da morbo infettivo una persona, impedisce a questa persona di praticare la gente sana, però cura il malato. Bisogna odiare il male ma amare il malato. «Peppone si mise a sghignazzare: «- Straordinario! Ci scannereste tutti e parlate d’amore! «- Saremmo ben disgraziati e stolti e pazzi medici di anime se, per distruggere il morbo, noi volessimo eliminare gli infelici che hanno l’animo contagiato dal morbo. Noi li curiamo amorosamente per farli guarire.» Tutto questo porta dentro al cuore del messaggio cristiano. Tra le letture preferite di don Camillo, che poi ricorreva alle spiegazioni del Cristo Crocifisso, c’era senz'altro la lettera di San Paolo ai Romani. L’apostolo, al tredicesimo capitolo, vi spiega che l’unico debito per chi testimonia il Vangelo è quello dell'amore vicendevole. Poi aggiunge che adempire la legge significa amare l’altro in quanto è una persona distinta e diversa. Infine spiega che compimento pieno della legge e del suo comandamento è l’amore del prossimo, che ha come criterio ultimo il suo bene, l’eliminazione del suo male.

In poche righe vivono tre concetti fondamentali dell’essere cristiano. Il farsi prossimo come compimento della legge. La presenza dell’altro espressa radicalmente dall’impossibilità di annullare una persona nell’altra. L’amore vicendevole di cui la Chiesa deve essere il luogo per eccellenza. Sono tre concetti forti perché il cri126

stiano li porta dentro come segno e conseguenza di un Dio che non ha esitato a farsi suo prossimo. Sono ardui da vivere. Ma mettono il credente in Cristo al riparo da un grave equivoco: pensare che i destinatari dell’annuncio evangelico siano da rendere simili in tutto a chi lo testimonia. E ancora Paolo che ricorda ai Corinti il criterio della loro chiamata: un criterio che confonde stolti e sapienti, deboli e forti perché sia evidente la Parola di Cristo. In una prospettiva simile diviene faticoso farsi prossimo. Ma è proprio questo il compito su cui il cristiano si misura ogni giorno, a partire dal rapporto col suo vicino. È uno sforzo che macina strette di mano e battaglie, vitto-

rie e sconfitte. Ma è l’unico modo per camminare da uomini interi nel mondo,

dove qualsiasi vicino diviene

prossimo, anche un sindaco comunista per il «suo» parroco. Questa, però, è solo una lettura dottrinale dell’opera di Guareschi. Ai tempi in cui infuriava la polemica sull’irenismo interessava ben altro. Per capirla nella sua essenza bisogna lasciare perdere la strada teorica e tornare a quella storica. Senz'altro meno ricca di frutti, ma in grado di svelare le vere ragioni delle accuse di eresia. Allora si deve tornare al 1953. Su «Il nostro tempo» del 28 giugno don Bedeschi scrisse un lungo articolo intitolato «Guareschi umorista presuntuoso», poi ripreso da numerosi giornali cattolici. Lo spunto veniva da un servizio sulle elezioni in Italia pubblicato dal periodico francese «Paris Match». Il servizio era composto da un articolo firmato da Guareschi e da una serie di foto con lunghe didascalie. Nel pezzo, lo scrittore lamentava il fatto che il povero don Camillo, in vista delle elezioni,

aveva ricevuto ordine dal Vaticano di convincere i suoi parrocchiani a non votare comunista, ma neppure monarchico. Nelle didascalie, che come è noto non sono mai scritte dal collaboratore occasionale, ma da un redattore della rivista, don Camillo veniva identificato con

il cardinale di Bologna Giacomo Lercaro e Peppone con il sindaco della città emiliana Giuseppe Dozza. Mi-

127

scelando articolo e didascalie risultava un attacco al cardinal Lercaro, palesemente lontano dagli intenti di Guareschi. Ma don Bedeschi non andò tanto per il sottile. Dopo aver declinato ogni responsabilità a proposito della notizia sull’eresia che inficiava Don Camillo, disse di

dover scrivere cose ancora più spiacevoli.

«L’Arcivescovo di Bologna non è improbabile che vieti la lettura di “Candido” ai cattolici e ai sacerdoti della sua Archidiocesi perché si rendano conto del tradimento di lesa Patria, lesa Religione, lesa Verità che ha portato, in un momento difficilissimo della libertà della Chie-

sa, la propaganda del settimanale umoristico.»

Il triplice tradimento di Guareschi consisteva nell’aver cessato di appoggiare la Democrazia cristiana, come invece

aveva

fatto nel 1948. Allora, lo scrittore

col suo

giornale fu uno degli artefici della sconfitta del blocco delle sinistre. Ma il potere democristiano gli era apparso subito arrogante

e arruffone.

Inoltre, il suo cuore

non

batteva certo per lo scudo crociato. Negli anni seguenti aveva mostrato con evidenza sempre maggiore le sue simpatie per la monarchia. E, al momento delle elezioni, la sua scelta pesò non poco sui risultati della Dc, che passò dal 48,5% del 1948 al 40,1% del 1953. Lo disse apertamente don Bedeschi spiegando che il cardinal Lercaro «non ha proclamato peccato il sentire per la Monarchia, ma ha detto peccato di lesa Patria l’attentare a quella unione dei Cattolici che era l’unica difesa contro l’invasione del comunismo; peccato di lesa Religione l’aprire le porte al marxismo calpestatore di ogni libertà religiosa, contravvenendo scientemente e presuntuosamente alle direttive episcopali. ($4) «Ecco il profilo di una colpa che non potrà essere perdonata che in punto di morte come nei primi secoli del cristianesimo». 128

Dopo aver messo in fila date e argomenti si può giungere a una

conclusione.

O, almeno,

a un’ipotesi. Riesce

molto difficile scindere gli attacchi all’irenismo del Don Camillo da quelli al sentimento monarchico di Guareschi. Specialmente se si pensa che lo scrittore non si improvvisò monarchico

alla vigilia delle elezioni del 1953,

ma lo spiegò molto tempo prima ai lettori del suo giornale. L’accusa di irenismo serviva benissimo a porlo sullo stesso piano dei comunisti. Quindi a screditare qualsiasi voto anticomunista che non fosse democristiano. In ogni caso, Peppone e don Camillo continuarono a fare di testa loro. Andarono nella cabina elettorale e votarono secondo coscienza. La loro e non quella di partito. Perché i partiti, come dice don Camillo, «non sono creature del buon Dio».

Storia di un catechismo contadino

Papa Giovanni XXIII

A suo modo, Sotto il Monte è terra di confine. Da queste parti, le colline bergamasche danno gli ultimi segni di vita: qualche sbalzo aspro ‘che occhieggia verso i primi accenni della pianura padana. Poco più in là, si indovina il moto ondoso della Brianza. Ma è tutt'altra cosa. Milano è a poco più di quaranta chilometri, eppure basta buttare un occhio dentro uno dei tanti cortili del paese per capire che la città è un altro mondo. Ogni chilometro,

come

alla Bassa

di Guareschi,

conta

per

dieci. Don Camillo è passato di qui. Ha lasciato le tracce nella lettura appassionata che ne fece papa Giovanni XXIII, figlio di contadini di questo paese. Quando uscì il primo volume dei racconti di Guareschi, il futuro Pontefice portava ancora il nome di Angelo Roncalli ed era nunzio apostolico a Parigi. Il cuore contadino di monsignor Roncalli riuscì subito a parlare con quello di don Camillo. Le parole non erano impastate di prudenza e di finezze diplomatiche. Erano quelle schiette della fede e dell’intelligenza, che sono sempre state moneta corrente nelle campagne. Quel conversare lasciò il segno nel cuore del prelato, tanto da arrivare a un epilogo piuttosto singolare: la proposta di scrivere a suo modo un catechismo giunta al padre di don Camillo quando in Vaticano sedeva papa Roncalli. 130

Per capire i tempi e le ragioni di questo fatto, conviene procedere per gradi. Anzi, vale la pena di utilizzare uno schema caro a Guareschi e dividere la vicenda in due parti: la storia, vale a dire gli avvenimenti, e la geografia, cioè i sentimenti che ne portano la spiegazione. Perché, come

diceva lo scrittore della Bassa, la storia è

sempre in funzione della geografia. La prima parte prende le mosse in Francia. Ai tempi in cui monsignor Angelo Roncalli stava a Parigi come

nunzio apostolico, era Presidente della Repubblica fran-

cese il socialista Vincent Auriol. Tra i due uomini, pur tanto diversi, si stabilì un rapporto cordiale. Lo raccontò lo stesso Auriol nel 1963, all’indomani

della morte

di

Giovanni XXIII, in un ricordo pubblicato dal «Tempo». «Nelle sue relazioni personali egli aveva delle gradevoli e talvolta spiritose delicatezze. Di due anni più vecchio di me, mi apriva il suo animo nel corso di conversazioni amichevoli. Un giorno, il primo gennaio ’52, ricordandomi le mie dispute con il sindaco e il curato del mio Comune, mi inviò come regalo di capodanno il libro di Guareschi Don Camillo - Mondo piccolo, con questa dedica: “Al signor Vincent Auriol, Presidente della Repubblica francese, per la sua distrazione e il suo diletto spirituale. Firmato a. J. Roncalli. Nunzio apostolico”.» Ne aveva fatta di strada, il povero don Camillo. E, di lì a poco, sarebbe arrivato in Vaticano. Il 4 luglio 1959 Giorgio Pillon, capo della redazione romana di «Candido», scrisse una lettera a Guareschi per parlargli di una proposta che veniva da Oltretevere. «(...) Dunque: come forse saprai, sono stato ad Assisi da don Giovanni Rossi, alla Pro Civitate Christiana. Don

Giovanni - che il giorno prima era stato dal Papa trovò modo di dirmi che parlando con il Pontefice della necessità di rimodernare i testi religiosi, si era lasciato scappare l’idea di domandare a Guareschi di scrivere una nuova, più moderna e più spigliata dottrina cristia131

na. Il Pontefice non aveva affatto trovato troppo ardita una simile proposta. Ecco perché don Giovanni a mio mezzo ti domanda se trovi la proposta interessante. Don Giovanni non fa questioni finanziarie. “La Pro Civitate mi ha detto testualmente - è ormai economicamente molto solida. Una dottrina cristiana scritta da Guareschi verrebbe lanciata in tutto il mondo a milioni di copie. Naturalmente noi forniremmo a Guareschi tutto il materiale e l’assistenza di cui egli avrebbe bisogno per questa opera.” Don Giovanni, infine, mi ha detto che se tu

accetti, egli è pronto a portarti dal Papa (...).» Don Giovanni Rossi, allora presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, era in grande confidenza con il Pontefice. Lo conosceva dagli anni di Bergamo e la loro amicizia era andata stringendosi quando don Rossi stava a Milano come stretto collaboratore del cardinale Andrea Ferrari. Per questo aveva una frequentazione familiare delle stanze vaticane, dove poteva parlare a quattr’occhi con il Papa. Fu durante uno di questi colloqui che prese corpo l’idea del catechismo scritto da Guareschi. Ma il progetto, probabilmente, covava nel cuore di don Rossi da parecchio tempo. Forse, risaliva addirittura a circa tre anni prima. Nel 1956 il sacerdote scrisse più volte al direttore di «Candido» dicendogli di avere in testa un’idea particolare. Anche se per lettera non si sbilanciò mai, il tono e gli avvenimenti successivi lasciano supporre che la proposta di scrivere un nuovo catechismo aspettasse solo il momento buono per venire alla luce. Per esempio, in una lettera del 2 novembre 1956 don Rossi scriveva a Guareschi:

«(...) non sarà proprio a me possibile vederla? Dove? Quando? Ne avrei urgente bisogno per esporle una mia idea, che solo lei potrebbe compiere bene e con molta facilità (...)».

Dopo la lettera di Pillon, Guareschi prese tempo. L’idea lo attraeva e lo intimoriva allo stesso tempo. Il progetto 132

di un catechismo vero e proprio lo scartò fin dall’inizio. Però, gli piaceva la possibilità di scrivere una serie di apologhi che avevano per protagonista don Camillo. Sarebbero stati dei corollari ai vari articoli di fede riportati nella dottrina. L’operazione non andò in porto. Probabilmente prevalse in Guareschi il timore di creare, anche involontariamente, qualche seccatura al Pontefice. Una finezza d’animo non comune. Ma lo scrittore era abituato a rischiare in proprio, mai per conto terzi. Tanto più se il terzo sedeva sulla cattedra di Pietro. Monsignor Loris Capovilla, segretario di papa Giovanni, ritiene che l’intera vicenda non abbia fondamen-

to, perché «in Vaticano non se ne parlò». Probabilmente, dal suo punto di vista, ha ragione. Non se ne parlò mai in sua presenza e non furono mai compiuti passi ufficiali. E chiaro che in casi simili gli organismi vaticani si muovono ufficialmente solo quando l’assenso delle parti è ormai una pura formalità. Giovanni XXIII e don Rossi ne parlarono sicuramente in uno dei loro intrattenimenti a quattr’occhi, quando anche Capovilla li lasciava soli. E tanto meno quest’ultimo poteva essere a conoscenza dei contatti con cui il presidente della Pro Civitate Christiana stava preparando il terreno per giungere a una buona conclusione. Rimase tutto allo stato di abbozzo. Una o più chiacchierate in cui papa Giovanni aveva avuto modo di parlare ancora di don Camillo e della sua fede. Esaurita la storia, è il momento di passare alla geo-

grafia. Conviene inoltrarsi per le strade di Mondo piccolo e trovare quella che arrivò fino al cuore di un Pontefice. Tecnicamente si potrebbe definire questa camminata un'ipotesi di lavoro. La gente di Mondo piccolo andrebbe meno per il sottile tenendo d’occhio la sostanza. Si limiterebbe a indicare la strada: deve continuare dritto fino alla terza carrareccia, poi svolta a destra fino al campo di trifoglio. Provi a cercare lì. Magari non ci si troverà tutto papa Giovanni. Ma la geografia dell’universo guareschiano, che è fatta di luo155)

ghi e di sentimenti, riserva sorprese a ogni svolta. E, in ogni caso, la figura di un Papa tanto anomalo ci può stare benissimo. É certo, comunque, che servirà a gettare un’occhiata di luce su Mondo piccolo. La parte «storica» lo lascia supporre senza ombra di dubbio. Chiunque abbia radici contadine, in ogni parola del Don Camillo fiuta odore di terra. Non si tratta di profumo e neppure di puzza. Solo odore, che è molto di più. È un modo di assecondare la vita che entra fin dentro l’anima, vi si rannicchia in un angolo e non l’abbandona più. Quando don Camillo si sente disarmato nonostante le sue mani grandi come badili e la sua fede sconfinata, si rimette al Cristo Crocifisso. È lui che sa quando deve far brutto tempo, quando deve spuntare il grano, quando gli uomini si devono fermare nei campi e vedere il loro Dio all’opera. È il Padreterno che si secca del gran trambusto combinato dagli uomini che intendono sostituirlo con i numeri e le formule scientifiche. Sotto i suoi occhi la gente di Mondo piccolo cresce nel miracolo quotidiano della sua Parola che si fa vita. Il contadino Angelo Roncalli doveva sentire molto vicina questa solida fiducia in Dio. In proposito, un passo della biografia scritta da Leone Algisi, Giovanni XXIII, è quasi didascalico: «Le cose mie, scriveva quand’era a Parigi, vanno, grazie a Dio, con soddisfazione. Le tengo calme e le seguo tutte: ad una ad una le vedo prendere il loro posto giusto e conveniente. Benedico il Signore per l’assistenza che mi dà a non complicare le cose semplici e piuttosto a semplificare quelle complesse». Può suonare strano questo modo di leggere la vita in un prelato che reggeva una delle nunziature apostoliche più importanti del mondo. Ma è ciò che rese quest’uomo universale. Tutto prendeva vita dall'odore della sua terra, che portò fino al Soglio di Pietro. Al suo segretario Capovilla, il giorno della incoronazione, disse qual 134

era il pensiero più forte e più bello mentre veniva portato sulla sedia gestatoria: «Pensavo alla mia casa di Sotto il Monte: al mio papà e alla mia mamma». Alla vigilia degli ottant'anni questo Pontefice riusciva a mantenere un legame vivissimo con il bambino che era stato nelle campagne bergamasche. Parlava spesso della sua terra e della sua gente, perché sapeva parlare ancora con la sua terra e la sua gente. Ma non era il vezzo di un vecchio che si diverte a diventare fanciullo. Era il suo modo di ruminare con pazienza e con grazia le cose della vita. In una lettera del 1930 ai genitori, pubblicata nella biografia di Algisi, scriveva: «Quando

sono uscito di casa, verso i dieci anni di età,

ho letto molti libri e imparato molte cose che voi non potevate insegnarmi. Ma quelle poche cose che ho appreso da voi in casa sono ancora le più preziose e importanti e sorreggono e danno vita e calore alle molte cose che appresi in seguito, in tanti e tanti anni di studio e di insegnamento». Le vecchie cose che danno vita e calore ad anni di lavoro e di studio precipitano il lettore di Guareschi dentro il cuore di Mondo piccolo. Sono le stesse vecchie cose che aveva imparato lo scrittore della Bassa. Ed è lo stesso calore con cui spolvera la sua pagina. «Gio’, tu non ci crederai» dice in Vita în famiglia alla sua colf raccontando la sua infanzia «ma quel tepore mi scalda ancora.» Il cuore di un pontificato e quello di un’opera letteraria stanno lì. Accovacciati negli anni che rimangono bambini. Contenti di scaldarsi con ricordi da niente, ma

pieni di gusto per la vita. Impazienti di giocare con le vecchie cose e montarle e rimontarle per capire il mondo. E, dove è necessario, per inventarlo. Per dargli la faccia del contadino che, quando è l’ora, non si sente in

soggezione se deve andare in città. Il terreno su cui Giovanni XXIII camminava coi suoi passi lenti e inesorabili verso don Camillo è questo. Pri135

ma ancora che la fede limpida e ferma del pretone della Bassa, prima ancora che le sue chiacchierate col Cristo. Angelo Roncalli non aveva neppure dovuto cercare la chiave per entrare a Mondo piccolo. L’aveva già in tasca, tra le tante cianfrusaglie che conservano gelosamente i bambini. Se si leggono le sue lettere ai familiari o il suo Giornale dell’anima ci si arriva senza difficoltà. Quando lo si sente parlare della sua campagna bergamasca, sembra di sentire Guareschi che parla del Boscaccio. Lo scrittore si era appropriato dei ricordi di suo padre e li trascriveva in prima persona. Ma conta poco. Perché in quei racconti ci era cresciuto ed erano divenuti la sua infanzia e il suo mondo. «Jo abitavo al Boscaccio, nella Bassa, con mio padre, mia madre e i miei undici fratelli: io, che ero il più vecchio, toccavo appena i dodici anni, e Chico, che era il

più giovane, toccava appena i due. Mia madre mi consegnava ogni mattina una cesta di pane, un sacchetto di mele o di castagne dolci, mio padre ci metteva in riga nell’aia e ci faceva dire ad alta voce il Pater Noster: poi andavamo con Dio e tornavamo al tramonto.»

In queste righe c’è una dimestichezza con gli abitanti del Cielo da mettere quasi soggezione. Vi si leggono tutti i piccoli riti e i piccoli confronti quotidiani con il sacro. In poche immagini vengono evocati al Boscaccio tutti gli esseri della gerarchia celeste. Quelli delle vecchie devozioni, senza fronzoli teologici: alla fine, quelli che durano di più. Il Paradiso di papa Roncalli era popolato dalle stesse figure. Il 20 maggio 1963, ormai a pochi giorni dalla sua morte, pensava proprio a quello: «Le mie devozioni da ragazzo, in casa, in parrocchia, accanto a barba Saverio: Gesù nel Sacramento e il Sacro Cuore, il sangue prezioso, la Madonna Santa, San Giuseppe, i tre Francesco: d’Assisi, Saverio e di Sales, San 136

Carlo, San Gregorio Barbarigo, l'Angelo Custode, i De-

funti».

Non c’è una sola parola in queste righe che cada nel sentimentalismo o in un misticismo malinteso. Come nella pagina guareschiana, tutto è dominato e purificato da una semplicità non comune del cuore e della scrittura. Giovanni XXIII non vedeva di buon occhio il devozionalismo fine a se stesso: durante un’udienza in Vaticano ammonì in proposito un gruppo di devoti a Sant'Antonio. La sua pietà, che aveva ereditato dai suoi vecchi, era impastata di realismo e di impegno. La confidenza e la fiducia nel Signore non significavano molle abbandono. Ogni giorno, assaporato per quel che portava, aveva nel ventre il domani da far nascere. Il mistero dell’infanzia, depositato in fondo al cuore, si tra-

sformava ogni giorno in dono. Era radice e frutto al tempo stesso. Era un piccolo mondo che, come quello di Guareschi, aspettava di essere detto o di essere scritto. Aspettava la parola che gli desse la vita. Sotto il Monte per papa Giovanni porta la stessa cifra che il Boscaccio e i racconti della bisnonna Filomena portano per Guareschi. La forte ispirazione cristiana che accomuna questi due uomini rende la loro infanzia il simbolo di una realtà molto più grande, che non può trovare confini sulla terra. I primi passi del cuore che si apre alle storie di casa, i legami della carne che si fanno più stretti e più veri ogni giorno, il Pater da recitare il mattino e la sera: sono i primi tratti di un disegno divino dal quale non è più possibile staccarsi. Sono la traduzione in volgare della storia sacra. Divengono la fonte a cui l’uomo attinge la forza del disegno di salvezza. Naturale e sovrannaturale vi trovano equilibrio. Il Regno dei cieli si lega in maniera indissolubile al regno della terra. I due ordini si fondono e diventano giorni. Con l’infanzia non comincia solo una vita, ma ricomincia, ancora una volta, la storia di Dio.

Non deve stupire, quindi, se le storie di Guareschi o di papa Giovanni sanno di racconto biblico. Saricordi i 137

rebbe strano il contrario. Perché la loro intelligenza e il loro cuore hanno una struttura biblica. E non suonerebbe fuori posto se i nomi dei protagonisti fossero nomi sacri come quelli dei patriarchi o degli arcangeli o dei santi. Perché nella gente raccontata da questi due uomini prende voce e volto, ancora una volta, il disegno divi-

no. Come in ogni generazione dal principio del mondo. E qui la radice del rinnovamento che papa Roncalli innescò nella vita della Chiesa. Non tutti lo compresero in questo, che fu il tratto fondamentale del suo pontificato. I progressisti ne fecero una bandiera. I conservatori lo scambiarono per un’incauta fuga in avanti. Non era l’una né l’altra. Era il modo più semplice e naturale con cui un uomo tanto legato alla sua storia e alla sua terra chiedeva alla Chiesa di stare nel mondo. Senza adeguarsi a una società malata di razionalismo e di potere dipingendone le strutture di vernice sacra, poiché quello era il vero modernismo. Ma anche senza nausee, paure o frustrazioni. Con un richiamo alle radici cristiane dove il mondo moderno si presentava come una macchina costruita per schiacciare l’uomo. Ernesto Balducci, nel suo Papa Giovanni, scrive: «Non oserei dire che egli fosse moderno nel senso comune della parola: era, anzi, arcaico, così nel linguaggio come nella psicologia. Moderno diventava perché era uomo senza riserve, né aveva da porre molte condizioni al mondo perché fosse degno della pace di Dio: unica condizione l’autenticità, la fedeltà della natura a se stessa, in-

somma la vita che è sempre, quando non smentisce il proprio slancio profondo, sulla linea della legge morale». Quante volte ne parla don Camillo col Cristo Crocifisso. Gli uomini che lasciano la strada di Dio sono il suo cruccio. Non chiede troppo alla sua gente, solo la fedeltà alla propria vita. Cuore e cervello non possono andare ognuno per conto proprio. Altrimenti sarebbe sin troppo facile perdersi lungo le vie di un mondo nuovo, pieno di formule matematiche e poco accoglienti nei con138

fronti dei vecchi santi. E il Cristo non mancava di consolarlo. Per esempio nel racconto «Filosofia campestre»:

«E la troppa cultura che porta all’ignoranza, perché se la cultura non è sorretta dalla fede, a un certo punto l’uomo

vede solo la matematica delle cose. E l’armonia di questa matematica diventa il suo Dio, e dimentica che è Dio che

ha creato questa matematica e questa armonia. Ma il tuo Dio non è fatto di numeri, don Camillo, e nel cielo del

tuo Paradiso volano gli angeli del bene. Il progresso fa diventare sempre più piccolo il mondo per gli uomini: un giorno, quando le macchine correranno a cento miglia al minuto, il mondo

sembrerà agli uomini microscopico, e

allora l’uomo si troverà come un passero sul pomolo di un altissimo pennone e si affaccerà sull’infinito, e nell’infinito ritroverà Dio e la fede nella vera vita». Per Guareschi, come per papa Roncalli, il mondo attendeva di essere rimesso in carreggiata. Non bisognava chiedergli di rinunciare alla matematica e alla sua armonia. Poiché anch'esse erano creature di Dio. Bastava solo fare in modo che non prendessero il posto del loro creatore finendo per inchiodare l’uomo alla terra. Un messaggio di questo genere può viaggiare solo su un linguaggio semplice e immediato. Deve trovare una scorciatoia capace di bruciare sul tempo il fascino delle formule matematiche. Guareschi aveva messo insieme «duecento parole» ripulendo la lingua di Mondo piccolo di tutti i vocaboli oziosi e inoperanti. Aveva buttato via tutte le parole in cui la vita non avesse la sua forza originaria. Giovanni XXIII aveva passato con delicatezza, ma senza indugio, la ramazza nel linguaggio della diplomazia prima, e in quello del Pontefice poi. Con un solo gesto aveva tolto ogni fondamento a un incedere carico di polvere che, probabilmente,

aveva infastidito

più d’uno tra i suoi predecessori. Scriveva in proposito nel suo Giornale dell'anima:

«Comunemente si crede e si approva che il linguaggio del Papa sappia di mistero e di terrore circospetto. Inve159

ce è più conforme a Gesù la semplicità più attraente, non disgiunta dalla prudenza dei savi e dei santi che Dio aiuta. La semplicità può suscitare, non dico disprezzo, ma minor considerazione presso i saccenti. Poco importa dei saccenti, di cui non si deve tener calcolo alcuno se possono infliggere qualche umiliazione di giudizio e di tatto: tutto torna a loro danno e confusione». Pare di sentire Guareschi quando parla dei «letterati di città» che si dannano l’anima per avere una vita originale e poi finiscono sottoterra preciso come i poveri cristi di campagna. Perché la cultura, quando prende a marciare per conto proprio, diventa un brutta bestia che ti amareggia, oltre la vita, anche la morte. Per suo conto, il Pontefice era naturalmente sospettoso nei confronti dei suoi teologi. Li sapeva troppo inclini al puro raziocinio e all’anatema. Durante i lavori di preparazione degli schemi del Concilio Vaticano II, il cardinale Robert Rouquette lo trovò con un righello in mano. Ne rimase stupito fino a quando il Papa non gli disse indicando uno schema: «Ecco qua trenta centimetri di condanne». Poco più tardi, a un osservatore anglicano presente al Concilio, papa Roncalli confidò: «Sono i teologi che ci hanno messo in questa difficoltà. Tocca a noi cristiani uscirne fuori».

ordinari,

come

lei e come

me,

Anche nei panni del Vicario di Cristo, era rimasto il curato di campagna che aveva voluto essere fin dai tempi del seminario. In un discorso ai veneziani, poco dopo la sua nomina a loro patriarca, disse che si sentiva solo il

loro pastore. E che sarebbe andato con passi rapidi e silenziosi a contare le sue pecorelle a una a una. I passi con cui don Camillo corre a contare le sue pecorelle potrebbero sembrare molto meno silenziosi. Ma bisogna concedergli qualche attenuante. Le sue mani grandi come badili reclamano la loro parte. E, soprattutto, nel paese del melodramma, anche il parroco più vo140

lenteroso non riesce a rinunciare alla messa in scena e al colpo ad effetto. Ma i cazzotti di don Camillo servono solo per rimettere al loro posto le idee che hanno preso vie sbagliate nella testa di qualche parrocchiano. Non infrangono mai il silenzio che galleggia sulla Bassa. Al più possono suonare come un sasso lanciato nel grande fiume. Inghiottito dall'acqua diventa la voce di una delle tante storie che vi scorrono fin dal principio del mondo. Farebbe più rumore una stretta di mano falsa. Buttata lì da un uomo che non rispetta il fratello e neppure se stesso. Il pretone di Guareschi agisce senz'altro come piaceva al curato Roncalli. Nella sua vita pastorale non ci mette il cuore soltanto: perché il cuore senza l’intelligenza è già corrotto o corruttore. E non si lascia prendere dalla sola intelligenza: perché senza il cuore l’intelligenza non salva e, troppo spesso, uccide. Non a caso, sul finire degli anni Quaranta, don Ca-

millo pratica già uno degli insegnamenti più grandi e impegnativi su cui nel 1963 Giovanni XXIII costruirà l’enciclica Pacem in terris. Subito dopo la seconda guerra mondiale, quando ancora nella Bassa le sventagliate di mitra falciano i preti senza troppi riguardi, don Camillo

distingue tra l’errore e l’errante, come avrebbe poi insegnato il Papa. Il suo cuore e la sua intelligenza si incollano a Peppone, alla sua anima e al suo cervello e non smettono mai di amarli. Perché Peppone è comunista,

non è il comunismo. E nel segreto dell’urna, dove Dio ti vede e Stalin no, arriva persino a dargli il suo voto. Ma non si deve dannare troppo per la vittoria di Peppone. Nel racconto «Fantasma con cappello verde», il Cristo gli rivela che il sindaco ha votato per i suoi avversari: «- Gesù, io non lo so: so soltanto che ha vinto ancora lui.

«- Direi invece che ho vinto io, don Camillo. (...) — Non avere fretta, don Camillo — sussurrò sorridendo

il

Cristo. - Bisogna avere fede in Dio».

Qualche anno dopo glielo avrebbe detto anche un Papa.

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PARTE QUARTA Letture

«Reverendo, l'importante è che ci si capisca! Tanto la letteratura è una porca faccenda che serve soltanto a imbrogliare le idee, perché va a finire che uno, invece di dire quello che vorrebbe lui, dice quello che vuole la grammatica e l’analisi logica. E, a un bel momento, non ci capisce più dentro niente neanche quello che parla!» Mondo Candido 1948-1951, «All’Anonima»

Il breviario di uno scrittore cristiano Don Alessandro Pronzato

Don Alessandro Pronzato è tutto nella sua camminata. In quel passo leggermente lungo che colpisce chi lo incontra per la prima volta. Ci vuol poco ad abituarcisi. Giusto il tempo di attraversare il giardino per arrivare nella sua casa di Cademario, sulle colline del Canton Ti-

cino. Una volta saliti sul terrazzo e buttato l’occhio verso il lago di Lugano giù nella valle, non ci si pensa già più. Però si è capito che quest'uomo, così come cammina, anche quando parla o quando scrive ha la falcata lunga. Non ha mai idee banali sugli argomenti che gli stanno a cuore. Si vede bene che li ha corsi in lungo e in largo. Ogni domanda lo trova sempre un passo avanti, nel cuore della risposta. I lettori che lo hanno seguito sui suoi libri, da Meditazioni sulla sabbia ai Vangeli scomodi, lo sanno bene. E lo sanno bene anche i lettori di Guareschi, perché don Pronzato ha dedicato un lungo periodo allo studio e alla divulgazione dello scrittore della Bassa. Potrà sembrare strano parlare di divulgazione a proposito di un autore che ha venduto milioni di libri in tutto il mondo. Purtroppo non lo è affatto, perché sono

poche e isolate le persone che si son prese la briga di spiegare Guareschi alla gente. E ancor meno sono quelli che hanno voluto trovare gli argomenti per mostrarne la statura di scrittore e di uomo. E di cristiano, aggiunge sempre don Alessandro. Parte di questo suo lavoro è sfociata nel Breviario di 145

don Camillo, uscito nel 1994. È un’antologia guareschiana costruita attorno a una serie di temi che fa intuire quanto fosse grande il cuore dell’uomo della Bassa. Un invito alla lettura e alla meditazione, ma anche alla rilet-

tura. In fondo anche per don Pronzato il vero incontro con Guareschi è stato segnato da una rilettura. «L’ho letto con passione da giovane» racconta «ma poi lo avevo accantonato. Mi ci sono riavvicinato perché ho incontrato i suoi figli, Carlotta e Alberto, qui a Cade-

mario. Guareschi trascorse qui buona parte dei suoi ultimi anni e loro ci tornano spesso. Parlare con loro del padre mi ha fatto scoprire una persona nuova. Lentamente la sua figura si è scrostata di tutto quanto gli era stato attaccato addosso per comodità e per cattiveria. Ne è uscito un uomo veramente grande. E un cristiano altrettanto grande. «E partita da qui la mia rilettura. Dalla convinzione che chi aveva scritto le storie di don Camillo e i diari della prigionia in Germania era una persona fuori dal comune. Così la voglia di rileggere si è trasformata presto in furore che ha fatto giustizia degli anni perduti.» Ogni pagina, racconta don Pronzato, è stata una scoperta. La semplicità del linguaggio guareschiano lo ha condotto attraverso una ricchezza di temi difficile da riscontrare in un singolo autore. Tra quelli che lo hanno colpito fin dall’inizio c’è la cura nel raccontare la figura del prete. «In letteratura siamo abituati a figure di sacerdoti tormentati. E lo si può comprendere facilmente. In un romanzo fornisce più appigli un prete preso dall’angoscia e dai dubbi metafisici piuttosto che un parroco felice di essere quello che è. Penso agli scritti di un Georges Bernanos o di un Nicola Lisi, solo per citare i primi due esempi che mi vengono alla mente. «Guareschi si è cimentato nell’operazione contraria. Ha messo al mondo un prete come tanti, che di enorme aveva solo quelle sue manone e quella sua gran fede. Poteva anche sembrare poco per farne un personaggio 146

letterario. E invece lui ne ha tirato fuori addirittura una figura che ha fatto il giro del mondo. Una figura universale. «Il meccanismo che gli ha permesso di farlo è abbastanza semplice, a vederlo ora. Certo era più difficile pensarci prima. Guareschi, invece che descriverne tutti i tormenti interiori, ha raccontato il suo prete attraverso le sue azioni, i suoi discorsi. Persino quando parla col Cristo don Camillo lo fa ad alta voce. Così, preso dal discorso, il lettore è costretto a fare un passo avanti verso questo sacerdote che pare lì in carne e ossa. Ormai il più è fatto: un nuovo abitante è entrato in Mondo piccolo.»

Tutto questo, però, non fa di don Camillo un prete che non si interroga sul suo mondo e sul suo essere sacerdote. Anzi, lo fa spesso. Ma ciò che lo distingue da tanti confratelli letterari è proprio qui: mentre gli altri cercano il senso dell’essere sacerdoti in astratto, lui si ar-

rabatta per risolvere la sua personale situazione. Cade dentro il vortice dei momenti difficili, come capita a tutti gli esseri umani. Ma gli basta guardarsi attorno e vedere le facce di tanti altri uomini vivi e concreti come lui. E su quei volti che trova la soluzione e la forza per venirne fuori. «Bisogna dire che le crisi di don Camillo non sono robetta da poco» spiega don Alessandro. «Guareschi sapeva bene dove voleva arrivare parlando dei preti. Ci sono due punti, in particolare, che vanno messi a fuoco. Il primo può essere riassunto nel timore di sentirsi sprecati. Capita ai sacerdoti di sentirsi molto più in alto del gregge che gli è toccato in sorte. E allora si chiedono che cosa ci stanno a fare, magari in quella parrocchietta dimenticata da tutti. «A don Camillo succede la stessa cosa quando viene esiliato in montagna e si sfoga col Cristo dell’altar maggiore.» Nelle «Storie dell’esilio e del ritorno», in Don Camil-

lo e il suo gregge, il povero pretone non riesce a rassegnarsi al fatto di aver lasciato il suo paese per finire in mezzo 147

a quattro case appiccicate alla montagna dove pare che nessuno abbia bisogno di lui. «- Gesù - disse don Camillo - se io sono triste non è perché mi manchi la fede. Il fatto è che non posso fare nessuna delle tante cose che potrei e dovrei fare. Gesù: qui io mi sento come un transatlantico chiuso dentro uno stagno. «- Don Camillo, dovunque c’è acqua c’è il pericolo che qualcuno possa annegarvi. E dovunque c’è qualcuno che può correre il pericolo di annegare è necessario che vigili un guardiano. Se un fratello che abita lontano da qui cento miglia ha immediato bisogno d’un farmaco in tuo possesso, e se tu, per portargli questo farmaco che pesa un grammo, puoi usare soltanto un enorme autocarro a otto ruote capace di trasportare cinquecento quintali, ti rammarichi forse di dover usare quel mezzo spropositato o piuttosto non ringrazi Dio d’averti permesso di possedere quel mezzo? E poi, don Camillo, sei sicuro di essere un transatlantico costretto tra le sponde di un esiguo lago alpestre? O non è questo un tuo brutto peccato di presunzione?» Bastano queste poche righe per riportare don Camillo alla concretezza del suo compito. La logica del Cristo è stringente, quasi elementare nella precisione del suo esempio. Non ci si può permettere di non capirla. E don Camillo che, come il suo padre letterario, è un uo-

mo del dovere e della coscienza, la capisce. Per lui, il richiamo del Cristo ai suoi compiti è più forte di ogni angoscia e di ogni tentazione. É convinto che se un sacerdote riesce a salvare anche una sola persona, il suo celi-

bato ha trovato la ragione di essere ed è divenuto fecondo. È con questa forza che affronta la seconda crisi individuata da don Pronzato: il dubbio che non valga la pena difare il sacerdote; il timore che tutto sia inutile.

«E uno dei temi che agitano di più i preti di oggi» spiega don Alessandro. «Davanti a un mondo che perde 148

ogni giorno le connotazioni religiose che eravamo abituati a vedere, è comprensibile per un sacerdote cedere alla tentazione di lasciarsi andare. Guareschi lo racconta bene in un capitolo di Don Camillo e i giovani d’oggi.» Il capitolo si intitola «É di moda il ruggito della pecora» e parla del povero don Camillo che si trova alle prese con sua nipote Cat. La ragazza riesce ancora una volta a sorprenderlo e lui comincia a sospettare che, al fondo, in quella zucca ci sia qualcosa di buono che vuole nascondersi ostinatamente. Ma è un comportamento che non torna con i canoni di un vecchio parroco di campagna come lui. E allora si sfoga col Cristo. Che fine hanno

fatto i valori di una volta? Dove sono la bontà,

l’amore, la pietà, la fede? È stato tutto sepolto dalle diavolerie del mondo moderno? Ma, se è così, l’uomo è de-

stinato a un futuro di distruzione. E c’è da sperare che rinsavisca quando non si troverà più nulla tra le mani. Perché allora dovrà ricostruire il patrimonio spirituale che si è dato tanto da fare per dimenticare. Ma cosa può fare un povero prete ora?

«Il Cristo sorrise. «Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede.»

«Qui dentro» spiega don Pronzato «c’è il vangelo di Guareschi. Questa è una pagina di delicatezza straordinaria. Il contadino che salva il seme ha dentro la stessa poesia di San Francesco che tiene dentro di sé l’amore per la Parola di Dio. Raramente gli autori cristiani riescono a sospingere verso le origini e la purezza dell’essere credenti con tanta limpidezza. Quel gesto del contadino che salva il seme porta dentro una forza e una 149

semplicità che riesce difficile immaginare sconfitte. Alla fine avrà avuto ragione lui, che si era attardato durante la piena per salvare un pugno di sementi. Tutto il resto viene di conseguenza. Ma l’origine è lì, dentro quella fede ostinata che semina sempre e ovunque la Parola di Dio. _ «E davvero una grande pagina, questa. E penso che Don Camillo e i giovani d’oggi sia uno dei libri più belli di Guareschi. Senz'altro il più maturo. Non bisogna scordare che fu scritto dopo il Concilio Vaticano II, quando i vecchi preti alla don Camillo non andavano troppo di moda. Qui Guareschi riesce a dargli un equilibrio davvero raro. Questo sacerdote ha dentro di sé il coraggio della tradizione e, insieme, una straordinaria capacità di

aprirsi al mondo nuovo. Ma direi, semplicemente, di aprirsi al mondo.» Da qui nasce la grande amicizia con Peppone. Perché, almeno per una buona parte dei suoi atteggiamenti e dei suoi umori, il sindaco comunista diviene il simbolo

del mondo che sta fuori. Incarna la realtà di cui il prete ha bisogno per essere se stesso. La sua presenza, il tratto con cui Guareschi lo disegna testimoniano anche quanto don Camillo sia un prete vivo e intelligente. E, soprattutto, capace di applicare la sua vita e la sua intelligenza a tutto quanto lo circonda. Il suo creatore lo ha voluto così. E, pensando al pericolo di rinchiudersi in se stesso,

che anche un parroco di campagna può correre, gli ha messo vicino Peppone. In fondo è lui l’antidoto alle tentazioni di cui parlava don Alessandro. Un prete non può sentirsi inutile o sprecato quando vive faccia a faccia con Peppone. «La figura del sindaco comunista ha un ruolo fondamentale in questo» spiega don Pronzato. «Non è solo una trovata letteraria. Mi sembra frutto di una grande conoscenza dell’uomo. Guareschi ha creato attorno a don Camillo un ambiente in cui potesse sempre sentirsi utile. Per questo lo circonda di gente che non sta certo dalla sua parte. Don Camillo, a suo modo, è un prete di frontiera e ha sempre bisogno del confronto. E il suo 150

creatore non glielo fa mancare. Non è un caso se tutte le figure di spicco di Mondo piccolo stanno dall’altra parte. Sono loro che rendono vivo letterariamente e umanamente il parroco. Quelli che vivacchiano all’ombra del campanile, tranne qualche raro caso, non hanno neppure una loro fisionomia. Don Camillo non saprebbe che farsene di gente che gli dà sempre ragione. Se si adagiasse sul loro consenso finirebbe presto di fare il prete come intende lui.» Tutto questo viene riassunto in un racconto del primo volume di Mondo piccolo, «La processione». Ancora una volta il parroco si scontra con i rossi del paese, che vogliono impedire la processione col Cristo Crocifisso. Alla prima raffica di mitra sparata in aria a scopo di avvertimento, don Camillo si trova solo con qualche vecchietta. I suoi se ne sono tutti andati e lo hanno lasciato solo. Ancora una volta si deve misurare con Peppone e i suoi e la processione si fa ugualmente. Il sacerdote passa come un carrarmato in mezzo allo sbarramento dei rossi. E il suo incedere crea un vortice al quale nessuno riesce a resistere. Così, in riva al Po, il grosso parroco fi-

nisce per trovarsi alle spalle tutto il paese. Ma, subito dietro di lui, ci sono Peppone e i suoi uomini. Non lo aveva dubitato per un solo secondo. Ma quando li vede c’è da giurare che tiri un sospiro di sollievo: quella gentaglia è tutta la sua ricchezza. «Senza di loro don Camillo sarebbe il prete più povero di questo mondo» dice don Pronzato. «Non potendo contare sugli alleati, è costretto ad aggrapparsi a quella banda di senzadio. Ma si capisce che lo fa volentieri. Basta ascoltare con attenzione la preghiera che recita al termine della processione sulla riva del Po. Non ci pensa due volte a dire al Signore che, se le poche case dei galantuomini potessero galleggiare, lui chiederebbe una piena capace di spazzare via tutto. Ma siccome i pochi giusti abitano in case di mattoni come Peppone e la sua marmaglia, allora sarà bene che il buon Dio tenga un occhio di riguardo su quel tratto di argine. «Questo sfogo, come i tanti di don Camillo, va letto 151

con attenzione. Bisogna dare a ogni parola la sua giusta valenza. Vorrei dire che questi sfoghi vanno letti al contrario. Tutto quanto sa di invettiva contro Peppone e i suoi, in fondo è solo una testimonianza di affetto. Una

grande testimonianza di affetto e di comprensione. «Proprio qui dentro sta una delle grandi lezioni del sacerdote don Camillo. Come pochi altri ha saputo legare Cielo e terra. Questo prete si muove a suo agio su un sentiero che mette in comunicazione diretta il Padreterno e le sue creature. Non c’è nessuno, secondo lui, che

non possa percorrere quella via. Per cui, anche i più scatenati anticlericali ci si possono incamminare. Anzi, si è tentati di pensare che per molti versi possano usufruire di una corsia preferenziale. In fondo sono loro che devono sopportare il prete, molto più di tanti fedeli.» Al fondo di un rapporto simile si trova un grande desiderio di verità. Un prete e un anticlericale non possono permettere che la loro amicizia conosca zone d’ombra. Ognuno dei due è necessario alla vita dell’altro ed è suo dovere non rischiare. Non può mettere in gioco l’esistenza dell'amico per una sua reticenza. I pensieri di entrambi, i loro discorsi, le loro azioni

possono essere solo limpide. Pena il crollo del loro mondo. Anche per questo Guareschi ha messo a punto un linguaggio pulito ed essenziale. Le sue duecento parole sono un tributo ai lettori e all’universo di Mondo piccolo, certo. Ma sono anche l’unico mezzo con cui don Camillo e Peppone possono parlare tra di loro senza fraintendimenti. «C’è un passo illuminante in proposito» dice don Pronzato. «É il racconto “All’Anonima”, pubblicato in Mondo Candido 1948-1951. A un certo punto Peppone usa a sproposito la parola “abulico” e don Camillo lo rimprovera. Il poveretto risponde con una verità disarmante e terribile: “Non l’ho usata io. E stata lei che ha usato me!”. Fortunatamente è solo un incidente di percorso. Altrimenti la costruzione letteraria di Guareschi non reggerebbe. É un meccanismo troppo preciso dove ogni parola e ogni virgola entrano solo al posto giusto. 152

Nessuno può permettersi di mutarne l’ordine. Neanche i personaggi che lo abitano. Tant'è vero che il caso di Peppone è solo un espediente letterario che lo scrittore usa proprio per rendere ancora più evidente questo concetto, che si potrebbe definire “pulizia della parola”. «Non lo si deve lasciare in secondo piano perché è uno dei più grandi problemi che deve risolvere chiunque affronti la scrittura. Specialmente se intende dar vita a dei personaggi. Quando si scrive, si arriva a un punto in cui bisogna scegliere tra la semplicità e la complicazione. Sono pochissimi quelli che seguono la prima via. Troppo spesso si teme di venire ignorati dai grandi intellettuali e dai grandi critici che scambiano semplicità e limpidezza con sciatteria. Purtroppo si confondono astrusità e difficoltà del linguaggio con arditezza di argomenti. Invece coloro che raggiungono veramente i luoghi più arditi e solitari del pensiero distillano i loro incontri con la verità in immagini addirittura lineari. «Guareschi ha voluto essere semplice e i critici non glielo hanno perdonato. Al contrario dei lettori, che ha incontrato a milioni in tutto il mondo. Penso che vada recuperata quella sua scrittura tanto semplice e tanto profonda. E lo specchio di un mondo interiore veramente ricco. Questo scrittore ha avuto la forza di sfrondare il suo scrivere di tutto quanto è superfluo. E solo una persona enormemente ricca può permettersi di farlo. Certo il risultato è davvero notevole. E un fluire continuo in cui tutto trova un posto. Persino le ripetizioni che tutti noi, solitamente, fuggiamo come la peste. Guareschi, invece, ha saputo usare anche quelle. E questo perché Mondo piccolo è un miracolo letterario. «E una lezione che noi sacerdoti dovremmo tenere presente ogni momento. La predicazione, il discorso, la scrittura religiosa nascondono trappole a non finire. E il rischio più grosso che incontra un prete è quello di farsi usare. Proprio come capita a Peppone con la parola “abulico”. Guai se un prete si ferma per ascoltarsi a parlare. Non sarà lui a mettersi in gioco con quel discorso. E non saranno neppure i suoi fedeli. Il risultato meno 153

dannoso, in quel caso, saranno i complimenti per la bella predica dopo la Messa. Poi ognuno tornerà nella sua casa convinto di riportarci qualcosa. Ma terrà ben poco nelle mani. «Eppure, abbiamo avuto esempi notevoli, papa Giovanni XXIII, per fare il nome più eclatante. Giunto a ottant’anni ai vertici della Chiesa, non si stancò di essere

semplice come era stato sempre nella sua vita. Parlava delle cose della fede e di complicate questioni teologiche allo stesso modo in cui ricordava la sua casa e la sua gente di Sotto il Monte. Mi ricorda da vicino Guareschi, quel Papa. Ci sono molte coincidenze nei loro modi di intendere la fede e il linguaggio che la trasmette. Ed è bene spiegare che non si tratta mai di consacrazione dell’ignoranza e della grossolanità. Solo persone di altissimo livello possono ragionarvi con tanta semplicità. Che, in fondo, è frutto di una grande familiarità.»

Questa grande dimestichezza con le cose della fede e con i segreti del linguaggio in Guareschi hanno una radice evidente. E il continuo misurarsi con la sua terra. Sia intesa come luogo, sia intesa come materia. Questo scrittoreè l’anello di una catena che si snoda in riva al grande fiume. Una teoria di storie, personaggi, valori, tutti impastati con una grande frequentazione delle cose di Dio e degli uomini. Guareschi si è trovato nell’anima e nel cervello una intera tradizione e ha sentito come proprio dovere renderla viva. E per questo che ha scavato a piene mani nella sua terra. Per vedere dove nasce e per ricavarne la materia al fine di continuare a costruire. Ogni squarcio verso il cielo nasce solo quando la lama di un aratro affonda fino alla radice dentro la terra di un campo. «Non si può prescindere da questa passione di Guareschi per la terra» conferma don Alessandro. «Uno scrittore come lui non sarebbe mai nato in città. C’è qualcosa di radicalmente contadino che si assapora fin dalle prime battute della sua opera. È un’atmosfera quasi impalpabile che, di volta in volta, si traduce in forme diverse. Una delle più frequenti è l’amore religioso per 154

il proprio lavoro. E c’è una figura di prete in cui tutto questo viene dipinto senza una sbavatura: è don Candido.» Questo sacerdote è il protagonista di «Due santi di mezza stagione», un racconto pubblicato in Gente così. È un pretino giovane e magro che approda per caso alla frazione Pioppina. Ci arriva al momento giusto perché la gente della frazione, rimasta senza prete, è decisa a trovarne uno. Don Candido accetta la proposta, ma, senza mandato vescovile, non ha il becco di un quattri-

no e deve arrangiarsi a coltivare pomodori per tirare avanti. La cosa sulle prime non garba a don Camillo che tratta il poveretto da prete rivoluzionario. Ma il vecchio vescovo legge subito nell’anima di don Candido e, senza bisogno di carte bollate, in cuor suo lo ha già nominato parroco della Pioppina e «quasi santo». Intanto, in un podere sull’argine don Candido parla con Dio. «“Signore, fammi la grazia che io rimanga sempre povero sì che io possa sempre avere la consolazione del mio lavoro.” «Poi si segnò e, rizzatosi, prese la vanga che stava appoggiata all’olmo capofilare e incominciò a vangare. «Sull’argine passò un angelo e si fermò a guardare don Candido che vangava... «Non mi fate scrivere stupidaggini, fratelli! Gli angeli non passano sugli argini. «Però, qualche volta, dovrebbero passarci. Non è sol-

tanto una mia idea, ma è anche quella del vecchio VeSCOVO.»

Don Candido è una delle figure che compaiono solo lo spazio di un racconto, ma sono capaci di riassumere l’intero senso di Mondo piccolo. «Non bisogna perdere di vista questo sacerdote» spiega ancora don Pronzato. «Tra lui, don Camillo e il vecchio vescovo corre l’energia che regge l’intero universo guareschiano. Con questi preti, Guareschi ha stabilito i punti in cui si chiude il cerchio che unisce Cielo 155

e terra. E la forza creatrice che vi scorre, una volta mes-

sa in circolo non si ferma più. Ma ha fatto anche di più. Ha spiegato che quell’energia parte dal punto più alto, e su questo non ci potevano essere dubbi. Però ha anche detto con forza che deve passare attraverso il rapporto con la terra. L'anima dell’uomo non sarà mai feconda se non afferrerà questo insegnamento. L’uomo deve avere la sfrontatezza e la forza di piantare in terra il seme dell’insegnamento divino. Non può permettersi di fare l’angelo. Tradirebbe il proprio essere e la fiducia che ha riposto in lui il suo Creatore. La sua casa, fin che sarà Uomo, sarà sempre quaggiù.» È anche per questo che in Guareschi si trova tanta comprensione per il prossimo. Quest'uomo vede nel suo simile l’essere messo insieme-con lo stesso materiale di cui è fatto lui stesso. Gli. uomini,

alla fine son tutti

modellati nella terra. E impossibile odiarli, anche quando fanno del male. «E un altro dei grandi temi che hanno segnato la vita di questo scrittore e, di conseguenza, la sua opera» continua don Pronzato. «È il tema del perdono. Io penso che Guareschi fosse ben felice di essere un laico e non avrebbe mai cambiato il suo stato laicale con quello di un religioso. Però sicuramente sentiva la mancanza di una prerogativa dei sacerdoti, quella di perdonare i peccati. Guareschi mi sembra oltre misura l’uomo del perdono. Lui, che passò attraverso i lager tedeschi, la galera italiana,

gli attacchi

furibondi

degli avversari

politici,

ambiva sopra ogni cosa perdonare. «Dopo le rabbie, le lotte e le amarezze, il perdono è

un modo diverso per porsi davanti alle miserie degli uomini. Don Camillo respira quest’aria e fa del perdono lo strumento per aprire il cuore degli uomini a Dio. Non è una via facile da praticare perché presuppone di ragionare secondo una logica che non è solo umana. Il perdono presuppone tempi lunghi, non garantisce effetti immediati. Ma don Camillo è uno che sa aspettare. Sa che prima o poi la gente arriva davanti al Cristo e lui sta pronto per inginocchiarsi al suo fianco, da fratello. 156

«Troppo spesso si è equivocato su questo suo atteggiamento. C’è chi lo ha scambiato per accondiscendenza verso il nemico. Chi lo ha inteso come anticipazione del compromesso storico. Ma si sono sbagliati tutti, perché hanno applicato dei criteri solo umani a una sapienza che ha la sua radice nel divino. Don Camillo è pronto a perdonare chiunque perché in tutti vede il segno divino. E quel segno non porta tessere di partito. Per questo non taglia i ponti neppure con i barabba della peggior risma. Non spezza l’ultimo legame di umanità che li vincola ai loro simili e a Dio. «C'è una grande lezione in questo modo di essere prete e di essere uomo. Questo parroco dalle mani grosse come badili ha un’anima molto fine. E intuisce che l’uomo non è sempre ciò che appare a prima vista. Lo mettono sull’avviso sia le persone troppo buone sia quelle troppo cattive. E, solitamente, sono le seconde a dargli delle soddisfazioni. Il suo lungo ministero tra gente piuttosto rustica gli ha insegnato che persino una bestemmia può esprimere una nostalgia. Che, però, bisogna saper scovare e saper leggere. «Nei suoi racconti, Guareschi non esita a portare a galla veri e propri rottami umani. Penso a Giaròn, penso al Crik, solo per fare i primi esempi che mi vengono alla mente. Gente che sembra aver lasciato per sempre il consesso degli uomini. Gente che ha scartato di lato e vive in un universo tutto suo dove le regole e i valori vengono stravolti. Ma, pur se in una forma anomala, regole e valori continuano a esistere e ciò, anche se slega questi squinternati dal resto degli uomini, li tiene legati a Dio. Non a caso il vecchio Giaròn va a morire davanti alla canonica. Non a caso il Crik, sepolto sott'acqua col suo autocarro, riceve la benedizione

di don Camillo. E

frutto della forza del perdono di un Dio Crocifisso che attrae in maniera invincibile. Al prete rimane solo il compito di amministrarla. Credo che una delle più belle definizioni del sacerdote sia quella che lo vede come ministro della pazienza di Cristo. Don Camillo ci si trova senza una sbavatura.» 157

Davanti a un Guareschi che trae tanta ispirazione dalla terra sorge una curiosità alla quale don Pronzato, al termine della chiacchierata, cerca di rispondere. Come poteva immaginare il Paradiso uno scrittore di questo genere? «Credo che lui lo pensasse come qualcosa di bello oltre ogni confine. Non saprei dire se potesse dare più peso ai suoni, piuttosto che ai colori o alle parole. Ma sicuramente doveva pensarlo come qualcosa di veramente bello e che valesse la pena di guadagnarsi. E anche in questo, se fosse così, avrebbe dimostrato di essere

un passo avanti a tanti altri. Noi cristiani abbiamo lasciato un po’ troppo da parte il bello, per far spazio al vero e al bene. Ma anch’esso è una qualità divina e come tale deve essere recuperata. Ecco, credo che Guareschi la valorizzasse anche in questo modo, facendone l’elemento essenziale del suo Paradiso. «D'altra parte era un uomo dotato di una sensibilità artistica non comune. Ed è stato proprio questo che lo ha tenuto alla larga da qualsiasi volgarità o da qualsiasi caduta di livello. Tra i suoi punti d’orgoglio c’era quello di non aver mai scritto nulla che non potessero leggere i suoi figli.» Non è poco per un uomo che, per tutta la vita, non ha fatto altro che trovare infinite combinazioni per le sue duecento parole.

158

Diario di un parroco di campagna Don Francesco Fuschini

Per trovare don Francesco Fuschini, bisogna arrivare fino a Ravenna e chiedere di Walter Della Monica. Forse non è la via meno complicata, ma certamente è quella più sicura. Perché se si va senza intermediari a casa di don Francesco ci si trova davanti a un vecchio prete incredulo del fatto che qualcuno possa interessarsi a lui. Allora le parole bisogna cavargliele con le tenaglie. Della Monica, invece, che lo conosce da anni e cura le edi-

zioni dei suoi libri, lo sa lavorare per bene. Ogni volta lo convince a lasciare il suo studiolo, a San Michele, per fare due passi in città. È così che don Fuschini cade nella trappola. Comincia a parlare e non smette più. E, visto che parla saporito come scrive, del viaggio a Ravenna, e del necessario appostamento, non ci si pente mai. Questo vecchio parroco romagnolo vanta una militanza di tutto rispetto nella pubblicistica cattolica. Cominciò a scrivere sul «Frontespizio» di Piero Bargellini e Nicola Lisi ai tempi del seminario, nei primi anni Trenta. Poi continuò con il «Resto del Carlino» e l’edizione domenicale dell’«Osservatore Romano». Durante il pontificato di Paolo VI era uno dei pochi articolisti ad avere il privilegio di essere letti «molto in alto». Ma a un pubblico più vasto don Fuschini è divenuto familiare all’inizio degli anni Ottanta con L'ultimo anarchico, una raccolta di racconti sulla sua vita di parroco a

Porto di Fuori. In un anno, tra maggio ’80 e aprile ’81, ne sono uscite quattro edizioni. Giuseppe Prezzolini, re159

censendo il libro su «La Nazione», scriveva del suo autore: «Non so se abbia fatto miracoli, ma nel clima lettera-

rio attuale è più che un miracolo, è una apparizione». Questa «apparizione» ha' ricamato i suoi racconti con le facce e le storie dei comunisti e degli anarchici della sua parrocchia, il grosso delle pecorelle. Tutte beghe di rito romagnolo che finivano in gloria. Ed eccolo così nei panni di un don Camillo dei nostri tempi. La voce si è sparsa in fretta e, qualche tempo dopo l’uscita del suo libro, è piombata in parrocchia una troupe della Zdf, una rete televisiva tedesca. Questa nuova versione della creatura di Guareschi e le sue battaglie con i Pepponi di turno valevano almeno un reportage calibrato per palati teutonici. Come succede poi con le storie che nascono dalla radice di Mondo piccolo, la trasmissione ha avuto un gran successo. La Tv tedesca ha ringraziato ed è tornata per il bis. Quando si attacca il discorso su don Camillo, don Fuschini si schermisce. A ogni domanda fa un balzo indietro e sgrana gli occhi per capire dove si andrà a parare. Ma è solo il suo modo di fare. Si capisce che questa parentela col pretone di Guareschi è un quarto di nobiltà letteraria e spirituale a cui tiene parecchio. «Ci tengo molto perché don Camillo è un prete vivo nel quale mi riconosco appieno» dice lui. «E un prete fatto di carne e ossa, capace di parlare alla gente come ce ne sono pochi nella letteratura e nella vita. Non ho incontrato tanti uomini di chiesa capaci di parlare della fede come lui. La fede dovrebbe essere la cosa più chiara e limpida di questo mondo e, invece, non si fa che complicarla. Dovrebbe essere alla portata di tutti e, invece, la si confina dove quasi nessuno riesce ad arrivare. «La grandezza di Guareschi sta qui, nella sua limpidezza. Limpidezza nello scrivere. Limpidezza nel raccontare le cose della vita. Limpidezza nel parlare della fede. Solo uno scrittore con una grande sensibilità religiosa e una straordinaria padronanza della lingua italiana può permettersi di scrivere in quel modo. «E vero. Usava duecento parole e molti hanno scam160

biato quella semplicità per sciatteria. Ma come le usava quelle duecento parole! Senza schemi precostituiti, senza gabbie in cui imprigionare uomini e sentimenti. La sua scrittura fila lungo i sentieri della vita come poche altre hanno saputo fare.» Lungo quei sentieri don Fuschini ritrova anche le sue storie. Quelle che ha raccontato nei suoi libri e quelle che ha vissuto nella sua parrocchia senza metterle sulla carta. Gli corrono negli occhi e non si fatica troppo a vederle. Don Camillo, Peppone e la banda di Mondo piccolo sono le matrici in cui si è adagiata la sua vita di prete e di scrittore. «Un prete in Romagna,» spiega lui «specie qualche annetto fa, se voleva sopravvivere e rendere onore al suo ministero, doveva essere un po’ don Camillo. Qui da noi però, più che coi comunisti si battagliava con gli anarchici. Erano loro i nostri Pepponi. Ci si scontrava su un niente. Ma dentro avevamo tutti una fede, ognuno per la sua Trinità, da muovere le montagne. Se ne avessi avuta nel mio firmamento quanta alcuni di loro ne avevano in Bakunin, sarei diventato un santo.

«Ci si trovava su questo terreno, che poi è quello che fa di ogni uomo un uomo vero. Non ci può essere persona senza una fede. E io volevo bene alle persone. La teologia veniva dopo. Ognuno guardava i suoi santi e la nostra amicizia prendeva la strada che punta diritta verso il cielo.» Basta cercare nelle pagine di don Francesco per trovare la radice e la bellezza di queste amicizie. Per esempio in «Una mezza “Ave Maria”», uno dei racconti più belli raccolti nel volume Mea culpa. Il sacerdote racconta di quando accorse al capezzale del vecchio anarchico Urbano, ormai vicino alla morte.

«La morte picchiava sul petto con la furia di un ospite impaziente. Ci davo sotto a tiro ravvicinato. (155) «Lui ribatteva, a fiato spezzato, che Dio non l’aveva mai visto. 161

«“Se fate silenzio dentro, lo sentite. Il suo bussare è

lieve e pieno d’attesa.” «Accadde un fatto che mi riempì di calde speranze nel gelo parrocchiale. Prete e anarchico salutarono la mamma di Gesù: “Ave Maria”. Urbano morì prima dell’Amen. Gli dissi la Messa: “Signore, ti presento un anarchico con una mezza ‘Ave Maria’ in pugno. E niente ed è tanto: un granello di Fede nella parrocchia anarchica”.» Sono figure come questa che fanno prezioso il narrare di don Fuschini. In ritratti del genere germoglia sempre l’incontro dell’uomo con Dio. Anche dove in apparenza le strade dell’umano e del divino sembrerebbero andare ognuna per conto proprio. Non c’è mai disperazione assoluta in queste vicende. Piuttosto c’è fiducia nel giusto compimento della vita, nel ricongiungimento con il principio da cui si è nati. E allora bastano un paio di pagine, o addirittura poche righe, per raccontare una bio-

grafia. L'essenziale della storia di un uomo, l’andata e il ritorno tra Cielo e terra, viene scolpito in poche parole. Il giusto, non di più. Questo tratto dello scrivere di don Francesco è parente stretto dello scrivere guareschiano. Anzi è probabilmente uno dei punti che più li accomunano. Le strade di Mondo piccolo girano attorno a don Camillo e Peppone e portano tutte davanti al Cristo dell’altar maggiore. Ma sono battute da una miriade di altri personaggi. Uomini, donne, animali che vi compaiono magari una sola volta. Giusto lo spazio per trovare il filo che li lega a Dio. Spesso sono figure che hanno una carica drammatica dirompente, creature tutt'altro che quiete. Ma, come nel piccolo universo di don Fuschini, non arrivano mai al fondo di una disperazione senza ritorno. «Il mondo letterario di Guareschi» dice il sacerdote «è dominato dalla speranza senza limiti e dalla certezza della redenzione. Per questo è un mondo radicalmente cristiano. Il messaggio cristiano è un messaggio di libe162

razione da ogni delusione. Incita alla speranza oltre ogni limite e oltre ogni disperazione. Forse, purtroppo, nessuno aveva pensato finora a questo risvolto dei racconti di don Camillo. Il fatto che siamo qui a parlarne come fosse una scoperta lo dimostra. Eppure bastava guardare la materia prima da cui Guareschi pescava le sue storie. La vita della sua gente e della sua terra. Per me, probabilmente, è facile ragionarci perché ho usato lo stesso metodo per scrivere i miei racconti. Non ho dato vita a personaggi talmente forti da sembrare più vivi dei vivi, come ha fatto lui. Ma mi ha permesso di rifletcite «Ho sempre guardato la vita della mia gente con un amore a due facce. Quella del sacerdote che si fa compagno di strada dei suoi fratelli. E quella dello scrittore che, con le sue parole poverette, non trova altro se non la vita di tutti i giorni da mettere sulla pagina. Guardando le tante esistenze che ho schierato in fila nei miei raccontini ho capito da dove nasce la grande capacità di sperare di tutti coloro che sono intrisi di cultura cristiana, tanto gli atei quanto i fedeli. Non dall’esperienza che ogni giorno ci fornisce un appiglio per aggredire la vita. Non dalla capacità di progettare un gesto, un’azione. La speranza cristiana nasce proprio dalla condizione opposta, dalla sconfitta. Sia chiaro, i miei personaggi, la mia gente, come quelli di Guareschi, non sono dei per-

denti. Ma ogni giorno sperimentano la forza della redenzione, perché ogni giorno devono fare i conti con la propria inadeguatezza. La redenzione è la sorgente di quella speranza senza limiti che dà voce alla vita di tutti. E in questa speranza senza condizioni che siamo veramente fratelli, tutti uguali, tutti uomini.»

Non è un caso se l’uomo fa la sua definitiva irruzione nella letteratura con gli scrittori cristiani. E non è un caso se gli umili trovano voce e dignità letteraria solo con il cristianesimo. In questo Guareschi è un grande scrittore cristiano. Le sue storie mirano diritte al cuore di Dio, alla sorgente della speranza infinita in cui tutte le vite trovano compimento. 163

Davanti a questa speranza don Camillo è ugualea Peppone e all’ultimo dei senzadio di Mondo piccolo. È qui la radice dell’uguaglianza cristiana secondo lo scrittore della Bassa. Non in qualche egualitarismo di seconda scelta trapiantato alla bell'e meglio in progetti irrealizzabili. Ecco quindi avanzare figure, erroneamente definite minori, a reclamare la ribalta con la stessa prepotenza del parroco e del sindaco. Basta pescare dal mazzo per verificare l’ipotesi messa in piedi con don F uschini. Verso la fine di Don Camillo e il suo gregge c'è un racconto che si intitola «Menelik». È la storia di Giaròn, uno degli ultimi carrettieri della Bassa. Un uomo tanto testardo da non voler neppure considerare l’idea di cambiare i suoi cavalli e il suo carretto con un camion,

come gli propongono i figli. Accetta di rimanere solo col carretto e col suo cavallo Menelik pur di non cedere. Ai figli che gli mostrano quanto hanno guadagnato in un mese col loro nuovo automezzo risponde che i conti non si fanno dopo un mese, si fanno in ultimo. Ha ragione Giaròn, perché uno dopo l’altro i figli muoiono in incidenti stradali. E lui non può far altro che tirare diritto, ingolfare sempre più i suoi discorsi con bestemmie che lo rendono repellente a tutti i suoi simili. Ma continua a vivere, aggrappato al suo carretto e al suo cavallo, convinto che saranno la sua salvezza e il

riscatto dei suoi ragazzi. É proprio Menelik che, una sera, non sentendolo più bestemmiare dall’alto del biroccio, inverte la rotta e lo porta fino alla canonica. Uscito di casa, racconta Guareschi, don Camillo

«s1 trovò con la faccia a pochi centimetri dalla faccia dell’uomo sdraiato sul colmo del carico di sabbia. «- Giaròn!

- esclamò

don Camillo

— sono

io, don

Camillo! «- Che Dio mi perdoni... — sussurrò con un tenue filo di voce il vecchio Giaròn. «Poi il vecchio non disse più niente di niente. Non gemette più. «Ma oramai Dio l’aveva perdonato». 164

E al pretone che si affanna per sapere perché Menelik abbia portato il suo padrone proprio davanti alla canonica giunge una voce dall’altar maggiore: «- Don Camillo - rispose la voce del Cristo - un uomo è venuto qui per morire nella grazia di Dio. Perché di questo fatto vuoi essere grato a un cavallo mentre tu devi esserne semplicemente grato al tuo Dio?». La spiegazione è semplice. Tutte le vite di Mondo piccolo corrono verso Dio. Soffrono, si macerano,

diventano

persino disgustose al prossimo, come quella di Giaròn. Ma non perdono mai la speranza nell’Essere che sta oltre l’orizzonte. L'unico modo che Giaròn ha per rincorrerlo è quello di guidare sempre il suo cavallo e il suo carretto. Nonostante tutto e nonostante tutti, fino al consumarsi dei suoi giorni. Non è espiazione, la sua. O,

meglio, non è solo espiazione. E la dimensione della sua fede e della sua speranza in Dio. Per questo gli basta un soffio, prima di morire, per abbracciare

l’Infinito, che

lo aveva già perdonato. E quanto accade anche al Crik, un’altra figura che transita il tempo di un solo racconto per le strade di Mondo piccolo, questa volta nella raccolta Gente così. Il Crik vive in simbiosi con il Leopardo, un camion scassato come nessun altro, che non si sfascia solo perché lo guida lui. Un bel giorno, però, la macchina si impantana in riva al Po e non ne vuol più sapere di muoversi. Il suo autista non la lascia. Si adatta ad abitare nella cabina fino a che non caverà il camion da quella situazione. Non vuole far altro che aspettare. Ma una notte il fiume in piena arriva a sommergere tutto. Quando la gente corre a portare aiuto al Crik è tardi. Lo trova seduto e sorridente che pare vivo. Ancora una volta è il Cristo dell’altar maggiore che spiega a don Camillo che senso abbia la testardaggine del Crik.

«- Gesù — disse don Camillo al Cristo quando fu di ritorno. — Il Crik è pazzo. 165

«- Non è mai pazzo chi ha fede nella Divina Provvidenza — rispose il Cristo. «- Il Crik è un disgraziato che non crede né in Dio né nella Divina Provvidenza - obiettò don Camillo. Egli crede soltanto nel suo camion. «Il Cristo sorrise: «- È già qualcosa, don Camillo. Perché quel camion è la sua vita e, avendo fede in esso, il Crik ha fede nella

vita e in Dio.»

Quanto a cocciutaggine, il Crik sembra fare il paio con altri due personaggi di una storia tratta da Gente così, che potrebbe essere definito il libro della speranza. Si tratta dei protagonisti del racconto che si intitola «La trattoria». I Folini, marito e moglie, tirano su in mezzo

alla radura una trattoria modello, nella speranza che presto passi da quelle parti la strada annunciata dall’amministrazione. Per vent'anni i due non fanno che abbellire il loro locale in attesa di aprirlo. Ma, intanto, della

strada non si vede neanche l’ombra. E, quando don Camillo passa per caso di lì, ognuno dei due gli confida che tiene duro per non disilludere l’altro. Ma poi accade l’insperabile: i lavori per lo stradone cominciano davvero. Allora il prete pensa di correre subito ad avvertire i Folini. Ma Cristo gli dice che è inutile. Loro non hanno mai avuto dubbi.

«- Ti hanno parlato in quel modo solo perché sapevano che tu non potevi credere in una fede così profonda. Sapevano che tu li avresti giudicati pazzi. «Don Camillo abbassò il capo: «- Gesù — balbettò - in una cosa del genere come si fa a capire se si tratta di fissazione o di fede nella Divina Provvidenza? «- Sono cose che non si possono capire, ma si possono

solo sentire. Impara a diffidare

del buon

senso,

don Camillo. Molte volte esso è soltanto senso comune.» 166

«Cos'è un uomo che scrive cose simili, se non un grande autore cristiano?» si chiede don Fuschini. «Questo rimanere radicato nella speranza senza limiti, nella speranza che non ammette dubbi è solo del credente in Cristo. La speranza cristiana è fondata nell’amore immenso di Dio e non può sposare il tentennamento. Conosce la fatica, ma non il dubbio. Ogni uomo, per questo, diventa una specie di patriota del mondo, un cavaliere della vita. Li ama e li serve fino in fondo. Senza pensarci troppo. Solo perché vuole il loro bene. I personaggi guareschiani sono tutti così, anche quelli che potrebbero sembrare più matti degli altri.» Ma è proprio questa una delle caratteristiche che li rende forti. La loro speranza illimitata li fa coraggiosi oltre ogni segno. Altrimenti Giaròn non continuerebbe a navigare per la Bassa col suo carretto, il Crik non rimar-

rebbe fino all’ultimo a far compagnia al suo Leopardo, i Folini non terrebbero duro vent'anni in attesa di una strada che passi davanti alla loro trattoria. E un coraggio speciale, quello di tutta questa gente. Figlio del coraggio di un Dio che si fa uomo e accetta di morire in croce. E la forza di un’anima che si avvicina tremendamente al punto di rottura e non si rompe. Una condizione del genere si può verificare solo quando dentro l’anima è rimasto l’essenziale. E magari può essere scambiata per l’anima di un pazzo perché articola ragionamenti che ai più sembrano senza senso. O, meglio, senza senso comune, senza ragione. Ma non bisogna dimenticare

che, come

ha scritto Chesterton

nel-

l’ Ortodossia, il pazzo non è colui che ha perduto la ragione, ma colui che ha perduto tutto tranne la ragione. Un uomo che rinuncia alla ragione, ma si tiene abbracciato alla speranza, non può essere pazzo. È, soprattutto, vince sempre la scommessa dell’esistenza, perché punta su ciò che conta. «I conti si fanno in ultimo» dice Giaròn con ostinazione, quasi con insofferenza ai figli che vogliono cambiar strada. Le esistenze di questi personaggi guareschiani non si limitano a indicare la via della speranza. Spiegano an167

che che questa via è percorribile da tutti. Non spiccano grandi figure eroiche lungo le contrade di Mondo piccolo e il motivo è semplicissimo. L’eroismo è alla portata di tutti. È una possibilità in cui ognuno può avvolgere la sua vita e presentarla a Dio. Non è necessario essere uomini eccezionali, modelli per il resto dell’umanità. Basta sapersi mettere in ascolto della voce di Dio e assecondarne il volere. Allora tutto diviene possibile. Qualsiasi svolta può essere impressa a qualsiasi esistenza. Tutto trova compimento. «Mi pare di vedere un bel gruppetto dei parrocchiani che ho infilato nei miei racconti» spiega don Fuschini. «Tutti eroi nel loro assecondare le fatiche di tutti i giorni. E tutti legati ostinatamente alla loro speranza. Mi pare di vedere la Giralda che consuma il suo amore dietro a un povero tisico e, quando lui muore senza nemmeno

averla sfiorata, lei chiede di entrare nel sodalizio

delle vedove. Oppure Clementino l’organista che misurava le sue note sul tema di un amore che trova il suo casto compimento in sogno, dopo la morte della donna amata. O gli ultimi anarchici, quelli che si presentavano al cospetto del Signore con un'anima laica tanto candida da far gara con i santi. «È tutta gente che marcia diritta verso il Paradiso, tutti eroi come può esserlo ognuno di noi. Posto che ci si inchini alla volontà di Dio. Le nostre terre sono piene di questa gente. Ma eroi simili sono sparsi in tutto il mondo. Forse è proprio questo uno dei motivi per cui Guareschi è diventato uno scrittore universale. Ha toccato corde che son pronte a vibrare in tutti gli uomini. Ha raggiunto l’essenziale. Per questo viene letto a tutte le latitudini. Perché ha svolto il lavoro inverso rispetto agli intellettuali da salotto. È partito da una foresta di sentimenti come la vita di tutti i giorni e l’ha sfrondata fino a trovare ciò che conta veramente. Gli intellettuali,

invece, trovano un’idea, magari buona e semplice, e poi si dannano l’anima per complicarla.» Anche su questo punto, don Fuschini, nella repubblica delle lettere, fa capitolo con Guareschi. Basta scor168

rere alcune pagine di Don Camillo per rendersene conto. Per esempio, nel racconto «Giulietta e Romeo» in poche righe viene spiegata la differenza tra gli intellettuali, definiti letterati di città, e la gente semplice, che sta in

campagna. «Alla fine, tirate le somme, quelli della Bassa finiscono sottoterra preciso come i letterati di città, con la differenza che i letterati di città muoiono più arrabbiati di quelli di campagna perché a quelli di città dispiace non solo di morire, ma di morire in modo banale, mentre a

quelli di campagna dispiace semplicemente di non poter più tirare il fiato. La cultura è la più grande porcheria dell’universo perché ti amareggia oltre la vita anche la morte». Così ci si incammina lungo un altro percorso su cui lo scrittore della Bassa e il prete romagnolo si danno la mano. E quello che porta di fronte al mistero della morte. È singolare notare come Guareschi e don Fuschini lo affrontino narrativamente allo stesso modo. Segno che nel loro scrivere e nel loro vivere hanno intravisto le stesse tracce per addentrarsi dentro a questo grande interrogativo. E devono aver trovato qualche indizio importante, visto che questo tema nei loro scritti è uno dei più ricorrenti senza che opprima, però, l’anima del lettore. Nell’introduzione a Don Camillo, Guareschi parla della sua terra, della sua gente e dei suoi racconti e spiega:

«Perché è l’ampio, eterno respiro del fiume che pulisce l’aria. Del fiume placido e maestoso, sull’argine del quale, verso sera, passa rapida la Morte in bicicletta. O passi tu sull’argine di notte, e ti fermi e ti metti a sedere e

guardi dentro un piccolo cimitero che è lì, sotto l’argine. E se l’ombra di un morto viene a sedersi vicino a te,

tu non ti spaventi e parli tranquillo con lei». 169

Nell’ Ultimo anarchico, don Fuschini chiama a raccolta i suoi morti in un racconto che si intitola «Il libro dei più». E dice:

«Benedetto da Dio è il silenzio del dopopranzo estivo, e un’anatra che canti vi fa dentro uno strappo che mai: è l’ora che i ricordi prendono corpo e voce e fanno insieme una conversazione, solo che la memoria li chiami; e

perciò io, scrivendone il nome, il cognome, e le date d’entrata e d’uscita da questo mondo, sono col mio morto a tu per tu».

In poche righe, i due scrittori lasciano cadere lungo questo sentiero una serie di indizi identici. Innanzitutto che esistono tempi e luoghi deputati a guardare negli occhi il mistero della morte. Gli uomini non sono in grado di farlo in ogni momento. Sono troppo deboli. E se tentassero un’impresa simile ne rimarrebbero schiacciati. Però possono trovare lungo la propria esistenza degli spiragli che si affacciano oltre i giorni terreni. Poi salta agli occhi la grande confidenza di entrambi con la morte,

a cui Guareschi,

nel passo citato, mette

addirittura la maiuscola. E non è una maiuscola dal tono reverenziale. Al fondo c’è una conquista essenziale: l’aver capito la radice dell'essere umano. Che è una radice impastata di tempo e di eternità, di bene e male, di mortale e immortale, di vero e di falso. Nelle storie di Guareschi, come in quelle di don Fuschini, non si bara

mai sugli uomini. I personaggi sono quello che sono. Si muovono

magari in un mondo

inventato, ma sono uo-

mini veri. Possono dar vita a vicende che vanno di traverso rispetto al buon senso, ma sono sempre esseri che partono dal vero Principio e al vero Principio ritornano. Trovano naturale che il percorso della loro vita cominci e finisca in quel modo. Esattamente come i loro creatori che, così, si fanno loro compagni di strada. Infine, le storie di don Fuschini e di Guareschi

in

cui si parla di morte hanno un gran profumo di terra. 170

Sono impastate con la terra dei loro piccoli mondi, la terra dove la vita e il suo contrario si mescolano facendo ognuna la sua parte. Ma è terra che Dio raccoglie, modella come

vuole e, alla fine, redime.

Pur che l’uomo

così creato lo senta e capisca cosa si porta dentro. Lo spiega con efficacia Peppone in un racconto tratto da Lo spumarino pallido, «Ricordando una vecchia maestra di campagna». Il sindaco, che presenzia alla cerimonia durante la quale i bambini delle scuole sono invitati a piantare degli alberi, inizia un discorsetto generico. Poi comincia a parlare della sua vecchia maestra, la signora Giuseppina, e dei tanti compagni di scuola morti. Li vede davanti a sé e può fare l’appello. «“E tutti, anche quelli morti a quarant'anni o quarantacinque, hanno ancora la loro faccia da ragazzi. Sono tutti tali e quali da scolaretti: la signora Giuseppina se li è presi uno per uno e adesso, dopo avergli insegnato le regole della grammatica, gli insegna le regole dell’eternità. «“Questo è per me il significato della festa di stamattina e gli alberelli che adesso voi bambini pianterete dentro la terra sono come il legame fra la morte e la vita: fra la vita che sta sopra e la morte che sta sotto. E se l’avvenire dell’albero e il suo progresso verso l’alto sono sopra la terra, le radici sono sotto la terra.”»

Ecco perché a Mondo piccolo si incontrano spesso i morti senza che facciano paura. Quando accade il contrario, si scopre sempre l’anomalia che aveva spinto l’osservatore in una prospettiva innaturale. E, sempre, ciò che si credeva un morto, in realtà era tutt'altro.

«Il fatto è» spiega don Fuschini «che per scrivere cose simili bisogna avere in gran conto la vita. Quella autentica. Ma bisogna averla in gran conto con tutto ciò che c’è dentro, di bello e di brutto. E questa è una grande virtù cristiana che a Guareschi non mancava.

Pochi,

come lui, sono riusciti a trattare argomenti simili lasciandoli puliti. E per puliti intendo scevri da tutti quedA

gli orpelli letterari e intellettuali che ne falsano il senso. Nel suo caso non si tratta solo di abilità nell’esercitare il mestiere di scrittore. E anche, e soprattutto, una grande abilità nell’esercitare il mestiere di uomo.» Bisogna sottolineare ancora una volta che questa abilità nell’essere uomo e scrittore Guareschi le esercita secondo gli insegnamenti della sapienza cristiana più genuina. Bisogna sottolinearlo perché altrimenti, visti i sentieri percorsi in compagnia di don Fuschini, si rischierebbe di scambiarlo per un autore tragico. Mentre la tragedia non fa parte dell’orizzonte cristiano. Speranza e disperazione, vita e morte, eroi e uomini

comuni,

tutto potrebbe portare fuori strada. La tragedia nasce dall’esperienza del dolore, e anche gli abitanti di Mondo piccolo non sono estranei alle prove terribili della vita. Ma prende corpo e forma dando un significato particolare al dolore, ponendolo come risultato di una lotta inconciliabile tra necessità opposte della vita. Tra uomo e uomo, tra uomo

e natura, tra uo-

mo e Dio. Non importa quali siano i termini, lo scontro porta necessariamente alla distruzione di entrambi. L'esistenza diviene crudele, diviene il grembo in cui tut-

to nasce e si dissolve senza altro senso che quello del suo morire. Ma la presenza del Cristo Crocifisso che abbraccia uomini, animali, terra, acqua e cielo dissolve questo orizzonte nel Mondo piccolo di Guareschi. Cristo è il segno della speranza senza confini che sana alla radice la lotta inconciliabile che costituisce l’essenza della tragedia. Questo non significa che la vita si trasformi in una passeggiata in attesa di passare a un luogo ancora più bello della Terra. L'uomo vive sempre e comunque in una dimensione drammatica. Però cambia il suo modo di leggerla e interpretarla. Davanti al dolore e agli interrogativi inquietanti della vita, i personaggi di Guareschi non escono lacerati. Non lanciano il loro grido contro un destino comunque crudele e indecifrabile. Si abbandonano invece nel col172

loquio con il loro Dio. E si tratta di dialoghi che assumono le forme più diverse. La preghiera, ma anche l’ostinazione nel seguire la propria strada. Nel dolore fiorisce un amore sicuro della redenzione. Allora anche la sofferenza acquista un suo valore sulla strada del riscatto. E questo significato conferito

alla sofferenza,

e

comunque alla difficoltà ordinaria del vivere quotidiano, che sradica il narrare guareschiano dalla concezione

tragica della vita. Non è un caso che su tutte le pagine domini il Cristo Crocifisso. E lui il modello delle creature di Mondo piccolo. Nel sangue della croce si trova la carezza della gloria. Alla radice di tutto questo c’è il messaggio di fondo del cristianesimo: Dio salva. Di fronte a un messaggio come questo l’orizzonte tragico si dissolve. Si entra in un orizzonte cristiano che è, appunto, quello della salvezza. Qui, tutto, anche le situazioni più angosciose escono dai contorni del puro dato di fatto. Non sono pietre sulle quali gli uomini inciampano nel loro cammino quotidiano senza un motivo e sulle quali ogni volta rischiano di annullarsi.

Sono il soldo della salvezza,

come lo sono tutte le altre facce del vivere. «Non si spiegherebbe altrimenti» dice don Fuschini «la grande abilità di Guareschi nel deporre, nonostante tutto, in ogni suo racconto il seme del sorriso. Non era solo abilità letteraria. Era anche abilità teologica e abilità umana. La controprova la si vede in tutta la sua vita. Basta leggere le pagine che scrisse da detenuto prima nei lager tedeschi e poi nelle prigioni italiane. Ci sono tanta dolcezza e tanto calore da squassare il cuore. La stessa dolcezza e lo stesso calore che mise nelle storie di don Camillo. Tanta roba, forse troppa per essere capita tutta d’un fiato. E forse è bene che qualcuno cominci seriamente a farne l’inventario.»

Il senso del dialogo Don Antonio Mazzi

Non è troppo complicato scovare don Antonio Mazzi. È vero che lui gira come una trottola per l’Italia e che, appena ne sente la necessità, piomba in televisione. Però basta aspettare con un po’ di pazienza nella sede della sua comunità, ai margini di Parco Lambro

a Milano, e

lui arriva. La comunità Exodus è fatta da un gruppo di cascine ristrutturate. L'ambiente trasmette subito un senso di serenità e viene difficile pensare che proprio lì transitino ragazzi con bagagli fatti di drammi più grandi di loro. : Don Antonio ci si muove a suo agio. E difficile stabilire quanto dipenda dal carattere e quanto dall’esperienza di anni vissuti rincorrendo i giovani caduti nella droga e nell’emarginazione. Comunque, questo prete dà subito l'impressione di essere uno che non si stupisce di nulla. Così non trova niente di strano in una domanda buttata lì a bruciapelo su don Camillo. «Avrei bisogno di un po’ di tempo per pensarci con calma» dice. «Però posso dire subito che mi sono sempre rimasti nel cuore quei suoi dialoghi col Cristo. È inutile girarci troppo attorno. Gesù Cristo rimane sempre l'interlocutore principale per un uomo e, a maggior ragione, per un prete. Questo fatto Guareschi lo aveva in testa ben chiaro. Ma sicuramente non si limitava a quello. Lo metteva anche in pratica. Non vedo un’altra 174

spiegazione per l’incisività e l’essenzialità che corre in tutti i discorsi tra Cristo e don Camillo. «Lui diceva che, alla fine, la voce del Signore era quella della sua coscienza. Allora doveva avere in quella sua coscienza qualcosa di speciale. A suo modo doveva conoscere bene i preti e conoscere bene la Parola di Dio. Perché raramente ho conosciuto un prete che potesse avere col Cristo dialoghi tanto franchi, tanto limpidi e tanto densi di contenuto come quelli di don Camillo.» Per quanto guardi in molte direzioni su e giù per l’opera di Guareschi, quando don Mazzi torna a parlare di Mondo piccolo finisce ancora sui colloqui tra il pretone della Bassa e il Crocifisso dell’altar maggiore. L'orizzonte della sua lettura dell’opera guareschiana, si capisce subito, è quello. Ogni passo lo immerge in quel fondale pitturato a tinte decise che sente congeniale al suo essere prete. «La cosa migliore da fare» spiega «è che io cerchi di buttar giù un mio colloquio col “mio” Cristo. Così vediamo quanto don Camillo mi trovo dentro il cuore. Sarà unasorpresa anche per me.» É sicuramente una lettura originale delle storie di Mondo piccolo. Ma vale la pena di seguirla fino in fondo perché fa toccare con mano quanto l’opera di Guareschi sia viva anche dentro un sacerdote di oggi. Alla fine, l’operazione risulta meno difficile del previsto. Una volta ingranata la marcia, don Antonio non si ferma più e i colloqui diventano parecchi. I due riportati in queste pagine sono solo una piccola parte. Il primo è una riflessione sul significato dell'essere prete. Il secondo è lo sfogo di un uomo che sente crescere la difficoltà di ancorare il mondo dei giovani a dei valori forti.

«Caro Gesù, bisogna che ci spieghiamo su un discorso che a molti non sembra andare troppo a genio. Ti sarà magari un po’ antipatico, ma, come

sai, da un po’ di

tempo vado in televisione. Specialmente a una trasmis175

sione della domenica pomeriggio che si chiama “Domenica in”. «E una specie di contenitore, come lo chiamano gli addetti ai lavori, dove c’è dentro un po’ di tutto. E se,

per caso, ci hai dato una sbirciatina, avrai visto che non è una cosa così sconveniente come dicono. «Però qualcuno mi ha tirato le orecchie. Prima qualche giornale cattolico. Poi una bella fila di fedeli. Tutti vorrebbero che io lasciassi la televisione dove sta e mi mettessi invece sul pulpito a fare il prete come Dio comanda. «Tu, però, mi conosci. Sei stato Tu a tirarmi fuori

dal guscio e a mandarmi sulle strade, sulle piazze, sui marciapiedi. Lo sai che se ora mi metto dentro quella scatola parlante lo faccio sempre pensando a quello che mi chiedi Tu. Io non sono mai stato bravo a tenere il gregge che è entrato in chiesa per conto suo. Ho sempre preferito correre dietro quelle pecorelle che prendono qualche sbandata. E se vado in televisione lo faccio per portarne a casa ancora qualcun’altra. Ma mi pare proprio che ora mi debba dare una mano anche Tu. «Io non so fin dove posso arrivare con la mia testa di prete da strada e di contadino veronese. Capisco che noi veronesi

abbiamo

tutti, come

si dice dalle nostre

parti, una rama in più. Insomma, che siamo un po’ matti. Ma Tu mi conosci. Hai guardato in ogni angolo del mio cuore. Io sono lì solo per dare qualche pedata nel sedere a qualche pecorella e spingerla dalla tua parte. Poi lo sai Tu quello che devi fare. Io sono troppo poco per andare avanti. Mi basta ricordare che esistono i preti a quella gente che, magari, nella sua vita non ha mai

detto neanche un’Ave Maria. «Però è dura tirare avanti prendendo botte tutti i giorni. Da destra e da sinistra. Da sopra e da sotto. E troppo spesso mi capita di sentirmi solo e di sentirmi stanco. Tu lo sai quanto è brutto per un prete sentirsi solo e stanco. Se non rispondi neanche Tu, finisce che un povero sacerdote come me non capisce più che cosa deve fare. Non sa più distinguere quello che è giusto da quello che è sbagliato.» 176

«Caro

don Antonio,

se sei arrivato fino in televisione

non è merito e non è neanche colpa tua. Se mi tocca guardarti la domenica pomeriggio in quella scatola, invece che su un pulpito, non succede per caso. Adesso che la frittata è fatta, vorresti sapere da dove è saltata

fuori quell’idea. Lo sai bene che il nostro Padre che è nei cieli non fa mai niente a vanvera. Lo sai anche tu che, dove non ce lo aspettiamo, è lì che c’è il nostro Pa-

pà. Specialmente nelle cose più piccole. Allora, se qualcuno che conta alla televisione ha pensato al tuo nome, non devi darti troppa pena. Se gli è venuta in testa quell’idea, ora cerca di metterla a frutto il meglio possibile. «Certo che quando il Padre pensa a te non può stare molto tranquillo. Diciamolo tra di noi, qualche volta lo hai ficcato in qualche bel pasticcio. Però devi pensare che tra un richiamo e l’altro, tra una tirata d’orecchie e l’altra, lassù il nostro Padre ti è vicino.

«Se ogni tanto ti invito a recitare il Padre nostro è perché mi sembra di sentirlo proprio qui accanto. E allora vorrei che lo ascoltassi anche tu. «Perché, vedi, l'importante è che tu pensi sempre a Lui. Anche se ti scappa qualche parola di troppo, pensa che il succo di quello che devi dire te lo suggerisce Lui. Basta solo che tu sia sempre te stesso e sappia ascoltare. Ricordati che sei una voce che grida nel deserto. Ma pensa che sei, e sarai, sempre

e soltanto una voce. Ac-

contentati di diminuire, perché è nostro Padre che deve crescere. Accontentati di provocare, perché è nostro Padre che raccoglie i frutti. «E accontentati anche quando nostro Padre adopera qualche giornale o qualche lettera per farti una ripassatina. Ti mette in guardia contro i pericoli della strada che hai scelto. Sappi che è una strada piena di trabocchetti. E un sacerdote deve stare più attento di altri a non caderci dentro. Ma non preoccuparti. Dio ha bisogno anche di un prete come te, che magari conta poco davanti agli uomini.

Ma davanti al Signore conta uno,

come tutti gli altri.» 177

La trascrizione di questo dialogo non rende ragione dell’atmosfera in cui don Mazzi lo ha detto. Sorprende parecchio il suo tono sommesso se si pensa al don Mazzi della televisione. Ma sorprende ancora di più il fatto che il tono cali lungo il discorso. Fino a diventare quasi un soffio quando questo sacerdote dice di aver timore di sentirsi stanco e solo. Poi cambia ancora quando don Antonio immagina quello che potrebbe rispondergli il «suo» Cristo. Ma non prende mai il piglio quasi trionfale di chi l’ha scampata ancora una volta. Riflette invece il tratto deciso del volto di un uomo che si sente ristabilito nell’amicizia. Non è il caso di instaurare paragoni con gli scritti di Guareschi. Però vale la pena di rilevare che il metodo del colloquio tra il sacerdote e Cristo è ricco di frutti. Tanto ricco che, da semplice forma, diventa sostanza e

vita. _ «E qui, secondo me,» spiega don Mazzi «la grandezza di don Camillo. I suoi dialoghi col Signore mostrano tutta la sua maturità di prete. Mostrano che ha capito cosa sta al fondo del suo cuore e cosa sta al fondo della sua fede. Soprattutto ha capito che cuore e fede possono parlare tra di loro. Del resto il prete di Guareschi lo mostra in tutto quel che fa. Certo, è anche un uomo di preghiera. Ma non solo. O meglio, il suo pregare non si ferma a qualche formuletta. Usa tutto il suo essere. Qui siamo ormai fuori dalla letteratura. Ma non perché siamo un passo indietro. Piuttosto perché siamo almeno un passo avanti. Siamo nel pieno della vita. Lo dimostra il fatto che stiamo parlando di don Camillo come fosse un prete in carne e ossa e non una creatura fatta di parole.» Se si parla della vita, con don Mazzi il discorso finisce per sterzare decisamente sui giovani. Sono il suo cruccio di prete e di uomo del suo tempo. Possibile che tanti ragazzi del giorno d’oggi, si chiede, gettino volentieri il cervello e l’anima alle ortiche? Possibile che non si possa far nulla per impedirlo? Anzi per insegnare loro che stanno commettendo il peggiore dei peccati? Per178

ché, tirate le somme, in tal modo rinunciano alla vita. E

con chi può sfogarsi un povero prete che si trova in mezzo al guado se non con il Cristo?

«Caro Gesù, bisogna che una volta Tu ti prenda la briga di venire con me in una discoteca. Tu hai capito, più o meno, che cosa è una discoteca. Hai capito che cosa succede

lì dentro la sera del venerdì, del sabato, della

domenica. Tutti questi giovani che una volta venivano all’oratorio e si impegnavano a mettere insieme qualcosa di utile... Adesso,

caro

mio,

arrivati

a quattordici,

quindici anni si ammucchiano dentro le macchine per fare la notte intera a ballare a destra o a sinistra. Tutti dentro a questa bestia che si chiama discoteca. Questa fabbrica di soldi. Questa specie di tabernacolo laico in cui si trova di tutto, dove bisogna assolutamente che un giovane vada altrimenti lo prendono per uno stupidotto, per un mezzo fallito.

«Avrai anche Tu i tuoi pensieri su queste cose. Non te ne accorgi quando magari vengono ad accendere una candela per qualche morto? Non te ne accorgi quando ti passano lì sotto stravolti? «Cosa dobbiamo fare? Lasciamo correre e continuiamo a perdonare senza fare niente? O forse io sono un vecchio prete che non capisce più niente? Ma non si può neanche continuare soltanto a portare pazienza.» «Caro don Antonio,

non

si tratta di stare ad aspettare.

Bisogna muoversi molto prima di quello che stai facendo tu. Bisogna costruire delle basi solide per i giovani da questa parte del fossato. Un prete serio queste cose dovrebbe farle senza stare ad attendere troppo. Non si devono creare dei muri o delle gabbie per i ragazzi. Bisogna insegnare loro cosa è la vita. E, soprattutto, bisogna insegnare loro che dentro ogni vita c'è un disegno più grande. Bisogna insegnare che l’armonia del mondo ha dentro qualcosa di misterioso che non può essere svelato tutto d’un colpo. «Questi ragazzi, una volta smesso di essere bambini 179

pensano di avere il mondo in mano. E invece sono ai primi passi. È lì che devi stare tu, don Antonio. badare a tenerli per mano in quei primi passi verso ta e verso il mistero. «E necessario insegnare loro fin da piccoli che

solo Devi la viil Si-

gnore, in fondo, è uno simpatico, uno che sta dalla loro

parte. Insegnargli a recitare l’Ave Maria o il Padre nostro a modo loro. Vedrai che qualcuno non sentirà più il bisogno di scappare. «Io ti ho messo a fare il prete perché tu facessi il tuo dovere. Non per sentirti brontolare quando le cose non vanno bene. Mi stai diventando un po’ pantofolaio, don Antonio.

E, se ti volti indietro, vedrai che qualche bel-

l’errore lo hai fatto pure tu. «Adesso va di moda la parola “prevenzione”. Significa soltanto che se nei giovani non ci metti qualcosa di buono, rischiano di farsi riempire di stupidaggini dal primo che passa. E lo sai bene quanti brutti soggetti circolano al giorno d’oggi. «Non puoi maledire le discoteche e poi startene tranquillo e beato in casa tua la sera, a guardare il televisore o a chiacchierare con gli amici. Fa’ qualcosa. Metti su un cantiere di anime. Non devi stare troppo a pensare ai debiti o al fatto che all’inizio potrai avere attorno quattro ragazzi invece che quattrocento. «E ora che la smetti di fare il prete brontolone. I giovani si salvano soltanto rimboccandosi le maniche e costruendo. Bisogna aiutarli a costruire le loro persone. E bisogna costruire l’ambiente in cui le loro persone possano vivere. Bisogna costruire da questa parte del fosso, don Antonio. Anche se è terra dura e costa più fatica. Per costruire sulla terra molle non servono i preti. Non ci si spaccherebbero abbastanza le ossa per conquistarsi un angolino nel Regno dei cieli. «Buona notte, don Antonio.»

Guareschi, in Don Camillo e î giovani d'oggi, aveva mandato il suo parroco a esplorare l'universo giovanile per scoprire cosa Vi si agitasse dentro. 180

«Non fu certo difficile per lui» dice don Mazzi. «Quel suo Mondo piccolo sembrava fatto apposta per i ragazzi. Probabilmente ci hanno pensato in pochi, e chi non lo ha fatto ha sbagliato. Ma dentro quel mondo c’era tutto quanto un giovane ambisce portare nella sua nicchia. Smessi i panni del ragazzino, il giovane vuole partire per conto proprio alla scoperta del mondo. E spesso lo fa ritagliandosi un angolo tutto suo. Lì dentro spazio e tempo acquistano dimensioni diverse da quelle solite. Proprio come

nelle storie di Guareschi, dove, ol-

tre a ciò, si trovano princìpi religiosi e morali precisi e inequivocabili. E poi, quel modo di raccontare sembra fatto apposta per piacere a chi si apre all’avventura della vita.»

Questa interpretazione della scrittura guareschiana si situa nel cuore della problematica giovanile. E proprio in uno dei punti più delicati del passaggio tra adolescenza e giovinezza: il mutamento del linguaggio e, insieme, il suo continuo logoramento. La lingua usata dai giovani è alla continua ricerca di nuove immagini, di nuovi simboli, di nuove espressioni.

In questa fase, il ragazzo ritorna forzatamente sul periodo della sua infanzia. Ne saccheggia tutto quanto è possibile. Ma non sempre riesce a dare un significato compiuto ai miti e ai simboli che vi ha ritrovato. Rischia di rimanerne prigioniero. Il compito di chi gli sta vicino è quello di aiutarlo a rendere fecondo tutto il materiale recuperato dalla prima età della sua vita. Bisogna fare in modo che lo trascini verso gli altri e verso il futuro. Dal punto di vista letterario, la costruzione di Mondo piccolo è è anche questo. È un saccheggio spietato dell’infanzia investito sulla pagina e sul futuro della gente che vi viene raccontata. «È anche qualcosa di più» spiega don Antonio. «O meglio, può anche avere un valore pedagogico. Può spiegare come avviene l'apertura al mondo. Perché lì c’è dentro veramente tutto. C°è il Signore, ci sono i preti e ci sono i comunisti, ci sono i buoni e ci sono i fara181

butti. C'è tutto il sapore della vita. E c’è anche tutta la fatica di vivere che hanno provato le generazioni passate. «I giovani d’oggi hanno bisogno di sapere che i loro padri hanno fatto veramente fatica a vivere. Fatica fisica, intendo. Era dura, ai tempi raccontati da Guareschi e anche un po’ oltre, tirare avanti. Era dura essere prete ed era dura essere comunista. Incontrare in un libro gente che lo è fino in fondo con forza, con coerenza e con la follia che viene solo dalla speranza e dalla fede senza limiti fa solo bene. «In quei racconti c’è la serietà del vivere. E quando una persona prende la vita da quel verso non può buttarla via. Uno non getta per strada neanche una briciola del pane che ha conquistato con le unghie. «Ecco, io penso che i nostri ragazzi dovrebbero fare un po’ più di fatica. Anzi, un bel po’ di fatica in più rispetto a quella che noi oggi riserviamo loro. E allora ci penserebbero due volte prima di gettarsi via. E non è tutto qui. Quella fatica diventerebbe benedetta perché gli farebbe girare la faccia verso Dio. Gli farebbe intuire che il mondo è retto da un disegno e che quel disegno non è il loro. È il disegno di uno che li ama oltre misura.»

In altre parole, è difficile, oggi, trasmettere ai giovani le verità e le esperienze essenziali per affrontare la vita. Non esiste più quella che in tutte le culture, per millenni, è stata l’iniziazione. Vale a dire l’insegnamento del corretto rapporto con se stessi e col sacro. La rivelazione dell’esistenza di un superiore ordine del mondo. Solo dopo l’iniziazione un giovane poteva dirsi un uomo intero. Nelle società complesse come quella occidentale, invece, il meccanismo

della trasmissione

culturale e reli-

giosa si è interrotto. Così il giovane è esposto in maniera pericolosa alla mancanza di senso e all’impossibilità di attingere alla memoria delle generazioni passate. «Questi rischi non sono neppure ipotizzabili nel mondo di Guareschi» spiega don Mazzi. «Basta pensare 182

ai racconti in cui compaiono i bambini. Non ce n’è mai uno in cui non venga fuori in tutta la sua forza un insegnamento. Penso, per esempio, al ragazzino che arriva dalla città perché è fuggito da una casa in cui volevano farne a tutti i costi un genio. Lui senza neppure saperlo si infila nell’officina di Peppone e, al momento giusto, senza che nessuno gli dica nulla, gli passa la chiave giusta. E allora Peppone smette un momento di lavorare e non ha dubbi, quel ragazzino sarà un grande meccanico. «Non c’è bisogno di fare discorsi troppo complicati. Il senso della vita, il disegno di Dio sono anche dentro

quel gesto che rivela il grande meccanico. Perché la saggezza, alla fine sta proprio lì. Sta dove è sempre stata da quando c’è il mondo: fare quello che Dio ha progettato per noi.»

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