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Italian Pages 1315 Year 2008
FACOLTÀ DI SCIENZE DELL’EDUCAZIONE UNIVERSITÀ PONTIFICIA SALESIANA
DIZIONARIO DI SCIENZE DELL’EDUCAZIONE a cura di JOSÉ MANUEL PRELLEZO GUGLIELMO MALIZIA CARLO NANNI Seconda edizione riveduta e aggiornata
LAS - ROMA
Istituzione Promotrice Facoltà di Scienze dell’Educazione Università Pontificia Salesiana di Roma
Coordinatore Prellezo José Manuel Comitato di Redazione Malizia Guglielmo Nanni Carlo Prellezo José Manuel Comitato Scientifico Bay Marco Bissoli Cesare Fizzotti Eugenio Macario Lorenzo Malizia Guglielmo Nanni Carlo Pellerey Michele Prellezo José Manuel Comitato Edizione CD-ROM - On line Bay Marco Cangià Caterina Prellezo José Manuel Zanni Natale
© 2008 by LAS - Libreria Ateneo Salesiano Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1 - 00139 ROMA Tel. 06 87290626 - Fax 06 87290629 e-mail: [email protected] - http://las.unisal.it ISBN 978-88-213-0670-4
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Elaborazione elettronica: LAS Stampa: Tip. Abilgraph - Via Pietro Ottoboni 11 - ROMA
PRESENTAZIONE
1. Come afferma la Commissione Internazionale dell’Unesco sull’educazione per il XXI secolo, «di fronte alle molteplici sfide del futuro, l’educazione appare come una carta vincente indispensabile per permettere all’umanità di progredire verso gli ideali della pace, della libertà e della giustizia sociale». Peraltro, rispetto alle sue tradizionali funzioni, l’educazione si trova oggi in Italia, in Europa e nel mondo intero, di fronte ad uno scenario radicalmente diverso, quello cioè della società della conoscenza e dell’informazione, ma anche quello della società complessa e della società pluralistica e multiculturale, della mondializzazione del mercato e della globalizzazione dei rapporti e della comunicazione. Da una parte, le dinamiche sottese a questi cambiamenti hanno accresciuto enormemente le opportunità di accedere all’informazione e al sapere; dall’altra, hanno comportato mutamenti profondi nel mondo della produzione e richiedono importanti adattamenti sul piano delle competenze e della gestione dei processi. Ma parallelamente diffondono insicurezza, incertezza, angoscia, chiusure reattive, fondamentalistiche e producono nuove forme di emarginazione ed esclusione sociale per gruppi consistenti della popolazione. L’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione origina spinte contrastanti: moltiplica le opportunità di apprendimento, di informazione e di formazione e creazione di nuove forme di analfabetismo; ma genera anche consumo passivo, omologazione culturale, relativismo etico. Il non facile clima etico-religioso non solo rende difficili comportamenti sociali eticamente validi ma rende pure difficoltosa una vita religiosa interiormente profonda e socialmente impegnata, come pure la crescita e l’educazione a una vita di fede sentita e motivata. La crisi dei costumi e dei convincimenti etico-religiosi sembrano porre in questione l’essere stesso dell’uomo, ingenerando in molti la grande tentazione del fatalismo e il senso di impotenza di fronte ai problemi estremamente complessi che superano noi tutti. D’altro canto negli ultimi decenni si è prodotta una profonda rivoluzione silenziosa della mentalità e delle relazioni interpersonali, che ha dato largo spazio ai bisogni fondamentali, ai desideri e alle aspirazioni profonde 5
PRESENTAZIONE
dell’esistenza soggettiva e comunitaria. La ricerca universale della giustizia e della pace è nei cuori e nella mente di tutti. L’impegno solidale è sentito come il corrispettivo umano della interdipendenza mondiale dell’esistenza individuale e comunitaria. Scoprendosi solidali tra di loro, i nostri contemporanei considerano sempre più intollerabile il fatto che la miseria coabiti con l’opulenza. Più che mai la difesa dei diritti umani appare come una esigenza e un segno di liberazione. I nuovi rapporti uomo-donna, e conseguentemente le relazioni di coppia e quelle genitoriali e familiari, costituiscono anch’essi una svolta culturale di portata storica. 2. In questo quadro contestuale, per tanti versi nuovo e problematico – come ha ricordato anche recentemente papa Benedetto XVI (11 giugno 2007) – molti parlano di «emergenza educativa» e della necessità di una «nuova paideia» adeguata e all’altezza dei modi di vita individuali e collettivi dell’esistenza attuale e futura. Ciò chiede previamente di ridefinire anche le finalità dell’educazione, pur in continuità con la tradizione della paideia classica e cristiana, che prospettava come fine fondamentale dell’educazione la formazione di persone capaci di giudicare con senso critico e con libertà e d’inserirsi nella società con responsabilità e solidarietà. Competenza professionale, capacità relazionale e formazione umanistica devono andare insieme. Come afferma il Rapporto Delors, il sapere e il saper fare si debbono coniugare con il saper essere e il saper vivere insieme agli altri. Quest’ultimo aspetto, vale a dire la dimensione sociale della formazione e dell’educazione, si carica di un’urgenza particolare in un mondo in cerca di giustizia e di partecipazione universale alla cultura. In tal senso il servizio educativo alle persone viene ad essere anche un fattore di sviluppo e di promozione per l’insieme della società. In questa linea, una politica educativa, rispettosa del pluralismo culturale, riserverà un luogo legittimo all’insegnamento religioso e alla formazione morale. Sul piano strategico anzitutto si dovrà puntare alla realizzazione di una sinergia, operando in rete tra tutte le forze positive in gioco, in modo da assicurare e rendere effettivo il diritto di tutti all’ apprendimento per tutta la vita, come dichiarava il Rapporto dell’Unesco sull’educazione del 2000. Famiglie, Società civile, Stato, Chiesa hanno da collaborare sinergicamente. L’esperienza dimostra che nessun progetto educativo può ottenere successo senza la partecipazione delle famiglie con la loro originaria missione educativa, come anche senza l’opera degli insegnanti competenti e delle forze vive di una cultura. In questo contesto la stessa azione educatrice della Chiesa e l’educazione alla fede costituiscono un apporto efficace ad una educazione integrale aperta e motivata: traendo con saggezza dal suo «tesoro» di tradizione educativa e dal suo patrimonio culturale e di fede, «cose nuove e cose antiche» e promuovendo una significativa coniugazione di esperienza, cultura, fede, vita. 6
PRESENTAZIONE
A sua volta, la tradizione pedagogica salesiana suggerisce, come metodologia fondamentale della relazione educativa, una pratica coniugazione di ragionevolezza culturale e umana, di orientamento valoriale significativo e di amorevolezza e vicinanza affettuosa e autorevole: oltre ogni lassismo e permissivismo, ma anche oltre ogni autoritarismo costrittivo e ogni protezionismo possessivo. 3. Di fronte alla «emergenza educativa», gli educatori di professione e le istituzioni educative possono incontrare difficoltà nell’orientarsi nel vasto campo degli studi, delle ricerche e delle esperienze in atto. Nella sua prima edizione, il Dizionario di Scienze dell’Educazione ha già dimostrato, concretamente, di essere un valido strumento che ha messo a disposizione non solo degli specialisti ma di tutti gli interessati il significato dei termini fondamentali del «discorso» educativo e pedagogico, la conoscenza degli autori e delle diverse correnti di pensiero e le esperienze e strategie educative più rilevanti. Inoltre, ha fatto vedere di poter «coniugare serietà scientifica e comunicazione divulgativa, conoscenza teoretica e immediatezza pratica, completezza sostanziale ed essenzialità propositiva», come affermava la presentazione alla prima edizione del mio predecessore di venerata memoria don Juan E. Vecchi. Unisco, pertanto, le congratulazioni alla Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana, che lo ha voluto e realizzato, all’augurio per tutti coloro che lo useranno, di trovare nel Dizionario indicazioni, stimoli e orientamenti teorici e operativi in vista di un’educazione valida, efficiente ed efficace. Sarà un modo di condividere la diffusa esigenza umanistica del nostro tempo di prendersi cura e di contribuire fattivamente alla promozione di una vita umanamente degna e di uno sviluppo sostenibile e solidale per tutti e ciascuno, per gli individui, i gruppi sociali, i popoli, l’umanità intera, presente e futura: in primo luogo per i giovani che hanno iniziato a vivere e hanno da affrontare le complesse sfide che si presentano loro in questi non facili inizi del terzo millennio,
Pascual Chávez Villanueva
Gran Cancelliere dell’Università Pontificia Salesiana Roma, 31 gennaio 2008
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PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE
La prima edizione del Dizionario di Scienze dell’Educazione (DSE) vide la luce nel mese di gennaio del 1997; esaurita questa edizione da qualche tempo, i docenti della Facoltà di Scienze dell’Educazione (FSE) dell’Università Salesiana di Roma (UPS) hanno deciso di rispondere alle ininterrotte richieste da parte di studenti, studiosi e persone di cultura in generale, interessati ad usufruire di uno strumento agile e documentato nell’ambito delle scienze pedagogiche. 1. La deliberazione di portare a termine l’iniziativa è stata preceduta da un periodo di studio e di confronto attorno ad alcune bozze di progetto elaborate dal Comitato Scientifico e dal Comitato di Redazione del DSE. Scartata subito la proposta di pubblicare una semplice ristampa del volume, è stata privilegiata quella di approntare una nuova edizione riveduta e aggiornata, nella quale tenere in conto gli sviluppi delle scienze dell’educazione nel decennio trascorso. La laboriosa opera di revisione e di aggiornamento da parte dei collaboratori del DSE è cominciata nei primi giorni dell’anno 2007. Il lavoro si è realizzato seguendo i criteri concordati nell’ambito della FSE, tenendo presenti le indicazioni dei responsabili dell’Editrice LAS e il parere di esperti esterni interrogati sull’argomento, nonché le osservazioni e i suggerimenti giunti dai lettori. 2. D’accordo con un parere unanimemente condiviso, la nuova edizione del DSE – riveduta e aggiornata – mantiene sostanzialmente l’impostazione generale e i tratti caratteristici della prima. L’impegno di revisione e aggiornamento ha comportato, tuttavia, diverse operazioni di non poco significato: a) Inserimento di nuove voci – autori e temi – di particolare rilevanza nel clima culturale attuale; in questa seconda edizione le voci autonome trattate direttamente sono 983 (78 in più che nella prima edizione); i rimandi a voci collettive sono 605 (84 in più che nella edizione precedente). b) Rielaborazione di alcuni testi: riguardanti un piccolo numero di voci segnate dal passo dei tempi. c) Rilettura di tutti i testi, che ha comportato: l’introduzione di lievi ritocchi, aggiunte e correzione di eventuali sviste, refusi e/o errori sfuggiti nella prima edizione. d) Aggiornamento della bibliografia: inserimento di alcuni titoli di opere di particolare importanza o attualità e soppressioni di quelle meno significative o datate. 9
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3. La revisione e l’aggiornamento delle singole voci sono stati affidati di norma ai rispettivi autori. La rilettura e revisione di voci redatte da persone decedute, o in qualche modo impossibilitate, è stata invece affidata a un esperto nel corrispondente settore di specializzazione (a C. Bissoli, le voci di G. Groppo e di G. Stachel; a F. Casella, quelle di G. Flores d’Arcais; a C. Coggi, quelle di L. Calonghi; ad A. R. Colasanti, quelle di H. Franta; a S. Chistolini, quelle di M. Laeng; a R. Frisanco, quelle di L. Tavazza; a L. Gallo, quelle di J. E. Vecchi; a C. Nanni, quelle di P. Gianola; a V. Orlando, quelle di M. Groppo; a S. Thuruthiyil, quelle di G. Kuruvachira; a G. Vettorato, quelle di A. Ellena). In altri casi particolari, è intervenuto il Comitato di Redazione. Gli interventi fatti nelle voci redatte da autori scomparsi prima del mese di gennaio 2007, si sono limitati però a ritocchi di carattere tecnico e/o ad aggiunte di qualche dato o pubblicazione recente. Allorché si è ritenuto necessario un intervento più consistente, la voce appare firmata anche dall’autore della revisione. I collaboratori che hanno partecipato alla redazione dei testi, nel suo insieme, sono 184 (24 in più che nella prima edizione), appartenenti a 15 diversi Paesi (europei, africani, asiatici e americani). 4. Al volume è allegato un CD-ROM per la consultazione off-line. Nel supporto digitale ciascuna voce o rimando è raggruppata per lettera in ordine alfabetico, con collegamenti ipertestuali diretti al testo della voce identico alla versione cartacea. È una risorsa ulteriore che facilita la consultazione e consente un accesso rapido e diretto alle singole voci o ai rimandi. Un motore di ricerca interno al CDROM restituisce risultati di ricerca in base ad una indicizzazione semplice, ma efficace di tutte le voci. Questa novità è stata aggiunta per favorire studenti, professori, ricercatori e lettori che desiderano un approccio mirato e analitico con il contenuto. Il DSE prossimamente sarà ulteriormente arricchito da un sito internet (http://dizionariofse.unisal.it) dedicato soprattutto ai redattori delle voci e a tutti i visitatori (con privilegio d’accesso concordati) che si interessano alla «vitalità», alla crescita e spesso alla trasformazione dei significati che molti termini nel tempo subiscono e che sono tipici delle aree del sapere delle scienze dell’educazione. Questa versione on-line del DSE desidera essere un tentativo di raggiungere molte persone interessate all’educazione e offrire un grado di interattività particolare che può avvenire tra gli attori della scienza e della pratica educativa e i contenuti. Il lettore può trovare altre indicazioni sull’impostazione e sui destinatari del DSE, allo stesso tempo che indicazioni e suggerimenti per un uso più proficuo del medesimo, nell’Introduzione della prima edizione, che si riproduce, con pochi e leggeri ritocchi, nelle pagine seguenti. 5. Questo lavoro non avrebbe visto la luce senza la collaborazione di molti. Oltre ai nomi testé citati e quelli degli estensori delle singole voci e dei membri del Comitato di Redazione e del Comitato Scientifico (che sono registrati nei luoghi pertinenti) andrebbe fatto qui un lungo elenco di persone che, in forme e a livelli 10
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differenti, hanno dato il loro valido contributo. Tuttavia è giocoforza limitarsi a segnalare solo alcuni nomi: Rosetta Mastantuono, Nicola Campanale, Piero Pastoretto, Elias Ferreira, Silvana Bisogni, Rosanna Giacometto, Catia Milone, Matteo Cavagnero. Rosetta Mastantuono ha collaborato nell’archiviazione dei testi e nella revisione formale delle voci. A tutti un dovuto e vivo ringraziamento. José Manuel Prellezo Coordinatore
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INTRODUZIONE
La decisione di pubblicare un Dizionario di Scienze dell’Educazione (DSE) da parte della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Salesiana di Roma non è stata scontata né semplice. Essa è maturata attraverso un lungo e laborioso cammino di studio, di dialogo e anche di confronto con colleghi di altre Università. Due fatti contribuirono a superare le prime perplessità. Un attento esame della bibliografia italiana ed estera più recente portò a individuare spazi scoperti per una pubblicazione di questo genere nell’ambito dell’educazione e della scuola. Una successiva ipotesi di progetto trovò il riscontro favorevole anche da parte di un rappresentativo gruppo di esperti di differenti orientamenti ideologici. 1. Destinatari e impostazione generale Destinatari prioritari del DSE sono gli studenti di scienze dell’educazione delle Facoltà universitarie e delle Scuole superiori. Il DSE si rivolge anche ai docenti, agli educatori, ai genitori e, in generale, alle persone interessate ai problemi educativi e scolastici – giornalisti, politici, sindacalisti – a diversi livelli e in differenti contesti. Ci si augura inoltre che i ricercatori e gli studiosi dell’educazione possano trovare nell’opera suggestioni e piste feconde di ricerca. Il DSE si propone di essere uno strumento di lavoro e di consultazione seria e scientificamente qualificata. In tal senso intende rendere conto dello stato attuale degli studi e della ricerca relativa all’argomento o soggetto trattato. Vi si tiene distinto ciò che è assodato dal punto di vista scientifico da ciò che è problematicamente aperto o soggettivamente opinabile. Nel pieno rispetto della serietà scientifica, lo stile dei contributi cerca di essere chiaro e semplice, evitando, nella misura del possibile, terminologie eccessivamente specialistiche che solo gli addetti ai lavori potrebbero comprendere. Trattandosi di un dizionario e non di una enciclopedia, si è cercato di far sì che le singole voci fossero essenziali e sintetiche. La breve bibliografia che completa ciascuna voce consente ulteriori approfondimenti. Si tratta, inoltre, di un dizionario di scienze pedagogiche. Di conseguenza, la trattazione si riferisce e si pone nella prospettiva appunto delle scienze dell’educazione, evidenziando la valenza educativa e pedagogica di quanto viene presentato. La sottolineatura degli aspetti 3
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teorici si coniuga con l’attenta considerazione delle possibili realizzazioni nei diversi ambiti attinenti l’educazione. Il titolo dell’opera – Dizionario di Scienze dell’Educazione – mette in risalto questa prospettiva interdisciplinare rispondente ad una determinata scelta epistemologica che ritiene la pedagogia il nome collettivo o meglio l’area culturale e scientifica in cui operano una pluralità di discipline unificate dal fatto di avere un campo comune di indagine (l’educazione), una medesima intenzionalità conoscitiva (un conoscere «scientifico» per l’educazione), un medesimo sviluppo (per problemi, congetture e conferme/falsificazioni), un comune operare (da pedagogisti), pur nella specificità dell’approccio, del linguaggio, delle metodiche e delle culture disciplinari proprie alle «scienze madri» di riferimento. 2. La scelta delle voci In consonanza con tali premesse, il DSE offre un ampio ventaglio di voci, che analizzano il fatto educativo dalle più svariate angolature (filosofica, teologica, storica, antropologica, sociologica, psicologica, biologica, metodologica, giuridica, delle scienze della comunicazione), con il contributo delle scienze formali e delle tecnologie tradizionali e moderne. È pure abbastanza presente l’attenzione ai contesti culturali diversi e alla dimensione internazionale. Di fatto tale pluralità di approcci e ricchezza di prospettiva costituisce, ci sembra, un aspetto importante e caratteristico del presente lavoro. Appunto per questo, allo scopo di garantire un campione di tematiche e di autori veramente rappresentativo, si è curata con particolare impegno la preparazione dell’elenco delle voci. 2.1. Voci tematiche: a) Si è fatto anzitutto riferimento ai termini che appaiono più comunemente nell’ambito della ricerca pedagogica e delle diverse scienze dell’educazione, e, in quanto tali, espressione della più aggiornata cultura pedagogica. b) Si sono introdotte voci riferibili ad ambiti disciplinari diversi o più vasti delle scienze dell’educazione, ma sempre e solo nella misura in cui sono sembrate pedagogicamente ed educativamente rilevanti. c) Oltre ai termini classici si sono tenute in conto le «grandi parole» che provengono dall’attuale dibattito sullo sviluppo, sul sistema sociale di formazione, sul senso e la validità delle strategie educative. d) Particolare attenzione si è anche avuta per i presupposti biologici, antropologici e culturali dell’educazione, dell’apprendimento e della formazione. e) Si rileverà pure facilmente l’ampio spazio dato alle specificazioni disciplinari. f) Nel rispetto del pluralismo ideologico e religioso e della fondamentale autonomia della scienza, si è cercato di contemperare la rilevanza educativa della cultura cristiana con quella delle altre grandi religioni e delle nuove forme di religiosità. 2.2. Voci di carattere storico: a) Sono inseriti persone (pedagogisti ed educatori) e temi significativi dal punto di vista pedagogico. Vengono presentati inoltre autori di più ampio raggio di interesse (filosofico, psicologico, sociologico), quando le loro 14
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idee hanno avuto ripercussione in campo educativo. b) Si è cercato di garantire la dimensione schiettamente internazionale, pur con una maggiore attenzione a temi e autori che hanno avuto uno speciale significato nell’ambito italiano. c) Sono privilegiate le voci collettive (istituzioni, movimenti, periodi storici). d) Per ragioni facilmente intuibili, vengono presentati direttamente solo autori non viventi. Alcuni nomi di studiosi e ricercatori viventi sono inseriti nella trattazione delle tematiche di cui gli autori stessi si sono occupati, apportandovi un significativo contributo. 3. Struttura delle singole voci D’accordo con l’importanza a loro attribuita, le voci sono state classificate in quattro categorie. L’estensione delle voci è stata commisurata alla significatività pedagogica ed educativa degli argomenti, così come sono presenti nella ricerca e/o nel dibattito pedagogico contemporaneo. Come criterio generale, si è preferito limitare quelle di maggiore estensione (16.000 byte ca.) allo scopo di poter inserire nel DSE un numero più rilevante di temi e autori. L’applicazione di tale criterio ha trovato difficoltà pratiche che non sempre si è riusciti a superare in modo soddisfacente. La notevole ampiezza di qualche voce trova, però, un elemento di giustificazione nella pluralità di autori e/o temi trattati in essa, a cui si rimanda nell’elenco generale. Ogni voce ha di norma questa struttura: a) Parte introduttiva: nelle voci tematiche o concettuali, dopo il lemma (o titolo della voce) si offre una sorta di definizione comprensiva delle eventuali diversificazioni di significato del termine. Per gli autori, si indicano l’anno e luogo di nascita e di morte e se ne presenta la qualifica. b) Parte centrale: il contenuto normalmente è articolato in paragrafi numerati e titolati nelle voci di maggior estensione, allo scopo di facilitarne la lettura. Dove si ritiene necessario, viene presentato lo «status quaestionis», segnalando le diverse posizioni e gli eventuali diversi approcci al tema. Non vengono trascurati essenziali rilievi critici e cenni circa la rilevanza storica e di attualità educativa e pedagogica. Per gli autori si danno indicazioni essenziali sulla vita e opere, sul pensiero pedagogico e sulle realizzazioni educativo-istituzionali. Si è prestata attenzione ad un breve bilancio critico, alla rilevanza storica, agli influssi avuti e ad eventuali sviluppi del pensiero. c) Parte bibliografica: essenziale, con sensibilità internazionale, ordinata cronologicamente; limitata alle opere principali, con una funzione di documentazione e di approfondimento. In alcuni casi (per gli autori di maggior rilievo) la bibliografia viene articolata in fonti (opere dell’autore) e studi. 4. Indicazioni per l’uso Di norma si prende come voce ordinatrice il sostantivo (ad es. educazione, scuola, sviluppo) seguito dalle eventuali determinazioni (educazione cristiana, scuola libera, sviluppo morale). Se il lemma è composto di due o più sostantivi, si prende 15
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come voce ordinatrice il termine più specifico (ad es. salute: educazione alla). Opportuni rimandi aiutano a superare possibili ambiguità. Nella stesura del testo e nella presentazione delle fonti e della bibliografia sono state utilizzate abbreviazioni e sigle di uso abbastanza comune. L’elenco delle medesime si trova inserito dopo l’elenco dei collaboratori. Va tenuto presente inoltre che, per evitare ripetizioni non necessarie, il nome delle singole voci è abbreviato – nel testo e nella bibliografia – con la prima lettera del lemma (ad es.: c., al posto di: cultura; s.d.s., al posto di: storia della scuola). I cognomi e nomi degli autori si riportano nella lingua originale. Allorché un autore è noto con un cognome italianizzato (ad es. Comenio), esso viene inserito nell’elenco con un rimando al cognome originale (→ Komenskỳ), con cui l’autore stesso viene trattato. Qualche cosa di analogo si deve dire riguardo a determinate espressioni tecniche che non hanno una precisa e univoca traduzione in lingua italiana. I segni di rimando (→) all’interno di un testo richiamano la voce o le voci in cui si parla esplicitamente di un determinato autore o argomento. Tali rimandi rispondono ad una privilegiata istanza di interdisciplinarità. Si è evitato tuttavia di moltiplicare tali rimandi, soprattutto se si tratta di voci tematiche; e sono evidenziate soltanto quelle che possono essere utili per la comprensione o per l’approfondimento del tema in questione. Evidentemente, il lettore, in base ai suoi interessi di studio e di ricerca, troverà altri collegamenti. Gli indici costituiscono un sussidio utile per la consultazione del DSE. – Indice delle voci: vi sono stati inseriti anche i lemmi che rimandano alla voce/i in cui viene trattato direttamente l’argomento in questione. – Indice dei nomi: vi si riportano soltanto i nomi di persona citati all’interno del testo dei diversi contributi. – Indice tematico: le voci inserite nel medesimo sono ordinate attorno alle discipline che, da prospettive diverse, contribuiscono a illuminare il fatto educativo, e attorno alle principali istituzioni in cui si attua l’opera dell’educazione. Quest’ultimo indice – elaborato in particolare ad uso degli studenti di scienze dell’educazione – vuole essere una specie di guida per uno studio sistematico del DSE. * * * Nonostante l’impegno da parte di quanti sono intervenuti nella preparazione dell’opera, è più che probabile che siano sfuggiti sviste ed imprecisioni, difficilmente evitabili in una pubblicazione con le caratteristiche della presente. Il Comitato di Redazione sarà grato delle osservazioni e suggerimenti che il gentile lettore vorrà fare, e si augura di poter introdurre i necessari miglioramenti in prossime edizioni. Il Comitato di Redazione José Manuel Prellezo Guglielmo Malizia Carlo Nanni 16
COLLABORATORI
Alberich Emilio, Università Pontificia Salesiana - Centro de Estudios Teológicos - Siviglia Álvarez Pedro, Universidad Pontificia Comillas - Madrid Antonietti Daniela, Psicologa - Roma Arto Antonio, Università Pontificia Salesiana - Roma Augenti Antonio, Dirigente Ministero Pubblica Istruzione - Roma Bajzek Joze, Università Pontificia Salesiana - Roma Bay Marco, Università Pontificia Salesiana - Roma Bellerate Bruno Antonio, Terza Università degli Studi - Roma Bergamelli Ferdinando, Università Pontificia Salesiana - Torino Bertagna Giuseppe, Università degli Studi - Bergamo Bertolini Piero, Università degli Studi - Bologna Biancardi Giuseppe, Università Pontificia Salesiana - Roma Bissoli Cesare, Università Pontificia Salesiana - Roma Boncori Giuseppe, Università «La Sapienza» - Roma Boncori Lucia, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Bosco Giov. Battista, Psicologo dell’educazione - Torino Braido Pietro, Università Pontificia Salesiana - Roma Bucci Sante, Istituto Universitario di Scienze Motorie - Roma Bucciarelli Claudio, Fondazione CENSIS - Roma Butturini Emilio, Università degli Studi - Verona Caimi Luciano, Università Cattolica Sacro Cuore - Brescia Calidoni Paolo, Università degli Studi - Sassari Caliman Geraldo, Università - Brasile Calonghi Luigi, Università Pontificia Salesiana - Roma Cangià Caterina, Università Pontificia Salesiana - Roma Caporale Vittoriano, Università degli Studi - Bari Caputo Maria Grazia, VIDES Volontariato Internazionale - Roma Carrozzino Michela, Centro Studi Guanelliani - Roma Casella Francesco, Università Pontificia Salesiana - Roma Castellazzi Vittorio Luigi, Università Pontificia Salesiana - Roma Castelli Daniela, Sociologa - Milano Cavaleri Pietro, Istituto di Gestalt HCC - Ragusa Cencini Amedeo R enato, Università Pontificia Salesiana - Roma Chang Hiang Chu Ausilia, Pont. Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» - Roma Chiosso Giorgio, Università degli Studi - Torino Chistolini Sandra, Università degli Studi - Roma Cicatelli Sergio, Dirigente scolastico - Roma Cives Giacomo, Università degli Studi - Roma Coggi Cristina, Università degli Studi - Torino Colasanti Anna R ita, Università Pontificia Salesiana - Roma 17
COLLABORATORI
Comoglio Mario, Università Pontificia Salesiana - Roma Contini Maria Grazia, Università degli Studi - Bologna Corradini Luciano, Terza Università degli Studi - Roma Costa Giuseppe, Libreria Editrice Vaticana - Città Del Vaticano Crea Giuseppe, Psicologo - Roma Damiano Elio, Università degli Studi - Parma Dazzi Nino, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma De Giorgi Pierino, AGESC Nazionale - Roma Deleidi Anita, Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» - Roma Delgado Buenaventura, Universidad de Barcelona - Barcelona (Spagna) Demetrio Duccio, Università degli Studi - Milano Denicolò Giancarlo, Centro Nazionale di Pastorale Giovanile - Roma De Pieri Severino, ISRE-SISF - Venezia Mestre De Souza Cyril, Università Pontificia Salesiana - Roma De Vivo Francesco, Università degli Studi - Padova Di Agresti Carmela, Libera Università «Maria SS. Assunta» - Roma Ellena Aldo, Centro Studi Valsalice - Torino Erbetta Antonio, Università degli Studi - Torino Farina Marcella, Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» - Roma Farné Roberto, Università degli Studi - Bologna Faubell Zapata Vicente, Universidad Pontificia - Salamanca (Spagna) Felici Sergio, Università Pontificia Salesiana - Roma Ferraroli Lorenzo, Ist. Psicoclinico e di Orient. Professionale - Arese (Milano) Fiore Rosa, Psicologa, Istituto Progetto Uomo, FICT - Viterbo Fizzotti Eugenio, Università Pontificia Salesiana - Roma Flores d’Arcais Giuseppe, Università degli Studi - Padova Franta Herbert, Università Pontificia Salesiana - Roma Frisanco R enato, Fondazione Italiana per il Volontariato - Roma Galino Ángeles, Universidad Complutense - Madrid Gallo Luis, Università Pontificia Salesiana - Roma Gambini Paolo, Università Pontificia Salesiana - Roma Gambino Vittorio, Università Pontificia Salesiana - Roma Garancini Gianfranco, Università degli Studi - Milano García-Verdugo Alberto, Studioso e educatore - Zamora (Spagna) Gatti Guido, Università Pontificia Salesiana - Roma Gaudio Angelo, Università degli Studi - Udine Gennari Mario, Università degli Studi - Genova Gevaert Joseph, Università Pontificia Salesiana - Roma Gianetto Ubaldo, Università Pontificia Salesiana - Roma Gianola Pietro , Università Pontificia Salesiana - Roma Gianoli Ernesto, ISRE - Venezia Giordanella Perilli Gabriella, Università degli Studi - L’Aquila Granese Alberto, Università degli Studi - Cagliari Grillo Piero, COSPES - Torino Groppo Giuseppe, Università Pontificia Salesiana - Roma Groppo Mario, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Gutiérrez Manuel, Psicopedagogista - Roma Hamburger Franz, Universität - Mainz (Germania) Izzo Domenico, Università degli Studi - Firenze 18
COLLABORATORI
K aiser Anna, Università degli Studi - Genova Kuruvachira George, Don Bosco Yuva Parachodini - Bangalore (India) Laeng Mauro, Terza Università degli Studi - Roma La Marca Alessandra, Università degli Studi - Palermo Laneve Cosimo, Università degli Studi - Bari Lanfranchi R achele, Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» - Roma Lasala Fernando J. de, Pontificia Università Gregoriana - Roma Libri Anna Maria, Servizio Sociale Internazionale - Roma Llanos Mario, Università Pontificia Salesiana - Roma Lobefalo Antonio, Università Pontificia Salesiana - Roma Lollo R enata, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Maccario Daniela, Università degli Studi - Torino Macchietti Sira Serenella, Università degli Studi - Arezzo Maíllo José Maria, Psicologo - Madrid (Spagna) Malizia Enrico, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Malizia Guglielmo, Università Pontificia Salesiana - Roma Mantovani Mauro, Università Pontificia Salesiana - Roma Mari Giuseppe, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Marin Maurizio, Università Pontificia Salesiana - Roma Maritano Mario, Università Pontificia Salesiana - Roma Masini Vincenzo, Università degli Studi - Siena Mastromarino R affaele, IFREP Istituto Formazione e Ricerca - Roma Meazzini Paolo, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Messana Cinzia, Università Pontificia Salesiana - Roma Mion R enato, Università Pontificia Salesiana - Roma Montani Mario, Università Pontificia Salesiana - Roma Montesperelli Paolo, Università degli Studi - Perugia Morante Giuseppe, Università Pontificia Salesiana - Roma Nanni Antonio, Pedagogista Centro Educazione alla Mondialità - Roma Nanni Carlo, Università Pontificia Salesiana - Roma Nicoli Dario, Università Cattolica del Sacro Cuore - Brescia Onrubia Luis, Instituto Filosofico Superior - Burgos Orlando Vito, Università Pontificia Salesiana - Roma Ortu Francesca, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Pajer Flavio, Università Pontificia Salesiana - Roma Pasquato Ottorino, Università Pontificia Salesiana - Roma Pazzaglia Luciano, Università Cattolica del Sacro Cuore - Brescia Pellerey Michele, Università Pontificia Salesiana - Roma Peri Calogero, Facoltà Teologica di Sicilia - Palermo Picca Juan, Università Pontificia Salesiana - Roma Pieroni Vittorio, Sociologo - Roma Poláček K lement, Università Pontificia Salesiana - Roma Polizzi Vincenzo, Università Pontificia Salesiana - Roma Prellezo José Manuel, Università Pontificia Salesiana - Roma Proverbio Germano, Università degli Studi - Torino Purayidathil Thomas, Università Pontificia Salesiana - Roma R ansenigo Pasquale, Presidenza Nazionale CNOS/FAP - Roma R ezzaghi Roberto, Seminario Vescovile - Mantova R ibotta Michael, Don Bosco Hall - Berkeley, CA (U.S.A.) 19
COLLABORATORI
R iccioli Emilio, Università Pontificia Salesiana - Roma R icchiardi Paola Università degli Studi - Torino R ighi Laura, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano R ivoltella Piercesare, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Rodríguez Jaime, Universidad Nacional - Santafé de Bogotà (Colombia) Roggia Giuseppe, Università Pontificia Salesiana - Roma Ronco Albino, Università Pontificia Salesiana - Roma Ruffinatto Piera, Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» - Roma Ruiz Berrio Julio, Universidad Complutense - Madrid Salatin Arduino, ISRE-SISF - Venezia Mestre Salonia Giovanni, Istituto di Gestalt HCC - Ragusa Sarti Silvano, Università Pontificia Salesiana - Roma Schepens Jacques, Theologische Fakultät - Benediktbeuern (Germania) Schweitzer Friedrich, Universität - Tübingen (Germania) Scilligo Pio, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Scurati Cesare, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Simoncelli Mario, Università Pontificia Salesiana - Roma Sodi Manlio, Università Pontificia Salesiana - Roma Sopeña Andrés, Universidad Pontificia - Salamanca (Spagna) Spagnuolo Lobb Margherita, Istituto di Gestalt HCC - Ragusa Squillacciotti Massimo, Università degli Studi - Siena Stachel Günter, Universität - Mainz (Germania) Stella Pietro, Terza Università degli Studi - Roma Stella Prospero Tommaso, Università Pontificia Salesiana - Roma Struś Jozef, Università Pontificia Salesiana - Roma Tavazza Luciano Fondazione Italiana per il Volontariato - Roma Thuruthiyil Scaria, Università Pontificia Salesiana - Roma Titone R enzo, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Tognon Giuseppe, Libera Università «Maria SS. Assunta» - Roma Tonelli R iccardo, Università Pontificia Salesiana - Roma Tònolo Giorgio, ISRE-SISF - Venezia Mestre Toso Mario, Università Pontificia Salesiana - Roma Trenti Zelindo, Università Pontificia Salesiana - Roma Trinchero Roberto, Università degli Studi - Torino Troll Christian W., Pontificio Istituto Orientale - Roma Trombetta Carlo, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Turchini Angelo, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Vallabaraj Jerome, Università Pontificia Salesiana - Roma Valle Ángela del, Universidad Complutense - Madrid Vecchi Juan E., Università Pontificia Salesiana - Roma Vettorato Giuliano, Università Pontificia Salesiana - Roma Visconti Wanda, Psicologa - Roma Xodo Carla, Università degli Studi - Padova Zanacchi Adriano, Università Pontificia Salesiana - Roma Zanni Natale, Università Pontificia Salesiana - Roma Zanniello Giuseppe, Università degli Studi - Palermo
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ABBREVIAZIONI E SIGLE
Questo elenco contiene abbreviazioni e sigle generali usate nel DSE. Esso non riprende quelle utilizzate in un determinato contributo e spiegate in loco. Le citazioni di testi biblici sono indicate con le abbreviazioni in uso. All’interno di ogni voce, il titolo della voce medesima (singolare e plurale) è indicato con una sigla che riprende di norma la prima lettera della parola o parole di cui il titolo stesso è composto (ad es., a. per abaco). a.C. avanti Cristo AT Antico Testamento art. articolo bibl. bibliografia ca. circa cap. capitolo cfr. confronta d.C. dopo Cristo D.L. Decreto Legge D.P.R. Decreto Presidente Repubblica ediz. edizione es. esempio etim. etimologia Enc. enciclica fr. francese gr. greco Ibid. Ibidem (sostituisce: titolo di un’opera citata immediatamente prima) Ibid. Ibidem (sostituisce: Città e Editrice citate immediatamente prima) Id. Idem (sostituisce: Nome di un autore citato immediatamente prima)
ingl. inglese ist. istituto it. italiano L. legge lat. latino m. morto n. nato NT Nuovo Testamento por. portoghese s. santo s.d. senza data sec. secolo sp. spagnolo suppl. supplemento tav. tavola ted. tedesco tit. titolo trad. traduzione v. vedi vol. volume voll. volumi
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A ABACO Antico strumento per l’esecuzione di calcoli elementari, da cui deriva il pallottoliere; usato per l’insegnamento dell’aritmetica nelle scuole. 1. Si ritiene che la parola a. derivi dal fenicio abak o dall’ebraico abaq, e che indichi la sabbia sparsa su una superficie per scrivervi sopra. Conosciuto probabilmente dai babilonesi e dai cinesi, questo strumento per calcolare assunse con il tempo l’aspetto di una intelaiatura con dei numeratori scorrevoli. Impiegato ancora in diversi Paesi come Cina, Giappone e Russia. 2. L’a. fu utilizzato da greci e romani, come testimoniano vari scritti di Persio e di Apuleio e anche in Spagna dagli arabi nelle cui scuole, secondo la tradizione, il monaco Gerberto di Aurillac (945-1003), il futuro papa Silvestro II, ne apprese l’uso, e scrisse una Geometria e due opuscoli: Regula de a. computi e Libellus de numerorum divisione. A partire da quel periodo l’uso dell’a. fu introdotto con successo nelle scuole cattedralizie. Durante il sec. XIX l’a. o pallottoliere continuò ad essere utilizzato nelle scuole per insegnare il calcolo intuitivamente. 3. Al posto della sabbia su una superficie liscia, si utilizzava una struttura di legno con dieci fili paralleli, nei quali erano inserite dieci palline che si potevano spostare da un lato all’altro. Il filo superiore rappresentava le unità, il secondo le decine, e così via.
Le cento palline potevano essere utilizzate come unità semplici o come unità di diverso ordine. Per facilitarne l’uso si consigliava di dividere l’a. in due tavole distinte con palline di diverso colore, una per le unità semplici e l’altra per calcoli più complessi. Bibl.: Carderera M., «Ábaco», in Diccionario de educación y métodos de enseñanza, vol. I, Madrid, Hernando, 1858; Boyer C. B., Storia della matematica, Milano, ISEDI, 1976; Picuti E., Sul numero e la sua storia, Milano, Feltrinelli, 1979; García Solano R., Aplicación práctica del ábaco, Madrid, Escuela Española, 1996.
B. Delgado
ABBANDONO SCOLASTICO → Insuccesso scolastico ABBOTSHOLME → Scuole Nuove ABELARDO → Medioevo
ABILITÀ Le a. fanno parte dell’ → intelligenza come componenti ad essa subordinate, distinte tra loro ma correlate, formando il costrutto multidimensionale dell’intelligenza stessa. L’insieme delle a. è sinonimo dell’intelligenza; ad esso viene associato il termine attitudine che rappresenta la potenzialità da sviluppare da parte del soggetto. Sinonimo dell’a. è anche la capacità; nelle a. e nelle capacità vengono distinte le destrezze, composte da contenuti semplici ed eseguite con automatismi. All’a. è associata anche la competenza che 23
ABILITÀ
consiste in conoscenze specifiche complete e ben organizzate; esse sono il risultato della formazione delle a. 1. Struttura. Le a. sono considerate una struttura gerarchica, formata dal vertice dell’a. generale (o intelligenza generale) e dalla base delle a. specifiche. Tra i due termini si situano le aree delle a. più o meno generali, i cosiddetti fattori di gruppo. Questi sono composti da alcune aree di a. come quella verbale, numerica e spaziale. Le tre aree possono essere suddivise a loro volta in a. più specifiche. La stessa a. generale viene suddivisa in a. cristallizzata e fluida. L’a. cristallizzata è il risultato dell’interazione del soggetto con il suo ambiente formativo, basato sull’apprendimento di vari contenuti in rapporto al patrimonio culturale. In essa predominano i processi cognitivi algoritmici con percorsi prestabiliti. L’a. fluida si forma prevalentemente nel contesto socioculturale libero e in situazioni occasionali; in essa predomina il processo euristico con un percorso imprevedibile. Questa a. si realizza nelle stesse aree dell’a. cristallizzata, ma con processi di maggiore astrazione e concettualizzazione. I due tipi di a. si formano fino all’età adulta allo stesso ritmo; in seguito l’a. fluida incomincia a declinare mentre l’a. cristallizzata continua ad aumentare. L’a. cristallizzata può essere rilevata con varie prove attitudinali, particolarmente con quelle verbali, mentre l’a. fluida può essere diagnosticata con le prove non verbali, basate sulle figure geometriche disposte in un certo ordine da scoprire e poi proseguire. Nelle varie a. di gruppo i due tipi di a. sono presenti in proporzioni differenti; per es. quella di matematica è composta dalle conoscenze cristallizzate, dal ragionamento fluido e dalla rapidità di esecuzione. Le tre aree (verbale, numerica e spaziale) sono pervase da processi mentali e da modalità operative di complessità differente formando in base ad essi tre strati disposti in ordine gerarchico. Il primo, il più semplice, è formato dalle a. cristallizzate, rappresentate da comprensione verbale, conoscenza lessicale, ragionamento sequenziale. Il secondo è formato dagli stessi processi che però sono più complessi; in tale strato è maggiormente presente anche l’a. fluida. Il terzo è formato dalla capacità elaborativa di informazioni, dalla comprensione dei contenuti verbali e 24
simbolici complessi e dal ragionamento su contenuti di elevata astrazione. Le tre aree e i tre strati dipendono in modo differente dai fattori genetici. I processi centrali sono maggiormente guidati dai geni rispetto ai processi situati nella periferia e le a. spaziali lo sono maggiormente delle a. verbali. Il numero delle a. singole varia da un massimo di 180 ad un minimo di 8. Per stabilire il numero delle a. singole vengono usati due criteri: la consistenza interna, la relativa indipendenza di una dall’altra e il rapporto con un criterio (ad es. una realtà sociale importante). 2. Formazione. Le a. di ogni individuo si formano nell’interazione del suo corredo genetico con l’ambiente familiare. Particolarmente importante è l’interazione con la madre in quanto da essa dipende l’acquisizione dei vocaboli, della sintassi e dei modelli linguistici. All’interazione si associa lo stile educativo dei genitori nelle loro attese positive sull’acquisizione delle competenze intellettive. L’ambiente familiare contribuisce anche ad uno sviluppo differenziato delle a.; influsso maggiore viene esercitato sulle a. verbali e numeriche, minore sul ragionamento e minimo sulle a. spaziali. La formazione di queste ultime sembra essere maggiormente dovuta ai fattori genetici. L’ambiente scolastico contribuisce allo sviluppo delle a. cognitive in grado minore. Dai vari studi sul confronto tra bambini che hanno frequentato la scuola d’infanzia e quelli che non l’hanno frequentata sono emerse solo lievi differenze. La scuola dell’obbligo sembra dare un maggiore contributo allo sviluppo delle a. poiché l’istruzione avuta da giovani risulta essere in rapporto effettivo con il quoziente di intelligenza da adulti. In quanto alle Facoltà universitarie risulta che le differenti Facoltà formano a. mentali in modo e grado differente: per es. le Facoltà umanistiche formano piuttosto le a. verbali mentre quelle tecniche formano piuttosto le a. spaziali. Un’altra constatazione fatta recentemente sembra deporre a favore delle istituzioni formative; si tratta della cosiddetta «accelerazione secolare». Confrontando le medie aritmetiche dei test attitudinali di questi ultimi sessanta anni si constata un aumento di 15 punti standard per generazione, il che rappresenta un aumento rilevante nelle a. generali. Le cause di questo aumento non sono chiare anche
ABILITÀ
perché all’aumento nelle a. non corrisponde in modo adeguato l’aumento nel rendimento scolastico. È certo però che nelle giovani generazioni rispetto alle precedenti si nota una maggiore capacità di risolvere problemi. 3. Differenze dovute al sesso. Esiste un’innegabile superiorità delle donne nelle a. verbali mentre gli uomini sono superiori nelle a. numeriche e spaziali. Le cause di questa differente formazione delle a. sono dovute ai fattori biologici, ormonali e soprattutto alle → attese sociali di un differenziato comportamento dei maschi e delle femmine. Le differenze sono rilevanti e influenzano notevolmente le scelte professionali dei giovani concentrando le frequenze in alcuni settori lavorativi: scientifico e tecnico (maschile), sociale e amministrativo (femminile). La concentrazione si nota già nella scuola secondaria di secondo grado ed è molto evidente a livello universitario anche se da alcuni decenni il divario nelle a. dei due sessi sta riducendosi. 4. Rendimento scolastico e accademico. L’a. generale è considerata il predittore singolo migliore dei due tipi di rendimento. Da essa dipende il livello di qualificazione dei soggetti in quanto viene ampiamente constatato che il grado di istruzione della popolazione è in evidente rapporto con le a. generali; da esse dipende la durata degli studi come anche l’entrata e uscita dalle istituzioni formative. Il rapporto tra a. generale e le singole materie è differenziato (più stretto o meno stretto), ma nell’insieme coglie una percentuale rilevante della varianza. L’a. cristallizzata predice meglio il rendimento scolastico (generale e specifico) dell’a. fluida. Le prove verbali, numeriche e spaziali predicono bene il rendimento degli studenti delle Facoltà scientifiche, tecniche ed artistiche. 5. Training e successo professionale. L’a. generale, talvolta articolata nelle tre note aree, è pure un valido predittore del successo in vari corsi che preparano all’esercizio delle attività lavorative. Questo vale anche per i corsi che preparano alle attività notevolmente differenti dal settore prettamente scolastico; per es., il successo del training dei futuri piloti di aerei può essere predetto efficacemente con le prove verbali e numeriche. Le a. generali
e specifiche predicono in grado leggermente minore il successo professionale. Il loro contributo alla predizione però è stato recentemente rivalutato con la successiva analisi dei dati del passato. L’a. generale predice anche il successo nelle specifiche attività professionali; per es., il successo di un ingegnere dipende maggiormente dalle sue a. numeriche e spaziali e meno da quelle verbali, mentre il successo di un ragioniere dipende più dall’a. numerica e meno da quella verbale, ecc. Alcuni esperti sostengono che se l’entrata nel mondo del lavoro fosse basata sulle a. delle persone si otterrebbe una maggiore efficienza e sarebbero risparmiate delle somme ingenti (Poláček, Fanelli e Telesca, 1992). 6. Promozione delle a. Per promuovere le a. cognitive dei soggetti in crescita (Poláček, 1994) esistono numerosi programmi finalizzati all’apprendimento scolastico per rimuovere lo svantaggio culturale del soggetto dovuto al suo ambiente familiare. L’effetto di tali programmi in genere è positivo ma minore di quello che gli autori dei programmi promettono. I positivi risultati vengono interpretati tramite assunti teorici a seconda che lo sviluppo delle a. sia maggiormente dovuto ai fattori genetici oppure ambientali (Poláček, 1994). La convinzione prevalente è quella che simili programmi migliorino l’apprendimento scolastico dei soggetti ed abbiano un influsso benefico anche su altre variabili personali (→ socializzazione), ma che non migliorino le effettive a. cognitive. Carroll (1993), in base alla complessità dei contenuti e dei processi distingue tre strati condizionati dai fattori genetici in grado differente: il primo, rappresentato da processi intellettivi semplici è modificabile con un esercizio adatto; il secondo, essendo più complesso, pone una certa resistenza all’intervento esterno; il terzo infine, data la complessità dei processi dai quali è caratterizzato, è poco malleabile. Gli interventi producono un cambiamento nelle competenze di superficie, particolarmente nelle destrezze, senza toccare le sorgenti delle a. Il potenziamento del primo strato perdura nel tempo e produce un miglioramento delle a., ma non un effettivo cambiamento delle sorgenti delle attitudini. 7. Applicazioni educative. Le a. rappresentano la base dell’ → educazione intellettuale dei 25
ABILITÀ
soggetti per mezzo della quale essi diventano autonomi e liberi. Su di esse si fonda anche la → formazione professionale e da esse dipende poi l’esercizio di una specifica attività lavorativa. Le a. assumono una notevole importanza nell’ → apprendimento, particolarmente nella loro duplice distinzione di a. cristallizzate e fluide. Sulle prime viene impostato l’apprendimento del sapere consolidato, mentre sulle seconde quello del sapere ancora poco schematizzato. Queste ultime vengono richieste nell’apprendimento ogni volta che il contenuto è nuovo, complesso e di elevata astrazione; infatti per riordinare le conoscenze occorre analizzare le situazioni problematiche e produrre delle inferenze. Anche il sapere consolidato talvolta richiede l’uso delle a. fluide in quanto viene esposto (volutamente o meno) in modo incompleto e confuso e l’alunno deve scoprire i rapporti tra le parti, produrre delle inferenze e proporre un quadro sintetico sull’argomento. Le a. fluide nei loro processi «periferici» possono essere sviluppate con opportuni metodi (Baron e Sternberg, 1987) per mezzo dei quali gli alunni apprendono le strategie per elaborare le informazioni, per impostare e risolvere un problema, per capire il processo del proprio apprendimento e guidarlo con successo. I due tipi di a. hanno poi una diretta applicazione nell’ → orientamento; le a. cristallizzate danno la possibilità di prevedere il successo scolastico e professionale e quindi offrono informazioni utili per la elaborazione di un progetto professionale, mentre quelle fluide informano sulle risorse personali in vista della gestione delle situazioni imprevedibili. Bibl.: Baron J. B. - R. J. Sternberg (Edd.), Teaching thinking skills: theory and practice, New York, Freeman, 1987; Poláček K. - A. Fanelli - R. Telesca, La predizione del successo/ insuccesso scolastico nella scuola secondaria di secondo grado, in «Orientamenti Pedagogici» 39 (1992) 991-1008; Carroll J. B., Human cognitive abilities: a survey of factor-analytic studies, Cambridge, University Press, 1993; Poláček K., In che misura è possibile promuovere lo sviluppo intellettivo?, in «Annali della Pubblica Istruzione» 40 (1994) 10-35; Deary I. J. et al., The stability of individual differences in mental ability from childhood to old age: Follow-up of the 1932 Scottish Mental Survey, in «Intelligence» 28 (2000)
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49-55; Varela F. J., Habilidad ética, Barcelona, Debate, 2003; Wilhelm O. - R. W. Engle (Edd.), Handbook of understanding and measuring intelligence, Thousand Oaks, Sage, 2005.
K. Poláček
ABILITAZIONE PROFESSIONALE Un compito professionale viene sovente caratterizzato da gesti che richiedono non solo un certo atteggiamento nel compierli, ma anche una coordinazione di movimenti fisici, una capacità di elaborare informazioni e di prendere decisioni, una certa abilità appunto nel vedere, definire e risolvere un problema. In campo professionale per a.p. generalmente si intende il riconoscimento ufficiale della capacità di una persona ad esercitare una professione definita o anche solo il riconoscimento del possesso dei requisiti necessari per svolgere una particolare forma di attività. 1. Tale capacità certamente necessita di predisposizioni più o meno accentuate, ma difficilmente viene resa concreta senza uno sforzo personale in strutture formative a ciò predisposte. È un riconoscimento che può essere dato in diversi ambiti. In ambito fisico ed in ambito manuale come capacità di coordinare movimenti, di utilizzare bene i diversi strumenti necessari nella risoluzione di problemi pratici, di fare scelte attente ad esigenze di sicurezza, estetica, oltre che di funzionamento ottimale. A volte in questo contesto si sente anche parlare di brevetto con la connotazione di capacità riconosciuta nello svolgere delle mansioni specifiche. In ambito intellettuale per a.p. si intende maggiormente la capacità di adattamento a funzioni di tipo più speculativo, decisionale. Sovente si sente parlare anche di a. alla professione (ingegnere, avvocato…) cioè ad una normale attività di lavoro che costituisce l’occupazione ordinaria di una persona e la sua fonte di reddito. 2. Nel mondo formativo si parla di a. all’insegnamento per coloro che intendono insegnare in una struttura scolastica (a. all’insegnamento della cultura, della fisica, della religione…); si parla anche di esami di a. tecnica e di ottenere una a. L’elemento caratterizzante
ACCADEMIA
del termine a. tecnica è sempre l’ufficialità dell’atto in quanto è una constatazione di conoscenze e capacità già acquisite e quindi di possibilità di svolgere una determinata professione ad esse legate con sicurezza e responsabilità. Bibl.: Bocca G., Pedagogia e lavoro tra educazione permanente e professionalità, Milano, Angeli, 1992; Becciu M. - A. R. Colasanti, La promozione delle capacità personali: teoria e prassi, Roma, CNOS-FAP, 2003; D’a nzi V. - P. D’a nzi, Il CAP Certificato di a. p., Forlì, Egaf, 2004; Leopold P. et al., Formare agli insegnanti professionisti: quali strategie? Quali competenze?, Roma, Armando, 2006.
N. Zanni
ABITO MORALE → Virtù ABORTO → Vita
ABUSO DEI MINORI Aggressione momentanea o cronica da parte degli adulti (genitori, educatori o altri) nei confronti del bambino e, per estensione, di ogni minore. 1. Ci sono vari tipi di a. al minore: a) a. fisico. È il più facilmente individuabile. Le forme più frequenti sono: percosse, lesioni cutanee, lesioni scheletriche, traumi cranici, distacchi retinici, lesioni interne, avvelenamento, annegamento, soffocamento nella culla, somministrazione di psicofarmaci; b) a. sessuale. Consiste nel coinvolgimento di un minore in attività sessuali da parte di adulti. Può essere intrafamiliare (il più frequente, circa l’80% dei casi), extrafamiliare (→ pedofilia, pedopornografia, prostituzione minorile, satanismo); c) a. psicologico (svalutazioni, umiliazioni, minacce, ricatti, violenza assistita, doppio legame, aspettative esagerate, violenti coinvolgimenti emotivi nel processo di separazione dei genitori). L’a. psicologico non sempre è facilmente individuabile, anche se è il più frequente. Esso viene compiuto più o meno inconsciamente per trascuratezza (carenze affettive, rifiuti, abbandoni) o per ipercura (iperprotettività, legame simbiotico, sindrome di Münchausen, medical shopping). Talvolta, come nel
caso della → violenza sessuale, questi tre tipi di a. nei confronti del minore si verificano contemporaneamente. 2. L’a. al minore compromette gravemente lo sviluppo fisico e/o psichico della → personalità. Il livello di gravità dipende dall’età. Le conseguenze sono tanto più negative quanto più l’a. si verifica in età precoce. L’a. fisico in seguito può causare, a seconda dei casi, tendenze paranoiche, ritardo mentale, scarso concetto di sé, scarso livello di aspirazione, reazioni autoaggressive, tendenza agli incidenti, atteggiamenti sado-masochistici. L’a. sessuale espone il minore al rischio di gravi sensi di colpa, di distacco emotivo, di erotizzazione precoce delle relazioni interpersonali, di disturbi nell’identità sessuale, di frammentazione della personalità. L’a. psichico può determinare un ritardo nello sviluppo sensomotorio e intellettivo, un arresto della crescita, turbe psichiche (→ psicosi, → depressione), malattie psicosomatiche. Non è infrequente il caso in cui soggetti che nell’infanzia o nell’adolescenza hanno subito un a. in età adulta lo ripetano a loro volta su altri minori. Bibl.: Miller A., La persecuzione del bambino. Le radici della violenza, Torino, Boringhieri, 1987; Bertolini M. - E. Caffo (Edd.), La violenza negata, Milano, Guerini e Associati, 1992; Campanini A. (Ed.), Il maltrattamento all’infanzia. Problemi e strategie d’intervento, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1993; Cesa Bianchi M. - E. Scabini (Edd.), La violenza sui bambini. Immagine e realtà, Milano, Angeli, 1993; M alacrea M. - S. Lorenzini, Bambini abusati. Linee-guida nel dibattito internazionale, Milano, Cortina, 2002; Luberti R. - M. T. Pedrocco Biancardi (Edd.), La violenza assistita intrafamiliare, Milano, Angeli, 2005; Montecchi F. (Ed.), Gli a. all’infanzia: I diversi interventi possibili, Ibid., 2005; Castellazzi V. L., L’a. sessuale all’infanzia, Roma, LAS, 2007.
V. L. Castellazzi
ACCADEMIA Istituzione che promuove attività letterarie, artistiche, culturali o scientifiche; quasi sempre ristretta a soci scelti sulla base di criteri di merito e/o cooptati dai soci già associati. 27
ACCOGLIENZA
1. La prima a. fu fondata da → Platone, in onore dell’eroe ateniese Academo, nelle vicinanze di Atene, nel 387 a.C. In questa scuola filosofica si formò → Aristotele, fino alla morte del maestro. A partire dal Rinascimento il termine a. fu usato per denominare associazioni di artisti, letterati e scienziati, rette ordinariamente da speciali statuti. Gli umanisti si interessarono ad arti diverse da quelle insegnate nelle università; crebbe allora l’interesse per altre discipline che allargarono straordinariamente lo stretto ambito universitario tradizionale. 2. Ogni a. cercò di specializzarsi in un campo del sapere. Di carattere filosofico fu l’a. Platonica, fondata a Firenze da Cosimo il Vecchio (1562); di archeologia si interessò l’a. Romana, protetta dai papi, mentre l’a. Pontiana si interessò di letteratura. Anche in altri Paesi furono fondate a. simili: ad es. in Francia, Inghilterra e Germania. Nel sec. XVII sorsero le prime a. scientifiche specializzate nello studio della lingua, delle arti nobili, del diritto, delle scienze politiche e morali. Se nei primi secoli i membri dell’a. appartenevano alla nobiltà, alla borghesia e all’alta gerarchia ecclesiastica, a partire dal sec. XIX vi insegnarono anche professori universitari di riconosciuta fama, attratti dal prestigio sociale che questi centri assunsero. Tra le a. italiane, vanno ricordate quelle della Crusca (1582) e dei Lincei (1603); fra le straniere: l’Académie Française (1635), la Royal Society (1660) e la Real Academia Española (1713). Bibl.: Immisch O., A., Freiburg, 1924; Geymonat L., Storia del pensiero scientifico, Milano, Garzanti, 1970; Jaeger W., Paideia. La formazione dell’uomo greco, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; Larrúa S., La A. Católica de Ciencias Sociales, Sevilla, Curia Provincial, 2002.
B. Delgado
ACCETTAZIONE → Accoglienza → Empatia
ACCOGLIENZA Il termine a. deriva dal lat. accolo che sta ad indicare lo stare vicino, l’abitare, il vivere accanto e dal verbo colligere ossia legare assieme, unire. Il ricorso a questi due significati 28
può aiutarci a comprendere meglio il senso da attribuire alla parola a. In ambito psicopedagogico essa assume una triplice valenza: a. come atteggiamento, a. come fase della relazione di aiuto, a. come la prima fase del processo di socializzazione di un allievo all’interno dell’organizzazione scolastica. 1. L’a. come atteggiamento è l’insieme delle reazioni cognitive, emotive e comportamentali attraverso le quali l’educatore metacomunica apertura, attenzione, rispetto e comprensione nei confronti della singolarità dell’educando il quale sperimenta, grazie ad esse, una sensazione di agio e benessere. 2. L’a. come fase della relazione di aiuto. Costituisce la prima fase della relazione di aiuto indirizzata a gettare le basi per la costruzione di un rapporto interpersonale positivo tra helper ed helpee, indispensabile al coinvolgimento di quest’ultimo e alla proficua realizzazione di tutte le altre fasi. Affinché questa fase si realizzi con successo si richiede di a) creare un ambiente facilitante (cura del contesto, eliminazione di eventuali fonti di disturbo, atteggiamento di calma e disponibilità); b) stabilire una base di influsso (utilizzo di competenze verbali e non verbali che veicolano senso di padronanza, piacevolezza, affidabilità); costruzione di una positiva piattaforma comunicativa (utilizzo di forme verbali non direttive e semidirettive che veicolano comprensione) (Arto-Colasanti, 1996; Carkhuff, 1994). 3. L’a. come prima fase del processo di socializzazione dell’allievo mira a: favorire il graduale inserimento di quest’ultimo nell’organizzazione scolastica, mantenendone integre la singolarità e l’identità; trasferirgli conoscenze, abilità e competenze che lo mettano in grado di partecipare attivamente all’interno della scuola. A questo riguardo Staccioli (2004) afferma che accogliere un allievo a scuola significa molto di più che farlo entrare nell’edificio scolastico e assegnargli un posto dove stare, vuol dire dar vita ad un metodo di lavoro complesso che implica il riconoscimento e il coinvolgimento di tutti i soggetti della comunità educativa. Il metodo dell’a., aggiunge l’autore, presuppone due importanti principi educativi: la fiducia nei confronti dell’allievo e delle sue capacità di apprende-
ACCOMPAGNAMENTO
re e il rispetto per il suo essere soggetto di diritti. In questa prospettiva, accogliere è predisporre ossia organizzare un ambiente a misura dell’allievo, un contesto cioè fatto di cose, materiali, tempi, ritmi, persone facilitanti l’apprendimento e la socializzazione; accogliere è ascoltare ossia entrare in sintonia con l’allievo e con il suo mondo e con la sua prospettiva sul mondo; accogliere è vivere nel reale, ossia attingere alla vita quotidiana che spesso resta fuori dall’edificio scolastico e che invece, se adeguatamente valorizzata, può consentire di arrivare a cogliere con maggiore pienezza la persona che c’è dietro ad ogni allievo; accogliere è, infine, permettere di apprendere stando bene, ossia recuperare il senso profondo dello stare a scuola che come ci ricorda l’etimo greco skolè, significa agio, benessere, distensione. 4. L’a. permette tanto alla scuola come all’allievo di raggiungere importanti obiettivi. In particolare l’allievo avrà la possibilità di: conoscere cosa l’aspetta e qual è la realtà concreta nella quale andrà ad inserirsi; apprendere i comportamenti organizzativi che gli garantiscono un buon inserimento in essa; avviare una prima conoscenza con docenti e compagni con i quali sarà chiamato ad interagire; la scuola avrà la possibilità di avviare una prima conoscenza dei nuovi arrivati, presentare l’organizzazione nei suoi aspetti strutturali e funzionali, socializzare i nuovi arrivati al sistema di norme e valori presenti nell’organizzazione. Bibl.: Carkhuff R., L’arte di aiutare. Manuale, Trento, Erickson, 1994; A rto A. - A. R. Colasanti, «Introduzione a un modello processuale di terapia integrata», in A. A rto - D. Antonietti, La formazione in psicologia clinica, Roma, IFREP, 1996, 235-281; Staccioli G., Diario dell’a., Roma, Valore Scuola, 2002; Id., «A.», in G. Cerini - M. Spinosi, Voci della scuola, Napoli, Tecnodid, 2004, 11-17.
A. R. Colasanti
ACCOMPAGNAMENTO L’a. (dal lat. medievale, ove com-panio è «colui che ha il pane in comune» [Devoto-Oli, 1988, 679]), in generale, è un aiuto tempora-
neo e sistematico che un adulto nell’esperienza e maturità dell’esistenza dà a un minore, condividendo con lui un tratto di strada e di vita perché questi possa meglio conoscersi e decidere di sé e del suo futuro in libertà e responsabilità. 1. Il concetto esprime la natura relazionale dell’essere umano, e più in particolare la qualità del vincolo che lega tra loro le persone, l’una responsabile e capace di prendersi cura dell’altra, ma pure bisognosa del suo aiuto e della sua presenza. Al tempo stesso questo concetto rimanda all’idea classica della vita come viaggio e della relazione umana come compagnia tra pellegrini che condividono tra loro le fatiche e il «pane del viaggio». Infine, la prassi dell’a. ritrova i suoi parametri interpretativi nelle teorie psicopedagogiche che privilegiano l’approccio non direttivo nella relazione di aiuto. 2. Il termine è usato nella pedagogia moderna per sottolineare esigenze e caratteristiche della relazione educativa, oltre quanto una tradizione antica (la pedagogia cristiana) e una più recente (la moderna scienza psicologica) già hanno detto sull’argomento. La teoria dell’a., inoltre, amplia e specifica il senso sia della direzione spirituale che della terapia psicologica: a) da un lato l’a. indica le varie forme di aiuto attraverso le quali la persona è aiutata a crescere non solo sul piano spirituale o clinico-mentale, ma anche su quello più globalmente e integralmente umano; con un intervento non esclusivamente sul singolo, ma anche sul gruppo e attraverso il gruppo; non legato a un’unica modalità operativa, ma a diverse possibilità di cammini di crescita; rivolti a qualsiasi persona, non solo a chi si trova in una particolare situazione di necessità spirituale o di disordine di personalità; b) d’altro lato elemento centrale-peculiare dell’a. non è tanto la «direzione» da imprimere alla vita dell’altro, o l’«analisi» del suo inconscio, quanto la «compagnia», o quella vicinanza intelligente e significativa che porta a un certo coinvolgimento da parte della guida, alla condivisione di ciò che è vitale ed essenziale («il pane del cammino»), alla confessione della fede e della propria esperienza di Dio, nel caso del credente. 3. Si tratta allora d’accompagnare l’altro 29
ADATTAMENTO
verso un duplice obiettivo: verso la conoscenza dell’io, anzitutto, della sua realtà interiore, passata e presente, attuale e ideale, positiva e negativa, conscia e inconscia, verso la radice di desideri e motivazioni. Ma è necessario pure accompagnarlo verso la realizzazione dell’io, in un processo d’apertura nei confronti dell’altro e dell’Altro, del presente e del futuro, nella tensione salutare verso il massimo delle proprie potenzialità e nell’assunzione piena della propria libertà e responsabilità. L’a. è dunque un aiuto necessario per la crescita e la maturazione di chiunque; ma vi sono particolari momenti della vita in cui tale servizio è indispensabile: nel periodo dell’adolescenza e della giovinezza e in genere nella formazione iniziale, prima di discernimenti importanti, in situazioni specifiche della vita (momenti di crisi, di sofferenza, di cambiamenti imprevisti, di richieste nuove...), e come strumento di formazione permanente. Particolarmente importante è stato da sempre considerato l’a. nella pastorale giovanile e vocazionale, oltreché nella formazione iniziale e permanente delle vocazioni di speciale consacrazione. Bibl.: I moda F., Sviluppo umano. Psicologia e mistero, Casale Monferrato, Piemme, 1993; Cencini A., Direzione spirituale e a. vocazionale, Milano, Ancora, 1996; Baldissera D. P., Acompanhamento personalizado. Guia para formadores, S. Paulo, Paulinas, 2002; Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, A. spirituale, affettività e sessualità, Bologna, EDB, 2004; Meloni E., Accompagnare la formazione. Il sé, gli altri, l’Altro, Ibid., 2005; Goya B., L’aiuto fraterno. La pratica della direzione spirituale, Ibid., 2006.
si intende tutta la struttura della persona: biologica, psichica e sociale, e per «ambiente» si intende tutto il contesto in cui la persona vive, che può essere interiore ed esteriore, fisico, sociale, esistenziale. Da questa precisazione dei termini appare che l’a. si può verificare in molti campi. Inoltre l’a. stesso è inteso diversamente a seconda del peso che, nell’interazione, viene attribuito all’organismo o all’ambiente: secondo la corrente comportamentista, ad es., il contributo dell’ambiente è largamente preponderante, mentre altre teorie (personaliste, umanistiche, cognitiviste) sottolineano l’importanza dell’iniziativa del soggetto. 1. A. fisiologico: indica una reazione dell’organismo alle condizioni ambientali in modo da approfittare al massimo delle condizioni favorevoli, o di ridurre al minimo i danni fisici in un ambiente sfavorevole. Ci si può adattare, in questo senso, all’alta montagna o all’immersione in profondità, allo smog della città e all’assalto di germi patogeni, ad un tipo di nutrizione, ecc. Un caso tipico di a. fisiologico è quello dell’a. sensoriale, che ci rende meno sensibili a livelli costantemente alti di stimolazione e più sensibili a livelli costantemente bassi.
ADATTAMENTO
2. A. intrapsichico: viene spesso identificato con la sanità, la normalità o la maturità psichica, e ha come indicatore il buon funzionamento all’interno del sistema psichico della persona. Le principali componenti dell’a. intrapsichico sono la libertà da costrizioni interiori, quali le idee ossessive o le azioni compulsive, il senso di dignità personale, la percezione della propria competenza di fronte ai compiti della vita, l’impressione di integrazione interiore, per cui tutto ciò che è personalmente importante trova la sua realizzazione in un contesto gerarchico di beni, e infine lo sviluppo, la cura e la gestione ordinata delle emozioni. La mancanza di a. intrapsichico porta a disturbi psichici di varia natura e gravità.
La parola a. designa in genere l’esito dell’incontro dell’organismo con il suo ambiente; se tale esito è positivo, si parlerà di buon a., se negativo, di disadattamento. I termini con cui si indicano i due protagonisti dell’incontro devono essere spiegati: per «organismo»
3. A. interpersonale: è la capacità di un buon rapporto con gli altri, e comporta un atteggiamento positivo verso gli altri, e cioè una struttura cognitiva o modo di pensare, sia generale che verso le singole persone, che riconosce il valore di esse e la possibilità di
A. Cencini
ACCREDITAMENTO → Certificazione ACCULTURAZIONE → Cultura → Inculturazione
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ADDESTRAMENTO
collaborare con loro, una inclinazione a entrare in rapporto con gli altri, il gusto di farlo e le relative capacità operative. L’a. interpersonale comporta la capacità di intrattenere rapporti non superficiali, e insieme quella di avere ed esigere rispetto per l’identità propria ed altrui. L’a. interpersonale dipende strettamente da quello intrapsichico, e la sua mancanza genera gli stessi disturbi psichici. 4. A. sociale: comporta una relazione positiva con la società cui il soggetto appartiene. La società di cui si parla può essere intesa in modo più o meno esteso, e riferirsi, ad es., allo stile di una singola famiglia o di un gruppo, oppure alle norme di una intera cultura. Il rapporto con la società può essere di rifiuto, di conformismo o di collaborazione; le relative norme sociali possono essere accettate o rifiutate, e, nel caso siano accettate, possono essere seguite meccanicamente oppure interiorizzate, perché se ne è compreso il valore. L’a. sociale non è necessariamente globale, e, nei vari momenti storici, questo o quell’aspetto della cultura può venir messo in discussione. Il termine «disadattamento sociale» assume talora significati ambivalenti, in quanto si presume che il «sentimento comune» rifletta il bene oggettivo; ma tale presupposto si può scontrare con quanto il soggetto, portatore di pensiero e di progetto originale, può decidere per se stesso. Il «disadattato sociale» può essere sia chi soddisfa i propri impulsi in modo egocentrico, ignorando la solidarietà, sia chi persegue con impegno personale dei valori che la società non riconosce o tenta di cancellare. 5. A. esistenziale: indica il rapporto con un «ambiente totale»; il segmento attuale della vita viene collocato di fronte a tutta la vita ed essa, nella sua totalità, viene confrontata con ciò che è percepito come definitivamente importante per la singola persona, con cui essa si identifica, in ciò per cui si sente realizzata. In questa definizione entrano chiaramente i valori, così come sono vissuti dalla singola persona. L’a. esistenziale sarà positivo se da tale ricerca emergerà una valutazione globale positiva di sé, della vita e della realtà, con la conseguenza di una speranza di base e di un impegno a lungo termine; un a. esistenziale negativo, nato dal non trovar nulla per cui valga la pena di vivere e di impe-
gnarsi, è invece caratterizzato dal disimpegno, dall’apatia e dalla disperazione. Il tema dell’a. esistenziale è elaborato soprattutto nella → logoterapia di V. E. Frankl. 6. L’a. come sfida all’educazione: nell’incontro con l’ambiente, importanti aspetti fisiologici e comportamentali della persona vengono modellati, creando predisposizioni che ne condizionano lo sviluppo futuro. In particolare le ricerche e le osservazioni cliniche sono d’accordo nel rilevare l’importanza decisiva dell’ambiente familiare per avviare e mantenere un buon a. emotivo e sociale. D’altra parte l’esigenza di conservare l’identità della persona nell’incontro con l’ambiente comporta l’educazione all’autogestione e alla responsabilità della propria iniziativa, in coerenza con i progetti e lo stile di ognuno. L’educazione all’autogestione suppone da parte sua che l’educatore sappia accompagnare l’educando alla scoperta di valori sia con una proposta di informazione adeguata, sia ponendosi come modello con cui l’educando possa identificarsi. Bibl.: Nuttin J., Motivation, planning, and action. A relational theory of behavior dynamics, Leuven, Leuven University Press, 1984; Snyder C. R. - C. E. Ford (Edd.), Coping with negative life events. Clinical and social psychological perspectives, New York, Plenum Press, 1988; Feldman R. S., Adjustment, applying psychology in a complex world, New York, McGraw-Hill, 1989; Meichelbaum D., Exploring choices: the psychology of adjustment, New York, Foresman, 1989; Nuttin J., Motivazione e prospettiva futura, Roma, LAS, 1992; Critenden P. M., Pericolo, sviluppo e a., Milano/Parigi/Barcellona, Masson, 1997.
A. Ronco
ADDESTRAMENTO Apprendimento di capacità specifiche necessarie per svolgere una determinata azione. Generalmente viene ulteriormente precisato con aggettivi che ne evidenziano meglio il significato. 1. Si parla di a. rivolto a persone giovani o adulte per prepararle al mondo del lavoro (a. professionale), ma si parla anche di a. degli 31
ADLER ALFRED
animali, in particolare in ambienti dove si desidera avere da parte loro dei precisi comportamenti (performance), come ad es. in una corsa, in un circo o in ambito domestico. Sua caratteristica è la specificità e in un certo modo la meccanicità. Ci si addestra per assumere un comportamento ben definito e non generico. Potremmo perciò definire l’a. come l’insieme di azioni volte a far acquisire destrezza, comportamenti ben definiti in determinate situazioni e capacità concrete nel risolvere problemi specifici. Attualmente per la preparazione professionale si preferisce parlare di formazione e non di a. per superare quel senso riduttivo di cui il termine si è circondato e che lo fa vedere come un apprendimento di comportamenti rigidi, condizionati, meccanici e parziali, staccati da un contesto globale di ciclo produttivo e di vita personale. 2. Nell’ambiente formativo per a. si intende normalmente un insegnamento eminentemente pratico, una modalità per fare acquisire ad una persona delle mansioni specifiche e circoscritte nel tempo e a volte anche nello spazio, o per farle apprendere un mestiere. In questo caso con il termine formazione si tende ad indicare un significato più esteso e a riferirsi ad un insegnamento anche teorico che comprende non solo un apprendimento di abilità specifiche legate alla mansione da svolgere, ma anche di conoscenze, capacità e atteggiamenti necessari per assumere un ruolo nel mondo del lavoro, dove sempre di più si richiederanno anche sensibilità al cambiamento, attenzione al gruppo, desiderio e capacità di riqualificarsi. È comunque una distinzione non ben definita che dipende molto dal contesto in cui il termine viene utilizzato. Nell’idea di a. c’è anche il riferimento ad un insieme di attività che facciano acquisire in tempi brevi competenze tecnico-operative che le persone possono utilizzare nei reparti produttivi, in modo ripetitivo e con scarsa autonomia. Bibl.: Agnoli M., Guida per la redazione del regolamento per la formazione e l’a. del personale negli enti locali, Bergamo, CEL, 2000; De Vita A., L’e-learning nella formazione professionale, strategie, modelli e metodi, Trento, Erickson, 2007; Grego S., La formazione come palestra della professionalità. Guida pratica all’utilizzo
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delle attività formative per le persone e le organizzazioni, Milano, Angeli, 2007.
N. Zanni
ADLER Alfred n. a Vienna nel 1870 - m. a Aberdeen nel 1937, medico, psicologo austriaco. 1. Secondo di sei figli, nacque in una famiglia di commercianti. Si laureò in medicina «per sconfiggere la morte»; lavorò come medico, interessandosi di comprendere la personalità del paziente ed i collegamenti tra i sintomi organici e psichici. Studiò con interesse filosofia, psicologia e scienze sociali. Ottimista e sereno, curava molto i rapporti coi familiari e con gli amici. Alla fine del secolo si sposò ed ebbe quattro figli, ai quali si dedicò con molto affetto. A., non potendo sconfiggere la morte e volendo lenire le sofferenze del disturbo mentale, passò quindi dalla medicina generale alla psichiatria. Nel 1902, invitato da → Freud, entrò a far parte della Società Psicoanalitica di Vienna, da cui si dimise nel 1907, per le divergenze da lui espresse sulla teoria degli impulsi sessuali, considerati da Freud come basi determinanti della vita psichica di un individuo nevrotico o normale e invece da A. solo materiale da elaborare secondo l’atteggiamento individuale. Fondò, nel 1912, la Società per la Psicologia Individuale, che divenne molto attiva. Dopo la Prima Guerra Mondiale, aprì la prima clinica per la consulenza all’infanzia, in collegamento con il sistema scolastico viennese. Nel 1927 andò negli Stati Uniti e continuò ad esporre le sue teorie in varie università statunitensi. Fu scrittore prolifico e conferenziere pieno di temperamento, apprezzato in tutto il mondo. Sensibile all’arte ed alla musica in particolare, dotato di una magnifica voce, amava cantare per gli amici. 2. A. descrive la caratteristica comune della personalità come un movimento tendente alla superiorità o pieno sviluppo delle proprie capacità ed al benessere della società. Le basi della tendenza alla perfezione possono essere costituite da inferiorità organiche, sentimenti di inferiorità e dalla compensazione attuata dall’essere umano per superare
ADOLESCENZA
le inferiorità reali o presunte. La compensazione può essere diretta anche verso un ideale di perfezione non collegato al tipo di inferiorità, chiamato da A. finalismo fittizio. La tendenza alla perfezione si esprime con la formazione di uno stile di vita (tratti, abitudini, schemi, significati, ecc.), sviluppato nel corso dei primi 4-5 anni di vita specialmente per la posizione occupata e/o percepita nella famiglia (costellazione familiare), per l’atmosfera familiare e in accordo alla finalità che persegue l’individuo in relazione al mondo. Lo stile di vita riguarda le modalità con cui l’individuo, come totalità indivisibile, affronta i grandi problemi dell’esistenza che, per A., sono il sentimento sociale, l’amore, il matrimonio ed il lavoro. 3. Il contributo di A. nella teoria e prassi psicopedagogiche consiste nell’aver posto in rilievo alcuni elementi che influenzano lo sviluppo ed il funzionamento della vita psichica individuale: a) la dimensione sociale, in quanto la funzionalità psichica dell’individuo è realizzabile solo nel rapporto sociale; b) l’intenzionalità o finalità verso una meta del comportamento individuale («per che cosa»); c) le opinioni personali nella valutazione dei fatti e delle esperienze. Siccome per A. l’individuo si sviluppa in modo nevrotico o normale in base non ai fatti ma per l’opinione che ha dei fatti, è compito degli psicologi e degli educatori aiutare gli esseri umani a scoprire e correggere opinioni e soluzioni erronee su se stessi e sui problemi della vita, per modificarle con un atteggiamento costruttivo. Lo stile di vita e le sue modalità di attuazione si possono conoscere dalla posizione dell’individuo nella costellazione familiare, dai sogni e, specialmente, dai ricordi infantili. I primi ricordi sono considerati da A. la chiave di accesso al modo di pensare, di agire dell’individuo, alle opinioni che ha di sé e dell’ambiente, alla sua filosofia di vita, alla sua meta. Bibl.: A.A., Über den Nervosen Charakter. Grundzüge einer vergleichenden Individual Psychologie und Psychoterapie, Wien, Bergmann, 1912 (trad. it. 1950); Id., Praxis und Theorie der Individualpsychologie, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1915; M arcus P. - A. Rosenberg (Edd.), Psychoanalytic versions of the human condition: Philosophies of life and their
impact on practic, New York, University Press, 1998; Franta H., Individualità e formazione integrale, Roma, LAS, 1982.
G. Giordanella Perilli
ADOLESCENZA Classicamente, l’a. è considerata come il periodo della vita situato tra 1’infanzia e l’età adulta. In termini biologici, l’inizio viene segnalato dalla pubertà e la durata, in genere, viene attribuita ad un arco di tempo che va dai 12 ai 18 anni d’età (le differenze sessuali e delle condizioni ambientali, sociali e razziali fanno oscillare questi limiti temporali). In base ad un criterio di tipo cognitivo-sociale, l’a. va dal momento in cui il ragazzo comincia ad essere capace di utilizzare con una certa autonomia il pensiero logico, fino a quando giunge alla piena integrazione delle sue capacità logico-cognitive ed ha la possibilità di vivere una vita indipendente a livello affettivo, economico e relazionale. 1. Studi sull’a. Nell’ultimo sec. l’a. è stata studiata da diverse scienze; le scienze psicologiche (nell’ambito delle quali ci situiamo) hanno affrontato il tema da molti punti di vista. Ci sembra che le varie prospettive possano essere organizzate intorno a tre gruppi di studi. In un primo gruppo di lavori, che tiene presente una preoccupazione speculativa, è possibile scorgere un tentativo di far aderire la realtà alla teoria (e non viceversa); in altri termini, la preoccupazione è quella di applicare e «imporre» alla realtà adolescenziale le caratteristiche definite aprioristicamente. La concezione psicoanalitica, che in questo gruppo si situa, offre un’ipotesi interpretativa secondo la quale il periodo di crisi e di grande disagio proprio dell’a. va attribuito all’emergere degli istinti e delle forze pulsionali, che provoca uno squilibrio psichico che si manifesta con quei comportamenti disadattivi, a diversi livelli di «patologia», tipici degli adolescenti; si tratta, evidentemente, di una interpretazione di tipo biologico che presenta l’a. come una realtà con caratteristiche legate e condizionate dalla fisiologia dei soggetti. Un secondo gruppo di studi, con preoccupazione sociologica, prende in considerazione i dati reali che emergono da 33
ADOLESCENZA
incontri psicologici di tipo clinico con soggetti «atipici» o «diversi» e da osservazioni di tipo sociologico su soggetti «emarginati» o «disadattati». Si tratta di interpretazioni di tipo socio-culturale secondo le quali l’a. sarebbe un «prodotto» della realtà sociale delle diverse strutture nazionali ed internazionali. A questa prospettiva interpretativa si richiama la teoria sociologica secondo la quale le difficoltà adolescenziali, ed i relativi comportamenti disadattivi, sono frutto dell’influsso della società e sono correlati al processo di socializzazione ed alla diversità di ruoli attribuiti all’adolescente. Interpretazioni sempre di tipo sociologico, ma più complete e meno rigide, propongono categorie che consentono una più ampia e realistica visione della condizione giovanile: «marginalità», «frammentarietà», «cambio culturale», «eccedenza delle opportunità» e «lotta per l’identità». Queste due note ipotesi interpretative della psicologia dell’a., biologica e sociale, pongono l’accento solo su uno dei due fattori di sviluppo (endogeno ed esogeno) e non tengono presente, in modo adeguato, il contributo di ciascuno e la possibilità che entrambi hanno di integrarsi. Inoltre, vogliamo evidenziare l’insufficienza di queste posizioni poiché non vi è alcuna corrispondenza tra le caratteristiche adolescenziali da esse indicate, i conseguenti tentativi interpretativi offerti, ed i numerosi dati empirici ormai acquisiti sugli adolescenti. Diversamente, la preoccupazione empirica è ciò che caratterizza il terzo gruppo di studi. La realtà adolescenziale, nell’orizzonte di una definita prospettiva teorica, viene avvicinata sperimentalmente. In altre parole, alla luce di una teoria di riferimento, una ipotesi interpretativa viene confrontata con i dati ottenuti tramite ricerche condotte su adolescenti «normali». Se queste tre categorie di studi prese isolatamente mostrano limiti e carenze, integrandosi possono diventare una chiave di lettura molto utile per approssimarsi nel modo più adeguato e completo alla ricca realtà adolescenziale. 2. Pista di lettura dell’a. Senza pretendere di essere completi e senza voler schematizzare la ricchezza della persona, proponiamo la nostra lettura della realtà adolescenziale. Nella riflessione sull’adolescente, per avere una visione il più completa possibile, è ne34
cessario tener presente gli aspetti comportamentali, cognitivi e tendenziali della persona in sviluppo e avvicinarli alla luce di una pluralità di teorie psicologiche. a) Capacità dell’adolescente. L’adolescente è in grado di vedersi dall’esterno, di percepirsi oggettivamente, distaccandosi dalle prime impressioni soggettive; nello stesso tempo, si trova a dover fare i conti con l’ambiente sociale e con la sensibilità che ancora lo rende vulnerabile al giudizio altrui e che, spesso in misura notevole, condiziona e ridimensiona la sua oggettiva capacità di autorealizzazione. Sempre in riferimento allo sviluppo cognitivo, una seconda osservazione vuole evidenziare tanto la capacità dell’adolescente di creare realtà ipotetiche e di immaginare, quanto le sue esigenze di giustizia, uguaglianza e amore universali, che appaiono come una ricerca del senso della vita, di rifiuto della realtà concreta e, alle volte, di sublimazione dei suoi desideri, pensieri e sentimenti. La ricerca della trascendenza attraverso la modalità intellettuale è uno degli aspetti che più caratterizza l’adolescente (riconoscere questo bisogno profondo è un modo stupendo per avvicinarsi a lui). L’adolescente ha difficoltà ad accettare i propri sentimenti; per convivere con tali sentimenti non integrati nella personalità, li «iperdifferenzia». L’iperdifferenziazione dell’esperienza profonda lo rende «unico», lo caratterizza con una diversità tale da fargli pensare che la sua sia una realtà incomunicabile e che nessuno sia in grado di capirlo. Il rapporto interpersonale diventa, quindi, difficile e, alle volte, impossibile; ma, poiché è doloroso vivere incompreso, può nascere in lui la ricerca di un essere così grande, così distante, e persino così diverso, da avere la capacità di capirlo e di comprenderlo. Proprio perché emergente da questo bisogno, da questa ricerca di comprensione, definiamo il rapporto dell’adolescente con la realtà trascendente di falso ascetismo (in quanto derivante, appunto, dalla sublimazione di alcuni bisogni ai quali non si trova una risposta corrispondente). L’adolescente si caratterizza anche per una grande apertura agli altri. Il desiderio della socialità, generalmente, trova soddisfazione nell’incontro con il gruppo dei pari. In esso, il giovane ha la possibilità di confrontarsi, di realizzare attività, progetti o, semplicemente, di «stare con» gli altri; inoltre, visto
ADOLESCENZA
che il gruppo si propone come referente normativo e affettivo, progressivamente va ad affiancare e sostituire i ruoli parentali consentendo un distacco sempre maggiore dalla famiglia; infine, l’esperienza della relazione con i coetanei, costituisce un valido aiuto alla formazione del senso di identità, poiché permette all’adolescente di conoscersi e di stimarsi di più in quanto, nel gruppo, viene accettato per ciò che è e per ciò che realizza. La capacità cognitiva di cui l’adolescente è dotato e l’importanza dell’ambiente sociale vengono ad interagire con il suo mondo profondo che comprende il passato (a volte pesante da sopportare), i sentimenti autentici, la difficoltà dell’integrazione armonica delle diverse componenti della personalità, le ambivalenze, i bisogni ed altro ancora. In sintesi, possiamo dire che l’adolescente viene visto come una persona capace di mettersi in rapporto proattivo con il mondo circostante e di rispondere ai compiti di sviluppo che gli si presentano e che, progressivamente e armonicamente, lo portano verso la maturità. b) Difficoltà dell’adolescente. Anziché parlare di «problemi», parola che fa pensare a qualcosa da sopportare od a disturbi propri dell’età per cui non si può far altro che aspettare il superamento della fase, useremo le espressioni «aspetti problematici» e «punti focali» che, ci sembra, consentono di cogliere le peculiarità dell’a. e i possibili conflitti intra ed interpersonali senza stigmatizzarli, ma leggendoli in termini processuali di impegno verso una maturità più grande. Un primo, e generale, aspetto problematico consiste, allora, nella difficoltà che l’adolescente incontra nel compiere un’integrazione transazionale delle tre componenti (cognitiva, affettiva, relazionale) della sua personalità; soprattutto, l’adolescente trova difficoltà ad integrare l’aspetto cognitivo e quello tendenziale: malgrado abbia la capacità di autovedersi oggettivamente, non riesce a cogliere la positività delle sue esperienze e non riesce a dare una spiegazione soddisfacente delle proprie tendenze, dei sentimenti o di ciò che prova nelle diverse situazioni. Un secondo, e più «banale», aspetto problematico è legato all’immagine corporea. Non è facile per l’adolescente integrare i mutamenti corporei che, spesso, sfuggono al controllo razionale e che non sempre è possibile armonizzare in modo da sentirsi a proprio agio sia con
se stessi che nel gruppo dei pari. La conoscenza, l’accettazione e la rielaborazione dell’immagine corporea e la formazione di una adeguata identità psicosessuale, sono compiti molto impegnativi che richiedono la presenza e la mediazione di un educatore. Un terzo punto focale è costituito dalla conquistata capacità di pensare in termini ipotetici, che porta l’adolescente a vivere in un mondo fantastico, nel quale è possibile costruire sia eventi che persone ideali. Due conseguenze di questa conquista possono creare difficoltà all’adolescente. In primo luogo, il cambio della relazione «reale-possibile», che conduce l’adolescente a relazionarsi con il «possibile» come se fosse «realtà», ostacola la capacità di ragionare e di comportarsi in base ai fatti concreti ed all’esperienza vissuta e riflessa. D’altra parte, e arriviamo alla seconda conseguenza, la capacità di vedere come possibili tante risposte e tanti modi di combinare gli eventi e le risorse in suo possesso, porta l’adolescente all’incertezza, all’indecisione e, quindi, blocca la sua azione; non potendo accettare tale immobilità, nel suo disorientamento, chiede aiuto. I problemi emergono allorché l’adolescente confronta la scelta che gli è stata consigliata, e che lui ha messo in pratica, con tutte le altre che la sua capacità di pensiero gli presenta (realizzabili o ipoteticamente possibili che siano) e constata che l’alternativa attuata è più povera di quelle che avrebbe potuto attuare. Questa scoperta può portare l’adolescente ad un sentimento ambivalente: colpevolizza le persone da cui ha ricevuto l’orientamento (ribellione) e, successivamente, nel momento in cui riesce a vedere sia gli aspetti positivi del consiglio ricevuto sia l’interessamento delle persone adulte a cui si è rivolto in cerca di consiglio, si sente colpevole. Un quarto aspetto problematico riguarda la vita relazionale dell’adolescente; la tendenza ad aprirsi agli altri può trasformarsi in tendenza all’isolamento per due ordini di difficoltà. In primo luogo, la non accettazione del proprio mondo personale può portare l’adolescente a costruirsi delle «maschere sociali» che hanno lo scopo di difenderlo dai pregiudizi e dalle etichette sociali e, soprattutto, dal pericolo di venir scoperto negli aspetti negativi che crede di avere o negli aspetti che realmente ha e non gli piacciono. In secondo luogo, la tendenza all’isolamento dell’adolescente è favorita 35
ADOZIONE
dall’impossibilità di manifestare chiaramente e apertamente nel mondo sociale la sua ricchezza intrapsichica. 3. Suggerimenti educativi. Da un punto di vista educativo è necessario partire da una concezione dell’uomo che permetta di coglierne tutta la ricchezza e che, di conseguenza, offra una visione dell’adolescente come persona che realizza in modo proprio, non solo in funzione dell’adulto che diventerà o del fanciullo che non è più, il compito di essere uomo. Da un punto di vista psicologico in generale e della psicologia dell’a. in particolare, è bene tener presente che un processo educativo si realizza seguendo alcuni passi. Per prima cosa, è necessario «stare con» il soggetto in modo da conoscere la sua struttura cognitiva, il suo modo di ragionare, le sue risorse. L’adolescente si sviluppa continuamente; le sue risposte non sono mai definitive. È necessario saper decodificare e proporre le risposte considerandole parte di un processo, di un dinamismo in continuo sviluppo e mai come entità chiuse e definite. Indichiamo alcune mete che, se comunicate in modo chiaro, possono essere raggiunte favorendo così la crescita dell’adolescente: accettare le opinioni per il loro valore, differire la soddisfazione dei bisogni, operare un equilibrio tra dipendenza e indipendenza, richiedere secondo le esigenze e non solo secondo le apparenze. L’educatore deve essere in grado di capire e di accettare le risposte e le sollecitazioni che gli vengono dal mondo adolescenziale in qualsiasi modo gli arrivino; nello stesso tempo, deve essere capace di dar ragione esplicita delle sue proposte in modo tale che l’adolescente le possa accettare per il loro valore intrinseco (senza dimenticare l’importanza che la persona dell’educatore ha per l’adolescente). Bibl.: A rto A., Psicologia evolutiva. Metodologia di studio e proposta educativa, Roma, LAS, 1990; Palmonari A. (Ed.), Psicologia dell’a., Ibid., 1993; Berger K. S., Lo sviluppo della persona: periodo prenatale, infanzia, a., maturità, vecchiaia, Bologna, Zanichelli, 1996; Erikson E. H., I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Roma, Armando, 1999; Caprara G. V. - A. Fonzi, L’età sospesa. Itinerari del viaggio adolescenziale, Firenze, Giunti, 2000; Pellai A. - S. Boncinelli, Just do it! I comportamenti a rischio in
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a. Manuale di prevenzione per scuola e famiglia, Milano, Angeli, 2002; Bonino S. - E. Cattelino - S. Ciairano, Adolescenti e rischio. Comportamenti, funzioni e fattori di protezione, Firenze, Giunti, 2003; Bonino S., Il fascino del rischio negli adolescenti, Ibid., 2005; Couyoumdjian A. R. Baiocco - C. Del Miglio, Adolescenti e nuove dipendenze. Le basi teoriche, i fattori di rischio, la prevenzione, Bari, Laterza, 2006; M arcelli D. - A. Bracconnier, A. e psicopatologia, Milano, Masson, 2006; Montuschi F. - A. Palmonari, Nuovi adolescenti: dalla conoscenza all’incontro, Roma, EDB, 2006.
A. Arto
ADORNO Theodor → Scuola di Francoforte
ADOZIONE Istituto giuridico che stabilisce un legame genitori-figli di tipo legale ed affettivo che non esiste per linea biologica. Derivato dal lat. ad-optare (scegliere), indica un rapporto che trae origine da un atto di libera volontà. 1. L’a. è un istituto antichissimo che si trova già codificato nella raccolta delle leggi mesopotamiche del sec. XVIII a.C. In epoca moderna essa è stata caratterizzata fino al sec. XIX da una visione privatistica con funzione prevalentemente patrimoniale che poneva al centro dell’interesse l’adottante. A seguito degli sconvolgimenti sociali e politici della prima metà del sec. XX è nata la necessità di una sua radicale trasformazione in strumento di protezione e integrazione dei minori in contesti familiari. 2. In Italia l’a. come concetto culturale e sociale diverso ha cominciato a diffondersi dopo la II guerra mondiale. Il primo adeguamento delle normative a criteri più avanzati risale alla L. n. 431/67 sull’a. speciale che ha ribaltato la prospettiva dell’a.: obiettivo della disciplina giuridica diviene l’adottato con la sua necessità di avere una famiglia, nel senso affettivo, sociale e psicologico del termine, e non più l’adottante. I rapidi mutamenti sociali e la maggiore attenzione alle problematiche minorili hanno portato nel 1983 all’emanazione della L. n. 184 «Disciplina dell’affidamento e dell’a. dei minori» che ha
ADULTI
ribadito la centralità dell’interesse del minore e introdotto alcuni elementi innovativi tra cui l’a. internazionale, mai prima codificata in Italia. Nel decennio successivo le a. internazionali hanno superato numericamente quelle nazionali. L’Italia ha recepito con L. di ratifica 476 del 1998 la Convenzione dell’Aia del 1993 sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di a. internazionale, nata dall’ampio dibattito sviluppatosi a seguito dei molti abusi perpetrati ai danni dei minori e dei loro Paesi di origine. Nel 2001 è stata pubblicata la L. 149 di modifica di alcune parti della L. 184/83. 3. Nel complesso la normativa attuale prevede esclusivamente l’a. piena di minori a seguito della quale l’adottato acquisisce lo status di figlio legittimo degli adottanti di cui assume e trasmette il cognome. Essa consente l’a. a coniugi sposati da almeno 3 anni o che possano dimostrare una stabile convivenza, per lo stesso periodo, prima del matrimonio e che abbiano una differenza minima di 18 anni e massima di 45 con l’adottato. L’a. è permessa anche qualora uno solo dei coniugi superi la differenza massima di non più di dieci anni. L’a. è prevista per i minori dichiarati in stato di adottabilità secondo i criteri stabiliti dalle leggi 184/83 e 149/01 che regolano con la massima attenzione l’accertamento del loro stato di abbandono. La L. 149 introduce, per la prima volta, la possibilità per l’adottato di ricercare le sue origini. Riguardo all’a. internazionale sono previsti per i coniugi i medesimi requisiti e procedure richiesti per essere dichiarati idonei all’a. nazionale e, per i minori, uguali effetti giuridici oltre all’acquisizione della cittadinanza it. La L. 476/98 esclude le a. private ed introduce l’obbligatorietà dell’intervento di enti autorizzati per il percorso all’estero. L’a. di persone maggiori di età è regolata dal titolo VIlI del Codice Civile che continua a contemplare questo tipo di istituto con effetti meramente patrimoniali come nel passato. 4. È opportuno notare che, come raccomandato da tutte le legislazioni nazionali più avanzate e dalle convenzioni internazionali, l’a. deve essere considerata esclusivamente come una soluzione estrema per fornire ad un minore un ambiente di crescita e di sviluppo armonico e rispondente alle sue ne-
cessità psicologiche ed affettive, dopo aver esperito ogni possibile risorsa per farlo rimanere nella sua famiglia biologica, e in caso di a. internazionale, nel suo stesso contesto culturale ed etnico. Bibl.: Fadiga L., L’a.: una famiglia per chi non ce l’ha, Bologna, Il Mulino, 1999; Centro Nazionale di D ocumentazione ed A nalisi per l’I nfanzia e l’A dolescenza, A. Internazionali: l’attuazione della nuova disciplina, Firenze, Istituto Degli Innocenti, 2000; Q uémada N., Cure materne e a., Torino, UTET, 2000; Finocchiaro A. - M. Finocchiaro, A. ed affidamento dei minori. Commento alla nuova disciplina, in «Diritto e Giustizia» supplemento n. 25 del 30.06.01.
A. M. Libri
ADULTI: educazione degli L’educazione degli a. indica le iniziative che permettono a questi di sviluppare le proprie conoscenze, qualificazioni, atteggiamenti e comportamenti per una piena realizzazione personale e sociale. A volte si parla piuttosto di «formazione degli a.», specialmente come qualificazione per un ruolo o compito (per es. → formazione degli insegnanti). 1. Storicamente l’educazione degli a. si è sviluppata in Francia (fine del XVIII sec.), nei paesi scandinavi (sec. XIX), e in Inghilterra (e altri Paesi europei) all’inizio del sec. XX, specialmente sotto la spinta della rivoluzione industriale. Dopo il 1945 l’educazione degli a. riceve un impulso nuovo grazie all’Unesco che, con le sue conferenze internazionali, apre orizzonti nuovi d’ → alfabetizzazione e promozione. L’Unesco ha lanciato il vasto progetto di → educazione permanente per un impegno educativo globale della società, allo scopo di rispondere all’urgente domanda di formazione globale. 2. L’interesse per l’a. è diventato ormai generale nel campo educativo e didattico, nella → formazione professionale e anche nell’ambito pastorale ed ecclesiale (→ catechesi e formazione religiosa degli a.). Le principali cause: la difficoltà di essere a. oggi, in una società complessa e dinamica; il rischio dell’obsolescenza dei saperi e delle compe37
ADULTISMO
tenze; le nuove conoscenze sulla psicologia e l’apprendimento dell’a. Alcune esigenze tipiche dell’educazione degli a. sono: necessità di adeguata motivazione (spesso vi ricorrono di meno coloro che più ne hanno bisogno); rispetto delle esigenze dell’a. (autonomia, partecipazione, esperienza); attenzione alle tappe o periodi della vita adulta; opposizione ad ogni forma di strumentalizzazione. Bibl.: Faure E. (Ed.), Rapporto sulle strategie dell’educazione, Roma, Armando, 1973; K nowles M. S., Quando l’adulto impara. Pedagogia e andragogia, Milano, Angeli, 1993; Delors J. (Ed.), Nell’educazione un tesoro, Paris/Roma, UNESCO/Armando, 1997; Demetrio D., Manuale di educazione degli a., Roma/Bari, Laterza, 1997; De Natale M. L., Educazione degli a., Brescia, La Scuola, 2001.
E. Alberich
ADULTISMO Errore pedagogico di relazionarsi educativamente con i fanciulli e gli adolescenti come se fossero adulti. Termine polemico opposto a puerocentrismo. 1. In senso più propriamente pedagogico, l’a. può essere definito come quell’orientamento «che afferma essere il processo educativo una imitazione del “modello” di → uomo espresso dalla tradizione e fondato su determinate esigenze sociali; per esso viene svalutata la situazione attuale dell’ → educando mentre viene esclusivamente valutata la sua capacità a identificarsi con il modello» (→ Bertolini). Tale indirizzo, soprattutto sul piano didattico, degenera nel magistrocentrismo, nella pretesa cioè di insegnare ai fanciulli i contenuti del sapere con un linguaggio maturo e concettualmente definito in modo rigoroso, inducendo così l’allievo ad un meccanico esercizio mnemonico inadeguato alla sua capacità di → apprendimento. 2. In termini di prassi educativa, quindi, due sono le tendenze da evitare, quella del rigorismo autoritario e quella del lassismo permissivo. Entrambe le tendenze attengono al campo affettivo e morale dell’allievo: da un lato si esagera nell’attribuire al fanciullo 38
in modo sproporzionato una responsabilità di diritti e di doveri, eccedendo, di conseguenza, anche sul piano di una rigida disciplina; dall’altro si attribuisce, in un clima di incontrollato spontaneismo, una capacità di comprensione e di autodeterminazione, che è soltanto il frutto di un lento e graduale → processo educativo verso la maturità. Si potrebbe concludere che non pochi insegnanti per il semplice fatto di «sapere» ciò che devono insegnare, credono anche di «saperlo» insegnare. Ora, un insegnante deve essere senz’altro competente della «materia» che insegna, ma la sua alta qualità si esplicita pienamente quando egli è il competente della comunicazione di questi contenuti ed altrettanto competente nell’acquisire le esigenze, le possibilità, le attese dei suoi allievi, per sapersi relazionare con loro. Questa è la strada maestra, per intervenire al momento giusto e nel modo adeguato, evitando così ogni forma di a. Bibl.: Claparède E., L’educazione funzionale, Firenze, Giunti, 1962; Id., La scuola su misura, Firenze, La Nuova Italia, 1982. Per un approfondimento bibliografico mirato cfr. voci «A.» e «Puerocentrismo», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, voll. I e V, Brescia, La Scuola, 1989, 121-122; 1992, 9704-9709.
C. Bucciarelli
ADULTO Etimologicamente il termine a. proviene, dal lat. adolescere (crescere, svilupparsi, rinvigorirsi); letteralmente, quindi, si può definire a. il soggetto che, avendo compiuto l’età evolutiva, ha raggiunto la maturità morfologica (a livello fisico e psichico) e funzionale. Il termine adultità è stato coniato di recente per indicare le caratteristiche e le condizioni che definiscono l’a. 1. L’identità adulta. Da un punto di vista funzionale, poi, per «età adulta» si può intendere quella fase d’età cronologica che sta tra l’adolescenza e l’età senile. Gli studi della scienza psicologica sono indispensabili per dedurre le costanti di questa fase della vita ed in questo contesto due sono gli approcci a cui si fa solitamente riferimento: l’approc-
AFASIA
cio psicodinamico e quello fenomenologico. Nell’approccio psicodinamico vanno segnalati gli studi di → Freud per cui l’a. veniva inteso come soggetto padrone di una genitalità capace di «amare» e di «lavorare»; gli studi di → Jung (1875-1961) interpretano invece l’adultità come età del dubbio in cui appare una fase dualista, quella cioè che vedrebbe emergere un secondo Io che tende a togliere la direzione della vita psichica al primo Io: quello dell’infanzia, di qui la contrapposizione tra due identità che si fa lotta tra i due archetipi del puer e del senex. Tra gli studi psicodinamici però i più noti e funzionali alla dimensione pedagogica sono quelli di → Erikson che con il suo fondamentale lavoro Infanzia e società (1967) e con I cicli della vita (1984), in linea con le teorie freudiane dello sviluppo psico-sessuale, riteneva a. quell’individuo che agisce non in diretta conseguenza della soddisfazione degli impulsi primari, ma che sa conquistarsi un’autonomia funzionale, che sa cioè prefiggersi la realizzazione di scopi che prescindono, in parte, da dati bisogni pulsionali. Nell’approccio fenomenologico l’identità adulta trova soprattutto in alcuni studiosi i suoi interpreti più accreditati. Innanzitutto → Maslow (1971) che vede nella «motivazione» il tratto costitutivo dell’identità altrimenti denominabile «bisogno» della persona. → Rogers nel suo studio su Lo sviluppo della personalità (1961), evocando un modello di sviluppo ontogenetico, vede l’adultità matura nel transito di alcuni passaggi esistenziali qualitativi: dalla incongruenza alla congruenza; dalla non accettazione di sé alla accettazione; dalla non comunicazione alla comunicazione; dalla rigidità mentale alla flessibilità; dal rifiuto delle responsabilità alla accettazione di queste; dall’isolamento alla socievolezza; dalla rigidità alla creatività; dalla sfiducia alla fiducia nella natura umana; da una vita spenta ad una vita piena sul piano dell’esperienza e della ricerca; dall’eterodipendenza all’autodeterminazione. Infine → Lewin che, nella sua opera Principi di psicologia topologica (1936) detta anche «del campo», rivela l’individuazione dell’identità adulta con particolari modalità operative; infatti l’a. per Lewin è quel soggetto che riesce adeguatamente a operare una differenziazione tra la totalitàpersona e le figure che di volta in volta gli occorrono per agire e sopravvivere.
2. Apprendere in età adulta. Chi ha responsabilità formative anche nel campo degli a. prevede senz’altro di incontrare delle difficoltà nel realizzare i propri obiettivi. Se da una parte però la ricerca scientifica fa il suo doveroso cammino, dall’altra mai come oggi, con una società in rapida trasformazione, il termine formazione deve essere applicato anche agli a., non solo per compensare lacune di una loro preparazione anteriore (= analfabetismo di ritorno), ma soprattutto per completare e sviluppare la loro cultura. L’educazione degli a. pertanto, in prosecuzione di quella rivolta dall’infanzia alla giovinezza, nel contesto di un’ → educazione permanente varia nei contenuti e nelle forme, per tutte le età. È prassi consolidata ormai che tra le specifiche funzioni di tale intervento a favore dell’a. si possono considerare l’educazione civica e politica, l’aggiornamento professionale, la divulgazione tecnica e scientifica, l’informazione artistica e sanitaria, le attività del tempo libero, l’igiene mentale. La formazione dell’a. vede così assicurati periodi ciclici per forme di completamento, di qualificazione, riqualificazione, specializzazione e aggiornamento. Ad una simile alternanza di periodi di formazione e di periodi di lavoro si dà il nome di → educazione continua, o ricorrente o intermittente. Bibl.: Lazzaretto A., La scoperta dell’a., Roma, Armando, 1966; Erikson E. H., L’a., Ibid., 1981; I d., I cicli della vita, Ibid., 984; Morin E., «Le vie della complessità», in G. Bocchi - M. Ceruti (Edd.), La sfida della complessità, Milano, Feltrinelli, 1985; Bucciarelli C., L’educazione permanente: un modello di politica educativa, Rimini, Maggioli, 1987; Demetrio D., L’età adulta, Roma, NIS, 1990; R esnick R. T., Impulsività, disattenzione e iperattività dell’a., Milano, McGraw, 2002.
C. Bucciarelli
AFASIA Termine ampio per indicare la perdita o l’alterazione dell’uso dei simboli verbali o scritti del → linguaggio. 1. I sintomi principali sono: l’anartria (difficoltà o impossibilità di articolazione della 39
AFFETTIVITÀ
parola); gli stereotipi verbali (ripetizione della stessa parola); la parafrasia (sostituzione o deformazione della parola); la gergofasia (uso di un gergo incomprensibile, fondato su parole deformate e neologismi). Nei casi più gravi l’afasico è incapace di leggere (a.) e di scrivere (agrafia). 2. Vi sono differenti tipi di a.: 1) a. di Broca. Consiste in un disturbo della rappresentazione motoria delle parole e si manifesta attraverso difficoltà di articolazione (inceppi, sostituzioni, anticipazioni di una lettera o di un fonema su un altro, elisioni o assimilazioni di fonemi), riduzione della fluidità dell’eloquio, agrammatismo (difficoltà di usare articoli, aggettivi, preposizioni, declinazioni di verbi, ecc.), anomia (incapacità a trovare la parola appropriata al contesto); 2) a. amnesica. Difficoltà di trovare la parola adatta, per esprimere quanto si ha in mente e ricorso a circonlocuzioni; 3) a. di Wernicke. Uso di un gergo incomprensibile e difficoltà di capire quello che l’interlocutore dice; 4) a. globale. Grave difficoltà, sia di espressione che di comprensione, di linguaggio orale e scritto. 3. Le cause possono essere molteplici: disturbi vascolari, traumi cranici, tumori cerebrali, malattie infiammatorie o degenerative. Relativamente alle anomalie del linguaggio infantile, si distingue tra a. acquisita, che insorge dopo che l’ → apprendimento del linguaggio è già avvenuto e disfasia evolutiva, dovuta ad un incompleto sviluppo della funzione linguistica. A pari gravità di lesione, i bambini recuperano più rapidamente e completamente degli adulti. Bibl.: Pizzamiglio L. (Ed.), I disturbi del linguaggio, Milano, Etas Libri, 1968; Basso A., Il paziente afasico, Milano, Feltrinelli, 1977; Code C. - D. J. Muller, Terapia dell’a., Roma, Marrapese, 1984; Cippone De Filippis A., Turbe del linguaggio e riabilitazione, Roma, Armando, 1993; Minuto I., Le patologie del linguaggio infantile, Firenze, La Nuova Italia, 1994; Capasso R. - G. M iceli, Esame neurologico per l’a. (E.N.P.A), Milano, Springer, 2001; Basso A., Conoscere e rieducare l’a., Roma, Il Pensiero Scientifico, 2005; Jacobson R., Linguaggio infantile e a., Torino, Einaudi, 2006.
V. L. Castellazzi
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AFFETTIVITÀ Per a. intendiamo riferirci al complesso dinamico di sentimenti e di → emozioni che costituiscono la totalità del processo emozionale. Le emozioni si possono definire come uno stato interno complesso ed organizzato nel quale è individuabile una spinta all’azione, una reazione somatica ed una valutazione cognitiva; ed i sentimenti come fenomeni stabili, duraturi, generalmente meno intensi delle emozioni e che contraddistinguono la → personalità dal punto di vista affettivo. 1. Anche se si ritiene che l’a., nel suo insieme di sentimenti e di emozioni, sia presente fin dalla nascita, è pur vero che essa si apprende in larga misura durante tutta la vita. Così nel → bambino appena nato l’a. svolge una funzione fondamentale e si presenta come un elemento importante nel suo sviluppo psicofisico. Al pianto che si verifica alla nascita potrebbe essere riconosciuta anche la funzione di richiamare la madre alle pratiche inerenti alla cura del neonato. Infatti egli per sopravvivere deve soddisfare dei bisogni fisici specifici quali il mangiare, il dormire, l’evacuare, che sono avvertiti mediante sensazioni dolorose e che, soddisfatti dalla madre o dalla persona che lo cura, producono in lui una sensazione di piacere e di benessere diffuso. Il succhiare il seno materno, il piangere per avere la madre, il sorridere alla sua presenza, il rivolgerle i primi balbettii, sono tutti comportamenti in cui si esprime il rapporto affettivo madre-bambino. Solo se il bambino è stato adeguatamente curato dalla madre non vive sotto l’incubo continuo di perderla e con questa sicurezza sopporta le frustrazioni e le inevitabili difficoltà che si verificano durante la sua espansione verso il mondo esterno. Crescendo, infatti, il bambino allarga la sua sfera affettiva ed investe di particolare amore sia alcuni oggetti, come l’orsacchiotto od il succhiotto, che le altre persone della sua famiglia. Più tardi diventeranno anche importanti i coetanei e gli adulti appartenenti all’ambiente a lui vicino. 2. La mancanza di un’a. nell’ambito familiare può indurre nel bambino uno stato di paura e di ansia che apparirà alla prima frustrazione specialmente quando non vi è tra coloro che lo circondano una persona cara
AFFIDAMENTO
alla quale poter comunicare liberamente i sentimenti provati nelle vicende giornaliere. Ciò lo porta a respingere pian piano la consapevolezza del proprio vissuto affettivo interno e a non volerlo sperimentare perché sente che non vi è una persona che possa accettare e comprendere il suo mondo di sentimenti. Alcune volte questa presenza dispensatrice di a. è mancata o manca per motivi contingenti quali il lavoro od impegni tali da lasciare pochi momenti liberi per avvicinarsi con tranquillità e serenità al mondo dell’altro. Oppure vi può essere stata una difficoltà costituzionale a comprendere la necessità di avere dimostrazioni di a. da parte del bambino. L’a. viene così ritenuta qualcosa di superfluo, che può essere sostituito vantaggiosamente da una razionalizzazione. In questi casi il bambino purtroppo finisce con l’apprendere che il bisogno di a. è una cosa solo sua, che agli altri non interessa e che pertanto è bene viverla in segreto o addirittura non viverla affatto. Da ciò può nascere un comportamento difensivo nei riguardi di tutto ciò che è affettivo e che provoca quella sensazione di vuoto, caratteristica della persona che ha soffocato questa importante parte di se stessa. Pertanto vi dovrà essere, per superare la sofferenza, la riappropriazione dei propri sentimenti ed emozioni con l’aiuto di una persona che sappia corrispondere con un caldo clima affettivo. Bibl.: D’Urso V. - R. Trentin, Psicologia delle emozioni, Bologna, Il Mulino, 1988; A mmaniti M. - N. Dazzi (Edd.), Affetti, Bari, Laterza, 1990; Sonet D., Il primo bacio & dintorni: educatori e ragazzi di fronte a sessualità e a., Leumann (TO), Elle Di Ci, 2003; Olivo S. - V. Iurman - M. Colombo, A. e sessualità. Saper ascoltare per saper educare, Trieste, Mgs Press, 2007.
W. Visconti
AFFIDAMENTO Istituto giuridico volto ad offrire ad un minore, temporaneamente privo della possibilità di vivere nella sua famiglia di origine, un ambiente familiare idoneo a soddisfare le sue necessità affettive ed educative. 1. L’a. ha le sue basi storiche nel generico
concetto di accoglienza privata e di ospitalità dei minori abbandonati; in Italia non esistono sue formulazioni legislative fino al Codice civile del 1942, con cui assume per la prima volta un significato giuridico sia pur ancora piuttosto limitato. Solo negli anni ’70, sulla scia di un significativo ed interessante dibattito culturale e politico promosso da operatori sociali e da associazioni di → volontariato, si è cominciato a considerarlo come possibile forma organica di intervento per i minori in semi-abbandono, non adottabili e con difficili storie di vita. Si è giunti quindi nel 1983 all’emanazione della L. n. 184 «Disciplina dell’adozione e dell’a. dei minori» con cui tale istituto ha trovato una precisa codificazione delle sue finalità e modalità di applicazione. La L. 184 è stata poi in parte modificata ed integrata dalla L. 149 del 2001 che ha dato maggior risalto all’importanza per il minore di vivere nella propria famiglia o in un ambiente familiare ed alla necessità di sostenere il più possibile le famiglie di origine, introducendo inoltre un’importante innovazione con la decisione di chiudere i grandi istituti di accoglienza entro la fine del 2006 e consentendo il permanere delle sole comunità di tipo familiare. 2. La normativa prevede per i minori temporaneamente privi di un ambiente familiare idoneo, che possano essere affidati ad altre famiglie, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare, al fine di assicurare loro il mantenimento, l’educazione e l’istruzione L’a. viene promosso dai servizi sociali territoriali. Quando vi è il consenso dei genitori naturali, esso è reso esecutivo con decreto del Giudice Tutelare; nel caso manchi tale consenso viene deciso dal Tribunale per i Minorenni. Il provvedimento deve chiarire i motivi dell’a. ed indicare la sua probabile durata, che non deve superare i due anni, ma può essere prorogato qualora se ne ravveda la necessità. I servizi sociali hanno il compito di vigilare sul suo andamento, offrendo a tutte le persone coinvolte sostegno, consulenza, aiuto. È previsto che gli affidatari favoriscano i contatti del minore con la famiglia di origine ed il suo reinserimento nella stessa. 3. L’a. è un istituto complesso, di problematica attuazione e gestione pratica. Nonostante 41
AFRICA
la sua definizione giuridica e le molte campagne condotte da amministrazioni pubbliche e da associazioni private per farlo conoscere a livello sociale e culturale, incontra tuttora difficoltà a trovare la necessaria disponibilità da parte delle famiglie difficilmente in grado di aprirsi ad una ospitalità temporanea ed al rapporto con i genitori naturali dei figli accolti. Bibl.: Cambiaso G., L’affido come base sicura: la famiglia affidataria, il minore e la teoria dell’attaccamento, Milano, Angeli, 1998; G reco O. - R. Iafrate, Figli al confine: una ricerca multimetodologica sull’a. familiare, Ibid., 2001; Centro Nazionale di Documentazione ed A nalisi per l’I nfanzia e l’A dolescenza, I bambini e gli adolescenti in a. familiare, Firenze, Istituto degli Innocenti, 2002.
A. M. Libri
AFRICA: sistemi formativi 1. Tradizione e emancipazione. La tradizione africana è basata sulla vita di clan che provvede alla educazione del bambino. I riti di → iniziazione della fase puberale segnano il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. I codici morali e l’assunzione dei ruoli adulti sono appresi nella vita comunitaria e la pedagogia di per sé non ha una fondazione teoretica. Sulla tradizione antica africana si sono innestati i modelli educativi importati dall’ → Europa. La compresenza dei due sistemi valoriali di riferimento ha alla lunga generato forme di convivenza ma anche conflitti e movimenti di → liberazione nazionale. Dagli anni ’60, epoca della decolonizzazione, alla metà degli anni ’70 l’A. cerca faticosamente la propria emancipazione; segue la fase della affermazione degli Stati totalitari e quindi quella della ricerca di vie di liberazione mutuate dall’Occidente capitalista e dall’Est comunista. Il continente africano resta un universo culturale composito sia per le passate vicende precoloniali e coloniali, sia per l’attuale fisionomia politico-sociale dei diversi Paesi che rende difficile l’elaborazione di modelli educativi originali e liberi dall’influenza europea. Solo nello Zaire sono parlati più di 400 dialetti appartenenti ai gruppi linguistici sudanesi e bantu. Tale 42
molteplicità linguistica, comune agli altri Stati africani, trova ancora nelle lingue europee, soprattutto nel fr., nell’ingl. e nel port., un veicolo di comunicazione internazionale insostituibile. 2. Economia e istruzione. Mentre l’A. Occidentale crea una sua comunità economica con PECOWAS, o Economic Community of West African States (fondata nel 1975), l’A. Meridionale cerca un suo sviluppo autonomo dal Sud A., coordinando gli sforzi attraverso la SADCC, o Southern African Development Coordination Conference (fondata nel 1979). A livello internazionale la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale continuano a fornire prestiti a diversi Paesi africani, ed i creditori europei organizzati nel Paris Club e nel London Club, dove reputano opportuno, operano dilazioni nei pagamenti. Questo meccanismo di debiti/crediti trasforma l’A. da continente ricco per natura a continente povero per capacità e possibilità di sfruttamento delle risorse. Di qui la ricerca di personale qualificato da immettere nei processi formativi e nel mercato interno del lavoro. Guerra e povertà (cfr. Angola, Botswana, Sudan, Mozambico) sono problemi che ritardano l’attuazione dei piani di → alfabetizzazione di bambini, giovani, adulti. Le stime del 1990 sull’analfabetismo adulto (Unesco, 1993) registrano percentuali notevoli negli Stati di Burkina Faso (81,8%), Benin (76,6%), Guinea (76,0%), Somalia (75,9%) e meno elevate nel Madagascar (19,8%) e nelle Isole Maurizio (20,1%). Nella maggioranza dei casi sono le fasce femminili della popolazione, la popolazione rurale e gli appartenenti alle classi sociali meno abbienti ad essere più esclusi dalla → scuola, salvo poi effettuare i rientri nel circuito dell’istruzione previsti dalle varie forme di → educazione degli adulti. 3. Sistemi formativi a confronto. Dalle statistiche dell’Unesco (1993) non compaiono dati relativi all’istruzione prescolastica in: Botswana, Ciad, Guinea, Guinea Equatoriale, Lesotho, Madagascar, Malawi, Mali, Mauritania, Sierra Leone, Tanzania, Uganda, Zimbabwe. Le eventuali agenzie, preposte alla educazione prescolastica in questi Stati, funzionano nelle aree urbane, per iniziativa privata, ad opera delle missioni, e sono spes-
AGAZZI ALDO
so accessibili solo alle classi agiate. L’istruzione è obbligatoria e gratuita quasi dovunque: per 5 anni come in Madagascar, per 8 come in Angola e nel Niger, per 9 come in Algeria, per 10 come nel Congo e nel Gabon, per 11 come in Tunisia. Non vi è → obbligo scolastico nei seguenti Stati: Botswana, Camerun Occidentale, Gambia, Kenya, Mauritania, Maurizio, Sierra Leone, Sudan, Swaziland, Uganda. La scuola primaria e quella secondaria sono attivate, dovunque: l’obbligo quando previsto, copre l’arco dell’istruzione primaria e, in qualche caso, il primo ciclo della secondaria. I giovani degli Stati nei quali le istituzioni superiori non sono attivate completano gli studi nelle università africane disponibili, in Europa, negli Stati Uniti d’America, in Canada e, fino a quando è stato possibile, nell’Unione Sovietica. In molti casi la politica dell’educazione nei vari Stati sottolinea la necessità di raggiungere la diffusione universale dell’istruzione primaria e piani specifici vengono periodicamente predisposti allo scopo. Si tratta di un obiettivo difficile, considerata la diversità delle opportunità educative per maschi e femmine, per utenza urbana e rurale e la forte dispersione scolastica data da abbandoni, ripetenze, interruzioni, frequenze irregolari. Diplomati e laureati non sempre decidono di restare in A. e 1’ → emigrazione dei professionisti impoverisce ulteriormente le economie e lo sviluppo dei Paesi africani più poveri. Un caso a parte è rappresentato dal Sud A. nel quale è in atto una lenta trasformazione post-apartheid che investe l’economia, la cultura, la scuola. Il nuovo sistema scolastico sudafricano prevede 13 lingue ufficiali: Tingi, più una delle lingue locali. La società multiculturale, presente in A., come in Europa, assume conformazioni interessanti, forse ancora troppo poco studiate fuori dei quadri interpretativi della subordinazione economico-politica. Si pensi ad es. al problema della nuova scrittura dei manuali e alla riformulazione dei curricoli scolastici, alla adozione di linguaggi che permettano la comunicazione tra formazioni culturali diverse. Se da un lato non appare scientifico relazionarsi all’A. come ad un continente senza tradizioni, o dalle tradizioni poco significative, d’altro canto esiste l’urgenza di creare flussi migratori e contatti umani impostati sulla consapevolezza del particolare patrimonio di valori che va
scoperto e conosciuto soprattutto attraverso 1’ → educazione interculturale e sulla presa di coscienza del condizionamento negativo provocato dal → pregiudizio etnico. Bibl.: K ing E. J., «South A.», in T. N. Postleth waite, The encyclopedia of comparative education and national systems of education, Oxford, Pergamon, 1987; Chistolini S., I sistemi educativi nel Sud del Mondo. A. subsahariana, Roma, Euroma-La Goliardica, 1988; Fajana A., «Multicultural education practices in Nigeria», in D. K. Sharpes (Ed.), International perspectives on teacher education, London, Routledge, 1988, 33-42; Dekkere I. - E. M. Lemmer (Edd.), Critical issues in modern education, Durban, Butterworths, 1993; Gandolfi S. - F. R izzi, L’educazione in A., Brescia, La Scuola, 2001; Erny P., Istruzione, educazione familiare e condizione giovanile in A., Torino, L’Harmattan Italia, 2003.
S. Chistolini
AGAZZI Aldo n. a Bergamo nel 1906 - m. a Bergamo nel 2000, pedagogista italiano. 1. Figlio di due operai tipografi, primogenito di 8 figli, divenne a 18 anni maestro elementare, a 28 direttore didattico. Diplomato nell’Università Cattolica, con → Casotti, per la Vigilanza scolastica e laureato in Pedagogia all’Università di Torino, divenne insegnante di filosofia all’istituto magistrale, poi libero docente in pedagogia e incaricato a Padova e infine straordinario nell’Università Cattolica (1960), dove fu anche preside di Facoltà e direttore dell’Istituto di Pedagogia. 2. Dotato di vasta e solida cultura umanistica, si aprì alle istanze della socialità e della democrazia, impegnandosi nell’UCIIM, Unione cattolica italiana insegnanti medi, al fianco di → Nosengo, che avrebbe sostituito alla presidenza nazionale, dal 1969 al 1974. Fu anche presidente del Movimento Circoli della Didattica. Partecipò alla Commissione Gonella, battendosi vittoriosamente per la secondarietà della scuola media, fu membro del Consiglio Superiore della P.I. (1951-54 e 1958-62), combattivo membro delle commissioni ministeriali per la stesura dei Program43
AGAZZI ROSA E CAROLINA
mi della scuola media e degli Orientamenti della scuola materna, fu direttore poi presidente del Centro didattico nazionale per la scuola materna (dal 1950 al 1974), presidente dell’ASPeI, associazione pedagogica italiana, segretario di Scholè, centro di studi fra pedagogisti cristiani, presso l’Editrice la Scuola, dal 1954 al 1968. Presso la stessa Editrice fu anche direttore dal 1948 al 1984 della rivista Scuola Materna e dal 1955 al 1991 della rivista «Scuola e Didattica». 3. I più impegnativi lavori scientifici di A. sono: Saggio sulla natura del fatto educativo, in ordine alla teoria della persona e dei valori (1950), Oltre la scuola attiva. Storia, essenza e significato dell’attivismo (1955); Teoria e pedagogia della scuola nel mondo moderno (1958) e Il lavoro nella pedagogia e nella scuola (1958). Negli anni successivi, oltre alle sue dispense universitarie videro la luce fra gli altri: Gli esami, aspetti pedagogici (1967); Pedagogia, didattica, preparazione dell’insegnante (1968); Le nuove problematiche dell’educazione (1971). Collocatosi nella linea del personalismo educativo (Il discorso pedagogico. Prospettive attuali del personalismo educativo, pro manuscripto, 1963), A. affrontò nei seminari universitari, nelle sedi istituzionali, nei convegni e nei corsi di aggiornamento per docenti e per educatori problemi filosofici, pedagogici, di politica scolastica, didattici, con chiarezza, equilibrio, tenacia, da educatore oltre che da intellettuale impegnato, stimato dai colleghi di tutti gli orientamenti. Bibl.: a) Fonti: la bibl. di A.A. (oltre 1600 titoli) è contenuta in: Pedagogia fra tradizione e innovazione. Studi in onore di A.A., Milano, Vita e Pensiero, 1979. b) Studi: Scurati C. (Ed.), Educazione società scuola. La prospettiva pedagogica di A.A., Brescia, La Scuola, 2005; Galli N., La pedagogia di A.A., in «Pedagogia e Vita» (2002) 2, 39-91; Scurati C. (Ed.), Educazione, società, scuola: la prospettiva pedagogica di A.A., Brescia, La Scuola, 2005 Corradini L., Nosengo e A., attualità di due centenari, in «La Scuola e l’Uomo» (2006) 8-9, 189-194; Pazzaglia L. et. al., La passione e l’intelligenza educativa. Il patrimonio pedagogico di A.A, in «Scuola e Didattica» 11 (2007) 2, 49-64.
L. Corradini
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AGAZZI Rosa e Carolina Rosa n. a Volongo-Cremona nel 1866 - m. ivi nel 1951 e Carolina n. a Volongo-Cremona nel 1870 - m. a Brescia nel 1945, educatrici italiane. 1. Alle sorelle A. (ma particolarmente a Rosa) si riconosce il merito di aver attuato la riforma del fröbelismo in Italia e di aver realizzato a Mompiano (Brescia) un sistema di educazione infantile che si rivelò capace di soddisfare con puntualità e con congruenza, le esigenze dei bambini e della società rurale in cui vivevano. In questo sistema interagiscono vari elementi (i bambini, le educatrici, le loro famiglie, i locali, gli spazi esterni, il materiale didattico, le esperienze educative, lo stile magistrale, le modalità comunicative). Al centro c’è il bambino, visto come «germe vitale che aspira al suo armonico sviluppo», che è protagonista attivo del suo apprendimento e partecipe della vita della scuola, grazie alla qualità dell’organizzazione dell’ambiente, delle relazioni, dell’animazione educativa della maestra che è la «regista» della «grande casa e dell’allegra famiglia». 2. R.A. dalla conoscenza del bambino fa scaturire due curricoli: uno (che oggi potremmo chiamare implicito) legato alla qualità dell’ambiente che consente ai bambini di soddisfare la loro curiosità, «di chiedere, di domandare, di guardare e di «osservare», il bisogno di conoscere le loro cose, quelle dei loro compagni, il mondo fisico, la scuola, l’orto, gli oggetti, le piante, gli animali, le persone che vi si trovavano», di fare, di costruire, di interagire; e l’altro esplicito relativo alle attività comunemente considerate a carattere intellettuale quali «la lingua e le abilità in genere». Accanto a questo programma c’è tutta la vita della scuola, con i rapporti che si instaurano tra bambini, tra i bambini ed educatrici e con le occasioni che si presentano per le lezioni, per i dialoghi, per la conversazione, per il racconto e la discussione. 3. Il sistema di Mompiano «si impernia intorno ad un ambiente di vita fisica ed operativa», in cui il bambino prova la gioia di vivere, respira un’atmosfera educativa ed
AGGRESSIVITÀ
apprende ad essere autonomo e competente, capace di mangiare da sé, di apparecchiare e di sparecchiare, di vestirsi e di spogliarsi, di provvedere ai suoi bisogni, di muoversi nel suo spazio vitale, di organizzare il suo tempo, di fare, di trasformare la materia attraverso il gioco-lavoro, di ben pensare e di esprimere con chiarezza il suo pensiero. Tra i bisogni del bambino, oltre a quello di stare bene, di maturare la propria identità, di autonomia e di competenze, R.A. colloca anche quelli di armonia, di bellezza e del sacro, sostenendo che la sua «incontrastabile individualità impone all’educatrice di attingere da se stessa quanto occorre per promuoverla», per vivificare l’umanità che egli custodisce ed attende di attuare. Bibl.: Agazzi A. - S. S. Macchietti, L’educazione dell’infanzia nella scuola materna e il metodo A., Brescia, La Scuola, 1991; M acchietti S. S. et al., Scuola materna gioia di vivere crescere apprendere, Brescia, Ist. Mompiano «PasqualiAgazzi», 1996; Macchietti S. S. (Ed.), Alle origini dell’esperienza agazziana: sottolineature e discorsi, Azzano San Paolo (BG), Junior, 2001.
S. S. Macchietti
AGENZIE EDUCATIVE → Istituzioni educative AGGIORNAMENTO → Educazione permanente
AGGRESSIVITÀ Condotta che può essere vissuta in modo positivo (affermazione di sé) o negativo (auto e/o eterodistruttività). 1. L’a. si snoda dunque lungo un continuum che va dalla difesa di se stessi, ad un sano bisogno di affermazione, alla creatività, alla competitività, al dominio sugli altri, alla distruzione di sé (masochismo) o degli altri (sadismo). Secondo l’ottica psicoanalitica, l’a. non si esprime solamente attraverso una condotta manifesta ed intenzionale, ma anche in modo mascherato ed inconscio. Ad es., un genitore scarica la sua ostilità nei confronti del figlio attraverso l’iperprotezionismo; oppure un individuo si dedica maniacalmente ad opere di bene per soddisfare il suo bisogno di dominare sugli altri.
2. L’a. non è riconducibile ad un’unica causa, ma ad una serie di fattori neurofisiologici, biochimici, psicologici e sociali tra loro interconnessi. Notevoli sono i contributi psicoanalitici al riguardo. → Freud giunge gradualmente alla conclusione che l’a. non è altro che un’espressione della pulsione di morte (Thanatos), a cui, nel saggio Al di là del principio del piacere del 1920, egli riconosce un peso uguale a quello della libido, denominata pulsione di vita (Eros). Entrambe le pulsioni sono innate e nella prima infanzia sono tra loro intimamente fuse. Successivamente si differenziano. Una mancata defusione in età adulta comporta uno stato patologico. Per Freud la pulsione di morte tuttavia non riguarda semplicemente l’a., ma anche la tendenza alla riduzione assoluta delle tensioni, fino a portare l’essere vivente allo stato inorganico. Anche se il concetto di pulsione di morte è rimasto uno dei più controversi nell’ambito della teoria psicoanalitica, → Klein ha ripreso i contributi freudiani, sottolineando con ancora più forza il ruolo fondamentale che esso svolge nella strutturazione della personalità fin dai primi mesi di vita, soprattutto in assenza di una cura adeguata da parte della madre. Entro quest’ottica, l’esistenza dell’individuo è vista come uno snodarsi entro una costante conflittualità nella bipolarità: amore-odio, invidiagratit udine, distruzione-riparazione, oggetto buono-oggetto cattivo. Ciò significa che la pulsione di morte normalmente si trova in uno stato di connessione con la pulsione di vita. Occorre però che, per il mantenimento della salute psichica, la pulsione di vita sia predominante. Bibl.: Laplance J., Vita e morte nella psicoanalisi, Bari, Laterza, 1972; Storr A., La distruttività nell’uomo, Roma, Astrolabio, 1975; Freud S., «Al di là del principio del piacere», in Opere, vol. 9, Torino, Boringhieri, 1977, 193-249; K lein M., Scritti 1921-1958, Ibid, 1978; Rohm H., L’a. infantile. Teoria e prassi per un’educazione risolutrice dei conflitti, Firenze, La Nuova Italia, 1980; La relazione aggressiva, Roma, Borla, 1988; K ernberg O. F., A., disturbi della personalità e perversioni, Milano, Cortina, 1993; Norbert E. - E. Dunning, Sport e a., Bologna, Il Mulino, 2001; Fornaro M., A. I classici nella tradizione della psicologia sperimentale, della psicologia clinica, dell’etologia, Torino, Centro Scientifico, 2004;
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AGOSTINO AURELIO
Fagiani M. B. - G. R amaglia, L’a. in età evolutiva, Roma, Carocci , 2006; Kernberg O. F., Narcisismo, a. e autodistruttività nella relazione terapeutica, Milano, Cortina, 2006.
V. L. Castellazzi
AGOSTI Marco → Neoscolastica pedagogica
AGOSTINO Aurelio n. a Tagaste nel 354 - m. a Ippona nel 430, vescovo e scrittore, padre della Chiesa. 1. Vita ed opere. Africano di nascita e romano di lingua, cultura e sentimenti, A. fu educato cristianamente dalla madre Monica, ma da giovane si abbandonò all’orgoglio intellettuale, a deviazioni morali, all’eresia manichea. Insegnò retorica a Cartagine, a Roma e a Milano: ivi, dopo una lunga e tormentata vicenda interiore e profonda riflessione, si riavvicinò al Cristianesimo e nel 387 fu battezzato dal vescovo Ambrogio. Ritornò in Africa e a Tagaste si dedicò a vita ascetica con alcuni amici. Ordinato sacerdote nel 391 e vescovo di Ippona nel 396, fino alla morte esplicò una prodigiosa attività pastorale, dottrinale e letteraria. Scrisse moltissime opere: libri autobiografici (le Confessiones), filosofici (i Dialogi), apologetici (il più significativo è De civitate Dei, proposta di una visione cristiana della storia umana), dogmatici (il De Trinitate), pastorali e pedagogici, monastici, esegetici, polemici (contro manichei, pelagiani, donatisti); inoltre più di 300 lettere, vari trattati (come le Enarrationes in Psalmos) e circa 570 Sermones. In riferimento alla pedagogia sono particolarmente importanti: De magistro, De catechizandis rudibus, De doctrina christiana, Epistulae 118 e 266. 2. Il pensiero pedagogico. a) L’esperienza personale di A. influì sul suo pensiero pedagogico. Dapprima ebbe modo di apprezzare l’educazione cristiana ricevuta dalla madre, poi da giovane, frequentando scuole pagane e leggendo autori classici, deplorò le pagine scandalose, l’obiettivo della vanagloria, la vacuità della semplice formazione letteraria, i metodi mnemonici, i frequenti castighi (pur accettati in linea di principio). Soprattutto A. 46
ricercò la verità per tutta la vita, passando attraverso una crisi religioso-filosofica e una crisi morale. Da esse riemerse con la riflessione personale, con la lettura di testi platonici, con l’esempio di cristiani ferventi e specialmente con la preghiera, la meditazione sulla Sacra Scrittura, l’aiuto della grazia divina. b) Il pensiero pedagogico di A. è strettamente connesso con la sua filosofia e teologia, che sono fondate essenzialmente su tre principi: l’interiorità (l’uomo deve rientrare in se stesso per constatare la presenza della verità), la partecipazione (ogni bene è tale o per se stesso o perché deriva dal bene), l’immutabilità (l’essere vero è solo l’essere che non muta, che esclude limitazioni, composizioni e variazioni). c) L’amore, come espressione di pura benevolenza sull’esempio di Dio, è per A. l’anima dell’educazione (Cat. rud. 4). L’educatore dona con gioia e disinteresse, si adatta alle condizioni psicologiche della persona, ispira confidenza (ivi, 10.12); sa rendere efficaci anche la disciplina e il castigo, perché li fa sgorgare dall’amore (Serm. 13,8,9). Egli desidera portare l’educando al pieno sviluppo delle sue possibilità, come una madre che nutrendo il proprio figlio, non vuole che rimanga piccolo, ma che cresca (Serm. 23,3). A sua volta il bambino corrisponde alle cure dell’educatore, facendosi guidare dall’amore per il bene, scopo primario dell’educazione Certamente non si può amare ciò che non si conosce e non si è ancora sperimentato, ma si ama ciò che già si conosce e che si vuole conoscere meglio e perciò si vuole sapere ciò che si ignora (Trin. 10,1,3). d) Finalità dell’educazione è il passaggio dalla vita istintiva a quella razionale (Civ. Dei 22,24). L’educatore la ottiene servendosi di una equilibrata disciplina, proponendo elevati modelli morali e facendo rispettare la gerarchia dei valori. Tale compito spetta principalmente ai genitori nella famiglia e ai vescovi nella comunità cristiana. e) A. presenta acute pagine sulla didattica: insegnare è mostrare e dire. L’insegnante pone in essere segni, azioni, pensieri; richiama alla mente qualcosa conosciuto in precedenza; porta alla consapevolezza dell’allievo elementi a cui questi non prestava attenzione, pur essendo presenti sullo sfondo. Intelligere [comprendere] sarà non solo intus legere [leggere dentro], ma anche inter legere [leggere tra le cose, considerandole insieme] (Conf. 10,11,18).
AIDS
L’abilità pedagogica del maestro opera una giusta connessione tra parole e significato. Il linguaggio esteriorizza ed incarna la parola interiore: così la comunicazione intersoggettiva è possibile se l’ascoltatore «vede le cose con il puro occhio interiore, conosce ciò che io dico con il proprio pensiero e non mediante le mie parole» (Mag. 12,40). f) Non vi è educazione senza l’atto personale di intendere e di giudicare, senza una valorizzazione di se stessi e la conoscenza dell’universo che ci circonda, senza assunzione di responsabilità totale nei confronti di se stessi. g) Infine attraverso i segni delle cose l’uomo si abitua a passare dalle «realtà materiali a quelle spirituali» (Musica 6,2,2). Lo splendore della verità divina è tale che un occhio impreparato non può sopportarne tutta la luce: l’uomo vi si deve disporre contemplando la luce riflessa sulle cose visibili. Dunque «dobbiamo considerare il mondo come mezzo, non come fine per poter contemplare le perfezioni invisibili di Dio comprendendole attraverso le cose create» (Doct. chr. 1,4,4). La comprensione delle cose intelligibili avviene non per mezzo delle parole che risuonano dal di fuori, ma per mezzo della ragione che è sostenuta dalla luce della verità risplendente nell’intimo (cfr. Mag. 12,39). Ciascuno è ammaestrato «dalle cose stesse che gli si manifestano, perché Dio gliele svela nell’interiorità» (Mag. 11,38). Il ruolo del maestro umano è quello di insegnare un metodo per scoprire la verità presente, ma latente all’interno del discepolo: chi insegna veramente è Cristo, l’unico vero maestro interiore, che interpella tutti e ciascuno, che dona la sapienza, intesa come verità da possedere e realtà da amare. L’uomo supera così la propria mutabilità e si apre al trascendente. 3. Influsso. A. trasmise (soprattutto al → Medioevo) i valori della cultura, il gusto per la ricerca, l’ideale di una sapienza cristiana sotto il primato della Scrittura. Pedagogicamente egli pose l’allievo al centro del processo educativo, ne valorizzò la capacità creativa, elaborò una proposta globale di educazione alla fede, configurò l’apprendimento come lo sforzo di ritrovare in se stessi la verità. All’educatore richiamò il dovere di unire ricerca e testimonianza, scienza e vita. Nella visione cristiana dell’uomo, A. ricuperò e rifuse
i valori universalmente umani del mondo classico greco-romano. Bibl.: a) Fonti: le opere di A. sono edite in lat. e tradotte in it. nella collana Opera omnia di s. A. (Nuova Biblioteca Agostiniana), Roma, Città Nuova, 1965ss; Miano V. (Ed.), S. A. Antologia pedagogica, Torino, SEI, 1958. b) Studi: Bellotti G., L’educazione in Sant’A., Bergamo, 1963; K evane E., Augustine the educator. A study in the fundamentals of Christian formation, Westminster, Newman Press, 1964; Patané L.R., Il pensiero pedagogico di S. A., Bologna, Patron, 2 1969; Sant’A. educatore (Atti della settimana agostiniana pavese, 2), Pavia, Ponzio, 1971; Perrini M., La paideia cristiana di A., in «Humanitas» 42 (1987) 3, 355-388; Valenzuela A., San Agustín de Hipona, teoría y arte pedagógicas, Valparaiso, Ed. Universitarias, 1984; Fabris M. (Ed.), L’umanesimo di Sant’A., Bari, Levante, 1988; Crosson F. J. et al., «De Magistro» di A. d’Ippona, Palermo, Augustinus/Città Nuova, 1993; Paffenroth K. - K. L. Hughes (Edd.), Augustine and liberal education, Aldershot, Ashgate, 2000; Galindo Rodrigo J. A., Pedagogía de San Agustín, Madrid, Augustinus, 2002; Jerphagnon L., Saint Augustin: le pédagogue de Dieu, Paris, Gallimard, 2002.
M. Maritano
AIDS L’a. o sindrome di immunodeficienza acquisita è uno stato morboso dell’organismo umano dovuto a un retrovirus (HIV) che invade e (dopo un periodo più o meno lungo di latenza) distrugge i linfociti T del sangue, azzerando gradualmente le difese immunitarie dell’organismo ed esponendolo agli attacchi ripetuti (e alla fine mortali) di agenti infettivi «opportunisti». Si trasmette attraverso il sangue e lo sperma. Le sue vittime sono quindi prevalentemente giovani che lo contraggono attraverso la promiscuità dei rapporti sessuali (soprattutto omosessuali) e l’uso comune delle siringhe da parte degli eroinomani. Da questo punto di vista, costituisce un problema anche educativo. L’educatore che opera tra i giovani, soprattutto se esposti al pericolo di certe forme di devianza è chiamato a svolgere una difficile opera di profilassi educativa e culturale, consistente 47
AIUTO: RELAZIONE DI
non soltanto in una messa in guardia attenta e informata, ma anche nella trasmissione di → valori che portino i giovani ad amare la vita e a desiderarne lo sviluppo e la fruttificazione. Nello stesso tempo dovrà esorcizzare la facile condanna e l’interdetto sociale che spesso colpisce questo genere di malati. Bibl.: M alherbe J. F. - S. Zorrilla - S. Spinsanti, Il cittadino e l’A., Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1991; Punzi I., Logoterapia e A. L’esperienza della Casa-famiglia «Padre Monti», in «Orientamenti Pedagogici» 39 (1992) 1191-1198; Sandes E., A. als Herausforderung für the Theologie: eine Problematik zwischen Medizin, Moral und Recht, Essen, Ludgerus, 2005
G. Gatti
AIUTO: relazione di Si parla di relazione di a. ogni qualvolta si verifica un incontro tra due persone una delle quali è in condizioni di difficoltà e l’altra è in possesso delle competenze e degli strumenti necessari per agevolarne il superamento. In tal senso, la relazione di a. può essere definita come un processo dinamico nel quale una persona è assistita per operare un adattamento personale ad una situazione nei confronti della quale non è ancora riuscita ad adattarsi. Aiutare, infatti, deriva dal lat. adiuvare (ad + iuvare) ossia arrecare giovamento. 1. La situazione di difficoltà può essere di diversa natura: fisica, psicoemotiva, sociale, comportamentale, ed è sperimentata da chi ne è portatore come una condizione non soddisfacente, che incide sulla qualità della sua vita e dei suoi rapporti con l’ambiente. Colui che aiuta ha il compito di comprendere il problema nei termini in cui si pone per quel particolare individuo in quella particolare situazione, per poi aiutare l’individuo stesso ad evolvere personalmente nel senso di un miglior adattamento personale e sociale. Possiamo avere relazioni di a. di tipo informale (relazioni amicali, familiari, di vicinato) e relazioni di a. di tipo formale-professionale (relazioni insegnante-allievo; medico – paziente; sacerdote – fedele, ecc.). L’a. fornito, all’interno di queste relazioni può assumere diverse forme: sostegno emotivo, informa48
tivo, strumentale, valutativo. Alla luce di quanto espresso la relazione di a. viene a configurarsi come un’interazione asimmetricamente dipendente, in quanto una persona è nella posizione del «dare», l’altra è nella posizione del «ricevere». Il potere di influsso è, così, sbilanciato a favore di chi presta a. Sta quindi a quest’ultimo non abusare del potere che la situazione e il suo ruolo gli conferiscono e di agevolare la comunicazione nell’altro e a favore dell’altro. 2. Una metodologia particolare della relazione di a. è il colloquio di a. messo a punto da Rogers (1970). L’idea di fondo del colloquio di a. è che il miglior modo di offrire sostegno alla persona in difficoltà, non è suggerire soluzioni o prescrivere comportamenti da attuare, quanto piuttosto aiutare la persona stessa a comprendere meglio la sua situazione per giungere poi a riconoscere ed attivare risorse cognitive, emotive e comportamentali che ne consentono una migliore gestione. A tale riguardo, la cura degli aspetti comunicativi e relazionali assume un grande rilievo. In particolare, a colui che presta a. si richiede di: evitare interventi direttivi (consigliare, prescrivere, rassicurare, valutare, interpretare) per lasciare spazio a forme di supporto verbale non direttive che facilitino l’autoesplorazione e l’autocomprensione (riformulare, rispecchiare, chiarificare); creare un ambiente non ostacolante; mostrare attenzione, calma e disponibilità; modellare il proprio comportamento su criteri quali la parità e il rispetto, la dignità altrui e la tutela dei reciproci diritti; trasmettere comprensione emotiva. Inoltre, poiché l’individuo che si trovi coinvolto in una relazione di a. con un altro individuo in posizione di bisogno pone se stesso in una situazione non priva di rischi (coinvolgimento emotivo, spersonalizzazione, induzione di aspettative irrealistiche), è necessario che egli disponga di alcune condizioni personali quali: consapevolezza di sé, contatto con le proprie emozioni ed esperienze, autocontrollo, responsività. Bibl.: Rogers C. - G. M. K inget, Psychothérapie et relations humaines: théorie et pratique de la thérapie non-directive, Louvain, Publications Universitaires, 1969-1971; Rogers C. R., La terapia centrata sul cliente, Firenze, Martinelli, 1970; Carkhuff R., L’arte di aiutare, Ibid., 1997; Ro -
ALCOLISMO gers C. R., Terapia centrata sul cliente, Firenze, La Nuova Italia, 1997; Bruzzone D., Psicoterapia e pedagogia in Carl R. Rogers. Una ricerca sui contributi dell’approccio centrato-sulla-persona all’educazione, in «Orientamenti Pedagogici» 45 (1998) 447-465; Colasanti A. R. - R. M astro marino, L’ascolto attivo, Roma, IFREP (1999); Egan G., The skilled helper: a problem-management and opportunity-development approach to helping, Pacific Grove, California, Brooks-Cole, 2002; Di Fabio A., Counseling e relazione di a., Firenze, Giunti, 2003.
A. R. Colasanti
ALBERTI Leon Battista → Umanesimo rinascimentale ALBERTO MAGNO → Medioevo
ALCOLISMO L’a., detto anche etilismo, è descritto come una condizione di dipendenza dall’assunzione di bevande contenenti alcol. Può essere definito cronico o acuto. Il primo esprime lo stato patologico di chi da tempo ormai assume dosi eccessive di alcol, mentre il secondo fa riferimento alla semplice ubriachezza vissuta in modo episodico. Elementi da tenere in considerazione per una corretta definizione sono soprattutto due: il grado di dipendenza e la gravità dei danni organici e non prodotti dall’alcol. Per quanto riguarda i disturbi psichici o di comportamento in un alcolista cronico si possono evidenziare la bassa tolleranza delle frustrazioni e dell’ → ansia, la mancanza di responsabilità, la labilità emotiva unite ad alterazione del tono e dell’umore con impulsività e irritabilità, disturbi della memoria, diminuzione dell’intelligenza. 1. Le teorie sull’a. sono numerose e tengono conto dei vari «ambienti» in cui si muove la persona umana mettendo in primo piano o l’ambiente biologico, o quello socioculturale o quello psicogenetico; a) teorie biologiche che fanno riferimento a un fattore ereditario descritto come responsabile non tanto dell’a., quanto dello strutturarsi di una personalità fragile e incapace a resistere alla sollecitazione di assumere alcol. Ultimamente si è più propensi a parlare non tanto di genesi ereditaria, quanto di predisposizione deter-
minata da un condizionamento familiare; b) fattori socio-ambientali la cui importanza è dimostrabile dal fatto che l’assunzione di alcol viene incoraggiata da alcuni gruppi sociali o viene addirittura ritenuta indispensabile per determinate professioni o sollecitata come segno di «virilità». Interessanti anche gli studi sulle società dei nomadi, sul rapporto metropoli/immigrazione e quelli condotti nell’area della emarginazione. Diversi autori inseriscono soprattutto in questo contesto l’aumentata percentuale di giovani che consuma sostanze alcoliche; c) teorie psicologiche e psicodinamiche: la psicodinamica classica interpreta l’a. come una regressione allo stadio orale in cui si è fissata l’organizzazione istintuale. → Freud ha trattato questo problema in margine a quello della paranoia (caso Schreber). A livello più generale diversi autori hanno messo in relazione l’a. con alcuni tratti di personalità, anche se non si è mai chiaramente dimostrato se i tratti descritti (ad es. stati di tensione, sentimenti di insicurezza, incapacità di affermazione personale, bisogno di gratificazione...) siano antecedenti o successivi all’abuso alcolico. 2. L’eterogeneità del disturbo porta diversi autori contemporanei a parlare non di a. ma di «alcolismi». Ciò mette in evidenza il fatto che la dipendenza da alcol avviene in una persona. «Un individuo può sviluppare a. come punto d’arrivo di una complessa interazione di carenze strutturali, predisposizione genetica, influenze familiari, contributi culturali, e altre diverse variabili ambientali. Una completa valutazione psicodinamica del paziente considererà l’a. e tutti i fattori che vi contribuiscono nel contesto dell’intera persona» (Gabbard, 1995, 341). Da questo punto di vista anche il → recupero viene inteso come la messa a disposizione del soggetto di una molteplicità di tecniche e di interventi, a volte utilizzati su vari fronti, in modo da tener conto della personalità del singolo e della sua disponibilità a mettersi in gioco per migliorare. Bibl.: Furlan P. M. - R. L. R icci, Alcol, alcolici, a., Torino, Bollati Boringhieri, 1990; Gabbard G. O., Psichiatria psicodinamica, Milano, Raffaello Cortina, 1995; Sanfilippo B. - G. L. Galimberti - A. Lucchini (Edd.), Alcol, alcolismi: cosa cambia?, Milano, Angeli, 2004; Trevisani F. - F. Caputo (Edd.), A., Bologna, CLUEB,
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ALFABETIZZAZIONE
2005; M emmi A., Il bevitore e l’innamorato. Il prezzo della dipendenza, Roma, Edizioni Lavoro, 2006.
L. Ferraroli
ALCUINO → Medioevo
ALFABETIZZAZIONE In genere il termine si contrappone ad analfabetismo, versione negativa in quanto assenza di a.; può assumere valore strumentale, spirituale, funzionale. Nel primo caso ci si riferisce all’insegnamento della lettura e della scrittura in contesto scolastico ed extrascolastico; nel secondo ci si rapporta alla crescita matura del soggetto sotto il profilo politico e civile, nonché alla sua partecipazione sociale professionalmente qualificata; nel terzo ci si richiama alla funzionalità dell’ → apprendimento rispetto a fini occupazionali e socioeconomici. Questi tre aspetti possono essere più o meno e con diversa intensità, compresenti. Ad es. può darsi una sorta di a. spirituale nei casi di trasmissione di culture fondate sulla tradizione orale. 1. Ambiti di applicazione. Va distinta l’a. spontanea e indotta, nel caso dell’apprendimento di lettura e scrittura come conquista prescolastica e scolastica dei bambini, dall’a. differenziata a seconda del → linguaggio, verbale-non verbale, preso in esame. Inoltre si distingue l’a. dell’infanzia, comunemente messa in atto dalla → scuola e dalla famiglia, dall’a. degli adulti. Quest’ultima nasce come idea di educatori che in vari Paesi hanno promosso progetti intesi a fornire a chi è fuori del circuito scolastico la strumentazione di base per una migliore partecipazione sociale. In questo senso vanno ricordate tutte quelle iniziative di istruzione popolare che da Grundtvig in Danimarca, a Condorcet in Francia, a Cena in Italia caratterizzano una parte della storia europea dell’educazione dalla fine dell’800 ai primi decenni del ’900. Dopo la seconda guerra mondiale l’a. viene letta da più parti in senso motivazionale: apprendere per scopi precisi e per mete concrete. Nei Paesi socialisti l’a. è strettamente connessa alla concezione politecnica e alla congiunzione del lavoro intellettuale con 50
quello manuale: si alfabetizza trasmettendo un sapere operativo da spendere a vantaggio della collettività. Altro esempio originale è quello dell’India dalla spiritualità multiforme, che → Gandhi ha fatto conoscere al mondo intero non più solo sotto l’aspetto della povertà e dell’analfabetismo, ma della nazione intenta ad uscire dalle strettoie della istruzione occidentale elitaria per cercare mezzi di a. di massa all’interno della propria tradizione spirituale. A livello internazionale l’Unesco si occupa della questione in modo costante e registra annualmente le statistiche che evidenziano l’andamento del fenomeno. Il tasso di scolarizzazione è uno degli indicatori dell’a. con punte minime nei Paesi emergenti (→ Asia, → America Latina, → Africa) e punte massime nei Paesi industrialmente più avanzati. Nel 1961 l’Unesco lancia la campagna mondiale di a. intesa a favorire l’autosviluppo e l’auto-emancipazione dei Paesi più poveri attraverso la cooperazione economica internazionale. L’ipotesi del «Programma sperimentale mondiale di a.» (PEMA) attivato dall’Unesco in 20 Paesi tra il 1967 e il 1973 è che solo entro un quadro socio-economico favorevole ed organizzato è possibile promuovere un percorso formativo basato su obiettivi di crescita e tale da procurare agli individui interessati i mezzi intellettuali e tecnici capaci di farne attori efficienti nell’intero processo di sviluppo. 2. Esperienze significative. Famose sono le iniziative di coscientizzazione degli «oppressi» promosse negli stessi anni da Freire in America Latina (→ educazione liberatrice): vere e proprie testimonianze di servizio e di elevazione culturale di persone per generazioni tenute lontane dall’istruzione. Negli anni ’40 sorgono in Italia diversi movimenti di ispirazione democratica che operano, soprattutto nel Sud, per l’a. della popolazione rurale. La legge istitutiva della «scuola popolare» è del 1947 e per circa trent’anni si moltiplicano, differenziatamente su tutto il territorio, centri di lettura e corsi di richiamo scolastico, iniziative di bibliobus e di telescuola, attività di formazione professionale gestite da enti vari. In seguito al decentramento amministrativo (L. n. 382/75) viene data la possibilità alle Regioni (DPR n. 616/77) di dare inizio ai cor-
ALGORITMO
si della durata di «150 ore» frequentati con eventuale congedo pagato, al fine di favorire il conseguimento, nelle sedi appropriate, del titolo di scuola media a chi lavora, alle casalinghe, alle collaboratrici domestiche, a tutti coloro i quali sono sprovvisti di tale certificato che permette di fatto un migliore inserimento occupazionale ed eventualmente la mobilità sociale. In diversi Stati del mondo non sembra più sufficiente far coincidere l’a. minima dell’infanzia e dell’adolescenza con la generalizzazione dell’istruzione primaria e secondaria di primo ciclo, in quanto crescono le aspettative delle famiglie, dei figli, della società internazionale rispetto a livelli di formazione che spostano più avanti negli anni il termine dell’ → obbligo scolastico. Per l’Italia l’elevamento appena introdotto è fino ai 16 anni. In termini scolastici istituzionali l’a. comincia con l’educazione preprimaria e termina con la fine o l’interruzione della frequenza scolastica; in termini sostanziali essa inizia con la gestazione, considerando l’influenza feto-madre, e termina forse con la morte. Alla scuola e alle diverse sedi formative anche extrascolastiche spetta indubbiamente il compito di costruirsi come ambienti nei quali il soggetto sperimenta metodi didattici funzionali alla maturazione al pensiero critico. 3. Estensione contenutistica. Concettualmente l’a. significa molto di più della acquisizione delle capacità di leggere e scrivere poiché riguarda la padronanza di più modelli di comprensione, l’elaborazione di conoscenze diverse, la flessibilità e la coerenza dei collegamenti tra molteplici contenuti e forme culturali. La storia dell’a. dimostra che progressivamente ci si muove in modo da comprendere temi via via più vasti e variegati non esauribili nell’apprendimento di automatismi tradizionali e di tecnicità, sempre più sofisticate, si pensi ad es. agli sviluppi dell’informatica, bensì necessariamente comprendenti questioni correlate come quelle dell’arricchimento culturale, dell’uguaglianza delle opportunità educative, della dispersione scolastica, dell’educazione delle minoranze etniche, della formazione permanente, del diritto allo studio, dell’acquisizione di nuove professionalità e dell’ → istruzione a distanza. La locuzione «competenze alfabetiche» delle indagini internazionali stabilisce
categorie e livelli del sapere e del saper fare. La Dichiarazione di Lisbona dell’UE (2000) annovera nella strategia politico-sociale per il 2010 l’intensificazione della lotta contro l’analfabetismo. Bibl.: M encarelli M., Scuola in prospettiva. Insegnare ad apprendere, Brescia, La Scuola, 1973; Potts J., Insegnare a leggere, Firenze, La Nuova Italia, 1981; Fiorini F. - L. Pagnoncelli, Quale alfabetismo?, Torino, Loescher, 1988; Cives G. (Ed.), La scuola italiana dall’Unità ai nostri giorni, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1990; Gallina V. (Ed.), La competenza alfabetica in Italia: una ricerca sulla cultura della popolazione, Milano, Angeli, 2000; Nardi E., Come leggono i quindicenni. Riflessioni sulla ricerca OCSEPISA, Ibid., 2002; Chistolini S., «Competenze alfabetiche», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, 343-359.
S. Chistolini
ALGORITMO Successione ordinata e finita di operazioni e decisioni che conduce a un risultato preciso. Il termine deriva dalla latinizzazione del nome del grande matematico arabo Muhammed Ibn Muza Al Kuvaritzmi (Algorismus). Leonardo Fibonacci nel suo Liber abaci (1202) inizia spesso le sue affermazioni con l’espressione «Dixit Algorismus». Tale termine è stato ben presto applicato a molti procedimenti matematici universalmente noti e significativi come l’a. euclideo delle divisioni successive, procedimento usato per trovare il massimo comun divisore tra due numeri. Per estensione, con lo sviluppo dell’ → informatica e dei computer, esso è stato utilizzato per indicare ogni tipo di procedimento che può essere progettato, tradotto in un linguaggio formale conveniente e fatto eseguire da un sistema di elaborazione automatica. È stato anche usato nell’ambito pedagogico e didattico per designare procedure e strategie formative. L. Landa (1974) ha sviluppato una sua teoria dell’insegnamento definita «algoeuristica», che integra metodi di insegnamento di tipo procedurale-esecutivo e di tipo esplorativo-creativo. 51
ALLEGRIA
Bibl.: Landa L., Algorithmization in learning and instruction, Englewood Cliffs, Educational Technology Publications, 1974; Luccio F., La struttura degli a., Torino, Boringhieri, 1982; Pellerey M., Informatica, fondamenti scientifici e culturali, Torino, SEI, 1986; Wirth N., A. + Strutture Dati = Programmi, Milano, Tecniche Nuove, 1987; Goldsch-Lager L. - A. Lister, Introduzione all’informatica. A., strutture, sistemi, Torino, SEI, 1988; Fondamenti di informatica. Vol. 2: Reti, basi di dati, multimedia, linguaggi, a., Bologna, Zanichelli, 2006; Guida G. - M. Giacomin, Fondamenti di informatica, Milano, Angeli, 2006.
M. Pellerey
ALIENAZIONE → Marxismo pedagogico
ALLEGRIA L’a. è un sentimento dell’animo lieto, che si rivela vivido nelle molteplici espressioni umane: volto e aspetto, movimenti e gesti... Scaturisce dall’emozione primaria della gioia e si manifesta con vivacità nella → festa. Ciò che rallegra nutre la mente, tonifica il cuore e facilita la comunicazione. 1. Nella prospettica pedagogica l’a. trova la sua collocazione formale nel discorso sull’ambiente educativo. Più che configurare solo il «pädagogischer Bezug», il rapporto educativo (Nohl), trova il suo luogo proprio nel «pädagogisches Feld», il campo pedagogico (Winnefeld), provocando i mondi vitali alla scoperta di significati e alla loro stessa produzione. Di certo il sentimento d’a. incontra solchi fertili nell’animo umano, specie giovanile. Il terreno più fecondo per il → dialogo educativo e la comunicazione dei → valori è senza dubbio un ambiente di a. A tale scopo occorre offrire, nell’età della crescita, ampio spazio alla libera espressione (→ musica e canto, → sport e gioco, danza e → teatro, gite e pellegrinaggi) e alla manifestazione spontanea (emblema di un esuberante spazio estroverso è il «cortile», la «piazza»). L’hanno intuito educatori capaci, come don → Bosco, che nella giovinezza fondò la «Società dell’a.» e nella sua proposta educativa forgiò il trinomio: a., studio, pietà, in cui lo spazio-cortile e l’espressività giovanile as52
sumono dignità pedagogica. Da qui la rilevanza educativa di creare un clima di a. e la convinzione di garantire un sereno tessuto dei rapporti amichevoli. 2. L’a. rivela così valenze interiori (sua fonte è la gioia) e insieme espressioni manifeste. Ne diventa metafora la festa, scandita dalle varie ricorrenze della vita, ma spesso vissuta nei momenti più quotidiani (esistenza come festa). Nell’età evolutiva il soggetto tende spontaneamente all’a. e alla festa: sa che queste nutrono i suoi sentimenti, creano fiducia e sostengono la crescita. L’a. è contagiosa: attraverso la dinamica empatica, come vissuto affettivo, l’a. coinvolge e trascina, creando una feconda piattaforma di relazioni positive e un ambiente costruttivo. Di certo festa e a. sono soggette all’ambivalenza, o addirittura alla deriva; e tuttavia rimangono sempre seducenti nella loro valenza educativa. Nella società contemporanea prevale una visione esistenziale di festa, vissuta nella realtà quotidiana: si cerca perciò una compresenza di evasione e di ricarica, di divertimento e di condivisione, di rapporti consueti e di relazioni inedite, di gratuità e di distacco. In tal senso l’a. e la festa giocano un ruolo non marginale, oggi. Si tratta però di assumerne le sfide educative come la socialità che si fa partecipazione, il coinvolgimento che rende protagonisti, i gesti simbolici che evocano e celebrano valori. All’educatore spetta creare le condizioni interiori perché si verifichino eventi valoriali: 1’ → ottimismo di base che è fiducia in sé e negli altri; il gusto per i valori altruistici che fa scoprire il sapore della gratuità e solidarietà; il senso dell’ → amicizia che fa superare la → solitudine e rafforza i legami sociali. La manifestazione dell’a. nella festa si fa così messaggio della gioia di vivere, non solo nei suoi aspetti più antropologici e culturali, ma non meno nelle sue evidenze etiche e religiose. Bibl.: Baggio D. A., Paz, optimismo, alegría, Petrópolis, Vozes, 1988; De Monticelli R., L’a. della mente, Milano, B. Mondadori, 2004; Sagramola O., Educazione e pedagogia in Giovanni Bosco, Viterbo, Sette Città, 2005.
G. B. Bosco
ALLIEVO → Studente ALLIEVO Giuseppe → Risorgimento
ALTERITÀ
ALLPORT Gordon Willard n. a Montezuma (Indiana) nel 1897 - m. ad Harvard nel 1967, psicologo statunitense. 1. Frequentando la Harvard University viene in contatto con il pensiero di → James e di → Dewey. Conseguito il dottorato nel 1922 con W. McDougall e H. Langfeld, vuole perfezionarsi in Europa, con → Spranger a Berlino, W. Stern ad Amburgo e F. C. Bartlett a Londra, nella ricerca di un complemento fra la tradizione nordamericana e quella europea. Dal 1924 alla morte, eccetto una parentesi di 4 anni, dal 1926 al 1930 trascorsi al Dortmund College, svolge la sua intensa attività accademica alla Harvard University. Nel 1937 diventa direttore del Department of Psychology e inizia contemporaneamente la pubblicazione del «Journal of Abnormal and Social Psychology», che dirigerà fino al 1949. Nel 1946 fonda il nuovo Department of Social Relations, che coordina e promuove le ricerche nell’ambito dei dinamismi personali e sociali. Nel 1939 è eletto presidente dell’American Psychological Association, e nel 1944 della Society for the Psychological Study of Social Issues. Insignito con due lauree honoris causa, è stato membro delle principali società nazionali di psicologia scientifica. 2. La prima sintesi del suo approccio alla psicologia si trova nel volume del 1937 Personality: a psychological interpretation. Si tratta di uno dei primissimi manuali che riguardano la personalità normale, che, fin d’allora, esprime i principali tratti della sua psicologia: la preoccupazione per ciò che è tipicamente umano, sano, e caratterizza il singolo individuo, reagendo ad una psicologia attenta principalmente agli aspetti istintivi o patologici, o comuni agli animali, o protesa più a definire leggi universali che a comprendere la persona. In conformità con queste scelte, A. ha dovuto affrontare problemi epistemologici (come sia possibile una scienza dell’individuo) e metodologici: in un clima dove la scienza era equiparata alla quantificazione. A. ha scelto un metodo eclettico, che gli permette di raggiungere con sufficiente oggettività componenti umanamente importanti eppure sfuggenti al controllo quantitativo, come le intenzioni, i sentimenti, i valori e le
decisioni a lunga portata, il senso di identità e di responsabilità. 3. Nel quadro di questa opzione «umanistica» si comprendono le sue pubblicazioni: dodici volumi di trattazioni varie, due monografie, due test, circa 150 articoli e numerose recensioni. I principali temi trattati riguardano la religione, il pregiudizio e la personalità. Nella sua opera maggiore sulla personalità (trad. it. 1977), che riprende e rielabora completamente la pubblicazione del 1937, A. ha raccolto il frutto maturo della sua riflessione e della sua ricerca: si ritrovano riconciliate le antinomie dell’unicità della persona e della sua socialità, del peso dell’inconscio e della ricerca di valori, della molteplicità di tratti ed abiti e dell’integrazione in un’intenzione centrale, della religiosità strumentalizzata nel pregiudizio o ricercata e vissuta come valore intrinseco. L’opera stessa si raccomanda come un accostamento sereno e imparziale ai problemi più urgenti per la comprensione della personalità. A. ha esercitato un notevole influsso sugli studiosi suoi contemporanei (Murphy, Maslow, Bertocci, Nuttin, Frankl), e continua ed esercitarlo attraverso gli sviluppi della corrente umanista. Bibl.: principali opere di A. tradotte in it.: Divenire. Fondamenti di una psicologia della personalità, Firenze, Editrice Universitaria, 1963; L’individuo e la sua religione. Interpretazione psicologica. Introduzione e traduzione a cura di N. Galli, Brescia, La Scuola, 1972; La natura del pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia, 1973; Psicologia della personalità. Introduzione e bibliografia delle opere di A. a cura di A. Ronco, Roma, LAS, 1977.
A. Ronco
ALTERITÀ Il tema dell’altro è diventato centrale nel dibattito culturale contemporaneo. In passato la → differenza è stata vista per lo più come una minaccia per la propria → identità. In generale si è concordi nel vedere il pensiero europeo come un pensiero dell’identità dove l’altro, il diverso, rimane estraneo, viene rimosso e occultato. 53
ALTERITÀ
1. La tradizione occidentale. L’Occidente non avrebbe elaborato una vera cultura della differenza, come oggi denunciano le stesse donne occidentali in nome di quella cultura al femminile che trova nella «differenza di genere» il suo principio epistemologico ed ermeneutico. Tra i pensatori che criticano la tradizione occidentale per l’oblio dell’a. si segnalano → Buber, Dussel, De Certeau, Irigaray, Vattimo, Derrida, Foucault, Todorov, ecc. Ma fra tutti spicca il nome di Lévinas, il filosofo dell’a. Ripartire dal volto dell’altro, in campo filosofico così come in campo educativo, significa essenzialmente impegnarsi a creare le condizioni per il passaggio dall’umanesimo del soggetto (cioè dell’io) all’umanesimo dell’altro uomo (cioè del tu e dell’egli); dalla logica dell’identità alla cultura della differenza; dall’etica dell’individuo all’etica del volto e della responsabilità. Proprio con quest’ultima espressione, «etica del volto», si è soliti indicare uno dei punti centrali del pensiero di E. Lévinas (1905-1995), filosofo ebreo che ha elaborato una concezione dell’uomo a partire dall’altro, dal tu, dal volto. Per il suo venire «da fuori» il volto dell’altro si presenta sempre anche come una minaccia che provoca in noi la perdita di controllo, di signoria, di dominio su noi stessi. L’altro, per quanto sia nostro «prossimo» conserverà sempre la sua radicale eterogeneità, la sua assoluta differenza, la sua irriducibile a. L’altro sarà sempre, contemporaneamente, il «prossimo» (di qui il carattere di appello) e lo «straniero» (di qui il carattere di mistero). 2. Il rapporto con l’altro nella società multiculturale. Da molti anni la riflessione sull’a. comprende non solo il riferimento alle donne, ai portatori di handicap, agli omosessuali, ma soprattutto la presenza crescente dello «straniero». Strettamente collegato al tema dell’a. è quindi quello del pregiudizio e dello stereotipo fino al razzismo e alla mixofobia (o paura della mescolanza). Educare all’altro significa allora ridefinire il proprio «io», perché prima ancora di essere solidale e oblativo, democratico e partecipativo, sia un «io ospitale» e capace di accoglienza, di ascolto, di reciprocità. Nell’odierna società plurale e interetnica si tratta di scoprire che l’altro è la risorsa più preziosa per accrescere la nostra identità. Chi ci educa, in 54
senso proprio, è la relazione con l’altro. È lui che ci «tira fuori» dall’ego e ci sollecita all’avventura dell’esodo. Se l’altro non ci visitasse con il suo volto, noi non potremmo mai dire «eccomi». E resteremmo nella nostra immanente soggettività. Pieni di noi, indubbiamente, ma senza la trascendenza dell’altro. 3. Verso l’ethos della reciprocità. La riflessione sui temi dell’a., della differenza, della relazione intersoggettiva e interculturale sta portando verso la centralità della categoria della reciprocità, della convivenza e della coesione sociale. P. Ricoeur giunge a parlare di un «ethos della reciprocità», come paradigma della relazione fondata sul valore della differenza. La reciprocità, sia sul piano antropologico, sia su quello psicologico e pedagogico è ancora tutta da esplorare e da comprendere. La reciprocità è contemporaneamente un essere «con» l’altro, un essere «per» l’altro, un essere «grazie» all’altro. Paul Ricoeur riassume così l’ethos della reciprocità: «Aspirazione ad una vita felice, con e per gli altri, in istituzioni giuste». Come si vede, si tratta di tre poli ben articolati e uniti tra loro: la stima di sé, la cura dell’altro, l’aspirazione a vivere in istituzioni giuste. Il problema dell’identità non è separabile dal problema della differenza. È nella cornice di una antropologia della reciprocità che troviamo, forse, il luogo più autentico per la fondazione (né ego-centrica né allo-centrica) della relazione educativa. Bibl.: K risteva J., Stranieri a se stessi, Milano, Feltrinelli, 1990; De Certeau M., Mai senza l’altro, Comunità di Bose, Qiqajon, 1993; R icoeur P., Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1993; H abermas J., L’inclusione dell’altro, Milano, Feltrinelli, 1998; Cicchese G., I percorsi dell’altro. Antropologia e storia, Roma, Città Nuova, 1999; Vigna C. - S. Z amagni (Edd.), Multiculturalismo e identità, Milano, Vita e Pensiero, 2001; Lévinas E., Dall’altro all’io, Roma, Meltemi, 2002; Currò S., Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida, Lévinas e Marion, Roma, LAS, 2005.
A. Nanni
ALTERNANZA → Educazione permanente → Formazione professionale ALUNNO → Studente
AMBIENTE
AMBIENTE Dal lat. ambiens, participio da ambire (andare intorno, stare intorno, circondare, essere circostante; ma anche desiderare). Da qui il significato di una proiezione dall’interno verso l’esterno. Lato sensu si parla di a. per indicare: a) il complesso delle condizioni esterne a un organismo dove si svolgono la vita vegetale e quella animale, b) l’insieme delle caratterizzazioni biologiche, sociali, culturali di un dato sistema, c) una specifica parte di spazio. Nelle → scienze dell’educazione, si affaccia, stricto sensu, un’idea di a. quale «mondo» (Welt) culturale in cui avvengono i processi e i percorsi della formazione (Bildung) del soggetto. Non privo di assonanze con l’idea di medius locus presente nella cultura latina, il concetto di a. si è tuttavia sviluppato soltanto di recente. Lo si trova, così, all’interno delle scienze umane, in particolare nella sociologia di → Comte, nella psicologia di → Watson, nella pedagogia di → Rousseau, nella psicanalisi di → Freud. Diviene poi riferimento comune per le scienze naturali e più specificamente nella biologia, nell’ecologia e, ormai, anche in genetica o nelle → neuroscienze. Importanza ragguardevole riveste pure nelle scienze politiche, nelle scienze sociali ed economiche, in urbanistica e architettura, nella semiotica dello spazio, nella → prossemica e nella teoria dei sistemi, infine all’interno delle stesse scienze dell’educazione Sicché, alla desueta «mesologia pedagogica» (dimenticato settore della pedagogia, che studia l’a. ponendolo al centro dell’itinerario di crescita) è venuta sostituendosi una più confacente pedagogia degli a. educativi, orientata a sondare le interazioni istituite tra la formazione, l’educazione e l’istruzione dell’uomo con: a) gli a. abitativi (la casa, gli arredi), b) gli a. scolastici (l’aula, l’edificio scolastico, i laboratori), c) gli a. sociali (la città, l’ecosistema, i mondi culturali dell’extrascolastico, il paesaggio accolto come genius loci). Nel dibattito pedagogico contemporaneo e all’interno della medesima attività educativa, la categoria a. sussume una propria centralità, specialmente in relazione alle tematiche della formazione umana, degli spazi educativi, delle variabili ecologiche e psico-sociali, dei beni ambientali e culturali, di ogni teoria pedagogica sugli a. educativi.
1. A. e formazione umana. La formazione dell’uomo, della sua parte più profonda e nascosta e del suo stesso «mondo» culturale può essere compresa e guidata solo se il processo educativo viene confacentemente saldato all’a. familiare scolastico e sociale. Il nesso tra a. e formazione umana accompagna la stessa genesi della crescita fisicobiologica, socio-relazionale, psicosessuale, emotivo-affettiva, cognitivo-intellettiva, etico-valoriale e spirituale del soggetto in ogni età della vita. Si tratta, allora, di operare una ricomposizione fra le teorie innatistiche (nella struttura genetica individuale vi è già scritto il cammino formativo) e le teorie ambientalistiche (dall’a. di appartenenza dipende il futuro del singolo), al fine di recuperare la positività del legame che unisce natura e cultura, evidenziando la reciprocità fra il soggetto e l’a. in cui vive. 2. Antropologia pedagogica e spazio educativo. Al problema della natura umana colta nella sua specificità ontologica, assiologica e teleologica, si affianca quello della cultura umana percepita nelle dimensioni storiche etologiche ed esistenziali. Il «mondo» del soggetto coincide sia con il suo universo personale più intimo sia con l’onnilateralità delle proiezioni verso cui il soggetto in evoluzione viene (o si sente) orientato. Per questo la scelta degli a. in cui avvengono i processi di formazione risulta decisiva. Ecco allora che un’antropologia pedagogicamente strutturata incontrerà nell’idea di «spazio educativo» il luogo e il fattore a cui ascrivere gli eventi formativi nel macro- e nel micro-cosmo sociale: la → ludicità e il → lavoro, l’educazione e l’istruzione permanente, l’autoeducazione e l’eteroeducazione, il corpo e la mente costituiscono ulteriori riferimenti tematici da non trascurare in una pedagogia degli a. educativi. 3. Ecologia ambientale e sociale. La grave e forse irreversibile crisi ecologica in cui versa il pianeta ha obbligato le scienze umane e, al loro interno, le scienze dell’educazione a ripensare i rapporti con quella branca della biologia che studia gli organismi viventi e il loro a. circostante: l’ecologia. Confermatasi ormai come disciplina dotata di uno statuto epistemologico autonomo, insieme alle scienze sociali ha prodotto importanti teorie 55
AMERICA DEL NORD: SISTEMI EDUCATIVI
sull’habitat umano, sui pericoli che la «modernità» (con la scienza a servizio dell’industrializzazione, delle tecnologie nucleari, delle guerre) ha posto in essere, sui rischi per l’intero ecosistema. La sociologia, più in particolare quella urbana, si è invece misurata con i grandi processi demografici, economici e politici presenti nella gestione di quello smisurato «sociosistema» che è la metropoli contemporanea. L’ecologia sociale, poi, occupandosi dei fenomeni di migrazione, ha ricondotto l’analisi dei sistemi naturali e dei sistemi artificiali verso i confini dell’intercultura, dell’interrazzialità, dell’intersoggettività. 4. Beni ambientali, beni culturali, beni mediali. Nel pensare a un sistema formativo polimorfico, flessibile e integrato in una rete unitaria di saperi e di servizi stesa sul territorio, viene accreditandosi l’idea dell’a. pensato a partire dai «beni» che racchiude e, con l’impegno dell’uomo, custodisce. Fra questi spiccano i beni ambientali, ossia la natura incontaminata e il paesaggio che non è stato deturpato dall’azione umana; i beni culturali ovvero quegli a. ricchi di significato pedagogico (tra cui risaltano le biblioteche, i musei, i teatri, gli archivi, ecc.), che abbisognano di tutela e valorizzazione; i beni mediali, quindi tutti gli a. in cui prevalgono i linguaggi massmediatici (cineteche, fonoteche, mediateche). 5. L’a. educativo e la sua pedagogia. L’a. implica oggi la «responsabilità» dell’uomo che lo abita e quella dei sistemi sociali complessi che lo gestiscono. Se a livello individuale si è evoluta non poco la coscienza ecologica dei singoli, sul piano collettivo l’a. rimane ancora una sorta di immensa zona franca di grande contenitore da riempire, di terra di nessuno dove poter inquinare senza essere perseguiti da una legislazione, peraltro incompleta e permissiva. La pedagogia e le scienze dell’educazione hanno il compito di contribuire a chiarire l’importanza formativa dell’a. per un uomo umano. Inoltre, esse possono maturare una consona teoria degli a. educativi che, muovendo dalla nozione di spazio pedagogico, sappia riconsiderare la casa, la scuola e l’extrascuola come i luoghi in cui viene costruendosi la formazione personale e comunitaria. La città può essere 56
allora considerata come la più significativa estrinsecazione del concetto di a., dal cui dimensionarsi pedagogico dipende il conformarsi della «città educante». L’ → educazione ambientale si schiude, così, all’ → educazione sociopolitica oltre che alle politiche dell’a. La questione ambientale pone, quindi, a tema la vita della vita, l’ecologia dello sviluppo umano, il nesso tra umanesimo e urbanesimo, i progetti per l’educazione ambientale. È nel segno distintivo dell’umano che tali prospettazioni vanno affrontate, affinché l’a. sia una costante positiva della formazione. Bibl.: Spranger E., A. e cultura, Roma, Armando, 1959; Flores d’Arcais G., L’a., Brescia, La Scuola, 1962; Lewin K., Il bambino nell’a. sociale, Firenze, La Nuova Italia, 1963; Clausse A., Teoria dello studio di a., Ibid., 1964; Debesse Arviset M. L., A. ecologico e didattica, Brescia, La Scuola, 1977; Norberg Schulz Ch., Genius loci. Paesaggio, a., architettura, Milano, Electa, 1979; Giolitto P., Educazione ecologica, Roma, Armando, 1983; Gennari M., Pedagogia degli a. educativi, Ibid., 1988; Id., Semantica della città e educazione, Venezia, Marsilio, 1995, Id., Filosofia della formazione dell’uomo, Milano, Bompiani, 2001.
M. Gennari
AMERICA DEL NORD: sistemi educativi Pur comprendendo l’A.d.N. sia gli Stati Uniti sia il Canada, l’attenzione sarà focalizzata principalmente sul primo Paese a motivo del loro ruolo di superpotenza, mentre il secondo verrà trattato dove aggiunge specificità importanti. 1. L’evoluzione. Negli Stati Uniti può essere suddivisa in tre periodi. Il primo, quello coloniale (1607-1787), è stato influenzato dalla cultura europea, in particolare inglese. Le scuole ebbero inizio nella colonia del Massachusetts, dove era preminente lo studio del latino. Il migliore esempio è la Latin Grammar School (liceo umanistico) di Boston (1635). Il periodo nazionale (1787-1890) vide inizialmente la nascita e lo sviluppo dell’American Academy (accademia americana) che, operante a livello locale o regionale e nella maggior parte dei casi privata, ha ga-
AMERICA DEL NORD: SISTEMI EDUCATIVI
rantito al Paese, ancora scarsamente colonizzato, una istruzione secondaria, offrendo un programma di studi ampio e persino troppo ambizioso. Con la fine della Guerra Civile le accademie sono entrate in crisi perché erano istituzioni rurali, mentre ormai negli Stati Uniti si stava avviando un notevole sviluppo industriale, accompagnato dalla crescita dei centri urbani. La High School (scuola secondaria superiore), che ha sostituito l’accademia, era invece un’istituzione cittadina. Fondata per la prima volta a Boston (1821), in origine aveva come scopo quello di soddisfare i bisogni dei ragazzi che non avrebbero frequentato l’università. Durante il periodo nazionale, l’istruzione superiore (colleges ed università) ha registrato una forte crescita. Tuttavia, per la maggior parte del XIX sec., i colleges si sono limitati a offrire il 1° ciclo di studi. Anche la Costituzione federale ha esercitato un influsso rilevante sull’istruzione. Per es., sancendo la separazione tra Chiesa e Stato, ha contribuito a creare un sistema di istruzione totalmente privato che non riceve finanziamenti pubblici. Nel XX sec. si è assistito in tutti gli Stati Uniti ad una espansione incredibile della scolarizzazione, dovuta tra l’altro alla ricaduta sull’istruzione delle trasformazioni del sistema socio-economico. Inoltre, nel 1954 con una importante sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti (Brown v. Kansas) è stata vietata la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Ciò ha messo fine alla prassi, durata un secolo, di educare i giovani afro-americani in «strutture separate, ma uguali». La prima metà del XX sec. ha visto l’emergere di educatori che hanno lasciato un’impronta indelebile nell’istruzione. Lo sviluppo più controverso e di vasta portata è stato il movimento delle «scuole progressive» di cui → Dewey fu il principale teorico. Diversamente dagli Stati Uniti che hanno puntato sull’assimilazione culturale, il Canada si è caratterizzato per il multiculturalismo, per una struttura a mosaico e la coesistenza non solo delle culture dominanti inglese e francese, ma anche di diversi gruppi etnici. Dal sec. XVII l’obiettivo fondamentale è stato l’adattamento e la collaborazione tra le varie comunità che ha portato al bilinguismo e alla eliminazione delle discriminazioni anche degli altri gruppi. Inoltre, si è registrato il passaggio da colonia dipendente dell’impero britannico
(come gli Stati Uniti) a Paese indipendente però entro il Commonwealth (diversamente dagli Stati Uniti). 2. I sistemi attuali. Durante le ultime due decadi si è realizzata anche negli Stati Uniti e nel Canada la transizione verso la società della conoscenza. Negli Stati Uniti all’inizio degli anni ‘80 una serie di rapporti ha sottoposto ad un esame accurato il sistema di istruzione, denunciando un abbassamento preoccupante della qualità. Nonostante il cammino percorso in positivo, la situazione nella decade 90 presentava diversi aspetti problematici; di conseguenza nel 1994 il governo Clinton ha varato un suo programma nel campo dell’istruzione Non si può negare che gli interventi adottati abbiano esercitato un impatto positivo; tuttavia, essi sono lontani dal pieno conseguimento delle mete proposte. Il programma del presidente Bush mira anch’esso ad elevare l’efficienza e l’efficacia del sistema, puntando in particolare a rafforzare la libertà di scelta tra le scuole mediante l’attribuzione alle famiglie di un buono da spendere per l’educazione dei figli anche in istituti privati. Quanto al Canada va sottolineato il balzo in avanti nella percentuale del gruppo di età 25-34 anni che possiede un titolo post-secondario dal 49% del 1991 al 61% del 2001, anche se nel 2001 ben il 29% della popolazione con 25 anni o più non aveva completato al secondaria superiore (Education in Canada: raising the standard, 2003). Negli Stati Uniti e nel Canada esiste il più ampio decentramento, anche se recentemente nei due Paesi si è assistito a una crescita del ruolo del governo federale. I singoli Stati (o province autonome) sono responsabili dell’istruzione e, a loro volta, delegano questa responsabilità alle comunità locali. Occorre notare che a causa della decentralizzazione delle scuole non c’è uniformità nell’organizzazione scolastica o nel curricolo. Anche le scuole private godono dell’autonomia operativa. Negli Stati Uniti la percentuale dei loro iscritti varia dal 35% della pre-primaria, al 12% della primaria, al 10% della secondaria e nel Canada le cifre sono rispettivamente il 5%, il 4% e il 6% (Rapporto mondiale sull’educazione 2000). Per quanto riguarda la struttura del sistema degli Stati Uniti, la sequenza elementaremedia-superiore (elementary-middle school57
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high school) è di dodici anni. In Canada l’organizzazione tradizionale prevedeva 8 anni per la primaria e 4 per la secondaria. In quasi tutte le province è stata però introdotta la scuola intermedia che comprende le classi 7-9. Flessibilità dei piani di studio mediante discipline opzionali, promozione per materia, valutazione continua sono elementi comuni. In entrambi i Paesi sono diffusi i junior o community colleges (istituti post-secondari o di istruzione superiore) di due anni che offrono una formazione professionale con un’apertura alle materie umanistiche. Dopo i due anni molti studenti si trasferiscono all’università. L’ammissione all’università varia: alcune istituzioni richiedono solo un diploma di secondaria superiore; altre esigono anche un punteggio soddisfacente in un test di profitto amministrato su base nazionale. Complessivamente la percentuale delle iscrizioni all’istruzione terziaria raggiunge l’80.9% negli Stati Uniti e l’87,3% nel Canada (Ibid.). Bibl.: Cremin L. A., American education, New York, Harper & Row, 1980; Cupparoni A., «Canada», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 423-428; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, Roma, Unesco/Armando, 2000; Education in Canada: Raising the standard, Ottawa, Ministry of Industry, 2003; Malizia G., «Stati Uniti», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica. Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, 28-31; A bernathy S., No child left behind and the public school, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2007; Sherman J. D. - J. M. Poirier, Education equity and public policy, Montreal, UIS, 2007.
M. Ribotta - G. Malizia
AMERICA LATINA: sistemi formativi La diffusione universale del → sistema formativo è stata ritenuta un assioma e la scolarizzazione della gioventù una meta indeclinabile, cosa che porta ad assumere il sistema formativo come una variabile indipendente. La sua genesi ed il suo consolidamento riconducono alla Rivoluzione industriale, convergenza di cambiamenti radicali nella dimensione produttiva (macchina a vapore), 58
in quella politica (Rivoluzione francese) e scientifica (scienza empirica) che portano ad un modello di società urbano-industriale, la cui complessità fa nascere l’esigenza di un sistema formativo. L’educazione scolastica da privilegio diventa diritto universale che deve preparare e condurre gli individui alla partecipazione sociale (democrazia). L’iter del cambio sociale in Occidente e le sue tappe di modernità e post-modernità non sono universali. 1. La storia dell’A.L. ha comportato un cammino di 500 anni non solo di sviluppo della → cultura, ma anche di acculturazione imposta dall’alto e dall’esterno, a cui la → Chiesa ha contribuito in positivo e in negativo creando un’immensa rete di scuole per la popolazione indigena, università e seminari per le classi dirigenti della colonia. L’indipendenza dell’A.L. nelle due prime decadi del sec. XIX (quella dei Caraibi inglesi è del 1960 ca.) fa sì che i nuovi poteri politici contestino alla Chiesa il monopolio educativo; questo di fatto perdurerà fino all’arrivo con ritardo della Rivoluzione industriale in A.L. a metà del sec. XX, quando comincia veramente la trasformazione rurale-urbana che impone l’espansione del capitalismo industriale dell’immediato dopoguerra. Come risposta positiva all’effervescenza sociale in A.L. ma anche per scongiurare il pericolo di rivoluzioni come quella di Cuba, nel 1961 è stata stretta l’Alleanza per il Progresso tra USA e A.L., che entrò nel modello di sviluppo occidentale con propri fini di trasformazione socio-economica. 2. L’educazione per lo → sviluppo si tradusse nell’espansione, nel consolidamento e nella modernizzazione del fino allora incipiente sistema formativo, processo che si può collocare negli ultimi cinquanta anni. Esistono dei parametri che bisogna assumere come riferimento per analizzare i sistemi scolastici in A.L. Nel 1950 il 60% della popolazione era rurale; questo dato e il tasso di analfabetismo globale del 50% (quello rurale era del 64% ) denota antecedenti di scolarizzazione molto scarsa e forte discriminazione territoriale. In seguito avvengono grossi cambiamenti: nel 1950/75 la popolazione ha registrato la maggiore crescita del mondo, raddoppiandosi, e la percentuale urbana è passata al 60% ed è
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arrivata intorno ai tre quarti nel 2000. Gli indici decrescenti di analfabetismo rivelano grandi sforzi per sviluppare la scolarità di base soprattutto nelle zone rurali: nel 1970 il tasso di analfabetismo è del 28%; nel 1980 del 20%; nel 1990 del 15% e nel 2000 del 12% (Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000). L’espansione scolastica in questo periodo si accompagna ad una percentuale molto elevata di abbandoni nei primi anni di scolarizzazione, sistemi e curricoli inadeguati per la popolazione alla quale sono destinati, organizzazione e amministrazione carenti, condizione sfavorevole nelle zone rurali e suburbane. Per questo l’intera regione assunse allora il Proyecto Principal de Educación (PPE), che aveva tra i suoi obiettivi quello di offrire una educazione generale minima dagli otto ai dieci anni e proporsi come scopo quello di incorporare nel sistema formativo tutti i ragazzi in età scolastica prima del 1999 e di adottare una politica utile ad eliminare l’analfabetismo prima della fine del secolo oltre che dedicare investimenti gradualmente maggiori alla educazione. Il PPE diviene il principale catalizzatore dell’educazione a partire dal 1980. Gli investimenti reali, tuttavia, sono molto lontani dalle mete e troppo inferiori a quanto si investe in educazione nel mondo sviluppato. 3. Dal 1960 in poi i dati della scolarizzazione in tutti i livelli del sistema formativo mostrano la grande trasformazione educativa della regione nelle ultime decadi. I dati evidenziano un livello prescolastico ancora insoddisfacente con un tasso di scolarizzazione che va dal 33% della Colombia al 98% del Cile con la maggioranza dei Paesi che si collocano intorno al 50% (Ibid.). Nella scuola primaria è chiara la tendenza alla copertura totale della domanda potenziale; l’educazione secondaria cresce più di sette volte rivelando dinamiche di scolarizzazione di massa. L’istruzione superiore presenta la maggior crescita relativa del sistema formativo, quindici volte, cosicché il tasso raggiunge la quinta parte della domanda potenziale; rimane tuttavia il carattere elitario della educazione superiore. 4. Le disparità evidenziate dai dati globali diventano enormi per effetto di fattori strutturali, come le notevoli discontinuità ruraliurbane nella maggior parte dei Paesi; le mol-
teplici etnie indigene con lingue proprie e maggioritarie in varie nazioni; i ritmi diversi di modernizzazione in senso urbano-industriale; il fatto che, fino al PPE, l’espansione del sistema formativo raramente è stato il risultato di previsioni e azioni politiche; inoltre, il controllo esercitato dai sottosistemi privati sulla crescita dei livelli secondario e superiore, ha prodotto la segmentazione dei sistemi educativi in favore delle classi medio-alte a discapito della promozione dei gruppi popolari maggioritari, cosa che spiega la maggiore crescita nei livelli citati del controllo per l’accesso. Così il sistema formativo presenta tratti di «macrocefalia» ed è assoggettato agli interessi privati con tutti i loro poteri. I gruppi rurali e suburbani non sono rimasti emarginati, ma piuttosto confinati, e le culture indigene sono state soppiantate dall’imposizione di lingue che esprimono la cultura occidentale (urbano-industriale) dominante. In questo quadro rientrano indici elevati di mortalità scolastica, ripetenze, impossibilità di promozione universitaria, emarginazione culturale. 5. L’espansione del sistema formativo e la meta del PPE di generalizzare nove anni di educazione di base si è raggiunta in buona parte per il 1999, ma non è stato lo stesso per gli obiettivi di promozione sociale: l’immagine dell’educazione come canale di mobilità sociale sta piuttosto producendo frustrazioni. Inoltre l’aumento costante della distanza tra ricchi e poveri, oltre al permanere della condizione di sottosviluppo in A.L., dimostrano che il sistema formativo è la variabile meno indipendente, una delle più condizionate dal sottosviluppo. Tra l’altro, gli obiettivi del sistema formativo in A.L. appaiono sempre più superati dalla produzione di conoscenze nel mondo, tanto che esse appaiono irraggiungibili. Questo insieme di successi e frustrazioni esige delle analisi reali e profonde in vista del dilemma che bisogna porsi: Occidentalizzazione del mondo, o educazione per A.L. e Caraibi? Bibl.: Unesco, Reflexiones y sugerencias relativas al Proyecto principal de educación en A.L. y el Caribe, 1981/ Promedlac/3; Unesco -Cepal, Evolución cuantitativa de los sistemas educativos de A.L. y el Caribe-Análisis estadístico, 1987/ Minedlac/2; Unesco -Oreal, Situación educati-
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AMICIZIA
va en A.L. y el Caribe 1980-1990, Santiago, 1992; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, Roma, Unesco/Armando, 2000; Oferta e procura de professores na A.L. e no Caribe: garantindo uma educação de qualidade para todos; UIS perfil regional, Brasilia, Unesco, 2006; Panorama regional: A.L. y Caribe, Paris, Unesco, 2006; Blanco R. et al., Educação de qualidade para todos: um assunto de direitos humanos, Brasilia, Unesco, 2007.
J. Rodríguez - G.Malizia
AMICIZIA Relazione interpersonale affettiva, nata da una scelta generalmente basata sulla gratuità leale, sulla reciprocità costante, sulla comunicazione umana, sulla simpatia istintiva, sulla comunanza di interessi, di ansie e di ideali. 1. Il profilo genetico dell’a. Con alcuni studiosi di antropologia filosofica e di psicologia sociale (→ Buber, Lévinas, Gevaert, → Nuttin) si può giustamente affermare che «in principio è la relazione», perché la verità dell’uomo non è nel suo essere soggetto, in sé considerato, ma nel suo essere in correlazione strutturale con altri soggetti. L’identità non è nel soggetto – afferma Heidegger – ma nella relazione. Un individuo è ciò che viene fuori dal suo sistema di relazioni umane. Entrare in armonia con «l’altro», allora, sembra soprattutto il compito dell’a., che si presenta come completamento di esperienze relazionali. L’a. è una forma di → amore con caratteristiche del tutto particolari, perché è svincolata da obblighi normativi e dipende solo dalla lealtà reciproca, dalla gratuità dell’incontro, dal rispetto della individualità di ciascuno, dalla consuetudine del rapporto, dalla generosità nelle difficoltà, dalla condivisione delle gioie, dagli interessi comuni, dal lavoro armonizzato per uno scopo comune. L’a. è caratterizzata dal sentimento della parità: gli amici, infatti, non si inquadrano in una gerarchia, si sentono tutti uguali e se talvolta nascono conflitti o competizioni, questi sono superati dalla profonda lealtà e dalla disinteressata gratuità che dà vita al rapporto. Nella relazione amicale entra in gioco un’altra importante caratteristica: la similarità, il processo cioè che trasferisce il bisogno di iden60
tità verso l’identificazione, grazie alla quale ogni amico tende ad assumere valori e comportamenti simili o identici a quelli dell’altro. In questo contesto l’a. ci libera dalla solitudine, consolida vincoli affettivi di gruppo, è un conforto, un sentimento di sicurezza, un calore umano che non ha bisogno di parole per esprimersi, perché comunica anche solo con la semplice presenza. 2. Aspetti evolutivi dell’a. Ogni periodo della vita si esprime nell’a. secondo modalità diverse. Sotto l’aspetto evolutivo si possono individuare tre tappe di questo processo: a) l’a. sensibile-affettiva, che si sviluppa nel periodo prepuberale e puberale ed è prevalentemente motivata da aspetti di carattere emozionale e sensibile. È un tipo di a. che nasce per lo più tra soggetti dello stesso sesso e presenta a volte alcuni tratti dell’amore eterosessuale. Questo tipo di a. deve considerarsi come una tappa biologicamente obbligatoria e rappresenta la prima incerta trasformazione dell’affettività della fanciullezza, di natura egocentrica, nell’affettività matura, di natura allocentrica; b) l’a. captativo-egocentrica, che è tipica dell’ → adolescenza ed è contraddistinta da aspetti narcisistici, simbiotici e consumativi. Essa è dominata dal bisogno e dal sentimento di essere «l’uno con l’altro», per cui gli amici si vogliono bene perché ognuno vede nell’altro un mezzo per la propria affermazione. Nell’adolescenza l’a. rappresenta una forma elevata di comunicazione emotiva e di condivisione di esperienze. Si tratta di una naturale inclinazione a convivere con l’amico e a vedere in questo fatto uno strumento di personale compiacenza, più che un mezzo di reciproco perfezionamento, essendo l’adolescente prevalentemente centrato più su di sé che nell’altro; c) l’a. operativo-oblativa, che rappresenta la pienezza matura di questa relazione interpersonale. Essa è contraddistinta dal bisogno di essere «l’uno per l’altro», ossia dalla coscienza del fatto che la vita degli altri impone alla propria una certa responsabilità; presuppone un amore fondato sulla gratuità, che è un atteggiamento non motivato da altra ragione che non sia la «libertà del donare e del ricevere», per cui si vuole bene all’altro per quello che è e non tanto per quello che serve. Un’a. siffatta stimola gli amici ad un fattivo interscambio di esperienze persona-
AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA
li, ad una concreta manifestazione di stima e simpatia, ad un’effettiva condivisione delle difficoltà e delle gioie, ad una comunicazione personale che si fa progressiva donazione nella sincerità e nella lealtà, proiettandoli nel domani in una comunione di intenti, di impegni, di aspirazioni e di speranze. 3. Educare all’a. Da queste rapide annotazioni sull’a. emerge una logica conseguenza: chi ha responsabilità educative deve avviare all’a., favorendola, orientandola, proteggendola. Sembrano perciò opportune due annotazioni a questo proposito: siccome i legami affettivi di natura amicale non possono ovviamente essere imposti, l’educatore deve innanzitutto vivere e testimoniare in prima persona l’esperienza dell’a. con quel calore umano e quella lealtà che sono già di per sé un fatto educativo; in secondo luogo deve saper creare luoghi di incontro e di aggregazione, in cui soprattutto i ragazzi e le ragazze possono «conoscersi», «capirsi», «stimarsi», «impegnarsi», «esprimersi», «giocarsi» in definitiva in un tipo di a. che sia feconda e costruttiva per la crescita della loro persona. Bibl.: Bucciarelli C., I ragazzi, le ragazze, la coeducazione, Roma, AVE, 1973; Padiglione V., L’a.: storia antologica di un bisogno estraniato, Roma, Savelli, 1978; R iva A., A., Milano, Ancora, 1985; Bucciarelli C., Adulti-adolescenti: comunicazione cercasi, Roma, AVE, 1993; Pizzo lato L., L’idea di a., Torino, Einaudi Paperbacks, 1993; Galli N., L’a. dono per tutte le età, Milano, Vita e Pensiero, 2004.
C. Bucciarelli
AMMAESTRAMENTO → Addestramento
AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA La definizione non è facile anzitutto perché negli Stati Uniti e nel Canada a.s. indica la gestione del → sistema formativo sia a livello di Stato o di distretto sia a quello di singola scuola, mentre in Europa ci si limita al primo senso: qui si seguirà l’uso del nostro continente. Inoltre, vi è incertezza sul piano teorico se l’a.s. sia una disciplina separata o abbia natura pluridisciplinare: in questa voce si adotta la prima ipotesi, perché non sembra che si possa
negare che l’a.s. abbia metodo e oggetto propri. Pertanto, l’a.s. si può definire come quella disciplina delle → scienze dell’educazione che studia la gestione dei sistemi formativi a livello macro (Federazione, Stato, Regione, Provincia, Distretto) allo scopo di conoscerla meglio e di renderla più efficace. Per il livello micro (singola scuola) → organizzazione scolastica: data la difficoltà di tracciare un confine netto tra le due voci, si consiglia di leggerle insieme. L’a.s. è anche quel settore dell’a. pubblica, comprensivo di organi, persone e strutture, che si occupa del funzionamento delle scuole come servizio pubblico. 1. Approcci allo studio dell’a.s. Per quello giuridico → legislazione scolastica. L’approccio delle → scienze sociali ha esercitato un forte influsso sull’evoluzione dell’a.s. per tutto il sec. XX, soprattutto tra la metà degli anni ’50 e ’70. Lo scopo era di potenziare l’insegnamento universitario e la ricerca, facendoli uscire da uno stile prevalentemente esortatorio e impressionistico; d’altra parte, gli amministratori operavano in organizzazioni, comunità, gruppi, in situazioni cioè studiate proprio dalle scienze sociali. In particolare sono le teorie organizzative a influire sull’a.s. Così le posizioni tayloristiche risultano visibili nell’enfasi sull’efficienza, i risultati, la competenza, la responsabilità soprattutto nei Paesi anglosassoni; la concezione weberiana della burocrazia nella costruzione dei sistemi formativi centralizzati delle nazioni in via di sviluppo; la teoria delle relazioni umane nella domanda diffusa di democrazia e di una leadership partecipativa; le impostazioni sistemiche nell’affermarsi dell’autonomia e della pedagogia del progetto. Agli inizi degli anni ’70 il panorama delle scienze sociali è percorso da forti dinamiche orientate al cambiamento. Anzitutto è la società ad essere scossa da un intenso attivismo politico che trova la sua espressione paradigmatica nella → contestazione giovanile. Inoltre, viene denunciato da più parti il positivismo delle scienze sociali, cioè la pretesa che gli unici criteri di verità siano la verifica empirica e la logica analitica, che la metodologia delle scienze naturali debba essere trasferita senza adattamenti alle scienze sociali, che l’obiettivo di queste ultime consista nella elaborazione di leggi, che la ricerca debba essere neutrale sul piano dei valori. Emergo61
AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA
no nuove prospettive tra cui va ricordato il soggettivismo che rifiuta ogni scientismo per affermare la necessità di tener conto nell’a.s. anche dei valori e dei sentimenti. Pertanto, il campo degli studi va esteso dagli aspetti descrittivi a quelli normativi e la ricerca empirica non può limitarsi al quantitativo, ma deve affrontare temi come la volontà, le intenzioni, il linguaggio, ciò che è giusto o sbagliato nell’a.s.: di conseguenza la metodologia si orienta verso gli studi etnografici e qualitativi. Le carenze maggiori di tale prospettiva riguardano la concezione superata di scienze sociali che prende in considerazione, ed il relativismo in cui rischia di cadere per la mancanza di criteri oggettivi di valutazione. Le teorie critiche, che si ispirano alla → scuola di Francoforte, focalizzano l’analisi sulla falsa coscienza che viene creata nella massa della gente da sottili meccanismi sociali, istituzionalizzati nel mondo del lavoro, nell’educazione, nei mass media, nel tempo libero, in funzione degli interessi della classe dominante. Sul piano dell’a.s. si parte dalla constatazione della funzione riproduttiva della scuola e del diverso trattamento prestato agli studenti secondo la classe sociale, per affermare che gli amministratori scolastici sarebbero al servizio dei ceti dirigenti e, pertanto, non si impegnerebbero per realizzare una maggiore eguaglianza delle opportunità nell’istruzione. Le teorie critiche riflettono tutti i limiti delle posizioni marxiste (→ marxismo pedagogico): nell’ambito dell’a.s. hanno espresso più critiche che proposte, appaiono estranee alla realtà scolastica e le loro ipotesi sulla funzione riproduttiva della scuola sono messe in discussione dai risultati della ricerca empirica. Altri approcci da ricordare sono: il «postmodernismo» o «poststrutturalismo» che, a motivo del suo orientamento antintellettuale e antistituzionale, si rivela particolarmente critico nei confronti della scienza e della maggior parte delle forme di organizzazione e di a.; l’area degli studiosi impegnati nella promozione dei gruppi svantaggiati a causa del sesso, della razza o della nazionalità, che evidenziano la situazione di sottorappresentazione e di diseguaglianza di tali gruppi nell’a.s.; le interpretazioni che rifiutano lo scientismo e il positivismo, ma accettano la scienza e una molteplicità di metodi e che si ispirano al pragmatismo, alla fenomenologia ed al realismo. Gli anni 62
’90 e 2000 offrono un quadro di riferimento sociale molto diverso: il crollo del socialismo reale, l’avvento di regimi moderati o conservatori, la sostituzione delle antiche controversie ideologiche con nuove problematiche, come l’inquinamento ambientale, il rapporto nord/sud, il nazionalismo, l’intolleranza, il terrorismo, la globalizzazione. Anche nelle scienze sociali, mentre perdono quota le impostazioni radicali, prevalgono tendenze sia alla conciliazione tra analisi strutturale e culturale e fra prospettive macro e micro, sia a un empirismo pratico che fa comunque uso del metodo scientifico qualunque sia l’approccio teorico seguito. Anche nell’a.s. si affermano prospettive meno polemiche, più flessibili e anche più sofisticate; una coscienza più acuta della complessità dell’oggetto porta sia all’accettazione di una pluralità di approcci e di metodologie, sia ad un aumento della diversificazione, della frammentazione e della specializzazione. Si placa lo scontro tra sostenitori della ricerca quantitativa e qualitativa, benché sia quest’ultima a ricevere un forte impulso. I valori assurgono al centro della scena soprattutto nel contesto dei processi decisionali e della definizione di soluzioni alternative. L’a.s. è riconosciuta come uno strumento indispensabile per il raggiungimento di obiettivi organizzativi e sociali. 2. Problemi e prospettive sul piano dei contenuti. L’azione degli amministratori si scontra spesso con ostacoli e limiti esterni particolarmente forti che ne condizionano l’efficacia. Tra essi vanno ricordati i fattori geografici, che possono pesare negativamente sulla costruzione delle scuole o sul calendario, quelli demografici, che incidono sulla lingua di insegnamento o sulla moltiplicazione dei turni, quelli storici quali il freno rappresentato dall’eredità coloniale o quelli economici come la povertà, che può bloccare lo sviluppo del sistema formativo. Alcuni di questi ostacoli si sono trasformati in problemi gravi in molti Paesi: in vari casi si tratta delle ristrettezze delle risorse, dell’inflazione, del pagamento dei debiti, della esplosione della popolazione, della modesta preparazione dei docenti; altri riguardano la domanda di maggiore efficienza o la ricerca di fonti alternative di finanziamento. Di fronte a queste difficoltà le capacità di risposta dell’a.s.
AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA
risultano inadeguate. Di qui l’impegno di molti Paesi a migliorare la preparazione degli amministratori, a potenziare l’efficienza dell’a.s., ad accrescere la responsabilità del personale, a rafforzare la democrazia locale, ad ampliare il ruolo della → scuola libera, ad introdurre elementi di mercato. Un argomento tradizionale di dibattito è quello dei meriti reciproci della centralizzazione e del decentramento dell’a.s. La prima significa che obiettivi, contenuti e strategie sono fissati da una struttura centrale, normalmente un ministero, che dirige le strutture periferiche attraverso norme ed orientamenti circa le modalità più efficaci per l’implementazione. Il decentramento implica lo spostamento del potere a livello locale, che può assumere forme diverse: dal semplice riconoscimento di un certo spazio per la pianificazione, le decisioni e il controllo, alla delega di determinate responsabilità, fino all’attribuzione di poteri legali anche di imporre tasse. A sostegno del centralismo si citano ragioni quali la realizzazione di una maggiore eguaglianza a favore delle zone e dei gruppi svantaggiati, il contributo all’unità nazionale e alla coesione sociale, la riduzione di duplicazioni o sovrapposizioni, la rapidità nell’introduzione di una → innovazione; al tempo stesso, però, esso può trascurare i bisogni della periferia, manca di flessibilità e, pertanto, non tenendo conto delle diversità locali, non assicura di per sé una maggiore efficienza. L’altra ipotesi viene affermata perché favorisce la partecipazione dal basso, la rispondenza alla domanda sociale, la costruzione di una scuola della comunità, l’ → autonomia scolastica, l’innovazione, l’efficacia. Va, però, detto che questi effetti non sono automatici, ma richiedono a monte una cultura organizzativa corrispondente ed un corretto rapporto con il centro; inoltre, non vanno dimenticati i rischi connessi con il particolarismo dei gruppi di interesse e con la corruzione locale. Pertanto, la maggior parte dei Paesi cerca di trovare un equilibrio tra un forte potere locale d’iniziativa e la propulsione, il coordinamento ed il controllo centrale. Da una parte bisogna procedere a un ampio decentramento dei sistemi formativi che si fondi sul trasferimento di responsabilità alle istanze regionali e locali, sull’autonomia degli istituti e sulla partecipazione effettiva degli attori locali; il principio fondamentale è che la decisione è
locale, mentre l’impulso, il coordinamento, il controllo e la determinazione degli standard nazionali sono centralizzati. D’altra parte, è anche necessario che l’autorità politica si assuma tutta la responsabilità che le compete. 3. L’a.s. italiana. Risale alla L. Casati n. 3725/1859 ed è caratterizzata dal centralismo delle origini. Fino alla prima guerra mondiale l’organizzazione dell’a. centrale tende a oscillare tra burocrazia e collegialità. Un altro passaggio importante dell’evoluzione è rappresentato dalla riforma → Gentile del 1923 che globalmente porta ad una espansione del ministero. L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana (1948) ha segnato un vero rovesciamento di fronte: da una parte si è affermata la validità del principio delle autonomie e dall’altra il sistema scolastico viene impostato sulle grandi opzioni della libertà, del pluralismo e della convergenza delle iniziative. Nonostante ciò, nei primi anni ’60 il Ministero si è ulteriormente dilatato in una macrostruttura anche se nelle decadi ’70 e ’80 si sono avute alcune riduzioni per effetto della istituzione del Ministero dei Beni Culturali (1975) e dell’Università (1989); inoltre, la L. n. 477/73 sugli organi collegiali ha compiuto un primo passo verso l’autonomia di gestione che, però, è rimasta molto limitata. Negli anni successivi è emerso con sempre maggiore chiarezza che il sistema di governo della scuola esigeva un rinnovamento profondo. Questo è avvenuto soprattutto con la riforma del Titolo V della nostra Costituzione (L. n. 3/01): in base alla nuova normativa, lo Stato ha competenza esclusiva per quanto riguarda le norme generali sull’istruzione e i livelli essenziali delle prestazioni; lo Stato e le Regioni hanno competenza concorrente sull’istruzione, fatta salva l’autonomia delle scuole; a loro volta le Regioni hanno competenza esclusiva sull’istruzione e sulla formazione professionale. In altre parole la volontà del Costituente è che Stato e Regioni, da una parte, e Regioni ed Enti territoriali con le istituzioni scolastiche, dall’altra, cooperino insieme e, che, pur nel rispetto dei poteri propri di ciascuno, predispongano una politica formativa al servizio dei giovani e delle famiglie, rispondente alle esigenze del territorio, senza perdere in unitarietà e coordinamento. Il 63
AMORE EDUCATIVO
passaggio da un modello centralistico e gerarchico a uno poliarchico, che valorizza le autonomie territoriali e scolastiche, comporta un diverso ruolo dello Stato che viene investito di tre compiti: governare in modo unitario il sistema educativo di istruzione e di formazione; verificarne la qualità globale in modo che si raggiungano in tutto il Paese i livelli essenziali di prestazione; ovviare alle disparità esistenti tra le scuole prendendo le opportune misure perequative. Contribuiscono nella medesima direzione anche i compiti programmatori e di coordinamento che sono affidati agli enti territoriali. Rientra in questo quadro anche la ristrutturazione del Ministero della Pubblica I. che in grande sintesi si ispira ai seguenti principi: la pubblica istruzione è chiamata a trasformarsi da a. di gestione autoritativa in a. di governo e di servizio e, pertanto, dovrà rafforzare le proprie competenze tecniche rispetto a quelle gestionali che sono destinate a perdere la rilevanza centrale ad esse assegnata nel passato; inoltre, la tradizionale struttura verticale per ordini e gradi di scuola viene sostituita da una orizzontale per grandi tematiche e che comporta l’abolizione delle articolazioni duplicate e la normalizzazione delle funzioni. Bibl.: Perna V., «A.s.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 530-538; Evers C. W. - G. Lakomski, Knowing educational administration: contemporary methodological controversies in educational administration research, Oxford, Pergamon Press, 1991; Willower D. J., «Administration of education as a field of study», in T. Husen T. N. Postlethwaite (Edd.), The International encyclopedia of education, Oxford, Pergamon Press, 1994, 53-60; Rapporto di base sulla politica scolastica italiana, in «Educazione Comparata» 9 (1998) 30-31, 65-119; Versari S. (Ed.), La scuola della società civile tra stato e mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002; Bertagna G., Istruzione e formazione dopo la modifica del Titolo V della Costituzione, in «Nuova Secondaria» 20 (2003) 9, 102-112; Zajda J. (Ed.), Special issue: The role of the state, in «International Review of Education» 50 (2004) 3-4, 199-418; English F. W. (Ed.), Encyclopedia of educational leadership and administration, Thousand Oaks, Sage, 2006.
G. Malizia
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AMORE EDUCATIVO Non esiste educazione senza a. Non c’è approdo alla compiutezza dell’umano se non promana da ricchezza di a. offerto, rassicurante e orientante a matura libertà, al servizio della vita e dell’a. Nel quadro delle Lebensformen e dei Lebenstypen, immaginati da Eduard Spranger, l’educatore appare come il tipo sociale, altruistico, mosso dalla passione, dall’eros elevato ad a. spirituale per l’uomo e per il suo perfezionamento. Se ne delineano alcune «figure» più rilevanti. 1. L’a. naturale dei genitori per i figli, in particolare delle madri, è spesso esaltato nella poesia e nell’arte ed è fenomeno diffuso in tutte le culture. Ne prende atto anche → Aristotele, attento osservatore dei fatti: «Si ammetterà anche che l’amicizia consiste più nell’amare che nell’essere amati. Se ne trova un esempio nelle madri che ripongono tutta la loro gioia nell’amare» (Et. Nic. VIII 8, 1159 a 13); «i genitori amano i loro figli perché questi sono come qualcosa di loro» (Et. Nic. VIII 12, 1161 b 18); per la maggior prossimità iniziale «le madri amano i loro figli più di quanto facciano i padri» (Et. Nic. VIII 12, 1161 b 26). Nel mondo ebraico ci si domanda a proposito dell’a. fedele di Dio: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno?» (Is 49,15). Esprime analoga persuasione s. Angela Merici alle «Matrone» della sua Compagnia di vergini: «Perché si vede nelle madri carnali, le quali, se havesseno mille figli et figlie, tutti li haveriano nell’animo suo totalmente fissi de uno in uno [...]. Anzi, pare che, quanto più se n’ha, tanto più l’a. et cura cresca a un per uno» (Legati 2°). Tuttavia l’istinto non protegge da fenomeni opposti, attestati dalla storia di tutti i tempi: crudeltà, sevizie, abbandono, esposizione, ius vitae et necis del paterfamilias, infanticidio, abuso sessuale (→ violenza). 2. L’a. dei genitori, in particolare quello materno, viene considerato primario nell’evento educativo dai classici della pedagogia romantica: «Tutta l’antichità esalta l’a. materno più di quello paterno; e dev’essere ben grande, quest’a. materno, poiché un padre amorevole non può immaginare affetto superiore al suo» (→ Richter, Levana fr. IV); «il nostro
AMORE EDUCATIVO
scopo principale è lo sviluppo dell’anima infantile [...] e quale forza più attiva e stimolante dell’a. materno?» (→ Pestalozzi, II lett. a Greaves); «la madre è la naturale maestra che la Provvidenza ha posto al fianco del bambino. Il sangue non dice molto: è solo la bontà che parla al cuore della tenera creatura» (→ Girard, Dell’insegnamento regolare della lingua materna, lib. IV, cap. VI, 1); → Fröbel, L’educazione dell’uomo I 6-22; II 24-33: «quanto è stato finora esposto possa destare nei genitori un sincero e sereno, profondo e intelligente a.». 3. L’a. viene esaltato, per una ristrettissima élite sociale e culturale, nella raffinata riflessione platonica sull’eros-pedagogico. Esso vi è teorizzato come sublimazione dell’a. maschile: «volo di due anime intimamente unite al regno della bellezza eterna», «la fusione di passione vera col puro librarsi della speculazione e con la forza di una liberazione morale». È a. che porta gli amanti alla contemplazione del Bello e del Bene, due aspetti dell’identica realtà, «l’esser bello e buono»; e rende capaci di autentica «politica», recuperando alla ragione anche i «custodi», resi permeabili ad essa mediante un sistema educativo congruo (Jaeger, 1959, 299-337). 4. In una vasta prospettiva che attraversa i secoli, l’a.-carità (agápe) costituisce il proprium della pedagogia cristiana (familiare e istituzionale), quando si ispira all’infanzia vissuta in Gesù o da lui amorevolmente accolta ed esaltata (Mt 18,1-6; Mc 9,33-37; 10,13-16; Lc 9,46-48) e non viene, invece, soverchiato, nella realtà effettiva, dall’austera tradizione romana o dei popoli barbarici. Dell’a.e. evangelico sono testimonianza classici testi di Agostino (De catechizandis rudibus, cap. IV e XII), di s. Anselmo d’Aosta (Vita Eadmeri, I 4, nn. 30-31), di educatori e pedagogisti dall’umanesimo all’età moderna, di fondatori e fondatrici di istituti religiosi consacrati all’educazione della gioventù, → Petites écoles de Port-Royal, → Rollin, → Aporti. S. Agostino mutua dalla letteratura classica come norma del governo della comunità monastica la formula «plus amari quam timeri» (Regula, cap. XI), ripresa da s. Benedetto (Regula, cap. LXIII) e trasferita nello spazio pedagogico da Ratherius, vesco-
vo di Verona (Praeloquiorum, lib. I, tit. XV, n. 30), da Silvio → Antoniano e infine da don Bosco (→ sistema preventivo). 5. Accanto all’a. paterno e materno, proprio della famiglia nei confronti soprattutto dell’infanzia e delle istituzioni di stile «familiare», esiste una contenuta forma di a.e. deputato piuttosto a stabilire un ordine di razionalità e di disciplina. Ne tratta anche → Kant: «È necessario che l’uomo sia abituato per tempo a sottomettersi ai precetti della ragione [...]. Né la esagerata tenerezza materna che lo circonda durante la fanciullezza gli giova» (La pedagogia, introduzione). È il sistema tipico usato nei monasteri, nelle famiglie patriarcali e, soprattutto, nei collegi, in particolare quelli militari dei secoli XVIII e XIX. Esso si pratica nei confronti di un’adolescenza ritenuta età irrequieta e ribelle, da preparare attraverso rude disciplina all’inserimento adulto nella società. In quest’ottica si determina in Francia, soprattutto nei primi decenni dell’’800, il dibattito polemico tra l’educazione pubblica, esigente e virile, e l’educazione privata, amorevole e condiscendente. 6. L’attuale complessità del compito educativo, nella famiglia e fuori, e lo sviluppo delle scienze dell’educazione sottolineano l’esigenza che l’educatore sappia coniugare l’a. con l’intuizione, la competenza, la familiarità con le scienze dell’educazione «Non basta amare per essere buoni educatori» (Pio XII); o meglio, se si ama, si mette tutta l’intelligenza al servizio dell’a., rendendo l’azione educativa più persuasiva ed efficace. Si insiste, in particolare, sulla necessità che l’a. non freni o blocchi, ma promuova la crescita dell’educando alla libertà matura: l’autenticità dell’a.e. sta in definitiva nel saper operare in modo che i giovani protagonisti siano indotti ad amare ciò che l’educatore ama non semplicemente perché l’educatore è amabile, ma è valido e amabile in sé ciò che l’educatore propone; anzi siano abilitati ad andar oltre con un cammino autonomo, originale e responsabile. Ciò può verificarsi in più alta misura quando l’educatore è l’apriori della coppia che li ha generati donandosi e donando a. permanente, aprendoli nell’uterus spiritualis della famiglia alla pienezza della libertà. 65
AMORE: EDUCAZIONE ALL’
Bibl.: Jaeger W., Paideia. La formazione dell’uomo greco, vol. III Alla ricerca del divino, Firenze, La Nuova Italia, 1959, cap. VIII Il Simposio. Eros, 299-337; Spranger E., Der geborene Erzieher, Heidelberg, Quelle und Meyer, 1960, 80-106 (Die pädagogische Liebe); März Fr., Erzieherische Existenz. Zwei Essays über das Sein und die Liebe des Erziehers, München, Kösel, 1963; Histoire des pères et de la paternité, sous la dir. de J. Delumeau et de D. Roche, Paris, Larousse, 1990; Delumeau J. (Ed.), La religion de ma mère. Le rôle des femmes dans la transmission de la foi, Paris, Cerf, 1992; Venturelli F., Il ‘noi’ dei genitori e la relazione con il figlio nella riflessione di Ferdinando Ulrich, in «Rivista di Scienze dell’Educazione» 43 (2005) 301-313; Galli N., Competenza ed a. per lo sviluppo del bambino, in «Pedagogia e Vita» 63 (2005) 162-164; Macario L., A. fonte di vita, Roma, LAS, 2007.
P. Braido
AMORE: educazione all’ Nel linguaggio comune per a. si intende il sentimento o l’attrazione che una persona nutre nei confronti di un’altra, implicante una scelta, per una reciprocità di relazione e di piena e intima unione interpersonale; ma in senso più largo con a. si intende anche qualsiasi sentimento positivo, apprezzamento, attrazione, desiderio per un oggetto, altri esseri, un ideale, una causa per cui ci si dedica e ci si sacrifica e che appaga il proprio desiderio e realizza le aspirazioni personali o di gruppo. 1. Tradizionalmente si distingue nell’a. l’aspetto impulsivo (éros) da quello di → amicizia e benevolenza ( filía), da quello di vicinanza interiore (affetto) e da quello di oblatività gratuita e sovrabbondante (agape), tipico, secondo il cristianesimo, dell’a. di Dio. Nella classicità si indicava con termine apposito (= stergo), l’amore dei genitori verso i figli, la loro amorevole cura verso la prole. Dal punto di vista etico-religioso, dopo s. → Agostino si è preso a distinguere la cupiditas (o amor sui = a. di sé fino al «disprezzo» degli altri e di Dio) dalla caritas (o amor Dei = a. di Dio fino al «disprezzo» di sé per donarsi agli altri ed a Dio). Più di recente si è distinto l’«innamoramento», a. «allo stato 66
nascente», che porta a fonderci con la persona amata, dall’a. vero e proprio, che porta a creare una comunità di vita nella stima e fiducia interpersonale globale e perenne. Il vissuto quotidiano mette in luce la complessità e le difficoltà dell’a.: le infatuazioni estetiche o erotiche, le «cotte», gli amori «platonici», le difficoltà di relazionarsi, le paure di perdersi e di essere abbandonati, la ricerca spasmodica del piacere, l’adorazione divistica; fors’anche in relazione a certe tendenze presenti nella cultura contemporanea che portano ad esaltare un certo soggettivismo, individualismo, materialismo, utilitarismo, presentismo a scapito del senso del noi, dello spirituale, del gratuito e della fedeltà. 2. Anche se l’a. si mostra come una dimensione radicale dell’esistenza umana, chiede una graduale maturazione. In tal senso si impara ad amare anzitutto grazie al calore dell’a. ricevuto dagli altri fin dalla più tenera età e per cui è fondamentale il senso di fiducia «originaria» suscitata dalle relazioni interpersonali materne, parentali, familiari e sociali. Un’educazione all’a. consiste essenzialmente nell’aiutare e stimolare le persone a passare gradualmente da un a. infantile immaturo, autocentrato, possessivo ad un a. più personalizzato, interpersonale, solidale, aperto alla trascendenza, capace di a. verso se stessi (capacità di interiorità), di a. alle cose (capacità di operatività e di realismo), di a. agli/per gli altri (capacità di impegno e di solidarietà, di dedizione e di reciprocità), di a. di «Dio» (capacità di dedizione ad una causa ideale e apertura ad una comunione universale e ad una «religione» personale, individuale e comunitaria). Nei confronti di una mancata od errata educazione all’a. o di eventuali carenze, distorsioni, patologie, si richiedono interventi terapeutici, impegno di autoformazione permanente personale, di coppia, familiare, comunitaria. In particolare l’educazione all’a. si rapporta con l’educazione alla sessualità e alla relazionalità amorosa tra uomo e donna; con l’educazione alla scelta del partner e del coniuge, compagno/a di vita: nella prospettiva del «senza fine» e nella speranza della «pienezza della comunione», che sembrano intrinseche all’a. In tutto ciò è notevole il contributo delle scienze umane, della → psicoanalisi e della terapia, ma anche della critica culturale.
AMOREVOLEZZA
Bibl.: Nygren A., Eros e agàpe, Bologna, Il Mulino, 1960; Fromm E., L’arte d’amare, Milano, Il Saggiatore, 1977; Alberoni F., Innamoramento e a., Milano, Garzanti, 1979; Lewis C. S., I quattro a. Affetto, amicizia, eros, carità, Milano, Jaca Book, 1982; Bauman Z., A. liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Roma/Bari, Laterza, 2006; D’Aquanno M., Una didattica avanzata per una pedagogia dell’a., Milano, Angeli, 2007.
C. Nanni
AMOREVOLEZZA Il termine a. è quasi caduto in disuso nella lingua it.; ma nei secoli XVI-XIX ricorre con frequenza anche come categoria «pedagogica» (nell’educazione, nella catechesi e nella → pastorale). 1. Esso indica una particolare modalità di rapporti tra padri/madri e figli, tra maestri/ educatori-maestre/educatrici e allievi/allieve, tra catechisti e catechizzandi, tra sacerdote/ confessore e fedele/penitente. «A. – scrive il Tommaseo – è il segno dell’amore, della benevolenza, dell’affetto; segno che può essere più o meno evidente e sincero. Amorevole indica gli atti esterni di un sincero amore [...] L’a. innoltre è, più d’ordinario, da superiore a inferiore. Può però anco l’a. essere tra pari, così come l’affetto [...]. La vera a. cristiana vien sempre dal cuore» (Nuovo diz. de’ sinonimi, Napoli, 1905, 102-103). 2. Già nelle Constitutioni et Regole della Compagnia et Scuole della Dottrina Christiana (1585) è stabilito per il maestro: «con charità, a. et mansuetudine gli [gli scolari] riceva», seguendo l’esempio «di Christo, che con tanta charità et a. accettò quello fanciullo, che gli andò avanti». Anche → Aporti parla della necessità di «guadagnarsi prima di tutto l’affezione e la confidenza dei fanciulli», tenendo conto che «si ama chi ci tratta con a.» e che «il mezzo che più concorre a conciliare la benevolenza è la benevolenza» (Scritti pedagogici II, Torino, Chiantore, 1945, p. 85, 440-441). Fratel Théoger delle Scuole cristiane, conosciuto da don → Bosco a Torino (Virtù e doveri di un buon maestro, Torino, Paravia, 1863), sviluppa il tema del maestro che «procura colle sue amabili qua-
lità di conciliarsi l’a. degli scolari» (p. 5). Il barnabita A. Teppa, Avvertimenti per gli educatori ecclesiastici della gioventù (Roma/ Torino, Marietti, 1868), una delle fonti delle pagine di don Bosco sul → sistema preventivo del 1877, parla di «amorevoli parole», di «amorevoli correzioni», «modi amorevoli», di castighi dati «con dignità e insieme con a.» (pp. 40, 49). 3. Don Bosco fa dell’a. uno dei tre pilastri (gli altri sono la → ragione e la → religione) su cui poggia il «sistema preventivo», la cui «pratica è tutta appoggiata sopra le parole di S. Paolo che dice: La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo». L’a. è precisamente «amore dimostrato» con immediatezza, sincerità e riserbo, e può considerarsi sinonimo di dolcezza, mansuetudine, benevolenza, amore-carità paziente e comprensiva. Don Bosco raccomanda l’a. anche ai confessori: «Accogliete con a. ogni sorta di penitenti, ma specialmente i giovani» (Opere edite XIII 181); ma più universalmente a tutti coloro che si occupano dell’età in crescita: genitori, educatori, insegnanti, assistenti, animatori. Egli, però, non si nasconde alcune possibili ambiguità pedagogiche nel praticarla; perciò la vuole vissuta in sintesi con la ragione/ragionevolezza e la virtù teologale della carità. In relazione alle cautele e alle avvertenze di don Bosco, una innovativa pista di ricerca di grande forza suggestiva, con preciso riferimento alla sensibilità odierna nei confronti della sessualità e dell’amore, è percorsa e indicata dal salesiano francese Xavier Thévenot. Bibl.: Perquin N., Don Bosco als opvoeder en psycholoog, in «Dux» 29 (1962) 433-439; Rougier S., L’avenir est de la tendresse. Ces jeunes qui nous provoquent à l’espérance, Paris, Salvator, 1979; Thévenot X., Don Bosco educatore e il sistema preventivo. Un esame condotto a partire dall’antropologia psicoanalitica, in «Orientamenti Pedagogici» 35 (1988) 701-730; Id., «L’affectivité en éducation», in Éducation et pédagogie chez don Bosco, Paris, Fleurus, 1989, 233-254; Braido P., Breve storia del «sistema preventivo», Roma, LAS, 1993; Id., I molti volti dell’a., in «Rivista di Scienze dell’Educazione» 37 (1999) 17-46.
P. Braido
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ANALISI TRANSAZIONALE
ANALFABETISMO → Alfabetizzazione ANALISI DEGLI OBIETTIVI → Obiettivi ANALISI FATTORIALE → Ricerca educativa → Statistica ANALISI ISTITUZIONALE → Pedagogia istituzionale
ANALISI TRANSAZIONALE L’a.t. è una teoria della → personalità e una psicoterapia sistematica ai fini della crescita e del cambiamento della persona (Stewart e Joines, 1990), elaborata dallo psichiatra americano E. Berne verso la fine degli anni ’50. 1. Complessità del modello. L’a.t. oltre che una teoria di personalità, un modello psicoterapeutico per interventi individuali, di gruppo, di coppia e familiare e una specifica teoria della psicopatologia, è anche una teoria della → comunicazione e dello → sviluppo infantile. Come teoria della comunicazione può fornire un metodo di a. dei sistemi e delle organizzazioni. Come teoria dello sviluppo infantile permette di spiegare come schemi di vita attuali abbiano origine, in parte, dall’infanzia e continuino a modificarsi lungo tutto il corso della vita. L’a.t. è ampiamente usata nei contesti educativi per il counseling e nei processi interpersonali per aiutare gli insegnanti e gli studenti a rimanere in chiara comunicazione. 2. Concetti chiave dell’a.t. Sono fondamentali nell’a.t. i concetti di stati dell’Io. Uno stato dell’Io è un insieme di comportamenti, pensieri ed emozioni tra loro collegati così da formare un’unità osservabile. Ci sono tre stati dell’Io secondo l’a.t.: lo stato dell’Io Adulto, lo stato dell’Io Genitore e lo stato dell’Io Bambino. L’Adulto è un insieme di modi di agire, pensare e sentire in relazione alla realtà che si svolge nel qui ed ora; il Genitore è un insieme di comportamenti, di pensieri e di emozioni che spesso sono una copia dei modi di porsi dei genitori, o altre persone che sono state figure genitoriali; il Bambino riflette modi di comportamento, di pensiero e di emozioni caratteristici di quando si era bambini. Quando le persone comunicano possono presentarsi a partire da qualsiasi dei tre stati dell’Io; l’a. delle sequenze di 68
transazioni tra gli stati dell’Io delle persone costituisce l’a.t. in senso stretto. Nell’a. delle transazioni sono importanti le carezze, cioè qualsiasi atto di riconoscimento dell’altro o da parte dell’altro, e la strutturazione del tempo, cioè i diversi modi di impiegare il tempo nelle transazioni in gruppi o in coppie. Nell’infanzia ogni persona scrive una storia di vita per se stessa che l’a.t. chiama copione. Nella vita adulta molti aspetti del copione vengono seguiti fedelmente senza che la persona ne abbia consapevolezza. L’a. del copione serve per capire come le persone possano talora, senza saperlo, crearsi dei problemi e come possano procedere per risolverli. Il bambino crea il copione come strategia efficace di sopravvivenza. Nel creare il copione talora distorce la realtà con ridefinizioni, altre volte non tiene conto di fatti importanti con la svalutazione di essi. Per mantenere il copione nella sua forma infantile, talora gli adulti entrano in relazione in modo da comportarsi come bambini e invitano gli altri ad assumere il ruolo di Genitore e Adulto anziché attivare il proprio Genitore e il proprio Adulto; quando questo avviene si dice che la persona si mette in un rapporto simbiotico. Da bambini le persone talora imparano a non esprimere alcune emozioni non approvate e a sostituirle con altre. Quando nella vita adulta invece di esprimere le emozioni autentiche si fa lo scambio delle emozioni come si faceva da bambini, le emozioni sostitutive sono chiamate emozioni parassite. Se le persone che comunicano, invece di esprimere le emozioni autentiche si relazionano attraverso emozioni parassite, esse mettono in atto dei giochi psicologici. Compito importante degli adulti è quello di aggiornare il copione per affrontare la vita secondo le esigenze del presente piuttosto che secondo le strategie create da bambini e inefficaci per il presente. Il cambiamento del copione infantile per adottare quello funzionale per la vita adulta permette di raggiungere l’autonomia. Gli interventi dell’a.t. hanno lo scopo di facilitare l’arricchimento dell’autonomia. 3. La filosofia dell’a.t. I seguenti sono alcuni assunti di base dell’a.t.: ognuno va bene come persona, ognuno è capace di pensare, ognuno decide il proprio destino e le decisioni prese possono essere cambiate. Da questi
ANARCHISMO ED EDUCAZIONE
assunti seguono due metodi di intervento specifici dell’a.t.: il metodo contrattuale e la comunicazione aperta. Il metodo contrattuale implica che in qualsiasi cambiamento previsto viene assunta la responsabilità congiunta tra l’analista e la persona interessata e ciò porta ad accettare la parità tra l’analista e la persona che si presenta per affrontare dei problemi. La comunicazione aperta implica che l’analista fornisce chiare spiegazioni rispetto a quello che accade nella relazione e nel lavoro congiunto. 4. Organizzazione. L’a.t. è organizzata a livello internazionale attraverso l’ITAA, International Transactional Analysis Association, a livello europeo attraverso l’EATA, European Association for Transactional Analysis, in Italia attraverso la SIAT, Società Italiana di a.t. In Italia esistono anche gruppi di analisti transazionali che non aderiscono alla SIAT. Bibl.: Berne E., A che gioco giochiamo?, Milano, Bompiani, 1967; Scilligo P. - M. S. Barreca, Gestalt e a.t., vol. I, Roma, LAS, 1981; Scilligo P., Gestalt e a.t., vol. II, Ibid., 1983; Berne E., Principi di terapia di gruppo, Roma, Astrolabio, 1986; Scilligo P. - S. Bianchini (Edd.), I premi Eric Berne, Roma, IFREP, 1990; Stewart I. - V. Joines, L’a.t.: guida alla psicologia dei rapporti umani, Milano, Garzanti, 1990; Zalcman M., A. dei giochi e a. del ricatto: visione d’insieme, critica e ulteriori sviluppi, in «Polarità» (1990) 8, 351-379; M astromarino R. (Ed.), A.t. La terapia della ridecisione: dalla teoria alla pratica e dalla pratica alla teoria, Roma, LAS, 2006.
P. Scilligo
ANARCHISMO ED EDUCAZIONE Si intende per a. la teoria e pratica politicosociale che tende a rifiutare ogni tipo di gerarchia e di organizzazione della → società. 1. Per anarchici e marxisti l’educazione fu una preoccupazione di capitale importanza. Nel Congresso dell’Internazionale dei Lavoratori, tenuto a Bruxelles nel 1868, si discusse della necessità di una «educazione integrale», il cui più strenuo difensore fu Paul Robin. Antico alunno della Scuola Normale
Superiore di Parigi, conobbe Bakunin e Marx e partecipò alle loro dispute per capeggiare il movimento operaio internazionale. Robin rese popolare il concetto di «educazione integrale», difeso da tutti i leader operai del sec. XIX, attraverso il suo scritto De l’enseignement intégral (1869). Inizialmente Marx e Bakunin condividevano l’idea che prima era necessario fare la rivoluzione e poi bisognava rieducare il popolo, ma dal 1880 gli anarchici capeggiati da Kropotkin mutarono l’ordine delle priorità e si convinsero che nessuna rivoluzione sarebbe stata possibile senza un previo cambiamento di mentalità dei suoi protagonisti. Prima di fare la rivoluzione, bisognava cominciare dalla scuola; tuttavia né la scuola di Stato né la scuola di Chiesa avrebbero collaborato al cambiamento delle mentalità, per cui gli anarchici cominciarono a fondare delle scuole proprie dalle quali provenivano i futuri rivoluzionari. In tal modo, nella terza parte del sec. XIX, sorsero numerose scuole private a carattere laico, la cui differenza fondamentale rispetto alle scuole statali e a quelle degli ordini religiosi, era il fatto che non vi si insegnava religione. Le leggi consentivano questo tipo di scuola a certe condizioni e ve ne furono di varia portata; tra esse vi furono scuole a spiccato carattere anarchico. 2. La prima scuola anarchica che ebbe una certa notorietà fu l’Institution Prevost di Cempuis, vicino a Parigi. Si trattava di un orfanotrofio privato, controllato dal governo francese. Per dodici anni Robin diresse il centro, trasmettendo alcuni principi anarchici e introducendo alcuni metodi pedagogici innovativi, come per es. la lezione all’aperto, l’importanza dell’igiene, dell’educazione fisica e del lavoro nei piccoli laboratori dell’Istituzione (fattoria, orto, panetteria, sartoria, stampa, ecc.). L’obiettivo era che tutti gli alunni di questo centro misto avessero la possibilità di conoscere i diversi lavori che avrebbero probabilmente svolto alla fine della permanenza nell’internato, la qual cosa consentiva loro di avere un’esperienza diretta prima di doversi dedicare ad essi senza conoscerne le caratteristiche. Robin apparve troppo rivoluzionario alle autorità francesi laiche responsabili dell’educazione Accusato di insegnare il malthusianesimo e di essere antipatriota, fu deposto nell’agosto 1894. 69
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3. Un’altra scuola anarchica famosa fu quella creata a Barcellona (1901) da Francisco Ferrer i Guardia (1859-1910). Ferrer ebbe l’appoggio di numerosi nuclei anarchici, massoni e liberali in genere, insoddisfatti dell’educazione pubblica e delle → congregazioni religiose insegnanti. Il suo nome e quello della Escuela moderna da lui fondata costituirono una svolta più per motivi ideologici e politici che per le innovazioni pedagogiche. Questa scuola ebbe appena cinque anni di vita. Fu chiusa nel 1906 ed il suo direttore fu imprigionato con l’accusa di complicità con il bibliotecario della scuola nell’attentato che, in occasione delle nozze di Alfonso XIII, causò vari morti a Madrid. Nel 1909 fu processato, accusato di aver partecipato ai disordini della «Settimana Tragica» ed in seguito fucilato. L’eco di questa tragica fine fu magnificata dalla → massoneria e dall’a. internazionale e fu utilizzata ancora una volta per fomentare il discredito della Chiesa e dei governi conservatori spagnoli responsabili dell’esecuzione. Bibl.: Tomasi T., Ideologia libertaria e formazione umana, Firenze, La Nuova Italia, 1973; Delgado B., La escuela moderna de Ferrer i Guardia, Barcelona, CEAC, 1979; Rodas I. - A. De la Calle, Anarquismo y comunismo: ayer y hoy, Barcelona, Curso, 2005.
B. Delgado
ANGIULLI Andrea → Positivismo e educazione ANGOSCIA → Ansia ANIMA → Spirito → Uomo ANIMATORE → Animazione → Educatore
ANIMAZIONE In senso generale l’a. può essere intesa come uno stile, un approccio o un modo di rendere un servizio alle persone e alle comunità, cui corrisponde sul piano delle figure professionali un profilo specifico: l’animatore. 1. Il significato del termine a. I termini «animare», «a. » e «animatore» indicano l’energia e l’attività che dà, espande, arricchisce la vita ed ispira un individuo o dei gruppi, sia dall’interno che dall’esterno. L’a., quindi, è 70
essenzialmente un processo riferito alla vita e all’amore per la vita; promuove l’esistenza, l’armonia, la crescita e la coesione; abbraccia una vasta gamma di comportamenti umani e infonde energia, vitalità e spirito. Il termine, pertanto, è fondamentalmente collegato con la creatività, la gioia e l’ispirazione. L’a. diviene un’azione proficua solo in quelle esperienze dove c’è libertà e assenza di costrizione. L’a. sfida la vita stessa, così come sfida le personali capacità degli individui a liberarsi da ogni sorta di miseria che in qualche modo ostacola e svilisce la vita. Quindi la vita stessa diviene il luogo dove spargere i semi della speranza per il futuro. 2. Le diverse forme dell’a. Esistono diversi modelli di a., che indichiamo brevemente, per soffermarci, poi, sul modello olistico dell’a. a) A. creativo-espressiva: è forse il modello generalmente più diffuso. È legato allo scenario della rappresentazione teatrale, che offre mezzi d’auto-espressione all’interno della comunità spesso utilizzati per aiutare i fanciulli e le persone con particolari problemi di apprendimento. b) A. socio-culturale: ha dei legami con i processi educativi degli adulti e della comunità. Mira a promuovere lo sviluppo di talenti ed abilità delle persone e dei gruppi per abilitarli a una migliore partecipazione alle realtà sociali e politiche in cui vivono e ad una loro migliore gestione. c) A. culturale: si riferisce maggiormente ad un approccio educativo e didattico applicabile ad attività scolastiche del doposcuola e specialmente a gruppi giovanili. Si tratta, in fondo, di una teoria educativa basata su un sottointeso paradigma filosofico/antropologico, con un metodo ben fondato e con risorse specifiche. Si qualifica per la dimensione culturale dell’identità individuale e le sue espressioni sociali e storiche. d) A. del tempo libero: si rivolge a forme ricreative o espressive. È un tipo d’a. nel quale il tempo libero delle persone è impiegato per liberare la loro auto-espressione e a per acquistare o riacquistare la loro creatività. e) A. come dinamica di gruppo: è riferita all’applicazione di tecniche e metodi che promuovono la comunicazione interpersonale e la messa in atto di attività di gruppo. f) A. come modello olistico per l’educazione si fonda sulla prospettiva di stili diversi e conseguenti ruoli da assumere per promuovere la pienezza di vita per tutti.
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3. Comprensione del modello olistico dell’a. Accentuando il significato delle parole «animare», «a.» e «animatore» come una qualità di vita, un modo dell’agire più che una specifica azione, possiamo comprendere l’a. come un insieme di stili per ridestare (dare), liberare (purificare), rafforzare (sostenere), progettare la vita; ciascun stile è un processo e un metodo per l’arricchimento della vita, che concorre a favorire un processo di trasformazione della vita, inteso come un avanzare verso la pienezza di vita per tutti. E questo allo scopo di provocare dall’interno delle persone, la loro partecipazione alla vita della comunità. Per a. che ridesta o dà la vita, intendiamo uno stile di pensare e di riferirsi alle persone e ai dinamici processi interni connessi con la loro maturazione umana e spirituale. L’a. come liberazione o purificazione della vita abilita individui e gruppi a rimuovere tutte le forme d’annullamento della vita e a decidere di essere sempre a favore di essa. L’a. come rafforzamento o sostegno della vita, indica l’essere in relazione per accompagnare persone e gruppi, con suggerimenti e motivazioni, in un cammino di maturazione affinché essi stessi possano scegliere gli stimoli più adatti. Per a. come progettazione della vita s’intende uno stile educativo che seleziona risorse ed opportunità educative articolandole in relazioni libere, autentiche ed evolutive, per incoraggiare gli individui a discernere e ad identificare la loro visione personale in conformità con l’invito di Dio e ad abilitarli a procedere verso una visione condivisa capace di promuovere nella comunità la pienezza di vita per tutti. L’a. come arricchimento di vita è un processo e un metodo che accetta la visione della realtà sempre mutevole e che considera Dio come la sorgente di questa crescita e apertura creativa allo sviluppo. In definitiva, l’a. è un movimento che trasforma la vita; ciò comporta una strategia unificante che include tempi, luoghi, vari aspetti ed azioni e anche un processo convergente ed unificato, in cui la vita e l’amore per la vita sono gli elementi centrali. La meta di questo processo di trasformazione è la pienezza di vita per tutti. 4. I valori dell’a. L’a. nelle sue diverse modalità, possiede propri valori, che possono essere sia ideali, sia concreti. A. indica l’insieme
di azioni-riflessioni mediante le quali l’individuo o il gruppo intraprende liberamente il cammino verso la pienezza di vita per tutti e quindi è «animato». Tali azioni-riflessioni, a loro volta, abilitano gli individui o i gruppi a trasmettere la vita ad altri e così diventano animatori. L’a. è intenzionalmente centrata sulle persone, sulla loro coscienza e sulle loro capacità. Riconoscendo la libertà interiore e l’autonomia dell’individuo, l’a. offre l’opportunità per liberarle da tutto ciò che ostacola il cammino verso la pienezza di vita. L’a. ridesta gradualmente le loro capacità interiori, aprendo nuovi orizzonti, chiamandoli ad una riflessione critica su se stessi, su quelli che li circondano, sulla storia e sul mondo in cui vivono, promuovendo così un itinerario verso la pienezza di vita per tutti. Questo procedimento ha bisogno di essere manifestato attraverso la solidarietà, l’armonia e l’unità all’interno della società stessa e verso la natura, con il dialogo il quale promuove, inoltre, uno stile educativo che non manipola le persone, non fa un lavaggio di cervello, né impone alcuna cosa con la forza. Come metodo educativo, l’a. non minaccia le persone con condanne o rappresaglie, né promuove la partecipazione solo per una ricompensa o un favore. Si limita, invece, ad offrire risorse ed opportunità e ad organizzarle in una relazione libera, autentica, che conduce allo sviluppo, al sostegno e all’accompagnamento delle persone nella loro crescita verso la pienezza di vita per tutti, attraverso il processo di selfempowerment (auto-responsabilità). Nello stesso tempo, l’a. riconosce che questo cammino è intrapreso in un ambiente specifico, dentro una storia particolare con tutti i suoi aspetti positivi e negativi. In questo modo, la memoria del passato e la speranza di un futuro migliore assumono un significato fondamentale nel processo d’a. La consapevolezza dei propri limiti, il bisogno d’impegno e lo sviluppo della speranza e dell’ottimismo costituiscono uno dei segni più evidenti per la memoria e la speranza di un futuro migliore. Queste dimensioni sono promosse non solo in vista di una sopravvivenza ma, soprattutto, per mettersi in cammino verso la realizzazione degli ideali dell’amore autentico. Questi ideali rendono gli individui capaci di percepire gli altri come persone dotate di specifiche qualità e non come una minaccia e un peso; di conseguenza, essi sono una sfida 71
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per cercare l’armonia e l’unità. Questa memoria e speranza nel futuro richiedono dagli individui un rinnovamento continuo, implicando l’uso appropriato e giusto delle risorse messe a disposizione dell’umanità. 5. L’a. - uno specifico processo educativo. L’a. mostra i processi della personalizzazione e della coscientizzazione che hanno luogo all’interno delle persone, dei gruppi e delle comunità e sottolinea le motivazioni che sottostanno alle varie scelte, e ne promuove sia la capacità critica, sia la partecipazione attiva ai processi di crescita, abilitandoli a diventare protagonisti responsabili. Inoltre, li rende consapevoli della realtà delle loro potenzialità inespresse, represse o soppresse, rafforzando in tal modo il tessuto sociale. L’educazione, invece, è generalmente intesa come una specifica attività umana associata a ruoli e figure precise entro una particolare relazione interpersonale che coltiva, cura e forma individui della generazione che sta crescendo. L’educazione comprende una serie si discipline miranti a fornire e ad accrescere informazioni ed abilità, allo scopo di sviluppare sia gli individui sia la società. L’a. e l’educazione, quindi, sono due realtà specifiche e complesse, che hanno degli elementi in comune quali la vita, la cultura, la persona, la libertà, la responsabilità, l’accrescimento delle potenzialità degli individui, ecc. Nel suo nucleo centrale, l’a. non differisce radicalmente dal processo educativo, ma considera se stessa come distinta dal modo abituale e predominante dell’educare. Differisce, in pratica, nel suo modo di comprendere le persone e anche nel modo di identificare la collocazione dei processi educativi che, nel caso dell’educazione, sono stati convenzionalmente associati con istituzioni accademiche. Queste hanno aiutato l’a. ad elaborare concetti teorici, metodi e tecniche diverse, capaci di verificare l’efficacia dei risultati che si possono ottenere con le esperienze d’a. L’a. ci aiuta a percepire che è possibile educare in ogni contesto, in ogni fase della vita e in ogni situazione, purché esistano certe condizioni di libertà. L’a., in altre parole, non deve essere solamente considerata come un aspetto del processo educativo, ma anche come una dimensione sottostante, che rafforza ed accresce i confini dei campi tradizionali dell’educazione. 72
6. A. dalla prospettiva degli stili diversificati. La domanda principale e fondamentale che gli operatori si pongono non riguarda il luogo dove fare l’a., ma la realtà particolare in cui si trovano le persone. L’a. è, di conseguenza, efficace solo se s’impegna seriamente a prendere in considerazione quella realtà attraverso cui le persone tentano di trovare la pienezza di vita. L’a., pertanto, richiede operatori che conoscono le situazioni e i bisogni delle persone e abbiano la capacità di identificare le cause fondamentali che provocano situazioni indesiderabili. Per stile si può intendere la maniera preferita di pensare, il modo originale di esprimersi e la forma particolare di agire, caratteristiche proprie di ogni persona. Lo stile non è un’abilità, ma piuttosto la modalità preferita per usare l’abilità che si possiede. Quando il profilo dell’a. si armonizza con la situazione delle persone, allora essa diventa feconda. Il profilo di uno stile d’a. è caratterizzato essenzialmente da due componenti: quello delle relazioni e quello dei compiti. La componente delle relazioni si specifica per una particolare sollecitudine verso le persone; quello dei compiti, invece, evidenzia l’impegno per la missione, cioè per la finalità e gli obiettivi. La prospettiva dello stile dell’a. è un forte richiamo, per gli operatori, a tenere unite la componente delle relazioni, quella dei compiti e quella delle situazioni. La visione degli stili (ridestare, liberare, rafforzare e progettare la vita) fornisce agli operatori una specie di ampia mappa concettuale, che è utile per comprendere sempre meglio la complessità dell’a. Le componenti principali degli stili che si riferiscono alle relazioni e ai compiti, rimandano a due fattori fondamentali per ciascuno, compresenti nel processo dell’a. La prospettiva degli stili basata sulle relazioni e, quindi, sulla sollecitudine per le persone, confida nelle loro risorse interiori per farle procedere verso una pienezza di vita per tutti attraverso i due processi seguenti. Il primo, sostenere e apprezzare le risorse interiori delle persone comporta che ognuna possieda delle risorse che necessitano di essere scoperte, sviluppate ed impiegate per la crescita e la maturazione e ciò è possibile attraverso l’a. Il secondo, far procedere le persone verso la pienezza di vita costituisce la finalità o l’obiettivo fondamentale d’ogni processo d’a., che permette di realizzare le loro aspet-
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tative di vita e il raggiungimento di un appagamento attraverso ragionevoli e giuste relazioni con se stessi, con gli altri, con il mondo e con Dio. La prospettiva degli stili a livello di compito, cioè di missione, richiede di sostenere le persone nella loro crescita, nei loro cambiamenti e nella promozione e partecipazione ampia e piena ai valori centrali della vita. Questa prospettiva si esplica attraverso altri due processi: il rafforzamento delle persone nei mutamenti attraverso il contatto con gli animatori e la partecipazione ai valori centrali e fondamentali della vita. 7. I processi coinvolti nella prospettiva degli stili dell’a. e ruoli corrispondenti. I processi coinvolti negli stili dell’a. divengono evidenti quando la sollecitudine per le persone e la preoccupazione per la missione s’intrecciano. Uno sguardo analitico dei processi dell’a. evidenzia stili distinti, ma collegati tra loro, che si possono esprimere con i verbi: portare dentro l’ambito dell’a., liberare o purificare, rafforzare o sostenere e progettare la vita. Tali processi manifestano quattro stili fondamentali di a.: ridestare/dare la vita attraverso il ruolo della narrazione; liberare/purificare la vita mediante il ruolo della valutazione; rafforzare/sostenere la vita attraverso il ruolo dell’allenamento; progettare la vita con il ruolo del leader. Questi quattro stili d’a. sussistono in un equilibrio dinamico ed interagiscono tra loro. L’a., mentre abilita le persone ad usare stili diversi, le incoraggia anche ad esaminarne i limiti, per realizzare sempre più un’a. olistica, che presuppone un forte lavoro d’équipe. Mantenere questi quattro stili in un equilibrio dinamico e promuovere l’interazione tra loro, stimola un altro processo, quindi un altro stile, che in qualche modo migliora e valorizza la vita in ogni situazione e che può essere chiamato arricchimento della vita. A quest’ultimo stile corrisponde il ruolo del servizio alle persone, che è il vertice dello stile dell’a., per abilitarle a divenire agenti-soggetti in relazione, per progredire verso la pienezza di vita per tutti. 8. In conclusione, questi stili diversi e i ruoli corrispondenti ci aiutano a definire i compiti specifici dell’animatore, facendo vedere, nello stesso tempo, la natura olistica dell’a. Ognuno degli stili descritti è valido e nessuno di essi prevale su un altro, in quanto cia-
scuno esplicita particolari funzioni e sarebbe errato dire che uno stile dà migliori possibilità di un altro. Una formula che dovrebbe guidare gli animatori competenti può essere sintetizzata in questo modo: «stili diversi per persone diverse» e/o «stili diversi per situazioni diverse». Bibl.: Besnard P., Animation socioculturel. Fonctions, formation, profession, Paris, ESF, 1981; M aurizio R. - D. R ei (Edd.), Professioni nel sociale, Torino, Gruppo Abele, 1992; Sternberg R., Thinking styles, Cambridge, Cambridge University Press, 1997; Pollo M., A. culturale teoria e metodo, Roma, LAS, 2002; Vallabaraj J., Animating the young, Bangalore, Kristu Jyoti Publications, 2005; Id., A. e pastorale giovanile, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2007.
J. Vallabaraj
ANIMAZIONE SOCIOCULTURALE L’a.s. può essere definita come un’azione sociale di promozione umana e di coscientizzazione personale e comunitaria. L’a.s. fa capo, da una parte, alle esperienze di educazione degli → adulti promosse fin dagli anni Cinquanta del sec. scorso e, dall’altra, al modello francese dell’a.s. Questa viene pensata come intervento nel territorio, al fine di favorire i processi di crescita della capacità dei gruppi di partecipare alla realtà sociale e politica in cui vivono, e di gestirla. Questo filone è rappresentato, sia storicamente che attualmente, dalla rivista «A. Sociale» fondata da G. A. Ellena nel 1971 ed ora affidata alla gestione del Gruppo Abele di Torino. In questa direzione si sono mosse altre realtà significative quali l’ARIPS e l’ASSCOM, in stretto rapporto con le esperienze di psicologia di comunità. 1. La dimensione educativa. L’a.s., pur non volendosi confondere con altri stili di a. più marcatamente educativi, può avere una notevole valenza educativa. Infatti le funzioni dell’a.s., finalizzata al cambiamento attraverso la partecipazione, sono essenzialmente due: a) la presa di coscienza, che riguarda realtà quali le potenzialità inespresse, rimosse o represse delle persone singole, dei gruppi e delle comunità; i dinamismi interni del no73
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stro «agire»; le mentalità diffuse, sommerse, latenti; le situazioni problematiche; il divario ricorrente tra «reale» ed «ideale». A questo scopo anche il metodo adottato deve essere preciso. Occorrono interventi organici, ben finalizzati, ispirati ad una prevalente preoccupazione preventiva, specie in alcune aree (partecipazione, espressività e creatività, emarginazione, devianza). Tutto ciò al fine di creare una nuova cultura nel rapporto pubblico-privato, professionale-volontario; nel relazionarsi e collaborare con persone e con gruppi di diversa estrazione, formazione, ispirazione, ma operanti su obiettivi comuni; nella concezione del tempo libero, con finalità non solo ludiche ma anche di impegno sociale; b) il potenziamento del tessuto connettivo sociale, che si attua con iniziative di socializzazione, gruppi e lavoro di gruppo, scambi turistici, itinerari ecologici, convegni e seminari, feste popolari, mostre itineranti, a. dei ragazzi nei condomini, raccolte finalizzate di oggetti; stimolando la «gente» a risolvere in proprio i problemi quotidiani, a superare le diffidenze verso il pubblico, a sostenere dall’esterno le comunità di accoglienza, ad essere presenti nelle situazioni di emergenza; lacerando l’incomunicabilità tra le generazioni, tra gli operatori e la «gente», tra i turisti e i locali; con il reperimento in gruppo delle risorse disponibili ed il loro funzionale raccordo con i → bisogni locali; con la realizzazione di microstrutture pilota agili, che rispondano con successive approssimazioni all’inventario incrociato di bisogni, aspettative, interessi, carenze, rapporti; con alcuni punti istituzionali di riferimento: → famiglia, scuola, lavoro, tempo libero, associazionismo, ecc., facilitando in questo modo il coordinamento e la destinazione razionale delle risorse; con la creazione di microstrutture di servizio (per esempio un ufficio stampa) per le attività di più gruppi (specie di giovani) operanti sullo stesso territorio con obiettivi analoghi; con tecniche collaudate di organizzazione e di programmazione, finalizzate all’individuazione di concreti criteri di efficienza ai fini di una periodica verifica degli interventi promossi e realizzati; con la valorizzazione dei giovani come protagonisti della propria «condizione giovanile», dell’interazione scuola-associazione-territorio in ordine ad un uso alternativo, ossia impegnato, del tempo libero; favorendo, soprattutto 74
nei giovani, la riacquisizione personale ed in gruppo del senso di identità, del gusto del vivere, del senso di → appartenenza, attraverso l’esercizio della collaborazione, della cooperazione e del lavoro. 2. La formazione degli animatori. La dimensione educativa dell’a.s. nei termini indicati appare ancora più evidente se verifichiamo i punti di riferimento di una linea formativa che consenta il passaggio dalla realtà concreta e feriale dell’a. al suo profilo ideale attraverso la «formazione degli animatori». Di essa sono punti di riferimento → valori come la centralità delle persone umane concrete, il rispetto e la promozione della libertà delle coscienze, la solidarietà, la ricerca della buona qualità della vita, il pluralismo sociale quale garanzia di libertà per persone, gruppi, comunità, il lavoro, la pace e lo sviluppo, il rispetto e la difesa dell’equilibrio ecologico, una cultura ed un’educazione critica ed aperta. Il senso e il gusto della libertà delle persone, dei gruppi e delle comunità costituiscono il fine e l’atteggiamento fondamentale dell’animatore. Sapersi determinare, decidere insieme, innovare ne sembrano le espressioni personali più cospicue. Più specificamente fanno parte della competenza umana e professionale dell’animatore la lealtà, la responsabilità, il rispetto e la fedeltà; la coscienza della complessità ed organicità del reale, ma anche l’acuto senso per il locale, il particolare, il personale, per le dinamiche di → gruppo o per i comportamenti collettivi; il senso della storicità e insieme delle urgenze e priorità che si impongono; la capacità del dialogo e del confronto; la semplicità degli stili di vita; il senso della provvisorietà; il distacco, la flessibilità e il coraggio di agire anche rischiando e pagando di persona. Pertanto sembra collegabile con l’animatore un modello di → personalità interiormente unificata, aperta all’universalità dei valori, capace di infondere speranza e di far maturare prospettive aiutando a leggere la realtà e a cogliere possibilità di azione a prima vista «inedite». Rientra nella sua competenza uno stile di intervento modulato sul «vederegiudicare-agire», sulla capacità di vivere in situazione coniugando prassi-teoria-prassi, insieme, in gruppo, in comunità, sull’intelligente revisione di vita, ma anche sul saper mediare e innovare, non emarginando, ricu-
ANORESSIA MENTALE
perando ritardi, anticipando il futuro. A sua volta sarà necessario saper integrare i ruoli professionali tecnici in un agire funzionale alle persone e alle necessità dei gruppi e delle comunità. In questa prospettiva è evidente la priorità data alle «competenze umane», rispetto alle abilità tecniche e ai mezzi a disposizione (che pure hanno la loro importanza «strumentale»).
partecipazione. Manuale pratico per l’a. sociale, Bologna, EMI, 2005.
3. La prospettiva culturale. Alla base di questo modo di intendere l’a. e l’animatore sta una concezione ampia di → cultura che tiene conto sia della cultura alta che di quella popolare. Come è del resto anche nell’approccio inglese dei Cultural studies, si ha davanti un concetto di cultura intesa come pratica sociale, come processo globale, come memoria collettiva di popolo, nelle sue molteplici differenziazioni interne (tradizionalmente piuttosto emarginate dalla cultura ufficiale). Ma insieme si pensa ad una cultura che è attenta alle pratiche sociali legate al cinema, alla televisione, alla radio, alla stampa, allo sport, alla musica, alle mode, ecc.; ad una cultura sensibile agli interrogativi che si vivono nelle concrete situazioni di vita e nei diversi contesti geo-sociali. Più specificamente si ha presente una cultura-educazione allargata alla strada (animazione di strada), al quartiere, alla città; per ripartire da quello che i ragazzi e le ragazze, le persone adulte e gli anziani hanno da dire sia pure nei loro specifici linguaggi, nelle loro conversazioni quotidiane segnate dalla → comunicazione di massa, ma anche nelle loro svariate espressioni di bisogni, memorie, desideri, aspirazioni effimere e profonde.
Il termine a.m. pare sia stato proposto per la prima volta da C. Huchard nel 1883 per indicare un disturbo dell’alimentazione che affligge soprattutto le donne (95% circa dei casi) in un’età molto giovane (fra i 13 e i 25 anni circa) ed è caratterizzato, soprattutto, da avversione all’aumento di peso per motivazioni inconsce o semicoscienti.
Bibl.: López de Ceballos P. - M. Salas Larrazabal, Formación de los animadores y dinámicas de la animación, Madrid, Editorial Popular, 1988; Ellena G. A. (Ed.), Manuale di a.s., Torino, Gruppo Abele, 1988; M aurizio R. - D. R ei (Edd.), Professioni nel sociale, Ibid., 1992; R egoliosi L., La strada come luogo educativo: orientamenti pedagogici sul lavoro di strada, Milano, Unicopli, 2000; Capello G., I media per l’a., Leumann (TO), Elle Di Ci, 2002; Gambini P., L’a. di strada: incontrare i giovani là dove sono, Ibid., 2002; De Rossi M., A. e trasformazione: identità, metodi, contesti e competenze dell’agire sociale, Padova, CLEUP, 2004; Dotti M., La tela del ragno: educare allo sviluppo attraverso la
G. A. Ellena - G. Vettorato
ANOMIA → Durkheim Émile
ANORESSIA MENTALE
1. Diversamente da quanto sembrerebbe indicare il termine a. che etimologicamente vuol dire mancanza di appetito, questo non viene in realtà compromesso; l’anoressica intenzionalmente mangia poco, si alimenta con una dieta sproporzionatamente ipocalorica, usa lassativi o diuretici, o con frequenza vomita l’alimento ingerito. Vengono segnalate dagli studiosi di questo argomento delle forme minori e di più comune riscontro che si verificano solitamente in adolescenti fra i 13 e i 15 anni e che si risolvono nel giro di alcuni mesi; forme intermedie in cui gli episodi anoressici sono inframmezzati da recupero transitorio di peso o in seguito a crisi bulimiche o in seguito ad ospedalizzazione; forme gravi in cui il deperimento organico può portare a conseguenze pericolose, o immediate o postume. Nell’anoressica si ha quasi costantemente alterazione delle funzioni endocrine e sospensioni dei cicli mestruali; un atteggiamento ambiguo verso il proprio corpo il cui schema e il cui significato vengono alterati e strumentalizzati. 2. L’a. è stata interpretata in vari modi: la si è intesa come facente parte di un quadro isterico con cui, peraltro, ha molte somiglianze. È stata confusa col morbo di Simmonds dal quale però differisce sostanzialmente perché non c’è lesione ipofisaria. Ha degli aspetti compulsivi ma non si può identificare con un disturbo ossessivo-compulsivo. Oggi si tende ad attribuirle un’autonomia nosografica. Quanto alla eziologia, alla patogenesi e alla 75
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psicodinamica le interpretazioni variano da scuola a scuola; c’è sufficiente accordo sul dato che 1’ → ambiente, sia familiare (con le difficoltà di comprensione reciproca fra i componenti e gli sconfinamenti di ruoli, soprattutto materni) sia sociale (con le proposte di interessi a cui mirare), influisce in modo determinante sull’insorgere dell’a. Così pure la percezione che l’anoressica ha del proprio corpo, il significato che gli attribuisce e la strumentalizzazione che ne fa, sono fondamentali per capire questo disturbo. Bibl.: Palazzoli-Selvini M., L’a.m., Milano, Feltrinelli, 1973; Ganzerli P. - R. Sasso, La «rappresentazione anoressica». Contributo delle tecniche psicodiagnostiche allo studio dell’a.m., Roma, Bulzoni, 1979; Bracconnier A. - D. M arcelli, Psicopatologia dell’adolescente, Milano, Masson, 1991; A pfeldorfer G., Mangio dunque sono, Venezia, Marsilio, 1993; Montecchi F., A.m. dell’adolescenza, Milano, Angeli, 1994; Barbetta P., A. e isteria: una prospettiva clinico-culturale, Milano, Cortina, 2005.
V. Polizzi
ANORMALITÀ → Normalità
ANSIA L’a. è una delle emozioni più diffuse e delle capacità più invalidanti per quanto riguarda sia l’apprendimento scolastico che la qualità della vita. Nello specifico l’a. influenza pesantemente diverse aree dell’organismo e della struttura mentale. 1. Per quanto riguarda l’universo fisiologico, un livello elevato d’a. è in grado di produrre alterazioni vistose di alcuni tra i parametri maggiormente studiati in laboratorio, quali ad es. il battito cardiaco, la qualità del respiro, la sudorazione (misurata mediante la cosiddetta risposta elettrodermica), le onde cerebrali ecc. Nel lungo periodo l’a. è in grado di favorire l’instaurarsi di quelle forme di disturbo che vanno sotto il nome di malattie psicosomatiche, quali ad es. ulcera peptica e duodenale, cardiopatie di vario genere, dermatiti ecc. 2. Per quanto riguarda, invece, il mondo delle azioni, il soggetto in preda all’a. ten76
de a fuggire dalla situazione ansiogena in modo concreto oppure simbolico. La fuga sarà concreta quando la persona si allontanerà effettivamente dalla situazione negativa; simbolica, quando, non potendo sottrarsi concretamente ad essa, orienterà i propri pensieri verso una situazione diversa da quella alla quale è esposta. L’esempio più tipico è dato dall’allievo, il quale, intimorito dall’insegnante, cerca di abbassare il grado della sua sofferenza, pensando a situazioni od eventi più piacevoli. Sulla cosiddetta risposta di fuga, si fonda, poi, quella d’evitamento, che consiste nel sottrarsi preventivamente alla situazione ansiogena, ricorrendo a stratagemmi di diversa natura. Esempio tipico è l’allievo, il quale, trovandosi inappagato all’interno del contesto classe, finge una e mille malattie pur di evitare il contatto con una situazione da lui ritenuta negativa. 3. Venendo, infine, al mondo cognitivo, l’a. influenza negativamente tutti i principali processi cognitivi, dall’attenzione alla → memoria, dalla → creatività al pensiero ed al ragionamento. È questa fondamentalmente la ragione per cui è del tutto sconsigliabile creare nell’allievo il binomio «a. e studio». Il convincimento di molti genitori ed insegnanti è che spingere l’allievo od il proprio figlio a studiare ed a prepararsi alle prove d’esame attraverso minacce, ricatti ecc. che tendono solo a produrre a., sia lo strumento migliore per ottenere i risultati voluti. In realtà si tratta di comportamenti decisamente pericolosi in quanto, causando a., minano nell’allievo l’utilizzazione appropriata delle sue capacità cognitive, con ovvie ripercussioni negative per quanto riguarda la qualità dell’apprendimento e la resa nelle prove d’esame. 4. Se questi sono gli effetti dell’a., quali le cause? La maggioranza degli psicologi tende ad attribuire scarsa importanza ai fattori genetici. Al massimo, come sostiene Seligman si può parlare di una tenue predisposizione all’a., che può essere tranquillamente contrastata da un ambiente caratterizzato da una buona qualità di vita. In realtà gran parte delle nostre a. sono legate alle esperienze da noi vissute in modo diretto od indiretto. Diretta è l’esperienza che ci ha in qualche modo colpito, in quanto da noi subita. Un esempio è una visita medica particolarmente
ANTINOMIE PEDAGOGICHE
fastidiosa o addirittura dolorosa. Indiretta, al contrario, è l’esperienza che abbiamo visto vissuta da altri. Un esempio tra tanti è l’aver constatato che un compagno di classe, interrogato dall’insegnante, viene da questi criticato e poi canzonato dai suoi compagni di classe. È questa un’esperienza non direttamente vissuta, ma che ha spesso un forte impatto su chi l’osserva da spettatore. Accanto a questa categoria di esperienze, vi è poi una serie d’idee irrazionali che sono state acquisite lungo il processo di socializzazione, prevalentemente grazie al forte impatto educativo prodotto dai genitori. Alcune di queste idee, sapientemente analizzate e trattate da Ellis e dalla sua scuola, hanno a che fare con l’esigenza di brillare in tutte le situazioni nelle quali il soggetto si trova (mito del perfezionismo), di voler essere stimato ed amato da tutti (mito del narcisismo), ecc. 5. Infine ultimo fattore ansiogeno è il grado di autostima che la persona ha raggiunto. Qualora esso sia basso, è probabile che la persona eviti il contatto con situazioni potenzialmente ansiogene, in quanto da lui vissute come una minaccia in grado di produrre ripercussioni ulteriormente negative per la sua autostima. L’esempio tipico è lo studente, il quale teme l’esame in quanto non ha fiducia nelle proprie capacità. È molto probabile che sia proprio questa scarsa autostima ad attivare il meccanismo dell’a., la quale, a sua volta, renderà problematico l’apprendimento, aumentando in tale modo le probabilità d’insuccesso. Il risultato di quest’insieme di fasi è un ulteriore abbassamento nel grado di autostima e la creazione di un circolo vizioso. Al momento attuale la moderna psicoterapia cognitivocomportamentale offre numerose modalità d’intervento sull’a., con particolare riferimento a quella per gli esami e per la scuola. La robustezza scientifica di tali strategie rende tali forme d’a. facilmente superabili. Bibl.: Meazzini P., Paura d’esame, in «Psicologia e Scuola» 41 (1988) 48-54; Gagliardini I. - P. Meazzini, A. e valutazione, Roma, Bulzoni, 1992; Meazzini P. - A. Galeazzi, A., Ibid., 1994; Sheehan E., A., fobie e attacchi di panico, Milano, Mondadori, 1997; Dayhoff S. A., Come vincere l’a. sociale: superare le difficoltà di relazione con gli altri e il senso di insicurezza, Trento, Erickson, 2000.
P. Meazzini
ANTINOMIE PEDAGOGICHE Contrapposizioni che di fatto o di diritto si giudicano presenti nel → rapporto educativo e nella realtà educativa in genere. 1. Il termine a. (dal gr. anti = contro, e nómos = legge) in senso letterale dice un contrasto tra leggi, tra affermazioni di principio. In logica sta ad indicare affermazioni reciprocamente incompatibili. L’esperienza educativa mostra chiaramente la presenza di tensioni e contrasti nel modo di attuare e di intendere l’educazione nei suoi fini, contenuti e riferimenti contestuali (e si parla per questo di a.p. «materiali») o nei metodi e stili educativi (e si parla per questo di a.p. «formali»). 2. Le a.p. si manifestano in particolare nel rapporto educativo. Da questo punto di vista esso è interpretabile ad es. secondo la dimensione del «controllo», nelle polarità di dominanzasottomissione, autorità-libertà; o secondo la dimensione «emozionale», nelle polarità di rifiuto-accettazione, di disistima-stima, di distacco-vicinanza, di antipatia-simpatia; o ancora secondo la categoria «possibilità di educazione» nelle polarità di passivitàattività, di autoeducazione-eteroeducazione, direttività-nondirettività, educazione negativa-educazione positiva, di permissivismo-costrizione. Ma molte a.p. si colgono a livello di → educazione in generale, ad es. tra trasmissione e creatività, conformazione e personalizzazione, tra fini e mezzi, tra → domanda educativa e risposta o → proposta educativa, tra specializzazione e formazione generale, tra cultura letterario-umanistica e cultura scientifico-tecnica, tra educazione contenutistica («materiale») e educazione critica abilitativa («formale»), tra educazione funzionale e educazione intenzionale, tra istruzione e educazione, tra scuola e lavoro, tra scuola privata e scuola pubblica, tra scuola statale e scuola non-statale. 3. Da sempre nell’educazione vengono a rifluire le grandi a. antropologiche e etiche tra individuo e società, tra persona e istituzione, tra privato e pubblico, tra moralità e legalità; tra genitori e figli, tra adulti e giovani, tra tradizione e innovazione; tra l’io e il proprio sé; tra essere e coscienza; tra essere e agi77
ANTONIANO SILVIO
re, tra essere e avere, tra gratuità e utilità, tra spontaneità e razionalità, tra oggettività e soggettività, tra essenza e esistenza, tra natura e cultura, tra libertà e necessità, tra autonomia e eteronomia, tra materia e spirito, tra corpo e anima, tra corpo e mente, tra immanenza e trascendenza, tra interiorità ed esteriorità, tra temporalità e eternità, tra maschio e femmina, tra uomo e mondo, tra uomo e Dio. 4. Nella quotidianità della formazione, oggi, si risente delle grandi tensioni e contrapposizioni presenti nel più vasto contesto culturale e nei mondi vitali attuali: quelle tra globale e locale, tra universale e particolare, tra identità e differenza, tra cultura e multicultura, tra conoscenza e emozione, tra tecnologia e spontaneità della vita, tra autonomia e progetto, tra lavoro e tempo libero, ecc. Ciò porta, a livello scolastico a contrapporre, ad es., scuola delle conoscenze (e dei saperi) a scuola della socializzazione, scuola delle competenze (cioè delle capacità ad operare in maniera «esperta») a scuola della formazione; scuola della qualità e del successo scolastico e scuola dell’equità e delle opportunità educative per tutti; scuola delle tecnologie e scuola delle relazioni; scuola-azienda/impresa e scuola-comunità. Peraltro, le a.p. mettono in luce il carattere processuale, dinamico e relazionale della formazione e dell’educazione, sempre attuate nel tempo, inserite nella vicenda e nella storia personale e comunitaria, nei rapporti sociali di produzione e nella rete delle relazioni interpersonali e della comunicazione sociale. Ed evidenziano chiaramente la responsabilità educativa e pedagogica, personale e sociale, chiamata a cercare sbocchi positivi ai problemi che le a.p. manifestano. Bibl.: Maresca M., Le a. dell’educazione, Roma, Bocca, 1916; Bertin G. M., Educazione alla ragione, Roma, Armando, 1975; H announ H., Les conflits de l’éducation, Paris, ESF, 1975; Peretti M., Autorità e libertà nell’educazione contemporanea, Brescia, La Scuola, 1975; Franta H., Interazione educativa, Roma, LAS, 1977; Caroni V. - V. Iori, Asimmetria nel rapporto educativo, Roma, Armando, 1989; Gigli A., Conflitti e contesti educativi. Dai problemi alle possibilità, Bergamo, Junior, 2004.
C. Nanni
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ANTIRAZZISMO → Educazione interculturale ANTISEMITISMO → Ebraismo
ANTONIANO Silvio n. nel 1540 a Castelli (Pescara) - m. nel 1603 a Roma, umanista e pedagogista italiano. 1. Un bambino prodigio, «il Poetino», sedicenne è titolare a Ferrara di una cattedra di Lettere Umane. Dal 1559 a Roma, segretario di Carlo → Borromeo, discepolo spirituale di Filippo Neri, si evolve dall’interesse per i classici a una spiccata sensibilità religiosa, con lo studio della filosofia e della teologia. È ordinato sacerdote nel 1568, lavora nella Curia, in particolare come segretario del Collegio cardinalizio (1568-1592); latinista raffinato compone i più importanti documenti del pontificato di Clemente VIII, che lo eleva al cardinalato (1599); è protettore in particolare delle Scuole Pie del → Calasanzio. Dal 1580 l’A. si impegna nella composizione dell’opera principale Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli, Scritti da M. Silvio A. ad instanza Di Monsig. Illustriss. Cardinale di S. Prassede, Arcivescovo di Milano [C. Borromeo]. In Verona, MDLXXXIIII. Appresso Sebastiano delle Donne, et Girolamo Stringari, Compagni. L’arbitraria variazione del titolo introdotta in edizioni successive (Dell’educazione cristiana e politica dei figliuoli) ha contribuito a falsare il significato del lavoro e la sua valutazione, quasi l’A. avesse inteso offrire un trattato completo di pedagogia. In realtà egli volle soprattutto sottolineare la dimensione religiosa cristiana dell’educazione, «ordinata, et diretta alla somma, et perfetta felicità celeste», sia pure tenendo presente il più ampio riferimento all’educando «come huomo, et animal sociabile», «come cittadino, et parte di republica terrena» (I 4 e 40). Egli tratta dell’educazione da impartire nell’ambito di una famiglia sorta dal sacramento del matrimonio (lib. I); di tale educazione l’istruzione catechistica e la formazione religiosa cattolica (condotta sulla linea del Catechismus ad parochos) sono l’anima e il nucleo essenziale (lib. II); in questo quadro si collocano le linee di una pedagogia singolarmente sensibile alle inclinazioni e ai problemi posti dallo sviluppo fisico, intellettuale, morale dell’infanzia e
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dell’adolescenza (lib. III). Le soluzioni rispecchiano un sostanziale ed equilibrato «umanesimo cristiano», vicino alle esigenze delle classi medie e popolari, urbane e rurali, più che al mondo dei nobili. 2. In realtà, sebbene «lo scopo principalissimo del libro» sia dichiaratamente di «trattare dell’educazione in quanto cristiana», l’Autore rende ben presente che per la sua compiutezza vi è necessariamente inclusa anche la dimensione «umana» e «civile». Lo stesso gestore di istituzioni educative ecclesiastiche – scrive – mentre «procura di far un buon christiano, con l’autorità e mezzi spirituali, secondo il fin suo, procura insieme in conseguenza necessaria di far un buon Cittadino, che è quello che si pretende dal politico» (I 43). Nella medesima ottica, dovere dei padri è di «bene allevare sia civilmente che cristianamente i figli» (II 124), avviandoli anche all’esercizio di una delle tante attività necessarie per mantenere in vita la Città: artigianali, agricole, meccaniche, commerciali, letterarie, artistiche, didattiche, mediche, militari, ecclesiastiche, auliche (III 62-86). Anche nel momento della metodologia pedagogica pratica, l’indiscutibile autorità del paterfamilias è prudentemente controbilanciata da sincera «umanità» e da carità evangelica. Ricorrono con frequenza i termini «ragionevole», «ragionevolmente», muovere «la ragione et l’intendimento»; è raccomandata la «mediocrità» o moderazione in modo che il fanciullo non diventi precocemente adulto, anzi conservi «del fanciullesco in qualche cosa»; e il padre «ritenga una dolce severità, si che sia amato et temuto, di timor però filiale, et non servile et di schiavo» (III 7; II 29). 3. Sembra, quindi, riduttivo considerare l’A. semplicemente come il «pedagogista della controriforma» (G. B. Gerini, L. Credaro, E. Troilo, E. Codignola, R. G. Tentori, A. Scacchi, S. Moravia). Insieme a elementi di austerità disciplinare, nella sua sintesi pedagogica tendono a fondersi almeno tre altre tradizioni: patristico-medievale (vicina ai libri «de educatione nobilium»), classico-umanistica (nutrita del pensiero etico-politico e retorico-poetico di → Aristotele) e rinascimentaleriformista, disponibile a Roma alle istanze della spiritualità filippina e alle lontane severe esigenze del Borromeo.
Bibl.: Vidar i G., L’educazione in Italia dall’Umanesimo al Risorgimento, Roma, Optima, 1930, 99-102; P rodi P., «A.S.», in Dizionario biografico degli italiani, vol. III, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,1961, 511-515; Zanzarri R., S.A. Note e osservazioni, in «Storia dell’educazione» 2 (1978) 43-60; I d., «A.S.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia Pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 716-723; Rosa S., Pedagogia della riforma cattolica. M.S.A. e l’educazione dei «figliuoli», S. Atto di Teramo, Edigrafital, 2004.
P. Braido
ANTROPOLOGIA E EDUCAZIONE Il rapporto tra a. e → educazione può essere visto in una duplice articolazione: da una parte l’a. come contributo di una scienza all’analisi delle problematiche e dei temi dell’educazione, in una prospettiva multidisciplinare; dall’altra, al contrario, l’educazione come un particolare fenomeno della → cultura e specifico campo nell’ambito degli studi antropologici. 1. Definizione. Entrambe le prospettive sono proficue, soprattutto se si parte da una loro definizione ampia e cioè: l’a. come studio della distanza culturale, con particolare riferimento alle società extra-europee; l’educazione come attività sociale deliberata e sistematica del trasmettere ed acquisire valori e conoscenze, ideologie e tecniche, competenze ed abilità, che fanno parte del patrimonio della cultura in cui gli individui si trovano a vivere. In particolare l’educazione così definita non si esaurisce nelle teorie e pratiche messe in atto con i sistemi formali scolastici ma, volendo comprendere sia il contesto culturale occidentale che quello delle culture etnografiche, va verso il concetto di «inculturazione», comprendendo aspetti formali e non formali di una serie di processi che si esprimono nella relazione individuo-cultura più in generale. Questi processi sono numerosi e riguardano: l’apprendimento dello standard richiesto per divenire → adulto in una società data, la trasmissione della cultura tra le successive generazioni, la dinamica sociale della cultura, la formazione di società multietniche. Così, ancora, luogo di svol79
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gimento dell’educazione non è solo quello dell’istituzione → scuola, ma è coperto anche da una serie di agenzie che concorrono al → processo educativo dell’individuo, a partire dalla sua → famiglia di origine: il → gruppo dei coetanei, la strada e il vicinato, la → chiesa, il partito, il sindacato, le associazioni del → tempo libero, e soprattutto i mezzi di → comunicazione di massa, con particolare riferimento alle società occidentali. In altre parole, secondo questa accezione ampia del rapporto a. e educazione, i termini della relazione costituiscono ciascuno un «processo» e non un «fatto», per quanto complesso, in cui il processo culturale ed il processo educativo interagiscono costantemente. È in questa prospettiva che alcuni studiosi parlano di a. educativa o a. dell’educazione. 2. Prospettive antropologiche. Nella storia del pensiero scientifico degli studi etnoantropologici il rapporto a. e educazione si trova sviluppato in entrambe le direzioni sopra delineate. La prima prospettiva trova affermazione negli USA a partire dagli inizi di questo sec. con F. Boas, E. Sapir, R. Benedict, → Mead ed altri, ed acquisisce negli anni successivi un rinnovato impulso sotto la spinta delle teorie psicoanalitiche freudiane, in particolare con R. Linton e A. Kardiner. La seconda prospettiva vede la figura di B. Malinowski che, impegnato negli anni ’30 nella fondazione di una teoria scientifica della cultura, in opposizione alle teorie evoluzioniste e diffusioniste in a., pone le istituzioni, in quanto appunto istituzioni sociali, come tratto differenziante la società umana dalla vita animale. Queste istituzioni – economia, politica, famiglia, educazione, magia/religione/scienza (con termine oggi più adeguato parleremmo di sistema simbolico o di sistema di credenze) – formano la cultura e sono la risposta sul piano organizzativo dell’uomo ai → bisogni naturali primari e comuni a più specie (sopravvivenza dell’individuo, del gruppo, della specie). Ancora, queste istituzioni sono identificabili come tratti universali dell’uomo e si configurano come «sistemi», cioè complesso di elementi interdipendenti tali, cioè, che al variare di uno di essi variano anche gli altri, in una logica organicistica. In particolare, poi, l’educazione svolge la 80
funzione di rinnovare, formare, addestrare, istruire con i contenuti culturali l’elemento umano delle diverse generazioni, realizzando così il processo di continuità della cultura stessa quale apparato per la soddisfazione dei bisogni. 3. Cultura e personalità. Nella cultura statunitense degli inizi del sec. il dibattito sull’educazione vede incontrarsi, al di là delle loro differenze interne, i due filoni di pensiero del pragmatismo e del neo-idealismo nella convinzione che il mondo possa migliorare ad opera della ragione umana e che l’educazione – intesa solo come istruzione scolastica – costituisca la forza propulsiva di questa ragione. L’educazione viene così considerata dal punto di vista dell’ → educatore, piuttosto che dal punto di vista del bambino che sta imparando, e definita essenzialmente come processo attraverso cui il bambino deve diventare ciò che l’adulto vuole che lui diventi. Di contro l’a. statunitense degli anni ‘30, nel più generale spirito di contributo alla crescita civile della società contemporanea, intende partire proprio dall’analisi dei processi d’apprendimento del bambino, individuando nell’analisi di contesti etnografici gli strumenti teorici e metodologici per stabilire i meccanismi che sovrintendono al processo di apprendimento. La ricerca antropologica è in grado di determinare le variazioni di questi meccanismi conseguenti alle differenze di cultura. Inoltre, per questa strada comparativa, l’educazione viene individuata come processo molto più ampio e comprendente tutto l’apprendimento formalizzato e non formalizzato, che porta l’individuo ad acquisire la cultura, a formarsi una → personalità, a socializzarsi, ad imparare ad adattare se stesso a vivere come membro di una data società. Lo sviluppo di questo filone di studi antropologici va suddiviso in due periodi successivi: dopo un primo periodo caratterizzato dalle ricerche comparative della Mead, nuovo impulso alla riflessione teorica avviene sotto la spinta delle teorie psicoanalitiche freudiane, in particolare con R. Linton e A. Kardiner. Interesse prevalente nel primo periodo è la dimostrazione della plasticità bio-psicologica della specie umana, sufficiente a consentire il condizionamento culturale degli schemi di comportamento degli adolescenti secondo
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modalità in contrasto con lo stereotipo dell’ → adolescenza nella cultura del ceto medio europeo e statunitense. Così la Mead, al termine di numerosi studi sul campo presso diverse società dell’area del Pacifico, conclude che la responsabilità della formazione di quello che solitamente chiamiamo «temperamento» è da attribuire non a determinanti biologiche ma a contenuti educativi che, in armonia con le istanze più generali della cultura, privilegiano un comportamento particolare tra i tanti possibili. Inoltre, questa formazione non riguarda solo la fase dell’adolescenza del soggetto in formazione, ma molti altri momenti dello sviluppo e della formazione della personalità dell’individuo, anche nella sua età adulta. Infine la Mead riprende e sviluppa un tema caro ai suoi maestri, Sapir e Benedict, sulla «coerenza delle culture genuine» e la «incoerenza delle culture spurie»: le prime sono quelle prive di contraddizioni che, invece, sono caratteristica prevalente delle seconde, nel loro complesso. Queste contraddizioni, come la loro assenza, sono da riportare al modello educativo presente in una data cultura; compito dell’a. è, allora, quello di ricostruire la rete di questi caratteri educativi a partire da come il modello culturale complessivo si realizza storicamente in una cultura specifica. Ma a ben vedere, dato che la cultura delle popolazioni a livello etnografico non può essere individuata in istituzioni formali, il modello culturale viene colto dall’antropologo solo attraverso l’informatore di cui egli si avvale nella ricerca e che assume quale portatore dei valori espressi dal modello in questione. Alcuni interrogativi a catena, rimasti insoluti per questa posizione teorica, e che avranno soluzione successivamente solo con gli antropologi neo-freudiani, sono: a) quale relazione intercorre tra la cultura di un gruppo e la personalità dei suoi membri; b) perché alcune caratteristiche psicologiche sono condivise dai membri di un gruppo e sono coerenti, congruenti, appropriate alla cultura del gruppo stesso; c) come si spiega il cambiamento della società; d) se ogni individuo ripete quanto ci si aspetta dalle norme previste culturalmente, come, perché e quando l’individuo crea norme nuove che non corrispondono a quelle che ha introiettate nell’infanzia e nell’adolescenza; oppure, da dove prende norme esterne difformi, da
introiettare una seconda volta, dopo aver introiettato nella fase infantile le prime norme. Alcune ipotesi di lavoro elaborate dagli antropologi statunitensi di questo periodo, come risposte a tali interrogativi, sono: a) gli esseri umani raggiungono la condizione umana attraverso l’apprendimento ma, poiché questo apprendimento è posto all’interno di un ambiente sociale diverso per i differenti gruppi umani, ogni individuo che nasce in un gruppo è strutturato in un modo caratteristico, corrispondente alle norme che orientano il comportamento dei membri della sua società. Egli è un essere umano in quanto ha appreso, ma di una comunità particolare in quanto l’apprendimento varia da società a società; b) nella fase dell’inculturazione la cultura viene ricostruita dentro ogni individuo in modo da costituire la struttura della personalità: egli è psicologicamente pronto a fare ciò che deve fare secondo le norme coercitive del suo gruppo; c) queste norme esterne, che portano al cambiamento, possono derivare dal contatto del gruppo con altri gruppi esterni, organizzati secondo norme diverse, da rapporti di «acculturazione». Da qui una visione dei processi educativi alquanto difforme dalla sua iniziale visione idealizzata: l’apprendimento non avviene in modo naturale, senza problemi, per chi deve apprendere, ma in una situazione conflittuale che crea, all’interno dell’individuo, una continua tensione, un continuo dinamismo che si verifica durante la fase dell’inculturazione adattiva tra un quid che c’è già dentro l’individuo e ciò che la cultura vuole che lui introietti dall’esterno. Questa tensione si svolge durante tutta la vita ed emerge quando circostanze particolari l’agevolano, producendo cambiamento, cioè nuova cultura. Ma per la definizione di questo quid bisogna aspettare l’elaborazione freudiana della teoria psicologica dell’inconscio. Infatti, anni dopo è A. Kardiner, psicoanalista neofreudiano, a proporre uno schema operativo di spiegazione dei rapporti tra cultura e personalità, con la collaborazione di R. Linton, antropologo della scuola boasiana. È l’inizio del secondo periodo di questo filone di studi antropologici sull’educazione, cui si è accennato sopra. La cultura preesiste all’individuo già al momento della sua nascita. Nei primi anni di vita il piccolo della specie umana ha bisogno di cure finché non rag81
ANTROPOLOGIA E EDUCAZIONE
giunge l’autosufficienza e, grazie a queste cure, riceve soddisfazione ad una serie di suoi impulsi e di suoi bisogni psicofisiologici. La → frustrazione per Kardiner – a differenza di Freud – non viene prodotta dalla repressione del principio del piacere, ma dal mancato soddisfacimento dei bisogni fondamentali, cioè dal principio della realtà. I risultati della repressione sono rinvenibili nelle relazioni sociali imperfette, carenti, malsicure: il bambino che subisce repressioni dovute a scarse cure proietta successivamente sul sociale questo senso di carenza o di rivalità generando, attraverso questa proiezione, il significato ideologico delle norme sociali. Un certo tipo di repressione produce un certo tipo di assetto sociale che è coerente per tutti i momenti della vita sociale, perché unificato da una comune ideologia. Questo ordine sociale viene trasmesso da una generazione all’altra attraverso un sistema di allevamento infantile congruente con il modello di ordine sociale. Il bambino, per vedere soddisfatti i suoi bisogni, deve adattarsi a questo modello facendolo proprio e formandosi così un fondamento, una «personalità di base». Tutto ciò che si è prodotto nello scontro tra la struttura della personalità del bambino ed il primo rapporto con la cultura per la soddisfazione dei suoi bisogni, verrà ricercato dall’individuo, diventato adulto, in alcune istituzioni della società, istituzioni essenzialmente di tipo ideologico. Kardiner chiama queste istituzioni «secondarie» e chiama «primarie» quelle che presiedono al soddisfacimento dei bisogni fondamentali del bambino. L’insieme dei sistemi adattivi (nei confronti delle istituzioni primarie) e proiettivi (nei confronti delle istituzioni secondarie) costituisce ciò che Kardiner chiama la «struttura della personalità di base», che si pone a metà strada tra le istituzioni che sovraintendono al sostentamento e le istituzioni che costituiscono il sistema ideologico di un gruppo. La coerenza tra cultura e personalità viene postulata tanto all’interno delle istituzioni culturali quanto all’interno degli individui membri del gruppo. Infine, da esplicitare, come sottolinea Tentori, la serie di postulati che sono alla base del passaggio teorico tra risultati dell’educazione e presupposti culturali della formazione, riguardo alla personalità di base: a) le prime esperienze dell’individuo 82
esercitano un influsso duraturo sulla personalità, specie sullo sviluppo dei sistemi proiettivi; b) esperienze analoghe tendono a produrre configurazioni della personalità simili in individui che sono soggetti ad esse; c) le tecniche che i membri di ogni società impiegano nella cura e nell’allevamento dei fanciulli sono culturalmente modellate e tendono ad essere simili, benché mai identiche; d) le tecniche culturalmente modellate per la cura e l’allevamento dei soggetti differiscono da una società all’altra. 4. Interculturalità e multiculturalità. Un contributo significativo può oggi dare l’a. allo studio dei problemi d’acculturazione derivanti, nelle stesse società occidentali, dalla presenza di individui e gruppi provenienti da culture diverse rispetto al contesto d’ospitalità. I due termini interculturalità e multiculturalità, secondo prospettive diverse, stanno proprio ad indicare il complesso delle relazioni tra culture «altre» e distanti, venute in contatto diretto sul terreno delle società occidentali. La presenza di tali fenomeni culturali, in parte nuovi per alcuni paesi europei, mette in luce dinamiche spesso di conflitto tra le parti e pone, comunque, problemi di prospettiva politico-educativa e di reciproca conoscenza delle parti in gioco. Fenomeni di etnocentrismo, razzismo, intolleranza si contrappongono qui, sulla base del rapporto di alterità e differenza culturale, ad altrettanti valori quali il relativismo, l’integrazione, la tolleranza. Alla pratica e diffusione di questi valori può oggi contribuire l’a., proprio come studio della distanza culturale, per le sue specifiche finalità conoscitive, mentre all’educazione spetta il compito di avviare riflessioni, strumenti d’intervento, quadri teorici ed esperienze di interculturalità e multiculturalità. In particolare, luogo privilegiato di analisi e formazione consapevole di queste prospettive socio-culturali è il contesto scolastico. In questo contesto, infatti, si esprimono i meccanismi anche inconsci del controllo sociale e di esclusione della parola, quale garanzia del potere e dell’organizzazione dei ruoli sociali e culturali. Ancora, tra le pareti scolastiche si giocano i diversi ruoli nel rapporto docente/discente che esprimono massimamente i codici della comunicazione tra persone di diverse culture. Infatti, il processo
ANTROPOLOGIA PEDAGOGICA
della conoscenza, che si articola attraverso i diversi livelli di comunicazione, comprensione e spiegazione, in questo contesto può diventare strumento dell’incontro tra libere espressioni di portatori di diversa cultura, se il docente controlla il suo stesso codice pedagogico messo in atto. Da un punto di vista, poi, dei linguaggi la classe diventa luogo di acculturazione reciproca nella prospettiva di un confronto e di un’interazione in cui entra in gioco tutta la gamma delle potenzialità espressive linguistiche, grafiche, gestuali, cinesiche, prossemiche dei discenti. Non si tratta soltanto di penetrare l’esperienza altrui con gli strumenti propri della «riduzione antropologica», sia pure mettendo in luce ed esplicitando le nostre pregiudiziali per cogliere i modi d’esperire dell’altro. Piuttosto, l’indagine «antropologica» si apre a partire dalla intersoggettività che fonda la relazione con l’altro, cioè dalla relazione tra soggetti. In questo senso, come nota G. Bateson, «ogni significato dell’informazione e della comunicazione dipende dalla differenza che dà senso all’unità», come dire, ancora, che «è nell’ascolto che si genera la comunicazione». Bibl.: M ead M., Antiche tradizioni e tecniche nuove, Torino, Ilte, 1959; M alinowski B., Teoria scientifica della cultura ed altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1962; I d., Lo studio dell’uomo, Milano, Bompiani, 1964; K ardiner A., L’individuo e la società, Ibid., 1968; Beals R. - H. Houer , «L’educazione e la formazione della personalità», in Introduzione all’a. culturale, Bologna, Il Mulino, 1970, 555-595; M ead M., A. una scienza umana, Roma, Astrolabio/Ubaldini, 1970; K ardiner A., Le frontiere psicologiche della società, Ibid., 1973; Linton R., Lo studio dell’uomo, Ibid., 1973; Callari Galli M., A. e educazione. L’a. culturale e i processi educativi, Firenze, La Nuova Italia, 1975; 1979; Tentori T., A. culturale. Percorsi della conoscenza della cultura, Roma, Studium, 1990; Camilletti E. A. Castelnuovo, L’identità multicolore. I codici di comunicazione interculturale nella scuola dell’infanzia, prefazione di M. Squillacciotti, Milano, Angeli, 1994; Liverta Sempio O. - A. M archetti (Edd.), Il pensiero dell’altro. Contesto, conoscenza e teorie della mente, Ibid., 1995; Nanni C., A. pedagogica e scritture per l’oggi, Roma, LAS, 2002.
M. Squillacciotti
ANTROPOLOGIA PEDAGOGICA Ambito della riflessione pedagogica riguardante i tratti umani e la concezione dell’uomo, che soggiace o fa da quadro di riferimento alla ricerca e alla riflessione pedagogica e che, in vario modo e misura, illumina e motiva l’ → azione educativa (v. anche → uomo). 1. L’a. come forma caratteristica del pensiero contemporaneo. Al di là delle sue tradizionali forme disciplinari (filosofica, fisica, culturale, sociale, medica, pedagogica...), l’a. è venuta ad avere un posto centrale nella cultura occidentale del nostro secolo, al punto da far parlare di una «svolta antropologica». Ma è innegabile che essa è risultato di un processo e di una ricerca culturale, plurisecolare ed epocale, che ha caratterizzato fin dall’inizio l’epoca moderna. Sul terreno dell’a., la riflessione e la ricerca degli ultimi decenni sembra aver superato la frattura tra teologia, filosofia e scienze umane, arrivata al suo punto più alto alla fine del secolo scorso e nella prima metà del nostro secolo. Tra tali ambiti di studio sembra ultimamente esserci un tacito patto di alleanza, allargata alle scienze naturali ed ecologiche, alle scienze logiche e matematiche, alla ricerca tecnologica ed informatica (soprattutto quella riguardante lo studio e la ricerca sull’ → intelligenza artificiale). La necessità di una «nuova sintesi», ben oltre quella tra biologia e sociologia auspicata e tentata da E. O. Wilson e collaboratori, si coniuga con una forte e sentita «preoccupazione per l’uomo» (Guardini). Le grandi religioni (ma a loro modo anche molte nuove forme di religiosità), la politica internazionale, il sistema della comunicazione sociale sembrano vincere la loro tradizionale separatezza e il reciproco sospetto proprio attorno alla difesa, alla tutela e alla promozione dei diritti umani. Questi impegni pratici e percorsi teorici hanno evidenziato: «il posto dell’uomo nel cosmo», unico tra gli esseri viventi «che sa dire di no» perché capace di trascendenza (Scheler); l’«analitica esistenziale» della condizione umana e del suo «essere nel tempo con gli altri» (Heidegger); il suo operare che lo rende capace di «liberarsi dallo svantaggio» e dalle «manchevolezze della sua esistenza» (Gehlen) perché incamminato lungo «la via della cultura e della civiltà» (Cassirer) o perché 83
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capace di azione economica trasformatrice e di «lotta politica» (Marx); la sua «eccentricità» (Plessner) e il suo «essere diverso», perché persona (→ personalismo); e tuttavia la sua vicinanza alla condotta animale (che fa pensare a → Lorenz, all’«altra faccia dello specchio» e a Morris, alla «scimmia nuda»); la sua ingegnosità tecnologica, che porta quasi ad annullare i limiti tra «naturale» e «artificiale», tra «reale» e «virtuale». Ma hanno pure portato alla luce: la vastità del «mondo della vita» (Husserl); la profonda e contraddittoria forza impulsiva e aggressiva, inconscia e conscia (psicoanalisi e etologia); l’assurdità e il non senso dell’esistenza (esistenzialismo); l’alienazione e la dominazione propria di molti rapporti interpersonali e sociali (marxismo e neo-marxismo); le tante forme di necessità e casualità con cui ha a che fare (Monod); la rigidità e la pesantezza delle strutture in cui si trova avviluppato (strutturalismo); la vena di nichilismo che pervade l’attuale condizione storica (Nietzsche e il neo-nichilismo); il rischio di perdita dell’identità e del senso della vita e dell’agire nell’accrescersi della complessità vitale del mondo globalizzato, delle dinamiche multiculturali, dell’espandersi del «virtuale», e delle profonde possibilità di intervento sull’uomo che le innovazioni tecnologiche permettono (intelligenze artificiali, robot, cyborg, clonazione, ecc.), tali da far parlare di «post-umano» (Fukuyama). 2. Aspetti disciplinari della a.p. Suggestioni sulla vita umana e sull’essere uomo in sé e per sé, o in quanto società politicamente organizzata o ancora in quanto essere relazionato con Dio e con una comunità religiosa, sono alla base della pratica educativa e della riflessione pedagogica tradizionale antica e moderna. In tal senso rimane fondamentale l’apporto della ricerca filosofica e teologica. Tuttavia, è tra le due guerre e nell’immediato secondo dopoguerra, soprattutto in ambienti di cultura tedesca, che l’a.p. si è andata delineando nella sua specificità. Più che di un ambito disciplinare univoco, si tratta per lo più di contributi di vario tipo e di diverso approccio: a prevalenza filosofica, psicologica, sociologica, antropologico-culturale, biologico-neurologica; come risultato di ricerca storica o di ricerca positivo-sperimentale. Pure notevoli sono le differenze di 84
scuola o d’indirizzo, anche nel solo ambito psico-sociologico (comportamentistico, funzionalistico, strutturalistico, cognitivistico, fenomenologico, ermeneutico, emancipativo). E tuttavia, negli ultimi tempi sembra rilevabile una larga convergenza che va ben oltre la comunanza dell’oggetto d’indagine: il farsi umano, nelle sue molteplici dimensioni e modalità processuali, nel suo sviluppo evolutivo o nel suo quadro terminale di personalità adulta, matura, anziana. La via più comune di ricerca è ancora quella che tende a mettere in luce anzitutto le particolarità d’ingresso nella vita dell’essere umano, soprattutto in rapporto con gli altri esseri viventi, grazie agli apporti della genetica, della biologia, dell’etologia, dell’ → a. culturale e sociale. In tal senso si mettono in luce la «precocità», l’«inettitudine», l’«immaturità» e per altro verso le radicali capacità di apertura relazionale, di apprendimento, di intelligenza, di simbolizzazione, di linguaggio, di plasticità e di adattamento all’ambiente. Ma, in rapporto alla coscienza pedagogica contemporanea, che ha dilatato i tempi ed i modi dell’educazione con i concetti di → educazione permanente, di società educante e di educazione integrale, particolare attenzione viene oggi riservata anche alla tarda giovinezza, agli adulti, agli anziani (e, pertanto, andando ben oltre la cosiddetta → pedologia). Il senso del limite e dell’impegno umano, la migliore conoscenza del potenziale umano e delle risorse umane, hanno stimolato a comprendere meglio l’umanità di coloro che in vario modo sono diversamente abili o variamente svantaggiati; ed hanno fatto allargare lo sguardo pedagogico a categorie di persone o aree umane poco considerate in passato (giovani, donne, malati, sottoproletariato urbano e rurale, emarginati, immigrati, minoranze etniche, linguistiche, religiose...). A loro volta, le modalità epocali, complesse, differenziate e in profondo mutamento, hanno spinto a ripensare le categorie antropologiche di base del rapporto e dell’intervento educativo: la libertà, l’alterità, la reciprocità; la soggettività, la razionalità, la prassi e la progettualità umane (→ senso). 3. L’educabilità. Comune è anche l’obiettivo e l’interesse che guida questi modi di ricerca pedagogica: attraverso la raccolta d’indizi presenti nel fenomeno umano si cerca di de-
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lineare i «compiti» dello sviluppo e i tratti qualificanti l’esistenza umana nelle diverse età, situazioni e modalità di vita. Il risultato a cui si tende è l’accrescimento delle conoscenze riferibili in vario grado alle caratteristiche evolutive, esistenziali ed essenziali degli esseri umani, che permettano di considerarli → soggetti (termine più preciso di «destinatari») di attività educative. Per tal motivo si dice che l’a.p. ha come suo fine ultimo aiutare a comprendere più e meglio l’«educabilità» umana. Con questa categoria, s’intende globalmente riferirsi a quegli ambiti e a quegli aspetti dell’esistenza soggettiva, relazionale e sociale, che richiedono o perlomeno appellano ad un’azione individuale e/o comunitaria di sostegno o d’aiuto, affinché arrivino ad un loro sviluppo, per quanto è possibile «formato», vale a dire ottimale, o quanto meno adeguato alle esigenze dell’ambiente e dei tempi. In questi termini «educabilità» significa ciò che in vario grado, nei soggetti, nei gruppi, nelle comunità può essere aperto all’azione educativa. Per altro verso, e conseguentemente, con la categoria dell’«educabilità» si viene ad indicare, per così dire, il campo d’azione dell’educazione. In tal modo si viene a evidenziare, come – secondo la formula cara all’esistenzialismo, ma ormai comune alla coscienza culturale contemporanea – l’essere umano, nel corso della sua esistenza storica, costruisce e definisce se stesso. E ciò, sulla base delle potenzialità soggettive ed oggettive che gli si presentano, nell’interazione con l’ambiente, grazie all’aiuto degli altri, per cui è messo (e man mano si mette) a parte del patrimonio sociale della cultura; e sempre più, crescendo, compartecipa con l’apporto delle sue decisioni ed azioni alla trasformazione e qualificazione umana di se stesso e del mondo. In tale volume di processi, al medesimo tempo naturali ed umani, individuali e collettivi, è pure iscritta la possibilità di involuzioni, di cadute in forme regressive, di fissazioni funzionali, di dominazioni esterne, di alienazioni di se stessi. Peraltro la pedagogia contemporanea tende sempre più a dar risalto alla fondamentale storicità e individualità sia del bagaglio di potenzialità formative, individuali e contestuali, sia della formazione di esse: ad evitare qualsiasi forma di omologazione e standardizzazione massificante e, all’opposto, a dare spazio alla varietà e alla
ricchezza delle differenze e particolarità individuali o di gruppo. 4. Necessità dell’educazione? La categoria dell’educabilità mette in risalto un modo specifico e globale di vedere l’uomo. L’a.p. si rivela come una modalità di essere della a. tout court, in quanto fa pensare all’uomo in termini di animal educandum: indicando – come la classica definizione aristotelica dell’uomo animal rationale – ciò che caratterizza specificamente l’uomo rispetto agli altri esseri viventi. Tale definizione sarebbe perlomeno da porre accanto alle caratterizzazioni che via via nell’età moderna sono state date dell’uomo: homo educandus accanto a homo faber, loquens, symbolicus, historicus, religiosus, ludens, ecc. Secondo alcuni pedagogisti dell’area tedesca (M. Langeveld in particolare), l’uomo, quale «essere da educare» costituirebbe l’oggetto proprio dell’a.p. ed offrirebbe ad essa il fondamento per la sua autonomia di disciplina scientifica. Per gli stessi autori, la definizione dell’uomo animal educandum sarebbe da prendere non solo nel senso più ovvio di «soggetto d’educazione», ma nel senso forte di essere che è «di necessità» da educare. L’educazione sarebbe assolutamente necessaria e non semplicemente un fattore utilissimo di formazione e qualificazione umana (in termini tecnici: di «necessità metafisica» e non semplicemente di «necessità morale»). Indubbiamente ciò che risulta necessario assolutamente è la partecipazione ad una comunità umana. Senza l’aiuto degli altri e la convivenza nell’«utero sociale» non si diventa e non si è umani, come a loro modo mettono in evidenza le vicende di bambini inselvatichiti o isolati socialmente. Rispetto alla «possibilità», che la categoria dell’«educabilità» esprime, la terminologia educandum, aggiunge nella sua forma grammaticale, l’istanza di impegno etico, la dimensione morale e di responsabilità che l’educazione comporta. L’«educabilità» trova il suo corrispettivo nel diritto soggettivo alla formazione, all’istruzione e all’educazione e nel dovere e compito, sociale e soggettivo, di dare adeguata attuazione a tale diritto. Ma è evidente che se si facesse riferimento all’educazione intenzionale e alla scolarizzazione sistematica, questa necessità non sarebbe più assoluta, perché molto si potrebbe apprendere per partecipazione diretta, 85
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per immersione nella vita e nelle pratiche sociali (quella familiare o del clan in particolare), per imitazione degli altri in genere e del gruppo o dei gruppi di appartenenza in particolare. In questo senso stretto di educazione, essa sarebbe necessaria tutt’al più per determinate persone chiamate a compiti, ruoli o «mestieri» specifici. Il problema tuttavia si pone oggi in modo nuovo: al livello di complessità sociale e vitale in cui storicamente ci troviamo a vivere, forse diventa necessario (e non semplicemente utile o aggiuntivo) per tutti un intervento sociale, specifico e sistematico, atto a favorire una crescita umana adeguata al livello di vita attuale e tale da essere umanamente degna di essere vissuta. I termini della questione risulterebbero pure più articolati se l’educazione venisse riferita non solo alla formazione dei singoli, ma all’insieme della vita sociale con le sue istanze storiche di liberazione e promozione integrale, per tutti e per ciascuno, per i popoli e per l’umanità intera presente e futura. 5. Il limite dell’educazione. Quest’attenzione alla situazione contemporanea ha il suo radicamento «ontologico» nell’essenziale storicità e culturalità della vicenda umana, sempre ed intrinsecamente connotata dall’essere nel mondo con gli altri nella storia (al cui interno si pone, come prassi specifica, l’azione sociale di formazione). D’altra parte la tendenza a relativizzare la necessità dell’educazione ha pure il suo significato. In primo luogo essa sta a difendere la personalità del soggetto contro eccessive intromissioni esterne. In secondo luogo tende a dar risalto alle priorità del soggetto nei processi formativi, soprattutto quando, con il crescere dell’età si consolida sempre più l’attitudine dell’auto-direzione, quando cioè si diventa in qualche modo ed in diversa misura capaci d’intervenire su se stessi e sul proprio destino. In terzo luogo può essere considerata come un’istanza critica nei confronti di ogni tendenza a credere nell’onnipotenza dell’educazione. Non si vuole in alcun modo sminuire l’importanza, anzi l’urgenza e la responsabilità individuale e sociale di contribuire alla promozione umana attraverso l’educazione; ma certo occorre vigilanza critica rispetto ai facili, ingenui ed acritici affidamenti all’educazione, fin quasi a dimenticarne la fondamentale limitatezza, ambivalenza, facilità ad essere 86
strumentalizzata (→ educazione). L’esperienza educativa del passato e quella attuale possono essere abbastanza chiarificatrici al riguardo. La persona non è chiusa entro le strutture dei sistemi educativi ed entro il raggio d’azione dei suoi molteplici educatori. Anche se senza il contributo di altre persone non si arriva ad essere pienamente umani, è pur vero che l’educazione, nonostante le sue pretese, non sempre risulta in concreto positiva per l’avanzamento umano. Inoltre non tutto nell’essere è educabile. A sua volta l’enfasi sul bisogno di educazione, quando non è espressione di un eccessivo utopismo pedagogico o supporto ideologico di certi messianismi politici, è certamente un indice di quella vena d’illuminismo antropocentrico che pervade l’età moderna e che si affida – non sempre criticamente – alle capacità razionali di trasformazione umana ed ambientale. Dei limiti e delle possibili deviazioni di tale capacità la cultura contemporanea è stata fatta accorta soprattutto dagli esiti profondamente ambigui della tecnologia contemporanea e dal rischio, fattosi sempre più concreto, del tracollo ecologico o di una conflagrazione bellica nucleare, ben più rovinosa delle già gravi guerre mondiali (e le infinite guerre dei poveri) del sec. scorso. 6. A.p. e pedagogia. In alcuni ambienti pedagogici si usa distinguere l’a.p. dalla «teleologia pedagogica» (che studia i fini) e dalla «metodologia pedagogica» (che studia le strategie educative). Ad esse si potrebbe aggiungere la «tecnologia pedagogica» (per lo studio e la ricerca dei mezzi e degli strumenti operativi). Ma si è visto come spesso l’a.p. si allarga o perlomeno allude all’ordine dei fini e degli obiettivi educativi. Senza negare la legittimità di tali ambiti di studio, c’è certamente da evidenziare almeno la necessità di una corretta e valida → interdisciplinarità tra essi. All’interno poi dell’a.p. c’è da notare che il discorso dell’educabilità acquista tutta la sua pregnanza se si porta la ricerca non solo sui «fondamenti» strettamente antropologici, ma anche sulla concezione della realtà in generale e sui possibili orizzonti di valore che si discoprono all’azione umana. L’a.p. «necessita» di rapportarsi all’ontologia, alla ricerca metafisica, all’assiologia e, secondo i credenti, anche alla riflessione teologica e sapienziale.
ANZIANI
Bibl.: Maritain J., Umanesimo integrale, Torino, Borla, 1963; Mounier E., Il personalismo, Roma, AVE, 1964; Cassirer E., Saggio sull’uomo, Roma, Armando, 1968; Mencarelli M., Potenziale educativo e creatività, Brescia, La Scuola, 1973; Wilson E. O., Sociobiologia. La nuova sintesi, Bologna, Zanichelli, 1979; König E. - H. R amsenthaler (Edd.), Diskussion pädagogische Anthropologie, München, Fink, 1980; Volpi C., Paideia ’80. L’educabilità umana nell’era del postmoderno, Napoli, Tecnodid, 1988; Gevaert J., Il problema dell’uomo, Leumann (TO), Elle Di Ci, 8 1992; Buber M., Il principio dialogico, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1993; Acone G., A. dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1997; Scheler M., La posizione dell’uomo nel cosmo, Roma, Armando, 1999; Guardini R., Mondo e persona. Saggio di a. cristiana, Brescia, Morcelliana, 2000; Fukuyama F., L’uomo oltre l’uomo, Milano, Mondadori, 2002; Nosari S., L’educabilità, Brescia, La Scuola, 2002; Nanni C., A. p., Roma, LAS, 2002.
C. Nanni
ANZIANI La definizione di a. manca di un criterio oggettivo o condiviso. Per l’OMS si è a. a 60 anni, per l’ISTAT a 65. Altre definizioni correlano l’ingresso nella «terza età» con l’uscita dalla vita attiva; per altri ancora si è a. alla soglia di un rischio elevato di non autosufficienza (75 anni o «quarta età»). Fino alla relativizzazione totale di questa specifica condizione: «una persona è anziana quando si sente tale». 1. I momenti più indicati dagli a. stessi (Frisanco, 1988) come svolta verso la vecchiaia sono fatti coincidere con eventi patologici precisi o con la perdita della propria efficienza fisica (esiti invalidanti di malattie) e con la perdita degli affetti familiari: eventi luttuosi (morte del coniuge), il costituirsi dei figli come nucleo familiare autonomo. L’immagine dell’a. si caratterizza proprio per il senso di una perdita che si può estendere anche al ruolo professionale che innesca il processo di invecchiamento. Il soggetto, deprivato della propria posizione e funzione sociale, viene catapultato in una situazione diversa che probabilmente viene sentita come negativa, penalizzante, regressiva.
2. Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione è inarrestabile se si considera che dal censimento 1951 a quello del 2001 è più che raddoppiata l’incidenza della popolazione con 65 o più anni sul totale dei residenti in Italia: dall’8,2% al 18,7%, raggiungendo una popolazione di 10 milioni 700 mila persone. A elevare l’incidenza relativa della popolazione anziana concorre anche la diminuzione della natalità e della mortalità. Negli ultimi 10 anni la crescita più cospicua è stata quella degli ultrasettantacinquenni (+42%) o della «quarta età». L’attenzione con cui oggi si guarda a questa fascia di popolazione è giustificata da una serie di dati di rilevanza geriatrica: è documentato come i 75 anni facciano da spartiacque tra due età di rischio molto diverso rispetto alle malattie e alla non autosufficienza. 3. I → bisogni che segnano la condizione dell’a. possono essere molteplici e tra loro cumulabili: oltre alle povertà materiali (reddito, abitazione) vi è la carenza, inadeguatezza, improprietà delle risposte dei servizi (povertà istituzionali) e, soprattutto, i bisogni relazionali. In proposito le occasioni di stabilire rapporti appaiono generalmente limitate, circoscritte da una sorta di meccanismo di tipo socio-culturale per cui gli a. si incontrano e passano il loro tempo quasi esclusivamente con persone della propria età. Non molto diffusa è la fruizione di occasioni e servizi di tipo culturale, pur avendo proprio l’a., paradossalmente, più tempo per goderne e su questo incide la pregressa propensione o meno a fruirne, dato che le opportunità sembrano essere determinate dal livello di «risorse» (culturali, fisiche, economiche, familiari) che l’a. ha utilizzato nel corso della sua vita. In tal senso i più gratificati sono coloro che hanno condotto una vita più attiva; gli uomini rispetto alle donne; chi vive in casa rispetto a chi occupa un posto in strutture residenziali; chi ha maggiori possibilità economiche e più elevati livelli di autosufficienza (Frisanco, 1988). Una delle più grandi conquiste sociali di questi tempi, l’aumento della aspettativa di vita dell’uomo, tende ad essere presentata come un problema: lo attestano le cronache, le inchieste e anche i dibattiti di politica sociale e sanitaria. Infatti, le «immagini» sociali dell’a. sembrano connotarlo maggiormente in negativo come improdutti87
ANZIANI
vo, malato, inutile, superato (culturalmente) o risparmiatore, più che in positivo, per la migliore qualità media della vita o come risorsa, valore di testimonianza, nuovo consumatore. Così l’attenzione si focalizza prevalentemente sui costi ed i rischi della specifica condizione, mentre appare meno incisiva la valutazione delle risorse e delle potenzialità degli a. 4. Eppure l’universo degli a. non è una realtà omogenea, compatta; presenta al suo interno diverse condizioni che si riflettono sulla qualità della vita e sulla struttura dei bisogni: l’essere autosufficiente o non; di terza o quarta età; → uomo o → donna (se le donne vivono mediamente più a lungo, la loro vecchiaia è maggiormente segnata da un più elevato rischio di non autosufficienza e di confinamento domestico); di basso o medio/alto livello di status socioeconomico; di contesto urbano/metropolitano o non urbano/rurale; del centro-nord o del sud; di un’area più o meno dotata di una rete di servizi. La realtà dell’a. è caratterizzata da una variegata eterogeneità di situazioni e percorsi non riducili alla generalizzazione di una immagine pauperistica. È una realtà che per lo più si presenta vitale, con notevoli risorse ed opportunità e capace di giocare un ruolo specifico ed originale a livello relazionale e sociale. Come attestano recenti indagini è una condizione con tanti «più», in termini di anni da vivere, di salute, di risorse materiali (circa il 50% è abbiente), di istruzione (questa è la prima generazione di a. con titolo di studio superiore alla quinta elementare), di voglia di vivere e di fare in virtù di un atteggiamento positivo nei confronti della vita quotidiana. Gli a. sono diventati anche un target molto studiato dal marketing per la loro propensione al risparmio e all’investimento e sono altresì più in grado di autorganizzarsi e di partecipare, come si rileva dalla loro ampia presenza nell’associazionismo di promozione sociale e di tipo solidaristico. 5. Il rapporto tra a. e → servizi appare tuttavia ancora problematico e non è ascrivibile tanto all’emarginazione sociale dei vecchi di oggi, trasferita nel campo del diritto alla salute o alla assistenza. È qualcosa di più profondo, che nasce da visioni parziali ed errate della biologia dell’invecchiamento. C’è chi 88
ritiene la vecchiaia un processo immodificabile, determinato e del tutto involutivo. I servizi che nascono da questa visione sono di tipo contenitivo e assistenziale e forniscono un intervento anche illimitato nel tempo, ma il più possibile sempre uguale e al minor costo possibile, dal momento che non si attendono risultati. Non serve quindi valutare individualmente i bisogni e costruire i piani di intervento, poiché non vi sono obiettivi da raggiungere. All’opposto, vi è chi ritiene la vecchiaia una realtà inevitabile ma modificabile, che non comporta soltanto processi di involuzione, ma anche processi positivi, di compenso attivo alle perdite che l’età provoca nell’organismo. L’a., in questa prospettiva, può essere «guidato» ad una migliore realizzazione da comportamenti più salutari. Ciò porta a costruire servizi ad alto contenuto educativo, riabilitativo o addirittura preventivo, da cui ci si aspetta un importante guadagno in autosufficienza e salute che giustifica le risorse impiegate. È quindi necessario valutare e formulare obiettivi, piani di lavoro, verifiche in servizi dinamici, duttili, intensivi dove è prioritario e irrinunciabile un discorso di qualità. Si tratta di «inventare» un nuovo modo di affrontare questo fenomeno e di differenziare quanto più possibile le risposte in rapporto alle variegate strutture di bisogno dei diversi gruppi di a. 6. È ormai acclarato il triplice scopo dell’offerta di servizi per gli a.: 1) elevare la qualità della vita secondo l’obiettivo di «aggiungere vita agli anni» e mantenere il più a lungo possibile l’autosufficienza; 2) fronteggiare precocemente bisogni che altrimenti generano situazioni di povertà composite e patologie conclamate, che richiedono l’allontanamento dell’a. dal suo ambiente consueto di vita e un maggior costo per tutti; 3) facilitare l’accesso ai servizi spesso ostacolato da problemi di disinformazione circa le prestazioni e le opportunità esistenti, non solo per quanto concerne i servizi socio-sanitari, ma anche quelli pensionistici-previdenziali, culturali, del tempo libero, del turismo sociale ecc. In tal modo si ovvierà anche alla sostanziale non corrispondenza tra servizi fruiti e servizi di cui l’a. ha bisogno o che domanda. Inoltre si può ottenere valore aggiunto ai servizi attraverso la promozione e valorizzazione delle varie forme di → volontariato (anche di a. che
APPARTENENZA SOCIALE/RELIGIOSA
aiutano altri a.) da inquadrare nell’ambito di un progetto locale. La sfida maggiore che si presenta oggi alle nostra società è la riduzione del divario esistente tra aspettativa di vita totale e aspettativa di vita attiva, priva di disabilità. Si tratta di attivare reti di solidarietà sul territorio che abbiano come riferimento gli a. in quanto «soggetti attivi protagonisti» – non «oggetto» di interventi di tipo assistenziale e riparatorio – e di far sperimentare loro processi esistenziali di significatività comunitaria in modo da contrastare la mancanza di ruolo e di relazione e quindi la «non autosufficienza sociale». Bibl.: H anau C. (Ed.), I nuovi vecchi. Un confronto internazionale, Rimini, Maggioli, 1987; Frisanco R. (Ed.), Quarta età e non autosufficienza, Roma, TER, 1988; Facchini C., Invecchiare: un’occasione per crescere. Attività culturale e sociale e benessere. Rapporto 2002 Spi Cgil-Cadef, Milano, Angeli, 2003; Fondazione Leonardo (Ed.), Quarto rapporto sugli a. in Italia 2004-2005, Ibid., 2006.
R. Frisanco
APORTI Ferrante n. S. Martino all’Argine (Mantova) nel 1791 m. a Torino nel 1858, educatore italiano. 1. Ordinato sacerdote nel 1815, dopo aver effettuato studi sulle Sacre Scritture e delle Lingue Orientali, presso il Theresianum di Vienna, al ritorno in patria, forse sollecitato anche dalla lettura dell’Infant Education di Samuel Wilderspin nel 1829, aprì a Cremona una scuola infantile per bambini appartenenti a famiglie agiate. Alla fondazione del primo asilo fece seguito un intenso impegno per istituirne altri «allo scopo di raccogliere, custodire, alimentare ed educare» i bambini dai 3 ai 6 anni, aiutando i lavoratori nel mantenimento e nella formazione dei loro figli e quindi contribuendo all’instaurazione di una società fraterna fondata «su una più diffusa e solidale comprensione dei doveri dell’uomo, del cristiano e del cittadino». 2. Su questa base l’A. ha costruito il progetto educativo delle sue scuole il quale prevede-
va l’insegnamento della nomenclatura, del leggere, dello scrivere, del far di conto, della Storia Sacra, e per le bambine dei lavori donneschi, del canto, e suggeriva l’adozione del metodo «dimostrativo» perché considerato il più idoneo per soddisfare e coltivare la naturale curiosità dei bambini, e il sussidio delle stampe. Agli insegnanti l’A. chiedeva di tener presente quanto esposto nel Manuale e nella Guida, ma spesso la modesta preparazione culturale degli educatori, cui era affidato un numero eccessivo di alunni, ha favorito l’affermazione di un insegnamento ripetitivo, che faceva prevalentemente leva sulla memoria ed incapace di coltivare «integralmente» l’educabilità dei bambini. Bibl.: Sancipriano M. - S. S. M acchietti (Edd.), Scritti pedagogici e lettere, Brescia, La Scuola, 1976; M acchietti S. S., La scuola infantile tra politica e pedagogia dall’età aportiana ad oggi, Idid., 1985; Sideri C., F.A.: sacerdote italiano, educatore. Biografia del fondatore delle scuole infantili in Italia sulla base di una nuova documentazione inedita, Milano, Angeli, 1999.
S. S. Macchietti
APPARTENENZA SOCIALE/ RELIGIOSA L’a.s. viene studiata in rapporto alla coesione sociale. Essa potrebbe essere assimilata a un sentimento, una preferenza, un interesse; nelle scienze sociali è praticamente sinonimo di → atteggiamento, che è un concetto al tempo stesso comprensivo e operazionalmente ben determinato e che significa una disposizione o una strutturazione del dinamismo personale che orienta positivamente o negativamente il → comportamento riguardo a un oggetto psico-sociologico. Pertanto l’a.s. può essere definita come una disposizione psicosociologica e costituisce una strutturazione stabile dei processi percettivi, motivazionali ed emozionali attraverso cui uno si collega al proprio gruppo di inserimento. 1. L’a.s. consente al membro di percepirsi come facente parte di un gruppo, di identificarvisi, di parteciparvi e di trarne le motivazioni. Ancora di più: essa sta a indicare l’atteggiamento fondamentale verso il proprio 89
APPRENDIMENTO
gruppo; è strettamente connessa con il concetto di «rete sociale», che è come l’insieme dei legami di un individuo con altri referenti significativi (→ famiglia, amici, vicini e altre realtà informali). Le funzioni di questi ultimi sono molteplici, tanto di natura culturale che strutturale e funzionale. Dal punto di vista culturale, essa conferisce il senso di → identità sociale attraverso l’appartenenza. 2. Per l’a.r. occorre un minimo di interazione dell’individuo con il gruppo religioso. Non si tratta solo di un minimo giuridico e teologico (per i cattolici battesimo e professione di fede), ma di un minimo psico-sociologico, difficilmente quantificabile ma necessario e non certo riducibile a contatti sporadici e occasionali. Si richiede, in altri termini, l’accettazione del sistema dei valori, delle → credenze e dei modelli del gruppo. Le ricerche sociologiche ci hanno mostrato che l’adesione ai valori religiosi è necessariamente differente nei diversi «tipi» di fedeli. In ciò influisce ovviamente la storia religiosa dei singoli, che condiziona la diversa disponibilità per un’adesione motivata e motivante. È necessaria anche un’assimilazione al gruppo religioso che giunge, nel caso ottimale, alla piena → identificazione, in quanto all’interno del gruppo l’individuo trova i valori che costituiranno la base del suo personale progetto di vita. 3. In rapporto al sentimento di a.r. l’esistenza di diversi gruppi di riferimento può interferire sia negativamente sia positivamente. Un caso tipico è legato alla genesi dell’a.r. Si pensi alle situazioni di ripetuto conflitto di a. cui è sottoposto il bambino, il fanciullo, l’adolescente, il giovane, quando si trovino inseriti nei vari gruppi familiari, scolastici, amicali che spesso presentano notevoli diversità nel grado di conformità ai sistemi normativi di credenze religiose. L’evoluzione del sentimento di a.r. sarà condizionata così dal gioco delle lealtà di gruppo e avrà successo quella che sembra soddisfare maggiormente il livello di aspirazioni dell’individuo. In definitiva si può affermare che il sentimento di a.r. è condizionato dal maggior o minor grado di integrazione e/o impegno del gruppo nella struttura sociale e dalla valutazione più o meno positiva che gli appartenenti danno di tale integrazione. 90
Bibl.: Schachter S., The psychology of affiliation: experimental studies of the sources of gregariousness, Stanford, Stanford University Press, 1959; Pollini G., A. e identità. Analisi sociologica dei modelli di a.s., Milano, Angeli, 1987; Baragli C., Comunicazione di gruppo, Ibid., 1988; Carrier H., Psico-sociologia dell’a.r., Leumann (TO), Elle Di Ci, 1988; Canobbio G. et al., L’a. alla Chiesa, Brescia, Morcelliana, 1991; Donati P. P., Teoria relazionale della società, Milano, Angeli, 1991; Serpieri R., Identità e a. nella società della globalizzazione, Ibid., 2004.
J. Bajzek
APPRENDIMENTO All’interno dei processi vitali personali, la specificità del processo di a. consiste nell’acquisizione di nuove → abilità o conoscenze mediante l’esperienza. Tuttavia la preponderanza del fattore esperienza non permette di dimenticare le condizioni della dotazione ereditaria, né gli apporti creativi della intelligenza: l’esperienza dà i suoi frutti nell’a. se il soggetto è sufficientemente maturo e si avvantaggia molto dal contributo della comprensione e dall’intuizione. Spesso può essere difficile decidere se una nuova capacità di condotta sia dovuta principalmente all’esperienza o a processi di comprensione intelligente. L’a. riguarda molti settori di abilità e di contenuti, ed è per sua natura intimamente legato ai vari processi educativi. Di fatto si imparano abilità motorie di differente complessità e precisione, si impara a percepire oggetti, persone, situazioni, si impara a leggere ed a comprendere, si imparano parole, concetti, sistemi di pensiero, si imparano linguaggi espressivi, si imparano reazioni emotive e stati affettivi duraturi, si imparano ansie e nevrosi, come si imparano gusti, preferenze, idiosincrasie, sistemi di valori, stili di vita, credenze, speranze e tecniche di difesa e di decisione. L’a. stesso, poi, può riferirsi a soggetti differenti: persone o animali, bambini, adolescenti o adulti, normali o con vari gradi e tipi di disabilità. 1. I tipi di a. Tra i vari criteri possibili per tentare una tipologia dell’a., pare che il più adeguato sia quello che parte dai prodotti dell’a. stesso.
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1.1. A. di operazioni adattative. Con questo processo il soggetto, uomo od animale, acquisisce, in seguito all’esperienza, nuove capacità di incontro efficiente con l’ambiente, con nuove modalità di operazione. È questo il campo tipico degli inizi della ricerca psicologica sull’a.: già nel 1905 I. P. Pavlov metteva in luce i «riflessi condizionati», cioè quei processi per cui uno stimolo, di per sé indifferente, può avviare la reazione dell’arco riflesso originale, a condizione di precedere regolarmente lo stimolo originale del riflesso. Questa scoperta fu ben accolta dai «comportamentisti», che però rilevarono che spesso non bastava apprendere un nuovo stimolo per una condotta riflessa già prefabbricata, ma occorreva imparare, in seguito all’esperienza, un nuovo modo di operare, per giungere alla soddisfazione di motivi attualmente urgenti. Nacque così in Thorndike prima e in molti altri ricercatori poi (tra di essi il più famoso è → Skinner) il progetto di ricercare come si apprendono nuove operazioni. Il termine appropriato sembrò essere quello di «condizionamento operante», perché veniva condizionata una operazione, oppure quello di «a. strumentale» perché si apprendeva un mezzo per soddisfare un bisogno. Questo tipo di a., legato alla motivazione, perdeva parte della sua caratteristica di automatismo, propria del riflesso condizionato, per entrare sotto l’influsso dell’intenzionalità. Sia il condizionamento classico, pavloviano, che quello operante hanno continui e notevoli effetti anche sull’uomo: mediante essi impariamo, in modo più o meno consapevole, gusti e avversioni, tecniche di accostamento e di prevenzione; come si dirà in seguito, anche l’uomo può apprendere opportune condotte per raggiungere premi ed evitare castighi. 1.2. A. di informazioni. Questo tipo di a. è oggetto di trattazioni specifiche (→ informazione e → comunicazione), ed è pure studiato nell’ambito della → memoria; si rimanda perciò alle rispettive voci per indicazioni più estese. In particolare si può richiamare qui come l’a. riguardi i vari momenti del processo di informazione: si impara a percepire, cioè a riconoscere oggetti, persone, situazioni; si imparano informazioni singole, come pure sistemi semplici o complessi, a livello di esperienza concreta o di strutture cognitive astratte. Allo stesso modo si impara a conservare le informazioni, ad elaborarle, a ricu-
perarle e ad applicarle alle varie situazioni. 1.3. A. di atteggiamenti. L’atteggiamento è un tratto della personalità caratterizzato da una valutazione favorevole o contraria ad un certo oggetto (tipo di esperienza, persona, gruppo, idea, valore, ecc.). Anche questo tipo di a. è termine di considerazioni specifiche, da parte della → psicologia educativa, della psicologia sociale (a. sociale, di usi, valori, pregiudizi), e della psicologia clinica (a. di disposizioni emotive, sane o nevrotiche). Vi sono modi piuttosto passivi di apprendere un atteggiamento, come avviene nell’imitazione o per pressione sociale di un gruppo. L’a. di atteggiamenti per via di identificazione richiede una maggiore partecipazione del soggetto: questi percepisce il proprio bisogno di affermazione e di sviluppo, e si unisce emotivamente alla persona che vede vicina e riuscita, partecipando in tal modo all’esperienza del modello. Finalmente un atteggiamento può essere appreso in conseguenza di un mutamento interiore di quadri conoscitivi di valore, come influsso di nuovi motivi centrali, o in seguito ad esperienze particolarmente illuminanti. Al tema dell’a. di atteggiamenti appartiene anche la loro modifica, quando sono disadattanti; oltre che con i modi sopra accennati, questo risultato si raggiunge anche con gli interventi di trattamento dell’inconscio indicati dalle varie scuole di psicoterapia. 2. Fattori dell’a. L’a. ha varie condizioni che lo facilitano o lo inibiscono. Poiché vi sono tipi di a. molto diversi, occorre rifarsi ad ognuno di essi per rilevarne i fattori specifici. Se ne ricordano qui solo alcuni che riguardano il processo di a. in generale. Si vedrà in primo luogo un gruppo di fattori predisponenti, che vanno sotto il titolo di «disponibilità», quindi due altri fattori generali, quelli della motivazione e dell’esercizio o pratica. 2.1. La disponibilità ad apprendere. Già nel suo volume del 1913 Thorndike, applicando le nozioni di psicologia all’a. scolastico, parlava di readiness o disponibilità ad apprendere. Essa si può definire come la capacità e la volontà di apprendere. La capacità di apprendere a sua volta è determinata dalla maturazione e dal bagaglio di abilità e informazioni precedentemente acquisite, mentre la volontà di apprendere designa soprattutto 91
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le componenti emotive della situazione di a. a) La maturazione, o sviluppo determinato prevalentemente da fattori endogeni ereditari, ha una grande parte nel determinare la disponibilità ad apprendere. Certo, gli effetti della maturazione su una condotta non si possono misurare indipendentemente dagli apporti dell’ambiente e dell’esperienza. Tuttavia vi sono mutamenti di grande rilievo dovuti in gran parte a fattori endogeni. In particolare è rilevante lo sviluppo anatomico e funzionale del sistema nervoso, del sistema endocrino e dell’apparato muscolare. In psicologia evolutiva sono noti i vari stadi dello sviluppo cognitivo, ad es. secondo lo schema di Piaget, che suppongono fasi naturali di maturazione. b) Le abilità ed informazioni già possedute sono un altro prerequisito all’a. attuale. Sebbene questo sembri ovvio, e se ne tenga abitualmente conto nello svolgere passo passo un programma di insegnamento, tuttavia spesso non si è coscienti di ciò che di fatto si presuppone perché il soggetto possa comprendere informazioni, apprezzare beni educativi o apprendere tecniche di prestazioni professionali. Varie ricerche sono inoltre d’accordo nel segnalare che esistono momenti dello sviluppo particolarmente favorevoli all’a. di determinate abilità; se si lasciano passare a vuoto questi momenti critici, tale abilità non potrà più essere acquisita in seguito con quella perfezione, né essere alla base di ulteriori a. L’influsso dell’a. precedente è in particolare oggetto delle ricerche sul «transfer» o diffusività dell’a.; in specie si è rilevato che in un a. successivo vengono utilizzati sia materiali che tecniche precedentemente apprese. Si sono anche verificate le condizioni perché tale trasferimento avvenga: da simili verifiche può, ad es., emergere l’utilità di particolari curricoli o materie nel formare la mente. c) La disponibilità emotiva ad imparare si esprime sia nella motivazione che nelle disposizioni emotive che accompagnano l’a. Poiché la motivazione, come fattore di a., è stata ampiamente considerata dalle ricerche, ci limitiamo qui alla componente emotiva, essa pure, del resto, dipendente dalla motivazione. 2.2. L’esito dell’a. può dipendere da uno stato emotivo generale: soggetti ansiosi apprendono più facilmente, a pari condizioni, di soggetti non ansiosi quando percepiscono che il compito è alla loro portata, ma restano molto 92
al di sotto delle loro capacità se vedono nel compito un rischio di fallimento. Atteggiamenti generali possono portare ad affrontare subito un impegno o a dilazionarlo, a rischiare esperienze nuove o ad essere conservatori, ad essere costanti oppure a lasciarsi abbattere da parziali insuccessi. Inoltre vi possono essere settori specifici di a. davanti ai quali il soggetto si sente emotivamente bloccato da atteggiamenti verso un dato ambiente educativo, verso persone significative, verso particolari materie o abilità da apprendere. Vi sono infine le disposizioni emotive del momento, dovute a particolari circostanze favorevoli od avverse, a benessere o disturbi fisiologici, a condizioni ambientali di clima, aerazione, pressione atmosferica, ecc. Anche la fatica, che cresce con il tempo di applicazione, diventa un fattore negativo di a. Le ricerche hanno messo in luce che esiste una grande variabilità nella disponibilità ad apprendere, e che perciò è più importante rilevare l’età nervosa, endocrina, mentale che non quella cronologica. Inoltre ogni soggetto ha la sua storia che ha creato in lui particolari disposizioni. Si impone perciò la necessità di rilevare, nei momenti opportuni, la disponibilità ad apprendere, sia con procedimenti intuitivi, sia con tecniche psicometriche appropriate. 2.3. La motivazione. È ovvio che la → motivazione influisca sul processo e sull’esito dell’a., se si tengono presenti i quattro effetti della motivazione stessa, che sono quelli di iniziare, dirigere, sostenere l’attività e sensibilizzare selettivamente il soggetto. Per i vari tipi di a. la motivazione ha ruolo e contenuti differenti: ininfluente nel condizionamento classico, è la molla principale dell’a. strumentale, e si configura in modo specifico nell’a. di informazioni e di atteggiamenti. L’intensità ottimale della motivazione deve essere tale da sollecitare efficacemente il soggetto, senza tuttavia disturbare emotivamente il processo con una eccessiva urgenza. Dal punto di vista educativo pare particolarmente significativa la distinzione fra motivazione intrinseca e motivazione estrinseca: la prima tende ad un risultato che è prodotto naturale dell’a., mentre la seconda tende ad una soddisfazione aggiunta dall’esterno, ad es. al riconoscimento sociale, a vantaggi economici, e simili. Quando il soggetto non è ancora maturo per apprezzare certi beni culturali, è
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prassi comune avviarlo verso di essi con incentivi estrinseci. Varie ricerche condotte in ambito scolastico dimostrano l’effetto della lode e del biasimo sull’a., e dimostrano pure che questi incentivi hanno differente risonanza in differenti personalità. In particolare si è verificato che il comunicare con chiarezza e tempestivamente i risultati dell’a. ne facilita il progresso, sia perché serve come lode o biasimo (motivazione estrinseca), sia perché informa su ciò che, nell’a., funziona o non funziona. Si è anche notato che, nell’a. scolastico, una motivazione estrinseca comporta principalmente una strategia riproduttiva: lo studente si limita a fissare il puro necessario per poter riprodurre il materiale, e la tecnica prevalente è quella della memorizzazione meccanica. Una motivazione intrinseca, al contrario, porta il soggetto ad approfondire la materia, a comprenderla e collegarla con altre informazioni, in una parola a fare un a. significativo. Infine è da rilevare che una educazione riuscita comporta che i valori siano ricercati per se stessi, e che perciò l’educando passi dalla motivazione estrinseca a quella intrinseca. Talora un educatore può illudersi di aver raggiunto certi scopi basandosi su condotte esteriori dell’educando che possono essere governate da motivazioni del tutto estranee ai beni educativi che sembrano incarnare. 2.4. L’esercizio. Poiché nell’a. l’acquisizione di nuove abilità è dovuta principalmente all’esperienza, il fattore esercizio risulta essenziale. Questo fattore si misura nelle ripetizioni di un’operazione, o nel tempo dedicato alla pratica. Nel processo dell’a. si manifesta un continuo e progressivo miglioramento delle prestazioni, frutto dell’accumularsi dell’esperienza; questo lento e continuo progresso differenzia l’a. dalla condotta intelligente, in cui si passa direttamente dall’incapacità, dovuta alla mancanza di comprensione, alla piena abilità, come frutto dell’intuizione. La funzione della ripetizione è quella di fissare e consolidare le connessioni nervose e simboliche richieste e di eliminare i passi non necessari, in modo da rendere fluida e rapida la condotta appresa. Quando le attività da apprendere sono complesse, e cioè risultano dalla somma di varie abilità elementari, si può notare il fenomeno del plateau: dopo un iniziale miglioramento, per un certo periodo non si rilevano progressi
pur continuando l’esercizio, fino a quando il perfetto a. delle componenti elementari non permette la loro organizzazione nell’attività globale. Come per la memorizzazione, anche in questo caso si pone il problema se sia più efficiente un esercizio ammassato (in sessioni prolungate) o distribuito (in più sessioni relativamente brevi); in genere valgono le stesse indicazioni che si danno per la memorizzazione: non fare sessioni troppo brevi per utilizzare bene il tempo di «riscaldamento» o di preparazione, e per poter affrontare in una sola sessione unità coerenti del compito e, allo stesso tempo, evitare sessioni troppo lunghe, nelle quali non vi sia modo di rielaborare interiormente ciò che si apprende e la fatica, accumulandosi, renda inefficiente l’esercizio. Infine ci si chiede se sia meglio affrontare il compito da apprendere in modo globale o per singole parti; la risposta deve tener conto della natura del compito (in alcuni casi non ha senso suddividere il compito da apprendere, in altri la complessità impone la suddivisione), e delle disposizioni del soggetto (una persona più intelligente può approfittare maggiormente del contesto globale). 3. Implicanze educative. Il vasto campo degli oggetti, dei processi e dei fattori dell’a. apre una estesa problematica educativa, che in buona parte viene trattata nelle voci apposite. Tutto il campo dell’a. scolastico rimanda alla psicologia educativa/scolastica e della comunicazione; allo stesso modo l’a. di atteggiamenti suppone lo studio dell’apporto emotivo e valoriale del contatto con l’ambiente sociale. Raccogliendo alcune indicazioni da quanto si è esposto, notiamo come lo studio dell’a. rivela che si può essere condizionati senza accorgersene e che in noi si possono creare connessioni inconsce e incontrollate, che ci aiutano o ci disturbano. A questo riguardo è anche da rilevare che, accanto all’a. intenzionale, o appositamente ricercato, vi è un a. «incidentale», cui possiamo essere sottoposti senza volerlo. In secondo luogo si ricorda l’urgenza di verificare la disponibilità ad apprendere, e a curarla dove fosse carente; qualora ciò fosse trascurato, l’offerta educativa potrebbe essere del tutto o in parte inutile. Ancora si ricorda l’importanza di favorire il passaggio dalla motivazione estrinseca a quella intrinseca, così che l’educando non si 93
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senta governato dall’esterno, ma operi per adesione personale a valori da lui percepiti come tali. Infine, richiamando il vecchio detto che si impara non per la scuola, ma per la vita, si farà particolare attenzione che quanto si offre come oggetto di a. possa servire come base per quell’a. che, durante tutta la vita, permette di affrontare con successo i vari compiti che essa presenta. Bibl.: H ilgard E. R. - G. H. Bower, Le teorie dell’a., Milano, Angeli, 1970; Bloom B. S., Caratteristiche umane e a. scolastico, Roma, Armando, 1979; Roncato S., A. e memoria, Bologna. Il Mulino, 1982; Bertondini A., Biologia e a., Bologna, Esculapio, 1984; Boscolo P., Psicologia dell’a. scolastico. Gli aspetti cognitivi, Torino, UTET, 1986; Cornoldi C., A. e memoria nell’uomo, Ibid., 1986; Gagnè E. D., Psicologia cognitiva e a. scolastico, Torino, SEI, 1989; Montuschi F., Competenza affettiva e a. Dalla alfabetizzazione affettiva alla pedagogia speciale, Brescia, La Scuola, 1993; Ronco A., Introduzione alla psicologia, vol. 2: Conoscenza e a., Roma, LAS, 1994; Fiorin I., La relazione didattica: insegnamento e a. nella scuola che cambia, Brescia, La Scuola, 2004.
A. Ronco
APPRENDIMENTO AUTODIRETTO In ing. Self-directed learning, in fr. autoformation. Dirigere se stessi nel proprio a. culturale e/o professionale può essere riletto secondo due prospettive complementari, integrando tra loro i concetti di autodeterminazione e di autoregolazione. Con il termine «autodeterminazione» si segnala la dimensione della scelta, del controllo di senso e di valore, della intenzionalità dell’azione: è il registro della motivazione, della decisione, del progetto, anche esistenziale. Con il termine «autoregolazione», che evoca monitoraggio, valutazione, pilotaggio di un sistema d’azione si insiste di più sul registro del controllo strumentale dell’azione. Al primo livello, nel dare senso, finalità, scopo all’azione ci si colloca sul piano del controllo di tipo «strategico», che mette in evidenza la componente motivazionale, di senso, di valore. Al secondo livello si ri94
chiede, invece, di sorvegliare la coerenza, la tenuta, l’orientamento dell’azione e regolarne il funzionamento o pilotarla; si tratta di un livello «tattico». 1. Nel caso dell’a. scolastico, le indagini finora svolte (Pellerey, 2006) hanno messo in luce le caratteristiche che distinguono gli studenti che sono in grado di autodirigere il proprio a. da quelli che non lo sono. 1) Essi hanno famigliarità e sanno utilizzare un insieme di strategie cognitive (memorizzazione, elaborazione, organizzazione), che li aiutano a considerare, trasformare, elaborare, organizzare e recuperare le informazioni. 2) Sono in grado di pianificare, controllare e dirigere i propri processi mentali al fine di conseguire obiettivi personalmente scelti. 3) Mostrano un insieme di convinzioni motivazionali ed emozioni favorevoli, come senso di autoefficacia scolastica, orientamento ad apprendere e non solo a conseguire buoni voti, sviluppo di emozioni positive nei riguardi dei compiti da affrontare (gioia, soddisfazione, entusiasmo, ecc.) e la capacità di controllarle e modificarle secondo le esigenze dei compiti e delle situazioni. 4) Sanno pianificare e controllare il tempo e lo sforzo coerentemente con gli impegni assunti, riuscendo a strutturare ambienti favorevoli all’a. e cercando nelle difficoltà l’aiuto degli insegnanti e/o dei propri compagni. 5) In base alle possibilità esistenti, mostrano grande impegno nel partecipare alla gestione degli impegni scolastici, del clima della classe e della sua organizzazione. 6) Sono capaci di mettere in atto una serie di strategie volitive, dirette ad evitare distrazioni interne ed esterne, a mantenere la concentrazione, lo sforzo e la motivazione, mentre portano a termine i loro compiti. 2. Come si può facilmente notare, le prime due indicazioni si riferiscono ad aspetti comportamentali di tipo metacognitivo, in quanto tengono conto di conoscenze, sensibilità, monitoraggio e governo di processi di natura cognitiva. La terza indicazione tocca aspetti di gestione della dimensione emozionale e motivazionale. La quarta e la sesta coprono competenze di natura volitiva, mentre la quinta evoca senso di partecipazione e responsabilità alla vita della comunità di a.
APPRENDIMENTO COOPERATIVO
Bibl.: Zimmerman B. J., A social cognitive view of self-regulated academic learning, in «Journal of Educational Psychology» 81 (1989) 329-339; Boekaerts M. - P. R. Pintrich - M. Zeidner (Edd.), Handbook of self-regulation, San Diego, CA, Academic Press, 2000; Carré P. - A. Moisan, La formation autodirigée. Aspects psychologiques et pédagogiques, Paris, L’Harmattan, 2002; Pellerey M., Dirigere il proprio a., Brescia, La Scuola, 2006.
M. Pellerey
APPRENDIMENTO COOPERATIVO L’a.c. (Cooperative learning) è un metodo d’ → insegnamento che si contrappone a metodi di tipo individualistico e competitivo. In senso generale può essere definito come un insieme di tecniche per la classe secondo le quali gli studenti lavorano in piccoli gruppi per attività di a. e ricevono valutazioni in base ai risultati conseguiti dal gruppo. In questo modo esso si propone di coinvolgere maggiormente le risorse e la responsabilità degli studenti nel loro a. 1. Dell’a.c. si conoscono varie modalità di applicazione: a) per D. W. Johnson e R. T. Johnson (1994), gli elementi fondamentali del Learning together sono: l’interdipendenza positiva, l’interazione promozionale faccia a faccia e l’uso di competenze interpersonali, la valutazione individuale e di gruppo, la revisione dell’attività di gruppo; b) per Slavin (1990) lo Student team learning ha i suoi punti forza nell’interazione del piccolo gruppo ma, soprattutto, nella responsabilità individuale e nell’elargizione di incentivi e ricompense il cui conseguimento stimola il gruppo all’impegno; c) secondo Kagan (1994), lo Structural approach propone come principi chiave: l’interazione simultanea, la partecipazione, l’interdipendenza positiva e la responsabilità individuale nei risultati di a. conseguiti; d) il Group investigation (Sharan-Sharan, 1992; Sharan, 1994) è un approccio particolarmente seguito e sviluppato in Israele. Esso sottolinea come elementi efficaci dell’a.: la ricerca, l’interazione, l’interpretazione e la motivazione intrinseca; e) la Complex instruction (Cohen, 1994) organizza l’a.c. a partire dalla
constatazione che la formazione del piccolo gruppo favorisce i migliori e indica strategie da seguire affinché sia data a tutti i membri di un gruppo la stessa opportunità di esprimersi e di apprendere. In questo orientamento gli elementi essenziali sono: correggere i pregiudizi sulle abilità, educare gli studenti all’interazione e alle specifiche competenze secondo il compito richiesto, organizzare compiti complessi, attribuire a ogni studente un ruolo da svolgere, valutare il lavoro di gruppo per poterlo migliorare; f) il Collaborative approach (Cowie, 1995) raccoglie un vasto movimento che unisce al tema della mediazione del gruppo interessi e punti di vista diversi: l’a., prospettive curricolari, temi specifici (politici, sociali, psicologici). 2. Gli elementi essenziali per la scuola suggeriti dalla Cowie sono: organizzazione dei gruppi non basati sull’amicizia, insegnamento esplicito delle competenze sociali, gestione positiva del conflitto. Affinché i gruppi di studenti compiano un a.c., è necessaria la messa in atto di quattro elementi fondamentali: l’interdipendenza positiva, l’interazione faccia a faccia e l’uso di competenze sociali, la valutazione individuale e, infine, la revisione e il miglioramento continuo del lavoro di gruppo. Bibl.: Slavin R. E., Cooperative learning: theory, research, and practice, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1990; Sharan Y. - S. Sharan, Expanding cooperative learning through group investigation, New York, Teachers College Press, 1992; Cohen E. G., Restructuring the classroom: conditions for productive small groups, in «Review of Educational Research» 64 (1994) 1-35; Johnson D. W. - R. T. Johnson - E. J. Holubec, Cooperative learning in the classroom, Alexandria, ASCD, 1994; K agan S., Cooperative learning, San Juan Capistrano, Kagan Cooperative Learning, 1994; K agan S. - M. K agan, «The structural approach: six keys to cooperative», in S. Sharan (Ed.), Handbook of cooperative learning methods, Westport, Greenwood Press, 1994, 115-133; Cowie H., International perspectives on cooperative and collaborative learning: an overview, in «International Journal of Educational Research» 23 (1995) 197-200; Marín S., Aprender cooperando: el aprendizaje cooperativo en el aula, Madrid, Dir. General de Ordenación, 2003.
M. Comoglio
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APPRENDIMENTO: DISTURBI DELL’
APPRENDIMENTO: disturbi dell’ Difficoltà o incapacità di raggiungere i livelli scolastici attesi dall’ambiente socioculturale. 1. Si possono distinguere due tipi di disturbi: a) disturbi generali di a. e cioè difficoltà presenti in tutte le aree dell’a., per cui si verifica un rendimento scolastico globale inferiore alla media. È possibile individuare l’origine di tali disturbi nei fattori: fisici (lesioni cerebrali, sordità, cecità, o altri handicap di carattere organico); intellettuali (inibizione intellettiva); affettivi (carenze affettive, presenza di un elevato livello di → ansia, disturbi nevrotici o psicotici, stati depressivi, iperattività); familiari (disturbi psichici di uno o di entrambi i genitori, conflitti coniugali, separazione o → divorzio, elevate richieste e attese da parte dei genitori circa il rendimento scolastico o all’opposto loro incapacità a motivare adeguatamente i figli allo studio, eccessiva rivalità fraterna alimentata da sistematici confronti da parte dei genitori); socio-culturali (condizioni economiche sfavorevoli, basso livello sociale dove non è presente come valore l’istruzione scolastica); b) disturbi specifici dell’a., per cui compaiono difficoltà in un settore particolare dell’attività scolastica. I soggetti interessati a tali disturbi abitualmente hanno un QI normale. 2. I principali disturbi specifici dell’a. sono: la → dislessia e la → discalculia. Il termine dislessia (dal gr. dis: difficile e lexis: parola) sta ad indicare la presenza di una difficoltà di lettura, per cui soggetti scolarizzati e d’intelligenza normale denunciano una grave difficoltà a decodificare le parole stampate. Non si può parlare di dislessia se non dopo i 7 anni. Prima di questa età infatti gli errori di lettura sono banali e frequenti. Tale disturbo è abitualmente accompagnato anche dalla disortografia e cioè da una difficoltà a scrivere correttamente. Inoltre esso è più presente nei maschi che nelle femmine, in rapporto da 4 a 1, e nei soggetti di età scolare lo si riscontra in una percentuale che oscilla tra il 5 e il 15%. Non si è di fronte ad una vera e propria dislessia, se la difficoltà di lettura è connessa con disturbi presenti anche in altri settori di a. (aritmetica, storia, geografia). Le principali modalità di espressione della dislessia sono: confusione di lettere 96
con grafia simile (e-a, l-h, m-n); confusione di suoni simili (p-d, v-f); inversione cinetica di alcune lettere nella parola (in-ni, al-la); confusione di lettere graficamente simmetriche (n-u); omissione o aggiunta di lettere, sillabe o parole; contrazione e deformazione di sillabe, lettere o parole; righe saltate; punteggiatura e tono inesistenti; non distinzione delle parole simili tra loro. Da segnalare che oltre alla dislessia esiste anche il disturbo dell’iperlessia. Esso consiste nella capacità, superiore alla media, di decodificare le parole senza però capirne il significato. 3. Circa l’eziologia della dislessia ci sono due grandi correnti: a) teoria del singolo fattore che individua la causa in una disfunzione del processo visivo-spaziale; b) teoria multifattoriale che vede la dislessia come il risultato dell’influsso più o meno accentuato di due o più fattori tra loro connessi. Possono essere: fattori genetici, disturbi cerebrali, mancinismo contrastato, turbe della comunicazione verbale, cattivo orientamento visivo-spaziale, debolezza uditiva; disturbi dello schema corporeo, identificazione inadeguata, fissazione o regressione affettiva, inibizione intellettiva, turbe della funzione simbolica, carenze culturali. Relativamente al peso che i fattori elencati rivestono, si possono distinguere diversi tipi di dislessia: a) costituzionale. È la più grave e la più difficile da curare. Essa è collegata ad una cattiva lateralizzazione, a disturbi del linguaggio, a perturbazioni gravi a livello dell’orientamento, con conseguenti disturbi a livello intellettivo e di personalità; b) evolutiva. È determinata dalla mancata individuazione del mancinismo fin dai primi esercizi scolastici o da un metodo difettoso di apprendimento; c) affettiva. È legata ad un blocco affettivo-relazionale. 4. Rispetto alla dislessia, la discalculia è più rara. Essa consiste in una difficoltà a comprendere ed utilizzare i numeri e quindi in una incapacità di effettuare operazioni aritmetiche elementari (addizione, sottrazione, ecc.) e conseguentemente, nelle scuole superiori, in un insuccesso nel campo della geometria, della fisica e della chimica, pur in assenza di una compromissione delle altre forme di ragionamento logico e di simbolizzazione. La discalculia è più presente nelle femmine che nei maschi. Nelle espressioni
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più correnti la discalculia è associata alla disgnosia digitale (difficoltà di riconoscere le dita) e all’aprassia costruttiva (difficoltà a riconoscere e a riprodurre i gesti e le figure nello spazio, come, ad es., un triangolo o una croce). La forma più completa di tale disturbo è la sindrome di Gerstmann. Essa comprende i seguenti sintomi: discalculia, dis gnosia digitale, difficoltà di strutturazione spaziale e cioè indistinzione sinistra-destra, disgrafia, aprassia costruttiva, disprassia digitale. Circa l’eziologia della discalculia vale quanto detto a riguardo della dislessia. 5. Si calcola che il 10-15% dei soggetti in età scolare denunci dei disturbi generali dell’a. e che il 5-10% sia coinvolto in un qualche disturbo specifico. Bibl.: Salzberger-Wittenberg I. - G. H enryPolacco - E. Osborne , L’esperienza emotiva nei processi d’insegnamento e di a., Napoli, Liguori, 1987; Jadoulle A., A. della lettura e dislessia, Roma, Armando, 1988; Leddomade B., La dislessia. Problema relazionale, Ibid., 1988; Cornoldi C., I disturbi dell’a., Bologna, Il Mulino, 1991; Tarnopol L. (Ed.), I disturbi dell’a. nell’infanzia, Roma, Armando, 1993; Van Hout A. - C. Meljac, Troubles du calcul et dyscalculies chez l’enfant, Paris, Masson, 2004; M artini A., Le difficoltà di a. della lingua scritta. Criteri di diagnosi e indirizzi di trattamento, Tirrenia, Edizioni del Cerro, 2004; Pratelli M., Le difficoltà di a. e dislessia. Diagnosi, prevenzione, terapia e consulenza alla famiglia, Bergamo, Junior, 2004; Catalano Sanchez R. - M. C. Ruffini Lasagna, Disturbi dell’a. scolastico, Roma, Armando, 2004.
V. L. Castellazzi
APPRENDISTATO → Formazione professionale
ARCHIVIO Si intende in generale per a. «la raccolta ordinata degli atti di un ente o di un individuo, costituitasi durante lo svolgimento della sua attività e conservata per il conseguimento degli scopi giuridici, politici o culturali di quell’ente o di quell’individuo» (Vagnoni, 1982,15).
1. Pare che il termine abbia assunto il suo significato tecnico nell’età ellenistica. Infatti verso la metà del sec. IV a.C. esisteva ad Atene un vero a. di Stato in cui erano conservati e consultati i documenti riguardanti l’amministrazione pubblica della città; ma l’origine dell’a. andrebbe fatta risalire a tempi più remoti: nel corso della storia l’uomo ha sentito il bisogno di conservare i materiali che testimoniano i fatti e i diversi aspetti della vita e dell’attività propri e del proprio Paese. Oggi il «materiale di a.» comprende, ad es.: esposizioni o rapporti su attività di singole persone o di gruppi, inventari di beni, contratti, statistiche, cronache e diari, saggi inediti, lettere personali. 2. Esistono diversi tipi di a. Dal punto di vista dello studio e della ricerca, presentano speciale interesse: l’a. corrente, che raccoglie materiali che si riferiscono a pratiche ancora in corso (ad es. l’a. della segreteria generale di una università); storico, che raccoglie fonti e documenti del passato (ad es. i diari e le cronache degli inizi di un’istituzione educativa); privato, che appartiene a individui o enti privati; pubblico, che appartiene a un ente pubblico o allo Stato (ad es. l’a. del Ministero della P. I.); ecclesiastico, che custodisce documenti riguardanti la vita e l’attività della Chiesa (ad es. gli a. parrocchiali). 3. Per una migliore conservazione e per una più agevole consultazione, i materiali archivistici sono riuniti in fascicoli (raccolta dei documenti che riguardano uno stesso argomento); buste o cartelle (raccolta di fascicoli). La consultazione viene pure facilitata da alcuni strumenti e sussidi: repertorio (registro o elenco con la descrizione della natura e del contenuto dei singoli documenti); inventario (registro in cui sono trascritti i dati essenziali del materiale custodito). Attualmente si sta generalizzando l’automazione degli a.: i dati conservati in essi sono reperibili ed elaborabili da un computer. Tuttavia non tutti gli a. sono debitamente organizzati e catalogati, anzi spesso la loro consultazione è assai faticosa. D’altra parte, non tutti i documenti sono liberamente consultabili. Per accedere a un a. si esige ordinariamente, oltre alla solita documentazione personale, lettera-presentazione da parte di un noto ricercatore o di un professore universitario. 97
ARDIGÒ ROBERTO
4. Dal punto di vista pedagogico, presentano speciale interesse le raccolte di documenti costituitesi durante l’attività di individui o di enti impegnati nel mondo dell’educazione e della scuola. Ma offrono pure notizie utili (e spesso necessarie) per conoscere la situazione di un’istituzione educativa i rapporti e le testimonianze di persone che, indirettamente e disinteressatamente, si riferiscono al tema. È nota, per es., l’importanza degli a. notarili e parrocchiali per lo studio dell’andamento dell’alfabetizzazione in un Paese (mediante l’esame delle firme presenti o assenti nei testamenti e/o negli atti di matrimonio). Bibl.: Vagnoni S., Archivistica. Ordinamenti, normativa, tecniche, economia, Latina, Bucalo, 1982; Colombo F., Gli a. imperfetti. Memoria sociale e cultura elettronica, Milano, Vita e Pensiero, 1986; Prellezo J. M. - J. M. García, Invito alla ricerca. Metodologia e tecniche del lavoro scientifico, 4ª ediz. riveduta e aggiornata, Roma, LAS, 2007 (trad. sp.: Investigar. Metodología y técnicas del trabajo científico, Madrid, CCS, 2006).
J. M. Prellezo
ARDIGÒ Roberto n. Casteldidone (CR) nel 1828 - m. a Mantova nel 1920, filosofo e pedagogista italiano. 1. Il pensiero di A. rappresenta il punto più avanzato ed elaborato raggiunto dal → positivismo italiano, affermatosi attorno agli anni ’70 dell’Ottocento fino al primo decennio del Novecento. Nasce da famiglia benestante che, a causa di rovesci di fortuna, si trasferisce nel 1836 a Mantova. In questa città A. frequenta la scuola elementare e ginnasiale. Nel 1845 entra nel seminario vescovile ed è sacerdote nel 1851. L’anno seguente è l’inizio di una crisi spirituale che lo porta, nel 1871, a deporre la veste talare. Dal 1853 si dedica totalmente all’insegnamento. Nel 1881 è all’Università di Padova come professore straordinario di storia della filosofia e vi rimane come docente fino al 1909. Gli scritti di A. sono molti e per la maggior parte nascono dall’insegnamento; essi rivelano una preparazione culturale e filosofica notevole. Le opere che hanno maggior attinenza con 98
la pedagogia sono: Lo studio della storia della filosofia (1881); Sociologia (1886); Il vero (1891); La scienza dell’educazione (1893); La ragione (1894); L’unità della coscienza (1898). Gli ultimi tre scritti costituiscono l’esposizione sistematica del positivismo ardigoiano. 2. Per A. tutta la realtà si riduce alla natura, per cui l’unica conoscenza valida è quella scientifica, che parte dal fatto come dato certo e irrefutabile. La natura e l’uomo sono soggetti alla legge dell’evoluzione, per cui la volontà umana non è più libera di quanto lo sia qualsiasi evento naturale. A. definisce la pedagogia «scienza dell’educazione» attraverso la quale «l’uomo può acquistare le attitudini di persona civile, di buon cittadino e individuo fornito di speciali abilità utili, decorose, nobilitanti». Per A. l’educazione è formazione di abitudini acquisite attraverso fattori ambientali e attraverso un processo che si svolge in quattro momenti: «I. attività, II. Esercizio, III. abitudine, IV. educazione, poiché non vi ha educazione se non formata l’abitudine, né l’abitudine senza l’esercizio, e questo suppone l’attività». L’educazione è dunque l’ultimo anello di una serie di stimolazioni che producono attività che a sua volta, ripetuta con l’esercizio, conduce all’abitudine. I fattori esterni all’educando e che agiscono su di lui per condurlo all’acquisizione delle abitudini sono la → società, la famiglia, gli educatori di professione, le maestranze professionali, le istituzioni speciali. Nell’insegnamento sono privilegiate le materie scientifiche e per quanto riguarda il metodo didattico A. privilegia il metodo intuitivo, perché è il più adatto ad eccitare l’attività cosciente del fanciullo, ma non esclude il metodo deduttivo. La teoria pedagogica di A. presenta il limite di ridurre l’educazione ad acquisizione di abitudini per cui essa diventa puro addestramento. Nonostante questo grosso limite rimane valida la sua lezione di aderenza all’esperienza spontanea del fanciullo e di organizzazione razionale del fatto educativo. Bibl.: a) Fonti: Opere Filosofiche, Padova, Draghi, 1883-1918, 11 voll.; La scienza dell’educazione, Padova/Verona, 1893. b) Studi: Flores d’a rcais G., Scienza, filosofia e pedagogia nel positivismo dell’Angiulli e dell’A., in «Rassegna
ARISTOTELE
di pedagogia» 9 (1951) 125-142; Tisato R. (Ed.), Positivismo pedagogico italiano. Angiulli, Siciliani, A., Fornelli, De Dominicis, vol. II, Torino, UTET, 1976; Pironi T., R. A., il positivismo e l’identità pedagogica del nuovo stato unitario, Bologna, CLUEB, 2000; R. A., una vita interamente dedicata alla scienza, alla scuola. Convegno di studi, Padova 21 ottobre 1999. Atti, Roma/ Padova, Antenore, 2001.
R. Lanfranchi
AREE DISCIPLINARI → Discipline
ARENAL Concepción n. a Ferrol nel 1820 - m. a Vigo nel 1893, penalista, sociologa e educatrice spagnola. 1. L’infanzia di A. viene segnata da una esperienza dolorosa: il padre, imprigionato per le sue idee liberali, muore in esilio quando ella ha 9 anni. Dopo la morte della madre (1841), sembra che abbia seguito alcuni corsi all’università di Madrid. La prematura morte del marito (1857) costituisce un duro colpo. Dopo un periodo di riflessione e studio, A. inizia una tappa decisiva con nuovo interesse per i problemi benefico-sociali. Scritti più noti: La beneficencia, la filantropía y la caridad (1860), El visitador del pobre (1865). Nominata ispettrice delle carceri femminili, prende coscienza della situazione negativa e si occupa sempre più dell’educazione dei settori più emarginati (donne, operai, carcerati, bambini, mendicanti): La instrucción del pueblo (1878), La instrucción del obrero (1892), La educación de la mujer (1892), La instrucción del preso (1893). 2. In queste opere, A. difende il diritto-dovere del popolo all’educazione. Contro chi teme i «pericoli del sapere», afferma che la «verità è buona e utile in assoluto» e che la stessa questione sociale è una questione di educazione. Con speciale forza rivendica l’educazione femminile: «tutte le ragioni che esistono per istruire i ragazzi e i giovani, esistono per estendere l’istruzione alle ragazze e alle giovani». Per i carcerati, in gran parte analfabeti, propone un programma «il più completo possibile»: istruzione morale e religiosa, lettura, aritmetica, scienze naturali,
geometria, musica, disegno, pratica dei mestieri. Recentemente è stato giustamente rivalutato il contributo di A. in questi settori. Bibl.: A.C., Obras completas; estudio preliminar y edición de C. Díaz Castañón, Madrid, [s.e.], 1993-[1994], 2 voll.; Tarifa Guillén A., La promoción humana de la mujer en C.A., Salamanca, Universidad Pontificia, 1983; P rellezo J. M., «A., C.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, Brescia, La Scuola, 1989, 831-833; Centro de Educación Comparada de M adrid, Educación y marginación social. Homenaje a C.A. en su centenario; edición a cargo de J. Ruiz Berrio, Madrid, 1994.
J. M. Prellezo
ARISTOTELE n. a Stagira nel 384/383 a.C. - m. a Calcide nel 322 a.C. Filosofo, scienziato, figlio di Nicomaco, medico alla corte macedone, alla scuola di → Platone dal 367/6 al 347 (morte del Maestro), ben presto con un’attività letteraria e di ricerca autonoma. All’inizio del secondo soggiorno ad Atene (334ss.) vi fonda il Liceo, dove insegna, ricerca, rivede corsi tenuti ad Asso e a Mitilene e ne redige nuovi fondamentali; nel 323 abbandona Atene non più sicura dopo la morte di Alessandro Magno. 1. A. non ha scritto trattati sull’educazione, ma si è occupato esplicitamente di essa all’interno del discorso morale e politico, intrinsecamente «pedagogico», in particolare nell’Etica a Nicomaco e nella Politica. Tra i più impegnati e sistematici interpreti della pedagogia di A. si segnalano: O. Willmann (A. als Pädagog und Didaktiker, Berlin, 1909); M. Defournoy (Aristote et l’éducation, in «Annales de l’Institut Supérieur de Philosophie de Louvain», 4,1920,1-176 e Aristote. Études sur la «Politique», Paris, 1932); E. Fink (Metaphysik der Erziehung im Weltverstandnis von Plato und A.s, Frankfurt a.M., 1970). Il primo sottolinea l’aspetto etico del pensiero pedagogico di A., mentre Defournoy accentua quello politico. Nella sua ricostruzione storico-critica E. Fink mette in luce il carattere razionale della concezione educativa aristotelica, dimostrandola solida99
ARISTOTELE
le con l’ontologia, l’antropologia, l’etica e la politica. Una visione della «paideia» aristotelica – intesa come pedagogia e come prassi educativa – inserita all’interno dell’intero sistema è presentata e documentata in un volume antologico di fonti da E. Braun (A.s und die Paideia, Paderborn, 1974). Una compendiosa esposizione del programma educativo di A. si trova nel lavoro di I. Düring (A.s. Darstellung und Interpretation seines Denkens, Heidelberg, 1966; ediz. it. aggiornata, Milano, 1976), che ne evidenzia i fondamenti e i significati etico-politici e l’attenzione alle condizioni storiche. 2. Tutte le espressioni del pensiero filosofico e scientifico di A. fanno capo ai concetti fondamentali di forma e di sostanza, del movimento come transizione dalla potenza all’atto e di causa finale. La sua visione dell’universo, esistente ab aeterno, si presenta, quindi, fortemente unitaria. Dio e i corpi celesti, gli uomini, gli animali e gli esseri inanimati hanno un posto ben preciso, con la perfezione propria, in una scala gerarchica onnicomprensiva, nella quale gli esseri superiori attraggono finalisticamente quelli inferiori. Ciò vale anzitutto per il primo motore immobile (pensiero del pensiero), che muove in quanto oggetto di desiderio e di amore i corpi celesti, a loro volta causa efficiente del moto nel mondo sublunare. Per la sua particolare natura l’uomo occupa un posto singolare nell’universo: dotato di ragione è prossimo al divino, mentre è insieme partecipe sostanzialmente del mondo dell’animalità. La sua anima è la forma di un tutto composito la cui materia è il corpo. Essa è principio di tutte le funzioni vitali legate alla corporeità, che accomunano l’uomo agli altri animali: nutrizione e riproduzione, sensazione, desiderio, locomozione, fantasia; ma è soprattutto sede di quella funzione che caratterizza e specifica l’uomo, il pensiero, la cui attività, indipendente dal corpo, le consente di accogliere in sé l’immateriale «forma intelligibile» delle cose. 3. Il pensiero mette l’uomo in rapporto connaturale con l’intelligibile, il divino, e trova nella ricerca (la filosofia) e nel possesso intellettuale di esso (la sapienza, la contemplazione) la più alta espressione di vita. Inoltre, esso ne fa un essere capace di scelte autono100
me, libere, responsabili, valutabili secondo criteri di bontà o di malvagità morale. Infatti se per tutte le cose «il bene è quello a cui tendono» (EN I 1,1094 a 2), cioè la compiutezza e la perfezione conseguente alla propria «forma» (EN I 6, 1097 b 22), anche per l’uomo esiste un fine e un bene. Egli è dunque chiamato a non rimanere inerte (argós), ma a compiere l’opera propria secondo la sua natura intellettuale (EN I 6,1097 b 22-34). In questo consiste la riuscita della sua vita, la felicità (l’eudaimonía): «Tutti sono d’accordo nel pensare che “vivere bene” e “riuscire bene” equivalga all’“essere felici”» (EN I 2,1095 a 14-20). In questo contesto speculativo si radica l’etica umanistica aristotelica, che non identifica la bontà dell’agire morale nell’obbedienza a una legge, umana o trascendente, ma nella realizzazione di ciò che è il fine dell’uomo, il suo bene, in quanto singolo, portatore della forma «umanità». L’etica aristotelica non è morale della «norma», della «legge», del «dovere», ma della «felicità» e della «virtù». 4. Essa è perciò etica eminentemente pedagogica. In concreto, per l’uomo, che è biologia, sensibilità e intelletto, tendenza (appetito) e conoscenza, capacità di azione e di contemplazione, la vita ideale dovrebbe riunire in sintesi gerarchica le tre fondamentali esigenze della sua natura: il piacere, l’operosità etico-politica, la contemplazione (EN I 15,1095 b 16-18; I 9,1099 a 24-25; VII 14, 1153 b 17-18 e 1154 a 16-18). Non, però, in forma puramente puntuale e frammentaria. Perché la compiutezza, la felicità, sia la qualità della vita, la bontà dell’uomo non risiede nella sola bontà dei singoli atti: le attività specifiche devono procedere da capacità consolidate, le virtù, abiti operativi delle varie differenziate facoltà dell’anima, appetitiva, volitiva, conoscitiva: «una sola rondine non fa primavera né un sol giorno; così neppure un solo giorno né un breve tratto di tempo fa l’uomo felice e beato» (EN I 6,1098 a 19-20). «La virtù dell’uomo sarà un abito che fa buono l’uomo e capace di portare a compimento la sua opera propria» (EN II 5,1106 a 22-24). Di esse la più alta in assoluto è la virtù dell’intelletto teoretico-contemplativo, la sapienza (sophía). La più elevata nell’ordine intellettivo-pratico, invece, è la prudenza (phrónesis), l’abito delle decisioni
ARISTOTELE
razionali commisurate al «giusto momento», il «kairós», virtù guida del retto agire eticopolitico (EN II 3, 1104 b 24-26; 6, 1106 b 36-1107 a 2). Essa è la misura intellettuale pratica (l’orthós lógos) dell’esercizio delle virtù etiche, che garantiscono la rettitudine degli appetiti, razionale il convivere mediante la giustizia, razionale il concupiscibile la temperanza, razionale mediante la fortezza l’irascibile: «non è possibile essere propriamente buono senza la prudenza né prudente senza virtù morale [...] non ci sarebbe decisione retta né senza la prudenza né senza la virtù, poiché questa ci fa attingere il fine e quella i mezzi al fine» (EN VI 13,1144 30 e 1145 a 5). Distinte tra loro le virtù, è anche distinto il rispettivo processo pedagogico di acquisizione e di crescita: «Essendo la virtù di due specie, l’una dianoetica, e l’altra etica, la virtù dianoetica per massima parte si genera e accresce mediante l’insegnamento (didaskalía) e, perciò, ha bisogno di esperienza e di tempo; invece la virtù etica (ethos) è frutto dell’abitudine (ethos), per cui da questa ha preso il nome, leggermente modificato» (EN II 1,1103 a 14-17). 5. Indissolubile è per A. il legame tra vita morale e vita politica. L’uomo, per natura animale sociale, può realizzare il suo fine soltanto in una comunità «amicale»: nella famiglia, nel villaggio e, pienamente, nella città-stato, la pólis. Tale legame caratterizza anche il programma pedagogico, che sintetizza ascendenze platoniche, storia greca (il «prudente» Pericle è il suo modello di uomo politico e «educatore») e marcate personali elaborazioni realistiche. Uomo buono equivale a buon cittadino, le virtù dell’uomo buono sono anche le virtù del buon cittadino. La costituzione è diretta a far buoni i cittadini anche se non tutti necessariamente lo diventano; la città, comunque, sussiste in forza di uomini buoni. Per questo è compito della città di legiferare sull’educazione, per una formazione uniforme dei cittadini alla ricerca del bene comune, che è la «scholé» (l’otium) e la «pace» (Pol. VII 14,1334 a). Ciò non significa che la città abbia il monopolio dell’educazione, che nella prima infanzia in particolare deve essere ufficio della famiglia. L’educazione è fondata su tre elementi: le disposizioni naturali, l’abitudine acquisita con l’esercizio, la ragione mediante l’insegnamento. «Per essere buoni si deve
essere educati convenientemente e prendere buone abitudini, continuando poi a trascorrere la vita in occupazioni oneste» (EN X 9, 1180 a 14-16); «gli abiti derivano dalle attività che sono simili ad essi. Perciò bisogna che le attività che noi esercitiamo siano dotate di una certa qualità, poiché gli abiti morali corrispondono alle differenti qualità di queste attività. Non è, dunque, di poca importanza che fin da giovani si sia abituati in un modo oppure in un altro; è, al contrario, supremamente importante o, piuttosto, è tutto lì» (EN I 2,1103 b 23-25). Secondo la gerarchia delle parti dell’anima l’educazione si svolge per gradi successivi: precede la cura del corpo, segue quella degli appetiti per culminare nella formazione della ragione e del pensiero che sono il fine della natura (Pol. VII 15,1333 b 6-28). 6. Sia l’Etica a Nicomaco che la Politica offrono copiose indicazioni sulla crescita nei vari settori. Vi sono comprese le condizioni per il benessere fisico: igiene, ginnastica e sport; e la cultura necessaria a un’autentica «scholé» od otium: la grammatica o le lettere, la ginnastica con le attività sportive, la musica inclusiva del canto e della poesia, il disegno (Pol. VIII 3, 1337 b). Attente analisi sono dedicate alle virtù etiche: il coraggio, la temperanza, la liberalità, la magnificenza, la magnanimità, l’onorabilità, la pacatezza, l’amabilità, la veracità, la gaiezza, il pudore, la giustizia, l’equità (EN III 5-V 10, 1115 a 4-1138 b 17), la continenza (EN VII 1-10, 1145 a 15-1154 b 34). Di approfondita considerazione sono oggetto, infine, le più alte virtù intellettuali: la prudenza individuale e politica (EN VI 1-13, 1138 b 18-13-1145 a 14) e la sapienza (EN X 6-10, 1176 a 30-1181 b 23). È un ideale aristocratico di formazione di uomini «liberi», in grado di «operare rettamente e fruire nobilmente della scholé» (Pol. VIII 3,1337 b 32); ne sono esclusi quelli che non godono dei diritti del «cittadino» (anzitutto gli schiavi) e i nullatenenti; tra i cittadini, poi, di fatto non ne può avvantaggiarsi con pienezza la maggioranza («i molti») addetta a onerosi lavori manuali e deputata ad assicurare la sussistenza a sé e ai veramente «liberi»; tra questi, poi, un’esigua minoranza potrà dedicarsi alla massima espressione della «scholé», le attività del pensiero, la «filosofia», la vita contemplativa. 101
ARTI LIBERALI
7. Quanto all’educazione fisica e culturale A. traccia un programma – rimasto incompiuto – che dovrebbe essere seguito da tutti, in famiglia nei primi sette anni (Pol. VII 17, 1336 a 3-1137 a 7) e in comune nei due settenni successivi (Pol. VIII 1-7, 1137 a 11-1342 b 34). Data l’importanza di buone disposizioni naturali sono decisive per A. le attenzioni prestate alla sanità dei matrimoni (Pol. VII 16, 1334 b 29-1336 a 2). Per la prima infanzia il filosofo attira l’attenzione sull’alimentazione, l’abitudine al freddo, il movimento e il gioco, gli effetti benefici del pianto e delle grida (Pol. VII 17, 1336 a 3-29), la preservazione da tutto ciò che è indecente e cattivo (Pol. VII 17, 1336 a 30-b 35). Per i due settenni successivi lo stagirita ripropone il programma della tradizione greca, arricchito dal disegno entrato recentemente nella cultura ellenistica: grammatica, ginnastica, musica, disegno (Pol. VIII 2, 1337 b 24-28). Nel libro VIII della Politica, incompiuto, trovano posto soltanto la ginnastica e la musica, trattate però con marcata sottolineatura eticopedagogica. A. non traccia un programma di educazione femminile, ma l’elevata visione che ha del matrimonio e della famiglia e del ruolo che la donna svolge nelle dinamiche dell’amicizia coniugale e parentale suppone in essa qualità umane ed etiche di alto profilo non puramente casuali (cfr. EN VIII, 10-12, 1160 b 22 - 1162 a 33). 8. Dalle opere di A., si possono ricavare molteplici notazioni che confermano l’immagine di una concezione educativa esigente sia riguardo alla fanciullezza, vista soprattutto nelle sue carenze, sia a proposito dell’adolescenza sottoposta a una disciplina volta a contenerne le esuberanze e ad avviarla a una maturità adulta, eticamente e politicamente responsabile. La Retorica e la Generazione degli animali aggiungono osservazioni sulle caratteristiche psicologiche dei giovani (Ret. II 12, 1389 a 1-b 12) e sullo sviluppo biologico nella fase della pubertà di ragazzi e ragazze (De gen. an. VII 1, 581 a 12-b 21), che avranno ampia risonanza nei millenni successivi. Bibl.: Aubenque P., La prudence chez Aristote, Paris, PUF, 1963; Braido P., Paideia aristotelica, Roma, LAS, 1967; Braun E. (Ed.), A.s und die Paideia, Paderborn, Schöningh, 1974; Lloyd G.
102
E. R., A.: Sviluppo e struttura del suo pensiero, Bologna, Il Mulino, 1985; Berti E., Le ragioni di A., Roma/Bari, Laterza, 1989; Verbeke G., Moral education in Aristotle, Washington, D. C., The Catholic University of America Press, 1990; Naval Durán M. C., Educación, retórica y poética. Tratado de la educación en Aristóteles, Pamplona, EUNSA, 1992; Lombard J., Aristote. Politique et éducation, Paris, L’Harmattan, 1994; Curren R. R., Aristotle on the necessity of public education, Lanham, MD, Rowman & Littlefield, 2000.
P. Braido
ARTE → Educazione artistica
ARTI LIBERALI Le discipline letterarie e scientifiche, che durante il → Medioevo costituivano l’insegnamento propedeutico alla filosofia ed alla teologia erano chiamate a.l. (artes liberales). Questa sintesi enciclopedica di scienze si era affermata già nell’età ellenistica (come enkyklios paidéia). Alla fine del II sec. a.C. passa a Roma e si sviluppa nel periodo imperiale. 1. L’espressione artes liberales compare già in → Seneca (Ep. ad Lucilium) e come tali sono descritte accuratamente da Marziano Capella (De nuptiis Mercurii et philologiae). Per → Agostino ed Alcuino esse dovevano preparare l’uomo alla scienza della religione (De doctrina christiana, IV; De ordine II, 430; De musica). Il nome latino deriva dal greco (eleuthéroi téchnai) e designa le arti degne di un uomo libero in contrapposizione a quelle utilitarie e meccaniche (bánausoi). Questa distinzione che troviamo già in → Platone (De re publica 405a; 522a) e in → Aristotele (Politica VIII, 2) viene ripresa da → Cicerone (De officiis I, 42; De oratore III, 32,126) che per le due classi di discipline usa i termini di liberales, ingenuae, honestae, o sordidae, inhonestae. Anche → Quintiliano le elenca (1,10). 2. Le discipline delle a.l. erano divise in due gruppi: trivio e quadrivio: grammatica, retorica, dialettica; aritmetica, geometria, astronomia e musica. Come si rileva facilmente, le discipline del Trivio raggruppano l’orien-
ASCESI
tamento letterario-filosofìco-umanistico; quelle del Quadrivio l’indirizzo scientifico degli studi. Fu → Cassiodoro (De institutione divinarum litterarum e De artibus et disciplinis liberalium litterarum) a fissare maggiormente, dopo Boezio, il programma pedagogico contenuto nelle sette a.l., e così questa «enciclopedia» divenne la corsia preferenziale della ratio studiorum medievale propedeutica alla cultura filosofica, teologica, scientifica (→ Isidoro di Siviglia, Beda, Egberto, Alcuino). L’insegnamento del Trivio e Quadrivio durante tutto il Medioevo svolse una funzione, anche se modesta, di indubbia importanza per conservare e diffondere il patrimonio del pensiero e della cultura classica. Dopo il sec. XIII il trionfo dell’aristotelismo sviluppò una classificazione più ampia ed esatta delle scienze: questo portò alla graduale svalutazione ed obliterazione del Trivio e del Quadrivio. 3. Presso i Romani e nel Medioevo nell’insegnamento del Trivio la grammatica aveva per compito principale lo studio delle parti del discorso, basato sulla autorità degli antichi scrittori (classici): si articolava nella lectio (lettura del testo), nell’emendatio (commento letterale e letterario), nell’enarratio (critica del testo), nel iudicium (sintesi). Durante il Medioevo la grammatica abbracciava anche lo studio dei grammatici antichi e recenti (Elio Donato, Prisciano). La retorica presso i Romani ebbe primaria importanza: il suo fine supremo era formare il vir eloquentissimus. Comprendeva una parte teorica (generi di eloquenza: deliberativa, giudiziale, epidittica e le sue parti: inventio, dispositio, elocutio) ed una parte pratica: frequenti e svariati erano gli esercizi. Nel Medioevo la retorica non ha primaria importanza. La dialettica ebbe invece un predominio nella cultura medievale, perché tendeva ad identificarsi con la stessa filosofia di cui era la necessaria propedeutica. Le discipline del Quadrivio registrarono un minore sviluppo, perché riguardavano una preparazione scientifica ed una tecnica più specializzata: maggiormente studiate furono la geometria e l’astronomia piuttosto che l’aritmetica e la musica (da non intendersi però solo come studio dell’arte musicale). Bibl.: M arrou H. I., St. Angustin et la fin de la culture antique, Paris, Boccard, 1958; Wagner
D. L. (Ed.), The seven liberal arts in the middle ages, Bloomington, Indiana University Press, 1983; Hadot I., Arts libéraux et philosophie dans la pensée antique, Paris, Etudes Augustiniennes, 1984; Dotto G., «Artes liberales», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 896-901.
S. Felici
ASCESI Questo termine, sconosciuto alla → Bibbia ma familiare alla letteratura cristiana, fu adottato fin dall’inizio del III sec. e divenne termine tecnico del linguaggio teologicospirituale. Askein in gr. (sostantivo askesis e verbo askéo) significa esercitarsi, allenarsi sia nel campo dell’esercizio fisico sia in quello della riflessione. Tenendo presente il significato etimologico, l’a., in quanto termine teologico, sottolinea impegno, costante e metodico, dell’uomo per ottenere un risultato etico e spirituale positivo. La terminologia religiosa cristiana chiama a. il cammino, sia personale che comunitario, che orienta l’uomo verso la progressiva integrazione della propria personalità e la favorisce nella comunione con Dio. 1. Dalla storia della spiritualità cristiana è facilmente ricordata l’a. mortificativa corporea, motivata sia dall’esperienza della concupiscenza della carne, sia dal disprezzo platonico del corpo. Si deve dire che, avendo come scopo la preparazione dell’uomo alla comunione con Dio, l’a. cristiana non si limita solo al corpo, ma coinvolge anzitutto lo spirito e la volontà e si riferisce agli sforzi di chi si esercita con atti interiori di volontà senza trascurare quelli esteriori: rinunce e sacrifici, per acquisire controllo, fermezza, dominio della stessa volontà (carattere). Le motivazioni a favore dell’a. cristiana non sono di natura narcisistica o masochista. Per ispirare comportamenti e impegni di sacrificio e generosità, l’a. non immiserisce l’uomo, pretendendo da lui rinunce irrazionali. Fondata sulla fede, la quale esige intensità ed espansione dell’essere, l’a. risulta provenire piuttosto dalla natura stessa della vita umana che impone un costante esercizio di dedizione e di autocontrollo. 103
ASIA: SISTEMI FORMATIVI
2. Da qui risulta anche la sua valenza pedagogica. L’educazione umana aiuta l’uomo, in particolare il giovane, a prendere posizione, in modo graduale, consapevole e responsabile, sia di fronte alle grandi sfide, sia, anzitutto, di fronte alle esigenze quotidiane della vita. Di fatto, il cammino di crescita umana, che mira attraverso l’educazione a un’autentica dedizione di amore, aiuterà a non sorvolare sulle continue occasioni di a. Inoltre, è da dire che la → maturità umana, e ciò vale anche per la maturità cristiana, non avviene automaticamente, in proporzione al crescere dell’età. Essa avviene in corrispondenza all’impegno e allo spirito con cui il soggetto vive la propria vita. Questa motivazione dell’a. trova il suo più completo significato nelle parole di Cristo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23). 3. Un’ulteriore motivazione dell’a. proviene dalle esigenze personali dell’uomo stesso. Un cammino ascetico impegnato e illuminato aiuta la purificazione dei sensi e dello spirito e senza di esso non si può cogliere il vero significato del mondo, del proprio dovere, di se stessi e neppure della Parola di Dio. L’a. non è altro che il modo cristiano di vivere un’esistenza umana conferita da Dio. Essa avviene sotto la guida dello Spirito santo dato «per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato» (1 Cor 2,12). Essendo l’a. orientata sempre alla fede, anche l’esercizio ascetico è orientato a questa fede. Aver fede significa rinunciare a salvarsi da se stessi (fosse pure ricorrendo alla mortificazione o al sacrificio della propria esistenza), poiché la croce di Cristo è l’unica salvezza; è vivere abbandonati alla misericordia divina nel Cristo crocefisso (Rm 1,16). Più che un aspetto negativo della vita cristiana, l’a. assume il carattere di un compito e va collocata tra i mezzi per lo sviluppo spirituale dell’uomo: la vita spirituale alimentata dall’azione di Dio. 4. Vista la finalità dell’a., non la si deve considerare in astratto, ma nel contesto del concreto itinerario spirituale che ogni uomo credente intraprende. Convertendosi dal peccato e aprendosi alla → vita, l’uomo, disposto a collaborare per la propria crescita spirituale, viene coinvolto nella dinamica di chi è rispettivamente «principiante, profi104
ciente, perfetto». Nell’ambito della spiritualità cristiana, l’a., prima di tutto, è legata alla → conversione (metànoia) per cui il battesimo costituisce un avvenimento fondamentale: un orientamento esistenziale al Dio trinitario. Perciò la conversione, graduale e costante, a Dio e agli uomini, per liberarsi dal dominio della concupiscenza e del peccato e per diventare liberi, costituisce il contenuto e il fine dell’a. Bibl.: De Guibert J. et al., «Ascèse, ascétisme», in Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique. Doctrine et Histoire, Tome I, Paris, Beauchesne, 1937, 936-1010; Gismondi G., A. e incarnazione. Le nuove vie dell’impegno cristiano nella vita di oggi, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1989; Viller M. - K. R ahner, Ascetica e mistica nella Patristica. Un compendio della spiritualità cristiana antica, Brescia, Queriniana, 1991; R iva F., A., mondo e società. Monachesimo e cultura contemporanea, Seregno (MI), Abbazia San Benedetto, 2003; Angelini G. et al., A. e figura cristiana dell’agire, Milano, Glossa, 2005.
J. Struś
ASIA: sistemi formativi Secondo un’antica tradizione A. deriva dal termine semitico Asu che significa Oriente. È il continente più vasto della Terra e culla delle principali religioni: → Ebraismo, → Induismo (o Brahmanesimo), → Buddhismo, → Cristianesimo, → Islamismo; senza dimenticare il Confucianesimo (→ Confucio) della Cina, lo → Shintoismo del Giappone e fenomeni religiosi già presenti nella preistoria come lo Sciamanismo di Siberia e Mongolia. Se si accetta la tesi secondo la quale ad ogni religione corrisponde una educazione, ne segue che in A. troviamo, sin dall’antichità, specifici ideali educativi che possono essere spiegati partendo dalla base etica presente nella spiritualità di riferimento. Per secoli l’A. ha insegnato all’Europa l’arte del vivere, di coniugare poli opposti, mantenendone l’individualità, e pur nelle sue attuali ristrettezze economiche continua a rivendicare le proprie tradizioni culturali di pensiero ed azione. 1. Storia recente. Dalla seconda guerra mondiale, il progressivo ritiro della colonizzazio-
ASIA: SISTEMI FORMATIVI
ne europea, soprattutto inglese e francese, ha posto ai governi problemi etnici, linguistici, religiosi, politici già preesistenti, ma spesso non manifestati apertamente. La mentalità imperialista e quella umanitaria si sono scontrate ed amalgamate, provocando confusioni ancora non pienamente svelate. La questione della nascita dei nuovi Stati, dopo le varie dominazioni straniere, non si può considerare risolta. Le guerre civili nel Sud-est asiatico, il destino dei tanti rifugiati che passano da un Paese all’altro, al limite della speranza umana, gli accordi internazionali non sempre rispettati, le divisioni geografiche e ideologiche (es. Corea del Nord/Corea del Sud) indeboliscono la tenacia dei popoli e la credibilità dei Governi. Economicamente ci sono Paesi (es. Afghanistan, Bangladesh, Bhutan, Cambogia o Kampuchea, Laos, Nepal) che vivono in condizioni di estrema povertà e dove la crescita demografica è preoccupante. La dipendenza dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale non risolve i problemi di crescita e di sviluppo, né questi aiuti possono essere considerati risolutivi. La questione si sposta sull’educazione che gioca il ruolo prioritario in termini di crescita individuale e collettiva. 2. Vecchio e nuovo analfabetismo. Le statistiche Unesco 1993 registrano percentuali di analfabetismo adulto in A. particolarmente elevate in alcuni Paesi come il Pakistan (74,3%: 1981), mentre le stime del 1990 collocano in sequenza percentuale decrescente l’analfabetismo adulto in Nepal (74,4%), Afghanistan (70,6%), Pakistan (65,2% ). In paragone risultano basse le percentuali di analfabetismo adulto in Stati come: l’Armenia (1,2%: 1989), l’Azerbaijan (2,7%: 1989), la Georgia (1,0%: 1989), il Kazakistan (2,5%: 1989), il Tajikistan (2,3%: 1989). Per le donne e per chi abita nelle aree rurali l’accesso all’istruzione è più difficile. I bambini si recano a scuola quando e dove possono. Negli Stati di Bahrein e Bhutan manca l’istruzione dell’obbligo, in Israele questa dura 11 anni e i bambini entrano nella prescuola a 2 anni di età. Accanto a Taiwan che discute sull’elevamento dell’obbligo ai 18 anni di età, comparatisti in educazione parlano di isolamento dove l’innovazione disciplinare non segue il ritmo dei Paesi economicamente più sviluppati. Di rilievo è l’opera svolta dalla Southe-
ast Asian Ministers of Education Organization (SEAMEO) (fondata nel 1970 con sede a Quezon City nelle Filippine) che agisce a livello regionale e si occupa dell’innovazione educativa, soprattutto tecnologica. In tale contesto, 1’ → educazione degli adulti assume per lo più la forma dell’alfabetizzazione tradizionale, e solo in qualche caso, quando questa è per lo più superata, si possono intravedere offerte culturali più ampie. L’ → insegnamento a distanza che funziona nelle università del Pakistan e dello Sri Lanka riprende il modello ingl. della Open University. La dipendenza culturale dai maggiori sistemi educativi dell’ → Europa e in particolare di quella orientale precedentemente a governo comunista, si nota non solo nella riproposizione dei curricoli scolastici, ma anche nell’emigrazione degli studenti asiatici che frequentano le università soprattutto di Paesi come Regno Unito e Russia. In Italia, secondo i dati ISTAT, gli studenti universitari asiatici (4.296 unità nel 1991-92), rispetto al totale degli studenti universitari stranieri (20.478 unità nel 1991-92), sono in diminuzione: dal 28,8% del 1989-90 sono scesi al 22,8% nel 1990-91 e al 21% nel 1991-92. La facoltà di Medicina e Chirurgia raccoglie il maggior numero di iscrizioni. Persiste il rischio della sopravvalutazione dei servizi offerti dai Paesi in questo senso più progrediti e della parallela sottovalutazione della → cultura di origine. Quest’ultima viene invece ripresa dall’Occidente in considerazione delle lezioni di spiritualità indiana (→ Ramakrishna e → Vivekananda), della produzione letteraria di → Tagore, dell’insegnamento di → Gandhi improntato alla non violenza, delle moderne versioni di educazione attraverso gli esercizi → yoga e la meditazione. 3. Educazione interculturale. In termini simili si pone la → formazione degli insegnanti per la quale esiste un certo scambio tra Brunei, Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia, vale a dire tra i Paesi membri dell’ASEAN, o Association of South East Asian Nations (fondata a Bangkok nel 1967) che ha lo scopo di accelerare il progresso economico e di aumentare la stabilità della Regione del Sud-est asiatico. Le tensioni etniche rimandano a progetti sociali e realizzazioni scolastiche di → educazione interculturale ancora in via di definizione anche 105
ASILO NIDO
in Stati come il Giappone che rappresenta la postmodernizzazione avanzata in A. Dal punto di vista della politica dell’educazione, mancano in diversi contesti: la visione complessiva dello stato interno dell’istruzione; gli interventi programmati; la precisazione degli obiettivi e la verifica del grado di attuazione dei medesimi. Ciò può essere attribuito a vari fattori: alla necessità di soddisfare i bisogni primari come l’alimentazione; al divario tra città e campagna; alla mentalità ancorata a principi di vita secolari. Bibl.: Nguyen V. H. - T. N. Nguyen, Education, Hanoi, Foreign Languages Pub. House, 1983; Perera D. A., «Sri Lanka: system of education», in T. Husén - T. N. Postlethwaite (Edd.), The International encyclopedia of education. Research and studies, Oxford, Pergamon, 1985, 4778-4782; Yee A. H., Cross-cultural perspectives on higher education in East A.: psychological effects upon Asian students, in «Journal of Multilingual and Multicultural Development» 10 (1989) 3, 213-232; Chistolini S., La struttura dell’istruzione in Giappone, in «I Problemi della Pedagogia» 40 (1994) 5-6, 505-528; Id., Atlante della pedagogia. I luoghi: Efta Canada Usa Cmea, vol. 3, t. 2, Napoli, Tecnodid, 1994; Naila K. - G. B. Nambissan - R. Subrahmanian (Edd.), Child labour and the right to education in South A.: needs versus rights?, New Delhi, Sage, 2003.
S. Chistolini
ASILO INFANTILE → Scuola dell’infanzia
Asilo Nido Istituzione educativa che accoglie i bambini dai sei mesi ai tre anni di età. 1. Gli a.n., sorti nella prima metà dell’Ottocento, ebbero inizialmente un carattere assistenziale e furono espressione della beneficenza religiosa e laica nei confronti delle classi sociali meno abbienti. Nella prima metà del secolo scorso hanno assunto un carattere igienico-sanitario e pediatrico, e successivamente si sono configurati come servizi sociali territoriali, aperti a tutti i bambini. 2. A partire dagli anni ’70 del Novecento gli a.n. sono diventati oggetto di studio delle 106
scienze pedagogiche e dell’educazione, che hanno richiamato l’attenzione sulle potenzialità educative e quindi apprenditive dei bambini e sul loro diritto di coltivarle, in un ambiente intenzionalmente organizzato, dove operano educatori professionisti per i quali si richiede una formazione specifica. Pertanto gli a.n. si sono affermati come istituzioni educative capaci di porre la loro azione in un rapporto di continuità con quella della famiglia e di integrarla, offrendo anche opportunità di crescita sul piano della genitorialità, e consentendo ai bambini di vivere in una gioiosa atmosfera ludica, in ambienti adeguati, per gli spazi interni ed esterni, per gli arredi e per il materiale di cui dispongono, alle loro esigenze, di effettuare esperienze che li aiutino a crescere sul piano affettivo, relazionale, sociale, intellettuale, a coltivare la creatività, a maturare gradualmente la propria identità e a rendersi a poco a poco autonomi. 3. La crescita pedagogica degli a.n. e la loro progettualità, coerente con i criteri dell’«intenzionalità» e della «flessibilità», e rivolta all’educazione «integrale» dei bambini, hanno favorito la generalizzazione della richiesta di queste istituzioni, la cui ulteriore qualificazione potrebbe essere favorita dalla disponibilità di «linee di orientamento» condivise, che potrebbero configurarsi come punto di riferimento per tutte le tipologie di servizi per l’infanzia. Bibl.: Spini S., A.n. e famiglia nell’educazione del bambino, Brescia, La Scuola, 1977; Catarsi E. - A. Fortunati, Educare al nido, Roma, Carocci, 2004; Leschiutta F. - F. Viscardi, Strutture educative da 0 a 6 anni, Roma, Gangemi, 2005; Tassinari P., Dal mondo del nido, Brescia, La Scuola, 2005.
S. S. Macchietti
ASPETTATIVA → Attese → Interesse
ASSAGIOLI Roberto n. a Venezia nel 1888 - m. ad Arezzo nel 1974, medico e psicologo, fondatore della psicosintesi. 1. Laureatosi in medicina a Firenze nel 1910,
ASSISTENZA
con una tesi sulla psicoanalisi, dopo aver contattato → C. G. Jung, si dedicò alla professione di psichiatra e agli studi di psicologia e filosofia. Nel 1911 fondò la rivista Psiche e nel 1914 diede vita all’Associazione di Studi Psicologici per liberalizzare teorie e metodi della psicologia, in contrapposizione alla Società Italiana di Psicologia. A. ha ideato la psicosintesi, orientata alla ricostruzione dell’intera personalità del paziente, grazie all’interazione corpo-psiche, oggi alla base di tutto l’orientamento psicosomatico. Usata per la cura delle malattie psicofisiche e per facilitare i processi di autoformazione, educazione e armonizzazione dei rapporti interpersonali, la psicosintesi è un metodo ideale per l’armonia interiore e per lo sviluppo e la crescita della persona. 2. Unificando in sintesi armonica i vari aspetti della personalità umana: il fisico, l’emotivo, il mentale e lo spirituale (biopsicosintesi), la psicosintesi vede l’uomo come una realtà in cui un centro di coscienza entra in relazione con una molteplicità di contenuti consci e inconsci. Inoltre, ritiene particolarmente significative le relazioni umane, poiché consentono di osservare i processi di integrazione e di armonia. Per questo si propone anche come una scienza dei rapporti umani. 3. A. propone due grandi sintesi nel processo maturativo dell’individuo: la prima, la psicosintesi personale, unifica e trasforma tutti gli elementi della personalità ordinaria intorno al vero centro dell’individuo, l’Io (la vera identità), che va scoperto e realizzato esperienzialmente e coscientemente in forma spontanea o attraverso metodi e pratiche educative, formative o terapeutiche. La seconda grande sintesi, la psicosintesi transpersonale o spirituale, integra nella personalità gli aspetti superiori della psiche, che appartengono all’inconscio superiore, ed eleva il centro della coscienza in modo da realizzare l’unione tra l’Io e il Sé operando, in questo modo, la sintesi di individuale e universale. Bibl.: A.R., Lo sviluppo transpersonale, Roma, Astrolabio, 1988; Id., Comprendere la psicosintesi. Guida alla lettura dei termini psicosintetici, Ibid., 1991; Rosselli M. (Ed.), I nuovi paradigmi della psicologia. Il cammino della psicosintesi,
Assisi, Cittadella, 1992; A.R., Psicosintesi. Per l’armonia della vita, Roma, Astrolabio, 1993; Fizzotti E. - M. Salustri, «R. A.», in Id., Psicologia della religione con antologia dei testi fondamentali, Roma, Città Nuova, 2001, 253-265.
E. Fizzotti
ASSIMILAZIONE → Apprendimento → Cultura
ASSISTENZA Prestazione di aiuto a individui, gruppi o classi che si trovano in una situazione meno agiata, debole o bisognosa a livello fisico, psichico, economico, sociale, educativo. L’a. o la beneficenza nelle diverse forme di necessità può essere di tipo privato o pubblico, individuale o collettivo. Nell’ambito pedagogico, il termine ha preso tre significati importanti: a) a. sociale; b) a. educativa; c) a. nel → sistema preventivo di don → Bosco. 1. Nel mondo antico l’a. sociale era lasciata generalmente alla generosità degli individui. Con la diffusione della religione cristiana nascono in Occidente diverse iniziative, di tipo privato o ecclesiastico, con lo scopo di prestare aiuto alle molteplici forme del disagio personale e sociale. Oltre le modalità di aiuto a carattere spontaneo e facoltativo, sorgono istituzioni (lazzaretti, ospedali, ospizi, asili) che, sotto il profilo della beneficenza, concretizzano sostegno e a. alle varie categorie di persone nel bisogno: malati, mendicanti, vagabondi, poveri, invalidi, vedove, orfani, bambini e fanciulli abbandonati, madri bisognose, giovani e adulti fisicamente o psichicamente handicappati. Con la nascita dello → Stato sociale, quasi ovunque i governi cercheranno di creare a poco a poco mediante una legislazione adeguata un sistema organico di a., riducendo a unità le innumerevoli istituzioni fiorite nel campo. Al posto della funzione privata della beneficenza religiosa o filantropica subentra generalmente la funzione sociale dell’apparato pubblico e le leggi statali restituiscono all’autorità civile quel potere che soprattutto le Chiese esercitavano sulla pubblica a. in modo diretto o indiretto. L’intervento dello Stato moderno si inserirà generalmente nelle questioni delle politiche rivolte a realizzare una maggiore uguaglian107
ASSISTENZA
za e si annoderà poco a poco ai grandi piani e programmi di sviluppo della solidarietà internazionale. 2. Nella storia occidentale l’a. educativa, in quanto cura premurosa per bambini, fanciulli e giovani dell’uno e dell’altro sesso, è stata messa in rilievo come una forma particolare di aiuto sociale. Concretamente il prestare a. alla giovane età significava sempre il procurare educazione e istruzione, l’avviare a qualche professione, arte o mestiere, o contribuire in qualsiasi altro modo al miglioramento non soltanto economico ma anche etico e religioso. Ancora oggi, senza la protezione delle nuove generazioni mediante l’a. alla maternità e all’infanzia, mediante appositi processi di educazione e di istruzioni e, dove occorre, anche mediante misure di rieducazione, il benessere economico e morale di una società non sembra mai sufficientemente garantito. In senso più specifico l’a. educativa mira soprattutto all’intervento da parte dell’educazione pubblica per assicurare un valido aiuto allo sviluppo personale là dove, per qualsiasi motivo, i primi responsabili non siano in grado di adempiere a questo compito, o lasciano gli educandi in uno stato di abbandono fisico, etico o spirituale. L’educazione pubblica dei minorenni bisognosi o abbandonati, regolata da leggi sempre più integrate nel quadro della legislazione civile, mira ormai alla eliminazione totale di ogni tipo di discriminazione e, attraverso progetti educativi individualizzati, al coinvolgimento dei soggetti nei processi di emancipazione, di collaborazione e di responsabilizzazione personale. Nella realizzazione delle diverse modalità di educazione assistenziale, l’autorità pubblica generalmente collabora con le istituzioni educative (internati, ospizi, centri di accoglienza, famiglie adottive, forme di affidamento o la stessa famiglia del giovane) allo scopo di superare i disturbi dello sviluppo che risultano da un’educazione deficitaria. L’esecuzione ragionata del progetto educativo o rieducativo suppone la presa in considerazione dei dati forniti da una diagnosi pluridimensionale (medica, psicologica, sociale, pedagogica...), nonché la realizzazione di forme di aiuto specializzato di diverso tipo, inquadrate in un clima pedagogico positivo presente nell’istituzione e nei rapporti personalizzati con operatori capaci di conquistare 108
la confidenza di fanciulli o giovani. L’a. educativa suppone ormai una apposita qualificazione del personale educativo e un accompagnamento specializzato e regolato. 3. Nel sistema educativo di don Bosco la parola a. assume un senso ancora più specifico. Come in altri tipi di educazione preventiva, anche in quella di don Bosco l’attività assistenziale in senso sociale è un tratto significativo e permanente del suo agire. A contatto con i problemi della città di Torino, soprattutto i suoi primi interventi si proiettano all’esterno verso il ricupero di ragazzi o giovani carcerati, di ex corrigendi, di «immigrati» sradicati dalla terra di origine, di giovani «poveri e abbandonati». Egli mira a cercare persone e mezzi commisurati alle loro principali urgenze: lavoro, alfabetizzazione, istruzione, formazione religiosa, cura pastorale, ricreazione, sano uso del tempo libero. Le iniziative aumentano dopo la «rivoluzione» risorgimentale del 1848, quando le «nuove libertà» richiedono nuove attività di a.: difendere, preservare, confermare, premunire, correggere, rafforzare. Oltre a ciò, l’a. in don Bosco diventa anche una modalità di educazione. In essa, pur aperta a potenziali forme di collaborazione e di limitata partecipazione da parte dei giovani, occupa il primo posto la presenza cordiale e amorevole dell’educatore. Con l’a., egli sorregge, conforta, aiuta e accompagna il giovane nelle interne vicende della sua esistenza. Per don Bosco lo stile del → rapporto educativo è vissuto secondo il principio di «farsi amare piuttosto che farsi temere». Anche se i giovani vengono assistiti con la vigilanza, l’ordine, la disciplina e la moralità, il nucleo dell’a. educativa si trova nella sua dimensione promotrice della collaborazione libera e consapevole dell’educando alla propria autocostruzione. Bibl.: Assistance et assistés de 1612 à nos jours, Paris, Bibliothèque Nationale, 1977; Braido P. (Ed.), Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, 2 voll., Roma, LAS, 1981; Monticone A. (Ed.), La storia dei poveri: pauperismo e a. nell’età moderna, Parma, Studium, 1985; Braido P., Breve storia del «sistema preventivo», Roma, LAS, 1993; Prellezo J. M., Linee pedagogiche della Società Salesiana nel periodo 1880-1922, in «Ricerche Storiche Salesiane» 23 (2004) 99-162.
J. Schepens
ASSOCIAZIONI PEDAGOGICHE
ASSISTENZA SOCIALE → Stato sociale
ASSOCIAZIONI PEDAGOGICHE Promosse e animate per lo più da pedagogisti e formate anche da insegnanti, educatori, uomini e donne di cultura, le a.p. nascono dalla volontà di valorizzare e rinforzare, nel dialogo e nella cooperazione, l’esperienza educativa e la riflessione pedagogica. Nate nell’Ottocento, in ambito nazionale e internazionale, tali a. sono venute in parte articolandosi in varie specializzazioni di tipo disciplinare. Tra l’associazionismo educativo, quello pedagogico, quello professionale dei docenti e quello sindacale si notano implicazioni, connessioni e distinzioni, talora separazioni non sempre funzionali agli scopi perseguiti. 1. Fra le a. educative, si possono ricordare, per esempio, quelle che fanno capo allo scoutismo e all’associazionismo di tipo religioso, culturale e sportivo e al volontariato; ma più specificamente si possono citare le a. di genitori come l’AGe (promossa nel 1968 a Roma, dal medico E. Rosini), l’AGeSC (A. Genitori di Scuole Cattoliche, 1977) e il CGD (Coordinamento Genitori Democratici,1976), sorte per aiutare i genitori ad essere parte attiva del sistema formativo, in particolare per ciò che concerne la scuola. Esse aderiscono all’EPA (European Parents Association, 1978). Sul piano internazionale si registrano a. sorte per iniziativa di privati o di organismi o agenzie mondiali: ad es. l’AMSE (Association Mondiale des Sciences de l’Education), le WCCES (World Council of Comparative Education Societies), l’ATEE (Association for Teacher Education in Europe), la WEF (World Education Fellowship), l’AEDE (Association Européenne des Enseignants). 2. La più antica a.p. italiana sembra essere la Società d’Istruzione e di Educazione, sorta in Piemonte nel 1849 e presieduta da V. Gioberti. Benché costituita da cittadini del Regno di Sardegna, si propose l’unione intellettuale e morale di tutti gli educatori della Penisola. Con l’unità d’Italia, nacque a Milano l’Associazione Pedagogica italiana, che diede vita
a undici congressi pedagogici, fra il 1861 e il 1880. Nel nuovo secolo, nel 1950 essa rinacque con orizzonti più vasti, aperta anche ai non docenti, con la sigla ASPeI. democratica, pluralistica, aperta a tutti gli interessati alle problematiche pedagogiche ed educative, secondo le idee del fondatore G. Calò, che ne fu presidente fino al 1970. Ha celebrato oltre venti congressi pedagogici, pubblicando talvolta gli atti. Dal 1972 pubblica un bollettino periodico. Per affrontare in modo specifico le problematiche epistemologiche e per seguire da vicino le sorti accademiche della pedagogia e delle sue articolazioni all’interno delle Facoltà universitarie, è nata la SiPed (Società Italiana di Pedagogia), con la iniziale presidenza di M. Gattullo. La prospettiva delle trasformazioni dei corsi di laurea di pedagogia della Facoltà di Magistero in corsi di Laurea di Scienze dell’educazione, con diversi indirizzi, e successivamente in Facoltà di Scienze della formazione, è stata al centro dell’impegno della SiPed, accanto ai problemi della ricerca pedagogica, nelle sue varie suddivisioni interne. Un contributo fondamentale fu dato all’istituzione della Laurea in Scienze della formazione primaria e alle scuole di specializzazione all’insegnamento medio. L’istanza di specializzazione ha ispirato la nascita di a. legate a specifiche discipline: CIRSE (Centro Italiano di Ricerca Storico-Educativa), la SICESE (Sezione Italiana della Comparative Education Society), la SIRD (Società Italiana di Ricerca Didattica)…Va segnalata anche Scholè, Centro di studi pedagogici fra docenti universitari d’ispirazione cristiana, nata nel 1954 per iniziativa di → Nosengo, Agazzi, Stefanini, per affrontare problematiche educative e pedagogiche, di cui si dà notizia nei volumi di atti, pubblicati in apposita collana dall’editrice La Scuola di Brescia. Generosa verso tutte le specializzazioni interne, come verso le confinanti scienze umane e sociali, la pedagogia definitasi generale rischia di smarrire le sue ragioni di disciplina madre e del ruolo strategico di fondazione, di promozione e di sintesi che dovrebbe caratterizzarla, superando le appartenenze di tipo ideologico. 3. Le a.p. d’insegnanti si caratterizzano sia per la difesa degli interessi di categoria (differenziandosi però ad un certo punto 109
ASSOCIAZIONI PEDAGOGICHE
dai sindacati), sia per un impegno di formazione e di aggiornamento professionale, sia infine per la volontà di concorrere alla modifica degli ordinamenti attraverso la ricerca e l’espressione di istanze di ordine generale, sociale e pedagogico, e non di interessi corporativi. Di recente sono nate anche a. di direttori didattici, presidi, ispettori, divenuti «dirigenti», come l’ANP (A. nazionale presidi, che è anche sindacato), l’ANDIS (A. nazionale dirigenti scolastici, 1988) e la DISAL (Dirigenti scuole autonome e libere). Le a. professionali di insegnanti si possono storicamente distinguere in a. di maestri e di professori secondari, oltre quelle di docenti universitari; ad esse, definite «professionali» o «generaliste», si affiancano a. «disciplinariste», relative alle diverse discipline insegnate. All’inizio del ’900 troviamo l’Unione Magistrale Nazionale (UMN), presieduta da L. Credaro, e la Federazione Nazionale fra Insegnanti delle Scuole Medie (FNISM), presieduta da G. Kirner. L’impostazione era in complesso laica, democratica, inizialmente apartitica, con punte di anticlericalismo. Lo slogan di Credaro era: «Né servi né ribelli». Nel 1907 nacque a Milano la cattolica A. magistrale Nicolò Tommaseo. Queste a. sparirono durante il regime fascista, sostitute da una A. nazionale insegnanti fascisti. Nel 1944-1945, in vista della fine della guerra e della ricostruzione, nascono l’UCIIM, Unione cattolica italiana insegnanti medi, promossa dal Movimento laureati di Azione Cattolica, e l’AIMC, a. italiana maestri cattolici, promossa dalla Sezione maestri di Azione Cattolica, erede della «Tommaseo»; nel 1946 rinasce anche la FNISM. Dopo gli anni 1943-44 vissuti in clandestinità, su iniziativa di C. Carretto e M. Badaloni, l’AIMC tenne il 1° congresso nel settembre 1946. Si trattava di «fare della scuola una istituzione portante della rinascita italiana», ispirandosi ai principi del Vangelo e a quelli della Costituzione. Associa maestri, educatrici, direttori, ispettori. È strutturata democraticamente e radicata sul territorio, con propri organismi e luoghi d’incontro, in interazione continua fra diversi livelli associativi e con istituzioni pubbliche di tipo ecclesiale, civile, sindacale e politico. Intende la → professionalità come strumento al servizio della scuola, dell’educazione, della società civile, in dialogo con forze associative, sindacali e partitiche. Ha 110
anticipato e seguito l’innovazione scolastica e la riforma della scuola elementare, con attenzione a tutto il sistema scolastico, in particolare l’istruzione magistrale e la formazione universitaria dei docenti. Pubblica mensilmente «Il Maestro», libri raccolti in tre collane e ha un sito. L’UCIIM, nata il 18.6.1944, per iniziativa di → G. Nosengo tenne il 1°congresso nel 1947, sul tema Scuola e democrazia. La sua impostazione teologica (autonomia laicale, competenza professionale, costruzione e animazione cristiana dell’ordine temporale) avrebbe trovato pieno riscontro nelle idee del Conc. Vaticano II. Affronta problemi di spiritualità professionale, di educazione scolastica, di didattica, d’innovazione, anche a livello presindacale e prepolitico, con spirito dialogico, anzitutto a livello degli organi collegiali. Ha avuto un ruolo rilevante nella preparazione e nell’attuazione delle riforme scolastiche, con particolare riferimento alla scuola media, ai processi di partecipazione e alla stesura dei programmi della scuola secondaria, inferiore e superiore: ha promosso centinaia di convegni, collane, il mensile «La Scuola e l’Uomo», il sito e UCIIM NEWS. Aderisce al SIESC (Segretariato Internazionale degli Insegnanti Secondari Cattolici), divenuto nel 2006 FEEC Federazione europea di insegnanti cristiani. Di recente AIMC e UCIIM associano anche docenti di tutti gli ordini di scuola. La FNISM (Federazione Nazionale Insegnanti Scuola Media) è la prima a. italiana di professori, essendo nata nel 1901. Attenta agli aspetti giuridici e sindacali, ha inteso anche contribuire alla formazione di una coscienza civica, laica e democratica dei docenti. Per opera di G. Salvemini tese a presentarsi come «partito della scuola» e difese la scuola popolare statale, in frequente polemica contro la non statale. Associa ora docenti di tutti gli ordini e gradi e anche intellettuali non docenti. Pubblica l’«Eco della Scuola Nuova». Il CIDI (Centro Iniziativa Democratica degli Insegnanti) è un’a. di insegnanti di tutti gli ordini di scuola e di università. È sorta nel 1972, a partire da un nucleo romano. Ha partecipato, con rilevanti contributi, alla stesura e all’attuazione dei programmi della scuola, anche nell’ambito delle diverse commissioni ministeriali. Dedica molta attenzione ai problemi dell’insegnamento/apprendimento, con particolare
ASSOCIAZIONISMO
riguardo all’istruzione obbligatoria fino a 16 anni, a temi come l’intercultura, l’ambiente, la legalità, la salute, promuovendo gruppi di ricerca e convegni a carattere nazionale e internazionale. Pubblica il mensile «Insegnare». Il MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) trae le sue origini ed ispirazioni dall’insegnamento di → Freinet. In Italia intorno al 1950 furono costituite tre delegazioni dei CEMEA (Centri di Esercitazione Metodi Educazione Attiva). Nel 1951 fu fondata a Fano un’a. dal nome CTS (Cooperativa della Tipografia Scuola), che assunse le tecniche di Freinet. Nel 1957 prese il nome di MCE e si caratterizzò per l’impegno cooperativo, per lo spirito democratico, la didattica della individualizzazione e della socializzazione. Il movimento è oggi articolato in gruppi, a livello nazionale e locale: gruppi che s’impegnano in particolare su temi didattici come la matematica, l’informatica, l’educazione alla pace. Fa parte della FIME (Fédération Internationale des Mouvements d’École Moderne). 4. Fra le a. più recenti si trovano l’OPPI (Organizzazione per la preparazione professionale degli insegnanti 1965), DIESSE (Docenti e Scuola, 1987), ADI (A. Docenti Italiani, 1998), APEF (A. professionale europea di formazione, 2000); Legambiente Scuola e formazione (2000). Tutte queste a. sono riconosciute dal MPI come qualificate per la formazione dei docenti e fanno parte del Forum delle a. professionali di insegnanti e dirigenti (FONADDS) presso il MPI (dal 2004), con ANDIS e DISAL. Le a. cattoliche fanno parte della Consulta nazionale per la pastorale scolastica presso la CEI (UNESU, Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’Università). Nel 1999 è nata l’AIDU, a. italiana docenti universitari, d’ispirazione cattolica, che dispone di un suo sito. Bibl.: A mbrosoli L., La FNISM, Firenze, La Nuova Scuola, 1967; Sani R., Le a. degli insegnanti cattolici nel secondo dopoguerra, Brescia, La Scuola, 1990; Chiaromonte B. (Ed.), Il CIDI ha ventanni, Roma, CIDI, 1992; Corradini L., «UCIIM», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, 1485-1489; I d., «AIDU», in Ibid., 2003, 15-17; Prioreschi M., «AIMC», in Ibid., 17-18; Corradini L., Educare nella scuola nella prospettiva
dell’UCIIM, Roma, UCIIM-AIMC, Armando, 2006; Chiesa e testimonianza cristiana delle a. laicali nella scuola oggi, Atti dell’Incontro nazionale di Abano T., 1-3 dic. 2005, in CEI, Notiziario UNESU, 3, 2006; L’educazione? Una sfida da vincere insieme. Nuovi cammini, promesse, impegni, Atti del I Incontro nazionale delle aggregazioni laicali e dei soggetti operanti nell’educazione e nella scuola, Roma 11-13.5.2007, in CEI, Notiziario UNESU, 6. 2007.
L. Corradini
ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI DEGLI INSEGNANTI → Associazioni pedagogiche
ASSOCIAZIONISMO Per a. si intende il complesso delle associazioni presenti in un dato contesto. A sua volta va considerata associazione ogni collettività più o meno stabile, costituita volontariamente per perseguire uno o più scopi complementari o comuni a tutti i suoi associati. Tali scopi, poiché esorbitano dalla capacità di prestazione dei singoli, vengono perseguiti collettivamente, mediante vincoli di solidarietà fra gli associati, in maniera sistematica, attraverso forme di organizzazione democratica. 1. Sulla base di questa definizione, è possibile tracciare alcune distinzioni. L’intenzionalità e la volontarietà dell’adesione rendono l’a. diverso dalle aggregazioni di fatto (etnia, famiglia, parentela, gruppo d’età...) e dalle aggregazioni obbligatorie (esercito, corporazioni, partiti unici in regime totalitario...). L’a. va distinto anche dai sindacati, dalle cooperative e dalle organizzazioni professionali, la cui azione principale è direttamente collegata all’attività economica dei propri membri. Mentre l’a. riconosce i centri politici e culturali del potere, con i quali stabilisce rapporti di contrattazione, i movimenti sociali, attraverso azioni conflittuali, invece mettono radicalmente in discussione i modelli dominanti di utilizzazione delle principali risorse materiali e simboliche della società (Touraine, 1973). La presenza di vincoli, di un’estesa organizzazione formale e di obiettivi ufficialmente prefissati differenziano l’a. dai gruppi, più spontanei ed «espressivi», e dalle aggregazioni primarie 111
ASSOCIAZIONISMO
(Cooley, 1909). L’a. si distingue anche dalla comunità. Quest’ultima è fondata su un forte senso di appartenenza e sul coinvolgimento tendenzialmente totale dei propri membri, i quali condividono obiettivi comuni (anche se indeterminati), giudicati prioritari rispetto agli interessi individuali. L’adesione ad una comunità si fonda su dinamiche prevalentemente affettive o su motivazioni legate alla tradizione (Weber, 1922). Ma più che una collettività concreta, la comunità può costituire uno stato particolare che alcune collettività assumono per un tempo limitato (Gallino, 1978). In tal senso anche un’associazione può temporaneamente acquisire lo stato di comunità. 2. Al proprio interno l’a. si presenta alquanto variegato. Ogni sua tipologia dovrà articolarsi sulla base di alcune significative caratteristiche che, generalmente, sono le seguenti: i criteri di selezione e di reclutamento degli aderenti alle varie associazioni; gli interessi e gli scopi (iniziali o successivi, dichiarati o reali, diffusi in tutta l’associazione o concentrati in qualche suo segmento); la natura «strumentale» o «espressiva» dell’attività principale, a seconda che quest’ultima venga indirizzata rispettivamente ai non associati o agli associati (Rose, 1954; Gordon e Babchuk, 1959); la cultura, ossia le conoscenze, i valori, le credenze, i simboli, i rituali adottati e la socializzazione degli associati; la struttura, cioè la presenza più o meno estesa di organizzazione formale, di apparati permanenti; la delimitazione di ruoli specifici in base a modelli di comportamento ufficialmente approvati; il grado di partecipazione della base alle decisioni; il livello più o meno elevato di coinvolgimento personale richiesto ai partecipanti; i meccanismi preposti alla attribuzione del potere (per → carisma, cooptazione, elezione...), così come alla legittimazione ed al ricambio dei gruppi dirigenti; la comunicazione tra associazione e ambiente esterno, tra periferia e centro dell’associazione e tra i vari settori della periferia; le relazioni (di alleanza, di influenza o di competizione/conflitto) con altre associazioni o istituzioni. 3. L’a. può essere considerato una delle risposte al bisogno di socialità, cioè alla propensione degli esseri umani a stabilire relazioni sociali (v. per es. Simmel, 1908). Più in 112
particolare, secondo Rose (1954), l’a. risponderebbe ai bisogni di compagnia reciproca, di sicurezza personale e di conoscenza della realtà esterna. In quanto mediazione tra individuo e società, l’a. tende a preservare il singolo sia dall’isolamento sia dal perdersi in una massa magmatica e anonima. Sempre grazie a questa sua collocazione intermedia, l’a. facilita nel singolo associato la formazione di una maggiore consapevolezza del proprio ruolo nella società. Talvolta l’adesione attiva ad un’associazione, vissuta come un impegno creativo, gratificante, compensa altre attività (lavorative, familiari) giudicate monotone, ripetitive, frustranti. Per queste ed altre funzioni di integrazione, l’esperienza associativa può facilitare il singolo a ritrovare un senso, uno scopo da attribuire alla propria vita. Ciò aiuta a spiegare perché i soggetti con esperienze associative consolidate si rivelino più disponibili, maggiormente propensi alla «multi-appartenenza» e al «pendolarismo» fra molteplici associazioni. 4. Sono anche altre le funzioni normalmente svolte dall’a. Esso, per quanto presente in ogni società, diventa particolarmente rilevante quando nel sistema sociale, a seguito dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, si accentuano i processi di divisione del lavoro, si moltiplicano i sottosistemi ed i rapporti di interdipendenza reciproca. In questo scenario cresce anche il numero di aggregazioni a cui vengono in parte delegate alcune funzioni che in origine erano prerogativa di pochi sottosistemi, quali la chiesa, il vicinato e la famiglia. Anche l’incremento del benessere collettivo e l’avvento della «civiltà del tempo libero», svincolando il singolo da preoccupazioni primarie di sopravvivenza, consentono un ulteriore sviluppo dell’a. 5. A valorizzarne le funzioni e a facilitarne la sua diffusione è anche l’estensione delle libertà politiche e dei diritti civili. A questo proposito la sociologia statunitense, influenzata dagli studi di Tocqueville (1835) e dalla fiorente realtà associativa americana, sottolinea molto il rapporto fra democrazia e a. In particolare l’a. viene considerato una modalità attraverso cui la società civile si organizza autonomamente per bilanciare il potere centrale dello Stato (Sills, 1968). Questa funzione di bilanciamento costituisce an-
ATTEGGIAMENTO
che un rapporto di complementarità con la sfera della decisione pubblica: l’a. partecipa ai processi di comunicazione e di contrattazione tra centro politico e nodi periferici del sistema, e dunque rappresenta una forma molto articolata di decentramento del potere. La sua organizzazione interna democratica costituisce un ulteriore fattore di formazione alla democrazia, di sensibilizzazione alle esigenze collettive, di comprensione dei processi socio-politici e di partecipazione al loro controllo. 6. Alcune tendenze che caratterizzano molti altri ambiti della società contemporanea possono riguardare lo stesso a. Soprattutto se un’associazione giunge ad essere ampia e complessa, tenderà a porre un’attenzione molto accentuata verso il proprio apparato organizzativo, a scapito dei singoli partecipanti e delle finalità ufficiali dichiarate. Per la necessità di gestione e controllo di un’organizzazione così articolata e per prevenire forme di dissociazione (Gallino, 1979), diventerà preoccupazione prioritaria, funzione prevalente, anche se latente, la giustificazione del gruppo dirigente e delle sue scelte. Si accentueranno di conseguenza i meccanismi di cooptazione nella distribuzione del potere e l’adesione alle procedure formalizzate diventerà la fonte principale di legittimazione. Una tendenza generalizzata in tal senso assimilerebbe l’a. alla «legge bronzea dell’oligarchia» già individuata da Michels (1911) nel potere politico e nelle tendenze alla «burocratizzazione». 7. Per il suo proliferare e per la possibilità di partecipare alla contrattazione fra «centro politico» e «periferia» (v. 5), vi è il rischio che parte dell’a. si trasformi in un insieme «neocorporativo» di gruppi di pressione sullo Stato. La necessità, per il sistema politico, di ricomporre domande particolaristiche, diverse e talvolta contrastanti, indurrebbe i partiti a ricondurre l’a. entro la loro sfera di influenza, a condizionarlo attraverso forme di neocollateralismo. In tal modo l’a. vedrebbe attenuarsi il proprio ruolo di espressione autonoma e diretta della società civile. Bibl.: Tocqueville A. de, De la démocratie en Amérique, Paris, Gosselin, 1835; Simmel G., Soziologie. Untersuchungen über die Formen der
Vergesellschaftung, München, Dunker & Humblot, 1908; Cooley C, Social organization, New York, Scribner’s, 1909; Michels R., Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, Lipsia, W. Klinkhardt, 1911; Weber M., Wirtschaft und Gesellschaft, Tubinga, Mohr, 1922; Rose A. M., Theory and method in the social sciences, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1954; Gordon C. W. - N. Babchuk, A typology of voluntary associations, in «American Sociological Review» 24 (1959) 1; Sills D. L., «Voluntary associations: sociological aspects», in International encyclopedia of the social sciences, XVI, London, McMillan, 1968, 363-379; Gallino L., Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1978; I d., Effetti dissociativi dei processi associativi in una società altamente differenziata, in «Quaderni di Sociologia» 28 (1979)1; Dal Toso P., Lineamenti di storia dell’a., Roma, Aracne, 2005.
P. Montesperelli
ATTEGGIAMENTO È difficile trovare in letteratura una definizione univoca di questo concetto. Una classica è quella di → Allport (1935, 8) che lo intende come «uno stato mentale o neurologico di prontezza, organizzata attraverso l’esperienza, che esercita un’influenza direttiva o dinamica sulla risposta dell’individuo nei confronti di tutti gli oggetti e situazioni con cui entra in relazione». Questa definizione risulta molto ampia ed implica diversi aspetti che meriterebbero ulteriori specificazioni; in essa, comunque, appare chiaro che l’a. è un costrutto ipotetico, non osservabile direttamente, ma da dedurre dal → comportamento manifesto di una persona. 1. Oggi per lo più ci si riferisce al costrutto di a. per indicare una predisposizione appresa a rispondere prontamente in un modo generalmente favorevole o sfavorevole ad un oggetto, persona, istituzione, simbolo o evento. Esso include tre componenti: una componente cognitiva (le → credenze) che riguarda la percezione, la descrizione personale dell’oggetto dell’a., indipendentemente dal fatto che essa sia vera o falsa, e che si basa sia sull’evidenza oggettiva che sulle opinioni personali; una componente affettiva, riguardante i 113
ATTEGGIAMENTO
sentimenti di piacere, o dispiacere, e le valutazioni favorevoli, o meno, nei confronti dell’oggetto; e una componente comportamentale, cioè la disposizione, la tendenza ad agire in un certo modo verso l’oggetto in questione. Vanno comunque considerate posizioni diverse. L’approccio comportamentista considera l’a. fondamentalmente come una disposizione a valutare positivamente, o meno, un oggetto, disposizione che si forma grazie a ripetute e sistematiche associazioni tra oggetto ed eventi positivi o negativi; in questo approccio, infatti, la formazione degli a. viene spiegata in base ai principi dell’apprendimento (condizionamento classico, rinforzo, osservazione). L’approccio funzionalista lega l’origine dell’a. ai → bisogni o alle funzioni a cui esso serve. Ad es., vengono riconosciute all’a. una funzione strumentale (aiuta ad ottenere ricompense o evitare punizioni nel mondo sociale), una conoscitiva (serve come struttura per gestire e acquisire conoscenze, organizzando e semplificando il notevole flusso informativo con cui ci si confronta), una difensiva (protegge e accresce l’immagine di sé). Dal momento che gli a. sono funzionali a soddisfare alcuni bisogni fondamentali, la loro componente valutativa è connessa a tali motivi, e cioè emerge un a. positivo verso un oggetto se i motivi di fondo sono soddisfatti rispondendo favorevolmente ad esso, e viceversa se la soddisfazione scaturisce da una risposta negativa. Un terzo approccio, socio-cognitivo, si è infine affermato negli ultimi decenni, in linea con l’attuale tendenza generale in psicologia a spiegare la condotta secondo una prospettiva cognitivista o dell’information processing; secondo questo approccio, infatti, l’a. viene principalmente concettualizzato in termini di cognizioni, schemi, in quanto esso si fonda sulle credenze personali riferite ad un oggetto. Ogni credenza collega un oggetto a degli attributi positivi o negativi, e la disposizione valutativa dell’a. è la risultante di tutte le credenze riferite ad un oggetto; inoltre, in quanto schema, l’a. influenza l’elaborazione delle informazioni sociali sia a livello di ricerca attiva e di codifica (percezione, giudizi) di informazioni collegate all’a., che di recupero di esse dalla memoria. Le credenze e, quindi, gli a. relativi al mondo sociale derivano dall’esperienza diretta con un oggetto, dalle informazioni acquisite nel processo 114
di → socializzazione tramite famiglia, gruppi di riferimento, mezzi di → comunicazione di massa, e dalle inferenze elaborate sulla base di informazioni già possedute; insieme a tutto ciò, si deve tenere conto delle variabili personali che intervengono a modulare la percezione dei messaggi sociali ricevuti. 2. Oltre a spiegare la formazione degli a., gli psicologi sociali ne hanno studiato le conseguenze, soprattutto per verificare l’influenza da loro esercitata sul comportamento sociale. Fino agli anni ‘60 si dava per scontato che tale costrutto potesse spiegare e predire la condotta sociale, ma da una serie di studi è emersa una scarsa correlazione tra a. espressi verbalmente e successivo comportamento manifestato. Gli studiosi hanno dunque dovuto riconsiderare il rapporto tra a. e comportamento, concludendo che da un lato, l’espressione verbale di un a. va posta in relazione, più che con una singola condotta, con un insieme di misure di comportamenti attuati nei confronti della classe di oggetti dell’a., e dall’altro, che per predire una singola condotta a partire dall’a. è necessario chiedere alla persona di esprimere il suo a. in merito alla condotta specifica in questione (ad es.: donare il sangue), e non rispetto ad un ambito generale (ad es.: solidarietà). D’altra parte, bisogna tener presente che nell’attuazione di una condotta intervengono anche tanti fattori situazionali e personali. In questa linea Fishbein e Ajzen (1975) hanno proposto la teoria dell’azione ragionata, secondo cui un’azione è determinata dalle intenzioni comportamentali del soggetto; a loro volta le intenzioni dipendono dall’a. verso quella specifica condotta (composto dalle credenze sulle conseguenze di quel comportamento e dalla valutazione personale di queste), dalle credenze normative personali e sociali, e dalla motivazione a conformarsi a tali norme. Seguendo tale prospettiva interattiva e facendo riferimento allo specifico a. comportamentale, è possibile rendere più accurata, come è stato confermato da ricerche successive, la previsione di una condotta. 3. Essendo un costrutto ipotetico, non osservabile, l’a. viene inferito misurando le risposte cognitive, affettive e conative ad esso connesse. Di solito, per misurare un a., si usano metodi diretti nei quali i soggetti sono
ATTEGGIAMENTO
interrogati direttamente in merito ad un oggetto; tra questi metodi, oltre ad usare singole domande in cui le persone sono invitate ad esprimere la loro posizione (d’accordo, non d’accordo, incerto) circa affermazioni positive o negative su un oggetto, molto spesso si usano scale di misurazione come la scala Likert (una serie di affermazioni rispetto alle quali va indicato il grado di accordo, o meno, su una scala di 5 o 7 punti), e il differenziale semantico, in cui si invita a valutare l’oggetto dell’a. rispetto ad una serie di aggettivi bipolari (es.: buono - cattivo), in cui il centro del continuum esprime l’eventuale neutralità. Sono stati elaborati anche dei metodi indiretti (ad es.: test proiettivi, rilevazione parametri fisiologici), soprattutto quando gli a. toccano questioni delicate e si prevede un’alta probabilità di contraffazione delle risposte alle domande dirette; tali metodi, tuttavia, possono a volte implicare problemi etici e spesso si rivelano poco affidabili. Data la rilevanza degli a. in molti ambiti della vita sociale, molti studiosi si sono interessati, anche al fine di migliorare la convivenza civile, a come essi possano essere cambiati. In proposito ci sono molti modelli, tra cui ad es., il modello della comunicazione persuasiva (McGuire, 1985) che spiega l’effetto persuasivo di un messaggio sulla base di 5 processi: attenzione, comprensione, accettazione, ritenzione, azione. Sempre in ambito cognitivista ci sono le teorie dell’equilibrio (Heider, 1946) e della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957), basate sull’assunto che si ha il bisogno di mantenere la coerenza tra gli elementi della propria struttura cognitiva; tale bisogno spiegherebbe sia la stabilità che il cambiamento di un a.: mentre da una parte si tende a selezionare le informazioni a seconda se sono congruenti o meno con il proprio quadro di riferimento, dall’altra, qualora si venisse a creare un’incongruenza a seguito di nuove esperienze o dati, mutare a. sarebbe uno dei modi per ristabilire lo stato di equilibrio. In sintesi, i diversi modelli ipotizzano due percorsi di elaborazione delle informazioni quando si cambia a.: uno centrale, sistematico, in cui ci si sofferma a riflettere sui dati a disposizione, e uno periferico, con meno attenzione, basato su euristiche quali ad es. fidarsi di chi parla se lo si ritiene esperto o simpatico (Petty-Cacioppo, 1981; Eagly-Chaiken, 1993). Alcuni conside-
rano tali percorsi come aspetti in un unico percorso, con processi più o meno elaborati a seconda della motivazione, dello stato emotivo, e delle abilità cognitive delle persone (Cavazza, 2005). 4. Va accennato, infine, che gli a. sono stati studiati anche in ambito educativo. In proposito si è particolarmente evidenziata l’importanza degli a. relazionali degli → educatori al fine di promuovere un efficace → rapporto educativo (Franta, 1995): il comportamento relazionale degli educatori, tenendo conto dei loro a. di fondo nei confronti dell’educazione e delle persone in divenire con le quali si relazionano, è stato analizzato in base all’a. emozionale e socio-operativo. Il primo riguarda la creazione di un positivo contatto affettivo con gli educandi volto a valorizzarli, rapporto che risulta fondamentale sia alla loro crescita che alla costruzione di un’adeguata piattaforma educativa; il secondo riguarda la realizzazione del ruolo di guida e di controllo da parte dell’educatore, della sua funzione regolativa e orientativa al fine di favorire l’autosupporto negli educandi. Tale funzione può essere svolta secondo uno stile autoritario, lassista, o autorevole, e quest’ultimo, dagli studi in proposito, risulterebbe essere il più costruttivo per 1’ → educando. Bibl.: A llport G. W., «Attitudes», in C. M. Murchison (Ed.), A handbook of social psycholo gy, Worchester, Clark University Press, 1935, 798-844; H eider F., Attitudes and cognitive organization, in «Journal of Psychology» 21 (1946) 107-112; Fishbein M. - I. A jzen, Belief attitude, intention, and behavior: an introduction to theory and research, Reading (Mass.), Addison-Wesley, 1975; Petty R. E. - J. T. Cacioppo, Attitudes and persuasion: classic and contemporary approaches, Dubuque (Ia.), Brown Company Publishers, 1981; McGuire W. J., «Attitudes and attitude change», in G. Lindzey - E. A ronson (Edd.), The handbook of social psychology, vol. II, New York, Random House, 31985, 233-346; Eagly A. H. - S. Chaiken, The psychology of attitudes, Orlando (Fl.), HBJ College Publishers, 1993; Franta H., A. dell’educatore. Teoria e training per la prassi educativa, Roma, LAS, 1995; Stroebe W. - M. S. Stroebe, Psicologia sociale e salute, Milano, McGraw-Hill Libri Italia s.r.l., 1997; Cavazza N., Psicologia degli a. e delle opinioni, Ibid., 2005.
C. Messana 115
ATTENZIONE
ATTENZIONE L’a. è generalmente definita come la capacità della mente di concentrarsi o di focalizzarsi su alcuni elementi dell’ambiente. La sua importanza nella vita di ogni giorno è sotto gli occhi di tutti. Essa infatti controlla l’attività elaborativa della mente selezionando il flusso delle informazioni in base alle capacità dell’individuo e regolando la distribuzione delle risorse fra compiti competitivi. Sebbene spesso si parli dell’a. come di un processo unitario e specifico, in realtà sembra che ciò che viene indicato con questo termine corrisponda a un modo generico di categorizzare processi e comportamenti diversi. 1. Processi attentivi. Con lo sviluppo della psicologia cognitivista l’a. è tornata di attualità. Questo approccio ha promosso un ricco filone di ricerche formulando vari modelli interpretativi, sviluppando nuovi settori di indagine (neurologico e psicologico) e delineando una ricca tipologia di processi attenzionali (selettivo, automatico o inconscio e controllato). Sebbene gli studi siano ancora agli inizi, non mancano dati sulle basi nervose dei processi attentivi. Sembra che i lobi parietali del cervello siano coinvolti nell’a. sensoriale e che l’ippocampo abbia un ruolo nell’a. a breve termine. Nel 1958 Broadbent, attraverso esperimenti che analizzavano l’ascolto dicotico (stimoli diversi inviati ai due orecchi) sostenne la presenza di un «filtro» sensoriale che selezionava l’accesso dell’informazione ai livelli di elaborazione superiori. Treisman (1960) sostenne che, più che di un «filtro», si dovesse parlare di un processo di «attenuazione» dello stimolo, perché negli esperimenti da lui condotti i soggetti che ricevevano il doppio messaggio erano in grado di seguire ambedue se uno di essi era significativo rispetto all’altro. Deutsch e Deutsch (1963) e successivamente Norman (1972) introdussero ulteriori modificazioni ipotizzando che la selezione fosse determinata dalla «pertinenza» dello stimolo. Johnston e Heinz (1978) sostennero un modello di a. selettiva flessibile basato appunto sulla disponibilità delle risorse: la selezione degli elementi dello stimolo comincia dall’inizio, ma la quantità delle risorse aumenta a mano a mano che ci si avvicina alla risposta da dare. Kahneman (1973) spostò l’enfasi della 116
ricerca sul problema delle risorse avanzando l’idea che il processo di selezione analizzato dai precedenti ricercatori era da reinterpretare in termini di quantità di risorse disponibili per svolgere i compiti assegnati. 2. Processi automatici e processi sotto controllo. Un nuovo orientamento alla ricerca sull’a. avvenne ad opera di Schneider e Shiffrin (1977) (processi automatici e sotto controllo) e di Posner e Snyder (processi inconsci). I processi automatici procedono in parallelo, non sono intenzionali, né consci, né subiscono interferenze, né richiedono grande quantità di risorse. Al contrario i processi sotto controllo sono intenzionali, sono diretti ad uno scopo e richiedono molte più risorse dei primi. In genere i processi automatici si applicano a compiti familiari e semplici, quelli controllati a compiti complessi e inusitati. Automaticità e controllo sono due dimensioni che permettono di spiegare anche le esperienze di a. divisa. Nel caso di processi simultanei, i compiti complessi non automatizzati, richiedendo maggiori risorse, diversamente da quelli semplici e automatici, impongono una divisione delle risorse stesse. Le precedenti ricerche e interpretazioni spiegano i fenomeni della a. selettiva o dell’a. automatica e sotto controllo, ma non spiegano ancora altri fenomeni attentivi. Ad es., come interpretare il comportamento dell’a. su qualche cosa che è noiosa? Le ricerche su questo problema sono state numerose anche per la particolare connessione che esso ha con l’attività di lavoro. Molti fattori sembrano intervenire per spiegare le variazioni dei livelli di a. L’a. vigilante o il sostegno dell’a. necessaria ad una prestazione prolungata nel tempo sembrano progressivamente allentarsi a seconda del tipo di stimolo, della periodicità con cui vengono conosciuti i risultati della propria attività, del contesto esterno, dell’assunzione di sostanze stimolanti (anfetamine) e del tipo di personalità introversa o estroversa. 3. A. e apprendimento. L’interesse per l’argomento è comprensibile perché le conoscenze sull’a. possono fornire indicazioni preziose alla scuola sia per migliorare il livello di prestazione degli studenti che per attenuare le conseguenze dei limiti attentivi di alcune categorie, come gli iperattivi o i ritardati
ATTESE
mentali. A questo riguardo si sono studiati gli effetti dell’aiuto nell’identificazione delle informazioni più importanti, delle tecniche di evidenziazioni attraverso figure e immagini, della frammentazione della monotonia dello stimolo, dell’automatizzazione dei processi secondari per aumentare la quantità delle risorse disponibili, dell’uso frequente di domande, del pensare ad alta voce e del verbalizzare ciò che viene svolto, dell’uso di ricompense e dell’immediato feedback, dell’esercizio costante e continuo su un compito per automatizzare le prestazioni. L’effetto positivo del mantenimento dell’a. sul compito dato dal variare degli stimoli, dal contesto mutevole e dalla frequenza di feedback ha suggerito la possibilità di strategie educative di sequenzializzazione di operazioni come il «fermati-osserva-ascolta», «fermati-ricordarifletti-decidi», ecc. Bibl.: Broadbent D. E., Perception and communication, Oxford, Pergamon Press, 1958; Treisman A. M., Contextual cues in dichotic listening, in «Quarterly Journal of Experimental Psychology» 12 (1960) 242-248; Deutsch J. A. - D. Deutsch, Attention: some theoretical considerations, in «Psychological Review» 70 (1963) 80-90; Norman D. A., Memory and attention: an introduction to human, New York, Wiley, 21972; K ahneman D., Attention and effort, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1973; Schneider W. - R. M. Shiffrin, Controlled and automatic information processing I: Detection search and attention, in «Psychological Review» 84 (1977) 1-66; Johnston W. A. - S. P. H einz, Flexibility and capacity demands of attention task, in «Journal of Experimental Psychology General» 107 (1978) 420-435; Cohen R. A., The neuropsychology of attention, New York, Plenum, 1993.
M. Comoglio
ATTESE Se per «ruolo» si intende quella serie di funzioni o compiti che la società «si attende» che la persona svolga all’interno delle strutture, contemporaneamente emerge anche il concetto di a. sociali, che è fondamentale nello studio delle interazioni sociali (la teoria dell’ → interazionismo simbolico). La persona infatti, nel corso della sua vita sociale
quotidiana, agisce anche in rapporto alle a. che gli altri, specialmente se significativi, hanno nei suoi confronti. Quando però le a. rimangono inadempiute diventano la causa di conflitti interpersonali o almeno di delusioni e frustrazioni. 1. In tale contesto soprattutto se didattico, il concetto di a. coinvolge diverse dimensioni, che influiscono notevolmente sul rapporto educatore-educando e insegnante-alunno. Le a. condizionano infatti diversi tipi di comportamento: le a. positive degli insegnanti nei confronti della riuscita dello → studente sono uno stimolo al successo scolastico («effetto → Pigmalione»), come le a. negative pongono condizioni che contribuiscono all’insuccesso. In questo secondo caso però le correlazioni tra i fattori sono meno elevate. Infatti le a. negative provocano da parte dell’alunno una serie di meccanismi di difesa per cui egli non perde necessariamente il concetto di sé, anzi sviluppa atteggiamenti di avversione verso l’autore delle a. D’altra parte le a. positive per essere efficaci devono essere minimamente fondate sulla realtà e non eccessivamente elevate (la legge della «giusta distanza» rispetto ai fini), per evitare fenomeni di scoraggiamento o di rifiuto dei tentativi di approccio. Vi sono inoltre a. degli studenti nei confronti della propria carriera scolastica e/o professionale. 2. Quando queste a. sono alte diventano un incentivo favorevole all’impegno per un miglior rendimento. Esse sono correlate con i concetti di «aspirazioni», di «ambizione» e di «motivazione», pur senza confondervisi. Le a. hanno infatti una triplice componente: cognitivo-intellettiva, affettivo-emotiva e conativo-intenzionale. Ciascuna contribuisce ad influenzare i rispettivi comportamenti, così che un intervento su qualcuna di esse può modificare le successive condotte. L’effetto verificato però è maggiore sulla relazione interpersonale che non sul successo intellettuale e sui risultati oggettivi. Non va sottaciuto il fatto che la qualità stessa delle esperienze passate circa le proprie relazioni interpersonali conduce alla formazione di a., che a loro volta condizionano la successiva interazione. Nel processo educativo infine è ormai un dato verificato che sul comportamento dell’adulto incidono reazioni dello 117
AUDIOVISIVO
stesso adolescente. Rimane tuttavia ancora aperta la questione circa l’individuazione dei vari settori maggiormente influenzabili e delle condizioni più predisponenti a tale reciprocità. Bibl.: Cicourel A. V. - K. K norr Cetina, Advances in social theory and methodology, London, Routledge and P. Kegan, 1981; Woods P., Sociology and the school. An interactionist viewpoint, Ibid., 1983; Rosenthal R. - L. Jacobson, Pigmalione in classe. L’immagine che chi insegna si fa di chi apprende sotto la sua guida, Milano, Angeli, 1992; Fele G. - I. Paoletti, L’interazione in classe, Bologna, Il Mulino, 2003; Palmonari A. et al., Psicologia sociale, Ibid., 2002.
R. Mion
ATTISANI Adelchi → Storicismo pedagogico ATTITUDINE → Abilità ATTIVISMO → Scuole Nuove ATTRIBUZIONE DELLA CAUSALITÀ → Locus of control
AUDIOVISIVO Il termine a. è relativamente nuovo ed ha un significato molto ampio e fluido. 1. Precisazioni. Pur essendo alquanto discutibile da un punto di vista semantico, con tale termine si abbraccia un complesso di situazioni e di tecniche nuove che si riferiscono al suono, all’immagine fissa e in movimento vista in modo integrato o separato. Esso proviene dall’ambiente pedagogico americano degli anni 1930/40 e si è diffuso rapidamente nell’immediato dopoguerra in Europa e in diversi altri Paesi. Nella lingua francese esso appare per la prima volta nelle Raccomandazioni della X Conferenza Internazionale dell’Educazione del 1947 ed entra nel lessico scolastico nel 1959. Nel mondo scolastico italiano appare ufficialmente nel 1956 e all’incirca negli stessi anni in diversi altri Paesi europei. Per a. potremmo intendere «l’insieme di procedimenti elettrici ed elettronici di riproduzione e di diffusione delle immagini e del suono utilizzati nella comunicazione di massa per una ricezione collettiva o individuale organizzata» (Dieuzeide, 1976, 11). Oggi il termine indica sia apparecchiature 118
(→ hardware) destinate a produrre o a trasmettere messaggi visivi e sonori, sia tutto ciò che viene utilizzato come supporto per riprodurre tali messaggi, → software, per visualizzare cioè immagini e trasmettere suoni. Esso viene usato in contesti ed ambienti assai diversi. Lo possiamo trovare nel settore produttivo, in quello formativo, nel settore dell’assistenza e del tempo libero e perfino in quello politico. L’a. nei processi formativi ha un ruolo che può variare in base alla sensibilità delle persone e all’uso che ne viene fatto, ma che fondamentalmente riguarda aspetti di supporto e di integrazione all’azione formativa in generale. Esso può potenziare notevolmente la capacità di espressione e di → comunicazione: sia per estendere i messaggi tradizionali, perfezionarli, renderli più intuitivi e facilmente ripetibili soprattutto per chi ha scarse capacità di astrazione; sia per dare un contributo innovativo all’intervento, coinvolgendo le persone in modo più diretto. 2. Utilizzazione. Gli a. sono apparecchiature che trattano immagini e suoni utilizzando il linguaggio orale e iconico. È chiaro dunque che per avere una resa ottimale quando si usano in modo sistematico, è necessario essere attenti ad una serie di problemi relativi alle modalità di comunicazione in generale, oltre che a quelle specifiche del linguaggio usato dell’a. considerato. In chi intende usarli si rende necessario acquisire una conoscenza delle possibilità comunicative di tali linguaggi, almeno negli aspetti fondamentali ed una capacità di utilizzarli concretamente in modo efficace. Normalmente un a. si presta bene per: trasmettere dei contenuti completando, ad es., un messaggio con immagini o commenti semplificati e legati in modo strumentale al particolare concetto da evidenziare; stimolare una discussione/ creare interesse in modo da avviare un discorso che verrà poi approfondito con altri mezzi ed in altri momenti; dimostrare abilità da acquisire o atteggiamenti da modificare evidenziando situazioni legate all’oggetto o alla realtà che si vuole far vedere; approfondire particolari di discorsi, di situazioni o oggetti, enfatizzando, in questo caso, gli aspetti che si vogliono studiare per facilitarne la comprensione; documentare la realtà a scopo anche solo informativo. L’a. normalmente facilita molto la trasmissione di cono-
AUROBINDO GHOSE SRI
scenze e l’acquisizione di atteggiamenti desiderati, difficilmente però riesce ad esaurire una tematica complessa. Per completare l’informazione o anche solo per meglio interiorizzarla, si rende necessario aggiungere un apporto successivo attraverso un lavoro di ricerca personale e di gruppo, con interventi di esperti o semplicemente approfondimenti con letture personali. Normalmente l’a. contribuisce a problematizzare, presentare una parte o alcuni aspetti di un tema che verrà successivamente puntualizzato e completato per una sua comprensione completa. Solo con tematiche relativamente semplici e con software ben strutturati si riesce ad essere esaustivi attraverso l’a. Nell’apprendimento il momento di interiorizzazione di conoscenze ed abilità ha forme e ritmi molto personalizzati che difficilmente possono essere gestiti completamente e autonomamente da un a. 3. Prospetto. Oggi gli a. sono presenti in diversi ambienti e sono in continua evoluzione. Un elenco preciso è difficile da fare e rischierebbe di essere incompleto. Inoltre molto dipende da cosa si vuole sottolineare: aspetti storici in cui si evidenziano salti qualitativi o generazionali; aspetti di ordine percettivo o intellettivo; aspetti legati all’integrabilità dei processi formativi; o infine aspetti pratici o di convenienza didattica o commerciale. Il mercato oggi ne propone una certa varietà. Alcuni tipi si presentano principalmente come apparecchiature per un solo uso: lavagna luminosa, proiettore per diapositive e filmstrips, proiettore per microfiches, episcopio, registratore, radio, giradischi (sostituiti sempre più da compact disc), proiettore per film (super 8 oppure 16/32 mm), televisione (sia a circuito chiuso via cavo, sia via etere). Altri invece si presentano più come sistemi integrati con nomi legati alle funzioni o alle ditte costruttrici: diatape (registratore + proiettore diapositive), epidiascopio (episcopio + proiettore diapositive), diagraf (lavagna luminosa proiettore per diapositive), multivision (insieme di più proiettori opportunamente sincronizzati), videotop (super 8 con possibilità di variare velocità delle sequenze). Tra gli a. oggi si potrebbe annoverare anche il personal computer, nel senso che può gestire ed integrare suoni e immagini in funzione di una migliore comunicazione.
Esso ha però caratteristiche e peculiarità che vanno oltre l’ambito di un a., essendo una apparecchiatura della nuova generazione più potente e versatile. In quest’ottica è quindi riduttivo vederlo come un semplice a. Bibl.: Dieuzeide H., Le tecniche audiovisive nell’insegnamento, Roma, Armando, 1976; R ivoltella P. C. (Ed.), L’a. e la formazione: metodi per l’analisi, Padova, CEDAM, 1998; Parmeg giani P., Dall’a. al multimediale: documentare per la didattica e la ricerca, Verona, Forum, 2000; Chiocci F. et al., La grana dell’audio: la dimensione sonora della televisione, Roma, RAI/ ERI, 2002.
N. Zanni
AUROBINDO Ghose Sri n. a Calcutta nel 1872 - m. a Pondicherry nel 1950, filosofo, maestro spirituale, politico, educatore indiano. 1. A. compì i suoi studi in Inghilterra e assimilò, oltre alla letteratura ingl., quella gr. e lat.; conosceva gr., lat., fr. e ted. Tornato in India nel 1893 iniziò una intensa attività politica e sociale, contemporaneamente studiò sanscrito e i classici dell’ → induismo e del buddhismo, oltre alla sua lingua materna, il bengali. Dal 1903 al 1905 partecipò attivamente al movimento politico swadeshi (nazionale). Pubblicò il giornale rivoluzionario «Bande Mataram» importante per la dottrina della resistenza passiva. Nel 1908 sotto la guida dello Yogi Vishnu Bhasker Lele diventò un yogi, uomo di grande cultura occidentale e orientale. Nell’anno 1914 incontrò Mirra Alfassa – una parigina – che poi diventerà la Mère dell’ashram, fondato da A. Nel 1940 creò una scuola per i bambini; nel 1952 fu fondato L’International Educational Centre S. A. e nel 1968 sorse la città di Auroville presso Pondicherry. 2. A. fondò la sua teoria dell’educazione su purna yoga o → yoga integrale. Il termine yoga significa unire, e per le scuole teiste dell’induismo, vuol dire unione dell’anima con lo Spirito Assoluto. Yoga indica anche i mezzi o vie della liberazione dell’anima. A. propone il purna yoga come mezzo per svi119
AUTISMO INFANTILE
luppare e trasformare tutto l’uomo, non solo l’aspetto puramente spirituale. Il purna yoga è una teoria che si fonda su una sintesi psicofilosofica orientale e occidentale. Secondo la sua concezione filosofica, tutto il mondo è in evoluzione e l’evoluzione dell’uomo tende verso una supermente con una super coscienza. Il divino (Purusha) scende a trasformare lo spirito e il corpo umano (prakriti). Lo scopo dell’educazione è la realizzazione dello spirito della supercoscienza. Secondo A., l’educazione è costituita da cinque aspetti, corrispondenti alle cinque attività principali dell’uomo: fisica, vitale, mentale, psichica e spirituale. Bibl.: a) Fonti: Opere fondamentali tradotte in it.: La Sintesi dello Yoga, Roma, Ubaldini, 1967-1969; La Vita Divina, Imola, Galeati, 1973; Guida allo Yoga, Roma, Edizioni Mediterranee, 1975. b) Studi: Sapio M., «A.S.A.G.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 1245-1250; Chistolini S., Tagore, A., Krishnamurti. Unità dell’uomo e universalità dell’educazione, Roma, La Goliardica, 1990.
S. Thuruthiyil
AUSTRALIA → Oceania AUSUBEL David Paul → Desatellizzazione
AUTISMO INFANTILE Patologia psichica che comporta la predominanza relativa o assoluta della realtà intrapsichica con il conseguente distacco più o meno grave dal mondo esterno. 1. Il termine a., dal gr. autós (se stesso), è stato introdotto da E. Bleuler (1911) per sottolineare che nello schizofrenico il mondo interno prevale nettamente su quello esterno, per cui si verifica una massiccia chiusura nei confronti della realtà. L. Kanner (1943), studiando un gruppo di bambini affetti da a., ha ripreso il termine dandogli però una connotazione diversa e cioè intendendolo non tanto come espressione di un ritiro attivo dalla realtà, quanto invece di un’incapacità di sviluppare delle relazioni con l’esterno. In altri termini, mentre lo schizofrenico si ritira dal mondo, il bambino autistico non vi è mai 120
entrato. Nel 1946 Kanner introduce il termine a. i. precoce, che sarà poi universalmente adottato. 2. L’a.i. precoce detto anche primario tende ad evidenziarsi nei primi diciotto mesi di vita, con una proporzione oscillante dai 2 ai 4 casi ogni 10.000 nati e con una netta frequenza di 3-4 volte superiore nei maschi rispetto alle femmine. Oltre a questo primo tipo, è stato individuato un a.i. secondario a regressione. Esso è più raro, compare entro i primi trenta-trentasei mesi, dopo un periodo iniziale di sviluppo apparentemente normale e a seguito di eventi che comportano un allentamento dell’investimento materno. 3. I sintomi più significativi sono: isolamento estremo, bisogno d’immutabilità, stereotipie, identificazione adesiva, disturbo del linguaggio, uso autistico degli oggetti. Non sono chiare le cause che stanno all’origine dell’a. Alcuni insistono sui fattori organici (genetici, biochimici, neurologici). D’altra parte è però possibile riscontrare una patologia autistica anche in bambini che, almeno con gli strumenti di ricerca finora disponibili, non evidenziano alcun danno organico. Allo stato attuale emergono due orientamenti: uno che tende a sottolineare la prevalenza della base organica ed un altro che invece individua le cause in fattori prevalentemente psicodinamici. 4. Stante la varietà dei modelli interpretativi dell’a.i., le proposte terapeutiche sono estremamente varie. Appare sconsigliabile una terapia prevalentemente farmacologica. Inoltre è ormai superato il ricorso all’inserimento del bambino autistico in una istituzione globale, come suggeriva a suo tempo → Bettelheim. Attualmente, s’insiste per una cura che passa attraverso l’ospedale diurno. Gli autori ad orientamento psicodinamico (M. Mahler, → Winnicott, F. Tustin, W. R. Bion, D. Meltzer), proprio perché indicano la causa dell’a. nel fatto che il bambino all’origine non ha sperimentato il contenimento delle proprie angosce primarie da parte della madre, insistono sul concetto di ambiente terapeutico, inteso non come luogo fisico, ma come contenitore psichico fatto d’interventi psicoterapeutici, educativi, scolastici e ri creativi e di azione di sostegno ai genitori.
AUTOEFFICACIA
Bibl.: Tustin F., A. e psicosi infantile, Roma, Armando, 1975; Bettelheim B., La fortezza vuota, Milano, Garzanti, 1976; M eltzer D., Esplorazioni sull’a., Torino, Bollati Boringhierii, 1977; Tustin F., Stati autistici nei bambini, Roma, Armando, 1983; M azet Ph. - S. Lebovici, Autisme et psychoses de l’enfant, Paris, PUF, 1990; Lelord G. - D. Sauvage, L’autisme de l’enfant, Paris, Masson, 1990; Tustin F., Protezioni autistiche nei bambini e negli adulti, Milano, Cortina, 1991; Ballerini A., Patologia di un eremitaggio. Uno studio sull’a. schizofrenico, Torino, Bollati Boringhierii, 2002; R esnik S. et al., Abitare l’assenza. Scritti sullo spazio-tempo nelle psicosi e nell’a. infantile, Milano, Angeli, 2004; Mistura S. (Ed.), A. L’umanità nascosta, Torino, Einaudi, 2006; Quill K. A., Comunicazione e reciprocità sociale nell’a., Gardolo, Erickson, 2007; Donaggio a. et al. (Edd.), A. e psicosi infantile, Roma, Borla, 2007.
V. L. Castellazzi
AUTOCONTROLLO L’esigenza di ordine e di misura nell’essere e nell’agire personale è fondamentale in educazione. 1. In tal senso formare il bambino all’a. è una delle principali finalità dell’educazione. Tale finalità in molti casi non viene raggiunta, per cui molti giovani e adulti sono afflitti da gravi problemi. Baumeister, Heatherton e Tice (1994) descrivono alcune forme di questa incapacità di autocontrollarsi: sregolatezza nel comportamento sessuale (maternità indesiderata delle giovani, infedeltà coniugale, malattie veneree e AIDS); sperpero di risorse e di danaro, uso di droghe, abuso di alcolici ed eccesso nell’alimentazione, maltrattamento del coniuge e dei figli, delinquenza e criminalità. Tutto ciò è dovuto alla scarsa acquisizione di a., di autodisciplina e di autoregolazione. 2. L’a. si forma nell’interazione dei fattori genetici con lo stile educativo, il quale si concretizza sostanzialmente in quattro modalità: a) caldo e ragionevole (modelli di a. vengono proposti insieme con forme di sostegno affettivo); b) severo oppure eccessivamente tollerante (senza sostegno affettivo),
che porta all’aggressività repressa oppure a quella manifesta; c) instabile (con reazioni imprevedibili del genitore e con difficoltà di comportamento coerente del figlio e quindi con difficoltà di acquisizione di a.); d) con eccessivo controllo (che porta il figlio all’isolamento sociale e alla nevrosi, con rischio di → devianza). Prescindendo dai quattro stili, i genitori e gli educatori possono compromettere la formazione dell’a. dei figli o degli alunni prefiggendo loro degli obiettivi troppo elevati, criticandoli frequentemente, rilevando spesso i loro errori e sostituendosi alle loro scelte e decisioni. Nella formazione dell’a. risulta fondamentale la capacità del bambino di dilazionare la soddisfazione dei suoi → bisogni. È stato constatato che tale capacità, rilevata all’età di 4-5 anni, è correlata con la capacità di autoregolazione nell’adolescenza; tali bambini inoltre risultano collaborativi da adolescenti, al contrario dei bambini privi di questa capacità, che risultano inquieti e aggressivi. L’a. è una delle componenti fondamentali nei progetti di prevenzione del rischio giovanile e contribuisce alla formazione di alcuni importanti costrutti psicosociali come → autoefficacia, → stima di sé e → resilienza. Bibl.: Baumeister R. T. - T. F. Heatherton - D. M. Tice, Losing control: How and why people fail at self-regulation, San Diego, Academic Press, 1994.
K. Poláček
AUTOEDUCAZIONE → Antinomie pedagogiche → Educazione
AUTOEFFICACIA L’a. è un → costrutto psicologico elaborato da A. Bandura (1987) nell’ambito della sua teoria sociale cognitiva. Essa si riferisce alla stima globale che il soggetto fa delle sue abilità in vista di un determinato compito e la convinzione di riuscirci. Da tale stima dipenderà se il soggetto sceglierà o meno una determinata attività e quanto sforzo svilupperà per superare gli eventuali ostacoli, quanto sarà perseverante nel raggiungimento del risultato. 1. Bandura distingue nel costrutto tre aspetti: 121
AUTOEFFICACIA
livello, forza e ampiezza. Il livello si riferisce alla difficoltà del compito da affrontare e alla previsione di conseguire in esso un esito positivo; la forza rappresenta il grado di fiducia che il soggetto possiede nelle proprie abilità per poter svolgere un determinato compito; l’ampiezza si riferisce all’estensione del settore di cui il compito fa parte. Oltre a questi tre aspetti, Bandura indica anche quattro «sorgenti» dell’a.: previa esperienza positiva nel compito (successo), esperienza vicaria (osservazione e imitazione di persone di successo), persuasione verbale (esortazione da parte di terzi), stati affettivi costruttivi (rilassamento e buon umore). La previsione del successo e la possibilità di poterlo raggiungere sono i fattori principali nel processo e nella formazione dell’a. Il successo non solo potenzia l’a., ma incoraggia il soggetto a prefiggersi degli obiettivi ancora più elevati rispetto a quelli già raggiunti. In questo processo è importante non solo la stima delle abilità ma anche la convinzione del soggetto che esse siano malleabili e non determinate geneticamente o socialmente. In questa prospettiva egli considera le sue abilità come delle potenzialità cognitive, sociali, motivazionali e comportamentali da organizzare per raggiungere specifiche finalità. 2. L’a. avviene in un contesto sociale e perciò implica da parte del soggetto il controllo sull’ambiente che può avvenire per ragioni personali e sociali. Il primo tipo di controllo si riferisce alla convinzione del soggetto di poter ottenere un determinato risultato con lo sforzo personale; il secondo riguarda la sua convinzione di poter intervenire invece sull’ambiente sociale e in questo caso si tratta di a. collettiva. Bandura (2000) sostiene che l’a. è presente, con le debite variazioni, in tutte le culture. Siu, Lu e Spector (2007) ne hanno offerto una conferma nel continente asiatico riscontrando l’effetto positivo dell’a. sul benessere psichico e fisico nella gestione dello stress lavorativo degli operatori del settore manageriale in Cina. 3. L’a. trova una vasta applicazione in vari settori della psicologia, della sociologia e dell’educazione: rendimento (scolastico, accademico, sportivo e professionale), dominio dello stress, delle fobie, gestione delle malattie croniche, potenziamento della salute, 122
controllo delle abitudini nocive come abuso di alcolici e uso di droghe (Maddux, 1995). Numerose conferme sperimentali ed empiriche sull’utilità del costrutto in tali aree si trovano in Bandura (2000), Schwarzer (1992) e Poláček (1995). L’a. che può essere rilevata con alcuni brevi questionari, può risultare particolarmente utile in campo educativo. Choi, Fuqua e Griffin (2001) hanno confermato la validità di una scala di Bandura destinata agli studenti universitari. Nota e Soresi (2000) hanno applicato l’a. nell’orientamento, particolarmente al processo delle scelte offrendo una solida trattazione teorica e ricco materiale per potenziarle. L’a., situata in una teoria del comportamento basata sulla convinzione che l’agire umano è intenzionale e finalizzato, si trova in armonia con gli obiettivi educativi più elevati. Anche l’interattività del costrutto che consiste nell’intensa comunicazione tra il soggetto e il suo ambiente può contribuire al suo uso nel processo educativo. Le tre sorgenti dell’a. indicate da Bandura (esperienza positiva, esperienza vicaria e persuasione verbale) offrono dei validi procedimenti per potenziare l’a. dei soggetti in crescita. Bibl.: Bandura A., Social foundation of thought and action: a social cognitive theory, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1986; Schwarzer R. (Ed.), Self-efficacy: thought control of action, Washington, Hemisphere Publishing Corporation, 1992; Poláček K., A.: costrutto e utilizzazione, in «Orientamenti Pedagogici» 42 (1995) 927-957; Maddux J. E. (Ed), Self-efficacy, adaptation, and adjustment: Theory, research, and application, New York, Plenum Press, 1995; Bandura A., A.: Teoria e applicazioni, Trento, Erickson, 2000; Nota L. - S. Soresi, A. nelle scelte. La visione sociocognitiva dell’orientamento, Firenze, Iter, 2000; Choi N. - D. R. Fuqua - B. W. Griffin, Exploratory analysis of the structure of scores from the multidimensional scales of perceived self-efficacy, in «Educational and Psychological Measurement» 61 (2001) 475-489; Siu O. - C. Lu - P. E. Spector, Employees’ well-being in Greater China: The direct and moderating effects of general self-efficacy, in «Applied Psychology: An International Review» 56 (2007) 288-301.
K. Poláček
AUTOFORMAZIONE → Antinomie pedagogiche → Formazione
AUTOMONITORAGGIO
AUTOGESTIONE → Amministrazione scolastica AUTOGOVERNO SCOLASTICO → Autonomia scolastica → Scuole Nuove
AUTOILLUSIONE L’a. consiste nella strategia efficace che il soggetto adotta per potenziare il suo → benessere fisico o psichico. In vista di tale finalità egli usa alcuni → meccanismi di difesa per sfuggire o almeno per mitigare gli effetti di una dura realtà. 1. La strategia dell’a. è stata ampiamente elaborata da Taylor e Brown (1988) e successivamente ancora da Taylor (1991). Nella prima pubblicazione, che ha avuto una straordinaria risonanza, le due autrici hanno sostenuto che la moderata sopravvalutazione di se stessi, l’illusoria convinzione di padroneggiare le cause del proprio comportamento e un non del tutto fondato ottimismo, aumentano il benessere psichico e spesso anche la → creatività. Le ipotesi delle due autrici sono state confermate in studi successivi: i soggetti psichicamente sani e socialmente adattati avevano un concetto di sé distorto in direzione positiva, mentre i soggetti con il concetto di sé realistico avevano una bassa stima di se stessi ed erano inclini alla → depressione. È stato quindi concluso che le illusioni potenziano la salute delle persone e infondono ottimismo sul loro futuro. Qualche autore ha invece rilevato che Taylor e Brown non hanno chiarito i confini tra la valutazione distorta e quella oggettiva, ed hanno sostenuto che l’a. può produrre solo un effetto transitorio e che su una realtà distorta non è possibile effettuare un valido adattamento. Taylor e Brown (1994) hanno replicato che non è facile nella → autovalutazione distinguere tra l’illusione e la realtà. Altri autori ancora hanno sottolineato i rischi dell’a.: i soggetti che lo adottano diventano insensibili alle giuste critiche e spesso negano l’esistenza dei loro limiti; si attribuiscono i meriti puramente casuali mentre attribuiscono ai fattori esterni i fallimenti, ed in tal modo si convincono di padroneggiare il proprio ambiente sociale. 2. I pregi e i rischi dell’a. sono stati documentati sugli ammalati terminali. Alcuni autori,
pur riconoscendo l’effetto positivo dell’a. sul benessere di tali soggetti, hanno notato che essi tendevano a trascurare le cure efficaci aggravando in tal modo la propria salute. L’a. viene adottata dalle persone per proteggere o per potenziare la → stima di sé. A tale scopo vengono usati i noti meccanismi di difesa (Poláček, 2001) come la repressione (evitare i pensieri disturbanti), la negazione (non riconoscere problemi evidenti), la rimozione (allontanare desideri, sentimenti, pensieri ed esperienze disturbanti), la razionalizzazione (fare ragionamenti infondati), l’intellettualizzazione (discutere sui problemi senza risolverli). Da quando la psicologia dinamica ha ammesso che lo scopo della terapia non è più quello di far accettare al paziente la realtà, anche l’a. è considerata una strategia utile per la promozione della salute mentale delle persone. Nell’educazione l’a. trova la sua utilizzazione nella considerazione positiva delle risorse dei giovani, nel coltivare l’ottimismo sul loro futuro e nel proporre obiettivi superiori alle loro «reali» possibilità. Bibl.: Taylor S. E. - J. D. Brown, Illusion and well-being: a social psychological perspective on mental health, in «Psychological Bulletin» 103 (1988) 193-210; Taylor S. E., Illusioni: Quando e perché l’autoinganno diventa la strategia più giusta, Firenze, Giunti, 1991; Taylor S. E. - J. D. Brown, Positive illusions and well-being revisited: Separating fact from fiction, in «Psychological Bulletin» 116 (1994) 21-27; Poláček K., I meccanismi di difesa nell’ambito educativo: un aggiornamento, in «Orientamenti Pedagogici» 48 (2001) 997-1008.
K. Poláček
AUTOMONITORAGGIO L’a. è un → costrutto psicosociale che indica il grado di sensibilità del soggetto alla situazione sociale e la sua capacità di adattarsi ad essa per una efficace comunicazione interpersonale. Il costrutto è stato elaborato e ampiamente descritto da Snyder (1974, 1979). 1. L’autore considera l’a. un costrutto bipolare, ai due poli del quale corrispondono i soggetti alti e bassi nell’a. Un soggetto alto è sen123
AUTONOMIA
sibile alla situazione sociale, coglie i segnali che da essa provengono e cerca di adeguare il suo comportamento verbale e non verbale a tali segnali. Al contrario, il soggetto basso non presta attenzione ai segnali sociali e non possiede un repertorio di comportamento vario per adeguarsi alle esigenze della situazione sociale. Il suo comportamento è guidato dagli stati d’animo interni ed è uguale o almeno simile in situazioni sociali differenti. La bipolarità del costrutto è stata riscontrata anche da anche Livi, Pierro e Mannetti (2000) in discussioni di piccoli gruppi.
qualche criterio esterno (androginia, ansia sociale e soluzione di problemi in collaborazione). Anche dall’analisi fattoriale della scala di Snyder, notevolmente rielaborata per soggetti di lingua tedesca sono emerse le due dimensioni fondamentali articolate però in due fattori per dimensione, denominati in modo differente nella ricerca di Laux e Renner (2002). L’intero costrutto dell’a. è stato riesaminato in base ad oltre 200 contributi pubblicati da Gangestadt e Snyder (2000) particolarmente nella sua componente teorica.
2. Per rilevare l’a., Snyder (1974) ha elaborato un breve questionario e lo ha convalidato con alcuni criteri sociali. Il questionario è costituito sostanzialmente da quattro scale che rappresentano anche le componenti o le dimensioni dell’a. stesso: adeguatezza di autopresentazione in pubblico, sensibilità al comportamento di terzi e alle variazioni situazionali, sensibilità nel conformarsi al gruppo. I criteri per verificare la validità del questionario sono stati i seguenti: l’accordo con la valutazione dei compagni, differenze tra gruppi in cui il costrutto dovrebbe manifestarsi in grado differente (attori, politici, pazienti psichiatrici, obesi), la comprensione del comportamento sociale espressivo (gioia, tristezza, paura, sorpresa), l’attenzione al comportamento di terzi. I dati, in genere, hanno confermato il rapporto ipotizzato tra le singole variabili.
4. Il costrutto assume una notevole utilità nel rapporto sociale (individuale e collettivo) in quanto può aiutare gli operatori sociali a cogliere stati d’animo di terzi, ad adeguarsi alle loro esigenze e quindi a comunicare con loro più efficacemente. Il soggetto che si adatta facilmente alla situazione sociale può essere pericoloso in quanto può diventare, come sostengono Gana e Brechenmacher (2001), il «camaleonte sociale».
3. Successivamente vari autori (Lennox e Wolfe, 1984) hanno eseguito l’analisi fattoriale del questionario ed hanno ottenuto strutture fattoriali differenti da quella di Snyder e quindi anche delle componenti del costrutto stesso. Allo stato attuale sembra che tanto il questionario quanto il costrutto siano costituiti da due dimensioni fondamentali: dall’abilità del soggetto di adattare l’autopresentazione alla situazione sociale e dalla stabilità dell’autopresentazione nelle situazioni differenti con le esplicitazioni delle medesime in scale specifiche. Gana e Brechenmacher (2001) dalla scala di Snyder («Échelle de monitorage de soi») hanno ottenuto tre fattori: Attore teatrale, Estroversione e Presentazione di se stesso. Essi inoltre hanno confermato la consistenza e la stabilità della scala e la sua validità esaminata con 124
Bibl.: Snyder M., Self-monitoring of expressive behavior, in «Journal of Personality and Social Psychology» 30 (1974) 526-537; I d., Self-monitoring processes, in L. Berkowitz (Ed.), Advances in experimental social psychology, vol. 12, New York, Academic Press, 1979; Lennox R. D. - R. N. Wolfe, Revision of the self-monitoring scale, in «Journal of Personality and Social Psychology» 46 (1984) 1349-1364; Livi S. - A. Pierro - L. Mannetti, Self-monitoring, controllo dello spazio conversazionale e distanza percepita in discussioni di piccoli gruppi, in «Rassegna di Psicologia» 17 (2000) 127-139; Gangestadt S. W. - M. Snyder, Self-monitoring: Appraisal and reappraisal, in «Psychological Bulletin» 126 (2000) 530-555; Gana K. - N. Brechenmacher , Structure latente et validité de la versione française du Self-Monitoring Scale: Échelle de monitorage de soi, in «L’Année Psychologique» 101 (2001) 393-420.
K. Poláček
AUTONOMIA In termini filosofici ed etici l’a. è una caratteristica secondo cui, specie dopo → Kant, è pensata modernamente la → libertà. Nella
AUTONOMIA SCOLASTICA
riflessione pedagogica, questo tema si presenta come un interrogativo dai precisi contorni: se l’apprendimento delle qualità sociali debba essere «diretto» ovvero «indiretto» ovvero ancora se debba o meno esistere una differenza fra i tratti richiesti alla personalità soggettiva per essere tale e quelli dell’apparato sociofunzionale in cui essa nasce, si svolge ed infine si inserisce. 1. Motivi. Il punto cruciale di svolta si è verificato con la riconduzione del processo educativo al principio del «continuum dell’esperienza» (→ Dewey), per cui non è possibile separare la meta dal cammino, il traguardo dal percorso ed il prodotto dal processo, in quanto un criterio costitutivo di connessione-congruità (continuum) ne lega tutti i punti, momenti e passaggi. Il primo tema essenziale della prospettiva dell’a. come categoria pedagogica va quindi ricercato e ritrovato nel rispetto della legge di personalizzazione, in virtù della quale soltanto l’esercizio diretto, coerente e concreto del cammino (proceduralità) permette il conseguimento delle qualità volute come esito (terminalità). Non ci può allora essere una società delle a. se non attraverso un’educazione che avvenga nell’a. (dove, cioè, lo svolgersi «per l’a.» non è separabile dall’essere «nell’a.»). Anche la → scuola rientra in questo orizzonte in quanto costituisce essa stessa un momento «generativo» (efficace, adeguato, aperto al futuro) della realizzazione del progetto educativo. Ora, il massimo di speranza progettuale perché la scuola (ogni singola scuola) raggiunga il suo coefficiente più elevato di valenza educativa (qualità pedagogica) coincide con il minimo di assimilazione alla burocratizzazione funzionale, relazionale e culturale. L’a. si presenta, pertanto, come il più elevato punto di sutura concettuale per la pensabilità della scuola, come luogo di promozione dell’intelligenza e come qualità complessiva del soggetto e del sistema. 2. Linee. Alcune linee operative rivestono una particolare e specifica importanza per trasferire queste indicazioni dal terreno semplicemente teorico a quello dell’attuazione concreta: a) sviluppare un rapporto più dinamico fra la programmazione nazionalecentralizzata e la → progettazione di scuola (istituto) e di classe; b) incrementare le occa-
sioni di autogoverno e di responsabilizzazione diretta degli studenti; c) aiutare le scuole ad affrontare e superare con la loro iniziativa problemi e difficoltà; d) rilevare e valorizzare i risultati e le innovazioni conseguite dalle scuole. In questo senso l’a. rappresenta la modalità di essere di una scuola pienamente educativa, la modalità di operare di una scuola pienamente efficace e la modalità di funzionare di una scuola pienamente professionalizzata, protesa a promuovere persone libere e responsabili. Bibl.: Crema F. E. - G. Pollini (Edd.), Scuola, a., mutamento sociale, Roma, Armando, 1989; Dalle Fratte G. (Ed.), A. della scuola e sviluppo formativo, Trento, Unoedizioni, 1994; Paino A.- G. Chiosso - G. Bertagna, L’a. delle scuole, Brescia, La Scuola, 1997; Falanga M., Il Regolamento dell’a. scolastica. Lettura e commento, Ibid., 2001.
C. Scurati
AUTONOMIA SCOLASTICA Consiste nell’assicurare ad ogni scuola potere d’iniziativa e risorse sufficienti per elaborare e realizzare un suo progetto (o suoi progetti) e costruirsi una propria identità. 1. Le ragioni e i contenuti dell’a. Anzitutto, essa permette alla comunità educativa di costruirsi sulle esigenze formative dei suoi membri: in sostanza è possibile predisporre una programmazione corrispondente alle varie situazioni e la responsabilità individuale e collettiva viene riconosciuta in tutta la sua potenzialità attraverso l’attribuzione di ambiti rilevanti di azione. In secondo luogo, l’a. favorisce la realizzazione della domanda espressa dal sistema sociale nel suo complesso e nelle sue componenti, trasferendo il momento decisionale vicino al livello esecutivo, consentendo il coinvolgimento di tutte le componenti interessate e conferendo maggiore elasticità all’organizzazione interna: in questo senso consente di realizzare una maggiore eguaglianza rispetto al tradizionale intervento centralistico di natura uniforme. Essa costituisce anche un contributo notevole al rafforzamento della qualità e dell’efficienza delle strutture formative in quanto 125
AUTONOMIA SCOLASTICA
facilita l’emergere di tutte le potenzialità valide, presenti in ciascuna unità scolastica. La scelta dell’a. corrisponde pure a un orientamento comune ai Paesi dell’Unione Europea: infatti, in un contesto di continuo mutamento la possibilità di soddisfare le esigenze che insorgono incessantemente dipende in primo luogo dalla rapidità degli interventi; inoltre, le probabilità di successo di un’innovazione sono maggiori quando l’insegnante ne è partecipe, la sente propria, ha contribuito personalmente ad elaborarla, approvarla, attuarla. Certamente l’a. non va confusa con una privatizzazione selvaggia; nemmeno si può pensare ad una pura abolizione del centro, né basta un semplice deconcentramento della struttura centralizzata dello Stato. L’a. deve invece assicurare l’esercizio della responsabilità educativa da parte del singolo istituto in un quadro unitario garantito dal centro. A questo spetterebbero compiti prevalenti di indirizzo, programmazione, sviluppo, coordinamento e valutazione; a sua volta l’unità scolastica dovrà diventare centro di attribuzione di tutti i poteri che le garantiscano il controllo sul complesso delle condizioni del suo funzionamento, in modo da poter fornire risposte efficaci alle domande di formazione che provengono dalla società. Il cuore dell’a. è costituito dal riconoscimento della competenza progettuale: ogni scuola dovrà essere messa in grado di elaborare un proprio progetto educativo in cui si rispecchi la sua identità e la sua fisionomia. A questo proposito devono essere attribuiti ad ogni unità scolastica poteri adeguati di a. didattica, formativa, organizzativa e finanziaria. 2. Evoluzione in Italia. Il modello di → amministrazione scolastica per lungo tempo soggiacente alla conduzione delle nostre strutture formative si ispirava a una scelta centralistica compiuta al momento della creazione del sistema nazionale di istruzione. Una nota distintiva di tale formula era costituita dall’accentramento del potere di direzione nel Ministero, mentre agli Enti Locali e ai singoli istituti veniva assegnata una funzione semplicemente esecutiva. L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana ha segnato un vero rovesciamento di fronte: da una parte si è affermata la validità del principio delle autonomie e dall’altra il sistema scolastico veniva impostato sulle grandi 126
opzioni della libertà, del pluralismo e della convergenza delle iniziative. Si è dovuto però attendere la L. n. 477/73 sugli organi collegiali per compiere un primo passo reale verso l’a. di gestione che, però, è rimasta molto limitata perché è mancato contemporaneamente un reale decentramento dell’amministrazione scolastica, né si è riusciti a stabilire relazioni efficaci con gli Enti Locali. Negli anni successivi è emerso con sempre maggiore chiarezza che il sistema di governo della scuola esigeva un rinnovamento profondo. Il Ministero della Pubblica Istruzione era divenuto una mega-organizzazione ingovernabile; inoltre, il singolo istituto non era in grado di gestire in prima persona e con un progetto unitario le relazioni con il contesto sociale. Dopo molti tentativi per arrivare a una riforma soddisfacente, un passo significativo verso la realizzazione dell’a. degli istituti nel nostro sistema scolastico viene segnato dall’art.21 della L. n. 59/1997. Con l’attribuzione della personalità giuridica esso contribuisce al potenziamento dell’autogoverno delle singole strutture formative; a sua volta, la normativa sull’a. didattica, organizzativa e finanziaria può facilitare alla singola scuola la realizzazione del compito di gestire la sua vita sulla base della libertà dei soggetti educativi. Venendo agli aspetti discutibili del provvedimento, va osservato che la normativa in questione costituisce una legge di decentramento che potenzia i poteri delle a. locali e territoriali in quanto articolazioni dello Stato, ma non sancisce una vera a., cioè l’autogoverno della comunità e della società civile. Bisogna ammettere che nei regolamenti successivi si riscontrano indicazioni significative nella direzione giusta; tuttavia, rimane pur sempre vero che le istituzioni scolastiche sono espressioni di a. funzionale nel quadro delle funzioni delegate alle Regioni e dei compiti e delle funzioni trasferite agli Enti locali. In seguito alla riforma del Titolo V per la prima volta, e in maniera formale, le istituzioni scolastiche e formative sono riconosciute autonome dalla nostra Costituzione (L. costituzionale n. 3/01). In altre parole tale riconoscimento dell’a. della scuola non è primariamente il frutto di una logica di bilanciamento dei poteri pubblici quanto piuttosto l’accoglimento del principio dell’autogoverno della comunità e della società civile, della sussidiarietà orizzontale.
AUTOREALIZZAZIONE
Essa è mirata in primo luogo a valorizzare le forze interne della scuola in un’ottica di responsabilizzazione e di autopromozione della comunità scolastica. Non si caratterizza per una impostazione autoreferenziale o aziendalistica, ma ritiene la scuola una istituzione aperta al contesto e integrata in esso, al servizio della società, agente di sviluppo socio-culturale e luogo di mediazione tra le istanze locali e le esigenze nazionali. Bisogna, però, dire che la sua attuazione sta procedendo a rilento. Al contrario andrebbe difesa contro le numerose tentazioni di neocentralismo a livello nazionale o regionale. Bibl.: Pazzaglia L. (Ed.), Uguaglianza, a., riforme nella scuola, Brescia, La Scuola, 1988; Romei P., A. e progettualità nella scuola, Firenze, La Nuova Italia, 1995; Dalle Fratte G., A. o decentramento?, in «Orientamenti Pedagogici» 46 (1999) 528-533; Fiorin I. - D. Cristanini (Edd.), Le parole dell’a., Torino, Petrini, 1999; R ibolzi L., Il sistema ingessato, Brescia, La Scuola, 2000; Bertagna G. - G. Govi - M. Pavone, Pof, a. delle scuole e offerta formativa, Ibid., 2001; Benadusi L. - F. Consoli, La governance della scuola, Bologna, Il Mulino, 2004.
G. Malizia
AUTOREALIZZAZIONE Tendenza della persona umana a espandere, sviluppare e realizzare in modo autonomo le proprie potenzialità fisiche, psichiche e sociali. 1. Secondo la teoria di → Jung il senso dell’esistenza sta nel processo di individuazione, ossia nella ricerca e nella scoperta di sempre nuove forme di adattamento attivo, grazie alle quali le caratteristiche specifiche della propria personalità vengono rispettate e i modelli culturali vengono integrati nel processo di crescita globale. Un tale concetto ha trovato una successiva rielaborazione in → Maslow, esponente di spicco della psicologia umanistica, secondo il quale la personalità non è da concepire come un aggregato di funzioni o di stati, ma come una totalità strutturata, un’unità inscindibile. Di conseguenza, la costruzione della personalità risulta essere un processo finalistico, l’a. appunto, rivolto
alla soddisfazione di tutti i → bisogni genuini dell’uomo, di tutte le sue aspirazioni, di tutte le tendenze che gli appartengono. 2. Per chiarire la sua concezione di a., Maslow propone una precisa teoria della → motivazione secondo cui l’uomo quanto più gratifica i propri bisogni istintivi, e attua e sviluppa le proprie potenzialità, tanto più ha la possibilità di essere felice. In tale dinamica della soddisfazione dei bisogni esiste, a suo parere, un’organizzazione gerarchica che viene imposta dall’organismo stesso. Al primo livello si collocano i bisogni fisiologici, che sono quelli più fondamentali, evidenti ed elementari (cibo, vestito, casa), dalla cui soddisfazione dipende la vita dell’individuo e l’emergere di altri fini, a carattere maggiormente sociale. Ad essi, se gratificati, si sostituiscono a un secondo livello i bisogni di sicurezza (protezione, stabilità, ordine), e a un terzo livello i bisogni di affetto, di amore e di appartenenza (amici, coniuge, figli, gruppo). Al quarto livello si trovano il bisogno e il desiderio di autostima e di stima da parte degli altri, il cui effetto consiste nell’impegno a conseguire una posizione sociale, un prestigio, una buona reputazione. Successivo e ultimo passo è l’a., ossia il diventare ciò che si è capace di diventare, facendo appello a tutta la personale ricchezza di potenzialità, così da raggiungere una personalità totale e integrata. 3. Duplice è l’effetto dell’a.: da un lato la → persona si orienta verso valori quali la bellezza, la verità, la perfezione, la giustizia, l’onestà, la lealtà; dall’altro essa consegue uno stato di salute psichica, grazie a cui è possibile operare continue scelte tra il mentire o l’essere onesto, il rubare o il non rubare, il pensare solo a se stesso o il prendersi cura di qualcuno. Vista in tale prospettiva, l’a. risulta essere un processo lento, fatto di piccoli passi, uno dopo l’altro, e non questione di un momento. 4. Dal punto di vista educativo, l’a. rappresenta una potente forza motivazionale, perché sfida continuamente la persona a superare lo stadio in cui attualmente si trova a vivere attraverso l’individuazione e l’attivazione di tutte le sue molteplici energie. Tuttavia, essa può anche rinchiudere la persona nel proprio 127
AUTORITÀ EDUCATIVA
mondo psichico e nella ricerca di sempre ulteriori soddisfazioni, a meno che non venga collocata in una più ampia prospettiva che accentui la dimensione della vita come responsabilità di fronte a compiti oggettivi e autotrascendenti. Bibl.: Grof S. - Ch. Grof (Edd.), Spirituelle Krisen: Chancen der Selbstfindung, München, Kösel, 1990; R ingel E., Selbstschädigung durch Neurose: psychotherapeutische Wege zur Selbstverwirklichung, Wien, Herder, 121991; M aslow A., Motivazione e personalità, Roma, Armando, 4 1992; Valles C. G., L’arte di essere se stessi, Roma, Città Nuova, 1995; Jung C. G., «Tipi psicologici», in Opere, vol. VI, Torino, Bollati Boringhieri, 21996; Anderson W., Corso di fiducia in se stessi. Sette stadi per raggiungere l’a., Milano, Corbaccio, 1998; A rena L. V., Iniziazione all’a. Un percorso verso la consapevolezza, Roma, Mediterranee, 1998; Garofalo D., Crescita umana e psicoanalisi. L’a. del Sé tra mente e società, Milano, Guerini e Ass., 2004; Frankl V. E., Alla ricerca di un significato della vita, Milano, Mursia, 4 2005; Shinyashiki E., Vivi come vuoi. Cinque passi per l’a., Milano, Italianova, 2005.
E. Fizzotti
AUTORITÀ EDUCATIVA Ad altre voci, soprattutto a → rapporto educativo, è demandato il tema dell’a.e. dal punto di vista del diritto, della morale, della politica (→ educazione, diritti e doveri degli → educatori, → legislazione educativa e scolastica). Infatti, la possibilità teorica e metodologica dell’a.e. è data dalla previa soluzione positiva di problemi quali la «significatività» dell’ → azione educativa, la legittimità di persone che influiscono sulla crescita di altre, la proponibilità di fini, valori e programmi che tale crescita determinano o condizionano. 1. Dal punto di vista strettamente pedagogico a. è correlativa a → libertà, condizione e traguardo della collaborazione, nell’esercizio del rispettivo compito, di educatore e di educando, singoli e comunità. Quanto al concetto di libertà/ → liberazione si possono distinguere due fondamentali orientamenti teorici e storici: volontaristico, che concepisce la libertà come indifferenza, facoltà di 128
fare o non fare, fare questo o quello, il bene o il male; e dinamico-operativo, secondo il quale la libertà è una qualità degli atti umani prodotti interattivamente dalla ragione e dall’affettività spirituale (volontà): orientato naturalmente al vero (teorico e pratico), volontà rivolta naturalmente al bene, intelligenza impegnata a illuminare sui mezzi più idonei a raggiungerlo. Secondo la prima concezione la libertà precede il conoscere e lo muove: essa è slegata dalle inclinazioni proprie della natura umana al bene, alla verità, alla felicità; è un postulato, un fatto primo dell’esperienza umana. La qualità morale degli atti, quindi, non può essere data da loro proprietà intrinseche, ma da obbligazioni e da norme provenienti da un’istanza superiore: Dio, stato, chiesa, società, imperativo categorico, idea, spirito oggettivo, super-io, classe, partito. Per la seconda concezione la libertà procede dalla ragione: è la qualità degli atti umani compiuti congiuntamente dall’intelletto e dalla volontà, in forza della decisione, che è «intelletto desiderante o desiderio riflesso» (Et. Nic. VI 2,1139 b 5). 2. Nella prima ipotesi l’a. dell’educatore sta alla libertà dell’educando nel tempo della crescita esattamente come la legge morale sta alla libertà dell’uomo nell’età adulta: nell’uno e nell’altro caso l’a. è regola, limite, freno ad una libertà intesa come sorgente di tutte le possibilità. L’a.e. è la rappresentazione vicaria della «legge» che sollecita l’obbedienza attuale dell’educando immaturo in funzione dell’obbedienza matura dell’età adulta. Educazione compiuta è accesso consolidato alla libertà, garantita dall’assunzione responsabile delle regole vissute dall’educatore stesso. Questi opera nei confronti dell’educando in più modi, alternando formazione della personalità, della volontà, del carattere, e illuminazione dell’intelligenza, regolazione e affinamento della sensibilità. Egli informa l’intelligenza sui fini dell’esistenza, presentando e illustrando all’educando le indeclinabili esigenze della legge morale, come permanente «forma di vita» (cultura morale); ne sottolinea la forza obbligante, la sacralità e insieme le virtualità umanizzanti quale autentica garanzia di «vera» libertà: servi simus legi ut liberi esse possimus (pedagogia dell’obbedienza, pedagogia della libertà); forma la coscienza
AUTORITÀ EDUCATIVA
dell’educando, rettificandone la capacità di giudizio morale, correggendone l’irriflessività e la volubilità e abilitandolo ad agire con equilibrio e saggezza; rafforza la volontà e il carattere, avviando l’allievo, oggi e per il futuro, coll’«esatto adempimento dei propri doveri», alla pratica costante, agile e gratificante dei molteplici impegni della vita (pedagogia del «dovere» e delle «virtù» ad esso funzionali). Potrebbe leggersi in quest’ottica quanto scrivevano → Lambruschini e già → Kant, precritico. «L’antica lite tra la Libertà e l’A. è una guerra tra due orgogli [...]. Umiliate l’uno e l’altro: e la pace è fatta. Allora la Libertà è la coscenza che rispetta la legge; e l’A. è la legge che rispetta la coscenza» (Dell’a. e della libertà. Pensieri d’un solitario, XXXIII). «L’uomo per natura è così inclinato alla libertà che, se per un certo tempo vi è abituato, le sacrifica poi tutto. Conviene adunque di buon’ora ricorrere alla disciplina [...]. Quindi si deve abituarlo per tempo a sottomettersi ai precetti della ragione» (La pedagogia, introduzione). 3. Diverso è il modo di interpretare e attuare la cosiddetta a.e. nell’ambito della seconda concezione della libertà prospettata. L’a. è l’offerta al soggetto in età evolutiva di una disciplina per un apprendistato dell’arte della vita secondo le regole che esso richiede. L’a. è essenzialmente a. di qualità, autorevolezza. Essa deriva, fondamentalmente, dal prestigio morale, dalla superiorità etica di un adulto esemplare, impegnato a sollecitare il giovane a matura riuscita umana. Con la sua opera di guida e di persuasione egli rende accette quelle norme e quei precetti che nello «spazio transizionale» della stagione educativa sono «provvisoriamente» indispensabili all’educando per produrre gli atti qualitativamente idonei a costruire capacità interiori consolidate di comportamenti e stili di vita («virtù»), che ne faranno un protagonista della propria vita, nel governo di sé e degli altri (→ prudenza) secondo giustizia, fortezza, temperanza. La disciplina implica una comunicazione di sapere e l’esercizio intelligente e libero di atti buoni, generati congiuntamente dall’intelligenza e dalla volontà. «La vera disciplina fa appello alle disposizioni naturali, al senso spontaneo del vero e del bene, alla coscienza del discepolo, e si pone al servizio della sua crescita mediante
regole che gli corrispondono in profondità. L’educazione è un servizio e una collaborazione» (Pinckaers, 1985). In un primo momento l’azione dell’educatore può essere sentita come limite; ma progressivamente tra l’educando e l’educatore si determina quella specie di dibattito dialettico, che costituisce l’essenza della relazione educativa intesa propriamente come rapporto tra la «libertà virtuosa» dell’adulto e la «libertà di atti» dell’educando in cammino verso la propria «libertà virtuosa». L’educatore, con il suo intervento esemplare e autorevole di «facilitatore» (→ Rogers) non annulla o soffoca in alcun modo la libertà dell’educando, ma contribuisce a farla emergere, a dilatarla, prevenendo errori e deviazioni dell’intelligenza e degli appetiti che sono a scapito del dinamismo proprio di crescita della libertà interiore. L’educazione che comincia con l’esteriore approda a una crescita interiore che sola può annodare come conviene i legami tra la legge morale, che è provvisorio mezzo «pedagogico», e la libertà per assicurare ciò che si potrebbe chiamare il decollo o il rodaggio di questa. Per questo l’a.-autorevolezza educativa è intrisa, indissolubilmente, di amore e di ragione: amore che «guadagna il cuore dell’allievo» (don Bosco) (→ amore educativo, → amorevolezza), ragione che tende a «far ragionare» («praticamente») l’alunno (→ ragione, ragionevolezza), aprendogli la via all’autonomia e responsabilità del pensare, del decidere e dell’agire. Bibl.: Laberthonnière L., Théorie de l’éducation, Paris, Bloud, 1901; Lambruschini R., Dell’a. e libertà. Pensieri di un solitario. Ediz. critica a cura di A. Gambaro, Firenze, La Nuova Italia, 1932; Braido P., Filosofia dell’educazione, Zürich, PAS-Verlag, 1967; P inckaers S. Th., Les sources de la morale chrétienne. Sa méthode, son contenu, son histoire, Paris, Cerf, 1985; Nanni C., L’educazione tra crisi e ricerca di senso. Un approccio filosofico, Roma, LAS, 1990; Bertagna G., Generazione giovanile ed educazione alla scelta, in «Orientamenti Pedagogici» 45 (1998) 585-602; Bruzzone D., Psicoterapia e pedagogia in Carl R. Rogers. Una ricerca sui contributi dell’approccio centrato sulla persona all’educazione, in «Orientamenti Pedagogici» 45 (1998) 447-465; Crepet P., Non siamo capaci di ascoltarli. Riflessioni sull’infanzia e l’adolescenza, Torino, Einaudi, 2001;
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AUTOVALUTAZIONE
Crea G. - O. Fabbri, Verso una leadership autorevole e strategica, in «Orientamenti Pedagogici» 52 (2005) 975-983.
P. Braido
AUTOSTIMA → Stima di sé
AUTOVALUTAZIONE L’a. consiste nel controllo che i soggetti operano sui processi attivati e sulle prestazioni attuate, al fine di apprezzarne la qualità. 1. In ambito educativo, può essere svolta da studenti, da docenti o dall’intero istituto scolastico. Tale pratica si sta diffondendo nei sistemi scolastici e nell’istruzione universitaria a livello internazionale, perché è utile per centrare l’attenzione dei soggetti sui criteri di qualità dei prodotti attesi, su carenze e punti di forza, per individuare strategie di miglioramento. A livello personale si tratta di una competenza essenziale per raggiungere la maturità umana, che comporta una sostanziale autonomia di giudizio anche rispetto alle condotte attuate e costituisce la premessa per apprendere a dirigere consapevolmente le proprie scelte. 2. La scuola deve formare all’a., cioè a rappresentarsi gli → obiettivi da raggiungere, ad assumere i criteri necessari per valutarsi, ad applicarli con obiettività. Lo studente deve imparare ad apprendere da solo, a gestire i suoi sforzi, a scegliere le vie più opportune, ovvero va formato non solo nell’ambito cognitivo, ma anche in quello metacognitivo, circa i processi che regolano il conoscere e quindi la valutazione dello stesso. Le forme di a. sono numerose e possono essere categorizzate sulla base dei processi che richiedono agli studenti. a) Alcune sono incentrate sulla prestazione e domandano agli allievi di identificare standard e/o altri criteri da applicare al loro lavoro e di formulare giudizi sul grado con cui essi hanno soddisfatto queste attese. b) Altre sollecitano la riflessione sulle proprie attitudini, abilità... Impiegano, di norma, → scale e questionari per tracciare il profilo individuale, analizzando alcuni tratti di personalità, gli stili di apprendimento, le preferenze personali. 130
3. Studi recenti attribuiscono numerosi effetti formativi alle pratiche di a., in riferimento agli aspetti cognitivi e metacognitivi, all’acquisizione delle competenze prefissate, al miglioramento delle prestazioni globali, allo sviluppo personale, alla competenza sociale, alle disposizioni affettive (atteggiamenti, motivazione, volizione, autostima). Vantaggi ulteriori riguardano il miglioramento delle strategie valutative e della professionalità del docente che le mette in atto. Bibl.: Blanchard J., Teaching and targets: self evaluation and school improvement, London, Routledge Falmer, 2002; M acBeath J. - A. Mc Glynn, Self-evaluation: whats in it for schools?, Ibid., 2002; M acBeath J. - H. Sugimine, Selfevaluation in the global classroom, Ibid., 2003; Cano E., Cómo mejorar las competencias de los docentes: guía para la autoevaluación y el desarrollo de las competencias del profesorado, Barcelona, Graò, 2005; Falchikov N., Improving assessment through student involvement, London, Routledge Falmer, 2005.
L. Calonghi - C. Coggi
AUTOVALUTAZIONE D’ISTITUTO → Valutazione AVVIAMENTO PROFESSIONALE → Formazione professionale AZIONE CATTOLICA → Movimenti ecclesiali
AZIONE DIDATTICA L’a. di insegnamento; più specificatamente l’a. di insegnamento che viene svolta in una istituzione scolastica o formativa da persona qualificata, alla quale è stato assegnato tale ruolo. Per essa viene anche usato il termine didassi. La scienza che la studia è la → didattica: una scienza spesso definita come pratico-prescrittiva in quanto tende a dare fondamento e orientamento operativo all’a. di insegnamento. 1. Dimensioni dell’a.d. Utilizzando le categorie proprie delle scienze pratiche individuate da → Aristotele, si può distinguere nella struttura dell’a.d. una dimensione tecnico-pratica e una dimensione etico-sociale. La prima dimensione dell’a.d. si riferisce alla progettazione, realizzazione e valutazione di
AZIONE DIDATTICA
uno spazio di → apprendimento valido ed efficace, cioè di un insieme di condizioni nelle quali l’allievo, o gli allievi, possa e voglia apprendere in maniera significativa, stabile e fruibile quanto inteso da parte del docente. La seconda dimensione dell’a.d. è data dalla qualità delle scelte, dei comportamenti, dei giudizi, delle relazioni che caratterizzano tale a. È qualcosa di intrinseco all’a. stessa e costituisce per l’allievo un riferimento continuo sia in quanto modello di atteggiamenti e di condotte, sia in quanto contesto interpretativo e valutativo di quanto viene attuato. 2. A. di insegnamento, a. di apprendimento e loro interazione. Lo spazio formativo costituisce il campo nel quale l’a. di insegnamento si esplica, e dal quale dipende la sua validità e fecondità. Esso è però anche il campo d’a. del discente e, più in generale, lo spazio dell’interazione tra → insegnante e allievi e degli allievi tra di loro. Lo slittamento di attenzione dai comportamenti esterni e relative tecniche di controllo e di modifica di matrice comportamentista ai processi interni di natura cognitiva e affettiva ha portato progressivamente a considerare sempre più da vicino il ruolo di tali processi nell’acquisizione e uso della conoscenza. È stato così riconosciuto che lo scenario entro cui si esplicano le a. dell’insegnante, quelle degli allievi, e le relative interazioni, non può essere descritto, compreso e spiegato se non si tiene conto dei pensieri e dei sentimenti che precedono, accompagnano e seguono tali a. In particolare viene segnalato il ruolo dei significati, delle motivazioni e delle intenzioni che le sollecitano, guidano e sostengono. Gli studi sui pensieri dei docenti hanno spesso utilizzato tre categorie di analisi, concernenti i pensieri che precedono l’a. di insegnamento o che la seguono (pensieri preattivi e postattivi) e quelli che l’accompagnano (pensieri interattivi). A queste è stata aggiunta la categoria che include le concezioni e convinzioni che essi hanno del proprio ruolo di insegnanti e di educatori. Alla prima categoria appartengono la progettazione e organizzazione concreta delle attività di apprendimento; alla seconda le riflessioni interne e i giudizi che le seguono; alla terza, i pensieri e le decisioni che hanno luogo nel corso dell’a.d. La quarta categoria costituisce come il quadro di riferimento che guida le attribuzioni di
significato e di valore nel corso dei pensieri preattivi e postattivi e di quelli interattivi. Questo mondo interiore si rende visibile e osservabile tramite i comportamenti che insegnanti e alunni manifestano in classe e tramite i risultati da questi ultimi conseguiti. La tradizione comportamentista si limitava allo studio di questi elementi esterni, evidenziando correlazioni od eventuali rapporti causali; oggi, con tecniche anche assai raffinate, si cerca di risalire all’origine cognitiva e in particolare alle intenzioni che hanno dato origine ai comportamenti esterni. Oltre a questo, occorre evidenziare un altro insieme di fattori che certamente entra in gioco in modo sostanziale nell’attività didattica. Si tratta dei sentimenti e delle emozioni che precedono, accompagnano o seguono l’a. degli insegnanti. Anche questi si esprimono nei loro comportamenti e hanno un influsso non indifferente nella creazione dello spazio o ambiente di apprendimento. Gli studi sulle attese che i docenti hanno in genere nei riguardi della scuola e specificatamente nei riguardi dei singoli alunni, le ricerche sulle attribuzioni causali relative alle iniziative riuscite o fallimentari, sull’attrazione e repulsione provate per determinati argomenti di studio, determinate attività didattiche e specifici alunni, ecc., hanno mostrato la complessità e profondità di tale gioco, spesso inconsapevolmente esplicato. L’a. di insegnamento, d’altra parte, anche se è un’a. intenzionale che mira a promuovere in modo sistematico l’acquisizione di conoscenze, capacità e atteggiamenti validi e produttivi, non può, però, produrre direttamente effetti di apprendimento, in quanto, come già ricordato, deve limitarsi a creare le condizioni che ottimizzano l’a. di apprendimento degli allievi nella direzione intesa dall’insegnante. E questo è inevitabilmente oggetto di opportune negoziazioni, esplicite o implicite, tra insegnanti e allievi, favorite da un contesto dialogico valido e fecondo. 3. Complessità dell’a. di insegnamento. Lo studio diretto dell’agire concreto dell’insegnante nella classe, cioè della sua capacità di gestire nella sua totalità lo spazio di apprendimento da lui stesso prefigurato, ne ha evidenziato la complessità. In tale capacità d’altra parte è stato individuato il cuore della sua professionalità e della sua competenza. 131
AZIONE DIDATTICA
Un insegnante esperto si differenzia da un principiante secondo un numero rilevante di elementi distintivi, tra cui si possono qui ricordare (Berliner, 1986): a) capacità di gestire e controllare la molteplicità e multidimensionalità degli elementi che concorrono a caratterizzare lo spazio di apprendimento contemporaneamente e immediatamente, cioè capacità di selezionare e interpretare ciò che è rilevante nella situazione concreta, da ciò che si può trascurare, e rapidità nel prendere decisioni che si rivelano congruenti ed efficaci. Il principiante si presenta incerto, insicuro, attento a troppe cose in modo globale e poco funzionale, ecc.; b) flessibilità nell’adattare i contenuti di insegnamento, i modi di insegnare, le forme di interazione, il sostegno alla → motivazione all’apprendimento secondo le esigenze dei diversi soggetti e in base alle situazioni che concretamente si presentano di volta in volta, tenendo conto della loro preparazione, del loro stato d’animo, delle loro reazioni, ecc.; il principiante si presenta rigido e poco capace di adattamento alla varietà dei casi particolari e delle situazioni concrete; c) conoscenza dei contenuti di insegnamento e dei modi attraverso i quali questi possono essere trasformati per poter essere appresi in modo significativo e stabile dai vari alunni, utilizzando forme di rappresentazione (iconiche, verbali, analogiche, ecc.) e collegamenti con quanto da essi già conosciuto e interiormente rappresentato sia nell’attività scolastica che nell’esperienza extrascolastica. Il principiante è assai legato alla maniera nella quale ha studiato l’argomento o nella quale questo viene esposto nel libro di testo. 4. L’analisi dell’a.d. L’a. di insegnamento, soprattutto negli anni settanta, è stata oggetto di analisi prevalentemente per quanto concerne il suo aspetto osservabile e categorizzabile. A questo fine sono state costruite griglie di osservazione sistematica secondo categorie determinate sulla base di varie teorie di riferimento. G. De Landsheere, ad es., ha esaminato i comportamenti sia verbali che non verbali del docente nel corso del suo insegnamento. Il passo successivo è stato quello di valorizzare i metodi osservativi così sviluppati nel contesto della formazione iniziale e in servizio degli insegnanti, utilizzando in particolare tecniche di microinse132
gnamento (De Landsheere, 1979 e 1981). 5. La componente etica dell’a.d. W. Brezinka ha sottolineato la centralità di quello che egli chiama l’ethos professionale degli insegnanti, cioè il loro senso morale o insieme delle proprie convinzioni morali nei riguardi della loro attività specifica. In altre parole si tratta dell’insieme degli atteggiamenti morali che una persona ha verso la propria attività professionale di insegnante e i particolari compiti e doveri che questa comporta (Brezinka, 1989). Questo senso morale è d’altra parte legato al mandato educativo a essi affidato dalla comunità nazionale e locale. Mandato educativo che è reso esplicito nelle norme costituzionali e di legge relative alla scuola in genere e ai vari livelli scolastici in specie, e interpretato sul piano operativo dai diversi programmi didattici. Tra le componenti dell’ethos professionale dei docenti, Brezinka considera fondamentali le seguenti: a) l’atteggiamento positivo verso gli alunni e il loro bene; b) l’atteggiamento positivo verso la propria comunità e verso il mandato educativo da questa affidato all’insegnante; c) l’atteggiamento positivo nei confronti della materia che deve insegnare; d) l’atteggiamento positivo verso le attività necessarie per l’esercizio della professione. Bibl.: Dussault G. et al., L’analisi dell’insegnamento, Roma, Armando, 1976; Ballanti G., Analisi e modificazione del comportamento insegnante, Teramo, Lisciani, 1979; De Landsheere G., Come si insegna: analisi delle interazioni verbali in classe, Ibid., 1979; De Landsheere G. - A. Delchambre, I comportamenti non verbali dell’insegnante, Ibid., 1981; Berliner D. C., In pursuit of the expert pedagogue, in «Educational Researcher» 15 (1986) 7, 5-13; Damiano E., L’insegnamento come a., in «Il Quadrante Scolastico» 11 (1988) 38, 23-48; Brezinka W., L’educazione in una società disorientata, Roma, Armando, 1989; Pellerey M., A. educativa e didattica, in «Il Quadrante Scolastico» 12 (1989) 42, 23-33; De Corte E. et al., Les fondements de l’action didactique, Bruxelles, De Boeck, 21990; M astromarino R., L’a.d., Roma, Armando, 1991; Damiano E., L’a.d. Per una teoria dell’insegnamento, Ibid., 1993; Pellerey M., L’agire educativo, Roma, LAS, 1998; Id., Educare, Ibid., 1999; Damiano E., La Nuova Alleanza, Brescia, La Scuola, 2006.
M. Pellerey
AZIONE EDUCATIVA
AZIONE EDUCATIVA Intervento intenzionale, individuale o di gruppo o sociale, volto a promuovere il divenire integrale della → personalità, individuale e/o comunitaria, nella sua globalità o in qualche suo aspetto (v. anche → a. didattica). 1. L’a. è al crocevia di soggettività ed oggettività, di passato, presente, futuro. In essa la novità e l’alterità delle persone, delle cose e degli eventi si incontrano nel vivo del divenire storico, sia nelle modalità quotidiane sia in quelle che hanno valore di evento per la vita propria o per quella comunitaria. Nell’a. essere, conoscere, valutare, decidere ed impegnarsi si danno in una dinamica dagli esiti non scontati. L’a. è infatti intimamente percorsa ed attraversata dal mondo delle intenzioni, dei progetti, delle volontà, delle speranze, delle attese, e prima ancora dal mondo dei bisogni, degli impulsi, dei desideri, delle aspirazioni individuali, di gruppo, collettive. 2. La riflessione sull’a. aiuta a comprendere l’intenzionalità educativa e a precisare meglio l’ → intervento educativo. In proposito può essere interessante la distinzione, ripresa da → Aristotele, tra prassi (praxis) e produzione (poiesis) (Et. Nic., VI,3-4, 1149 ss.), parallela alla distinzione di → Tommaso d’Aquino tra «actio immanens» (che rimane nell’agente, come il sentire, l’intendere, il volere) e «actio transiens» (che passa da chi opera in qualcosa di esterno, visto come prodotto) (Sum. Theol., I-II, q. 3, a. 2; e q. 111, a. 2), ed equivalente alla distinzione tra «agire» e «fare», presente un po’ in tutte le lingue. Essa permette di cogliere come l’educazione sia un agire che nasce nell’interiorità personale ed insieme un produrre parole, gesti, strumenti, condizioni, strategie, modelli che mediano il → rapporto educativo. In tal modo si evidenzia la responsabilità individuale e la corresponsabilità di gruppo o collettiva e la necessità di collegare in educazione tecnologia, teoria, etica e abilità.
3. La prospettiva tradizionale dell’educazione si incentrava quasi esclusivamente sull’attività intenzionale degli educatori. Un’analisi più approfondita mostra invece che in concreto l’educazione appare come un intersecarsi di azioni (sia nel senso largo di attività e di operazione in genere, sia nel senso specifico di agire cosciente e libero e di produzione di oggetti): oltre quelle degli educatori (in qualità di genitori, parenti, docenti, dirigenti, animatori, ecc.; individualmente o come team educante), quelle degli educandi (come figli, allievi, membri di gruppi o di associazioni, ecc.; come singoli e come gruppi variamente strutturati), e quelle di coloro che a vario titolo, direttamente o indirettamente, personalmente o istituzionalmente, si interpongono od intervengono come variabili concomitanti dell’a.e. Ciascuno interviene con proprie intenzioni, opera secondo modi personali, coopera o si pone come «frontiera interna» rispetto all’a. altrui. Si comprende come si richieda una → progettazione educativa e una concordata → programmazione educativa, nella prospettiva di una speciale processualità (→ processo educativo). 4. La filosofia dell’a. di indirizzo ermeneutico, aiuta a comprendere pure la situazionalità, la storicità e la singolarità propria dell’a.e., fino al suo carattere di evento in certa misura irrepetibile. Da ciò si evince la necessità di strategie conoscitive che individuino situazioni e → bisogni educativi nella loro contestualità; e trova rinnovata rilevanza la richiesta di una educazione contestualizzata e personalizzata (→ personalizzazione). Bibl.: Bubner R., A., linguaggio e ragione, Bologna, Il Mulino, 1985; Dalle Fratte G., La decisione in pedagogia, Roma, Armando, 1988; Blondel M., L’a., Cinisello Balsamo (MI), Pao line, 1993; Damiano E., L’a. didattica, Roma, Armando, 1993; Vayer P., La dinamica dell’a.e., Roma, Il Minotauro, 1999; G ramiglia A.., Manuale di pedagogia sociale: scenari del presente e a.e., Roma, Armando, 2003.
C. Nanni
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B BACCALAUREATO → Titoli di studio BADEN-POWELL Robert → Scautismo BAIN Alexander → Positivismo e educazione
BALBUZIE Disturbo del linguaggio che si manifesta sotto forma di ritardi, arresti, ripetizioni delle parole, per cui il ritmo e la melodia del discorso appaiono fortemente alterati. La b. compromette i passaggi tra l’ideazione e la realizzazione verbale, deforma gli stili di → comunicazione, condiziona le modalità di relazione sociale, accresce i conflitti emotivi e pregiudica la → stima di sé. La b. è più frequente nei maschi che nelle femmine. 1. Vi sono differenti tipi di b.: a) Tonica. Caratterizzata da un arresto all’inizio della parola con prolungamento della sillaba o anche solo del fonema difficile da pronunciare. b) Clonica. Si verifica quando c’è la ripetizione più o meno continua di una sillaba, specie della prima. c) Tonico-clonica. La si riscontra quando si sommano prolungamento e ripetizione fino a rendere quasi impossibile la comunicazione. d) Atonica. È caratterizzata dal blocco della parola. e) Parabolica. Compare quando l’eloquio è interrotto da parole o suoni che non hanno alcun rapporto con il senso del discorso. Dal punto di vista evolutivo esistono due tipi di b.: a) Primaria. Quando compare fin dall’inizio dell’acquisizione del linguaggio e quindi prima dei tre
anni. b) Secondaria. Se compare dopo un congruo periodo di linguaggio corretto. 2. L’eziologia della b. è diversamente spiegata. L’approccio organicistico sostiene che essa può essere determinata da alterazioni motorie, dalla predominanza dell’ortosimpatico, da fattori ereditari, da lesioni localizzate o diffuse del sistema nervoso centrale o periferico. L’approccio psicologico sottolinea che le spiegazioni di carattere organico non sono in grado di chiarire il perché ci sono delle b. che variano da un giorno all’altro in base: all’interlocutore, allo stato emotivo del soggetto, al contenuto del discorso, al contesto in cui si trova. Fa inoltre notare che la b. si attenua o addirittura scompare se il testo è conosciuto a memoria, se il soggetto canta, se parla con se stesso o con un animale. La b. è quindi vista come risultato del rapporto disturbato dell’Io con l’ambiente. Secondo la teoria del conflitto appreso la genesi della b. è legata ad un contesto familiare frustrante, per cui i genitori reagiscono in modo critico ai tentativi di pronunciamento delle prime parole da parte del bambino. Per la teoria psicoanalitica la b. è un sintomo che si colloca tra la nevrosi ossessiva e l’isteria di conversione. Sullo sfondo sono interessati l’erotismo orale, anale e fallico, vissuti in modo estremamente ambivalente (amore-odio). Più precisamente, la b. che insorge nella prima infanzia è interpretabile soprattutto come conflitto tra autonomia-dipendenza dalla madre, mentre quella che compare in età scolare va intesa come sintomo di ansia di competizione, dove sono più presenti aspetti della 35
BAMBINO
fase anale (trattenere-espellere) e della fase fallico-edipica (esibizione-antagonismo). 3. A seconda delle spiegazioni eziologiche fornite, vengono proposti: interventi ortofonici, psicoterapeutici o di tipo misto (correzione dell’articolazione fonatoria e psicoterapia). Bibl.: A nzieu A. et al., Psicoanalisi e linguaggio. Dal corpo alla parola, Roma, Borla, 1980; Cippone De Filippis A., Turbe del linguaggio e riabilitazione, Roma, Armando, 1993; Minuto I., Le patologie del linguaggio infantile, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1994; Strocchi M. C., B. Il trattamento cognitivo-comportamentale, Gardolo, Erickson, 2003; D’ambrosio M., B. Percorsi teorici e clinici integrati, Milano, McGraw-Hill, 2005; Bitetti A., B., Roma, Armando, 2006.
V. L. Castellazzi
nizzare in maniera equilibrata le componenti affettive, sociali, morali e cognitive della sua personalità, grazie alle sue potenzialità che l’educazione è chiamata a promuovere. 2. A questa cultura è legato il riconoscimento di diritti inalienabili del b. in quanto persona: alla vita, alla salute, all’educazione e al rispetto dell’identità individuale, etnica, linguistica, culturale e religiosa. Bibl.: Paparella N., Sviluppo del b. e crescita della persona, Brescia, La Scuola, 1984; M acchietti S. S. (Ed.), Il b. e… l’educazione, Roma, Euroma-La Goliardica, 2005; M acchietti S. S. (Ed.), B. protagonisti tra scuola e famiglia, Ibid., 2006.
S. S. Macchietti
BANCHE DATI → Informatica BARBIANA → Milani Lorenzo BARBONI → Emarginazione
Bambino Con questo termine viene indicato l’essere umano nell’età dell’infanzia (0-6 anni); a livello internazionale tuttavia è diffusa la tendenza ad usare questa parola anche per indicare il fanciullo e il preadolescente.
BARNABITI
1. Considerato homunculus nel mondo classico, il b. è messo in particolare luce nel Vangelo, dove si afferma il primato dell’infanzia nel Regno, e lo si riconosce quindi come persona, il cui valore deriva dalla sua origine divina, e come titolare di una dignità che gli è coesseziale. Tuttavia nel corso dei secoli è stato considerato e rappresentato in coerenza con le istanze culturali prevalenti e la sua vita è stata fortemente condizionata da quella degli adulti e in particolare della famiglia. Dall’Ottocento in poi sono sorte e si sono affermate specifiche istituzioni educative (asili e giardini infantili, → asili-nido, scuole materne, scuole dell’infanzia) ed è stata elaborata, con il concorso di numerose scienze umane (pedagogia, psicologia, sociologia, antropologia culturale...) una cultura dell’infanzia che riconosce il b. come soggetto attivo, capace di interazione con i pari, gli adulti, l’ambiente, e quindi di perseguire competenze di tipo comunicativo, espressivo, logico, operativo, di maturare e di orga-
1. I B., chiamati così dal nome della loro prima sede, la chiesa milanese di s. Barnaba, si propongono originariamente la riforma dei costumi e l’educazione religiosa del popolo mediante l’apostolato delle «confessioni, predicazioni, opere di pietà e di misericordia». La codificazione definitiva delle costituzioni dell’Ordine viene realizzata, nel 1579, sotto la guida di s. Carlo → Borromeo.
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Chierici Regolari di s. Paolo - Ordine religioso fondato a Milano nel 1530 da s. Antonio Maria Zaccaria (1502-1539).
2. All’inizio del Seicento, ha luogo un deciso mutamento nell’orientamento di fondo: l’Ordine comincia a occuparsi dell’educazione dei giovani, e l’impegno nella scuola finisce per caratterizzare in seguito l’opera dei B., divenuta più intensa con la soppressione dei → Gesuiti (sec. XVIII). Il documento pedagogico più significativo, Exterarum scholarum disciplina (1666), è una sorta di ratio molto vicina a quella gesuitica e segna l’impegno dei B. nel campo dell’educazione: «Sebbene essi non siano nati, contrariamente all’opinione corrente, per l’educazione della
BASILIO DI CESAREA
gioventù, dalle loro scuole e collegi sono uscite schiere di alunni illustri in ogni campo; nell’insegnamento universitario e nella ricerca scientifica hanno contato autentici maestri» (Erba, 1975, 948). 3. Tra gli istituti educativi prestigiosi diretti dai B. vanno ricordati il collegio Carlo Alberto di Moncalieri (1838), per la formazione dei quadri dirigenti del Piemonte e dell’Italia risorgimentale, e quello di s. Giovanni alle Vigne di Lodi. Alcuni scritti pedagogici dei B., come quelli di A. Teppa (1806-1871), hanno avuto notevole influsso sugli educatori cristiani dell’Ottocento (v. anche → Congregazioni insegnanti maschili). Bibl.: Erba A. M, «Chierici Regolari di San Paolo (B.)», in G. Rocca (Ed.), Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. 2, Roma, Paoline, 1975, 946-974; Bianchi A., L’istruzione secondaria tra barocco ed età dei lumi. Il collegio di S. Giovanni alle Vigne di Lodi e l’esperienza pedagogica dei B., Milano, Vita e Pensiero, 1993; Bonora E., I conflitti della Controriforma. Santità e obbedienza nell’esperienza religiosa dei primi B., Milano, Le Lettere, 1998; Prellezo J. M., «B., pedagogia dei», in Enciclopedia filosofica, vol. 2, Milano, Bompiani/Fondaz. C.S.F. Gallarate, 2006, 1059-1060.
J. M. Prellezo
BAROLO Marchesi di → Scuola dell’infanzia BASEDOW Johann → Filantropismo/Filantropinismo
BASILIO DI CESAREA n. a Cesarea di Cappadocia nel 330 ca. - m. nel 379, padre della Chiesa, santo. 1. Nato in una famiglia nobile e cristiana, compie brillanti studi a Cesarea, Costantinopoli e Atene, dove diviene amico di Gregorio di Nazianzo. Il giovane B. si dedica con entusiasmo agli studi classici. Gli viene offerta la cattedra di «retore», a Neocesarea, che egli rifiuta: è il tempo della sua conversione e del suo ritiro, è la scoperta di Dio. Poi è la volta della scoperta della via alla perfezione, cioè la meditazione della Scrittura (Lett. 2, 3; PG 32, 288), alla base delle sue Regole. Termina-
ti gli studi, verso il 358 chiede il battesimo; si dà alla vita ascetica di cui diviene legislatore. Nel 370 è nominato vescovo di Cesarea. Scrive tra l’altro, il Discorso ai giovani. 2. I monasteri di B. offrono anche scuole (paragonabili agli attuali seminari minori) per ragazzi. L’educatore ha il compito d’insegnare al giovane «dall’inizio le nozioni elementari» del bene e del male, di presentargli «esempi di pietà», in modo che l’educando possa giudicare prontamente ciò che è bene e ciò che è male; ne deriverà, infine, che «l’abitudine acquisita gli procurerà la facilità di agire bene» (cfr. 15a Grande Regola; PG 31, 952-957). Sullo sfondo del Discorso si avverte il problema dell’incontro/scontro storico fra Cristianesimo e cultura pagana (o esterna). Il significato del Discorso, che si rivolge a giovani studenti (15/16 anni), parenti di B., e indirettamente a persone di cultura, è di proporre consigli per utilizzare gli scritti della letteratura classica e, al tempo stesso, offrire una proposta di ascesi cristiana. L’operetta, finalizzata a valorizzare l’ideale monastico presso giovani, parenti di B. e legati alla cultura classica, sarà ripresa in seguito e messa alla portata di tutti i giovani. 3. La struttura del Discorso, si articola in due parti: nella prima sono presi in considerazione gli scritti della letteratura profana, nella seconda sono oggetto di riflessione i comportamenti positivi presenti nella cultura e nella vita dei pagani, la cui utilità non è da disattendere. La conclusione riafferma il motivo dominante dell’operetta, quello di una certa qual convergenza a livello pedagogico degli autori profani e della Scrittura, che rappresenta il vertice della → paideia cristiana. In concreto, ai giovani frequentatori della scuola pagana, B. illustra la funzione propedeutica di essa nel comprendere i sacri insegnamenti dei misteri. La finalità fondamentale del Discorso ai giovani è formare nell’animo giovanile la capacità di compiere scelte critiche, prospettando alla loro libertà di giudizio i criteri essenziali. Ma per essere cristianamente critico il giudizio di scelta dev’essere in grado di discernere quanto ci riguarda specificamente. Bibl.: Jaeger W., Cristianesimo primitivo e paideia greca, Firenze, La Nuova Italia, 1966; Nal-
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BELLEZZA
M. (Ed.), B.d.C., Discorso ai giovani. Oratio ad adolescentes, Firenze, Nardini, 21990, 9-77; Pasquato O., Educazione classica e educazione cristiana nella storiografia di H. I. Marrou, in «Orientamenti Pedagogici» 34 (1987) 11-40; Spidl ik T., «S.B.d.C.», in M. Midali - R. Tonelli (Edd.), Dizionario di pastorale giovanile, Leumann (TO), Elle Di Ci, 21992,1094-1097. dini
O. Pasquato
BEDA Venerabile → Medioevo BEDALES → Scuole Nuove BELL Andrew → Mutuo insegnamento
BELLEZZA Il valore semantico del termine rinvia all’idea del «bello» che a sua volta implica concetti come «gusto», «canone estetico», «armonia», «opera d’arte», «natura», «cultura». Sia l’arte sia la natura riverberano la loro b.; essa possiede una propria «oggettività»; questa è tuttavia interpretata in ragione di codici – ovvero di sistemi di regole – che «soggettivamente» l’uomo acquisisce e matura attraverso un processo di etero- e autoformazione. 1. Il contatto con le forme e i contenuti della b. presiede all’educazione estetica (→ educazione artistica) del soggetto, la cui formazione è interessata dalle esperienze del «bello» che egli porta a compimento nel suo rapporto con le arti figurative, la musica, la letteratura e la poesia, la scultura, la danza ma anche con il cinema, la fotografìa, il teatro, i media e nel contatto con la natura e il mondo della tecnica. L’elemento estetico – ha osservato → Dewey – armonizza la libertà dell’espressione individuale. Tale libertà conforma lo stato d’animo di chi, vivendo il «sentimento del bello», prova piacere. Da → Kant a → Tolstoj, il nesso fra b. e piacere estetico risalta evidente. Dalla classicità ad oggi, Venere permane il simbolo e il paradigma della b. e ciò poiché natura e arte vi si fondono in una rappresentazione del bello che le culture dell’umano vogliono sia esplicitata da una profonda e intima unità. S. → Agostino richiamando l’idea di b., rievoca l’equilibrio fra le parti grazie al quale un insieme diventa appunto «unità». 138
2. Evidente e amabile – così Platone la definisce nel Fedro –, la b. sottende una contemplazione amorosa e ideale del bello a cui non è estranea l’idea di bene, da Plotino investita del potere di fornire «la b. a ogni cosa». È per questo che Hegel attribuisce alla b. il compito di rendere «sensibile» l’Idea, cioè di avvalorare la rappresentazione reale di ciò che è spirituale. Quando a metà del Settecento A. G. Baumgarten scrive la prima Aesthetica, la b. o il bello vi dimorano quali rappresentazioni sensibili di ciò che è perfetto. Ad essa Kant collegò il concetto di sublimità (→ stupore). In una certa misura, anche l’estetica crociana conferisce all’espressione l’onere di simboleggiare la b. L’estetica del secondo Novecento, e in particolare la semiotica dell’arte, hanno messo a punto teorie della «generazione» e della «ricezione» del testo estetico in cui sono distinte e salvaguardate l’autonomia critica dell’artista e quella del destinatario fruitore dell’opera. Da entrambi si chiede siano rispettate l’identità e la diversità. Da ciascuno si desidera venga promossa e difesa l’originalità culturale nella «scrittura» o nella «lettura» dell’opera d’arte. Così, ogni educazione al bello invera una scuola di libertà, di eticità, di civicità. 3. Le prospettive pedagogiche procedono nella direzione di un’educazione estetica capace di vivificare quell’«armonia interiore» a cui le Lettere sull’educazione estetica dell’uomo – stese da F. Schiller – fanno puntuale riferimento. La cultura estetica si salda, pertanto, alla cultura pedagogica, mentre l’idea di b. si approssima al discorso etico. Per questo L. Pareyson ha potuto scrivere che «solo l’educazione estetica è in grado di mediare il passaggio dall’uomo fisico all’uomo morale». Bibl.: Pareyson L., Estetica. Teoria della formatività, Milano, Edizioni di Filosofia, 1954; Schiller F., Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, Firenze, La Nuova Italia, 1970; Bertin G. M., L’ideale estetico, Ibid., 1974; Gennari M., L’educazione estetica, Milano, Bompiani, 1994; Dewey J., Arte come esperienza e altri scritti, trad. it. a cura di A. Granese, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995, Eco U., Storia della b., Milano, Bompiani, 2004.
M. Gennari
BENESSERE
BELLO Andrés n. a Caracas nel 1781 - m. a Santiago del Cile nel 1865, letterato, giurista ed educatore venezuelano. 1. Vive in un periodo travagliato della storia del suo Paese. Dopo gli studi umanistici ottiene il grado di «Bachiller de Artes» presso l’università di Caracas. All’inizio della guerra dell’indipendenza del Venezuela (1810), B. fa parte della missione inviata in Inghilterra dal governo insurrezionale. Nel periodo londinese (1810-1829), alterna l’attività diplomatica con gli studi filosofici e letterari, prendendo contatto con la cultura europea. Fonda le riviste «La Biblioteca Americana» e «El Repertorio Americano». Nel 1829 si stabilisce in Cile e collabora al progetto di riforma dell’ → Università, di cui diviene rettore (1843-1865). Oltre alla celebre Gramática castellana (1847), vanno ricordati altri saggi: Escuelas dominicales y de adultos (1831), De la enseñanza secundaria y de la profesional y científica (1832), Educación popular (1843), Estudios universitarios (1853). 2. Per B., l’educazione popolare costituisce la base di ogni progresso sociale e il fondamento irrinunciabile delle istituzioni repubblicane. Da tale presupposto scaturisce l’urgenza di scuole che siano «focolari di cultura», con «buoni maestri» e «buoni metodi». In stretto rapporto con questa urgenza si colloca l’Università, concepita non come un «centro asettico di studi astratti», ma come un luogo di studio critico e di ricerca «utile», che formi persone capaci di «pensare da sé» e promuova il progresso sociale della nazione. Per la sua instancabile opera di diffusione dell’educazione, B. è stato chiamato «liberatore intellettuale dell’ → America Latina», «educatore del Continente» e «il più grande umanista di Iberoamérica». Bibl.: Torzan-Dager S.T., «A.B. y la pedagogía», in Cuarto libro de la Semana de B. en Caracas, Caracas, Ministerio de Educación, 1955; Prellezo J. M., A.B. en el bicentenario de su nacimiento (1781-1981), in «Orientamenti Pedagogici» 28 (1981) 1037-1049; Seminario di studi latinoamericani (Ed.), Il pensiero pedagogico di B., Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1981;
Bocaz L., A.B. Una biografía cultural, Bogotá, Convenio Andrés Bello, 2000.
J. M. Prellezo
BENE COMUNE → Educazione socio-politica BENEDETTO DA NORCIA → Medioevo
BENESSERE Stato armonico di salute psicofisica, garantito da un ottimo livello di vita e da vantaggi equamente distribuiti. 1. Dal punto di vista sociale, il b. è associato a un livello economico di agiatezza, caratteristico soprattutto dei paesi del primo e del secondo mondo e delle classi elevate all’interno del terzo mondo, da cui deriva la soddisfazione di tutte le esigenze personali, familiari e istituzionali. Nella prospettiva della dottrina sociale, lo → Stato sociale o del b. garantisce a ogni cittadino il rispetto, la salvaguardia e la promozione dei suoi propri diritti attraverso lo stanziamento di opportune somme di danaro pubblico e l’offerta di adeguate strutture di assistenza o di servizi di soddisfacimento dei bisogni vitali individuali, familiari, di gruppo, collettivi. 2. Dal punto di vista fisico, il b. rappresenta uno stato ottimale di salute dovuto a una buona funzionalità organica. Perché ciò si verifichi, è indispensabile che il soggetto abbia la possibilità di muoversi senza bisogno di appoggi e senza essere impedito da ostacoli insormontabili, di essere protetto da eventuali rischi e pericoli, di disporre di mezzi clinici e terapeutici in caso di improvviso malessere, di poter usufruire delle necessarie ore di sonno e di una sufficiente quantità di cibo. 3. Dal punto di vista psicologico, il b. costituisce uno stato interiore di equilibrio e di serenità, di vigore e di rilassamento, grazie al quale il soggetto è in grado di far fronte alle frustrazioni inevitabili della vita quotidiana e alla stanchezza che le accompagna, riuscendo, allo stesso tempo, a prendere delle decisioni impegnative, valutandone la portata e sapendole inserire nel flusso generale dell’esistenza. Così inteso, il b. non esclude 139
BERTIN GIOVANNI MARIA
le tensioni che il soggetto vive a motivo del processo di crescita personale cui è sottoposto oppure del tessuto relazionale in cui agisce, ma fa leva proprio sulla loro complessa interazione, nella certezza che non si è mai soli, che si è legati a un patrimonio culturale racchiuso nel passato e pur sempre vivo nel presente, che si hanno sempre delle possibilità e delle potenzialità da realizzare nel futuro. Bibl.: Fromm E., I cosiddetti sani, Milano, Mondadori, 1996; Fizzotti E. (Ed.), Nuovi orizzonti di b. esistenziale. Il contributo della logoterapia di V.E. Frankl, Roma, LAS, 2005; Fata A., Armonia b. felicità, Cagliari, Punto di Fuga, 2005; Layard R., Felicità. La nuova scienza del b. comune, Milano, Rizzoli, 2005; M arocco Muttini C., Educazione e b. in adolescenza, Torino, UTET Università, 2006; Venuto P., Com’è straordinaria la vita! Piccolo dizionario del b., Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2006; Rychen D. E. - L. H. Salganik, Agire le competenze chiave. Scenari e strategie per il b. consapevole, Milano, Angeli, 2007.
E. Fizzotti
BENI CULTURALI → Ambiente → Educazione artistica BEREDAY George → Educazione comparata BERNSTEIN Basil → Nuova sociologia dell’educazione
BERTIN Giovanni Maria n. a Mirano-Venezia nel 1912 - m. a Bologna nel 2002, pedagogista italiano. 1. Nato a Mirano (Ve) e formatosi alla scuola milanese del razionalismo critico di Antonio Banfi, per trent’anni ha svolto la sua attività di ricerca e di docenza presso l’Università di Bologna dove è stato il primo preside della facoltà di Magistero (dal 58 al 69). 2. Maestro di molte generazioni di educatori, insegnanti e ricercatori, ha orientato i suoi studi e la sua riflessione in una pluralità di direzioni, dall’estetica al misticismo religioso, dalla letteratura alla filosofia considerandone le implicazioni e le ricadute in relazione al suo ambito di ricerca privilegiato: la filosofia 140
dell’educazione. La prospettiva che ha elaborato – il problematicismo pedagogico – si caratterizza per il rigore antidogmatico e per il richiamo a un incessante esercizio critico volti a decifrare la complessità dell’esperienza educativa (relazione fra educatore e soggetto educativo, direzioni e obiettivi educativi, metodologie per realizzarli), nonché della problematicità che la connota, al suo interno e come condizionamento da parte del contesto socioculturale. Il percorso di superamento della problematicità viene proposto in direzione di «ragione», intesa come istanza regolativa di integrazione reciproca dei diversi tasselli che costituiscono l’esperienza, anche di quelli che appaiono più distanti, conflittuali, antinomici. Tale ragione, definita «proteiforme», si pone in termini di mescolanza fra intelligenza e affettività, immaginazione e impegno etico, e prefigura un modello di soggetto teso a progettare e costruire la propria esistenza nell’orizzonte del possibile e della differenza, scegliendo l’«inattuale» e osando l’utopico. Bibl.: a) Fonti. Tra le opere più significative di B.: Etica e pedagogia dell’impegno, Milano, Marzorati, 1953; Educazione alla ragione, Roma, Armando, 1968; Crisi educativa e coscienza pedagogica, Ibid., 1971; Costruire l’esistenza (in coll. con M. Contini), Ibid., 1983; Ragione proteiforme e demonismo educativo, Firenze, La Nuova Italia, 1987. b) Studi: Contini M. (Ed.), Tra impegno e utopia. Ricordando G.M.B., Bologna, CLUEB, 2005.
M. Contini
BERTOLDI Franco n. a San Candido (Bz), il 15 dic. 1920 - m. a Trento il 21 marzo 2005, pedagogista e didatta di ispirazione personalistico-cristiana. 1. Maestro elementare, insegnante di tedesco e di diritto nella secondaria, pubblicista di quotidiani locali e nazionali («Il Sole 24 Ore»), libero docente e poi ordinario di pedagogia e didattica, ha insegnato a Roma-La Sapienza, alla Cattolica di Milano e di Brescia e a Trento, dove fondò il Seminario permanente di pedagogia e l’Osservatorio sulla didattica.
BETTELHEIM BRUNO
2. La sua esistenza e l’essere stato allievo di N. Bobbio, con cui si laureò a Padova, lo rese attento ai rapporti tra scuola, economia e vita sociale. L’incontro e la guida di A. → Agazzi gli diede chiarezza teorica e solidità pedagogica, ponendolo in primo piano tra i pedagogisti personalisti-cattolici, in consonanza con l’adesione alla fede cattolica, quasi da «convertito», maturata agli inizi degli anni ’50. Le stimolazioni della «teoria dei sistemi» e della logica formale contribuirono a dare rigorosità e sistematicità alla sua indagine sull’azione didattica, al suo insegnamento e pratica della sperimentazione didattica, alla promozione dell’educazione a distanza e nella formazione degli insegnanti. Le sue esigenze personalissime di verità e di razionalità lo portarono a tematizzare la qualità della «certezza pedagogica» e il senso dell’«intenzionalità pedagogica». Negli ultimi anni si dedicò all’«orientamento di personalità», alla formazione «fra» adulti, alla istituzionalizzazione di «centri di cultura», per la promozione della cultura locale (in cui inserì un sapienziale recupero della cultura cristiana) e a iniziative di cooperazione internazionale. Bibl.: a) Fonti: Trattato di didattica, 2 voll., Bergamo, Minerva Italica, 1978-’79; Critica della certezza pedagogica, Roma, Armando, 1981. b) Studi: Bombardelli O., Problemi dell’educazione alle soglie del duemila. Scritti in onore di F.B., Trento, Dipart. di Scienze Filologiche e Storiche, 1995.
C. Nanni
2. B. unisce alle istanze della ricerca teoretica, quelle della pratica educativa, affermando la necessità continua di interazione fra l’esperienza educativa e la riflessione su di essa. Su tale principio costruisce il concetto di «competenza pedagogica» e di «intenzionalità» in campo pedagogico. Prima lo scoutismo, poi (1958-’68) la direzione del carcere minorile «Cesare Beccaria» di Milano, sono i campi d’esperienza da cui B. ha tratto gli elementi fondamentali per la sua elaborazione pedagogica. 3. È stato promotore di una ricerca pedagogica soprattutto in tre direzioni: la dimensione epistemologica aperta al dialogo con le altre scienze; l’attenzione alle realtà educative del territorio e alle sue istituzioni; la centralità della comunicazione educativa e del ruolo che svolgono i media. Nel 1973 fonda la rivista «Infanzia». Alla fine degli anni ’80 dà vita al Centro Studi di Pedagogia fenomenologica «Encyclopaideia» (e alla rivista omonima) a cui partecipano studiosi universitari e non, e che diventa un indirizzo scientifico-culturale nell’ambito della pedagogia italiana, con collegamenti a livello internazionale. Bibl.: a) Fonti: B. P., Per una pedagogia del ragazzo difficile, Bologna, Malipiero, 1965; I d., L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1988; Id., Ad armi pari. La pedagogia a confronto con le altre scienze sociali, Torino, UTET, 2005. b) Studi: Dallari M. - M. Tarozzi (Edd.), Dialoghi con P.B., Torino, Thélème, 2001; Tarozzi M. (Ed.), Direzioni di senso. Studi in onore di P. B., Bologna, CLUEB, 2006.
R. Farné
BERTOLINI Piero n. a Torino nel 1931 - m. a Bologna nel 2006, pedagogista italiano. 1. All’Università di Pavia, dove si laurea in Filosofia, è allievo di Enzo Paci che lo introduce alla fenomenologia husserliana. Sarà un’esperienza decisiva per B., sul piano personale e professionale, caratterizzando il suo futuro orientamento scientifico, teso alla costruzione di una pedagogia come scienza fenomenologica.
BÉRULLE Pierre → Oratoriani
BETTELHEIM Bruno n. a Vienna nel 1903 - m. a Silver Spring, Maryland, nel 1990, psichiatra e psicoanalista austriaco. Acquisita la sua formazione psicoanalitica a Vienna, dopo essere stato internato per motivi razziali per un anno nei campi di concen141
BIBBIA
tramento di Dachau e di Buchenwald, B. nel 1939 si trasferisce negli Stati Uniti. B. si rifà alla psicologia dell’Io integrato dai contributi di → Dewey e dalla psicologia cognitiva di → Piaget. Il suo nome è particolarmente legato alla famosa Sonia Shankman Orthogenic School dell’Università di Chicago per bambini autistici, da lui diretta per quasi trent’anni. Secondo B. la causa del ritiro autistico risiede nell’interpretazione corretta da parte del bambino dell’atteggiamento negativo con cui gli si accostano le figure significative del suo ambiente. Stante il suo radicale egocentrismo, il bambino finisce poi per attribuire a se stesso gli eventi distruttivi provocati dall’esterno. Ciò determina in lui una situazione estrema, caratterizzata dalla perdita della speranza e del senso della vita, dal momento che qualsiasi cosa egli faccia finisce sempre per essere da lui percepita come fonte di distruzione per sé e per gli altri. Secondo B., stante alla base un rapporto distorto con i genitori, è necessario togliere il bambino autistico dal suo ambiente familiare e collocarlo entro un’istituzione globale, in cui possa vivere un’esperienza emotiva in grado di attenuare gradualmente le sue fantasie distruttive. Attualmente tale modello terapeutico appare superato. Bibl.: a) Fonti: opere di B. tradotte in it.: Il prezzo della vita, Milano, Adelphi, 1965; L’amore non basta, Milano, Ferro, 1967; I figli del sogno, Milano, Mondadori, 1969; Le ferite simboliche, Firenze, Sansoni, 1973; La fortezza vuota, Milano, Garzanti, 1976; Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Milano, Feltrinelli, 1977; Sopravvivere, Ibid., 1981; Un genitore quasi perfetto, Ibid., 1987; Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa, Milano, Adelphi, 1998. b) Studi: Fratini C., B.B. Tra psicoanalisi e pedagogia, Napoli, Liguori, 1993; Sutton M., B.B. Una vita, Firenze, Le Lettere, 1997.
V. L. Castellazzi
BIBBIA La B. è oggi largamente riconosciuta come il «grande codice» (N. Frye) della cultura occidentale ed ancora di più, per milioni di persone – da oltre venti secoli – vale come 142
documento di fede, anche in ciò che concerne l’educazione. Ciò legittima una doverosa e critica attenzione ai valori che essa propone. L’argomento sarà pertanto affrontato da due punti di vista: quale educazione viene proposta dalla B.; come la B. in quanto libro sacro della religione ebraico-cristiana può essere valorizzata in funzione educativa, specificamente religiosa. 1. La concezione di educazione nella B. È doveroso dire subito che l’educazione in senso stretto non è un tema centrale della B. Essa fa delle affermazioni generali, dona delle indicazioni indirette, suscita conclusioni non di rado congetturabili. Danno una qualche luce documenti educativo-scolastici del medio oriente antico (Egitto e Mesopotamia) per i tempi prima di Cristo (AT), mentre per i primi cristiani (NT) continua a valere l’eredità ebraica, avendo sullo sfondo, ma non di più, la grande paideia greca e romana. Dalla B., è possibile raccogliere certe indicazioni fenomeniche ed insieme mettere in luce una propria concezione di fondo, la quale, data la natura della B., è eminentemente religiosa. 1.1. Il fatto educativo. Si possono distinguere due principali forme educative: familiare ed extrafamiliare. a) La → famiglia è il referente costante e dominante, come in tutto il mondo antico. La testimonianza più qualificata è data dalla tradizione sapienziale dove numerosi sono gli insegnamenti per bene allevare i figli (es. Sir 30,1-13), con l’uso del termine tecnico dell’educazione ebraica: musar (rad. jsr). Quanto valore avesse tale educazione familiare appare dal fatto che nei libri sapienziali, e nel Deuteronomio, il saggio trasmette il suo insegnamento interpellando gli uditori con la formula «figlio mio» e propone se stesso come «padre» (Prv 1, 8; Dt 1,31; 32,8). Nei tempi cristiani continua la predominanza della famiglia (Ef 6,1-4). Un’eccellente affermazione sintetica riguarda lo sviluppo di Gesù ragazzo, del quale si dice che «era sottomesso» a Maria e a Giuseppe e «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,51-52). L’educazione familiare è quella propria di una cultura patriarcale: la madre si cura dei figli in tenera età, poi subentra il padre che dà ai figli maschi una educazione che è essenzialmente formazione religioso-morale e professionale. b) La scuola e il contesto sociale. Più avanti nell’evo-
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luzione sociale, al seguito della monarchia (sec. X-VI a.C.), si rende possibile una sorta di scolarizzazione in funzione dei bisogni della corte e dello Stato, ma come fatto elitario e assai circoscritto («scribi», 1 Cr 27,32). La scuola (la prima volta è nominata in Sir 51,23) prende estensione nel periodo del giudaismo (538 a.C.-70 d.C.), quando per la presenza del dominio straniero urge il bisogno assoluto di fare memoria delle tradizioni religiose e civili onde assicurare la stessa identità del popolo. c) Contenuti e metodo. I contenuti sono attinti dalle tradizioni e dalla sapienza degli antenati, come pure dall’esperienza del quotidiano (Ger 35; Sal 78,1-8; Gb 15,17-19; Prv 1-9), sono sempre finalizzati alla religione (Legge) che diventa così matrice culturale e veicolo di nazionalità. Insigne è la cura didattica, dove prevale lo stile orale, mnemonico, ricco di stimoli, come appare dalla qualità letteraria della B. È lecito pensare che alla scuola siano da collegare alcuni libri biblici o sue parti: la storia di Giuseppe (Gn 37-50), Tobia, Ester, Siracide, Sapienza. L’educazione, sia quella paterna, sia quella data dai saggi, è sempre concepita come una severa disciplina che implica abbondantemente la correzione e il castigo («chi risparmia il bastone, odia suo figlio», Prv 13,24; 3,11-12; Eb 12,4-11). Sarà l’evoluzione della rivelazione, con l’affermazione del primato della carità secondo Gesù Cristo, ad addolcire il metodo (Ef 6,1-4) e naturalmente a dare all’educazione (paideia nel NT) una connotazione tipica dell’umanesimo cristiano. 1.2. L’idea di educazione. È necessario riconoscere che nella B., in quanto documento teologico, sta al primo posto, non l’educazione di una persona, ma la sua salvezza religiosa, grazie alla partecipazione all’alleanza e all’osservanza della legge di Dio. È lungo tale percorso che sono investite tutte le realtà naturali e dunque anche l’ambito educativo (educatore, educando, educazione) che ne viene intimamente trasformato. Il segno linguistico più espressivo appare dal fatto che Dio stesso si presenta come educatore. Ma qui conviene mettere in rilievo alcuni tratti di questa concezione credente di educazione. a) Nell’Antico Testamento, notiamo come l’educazione sia intesa in funzione della celebrazione della fede nel rito della Pasqua, tramite le catechesi eziologiche o domestiche (Es 12,24-27; 13,8-9; Dt 6,20-25; Gs
4,6-7.21-22). Il ricordo dell’esodo, che tali insegnamenti richiamano, intende guidare il popolo facendogli prendere coscienza della portata sempre attuale di quello che Dio ha compiuto una volta per tutte al tempo di quella grande e decisiva liberazione ed alleanza. A questa funzione educativa che è propria della rivelazione storico-profetica (Os 11,1), se ne accompagna un’altra concezione, complementare eppur innovativa, propria della riflessione sapienziale. Dalle testimonianze della parte antica di Prv (10-29) si ricava che per i saggi scopo dell’educazione è il conseguimento della sapienza (Prv l,2s), cioè dell’abilità, affinata dall’esperienza, di risolvere concretamente i problemi posti dalle diverse situazioni di vita. Non dunque soltanto da una rivelazione dall’alto, ma piuttosto dall’interno delle realtà create da Dio, emerge un tracciato educativo da valorizzare. L’importante è essere guidati dal «timore di Dio, inizio della sapienza» (Prv 1,7), anzi «scuola della sapienza» (Prv 15,33). Da una parte la creazione con i suoi ordinamenti naturali, dunque anche la ragione, la ricerca, il sapere hanno valenza educativa e dall’altra parte queste acquisizioni non hanno valore assoluto, sottostanno al rispetto profondo del mistero trascendente di Dio (è il senso di «timore di Dio»). Si può parlare di un «umanesimo educativo in Israele» (G. von Rad), di «umanesimo devoto» (B. di Gerusalemme). Tale e tanta è la fiducia in Dio, da accogliere con valore teologico le espressioni secolari proprie dell’umana ricerca anche in ambito educativo. Si accennava sopra al concetto di pedagogia di Dio. Vi è al proposito una concezione che – al seguito dei Padri della Chiesa (Ireneo, → Clemente Alessandrino, Origene...) – intende tutta l’opera di Dio nella storia come «pedagogia». Ma questa è una concezione talmente lata da diventare generica ed ambigua (così in G. E. Lessing). Stando ai testi dove a Dio sono associati i termini musar e paideia (40 volte nell’AT e 11 nel NT) si vede piuttosto che la «pedagogia di Dio» è una costruzione teologica al fine soprattutto di motivare, spiegandole, le sofferenze e i castighi del popolo di Dio. Non per nulla il motivo appare in testi storico-profetici, in Geremia in particolare, e chiaramente, nel NT in Eb 12,5-6. Pedagogia di Dio sono i «castighi» che purificano e correggono i costumi del popolo. b) Nel Nuovo Testamen143
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to, il credo religioso ha il suo centro assoluto nella persona ed opera di Gesù Cristo. Si affacciano così altri aspetti teologici che investono l’ambito educativo in misura di grande efficacia nella successiva tradizione cristiana. Ne nominiamo tre: – La rivalutazione del bambino. È noto come nel mondo antico, non solo ebraico, il minore avesse scarso rilievo. Si può dire che egli valesse per il suo futuro di adulto. Di conseguenza assieme alla naturale tenerezza si associa un rigore quasi crudele (2 Re 2,23s; Prv 13,24; 22,15). Nel farsi della Rivelazione un fattore importante di cambio si afferma quando il minore, il più giovane, diventa oggetto della elezione divina per una missione speciale nel popolo. Pensiamo a Samuele (1 Sam 1-3), a Davide (1 Sam 16). Ma soprattutto a Gesù, che accogliendo e difendendo i bambini e facendoli modello per l’entrata nel Regno di Dio (Mc 9,33-37; 10,13-16), è colui che esalta non la psicologia dei piccoli o qualche loro disposizione interiore particolare, ma la tenerezza di Dio a loro riguardo. Ne dovrà essere segnata qualsiasi azione nei loro confronti, in primis l’educazione. – Gesù appare come didaskalos, maestro. Da Clemente Alessandrino fino ad oggi, Gesù «maestro» (41 volte nei vangeli) è stato compreso in senso educativo. Di fatto, come ha dimostrato R. Riesner, egli ha praticato ampiamente lo stile di rabbi del suo tempo, dove era notevole l’impianto pedagogicodidattico. Ma è anche vero che egli assai più che un maestro, è nativamente profeta carismatico, la cui autorità di docenza (Mc 1,22) è totalmente legata all’avvenimento del Regno, e dunque va compresa in chiave soteriologica, soprannaturale. Sicché è inutile, oltreché impossibile, ricavare una sorta di metodologia pedagogica rivelata, una didattica sacra. È stato infatti notato che in tale caso Cristo sarebbe stato un maestro piuttosto fallito, se badiamo alla conclusione della sua vita terrena. – La paideia del Signore. Ma il testo più autorevole a riguardo dell’educazione appare in Ef 6,1-4. Rientra in una «tavola domestica», ossia in un codice etico che riguarda i rapporti familiari: tra sposi, tra padrone e schiavi e – nel caso nostro – tra genitori e figli. Vi si legge un rapporto di reciprocità: «Figli, obbedite ai vostri genitori», «e voi padri non inasprite i vostri figli». Cui si ag144
giungono le parole conclusive: «ma allevateli nell’educazione (paideia) e nella disciplina del Signore (tou Kyriou)». Colpiscono due aspetti: 1) l’estrema laconicità di direttive, quando anche per i primi cristiani si imponeva la rilettura del fatto educativo in chiave cristiana di fronte ad un attrezzatissimo e seducente mondo pagano; 2) la connessione tra due densissime parole, paideia che nel mondo greco del tempo, significa l’educazione compiuta come contenuto e come metodo, e Kyrios, Signore, che nel linguaggio paolino indica il Cristo risorto dai morti nel massimo della sua potenza ed attualità salvifica. Connettendo i due aspetti, si viene ad affermare che laddove (nelle famiglie cristiane) il Kyrios è accolto nella fede che si fa carità, allora la paideia si può realizzare, avvalendosi di quelle risorse che l’umana ricerca ed esperienza possono via via indicare. Questo pensiero, che è coerente con l’universo mentale paolino (Fil 4,8), indica germinalmente un fondamentale approdo della visione cristiana di educazione: il riferimento al Kyrios vale come ispirazione, animazione, verifica del compito educativo, ma non come concreta soluzione, che è da inventare volta per volta; né per sé esprime antitesi allo sforzo umano di educazione, ma anzi franca attenzione, pur trattandosi di ordinamenti naturali imperfetti e bisognosi di redenzione. 2. La valorizzazione della B. nell’educazione. È eminentemente di ordine religioso-cristiano, ma non manca un interesse culturale per la storia degli effetti che il libro ha prodotto lungo i secoli. a) In relazione all’educazione della fede, la B. si propone come documento della religione cristiana, necessaria memoria storica nel processo della fede, suo linguaggio normativo, esperienza della «Parola di Dio». A livello strettamente culturale, la B. aiuta a decifrare e riconoscere tanta parte del mondo di valori umani e dell’immaginario collettivo che sorreggono fino ad oggi la cultura occidentale. Studiosi di letteratura, di storia ed ermeneutica delle culture e di psicologia sociale e del profondo stanno esplorando progressivamente la vasta sedimentazione della tradizione biblica. b) Fra le tante vie dell’incontro con la B., ricordiamo la catechesi biblica, segnatamente la pratica della storia sacra, l’insegnamento religioso nella scuola, le scuole della Parola con
BIBLIOGRAFIA PEDAGOGICA
l’esercizio della Lectio Divina (→ Gruppi di ascolto). Oggi inizia ad affermarsi il grande cambio apportato dal Vaticano II: l’incontro personale con la B. in se stessa (Dei Verbum 22) da parte, idealmente, di ogni cristiano e della comunità dei semplici fedeli. c) La didattica della B., in quanto testo letterario fatto oggetto di studio, ha la sua legittimità e specificità. Importa incontrare un testo, lasciarsi interrogare da esso, lavorare sul testo, reagire ad esso. Di fronte al rischio del → fondamentalismo viene rivendicata la necessità del metodo storico critico, cui si possono accompagnare, in modo integrativo, non sostitutivo, metodi di tipo sincronico (come lo strutturalismo). Oggi si insiste sul bisogno di una assimilazione vitale del Libro Sacro. Ciò avviene mediante una corretta correlazione tra B. ed esperienza, o, come afferma C. Mesters, importa «saper leggere la B. con la vita e la vita con la B.». Bibl.: Jentsch W., Urchristliches Erziehungsdenken. Die Paideia Kyriou im Rahmen der hellenistisch-jüdischen Umwelt, Gütersloh, C. Bertelsmann Verlag, 1951; Marrou I. H., Storia dell’educazione nell’antichità, Roma, Studium, 1966; Bissoli C., B. e educazione. Contributo storico-critico ad una teologia dell’educazione, Roma, LAS, 1981; Lemaire A., Le scuole e la formazione della B. nell’Israele antico, Brescia, Paideia, 1981; Frye N., Il grande codice. La B. come letteratura, Torino, Einaudi, 1986; Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della B. nella Chiesa, Roma, LEV, 1993; Prellezo J. M., «Educazione e scuola nell’antico Oriente», in J. M. Prellezo - R. Lanfranchi, Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. I, Dall’educazione antica alle soglie dell’Umanesimo, Torino, SEI, 2004, 7-35; Theissen G., Motivare alla B. Per una didattica aperta della B., Brescia, Paideia, 2005; Bissoli C., «Va e annuncia» (Mc 5,19). Manuale di catechesi biblica, Leumann (TO), Elle Di Ci , 2006.
C. Bissoli
BIBLIOGRAFIA PEDAGOGICA Informa sui problemi educativi avvalendosi dei fondamentali scritti pedagogici. Si tratta di un concetto in fase di revisione, dato che il supporto materiale su cui è basato il pensie-
ro educativo non si limita più esclusivamente alla carta stampata (libro, documento, fogli sciolti), ma può riferirsi anche ad ogni tipo di supporto magnetico o elettronico (microfilm, libri elettronici, videogrammi o registrazioni sonore). 1. Senza la conoscenza e l’aggiornamento della b., l’educazione potrebbe diventare un lavoro puramente empirico e abitudinario e la scienza pedagogica potrebbe risentire di notevoli ristagni. Essa richiede: rapidità di accesso, aggiornamento e riuscita, in modo che si possa organizzare in maniera economica. È sempre più complicato operare una cernita precisa dato l’alto numero di pubblicazioni sia teoriche che pratiche. È certo tuttavia che oggi la tecnologia è venuta in aiuto dello studioso mediante i mezzi elettronici che facilitano la ricerca e la selezione bibliografica. Lo scopo ultimo della b.p. è triplice: individuare il procedimento e le soluzioni offerte, individuare e applicare o meno il tipo di possibile utilizzazione delle soluzioni date in modo che esse aiutino a definire e a chiarire il problema attuale, a progettare il futuro ed infine approfondire lo studio e la ricerca dei problemi educativi passati e presenti. La b.p. si può suddividere in tanti settori corrispondenti ai contenuti della pedagogia generale oltre a quelli che costituiscono il campo definito → «Scienze dell’educazione» e che non sono propriamente pedagogici (storia, sociologia, biologia, ecc. dell’educazione). 2. I principali Paesi pubblicano annualmente o ogni pochi anni tutta la propria produzione letteraria: la fonte di queste pubblicazioni è l’ISBN (International Standard Book Number). Le più importanti basi di dati sono attualmente EURYDICE, EUDISED, ERIC e FRANCIS-S. L’Unesco e l’Unione Europea ne hanno editato molte. Ogni nazione è solita avere alcune banche-dati di libri, riviste, leggi, biblioteche, ecc. di educazione. Tutte le reti nazionali possono accedere alla rete mondiale INTERNET (rete di reti o «autopiste di informazione») per l’accesso alla b.p. Bibl.: Juif P. - F. Davero, Manuel bibliographique des sciences de l’éducation, Paris, PUF, 1968; BIE, Bibliographie pédagogique annuelle, Genève, Bureau International d’Éducation, 1955-1969; Bibliographie Pädagogik/Educational biblio-
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BIBLIOTECA
graphy, Berlin, Verlag für Wissenschaft und Bildung, 1966-1992; Proyecto B.I.B.E. - Project International Bulletin on Bibliography on Education, Madrid, Coculsa, 1981-1996.
V. Faubell
BIBLIOTECA Il nome che si usa in it. e in alcune altre lingue per indicare la b. si rifà etimologicamente al gr. ed è composto da due elementi: biblíon (libro) e théke (custodia). In ingl. invece il nome proviene dai vocaboli latini liber e librarius: la b. si chiama Library e il bibliotecario Librarian. Le b. sono oggi in una fase emergente, sia come reazione alla scossa dello sviluppo informatico, sia soprattutto per l’impegno dei bibliotecari e, particolarmente in Italia, per l’incentivo dell’Associazione Italiana B. 1. Dall’origine delle b. all’era digitale. Nell’immaginario comune la b. è associata ai libri. Per b. s’intende di solito lo spazio o l’edificio dove i libri sono raccolti e ordinati sistematicamente. Tuttavia, propriamente parlando, più che con lo spazio fisico la b. s’identifica con la raccolta dei libri o con diverse raccolte di libri unite insieme (bibliografia: dalla stessa parola greca biblíon + graphé, scrittura). 1.1. All’origine della b. – circa 4.000 anni fa – le informazioni importanti erano scolpite su pietra, legno o metallo specialmente nei palazzi dei sovrani o in luoghi pubblici. Una abbondante documentazione scritta su tavolette di creta è stata trovata negli scavi di varie città antiche della regione mesopotamica e della Siria. In Egitto i testi si scrivevano su fogli di papiro e altrove su membrane di pelle o pergamene (dalla città di Pergamo, situata nell’attuale Turchia). Le pergamene cucite insieme costituirono i rotoli che contenevano di seguito testi anche lunghi, mentre ritagli di papiro o pezzi di pergamena, piegati in due e cuciti a mano tra di loro, costituirono i volumi a forma di libro, come si usa ancora ai nostri giorni con la carta, stampata e rilegata meccanicamente. Si deve inoltre notare che nelle b. ci sono sempre stati i supporti non cartacei (iscrizioni e pitture murarie, bassorilievi e statue, monete e medaglie, mappe e 146
strumenti vari) dai quali gli studiosi ricavano informazioni utili per le loro ricerche. È quanto avviene nelle b. storiche, per es. nella B. Apostolica Vaticana e in altre del genere, dove sono tutelate molte testimonianze raccolte lungo i secoli. 1.2. La distinzione tra b. e archivio è stata introdotta in tempi recenti, separando alcuni documenti per garantirne meglio la loro custodia e la conservazione, soprattutto quando si tratta di originali autografi, copie uniche e pregiate. Analogamente altri documenti e soprattutto oggetti sono stati radunati nei musei, che già nell’antichità affiancavano le b. più famose e solo da due o tre secoli hanno acquistato appunto una destinazione storica, scientifica, didattica o di educazione artistica. Infine, da una sessantina di anni esistono i centri di documentazione, specializzati in particolari settori di studio e di ricerca, distinti dalle b. e continuamente aggiornati. 1.3. Nel XX sec. si sono sviluppate varie tecniche di riproduzione e di produzione di documenti. Oltre ai classici documenti scritti le b. hanno cominciato ad ospitare fotografie, microfilm, cassette, LP, nastri magnetofonici, CD, CDRom, DVD, ecc. Tuttavia da poco più di una decina di anni Internet consente di consultare e scaricare i testi dalla rete informatica. In tal modo il progresso tecnologico ha aperto prospettive talmente nuove da rendere possibile le cosiddette b. «senza pareti» o b. «virtuali». Fino agli ultimi anni del XX sec. ci si doveva recare nelle b. per consultare i libri oppure i volumi dovevano essere presi in prestito, quando il regolamento delle b. lo permetteva, mentre oggi si può comunque accedere direttamente ai documenti, quando essi sono digitalizzati e disponibili on line. 2. La b. e l’educazione tra isolamento e «villaggio globale». Superato lo stadio più antico della tradizionale trasmissione orale, è stata la b. il luogo dove si è andato raccogliendo, conservando e tramandando il patrimonio culturale dell’umanità. La diligente produzione dei copisti – dall’antichità grecoromana al periodo medievale – e l’inarrestabile espansione della stampa – da Gutenberg ai nostri giorni – confluirono nelle b. degli studiosi e dei mecenati, dei monasteri e delle università. Solo più tardi le b. hanno assunto la funzione di promozione sociale. 2.1. Le trasformazioni delle b. nel tempo e
BIBLIOTECA
nei diversi luoghi – in contesti geografici, etnici, sociali e linguistici differenti – rispecchiano la storia della cultura. Non deve sorprendere perciò che da sempre la b. sia stata un punto di riferimento fondamentale per l’ → educazione e per la → formazione delle persone e per le scienze, alla radice delle applicazioni professionali e tecniche. La cultura può essere intesa in senso ampio come l’insieme dei tratti che caratterizzano i diversi popoli, il loro modo di vivere e di essere e non solo come conoscenza acquisita. Nella percezione più diffusa e – bisogna riconoscerlo – nella storia stessa delle b., esse sono state «tabernacolo della cultura ‘colta’» piuttosto che dimostrarsi «crogiolo di cultura ‘allargata’», cioè sensibili alla «cultura della vita quotidiana» e aperte alla «cultura ‘popolare’». 2.2. Il panorama delle b. è molto variegato e propone un ventaglio di tipologie secondo l’organizzazione e la struttura delle b., le risorse documentarie possedute dalle b. e la diversità degli utenti che frequentano le b.: dalle grandi b. alle più piccole, dalle b. pubbliche alle b. private, dalle b. nazionali o centrali alle b. regionali, provinciali, comunali e di quartiere, dalle b. specializzate alle b. di semplice lettura, dalle b. universitarie alle b. scolastiche, dalle b. popolari alle b. ambulanti, ecc. Di fronte ad una tale varietà è evidente che tra le b. debba esistere complementarità piuttosto che concorrenza. Ognuno deve scegliere con cura quella b. che può rispondere meglio alle proprie esigenze. In India un famoso bibliotecario e studioso, Shiyali Ramamrita Ranganathan, aveva formulato già nel 1931 con parole molto semplici le seguenti regole: «1) I libri esistono per essere usati; 2) a ogni libro il suo lettore; 3) a ogni lettore il suo libro; 4) risparmia il tempo del lettore; 5) la b. è un organismo che cresce». Anticipava, in tal modo, un orientamento che è attualmente un dato acquisito. 2.3. Se nel passato il bibliotecario doveva occuparsi soprattutto della conservazione del patrimonio documentario della b., oggi egli è chiamato a portare l’attenzione sul servizio agli utenti. Non si tratta di trascurare le risorse che la b. possiede, bensì di valorizzarle al massimo rendendole fruibili nel migliore dei modi. L’espansione dell’ informazione e la produzione editoriale hanno raggiunto ingenti dimensioni e un ritmo travolgente
mentre la rete informatica ha aperto orizzonti inimmaginabili. Internet è divenuta una risorsa straordinaria, ma anche una galassia. La potenza di Internet è di mettere a disposizione tutto ciò che viene caricato e, allo stesso tempo, il rischio di Internet è di essere travolti da un fiume in piena di informazioni non organizzate. 2.4. È fondamentale non perdere di vista in prospettiva educativa che il compito delle b., come la missione delle scuole e dei maestri, non è solamente quello di trasmettere nozioni. La ricerca degli utenti nelle b., lo studio degli studenti che frequentano l’università e l’apprendimento degli allievi nelle scuole di ogni grado non si possono ridurre ad un processo di accumulo di informazioni. L’educazione e la formazione sono un esercizio di crescita, di integrazione e di maturazione che coinvolgono il soggetto stesso in un continuo «ricevere e dare» e in un’attività di autentica e profonda comunicazione. 3. In sintesi. Le considerazioni fatte si possono riassumere nei seguenti enunciati, apparentemente paradossali: a) La b. è una realtà aperta che organizza e gerarchizza il sapere. Non ci si «rifugia» in b. per «chiudersi dentro», ma per «aprire una finestra sul mondo», per «aprirsi agli altri». b) Senza rinunciare alla funzione bibliotecaria originale molte b. stanno attualmente cercando modalità e strategie nuove per diventare esse stesse «spazi socioculturali» che offrono occasioni di condivisione e promuovono iniziative di aiuto scolastico e di dialogo su problemi concreti. c) Più che nel passato, le b. possono costituire «luoghi di socializzazione» e «spazi di confronto». Da soli, in camera di fronte al monitor, si ha l’impressione di «dialogare con il mondo», rischiando invece di «isolarsi narcisisticamente». d) Oggi le b., come le scuole e le università, si trovano di fronte ad una difficile scommessa: aiutare i propri utenti a passare dal «taglia e incolla» al pensiero critico, dalla «smania dell’informazione facile» all’apprendimento e alla conoscenza creativa. Bibl.: Associazione Italiana B.: http://www. aib.it; Solimine G., La b. Scenari, culture, pratiche di servizio, Roma/Bari, Laterza, 2004; Gamba A. M. - M. L. Trapletti (Edd.), La b. su misura. Verso la personalizzazione del servizio,
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BILINGUISMO
Milano, Bibliografica, 2007; Tamaro A. M. - A. Saltarelli, La b. digitale, Milano, Bibliografica, 2007; Guerrini M. el al., Biblioteconomia. Guida classificata, Ibid., 2007.
J. Picca
BIE - BUREAU INTERNATIONAL D’ÉDUCATION → Organizzazioni internazionali
BILINGUISMO Le definizioni del b. tendono ad accentuare o gli aspetti soggettivi (psicologici) o gli aspetti oggettivi (linguistici) di tale fenomeno. Parlando di aspetti evolutivi propri del bambino, l’accento sarà qui posto sulle caratteristiche psicologiche (struttura di personalità, cognitività e comportamento) del b. infantile. 1. Concetto generale di b. «Il b. consiste nella capacità da parte di un individuo di esprimersi in una seconda lingua aderendo fedelmente ai concetti e alle strutture che a tale lingua sono propri, anziché parafrasando la lingua nativa. La persona bilingue possiede la capacità di esprimersi in qualsiasi di due lingue senza vera difficoltà, quando gliene si presenti l’occasione. Il vero b., pertanto, nel senso stretto di “equilinguismo” o “ambilinguismo”, abbastanza comune fra i bambini allevati nell’uso simultaneo di due lingue, implica la presenza nel medesimo sistema neuropsichico di due paralleli ma del tutto distinti schemi di comportamento verbale» (Titone, 1972, 13). Tuttavia, il concetto di b. non è rigidamente univoco e assoluto. Esso può variare notevolmente secondo il numero delle lingue usate, il tipo di lingue, l’influsso di una lingua sull’altra, il grado di perfezione nel dominio delle due lingue, le oscillazioni nell’uso nel corso dell’esistenza del medesimo individuo tra una lingua e l’altra, la funzione sociale di ciascuna lingua. Il b., in altre parole, è una funzione del comportamento individuale, e pertanto è destinato a variare da individuo a individuo e da situazione a situazione. 2. Forme di b. infantile. La letteratura sul b. infantile è crescente in quantità e qualità scientifica per quanto riguarda soprattutto il periodo prescolare, ma ancora ridotta riguar148
do al periodo della prima infanzia, legata alla situazione familiare. In gran parte si tratta ancora di studi aneddotici, costituiti da osservazioni più o meno precise, spesso sostenute da interpretazioni teoricamente deboli, e condotte su pochi bambini per periodi di tempo generalmente brevi, in aree culturali e su classi sociali piuttosto limitate. I casi certamente più numerosi che nel passato di bambini bilingui, dovuti ai più frequenti e larghi contatti di intere famiglie con gruppi di lingua diversa dalla propria, la sentita necessità e l’accresciuto prestigio dello studio delle lingue moderne, la diffusa convinzione che una seconda lingua possa essere meglio appresa, almeno nei suoi fondamenti, durante l’infanzia, ed altre ragioni variabili da luogo a luogo secondo le condizioni sociali dei soggetti interessati, hanno dato un nuovo e potente impulso, specie dopo l’ultima guerra, agli studi sul b. infantile. Studi, che hanno in parte una motivazione scientificopsicologica, in parte una motivazione pedagogica. Dicendo «b. precoce» si intendono varie forme di competenza linguistica: anzitutto, l’apprendimento bilingue o plurilingue può aver luogo fin dalla nascita, per cui le due lingue vengono assimilate simultaneamente («b. simultaneo») nella struttura della personalità e del comportamento; esse funzionano come canali alternativi nella comunicazione, ma soprattutto si inseriscono su una distinta struttura cognitiva e affettiva, specifica, almeno in parte, per ciascuna lingua; in secondo luogo, si può avere un b. precoce, rappresentato dall’assimilazione della seconda lingua, non simultaneamente alla prima, ma tuttavia in un periodo assai precoce (non dopo i 4 o 5 anni) («b. precoce consecutivo»); in terzo luogo, l’incorporazione della seconda lingua può avvenire tra i 6 e i 10 anni in virtù di una immersione efficace in un ambiente eteroglotta o in virtù di una intensa educazione scolastica fortemente bilingue («b. precoce educativo»). 3. Problemi e ricerche sullo sviluppo bilingue precoce. I settori problematici oggi sottoposti a intense ricerche sono numerosi e tutti di somma importanza e rilevanza nei riguardi delle deduzioni psicopedagogiche. Si possono tuttavia considerare come degni di maggior considerazione i seguenti quattro settori: a) i presupposti neurologici e b) i pre-
BILINGUISMO
supposti psicologici dello sviluppo bilingue, e) la questione dell’età ottimale, legata a tali presupposti, infine d) le caratteristiche dello sviluppo cognitivo e affettivo del bambino bilingue. 3.1. Aspetti neurologici. Essi, in questo contesto, sembrano ridursi ai seguenti: a) la plasticità neurofisiologica: ossia, esiste un particolare stato di plasticità neurofisiologica, circoscritta entro un dato arco dello sviluppo biologico individuale, che favorisce l’apprendimento e lo sviluppo linguistico e oltre il quale tale processo diviene particolarmente difficile?; b) la predisposizione ereditaria: esiste una particolare predisposizione ereditaria all’acquisizione di una lingua (quella della razza a cui l’individuo appartiene), per cui non ci sia posto per l’apprendimento di un’altra lingua, almeno in grado soddisfacente? I biologi (o biolinguisti), che si sono interessati del problema dell’ontogenesi linguistica, hanno accentrato la loro discussione e i loro studi su questi due problemi: quello della plasticità cerebrale e quello del determinismo ereditario. Tuttavia, il secondo problema è oggi praticamente superato, e si è ridotto a una «questione elegante», senza serie incidenze sulle applicazioni pratiche. La onnipotenzialità linguistica del neonato è corroborata dalle osservazioni di molti studiosi. 3.2. Aspetti psicologici. Molto spesso la richiesta di un inizio precoce dell’insegnamento bilingue viene basata su considerazioni di ordine psicologico. Per quanto le ragioni psicologiche non abbiano debellato ogni dubbio al riguardo, resta tuttavia vero che esse sono dotate di sufficiente persuasività e presentano un valore non trascurabile. L’assunzione iniziale di tutta l’argomentazione risiede nella concezione organismico-olistica che vede l’apprendimento come un processo di tutto l’organismo infantile in sviluppo, immerso nella totalità della situazione come contesto interazionale. Codesta visione integralistica deve impedirci di concepire l’acquisizione di una lingua, prima e/o seconda, nel fanciullo in funzione di alcuni fattori psicologici, invece che in funzione della sua personalità totale interagente con l’ambiente totale. I fattori principali, che sottostanno all’apprendimento linguistico, vanno visti quindi integrati nella struttura totale della personalità. Tali fattori fondamentali appaiono essere la → motivazione, la → percezione e l’esercizio.
3.3. La «vexata quaestio» dell’età ottimale di inizio. Esiste un «periodo critico» o una «età ottimale» durante cui l’apprendimento di una seconda lingua è massimamente facilitato, con la conseguente preclusione di altre età? E questa età coincide con il periodo della prima infanzia e della fanciullezza (fino ai 10 anni)? Gli studi empirici di Ekstrand dimostrerebbero che sia la comprensione che la pronuncia di una lingua straniera – elementi di solito connessi con l’età precoce quanto a efficacia di assimilazione – aumentano di perfezione con l’età. Il campione da lui esaminato nel 1985, costituito da circa 1000 alunni di 40 classi dalla I alla IV elementare in Svezia, sottoposto a prove diverse e a prove alternative per ciascuna capacità, ha dato risultati costantemente nella direzione della ipotesi evolutivistica. Più precisamente, tale ipotesi si basa sul fatto che vi sembrano essere periodi di più efficace apprendimento intermezzati da plateau, ad es. attorno all’età di 6-7 anni e forse attorno all’epoca della pubertà, cioè attorno ai periodi di transizione da uno stadio evolutivo all’altro. In conclusione, quindi, un inizio precoce è sempre raccomandabile, anche se la ragione fondante non è quella della precoce plasticità neurologica. A questo motivo si aggiungono altri argomenti, che concernono lo sviluppo cognitivo, sociale e affettivo dei bambini bilingui. 3.4. Sviluppo cognitivo e affettivo del bambino bilingue. Al contrario delle ricerche anteriori agli anni ‘50, che tendevano a mettere in risalto eventuali anormalità e deficit nello sviluppo del bambino bilingue (riferendosi spesso e indiscriminatamente a bambini appartenenti a classi sociali inferiori di immigrati, falsamente bilingui, e sulla base di prove o test di intelligenza verbale calibrati su bambini di classi medie o superiori), le ricerche più recenti, condotte soprattutto in ambienti bilingui, come i territori del Canada o dell’Europa Orientale, insistono sempre più fondatamente sui vantaggi evolutivi del bambino bilingue a confronto con quello monolingue. Vale la pena di riassumere alcuni dati pertinenti almeno a due categorie dello sviluppo infantile: la → personalità e 1’ → intelligenza: a) effetti del b. sullo sviluppo della personalità. Una ricerca di R. Titone e collaboratori (1976, 1978, 1984) condotta per sei anni su bambini bilingui dalla nasci149
BINET ALFRED
ta, cresciuti in famiglie in cui due lingue (it. vs ingl./fr./ted.) venivano usate regolarmente, ha indicato che il bambino veramente bilingue, inserito in un ambiente familiare ben armonizzato, non presenta alcun disturbo della personalità. I fatti tendono piuttosto a mettere in evidenza le possibilità che il bilingue possiede di apertura mentale e affettiva, sul piano sociale culturale letterario politico, ecc., che tendono a sviluppare in lui una personalità più ricca, più equilibrata e integrata, a patto che vengano promossi atteggiamenti positivi verso qualsiasi lingua e cultura, b) b. e sviluppo dell’intelligenza. Il problema degli effetti del b. precoce sulla maturazione intellettiva cominciò a porsi seriamente verso il 1920. Oltre un centinaio di ricerche furono condotte tra il 1920 e il 1930. Ma l’uso indiscriminato dei test verbali, i pregiudizi latenti nello stesso impianto delle indagini, la non considerazione dei fattori sociali, l’implicazione di contenuti culturali estranei ai bambini meno privilegiati, ecc. finirono con l’indicare a torto l’esistenza di un handicap linguistico e cognitivo nei bambini considerati bilingui, ma di fatto appartenenti a una diversa cultura monolingue e socialmente svantaggiata. Le prime indagini, condotte con severo metodo scientifico, che hanno messo in evidenza una situazione opposta e favorevole ai bambini bilingui, si ricollegano al gruppo di Lambert, della McGill University di Montreal (1962, 1970). Una ricerca del 1961 condotta a Montreal rilevò risultati altamente significativi nei test verbali e nonverbali di intelligenza, e nelle scale di atteggiamento sociale. L’intelligenza dei bilingui, a pari condizioni con i monolingui, appariva più flessibile, meglio articolata, più capace di analisi. Tali risultati sono stati ripetutamente confermati in successive indagini. 4. L’ideale del b. infantile. Da quanto detto, va ritenuto che il b., lungi dall’essere riducibile a un puro fatto comportamentale, cioè al possesso eguale e immediato di due strumenti o codici linguistici, si presenta invece, in profondità, come uno stato acquisito della personalità individuale. E siccome la personalità non è una astrazione metafisica, ma una realtà esistenziale, un essere individuato, concreto, esistenzialmente situato in un hic et nunc, un essere insomma che affonda le sue radici in un preciso contesto spazio150
temporale, il b., come qualsiasi altro sistema di comportamento, è il risultato di una intima interazione fra parlanti in precise situazioni di comunicazione. Il b., dunque, rappresenta una peculiare strutturazione della personalità singola sotto l’aspetto funzionale della comunicazione. Bibl.: Lambert W. E. - E. Peal, The relation of bilingualism to intelligence. Psychological monographs, 1962; M acnamara J., Bilingualism and primary education: a study of Irish experience, Edinburgh, University Press, 1966; Titone R., B. precoce e educazione bilingue, Roma, Armando, 1972/1993; Albert M. L. - L. K. Obler, The bilingual brain, New York, Academic Press, 1978; Ekstrand L. H., English without a book: towards an integration of the optional age and the developmental hypotheses?, in «Rassegna Italiana di Linguistica Applicata» (1980); Tito ne R., «L’insegnamento delle lingue straniere ai bambini: orientamenti e ricerche», in Le lingue straniere nella scuola elementare, Brescia, La Scuola, 1980, 79-112; Baker C., Foundations of bilingual education and bilingualism, Clevedon (UK), Multilingual Matters Ltd., 42006.
R. Titone
BINET Alfred n. a Nice nel 1857 - m. a Samois (Fontainebleau) nel 1911, psicologo francese. Direttore del laboratorio di psicologia fisiologica alla Sorbona (1894). Fondatore e direttore della rivista Année psychologique (1894). Ideatore, con Th. Simon, della scala metrica dell’intelligenza (1905). Nel 1899 diede vita alla Société libre pour l’étude psychologique de l’enfant. 1. B. portò validi contributi in psicologia clinica ed in quella comparativa; effettuò numerose ricerche in psicologia sperimentale occupandosi, in contrasto con → Wundt, dei processi psichici superiori e anticipando metodologie e risultati della Scuola di Wiirzburg. Il passaggio verso questa prospettiva è documentato dal superamento della visione associazionistica (La psychologie du raisonnement) per approdare all’Étude expérimentale de l’intelligence. Nella psicologia diffe-
BINET ALFRED
renziale, di cui fu l’ideatore, sottolineò come le differenze individuali siano più spiccate nei processi superiori che in quelli elementari. Rivoluzionando il concetto di sperimentazione, B. modificò la funzione sia del soggetto che dello sperimentatore e ruppe, pertanto, l’abitudine acquisita di effettuare degli esperimenti psicologici nel chiuso del → laboratorio, sostenendo la necessità di avvalersi anche di soggetti presi da diversi ambienti fra cui la scuola. 2. Nella → pedagogia sperimentale B. si fonda sulla psicologia sperimentale, sulla misura del profitto degli allievi, su una raccolta sistematica dei documenti, sulla valutazione dei metodi d’insegnamento e sul valore degli insegnanti, sulla necessità d’introdurre in pedagogia un controllo, sulla partecipazione di esperti scolastici. Pur mancando in B. un impianto organico di sperimentalismo educativo (Les idées modernes sur les enfants), tuttavia le sue ricerche psicopedagogiche e psicodidattiche costituiscono dei punti fermi per la messa a punto di preziosi strumenti per la sperimentazione educativa. 3. La peculiarità di B. è la singolarità dei suoi percorsi scientifici e, contemporaneamente, il suo non allinearsi ai modelli preesistenti per rintracciare la specificità della psicologia stretta da un lato dalla filosofia e dall’altro dalla fisiologia senza rimanere prigioniero della psicometria e dalla nascente psicologia dell’educazione, allora in piena effervescenza, ma ancora priva di una sua identità. Bibl.: Bertrand F. L., A. B. et son oeuvre, Paris, Alcan, 1930; Zuza F., A. B. et la pédagogie expérimentale, Louvain, Nauwelaerts, 1948; Wolf Th. H., A. B., Chicago/London, The University of Chicago Press, 1973; Zazzo R., A.B. (1857-1911), in «Perspectives: revue trimestrielle d’éducation comparée» 23 (1993) 101-112. Tra le più importanti ediz. delle opere di B.: quelle fatte sotto la direzione di Bernard Andrieu (Éditions Euridit).
C. Trombetta
BIOETICA Nell’ambito dell’ → educazione morale, un rilievo particolare dovrà assumere oggi,
nel contesto di una società ispirata per tanti aspetti a una «cultura di morte», l’educazione al senso della vita, alla sua valorizzazione e promozione. 1. L’educazione fa vedere nella vita un dono infinitamente prezioso ma responsabilizzante, da promuovere, coltivare, riempire di valori e portare a compimento, più che un settore particolare dell’educazione morale è un trascendentale di tutta l’azione educativa. L’educazione morale è in tutta la sua estensione educazione al valore e alle responsabilità della vita. Essa potrà trovare in questo suo compito una guida competente in quella forma di sapere che va oggi sotto il nome di b. Per b. si intende anzitutto quella parte dell’ → etica che si occupa dei problemi suscitati dalla ingegneria genetica, ma senza escludere tutti gli altri problemi morali che riguardano la vita fisica dell’uomo. 2. Si tratta di un settore dell’etica in cui appare con più chiarezza la differenza irriducibile che distingue la correttezza tecnica da quella morale. La lunga abitudine ai «miracoli della tecnica» e la fiducia quasi magica nei suoi confronti porta spesso a guardare alla correttezza tecnica, come all’unico criterio di bene e di male. Questa visione unilaterale ed esclusiva appare tanto più allettante in un campo, come quello della biogenetica, in cui la correttezza tecnica partecipa della serietà che caratterizza la ricerca scientifica, cui la nostra cultura non pone altri limiti, che non siano quelli della correttezza metodologica. Ma la correttezza tecnica riguarda solo l’attitudine dei mezzi a raggiungere certi fini. Ora l’uomo non può evitare seriamente di porsi la domanda sull’attitudine dei fini a servire l’uomo e la sua dignità, pena la rinuncia alla sua stessa umanità. E con la domanda sulla validità dei fini, si esce dal campo della tecnica e si entra in quello della morale, e in quello della → religione. 3. Nel caso della b. in particolare, ciò che è in gioco non è soltanto la vita fisica dell’uomo, ma l’uomo in quanto tale. Chi è l’uomo per attribuire alla sua vita una qualche intoccabilità? Chi fonda e garantisce questa intoccabilità? Qual è lo statuto ontologico dell’uomo? Sono domande che hanno sempre certa valenza religiosa, perché possono 151
BIOLOGIA E EDUCAZIONE
essere rivolte sensatamente solo a una visione ultima della realtà, che abbia un qualche carattere religioso, sia pure di una religiosità immanente. Una risposta (magari implicita e inconsapevole) a queste domande è sempre nascosta dietro alle varie posizioni che si scontrano nei dibattiti sulla b. Se restassero nascoste, il dibattito morale resterebbe sterile e inconcludente; occorre quindi farle emergere, smascherandole e mettendole a nudo, sul tavolo della discussione. Questo significa che a livello educativo, i ragazzi devono essere messi esplicitamente di fronte a ciò di cui ultimamente si parla (magari senza saperlo) quando si discute di biogenetica, di aborto o di altri problemi simili. Bibl.: Encyclopedia of bioethics, New York, The Free Press, 1978; Sgreccia E., Manuale di b., Milano, Vita e Pensiero, 1992: Leone S. - S. Privitera (Edd.), Dizionario di b., Acireale (CT), Istituto Siciliano di B., 1994; Russo G., B. e sessuologia, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2004.
G. Gatti
BIOLOGIA E EDUCAZIONE Intendiamo con il termine b. lo studio dei fenomeni vitali, così come si svolgono nell’organismo umano, al fine di porgere all’ → educatore le conoscenze più sicure e più utili per un intervento educativo efficace. 1. Pur non trascurando niente dell’anatomia e fisiologia umana, i componenti più profondamente studiati saranno: il sistema nervoso, il sistema endocrino e il sistema immunitario, non solo nella loro struttura e funzione, ma anche nelle loro correlazioni, e come servono da substrato anatomo-fisiologico a tante espressioni della psiche. Tale studio viene preceduto e completato da nozioni di b. generale, di genetica, di igiene sia generale che specifica, di auxologia e di scienze dell’alimentazione. L’educatore, provvisto di queste conoscenze, potrà aiutare adeguatamente l’educando a formarsi una buona immagine corporea e una realistica immagine di sé. Potrà orientare i tentativi di affermazione, di espansione e di adattamento dell’educando inducendolo a saper confrontare le proprie possibilità con le difficoltà dell’ → ambiente, 152
a utilizzare e potenziare le proprie risorse, a sapersi gratificare con i successi ottenuti, ad elaborare in modo produttivo le frustrazioni subite. Per queste ultime abilità sarà utilissimo conoscere la b. delle emozioni e le modalità per vivere bene questi fenomeni traendone tutti i vantaggi possibili. Si potrà favorire così il consolidamento di una → personalità ottimista e affermativa capace di un valido inserimento nella società con vantaggio reciproco. L’aforisma di Giovenale mens sana in corpore sano, senza rappresentare un assoluto, dal momento che molti handicappati hanno delle forti personalità, costituisce però un’indicazione molto utile; quanto più valido è il fisico tanto più facilmente si potrà costruire una personalità consistente. Un fisico robusto e ben funzionante facilita l’acquisizione del senso di sicurezza e offre una migliore possibilità di affermazione nell’esistenza; per cui mantenere l’organismo efficiente è un compito importante nel processo educativo. Così pure il senso del gusto e del godimento della natura, che molto contribuisce a far sviluppare le sensazioni di benessere e di ottimismo, si avvale del buon funzionamento organico. 2. Non potendo trattare singolarmente tutti i dettagli di questo studio ci soffermeremo solo su alcuni più significativi. Conoscere bene la struttura e le funzioni della corteccia cerebrale, il suo potere di controllo sulle formazioni subcorticali, il sistema reticolare attivante che la stimola e le consente i periodi di attentività da alternare con quelli di riposo, il ciclo sonno-veglia; sono dati di notevole interesse per trattare adeguatamente l’educando nel suo impegno cognitivo di → apprendimento. Armonizzare la cognitività con l’emotività è compito educativo che si impone. Lo sviluppo personale ha aspetti naturali e spontanei, ma riesce più facile e più sicuro se aiutato da appropriati interventi educativi. Tante distorsioni psichiche si possono evitare con l’effusione intelligente di affetto, con l’educazione artistica, musicale ecc. e con l’aiutare i bambini a sviluppare bene la fantasia e la creatività. Impareranno a sapersi gratificare con quanto di ordinario c’è a disposizione tutti i giorni senza bisogno di ricorrere a chi sa quali artifici o sofisticazioni e senza diventare pretenziosi o insaziabili.
BISOGNI
Bibl.: Eccles J., Il mistero Uomo, Milano, Il Saggiatore, 1981; Craig G., Lo sviluppo umano, Bologna, Il Mulino, 1982; Eccles J. - D. Ro binson, La meraviglia di essere uomo, Roma, Armando,1985; Polizzi V., L’identità dell’homo sapiens, Roma, LAS, 1986; De Martini N., Maturità problema decisivo, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1988; Guyton A., Neurofisiologia umana, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1988; Marrama P. - A. Angeli, Manuale di endocrinologia, Milano, Masson, 1992; Romano C. - G. Grassani, Bioetica, Torino, UTET, 1995; Frigo G. F. (Ed.), Bios e anthropos. Filosofia, b. e antropologia, Milano, Guerini, 2007.
V. Polizzi
BISOGNI Il concetto di b. denota una tensione, cioè uno scarto provato da un individuo o da un gruppo, tra le sfide che insorgono dalla vita e le risorse atte a colmarle e ripristinare l’equilibrio compromesso. Se le sfide rig uardano l’ambito materiale della vita e quindi la sopravvivenza, si parla di b. primari (di cibo, aria, calore, salute ecc.) ment re quando si riferiscono a oggetti culturali diventano sociali (di educazione, sicurezza, abitazione, salute, ecc.); le sfide che si originano dal desiderio di realizzare la nat ura e l’esistenza umana possono essere descritte come b. post-materiali (relazionali, di amicizia, trascendenza, autorealizzazione, significato della vita ecc.). 1. Approcci di studio dei b. Gli approcci in base ai quali vengono studiati i b. possono essere divisi tra oggettivisti, soggettivisti e realisti. L’approccio oggettivista o natura listico riconosce una forte connessione tra natura umana e b. ed è rappresentato prin cipalmente dalle correnti positiviste e funzionaliste. L’approccio soggettivista o so cializzante concepisce i b. come un prodotto dei rapporti umani che vengono elaborati nell’interazione. Viene rappresentato soprattutto dalle correnti interazioniste e dall’etnometodologia. L’approccio realista tenta di unire i due poli, riconoscendo che la realtà sociale esiste da sé, può essere oggettivamente studiata, ma viene prodotta dai soggetti sociali: a questi ultimi viene riconosciuta una autonomia nella elaborazione della cultura e
nel cambiamento della struttura sociale. Possono essere considerate in questa prospettiva le concezioni umanistiche dei b. (→ Maslow; → Frankl) che vedono l’uomo in continua ricerca per realizzare le proprie potenzialit à, in quanto crea e dà sia come individuo che come persona, creando e ridando senso alla realtà sociale. 2. Elementi del concetto di b. All’interno delle diverse prospettive in base alle quali sono studiati i b., troviamo degli elementi comuni: a) la soggettività: il soggetto li riconosce e li prova, anche se non tutti i b. sono da lui identificati o avvertiti; b) la necessità: un’esigenza, un appello che deve essere appagato; c) la reattività: o la tendenza a reagire nei confronti del disagio fisico dettato dalla mancanza degli elementi di base per la sopravvivenza o delle spinte ad agire o pensare che hanno origini inconsce e che non sono dipendenti dalle proprie intenzioni; d) la proattività: cioè la tendenza allo sviluppo della propria natura umana, la quale è provvista di un’intenzionalità finalizzata al perseguimento degli obiettivi, fini e valori che la portano alla realizzazione di sé; e) la plasticità: o il continuo, anche se graduale, cambiamento dei b. e delle modalità della loro soddisfazio ne; f) la storicità: i b. possono essere soddi sfatti da una larga gamma di risposte e il soggetto può appagare un determinato b. a prescindere dall’oggetto ritenuto ottimale alla sua realizzazione; g) l’organizzazione: in base ad una gerarchia che deriva dall’in teriorizzazione e dalla condivisione dei va lori culturali. 3. Diverse prospettive. I b. possono essere studiati secondo prospettive diverse. Alcuni sono riscontrabili nell’ambito della costituzione psichica dell’individuo e vengono denominati b. psicologici. Altri possono emergere con più intensità in determ inate circostanze della vita, e quindi collegati allo sviluppo della persona e in questo senso si parla di b. formativi, sociali e educativi. I primi riguardano quella fase della formazione dell’individuo particolarmente collegata al percorso della preparazione ai compiti del mondo adulto (b. formativi); i secondi emergono più intensamente nel periodo adolescenziale (b. sociali); gli ultimi fanno riferimento al quadro dei valori e dei fini ai 153
BISOGNI
quali si deve rivolgere il progetto educativo (b. educativi). 4. B. psicologici. Nell’ambito psicologico i b. vengono spesso collegati all’idea di pulsione e intesi come una spinta di origine inconscia ad agire e a pensare, indipendentemente dalle intenzioni del soggetto, determinati da uno stato di carenza e tendenti alla ricerca di uno equilibrio perduto (Ronco, 1980, 30-44). I b. così intesi motivano l’individuo verso la ricerca di: a) un quadro di riferimento (b. di informazione), che si manifesta sia a livello elementare come necessità di stimolazione sensoriale, sia a livello più ampio come ricerca di un orizzonte di significato; b) sicurezza e sono dettati dalla necessità sia di differenziazione dall’ambiente conservando le proprie caratteristiche, sia di garanzia della propria adeguatezza e competenza riguardo al futuro prossimo o lontano; c) sviluppo di sé, prefigurato dalla spinta dell’uomo ad auto-realizzarsi come individuo e come persona, in quanto egli si sente orientato verso progetti, valori e aspirazioni ai quali rivolge le proprie decisioni e azioni; d) socialità, che consiste nell’integrazione della vita psichica dell’individuo con quella degli altri che lo circondano e che si manifesta nella coltivazione dell’amicizia, nella ricerca della stima e del dominio sugli altri; e) realizzazione dell’esistenza (b. esistenziali), che si traduce nella tendenza ad unificare valori, obiettivi e progetti attorno ad un fine unico che dà senso all’esistenza e motivazione alle azioni: si esprimono nei b. di significato e di trascendenza. 5. B. formativi. I b. formativi riguardano il processo secondo il quale la persona acquisisce gradualmente le competenze della vita adulta; tali processi sono una condizione essenziale perché il soggetto arrivi ad una personalità matura e sia in grado di decidere liberamente. I b. formativi e quelli educativi sono complementari in quanto la soddisfazione dei primi porta gradualmente alla realizzazione dei secondi. Tra i b. formativi relativi alla prospettiva evolutiva adolescenziale si distinguono: quelli di partecipazione e di accettazione che riguardano la socialità e la → stima di sé; di sicurezza, cioè della ricerca di un riferimento nelle persone significative; di comprensione, cioè dello sforzo di comprendere se stesso e gli altri; di indipendenza, o di ricerca sia di 154
autonomia nei confronti dei genitori, sia di nuovi rapporti sociali al di fuori del gruppo familiare; di conoscenza, che si situa tra curiosità esplorativa, ricerca di comprensione intellettuale del mondo e spirito di avventura; di significatività o di ricercare un senso alla propria esistenza attraverso la messa a disposizione di un quadro di riferimento valoriale, di principi e di obiettivi; di amore o di investimento nell’ambito relazionale, affettivo e sessuale (Poletti, 1988, 84-85). 6. B. sociali. Vengono spesso intesi sia come b. necessari alla sopravvivenza del gruppo sociale (di abitazione, di salute, di alimentazione, di educazione), sia come b. che riguardano l’ambito relazionale. Alla soddisfazione dei primi provvedono apposite istituzioni sociali come la famiglia, il lavoro, la scuola. Quanto alla seconda accezione, nell’ambito relazionale, riguardano la ricerca di confronto tra la propria soggettività e quella degli altri, di rapporti grat ificanti e durevoli di amicizia, di imporsi sugli altri attraverso l’appartenenza a gruppi e l’accettazione da parte degli altri (b. di stima). 7. B. educativi. Sono quelli che, una volta soddisfatti, portano la persona ad un grado ottimale di → maturità, proporzionalmente al periodo evolutivo che essa attraversa, e mirano a mettere la persona in grado di prendere delle decisioni libere. Come tali, essi fanno riferimento ad un quadro di → valori rappresentativo dei fini dell’educazione e che ha una funzione motivazionale, in quanto fa scattare la tensione verso decisioni e azioni orientate alla realizzazione delle mete condivise dal soggetto. In questo senso le risposte ai b. educativi vengono, da una parte, assunte da un progetto, implicito o esplicito, avanzato dalle agenzie educative e, dall’altra sono espresse in motivazioni, atteggiamenti, decisioni e azioni da parte dei soggetti in formazione. Quanto più il soggetto sviluppa un quadro valoriale sintonizzato con quello del progetto educativo personale e istituzionale, tanto più egli riesce a integrarsi nel percorso formativo. I b. educativi sono quindi strettamente collegati ai valori che li orientano e ne possono esistere tanti quanti sono i riferimenti valoriali condivisi dal soggetto. Spetta all’azione educativa l’offerta dei riferimenti di alto profilo valoriale che siano in grado di
BLONSKIJ PAVEL PETROVIČ
far emergere nei soggetti le motivazioni funzionali all’acquisizione dei fini educativi. 8. Una tipologia dei b. Possiamo distinguere i diversi tipi di b. tra b. materiali e post-materiali, ognuno secondo una prospettiva personale e sociale. I b. materiali in prospettiva personale riguardano i b. primari che provengono dalla natura umana, biologica (ad es. il b. di mangiare, di bere, di dormire, ecc.). In prospettiva sociale fanno riferimento ai b. di alimentazione, di abitazione, di salute, di trasporto, di educazione, di lavoro, di credenza e di appartenenza. I b. post-materiali, in prospettiva personale fanno riferimento alla natura umana aperta alla realizzazione del sé: il b. di affetto, di stima, di rapporti sociali, di realizzazione delle potenzialità umane, di senso della vita, di trascendenza; in prospettiva sociale riguardano l’ambito della qualità della vita, favoriscono la realizzazione della persona in quanto membro di una società attraverso l’inserimento nei movimenti per l’ecologia, l’ambiente, la pace, la solidarietà verso i popoli, il benessere delle minoranze, i diritti degli svantaggiati, contro l’apartheid razziale e sociale, ecc. Bibl.: Freund J., Théorie du besoin, in «L’Année Sociologique» (1971) 13-64; Ronco A., Introdu zione alla psicologia. 1. Psicologia dinamica, Roma, LAS, 31980; Springborg P., The problem of human needs and the critique of civilisation, London, George Allen & Unwin Publishers, 1981; Pol etti F., Le rappresentazioni sociali della delin quenza giovanile, Firenze, La Nuova Italia, 1988; Donati P., Famiglia come relazione sociale, Mila no, Angeli, 1989; Fischer L., Prospettive sociolo giche, Roma, NIS, 1992; Gustin M. B., Das necessidades humanas aos direitos, Belo Horizonte, Del Rey, 1999; Caliman G., Desvio social e delinquencia juvenil, Brasilia, Universa, 2006.
G. Caliman
BLANCO Y SÁNCHEZ Rufino → Neoscolastica pedagogica
BLONSKIJ Pavel Petrovič n. a Kiev nel 1884 - m. a Mosca nel 1941, professore di pedagogia e psicologia, con impegno filosofico.
1. Consolidò i suo interessi con la libera docenza (1913) e l’insegnamento nell’università. Partecipò al movimento dell’Educazione libera; dopo la rivoluzione, aderì al bolscevismo e intraprese una corposa attività pubblicistica, che lo inserì negli organismi dello stato per la scuola, muovendosi nella linea della → pedologia. Con l’affermarsi dello stalinismo iniziò la sua emarginazione, da cui si difese, lavorando solo nell’Istituto statale di psicologia, specie dopo la condanna della pedologia (1936). Tra le sue opere: Kurs pedagogiki, Mosca, Zadruga, 1916; Psichologija, Ibid., 1919; Trudovaja skola (Scuola del lavoro), Mosca, NKP-Giz, 1919; Pedologia, Ibid., 1925. 2. Oltre all’interesse psicologico, si è caratterizzato per la fondazione di una scienza marxista dell’educazione e una conseguente ristrutturazione della scuola, supportate dalla centralità dei processi produttivi e del lavoro, da cui la politecnicità, dibattuto concetto marxiano. B. polemizza con l’educazione delle → «Scuole Nuove», per la loro concezione del bambino, il cui sviluppo naturale però egli stesso non trascura, secondo gli orientamenti pedologici. Propone una «scuola politecnica del lavoro», sintesi dialettica tra «l’educazione dell’uomo in generale» e «l’educazione dello specialista». Essa, ispirata al bisogno industriale, si articola su tre livelli: dai 3 ai 7 anni, di imitazione e riproduzione della vita degli adulti, con un rilancio del gioco e un relativo inserimento del lavoro; dagli 8 ai 13 anni (= obbligo di 1° grado), con la conoscenza della vita umana nel suo sviluppo e con un’attività produttiva agricolo-artigianale, in una «comune», con flessibilità di orari e di discipline; dai 14 ai 18 anni, in fabbrica, con una «sintesi di sapere e di fare», integrata da una riflessione scientifico-teorica, da sport e attività artistiche. B. vi ha introdotto, didatticamente, il «metodo dei complessi», di cui fu sostenitore. Oggi se ne riconosce, oltre alla matrice marxista, il legame con classici e Scuole Nuove. Ebbe importanza ed influsso fino al 1925-1926. Bibl.: Tra i saggi più accessibili e comprensivi: Dietrich Th., Sozialistische Pädagogik, Bad Heilbrunn, Klinkhardt, 1966, 127-161.
B. A. Bellerate
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BONTÀ
BLOOM Benjamin → Tassonomia BOCCIATURA → Insuccesso scolastico BOEZIO → Medioevo
BONTÀ La b. è eccellenza nell’essere e nel fare; è promozione del bene nella linea dei bisogni fondamentali e dei progetti esistenziali di vita; è espressione di autorealizzazione. Essa soddisfa i bisogni di appartenenza e di stima, i quali dispongono ad una positiva identità personale e sociale (→ Maslow). 1. La b. orienta nei fini e nei metodi educativi. La b. dei fini attiva la b. dell’essere; la b. nel fare manifesta la b. dell’essere. L’esperienza della b. «ricevuta» stimola le energie interattive di appartenenza nella sicurezza dell’identità sociale, e quelle di stima d’identità personale, base diretta dello sviluppo nell’auto-realizzazione. L’eccellenza dell’esser buono è unita alla competenza del ben fare. L’ → educando abbisogna dei segni di b. e di → amorevolezza; si sente stimolato se si sente amato. La b. è accettazione positiva incondizionata (→ Rogers): ci sono sempre delle ragioni per amare, e l’amore è l’ottimo stimolo per un funzionamento ottimo. 2. L’ → educatore buono è un «essere-per-l’altro». Egli dispone di risorse di benevolenzab.: obiettività, generosità, tolleranza, delicatezza, modestia, empatia, cordialità, collaborazione, compassione, affetto, allegria. La b. genera fiducia: la fiducia garantisce l’efficacia dell’ → intervento educativo, e fonda l’accettazione vicendevole. Pure l’obbedienza è conseguenza naturale della fiducia e della b. La b. definisce l’educatore nell’uso del potere. La forza della b. desta apertura e ricettività, apre all’ → obbedienza: questa è conseguenza della fiducia in un clima di libertà e spontaneità. Così, si promuove, nell’ordine, la speranza del bene. La b. introduce l’educazione nel «sistema della b.». L’educatore buono, per la sua buona eccellenza e la sua buona competenza, fa buoni gli educandi. Lo stile delle relazioni definisce l’educatore: la b. è stile che facilita il bene dell’identità personale e sociale. La b. fa buono l’educando in 156
eccellenza e competenza: nella cultura della volontà d’amore. Bibl.: Pavanetti E., La bondad. Ensayo, Madrid, Oriens, 31963; R emplein H., Psychologie der Persönlichkeit, München, Reinhardt, 61976; Gatti G., Professione: educatore cristiano; le sue risorse: religione, ragione, amorevolezza, testimonianza, coscienza dei propri limiti, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1995; Todisco O., Averroè nel dibattito medievale: verità o b.?, Milano, Angeli, 1999.
A. Sopeña
BORROMEO Carlo n. ad Arona nel 1538 - m. a Milano nel 1584, riformatore ed educatore religioso, santo. 1. Vita. Figlio del conte Gilberto, feudatario di Arona, viene fatto abate a 12 anni, si laurea in diritto a Pavia a 21, viene chiamato a Roma dallo zio, il papa Pio IV, come cancelliere della Chiesa e nominato cardinale e arcivescovo di Milano a 22. A 27 anni, dopo la morte del papa, fa ingresso nella sua diocesi e lavora alacremente alla riforma di essa e delle diocesi suffraganee, adoperandosi per la riapertura e conclusione del Concilio di Trento, fino alla morte, vent’anni dopo, all’età di 46 anni. 2. L’opera educativa. B. fu un grande organizzatore, il massimo del sec. XVI. Organizzò il Concilio e la vita ecclesiastica; diede le Regole per organizzare i Seminari, le → Scuole della Dottrina Cristiana, il clero e le confraternite; organizzò la carità in tempo di carestia, i soccorsi durante la peste. Promosse scuole e collegi per l’educazione dei laici. Incaricò l’umanista → Antoniano di scrivere il trattato Dell’educazione cristiana dei figliuoli, e il card. Valerio di comporre un’opera di retorica. Fondò nel seminario di Milano una tipografia per la diffusione della buona stampa. Personalmente e con il gruppo degli amici si era interessato, fin dagli anni di Roma, di dispute letterarie e teologiche, dimostrando di possedere una solida cultura. 3. Il contributo all’educazione religiosa. Fondò o restaurò i santuari di Rho, Varallo,
BOSCO GIOVANNI
Cannobio, ecc.; promosse il rito ambrosiano. Passò alla storia come il modello del nuovo vescovo riplasmato dal Concilio di Trento, le cui decisioni venivano prese a modello in innumerevoli altre diocesi. Promosse vigorosamente l’educazione e le → Scuole della Dottrina Cristiana, inserendole nel cuore della pastorale parrocchiale; a Milano, durante il suo episcopato, esse passarono da poche decine a 740, con circa 50 mila iscritti. Diede loro figura giuridica, impegnandosi personalmente a stenderne le Regole, entrate in vigore fin dal 1579, anche se stampate solo nel 1585. Il governo delle Scuole e della Compagnia della Dottrina Cristiana viene centralizzato a livello diocesano. Particolarmente intensa è l’insistenza sulla conversione e sulla pietà personale del maestro catechista e di tutti i membri della Compagnia e sul loro spirito comunitario. San Carlo vuole che le classi siano piccole: da 4 a 6 fanciulli/e. La separazione dei sessi è di rigore. Il tempo è la domenica pomeriggio. Si usano premi piccoli e grandi, e severi castighi per i renitenti. Grande importanza assume la disputa/gara, non a scopo didattico, ma dimostrativo e selettivo. Bibl.: Premoli O., S.C.B. e la cultura classica, in «La Scuola Cattolica» 45 (1917) 427-440; Mols R., St. Charles Borromée, pionnier de la pastorale moderne, in «Nouvelle Revue Théologique» 79 (1957) 600-622; Deroo A., S.C.B., il cardinale riformatore, Milano, Ancora, 1965; Giuliani A., La catechesi a Milano nel secolo di S.C., in «La Scuola Cattolica» 118 (1984) 580-615; Toscani X., Le «Scuole della Dottrina Cristiana» come fattore di alfabetizzazione, Novara, Studi Novaresi, 1985.
U. Gianetto
BOSCHETTI-ALBERTI Maria → Scuole Nuove
BOSCO Giovanni n. nella località dei Becchi nel comune di Castelnuovo d’Asti nel 1815 - m. a Torino nel 1888, educatore italiano, fondatore della Società di S. Francesco di Sales (Salesiani di Don B., SDB) e dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA).
1. Don B. nasce al termine del periodo rivoluzionario-napoleonico (1789-1815) e la sua formazione culturale e sacerdotale (1815-1844) si compie in piena Restaurazione: prima in ambiente socio-religioso rurale, poi nella cittadina di Chieri, infine a Torino, capitale del regno sardo (Piemonte, Liguria, Sardegna, contea di Nizza e ducato di Savoia), una delle dieci entità politiche nelle quali era stata divisa l’Italia al Congresso di Vienna. Giovanni è il figlio minore in una famiglia di modesti agricoltori, costituita dai genitori Francesco e Margherita Occhiena, la nonna paterna, il fratellastro Antonio, il fratello maggiore Giuseppe. Orfano di padre a 21 mesi (1817), apprende i primi elementi del leggere e dello scrivere da un sacerdote di un paese vicino, fa la prima comunione nel 1826, è garzone di campagna dal febbraio 1828 all’autunno 1829, frequenta la prima scuola elementare regolare dal dicembre 1830 all’estate 1831. In quattro anni percorre a Chieri le sei classi del «collegio» (la prima inferiore, le tre classi di grammatica, l’anno di umanità e quello di retorica) e, in seminario (1835-1841), i due anni del corso di filosofia e, in quattro anni, i cinque del corso di teologia. Sacerdote nel giugno del 1841, durante il triennio di qualificazione pratico-pastorale nel Convitto Ecclesiastico di Torino (1841-1844) ha i primi contatti con ragazzi immigrati dalla campagna e dalla montagna in cerca di lavoro o incontrati in sporadiche visite nelle carceri o nelle strade e piazze della capitale subalpina. 2. Nel biennio 1844-1846, assunto in una delle opere della nobile vandeana Juliette Colbert vedova del marchese Falletti di Barolo, dà forma al suo «oratorio», in gran parte ambulante. Si rivelano subito due caratteristiche fondamentali della sua personalità: mentalità e cultura ispirata alla religiosità popolare delle origini, arricchita dalla familiarità con libri di storia ecclesiastica, affinata nel Convitto grazie allo studio della morale alfonsiana assimilata soprattutto nei suoi aspetti applicativi (in particolare nella pratica del sacramento della confessione e nella direzione delle anime); insieme, vivacità di intelligenza pratica, coinvolgente intuizione delle problematiche situazioni umane proprie di una città in crescita, concretezza realizzatrice. Dal novembre del 1846 Don B., 157
BOSCO GIOVANNI
che in estate si era sciolto da ogni impegno con la Barolo, si dedicava a tempo pieno al suo oratorio, stabilito all’estremo nord-est di Torino, nel borgo Dora, località Valdocco. Ivi perfeziona e amplia le sue iniziative benefiche: attività religiose e ricreative, classi di alfabetizzazione domenicali e serali, ricerca di lavoro e assistenza morale dei giovani apprendisti; contemporaneamente si dà alla predicazione popolare e scrive i primi libri di storia religiosa e devozionali. L’assistenza ai giovani e l’attività letteraria assumono carattere di accentuata «prevenzione» e difesa in seguito all’acuirsi dei fenomeni determinati dalla svolta politica, religiosa, sociale, culturale, intervenuta nel regno sardo tra il 1847 e il 1855: la liberalizzazione della stampa, il moltiplicarsi dei giornali di opinione, il proselitismo protestante, il distacco delle istituzioni civili da vincoli ecclesiastici, lo scontro tra Stato e Chiesa (1850 e 1855). In favore delle classi popolari Don B. propugna le ragioni della fede cattolica con un giornale di breve durata (tra la fine di ottobre 1848 e inizio maggio 1849), opuscoli e libri apologetici, in particolare, dal 1853, la fortunata pubblicazione quindicinale delle «Letture Cattoliche» (uscite fino alla seconda metà del ‘900). Sul versante educativo, oltre che nei tre oratori torinesi (s. Francesco di Sales, s. Luigi Gonzaga, Angelo Custode), egli opera con primario impegno nella «casa annessa» al primo oratorio di Valdocco, un «ospizio» nel quale organizza laboratori interni di arti e mestieri (legatori, calzolai, sarti, falegnami, fabbri, tipografi, librai) (1853-1862) e le cinque classi del «ginnasio» (1855-1859). 3. A sostegno delle opere in espansione (l’Oratorio di S. Francesco di Sales di Valdocco arriverà negli anni ’60 a 800 ospiti, studenti e artigiani), Don B. riesce ad attirare l’appoggio di larghe cerchie di amici, benefattori, collaboratori, pubblicisti: papi (Pio IX e Leone XIII), re (Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II, Umberto I), principi e principesse di Casa Savoia, gente di corte, nobili e banchieri, autorità religiose e civili, municipali, provinciali, ministeri (in specie degli Interni e della Guerra), direttori di giornali, ecclesiastici e laici di tutte le estrazioni sociali, suscitando la fattiva simpatia anche di personaggi non benevoli verso il clero, come Urbano Rattazzi, e deputati della sinistra li158
berale e radicale. Il coinvolgimento diventa particolarmente pressante in occasione della fondazione e dell’ampliamento delle varie opere educative, nella diffusione delle «Letture Cattoliche», nell’organizzazione delle grandi lotterie, nella costruzione di chiese (s. Francesco di Sales, 1852-1853, Maria Ausiliatrice, 1864-1868, s. Giovanni Evangelista a Torino, 1878-1882, Sacro Cuore di Gesù a Roma, 1880-1887). L’intraprendenza, il consenso di giovani collaboratori, le crescenti richieste di fondazioni da parte di autorità religiose e civili (vescovi, sacerdoti, municipi, notabili) e i generosi aiuti mai venuti meno spingono Don B. ad estendere gradualmente le sue istituzioni giovanili, che oltretutto gli permettono di uscire da scomode strettoie locali. Dal 1863 si avventura fuori Torino, dal 1869 in Liguria, nel 1875 in Francia e in Argentina con l’apertura missionaria verso la Patagonia (1880), in Uruguay, in Brasile, in Spagna, in Cile, in Ecuador (ultima tappa, lui vivente). Non è solo estensione quantitativa di opere, ma anche versatilià delle loro espressioni. L’oratorio originario per esterni, sempre prediletto sul piano affettivo, lascia spazio sempre maggiore a case di educazione per gli «interni», più decisamente «preventive», sotto forma di collegi con scuole per studenti della classe media e di ospizi per studenti e artigiani di classi più umili. 4. Per garantire continuità e stabilità alle sue opere torinesi e a quelle successive, intorno al 1854 Don B. aveva incominciato a pensare a una qualche forma più stabile di organizzazione spirituale e regolamentata dei potenziali collaboratori nell’«opera degli oratori», intesa nel senso più esteso e vario, approdando in tappe successive alla fondazione dei due istituti di vita consacrata, maschile e femminile, denominati Società di s. Francesco di Sales (1859-1869) (→ Salesiani) e Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (o Suore Salesiane) (1872). Nelle Costituzioni della Società di s. Francesco di Sales Don B. aveva introdotto anche la figura dei soci «esterni». Negata per essi l’approvazione romana, arrivava attraverso diverse approssimazioni (Associati alla Congregazione di S. Francesco di Sales, 1873, Unione cristiana, 1874, Associazione di buone opere, 1875) all’Unione dei Cooperatori Salesiani (1876), una «specie» di terz’ordine di ecclesiastici
BOSCO GIOVANNI
e laici che aveva «per fine principale la vita attiva nell’esercizio della carità del prossimo e specialmente della gioventù pericolante» (Cooperatori salesiani ossia un modo pratico per giovare al buon costume ed alla civile società, 1877, in Opere Edite XXVIII, 365-369). Per essa egli lanciava subito come organo di informazione e di collegamento il Bollettino Salesiano, un mensile di vastissima diffusione in più lingue, ancor oggi vivo e vitale in tutti i continenti. 5. Nell’ultimo ventennio si crea, soprattutto negli ambienti cattolici moderati, in Italia, in Germania, in Francia, in Spagna, l’immagine di un Don B. educatore «nuovo» della «gioventù povera e abbandonata», «pericolante» per sé e «pericolosa» per l’ordine morale e sociale; risolutore del problema sociale dei giovani operai; e taumaturgo, in specie accanto al santuario di Maria Ausiliatrice a Torino e nei due viaggi trionfali a Parigi (1883) e a Barcellona (1886). La straordinaria attività, l’instancabile ricerca di sussidi finanziari, il carattere conservatore e talora retrivo di certe fasce di sostenitori e ammiratori non mancarono di attirargli le critiche e le aggressioni satiriche di certa stampa laicista e anticlericale. Peraltro, esse furono nettamente superate dall’ammirazione illimitata da parte di grandi masse e della stampa cattolica e da valutazioni positive di apprezzabili settori del mondo laico italiano ed estero (Traniello [Ed.], 1987, 209-251). 6. Segno di contraddizione ha continuato ad essere Don B., per altro verso, lungo il difficoltoso iter del processo di beatificazione e canonizzazione (1890-1934). Esso fu seguito con fiducia ed entusiasmo dalle schiere vastissime degli ammiratori e devoti, mentre fu oggetto di qualche riserva da talune esigue cerchie di ecclesiastici e di laici cattolici meno convinti del tipo di spiritualità da lui espresso. Gli si rimproverava eccessivo attivismo, si manifestavano perplessità circa un presunto squilibrio tra impegno temporale e vita di preghiera, tra ricorsi e accorgimenti umani e fiducia nella provvidenza, tra diplomazia e rettitudine di intenzione; si credette di trovare elementi conflittuali tra difesa della propria congregazione e ossequio alla gerarchia, tra rigido concetto della vita religiosa e insufficienza dei mezzi formativi (noviziato,
studi teologici, formazione spirituale). Sono riserve che una seria storiografia critica ha potuto agevolmente dissolvere, approdando alla lucida immagine di un tipo di autentica santità, radicata profondamente nella tradizione cattolica e, insieme, aperta alle esigenze della «modernità» a tutti i livelli: santità personale, pedagogia, pastorale giovanile e popolare, spiritualità, socialità, ecclesialità, visione rinnovata della «vita consacrata» in funzione di una «nuova educazione» (Stella, 1988). 7. Come educatore e catechista e quale fondatore di Istituti di consacrati e di consacrate Don B. ha scritto moltissimo, in gran parte ricorrendo a fonti di seconda mano, talvolta quasi rielaborando pubblicazioni altrui, ma con tratti personali inconfondibili e non raramente geniali. Importanti sono gli scritti relativi al suo sistema educativo, il → «sistema preventivo», e quelli legati alla fondazione della Società salesiana e all’approvazione delle sue Costituzioni. Ma la gran parte della produzione libraria (con iniziative tipografiche ed editoriali parallele) fu rivolta soprattutto alla gioventù e al popolo. Si accenna ai principali gruppi: a) scritti per l’educazione scolastica e catechistica: Storia ecclesiastica ad uso delle scuole (1845), Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità (1846), Storia sacra per uso delle scuole (1847), Maniera facile per imparare la storia sacra (1855), Storia d’Italia raccontata alla gioventù (1855); b) le biografie di tre alunni dell’Oratorio di Valdocco, s. Domenico Savio (1859), Michele Magone (1861), Francesco Besucco (1864); e i racconti semibiografici su Giuseppa ne La conversione di una valdese, Pietro ne La forza della buona educazione (1855), Valentino (1866), Severino (1868), Angelina (1869), Massimino (1874); c) scritti devozionali e agiografici: Il giovane provveduto (1847), La chiave del paradiso (1856), Porta teco cristiano (1858), II mese di maggio (1858), seguito da vari fascicoli sulla Madonna, venerata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (1865), inoltre, Associazione de’ divoti di Maria Ausiliatrice canonicamente eretta in Torino (1869), Opera di Maria Ausiliatrice per le vocazioni allo stato ecclesiastico (1875); la vita di s. Martino (1855), s. Pancrazio (1856), s. Pietro (1856), s. Paolo (1857), s. Giuseppe (1867), Biografia del sacerdote 159
BRAILLE: METODO
Giuseppe Caffasso esposta in due ragionamenti funebri (1860); d) scritti in difesa della fede, della Chiesa cattolica e del papa: La Chiesa cattolica-romana è la sola vera Chiesa di Gesù Cristo (1850), Avvisi ai cattolici (1853), Il cattolico istruito nella sua religione (1853), Conversazioni tra un avvocato ed un curato di campagna sul sacramento della confessione (1855), Due conferenze tra due ministri protestanti ed un prete cattolico intorno al purgatorio e intorno ai suffragi dei defunti (1857), la lunga serie di Vite dei papi dei primi tre secoli della Chiesa (1857-1865); e) scritti ameni e azioni sceniche: Novella amena di un vecchio soldato di Napoleone I (1862), Fatti ameni della vita di Pio IX (1871), Dramma. Una disputa tra un avvocato ed un ministro protestante (1853), La casa della fortuna. Rappresentazione drammatica (1865). Bibl.: B. G., Opere edite (ediz. anastatica), 38 voll., Roma, LAS, 1976-1977, 1987; I d., Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales. Dal 1815 al 1855, a cura di A. Ferreira , Ibid., 1991; I d., Epistolario, a cura di F. Motto, voll. I-IV (1835-1875), Ibid., 1991, 1996, 1999, 2003; Caviglia A., «D.B.». Profilo storico, Ibid., 31934; Ceria E., San G.B. nella vita e nelle opere, Torino, SEI, 1937; Lemoyne G. B. - A. A madei - E. Ceria, Memorie biografiche di D. (del Beato... di San) G.B., 18 voll., San Benigno Canavese (Torino), SAID-Buona Stampa/SEI, 1898-1937; Cerrato N., Il linguaggio della prima storia salesiana. Parole e luoghi delle «Memorie biografiche di D.B.», Roma, LAS, 1991; Stella P., Gli scritti a stampa di San G.B., Ibid., 1977; Id., D.B. nella storia della religiosità cattolica, 3 voll., Ibid., 1979-1988; Id., Don B. nella storia economica e sociale (1815-1870), Ibid., 1980; Tuninetti G., «L’immagine di Don B. nella stampa torinese (e italiana) del suo tempo», in Don B. nella storia della cultura popolare, a cura di F. Traniello, Torino, SEI, 1987; Don B. nella storia, a cura di M. Midali, Atti del 1° Congresso Internazionale di Studi su Don B., Roma, LAS, 1990 (in sp. a cura di J. M. Prellezo, Ibid., 1990; in ing. a cura di P. Egan e M. Midali, Ibid., 1993); Gianotti S. (Ed.), Bibliografia generale di don B., vol. I: Bibliografia italiana 1844-1992, Ibid., 1995; Desramaut F., Don B. en son temps (1815-1888), Torino, SEI, 1996; Diekmann H., Deutschsprachige Don-B.Literatur 1883-1994, Roma, LAS, 1997; Stella P., Don B., Bologna, Il Mulino, 2001; Braido P.,
160
Don B. prete dei giovani nel secolo delle libertà, 2 voll., Roma, LAS, 22003.
P. Braido
BOTTAI Giuseppe → Fascismo BOVET Pierre → Scuole Nuove
BRAILLE: metodo Dopo molti sforzi nel corso dei secoli per rendere più facile ai non vedenti l’insegnamento della lettura e della scrittura, il francese Louis B. (1809-1852) inventò un metodo che presto fece fortuna in tutto il mondo. Non vedente dall’età di tre anni, B. entrò a tredici nell’Istituto dei Ciechi a Parigi, dove in seguito insegnò. Inventò il metodo che porta il suo nome e lo fece conoscere nel 1829, nel suo libro scritto in rilievo Procédé pour écrire les paroles, la musique et le pain-chant; tale metodo è giunto fino ai nostri giorni con poche modifiche importanti. Si utilizza un B. integrale, nel quale si riproduce ogni lettera mediante punti in rilievo ed un B. abbreviato, che comprende un codice di abbreviazioni per le parole più usate o per gruppi di lettere più frequenti. Grazie a questo sistema i non vedenti possono leggere qualsiasi tipo di libro con una certa rapidità, affrontare studi superiori e ricoprire incarichi di responsabilità. Con sei punti incisi in rilievo in colonna possono essere rappresentati 63 diversi disegni e con essi tutte le lettere dell’alfabeto, segni ortografici, numeri e note musicali. Per scrivere si utilizzano incavature emisferiche fatte su carta adatta con la punta di un punzone di acciaio. In tutti i Paesi sviluppati esistono collegi, riviste, libri e biblioteche per i non vedenti. Bibl.: Ceppi E., I minorati della vista, Roma, Armando, 1969; Williams M., B. reading, in «The Teacher of the Blind» 3 (1971) 103-116; Deminard D., Dictionnaire d’histoire de l’enseignement, Paris, Éditions Universitaires, 1981; H enri P., La vida y la obra de L.B., Madrid, ONCE, 1988.
B. Delgado
BRUNER Jerome → Linguaggio → Psicolinguistica BRUNI Leonardo → Umanesimo rinascimentale
BUDDHISMO
BUBER Martin n. a Vienna nel 1878 - m. a Gerusalemme nel 1965, pensatore ebreo. 1. Di antica famiglia ebraica originaria di Leopoli, professore di religione ed etica ebraica all’università di Francoforte dal 1923, nello stesso anno pubblica il suo testo filosofico fondamentale «Ich und Du» («Io e Tu»). Dal 1925 al 1954 lavora con F. Rosenzweig alla nuova traduzione tedesca della Bibbia ebraica. Nel 1938 emigra in Palestina. B. è probabilmente il più rappresentativo pensatore ebreo del sec. XX. In lui la filosofia si coniuga con la tradizione ebraica, l’esegesi biblica e la riflessione teologica. La sua concezione dialogica trova il riferimento ultimo nella teologia dell’alleanza tra Dio e il popolo. Peraltro, nello stare in una relazione Io-Tu con la natura, gli altri, gli esseri spirituali e con Dio (cui si contrappone una relazione di tipo Io-Esso), si coglie il senso autentico della vita e la → persona prende coscienza di sé e della propria soggettività. 2. Sebbene B. non abbia sviluppato una approfondita teoria dell’educazione, la problematica educativa emerge in molti suoi scritti. Nella dimensione interpersonale essa è fondata nel «principio dialogico» dell’Io-Tu e finalizzata alla formazione del «grande carattere». Nella dimensione comunitaria del «Noi», essa spinge alla conversione individuale e sociale, a ricercare il dialogo tra comunità diverse ed apre verso l’utopia della «communitas communitatum» e della pace in cui gli uomini siano «una cosa sola». Bibl.: B.M., Werke, 3 voll., München, Kösel, 1962-1964; trad. it.: Il principio dialogico e altri saggi, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1993; Milan G., Educare all’incontro. La pedagogia di M.B., Roma, Città Nuova, 42002; Zank M. (Ed.), New perspectives on M. B., Tübingen, Mohr Siebeck, 2006.
C. Nanni
BUDDHISMO Il termine B. deriva da Buddha-Dharma, che significa l’Insegnamento (Dharma) dell’«Il-
luminato» (il Buddha). Siddharta Gautama, nome con cui il Buddha era conosciuto prima dell’illuminazione, nacque a Lumbini, nel sud dell’odierno Nepal, nel VI sec. a.C. È il fondatore del B. 1. Aspetti generali. Il B. è sia una filosofia che una religione; è una raccolta di dottrine e un modo di vivere. Come filosofia, è una teoria dell’esistenza basata su tre elementi essenziali: il dolore (dukha), la transito rietà (anicca) e la non individualità (anatta). Come religione, il B. mostra la «via» verso la beatitudine finale (nirvana), che non è nient’altro che la liberazione definitiva dalla catena delle successive rinascite: queste rinascite sono dovute all’intrinseco potere causale dell’azione (karma) e possono essere eluse tramite la rinuncia ed il distacco. Nel B. perciò non c’è posto per la mediazione degli dei e per la realtà perenne dell’esistenza, principi fondamentali dell’ → Induismo. Il B. si fonda su tre tesor i: il Buddha, il Dharma che egli insegna e il Sangha (o la comunità di monaci e suore) il cui ruolo è di praticare e trasmettere il suo insegnamento. Ci sono due rami principali del B.: il primo è il Theravada (la dottrina degli Anziani), conosciuto anche come Hinayana (piccolo veicolo); questo è il tipo di B. che è andato affermandosi nei seguenti paesi: Sri Lanka, Myanmar, Thailandia, Laos e Kampuchea. Il secondo è il Mahayana (grande veicolo): ha seguaci in Cina, Giappone e Corea. 2. Idee pedagogiche. Il B. andò affermandosi verso l’inizio del V sec. a.C., in un periodo in cui la maggior parte della gente era rimasta delusa dai rituali e sacrifici vedici e l’istruzione era monopolio dei bramini, la classe sacerdotale. Buddha ed i suoi discepoli scelsero di insegnare in Pali, la lingua comune del popolo; essi insegnavano a chiunque, indipendentemente dalla casta, dal credo o dal sesso. Per quei tempi fu un fatto rivoluzionario. L’istruzione e l’insegnamento buddhista si incentrarono intorno ai monasteri, e divennero parte della storia del monachesimo buddhista. Sin dall’inizio i monasteri buddhisti si impegnarono nell’istruzione sia secolare che religiosa. Il risultato di ciò fu una diff usa crescita dell’istruzione elementare e dell’istruzione superiore. I monasteri servivano al duplice scopo di insegnare e preparare le persone per 161
BÜHLER KARL
il sacerdozio. Dato che lo scopo ultimo della vita è il raggiungimento del Nirvana (eterna beatitudine dell’essere puro), l’istruzione era fondamentalmente indirizzata verso questo fine. I giovani discepoli erano affidati ad un insegnante conosciuto per la sua integrità morale, l’autoconcentrazione, la saggezza, il distacco e la sapienza. I suoi compiti con sistevano nell’istruire i discepoli sui precetti della retta condotta, su elementi di moralità, su questioni relative al Dharma (insegnamento) e ai Vinayas (regole monastiche). Il nucleo centrale dell’insegnamento includeva invariabilmente le quatt ro nobili verità esposte dal Buddha nel suo primo sermone dopo l’illuminazione, cioè l’esistenza del dolore, le sue origini, la sua estinzione e l’ottuplice sentiero che conduce alla fine del dolore e alla rinascita. L’istruzione buddhista raggiunse il suo acme tra il V e l’VIII sec. d.C. in seguito alla fondazione della famosa Università di Nalanda sotto i re Gupta. All’apice della fama, l’Università di Nalanda aveva 1.500 insegnanti e più di 10.000 studenti da tutta l’Asia. Oltre alle materie religiose, ne venivano insegnate altre, quali legge, mate matica, astronomia, logica, metafisica, me dicina, arti e mestieri, e letteratura. Persino oggi, il B. ha molto da offrire per la crescita e lo sviluppo dell’uomo come essere umano: la meditazione e la preghiera, il culto e la comunità, il distacco dal mondo, la via della salvezza e la ricerca dell’Assoluto. Il B. quindi rimane una filosofia ed una religione autorevole, a cui si rivolgono in molti, ed il suo valore pedagogico per la vera promozione dell’uomo non sarà mai sufficientemente enfatizzato. Bibl.: Humphreys C. (Ed.), The wisdom of Bud dhism, London, Unwin Brothers Ltd., 1960; Ling L., The Buddha, London, Temple Smith, 1973; Mookerji R. K., Ancient Indian education, New Delhi, 1974; Sir H ari Singh Gour, The spirit of Buddhism, voll. I & II, New Delhi, Cosmo Publications, 1986; Goyal S. R., A history of Indian Buddhism, Kusmanjali Prakashan, Meerut, 1987.
G. Kuruvachira
BÜHLER Karl n. a Meckesheim (Baden) nel 1879 - m. a Los Angeles nel 1963, psicologo tedesco. 162
1. Allievo a Friburgo di J. von Kries, dopo essersi laureato in medicina (1903) e in filosofia (1904) lavora sotto la guida di O. Külpe. Tra il 1907 e il 1908 pubblica quattro lavori in cui, utilizzando il metodo dell’introspezione controllata, si propone di studiare i «contenuti» complessi della mente, con l’intento di mettere in rilievo i processi (o atti o funzioni) che veicolano l’elaborazione di tali contenuti e ricorre, per ottenere dai propri soggetti informazioni dettagliate sui processi decisionali seguiti, a una tecnica di intervista di tipo clinico. Sulla base di risultati sperimentali, B. sostiene il carattere non sensoriale di molti elementi che contraddistinguono la coscienza nei compiti cognitivi nonché l’impossibilità di classificare taluni «elementi di pensiero» nella stessa categoria che comprende le sensazioni o le immagini. Pur continuando a muoversi in ambito sperimentale, sottolinea inoltre l’esigenza di collocare lo studio del pensiero lungo una dimensione ontogenetica e nel suo libro Lo sviluppo psichico del bambino (1918) affronta il problema della formazione dei concetti nel bambino e quello dei rapporti tra pensiero e linguaggio, e delinea una periodizzazione dello sviluppo psichico a cui negli anni successivi avrebbero fatto riferimento diversi psicologi. 2. Insegna a Dresda e quindi a Vienna dal 1922 al 1938. Nel 1927 con il libro La crisi della psicologia, che avrà grande risonanza (tradotto in it., 1979), denuncia l’estrema frantumazione in scuole separate della psicologia contemporanea e propone, come essenziale per la fondazione di una concezione unitaria dei processi psichici, un’analisi critica dei principi concettuali delle scuole psicologiche dell’epoca. Abbandonato l’introspezionismo di Würzburg, si avvicina alle tesi dell’indirizzo gestaltico. Negli anni ’30 porta avanti, insieme con il gruppo di linguisti del circolo di Praga, una serie di ricerche di estrema rilevanza sulla psicologia del linguaggio. Arrestato nel 1938 dai nazisti, si rifugia dapprima a Oslo ed emigra successivamente negli Stati Uniti, dove insegnerà psicologia al Saint Thomas College di Saint Paul e dal 1945 all’Università di Los Angeles, California. Bibl.: Wellek K. K., K. B. 1879-1963, in «Arch.
BULIMIA
Ges. Psychol.» 116 (1964) 3-8; Symposium on K. B’s contribution to psychology, in «Journal of General Psychology» 75 (1966) 181-219; M arion P., K. B. e la «crisi della psicologia», in «Per un’analisi storica e critica della psicologia» 4-5 (1978) 33-62.
F. Ortu - N. Dazzi
BUGIA Asserzione coscientemente non conforme alla → verità con lo scopo d’indurre altri in errore. Tale asserzione può essere fatta attraverso la parola, lo scritto, il gesto o anche il silenzio. L’uso del termine b. si riferisce in modo particolare all’→ infanzia. 1. Il bambino è in grado di dire b., allorché acquista la capacità di distinguere il vero dal falso e ciò avviene verso i 6-7 anni. All’inizio dell’età scolare la b. è fisiologica e svolge una funzione adattiva alla realtà. Il bambino cioè vi ricorre per conseguire la propria autonomia e per difendere il proprio mondo interno nei confronti dell’ambiente, avvertito come troppo intrusivo. Esistono due principali tipi di b.: a) b. utilitaristica, al fine di conseguire un vantaggio o evitare un castigo (es.: la falsificazione del voto); b) b. compensatoria, al fine di evadere da una situazione di → frustrazione (es.: inventarsi una famiglia più ricca). 2. Il ricorso sistematico alla b. denuncia un esasperato bisogno di onnipotenza ed un’intolleranza nei confronti della realtà. In un simile contesto, può avvenire che l’individuo si trasformi in un bugiardo inconscio e quindi sia incapace di riconoscere che sta mentendo. È il caso di chi comunica superficialmente, senza colore, senza sensibilità e con contenuti futili, e di chi ricorre sistematicamente al cliché nel suo modo di parlare e di agire. Talvolta può avvenire che alcune b. volontarie vengano utilizzate per comunicare in codice verità inconsce. Il bugiardo psicopatico, ad es., usa la b. come metafora attraverso cui inconsciamente cerca di dire una verità che gli è difficile manifestare in termini realistici. Un tipico aspetto patologico della b. è rappresentato dalla mitomania, in cui si manifesta la tendenza ad un’accen-
tuata confabulazione, fino a sfociare, nei casi estremi, nel delirio d’immaginazione ed in comportamenti perversi. Il mitomane è un soggetto labile, iperemotivo e suggestionabile ed evidenzia una seria difficoltà di adattamento alla realtà. Bibl.: Sutter J. M., La b. del bambino, Roma, Paoline, 1974; Ekman P., I volti della menzogna, Firenze, Giunti, 1985; Langs R., La comunicazione inconscia nella vita quotidiana, Roma, Astrolabio, 1988; Anolli L. - M. Balconi - R. Ciceri, Fenomenologia del mentire: Aspetti semantici e psicologici della menzogna, in «Archivio Psicologia Neurologia e Psichiatria» 55 (1994) 1-2, 268-295; A braham K. et al., Bugiardi e traditori, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Delloz D., La b., Milano, Ancora, 2002.
V. L. Castellazzi
BULIMIA La b. consiste in una fame insaziabile ed incontrollabile. Il termine deriva da due parole greche (bous = bue e limòs = fame). Letteralmente: «fame da bue». 1. Tale disturbo, come per l’ → anoressia, nella maggioranza dei casi riguarda il sesso femminile. Tra gli studenti universitari, le femmine denunciano la percentuale del 4,5% contro lo 0,40% dei maschi. Esso inoltre è dalle 5 alle 10 volte più diffuso dell’anoressia. La b. di solito compare verso i 15-16 anni, con punte massime dopo i 20 anni. Il decorso è intermittente con tendenza verso la cronicizzazione. 2. I sintomi principali della b. sono: ricorrenti episodi di abbuffate senza alcun controllo, vomito auto-indotto, uso di lassativi o di diuretici, eccessiva preoccupazione per il peso corporeo, ricorso all’alcol o a sostanze stupefacenti, scarsa → stima di sé, ricerca di appoggio, → depressione. A differenza delle anoressiche, le bulimiche tendono ad essere sessualmente attive, anche se poi denunciano una certa difficoltà nell’ottenere soddisfazione dei loro bisogni emotivi. Entro questo contesto, l’orgia alimentare viene vissuta, per un verso, come tentativo di «prendersi cura» e, per un altro, come 163
BULLISMO
rabbia nei confronti dell’oggetto frustrante e deludente. Bibl.: Igoin L., La boulimie et son infortune, Paris, PUF, 1979; Gordon R. A., Anoressia e b. Anatomia di un’epidemia sociale, Milano, Cortina, 1991; Sánchez Cárdenas M., Le comportement boulimique, Paris, Masson, 1991; Lavanchy P., Il corpo in fame, Milano, Rizzoli, 1994; Selvini Palazzoli M., Ragazze anoressiche e bulimiche, Milano, Cortina, 1998; Miller J. A., Gli imbrogli del corpo, Roma, Borla, 2006; Jeammet Ph., Anoressia b., Milano, Angeli, 2006; R ecalcati M. - M. Zuccardi Merli, Anoressia, b. e obesità, Torino, Bollati Boringhieri, 2006.
V. L. Castellazzi
BULLISMO Il termine italiano b. viene dalla parola inglese bullying (tiranneggiare), termine usato nella letteratura internazionale per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo. 1. Definizione e descrizione del fenomeno. «Il b. consiste nella messa in atto di comportamenti aggressivi, offensivi, umilianti, tendenti all’isolamento ed alla ridicolizzazione, ripetuti costantemente da uno o più alunni (i bulli) nei confronti di un compagno di solito più debole o diverso in qualche caratteristica (la vittima) al cospetto di altri compagni (i testimoni) che si divertono per l’aggressione, incitando i bulli a continuare oppure facendo finta di niente, mantenendo il silenzio e l’omertà» (Mariani, 2005, 75). Secondo questa definizione per poter parlare di b. ci devono essere tre attori: a) il bullo, b) la vittima, c) i testimoni. I coetanei possono assumere, all’interno del gruppo, ruoli diversi, ponendosi dalla parte del bullo, intervenendo a sostegno delle vittime o rimanendo semplici osservatori. C’è anche da sottolineare che si instaura una sorta di complementarità tra bullo e vittima, in quanto quest’ultimo non è in grado di porre fine al sopruso, anzi lo alimenta con i suoi comportamenti goffi e maldestri. I bulli possono essere di tre tipi: a) Il bullo aggressivo: tale soggetto è aggressivo su chiunque possa essere identificato come vittima e non si preoccupa minimamente 164
delle conseguenze del suo comportamento. È impulsivo, è favorevole alla violenza, ha un forte desiderio di dominare gli altri, è molto forte sia psicologicamente che fisicamente, è del tutto insensibile ai sentimenti degli altri ed infine ha un’elevata stima di sé. b) Il bullo ansioso: tale categoria di soggetti ha più problemi di qualsiasi altro bullo o vittima, condividendo molte delle caratteristiche di quest’ultima. Infatti è sia ansioso che aggressivo, è insicuro di sé, e spesso se la prende con ragazzi più grandi e più forti di lui. c) Il bullo passivo: in quest’ultima categoria di bulli rientrano tutti quegli individui che affiancano il leader. Lo fanno per due motivi principali: il primo è per proteggere se stessi, il secondo è per avere lo status di appartenenza al gruppo (Marini - Mameli, 1999, 63). Anche la vittima fa parte del «sistema»: ha la funzione del «capro espiatorio». È un/a ragazzo/a che evidenzia difficoltà nel difendersi e si trova in una situazione di impotenza nei confronti di coloro che lo/a molestano. Presenta elevati livelli di ansia e insicurezza, scarsa autostima; tende ad essere più debole dei coetanei e più preoccupato per l’incolumità fisica. Vi è anche la categoria di vittima provocatrice che è una combinazione di modelli reattivi, ansioso ed aggressivo. 2. L’intervento. Per risolvere o modificare il fenomeno del b. sono necessari interventi ad hoc. Il compito degli insegnanti è quello di intervenire precocemente per modificare comportamenti che tendono a cronicizzarsi. È importante sviluppare una collaborazione tra insegnanti, educatori e famiglia (sovente causa iniziale della violenza del bullo). Ma è soprattutto decisivo lavorare sul gruppoclasse. Ci sono esercizi che aiutano gli alunni a prendere coscienza della grave ingiustizia che si sta perpetrando, dei problemi che essa maschera, delle possibilità che hanno di risolvere, cooperando, i loro problemi. Esistono delle tecniche specifiche per aiutare i bulli a ridurre la loro violenza e altre per sostenere la vittima e farle acquisire delle competenze per reagire più adeguatamente. Sono ormai collaudati i «Circoli di Qualità» (CQ) che hanno una metodologia specifica per affrontare il problema. L’importante è che la scuola, di fronte a tale fenomeno, non lo neghi o lo banalizzi. Essa deve reagire con una serie di provvedimenti anti-b. Se non ha un esper-
BURT CYRIL
to, può acquisirlo dall’esterno, per esempio uno psicologo specializzato sull’argomento. Poco opportuna appare invece la presenza di un tutore dell’ordine. Bibl.: Olweus D., B. a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Firenze, Giunti, 1996; Fonzi A., Il b. in Italia: il fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte alla Sicilia. Ricerche e prospettive d’intervento, Ibid., 1997; Marini F. - C. M ameli, Il b. nelle scuole, Roma, Carocci, 1999; Sharp S. - P. K. Smith, Bulli e prepotenti nella scuola: prevenzione e tecniche educative, Trento, Erickson, 2000; Lawson S., Il b.: suggerimenti per genitori ed insegnanti, Roma, Editori Riuniti, 2001; M ariani U., Alunni cattivissimi: come affrontare il b., l’iperattività, il vandalismo ed altro ancora, Milano, Angeli, 2005; Di Sauro R. - M. M anca, Strategie di intervento e prevenzione del b. in adolescenza, Roma, Edizioni Kappa, 2006.
G. Vettorato
BUONE PRATICHE → Pratiche educative
BURNOUT Il rischio del b. è molto attuale tra quanti sono impegnati in professioni di aiuto agli altri (psicologi, operatori sociali, medici, infermieri, insegnanti, operatori pastorali), cioè tra quanti investono le proprie energie attraverso un eccessivo coinvolgimento con i bisogni delle persone a cui essi si dedicano, una malattia da «eccesso di impegno» (Cherniss, 1983) che comprende una condizione di esaurimento emotivo derivante dallo stress dovuto a fattori sia personali che ambientali. È una sindrome multidimensionale che si traduce nel rischio di esaurire le proprie energie psicofisiche e di reagire ad un ambiente lavorativo considerato come troppo esigente ed incapace di apprezzare la propria dedizione (Gabassi - Mazzon, 1995). 1. A livello psicologico, il b. si riferisce ad un insuccesso nel processo di adattamento emozionale dinanzi alle richieste ambientali, una sorta di strategia che la persona adotta per rispondere alle tensioni stressanti che si accumulano nel contesto della propria professione di aiuto, con conseguenti comportamenti
di demotivazione e di distacco emozionale, ma anche di logoramento psicologico dovuto al contatto estenuante e prolungato con le esigenze e i bisogni degli altri (Edelwich - Brodsky, 1980). Inoltre, dal punto di vista del contesto lavorativo, il b. è considerato come l’esito di una condizione ambientale stressante divenuta ormai intollerabile per i diversi fattori che subentrano, quali il pagamento inadeguato, le condizioni di lavoro precarie, le situazioni di urgenza con cui gli utenti spesso rivolgono le loro richieste (Maslach, 1992; Freudenberger, 1974). 2. I diversi fattori che intervengono nella concezione del b. hanno degli effetti anche sulle strategie di prevenzione: devono coinvolgere non solo la persona attraverso adeguate strategie di coping che permettano di rafforzare la stima personale e la soddisfazione lavorativa, ma anche l’organizzazione e l’ambiente di lavoro per umanizzarlo e renderlo più adeguato non soltanto alle esigenze della struttura lavorativa ma anche ai bisogni dell’individuo (Baiocco et al., 2004). Bibl.: Freudenberger H. J., Staff b., in «Journal of Social Issues», 30 (1974) 159-165; Edelwich J. - A. Brodsky, B. stages of disillusionment in the helping professions, New York, Human Sciences Press, 1980; Maslach C., La sindrome del b. Il prezzo dell’aiuto agli altri, Assisi, Cittadella Editrice, 1992; Gabassi P. G. - M. Mazzon, B.: 1974‑1994. Venti anni di ricerche sullo stress degli operatori socio‑sanitari, Milano, Angeli, 1995; Maslach C. - M. P. Leiter, B. e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della demotivazione al lavoro, Trento, Erickson, 2000; Baiocco R. et al., Il rischio psicosociale nelle professioni di aiuto, Ibid., 2004.
G. Crea
BUROCRAZIA → Amministrazione scolastica
BURT Cyril n. a Londra nel 1883 - m. ivi nel 1971, psicologo inglese. 1. Dopo esser stato allievo di McDougall a Oxford e aver portato a termine, come professore incaricato di psicologia a Liverpool 165
BUYSE RAYMOND
(1907-1912), numerosi studi di tipo empirico e sperimentale sulla misurazione dell’intelligenza (nel 1909 aveva pubblicato sul «British Journal of Psychology» uno studio sui → test sperimentali di intelligenza generale e nel 1911 era stato il primo a costruire, sulla base dei lavori di → Spearman, una procedura per la somministrazione di gruppo dei test mentali) ottiene nel 1912, per interessamento di → Galton, il posto di psicologo scolastico retribuito presso la London County Council Education Authority, il consiglio di contea di Londra. Dirige successivamente una sezione di orientamento professionale dell’Istituto Nazionale di Psicologia Industriale ed è professore di psicologia all’Università di Londra. 2. I suoi studi su gruppi di bambini normali, ipo e iper dotati, e con caratteristiche antisociali, nonché quelli sui gemelli monozigoti educati separatamente, saranno considerati fondamentali per le successive indagini sull’infanzia e sull’educazione. In Mental and scholastic tests (1932), dopo aver proposto una revisione della scala di Binet-Simon, B. presenta una serie di test speciali relativi al livello di educazione raggiunto nella lettura, nella scrittura, nello svolgimento di temi, nell’aritmetica e in altre forme fondamentali di attività scolastica e, in disaccordo con Spearman, sostiene che i punteggi dei test rappresentano una misurazione non di una capacità generale ma di capacità operanti a differenti livelli, e cioè a livello senso-motorio, a livello percettivo, associativo, relazionale. Considera inoltre i fattori in cui la capacità fondamentale è scomponibile alla stregua di costrutti logici e non di agenti causali: servono cioè semplicemente a classificare in maniera coerente le correlazioni individuate fra i punteggi di test diversi. Nel 1938 avanza l’ipotesi di una correlazione fra classificazioni basate sulla contrapposizione tra introversione ed estroversione da un lato e differenze somatiche dall’altro. Propone inoltre uno schema di interpretazione del TAT in termini di livelli di organizzazione (coerenza), grado di osservazione dei particolari, fluidità verbale, estroversione-introversione. Infine, nel 1956 applica la teoria multifattoriale dell’eredità, basata sul metodo di analisi quantitativa di Fisher, all’analisi delle differenze individuali. 166
3. Considerato uno dei principali psicologi del secolo per le sue ricerche sui test attitudinali nella scuola, sull’ereditarietà dell’intelligenza, sull’analisi fattoriale in psicologia e per la grande influenza esercitata sulla psicologia e la pedagogia inglese, B. è invece divenuto in anni più recenti (in conseguenza dello scandalo suscitato dallo psicologo statunitense L. Kamin che nell’articolo The science and politics of IQ [1974] ha denunciato la manipolazione compiuta da B. sui suoi dati per dimostrare la tesi dell’ereditarietà dell’intelligenza) il simbolo di un’indagine psicologica fortemente connotata a livello ideologico e volta a sostenere interventi sociali e pedagogici selettivi e classisti. Bibl.: Glassey W., Educational development of children: the teachers’ guide to the keeping of school records, with a foreword by professor Sir C.B., London, University of London Press, 1950; Hernshaw L. S., C.B., psychologist, London, Hodder & Stoughton, 1979; Fletcher R., Science, ideology and the media: the C.B. scandal, New Brunswick/London, Transaction Publ., 1991.
F. Ortu - N. Dazzi
BUYSE Raymond n. a Tournai nel 1889 - m. ivi nel 1974, pedagogista belga. 1. Ha insegnato per 10 anni nelle scuole secondo le sollecitazioni dell’attivismo (→ Scuole Nuove); come ispettore scolastico e docente ha insistito sull’uso delle tecniche d’indagine nella verifica dei risultati e sull’organizzazione scolastica secondo i principi del taylorismo; è stato collaboratore di → Decroly con il quale ha scritto, ma dal quale ha dissentito contrapponendo la scuola dell’esperienza vissuta a quella che utilizza la ricerca sperimentale. Nel 1928 ha iniziato l’insegnamento all’Università cattolica di Lovanio, ove ha fondato e diretto il Laboratorio di → pedagogia sperimentale. I suoi meriti quale «capofila» della pedagogia sperimentale in Europa (→ Dottrens) lo hanno portato ad essere il primo presidente di Paedagogica (1950), società internazionale di studi e ricerche pedagogiche e poi presi-
BUYSE RAYMOND
dente onorario dell’AIPSLF (Associazione internazionale di Pedagogia Sperimentale di Lingua Fr.). È stato formatore di insegnanti e di ricercatori, animatore della ricerca sperimentale specie tramite i suoi allievi. 2. Ha cercato di definire il contributo della sperimentazione all’interno della pedagogia. Nell’insegnamento e nella direzione delle ricerche s’è occupato della scuola, dell’apprendimento, ha insistito sulla necessità della verifica dei risultati e d’una organizzazione razionale. Gli interessi culturali di B. hanno
riguardato anche l’→ orientamento e la famiglia. Bibl.: B.R., L’expérimentation en pédagogie, Bruxelles, M. Lamertin, 1935; Bonboir A. et al., L’oeuvre pédagogique de R.B., Louvain, Vander, 1969; Gille A., R.B., promoteur de la pédagogie expérimentale, in «Revue de Psychologie et des Sciences de l’Éducation» 10 (1975) 15-24; Montalbetti K., La pedagogia sperimentale di R.B., Milano, Vita e Pensiero, 2002.
L. Calonghi - C. Coggi
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C CALASANZ José de n. a Peralta de la Sal nel 1557 - m. a Roma nel 1648, educatore spagnolo, santo, fondatore degli → Scolopi. 1. La vita di C. (noto in Italia con il nome di Calasanzio) trascorre in Spagna (1557-1592) e a Roma (1592-1648). Consegue il dottorato in teologia, lavora con vari vescovi, è precettore dei loro domestici. Con questa esperienza si trasferisce a Roma aspirando ad un canonicato; però non riesce nell’intento e arriva a dire, nel 1600: «Ho trovato a Roma il miglior modo di servire Dio, aiutando questi poveri ragazzi; non lo lascerò per nulla al mondo». Dal 1595 si dedica alle opere di carità in diverse congregazioni, tra cui quella della Dottrina cristiana, dove si impartisce l’insegnamento del → catechismo a fanciulli e fanciulle la domenica e i giorni festivi e si insegna ad alcuni a leggere, scrivere e fare di conto; sembra che si sia iscritto alla Dottrina cristiana nella seconda metà del 1599. C. vuole che questa Congregazione gestisca le scuole quotidiane e gratuite da lui fondate nella chiesa di s. Dorotea, ma non vi riesce. 2. In queste scuole, che chiamò «Scuole Pie» (come l’Ordine religioso che le ha fatte sopravvivere), la dottrina cristiana fu la materia principale. C. si preoccupò, tra l’altro, di trovare una metodologia catechistica diversa da quella utilizzata per le altre discipline scolastiche, benché anche la catechesi seguisse la Legge del dinamismo psicologico da lui enunciata per tutte le materie:
«Nell’insegnamento della → grammatica e in qualunque altra materia, risulta di gran profitto per l’allievo che il → maestro segua un metodo semplice, efficace e, per quanto possibile, breve. Per questo si metterà tutto l’impegno nello scegliere il migliore fra quelli indicati dai più dotti ed esperti nella materia» (Constituciones, n. 216). Si seguirà, inoltre, un metodo uniforme, tenuto conto della regionalizzazione e della creatività dei maestri. C. vuole catechisti preparati, un programma ben strutturato, libri, tecniche e tempi adeguati. Benché inserito nel campo della ragione e della cultura, vi è un momento nell’apprendimento catechistico nel quale il fanciullo deve realizzare gli atti richiesti dalla fede che apprende; e tutti gli alunni devono fare la preghiera personale nel → collegio. Questo insegnamento deve essere sistematico, universale e uniforme e, tenendo conto delle scansioni scolastiche, si deve attuare sin dai primi anni e giornalmente. C. si serve del catechismo per le lezioni di lettura (compitazione, sillabazione ad alta voce). Nelle sere della domenica e dei giorni festivi il catechismo viene insegnato nelle chiese parrocchiali a tutto il popolo con una speciale partecipazione degli alunni. Nel noviziato, lo scolopio deve apprendere già «il modo di insegnare la dottrina cristiana» ed i catechisti debbono avere «la cultura e l’autorità che caratterizza il sacerdozio». 3. C. pubblicò un suo catechismo, intitolato Alcuni misteri della Vita e Passione di Cristo Signor Nostro da insegnarsi alli scolari dell’infime classi delle Scuole Pie (la ediz., 169
CALONGHI LUIGI
Roma, 1599; ultima, 1691). Utilizzò e fece utilizzare i catechismi di Bellarmino, Romano, di s. Carlo → Borromeo e le opere di C. Franciotti. Instaurò e mantenne per 50 anni nelle sue scuole (fondò 37 collegi in Italia, Germania, Polonia, Ungheria, Boemia e Moravia) un organizzato e completo movimento catechistico. Davanti ad un tribunale difese il diritto del povero all’educazione primaria e media elementare. Viene considerato il creatore della scuola popolare moderna (1597). Bibl.: Santha G., De sancti Fundatoris nostri in Confraternitate Doctrinae christianae Urbis, praesentia, industria, muneribus, in «Ephemerides Calasanctianae» 6 (1958) 149-161; Cueva D., Catequesis calasanciana, in «Analecta Calasanctiana» 65 (1991) 109-134; Spinelli M., J.d.C., pionero de la escuela popular, Madrid, Ciudad Nueva, 2002.
V. Faubell
CALÒ Giovanni → Neoscolastica pedagogica
CALONGHI Luigi n. a San Bassano (Cremona) nel 1921 - m. a Torino nel 2005, pedagogista sperimentale e docimologo, sacerdote salesiano. 1. Si è laureato in filosofia e teologia; specializzato in Psicopedagogia presso l’Università di Lovanio (Belgio) con R. → Buyse. È stato docente, direttore d’istituto, preside e Rettore della Pontificia Università Salesiana di Roma e professore ordinario all’Università Statale di Torino, Salerno e Roma. è stato Presidente dell’IRRSAE Piemonte. Ha collaborato attivamente al rinnovamento della scuola it. partecipando a convegni e commissioni tecniche del MPI. Particolare impegno ha dedicato dal 1977 al 1993 alla messa a punto della scheda di valutazione per la scuola media (D.M. 5.5.93). 2. Ha sviluppato ampie ricerche empiriche in ambito didattico e docimologico, validando strumenti di rilevazione e controllando ipotesi innovative con il supporto di affinate tecniche statistiche e di approfondimenti qualitativi (riflessione verbalizzata). Ha messo la ricerca a servizio dei problemi della scuola, 170
predisponendo manuali, sussidi diagnostici, test e guide. Ha una vasta produzione scientifica che conta più di 50 voll.; oltre 60 contributi a voll. e quasi 200 articoli. È stato membro del comitato scientifico di numerose riviste; cofondatore di «Orientamenti Pedagogici» e della SIRD; consulente scientifico di sussidiari, testi di lettura, batterie di prove oggettive per la scuola elementare e media. Ha contribuito all’affinamento della metodologia della ricerca didattico-educativa, alla sua diffusione tra gli insegnanti e ha dato un contributo significativo all’introduzione delle teorie e delle pratiche della valutazione formativa nella scuola dell’obbligo italiana. Bibl.: C.L., Valutazione, Brescia, La Scuola, 1976; I d., Sperimentazione nella scuola, Roma, Armando, 1977; Nanni C. (Ed.), La ricerca pedagogica didattica, Roma, LAS, 1997; La M arca A. (Ed.), Ricerca, educazione, didattica. L’opera di L.C.: sviluppi attuali, Palermo, Palumbo, 2006.
C. Coggi
CAMBIAMENTO → Conversione → Recupero
CAMBIO SOCIALE Per c.s. si intendono tutte le trasformazioni che si producono in un dato periodo di tempo nella struttura di una determinata → società. 1. Il concetto non indica di per sé la direzione in cui il cambiamento avviene. L’interesse della sociologia per il c.s. va ricercato nel fatto che in una società, intesa come un insieme di sotto-sistemi interdipendenti, cambiamenti strutturati di un settore possono provocare tensioni e processi di adattamento negli altri. Il c.s. è uno dei problemi più affascinanti e nello stesso tempo più difficili in sociologia. Infatti la sociologia moderna ha iniziato con i tentativi di spiegare le cause del c.s. e in proposito ha cercato di elaborare una teoria che doveva rivelare le «leggi del mondo». La maggior parte delle interpretazioni aveva un carattere evoluzionistico: l’influsso maggiore è stato esercitato da Marx che sosteneva che il «modo di produzione» ed i rapporti di produzione da esso generati erano la «struttura» fondamentale della società, rispetto alla qua-
CAMBIO SOCIALE
le tutte le altre istituzioni, politiche, religiose e familiari, erano la «sovrastruttura». Con lo studio del c.s. si passa immediatamente dai problemi dell’organizzazione della società a quelli riguardanti le sue modificazioni, si passa cioè dalla statica alla dinamica sociale. Il c.s. riguarda il movimento delle persone o delle istituzioni da una posizione ad un’altra nell’ambito di una qualsiasi articolazione della società. Esso è sempre un cambiamento qualitativo, sia positivo sia negativo, e non si riferisce tanto alle vicende sociali di un singolo individuo, quanto piuttosto ai mutamenti collettivi di interi gruppi di persone, come per es. quando, in seguito allo sviluppo industriale, si verifica il passaggio da un’economia agricola ad una industriale. Nello studio del c.s., esattamente come in quello della stratificazione, possiamo distinguere due diversi aspetti: quello che i singoli compiono all’interno della stratificazione, e quello collettivo, dove invece l’attenzione si sposta sulle classi sociali, in quanto il tasso di mutamento di una società viene fatto dipendere dall’evoluzione storica dei rapporti sociali. Va subito detto che dal punto di vista sociologico non soltanto le due dimensioni citate sono singolarmente valide, ma esse sono anche compatibili con tre ordini di fattori, quelli individuali e quelli collettivi, quelli soggettivi e quelli oggettivi, quelli psicologici e quelli economici. 2. Nella divisione del lavoro sociale, → Durkheim (1962) traccia un quadro generale del c.s. come differenziazione. Le società erano un tempo organizzate meccanicamente, avevano leggi repressive ed erano dominate da una coscienza collettiva particolaristica e onnipresente con una → solidarietà meccanica. Gradualmente esse si sono mosse verso una solidarietà organica, dove le leggi sono restitutive e la moralità collettiva è generalizzata ed astratta. Durkheim si concentra qui primariamente sui cambiamenti economici e sulla separazione della religione dalle funzioni politiche e legali. Una delle teorie correnti del c.s. risale a W. Ogburn (1964) e sostiene che nelle società occidentali moderne sia la tecnica a determinare il cammino: ciò significa che la tecnica rappresenta la variabile indipendente e che il progresso in essa provoca negli altri settori della società processi di adattamento. Alcuni autori considerano il
c.s. una categoria generale in cui rientrano tutti i fenomeni, i processi e i movimenti che implicano una qualunque trasformazione della società umana o di qualche sua parte. Se si accoglie questo significato, l’evoluzione, lo sviluppo e il progresso diventano casi speciali o interpretazioni particolari del c.s., fenomeno universale che abbraccia tutto l’ambito degli studi sociologici. 3. I fattori del c.s. possono essere interni o esterni, secondo che abbiano origine all’interno o all’esterno del sistema considerato. Tra i fattori interni sono da includere: il conflitto tra i gruppi, le associazioni, le organizzazioni e le classi sociali, che mobilita e orienta le forze necessarie per introdurre mutamenti più o meno radicali e più o meno rapidi; l’accumulazione del capitale e i nuovi investimenti nei diversi settori produttivi; i movimenti collettivi, soprattutto allo stato nascente. Tra i fattori esterni si annoverano: la guerra, l’occupazione militare, il conflitto internazionale, gli interventi di una potenza straniera politicamente o economicamente dominante, la caduta di un regime legale come quella di uno illegale; forti aumenti o diminuzioni della popolazione, anche per effetto di intensi flussi migratori, per cui un sistema socio-economico, non riuscendo ad assorbire l’incremento demografico, entra in crisi e tende ad essere mutato; lo sviluppo della tecnologia, della scienza, dell’industria o con una parola della cultura materiale; i contatti con altre culture, l’acculturazione, l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, il turismo. 4. Ultimamente non si nota in generale tanto interesse per il c.s. Gli sforzi oggi si concentrano maggiormente sullo studio dettagliato di particolari società, comunità e istituzioni usando mezzi di osservazione, di indagine e di misurazioni sempre più esatti. Il c.s. viene analizzato in sociologia come una condizione normale della società. Ogni società e cultura è sottoposta a un rapido e costante c.s. I mutamenti non sono isolati né temporalmente né spazialmente e le conseguenze tendono a ripercuotersi su intere regioni o in tutto il mondo attraverso la tecnologia moderna e le strategie sociali. Nella mentalità moderna il c.s. si è quasi istituzionalizzato: in questo senso, all’ordine dato della tradizione si so171
CAMPANELLA TOMMASO
stituisce l’accettazione del c. continuo. In altre parole, non è positivo fare quello che tutti hanno sempre fatto, ripetere i modelli prestabiliti, ma innovare, come in economia, o scoprire e riformulare leggi, come nelle scienze. Pertanto si tratta di un passaggio da un insieme relativamente indifferenziato a una diversificazione crescente di ruoli, status, e istituzioni. La società moderna, postindustriale, accelera il processo di divisione del lavoro e aumenta il numero delle funzioni e delle specializzazioni. Bibl.: Durkheim E., La divisione del lavoro sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1962; Ogburn W., On culture and social change. Selected papers, Chicago/London, The University of Chicago Press, 1964; Jeffrey C. A., Teoria sociologica e mutamento sociale, Milano, Angeli, 1990; Bourdieu P. - J. S. Coleman, Social theory for a changing society, Boulder/Colorado, New York, Westview Press, 1991; Crespi F., Evento e struttura. Per una teoria del mutamento sociale, Bologna, Il Mulino, 1993; Toscano M. A. (Ed.), Introduzione alla sociologia, Milano, Angeli, 71993; Nisbet R. A., History of the idea of progress, Estover, Plymouth, Transaction Publishers, 1994; Sztompka P., The sociologv of social change, Oxford, Blackwell, 1994; Ortoleva P., Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Parma, Pratiche, 1995; Belardinelli S. - L. Allodi (Edd.), Sociologia della cultura, Angeli, 2006; Granieri P., La società digitale, Bari, Laterza, 2006.
J. Bajzek
CAMPANELLA Tommaso n. a Stilo, Calabria, nel 1568 - m. a Parigi nel 1639, filosofo italiano. 1. C., religioso domenicano, fu perseguitato e imprigionato per ragioni politiche. È il più tipico filosofo del Rinascimento italiano. Sulla scia di B. Telesio, ma con più profonda capacità metafisica, interpreta lo spirito di rinnovamento del naturalismo rinascimentale e ne formula l’incontro con il cristianesimo nella sua sintesi filosofica, nella gnoseologia e nella metafisica. La prima, accentuando il distacco dalla visione aristotelica, valorizza nel sensus inditus la coscienza (costitutiva) di sé 172
come base di ogni ulteriore conoscenza, dovuta al sensus additus, che deriva dal contatto con gli altri esseri. La presenza della mens (spirito) garantisce l’oggettività del conoscere. Si ha così una sintonia con la nuova ricerca della conoscenza della natura; ma resta la difficoltà di un residuo sensismo. La seconda ha come fondamento la concezione delle tre primalità (potentia, sapientia, amor) costitutive dei vari esseri: in Dio nelle tre divine Persone, e, in modo gradualmente partecipato, negli esseri creati. L’accentuazione dell’amor sui come prima tendenza, che in quanto tendenza all’essere diventa anche amor Dei, porta alla concezione di una religiosità sostanzialmente radicata nella natura (religio indita), che viene precisata e perfezionata dalle religioni positive (religio addita) e nel modo più perfetto dal cristianesimo. 2. La profondità e l’impostazione della sua speculazione pongono il C. nel cuore della cultura rinascimentale. Lo specifico interesse e influsso pedagogico è legato a un aspetto della sua opera utopica: la Città del sole. In essa trovano fantasiosa applicazione i principi elaborati nella filosofia di C., in un tentativo di sintesi politico-filosofico-religiosa e di esaltazione della natura: libertà, spontaneità, superamento dell’egoismo e dedizione al bene comune caratterizzano la vita dei cittadini, governati (in clima di pieno comunismo, sul tipo della Repubblica di → Platone) da un principe-sacerdote (il «Metafisico») assistito da tre magistrati (traduzione in dimensione politica delle tre primalità). 3. L’educazione dei piccoli, maschi e femmine, è realizzata nel contatto con la natura, all’aria aperta; l’apprendimento è attuato attraverso pitture murali sui muri della città, la visita alle botteghe degli artigiani, le attività meccaniche e agricole. In questa visione utopica C. anticipa, in certo modo, l’evoluzione dei metodi pedagogici e didattici. Ciò spiega l’influsso esercitato presso i successivi pedagogisti della corrente realista, per es. → Comenio. Bibl.: a) Fonti: C., La città del sole e altri scritti, a cura di F. Mollia, Milano, A. Mondadori, 1991. b) Studi: Di Napoli G., «L’utopia pedagogica in Moro, C. e Bacone», in Nuove questioni di sto-
CAMPIONE STATISTICO
ria della pedagogia, vol. I, Brescia, La Scuola, 1977; Frauenfelder E., La Città del Sole di Fra’ T. C., Napoli, Ferraro, 1981; Genovesi G. - T. Tomasi, L’educazione nel paese che non c’è. Storia delle idee e delle istituzioni educative in utopia, Napoli, Liguori, 1985; Negri L., Fede e ragione in T. C., Milano, Massimo, 1990; Garin E., Dal Rinascimento all’Illuminismo. Studi e ricerche, Firenze, Le Lettere, 1993; Vasoli C., Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavarino, Milano, B. Mondadori, 2002; A merio R. - M. Guglielminetti - P. Ponzio, «C.», in Enciclopedia Filosofica, vol. II, Milano, Bompiani, 2006, 1588-1595.
M. Simoncelli
CAMPIONE STATISTICO Parte di una popolazione ritenuta rappresentativa dell’intera popolazione in un particolare contesto di studio. 1. Premessa. Quando si pianifica una ricerca – in campo educativo, psicologico, sociale, ma anche in campo fisico, agrario o altro – si ha in mente qual è la popolazione (detta anche universo) che si vuole studiare. Ad es., se si decide di studiare i metodi usati dai docenti italiani per insegnare la storia ai ragazzi che frequentano la scuola media dell’obbligo, la popolazione è costituita da tutti i docenti italiani che in una qualsiasi scuola media insegnano quella disciplina. Una popolazione può essere quantificata in modo preciso. Nel nostro caso, sia pure con qualche difficoltà, sarebbe possibile fare un elenco nominativo di tutti gli insegnanti di storia delle scuole medie italiane. Nella maggior parte dei casi, raggiungere e studiare tutti gli individui che compongono una popolazione è troppo lungo e costoso. Se però si vuole che le conclusioni dello studio, anche se basate su una parte dei soggetti, possano ragionevolmente essere riferite all’intera popolazione, bisogna che la porzione scelta per lo studio – il c. – sia scelta secondo regole ben definite. 2. Tipi di c. Il c. casuale semplice è il tipo di c. che con più rigore rispetta le esigenze di rappresentatività, in quanto garantisce che ogni membro della popolazione abbia le stesse probabilità di essere estratto e di entrare a
far parte del c. Questo si ottiene assegnando ad ogni elemento della popolazione un numero ed estraendo i numeri con un procedimento rigorosamente casuale, simile a quello con cui si estraggono i numeri del lotto. Viene considerata una buona approssimazione al c. casuale il c. sistematico, in cui si parte da un numero scelto a caso e si procede a intervalli uguali. Non sono equiparati ai c. casuali i c .accidentali, scelti «come capita» o, peggio, in base alla facilità di accesso. Sono c. accidentali gli alunni esaminati dai loro stessi insegnanti, gli elettori all’uscita del seggio più vicino alla casa degli intervistatori, i pazienti studiati dai loro terapeuti e così via. I c. – casuali o no – sono detti stratificati quando la popolazione, anziché essere costituita da un’unica lista indifferenziata di individui, è articolata in categorie descrittive quali età, sesso, studi compiuti ecc. Sono detti a gruppi quando la popolazione non è costituita da un elenco di individui, ma da un elenco di gruppi: per es., se ogni elemento della lista è una classe scolastica, una unità abitativa, ecc. 3. Precisione delle misure ottenute nel c. Posto che il c. sia estratto a caso, quanto più è numeroso tanto più rispecchia in modo adeguato le caratteristiche della popolazione da cui è estratto. Il principio di base tenuto presente per stimare la precisione delle statistiche calcolate su c. è definito da una formula nota come disuguaglianza o teorema di Tchebycheff. Se il c. non è casuale ma accidentale si ha motivo di ritenere che quanto più è ampio il c. tanto più sono forti le distorsioni che lo rendono diverso e peculiare rispetto alla popolazione. Bibl.: K endall M. G., The advanced theory of statistics, vol. 1, London, Griffin, 1952; Calonghi L., La scelta del c., Roma, Università Salesiana, 1973; Hays W. L., Statistics for the social sciences, New York, Holt, 21973; Som R. K., A Manual of sampling techniques, London, Heinemann, 1973; De Carlo N. A. - E. Robusto, Teoria e tecniche di campionamento nelle scienze sociali, Milano, LED, 1996.
L. Boncori
CAPACITÀ → Abilità CAPACITÀ CRITICA → Senso critico CAPITALE UMANO → Economia e educazione
173
CAPITALISMO
CAPITALISMO È il sistema economico nato con la rivoluzione industriale (e ad essa intimamente congeniale) nell’Europa occidentale alla fine del sec. XVIII ed ora diffuso in maniera e misura diverse, in quasi tutto il mondo. 1. Il c. è fondato sulla proprietà privata (spesso anonima) dei mezzi di produzione (costituenti appunto quello che si chiama il capitale), sulle elevate (e crescenti) dimensioni delle unità produttive (le imprese), sul ruolo egemone dell’imprenditore, nell’organizzazione dell’attività produttiva, sulla dipendenza dell’apparato produttivo dalle richieste di un mercato libero e concorrenziale. Rispetto all’imprenditore i prestatori di lavoro si trovano in una posizione di subordinazione, sancita dal contratto di lavoro. I capitalisti sono i titolari della proprietà del capitale; ma i rischi (e naturalmente i vantaggi) dell’attività produttiva ricadono sull’imprenditore. Come il lavoro, così anche il capitale, quando non appartiene direttamente all’imprenditore (ed è la norma) deve essere adeguatamente rimunerato, secondo un prezzo determinato dal mercato. Il c. ha quindi esaltato la produttività del denaro; ne ha istituzionalizzato il mercato; ha creato un complesso di istituzioni finanziarie, aventi il compito di raccogliere il risparmio e di farlo affluire verso l’investimento. Simili istituzioni vengono ad assumere nel sistema un potere economico enorme, capace di esercitare forme di pesante condizionamento sulla politica sociale dei popoli. 2. Il primo c. è stato caratterizzato da forme di sfruttamento selvaggio del lavoro, che hanno prodotto, come reazione, la nascita del sindacalismo moderno e la formazione delle ideologie e dei movimenti socialisti. Col trascorrere del tempo, attraverso successivi e continui adeguamenti alle trasformazioni sociali, il c. ha mutato profondamente la sua fisionomia e si presenta oggi, con caratteri notevolmente diversi, costituiti soprattutto da un continuo aumento della produttività e della dimensione delle unità produttive, per una maggiore e più equa diffusione della ricchezza (almeno per i Paesi industriali avanzati), e per un tasso altissimo e crescente di consumi. Ma la creazione di un unico merca174
to mondiale, ha esasperato il divario economico esistente tra Paesi industriali avanzati e Paesi ancora in via di sviluppo, creando forme di miseria intollerabili, da cui non esiste per ora via praticabile di uscita. Dal punto di vista culturale, il c. può essere adeguatamente capito solo sullo sfondo dell’ideologia liberale. Il valore privilegiato da questa forma di pensiero è quello dell’individualità personale. Compito della → società è quello di liberarne tutte le possibilità di espansione attiva e di stimolarne intensamente le prestazioni sia materiali che culturali. Questa liberazione e questo stimolo sarebbero garantiti dal carattere competitivo del sistema capitalista. Il sistema stesso, col suo specifico funzionamento, senza bisogno di programmare nessuna forma sistematica di indottrinamento, esercita un influsso educativo inconsapevole ma efficace, volto a diffondere questa sua specifica visione dell’uomo e della società. Spetta perciò alla scuola e agli educatori di professione il compito di aiutare le nuove generazioni a una valutazione critica di questa ideologia e di una messa in guardia nei confronti di questo indottrinamento occulto, così largamente diffuso nella nostra cultura. Bibl.: Perroux F., Le capitalisme, Paris, PUF, 1960; Sweezy P. M., La teoria dello sviluppo capitalistico, Torino, Bollati Boringhieri, 1970; Dobb M., Economia politica e c., Ibid., 1972; Pont. Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano, LEV, 2004.
G. Gatti
CAPPONI Gino n. a Firenze nel 1792 - m. ivi nel 1876, storico, filologo, letterato, politico, pedagogista italiano. 1. Nasce da una delle più antiche e celebri famiglie fiorentine. Ricco di censo e d’ingegno, possiede una vasta cultura, che gli viene dalla conoscenza delle lingue classiche e moderne, da forti studi, da molte letture, dai viaggi in Italia ed Europa. Significativi quelli nella cosiddetta provincia pedagogica europea di cui dà relazione con Ragguaglio dello stabilimento di educazione del p. → Gi-
CARATTERE
rard a Friburgo (1820), Considerazioni sopra un libro relativo agli Istituti di Hofwyl (1822). È tra i fondatori dell’«Antologia», del «Giornale Agrario Toscano», dell’«Archivio Storico Italiano». È membro della Società fiorentina per la diffusione del → mutuo insegnamento; promuove e sostiene gli asili aportiani; segue con interesse la vita dell’Istituto s. Cerbone dell’amico → Lambruschini; è in relazione personale o epistolare con i maggiori pedagogisti italiani ed europei dell’Ottocento. 2. Oltre ai molti scritti di carattere storico, letterario, economico, politico, va segnalato quello che la critica ritiene il suo capolavoro: Sull’educazione. Frammento di G. C., 1841 pubblicato a Firenze nel 1869, ma stampato anonimo nel 1845. In esso C. insiste perché l’educazione sia fondata sugli affetti, sul rispetto della spontaneità e della → personalità, sull’esigenza di esempi buoni, sul ruolo della → famiglia, in particolare della madre, che educa il cuore. Infatti per C. l’educazione è sviluppo integrale della persona mediante le forze vive dello spirito, che vanno conosciute e rispettate. Per questo è fortemente critico nei confronti di chi fonda l’educazione solo su metodi e precetti. Nel 1856 pubblica Brano di studio morale, con spunti originali di psicologia femminile. Bibl.: a) Fonti: Lettere di G.C. e di altri a lui, a cura di A. Carbaresi, Firenze, Le Monnier, 1882-1890, 3 voll.; G.C., Scritti pedagogici, a cura di A. Gambaro, Brescia, La Scuola, 1968; b) Studi: Nencioni G. (Ed.), G.C.: linguista, storico, pensatore, Firenze, Olschki,1977; Spadolini G., La Firenze di G.C. fra restaurazione e romanticismo: gli anni dell’Antologia, Firenze, Le Monnier, 1986; G.C. Storia e progresso nell’Italia dell’Ottocento, Atti del Convegno di studi (Firenze, 21-23 gennaio 1993), a cura di P. Bagnoli, Firenze, Olschki, 1994.
R. Lanfranchi
CARATTERE Lo studio del c. è stato di notevole interesse per psicologi, pedagogisti ed educatori, anche se il concetto è rimasto sempre poco preciso e definito. Basterebbe un elenco di
definizioni date nel tempo dagli studiosi per capire l’ampiezza entro cui esse si muovono e, in conseguenza, la poca precisione del termine. Si va da definizioni che puntano su caratteristiche quasi congenite e comunque fisse e stabilizzate, a caratteristiche legate al mondo dei → valori e delle → credenze del soggetto interessato. 1. Frequentemente il termine c. è associato a quello di temperamento, dando al primo un peso più «psicosociale» e legato all’educazione e all’ambiente, e al secondo un significato più «somatopsichico» e congenito. Il c., inoltre, ha frequentemente una connotazione morale, assente completamente nelle definizioni di temperamento. Volendo portare agli estremi le varie posizioni degli studiosi potremmo dire che, per alcuni, il c. è qualcosa di strutturale; per altri è qualcosa di reattivo pur garantendo un minimo di «coerenza»del comportamento. 2. Senza impegnarci in un’esegesi delle varie definizioni, ma allo scopo di confermare quanto fin qui detto, eccone alcune, storiche e contemporanee. Per F. R. Paulhan (1902) il c. è «ciò che fa che una persona sia se stessa e non un’altra». Per → Spranger (1927) «il c. è la diversa tipica attitudine assunta dalla persona, di fronte a valori quali quello estetico, economico, politico, sociale, religioso». Molto significativa, nella sua sinteticità, è la definizione di A. Niceforo (1953): «c. è l’io in società». Una delle definizioni che sembra più completa e convincente è quella di R. Diana. Per questo studioso, c. è «l’insieme delle disposizioni congenite e di quelle stabilmente acquisite che definiscono l’individuo nella sua completa attitudinalità psichica e lo rendono tipico nel modo di pensare e di agire». Questa definizione contiene due aspetti significativi della condotta dell’individuo: unità (modo di agire coerente) e stabilità (unità continuata nel tempo). In altre parole, il c. sarebbe una strutturazione psicologica di natura reattiva all’ambiente. Da queste definizioni si coglie bene l’interesse pedagogico della conoscenza del c. e l’attenzione prestata a questa realtà individuale da parte degli educatori di tutti i tempi: atteggiamento di fronte ai valori e disposizioni stabilmente acquisite sono due dimensioni di notevole portata formativa. 175
CARATTEROLOGIA
3. Nonostante ciò, la sua connotazione di staticità ha reso lo studio del c. meno attuale con il progredire della psicologia dinamica e della personalità (termine, quest’ultimo, molto più usato oggi al posto di c.), che, tuttavia, il termine c. lo ha sempre usato: basti ricordare Freud che, già nel 1908, fece il passaggio da «sintomo» nevrotico a «c.» nevrotivo, comprendendo che il sintomo era radicato nel c. dell’individuo e che l’azione terapeutica doveva essere rivolta al c. e non al sintomo. Bibl.: Paulhan F. R., Les caractères, Paris, Alcan, 1902; Spranger E., Lebensformen. Geisteswissenschaftliche Psychologie und Ethik der Persönlichkeit, Halle, Niedermeyer, 1927; Niceforo A., Avventure e disavventure della personalità e dell’uomo in società, Milano, Bocca, 1953; Diana R., Guida alla conoscenza degli uomini. Tipologia caratterologica, Roma, Paoline, 1964; Fedeli M., Temperamenti e personalità: profilo medico e psicologico, Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1992; La M arca A., Educazione del c. e personalizzazione educativa a scuola, Brescia, La Scuola, 2005.
M. Gutiérrez
CARATTEROLOGIA La c. non è certamente di moda, e viene sempre meno presa in considerazione dagli studiosi delle differenze (individuali e di gruppo) del → comportamento. Il calo di interesse per la c. è indubbiamente legato ai limiti intrinseci che essa presenta nel suo intento classificatorio e nella sua staticità, ma è contemporaneamente legato allo sviluppo della psicologia dinamica e della personalità, anche se questa non ha mancato di prendere in considerazione sia l’aspetto classificatorio del carattere che la possibilità di collegare questa tipologia a specifici interventi psicoterapeutici: basti ricordare quanto scritto nella voce «carattere» sul pensiero di Freud e, più recentemente e solo a titolo di esempio, gli studi di Bioenergetica. 1. Lo studio del → carattere nella sua struttura, nei suoi elementi costitutivi, nei fattori che lo influenzano (c. generale) e nei suoi tentativi classificatori in base a elementi comuni (c. speciale) ha comunque costituito un 176
valido tentativo di avvicinamento al singolo individuo, mettendo in risalto elementi caratterizzanti ma paragonabili con altri. Senza addentrarci in approfondite analisi si può dire che le principali scuole caratterologiche hanno avuto alla base dei loro tentativi di classificazione o il tipo (→ tipologia) o il tratto (→ tratti di personalità), considerati isolatamente, in rapporto tra essi, con maggiore o minore intensità di presenza. 2. Sono stati molti i criteri in base ai quali le varie scuole hanno costruito le loro classificazioni. Ad es., tratti caratterologici legati a strutture biologiche (bilioso, sanguigno, linfatico, ecc.); ad atteggiamenti generali di approccio alla realtà (introverso, estroverso; oggettivo, soggettivo); alla morfologia (macrosomico, microsomico; endomorfo, mesomorfo, ectomorfo; leptosomico, atletico, picnico); alla patologia mentale (schizotimico, ciclotimico). Qualsiasi caratteristica psicologica, per essere presa in considerazione per una classificazione tipologica, dovrebbe possedere alcuni requisiti: essere di rilievo e bene definita; avere un’altra caratteristica antagonista; indicare qualcosa di sufficientemente stabile; essere un centro nodale con altre caratteristiche ad essa collegate e da essa, in qualche modo, dipendenti. 3. Nonostante i limiti che presenta qualunque tentativo di «classificare» una persona, non si può negare che le varie scuole caratterologiche abbiano dato un notevole contributo allo sviluppo della → psicologia differenziale e abbiano dato un prezioso apporto agli educatori aiutandoli a cogliere almeno alcune caratteristiche significative dei loro educandi e ad impostare azioni educative che tenessero conto di particolari esigenze individuali (Roldán). L’individuazione dei soggetti «più tipici»; la possibilità di avere uno schema di osservazione uguale per tutti, favorendo i confronti; la possibilità di arrivare alla conoscenza di caratteristiche «nascoste» attraverso quelle più facilmente rilevabili, sono tutti elementi che costituiscono un aiuto per l’educatore nella sua azione di orientamento e indirizzo. Bibl.: Bertin G. M., La c., Milano, Bocca, 1951; Lorenzini G., Lineamenti di c. e tipologia applicate all’educazione, Torino, SEI, 1954; A llers R., Psicologia e pedagogia del carattere, Ibid.,
CARCERE
1960; Roldán A., Introducción a la ascética diferencial, Madrid, Razón y Fe, 1960; Rohracher H., Elementi di c., Firenze, Giunti Barbera, 1970; Lowen A., Il linguaggio del corpo, Milano, Feltrinelli, 2006.
ma in genere non serve alla funzione rieducativa/risocializzante del soggetto deviante dalla norma, dal momento che l’istituzione carceraria, pur in presenza di una legislazione innovativa, nella maggior parte dei casi ancora oggi non risponde ai fini per i quali è stata istituita, per cui in pratica perde la sua funzione «correttiva».
CARCERE
3. Il punto debole dell’attuale sistema carcerario va individuato anzitutto nel continuare ad assolvere prioritariamente ad una funzione custodialistica. E fin quando una istituzione («totale», come la definisce Goffman) ricorrerà a metodi repressivi, di emarginazione ed isolamento, è chiaro che essa potrà difficilmente avanzare la pretesa di essere uno strumento riabilitativo nei confronti di un soggetto da rieducare, dal momento che è essa stessa causa di disadattamento. Al suo interno vengono meno infatti quelle condizioni innovative previste dalla legge per assolvere agli scopi rieducativi/risocializzanti: le misure alternative riguardano una parte della popolazione carceraria, il lavoro rimane per molti un «sogno», le nuove figure professionali, le quali dovrebbero operare nel c. con funzioni rieducative, in realtà risultano a tutt’oggi insufficienti ed infine mancano veri e propri programmi d’intervento coordinati tra le differenti parti deputate alla riabilitazione morale e sociale del soggetto in trattamento carcerario.
M. Gutiérrez
Il c., inteso come luogo di detenzione, è un’istituzione piuttosto recente nella storia. 1. Prima del XIX sec. si ricorreva frequentemente a forme punitive il cui effetto deterrente e dissuasivo consisteva o nelle pene fisiche (torture, lavori forzati...) o in quelle di tipo economico (confisca dei beni, ammende...), mentre per i reati più gravi veniva applicata la condanna a morte. Il c. moderno si fonda invece sulla logica della privazione della «libertà» al fine di rieducare/risocializzare il soggetto che ha «deviato» dalla norma. L’effetto-pena trova applicazione in questo caso nel «luogo» utilizzato per mandare ad effetto tale deprivazione (appunto, il penitenziario), mentre la gravità del reato viene misurata in base al «tempo» durante il quale il cittadino è privato della libertà. 2. Nell’affrontare il tema della funzione educante del c. il legislatore ha tenuto a sottolineare che: «Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi...» (art. 1, Cap. I del Trattamento penitenziario). Questo processo che ha permesso di passare da pene disumanizzanti (come erano in passato quelle fisiche) a forme meno umilianti per la condizione umana e per di più mirate al recupero del soggetto trasgressivo, richiede tuttavia di verificare se sono stati effettivamente raggiunti quegli scopi rieducativi per i quali è stato introdotto l’odierno istituto di pena. Se si misurano i risultati finora conseguiti in rapporto ai fenomeni di recidività dei comportamenti trasgressivi di chi è stato oggetto di un trattamento carcerario, la risposta è doppiamente negativa: un tale trattamento, così come viene attuato oggi, non solo non costituisce un deterrente al reato,
4. La sfida futura di una società che intende essere «democratica» nel pieno senso del termine consisterà perciò nella capacità di saper recuperare il «deviante» lungo il graduale passaggio da forme penitenziarie chiuse/isolate a quelle sempre più aperte e decentratrate nel sociale; fino ad arrivare a proporre una parziale e, chissà, anche totale eliminazione dell’attuale sistema carcerario. Studi e ricerche promosse in ambienti penitenziari (CNOS-FAP, 1989) hanno permesso di rilevare che il c. non è un’isola né deve stare nelle isole; che dare la «morte sociale» al cittadino non assolve alla funzione di riequilibrio dell’ecosistema sociale; che il lavoro è un «diritto per tutti» tanto più per chi intende riscattare la propria posizione di «ristretto»; ed infine che a questa «apertura delle c.», mirata al recupero integrale del soggetto deviante, non può rimanere estraneo il terri177
CARISMA
torio nelle sue variegate componenti, pubbliche e private, le quali sono parte integrante di un «corpo sociale» ove ciascun individuo ha il dovere morale e sociale di assolvere ad un compito di responsabilità nei confronti delle componenti meno sane del sistema. Bibl.: Morrone A., Il trattamento penitenziario e le alternative alla detenzione, Padova, CEDAM, 2003; Santarelli G., Pedagogia penitenziaria e della devianza, Roma, Carocci Faber, 2004; Benecchi D. (Ed.), Dei diritti e delle pene, Modena, Sigem, 2004; Ferrario G., Psicologia e c., Milano, Angeli, 2005; A nastasia S. - P. Gonnella, Patrie galere, Roma, Carocci, 2005; Astarita L. (Ed.), Dentro ogni c. Antigone nei 208 istituti di pena italiani. Quarto rapporto sulle condizioni di detenzione, Ibid., 2006.
V. Pieroni
CARISMA Il c. si può definire come una relazione di potere fra una guida ispirata e i suoi seguaci, che riconoscono in essa e soprattutto nel suo messaggio la promessa di un ordine nuovo a cui essi aderiscono con una convinzione intensa. Per il leader carismatico che occupa una posizione del tutto centrale in un determinato gruppo di adepti o in una comunità emozionale, il messaggio è al tempo stesso una missione. 1. Il termine c., dal gr. charisma (grazia divina), è stato usato in sociologia per primo da E. Troeltsch (1912) e poi approfondito da → Weber (1922). Il c. è il potere straordinario di alcuni personaggi che possiedono un fascino particolare sugli altri. Esso è senz’altro diverso dal potere di un burocrate e si definisce per il suo carattere straordinario, sovrumano e sovrannaturale. Il carismatico è un «inviato da Dio» o da una forza eccezionale. Per lui non sono importanti tanto i compiti da svolgere, che sono vari e molto diversi, ma è importante piuttosto il modo, lo stile con cui realizzare la sua missione. Egli non dispone di un apparato organizzativo, economico o coercitivo perché l’obbedienza è assicurata attraverso la persuasione. L’opposto di un capo carismatico è il tiranno che governa attraverso la forza e la paura, oppure un go178
vernante al quale si obbedisce, indipendentemente dalle sue capacità personali. 2. Nel linguaggio corrente c., popolarità e contagio emotivo sono considerati sinonimi: tuttavia, a livello scientifico le differenze non mancano. Un individuo popolare non pretende niente; invece il capo carismatico è molto esigente. Così il c. non è riducibile alla popolarità anche se molte volte è associato a manifestazioni diffuse di entusiasmo. Il potere carismatico è sempre molto personale e per questo rende fragile l’istituzionalizzazione. Gesù è stato un capo puramente carismatico durante tutta la vita. Il carismatico, come portatore di c., ha su molti un fascino che si fonda probabilmente sull’apprezzamento dei comportamenti e delle prestazioni, ma che si sposta poi gradualmente sulla mera esistenza di essi. Così i carismatici, per il fatto stesso di esserci, contano e sono socialmente importanti; soddisfano i bisogni di dipendenza, di comportamenti individuali e collettivi e tendono a diventare criterio di verità e di valore. In tal senso, nel bene e nel male, i portatori di c. vengono ad avere una loro significatività educativa. Bibl.: Troeltsch E., Die Soziallehren der Christlichen Kirchen und Gruppen, Tübingen, Mohr, 1912; Weber M., Wirtschaft und Gesellschaft, Ibid., 1922; Eisenstadt S. N., Max Weber on charisma and institution buildings. Selected papers, Chicago, University of Chicago Press, 1968; A rdigò A., Crisi di governabilità e mondi vitali, Bologna, Cappelli, 1980; A lberoni F., Movimento e istituzione, Bologna, Il Mulino, 1981; Tedeschi E., Per una sociologia del millennio. David Lazzaretti: c. e mutamento sociale, Venezia, Marsilio, 1989; Tuccari F., C. e leadership nel pensiero politico di Max Weber, Milano, Angeli, 1991.
J. Bajzek
CAROLINGIA: Rinascita → Medioevo CARRIERA → Lavoro → Professionalità CARTESIO (DESCARTES) René → Metodo → Senso comune
CASA-FAMIGLIA La c.f. è una struttura di accoglienza, costituita da una normale abitazione, in cui vive,
CASO: STUDIO DEL
per un periodo di tempo variabile ma non lungo, un ridotto gruppo di soggetti (tra gli 8 e i 10) in assenza di una famiglia o in alternativa ad essa. Oltre a surrogarne le funzioni permette ai suoi ospiti di vivere in un contesto non istituzionale e quindi caratterizzato da relazioni significative e a valenza educativa.
scolastiche, ludiche, occupazionali e relazionali, e garantendo un collegamento con gli altri → servizi del territorio. La realizzazione di tale struttura è quasi sempre di iniziativa pubblica e compete all’Ente Locale titolare delle funzioni socio-assistenziali che per lo più ne affida la gestione al privato sociale in forma di cooperativa di servizio.
1. Si tratta una soluzione prevista dal sistema di offerta dei servizi sociali nei confronti dei minori in attesa di → adozione o di collocazione in → affidamento familiare o di coloro per cui si reputa necessario un allontanamento più o meno lungo dalla famiglia di origine, in quanto questa non è ritenuta idonea a fornire un’educazione appropriata. Si tratterebbe pertanto di una struttura a dichiarata valenza socio-educativa. Analoga è l’esperienza dei «focolari» riservati ad adolescenti che presentano forme di disagio sociale. Tale soluzione viene altresì contemplata anche per altre categorie di utenza pur se con finalità diverse, o per assicurare una stabile comunità di vita. Così si può dire delle strutture per disabili, malati di mente e anziani che assumono una valenza di tipo più socio-assistenziale, rispondendo al bisogno di alloggio e protezione di persone con insufficiente livello di autonomia. Tali sono le comunità alloggio, i moduli comunitari delle Residenze Sanitarie Assistenziali, le comunità protette, le c. rifugio per donne abusate, fino ai gruppi appartamento e ai gruppi assistiti dove la presenza di personale è limitata a poche ore al giorno e gli ospiti sperimentano la loro capacità di autogestione in un percorso di progressiva autonomia. Per ciascun tipo di tali strutture comunitarie, variamente denominate, le Regioni stabiliscono precisi standard strutturali e di personale a cui i soggetti gestori si devono attenere sia per ottenere l’autorizzazione che, eventualmente, per accreditarsi.
Bibl.: Punzi I., Logoterapia e AIDS. L’esperienza della c. f. «Padre Monti», in «Orientamenti Pedagogici» 39 (1992) 1191-1198; C.f. Aspetti sociali e amministrativi, Roma, Fondazione Italiana per il Volontariato, 2001.
2. La c.f. o altrimenti detta «gruppo famiglia» è una struttura residenziale protetta, in cui cioè gli operatori – o una coppia di coniugi riconosciuti idonei – sono presenti nelle 24 ore con compiti di educazione, animazione e sostegno affettivo («figure calde») e materiale (cura, assistenza alla persona, tutela) assicurando altresì ai propri ospiti una normale vita sociale esterna nelle attività
R. Frisanco
CASO: studio del Lo studio del c. rientra nell’approccio idiografico che studia unità individuali. 1. Con tale espressione si fa riferimento, in ambito psicologico, all’impostazione di metodo per condurre e organizzare il lavoro clinico o psicoeducativo su un singolo o su un sistema. A tale riguardo, occorre osservare che non esiste un approccio metodologico unico e che nella maggior parte dei c. l’impostazione adottata dai diversi centri di consulenza e di terapia risente significativamente del modello terapeutico prescelto. Ciononostante sono rinvenibili, pur con sfumature e accentuazioni diverse, alcune linee metodologiche comuni. Nel presentarle operiamo una distinzione tra conduzione e stesura del c. Nella conduzione del c. generalmente vengono seguite queste fasi: definizione dei ruoli e creazione di una collaborazione terapeutica, raccolta dati in funzione della comprensione del problema presentato, sviluppo di un progetto di cambiamento; negoziazione del trattamento; inizio del trattamento e mantenimento delle motivazioni; registrazione e verifica dei progressi; mantenimento del cambiamento; termine del trattamento. 2. Nella stesura del c. occorre curare la presentazione delle voci seguenti: a) Dati generali: richiedente (nome e cognome, età, sesso, composizione familiare, occupazione, livello sociale del paziente) e tipo di richiesta (indicare il motivo della consultazione e 179
CASOTTI MARIO
se quest’ultima è stata ricercata dal soggetto o da altri); date degli incontri; antefatto (informazioni su eventuali consultazioni precedenti alla consultazione attuale). b) Indagine psicologica: aree esplorate (comportamento, sentimenti, cognizioni, relazioni interpersonali, storia familiare, scolastica, lavorativa); strumenti utilizzati (esplorazione soggettiva e oggettiva, osservazione diretta, analisi comportamentale, test oggettivi, test proiettivi, questionari); informazioni ottenute dai singoli strumenti. c) Analisi e integrazione dei dati raccolti: indicazione del modello di analisi prescelto; convergenza degli indici ricavati dai singoli strumenti di rilevazione e organizzazione del problema e dei problemi presentati; presa di posizione (diagnosi e prognosi); indicazioni e controindicazioni per l’intervento. d) Pianificazione dell’intervento: obiettivi remoti e prossimi; forme di intervento (promozione dello sviluppo, → recupero, rieducazione, terapia, intervento in caso di crisi); organizzazione dell’intervento (aiuto al singolo, lavoro col gruppo, lavoro nell’ambiente); strategie e tecniche di intervento. e) Verifica dell’intervento: obiettivi raggiunti, stato attuale del soggetto, follow-up. 3. In ambito più strettamente psicosociale lo studio del c. rientra nei metodi di ricerca qualitativa. Esso ha un carattere essenzialmente descrittivo e può riguardare il singolo individuo, un gruppo, una organizzazione, una comunità. Tra le caratteristiche distintive di tale metodo sono da menzionare: la piccola quantità di unità coinvolte, il riferimento ad un periodo di tempo limitato, l’analisi di eventi che si svolgono in vivo, la finalizzazione alla soluzione di problemi e non alla pura ricerca. Secondo Bromley (1986) le regole fondamentali per condurre efficacemente lo studio dei c. sono le seguenti: riferire i fenomeni in modo veritiero e puntuale utilizzando un linguaggio descrittivo; esplicitare e definire chiaramente scopi e obiettivi; valutare in che misura i risultati sono stati raggiunti, concedersi il tempo necessario per indagare e fare controlli incrociati sulle informazioni raccolte, considerare il contesto ecologico, argomentare con prove ciò che si afferma. La forza del metodo di studio del c. consiste nel suo contributo ad una descrizione accurata e particolareggiata dei fenomeni all’interno di una precisa struttura concettuale. 180
Bibl.: Susskind E. - D. K lein (Edd.), Community research: methods, paradigms and applications, New York, Praeger, 1985; Bromley D., The case study method in psychology and related disciplines, Chichester, Wiley, 1986; Urso A. (Ed.), C. clinici, in «Terapia del Comportamento» 32 (1991) 7-120; McWilliams N., Il c. clinico: dal colloquio alla diagnosi, Milano, Cortina, 2002.
A. R. Colasanti
CASOTTI Mario n. a Roma nel 1896 - m. a Marina di Pietrasanta nel 1975, pedagogista italiano. 1. Si formò alla scuola di → Gentile, con il quale discusse la tesi dal titolo La conce zione idealistica della storia (pubblicata nel 1920). Egli si distinse subito come uno dei giovani più promettenti del vivaio gentiliano, ricoprendo, dapprima, le funzioni di red attore capo di «Levana» e assumendo, quindi la condirezione de «La Nuova Scuola Italiana», due riviste fondate nei primi anni ’20 dal → Codignola. Pubblicò, in part icolare, due studi di carattere teoretico: Introduzione alla pedagogia (1921) e La nuova pedagogia e i compiti dell’educazio ne moderna (1923). Tali studi sono tanto più significativi in quanto mostrano che C. era, ormai, avviato a un ripensamento del la pedagogia gentiliana. Nel 1923 giunse a Torino per insegnare materie umanistiche presso il Magistero, ma vi restò solo pochi mesi. Sciolta la crisi spirituale nella quale si dibatteva e abbracciato il cattolicesimo, nel 1924 fu chiamato da padre → Gemelli all’Università Cattolica quale docente di pedagogia. A conferma dei suoi nuovi orientamenti giunse la pubblicazione Let tere su la religione (1925), che segnava l’abbandono delle tesi idealiste in favore della concezione cristiana della vita e della filosofia aristotelico-tomista. Presso l’Uni versità Cattolica C. rimase per circa un quarantennio, assicurando l’insegnamento non solo di pedagogia, ma anche di storia della pedagogia. Con i primi anni ’30 ven ne, per altro, collaborando in modo sempre più stretto con la casa editrice La Scuola e nel ’53 assunse la direzione di «Pedagogia e Vita», mantenendola fino al 1970.
CASSIODORO
2. Dopo il suo approdo all’Università Cat tolica, C. si sforzò di trasferire le prospettive della filosofia neoscolastica nel campo più specifico della riflessione pedagogica. Questa linea di ricerca lo condusse a config urare la pedagogia «come scienza e come arte», ovvero come sapere pratico-poietico volto a promuovere e a migliorare i concreti processi educativi. Egli sottolineava che il discorso pedagogico, lungi dal concentrare la sua attenzione sulla dimensione antropologica, era teso a valorizzare anche le problematiche metodologico-didattiche e ad aprirsi al contributo della stessa sperimentazione. Ma il frutto più significativo del suo impegno di studio fu la messa a punto del concetto di educazione. Nel rinviare l’uno contro l’altro i riduttivismi che tendevano a privilegiare ora il ruolo del maestro ora quello del discepolo, C. affermava che ai fini di una corretta opera educativa occorreva prevedere la piena partecipazione di ambedue gli interlocutori, secondo le linee elaborate da s. → Tommaso nel De Magistro e nello spirito della rifles sione promossa dalla pedagogia del nostro → Risorgimento. In tale contesto si collocano le critiche che, soprattutto fra gli anni ‘30 e ’50, egli rivolse, non senza qualche esasperazione polemica, all’attivismo delle → Scuole Nuove, inficiato, a suo modo di vedere, da un’impostazione che, per favor ire il cosiddetto spontaneismo dello scolaro, trascurava le superiori esigenze della verità. Gli scritti pubblicati da C. spaziavano dalla ricerca squisitamente teoretica (Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell’educazione, 1930; Pedagogia generale, 1947-48) all’indagine storica (La pedagog ia di Raffaello Lambruschini, 1929; La pedagogia di San Tommaso d’Aquino, 1931; La pedagogia di Antonio Rosmini, 1937). Durante il suo lungo magistero egli si applicò, in particolare, ad approfondire le valenze pedagogiche del Vangelo, alimentando una corrente di studi che conobbe allor a un certo fervore e nel cui ambito doveva emergere → Nosengo, uno dei suoi più fedeli allievi. Testimonianza di questi interessi, cui C. dedicò vari corsi universitari è lo scritto La pedagogia del Vangelo (1953). Ai suoi occhi, la pedagogia evangelica acquistava un’importanza del tutto speciale, poiché era persuaso che essa fosse in cond izione di autenticare le istanze dello stesso attivismo, liberandolo
dagli aspetti deteriori dei quali era, a suo giudizio, intriso. 3. Nell’ultima fase del suo pensiero, C. sem brò propugnare un recupero di taluni aspet ti dell’idealismo, in special modo nell’in terpretazione datane dal Gentile. Tuttavia, nel riproporre le suggestioni della lezione gentiliana, egli intendeva non già rinnegare la visione della pedagogia neoscolastica in favore dell’attualismo, ma riassestare il di scorso pedagogico fornendogli una più esplicita fondazione etico-filosofica. L’esigenza di questo riassestamento gli sembrava allora tanto più urgente, in quanto aveva l’impressione che, in un contesto culturale che vedeva le cosiddette scienze umane guadagnare terreno, molta ricerca pedagogica fosse sempre più esposta ai rischi del sociologismo e dello psicologismo. Bibl.: Lombardi F. V., M.C.: la pedagogia della neoscolastica, in «Orientamenti Pedagogici» 10 (1963) 472-493; I d., Filosofia e pedagogia nel pensiero di M.C., in «Rivista di Filosofia Neoscolastica» 69 (1977) 103-118; Bertin G. M., Pedagogia italiana del novecento. Autori e prospettive, Milano, Mursia, 1989; Damian o E., La sperimentazione pedagogica secondo M.C., in «Pedagogia e Vita» 50 (1992) 6, 44-65; Scurati C., Teoria della didattica e didattica operativa in M.C., in «Pedagogia e Vita» 51 (1993) 1, 59-77.
L. Pazzaglia
CASSIODORO Vissuto tra il 490 ca. e il 580 ca., senatore romano; C. è, insieme a S. Boezio, fautore della rinascita culturale promossa dal re degli Ostrogoti Teodorico, di cui diviene ministro. 1. L’interesse culturale di Flavio Magno Aurelio C. si estende oltre la durata e i limiti del regno di Teodorico in favore della cultura, sia classica che propriamente cristiana, non contrapposte, ma integrate. Gli ambiti di questa sua opera sono diversi. Nell’ambito, che diremmo politico, si impegna per la promozione e la valorizzazione dell’opera dei maestri a tutti i livelli. È significativa, a tal proposito, una sua lettera al Senato, sotto 181
CASTIGHI
il re Atalarico, successore di Teodorico, per propiziare un adeguato stipendio agli insegnanti dei vari gradi delle scuole romane. Nell’ambito ampiamente ecclesiale, il suo interesse si estende alla ricerca dell’integrazione del sapere classico con lo studio serio della Bibbia e dei Padri. Elabora, in accordo con papa Agapito, il progetto di un Centro superiore di studi religiosi e di una grande Biblioteca da realizzarsi in Roma. Le difficoltà della situazione sociale e politica non ne permettono l’attuazione. 2. C., però, non desiste dal suo impegno, ma ne cerca un altro ambito di realizzazione: fonda a Vivarium, in Calabria, una forma di vita monastica, i cui membri si dedichino contemporaneamente alle finalità spiritualiascetiche proprie del monachesimo e a una finalità specificamente culturale nella ricerca dell’integrazione tra lo studio delle Sacre Scritture e dei Padri e quello della cultura classica. Di qui l’importanza di un programma di studi e di lavoro letterario; come pure dell’attività dello scriptorium, per la cura e la trascrizione dei codici. Il programma è contenuto nelle Institutiones divinarum et saecularium litterarum. Questa intenzionale duplice finalità applicata alla vita monastica stabilisce una diversificazione tra il Monachesimo di C. e quello di altri Ordini, come quello Benedettino, nei quali – pur non trascurando, anzi supponendo una base culturale, l’attività degli scriptoria e un meritorio apporto alla cultura – ciò non entra nella finalità della vita monastica, ma resta un mezzo al suo servizio. Tale specificità, mentre caratterizza l’opera di C. nella storia della cultura e della pedagogia, segna anche il limite della sua risonanza nella storia del Monachesimo. Bibl.: a) Fonti: C., Opera omnia, P.L., 69-70; C., Le istituzioni, Roma, Città Nuova, 2001. b) Studi: R iché P., Éducation et culture dans l’Occident barbare, Paris, Seuil, 1967; Xodo C., Cultura e pedagogia nel monachesimo alto medioevale. «Divinae vacare lectioni», Brescia, La Scuola, 1980; Leclercq J., Umanesimo e cultura monastica, tr. it., Milano, Jaca Book, 1989; Cavallo G., «Tra “volumen” e “codex”. La lettura nel mondo romano», in G. Cavallo - R. Chartier (Edd.), Storia della lettura nel mondo occidentale, Roma/ Bari, Laterza, 1995, 37-69; Parkes M., «Leggere,
182
scrivere, interpretare il testo: pratiche monastiche nell’alto medioevo», in Ibid., 1995, 71-90; Bettetini M., «C.», in Enciclopedia Filosofica, vol. II, Milano, Bompiani, 2006, 1696-1697.
M. Simoncelli
CASTIGHI Consistono, in senso ampio, nell’infliggere una pena o dolore (psicologico o fisico) o nel privare di un bene allo scopo di far espiare una mancanza e/o di ristabilire un ordine (morale, giuridico o sociale). In prospettiva pedagogica i c. appartengono alla sfera affettiva dell’educazione e si propongono nell’ambito dei mezzi di motivazione (→ premi). 1. Il tema dei c. occupa un vasto capitolo della storia della pedagogia e della scuola. Basti qui fare alcuni cenni. Ha avuto un forte e duraturo influsso la concezione predominante nell’antichità: «L’orecchio del ragazzo è sopra la schiena, ed egli dà ascolto quando è battuto». Nella → Bibbia (Prv 29,15) si avverte che «il bastone e il rimprovero procurano sapienza». Nella Roma antica la «ferula» è il mezzo comune su cui il maestro basa la propria autorità. Alla fine del primo secolo della nostra era i metodi brutali cominciano ad essere messi in discussione; tuttavia la disciplina scolastica continua ad essere severa e i c. frequenti. Nel clima umanistico rinascimentale, educatori particolarmente sensibili, come M. Veggio (1406-1448), chiedono che «non si impauriscano troppo i bambini con minacce e percosse». Una considerazione sempre più oculata viene fatta poi all’interno delle congregazioni insegnanti (→ Gesuiti, → Barnabiti, → Scolopi, → Fratelli delle Scuole cristiane) e dai maggiori pedagogisti dell’età moderna, convinti, come → Comenio, che ci sono «mezzi più efficaci della frusta». Tra gli educatori del sec. XIX va citato don → Bosco, assertore convinto del → sistema preventivo e della «pedagogia dell’amore», che cerca di liberare gli allievi «dai dispiaceri, dai c., dai disonori». Contro la prassi educativa troppo legata ancora a una disciplina severa, prende posizione, agli inizi del nostro sec., il movimento delle → Scuole Nuove. Riprendendo la tesi rousseauiana della «bontà naturale», alcuni dei loro fautori sono giunti però a posi-
CASTIGLIONE BALDASSAR
zioni di condanna radicale di quanto potrebbe minacciare la «spontaneità del bambino». La riflessione pedagogica sui c. è oggi più attenta e articolata. 2. Il c. educa solo se incluso nell’arco di un intervento che, difendendo dalle attrazioni fuorvianti, aiuta a cambiare in senso positivo la condotta. Questo spesso richiede un lungo cammino. Per sé il c. può essere usato solo in caso di insufficienza soggettiva o oggettiva dei mezzi positivi di sostegno motivante, per arrestare un comportamento sbagliato, connettendolo con un’immagine punitiva che faccia riflettere e scegliere meglio, resistere a false suggestioni e pulsioni. A livello psicologico, il c. induce una tensione distogliente di sofferenza fisica, affettiva, morale; produce conflitto, rifiuto e fuga da ciò che lo ha provocato o lo potrebbe provocare. È antieducativo destinarlo a punire, far espiare, ristabilire la parità offesa. Urta e danneggia il c. che è espressione di vendetta e di aggressività, che umilia e offende la personalità intima e sociale (lo fanno quasi sempre i c. fisici). Infantilizza il «bisogno di pagare» per sentirsi in pace. 3. Quando si ama e si è amati, tutto può servire da c.: lo stesso amore offeso, mostrato sofferente. Sono c. educativamente validi il giudizio critico espresso al momento opportuno, il tratto relazionale bene amministrato. Ma forse il c. educativamente più valido è la coscienza e l’esperienza, magari rinforzata, del bene non fatto, del valore non conseguito, del talento e della opportunità sprecati, dell’ordine offeso, della buona relazione interrotta. L’autopunizione soggettiva per la condotta errata corregge più di ogni danno materiale subìto o del c. esterno. L’educatore deve preparare e coltivare le condizioni perché tali esperienze abbiano luogo nei confronti del bene oggettivo. 4. È debole e perfino non educativo il c. imposto e subìto al di fuori dei rapporti interpersonali e dei progetti in corso. Il metodo preventivo che imposta l’educazione su valori e su forti relazioni positive, riduce i c. o li rende subito educativamente efficaci. Il ricorso ai c. penosi come «camere di riflessione», maltrattamenti, punizioni gravi, costrizioni, ha effetti incerti o ambivalenti,
spesso controproducenti, colpendo la → stima di sé, non includendo la possibilità e l’offerta di contro esperienze, non dando indicazioni per la risalita immediata e continua. Vale il c. che include indicazioni per riparare, che fa reagire con forti motivazioni di ordine affettivo e morale, sociale. Anche il c. fisico, grave o leggero, educa solo in contesti abituali di amore e ragione. Bibl.: Auffray A., Come castigava un santo, Torino, SEI, 1956; Vuri V., «Premi e c.», in L. Volpicelli (Ed.), La pedagogia, vol. X, Milano, Vallardi, 1972, 199-269; Prellezo J. M., Dei c. da infliggersi nelle case salesiane. Una lettera circolare attribuita a don Bosco, in «Ricerche Storiche Salesiane» 5 (1986) 263-308; Scurati C., La disciplina nella scuola, Brescia, La Scuola, 1988; Miller A., La fiducia tradita, Milano, Garzanti, 1995; Pietropolli Charmet G. (Ed.), Ragazzi sregolati. Regole e c. in adolescenza, Milano, Angeli, 20052.
P. Gianola
CASTIGLIONE Baldassar n. a Casatico (Mantova) nel 1478 - m. a Toledo (Spagna) nel 1529, uomo di corte, diplomatico, umanista italiano. 1. Di illustre famiglia imparentata ai Gonzaga, riceve un’eccellente educazione umanistica. È alle corti di Milano, Mantova, Urbino, Roma; ambasciatore in Inghilterra e presso l’imperatore Carlo V; amico di letterati, musicisti, pittori. È una delle figure più rappresentative del Rinascimento italiano perché incarna l’ideale dell’uomo colto, armonico, padrone di sé, pronto all’azione come all’amabile e piacevole conversazione. Per questo Carlo V, alla notizia della sua morte, dice: «È morto uno dei migliori cavalieri del mondo». 2. La sua opera maggiore, Il Cortegiano, è un dialogo ambientato nella corte di Urbino, dove uomini di cultura discutono per delineare la figura del perfetto uomo di corte e della «dama di palazzo». Consta di una dedica e di quattro libri. Il 1° tratta dei requisiti che deve possedere il perfetto cortegiano: nobiltà (non legata a discendenza dinastica), grazia, 183
CATECHESI
abilità nell’uso delle armi, nell’arte della parola, della musica, della pittura, della danza; il 2° discute in che modo e in quali circostanze il cortegiano deve usare le capacità di cui è fornito; il 3° tratteggia la figura ideale della «donna di palazzo»; il 4° affronta i rapporti del cortegiano con il principe, il problema politico e l’amore platonico. Ne Il Cortegiano, C. presenta l’uomo di corte ideale che, per le doti acquisite, ma soprattutto per le sue virtù morali, consiglia il principe a un’azione di governo illuminata e saggia, ispirata alla moderazione, alla giustizia, alla magnanimità, all’amore verso i sudditi. L’opera è subito tradotta nelle principali lingue e in latino ed esercita un influsso notevole su tutte le corti d’Europa. Bibl.: a) Fonti: Opere volgari e latine del conte B.C., raccolte, ricorrette ed illustrate da Giov. Ant. e Gaetano Volpi, Padova, 1733; Il libro del Cortegiano con una scelta delle opere minori di B.C., a cura di B. Maier, Torino, UTET, 1973; Il libro del Cortegiano, Introduzione di A. Quondam, Milano, Garzanti, 1981 (XI ed. 2003). b) Studi: Barberi G., L’onore in Corte. Dal C. al Tasso, Milano, Angeli, 1986; Ossola C., Dal «Cortegiano» all’«Uomo di mondo». Storia di un libro e di un modello sociale, Torino, Einaudi, 1987; Scarpati C., Dire la verità al principe, Milano, Vita e Pensiero, 1988; Gagliardi A., La misura e la grazia. Sul «Libro del Cortegiano», Torino, Tirrenia Stampatori, 1989.
R. Lanfranchi
CASTITÀ → Educazione sessuale → Virtù CATALFAMO Giuseppe → Personalismo pedagogico
CATECHESI La c. (dal gr. katechéin: far risuonare) è l’insegnamento fondamentale della fede cristiana per l’interiorizzazione e maturazione della stessa fede. Essa si trova così nel cuore del processo di → socializzazione religiosa e di trasmissione del patrimonio culturale e religioso del cristianesimo alle nuove generazioni e a quanti vogliono diventare cristiani. Oggi questa attività si rivolge ancora prevalentemente a soggetti in età di sviluppo (fanciulli, adolescenti, giovani), ma si sente 184
l’esigenza di mettere al centro dell’attenzione il mondo degli → adulti. 1. La c.: termini e forme. La c. ha ricevuto denominazioni diverse a seconda dei tempi e dei luoghi: educazione religiosa, insegnamento religioso, dottrina cristiana, catechismo, c., formazione religiosa, educazione della fede, trasmissione della fede, ecc. Il significato preciso di questi termini dipende dai diversi contesti e tradizioni culturali. Per es. nel mondo anglosassone si preferisce parlare di Religious Education o Religious Instruction; nell’area francofona di enseignement religieux o formation religieuse. Attualmente si tende a distinguere chiaramente, pur nella loro complementarità, tra c. e insegnamento della → religione nella scuola, con obiettivi e modalità diverse di attuazione. Le considerazioni che seguono si riferiscono esclusivamente alla c. Negli ultimi decenni vi è stato tutto un movimento di rinnovamento catechetico, soprattutto sotto la spinta del Concilio Vaticano II e di fronte alle nuove sfide della società. Oggi va considerata conclusa la concezione dell’«epoca del catechismo» o del «paradigma tridentino», secondo cui la c. – legata al compendio chiamato «catechismo» – appariva soprattutto come insegnamento dottrinale e trasmissione di conoscenze religiose. Oggi la c. si apre a una visione più personalistica, integrale e incarnata della fede e della sua crescita e quindi assume un’identità più ricca e pluridimensionale, in quanto opera di → iniziazione, di → insegnamento, di → educazione e socializzazione religiosa. 2. La c. «educazione della fede». La caratterizzazione della c. come «educazione della fede» è diventata proverbiale nella Chiesa, e come tale accolta nei documenti ufficiali. Anzi, si può dire che, nello sviluppo del rinnovamento catechistico, l’espressione «educazione della fede» riassume in qualche modo il passaggio dal «catechismo» alla «c.», dalla tradizionale educazione religiosa ad un’azione catechetica più attenta alla densità esistenziale del messaggio cristiano e della relativa risposta credente. Nell’epoca moderna, la riflessione sulla c. ha portato all’accentuazione della sua dimensione pedagogica, anche sotto l’influsso delle → scienze dell’educazione Di fatto, la «cateche-
CATECHESI
tica» come riflessione sistematica sulla c., è sempre stata fortemente collegata alla pedagogia e dominata in un certo senso da una duplice anima: quella «teologica», che ne determina soprattutto i contenuti e le finalità ultime, e quella «pedagogica», che presiede all’individuazione di obiettivi, processi e metodologie (Alberich, 2001). L’espressione «educazione della fede» va intesa correttamente, dal momento che non è possibile influire direttamente dall’esterno su una realtà così «indisponibile» e inafferrabile come la fede cristiana, che teologicamente rimanda alla gratuità del dono divino e alla imprevedibilità della libera risposta umana. Ha senso perciò parlare di «educazione della fede» soltanto in modo indiretto e strumentale, in riferimento alle mediazioni umane che possono facilitare, aiutare e rimuovere ostacoli nel processo di maturazione religiosa. Rimane esclusa qualsiasi forma di intervento diretto sulla fede stessa. Nell’attuazione del suo compito di educazione, la c. deve avere sempre davanti l’orizzonte della → maturità religiosa, evitando possibili forme di indottrinamento e di intervento infantilizzante, col pericolo di bloccare il processo di crescita religiosa. Bisogna riconoscere che non poche volte la c. ha favorito forme di immaturità, di religiosità funzionale e compensatoria, di espressioni inadeguate di fede, sotto la spinta di atteggiamenti clericali e paternalistici o di facili accomodamenti securizzanti da parte di persone che hanno paura della maturità. 3. La c. fatto educativo. Alla c. – nelle sue diverse forme – va riconosciuta una notevole valenza educativa, sia come elemento significativo dell’ → educazione cristiana e religiosa, sia anche per la sua dimensione educativa globale, in quanto fattore di socializzazione, di → alfabetizzazione, di crescita culturale e morale, ecc. È un dato che emerge con chiarezza alla luce della storia e in sede di riflessione teoretica sulla natura della c. 3.1. La c. nella storia: opera di educazione. Uno sguardo alla storia permette di cogliere il peso certamente significativo dell’azione catechistica nei processi di educazione e di promozione, soprattutto a livello popolare e in particolare nell’epoca moderna, attraverso la diffusione dei catechismi e le svariate forme di insegnamento religioso e di predicazione al popolo cristiano (Braido, 1991).
Anzi, in diversi Paesi, la c. è stata spesso uno strumento privilegiato, a volte unico, di alfabetizzazione e di promozione culturale. L’opera della c. appare legata tradizionalmente alle → istituzioni educative e ai luoghi e ambiti della prima socializzazione (famiglia, scuola, chiesa, comunità), assumendo le forme tipiche dell’ → azione educativa: insegnamento, educazione, iniziazione, apprendistato, formazione, alfabetizzazione. Essa ha costituito di fatto, per molte generazioni, uno strumento efficace di socializzazione religiosa, e ha contribuito a plasmare l’identità umana e cristiana di molti credenti. Certo, è vero che non sempre la c. è stata all’altezza della sua vocazione educativa. Essa è apparsa a volte disincarnata, ghettizzata, intenta a una finalità che sembrava lasciar da parte i problemi fondamentali dell’uomo e della sua crescita. Non solo: la storia e l’esperienza ricordano tante forme inautentiche di c. che ne hanno compromesso la valenza educativa, come in certe forme di → indottrinamento e di strumentalizzazione ideologica (→ ideologia) al servizio dell’autorità dominante o di interessi di parte; oppure sotto forma di chiusura confessionale e settaria che è stata di fatto una vera educazione al pregiudizio e all’intolleranza. 3.2. La c. in chiave educativa. Oggi la riflessione catechetica insiste sul fatto che la c. deve essere in funzione della riuscita totale dell’uomo. In quanto trasmissione della parola liberante di Dio, la c. non si deve mai restringere a un settore «religioso» dell’esistenza, ma deve investire la totalità del progetto umano di vita, configurandosi perciò come «aiuto per la vita attraverso l’aiuto della fede» e avendo come scopo di fondo aiutare l’uomo a riuscire nella propria vita. È importante perciò mobilitare e valorizzare le molteplici valenze educative e promozionali dell’azione catechistica, sottolinearne la portata pedagogica e concepirla come un vero processo educativo permanente che deve accompagnare lo sviluppo integrale delle persone e dei gruppi. Tra gli obiettivi catechistici vanno perciò inclusi i grandi traguardi di ogni educazione umana: sviluppo della → personalità, apertura alla socialità, maturità psicologica e affettiva, senso critico, capacità di partecipazione e corresponsabilità. In riferimento alla c. possono essere segnalati diversi fattori e istanze di rilevanza educati185
CATECHISMO
va: a) A livello di conoscenze, la c. trasmette informazioni, arricchisce il patrimonio culturale, fornisce punti di riferimento per la ricerca di senso. b) Appartiene anche al compito della c. permettere la maturazione di esperienze umane basilari, che sono presupposto di ogni autentica crescita cristiana. Per es., senza l’esperienza della fiducia e del perdono è molto difficile capire il significato della penitenza e della riconciliazione; e senza maturità affettiva è impossibile cogliere in profondità il senso dell’amore cristiano. c) La c. è chiamata a dare grande importanza all’educazione morale e all’interiorizzazione dei → valori, indissolubilmente connessi col processo di maturazione nella fede. Vanno promossi perciò valori quali: la fraternità, la → solidarietà, la giustizia, la pace, il coraggio, la veracità, la fedeltà, la gratitudine, la responsabilità sociale, il rispetto del creato, l’apertura alla mondialità, ecc. La c. è anche impegnata nel dialogo e interazione tra fede e cultura e questo, nella situazione attuale, costituisce un problema quanto mai urgente e impegnativo, data la distanza oggi esistente tra fede cristiana e cultura moderna. La c. si trova qui di fronte a una vera sfida culturale, ma anche messa in condizione di svolgere un compito di notevole rilevanza educativa: interpretare la cultura alla luce delle esigenze evangeliche e ripensare il patrimonio della fede cristiana alla luce delle istanze e dei valori della cultura contemporanea. 4. In conclusione: non è concepibile un processo di maturazione della fede, e dunque un esercizio adeguato dell’attività catechistica, senza un innesto mirato sul processo globale di maturazione della personalità. Nell’attuazione di una c. inserita nel processo educativo sarà dunque necessario curare l’integrazione unitaria delle diverse componenti educative, in modo da salvaguardare e portare a maturazione l’unità interiore della persona. Va evitato il rischio di strumentalizzare l’opera educativa in nome degli obiettivi superiori dell’educazione della fede. Ridurre i momenti fondamentali della maturazione umana (crescita culturale, educazione fisica, intellettuale, sociale, ecc.) a semplice mezzo per puntare a obiettivi esplicitamente religiosi (vita di fede, sacramenti, impegno ecclesiale) rivela una concezione inadeguata della maturazione stessa della fede e man186
canza di rispetto per la qualità umanizzante di ogni autentica educazione. È una considerazione che invita a superare ogni dualismo antropologico e pedagogico e ogni malinteso primato della missione spirituale nell’azione dei cristiani. Bibl.: Bissoli C., C. ed educazione, in «Orientamenti Pedagogici» 27 (1980) 55-62; Germain E., 2000 ans d’éducation de la foi, Paris, Desclée, 1983; Exeler A., L’educazione religiosa. Un itinerario alla maturazione dell’uomo, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; Fossion A., La catéchèse dans le champ de la communication. Ses enjeux pour l’inculturation de la foi, Paris, Cerf, 1990; Braido P., Lineamenti di storia della c. e dei catechismi, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1991; Groppo G., Teologia dell’educazione. Origine, identità, compiti, Roma, LAS, 1991; A lberich E., La c. oggi. Manuale di catechetica fondamentale, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2001; Giguère P.-A., Catéchèse et maturité de la foi, Montréal/Bruxelles, Novalis/Lumen Vitae, 2002; Derroitte H., La c. liberata, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2002; Gevaert J., Il dialogo difficile: problemi dell’uomo e c., Ibid., 2005.
E. Alberich
CATECHETICA → Catechesi
CATECHISMO Nella prima accezione della parola, il c. è l’istruzione orale e familiare della religione cristiana fatta dopo il battesimo ai fanciulli e agli adulti. Di qui, a partire dal sec. XVI, il termine è passato a designare, ben presto quasi esclusivamente, il libro che contiene l’esposizione elementare delle verità fondamentali del cristianesimo. Il c. è allora un manuale popolare, un riassunto esatto e sicuro della dottrina cristiana, redatto a domande e risposte, approvato e proposto dal vescovo per la sua diocesi. È avvenuto spesso che fossero detti c. anche libri a domanda e risposta di altri rami del sapere. 1. Il c. come libro di studio per gli alunni si sviluppò dalle formule catechetiche trasmesse per tutto il → Medioevo, accresciute, verso la fine del periodo, sulla base dei «cataloghi dei peccati» usati nella prassi confessionale,
CATECHISMO
come spiegazioni del Credo e del Pater, e poi anche del Decalogo e dell’Ave Maria, e dei cataloghi medievali delle virtù e dei vizi. I c. più diffusi del sec. XVI, quelli di Lutero (1529), Canisio (1555-59), Auger (1563, 1568), Astete (1576), Ripalda (1586) e Bellarmino (1597/98), sono manuali brevi, destinati ad essere appresi a memoria con un minimo di spiegazione. Si compilano anche c. con un discorso espositivo, dal C. Romano o del Concilio di Trento (1566) a numerosi altri dei secoli seguenti, per persone colte o come guida ai catechisti. Si tentano anche «c. storici», che seguono l’esposizione della storia della salvezza. Ma è solo verso la metà del sec. XX che (parallelamente al rinnovamento della → catechesi) si sperimentano nuove forme di c., meno dottrinali, che abbandonano il metodo mnemonico, si ispirano alla → Bibbia e alla → Liturgia e danno spazio all’esperienza di vita e a moderne concezioni del processo di insegnamento-apprendimento.
usato dal c. aveva perduto ogni traccia del dialogo socratico, volto alla ricerca della verità, o di quello della disputa medievale, mirante alla intelligenza di un testo, per diventare uno strumento destinato ai semplici, al fine di inculcare loro una dottrina di cui è garanzia l’autorità del maestro. È un limite che nelle comunità protestanti veniva superato dalla lettura della Bibbia, e in quelle cattoliche dall’educazione familiare e dalla partecipazione alla liturgia parrocchiale, che ne completavano e compensavano l’austerità. Nel mondo cattolico troppo sovente il c. è diventato un sostituto della Bibbia. Mentre questa presenta un insegnamento più aperto e non sistematico, il c. tende a offrire una enciclopedia elementare della dottrina cristiana. L’idea di c. è correlativa a quella di totalità. L’uso del c. ha spesso comportato una mutazione nell’atteggiamento: non si è più nel clima di ascolto e di accoglienza proprio della lectio divina, ma in quello della comprensione e dell’argomentazione. Siamo nell’universo della razionalità, che caratterizza l’età moderna. Inoltre, il carattere «dottrinale» del c. non rendeva ragione della dimensione storica e personale del fatto cristiano. Per motivi teologici e pedagogici, il c. è oggi considerato come uno strumento da concepire in forma nuova, se si vuole assicurare un’educazione religiosa più adeguata sia alla natura del cristianesimo sia al genio dell’epoca contemporanea.
2. Il c. ha costituito, negli ultimi secoli, un fattore importante nello sviluppo della cultura popolare, ed è sempre più riconosciuto come un documento di importanza considerevole per conoscere la storia di un paese e di un popolo; e non solo la storia religiosa, ma quella totale, sociale e culturale. Non ha influenzato solo la formazione del cristiano, ma anche quella dell’uomo in generale. Il c. offre un elemento importante per comprendere come si trasmettono i valori e la rappresentazione del mondo da una generazione all’altra. Non è un fatto isolato, poiché si radica in una fede collettiva, in una pratica sociale, in una cultura. Nella sua forma elementare e volutamente sintetica è in un certo modo l’espressione di un tempo e di una società. Il testo di c. veniva letto ad alta voce, ripetuto, memorizzato: così ha avuto un ruolo incisivo nella formazione di coloro che lo hanno utilizzato, ha contribuito a formare il loro linguaggio religioso, la loro maniera di pensare e di esprimere la propria fede, influenzando la loro visione della vita e tutta la loro cultura. In alcuni Paesi, il c. redatto nella lingua nazionale, ha contribuito a superare il provincialismo dialettale.
Bibl.: M angenot E., «Catéchisme», in Dictionnaire de Théologie Catholique, P. II, T. II, Paris, Letouzey et Ané, 1905, coll. 1895-1968; Gianetto U., «L’idea di c. nella storia della Chiesa», in Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale (Ed.), Il rinnovamento della catechesi in Italia, Brescia, La Scuola, 1977, 41-58; Paul E. - G. Stachel - W. Langer, Katecismus - Ja? Nein? Wie?, Einsiedeln, Benziger, 1982; A lberich E. - U. Gianetto (Edd.), Il c. ieri e oggi, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1987; Audinet J., «Le modèle “catéchisme”: fonction et fonctionnement», in P. Co lin et al., Aux origines du catéchisme en France, Tournai, Desclée, 1989, 261-271; R esines L., Astete frente a Ripalda: dos autores para una obra, in «Teología y Catequesis» 58 (1996) 89-138.
3. L’apprendimento «catechistico» si presta a severe critiche dal punto di vista didattico e pedagogico. Il metodo domanda-risposta
CATECHISTA → Catechesi → Educatore cristiano
U. Gianetto
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CATECUMENATO
CATECUMENATO Il c. richiama storicamente l’istituzione dei primi secoli della → Chiesa per l’accoglienza e accompagnamento dei candidati al battesimo. È un processo di apprendistato della fede e della vita cristiana con diverse tappe e riti, in vista della piena incorporazione nella Chiesa per mezzo dei sacramenti d’iniziazione (→ sacramenti). 1. Il c. ebbe il suo momento migliore nel sec. III e attesta la serietà con cui era seguito il cammino di conversione e maturazione dei candidati cristiani. Scomparve poi praticamente nel sec. V con la generalizzazione del battesimo dei bambini. Nell’evo moderno si sono avute forme di ripristino del c. in Asia e Africa e, dopo gli anni ’50, anche in Europa e altrove, come esigenza di una società secolarizzata e pluralistica. Il c. prevede ordinariamente 4 tappe: il precatecumenato, tempo di accoglienza e primo approccio alla fede; il c. propriamente detto, tirocinio di catechesi, riti ed esperienze di vita; il tempo della purificazione e illuminazione, che porta ai sacramenti pasquali di iniziazione; la mistagogia o rafforzamento della vita sacramentale e comunitaria. 2. È grande la rilevanza pedagogica del c. in quanto agenzia di → socializzazione religiosa, luogo di apprendimento della fede e esperienza forte di → iniziazione cristiana. Da parte del catecumeno, il c. offre diversi fattori e contenuti (persone significative, processi di apprendimento, momenti celebrativi, riti di passaggio ed esperienze di comportamento) per la maturazione di atteggiamenti e condotte. Il c. impegna anche diverse figure di educatori (accompagnatori, catechisti, padrini, pastori) che svolgono un importante ruolo educativo di discernimento, accoglienza e accompagnamento. Bibl.: Laurentin A., Breve storia del c., Leumann (TO), Elle Di Ci, 1984; Floristán C., Il c., Roma, Borla, 1993; Bourgeois H., Teologia catecumenale, Brescia, Queriniana, 1993; Cavallotto G., C. antico. Diventare cristiani secondo i Padri, Bologna, Dehoniane, 1996.
E. Alberich
CATTANEO Carlo → Risorgimento
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CATTEDRA → Università CATTELL James McKeen → Intelligenza CAVANIS, fratelli → Congregazioni insegnanti maschili CD-ROM DIDATTICO → Tecnologie dell’educazione e della comunicazione CEE → Organizzazioni internazionali
CENTRO GIOVANILE Vi è anzitutto una questione terminologica che va chiarita. Da una parte la dizione c.g. suppone di assumere il termine come sinonimo (o quasi) di → oratorio (nel qual caso il più delle volte si unificano i due con la terminologia di oratorio-c.g.); dall’altra si suppone una certa differenziazione che esamineremo. 1. Il primo caso è frequente soprattutto fuori Italia, in particolar modo nei Paesi di lingua spagnola. In questi il termine «oratorio» rimanda non alle esperienze ricche che si legano alla tradizione italiana, come ambiente che nel suo insieme risponde al programma di educazione cristiana integrale della gioventù, soprattutto nel tempo lasciato libero da altre istituzioni e passando attraverso le domande più diversificate dei giovani; al contrario esso sta a indicare un luogo di accoglienza di ragazzi e giovani per le sole attività del → tempo libero, e soprattutto per il gioco (come appare a prima vista entrando in un «normale» oratorio: il ricreatorio), oppure come appendice della parrocchia soprattutto per la catechesi dei ragazzi (oratorio), e dunque con connotazioni che potrebbero sapere di passato e di un certo clericalismo. Il termine c.g. allora renderebbe meglio, con la sottolineatura dei destinatari specifici, l’insieme del «progetto». I referenti dei termini diversi sono comunque la stessa realtà che si vuole indicare. Nella realtà italiana in effetti quando si utilizza la dizione ampia oratorio-c.g. è per indicare tutto quell’insieme di progettualità educativa a favore dei giovani stessi, diversificando al suo interno, per le diverse fasce di età, itinerari formativi, attività, metodologie, e sollecitando i giovani a diventare gruppo-circolo e ad aprirsi maggiormente all’impegno nel volontariato socio-politico e nell’animazione educativa.
CERRUTI FRANCESCO
2. Nel secondo caso (quando si vuole distinguere tra oratorio e c.g.), si intende esprimere, rispetto all’oratorio, una specifica differenziazione. E allora l’oratorio viene inteso come un ambiente indirizzato ai ragazzi (fino alla preadolescenza), con prevalente apertura alla massa, con livelli di appartenenza vari e spontanei, con speciale sottolineatura dell’aspetto ludico ed espressivo, dove l’educazione viene continuata nella forma della socializzazione assieme alle altre agenzie educative, soprattutto la famiglia, e dove l’educazione religiosa avviene soprattutto attraverso la catechesi sacramentale. Il c.g. viene invece pensato come ambiente destinato ai giovani, con un prevalente rapporto di gruppo (gruppi giovanili), con un’organizzazione e aggregazione più determinate e con un peso decisivo dell’impegno umanocristiano. 3. Nei due casi sono naturalmente i destinatari che determinano la diversità della realizzazione. Si può dire che nel c.g. i giovani sono non solo destinatari, ma promotori, soggetti attivi, assieme agli adulti-educatori, della loro personale formazione ed elaborazione di un progetto di vita, chiamati in causa e sollecitati a liberare le loro risorse e potenzialità, in attivo scambio con le proposte culturali e religiose, con una decisa spinta alla scelta vocazionale. Le proposte dunque diventano più esigenti, le iniziative più diversificate, il grado di coinvolgimento più stretto. Volendo indicare alcuni settori specifici di questo impegno giovanile, si possono citare i seguenti: il settore educativo animativo, quello socio culturale, quello socio-politico, di impegno per lo sviluppo e di educazione al servizio (servizio civile, volontariato, anche missionario), di ricerca anche vocazionale. 4. Negli ultimi anni, in Italia, si è notevolmente ridotto l’utilizzo del termine «c.g.» riferito all’oratorio in cui operano da protagonisti anche i giovani, oltre ai ragazzi e agli adolescenti, anche perché la società civile e le istituzioni del territorio (associazioni, partiti politici, assessorati…) hanno dato vita a numerosi centri di aggregazione, ambienti di incontro per adolescenti e giovani (ma anche per ragazzi più piccoli), aconfessionali e destinati a occupare il tempo libero extrascolastico ed evitare che i ragazzi lo trascorrano
in strada o a casa perlopiù da soli. La comunità territoriale infatti si è resa sempre maggiormente conto della necessità di occuparsi dell’educazione dei propri ragazzi e ragazze e di organizzarsi e organizzare luoghi adeguati di aggregazione, di offerte soprattutto in campo espressivo e ludico. Il C. promuove così l’incontro tra soggetti diversi e abilita a una capacità e qualità specifica: la «socialità». Esso si propone dunque come palestra e come setting in cui sviluppare abilità e competenze sociali, e insieme come luogo di espressione del riconoscimento del valore e del funzionamento dello spazio sociale. Bibl.: Orlando V., Il c.g. nella Chiesa e nel territorio, in «I Quaderni dell’Animatore» 18, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1985; CSPG, Frontiere per gruppi giovanili, Ibid., 1988; Id., Gruppi giovanili a servizio nella società, Ibid., 1989; Vecchi J. E., «L’Oratorio salesiano: luogo di nuova responsabilità e missionarietà giovanile», in L’Oratorio dei giovani: insieme per essere fedeli alla vocazione giovanile e popolare, Roma, CISI, 1993, 55-72; Atti del primo Meeting dei c. di aggregazione giovanile, Rovigo, 2006.
G. Denicolò
CERRUTI Francesco n. a Saluggia (Vercelli) nel 1844 - m. a Torino nel 1917, educatore e pedagogista italiano. 1. Di famiglia contadina, C. rimase orfano di padre a due anni; nel 1856 entrò come allievo nella prima istituzione educativa fondata da don → Bosco a Torino-Valdocco; si fece salesiano (1862) e fu ordinato sacerdote (1866). Ottenne il dottorato in lettere (1866) presso l’Università di Torino, dove ebbe come professore di antropologia e pedagogia → Rayneri. Nel 1885, chiamato al Consiglio generale dei → Salesiani, fu responsabile degli studi e della stampa. Rimase in carica fino alla morte, realizzando una significativa opera di organizzazione e promozione delle scuole salesiane e delle → Figlie di Maria Ausiliatrice. 2. La produzione letteraria di C. è ampia su svariati temi (letteratura, storia, religione, educazione e didattica); un centinaio di 189
CERTIFICAZIONE DEGLI APPRENDIMENTI
scritti riguardano argomenti pedagogici; fra di essi testi per gli istituti magistrali: L’insegnamento secondario classico in Italia (1882), Storia della pedagogia in Italia (1883), Elementi di pedagogia (1895), Norme per l’insegnamento della aritmetica (1897). C. collaborò in diversi giornali («L’Unità Cattolica», «La Stampa», «L’Italia Reale», «Il Momento») con scritti sulla politica scolastica del tempo e a difesa dei valori umanistici e cristiani della scuola. I suoi interventi furono apprezzati dal ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli. Infine un nucleo significativo di scritti va individuato attorno al sistema preventivo: Idee di don Bosco sull’educazione e sull’insegnamento (1886), Don Bosco educatore (1898), Una trilogia pedagogica: ossia Quintiliano, Vittorino da Feltre e don Bosco (1908), Il problema morale nell’educazione (1916). 3. L’autore è ritenuto il «sistematore delle scuole e degli studi» salesiani (Luchelli, 1917, 22) e «uno dei più fedeli interpreti del pensiero e del sistema pedagogico di D. Bosco» (Atti, 1903, 151). Va ricordata anche la sua opera nell’ambito degli istituti educativi delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Bibl.: a) Fonti: Atti del III congresso dei Cooperatori salesiani, Torino, Tip. Salesiana, 1903; F.C., Lettere circolari e programmi di insegnamento (1885-1917). Introduzione, testi critici e note a cura di J. M. Prellezo, Roma, LAS, 2006. b) Studi: Luchelli A., Don F.C. consigliere scolastico generale della Pia Società Salesiana, Torino, S.A.I.D., 1917; Prellezo J. M., F.C. direttore generale delle scuole e della stampa salesiana, in «Ricerche Storiche Salesiane» 5 (1986) 127-164; Id., Paolo Boselli e F.C. Carteggio inedito (1888-1912), in «Ricerche Storiche Salesiane» 19 (2000) 87-123.
J. M. Prellezo
CERTIFICAZIONE DEGLI APPRENDIMENTI 1. Introduzione. La c.d.a. rappresenta un’a zione tesa a descrivere in modo sistematico le acquisizioni della persona ed a registrarle in modo condiviso tra i diversi attori del sistema educativo e del mondo del lavoro, con 190
l’indicazione delle ancore ovvero delle esperienze (formali, non formali ed informali) su cui tali acquisizioni sono state formate. La c. si riferisce a due categorie di fenomeni: a) le competenze intese come fattori che qualificano il grado di autonomia e di responsabilità della persona a fronte di specifiche categorie di compiti/problema dal rilevante valore personale, sociale e professionale; b) nel contempo, essa specifica le conoscenze e le abilità, ovvero le risorse di cui la persona si è impadronita e che ha saputo certamente mobilitare nel lavoro di soluzione dei compiti/problema indicati. Nella c. debbono essere evidenziati i livelli di padronanza delle competenze, che possono essere indicati per gradi progressivi: basilare, adeguato, eccellente. 2. Spiegazione. La spinta finalizzata alla elaborazione di strumenti atti a certificare gli apprendimenti delle persone deriva da tre cause differenti: a) la necessità di garantire la leggibilità e la confrontabilità degli esiti dei percorsi di apprendimento da parte delle imprese che necessitano di personale da impegnare nella propria struttura, tenuto conto della perdita di valore delle tradizionali declaratorie professionali; b) la necessità di consentire – entro grandi sistemi economici e sociali qual è l’ambito dell’Unione europea – la riconoscibilità degli apprendimenti così da consentire la mobilità delle persone ed il loro accesso ai vari sistemi sociali ed economici propri dei diversi stati nazionali; c) la necessità di finalizzare i percorsi formativi a vere e proprie competenze, ovvero non solo al sapere, ma alla sua attivazione effettiva da parte del soggetto nei contesti reali di impegno e dei compiti-problema che questi evidenziano. 2.1. In campo scolastico la c. mira a sollecitare un approccio per competenze e quindi a superare una metodologia eccessivamente centrata sulla didattica disciplinare per trasferimento di nozioni ed abilità, aprendo la strada ad una formazione più autentica in cui la persona è chiamata a confrontarsi con situazioni reali – più o meno problematiche – che sollecitano la sua attenzione, responsabilità e attivazione al fine di giungere ad una soluzione idonea e soddisfacente. Tali competenze della persona sono dimostrate dalla natura dei problemi fronteggiati, dalla
CERTIFICAZIONE DEGLI APPRENDIMENTI
metodologia di intervento, dalla capacità di superare crisi e difficoltà, dalla riflessione discorsiva sulle esperienze attraverso un linguaggio pertinente ed in grado di evidenziare tutti gli aspetti in gioco e quindi di «dimostrare» concretamente l’effettivo possesso del sapere. 2.2. In campo professionale, la c. richiede innanzitutto un’intesa preliminare tra organismi formativi e strutture dell’economia intorno ad un metodo di descrizione delle competenze e ad un repertorio di profili professionali di riferimento per l’azione formativa; inoltre esige una convergenza di sforzi e di strumenti al fine di qualificare il percorso formativo con esperienze virtuali o reali entro le quali la persona sia sollecitata alla mobilitazione delle proprie capacità e risorse; infine richiede un’intesa circa la valutazione ed in particolare la validazione delle competenze acquisite, che rivestono in tal modo un significato non solo legale, ma sostanziale e condiviso. In tal modo la valutazione-c. non si realizza in rapporto a standard «scritti sulla carta», ma in riferimento alla concreta realtà di esercizio delle competenze indicate con il coinvolgimento diretto dei partner sociali. L’azione di c. non può pertanto essere concepita come una mera compilazione amministrativa di schede, ma rappresenta un’azione complessa di natura autenticamente sociale, tesa a soddisfare i seguenti criteri: a) la comprensibilità del linguaggio, che deve riferirsi – in forma narrativa e non quindi in modo stereotipato – a locuzioni e sintagmi che consentano ai diversi attori di visualizzare le competenze descritte; b) l’attribuibilità delle competenze al soggetto tramite l’indicazione delle evidenze che consentano di contestualizzarle entro processi reali in cui egli è coinvolto insieme ad altri attori; c) la validità dei metodi adottati nella valutazione e validazione delle competenze stesse, con specificazione del loro livello di padronanza. 2.3. Circa il modello di c., si prevedono normalmente due fattispecie: a) La c. è legale quando si riferisce al titolo di studio posseduto e indica il rapporto tra il possesso di tale titolo e l’effettiva padronanza delle acquisizioni che vi sono implicate. In tal modo l’atto certificativo risulta un’aggiunta – una sorta di appendice – rispetto alle prassi valutative ed amministrative proprie dei titoli di studio. b) La c. è sociale quando il certificato
cui ci si riferisce rappresenta una documentazione composita che consente di rendere trasparente – quindi leggibile entro categorie comprensibili – la dotazione della persona di capacità, saperi, abilità e competenze, in riferimento alle esperienze entro cui queste si sono formate. 2.4. Nel caso italiano, la funzione certificativa risulta variamente citata nelle leggi relative al sistema educativo ed al mercato del lavoro, anche se il sistema difetta di una vera e propria istituzione di tale funzione, con l’indicazione degli organismi e delle figure professionali cui è fatta carico e delle metodologie e con la precisazione del valore di tali certificati per la persona che li possiede come pure degli impegni per i vari organismi una volta che questa esibisca documenti attestanti la sua preparazione. Infatti, l’oggetto della c. non va visto solo in chiave dichiarativa, ma anche valutativa. In questo secondo significato, esso rappresenta un credito formativo, ovvero l’attribuzione alla specifica acquisizione certificata di un valore esigibile presso un organismo formativo, in vista del raggiungimento di uno specifico titolo. Essa quindi presenta un valore di accessibilità oltre che di risparmio del tempo previsto per coloro che non possiedono le acquisizioni dimostrate nel certificato. 2.5. Il peso reale (in termini di accesso alle azioni formative e di risparmio di tempo) di tale valore viene attribuito da parte dell’organismo ricevente, se questo riconosce la c. emessa da quello inviante ed attribuisce a questa c. un valore in ordine ad un quadro metodologico e descrittivo dei fenomeni oggetto dell’atto certificativo. Di conseguenza, il semplice rilascio di un documento certificativo da parte di un qualsiasi organismo non rappresenta di per sé un credito; perché un credito sia tale bisogna che ci sia un «potere» che lo riconosce o che impone alle organizzazioni coinvolte di riconoscerlo. Tale potere risulta da un’intesa condivisa dai diversi attori, in forza della quale si definiscono i criteri di individuazione delle acquisizioni ed il percorso formativo e relativo livello entro cui la persona può indirizzarsi. 2.6. I crediti formativi sono pertanto da intendere in senso sostanziale, ovvero non solo in riferimento allo sforzo necessario in termini di tempo per soddisfarli (è questa la concezione universitaria del credito), ma 191
CHAMPAGNAT MARCELLIN-JOSEPH-BENOÎT
precisamente agli apprendimenti effettivamente posseduti e validamente accertati. Il credito inteso in senso sostanziale non può essere gestito tramite processi automatici. Esso richiede un approccio discreto, in grado di attribuire alla documentazione attestante gli apprendimenti il giusto valore in termini di personalizzazione del percorso formativo. Ciò richiede comunque un dialogo ed una negoziazione tra i soggetti coinvolti (organismo inviante, organismo ricevente, persona interessata). Ciò definisce un metodo di lavoro necessariamente relazionale e dialogiconarrativo. Bibl.: Schön D. A., Il professionista riflessivo, Milano, Dedalo, 1983; Aubret J. - F. Aubret - C. Damiani, Les bilans personnels et professionnels, Paris, Éditions Eap-Inetop, 1990; Cepollaro G. (Ed.), Competenze e formazione, Milano, Guerini & Associati, 2001; Comoglio M., La valutazione autentica e il portfolio, paper, Roma, 2001; Ajello A. M. (Ed.), La competenza, Bologna, Il Mulino, 2002; CIOFS/FP, Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa, Roma, 2003.
D. Nicoli
CESARIO D’ARLES → Medioevo CHAMINADE Gillaume de → Marianisti
CHAMPAGNAT Marcellin-JosephBenoît n. a Marlhes nel 1789 - m. a L’Hermitage (Loira) nel 1840, sacerdote francese, fondatore dei → Maristi. 1. Viene ordinato sacerdote nel 1816. Fin dal primo contatto con la realtà rurale a Lavalla (Loira), Ch. è colpito dall’abbandono e ignoranza dei ragazzi. Nel 1817, disegna il primo progetto di una congregazione insegnante. Alla morte di Ch. essa contava 280 membri e 40 scuole. La sua prassi educativa si ispira a quella dei → Fratelli delle Scuole cristiane. Nella redazione della Guide des écoles (1817), i primi collaboratori di Ch. usano la Conduite des écoles chrétiennes (1811). 2. La «pedagogia marista», aperta ad altre fonti d’ispirazione (Pascal, → Fénelon, → Rol192
lin, → Dupanloup), mette l’accento su alcuni aspetti che diventano caratterizzanti: → prevenzione e presenza del maestro tra gli allievi; centralità dell’insegnamento religioso e della devozione mariana; canto, non soltanto come fattore educativo, ma anche come mezzo di partecipazione alla vita liturgica parrocchiale; metodo fonico nell’insegnamento della lettura; introduzione di nuove materie come la contabilità e l’educazione fisica. 3. È stato sottolineato giustamente «il metodo dell’amore» anche nella → disciplina, il cui scopo «non è di frenare gli alunni con la forza e col timore dei → castighi, ma di preservarli dal male, di correggerli dei loro difetti, di formare la loro volontà». Di conseguenza, i maestri devono comportarsi da padri e non da padroni, animati da sentimenti di benevolenza, «pur attenuati da una qualche accentuazione dell’autorità e del rispetto, inevitabili in un clima post-rivoluzionario di diffidenza nei riguardi del troppo conclamato e smentito trinomio libertà-uguaglianzafraternità» (Braido, 1981, II, 285); v. anche → Congregazioni insegnanti. Bibl.: Furet J. B., Avis, leçons & instructions du vénérable père Ch., Lyon/Paris, Emmanuel Vitte, 1914; Braido P., Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, vol. II, Roma, LAS, 1981; Zind P., B.M.Ch., son oeuvre scolaire dans son contexte historique, Rome, Maison Généralice, 1991; Lanfray A., M. Ch. et les Frères maristes: instituteurs congreganistes au XIX siècle, Paris, Éditions Don Bosco, 1999; González Lucini F., Marcelino Ch., Madrid, Edelvives, 2004.
J. M. Prellezo
CHARCOT Jean Martin n. a Parigi nel 1825 - m. a Lago di Settons (Morvan) nel 1893, medico neurologo francese. 1. Dopo la laurea in medicina e un tirocinio in anatomia patologica, inizia il lavoro clinico e di ricerca alla Salpêtrière, l’ospizio parigino per donne anziane e indigenti che accoglieva in prevalenza persone affette da malattie croniche e dà un notevole contributo allo studio delle malattie polmonari e
CHIESA
renali. Lega inoltre il proprio nome all’individuazione e illustrazione di diverse sindromi neurologiche e approfondisce il problema delle localizzazioni cerebrali. Nel 1862 apre i laboratori di neurologia e anatomia patologica e assieme a un gruppo di allievi sostiene la necessità di unire al lavoro clinico la ricerca scientifica. Nel 1870, ormai considerato uno dei maggiori neuropatologi dell’epoca, assume la direzione di un reparto della Salpêtrière riservato a pazienti affetti da disturbi convulsivi e identifica e descrive «la grande isteria». 2. Dal 1878 estende il proprio interesse all’ipnotismo, utilizzando anche in questo campo lo stesso metodo, basato sull’analisi dei sintomi, adottato nello studio delle malattie organiche. Nel 1873 viene eletto membro dell’Accademia di Medicina. Nel 1883 è membro dell’Accademia di Scienze e continua a tenere alla Salpêtrière le famose «Leçons du mardi» a cui assisterà anche → Freud, rimanendone profondamente influenzato. Tra il 1884 e il 1885 lavora in particolare sull’isteria traumatica: ne dimostra il meccanismo causale e sostiene la stretta analogia tra le paralisi isteriche post-traumatiche e le paralisi indotte mediante ipnosi. Descrive inoltre l’isteria maschile e approfondisce lo studio delle caratteristiche psicologiche dei pazienti isterici. A partire dal 1892 propone la distinzione tra «amnesia funzionale», nella quale i ricordi possono esser fatti riaffiorare con il ricorso all’ipnosi, e l’amnesia organica, in cui tale richiamo non è possibile. Si interessa inoltre del fenomeno delle «guarigioni per fede», ritenendolo di notevole interesse clinico. Partendo dalla constatazione della prevalenza di soggetti ipnotizzabili tra i pazienti isterici e i pazienti caratterizzati da «temperamento nervoso» e dalla constatazione che negli isterici i fenomeni ipnotici si manifestano spontaneamente, C. giunge a legare strettamente ipnosi e isteria, e a fare dell’ipnotizzabilità un indice della disposizione all’isteria, e cioè della tendenza a mettere in atto un meccanismo di dissociazione mentale. Figura per molti versi contraddittoria, esponente rigoroso della teoria organicista – considerato uno dei maggiori esponenti della medicina francese di fine Ottocento e «padre della neurologia» – riesce a far accettare la realtà dei fenomeni ipnotici legando il
proprio nome alla ricerca sull’isteria e aprendo di fatto la via, in Francia, alla nascita della psicologia dinamica. Bibl.: tra le opere di C.: Leçons cliniques sur les maladies des villards et les maladies croniques (1868), Leçons sur les localisations dans les maladies du cerveau et de la moelle épinière (1880), Leçons du mardi (1884-1885), Les démoniaques dans l’art (1887); La donna dell’isteria: Inversione del senso genitale e altre perversioni sessuali, L’isteria femminile, Milano, Spirali/Vel, 1989, vol. II; Su C.: Dibattista L., J.M.C. e la lingua della neurologia, Roma, Cacucci, 2003; Violi A., Il teatro dei nervi. Fantasmi del moderno da Mesmer a C., Milano, Bruno Mondadori, 2004.
F. Ortu - N. Dazzi
CHIESA Il discorso è limitato alla C. Cattolica nei suoi rapporti con la realtà educativa privilegiando il punto di vista teoretico rispetto a quello storico (→ Cristianesimo). 1. C. e istituzioni educative e scolastiche. La C., vivendo nel mondo, ha dovuto continuamente affrontare e risolvere a livello teorico e pratico, nell’orizzonte significativo della Parola di Dio, quei problemi che nascono dall’inevitabile incarnarsi della sua esperienza di fede nelle culture. Sia il → Magistero della C. che i teologi si sono resi conto che i cristiani, dovendo vivere la loro fede integralmente non solo nell’ambito del cultuale e del religioso ma anche nei settori profani della vita, erano obbligati ad affrontare i problemi emergenti dall’impatto della fede con la → cultura, inventando soluzioni che da una parte fossero coerenti con le esigenze irrinunciabili della loro fede, dall’altra fossero adatte al contesto socioculturale nel quale la fede cristiana doveva incarnarsi. Questo è avvenuto in passato e avviene ancor oggi nel settore educativo e pedagogico. Sono sorti in questo modo, nell’orizzonte significativo della fede cristiana, vari tipi di prassi e di istituzioni educative come pure di teorie pedagogiche, segnate dalla cultura del tempo e del luogo che le ha espresse, diverse tra loro, tuttavia possedenti, ciascuna, una caratteristica che, mentre le accomuna, nello stesso 193
CHIESA
tempo le differenzia dagli altri tipi di educazione. Si tratta infatti di processi educativi, di istituzioni e di teorie pedagogiche messe in opera dalle comunità cristiane all’interno di progetti pastorali ultimamente finalizzati alla → conversione e alla crescita cristiana (→ educazione cristiana, → pedagogia cristiana, → teologia dell’educazione). I rapporti tra C. e istituzioni educative e scolastiche, lungo i secoli cristiani, non furono né monolitici né univoci. È significativo, ad es., il fatto che, nei primi quattro secoli non solo durante le persecuzioni ma anche dopo la pace costantiniana, la C. non abbia pensato a crearsi su larga scala istituzioni educativo-scolastiche proprie, neppure per il suo clero. Accettò di fatto, sia pure come una necessità e malvolentieri, la scuola ufficiale, legata alla religione pagana, cercando di ovviare al pericolo che essa costituiva per la fede, premunendone gli alunni e provvedendo alla loro educazione e formazione cristiana nell’ambito della famiglia e della comunità liturgica. Molto diverso invece è stato il comportamento della C. in campo educativo e scolastico durante il → Medioevo e nell’epoca moderna e contemporanea. Nell’epoca moderna troviamo qualche presa di posizione autorevole da parte del Magistero in difesa dell’educazione cristiana e della scuola confessionale. Ma solo nell’epoca contemporanea, a partire da Pio XI, la C. ha affrontato in modo organico ed autorevole il problema dell’educazione cristiana in due documenti, differenti per importanza e per l’impostazione e la soluzione di alcuni problemi, tuttavia non in contraddizione tra loro: l’Enciclica Divini Illius Magistri (1929-1930) di Pio XI e la Dichiarazione Gravissimum Educationis (1965) del Conc. Vatic. II. 2. Perché la C. deve interessarsi di educazione e di scuola. Dopo il Conc. Vat. II, l’ecclesiologia cattolica colloca nella natura «sacramentale» della C. rispetto al Regno di Dio il fondamento teologico ultimo della sua funzione umanizzatrice nei confronti delle realtà terrestri, tra cui l’educazione e la scuola. Essendo infatti l’impegno fondamentale della C. quello di servire il Regno di Dio (di cui essa è sacramento, cioè segno e strumento) per la salvezza integrale dell’umanità, le comunità cristiane devono sforzarsi di essere testimonianza (con la vita e con la loro 194
azione), annuncio (con la predicazione), attuazione misterica (con la liturgia) di questa stessa salvezza, offerta a tutta l’umanità da Dio nella pienezza dei tempi per mezzo di Gesù Cristo, manifestazione suprema e parola definitiva di Dio al mondo. Ora questa salvezza, annunciata e mediata dalla C. per la presenza in essa dei carismi dello Spirito Santo, è dono gratuito di Dio, ma è anche impegno che investe la totalità dell’esistenza umana. L’agape, donata alla C. dallo Spirito Santo, mentre da una parte orienta tutta la sua azione pastorale alla conversione e crescita in Cristo dell’umanità intera, dall’altra spinge le comunità cristiane a interessarsi in modo particolare delle nuove generazioni; non solo della loro crescita in Cristo, ma anche della loro educazione morale e formazione culturale, in una parola della loro crescita umana, tenendo presente che questa avviene, oggi, in un mondo ampiamente secolarizzato, ideologicamente e religiosamente pluralistico e conflittuale, ampiamente pervaso, attraverso i mass media, di visioni della vita non solo anticristiane ma pure gravemente disumanizzanti. Per questo ed entro questi limiti, essa è Mater et Magistra per l’umanità intera. La situazione che caratterizza il mondo contemporaneo impone sia alla C. universale che alle c. particolari opzioni nuove e coraggiose proprio in campo educativo e scolastico. Per il bene dell’umanità, le comunità cristiane devono preoccuparsi di formare cristiani umanamente e moralmente adulti e maturi. I singoli cristiani poi, ciascuno secondo le proprie competenze e secondo i doni ricevuti, in collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà, devono contribuire, sotto l’ispirazione della fede, a una maggiore umanizzazione ed efficienza delle strutture e istituzioni educative e scolastiche esistenti o, dove questa collaborazione non fosse possibile, devono tentare, a proprio rischio, di progettarne delle nuove, rendendole agenzie di autentica maturazione umana. 3. Modalità di attuazione. Sono principalmente tre le condizioni che permettono alla C. di occuparsi di educazione e di scuola, senza venir meno alla sua missione fondamentale di essere «segno sacramentale» del regno di Dio. La prima consiste nel riconoscimento della bontà e relativa autonomia delle realtà e finalità temporali nei riguardi
CHIESA
di quelle specificamente cristiane. Il Conc. Vat. II (GS nn. 33-39) lo ha affermato in modo esplicito e inequivocabile, presentando questa dottrina come conseguenza necessaria del dogma della creazione da parte di Dio di tutta la realtà con le sue finalità intrinseche. Perciò la promozione di processi educativi e di istituzioni scolastiche, finalizzati al conseguimento di cultura e di autentica maturazione umana, è un’attività «buona» in se stessa, a prescindere da ulteriori finalità specificamente cristiane, alle quali può essere ulteriormente ordinata. Queste ultime, però, non devono né fagocitare né strumentalizzare in modo indebito le finalità umane di ordine temporale, eticamente buone. Affermare la distinzione tra realtà e finalità di ordine temporale e realtà e finalità specificamente cristiane appartenenti all’ordine soprannaturale, non significa tuttavia, in alcun modo, arrivare ad una loro separazione o addirittura ad una loro contrapposizione. Al contrario, pensandole nell’orizzonte della Parola di Dio, si deve giungere ad affermare una loro implicanza reciproca nella prassi pastorale ed educativa delle comunità cristiane. La seconda si attua mediante l’accettazione, umile e sincera, del contributo della saggezza umana, presente nell’esperienza viva delle diverse culture, e dell’apporto delle scienze dell’educazione, assunti, l’uno e l’altro, con vigile senso critico nell’orizzonte della Parola di Dio, in funzione di soluzioni sempre più adeguate dei problemi pedagogici. Non è possibile infatti ricavare dalla Parola di Dio sull’educazione, contenuta nella → Bibbia, e dalle interpretazioni date ad essa dalla tradizione cristiana lungo i secoli, una pedagogia rivelata valida per tutti i tempi e le culture, ma solo orientamenti generali per poterla poi costruire in dialogo con le scienze dell’educazione. Perciò i credenti devono impegnarsi in questa ricerca della saggezza umana e nell’utilizzazione delle conquiste umane sia nel campo del sapere pedagogico che in quello delle istituzioni educative. La terza condizione è data dalla prospettiva misterica ed escatologica che deve guidare la C. nel suo impegno di umanizzazione del mondo. Il continuo esigere, nella Bibbia, la sottomissione del sapere e dell’agire umani alla Parola di Dio fa evidentemente supporre non solo la possibilità ma anche l’esistenza di tensioni e contrasti tra saggezza umana e
saggezza divina anche in campo educativo. Perciò la C., pur rispettando e promuovendo il lavoro della ragione in campo pedagogico, proprio per la sua adesione incondizionata alla Parola di Dio mediante la fede, dovrà essere sempre vigilante e critica verso ogni esercizio della ragione che avvenga in contrasto con il suo Credo. Inoltre pur riconoscendo la bontà e la validità di ogni sforzo educativo per un’umanità sempre più matura, pur collaborando sinceramente con tutti gli uomini di buona volontà all’attuazione di processi di liberazione e umanizzazione degli oppressi, le comunità cristiane dovranno impegnarsi in queste attività temporali, testimoniando, soprattutto con la vita prima ancora che con la parola, di essere animate dalla fede nell’esistenza di realtà e finalità trascendenti. Infine le comunità cristiane, anche quando reagiscono contro ogni forma di oppressione e di emarginazione o si impegnano a promuovere con sincerità e convinzione processi educativi di crescita e maturazione umano-cristiana all’interno delle differenti culture, devono farlo con motivazioni e in una prospettiva differente rispetto a quelle dei non credenti. Esse infatti, fondate sulla Parola di Dio, credono fermamente che la pienezza della perfezione dell’umanità e il compimento definitivo della → maturità umana a livello personale e comunitario non siano utopie illusorie e irraggiungibili. Sono certi che si realizzeranno a conclusione della storia, con la parusia del Cristo glorioso e la resurrezione, con l’instaurazione dei nuovi cieli e della nuova terra per ogni persona umana che si sforza di vivere secondo verità e ama di amore oblativo e operoso il prossimo. La messa in opera – all’interno di questi orizzonti di significato e sulla base di questi fondamenti – di istituzioni educative e di processi di formazione umano-cristiana, mentre da una parte non li sacralizza né clericalizza, dall’altra li umanizza e permette di qualificarli come «cristiani». Bibl.: Nipkow D. E., «Erziehung», in Theologische Realenzyklopädie 10 (1982) 232-253; Valentini D., «C.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 2558-2571; Groppo G. - G. A. Ubertalli, «L’educazione cristiana: natura e fine», in N. Galli (Ed.), L’educazione cristiana negli insegnamenti degli ultimi pontefici. Da Pio XI a Giovanni Paolo
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CICERONE MARCO TULLIO
II, Milano, Vita e Pensiero, 1992, 25-62; Casella F., Punti nodali della riflessione pedagogica dalla Divini Illius Magistri alla Gravissimum Educationis, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 293-304; Zani A.V., Il cammino della C. dalla Gravissimum Educationis a oggi, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 203-226.
e politica. Sottolineiamo in particolare l’apporto dato da C. nel campo filosofico, come realizzatore di un eclettismo che compone elementi prevalentemente stoici con elementi peripatetici e anche platonici, con una prevalenza data all’aspetto pratico su quello speculativo e quindi alla dimensione etica su quella contemplativa.
CIBERNETICA → Didattica → Informatica
3. C. e la pedagogia romana. Le competenze di C. sopra accennate, di filosofo, di letterato e di politico, determinano anche gli elementi costitutivi del suo apporto pedagogico per una sintesi umanistica unitaria. Esso si concretizza nell’ideale dell’oratore, che C. elabora soprattutto nelle sue opere De oratore, Orator, Brutus, Hortensius (perduto). Nella figura e quindi nella formazione dell’oratore richiede l’integrazione armonica di due aspetti: quello culturale e quello virtuoso, tanto da formare quasi una endiadi di humanitas et virtus. Il primato va però alla virtù e alla sapienza, in continuità con la virtus romana ereditata dal mos majorum. Ha così un senso preciso la definizione dell’oratore ricevuta da Catone il Censore: vir bonus dicendi peritus. E si spiega anche che nella sua formazione il primo posto vada alla filosofia (intesa nel senso eclettico sopraddetto). La sapienza avrà dunque la precedenza sulla tecnica; l’eloquenza sulla retorica. In questo C. combatte l’opinione che riserva ai filosofi i temi relativi alla morale, al diritto, alla pietà; che debbono invece essere, in modo diverso e più vivo, trattati anche dall’oratore. Su questa base C. richiede nell’oratore la massima ampiezza di cultura e ricchezza di erudizione: letteratura latina e greca, storia, diritto, vasta esperienza; oltre alle discipline della comune → paideia ellenistica. Tale ampiezza di preparazione culturale era necessaria nell’oratore anche per la vastità e pluralità dei temi di cui si doveva interessare. Cultura contro verbosità. Per questo suggerisce che la sua formazione comprenda anche una permanenza integrativa nelle città della Grecia. Alla visione dell’ideale dell’oratore si aggiunge in C. una buona sensibilità pedagogica: l’attenzione alla natura del giovane; il primo posto dato al talento, il secondo all’arte e all’esercizio; l’adeguamento anche delle mete da raggiungere, senza provocare scoraggiamento in alcuni o presunzione in altri.
G. Groppo
CICERONE Marco Tullio n. ad Arpino nel 106 a.C. - m. a Formia nel 43 a.C, filosofo e uomo politico romano. 1. L’uomo. C. occupa un posto significativo sia nella storia della filosofia, che nella storia della letteratura latina, come pure nella storia politica di Roma. Compie i suoi studi umanistici e giuridici a Roma e li completa in Grecia e nelle colonie greche dell’Asia Minore (Atene, Rodi) particolarmente nel campo filosofico. È fortemente impegnato nella vita politica, sia con la sua attività oratoria in processi di grande importanza, sia per aver ricoperto diverse cariche politiche. Eletto Console nel 63 salva lo Stato dalla congiura di Catilina. Muore per mano dei sicari di Antonio. In questa sede ci interessa particolarmente l’apporto che con il suo pensiero, con i suoi scritti e con la sua attività ha dato alla pedagogia romana: alla sua base culturale, alla sua metodologia e particolarmente alla definizione e alla formazione dell’ideale dell’oratore. 2. C. e la cultura romana. C. è tra i più efficaci creatori di quella sintesi culturale che, superando una stretta chiusura sulla tradizione del mos majorum, ma senza sacrificarla, la apre all’apporto della raffinata cultura greca, dando origine a quella nuova cultura latina che prese il nome di humanitas. Una sintesi che allo stesso tempo è guidata dalla mentalità romana e ad essa è ordinata: l’idealità greca è calata nella concretezza e saggezza pratica romana, di cui C. è tipico modello, portando alla reciproca integrazione in un nuovo equilibrio che definisce l’humanitas, cioè la cultura romana del periodo ellenistico. Una humanitas letteraria, etica 196
CICLO DIDATTICO
4. C. «tipo» dell’orator. L’esperienza politica, il profondo senso della romanità (del mos majorum e della virtus romana, dello Stato romano), la sincera ricerca filosofica, la formazione giuridica, l’ampia erudizione e l’eminente capacità oratoria qualificano la personalità di C. e da essa si proiettano nell’ideale che egli elabora dell’orator. In questo senso → Quintiliano ha potuto asserire che il nome di C. è il nome stesso dell’eloquenza (cfr. Inst. orat. 10,1). È anche questo un elemento importante in prospettiva pedagogica, poter offrire un modello concreto dell’ideale prospettato. 5. Influsso e risonanze. L’influsso esercitato da C. in campo culturale e pedagogico si può costatare a vari livelli. Uno immediato, come si è detto, nell’ambito della cultura ellenistico-romana; con una incidenza determinante sulla formazione dell’oratore, anche quando, con la crisi della Repubblica e l’avvento dell’Impero, il suo impatto sulla vita dello Stato sfumò. A lui sarà debitore anche Quintiliano nella sua Institutio oratoria. Nel ritorno alla classicità degli umanisti rinascimentali (→ Umanesimo rinascimentale) C. non solo è uno dei punti di riferimento più significativi, ma la sua imitazione porta anche a quel fenomeno di decadenza formalistica che si chiamò ciceronianismo. C. resta uno dei maestri validi nella storia della pedagogia. Bibl.: a) Fonti: C, Opere politiche e filosofiche, a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Torino, UTET, 1953; Dell’Oratore, a cura di A. Pacitti, Bologna, Zanichelli, 1974-77, 3 voll.; b) Studi: Narducci E., Introduzione a C., Roma/Bari, Laterza, 1992; Galino M. A., Historia de la educación. I. Edades antigua y media, Madrid, Gredos, 1960; Bonner S. F., L’educazione nell’antica Roma: da Catone il Censore a Plinio il Giovane, Roma, Armando, 1986; Montanari F. (Ed.), Rimuovere i classici? Cultura classica e società contemporanea, Milano, Einaudi, 2003.
M. Simoncelli
CICLO DIDATTICO Dal lat. Cyclus (cerchio), rappresenta l’idea della serie, chiusa in se stessa, che si ripro duce periodicamente; per estensione, nel lin-
guaggio pedagogico-scolastico, corrisponde all’unità comprensiva – una fase della progressione curricolare, in se stessa compiuta – che si ripete modularmente per costituire l’intero del → piano di studi; di fatto, il c si definisce organizzativamente come «multiplo» della classe, che resta l’unità operativa minima. 1. Storicamente, si può considerare l’analogo della «classe», alla quale si oppone come alternativa mirata a correggerne la rigida scansione annuale, che impone i ritmi dell’artificio cronologico-formale alla varietà dei gradienti di sviluppo individuali. 2. Rispetto alla «classe», c. è una nozione che si distingue per alcuni attributi definienti: a) il riferimento ad uno «stadio» evolutivo della personalità dell’alunno in relazione ai compiti di → apprendimento. Per questo aspetto, il c. si qualifica per la relazione peculiare tra il piano di studi e l’età psicologica del soggetto in formazione, e quindi per la funzione che assolve (come nel francese cycle d’orientation); b) per l’idea di discontinuità che sottolinea, rispetto agli altri c., a ragione della compiutezza interna che esprime; c) viceversa, per l’idea di continuità, connessa alla successione di cui rappresenta una parte; d) per la caratterizzazione del ti po di insegnamento che richiede in relazione allo sviluppo dell’alunno. 3. Introdotto come risposta istituzionale al le istanze dell’attivismo (→ Scuole Nuove), l’evoluzione dei modelli didattici verso la centratura sulle discipline di studio, sulle metodologie d’indagine e sugli obiettivi da perseguire ha ottenuto di far perdere rilievo ad un termine che si era affermato insieme alle denunce dei ritardi e degli insuccessi scolastici. 4. Il c. è tornato in auge negli ultimi dieci anni in riferimento a due contingenze : a) la riforma della durata ed articolazione interna dell’intero curricolo scolastico – v. riordino dei c. – in particolare per le divergenti politiche in materia di → obbligo scolastico e, più in generale, di «missione» della scuola; b) le strategie di razionalizzazione della rete scolastica, che ha visto la diffusione degli → «istituti comprensivi» e conseguentemente 197
CICLO DI VITA
la pratica di «curricoli in verticale» fra diversi gradi scolastici. Bibl.: Calidoni M. - P. Calidoni P., Continuità educativa e scuola di base, Brescia, La Scuola, 2000; Cerini G. - M. Spinosi, La scuola in verticale, Napoli, Tecnodid, 2000; Damiano E. (Ed.), Idee di scuola a confronto, Roma, Armando, 2002.
E. Damiano
CICLO DI VITA L’idea di c.d.v. implica una sequenza di eventi che scandiscono l’inizio, lo sviluppo e la conclusione di un processo con caratteristiche di unitarietà interna. 1. La vita dell’uomo nel suo sviluppo dalla nascita alla morte, ha indotto spesso uno studio segmentato per fasi. Del c.d.v. si sono occupati la biomedicina (genetica, auxologia, gerontologia), la → psicologia sociale ed evolutiva (fasi e compiti di sviluppo con le relative soglie critiche), la → demografia, che descrive il c. riproduttivo e i modi in cui si succedono le generazioni dei figli a quelle dei padri, la sociologia della famiglia, che utilizza l’approccio evolutivo o del «c.d.v. familiare» suddiviso in vari stadi, cui competono corrispondenti «compiti di sviluppo familiari». 2. L’uso della categoria del c.d.v. ha diversi pregi connessi sia con la maggior aderenza alla realtà che con la modernità metodologica. Infatti l’attenzione longitudinale ai comportamenti meglio coglie gli eventi consecutivi che definiscono il percorso vitale dei soggetti. Inoltre l’attenzione alla sequenza temporale e delle decisioni fa studiare ogni passo successivo come condizionato dai precedenti. Infine per quanto riguarda la → famiglia, l’approccio del c.d.v. familiare («Developmental Approach») permette di analizzarla come sistema vivente che nasce, si sviluppa e muore avendo in sé una minima relazionalità sociale. Questa verrebbe a cadere quando invece se ne studiano soltanto le variabili singole, come nella prospettiva del concetto di «corso della vita», che per alcuni Autori (Saraceno, 1986) dovrebbe sostituire 198
il c.d.v. Tale approccio allora enfatizzerebbe soprattutto la dimensione individualistica dello sviluppo e della coppia. Nelle società attuali il c.d.v. è molto più complesso che nel passato per una serie di variabili intervenienti di tipo economico, culturale, strutturale e psicologico che alterano e compromettono la regolarità delle sequenze degli eventi attesi o rendono più imprevedibili gli avvenimenti improvvisi. Bibl.: Mcgoldrick M. - E. A. Carter, «Il c.d.v. della famiglia», in F. Walsh (Ed.), Stili di funzionamento familiare, Milano, Angeli, 1986, 259-296; Saraceno C. (Ed.), Età e corso della vita, Bologna, Il Mulino, 1986; Scabini E. - P. P. Donati (Edd.), Tempo e transizioni familiari, Milano, Vita e Pensiero, 1994; Id., Nuovo lessico familiare, Ibid., 1995; Istat, Indagini multiscopo sulle famiglie (2000-2007), Roma, 2000-2007; Romano M. C. - T. Cappadozzi, «Generazioni estreme: nonni e nipoti», in G. B. Sgritta (Ed.), Il gioco delle generazioni. Famiglie e scambi sociali nelle reti primarie, Milano, Angeli, 2002; Bertocchi F., Sociologia delle generazioni, Padova, CEDAM, 2004; Romano R. G. (Ed.) C.d.v. e dinamiche educative nella società postmoderna, Milano, Angeli, 2005; Donati P. P., Manuale di sociologia della famiglia, Roma/Bari, Laterza, 2006.
R. Mion
CICLO DI VITA DELLA FAMIGLIA → Ciclo di vita → Famiglia CINEMA → Mass media
CITTADINANZA Con il termine c. si indicano tanto la rela zione tra un individuo e uno Stato quanto i diritti e i doveri che tale relazione comporta per l’individuo. 1. La c. moderna è il risultato di un duplice evento storico: l’affermarsi dell’idea di na zione (con la conseguente trasformazione dell’entità politica a cui gli uomini dovevano fedeltà: dalla città, dal clan, dall’aristocrazia alla nazione come entità geografica, culturale e politica) e la distruzione del sistema dei tre «stati» tipica dell’Ancien régime decretata dalla Rivoluzione francese con la conse-
CITTADINANZA
guente affermazione del principio dell’uguaglianza giuridica di ciascun cittadino. Negli ultimi due secoli questa dimensione della c. si è, d’un lato, arricchita sul versante sociale (con la sempre più avvertita consapevolezza che senza uguaglianza sociale la stessa uguaglianza giurid ica finisce per essere meramente formale) e, dall’altro, ha palesato evidenti limiti a fronte della realtà delle grandi comunità governate in modo rappresentativo.
reciproco rispetto delle diversità. Questa posizione – che sta notevolmente influenzando i programmi scolastici di numerosi Paesi europei sulla scorta anche delle suggestioni di importanti documenti internazionali (tra tutti il cosiddetto Rapporto Delors, Learning: the Treasure within, 1996) – si sta tuttavia scontrando con le tesi di quelle culture extra europee che rimproverano alla teoria dei «valori comuni» la sua matrice intrinsecamente illuministica ed eurocentrica.
2. Nella cultura politica contemporanea è possibile individuare – ragionando in ter mini molto schematici – alcune principali posizioni. La prima poggia sul presupposto che non sia più possibile nelle società post moderne alcun tipo di c. «forte» e cioè pog giata su quel nucleo di valori etico-politici (come ad es. la nazione o i valori borghesi) su cui si è svolta per due secoli la cultura politica occidentale. Nel richiamare prefe renzialmente la civiltà del cosmopolitismo ellenistico, anziché quella della polis greca, i sostenitori della c. «debole» rilanciano l’insegnamento di stoici ed epicurei che reputarono superato il modello politico-paidetico della polis e sostennero il valore dell’individuo indipendentemente dall’associazione politica di cui faceva parte. Inolt re essi condividono una concezione di Stato smagrito di qualsiasi contenuto ideale (e, dunque, molto diverso per es. dallo Stato-nazione otto-novecentesco) il cui compito principale dovrebbe essere quello di mediare i conflitti e garantire la molteplicità delle esperienze personali e le pari opportunità per ciascuno, sottraendo la c. a logiche normative, riconducendola ad una rete di rapporti egualitari basati sul reciproco riconoscimento (Habermas, Luhmann). Non mancano anche coloro che, pur riconoscendosi in questo contesto, reputano tuttavia necessarie alcune regole etico-politiche positive generali in grado di promuovere e conservare i valori della de mocrazia, giudicata il modello politico più perfetto (Bobbio). Negli ultimi anni, segnati dall’intensificarsi dei processi migratori e dal conseguente misurarsi e confrontarsi di culture, religioni, tradizioni diverse, si sono moltiplicati i tentativi per individuare un nucleo di «valori condivisi» o «valori comuni» (Maffettone, Veca, Viano) intorno ai quali elaborare una nozione di c. improntata al
3. Su posizioni del tutto diverse si muovono le tesi comunitariste (MacIntyre, Arendt, Sanders, Taylor) che ripropongono, invece, la validità dell’idea classica di e, prospettando l’esperienza comunitaria della polis greca come esemplare e la Politica di → Aristotele come un testo ancora in grado di parlare all’uomo contemporaneo. La c. è così vista in funzione dell’appartenenza alla comunità e nella prospettiva del bene comune ed è così in- tesa sia come categoria politica e sia come impresa educativa. I comunitaristi ipotizzano infatti uno stretto intreccio tra libertà, solidarietà e responsabilità individuali e comunitarie e le prassi, i riti, i processi so cializzanti ed inculturanti attraverso cui essa si costituisce. Anche tra i comunitaristi esistono quanti avvertono tuttavia che l’ipotesi di c. ricca di ideali rappresenta cert amente un fondamentale modello teorico, che risulta però di ardua praticabilità nella società complessa nella quale è difficile identificare un nucleo di valori comuni intorno a cui costruire un ethos comunitario. Per questi autori la c. comunitaria dovrebbe costituirsi in forme «societarie» (e non stataliste), facendo riferimento ai diritti dei singoli e dei gruppi sociali così come si realizzano nelle formazioni sociali autonome, quale che sia la loro sfera d’azione (economica, culturale, politica o sociale), intese come insieme o «rete» sociale capace di stabilire ed assicurare nuove e più significative relazioni all’interno della società (Donati). 4. Non è difficile constatare come i due principali modelli di c. oggi vivi nel confronto nella cultura contemporanea (universalistico-individualistico e comunitario) implicano approcci educativi molto diversi. Nell’ipotesi della c. universalistica dominano atteggiamenti formativi ispirati alla tolleranza, al 199
CIVILTÀ
senso di reciprocità delle esperienze, al pieno esplicarsi in senso per lo più individualistico delle attese e aspett ative personali, al rispetto della diversità, considerata più come fatto individuale che come valore culturale e collettivo. Nel caso della c. comunitaria prevale, invece, la convinzione che tra la dimensione personale e quella storico-sociale della persona umana non c’è contraddizione e che anzi l’una integra l’altra (la libertà senza solidarietà sconfina nell’egoismo particolaristico). Le categorie pedagogiche prevalenti risultano perciò quelle dell’educazione alla responsabilità (intesa nel duplice senso di responsabilità personale e responsabilità comunitaria), al superamento di sé, alla partecipazione sociale, alla valorizzazione della «memoria» collettiva nella quale s’invera ciascuna esperienza personale. 5. Notevoli suggestioni in prospettiva educativa e pedagogica giungono anche dalle tesi di alcuni autori di ispirazione repubblicana (Gutman, Pettit, Skinner, Viroli) e non (Naval, Höffe) che hanno di recente rilanciato il motivo della «virtù civica» intesa come forma di appartenenza solidale alla società in cui si vive (il cosiddetto «cittadino attivo» o, nel linguaggio americano, il «cittadino patriota»). Lo scopo è quello di sfuggire al rischio intellettualistico connesso alla determinazione del valore condiviso. La virtù civica oltrepassa infatti il principio del valore condiviso, per coinvolgere in presa diretta il cittadino nell’esperienza della socialità civica. Le virtù civiche non pretendono che questi diventi una persona del tutto nuova, ma che più semplicemente sia capace di sacrificare il proprio interesse per il bene comune. Questo approccio di natura politologica manifesta punti di affinità – talvolta anche esplicitamente intrecciandosi – con le iniziative avviate negli Stati Uniti dal Movimento per l’educazione del carattere (tra i suoi maggiori esponenti va segnalato Thomas Lickona). L’obiettivo è quello di creare la «comunità morale» nel senso proposto da Kohlberg attraverso l’esercizio della volontà degli allievi, ponendoli di fronte a impegni severi e stimolandoli a raggiungere risultati eccellenti. Lo scopo è quello di aiutare gli allievi a conoscere l’altro come persona, a stimare i membri della comunità ed a sperimentare sensi di responsabilità verso il grup200
po di appartenenza. La scuola della c. attiva non sarebbe perciò tanto o soltanto quella che si riconosce laicamente in alcuni valori condivisi, ma quella che lavora per sfuggire al rischio che la libertà personale si giochi insindacabilmente secondo il principio dell’autonomia il quale più cresce quanto più il soggetto si ritiene svincolato da un orizzonte che lo oltrepassa. Bibl.: M arshall T. H., C. e classe sociale, Torino, UTET, 1976; M acIntyre A., Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Milano, Feltrinelli, 1988; Da m iano E. et al., L’educazione del cittadino, Brescia, La Scuola, 1990; Lickona T., Education for character: how our schools can teach respect and responsibility, New York, Bantam Books, 1991; Bendix J., «C.», in Dizionario delle scienze sociali, vol. I, Torino, UTET, 1991, 772-777; H abermas J., Morale, diritto, politica, Torino, Einaudi, 1992; Zincone G., Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e le vie della società civile, Bolog na, Il Mulino, 1992; Donati P. P., La c. societaria, Bari, Laterza, 1993; Kymlicka W., La c. multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1999; Putman R. D., Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna, Il Mulino, 2004; Toso M., Democrazia e libertà: laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, Roma, LAS, 2006.
G. Chiosso
CIVILTÀ Dall’antichità fino ai tempi più recenti la c. è stata generalmente considerata in un rap porto d’identità con la → cultura – intesa in senso prevalentemente classico-umanistico – in quanto designa la forma più alta della vita di un popolo. 1. Tale nozione si fonda sulla preferenza ac cordata a certi valori; privilegia certe parti colari forme di attività o di esperienza uma na, ritenute particolarmente indicative del grado di formazione umana e spirituale rag giunta da un popolo; e contemporaneamente esalta quei gruppi umani presso i quali tali forme di esperienza e di attività appaiono particolarmente sviluppate (Abb agnano, 1980,130-131). Ad es., per i Latini, e per vari secoli, civilitas era la società dei cittadini: il
CLAPARÈDE JEAN ALFRED ÉDOUARD
civis, l’uomo della città, raffinato ed evoluto, è contrapposto al ruralis, ossia all’uomo esterno al mondo urbano, e per ciò stesso forestiero ed anche rozzo e villano. Tale concezione di c. ha sempre conservato una notevole connotazione aristocratico/elitaria, sia perché in genere solo una minoranza privilegiata riusciva ad accedere pienamente a tale ricchezza culturale, sia perché l’«uomo civile» tendeva a distaccarsi con disprezzo dal resto dell’umanità. Troviamo la qualifica di volgo, all’interno, di barbari, all’esterno, per designare gli esclusi o gli emarginati, nell’epoca greco-latina, medioevale, umanistico/rinascimentale, illuministica. Celebri, a questo rig uardo, le affermazioni di Orazio: Odi profanum vulgus et arceo (Odi, 3,1) e del poeta cristiano Prudenzio: Tantum distant Romana et barbara quantum quadrupes abiuncta est bipedi vel muta loquenti (Contra Symmacum, 2, 817-8). 2. Con l’affermazione della moderna bor ghesia, quale classe fortemente differenziata, fiorita con il Rinascimento ed esplo sa con l’Illuminismo e il Positivismo, la c. – cioè l’autoapprezzamento che si esprime va nell’attribuzione della civilitas al proprio modo di vita e ai propri ideali, ossia alla propria cultura – «divenne piuttosto il metro sul quale la classe borghese misurava sia gli altri strati sociali, sia anche i popoli stranieri al di là dei propri confini» (Thurn, 1979, 34-35). Sorge così un imper ialismo civilizzatore animato da tenace zelo missionario per insegnare ai popoli «non civilizzati» a recepire la cultura europea. Tale mentalità, fondata su una determinata gerarchia di valori e privilegiante l’Occidente cristiano, pur stemperandosi negli estremismi classisti e regionalisti, supporta il classico concetto di c. «come simbolo del traguardo più elevato che viene raggiunto dalle attività culturali degli uomini, di modo che lo si riserva ai livelli più prog rediti, nutriti e affascinanti del progresso culturale, mentre lo si nega ai livelli più arretrati, che vengono anche definiti appunto incivili. In questo significato emerge l’aspetto deontologico della cultura superiore, come fonte di orientamenti morali qualificanti e come garanzia di status sociale rispettabile» (Mamo - Minardi, 1987, 638). Una traccia di questa mentalità permane ancora nei nostri giorni: «Alcuni autori ri
servano il termine c. a manifestazioni su periori e particolarmente importanti della cultura: in tale accezione, il grattacielo è “c.”, la capanna, “cultura”; la bomba atomica è “c.”, la freccia e il boomerang sono “cultura”» (Costanzo, 1988, 506-507). 3. Da quando poi si cominciò a usare il ter mine c. al plurale – come, per es., fa Toynbee (1889-1975), che lo contrappone a quello di «società primitive» per indicare le società con mondi culturali relativamente autonomi – il termine c. è impiegato semplicemente come cultura (in senso ant ropologico moderno). Del resto già il classico dell’antropologia culturale, Primitive culture (1871) di Taylor, nella nota definizione, parlava di «cultura o c.». In definitiva, quantunque il concetto di c. presso etnologi e antropologi continui tal volta a sottolineare uno stadio o grado (re lativamente) più avanzato di sviluppo di una società, la dicotomia tra c. e cultura sembra non avere reali fondamenti, ragion per cui oggi i due termini vengono considerati comunemente come sinonimi. Oggi, in un contesto di → globalizzazione si parla di incontro tra culture e dialogo interculturale, ma anche di «scontro tra c.». Bibl.: Thurn H. P., Sociologia della cultura, Bre scia, La Scuola, 1979; A bbagnano N., «C.», in Id., Dizionario di filosofìa, Torino, UTET, 1980, 131-133: M amo D. - E. Minardi, «Cultura», in E. Dema rchi - A. Ellena - B. Cattarinussi (Edd.), Nuovo dizionario di sociologia, Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1987, 635-642; Costanzo L., «La cultura», in M. Toscano (Ed.), Introduzione alla sociologia, Milano, Angeli, 1988, 489-525; Torrealta M. (Ed.), Incontro e scontro di civiltà, Roma, EdUP, 2006.
M. Montani
CLAPARÈDE Jean Alfred Édouard n. a Ginevra nel 1873 - m. ivi nel 1940, psicologo svizzero. 1. Fondatore e direttore della rivista «Archives de Psychologie» (1901); direttore del laboratorio di psicologia sperimentale di Ginevra (1904); fondatore dell’Institut J. J. Rousseau (1912); segretario permanente dei 201
CLARET ANTONIO MARÍA
congressi internazionali di psicologia (1926) e organizzatore delle conferenze internazionali di psicotecnica (1920). C. ebbe una formazione poliedrica; anche se si maturò nell’ambito del materialismo psicofisico, fu aperto al kantismo, al pragmatismo, e attento alla tradizione protestante espressa nel movimento del cristianesimo sociale. 2. Partendo da una concezione biologica della psicologia, C. sviluppò ricerche nei molteplici settori della psicologia indagando quelle componenti biologiche che trovano nel bisogno, nell’interesse, nell’istinto il punto di partenza dal quale nascono e si differenziano sia le scienze dell’uomo che l’evoluzione stessa dell’individuo. Attraverso la legge dell’interesse momentaneo si comprenderebbe il meccanismo della condotta umana e, attraverso la legge della presa di coscienza, il senso e la direzione della differenziazione e dello sviluppo umano. C. ebbe il merito di studiare i fenomeni psicologici sperimentalmente, senza isolarsi, però, dal processo concreto, cercando sempre una stretta relazione tra il fatto da spiegare e la condotta, ossia, la funzione del fatto psichico. Il concepire l’uomo nella sua interezza, porta C., fra l’altro, a studiare il ruolo dell’ → intelligenza (Genèse de l’hypothèse), il legame fra struttura biologica e attitudini mentali (Comment diagnostiquer les aptitudes chez les écoliers), a privilegiare la sperimentazione psicologica, senza però rinchiudersi in essa. 3. Sostenitore della → pedologia, ritenne che qualsiasi → intervento educativo si dovesse fondare sugli interessi reali del fanciullo, al fine di porre tutto in funzione dei suoi bisogni e quindi del suo naturale processo di sviluppo (Éducation fonctionnelle), per rendere la scuola adatta e proporzionata ai suoi poteri (École sur mesure). C. si inserisce, così, nel movimento delle → Scuole Nuove. Nella sua concezione psicopedagogica C. ritiene che lo scopo della scienza sia quello d’indagare i metodi scientifici più adatti ad educare il singolo alla probità, alla democrazia, alla solidarietà, alla comprensione internazionale, allo spirito critico (Morale et politique). Pur essendo forte in lui una tendenza antropologica fondata sulla biologia e sul funzionalismo, prevale una tensione alta per valoriz202
zare l’uomo proprio attraverso la moralità, il civismo, la ricerca della pace. Bibl.: Trombetta C., E.C.: La famiglia, gli studi, la bibliografia, Roma, Bulzoni, 1976; Bucci S., Inediti pedagogici di E.C., Perugia, Università degli Studi, 1984: Trombetta C., E.C. psicologo, Roma, Armando, 1989; H ameline D., E.C., in «Perspectives» 23 (1993) 161-173.
C. Trombetta
CLARET Antonio María n. a Sallent (Barcellona) nel 1807 - m. a Fontfroide (Francia) nel 1870, educatore spagnolo, catechista, fondatore dei Claretiani, santo. 1. Lavora come operaio e tecnico tessile prima di entrare in seminario (1829). Ordinato sacerdote (1835), alterna il lavoro parrocchiale con l’impegno nelle missioni popolari e nella diffusione della buona stampa; scrive opuscoli e libri, collabora alla fondazione dell’editrice Librería Religiosa di Barcellona. Nel 1849 fonda i Claretiani («Misioneros Hijos del Corazón de María»). Nominato arcivescovo di Santiago di Cuba, C. realizza importanti opere apostoliche e sociali, promuovendo la creazione di scuole gratuite. Offre il suo aiuto a Antonia París, fondatrice di un istituto per l’educazione delle ragazze: «Instituto de María Inmaculada de la Enseñanza». Nel 1857 rientra in patria come confessore di Isabella II e precettore dei figli. 2. Nel periodo di permanenza a Madrid, esplica un’intensa attività educativa e culturale: organizza un seminario e un liceo a El Escorial, crea la Academia de San Miguel, per artisti e intellettuali cattolici, diffonde le biblioteche parrocchiali. Dopo la rivoluzione del 1868 viene esiliato e muore in Francia. L’interesse pedagogico di C. comprende un ampio ventaglio: catechesi, educazione popolare, orientamento vocazionale, formazione dei seminaristi e delle ragazze, educazione familiare. Nella produzione (più di 94 titoli) emergono: El colegial o seminarista, teórica y prácticamente instruido (1860), La colegiala instruida (1864), La vocación de los niños. Cómo se han de educar e instruir
CLASSE SCOLASTICA
(1864). I Claretiani occupano un posto significativo nell’ambito della scuola (→ Congregazioni insegnanti maschili). Bibl.: a) Fonti: A.M.C., Escritos autobiográficos, Madrid, BAC, 1985. b) Studi: Pérez Iturriaga T., «San A.M.C.», in A. Galino (Ed.), Textos pedagógicos hispanoamericanos, Madrid, Narcea, 1974, 989-1008; A laiz A., Vida de san A.M.C., Madrid, San Pablo, 1995; Vilarrubias A., Sant A.M.C. sempre en missió, Barcelona, Centre de Pastoral Litúrgica, 2004.
J. M. Prellezo
CLASSE SCOLASTICA Rappresenta l’unità compositiva della «scuola burocratica», raggruppando un numero più o meno ampio di alunni della stessa età scolastica, tenuti a seguire lo stesso segmento del curricolo formativo, nelle medesime condizioni di tempo e di spazio, sotto la guida dello stesso inseg nante (o gruppo di insegnanti). 1. Dobbiamo a Michel Foucault la ricostruzione storica delle istituzioni della modernità, fra le quali la scuola «a classi», lo spazio seriale come una delle grandi mutazioni tecniche dell’insegnamento e della «disciplinazione» degli alunni mediante l’inquadramento spazio-temporale. Questo spiega perché la c. è sempre stata considerata (e discussa) in riferimento al potere dell’insegnante ed alla conduzione disciplinare della scolaresca. L’organizzazione per c. fa la sua comparsa con l’avvento dei primi Collegi rinascimentali e successivamente nelle scuole popolari (→ Comenio, a Patak); da quel momento in poi si estende fino a diventare la struttura organizzativa modulare minima del sistema scolastico. Nel lessico scolastico sta a designare: a) gli alunni all’insieme dei quali s’impartisce l’insegnamento; b) lo spazio fisico – più esattamente aula – dove ha luogo un insegnamento polivalente (per distinguerlo, per es., dai laboratori o dalla palestra, spazi didattici specializzati). 2. Il dibattito sui ritardi e sull’ → insuccesso scolastico ha sollevato in passato appassio nate denunce all’idea di c., soprattutto al
l’inizio di questo secolo e nel contesto dei movimenti delle → Scuole Nuove. La di scussione ha generato proposte differenziate di raggruppamenti alternativi al principio dell’età formale – le cosiddette non-graded schools e le tecniche di streaming e di screening – che si possono ricondurre ai seguenti criteri: a) relativi all’interesse per un argomento; b) alla complementarità per l’esecuzione di un progetto; c) alla elettività delle preferenze fra gli alunni; d) al gradiente di sviluppo cognitivo effettivamente controllato; e) al rendimento scolastico; f) alla distribuzione dei compiti nel quadro di attività programmate in comune fra c. diverse (o per l’intera scuola). 3. Tuttavia, la pratica della c. ha resistito alle critiche, risultando un raggruppamento conveniente per organizzare il lavoro formativo, soprattutto se si alternano momenti frontali con fasi di lavoro di piccolo gruppo, a coppie ed individualizzato e se si offrono occasioni con interscambi e ricomposizione di gruppi con altre c. («c. aperte»). La c., non da oggi, è tutt’altro che un’opzione assoluta, si possono dare raggruppamenti intra-c., come inter-c. fino ad organizzazioni per cicli pluriennali. Oggi l’ICT (Internet Communication Technology) consente l’attivazione di c. «virtuali» per l’apprendimento a distanza (→ e-learning). 4. Sulla scorta del movimento femminista e della «didattica di genere», si è tornato a discutere il criterio consolidato della coeducazione e delle c. miste, riproponendo la differenziazione tra c. maschili e femminili (Salomone). Bibl.: Foucault M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1975; Storia della sessualità, Milano, Feltrinelli, 1978; Goodlad J. I. - R. H. A nderson, The non-graded-school. Scuola senza c., Torino, Loescher, 1972; Shaplin J. T. - H. F. Olds, Team teaching. Una nuova organizzazione del processo educativo, Ibid., 1973; M eirieu P., Lavoro di gruppo e apprendimenti individuali, Firenze, La Nuova Italia, 1987; Freinet C., Oeuvres pédagogiques, Paris, Seuil, 1994; Perrenoud Ph., Les cycles d’apprentissage, de nouveaux espaces-tempe de formation, in «Educateur» 14 (1998) 23-29; De la gestion de classe à l’organisation du travail dans un cycle d’appren-
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CLASSE SOCIALE
tissage, in T. Nault - J. Fijalkow, La gestion de classe, in «Revue des Sciences de l’Education» 3 (1999) 533-570; Salomone R., Same, different, equal: rethinking single-sex schooling, Yale, Yale Univ. Press, 2003.
E. Damiano
CLASSE SOCIALE È uno tra i più cruciali e più controversi concetti della sociologia. In genere c.s. è l’insieme degli individui o delle famiglie che godono della stessa quantità di reddito, prestigio e potere; più specificamente è la posizione occupata dai diversi gruppi nel sistema della stratificazione sociale. 1. Tratti caratteristici. Secondo una descrizione che, al di là di qualunque interpretazione, indichi i tratti caratteristici e costanti della c.s. possiamo rilevare: a) diversamente dalla casta e dai ceti, le c.s. non dipendono da ordinamenti legali e religiosi. I confini tra le c.s. non sono mai netti, così che non esistono restrizioni formali particolari, né tanto meno al matrimonio tra i membri appartenenti a c.s. diverse; b) la c.s. di un individuo non è semplicemente ascritta, ma in buona parte anche acquisita; c) le c.s. si fondano sulle differenze e/o disuguaglianze di potere, di prestigio e di ricchezza, come per es. nel trattamento salariale, nelle condizioni di lavoro, nella proprietà e nel controllo delle risorse materiali. 2. Due accezioni di c.s. Nella letteratura corrente sono emerse due accezioni di c.s.: una definita realista od organica, predominante nel pensiero politico e nella sociologia europea, ed una definita nominalistica od ordinale, predominante nella sociologia americana. In una definizione realista od organica c.s. è quel complesso assai vasto di individui, che si trovano in una posizione simile nella struttura sociale storicamente determinata da rapporti politici ed economici. È un soggetto collettivo, capace anche di azione unitaria, dove l’interdipendenza tra le c.s. (in senso cooperativistico o conflittuale) è alta. L’insieme delle c.s. costituisce una «struttura di c.». La c.s. è il fondamento della disuguaglianza sociale (e non viceversa) in fatto di 204
potere, di ricchezza e di prestigio che si osserva tra le persone, pur in presenza di una riconosciuta uguaglianza giuridica. In una definizione nominalistica, la c.s. è costituita da uno strato di persone sociali che hanno in comune determinate caratteristiche di → status: non solo ricchezza, prestigio e potere, ma anche → stili di vita, educazione e → cultura. L’appartenenza ad una c.s. condiziona infatti in modo oggettivo, cioè indipendentemente dalla coscienza o dalla volontà del soggetto, alcuni fondamentali aspetti della vita, come la professione, il livello del reddito, le possibilità educative, la speranza di vita,lo stile di vita, il prestigio di cui si gode, la possibilità di intervenire nelle decisioni politiche locali e nazionali. 3. Nella storia del pensiero sociologico. L’attuale teoria delle c.s. deriva quasi interamente dagli scritti di Marx , di → Weber, della Scuola di Mosca e di Pareto. Ciò non significa che molti altri autori non abbiano fornito intuizioni valide sulla struttura di c. e sulle forme di disuguaglianza. Marx fonda la definizione di c. sulla opposizione e sfruttamento che i proprietari del capitale e dei mezzi di produzione (i capitalisti) esercitano su coloro che vendono la loro forza-lavoro (il proletariato). Secondo Marx il sistema capitalistico è la fonte delle disuguaglianze sociali e di un differente accesso alle risorse. Contributi più recenti a tale teoria sono stati apportati da Lukacs, da Gramsci e ultimamente da Althusser. Essi hanno corretto l’idea della coercizione e del controllo sul proletariato, esercitato materialmente dallo Stato capitalistico, con la categoria della manipolazione ideologica, dell’indottrinamento e della propaganda. Secondo Althusser, infatti, nella società capitalistica è presente un complesso di istituzioni («gli apparati ideologici di Stato») che riescono a indottrinare e manipolare il proletariato. Weber invece inserisce tra i criteri per la formazione della c.s. anche quelli non economici, come il livello di educazione, la qualificazione professionale, l’occupazione, il reddito, il prestigio, l’etnia di appartenenza, l’affiliazione religiosa, l’autorità, il potere, la capacità di gestire i processi politici e decisionali. Per questo gli si attribuisce l’intuizione di «modello multidimensionale» della stratificazione sociale. Mentre la c.s. è data oggettivamente dai fattori eco-
CLASSIFICAZIONE
nomici, lo status dipende dalle valutazioni soggettive delle differenze sociali espresse dagli individui ed è associato ai diversi stili di vita dei gruppi. La maggior parte dei sociologi ritiene che lo schema weberiano offra una base più flessibile e sofisticata per l’analisi delle c.s. 4. Le c.s. in Italia. L’analisi più documentata e convincente è stata compiuta dall’economista Paolo Sylos Labini, il cui criterio per la stratificazione è stato non tanto il livello di reddito, quanto il modo in cui lo si ottiene. Sulla base di tale categoria l’A. ha distinto sei grandi di c.s.: la borghesia, le c. medie costituite dalla piccola borghesia impiegatizia, dalla piccola borghesia relativamente autonoma e dalla piccola borghesia di alcune categorie particolari, quindi la c. operaia e il sottoproletariato. Rimangono però sempre aperti gli interrogativi circa l’origine delle c.s., le coordinate del potere, i rapporti tra le c. e lo status, il grado di integrazione/differenziazione interna, l’influsso di ciascuna all’interno dei sistemi. Bibl.: Lukacs G., Storia e coscienza di c., Milano, Sugar, 1967; Dahrendorf R., C. e conflitto di c. nella società industriale, Bari, Laterza, 1970; Mauke M., La teoria delle c. nel pensiero di Marx ed Engels, Milano, Jaca Book, 1970; Giddens A., La struttura di c. nelle società avanzate, Bologna, Il Mulino, 1975; Sylos Labini P., Saggio sulle c.s., Bari, Laterza, 1988; Carabana J. - A. De Francisco (Edd.), Teorías contemporáneas de las clases sociales, Madrid, Pablo Iglesias, 1993; Crompton R., C.s. e stratificazione, Bologna, Il Mulino, 1999; Marshall Th., Cittadinanza e c.s., Bari, Laterza, 2002; Bevilacqua E., La società nascosta. C.s. e rappresentazioni ideologiche nell’Italia contemporanea, Milano, Angeli, 2003.
R. Mion
CLASSICITÀ → Grecia: educazione → Roma: educazione
CLASSIFICAZIONE Raggruppamento di oggetti in «classi», cioè in categorie indipendenti. La c. è la forma più elementare di misurazione («scale nomi-
nali»). Rende possibile anche la trattazione statistica dei dati qualitativi e quindi la verifica sperimentale di ipotesi a loro attinenti. 1. Il processo di c. si fonda sul rapporto di equivalenza: tutti gli oggetti inclusi in una classe sono considerati equivalenti tra loro e le differenze tra oggetti all’interno di una stessa classe diventano irrilevanti ai fini della misurazione. Ad es., tra i candidati dichiarati «non idonei» a un concorso possono essere presenti livelli di capacità diversi. Nonostante ciò, il più capace dei «non idonei» è escluso dalla vincita del concorso esattamente come il meno capace. La c. implica il riferimento a più classi indipendenti, che si escludono a vicenda. L’indipendenza comporta che: a) qualsiasi oggetto deve poter essere univocamente classificato in una classe e in nessun’altra; b) l’ordine in cui le classi sono disposte può cambiare a piacere, non avendo significato; c) la denominazione attribuita a ciascuna classe può variare a piacere ed essere espressa sia da una parola sia da un numero. Nel caso l’etichetta sia espressa da un numero, il numero non ha proprietà aritmetiche, ma è un semplice distintivo, come può esserlo una targa automobilistica, il numero sulle maglie dei giocatori ecc. 2. Se la c. è riferita simultaneamente a due sistemi di categorie i dati possono essere inseriti in una «tabella di contingenza», all’interno della quale ogni casella contiene frequenze attinenti simultaneamente a due classi, una per ciascuno dei due sistemi usati. Le operazioni che si possono compiere sulle c. sono sostanzialmente: all’interno di ogni classe il conto delle frequenze e l’identificazione della moda (→ statistica), nell’insieme delle classi la misurazione della variabilità delle frequenze e la stima della → significatività statistica delle differenze tra distribuzioni di frequenze in due sistemi di classi (per es. mediante chi quadro o statistiche d’informazione). Bibl.: Calonghi L., Statistiche d’informazione e valutazione, Roma, Bulzoni, 1978; Cristante F. - A. Lis - M. Sambin, Statistica per psicologi, Firenze, Giunti-Barbera, 1982; Siegel S. - N. J. Jr. Castellan, Statistica non parametrica, Milano, McGraw Hill, 1992 (ed. orig. New York, McGraw Hill, 1988); Lombardo C. - L. Boncori, I test in
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CLEMENTE DI ALESSANDRIA
psicologia. Esercitazioni pratiche, Bologna, Il Mulino, 2007.
L. Boncori
CLEMENTE DI ALESSANDRIA n. nel 150 - m. nel 215, padre della Chiesa. C. di A. (Tito Flavio C.) è il primo padre della Chiesa a tematizzare l’educazione cristiana nei suoi scritti e a concepire la storia della salvezza come una pedagogia divina con la quale Dio educa progressivamente la sua creatura, fino a portarla alla divinizzazione finale. In questo senso C. può definirsi giustamente come il primo pedagogista cristiano. 1. C. nacque probabilmente ad Atene, intorno al 150 d.C. da genitori pagani. Uomo assetato di verità, la cercò sempre con passione, anche attraverso lunghi viaggi, finché scelse come ambiente ideale e più congeniale all’impegno della sua ricerca Alessandria, la metropoli cosmopolita capitale della polivalente cultura ellenistica del suo tempo. Qui C. si convertì al Cristo-Logos e divenne maestro spirituale nel celebre Didaskaléion, la prima scuola cristiana per la catechesi e l’educazione. Durante la persecuzione di Settimio Severo (202-203) C. dovette lasciare la città per rifugiarsi in Cappadocia, presso il discepolo ed amico Alessandro, futuro vescovo di Gerusalemme (intorno al 211). 2. Le opere giunte sino a noi sono: il Protettico, il Pedagogo, gli Strómati, gli Estratti da Teodoto, le Ecloghe profetiche e l’omelia Quale ricco può salvarsi? Ci soffermeremo per un breve cenno solo sull’opera che tratta specificamente dell’educazione. Il Pedagogo consta di tre libri ed è il primo manuale di formazione pedagogica cristiana. Il primo libro contiene la parte più sistematica in cui C. pone i principi fondamentali della sua metodologia pedagogica. Gli altri due libri, invece, dai principi scendono alla prassi, con l’indicazione minuziosa delle norme di comportamento codificate in una specie di galateo proprio dell’educando cristiano. Chiude l’opera un inno poetico al divino Pedagogo, un «cantico dell’infanzia e dei fanciulli». 3. Pedagogia in C. non è semplice categoria 206
di passaggio e occasionale, ma è il filo conduttore di tutta l’opera del Pedagogo. Basti annotare anche solo il fatto che questo termine (e suoi derivati) vi compare ben 163 volte. Contro la mentalità propria dell’ellenismo – recepita anche dallo gnosticismo del suo tempo – piuttosto incurante, per non dire ostile, al mondo dei fanciulli e dei piccoli, C. si schiera appassionatamente dalla loro parte, mettendoli al centro dell’amore educante del divino Pedagogo. «Per noi la designazione dell’età dei fanciulli è la primavera della vita» (Pedagogo I , 5). Bibl.: a) Fonti: M igne , PG 8-9; Staehlin OFrüchtel L.-Treu U., Clemens Alexandrinus (= Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, 12,15,17), Berlin/Leipzig, 1934-1972; M arrou H. I., Clément d’Alexandrie. Le Pédagogue, Paris, Cerf, 1960-1970. b) Studi: Gallinari L., La problematica educativa di C. Alessandrino, Cassino, 1976; Pasquato O., «Crescita del cristiano in C. Alessandrino. Tra ellenismo e cristianesimo: interpretazione storiografica di Marrou H.I.», in S. Felici (Ed.), Crescita dell’uomo nella catechesi dei Padri (Età prenicena), Roma, LAS, 1988, 57-72; Bergamelli F., «C. di A.», in M. Midali - R. Tonelli (Edd.), Dizionario di pastorale giovanile, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992,187-192; Nardi C., Gioventù e riconciliazione cristiana. La proposta di C. Alessandrino, in «Rivista di Ascetica e Mistica» 62 (1993) 343-371; Sanguineti J. J., La antropología educativa de C. Alejandrino. El giro del paganismo al cristianismo, Pamplona, EUNSA, 2003.
F. Bergamelli
CLIMA EDUCATIVO/ SCOLASTICO Si riferisce alle proprietà d’insieme ed alle capacità espressive dell’istituto scolastico, definito come comunità sensibile e ricettiva rispetto ai compiti di sviluppo ed al benessere sociale, intellettuale, emotivo ed affettivo dei soggetti – alunni, insegnanti ed altri operatori – che a vario titolo interagiscono. Secondo questo approccio ecologico all’educazione, la sinergia degli elementi costitutivi comprende anche la configurazione degli spazi e degli arredi, l’inquadramento temporale e i ritmi,
CLIMA EDUCATIVO/SCOLASTICO
quotidiani e non quotidiani, le relazioni fra i singoli ed i gruppi, fino a identificare un → curricolo implicito della → organizzazione scolastica, che esercita una → didattica indi retta in grado di influenzare oggettivamente i comportamenti mediante la condivisione pratica delle regole costitutive. 1. L’indagine specifica sul concetto di c.e.s. si colloca nel quadro della ricerca educativa sugli «effetti-scuola», interessata ai risultati in termini di apprendimento, diretto ed indiretto, che il c.e.s. può ottenere. Quando si afferma l’effetto-scuola ci si riferisce all’esperienza piuttosto comune che mostra come ci siano istituti scolastici tristi, squallidi, altri austeri, severi, mentre alcuni sono accoglienti, attraenti, e addirittura gioiosi. Tradotto in forma di domanda, il problema si formula così: il «c.» di una scuola influenza il comportamento degli insegnanti ed il loro rendimento? e il comportamento e l’apprendimento degli alunni? A questi interrogativi si risponde immancabilmente di sì, anche se risulta difficile provarlo. All’origine della ricerca sul «c.» ritroviamo → Lewin, il quale introdusse il concetto già alla fine degli anni ’30 allo scopo di rappresentare le dinamiche indotte dai diversi stili di leadership nei gruppi. Fu egli ad adottare un’immagine già climatica, l’atmosfera, che definisce come «qualcosa di intangibile, una proprietà della situazione sociale complessiva, che potrà essere valutata scientificamente se verrà colta da questo punto di vista» (orig. l948, trad. it. l980, 114). Come si vede, fin dall’origine il concetto si qualifica per la sua portata globale, che si servì in modi peculiari di nozioni geometriche, non metriche bensì topologiche, proprio per identificare fenomeni interpersonali e sociali continui, non riducibili a sommatorie di elementi discreti. Da allora, la ricerca ha continuato a dibattersi intorno alla questione dei rapporti fra le parti ed il tutto, oscillando tra l’approccio di tipo elementaristico, che esamina il peso specifico dei singoli fattori e quello sistemico e olistico, che punta sulle qualità «oggettive» dell’organizzazione nel suo insieme. Un passo avanti rispetto al comportamentismo imperante fu promosso da Argyris nel l958, che riprese la nozione di «c.» in chiave organizzativa, per assumerla all’interno di un modello cibernetico e identificarla come uno stato omeostatico del
sistema e funzione di regolazione sovraordinato rispetto a tre aggregati di variabili: a) le politiche, le procedure e le posizioni formali dell’organizzazione; b) i fattori personali, includenti bisogni, valori e capacità individuali; c) le variabili associate relative agli sforzi degli individui per conformare i propri fini a quelli dell’organizzazione. Secondo questo approccio olistico, il «c.» viene concepito come attributo dell’organizzazione e non la risultante di percezioni individuali. 2. Per quanto concerne la ricerca sui climi scolastici, l’adozione di un’idea di c.e.s. che recupera i contributi della fenomenologia, dell’interazionismo simbolico e dell’etnometodologia, è rintracciabile nel modello di Tagiuri (l968), che si articola su quattro gradi tassonomici: 1) l’ecologia, ovvero gli aspetti materiali della scuola (numero di alunni al totale, numero di alunni per classe, attrezzature, rifiniture dei locali, pulizia, manutenzione…); 2) l’ambiente umano, ovvero le caratteristiche degli alunni e degli operatori, scolastici e amministrativi; 3) il sistema sociale, ovvero l’assetto amministrativo, ruoli e funzioni di singoli, gruppi ed altre aggregazioni, formali ed informali; 4) la cultura, ovvero le norme, le credenze, i valori, i sistemi di significato… prevalenti all’interno della scuola. Più recentemente la Gather Thurler ha proposto, attraverso tre indicatori di portata complessiva – Modalità di relazioni professionali fra gli insegnanti, Stili di direzione, Genere di consenso in rapporto alle finalità educative – una interessante tipologia di «profili climatici»: individualismo, balcanizzazione, grande famiglia, collegialità imposta, cooperazione e interdipendenza. Da segnalare, infine, che tra i fattori che sembrano orientare si gnificativamente il c.e.s. sono state indicate la personalità e le strategie educazionali del → dirigente scolastico. Bibl.: Lewin K. - R. Lippit - R. K.White, Patterns of aggressive behavior in experimentally created «social climates», in «Journal of Social Psychology» 10 (1939) 271-299; A rgyris C., Some problem in conceptualizing organizational climate. A case-study of a bank, in «Administrative Science Quarterly» (1958) 2, 501-520; Tagiuri R., «The concept of organizational climate», in R. Tagiuri - G. H. Litwin (Edd.), Organizational climate:
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CODICE
exploration of a concept, Boston, Harvard University, l968, 11-32; Lewin K., I conflitti sociali (l948), Milano, Angeli, 1980; A nderson C. S., The search for school climate: A review of the research, in «Review of Educational Research» 3 (1982) 368-420; Bressoux P., Les recherches sur les effets-écoles et les effets-maîtres, in «Revue Française de Pédagogie» (1994) 108, 91-137; Gather Thurler M., Rélations professionnels et cultures des établissements scolaires: au-delà du culte de l’individualisme?, in «Revue Française de Pédagogie» (1994) 109, 19-39.
E. Damiano
CMC (Computer Mediated Communication) → Tecnologie dell’informazione e della comunicazione
CODICE È una regola, o un sistema di regole, che stabilisce equivalenze tra un sistema di significanti (piano dell’espressione) ed un sistema di significati (piano del contenuto). 1. Pensato in questi termini esso svolge due fondamentali funzioni: a) comunicativa, dato che senza l’apporto di un appropriato intervento di codifica (e di decodifica) non è possibile alcuna comunicazione (senza una grammatica ed una sintassi la parola rimane muta); b) espressiva, in quanto non esiste un uso standard del c., ma esso si declina in rapporto alle diverse sensibilità degli emittenti (si può fare un uso convenzionale o poetico della parola con risultati chiaramente molto diversi). Il c. non è mai sperimentabile fuori da un contesto: esso cioè non opera mai isolatamente, ma sempre contemporaneamente e in maniera organica rispetto alla varietà di tutti gli alt ri c. Questi sono articolabili secondo un doppio criterio: sono c. in senso verticale i c. generali (quelli in base ai quali possiamo dire che il cinema è cinema), particolari (un certo modo di pensare il cinema), singolari (sono istituiti ex novo e appartengono spesso a un singolo testo); sono c. in senso orizzontale, invece, i c. narrativi (che comprendono le strutture narrative del testo, le regole linguistiche e le modalità di discorso impiegate nella sua costruzione), i c. percettivo-figurativi (iconici, scenografici, 208
prossemici, cinesico-gestuali), i c. linguistici e sonori. 2. Dal punto di vista sociologico il ruolo giocato dal c. è particolarmente importante come distintivo di un determinato → gruppo sociale o di una certa → cultura: nel primo caso, più che di c. è opportuno parlare di lessici, cioè di sottocodici costituiti da frasi gergali, modi di dire, espressioni dotate di senso esclusivamente all’interno del contesto linguistico entro cui sono utilizzati (si pensi allo slang delle minoranze etniche nelle metropoli americane, o al linguaggio dei gruppi giovanili); nel secondo caso il c. è strumento di produzione e organizzazione del sapere che contraddistingue una certa società in una determinata epoca storica, in modo tale che dalla conoscenza del c. dipenda l’accesso al sapere che esso struttura (è il caso dell’aristotelismo per il → Medioevo o dell’allegoria per il Barocco). 3. Il carattere condizionale del c. ai fini della comunicazione e il suo rilievo in ordine alla definizione di sottosistemi sociali e universi culturali rendono ragione della sua importanza pedagogica. La si può indicare in diverse direzioni: a) per quanto riguarda il rapporto tra c. e comunicazione educativa nella padronanza dei c. della comunicazione va individuata una delle competenze fondamentali dell’insegnante. Grazie a tale competenza è possibile da una parte attivare un’adeguata comunicazione didattica (facendo ricorso alla voce, al gesto, alla prossemica, agli strumenti tecnologici), dall’altra riconoscere nei c. della comunicazione attivati dagli alunni nella classe le loro aspirazioni, le loro difficoltà, il loro eventuale disagio; b) in continuità con questo discorso va registrata la rilevanza pedagogica di una conoscenza dei rapporti che legano il c. (i c.) con particolari gruppi sociali o contesti culturali per potere attivare in relazione ad essi una mediazione pedagogica adeguata. Nei diversi ambiti (didattico, formativo, pastorale) la conoscenza dei c. attraverso i quali un sistema socio-culturale si costruisce è funzione della possibilità di intervenire con efficacia sui soggetti che a tale sistema appartengono; c) un ultimo aspetto di importanza dei c. in contesto educativo va infine ricondotto ai media, in particolare i media digitali (Internet, telefono
COEDUCAZIONE
cellulare, videogiochi) che particolare rilievo dimostrano di avere nella attuale cultura giovanile. In margine a questi media è facile riconoscere come il problema stia nella conoscenza dei loro linguaggi, ovvero di tipo alfabetico. Educare al corretto uso dei c. si gnifica in quest’ottica educare alla possibilità di comunicare in maniera responsabile, che è poi il primo essenziale obiettivo dell’educazione linguistica (→ linguaggio). Bibl.: E co U., La struttura assente, Milano, Bompiani, 19853; Segre C., Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985; A rdrizzo G. (Ed.), L’esilio del tempo. Mondo giovanile e dilatazione del presente, Roma, Meltemi, 2003; R ivoltella P. C., Screen generation. Gli adolescenti e le prospettive dell’educazione nell’età dei media digitali, Milano, Vita e Pensiero, 2006.
P. C. Rivoltella
CODICE DEONTOLOGICO → Deontologia professionale
CODIGNOLA Ernesto n. a Genova nel 1885 - m. a Firenze nel 1965, educatore e pedagogista italiano. 1. Allievo dell’hegeliano Jaja, laureatosi in filosofia a Pisa nel 1910, dopo aver insegnato nelle scuole secondarie, divenne professore universitario di pedagogia, dal 1918 incaricato a Pisa, dal 1925 ordinario al Magistero di Firenze. Di orientamento idealista, vivamente partecipe nei dibattiti e nelle iniziative per l’innovazione scolastica, collaborò con → Gentile per la sua Riforma della scuola, specie per quanto riguarda il nuovo Istituto Magistrale. Fondò e diresse l’Ente nazionale di Cultura con sede in Firenze, che dal 1923 al 1934 ebbe la «delega» per la gestione di scuole elementari rurali «non classificate» in Toscana e in Emilia. Fondò e diresse importanti riviste scolastiche, pedagogiche e culturali: «Levana» (1922-1928), «La Nuova Scuola Italiana» (1923-1938), «Civiltà Moderna» (1929-1943): «forse la testimonianza più bella di quegli anni difficili» (Garin, 1974, 167), «Scuola e Città» (dal 1950). Con apertura anche alla cultura straniera (con
lancio di → Dewey dopo la II guerra mondiale), diresse negli anni ’20 prestigiose collane presso l’editore Vallecchi, e, da lui fondata nel 1926, La Nuova Italia. Fu il fondatore e direttore dal 1944 della Scuola-città Pestalozzi di Firenze, ispirata a principi educativi di attivismo, cooperazione democratica, autogoverno. Scrisse numerose opere pedagogiche teoriche e di politica scolastica. 2. Devoto e Garin hanno distinto per C. tre periodi (Garin, 1974): uno di preparazione e attuazione della Riforma Gentile; uno, nella forte delusione per i cedimenti statali del Concordato del 1929, di dominante organizzazione e promozione culturale e editoriale; uno infine, con la Liberazione, di polemica laica per la difesa della scuola statale. La storia culturale di C., ha osservato Borghi, è segnata dalla costante attribuzione della «funzione primaria alla azione educativa», finalizzata alla promozione dell’«autonomia del pensiero e della volontà dell’individuo», in un’azione «liberatrice» esaltata prima a livello di coscienza e di cultura, poi in chiave attivistica e democratica, con un’opera concreta di emancipazione degli uomini impegnati e partecipi nel comune contesto di tutti. Un’«evoluzione paradigmatica» e storicamente esemplare e stimolante nella sua tensione e autorevole serietà. Bibl.: a) Fonti: E. C., La riforma della cultura magistrale, Catania, Battiato, 1917; Il problema educativo, 3 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1935-36; Educazione liberatrice, Ibid., 1949; La nostra scuola, a cura di D. Izzo, Ibid., 1970. b) Studi: Izzo D. et al., Prospettive storiche e problemi attuali dell’educazione: studi in onore di E.C., Ibid., 1960; Garin E., Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1974; Cambi F., La «scuola di Firenze» (da C. a Laporta, 1950-1975), Napoli, Liguori, 1982.
G. Cives
COEDUCAZIONE Promozione dell’incontro educativo reciproco dei sessi, sia nell’ambito scolastico, come co-educazione identica o variamente differenziata e integrata, sia nell’ambito estrascolastico, come convivenza, esperienza, 209
COEDUCAZIONE
dinamica spontanea o intenzionale di mutuo influsso e formazione. 1. Pro e contro la c. L’ambiente familiare ha sempre vissuto la compresenza di fratelli e sorelle. L’ambiente sociale ha ammesso scambi reciproci spontanei. La cultura ha problematizzato il fatto. La pedagogia si è divisa. L’educazione ha inventato linee distinte di cura, modelli e stili di vita, comportamenti, formazione, specialmente nelle classi sociali alte e raffinate. L’offerta moderna di scuola segnata da vasta base elementare, accentuato taglio istruttivo, crescente asse scientifico e tecnico, esigenze pratiche di numero e di ambienti, in tempi di nuove posizioni ideologiche e convinzioni scientifiche, ha posto in evidenza problemi, maturato opinioni, prese di posizione e prassi favorevoli o resistenti a una compresenza educativa paritaria dei sessi. Le → Scuole Nuove si sono fatte generalmente paladine della c. (intesa come co-educazione). Sul fronte opposto ci si è appoggiati e ci si appoggia a ragioni psicologiche (varietà di incidenza delle differenze di struttura mentale, di ritmi di sviluppo), sociali (distinzione o dialogo dei ruoli futuri), morali (pericolosità o positività formatrice di incontri precoci), pedagogiche (crescita psicosociale separata per incontro futuro o logicità di continua e progressiva integrazione educativa per la vera identità). 2. Le diverse motivazioni. Le resistenze culturali sono divenute pedagogiche, sostenendo e organizzando forme di lunga preparazione separata, solida e completa dei sessi per un successivo utile incontro (Reddie, Geheeb, → Förster, per ragioni diverse). Si è rimasti lontani da sintesi mature anche nel campo scolastico (Dale), anche perché la compresenza mista ha disatteso le differenze, è stata incapace di gestirle in effettivo dialogo di integrazione delle due differenti forme di mentalità e personalità. Il mondo cattolico europeo era partito con ostilità e allarmi morali (Pio XI). Insegnanti e educatori si erano trovati sprovveduti per attuazioni significative e valide. Perciò, in molti casi, hanno opposto rifiuti pratici. Poi il tema si è fatto extrascolastico. Si è imposta decisamente la ormai generale e abituale convivenza e promiscuità maschile e femminile nella vita giovanile sociale e di gruppo. Non sono stati senza influenza i mu210
tamenti nel costume sociale sessuale adulto e giovanile e il generale clima di pluralismo, di permissivismo, di soggettivismo veritativo e valoriale (→ relativismo). Nei casi di maggiore sensibilità la c. si è accollata la necessità di una tempestiva educazione continua e progressiva alla comprensione, alla conoscenza, alla convivenza maschile e femminile, giovanile e adulta. Si sono chiarificate le distinzioni tra convivenza mista, co-istruzione in compresenza, utilità e metodo dell’intreccio di mutui influssi nei processi di insegnamento e apprendimento condiviso e integrato. Si è cercato di approfondire la c. nel e per il dialogo maschile e femminile profondo, psicologico, morale, culturale e sociale, nella scuola e fuori. Pio XII e Paolo VI cambiarono l’atteggiamento e il giudizio della Chiesa. Il primo riconosceva la positività fondamentale della integrazione maschile e femminile. Il secondo apriva alla c. nella scuola cattolica, poi nella stessa pedagogia e pastorale giovanile. Giovanni Paolo II ha coinvolto ragazzi e ragazze nella condivisone di valori grande e in quella che da lui è stata detta la missione giovanile nei confronti del mondo adulto e della storia. La c. è diventata valore permanente, antropologico, culturale, perfino morale e religioso, correttivo dei limiti della pura spontaneità degli incontri e dei rischi della promiscuità, anche se si è coscienti che essa vada attuata come progetto e processo autenticamente educativo. Benemeriti in proposito il pensiero e l’opera di E. Huguenin, L. Kufner, A.-M. Rocheblave-Spenlé, e altri. Sensibili alla c. sono in genere le istituzioni scolastico-educative, come la FIDAE italiana, i → movimenti ecclesiali, l’associazionismo cattolico, l’Azione Cattolica, lo → scautismo (ma di parere diverso è la Federazione Scaut Europa), i → centri giovanili gli → oratori, e perfino i cammini di ricerca e di prima maturazione vocazionale. 3. Problemi aperti e condizioni pedagogiche. Oggi la c. è modalità generalizzata di convivenza e di crescita. Tuttavia in pratica i problemi restano. Separazioni e incontri non sono per sé risolutivi. Coscienza sociale dei problemi e ricerca pedagogica sono necessarie per vincere «effetti perversi» di amore immaturo, di violenze sulle ragazze, di prostituzione giovanile femminile e maschile, precoce fallimento di unioni di coppia e ma-
COGNITIVISMO
trimoniali, tensioni maschiliste e femministe nella società, nella chiesa, nel lavoro, nella vita sociale e politica, patologie sessuali più o meno gravi. Il problema si rivela soprattutto culturale, prima che pedagogico. Molti passi sono stati fatti, altri restano da fare. L’attuale ritorno di attenzione alle differenze psicologiche e spirituali, di rispetto della diversità di tratti, stili e ritmi, invitano a ricercare apporti e curare scambi integrativi del diverso. Contro la libertà permissiva e l’apertura alla promiscuità irresponsabile o calcolata e più o meno controllata, con cadute di sfruttamento passionale, consumistico e pornografico, oggi sembrano più decisivi e ispiratori gli sviluppi culturali della comune e fondamentale dignità personale dei sessi, relativizzando e relazionando i caratteri della maschilità e femminilità, interpretandoli come ricchezze: ricercando sintesi nell’incontro e nel dialogo, passando dalla complementarità alla integrazione e alla reciprocità, prima in campi limitati, poi sempre più larghi, totali, non solo familiari, ma sociali e culturali. Ma resta fondamentale la formazione di educatori preparati a una c., dove le preoccupazioni profilattiche o moralistiche cedano il passo a una educazione di giovani uomini e donne impegnati nella integrazione creatrice della umanità futura. 4. L’orizzonte della c. La c., spontanea e programmata, è ormai generalizzata negli ambiti della famiglia, della scuola, dell’associazionismo, della vita sociale, morale, religiosa, politica, professionale. Ciò viene pensato ed attuato anche in vista del superamento del disordine sessuale consentito o violento, delle difficoltà di mature e stabili relazioni amicali, coniugali, e globalmente di una civile e dignitosa convivenza sociale. In questo senso, ultimamente, nella letteratura pedagogica, il termine c. è usato anche per indicare la reciprocità di aiuto tra educatori ed educandi nella promozione e qualificazione dell’esistenza personale; ed in senso ancora più vasto per indicare la necessità di aiutarsi, come comunità, nello sviluppo di una società umanamente degna. Bibl.: Foerster W. F., L’educazione etica della gioventù, Torino, STEN, 1911; Calò G., Il problema della c. e altri scritti pedagogici, Roma, Albrighi e Regati, 1914; Huguenin E., La coédu-
cation des sexes, Neuchâtel/Paris, Delachaux, 1929; Gianola P., Problemi della c., in «Orientamenti Pedagogici» 11 (1964) 651-673; Dale R. E., Mixed or single-sex school?, London, Routledge & Kegan, 31974; Galli N., Pedagogia della c., Brescia, La Scuola, 1977; Gianola P., C.: una parola vecchia - un significato nuovo, in «Orientamenti Pedagogici» 33 (1988) 897-906; Fornasa W. - R. M eneghini, Abilità differenti. Processi educativi, co-educazione e percorsi delle differenze, Milano, Angeli, 2004.
P. Gianola
COERENZA → Educazione → Processo educativo
COGNITIVISMO Il c. è uno degli approcci psicologici più antichi ma anche più recenti allo studio dell’attività mentale. 1. Origini e critiche. Le sue origini coincidono con l’apertura a Lipsia da parte di → Wundt di un laboratorio di psicologia sperimentale (1879) e l’esportazione dei principi e idee dello psicologo tedesco negli Stati Uniti per opera di E. B. Titchener (1892). La caratteristica fondamentale della metodologia elaborata nel centro di Wundt era l’uso sistematico della tecnica dell’introspezione nell’indagine sulla mente umana. Soggetti debitamente preparati dovevano osservare la propria esperienza conscia allorché erano colpiti da uno stimolo e tentare di riferirla il più oggettivamente possibile. L’approccio di Wundt allo studio dei processi mentali coscienti dell’uomo suscitò consensi in illustri contemporanei come Ebbinghaus e → James, ma col tempo incontrò crescenti difficoltà sia per l’imprecisione dei risultati che per lo svilupparsi di altri approcci psicologici come: il behaviorismo (Pavlov, → Watson, Thorndike, → Skinner), il gestaltismo (Köhler, Wertheimer) e la → psicoanalisi (Freud). Il primo riteneva che la coscienza fosse un fenomeno dai contorni troppo vaghi e imprecisi perché potesse divenire oggetto di accurato controllo scientifico. Per questo motivo scelse come campo elettivo d’indagine il comportamento direttamente osservabile. Per esso, ad es., l’apprendimento era più un problema di cam211
COGNITIVISMO
biamenti in un comportamento osservabile che qualcosa che avveniva nella mente; allo stesso tempo il pensiero era più un formarsi di associazioni di stimoli che un’attività interna alla persona. Per il gestaltismo, l’attività mentale era frutto di una tendenza innata dell’uomo a dare o trovare ordine nel caos. In contrasto con l’orientamento introspezionista che analizzava uno stimolo in distinte sensazioni, la scuola della gestalt privilegiava i concetti del significato e dell’organizzazione degli oggetti e degli eventi sottolineando come l’esperienza entrasse nella mente in forme strutturate. Per la gestalt molto importante, più delle fasi di un processo, era l’insight, ovvero l’intuizione grazie a cui le varie parti di un problema apparentemente irrelate tra loro diventavano in un istante una struttura coerente. La psicoanalisi sosteneva l’esistenza di un’attività inconscia della mente e la possibilità di trovare in essa la spiegazione più profonda degli atteggiamenti e comportamenti manifesti. 2. Le condizioni che hanno favorito la rinascita della prospettiva cognitivista. Vari fattori ed eventi hanno contribuito al risorgere dell’approccio cognitivista: la crisi del behaviorismo, lo sviluppo degli studi sul linguaggio, la diffusione delle idee di → Piaget, la nascita dell’ → intelligenza artificiale e le possibilità simulative del computer, i progressi nel campo della tecnologia militare. L’approccio behaviorista si diffuse largamente negli Stati Uniti a partire dal 1913, anno in cui Watson proclamò i principi di una scienza oggettiva del comportamento, ma lentamente manifestò anche i suoi limiti. Al suo rapido declino contribuirono in maniera determinante le teorie di Chomsky sull’organizzazione e sviluppo del linguaggio. La critica che il giovane linguista avanzò a metà degli anni ’50 all’interpretazione behaviorista del linguaggio umano di Skinner fu spietata e raccolse ampi consensi. Gardner (1985) fa coincidere la fine del behaviorismo e la nascita del nuovo approccio cognitivista, ed in particolare della «scienza cognitiva», con il Symposium on Information Theory tenutosi al Massachusetts Institute of Technology tra il 10-12 settembre del 1956. Esso, per dirla con Kuhn (1962), significò l’assunzione di un nuovo «paradigma» che realizzò una «rivoluzione» cognitivista. In tale raduno Chomsky offrì 212
una teoria interpretativa del comportamento linguistico in netto contrasto con le posizioni behavioriste. L’analisi del linguaggio umano rivelava che la mente umana non è affatto un «foglio di carta bianco», ma dispone di proprietà formali innate (simili a quelle della matematica) seguendo le quali è in grado di comprendere, produrre e trasformare qualsiasi tipo di frase. Al raduno del MIT parteciparono anche Newell e Simon, che presentarono un programma computerizzato che simulava i processi umani nell’attività di problem solving. Contemporaneamente o qualche anno dopo la presentazione degli studi di Chomsky e di Newell e Simon vengono pubblicate opere che avanzano ipotesi e modelli della mente umana. Nello stesso anno del raduno del MIT, Bruner, Goodnow e Austin (1956) pubblicano un volume sui processi di formazione dei concetti. L’anno successivo, Miller (1957) evidenzia i limiti della memoria, mentre appena un anno dopo, Broadbent (1958), riprendendo una suddivisione della memoria di James in primaria e secondaria, parla di memoria sensoriale e a lungo termine, di processi di attenzione selettiva e descrive i processi attraverso un flow-chart, includendo sistemi di feed-back (sistemi di fasi di trasformazione dello stimolo iniziale con sistemi di reazione aventi funzione di controllo). La strada era aperta. Negli anni seguenti i progressi della ricerca rinforzarono sempre di più la convinzione che la mente dell’uomo non era una «scatola nera» nella quale era impossibile far luce. Neisser (1967), Atkinson e Shiffrin (1968), Paivio (1971), Newell e Simon (1972), McClelland, Rumelhart e il gruppo di ricerca PDP (1986) sono alcuni degli scienziati che contribuirono allo sviluppo del c. Al crollo del behaviorismo e alla nascita di una nuova prospettiva cognitivista concorse anche la diffusione del pensiero di Piaget sullo sviluppo cognitivo del bambino e la riscoperta degli studi di Bartlett sul comportamento della memoria. Lo studioso ginevrino sottolineò come esso avvenisse non grazie a meccanismi di tipo associativo, ma attraverso un processo di adattamento continuo del bambino all’ambiente con il quale viene a contatto. Quando è posta di fronte ad una situazione nuova, la mente si trova in una condizione di squilibrio (o di disadattamento) il cui superamento si verifica attraverso i processi di
COGNITIVISMO
assimilazione e di accomodamento. Con il primo qualunque nuovo dato di esperienza (ad es., un oggetto o un’idea) è incorporato in «schemi» mentali che il bambino già possiede; con il secondo gli «schemi» già posseduti si modificano per adattarsi alle caratteristiche inattese del nuovo dato di esperienza. Al di là della plausibilità delle sue interpretazioni e osservazioni, Piaget contribuì a far sentire come assolutamente inadeguata la posizione behaviorista sull’apprendimento. Alle prospettive aperte da Piaget si può anche aggiungere la riscoperta delle ricerche di Bartlett (1932) sulle conoscenze nella mente. Indagando sul ricordo di soggetti dopo la lettura di una storia, egli scoprì che ciò che era riferito non era una registrazione precisa del testo, ma uno «schema» che si andava via via deteriorando con il tempo. Lo scoppio del secondo conflitto mondiale fornì un nuovo e forte impulso all’approccio cognitivista. La guerra favorì la crescita di interesse non solo per la psicologia dell’orientamento, cioè per i procedimenti efficaci e veloci di selezione e addestramento dei giovani da mandare sul fronte, ma anche per le macchine «intelligenti» in grado di simulare, sostituire e potenziare le capacità mentali dell’uomo. 3. Scienza cognitiva e psicologia cognitivista. Attualmente un certo numero di discipline (apparentemente molto lontane tra loro) sono impegnate nello studio e nella comprensione del funzionamento della mente umana. Esse costituiscono ciò che, con un termine molto generale, si definisce «scienza cognitiva» e sono rappresentate dalla psicologia cognitivista, biologia, antropologia, scienza computazionale, linguistica, filosofia, neuroscienza, educazione. La scienza cognitiva non è un campo di indagine coerente in se stesso, ma una prospettiva che orienta le diverse discipline alla ricerca di una risposta agli stessi problemi e interrogativi; come è rappresentata nella mente la conoscenza? Come viene acquisita e modificata la conoscenza umana? Come funziona la mente umana? Che cosa sono e come differiscono tra loro le conoscenze per immagini, quelle esperienziali e quelle astratte? Stillings e altri descrivono concretamente la prospettiva della scienza cognitiva in questo modo: «Gli psicologi enfatizzano gli esperimenti controllati di laboratorio e le osservazioni dettagliate e sistematiche di com-
portamenti che avvengono naturalmente. I linguisti controllano le ipotesi sulla struttura grammaticale analizzando le intuizioni di un parlante sulle frasi strutturate grammaticalmente e no o osservando gli errori commessi da bambini nel parlare. I ricercatori di intelligenza artificiale controllano le loro teorie scrivendo programmi che riproducono un comportamento intelligente e osservando dove esso non funziona. I filosofi controllano la coerenza concettuale delle teorie cognitive scientifiche e formulano costruzioni generali che teorie corrette devono seguire. I neuroscienziati studiano i fondamenti fisiologici dell’elaborazione dell’informazione nel cervello» (1987, 13). Oltre che da un punto di vista metodologico, la scienza cognitiva può essere definita anche in base alle aree preferenziali di ricerca: la percezione (soprattutto il processo di percezione delle parole fino all’accesso lessicale, oppure i processi di elaborazione delle immagini), la rappresentazione delle conoscenze (concetti o conoscenze complesse), il linguaggio (lessicale, proposizionale e testuale), l’apprendimento (sia di macchine che umano) e il pensare (in modo particolare i processi di ragionamento, di decisione, di soluzione di problemi). La psicologia cognitivista assume sugli argomenti sopra elencati questo particolare punto di vista: ricostruire le fasi e le trasformazioni che uno stimolo subisce dallo stadio iniziale allo stadio finale del processo di elaborazione. Il modello a cui essa si ispira è fondamentalmente quello descritto da Newell e Simon (1972), Lachman, Lachman e Butterfield (1979). Secondo questi studiosi la mente umana va vista come un sistema di elaborazione finalizzato. Nel processo di elaborazione oggetti o informazioni rappresentabili in simboli (cioè elementi connessi da relazioni logiche) sono trasformati in altri simboli da processi che discriminano, selezionano, controllano, confrontano e archiviano. Poiché si svolgono nel tempo, tali processi possono essere analizzati e controllati attraverso il tempo che intercorre tra l’inizio e la fine delle operazioni. Le strutture di elaborazione sono fondamentalmente tre: la memoria sensoriale, la → memoria a breve termine (o anche memoria lavoro) e la memoria a lungo termine. 4. Sviluppi. Dagli inizi e dalle prime intuizioni numerosi sviluppi e differenziazioni si sono 213
COLLEGIO
avuti in questi pochi decenni. Pur rimanendo identico lo scopo finale di scoprire il processo di trasformazione dal suo input al suo output di una qualsiasi prestazione, diverse metodologie hanno dato origine a diversi sviluppi scientifici distinti e dialoganti tra loro. La stretta analogia posta tra le assunzioni di partenza con la scienza computazionale ha portato molti psicologi a scoprire l’attività mentale umana attraverso simulazioni computerizzate. Altri hanno utilizzato l’approccio sperimentale su soggetti reali e normali e continuano a ricercare l’evidenza di fasi di trasformazione. I neuroscienziati cercano nel sistema nervoso il luogo e lo svolgersi dei processi di elaborazione. Altri, abbandonando uno dei capisaldi dell’approccio dell’elaborazione dell’informazione (la rappresentazione simbolica e le fasi di trasformazione), cercano di spiegare il processo di elaborazione solo attraverso un sistema di unità interconnesse che permettono o inibiscono il passaggio dell’informazione («connessionismo»). Bibl.: Bartlett F. C, Remembering, Cambridge, Cambridge University Press, 1932; Bruner J. S. - J. J. Goodnow - G. A. Austin, A study of thinking, New York, Wiley, 1956; Miller G. A., The magical number seven plus or minus two: Some limits on our capacity for processing information, «Psychological Review» 63 (1957) 81-97; Neisser U., Cognitive psychology, New York, AppletonCentury-Crofts, 1967; Atkinson R. C. - R. M. Shiffrin, «Human memory: a proposed system and its control processes», in K. W. Spence - J. T. Spence (Edd.), The psychology of learning and motivation, vol. 2, New York, Academic Press, 1968, 89-195; Paivio A., Imagery and verbal processes, New York, Holt, Rinehart & Winston, 1971; Newell A. - H. A. Simon, Human problem solving, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1972; Lachman R. - J. L. Lachman - E. C. Butterfield, Cognitive psychology and information processing, Hillsdale, Erlbaum, 1979; Gardner H., Mind’s new science, New York, Basic Books, 1985; Stillings N. A. et al., Cognitive science: an introduction, Cambridge, MIT Press, 1987; K ellogg R. T., Cognitive psychology, Thousand Oaks, CA, Sage, 1995; Murray D. J., Gestalt psychology and the cognitive revolution, New York, Harvester & Wheatsheaf, 1995.
M. Comoglio
COGNIZIONE → Metacognizione
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COLLEGIO Collegium in lat. significa gruppo di persone unite fra loro da vincoli ed interessi professionali comuni, come ad es. i c. di artigiani, medici, maestri, ecc. In contesto pedagogico, s’intende per c. una convivenza di giovani, organizzata a fini istruttivi ed educativi, normalmente in regime di internato (→ Comunità educativa/scolastica). In ambiente anglosassone e spagnolo, il c. indica anche la scuola secondaria (spesso con seminternato) e determinate istituzioni di livello universitario. 1. Quando sono create le prime università medievali, sorgono intorno ad esse alloggi per studenti (hospitia), nei quali passare la notte. In seguito compaiono i c. nei quali vivono i collegiali in comune, seguendo alcune norme imposte dal fondatore. Questi c. potevano essere destinati a chierici e a laici. I posti erano limitati e questo obbligava chi li occupava a seguire con regolarità gli studi. Nello stesso tempo nel c. bisognava condurre una vita comunitaria molto simile alla vita monacale. I c. clericali erano di solito diretti da un sacerdote responsabile come priore, mentre nei c. destinati alla formazione dei laici vigeva l’autogoverno e tutto dipendeva dagli stessi collegiali, in accordo con delle norme stabilite dalle costituzioni e dai regolamenti del fondatore. Dai collegiali dipendeva la selezione degli aspiranti, l’amministrazione delle rette e l’imposizione delle misure disciplinari necessarie. Tutti gli incarichi erano a rotazione e chiunque poteva essere eletto priore. Il c. offriva gratuitamente alloggio, vitto, uniforme, biblioteca e, in certi casi, lezioni di ripetizione, impartite dagli stessi professori dell’università. Famoso fu il c. fondato a Bologna nel 1364 dal cardinale Gil de Albornoz per studenti spagnoli che si chiamò e si chiama ancora oggi «Colegio de San Clemente». Durante la sua lunga attività è servito da casa di studio e di formazione ad un ridotto e selezionato gruppo di brillanti studenti. 2. In questi c. universitari furono educati i quadri dirigenti sui quali si edificò lo stato moderno dei secc. XV, XVI e XVII, soprattutto in quelli più prestigiosi, nei cosiddetti c. maggiori spagnoli, che erano meglio dotati economicamente e di più difficile accesso,
COLLOQUIO
per le impegnative prove di selezione. Ogni nazione ebbe i suoi centri di formazione elitaria. Tutti i collegiali di ogni città universitaria erano obbligati a vestire la propria divisa da studente, di colore diverso, a seconda del c. al quale appartenevano. La divisa consisteva in una tunica senza maniche, aperta ai lati e lunga fino ai piedi, più una sciarpa di colore diverso incrociata sul petto e pendente sulle spalle, oltre ad un berretto nero. Questa uniforme era una specie di passaporto che identificava pubblicamente gli studenti e garantiva loro da parte della popolazione il riconoscimento di appartenere al foro universitario, che dava molti privilegi. 3. I c. universitari cominciarono a decadere a partire dal sec. XVII, quando furono controllati dalla aristocrazia, che vedeva in essi una valida agenzia di collocamento alla fine degli studi. In Spagna, Francia e in altri Paesi scomparvero con l’antico regime. Certamente, mantennero il proprio prestigio aristocratico e gli antichi usi medievali i c. di Oxford, Cambridge ed Harvard. Durante il sec. XIX le scuole private spagnole utilizzarono il nome di c. per distinguersi dalle scuole pubbliche statali, frequentate dalle classi più umili. Nel sec. seguente, sia in Francia che in Spagna, si sono creati c. universitari che hanno poco a che vedere con gli antichi c.; la loro funzione è stata la stessa: formare una élite di studenti meglio preparata degli altri in campo scientifico, politico e nelle scienze religiose, d’accordo con le esigenze dei tempi moderni. Molti degli attuali c. universitari, ciononostante, sono più residenze studentesche che centri di formazione. Bibl.: Lafuente V. de, Historia de las universidades, colegios y demás establecimientos de enseñanza en España, 4 voll., Madrid, 1884-1889; D’Irsay S., Histoire des universités françaises et étrangères de ses origines à nos jours, 2 voll., Paris, 1933-1935; M isani A., Educazione di c., Milano, Ancora, 1945; Di Fazio C., C. universitari italiani, Roma, Fondazione Rui, 1975; M artín L., La conquista intelectual del Perú: el colegio jesuita de San Pablo, Barcelona, Casiopea, 2001.
B. Delgado
COLLETTIVISMO → Marxismo pedagogico COLLETTIVO → Makarenko Anton Semënovič
COLLOQUIO Il termine c. non si presta ad una definizione univoca. Infatti, in base allo specifico della disciplina di riferimento che all’interno delle scienze umane è presa in considerazione, possiamo imbatterci in interpretazioni diverse e non sempre sovrapponibili. 1. Trentini (1995) riporta diverse definizioni che ricorrono in letteratura: «una conversazione seria, tendente ad un determinato scopo, ad di là del puro e semplice piacere della conversazione stessa» (Moore, 1941, cit. in Trentini, 1995, 40); «una comunicazione che consiste non soltanto in uno scambio di messaggi verbali, ma piuttosto nello sviluppo di una configurazione delicata e complessa di processi di campo che comportano conclusioni importanti per le persone che entrano a farne parte» (Sullivan, 1954, cit. in Trentini, 1995, 40); «una situazione in cui la comunicazione avviene in primo luogo a voce, in un gruppo di due persone, che si incontrano più o meno volontariamente, sulla base di un rapporto esperto-cliente, con lo scopo di chiarire il modo caratteristico di vivere di una persona» (Stack, 1954, cit. in Trentini, 1995, 40); «un processo di interazione nel quale è importante non tanto il fatto meccanico consistente in una serie di episodi discreti stimolo-risposta; ma piuttosto sono importanti i fini, gli atteggiamenti, le credenze ed i motivi dei protagonisti dell’interazione» (Cannel, 1968, cit. in Trentini, 1995, 40); «un’interrogazione ed un rapporto e più precisamente un’interrogazione diretta a conoscere gli eventi passati della vita del soggetto e a trarre una interpretazione del suo comportamento» (Ancona e Gemelli, 1959, cit. in Trentini, 1995, 40). 2. I contesti del c. possono essere diversificati: scolastico, giudiziario, aziendale, psichiatrico, giornalistico, ecc. In senso più strettamente psicologico i principali ambiti applicativi vengono suddivisi in : c. clinico, c. di ricerca, c. orientativo. Il c. clinico è una tecnica di osservazione e di studio del comportamento umano i cui scopi sono sia quelli di raccogliere le informazioni, che quelli di motivare il soggetto coinvolto ad un auspicabile cambiamento. Il c. di ricerca ha per oggetto di studio la conoscenza di un determi215
COLLOQUIO
nato oggetto che può riguardare diversi ambiti della psicologia e può essere utilizzato sia come strumento che precede la ricerca vera e propria (analisi preliminare su un fenomeno), sia come metodologia per raccogliere dati. Il c. orientativo mira a raccogliere informazioni su comportamenti, atteggiamenti, motivazioni, interessi al fine di aiutare il soggetto a chiarire le proprie scelte scolastiche e professionali. Esso prevede tre momenti salienti: fase esplorativa (accoglienza ed individuazione della soggettività dell’intervistato); fase diagnostica-valutativa (raccolta di dati specifici); fase progettuale (sintesi orientativa e congedo dell’intervistato). Al di là delle diverse formulazioni e dei diversi ambiti applicativi è comunque rintracciabile nelle diverse forme di c. un elemento comune: l’interazione tra due persone. All’interno di quest’ultima gli elementi che sono ritenuti fondamentali dai diversi autori concernono il cosa le persone dicono e il come lo dicono. Risulta pertanto preziosa la cura degli aspetti contenutistici e relazionali tanto da parte dell’emittente come del ricevente. 3. Dal punto di vista contenutistico ai partners in interazione si richiede in primo luogo di curare la formulazione dei messaggi in vista della comprensione altrui, comprensione che dipende prevalentemente dalla scelta delle parole dal proprio universo linguistico, dalla struttura sintattica utilizzata, e dalla organizzazione stessa del messaggio. A questo riguardo occorre tener presenti i parametri della semplicità, dell’ordine, della brevità e della stimolazione. L’emittente, nel trasmettere i significati, adotta il criterio della semplicità quando fa uso di messaggi accessibili e comprensibili per l’interlocutore rispettandone la singolarità (per es. cultura, età, professione, classe sociale). Al contrario viene meno a questo criterio quando usa messaggi non alla portata degli ascoltatori o si perde nella ricerca della formulazione esteticamente migliore, a scapito della chiarezza. Mentre la semplicità riguarda la modalità di costruzione linguistica del messaggio, il criterio dell’ordine concerne la struttura di tutta la comunicazione ed è tanto più importante quanto più la comunicazione è articolata e complessa. L’ordine nel trasmettere i messaggi è di tipo interno e di tipo esterno. L’emittente realizza l’ordine interno quando 216
comunica secondo una sequenza logica ed evidente. L’ordine esterno riguarda gli aspetti formali della trasmissione che l’emittente esplicita indicando le fasi della comunicazione (per es. introduzione, fase espositiva) e distinguendo le parti essenziali dalle meno rilevanti. Il criterio della brevità richiede che l’emittente trasmetta i significati attraverso messaggi propriamente necessari, evitando ridondanze e prolissità. Il criterio della stimolazione, infine, concerne la capacità dell’emittente di rendere la comunicazione interessante, piacevole e coinvolgente. Se i parametri appena descritti riguardano la formulazione dei messaggi (cosa si trasmette), le qualità processuali si riferiscono agli aspetti più propriamente relazionali (come lo si trasmette). A tal proposito, si richiede all’emittente di prestare attenzione al comportamento non verbale, di esprimersi in modo descrittivo ed orientato al problema, spontaneamente ed empaticamente, rispettando la pari dignità, al fine di instaurare un clima di fiducia ed apertura reciproca con le persone in comunicazione. Al contrario quando l’emittente interagisce in modo valutativo, quando cerca di esercitare il controllo, usa strategie manipolative e non si coinvolge come persona, quando dimostra superiorità ed assume atteggiamenti rigidi e dogmatici, facilmente si può creare un clima di difesa e di ostilità. 4. Oltre a curare gli aspetti contenutistici e relazionali nel ruolo di emittenti, ai fini di un buon c. si richiede ai partners in interazione di sapersi ascoltare. Ciò implica una apertura verso la fonte comunicativa nonché l’impegno a comprendere i messaggi nel significato che essi hanno per la fonte comunicativa. In particolare si richiede al ricevente di essere attento ai messaggi nel loro contesto comunicativo, di effettuare comportamenti di supporto e di sospendere preventivamente un atteggiamento critico-valutativo. Si realizza l’attenzione ai messaggi all’interno del contesto comunicativo, quando il ricevente recepisce questi ultimi con un’attenzione non strutturata (Villard-Whipple, 1976) cogliendoli in riferimento all’intero contesto. Nel caso, invece, in cui una persona recepisse in modo selettivo i messaggi, o li interpretasse indipendentemente dal loro contesto, il ruolo di ricevente sarebbe realizzato de-
COLOMB JOSEPH
ficitariamente. Soltanto quando ci apriamo alla totalità dei messaggi comprendendoli secondo gli schemi, le esperienze e le intenzioni dell’emittente, possiamo soddisfare il criterio dell’apertura e della attenzione non strutturata. Realizzare il ruolo di ricevente comprende anche comportamenti di supporto. L’esperienza quotidiana ci mostra come sia indispensabile vedere che gli altri seguono la nostra comunicazione. Nelle situazioni comunicative in cui il ricevente si mostra freddo, si comporta in modo non autentico ed interviene in modo direttivo, non solo non si stabilisce una piattaforma relazionale, ma si possono anche indurre delle esperienze di scoraggiamento e di disinteresse nel proseguire la comunicazione. Ricevere la comunicazione degli altri non soltanto richiede che il ricevente si apra alla totalità della comunicazione dell’altro e che realizzi un adeguato comportamento di supporto, ma che la interpreti appropriatamente. L’interpretazione della comunicazione può essere facilitata se il ricevente esamina il tipo di messaggi, la loro corrispondenza alla realtà e ai diversi contenuti in essa comunicati. Per quanto riguarda il riconoscere i tipi di messaggi, il ricevente dovrà esaminare se si tratta di una costatazione, una valutazione o di una ipotesi sulla realtà. Nel caso della costatazione l’emittente riporta dati di fatto, possibilmente osservati e documentati; nel caso delle valutazioni o ipotesi circa la realtà vengono comunicati contenuti che riflettono le esperienze e le cognizioni dell’emittente sulla realtà. Questo ultimo tipo di comunicazione è comunque da valutare riguardo alla personalità dell’emittente ed alle sue competenze circa il trattamento della realtà in riferimento. La qualità dell’interpretazione della comunicazione dipende anche dalla capacità del ricevente di esaminarla considerando gli aspetti taciti ed espliciti presenti in un messaggio. A questo riguardo Schulz von Thun (1984, 44s.) suggerisce di discriminare i messaggi secondo tre dimensioni: la dimensione contenutistica («Cosa l’altro dice?»), la dimensione relazionale («Come lo dice?», «Come definisce la relazione reciproca?») ed, infine, la dimensione appellativa («Che cosa devo fare, pensare e sentire di fronte alla sua comunicazione?»). Quando il ricevente legge la comunicazione tenendo presenti queste dimensioni facilmente può
cogliere i contenuti nella loro interezza realizzando una buona comprensione. Pertanto, la buona riuscita di un c. non può prescindere dalle competenze comunicative dell’emittente, ma soprattutto del ricevente. Bibl.: Schulz v. Thun F., Verständlich informieren, in «Psychologie Heute» 2 (1975) 42-51; Villard K. L. - L. J. Whipple, Beginnings in relational communication, London, J. Wiley, 1976; Franta H. - G. Salonia, Comunicazione interpersonale, Roma, LAS, 1979; Schulz v. Thun F., Miteinander reden: Störungen und Klarungen. Psychologie der zwischenmenschlichen Kommunikation, Rowohlt, Reinbek, 1984; Franta H., Comunicazione interpersonale nella scuola: dimensioni di ricerca, in «Orientamenti Pedagogici» 32 (1985) 428-440; Trentini G., Manuale del c. e dell’intervista, Torino, UTET, 1995; Lis A. - P. Venuti - M. De Zordo, Il c. come strumento psicologico, Firenze, Giunti, 1995; Pombeni M., Il c. di orientamento, Bologna, Il Mulino, 1995; Crimini P. - E. Del Pianto, Come affrontare una selezione, Milano, Angeli, 2000.
H. Franta - A. R. Colasanti
COLOMB Joseph n. a Lione nel 1902 - m. a Strasburgo nel 1979, sacerdote francese, educatore religioso. 1. Ordinato sacerdote nel 1926, insegnò filosofia nella Facoltà Cattolica di Lione, e venne nominato alla direzione della catechesi nella diocesi nel 1945. Divenuto nel 1954 direttore del Centro nazionale francese della catechesi, in seguito alla crisi del 1957 sul «catechismo progressivo», lasciò Parigi nel 1958 e fondò nel 1962 a Strasburgo l’Institut de Pastorale Catéchétique, che diresse fino al 1971. Si dedicò quindi all’educazione religiosa degli adulti e a scrivere un importante manuale di → catechetica. 2. Merita di essere considerato il contributo di C. alla pedagogia religiosa. Valido organizzatore e promotore del movimento per l’educazione religiosa, fondò a Lione una scuola a tempo pieno per la formazione di catechisti di professione, rivalutò l’opera dei genitori come educatori religiosi e propugnò la necessità dell’educazione religiosa per 217
COLPA: SENSO DI
tutte le età della vita. Segnalò fin dall’inizio l’urgenza di una riforma radicale dell’organizzazione, dei contenuti e dei metodi dell’educazione religiosa e cristiana, adatta a una società in avanzata → secolarizzazione. L’istituzione catechistica doveva trasformarsi in vero e proprio catecumenato, i contenuti dovevano essere arricchiti con gli apporti del movimento liturgico e biblico contemporanei (Aux sources du catéchisme, 1946-48) e del rinnovamento teologico (La doctrine de vie au catéchisme, 1952-54): Bibbia, liturgia e dottrina dovevano contribuire a una solida formazione spirituale. Accettò l’ispirazione della pedagogia attiva in campo religioso, e fondò su studi psicologici il lancio di una catechesi progressiva, che le autorità ecclesiastiche ritennero bisognosa di una necessaria e prudente correzione. La sua più importante opera teorica è il manuale di catechetica Le service de l’Évangile (1968), subito tradotto in lingua it. e sp. C. è un vero teologo della catechesi e rimane soprattutto teologo, però con forti interessi verso gli apporti della psicologia e della sociologia (forse meno della pedagogia), nell’intento proclamato di una composizione tra il mistero cristiano e i dati provenienti dalla situazione culturale e pastorale e dalle scienze umane («fedeltà a Dio e fedeltà all’uomo»). Bibl.: Boyer A., Un demi-siècle au sein du mouvement catéchétique français, Paris, L’École, 1966; J.C. et le mouvement catéchétique, in «Catéchèse» 20 (1980) 80 (n. monogr.); A dler G. - G. Vogeleisen, Un siècle de catéchèse en France, Paris, Beauchesne, 1981.
U. Gianetto
COLPA: senso di La c. è una deviazione volontaria da ciò che è bene; tale «bene» può essere definito dalla valutazione soggettiva, oppure da un’autorità esterna, come il costume sociale, o leggi scritte di origine umana o superiore. La percezione del bene, comunque giunga alla persona, crea in essa un senso del dovere o coscienza morale. La coscienza morale potrà essere così «autentica», se basata su un quadro personale di valori, e «non autentica» se fondata sull’accettazione cieca di norme im218
poste dall’esterno, sotto la spinta di minacce di vario genere, interiori o esteriori. In questa linea si potrebbe dire che il «Superego» della tradizione freudiana è un caso tipico di coscienza non autentica o nevrotica. 1. Il senso di c. deriva dalla percezione della deviazione dal bene o dal non-adempimento del dovere, e cioè da una condotta contro coscienza, e consiste in una ferita alla stima di sé; la gravità di questa ferita dipende dalla misura in cui il bene trascurato è vissuto come importante. Contemporaneamente, se si tratta di una trasgressione che può essere rilevata dagli altri, la persona si sente meno degna della stima altrui e prova un sentimento di vergogna. Il senso di c. si sviluppa come conseguenza della coscienza morale, e ne condivide i fattori. Come la coscienza morale, di cui ne segnala la trasgressione, può essere autentico o non autentico e patologico. Nel senso di c. autentico o normale la persona è centrata sui valori interiorizzati con cui si confronta; l’intensità del disagio provato è commisurata all’importanza del bene trascurato; e la persona è portata ad abbandonare la condotta trasgressiva e a perseguire con maggior forza i valori. 2. Il senso di c. non autentico o nevrotico pone la persona di fronte al suo disagio interiore, da cui vuole liberarsi; essa è così centrata su se stessa; spesso la ferita alla propria dignità diventa generale, tanto che è difficile distinguere senso di c. e vergogna. Il più delle volte a questo senso di c. manca la tensione alla correzione e al miglioramento. L’osservanza delle norme diventa fine a se stessa, e la persona, per liberarsi dal disagio interiore (→ Freud lo chiama «ansietà di coscienza»), cade facilmente in una osservanza puramente materiale o nel perfezionismo. Il fenomeno degli scrupoli è una manifestazione di questi dinamismi perversi. 3. Appare evidente che il senso di c. che abbiamo detto non autentico appartiene all’area delle nevrosi e può essere trattato opportunamente in tale contesto. Bibl.: Bitter W. (Ed.), Angst und Schuld in theologischer und psychotherapeutischer Sicht, Stuttgart, Klett, 1959; Kunz L., Il sentimento di c. negli adolescenti, Torino, SEI, 1965; Sovernigo
COMPETENZA
G., Senso di c. Esperienze di colpevolezza e senso del peccato, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1980; Della Seta L., Le origini del senso di c., Roma, Melusina, 1989; Fossum M. A. - M. J. M ason, Il sentimento della vergogna, Roma, Astrolabio, 1987; Lewis M., Il sé nudo. Alle origini della vergogna, Firenze, Giunti, 1995.
A. Ronco
COMENIO → Komenský
COMPETENZA La parola deriva in realtà dal latino «cum petere», ovvero chiedere insieme, pretendere, ma evoca anche il verbo italiano «competere», cioè far fronte a una situazione sfidante, o il sostantivo «competizione», che riporta all’immagine di atleti che si confrontano per vincere un gara, o di candidati politici, che aspirano a conquistare i voti necessari per ottenere un seggio parlamentare. Le accezioni attuali più comuni sono da una parte di natura giuridica e, dall’altra, di natura professionale. La prima accezione riguarda la legittimità di un mandato, di trattare una categoria di affari, avendo l’autorità per farlo. La seconda, concerne l’autorevolezza che deriva dalla padronanza di un saper condurre in un ambito specifico attività professionali specializzate. L’utilizzazione che progressivamente è stata adottata del termine c. nel mondo della formazione e del lavoro, e poi della scuola, risente di queste due accezioni: è la richiesta di ottenere un riconoscimento della padronanza di capacità specifiche nel contesto in cui si opera; e, contemporaneamente, considerare questo riconoscimento come legittima base per una sua valorizzazione nella propria carriera di studio e/o professionale. 1. Definizione. Una c. è definibile a partire dalla tipologia di compiti o attività che si devono svolgere validamente ed efficacemente. Esse, in base ai compiti per i quali sono richieste, possono essere più specificatamente legate a una disciplina o materia di insegnamento, oppure avere carattere trasversale. In questo secondo caso i compiti hanno caratteristiche comuni quanto a conoscenze, abilità e disposizioni interne che devono essere attivate e coordinate. La complessità e novità
del compito o della attività da sviluppare caratterizzano anche la qualità e il livello della c. implicata. Tali caratteristiche dipendono dall’età e dall’esperienza dello studente. È ben diversa la situazione di un bambino della scuola dell’infanzia, della seconda classe della scuola primaria o della terza classe della scuola secondaria di 1° grado. Una c. si manifesta perché si riesce a mettere in moto e coordinare un insieme di conoscenze, abilità e altre disposizioni interne (interessi, significati, valori, ecc.) al fine di svolgere positivamente il compito o l’attività prescelta. Queste risorse interne debbono essere quindi possedute a un grado di significatività, stabilità e fruibilità adeguato, tale cioè da poter essere individuate e messe in moto quando esse siano necessarie per affrontare il compito richiesto. Tra le risorse che occorre saper individuare, utilizzare e coordinare molto spesso occorre considerare non solo risorse interne, ma anche risorse esterne. Non si tratta solo di risorse di natura fisica o materiale come libri, strumenti di calcolo, computer, ma anche umane come il docente stesso, i compagni, altre persone che è possibile coinvolgere nella propria attività. Si parla oggi di comunità di studenti per indicare che molte volte è la capacità di coordinare la pluralità delle c. possedute dai membri del gruppo che consente di portare a termine il compito o i compiti assegnati. Di qui una definizione sintetica di c. valorizzabile in campo educativo scolastico e formativo: capacità di mettere in moto e di coordinare le risorse interne possedute e quelle esterne disponibili per affrontare positivamente una tipologia di compiti da svolgere e/o di situazioni sfidanti. 2. Sviluppo delle c. Lo sviluppo delle c. è certamente legato alla costruzione di conoscenze e abilità significative, stabili e fruibili, allo sviluppo di disposizioni interiori valide e feconde, ma è la pratica, l’esercizio che ne sta alla base. A questo proposito sono state suggerite varie modalità di intervento per promuoverle nel contesto scolastico. Tra queste, quattro presentano aspetti positivi e qualche problema di attuazione: l’apprendistato cognitivo; la presentazione di una famiglia di situazioni; la pedagogia del progetto; la valorizzazione della situazione-problema (Pellerey, 2004). Lo sviluppo delle c. non avviene solo come complessificazione di sche219
COMPETITIVITÀ
mi interpretativi e d’azione, bensì anche sulla base di un loro adattamento e di una loro valorizzazione in situazioni e contesti diversi da quello nel quale esse sono state sviluppate. Si tratta di ciò che è stato denominato il problema del transfer o trasferimento delle c. La capacità di attivare un processo di transfer o trasferimento delle proprie c., implica lo sviluppo di quattro componenti fondamentali (Pellerey, 2002). In primo luogo occorre promuovere la disponibilità a considerare da un punto di vista superiore le proprie c. in relazione alle nuove situazioni o ai nuovi compiti da affrontare. È una forma di consapevolezza del proprio livello di c. di fronte ai nuovi impegni. In secondo luogo, entra in gioco un’adeguata sensibilità per avvertire, se c’è, la presenza di una distanza tra le c. già acquisite e quelle che si richiederebbero nella nuova situazione. Ciò non basta; occorre anche che si riesca ad avvertire l’entità di tale distanza e quindi quanto impegnativo in termini di tempo e di sforzo personale potrà essere l’adattare o il trasformare le proprie c. In terzo luogo è coinvolta la capacità di individuare quali risorse interne o esterne debbono essere prese in considerazione al fine di affrontare la sfida incontrata. Non solo, se si constata che alcune conoscenze e/o abilità sono inadeguate, essere disponibile ad arricchirle opportunamente. Infine, è bene non dimenticarlo, è richiesta la capacità non solo di giungere alla decisione effettiva di affrontare il lavoro necessario per adattare o trasformare le c. in oggetto, ma anche, e soprattutto, la capacità di impegnarsi per un tempo adeguato e mettendo in campo tutte le forme di controllo dell’azione che consentono di portare a termine la decisione presa. 3. Valutazione delle c. Il riconoscimento da parte degli altri della presenza di una c. non è impresa facile, perché per sua natura una c. è una qualità personale interna non direttamente osservabile. Ciò che possiamo cogliere sono le sue manifestazioni esterne, cioè la capacità di portare a termine validamente i compiti assegnati. Occorre anche dire che di per sé non è sufficiente rilevare una singola prestazione positiva (o negativa) per poter certificare il possesso o meno di una c., bensì occorre disporre di un ventaglio o insieme di prestazioni, sulla base del quale sia possibile 220
arguire la presenza di una c. che costituisca ormai un patrimonio stabile della persona. È possibile, dunque, inferire la presenza di una c. non solo genericamente, ma anche in maniera articolata sulla base di una famiglia di prestazioni, e di un insieme di comportamenti, che svolgono il ruolo di indicatori di esistenza e di livello raggiunto. Solo nel caso di c. elementari che mettano in gioco schemi d’azione di tipo ripetitivo, oppure assai semplici applicazioni di regole e principi, è possibile valutarne l’acquisizione osservando una o poche prestazioni. Dalla constatazione della complessità del processo di valutazione e ancor più di certificazione delle c. deriva l’indicazione di procedere a una raccolta sistematica di elementi documentari provenienti da fonti e secondo metodi diversificati per poter giungere a una conclusione sufficientemente fondata e plausibile. Di conseguenza spesso si suggerisce di procedere secondo un piano di lavoro che si richiama al metodo della «triangolazione», a volte utilizzato nella ricerca educativa e sociale. In sintesi, si tratta di raccogliere informazioni pertinenti, valide e affidabili con una pluralità di modalità di accertamento, in genere almeno tre, che permettono di sviluppare un lavoro di interpretazione e di elaborazione del giudizio che sia fondato e conclusivo. Bibl.: Le Boterf G., De la compétence. Essai sur un attracteur étrange, Paris, Éditions d’Organisation, 1994; Id., Construire les compétences individuelles et collectives, Ibid., 2000; Perrenoud P., Costruire c. a partire dalla scuola, Roma, Anicia, 2003; Varisco B. M., Portfolio, valutazione di apprendimenti e c., Roma, Carocci, 2004; Pellerey M., Le c. individuali e il portfolio, Firenze, La Nuova Italia, 2004; López-Mezquita Molina Ma T., La evaluación de la competencia léxica: tests de vocabulario, su fiabilidad y validez, Granada, Editorial Universidad de Granada, 2007.
M. Pellerey
COMPETITIVITÀ La c. è quella serie di atteggiamenti, comportamenti e processi messi in atto da una pluralità di individui o gruppi sociali che convergono con uguali pretese per il raggiungimento di scopi o risorse identiche, ma
COMPITI EDUCATIVI
fortemente limitate rispetto ad una domanda sempre relativamente eccedente. 1. Distinzioni. Il moltiplicarsi dei soggetti sociali, tratto caratteristico della società complessa, amplifica anche la concorrenzialità rispetto a obiettivi e beni scarsamente riproducibili. Il primo obiettivo della c. è perciò diretto ad ottenere l’oggetto desiderato più che a concorrere con i competitori. Questi vogliono tutti ottenere per sé, sottraendola necessariamente agli altri, la quota più alta possibile della stessa risorsa (reddito, potere, prestigio). La scarsità delle risorse perciò è un elemento essenziale della c., ma non lo è nello stesso modo del → conflitto. Per Park e Burgess, la c. si distingue dal conflitto, in quanto questa è una lotta tra individui o gruppi che non sono necessariamente in contatto, né comunicano tra loro, mentre il conflitto è una contesa in cui il contatto è indispensabile. La c. inoltre è inconscia, mentre il conflitto è sempre cosciente; si manifestano quindi come due tipi di rapporto sociale assai diversi. Dahrendorf però respinge questa distinzione, affermando che sia il conflitto che la c. comportano sempre una lotta per delle risorse limitate (1963). I primi ecologisti hanno considerato la c. come il processo fondamentale dell’umana organizzazione sociale, capace di determinare la stessa distribuzione spaziale e funzionale della popolazione. 2. Prospettive e tipologie. La c. è perciò una categoria che si pone all’incrocio di un sistema sia sociopolitico (c. sociopolitica) che socioeconomico (c. socioeconomica). In questa seconda prospettiva il modello della c. è definito dalla situazione di mercato, in cui le opportunità per competere sono per principio equamente distribuite, come anche le sanzioni sono le stesse per tutti. La c. però viene limitata quando tra i competitori vi è una disuguale distribuzione delle risorse da scambiare, come nel caso del monopolio, in cui il controllo sulla controparte è virtualmente completo. Ciò avviene in modo tipico tra i paesi dipendenti e le multinazionali nei mercati delle materie prime basati su uno scambio ineguale. Infine in una società caratterizzata dal pluralismo culturale si assiste all’emergere anche di una c. socioculturale, di cui un esempio tipico è dato nel campo
della religione dalla concorrenza delle agenzie di significati diverse da quelle religiose o dal diffondersi a macchia d’olio delle → sette religiose. In una prospettiva pedagogica, è tuttora un nodo di discussione l’efficacia della c. nella ricerca del successo, soprattutto in ambito scolastico. In questo contesto essa può essere considerata secondo tre accezioni: come una struttura per l’ → apprendimento (è fatta dal clima, dall’organizzazione, e dall’ethos creato in classe); come tratto di → personalità compulsivamente motivato al successo; come → comportamento teso alla superiorità, nei confronti degli altri, in contrapposizione alla cooperazione. Tutto ciò comporta una serie complessa di fattori dove sono coinvolti atteggiamenti e relazioni interpersonali sia degli insegnanti che degli allievi. Bibl.: Owens L. - R. G. Stratton, The development of a cooperative, competitive, and individualised learning preference scale for students, in «British Journal of Educational Psychology» 50 (1980) 147-161; Bagnasco A. et al., Corso di sociologia, Bologna, Il Mulino, 1997; Comoglio M., Educare insegnando. Apprendere ad applicare il «cooperative learning», Roma, LAS, 2000; Cesareo V. - M. Magatti (Edd.), Comunità, individuo e globalizzazione, Roma, Carocci, 2001; Vasapollo L. et al., Competizione globale. Imperialismi e movimenti di resistenza, Milano, Jaca Book, 2004.
R. Mion
COMPITI EDUCATIVI Possono essere riferiti agli operatori in campo pedagogico – e per estensione alle istituzioni educative – ma anche ai destinat ari coinvolti nei processi educativi, quando vengono designati in quanto soggetti protagonisti della loro educazione. 1. Nella prima accezione, l’espressione c.e. è sinonimo di «finalità», intendendo con questa formulazione l’assunzione, in termi ni pedagogici, dei «fini» assegnati alla pia nificazione sociale dal progetto simbolico che una comunità si è data in una determi nata congiuntura storico-politica. Solita mente le aspirazioni societarie, nella fase 221
COMPLESSITÀ SOCIALE
della loro ideazione, si traducono in inten zionalità educative che vengono assegnate – in quanto e, appunto – al sistema scolastico, globalmente o per qualcuno dei suoi gradi: in questo caso, possiamo avere la definizione di «programmi scolastici» – più o meno prescrittivi nei riguardi degli operatori – i quali, in caso di riorientamenti profondi delle «finalità», possono essere concepit i come vere e proprie «riforme». Queste, in senso proprio, investono ancora più intimamente l’istituzione, giungendo a modificare le regole costitutive sulle quali fondavano, mutando di segno, gli aspetti materiali – strutture spaziali, inquadramento spazio-temporale, profili professionali, caratteri delle utenze – e la cultura interna, ispirando secondo altri → valori il senso delle attività e il significato di norme e comportamenti quotidiani. Sempre in questa prima prospettiva, si tende a parlare diffusamente di c.e. nelle fasi di transizione dei modelli culturali, quando le istit uzioni pedagogiche possono apparire in «crisi» e pertanto prolificano le proposte per i cambiamenti auspicati. Oggi, al passaggio alla società post-moderna, tra inflazione dei c.e. attesi, deflazione dell’immagine pubblica degli insegnanti, ricorso a risorse professionali esterne, in grado di colmare lo scarto rispetto alla manifestazione di bisogni educativi non saturati, sullo sfondo della «caduta del programma istituzionale» della scuola-istituzione, la crisi percepita investe il modo stesso col quale l’insegnante è tenuto a concepire le sue funzioni. 2. In senso più tecnico, circola da una decina d’anni una seconda accezione del termine, nel contesto di una revisione del → naturalismo pedagogico – indiziato di indulgere non-direttivamente ai → bisogni dei soggetti in formazione – e della «pedagogia per → obiettivi» – accusata di precostituire autoritariamente i desideri educativi degli adulti –. Si parla in questo caso di «pedagogia del contratto», all’atto del quale si tracciano le condizioni per un negoziato capace di ottenere la presa in carico, da parte degli studenti, dei c.e. che hanno contribuito a definire e che si sono impegnati a realizzare. Su questa base, l’emergere della soggettività dei «nuovi studenti» ha indotto forme di negoziazione diffusa, continua e latente dei tempi scolastici e dei carichi d’apprendimento. 222
Bibl.: Burguière E. et al., Contrats et éducation, Paris, L’Harmattan-INRP, 1987; R ayou P., La cité des Lycéens, Paris, L’Harmattan, 1998; Derouet J. L., L’école dans plusieurs mondes, Paris, De Boeck, 2000; Dubet F., Le déclin de l’institution, Paris, Seuil, 2002; Drago R., Tempo di scuola. appunti e riflessioni sull’organizzazione del tempo scolastico, 2005, in http://ospitiweb.indire.it/ adi/temposcuola/temposcuola_bibliografia.htm (contatto del 24.06.07).
E. Damiano
COMPLESSITÀ SOCIALE La c.s. costituisce oggi una delle caratteristiche più comuni, assai utilizzate dalla sociologia attuale per definire in maniera più appropriata la società contemporanea, precisamente come «società complessa». Nel gergo comune, complesso è tutto ciò che appare di difficile comprensione ed organizzazione. Tuttavia per una definizione sociologicamente più precisa di c.s. è necessario fare riferimento alla categoria di sistema, che concettualmente designa la possibilità di descrivere come unitaria una pluralità di elementi distinti e le corrispettive relazioni tra le parti che lo compongono. 1. Storia del concetto. Nella cosmologia medioevale sistema indicava tutto ciò che poteva essere pensato come composto, in contrapposizione a ciò che era considerato semplice. Oggi il concetto di c.s. viene descritto come indefinita molteplicità di soggetti sociali e di nessi causali, con il conseguente aumento delle relazioni tra elementi uguali. Una caratterizzazione emblematica, fatta sua dallo stesso Luhmann (1992), descrive la c.s. come un sistema che varia direttamente con il variare: a) del numero e della diversità delle sue componenti; b) dell’ampiezza e dell’interdipendenza relazionale fra di esse; c) delle loro relazioni e della loro variabilità nel corso del tempo. La c.s. può essere considerata quindi a un duplice livello: a) a livello macrosociologico, c. designa lo stato di un sistema sociale così differenziato e ricco di relazioni talmente numerose da rendere difficile l’organizzazione unitaria del sistema; b) a livello microsociologico, c.s. indica un sistema sociale che offre molteplici possibili-
COMPLESSITÀ SOCIALE
tà di scelta, di controllo e di conoscenza, che sono superiori alla stessa capacità di scelta, di controllo e di conoscenza gestibili da una persona ordinaria. 2. Definizione e caratterizzazioni della società complessa. «Società complessa» perciò è quella caratterizzata da un’ampia differenziazione e specializzazione degli attori sociali, dei soggetti, dei sottosistemi politici, economici, culturali, e delle funzioni sociali («specializzazioni funzionali»), da un aumento e differenziazione delle relazioni tra gli stessi, oltre che da una forte imprevedibilità dei loro comportamenti, in ragione di un progressivo allentamento delle relazioni e delle logiche connettive. Nella pluralità, differenziazione e specializzazione dei soggetti, aumenta la difficoltà di interazione per l’aumento della flessibilità e della contingenza come molteplicità di possibilità. All’aumento aritmetico dei soggetti, crescono in proporzione geometrica ed esponenziale le relazioni, e con esse le difficoltà di governare il sistema. Ciò provoca ed esige migliori e più qualificate capacità di adattamento e di coordinamento. Il venir meno poi di valori e norme universali fa aumentare l’individualità dei singoli sottosistemi, la loro libertà e autonomia, che rendono così sempre più problematica e difficile l’interdipendenza delle relazioni. Si giunge perciò a caratterizzare una società complessa come una società acentrica, «a reticolo», articolata in innumerevoli sottosistemi privi di un organo centrale, quasi in contrapposizione alla società gerarchica, organica, strutturata e al paradigma delle società tradizionali del passato, dove dominava una scala di valori, di verità, di autorità, comunemente riconosciuta e accettata che costituiva la chiave di volta del sistema sociale e dell’identità personale. Nelle società complesse, in sintesi, al paradigma gerarchico viene sostituito quello funzionale, rappresentato da un insieme di sottosistemi autonomi, aventi ciascuno propri codici, anche normativi, non definiti da altri. 3. C. e ordine sociale. Come è possibile allora l’ordine sociale? Attraverso la riduzione della c., l’aumento della comunicazione tra i sistemi e la fluidità nei processi di reciproca interpenetrazione, è possibile essere in grado di tenere insieme i sistemi personali e i siste-
mi sociali. Se la differenziazione sistemica suddivide la precedente attività unitaria in diversi sottosistemi, specifici e specializzati, l’interpenetrazione luhmanniana mette in risalto il fatto che determinate componenti di un sottosistema entrano a far parte di un secondo senza cessare di far parte del primo. Infatti all’avanzata differenziazione delle società contemporanee corrisponde una marcata interdipendenza e interpenetrazione dei sistemi sociali: così il sistema economico, mentre è influenzato dal sistema politico, vi risponde manifestando esso stesso un certo influsso sulle decisioni di tipo politico. Valori e pratiche della solidarietà, espressi dalla comunità e dal sistema socioculturale, permeano sia l’agire politico che l’agire economico; egualmente numerose attività educative, proprie del sistema socioculturale, sono svolte regolarmente anche dal sistema economico e dal sistema politico. 4. C.s. e identità personale. Per l’inedita enfatizzazione dell’autodeterminazione nelle società complesse ogni individuo è chiamato a definire la propria → identità, il proprio ruolo, la propria gerarchia di valori sulla base di una personale opera di educazione. Nulla più è dato od acquisito una volta per sempre. Tutto è frutto di una difficile mediazione tra individuo e ambiente sociale, tra i fattori, esterni ed interni, culturali e strutturali, che interagiscono nella definizione dell’identità, del ruolo e della stessa coscienza dell’individuo. Questa evoluzione, di per sé positiva, comporta però dei costi in termini di → stress rispetto al proprio successo individuale, oltre che la difficoltà a comporre in un’identità unitaria le molteplici appartenenze ai distinti sottosistemi. Ne derivano allora almeno tre possibili modelli educativi: a) un modello «debole», che tende a rimuovere come non significativo il problema dell’identità, per risolversi nell’inseguimento delle molteplici, emergenti e mutevoli dimensioni dell’esistenza; b) un modello «rigido», che tende a ricostruire artificialmente identità dure e irriducibili contro la differenziazione policentrica della società; c) un modello «flessibile», che tende a porre la domanda sull’identità a partire dall’esperienza della differenza, stabilendo come interlocutori la coscienza e la norma e come metodo il confronto e la ricerca. 223
COMPLESSO
Bibl.: Lanzara G. F. - F. Pardi, L’interpretazione della c.: metodo sistemico e scienze sociali, Napoli, Guida, 1980; Barbano F. - M. Talamo, C. s. e identità, Milano, Angeli, 1985; Luhmann N. - R. De Giorgi, Teoria della società, Ibid., 1992; Gramigna A. - M. R ighetti, Multimedialità e società complessa. Questioni e problemi di pedagogia sociale, Ibid., 2001; Savagnone G., La scuola nella società complessa, Brescia, La Scuola, 2002; Pasqualini C., Gli adolescenti nella società complessa. Un’indagine sui percorsi biografici e gli orientamenti valoriali a Milano, Milano, Angeli, 2005; Bauman Z., Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2006; Id., Il disagio della postmodernità, Milano, Mondadori, 2007.
2. Attualmente, il termine c., preso in modo a sé stante, è ormai abbandonato nel linguaggio psicoanalitico; sono invece frequentemente usate le espressioni c. di Edipo e c. di castrazione intendendo con ciò riferirsi ad una struttura emotivamente centrale presente in una particolare fase della formazione della → personalità.
COMPLESSO
Bibl.: Green A., Il c. di castrazione, Roma, Borla, 1991; Jung C. G., L’inconscio, Milano, Mondadori, 1992; De Rosa E. - L. R inaldi, Edipo nel mito, nella tragedia, nella psicoanalisi, Castrovillari, Teda, 1992; Bollas C., Perché Edipo?, Roma, Borla, 1993; Dieckmann H., I c. Diagnosi e terapia in psicologia analitica, Roma, Astrolabio, 1993; Lacan J., I c. familiari nella formazione dell’individuo, Torino, Einaudi, 2005; Young R. M., C. di Edipo, Torino, Centro Scientifico, 2006.
Insieme di idee, rappresentazioni e ricordi di elevato valore affettivo, parzialmente o totalmente inconsci, che influiscono sul → comportamento abituale.
COMPORTAMENTISMO
R. Mion
1. Un primo accenno a tale organizzazione inconscia venne fatto da J. Breuer e S. → Freud nei loro Studi sull’isteria (1893-1895), i quali segnalarono che in certi soggetti esistono dei c. di rappresentazione, che, sebbene rimossi, sono attivi. Successivamente, partendo dall’analisi delle reazioni emotive al test delle associazioni di parole, → Jung, tra il 1904 e il 1911, approfondì il concetto di c., intendendolo come un insieme strutturato e attivo di rappresentazioni, pensieri, sentimenti e comportamenti, in parte o completamente inconsci, che ruotano attorno a uno o più archetipi emotivamente carichi. Egli inoltre sottolineò che il c. più che agire nell’individuo, agisce l’individuo. Freud considerò gli apporti di Jung come la dimostrazione della validità dei suoi studi sull’ → inconscio, ribadendo comunque che il concetto di c. era troppo vago e insoddisfacente sul piano teorico e che si prestava a fare da schermo invece che da stimolo per un autentico approfondimento delle dinamiche inconsce. Nonostante ciò J. Lacan, nei suoi Scritti (1966), lo ha definito: «Il più concreto e più fecondo concetto che sia stato apportato nello studio del comportamento umano». 224
V. L. Castellazzi
Il c. è un movimento psicologico, che, sorto nei primi anni del sec. XX, ha dominato la psicologia sperimentale dagli anni ’40 agli anni ’60, dando vita poi ad alcune ramificazioni del → cognitivismo basato sull’Human information processing e ad alcune solide applicazioni in campo terapeutico, riabilitativo ed educativo. L’unica forma di c. genuino tuttora vitale è quella che si rifà a → Skinner e che va sotto il nome di c. radicale od operante. Le altre forme di c., quale ad es. quello paradigmatico di Staats, ne costituiscono forme decisamente ibride. 1. Venendo alle origini, il primo c., che trova in → Watson il suo più autorevole rappresentante, affonda le sue radici nel → funzionalismo di Carr e nel prammatismo di → James, ponendosi in netta contrapposizione alla visione strutturalistica di Titchener, dominante nella psicologia amer icana dei primi del secolo. Al centro del primo c., vi è il rifiuto dell’introspezione come strumento elettivo per lo studio della psicologia umana. Tale atteggiamento si fondò su premesse eminentemente metodologiche. I dati forniti dagli introspezionisti, infatti, erano a quel tempo decisamente contraddittori, non prestandosi
COMPORTAMENTISMO
affatto a fornire spunti degni di una efficace conoscenza scientifica. Naturalmente il ri fiuto dell’introspezione portò con sé anche una riluttanza, endemica a tutti i comportamentisti dell’epoca, a studiare i processi cognitivi, affettivi ecc. dell’uomo, dato che essi non potevano essere esaminati con gli strumenti che la scienza del tempo poteva loro fornire. Al posto della mente, quindi, essi sostituivano il comportamento come oggetto elettivo della ricerca comportamentistica; al posto della struttura mentale, statica rappresentante di una psicologia considerata a quei tempi obsoleta, la relazione tra fattori ambientali e comportamento umano, in piena armonia con quanto Darwin aveva introdotto nello studio della biologia. 2. Naturalmente, il fatto di non poter stu diare scientificamente fenomeni quali il pensiero, la memoria, l’affettività ecc., non voleva assolutamente implicare un giudizio sulla loro esistenza. Tali fenomeni esistono, eccome. Solo che per il c. della prima generazione, mancavano gli strumenti idonei ad affrontarli in modo sistematico e scientificamente accettabile. Anticipando Wittgenstein, Watson sosteneva il dovere di parlare solo di ciò che si sa, accettando umilmente l’elevato tasso d’ignoranza della psicologia del tempo. Infine, a dare vigore al c. watsoniano, contribuì non poco la sua visione progressiva ed ottimistica dell’essere umano, il quale, modificando l’ambiente nel quale si trovava a vivere, potrebbe raggiungere livelli insperati in termini di qualità di vita e di successo personale e sociale. Fu grazie a questa visione progressiva dell’uomo e della società, che Watson scelse come suo campo elettivo d’indagine l’apprendimento animale ed umano, dimostrando, con ricerche che hanno segnato la psicologia del tempo e non solo quella, l’enorme grado di adattamento dell’uomo alle cangianti situazioni di vita. 3. Il movimento iniziato da Watson ebbe la fortuna di attirare l’interesse di numerosi scienziati a lui successivi. Tra questi men zione particolare va a Guthrie, Hull, Skinner e Tolman. Ciò che univa i quattro leader della seconda generazione di comportamentisti era da un lato la filosofia progressiva già enunciata da Watson, dall’altro il convincimento che la metodologia scientifica costitu-
iva il mezzo per produrre una conoscenza se non vera, certamente attendibile e sistematica. Al di là di questi elementi accomunanti, furono molti poi quelli che differenziavano l’impianto teorico ed esplicativo elaborato da ognuno di loro. Così Guthrie divenne il paladino di una concezione ultramolecolaristica dell’uomo, creando i presupposti per la crea zione della psicologia matematica applicata al comportamento umano; Hull, che ambiva a divenire il Newton della psicologia moderna, costruì un sistema teorico estremamente articolato, alla cui base poneva assiomi e postulati dai quali faceva discendere matematicamente delle ipotesi empir icamente verificabili; Skinner, interessato allo studio delle relazioni tra comportamento e conseguenze da esso prodotte, mostrò invece sfiducia verso la costruzione teorica, garantendo al suo movimento quella duttilità e capacità d’adattamento che gli hanno garantito la sopravvivenza; Tolman, infine, introdusse nel suo tessuto teorico alcuni elementi mutuati dalla → psicoanalisi freudiana e dal cognitivismo del tempo, collocandosi come un’interfaccia tra il c. «hard» dei suoi colleghi e gli alt ri movimenti psicologici e più largamente culturali del tempo. Come si vede è errato parlare del c. come di una scuola monolitica, al pari della → Gestalt o della psicoanalisi freudiana. Manca ad esso quell’unitar ietà di fondo che ne costituisce la premessa inevitabile. 4. Se poi prendiamo in considerazione il linguaggio usato da ognuno dei quattro leader del c. della seconda generazione, esso si differenzia in modo piuttosto marcato, passando dal linguaggio S-R (stimolo - risposta) di Guthrie, a quello S-O-R (stimolo, organismo, risposta) di Tolman ed infine a quello R-Sr (risposta e conseguenza) di Skinner. Da tale frammentazione, discende una conseguenza ovvia, tale da sfiorare la banalità: non è possibile criticare il c. in toto. Ciò che è lecito è invece criticare la costruzione teorica costruita da ognuno dei comportamentisti più rappresentativi. 5. Che ne è ora del c.? Passata l’epoca del le contrapposizioni dal sapore più ideologico che scientifico, è maturo il tempo in cui è possibile pervenire a delle conclusioni sul c., così come si è evoluto. a) La prima di esse 225
COMPORTAMENTO
è che l’approccio S-R, che ha caratterizzato la visione di Guthrie, Hull e dei loro allievi e più recentemente quella di Eysenck e di Wolpe, i quali hanno voluto inserire tra la S e la R la O di organismo, ha raggiunto i limiti della sua evoluzione. Esso era troppo collegato alla concezione pavloviana dell’apprendimento umano e della sua patologia e ha pagato inevitabilmente la perdita di consenso che ha caratterizzato negli ultimi anni l’inevitabile parabola discendente del paradigma pavloviano. Tuttavia è doveroso ricordare alcune tra le applicazioni terapeutiche che sono state dedotte dalle diverse teorie che si rifanno all’approccio S-R mitigato da Eysenck e Wolpe. Esse hanno a che fare con lo studio di alcune psicopatologie tra le quali i disturbi ansiosi (→ ansia) e quelli ossessivocompulsivi, sui quali sono state elaborate interessanti ipotesi eziogenetiche e proposte strategie d’intervento ad alta efficacia quali la desensibilizzazione sistemat ica, il flooding ecc. b) La seconda conclusione è che il c. prima maniera è virt ualmente inesistente, essendosi intrecciato con alcune impostazioni cognitivistiche sia in ambito sperimentale che in quello clinico. Per quanto riguarda il primo di questi, basti ricordare i numerosi modelli elaborati per dar conto dei diversi meccanismi mnestici nei quali è ancora dominante la visione associazionistica tipica dei primi comportamentisti. Per quanto concerne il secondo è sufficiente ricordare alcune tecniche tra le quali lo stress management di Meichembaum e il problem solving di D’Zurilla ecc. che hanno mutuato alcuni dei loro fondamenti teorici dalla ricerca S-R, oltre che da quella skinneriana. c) La terza conclusione ha a che vedere con la crescente diffusione della visione skinneriana, che superata una fase di appannamento, vede ora un secondo rinascimento sia nel campo della ricerca teorica che in quello applicativo. È recente l’elaborazione di una psicoterapia fondata integralmente sui principi di Skinner, che ha riscosso l’interesse del mondo accademico grazie ai lusinghieri risultati ottenuti nei confronti di numerose anomalie comportamentali. 6. Queste forme di lotta per la sopravvivenza del c., assorbito in alcuni casi all’interno di altri mondi teorici od evolutosi in modo imprevedibile rispetto all’itinerario iniziale, 226
non possono non incuriosire, in quanto in palese contrasto col principio di confutazione di popperiana memoria. Tale capacità di sopravvivere a se stesso, modificandosi non costituisce affatto una sorpresa se si riflette sul fatto che il c. non è mai stato solo una visione scientificamente testabile del mondo e dell’uomo. Infatti esso contiene una filosofia che si rifà all’associazionismo inglese ed al prammatismo americano, che si colloca in contrapposizione alle visioni innatistiche e limitanti dell’uomo a favore di una nella quale l’uomo è visto come «faber est suae quisque fortunae». Come dice → Dewey «è sempre presente la tendenza alla contrapposizione tra due scuole. La prima sottolinea gli aspetti originari ed innatistici della natura umana; la seconda, invece, la fa dipendere dall’ambiente sociale» (1930, 7). Fintanto che l’uomo vorrà vedersi come causa del proprio destino e non espressione totalizzante di un gioco genetico, vi sarà sempre spazio per una visione psicologica, che in un modo o nell’altro si richiamerà al c. Bibl.: Watson J. B., Behaviorism, New York, Norton, 1924 (trad. it. Il c. Firenze, Giunti-Barbera); Dewey J., Human nature and conduct, New York, Modern Library, 1930; Hull C. L., Principles of behaviour, New York, Appleton-CenturyCrofts, 1942; Tilquin A., Le behaviorisme, Paris, Vrin, 1950; Tolman E. C., Purposive behavior in animals and men, New York, Appleton-CenturyCrofts, 1962; Naville P., La psychologie du comportement, Paris, Gallimard, 1963; M ackenzie B. D., Il c. e i limiti del metodo scientifico, Roma, Armando, 1980; M eazzini P., Il c.: una storia culturale, Pordenone, ERIP, 1980.
P. Meazzini
COMPORTAMENTO Il c. è un modo di agire, una condotta, un contegno. Implica un aspetto sociologico in quanto gli effetti del c. interessano i rapporti interpersonali ed ambientali in genere, e un aspetto psicologico che riguarda le motivazioni del c. e le soddisfazioni o insoddisfazioni che derivano al soggetto dai c. attuati. Può riguardare inoltre il c. collettivo con tutti i risvolti psicosociali che ne derivano. Importante, in senso psicologico, è, come si è
COMPRENSIONE
accennato sopra, lo studio delle motivazioni che inducono il c. 1. Storia. È noto che dopo gli studi di Thorndike sull’intelligenza animale, → Watson nei primi decenni del 1900 diede inizio ad una Scuola denominata «behaviorista» che si prefissava di studiare il c. umano come risposta ai vari stimoli che il soggetto può ricevere sia dall’interno che dall’esterno del proprio organismo. Con questa metodologia, analoga a quella usata da Pavlov per i riflessi condizionati, si aveva il vantaggio di poter misurare con sufficiente esattezza il numero e l’intensità degli stimoli e delle risposte, giacché erano tutte cose osservabili. Evidentemente venivano trascurate l’elaborazione interiore operata dalla psiche del soggetto e le motivazioni coscienti o inconsce che determinano le risposte, come pure l’intenzionalità e la progettazione che ciascun individuo può operare. Tuttavia i primi ricercatori in questa direzione, fra cui il rinomato → Skinner, insistettero molto sull’indispensabilità della quantificazione dell’osservabile, in modo da avere dati incontrovertibili e procedimenti scientificamente esatti. È chiaro però che si è resa sempre più imperiosa la necessità di studiare i processi cognitivi e soprattutto quelli emozionali con indagini anche intra psichiche e con l’uso di test che dovrebbero rivelare le situazioni inconsce, in modo da avere accanto ai risultati quantificabili dei c. esterni, anche dei dati riferentisi ai processi intrapsichici. È vero che questi ultimi hanno bisogno di interpretazione e non garantiscono l’oggettività, però è anche vero che data la complessità della psiche non si può pretendere di sondarla con un’unica metodologia o con un solo tipo di strumenti, ma si deve fare uso di qualsiasi mezzo valido si abbia a disposizione per poter ottenere il massimo numero di dati attendibili. 2. Situazione attuale. Oggi si parla più volentieri di Scuole cognitivo-comportamentali che, come molte altre Scuole, non trascurano l’apporto di elementi provenienti da fonti diverse. Si va molto più volentieri verso l’interdisciplinarità, che si considera più efficiente e più sicura. Il c. rimane in molte circostanze il dato di partenza indispensabile per poter risalire poi a conoscenze più approfondite.
3. Condizionatori del c. Possono essere condizionatori biologici, psicologici e sociologici. Fra i condizionatori biologici: a) l’organismo nella sua globalità, in quanto a seconda della sua struttura di base, potrebbe essere (seguendo la nomenclatura di De Lisi): forte, celere, abile, agile; forte, lento, inabile, pesante; debole, celere, abile, agile; fiacco, lento, inabile, impacciato. Si possono riscontrare anche forme intermedie; b) la struttura e le funzioni del sistema nervoso, del sistema endocrino e di quello immunitario nelle loro particolarità. Fra i condizionatori psichici: l’immagine di sé che il soggetto si è formata; l’armonizzazione delle varie componenti della → personalità che si è determinata durante lo sviluppo; la governabilità delle pulsioni; le produzioni della fantasia; la gestione dell’ → ansia. Fra i condizionatori sociali si ricordano: i sentimenti, gli atteggiamenti e i c. degli altri sia come singoli individui, sia come società, le condizioni fisiche ambientali. Bibl.: a) I classici: Watson J. B., Behaviorism, New York, 1924; Tolman E. C., Purposive behavior in animals and men, London, 1932; Russel E. S., The behaviorism of animals, London, 1934. b) I moderni: Polizzi V., Psiche e soma, Roma, LAS, 1976; Oliverio A., Biologia e c., Bologna, Zanichelli, 1982; Bruno F. J., Adjustment and personal growth, New York, Wiley, 1983; Andreoli V., La norma e la scelta, Milano, Mondadori, 1984; A rto A., Crescita e maturazione morale, Roma, LAS, 1984; Polizzi V., L’identità dell’homo sapiens, Ibid., 1986; Pancheri P. et al., Trattato italiano di psichiatria, Milano, Masson, 1993; R enna L. (Ed.), Neuroscienze e c. umano, Roma, Vivere In, 2006.
V. Polizzi
COMPRENSIONE Il termine c. può indicare realtà diverse: un processo di decodificazione o il suo risultato finale, il significato espresso da una conversazione, un’intuizione empatica. La c. si realizza in svariate situazioni: nella → lettura, nell’ascolto, nella conversazione, in una → comunicazione verbale e/o non verbale, nella interazione diretta, diadica o di gruppo con o senza possibilità di feedback, come nella comunicazione di massa, tra persone che si 227
COMPRENSIONE
conoscono o non si conoscono, ecc. Si parla di c. in riferimento a differenti modalità di codificazione: verbale, non verbale, visiva, artistica, letteraria, poetica, ecc. Poiché la capacità di c. è soggetta a sviluppo e dipende da vari fattori individuali, si parla di buona e scarsa abilità di e, di buona o scarsa capacità di eterocentrarsi empaticamente o no. 1. C. e codificazione. Spesso la c. viene inconsapevolmente assunta come specularmente opposta al processo di codificazione. I processi di c. e quelli di codificazione possono dirsi specificamente diversi per vari motivi. Il processo di codificazione è un’attività di distribuzione dell’informazione su presupposizioni fatte sul ricevente, mentre il processo di c. ricostruisce il significato a partire dalle informazioni a disposizione e di quelle già possedute. Il ritmo di comunicazione è deciso da colui che comunica; il processo di c. richiede un’adeguazione a questo ritmo (nella comunicazione orale), o è totalmente svincolato da esso (nella comunicazione scritta). Il risultato finale del processo di c. è più vasto (e spesso anche diverso) da quello supposto dal comunicante e nella conversazione è più oggetto di costruzione che di semplice ricezione. La ricerca sui processi di c. è stata molto vasta e così intensa che, quanto è stato prodotto in questi ultimi decenni, supera quello svolto nell’ultimo secolo. Non potendo esaminare i processi di c. di ogni tipo di comunicazione, ci limiteremo ad alcuni aspetti della c. testuale scritta come fenomeno esemplare e tipico di molte modalità comunicative. 2. Processi di c. La c. sembra dipendere sostanzialmente dalla capacità strutturale della mente di utilizzare strategie e meta-strategie. Il processo di c. è sollecitato dallo stimolo linguistico (processo di bottom up, vale a dire dallo stimolo linguistico alla rappresentazione semantica) che attiva le conoscenze previe. La disponibilità di conoscenze previe e la loro attivazione fanno sì che si metta in azione un processo di top down (vale a dire dalle conoscenze presenti nella memoria allo stimolo) che conduce il processo stesso di c. La grande quantità di informazioni veicolate in un messaggio e la velocità con cui vengono veicolate richiedono nel ricevente capacità e flessibilità nel produrre un’ipo228
tesi di significato e una sua falsificazione a partire da nuove informazioni che vengono via via acquisite. Questo è particolarmente necessario e decisivo quando in mancanza di conoscenze previe il processo di c. è principalmente un processo di top down. In questo caso il processo di c. è assai simile a quello scientifico di correzione dell’ipotesi a mano a mano che sopraggiungono nuove informazioni. Le capacità limitate di elaborazione della memoria richiedono processi di selezione e cancellazione di informazioni ritenute non importanti e di integrazione che permettono di costruire progressivamente una rappresentazione astratta del significato che viene acquisito. Il variare della modalità (qualitativa e quantitativa) con cui vengono trasmesse le conoscenze, richiede un uso flessibile di strategie opportune ed efficaci secondo il mutare delle difficoltà del testo o dell’argomento. Poiché ogni comunicazione si basa sul presupposto pragmatico di codificare solo quegli elementi di informazione che si ritengono sufficienti a rendere comprensibile e conciso il messaggio, ogni attività di c. comporta l’uso di conoscenze previe e lo svolgimento di processi inferenziali di completamento o arricchimento del testo. Tale processo spesso può diventare causa di fraintendimenti. La capacità di c., infine, è determinata dall’abilità e competenza a svolgere agilmente e precisamente i processi richiesti e a gestire le risorse disponibili in base a ciò che deve essere conseguito. 3. Strategie e metastrategie di c. L’attività di c. è ulteriormente specificata dalla capacità del ricevente di applicare strategie culturali, sociali, interattive, pragmatiche, stilistiche e retoriche, strategie proposizionali, macrostrategie semantiche e metastrategie. Le strategie culturali sono modalità operative che un ricevente mette in azione a partire da informazioni su differenti luoghi geografici, strutture sociali, istituzioni, eventi, situazioni comunicative, linguaggi, tipi di discorso, atti di parola, condizioni di coerenza locale e globale, norme, modi di ordinare un’informazione, ecc. Le strategie sociali sono operazioni che agiscono su informazioni fornite dal contesto sociale di un gruppo, da istituzioni, da ruoli e funzioni che devono assumere i comunicanti, dai possibili atti di parola che possono essere eseguiti in una
COMUNICAZIONE
situazione comunicativa, dalle differenze di stile relative ad una struttura sociale. Le strategie interattive sono tutte le operazioni cognitive di selezione o di predisposizione delle informazioni da comunicare o degli atti linguistici da eseguire a partire dagli scopi, intenzioni, desideri, preferenze, opinioni, ideologia e personalità di colui che parla o ascolta, ecc. Tutte queste informazioni che reciprocamente due o più comunicanti si scambiano, sono fonti interpretative dei loro messaggi, modificano la forma della comunicazione ed esigono particolari strategie per interpretarla. Le strategie pragmatiche sono un gruppo specifico di strategie interattive. Mentre le precedenti si riferiscono al livello generico e previo della situazione interattiva, le informazioni pragmatiche sono ristrette invece all’atto di parola espresso in una specifica situazione linguistica. Si definiscono strategie stilistiche e retoriche quelle operazioni cognitive che permettono di identificare e qualificare le informazioni comunicate dalla forma stilistica o retorica. La forma comunicativa di molti tipi di discorsi dipende infatti dallo scopo di persuadere, divertire, indurre un senso estetico, ecc. È per questo che vengono scelte figure retoriche (metafore, uso di contrasti, allitterazioni, ripetizioni, analogie, ecc.). Se un ascoltatore vuole comprendere il messaggio non può, quindi, esimersi dall’uso di strategie stilistiche e retoriche, che gli suggeriscono il significato reale delle parole o delle frasi a partire dalle costrizioni formali date dal testo. Le strategie proposizionali sono operazioni tese innanzitutto alla costruzione delle proposizioni. Le macrostrategie semantiche sono operazioni capaci di inferire da diversi atti linguistici o da una serie di proposizioni il significato globale codificato in esso. Le metastrategie sono operazioni che indicano orientamenti e regole da seguire ad un livello superiore delle varie strategie sopra elencate. Esse si incaricano della selezione delle strategie opportune per conseguire lo scopo e del controllo costante di come esse operano, decidono il ritmo da tenere nello svolgimento dei processi, valutano l’opportunità di introdurre nuovi processi a seconda della necessità e pianificano la sequenza delle operazioni da svolgere. Hanno lo scopo di stabilire l’argomento, la sostanza, la macroproposizione di un testo o di indicare,
ad es. se un testo parla di qualche cosa di reale o di fantastico. Bibl.: Flood J. (Ed.), Understanding reading comprehension: cognition, language, and the structure of prose, Newark, International Reading Association, 1984; Singer H. - R. B. Rud dell (Edd.), Theoretical models and processes of reading, Ibid., 1985; Van Dijk T. A., Handbook of discourse analysis, voll. 1-5, London, Academic Press, 1985; Just M. A. - P. A. Carpenter, The psychology of reading and language comprehension, Boston, MA, Allyn & Bacon, 1987; Ho rowitz R. - S. J. Samuels (Edd.), Comprehending oral and written language, New York, Academic Press, 1987, 161-196; Van Dijk T. A., News as discourse, Hillsdale, Erlbaum, 1988; Ruddell R. B. - M. R. Ruddell - H. Singer (Edd.), Theoretical models and processes of reading, Newark, International Reading Association, 41994.
M. Comoglio
COMPUTER → Informatica → Mezzi didattici
COMUNICAZIONE La c. costituisce un fattore essenziale che consente di umanizzare la nostra vita. Individui e sistemi sociali per es. famiglia, situazioni lavorative, educazione, religione) possono ricevere degli stimoli, per una maggiore umanizzazione e cooperazione vicendevole, da significative forme comunicative. Esperienze negative nel relazionarsi agli altri (per es. solitudine, insoddisfazione) possono essere superate ed invece essere sperimentate situazioni positive (per es. sentirsi accettato, potersi fidare degli altri). 1. La definizione della c. Un primo problema considerevole riguarda la definizione della c. Si parla di c. mass-mediatica, di c. sociale, di c. di gruppo, di c. intrapsichica, di c. interpersonale. In ognuna di queste forme di contatto la c. è stabilita secondo particolari principi e leggi. Qui si tratterà la c. in riferimento a soggetti che interagiscono nelle diverse situazioni interpersonali. Una c. di questo genere è caratterizzata da alcune dimensioni comuni: a) le funzioni, che evidenziano lo scopo della c.: trasmissione di informazioni, comprensione o interpretazione, 229
COMUNICAZIONE
scambio di gratificazione, partecipazione a qualcosa, comportamento sociale ed, infine, interazione; b) gli elementi costitutivi: fondamentalmente possiamo distinguere due elementi costitutivi nella c.: quello contenutistico e quello relazionale. Il primo comprende essenzialmente i contenuti che vengono trasmessi nella c., fondamentalmente regolati dalle competenze linguistiche (lessicale, sintattica e pragmatica). Il secondo riguarda invece i comportamenti che vengono posti in essere dalle persone in interazione. Tra i comportamenti sono rilevanti quelli seriali (azioni-reazioni), la gestione del controllo, come scambio, e modo e maniera dell’agire sociale; c) l’organizzazione della c. Riguarda i modi e le norme che regolano il vicendevole interagire tra le persone. In questo caso è rilevante osservare determinati principi e regole al fine di interagire in maniera significativa: ad es. per costituire una piattaforma comunicativa aperta, per garantire relazioni cooperative, per raggiungere gratificazioni vicendevoli e per favorire la creazione di un «noi». 2. Per una c. significativa. Un altro argomento rilevante nello studio della c. riguarda il significato, i principi e le regole per stabilire c. significative. I primi riguardano fondamentalmente aspetti relativi al significato, alle condizioni ed alle qualità processuali della c. Sono interessanti i contributi che provengono dalla filosofia dell’intersoggettività e dalla filosofia del dialogo, specie per ciò che riguarda il rapporto io-tu, il noi, la libertà e la reciprocità del comunicare. Non meno significativi sono i contributi della teologia, particolarmente riguardo al carattere dialogale ed affettivo della relazione Dio-uomo; al rapporto di carità tra gli uomini; al carattere comunitario della vita di fede. Notevoli apporti si trovano anche nella sociologia. Relazioni sociali positive avvengono, secondo alcuni studiosi, quando la persona si muove in senso proattivo nella vita sociale, o quando la società è fondata su solidi principi (per es. economici, del diritto). Contributi sono forniti anche dalla psicologia, quando studia la socializzazione dell’individuo, quando tratta il comportamento sociale e, infine, quando si riferisce alla positiva piattaforma comunicativa. Da studi condotti in sociologia si evince che comportamenti di insicurezza, disconferme, atteggiamenti e singole compe230
tenze stanno in rapporto con lo sviluppo della personalità. Cosi è come dagli studi della psicologia sociale conosciamo l’importanza dell’attrazione interpersonale, della c. nonverbale, dei processi percettivi, delle competenze comunicative, dello stile attributivo, delle relazioni personalizzate e dell’amicizia per la creazione di significative relazioni interpersonali. Gli apporti positivi della psicologia clinica e della psicologia educativa aiutano a costruire significativi rapporti nelle diverse relazioni interpersonali. Tuttavia i contributi maggiori circa la c. possiamo oggi ottenerli dalle scienze sulla c. Così si sa dal modello informatico-cibernetico che, per essere compresi, bisogna controllare per es. i disturbi, il tipo di persona, il tipo di mezzo che fa da tramite. Rilevanti apporti provengono dai modelli della pragmatica linguistica. Tra i maggiori vi sono la grammatica generativa, secondo la quale si distingue tra competenza e performance (realizzazione) nel comunicare, e dalla quale deriva la constatazione che la realtà comunicativa è in funzione delle esperienze e dell’argomentazione degli interlocutori. I modelli sulla c. interpersonale, che considerano l’agire come agire sociale, partono presupposto fatto che in ogni c. vengono anche realizzate delle azioni. Della c. pragmatica si può parlare quando si vede il segno in relazione all’uso che la persona ne fa. Un altro contributo proviene dalla linguistica. Secondo questo riferimento possono essere distinti atti linguistici di tipo performativo (atto di realizzazione) e di tipo proposizionale (indice referenziale) o forme di tipo comunicativo, constatativo, rappresentativo e regolativo. Validi principi provengono anche dall’interazionismo simbolico. Secondo questo modello la c. si sviluppa come una c. discorsiva quando le persone creano una piattaforma comunicativa in cui i membri si sentono liberi di intervenire in riferimento alle loro esperienze; quando possono partecipare con i loro atti linguistici in relazioni paritarie; e quando, allo stesso tempo, sentono che il criterio della verità è riferito al consenso della maggioranza. Infine sono da ricordare i modelli di contatto. Questi sono stati sviluppati dal behaviorismo ed hanno come obiettivo quello di conoscere i processi di equilibrazione tra i gruppi sociali. Fondamentalmente si viene a conoscere quali c. creano un clima umano positivo e produttivo.
COMUNICAZIONE
3. C. e relazione. Lo studio della c. espone anche delle proposte per comunicare nelle diverse situazioni del relazionarsi tra persone nel mondo. In rapporto a queste diverse situazioni si distinguono: a) i problemi legati all’accettabilità ed all’attribuzione. Essi concernono fondamentalmente le questioni esprimibili in termini interrogativi quali: «Vediamo l’altro come è realmente?», «Vediamo l’altro come si sperimenta?», cioè «Comprendiamo l’altro come è realmente?», «L’altro ha l’impressione che noi lo percepiamo come lui si sente?», «L’altro è per me di qualche interesse?». Tali situazioni comprendono i processi relativi all’attribuzione reattiva e proposizionale, all’implicazione dei tratti, alla formazione di impressioni ed alla previsione del comportamento futuro. La persona riuscirà a realizzare questi processi in modo significativo se nel selezionare e organizzare gli stimoli è possibilmente aperta a quelli rilevanti in quanto si può sentire relativamente libera dai propri bisogni, immagini difensive e schemi attributivi; b) i problemi del significato, vale a dire quelli relativi al farsi comprendere e a recepire accuratamente i messaggi degli altri. La c. non è soltanto lo scambio dei messaggi, ma è anche la creazione di rapporti reciproci, cioè di una piattaforma relazionale tra le persone in interazione. I fenomeni di dominazione e di alienazione che impediscono autentici contatti interpersonali e la mancanza di controllo delle dinamiche transazionali, che porta a situazioni di conflitto, possono facilmente costituire delle barriere che impediscono la creazione di significative relazioni interpersonali. Quando invece le persone si incontrano con rispetto, si riescono a controllare senza schemi difensivi; inoltre, quando sono in grado di stabilire rapporti paritari, ci sono le condizioni per significativi rapporti interpersonali. 4. Ricevente ed emittente nella c. La c. di messaggi impegna chi la riceve e chi la origina. Il primo richiede fondamentalmente alla persona di essere aperta nei confronti dei messaggi degli altri, impegnandosi a comprendere la c. dal loro punto di vista, ad essere attento ai messaggi ed al loro contesto comunicativo. Realizzare il ruolo di ricevente comprende anche c. di supporto, quali: riformulare, parafrasare, verbalizzare, confrontare, sintetizzare, ecc. Ricevere la c. dell’altro
non soltanto richiede che il ricevente si apra alla totalità della c. del partner e che realizzi un adeguato comportamento di supporto, ma che la interpreti appropriatamente. L’interpretazione della c. può essere facilitata se il ricevente esamina il tipo di messaggio (per es. descrittivo, valutativo), la sua corrispondenza alla realtà ed ai diversi contenuti in essa comunicati. Il ruolo di emittente riguarda la funzione di rendere comprensibili i messaggi, di realizzare un comportamento relazionale costruttivo e di comunicare in modo appropriato in riferimento all’intera situazione comunicativa. 5. Forme di c. di messaggio. Tra le forme di c. dei messaggi possiamo distinguere quelle che sono utilizzate per descrivere o riferire agli altri sulla realtà, per manifestarsi come portatore di esperienze e per trattare problemi in senso processuale. Nella c. descrittiva l’emittente è intenzionato a riferire sulla realtà agli altri come la vede e la valuta. In questo caso la c. è realizzata secondo il criterio della verità. Tra gli aspetti più importanti che l’emittente deve curare nella trasmissione perché sia rispettato il criterio della verità, vi è la formulazione dei messaggi in vista della comprensione altrui, che dipende prevalentemente dalla scelta delle parole dall’intero universo linguistico, dalla struttura sintattica e dalla loro unità totale. L’emittente può sentirsi facilitato a corrispondere al criterio della verità se comunica secondo i principi proposti della scala «amburghese della comprensibilità» (Schulz v. Thun, 1975), cioè se formula i messaggi rispettando il principio della semplicità, dell’ordine, della brevità e della stimolazione. La nostra vita è facilitata quando possiamo interagire rendendoci responsabili delle nostre esperienze. La trasmissione delle proprie esperienze e dei significati personali riguarda la c. rappresentativa, che rivela come le persone vivono il loro mondo in un determinato momento. Attraverso questo tipo di messaggi la persona comunica i suoi bisogni e le sue reazioni riguardo ai diversi aspetti della vita, senza pretendere che queste sue esperienze siano universalmente valide o significative. L’introdursi come persona che è portatrice di esperienze soggettive non è facile in un clima di competitività, per il timore di mostrarsi deboli o senza controllo. La trasmissione 231
COMUNICAZIONE
dei significati non riguarda solo il fatto di riferire sulla realtà secondo il criterio della verità o di prendersi la responsabilità delle proprie esperienze, ma è spesso realizzata allo scopo di raggiungere delle mete nell’interazione con gli altri. In questo caso possiamo parlare della c. processuale attuata per conseguire obiettivi comuni nella vita con gli altri. In particolare si può trattare per es. della c. regolativa, quando si fa riferimento all’organizzazione dell’interagire sociale, e della c. strategica, attuata per raggiungere degli scopi nella c. con gli altri. 6. La dimensione relazionale. Un altro aspetto del comportamento di trasmissione riguarda la dimensione relazionale, cioè il modo di comunicare dell’emittente, che rivela come egli stabilisca il rapporto riguardo agli altri nella situazione comunicativa. Quando l’emittente formula messaggi in modo descrittivo, orientato al problema e agisce spontaneamente in modo paritario, allora si instaura un clima di fiducia e apertura reciproca con le persone in c. Al contrario, quando l’emittente interagisce in modo valutativo, quando cerca di esercitare un controllo, usa strategie manipolative e non si coinvolge come persona; allo stesso tempo, quando dimostra superiorità ed assume atteggiamenti rigidi e dogmatici, facilmente può creare un clima di difesa. Un ultimo aspetto riguarda il rispetto del criterio della appropriatezza riguardo al contesto comunicativo. La più efficiente c. può fallire gli obiettivi desiderati se l’emittente non rispetta il contesto in cui le persone si trovano in quel momento. Comunicare per es. contenuti negativi alle persone, in presenza di altri, può facilmente costituire un’umiliazione e sviare su argomenti fuori del tema in oggetto. 7. La finalizzazione della c. La c. non soltanto riguarda la trasmissione dei messaggi per trattare la realtà, ma comprende anche strategie relazionali e comunicative per rendere la vita più significativa con gli altri. Tra gli scopi che le persone possono perseguire possiamo elencare i seguenti: ottenere informazioni, controllare il processo comunicativo, cercare affinità, dare messaggi per confortare o consolare, superare situazioni conflittuali, essere ingannevole o ingannare per raggiungere scopi che non si prevede altrimenti di 232
poter raggiungere. Quando le persone non dispongono delle strategie o forme comunicative per raggiungere gli obiettivi nelle relazioni reciproche, facilmente queste relazioni possono diventare insignificanti o perfino disturbate. Nel corso dei training intrapresi dalle persone, al fine di essere più efficienti per comunicare nei loro rapporti interpersonali, si constata spesso come le barriere siano dovute per lo più ad esperienze sfavorevoli o negative pregresse, principalmente nella prima infanzia. 8. La c. personalizzata. Attualmente si trovano molti contributi riguardo alla c. personalizzata allo scopo di aiutare le persone a diventare più sane. Le relazioni personalizzate coinvolgono le storie personali e il futuro immaginato. Creano un clima di «noi», in cui le persone possono interagire in modo reciproco e sviluppare stabili aspettative e strutture di interdipendenza (per es. sicurezza, fiducia). Le relazioni personalizzate portano a tre standard nell’interagire: cioè alla idea della positività, della intimità e del controllo. Risulta per es. che persone in positive relazioni interpersonali sono incoraggianti, allegre e riescono a essere congruenti in parole e fatti. Inoltre alcune ricerche circa l’essere coerenti, il confermare, l’integrare, il risolvere problemi, sono tipiche delle persone che vivono relazioni personalizzate. Un’altra qualità che caratterizza le c. personalizzate consiste, per alcuni studiosi, nel fatto che tra le persone esiste un notevole livello di espressione di intimità. È da notare, al riguardo, che l’espressione di intimità spesso è più facile da realizzare a livello non-verbale che a livello verbale. L’essere controllate richiede, da parte delle persone in interazione, la capacità di anticipare quello che può succedere nel futuro e quella di intervenire su ciò che può succedere. 9. Gli aspetti differenziali. Un problema molto discusso nella c. riguarda gli aspetti differenziali dell’interagire legati allo sviluppo della c. e ai diversi insiemi comunicativi. Per quanto riguarda lo sviluppo della c. è da dire che la spontaneità e la libertà di interagire sono notevolmente incrementate quando le persone si conoscono e sanno anche prevedere le reazioni vicendevoli. Quanto agli aspetti differenziali che fanno riferimento
COMUNICAZIONENON VERBALE
a tipiche forme di vita, è ancora più difficile parlare. Infatti la c. nella famiglia, nella scuola, nei posti di lavoro, nelle istituzioni sociali (per es. in un pensionato, nell’ospedale, in parrocchia) hanno delle particolarità non facili da esporre. Oltre a dover possedere le necessarie strutture di c. appropriate al tipo di sistema sociale (per es. famiglia, scuola) si richiedono anche delle condizioni materiali (per es. strutture, servizi, tempo, interessi) per interagire. 10. La formazione alle competenze comunicative. In base alle esperienze degli studiosi circa le difficoltà di c. vengono offerti training di c. ai quali le persone possono partecipare allo scopo di acquisire competenze fondamentali, strategie comunicative per autopresentarsi o per convincere, tecniche per risolvere conflitti, competenze per trattare problemi relazionali. Prendendo atto che, essendo le competenze comunicative delle strutture complesse, non è facile acquisirle, perché comprendono componenti cognitive, emozionali e comportamentali. Le difficoltà sono soprattutto legate alla personalità dei partecipanti al «training» ed alle situazioni di apprendimento. Per quello che riguarda il primo aspetto nella situazione di «training» si creano i problemi che ognuno ha in genere nello stabilire relazioni significative. Si nota di frequente che i «training», che promettono un profitto immediato, perdono spesso di vista che le competenze comunicative possono essere utilizzate soltanto se le persone dispongono anche di una discreta funzionalità psichica. Riguardo alla situazione di apprendimento, bisogna tener presente che non sono soltanto da curare le dinamiche interpersonali capaci di sostenere il lavoro del gruppo e di ogni partecipante, ma anche il lavoro specifico relativo all’acquisizione di competenze comunicative, evitando – come spesso accade – che si ponga tanto impegno nelle prime al punto che per il lavoro vero e proprio resta in genere troppo poco tempo. 11. Prospettive e vie di sviluppo. Come nella psicologia in genere, anche nella c. si può notare che le ricerche per migliorare la c. tra le persone sono impostate secondo diversi schemi antropologici e convinzioni metodologiche non sempre convergenti. Se da un lato è vero che si possono maggiormente co-
noscere gli aspetti comunicativi a causa delle diverse concezioni antropologiche e la scelta dei metodi di ricerca, è d’altra parte anche vero che è difficile trovare un consenso circa un orientamento comune per impostare lo sviluppo della c. Forse il ripensare come porre la domanda antropologica e come decidere su questioni metodologiche potrebbe aiutare a situare la c. in una prospettiva di studio in cui si potrebbero contemperare le esigenze della persona e degli interlocutori nella giusta misura. Bibl.: Gibb J. R., Defensive communication, in «Journal of Communication» 11 (1961) 141-148; Schulz V. Thun F., Verstandlich informieren, in «Psychologie Heute» 2 (1975) 42-51; Franta H. - A. R. Colasanti, L’arte dell’incoraggiamento. Insegnamento e personalità degli allievi, Roma, NIS, 1991; Becciu M. - A. R. Colasanti, La leadership autorevole, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1997; Heider F., Psicologia delle relazioni interpersonali, Bologna, Il Mulino, 2000; Becciu M. - A. R. Colasanti, L’altro nella c., in «RES» 4 (2002) 39-46; Colasanti A. R., «La c. educativa», in Z. Trenti (Ed.), Manuale dell’insegnante di religione, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2004; Becciu M. - A. R. Colasanti, La promozione delle capacità personali, Milano, Angeli, 2004.
H. Franta
COMUNICAZIONE DI MASSA → Comunicazione sociale → Mass Media
COMUNICAZIONE NON VERBALE La c.n.v. è di solito definita come il processo di c. attraverso l’invio e la ricezione di messaggi senza che siano presenti parole; tali messaggi, che sono a tutti gli effetti contenuti di c., sono costituiti da: gesti; linguaggio del corpo o posture del corpo ovvero il campo di studio della cinesica; espressioni facciali o mimica facciale, che include anche il contatto oculare; c. attraverso gli oggetti, quali possono essere l’abbigliamento, la scelta della pettinatura e anche la disposizione del proprio ambiente abitativo; i simboli e la capacità di disporre graficamente il proprio pensiero o infografica; la c. attraverso l’uso 233
COMUNICAZIONE PSICOLOGICA
dello spazio, o prossemica e il ritmo nel proprio eloquio o cronemica. 1. Alcuni autori includono nella c.n.v. i tratti prosodici del discorso come l’intonazione e l’accento. È più preciso includerli invece nella paralinguistica, con l’aggiunta della qualità della voce, dell’emozione nel flusso della parlata e dello stile di discorso. Di per sé la c.n.v. può aver luogo indifferentemente attraverso tutti i canali sensoriali, la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto e il gusto. A volte due o più canali sensoriali vengono coinvolti simultaneamente. 2. Lo studio scientifico della c.n.v., iniziato con la pubblicazione di Darwin: The expression of the emotion in man and animals, del 1872, ha avuto un rilievo sempre crescente. Nel 1960, Paul Ekman ha offerto un notevole contributo sulle espressioni facciali. I campi di applicazione di tale studio sono l’antropologia culturale, la psicologia e la pedagogia. In riferimento al campo psicologico, la c.n.v. è una componente di notevole importanza per lo studio della c. interpersonale in generale e della c. patologica in particolare, come hanno dimostrato la scuola di Palo Alto e gli studi di Paul Watzlawick. In riferimento al campo pedagogico, la c.n.v. è di rilievo per la comprensione dei fenomeni giovanili che comportano mode nell’abbigliamento, nella pettinatura e sul corpo, come dimostra il dilagare del tatuaggio e il piercing. Le → scienze dell’educazione attingono agli studi sulla c.n.v. anche per delineare proposte di dialogo intergenerazionale. Bibl.: A rgyle M., Il corpo e il suo linguaggio, Studio sulla c.n.v., Bologna, Zanichelli, 2002; Pease B. - A. P ease , The definitive book of body language, Des Plaines (Illinois), Bantam Books, 2006; Pacori M., Come interpretare i messaggi del corpo, Milano, De Vecchi, 52006.
C. Cangià
COMUNICAZIONE PSICOLOGICA Viene definita «psicologica» la c. che ha per oggetto il vissuto dell’altro in interazione. In un messaggio è possibile distinguere un significato denotativo che riguarda gli aspet234
ti referenziali ed informativi delle parole ed un significato connotativo concernente l’insieme degli eventi psicologici che le parole risvegliano nella nostra coscienza (OgdenRichards, 1966). 1. Per gli psicologi il significato denotativo è la relazione tra segno e oggetto cui si riferisce; il significato connotativo è la relazione tra il segno, il suo oggetto e un individuo. In alcuni casi, connotativo indica il significato totale del simbolo per l’individuo, in altri casi il termine viene assunto più specificatamente nell’accezione di significato emotivo. La c.p. fa riferimento al significato connotativo, considerando prioritaria l’esperienza soggettiva che determinati contenuti attivano nell’interlocutore. 2. La c.p. può essere definita come un processo interpersonale, transazionale e simbolico con il quale le persone in interazione raggiungono e mantengono una comprensione reciproca. Essa richiede la capacità di decentrarsi dal proprio Io per cercare di capire e di farsi capire. La c.p. si realizza, nel ruolo di riceventi, quando si comprendono gli elementi di natura emozionale, espliciti e taciti, presenti nel messaggio dell’altro, restituendoli a questi in modo più chiaro e differenziato; nel ruolo di emittenti, quando si considera l’effetto psichico e la risonanza emozionale che un nostro messaggio può avere per la persona che ascolta. Si esplica, pertanto, sia nel mettersi nei panni dell’altro al fine di comprendere il contesto di significati e di valori sottostante al suo universo espressivo, sia nel codificare il messaggio per l’altro, modulandolo sulle sue caratteristiche. Nella relazione di aiuto la c.p. si distingue dalla c. logica, che considera i contenuti del comunicato senza rapportarli allo sfondo esperienziale dell’interlocutore, e dalla c. scenica, che fa riferimento al materiale non simbolizzato. Bibl.: Ogden C. K. - I. A. R ichards, Il significato del significato, Milano, Il Saggiatore, 1966; Mizzau M., Prospettive della c. interpersonale, Bologna, Il Mulino, 1974; Franta H. - G. Salonia, C. interpersonale, Roma, LAS, 1990; Becciu M. - A. R. Colasanti, L’altro nella c., in «RES» 4 (2002) 39-46; Mizzau M., E tu allora?: il conflitto nella c. quotidiana, Bologna, Il Mulino, 2003.
A. R. Colasanti
COMUNITÀ EDUCATIVA/SCOLASTICA
COMUNICAZIONE SOCIALE C.s. è il termine utilizzato nell’Europa con tinentale per definire ciò che il pubblico in glese ed americano chiama mass communi cation. La c. di massa, parola coniata alla fine degli anni ’30, definisce quei processi comunicativi che attraverso particolari tecn iche e mezzi consentono il simultaneo invio di messaggi ad una vasta audience sconosciuta ed eterogenea. Nel linguaggio comune, con essa si intendono i giornali, le riviste, il cinema, la televisione, la radio, la pubblicità, la pubblicazione di libri e l’industria musicale. Ma si dovrebbe fare una distinzione tra → mass media e c. di massa. I mass media sono l’agenzia intermedia che permette alla c. di massa di aver luogo. Il termine «massa» può essere confuso con la «teoria della società di massa» ed il vocabolo c. può essere confuso con la c. interpersonale. La c. di massa è più una categoria di senso comune usata per raggruppare vari fenomeni in modo non analitico. 1. La crescita della tecnologia della c.s. La crescita straordinaria della tecnologia e dell’industria dei mass media ha reso la c. di massa fondamentale nella nostra società. Viviamo infatti nell’«età della c.», dove l’in formazione è potere. Questa informazione viene trasmessa attraverso media potenti e ultrarapidi, che determinano cambiamenti nelle società, nelle sottoculture, nelle fami glie e negli individui. Vista la situazione, tutte le parti sociali si sono preoccupate dell’influenza della c. sulla società. 2. Effetti della c.s. La portata dell’influenza dei mass media sugli individui e la società è argomento di disputa, dato che le opinioni tra i ricercatori variano da chi la considera minima a chi molto forte. La stima di tale influenza non è mai stata facile, dato che gli esseri umani, oggetto di tali ricerche, sono spesso imprevedibili. I giovani sono sta ti considerati più sensibili all’influenza dei media rispetto agli adulti. Un’area di ricerca molto ben sviluppata sugli effetti dei media è quella sulla violenza. La violenza nei media conduce ad un comportamento violento? Alcuni hanno dimostrato fenomeni di imitazione, altri parlano di catarsi. La maggior parte dei ricercatori ritiene che la c. di massa
(tramite gli agenti dei mass media) potrebbe avere un’eventuale influenza negativa specialmente sulle giovani generazioni. Da qui l’importanza di una → educazione ai media quale parte del programma di studi scolastici e del tempo libero. Bibl.: Black J. - F. C. Whitney, Introduction to mass communication, Dubuque, W. C. Brown Publishers, 21988; Wolf M., Teorie della c. di massa, Milano, Bompiani, 111992; H amelink C. J. - O. Linnè (Edd.), Mass communication research: on problems and policies, Norwood, Ablex Publishing, 1994, 309-322; O’Sullivan T. et al., Key concepts in communication and cultural studies, London, Routledge, 1994; Dominick J., Dynamics of mass communications: Media in the Digital Age with Media World DVD and Power Web, New York (NY), McGraw-Hill College, 92006; Vivian J. C., Media of mass communication, Boston, Addison-Wesley, 2006.
T. Purayidathil
COMUNIONE E LIBERAZIONE → Movimenti ecclesiali
COMUNITÀ EDUCATIVA/ SCOLASTICA La c., come tessuto di relazioni primarie, è l’ambiente naturale di alcune esperienze educative: la → famiglia, i gruppi di vario genere, le aggregazioni religiose. È stata assunta poi come criterio nelle iniziative di accoglienza, assistenza, recupero e riedu cazione. In questi ultimi anni viene proposta anche come «modello» organizzativo per le istituzioni scolastiche. Questo allargamento a tutto l’ambito educativo costit uisce una novità della pedagogia contemporanea. 1. Fattori che concorrono all’emergere della c.e. Alla diffusione della c.e. concorrono tendenze sociali, intuizioni pedagogiche e criteri politici. Tra le prime vanno annoverati l’estendersi della partecipazione e il bisogno di recuperare la dimensione personale in una società che privilegia gli aspetti tecnici e funzionali. Tra le intuizioni pedagogiche hanno influito soprattutto la riconsiderazione del ruolo del soggetto nel → processo educativo e, di conseguenza, del suo rapporto con gli 235
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educatori, i contenuti e l’istituzione educativa. Dalla pedagogia viene pure la valorizzazione dell’ → ambiente come fattore educativo: cioè la necessità di predisporre condizioni convergenti di habitat, presenze, relazioni, proposte, attività e strutture che favoriscano i processi di crescita perché provocano una circolazione di valori umani e culturali al l’interno del gruppo, neutralizzano gli sti moli contrari troppo forti e stabiliscono un interscambio arricchente con le altre agenzie educative e col contesto in cui l’istit uzione opera. A queste tendenze sociali e intuizioni pedagogiche corrisponde un’evoluzione politica. Negli anni settanta parecchi Stati stabiliscono, per le scuole e le iniziative educative, la partecipazione dei genitori e la corresponsabilità del corpo degli educatori (→ organi collegiali). Nel modello comunitario inoltre confluiscono le correnti pedagogiche «laiche» e l’esperienza «cattolica». Quest’ultima contava nel suo patrimonio abbondanti indicazioni riguardo al coinvolgimento del soggetto, alla corresponsabilità degli educatori, al compito della famiglia e all’incidenza dell’ambiente. La c. diventa perciò elemento indispensabile nelle istituzioni educative della Chiesa (→ scuola cattolica). 2. Caratteristiche ed esigenze. Le caratteri stiche di ciascuna c.e. dipendono dal tipo di istituzione in cui opera (scuola, centro giovanile, convitto, iniziative di riabilita zione o rieducazione); dipendono pure dal programma educativo che si propone di svolgere (insegnamento, assistenza, forma zione professionale, attività libere); variano a seconda dei soggetti (tipo di giovani, proporzione tra giovani e adulti) e delle condizioni socioculturali (abitudini e capacità di partecipazione). Alcune esigenze, però, sono comuni a tutti i tipi di c.e. C’è in primo luogo il coinvolgimento attivo e, di conseguenza, la corresponsabilità reale, di tutti coloro che sono interessati al prog ramma: educatori, educandi e genitori, gestori e amministratori, organizzazioni di appoggio e forze sociali. Tale coinvolgimento tende a creare una mentalità o «cult ura» educativa comune e dunque una convergenza dei membri della c. sugli obiettivi, sui valori fondamentali e sui metodi, che si raggiunge non attraverso imposizioni istit uzionali, ma mediante la proposta, la discussione, i chiarimenti successi236
vi, la riformulazione. Per prevenire il rischio dello → spontaneismo che comprometterebbe i fini istituzionali, vengono definiti i ruoli personali e lo spazio degli organismi di → partecipazione. Così, mentre se ne favorisce l’iniziativa, si assicura il loro funzionamento organico. La c.e. diventa in questo modo un laboratorio dove, senza perdere di vista i fini e la relativa coerenza dei mezzi, si provano attività varie, si sperimentano valori nuovi e si collaudano forme di rapporto fra persone e gruppi con caratteristiche, responsabilità ed esperienze di vita diverse. Perché la c.e. riesca a funzionare come istanza unificante delle risorse e fattori educativi si richiedono alcune condizioni. È necessaria una comunicazione corretta ed efficace tra i diversi membri e organismi. Nuoce la riserva, la disinformazione, il segreto non giustificato, la distanza. Non basta la comunicazione di ufficio. La c. per sua natura postula quella interpersonale. La dirigenza poi sottolinea il ruolo di animazione: risveglia l’interesse per il programma, suscita energie, favorisce la comprensione sempre più adeguata dei fini, ripropone e riformula gli obiettivi immediati e a medio termine, discute i procedimenti. 3. Compiti della c.e. Alla c. così composta e strutturata si affidano alcuni compiti. Il pri mo è elaborare, applicare e verificare il progetto educativo (→ progettazione educativa). In esso esprime i valori che vuole realizzare e trasmettere, le esperienze che intende proporre e i metodi che privilegia. Il progetto è l’indicatore più convincente del grado di consapevolezza e condivisione che una c. ha raggiunto e, allo stesso tempo, lo strumento più efficace per formarla e consolidarla. Alla c. si chiede anche di pensare, proporre e realizzare processi di formazione permanente per l’insieme, per le diverse componenti (genitori, educatori) e per gli individui, guardando alla maturazione personale e alla competenza educativa. I due compiti enunciati ne inducono un terzo: stimolare la reattività culturale nei confronti di quei fenomeni che influiscono sulla condizione giovanile. Da ultimo spetta alla c.e. diffondere nel contesto sociale i beni educativi che va sperimentando. Mant iene dunque collegamenti con gli organismi e le iniziative che nel territorio promuovono la crescita culturale della collettività e dei singoli.
CONCETTO
Bibl.: R eguzzoni M., La scuola come c., in «Ag giornamenti Sociali» 4 (1970) 281-292; Corradini L., La c. incompiuta, crisi e prospettive della partecipazione scolastica, Milano, Vita e Pensiero, 1979; Tonelli R., «C.e.», in J. Vecchi - J. M. Prellezo (Edd.), Progetto Educativo-Pastorale. Elementi modulari, Roma, LAS, 1983, 399-417; Franta H., Relazioni sociali nella scuola, Torino, SEI, 1985; Dalle Fratte G., Studio per una teoria pedagogica della c., Roma, Armando, 1991; Vecchi J., Pastorale giovanile, una sfida alla c. ecclesiale, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992, 120-196; I d., Globalizzazione: crocevia della c. e., Torino, SEI, 2002.
J. E. Vecchi
COMUNITÀ TERAPEUTICHE In ambito clinico il concetto è introdotto e sperimentato, a partire dagli anni ’40, da Bion, Main Jones, quale metodo innovativo e rivoluzionario nei confronti della struttura ospedaliera classica. In Italia ha inizialmente larga diffusione nel campo delle tossicodipendenze. Per c.t. si intende un gruppo di persone riunite con il proposito di aiutarsi reciprocamente nel realizzare l’obiettivo comune di cura, risocializzazione e riabilitazione. 1. L’idea centrale, basata sull’assunto metodologico dell’apprendimento sociale e dell’auto-aiuto, è di utilizzare le risorse – strutturali, tecniche, personali – esistenti nell’ambiente di cura come leva di trasformazione dei comportamenti sociali e adattivi del soggetto. Questo implica la collaborazione attiva del residente al proprio ed altrui processo di cambiamento. Il processo decisionale è democratico e la struttura è tendenzialmente egualitaria. Le qualità personali degli operatori e dei residenti hanno lo stesso valore esperienziale delle specifiche competenze specialistiche. 2. La responsabilizzazione, la dignità e la fiducia sostituiscono i controlli eccessivi e le restrizioni. Il sistema di comunicazione interno mira a fornire continuamente il confronto e l’interpretazione del comportamento del residente per come viene percepito dagli altri. Questo processo di capacitazione co-
gnitiva è assunto sia dagli operatori che dagli altri residenti. Il centro della dinamica trasformativa è quindi costituito dalle relazioni interpersonali vissute ed elaborate all’interno della struttura. L’ambiente sociale, che di per se stesso assume la valenza terapeutica, promuove l’acquisizione della capacità di autoaccettazione e di comunicazione interiore come parte della realizzazione di sé e allarga le modalità del funzionamento anche nei contesti interpersonali e intersistemici esterni. Bibl.: Main T., La c.t. e altri saggi psicoanalitici, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1992; Pisanu N., «La ri-educazione del sociale nelle dipendenze», in T. A lbano. - L. Gulimanoska (Edd.), In-dipendenza: un percorso verso l’autonomia, vol. II, Milano, Angeli, 2007.
R. Fiore
CONCETTO Lo studio dei c. ha trovato largo spazio soprattutto nell’ambito della filosofia. L’interesse per l’argomento solo di recente è emerso nel settore della ricerca psicologica sperimentale, che ha inteso indagare come i c. si formino, come vengano utilizzati e da quali elementi siano definiti. L’argomento può anche essere individuato sotto altre voci come rappresentazione concettuale, classificazione o induzione. In ogni caso quando si parla di c., in genere ci si riferisce al significato o a quello che noi sappiamo di qualche cosa sia essa una parola o un oggetto/animale/persona. Sebbene sia ancora recente, la ricerca in questo campo è stata molto intensa e ha dato origine a diversi modelli interpretativi. Descriveremo questi modelli seguendo il loro sviluppo storico. 1. Dal c. classico all’interpretazione probabilistica, fino al modello degli esemplari conosciuti. Il punto di vista «classico» ritiene che un c. descriva la somma delle proprietà o delle caratteristiche necessarie e sufficienti per definire una categoria di esemplari e che quindi si possa dire che ogni elemento appartiene ad esso se possiede tali caratteristiche. A partire dall’inizio degli anni ’70, questa visione è stata sottoposta ad una severa cri237
CONCETTO
tica, sia teorica che sperimentale, da diversi studiosi. L’analisi teorica ha sottolineato che questa impostazione utilizza solo proprietà strutturali, trascurando quelle funzionali (fondamentali per molti c.), non si presta a poter definire c. con caratteristiche tali da farli appartenere anche ad altri c., non è utile nella definizione di c. non evidenti, siano essi comuni o scientifici (ad es., molti scienziati sono incerti se l’«Euglena» sia un animale o un vegetale o «il virus» sia un essere vivente o no). Anche prove sperimentali hanno messo in dubbio l’impostazione classica. Le ricerche sperimentali iniziali sembravano far pensare che non tutti gli esemplari di un c. posseggono allo stesso modo le caratteristiche definitorie necessarie e sufficienti come invece assumeva la posizione classica. Nel decidere se qualcosa apparteneva o no ad un c. fu rilevato un effetto di tipicità che ha ricevuto una precisa definizione da vari studiosi. Su tale effetto si basa il modello indicato come «modello del prototipo»: un c. è descrivibile come un elenco ponderato di caratteristiche più o meno probabili. I risultati sperimentali lasciavano pensare che nella decisione di attribuire un esemplare ad un c., i soggetti operavano un confronto fra le caratteristiche che tipicamente definivano una categoria o un c. e le caratteristiche percepite nell’esemplare in questione. Gli studiosi chiamarono «family resemblance measure» (misura della somiglianza categoriale) la frequenza delle proprietà che un esemplare condivide con altri della sua categoria. Questa misura cresce quanto più un esemplare condivide le caratteristiche che lo definiscono con altri della stessa categoria, mentre diminuisce quanto più le condivide con esemplari appartenenti ad un’altra. Il modello per caratteristiche semantiche prototipiche è stato radicalizzato e ulteriormente modificato con quello detto per «esemplari conosciuti». Un c. non sarebbe definito in base alle proprietà possedute, ma dagli esemplari di cui si è avuta esperienza. L’appartenenza di un singolo caso ad una categoria è determinata dal fatto che esso è sufficientemente simile a uno o a più esemplari conosciuti. Tanto la posizione che descrive i c. come un elenco ponderato di caratteristiche (punto di vista probabilistico), quanto quella con riferimento ad esemplari conosciuti (punto di vista esemplare) sono state soggette ad un’attenta analisi, verifica 238
e critica negli anni recenti. Anzitutto, il punto di vista probabilistico non sembra tenere nella dovuta considerazione il contesto. In secondo luogo, non assegna grande importanza alle «dimensioni» dell’oggetto, mentre ciò per alcuni casi può essere determinante. Inoltre, ha il limite grave di non sottolineare l’interdipendenza delle caratteristiche con cui un c. viene definito. Infine, si potrebbe ritenere che la definizione di un c. secondo un elenco di caratteristiche prototipiche, possa condizionare le modalità del suo apprendimento e cioè che una persona possa trovare più facile imparare categorie o c. che sono chiaramente distinguibili piuttosto che quelli che non lo sono. Tuttavia, è giusto ricordare che studi successivi non sono riusciti a provare tale relazione. Da ultimo, tutti i modelli che ricorrono alla definizione per caratteristiche non dicono nulla sulle costrizioni che tali scelte hanno o dovrebbero avere. Rispetto al modello del prototipo, il modello degli esemplari conosciuti è più sensibile a riconoscere una correlazione fra caratteristiche, tende meno facilmente ad eliminare caratteristiche non appartenenti ad un c. e non trascura l’importanza del contesto o della variabilità dei casi. Tuttavia è assai facile che esso ricada nel modello prototipico assumendo un esemplare come termine di paragone per qualsiasi caso. 2. Dai c. definiti per caratteristiche ai c. organizzati dalle teorie. Ricerche più recenti hanno rilevato che la dimensione «similarità» non è adeguata ad assimilare un esemplare ad un c. o categoria. Questo nuovo punto di vista sostiene che un c. è l’organizzazione di una conoscenza derivante da una teoria (o «paradigma») che il soggetto utilizza nei riguardi del mondo. In altri termini, riconoscere qualcosa come un esemplare di un certo c., non dipende tanto dalla similarità fra caratteristiche dell’esemplare e caratteristiche definienti un c., quanto dal fatto che il caso trova corretta ragione esplicativa in una teoria che definisce il c. Facciamo un esempio. Se chiediamo ad una persona comune di descriverci che cosa è la «vita», ella ci darà certamente una definizione diversa da quella che ci fornirà un medico, un filosofo oppure un bambino di nove anni. Questo modo di vedere sembra molto interessante in quanto chiarisce perché i c. possono essere partico-
CONCETTO DI SÉ
larmente adattabili. Elementi diversissimi potrebbero essere assimilabili ad uno stesso c. Le teorie ci permettono di individuare quali caratteristiche utilizzare per definire qualche cosa, di capire la relazione che stabiliamo tra c. Il fatto che noi assimiliamo cose diverse ad uno stesso c., trascurando il confronto di similarità fra caratteristiche, è stato confermato in recenti ricerche sull’evoluzione del modo di categorizzare dei bambini. Sebbene sembri più soddisfacente e promettente degli altri, questo approccio lascia ancora molti problemi aperti; per es.: Come si sviluppano i c.? Come si stabiliscono relazioni tra c.? Come avviene la costruzione di nuovi c. da altri utilizzati come elementi semplici? Molti c. non sono costruiti in astratto, ma sono profondamente radicati nel contesto sociale: come questi oggetti o eventi sono concettualizzati e utilizzati? La ricerca contemporanea tenta di fornire una risposta a questi interrogativi. Bibl.: Smith E. E. - D. L. Medin, Categories and concepts, Cambridge, Harvard University Press, 1981; Carey S., Conceptual change in childhood, Cambridge, MIT Press, 1985; Murphy G. L. - D. L. Medin, The role of theories in conceptual coherence, in «Psychological Review» 92 (1985) 289-316; Medin D. L. - A. Ortony, «Psychological essentialism», in S. Vosnadiou - A. Ortony (Edd.), Similarity and analogical reasoning, New York, Cambridge University Press, 1989, 179-195; Ross B. H. - T. L. Spalding, «Concepts and categories», in R. Sternberg (Ed.), Thinking and problem solving, Orlando, Academic Press, 1994, 119-148.
M. Comoglio
CONCETTO DI SÉ Il c.d.s. è una delle componenti fondamentali nelle teorie della → personalità e nell’educazione rappresenta uno degli obiettivi importanti della formazione umana. 1. Descrizione. Il c.d.s. consiste in una configurazione complessa di convinzioni, opinioni e atteggiamenti su se stessi e sulle informazioni provenienti da terzi e costituisce la struttura di base della personalità con i suoi attributi cognitivi e motivazionali. Esso può essere considerato anche come un contenito-
re del vissuto cosciente nel tempo. Lo schema iniziale del sé che si forma nell’infanzia facilita la classificazione delle esperienze individuali e delle informazioni provenienti dal di fuori del soggetto per essere assimilate e integrate in una struttura personale. L’assimilazione progressiva dei dati che si riferiscono al sé di un soggetto forma la sua continuità psichica. Il sé globalmente considerato viene distinto in sé esistenziale (io) e in sé categoriale (me). Nel suo primo aspetto il sé è il soggetto di tutti gli attributi e processi, nel secondo ne è l’oggetto (azione dell’io). Nel sé globale vengono distinti ancora altri due aspetti: strutturale e valutativo. Il primo aspetto si riferisce alla percezione globale o settoriale del sé, il secondo riguarda l’apprezzamento dei contenuti della struttura come tale nel suo esito positivo o negativo rappresentata dalla → stima di sé. 2. Struttura. Il c.d.s. globale viene articolato in aree in cui si realizza. Nell’età scolastica il c.d.s. viene suddiviso in due grandi aree: scolastica e non scolastica. La prima si suddivide a sua volta in singole discipline, mentre la seconda comprende la sottoarea fisica, sociale, familiare, personale ed altre ancora; nell’età adulta a tali aree si aggiunge quella professionale. Il c.d.s. viene articolato, anche in rapporto alla sua corrispondenza con la realtà, in sé reale e in sé ideale. Il sé reale consiste nell’adeguatezza della percezione individuale alla realtà, mentre il sé ideale si riferisce alle aspirazioni del soggetto. Il c.d.s. assume delle strutture differenti secondo il sesso, la razza, la classe sociale e l’età dei soggetti, ed in base a tali variabili può realizzarsi in gradi differenti dalla massima positività alla massima negatività (Hattie, 1992). Shapka e Keating (2005), notano che nell’adolescenza varie aree del c.d.s. incominciano a declinare, particolarmente quella scolastica a causa dei nuovi rapporti che si instaurano con il passaggio da livelli di scolarità meno impegnativi a quelli più impegnativi. Gli autori notano anche che l’andamento della curva del c.d.s. dalla preadolescenza alla giovane età assume la forma della lettera U. 3. Formazione. Il c.d.s. incomincia a formarsi in tenerissima età e si delinea con una certa chiarezza quando il soggetto è in grado 239
CONCETTO DI SÉ
di distinguere sufficientemente tra il sé fisico e il sé reale e incomincia ad interagire responsabilmente con i terzi. Nella formazione del c.d.s. intervengono quattro fattori: a) linguaggio: tutto quello che si riferisce alla personalità aiuta il soggetto a classificare e ad organizzare le sue esperienze; b) esito della sua attività: successo o insuccesso; c) giudizio delle persone significative sul suo modo di essere e di agire; d) identificazione del soggetto con i modelli ordinari (genitori, insegnanti) e straordinari (eroi): in tal modo egli assimila i valori dell’essere e del comportarsi. Anche la differenziazione del c.d.s. inizia presto: verso l’ottavo anno di vita i soggetti riescono a distinguere tra il proprio sé scolastico, sportivo, fisico e sociale. La distinzione t