Dizionario di scienze dell’educazione

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Dizionario di scienze dell’educazione

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FACOLTÀ DI SCIENZE DELL’EDUCAZIONE UNIVERSITÀ PONTIFICIA SALESIANA

DIZIONARIO DI SCIENZE DELL’EDUCAZIONE a cura di JOSÉ MANUEL PRELLEZO GUGLIELMO MALIZIA CARLO NANNI Seconda edizione riveduta e aggiornata

LAS - ROMA



Istituzione Promotrice Facoltà di Scienze dell’Educazione Università Pontificia Salesiana di Roma

Coordinatore Prellezo José Manuel Comitato di Redazione Malizia Guglielmo Nanni Carlo Prellezo José Manuel Comitato Scientifico Bay Marco Bissoli Cesare Fizzotti Eugenio Macario Lorenzo Malizia Guglielmo Nanni Carlo Pellerey Michele Prellezo José Manuel Comitato Edizione CD-ROM - On line Bay Marco Cangià Caterina Prellezo José Manuel Zanni Natale

© 2008 by LAS - Libreria Ateneo Salesiano Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1 - 00139 ROMA Tel. 06 87290626 - Fax 06 87290629 e-mail: [email protected] - http://las.unisal.it ISBN 978-88-213-0670-4

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Elaborazione elettronica: LAS  Stampa: Tip. Abilgraph - Via Pietro Ottoboni 11 - ROMA

PRESENTAZIONE

1. Come afferma la Commissione Internazionale dell’Unesco sull’educazione per il XXI secolo, «di fronte alle molteplici sfide del futuro, l’educazione appare come una carta vincente indispensabile per permettere all’umanità di progredire verso gli ideali della pace, della libertà e della giustizia sociale». Peraltro, rispetto alle sue tradizionali funzioni, l’educazione si trova oggi in Italia, in Europa e nel mondo intero, di fronte ad uno scenario radicalmente diverso, quello cioè della società della conoscenza e dell’informazione, ma anche quello della società complessa e della società pluralistica e multiculturale, della mondializzazione del mercato e della globalizzazione dei rapporti e della comunicazione. Da una parte, le dinamiche sottese a questi cambiamenti hanno accresciuto enormemente le opportunità di accedere all’informazione e al sapere; dall’altra, hanno comportato mutamenti profondi nel mondo della produzione e richiedono importanti adattamenti sul piano delle competenze e della gestione dei processi. Ma parallelamente diffondono insicurezza, incertezza, angoscia, chiusure reattive, fondamentalistiche e producono nuove forme di emarginazione ed esclusione sociale per gruppi consistenti della popolazione. L’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione origina spinte contrastanti: moltiplica le opportunità di apprendimento, di informazione e di formazione e creazione di nuove forme di analfabetismo; ma genera anche consumo passivo, omologazione culturale, relativismo etico. Il non facile clima etico-religioso non solo rende difficili comportamenti sociali eticamente validi ma rende pure difficoltosa una vita religiosa interiormente profonda e socialmente impegnata, come pure la crescita e l’educazione a una vita di fede sentita e motivata. La crisi dei costumi e dei convincimenti etico-religiosi sembrano porre in questione l’essere stesso dell’uomo, ingenerando in molti la grande tentazione del fatalismo e il senso di impotenza di fronte ai problemi estremamente complessi che superano noi tutti. D’altro canto negli ultimi decenni si è prodotta una profonda rivoluzione silenziosa della mentalità e delle relazioni interpersonali, che ha dato largo spazio ai bisogni fondamentali, ai desideri e alle aspirazioni profonde 5

PRESENTAZIONE

dell’esistenza soggettiva e comunitaria. La ricerca universale della giustizia e della pace è nei cuori e nella mente di tutti. L’impegno solidale è sentito come il corrispettivo umano della interdipendenza mondiale dell’esistenza individuale e comunitaria. Scoprendosi solidali tra di loro, i nostri contemporanei considerano sempre più intollerabile il fatto che la miseria coabiti con l’opulenza. Più che mai la difesa dei diritti umani appare come una esigenza e un segno di liberazione. I nuovi rapporti uomo-donna, e conseguentemente le relazioni di coppia e quelle genitoriali e familiari, costituiscono anch’essi una svolta culturale di portata storica. 2. In questo quadro contestuale, per tanti versi nuovo e problematico – come ha ricordato anche recentemente papa Benedetto XVI (11 giugno 2007) – molti parlano di «emergenza educativa» e della necessità di una «nuova paideia» adeguata e all’altezza dei modi di vita individuali e collettivi dell’esistenza attuale e futura. Ciò chiede previamente di ridefinire anche le finalità dell’educazione, pur in continuità con la tradizione della paideia classica e cristiana, che prospettava come fine fondamentale dell’educazione la formazione di persone capaci di giudicare con senso critico e con libertà e d’inserirsi nella società con responsabilità e solidarietà. Competenza professionale, capacità relazionale e formazione umanistica devono andare insieme. Come afferma il Rapporto Delors, il sapere e il saper fare si debbono coniugare con il saper essere e il saper vivere insieme agli altri. Quest’ultimo aspetto, vale a dire la dimensione sociale della formazione e dell’educazione, si carica di un’urgenza particolare in un mondo in cerca di giustizia e di partecipazione universale alla cultura. In tal senso il servizio educativo alle persone viene ad essere anche un fattore di sviluppo e di promozione per l’insieme della società. In questa linea, una politica educativa, rispettosa del pluralismo culturale, riserverà un luogo legittimo all’insegnamento religioso e alla formazione morale. Sul piano strategico anzitutto si dovrà puntare alla realizzazione di una sinergia, operando in rete tra tutte le forze positive in gioco, in modo da assicurare e rendere effettivo il diritto di tutti all’ apprendimento per tutta la vita, come dichiarava il Rapporto dell’Unesco sull’educazione del 2000. Famiglie, Società civile, Stato, Chiesa hanno da collaborare sinergicamente. L’esperienza dimostra che nessun progetto educativo può ottenere successo senza la partecipazione delle famiglie con la loro originaria missione educativa, come anche senza l’opera degli insegnanti competenti e delle forze vive di una cultura. In questo contesto la stessa azione educatrice della Chiesa e l’educazione alla fede costituiscono un apporto efficace ad una educazione integrale aperta e motivata: traendo con saggezza dal suo «tesoro» di tradizione educativa e dal suo patrimonio culturale e di fede, «cose nuove e cose antiche» e promuovendo una significativa coniugazione di esperienza, cultura, fede, vita. 6

PRESENTAZIONE

A sua volta, la tradizione pedagogica salesiana suggerisce, come metodologia fondamentale della relazione educativa, una pratica coniugazione di ragionevolezza culturale e umana, di orientamento valoriale significativo e di amorevolezza e vicinanza affettuosa e autorevole: oltre ogni lassismo e permissivismo, ma anche oltre ogni autoritarismo costrittivo e ogni protezionismo possessivo. 3. Di fronte alla «emergenza educativa», gli educatori di professione e le istituzioni educative possono incontrare difficoltà nell’orientarsi nel vasto campo degli studi, delle ricerche e delle esperienze in atto. Nella sua prima edizione, il Dizionario di Scienze dell’Educazione ha già dimostrato, concretamente, di essere un valido strumento che ha messo a disposizione non solo degli specialisti ma di tutti gli interessati il significato dei termini fondamentali del «discorso» educativo e pedagogico, la conoscenza degli autori e delle diverse correnti di pensiero e le esperienze e strategie educative più rilevanti. Inoltre, ha fatto vedere di poter «coniugare serietà scientifica e comunicazione divulgativa, conoscenza teoretica e immediatezza pratica, completezza sostanziale ed essenzialità propositiva», come affermava la presentazione alla prima edizione del mio predecessore di venerata memoria don Juan E. Vecchi. Unisco, pertanto, le congratulazioni alla Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana, che lo ha voluto e realizzato, all’augurio per tutti coloro che lo useranno, di trovare nel Dizionario indicazioni, stimoli e orientamenti teorici e operativi in vista di un’educazione valida, efficiente ed efficace. Sarà un modo di condividere la diffusa esigenza umanistica del nostro tempo di prendersi cura e di contribuire fattivamente alla promozione di una vita umanamente degna e di uno sviluppo sostenibile e solidale per tutti e ciascuno, per gli individui, i gruppi sociali, i popoli, l’umanità intera, presente e futura: in primo luogo per i giovani che hanno iniziato a vivere e hanno da affrontare le complesse sfide che si presentano loro in questi non facili inizi del terzo millennio,

Pascual Chávez Villanueva

Gran Cancelliere dell’Università Pontificia Salesiana Roma, 31 gennaio 2008

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PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE

La prima edizione del Dizionario di Scienze dell’Educazione (DSE) vide la luce nel mese di gennaio del 1997; esaurita questa edizione da qualche tempo, i docenti della Facoltà di Scienze dell’Educazione (FSE) dell’Università Salesiana di Roma (UPS) hanno deciso di rispondere alle ininterrotte richieste da parte di studenti, studiosi e persone di cultura in generale, interessati ad usufruire di uno strumento agile e documentato nell’ambito delle scienze pedagogiche. 1. La deliberazione di portare a termine l’iniziativa è stata preceduta da un periodo di studio e di confronto attorno ad alcune bozze di progetto elaborate dal Comitato Scientifico e dal Comitato di Redazione del DSE. Scartata subito la proposta di pubblicare una semplice ristampa del volume, è stata privilegiata quella di approntare una nuova edizione riveduta e aggiornata, nella quale tenere in conto gli sviluppi delle scienze dell’educazione nel decennio trascorso. La laboriosa opera di revisione e di aggiornamento da parte dei collaboratori del DSE è cominciata nei primi giorni dell’anno 2007. Il lavoro si è realizzato seguendo i criteri concordati nell’ambito della FSE, tenendo presenti le indicazioni dei responsabili dell’Editrice LAS e il parere di esperti esterni interrogati sull’argomento, nonché le osservazioni e i suggerimenti giunti dai lettori. 2. D’accordo con un parere unanimemente condiviso, la nuova edizione del DSE – riveduta e aggiornata – mantiene sostanzialmente l’impostazione generale e i tratti caratteristici della prima. L’impegno di revisione e aggiornamento ha comportato, tuttavia, diverse operazioni di non poco significato: a) Inserimento di nuove voci – autori e temi – di particolare rilevanza nel clima culturale attuale; in questa seconda edizione le voci autonome trattate direttamente sono 983 (78 in più che nella prima edizione); i rimandi a voci collettive sono 605 (84 in più che nella edizione precedente). b) Rielaborazione di alcuni testi: riguardanti un piccolo numero di voci segnate dal passo dei tempi. c) Rilettura di tutti i testi, che ha comportato: l’introduzione di lievi ritocchi, aggiunte e correzione di eventuali sviste, refusi e/o errori sfuggiti nella prima edizione. d) Aggiornamento della bibliografia: inserimento di alcuni titoli di opere di particolare importanza o attualità e soppressioni di quelle meno significative o datate. 9

PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE

3. La revisione e l’aggiornamento delle singole voci sono stati affidati di norma ai rispettivi autori. La rilettura e revisione di voci redatte da persone decedute, o in qualche modo impossibilitate, è stata invece affidata a un esperto nel corrispondente settore di specializzazione (a C. Bissoli, le voci di G. Groppo e di G. Stachel; a F. Casella, quelle di G. Flores d’Arcais; a C. Coggi, quelle di L. Calonghi; ad A. R. Colasanti, quelle di H. Franta; a S. Chistolini, quelle di M. Laeng; a R. Frisanco, quelle di L. Tavazza; a L. Gallo, quelle di J. E. Vecchi; a C. Nanni, quelle di P. Gianola; a V. Orlando, quelle di M. Groppo; a S. Thuruthiyil, quelle di G. Kuruvachira; a G. Vettorato, quelle di A. Ellena). In altri casi particolari, è intervenuto il Comitato di Redazione. Gli interventi fatti nelle voci redatte da autori scomparsi prima del mese di gennaio 2007, si sono limitati però a ritocchi di carattere tecnico e/o ad aggiunte di qualche dato o pubblicazione recente. Allorché si è ritenuto necessario un intervento più consistente, la voce appare firmata anche dall’autore della revisione. I collaboratori che hanno partecipato alla redazione dei testi, nel suo insieme, sono 184 (24 in più che nella prima edizione), appartenenti a 15 diversi Paesi (europei, africani, asiatici e americani). 4. Al volume è allegato un CD-ROM per la consultazione off-line. Nel supporto digitale ciascuna voce o rimando è raggruppata per lettera in ordine alfabetico, con collegamenti ipertestuali diretti al testo della voce identico alla versione cartacea. È una risorsa ulteriore che facilita la consultazione e consente un accesso rapido e diretto alle singole voci o ai rimandi. Un motore di ricerca interno al CDROM restituisce risultati di ricerca in base ad una indicizzazione semplice, ma efficace di tutte le voci. Questa novità è stata aggiunta per favorire studenti, professori, ricercatori e lettori che desiderano un approccio mirato e analitico con il contenuto. Il DSE prossimamente sarà ulteriormente arricchito da un sito internet (http://dizionariofse.unisal.it) dedicato soprattutto ai redattori delle voci e a tutti i visitatori (con privilegio d’accesso concordati) che si interessano alla «vitalità», alla crescita e spesso alla trasformazione dei significati che molti termini nel tempo subiscono e che sono tipici delle aree del sapere delle scienze dell’educazione. Questa versione on-line del DSE desidera essere un tentativo di raggiungere molte persone interessate all’educazione e offrire un grado di interattività particolare che può avvenire tra gli attori della scienza e della pratica educativa e i contenuti. Il lettore può trovare altre indicazioni sull’impostazione e sui destinatari del DSE, allo stesso tempo che indicazioni e suggerimenti per un uso più proficuo del medesimo, nell’Introduzione della prima edizione, che si riproduce, con pochi e leggeri ritocchi, nelle pagine seguenti. 5. Questo lavoro non avrebbe visto la luce senza la collaborazione di molti. Oltre ai nomi testé citati e quelli degli estensori delle singole voci e dei membri del Comitato di Redazione e del Comitato Scientifico (che sono registrati nei luoghi pertinenti) andrebbe fatto qui un lungo elenco di persone che, in forme e a livelli 10

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differenti, hanno dato il loro valido contributo. Tuttavia è giocoforza limitarsi a segnalare solo alcuni nomi: Rosetta Mastantuono, Nicola Campanale, Piero Pastoretto, Elias Ferreira, Silvana Bisogni, Rosanna Giacometto, Catia Milone, Matteo Cavagnero. Rosetta Mastantuono ha collaborato nell’archiviazione dei testi e nella revisione formale delle voci. A tutti un dovuto e vivo ringraziamento. José Manuel Prellezo Coordinatore

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INTRODUZIONE

La decisione di pubblicare un Dizionario di Scienze dell’Educazione (DSE) da parte della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Salesiana di Roma non è stata scontata né semplice. Essa è maturata attraverso un lungo e laborioso cammino di studio, di dialogo e anche di confronto con colleghi di altre Università. Due fatti contribuirono a superare le prime perplessità. Un attento esame della bibliografia italiana ed estera più recente portò a individuare spazi scoperti per una pubblicazione di questo genere nell’ambito dell’educazione e della scuola. Una successiva ipotesi di progetto trovò il riscontro favorevole anche da parte di un rappresentativo gruppo di esperti di differenti orientamenti ideologici. 1. Destinatari e impostazione generale Destinatari prioritari del DSE sono gli studenti di scienze dell’educazione delle Facoltà universitarie e delle Scuole superiori. Il DSE si rivolge anche ai docenti, agli educatori, ai genitori e, in generale, alle persone interessate ai problemi educativi e scolastici – giornalisti, politici, sindacalisti – a diversi livelli e in differenti contesti. Ci si augura inoltre che i ricercatori e gli studiosi dell’educazione possano trovare nell’opera suggestioni e piste feconde di ricerca. Il DSE si propone di essere uno strumento di lavoro e di consultazione seria e scientificamente qualificata. In tal senso intende rendere conto dello stato attuale degli studi e della ricerca relativa all’argomento o soggetto trattato. Vi si tiene distinto ciò che è assodato dal punto di vista scientifico da ciò che è problematicamente aperto o soggettivamente opinabile. Nel pieno rispetto della serietà scientifica, lo stile dei contributi cerca di essere chiaro e semplice, evitando, nella misura del possibile, terminologie eccessivamente specialistiche che solo gli addetti ai lavori potrebbero comprendere. Trattandosi di un dizionario e non di una enciclopedia, si è cercato di far sì che le singole voci fossero essenziali e sintetiche. La breve bibliografia che completa ciascuna voce consente ulteriori approfondimenti. Si tratta, inoltre, di un dizionario di scienze pedagogiche. Di conseguenza, la trattazione si riferisce e si pone nella prospettiva appunto delle scienze dell’educazione, evidenziando la valenza educativa e pedagogica di quanto viene presentato. La sottolineatura degli aspetti 3

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teorici si coniuga con l’attenta considerazione delle possibili realizzazioni nei diversi ambiti attinenti l’educazione. Il titolo dell’opera – Dizionario di Scienze dell’Educazione – mette in risalto questa prospettiva interdisciplinare rispondente ad una determinata scelta epistemologica che ritiene la pedagogia il nome collettivo o meglio l’area culturale e scientifica in cui operano una pluralità di discipline unificate dal fatto di avere un campo comune di indagine (l’educazione), una medesima intenzionalità conoscitiva (un conoscere «scientifico» per l’educazione), un medesimo sviluppo (per problemi, congetture e conferme/falsificazioni), un comune operare (da pedagogisti), pur nella specificità dell’approccio, del linguaggio, delle metodiche e delle culture disciplinari proprie alle «scienze madri» di riferimento. 2. La scelta delle voci In consonanza con tali premesse, il DSE offre un ampio ventaglio di voci, che analizzano il fatto educativo dalle più svariate angolature (filosofica, teologica, storica, antropologica, sociologica, psicologica, biologica, metodologica, giuridica, delle scienze della comunicazione), con il contributo delle scienze formali e delle tecnologie tradizionali e moderne. È pure abbastanza presente l’attenzione ai contesti culturali diversi e alla dimensione internazionale. Di fatto tale pluralità di approcci e ricchezza di prospettiva costituisce, ci sembra, un aspetto importante e caratteristico del presente lavoro. Appunto per questo, allo scopo di garantire un campione di tematiche e di autori veramente rappresentativo, si è curata con particolare impegno la preparazione dell’elenco delle voci. 2.1. Voci tematiche: a) Si è fatto anzitutto riferimento ai termini che appaiono più comunemente nell’ambito della ricerca pedagogica e delle diverse scienze dell’educazione, e, in quanto tali, espressione della più aggiornata cultura pedagogica. b) Si sono introdotte voci riferibili ad ambiti disciplinari diversi o più vasti delle scienze dell’educazione, ma sempre e solo nella misura in cui sono sembrate pedagogicamente ed educativamente rilevanti. c) Oltre ai termini classici si sono tenute in conto le «grandi parole» che provengono dall’attuale dibattito sullo sviluppo, sul sistema sociale di formazione, sul senso e la validità delle strategie educative. d) Particolare attenzione si è anche avuta per i presupposti biologici, antropologici e culturali dell’educazione, dell’apprendimento e della formazione. e) Si rileverà pure facilmente l’ampio spazio dato alle specificazioni disciplinari. f) Nel rispetto del pluralismo ideologico e religioso e della fondamentale autonomia della scienza, si è cercato di contemperare la rilevanza educativa della cultura cristiana con quella delle altre grandi religioni e delle nuove forme di religiosità. 2.2. Voci di carattere storico: a) Sono inseriti persone (pedagogisti ed educatori) e temi significativi dal punto di vista pedagogico. Vengono presentati inoltre autori di più ampio raggio di interesse (filosofico, psicologico, sociologico), quando le loro 14

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idee hanno avuto ripercussione in campo educativo. b) Si è cercato di garantire la dimensione schiettamente internazionale, pur con una maggiore attenzione a temi e autori che hanno avuto uno speciale significato nell’ambito italiano. c) Sono privilegiate le voci collettive (istituzioni, movimenti, periodi storici). d) Per ragioni facilmente intuibili, vengono presentati direttamente solo autori non viventi. Alcuni nomi di studiosi e ricercatori viventi sono inseriti nella trattazione delle tematiche di cui gli autori stessi si sono occupati, apportandovi un significativo contributo. 3. Struttura delle singole voci D’accordo con l’importanza a loro attribuita, le voci sono state classificate in quattro categorie. L’estensione delle voci è stata commisurata alla significatività pedagogica ed educativa degli argomenti, così come sono presenti nella ricerca e/o nel dibattito pedagogico contemporaneo. Come criterio generale, si è preferito limitare quelle di maggiore estensione (16.000 byte ca.) allo scopo di poter inserire nel DSE un numero più rilevante di temi e autori. L’applicazione di tale criterio ha trovato difficoltà pratiche che non sempre si è riusciti a superare in modo soddisfacente. La notevole ampiezza di qualche voce trova, però, un elemento di giustificazione nella pluralità di autori e/o temi trattati in essa, a cui si rimanda nell’elenco generale. Ogni voce ha di norma questa struttura: a) Parte introduttiva: nelle voci tematiche o concettuali, dopo il lemma (o titolo della voce) si offre una sorta di definizione comprensiva delle eventuali diversificazioni di significato del termine. Per gli autori, si indicano l’anno e luogo di nascita e di morte e se ne presenta la qualifica. b) Parte centrale: il contenuto normalmente è articolato in paragrafi numerati e titolati nelle voci di maggior estensione, allo scopo di facilitarne la lettura. Dove si ritiene necessario, viene presentato lo «status quaestionis», segnalando le diverse posizioni e gli eventuali diversi approcci al tema. Non vengono trascurati essenziali rilievi critici e cenni circa la rilevanza storica e di attualità educativa e pedagogica. Per gli autori si danno indicazioni essenziali sulla vita e opere, sul pensiero pedagogico e sulle realizzazioni educativo-istituzionali. Si è prestata attenzione ad un breve bilancio critico, alla rilevanza storica, agli influssi avuti e ad eventuali sviluppi del pensiero. c) Parte bibliografica: essenziale, con sensibilità internazionale, ordinata cronologicamente; limitata alle opere principali, con una funzione di documentazione e di approfondimento. In alcuni casi (per gli autori di maggior rilievo) la bibliografia viene articolata in fonti (opere dell’autore) e studi. 4. Indicazioni per l’uso Di norma si prende come voce ordinatrice il sostantivo (ad es. educazione, scuola, sviluppo) seguito dalle eventuali determinazioni (educazione cristiana, scuola libera, sviluppo morale). Se il lemma è composto di due o più sostantivi, si prende 15

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come voce ordinatrice il termine più specifico (ad es. salute: educazione alla). Opportuni rimandi aiutano a superare possibili ambiguità. Nella stesura del testo e nella presentazione delle fonti e della bibliografia sono state utilizzate abbreviazioni e sigle di uso abbastanza comune. L’elenco delle medesime si trova inserito dopo l’elenco dei collaboratori. Va tenuto presente inoltre che, per evitare ripetizioni non necessarie, il nome delle singole voci è abbreviato – nel testo e nella bibliografia – con la prima lettera del lemma (ad es.: c., al posto di: cultura; s.d.s., al posto di: storia della scuola). I cognomi e nomi degli autori si riportano nella lingua originale. Allorché un autore è noto con un cognome italianizzato (ad es. Comenio), esso viene inserito nell’elenco con un rimando al cognome originale (→ Komenskỳ), con cui l’autore stesso viene trattato. Qualche cosa di analogo si deve dire riguardo a determinate espressioni tecniche che non hanno una precisa e univoca traduzione in lingua italiana. I segni di rimando (→) all’interno di un testo richiamano la voce o le voci in cui si parla esplicitamente di un determinato autore o argomento. Tali rimandi rispondono ad una privilegiata istanza di interdisciplinarità. Si è evitato tuttavia di moltiplicare tali rimandi, soprattutto se si tratta di voci tematiche; e sono evidenziate soltanto quelle che possono essere utili per la comprensione o per l’approfondimento del tema in questione. Evidentemente, il lettore, in base ai suoi interessi di studio e di ricerca, troverà altri collegamenti. Gli indici costituiscono un sussidio utile per la consultazione del DSE. – Indice delle voci: vi sono stati inseriti anche i lemmi che rimandano alla voce/i in cui viene trattato direttamente l’argomento in questione. – Indice dei nomi: vi si riportano soltanto i nomi di persona citati all’interno del testo dei diversi contributi. – Indice tematico: le voci inserite nel medesimo sono ordinate attorno alle discipline che, da prospettive diverse, contribuiscono a illuminare il fatto educativo, e attorno alle principali istituzioni in cui si attua l’opera dell’educazione. Quest’ultimo indice – elaborato in particolare ad uso degli studenti di scienze dell’educazione – vuole essere una specie di guida per uno studio sistematico del DSE. * * * Nonostante l’impegno da parte di quanti sono intervenuti nella preparazione dell’opera, è più che probabile che siano sfuggiti sviste ed imprecisioni, difficilmente evitabili in una pubblicazione con le caratteristiche della presente. Il Comitato di Redazione sarà grato delle osservazioni e suggerimenti che il gentile lettore vorrà fare, e si augura di poter introdurre i necessari miglioramenti in prossime edizioni. Il Comitato di Redazione José Manuel Prellezo Guglielmo Malizia Carlo Nanni 16

COLLABORATORI

Alberich Emilio, Università Pontificia Salesiana - Centro de Estudios Teológicos - Siviglia Álvarez Pedro, Universidad Pontificia Comillas - Madrid Antonietti Daniela, Psicologa - Roma Arto Antonio, Università Pontificia Salesiana - Roma Augenti Antonio, Dirigente Ministero Pubblica Istruzione - Roma Bajzek Joze, Università Pontificia Salesiana - Roma Bay Marco, Università Pontificia Salesiana - Roma Bellerate Bruno Antonio, Terza Università degli Studi - Roma Bergamelli Ferdinando, Università Pontificia Salesiana - Torino Bertagna Giuseppe, Università degli Studi - Bergamo Bertolini Piero, Università degli Studi - Bologna Biancardi Giuseppe, Università Pontificia Salesiana - Roma Bissoli Cesare, Università Pontificia Salesiana - Roma Boncori Giuseppe, Università «La Sapienza» - Roma Boncori Lucia, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Bosco Giov. Battista, Psicologo dell’educazione - Torino Braido Pietro, Università Pontificia Salesiana - Roma Bucci Sante, Istituto Universitario di Scienze Motorie - Roma Bucciarelli Claudio, Fondazione CENSIS - Roma Butturini Emilio, Università degli Studi - Verona Caimi Luciano, Università Cattolica Sacro Cuore - Brescia Calidoni Paolo, Università degli Studi - Sassari Caliman Geraldo, Università - Brasile Calonghi Luigi, Università Pontificia Salesiana - Roma Cangià Caterina, Università Pontificia Salesiana - Roma Caporale Vittoriano, Università degli Studi - Bari Caputo Maria Grazia, VIDES Volontariato Internazionale - Roma Carrozzino Michela, Centro Studi Guanelliani - Roma Casella Francesco, Università Pontificia Salesiana - Roma Castellazzi Vittorio Luigi, Università Pontificia Salesiana - Roma Castelli Daniela, Sociologa - Milano Cavaleri Pietro, Istituto di Gestalt HCC - Ragusa Cencini Amedeo R enato, Università Pontificia Salesiana - Roma Chang Hiang Chu Ausilia, Pont. Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» - Roma Chiosso Giorgio, Università degli Studi - Torino Chistolini Sandra, Università degli Studi - Roma Cicatelli Sergio, Dirigente scolastico - Roma Cives Giacomo, Università degli Studi - Roma Coggi Cristina, Università degli Studi - Torino Colasanti Anna R ita, Università Pontificia Salesiana - Roma 17

COLLABORATORI

Comoglio Mario, Università Pontificia Salesiana - Roma Contini Maria Grazia, Università degli Studi - Bologna Corradini Luciano, Terza Università degli Studi - Roma Costa Giuseppe, Libreria Editrice Vaticana - Città Del Vaticano Crea Giuseppe, Psicologo - Roma Damiano Elio, Università degli Studi - Parma Dazzi Nino, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma De Giorgi Pierino, AGESC Nazionale - Roma Deleidi Anita, Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» - Roma Delgado Buenaventura, Universidad de Barcelona - Barcelona (Spagna) Demetrio Duccio, Università degli Studi - Milano Denicolò Giancarlo, Centro Nazionale di Pastorale Giovanile - Roma De Pieri Severino, ISRE-SISF - Venezia Mestre De Souza Cyril, Università Pontificia Salesiana - Roma De Vivo Francesco, Università degli Studi - Padova Di Agresti Carmela, Libera Università «Maria SS. Assunta» - Roma Ellena Aldo, Centro Studi Valsalice - Torino Erbetta Antonio, Università degli Studi - Torino Farina Marcella, Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» - Roma Farné Roberto, Università degli Studi - Bologna Faubell Zapata Vicente, Universidad Pontificia - Salamanca (Spagna) Felici Sergio, Università Pontificia Salesiana - Roma Ferraroli Lorenzo, Ist. Psicoclinico e di Orient. Professionale - Arese (Milano) Fiore Rosa, Psicologa, Istituto Progetto Uomo, FICT - Viterbo Fizzotti Eugenio, Università Pontificia Salesiana - Roma Flores d’Arcais Giuseppe, Università degli Studi - Padova Franta Herbert, Università Pontificia Salesiana - Roma Frisanco R enato, Fondazione Italiana per il Volontariato - Roma Galino Ángeles, Universidad Complutense - Madrid Gallo Luis, Università Pontificia Salesiana - Roma Gambini Paolo, Università Pontificia Salesiana - Roma Gambino Vittorio, Università Pontificia Salesiana - Roma Garancini Gianfranco, Università degli Studi - Milano García-Verdugo Alberto, Studioso e educatore - Zamora (Spagna) Gatti Guido, Università Pontificia Salesiana - Roma Gaudio Angelo, Università degli Studi - Udine Gennari Mario, Università degli Studi - Genova Gevaert Joseph, Università Pontificia Salesiana - Roma Gianetto Ubaldo, Università Pontificia Salesiana - Roma Gianola Pietro , Università Pontificia Salesiana - Roma Gianoli Ernesto, ISRE - Venezia Giordanella Perilli Gabriella, Università degli Studi - L’Aquila Granese Alberto, Università degli Studi - Cagliari Grillo Piero, COSPES - Torino Groppo Giuseppe, Università Pontificia Salesiana - Roma Groppo Mario, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Gutiérrez Manuel, Psicopedagogista - Roma Hamburger Franz, Universität - Mainz (Germania) Izzo Domenico, Università degli Studi - Firenze 18

COLLABORATORI

K aiser Anna, Università degli Studi - Genova Kuruvachira George, Don Bosco Yuva Parachodini - Bangalore (India) Laeng Mauro, Terza Università degli Studi - Roma La Marca Alessandra, Università degli Studi - Palermo Laneve Cosimo, Università degli Studi - Bari Lanfranchi R achele, Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» - Roma Lasala Fernando J. de, Pontificia Università Gregoriana - Roma Libri Anna Maria, Servizio Sociale Internazionale - Roma Llanos Mario, Università Pontificia Salesiana - Roma Lobefalo Antonio, Università Pontificia Salesiana - Roma Lollo R enata, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Maccario Daniela, Università degli Studi - Torino Macchietti Sira Serenella, Università degli Studi - Arezzo Maíllo José Maria, Psicologo - Madrid (Spagna) Malizia Enrico, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Malizia Guglielmo, Università Pontificia Salesiana - Roma Mantovani Mauro, Università Pontificia Salesiana - Roma Mari Giuseppe, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Marin Maurizio, Università Pontificia Salesiana - Roma Maritano Mario, Università Pontificia Salesiana - Roma Masini Vincenzo, Università degli Studi - Siena Mastromarino R affaele, IFREP Istituto Formazione e Ricerca - Roma Meazzini Paolo, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Messana Cinzia, Università Pontificia Salesiana - Roma Mion R enato, Università Pontificia Salesiana - Roma Montani Mario, Università Pontificia Salesiana - Roma Montesperelli Paolo, Università degli Studi - Perugia Morante Giuseppe, Università Pontificia Salesiana - Roma Nanni Antonio, Pedagogista Centro Educazione alla Mondialità - Roma Nanni Carlo, Università Pontificia Salesiana - Roma Nicoli Dario, Università Cattolica del Sacro Cuore - Brescia Onrubia Luis, Instituto Filosofico Superior - Burgos Orlando Vito, Università Pontificia Salesiana - Roma Ortu Francesca, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Pajer Flavio, Università Pontificia Salesiana - Roma Pasquato Ottorino, Università Pontificia Salesiana - Roma Pazzaglia Luciano, Università Cattolica del Sacro Cuore - Brescia Pellerey Michele, Università Pontificia Salesiana - Roma Peri Calogero, Facoltà Teologica di Sicilia - Palermo Picca Juan, Università Pontificia Salesiana - Roma Pieroni Vittorio, Sociologo - Roma Poláček K lement, Università Pontificia Salesiana - Roma Polizzi Vincenzo, Università Pontificia Salesiana - Roma Prellezo José Manuel, Università Pontificia Salesiana - Roma Proverbio Germano, Università degli Studi - Torino Purayidathil Thomas, Università Pontificia Salesiana - Roma R ansenigo Pasquale, Presidenza Nazionale CNOS/FAP - Roma R ezzaghi Roberto, Seminario Vescovile - Mantova R ibotta Michael, Don Bosco Hall - Berkeley, CA (U.S.A.) 19

COLLABORATORI

R iccioli Emilio, Università Pontificia Salesiana - Roma R icchiardi Paola Università degli Studi - Torino R ighi Laura, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano R ivoltella Piercesare, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Rodríguez Jaime, Universidad Nacional - Santafé de Bogotà (Colombia) Roggia Giuseppe, Università Pontificia Salesiana - Roma Ronco Albino, Università Pontificia Salesiana - Roma Ruffinatto Piera, Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» - Roma Ruiz Berrio Julio, Universidad Complutense - Madrid Salatin Arduino, ISRE-SISF - Venezia Mestre Salonia Giovanni, Istituto di Gestalt HCC - Ragusa Sarti Silvano, Università Pontificia Salesiana - Roma Schepens Jacques, Theologische Fakultät - Benediktbeuern (Germania) Schweitzer Friedrich, Universität - Tübingen (Germania) Scilligo Pio, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Scurati Cesare, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Simoncelli Mario, Università Pontificia Salesiana - Roma Sodi Manlio, Università Pontificia Salesiana - Roma Sopeña Andrés, Universidad Pontificia - Salamanca (Spagna) Spagnuolo Lobb Margherita, Istituto di Gestalt HCC - Ragusa Squillacciotti Massimo, Università degli Studi - Siena Stachel Günter, Universität - Mainz (Germania) Stella Pietro, Terza Università degli Studi - Roma Stella Prospero Tommaso, Università Pontificia Salesiana - Roma Struś Jozef, Università Pontificia Salesiana - Roma Tavazza Luciano Fondazione Italiana per il Volontariato - Roma Thuruthiyil Scaria, Università Pontificia Salesiana - Roma Titone R enzo, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Tognon Giuseppe, Libera Università «Maria SS. Assunta» - Roma Tonelli R iccardo, Università Pontificia Salesiana - Roma Tònolo Giorgio, ISRE-SISF - Venezia Mestre Toso Mario, Università Pontificia Salesiana - Roma Trenti Zelindo, Università Pontificia Salesiana - Roma Trinchero Roberto, Università degli Studi - Torino Troll Christian W., Pontificio Istituto Orientale - Roma Trombetta Carlo, Università degli Studi «La Sapienza» - Roma Turchini Angelo, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Vallabaraj Jerome, Università Pontificia Salesiana - Roma Valle Ángela del, Universidad Complutense - Madrid Vecchi Juan E., Università Pontificia Salesiana - Roma Vettorato Giuliano, Università Pontificia Salesiana - Roma Visconti Wanda, Psicologa - Roma Xodo Carla, Università degli Studi - Padova Zanacchi Adriano, Università Pontificia Salesiana - Roma Zanni Natale, Università Pontificia Salesiana - Roma Zanniello Giuseppe, Università degli Studi - Palermo

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ISTRUZIONI 1/9

Istruzioni • Per consultare con profitto l’ipertesto realizzato con Adobe Acrobat 8.0 leggere le istruzioni che illustrano le potenzialità e la navigazione del CD-ROM. • Conviene scegliere, all’inizio della consultazione, alcune impostazioni di Acrobat Reader 8.0 ai fini di usufruire al meglio di tutte le risorse di navigazione e di ricerca.

ISTRUZIONI 2/9

Per consultare le sezioni e le voci del dizionario organizzate in ordine alfabetico, si utilizzano i collegamenti realizzati nella finestra dei segnalibri che appare alla sinistra dello schermo dopo l’attivazione offerta da Adobe Acrobat Reader nella versione 8.0 e seguenti. Per attivare la visualizzazione dei segnalibri, cliccare l’icona indicata dalla freccia rossa, come indicato in figura.

ISTRUZIONI 3/9

• Selezionare la lettera con il puntatore del mouse come indicato nella figura. • Cliccare per collegarsi alla pagina del dizionario corrispondente alla lettera scelta.

ISTRUZIONI 4/9

• Cliccare il segno [+] per espandere i sottorami che costituiscono i segnalibri delle voci e dei rimandi disposti in ordine alfabetico.

ISTRUZIONI 5/9

• Cliccare il termine che appare nel segnalibro per spostarsi alla voce desiderata. • Nell’esempio in figura, dopo aver cliccato il segnalibro “AZIONE EDUCATIVA” il documento si posiziona alla voce desiderata.

ISTRUZIONI 6/9

• I rimandi ad altre voci sono indicati da segnalibri caratterizzati dal colore del carattere più chiaro rappresentati in corsivo con il simbolo della freccetta →. • L’esempio in figura mostra il termine ABBANDONO SCOLASTICO che rimanda alla voce completa Insuccesso scolastico raggiungibile con un clic sul collegamento ipertestuale indicato dalla freccia di colore giallo.

ISTRUZIONI 7/9

• Acrobat Reader 8.0 è provvisto dello strumento di visualizzazione indicato con la lente di ingrandimento che permette una confortevole lettura a schermo della grandezza che più si adatta alle esigenze dell’utente (cfr. freccia rossa). • L’icona a forma di lente con (-) riduce il fattore di ingrandimento, mentre quella con il (+) lo aumenta [nell’esempio è stato scelto un fattore di ingrandimento del 200%].

ISTRUZIONI 8/9

• Lungo il testo i termini preceduti dalla freccetta → al passaggio del mouse si trasformano in collegamento ipertestuale. • La trasformazione si nota grazie al cambiamento di forma del puntatore del mouse che da semplice freccia assume la forma di manina (vedi l’esempio in figura indicato dalla freccia gialla e dal relativo rimando al termine → logoterapia).

ISTRUZIONI 9/9

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Per effettuare la ricerca di una parola o di una frase occorre: • Aprire il file indice.pdx con Acrobat Reader 8.0 che si trova nel CD-ROM (1) • All’interno della finestra di Ricerca (2) digitare nel box apposito il termine da ricercare (nell’esempio si è scelto “azione educativa”) • Cliccare il pulsante Ricerca e attendere il risultato della ricerca (3)

ABBREVIAZIONI E SIGLE

Questo elenco contiene abbreviazioni e sigle generali usate nel DSE. Esso non riprende quelle utilizzate in un determinato contributo e spiegate in loco. Le citazioni di testi biblici sono indicate con le abbreviazioni in uso. All’interno di ogni voce, il titolo della voce medesima (singolare e plurale) è indicato con una sigla che riprende di norma la prima lettera della parola o parole di cui il titolo stesso è composto (ad es., a. per abaco). a.C. avanti Cristo AT Antico Testamento art. articolo bibl. bibliografia ca. circa cap. capitolo cfr. confronta d.C. dopo Cristo D.L. Decreto Legge D.P.R. Decreto Presidente Repubblica ediz. edizione es. esempio etim. etimologia Enc. enciclica fr. francese gr. greco Ibid. Ibidem (sostituisce: titolo di un’opera citata immediatamente prima) Ibid. Ibidem (sostituisce: Città e Editrice citate immediatamente prima) Id. Idem (sostituisce: Nome di un autore citato immediatamente prima)

ingl. inglese ist. istituto it. italiano L. legge lat. latino m. morto n. nato NT Nuovo Testamento por. portoghese s. santo s.d. senza data sec. secolo sp. spagnolo suppl. supplemento tav. tavola ted. tedesco tit. titolo trad. traduzione v. vedi vol. volume voll. volumi

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A ABACO Antico strumento per l’esecuzione di calcoli elementari, da cui deriva il pallottoliere; usato per l’insegnamento dell’aritmetica nelle scuole. 1. Si ritiene che la parola a. derivi dal fenicio abak o dall’ebraico abaq, e che indichi la sabbia sparsa su una superficie per scrivervi sopra. Conosciuto probabilmente dai babilonesi e dai cinesi, questo strumento per calcolare assunse con il tempo l’aspetto di una intelaiatura con dei numeratori scorrevoli. Impiegato ancora in diversi Paesi come Cina, Giappone e Russia. 2. L’a. fu utilizzato da greci e romani, come testimoniano vari scritti di Persio e di Apuleio e anche in Spagna dagli arabi nelle cui scuole, secondo la tradizione, il monaco Gerberto di Aurillac (945-1003), il futuro papa Silvestro II, ne apprese l’uso, e scrisse una Geometria e due opuscoli: Regula de a. computi e Libellus de numerorum divisione. A partire da quel periodo l’uso dell’a. fu introdotto con successo nelle scuole cattedralizie. Durante il sec. XIX l’a. o pallottoliere continuò ad essere utilizzato nelle scuole per insegnare il calcolo intuitivamente. 3. Al posto della sabbia su una superficie liscia, si utilizzava una struttura di legno con dieci fili paralleli, nei quali erano inserite dieci palline che si potevano spostare da un lato all’altro. Il filo superiore rappresentava le unità, il secondo le decine, e così via.

Le cento palline potevano essere utilizzate come unità semplici o come unità di diverso ordine. Per facilitarne l’uso si consigliava di dividere l’a. in due tavole distinte con palline di diverso colore, una per le unità semplici e l’altra per calcoli più complessi. Bibl.: Carderera M., «Ábaco», in Diccionario de educación y métodos de enseñanza, vol. I, Madrid, Hernando, 1858; Boyer C. B., Storia della matematica, Milano, ISEDI, 1976; Picuti E., Sul numero e la sua storia, Milano, Feltrinelli, 1979; García Solano R., Aplicación práctica del ábaco, Madrid, Escuela Española, 1996.

B. Delgado

ABBANDONO SCOLASTICO → Insuccesso scolastico ABBOTSHOLME → Scuole Nuove ABELARDO → Medioevo

ABILITÀ Le a. fanno parte dell’ → intelligenza come componenti ad essa subordinate, distinte tra loro ma correlate, formando il costrutto multidimensionale dell’intelligenza stessa. L’insieme delle a. è sinonimo dell’intelligenza; ad esso viene associato il termine attitudine che rappresenta la potenzialità da sviluppare da parte del soggetto. Sinonimo dell’a. è anche la capacità; nelle a. e nelle capacità vengono distinte le destrezze, composte da contenuti semplici ed eseguite con automatismi. All’a. è associata anche la competenza che 23

ABILITÀ

consiste in conoscenze specifiche complete e ben organizzate; esse sono il risultato della formazione delle a. 1. Struttura. Le a. sono considerate una struttura gerarchica, formata dal vertice dell’a. generale (o intelligenza generale) e dalla base delle a. specifiche. Tra i due termini si situano le aree delle a. più o meno generali, i cosiddetti fattori di gruppo. Questi sono composti da alcune aree di a. come quella verbale, numerica e spaziale. Le tre aree possono essere suddivise a loro volta in a. più specifiche. La stessa a. generale viene suddivisa in a. cristallizzata e fluida. L’a. cristallizzata è il risultato dell’interazione del soggetto con il suo ambiente formativo, basato sull’apprendimento di vari contenuti in rapporto al patrimonio culturale. In essa predominano i processi cognitivi algoritmici con percorsi prestabiliti. L’a. fluida si forma prevalentemente nel contesto socioculturale libero e in situazioni occasionali; in essa predomina il processo euristico con un percorso imprevedibile. Questa a. si realizza nelle stesse aree dell’a. cristallizzata, ma con processi di maggiore astrazione e concettualizzazione. I due tipi di a. si formano fino all’età adulta allo stesso ritmo; in seguito l’a. fluida incomincia a declinare mentre l’a. cristallizzata continua ad aumentare. L’a. cristallizzata può essere rilevata con varie prove attitudinali, particolarmente con quelle verbali, mentre l’a. fluida può essere diagnosticata con le prove non verbali, basate sulle figure geometriche disposte in un certo ordine da scoprire e poi proseguire. Nelle varie a. di gruppo i due tipi di a. sono presenti in proporzioni differenti; per es. quella di matematica è composta dalle conoscenze cristallizzate, dal ragionamento fluido e dalla rapidità di esecuzione. Le tre aree (verbale, numerica e spaziale) sono pervase da processi mentali e da modalità operative di complessità differente formando in base ad essi tre strati disposti in ordine gerarchico. Il primo, il più semplice, è formato dalle a. cristallizzate, rappresentate da comprensione verbale, conoscenza lessicale, ragionamento sequenziale. Il secondo è formato dagli stessi processi che però sono più complessi; in tale strato è maggiormente presente anche l’a. fluida. Il terzo è formato dalla capacità elaborativa di informazioni, dalla comprensione dei contenuti verbali e 24

simbolici complessi e dal ragionamento su contenuti di elevata astrazione. Le tre aree e i tre strati dipendono in modo differente dai fattori genetici. I processi centrali sono maggiormente guidati dai geni rispetto ai processi situati nella periferia e le a. spaziali lo sono maggiormente delle a. verbali. Il numero delle a. singole varia da un massimo di 180 ad un minimo di 8. Per stabilire il numero delle a. singole vengono usati due criteri: la consistenza interna, la relativa indipendenza di una dall’altra e il rapporto con un criterio (ad es. una realtà sociale importante). 2. Formazione. Le a. di ogni individuo si formano nell’interazione del suo corredo genetico con l’ambiente familiare. Particolarmente importante è l’interazione con la madre in quanto da essa dipende l’acquisizione dei vocaboli, della sintassi e dei modelli linguistici. All’interazione si associa lo stile educativo dei genitori nelle loro attese positive sull’acquisizione delle competenze intellettive. L’ambiente familiare contribuisce anche ad uno sviluppo differenziato delle a.; influsso maggiore viene esercitato sulle a. verbali e numeriche, minore sul ragionamento e minimo sulle a. spaziali. La formazione di queste ultime sembra essere maggiormente dovuta ai fattori genetici. L’ambiente scolastico contribuisce allo sviluppo delle a. cognitive in grado minore. Dai vari studi sul confronto tra bambini che hanno frequentato la scuola d’infanzia e quelli che non l’hanno frequentata sono emerse solo lievi differenze. La scuola dell’obbligo sembra dare un maggiore contributo allo sviluppo delle a. poiché l’istruzione avuta da giovani risulta essere in rapporto effettivo con il quoziente di intelligenza da adulti. In quanto alle Facoltà universitarie risulta che le differenti Facoltà formano a. mentali in modo e grado differente: per es. le Facoltà umanistiche formano piuttosto le a. verbali mentre quelle tecniche formano piuttosto le a. spaziali. Un’altra constatazione fatta recentemente sembra deporre a favore delle istituzioni formative; si tratta della cosiddetta «accelerazione secolare». Confrontando le medie aritmetiche dei test attitudinali di questi ultimi sessanta anni si constata un aumento di 15 punti standard per generazione, il che rappresenta un aumento rilevante nelle a. generali. Le cause di questo aumento non sono chiare anche

ABILITÀ

perché all’aumento nelle a. non corrisponde in modo adeguato l’aumento nel rendimento scolastico. È certo però che nelle giovani generazioni rispetto alle precedenti si nota una maggiore capacità di risolvere problemi. 3. Differenze dovute al sesso. Esiste un’innegabile superiorità delle donne nelle a. verbali mentre gli uomini sono superiori nelle a. numeriche e spaziali. Le cause di questa differente formazione delle a. sono dovute ai fattori biologici, ormonali e soprattutto alle → attese sociali di un differenziato comportamento dei maschi e delle femmine. Le differenze sono rilevanti e influenzano notevolmente le scelte professionali dei giovani concentrando le frequenze in alcuni settori lavorativi: scientifico e tecnico (maschile), sociale e amministrativo (femminile). La concentrazione si nota già nella scuola secondaria di secondo grado ed è molto evidente a livello universitario anche se da alcuni decenni il divario nelle a. dei due sessi sta riducendosi. 4. Rendimento scolastico e accademico. L’a. generale è considerata il predittore singolo migliore dei due tipi di rendimento. Da essa dipende il livello di qualificazione dei soggetti in quanto viene ampiamente constatato che il grado di istruzione della popolazione è in evidente rapporto con le a. generali; da esse dipende la durata degli studi come anche l’entrata e uscita dalle istituzioni formative. Il rapporto tra a. generale e le singole materie è differenziato (più stretto o meno stretto), ma nell’insieme coglie una percentuale rilevante della varianza. L’a. cristallizzata predice meglio il rendimento scolastico (generale e specifico) dell’a. fluida. Le prove verbali, numeriche e spaziali predicono bene il rendimento degli studenti delle Facoltà scientifiche, tecniche ed artistiche. 5. Training e successo professionale. L’a. generale, talvolta articolata nelle tre note aree, è pure un valido predittore del successo in vari corsi che preparano all’esercizio delle attività lavorative. Questo vale anche per i corsi che preparano alle attività notevolmente differenti dal settore prettamente scolastico; per es., il successo del training dei futuri piloti di aerei può essere predetto efficacemente con le prove verbali e numeriche. Le a. generali

e specifiche predicono in grado leggermente minore il successo professionale. Il loro contributo alla predizione però è stato recentemente rivalutato con la successiva analisi dei dati del passato. L’a. generale predice anche il successo nelle specifiche attività professionali; per es., il successo di un ingegnere dipende maggiormente dalle sue a. numeriche e spaziali e meno da quelle verbali, mentre il successo di un ragioniere dipende più dall’a. numerica e meno da quella verbale, ecc. Alcuni esperti sostengono che se l’entrata nel mondo del lavoro fosse basata sulle a. delle persone si otterrebbe una maggiore efficienza e sarebbero risparmiate delle somme ingenti (Poláček, Fanelli e Telesca, 1992). 6. Promozione delle a. Per promuovere le a. cognitive dei soggetti in crescita (Poláček, 1994) esistono numerosi programmi finalizzati all’apprendimento scolastico per rimuovere lo svantaggio culturale del soggetto dovuto al suo ambiente familiare. L’effetto di tali programmi in genere è positivo ma minore di quello che gli autori dei programmi promettono. I positivi risultati vengono interpretati tramite assunti teorici a seconda che lo sviluppo delle a. sia maggiormente dovuto ai fattori genetici oppure ambientali (Poláček, 1994). La convinzione prevalente è quella che simili programmi migliorino l’apprendimento scolastico dei soggetti ed abbiano un influsso benefico anche su altre variabili personali (→ socializzazione), ma che non migliorino le effettive a. cognitive. Carroll (1993), in base alla complessità dei contenuti e dei processi distingue tre strati condizionati dai fattori genetici in grado differente: il primo, rappresentato da processi intellettivi semplici è modificabile con un esercizio adatto; il secondo, essendo più complesso, pone una certa resistenza all’intervento esterno; il terzo infine, data la complessità dei processi dai quali è caratterizzato, è poco malleabile. Gli interventi producono un cambiamento nelle competenze di superficie, particolarmente nelle destrezze, senza toccare le sorgenti delle a. Il potenziamento del primo strato perdura nel tempo e produce un miglioramento delle a., ma non un effettivo cambiamento delle sorgenti delle attitudini. 7. Applicazioni educative. Le a. rappresentano la base dell’ → educazione intellettuale dei 25

ABILITÀ

soggetti per mezzo della quale essi diventano autonomi e liberi. Su di esse si fonda anche la → formazione professionale e da esse dipende poi l’esercizio di una specifica attività lavorativa. Le a. assumono una notevole importanza nell’ → apprendimento, particolarmente nella loro duplice distinzione di a. cristallizzate e fluide. Sulle prime viene impostato l’apprendimento del sapere consolidato, mentre sulle seconde quello del sapere ancora poco schematizzato. Queste ultime vengono richieste nell’apprendimento ogni volta che il contenuto è nuovo, complesso e di elevata astrazione; infatti per riordinare le conoscenze occorre analizzare le situazioni problematiche e produrre delle inferenze. Anche il sapere consolidato talvolta richiede l’uso delle a. fluide in quanto viene esposto (volutamente o meno) in modo incompleto e confuso e l’alunno deve scoprire i rapporti tra le parti, produrre delle inferenze e proporre un quadro sintetico sull’argomento. Le a. fluide nei loro processi «periferici» possono essere sviluppate con opportuni metodi (Baron e Sternberg, 1987) per mezzo dei quali gli alunni apprendono le strategie per elaborare le informazioni, per impostare e risolvere un problema, per capire il processo del proprio apprendimento e guidarlo con successo. I due tipi di a. hanno poi una diretta applicazione nell’ → orientamento; le a. cristallizzate danno la possibilità di prevedere il successo scolastico e professionale e quindi offrono informazioni utili per la elaborazione di un progetto professionale, mentre quelle fluide informano sulle risorse personali in vista della gestione delle situazioni imprevedibili. Bibl.: Baron J. B. - R. J. Sternberg (Edd.), Teaching thinking skills: theory and practice, New York, Freeman, 1987; Poláček K. - A. Fanelli - R. Telesca, La predizione del successo/ insuccesso scolastico nella scuola secondaria di secondo grado, in «Orientamenti Pedagogici» 39 (1992) 991-1008; Carroll J. B., Human cognitive abilities: a survey of factor-analytic studies, Cambridge, University Press, 1993; Poláček K., In che misura è possibile promuovere lo sviluppo intellettivo?, in «Annali della Pubblica Istruzione» 40 (1994) 10-35; Deary I. J. et al., The stability of individual differences in mental ability from childhood to old age: Follow-up of the 1932 Scottish Mental Survey, in «Intelligence» 28 (2000)

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49-55; Varela F. J., Habilidad ética, Barcelona, Debate, 2003; Wilhelm O. - R. W. Engle (Edd.), Handbook of understanding and measuring intelligence, Thousand Oaks, Sage, 2005.

K. Poláček

ABILITAZIONE PROFESSIONALE Un compito professionale viene sovente caratterizzato da gesti che richiedono non solo un certo atteggiamento nel compierli, ma anche una coordinazione di movimenti fisici, una capacità di elaborare informazioni e di prendere decisioni, una certa abilità appunto nel vedere, definire e risolvere un problema. In campo professionale per a.p. generalmente si intende il riconoscimento ufficiale della capacità di una persona ad esercitare una professione definita o anche solo il riconoscimento del possesso dei requisiti necessari per svolgere una particolare forma di attività. 1. Tale capacità certamente necessita di predisposizioni più o meno accentuate, ma difficilmente viene resa concreta senza uno sforzo personale in strutture formative a ciò predisposte. È un riconoscimento che può essere dato in diversi ambiti. In ambito fisico ed in ambito manuale come capacità di coordinare movimenti, di utilizzare bene i diversi strumenti necessari nella risoluzione di problemi pratici, di fare scelte attente ad esigenze di sicurezza, estetica, oltre che di funzionamento ottimale. A volte in questo contesto si sente anche parlare di brevetto con la connotazione di capacità riconosciuta nello svolgere delle mansioni specifiche. In ambito intellettuale per a.p. si intende maggiormente la capacità di adattamento a funzioni di tipo più speculativo, decisionale. Sovente si sente parlare anche di a. alla professione (ingegnere, avvocato…) cioè ad una normale attività di lavoro che costituisce l’occupazione ordinaria di una persona e la sua fonte di reddito. 2. Nel mondo formativo si parla di a. all’insegnamento per coloro che intendono insegnare in una struttura scolastica (a. all’insegnamento della cultura, della fisica, della religione…); si parla anche di esami di a. tecnica e di ottenere una a. L’elemento caratterizzante

ACCADEMIA

del termine a. tecnica è sempre l’ufficialità dell’atto in quanto è una constatazione di conoscenze e capacità già acquisite e quindi di possibilità di svolgere una determinata professione ad esse legate con sicurezza e responsabilità. Bibl.: Bocca G., Pedagogia e lavoro tra educazione permanente e professionalità, Milano, Angeli, 1992; Becciu M. - A. R. Colasanti, La promozione delle capacità personali: teoria e prassi, Roma, CNOS-FAP, 2003; D’a nzi V. - P. D’a nzi, Il CAP Certificato di a. p., Forlì, Egaf, 2004; Leopold P. et al., Formare agli insegnanti professionisti: quali strategie? Quali competenze?, Roma, Armando, 2006.

N. Zanni

ABITO MORALE → Virtù ABORTO → Vita

ABUSO DEI MINORI Aggressione momentanea o cronica da parte degli adulti (genitori, educatori o altri) nei confronti del bambino e, per estensione, di ogni minore. 1. Ci sono vari tipi di a. al minore: a) a. fisico. È il più facilmente individuabile. Le forme più frequenti sono: percosse, lesioni cutanee, lesioni scheletriche, traumi cranici, distacchi retinici, lesioni interne, avvelenamento, annegamento, soffocamento nella culla, somministrazione di psicofarmaci; b) a. sessuale. Consiste nel coinvolgimento di un minore in attività sessuali da parte di adulti. Può essere intrafamiliare (il più frequente, circa l’80% dei casi), extrafamiliare (→ pedofilia, pedopornografia, prostituzione minorile, satanismo); c) a. psicologico (svalutazioni, umiliazioni, minacce, ricatti, violenza assistita, doppio legame, aspettative esagerate, violenti coinvolgimenti emotivi nel processo di separazione dei genitori). L’a. psicologico non sempre è facilmente individuabile, anche se è il più frequente. Esso viene compiuto più o meno inconsciamente per trascuratezza (carenze affettive, rifiuti, abbandoni) o per ipercura (iperprotettività, legame simbiotico, sindrome di Münchausen, medical shopping). Talvolta, come nel

caso della → violenza sessuale, questi tre tipi di a. nei confronti del minore si verificano contemporaneamente. 2. L’a. al minore compromette gravemente lo sviluppo fisico e/o psichico della → personalità. Il livello di gravità dipende dall’età. Le conseguenze sono tanto più negative quanto più l’a. si verifica in età precoce. L’a. fisico in seguito può causare, a seconda dei casi, tendenze paranoiche, ritardo mentale, scarso concetto di sé, scarso livello di aspirazione, reazioni autoaggressive, tendenza agli incidenti, atteggiamenti sado-masochistici. L’a. sessuale espone il minore al rischio di gravi sensi di colpa, di distacco emotivo, di erotizzazione precoce delle relazioni interpersonali, di disturbi nell’identità sessuale, di frammentazione della personalità. L’a. psichico può determinare un ritardo nello sviluppo sensomotorio e intellettivo, un arresto della crescita, turbe psichiche (→ psicosi, → depressione), malattie psicosomatiche. Non è infrequente il caso in cui soggetti che nell’infanzia o nell’adolescenza hanno subito un a. in età adulta lo ripetano a loro volta su altri minori. Bibl.: Miller A., La persecuzione del bambino. Le radici della violenza, Torino, Boringhieri, 1987; Bertolini M. - E. Caffo (Edd.), La violenza negata, Milano, Guerini e Associati, 1992; Campanini A. (Ed.), Il maltrattamento all’infanzia. Problemi e strategie d’intervento, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1993; Cesa Bianchi M. - E. Scabini (Edd.), La violenza sui bambini. Immagine e realtà, Milano, Angeli, 1993; M alacrea M. - S. Lorenzini, Bambini abusati. Linee-guida nel dibattito internazionale, Milano, Cortina, 2002; Luberti R. - M. T. Pedrocco Biancardi (Edd.), La violenza assistita intrafamiliare, Milano, Angeli, 2005; Montecchi F. (Ed.), Gli a. all’infanzia: I diversi interventi possibili, Ibid., 2005; Castellazzi V. L., L’a. sessuale all’infanzia, Roma, LAS, 2007.

V. L. Castellazzi

ACCADEMIA Istituzione che promuove attività letterarie, artistiche, culturali o scientifiche; quasi sempre ristretta a soci scelti sulla base di criteri di merito e/o cooptati dai soci già associati. 27

ACCOGLIENZA

1. La prima a. fu fondata da → Platone, in onore dell’eroe ateniese Academo, nelle vicinanze di Atene, nel 387 a.C. In questa scuola filosofica si formò → Aristotele, fino alla morte del maestro. A partire dal Rinascimento il termine a. fu usato per denominare associazioni di artisti, letterati e scienziati, rette ordinariamente da speciali statuti. Gli umanisti si interessarono ad arti diverse da quelle insegnate nelle università; crebbe allora l’interesse per altre discipline che allargarono straordinariamente lo stretto ambito universitario tradizionale. 2. Ogni a. cercò di specializzarsi in un campo del sapere. Di carattere filosofico fu l’a. Platonica, fondata a Firenze da Cosimo il Vecchio (1562); di archeologia si interessò l’a. Romana, protetta dai papi, mentre l’a. Pontiana si interessò di letteratura. Anche in altri Paesi furono fondate a. simili: ad es. in Francia, Inghilterra e Germania. Nel sec. XVII sorsero le prime a. scientifiche specializzate nello studio della lingua, delle arti nobili, del diritto, delle scienze politiche e morali. Se nei primi secoli i membri dell’a. appartenevano alla nobiltà, alla borghesia e all’alta gerarchia ecclesiastica, a partire dal sec. XIX vi insegnarono anche professori universitari di riconosciuta fama, attratti dal prestigio sociale che questi centri assunsero. Tra le a. italiane, vanno ricordate quelle della Crusca (1582) e dei Lincei (1603); fra le straniere: l’Académie Française (1635), la Royal Society (1660) e la Real Academia Española (1713). Bibl.: Immisch O., A., Freiburg, 1924; Geymonat L., Storia del pensiero scientifico, Milano, Garzanti, 1970; Jaeger W., Paideia. La formazione dell’uomo greco, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; Larrúa S., La A. Católica de Ciencias Sociales, Sevilla, Curia Provincial, 2002.

B. Delgado

ACCETTAZIONE → Accoglienza → Empatia

ACCOGLIENZA Il termine a. deriva dal lat. accolo che sta ad indicare lo stare vicino, l’abitare, il vivere accanto e dal verbo colligere ossia legare assieme, unire. Il ricorso a questi due significati 28

può aiutarci a comprendere meglio il senso da attribuire alla parola a. In ambito psicopedagogico essa assume una triplice valenza: a. come atteggiamento, a. come fase della relazione di aiuto, a. come la prima fase del processo di socializzazione di un allievo all’interno dell’organizzazione scolastica. 1. L’a. come atteggiamento è l’insieme delle reazioni cognitive, emotive e comportamentali attraverso le quali l’educatore metacomunica apertura, attenzione, rispetto e comprensione nei confronti della singolarità dell’educando il quale sperimenta, grazie ad esse, una sensazione di agio e benessere. 2. L’a. come fase della relazione di aiuto. Costituisce la prima fase della relazione di aiuto indirizzata a gettare le basi per la costruzione di un rapporto interpersonale positivo tra helper ed helpee, indispensabile al coinvolgimento di quest’ultimo e alla proficua realizzazione di tutte le altre fasi. Affinché questa fase si realizzi con successo si richiede di a) creare un ambiente facilitante (cura del contesto, eliminazione di eventuali fonti di disturbo, atteggiamento di calma e disponibilità); b) stabilire una base di influsso (utilizzo di competenze verbali e non verbali che veicolano senso di padronanza, piacevolezza, affidabilità); costruzione di una positiva piattaforma comunicativa (utilizzo di forme verbali non direttive e semidirettive che veicolano comprensione) (Arto-Colasanti, 1996; Carkhuff, 1994). 3. L’a. come prima fase del processo di socializzazione dell’allievo mira a: favorire il graduale inserimento di quest’ultimo nell’organizzazione scolastica, mantenendone integre la singolarità e l’identità; trasferirgli conoscenze, abilità e competenze che lo mettano in grado di partecipare attivamente all’interno della scuola. A questo riguardo Staccioli (2004) afferma che accogliere un allievo a scuola significa molto di più che farlo entrare nell’edificio scolastico e assegnargli un posto dove stare, vuol dire dar vita ad un metodo di lavoro complesso che implica il riconoscimento e il coinvolgimento di tutti i soggetti della comunità educativa. Il metodo dell’a., aggiunge l’autore, presuppone due importanti principi educativi: la fiducia nei confronti dell’allievo e delle sue capacità di apprende-

ACCOMPAGNAMENTO

re e il rispetto per il suo essere soggetto di diritti. In questa prospettiva, accogliere è predisporre ossia organizzare un ambiente a misura dell’allievo, un contesto cioè fatto di cose, materiali, tempi, ritmi, persone facilitanti l’apprendimento e la socializzazione; accogliere è ascoltare ossia entrare in sintonia con l’allievo e con il suo mondo e con la sua prospettiva sul mondo; accogliere è vivere nel reale, ossia attingere alla vita quotidiana che spesso resta fuori dall’edificio scolastico e che invece, se adeguatamente valorizzata, può consentire di arrivare a cogliere con maggiore pienezza la persona che c’è dietro ad ogni allievo; accogliere è, infine, permettere di apprendere stando bene, ossia recuperare il senso profondo dello stare a scuola che come ci ricorda l’etimo greco skolè, significa agio, benessere, distensione. 4. L’a. permette tanto alla scuola come all’allievo di raggiungere importanti obiettivi. In particolare l’allievo avrà la possibilità di: conoscere cosa l’aspetta e qual è la realtà concreta nella quale andrà ad inserirsi; apprendere i comportamenti organizzativi che gli garantiscono un buon inserimento in essa; avviare una prima conoscenza con docenti e compagni con i quali sarà chiamato ad interagire; la scuola avrà la possibilità di avviare una prima conoscenza dei nuovi arrivati, presentare l’organizzazione nei suoi aspetti strutturali e funzionali, socializzare i nuovi arrivati al sistema di norme e valori presenti nell’organizzazione. Bibl.: Carkhuff R., L’arte di aiutare. Manuale, Trento, Erickson, 1994; A rto A. - A. R. Colasanti, «Introduzione a un modello processuale di terapia integrata», in A. A rto - D. Antonietti, La formazione in psicologia clinica, Roma, IFREP, 1996, 235-281; Staccioli G., Diario dell’a., Roma, Valore Scuola, 2002; Id., «A.», in G. Cerini - M. Spinosi, Voci della scuola, Napoli, Tecnodid, 2004, 11-17.

A. R. Colasanti

ACCOMPAGNAMENTO L’a. (dal lat. medievale, ove com-panio è «colui che ha il pane in comune» [Devoto-Oli, 1988, 679]), in generale, è un aiuto tempora-

neo e sistematico che un adulto nell’esperienza e maturità dell’esistenza dà a un minore, condividendo con lui un tratto di strada e di vita perché questi possa meglio conoscersi e decidere di sé e del suo futuro in libertà e responsabilità. 1. Il concetto esprime la natura relazionale dell’essere umano, e più in particolare la qualità del vincolo che lega tra loro le persone, l’una responsabile e capace di prendersi cura dell’altra, ma pure bisognosa del suo aiuto e della sua presenza. Al tempo stesso questo concetto rimanda all’idea classica della vita come viaggio e della relazione umana come compagnia tra pellegrini che condividono tra loro le fatiche e il «pane del viaggio». Infine, la prassi dell’a. ritrova i suoi parametri interpretativi nelle teorie psicopedagogiche che privilegiano l’approccio non direttivo nella relazione di aiuto. 2. Il termine è usato nella pedagogia moderna per sottolineare esigenze e caratteristiche della relazione educativa, oltre quanto una tradizione antica (la pedagogia cristiana) e una più recente (la moderna scienza psicologica) già hanno detto sull’argomento. La teoria dell’a., inoltre, amplia e specifica il senso sia della direzione spirituale che della terapia psicologica: a) da un lato l’a. indica le varie forme di aiuto attraverso le quali la persona è aiutata a crescere non solo sul piano spirituale o clinico-mentale, ma anche su quello più globalmente e integralmente umano; con un intervento non esclusivamente sul singolo, ma anche sul gruppo e attraverso il gruppo; non legato a un’unica modalità operativa, ma a diverse possibilità di cammini di crescita; rivolti a qualsiasi persona, non solo a chi si trova in una particolare situazione di necessità spirituale o di disordine di personalità; b) d’altro lato elemento centrale-peculiare dell’a. non è tanto la «direzione» da imprimere alla vita dell’altro, o l’«analisi» del suo inconscio, quanto la «compagnia», o quella vicinanza intelligente e significativa che porta a un certo coinvolgimento da parte della guida, alla condivisione di ciò che è vitale ed essenziale («il pane del cammino»), alla confessione della fede e della propria esperienza di Dio, nel caso del credente. 3. Si tratta allora d’accompagnare l’altro 29

ADATTAMENTO

verso un duplice obiettivo: verso la conoscenza dell’io, anzitutto, della sua realtà interiore, passata e presente, attuale e ideale, positiva e negativa, conscia e inconscia, verso la radice di desideri e motivazioni. Ma è necessario pure accompagnarlo verso la realizzazione dell’io, in un processo d’apertura nei confronti dell’altro e dell’Altro, del presente e del futuro, nella tensione salutare verso il massimo delle proprie potenzialità e nell’assunzione piena della propria libertà e responsabilità. L’a. è dunque un aiuto necessario per la crescita e la maturazione di chiunque; ma vi sono particolari momenti della vita in cui tale servizio è indispensabile: nel periodo dell’adolescenza e della giovinezza e in genere nella formazione iniziale, prima di discernimenti importanti, in situazioni specifiche della vita (momenti di crisi, di sofferenza, di cambiamenti imprevisti, di richieste nuove...), e come strumento di formazione permanente. Particolarmente importante è stato da sempre considerato l’a. nella pastorale giovanile e vocazionale, oltreché nella formazione iniziale e permanente delle vocazioni di speciale consacrazione. Bibl.: I moda F., Sviluppo umano. Psicologia e mistero, Casale Monferrato, Piemme, 1993; Cencini A., Direzione spirituale e a. vocazionale, Milano, Ancora, 1996; Baldissera D. P., Acompanhamento personalizado. Guia para formadores, S. Paulo, Paulinas, 2002; Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, A. spirituale, affettività e sessualità, Bologna, EDB, 2004; Meloni E., Accompagnare la formazione. Il sé, gli altri, l’Altro, Ibid., 2005; Goya B., L’aiuto fraterno. La pratica della direzione spirituale, Ibid., 2006.

si intende tutta la struttura della persona: biologica, psichica e sociale, e per «ambiente» si intende tutto il contesto in cui la persona vive, che può essere interiore ed esteriore, fisico, sociale, esistenziale. Da questa precisazione dei termini appare che l’a. si può verificare in molti campi. Inoltre l’a. stesso è inteso diversamente a seconda del peso che, nell’interazione, viene attribuito all’organismo o all’ambiente: secondo la corrente comportamentista, ad es., il contributo dell’ambiente è largamente preponderante, mentre altre teorie (personaliste, umanistiche, cognitiviste) sottolineano l’importanza dell’iniziativa del soggetto. 1. A. fisiologico: indica una reazione dell’organismo alle condizioni ambientali in modo da approfittare al massimo delle condizioni favorevoli, o di ridurre al minimo i danni fisici in un ambiente sfavorevole. Ci si può adattare, in questo senso, all’alta montagna o all’immersione in profondità, allo smog della città e all’assalto di germi patogeni, ad un tipo di nutrizione, ecc. Un caso tipico di a. fisiologico è quello dell’a. sensoriale, che ci rende meno sensibili a livelli costantemente alti di stimolazione e più sensibili a livelli costantemente bassi.

ADATTAMENTO

2. A. intrapsichico: viene spesso identificato con la sanità, la normalità o la maturità psichica, e ha come indicatore il buon funzionamento all’interno del sistema psichico della persona. Le principali componenti dell’a. intrapsichico sono la libertà da costrizioni interiori, quali le idee ossessive o le azioni compulsive, il senso di dignità personale, la percezione della propria competenza di fronte ai compiti della vita, l’impressione di integrazione interiore, per cui tutto ciò che è personalmente importante trova la sua realizzazione in un contesto gerarchico di beni, e infine lo sviluppo, la cura e la gestione ordinata delle emozioni. La mancanza di a. intrapsichico porta a disturbi psichici di varia natura e gravità.

La parola a. designa in genere l’esito dell’incontro dell’organismo con il suo ambiente; se tale esito è positivo, si parlerà di buon a., se negativo, di disadattamento. I termini con cui si indicano i due protagonisti dell’incontro devono essere spiegati: per «organismo»

3. A. interpersonale: è la capacità di un buon rapporto con gli altri, e comporta un atteggiamento positivo verso gli altri, e cioè una struttura cognitiva o modo di pensare, sia generale che verso le singole persone, che riconosce il valore di esse e la possibilità di

A. Cencini

ACCREDITAMENTO → Certificazione ACCULTURAZIONE → Cultura → Inculturazione

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ADDESTRAMENTO

collaborare con loro, una inclinazione a entrare in rapporto con gli altri, il gusto di farlo e le relative capacità operative. L’a. interpersonale comporta la capacità di intrattenere rapporti non superficiali, e insieme quella di avere ed esigere rispetto per l’identità propria ed altrui. L’a. interpersonale dipende strettamente da quello intrapsichico, e la sua mancanza genera gli stessi disturbi psichici. 4. A. sociale: comporta una relazione positiva con la società cui il soggetto appartiene. La società di cui si parla può essere intesa in modo più o meno esteso, e riferirsi, ad es., allo stile di una singola famiglia o di un gruppo, oppure alle norme di una intera cultura. Il rapporto con la società può essere di rifiuto, di conformismo o di collaborazione; le relative norme sociali possono essere accettate o rifiutate, e, nel caso siano accettate, possono essere seguite meccanicamente oppure interiorizzate, perché se ne è compreso il valore. L’a. sociale non è necessariamente globale, e, nei vari momenti storici, questo o quell’aspetto della cultura può venir messo in discussione. Il termine «disadattamento sociale» assume talora significati ambivalenti, in quanto si presume che il «sentimento comune» rifletta il bene oggettivo; ma tale presupposto si può scontrare con quanto il soggetto, portatore di pensiero e di progetto originale, può decidere per se stesso. Il «disadattato sociale» può essere sia chi soddisfa i propri impulsi in modo egocentrico, ignorando la solidarietà, sia chi persegue con impegno personale dei valori che la società non riconosce o tenta di cancellare. 5. A. esistenziale: indica il rapporto con un «ambiente totale»; il segmento attuale della vita viene collocato di fronte a tutta la vita ed essa, nella sua totalità, viene confrontata con ciò che è percepito come definitivamente importante per la singola persona, con cui essa si identifica, in ciò per cui si sente realizzata. In questa definizione entrano chiaramente i valori, così come sono vissuti dalla singola persona. L’a. esistenziale sarà positivo se da tale ricerca emergerà una valutazione globale positiva di sé, della vita e della realtà, con la conseguenza di una speranza di base e di un impegno a lungo termine; un a. esistenziale negativo, nato dal non trovar nulla per cui valga la pena di vivere e di impe-

gnarsi, è invece caratterizzato dal disimpegno, dall’apatia e dalla disperazione. Il tema dell’a. esistenziale è elaborato soprattutto nella → logoterapia di V. E. Frankl. 6. L’a. come sfida all’educazione: nell’incontro con l’ambiente, importanti aspetti fisiologici e comportamentali della persona vengono modellati, creando predisposizioni che ne condizionano lo sviluppo futuro. In particolare le ricerche e le osservazioni cliniche sono d’accordo nel rilevare l’importanza decisiva dell’ambiente familiare per avviare e mantenere un buon a. emotivo e sociale. D’altra parte l’esigenza di conservare l’identità della persona nell’incontro con l’ambiente comporta l’educazione all’autogestione e alla responsabilità della propria iniziativa, in coerenza con i progetti e lo stile di ognuno. L’educazione all’autogestione suppone da parte sua che l’educatore sappia accompagnare l’educando alla scoperta di valori sia con una proposta di informazione adeguata, sia ponendosi come modello con cui l’educando possa identificarsi. Bibl.: Nuttin J., Motivation, planning, and action. A relational theory of behavior dynamics, Leuven, Leuven University Press, 1984; Snyder C. R. - C. E. Ford (Edd.), Coping with negative life events. Clinical and social psychological perspectives, New York, Plenum Press, 1988; Feldman R. S., Adjustment, applying psychology in a complex world, New York, McGraw-Hill, 1989; Meichelbaum D., Exploring choices: the psychology of adjustment, New York, Foresman, 1989; Nuttin J., Motivazione e prospettiva futura, Roma, LAS, 1992; Critenden P. M., Pericolo, sviluppo e a., Milano/Parigi/Barcellona, Masson, 1997.

A. Ronco

ADDESTRAMENTO Apprendimento di capacità specifiche necessarie per svolgere una determinata azione. Generalmente viene ulteriormente precisato con aggettivi che ne evidenziano meglio il significato. 1. Si parla di a. rivolto a persone giovani o adulte per prepararle al mondo del lavoro (a. professionale), ma si parla anche di a. degli 31

ADLER ALFRED

animali, in particolare in ambienti dove si desidera avere da parte loro dei precisi comportamenti (performance), come ad es. in una corsa, in un circo o in ambito domestico. Sua caratteristica è la specificità e in un certo modo la meccanicità. Ci si addestra per assumere un comportamento ben definito e non generico. Potremmo perciò definire l’a. come l’insieme di azioni volte a far acquisire destrezza, comportamenti ben definiti in determinate situazioni e capacità concrete nel risolvere problemi specifici. Attualmente per la preparazione professionale si preferisce parlare di formazione e non di a. per superare quel senso riduttivo di cui il termine si è circondato e che lo fa vedere come un apprendimento di comportamenti rigidi, condizionati, meccanici e parziali, staccati da un contesto globale di ciclo produttivo e di vita personale. 2. Nell’ambiente formativo per a. si intende normalmente un insegnamento eminentemente pratico, una modalità per fare acquisire ad una persona delle mansioni specifiche e circoscritte nel tempo e a volte anche nello spazio, o per farle apprendere un mestiere. In questo caso con il termine formazione si tende ad indicare un significato più esteso e a riferirsi ad un insegnamento anche teorico che comprende non solo un apprendimento di abilità specifiche legate alla mansione da svolgere, ma anche di conoscenze, capacità e atteggiamenti necessari per assumere un ruolo nel mondo del lavoro, dove sempre di più si richiederanno anche sensibilità al cambiamento, attenzione al gruppo, desiderio e capacità di riqualificarsi. È comunque una distinzione non ben definita che dipende molto dal contesto in cui il termine viene utilizzato. Nell’idea di a. c’è anche il riferimento ad un insieme di attività che facciano acquisire in tempi brevi competenze tecnico-operative che le persone possono utilizzare nei reparti produttivi, in modo ripetitivo e con scarsa autonomia. Bibl.: Agnoli M., Guida per la redazione del regolamento per la formazione e l’a. del personale negli enti locali, Bergamo, CEL, 2000; De Vita A., L’e-learning nella formazione professionale, strategie, modelli e metodi, Trento, Erickson, 2007; Grego S., La formazione come palestra della professionalità. Guida pratica all’utilizzo

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delle attività formative per le persone e le organizzazioni, Milano, Angeli, 2007.

N. Zanni

ADLER Alfred n. a Vienna nel 1870 - m. a Aberdeen nel 1937, medico, psicologo austriaco. 1. Secondo di sei figli, nacque in una famiglia di commercianti. Si laureò in medicina «per sconfiggere la morte»; lavorò come medico, interessandosi di comprendere la personalità del paziente ed i collegamenti tra i sintomi organici e psichici. Studiò con interesse filosofia, psicologia e scienze sociali. Ottimista e sereno, curava molto i rapporti coi familiari e con gli amici. Alla fine del secolo si sposò ed ebbe quattro figli, ai quali si dedicò con molto affetto. A., non potendo sconfiggere la morte e volendo lenire le sofferenze del disturbo mentale, passò quindi dalla medicina generale alla psichiatria. Nel 1902, invitato da → Freud, entrò a far parte della Società Psicoanalitica di Vienna, da cui si dimise nel 1907, per le divergenze da lui espresse sulla teoria degli impulsi sessuali, considerati da Freud come basi determinanti della vita psichica di un individuo nevrotico o normale e invece da A. solo materiale da elaborare secondo l’atteggiamento individuale. Fondò, nel 1912, la Società per la Psicologia Individuale, che divenne molto attiva. Dopo la Prima Guerra Mondiale, aprì la prima clinica per la consulenza all’infanzia, in collegamento con il sistema scolastico viennese. Nel 1927 andò negli Stati Uniti e continuò ad esporre le sue teorie in varie università statunitensi. Fu scrittore prolifico e conferenziere pieno di temperamento, apprezzato in tutto il mondo. Sensibile all’arte ed alla musica in particolare, dotato di una magnifica voce, amava cantare per gli amici. 2. A. descrive la caratteristica comune della personalità come un movimento tendente alla superiorità o pieno sviluppo delle proprie capacità ed al benessere della società. Le basi della tendenza alla perfezione possono essere costituite da inferiorità organiche, sentimenti di inferiorità e dalla compensazione attuata dall’essere umano per superare

ADOLESCENZA

le inferiorità reali o presunte. La compensazione può essere diretta anche verso un ideale di perfezione non collegato al tipo di inferiorità, chiamato da A. finalismo fittizio. La tendenza alla perfezione si esprime con la formazione di uno stile di vita (tratti, abitudini, schemi, significati, ecc.), sviluppato nel corso dei primi 4-5 anni di vita specialmente per la posizione occupata e/o percepita nella famiglia (costellazione familiare), per l’atmosfera familiare e in accordo alla finalità che persegue l’individuo in relazione al mondo. Lo stile di vita riguarda le modalità con cui l’individuo, come totalità indivisibile, affronta i grandi problemi dell’esistenza che, per A., sono il sentimento sociale, l’amore, il matrimonio ed il lavoro. 3. Il contributo di A. nella teoria e prassi psicopedagogiche consiste nell’aver posto in rilievo alcuni elementi che influenzano lo sviluppo ed il funzionamento della vita psichica individuale: a) la dimensione sociale, in quanto la funzionalità psichica dell’individuo è realizzabile solo nel rapporto sociale; b) l’intenzionalità o finalità verso una meta del comportamento individuale («per che cosa»); c) le opinioni personali nella valutazione dei fatti e delle esperienze. Siccome per A. l’individuo si sviluppa in modo nevrotico o normale in base non ai fatti ma per l’opinione che ha dei fatti, è compito degli psicologi e degli educatori aiutare gli esseri umani a scoprire e correggere opinioni e soluzioni erronee su se stessi e sui problemi della vita, per modificarle con un atteggiamento costruttivo. Lo stile di vita e le sue modalità di attuazione si possono conoscere dalla posizione dell’individuo nella costellazione familiare, dai sogni e, specialmente, dai ricordi infantili. I primi ricordi sono considerati da A. la chiave di accesso al modo di pensare, di agire dell’individuo, alle opinioni che ha di sé e dell’ambiente, alla sua filosofia di vita, alla sua meta. Bibl.: A.A., Über den Nervosen Charakter. Grundzüge einer vergleichenden Individual Psychologie und Psychoterapie, Wien, Bergmann, 1912 (trad. it. 1950); Id., Praxis und Theorie der Individualpsychologie, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1915; M arcus P. - A. Rosenberg (Edd.), Psychoanalytic versions of the human condition: Philosophies of life and their

impact on practic, New York, University Press, 1998; Franta H., Individualità e formazione integrale, Roma, LAS, 1982.

G. Giordanella Perilli

ADOLESCENZA Classicamente, l’a. è considerata come il periodo della vita situato tra 1’infanzia e l’età adulta. In termini biologici, l’inizio viene segnalato dalla pubertà e la durata, in genere, viene attribuita ad un arco di tempo che va dai 12 ai 18 anni d’età (le differenze sessuali e delle condizioni ambientali, sociali e razziali fanno oscillare questi limiti temporali). In base ad un criterio di tipo cognitivo-sociale, l’a. va dal momento in cui il ragazzo comincia ad essere capace di utilizzare con una certa autonomia il pensiero logico, fino a quando giunge alla piena integrazione delle sue capacità logico-cognitive ed ha la possibilità di vivere una vita indipendente a livello affettivo, economico e relazionale. 1. Studi sull’a. Nell’ultimo sec. l’a. è stata studiata da diverse scienze; le scienze psicologiche (nell’ambito delle quali ci situiamo) hanno affrontato il tema da molti punti di vista. Ci sembra che le varie prospettive possano essere organizzate intorno a tre gruppi di studi. In un primo gruppo di lavori, che tiene presente una preoccupazione speculativa, è possibile scorgere un tentativo di far aderire la realtà alla teoria (e non viceversa); in altri termini, la preoccupazione è quella di applicare e «imporre» alla realtà adolescenziale le caratteristiche definite aprioristicamente. La concezione psicoanalitica, che in questo gruppo si situa, offre un’ipotesi interpretativa secondo la quale il periodo di crisi e di grande disagio proprio dell’a. va attribuito all’emergere degli istinti e delle forze pulsionali, che provoca uno squilibrio psichico che si manifesta con quei comportamenti disadattivi, a diversi livelli di «patologia», tipici degli adolescenti; si tratta, evidentemente, di una interpretazione di tipo biologico che presenta l’a. come una realtà con caratteristiche legate e condizionate dalla fisiologia dei soggetti. Un secondo gruppo di studi, con preoccupazione sociologica, prende in considerazione i dati reali che emergono da 33

ADOLESCENZA

incontri psicologici di tipo clinico con soggetti «atipici» o «diversi» e da osservazioni di tipo sociologico su soggetti «emarginati» o «disadattati». Si tratta di interpretazioni di tipo socio-culturale secondo le quali l’a. sarebbe un «prodotto» della realtà sociale delle diverse strutture nazionali ed internazionali. A questa prospettiva interpretativa si richiama la teoria sociologica secondo la quale le difficoltà adolescenziali, ed i relativi comportamenti disadattivi, sono frutto dell’influsso della società e sono correlati al processo di socializzazione ed alla diversità di ruoli attribuiti all’adolescente. Interpretazioni sempre di tipo sociologico, ma più complete e meno rigide, propongono categorie che consentono una più ampia e realistica visione della condizione giovanile: «marginalità», «frammentarietà», «cambio culturale», «eccedenza delle opportunità» e «lotta per l’identità». Queste due note ipotesi interpretative della psicologia dell’a., biologica e sociale, pongono l’accento solo su uno dei due fattori di sviluppo (endogeno ed esogeno) e non tengono presente, in modo adeguato, il contributo di ciascuno e la possibilità che entrambi hanno di integrarsi. Inoltre, vogliamo evidenziare l’insufficienza di queste posizioni poiché non vi è alcuna corrispondenza tra le caratteristiche adolescenziali da esse indicate, i conseguenti tentativi interpretativi offerti, ed i numerosi dati empirici ormai acquisiti sugli adolescenti. Diversamente, la preoccupazione empirica è ciò che caratterizza il terzo gruppo di studi. La realtà adolescenziale, nell’orizzonte di una definita prospettiva teorica, viene avvicinata sperimentalmente. In altre parole, alla luce di una teoria di riferimento, una ipotesi interpretativa viene confrontata con i dati ottenuti tramite ricerche condotte su adolescenti «normali». Se queste tre categorie di studi prese isolatamente mostrano limiti e carenze, integrandosi possono diventare una chiave di lettura molto utile per approssimarsi nel modo più adeguato e completo alla ricca realtà adolescenziale. 2. Pista di lettura dell’a. Senza pretendere di essere completi e senza voler schematizzare la ricchezza della persona, proponiamo la nostra lettura della realtà adolescenziale. Nella riflessione sull’adolescente, per avere una visione il più completa possibile, è ne34

cessario tener presente gli aspetti comportamentali, cognitivi e tendenziali della persona in sviluppo e avvicinarli alla luce di una pluralità di teorie psicologiche. a) Capacità dell’adolescente. L’adolescente è in grado di vedersi dall’esterno, di percepirsi oggettivamente, distaccandosi dalle prime impressioni soggettive; nello stesso tempo, si trova a dover fare i conti con l’ambiente sociale e con la sensibilità che ancora lo rende vulnerabile al giudizio altrui e che, spesso in misura notevole, condiziona e ridimensiona la sua oggettiva capacità di autorealizzazione. Sempre in riferimento allo sviluppo cognitivo, una seconda osservazione vuole evidenziare tanto la capacità dell’adolescente di creare realtà ipotetiche e di immaginare, quanto le sue esigenze di giustizia, uguaglianza e amore universali, che appaiono come una ricerca del senso della vita, di rifiuto della realtà concreta e, alle volte, di sublimazione dei suoi desideri, pensieri e sentimenti. La ricerca della trascendenza attraverso la modalità intellettuale è uno degli aspetti che più caratterizza l’adolescente (riconoscere questo bisogno profondo è un modo stupendo per avvicinarsi a lui). L’adolescente ha difficoltà ad accettare i propri sentimenti; per convivere con tali sentimenti non integrati nella personalità, li «iperdifferenzia». L’iperdifferenziazione dell’esperienza profonda lo rende «unico», lo caratterizza con una diversità tale da fargli pensare che la sua sia una realtà incomunicabile e che nessuno sia in grado di capirlo. Il rapporto interpersonale diventa, quindi, difficile e, alle volte, impossibile; ma, poiché è doloroso vivere incompreso, può nascere in lui la ricerca di un essere così grande, così distante, e persino così diverso, da avere la capacità di capirlo e di comprenderlo. Proprio perché emergente da questo bisogno, da questa ricerca di comprensione, definiamo il rapporto dell’adolescente con la realtà trascendente di falso ascetismo (in quanto derivante, appunto, dalla sublimazione di alcuni bisogni ai quali non si trova una risposta corrispondente). L’adolescente si caratterizza anche per una grande apertura agli altri. Il desiderio della socialità, generalmente, trova soddisfazione nell’incontro con il gruppo dei pari. In esso, il giovane ha la possibilità di confrontarsi, di realizzare attività, progetti o, semplicemente, di «stare con» gli altri; inoltre, visto

ADOLESCENZA

che il gruppo si propone come referente normativo e affettivo, progressivamente va ad affiancare e sostituire i ruoli parentali consentendo un distacco sempre maggiore dalla famiglia; infine, l’esperienza della relazione con i coetanei, costituisce un valido aiuto alla formazione del senso di identità, poiché permette all’adolescente di conoscersi e di stimarsi di più in quanto, nel gruppo, viene accettato per ciò che è e per ciò che realizza. La capacità cognitiva di cui l’adolescente è dotato e l’importanza dell’ambiente sociale vengono ad interagire con il suo mondo profondo che comprende il passato (a volte pesante da sopportare), i sentimenti autentici, la difficoltà dell’integrazione armonica delle diverse componenti della personalità, le ambivalenze, i bisogni ed altro ancora. In sintesi, possiamo dire che l’adolescente viene visto come una persona capace di mettersi in rapporto proattivo con il mondo circostante e di rispondere ai compiti di sviluppo che gli si presentano e che, progressivamente e armonicamente, lo portano verso la maturità. b) Difficoltà dell’adolescente. Anziché parlare di «problemi», parola che fa pensare a qualcosa da sopportare od a disturbi propri dell’età per cui non si può far altro che aspettare il superamento della fase, useremo le espressioni «aspetti problematici» e «punti focali» che, ci sembra, consentono di cogliere le peculiarità dell’a. e i possibili conflitti intra ed interpersonali senza stigmatizzarli, ma leggendoli in termini processuali di impegno verso una maturità più grande. Un primo, e generale, aspetto problematico consiste, allora, nella difficoltà che l’adolescente incontra nel compiere un’integrazione transazionale delle tre componenti (cognitiva, affettiva, relazionale) della sua personalità; soprattutto, l’adolescente trova difficoltà ad integrare l’aspetto cognitivo e quello tendenziale: malgrado abbia la capacità di autovedersi oggettivamente, non riesce a cogliere la positività delle sue esperienze e non riesce a dare una spiegazione soddisfacente delle proprie tendenze, dei sentimenti o di ciò che prova nelle diverse situazioni. Un secondo, e più «banale», aspetto problematico è legato all’immagine corporea. Non è facile per l’adolescente integrare i mutamenti corporei che, spesso, sfuggono al controllo razionale e che non sempre è possibile armonizzare in modo da sentirsi a proprio agio sia con

se stessi che nel gruppo dei pari. La conoscenza, l’accettazione e la rielaborazione dell’immagine corporea e la formazione di una adeguata identità psicosessuale, sono compiti molto impegnativi che richiedono la presenza e la mediazione di un educatore. Un terzo punto focale è costituito dalla conquistata capacità di pensare in termini ipotetici, che porta l’adolescente a vivere in un mondo fantastico, nel quale è possibile costruire sia eventi che persone ideali. Due conseguenze di questa conquista possono creare difficoltà all’adolescente. In primo luogo, il cambio della relazione «reale-possibile», che conduce l’adolescente a relazionarsi con il «possibile» come se fosse «realtà», ostacola la capacità di ragionare e di comportarsi in base ai fatti concreti ed all’esperienza vissuta e riflessa. D’altra parte, e arriviamo alla seconda conseguenza, la capacità di vedere come possibili tante risposte e tanti modi di combinare gli eventi e le risorse in suo possesso, porta l’adolescente all’incertezza, all’indecisione e, quindi, blocca la sua azione; non potendo accettare tale immobilità, nel suo disorientamento, chiede aiuto. I problemi emergono allorché l’adolescente confronta la scelta che gli è stata consigliata, e che lui ha messo in pratica, con tutte le altre che la sua capacità di pensiero gli presenta (realizzabili o ipoteticamente possibili che siano) e constata che l’alternativa attuata è più povera di quelle che avrebbe potuto attuare. Questa scoperta può portare l’adolescente ad un sentimento ambivalente: colpevolizza le persone da cui ha ricevuto l’orientamento (ribellione) e, successivamente, nel momento in cui riesce a vedere sia gli aspetti positivi del consiglio ricevuto sia l’interessamento delle persone adulte a cui si è rivolto in cerca di consiglio, si sente colpevole. Un quarto aspetto problematico riguarda la vita relazionale dell’adolescente; la tendenza ad aprirsi agli altri può trasformarsi in tendenza all’isolamento per due ordini di difficoltà. In primo luogo, la non accettazione del proprio mondo personale può portare l’adolescente a costruirsi delle «maschere sociali» che hanno lo scopo di difenderlo dai pregiudizi e dalle etichette sociali e, soprattutto, dal pericolo di venir scoperto negli aspetti negativi che crede di avere o negli aspetti che realmente ha e non gli piacciono. In secondo luogo, la tendenza all’isolamento dell’adolescente è favorita 35

ADOZIONE

dall’impossibilità di manifestare chiaramente e apertamente nel mondo sociale la sua ricchezza intrapsichica. 3. Suggerimenti educativi. Da un punto di vista educativo è necessario partire da una concezione dell’uomo che permetta di coglierne tutta la ricchezza e che, di conseguenza, offra una visione dell’adolescente come persona che realizza in modo proprio, non solo in funzione dell’adulto che diventerà o del fanciullo che non è più, il compito di essere uomo. Da un punto di vista psicologico in generale e della psicologia dell’a. in particolare, è bene tener presente che un processo educativo si realizza seguendo alcuni passi. Per prima cosa, è necessario «stare con» il soggetto in modo da conoscere la sua struttura cognitiva, il suo modo di ragionare, le sue risorse. L’adolescente si sviluppa continuamente; le sue risposte non sono mai definitive. È necessario saper decodificare e proporre le risposte considerandole parte di un processo, di un dinamismo in continuo sviluppo e mai come entità chiuse e definite. Indichiamo alcune mete che, se comunicate in modo chiaro, possono essere raggiunte favorendo così la crescita dell’adolescente: accettare le opinioni per il loro valore, differire la soddisfazione dei bisogni, operare un equilibrio tra dipendenza e indipendenza, richiedere secondo le esigenze e non solo secondo le apparenze. L’educatore deve essere in grado di capire e di accettare le risposte e le sollecitazioni che gli vengono dal mondo adolescenziale in qualsiasi modo gli arrivino; nello stesso tempo, deve essere capace di dar ragione esplicita delle sue proposte in modo tale che l’adolescente le possa accettare per il loro valore intrinseco (senza dimenticare l’importanza che la persona dell’educatore ha per l’adolescente). Bibl.: A rto A., Psicologia evolutiva. Metodologia di studio e proposta educativa, Roma, LAS, 1990; Palmonari A. (Ed.), Psicologia dell’a., Ibid., 1993; Berger K. S., Lo sviluppo della persona: periodo prenatale, infanzia, a., maturità, vecchiaia, Bologna, Zanichelli, 1996; Erikson E. H., I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Roma, Armando, 1999; Caprara G. V. - A. Fonzi, L’età sospesa. Itinerari del viaggio adolescenziale, Firenze, Giunti, 2000; Pellai A. - S. Boncinelli, Just do it! I comportamenti a rischio in

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a. Manuale di prevenzione per scuola e famiglia, Milano, Angeli, 2002; Bonino S. - E. Cattelino - S. Ciairano, Adolescenti e rischio. Comportamenti, funzioni e fattori di protezione, Firenze, Giunti, 2003; Bonino S., Il fascino del rischio negli adolescenti, Ibid., 2005; Couyoumdjian A. R. Baiocco - C. Del Miglio, Adolescenti e nuove dipendenze. Le basi teoriche, i fattori di rischio, la prevenzione, Bari, Laterza, 2006; M arcelli D. - A. Bracconnier, A. e psicopatologia, Milano, Masson, 2006; Montuschi F. - A. Palmonari, Nuovi adolescenti: dalla conoscenza all’incontro, Roma, EDB, 2006.

A. Arto

ADORNO Theodor → Scuola di Francoforte

ADOZIONE Istituto giuridico che stabilisce un legame genitori-figli di tipo legale ed affettivo che non esiste per linea biologica. Derivato dal lat. ad-optare (scegliere), indica un rapporto che trae origine da un atto di libera volontà. 1. L’a. è un istituto antichissimo che si trova già codificato nella raccolta delle leggi mesopotamiche del sec. XVIII a.C. In epoca moderna essa è stata caratterizzata fino al sec. XIX da una visione privatistica con funzione prevalentemente patrimoniale che poneva al centro dell’interesse l’adottante. A seguito degli sconvolgimenti sociali e politici della prima metà del sec. XX è nata la necessità di una sua radicale trasformazione in strumento di protezione e integrazione dei minori in contesti familiari. 2. In Italia l’a. come concetto culturale e sociale diverso ha cominciato a diffondersi dopo la II guerra mondiale. Il primo adeguamento delle normative a criteri più avanzati risale alla L. n. 431/67 sull’a. speciale che ha ribaltato la prospettiva dell’a.: obiettivo della disciplina giuridica diviene l’adottato con la sua necessità di avere una famiglia, nel senso affettivo, sociale e psicologico del termine, e non più l’adottante. I rapidi mutamenti sociali e la maggiore attenzione alle problematiche minorili hanno portato nel 1983 all’emanazione della L. n. 184 «Disciplina dell’affidamento e dell’a. dei minori» che ha

ADULTI

ribadito la centralità dell’interesse del minore e introdotto alcuni elementi innovativi tra cui l’a. internazionale, mai prima codificata in Italia. Nel decennio successivo le a. internazionali hanno superato numericamente quelle nazionali. L’Italia ha recepito con L. di ratifica 476 del 1998 la Convenzione dell’Aia del 1993 sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di a. internazionale, nata dall’ampio dibattito sviluppatosi a seguito dei molti abusi perpetrati ai danni dei minori e dei loro Paesi di origine. Nel 2001 è stata pubblicata la L. 149 di modifica di alcune parti della L. 184/83. 3. Nel complesso la normativa attuale prevede esclusivamente l’a. piena di minori a seguito della quale l’adottato acquisisce lo status di figlio legittimo degli adottanti di cui assume e trasmette il cognome. Essa consente l’a. a coniugi sposati da almeno 3 anni o che possano dimostrare una stabile convivenza, per lo stesso periodo, prima del matrimonio e che abbiano una differenza minima di 18 anni e massima di 45 con l’adottato. L’a. è permessa anche qualora uno solo dei coniugi superi la differenza massima di non più di dieci anni. L’a. è prevista per i minori dichiarati in stato di adottabilità secondo i criteri stabiliti dalle leggi 184/83 e 149/01 che regolano con la massima attenzione l’accertamento del loro stato di abbandono. La L. 149 introduce, per la prima volta, la possibilità per l’adottato di ricercare le sue origini. Riguardo all’a. internazionale sono previsti per i coniugi i medesimi requisiti e procedure richiesti per essere dichiarati idonei all’a. nazionale e, per i minori, uguali effetti giuridici oltre all’acquisizione della cittadinanza it. La L. 476/98 esclude le a. private ed introduce l’obbligatorietà dell’intervento di enti autorizzati per il percorso all’estero. L’a. di persone maggiori di età è regolata dal titolo VIlI del Codice Civile che continua a contemplare questo tipo di istituto con effetti meramente patrimoniali come nel passato. 4. È opportuno notare che, come raccomandato da tutte le legislazioni nazionali più avanzate e dalle convenzioni internazionali, l’a. deve essere considerata esclusivamente come una soluzione estrema per fornire ad un minore un ambiente di crescita e di sviluppo armonico e rispondente alle sue ne-

cessità psicologiche ed affettive, dopo aver esperito ogni possibile risorsa per farlo rimanere nella sua famiglia biologica, e in caso di a. internazionale, nel suo stesso contesto culturale ed etnico. Bibl.: Fadiga L., L’a.: una famiglia per chi non ce l’ha, Bologna, Il Mulino, 1999; Centro Nazionale di D ocumentazione ed A nalisi per l’I nfanzia e l’A dolescenza, A. Internazionali: l’attuazione della nuova disciplina, Firenze, Istituto Degli Innocenti, 2000; Q uémada N., Cure materne e a., Torino, UTET, 2000; Finocchiaro A. - M. Finocchiaro, A. ed affidamento dei minori. Commento alla nuova disciplina, in «Diritto e Giustizia» supplemento n. 25 del 30.06.01.

A. M. Libri

ADULTI: educazione degli L’educazione degli a. indica le iniziative che permettono a questi di sviluppare le proprie conoscenze, qualificazioni, atteggiamenti e comportamenti per una piena realizzazione personale e sociale. A volte si parla piuttosto di «formazione degli a.», specialmente come qualificazione per un ruolo o compito (per es. → formazione degli insegnanti). 1. Storicamente l’educazione degli a. si è sviluppata in Francia (fine del XVIII sec.), nei paesi scandinavi (sec. XIX), e in Inghilterra (e altri Paesi europei) all’inizio del sec. XX, specialmente sotto la spinta della rivoluzione industriale. Dopo il 1945 l’educazione degli a. riceve un impulso nuovo grazie all’Unesco che, con le sue conferenze internazionali, apre orizzonti nuovi d’ → alfabetizzazione e promozione. L’Unesco ha lanciato il vasto progetto di → educazione permanente per un impegno educativo globale della società, allo scopo di rispondere all’urgente domanda di formazione globale. 2. L’interesse per l’a. è diventato ormai generale nel campo educativo e didattico, nella → formazione professionale e anche nell’ambito pastorale ed ecclesiale (→ catechesi e formazione religiosa degli a.). Le principali cause: la difficoltà di essere a. oggi, in una società complessa e dinamica; il rischio dell’obsolescenza dei saperi e delle compe37

ADULTISMO

tenze; le nuove conoscenze sulla psicologia e l’apprendimento dell’a. Alcune esigenze tipiche dell’educazione degli a. sono: necessità di adeguata motivazione (spesso vi ricorrono di meno coloro che più ne hanno bisogno); rispetto delle esigenze dell’a. (autonomia, partecipazione, esperienza); attenzione alle tappe o periodi della vita adulta; opposizione ad ogni forma di strumentalizzazione. Bibl.: Faure E. (Ed.), Rapporto sulle strategie dell’educazione, Roma, Armando, 1973; K nowles M. S., Quando l’adulto impara. Pedagogia e andragogia, Milano, Angeli, 1993; Delors J. (Ed.), Nell’educazione un tesoro, Paris/Roma, UNESCO/Armando, 1997; Demetrio D., Manuale di educazione degli a., Roma/Bari, Laterza, 1997; De Natale M. L., Educazione degli a., Brescia, La Scuola, 2001.

E. Alberich

ADULTISMO Errore pedagogico di relazionarsi educativamente con i fanciulli e gli adolescenti come se fossero adulti. Termine polemico opposto a puerocentrismo. 1. In senso più propriamente pedagogico, l’a. può essere definito come quell’orientamento «che afferma essere il processo educativo una imitazione del “modello” di → uomo espresso dalla tradizione e fondato su determinate esigenze sociali; per esso viene svalutata la situazione attuale dell’ → educando mentre viene esclusivamente valutata la sua capacità a identificarsi con il modello» (→ Bertolini). Tale indirizzo, soprattutto sul piano didattico, degenera nel magistrocentrismo, nella pretesa cioè di insegnare ai fanciulli i contenuti del sapere con un linguaggio maturo e concettualmente definito in modo rigoroso, inducendo così l’allievo ad un meccanico esercizio mnemonico inadeguato alla sua capacità di → apprendimento. 2. In termini di prassi educativa, quindi, due sono le tendenze da evitare, quella del rigorismo autoritario e quella del lassismo permissivo. Entrambe le tendenze attengono al campo affettivo e morale dell’allievo: da un lato si esagera nell’attribuire al fanciullo 38

in modo sproporzionato una responsabilità di diritti e di doveri, eccedendo, di conseguenza, anche sul piano di una rigida disciplina; dall’altro si attribuisce, in un clima di incontrollato spontaneismo, una capacità di comprensione e di autodeterminazione, che è soltanto il frutto di un lento e graduale → processo educativo verso la maturità. Si potrebbe concludere che non pochi insegnanti per il semplice fatto di «sapere» ciò che devono insegnare, credono anche di «saperlo» insegnare. Ora, un insegnante deve essere senz’altro competente della «materia» che insegna, ma la sua alta qualità si esplicita pienamente quando egli è il competente della comunicazione di questi contenuti ed altrettanto competente nell’acquisire le esigenze, le possibilità, le attese dei suoi allievi, per sapersi relazionare con loro. Questa è la strada maestra, per intervenire al momento giusto e nel modo adeguato, evitando così ogni forma di a. Bibl.: Claparède E., L’educazione funzionale, Firenze, Giunti, 1962; Id., La scuola su misura, Firenze, La Nuova Italia, 1982. Per un approfondimento bibliografico mirato cfr. voci «A.» e «Puerocentrismo», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, voll. I e V, Brescia, La Scuola, 1989, 121-122; 1992, 9704-9709.

C. Bucciarelli

ADULTO Etimologicamente il termine a. proviene, dal lat. adolescere (crescere, svilupparsi, rinvigorirsi); letteralmente, quindi, si può definire a. il soggetto che, avendo compiuto l’età evolutiva, ha raggiunto la maturità morfologica (a livello fisico e psichico) e funzionale. Il termine adultità è stato coniato di recente per indicare le caratteristiche e le condizioni che definiscono l’a. 1. L’identità adulta. Da un punto di vista funzionale, poi, per «età adulta» si può intendere quella fase d’età cronologica che sta tra l’adolescenza e l’età senile. Gli studi della scienza psicologica sono indispensabili per dedurre le costanti di questa fase della vita ed in questo contesto due sono gli approcci a cui si fa solitamente riferimento: l’approc-

AFASIA

cio psicodinamico e quello fenomenologico. Nell’approccio psicodinamico vanno segnalati gli studi di → Freud per cui l’a. veniva inteso come soggetto padrone di una genitalità capace di «amare» e di «lavorare»; gli studi di → Jung (1875-1961) interpretano invece l’adultità come età del dubbio in cui appare una fase dualista, quella cioè che vedrebbe emergere un secondo Io che tende a togliere la direzione della vita psichica al primo Io: quello dell’infanzia, di qui la contrapposizione tra due identità che si fa lotta tra i due archetipi del puer e del senex. Tra gli studi psicodinamici però i più noti e funzionali alla dimensione pedagogica sono quelli di → Erikson che con il suo fondamentale lavoro Infanzia e società (1967) e con I cicli della vita (1984), in linea con le teorie freudiane dello sviluppo psico-sessuale, riteneva a. quell’individuo che agisce non in diretta conseguenza della soddisfazione degli impulsi primari, ma che sa conquistarsi un’autonomia funzionale, che sa cioè prefiggersi la realizzazione di scopi che prescindono, in parte, da dati bisogni pulsionali. Nell’approccio fenomenologico l’identità adulta trova soprattutto in alcuni studiosi i suoi interpreti più accreditati. Innanzitutto → Maslow (1971) che vede nella «motivazione» il tratto costitutivo dell’identità altrimenti denominabile «bisogno» della persona. → Rogers nel suo studio su Lo sviluppo della personalità (1961), evocando un modello di sviluppo ontogenetico, vede l’adultità matura nel transito di alcuni passaggi esistenziali qualitativi: dalla incongruenza alla congruenza; dalla non accettazione di sé alla accettazione; dalla non comunicazione alla comunicazione; dalla rigidità mentale alla flessibilità; dal rifiuto delle responsabilità alla accettazione di queste; dall’isolamento alla socievolezza; dalla rigidità alla creatività; dalla sfiducia alla fiducia nella natura umana; da una vita spenta ad una vita piena sul piano dell’esperienza e della ricerca; dall’eterodipendenza all’autodeterminazione. Infine → Lewin che, nella sua opera Principi di psicologia topologica (1936) detta anche «del campo», rivela l’individuazione dell’identità adulta con particolari modalità operative; infatti l’a. per Lewin è quel soggetto che riesce adeguatamente a operare una differenziazione tra la totalitàpersona e le figure che di volta in volta gli occorrono per agire e sopravvivere.

2. Apprendere in età adulta. Chi ha responsabilità formative anche nel campo degli a. prevede senz’altro di incontrare delle difficoltà nel realizzare i propri obiettivi. Se da una parte però la ricerca scientifica fa il suo doveroso cammino, dall’altra mai come oggi, con una società in rapida trasformazione, il termine formazione deve essere applicato anche agli a., non solo per compensare lacune di una loro preparazione anteriore (= analfabetismo di ritorno), ma soprattutto per completare e sviluppare la loro cultura. L’educazione degli a. pertanto, in prosecuzione di quella rivolta dall’infanzia alla giovinezza, nel contesto di un’ → educazione permanente varia nei contenuti e nelle forme, per tutte le età. È prassi consolidata ormai che tra le specifiche funzioni di tale intervento a favore dell’a. si possono considerare l’educazione civica e politica, l’aggiornamento professionale, la divulgazione tecnica e scientifica, l’informazione artistica e sanitaria, le attività del tempo libero, l’igiene mentale. La formazione dell’a. vede così assicurati periodi ciclici per forme di completamento, di qualificazione, riqualificazione, specializzazione e aggiornamento. Ad una simile alternanza di periodi di formazione e di periodi di lavoro si dà il nome di → educazione continua, o ricorrente o intermittente. Bibl.: Lazzaretto A., La scoperta dell’a., Roma, Armando, 1966; Erikson E. H., L’a., Ibid., 1981; I d., I cicli della vita, Ibid., 984; Morin E., «Le vie della complessità», in G. Bocchi - M. Ceruti (Edd.), La sfida della complessità, Milano, Feltrinelli, 1985; Bucciarelli C., L’educazione permanente: un modello di politica educativa, Rimini, Maggioli, 1987; Demetrio D., L’età adulta, Roma, NIS, 1990; R esnick R. T., Impulsività, disattenzione e iperattività dell’a., Milano, McGraw, 2002.

C. Bucciarelli

AFASIA Termine ampio per indicare la perdita o l’alterazione dell’uso dei simboli verbali o scritti del → linguaggio. 1. I sintomi principali sono: l’anartria (difficoltà o impossibilità di articolazione della 39

AFFETTIVITÀ

parola); gli stereotipi verbali (ripetizione della stessa parola); la parafrasia (sostituzione o deformazione della parola); la gergofasia (uso di un gergo incomprensibile, fondato su parole deformate e neologismi). Nei casi più gravi l’afasico è incapace di leggere (a.) e di scrivere (agrafia). 2. Vi sono differenti tipi di a.: 1) a. di Broca. Consiste in un disturbo della rappresentazione motoria delle parole e si manifesta attraverso difficoltà di articolazione (inceppi, sostituzioni, anticipazioni di una lettera o di un fonema su un altro, elisioni o assimilazioni di fonemi), riduzione della fluidità dell’eloquio, agrammatismo (difficoltà di usare articoli, aggettivi, preposizioni, declinazioni di verbi, ecc.), anomia (incapacità a trovare la parola appropriata al contesto); 2) a. amnesica. Difficoltà di trovare la parola adatta, per esprimere quanto si ha in mente e ricorso a circonlocuzioni; 3) a. di Wernicke. Uso di un gergo incomprensibile e difficoltà di capire quello che l’interlocutore dice; 4) a. globale. Grave difficoltà, sia di espressione che di comprensione, di linguaggio orale e scritto. 3. Le cause possono essere molteplici: disturbi vascolari, traumi cranici, tumori cerebrali, malattie infiammatorie o degenerative. Relativamente alle anomalie del linguaggio infantile, si distingue tra a. acquisita, che insorge dopo che l’ → apprendimento del linguaggio è già avvenuto e disfasia evolutiva, dovuta ad un incompleto sviluppo della funzione linguistica. A pari gravità di lesione, i bambini recuperano più rapidamente e completamente degli adulti. Bibl.: Pizzamiglio L. (Ed.), I disturbi del linguaggio, Milano, Etas Libri, 1968; Basso A., Il paziente afasico, Milano, Feltrinelli, 1977; Code C. - D. J. Muller, Terapia dell’a., Roma, Marrapese, 1984; Cippone De Filippis A., Turbe del linguaggio e riabilitazione, Roma, Armando, 1993; Minuto I., Le patologie del linguaggio infantile, Firenze, La Nuova Italia, 1994; Capasso R. - G. M iceli, Esame neurologico per l’a. (E.N.P.A), Milano, Springer, 2001; Basso A., Conoscere e rieducare l’a., Roma, Il Pensiero Scientifico, 2005; Jacobson R., Linguaggio infantile e a., Torino, Einaudi, 2006.

V. L. Castellazzi

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AFFETTIVITÀ Per a. intendiamo riferirci al complesso dinamico di sentimenti e di → emozioni che costituiscono la totalità del processo emozionale. Le emozioni si possono definire come uno stato interno complesso ed organizzato nel quale è individuabile una spinta all’azione, una reazione somatica ed una valutazione cognitiva; ed i sentimenti come fenomeni stabili, duraturi, generalmente meno intensi delle emozioni e che contraddistinguono la → personalità dal punto di vista affettivo. 1. Anche se si ritiene che l’a., nel suo insieme di sentimenti e di emozioni, sia presente fin dalla nascita, è pur vero che essa si apprende in larga misura durante tutta la vita. Così nel → bambino appena nato l’a. svolge una funzione fondamentale e si presenta come un elemento importante nel suo sviluppo psicofisico. Al pianto che si verifica alla nascita potrebbe essere riconosciuta anche la funzione di richiamare la madre alle pratiche inerenti alla cura del neonato. Infatti egli per sopravvivere deve soddisfare dei bisogni fisici specifici quali il mangiare, il dormire, l’evacuare, che sono avvertiti mediante sensazioni dolorose e che, soddisfatti dalla madre o dalla persona che lo cura, producono in lui una sensazione di piacere e di benessere diffuso. Il succhiare il seno materno, il piangere per avere la madre, il sorridere alla sua presenza, il rivolgerle i primi balbettii, sono tutti comportamenti in cui si esprime il rapporto affettivo madre-bambino. Solo se il bambino è stato adeguatamente curato dalla madre non vive sotto l’incubo continuo di perderla e con questa sicurezza sopporta le frustrazioni e le inevitabili difficoltà che si verificano durante la sua espansione verso il mondo esterno. Crescendo, infatti, il bambino allarga la sua sfera affettiva ed investe di particolare amore sia alcuni oggetti, come l’orsacchiotto od il succhiotto, che le altre persone della sua famiglia. Più tardi diventeranno anche importanti i coetanei e gli adulti appartenenti all’ambiente a lui vicino. 2. La mancanza di un’a. nell’ambito familiare può indurre nel bambino uno stato di paura e di ansia che apparirà alla prima frustrazione specialmente quando non vi è tra coloro che lo circondano una persona cara

AFFIDAMENTO

alla quale poter comunicare liberamente i sentimenti provati nelle vicende giornaliere. Ciò lo porta a respingere pian piano la consapevolezza del proprio vissuto affettivo interno e a non volerlo sperimentare perché sente che non vi è una persona che possa accettare e comprendere il suo mondo di sentimenti. Alcune volte questa presenza dispensatrice di a. è mancata o manca per motivi contingenti quali il lavoro od impegni tali da lasciare pochi momenti liberi per avvicinarsi con tranquillità e serenità al mondo dell’altro. Oppure vi può essere stata una difficoltà costituzionale a comprendere la necessità di avere dimostrazioni di a. da parte del bambino. L’a. viene così ritenuta qualcosa di superfluo, che può essere sostituito vantaggiosamente da una razionalizzazione. In questi casi il bambino purtroppo finisce con l’apprendere che il bisogno di a. è una cosa solo sua, che agli altri non interessa e che pertanto è bene viverla in segreto o addirittura non viverla affatto. Da ciò può nascere un comportamento difensivo nei riguardi di tutto ciò che è affettivo e che provoca quella sensazione di vuoto, caratteristica della persona che ha soffocato questa importante parte di se stessa. Pertanto vi dovrà essere, per superare la sofferenza, la riappropriazione dei propri sentimenti ed emozioni con l’aiuto di una persona che sappia corrispondere con un caldo clima affettivo. Bibl.: D’Urso V. - R. Trentin, Psicologia delle emozioni, Bologna, Il Mulino, 1988; A mmaniti M. - N. Dazzi (Edd.), Affetti, Bari, Laterza, 1990; Sonet D., Il primo bacio & dintorni: educatori e ragazzi di fronte a sessualità e a., Leumann (TO), Elle Di Ci, 2003; Olivo S. - V. Iurman - M. Colombo, A. e sessualità. Saper ascoltare per saper educare, Trieste, Mgs Press, 2007.

W. Visconti

AFFIDAMENTO Istituto giuridico volto ad offrire ad un minore, temporaneamente privo della possibilità di vivere nella sua famiglia di origine, un ambiente familiare idoneo a soddisfare le sue necessità affettive ed educative. 1. L’a. ha le sue basi storiche nel generico

concetto di accoglienza privata e di ospitalità dei minori abbandonati; in Italia non esistono sue formulazioni legislative fino al Codice civile del 1942, con cui assume per la prima volta un significato giuridico sia pur ancora piuttosto limitato. Solo negli anni ’70, sulla scia di un significativo ed interessante dibattito culturale e politico promosso da operatori sociali e da associazioni di → volontariato, si è cominciato a considerarlo come possibile forma organica di intervento per i minori in semi-abbandono, non adottabili e con difficili storie di vita. Si è giunti quindi nel 1983 all’emanazione della L. n. 184 «Disciplina dell’adozione e dell’a. dei minori» con cui tale istituto ha trovato una precisa codificazione delle sue finalità e modalità di applicazione. La L. 184 è stata poi in parte modificata ed integrata dalla L. 149 del 2001 che ha dato maggior risalto all’importanza per il minore di vivere nella propria famiglia o in un ambiente familiare ed alla necessità di sostenere il più possibile le famiglie di origine, introducendo inoltre un’importante innovazione con la decisione di chiudere i grandi istituti di accoglienza entro la fine del 2006 e consentendo il permanere delle sole comunità di tipo familiare. 2. La normativa prevede per i minori temporaneamente privi di un ambiente familiare idoneo, che possano essere affidati ad altre famiglie, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare, al fine di assicurare loro il mantenimento, l’educazione e l’istruzione L’a. viene promosso dai servizi sociali territoriali. Quando vi è il consenso dei genitori naturali, esso è reso esecutivo con decreto del Giudice Tutelare; nel caso manchi tale consenso viene deciso dal Tribunale per i Minorenni. Il provvedimento deve chiarire i motivi dell’a. ed indicare la sua probabile durata, che non deve superare i due anni, ma può essere prorogato qualora se ne ravveda la necessità. I servizi sociali hanno il compito di vigilare sul suo andamento, offrendo a tutte le persone coinvolte sostegno, consulenza, aiuto. È previsto che gli affidatari favoriscano i contatti del minore con la famiglia di origine ed il suo reinserimento nella stessa. 3. L’a. è un istituto complesso, di problematica attuazione e gestione pratica. Nonostante 41

AFRICA

la sua definizione giuridica e le molte campagne condotte da amministrazioni pubbliche e da associazioni private per farlo conoscere a livello sociale e culturale, incontra tuttora difficoltà a trovare la necessaria disponibilità da parte delle famiglie difficilmente in grado di aprirsi ad una ospitalità temporanea ed al rapporto con i genitori naturali dei figli accolti. Bibl.: Cambiaso G., L’affido come base sicura: la famiglia affidataria, il minore e la teoria dell’attaccamento, Milano, Angeli, 1998; G reco O. - R. Iafrate, Figli al confine: una ricerca multimetodologica sull’a. familiare, Ibid., 2001; Centro Nazionale di Documentazione ed A nalisi per l’I nfanzia e l’A dolescenza, I bambini e gli adolescenti in a. familiare, Firenze, Istituto degli Innocenti, 2002.

A. M. Libri

AFRICA: sistemi formativi 1. Tradizione e emancipazione. La tradizione africana è basata sulla vita di clan che provvede alla educazione del bambino. I riti di → iniziazione della fase puberale segnano il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. I codici morali e l’assunzione dei ruoli adulti sono appresi nella vita comunitaria e la pedagogia di per sé non ha una fondazione teoretica. Sulla tradizione antica africana si sono innestati i modelli educativi importati dall’ → Europa. La compresenza dei due sistemi valoriali di riferimento ha alla lunga generato forme di convivenza ma anche conflitti e movimenti di → liberazione nazionale. Dagli anni ’60, epoca della decolonizzazione, alla metà degli anni ’70 l’A. cerca faticosamente la propria emancipazione; segue la fase della affermazione degli Stati totalitari e quindi quella della ricerca di vie di liberazione mutuate dall’Occidente capitalista e dall’Est comunista. Il continente africano resta un universo culturale composito sia per le passate vicende precoloniali e coloniali, sia per l’attuale fisionomia politico-sociale dei diversi Paesi che rende difficile l’elaborazione di modelli educativi originali e liberi dall’influenza europea. Solo nello Zaire sono parlati più di 400 dialetti appartenenti ai gruppi linguistici sudanesi e bantu. Tale 42

molteplicità linguistica, comune agli altri Stati africani, trova ancora nelle lingue europee, soprattutto nel fr., nell’ingl. e nel port., un veicolo di comunicazione internazionale insostituibile. 2. Economia e istruzione. Mentre l’A. Occidentale crea una sua comunità economica con PECOWAS, o Economic Community of West African States (fondata nel 1975), l’A. Meridionale cerca un suo sviluppo autonomo dal Sud A., coordinando gli sforzi attraverso la SADCC, o Southern African Development Coordination Conference (fondata nel 1979). A livello internazionale la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale continuano a fornire prestiti a diversi Paesi africani, ed i creditori europei organizzati nel Paris Club e nel London Club, dove reputano opportuno, operano dilazioni nei pagamenti. Questo meccanismo di debiti/crediti trasforma l’A. da continente ricco per natura a continente povero per capacità e possibilità di sfruttamento delle risorse. Di qui la ricerca di personale qualificato da immettere nei processi formativi e nel mercato interno del lavoro. Guerra e povertà (cfr. Angola, Botswana, Sudan, Mozambico) sono problemi che ritardano l’attuazione dei piani di → alfabetizzazione di bambini, giovani, adulti. Le stime del 1990 sull’analfabetismo adulto (Unesco, 1993) registrano percentuali notevoli negli Stati di Burkina Faso (81,8%), Benin (76,6%), Guinea (76,0%), Somalia (75,9%) e meno elevate nel Madagascar (19,8%) e nelle Isole Maurizio (20,1%). Nella maggioranza dei casi sono le fasce femminili della popolazione, la popolazione rurale e gli appartenenti alle classi sociali meno abbienti ad essere più esclusi dalla → scuola, salvo poi effettuare i rientri nel circuito dell’istruzione previsti dalle varie forme di → educazione degli adulti. 3. Sistemi formativi a confronto. Dalle statistiche dell’Unesco (1993) non compaiono dati relativi all’istruzione prescolastica in: Botswana, Ciad, Guinea, Guinea Equatoriale, Lesotho, Madagascar, Malawi, Mali, Mauritania, Sierra Leone, Tanzania, Uganda, Zimbabwe. Le eventuali agenzie, preposte alla educazione prescolastica in questi Stati, funzionano nelle aree urbane, per iniziativa privata, ad opera delle missioni, e sono spes-

AGAZZI ALDO

so accessibili solo alle classi agiate. L’istruzione è obbligatoria e gratuita quasi dovunque: per 5 anni come in Madagascar, per 8 come in Angola e nel Niger, per 9 come in Algeria, per 10 come nel Congo e nel Gabon, per 11 come in Tunisia. Non vi è → obbligo scolastico nei seguenti Stati: Botswana, Camerun Occidentale, Gambia, Kenya, Mauritania, Maurizio, Sierra Leone, Sudan, Swaziland, Uganda. La scuola primaria e quella secondaria sono attivate, dovunque: l’obbligo quando previsto, copre l’arco dell’istruzione primaria e, in qualche caso, il primo ciclo della secondaria. I giovani degli Stati nei quali le istituzioni superiori non sono attivate completano gli studi nelle università africane disponibili, in Europa, negli Stati Uniti d’America, in Canada e, fino a quando è stato possibile, nell’Unione Sovietica. In molti casi la politica dell’educazione nei vari Stati sottolinea la necessità di raggiungere la diffusione universale dell’istruzione primaria e piani specifici vengono periodicamente predisposti allo scopo. Si tratta di un obiettivo difficile, considerata la diversità delle opportunità educative per maschi e femmine, per utenza urbana e rurale e la forte dispersione scolastica data da abbandoni, ripetenze, interruzioni, frequenze irregolari. Diplomati e laureati non sempre decidono di restare in A. e 1’ → emigrazione dei professionisti impoverisce ulteriormente le economie e lo sviluppo dei Paesi africani più poveri. Un caso a parte è rappresentato dal Sud A. nel quale è in atto una lenta trasformazione post-apartheid che investe l’economia, la cultura, la scuola. Il nuovo sistema scolastico sudafricano prevede 13 lingue ufficiali: Tingi, più una delle lingue locali. La società multiculturale, presente in A., come in Europa, assume conformazioni interessanti, forse ancora troppo poco studiate fuori dei quadri interpretativi della subordinazione economico-politica. Si pensi ad es. al problema della nuova scrittura dei manuali e alla riformulazione dei curricoli scolastici, alla adozione di linguaggi che permettano la comunicazione tra formazioni culturali diverse. Se da un lato non appare scientifico relazionarsi all’A. come ad un continente senza tradizioni, o dalle tradizioni poco significative, d’altro canto esiste l’urgenza di creare flussi migratori e contatti umani impostati sulla consapevolezza del particolare patrimonio di valori che va

scoperto e conosciuto soprattutto attraverso 1’ → educazione interculturale e sulla presa di coscienza del condizionamento negativo provocato dal → pregiudizio etnico. Bibl.: K ing E. J., «South A.», in T. N. Postleth­ waite, The encyclopedia of comparative education and national systems of education, Oxford, Pergamon, 1987; Chistolini S., I sistemi educativi nel Sud del Mondo. A. subsahariana, Roma, Euroma-La Goliardica, 1988; Fajana A., «Multicultural education practices in Nigeria», in D. K. Sharpes (Ed.), International perspectives on teacher education, London, Routledge, 1988, 33-42; Dekkere I. - E. M. Lemmer (Edd.), Critical issues in modern education, Durban, Butterworths, 1993; Gandolfi S. - F. R izzi, L’educazione in A., Brescia, La Scuola, 2001; Erny P., Istruzione, educazione familiare e condizione giovanile in A., Torino, L’Harmattan Italia, 2003.

S. Chistolini

AGAZZI Aldo n. a Bergamo nel 1906 - m. a Bergamo nel 2000, pedagogista italiano. 1. Figlio di due operai tipografi, primogenito di 8 figli, divenne a 18 anni maestro elementare, a 28 direttore didattico. Diplomato nell’Università Cattolica, con → Casotti, per la Vigilanza scolastica e laureato in Pedagogia all’Università di Torino, divenne insegnante di filosofia all’istituto magistrale, poi libero docente in pedagogia e incaricato a Padova e infine straordinario nell’Università Cattolica (1960), dove fu anche preside di Facoltà e direttore dell’Istituto di Pedagogia. 2. Dotato di vasta e solida cultura umanistica, si aprì alle istanze della socialità e della democrazia, impegnandosi nell’UCIIM, Unione cattolica italiana insegnanti medi, al fianco di → Nosengo, che avrebbe sostituito alla presidenza nazionale, dal 1969 al 1974. Fu anche presidente del Movimento Circoli della Didattica. Partecipò alla Commissione Gonella, battendosi vittoriosamente per la secondarietà della scuola media, fu membro del Consiglio Superiore della P.I. (1951-54 e 1958-62), combattivo membro delle commissioni ministeriali per la stesura dei Program43

AGAZZI ROSA E CAROLINA

mi della scuola media e degli Orientamenti della scuola materna, fu direttore poi presidente del Centro didattico nazionale per la scuola materna (dal 1950 al 1974), presidente dell’ASPeI, associazione pedagogica italiana, segretario di Scholè, centro di studi fra pedagogisti cristiani, presso l’Editrice la Scuola, dal 1954 al 1968. Presso la stessa Editrice fu anche direttore dal 1948 al 1984 della rivista Scuola Materna e dal 1955 al 1991 della rivista «Scuola e Didattica». 3. I più impegnativi lavori scientifici di A. sono: Saggio sulla natura del fatto educativo, in ordine alla teoria della persona e dei valori (1950), Oltre la scuola attiva. Storia, essenza e significato dell’attivismo (1955); Teoria e pedagogia della scuola nel mondo moderno (1958) e Il lavoro nella pedagogia e nella scuola (1958). Negli anni successivi, oltre alle sue dispense universitarie videro la luce fra gli altri: Gli esami, aspetti pedagogici (1967); Pedagogia, didattica, preparazione dell’insegnante (1968); Le nuove problematiche dell’educazione (1971). Collocatosi nella linea del personalismo educativo (Il discorso pedagogico. Prospettive attuali del personalismo educativo, pro manuscripto, 1963), A. affrontò nei seminari universitari, nelle sedi istituzionali, nei convegni e nei corsi di aggiornamento per docenti e per educatori problemi filosofici, pedagogici, di politica scolastica, didattici, con chiarezza, equilibrio, tenacia, da educatore oltre che da intellettuale impegnato, stimato dai colleghi di tutti gli orientamenti. Bibl.: a) Fonti: la bibl. di A.A. (oltre 1600 titoli) è contenuta in: Pedagogia fra tradizione e innovazione. Studi in onore di A.A., Milano, Vita e Pensiero, 1979. b) Studi: Scurati C. (Ed.), Educazione società scuola. La prospettiva pedagogica di A.A., Brescia, La Scuola, 2005; Galli N., La pedagogia di A.A., in «Pedagogia e Vita» (2002) 2, 39-91; Scurati C. (Ed.), Educazione, società, scuola: la prospettiva pedagogica di A.A., Brescia, La Scuola, 2005 Corradini L., Nosengo e A., attualità di due centenari, in «La Scuola e l’Uomo» (2006) 8-9, 189-194; Pazzaglia L. et. al., La passione e l’intelligenza educativa. Il patrimonio pedagogico di A.A, in «Scuola e Didattica» 11 (2007) 2, 49-64.

L. Corradini

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AGAZZI Rosa e Carolina Rosa n. a Volongo-Cremona nel 1866 - m. ivi nel 1951 e Carolina n. a Volongo-Cremona nel 1870 - m. a Brescia nel 1945, educatrici italiane. 1. Alle sorelle A. (ma particolarmente a Rosa) si riconosce il merito di aver attuato la riforma del fröbelismo in Italia e di aver realizzato a Mompiano (Brescia) un sistema di educazione infantile che si rivelò capace di soddisfare con puntualità e con congruenza, le esigenze dei bambini e della società rurale in cui vivevano. In questo sistema interagiscono vari elementi (i bambini, le educatrici, le loro famiglie, i locali, gli spazi esterni, il materiale didattico, le esperienze educative, lo stile magistrale, le modalità comunicative). Al centro c’è il bambino, visto come «germe vitale che aspira al suo armonico sviluppo», che è protagonista attivo del suo apprendimento e partecipe della vita della scuola, grazie alla qualità dell’organizzazione dell’ambiente, delle relazioni, dell’animazione educativa della maestra che è la «regista» della «grande casa e dell’allegra famiglia». 2. R.A. dalla conoscenza del bambino fa scaturire due curricoli: uno (che oggi potremmo chiamare implicito) legato alla qualità dell’ambiente che consente ai bambini di soddisfare la loro curiosità, «di chiedere, di domandare, di guardare e di «osservare», il bisogno di conoscere le loro cose, quelle dei loro compagni, il mondo fisico, la scuola, l’orto, gli oggetti, le piante, gli animali, le persone che vi si trovavano», di fare, di costruire, di interagire; e l’altro esplicito relativo alle attività comunemente considerate a carattere intellettuale quali «la lingua e le abilità in genere». Accanto a questo programma c’è tutta la vita della scuola, con i rapporti che si instaurano tra bambini, tra i bambini ed educatrici e con le occasioni che si presentano per le lezioni, per i dialoghi, per la conversazione, per il racconto e la discussione. 3. Il sistema di Mompiano «si impernia intorno ad un ambiente di vita fisica ed operativa», in cui il bambino prova la gioia di vivere, respira un’atmosfera educativa ed

AGGRESSIVITÀ

apprende ad essere autonomo e competente, capace di mangiare da sé, di apparecchiare e di sparecchiare, di vestirsi e di spogliarsi, di provvedere ai suoi bisogni, di muoversi nel suo spazio vitale, di organizzare il suo tempo, di fare, di trasformare la materia attraverso il gioco-lavoro, di ben pensare e di esprimere con chiarezza il suo pensiero. Tra i bisogni del bambino, oltre a quello di stare bene, di maturare la propria identità, di autonomia e di competenze, R.A. colloca anche quelli di armonia, di bellezza e del sacro, sostenendo che la sua «incontrastabile individualità impone all’educatrice di attingere da se stessa quanto occorre per promuoverla», per vivificare l’umanità che egli custodisce ed attende di attuare. Bibl.: Agazzi A. - S. S. Macchietti, L’educazione dell’infanzia nella scuola materna e il metodo A., Brescia, La Scuola, 1991; M acchietti S. S. et al., Scuola materna gioia di vivere crescere apprendere, Brescia, Ist. Mompiano «PasqualiAgazzi», 1996; Macchietti S. S. (Ed.), Alle origini dell’esperienza agazziana: sottolineature e discorsi, Azzano San Paolo (BG), Junior, 2001.

S. S. Macchietti

AGENZIE EDUCATIVE → Istituzioni educative AGGIORNAMENTO → Educazione permanente

AGGRESSIVITÀ Condotta che può essere vissuta in modo positivo (affermazione di sé) o negativo (auto e/o eterodistruttività). 1. L’a. si snoda dunque lungo un continuum che va dalla difesa di se stessi, ad un sano bisogno di affermazione, alla creatività, alla competitività, al dominio sugli altri, alla distruzione di sé (masochismo) o degli altri (sadismo). Secondo l’ottica psicoanalitica, l’a. non si esprime solamente attraverso una condotta manifesta ed intenzionale, ma anche in modo mascherato ed inconscio. Ad es., un genitore scarica la sua ostilità nei confronti del figlio attraverso l’iperprotezionismo; oppure un individuo si dedica maniacalmente ad opere di bene per soddisfare il suo bisogno di dominare sugli altri.

2. L’a. non è riconducibile ad un’unica causa, ma ad una serie di fattori neurofisiologici, biochimici, psicologici e sociali tra loro interconnessi. Notevoli sono i contributi psicoanalitici al riguardo. → Freud giunge gradualmente alla conclusione che l’a. non è altro che un’espressione della pulsione di morte (Thanatos), a cui, nel saggio Al di là del principio del piacere del 1920, egli riconosce un peso uguale a quello della libido, denominata pulsione di vita (Eros). Entrambe le pulsioni sono innate e nella prima infanzia sono tra loro intimamente fuse. Successivamente si differenziano. Una mancata defusione in età adulta comporta uno stato patologico. Per Freud la pulsione di morte tuttavia non riguarda semplicemente l’a., ma anche la tendenza alla riduzione assoluta delle tensioni, fino a portare l’essere vivente allo stato inorganico. Anche se il concetto di pulsione di morte è rimasto uno dei più controversi nell’ambito della teoria psicoanalitica, → Klein ha ripreso i contributi freudiani, sottolineando con ancora più forza il ruolo fondamentale che esso svolge nella strutturazione della personalità fin dai primi mesi di vita, soprattutto in assenza di una cura adeguata da parte della madre. Entro quest’ottica, l’esistenza dell’individuo è vista come uno snodarsi entro una costante conflittualità nella bipolarità: amore-odio, invidiagrati­t udine, distruzione-riparazione, oggetto buono-oggetto cattivo. Ciò significa che la pulsione di morte normalmente si trova in uno stato di connessione con la pulsione di vita. Occorre però che, per il mantenimento della salute psichica, la pulsione di vita sia predominante. Bibl.: Laplance J., Vita e morte nella psicoanalisi, Bari, Laterza, 1972; Storr A., La distruttività nell’uomo, Roma, Astrolabio, 1975; Freud S., «Al di là del principio del piacere», in Opere, vol. 9, Torino, Boringhieri, 1977, 193-249; K lein M., Scritti 1921-1958, Ibid, 1978; Rohm H., L’a. infantile. Teoria e prassi per un’educazione risolutrice dei conflitti, Firenze, La Nuova Italia, 1980; La relazione aggressiva, Roma, Borla, 1988; K ernberg O. F., A., disturbi della personalità e perversioni, Milano, Cortina, 1993; Norbert E. - E. Dunning, Sport e a., Bologna, Il Mulino, 2001; Fornaro M., A. I classici nella tradizione della psicologia sperimentale, della psicologia clinica, dell’etologia, Torino, Centro Scientifico, 2004;

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AGOSTINO AURELIO

Fagiani M. B. - G. R amaglia, L’a. in età evolutiva, Roma, Carocci , 2006; Kernberg O. F., Narcisismo, a. e autodistruttività nella relazione terapeutica, Milano, Cortina, 2006.

V. L. Castellazzi

AGOSTI Marco → Neoscolastica pedagogica

AGOSTINO Aurelio n. a Tagaste nel 354 - m. a Ippona nel 430, vescovo e scrittore, padre della Chiesa. 1. Vita ed opere. Africano di nascita e romano di lingua, cultura e sentimenti, A. fu educato cristianamente dalla madre Monica, ma da giovane si abbandonò all’orgoglio intellettuale, a deviazioni morali, all’eresia manichea. Insegnò retorica a Cartagine, a Roma e a Milano: ivi, dopo una lunga e tormentata vicenda interiore e profonda riflessione, si riavvicinò al Cristianesimo e nel 387 fu battezzato dal vescovo Ambrogio. Ritornò in Africa e a Tagaste si dedicò a vita ascetica con alcuni amici. Ordinato sacerdote nel 391 e vescovo di Ippona nel 396, fino alla morte esplicò una prodigiosa attività pastorale, dottrinale e letteraria. Scrisse moltissime opere: libri autobiografici (le Confessiones), filosofici (i Dialogi), apologetici (il più significativo è De civitate Dei, proposta di una visione cristiana della storia umana), dogmatici (il De Trinitate), pastorali e pedagogici, monastici, esegetici, polemici (contro manichei, pelagiani, donatisti); inoltre più di 300 lettere, vari trattati (come le Enarrationes in Psalmos) e circa 570 Sermones. In riferimento alla pedagogia sono particolarmente importanti: De magistro, De catechizandis rudibus, De doctrina christiana, Epistulae 118 e 266. 2. Il pensiero pedagogico. a) L’esperienza personale di A. influì sul suo pensiero pedagogico. Dapprima ebbe modo di apprezzare l’educazione cristiana ricevuta dalla madre, poi da giovane, frequentando scuole pagane e leggendo autori classici, deplorò le pagine scandalose, l’obiettivo della vanagloria, la vacuità della semplice formazione letteraria, i metodi mnemonici, i frequenti castighi (pur accettati in linea di principio). Soprattutto A. 46

ricercò la verità per tutta la vita, passando attraverso una crisi religioso-filosofica e una crisi morale. Da esse riemerse con la riflessione personale, con la lettura di testi platonici, con l’esempio di cristiani ferventi e specialmente con la preghiera, la meditazione sulla Sacra Scrittura, l’aiuto della grazia divina. b) Il pensiero pedagogico di A. è strettamente connesso con la sua filosofia e teologia, che sono fondate essenzialmente su tre principi: l’interiorità (l’uomo deve rientrare in se stesso per constatare la presenza della verità), la partecipazione (ogni bene è tale o per se stesso o perché deriva dal bene), l’immutabilità (l’essere vero è solo l’essere che non muta, che esclude limitazioni, composizioni e variazioni). c) L’amore, come espressione di pura benevolenza sull’esempio di Dio, è per A. l’anima dell’educazione (Cat. rud. 4). L’educatore dona con gioia e disinteresse, si adatta alle condizioni psicologiche della persona, ispira confidenza (ivi, 10.12); sa rendere efficaci anche la disciplina e il castigo, perché li fa sgorgare dall’amore (Serm. 13,8,9). Egli desidera portare l’educando al pieno sviluppo delle sue possibilità, come una madre che nutrendo il proprio figlio, non vuole che rimanga piccolo, ma che cresca (Serm. 23,3). A sua volta il bambino corrisponde alle cure dell’educatore, facendosi guidare dall’amore per il bene, scopo primario dell’educazione Certamente non si può amare ciò che non si conosce e non si è ancora sperimentato, ma si ama ciò che già si conosce e che si vuole conoscere meglio e perciò si vuole sapere ciò che si ignora (Trin. 10,1,3). d) Finalità dell’educazione è il passaggio dalla vita istintiva a quella razionale (Civ. Dei 22,24). L’educatore la ottiene servendosi di una equilibrata disciplina, proponendo elevati modelli morali e facendo rispettare la gerarchia dei valori. Tale compito spetta principalmente ai genitori nella famiglia e ai vescovi nella comunità cristiana. e) A. presenta acute pagine sulla didattica: insegnare è mostrare e dire. L’insegnante pone in essere segni, azioni, pensieri; richiama alla mente qualcosa conosciuto in precedenza; porta alla consapevolezza dell’allievo elementi a cui questi non prestava attenzione, pur essendo presenti sullo sfondo. Intelligere [comprendere] sarà non solo intus legere [leggere dentro], ma anche inter legere [leggere tra le cose, considerandole insieme] (Conf. 10,11,18).

AIDS

L’abilità pedagogica del maestro opera una giusta connessione tra parole e significato. Il linguaggio esteriorizza ed incarna la parola interiore: così la comunicazione intersoggettiva è possibile se l’ascoltatore «vede le cose con il puro occhio interiore, conosce ciò che io dico con il proprio pensiero e non mediante le mie parole» (Mag. 12,40). f) Non vi è educazione senza l’atto personale di intendere e di giudicare, senza una valorizzazione di se stessi e la conoscenza dell’universo che ci circonda, senza assunzione di responsabilità totale nei confronti di se stessi. g) Infine attraverso i segni delle cose l’uomo si abitua a passare dalle «realtà materiali a quelle spirituali» (Musica 6,2,2). Lo splendore della verità divina è tale che un occhio impreparato non può sopportarne tutta la luce: l’uomo vi si deve disporre contemplando la luce riflessa sulle cose visibili. Dunque «dobbiamo considerare il mondo come mezzo, non come fine per poter contemplare le perfezioni invisibili di Dio comprendendole attraverso le cose create» (Doct. chr. 1,4,4). La comprensione delle cose intelligibili avviene non per mezzo delle parole che risuonano dal di fuori, ma per mezzo della ragione che è sostenuta dalla luce della verità risplendente nell’intimo (cfr. Mag. 12,39). Ciascuno è ammaestrato «dalle cose stesse che gli si manifestano, perché Dio gliele svela nell’interiorità» (Mag. 11,38). Il ruolo del maestro umano è quello di insegnare un metodo per scoprire la verità presente, ma latente all’interno del discepolo: chi insegna veramente è Cristo, l’unico vero maestro interiore, che interpella tutti e ciascuno, che dona la sapienza, intesa come verità da possedere e realtà da amare. L’uomo supera così la propria mutabilità e si apre al trascendente. 3. Influsso. A. trasmise (soprattutto al → Medioevo) i valori della cultura, il gusto per la ricerca, l’ideale di una sapienza cristiana sotto il primato della Scrittura. Pedagogicamente egli pose l’allievo al centro del processo educativo, ne valorizzò la capacità creativa, elaborò una proposta globale di educazione alla fede, configurò l’apprendimento come lo sforzo di ritrovare in se stessi la verità. All’educatore richiamò il dovere di unire ricerca e testimonianza, scienza e vita. Nella visione cristiana dell’uomo, A. ricuperò e rifuse

i valori universalmente umani del mondo classico greco-romano. Bibl.: a) Fonti: le opere di A. sono edite in lat. e tradotte in it. nella collana Opera omnia di s. A. (Nuova Biblioteca Agostiniana), Roma, Città Nuova, 1965ss; Miano V. (Ed.), S. A. Antologia pedagogica, Torino, SEI, 1958. b) Studi: Bellotti G., L’educazione in Sant’A., Bergamo, 1963; K evane E., Augustine the educator. A study in the fundamentals of Christian formation, Westminster, Newman Press, 1964; Patané L.R., Il pensiero pedagogico di S. A., Bologna, Patron, 2 1969; Sant’A. educatore (Atti della settimana agostiniana pavese, 2), Pavia, Ponzio, 1971; Perrini M., La paideia cristiana di A., in «Humanitas» 42 (1987) 3, 355-388; Valenzuela A., San Agustín de Hipona, teoría y arte pedagógicas, Valparaiso, Ed. Universitarias, 1984; Fabris M. (Ed.), L’umanesimo di Sant’A., Bari, Levante, 1988; Crosson F. J. et al., «De Magistro» di A. d’Ippona, Palermo, Augustinus/Città Nuova, 1993; Paffenroth K. - K. L. Hughes (Edd.), Augustine and liberal education, Aldershot, Ashgate, 2000; Galindo Rodrigo J. A., Pedagogía de San Agustín, Madrid, Augustinus, 2002; Jerphagnon L., Saint Augustin: le pédagogue de Dieu, Paris, Gallimard, 2002.

M. Maritano

AIDS L’a. o sindrome di immunodeficienza acquisita è uno stato morboso dell’organismo umano dovuto a un retrovirus (HIV) che invade e (dopo un periodo più o meno lungo di latenza) distrugge i linfociti T del sangue, azzerando gradualmente le difese immunitarie dell’organismo ed esponendolo agli attacchi ripetuti (e alla fine mortali) di agenti infettivi «opportunisti». Si trasmette attraverso il sangue e lo sperma. Le sue vittime sono quindi prevalentemente giovani che lo contraggono attraverso la promiscuità dei rapporti sessuali (soprattutto omosessuali) e l’uso comune delle siringhe da parte degli eroinomani. Da questo punto di vista, costituisce un problema anche educativo. L’educatore che opera tra i giovani, soprattutto se esposti al pericolo di certe forme di devianza è chiamato a svolgere una difficile opera di profilassi educativa e culturale, consistente 47

AIUTO: RELAZIONE DI

non soltanto in una messa in guardia attenta e informata, ma anche nella trasmissione di → valori che portino i giovani ad amare la vita e a desiderarne lo sviluppo e la fruttificazione. Nello stesso tempo dovrà esorcizzare la facile condanna e l’interdetto sociale che spesso colpisce questo genere di malati. Bibl.: M alherbe J. F. - S. Zorrilla - S. Spinsanti, Il cittadino e l’A., Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1991; Punzi I., Logoterapia e A. L’esperienza della Casa-famiglia «Padre Monti», in «Orientamenti Pedagogici» 39 (1992) 1191-1198; Sandes E., A. als Herausforderung für the Theologie: eine Problematik zwischen Medizin, Moral und Recht, Essen, Ludgerus, 2005

G. Gatti

AIUTO: relazione di Si parla di relazione di a. ogni qualvolta si verifica un incontro tra due persone una delle quali è in condizioni di difficoltà e l’altra è in possesso delle competenze e degli strumenti necessari per agevolarne il superamento. In tal senso, la relazione di a. può essere definita come un processo dinamico nel quale una persona è assistita per operare un adattamento personale ad una situazione nei confronti della quale non è ancora riuscita ad adattarsi. Aiutare, infatti, deriva dal lat. adiuvare (ad + iuvare) ossia arrecare giovamento. 1. La situazione di difficoltà può essere di diversa natura: fisica, psicoemotiva, sociale, comportamentale, ed è sperimentata da chi ne è portatore come una condizione non soddisfacente, che incide sulla qualità della sua vita e dei suoi rapporti con l’ambiente. Colui che aiuta ha il compito di comprendere il problema nei termini in cui si pone per quel particolare individuo in quella particolare situazione, per poi aiutare l’individuo stesso ad evolvere personalmente nel senso di un miglior adattamento personale e sociale. Possiamo avere relazioni di a. di tipo informale (relazioni amicali, familiari, di vicinato) e relazioni di a. di tipo formale-professionale (relazioni insegnante-allievo; medico – paziente; sacerdote – fedele, ecc.). L’a. fornito, all’interno di queste relazioni può assumere diverse forme: sostegno emotivo, informa48

tivo, strumentale, valutativo. Alla luce di quanto espresso la relazione di a. viene a configurarsi come un’interazione asimmetricamente dipendente, in quanto una persona è nella posizione del «dare», l’altra è nella posizione del «ricevere». Il potere di influsso è, così, sbilanciato a favore di chi presta a. Sta quindi a quest’ultimo non abusare del potere che la situazione e il suo ruolo gli conferiscono e di agevolare la comunicazione nell’altro e a favore dell’altro. 2. Una metodologia particolare della relazione di a. è il colloquio di a. messo a punto da Rogers (1970). L’idea di fondo del colloquio di a. è che il miglior modo di offrire sostegno alla persona in difficoltà, non è suggerire soluzioni o prescrivere comportamenti da attuare, quanto piuttosto aiutare la persona stessa a comprendere meglio la sua situazione per giungere poi a riconoscere ed attivare risorse cognitive, emotive e comportamentali che ne consentono una migliore gestione. A tale riguardo, la cura degli aspetti comunicativi e relazionali assume un grande rilievo. In particolare, a colui che presta a. si richiede di: evitare interventi direttivi (consigliare, prescrivere, rassicurare, valutare, interpretare) per lasciare spazio a forme di supporto verbale non direttive che facilitino l’autoesplorazione e l’autocomprensione (riformulare, rispecchiare, chiarificare); creare un ambiente non ostacolante; mostrare attenzione, calma e disponibilità; modellare il proprio comportamento su criteri quali la parità e il rispetto, la dignità altrui e la tutela dei reciproci diritti; trasmettere comprensione emotiva. Inoltre, poiché l’individuo che si trovi coinvolto in una relazione di a. con un altro individuo in posizione di bisogno pone se stesso in una situazione non priva di rischi (coinvolgimento emotivo, spersonalizzazione, induzione di aspettative irrealistiche), è necessario che egli disponga di alcune condizioni personali quali: consapevolezza di sé, contatto con le proprie emozioni ed esperienze, autocontrollo, responsività. Bibl.: Rogers C. - G. M. K inget, Psychothérapie et relations humaines: théorie et pratique de la thérapie non-directive, Louvain, Publications Universitaires, 1969-1971; Rogers C. R., La terapia centrata sul cliente, Firenze, Martinelli, 1970; Carkhuff R., L’arte di aiutare, Ibid., 1997; Ro -

ALCOLISMO gers C. R., Terapia centrata sul cliente, Firenze, La Nuova Italia, 1997; Bruzzone D., Psicoterapia e pedagogia in Carl R. Rogers. Una ricerca sui contributi dell’approccio centrato-sulla-persona all’educazione, in «Orientamenti Pedagogici» 45 (1998) 447-465; Colasanti A. R. - R. M astro marino, L’ascolto attivo, Roma, IFREP (1999); Egan G., The skilled helper: a problem-management and opportunity-development approach to helping, Pacific Grove, California, Brooks-Cole, 2002; Di Fabio A., Counseling e relazione di a., Firenze, Giunti, 2003.

A. R. Colasanti

ALBERTI Leon Battista → Umanesimo rinascimentale ALBERTO MAGNO → Medioevo

ALCOLISMO L’a., detto anche etilismo, è descritto come una condizione di dipendenza dall’assunzione di bevande contenenti alcol. Può essere definito cronico o acuto. Il primo esprime lo stato patologico di chi da tempo ormai assume dosi eccessive di alcol, mentre il secondo fa riferimento alla semplice ubriachezza vissuta in modo episodico. Elementi da tenere in considerazione per una corretta definizione sono soprattutto due: il grado di dipendenza e la gravità dei danni organici e non prodotti dall’alcol. Per quanto riguarda i disturbi psichici o di comportamento in un alcolista cronico si possono evidenziare la bassa tolleranza delle frustrazioni e dell’ → ansia, la mancanza di responsabilità, la labilità emotiva unite ad alterazione del tono e dell’umore con impulsività e irritabilità, disturbi della memoria, diminuzione dell’intelligenza. 1. Le teorie sull’a. sono numerose e tengono conto dei vari «ambienti» in cui si muove la persona umana mettendo in primo piano o l’ambiente biologico, o quello socioculturale o quello psicogenetico; a) teorie biologiche che fanno riferimento a un fattore ereditario descritto come responsabile non tanto dell’a., quanto dello strutturarsi di una personalità fragile e incapace a resistere alla sollecitazione di assumere alcol. Ultimamente si è più propensi a parlare non tanto di genesi ereditaria, quanto di predisposizione deter-

minata da un condizionamento familiare; b) fattori socio-ambientali la cui importanza è dimostrabile dal fatto che l’assunzione di alcol viene incoraggiata da alcuni gruppi sociali o viene addirittura ritenuta indispensabile per determinate professioni o sollecitata come segno di «virilità». Interessanti anche gli studi sulle società dei nomadi, sul rapporto metropoli/immigrazione e quelli condotti nell’area della emarginazione. Diversi autori inseriscono soprattutto in questo contesto l’aumentata percentuale di giovani che consuma sostanze alcoliche; c) teorie psicologiche e psicodinamiche: la psicodinamica classica interpreta l’a. come una regressione allo stadio orale in cui si è fissata l’organizzazione istintuale. → Freud ha trattato questo problema in margine a quello della paranoia (caso Schreber). A livello più generale diversi autori hanno messo in relazione l’a. con alcuni tratti di personalità, anche se non si è mai chiaramente dimostrato se i tratti descritti (ad es. stati di tensione, sentimenti di insicurezza, incapacità di affermazione personale, bisogno di gratificazione...) siano antecedenti o successivi all’abuso alcolico. 2. L’eterogeneità del disturbo porta diversi autori contemporanei a parlare non di a. ma di «alcolismi». Ciò mette in evidenza il fatto che la dipendenza da alcol avviene in una persona. «Un individuo può sviluppare a. come punto d’arrivo di una complessa interazione di carenze strutturali, predisposizione genetica, influenze familiari, contributi culturali, e altre diverse variabili ambientali. Una completa valutazione psicodinamica del paziente considererà l’a. e tutti i fattori che vi contribuiscono nel contesto dell’intera persona» (Gabbard, 1995, 341). Da questo punto di vista anche il → recupero viene inteso come la messa a disposizione del soggetto di una molteplicità di tecniche e di interventi, a volte utilizzati su vari fronti, in modo da tener conto della personalità del singolo e della sua disponibilità a mettersi in gioco per migliorare. Bibl.: Furlan P. M. - R. L. R icci, Alcol, alcolici, a., Torino, Bollati Boringhieri, 1990; Gabbard G. O., Psichiatria psicodinamica, Milano, Raffaello Cortina, 1995; Sanfilippo B. - G. L. Galimberti - A. Lucchini (Edd.), Alcol, alcolismi: cosa cambia?, Milano, Angeli, 2004; Trevisani F. - F. Caputo (Edd.), A., Bologna, CLUEB,

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ALFABETIZZAZIONE

2005; M emmi A., Il bevitore e l’innamorato. Il prezzo della dipendenza, Roma, Edizioni Lavoro, 2006.

L. Ferraroli

ALCUINO → Medioevo

ALFABETIZZAZIONE In genere il termine si contrappone ad analfabetismo, versione negativa in quanto assenza di a.; può assumere valore strumentale, spirituale, funzionale. Nel primo caso ci si riferisce all’insegnamento della lettura e della scrittura in contesto scolastico ed extrascolastico; nel secondo ci si rapporta alla crescita matura del soggetto sotto il profilo politico e civile, nonché alla sua partecipazione sociale professionalmente qualificata; nel terzo ci si richiama alla funzionalità dell’ → apprendimento rispetto a fini occupazionali e socioeconomici. Questi tre aspetti possono essere più o meno e con diversa intensità, compresenti. Ad es. può darsi una sorta di a. spirituale nei casi di trasmissione di culture fondate sulla tradizione orale. 1. Ambiti di applicazione. Va distinta l’a. spontanea e indotta, nel caso dell’apprendimento di lettura e scrittura come conquista prescolastica e scolastica dei bambini, dall’a. differenziata a seconda del → linguaggio, verbale-non verbale, preso in esame. Inoltre si distingue l’a. dell’infanzia, comunemente messa in atto dalla → scuola e dalla famiglia, dall’a. degli adulti. Quest’ultima nasce come idea di educatori che in vari Paesi hanno promosso progetti intesi a fornire a chi è fuori del circuito scolastico la strumentazione di base per una migliore partecipazione sociale. In questo senso vanno ricordate tutte quelle iniziative di istruzione popolare che da Grundtvig in Danimarca, a Condorcet in Francia, a Cena in Italia caratterizzano una parte della storia europea dell’educazione dalla fine dell’800 ai primi decenni del ’900. Dopo la seconda guerra mondiale l’a. viene letta da più parti in senso motivazionale: apprendere per scopi precisi e per mete concrete. Nei Paesi socialisti l’a. è strettamente connessa alla concezione politecnica e alla congiunzione del lavoro intellettuale con 50

quello manuale: si alfabetizza trasmettendo un sapere operativo da spendere a vantaggio della collettività. Altro esempio originale è quello dell’India dalla spiritualità multiforme, che → Gandhi ha fatto conoscere al mondo intero non più solo sotto l’aspetto della povertà e dell’analfabetismo, ma della nazione intenta ad uscire dalle strettoie della istruzione occidentale elitaria per cercare mezzi di a. di massa all’interno della propria tradizione spirituale. A livello internazionale l’Unesco si occupa della questione in modo costante e registra annualmente le statistiche che evidenziano l’andamento del fenomeno. Il tasso di scolarizzazione è uno degli indicatori dell’a. con punte minime nei Paesi emergenti (→ Asia, → America Latina, → Africa) e punte massime nei Paesi industrialmente più avanzati. Nel 1961 l’Unesco lancia la campagna mondiale di a. intesa a favorire l’autosviluppo e l’auto-emancipazione dei Paesi più poveri attraverso la cooperazione economica internazionale. L’ipotesi del «Programma sperimentale mondiale di a.» (PEMA) attivato dall’Unesco in 20 Paesi tra il 1967 e il 1973 è che solo entro un quadro socio-economico favorevole ed organizzato è possibile promuovere un percorso formativo basato su obiettivi di crescita e tale da procurare agli individui interessati i mezzi intellettuali e tecnici capaci di farne attori efficienti nell’intero processo di sviluppo. 2. Esperienze significative. Famose sono le iniziative di coscientizzazione degli «oppressi» promosse negli stessi anni da Freire in America Latina (→ educazione liberatrice): vere e proprie testimonianze di servizio e di elevazione culturale di persone per generazioni tenute lontane dall’istruzione. Negli anni ’40 sorgono in Italia diversi movimenti di ispirazione democratica che operano, soprattutto nel Sud, per l’a. della popolazione rurale. La legge istitutiva della «scuola popolare» è del 1947 e per circa trent’anni si moltiplicano, differenziatamente su tutto il territorio, centri di lettura e corsi di richiamo scolastico, iniziative di bibliobus e di telescuola, attività di formazione professionale gestite da enti vari. In seguito al decentramento amministrativo (L. n. 382/75) viene data la possibilità alle Regioni (DPR n. 616/77) di dare inizio ai cor-

ALGORITMO

si della durata di «150 ore» frequentati con eventuale congedo pagato, al fine di favorire il conseguimento, nelle sedi appropriate, del titolo di scuola media a chi lavora, alle casalinghe, alle collaboratrici domestiche, a tutti coloro i quali sono sprovvisti di tale certificato che permette di fatto un migliore inserimento occupazionale ed eventualmente la mobilità sociale. In diversi Stati del mondo non sembra più sufficiente far coincidere l’a. minima dell’infanzia e dell’adolescenza con la generalizzazione dell’istruzione primaria e secondaria di primo ciclo, in quanto crescono le aspettative delle famiglie, dei figli, della società internazionale rispetto a livelli di formazione che spostano più avanti negli anni il termine dell’ → obbligo scolastico. Per l’Italia l’elevamento appena introdotto è fino ai 16 anni. In termini scolastici istituzionali l’a. comincia con l’educazione preprimaria e termina con la fine o l’interruzione della frequenza scolastica; in termini sostanziali essa inizia con la gestazione, considerando l’influenza feto-madre, e termina forse con la morte. Alla scuola e alle diverse sedi formative anche extrascolastiche spetta indubbiamente il compito di costruirsi come ambienti nei quali il soggetto sperimenta metodi didattici funzionali alla maturazione al pensiero critico. 3. Estensione contenutistica. Concettualmente l’a. significa molto di più della acquisizione delle capacità di leggere e scrivere poiché riguarda la padronanza di più modelli di comprensione, l’elaborazione di conoscenze diverse, la flessibilità e la coerenza dei collegamenti tra molteplici contenuti e forme culturali. La storia dell’a. dimostra che progressivamente ci si muove in modo da comprendere temi via via più vasti e variegati non esauribili nell’apprendimento di automatismi tradizionali e di tecnicità, sempre più sofisticate, si pensi ad es. agli sviluppi dell’informatica, bensì necessariamente comprendenti questioni correlate come quelle dell’arricchimento culturale, dell’uguaglianza delle opportunità educative, della dispersione scolastica, dell’educazione delle minoranze etniche, della formazione permanente, del diritto allo studio, dell’acquisizione di nuove professionalità e dell’ → istruzione a distanza. La locuzione «competenze alfabetiche» delle indagini internazionali stabilisce

categorie e livelli del sapere e del saper fare. La Dichiarazione di Lisbona dell’UE (2000) annovera nella strategia politico-sociale per il 2010 l’intensificazione della lotta contro l’analfabetismo. Bibl.: M encarelli M., Scuola in prospettiva. Insegnare ad apprendere, Brescia, La Scuola, 1973; Potts J., Insegnare a leggere, Firenze, La Nuova Italia, 1981; Fiorini F. - L. Pagnoncelli, Quale alfabetismo?, Torino, Loescher, 1988; Cives G. (Ed.), La scuola italiana dall’Unità ai nostri giorni, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1990; Gallina V. (Ed.), La competenza alfabetica in Italia: una ricerca sulla cultura della popolazione, Milano, Angeli, 2000; Nardi E., Come leggono i quindicenni. Riflessioni sulla ricerca OCSEPISA, Ibid., 2002; Chistolini S., «Competenze alfabetiche», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, 343-359.

S. Chistolini

ALGORITMO Successione ordinata e finita di operazioni e decisioni che conduce a un risultato preciso. Il termine deriva dalla latinizzazione del nome del grande matematico arabo Muhammed Ibn Muza Al Kuvaritzmi (Algorismus). Leonardo Fibonacci nel suo Liber abaci (1202) inizia spesso le sue affermazioni con l’espressione «Dixit Algorismus». Tale termine è stato ben presto applicato a molti procedimenti matematici universalmente noti e significativi come l’a. euclideo delle divisioni successive, procedimento usato per trovare il massimo comun divisore tra due numeri. Per estensione, con lo sviluppo dell’ → informatica e dei computer, esso è stato utilizzato per indicare ogni tipo di procedimento che può essere progettato, tradotto in un linguaggio formale conveniente e fatto eseguire da un sistema di elaborazione automatica. È stato anche usato nell’ambito pedagogico e didattico per designare procedure e strategie formative. L. Landa (1974) ha sviluppato una sua teoria dell’insegnamento definita «algoeuristica», che integra metodi di insegnamento di tipo procedurale-esecutivo e di tipo esplorativo-creativo. 51

ALLEGRIA

Bibl.: Landa L., Algorithmization in learning and instruction, Englewood Cliffs, Educational Technology Publications, 1974; Luccio F., La struttura degli a., Torino, Boringhieri, 1982; Pellerey M., Informatica, fondamenti scientifici e culturali, Torino, SEI, 1986; Wirth N., A. + Strutture Dati = Programmi, Milano, Tecniche Nuove, 1987; Goldsch-Lager L. - A. Lister, Introduzione all’informatica. A., strutture, sistemi, Torino, SEI, 1988; Fondamenti di informatica. Vol. 2: Reti, basi di dati, multimedia, linguaggi, a., Bologna, Zanichelli, 2006; Guida G. - M. Giacomin, Fondamenti di informatica, Milano, Angeli, 2006.

M. Pellerey

ALIENAZIONE → Marxismo pedagogico

ALLEGRIA L’a. è un sentimento dell’animo lieto, che si rivela vivido nelle molteplici espressioni umane: volto e aspetto, movimenti e gesti... Scaturisce dall’emozione primaria della gioia e si manifesta con vivacità nella → festa. Ciò che rallegra nutre la mente, tonifica il cuore e facilita la comunicazione. 1. Nella prospettica pedagogica l’a. trova la sua collocazione formale nel discorso sull’ambiente educativo. Più che configurare solo il «pädagogischer Bezug», il rapporto educativo (Nohl), trova il suo luogo proprio nel «pädagogisches Feld», il campo pedagogico (Winnefeld), provocando i mondi vitali alla scoperta di significati e alla loro stessa produzione. Di certo il sentimento d’a. incontra solchi fertili nell’animo umano, specie giovanile. Il terreno più fecondo per il → dialogo educativo e la comunicazione dei → valori è senza dubbio un ambiente di a. A tale scopo occorre offrire, nell’età della crescita, ampio spazio alla libera espressione (→ musica e canto, → sport e gioco, danza e → teatro, gite e pellegrinaggi) e alla manifestazione spontanea (emblema di un esuberante spazio estroverso è il «cortile», la «piazza»). L’hanno intuito educatori capaci, come don → Bosco, che nella giovinezza fondò la «Società dell’a.» e nella sua proposta educativa forgiò il trinomio: a., studio, pietà, in cui lo spazio-cortile e l’espressività giovanile as52

sumono dignità pedagogica. Da qui la rilevanza educativa di creare un clima di a. e la convinzione di garantire un sereno tessuto dei rapporti amichevoli. 2. L’a. rivela così valenze interiori (sua fonte è la gioia) e insieme espressioni manifeste. Ne diventa metafora la festa, scandita dalle varie ricorrenze della vita, ma spesso vissuta nei momenti più quotidiani (esistenza come festa). Nell’età evolutiva il soggetto tende spontaneamente all’a. e alla festa: sa che queste nutrono i suoi sentimenti, creano fiducia e sostengono la crescita. L’a. è contagiosa: attraverso la dinamica empatica, come vissuto affettivo, l’a. coinvolge e trascina, creando una feconda piattaforma di relazioni positive e un ambiente costruttivo. Di certo festa e a. sono soggette all’ambivalenza, o addirittura alla deriva; e tuttavia rimangono sempre seducenti nella loro valenza educativa. Nella società contemporanea prevale una visione esistenziale di festa, vissuta nella realtà quotidiana: si cerca perciò una compresenza di evasione e di ricarica, di divertimento e di condivisione, di rapporti consueti e di relazioni inedite, di gratuità e di distacco. In tal senso l’a. e la festa giocano un ruolo non marginale, oggi. Si tratta però di assumerne le sfide educative come la socialità che si fa partecipazione, il coinvolgimento che rende protagonisti, i gesti simbolici che evocano e celebrano valori. All’educatore spetta creare le condizioni interiori perché si verifichino eventi valoriali: 1’ → ottimismo di base che è fiducia in sé e negli altri; il gusto per i valori altruistici che fa scoprire il sapore della gratuità e solidarietà; il senso dell’ → amicizia che fa superare la → solitudine e rafforza i legami sociali. La manifestazione dell’a. nella festa si fa così messaggio della gioia di vivere, non solo nei suoi aspetti più antropologici e culturali, ma non meno nelle sue evidenze etiche e religiose. Bibl.: Baggio D. A., Paz, optimismo, alegría, Petrópolis, Vozes, 1988; De Monticelli R., L’a. della mente, Milano, B. Mondadori, 2004; Sagramola O., Educazione e pedagogia in Giovanni Bosco, Viterbo, Sette Città, 2005.

G. B. Bosco

ALLIEVO → Studente ALLIEVO Giuseppe → Risorgimento

ALTERITÀ

ALLPORT Gordon Willard n. a Montezuma (Indiana) nel 1897 - m. ad Harvard nel 1967, psicologo statunitense. 1. Frequentando la Harvard University viene in contatto con il pensiero di → James e di → Dewey. Conseguito il dottorato nel 1922 con W. McDougall e H. Langfeld, vuole perfezionarsi in Europa, con → Spranger a Berlino, W. Stern ad Amburgo e F. C. Bartlett a Londra, nella ricerca di un complemento fra la tradizione nordamericana e quella europea. Dal 1924 alla morte, eccetto una parentesi di 4 anni, dal 1926 al 1930 trascorsi al Dortmund College, svolge la sua intensa attività accademica alla Harvard University. Nel 1937 diventa direttore del Department of Psychology e inizia contemporaneamente la pubblicazione del «Journal of Abnormal and Social Psychology», che dirigerà fino al 1949. Nel 1946 fonda il nuovo Department of Social Relations, che coordina e promuove le ricerche nell’ambito dei dinamismi personali e sociali. Nel 1939 è eletto presidente dell’American Psychological Association, e nel 1944 della Society for the Psychological Study of Social Issues. Insignito con due lauree honoris causa, è stato membro delle principali società nazionali di psicologia scientifica. 2. La prima sintesi del suo approccio alla psicologia si trova nel volume del 1937 Personality: a psychological interpretation. Si tratta di uno dei primissimi manuali che riguardano la personalità normale, che, fin d’allora, esprime i principali tratti della sua psicologia: la preoccupazione per ciò che è tipicamente umano, sano, e caratterizza il singolo individuo, reagendo ad una psicologia attenta principalmente agli aspetti istintivi o patologici, o comuni agli animali, o protesa più a definire leggi universali che a comprendere la persona. In conformità con queste scelte, A. ha dovuto affrontare problemi epistemologici (come sia possibile una scienza dell’individuo) e metodologici: in un clima dove la scienza era equiparata alla quantificazione. A. ha scelto un metodo eclettico, che gli permette di raggiungere con sufficiente oggettività componenti umanamente importanti eppure sfuggenti al controllo quantitativo, come le intenzioni, i sentimenti, i valori e le

decisioni a lunga portata, il senso di identità e di responsabilità. 3. Nel quadro di questa opzione «umanistica» si comprendono le sue pubblicazioni: dodici volumi di trattazioni varie, due monografie, due test, circa 150 articoli e numerose recensioni. I principali temi trattati riguardano la religione, il pregiudizio e la personalità. Nella sua opera maggiore sulla personalità (trad. it. 1977), che riprende e rielabora completamente la pubblicazione del 1937, A. ha raccolto il frutto maturo della sua riflessione e della sua ricerca: si ritrovano riconciliate le antinomie dell’unicità della persona e della sua socialità, del peso dell’inconscio e della ricerca di valori, della molteplicità di tratti ed abiti e dell’integrazione in un’intenzione centrale, della religiosità strumentalizzata nel pregiudizio o ricercata e vissuta come valore intrinseco. L’opera stessa si raccomanda come un accostamento sereno e imparziale ai problemi più urgenti per la comprensione della personalità. A. ha esercitato un notevole influsso sugli studiosi suoi contemporanei (Murphy, Maslow, Bertocci, Nuttin, Frankl), e continua ed esercitarlo attraverso gli sviluppi della corrente umanista. Bibl.: principali opere di A. tradotte in it.: Divenire. Fondamenti di una psicologia della personalità, Firenze, Editrice Universitaria, 1963; L’individuo e la sua religione. Interpretazione psicologica. Introduzione e traduzione a cura di N. Galli, Brescia, La Scuola, 1972; La natura del pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia, 1973; Psicologia della personalità. Introduzione e bibliografia delle opere di A. a cura di A. Ronco, Roma, LAS, 1977.

A. Ronco

ALTERITÀ Il tema dell’altro è diventato centrale nel dibattito culturale contemporaneo. In passato la → differenza è stata vista per lo più come una minaccia per la propria → identità. In generale si è concordi nel vedere il pensiero europeo come un pensiero dell’identità dove l’altro, il diverso, rimane estraneo, viene rimosso e occultato. 53

ALTERITÀ

1. La tradizione occidentale. L’Occidente non avrebbe elaborato una vera cultura della differenza, come oggi denunciano le stesse donne occidentali in nome di quella cultura al femminile che trova nella «differenza di genere» il suo principio epistemologico ed ermeneutico. Tra i pensatori che criticano la tradizione occidentale per l’oblio dell’a. si segnalano → Buber, Dussel, De Certeau, Irigaray, Vattimo, Derrida, Foucault, Todorov, ecc. Ma fra tutti spicca il nome di Lévinas, il filosofo dell’a. Ripartire dal volto dell’altro, in campo filosofico così come in campo educativo, significa essenzialmente impegnarsi a creare le condizioni per il passaggio dall’umanesimo del soggetto (cioè dell’io) all’umanesimo dell’altro uomo (cioè del tu e dell’egli); dalla logica dell’identità alla cultura della differenza; dall’etica dell’individuo all’etica del volto e della responsabilità. Proprio con quest’ultima espressione, «etica del volto», si è soliti indicare uno dei punti centrali del pensiero di E. Lévinas (1905-1995), filosofo ebreo che ha elaborato una concezione dell’uomo a partire dall’altro, dal tu, dal volto. Per il suo venire «da fuori» il volto dell’altro si presenta sempre anche come una minaccia che provoca in noi la perdita di controllo, di signoria, di dominio su noi stessi. L’altro, per quanto sia nostro «prossimo» conserverà sempre la sua radicale eterogeneità, la sua assoluta differenza, la sua irriducibile a. L’altro sarà sempre, contemporaneamente, il «prossimo» (di qui il carattere di appello) e lo «straniero» (di qui il carattere di mistero). 2. Il rapporto con l’altro nella società multiculturale. Da molti anni la riflessione sull’a. comprende non solo il riferimento alle donne, ai portatori di handicap, agli omosessuali, ma soprattutto la presenza crescente dello «straniero». Strettamente collegato al tema dell’a. è quindi quello del pregiudizio e dello stereotipo fino al razzismo e alla mixofobia (o paura della mescolanza). Educare all’altro significa allora ridefinire il proprio «io», perché prima ancora di essere solidale e oblativo, democratico e partecipativo, sia un «io ospitale» e capace di accoglienza, di ascolto, di reciprocità. Nell’odierna società plurale e interetnica si tratta di scoprire che l’altro è la risorsa più preziosa per accrescere la nostra identità. Chi ci educa, in 54

senso proprio, è la relazione con l’altro. È lui che ci «tira fuori» dall’ego e ci sollecita all’avventura dell’esodo. Se l’altro non ci visitasse con il suo volto, noi non potremmo mai dire «eccomi». E resteremmo nella nostra immanente soggettività. Pieni di noi, indubbiamente, ma senza la trascendenza dell’altro. 3. Verso l’ethos della reciprocità. La riflessione sui temi dell’a., della differenza, della relazione intersoggettiva e interculturale sta portando verso la centralità della categoria della reciprocità, della convivenza e della coesione sociale. P. Ricoeur giunge a parlare di un «ethos della reciprocità», come paradigma della relazione fondata sul valore della differenza. La reciprocità, sia sul piano antropologico, sia su quello psicologico e pedagogico è ancora tutta da esplorare e da comprendere. La reciprocità è contemporaneamente un essere «con» l’altro, un essere «per» l’altro, un essere «grazie» all’altro. Paul Ricoeur riassume così l’ethos della reciprocità: «Aspirazione ad una vita felice, con e per gli altri, in istituzioni giuste». Come si vede, si tratta di tre poli ben articolati e uniti tra loro: la stima di sé, la cura dell’altro, l’aspirazione a vivere in istituzioni giuste. Il problema dell’identità non è separabile dal problema della differenza. È nella cornice di una antropologia della reciprocità che troviamo, forse, il luogo più autentico per la fondazione (né ego-centrica né allo-centrica) della relazione educativa. Bibl.: K risteva J., Stranieri a se stessi, Milano, Feltrinelli, 1990; De Certeau M., Mai senza l’altro, Comunità di Bose, Qiqajon, 1993; R icoeur P., Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1993; H abermas J., L’inclusione dell’altro, Milano, Feltrinelli, 1998; Cicchese G., I percorsi dell’altro. Antropologia e storia, Roma, Città Nuova, 1999; Vigna C. - S. Z amagni (Edd.), Multiculturalismo e identità, Milano, Vita e Pensiero, 2001; Lévinas E., Dall’altro all’io, Roma, Meltemi, 2002; Currò S., Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida, Lévinas e Marion, Roma, LAS, 2005.

A. Nanni

ALTERNANZA → Educazione permanente → Formazione professionale ALUNNO → Studente

AMBIENTE

AMBIENTE Dal lat. ambiens, participio da ambire (andare intorno, stare intorno, circondare, essere circostante; ma anche desiderare). Da qui il significato di una proiezione dall’interno verso l’esterno. Lato sensu si parla di a. per indicare: a) il complesso delle condizioni esterne a un organismo dove si svolgono la vita vegetale e quella animale, b) l’insieme delle caratterizzazioni biologiche, sociali, culturali di un dato sistema, c) una specifica parte di spazio. Nelle → scienze dell’educazione, si affaccia, stricto sensu, un’idea di a. quale «mondo» (Welt) culturale in cui avvengono i processi e i percorsi della formazione (Bildung) del soggetto. Non privo di assonanze con l’idea di medius locus presente nella cultura latina, il concetto di a. si è tuttavia sviluppato soltanto di recente. Lo si trova, così, all’interno delle scienze umane, in particolare nella sociologia di → Comte, nella psicologia di → Watson, nella pedagogia di → Rousseau, nella psicanalisi di → Freud. Diviene poi riferimento comune per le scienze naturali e più specificamente nella biologia, nell’ecologia e, ormai, anche in genetica o nelle → neuroscienze. Importanza ragguardevole riveste pure nelle scienze politiche, nelle scienze sociali ed economiche, in urbanistica e architettura, nella semiotica dello spazio, nella → prossemica e nella teoria dei sistemi, infine all’interno delle stesse scienze dell’educazione Sicché, alla desueta «mesologia pedagogica» (dimenticato settore della pedagogia, che studia l’a. ponendolo al centro dell’itinerario di crescita) è venuta sostituendosi una più confacente pedagogia degli a. educativi, orientata a sondare le interazioni istituite tra la formazione, l’educazione e l’istruzione dell’uomo con: a) gli a. abitativi (la casa, gli arredi), b) gli a. scolastici (l’aula, l’edificio scolastico, i laboratori), c) gli a. sociali (la città, l’ecosistema, i mondi culturali dell’extrascolastico, il paesaggio accolto come genius loci). Nel dibattito pedagogico contemporaneo e all’interno della medesima attività educativa, la categoria a. sussume una propria centralità, specialmente in relazione alle tematiche della formazione umana, degli spazi educativi, delle variabili ecologiche e psico-sociali, dei beni ambientali e culturali, di ogni teoria pedagogica sugli a. educativi.

1. A. e formazione umana. La formazione dell’uomo, della sua parte più profonda e nascosta e del suo stesso «mondo» culturale può essere compresa e guidata solo se il processo educativo viene confacentemente saldato all’a. familiare scolastico e sociale. Il nesso tra a. e formazione umana accompagna la stessa genesi della crescita fisicobiologica, socio-relazionale, psicosessuale, emotivo-affettiva, cognitivo-intellettiva, etico-valoriale e spirituale del soggetto in ogni età della vita. Si tratta, allora, di operare una ricomposizione fra le teorie innatistiche (nella struttura genetica individuale vi è già scritto il cammino formativo) e le teorie ambientalistiche (dall’a. di appartenenza dipende il futuro del singolo), al fine di recuperare la positività del legame che unisce natura e cultura, evidenziando la reciprocità fra il soggetto e l’a. in cui vive. 2. Antropologia pedagogica e spazio educativo. Al problema della natura umana colta nella sua specificità ontologica, assiologica e teleologica, si affianca quello della cultura umana percepita nelle dimensioni storiche etologiche ed esistenziali. Il «mondo» del soggetto coincide sia con il suo universo personale più intimo sia con l’onnilateralità delle proiezioni verso cui il soggetto in evoluzione viene (o si sente) orientato. Per questo la scelta degli a. in cui avvengono i processi di formazione risulta decisiva. Ecco allora che un’antropologia pedagogicamente strutturata incontrerà nell’idea di «spazio educativo» il luogo e il fattore a cui ascrivere gli eventi formativi nel macro- e nel micro-cosmo sociale: la → ludicità e il → lavoro, l’educazione e l’istruzione permanente, l’autoeducazione e l’eteroeducazione, il corpo e la mente costituiscono ulteriori riferimenti tematici da non trascurare in una pedagogia degli a. educativi. 3. Ecologia ambientale e sociale. La grave e forse irreversibile crisi ecologica in cui versa il pianeta ha obbligato le scienze umane e, al loro interno, le scienze dell’educazione a ripensare i rapporti con quella branca della biologia che studia gli organismi viventi e il loro a. circostante: l’ecologia. Confermatasi ormai come disciplina dotata di uno statuto epistemologico autonomo, insieme alle scienze sociali ha prodotto importanti teorie 55

AMERICA DEL NORD: SISTEMI EDUCATIVI

sull’habitat umano, sui pericoli che la «modernità» (con la scienza a servizio dell’industrializzazione, delle tecnologie nucleari, delle guerre) ha posto in essere, sui rischi per l’intero ecosistema. La sociologia, più in particolare quella urbana, si è invece misurata con i grandi processi demografici, economici e politici presenti nella gestione di quello smisurato «sociosistema» che è la metropoli contemporanea. L’ecologia sociale, poi, occupandosi dei fenomeni di migrazione, ha ricondotto l’analisi dei sistemi naturali e dei sistemi artificiali verso i confini dell’intercultura, dell’interrazzialità, dell’intersoggettività. 4. Beni ambientali, beni culturali, beni mediali. Nel pensare a un sistema formativo polimorfico, flessibile e integrato in una rete unitaria di saperi e di servizi stesa sul territorio, viene accreditandosi l’idea dell’a. pensato a partire dai «beni» che racchiude e, con l’impegno dell’uomo, custodisce. Fra questi spiccano i beni ambientali, ossia la natura incontaminata e il paesaggio che non è stato deturpato dall’azione umana; i beni culturali ovvero quegli a. ricchi di significato pedagogico (tra cui risaltano le biblioteche, i musei, i teatri, gli archivi, ecc.), che abbisognano di tutela e valorizzazione; i beni mediali, quindi tutti gli a. in cui prevalgono i linguaggi massmediatici (cineteche, fonoteche, mediateche). 5. L’a. educativo e la sua pedagogia. L’a. implica oggi la «responsabilità» dell’uomo che lo abita e quella dei sistemi sociali complessi che lo gestiscono. Se a livello individuale si è evoluta non poco la coscienza ecologica dei singoli, sul piano collettivo l’a. rimane ancora una sorta di immensa zona franca di grande contenitore da riempire, di terra di nessuno dove poter inquinare senza essere perseguiti da una legislazione, peraltro incompleta e permissiva. La pedagogia e le scienze dell’educazione hanno il compito di contribuire a chiarire l’importanza formativa dell’a. per un uomo umano. Inoltre, esse possono maturare una consona teoria degli a. educativi che, muovendo dalla nozione di spazio pedagogico, sappia riconsiderare la casa, la scuola e l’extrascuola come i luoghi in cui viene costruendosi la formazione personale e comunitaria. La città può essere 56

allora considerata come la più significativa estrinsecazione del concetto di a., dal cui dimensionarsi pedagogico dipende il conformarsi della «città educante». L’ → educazione ambientale si schiude, così, all’ → educazione sociopolitica oltre che alle politiche dell’a. La questione ambientale pone, quindi, a tema la vita della vita, l’ecologia dello sviluppo umano, il nesso tra umanesimo e urbanesimo, i progetti per l’educazione ambientale. È nel segno distintivo dell’umano che tali prospettazioni vanno affrontate, affinché l’a. sia una costante positiva della formazione. Bibl.: Spranger E., A. e cultura, Roma, Armando, 1959; Flores d’Arcais G., L’a., Brescia, La Scuola, 1962; Lewin K., Il bambino nell’a. sociale, Firenze, La Nuova Italia, 1963; Clausse A., Teoria dello studio di a., Ibid., 1964; Debesse Arviset M. L., A. ecologico e didattica, Brescia, La Scuola, 1977; Norberg Schulz Ch., Genius loci. Paesaggio, a., architettura, Milano, Electa, 1979; Giolitto P., Educazione ecologica, Roma, Armando, 1983; Gennari M., Pedagogia degli a. educativi, Ibid., 1988; Id., Semantica della città e educazione, Venezia, Marsilio, 1995, Id., Filosofia della formazione dell’uomo, Milano, Bompiani, 2001.

M. Gennari

AMERICA DEL NORD: sistemi educativi Pur comprendendo l’A.d.N. sia gli Stati Uniti sia il Canada, l’attenzione sarà focalizzata principalmente sul primo Paese a motivo del loro ruolo di superpotenza, mentre il secondo verrà trattato dove aggiunge specificità importanti. 1. L’evoluzione. Negli Stati Uniti può essere suddivisa in tre periodi. Il primo, quello coloniale (1607-1787), è stato influenzato dalla cultura europea, in particolare inglese. Le scuole ebbero inizio nella colonia del Massachusetts, dove era preminente lo studio del latino. Il migliore esempio è la Latin Grammar School (liceo umanistico) di Boston (1635). Il periodo nazionale (1787-1890) vide inizialmente la nascita e lo sviluppo dell’American Academy (accademia americana) che, operante a livello locale o regionale e nella maggior parte dei casi privata, ha ga-

AMERICA DEL NORD: SISTEMI EDUCATIVI

rantito al Paese, ancora scarsamente colonizzato, una istruzione secondaria, offrendo un programma di studi ampio e persino troppo ambizioso. Con la fine della Guerra Civile le accademie sono entrate in crisi perché erano istituzioni rurali, mentre ormai negli Stati Uniti si stava avviando un notevole sviluppo industriale, accompagnato dalla crescita dei centri urbani. La High School (scuola secondaria superiore), che ha sostituito l’accademia, era invece un’istituzione cittadina. Fondata per la prima volta a Boston (1821), in origine aveva come scopo quello di soddisfare i bisogni dei ragazzi che non avrebbero frequentato l’università. Durante il periodo nazionale, l’istruzione superiore (colleges ed università) ha registrato una forte crescita. Tuttavia, per la maggior parte del XIX sec., i colleges si sono limitati a offrire il 1° ciclo di studi. Anche la Costituzione federale ha esercitato un influsso rilevante sull’istruzione. Per es., sancendo la separazione tra Chiesa e Stato, ha contribuito a creare un sistema di istruzione totalmente privato che non riceve finanziamenti pubblici. Nel XX sec. si è assistito in tutti gli Stati Uniti ad una espansione incredibile della scolarizzazione, dovuta tra l’altro alla ricaduta sull’istruzione delle trasformazioni del sistema socio-economico. Inoltre, nel 1954 con una importante sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti (Brown v. Kansas) è stata vietata la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Ciò ha messo fine alla prassi, durata un secolo, di educare i giovani afro-americani in «strutture separate, ma uguali». La prima metà del XX sec. ha visto l’emergere di educatori che hanno lasciato un’impronta indelebile nell’istruzione. Lo sviluppo più controverso e di vasta portata è stato il movimento delle «scuole progressive» di cui → Dewey fu il principale teorico. Diversamente dagli Stati Uniti che hanno puntato sull’assimilazione culturale, il Canada si è caratterizzato per il multiculturalismo, per una struttura a mosaico e la coesistenza non solo delle culture dominanti inglese e francese, ma anche di diversi gruppi etnici. Dal sec. XVII l’obiettivo fondamentale è stato l’adattamento e la collaborazione tra le varie comunità che ha portato al bilinguismo e alla eliminazione delle discriminazioni anche degli altri gruppi. Inoltre, si è registrato il passaggio da colonia dipendente dell’impero britannico

(come gli Stati Uniti) a Paese indipendente però entro il Commonwealth (diversamente dagli Stati Uniti). 2. I sistemi attuali. Durante le ultime due decadi si è realizzata anche negli Stati Uniti e nel Canada la transizione verso la società della conoscenza. Negli Stati Uniti all’inizio degli anni ‘80 una serie di rapporti ha sottoposto ad un esame accurato il sistema di istruzione, denunciando un abbassamento preoccupante della qualità. Nonostante il cammino percorso in positivo, la situazione nella decade 90 presentava diversi aspetti problematici; di conseguenza nel 1994 il governo Clinton ha varato un suo programma nel campo dell’istruzione Non si può negare che gli interventi adottati abbiano esercitato un impatto positivo; tuttavia, essi sono lontani dal pieno conseguimento delle mete proposte. Il programma del presidente Bush mira anch’esso ad elevare l’efficienza e l’efficacia del sistema, puntando in particolare a rafforzare la libertà di scelta tra le scuole mediante l’attribuzione alle famiglie di un buono da spendere per l’educazione dei figli anche in istituti privati. Quanto al Canada va sottolineato il balzo in avanti nella percentuale del gruppo di età 25-34 anni che possiede un titolo post-secondario dal 49% del 1991 al 61% del 2001, anche se nel 2001 ben il 29% della popolazione con 25 anni o più non aveva completato al secondaria superiore (Education in Canada: raising the standard, 2003). Negli Stati Uniti e nel Canada esiste il più ampio decentramento, anche se recentemente nei due Paesi si è assistito a una crescita del ruolo del governo federale. I singoli Stati (o province autonome) sono responsabili dell’istruzione e, a loro volta, delegano questa responsabilità alle comunità locali. Occorre notare che a causa della decentralizzazione delle scuole non c’è uniformità nell’organizzazione scolastica o nel curricolo. Anche le scuole private godono dell’autonomia operativa. Negli Stati Uniti la percentuale dei loro iscritti varia dal 35% della pre-primaria, al 12% della primaria, al 10% della secondaria e nel Canada le cifre sono rispettivamente il 5%, il 4% e il 6% (Rapporto mondiale sull’educazione 2000). Per quanto riguarda la struttura del sistema degli Stati Uniti, la sequenza elementaremedia-superiore (elementary-middle school57

AMERICA LATINA: SISTEMI FORMATIVI

high school) è di dodici anni. In Canada l’organizzazione tradizionale prevedeva 8 anni per la primaria e 4 per la secondaria. In quasi tutte le province è stata però introdotta la scuola intermedia che comprende le classi 7-9. Flessibilità dei piani di studio mediante discipline opzionali, promozione per materia, valutazione continua sono elementi comuni. In entrambi i Paesi sono diffusi i junior o community colleges (istituti post-secondari o di istruzione superiore) di due anni che offrono una formazione professionale con un’apertura alle materie umanistiche. Dopo i due anni molti studenti si trasferiscono all’università. L’ammissione all’università varia: alcune istituzioni richiedono solo un diploma di secondaria superiore; altre esigono anche un punteggio soddisfacente in un test di profitto amministrato su base nazionale. Complessivamente la percentuale delle iscrizioni all’istruzione terziaria raggiunge l’80.9% negli Stati Uniti e l’87,3% nel Canada (Ibid.). Bibl.: Cremin L. A., American education, New York, Harper & Row, 1980; Cupparoni A., «Canada», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 423-428; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, Roma, Unesco/Armando, 2000; Education in Canada: Raising the standard, Ottawa, Ministry of Industry, 2003; Malizia G., «Stati Uniti», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica. Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, 28-31; A bernathy S., No child left behind and the public school, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2007; Sherman J. D. - J. M. Poirier, Education equity and public policy, Montreal, UIS, 2007.

M. Ribotta - G. Malizia

AMERICA LATINA: sistemi formativi La diffusione universale del → sistema formativo è stata ritenuta un assioma e la scolarizzazione della gioventù una meta indeclinabile, cosa che porta ad assumere il sistema formativo come una variabile indipendente. La sua genesi ed il suo consolidamento riconducono alla Rivoluzione industriale, convergenza di cambiamenti radicali nella dimensione produttiva (macchina a vapore), 58

in quella politica (Rivoluzione francese) e scientifica (scienza empirica) che portano ad un modello di società urbano-industriale, la cui complessità fa nascere l’esigenza di un sistema formativo. L’educazione scolastica da privilegio diventa diritto universale che deve preparare e condurre gli individui alla partecipazione sociale (democrazia). L’iter del cambio sociale in Occidente e le sue tappe di modernità e post-modernità non sono universali. 1. La storia dell’A.L. ha comportato un cammino di 500 anni non solo di sviluppo della → cultura, ma anche di acculturazione imposta dall’alto e dall’esterno, a cui la → Chiesa ha contribuito in positivo e in negativo creando un’immensa rete di scuole per la popolazione indigena, università e seminari per le classi dirigenti della colonia. L’indipendenza dell’A.L. nelle due prime decadi del sec. XIX (quella dei Caraibi inglesi è del 1960 ca.) fa sì che i nuovi poteri politici contestino alla Chiesa il monopolio educativo; questo di fatto perdurerà fino all’arrivo con ritardo della Rivoluzione industriale in A.L. a metà del sec. XX, quando comincia veramente la trasformazione rurale-urbana che impone l’espansione del capitalismo industriale dell’immediato dopoguerra. Come risposta positiva all’effervescenza sociale in A.L. ma anche per scongiurare il pericolo di rivoluzioni come quella di Cuba, nel 1961 è stata stretta l’Alleanza per il Progresso tra USA e A.L., che entrò nel modello di sviluppo occidentale con propri fini di trasformazione socio-economica. 2. L’educazione per lo → sviluppo si tradusse nell’espansione, nel consolidamento e nella modernizzazione del fino allora incipiente sistema formativo, processo che si può collocare negli ultimi cinquanta anni. Esistono dei parametri che bisogna assumere come riferimento per analizzare i sistemi scolastici in A.L. Nel 1950 il 60% della popolazione era rurale; questo dato e il tasso di analfabetismo globale del 50% (quello rurale era del 64% ) denota antecedenti di scolarizzazione molto scarsa e forte discriminazione territoriale. In seguito avvengono grossi cambiamenti: nel 1950/75 la popolazione ha registrato la maggiore crescita del mondo, raddoppiandosi, e la percentuale urbana è passata al 60% ed è

AMERICA LATINA:SISTEMI FORMATIVI

arrivata intorno ai tre quarti nel 2000. Gli indici decrescenti di analfabetismo rivelano grandi sforzi per sviluppare la scolarità di base soprattutto nelle zone rurali: nel 1970 il tasso di analfabetismo è del 28%; nel 1980 del 20%; nel 1990 del 15% e nel 2000 del 12% (Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000). L’espansione scolastica in questo periodo si accompagna ad una percentuale molto elevata di abbandoni nei primi anni di scolarizzazione, sistemi e curricoli inadeguati per la popolazione alla quale sono destinati, organizzazione e amministrazione carenti, condizione sfavorevole nelle zone rurali e suburbane. Per questo l’intera regione assunse allora il Proyecto Principal de Educación (PPE), che aveva tra i suoi obiettivi quello di offrire una educazione generale minima dagli otto ai dieci anni e proporsi come scopo quello di incorporare nel sistema formativo tutti i ragazzi in età scolastica prima del 1999 e di adottare una politica utile ad eliminare l’analfabetismo prima della fine del secolo oltre che dedicare investimenti gradualmente maggiori alla educazione. Il PPE diviene il principale catalizzatore dell’educazione a partire dal 1980. Gli investimenti reali, tuttavia, sono molto lontani dalle mete e troppo inferiori a quanto si investe in educazione nel mondo sviluppato. 3. Dal 1960 in poi i dati della scolarizzazione in tutti i livelli del sistema formativo mostrano la grande trasformazione educativa della regione nelle ultime decadi. I dati evidenziano un livello prescolastico ancora insoddisfacente con un tasso di scolarizzazione che va dal 33% della Colombia al 98% del Cile con la maggioranza dei Paesi che si collocano intorno al 50% (Ibid.). Nella scuola primaria è chiara la tendenza alla copertura totale della domanda potenziale; l’educazione secondaria cresce più di sette volte rivelando dinamiche di scolarizzazione di massa. L’istruzione superiore presenta la maggior crescita relativa del sistema formativo, quindici volte, cosicché il tasso raggiunge la quinta parte della domanda potenziale; rimane tuttavia il carattere elitario della educazione superiore. 4. Le disparità evidenziate dai dati globali diventano enormi per effetto di fattori strutturali, come le notevoli discontinuità ruraliurbane nella maggior parte dei Paesi; le mol-

teplici etnie indigene con lingue proprie e maggioritarie in varie nazioni; i ritmi diversi di modernizzazione in senso urbano-industriale; il fatto che, fino al PPE, l’espansione del sistema formativo raramente è stato il risultato di previsioni e azioni politiche; inoltre, il controllo esercitato dai sottosistemi privati sulla crescita dei livelli secondario e superiore, ha prodotto la segmentazione dei sistemi educativi in favore delle classi medio-alte a discapito della promozione dei gruppi popolari maggioritari, cosa che spiega la maggiore crescita nei livelli citati del controllo per l’accesso. Così il sistema formativo presenta tratti di «macrocefalia» ed è assoggettato agli interessi privati con tutti i loro poteri. I gruppi rurali e suburbani non sono rimasti emarginati, ma piuttosto confinati, e le culture indigene sono state soppiantate dall’imposizione di lingue che esprimono la cultura occidentale (urbano-industriale) dominante. In questo quadro rientrano indici elevati di mortalità scolastica, ripetenze, impossibilità di promozione universitaria, emarginazione culturale. 5. L’espansione del sistema formativo e la meta del PPE di generalizzare nove anni di educazione di base si è raggiunta in buona parte per il 1999, ma non è stato lo stesso per gli obiettivi di promozione sociale: l’immagine dell’educazione come canale di mobilità sociale sta piuttosto producendo frustrazioni. Inoltre l’aumento costante della distanza tra ricchi e poveri, oltre al permanere della condizione di sottosviluppo in A.L., dimostrano che il sistema formativo è la variabile meno indipendente, una delle più condizionate dal sottosviluppo. Tra l’altro, gli obiettivi del sistema formativo in A.L. appaiono sempre più superati dalla produzione di conoscenze nel mondo, tanto che esse appaiono irraggiungibili. Questo insieme di successi e frustrazioni esige delle analisi reali e profonde in vista del dilemma che bisogna porsi: Occidentalizzazione del mondo, o educazione per A.L. e Caraibi? Bibl.: Unesco, Reflexiones y sugerencias relativas al Proyecto principal de educación en A.L. y el Caribe, 1981/ Promedlac/3; Unesco -Cepal, Evolución cuantitativa de los sistemas educativos de A.L. y el Caribe-Análisis estadístico, 1987/ Minedlac/2; Unesco -Oreal, Situación educati-

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AMICIZIA

va en A.L. y el Caribe 1980-1990, Santiago, 1992; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, Roma, Unesco/Armando, 2000; Oferta e procura de professores na A.L. e no Caribe: garantindo uma educação de qualidade para todos; UIS perfil regional, Brasilia, Unesco, 2006; Panorama regional: A.L. y Caribe, Paris, Unesco, 2006; Blanco R. et al., Educação de qualidade para todos: um assunto de direitos humanos, Brasilia, Unesco, 2007.

J. Rodríguez - G.Malizia

AMICIZIA Relazione interpersonale affettiva, nata da una scelta generalmente basata sulla gratuità leale, sulla reciprocità costante, sulla comunicazione umana, sulla simpatia istintiva, sulla comunanza di interessi, di ansie e di ideali. 1. Il profilo genetico dell’a. Con alcuni studiosi di antropologia filosofica e di psicologia sociale (→ Buber, Lévinas, Gevaert, → Nuttin) si può giustamente affermare che «in principio è la relazione», perché la verità dell’uomo non è nel suo essere soggetto, in sé considerato, ma nel suo essere in correlazione strutturale con altri soggetti. L’identità non è nel soggetto – afferma Heidegger – ma nella relazione. Un individuo è ciò che viene fuori dal suo sistema di relazioni umane. Entrare in armonia con «l’altro», allora, sembra soprattutto il compito dell’a., che si presenta come completamento di esperienze relazionali. L’a. è una forma di → amore con caratteristiche del tutto particolari, perché è svincolata da obblighi normativi e dipende solo dalla lealtà reciproca, dalla gratuità dell’incontro, dal rispetto della individualità di ciascuno, dalla consuetudine del rapporto, dalla generosità nelle difficoltà, dalla condivisione delle gioie, dagli interessi comuni, dal lavoro armonizzato per uno scopo comune. L’a. è caratterizzata dal sentimento della parità: gli amici, infatti, non si inquadrano in una gerarchia, si sentono tutti uguali e se talvolta nascono conflitti o competizioni, questi sono superati dalla profonda lealtà e dalla disinteressata gratuità che dà vita al rapporto. Nella relazione amicale entra in gioco un’altra importante caratteristica: la similarità, il processo cioè che trasferisce il bisogno di iden60

tità verso l’identificazione, grazie alla quale ogni amico tende ad assumere valori e comportamenti simili o identici a quelli dell’altro. In questo contesto l’a. ci libera dalla solitudine, consolida vincoli affettivi di gruppo, è un conforto, un sentimento di sicurezza, un calore umano che non ha bisogno di parole per esprimersi, perché comunica anche solo con la semplice presenza. 2. Aspetti evolutivi dell’a. Ogni periodo della vita si esprime nell’a. secondo modalità diverse. Sotto l’aspetto evolutivo si possono individuare tre tappe di questo processo: a) l’a. sensibile-affettiva, che si sviluppa nel periodo prepuberale e puberale ed è prevalentemente motivata da aspetti di carattere emozionale e sensibile. È un tipo di a. che nasce per lo più tra soggetti dello stesso sesso e presenta a volte alcuni tratti dell’amore eterosessuale. Questo tipo di a. deve considerarsi come una tappa biologicamente obbligatoria e rappresenta la prima incerta trasformazione dell’affettività della fanciullezza, di natura egocentrica, nell’affettività matura, di natura allocentrica; b) l’a. captativo-egocentrica, che è tipica dell’ → adolescenza ed è contraddistinta da aspetti narcisistici, simbiotici e consumativi. Essa è dominata dal bisogno e dal sentimento di essere «l’uno con l’altro», per cui gli amici si vogliono bene perché ognuno vede nell’altro un mezzo per la propria affermazione. Nell’adolescenza l’a. rappresenta una forma elevata di comunicazione emotiva e di condivisione di esperienze. Si tratta di una naturale inclinazione a convivere con l’amico e a vedere in questo fatto uno strumento di personale compiacenza, più che un mezzo di reciproco perfezionamento, essendo l’adolescente prevalentemente centrato più su di sé che nell’altro; c) l’a. operativo-oblativa, che rappresenta la pienezza matura di questa relazione interpersonale. Essa è contraddistinta dal bisogno di essere «l’uno per l’altro», ossia dalla coscienza del fatto che la vita degli altri impone alla propria una certa responsabilità; presuppone un amore fondato sulla gratuità, che è un atteggiamento non motivato da altra ragione che non sia la «libertà del donare e del ricevere», per cui si vuole bene all’altro per quello che è e non tanto per quello che serve. Un’a. siffatta stimola gli amici ad un fattivo interscambio di esperienze persona-

AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA

li, ad una concreta manifestazione di stima e simpatia, ad un’effettiva condivisione delle difficoltà e delle gioie, ad una comunicazione personale che si fa progressiva donazione nella sincerità e nella lealtà, proiettandoli nel domani in una comunione di intenti, di impegni, di aspirazioni e di speranze. 3. Educare all’a. Da queste rapide annotazioni sull’a. emerge una logica conseguenza: chi ha responsabilità educative deve avviare all’a., favorendola, orientandola, proteggendola. Sembrano perciò opportune due annotazioni a questo proposito: siccome i legami affettivi di natura amicale non possono ovviamente essere imposti, l’educatore deve innanzitutto vivere e testimoniare in prima persona l’esperienza dell’a. con quel calore umano e quella lealtà che sono già di per sé un fatto educativo; in secondo luogo deve saper creare luoghi di incontro e di aggregazione, in cui soprattutto i ragazzi e le ragazze possono «conoscersi», «capirsi», «stimarsi», «impegnarsi», «esprimersi», «giocarsi» in definitiva in un tipo di a. che sia feconda e costruttiva per la crescita della loro persona. Bibl.: Bucciarelli C., I ragazzi, le ragazze, la coeducazione, Roma, AVE, 1973; Padiglione V., L’a.: storia antologica di un bisogno estraniato, Roma, Savelli, 1978; R iva A., A., Milano, Ancora, 1985; Bucciarelli C., Adulti-adolescenti: comunicazione cercasi, Roma, AVE, 1993; Pizzo lato L., L’idea di a., Torino, Einaudi Paperbacks, 1993; Galli N., L’a. dono per tutte le età, Milano, Vita e Pensiero, 2004.

C. Bucciarelli

AMMAESTRAMENTO → Addestramento

AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA La definizione non è facile anzitutto perché negli Stati Uniti e nel Canada a.s. indica la gestione del → sistema formativo sia a livello di Stato o di distretto sia a quello di singola scuola, mentre in Europa ci si limita al primo senso: qui si seguirà l’uso del nostro continente. Inoltre, vi è incertezza sul piano teorico se l’a.s. sia una disciplina separata o abbia natura pluridisciplinare: in questa voce si adotta la prima ipotesi, perché non sembra che si possa

negare che l’a.s. abbia metodo e oggetto propri. Pertanto, l’a.s. si può definire come quella disciplina delle → scienze dell’educazione che studia la gestione dei sistemi formativi a livello macro (Federazione, Stato, Regione, Provincia, Distretto) allo scopo di conoscerla meglio e di renderla più efficace. Per il livello micro (singola scuola) → organizzazione scolastica: data la difficoltà di tracciare un confine netto tra le due voci, si consiglia di leggerle insieme. L’a.s. è anche quel settore dell’a. pubblica, comprensivo di organi, persone e strutture, che si occupa del funzionamento delle scuole come servizio pubblico. 1. Approcci allo studio dell’a.s. Per quello giuridico → legislazione scolastica. L’approccio delle → scienze sociali ha esercitato un forte influsso sull’evoluzione dell’a.s. per tutto il sec. XX, soprattutto tra la metà degli anni ’50 e ’70. Lo scopo era di potenziare l’insegnamento universitario e la ricerca, facendoli uscire da uno stile prevalentemente esortatorio e impressionistico; d’altra parte, gli amministratori operavano in organizzazioni, comunità, gruppi, in situazioni cioè studiate proprio dalle scienze sociali. In particolare sono le teorie organizzative a influire sull’a.s. Così le posizioni tayloristiche risultano visibili nell’enfasi sull’efficienza, i risultati, la competenza, la responsabilità soprattutto nei Paesi anglosassoni; la concezione weberiana della burocrazia nella costruzione dei sistemi formativi centralizzati delle nazioni in via di sviluppo; la teoria delle relazioni umane nella domanda diffusa di democrazia e di una leadership partecipativa; le impostazioni sistemiche nell’affermarsi dell’autonomia e della pedagogia del progetto. Agli inizi degli anni ’70 il panorama delle scienze sociali è percorso da forti dinamiche orientate al cambiamento. Anzitutto è la società ad essere scossa da un intenso attivismo politico che trova la sua espressione paradigmatica nella → contestazione giovanile. Inoltre, viene denunciato da più parti il positivismo delle scienze sociali, cioè la pretesa che gli unici criteri di verità siano la verifica empirica e la logica analitica, che la metodologia delle scienze naturali debba essere trasferita senza adattamenti alle scienze sociali, che l’obiettivo di queste ultime consista nella elaborazione di leggi, che la ricerca debba essere neutrale sul piano dei valori. Emergo61

AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA

no nuove prospettive tra cui va ricordato il soggettivismo che rifiuta ogni scientismo per affermare la necessità di tener conto nell’a.s. anche dei valori e dei sentimenti. Pertanto, il campo degli studi va esteso dagli aspetti descrittivi a quelli normativi e la ricerca empirica non può limitarsi al quantitativo, ma deve affrontare temi come la volontà, le intenzioni, il linguaggio, ciò che è giusto o sbagliato nell’a.s.: di conseguenza la metodologia si orienta verso gli studi etnografici e qualitativi. Le carenze maggiori di tale prospettiva riguardano la concezione superata di scienze sociali che prende in considerazione, ed il relativismo in cui rischia di cadere per la mancanza di criteri oggettivi di valutazione. Le teorie critiche, che si ispirano alla → scuola di Francoforte, focalizzano l’analisi sulla falsa coscienza che viene creata nella massa della gente da sottili meccanismi sociali, istituzionalizzati nel mondo del lavoro, nell’educazione, nei mass media, nel tempo libero, in funzione degli interessi della classe dominante. Sul piano dell’a.s. si parte dalla constatazione della funzione riproduttiva della scuola e del diverso trattamento prestato agli studenti secondo la classe sociale, per affermare che gli amministratori scolastici sarebbero al servizio dei ceti dirigenti e, pertanto, non si impegnerebbero per realizzare una maggiore eguaglianza delle opportunità nell’istruzione. Le teorie critiche riflettono tutti i limiti delle posizioni marxiste (→ marxismo pedagogico): nell’ambito dell’a.s. hanno espresso più critiche che proposte, appaiono estranee alla realtà scolastica e le loro ipotesi sulla funzione riproduttiva della scuola sono messe in discussione dai risultati della ricerca empirica. Altri approcci da ricordare sono: il «postmodernismo» o «poststrutturalismo» che, a motivo del suo orientamento antintellettuale e antistituzionale, si rivela particolarmente critico nei confronti della scienza e della maggior parte delle forme di organizzazione e di a.; l’area degli studiosi impegnati nella promozione dei gruppi svantaggiati a causa del sesso, della razza o della nazionalità, che evidenziano la situazione di sottorappresentazione e di diseguaglianza di tali gruppi nell’a.s.; le interpretazioni che rifiutano lo scientismo e il positivismo, ma accettano la scienza e una molteplicità di metodi e che si ispirano al pragmatismo, alla fenomenologia ed al realismo. Gli anni 62

’90 e 2000 offrono un quadro di riferimento sociale molto diverso: il crollo del socialismo reale, l’avvento di regimi moderati o conservatori, la sostituzione delle antiche controversie ideologiche con nuove problematiche, come l’inquinamento ambientale, il rapporto nord/sud, il nazionalismo, l’intolleranza, il terrorismo, la globalizzazione. Anche nelle scienze sociali, mentre perdono quota le impostazioni radicali, prevalgono tendenze sia alla conciliazione tra analisi strutturale e culturale e fra prospettive macro e micro, sia a un empirismo pratico che fa comunque uso del metodo scientifico qualunque sia l’approccio teorico seguito. Anche nell’a.s. si affermano prospettive meno polemiche, più flessibili e anche più sofisticate; una coscienza più acuta della complessità dell’oggetto porta sia all’accettazione di una pluralità di approcci e di metodologie, sia ad un aumento della diversificazione, della frammentazione e della specializzazione. Si placa lo scontro tra sostenitori della ricerca quantitativa e qualitativa, benché sia quest’ultima a ricevere un forte impulso. I valori assurgono al centro della scena soprattutto nel contesto dei processi decisionali e della definizione di soluzioni alternative. L’a.s. è riconosciuta come uno strumento indispensabile per il raggiungimento di obiettivi organizzativi e sociali. 2. Problemi e prospettive sul piano dei contenuti. L’azione degli amministratori si scontra spesso con ostacoli e limiti esterni particolarmente forti che ne condizionano l’efficacia. Tra essi vanno ricordati i fattori geografici, che possono pesare negativamente sulla costruzione delle scuole o sul calendario, quelli demografici, che incidono sulla lingua di insegnamento o sulla moltiplicazione dei turni, quelli storici quali il freno rappresentato dall’eredità coloniale o quelli economici come la povertà, che può bloccare lo sviluppo del sistema formativo. Alcuni di questi ostacoli si sono trasformati in problemi gravi in molti Paesi: in vari casi si tratta delle ristrettezze delle risorse, dell’inflazione, del pagamento dei debiti, della esplosione della popolazione, della modesta preparazione dei docenti; altri riguardano la domanda di maggiore efficienza o la ricerca di fonti alternative di finanziamento. Di fronte a queste difficoltà le capacità di risposta dell’a.s.

AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA

risultano inadeguate. Di qui l’impegno di molti Paesi a migliorare la preparazione degli amministratori, a potenziare l’efficienza dell’a.s., ad accrescere la responsabilità del personale, a rafforzare la democrazia locale, ad ampliare il ruolo della → scuola libera, ad introdurre elementi di mercato. Un argomento tradizionale di dibattito è quello dei meriti reciproci della centralizzazione e del decentramento dell’a.s. La prima significa che obiettivi, contenuti e strategie sono fissati da una struttura centrale, normalmente un ministero, che dirige le strutture periferiche attraverso norme ed orientamenti circa le modalità più efficaci per l’implementazione. Il decentramento implica lo spostamento del potere a livello locale, che può assumere forme diverse: dal semplice riconoscimento di un certo spazio per la pianificazione, le decisioni e il controllo, alla delega di determinate responsabilità, fino all’attribuzione di poteri legali anche di imporre tasse. A sostegno del centralismo si citano ragioni quali la realizzazione di una maggiore eguaglianza a favore delle zone e dei gruppi svantaggiati, il contributo all’unità nazionale e alla coesione sociale, la riduzione di duplicazioni o sovrapposizioni, la rapidità nell’introduzione di una → innovazione; al tempo stesso, però, esso può trascurare i bisogni della periferia, manca di flessibilità e, pertanto, non tenendo conto delle diversità locali, non assicura di per sé una maggiore efficienza. L’altra ipotesi viene affermata perché favorisce la partecipazione dal basso, la rispondenza alla domanda sociale, la costruzione di una scuola della comunità, l’ → autonomia scolastica, l’innovazione, l’efficacia. Va, però, detto che questi effetti non sono automatici, ma richiedono a monte una cultura organizzativa corrispondente ed un corretto rapporto con il centro; inoltre, non vanno dimenticati i rischi connessi con il particolarismo dei gruppi di interesse e con la corruzione locale. Pertanto, la maggior parte dei Paesi cerca di trovare un equilibrio tra un forte potere locale d’iniziativa e la propulsione, il coordinamento ed il controllo centrale. Da una parte bisogna procedere a un ampio decentramento dei sistemi formativi che si fondi sul trasferimento di responsabilità alle istanze regionali e locali, sull’autonomia degli istituti e sulla partecipazione effettiva degli attori locali; il principio fondamentale è che la decisione è

locale, mentre l’impulso, il coordinamento, il controllo e la determinazione degli standard nazionali sono centralizzati. D’altra parte, è anche necessario che l’autorità politica si assuma tutta la responsabilità che le compete. 3. L’a.s. italiana. Risale alla L. Casati n. 3725/1859 ed è caratterizzata dal centralismo delle origini. Fino alla prima guerra mondiale l’organizzazione dell’a. centrale tende a oscillare tra burocrazia e collegialità. Un altro passaggio importante dell’evoluzione è rappresentato dalla riforma → Gentile del 1923 che globalmente porta ad una espansione del ministero. L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana (1948) ha segnato un vero rovesciamento di fronte: da una parte si è affermata la validità del principio delle autonomie e dall’altra il sistema scolastico viene impostato sulle grandi opzioni della libertà, del pluralismo e della convergenza delle iniziative. Nonostante ciò, nei primi anni ’60 il Ministero si è ulteriormente dilatato in una macrostruttura anche se nelle decadi ’70 e ’80 si sono avute alcune riduzioni per effetto della istituzione del Ministero dei Beni Culturali (1975) e dell’Università (1989); inoltre, la L. n. 477/73 sugli organi collegiali ha compiuto un primo passo verso l’autonomia di gestione che, però, è rimasta molto limitata. Negli anni successivi è emerso con sempre maggiore chiarezza che il sistema di governo della scuola esigeva un rinnovamento profondo. Questo è avvenuto soprattutto con la riforma del Titolo V della nostra Costituzione (L. n. 3/01): in base alla nuova normativa, lo Stato ha competenza esclusiva per quanto riguarda le norme generali sull’istruzione e i livelli essenziali delle prestazioni; lo Stato e le Regioni hanno competenza concorrente sull’istruzione, fatta salva l’autonomia delle scuole; a loro volta le Regioni hanno competenza esclusiva sull’istruzione e sulla formazione professionale. In altre parole la volontà del Costituente è che Stato e Regioni, da una parte, e Regioni ed Enti territoriali con le istituzioni scolastiche, dall’altra, cooperino insieme e, che, pur nel rispetto dei poteri propri di ciascuno, predispongano una politica formativa al servizio dei giovani e delle famiglie, rispondente alle esigenze del territorio, senza perdere in unitarietà e coordinamento. Il 63

AMORE EDUCATIVO

passaggio da un modello centralistico e gerarchico a uno poliarchico, che valorizza le autonomie territoriali e scolastiche, comporta un diverso ruolo dello Stato che viene investito di tre compiti: governare in modo unitario il sistema educativo di istruzione e di formazione; verificarne la qualità globale in modo che si raggiungano in tutto il Paese i livelli essenziali di prestazione; ovviare alle disparità esistenti tra le scuole prendendo le opportune misure perequative. Contribuiscono nella medesima direzione anche i compiti programmatori e di coordinamento che sono affidati agli enti territoriali. Rientra in questo quadro anche la ristrutturazione del Ministero della Pubblica I. che in grande sintesi si ispira ai seguenti principi: la pubblica istruzione è chiamata a trasformarsi da a. di gestione autoritativa in a. di governo e di servizio e, pertanto, dovrà rafforzare le proprie competenze tecniche rispetto a quelle gestionali che sono destinate a perdere la rilevanza centrale ad esse assegnata nel passato; inoltre, la tradizionale struttura verticale per ordini e gradi di scuola viene sostituita da una orizzontale per grandi tematiche e che comporta l’abolizione delle articolazioni duplicate e la normalizzazione delle funzioni. Bibl.: Perna V., «A.s.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 530-538; Evers C. W. - G. Lakomski, Knowing educational administration: contemporary methodological controversies in educational administration research, Oxford, Pergamon Press, 1991; Willower D. J., «Administration of education as a field of study», in T. Husen T. N. Postlethwaite (Edd.), The International encyclopedia of education, Oxford, Pergamon Press, 1994, 53-60; Rapporto di base sulla politica scolastica italiana, in «Educazione Comparata» 9 (1998) 30-31, 65-119; Versari S. (Ed.), La scuola della società civile tra stato e mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002; Bertagna G., Istruzione e formazione dopo la modifica del Titolo V della Costituzione, in «Nuova Secondaria» 20 (2003) 9, 102-112; Zajda J. (Ed.), Special issue: The role of the state, in «International Review of Education» 50 (2004) 3-4, 199-418; English F. W. (Ed.), Encyclopedia of educational leadership and administration, Thousand Oaks, Sage, 2006.

G. Malizia

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AMORE EDUCATIVO Non esiste educazione senza a. Non c’è approdo alla compiutezza dell’umano se non promana da ricchezza di a. offerto, rassicurante e orientante a matura libertà, al servizio della vita e dell’a. Nel quadro delle Lebensformen e dei Lebenstypen, immaginati da Eduard Spranger, l’educatore appare come il tipo sociale, altruistico, mosso dalla passione, dall’eros elevato ad a. spirituale per l’uomo e per il suo perfezionamento. Se ne delineano alcune «figure» più rilevanti. 1. L’a. naturale dei genitori per i figli, in particolare delle madri, è spesso esaltato nella poesia e nell’arte ed è fenomeno diffuso in tutte le culture. Ne prende atto anche → Aristotele, attento osservatore dei fatti: «Si ammetterà anche che l’amicizia consiste più nell’amare che nell’essere amati. Se ne trova un esempio nelle madri che ripongono tutta la loro gioia nell’amare» (Et. Nic. VIII 8, 1159 a 13); «i genitori amano i loro figli perché questi sono come qualcosa di loro» (Et. Nic. VIII 12, 1161 b 18); per la maggior prossimità iniziale «le madri amano i loro figli più di quanto facciano i padri» (Et. Nic. VIII 12, 1161 b 26). Nel mondo ebraico ci si domanda a proposito dell’a. fedele di Dio: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno?» (Is 49,15). Esprime analoga persuasione s. Angela Merici alle «Matrone» della sua Compagnia di vergini: «Perché si vede nelle madri carnali, le quali, se havesseno mille figli et figlie, tutti li haveriano nell’animo suo totalmente fissi de uno in uno [...]. Anzi, pare che, quanto più se n’ha, tanto più l’a. et cura cresca a un per uno» (Legati 2°). Tuttavia l’istinto non protegge da fenomeni opposti, attestati dalla storia di tutti i tempi: crudeltà, sevizie, abbandono, esposizione, ius vitae et necis del paterfamilias, infanticidio, abuso sessuale (→ violenza). 2. L’a. dei genitori, in particolare quello materno, viene considerato primario nell’evento educativo dai classici della pedagogia romantica: «Tutta l’antichità esalta l’a. materno più di quello paterno; e dev’essere ben grande, quest’a. materno, poiché un padre amorevole non può immaginare affetto superiore al suo» (→ Richter, Levana fr. IV); «il nostro

AMORE EDUCATIVO

scopo principale è lo sviluppo dell’anima infantile [...] e quale forza più attiva e stimolante dell’a. materno?» (→ Pestalozzi, II lett. a Greaves); «la madre è la naturale maestra che la Provvidenza ha posto al fianco del bambino. Il sangue non dice molto: è solo la bontà che parla al cuore della tenera creatura» (→ Girard, Dell’insegnamento regolare della lingua materna, lib. IV, cap. VI, 1); → Fröbel, L’educazione dell’uomo I 6-22; II 24-33: «quanto è stato finora esposto possa destare nei genitori un sincero e sereno, profondo e intelligente a.». 3. L’a. viene esaltato, per una ristrettissima élite sociale e culturale, nella raffinata riflessione platonica sull’eros-pedagogico. Esso vi è teorizzato come sublimazione dell’a. maschile: «volo di due anime intimamente unite al regno della bellezza eterna», «la fusione di passione vera col puro librarsi della speculazione e con la forza di una liberazione morale». È a. che porta gli amanti alla contemplazione del Bello e del Bene, due aspetti dell’identica realtà, «l’esser bello e buono»; e rende capaci di autentica «politica», recuperando alla ragione anche i «custodi», resi permeabili ad essa mediante un sistema educativo congruo (Jaeger, 1959, 299-337). 4. In una vasta prospettiva che attraversa i secoli, l’a.-carità (agápe) costituisce il proprium della pedagogia cristiana (familiare e istituzionale), quando si ispira all’infanzia vissuta in Gesù o da lui amorevolmente accolta ed esaltata (Mt 18,1-6; Mc 9,33-37; 10,13-16; Lc 9,46-48) e non viene, invece, soverchiato, nella realtà effettiva, dall’austera tradizione romana o dei popoli barbarici. Dell’a.e. evangelico sono testimonianza classici testi di Agostino (De catechizandis rudibus, cap. IV e XII), di s. Anselmo d’Aosta (Vita Eadmeri, I 4, nn. 30-31), di educatori e pedagogisti dall’umanesimo all’età moderna, di fondatori e fondatrici di istituti religiosi consacrati all’educazione della gioventù, → Petites écoles de Port-Royal, → Rollin, → Aporti. S. Agostino mutua dalla letteratura classica come norma del governo della comunità monastica la formula «plus amari quam timeri» (Regula, cap. XI), ripresa da s. Benedetto (Regula, cap. LXIII) e trasferita nello spazio pedagogico da Ratherius, vesco-

vo di Verona (Praeloquiorum, lib. I, tit. XV, n. 30), da Silvio → Antoniano e infine da don Bosco (→ sistema preventivo). 5. Accanto all’a. paterno e materno, proprio della famiglia nei confronti soprattutto dell’infanzia e delle istituzioni di stile «familiare», esiste una contenuta forma di a.e. deputato piuttosto a stabilire un ordine di razionalità e di disciplina. Ne tratta anche → Kant: «È necessario che l’uomo sia abituato per tempo a sottomettersi ai precetti della ragione [...]. Né la esagerata tenerezza materna che lo circonda durante la fanciullezza gli giova» (La pedagogia, introduzione). È il sistema tipico usato nei monasteri, nelle famiglie patriarcali e, soprattutto, nei collegi, in particolare quelli militari dei secoli XVIII e XIX. Esso si pratica nei confronti di un’adolescenza ritenuta età irrequieta e ribelle, da preparare attraverso rude disciplina all’inserimento adulto nella società. In quest’ottica si determina in Francia, soprattutto nei primi decenni dell’’800, il dibattito polemico tra l’educazione pubblica, esigente e virile, e l’educazione privata, amorevole e condiscendente. 6. L’attuale complessità del compito educativo, nella famiglia e fuori, e lo sviluppo delle scienze dell’educazione sottolineano l’esigenza che l’educatore sappia coniugare l’a. con l’intuizione, la competenza, la familiarità con le scienze dell’educazione «Non basta amare per essere buoni educatori» (Pio XII); o meglio, se si ama, si mette tutta l’intelligenza al servizio dell’a., rendendo l’azione educativa più persuasiva ed efficace. Si insiste, in particolare, sulla necessità che l’a. non freni o blocchi, ma promuova la crescita dell’educando alla libertà matura: l’autenticità dell’a.e. sta in definitiva nel saper operare in modo che i giovani protagonisti siano indotti ad amare ciò che l’educatore ama non semplicemente perché l’educatore è amabile, ma è valido e amabile in sé ciò che l’educatore propone; anzi siano abilitati ad andar oltre con un cammino autonomo, originale e responsabile. Ciò può verificarsi in più alta misura quando l’educatore è l’apriori della coppia che li ha generati donandosi e donando a. permanente, aprendoli nell’uterus spiritualis della famiglia alla pienezza della libertà. 65

AMORE: EDUCAZIONE ALL’

Bibl.: Jaeger W., Paideia. La formazione dell’uomo greco, vol. III Alla ricerca del divino, Firenze, La Nuova Italia, 1959, cap. VIII Il Simposio. Eros, 299-337; Spranger E., Der geborene Erzieher, Heidelberg, Quelle und Meyer, 1960, 80-106 (Die pädagogische Liebe); März Fr., Erzieherische Existenz. Zwei Essays über das Sein und die Liebe des Erziehers, München, Kösel, 1963; Histoire des pères et de la paternité, sous la dir. de J. Delumeau et de D. Roche, Paris, Larousse, 1990; Delumeau J. (Ed.), La religion de ma mère. Le rôle des femmes dans la transmission de la foi, Paris, Cerf, 1992; Venturelli F., Il ‘noi’ dei genitori e la relazione con il figlio nella riflessione di Ferdinando Ulrich, in «Rivista di Scienze dell’Educazione» 43 (2005) 301-313; Galli N., Competenza ed a. per lo sviluppo del bambino, in «Pedagogia e Vita» 63 (2005) 162-164; Macario L., A. fonte di vita, Roma, LAS, 2007.

P. Braido

AMORE: educazione all’ Nel linguaggio comune per a. si intende il sentimento o l’attrazione che una persona nutre nei confronti di un’altra, implicante una scelta, per una reciprocità di relazione e di piena e intima unione interpersonale; ma in senso più largo con a. si intende anche qualsiasi sentimento positivo, apprezzamento, attrazione, desiderio per un oggetto, altri esseri, un ideale, una causa per cui ci si dedica e ci si sacrifica e che appaga il proprio desiderio e realizza le aspirazioni personali o di gruppo. 1. Tradizionalmente si distingue nell’a. l’aspetto impulsivo (éros) da quello di → amicizia e benevolenza ( filía), da quello di vicinanza interiore (affetto) e da quello di oblatività gratuita e sovrabbondante (agape), tipico, secondo il cristianesimo, dell’a. di Dio. Nella classicità si indicava con termine apposito (= stergo), l’amore dei genitori verso i figli, la loro amorevole cura verso la prole. Dal punto di vista etico-religioso, dopo s. → Agostino si è preso a distinguere la cupiditas (o amor sui = a. di sé fino al «disprezzo» degli altri e di Dio) dalla caritas (o amor Dei = a. di Dio fino al «disprezzo» di sé per donarsi agli altri ed a Dio). Più di recente si è distinto l’«innamoramento», a. «allo stato 66

nascente», che porta a fonderci con la persona amata, dall’a. vero e proprio, che porta a creare una comunità di vita nella stima e fiducia interpersonale globale e perenne. Il vissuto quotidiano mette in luce la complessità e le difficoltà dell’a.: le infatuazioni estetiche o erotiche, le «cotte», gli amori «platonici», le difficoltà di relazionarsi, le paure di perdersi e di essere abbandonati, la ricerca spasmodica del piacere, l’adorazione divistica; fors’anche in relazione a certe tendenze presenti nella cultura contemporanea che portano ad esaltare un certo soggettivismo, individualismo, materialismo, utilitarismo, presentismo a scapito del senso del noi, dello spirituale, del gratuito e della fedeltà. 2. Anche se l’a. si mostra come una dimensione radicale dell’esistenza umana, chiede una graduale maturazione. In tal senso si impara ad amare anzitutto grazie al calore dell’a. ricevuto dagli altri fin dalla più tenera età e per cui è fondamentale il senso di fiducia «originaria» suscitata dalle relazioni interpersonali materne, parentali, familiari e sociali. Un’educazione all’a. consiste essenzialmente nell’aiutare e stimolare le persone a passare gradualmente da un a. infantile immaturo, autocentrato, possessivo ad un a. più personalizzato, interpersonale, solidale, aperto alla trascendenza, capace di a. verso se stessi (capacità di interiorità), di a. alle cose (capacità di operatività e di realismo), di a. agli/per gli altri (capacità di impegno e di solidarietà, di dedizione e di reciprocità), di a. di «Dio» (capacità di dedizione ad una causa ideale e apertura ad una comunione universale e ad una «religione» personale, individuale e comunitaria). Nei confronti di una mancata od errata educazione all’a. o di eventuali carenze, distorsioni, patologie, si richiedono interventi terapeutici, impegno di autoformazione permanente personale, di coppia, familiare, comunitaria. In particolare l’educazione all’a. si rapporta con l’educazione alla sessualità e alla relazionalità amorosa tra uomo e donna; con l’educazione alla scelta del partner e del coniuge, compagno/a di vita: nella prospettiva del «senza fine» e nella speranza della «pienezza della comunione», che sembrano intrinseche all’a. In tutto ciò è notevole il contributo delle scienze umane, della → psicoanalisi e della terapia, ma anche della critica culturale.

AMOREVOLEZZA

Bibl.: Nygren A., Eros e agàpe, Bologna, Il Mulino, 1960; Fromm E., L’arte d’amare, Milano, Il Saggiatore, 1977; Alberoni F., Innamoramento e a., Milano, Garzanti, 1979; Lewis C. S., I quattro a. Affetto, amicizia, eros, carità, Milano, Jaca Book, 1982; Bauman Z., A. liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Roma/Bari, Laterza, 2006; D’Aquanno M., Una didattica avanzata per una pedagogia dell’a., Milano, Angeli, 2007.

C. Nanni

AMOREVOLEZZA Il termine a. è quasi caduto in disuso nella lingua it.; ma nei secoli XVI-XIX ricorre con frequenza anche come categoria «pedagogica» (nell’educazione, nella catechesi e nella → pastorale). 1. Esso indica una particolare modalità di rapporti tra padri/madri e figli, tra maestri/ educatori-maestre/educatrici e allievi/allieve, tra catechisti e catechizzandi, tra sacerdote/ confessore e fedele/penitente. «A. – scrive il Tommaseo – è il segno dell’amore, della benevolenza, dell’affetto; segno che può essere più o meno evidente e sincero. Amorevole indica gli atti esterni di un sincero amore [...] L’a. innoltre è, più d’ordinario, da superiore a inferiore. Può però anco l’a. essere tra pari, così come l’affetto [...]. La vera a. cristiana vien sempre dal cuore» (Nuovo diz. de’ sinonimi, Napoli, 1905, 102-103). 2. Già nelle Constitutioni et Regole della Compagnia et Scuole della Dottrina Christiana (1585) è stabilito per il maestro: «con charità, a. et mansuetudine gli [gli scolari] riceva», seguendo l’esempio «di Christo, che con tanta charità et a. accettò quello fanciullo, che gli andò avanti». Anche → Aporti parla della necessità di «guadagnarsi prima di tutto l’affezione e la confidenza dei fanciulli», tenendo conto che «si ama chi ci tratta con a.» e che «il mezzo che più concorre a conciliare la benevolenza è la benevolenza» (Scritti pedagogici II, Torino, Chiantore, 1945, p. 85, 440-441). Fratel Théoger delle Scuole cristiane, conosciuto da don → Bosco a Torino (Virtù e doveri di un buon maestro, Torino, Paravia, 1863), sviluppa il tema del maestro che «procura colle sue amabili qua-

lità di conciliarsi l’a. degli scolari» (p. 5). Il barnabita A. Teppa, Avvertimenti per gli educatori ecclesiastici della gioventù (Roma/ Torino, Marietti, 1868), una delle fonti delle pagine di don Bosco sul → sistema preventivo del 1877, parla di «amorevoli parole», di «amorevoli correzioni», «modi amorevoli», di castighi dati «con dignità e insieme con a.» (pp. 40, 49). 3. Don Bosco fa dell’a. uno dei tre pilastri (gli altri sono la → ragione e la → religione) su cui poggia il «sistema preventivo», la cui «pratica è tutta appoggiata sopra le parole di S. Paolo che dice: La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo». L’a. è precisamente «amore dimostrato» con immediatezza, sincerità e riserbo, e può considerarsi sinonimo di dolcezza, mansuetudine, benevolenza, amore-carità paziente e comprensiva. Don Bosco raccomanda l’a. anche ai confessori: «Accogliete con a. ogni sorta di penitenti, ma specialmente i giovani» (Opere edite XIII 181); ma più universalmente a tutti coloro che si occupano dell’età in crescita: genitori, educatori, insegnanti, assistenti, animatori. Egli, però, non si nasconde alcune possibili ambiguità pedagogiche nel praticarla; perciò la vuole vissuta in sintesi con la ragione/ragionevolezza e la virtù teologale della carità. In relazione alle cautele e alle avvertenze di don Bosco, una innovativa pista di ricerca di grande forza suggestiva, con preciso riferimento alla sensibilità odierna nei confronti della sessualità e dell’amore, è percorsa e indicata dal salesiano francese Xavier Thévenot. Bibl.: Perquin N., Don Bosco als opvoeder en psycholoog, in «Dux» 29 (1962) 433-439; Rougier S., L’avenir est de la tendresse. Ces jeunes qui nous provoquent à l’espérance, Paris, Salvator, 1979; Thévenot X., Don Bosco educatore e il sistema preventivo. Un esame condotto a partire dall’antropologia psicoanalitica, in «Orientamenti Pedagogici» 35 (1988) 701-730; Id., «L’affectivité en éducation», in Éducation et pédagogie chez don Bosco, Paris, Fleurus, 1989, 233-254; Braido P., Breve storia del «sistema preventivo», Roma, LAS, 1993; Id., I molti volti dell’a., in «Rivista di Scienze dell’Educazione» 37 (1999) 17-46.

P. Braido

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ANALISI TRANSAZIONALE

ANALFABETISMO → Alfabetizzazione ANALISI DEGLI OBIETTIVI → Obiettivi ANALISI FATTORIALE → Ricerca educativa → Statistica ANALISI ISTITUZIONALE → Pedagogia istituzionale

ANALISI TRANSAZIONALE L’a.t. è una teoria della → personalità e una psicoterapia sistematica ai fini della crescita e del cambiamento della persona (Stewart e Joines, 1990), elaborata dallo psichiatra americano E. Berne verso la fine degli anni ’50. 1. Complessità del modello. L’a.t. oltre che una teoria di personalità, un modello psicoterapeutico per interventi individuali, di gruppo, di coppia e familiare e una specifica teoria della psicopatologia, è anche una teoria della → comunicazione e dello → sviluppo infantile. Come teoria della comunicazione può fornire un metodo di a. dei sistemi e delle organizzazioni. Come teoria dello sviluppo infantile permette di spiegare come schemi di vita attuali abbiano origine, in parte, dall’infanzia e continuino a modificarsi lungo tutto il corso della vita. L’a.t. è ampiamente usata nei contesti educativi per il counseling e nei processi interpersonali per aiutare gli insegnanti e gli studenti a rimanere in chiara comunicazione. 2. Concetti chiave dell’a.t. Sono fondamentali nell’a.t. i concetti di stati dell’Io. Uno stato dell’Io è un insieme di comportamenti, pensieri ed emozioni tra loro collegati così da formare un’unità osservabile. Ci sono tre stati dell’Io secondo l’a.t.: lo stato dell’Io Adulto, lo stato dell’Io Genitore e lo stato dell’Io Bambino. L’Adulto è un insieme di modi di agire, pensare e sentire in relazione alla realtà che si svolge nel qui ed ora; il Genitore è un insieme di comportamenti, di pensieri e di emozioni che spesso sono una copia dei modi di porsi dei genitori, o altre persone che sono state figure genitoriali; il Bambino riflette modi di comportamento, di pensiero e di emozioni caratteristici di quando si era bambini. Quando le persone comunicano possono presentarsi a partire da qualsiasi dei tre stati dell’Io; l’a. delle sequenze di 68

transazioni tra gli stati dell’Io delle persone costituisce l’a.t. in senso stretto. Nell’a. delle transazioni sono importanti le carezze, cioè qualsiasi atto di riconoscimento dell’altro o da parte dell’altro, e la strutturazione del tempo, cioè i diversi modi di impiegare il tempo nelle transazioni in gruppi o in coppie. Nell’infanzia ogni persona scrive una storia di vita per se stessa che l’a.t. chiama copione. Nella vita adulta molti aspetti del copione vengono seguiti fedelmente senza che la persona ne abbia consapevolezza. L’a. del copione serve per capire come le persone possano talora, senza saperlo, crearsi dei problemi e come possano procedere per risolverli. Il bambino crea il copione come strategia efficace di sopravvivenza. Nel creare il copione talora distorce la realtà con ridefinizioni, altre volte non tiene conto di fatti importanti con la svalutazione di essi. Per mantenere il copione nella sua forma infantile, talora gli adulti entrano in relazione in modo da comportarsi come bambini e invitano gli altri ad assumere il ruolo di Genitore e Adulto anziché attivare il proprio Genitore e il proprio Adulto; quando questo avviene si dice che la persona si mette in un rapporto simbiotico. Da bambini le persone talora imparano a non esprimere alcune emozioni non approvate e a sostituirle con altre. Quando nella vita adulta invece di esprimere le emozioni autentiche si fa lo scambio delle emozioni come si faceva da bambini, le emozioni sostitutive sono chiamate emozioni parassite. Se le persone che comunicano, invece di esprimere le emozioni autentiche si relazionano attraverso emozioni parassite, esse mettono in atto dei giochi psicologici. Compito importante degli adulti è quello di aggiornare il copione per affrontare la vita secondo le esigenze del presente piuttosto che secondo le strategie create da bambini e inefficaci per il presente. Il cambiamento del copione infantile per adottare quello funzionale per la vita adulta permette di raggiungere l’autonomia. Gli interventi dell’a.t. hanno lo scopo di facilitare l’arricchimento dell’autonomia. 3. La filosofia dell’a.t. I seguenti sono alcuni assunti di base dell’a.t.: ognuno va bene come persona, ognuno è capace di pensare, ognuno decide il proprio destino e le decisioni prese possono essere cambiate. Da questi

ANARCHISMO ED EDUCAZIONE

assunti seguono due metodi di intervento specifici dell’a.t.: il metodo contrattuale e la comunicazione aperta. Il metodo contrattuale implica che in qualsiasi cambiamento previsto viene assunta la responsabilità congiunta tra l’analista e la persona interessata e ciò porta ad accettare la parità tra l’analista e la persona che si presenta per affrontare dei problemi. La comunicazione aperta implica che l’analista fornisce chiare spiegazioni rispetto a quello che accade nella relazione e nel lavoro congiunto. 4. Organizzazione. L’a.t. è organizzata a livello internazionale attraverso l’ITAA, International Transactional Analysis Association, a livello europeo attraverso l’EATA, European Association for Transactional Analysis, in Italia attraverso la SIAT, Società Italiana di a.t. In Italia esistono anche gruppi di analisti transazionali che non aderiscono alla SIAT. Bibl.: Berne E., A che gioco giochiamo?, Milano, Bompiani, 1967; Scilligo P. - M. S. Barreca, Gestalt e a.t., vol. I, Roma, LAS, 1981; Scilligo P., Gestalt e a.t., vol. II, Ibid., 1983; Berne E., Principi di terapia di gruppo, Roma, Astrolabio, 1986; Scilligo P. - S. Bianchini (Edd.), I premi Eric Berne, Roma, IFREP, 1990; Stewart I. - V. Joines, L’a.t.: guida alla psicologia dei rapporti umani, Milano, Garzanti, 1990; Zalcman M., A. dei giochi e a. del ricatto: visione d’insieme, critica e ulteriori sviluppi, in «Polarità» (1990) 8, 351-379; M astromarino R. (Ed.), A.t. La terapia della ridecisione: dalla teoria alla pratica e dalla pratica alla teoria, Roma, LAS, 2006.

P. Scilligo

ANARCHISMO ED EDUCAZIONE Si intende per a. la teoria e pratica politicosociale che tende a rifiutare ogni tipo di gerarchia e di organizzazione della → società. 1. Per anarchici e marxisti l’educazione fu una preoccupazione di capitale importanza. Nel Congresso dell’Internazionale dei Lavoratori, tenuto a Bruxelles nel 1868, si discusse della necessità di una «educazione integrale», il cui più strenuo difensore fu Paul Robin. Antico alunno della Scuola Normale

Superiore di Parigi, conobbe Bakunin e Marx e partecipò alle loro dispute per capeggiare il movimento operaio internazionale. Robin rese popolare il concetto di «educazione integrale», difeso da tutti i leader operai del sec. XIX, attraverso il suo scritto De l’enseignement intégral (1869). Inizialmente Marx e Bakunin condividevano l’idea che prima era necessario fare la rivoluzione e poi bisognava rieducare il popolo, ma dal 1880 gli anarchici capeggiati da Kropotkin mutarono l’ordine delle priorità e si convinsero che nessuna rivoluzione sarebbe stata possibile senza un previo cambiamento di mentalità dei suoi protagonisti. Prima di fare la rivoluzione, bisognava cominciare dalla scuola; tuttavia né la scuola di Stato né la scuola di Chiesa avrebbero collaborato al cambiamento delle mentalità, per cui gli anarchici cominciarono a fondare delle scuole proprie dalle quali provenivano i futuri rivoluzionari. In tal modo, nella terza parte del sec. XIX, sorsero numerose scuole private a carattere laico, la cui differenza fondamentale rispetto alle scuole statali e a quelle degli ordini religiosi, era il fatto che non vi si insegnava religione. Le leggi consentivano questo tipo di scuola a certe condizioni e ve ne furono di varia portata; tra esse vi furono scuole a spiccato carattere anarchico. 2. La prima scuola anarchica che ebbe una certa notorietà fu l’Institution Prevost di Cempuis, vicino a Parigi. Si trattava di un orfanotrofio privato, controllato dal governo francese. Per dodici anni Robin diresse il centro, trasmettendo alcuni principi anarchici e introducendo alcuni metodi pedagogici innovativi, come per es. la lezione all’aperto, l’importanza dell’igiene, dell’educazione fisica e del lavoro nei piccoli laboratori dell’Istituzione (fattoria, orto, panetteria, sartoria, stampa, ecc.). L’obiettivo era che tutti gli alunni di questo centro misto avessero la possibilità di conoscere i diversi lavori che avrebbero probabilmente svolto alla fine della permanenza nell’internato, la qual cosa consentiva loro di avere un’esperienza diretta prima di doversi dedicare ad essi senza conoscerne le caratteristiche. Robin apparve troppo rivoluzionario alle autorità francesi laiche responsabili dell’educazione Accusato di insegnare il malthusianesimo e di essere antipatriota, fu deposto nell’agosto 1894. 69

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3. Un’altra scuola anarchica famosa fu quella creata a Barcellona (1901) da Francisco Ferrer i Guardia (1859-1910). Ferrer ebbe l’appoggio di numerosi nuclei anarchici, massoni e liberali in genere, insoddisfatti dell’educazione pubblica e delle → congregazioni religiose insegnanti. Il suo nome e quello della Escuela moderna da lui fondata costituirono una svolta più per motivi ideologici e politici che per le innovazioni pedagogiche. Questa scuola ebbe appena cinque anni di vita. Fu chiusa nel 1906 ed il suo direttore fu imprigionato con l’accusa di complicità con il bibliotecario della scuola nell’attentato che, in occasione delle nozze di Alfonso XIII, causò vari morti a Madrid. Nel 1909 fu processato, accusato di aver partecipato ai disordini della «Settimana Tragica» ed in seguito fucilato. L’eco di questa tragica fine fu magnificata dalla → massoneria e dall’a. internazionale e fu utilizzata ancora una volta per fomentare il discredito della Chiesa e dei governi conservatori spagnoli responsabili dell’esecuzione. Bibl.: Tomasi T., Ideologia libertaria e formazione umana, Firenze, La Nuova Italia, 1973; Delgado B., La escuela moderna de Ferrer i Guardia, Barcelona, CEAC, 1979; Rodas I. - A. De la Calle, Anarquismo y comunismo: ayer y hoy, Barcelona, Curso, 2005.

B. Delgado

ANGIULLI Andrea → Positivismo e educazione ANGOSCIA → Ansia ANIMA → Spirito → Uomo ANIMATORE → Animazione → Educatore

ANIMAZIONE In senso generale l’a. può essere intesa come uno stile, un approccio o un modo di rendere un servizio alle persone e alle comunità, cui corrisponde sul piano delle figure professionali un profilo specifico: l’animatore. 1. Il significato del termine a. I termini «animare», «a. » e «animatore» indicano l’energia e l’attività che dà, espande, arricchisce la vita ed ispira un individuo o dei gruppi, sia dall’interno che dall’esterno. L’a., quindi, è 70

essenzialmente un processo riferito alla vita e all’amore per la vita; promuove l’esistenza, l’armonia, la crescita e la coesione; abbraccia una vasta gamma di comportamenti umani e infonde energia, vitalità e spirito. Il termine, pertanto, è fondamentalmente collegato con la creatività, la gioia e l’ispirazione. L’a. diviene un’azione proficua solo in quelle esperienze dove c’è libertà e assenza di costrizione. L’a. sfida la vita stessa, così come sfida le personali capacità degli individui a liberarsi da ogni sorta di miseria che in qualche modo ostacola e svilisce la vita. Quindi la vita stessa diviene il luogo dove spargere i semi della speranza per il futuro. 2. Le diverse forme dell’a. Esistono diversi modelli di a., che indichiamo brevemente, per soffermarci, poi, sul modello olistico dell’a. a) A. creativo-espressiva: è forse il modello generalmente più diffuso. È legato allo scenario della rappresentazione teatrale, che offre mezzi d’auto-espressione all’interno della comunità spesso utilizzati per aiutare i fanciulli e le persone con particolari problemi di apprendimento. b) A. socio-culturale: ha dei legami con i processi educativi degli adulti e della comunità. Mira a promuovere lo sviluppo di talenti ed abilità delle persone e dei gruppi per abilitarli a una migliore partecipazione alle realtà sociali e politiche in cui vivono e ad una loro migliore gestione. c) A. culturale: si riferisce maggiormente ad un approccio educativo e didattico applicabile ad attività scolastiche del doposcuola e specialmente a gruppi giovanili. Si tratta, in fondo, di una teoria educativa basata su un sottointeso paradigma filosofico/antropologico, con un metodo ben fondato e con risorse specifiche. Si qualifica per la dimensione culturale dell’identità individuale e le sue espressioni sociali e storiche. d) A. del tempo libero: si rivolge a forme ricreative o espressive. È un tipo d’a. nel quale il tempo libero delle persone è impiegato per liberare la loro auto-espressione e a per acquistare o riacquistare la loro creatività. e) A. come dinamica di gruppo: è riferita all’applicazione di tecniche e metodi che promuovono la comunicazione interpersonale e la messa in atto di attività di gruppo. f) A. come modello olistico per l’educazione si fonda sulla prospettiva di stili diversi e conseguenti ruoli da assumere per promuovere la pienezza di vita per tutti.

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3. Comprensione del modello olistico dell’a. Accentuando il significato delle parole «animare», «a.» e «animatore» come una qualità di vita, un modo dell’agire più che una specifica azione, possiamo comprendere l’a. come un insieme di stili per ridestare (dare), liberare (purificare), rafforzare (sostenere), progettare la vita; ciascun stile è un processo e un metodo per l’arricchimento della vita, che concorre a favorire un processo di trasformazione della vita, inteso come un avanzare verso la pienezza di vita per tutti. E questo allo scopo di provocare dall’interno delle persone, la loro partecipazione alla vita della comunità. Per a. che ridesta o dà la vita, intendiamo uno stile di pensare e di riferirsi alle persone e ai dinamici processi interni connessi con la loro maturazione umana e spirituale. L’a. come liberazione o purificazione della vita abilita individui e gruppi a rimuovere tutte le forme d’annullamento della vita e a decidere di essere sempre a favore di essa. L’a. come rafforzamento o sostegno della vita, indica l’essere in relazione per accompagnare persone e gruppi, con suggerimenti e motivazioni, in un cammino di maturazione affinché essi stessi possano scegliere gli stimoli più adatti. Per a. come progettazione della vita s’intende uno stile educativo che seleziona risorse ed opportunità educative articolandole in relazioni libere, autentiche ed evolutive, per incoraggiare gli individui a discernere e ad identificare la loro visione personale in conformità con l’invito di Dio e ad abilitarli a procedere verso una visione condivisa capace di promuovere nella comunità la pienezza di vita per tutti. L’a. come arricchimento di vita è un processo e un metodo che accetta la visione della realtà sempre mutevole e che considera Dio come la sorgente di questa crescita e apertura creativa allo sviluppo. In definitiva, l’a. è un movimento che trasforma la vita; ciò comporta una strategia unificante che include tempi, luoghi, vari aspetti ed azioni e anche un processo convergente ed unificato, in cui la vita e l’amore per la vita sono gli elementi centrali. La meta di questo processo di trasformazione è la pienezza di vita per tutti. 4. I valori dell’a. L’a. nelle sue diverse modalità, possiede propri valori, che possono essere sia ideali, sia concreti. A. indica l’insieme

di azioni-riflessioni mediante le quali l’individuo o il gruppo intraprende liberamente il cammino verso la pienezza di vita per tutti e quindi è «animato». Tali azioni-riflessioni, a loro volta, abilitano gli individui o i gruppi a trasmettere la vita ad altri e così diventano animatori. L’a. è intenzionalmente centrata sulle persone, sulla loro coscienza e sulle loro capacità. Riconoscendo la libertà interiore e l’autonomia dell’individuo, l’a. offre l’opportunità per liberarle da tutto ciò che ostacola il cammino verso la pienezza di vita. L’a. ridesta gradualmente le loro capacità interiori, aprendo nuovi orizzonti, chiamandoli ad una riflessione critica su se stessi, su quelli che li circondano, sulla storia e sul mondo in cui vivono, promuovendo così un itinerario verso la pienezza di vita per tutti. Questo procedimento ha bisogno di essere manifestato attraverso la solidarietà, l’armonia e l’unità all’interno della società stessa e verso la natura, con il dialogo il quale promuove, inoltre, uno stile educativo che non manipola le persone, non fa un lavaggio di cervello, né impone alcuna cosa con la forza. Come metodo educativo, l’a. non minaccia le persone con condanne o rappresaglie, né promuove la partecipazione solo per una ricompensa o un favore. Si limita, invece, ad offrire risorse ed opportunità e ad organizzarle in una relazione libera, autentica, che conduce allo sviluppo, al sostegno e all’accompagnamento delle persone nella loro crescita verso la pienezza di vita per tutti, attraverso il processo di selfempowerment (auto-responsabilità). Nello stesso tempo, l’a. riconosce che questo cammino è intrapreso in un ambiente specifico, dentro una storia particolare con tutti i suoi aspetti positivi e negativi. In questo modo, la memoria del passato e la speranza di un futuro migliore assumono un significato fondamentale nel processo d’a. La consapevolezza dei propri limiti, il bisogno d’impegno e lo sviluppo della speranza e dell’ottimismo costituiscono uno dei segni più evidenti per la memoria e la speranza di un futuro migliore. Queste dimensioni sono promosse non solo in vista di una sopravvivenza ma, soprattutto, per mettersi in cammino verso la realizzazione degli ideali dell’amore autentico. Questi ideali rendono gli individui capaci di percepire gli altri come persone dotate di specifiche qualità e non come una minaccia e un peso; di conseguenza, essi sono una sfida 71

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per cercare l’armonia e l’unità. Questa memoria e speranza nel futuro richiedono dagli individui un rinnovamento continuo, implicando l’uso appropriato e giusto delle risorse messe a disposizione dell’umanità. 5. L’a. - uno specifico processo educativo. L’a. mostra i processi della personalizzazione e della coscientizzazione che hanno luogo all’interno delle persone, dei gruppi e delle comunità e sottolinea le motivazioni che sottostanno alle varie scelte, e ne promuove sia la capacità critica, sia la partecipazione attiva ai processi di crescita, abilitandoli a diventare protagonisti responsabili. Inoltre, li rende consapevoli della realtà delle loro potenzialità inespresse, represse o soppresse, rafforzando in tal modo il tessuto sociale. L’educazione, invece, è generalmente intesa come una specifica attività umana associata a ruoli e figure precise entro una particolare relazione interpersonale che coltiva, cura e forma individui della generazione che sta crescendo. L’educazione comprende una serie si discipline miranti a fornire e ad accrescere informazioni ed abilità, allo scopo di sviluppare sia gli individui sia la società. L’a. e l’educazione, quindi, sono due realtà specifiche e complesse, che hanno degli elementi in comune quali la vita, la cultura, la persona, la libertà, la responsabilità, l’accrescimento delle potenzialità degli individui, ecc. Nel suo nucleo centrale, l’a. non differisce radicalmente dal processo educativo, ma considera se stessa come distinta dal modo abituale e predominante dell’educare. Differisce, in pratica, nel suo modo di comprendere le persone e anche nel modo di identificare la collocazione dei processi educativi che, nel caso dell’educazione, sono stati convenzionalmente associati con istituzioni accademiche. Queste hanno aiutato l’a. ad elaborare concetti teorici, metodi e tecniche diverse, capaci di verificare l’efficacia dei risultati che si possono ottenere con le esperienze d’a. L’a. ci aiuta a percepire che è possibile educare in ogni contesto, in ogni fase della vita e in ogni situazione, purché esistano certe condizioni di libertà. L’a., in altre parole, non deve essere solamente considerata come un aspetto del processo educativo, ma anche come una dimensione sottostante, che rafforza ed accresce i confini dei campi tradizionali dell’educazione. 72

6. A. dalla prospettiva degli stili diversificati. La domanda principale e fondamentale che gli operatori si pongono non riguarda il luogo dove fare l’a., ma la realtà particolare in cui si trovano le persone. L’a. è, di conseguenza, efficace solo se s’impegna seriamente a prendere in considerazione quella realtà attraverso cui le persone tentano di trovare la pienezza di vita. L’a., pertanto, richiede operatori che conoscono le situazioni e i bisogni delle persone e abbiano la capacità di identificare le cause fondamentali che provocano situazioni indesiderabili. Per stile si può intendere la maniera preferita di pensare, il modo originale di esprimersi e la forma particolare di agire, caratteristiche proprie di ogni persona. Lo stile non è un’abilità, ma piuttosto la modalità preferita per usare l’abilità che si possiede. Quando il profilo dell’a. si armonizza con la situazione delle persone, allora essa diventa feconda. Il profilo di uno stile d’a. è caratterizzato essenzialmente da due componenti: quello delle relazioni e quello dei compiti. La componente delle relazioni si specifica per una particolare sollecitudine verso le persone; quello dei compiti, invece, evidenzia l’impegno per la missione, cioè per la finalità e gli obiettivi. La prospettiva dello stile dell’a. è un forte richiamo, per gli operatori, a tenere unite la componente delle relazioni, quella dei compiti e quella delle situazioni. La visione degli stili (ridestare, liberare, rafforzare e progettare la vita) fornisce agli operatori una specie di ampia mappa concettuale, che è utile per comprendere sempre meglio la complessità dell’a. Le componenti principali degli stili che si riferiscono alle relazioni e ai compiti, rimandano a due fattori fondamentali per ciascuno, compresenti nel processo dell’a. La prospettiva degli stili basata sulle relazioni e, quindi, sulla sollecitudine per le persone, confida nelle loro risorse interiori per farle procedere verso una pienezza di vita per tutti attraverso i due processi seguenti. Il primo, sostenere e apprezzare le risorse interiori delle persone comporta che ognuna possieda delle risorse che necessitano di essere scoperte, sviluppate ed impiegate per la crescita e la maturazione e ciò è possibile attraverso l’a. Il secondo, far procedere le persone verso la pienezza di vita costituisce la finalità o l’obiettivo fondamentale d’ogni processo d’a., che permette di realizzare le loro aspet-

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tative di vita e il raggiungimento di un appagamento attraverso ragionevoli e giuste relazioni con se stessi, con gli altri, con il mondo e con Dio. La prospettiva degli stili a livello di compito, cioè di missione, richiede di sostenere le persone nella loro crescita, nei loro cambiamenti e nella promozione e partecipazione ampia e piena ai valori centrali della vita. Questa prospettiva si esplica attraverso altri due processi: il rafforzamento delle persone nei mutamenti attraverso il contatto con gli animatori e la partecipazione ai valori centrali e fondamentali della vita. 7. I processi coinvolti nella prospettiva degli stili dell’a. e ruoli corrispondenti. I processi coinvolti negli stili dell’a. divengono evidenti quando la sollecitudine per le persone e la preoccupazione per la missione s’intrecciano. Uno sguardo analitico dei processi dell’a. evidenzia stili distinti, ma collegati tra loro, che si possono esprimere con i verbi: portare dentro l’ambito dell’a., liberare o purificare, rafforzare o sostenere e progettare la vita. Tali processi manifestano quattro stili fondamentali di a.: ridestare/dare la vita attraverso il ruolo della narrazione; liberare/purificare la vita mediante il ruolo della valutazione; rafforzare/sostenere la vita attraverso il ruolo dell’allenamento; progettare la vita con il ruolo del leader. Questi quattro stili d’a. sussistono in un equilibrio dinamico ed interagiscono tra loro. L’a., mentre abilita le persone ad usare stili diversi, le incoraggia anche ad esaminarne i limiti, per realizzare sempre più un’a. olistica, che presuppone un forte lavoro d’équipe. Mantenere questi quattro stili in un equilibrio dinamico e promuovere l’interazione tra loro, stimola un altro processo, quindi un altro stile, che in qualche modo migliora e valorizza la vita in ogni situazione e che può essere chiamato arricchimento della vita. A quest’ultimo stile corrisponde il ruolo del servizio alle persone, che è il vertice dello stile dell’a., per abilitarle a divenire agenti-soggetti in relazione, per progredire verso la pienezza di vita per tutti. 8. In conclusione, questi stili diversi e i ruoli corrispondenti ci aiutano a definire i compiti specifici dell’animatore, facendo vedere, nello stesso tempo, la natura olistica dell’a. Ognuno degli stili descritti è valido e nessuno di essi prevale su un altro, in quanto cia-

scuno esplicita particolari funzioni e sarebbe errato dire che uno stile dà migliori possibilità di un altro. Una formula che dovrebbe guidare gli animatori competenti può essere sintetizzata in questo modo: «stili diversi per persone diverse» e/o «stili diversi per situazioni diverse». Bibl.: Besnard P., Animation socioculturel. Fonctions, formation, profession, Paris, ESF, 1981; M aurizio R. - D. R ei (Edd.), Professioni nel sociale, Torino, Gruppo Abele, 1992; Sternberg R., Thinking styles, Cambridge, Cambridge University Press, 1997; Pollo M., A. culturale teoria e metodo, Roma, LAS, 2002; Vallabaraj J., Animating the young, Bangalore, Kristu Jyoti Publications, 2005; Id., A. e pastorale giovanile, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2007.

J. Vallabaraj

ANIMAZIONE SOCIOCULTURALE L’a.s. può essere definita come un’azione sociale di promozione umana e di coscientizzazione personale e comunitaria. L’a.s. fa capo, da una parte, alle esperienze di educazione degli → adulti promosse fin dagli anni Cinquanta del sec. scorso e, dall’altra, al modello francese dell’a.s. Questa viene pensata come intervento nel territorio, al fine di favorire i processi di crescita della capacità dei gruppi di partecipare alla realtà sociale e politica in cui vivono, e di gestirla. Questo filone è rappresentato, sia storicamente che attualmente, dalla rivista «A. Sociale» fondata da G. A. Ellena nel 1971 ed ora affidata alla gestione del Gruppo Abele di Torino. In questa direzione si sono mosse altre realtà significative quali l’ARIPS e l’ASSCOM, in stretto rapporto con le esperienze di psicologia di comunità. 1. La dimensione educativa. L’a.s., pur non volendosi confondere con altri stili di a. più marcatamente educativi, può avere una notevole valenza educativa. Infatti le funzioni dell’a.s., finalizzata al cambiamento attraverso la partecipazione, sono essenzialmente due: a) la presa di coscienza, che riguarda realtà quali le potenzialità inespresse, rimosse o represse delle persone singole, dei gruppi e delle comunità; i dinamismi interni del no73

ANIMAZIONE SOCIOCULTURALE

stro «agire»; le mentalità diffuse, sommerse, latenti; le situazioni problematiche; il divario ricorrente tra «reale» ed «ideale». A questo scopo anche il metodo adottato deve essere preciso. Occorrono interventi organici, ben finalizzati, ispirati ad una prevalente preoccupazione preventiva, specie in alcune aree (partecipazione, espressività e creatività, emarginazione, devianza). Tutto ciò al fine di creare una nuova cultura nel rapporto pubblico-privato, professionale-volontario; nel relazionarsi e collaborare con persone e con gruppi di diversa estrazione, formazione, ispirazione, ma operanti su obiettivi comuni; nella concezione del tempo libero, con finalità non solo ludiche ma anche di impegno sociale; b) il potenziamento del tessuto connettivo sociale, che si attua con iniziative di socializzazione, gruppi e lavoro di gruppo, scambi turistici, itinerari ecologici, convegni e seminari, feste popolari, mostre itineranti, a. dei ragazzi nei condomini, raccolte finalizzate di oggetti; stimolando la «gente» a risolvere in proprio i problemi quotidiani, a superare le diffidenze verso il pubblico, a sostenere dall’esterno le comunità di accoglienza, ad essere presenti nelle situazioni di emergenza; lacerando l’incomunicabilità tra le generazioni, tra gli operatori e la «gente», tra i turisti e i locali; con il reperimento in gruppo delle risorse disponibili ed il loro funzionale raccordo con i → bisogni locali; con la realizzazione di microstrutture pilota agili, che rispondano con successive approssimazioni all’inventario incrociato di bisogni, aspettative, interessi, carenze, rapporti; con alcuni punti istituzionali di riferimento: → famiglia, scuola, lavoro, tempo libero, associazionismo, ecc., facilitando in questo modo il coordinamento e la destinazione razionale delle risorse; con la creazione di microstrutture di servizio (per esempio un ufficio stampa) per le attività di più gruppi (specie di giovani) operanti sullo stesso territorio con obiettivi analoghi; con tecniche collaudate di organizzazione e di programmazione, finalizzate all’individuazione di concreti criteri di efficienza ai fini di una periodica verifica degli interventi promossi e realizzati; con la valorizzazione dei giovani come protagonisti della propria «condizione giovanile», dell’interazione scuola-associazione-territorio in ordine ad un uso alternativo, ossia impegnato, del tempo libero; favorendo, soprattutto 74

nei giovani, la riacquisizione personale ed in gruppo del senso di identità, del gusto del vivere, del senso di → appartenenza, attraverso l’esercizio della collaborazione, della cooperazione e del lavoro. 2. La formazione degli animatori. La dimensione educativa dell’a.s. nei termini indicati appare ancora più evidente se verifichiamo i punti di riferimento di una linea formativa che consenta il passaggio dalla realtà concreta e feriale dell’a. al suo profilo ideale attraverso la «formazione degli animatori». Di essa sono punti di riferimento → valori come la centralità delle persone umane concrete, il rispetto e la promozione della libertà delle coscienze, la solidarietà, la ricerca della buona qualità della vita, il pluralismo sociale quale garanzia di libertà per persone, gruppi, comunità, il lavoro, la pace e lo sviluppo, il rispetto e la difesa dell’equilibrio ecologico, una cultura ed un’educazione critica ed aperta. Il senso e il gusto della libertà delle persone, dei gruppi e delle comunità costituiscono il fine e l’atteggiamento fondamentale dell’animatore. Sapersi determinare, decidere insieme, innovare ne sembrano le espressioni personali più cospicue. Più specificamente fanno parte della competenza umana e professionale dell’animatore la lealtà, la responsabilità, il rispetto e la fedeltà; la coscienza della complessità ed organicità del reale, ma anche l’acuto senso per il locale, il particolare, il personale, per le dinamiche di → gruppo o per i comportamenti collettivi; il senso della storicità e insieme delle urgenze e priorità che si impongono; la capacità del dialogo e del confronto; la semplicità degli stili di vita; il senso della provvisorietà; il distacco, la flessibilità e il coraggio di agire anche rischiando e pagando di persona. Pertanto sembra collegabile con l’animatore un modello di → personalità interiormente unificata, aperta all’universalità dei valori, capace di infondere speranza e di far maturare prospettive aiutando a leggere la realtà e a cogliere possibilità di azione a prima vista «inedite». Rientra nella sua competenza uno stile di intervento modulato sul «vederegiudicare-agire», sulla capacità di vivere in situazione coniugando prassi-teoria-prassi, insieme, in gruppo, in comunità, sull’intelligente revisione di vita, ma anche sul saper mediare e innovare, non emarginando, ricu-

ANORESSIA MENTALE

perando ritardi, anticipando il futuro. A sua volta sarà necessario saper integrare i ruoli professionali tecnici in un agire funzionale alle persone e alle necessità dei gruppi e delle comunità. In questa prospettiva è evidente la priorità data alle «competenze umane», rispetto alle abilità tecniche e ai mezzi a disposizione (che pure hanno la loro importanza «strumentale»).

partecipazione. Manuale pratico per l’a. sociale, Bologna, EMI, 2005.

3. La prospettiva culturale. Alla base di questo modo di intendere l’a. e l’animatore sta una concezione ampia di → cultura che tiene conto sia della cultura alta che di quella popolare. Come è del resto anche nell’approccio inglese dei Cultural studies, si ha davanti un concetto di cultura intesa come pratica sociale, come processo globale, come memoria collettiva di popolo, nelle sue molteplici differenziazioni interne (tradizionalmente piuttosto emarginate dalla cultura ufficiale). Ma insieme si pensa ad una cultura che è attenta alle pratiche sociali legate al cinema, alla televisione, alla radio, alla stampa, allo sport, alla musica, alle mode, ecc.; ad una cultura sensibile agli interrogativi che si vivono nelle concrete situazioni di vita e nei diversi contesti geo-sociali. Più specificamente si ha presente una cultura-educazione allargata alla strada (animazione di strada), al quartiere, alla città; per ripartire da quello che i ragazzi e le ragazze, le persone adulte e gli anziani hanno da dire sia pure nei loro specifici linguaggi, nelle loro conversazioni quotidiane segnate dalla → comunicazione di massa, ma anche nelle loro svariate espressioni di bisogni, memorie, desideri, aspirazioni effimere e profonde.

Il termine a.m. pare sia stato proposto per la prima volta da C. Huchard nel 1883 per indicare un disturbo dell’alimentazione che affligge soprattutto le donne (95% circa dei casi) in un’età molto giovane (fra i 13 e i 25 anni circa) ed è caratterizzato, soprattutto, da avversione all’aumento di peso per motivazioni inconsce o semicoscienti.

Bibl.: López de Ceballos P. - M. Salas Larrazabal, Formación de los animadores y dinámicas de la animación, Madrid, Editorial Popular, 1988; Ellena G. A. (Ed.), Manuale di a.s., Torino, Gruppo Abele, 1988; M aurizio R. - D. R ei (Edd.), Professioni nel sociale, Ibid., 1992; R egoliosi L., La strada come luogo educativo: orientamenti pedagogici sul lavoro di strada, Milano, Unicopli, 2000; Capello G., I media per l’a., Leumann (TO), Elle Di Ci, 2002; Gambini P., L’a. di strada: incontrare i giovani là dove sono, Ibid., 2002; De Rossi M., A. e trasformazione: identità, metodi, contesti e competenze dell’agire sociale, Padova, CLEUP, 2004; Dotti M., La tela del ragno: educare allo sviluppo attraverso la

G. A. Ellena - G. Vettorato

ANOMIA → Durkheim Émile

ANORESSIA MENTALE

1. Diversamente da quanto sembrerebbe indicare il termine a. che etimologicamente vuol dire mancanza di appetito, questo non viene in realtà compromesso; l’anoressica intenzionalmente mangia poco, si alimenta con una dieta sproporzionatamente ipocalorica, usa lassativi o diuretici, o con frequenza vomita l’alimento ingerito. Vengono segnalate dagli studiosi di questo argomento delle forme minori e di più comune riscontro che si verificano solitamente in adolescenti fra i 13 e i 15 anni e che si risolvono nel giro di alcuni mesi; forme intermedie in cui gli episodi anoressici sono inframmezzati da recupero transitorio di peso o in seguito a crisi bulimiche o in seguito ad ospedalizzazione; forme gravi in cui il deperimento organico può portare a conseguenze pericolose, o immediate o postume. Nell’anoressica si ha quasi costantemente alterazione delle funzioni endocrine e sospensioni dei cicli mestruali; un atteggiamento ambiguo verso il proprio corpo il cui schema e il cui significato vengono alterati e strumentalizzati. 2. L’a. è stata interpretata in vari modi: la si è intesa come facente parte di un quadro isterico con cui, peraltro, ha molte somiglianze. È stata confusa col morbo di Simmonds dal quale però differisce sostanzialmente perché non c’è lesione ipofisaria. Ha degli aspetti compulsivi ma non si può identificare con un disturbo ossessivo-compulsivo. Oggi si tende ad attribuirle un’autonomia nosografica. Quanto alla eziologia, alla patogenesi e alla 75

ANSIA

psicodinamica le interpretazioni variano da scuola a scuola; c’è sufficiente accordo sul dato che 1’ → ambiente, sia familiare (con le difficoltà di comprensione reciproca fra i componenti e gli sconfinamenti di ruoli, soprattutto materni) sia sociale (con le proposte di interessi a cui mirare), influisce in modo determinante sull’insorgere dell’a. Così pure la percezione che l’anoressica ha del proprio corpo, il significato che gli attribuisce e la strumentalizzazione che ne fa, sono fondamentali per capire questo disturbo. Bibl.: Palazzoli-Selvini M., L’a.m., Milano, Feltrinelli, 1973; Ganzerli P. - R. Sasso, La «rappresentazione anoressica». Contributo delle tecniche psicodiagnostiche allo studio dell’a.m., Roma, Bulzoni, 1979; Bracconnier A. - D. M arcelli, Psicopatologia dell’adolescente, Milano, Masson, 1991; A pfeldorfer G., Mangio dunque sono, Venezia, Marsilio, 1993; Montecchi F., A.m. dell’adolescenza, Milano, Angeli, 1994; Barbetta P., A. e isteria: una prospettiva clinico-culturale, Milano, Cortina, 2005.

V. Polizzi

ANORMALITÀ → Normalità

ANSIA L’a. è una delle emozioni più diffuse e delle capacità più invalidanti per quanto riguarda sia l’apprendimento scolastico che la qualità della vita. Nello specifico l’a. influenza pesantemente diverse aree dell’organismo e della struttura mentale. 1. Per quanto riguarda l’universo fisiologico, un livello elevato d’a. è in grado di produrre alterazioni vistose di alcuni tra i parametri maggiormente studiati in laboratorio, quali ad es. il battito cardiaco, la qualità del respiro, la sudorazione (misurata mediante la cosiddetta risposta elettrodermica), le onde cerebrali ecc. Nel lungo periodo l’a. è in grado di favorire l’instaurarsi di quelle forme di disturbo che vanno sotto il nome di malattie psicosomatiche, quali ad es. ulcera peptica e duodenale, cardiopatie di vario genere, dermatiti ecc. 2. Per quanto riguarda, invece, il mondo delle azioni, il soggetto in preda all’a. ten76

de a fuggire dalla situazione ansiogena in modo concreto oppure simbolico. La fuga sarà concreta quando la persona si allontanerà effettivamente dalla situazione negativa; simbolica, quando, non potendo sottrarsi concretamente ad essa, orienterà i propri pensieri verso una situazione diversa da quella alla quale è esposta. L’esempio più tipico è dato dall’allievo, il quale, intimorito dall’insegnante, cerca di abbassare il grado della sua sofferenza, pensando a situazioni od eventi più piacevoli. Sulla cosiddetta risposta di fuga, si fonda, poi, quella d’evitamento, che consiste nel sottrarsi preventivamente alla situazione ansiogena, ricorrendo a stratagemmi di diversa natura. Esempio tipico è l’allievo, il quale, trovandosi inappagato all’interno del contesto classe, finge una e mille malattie pur di evitare il contatto con una situazione da lui ritenuta negativa. 3. Venendo, infine, al mondo cognitivo, l’a. influenza negativamente tutti i principali processi cognitivi, dall’attenzione alla → memoria, dalla → creatività al pensiero ed al ragionamento. È questa fondamentalmente la ragione per cui è del tutto sconsigliabile creare nell’allievo il binomio «a. e studio». Il convincimento di molti genitori ed insegnanti è che spingere l’allievo od il proprio figlio a studiare ed a prepararsi alle prove d’esame attraverso minacce, ricatti ecc. che tendono solo a produrre a., sia lo strumento migliore per ottenere i risultati voluti. In realtà si tratta di comportamenti decisamente pericolosi in quanto, causando a., minano nell’allievo l’utilizzazione appropriata delle sue capacità cognitive, con ovvie ripercussioni negative per quanto riguarda la qualità dell’apprendimento e la resa nelle prove d’esame. 4. Se questi sono gli effetti dell’a., quali le cause? La maggioranza degli psicologi tende ad attribuire scarsa importanza ai fattori genetici. Al massimo, come sostiene Seligman si può parlare di una tenue predisposizione all’a., che può essere tranquillamente contrastata da un ambiente caratterizzato da una buona qualità di vita. In realtà gran parte delle nostre a. sono legate alle esperienze da noi vissute in modo diretto od indiretto. Diretta è l’esperienza che ci ha in qualche modo colpito, in quanto da noi subita. Un esempio è una visita medica particolarmente

ANTINOMIE PEDAGOGICHE

fastidiosa o addirittura dolorosa. Indiretta, al contrario, è l’esperienza che abbiamo visto vissuta da altri. Un esempio tra tanti è l’aver constatato che un compagno di classe, interrogato dall’insegnante, viene da questi criticato e poi canzonato dai suoi compagni di classe. È questa un’esperienza non direttamente vissuta, ma che ha spesso un forte impatto su chi l’osserva da spettatore. Accanto a questa categoria di esperienze, vi è poi una serie d’idee irrazionali che sono state acquisite lungo il processo di socializzazione, prevalentemente grazie al forte impatto educativo prodotto dai genitori. Alcune di queste idee, sapientemente analizzate e trattate da Ellis e dalla sua scuola, hanno a che fare con l’esigenza di brillare in tutte le situazioni nelle quali il soggetto si trova (mito del perfezionismo), di voler essere stimato ed amato da tutti (mito del narcisismo), ecc. 5. Infine ultimo fattore ansiogeno è il grado di autostima che la persona ha raggiunto. Qualora esso sia basso, è probabile che la persona eviti il contatto con situazioni potenzialmente ansiogene, in quanto da lui vissute come una minaccia in grado di produrre ripercussioni ulteriormente negative per la sua autostima. L’esempio tipico è lo studente, il quale teme l’esame in quanto non ha fiducia nelle proprie capacità. È molto probabile che sia proprio questa scarsa autostima ad attivare il meccanismo dell’a., la quale, a sua volta, renderà problematico l’apprendimento, aumentando in tale modo le probabilità d’insuccesso. Il risultato di quest’insieme di fasi è un ulteriore abbassamento nel grado di autostima e la creazione di un circolo vizioso. Al momento attuale la moderna psicoterapia cognitivocomportamentale offre numerose modalità d’intervento sull’a., con particolare riferimento a quella per gli esami e per la scuola. La robustezza scientifica di tali strategie rende tali forme d’a. facilmente superabili. Bibl.: Meazzini P., Paura d’esame, in «Psicologia e Scuola» 41 (1988) 48-54; Gagliardini I. - P. Meazzini, A. e valutazione, Roma, Bulzoni, 1992; Meazzini P. - A. Galeazzi, A., Ibid., 1994; Sheehan E., A., fobie e attacchi di panico, Milano, Mondadori, 1997; Dayhoff S. A., Come vincere l’a. sociale: superare le difficoltà di relazione con gli altri e il senso di insicurezza, Trento, Erickson, 2000.

P. Meazzini

ANTINOMIE PEDAGOGICHE Contrapposizioni che di fatto o di diritto si giudicano presenti nel → rapporto educativo e nella realtà educativa in genere. 1. Il termine a. (dal gr. anti = contro, e nómos = legge) in senso letterale dice un contrasto tra leggi, tra affermazioni di principio. In logica sta ad indicare affermazioni reciprocamente incompatibili. L’esperienza educativa mostra chiaramente la presenza di tensioni e contrasti nel modo di attuare e di intendere l’educazione nei suoi fini, contenuti e riferimenti contestuali (e si parla per questo di a.p. «materiali») o nei metodi e stili educativi (e si parla per questo di a.p. «formali»). 2. Le a.p. si manifestano in particolare nel rapporto educativo. Da questo punto di vista esso è interpretabile ad es. secondo la dimensione del «controllo», nelle polarità di dominanzasottomissione, autorità-libertà; o secondo la dimensione «emozionale», nelle polarità di rifiuto-accettazione, di disistima-stima, di distacco-vicinanza, di antipatia-simpatia; o ancora secondo la categoria «possibilità di educazione» nelle polarità di passivitàattività, di autoeducazione-eteroeducazione, direttività-nondirettività, educazione negativa-educazione positiva, di permissivismo-costrizione. Ma molte a.p. si colgono a livello di → educazione in generale, ad es. tra trasmissione e creatività, conformazione e personalizzazione, tra fini e mezzi, tra → domanda educativa e risposta o → proposta educativa, tra specializzazione e formazione generale, tra cultura letterario-umanistica e cultura scientifico-tecnica, tra educazione contenutistica («materiale») e educazione critica abilitativa («formale»), tra educazione funzionale e educazione intenzionale, tra istruzione e educazione, tra scuola e lavoro, tra scuola privata e scuola pubblica, tra scuola statale e scuola non-statale. 3. Da sempre nell’educazione vengono a rifluire le grandi a. antropologiche e etiche tra individuo e società, tra persona e istituzione, tra privato e pubblico, tra moralità e legalità; tra genitori e figli, tra adulti e giovani, tra tradizione e innovazione; tra l’io e il proprio sé; tra essere e coscienza; tra essere e agi77

ANTONIANO SILVIO

re, tra essere e avere, tra gratuità e utilità, tra spontaneità e razionalità, tra oggettività e soggettività, tra essenza e esistenza, tra natura e cultura, tra libertà e necessità, tra autonomia e eteronomia, tra materia e spirito, tra corpo e anima, tra corpo e mente, tra immanenza e trascendenza, tra interiorità ed esteriorità, tra temporalità e eternità, tra maschio e femmina, tra uomo e mondo, tra uomo e Dio. 4. Nella quotidianità della formazione, oggi, si risente delle grandi tensioni e contrapposizioni presenti nel più vasto contesto culturale e nei mondi vitali attuali: quelle tra globale e locale, tra universale e particolare, tra identità e differenza, tra cultura e multicultura, tra conoscenza e emozione, tra tecnologia e spontaneità della vita, tra autonomia e progetto, tra lavoro e tempo libero, ecc. Ciò porta, a livello scolastico a contrapporre, ad es., scuola delle conoscenze (e dei saperi) a scuola della socializzazione, scuola delle competenze (cioè delle capacità ad operare in maniera «esperta») a scuola della formazione; scuola della qualità e del successo scolastico e scuola dell’equità e delle opportunità educative per tutti; scuola delle tecnologie e scuola delle relazioni; scuola-azienda/impresa e scuola-comunità. Peraltro, le a.p. mettono in luce il carattere processuale, dinamico e relazionale della formazione e dell’educazione, sempre attuate nel tempo, inserite nella vicenda e nella storia personale e comunitaria, nei rapporti sociali di produzione e nella rete delle relazioni interpersonali e della comunicazione sociale. Ed evidenziano chiaramente la responsabilità educativa e pedagogica, personale e sociale, chiamata a cercare sbocchi positivi ai problemi che le a.p. manifestano. Bibl.: Maresca M., Le a. dell’educazione, Roma, Bocca, 1916; Bertin G. M., Educazione alla ragione, Roma, Armando, 1975; H announ H., Les conflits de l’éducation, Paris, ESF, 1975; Peretti M., Autorità e libertà nell’educazione contemporanea, Brescia, La Scuola, 1975; Franta H., Interazione educativa, Roma, LAS, 1977; Caroni V. - V. Iori, Asimmetria nel rapporto educativo, Roma, Armando, 1989; Gigli A., Conflitti e contesti educativi. Dai problemi alle possibilità, Bergamo, Junior, 2004.

C. Nanni

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ANTIRAZZISMO → Educazione interculturale ANTISEMITISMO → Ebraismo

ANTONIANO Silvio n. nel 1540 a Castelli (Pescara) - m. nel 1603 a Roma, umanista e pedagogista italiano. 1. Un bambino prodigio, «il Poetino», sedicenne è titolare a Ferrara di una cattedra di Lettere Umane. Dal 1559 a Roma, segretario di Carlo → Borromeo, discepolo spirituale di Filippo Neri, si evolve dall’interesse per i classici a una spiccata sensibilità religiosa, con lo studio della filosofia e della teologia. È ordinato sacerdote nel 1568, lavora nella Curia, in particolare come segretario del Collegio cardinalizio (1568-1592); latinista raffinato compone i più importanti documenti del pontificato di Clemente VIII, che lo eleva al cardinalato (1599); è protettore in particolare delle Scuole Pie del → Calasanzio. Dal 1580 l’A. si impegna nella composizione dell’opera principale Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli, Scritti da M. Silvio A. ad instanza Di Monsig. Illustriss. Cardinale di S. Prassede, Arcivescovo di Milano [C. Borromeo]. In Verona, MDLXXXIIII. Appresso Sebastiano delle Donne, et Girolamo Stringari, Compagni. L’arbitraria variazione del titolo introdotta in edizioni successive (Dell’educazione cristiana e politica dei figliuoli) ha contribuito a falsare il significato del lavoro e la sua valutazione, quasi l’A. avesse inteso offrire un trattato completo di pedagogia. In realtà egli volle soprattutto sottolineare la dimensione religiosa cristiana dell’educazione, «ordinata, et diretta alla somma, et perfetta felicità celeste», sia pure tenendo presente il più ampio riferimento all’educando «come huomo, et animal sociabile», «come cittadino, et parte di republica terrena» (I 4 e 40). Egli tratta dell’educazione da impartire nell’ambito di una famiglia sorta dal sacramento del matrimonio (lib. I); di tale educazione l’istruzione catechistica e la formazione religiosa cattolica (condotta sulla linea del Catechismus ad parochos) sono l’anima e il nucleo essenziale (lib. II); in questo quadro si collocano le linee di una pedagogia singolarmente sensibile alle inclinazioni e ai problemi posti dallo sviluppo fisico, intellettuale, morale dell’infanzia e

ANTROPOLOGIA E EDUCAZIONE

dell’adolescenza (lib. III). Le soluzioni rispecchiano un sostanziale ed equilibrato «umanesimo cristiano», vicino alle esigenze delle classi medie e popolari, urbane e rurali, più che al mondo dei nobili. 2. In realtà, sebbene «lo scopo principalissimo del libro» sia dichiaratamente di «trattare dell’educazione in quanto cristiana», l’Autore rende ben presente che per la sua compiutezza vi è necessariamente inclusa anche la dimensione «umana» e «civile». Lo stesso gestore di istituzioni educative ecclesiastiche – scrive – mentre «procura di far un buon christiano, con l’autorità e mezzi spirituali, secondo il fin suo, procura insieme in conseguenza necessaria di far un buon Cittadino, che è quello che si pretende dal politico» (I 43). Nella medesima ottica, dovere dei padri è di «bene allevare sia civilmente che cristianamente i figli» (II 124), avviandoli anche all’esercizio di una delle tante attività necessarie per mantenere in vita la Città: artigianali, agricole, meccaniche, commerciali, letterarie, artistiche, didattiche, mediche, militari, ecclesiastiche, auliche (III 62-86). Anche nel momento della metodologia pedagogica pratica, l’indiscutibile autorità del paterfamilias è prudentemente controbilanciata da sincera «umanità» e da carità evangelica. Ricorrono con frequenza i termini «ragionevole», «ragionevolmente», muovere «la ragione et l’intendimento»; è raccomandata la «mediocrità» o moderazione in modo che il fanciullo non diventi precocemente adulto, anzi conservi «del fanciullesco in qualche cosa»; e il padre «ritenga una dolce severità, si che sia amato et temuto, di timor però filiale, et non servile et di schiavo» (III 7; II 29). 3. Sembra, quindi, riduttivo considerare l’A. semplicemente come il «pedagogista della controriforma» (G. B. Gerini, L. Credaro, E. Troilo, E. Codignola, R. G. Tentori, A. Scacchi, S. Moravia). Insieme a elementi di austerità disciplinare, nella sua sintesi pedagogica tendono a fondersi almeno tre altre tradizioni: patristico-medievale (vicina ai libri «de educatione nobilium»), classico-umanistica (nutrita del pensiero etico-politico e retorico-poetico di → Aristotele) e rinascimentaleriformista, disponibile a Roma alle istanze della spiritualità filippina e alle lontane severe esigenze del Borromeo.

Bibl.: Vidar i G., L’educazione in Italia dall’Umanesimo al Risorgimento, Roma, Optima, 1930, 99-102; P rodi P., «A.S.», in Dizionario biografico degli italiani, vol. III, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,1961, 511-515; Zanzarri R., S.A. Note e osservazioni, in «Storia dell’educazione» 2 (1978) 43-60; I d., «A.S.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia Pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 716-723; Rosa S., Pedagogia della riforma cattolica. M.S.A. e l’educazione dei «figliuoli», S. Atto di Teramo, Edigrafital, 2004.

P. Braido

ANTROPOLOGIA E EDUCAZIONE Il rapporto tra a. e → educazione può essere visto in una duplice articolazione: da una parte l’a. come contributo di una scienza all’analisi delle problematiche e dei temi dell’educazione, in una prospettiva multidisciplinare; dall’altra, al contrario, l’educazione come un particolare fenomeno della → cultura e specifico campo nell’ambito degli studi antropologici. 1. Definizione. Entrambe le prospettive sono proficue, soprattutto se si parte da una loro definizione ampia e cioè: l’a. come studio della distanza culturale, con particolare riferimento alle società extra-europee; l’educazione come attività sociale deliberata e sistematica del trasmettere ed acquisire valori e conoscenze, ideologie e tecniche, competenze ed abilità, che fanno parte del patrimonio della cultura in cui gli individui si trovano a vivere. In particolare l’educazione così definita non si esaurisce nelle teorie e pratiche messe in atto con i sistemi formali scolastici ma, volendo comprendere sia il contesto culturale occidentale che quello delle culture etnografiche, va verso il concetto di «inculturazione», comprendendo aspetti formali e non formali di una serie di processi che si esprimono nella relazione individuo-cultura più in generale. Questi processi sono numerosi e riguardano: l’apprendimento dello standard richiesto per divenire → adulto in una società data, la trasmissione della cultura tra le successive generazioni, la dinamica sociale della cultura, la formazione di società multietniche. Così, ancora, luogo di svol79

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gimento dell’educazione non è solo quello dell’istituzione → scuola, ma è coperto anche da una serie di agenzie che concorrono al → processo educativo dell’individuo, a partire dalla sua → famiglia di origine: il → gruppo dei coetanei, la strada e il vicinato, la → chiesa, il partito, il sindacato, le associazioni del → tempo libero, e soprattutto i mezzi di → comunicazione di massa, con particolare riferimento alle società occidentali. In altre parole, secondo questa accezione ampia del rapporto a. e educazione, i termini della relazione costituiscono ciascuno un «processo» e non un «fatto», per quanto complesso, in cui il processo culturale ed il processo educativo interagiscono costantemente. È in questa prospettiva che alcuni studiosi parlano di a. educativa o a. dell’educazione. 2. Prospettive antropologiche. Nella storia del pensiero scientifico degli studi etnoantropologici il rapporto a. e educazione si trova sviluppato in entrambe le direzioni sopra delineate. La prima prospettiva trova affermazione negli USA a partire dagli inizi di questo sec. con F. Boas, E. Sapir, R. Benedict, → Mead ed altri, ed acquisisce negli anni successivi un rinnovato impulso sotto la spinta delle teorie psicoanalitiche freudiane, in particolare con R. Linton e A. Kardiner. La seconda prospettiva vede la figura di B. Malinowski che, impegnato negli anni ’30 nella fondazione di una teoria scientifica della cultura, in opposizione alle teorie evoluzioniste e diffusioniste in a., pone le istituzioni, in quanto appunto istituzioni sociali, come tratto differenziante la società umana dalla vita animale. Queste istituzioni – economia, politica, famiglia, educazione, magia/religione/scienza (con termine oggi più adeguato parleremmo di sistema simbolico o di sistema di credenze) – formano la cultura e sono la risposta sul piano organizzativo dell’uomo ai → bisogni naturali primari e comuni a più specie (sopravvivenza dell’individuo, del gruppo, della specie). Ancora, queste istituzioni sono identificabili come tratti universali dell’uomo e si configurano come «sistemi», cioè complesso di elementi interdipendenti tali, cioè, che al variare di uno di essi variano anche gli altri, in una logica organicistica. In particolare, poi, l’educazione svolge la 80

funzione di rinnovare, formare, addestrare, istruire con i contenuti culturali l’elemento umano delle diverse generazioni, realizzando così il processo di continuità della cultura stessa quale apparato per la soddisfazione dei bisogni. 3. Cultura e personalità. Nella cultura statunitense degli inizi del sec. il dibattito sull’educazione vede incontrarsi, al di là delle loro differenze interne, i due filoni di pensiero del pragmatismo e del neo-idealismo nella convinzione che il mondo possa migliorare ad opera della ragione umana e che l’educazione – intesa solo come istruzione scolastica – costituisca la forza propulsiva di questa ragione. L’educazione viene così considerata dal punto di vista dell’ → educatore, piuttosto che dal punto di vista del bambino che sta imparando, e definita essenzialmente come processo attraverso cui il bambino deve diventare ciò che l’adulto vuole che lui diventi. Di contro l’a. statunitense degli anni ‘30, nel più generale spirito di contributo alla crescita civile della società contemporanea, intende partire proprio dall’analisi dei processi d’apprendimento del bambino, individuando nell’analisi di contesti etnografici gli strumenti teorici e metodologici per stabilire i meccanismi che sovrintendono al processo di apprendimento. La ricerca antropologica è in grado di determinare le variazioni di questi meccanismi conseguenti alle differenze di cultura. Inoltre, per questa strada comparativa, l’educazione viene individuata come processo molto più ampio e comprendente tutto l’apprendimento formalizzato e non formalizzato, che porta l’individuo ad acquisire la cultura, a formarsi una → personalità, a socializzarsi, ad imparare ad adattare se stesso a vivere come membro di una data società. Lo sviluppo di questo filone di studi antropologici va suddiviso in due periodi successivi: dopo un primo periodo caratterizzato dalle ricerche comparative della Mead, nuovo impulso alla riflessione teorica avviene sotto la spinta delle teorie psicoanalitiche freudiane, in particolare con R. Linton e A. Kardiner. Interesse prevalente nel primo periodo è la dimostrazione della plasticità bio-psicologica della specie umana, sufficiente a consentire il condizionamento culturale degli schemi di comportamento degli adolescenti secondo

ANTROPOLOGIA E EDUCAZIONE

modalità in contrasto con lo stereotipo dell’ → adolescenza nella cultura del ceto medio europeo e statunitense. Così la Mead, al termine di numerosi studi sul campo presso diverse società dell’area del Pacifico, conclude che la responsabilità della formazione di quello che solitamente chiamiamo «temperamento» è da attribuire non a determinanti biologiche ma a contenuti educativi che, in armonia con le istanze più generali della cultura, privilegiano un comportamento particolare tra i tanti possibili. Inoltre, questa formazione non riguarda solo la fase dell’adolescenza del soggetto in formazione, ma molti altri momenti dello sviluppo e della formazione della personalità dell’individuo, anche nella sua età adulta. Infine la Mead riprende e sviluppa un tema caro ai suoi maestri, Sapir e Benedict, sulla «coerenza delle culture genuine» e la «incoerenza delle culture spurie»: le prime sono quelle prive di contraddizioni che, invece, sono caratteristica prevalente delle seconde, nel loro complesso. Queste contraddizioni, come la loro assenza, sono da riportare al modello educativo presente in una data cultura; compito dell’a. è, allora, quello di ricostruire la rete di questi caratteri educativi a partire da come il modello culturale complessivo si realizza storicamente in una cultura specifica. Ma a ben vedere, dato che la cultura delle popolazioni a livello etnografico non può essere individuata in istituzioni formali, il modello culturale viene colto dall’antropologo solo attraverso l’informatore di cui egli si avvale nella ricerca e che assume quale portatore dei valori espressi dal modello in questione. Alcuni interrogativi a catena, rimasti insoluti per questa posizione teorica, e che avranno soluzione successivamente solo con gli antropologi neo-freudiani, sono: a) quale relazione intercorre tra la cultura di un gruppo e la personalità dei suoi membri; b) perché alcune caratteristiche psicologiche sono condivise dai membri di un gruppo e sono coerenti, congruenti, appropriate alla cultura del gruppo stesso; c) come si spiega il cambiamento della società; d) se ogni individuo ripete quanto ci si aspetta dalle norme previste culturalmente, come, perché e quando l’individuo crea norme nuove che non corrispondono a quelle che ha introiettate nell’infanzia e nell’adolescenza; oppure, da dove prende norme esterne difformi, da

introiettare una seconda volta, dopo aver introiettato nella fase infantile le prime norme. Alcune ipotesi di lavoro elaborate dagli antropologi statunitensi di questo periodo, come risposte a tali interrogativi, sono: a) gli esseri umani raggiungono la condizione umana attraverso l’apprendimento ma, poiché questo apprendimento è posto all’interno di un ambiente sociale diverso per i differenti gruppi umani, ogni individuo che nasce in un gruppo è strutturato in un modo caratteristico, corrispondente alle norme che orientano il comportamento dei membri della sua società. Egli è un essere umano in quanto ha appreso, ma di una comunità particolare in quanto l’apprendimento varia da società a società; b) nella fase dell’inculturazione la cultura viene ricostruita dentro ogni individuo in modo da costituire la struttura della personalità: egli è psicologicamente pronto a fare ciò che deve fare secondo le norme coercitive del suo gruppo; c) queste norme esterne, che portano al cambiamento, possono derivare dal contatto del gruppo con altri gruppi esterni, organizzati secondo norme diverse, da rapporti di «acculturazione». Da qui una visione dei processi educativi alquanto difforme dalla sua iniziale visione idealizzata: l’apprendimento non avviene in modo naturale, senza problemi, per chi deve apprendere, ma in una situazione conflittuale che crea, all’interno dell’individuo, una continua tensione, un continuo dinamismo che si verifica durante la fase dell’inculturazione adattiva tra un quid che c’è già dentro l’individuo e ciò che la cultura vuole che lui introietti dall’esterno. Questa tensione si svolge durante tutta la vita ed emerge quando circostanze particolari l’agevolano, producendo cambiamento, cioè nuova cultura. Ma per la definizione di questo quid bisogna aspettare l’elaborazione freudiana della teoria psicologica dell’inconscio. Infatti, anni dopo è A. Kardiner, psicoanalista neofreudiano, a proporre uno schema operativo di spiegazione dei rapporti tra cultura e personalità, con la collaborazione di R. Linton, antropologo della scuola boasiana. È l’inizio del secondo periodo di questo filone di studi antropologici sull’educazione, cui si è accennato sopra. La cultura preesiste all’individuo già al momento della sua nascita. Nei primi anni di vita il piccolo della specie umana ha bisogno di cure finché non rag81

ANTROPOLOGIA E EDUCAZIONE

giunge l’autosufficienza e, grazie a queste cure, riceve soddisfazione ad una serie di suoi impulsi e di suoi bisogni psicofisiologici. La → frustrazione per Kardiner – a differenza di Freud – non viene prodotta dalla repressione del principio del piacere, ma dal mancato soddisfacimento dei bisogni fondamentali, cioè dal principio della realtà. I risultati della repressione sono rinvenibili nelle relazioni sociali imperfette, carenti, malsicure: il bambino che subisce repressioni dovute a scarse cure proietta successivamente sul sociale questo senso di carenza o di rivalità generando, attraverso questa proiezione, il significato ideologico delle norme sociali. Un certo tipo di repressione produce un certo tipo di assetto sociale che è coerente per tutti i momenti della vita sociale, perché unificato da una comune ideologia. Questo ordine sociale viene trasmesso da una generazione all’altra attraverso un sistema di allevamento infantile congruente con il modello di ordine sociale. Il bambino, per vedere soddisfatti i suoi bisogni, deve adattarsi a questo modello facendolo proprio e formandosi così un fondamento, una «personalità di base». Tutto ciò che si è prodotto nello scontro tra la struttura della personalità del bambino ed il primo rapporto con la cultura per la soddisfazione dei suoi bisogni, verrà ricercato dall’individuo, diventato adulto, in alcune istituzioni della società, istituzioni essenzialmente di tipo ideologico. Kardiner chiama queste istituzioni «secondarie» e chiama «primarie» quelle che presiedono al soddisfacimento dei bisogni fondamentali del bambino. L’insieme dei sistemi adattivi (nei confronti delle istituzioni primarie) e proiettivi (nei confronti delle istituzioni secondarie) costituisce ciò che Kardiner chiama la «struttura della personalità di base», che si pone a metà strada tra le istituzioni che sovraintendono al sostentamento e le istituzioni che costituiscono il sistema ideologico di un gruppo. La coerenza tra cultura e personalità viene postulata tanto all’interno delle istituzioni culturali quanto all’interno degli individui membri del gruppo. Infine, da esplicitare, come sottolinea Tentori, la serie di postulati che sono alla base del passaggio teorico tra risultati dell’educazione e presupposti culturali della formazione, riguardo alla personalità di base: a) le prime esperienze dell’individuo 82

esercitano un influsso duraturo sulla personalità, specie sullo sviluppo dei sistemi proiettivi; b) esperienze analoghe tendono a produrre configurazioni della personalità simili in individui che sono soggetti ad esse; c) le tecniche che i membri di ogni società impiegano nella cura e nell’allevamento dei fanciulli sono culturalmente modellate e tendono ad essere simili, benché mai identiche; d) le tecniche culturalmente modellate per la cura e l’allevamento dei soggetti differiscono da una società all’altra. 4. Interculturalità e multiculturalità. Un contributo significativo può oggi dare l’a. allo studio dei problemi d’acculturazione derivanti, nelle stesse società occidentali, dalla presenza di individui e gruppi provenienti da culture diverse rispetto al contesto d’ospitalità. I due termini interculturalità e multiculturalità, secondo prospettive diverse, stanno proprio ad indicare il complesso delle relazioni tra culture «altre» e distanti, venute in contatto diretto sul terreno delle società occidentali. La presenza di tali fenomeni culturali, in parte nuovi per alcuni paesi europei, mette in luce dinamiche spesso di conflitto tra le parti e pone, comunque, problemi di prospettiva politico-educativa e di reciproca conoscenza delle parti in gioco. Fenomeni di etnocentrismo, razzismo, intolleranza si contrappongono qui, sulla base del rapporto di alterità e differenza culturale, ad altrettanti valori quali il relativismo, l’integrazione, la tolleranza. Alla pratica e diffusione di questi valori può oggi contribuire l’a., proprio come studio della distanza culturale, per le sue specifiche finalità conoscitive, mentre all’educazione spetta il compito di avviare riflessioni, strumenti d’intervento, quadri teorici ed esperienze di interculturalità e multiculturalità. In particolare, luogo privilegiato di analisi e formazione consapevole di queste prospettive socio-culturali è il contesto scolastico. In questo contesto, infatti, si esprimono i meccanismi anche inconsci del controllo sociale e di esclusione della parola, quale garanzia del potere e dell’organizzazione dei ruoli sociali e culturali. Ancora, tra le pareti scolastiche si giocano i diversi ruoli nel rapporto docente/discente che esprimono massimamente i codici della comunicazione tra persone di diverse culture. Infatti, il processo

ANTROPOLOGIA PEDAGOGICA

della conoscenza, che si articola attraverso i diversi livelli di comunicazione, comprensione e spiegazione, in questo contesto può diventare strumento dell’incontro tra libere espressioni di portatori di diversa cultura, se il docente controlla il suo stesso codice pedagogico messo in atto. Da un punto di vista, poi, dei linguaggi la classe diventa luogo di acculturazione reciproca nella prospettiva di un confronto e di un’interazione in cui entra in gioco tutta la gamma delle potenzialità espressive linguistiche, grafiche, gestuali, cinesiche, prossemiche dei discenti. Non si tratta soltanto di penetrare l’esperienza altrui con gli strumenti propri della «riduzione antropologica», sia pure mettendo in luce ed esplicitando le nostre pregiudiziali per cogliere i modi d’esperire dell’altro. Piuttosto, l’indagine «antropologica» si apre a partire dalla intersoggettività che fonda la relazione con l’altro, cioè dalla relazione tra soggetti. In questo senso, come nota G. Bateson, «ogni significato dell’informazione e della comunicazione dipende dalla differenza che dà senso all’unità», come dire, ancora, che «è nell’ascolto che si genera la comunicazione». Bibl.: M ead M., Antiche tradizioni e tecniche nuove, Torino, Ilte, 1959; M alinowski B., Teoria scientifica della cultura ed altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1962; I d., Lo studio dell’uomo, Milano, Bompiani, 1964; K ardiner A., L’individuo e la società, Ibid., 1968; Beals R. - H. Houer , «L’educazione e la formazione della personalità», in Introduzione all’a. culturale, Bologna, Il Mulino, 1970, 555-595; M ead M., A. una scienza umana, Roma, Astrolabio/Ubaldini, 1970; K ardiner A., Le frontiere psicologiche della società, Ibid., 1973; Linton R., Lo studio dell’uomo, Ibid., 1973; Callari Galli M., A. e educazione. L’a. culturale e i processi educativi, Firenze, La Nuova Italia, 1975; 1979; Tentori T., A. culturale. Percorsi della conoscenza della cultura, Roma, Studium, 1990; Camilletti E. A. Castelnuovo, L’identità multicolore. I codici di comunicazione interculturale nella scuola dell’infanzia, prefazione di M. Squillacciotti, Milano, Angeli, 1994; Liverta Sempio O. - A. M archetti (Edd.), Il pensiero dell’altro. Contesto, conoscenza e teorie della mente, Ibid., 1995; Nanni C., A. pedagogica e scritture per l’oggi, Roma, LAS, 2002.

M. Squillacciotti

ANTROPOLOGIA PEDAGOGICA Ambito della riflessione pedagogica riguardante i tratti umani e la concezione dell’uomo, che soggiace o fa da quadro di riferimento alla ricerca e alla riflessione pedagogica e che, in vario modo e misura, illumina e motiva l’ → azione educativa (v. anche → uomo). 1. L’a. come forma caratteristica del pensiero contemporaneo. Al di là delle sue tradizionali forme disciplinari (filosofica, fisica, culturale, sociale, medica, pedagogica...), l’a. è venuta ad avere un posto centrale nella cultura occidentale del nostro secolo, al punto da far parlare di una «svolta antropologica». Ma è innegabile che essa è risultato di un processo e di una ricerca culturale, plurisecolare ed epocale, che ha caratterizzato fin dall’inizio l’epoca moderna. Sul terreno dell’a., la riflessione e la ricerca degli ultimi decenni sembra aver superato la frattura tra teologia, filosofia e scienze umane, arrivata al suo punto più alto alla fine del secolo scorso e nella prima metà del nostro secolo. Tra tali ambiti di studio sembra ultimamente esserci un tacito patto di alleanza, allargata alle scienze naturali ed ecologiche, alle scienze logiche e matematiche, alla ricerca tecnologica ed informatica (soprattutto quella riguardante lo studio e la ricerca sull’ → intelligenza artificiale). La necessità di una «nuova sintesi», ben oltre quella tra biologia e sociologia auspicata e tentata da E. O. Wilson e collaboratori, si coniuga con una forte e sentita «preoccupazione per l’uomo» (Guardini). Le grandi religioni (ma a loro modo anche molte nuove forme di religiosità), la politica internazionale, il sistema della comunicazione sociale sembrano vincere la loro tradizionale separatezza e il reciproco sospetto proprio attorno alla difesa, alla tutela e alla promozione dei diritti umani. Questi impegni pratici e percorsi teorici hanno evidenziato: «il posto dell’uomo nel cosmo», unico tra gli esseri viventi «che sa dire di no» perché capace di trascendenza (Scheler); l’«analitica esistenziale» della condizione umana e del suo «essere nel tempo con gli altri» (Heidegger); il suo operare che lo rende capace di «liberarsi dallo svantaggio» e dalle «manchevolezze della sua esistenza» (Gehlen) perché incamminato lungo «la via della cultura e della civiltà» (Cassirer) o perché 83

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capace di azione economica trasformatrice e di «lotta politica» (Marx); la sua «eccentricità» (Plessner) e il suo «essere diverso», perché persona (→ personalismo); e tuttavia la sua vicinanza alla condotta animale (che fa pensare a → Lorenz, all’«altra faccia dello specchio» e a Morris, alla «scimmia nuda»); la sua ingegnosità tecnologica, che porta quasi ad annullare i limiti tra «naturale» e «artificiale», tra «reale» e «virtuale». Ma hanno pure portato alla luce: la vastità del «mondo della vita» (Husserl); la profonda e contraddittoria forza impulsiva e aggressiva, inconscia e conscia (psicoanalisi e etologia); l’assurdità e il non senso dell’esistenza (esistenzialismo); l’alienazione e la dominazione propria di molti rapporti interpersonali e sociali (marxismo e neo-marxismo); le tante forme di necessità e casualità con cui ha a che fare (Monod); la rigidità e la pesantezza delle strutture in cui si trova avviluppato (strutturalismo); la vena di nichilismo che pervade l’attuale condizione storica (Nietzsche e il neo-nichilismo); il rischio di perdita dell’identità e del senso della vita e dell’agire nell’accrescersi della complessità vitale del mondo globalizzato, delle dinamiche multiculturali, dell’espandersi del «virtuale», e delle profonde possibilità di intervento sull’uomo che le innovazioni tecnologiche permettono (intelligenze artificiali, robot, cyborg, clonazione, ecc.), tali da far parlare di «post-umano» (Fukuyama). 2. Aspetti disciplinari della a.p. Suggestioni sulla vita umana e sull’essere uomo in sé e per sé, o in quanto società politicamente organizzata o ancora in quanto essere relazionato con Dio e con una comunità religiosa, sono alla base della pratica educativa e della riflessione pedagogica tradizionale antica e moderna. In tal senso rimane fondamentale l’apporto della ricerca filosofica e teologica. Tuttavia, è tra le due guerre e nell’immediato secondo dopoguerra, soprattutto in ambienti di cultura tedesca, che l’a.p. si è andata delineando nella sua specificità. Più che di un ambito disciplinare univoco, si tratta per lo più di contributi di vario tipo e di diverso approccio: a prevalenza filosofica, psicologica, sociologica, antropologico-culturale, biologico-neurologica; come risultato di ricerca storica o di ricerca positivo-sperimentale. Pure notevoli sono le differenze di 84

scuola o d’indirizzo, anche nel solo ambito psico-sociologico (comportamentistico, funzionalistico, strutturalistico, cognitivistico, fenomenologico, ermeneutico, emancipativo). E tuttavia, negli ultimi tempi sembra rilevabile una larga convergenza che va ben oltre la comunanza dell’oggetto d’indagine: il farsi umano, nelle sue molteplici dimensioni e modalità processuali, nel suo sviluppo evolutivo o nel suo quadro terminale di personalità adulta, matura, anziana. La via più comune di ricerca è ancora quella che tende a mettere in luce anzitutto le particolarità d’ingresso nella vita dell’essere umano, soprattutto in rapporto con gli altri esseri viventi, grazie agli apporti della genetica, della biologia, dell’etologia, dell’ → a. culturale e sociale. In tal senso si mettono in luce la «precocità», l’«inettitudine», l’«immaturità» e per altro verso le radicali capacità di apertura relazionale, di apprendimento, di intelligenza, di simbolizzazione, di linguaggio, di plasticità e di adattamento all’ambiente. Ma, in rapporto alla coscienza pedagogica contemporanea, che ha dilatato i tempi ed i modi dell’educazione con i concetti di → educazione permanente, di società educante e di educazione integrale, particolare attenzione viene oggi riservata anche alla tarda giovinezza, agli adulti, agli anziani (e, pertanto, andando ben oltre la cosiddetta → pedologia). Il senso del limite e dell’impegno umano, la migliore conoscenza del potenziale umano e delle risorse umane, hanno stimolato a comprendere meglio l’umanità di coloro che in vario modo sono diversamente abili o variamente svantaggiati; ed hanno fatto allargare lo sguardo pedagogico a categorie di persone o aree umane poco considerate in passato (giovani, donne, malati, sottoproletariato urbano e rurale, emarginati, immigrati, minoranze etniche, linguistiche, religiose...). A loro volta, le modalità epocali, complesse, differenziate e in profondo mutamento, hanno spinto a ripensare le categorie antropologiche di base del rapporto e dell’intervento educativo: la libertà, l’alterità, la reciprocità; la soggettività, la razionalità, la prassi e la progettualità umane (→ senso). 3. L’educabilità. Comune è anche l’obiettivo e l’interesse che guida questi modi di ricerca pedagogica: attraverso la raccolta d’indizi presenti nel fenomeno umano si cerca di de-

ANTROPOLOGIA PEDAGOGICA

lineare i «compiti» dello sviluppo e i tratti qualificanti l’esistenza umana nelle diverse età, situazioni e modalità di vita. Il risultato a cui si tende è l’accrescimento delle conoscenze riferibili in vario grado alle caratteristiche evolutive, esistenziali ed essenziali degli esseri umani, che permettano di considerarli → soggetti (termine più preciso di «destinatari») di attività educative. Per tal motivo si dice che l’a.p. ha come suo fine ultimo aiutare a comprendere più e meglio l’«educabilità» umana. Con questa categoria, s’intende globalmente riferirsi a quegli ambiti e a quegli aspetti dell’esistenza soggettiva, relazionale e sociale, che richiedono o perlomeno appellano ad un’azione individuale e/o comunitaria di sostegno o d’aiuto, affinché arrivino ad un loro sviluppo, per quanto è possibile «formato», vale a dire ottimale, o quanto meno adeguato alle esigenze dell’ambiente e dei tempi. In questi termini «educabilità» significa ciò che in vario grado, nei soggetti, nei gruppi, nelle comunità può essere aperto all’azione educativa. Per altro verso, e conseguentemente, con la categoria dell’«educabilità» si viene ad indicare, per così dire, il campo d’azione dell’educazione. In tal modo si viene a evidenziare, come – secondo la formula cara all’esistenzialismo, ma ormai comune alla coscienza culturale contemporanea – l’essere umano, nel corso della sua esistenza storica, costruisce e definisce se stesso. E ciò, sulla base delle potenzialità soggettive ed oggettive che gli si presentano, nell’interazione con l’ambiente, grazie all’aiuto degli altri, per cui è messo (e man mano si mette) a parte del patrimonio sociale della cultura; e sempre più, crescendo, compartecipa con l’apporto delle sue decisioni ed azioni alla trasformazione e qualificazione umana di se stesso e del mondo. In tale volume di processi, al medesimo tempo naturali ed umani, individuali e collettivi, è pure iscritta la possibilità di involuzioni, di cadute in forme regressive, di fissazioni funzionali, di dominazioni esterne, di alienazioni di se stessi. Peraltro la pedagogia contemporanea tende sempre più a dar risalto alla fondamentale storicità e individualità sia del bagaglio di potenzialità formative, individuali e contestuali, sia della formazione di esse: ad evitare qualsiasi forma di omologazione e standardizzazione massificante e, all’opposto, a dare spazio alla varietà e alla

ricchezza delle differenze e particolarità individuali o di gruppo. 4. Necessità dell’educazione? La categoria dell’educabilità mette in risalto un modo specifico e globale di vedere l’uomo. L’a.p. si rivela come una modalità di essere della a. tout court, in quanto fa pensare all’uomo in termini di animal educandum: indicando – come la classica definizione aristotelica dell’uomo animal rationale – ciò che caratterizza specificamente l’uomo rispetto agli altri esseri viventi. Tale definizione sarebbe perlomeno da porre accanto alle caratterizzazioni che via via nell’età moderna sono state date dell’uomo: homo educandus accanto a homo faber, loquens, symbolicus, historicus, religiosus, ludens, ecc. Secondo alcuni pedagogisti dell’area tedesca (M. Langeveld in particolare), l’uomo, quale «essere da educare» costituirebbe l’oggetto proprio dell’a.p. ed offrirebbe ad essa il fondamento per la sua autonomia di disciplina scientifica. Per gli stessi autori, la definizione dell’uomo animal educandum sarebbe da prendere non solo nel senso più ovvio di «soggetto d’educazione», ma nel senso forte di essere che è «di necessità» da educare. L’educazione sarebbe assolutamente necessaria e non semplicemente un fattore utilissimo di formazione e qualificazione umana (in termini tecnici: di «necessità metafisica» e non semplicemente di «necessità morale»). Indubbiamente ciò che risulta necessario assolutamente è la partecipazione ad una comunità umana. Senza l’aiuto degli altri e la convivenza nell’«utero sociale» non si diventa e non si è umani, come a loro modo mettono in evidenza le vicende di bambini inselvatichiti o isolati socialmente. Rispetto alla «possibilità», che la categoria dell’«educabilità» esprime, la terminologia educandum, aggiunge nella sua forma grammaticale, l’istanza di impegno etico, la dimensione morale e di responsabilità che l’educazione comporta. L’«educabilità» trova il suo corrispettivo nel diritto soggettivo alla formazione, all’istruzione e all’educazione e nel dovere e compito, sociale e soggettivo, di dare adeguata attuazione a tale diritto. Ma è evidente che se si facesse riferimento all’educazione intenzionale e alla scolarizzazione sistematica, questa necessità non sarebbe più assoluta, perché molto si potrebbe apprendere per partecipazione diretta, 85

ANTROPOLOGIA PEDAGOGICA

per immersione nella vita e nelle pratiche sociali (quella familiare o del clan in particolare), per imitazione degli altri in genere e del gruppo o dei gruppi di appartenenza in particolare. In questo senso stretto di educazione, essa sarebbe necessaria tutt’al più per determinate persone chiamate a compiti, ruoli o «mestieri» specifici. Il problema tuttavia si pone oggi in modo nuovo: al livello di complessità sociale e vitale in cui storicamente ci troviamo a vivere, forse diventa necessario (e non semplicemente utile o aggiuntivo) per tutti un intervento sociale, specifico e sistematico, atto a favorire una crescita umana adeguata al livello di vita attuale e tale da essere umanamente degna di essere vissuta. I termini della questione risulterebbero pure più articolati se l’educazione venisse riferita non solo alla formazione dei singoli, ma all’insieme della vita sociale con le sue istanze storiche di liberazione e promozione integrale, per tutti e per ciascuno, per i popoli e per l’umanità intera presente e futura. 5. Il limite dell’educazione. Quest’attenzione alla situazione contemporanea ha il suo radicamento «ontologico» nell’essenziale storicità e culturalità della vicenda umana, sempre ed intrinsecamente connotata dall’essere nel mondo con gli altri nella storia (al cui interno si pone, come prassi specifica, l’azione sociale di formazione). D’altra parte la tendenza a relativizzare la necessità dell’educazione ha pure il suo significato. In primo luogo essa sta a difendere la personalità del soggetto contro eccessive intromissioni esterne. In secondo luogo tende a dar risalto alle priorità del soggetto nei processi formativi, soprattutto quando, con il crescere dell’età si consolida sempre più l’attitudine dell’auto-direzione, quando cioè si diventa in qualche modo ed in diversa misura capaci d’intervenire su se stessi e sul proprio destino. In terzo luogo può essere considerata come un’istanza critica nei confronti di ogni tendenza a credere nell’onnipotenza dell’educazione. Non si vuole in alcun modo sminuire l’importanza, anzi l’urgenza e la responsabilità individuale e sociale di contribuire alla promozione umana attraverso l’educazione; ma certo occorre vigilanza critica rispetto ai facili, ingenui ed acritici affidamenti all’educazione, fin quasi a dimenticarne la fondamentale limitatezza, ambivalenza, facilità ad essere 86

strumentalizzata (→ educazione). L’esperienza educativa del passato e quella attuale possono essere abbastanza chiarificatrici al riguardo. La persona non è chiusa entro le strutture dei sistemi educativi ed entro il raggio d’azione dei suoi molteplici educatori. Anche se senza il contributo di altre persone non si arriva ad essere pienamente umani, è pur vero che l’educazione, nonostante le sue pretese, non sempre risulta in concreto positiva per l’avanzamento umano. Inoltre non tutto nell’essere è educabile. A sua volta l’enfasi sul bisogno di educazione, quando non è espressione di un eccessivo utopismo pedagogico o supporto ideologico di certi messianismi politici, è certamente un indice di quella vena d’illuminismo antropocentrico che pervade l’età moderna e che si affida – non sempre criticamente – alle capacità razionali di trasformazione umana ed ambientale. Dei limiti e delle possibili deviazioni di tale capacità la cultura contemporanea è stata fatta accorta soprattutto dagli esiti profondamente ambigui della tecnologia contemporanea e dal rischio, fattosi sempre più concreto, del tracollo ecologico o di una conflagrazione bellica nucleare, ben più rovinosa delle già gravi guerre mondiali (e le infinite guerre dei poveri) del sec. scorso. 6. A.p. e pedagogia. In alcuni ambienti pedagogici si usa distinguere l’a.p. dalla «teleologia pedagogica» (che studia i fini) e dalla «metodologia pedagogica» (che studia le strategie educative). Ad esse si potrebbe aggiungere la «tecnologia pedagogica» (per lo studio e la ricerca dei mezzi e degli strumenti operativi). Ma si è visto come spesso l’a.p. si allarga o perlomeno allude all’ordine dei fini e degli obiettivi educativi. Senza negare la legittimità di tali ambiti di studio, c’è certamente da evidenziare almeno la necessità di una corretta e valida → interdisciplinarità tra essi. All’interno poi dell’a.p. c’è da notare che il discorso dell’educabilità acquista tutta la sua pregnanza se si porta la ricerca non solo sui «fondamenti» strettamente antropologici, ma anche sulla concezione della realtà in generale e sui possibili orizzonti di valore che si discoprono all’azione umana. L’a.p. «necessita» di rapportarsi all’ontologia, alla ricerca metafisica, all’assiologia e, secondo i credenti, anche alla riflessione teologica e sapienziale.

ANZIANI

Bibl.: Maritain J., Umanesimo integrale, Torino, Borla, 1963; Mounier E., Il personalismo, Roma, AVE, 1964; Cassirer E., Saggio sull’uomo, Roma, Armando, 1968; Mencarelli M., Potenziale educativo e creatività, Brescia, La Scuola, 1973; Wilson E. O., Sociobiologia. La nuova sintesi, Bologna, Zanichelli, 1979; König E. - H. R amsenthaler (Edd.), Diskussion pädagogische Anthropologie, München, Fink, 1980; Volpi C., Paideia ’80. L’educabilità umana nell’era del postmoderno, Napoli, Tecnodid, 1988; Gevaert J., Il problema dell’uomo, Leumann (TO), Elle Di Ci, 8 1992; Buber M., Il principio dialogico, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1993; Acone G., A. dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1997; Scheler M., La posizione dell’uomo nel cosmo, Roma, Armando, 1999; Guardini R., Mondo e persona. Saggio di a. cristiana, Brescia, Morcelliana, 2000; Fukuyama F., L’uomo oltre l’uomo, Milano, Mondadori, 2002; Nosari S., L’educabilità, Brescia, La Scuola, 2002; Nanni C., A. p., Roma, LAS, 2002.

C. Nanni

ANZIANI La definizione di a. manca di un criterio oggettivo o condiviso. Per l’OMS si è a. a 60 anni, per l’ISTAT a 65. Altre definizioni correlano l’ingresso nella «terza età» con l’uscita dalla vita attiva; per altri ancora si è a. alla soglia di un rischio elevato di non autosufficienza (75 anni o «quarta età»). Fino alla relativizzazione totale di questa specifica condizione: «una persona è anziana quando si sente tale». 1. I momenti più indicati dagli a. stessi (Frisanco, 1988) come svolta verso la vecchiaia sono fatti coincidere con eventi patologici precisi o con la perdita della propria efficienza fisica (esiti invalidanti di malattie) e con la perdita degli affetti familiari: eventi luttuosi (morte del coniuge), il costituirsi dei figli come nucleo familiare autonomo. L’immagine dell’a. si caratterizza proprio per il senso di una perdita che si può estendere anche al ruolo professionale che innesca il processo di invecchiamento. Il soggetto, deprivato della propria posizione e funzione sociale, viene catapultato in una situazione diversa che probabilmente viene sentita come negativa, penalizzante, regressiva.

2. Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione è inarrestabile se si considera che dal censimento 1951 a quello del 2001 è più che raddoppiata l’incidenza della popolazione con 65 o più anni sul totale dei residenti in Italia: dall’8,2% al 18,7%, raggiungendo una popolazione di 10 milioni 700 mila persone. A elevare l’incidenza relativa della popolazione anziana concorre anche la diminuzione della natalità e della mortalità. Negli ultimi 10 anni la crescita più cospicua è stata quella degli ultrasettantacinquenni (+42%) o della «quarta età». L’attenzione con cui oggi si guarda a questa fascia di popolazione è giustificata da una serie di dati di rilevanza geriatrica: è documentato come i 75 anni facciano da spartiacque tra due età di rischio molto diverso rispetto alle malattie e alla non autosufficienza. 3. I → bisogni che segnano la condizione dell’a. possono essere molteplici e tra loro cumulabili: oltre alle povertà materiali (reddito, abitazione) vi è la carenza, inadeguatezza, improprietà delle risposte dei servizi (povertà istituzionali) e, soprattutto, i bisogni relazionali. In proposito le occasioni di stabilire rapporti appaiono generalmente limitate, circoscritte da una sorta di meccanismo di tipo socio-culturale per cui gli a. si incontrano e passano il loro tempo quasi esclusivamente con persone della propria età. Non molto diffusa è la fruizione di occasioni e servizi di tipo culturale, pur avendo proprio l’a., paradossalmente, più tempo per goderne e su questo incide la pregressa propensione o meno a fruirne, dato che le opportunità sembrano essere determinate dal livello di «risorse» (culturali, fisiche, economiche, familiari) che l’a. ha utilizzato nel corso della sua vita. In tal senso i più gratificati sono coloro che hanno condotto una vita più attiva; gli uomini rispetto alle donne; chi vive in casa rispetto a chi occupa un posto in strutture residenziali; chi ha maggiori possibilità economiche e più elevati livelli di autosufficienza (Frisanco, 1988). Una delle più grandi conquiste sociali di questi tempi, l’aumento della aspettativa di vita dell’uomo, tende ad essere presentata come un problema: lo attestano le cronache, le inchieste e anche i dibattiti di politica sociale e sanitaria. Infatti, le «immagini» sociali dell’a. sembrano connotarlo maggiormente in negativo come improdutti87

ANZIANI

vo, malato, inutile, superato (culturalmente) o risparmiatore, più che in positivo, per la migliore qualità media della vita o come risorsa, valore di testimonianza, nuovo consumatore. Così l’attenzione si focalizza prevalentemente sui costi ed i rischi della specifica condizione, mentre appare meno incisiva la valutazione delle risorse e delle potenzialità degli a. 4. Eppure l’universo degli a. non è una realtà omogenea, compatta; presenta al suo interno diverse condizioni che si riflettono sulla qualità della vita e sulla struttura dei bisogni: l’essere autosufficiente o non; di terza o quarta età; → uomo o → donna (se le donne vivono mediamente più a lungo, la loro vecchiaia è maggiormente segnata da un più elevato rischio di non autosufficienza e di confinamento domestico); di basso o medio/alto livello di status socioeconomico; di contesto urbano/metropolitano o non urbano/rurale; del centro-nord o del sud; di un’area più o meno dotata di una rete di servizi. La realtà dell’a. è caratterizzata da una variegata eterogeneità di situazioni e percorsi non riducili alla generalizzazione di una immagine pauperistica. È una realtà che per lo più si presenta vitale, con notevoli risorse ed opportunità e capace di giocare un ruolo specifico ed originale a livello relazionale e sociale. Come attestano recenti indagini è una condizione con tanti «più», in termini di anni da vivere, di salute, di risorse materiali (circa il 50% è abbiente), di istruzione (questa è la prima generazione di a. con titolo di studio superiore alla quinta elementare), di voglia di vivere e di fare in virtù di un atteggiamento positivo nei confronti della vita quotidiana. Gli a. sono diventati anche un target molto studiato dal marketing per la loro propensione al risparmio e all’investimento e sono altresì più in grado di autorganizzarsi e di partecipare, come si rileva dalla loro ampia presenza nell’associazionismo di promozione sociale e di tipo solidaristico. 5. Il rapporto tra a. e → servizi appare tuttavia ancora problematico e non è ascrivibile tanto all’emarginazione sociale dei vecchi di oggi, trasferita nel campo del diritto alla salute o alla assistenza. È qualcosa di più profondo, che nasce da visioni parziali ed errate della biologia dell’invecchiamento. C’è chi 88

ritiene la vecchiaia un processo immodificabile, determinato e del tutto involutivo. I servizi che nascono da questa visione sono di tipo contenitivo e assistenziale e forniscono un intervento anche illimitato nel tempo, ma il più possibile sempre uguale e al minor costo possibile, dal momento che non si attendono risultati. Non serve quindi valutare individualmente i bisogni e costruire i piani di intervento, poiché non vi sono obiettivi da raggiungere. All’opposto, vi è chi ritiene la vecchiaia una realtà inevitabile ma modificabile, che non comporta soltanto processi di involuzione, ma anche processi positivi, di compenso attivo alle perdite che l’età provoca nell’organismo. L’a., in questa prospettiva, può essere «guidato» ad una migliore realizzazione da comportamenti più salutari. Ciò porta a costruire servizi ad alto contenuto educativo, riabilitativo o addirittura preventivo, da cui ci si aspetta un importante guadagno in autosufficienza e salute che giustifica le risorse impiegate. È quindi necessario valutare e formulare obiettivi, piani di lavoro, verifiche in servizi dinamici, duttili, intensivi dove è prioritario e irrinunciabile un discorso di qualità. Si tratta di «inventare» un nuovo modo di affrontare questo fenomeno e di differenziare quanto più possibile le risposte in rapporto alle variegate strutture di bisogno dei diversi gruppi di a. 6. È ormai acclarato il triplice scopo dell’offerta di servizi per gli a.: 1) elevare la qualità della vita secondo l’obiettivo di «aggiungere vita agli anni» e mantenere il più a lungo possibile l’autosufficienza; 2) fronteggiare precocemente bisogni che altrimenti generano situazioni di povertà composite e patologie conclamate, che richiedono l’allontanamento dell’a. dal suo ambiente consueto di vita e un maggior costo per tutti; 3) facilitare l’accesso ai servizi spesso ostacolato da problemi di disinformazione circa le prestazioni e le opportunità esistenti, non solo per quanto concerne i servizi socio-sanitari, ma anche quelli pensionistici-previdenziali, culturali, del tempo libero, del turismo sociale ecc. In tal modo si ovvierà anche alla sostanziale non corrispondenza tra servizi fruiti e servizi di cui l’a. ha bisogno o che domanda. Inoltre si può ottenere valore aggiunto ai servizi attraverso la promozione e valorizzazione delle varie forme di → volontariato (anche di a. che

APPARTENENZA SOCIALE/RELIGIOSA

aiutano altri a.) da inquadrare nell’ambito di un progetto locale. La sfida maggiore che si presenta oggi alle nostra società è la riduzione del divario esistente tra aspettativa di vita totale e aspettativa di vita attiva, priva di disabilità. Si tratta di attivare reti di solidarietà sul territorio che abbiano come riferimento gli a. in quanto «soggetti attivi protagonisti» – non «oggetto» di interventi di tipo assistenziale e riparatorio – e di far sperimentare loro processi esistenziali di significatività comunitaria in modo da contrastare la mancanza di ruolo e di relazione e quindi la «non autosufficienza sociale». Bibl.: H anau C. (Ed.), I nuovi vecchi. Un confronto internazionale, Rimini, Maggioli, 1987; Frisanco R. (Ed.), Quarta età e non autosufficienza, Roma, TER, 1988; Facchini C., Invecchiare: un’occasione per crescere. Attività culturale e sociale e benessere. Rapporto 2002 Spi Cgil-Cadef, Milano, Angeli, 2003; Fondazione Leonardo (Ed.), Quarto rapporto sugli a. in Italia 2004-2005, Ibid., 2006.

R. Frisanco

APORTI Ferrante n. S. Martino all’Argine (Mantova) nel 1791 m. a Torino nel 1858, educatore italiano. 1. Ordinato sacerdote nel 1815, dopo aver effettuato studi sulle Sacre Scritture e delle Lingue Orientali, presso il Theresianum di Vienna, al ritorno in patria, forse sollecitato anche dalla lettura dell’Infant Education di Samuel Wilderspin nel 1829, aprì a Cremona una scuola infantile per bambini appartenenti a famiglie agiate. Alla fondazione del primo asilo fece seguito un intenso impegno per istituirne altri «allo scopo di raccogliere, custodire, alimentare ed educare» i bambini dai 3 ai 6 anni, aiutando i lavoratori nel mantenimento e nella formazione dei loro figli e quindi contribuendo all’instaurazione di una società fraterna fondata «su una più diffusa e solidale comprensione dei doveri dell’uomo, del cristiano e del cittadino». 2. Su questa base l’A. ha costruito il progetto educativo delle sue scuole il quale prevede-

va l’insegnamento della nomenclatura, del leggere, dello scrivere, del far di conto, della Storia Sacra, e per le bambine dei lavori donneschi, del canto, e suggeriva l’adozione del metodo «dimostrativo» perché considerato il più idoneo per soddisfare e coltivare la naturale curiosità dei bambini, e il sussidio delle stampe. Agli insegnanti l’A. chiedeva di tener presente quanto esposto nel Manuale e nella Guida, ma spesso la modesta preparazione culturale degli educatori, cui era affidato un numero eccessivo di alunni, ha favorito l’affermazione di un insegnamento ripetitivo, che faceva prevalentemente leva sulla memoria ed incapace di coltivare «integralmente» l’educabilità dei bambini. Bibl.: Sancipriano M. - S. S. M acchietti (Edd.), Scritti pedagogici e lettere, Brescia, La Scuola, 1976; M acchietti S. S., La scuola infantile tra politica e pedagogia dall’età aportiana ad oggi, Idid., 1985; Sideri C., F.A.: sacerdote italiano, educatore. Biografia del fondatore delle scuole infantili in Italia sulla base di una nuova documentazione inedita, Milano, Angeli, 1999.

S. S. Macchietti

APPARTENENZA SOCIALE/ RELIGIOSA L’a.s. viene studiata in rapporto alla coesione sociale. Essa potrebbe essere assimilata a un sentimento, una preferenza, un interesse; nelle scienze sociali è praticamente sinonimo di → atteggiamento, che è un concetto al tempo stesso comprensivo e operazionalmente ben determinato e che significa una disposizione o una strutturazione del dinamismo personale che orienta positivamente o negativamente il → comportamento riguardo a un oggetto psico-sociologico. Pertanto l’a.s. può essere definita come una disposizione psicosociologica e costituisce una strutturazione stabile dei processi percettivi, motivazionali ed emozionali attraverso cui uno si collega al proprio gruppo di inserimento. 1. L’a.s. consente al membro di percepirsi come facente parte di un gruppo, di identificarvisi, di parteciparvi e di trarne le motivazioni. Ancora di più: essa sta a indicare l’atteggiamento fondamentale verso il proprio 89

APPRENDIMENTO

gruppo; è strettamente connessa con il concetto di «rete sociale», che è come l’insieme dei legami di un individuo con altri referenti significativi (→ famiglia, amici, vicini e altre realtà informali). Le funzioni di questi ultimi sono molteplici, tanto di natura culturale che strutturale e funzionale. Dal punto di vista culturale, essa conferisce il senso di → identità sociale attraverso l’appartenenza. 2. Per l’a.r. occorre un minimo di interazione dell’individuo con il gruppo religioso. Non si tratta solo di un minimo giuridico e teologico (per i cattolici battesimo e professione di fede), ma di un minimo psico-sociologico, difficilmente quantificabile ma necessario e non certo riducibile a contatti sporadici e occasionali. Si richiede, in altri termini, l’accettazione del sistema dei valori, delle → credenze e dei modelli del gruppo. Le ricerche sociologiche ci hanno mostrato che l’adesione ai valori religiosi è necessariamente differente nei diversi «tipi» di fedeli. In ciò influisce ovviamente la storia religiosa dei singoli, che condiziona la diversa disponibilità per un’adesione motivata e motivante. È necessaria anche un’assimilazione al gruppo religioso che giunge, nel caso ottimale, alla piena → identificazione, in quanto all’interno del gruppo l’individuo trova i valori che costituiranno la base del suo personale progetto di vita. 3. In rapporto al sentimento di a.r. l’esistenza di diversi gruppi di riferimento può interferire sia negativamente sia positivamente. Un caso tipico è legato alla genesi dell’a.r. Si pensi alle situazioni di ripetuto conflitto di a. cui è sottoposto il bambino, il fanciullo, l’adolescente, il giovane, quando si trovino inseriti nei vari gruppi familiari, scolastici, amicali che spesso presentano notevoli diversità nel grado di conformità ai sistemi normativi di credenze religiose. L’evoluzione del sentimento di a.r. sarà condizionata così dal gioco delle lealtà di gruppo e avrà successo quella che sembra soddisfare maggiormente il livello di aspirazioni dell’individuo. In definitiva si può affermare che il sentimento di a.r. è condizionato dal maggior o minor grado di integrazione e/o impegno del gruppo nella struttura sociale e dalla valutazione più o meno positiva che gli appartenenti danno di tale integrazione. 90

Bibl.: Schachter S., The psychology of affiliation: experimental studies of the sources of gregariousness, Stanford, Stanford University Press, 1959; Pollini G., A. e identità. Analisi sociologica dei modelli di a.s., Milano, Angeli, 1987; Baragli C., Comunicazione di gruppo, Ibid., 1988; Carrier H., Psico-sociologia dell’a.r., Leumann (TO), Elle Di Ci, 1988; Canobbio G. et al., L’a. alla Chiesa, Brescia, Morcelliana, 1991; Donati P. P., Teoria relazionale della società, Milano, Angeli, 1991; Serpieri R., Identità e a. nella società della globalizzazione, Ibid., 2004.

J. Bajzek

APPRENDIMENTO All’interno dei processi vitali personali, la specificità del processo di a. consiste nell’acquisizione di nuove → abilità o conoscenze mediante l’esperienza. Tuttavia la preponderanza del fattore esperienza non permette di dimenticare le condizioni della dotazione ereditaria, né gli apporti creativi della intelligenza: l’esperienza dà i suoi frutti nell’a. se il soggetto è sufficientemente maturo e si avvantaggia molto dal contributo della comprensione e dall’intuizione. Spesso può essere difficile decidere se una nuova capacità di condotta sia dovuta principalmente all’esperienza o a processi di comprensione intelligente. L’a. riguarda molti settori di abilità e di contenuti, ed è per sua natura intimamente legato ai vari processi educativi. Di fatto si imparano abilità motorie di differente complessità e precisione, si impara a percepire oggetti, persone, situazioni, si impara a leggere ed a comprendere, si imparano parole, concetti, sistemi di pensiero, si imparano linguaggi espressivi, si imparano reazioni emotive e stati affettivi duraturi, si imparano ansie e nevrosi, come si imparano gusti, preferenze, idiosincrasie, sistemi di valori, stili di vita, credenze, speranze e tecniche di difesa e di decisione. L’a. stesso, poi, può riferirsi a soggetti differenti: persone o animali, bambini, adolescenti o adulti, normali o con vari gradi e tipi di disabilità. 1. I tipi di a. Tra i vari criteri possibili per tentare una tipologia dell’a., pare che il più adeguato sia quello che parte dai prodotti dell’a. stesso.

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1.1. A. di operazioni adattative. Con questo processo il soggetto, uomo od animale, acquisisce, in seguito all’esperienza, nuove capacità di incontro efficiente con l’ambiente, con nuove modalità di operazione. È questo il campo tipico degli inizi della ricerca psicologica sull’a.: già nel 1905 I. P. Pavlov metteva in luce i «riflessi condizionati», cioè quei processi per cui uno stimolo, di per sé indifferente, può avviare la reazione dell’arco riflesso originale, a condizione di precedere regolarmente lo stimolo originale del riflesso. Questa scoperta fu ben accolta dai «comportamentisti», che però rilevarono che spesso non bastava apprendere un nuovo stimolo per una condotta riflessa già prefabbricata, ma occorreva imparare, in seguito all’esperienza, un nuovo modo di operare, per giungere alla soddisfazione di motivi attualmente urgenti. Nacque così in Thorndike prima e in molti altri ricercatori poi (tra di essi il più famoso è → Skinner) il progetto di ricercare come si apprendono nuove operazioni. Il termine appropriato sembrò essere quello di «condizionamento operante», perché veniva condizionata una operazione, oppure quello di «a. strumentale» perché si apprendeva un mezzo per soddisfare un bisogno. Questo tipo di a., legato alla motivazione, perdeva parte della sua caratteristica di automatismo, propria del riflesso condizionato, per entrare sotto l’influsso dell’intenzionalità. Sia il condizionamento classico, pavloviano, che quello operante hanno continui e notevoli effetti anche sull’uomo: mediante essi impariamo, in modo più o meno consapevole, gusti e avversioni, tecniche di accostamento e di prevenzione; come si dirà in seguito, anche l’uomo può apprendere opportune condotte per raggiungere premi ed evitare castighi. 1.2. A. di informazioni. Questo tipo di a. è oggetto di trattazioni specifiche (→ informazione e → comunicazione), ed è pure studiato nell’ambito della → memoria; si rimanda perciò alle rispettive voci per indicazioni più estese. In particolare si può richiamare qui come l’a. riguardi i vari momenti del processo di informazione: si impara a percepire, cioè a riconoscere oggetti, persone, situazioni; si imparano informazioni singole, come pure sistemi semplici o complessi, a livello di esperienza concreta o di strutture cognitive astratte. Allo stesso modo si impara a conservare le informazioni, ad elaborarle, a ricu-

perarle e ad applicarle alle varie situazioni. 1.3. A. di atteggiamenti. L’atteggiamento è un tratto della personalità caratterizzato da una valutazione favorevole o contraria ad un certo oggetto (tipo di esperienza, persona, gruppo, idea, valore, ecc.). Anche questo tipo di a. è termine di considerazioni specifiche, da parte della → psicologia educativa, della psicologia sociale (a. sociale, di usi, valori, pregiudizi), e della psicologia clinica (a. di disposizioni emotive, sane o nevrotiche). Vi sono modi piuttosto passivi di apprendere un atteggiamento, come avviene nell’imitazione o per pressione sociale di un gruppo. L’a. di atteggiamenti per via di identificazione richiede una maggiore partecipazione del soggetto: questi percepisce il proprio bisogno di affermazione e di sviluppo, e si unisce emotivamente alla persona che vede vicina e riuscita, partecipando in tal modo all’esperienza del modello. Finalmente un atteggiamento può essere appreso in conseguenza di un mutamento interiore di quadri conoscitivi di valore, come influsso di nuovi motivi centrali, o in seguito ad esperienze particolarmente illuminanti. Al tema dell’a. di atteggiamenti appartiene anche la loro modifica, quando sono disadattanti; oltre che con i modi sopra accennati, questo risultato si raggiunge anche con gli interventi di trattamento dell’inconscio indicati dalle varie scuole di psicoterapia. 2. Fattori dell’a. L’a. ha varie condizioni che lo facilitano o lo inibiscono. Poiché vi sono tipi di a. molto diversi, occorre rifarsi ad ognuno di essi per rilevarne i fattori specifici. Se ne ricordano qui solo alcuni che riguardano il processo di a. in generale. Si vedrà in primo luogo un gruppo di fattori predisponenti, che vanno sotto il titolo di «disponibilità», quindi due altri fattori generali, quelli della motivazione e dell’esercizio o pratica. 2.1. La disponibilità ad apprendere. Già nel suo volume del 1913 Thorndike, applicando le nozioni di psicologia all’a. scolastico, parlava di readiness o disponibilità ad apprendere. Essa si può definire come la capacità e la volontà di apprendere. La capacità di apprendere a sua volta è determinata dalla maturazione e dal bagaglio di abilità e informazioni precedentemente acquisite, mentre la volontà di apprendere designa soprattutto 91

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le componenti emotive della situazione di a. a) La maturazione, o sviluppo determinato prevalentemente da fattori endogeni ereditari, ha una grande parte nel determinare la disponibilità ad apprendere. Certo, gli effetti della maturazione su una condotta non si possono misurare indipendentemente dagli apporti dell’ambiente e dell’esperienza. Tuttavia vi sono mutamenti di grande rilievo dovuti in gran parte a fattori endogeni. In particolare è rilevante lo sviluppo anatomico e funzionale del sistema nervoso, del sistema endocrino e dell’apparato muscolare. In psicologia evolutiva sono noti i vari stadi dello sviluppo cognitivo, ad es. secondo lo schema di Piaget, che suppongono fasi naturali di maturazione. b) Le abilità ed informazioni già possedute sono un altro prerequisito all’a. attuale. Sebbene questo sembri ovvio, e se ne tenga abitualmente conto nello svolgere passo passo un programma di insegnamento, tuttavia spesso non si è coscienti di ciò che di fatto si presuppone perché il soggetto possa comprendere informazioni, apprezzare beni educativi o apprendere tecniche di prestazioni professionali. Varie ricerche sono inoltre d’accordo nel segnalare che esistono momenti dello sviluppo particolarmente favorevoli all’a. di determinate abilità; se si lasciano passare a vuoto questi momenti critici, tale abilità non potrà più essere acquisita in seguito con quella perfezione, né essere alla base di ulteriori a. L’influsso dell’a. precedente è in particolare oggetto delle ricerche sul «transfer» o diffusività dell’a.; in specie si è rilevato che in un a. successivo vengono utilizzati sia materiali che tecniche precedentemente apprese. Si sono anche verificate le condizioni perché tale trasferimento avvenga: da simili verifiche può, ad es., emergere l’utilità di particolari curricoli o materie nel formare la mente. c) La disponibilità emotiva ad imparare si esprime sia nella motivazione che nelle disposizioni emotive che accompagnano l’a. Poiché la motivazione, come fattore di a., è stata ampiamente considerata dalle ricerche, ci limitiamo qui alla componente emotiva, essa pure, del resto, dipendente dalla motivazione. 2.2. L’esito dell’a. può dipendere da uno stato emotivo generale: soggetti ansiosi apprendono più facilmente, a pari condizioni, di soggetti non ansiosi quando percepiscono che il compito è alla loro portata, ma restano molto 92

al di sotto delle loro capacità se vedono nel compito un rischio di fallimento. Atteggiamenti generali possono portare ad affrontare subito un impegno o a dilazionarlo, a rischiare esperienze nuove o ad essere conservatori, ad essere costanti oppure a lasciarsi abbattere da parziali insuccessi. Inoltre vi possono essere settori specifici di a. davanti ai quali il soggetto si sente emotivamente bloccato da atteggiamenti verso un dato ambiente educativo, verso persone significative, verso particolari materie o abilità da apprendere. Vi sono infine le disposizioni emotive del momento, dovute a particolari circostanze favorevoli od avverse, a benessere o disturbi fisiologici, a condizioni ambientali di clima, aerazione, pressione atmosferica, ecc. Anche la fatica, che cresce con il tempo di applicazione, diventa un fattore negativo di a. Le ricerche hanno messo in luce che esiste una grande variabilità nella disponibilità ad apprendere, e che perciò è più importante rilevare l’età nervosa, endocrina, mentale che non quella cronologica. Inoltre ogni soggetto ha la sua storia che ha creato in lui particolari disposizioni. Si impone perciò la necessità di rilevare, nei momenti opportuni, la disponibilità ad apprendere, sia con procedimenti intuitivi, sia con tecniche psicometriche appropriate. 2.3. La motivazione. È ovvio che la → motivazione influisca sul processo e sull’esito dell’a., se si tengono presenti i quattro effetti della motivazione stessa, che sono quelli di iniziare, dirigere, sostenere l’attività e sensibilizzare selettivamente il soggetto. Per i vari tipi di a. la motivazione ha ruolo e contenuti differenti: ininfluente nel condizionamento classico, è la molla principale dell’a. strumentale, e si configura in modo specifico nell’a. di informazioni e di atteggiamenti. L’intensità ottimale della motivazione deve essere tale da sollecitare efficacemente il soggetto, senza tuttavia disturbare emotivamente il processo con una eccessiva urgenza. Dal punto di vista educativo pare particolarmente significativa la distinzione fra motivazione intrinseca e motivazione estrinseca: la prima tende ad un risultato che è prodotto naturale dell’a., mentre la seconda tende ad una soddisfazione aggiunta dall’esterno, ad es. al riconoscimento sociale, a vantaggi economici, e simili. Quando il soggetto non è ancora maturo per apprezzare certi beni culturali, è

APPRENDIMENTO

prassi comune avviarlo verso di essi con incentivi estrinseci. Varie ricerche condotte in ambito scolastico dimostrano l’effetto della lode e del biasimo sull’a., e dimostrano pure che questi incentivi hanno differente risonanza in differenti personalità. In particolare si è verificato che il comunicare con chiarezza e tempestivamente i risultati dell’a. ne facilita il progresso, sia perché serve come lode o biasimo (motivazione estrinseca), sia perché informa su ciò che, nell’a., funziona o non funziona. Si è anche notato che, nell’a. scolastico, una motivazione estrinseca comporta principalmente una strategia riproduttiva: lo studente si limita a fissare il puro necessario per poter riprodurre il materiale, e la tecnica prevalente è quella della memorizzazione meccanica. Una motivazione intrinseca, al contrario, porta il soggetto ad approfondire la materia, a comprenderla e collegarla con altre informazioni, in una parola a fare un a. significativo. Infine è da rilevare che una educazione riuscita comporta che i valori siano ricercati per se stessi, e che perciò l’educando passi dalla motivazione estrinseca a quella intrinseca. Talora un educatore può illudersi di aver raggiunto certi scopi basandosi su condotte esteriori dell’educando che possono essere governate da motivazioni del tutto estranee ai beni educativi che sembrano incarnare. 2.4. L’esercizio. Poiché nell’a. l’acquisizione di nuove abilità è dovuta principalmente all’esperienza, il fattore esercizio risulta essenziale. Questo fattore si misura nelle ripetizioni di un’operazione, o nel tempo dedicato alla pratica. Nel processo dell’a. si manifesta un continuo e progressivo miglioramento delle prestazioni, frutto dell’accumularsi dell’esperienza; questo lento e continuo progresso differenzia l’a. dalla condotta intelligente, in cui si passa direttamente dall’incapacità, dovuta alla mancanza di comprensione, alla piena abilità, come frutto dell’intuizione. La funzione della ripetizione è quella di fissare e consolidare le connessioni nervose e simboliche richieste e di eliminare i passi non necessari, in modo da rendere fluida e rapida la condotta appresa. Quando le attività da apprendere sono complesse, e cioè risultano dalla somma di varie abilità elementari, si può notare il fenomeno del plateau: dopo un iniziale miglioramento, per un certo periodo non si rilevano progressi

pur continuando l’esercizio, fino a quando il perfetto a. delle componenti elementari non permette la loro organizzazione nell’attività globale. Come per la memorizzazione, anche in questo caso si pone il problema se sia più efficiente un esercizio ammassato (in sessioni prolungate) o distribuito (in più sessioni relativamente brevi); in genere valgono le stesse indicazioni che si danno per la memorizzazione: non fare sessioni troppo brevi per utilizzare bene il tempo di «riscaldamento» o di preparazione, e per poter affrontare in una sola sessione unità coerenti del compito e, allo stesso tempo, evitare sessioni troppo lunghe, nelle quali non vi sia modo di rielaborare interiormente ciò che si apprende e la fatica, accumulandosi, renda inefficiente l’esercizio. Infine ci si chiede se sia meglio affrontare il compito da apprendere in modo globale o per singole parti; la risposta deve tener conto della natura del compito (in alcuni casi non ha senso suddividere il compito da apprendere, in altri la complessità impone la suddivisione), e delle disposizioni del soggetto (una persona più intelligente può approfittare maggiormente del contesto globale). 3. Implicanze educative. Il vasto campo degli oggetti, dei processi e dei fattori dell’a. apre una estesa problematica educativa, che in buona parte viene trattata nelle voci apposite. Tutto il campo dell’a. scolastico rimanda alla psicologia educativa/scolastica e della comunicazione; allo stesso modo l’a. di atteggiamenti suppone lo studio dell’apporto emotivo e valoriale del contatto con l’ambiente sociale. Raccogliendo alcune indicazioni da quanto si è esposto, notiamo come lo studio dell’a. rivela che si può essere condizionati senza accorgersene e che in noi si possono creare connessioni inconsce e incontrollate, che ci aiutano o ci disturbano. A questo riguardo è anche da rilevare che, accanto all’a. intenzionale, o appositamente ricercato, vi è un a. «incidentale», cui possiamo essere sottoposti senza volerlo. In secondo luogo si ricorda l’urgenza di verificare la disponibilità ad apprendere, e a curarla dove fosse carente; qualora ciò fosse trascurato, l’offerta educativa potrebbe essere del tutto o in parte inutile. Ancora si ricorda l’importanza di favorire il passaggio dalla motivazione estrinseca a quella intrinseca, così che l’educando non si 93

APPRENDIMENTO AUTODIRETTO

senta governato dall’esterno, ma operi per adesione personale a valori da lui percepiti come tali. Infine, richiamando il vecchio detto che si impara non per la scuola, ma per la vita, si farà particolare attenzione che quanto si offre come oggetto di a. possa servire come base per quell’a. che, durante tutta la vita, permette di affrontare con successo i vari compiti che essa presenta. Bibl.: H ilgard E. R. - G. H. Bower, Le teorie dell’a., Milano, Angeli, 1970; Bloom B. S., Caratteristiche umane e a. scolastico, Roma, Armando, 1979; Roncato S., A. e memoria, Bologna. Il Mulino, 1982; Bertondini A., Biologia e a., Bologna, Esculapio, 1984; Boscolo P., Psicologia dell’a. scolastico. Gli aspetti cognitivi, Torino, UTET, 1986; Cornoldi C., A. e memoria nell’uomo, Ibid., 1986; Gagnè E. D., Psicologia cognitiva e a. scolastico, Torino, SEI, 1989; Montuschi F., Competenza affettiva e a. Dalla alfabetizzazione affettiva alla pedagogia speciale, Brescia, La Scuola, 1993; Ronco A., Introduzione alla psicologia, vol. 2: Conoscenza e a., Roma, LAS, 1994; Fiorin I., La relazione didattica: insegnamento e a. nella scuola che cambia, Brescia, La Scuola, 2004.

A. Ronco

APPRENDIMENTO AUTODIRETTO In ing. Self-directed learning, in fr. autoformation. Dirigere se stessi nel proprio a. culturale e/o professionale può essere riletto secondo due prospettive complementari, integrando tra loro i concetti di autodeterminazione e di autoregolazione. Con il termine «autodeterminazione» si segnala la dimensione della scelta, del controllo di senso e di valore, della intenzionalità dell’azione: è il registro della motivazione, della decisione, del progetto, anche esistenziale. Con il termine «autoregolazione», che evoca monitoraggio, valutazione, pilotaggio di un sistema d’azione si insiste di più sul registro del controllo strumentale dell’azione. Al primo livello, nel dare senso, finalità, scopo all’azione ci si colloca sul piano del controllo di tipo «strategico», che mette in evidenza la componente motivazionale, di senso, di valore. Al secondo livello si ri94

chiede, invece, di sorvegliare la coerenza, la tenuta, l’orientamento dell’azione e regolarne il funzionamento o pilotarla; si tratta di un livello «tattico». 1. Nel caso dell’a. scolastico, le indagini finora svolte (Pellerey, 2006) hanno messo in luce le caratteristiche che distinguono gli studenti che sono in grado di autodirigere il proprio a. da quelli che non lo sono. 1) Essi hanno famigliarità e sanno utilizzare un insieme di strategie cognitive (memorizzazione, elaborazione, organizzazione), che li aiutano a considerare, trasformare, elaborare, organizzare e recuperare le informazioni. 2) Sono in grado di pianificare, controllare e dirigere i propri processi mentali al fine di conseguire obiettivi personalmente scelti. 3) Mostrano un insieme di convinzioni motivazionali ed emozioni favorevoli, come senso di autoefficacia scolastica, orientamento ad apprendere e non solo a conseguire buoni voti, sviluppo di emozioni positive nei riguardi dei compiti da affrontare (gioia, soddisfazione, entusiasmo, ecc.) e la capacità di controllarle e modificarle secondo le esigenze dei compiti e delle situazioni. 4) Sanno pianificare e controllare il tempo e lo sforzo coerentemente con gli impegni assunti, riuscendo a strutturare ambienti favorevoli all’a. e cercando nelle difficoltà l’aiuto degli insegnanti e/o dei propri compagni. 5) In base alle possibilità esistenti, mostrano grande impegno nel partecipare alla gestione degli impegni scolastici, del clima della classe e della sua organizzazione. 6) Sono capaci di mettere in atto una serie di strategie volitive, dirette ad evitare distrazioni interne ed esterne, a mantenere la concentrazione, lo sforzo e la motivazione, mentre portano a termine i loro compiti. 2. Come si può facilmente notare, le prime due indicazioni si riferiscono ad aspetti comportamentali di tipo metacognitivo, in quanto tengono conto di conoscenze, sensibilità, monitoraggio e governo di processi di natura cognitiva. La terza indicazione tocca aspetti di gestione della dimensione emozionale e motivazionale. La quarta e la sesta coprono competenze di natura volitiva, mentre la quinta evoca senso di partecipazione e responsabilità alla vita della comunità di a.

APPRENDIMENTO COOPERATIVO

Bibl.: Zimmerman B. J., A social cognitive view of self-regulated academic learning, in «Journal of Educational Psychology» 81 (1989) 329-339; Boekaerts M. - P. R. Pintrich - M. Zeidner (Edd.), Handbook of self-regulation, San Diego, CA, Academic Press, 2000; Carré P. - A. Moisan, La formation autodirigée. Aspects psychologiques et pédagogiques, Paris, L’Harmattan, 2002; Pellerey M., Dirigere il proprio a., Brescia, La Scuola, 2006.

M. Pellerey

APPRENDIMENTO COOPERATIVO L’a.c. (Cooperative learning) è un metodo d’ → insegnamento che si contrappone a metodi di tipo individualistico e competitivo. In senso generale può essere definito come un insieme di tecniche per la classe secondo le quali gli studenti lavorano in piccoli gruppi per attività di a. e ricevono valutazioni in base ai risultati conseguiti dal gruppo. In questo modo esso si propone di coinvolgere maggiormente le risorse e la responsabilità degli studenti nel loro a. 1. Dell’a.c. si conoscono varie modalità di applicazione: a) per D. W. Johnson e R. T. Johnson (1994), gli elementi fondamentali del Learning together sono: l’interdipendenza positiva, l’interazione promozionale faccia a faccia e l’uso di competenze interpersonali, la valutazione individuale e di gruppo, la revisione dell’attività di gruppo; b) per Slavin (1990) lo Student team learning ha i suoi punti forza nell’interazione del piccolo gruppo ma, soprattutto, nella responsabilità individuale e nell’elargizione di incentivi e ricompense il cui conseguimento stimola il gruppo all’impegno; c) secondo Kagan (1994), lo Structural approach propone come principi chiave: l’interazione simultanea, la partecipazione, l’interdipendenza positiva e la responsabilità individuale nei risultati di a. conseguiti; d) il Group investigation (Sharan-Sharan, 1992; Sharan, 1994) è un approccio particolarmente seguito e sviluppato in Israele. Esso sottolinea come elementi efficaci dell’a.: la ricerca, l’interazione, l’interpretazione e la motivazione intrinseca; e) la Complex instruction (Cohen, 1994) organizza l’a.c. a partire dalla

constatazione che la formazione del piccolo gruppo favorisce i migliori e indica strategie da seguire affinché sia data a tutti i membri di un gruppo la stessa opportunità di esprimersi e di apprendere. In questo orientamento gli elementi essenziali sono: correggere i pregiudizi sulle abilità, educare gli studenti all’interazione e alle specifiche competenze secondo il compito richiesto, organizzare compiti complessi, attribuire a ogni studente un ruolo da svolgere, valutare il lavoro di gruppo per poterlo migliorare; f) il Collaborative approach (Cowie, 1995) raccoglie un vasto movimento che unisce al tema della mediazione del gruppo interessi e punti di vista diversi: l’a., prospettive curricolari, temi specifici (politici, sociali, psicologici). 2. Gli elementi essenziali per la scuola suggeriti dalla Cowie sono: organizzazione dei gruppi non basati sull’amicizia, insegnamento esplicito delle competenze sociali, gestione positiva del conflitto. Affinché i gruppi di studenti compiano un a.c., è necessaria la messa in atto di quattro elementi fondamentali: l’interdipendenza positiva, l’interazione faccia a faccia e l’uso di competenze sociali, la valutazione individuale e, infine, la revisione e il miglioramento continuo del lavoro di gruppo. Bibl.: Slavin R. E., Cooperative learning: theory, research, and practice, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1990; Sharan Y. - S. Sharan, Expanding cooperative learning through group investigation, New York, Teachers College Press, 1992; Cohen E. G., Restructuring the classroom: conditions for productive small groups, in «Review of Educational Research» 64 (1994) 1-35; Johnson D. W. - R. T. Johnson - E. J. Holubec, Cooperative learning in the classroom, Alexandria, ASCD, 1994; K agan S., Cooperative learning, San Juan Capistrano, Kagan Cooperative Learning, 1994; K agan S. - M. K agan, «The structural approach: six keys to cooperative», in S. Sharan (Ed.), Handbook of cooperative learning methods, Westport, Greenwood Press, 1994, 115-133; Cowie H., International perspectives on cooperative and collaborative learning: an overview, in «International Journal of Educational Research» 23 (1995) 197-200; Marín S., Aprender cooperando: el aprendizaje cooperativo en el aula, Madrid, Dir. General de Ordenación, 2003.

M. Comoglio

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APPRENDIMENTO: DISTURBI DELL’

APPRENDIMENTO: disturbi dell’ Difficoltà o incapacità di raggiungere i livelli scolastici attesi dall’ambiente socioculturale. 1. Si possono distinguere due tipi di disturbi: a) disturbi generali di a. e cioè difficoltà presenti in tutte le aree dell’a., per cui si verifica un rendimento scolastico globale inferiore alla media. È possibile individuare l’origine di tali disturbi nei fattori: fisici (lesioni cerebrali, sordità, cecità, o altri handicap di carattere organico); intellettuali (inibizione intellettiva); affettivi (carenze affettive, presenza di un elevato livello di → ansia, disturbi nevrotici o psicotici, stati depressivi, iperattività); familiari (disturbi psichici di uno o di entrambi i genitori, conflitti coniugali, separazione o → divorzio, elevate richieste e attese da parte dei genitori circa il rendimento scolastico o all’opposto loro incapacità a motivare adeguatamente i figli allo studio, eccessiva rivalità fraterna alimentata da sistematici confronti da parte dei genitori); socio-culturali (condizioni economiche sfavorevoli, basso livello sociale dove non è presente come valore l’istruzione scolastica); b) disturbi specifici dell’a., per cui compaiono difficoltà in un settore particolare dell’attività scolastica. I soggetti interessati a tali disturbi abitualmente hanno un QI normale. 2. I principali disturbi specifici dell’a. sono: la → dislessia e la → discalculia. Il termine dislessia (dal gr. dis: difficile e lexis: parola) sta ad indicare la presenza di una difficoltà di lettura, per cui soggetti scolarizzati e d’intelligenza normale denunciano una grave difficoltà a decodificare le parole stampate. Non si può parlare di dislessia se non dopo i 7 anni. Prima di questa età infatti gli errori di lettura sono banali e frequenti. Tale disturbo è abitualmente accompagnato anche dalla disortografia e cioè da una difficoltà a scrivere correttamente. Inoltre esso è più presente nei maschi che nelle femmine, in rapporto da 4 a 1, e nei soggetti di età scolare lo si riscontra in una percentuale che oscilla tra il 5 e il 15%. Non si è di fronte ad una vera e propria dislessia, se la difficoltà di lettura è connessa con disturbi presenti anche in altri settori di a. (aritmetica, storia, geografia). Le principali modalità di espressione della dislessia sono: confusione di lettere 96

con grafia simile (e-a, l-h, m-n); confusione di suoni simili (p-d, v-f); inversione cinetica di alcune lettere nella parola (in-ni, al-la); confusione di lettere graficamente simmetriche (n-u); omissione o aggiunta di lettere, sillabe o parole; contrazione e deformazione di sillabe, lettere o parole; righe saltate; punteggiatura e tono inesistenti; non distinzione delle parole simili tra loro. Da segnalare che oltre alla dislessia esiste anche il disturbo dell’iperlessia. Esso consiste nella capacità, superiore alla media, di decodificare le parole senza però capirne il significato. 3. Circa l’eziologia della dislessia ci sono due grandi correnti: a) teoria del singolo fattore che individua la causa in una disfunzione del processo visivo-spaziale; b) teoria multifattoriale che vede la dislessia come il risultato dell’influsso più o meno accentuato di due o più fattori tra loro connessi. Possono essere: fattori genetici, disturbi cerebrali, mancinismo contrastato, turbe della comunicazione verbale, cattivo orientamento visivo-spaziale, debolezza uditiva; disturbi dello schema corporeo, identificazione inadeguata, fissazione o regressione affettiva, inibizione intellettiva, turbe della funzione simbolica, carenze culturali. Relativamente al peso che i fattori elencati rivestono, si possono distinguere diversi tipi di dislessia: a) costituzionale. È la più grave e la più difficile da curare. Essa è collegata ad una cattiva lateralizzazione, a disturbi del linguaggio, a perturbazioni gravi a livello dell’orientamento, con conseguenti disturbi a livello intellettivo e di personalità; b) evolutiva. È determinata dalla mancata individuazione del mancinismo fin dai primi esercizi scolastici o da un metodo difettoso di apprendimento; c) affettiva. È legata ad un blocco affettivo-relazionale. 4. Rispetto alla dislessia, la discalculia è più rara. Essa consiste in una difficoltà a comprendere ed utilizzare i numeri e quindi in una incapacità di effettuare operazioni aritmetiche elementari (addizione, sottrazione, ecc.) e conseguentemente, nelle scuole superiori, in un insuccesso nel campo della geometria, della fisica e della chimica, pur in assenza di una compromissione delle altre forme di ragionamento logico e di simbolizzazione. La discalculia è più presente nelle femmine che nei maschi. Nelle espressioni

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più correnti la discalculia è associata alla disgnosia digitale (difficoltà di riconoscere le dita) e all’aprassia costruttiva (difficoltà a riconoscere e a riprodurre i gesti e le figure nello spazio, come, ad es., un triangolo o una croce). La forma più completa di tale disturbo è la sindrome di Gerstmann. Essa comprende i seguenti sintomi: discalculia, dis­ gnosia digitale, difficoltà di strutturazione spaziale e cioè indistinzione sinistra-destra, disgrafia, aprassia costruttiva, disprassia digitale. Circa l’eziologia della discalculia vale quanto detto a riguardo della dislessia. 5. Si calcola che il 10-15% dei soggetti in età scolare denunci dei disturbi generali dell’a. e che il 5-10% sia coinvolto in un qualche disturbo specifico. Bibl.: Salzberger-Wittenberg I. - G. H enryPolacco - E. Osborne , L’esperienza emotiva nei processi d’insegnamento e di a., Napoli, Liguori, 1987; Jadoulle A., A. della lettura e dislessia, Roma, Armando, 1988; Leddomade B., La dislessia. Problema relazionale, Ibid., 1988; Cornoldi C., I disturbi dell’a., Bologna, Il Mulino, 1991; Tarnopol L. (Ed.), I disturbi dell’a. nell’infanzia, Roma, Armando, 1993; Van Hout A. - C. Meljac, Troubles du calcul et dyscalculies chez l’enfant, Paris, Masson, 2004; M artini A., Le difficoltà di a. della lingua scritta. Criteri di diagnosi e indirizzi di trattamento, Tirrenia, Edizioni del Cerro, 2004; Pratelli M., Le difficoltà di a. e dislessia. Diagnosi, prevenzione, terapia e consulenza alla famiglia, Bergamo, Junior, 2004; Catalano Sanchez R. - M. C. Ruffini Lasagna, Disturbi dell’a. scolastico, Roma, Armando, 2004.

V. L. Castellazzi

APPRENDISTATO → Formazione professionale

ARCHIVIO Si intende in generale per a. «la raccolta ordinata degli atti di un ente o di un individuo, costituitasi durante lo svolgimento della sua attività e conservata per il conseguimento degli scopi giuridici, politici o culturali di quell’ente o di quell’individuo» (Vagnoni, 1982,15).

1. Pare che il termine abbia assunto il suo significato tecnico nell’età ellenistica. Infatti verso la metà del sec. IV a.C. esisteva ad Atene un vero a. di Stato in cui erano conservati e consultati i documenti riguardanti l’amministrazione pubblica della città; ma l’origine dell’a. andrebbe fatta risalire a tempi più remoti: nel corso della storia l’uomo ha sentito il bisogno di conservare i materiali che testimoniano i fatti e i diversi aspetti della vita e dell’attività propri e del proprio Paese. Oggi il «materiale di a.» comprende, ad es.: esposizioni o rapporti su attività di singole persone o di gruppi, inventari di beni, contratti, statistiche, cronache e diari, saggi inediti, lettere personali. 2. Esistono diversi tipi di a. Dal punto di vista dello studio e della ricerca, presentano speciale interesse: l’a. corrente, che raccoglie materiali che si riferiscono a pratiche ancora in corso (ad es. l’a. della segreteria generale di una università); storico, che raccoglie fonti e documenti del passato (ad es. i diari e le cronache degli inizi di un’istituzione educativa); privato, che appartiene a individui o enti privati; pubblico, che appartiene a un ente pubblico o allo Stato (ad es. l’a. del Ministero della P. I.); ecclesiastico, che custodisce documenti riguardanti la vita e l’attività della Chiesa (ad es. gli a. parrocchiali). 3. Per una migliore conservazione e per una più agevole consultazione, i materiali archivistici sono riuniti in fascicoli (raccolta dei documenti che riguardano uno stesso argomento); buste o cartelle (raccolta di fascicoli). La consultazione viene pure facilitata da alcuni strumenti e sussidi: repertorio (registro o elenco con la descrizione della natura e del contenuto dei singoli documenti); inventario (registro in cui sono trascritti i dati essenziali del materiale custodito). Attualmente si sta generalizzando l’automazione degli a.: i dati conservati in essi sono reperibili ed elaborabili da un computer. Tuttavia non tutti gli a. sono debitamente organizzati e catalogati, anzi spesso la loro consultazione è assai faticosa. D’altra parte, non tutti i documenti sono liberamente consultabili. Per accedere a un a. si esige ordinariamente, oltre alla solita documentazione personale, lettera-presentazione da parte di un noto ricercatore o di un professore universitario. 97

ARDIGÒ ROBERTO

4. Dal punto di vista pedagogico, presentano speciale interesse le raccolte di documenti costituitesi durante l’attività di individui o di enti impegnati nel mondo dell’educazione e della scuola. Ma offrono pure notizie utili (e spesso necessarie) per conoscere la situazione di un’istituzione educativa i rapporti e le testimonianze di persone che, indirettamente e disinteressatamente, si riferiscono al tema. È nota, per es., l’importanza degli a. notarili e parrocchiali per lo studio dell’andamento dell’alfabetizzazione in un Paese (mediante l’esame delle firme presenti o assenti nei testamenti e/o negli atti di matrimonio). Bibl.: Vagnoni S., Archivistica. Ordinamenti, normativa, tecniche, economia, Latina, Bucalo, 1982; Colombo F., Gli a. imperfetti. Memoria sociale e cultura elettronica, Milano, Vita e Pensiero, 1986; Prellezo J. M. - J. M. García, Invito alla ricerca. Metodologia e tecniche del lavoro scientifico, 4ª ediz. riveduta e aggiornata, Roma, LAS, 2007 (trad. sp.: Investigar. Metodología y técnicas del trabajo científico, Madrid, CCS, 2006).

J. M. Prellezo

ARDIGÒ Roberto n. Casteldidone (CR) nel 1828 - m. a Mantova nel 1920, filosofo e pedagogista italiano. 1. Il pensiero di A. rappresenta il punto più avanzato ed elaborato raggiunto dal → positivismo italiano, affermatosi attorno agli anni ’70 dell’Ottocento fino al primo decennio del Novecento. Nasce da famiglia benestante che, a causa di rovesci di fortuna, si trasferisce nel 1836 a Mantova. In questa città A. frequenta la scuola elementare e ginnasiale. Nel 1845 entra nel seminario vescovile ed è sacerdote nel 1851. L’anno seguente è l’inizio di una crisi spirituale che lo porta, nel 1871, a deporre la veste talare. Dal 1853 si dedica totalmente all’insegnamento. Nel 1881 è all’Università di Padova come professore straordinario di storia della filosofia e vi rimane come docente fino al 1909. Gli scritti di A. sono molti e per la maggior parte nascono dall’insegnamento; essi rivelano una preparazione culturale e filosofica notevole. Le opere che hanno maggior attinenza con 98

la pedagogia sono: Lo studio della storia della filosofia (1881); Sociologia (1886); Il vero (1891); La scienza dell’educazione (1893); La ragione (1894); L’unità della coscienza (1898). Gli ultimi tre scritti costituiscono l’esposizione sistematica del positivismo ardigoiano. 2. Per A. tutta la realtà si riduce alla natura, per cui l’unica conoscenza valida è quella scientifica, che parte dal fatto come dato certo e irrefutabile. La natura e l’uomo sono soggetti alla legge dell’evoluzione, per cui la volontà umana non è più libera di quanto lo sia qualsiasi evento naturale. A. definisce la pedagogia «scienza dell’educazione» attraverso la quale «l’uomo può acquistare le attitudini di persona civile, di buon cittadino e individuo fornito di speciali abilità utili, decorose, nobilitanti». Per A. l’educazione è formazione di abitudini acquisite attraverso fattori ambientali e attraverso un processo che si svolge in quattro momenti: «I. attività, II. Esercizio, III. abitudine, IV. educazione, poiché non vi ha educazione se non formata l’abitudine, né l’abitudine senza l’esercizio, e questo suppone l’attività». L’educazione è dunque l’ultimo anello di una serie di stimolazioni che producono attività che a sua volta, ripetuta con l’esercizio, conduce all’abitudine. I fattori esterni all’educando e che agiscono su di lui per condurlo all’acquisizione delle abitudini sono la → società, la famiglia, gli educatori di professione, le maestranze professionali, le istituzioni speciali. Nell’insegnamento sono privilegiate le materie scientifiche e per quanto riguarda il metodo didattico A. privilegia il metodo intuitivo, perché è il più adatto ad eccitare l’attività cosciente del fanciullo, ma non esclude il metodo deduttivo. La teoria pedagogica di A. presenta il limite di ridurre l’educazione ad acquisizione di abitudini per cui essa diventa puro addestramento. Nonostante questo grosso limite rimane valida la sua lezione di aderenza all’esperienza spontanea del fanciullo e di organizzazione razionale del fatto educativo. Bibl.: a) Fonti: Opere Filosofiche, Padova, Draghi, 1883-1918, 11 voll.; La scienza dell’educazione, Padova/Verona, 1893. b) Studi: Flores d’a rcais G., Scienza, filosofia e pedagogia nel positivismo dell’Angiulli e dell’A., in «Rassegna

ARISTOTELE

di pedagogia» 9 (1951) 125-142; Tisato R. (Ed.), Positivismo pedagogico italiano. Angiulli, Siciliani, A., Fornelli, De Dominicis, vol. II, Torino, UTET, 1976; Pironi T., R. A., il positivismo e l’identità pedagogica del nuovo stato unitario, Bologna, CLUEB, 2000; R. A., una vita interamente dedicata alla scienza, alla scuola. Convegno di studi, Padova 21 ottobre 1999. Atti, Roma/ Padova, Antenore, 2001.

R. Lanfranchi

AREE DISCIPLINARI → Discipline

ARENAL Concepción n. a Ferrol nel 1820 - m. a Vigo nel 1893, penalista, sociologa e educatrice spagnola. 1. L’infanzia di A. viene segnata da una esperienza dolorosa: il padre, imprigionato per le sue idee liberali, muore in esilio quando ella ha 9 anni. Dopo la morte della madre (1841), sembra che abbia seguito alcuni corsi all’università di Madrid. La prematura morte del marito (1857) costituisce un duro colpo. Dopo un periodo di riflessione e studio, A. inizia una tappa decisiva con nuovo interesse per i problemi benefico-sociali. Scritti più noti: La beneficencia, la filantropía y la caridad (1860), El visitador del pobre (1865). Nominata ispettrice delle carceri femminili, prende coscienza della situazione negativa e si occupa sempre più dell’educazione dei settori più emarginati (donne, operai, carcerati, bambini, mendicanti): La instrucción del pueblo (1878), La instrucción del obrero (1892), La educación de la mujer (1892), La instrucción del preso (1893). 2. In queste opere, A. difende il diritto-dovere del popolo all’educazione. Contro chi teme i «pericoli del sapere», afferma che la «verità è buona e utile in assoluto» e che la stessa questione sociale è una questione di educazione. Con speciale forza rivendica l’educazione femminile: «tutte le ragioni che esistono per istruire i ragazzi e i giovani, esistono per estendere l’istruzione alle ragazze e alle giovani». Per i carcerati, in gran parte analfabeti, propone un programma «il più completo possibile»: istruzione morale e religiosa, lettura, aritmetica, scienze naturali,

geometria, musica, disegno, pratica dei mestieri. Recentemente è stato giustamente rivalutato il contributo di A. in questi settori. Bibl.: A.C., Obras completas; estudio preliminar y edición de C. Díaz Castañón, Madrid, [s.e.], 1993-[1994], 2 voll.; Tarifa Guillén A., La promoción humana de la mujer en C.A., Salamanca, Universidad Pontificia, 1983; P rellezo J. M., «A., C.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, Brescia, La Scuola, 1989, 831-833; Centro de Educación Comparada de M adrid, Educación y marginación social. Homenaje a C.A. en su centenario; edición a cargo de J. Ruiz Berrio, Madrid, 1994.

J. M. Prellezo

ARISTOTELE n. a Stagira nel 384/383 a.C. - m. a Calcide nel 322 a.C. Filosofo, scienziato, figlio di Nicomaco, medico alla corte macedone, alla scuola di → Platone dal 367/6 al 347 (morte del Maestro), ben presto con un’attività letteraria e di ricerca autonoma. All’inizio del secondo soggiorno ad Atene (334ss.) vi fonda il Liceo, dove insegna, ricerca, rivede corsi tenuti ad Asso e a Mitilene e ne redige nuovi fondamentali; nel 323 abbandona Atene non più sicura dopo la morte di Alessandro Magno. 1. A. non ha scritto trattati sull’educazione, ma si è occupato esplicitamente di essa all’interno del discorso morale e politico, intrinsecamente «pedagogico», in particolare nell’Etica a Nicomaco e nella Politica. Tra i più impegnati e sistematici interpreti della pedagogia di A. si segnalano: O. Willmann (A. als Pädagog und Didaktiker, Berlin, 1909); M. Defournoy (Aristote et l’éducation, in «Annales de l’Institut Supérieur de Philosophie de Louvain», 4,1920,1-176 e Aristote. Études sur la «Politique», Paris, 1932); E. Fink (Metaphysik der Erziehung im Weltverstandnis von Plato und A.s, Frankfurt a.M., 1970). Il primo sottolinea l’aspetto etico del pensiero pedagogico di A., mentre Defournoy accentua quello politico. Nella sua ricostruzione storico-critica E. Fink mette in luce il carattere razionale della concezione educativa aristotelica, dimostrandola solida99

ARISTOTELE

le con l’ontologia, l’antropologia, l’etica e la politica. Una visione della «paideia» aristotelica – intesa come pedagogia e come prassi educativa – inserita all’interno dell’intero sistema è presentata e documentata in un volume antologico di fonti da E. Braun (A.s und die Paideia, Paderborn, 1974). Una compendiosa esposizione del programma educativo di A. si trova nel lavoro di I. Düring (A.s. Darstellung und Interpretation seines Denkens, Heidelberg, 1966; ediz. it. aggiornata, Milano, 1976), che ne evidenzia i fondamenti e i significati etico-politici e l’attenzione alle condizioni storiche. 2. Tutte le espressioni del pensiero filosofico e scientifico di A. fanno capo ai concetti fondamentali di forma e di sostanza, del movimento come transizione dalla potenza all’atto e di causa finale. La sua visione dell’universo, esistente ab aeterno, si presenta, quindi, fortemente unitaria. Dio e i corpi celesti, gli uomini, gli animali e gli esseri inanimati hanno un posto ben preciso, con la perfezione propria, in una scala gerarchica onnicomprensiva, nella quale gli esseri superiori attraggono finalisticamente quelli inferiori. Ciò vale anzitutto per il primo motore immobile (pensiero del pensiero), che muove in quanto oggetto di desiderio e di amore i corpi celesti, a loro volta causa efficiente del moto nel mondo sublunare. Per la sua particolare natura l’uomo occupa un posto singolare nell’universo: dotato di ragione è prossimo al divino, mentre è insieme partecipe sostanzialmente del mondo dell’animalità. La sua anima è la forma di un tutto composito la cui materia è il corpo. Essa è principio di tutte le funzioni vitali legate alla corporeità, che accomunano l’uomo agli altri animali: nutrizione e riproduzione, sensazione, desiderio, locomozione, fantasia; ma è soprattutto sede di quella funzione che caratterizza e specifica l’uomo, il pensiero, la cui attività, indipendente dal corpo, le consente di accogliere in sé l’immateriale «forma intelligibile» delle cose. 3. Il pensiero mette l’uomo in rapporto connaturale con l’intelligibile, il divino, e trova nella ricerca (la filosofia) e nel possesso intellettuale di esso (la sapienza, la contemplazione) la più alta espressione di vita. Inoltre, esso ne fa un essere capace di scelte autono100

me, libere, responsabili, valutabili secondo criteri di bontà o di malvagità morale. Infatti se per tutte le cose «il bene è quello a cui tendono» (EN I 1,1094 a 2), cioè la compiutezza e la perfezione conseguente alla propria «forma» (EN I 6, 1097 b 22), anche per l’uomo esiste un fine e un bene. Egli è dunque chiamato a non rimanere inerte (argós), ma a compiere l’opera propria secondo la sua natura intellettuale (EN I 6,1097 b 22-34). In questo consiste la riuscita della sua vita, la felicità (l’eudaimonía): «Tutti sono d’accordo nel pensare che “vivere bene” e “riuscire bene” equivalga all’“essere felici”» (EN I 2,1095 a 14-20). In questo contesto speculativo si radica l’etica umanistica aristotelica, che non identifica la bontà dell’agire morale nell’obbedienza a una legge, umana o trascendente, ma nella realizzazione di ciò che è il fine dell’uomo, il suo bene, in quanto singolo, portatore della forma «umanità». L’etica aristotelica non è morale della «norma», della «legge», del «dovere», ma della «felicità» e della «virtù». 4. Essa è perciò etica eminentemente pedagogica. In concreto, per l’uomo, che è biologia, sensibilità e intelletto, tendenza (appetito) e conoscenza, capacità di azione e di contemplazione, la vita ideale dovrebbe riunire in sintesi gerarchica le tre fondamentali esigenze della sua natura: il piacere, l’operosità etico-politica, la contemplazione (EN I 15,1095 b 16-18; I 9,1099 a 24-25; VII 14, 1153 b 17-18 e 1154 a 16-18). Non, però, in forma puramente puntuale e frammentaria. Perché la compiutezza, la felicità, sia la qualità della vita, la bontà dell’uomo non risiede nella sola bontà dei singoli atti: le attività specifiche devono procedere da capacità consolidate, le virtù, abiti operativi delle varie differenziate facoltà dell’anima, appetitiva, volitiva, conoscitiva: «una sola rondine non fa primavera né un sol giorno; così neppure un solo giorno né un breve tratto di tempo fa l’uomo felice e beato» (EN I 6,1098 a 19-20). «La virtù dell’uomo sarà un abito che fa buono l’uomo e capace di portare a compimento la sua opera propria» (EN II 5,1106 a 22-24). Di esse la più alta in assoluto è la virtù dell’intelletto teoretico-contemplativo, la sapienza (sophía). La più elevata nell’ordine intellettivo-pratico, invece, è la prudenza (phrónesis), l’abito delle decisioni

ARISTOTELE

razionali commisurate al «giusto momento», il «kairós», virtù guida del retto agire eticopolitico (EN II 3, 1104 b 24-26; 6, 1106 b 36-1107 a 2). Essa è la misura intellettuale pratica (l’orthós lógos) dell’esercizio delle virtù etiche, che garantiscono la rettitudine degli appetiti, razionale il convivere mediante la giustizia, razionale il concupiscibile la temperanza, razionale mediante la fortezza l’irascibile: «non è possibile essere propriamente buono senza la prudenza né prudente senza virtù morale [...] non ci sarebbe decisione retta né senza la prudenza né senza la virtù, poiché questa ci fa attingere il fine e quella i mezzi al fine» (EN VI 13,1144 30 e 1145 a 5). Distinte tra loro le virtù, è anche distinto il rispettivo processo pedagogico di acquisizione e di crescita: «Essendo la virtù di due specie, l’una dianoetica, e l’altra etica, la virtù dianoetica per massima parte si genera e accresce mediante l’insegnamento (didaskalía) e, perciò, ha bisogno di esperienza e di tempo; invece la virtù etica (ethos) è frutto dell’abitudine (ethos), per cui da questa ha preso il nome, leggermente modificato» (EN II 1,1103 a 14-17). 5. Indissolubile è per A. il legame tra vita morale e vita politica. L’uomo, per natura animale sociale, può realizzare il suo fine soltanto in una comunità «amicale»: nella famiglia, nel villaggio e, pienamente, nella città-stato, la pólis. Tale legame caratterizza anche il programma pedagogico, che sintetizza ascendenze platoniche, storia greca (il «prudente» Pericle è il suo modello di uomo politico e «educatore») e marcate personali elaborazioni realistiche. Uomo buono equivale a buon cittadino, le virtù dell’uomo buono sono anche le virtù del buon cittadino. La costituzione è diretta a far buoni i cittadini anche se non tutti necessariamente lo diventano; la città, comunque, sussiste in forza di uomini buoni. Per questo è compito della città di legiferare sull’educazione, per una formazione uniforme dei cittadini alla ricerca del bene comune, che è la «scholé» (l’otium) e la «pace» (Pol. VII 14,1334 a). Ciò non significa che la città abbia il monopolio dell’educazione, che nella prima infanzia in particolare deve essere ufficio della famiglia. L’educazione è fondata su tre elementi: le disposizioni naturali, l’abitudine acquisita con l’esercizio, la ragione mediante l’insegnamento. «Per essere buoni si deve

essere educati convenientemente e prendere buone abitudini, continuando poi a trascorrere la vita in occupazioni oneste» (EN X 9, 1180 a 14-16); «gli abiti derivano dalle attività che sono simili ad essi. Perciò bisogna che le attività che noi esercitiamo siano dotate di una certa qualità, poiché gli abiti morali corrispondono alle differenti qualità di queste attività. Non è, dunque, di poca importanza che fin da giovani si sia abituati in un modo oppure in un altro; è, al contrario, supremamente importante o, piuttosto, è tutto lì» (EN I 2,1103 b 23-25). Secondo la gerarchia delle parti dell’anima l’educazione si svolge per gradi successivi: precede la cura del corpo, segue quella degli appetiti per culminare nella formazione della ragione e del pensiero che sono il fine della natura (Pol. VII 15,1333 b 6-28). 6. Sia l’Etica a Nicomaco che la Politica offrono copiose indicazioni sulla crescita nei vari settori. Vi sono comprese le condizioni per il benessere fisico: igiene, ginnastica e sport; e la cultura necessaria a un’autentica «scholé» od otium: la grammatica o le lettere, la ginnastica con le attività sportive, la musica inclusiva del canto e della poesia, il disegno (Pol. VIII 3, 1337 b). Attente analisi sono dedicate alle virtù etiche: il coraggio, la temperanza, la liberalità, la magnificenza, la magnanimità, l’onorabilità, la pacatezza, l’amabilità, la veracità, la gaiezza, il pudore, la giustizia, l’equità (EN III 5-V 10, 1115 a 4-1138 b 17), la continenza (EN VII 1-10, 1145 a 15-1154 b 34). Di approfondita considerazione sono oggetto, infine, le più alte virtù intellettuali: la prudenza individuale e politica (EN VI 1-13, 1138 b 18-13-1145 a 14) e la sapienza (EN X 6-10, 1176 a 30-1181 b 23). È un ideale aristocratico di formazione di uomini «liberi», in grado di «operare rettamente e fruire nobilmente della scholé» (Pol. VIII 3,1337 b 32); ne sono esclusi quelli che non godono dei diritti del «cittadino» (anzitutto gli schiavi) e i nullatenenti; tra i cittadini, poi, di fatto non ne può avvantaggiarsi con pienezza la maggioranza («i molti») addetta a onerosi lavori manuali e deputata ad assicurare la sussistenza a sé e ai veramente «liberi»; tra questi, poi, un’esigua minoranza potrà dedicarsi alla massima espressione della «scholé», le attività del pensiero, la «filosofia», la vita contemplativa. 101

ARTI LIBERALI

7. Quanto all’educazione fisica e culturale A. traccia un programma – rimasto incompiuto – che dovrebbe essere seguito da tutti, in famiglia nei primi sette anni (Pol. VII 17, 1336 a 3-1137 a 7) e in comune nei due settenni successivi (Pol. VIII 1-7, 1137 a 11-1342 b 34). Data l’importanza di buone disposizioni naturali sono decisive per A. le attenzioni prestate alla sanità dei matrimoni (Pol. VII 16, 1334 b 29-1336 a 2). Per la prima infanzia il filosofo attira l’attenzione sull’alimentazione, l’abitudine al freddo, il movimento e il gioco, gli effetti benefici del pianto e delle grida (Pol. VII 17, 1336 a 3-29), la preservazione da tutto ciò che è indecente e cattivo (Pol. VII 17, 1336 a 30-b 35). Per i due settenni successivi lo stagirita ripropone il programma della tradizione greca, arricchito dal disegno entrato recentemente nella cultura ellenistica: grammatica, ginnastica, musica, disegno (Pol. VIII 2, 1337 b 24-28). Nel libro VIII della Politica, incompiuto, trovano posto soltanto la ginnastica e la musica, trattate però con marcata sottolineatura eticopedagogica. A. non traccia un programma di educazione femminile, ma l’elevata visione che ha del matrimonio e della famiglia e del ruolo che la donna svolge nelle dinamiche dell’amicizia coniugale e parentale suppone in essa qualità umane ed etiche di alto profilo non puramente casuali (cfr. EN VIII, 10-12, 1160 b 22 - 1162 a 33). 8. Dalle opere di A., si possono ricavare molteplici notazioni che confermano l’immagine di una concezione educativa esigente sia riguardo alla fanciullezza, vista soprattutto nelle sue carenze, sia a proposito dell’adolescenza sottoposta a una disciplina volta a contenerne le esuberanze e ad avviarla a una maturità adulta, eticamente e politicamente responsabile. La Retorica e la Generazione degli animali aggiungono osservazioni sulle caratteristiche psicologiche dei giovani (Ret. II 12, 1389 a 1-b 12) e sullo sviluppo biologico nella fase della pubertà di ragazzi e ragazze (De gen. an. VII 1, 581 a 12-b 21), che avranno ampia risonanza nei millenni successivi. Bibl.: Aubenque P., La prudence chez Aristote, Paris, PUF, 1963; Braido P., Paideia aristotelica, Roma, LAS, 1967; Braun E. (Ed.), A.s und die Paideia, Paderborn, Schöningh, 1974; Lloyd G.

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E. R., A.: Sviluppo e struttura del suo pensiero, Bologna, Il Mulino, 1985; Berti E., Le ragioni di A., Roma/Bari, Laterza, 1989; Verbeke G., Moral education in Aristotle, Washington, D. C., The Catholic University of America Press, 1990; Naval Durán M. C., Educación, retórica y poética. Tratado de la educación en Aristóteles, Pamplona, EUNSA, 1992; Lombard J., Aristote. Politique et éducation, Paris, L’Harmattan, 1994; Curren R. R., Aristotle on the necessity of public education, Lanham, MD, Rowman & Littlefield, 2000.

P. Braido

ARTE → Educazione artistica

ARTI LIBERALI Le discipline letterarie e scientifiche, che durante il → Medioevo costituivano l’insegnamento propedeutico alla filosofia ed alla teologia erano chiamate a.l. (artes liberales). Questa sintesi enciclopedica di scienze si era affermata già nell’età ellenistica (come enkyklios paidéia). Alla fine del II sec. a.C. passa a Roma e si sviluppa nel periodo imperiale. 1. L’espressione artes liberales compare già in → Seneca (Ep. ad Lucilium) e come tali sono descritte accuratamente da Marziano Capella (De nuptiis Mercurii et philologiae). Per → Agostino ed Alcuino esse dovevano preparare l’uomo alla scienza della religione (De doctrina christiana, IV; De ordine II, 430; De musica). Il nome latino deriva dal greco (eleuthéroi téchnai) e designa le arti degne di un uomo libero in contrapposizione a quelle utilitarie e meccaniche (bánausoi). Questa distinzione che troviamo già in → Platone (De re publica 405a; 522a) e in → Aristotele (Politica VIII, 2) viene ripresa da → Cicerone (De officiis I, 42; De oratore III, 32,126) che per le due classi di discipline usa i termini di liberales, ingenuae, honestae, o sordidae, inhonestae. Anche → Quintiliano le elenca (1,10). 2. Le discipline delle a.l. erano divise in due gruppi: trivio e quadrivio: grammatica, retorica, dialettica; aritmetica, geometria, astronomia e musica. Come si rileva facilmente, le discipline del Trivio raggruppano l’orien-

ASCESI

tamento letterario-filosofìco-umanistico; quelle del Quadrivio l’indirizzo scientifico degli studi. Fu → Cassiodoro (De institutione divinarum litterarum e De artibus et disciplinis liberalium litterarum) a fissare maggiormente, dopo Boezio, il programma pedagogico contenuto nelle sette a.l., e così questa «enciclopedia» divenne la corsia preferenziale della ratio studiorum medievale propedeutica alla cultura filosofica, teologica, scientifica (→ Isidoro di Siviglia, Beda, Egberto, Alcuino). L’insegnamento del Trivio e Quadrivio durante tutto il Medioevo svolse una funzione, anche se modesta, di indubbia importanza per conservare e diffondere il patrimonio del pensiero e della cultura classica. Dopo il sec. XIII il trionfo dell’aristotelismo sviluppò una classificazione più ampia ed esatta delle scienze: questo portò alla graduale svalutazione ed obliterazione del Trivio e del Quadrivio. 3. Presso i Romani e nel Medioevo nell’insegnamento del Trivio la grammatica aveva per compito principale lo studio delle parti del discorso, basato sulla autorità degli antichi scrittori (classici): si articolava nella lectio (lettura del testo), nell’emendatio (commento letterale e letterario), nell’enarratio (critica del testo), nel iudicium (sintesi). Durante il Medioevo la grammatica abbracciava anche lo studio dei grammatici antichi e recenti (Elio Donato, Prisciano). La retorica presso i Romani ebbe primaria importanza: il suo fine supremo era formare il vir eloquentissimus. Comprendeva una parte teorica (generi di eloquenza: deliberativa, giudiziale, epidittica e le sue parti: inventio, dispositio, elocutio) ed una parte pratica: frequenti e svariati erano gli esercizi. Nel Medioevo la retorica non ha primaria importanza. La dialettica ebbe invece un predominio nella cultura medievale, perché tendeva ad identificarsi con la stessa filosofia di cui era la necessaria propedeutica. Le discipline del Quadrivio registrarono un minore sviluppo, perché riguardavano una preparazione scientifica ed una tecnica più specializzata: maggiormente studiate furono la geometria e l’astronomia piuttosto che l’aritmetica e la musica (da non intendersi però solo come studio dell’arte musicale). Bibl.: M arrou H. I., St. Angustin et la fin de la culture antique, Paris, Boccard, 1958; Wagner

D. L. (Ed.), The seven liberal arts in the middle ages, Bloomington, Indiana University Press, 1983; Hadot I., Arts libéraux et philosophie dans la pensée antique, Paris, Etudes Augustiniennes, 1984; Dotto G., «Artes liberales», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 896-901.

S. Felici

ASCESI Questo termine, sconosciuto alla → Bibbia ma familiare alla letteratura cristiana, fu adottato fin dall’inizio del III sec. e divenne termine tecnico del linguaggio teologicospirituale. Askein in gr. (sostantivo askesis e verbo askéo) significa esercitarsi, allenarsi sia nel campo dell’esercizio fisico sia in quello della riflessione. Tenendo presente il significato etimologico, l’a., in quanto termine teologico, sottolinea impegno, costante e metodico, dell’uomo per ottenere un risultato etico e spirituale positivo. La terminologia religiosa cristiana chiama a. il cammino, sia personale che comunitario, che orienta l’uomo verso la progressiva integrazione della propria personalità e la favorisce nella comunione con Dio. 1. Dalla storia della spiritualità cristiana è facilmente ricordata l’a. mortificativa corporea, motivata sia dall’esperienza della concupiscenza della carne, sia dal disprezzo platonico del corpo. Si deve dire che, avendo come scopo la preparazione dell’uomo alla comunione con Dio, l’a. cristiana non si limita solo al corpo, ma coinvolge anzitutto lo spirito e la volontà e si riferisce agli sforzi di chi si esercita con atti interiori di volontà senza trascurare quelli esteriori: rinunce e sacrifici, per acquisire controllo, fermezza, dominio della stessa volontà (carattere). Le motivazioni a favore dell’a. cristiana non sono di natura narcisistica o masochista. Per ispirare comportamenti e impegni di sacrificio e generosità, l’a. non immiserisce l’uomo, pretendendo da lui rinunce irrazionali. Fondata sulla fede, la quale esige intensità ed espansione dell’essere, l’a. risulta provenire piuttosto dalla natura stessa della vita umana che impone un costante esercizio di dedizione e di autocontrollo. 103

ASIA: SISTEMI FORMATIVI

2. Da qui risulta anche la sua valenza pedagogica. L’educazione umana aiuta l’uomo, in particolare il giovane, a prendere posizione, in modo graduale, consapevole e responsabile, sia di fronte alle grandi sfide, sia, anzitutto, di fronte alle esigenze quotidiane della vita. Di fatto, il cammino di crescita umana, che mira attraverso l’educazione a un’autentica dedizione di amore, aiuterà a non sorvolare sulle continue occasioni di a. Inoltre, è da dire che la → maturità umana, e ciò vale anche per la maturità cristiana, non avviene automaticamente, in proporzione al crescere dell’età. Essa avviene in corrispondenza all’impegno e allo spirito con cui il soggetto vive la propria vita. Questa motivazione dell’a. trova il suo più completo significato nelle parole di Cristo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23). 3. Un’ulteriore motivazione dell’a. proviene dalle esigenze personali dell’uomo stesso. Un cammino ascetico impegnato e illuminato aiuta la purificazione dei sensi e dello spirito e senza di esso non si può cogliere il vero significato del mondo, del proprio dovere, di se stessi e neppure della Parola di Dio. L’a. non è altro che il modo cristiano di vivere un’esistenza umana conferita da Dio. Essa avviene sotto la guida dello Spirito santo dato «per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato» (1 Cor 2,12). Essendo l’a. orientata sempre alla fede, anche l’esercizio ascetico è orientato a questa fede. Aver fede significa rinunciare a salvarsi da se stessi (fosse pure ricorrendo alla mortificazione o al sacrificio della propria esistenza), poiché la croce di Cristo è l’unica salvezza; è vivere abbandonati alla misericordia divina nel Cristo crocefisso (Rm 1,16). Più che un aspetto negativo della vita cristiana, l’a. assume il carattere di un compito e va collocata tra i mezzi per lo sviluppo spirituale dell’uomo: la vita spirituale alimentata dall’azione di Dio. 4. Vista la finalità dell’a., non la si deve considerare in astratto, ma nel contesto del concreto itinerario spirituale che ogni uomo credente intraprende. Convertendosi dal peccato e aprendosi alla → vita, l’uomo, disposto a collaborare per la propria crescita spirituale, viene coinvolto nella dinamica di chi è rispettivamente «principiante, profi104

ciente, perfetto». Nell’ambito della spiritualità cristiana, l’a., prima di tutto, è legata alla → conversione (metànoia) per cui il battesimo costituisce un avvenimento fondamentale: un orientamento esistenziale al Dio trinitario. Perciò la conversione, graduale e costante, a Dio e agli uomini, per liberarsi dal dominio della concupiscenza e del peccato e per diventare liberi, costituisce il contenuto e il fine dell’a. Bibl.: De Guibert J. et al., «Ascèse, ascétisme», in Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique. Doctrine et Histoire, Tome I, Paris, Beauchesne, 1937, 936-1010; Gismondi G., A. e incarnazione. Le nuove vie dell’impegno cristiano nella vita di oggi, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1989; Viller M. - K. R ahner, Ascetica e mistica nella Patristica. Un compendio della spiritualità cristiana antica, Brescia, Queriniana, 1991; R iva F., A., mondo e società. Monachesimo e cultura contemporanea, Seregno (MI), Abbazia San Benedetto, 2003; Angelini G. et al., A. e figura cristiana dell’agire, Milano, Glossa, 2005.

J. Struś

ASIA: sistemi formativi Secondo un’antica tradizione A. deriva dal termine semitico Asu che significa Oriente. È il continente più vasto della Terra e culla delle principali religioni: → Ebraismo, → Induismo (o Brahmanesimo), → Buddhismo, → Cristianesimo, → Islamismo; senza dimenticare il Confucianesimo (→ Confucio) della Cina, lo → Shintoismo del Giappone e fenomeni religiosi già presenti nella preistoria come lo Sciamanismo di Siberia e Mongolia. Se si accetta la tesi secondo la quale ad ogni religione corrisponde una educazione, ne segue che in A. troviamo, sin dall’antichità, specifici ideali educativi che possono essere spiegati partendo dalla base etica presente nella spiritualità di riferimento. Per secoli l’A. ha insegnato all’Europa l’arte del vivere, di coniugare poli opposti, mantenendone l’individualità, e pur nelle sue attuali ristrettezze economiche continua a rivendicare le proprie tradizioni culturali di pensiero ed azione. 1. Storia recente. Dalla seconda guerra mondiale, il progressivo ritiro della colonizzazio-

ASIA: SISTEMI FORMATIVI

ne europea, soprattutto inglese e francese, ha posto ai governi problemi etnici, linguistici, religiosi, politici già preesistenti, ma spesso non manifestati apertamente. La mentalità imperialista e quella umanitaria si sono scontrate ed amalgamate, provocando confusioni ancora non pienamente svelate. La questione della nascita dei nuovi Stati, dopo le varie dominazioni straniere, non si può considerare risolta. Le guerre civili nel Sud-est asiatico, il destino dei tanti rifugiati che passano da un Paese all’altro, al limite della speranza umana, gli accordi internazionali non sempre rispettati, le divisioni geografiche e ideologiche (es. Corea del Nord/Corea del Sud) indeboliscono la tenacia dei popoli e la credibilità dei Governi. Economicamente ci sono Paesi (es. Afghanistan, Bangladesh, Bhutan, Cambogia o Kampuchea, Laos, Nepal) che vivono in condizioni di estrema povertà e dove la crescita demografica è preoccupante. La dipendenza dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale non risolve i problemi di crescita e di sviluppo, né questi aiuti possono essere considerati risolutivi. La questione si sposta sull’educazione che gioca il ruolo prioritario in termini di crescita individuale e collettiva. 2. Vecchio e nuovo analfabetismo. Le statistiche Unesco 1993 registrano percentuali di analfabetismo adulto in A. particolarmente elevate in alcuni Paesi come il Pakistan (74,3%: 1981), mentre le stime del 1990 collocano in sequenza percentuale decrescente l’analfabetismo adulto in Nepal (74,4%), Afghanistan (70,6%), Pakistan (65,2% ). In paragone risultano basse le percentuali di analfabetismo adulto in Stati come: l’Armenia (1,2%: 1989), l’Azerbaijan (2,7%: 1989), la Georgia (1,0%: 1989), il Kazakistan (2,5%: 1989), il Tajikistan (2,3%: 1989). Per le donne e per chi abita nelle aree rurali l’accesso all’istruzione è più difficile. I bambini si recano a scuola quando e dove possono. Negli Stati di Bahrein e Bhutan manca l’istruzione dell’obbligo, in Israele questa dura 11 anni e i bambini entrano nella prescuola a 2 anni di età. Accanto a Taiwan che discute sull’elevamento dell’obbligo ai 18 anni di età, comparatisti in educazione parlano di isolamento dove l’innovazione disciplinare non segue il ritmo dei Paesi economicamente più sviluppati. Di rilievo è l’opera svolta dalla Southe-

ast Asian Ministers of Education Organization (SEAMEO) (fondata nel 1970 con sede a Quezon City nelle Filippine) che agisce a livello regionale e si occupa dell’innovazione educativa, soprattutto tecnologica. In tale contesto, 1’ → educazione degli adulti assume per lo più la forma dell’alfabetizzazione tradizionale, e solo in qualche caso, quando questa è per lo più superata, si possono intravedere offerte culturali più ampie. L’ → insegnamento a distanza che funziona nelle università del Pakistan e dello Sri Lanka riprende il modello ingl. della Open University. La dipendenza culturale dai maggiori sistemi educativi dell’ → Europa e in particolare di quella orientale precedentemente a governo comunista, si nota non solo nella riproposizione dei curricoli scolastici, ma anche nell’emigrazione degli studenti asiatici che frequentano le università soprattutto di Paesi come Regno Unito e Russia. In Italia, secondo i dati ISTAT, gli studenti universitari asiatici (4.296 unità nel 1991-92), rispetto al totale degli studenti universitari stranieri (20.478 unità nel 1991-92), sono in diminuzione: dal 28,8% del 1989-90 sono scesi al 22,8% nel 1990-91 e al 21% nel 1991-92. La facoltà di Medicina e Chirurgia raccoglie il maggior numero di iscrizioni. Persiste il rischio della sopravvalutazione dei servizi offerti dai Paesi in questo senso più progrediti e della parallela sottovalutazione della → cultura di origine. Quest’ultima viene invece ripresa dall’Occidente in considerazione delle lezioni di spiritualità indiana (→ Ramakrishna e → Vivekananda), della produzione letteraria di → Tagore, dell’insegnamento di → Gandhi improntato alla non violenza, delle moderne versioni di educazione attraverso gli esercizi → yoga e la meditazione. 3. Educazione interculturale. In termini simili si pone la → formazione degli insegnanti per la quale esiste un certo scambio tra Brunei, Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia, vale a dire tra i Paesi membri dell’ASEAN, o Association of South East Asian Nations (fondata a Bangkok nel 1967) che ha lo scopo di accelerare il progresso economico e di aumentare la stabilità della Regione del Sud-est asiatico. Le tensioni etniche rimandano a progetti sociali e realizzazioni scolastiche di → educazione interculturale ancora in via di definizione anche 105

ASILO NIDO

in Stati come il Giappone che rappresenta la postmodernizzazione avanzata in A. Dal punto di vista della politica dell’educazione, mancano in diversi contesti: la visione complessiva dello stato interno dell’istruzione; gli interventi programmati; la precisazione degli obiettivi e la verifica del grado di attuazione dei medesimi. Ciò può essere attribuito a vari fattori: alla necessità di soddisfare i bisogni primari come l’alimentazione; al divario tra città e campagna; alla mentalità ancorata a principi di vita secolari. Bibl.: Nguyen V. H. - T. N. Nguyen, Education, Hanoi, Foreign Languages Pub. House, 1983; Perera D. A., «Sri Lanka: system of education», in T. Husén - T. N. Postlethwaite (Edd.), The International encyclopedia of education. Research and studies, Oxford, Pergamon, 1985, 4778-4782; Yee A. H., Cross-cultural perspectives on higher education in East A.: psychological effects upon Asian students, in «Journal of Multilingual and Multicultural Development» 10 (1989) 3, 213-232; Chistolini S., La struttura dell’istruzione in Giappone, in «I Problemi della Pedagogia» 40 (1994) 5-6, 505-528; Id., Atlante della pedagogia. I luoghi: Efta Canada Usa Cmea, vol. 3, t. 2, Napoli, Tecnodid, 1994; Naila K. - G. B. Nambissan - R. Subrahmanian (Edd.), Child labour and the right to education in South A.: needs versus rights?, New Delhi, Sage, 2003.

S. Chistolini

ASILO INFANTILE → Scuola dell’infanzia

Asilo Nido Istituzione educativa che accoglie i bambini dai sei mesi ai tre anni di età. 1. Gli a.n., sorti nella prima metà dell’Ottocento, ebbero inizialmente un carattere assistenziale e furono espressione della beneficenza religiosa e laica nei confronti delle classi sociali meno abbienti. Nella prima metà del secolo scorso hanno assunto un carattere igienico-sanitario e pediatrico, e successivamente si sono configurati come servizi sociali territoriali, aperti a tutti i bambini. 2. A partire dagli anni ’70 del Novecento gli a.n. sono diventati oggetto di studio delle 106

scienze pedagogiche e dell’educazione, che hanno richiamato l’attenzione sulle potenzialità educative e quindi apprenditive dei bambini e sul loro diritto di coltivarle, in un ambiente intenzionalmente organizzato, dove operano educatori professionisti per i quali si richiede una formazione specifica. Pertanto gli a.n. si sono affermati come istituzioni educative capaci di porre la loro azione in un rapporto di continuità con quella della famiglia e di integrarla, offrendo anche opportunità di crescita sul piano della genitorialità, e consentendo ai bambini di vivere in una gioiosa atmosfera ludica, in ambienti adeguati, per gli spazi interni ed esterni, per gli arredi e per il materiale di cui dispongono, alle loro esigenze, di effettuare esperienze che li aiutino a crescere sul piano affettivo, relazionale, sociale, intellettuale, a coltivare la creatività, a maturare gradualmente la propria identità e a rendersi a poco a poco autonomi. 3. La crescita pedagogica degli a.n. e la loro progettualità, coerente con i criteri dell’«intenzionalità» e della «flessibilità», e rivolta all’educazione «integrale» dei bambini, hanno favorito la generalizzazione della richiesta di queste istituzioni, la cui ulteriore qualificazione potrebbe essere favorita dalla disponibilità di «linee di orientamento» condivise, che potrebbero configurarsi come punto di riferimento per tutte le tipologie di servizi per l’infanzia. Bibl.: Spini S., A.n. e famiglia nell’educazione del bambino, Brescia, La Scuola, 1977; Catarsi E. - A. Fortunati, Educare al nido, Roma, Carocci, 2004; Leschiutta F. - F. Viscardi, Strutture educative da 0 a 6 anni, Roma, Gangemi, 2005; Tassinari P., Dal mondo del nido, Brescia, La Scuola, 2005.

S. S. Macchietti

ASPETTATIVA → Attese → Interesse

ASSAGIOLI Roberto n. a Venezia nel 1888 - m. ad Arezzo nel 1974, medico e psicologo, fondatore della psicosintesi. 1. Laureatosi in medicina a Firenze nel 1910,

ASSISTENZA

con una tesi sulla psicoanalisi, dopo aver contattato → C. G. Jung, si dedicò alla professione di psichiatra e agli studi di psicologia e filosofia. Nel 1911 fondò la rivista Psiche e nel 1914 diede vita all’Associazione di Studi Psicologici per liberalizzare teorie e metodi della psicologia, in contrapposizione alla Società Italiana di Psicologia. A. ha ideato la psicosintesi, orientata alla ricostruzione dell’intera personalità del paziente, grazie all’interazione corpo-psiche, oggi alla base di tutto l’orientamento psicosomatico. Usata per la cura delle malattie psicofisiche e per facilitare i processi di autoformazione, educazione e armonizzazione dei rapporti interpersonali, la psicosintesi è un metodo ideale per l’armonia interiore e per lo sviluppo e la crescita della persona. 2. Unificando in sintesi armonica i vari aspetti della personalità umana: il fisico, l’emotivo, il mentale e lo spirituale (biopsicosintesi), la psicosintesi vede l’uomo come una realtà in cui un centro di coscienza entra in relazione con una molteplicità di contenuti consci e inconsci. Inoltre, ritiene particolarmente significative le relazioni umane, poiché consentono di osservare i processi di integrazione e di armonia. Per questo si propone anche come una scienza dei rapporti umani. 3. A. propone due grandi sintesi nel processo maturativo dell’individuo: la prima, la psicosintesi personale, unifica e trasforma tutti gli elementi della personalità ordinaria intorno al vero centro dell’individuo, l’Io (la vera identità), che va scoperto e realizzato esperienzialmente e coscientemente in forma spontanea o attraverso metodi e pratiche educative, formative o terapeutiche. La seconda grande sintesi, la psicosintesi transpersonale o spirituale, integra nella personalità gli aspetti superiori della psiche, che appartengono all’inconscio superiore, ed eleva il centro della coscienza in modo da realizzare l’unione tra l’Io e il Sé operando, in questo modo, la sintesi di individuale e universale. Bibl.: A.R., Lo sviluppo transpersonale, Roma, Astrolabio, 1988; Id., Comprendere la psicosintesi. Guida alla lettura dei termini psicosintetici, Ibid., 1991; Rosselli M. (Ed.), I nuovi paradigmi della psicologia. Il cammino della psicosintesi,

Assisi, Cittadella, 1992; A.R., Psicosintesi. Per l’armonia della vita, Roma, Astrolabio, 1993; Fizzotti E. - M. Salustri, «R. A.», in Id., Psicologia della religione con antologia dei testi fondamentali, Roma, Città Nuova, 2001, 253-265.

E. Fizzotti

ASSIMILAZIONE → Apprendimento → Cultura

ASSISTENZA Prestazione di aiuto a individui, gruppi o classi che si trovano in una situazione meno agiata, debole o bisognosa a livello fisico, psichico, economico, sociale, educativo. L’a. o la beneficenza nelle diverse forme di necessità può essere di tipo privato o pubblico, individuale o collettivo. Nell’ambito pedagogico, il termine ha preso tre significati importanti: a) a. sociale; b) a. educativa; c) a. nel → sistema preventivo di don → Bosco. 1. Nel mondo antico l’a. sociale era lasciata generalmente alla generosità degli individui. Con la diffusione della religione cristiana nascono in Occidente diverse iniziative, di tipo privato o ecclesiastico, con lo scopo di prestare aiuto alle molteplici forme del disagio personale e sociale. Oltre le modalità di aiuto a carattere spontaneo e facoltativo, sorgono istituzioni (lazzaretti, ospedali, ospizi, asili) che, sotto il profilo della beneficenza, concretizzano sostegno e a. alle varie categorie di persone nel bisogno: malati, mendicanti, vagabondi, poveri, invalidi, vedove, orfani, bambini e fanciulli abbandonati, madri bisognose, giovani e adulti fisicamente o psichicamente handicappati. Con la nascita dello → Stato sociale, quasi ovunque i governi cercheranno di creare a poco a poco mediante una legislazione adeguata un sistema organico di a., riducendo a unità le innumerevoli istituzioni fiorite nel campo. Al posto della funzione privata della beneficenza religiosa o filantropica subentra generalmente la funzione sociale dell’apparato pubblico e le leggi statali restituiscono all’autorità civile quel potere che soprattutto le Chiese esercitavano sulla pubblica a. in modo diretto o indiretto. L’intervento dello Stato moderno si inserirà generalmente nelle questioni delle politiche rivolte a realizzare una maggiore uguaglian107

ASSISTENZA

za e si annoderà poco a poco ai grandi piani e programmi di sviluppo della solidarietà internazionale. 2. Nella storia occidentale l’a. educativa, in quanto cura premurosa per bambini, fanciulli e giovani dell’uno e dell’altro sesso, è stata messa in rilievo come una forma particolare di aiuto sociale. Concretamente il prestare a. alla giovane età significava sempre il procurare educazione e istruzione, l’avviare a qualche professione, arte o mestiere, o contribuire in qualsiasi altro modo al miglioramento non soltanto economico ma anche etico e religioso. Ancora oggi, senza la protezione delle nuove generazioni mediante l’a. alla maternità e all’infanzia, mediante appositi processi di educazione e di istruzioni e, dove occorre, anche mediante misure di rieducazione, il benessere economico e morale di una società non sembra mai sufficientemente garantito. In senso più specifico l’a. educativa mira soprattutto all’intervento da parte dell’educazione pubblica per assicurare un valido aiuto allo sviluppo personale là dove, per qualsiasi motivo, i primi responsabili non siano in grado di adempiere a questo compito, o lasciano gli educandi in uno stato di abbandono fisico, etico o spirituale. L’educazione pubblica dei minorenni bisognosi o abbandonati, regolata da leggi sempre più integrate nel quadro della legislazione civile, mira ormai alla eliminazione totale di ogni tipo di discriminazione e, attraverso progetti educativi individualizzati, al coinvolgimento dei soggetti nei processi di emancipazione, di collaborazione e di responsabilizzazione personale. Nella realizzazione delle diverse modalità di educazione assistenziale, l’autorità pubblica generalmente collabora con le istituzioni educative (internati, ospizi, centri di accoglienza, famiglie adottive, forme di affidamento o la stessa famiglia del giovane) allo scopo di superare i disturbi dello sviluppo che risultano da un’educazione deficitaria. L’esecuzione ragionata del progetto educativo o rieducativo suppone la presa in considerazione dei dati forniti da una diagnosi pluridimensionale (medica, psicologica, sociale, pedagogica...), nonché la realizzazione di forme di aiuto specializzato di diverso tipo, inquadrate in un clima pedagogico positivo presente nell’istituzione e nei rapporti personalizzati con operatori capaci di conquistare 108

la confidenza di fanciulli o giovani. L’a. educativa suppone ormai una apposita qualificazione del personale educativo e un accompagnamento specializzato e regolato. 3. Nel sistema educativo di don Bosco la parola a. assume un senso ancora più specifico. Come in altri tipi di educazione preventiva, anche in quella di don Bosco l’attività assistenziale in senso sociale è un tratto significativo e permanente del suo agire. A contatto con i problemi della città di Torino, soprattutto i suoi primi interventi si proiettano all’esterno verso il ricupero di ragazzi o giovani carcerati, di ex corrigendi, di «immigrati» sradicati dalla terra di origine, di giovani «poveri e abbandonati». Egli mira a cercare persone e mezzi commisurati alle loro principali urgenze: lavoro, alfabetizzazione, istruzione, formazione religiosa, cura pastorale, ricreazione, sano uso del tempo libero. Le iniziative aumentano dopo la «rivoluzione» risorgimentale del 1848, quando le «nuove libertà» richiedono nuove attività di a.: difendere, preservare, confermare, premunire, correggere, rafforzare. Oltre a ciò, l’a. in don Bosco diventa anche una modalità di educazione. In essa, pur aperta a potenziali forme di collaborazione e di limitata partecipazione da parte dei giovani, occupa il primo posto la presenza cordiale e amorevole dell’educatore. Con l’a., egli sorregge, conforta, aiuta e accompagna il giovane nelle interne vicende della sua esistenza. Per don Bosco lo stile del → rapporto educativo è vissuto secondo il principio di «farsi amare piuttosto che farsi temere». Anche se i giovani vengono assistiti con la vigilanza, l’ordine, la disciplina e la moralità, il nucleo dell’a. educativa si trova nella sua dimensione promotrice della collaborazione libera e consapevole dell’educando alla propria autocostruzione. Bibl.: Assistance et assistés de 1612 à nos jours, Paris, Bibliothèque Nationale, 1977; Braido P. (Ed.), Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, 2 voll., Roma, LAS, 1981; Monticone A. (Ed.), La storia dei poveri: pauperismo e a. nell’età moderna, Parma, Studium, 1985; Braido P., Breve storia del «sistema preventivo», Roma, LAS, 1993; Prellezo J. M., Linee pedagogiche della Società Salesiana nel periodo 1880-1922, in «Ricerche Storiche Salesiane» 23 (2004) 99-162.

J. Schepens

ASSOCIAZIONI PEDAGOGICHE

ASSISTENZA SOCIALE → Stato sociale

ASSOCIAZIONI PEDAGOGICHE Promosse e animate per lo più da pedagogisti e formate anche da insegnanti, educatori, uomini e donne di cultura, le a.p. nascono dalla volontà di valorizzare e rinforzare, nel dialogo e nella cooperazione, l’esperienza educativa e la riflessione pedagogica. Nate nell’Ottocento, in ambito nazionale e internazionale, tali a. sono venute in parte articolandosi in varie specializzazioni di tipo disciplinare. Tra l’associazionismo educativo, quello pedagogico, quello professionale dei docenti e quello sindacale si notano implicazioni, connessioni e distinzioni, talora separazioni non sempre funzionali agli scopi perseguiti. 1. Fra le a. educative, si possono ricordare, per esempio, quelle che fanno capo allo scoutismo e all’associazionismo di tipo religioso, culturale e sportivo e al volontariato; ma più specificamente si possono citare le a. di genitori come l’AGe (promossa nel 1968 a Roma, dal medico E. Rosini), l’AGeSC (A. Genitori di Scuole Cattoliche, 1977) e il CGD (Coordinamento Genitori Democratici,1976), sorte per aiutare i genitori ad essere parte attiva del sistema formativo, in particolare per ciò che concerne la scuola. Esse aderiscono all’EPA (European Parents Association, 1978). Sul piano internazionale si registrano a. sorte per iniziativa di privati o di organismi o agenzie mondiali: ad es. l’AMSE (Association Mondiale des Sciences de l’Education), le WCCES (World Council of Comparative Education Societies), l’ATEE (Association for Teacher Education in Europe), la WEF (World Education Fellowship), l’AEDE (Association Européenne des Enseignants). 2. La più antica a.p. italiana sembra essere la Società d’Istruzione e di Educazione, sorta in Piemonte nel 1849 e presieduta da V. Gioberti. Benché costituita da cittadini del Regno di Sardegna, si propose l’unione intellettuale e morale di tutti gli educatori della Penisola. Con l’unità d’Italia, nacque a Milano l’Associazione Pedagogica italiana, che diede vita

a undici congressi pedagogici, fra il 1861 e il 1880. Nel nuovo secolo, nel 1950 essa rinacque con orizzonti più vasti, aperta anche ai non docenti, con la sigla ASPeI. democratica, pluralistica, aperta a tutti gli interessati alle problematiche pedagogiche ed educative, secondo le idee del fondatore G. Calò, che ne fu presidente fino al 1970. Ha celebrato oltre venti congressi pedagogici, pubblicando talvolta gli atti. Dal 1972 pubblica un bollettino periodico. Per affrontare in modo specifico le problematiche epistemologiche e per seguire da vicino le sorti accademiche della pedagogia e delle sue articolazioni all’interno delle Facoltà universitarie, è nata la SiPed (Società Italiana di Pedagogia), con la iniziale presidenza di M. Gattullo. La prospettiva delle trasformazioni dei corsi di laurea di pedagogia della Facoltà di Magistero in corsi di Laurea di Scienze dell’educazione, con diversi indirizzi, e successivamente in Facoltà di Scienze della formazione, è stata al centro dell’impegno della SiPed, accanto ai problemi della ricerca pedagogica, nelle sue varie suddivisioni interne. Un contributo fondamentale fu dato all’istituzione della Laurea in Scienze della formazione primaria e alle scuole di specializzazione all’insegnamento medio. L’istanza di specializzazione ha ispirato la nascita di a. legate a specifiche discipline: CIRSE (Centro Italiano di Ricerca Storico-Educativa), la SICESE (Sezione Italiana della Comparative Education Society), la SIRD (Società Italiana di Ricerca Didattica)…Va segnalata anche Scholè, Centro di studi pedagogici fra docenti universitari d’ispirazione cristiana, nata nel 1954 per iniziativa di → Nosengo, Agazzi, Stefanini, per affrontare problematiche educative e pedagogiche, di cui si dà notizia nei volumi di atti, pubblicati in apposita collana dall’editrice La Scuola di Brescia. Generosa verso tutte le specializzazioni interne, come verso le confinanti scienze umane e sociali, la pedagogia definitasi generale rischia di smarrire le sue ragioni di disciplina madre e del ruolo strategico di fondazione, di promozione e di sintesi che dovrebbe caratterizzarla, superando le appartenenze di tipo ideologico. 3. Le a.p. d’insegnanti si caratterizzano sia per la difesa degli interessi di categoria (differenziandosi però ad un certo punto 109

ASSOCIAZIONI PEDAGOGICHE

dai sindacati), sia per un impegno di formazione e di aggiornamento professionale, sia infine per la volontà di concorrere alla modifica degli ordinamenti attraverso la ricerca e l’espressione di istanze di ordine generale, sociale e pedagogico, e non di interessi corporativi. Di recente sono nate anche a. di direttori didattici, presidi, ispettori, divenuti «dirigenti», come l’ANP (A. nazionale presidi, che è anche sindacato), l’ANDIS (A. nazionale dirigenti scolastici, 1988) e la DISAL (Dirigenti scuole autonome e libere). Le a. professionali di insegnanti si possono storicamente distinguere in a. di maestri e di professori secondari, oltre quelle di docenti universitari; ad esse, definite «professionali» o «generaliste», si affiancano a. «disciplinariste», relative alle diverse discipline insegnate. All’inizio del ’900 troviamo l’Unione Magistrale Nazionale (UMN), presieduta da L. Credaro, e la Federazione Nazionale fra Insegnanti delle Scuole Medie (FNISM), presieduta da G. Kirner. L’impostazione era in complesso laica, democratica, inizialmente apartitica, con punte di anticlericalismo. Lo slogan di Credaro era: «Né servi né ribelli». Nel 1907 nacque a Milano la cattolica A. magistrale Nicolò Tommaseo. Queste a. sparirono durante il regime fascista, sostitute da una A. nazionale insegnanti fascisti. Nel 1944-1945, in vista della fine della guerra e della ricostruzione, nascono l’UCIIM, Unione cattolica italiana insegnanti medi, promossa dal Movimento laureati di Azione Cattolica, e l’AIMC, a. italiana maestri cattolici, promossa dalla Sezione maestri di Azione Cattolica, erede della «Tommaseo»; nel 1946 rinasce anche la FNISM. Dopo gli anni 1943-44 vissuti in clandestinità, su iniziativa di C. Carretto e M. Badaloni, l’AIMC tenne il 1° congresso nel settembre 1946. Si trattava di «fare della scuola una istituzione portante della rinascita italiana», ispirandosi ai principi del Vangelo e a quelli della Costituzione. Associa maestri, educatrici, direttori, ispettori. È strutturata democraticamente e radicata sul territorio, con propri organismi e luoghi d’incontro, in interazione continua fra diversi livelli associativi e con istituzioni pubbliche di tipo ecclesiale, civile, sindacale e politico. Intende la → professionalità come strumento al servizio della scuola, dell’educazione, della società civile, in dialogo con forze associative, sindacali e partitiche. Ha 110

anticipato e seguito l’innovazione scolastica e la riforma della scuola elementare, con attenzione a tutto il sistema scolastico, in particolare l’istruzione magistrale e la formazione universitaria dei docenti. Pubblica mensilmente «Il Maestro», libri raccolti in tre collane e ha un sito. L’UCIIM, nata il 18.6.1944, per iniziativa di → G. Nosengo tenne il 1°congresso nel 1947, sul tema Scuola e democrazia. La sua impostazione teologica (autonomia laicale, competenza professionale, costruzione e animazione cristiana dell’ordine temporale) avrebbe trovato pieno riscontro nelle idee del Conc. Vaticano II. Affronta problemi di spiritualità professionale, di educazione scolastica, di didattica, d’innovazione, anche a livello presindacale e prepolitico, con spirito dialogico, anzitutto a livello degli organi collegiali. Ha avuto un ruolo rilevante nella preparazione e nell’attuazione delle riforme scolastiche, con particolare riferimento alla scuola media, ai processi di partecipazione e alla stesura dei programmi della scuola secondaria, inferiore e superiore: ha promosso centinaia di convegni, collane, il mensile «La Scuola e l’Uomo», il sito e UCIIM NEWS. Aderisce al SIESC (Segretariato Internazionale degli Insegnanti Secondari Cattolici), divenuto nel 2006 FEEC Federazione europea di insegnanti cristiani. Di recente AIMC e UCIIM associano anche docenti di tutti gli ordini di scuola. La FNISM (Federazione Nazionale Insegnanti Scuola Media) è la prima a. italiana di professori, essendo nata nel 1901. Attenta agli aspetti giuridici e sindacali, ha inteso anche contribuire alla formazione di una coscienza civica, laica e democratica dei docenti. Per opera di G. Salvemini tese a presentarsi come «partito della scuola» e difese la scuola popolare statale, in frequente polemica contro la non statale. Associa ora docenti di tutti gli ordini e gradi e anche intellettuali non docenti. Pubblica l’«Eco della Scuola Nuova». Il CIDI (Centro Iniziativa Democratica degli Insegnanti) è un’a. di insegnanti di tutti gli ordini di scuola e di università. È sorta nel 1972, a partire da un nucleo romano. Ha partecipato, con rilevanti contributi, alla stesura e all’attuazione dei programmi della scuola, anche nell’ambito delle diverse commissioni ministeriali. Dedica molta attenzione ai problemi dell’insegnamento/apprendimento, con particolare

ASSOCIAZIONISMO

riguardo all’istruzione obbligatoria fino a 16 anni, a temi come l’intercultura, l’ambiente, la legalità, la salute, promuovendo gruppi di ricerca e convegni a carattere nazionale e internazionale. Pubblica il mensile «Insegnare». Il MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) trae le sue origini ed ispirazioni dall’insegnamento di → Freinet. In Italia intorno al 1950 furono costituite tre delegazioni dei CEMEA (Centri di Esercitazione Metodi Educazione Attiva). Nel 1951 fu fondata a Fano un’a. dal nome CTS (Cooperativa della Tipografia Scuola), che assunse le tecniche di Freinet. Nel 1957 prese il nome di MCE e si caratterizzò per l’impegno cooperativo, per lo spirito democratico, la didattica della individualizzazione e della socializzazione. Il movimento è oggi articolato in gruppi, a livello nazionale e locale: gruppi che s’impegnano in particolare su temi didattici come la matematica, l’informatica, l’educazione alla pace. Fa parte della FIME (Fédération Internationale des Mouvements d’École Moderne). 4. Fra le a. più recenti si trovano l’OPPI (Organizzazione per la preparazione professionale degli insegnanti 1965), DIESSE (Docenti e Scuola, 1987), ADI (A. Docenti Italiani, 1998), APEF (A. professionale europea di formazione, 2000); Legambiente Scuola e formazione (2000). Tutte queste a. sono riconosciute dal MPI come qualificate per la formazione dei docenti e fanno parte del Forum delle a. professionali di insegnanti e dirigenti (FONADDS) presso il MPI (dal 2004), con ANDIS e DISAL. Le a. cattoliche fanno parte della Consulta nazionale per la pastorale scolastica presso la CEI (UNESU, Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’Università). Nel 1999 è nata l’AIDU, a. italiana docenti universitari, d’ispirazione cattolica, che dispone di un suo sito. Bibl.: A mbrosoli L., La FNISM, Firenze, La Nuova Scuola, 1967; Sani R., Le a. degli insegnanti cattolici nel secondo dopoguerra, Brescia, La Scuola, 1990; Chiaromonte B. (Ed.), Il CIDI ha ventanni, Roma, CIDI, 1992; Corradini L., «UCIIM», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, 1485-1489; I d., «AIDU», in Ibid., 2003, 15-17; Prioreschi M., «AIMC», in Ibid., 17-18; Corradini L., Educare nella scuola nella prospettiva

dell’UCIIM, Roma, UCIIM-AIMC, Armando, 2006; Chiesa e testimonianza cristiana delle a. laicali nella scuola oggi, Atti dell’Incontro nazionale di Abano T., 1-3 dic. 2005, in CEI, Notiziario UNESU, 3, 2006; L’educazione? Una sfida da vincere insieme. Nuovi cammini, promesse, impegni, Atti del I Incontro nazionale delle aggregazioni laicali e dei soggetti operanti nell’educazione e nella scuola, Roma 11-13.5.2007, in CEI, Notiziario UNESU, 6. 2007.

L. Corradini

ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI DEGLI INSEGNANTI → Associazioni pedagogiche

ASSOCIAZIONISMO Per a. si intende il complesso delle associazioni presenti in un dato contesto. A sua volta va considerata associazione ogni collettività più o meno stabile, costituita volontariamente per perseguire uno o più scopi complementari o comuni a tutti i suoi associati. Tali scopi, poiché esorbitano dalla capacità di prestazione dei singoli, vengono perseguiti collettivamente, mediante vincoli di solidarietà fra gli associati, in maniera sistematica, attraverso forme di organizzazione democratica. 1. Sulla base di questa definizione, è possibile tracciare alcune distinzioni. L’intenzionalità e la volontarietà dell’adesione rendono l’a. diverso dalle aggregazioni di fatto (etnia, famiglia, parentela, gruppo d’età...) e dalle aggregazioni obbligatorie (esercito, corporazioni, partiti unici in regime totalitario...). L’a. va distinto anche dai sindacati, dalle cooperative e dalle organizzazioni professionali, la cui azione principale è direttamente collegata all’attività economica dei propri membri. Mentre l’a. riconosce i centri politici e culturali del potere, con i quali stabilisce rapporti di contrattazione, i movimenti sociali, attraverso azioni conflittuali, invece mettono radicalmente in discussione i modelli dominanti di utilizzazione delle principali risorse materiali e simboliche della società (Touraine, 1973). La presenza di vincoli, di un’estesa organizzazione formale e di obiettivi ufficialmente prefissati differenziano l’a. dai gruppi, più spontanei ed «espressivi», e dalle aggregazioni primarie 111

ASSOCIAZIONISMO

(Cooley, 1909). L’a. si distingue anche dalla comunità. Quest’ultima è fondata su un forte senso di appartenenza e sul coinvolgimento tendenzialmente totale dei propri membri, i quali condividono obiettivi comuni (anche se indeterminati), giudicati prioritari rispetto agli interessi individuali. L’adesione ad una comunità si fonda su dinamiche prevalentemente affettive o su motivazioni legate alla tradizione (Weber, 1922). Ma più che una collettività concreta, la comunità può costituire uno stato particolare che alcune collettività assumono per un tempo limitato (Gallino, 1978). In tal senso anche un’associazione può temporaneamente acquisire lo stato di comunità. 2. Al proprio interno l’a. si presenta alquanto variegato. Ogni sua tipologia dovrà articolarsi sulla base di alcune significative caratteristiche che, generalmente, sono le seguenti: i criteri di selezione e di reclutamento degli aderenti alle varie associazioni; gli interessi e gli scopi (iniziali o successivi, dichiarati o reali, diffusi in tutta l’associazione o concentrati in qualche suo segmento); la natura «strumentale» o «espressiva» dell’attività principale, a seconda che quest’ultima venga indirizzata rispettivamente ai non associati o agli associati (Rose, 1954; Gordon e Babchuk, 1959); la cultura, ossia le conoscenze, i valori, le credenze, i simboli, i rituali adottati e la socializzazione degli associati; la struttura, cioè la presenza più o meno estesa di organizzazione formale, di apparati permanenti; la delimitazione di ruoli specifici in base a modelli di comportamento ufficialmente approvati; il grado di partecipazione della base alle decisioni; il livello più o meno elevato di coinvolgimento personale richiesto ai partecipanti; i meccanismi preposti alla attribuzione del potere (per → carisma, cooptazione, elezione...), così come alla legittimazione ed al ricambio dei gruppi dirigenti; la comunicazione tra associazione e ambiente esterno, tra periferia e centro dell’associazione e tra i vari settori della periferia; le relazioni (di alleanza, di influenza o di competizione/conflitto) con altre associazioni o istituzioni. 3. L’a. può essere considerato una delle risposte al bisogno di socialità, cioè alla propensione degli esseri umani a stabilire relazioni sociali (v. per es. Simmel, 1908). Più in 112

particolare, secondo Rose (1954), l’a. risponderebbe ai bisogni di compagnia reciproca, di sicurezza personale e di conoscenza della realtà esterna. In quanto mediazione tra individuo e società, l’a. tende a preservare il singolo sia dall’isolamento sia dal perdersi in una massa magmatica e anonima. Sempre grazie a questa sua collocazione intermedia, l’a. facilita nel singolo associato la formazione di una maggiore consapevolezza del proprio ruolo nella società. Talvolta l’adesione attiva ad un’associazione, vissuta come un impegno creativo, gratificante, compensa altre attività (lavorative, familiari) giudicate monotone, ripetitive, frustranti. Per queste ed altre funzioni di integrazione, l’esperienza associativa può facilitare il singolo a ritrovare un senso, uno scopo da attribuire alla propria vita. Ciò aiuta a spiegare perché i soggetti con esperienze associative consolidate si rivelino più disponibili, maggiormente propensi alla «multi-appartenenza» e al «pendolarismo» fra molteplici associazioni. 4. Sono anche altre le funzioni normalmente svolte dall’a. Esso, per quanto presente in ogni società, diventa particolarmente rilevante quando nel sistema sociale, a seguito dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, si accentuano i processi di divisione del lavoro, si moltiplicano i sottosistemi ed i rapporti di interdipendenza reciproca. In questo scenario cresce anche il numero di aggregazioni a cui vengono in parte delegate alcune funzioni che in origine erano prerogativa di pochi sottosistemi, quali la chiesa, il vicinato e la famiglia. Anche l’incremento del benessere collettivo e l’avvento della «civiltà del tempo libero», svincolando il singolo da preoccupazioni primarie di sopravvivenza, consentono un ulteriore sviluppo dell’a. 5. A valorizzarne le funzioni e a facilitarne la sua diffusione è anche l’estensione delle libertà politiche e dei diritti civili. A questo proposito la sociologia statunitense, influenzata dagli studi di Tocqueville (1835) e dalla fiorente realtà associativa americana, sottolinea molto il rapporto fra democrazia e a. In particolare l’a. viene considerato una modalità attraverso cui la società civile si organizza autonomamente per bilanciare il potere centrale dello Stato (Sills, 1968). Questa funzione di bilanciamento costituisce an-

ATTEGGIAMENTO

che un rapporto di complementarità con la sfera della decisione pubblica: l’a. partecipa ai processi di comunicazione e di contrattazione tra centro politico e nodi periferici del sistema, e dunque rappresenta una forma molto articolata di decentramento del potere. La sua organizzazione interna democratica costituisce un ulteriore fattore di formazione alla democrazia, di sensibilizzazione alle esigenze collettive, di comprensione dei processi socio-politici e di partecipazione al loro controllo. 6. Alcune tendenze che caratterizzano molti altri ambiti della società contemporanea possono riguardare lo stesso a. Soprattutto se un’associazione giunge ad essere ampia e complessa, tenderà a porre un’attenzione molto accentuata verso il proprio apparato organizzativo, a scapito dei singoli partecipanti e delle finalità ufficiali dichiarate. Per la necessità di gestione e controllo di un’organizzazione così articolata e per prevenire forme di dissociazione (Gallino, 1979), diventerà preoccupazione prioritaria, funzione prevalente, anche se latente, la giustificazione del gruppo dirigente e delle sue scelte. Si accentueranno di conseguenza i meccanismi di cooptazione nella distribuzione del potere e l’adesione alle procedure formalizzate diventerà la fonte principale di legittimazione. Una tendenza generalizzata in tal senso assimilerebbe l’a. alla «legge bronzea dell’oligarchia» già individuata da Michels (1911) nel potere politico e nelle tendenze alla «burocratizzazione». 7. Per il suo proliferare e per la possibilità di partecipare alla contrattazione fra «centro politico» e «periferia» (v. 5), vi è il rischio che parte dell’a. si trasformi in un insieme «neocorporativo» di gruppi di pressione sullo Stato. La necessità, per il sistema politico, di ricomporre domande particolaristiche, diverse e talvolta contrastanti, indurrebbe i partiti a ricondurre l’a. entro la loro sfera di influenza, a condizionarlo attraverso forme di neocollateralismo. In tal modo l’a. vedrebbe attenuarsi il proprio ruolo di espressione autonoma e diretta della società civile. Bibl.: Tocqueville A. de, De la démocratie en Amérique, Paris, Gosselin, 1835; Simmel G., Soziologie. Untersuchungen über die Formen der

Vergesellschaftung, München, Dunker & Humblot, 1908; Cooley C, Social organization, New York, Scribner’s, 1909; Michels R., Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, Lipsia, W. Klinkhardt, 1911; Weber M., Wirtschaft und Gesellschaft, Tubinga, Mohr, 1922; Rose A. M., Theory and method in the social sciences, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1954; Gordon C. W. - N. Babchuk, A typology of voluntary associations, in «American Sociological Review» 24 (1959) 1; Sills D. L., «Voluntary associations: sociological aspects», in International encyclopedia of the social sciences, XVI, London, McMillan, 1968, 363-379; Gallino L., Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1978; I d., Effetti dissociativi dei processi associativi in una società altamente differenziata, in «Quaderni di Sociologia» 28 (1979)1; Dal Toso P., Lineamenti di storia dell’a., Roma, Aracne, 2005.

P. Montesperelli

ATTEGGIAMENTO È difficile trovare in letteratura una definizione univoca di questo concetto. Una classica è quella di → Allport (1935, 8) che lo intende come «uno stato mentale o neurologico di prontezza, organizzata attraverso l’esperienza, che esercita un’influenza direttiva o dinamica sulla risposta dell’individuo nei confronti di tutti gli oggetti e situazioni con cui entra in relazione». Questa definizione risulta molto ampia ed implica diversi aspetti che meriterebbero ulteriori specificazioni; in essa, comunque, appare chiaro che l’a. è un costrutto ipotetico, non osservabile direttamente, ma da dedurre dal → comportamento manifesto di una persona. 1. Oggi per lo più ci si riferisce al costrutto di a. per indicare una predisposizione appresa a rispondere prontamente in un modo generalmente favorevole o sfavorevole ad un oggetto, persona, istituzione, simbolo o evento. Esso include tre componenti: una componente cognitiva (le → credenze) che riguarda la percezione, la descrizione personale dell’oggetto dell’a., indipendentemente dal fatto che essa sia vera o falsa, e che si basa sia sull’evidenza oggettiva che sulle opinioni personali; una componente affettiva, riguardante i 113

ATTEGGIAMENTO

sentimenti di piacere, o dispiacere, e le valutazioni favorevoli, o meno, nei confronti dell’oggetto; e una componente comportamentale, cioè la disposizione, la tendenza ad agire in un certo modo verso l’oggetto in questione. Vanno comunque considerate posizioni diverse. L’approccio comportamentista considera l’a. fondamentalmente come una disposizione a valutare positivamente, o meno, un oggetto, disposizione che si forma grazie a ripetute e sistematiche associazioni tra oggetto ed eventi positivi o negativi; in questo approccio, infatti, la formazione degli a. viene spiegata in base ai principi dell’apprendimento (condizionamento classico, rinforzo, osservazione). L’approccio funzionalista lega l’origine dell’a. ai → bisogni o alle funzioni a cui esso serve. Ad es., vengono riconosciute all’a. una funzione strumentale (aiuta ad ottenere ricompense o evitare punizioni nel mondo sociale), una conoscitiva (serve come struttura per gestire e acquisire conoscenze, organizzando e semplificando il notevole flusso informativo con cui ci si confronta), una difensiva (protegge e accresce l’immagine di sé). Dal momento che gli a. sono funzionali a soddisfare alcuni bisogni fondamentali, la loro componente valutativa è connessa a tali motivi, e cioè emerge un a. positivo verso un oggetto se i motivi di fondo sono soddisfatti rispondendo favorevolmente ad esso, e viceversa se la soddisfazione scaturisce da una risposta negativa. Un terzo approccio, socio-cognitivo, si è infine affermato negli ultimi decenni, in linea con l’attuale tendenza generale in psicologia a spiegare la condotta secondo una prospettiva cognitivista o dell’information processing; secondo questo approccio, infatti, l’a. viene principalmente concettualizzato in termini di cognizioni, schemi, in quanto esso si fonda sulle credenze personali riferite ad un oggetto. Ogni credenza collega un oggetto a degli attributi positivi o negativi, e la disposizione valutativa dell’a. è la risultante di tutte le credenze riferite ad un oggetto; inoltre, in quanto schema, l’a. influenza l’elaborazione delle informazioni sociali sia a livello di ricerca attiva e di codifica (percezione, giudizi) di informazioni collegate all’a., che di recupero di esse dalla memoria. Le credenze e, quindi, gli a. relativi al mondo sociale derivano dall’esperienza diretta con un oggetto, dalle informazioni acquisite nel processo 114

di → socializzazione tramite famiglia, gruppi di riferimento, mezzi di → comunicazione di massa, e dalle inferenze elaborate sulla base di informazioni già possedute; insieme a tutto ciò, si deve tenere conto delle variabili personali che intervengono a modulare la percezione dei messaggi sociali ricevuti. 2. Oltre a spiegare la formazione degli a., gli psicologi sociali ne hanno studiato le conseguenze, soprattutto per verificare l’influenza da loro esercitata sul comportamento sociale. Fino agli anni ‘60 si dava per scontato che tale costrutto potesse spiegare e predire la condotta sociale, ma da una serie di studi è emersa una scarsa correlazione tra a. espressi verbalmente e successivo comportamento manifestato. Gli studiosi hanno dunque dovuto riconsiderare il rapporto tra a. e comportamento, concludendo che da un lato, l’espressione verbale di un a. va posta in relazione, più che con una singola condotta, con un insieme di misure di comportamenti attuati nei confronti della classe di oggetti dell’a., e dall’altro, che per predire una singola condotta a partire dall’a. è necessario chiedere alla persona di esprimere il suo a. in merito alla condotta specifica in questione (ad es.: donare il sangue), e non rispetto ad un ambito generale (ad es.: solidarietà). D’altra parte, bisogna tener presente che nell’attuazione di una condotta intervengono anche tanti fattori situazionali e personali. In questa linea Fishbein e Ajzen (1975) hanno proposto la teoria dell’azione ragionata, secondo cui un’azione è determinata dalle intenzioni comportamentali del soggetto; a loro volta le intenzioni dipendono dall’a. verso quella specifica condotta (composto dalle credenze sulle conseguenze di quel comportamento e dalla valutazione personale di queste), dalle credenze normative personali e sociali, e dalla motivazione a conformarsi a tali norme. Seguendo tale prospettiva interattiva e facendo riferimento allo specifico a. comportamentale, è possibile rendere più accurata, come è stato confermato da ricerche successive, la previsione di una condotta. 3. Essendo un costrutto ipotetico, non osservabile, l’a. viene inferito misurando le risposte cognitive, affettive e conative ad esso connesse. Di solito, per misurare un a., si usano metodi diretti nei quali i soggetti sono

ATTEGGIAMENTO

interrogati direttamente in merito ad un oggetto; tra questi metodi, oltre ad usare singole domande in cui le persone sono invitate ad esprimere la loro posizione (d’accordo, non d’accordo, incerto) circa affermazioni positive o negative su un oggetto, molto spesso si usano scale di misurazione come la scala Likert (una serie di affermazioni rispetto alle quali va indicato il grado di accordo, o meno, su una scala di 5 o 7 punti), e il differenziale semantico, in cui si invita a valutare l’oggetto dell’a. rispetto ad una serie di aggettivi bipolari (es.: buono - cattivo), in cui il centro del continuum esprime l’eventuale neutralità. Sono stati elaborati anche dei metodi indiretti (ad es.: test proiettivi, rilevazione parametri fisiologici), soprattutto quando gli a. toccano questioni delicate e si prevede un’alta probabilità di contraffazione delle risposte alle domande dirette; tali metodi, tuttavia, possono a volte implicare problemi etici e spesso si rivelano poco affidabili. Data la rilevanza degli a. in molti ambiti della vita sociale, molti studiosi si sono interessati, anche al fine di migliorare la convivenza civile, a come essi possano essere cambiati. In proposito ci sono molti modelli, tra cui ad es., il modello della comunicazione persuasiva (McGuire, 1985) che spiega l’effetto persuasivo di un messaggio sulla base di 5 processi: attenzione, comprensione, accettazione, ritenzione, azione. Sempre in ambito cognitivista ci sono le teorie dell’equilibrio (Heider, 1946) e della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957), basate sull’assunto che si ha il bisogno di mantenere la coerenza tra gli elementi della propria struttura cognitiva; tale bisogno spiegherebbe sia la stabilità che il cambiamento di un a.: mentre da una parte si tende a selezionare le informazioni a seconda se sono congruenti o meno con il proprio quadro di riferimento, dall’altra, qualora si venisse a creare un’incongruenza a seguito di nuove esperienze o dati, mutare a. sarebbe uno dei modi per ristabilire lo stato di equilibrio. In sintesi, i diversi modelli ipotizzano due percorsi di elaborazione delle informazioni quando si cambia a.: uno centrale, sistematico, in cui ci si sofferma a riflettere sui dati a disposizione, e uno periferico, con meno attenzione, basato su euristiche quali ad es. fidarsi di chi parla se lo si ritiene esperto o simpatico (Petty-Cacioppo, 1981; Eagly-Chaiken, 1993). Alcuni conside-

rano tali percorsi come aspetti in un unico percorso, con processi più o meno elaborati a seconda della motivazione, dello stato emotivo, e delle abilità cognitive delle persone (Cavazza, 2005). 4. Va accennato, infine, che gli a. sono stati studiati anche in ambito educativo. In proposito si è particolarmente evidenziata l’importanza degli a. relazionali degli → educatori al fine di promuovere un efficace → rapporto educativo (Franta, 1995): il comportamento relazionale degli educatori, tenendo conto dei loro a. di fondo nei confronti dell’educazione e delle persone in divenire con le quali si relazionano, è stato analizzato in base all’a. emozionale e socio-operativo. Il primo riguarda la creazione di un positivo contatto affettivo con gli educandi volto a valorizzarli, rapporto che risulta fondamentale sia alla loro crescita che alla costruzione di un’adeguata piattaforma educativa; il secondo riguarda la realizzazione del ruolo di guida e di controllo da parte dell’educatore, della sua funzione regolativa e orientativa al fine di favorire l’autosupporto negli educandi. Tale funzione può essere svolta secondo uno stile autoritario, lassista, o autorevole, e quest’ultimo, dagli studi in proposito, risulterebbe essere il più costruttivo per 1’ → educando. Bibl.: A llport G. W., «Attitudes», in C. M. Murchison (Ed.), A handbook of social psycholo­ gy, Worchester, Clark University Press, 1935, 798-844; H eider F., Attitudes and cognitive organization, in «Journal of Psychology» 21 (1946) 107-112; Fishbein M. - I. A jzen, Belief attitude, intention, and behavior: an introduction to theory and research, Reading (Mass.), Addison-Wesley, 1975; Petty R. E. - J. T. Cacioppo, Attitudes and persuasion: classic and contemporary approaches, Dubuque (Ia.), Brown Company Publishers, 1981; McGuire W. J., «Attitudes and attitude change», in G. Lindzey - E. A ronson (Edd.), The handbook of social psychology, vol. II, New York, Random House, 31985, 233-346; Eagly A. H. - S. Chaiken, The psychology of attitudes, Orlando (Fl.), HBJ College Publishers, 1993; Franta H., A. dell’educatore. Teoria e training per la prassi educativa, Roma, LAS, 1995; Stroebe W. - M. S. Stroebe, Psicologia sociale e salute, Milano, McGraw-Hill Libri Italia s.r.l., 1997; Cavazza N., Psicologia degli a. e delle opinioni, Ibid., 2005.

C. Messana 115

ATTENZIONE

ATTENZIONE L’a. è generalmente definita come la capacità della mente di concentrarsi o di focalizzarsi su alcuni elementi dell’ambiente. La sua importanza nella vita di ogni giorno è sotto gli occhi di tutti. Essa infatti controlla l’attività elaborativa della mente selezionando il flusso delle informazioni in base alle capacità dell’individuo e regolando la distribuzione delle risorse fra compiti competitivi. Sebbene spesso si parli dell’a. come di un processo unitario e specifico, in realtà sembra che ciò che viene indicato con questo termine corrisponda a un modo generico di categorizzare processi e comportamenti diversi. 1. Processi attentivi. Con lo sviluppo della psicologia cognitivista l’a. è tornata di attualità. Questo approccio ha promosso un ricco filone di ricerche formulando vari modelli interpretativi, sviluppando nuovi settori di indagine (neurologico e psicologico) e delineando una ricca tipologia di processi attenzionali (selettivo, automatico o inconscio e controllato). Sebbene gli studi siano ancora agli inizi, non mancano dati sulle basi nervose dei processi attentivi. Sembra che i lobi parietali del cervello siano coinvolti nell’a. sensoriale e che l’ippocampo abbia un ruolo nell’a. a breve termine. Nel 1958 Broadbent, attraverso esperimenti che analizzavano l’ascolto dicotico (stimoli diversi inviati ai due orecchi) sostenne la presenza di un «filtro» sensoriale che selezionava l’accesso dell’informazione ai livelli di elaborazione superiori. Treisman (1960) sostenne che, più che di un «filtro», si dovesse parlare di un processo di «attenuazione» dello stimolo, perché negli esperimenti da lui condotti i soggetti che ricevevano il doppio messaggio erano in grado di seguire ambedue se uno di essi era significativo rispetto all’altro. Deutsch e Deutsch (1963) e successivamente Norman (1972) introdussero ulteriori modificazioni ipotizzando che la selezione fosse determinata dalla «pertinenza» dello stimolo. Johnston e Heinz (1978) sostennero un modello di a. selettiva flessibile basato appunto sulla disponibilità delle risorse: la selezione degli elementi dello stimolo comincia dall’inizio, ma la quantità delle risorse aumenta a mano a mano che ci si avvicina alla risposta da dare. Kahneman (1973) spostò l’enfasi della 116

ricerca sul problema delle risorse avanzando l’idea che il processo di selezione analizzato dai precedenti ricercatori era da reinterpretare in termini di quantità di risorse disponibili per svolgere i compiti assegnati. 2. Processi automatici e processi sotto controllo. Un nuovo orientamento alla ricerca sull’a. avvenne ad opera di Schneider e Shiffrin (1977) (processi automatici e sotto controllo) e di Posner e Snyder (processi inconsci). I processi automatici procedono in parallelo, non sono intenzionali, né consci, né subiscono interferenze, né richiedono grande quantità di risorse. Al contrario i processi sotto controllo sono intenzionali, sono diretti ad uno scopo e richiedono molte più risorse dei primi. In genere i processi automatici si applicano a compiti familiari e semplici, quelli controllati a compiti complessi e inusitati. Automaticità e controllo sono due dimensioni che permettono di spiegare anche le esperienze di a. divisa. Nel caso di processi simultanei, i compiti complessi non automatizzati, richiedendo maggiori risorse, diversamente da quelli semplici e automatici, impongono una divisione delle risorse stesse. Le precedenti ricerche e interpretazioni spiegano i fenomeni della a. selettiva o dell’a. automatica e sotto controllo, ma non spiegano ancora altri fenomeni attentivi. Ad es., come interpretare il comportamento dell’a. su qualche cosa che è noiosa? Le ricerche su questo problema sono state numerose anche per la particolare connessione che esso ha con l’attività di lavoro. Molti fattori sembrano intervenire per spiegare le variazioni dei livelli di a. L’a. vigilante o il sostegno dell’a. necessaria ad una prestazione prolungata nel tempo sembrano progressivamente allentarsi a seconda del tipo di stimolo, della periodicità con cui vengono conosciuti i risultati della propria attività, del contesto esterno, dell’assunzione di sostanze stimolanti (anfetamine) e del tipo di personalità introversa o estroversa. 3. A. e apprendimento. L’interesse per l’argomento è comprensibile perché le conoscenze sull’a. possono fornire indicazioni preziose alla scuola sia per migliorare il livello di prestazione degli studenti che per attenuare le conseguenze dei limiti attentivi di alcune categorie, come gli iperattivi o i ritardati

ATTESE

mentali. A questo riguardo si sono studiati gli effetti dell’aiuto nell’identificazione delle informazioni più importanti, delle tecniche di evidenziazioni attraverso figure e immagini, della frammentazione della monotonia dello stimolo, dell’automatizzazione dei processi secondari per aumentare la quantità delle risorse disponibili, dell’uso frequente di domande, del pensare ad alta voce e del verbalizzare ciò che viene svolto, dell’uso di ricompense e dell’immediato feedback, dell’esercizio costante e continuo su un compito per automatizzare le prestazioni. L’effetto positivo del mantenimento dell’a. sul compito dato dal variare degli stimoli, dal contesto mutevole e dalla frequenza di feedback ha suggerito la possibilità di strategie educative di sequenzializzazione di operazioni come il «fermati-osserva-ascolta», «fermati-ricordarifletti-decidi», ecc. Bibl.: Broadbent D. E., Perception and communication, Oxford, Pergamon Press, 1958; Treisman A. M., Contextual cues in dichotic listening, in «Quarterly Journal of Experimental Psychology» 12 (1960) 242-248; Deutsch J. A. - D. Deutsch, Attention: some theoretical considerations, in «Psychological Review» 70 (1963) 80-90; Norman D. A., Memory and attention: an introduction to human, New York, Wiley, 21972; K ahneman D., Attention and effort, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1973; Schneider W. - R. M. Shiffrin, Controlled and automatic information processing I: Detection search and attention, in «Psychological Review» 84 (1977) 1-66; Johnston W. A. - S. P. H einz, Flexibility and capacity demands of attention task, in «Journal of Experimental Psychology General» 107 (1978) 420-435; Cohen R. A., The neuropsychology of attention, New York, Plenum, 1993.

M. Comoglio

ATTESE Se per «ruolo» si intende quella serie di funzioni o compiti che la società «si attende» che la persona svolga all’interno delle strutture, contemporaneamente emerge anche il concetto di a. sociali, che è fondamentale nello studio delle interazioni sociali (la teoria dell’ → interazionismo simbolico). La persona infatti, nel corso della sua vita sociale

quotidiana, agisce anche in rapporto alle a. che gli altri, specialmente se significativi, hanno nei suoi confronti. Quando però le a. rimangono inadempiute diventano la causa di conflitti interpersonali o almeno di delusioni e frustrazioni. 1. In tale contesto soprattutto se didattico, il concetto di a. coinvolge diverse dimensioni, che influiscono notevolmente sul rapporto educatore-educando e insegnante-alunno. Le a. condizionano infatti diversi tipi di comportamento: le a. positive degli insegnanti nei confronti della riuscita dello → studente sono uno stimolo al successo scolastico («effetto → Pigmalione»), come le a. negative pongono condizioni che contribuiscono all’insuccesso. In questo secondo caso però le correlazioni tra i fattori sono meno elevate. Infatti le a. negative provocano da parte dell’alunno una serie di meccanismi di difesa per cui egli non perde necessariamente il concetto di sé, anzi sviluppa atteggiamenti di avversione verso l’autore delle a. D’altra parte le a. positive per essere efficaci devono essere minimamente fondate sulla realtà e non eccessivamente elevate (la legge della «giusta distanza» rispetto ai fini), per evitare fenomeni di scoraggiamento o di rifiuto dei tentativi di approccio. Vi sono inoltre a. degli studenti nei confronti della propria carriera scolastica e/o professionale. 2. Quando queste a. sono alte diventano un incentivo favorevole all’impegno per un miglior rendimento. Esse sono correlate con i concetti di «aspirazioni», di «ambizione» e di «motivazione», pur senza confondervisi. Le a. hanno infatti una triplice componente: cognitivo-intellettiva, affettivo-emotiva e conativo-intenzionale. Ciascuna contribuisce ad influenzare i rispettivi comportamenti, così che un intervento su qualcuna di esse può modificare le successive condotte. L’effetto verificato però è maggiore sulla relazione interpersonale che non sul successo intellettuale e sui risultati oggettivi. Non va sottaciuto il fatto che la qualità stessa delle esperienze passate circa le proprie relazioni interpersonali conduce alla formazione di a., che a loro volta condizionano la successiva interazione. Nel processo educativo infine è ormai un dato verificato che sul comportamento dell’adulto incidono reazioni dello 117

AUDIOVISIVO

stesso adolescente. Rimane tuttavia ancora aperta la questione circa l’individuazione dei vari settori maggiormente influenzabili e delle condizioni più predisponenti a tale reciprocità. Bibl.: Cicourel A. V. - K. K norr Cetina, Advances in social theory and methodology, London, Routledge and P. Kegan, 1981; Woods P., Sociology and the school. An interactionist viewpoint, Ibid., 1983; Rosenthal R. - L. Jacobson, Pigmalione in classe. L’immagine che chi insegna si fa di chi apprende sotto la sua guida, Milano, Angeli, 1992; Fele G. - I. Paoletti, L’interazione in classe, Bologna, Il Mulino, 2003; Palmonari A. et al., Psicologia sociale, Ibid., 2002.

R. Mion

ATTISANI Adelchi → Storicismo pedagogico ATTITUDINE → Abilità ATTIVISMO → Scuole Nuove ATTRIBUZIONE DELLA CAUSALITÀ → Locus of control

AUDIOVISIVO Il termine a. è relativamente nuovo ed ha un significato molto ampio e fluido. 1. Precisazioni. Pur essendo alquanto discutibile da un punto di vista semantico, con tale termine si abbraccia un complesso di situazioni e di tecniche nuove che si riferiscono al suono, all’immagine fissa e in movimento vista in modo integrato o separato. Esso proviene dall’ambiente pedagogico americano degli anni 1930/40 e si è diffuso rapidamente nell’immediato dopoguerra in Europa e in diversi altri Paesi. Nella lingua francese esso appare per la prima volta nelle Raccomandazioni della X Conferenza Internazionale dell’Educazione del 1947 ed entra nel lessico scolastico nel 1959. Nel mondo scolastico italiano appare ufficialmente nel 1956 e all’incirca negli stessi anni in diversi altri Paesi europei. Per a. potremmo intendere «l’insieme di procedimenti elettrici ed elettronici di riproduzione e di diffusione delle immagini e del suono utilizzati nella comunicazione di massa per una ricezione collettiva o individuale organizzata» (Dieuzeide, 1976, 11). Oggi il termine indica sia apparecchiature 118

(→ hardware) destinate a produrre o a trasmettere messaggi visivi e sonori, sia tutto ciò che viene utilizzato come supporto per riprodurre tali messaggi, → software, per visualizzare cioè immagini e trasmettere suoni. Esso viene usato in contesti ed ambienti assai diversi. Lo possiamo trovare nel settore produttivo, in quello formativo, nel settore dell’assistenza e del tempo libero e perfino in quello politico. L’a. nei processi formativi ha un ruolo che può variare in base alla sensibilità delle persone e all’uso che ne viene fatto, ma che fondamentalmente riguarda aspetti di supporto e di integrazione all’azione formativa in generale. Esso può potenziare notevolmente la capacità di espressione e di → comunicazione: sia per estendere i messaggi tradizionali, perfezionarli, renderli più intuitivi e facilmente ripetibili soprattutto per chi ha scarse capacità di astrazione; sia per dare un contributo innovativo all’intervento, coinvolgendo le persone in modo più diretto. 2. Utilizzazione. Gli a. sono apparecchiature che trattano immagini e suoni utilizzando il linguaggio orale e iconico. È chiaro dunque che per avere una resa ottimale quando si usano in modo sistematico, è necessario essere attenti ad una serie di problemi relativi alle modalità di comunicazione in generale, oltre che a quelle specifiche del linguaggio usato dell’a. considerato. In chi intende usarli si rende necessario acquisire una conoscenza delle possibilità comunicative di tali linguaggi, almeno negli aspetti fondamentali ed una capacità di utilizzarli concretamente in modo efficace. Normalmente un a. si presta bene per: trasmettere dei contenuti completando, ad es., un messaggio con immagini o commenti semplificati e legati in modo strumentale al particolare concetto da evidenziare; stimolare una discussione/ creare interesse in modo da avviare un discorso che verrà poi approfondito con altri mezzi ed in altri momenti; dimostrare abilità da acquisire o atteggiamenti da modificare evidenziando situazioni legate all’oggetto o alla realtà che si vuole far vedere; approfondire particolari di discorsi, di situazioni o oggetti, enfatizzando, in questo caso, gli aspetti che si vogliono studiare per facilitarne la comprensione; documentare la realtà a scopo anche solo informativo. L’a. normalmente facilita molto la trasmissione di cono-

AUROBINDO GHOSE SRI

scenze e l’acquisizione di atteggiamenti desiderati, difficilmente però riesce ad esaurire una tematica complessa. Per completare l’informazione o anche solo per meglio interiorizzarla, si rende necessario aggiungere un apporto successivo attraverso un lavoro di ricerca personale e di gruppo, con interventi di esperti o semplicemente approfondimenti con letture personali. Normalmente l’a. contribuisce a problematizzare, presentare una parte o alcuni aspetti di un tema che verrà successivamente puntualizzato e completato per una sua comprensione completa. Solo con tematiche relativamente semplici e con software ben strutturati si riesce ad essere esaustivi attraverso l’a. Nell’apprendimento il momento di interiorizzazione di conoscenze ed abilità ha forme e ritmi molto personalizzati che difficilmente possono essere gestiti completamente e autonomamente da un a. 3. Prospetto. Oggi gli a. sono presenti in diversi ambienti e sono in continua evoluzione. Un elenco preciso è difficile da fare e rischierebbe di essere incompleto. Inoltre molto dipende da cosa si vuole sottolineare: aspetti storici in cui si evidenziano salti qualitativi o generazionali; aspetti di ordine percettivo o intellettivo; aspetti legati all’integrabilità dei processi formativi; o infine aspetti pratici o di convenienza didattica o commerciale. Il mercato oggi ne propone una certa varietà. Alcuni tipi si presentano principalmente come apparecchiature per un solo uso: lavagna luminosa, proiettore per diapositive e filmstrips, proiettore per microfiches, episcopio, registratore, radio, giradischi (sostituiti sempre più da compact disc), proiettore per film (super 8 oppure 16/32 mm), televisione (sia a circuito chiuso via cavo, sia via etere). Altri invece si presentano più come sistemi integrati con nomi legati alle funzioni o alle ditte costruttrici: diatape (registratore + proiettore diapositive), epidiascopio (episcopio + proiettore diapositive), diagraf (lavagna luminosa proiettore per diapositive), multivision (insieme di più proiettori opportunamente sincronizzati), videotop (super 8 con possibilità di variare velocità delle sequenze). Tra gli a. oggi si potrebbe annoverare anche il personal computer, nel senso che può gestire ed integrare suoni e immagini in funzione di una migliore comunicazione.

Esso ha però caratteristiche e peculiarità che vanno oltre l’ambito di un a., essendo una apparecchiatura della nuova generazione più potente e versatile. In quest’ottica è quindi riduttivo vederlo come un semplice a. Bibl.: Dieuzeide H., Le tecniche audiovisive nell’insegnamento, Roma, Armando, 1976; R ivoltella P. C. (Ed.), L’a. e la formazione: metodi per l’analisi, Padova, CEDAM, 1998; Parmeg giani P., Dall’a. al multimediale: documentare per la didattica e la ricerca, Verona, Forum, 2000; Chiocci F. et al., La grana dell’audio: la dimensione sonora della televisione, Roma, RAI/ ERI, 2002.

N. Zanni

AUROBINDO Ghose Sri n. a Calcutta nel 1872 - m. a Pondicherry nel 1950, filosofo, maestro spirituale, politico, educatore indiano. 1. A. compì i suoi studi in Inghilterra e assimilò, oltre alla letteratura ingl., quella gr. e lat.; conosceva gr., lat., fr. e ted. Tornato in India nel 1893 iniziò una intensa attività politica e sociale, contemporaneamente studiò sanscrito e i classici dell’ → induismo e del buddhismo, oltre alla sua lingua materna, il bengali. Dal 1903 al 1905 partecipò attivamente al movimento politico swadeshi (nazionale). Pubblicò il giornale rivoluzionario «Bande Mataram» importante per la dottrina della resistenza passiva. Nel 1908 sotto la guida dello Yogi Vishnu Bhasker Lele diventò un yogi, uomo di grande cultura occidentale e orientale. Nell’anno 1914 incontrò Mirra Alfassa – una parigina – che poi diventerà la Mère dell’ashram, fondato da A. Nel 1940 creò una scuola per i bambini; nel 1952 fu fondato L’International Educational Centre S. A. e nel 1968 sorse la città di Auroville presso Pondicherry. 2. A. fondò la sua teoria dell’educazione su purna yoga o → yoga integrale. Il termine yoga significa unire, e per le scuole teiste dell’induismo, vuol dire unione dell’anima con lo Spirito Assoluto. Yoga indica anche i mezzi o vie della liberazione dell’anima. A. propone il purna yoga come mezzo per svi119

AUTISMO INFANTILE

luppare e trasformare tutto l’uomo, non solo l’aspetto puramente spirituale. Il purna yoga è una teoria che si fonda su una sintesi psicofilosofica orientale e occidentale. Secondo la sua concezione filosofica, tutto il mondo è in evoluzione e l’evoluzione dell’uomo tende verso una supermente con una super coscienza. Il divino (Purusha) scende a trasformare lo spirito e il corpo umano (prakriti). Lo scopo dell’educazione è la realizzazione dello spirito della supercoscienza. Secondo A., l’educazione è costituita da cinque aspetti, corrispondenti alle cinque attività principali dell’uomo: fisica, vitale, mentale, psichica e spirituale. Bibl.: a) Fonti: Opere fondamentali tradotte in it.: La Sintesi dello Yoga, Roma, Ubaldini, 1967-1969; La Vita Divina, Imola, Galeati, 1973; Guida allo Yoga, Roma, Edizioni Mediterranee, 1975. b) Studi: Sapio M., «A.S.A.G.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 1245-1250; Chistolini S., Tagore, A., Krishnamurti. Unità dell’uomo e universalità dell’educazione, Roma, La Goliardica, 1990.

S. Thuruthiyil

AUSTRALIA → Oceania AUSUBEL David Paul → Desatellizzazione

AUTISMO INFANTILE Patologia psichica che comporta la predominanza relativa o assoluta della realtà intrapsichica con il conseguente distacco più o meno grave dal mondo esterno. 1. Il termine a., dal gr. autós (se stesso), è stato introdotto da E. Bleuler (1911) per sottolineare che nello schizofrenico il mondo interno prevale nettamente su quello esterno, per cui si verifica una massiccia chiusura nei confronti della realtà. L. Kanner (1943), studiando un gruppo di bambini affetti da a., ha ripreso il termine dandogli però una connotazione diversa e cioè intendendolo non tanto come espressione di un ritiro attivo dalla realtà, quanto invece di un’incapacità di sviluppare delle relazioni con l’esterno. In altri termini, mentre lo schizofrenico si ritira dal mondo, il bambino autistico non vi è mai 120

entrato. Nel 1946 Kanner introduce il termine a. i. precoce, che sarà poi universalmente adottato. 2. L’a.i. precoce detto anche primario tende ad evidenziarsi nei primi diciotto mesi di vita, con una proporzione oscillante dai 2 ai 4 casi ogni 10.000 nati e con una netta frequenza di 3-4 volte superiore nei maschi rispetto alle femmine. Oltre a questo primo tipo, è stato individuato un a.i. secondario a regressione. Esso è più raro, compare entro i primi trenta-trentasei mesi, dopo un periodo iniziale di sviluppo apparentemente normale e a seguito di eventi che comportano un allentamento dell’investimento materno. 3. I sintomi più significativi sono: isolamento estremo, bisogno d’immutabilità, stereotipie, identificazione adesiva, disturbo del linguaggio, uso autistico degli oggetti. Non sono chiare le cause che stanno all’origine dell’a. Alcuni insistono sui fattori organici (genetici, biochimici, neurologici). D’altra parte è però possibile riscontrare una patologia autistica anche in bambini che, almeno con gli strumenti di ricerca finora disponibili, non evidenziano alcun danno organico. Allo stato attuale emergono due orientamenti: uno che tende a sottolineare la prevalenza della base organica ed un altro che invece individua le cause in fattori prevalentemente psicodinamici. 4. Stante la varietà dei modelli interpretativi dell’a.i., le proposte terapeutiche sono estremamente varie. Appare sconsigliabile una terapia prevalentemente farmacologica. Inoltre è ormai superato il ricorso all’inserimento del bambino autistico in una istituzione globale, come suggeriva a suo tempo → Bettelheim. Attualmente, s’insiste per una cura che passa attraverso l’ospedale diurno. Gli autori ad orientamento psicodinamico (M. Mahler, → Winnicott, F. Tustin, W. R. Bion, D. Meltzer), proprio perché indicano la causa dell’a. nel fatto che il bambino all’origine non ha sperimentato il contenimento delle proprie angosce primarie da parte della madre, insistono sul concetto di ambiente terapeutico, inteso non come luogo fisico, ma come contenitore psichico fatto d’interventi psicoterapeutici, educativi, scolastici e ri­ creativi e di azione di sostegno ai genitori.

AUTOEFFICACIA

Bibl.: Tustin F., A. e psicosi infantile, Roma, Armando, 1975; Bettelheim B., La fortezza vuota, Milano, Garzanti, 1976; M eltzer D., Esplorazioni sull’a., Torino, Bollati Boringhierii, 1977; Tustin F., Stati autistici nei bambini, Roma, Armando, 1983; M azet Ph. - S. Lebovici, Autisme et psychoses de l’enfant, Paris, PUF, 1990; Lelord G. - D. Sauvage, L’autisme de l’enfant, Paris, Masson, 1990; Tustin F., Protezioni autistiche nei bambini e negli adulti, Milano, Cortina, 1991; Ballerini A., Patologia di un eremitaggio. Uno studio sull’a. schizofrenico, Torino, Bollati Boringhierii, 2002; R esnik S. et al., Abitare l’assenza. Scritti sullo spazio-tempo nelle psicosi e nell’a. infantile, Milano, Angeli, 2004; Mistura S. (Ed.), A. L’umanità nascosta, Torino, Einaudi, 2006; Quill K. A., Comunicazione e reciprocità sociale nell’a., Gardolo, Erickson, 2007; Donaggio a. et al. (Edd.), A. e psicosi infantile, Roma, Borla, 2007.

V. L. Castellazzi

AUTOCONTROLLO L’esigenza di ordine e di misura nell’essere e nell’agire personale è fondamentale in educazione. 1. In tal senso formare il bambino all’a. è una delle principali finalità dell’educazione. Tale finalità in molti casi non viene raggiunta, per cui molti giovani e adulti sono afflitti da gravi problemi. Baumeister, Heatherton e Tice (1994) descrivono alcune forme di questa incapacità di autocontrollarsi: sregolatezza nel comportamento sessuale (maternità indesiderata delle giovani, infedeltà coniugale, malattie veneree e AIDS); sperpero di risorse e di danaro, uso di droghe, abuso di alcolici ed eccesso nell’alimentazione, maltrattamento del coniuge e dei figli, delinquenza e criminalità. Tutto ciò è dovuto alla scarsa acquisizione di a., di autodisciplina e di autoregolazione. 2. L’a. si forma nell’interazione dei fattori genetici con lo stile educativo, il quale si concretizza sostanzialmente in quattro modalità: a) caldo e ragionevole (modelli di a. vengono proposti insieme con forme di sostegno affettivo); b) severo oppure eccessivamente tollerante (senza sostegno affettivo),

che porta all’aggressività repressa oppure a quella manifesta; c) instabile (con reazioni imprevedibili del genitore e con difficoltà di comportamento coerente del figlio e quindi con difficoltà di acquisizione di a.); d) con eccessivo controllo (che porta il figlio all’isolamento sociale e alla nevrosi, con rischio di → devianza). Prescindendo dai quattro stili, i genitori e gli educatori possono compromettere la formazione dell’a. dei figli o degli alunni prefiggendo loro degli obiettivi troppo elevati, criticandoli frequentemente, rilevando spesso i loro errori e sostituendosi alle loro scelte e decisioni. Nella formazione dell’a. risulta fondamentale la capacità del bambino di dilazionare la soddisfazione dei suoi → bisogni. È stato constatato che tale capacità, rilevata all’età di 4-5 anni, è correlata con la capacità di autoregolazione nell’adolescenza; tali bambini inoltre risultano collaborativi da adolescenti, al contrario dei bambini privi di questa capacità, che risultano inquieti e aggressivi. L’a. è una delle componenti fondamentali nei progetti di prevenzione del rischio giovanile e contribuisce alla formazione di alcuni importanti costrutti psicosociali come → autoefficacia, → stima di sé e → resilienza. Bibl.: Baumeister R. T. - T. F. Heatherton - D. M. Tice, Losing control: How and why people fail at self-regulation, San Diego, Academic Press, 1994.

K. Poláček

AUTOEDUCAZIONE → Antinomie pedagogiche → Educazione

AUTOEFFICACIA L’a. è un → costrutto psicologico elaborato da A. Bandura (1987) nell’ambito della sua teoria sociale cognitiva. Essa si riferisce alla stima globale che il soggetto fa delle sue abilità in vista di un determinato compito e la convinzione di riuscirci. Da tale stima dipenderà se il soggetto sceglierà o meno una determinata attività e quanto sforzo svilupperà per superare gli eventuali ostacoli, quanto sarà perseverante nel raggiungimento del risultato. 1. Bandura distingue nel costrutto tre aspetti: 121

AUTOEFFICACIA

livello, forza e ampiezza. Il livello si riferisce alla difficoltà del compito da affrontare e alla previsione di conseguire in esso un esito positivo; la forza rappresenta il grado di fiducia che il soggetto possiede nelle proprie abilità per poter svolgere un determinato compito; l’ampiezza si riferisce all’estensione del settore di cui il compito fa parte. Oltre a questi tre aspetti, Bandura indica anche quattro «sorgenti» dell’a.: previa esperienza positiva nel compito (successo), esperienza vicaria (osservazione e imitazione di persone di successo), persuasione verbale (esortazione da parte di terzi), stati affettivi costruttivi (rilassamento e buon umore). La previsione del successo e la possibilità di poterlo raggiungere sono i fattori principali nel processo e nella formazione dell’a. Il successo non solo potenzia l’a., ma incoraggia il soggetto a prefiggersi degli obiettivi ancora più elevati rispetto a quelli già raggiunti. In questo processo è importante non solo la stima delle abilità ma anche la convinzione del soggetto che esse siano malleabili e non determinate geneticamente o socialmente. In questa prospettiva egli considera le sue abilità come delle potenzialità cognitive, sociali, motivazionali e comportamentali da organizzare per raggiungere specifiche finalità. 2. L’a. avviene in un contesto sociale e perciò implica da parte del soggetto il controllo sull’ambiente che può avvenire per ragioni personali e sociali. Il primo tipo di controllo si riferisce alla convinzione del soggetto di poter ottenere un determinato risultato con lo sforzo personale; il secondo riguarda la sua convinzione di poter intervenire invece sull’ambiente sociale e in questo caso si tratta di a. collettiva. Bandura (2000) sostiene che l’a. è presente, con le debite variazioni, in tutte le culture. Siu, Lu e Spector (2007) ne hanno offerto una conferma nel continente asiatico riscontrando l’effetto positivo dell’a. sul benessere psichico e fisico nella gestione dello stress lavorativo degli operatori del settore manageriale in Cina. 3. L’a. trova una vasta applicazione in vari settori della psicologia, della sociologia e dell’educazione: rendimento (scolastico, accademico, sportivo e professionale), dominio dello stress, delle fobie, gestione delle malattie croniche, potenziamento della salute, 122

controllo delle abitudini nocive come abuso di alcolici e uso di droghe (Maddux, 1995). Numerose conferme sperimentali ed empiriche sull’utilità del costrutto in tali aree si trovano in Bandura (2000), Schwarzer (1992) e Poláček (1995). L’a. che può essere rilevata con alcuni brevi questionari, può risultare particolarmente utile in campo educativo. Choi, Fuqua e Griffin (2001) hanno confermato la validità di una scala di Bandura destinata agli studenti universitari. Nota e Soresi (2000) hanno applicato l’a. nell’orientamento, particolarmente al processo delle scelte offrendo una solida trattazione teorica e ricco materiale per potenziarle. L’a., situata in una teoria del comportamento basata sulla convinzione che l’agire umano è intenzionale e finalizzato, si trova in armonia con gli obiettivi educativi più elevati. Anche l’interattività del costrutto che consiste nell’intensa comunicazione tra il soggetto e il suo ambiente può contribuire al suo uso nel processo educativo. Le tre sorgenti dell’a. indicate da Bandura (esperienza positiva, esperienza vicaria e persuasione verbale) offrono dei validi procedimenti per potenziare l’a. dei soggetti in crescita. Bibl.: Bandura A., Social foundation of thought and action: a social cognitive theory, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1986; Schwarzer R. (Ed.), Self-efficacy: thought control of action, Washington, Hemisphere Publishing Corporation, 1992; Poláček K., A.: costrutto e utilizzazione, in «Orientamenti Pedagogici» 42 (1995) 927-957; Maddux J. E. (Ed), Self-efficacy, adaptation, and adjustment: Theory, research, and application, New York, Plenum Press, 1995; Bandura A., A.: Teoria e applicazioni, Trento, Erickson, 2000; Nota L. - S. Soresi, A. nelle scelte. La visione sociocognitiva dell’orientamento, Firenze, Iter, 2000; Choi N. - D. R. Fuqua - B. W. Griffin, Exploratory analysis of the structure of scores from the multidimensional scales of perceived self-efficacy, in «Educational and Psychological Measurement» 61 (2001) 475-489; Siu O. - C. Lu - P. E. Spector, Employees’ well-being in Greater China: The direct and moderating effects of general self-efficacy, in «Applied Psychology: An International Review» 56 (2007) 288-301.

K. Poláček

AUTOFORMAZIONE → Antinomie pedagogiche → Formazione

AUTOMONITORAGGIO

AUTOGESTIONE → Amministrazione scolastica AUTOGOVERNO SCOLASTICO → Autonomia scolastica → Scuole Nuove

AUTOILLUSIONE L’a. consiste nella strategia efficace che il soggetto adotta per potenziare il suo → benessere fisico o psichico. In vista di tale finalità egli usa alcuni → meccanismi di difesa per sfuggire o almeno per mitigare gli effetti di una dura realtà. 1. La strategia dell’a. è stata ampiamente elaborata da Taylor e Brown (1988) e successivamente ancora da Taylor (1991). Nella prima pubblicazione, che ha avuto una straordinaria risonanza, le due autrici hanno sostenuto che la moderata sopravvalutazione di se stessi, l’illusoria convinzione di padroneggiare le cause del proprio comportamento e un non del tutto fondato ottimismo, aumentano il benessere psichico e spesso anche la → creatività. Le ipotesi delle due autrici sono state confermate in studi successivi: i soggetti psichicamente sani e socialmente adattati avevano un concetto di sé distorto in direzione positiva, mentre i soggetti con il concetto di sé realistico avevano una bassa stima di se stessi ed erano inclini alla → depressione. È stato quindi concluso che le illusioni potenziano la salute delle persone e infondono ottimismo sul loro futuro. Qualche autore ha invece rilevato che Taylor e Brown non hanno chiarito i confini tra la valutazione distorta e quella oggettiva, ed hanno sostenuto che l’a. può produrre solo un effetto transitorio e che su una realtà distorta non è possibile effettuare un valido adattamento. Taylor e Brown (1994) hanno replicato che non è facile nella → autovalutazione distinguere tra l’illusione e la realtà. Altri autori ancora hanno sottolineato i rischi dell’a.: i soggetti che lo adottano diventano insensibili alle giuste critiche e spesso negano l’esistenza dei loro limiti; si attribuiscono i meriti puramente casuali mentre attribuiscono ai fattori esterni i fallimenti, ed in tal modo si convincono di padroneggiare il proprio ambiente sociale. 2. I pregi e i rischi dell’a. sono stati documentati sugli ammalati terminali. Alcuni autori,

pur riconoscendo l’effetto positivo dell’a. sul benessere di tali soggetti, hanno notato che essi tendevano a trascurare le cure efficaci aggravando in tal modo la propria salute. L’a. viene adottata dalle persone per proteggere o per potenziare la → stima di sé. A tale scopo vengono usati i noti meccanismi di difesa (Poláček, 2001) come la repressione (evitare i pensieri disturbanti), la negazione (non riconoscere problemi evidenti), la rimozione (allontanare desideri, sentimenti, pensieri ed esperienze disturbanti), la razionalizzazione (fare ragionamenti infondati), l’intellettualizzazione (discutere sui problemi senza risolverli). Da quando la psicologia dinamica ha ammesso che lo scopo della terapia non è più quello di far accettare al paziente la realtà, anche l’a. è considerata una strategia utile per la promozione della salute mentale delle persone. Nell’educazione l’a. trova la sua utilizzazione nella considerazione positiva delle risorse dei giovani, nel coltivare l’ottimismo sul loro futuro e nel proporre obiettivi superiori alle loro «reali» possibilità. Bibl.: Taylor S. E. - J. D. Brown, Illusion and well-being: a social psychological perspective on mental health, in «Psychological Bulletin» 103 (1988) 193-210; Taylor S. E., Illusioni: Quando e perché l’autoinganno diventa la strategia più giusta, Firenze, Giunti, 1991; Taylor S. E. - J. D. Brown, Positive illusions and well-being revisited: Separating fact from fiction, in «Psychological Bulletin» 116 (1994) 21-27; Poláček K., I meccanismi di difesa nell’ambito educativo: un aggiornamento, in «Orientamenti Pedagogici» 48 (2001) 997-1008.

K. Poláček

AUTOMONITORAGGIO L’a. è un → costrutto psicosociale che indica il grado di sensibilità del soggetto alla situazione sociale e la sua capacità di adattarsi ad essa per una efficace comunicazione interpersonale. Il costrutto è stato elaborato e ampiamente descritto da Snyder (1974, 1979). 1. L’autore considera l’a. un costrutto bipolare, ai due poli del quale corrispondono i soggetti alti e bassi nell’a. Un soggetto alto è sen123

AUTONOMIA

sibile alla situazione sociale, coglie i segnali che da essa provengono e cerca di adeguare il suo comportamento verbale e non verbale a tali segnali. Al contrario, il soggetto basso non presta attenzione ai segnali sociali e non possiede un repertorio di comportamento vario per adeguarsi alle esigenze della situazione sociale. Il suo comportamento è guidato dagli stati d’animo interni ed è uguale o almeno simile in situazioni sociali differenti. La bipolarità del costrutto è stata riscontrata anche da anche Livi, Pierro e Mannetti (2000) in discussioni di piccoli gruppi.

qualche criterio esterno (androginia, ansia sociale e soluzione di problemi in collaborazione). Anche dall’analisi fattoriale della scala di Snyder, notevolmente rielaborata per soggetti di lingua tedesca sono emerse le due dimensioni fondamentali articolate però in due fattori per dimensione, denominati in modo differente nella ricerca di Laux e Renner (2002). L’intero costrutto dell’a. è stato riesaminato in base ad oltre 200 contributi pubblicati da Gangestadt e Snyder (2000) particolarmente nella sua componente teorica.

2. Per rilevare l’a., Snyder (1974) ha elaborato un breve questionario e lo ha convalidato con alcuni criteri sociali. Il questionario è costituito sostanzialmente da quattro scale che rappresentano anche le componenti o le dimensioni dell’a. stesso: adeguatezza di autopresentazione in pubblico, sensibilità al comportamento di terzi e alle variazioni situazionali, sensibilità nel conformarsi al gruppo. I criteri per verificare la validità del questionario sono stati i seguenti: l’accordo con la valutazione dei compagni, differenze tra gruppi in cui il costrutto dovrebbe manifestarsi in grado differente (attori, politici, pazienti psichiatrici, obesi), la comprensione del comportamento sociale espressivo (gioia, tristezza, paura, sorpresa), l’attenzione al comportamento di terzi. I dati, in genere, hanno confermato il rapporto ipotizzato tra le singole variabili.

4. Il costrutto assume una notevole utilità nel rapporto sociale (individuale e collettivo) in quanto può aiutare gli operatori sociali a cogliere stati d’animo di terzi, ad adeguarsi alle loro esigenze e quindi a comunicare con loro più efficacemente. Il soggetto che si adatta facilmente alla situazione sociale può essere pericoloso in quanto può diventare, come sostengono Gana e Brechenmacher (2001), il «camaleonte sociale».

3. Successivamente vari autori (Lennox e Wolfe, 1984) hanno eseguito l’analisi fattoriale del questionario ed hanno ottenuto strutture fattoriali differenti da quella di Snyder e quindi anche delle componenti del costrutto stesso. Allo stato attuale sembra che tanto il questionario quanto il costrutto siano costituiti da due dimensioni fondamentali: dall’abilità del soggetto di adattare l’autopresentazione alla situazione sociale e dalla stabilità dell’autopresentazione nelle situazioni differenti con le esplicitazioni delle medesime in scale specifiche. Gana e Brechenmacher (2001) dalla scala di Snyder («Échelle de monitorage de soi») hanno ottenuto tre fattori: Attore teatrale, Estroversione e Presentazione di se stesso. Essi inoltre hanno confermato la consistenza e la stabilità della scala e la sua validità esaminata con 124

Bibl.: Snyder M., Self-monitoring of expressive behavior, in «Journal of Personality and Social Psychology» 30 (1974) 526-537; I d., Self-monitoring processes, in L. Berkowitz (Ed.), Advances in experimental social psychology, vol. 12, New York, Academic Press, 1979; Lennox R. D. - R. N. Wolfe, Revision of the self-monitoring scale, in «Journal of Personality and Social Psychology» 46 (1984) 1349-1364; Livi S. - A. Pierro - L. Mannetti, Self-monitoring, controllo dello spazio conversazionale e distanza percepita in discussioni di piccoli gruppi, in «Rassegna di Psicologia» 17 (2000) 127-139; Gangestadt S. W. - M. Snyder, Self-monitoring: Appraisal and reappraisal, in «Psychological Bulletin» 126 (2000) 530-555; Gana K. - N. Brechenmacher , Structure latente et validité de la versione française du Self-Monitoring Scale: Échelle de monitorage de soi, in «L’Année Psychologique» 101 (2001) 393-420.

K. Poláček

AUTONOMIA In termini filosofici ed etici l’a. è una caratteristica secondo cui, specie dopo → Kant, è pensata modernamente la → libertà. Nella

AUTONOMIA SCOLASTICA

riflessione pedagogica, questo tema si presenta come un interrogativo dai precisi contorni: se l’apprendimento delle qualità sociali debba essere «diretto» ovvero «indiretto» ovvero ancora se debba o meno esistere una differenza fra i tratti richiesti alla personalità soggettiva per essere tale e quelli dell’apparato sociofunzionale in cui essa nasce, si svolge ed infine si inserisce. 1. Motivi. Il punto cruciale di svolta si è verificato con la riconduzione del processo educativo al principio del «continuum dell’esperienza» (→ Dewey), per cui non è possibile separare la meta dal cammino, il traguardo dal percorso ed il prodotto dal processo, in quanto un criterio costitutivo di connessione-congruità (continuum) ne lega tutti i punti, momenti e passaggi. Il primo tema essenziale della prospettiva dell’a. come categoria pedagogica va quindi ricercato e ritrovato nel rispetto della legge di personalizzazione, in virtù della quale soltanto l’esercizio diretto, coerente e concreto del cammino (proceduralità) permette il conseguimento delle qualità volute come esito (terminalità). Non ci può allora essere una società delle a. se non attraverso un’educazione che avvenga nell’a. (dove, cioè, lo svolgersi «per l’a.» non è separabile dall’essere «nell’a.»). Anche la → scuola rientra in questo orizzonte in quanto costituisce essa stessa un momento «generativo» (efficace, adeguato, aperto al futuro) della realizzazione del progetto educativo. Ora, il massimo di speranza progettuale perché la scuola (ogni singola scuola) raggiunga il suo coefficiente più elevato di valenza educativa (qualità pedagogica) coincide con il minimo di assimilazione alla burocratizzazione funzionale, relazionale e culturale. L’a. si presenta, pertanto, come il più elevato punto di sutura concettuale per la pensabilità della scuola, come luogo di promozione dell’intelligenza e come qualità complessiva del soggetto e del sistema. 2. Linee. Alcune linee operative rivestono una particolare e specifica importanza per trasferire queste indicazioni dal terreno semplicemente teorico a quello dell’attuazione concreta: a) sviluppare un rapporto più dinamico fra la programmazione nazionalecentralizzata e la → progettazione di scuola (istituto) e di classe; b) incrementare le occa-

sioni di autogoverno e di responsabilizzazione diretta degli studenti; c) aiutare le scuole ad affrontare e superare con la loro iniziativa problemi e difficoltà; d) rilevare e valorizzare i risultati e le innovazioni conseguite dalle scuole. In questo senso l’a. rappresenta la modalità di essere di una scuola pienamente educativa, la modalità di operare di una scuola pienamente efficace e la modalità di funzionare di una scuola pienamente professionalizzata, protesa a promuovere persone libere e responsabili. Bibl.: Crema F. E. - G. Pollini (Edd.), Scuola, a., mutamento sociale, Roma, Armando, 1989; Dalle Fratte G. (Ed.), A. della scuola e sviluppo formativo, Trento, Unoedizioni, 1994; Paino A.- G. Chiosso - G. Bertagna, L’a. delle scuole, Brescia, La Scuola, 1997; Falanga M., Il Regolamento dell’a. scolastica. Lettura e commento, Ibid., 2001.

C. Scurati

AUTONOMIA SCOLASTICA Consiste nell’assicurare ad ogni scuola potere d’iniziativa e risorse sufficienti per elaborare e realizzare un suo progetto (o suoi progetti) e costruirsi una propria identità. 1. Le ragioni e i contenuti dell’a. Anzitutto, essa permette alla comunità educativa di costruirsi sulle esigenze formative dei suoi membri: in sostanza è possibile predisporre una programmazione corrispondente alle varie situazioni e la responsabilità individuale e collettiva viene riconosciuta in tutta la sua potenzialità attraverso l’attribuzione di ambiti rilevanti di azione. In secondo luogo, l’a. favorisce la realizzazione della domanda espressa dal sistema sociale nel suo complesso e nelle sue componenti, trasferendo il momento decisionale vicino al livello esecutivo, consentendo il coinvolgimento di tutte le componenti interessate e conferendo maggiore elasticità all’organizzazione interna: in questo senso consente di realizzare una maggiore eguaglianza rispetto al tradizionale intervento centralistico di natura uniforme. Essa costituisce anche un contributo notevole al rafforzamento della qualità e dell’efficienza delle strutture formative in quanto 125

AUTONOMIA SCOLASTICA

facilita l’emergere di tutte le potenzialità valide, presenti in ciascuna unità scolastica. La scelta dell’a. corrisponde pure a un orientamento comune ai Paesi dell’Unione Europea: infatti, in un contesto di continuo mutamento la possibilità di soddisfare le esigenze che insorgono incessantemente dipende in primo luogo dalla rapidità degli interventi; inoltre, le probabilità di successo di un’innovazione sono maggiori quando l’insegnante ne è partecipe, la sente propria, ha contribuito personalmente ad elaborarla, approvarla, attuarla. Certamente l’a. non va confusa con una privatizzazione selvaggia; nemmeno si può pensare ad una pura abolizione del centro, né basta un semplice deconcentramento della struttura centralizzata dello Stato. L’a. deve invece assicurare l’esercizio della responsabilità educativa da parte del singolo istituto in un quadro unitario garantito dal centro. A questo spetterebbero compiti prevalenti di indirizzo, programmazione, sviluppo, coordinamento e valutazione; a sua volta l’unità scolastica dovrà diventare centro di attribuzione di tutti i poteri che le garantiscano il controllo sul complesso delle condizioni del suo funzionamento, in modo da poter fornire risposte efficaci alle domande di formazione che provengono dalla società. Il cuore dell’a. è costituito dal riconoscimento della competenza progettuale: ogni scuola dovrà essere messa in grado di elaborare un proprio progetto educativo in cui si rispecchi la sua identità e la sua fisionomia. A questo proposito devono essere attribuiti ad ogni unità scolastica poteri adeguati di a. didattica, formativa, organizzativa e finanziaria. 2. Evoluzione in Italia. Il modello di → amministrazione scolastica per lungo tempo soggiacente alla conduzione delle nostre strutture formative si ispirava a una scelta centralistica compiuta al momento della creazione del sistema nazionale di istruzione. Una nota distintiva di tale formula era costituita dall’accentramento del potere di direzione nel Ministero, mentre agli Enti Locali e ai singoli istituti veniva assegnata una funzione semplicemente esecutiva. L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana ha segnato un vero rovesciamento di fronte: da una parte si è affermata la validità del principio delle autonomie e dall’altra il sistema scolastico veniva impostato sulle grandi 126

opzioni della libertà, del pluralismo e della convergenza delle iniziative. Si è dovuto però attendere la L. n. 477/73 sugli organi collegiali per compiere un primo passo reale verso l’a. di gestione che, però, è rimasta molto limitata perché è mancato contemporaneamente un reale decentramento dell’amministrazione scolastica, né si è riusciti a stabilire relazioni efficaci con gli Enti Locali. Negli anni successivi è emerso con sempre maggiore chiarezza che il sistema di governo della scuola esigeva un rinnovamento profondo. Il Ministero della Pubblica Istruzione era divenuto una mega-organizzazione ingovernabile; inoltre, il singolo istituto non era in grado di gestire in prima persona e con un progetto unitario le relazioni con il contesto sociale. Dopo molti tentativi per arrivare a una riforma soddisfacente, un passo significativo verso la realizzazione dell’a. degli istituti nel nostro sistema scolastico viene segnato dall’art.21 della L. n. 59/1997. Con l’attribuzione della personalità giuridica esso contribuisce al potenziamento dell’autogoverno delle singole strutture formative; a sua volta, la normativa sull’a. didattica, organizzativa e finanziaria può facilitare alla singola scuola la realizzazione del compito di gestire la sua vita sulla base della libertà dei soggetti educativi. Venendo agli aspetti discutibili del provvedimento, va osservato che la normativa in questione costituisce una legge di decentramento che potenzia i poteri delle a. locali e territoriali in quanto articolazioni dello Stato, ma non sancisce una vera a., cioè l’autogoverno della comunità e della società civile. Bisogna ammettere che nei regolamenti successivi si riscontrano indicazioni significative nella direzione giusta; tuttavia, rimane pur sempre vero che le istituzioni scolastiche sono espressioni di a. funzionale nel quadro delle funzioni delegate alle Regioni e dei compiti e delle funzioni trasferite agli Enti locali. In seguito alla riforma del Titolo V per la prima volta, e in maniera formale, le istituzioni scolastiche e formative sono riconosciute autonome dalla nostra Costituzione (L. costituzionale n. 3/01). In altre parole tale riconoscimento dell’a. della scuola non è primariamente il frutto di una logica di bilanciamento dei poteri pubblici quanto piuttosto l’accoglimento del principio dell’autogoverno della comunità e della società civile, della sussidiarietà orizzontale.

AUTOREALIZZAZIONE

Essa è mirata in primo luogo a valorizzare le forze interne della scuola in un’ottica di responsabilizzazione e di autopromozione della comunità scolastica. Non si caratterizza per una impostazione autoreferenziale o aziendalistica, ma ritiene la scuola una istituzione aperta al contesto e integrata in esso, al servizio della società, agente di sviluppo socio-culturale e luogo di mediazione tra le istanze locali e le esigenze nazionali. Bisogna, però, dire che la sua attuazione sta procedendo a rilento. Al contrario andrebbe difesa contro le numerose tentazioni di neocentralismo a livello nazionale o regionale. Bibl.: Pazzaglia L. (Ed.), Uguaglianza, a., riforme nella scuola, Brescia, La Scuola, 1988; Romei P., A. e progettualità nella scuola, Firenze, La Nuova Italia, 1995; Dalle Fratte G., A. o decentramento?, in «Orientamenti Pedagogici» 46 (1999) 528-533; Fiorin I. - D. Cristanini (Edd.), Le parole dell’a., Torino, Petrini, 1999; R ibolzi L., Il sistema ingessato, Brescia, La Scuola, 2000; Bertagna G. - G. Govi - M. Pavone, Pof, a. delle scuole e offerta formativa, Ibid., 2001; Benadusi L. - F. Consoli, La governance della scuola, Bologna, Il Mulino, 2004.

G. Malizia

AUTOREALIZZAZIONE Tendenza della persona umana a espandere, sviluppare e realizzare in modo autonomo le proprie potenzialità fisiche, psichiche e sociali. 1. Secondo la teoria di → Jung il senso dell’esistenza sta nel processo di individuazione, ossia nella ricerca e nella scoperta di sempre nuove forme di adattamento attivo, grazie alle quali le caratteristiche specifiche della propria personalità vengono rispettate e i modelli culturali vengono integrati nel processo di crescita globale. Un tale concetto ha trovato una successiva rielaborazione in → Maslow, esponente di spicco della psicologia umanistica, secondo il quale la personalità non è da concepire come un aggregato di funzioni o di stati, ma come una totalità strutturata, un’unità inscindibile. Di conseguenza, la costruzione della personalità risulta essere un processo finalistico, l’a. appunto, rivolto

alla soddisfazione di tutti i → bisogni genuini dell’uomo, di tutte le sue aspirazioni, di tutte le tendenze che gli appartengono. 2. Per chiarire la sua concezione di a., Maslow propone una precisa teoria della → motivazione secondo cui l’uomo quanto più gratifica i propri bisogni istintivi, e attua e sviluppa le proprie potenzialità, tanto più ha la possibilità di essere felice. In tale dinamica della soddisfazione dei bisogni esiste, a suo parere, un’organizzazione gerarchica che viene imposta dall’organismo stesso. Al primo livello si collocano i bisogni fisiologici, che sono quelli più fondamentali, evidenti ed elementari (cibo, vestito, casa), dalla cui soddisfazione dipende la vita dell’individuo e l’emergere di altri fini, a carattere maggiormente sociale. Ad essi, se gratificati, si sostituiscono a un secondo livello i bisogni di sicurezza (protezione, stabilità, ordine), e a un terzo livello i bisogni di affetto, di amore e di appartenenza (amici, coniuge, figli, gruppo). Al quarto livello si trovano il bisogno e il desiderio di autostima e di stima da parte degli altri, il cui effetto consiste nell’impegno a conseguire una posizione sociale, un prestigio, una buona reputazione. Successivo e ultimo passo è l’a., ossia il diventare ciò che si è capace di diventare, facendo appello a tutta la personale ricchezza di potenzialità, così da raggiungere una personalità totale e integrata. 3. Duplice è l’effetto dell’a.: da un lato la → persona si orienta verso valori quali la bellezza, la verità, la perfezione, la giustizia, l’onestà, la lealtà; dall’altro essa consegue uno stato di salute psichica, grazie a cui è possibile operare continue scelte tra il mentire o l’essere onesto, il rubare o il non rubare, il pensare solo a se stesso o il prendersi cura di qualcuno. Vista in tale prospettiva, l’a. risulta essere un processo lento, fatto di piccoli passi, uno dopo l’altro, e non questione di un momento. 4. Dal punto di vista educativo, l’a. rappresenta una potente forza motivazionale, perché sfida continuamente la persona a superare lo stadio in cui attualmente si trova a vivere attraverso l’individuazione e l’attivazione di tutte le sue molteplici energie. Tuttavia, essa può anche rinchiudere la persona nel proprio 127

AUTORITÀ EDUCATIVA

mondo psichico e nella ricerca di sempre ulteriori soddisfazioni, a meno che non venga collocata in una più ampia prospettiva che accentui la dimensione della vita come responsabilità di fronte a compiti oggettivi e autotrascendenti. Bibl.: Grof S. - Ch. Grof (Edd.), Spirituelle Krisen: Chancen der Selbstfindung, München, Kösel, 1990; R ingel E., Selbstschädigung durch Neurose: psychotherapeutische Wege zur Selbstverwirklichung, Wien, Herder, 121991; M aslow A., Motivazione e personalità, Roma, Armando, 4 1992; Valles C. G., L’arte di essere se stessi, Roma, Città Nuova, 1995; Jung C. G., «Tipi psicologici», in Opere, vol. VI, Torino, Bollati Boringhieri, 21996; Anderson W., Corso di fiducia in se stessi. Sette stadi per raggiungere l’a., Milano, Corbaccio, 1998; A rena L. V., Iniziazione all’a. Un percorso verso la consapevolezza, Roma, Mediterranee, 1998; Garofalo D., Crescita umana e psicoanalisi. L’a. del Sé tra mente e società, Milano, Guerini e Ass., 2004; Frankl V. E., Alla ricerca di un significato della vita, Milano, Mursia, 4 2005; Shinyashiki E., Vivi come vuoi. Cinque passi per l’a., Milano, Italianova, 2005.

E. Fizzotti

AUTORITÀ EDUCATIVA Ad altre voci, soprattutto a → rapporto educativo, è demandato il tema dell’a.e. dal punto di vista del diritto, della morale, della politica (→ educazione, diritti e doveri degli → educatori, → legislazione educativa e scolastica). Infatti, la possibilità teorica e metodologica dell’a.e. è data dalla previa soluzione positiva di problemi quali la «significatività» dell’ → azione educativa, la legittimità di persone che influiscono sulla crescita di altre, la proponibilità di fini, valori e programmi che tale crescita determinano o condizionano. 1. Dal punto di vista strettamente pedagogico a. è correlativa a → libertà, condizione e traguardo della collaborazione, nell’esercizio del rispettivo compito, di educatore e di educando, singoli e comunità. Quanto al concetto di libertà/ → liberazione si possono distinguere due fondamentali orientamenti teorici e storici: volontaristico, che concepisce la libertà come indifferenza, facoltà di 128

fare o non fare, fare questo o quello, il bene o il male; e dinamico-operativo, secondo il quale la libertà è una qualità degli atti umani prodotti interattivamente dalla ragione e dall’affettività spirituale (volontà): orientato naturalmente al vero (teorico e pratico), volontà rivolta naturalmente al bene, intelligenza impegnata a illuminare sui mezzi più idonei a raggiungerlo. Secondo la prima concezione la libertà precede il conoscere e lo muove: essa è slegata dalle inclinazioni proprie della natura umana al bene, alla verità, alla felicità; è un postulato, un fatto primo dell’esperienza umana. La qualità morale degli atti, quindi, non può essere data da loro proprietà intrinseche, ma da obbligazioni e da norme provenienti da un’istanza superiore: Dio, stato, chiesa, società, imperativo categorico, idea, spirito oggettivo, super-io, classe, partito. Per la seconda concezione la libertà procede dalla ragione: è la qualità degli atti umani compiuti congiuntamente dall’intelletto e dalla volontà, in forza della decisione, che è «intelletto desiderante o desiderio riflesso» (Et. Nic. VI 2,1139 b 5). 2. Nella prima ipotesi l’a. dell’educatore sta alla libertà dell’educando nel tempo della crescita esattamente come la legge morale sta alla libertà dell’uomo nell’età adulta: nell’uno e nell’altro caso l’a. è regola, limite, freno ad una libertà intesa come sorgente di tutte le possibilità. L’a.e. è la rappresentazione vicaria della «legge» che sollecita l’obbedienza attuale dell’educando immaturo in funzione dell’obbedienza matura dell’età adulta. Educazione compiuta è accesso consolidato alla libertà, garantita dall’assunzione responsabile delle regole vissute dall’educatore stesso. Questi opera nei confronti dell’educando in più modi, alternando formazione della personalità, della volontà, del carattere, e illuminazione dell’intelligenza, regolazione e affinamento della sensibilità. Egli informa l’intelligenza sui fini dell’esistenza, presentando e illustrando all’educando le indeclinabili esigenze della legge morale, come permanente «forma di vita» (cultura morale); ne sottolinea la forza obbligante, la sacralità e insieme le virtualità umanizzanti quale autentica garanzia di «vera» libertà: servi simus legi ut liberi esse possimus (pedagogia dell’obbedienza, pedagogia della libertà); forma la coscienza

AUTORITÀ EDUCATIVA

dell’educando, rettificandone la capacità di giudizio morale, correggendone l’irriflessività e la volubilità e abilitandolo ad agire con equilibrio e saggezza; rafforza la volontà e il carattere, avviando l’allievo, oggi e per il futuro, coll’«esatto adempimento dei propri doveri», alla pratica costante, agile e gratificante dei molteplici impegni della vita (pedagogia del «dovere» e delle «virtù» ad esso funzionali). Potrebbe leggersi in quest’ottica quanto scrivevano → Lambruschini e già → Kant, precritico. «L’antica lite tra la Libertà e l’A. è una guerra tra due orgogli [...]. Umiliate l’uno e l’altro: e la pace è fatta. Allora la Libertà è la coscenza che rispetta la legge; e l’A. è la legge che rispetta la coscenza» (Dell’a. e della libertà. Pensieri d’un solitario, XXXIII). «L’uomo per natura è così inclinato alla libertà che, se per un certo tempo vi è abituato, le sacrifica poi tutto. Conviene adunque di buon’ora ricorrere alla disciplina [...]. Quindi si deve abituarlo per tempo a sottomettersi ai precetti della ragione» (La pedagogia, introduzione). 3. Diverso è il modo di interpretare e attuare la cosiddetta a.e. nell’ambito della seconda concezione della libertà prospettata. L’a. è l’offerta al soggetto in età evolutiva di una disciplina per un apprendistato dell’arte della vita secondo le regole che esso richiede. L’a. è essenzialmente a. di qualità, autorevolezza. Essa deriva, fondamentalmente, dal prestigio morale, dalla superiorità etica di un adulto esemplare, impegnato a sollecitare il giovane a matura riuscita umana. Con la sua opera di guida e di persuasione egli rende accette quelle norme e quei precetti che nello «spazio transizionale» della stagione educativa sono «provvisoriamente» indispensabili all’educando per produrre gli atti qualitativamente idonei a costruire capacità interiori consolidate di comportamenti e stili di vita («virtù»), che ne faranno un protagonista della propria vita, nel governo di sé e degli altri (→ prudenza) secondo giustizia, fortezza, temperanza. La disciplina implica una comunicazione di sapere e l’esercizio intelligente e libero di atti buoni, generati congiuntamente dall’intelligenza e dalla volontà. «La vera disciplina fa appello alle disposizioni naturali, al senso spontaneo del vero e del bene, alla coscienza del discepolo, e si pone al servizio della sua crescita mediante

regole che gli corrispondono in profondità. L’educazione è un servizio e una collaborazione» (Pinckaers, 1985). In un primo momento l’azione dell’educatore può essere sentita come limite; ma progressivamente tra l’educando e l’educatore si determina quella specie di dibattito dialettico, che costituisce l’essenza della relazione educativa intesa propriamente come rapporto tra la «libertà virtuosa» dell’adulto e la «libertà di atti» dell’educando in cammino verso la propria «libertà virtuosa». L’educatore, con il suo intervento esemplare e autorevole di «facilitatore» (→ Rogers) non annulla o soffoca in alcun modo la libertà dell’educando, ma contribuisce a farla emergere, a dilatarla, prevenendo errori e deviazioni dell’intelligenza e degli appetiti che sono a scapito del dinamismo proprio di crescita della libertà interiore. L’educazione che comincia con l’esteriore approda a una crescita interiore che sola può annodare come conviene i legami tra la legge morale, che è provvisorio mezzo «pedagogico», e la libertà per assicurare ciò che si potrebbe chiamare il decollo o il rodaggio di questa. Per questo l’a.-autorevolezza educativa è intrisa, indissolubilmente, di amore e di ragione: amore che «guadagna il cuore dell’allievo» (don Bosco) (→ amore educativo, → amorevolezza), ragione che tende a «far ragionare» («praticamente») l’alunno (→ ragione, ragionevolezza), aprendogli la via all’autonomia e responsabilità del pensare, del decidere e dell’agire. Bibl.: Laberthonnière L., Théorie de l’éducation, Paris, Bloud, 1901; Lambruschini R., Dell’a. e libertà. Pensieri di un solitario. Ediz. critica a cura di A. Gambaro, Firenze, La Nuova Italia, 1932; Braido P., Filosofia dell’educazione, Zürich, PAS-Verlag, 1967; P inckaers S. Th., Les sources de la morale chrétienne. Sa méthode, son contenu, son histoire, Paris, Cerf, 1985; Nanni C., L’educazione tra crisi e ricerca di senso. Un approccio filosofico, Roma, LAS, 1990; Bertagna G., Generazione giovanile ed educazione alla scelta, in «Orientamenti Pedagogici» 45 (1998) 585-602; Bruzzone D., Psicoterapia e pedagogia in Carl R. Rogers. Una ricerca sui contributi dell’approccio centrato sulla persona all’educazione, in «Orientamenti Pedagogici» 45 (1998) 447-465; Crepet P., Non siamo capaci di ascoltarli. Riflessioni sull’infanzia e l’adolescenza, Torino, Einaudi, 2001;

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AUTOVALUTAZIONE

Crea G. - O. Fabbri, Verso una leadership autorevole e strategica, in «Orientamenti Pedagogici» 52 (2005) 975-983.

P. Braido

AUTOSTIMA → Stima di sé

AUTOVALUTAZIONE L’a. consiste nel controllo che i soggetti operano sui processi attivati e sulle prestazioni attuate, al fine di apprezzarne la qualità. 1. In ambito educativo, può essere svolta da studenti, da docenti o dall’intero istituto scolastico. Tale pratica si sta diffondendo nei sistemi scolastici e nell’istruzione universitaria a livello internazionale, perché è utile per centrare l’attenzione dei soggetti sui criteri di qualità dei prodotti attesi, su carenze e punti di forza, per individuare strategie di miglioramento. A livello personale si tratta di una competenza essenziale per raggiungere la maturità umana, che comporta una sostanziale autonomia di giudizio anche rispetto alle condotte attuate e costituisce la premessa per apprendere a dirigere consapevolmente le proprie scelte. 2. La scuola deve formare all’a., cioè a rappresentarsi gli → obiettivi da raggiungere, ad assumere i criteri necessari per valutarsi, ad applicarli con obiettività. Lo studente deve imparare ad apprendere da solo, a gestire i suoi sforzi, a scegliere le vie più opportune, ovvero va formato non solo nell’ambito cognitivo, ma anche in quello metacognitivo, circa i processi che regolano il conoscere e quindi la valutazione dello stesso. Le forme di a. sono numerose e possono essere categorizzate sulla base dei processi che richiedono agli studenti. a) Alcune sono incentrate sulla prestazione e domandano agli allievi di identificare standard e/o altri criteri da applicare al loro lavoro e di formulare giudizi sul grado con cui essi hanno soddisfatto queste attese. b) Altre sollecitano la riflessione sulle proprie attitudini, abilità... Impiegano, di norma, → scale e questionari per tracciare il profilo individuale, analizzando alcuni tratti di personalità, gli stili di apprendimento, le preferenze personali. 130

3. Studi recenti attribuiscono numerosi effetti formativi alle pratiche di a., in riferimento agli aspetti cognitivi e metacognitivi, all’acquisizione delle competenze prefissate, al miglioramento delle prestazioni globali, allo sviluppo personale, alla competenza sociale, alle disposizioni affettive (atteggiamenti, motivazione, volizione, autostima). Vantaggi ulteriori riguardano il miglioramento delle strategie valutative e della professionalità del docente che le mette in atto. Bibl.: Blanchard J., Teaching and targets: self evaluation and school improvement, London, Routledge Falmer, 2002; M acBeath J. - A. Mc Glynn, Self-evaluation: whats in it for schools?, Ibid., 2002; M acBeath J. - H. Sugimine, Selfevaluation in the global classroom, Ibid., 2003; Cano E., Cómo mejorar las competencias de los docentes: guía para la autoevaluación y el desarrollo de las competencias del profesorado, Barcelona, Graò, 2005; Falchikov N., Improving assessment through student involvement, London, Routledge Falmer, 2005.

L. Calonghi - C. Coggi

AUTOVALUTAZIONE D’ISTITUTO → Valutazione AVVIAMENTO PROFESSIONALE → Formazione professionale AZIONE CATTOLICA → Movimenti ecclesiali

AZIONE DIDATTICA L’a. di insegnamento; più specificatamente l’a. di insegnamento che viene svolta in una istituzione scolastica o formativa da persona qualificata, alla quale è stato assegnato tale ruolo. Per essa viene anche usato il termine didassi. La scienza che la studia è la → didattica: una scienza spesso definita come pratico-prescrittiva in quanto tende a dare fondamento e orientamento operativo all’a. di insegnamento. 1. Dimensioni dell’a.d. Utilizzando le categorie proprie delle scienze pratiche individuate da → Aristotele, si può distinguere nella struttura dell’a.d. una dimensione tecnico-pratica e una dimensione etico-sociale. La prima dimensione dell’a.d. si riferisce alla progettazione, realizzazione e valutazione di

AZIONE DIDATTICA

uno spazio di → apprendimento valido ed efficace, cioè di un insieme di condizioni nelle quali l’allievo, o gli allievi, possa e voglia apprendere in maniera significativa, stabile e fruibile quanto inteso da parte del docente. La seconda dimensione dell’a.d. è data dalla qualità delle scelte, dei comportamenti, dei giudizi, delle relazioni che caratterizzano tale a. È qualcosa di intrinseco all’a. stessa e costituisce per l’allievo un riferimento continuo sia in quanto modello di atteggiamenti e di condotte, sia in quanto contesto interpretativo e valutativo di quanto viene attuato. 2. A. di insegnamento, a. di apprendimento e loro interazione. Lo spazio formativo costituisce il campo nel quale l’a. di insegnamento si esplica, e dal quale dipende la sua validità e fecondità. Esso è però anche il campo d’a. del discente e, più in generale, lo spazio dell’interazione tra → insegnante e allievi e degli allievi tra di loro. Lo slittamento di attenzione dai comportamenti esterni e relative tecniche di controllo e di modifica di matrice comportamentista ai processi interni di natura cognitiva e affettiva ha portato progressivamente a considerare sempre più da vicino il ruolo di tali processi nell’acquisizione e uso della conoscenza. È stato così riconosciuto che lo scenario entro cui si esplicano le a. dell’insegnante, quelle degli allievi, e le relative interazioni, non può essere descritto, compreso e spiegato se non si tiene conto dei pensieri e dei sentimenti che precedono, accompagnano e seguono tali a. In particolare viene segnalato il ruolo dei significati, delle motivazioni e delle intenzioni che le sollecitano, guidano e sostengono. Gli studi sui pensieri dei docenti hanno spesso utilizzato tre categorie di analisi, concernenti i pensieri che precedono l’a. di insegnamento o che la seguono (pensieri preattivi e postattivi) e quelli che l’accompagnano (pensieri interattivi). A queste è stata aggiunta la categoria che include le concezioni e convinzioni che essi hanno del proprio ruolo di insegnanti e di educatori. Alla prima categoria appartengono la progettazione e organizzazione concreta delle attività di apprendimento; alla seconda le riflessioni interne e i giudizi che le seguono; alla terza, i pensieri e le decisioni che hanno luogo nel corso dell’a.d. La quarta categoria costituisce come il quadro di riferimento che guida le attribuzioni di

significato e di valore nel corso dei pensieri preattivi e postattivi e di quelli interattivi. Questo mondo interiore si rende visibile e osservabile tramite i comportamenti che insegnanti e alunni manifestano in classe e tramite i risultati da questi ultimi conseguiti. La tradizione comportamentista si limitava allo studio di questi elementi esterni, evidenziando correlazioni od eventuali rapporti causali; oggi, con tecniche anche assai raffinate, si cerca di risalire all’origine cognitiva e in particolare alle intenzioni che hanno dato origine ai comportamenti esterni. Oltre a questo, occorre evidenziare un altro insieme di fattori che certamente entra in gioco in modo sostanziale nell’attività didattica. Si tratta dei sentimenti e delle emozioni che precedono, accompagnano o seguono l’a. degli insegnanti. Anche questi si esprimono nei loro comportamenti e hanno un influsso non indifferente nella creazione dello spazio o ambiente di apprendimento. Gli studi sulle attese che i docenti hanno in genere nei riguardi della scuola e specificatamente nei riguardi dei singoli alunni, le ricerche sulle attribuzioni causali relative alle iniziative riuscite o fallimentari, sull’attrazione e repulsione provate per determinati argomenti di studio, determinate attività didattiche e specifici alunni, ecc., hanno mostrato la complessità e profondità di tale gioco, spesso inconsapevolmente esplicato. L’a. di insegnamento, d’altra parte, anche se è un’a. intenzionale che mira a promuovere in modo sistematico l’acquisizione di conoscenze, capacità e atteggiamenti validi e produttivi, non può, però, produrre direttamente effetti di apprendimento, in quanto, come già ricordato, deve limitarsi a creare le condizioni che ottimizzano l’a. di apprendimento degli allievi nella direzione intesa dall’insegnante. E questo è inevitabilmente oggetto di opportune negoziazioni, esplicite o implicite, tra insegnanti e allievi, favorite da un contesto dialogico valido e fecondo. 3. Complessità dell’a. di insegnamento. Lo studio diretto dell’agire concreto dell’insegnante nella classe, cioè della sua capacità di gestire nella sua totalità lo spazio di apprendimento da lui stesso prefigurato, ne ha evidenziato la complessità. In tale capacità d’altra parte è stato individuato il cuore della sua professionalità e della sua competenza. 131

AZIONE DIDATTICA

Un insegnante esperto si differenzia da un principiante secondo un numero rilevante di elementi distintivi, tra cui si possono qui ricordare (Berliner, 1986): a) capacità di gestire e controllare la molteplicità e multidimensionalità degli elementi che concorrono a caratterizzare lo spazio di apprendimento contemporaneamente e immediatamente, cioè capacità di selezionare e interpretare ciò che è rilevante nella situazione concreta, da ciò che si può trascurare, e rapidità nel prendere decisioni che si rivelano congruenti ed efficaci. Il principiante si presenta incerto, insicuro, attento a troppe cose in modo globale e poco funzionale, ecc.; b) flessibilità nell’adattare i contenuti di insegnamento, i modi di insegnare, le forme di interazione, il sostegno alla → motivazione all’apprendimento secondo le esigenze dei diversi soggetti e in base alle situazioni che concretamente si presentano di volta in volta, tenendo conto della loro preparazione, del loro stato d’animo, delle loro reazioni, ecc.; il principiante si presenta rigido e poco capace di adattamento alla varietà dei casi particolari e delle situazioni concrete; c) conoscenza dei contenuti di insegnamento e dei modi attraverso i quali questi possono essere trasformati per poter essere appresi in modo significativo e stabile dai vari alunni, utilizzando forme di rappresentazione (iconiche, verbali, analogiche, ecc.) e collegamenti con quanto da essi già conosciuto e interiormente rappresentato sia nell’attività scolastica che nell’esperienza extrascolastica. Il principiante è assai legato alla maniera nella quale ha studiato l’argomento o nella quale questo viene esposto nel libro di testo. 4. L’analisi dell’a.d. L’a. di insegnamento, soprattutto negli anni settanta, è stata oggetto di analisi prevalentemente per quanto concerne il suo aspetto osservabile e categorizzabile. A questo fine sono state costruite griglie di osservazione sistematica secondo categorie determinate sulla base di varie teorie di riferimento. G. De Landsheere, ad es., ha esaminato i comportamenti sia verbali che non verbali del docente nel corso del suo insegnamento. Il passo successivo è stato quello di valorizzare i metodi osservativi così sviluppati nel contesto della formazione iniziale e in servizio degli insegnanti, utilizzando in particolare tecniche di microinse132

gnamento (De Landsheere, 1979 e 1981). 5. La componente etica dell’a.d. W. Brezinka ha sottolineato la centralità di quello che egli chiama l’ethos professionale degli insegnanti, cioè il loro senso morale o insieme delle proprie convinzioni morali nei riguardi della loro attività specifica. In altre parole si tratta dell’insieme degli atteggiamenti morali che una persona ha verso la propria attività professionale di insegnante e i particolari compiti e doveri che questa comporta (Brezinka, 1989). Questo senso morale è d’altra parte legato al mandato educativo a essi affidato dalla comunità nazionale e locale. Mandato educativo che è reso esplicito nelle norme costituzionali e di legge relative alla scuola in genere e ai vari livelli scolastici in specie, e interpretato sul piano operativo dai diversi programmi didattici. Tra le componenti dell’ethos professionale dei docenti, Brezinka considera fondamentali le seguenti: a) l’atteggiamento positivo verso gli alunni e il loro bene; b) l’atteggiamento positivo verso la propria comunità e verso il mandato educativo da questa affidato all’insegnante; c) l’atteggiamento positivo nei confronti della materia che deve insegnare; d) l’atteggiamento positivo verso le attività necessarie per l’esercizio della professione. Bibl.: Dussault G. et al., L’analisi dell’insegnamento, Roma, Armando, 1976; Ballanti G., Analisi e modificazione del comportamento insegnante, Teramo, Lisciani, 1979; De Landsheere G., Come si insegna: analisi delle interazioni verbali in classe, Ibid., 1979; De Landsheere G. - A. Delchambre, I comportamenti non verbali dell’insegnante, Ibid., 1981; Berliner D. C., In pursuit of the expert pedagogue, in «Educational Researcher» 15 (1986) 7, 5-13; Damiano E., L’insegnamento come a., in «Il Quadrante Scolastico» 11 (1988) 38, 23-48; Brezinka W., L’educazione in una società disorientata, Roma, Armando, 1989; Pellerey M., A. educativa e didattica, in «Il Quadrante Scolastico» 12 (1989) 42, 23-33; De Corte E. et al., Les fondements de l’action didactique, Bruxelles, De Boeck, 21990; M astromarino R., L’a.d., Roma, Armando, 1991; Damiano E., L’a.d. Per una teoria dell’insegnamento, Ibid., 1993; Pellerey M., L’agire educativo, Roma, LAS, 1998; Id., Educare, Ibid., 1999; Damiano E., La Nuova Alleanza, Brescia, La Scuola, 2006.

M. Pellerey

AZIONE EDUCATIVA

AZIONE EDUCATIVA Intervento intenzionale, individuale o di gruppo o sociale, volto a promuovere il divenire integrale della → personalità, individuale e/o comunitaria, nella sua globalità o in qualche suo aspetto (v. anche → a. didattica). 1. L’a. è al crocevia di soggettività ed oggettività, di passato, presente, futuro. In essa la novità e l’alterità delle persone, delle cose e degli eventi si incontrano nel vivo del divenire storico, sia nelle modalità quotidiane sia in quelle che hanno valore di evento per la vita propria o per quella comunitaria. Nell’a. essere, conoscere, valutare, decidere ed impegnarsi si danno in una dinamica dagli esiti non scontati. L’a. è infatti intimamente percorsa ed attraversata dal mondo delle intenzioni, dei progetti, delle volontà, delle speranze, delle attese, e prima ancora dal mondo dei bisogni, degli impulsi, dei desideri, delle aspirazioni individuali, di gruppo, collettive. 2. La riflessione sull’a. aiuta a comprendere l’intenzionalità educativa e a precisare meglio l’ → intervento educativo. In proposito può essere interessante la distinzione, ripresa da → Aristotele, tra prassi (praxis) e produzione (poiesis) (Et. Nic., VI,3-4, 1149 ss.), parallela alla distinzione di → Tommaso d’Aquino tra «actio immanens» (che rimane nell’agente, come il sentire, l’intendere, il volere) e «actio transiens» (che passa da chi opera in qualcosa di esterno, visto come prodotto) (Sum. Theol., I-II, q. 3, a. 2; e q. 111, a. 2), ed equivalente alla distinzione tra «agire» e «fare», presente un po’ in tutte le lingue. Essa permette di cogliere come l’educazione sia un agire che nasce nell’interiorità personale ed insieme un produrre parole, gesti, strumenti, condizioni, strategie, modelli che mediano il → rapporto educativo. In tal modo si evidenzia la responsabilità individuale e la corresponsabilità di gruppo o collettiva e la necessità di collegare in educazione tecnologia, teoria, etica e abilità.

3. La prospettiva tradizionale dell’educazione si incentrava quasi esclusivamente sull’attività intenzionale degli educatori. Un’analisi più approfondita mostra invece che in concreto l’educazione appare come un intersecarsi di azioni (sia nel senso largo di attività e di operazione in genere, sia nel senso specifico di agire cosciente e libero e di produzione di oggetti): oltre quelle degli educatori (in qualità di genitori, parenti, docenti, dirigenti, animatori, ecc.; individualmente o come team educante), quelle degli educandi (come figli, allievi, membri di gruppi o di associazioni, ecc.; come singoli e come gruppi variamente strutturati), e quelle di coloro che a vario titolo, direttamente o indirettamente, personalmente o istituzionalmente, si interpongono od intervengono come variabili concomitanti dell’a.e. Ciascuno interviene con proprie intenzioni, opera secondo modi personali, coopera o si pone come «frontiera interna» rispetto all’a. altrui. Si comprende come si richieda una → progettazione educativa e una concordata → programmazione educativa, nella prospettiva di una speciale processualità (→ processo educativo). 4. La filosofia dell’a. di indirizzo ermeneutico, aiuta a comprendere pure la situazionalità, la storicità e la singolarità propria dell’a.e., fino al suo carattere di evento in certa misura irrepetibile. Da ciò si evince la necessità di strategie conoscitive che individuino situazioni e → bisogni educativi nella loro contestualità; e trova rinnovata rilevanza la richiesta di una educazione contestualizzata e personalizzata (→ personalizzazione). Bibl.: Bubner R., A., linguaggio e ragione, Bologna, Il Mulino, 1985; Dalle Fratte G., La decisione in pedagogia, Roma, Armando, 1988; Blondel M., L’a., Cinisello Balsamo (MI), Pao­ line, 1993; Damiano E., L’a. didattica, Roma, Armando, 1993; Vayer P., La dinamica dell’a.e., Roma, Il Minotauro, 1999; G ramiglia A.., Manuale di pedagogia sociale: scenari del presente e a.e., Roma, Armando, 2003.

C. Nanni

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B BACCALAUREATO → Titoli di studio BADEN-POWELL Robert → Scautismo BAIN Alexander → Positivismo e educazione

BALBUZIE Disturbo del linguaggio che si manifesta sotto forma di ritardi, arresti, ripetizioni delle parole, per cui il ritmo e la melodia del discorso appaiono fortemente alterati. La b. compromette i passaggi tra l’ideazione e la realizzazione verbale, deforma gli stili di → comunicazione, condiziona le modalità di relazione sociale, accresce i conflitti emotivi e pregiudica la → stima di sé. La b. è più frequente nei maschi che nelle femmine. 1. Vi sono differenti tipi di b.: a) Tonica. Caratterizzata da un arresto all’inizio della parola con prolungamento della sillaba o anche solo del fonema difficile da pronunciare. b) Clonica. Si verifica quando c’è la ripetizione più o meno continua di una sillaba, specie della prima. c) Tonico-clonica. La si riscontra quando si sommano prolungamento e ripetizione fino a rendere quasi impossibile la comunicazione. d) Atonica. È caratterizzata dal blocco della parola. e) Parabolica. Compare quando l’eloquio è interrotto da parole o suoni che non hanno alcun rapporto con il senso del discorso. Dal punto di vista evolutivo esistono due tipi di b.: a) Primaria. Quando compare fin dall’inizio dell’acquisizione del linguaggio e quindi prima dei tre

anni. b) Secondaria. Se compare dopo un congruo periodo di linguaggio corretto. 2. L’eziologia della b. è diversamente spiegata. L’approccio organicistico sostiene che essa può essere determinata da alterazioni motorie, dalla predominanza dell’ortosimpatico, da fattori ereditari, da lesioni localizzate o diffuse del sistema nervoso centrale o periferico. L’approccio psicologico sottolinea che le spiegazioni di carattere organico non sono in grado di chiarire il perché ci sono delle b. che variano da un giorno all’altro in base: all’interlocutore, allo stato emotivo del soggetto, al contenuto del discorso, al contesto in cui si trova. Fa inoltre notare che la b. si attenua o addirittura scompare se il testo è conosciuto a memoria, se il soggetto canta, se parla con se stesso o con un animale. La b. è quindi vista come risultato del rapporto disturbato dell’Io con l’ambiente. Secondo la teoria del conflitto appreso la genesi della b. è legata ad un contesto familiare frustrante, per cui i genitori reagiscono in modo critico ai tentativi di pronunciamento delle prime parole da parte del bambino. Per la teoria psicoanalitica la b. è un sintomo che si colloca tra la nevrosi ossessiva e l’isteria di conversione. Sullo sfondo sono interessati l’erotismo orale, anale e fallico, vissuti in modo estremamente ambivalente (amore-odio). Più precisamente, la b. che insorge nella prima infanzia è interpretabile soprattutto come conflitto tra autonomia-dipendenza dalla madre, mentre quella che compare in età scolare va intesa come sintomo di ansia di competizione, dove sono più presenti aspetti della 35

BAMBINO

fase anale (trattenere-espellere) e della fase fallico-edipica (esibizione-antagonismo). 3. A seconda delle spiegazioni eziologiche fornite, vengono proposti: interventi ortofonici, psicoterapeutici o di tipo misto (correzione dell’articolazione fonatoria e psicoterapia). Bibl.: A nzieu A. et al., Psicoanalisi e linguaggio. Dal corpo alla parola, Roma, Borla, 1980; Cippone De Filippis A., Turbe del linguaggio e riabilitazione, Roma, Armando, 1993; Minuto I., Le patologie del linguaggio infantile, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1994; Strocchi M. C., B. Il trattamento cognitivo-comportamentale, Gardolo, Erickson, 2003; D’ambrosio M., B. Percorsi teorici e clinici integrati, Milano, McGraw-Hill, 2005; Bitetti A., B., Roma, Armando, 2006.

V. L. Castellazzi

nizzare in maniera equilibrata le componenti affettive, sociali, morali e cognitive della sua personalità, grazie alle sue potenzialità che l’educazione è chiamata a promuovere. 2. A questa cultura è legato il riconoscimento di diritti inalienabili del b. in quanto persona: alla vita, alla salute, all’educazione e al rispetto dell’identità individuale, etnica, linguistica, culturale e religiosa. Bibl.: Paparella N., Sviluppo del b. e crescita della persona, Brescia, La Scuola, 1984; M acchietti S. S. (Ed.), Il b. e… l’educazione, Roma, Euroma-La Goliardica, 2005; M acchietti S. S. (Ed.), B. protagonisti tra scuola e famiglia, Ibid., 2006.

S. S. Macchietti

BANCHE DATI → Informatica BARBIANA → Milani Lorenzo BARBONI → Emarginazione

Bambino Con questo termine viene indicato l’essere umano nell’età dell’infanzia (0-6 anni); a livello internazionale tuttavia è diffusa la tendenza ad usare questa parola anche per indicare il fanciullo e il preadolescente.

BARNABITI

1. Considerato homunculus nel mondo classico, il b. è messo in particolare luce nel Vangelo, dove si afferma il primato dell’infanzia nel Regno, e lo si riconosce quindi come persona, il cui valore deriva dalla sua origine divina, e come titolare di una dignità che gli è coesseziale. Tuttavia nel corso dei secoli è stato considerato e rappresentato in coerenza con le istanze culturali prevalenti e la sua vita è stata fortemente condizionata da quella degli adulti e in particolare della famiglia. Dall’Ottocento in poi sono sorte e si sono affermate specifiche istituzioni educative (asili e giardini infantili, → asili-nido, scuole materne, scuole dell’infanzia) ed è stata elaborata, con il concorso di numerose scienze umane (pedagogia, psicologia, sociologia, antropologia culturale...) una cultura dell’infanzia che riconosce il b. come soggetto attivo, capace di interazione con i pari, gli adulti, l’ambiente, e quindi di perseguire competenze di tipo comunicativo, espressivo, logico, operativo, di maturare e di orga-

1. I B., chiamati così dal nome della loro prima sede, la chiesa milanese di s. Barnaba, si propongono originariamente la riforma dei costumi e l’educazione religiosa del popolo mediante l’apostolato delle «confessioni, predicazioni, opere di pietà e di misericordia». La codificazione definitiva delle costituzioni dell’Ordine viene realizzata, nel 1579, sotto la guida di s. Carlo → Borromeo.

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Chierici Regolari di s. Paolo - Ordine religioso fondato a Milano nel 1530 da s. Antonio Maria Zaccaria (1502-1539).

2. All’inizio del Seicento, ha luogo un deciso mutamento nell’orientamento di fondo: l’Ordine comincia a occuparsi dell’educazione dei giovani, e l’impegno nella scuola finisce per caratterizzare in seguito l’opera dei B., divenuta più intensa con la soppressione dei → Gesuiti (sec. XVIII). Il documento pedagogico più significativo, Exterarum scholarum disciplina (1666), è una sorta di ratio molto vicina a quella gesuitica e segna l’impegno dei B. nel campo dell’educazione: «Sebbene essi non siano nati, contrariamente all’opinione corrente, per l’educazione della

BASILIO DI CESAREA

gioventù, dalle loro scuole e collegi sono uscite schiere di alunni illustri in ogni campo; nell’insegnamento universitario e nella ricerca scientifica hanno contato autentici maestri» (Erba, 1975, 948). 3. Tra gli istituti educativi prestigiosi diretti dai B. vanno ricordati il collegio Carlo Alberto di Moncalieri (1838), per la formazione dei quadri dirigenti del Piemonte e dell’Italia risorgimentale, e quello di s. Giovanni alle Vigne di Lodi. Alcuni scritti pedagogici dei B., come quelli di A. Teppa (1806-1871), hanno avuto notevole influsso sugli educatori cristiani dell’Ottocento (v. anche → Congregazioni insegnanti maschili). Bibl.: Erba A. M, «Chierici Regolari di San Paolo (B.)», in G. Rocca (Ed.), Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. 2, Roma, Paoline, 1975, 946-974; Bianchi A., L’istruzione secondaria tra barocco ed età dei lumi. Il collegio di S. Giovanni alle Vigne di Lodi e l’esperienza pedagogica dei B., Milano, Vita e Pensiero, 1993; Bonora E., I conflitti della Controriforma. Santità e obbedienza nell’esperienza religiosa dei primi B., Milano, Le Lettere, 1998; Prellezo J. M., «B., pedagogia dei», in Enciclopedia filosofica, vol. 2, Milano, Bompiani/Fondaz. C.S.F. Gallarate, 2006, 1059-1060.

J. M. Prellezo

BAROLO Marchesi di → Scuola dell’infanzia BASEDOW Johann → Filantropismo/Filantropinismo

BASILIO DI CESAREA n. a Cesarea di Cappadocia nel 330 ca. - m. nel 379, padre della Chiesa, santo. 1. Nato in una famiglia nobile e cristiana, compie brillanti studi a Cesarea, Costantinopoli e Atene, dove diviene amico di Gregorio di Nazianzo. Il giovane B. si dedica con entusiasmo agli studi classici. Gli viene offerta la cattedra di «retore», a Neocesarea, che egli rifiuta: è il tempo della sua conversione e del suo ritiro, è la scoperta di Dio. Poi è la volta della scoperta della via alla perfezione, cioè la meditazione della Scrittura (Lett. 2, 3; PG 32, 288), alla base delle sue Regole. Termina-

ti gli studi, verso il 358 chiede il battesimo; si dà alla vita ascetica di cui diviene legislatore. Nel 370 è nominato vescovo di Cesarea. Scrive tra l’altro, il Discorso ai giovani. 2. I monasteri di B. offrono anche scuole (paragonabili agli attuali seminari minori) per ragazzi. L’educatore ha il compito d’insegnare al giovane «dall’inizio le nozioni elementari» del bene e del male, di presentargli «esempi di pietà», in modo che l’educando possa giudicare prontamente ciò che è bene e ciò che è male; ne deriverà, infine, che «l’abitudine acquisita gli procurerà la facilità di agire bene» (cfr. 15a Grande Regola; PG 31, 952-957). Sullo sfondo del Discorso si avverte il problema dell’incontro/scontro storico fra Cristianesimo e cultura pagana (o esterna). Il significato del Discorso, che si rivolge a giovani studenti (15/16 anni), parenti di B., e indirettamente a persone di cultura, è di proporre consigli per utilizzare gli scritti della letteratura classica e, al tempo stesso, offrire una proposta di ascesi cristiana. L’operetta, finalizzata a valorizzare l’ideale monastico presso giovani, parenti di B. e legati alla cultura classica, sarà ripresa in seguito e messa alla portata di tutti i giovani. 3. La struttura del Discorso, si articola in due parti: nella prima sono presi in considerazione gli scritti della letteratura profana, nella seconda sono oggetto di riflessione i comportamenti positivi presenti nella cultura e nella vita dei pagani, la cui utilità non è da disattendere. La conclusione riafferma il motivo dominante dell’operetta, quello di una certa qual convergenza a livello pedagogico degli autori profani e della Scrittura, che rappresenta il vertice della → paideia cristiana. In concreto, ai giovani frequentatori della scuola pagana, B. illustra la funzione propedeutica di essa nel comprendere i sacri insegnamenti dei misteri. La finalità fondamentale del Discorso ai giovani è formare nell’animo giovanile la capacità di compiere scelte critiche, prospettando alla loro libertà di giudizio i criteri essenziali. Ma per essere cristianamente critico il giudizio di scelta dev’essere in grado di discernere quanto ci riguarda specificamente. Bibl.: Jaeger W., Cristianesimo primitivo e paideia greca, Firenze, La Nuova Italia, 1966; Nal-

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BELLEZZA

M. (Ed.), B.d.C., Discorso ai giovani. Oratio ad adolescentes, Firenze, Nardini, 21990, 9-77; Pasquato O., Educazione classica e educazione cristiana nella storiografia di H. I. Marrou, in «Orientamenti Pedagogici» 34 (1987) 11-40; Spidl­ ik T., «S.B.d.C.», in M. Midali - R. Tonelli (Edd.), Dizionario di pastorale giovanile, Leumann (TO), Elle Di Ci, 21992,1094-1097. dini

O. Pasquato

BEDA Venerabile → Medioevo BEDALES → Scuole Nuove BELL Andrew → Mutuo insegnamento

BELLEZZA Il valore semantico del termine rinvia all’idea del «bello» che a sua volta implica concetti come «gusto», «canone estetico», «armonia», «opera d’arte», «natura», «cultura». Sia l’arte sia la natura riverberano la loro b.; essa possiede una propria «oggettività»; questa è tuttavia interpretata in ragione di codici – ovvero di sistemi di regole – che «soggettivamente» l’uomo acquisisce e matura attraverso un processo di etero- e autoformazione. 1. Il contatto con le forme e i contenuti della b. presiede all’educazione estetica (→ educazione artistica) del soggetto, la cui formazione è interessata dalle esperienze del «bello» che egli porta a compimento nel suo rapporto con le arti figurative, la musica, la letteratura e la poesia, la scultura, la danza ma anche con il cinema, la fotografìa, il teatro, i media e nel contatto con la natura e il mondo della tecnica. L’elemento estetico – ha osservato → Dewey – armonizza la libertà dell’espressione individuale. Tale libertà conforma lo stato d’animo di chi, vivendo il «sentimento del bello», prova piacere. Da → Kant a → Tolstoj, il nesso fra b. e piacere estetico risalta evidente. Dalla classicità ad oggi, Venere permane il simbolo e il paradigma della b. e ciò poiché natura e arte vi si fondono in una rappresentazione del bello che le culture dell’umano vogliono sia esplicitata da una profonda e intima unità. S. → Agostino richiamando l’idea di b., rievoca l’equilibrio fra le parti grazie al quale un insieme diventa appunto «unità». 138

2. Evidente e amabile – così Platone la definisce nel Fedro –, la b. sottende una contemplazione amorosa e ideale del bello a cui non è estranea l’idea di bene, da Plotino investita del potere di fornire «la b. a ogni cosa». È per questo che Hegel attribuisce alla b. il compito di rendere «sensibile» l’Idea, cioè di avvalorare la rappresentazione reale di ciò che è spirituale. Quando a metà del Settecento A. G. Baumgarten scrive la prima Aesthetica, la b. o il bello vi dimorano quali rappresentazioni sensibili di ciò che è perfetto. Ad essa Kant collegò il concetto di sublimità (→ stupore). In una certa misura, anche l’estetica crociana conferisce all’espressione l’onere di simboleggiare la b. L’estetica del secondo Novecento, e in particolare la semiotica dell’arte, hanno messo a punto teorie della «generazione» e della «ricezione» del testo estetico in cui sono distinte e salvaguardate l’autonomia critica dell’artista e quella del destinatario fruitore dell’opera. Da entrambi si chiede siano rispettate l’identità e la diversità. Da ciascuno si desidera venga promossa e difesa l’originalità culturale nella «scrittura» o nella «lettura» dell’opera d’arte. Così, ogni educazione al bello invera una scuola di libertà, di eticità, di civicità. 3. Le prospettive pedagogiche procedono nella direzione di un’educazione estetica capace di vivificare quell’«armonia interiore» a cui le Lettere sull’educazione estetica dell’uomo – stese da F. Schiller – fanno puntuale riferimento. La cultura estetica si salda, pertanto, alla cultura pedagogica, mentre l’idea di b. si approssima al discorso etico. Per questo L. Pareyson ha potuto scrivere che «solo l’educazione estetica è in grado di mediare il passaggio dall’uomo fisico all’uomo morale». Bibl.: Pareyson L., Estetica. Teoria della formatività, Milano, Edizioni di Filosofia, 1954; Schiller F., Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, Firenze, La Nuova Italia, 1970; Bertin G. M., L’ideale estetico, Ibid., 1974; Gennari M., L’educazione estetica, Milano, Bompiani, 1994; Dewey J., Arte come esperienza e altri scritti, trad. it. a cura di A. Granese, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995, Eco U., Storia della b., Milano, Bompiani, 2004.

M. Gennari

BENESSERE

BELLO Andrés n. a Caracas nel 1781 - m. a Santiago del Cile nel 1865, letterato, giurista ed educatore venezuelano. 1. Vive in un periodo travagliato della storia del suo Paese. Dopo gli studi umanistici ottiene il grado di «Bachiller de Artes» presso l’università di Caracas. All’inizio della guerra dell’indipendenza del Venezuela (1810), B. fa parte della missione inviata in Inghilterra dal governo insurrezionale. Nel periodo londinese (1810-1829), alterna l’attività diplomatica con gli studi filosofici e letterari, prendendo contatto con la cultura europea. Fonda le riviste «La Biblioteca Americana» e «El Repertorio Americano». Nel 1829 si stabilisce in Cile e collabora al progetto di riforma dell’ → Università, di cui diviene rettore (1843-1865). Oltre alla celebre Gramática castellana (1847), vanno ricordati altri saggi: Escuelas dominicales y de adultos (1831), De la enseñanza secundaria y de la profesional y científica (1832), Educación popular (1843), Estudios universitarios (1853). 2. Per B., l’educazione popolare costituisce la base di ogni progresso sociale e il fondamento irrinunciabile delle istituzioni repubblicane. Da tale presupposto scaturisce l’urgenza di scuole che siano «focolari di cultura», con «buoni maestri» e «buoni metodi». In stretto rapporto con questa urgenza si colloca l’Università, concepita non come un «centro asettico di studi astratti», ma come un luogo di studio critico e di ricerca «utile», che formi persone capaci di «pensare da sé» e promuova il progresso sociale della nazione. Per la sua instancabile opera di diffusione dell’educazione, B. è stato chiamato «liberatore intellettuale dell’ → America Latina», «educatore del Continente» e «il più grande umanista di Iberoamérica». Bibl.: Torzan-Dager S.T., «A.B. y la pedagogía», in Cuarto libro de la Semana de B. en Caracas, Caracas, Ministerio de Educación, 1955; Prellezo J. M., A.B. en el bicentenario de su nacimiento (1781-1981), in «Orientamenti Pedagogici» 28 (1981) 1037-1049; Seminario di studi latinoamericani (Ed.), Il pensiero pedagogico di B., Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1981;

Bocaz L., A.B. Una biografía cultural, Bogotá, Convenio Andrés Bello, 2000.

J. M. Prellezo

BENE COMUNE → Educazione socio-politica BENEDETTO DA NORCIA → Medioevo

BENESSERE Stato armonico di salute psicofisica, garantito da un ottimo livello di vita e da vantaggi equamente distribuiti. 1. Dal punto di vista sociale, il b. è associato a un livello economico di agiatezza, caratteristico soprattutto dei paesi del primo e del secondo mondo e delle classi elevate all’interno del terzo mondo, da cui deriva la soddisfazione di tutte le esigenze personali, familiari e istituzionali. Nella prospettiva della dottrina sociale, lo → Stato sociale o del b. garantisce a ogni cittadino il rispetto, la salvaguardia e la promozione dei suoi propri diritti attraverso lo stanziamento di opportune somme di danaro pubblico e l’offerta di adeguate strutture di assistenza o di servizi di soddisfacimento dei bisogni vitali individuali, familiari, di gruppo, collettivi. 2. Dal punto di vista fisico, il b. rappresenta uno stato ottimale di salute dovuto a una buona funzionalità organica. Perché ciò si verifichi, è indispensabile che il soggetto abbia la possibilità di muoversi senza bisogno di appoggi e senza essere impedito da ostacoli insormontabili, di essere protetto da eventuali rischi e pericoli, di disporre di mezzi clinici e terapeutici in caso di improvviso malessere, di poter usufruire delle necessarie ore di sonno e di una sufficiente quantità di cibo. 3. Dal punto di vista psicologico, il b. costituisce uno stato interiore di equilibrio e di serenità, di vigore e di rilassamento, grazie al quale il soggetto è in grado di far fronte alle frustrazioni inevitabili della vita quotidiana e alla stanchezza che le accompagna, riuscendo, allo stesso tempo, a prendere delle decisioni impegnative, valutandone la portata e sapendole inserire nel flusso generale dell’esistenza. Così inteso, il b. non esclude 139

BERTIN GIOVANNI MARIA

le tensioni che il soggetto vive a motivo del processo di crescita personale cui è sottoposto oppure del tessuto relazionale in cui agisce, ma fa leva proprio sulla loro complessa interazione, nella certezza che non si è mai soli, che si è legati a un patrimonio culturale racchiuso nel passato e pur sempre vivo nel presente, che si hanno sempre delle possibilità e delle potenzialità da realizzare nel futuro. Bibl.: Fromm E., I cosiddetti sani, Milano, Mondadori, 1996; Fizzotti E. (Ed.), Nuovi orizzonti di b. esistenziale. Il contributo della logoterapia di V.E. Frankl, Roma, LAS, 2005; Fata A., Armonia b. felicità, Cagliari, Punto di Fuga, 2005; Layard R., Felicità. La nuova scienza del b. comune, Milano, Rizzoli, 2005; M arocco Muttini C., Educazione e b. in adolescenza, Torino, UTET Università, 2006; Venuto P., Com’è straordinaria la vita! Piccolo dizionario del b., Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2006; Rychen D. E. - L. H. Salganik, Agire le competenze chiave. Scenari e strategie per il b. consapevole, Milano, Angeli, 2007.

E. Fizzotti

BENI CULTURALI → Ambiente → Educazione artistica BEREDAY George → Educazione comparata BERNSTEIN Basil → Nuova sociologia dell’educazione

BERTIN Giovanni Maria n. a Mirano-Venezia nel 1912 - m. a Bologna nel 2002, pedagogista italiano. 1. Nato a Mirano (Ve) e formatosi alla scuola milanese del razionalismo critico di Antonio Banfi, per trent’anni ha svolto la sua attività di ricerca e di docenza presso l’Università di Bologna dove è stato il primo preside della facoltà di Magistero (dal 58 al 69). 2. Maestro di molte generazioni di educatori, insegnanti e ricercatori, ha orientato i suoi studi e la sua riflessione in una pluralità di direzioni, dall’estetica al misticismo religioso, dalla letteratura alla filosofia considerandone le implicazioni e le ricadute in relazione al suo ambito di ricerca privilegiato: la filosofia 140

dell’educazione. La prospettiva che ha elaborato – il problematicismo pedagogico – si caratterizza per il rigore antidogmatico e per il richiamo a un incessante esercizio critico volti a decifrare la complessità dell’esperienza educativa (relazione fra educatore e soggetto educativo, direzioni e obiettivi educativi, metodologie per realizzarli), nonché della problematicità che la connota, al suo interno e come condizionamento da parte del contesto socioculturale. Il percorso di superamento della problematicità viene proposto in direzione di «ragione», intesa come istanza regolativa di integrazione reciproca dei diversi tasselli che costituiscono l’esperienza, anche di quelli che appaiono più distanti, conflittuali, antinomici. Tale ragione, definita «proteiforme», si pone in termini di mescolanza fra intelligenza e affettività, immaginazione e impegno etico, e prefigura un modello di soggetto teso a progettare e costruire la propria esistenza nell’orizzonte del possibile e della differenza, scegliendo l’«inattuale» e osando l’utopico. Bibl.: a) Fonti. Tra le opere più significative di B.: Etica e pedagogia dell’impegno, Milano, Marzorati, 1953; Educazione alla ragione, Roma, Armando, 1968; Crisi educativa e coscienza pedagogica, Ibid., 1971; Costruire l’esistenza (in coll. con M. Contini), Ibid., 1983; Ragione proteiforme e demonismo educativo, Firenze, La Nuova Italia, 1987. b) Studi: Contini M. (Ed.), Tra impegno e utopia. Ricordando G.M.B., Bologna, CLUEB, 2005.

M. Contini

BERTOLDI Franco n. a San Candido (Bz), il 15 dic. 1920 - m. a Trento il 21 marzo 2005, pedagogista e didatta di ispirazione personalistico-cristiana. 1. Maestro elementare, insegnante di tedesco e di diritto nella secondaria, pubblicista di quotidiani locali e nazionali («Il Sole 24 Ore»), libero docente e poi ordinario di pedagogia e didattica, ha insegnato a Roma-La Sapienza, alla Cattolica di Milano e di Brescia e a Trento, dove fondò il Seminario permanente di pedagogia e l’Osservatorio sulla didattica.

BETTELHEIM BRUNO

2. La sua esistenza e l’essere stato allievo di N. Bobbio, con cui si laureò a Padova, lo rese attento ai rapporti tra scuola, economia e vita sociale. L’incontro e la guida di A. → Agazzi gli diede chiarezza teorica e solidità pedagogica, ponendolo in primo piano tra i pedagogisti personalisti-cattolici, in consonanza con l’adesione alla fede cattolica, quasi da «convertito», maturata agli inizi degli anni ’50. Le stimolazioni della «teoria dei sistemi» e della logica formale contribuirono a dare rigorosità e sistematicità alla sua indagine sull’azione didattica, al suo insegnamento e pratica della sperimentazione didattica, alla promozione dell’educazione a distanza e nella formazione degli insegnanti. Le sue esigenze personalissime di verità e di razionalità lo portarono a tematizzare la qualità della «certezza pedagogica» e il senso dell’«intenzionalità pedagogica». Negli ultimi anni si dedicò all’«orientamento di personalità», alla formazione «fra» adulti, alla istituzionalizzazione di «centri di cultura», per la promozione della cultura locale (in cui inserì un sapienziale recupero della cultura cristiana) e a iniziative di cooperazione internazionale. Bibl.: a) Fonti: Trattato di didattica, 2 voll., Bergamo, Minerva Italica, 1978-’79; Critica della certezza pedagogica, Roma, Armando, 1981. b) Studi: Bombardelli O., Problemi dell’educazione alle soglie del duemila. Scritti in onore di F.B., Trento, Dipart. di Scienze Filologiche e Storiche, 1995.

C. Nanni

2. B. unisce alle istanze della ricerca teoretica, quelle della pratica educativa, affermando la necessità continua di interazione fra l’esperienza educativa e la riflessione su di essa. Su tale principio costruisce il concetto di «competenza pedagogica» e di «intenzionalità» in campo pedagogico. Prima lo scoutismo, poi (1958-’68) la direzione del carcere minorile «Cesare Beccaria» di Milano, sono i campi d’esperienza da cui B. ha tratto gli elementi fondamentali per la sua elaborazione pedagogica. 3. È stato promotore di una ricerca pedagogica soprattutto in tre direzioni: la dimensione epistemologica aperta al dialogo con le altre scienze; l’attenzione alle realtà educative del territorio e alle sue istituzioni; la centralità della comunicazione educativa e del ruolo che svolgono i media. Nel 1973 fonda la rivista «Infanzia». Alla fine degli anni ’80 dà vita al Centro Studi di Pedagogia fenomenologica «Encyclopaideia» (e alla rivista omonima) a cui partecipano studiosi universitari e non, e che diventa un indirizzo scientifico-culturale nell’ambito della pedagogia italiana, con collegamenti a livello internazionale. Bibl.: a) Fonti: B. P., Per una pedagogia del ragazzo difficile, Bologna, Malipiero, 1965; I d., L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1988; Id., Ad armi pari. La pedagogia a confronto con le altre scienze sociali, Torino, UTET, 2005. b) Studi: Dallari M. - M. Tarozzi (Edd.), Dialoghi con P.B., Torino, Thélème, 2001; Tarozzi M. (Ed.), Direzioni di senso. Studi in onore di P. B., Bologna, CLUEB, 2006.

R. Farné

BERTOLINI Piero n. a Torino nel 1931 - m. a Bologna nel 2006, pedagogista italiano. 1. All’Università di Pavia, dove si laurea in Filosofia, è allievo di Enzo Paci che lo introduce alla fenomenologia husserliana. Sarà un’esperienza decisiva per B., sul piano personale e professionale, caratterizzando il suo futuro orientamento scientifico, teso alla costruzione di una pedagogia come scienza fenomenologica.

BÉRULLE Pierre → Oratoriani

BETTELHEIM Bruno n. a Vienna nel 1903 - m. a Silver Spring, Maryland, nel 1990, psichiatra e psicoanalista austriaco. Acquisita la sua formazione psicoanalitica a Vienna, dopo essere stato internato per motivi razziali per un anno nei campi di concen141

BIBBIA

tramento di Dachau e di Buchenwald, B. nel 1939 si trasferisce negli Stati Uniti. B. si rifà alla psicologia dell’Io integrato dai contributi di → Dewey e dalla psicologia cognitiva di → Piaget. Il suo nome è particolarmente legato alla famosa Sonia Shankman Orthogenic School dell’Università di Chicago per bambini autistici, da lui diretta per quasi trent’anni. Secondo B. la causa del ritiro autistico risiede nell’interpretazione corretta da parte del bambino dell’atteggiamento negativo con cui gli si accostano le figure significative del suo ambiente. Stante il suo radicale egocentrismo, il bambino finisce poi per attribuire a se stesso gli eventi distruttivi provocati dall’esterno. Ciò determina in lui una situazione estrema, caratterizzata dalla perdita della speranza e del senso della vita, dal momento che qualsiasi cosa egli faccia finisce sempre per essere da lui percepita come fonte di distruzione per sé e per gli altri. Secondo B., stante alla base un rapporto distorto con i genitori, è necessario togliere il bambino autistico dal suo ambiente familiare e collocarlo entro un’istituzione globale, in cui possa vivere un’esperienza emotiva in grado di attenuare gradualmente le sue fantasie distruttive. Attualmente tale modello terapeutico appare superato. Bibl.: a) Fonti: opere di B. tradotte in it.: Il prezzo della vita, Milano, Adelphi, 1965; L’amore non basta, Milano, Ferro, 1967; I figli del sogno, Milano, Mondadori, 1969; Le ferite simboliche, Firenze, Sansoni, 1973; La fortezza vuota, Milano, Garzanti, 1976; Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Milano, Feltrinelli, 1977; Sopravvivere, Ibid., 1981; Un genitore quasi perfetto, Ibid., 1987; Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa, Milano, Adelphi, 1998. b) Studi: Fratini C., B.B. Tra psicoanalisi e pedagogia, Napoli, Liguori, 1993; Sutton M., B.B. Una vita, Firenze, Le Lettere, 1997.

V. L. Castellazzi

BIBBIA La B. è oggi largamente riconosciuta come il «grande codice» (N. Frye) della cultura occidentale ed ancora di più, per milioni di persone – da oltre venti secoli – vale come 142

documento di fede, anche in ciò che concerne l’educazione. Ciò legittima una doverosa e critica attenzione ai valori che essa propone. L’argomento sarà pertanto affrontato da due punti di vista: quale educazione viene proposta dalla B.; come la B. in quanto libro sacro della religione ebraico-cristiana può essere valorizzata in funzione educativa, specificamente religiosa. 1. La concezione di educazione nella B. È doveroso dire subito che l’educazione in senso stretto non è un tema centrale della B. Essa fa delle affermazioni generali, dona delle indicazioni indirette, suscita conclusioni non di rado congetturabili. Danno una qualche luce documenti educativo-scolastici del medio oriente antico (Egitto e Mesopotamia) per i tempi prima di Cristo (AT), mentre per i primi cristiani (NT) continua a valere l’eredità ebraica, avendo sullo sfondo, ma non di più, la grande paideia greca e romana. Dalla B., è possibile raccogliere certe indicazioni fenomeniche ed insieme mettere in luce una propria concezione di fondo, la quale, data la natura della B., è eminentemente religiosa. 1.1. Il fatto educativo. Si possono distinguere due principali forme educative: familiare ed extrafamiliare. a) La → famiglia è il referente costante e dominante, come in tutto il mondo antico. La testimonianza più qualificata è data dalla tradizione sapienziale dove numerosi sono gli insegnamenti per bene allevare i figli (es. Sir 30,1-13), con l’uso del termine tecnico dell’educazione ebraica: musar (rad. jsr). Quanto valore avesse tale educazione familiare appare dal fatto che nei libri sapienziali, e nel Deuteronomio, il saggio trasmette il suo insegnamento interpellando gli uditori con la formula «figlio mio» e propone se stesso come «padre» (Prv 1, 8; Dt 1,31; 32,8). Nei tempi cristiani continua la predominanza della famiglia (Ef 6,1-4). Un’eccellente affermazione sintetica riguarda lo sviluppo di Gesù ragazzo, del quale si dice che «era sottomesso» a Maria e a Giuseppe e «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,51-52). L’educazione familiare è quella propria di una cultura patriarcale: la madre si cura dei figli in tenera età, poi subentra il padre che dà ai figli maschi una educazione che è essenzialmente formazione religioso-morale e professionale. b) La scuola e il contesto sociale. Più avanti nell’evo-

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luzione sociale, al seguito della monarchia (sec. X-VI a.C.), si rende possibile una sorta di scolarizzazione in funzione dei bisogni della corte e dello Stato, ma come fatto elitario e assai circoscritto («scribi», 1 Cr 27,32). La scuola (la prima volta è nominata in Sir 51,23) prende estensione nel periodo del giudaismo (538 a.C.-70 d.C.), quando per la presenza del dominio straniero urge il bisogno assoluto di fare memoria delle tradizioni religiose e civili onde assicurare la stessa identità del popolo. c) Contenuti e metodo. I contenuti sono attinti dalle tradizioni e dalla sapienza degli antenati, come pure dall’esperienza del quotidiano (Ger 35; Sal 78,1-8; Gb 15,17-19; Prv 1-9), sono sempre finalizzati alla religione (Legge) che diventa così matrice culturale e veicolo di nazionalità. Insigne è la cura didattica, dove prevale lo stile orale, mnemonico, ricco di stimoli, come appare dalla qualità letteraria della B. È lecito pensare che alla scuola siano da collegare alcuni libri biblici o sue parti: la storia di Giuseppe (Gn 37-50), Tobia, Ester, Siracide, Sapienza. L’educazione, sia quella paterna, sia quella data dai saggi, è sempre concepita come una severa disciplina che implica abbondantemente la correzione e il castigo («chi risparmia il bastone, odia suo figlio», Prv 13,24; 3,11-12; Eb 12,4-11). Sarà l’evoluzione della rivelazione, con l’affermazione del primato della carità secondo Gesù Cristo, ad addolcire il metodo (Ef 6,1-4) e naturalmente a dare all’educazione (paideia nel NT) una connotazione tipica dell’umanesimo cristiano. 1.2. L’idea di educazione. È necessario riconoscere che nella B., in quanto documento teologico, sta al primo posto, non l’educazione di una persona, ma la sua salvezza religiosa, grazie alla partecipazione all’alleanza e all’osservanza della legge di Dio. È lungo tale percorso che sono investite tutte le realtà naturali e dunque anche l’ambito educativo (educatore, educando, educazione) che ne viene intimamente trasformato. Il segno linguistico più espressivo appare dal fatto che Dio stesso si presenta come educatore. Ma qui conviene mettere in rilievo alcuni tratti di questa concezione credente di educazione. a) Nell’Antico Testamento, notiamo come l’educazione sia intesa in funzione della celebrazione della fede nel rito della Pasqua, tramite le catechesi eziologiche o domestiche (Es 12,24-27; 13,8-9; Dt 6,20-25; Gs

4,6-7.21-22). Il ricordo dell’esodo, che tali insegnamenti richiamano, intende guidare il popolo facendogli prendere coscienza della portata sempre attuale di quello che Dio ha compiuto una volta per tutte al tempo di quella grande e decisiva liberazione ed alleanza. A questa funzione educativa che è propria della rivelazione storico-profetica (Os 11,1), se ne accompagna un’altra concezione, complementare eppur innovativa, propria della riflessione sapienziale. Dalle testimonianze della parte antica di Prv (10-29) si ricava che per i saggi scopo dell’educazione è il conseguimento della sapienza (Prv l,2s), cioè dell’abilità, affinata dall’esperienza, di risolvere concretamente i problemi posti dalle diverse situazioni di vita. Non dunque soltanto da una rivelazione dall’alto, ma piuttosto dall’interno delle realtà create da Dio, emerge un tracciato educativo da valorizzare. L’importante è essere guidati dal «timore di Dio, inizio della sapienza» (Prv 1,7), anzi «scuola della sapienza» (Prv 15,33). Da una parte la creazione con i suoi ordinamenti naturali, dunque anche la ragione, la ricerca, il sapere hanno valenza educativa e dall’altra parte queste acquisizioni non hanno valore assoluto, sottostanno al rispetto profondo del mistero trascendente di Dio (è il senso di «timore di Dio»). Si può parlare di un «umanesimo educativo in Israele» (G. von Rad), di «umanesimo devoto» (B. di Gerusalemme). Tale e tanta è la fiducia in Dio, da accogliere con valore teologico le espressioni secolari proprie dell’umana ricerca anche in ambito educativo. Si accennava sopra al concetto di pedagogia di Dio. Vi è al proposito una concezione che – al seguito dei Padri della Chiesa (Ireneo, → Clemente Alessandrino, Origene...) – intende tutta l’opera di Dio nella storia come «pedagogia». Ma questa è una concezione talmente lata da diventare generica ed ambigua (così in G. E. Lessing). Stando ai testi dove a Dio sono associati i termini musar e paideia (40 volte nell’AT e 11 nel NT) si vede piuttosto che la «pedagogia di Dio» è una costruzione teologica al fine soprattutto di motivare, spiegandole, le sofferenze e i castighi del popolo di Dio. Non per nulla il motivo appare in testi storico-profetici, in Geremia in particolare, e chiaramente, nel NT in Eb 12,5-6. Pedagogia di Dio sono i «castighi» che purificano e correggono i costumi del popolo. b) Nel Nuovo Testamen143

BIBBIA

to, il credo religioso ha il suo centro assoluto nella persona ed opera di Gesù Cristo. Si affacciano così altri aspetti teologici che investono l’ambito educativo in misura di grande efficacia nella successiva tradizione cristiana. Ne nominiamo tre: – La rivalutazione del bambino. È noto come nel mondo antico, non solo ebraico, il minore avesse scarso rilievo. Si può dire che egli valesse per il suo futuro di adulto. Di conseguenza assieme alla naturale tenerezza si associa un rigore quasi crudele (2 Re 2,23s; Prv 13,24; 22,15). Nel farsi della Rivelazione un fattore importante di cambio si afferma quando il minore, il più giovane, diventa oggetto della elezione divina per una missione speciale nel popolo. Pensiamo a Samuele (1 Sam 1-3), a Davide (1 Sam 16). Ma soprattutto a Gesù, che accogliendo e difendendo i bambini e facendoli modello per l’entrata nel Regno di Dio (Mc 9,33-37; 10,13-16), è colui che esalta non la psicologia dei piccoli o qualche loro disposizione interiore particolare, ma la tenerezza di Dio a loro riguardo. Ne dovrà essere segnata qualsiasi azione nei loro confronti, in primis l’educazione. – Gesù appare come didaskalos, maestro. Da Clemente Alessandrino fino ad oggi, Gesù «maestro» (41 volte nei vangeli) è stato compreso in senso educativo. Di fatto, come ha dimostrato R. Riesner, egli ha praticato ampiamente lo stile di rabbi del suo tempo, dove era notevole l’impianto pedagogicodidattico. Ma è anche vero che egli assai più che un maestro, è nativamente profeta carismatico, la cui autorità di docenza (Mc 1,22) è totalmente legata all’avvenimento del Regno, e dunque va compresa in chiave soteriologica, soprannaturale. Sicché è inutile, oltreché impossibile, ricavare una sorta di metodologia pedagogica rivelata, una didattica sacra. È stato infatti notato che in tale caso Cristo sarebbe stato un maestro piuttosto fallito, se badiamo alla conclusione della sua vita terrena. – La paideia del Signore. Ma il testo più autorevole a riguardo dell’educazione appare in Ef 6,1-4. Rientra in una «tavola domestica», ossia in un codice etico che riguarda i rapporti familiari: tra sposi, tra padrone e schiavi e – nel caso nostro – tra genitori e figli. Vi si legge un rapporto di reciprocità: «Figli, obbedite ai vostri genitori», «e voi padri non inasprite i vostri figli». Cui si ag144

giungono le parole conclusive: «ma allevateli nell’educazione (paideia) e nella disciplina del Signore (tou Kyriou)». Colpiscono due aspetti: 1) l’estrema laconicità di direttive, quando anche per i primi cristiani si imponeva la rilettura del fatto educativo in chiave cristiana di fronte ad un attrezzatissimo e seducente mondo pagano; 2) la connessione tra due densissime parole, paideia che nel mondo greco del tempo, significa l’educazione compiuta come contenuto e come metodo, e Kyrios, Signore, che nel linguaggio paolino indica il Cristo risorto dai morti nel massimo della sua potenza ed attualità salvifica. Connettendo i due aspetti, si viene ad affermare che laddove (nelle famiglie cristiane) il Kyrios è accolto nella fede che si fa carità, allora la paideia si può realizzare, avvalendosi di quelle risorse che l’umana ricerca ed esperienza possono via via indicare. Questo pensiero, che è coerente con l’universo mentale paolino (Fil 4,8), indica germinalmente un fondamentale approdo della visione cristiana di educazione: il riferimento al Kyrios vale come ispirazione, animazione, verifica del compito educativo, ma non come concreta soluzione, che è da inventare volta per volta; né per sé esprime antitesi allo sforzo umano di educazione, ma anzi franca attenzione, pur trattandosi di ordinamenti naturali imperfetti e bisognosi di redenzione. 2. La valorizzazione della B. nell’educazione. È eminentemente di ordine religioso-cristiano, ma non manca un interesse culturale per la storia degli effetti che il libro ha prodotto lungo i secoli. a) In relazione all’educazione della fede, la B. si propone come documento della religione cristiana, necessaria memoria storica nel processo della fede, suo linguaggio normativo, esperienza della «Parola di Dio». A livello strettamente culturale, la B. aiuta a decifrare e riconoscere tanta parte del mondo di valori umani e dell’immaginario collettivo che sorreggono fino ad oggi la cultura occidentale. Studiosi di letteratura, di storia ed ermeneutica delle culture e di psicologia sociale e del profondo stanno esplorando progressivamente la vasta sedimentazione della tradizione biblica. b) Fra le tante vie dell’incontro con la B., ricordiamo la catechesi biblica, segnatamente la pratica della storia sacra, l’insegnamento religioso nella scuola, le scuole della Parola con

BIBLIOGRAFIA PEDAGOGICA

l’esercizio della Lectio Divina (→ Gruppi di ascolto). Oggi inizia ad affermarsi il grande cambio apportato dal Vaticano II: l’incontro personale con la B. in se stessa (Dei Verbum 22) da parte, idealmente, di ogni cristiano e della comunità dei semplici fedeli. c) La didattica della B., in quanto testo letterario fatto oggetto di studio, ha la sua legittimità e specificità. Importa incontrare un testo, lasciarsi interrogare da esso, lavorare sul testo, reagire ad esso. Di fronte al rischio del → fondamentalismo viene rivendicata la necessità del metodo storico critico, cui si possono accompagnare, in modo integrativo, non sostitutivo, metodi di tipo sincronico (come lo strutturalismo). Oggi si insiste sul bisogno di una assimilazione vitale del Libro Sacro. Ciò avviene mediante una corretta correlazione tra B. ed esperienza, o, come afferma C. Mesters, importa «saper leggere la B. con la vita e la vita con la B.». Bibl.: Jentsch W., Urchristliches Erziehungsdenken. Die Paideia Kyriou im Rahmen der hellenistisch-jüdischen Umwelt, Gütersloh, C. Bertelsmann Verlag, 1951; Marrou I. H., Storia dell’educazione nell’antichità, Roma, Studium, 1966; Bissoli C., B. e educazione. Contributo storico-critico ad una teologia dell’educazione, Roma, LAS, 1981; Lemaire A., Le scuole e la formazione della B. nell’Israele antico, Brescia, Paideia, 1981; Frye N., Il grande codice. La B. come letteratura, Torino, Einaudi, 1986; Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della B. nella Chiesa, Roma, LEV, 1993; Prellezo J. M., «Educazione e scuola nell’antico Oriente», in J. M. Prellezo - R. Lanfranchi, Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. I, Dall’educazione antica alle soglie dell’Umanesimo, Torino, SEI, 2004, 7-35; Theissen G., Motivare alla B. Per una didattica aperta della B., Brescia, Paideia, 2005; Bissoli C., «Va e annuncia» (Mc 5,19). Manuale di catechesi biblica, Leumann (TO), Elle Di Ci , 2006.

C. Bissoli

BIBLIOGRAFIA PEDAGOGICA Informa sui problemi educativi avvalendosi dei fondamentali scritti pedagogici. Si tratta di un concetto in fase di revisione, dato che il supporto materiale su cui è basato il pensie-

ro educativo non si limita più esclusivamente alla carta stampata (libro, documento, fogli sciolti), ma può riferirsi anche ad ogni tipo di supporto magnetico o elettronico (microfilm, libri elettronici, videogrammi o registrazioni sonore). 1. Senza la conoscenza e l’aggiornamento della b., l’educazione potrebbe diventare un lavoro puramente empirico e abitudinario e la scienza pedagogica potrebbe risentire di notevoli ristagni. Essa richiede: rapidità di accesso, aggiornamento e riuscita, in modo che si possa organizzare in maniera economica. È sempre più complicato operare una cernita precisa dato l’alto numero di pubblicazioni sia teoriche che pratiche. È certo tuttavia che oggi la tecnologia è venuta in aiuto dello studioso mediante i mezzi elettronici che facilitano la ricerca e la selezione bibliografica. Lo scopo ultimo della b.p. è triplice: individuare il procedimento e le soluzioni offerte, individuare e applicare o meno il tipo di possibile utilizzazione delle soluzioni date in modo che esse aiutino a definire e a chiarire il problema attuale, a progettare il futuro ed infine approfondire lo studio e la ricerca dei problemi educativi passati e presenti. La b.p. si può suddividere in tanti settori corrispondenti ai contenuti della pedagogia generale oltre a quelli che costituiscono il campo definito → «Scienze dell’educazione» e che non sono propriamente pedagogici (storia, sociologia, biologia, ecc. dell’educazione). 2. I principali Paesi pubblicano annualmente o ogni pochi anni tutta la propria produzione letteraria: la fonte di queste pubblicazioni è l’ISBN (International Standard Book Number). Le più importanti basi di dati sono attualmente EURYDICE, EUDISED, ERIC e FRANCIS-S. L’Unesco e l’Unione Europea ne hanno editato molte. Ogni nazione è solita avere alcune banche-dati di libri, riviste, leggi, biblioteche, ecc. di educazione. Tutte le reti nazionali possono accedere alla rete mondiale INTERNET (rete di reti o «autopiste di informazione») per l’accesso alla b.p. Bibl.: Juif P. - F. Davero, Manuel bibliographique des sciences de l’éducation, Paris, PUF, 1968; BIE, Bibliographie pédagogique annuelle, Genève, Bureau International d’Éducation, 1955-1969; Bibliographie Pädagogik/Educational biblio-

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BIBLIOTECA

graphy, Berlin, Verlag für Wissenschaft und Bildung, 1966-1992; Proyecto B.I.B.E. - Project International Bulletin on Bibliography on Education, Madrid, Coculsa, 1981-1996.

V. Faubell

BIBLIOTECA Il nome che si usa in it. e in alcune altre lingue per indicare la b. si rifà etimologicamente al gr. ed è composto da due elementi: biblíon (libro) e théke (custodia). In ingl. invece il nome proviene dai vocaboli latini liber e librarius: la b. si chiama Library e il bibliotecario Librarian. Le b. sono oggi in una fase emergente, sia come reazione alla scossa dello sviluppo informatico, sia soprattutto per l’impegno dei bibliotecari e, particolarmente in Italia, per l’incentivo dell’Associazione Italiana B. 1. Dall’origine delle b. all’era digitale. Nell’immaginario comune la b. è associata ai libri. Per b. s’intende di solito lo spazio o l’edificio dove i libri sono raccolti e ordinati sistematicamente. Tuttavia, propriamente parlando, più che con lo spazio fisico la b. s’identifica con la raccolta dei libri o con diverse raccolte di libri unite insieme (bibliografia: dalla stessa parola greca biblíon + graphé, scrittura). 1.1. All’origine della b. – circa 4.000 anni fa – le informazioni importanti erano scolpite su pietra, legno o metallo specialmente nei palazzi dei sovrani o in luoghi pubblici. Una abbondante documentazione scritta su tavolette di creta è stata trovata negli scavi di varie città antiche della regione mesopotamica e della Siria. In Egitto i testi si scrivevano su fogli di papiro e altrove su membrane di pelle o pergamene (dalla città di Pergamo, situata nell’attuale Turchia). Le pergamene cucite insieme costituirono i rotoli che contenevano di seguito testi anche lunghi, mentre ritagli di papiro o pezzi di pergamena, piegati in due e cuciti a mano tra di loro, costituirono i volumi a forma di libro, come si usa ancora ai nostri giorni con la carta, stampata e rilegata meccanicamente. Si deve inoltre notare che nelle b. ci sono sempre stati i supporti non cartacei (iscrizioni e pitture murarie, bassorilievi e statue, monete e medaglie, mappe e 146

strumenti vari) dai quali gli studiosi ricavano informazioni utili per le loro ricerche. È quanto avviene nelle b. storiche, per es. nella B. Apostolica Vaticana e in altre del genere, dove sono tutelate molte testimonianze raccolte lungo i secoli. 1.2. La distinzione tra b. e  archivio è stata introdotta in tempi recenti, separando alcuni documenti per garantirne meglio la loro custodia e la conservazione, soprattutto quando si tratta di originali autografi, copie uniche e pregiate. Analogamente altri documenti e soprattutto oggetti sono stati radunati nei  musei, che già nell’antichità affiancavano le b. più famose e solo da due o tre secoli hanno acquistato appunto una destinazione storica, scientifica, didattica o di  educazione artistica. Infine, da una sessantina di anni esistono i centri di documentazione, specializzati in particolari settori di studio e di ricerca, distinti dalle b. e continuamente aggiornati. 1.3. Nel XX sec. si sono sviluppate varie tecniche di riproduzione e di produzione di documenti. Oltre ai classici documenti scritti le b. hanno cominciato ad ospitare fotografie, microfilm, cassette, LP, nastri magnetofonici, CD, CDRom, DVD, ecc. Tuttavia da poco più di una decina di anni Internet consente di consultare e scaricare i testi dalla rete informatica. In tal modo il progresso tecnologico ha aperto prospettive talmente nuove da rendere possibile le cosiddette b. «senza pareti» o b. «virtuali». Fino agli ultimi anni del XX sec. ci si doveva recare nelle b. per consultare i libri oppure i volumi dovevano essere presi in prestito, quando il regolamento delle b. lo permetteva, mentre oggi si può comunque accedere direttamente ai documenti, quando essi sono digitalizzati e disponibili on line. 2. La b. e l’educazione tra isolamento e «villaggio globale». Superato lo stadio più antico della tradizionale trasmissione orale, è stata la b. il luogo dove si è andato raccogliendo, conservando e tramandando il patrimonio culturale dell’umanità. La diligente produzione dei copisti – dall’antichità grecoromana al periodo medievale – e l’inarrestabile espansione della stampa – da Gutenberg ai nostri giorni – confluirono nelle b. degli studiosi e dei mecenati, dei monasteri e delle università. Solo più tardi le b. hanno assunto la funzione di promozione sociale. 2.1. Le trasformazioni delle b. nel tempo e

BIBLIOTECA

nei diversi luoghi – in contesti geografici, etnici, sociali e linguistici differenti – rispecchiano la storia della  cultura. Non deve sorprendere perciò che da sempre la b. sia stata un punto di riferimento fondamentale per l’ → educazione e per la → formazione delle persone e per le scienze, alla radice delle applicazioni professionali e tecniche. La cultura può essere intesa in senso ampio come l’insieme dei tratti che caratterizzano i diversi popoli, il loro modo di vivere e di essere e non solo come conoscenza acquisita. Nella percezione più diffusa e – bisogna riconoscerlo – nella storia stessa delle b., esse sono state «tabernacolo della cultura ‘colta’» piuttosto che dimostrarsi «crogiolo di cultura ‘allargata’», cioè sensibili alla «cultura della vita quotidiana» e aperte alla «cultura ‘popolare’». 2.2. Il panorama delle b. è molto variegato e propone un ventaglio di tipologie secondo l’organizzazione e la struttura delle b., le risorse documentarie possedute dalle b. e la diversità degli utenti che frequentano le b.: dalle grandi b. alle più piccole, dalle b. pubbliche alle b. private, dalle b. nazionali o centrali alle b. regionali, provinciali, comunali e di quartiere, dalle b. specializzate alle b. di semplice lettura, dalle b. universitarie alle b. scolastiche, dalle b. popolari alle b. ambulanti, ecc. Di fronte ad una tale varietà è evidente che tra le b. debba esistere complementarità piuttosto che concorrenza. Ognuno deve scegliere con cura quella b. che può rispondere meglio alle proprie esigenze. In India un famoso bibliotecario e studioso, Shiyali Ramamrita Ranganathan, aveva formulato già nel 1931 con parole molto semplici le seguenti regole: «1) I libri esistono per essere usati; 2) a ogni libro il suo lettore; 3) a ogni lettore il suo libro; 4) risparmia il tempo del lettore; 5) la b. è un organismo che cresce». Anticipava, in tal modo, un orientamento che è attualmente un dato acquisito. 2.3. Se nel passato il bibliotecario doveva occuparsi soprattutto della conservazione del patrimonio documentario della b., oggi egli è chiamato a portare l’attenzione sul servizio agli utenti. Non si tratta di trascurare le risorse che la b. possiede, bensì di valorizzarle al massimo rendendole fruibili nel migliore dei modi. L’espansione dell’ informazione e la produzione editoriale hanno raggiunto ingenti dimensioni e un ritmo travolgente

mentre la rete informatica ha aperto orizzonti inimmaginabili. Internet è divenuta una risorsa straordinaria, ma anche una galassia. La potenza di Internet è di mettere a disposizione tutto ciò che viene caricato e, allo stesso tempo, il rischio di Internet è di essere travolti da un fiume in piena di informazioni non organizzate. 2.4. È fondamentale non perdere di vista in prospettiva educativa che il compito delle b., come la missione delle scuole e dei maestri, non è solamente quello di trasmettere nozioni. La ricerca degli utenti nelle b., lo studio degli studenti che frequentano l’università e l’apprendimento degli allievi nelle scuole di ogni grado non si possono ridurre ad un processo di accumulo di informazioni. L’educazione e la formazione sono un esercizio di crescita, di integrazione e di maturazione che coinvolgono il soggetto stesso in un continuo «ricevere e dare» e in un’attività di autentica e profonda  comunicazione. 3. In sintesi. Le considerazioni fatte si possono riassumere nei seguenti enunciati, apparentemente paradossali: a) La b. è una realtà aperta che organizza e gerarchizza il sapere. Non ci si «rifugia» in b. per «chiudersi dentro», ma per «aprire una finestra sul mondo», per «aprirsi agli altri». b) Senza rinunciare alla funzione bibliotecaria originale molte b. stanno attualmente cercando modalità e strategie nuove per diventare esse stesse «spazi socioculturali» che offrono occasioni di condivisione e promuovono iniziative di aiuto scolastico e di dialogo su problemi concreti. c) Più che nel passato, le b. possono costituire «luoghi di socializzazione» e «spazi di confronto». Da soli, in camera di fronte al monitor, si ha l’impressione di «dialogare con il mondo», rischiando invece di «isolarsi narcisisticamente». d) Oggi le b., come le scuole e le università, si trovano di fronte ad una difficile scommessa: aiutare i propri utenti a passare dal «taglia e incolla» al pensiero critico, dalla «smania dell’informazione facile» all’apprendimento e alla conoscenza creativa. Bibl.: Associazione Italiana B.: http://www. aib.it; Solimine G., La b. Scenari, culture, pratiche di servizio, Roma/Bari, Laterza, 2004; Gamba A. M. - M. L. Trapletti (Edd.), La b. su misura. Verso la personalizzazione del servizio,

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BILINGUISMO

Milano, Bibliografica, 2007; Tamaro A. M. - A. Saltarelli, La b. digitale, Milano, Bibliografica, 2007; Guerrini M. el al., Biblioteconomia. Guida classificata, Ibid., 2007.

J. Picca

BIE - BUREAU INTERNATIONAL D’ÉDUCATION → Organizzazioni internazionali

BILINGUISMO Le definizioni del b. tendono ad accentuare o gli aspetti soggettivi (psicologici) o gli aspetti oggettivi (linguistici) di tale fenomeno. Parlando di aspetti evolutivi propri del bambino, l’accento sarà qui posto sulle caratteristiche psicologiche (struttura di personalità, cognitività e comportamento) del b. infantile. 1. Concetto generale di b. «Il b. consiste nella capacità da parte di un individuo di esprimersi in una seconda lingua aderendo fedelmente ai concetti e alle strutture che a tale lingua sono propri, anziché parafrasando la lingua nativa. La persona bilingue possiede la capacità di esprimersi in qualsiasi di due lingue senza vera difficoltà, quando gliene si presenti l’occasione. Il vero b., pertanto, nel senso stretto di “equilinguismo” o “ambilinguismo”, abbastanza comune fra i bambini allevati nell’uso simultaneo di due lingue, implica la presenza nel medesimo sistema neuropsichico di due paralleli ma del tutto distinti schemi di comportamento verbale» (Titone, 1972, 13). Tuttavia, il concetto di b. non è rigidamente univoco e assoluto. Esso può variare notevolmente secondo il numero delle lingue usate, il tipo di lingue, l’influsso di una lingua sull’altra, il grado di perfezione nel dominio delle due lingue, le oscillazioni nell’uso nel corso dell’esistenza del medesimo individuo tra una lingua e l’altra, la funzione sociale di ciascuna lingua. Il b., in altre parole, è una funzione del comportamento individuale, e pertanto è destinato a variare da individuo a individuo e da situazione a situazione. 2. Forme di b. infantile. La letteratura sul b. infantile è crescente in quantità e qualità scientifica per quanto riguarda soprattutto il periodo prescolare, ma ancora ridotta riguar148

do al periodo della prima infanzia, legata alla situazione familiare. In gran parte si tratta ancora di studi aneddotici, costituiti da osservazioni più o meno precise, spesso sostenute da interpretazioni teoricamente deboli, e condotte su pochi bambini per periodi di tempo generalmente brevi, in aree culturali e su classi sociali piuttosto limitate. I casi certamente più numerosi che nel passato di bambini bilingui, dovuti ai più frequenti e larghi contatti di intere famiglie con gruppi di lingua diversa dalla propria, la sentita necessità e l’accresciuto prestigio dello studio delle lingue moderne, la diffusa convinzione che una seconda lingua possa essere meglio appresa, almeno nei suoi fondamenti, durante l’infanzia, ed altre ragioni variabili da luogo a luogo secondo le condizioni sociali dei soggetti interessati, hanno dato un nuovo e potente impulso, specie dopo l’ultima guerra, agli studi sul b. infantile. Studi, che hanno in parte una motivazione scientificopsicologica, in parte una motivazione pedagogica. Dicendo «b. precoce» si intendono varie forme di competenza linguistica: anzitutto, l’apprendimento bilingue o plurilingue può aver luogo fin dalla nascita, per cui le due lingue vengono assimilate simultaneamente («b. simultaneo») nella struttura della personalità e del comportamento; esse funzionano come canali alternativi nella comunicazione, ma soprattutto si inseriscono su una distinta struttura cognitiva e affettiva, specifica, almeno in parte, per ciascuna lingua; in secondo luogo, si può avere un b. precoce, rappresentato dall’assimilazione della seconda lingua, non simultaneamente alla prima, ma tuttavia in un periodo assai precoce (non dopo i 4 o 5 anni) («b. precoce consecutivo»); in terzo luogo, l’incorporazione della seconda lingua può avvenire tra i 6 e i 10 anni in virtù di una immersione efficace in un ambiente eteroglotta o in virtù di una intensa educazione scolastica fortemente bilingue («b. precoce educativo»). 3. Problemi e ricerche sullo sviluppo bilingue precoce. I settori problematici oggi sottoposti a intense ricerche sono numerosi e tutti di somma importanza e rilevanza nei riguardi delle deduzioni psicopedagogiche. Si possono tuttavia considerare come degni di maggior considerazione i seguenti quattro settori: a) i presupposti neurologici e b) i pre-

BILINGUISMO

supposti psicologici dello sviluppo bilingue, e) la questione dell’età ottimale, legata a tali presupposti, infine d) le caratteristiche dello sviluppo cognitivo e affettivo del bambino bilingue. 3.1. Aspetti neurologici. Essi, in questo contesto, sembrano ridursi ai seguenti: a) la plasticità neurofisiologica: ossia, esiste un particolare stato di plasticità neurofisiologica, circoscritta entro un dato arco dello sviluppo biologico individuale, che favorisce l’apprendimento e lo sviluppo linguistico e oltre il quale tale processo diviene particolarmente difficile?; b) la predisposizione ereditaria: esiste una particolare predisposizione ereditaria all’acquisizione di una lingua (quella della razza a cui l’individuo appartiene), per cui non ci sia posto per l’apprendimento di un’altra lingua, almeno in grado soddisfacente? I biologi (o biolinguisti), che si sono interessati del problema dell’ontogenesi linguistica, hanno accentrato la loro discussione e i loro studi su questi due problemi: quello della plasticità cerebrale e quello del determinismo ereditario. Tuttavia, il secondo problema è oggi praticamente superato, e si è ridotto a una «questione elegante», senza serie incidenze sulle applicazioni pratiche. La onnipotenzialità linguistica del neonato è corroborata dalle osservazioni di molti studiosi. 3.2. Aspetti psicologici. Molto spesso la richiesta di un inizio precoce dell’insegnamento bilingue viene basata su considerazioni di ordine psicologico. Per quanto le ragioni psicologiche non abbiano debellato ogni dubbio al riguardo, resta tuttavia vero che esse sono dotate di sufficiente persuasività e presentano un valore non trascurabile. L’assunzione iniziale di tutta l’argomentazione risiede nella concezione organismico-olistica che vede l’apprendimento come un processo di tutto l’organismo infantile in sviluppo, immerso nella totalità della situazione come contesto interazionale. Codesta visione integralistica deve impedirci di concepire l’acquisizione di una lingua, prima e/o seconda, nel fanciullo in funzione di alcuni fattori psicologici, invece che in funzione della sua personalità totale interagente con l’ambiente totale. I fattori principali, che sottostanno all’apprendimento linguistico, vanno visti quindi integrati nella struttura totale della personalità. Tali fattori fondamentali appaiono essere la → motivazione, la → percezione e l’esercizio.

3.3. La «vexata quaestio» dell’età ottimale di inizio. Esiste un «periodo critico» o una «età ottimale» durante cui l’apprendimento di una seconda lingua è massimamente facilitato, con la conseguente preclusione di altre età? E questa età coincide con il periodo della prima infanzia e della fanciullezza (fino ai 10 anni)? Gli studi empirici di Ekstrand dimostrerebbero che sia la comprensione che la pronuncia di una lingua straniera – elementi di solito connessi con l’età precoce quanto a efficacia di assimilazione – aumentano di perfezione con l’età. Il campione da lui esaminato nel 1985, costituito da circa 1000 alunni di 40 classi dalla I alla IV elementare in Svezia, sottoposto a prove diverse e a prove alternative per ciascuna capacità, ha dato risultati costantemente nella direzione della ipotesi evolutivistica. Più precisamente, tale ipotesi si basa sul fatto che vi sembrano essere periodi di più efficace apprendimento intermezzati da plateau, ad es. attorno all’età di 6-7 anni e forse attorno all’epoca della pubertà, cioè attorno ai periodi di transizione da uno stadio evolutivo all’altro. In conclusione, quindi, un inizio precoce è sempre raccomandabile, anche se la ragione fondante non è quella della precoce plasticità neurologica. A questo motivo si aggiungono altri argomenti, che concernono lo sviluppo cognitivo, sociale e affettivo dei bambini bilingui. 3.4. Sviluppo cognitivo e affettivo del bambino bilingue. Al contrario delle ricerche anteriori agli anni ‘50, che tendevano a mettere in risalto eventuali anormalità e deficit nello sviluppo del bambino bilingue (riferendosi spesso e indiscriminatamente a bambini appartenenti a classi sociali inferiori di immigrati, falsamente bilingui, e sulla base di prove o test di intelligenza verbale calibrati su bambini di classi medie o superiori), le ricerche più recenti, condotte soprattutto in ambienti bilingui, come i territori del Canada o dell’Europa Orientale, insistono sempre più fondatamente sui vantaggi evolutivi del bambino bilingue a confronto con quello monolingue. Vale la pena di riassumere alcuni dati pertinenti almeno a due categorie dello sviluppo infantile: la → personalità e 1’ → intelligenza: a) effetti del b. sullo sviluppo della personalità. Una ricerca di R. Titone e collaboratori (1976, 1978, 1984) condotta per sei anni su bambini bilingui dalla nasci149

BINET ALFRED

ta, cresciuti in famiglie in cui due lingue (it. vs ingl./fr./ted.) venivano usate regolarmente, ha indicato che il bambino veramente bilingue, inserito in un ambiente familiare ben armonizzato, non presenta alcun disturbo della personalità. I fatti tendono piuttosto a mettere in evidenza le possibilità che il bilingue possiede di apertura mentale e affettiva, sul piano sociale culturale letterario politico, ecc., che tendono a sviluppare in lui una personalità più ricca, più equilibrata e integrata, a patto che vengano promossi atteggiamenti positivi verso qualsiasi lingua e cultura, b) b. e sviluppo dell’intelligenza. Il problema degli effetti del b. precoce sulla maturazione intellettiva cominciò a porsi seriamente verso il 1920. Oltre un centinaio di ricerche furono condotte tra il 1920 e il 1930. Ma l’uso indiscriminato dei test verbali, i pregiudizi latenti nello stesso impianto delle indagini, la non considerazione dei fattori sociali, l’implicazione di contenuti culturali estranei ai bambini meno privilegiati, ecc. finirono con l’indicare a torto l’esistenza di un handicap linguistico e cognitivo nei bambini considerati bilingui, ma di fatto appartenenti a una diversa cultura monolingue e socialmente svantaggiata. Le prime indagini, condotte con severo metodo scientifico, che hanno messo in evidenza una situazione opposta e favorevole ai bambini bilingui, si ricollegano al gruppo di Lambert, della McGill University di Montreal (1962, 1970). Una ricerca del 1961 condotta a Montreal rilevò risultati altamente significativi nei test verbali e nonverbali di intelligenza, e nelle scale di atteggiamento sociale. L’intelligenza dei bilingui, a pari condizioni con i monolingui, appariva più flessibile, meglio articolata, più capace di analisi. Tali risultati sono stati ripetutamente confermati in successive indagini. 4. L’ideale del b. infantile. Da quanto detto, va ritenuto che il b., lungi dall’essere riducibile a un puro fatto comportamentale, cioè al possesso eguale e immediato di due strumenti o codici linguistici, si presenta invece, in profondità, come uno stato acquisito della personalità individuale. E siccome la personalità non è una astrazione metafisica, ma una realtà esistenziale, un essere individuato, concreto, esistenzialmente situato in un hic et nunc, un essere insomma che affonda le sue radici in un preciso contesto spazio150

temporale, il b., come qualsiasi altro sistema di comportamento, è il risultato di una intima interazione fra parlanti in precise situazioni di comunicazione. Il b., dunque, rappresenta una peculiare strutturazione della personalità singola sotto l’aspetto funzionale della comunicazione. Bibl.: Lambert W. E. - E. Peal, The relation of bilingualism to intelligence. Psychological monographs, 1962; M acnamara J., Bilingualism and primary education: a study of Irish experience, Edinburgh, University Press, 1966; Titone R., B. precoce e educazione bilingue, Roma, Armando, 1972/1993; Albert M. L. - L. K. Obler, The bilingual brain, New York, Academic Press, 1978; Ekstrand L. H., English without a book: towards an integration of the optional age and the developmental hypotheses?, in «Rassegna Italiana di Linguistica Applicata» (1980); Tito ne R., «L’insegnamento delle lingue straniere ai bambini: orientamenti e ricerche», in Le lingue straniere nella scuola elementare, Brescia, La Scuola, 1980, 79-112; Baker C., Foundations of bilingual education and bilingualism, Clevedon (UK), Multilingual Matters Ltd., 42006.

R. Titone

BINET Alfred n. a Nice nel 1857 - m. a Samois (Fontainebleau) nel 1911, psicologo francese. Direttore del laboratorio di psicologia fisiologica alla Sorbona (1894). Fondatore e direttore della rivista Année psychologique (1894). Ideatore, con Th. Simon, della scala metrica dell’intelligenza (1905). Nel 1899 diede vita alla Société libre pour l’étude psychologique de l’enfant. 1. B. portò validi contributi in psicologia clinica ed in quella comparativa; effettuò numerose ricerche in psicologia sperimentale occupandosi, in contrasto con → Wundt, dei processi psichici superiori e anticipando metodologie e risultati della Scuola di Wiirzburg. Il passaggio verso questa prospettiva è documentato dal superamento della visione associazionistica (La psychologie du raisonnement) per approdare all’Étude expérimentale de l’intelligence. Nella psicologia diffe-

BINET ALFRED

renziale, di cui fu l’ideatore, sottolineò come le differenze individuali siano più spiccate nei processi superiori che in quelli elementari. Rivoluzionando il concetto di sperimentazione, B. modificò la funzione sia del soggetto che dello sperimentatore e ruppe, pertanto, l’abitudine acquisita di effettuare degli esperimenti psicologici nel chiuso del → laboratorio, sostenendo la necessità di avvalersi anche di soggetti presi da diversi ambienti fra cui la scuola. 2. Nella → pedagogia sperimentale B. si fonda sulla psicologia sperimentale, sulla misura del profitto degli allievi, su una raccolta sistematica dei documenti, sulla valutazione dei metodi d’insegnamento e sul valore degli insegnanti, sulla necessità d’introdurre in pedagogia un controllo, sulla partecipazione di esperti scolastici. Pur mancando in B. un impianto organico di sperimentalismo educativo (Les idées modernes sur les enfants), tuttavia le sue ricerche psicopedagogiche e psicodidattiche costituiscono dei punti fermi per la messa a punto di preziosi strumenti per la sperimentazione educativa. 3. La peculiarità di B. è la singolarità dei suoi percorsi scientifici e, contemporaneamente, il suo non allinearsi ai modelli preesistenti per rintracciare la specificità della psicologia stretta da un lato dalla filosofia e dall’altro dalla fisiologia senza rimanere prigioniero della psicometria e dalla nascente psicologia dell’educazione, allora in piena effervescenza, ma ancora priva di una sua identità. Bibl.: Bertrand F. L., A. B. et son oeuvre, Paris, Alcan, 1930; Zuza F., A. B. et la pédagogie expérimentale, Louvain, Nauwelaerts, 1948; Wolf Th. H., A. B., Chicago/London, The University of Chicago Press, 1973; Zazzo R., A.B. (1857-1911), in «Perspectives: revue trimestrielle d’éducation comparée» 23 (1993) 101-112. Tra le più importanti ediz. delle opere di B.: quelle fatte sotto la direzione di Bernard Andrieu (Éditions Euridit).

C. Trombetta

BIOETICA Nell’ambito dell’ → educazione morale, un rilievo particolare dovrà assumere oggi,

nel contesto di una società ispirata per tanti aspetti a una «cultura di morte», l’educazione al senso della vita, alla sua valorizzazione e promozione. 1. L’educazione fa vedere nella vita un dono infinitamente prezioso ma responsabilizzante, da promuovere, coltivare, riempire di valori e portare a compimento, più che un settore particolare dell’educazione morale è un trascendentale di tutta l’azione educativa. L’educazione morale è in tutta la sua estensione educazione al valore e alle responsabilità della vita. Essa potrà trovare in questo suo compito una guida competente in quella forma di sapere che va oggi sotto il nome di b. Per b. si intende anzitutto quella parte dell’ → etica che si occupa dei problemi suscitati dalla ingegneria genetica, ma senza escludere tutti gli altri problemi morali che riguardano la vita fisica dell’uomo. 2. Si tratta di un settore dell’etica in cui appare con più chiarezza la differenza irriducibile che distingue la correttezza tecnica da quella morale. La lunga abitudine ai «miracoli della tecnica» e la fiducia quasi magica nei suoi confronti porta spesso a guardare alla correttezza tecnica, come all’unico criterio di bene e di male. Questa visione unilaterale ed esclusiva appare tanto più allettante in un campo, come quello della biogenetica, in cui la correttezza tecnica partecipa della serietà che caratterizza la ricerca scientifica, cui la nostra cultura non pone altri limiti, che non siano quelli della correttezza metodologica. Ma la correttezza tecnica riguarda solo l’attitudine dei mezzi a raggiungere certi fini. Ora l’uomo non può evitare seriamente di porsi la domanda sull’attitudine dei fini a servire l’uomo e la sua dignità, pena la rinuncia alla sua stessa umanità. E con la domanda sulla validità dei fini, si esce dal campo della tecnica e si entra in quello della morale, e in quello della → religione. 3. Nel caso della b. in particolare, ciò che è in gioco non è soltanto la vita fisica dell’uomo, ma l’uomo in quanto tale. Chi è l’uomo per attribuire alla sua vita una qualche intoccabilità? Chi fonda e garantisce questa intoccabilità? Qual è lo statuto ontologico dell’uomo? Sono domande che hanno sempre certa valenza religiosa, perché possono 151

BIOLOGIA E EDUCAZIONE

essere rivolte sensatamente solo a una visione ultima della realtà, che abbia un qualche carattere religioso, sia pure di una religiosità immanente. Una risposta (magari implicita e inconsapevole) a queste domande è sempre nascosta dietro alle varie posizioni che si scontrano nei dibattiti sulla b. Se restassero nascoste, il dibattito morale resterebbe sterile e inconcludente; occorre quindi farle emergere, smascherandole e mettendole a nudo, sul tavolo della discussione. Questo significa che a livello educativo, i ragazzi devono essere messi esplicitamente di fronte a ciò di cui ultimamente si parla (magari senza saperlo) quando si discute di biogenetica, di aborto o di altri problemi simili. Bibl.: Encyclopedia of bioethics, New York, The Free Press, 1978; Sgreccia E., Manuale di b., Milano, Vita e Pensiero, 1992: Leone S. - S. Privitera (Edd.), Dizionario di b., Acireale (CT), Istituto Siciliano di B., 1994; Russo G., B. e sessuologia, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2004.

G. Gatti

BIOLOGIA E EDUCAZIONE Intendiamo con il termine b. lo studio dei fenomeni vitali, così come si svolgono nell’organismo umano, al fine di porgere all’ → educatore le conoscenze più sicure e più utili per un intervento educativo efficace. 1. Pur non trascurando niente dell’anatomia e fisiologia umana, i componenti più profondamente studiati saranno: il sistema nervoso, il sistema endocrino e il sistema immunitario, non solo nella loro struttura e funzione, ma anche nelle loro correlazioni, e come servono da substrato anatomo-fisiologico a tante espressioni della psiche. Tale studio viene preceduto e completato da nozioni di b. generale, di genetica, di igiene sia generale che specifica, di auxologia e di scienze dell’alimentazione. L’educatore, provvisto di queste conoscenze, potrà aiutare adeguatamente l’educando a formarsi una buona immagine corporea e una realistica immagine di sé. Potrà orientare i tentativi di affermazione, di espansione e di adattamento dell’educando inducendolo a saper confrontare le proprie possibilità con le difficoltà dell’ → ambiente, 152

a utilizzare e potenziare le proprie risorse, a sapersi gratificare con i successi ottenuti, ad elaborare in modo produttivo le frustrazioni subite. Per queste ultime abilità sarà utilissimo conoscere la b. delle emozioni e le modalità per vivere bene questi fenomeni traendone tutti i vantaggi possibili. Si potrà favorire così il consolidamento di una → personalità ottimista e affermativa capace di un valido inserimento nella società con vantaggio reciproco. L’aforisma di Giovenale mens sana in corpore sano, senza rappresentare un assoluto, dal momento che molti handicappati hanno delle forti personalità, costituisce però un’indicazione molto utile; quanto più valido è il fisico tanto più facilmente si potrà costruire una personalità consistente. Un fisico robusto e ben funzionante facilita l’acquisizione del senso di sicurezza e offre una migliore possibilità di affermazione nell’esistenza; per cui mantenere l’organismo efficiente è un compito importante nel processo educativo. Così pure il senso del gusto e del godimento della natura, che molto contribuisce a far sviluppare le sensazioni di benessere e di ottimismo, si avvale del buon funzionamento organico. 2. Non potendo trattare singolarmente tutti i dettagli di questo studio ci soffermeremo solo su alcuni più significativi. Conoscere bene la struttura e le funzioni della corteccia cerebrale, il suo potere di controllo sulle formazioni subcorticali, il sistema reticolare attivante che la stimola e le consente i periodi di attentività da alternare con quelli di riposo, il ciclo sonno-veglia; sono dati di notevole interesse per trattare adeguatamente l’educando nel suo impegno cognitivo di → apprendimento. Armonizzare la cognitività con l’emotività è compito educativo che si impone. Lo sviluppo personale ha aspetti naturali e spontanei, ma riesce più facile e più sicuro se aiutato da appropriati interventi educativi. Tante distorsioni psichiche si possono evitare con l’effusione intelligente di affetto, con l’educazione artistica, musicale ecc. e con l’aiutare i bambini a sviluppare bene la fantasia e la creatività. Impareranno a sapersi gratificare con quanto di ordinario c’è a disposizione tutti i giorni senza bisogno di ricorrere a chi sa quali artifici o sofisticazioni e senza diventare pretenziosi o insaziabili.

BISOGNI

Bibl.: Eccles J., Il mistero Uomo, Milano, Il Saggiatore, 1981; Craig G., Lo sviluppo umano, Bologna, Il Mulino, 1982; Eccles J. - D. Ro binson, La meraviglia di essere uomo, Roma, Armando,1985; Polizzi V., L’identità dell’homo sapiens, Roma, LAS, 1986; De Martini N., Maturità problema decisivo, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1988; Guyton A., Neurofisiologia umana, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1988; Marrama P. - A. Angeli, Manuale di endocrinologia, Milano, Masson, 1992; Romano C. - G. Grassani, Bioetica, Torino, UTET, 1995; Frigo G. F. (Ed.), Bios e anthropos. Filosofia, b. e antropologia, Milano, Guerini, 2007.

V. Polizzi

BISOGNI Il concetto di b. denota una tensione, cioè uno scarto provato da un individuo o da un gruppo, tra le sfide che insorgono dalla vi­ta e le risorse atte a colmarle e ripristinare l’equilibrio compromesso. Se le sfide ri­g uardano l’ambito materiale della vita e quindi la sopravvivenza, si parla di b. pri­mari (di cibo, aria, calore, salute ecc.) men­t re quando si riferiscono a oggetti culturali diventano sociali (di educazione, sicurez­za, abitazione, salute, ecc.); le sfide che si originano dal desiderio di realizzare la na­t ura e l’esistenza umana possono essere de­scritte come b. post-materiali (relazionali, di amicizia, trascendenza, autorealizzazio­ne, significato della vita ecc.). 1. Approcci di studio dei b. Gli approcci in base ai quali vengono studiati i b. possono essere divisi tra oggettivisti, soggettivisti e realisti. L’approccio oggettivista o natura­ listico riconosce una forte connessione tra natura umana e b. ed è rappresentato prin­ cipalmente dalle correnti positiviste e funzionaliste. L’approccio soggettivista o so­ cializzante concepisce i b. come un prodot­to dei rapporti umani che vengono elabo­rati nell’interazione. Viene rappresentato soprattutto dalle correnti interazioniste e dall’etnometodologia. L’approccio realista tenta di unire i due poli, riconoscendo che la realtà sociale esiste da sé, può essere og­gettivamente studiata, ma viene prodotta dai soggetti sociali: a questi ultimi viene ri­conosciuta una autonomia nella elabora­zione della cultura e

nel cambiamento del­la struttura sociale. Possono essere consi­derate in questa prospettiva le concezioni umanistiche dei b. (→ Maslow; → Frankl) che vedono l’uomo in continua ricerca per realizzare le proprie potenziali­t à, in quanto crea e dà sia come individuo che come persona, creando e ridando senso alla realtà sociale. 2. Elementi del concetto di b. All’interno delle diverse prospettive in base alle quali sono studiati i b., troviamo degli elementi comuni: a) la soggettività: il soggetto li ri­conosce e li prova, anche se non tutti i b. sono da lui identificati o avvertiti; b) la ne­cessità: un’esigenza, un appello che deve essere appagato; c) la reattività: o la ten­denza a reagire nei confronti del disagio fi­sico dettato dalla mancanza degli elementi di base per la sopravvivenza o delle spinte ad agire o pensare che hanno origini in­consce e che non sono dipendenti dalle proprie intenzioni; d) la proattività: cioè la tendenza allo sviluppo della propria natura umana, la quale è provvista di un’intenzio­nalità finalizzata al perseguimento degli obiettivi, fini e valori che la portano alla realizzazione di sé; e) la plasticità: o il con­tinuo, anche se graduale, cambiamento dei b. e delle modalità della loro soddisfazio­ ne; f) la storicità: i b. possono essere soddi­ sfatti da una larga gamma di risposte e il soggetto può appagare un determinato b. a prescindere dall’oggetto ritenuto ottimale alla sua realizzazione; g) l’organizzazione: in base ad una gerarchia che deriva dall’in­ teriorizzazione e dalla condivisione dei va­ lori culturali. 3. Diverse prospettive. I b. possono essere studiati secondo prospettive diverse. Al­cuni sono riscontrabili nell’ambito della costituzione psichica dell’individuo e ven­gono denominati b. psicologici. Altri pos­sono emergere con più intensità in deter­m inate circostanze della vita, e quindi col­legati allo sviluppo della persona e in questo senso si parla di b. formativi, socia­li e educativi. I primi riguardano quella fa­se della formazione dell’individuo partico­larmente collegata al percorso della pre­parazione ai compiti del mondo adulto (b. formativi); i secondi emergono più inten­samente nel periodo adolescenziale (b. sociali); gli ultimi fanno riferimento al quadro dei valori e dei fini ai 153

BISOGNI

quali si deve rivolgere il progetto educativo (b. educa­tivi). 4. B. psicologici. Nell’ambito psicologico i b. vengono spesso collegati all’idea di pul­sione e intesi come una spinta di origine in­conscia ad agire e a pensare, indipendente­mente dalle intenzioni del soggetto, deter­minati da uno stato di carenza e tendenti alla ricerca di uno equilibrio perduto (Ron­co, 1980, 30-44). I b. così intesi motivano l’individuo verso la ricerca di: a) un quadro di riferimento (b. di informazione), che si manifesta sia a livello elementare come ne­cessità di stimolazione sensoriale, sia a li­vello più ampio come ricerca di un oriz­zonte di significato; b) sicurezza e sono det­tati dalla necessità sia di differenziazione dall’ambiente conservando le proprie ca­ratteristiche, sia di garanzia della propria adeguatezza e competenza riguardo al fu­turo prossimo o lontano; c) sviluppo di sé, prefigurato dalla spinta dell’uomo ad auto-realizzarsi come individuo e come persona, in quanto egli si sente orientato verso pro­getti, valori e aspirazioni ai quali rivolge le proprie decisioni e azioni; d) socialità, che consiste nell’integrazione della vita psichi­ca dell’individuo con quella degli altri che lo circondano e che si manifesta nella colti­vazione dell’amicizia, nella ricerca della stima e del dominio sugli altri; e) realizza­zione dell’esistenza (b. esistenziali), che si traduce nella tendenza ad unificare valori, obiettivi e progetti attorno ad un fine unico che dà senso all’esistenza e motivazione al­le azioni: si esprimono nei b. di significato e di trascendenza. 5. B. formativi. I b. formativi riguardano il processo secondo il quale la persona ac­quisisce gradualmente le competenze della vita adulta; tali processi sono una condi­zione essenziale perché il soggetto arrivi ad una personalità matura e sia in grado di decidere liberamente. I b. formativi e quel­li educativi sono complementari in quanto la soddisfazione dei primi porta gradual­mente alla realizzazione dei secondi. Tra i b. formativi relativi alla prospettiva evolu­tiva adolescenziale si distinguono: quelli di partecipazione e di accettazione che ri­guardano la socialità e la → stima di sé; di sicurezza, cioè della ricerca di un riferimento nelle persone significative; di com­prensione, cioè dello sforzo di comprende­re se stesso e gli altri; di indipendenza, o di ricerca sia di 154

autonomia nei confronti dei genitori, sia di nuovi rapporti sociali al di fuori del gruppo familiare; di conoscenza, che si situa tra curiosità esplorativa, ricerca di comprensione intellettuale del mondo e spirito di avventura; di significatività o di ricercare un senso alla propria esistenza at­traverso la messa a disposizione di un qua­dro di riferimento valoriale, di principi e di obiettivi; di amore o di investimento nell’ambito relazionale, affettivo e sessuale (Poletti, 1988, 84-85). 6. B. sociali. Vengono spesso intesi sia co­me b. necessari alla sopravvivenza del gruppo sociale (di abitazione, di salute, di alimentazione, di educazione), sia come b. che riguardano l’ambito relazionale. Alla soddisfazione dei primi provvedono appo­site istituzioni sociali come la famiglia, il la­voro, la scuola. Quanto alla seconda acce­zione, nell’ambito relazionale, riguardano la ricerca di confronto tra la propria sog­gettività e quella degli altri, di rapporti gra­t ificanti e durevoli di amicizia, di imporsi sugli altri attraverso l’appartenenza a grup­pi e l’accettazione da parte degli altri (b. di stima). 7. B. educativi. Sono quelli che, una volta soddisfatti, portano la persona ad un gra­do ottimale di → maturità, proporzional­mente al periodo evolutivo che essa attra­versa, e mirano a mettere la persona in gra­do di prendere delle decisioni libere. Come tali, essi fanno riferimento ad un quadro di → valori rappresentativo dei fini dell’edu­cazione e che ha una funzione motivazio­nale, in quanto fa scattare la tensione verso decisioni e azioni orientate alla realizza­zione delle mete condivise dal soggetto. In questo senso le risposte ai b. educativi vengono, da una parte, assunte da un progetto, implicito o esplicito, avanzato dalle agen­zie educative e, dall’altra sono espresse in motivazioni, atteggiamenti, decisioni e azioni da parte dei soggetti in formazione. Quanto più il soggetto sviluppa un quadro valoriale sintonizzato con quello del pro­getto educativo personale e istituzionale, tanto più egli riesce a integrarsi nel percor­so formativo. I b. educativi sono quindi strettamente collegati ai valori che li orien­tano e ne possono esistere tanti quanti so­no i riferimenti valoriali condivisi dal sog­getto. Spetta all’azione educativa l’offerta dei riferimenti di alto profilo valoriale che siano in grado di

BLONSKIJ PAVEL PETROVIČ

far emergere nei soggetti le motivazioni funzionali all’acquisizione dei fini educativi. 8. Una tipologia dei b. Possiamo distinguere i diversi tipi di b. tra b. materiali e post-materiali, ognuno secondo una prospettiva personale e sociale. I b. materiali in prospettiva personale riguardano i b. primari che provengono dalla natura umana, biologica (ad es. il b. di mangiare, di bere, di dormire, ecc.). In prospettiva sociale fanno riferimento ai b. di alimentazione, di abitazione, di salute, di trasporto, di educazione, di lavoro, di credenza e di appartenenza. I b. post-materiali, in prospettiva personale fanno riferimento alla natura umana aperta alla realizzazione del sé: il b. di affetto, di stima, di rapporti sociali, di realizzazione delle potenzialità umane, di senso della vita, di trascendenza; in prospettiva sociale riguardano l’ambito della qualità della vita, favoriscono la realizzazione della persona in quanto membro di una società attraverso l’inserimento nei movimenti per l’ecologia, l’ambiente, la pace, la solidarietà verso i popoli, il benessere delle minoranze, i diritti degli svantaggiati, contro l’apartheid razziale e sociale, ecc. Bibl.: Freund J., Théorie du besoin, in «L’Année Sociologique» (1971) 13-64; Ronco A., Introdu­ zione alla psicologia. 1. Psicologia dinamica, Ro­ma, LAS, 31980; Springborg P., The problem of human needs and the critique of civilisation, Lon­don, George Allen & Unwin Publishers, 1981; Pol­ etti F., Le rappresentazioni sociali della delin­ quenza giovanile, Firenze, La Nuova Italia, 1988; Donati P., Famiglia come relazione sociale, Mila­ no, Angeli, 1989; Fischer L., Prospettive sociolo­ giche, Roma, NIS, 1992; Gustin M. B., Das necessidades humanas aos direitos, Belo Horizonte, Del Rey, 1999; Caliman G., Desvio social e delinquencia juvenil, Brasilia, Universa, 2006.

G. Caliman

BLANCO Y SÁNCHEZ Rufino → Neoscolastica pedagogica

BLONSKIJ Pavel Petrovič n. a Kiev nel 1884 - m. a Mosca nel 1941, professore di pedagogia e psicologia, con impegno filosofico.

1. Consolidò i suo interessi con la libera docenza (1913) e l’insegnamento nell’università. Partecipò al movimento dell’Educazione libera; dopo la rivoluzione, aderì al bolscevismo e intraprese una corposa attività pubblicistica, che lo inserì negli organismi dello stato per la scuola, muovendosi nella linea della → pedologia. Con l’affermarsi dello stalinismo iniziò la sua emarginazione, da cui si difese, lavorando solo nell’Istituto statale di psicologia, specie dopo la condanna della pedologia (1936). Tra le sue opere: Kurs pedagogiki, Mosca, Zadruga, 1916; Psichologija, Ibid., 1919; Trudovaja skola (Scuola del lavoro), Mosca, NKP-Giz, 1919; Pedologia, Ibid., 1925. 2. Oltre all’interesse psicologico, si è caratterizzato per la fondazione di una scienza marxista dell’educazione e una conseguente ristrutturazione della scuola, supportate dalla centralità dei processi produttivi e del lavoro, da cui la politecnicità, dibattuto concetto marxiano. B. polemizza con l’educazione delle → «Scuole Nuove», per la loro concezione del bambino, il cui sviluppo naturale però egli stesso non trascura, secondo gli orientamenti pedologici. Propone una «scuola politecnica del lavoro», sintesi dialettica tra «l’educazione dell’uomo in generale» e «l’educazione dello specialista». Essa, ispirata al bisogno industriale, si articola su tre livelli: dai 3 ai 7 anni, di imitazione e riproduzione della vita degli adulti, con un rilancio del gioco e un relativo inserimento del lavoro; dagli 8 ai 13 anni (= obbligo di 1° grado), con la conoscenza della vita umana nel suo sviluppo e con un’attività produttiva agricolo-artigianale, in una «comune», con flessibilità di orari e di discipline; dai 14 ai 18 anni, in fabbrica, con una «sintesi di sapere e di fare», integrata da una riflessione scientifico-teorica, da sport e attività artistiche. B. vi ha introdotto, didatticamente, il «metodo dei complessi», di cui fu sostenitore. Oggi se ne riconosce, oltre alla matrice marxista, il legame con classici e Scuole Nuove. Ebbe importanza ed influsso fino al 1925-1926. Bibl.: Tra i saggi più accessibili e comprensivi: Dietrich Th., Sozialistische Pädagogik, Bad Heilbrunn, Klinkhardt, 1966, 127-161.

B. A. Bellerate

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BONTÀ

BLOOM Benjamin → Tassonomia BOCCIATURA → Insuccesso scolastico BOEZIO → Medioevo

BONTÀ La b. è eccellenza nell’essere e nel fare; è promozione del bene nella linea dei bisogni fondamentali e dei progetti esistenziali di vita; è espressione di autorealizzazione. Essa soddisfa i bisogni di appartenenza e di stima, i quali dispongono ad una positiva identità personale e sociale (→ Maslow). 1. La b. orienta nei fini e nei metodi educativi. La b. dei fini attiva la b. dell’essere; la b. nel fare manifesta la b. dell’essere. L’esperienza della b. «ricevuta» stimola le energie interattive di appartenenza nella sicurezza dell’identità sociale, e quelle di stima d’identità personale, base diretta dello sviluppo nell’auto-realizzazione. L’eccellenza dell’esser buono è unita alla competenza del ben fare. L’ → educando abbisogna dei segni di b. e di → amorevolezza; si sente stimolato se si sente amato. La b. è accettazione positiva incondizionata (→ Rogers): ci sono sempre delle ragioni per amare, e l’amore è l’ottimo stimolo per un funzionamento ottimo. 2. L’ → educatore buono è un «essere-per-l’altro». Egli dispone di risorse di benevolenzab.: obiettività, generosità, tolleranza, delicatezza, modestia, empatia, cordialità, collaborazione, compassione, affetto, allegria. La b. genera fiducia: la fiducia garantisce l’efficacia dell’ → intervento educativo, e fonda l’accettazione vicendevole. Pure l’obbedienza è conseguenza naturale della fiducia e della b. La b. definisce l’educatore nell’uso del potere. La forza della b. desta apertura e ricettività, apre all’ → obbedienza: questa è conseguenza della fiducia in un clima di libertà e spontaneità. Così, si promuove, nell’ordine, la speranza del bene. La b. introduce l’educazione nel «sistema della b.». L’educatore buono, per la sua buona eccellenza e la sua buona competenza, fa buoni gli educandi. Lo stile delle relazioni definisce l’educatore: la b. è stile che facilita il bene dell’identità personale e sociale. La b. fa buono l’educando in 156

eccellenza e competenza: nella cultura della volontà d’amore. Bibl.: Pavanetti E., La bondad. Ensayo, Madrid, Oriens, 31963; R emplein H., Psychologie der Persönlichkeit, München, Reinhardt, 61976; Gatti G., Professione: educatore cristiano; le sue risorse: religione, ragione, amorevolezza, testimonianza, coscienza dei propri limiti, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1995; Todisco O., Averroè nel dibattito medievale: verità o b.?, Milano, Angeli, 1999.

A. Sopeña

BORROMEO Carlo n. ad Arona nel 1538 - m. a Milano nel 1584, riformatore ed educatore religioso, santo. 1. Vita. Figlio del conte Gilberto, feudatario di Arona, viene fatto abate a 12 anni, si laurea in diritto a Pavia a 21, viene chiamato a Roma dallo zio, il papa Pio IV, come cancelliere della Chiesa e nominato cardinale e arcivescovo di Milano a 22. A 27 anni, dopo la morte del papa, fa ingresso nella sua diocesi e lavora alacremente alla riforma di essa e delle diocesi suffraganee, adoperandosi per la riapertura e conclusione del Concilio di Trento, fino alla morte, vent’anni dopo, all’età di 46 anni. 2. L’opera educativa. B. fu un grande organizzatore, il massimo del sec. XVI. Organizzò il Concilio e la vita ecclesiastica; diede le Regole per organizzare i Seminari, le → Scuole della Dottrina Cristiana, il clero e le confraternite; organizzò la carità in tempo di carestia, i soccorsi durante la peste. Promosse scuole e collegi per l’educazione dei laici. Incaricò l’umanista → Antoniano di scrivere il trattato Dell’educazione cristiana dei figliuoli, e il card. Valerio di comporre un’opera di retorica. Fondò nel seminario di Milano una tipografia per la diffusione della buona stampa. Personalmente e con il gruppo degli amici si era interessato, fin dagli anni di Roma, di dispute letterarie e teologiche, dimostrando di possedere una solida cultura. 3. Il contributo all’educazione religiosa. Fondò o restaurò i santuari di Rho, Varallo,

BOSCO GIOVANNI

Cannobio, ecc.; promosse il rito ambrosiano. Passò alla storia come il modello del nuovo vescovo riplasmato dal Concilio di Trento, le cui decisioni venivano prese a modello in innumerevoli altre diocesi. Promosse vigorosamente l’educazione e le → Scuole della Dottrina Cristiana, inserendole nel cuore della pastorale parrocchiale; a Milano, durante il suo episcopato, esse passarono da poche decine a 740, con circa 50 mila iscritti. Diede loro figura giuridica, impegnandosi personalmente a stenderne le Regole, entrate in vigore fin dal 1579, anche se stampate solo nel 1585. Il governo delle Scuole e della Compagnia della Dottrina Cristiana viene centralizzato a livello diocesano. Particolarmente intensa è l’insistenza sulla conversione e sulla pietà personale del maestro catechista e di tutti i membri della Compagnia e sul loro spirito comunitario. San Carlo vuole che le classi siano piccole: da 4 a 6 fanciulli/e. La separazione dei sessi è di rigore. Il tempo è la domenica pomeriggio. Si usano premi piccoli e grandi, e severi castighi per i renitenti. Grande importanza assume la disputa/gara, non a scopo didattico, ma dimostrativo e selettivo. Bibl.: Premoli O., S.C.B. e la cultura classica, in «La Scuola Cattolica» 45 (1917) 427-440; Mols R., St. Charles Borromée, pionnier de la pastorale moderne, in «Nouvelle Revue Théologique» 79 (1957) 600-622; Deroo A., S.C.B., il cardinale riformatore, Milano, Ancora, 1965; Giuliani A., La catechesi a Milano nel secolo di S.C., in «La Scuola Cattolica» 118 (1984) 580-615; Toscani X., Le «Scuole della Dottrina Cristiana» come fattore di alfabetizzazione, Novara, Studi Novaresi, 1985.

U. Gianetto

BOSCHETTI-ALBERTI Maria → Scuole Nuove

BOSCO Giovanni n. nella località dei Becchi nel comune di Castelnuovo d’Asti nel 1815 - m. a Torino nel 1888, educatore italiano, fondatore della Società di S. Francesco di Sales (Salesiani di Don B., SDB) e dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA).

1. Don B. nasce al termine del periodo rivoluzionario-napoleonico (1789-1815) e la sua formazione culturale e sacerdotale (1815-1844) si compie in piena Restaurazione: prima in ambiente socio-religioso rurale, poi nella cittadina di Chieri, infine a Torino, capitale del regno sardo (Piemonte, Liguria, Sardegna, contea di Nizza e ducato di Savoia), una delle dieci entità politiche nelle quali era stata divisa l’Italia al Congresso di Vienna. Giovanni è il figlio minore in una famiglia di modesti agricoltori, costituita dai genitori Francesco e Margherita Occhiena, la nonna paterna, il fratellastro Antonio, il fratello maggiore Giuseppe. Orfano di padre a 21 mesi (1817), apprende i primi elementi del leggere e dello scrivere da un sacerdote di un paese vicino, fa la prima comunione nel 1826, è garzone di campagna dal febbraio 1828 all’autunno 1829, frequenta la prima scuola elementare regolare dal dicembre 1830 all’estate 1831. In quattro anni percorre a Chieri le sei classi del «collegio» (la prima inferiore, le tre classi di grammatica, l’anno di umanità e quello di retorica) e, in seminario (1835-1841), i due anni del corso di filosofia e, in quattro anni, i cinque del corso di teologia. Sacerdote nel giugno del 1841, durante il triennio di qualificazione pratico-pastorale nel Convitto Ecclesiastico di Torino (1841-1844) ha i primi contatti con ragazzi immigrati dalla campagna e dalla montagna in cerca di lavoro o incontrati in sporadiche visite nelle carceri o nelle strade e piazze della capitale subalpina. 2. Nel biennio 1844-1846, assunto in una delle opere della nobile vandeana Juliette Colbert vedova del marchese Falletti di Barolo, dà forma al suo «oratorio», in gran parte ambulante. Si rivelano subito due caratteristiche fondamentali della sua personalità: mentalità e cultura ispirata alla religiosità popolare delle origini, arricchita dalla familiarità con libri di storia ecclesiastica, affinata nel Convitto grazie allo studio della morale alfonsiana assimilata soprattutto nei suoi aspetti applicativi (in particolare nella pratica del sacramento della confessione e nella direzione delle anime); insieme, vivacità di intelligenza pratica, coinvolgente intuizione delle problematiche situazioni umane proprie di una città in crescita, concretezza realizzatrice. Dal novembre del 1846 Don B., 157

BOSCO GIOVANNI

che in estate si era sciolto da ogni impegno con la Barolo, si dedicava a tempo pieno al suo oratorio, stabilito all’estremo nord-est di Torino, nel borgo Dora, località Valdocco. Ivi perfeziona e amplia le sue iniziative benefiche: attività religiose e ricreative, classi di alfabetizzazione domenicali e serali, ricerca di lavoro e assistenza morale dei giovani apprendisti; contemporaneamente si dà alla predicazione popolare e scrive i primi libri di storia religiosa e devozionali. L’assistenza ai giovani e l’attività letteraria assumono carattere di accentuata «prevenzione» e difesa in seguito all’acuirsi dei fenomeni determinati dalla svolta politica, religiosa, sociale, culturale, intervenuta nel regno sardo tra il 1847 e il 1855: la liberalizzazione della stampa, il moltiplicarsi dei giornali di opinione, il proselitismo protestante, il distacco delle istituzioni civili da vincoli ecclesiastici, lo scontro tra Stato e Chiesa (1850 e 1855). In favore delle classi popolari Don B. propugna le ragioni della fede cattolica con un giornale di breve durata (tra la fine di ottobre 1848 e inizio maggio 1849), opuscoli e libri apologetici, in particolare, dal 1853, la fortunata pubblicazione quindicinale delle «Letture Cattoliche» (uscite fino alla seconda metà del ‘900). Sul versante educativo, oltre che nei tre oratori torinesi (s. Francesco di Sales, s. Luigi Gonzaga, Angelo Custode), egli opera con primario impegno nella «casa annessa» al primo oratorio di Valdocco, un «ospizio» nel quale organizza laboratori interni di arti e mestieri (legatori, calzolai, sarti, falegnami, fabbri, tipografi, librai) (1853-1862) e le cinque classi del «ginnasio» (1855-1859). 3. A sostegno delle opere in espansione (l’Oratorio di S. Francesco di Sales di Valdocco arriverà negli anni ’60 a 800 ospiti, studenti e artigiani), Don B. riesce ad attirare l’appoggio di larghe cerchie di amici, benefattori, collaboratori, pubblicisti: papi (Pio IX e Leone XIII), re (Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II, Umberto I), principi e principesse di Casa Savoia, gente di corte, nobili e banchieri, autorità religiose e civili, municipali, provinciali, ministeri (in specie degli Interni e della Guerra), direttori di giornali, ecclesiastici e laici di tutte le estrazioni sociali, suscitando la fattiva simpatia anche di personaggi non benevoli verso il clero, come Urbano Rattazzi, e deputati della sinistra li158

berale e radicale. Il coinvolgimento diventa particolarmente pressante in occasione della fondazione e dell’ampliamento delle varie opere educative, nella diffusione delle «Letture Cattoliche», nell’organizzazione delle grandi lotterie, nella costruzione di chiese (s. Francesco di Sales, 1852-1853, Maria Ausiliatrice, 1864-1868, s. Giovanni Evangelista a Torino, 1878-1882, Sacro Cuore di Gesù a Roma, 1880-1887). L’intraprendenza, il consenso di giovani collaboratori, le crescenti richieste di fondazioni da parte di autorità religiose e civili (vescovi, sacerdoti, municipi, notabili) e i generosi aiuti mai venuti meno spingono Don B. ad estendere gradualmente le sue istituzioni giovanili, che oltretutto gli permettono di uscire da scomode strettoie locali. Dal 1863 si avventura fuori Torino, dal 1869 in Liguria, nel 1875 in Francia e in Argentina con l’apertura missionaria verso la Patagonia (1880), in Uruguay, in Brasile, in Spagna, in Cile, in Ecuador (ultima tappa, lui vivente). Non è solo estensione quantitativa di opere, ma anche versatilià delle loro espressioni. L’oratorio originario per esterni, sempre prediletto sul piano affettivo, lascia spazio sempre maggiore a case di educazione per gli «interni», più decisamente «preventive», sotto forma di collegi con scuole per studenti della classe media e di ospizi per studenti e artigiani di classi più umili. 4. Per garantire continuità e stabilità alle sue opere torinesi e a quelle successive, intorno al 1854 Don B. aveva incominciato a pensare a una qualche forma più stabile di organizzazione spirituale e regolamentata dei potenziali collaboratori nell’«opera degli oratori», intesa nel senso più esteso e vario, approdando in tappe successive alla fondazione dei due istituti di vita consacrata, maschile e femminile, denominati Società di s. Francesco di Sales (1859-1869) (→ Salesiani) e Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (o Suore Salesiane) (1872). Nelle Costituzioni della Società di s. Francesco di Sales Don B. aveva introdotto anche la figura dei soci «esterni». Negata per essi l’approvazione romana, arrivava attraverso diverse approssimazioni (Associati alla Congregazione di S. Francesco di Sales, 1873, Unione cristiana, 1874, Associazione di buone opere, 1875) all’Unione dei Cooperatori Salesiani (1876), una «specie» di terz’ordine di ecclesiastici

BOSCO GIOVANNI

e laici che aveva «per fine principale la vita attiva nell’esercizio della carità del prossimo e specialmente della gioventù pericolante» (Cooperatori salesiani ossia un modo pratico per giovare al buon costume ed alla civile società, 1877, in Opere Edite XXVIII, 365-369). Per essa egli lanciava subito come organo di informazione e di collegamento il Bollettino Salesiano, un mensile di vastissima diffusione in più lingue, ancor oggi vivo e vitale in tutti i continenti. 5. Nell’ultimo ventennio si crea, soprattutto negli ambienti cattolici moderati, in Italia, in Germania, in Francia, in Spagna, l’immagine di un Don B. educatore «nuovo» della «gioventù povera e abbandonata», «pericolante» per sé e «pericolosa» per l’ordine morale e sociale; risolutore del problema sociale dei giovani operai; e taumaturgo, in specie accanto al santuario di Maria Ausiliatrice a Torino e nei due viaggi trionfali a Parigi (1883) e a Barcellona (1886). La straordinaria attività, l’instancabile ricerca di sussidi finanziari, il carattere conservatore e talora retrivo di certe fasce di sostenitori e ammiratori non mancarono di attirargli le critiche e le aggressioni satiriche di certa stampa laicista e anticlericale. Peraltro, esse furono nettamente superate dall’ammirazione illimitata da parte di grandi masse e della stampa cattolica e da valutazioni positive di apprezzabili settori del mondo laico italiano ed estero (Traniello [Ed.], 1987, 209-251). 6. Segno di contraddizione ha continuato ad essere Don B., per altro verso, lungo il difficoltoso iter del processo di beatificazione e canonizzazione (1890-1934). Esso fu seguito con fiducia ed entusiasmo dalle schiere vastissime degli ammiratori e devoti, mentre fu oggetto di qualche riserva da talune esigue cerchie di ecclesiastici e di laici cattolici meno convinti del tipo di spiritualità da lui espresso. Gli si rimproverava eccessivo attivismo, si manifestavano perplessità circa un presunto squilibrio tra impegno temporale e vita di preghiera, tra ricorsi e accorgimenti umani e fiducia nella provvidenza, tra diplomazia e rettitudine di intenzione; si credette di trovare elementi conflittuali tra difesa della propria congregazione e ossequio alla gerarchia, tra rigido concetto della vita religiosa e insufficienza dei mezzi formativi (noviziato,

studi teologici, formazione spirituale). Sono riserve che una seria storiografia critica ha potuto agevolmente dissolvere, approdando alla lucida immagine di un tipo di autentica santità, radicata profondamente nella tradizione cattolica e, insieme, aperta alle esigenze della «modernità» a tutti i livelli: santità personale, pedagogia, pastorale giovanile e popolare, spiritualità, socialità, ecclesialità, visione rinnovata della «vita consacrata» in funzione di una «nuova educazione» (Stella, 1988). 7. Come educatore e catechista e quale fondatore di Istituti di consacrati e di consacrate Don B. ha scritto moltissimo, in gran parte ricorrendo a fonti di seconda mano, talvolta quasi rielaborando pubblicazioni altrui, ma con tratti personali inconfondibili e non raramente geniali. Importanti sono gli scritti relativi al suo sistema educativo, il → «sistema preventivo», e quelli legati alla fondazione della Società salesiana e all’approvazione delle sue Costituzioni. Ma la gran parte della produzione libraria (con iniziative tipografiche ed editoriali parallele) fu rivolta soprattutto alla gioventù e al popolo. Si accenna ai principali gruppi: a) scritti per l’educazione scolastica e catechistica: Storia ecclesiastica ad uso delle scuole (1845), Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità (1846), Storia sacra per uso delle scuole (1847), Maniera facile per imparare la storia sacra (1855), Storia d’Italia raccontata alla gioventù (1855); b) le biografie di tre alunni dell’Oratorio di Valdocco, s. Domenico Savio (1859), Michele Magone (1861), Francesco Besucco (1864); e i racconti semibiografici su Giuseppa ne La conversione di una valdese, Pietro ne La forza della buona educazione (1855), Valentino (1866), Severino (1868), Angelina (1869), Massimino (1874); c) scritti devozionali e agiografici: Il giovane provveduto (1847), La chiave del paradiso (1856), Porta teco cristiano (1858), II mese di maggio (1858), seguito da vari fascicoli sulla Madonna, venerata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (1865), inoltre, Associazione de’ divoti di Maria Ausiliatrice canonicamente eretta in Torino (1869), Opera di Maria Ausiliatrice per le vocazioni allo stato ecclesiastico (1875); la vita di s. Martino (1855), s. Pancrazio (1856), s. Pietro (1856), s. Paolo (1857), s. Giuseppe (1867), Biografia del sacerdote 159

BRAILLE: METODO

Giuseppe Caffasso esposta in due ragionamenti funebri (1860); d) scritti in difesa della fede, della Chiesa cattolica e del papa: La Chiesa cattolica-romana è la sola vera Chiesa di Gesù Cristo (1850), Avvisi ai cattolici (1853), Il cattolico istruito nella sua religione (1853), Conversazioni tra un avvocato ed un curato di campagna sul sacramento della confessione (1855), Due conferenze tra due ministri protestanti ed un prete cattolico intorno al purgatorio e intorno ai suffragi dei defunti (1857), la lunga serie di Vite dei papi dei primi tre secoli della Chiesa (1857-1865); e) scritti ameni e azioni sceniche: Novella amena di un vecchio soldato di Napoleone I (1862), Fatti ameni della vita di Pio IX (1871), Dramma. Una disputa tra un avvocato ed un ministro protestante (1853), La casa della fortuna. Rappresentazione drammatica (1865). Bibl.: B. G., Opere edite (ediz. anastatica), 38 voll., Roma, LAS, 1976-1977, 1987; I d., Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales. Dal 1815 al 1855, a cura di A. Ferreira , Ibid., 1991; I d., Epistolario, a cura di F. Motto, voll. I-IV (1835-1875), Ibid., 1991, 1996, 1999, 2003; Caviglia A., «D.B.». Profilo storico, Ibid., 31934; Ceria E., San G.B. nella vita e nelle opere, Torino, SEI, 1937; Lemoyne G. B. - A. A madei - E. Ceria, Memorie biografiche di D. (del Beato... di San) G.B., 18 voll., San Benigno Canavese (Torino), SAID-Buona Stampa/SEI, 1898-1937; Cerrato N., Il linguaggio della prima storia salesiana. Parole e luoghi delle «Memorie biografiche di D.B.», Roma, LAS, 1991; Stella P., Gli scritti a stampa di San G.B., Ibid., 1977; Id., D.B. nella storia della religiosità cattolica, 3 voll., Ibid., 1979-1988; Id., Don B. nella storia economica e sociale (1815-1870), Ibid., 1980; Tuninetti G., «L’immagine di Don B. nella stampa torinese (e italiana) del suo tempo», in Don B. nella storia della cultura popolare, a cura di F. Traniello, Torino, SEI, 1987; Don B. nella storia, a cura di M. Midali, Atti del 1° Congresso Internazionale di Studi su Don B., Roma, LAS, 1990 (in sp. a cura di J. M. Prellezo, Ibid., 1990; in ing. a cura di P. Egan e M. Midali, Ibid., 1993); Gianotti S. (Ed.), Bibliografia generale di don B., vol. I: Bibliografia italiana 1844-1992, Ibid., 1995; Desramaut F., Don B. en son temps (1815-1888), Torino, SEI, 1996; Diekmann H., Deutschsprachige Don-B.Literatur 1883-1994, Roma, LAS, 1997; Stella P., Don B., Bologna, Il Mulino, 2001; Braido P.,

160

Don B. prete dei giovani nel secolo delle libertà, 2 voll., Roma, LAS, 22003.

P. Braido

BOTTAI Giuseppe → Fascismo BOVET Pierre → Scuole Nuove

BRAILLE: metodo Dopo molti sforzi nel corso dei secoli per rendere più facile ai non vedenti l’insegnamento della lettura e della scrittura, il francese Louis B. (1809-1852) inventò un metodo che presto fece fortuna in tutto il mondo. Non vedente dall’età di tre anni, B. entrò a tredici nell’Istituto dei Ciechi a Parigi, dove in seguito insegnò. Inventò il metodo che porta il suo nome e lo fece conoscere nel 1829, nel suo libro scritto in rilievo Procédé pour écrire les paroles, la musique et le pain-chant; tale metodo è giunto fino ai nostri giorni con poche modifiche importanti. Si utilizza un B. integrale, nel quale si riproduce ogni lettera mediante punti in rilievo ed un B. abbreviato, che comprende un codice di abbreviazioni per le parole più usate o per gruppi di lettere più frequenti. Grazie a questo sistema i non vedenti possono leggere qualsiasi tipo di libro con una certa rapidità, affrontare studi superiori e ricoprire incarichi di responsabilità. Con sei punti incisi in rilievo in colonna possono essere rappresentati 63 diversi disegni e con essi tutte le lettere dell’alfabeto, segni ortografici, numeri e note musicali. Per scrivere si utilizzano incavature emisferiche fatte su carta adatta con la punta di un punzone di acciaio. In tutti i Paesi sviluppati esistono collegi, riviste, libri e biblioteche per i non vedenti. Bibl.: Ceppi E., I minorati della vista, Roma, Armando, 1969; Williams M., B. reading, in «The Teacher of the Blind» 3 (1971) 103-116; Deminard D., Dictionnaire d’histoire de l’enseignement, Paris, Éditions Universitaires, 1981; H enri P., La vida y la obra de L.B., Madrid, ONCE, 1988.

B. Delgado

BRUNER Jerome → Linguaggio → Psicolinguistica BRUNI Leonardo → Umanesimo rinascimentale

BUDDHISMO

BUBER Martin n. a Vienna nel 1878 - m. a Gerusalemme nel 1965, pensatore ebreo. 1. Di antica famiglia ebraica originaria di Leo­poli, professore di religione ed etica ebraica all’università di Francoforte dal 1923, nello stesso anno pubblica il suo testo filosofico fondamentale «Ich und Du» («Io e Tu»). Dal 1925 al 1954 lavora con F. Rosenzweig alla nuova traduzione tedesca della Bibbia ebraica. Nel 1938 emigra in Palestina. B. è probabilmente il più rappresentativo pensatore ebreo del sec. XX. In lui la filosofia si coniuga con la tradizione ebraica, l’esegesi biblica e la riflessione teologica. La sua concezione dialogica trova il riferimento ultimo nella teologia dell’alleanza tra Dio e il popolo. Peraltro, nello stare in una relazione Io-Tu con la natura, gli altri, gli esseri spirituali e con Dio (cui si contrappone una relazione di tipo Io-Esso), si coglie il senso autentico della vita e la → persona prende coscienza di sé e della propria soggettività. 2. Sebbene B. non abbia sviluppato una approfondita teoria dell’educazione, la problematica educativa emerge in molti suoi scritti. Nella dimensione interpersonale essa è fondata nel «principio dialogico» dell’Io-Tu e finalizzata alla formazione del «grande carattere». Nella dimensione comunitaria del «Noi», essa spinge alla conversione individuale e sociale, a ricercare il dialogo tra comunità diverse ed apre verso l’utopia della «communitas communitatum» e della pace in cui gli uomini siano «una cosa sola». Bibl.: B.M., Werke, 3 voll., München, Kösel, 1962-1964; trad. it.: Il principio dialogico e altri saggi, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1993; Milan G., Educare all’incontro. La pedagogia di M.B., Roma, Città Nuova, 42002; Zank M. (Ed.), New perspectives on M. B., Tübingen, Mohr Siebeck, 2006.

C. Nanni

BUDDHISMO Il termine B. deriva da Buddha-Dharma, che significa l’Insegnamento (Dharma) dell’«Il-

luminato» (il Buddha). Siddharta Gautama, nome con cui il Buddha era conosciuto prima dell’illuminazione, nacque a Lumbini, nel sud dell’odierno Nepal, nel VI sec. a.C. È il fondatore del B. 1. Aspetti generali. Il B. è sia una filosofia che una religione; è una raccolta di dottrine e un modo di vivere. Come filosofia, è una teoria dell’esistenza basata su tre elementi essenziali: il dolore (dukha), la transito­ rietà (anicca) e la non individualità (anat­ta). Come religione, il B. mostra la «via» verso la beatitudine finale (nirvana), che non è nient’altro che la liberazione defini­tiva dalla catena delle successive rinascite: queste rinascite sono dovute all’intrinseco potere causale dell’azione (karma) e pos­sono essere eluse tramite la rinuncia ed il distacco. Nel B. perciò non c’è posto per la mediazione degli dei e per la realtà peren­ne dell’esistenza, principi fondamentali dell’ → Induismo. Il B. si fonda su tre teso­r i: il Buddha, il Dharma che egli insegna e il Sangha (o la comunità di monaci e suore) il cui ruolo è di praticare e trasmettere il suo insegnamento. Ci sono due rami prin­cipali del B.: il primo è il Theravada (la dottrina degli Anziani), conosciuto anche come Hinayana (piccolo veicolo); questo è il tipo di B. che è andato affermandosi nei seguenti paesi: Sri Lanka, Myanmar, Thai­landia, Laos e Kampuchea. Il secondo è il Mahayana (grande veicolo): ha seguaci in Cina, Giappone e Corea. 2. Idee pedagogiche. Il B. andò afferman­dosi verso l’inizio del V sec. a.C., in un periodo in cui la maggior parte della gente era rimasta delusa dai rituali e sacrifici ve­dici e l’istruzione era monopolio dei bra­mini, la classe sacerdotale. Buddha ed i suoi discepoli scelsero di insegnare in Pali, la lingua comune del popolo; essi insegna­vano a chiunque, indipendentemente dalla casta, dal credo o dal sesso. Per quei tempi fu un fatto rivoluzionario. L’istruzione e l’insegnamento buddhista si incentrarono intorno ai monasteri, e divennero parte della storia del monachesimo buddhista. Sin dall’inizio i monasteri buddhisti si impegnarono nell’istruzione sia secolare che religiosa. Il risultato di ciò fu una dif­f usa crescita dell’istruzione elementare e dell’istruzione superiore. I monasteri ser­vivano al duplice scopo di insegnare e pre­parare le persone per 161

BÜHLER KARL

il sacerdozio. Dato che lo scopo ultimo della vita è il raggiun­gimento del Nirvana (eterna beatitudine dell’essere puro), l’istruzione era fonda­mentalmente indirizzata verso questo fine. I giovani discepoli erano affidati ad un in­segnante conosciuto per la sua integrità morale, l’autoconcentrazione, la saggezza, il distacco e la sapienza. I suoi compiti con­ sistevano nell’istruire i discepoli sui pre­cetti della retta condotta, su elementi di moralità, su questioni relative al Dharma (insegnamento) e ai Vinayas (regole monastiche). Il nucleo centrale dell’insegna­mento includeva invariabilmente le quat­t ro nobili verità esposte dal Buddha nel suo primo sermone dopo l’illuminazione, cioè l’esistenza del dolore, le sue origini, la sua estinzione e l’ottuplice sentiero che conduce alla fine del dolore e alla rinascita. L’istruzione buddhista raggiunse il suo ac­me tra il V e l’VIII sec. d.C. in seguito alla fondazione della famosa Università di Nalanda sotto i re Gupta. All’apice della fama, l’Università di Nalanda aveva 1.500 insegnanti e più di 10.000 studenti da tutta l’Asia. Oltre alle materie religiose, ne ve­nivano insegnate altre, quali legge, mate­ matica, astronomia, logica, metafisica, me­ dicina, arti e mestieri, e letteratura. Persino oggi, il B. ha molto da offrire per la cresci­ta e lo sviluppo dell’uomo come essere umano: la meditazione e la preghiera, il culto e la comunità, il distacco dal mondo, la via della salvezza e la ricerca dell’Asso­luto. Il B. quindi rimane una filosofia ed una religione autorevole, a cui si rivolgono in molti, ed il suo valore pedagogico per la vera promozione dell’uomo non sarà mai sufficientemente enfatizzato. Bibl.: Humphreys C. (Ed.), The wisdom of Bud­ dhism, London, Unwin Brothers Ltd., 1960; Ling L., The Buddha, London, Temple Smith, 1973; Mookerji R. K., Ancient Indian education, New Delhi, 1974; Sir H ari Singh Gour, The spirit of Buddhism, voll. I & II, New Delhi, Cosmo Publications, 1986; Goyal S. R., A history of Indian Buddhism, Kusmanjali Prakashan, Meerut, 1987.

G. Kuruvachira

BÜHLER Karl n. a Meckesheim (Baden) nel 1879 - m. a Los Angeles nel 1963, psicologo tedesco. 162

1. Allievo a Friburgo di J. von Kries, dopo essersi laureato in medicina (1903) e in filosofia (1904) lavora sotto la guida di O. Külpe. Tra il 1907 e il 1908 pubblica quattro lavori in cui, utilizzando il metodo dell’introspezione controllata, si propone di studiare i «contenuti» complessi della mente, con l’intento di mettere in rilievo i processi (o atti o funzioni) che veicolano l’elaborazione di tali contenuti e ricorre, per ottenere dai propri soggetti informazioni dettagliate sui processi decisionali seguiti, a una tecnica di intervista di tipo clinico. Sulla base di risultati sperimentali, B. sostiene il carattere non sensoriale di molti elementi che contraddistinguono la coscienza nei compiti cognitivi nonché l’impossibilità di classificare taluni «elementi di pensiero» nella stessa categoria che comprende le sensazioni o le immagini. Pur continuando a muoversi in ambito sperimentale, sottolinea inoltre l’esigenza di collocare lo studio del pensiero lungo una dimensione ontogenetica e nel suo libro Lo sviluppo psichico del bambino (1918) affronta il problema della formazione dei concetti nel bambino e quello dei rapporti tra pensiero e linguaggio, e delinea una periodizzazione dello sviluppo psichico a cui negli anni successivi avrebbero fatto riferimento diversi psicologi. 2. Insegna a Dresda e quindi a Vienna dal 1922 al 1938. Nel 1927 con il libro La crisi della psicologia, che avrà grande risonanza (tradotto in it., 1979), denuncia l’estrema frantumazione in scuole separate della psicologia contemporanea e propone, come essenziale per la fondazione di una concezione unitaria dei processi psichici, un’analisi critica dei principi concettuali delle scuole psicologiche dell’epoca. Abbandonato l’introspezionismo di Würzburg, si avvicina alle tesi dell’indirizzo gestaltico. Negli anni ’30 porta avanti, insieme con il gruppo di linguisti del circolo di Praga, una serie di ricerche di estrema rilevanza sulla psicologia del linguaggio. Arrestato nel 1938 dai nazisti, si rifugia dapprima a Oslo ed emigra successivamente negli Stati Uniti, dove insegnerà psicologia al Saint Thomas College di Saint Paul e dal 1945 all’Università di Los Angeles, California. Bibl.: Wellek K. K., K. B. 1879-1963, in «Arch.

BULIMIA

Ges. Psychol.» 116 (1964) 3-8; Symposium on K. B’s contribution to psychology, in «Journal of General Psychology» 75 (1966) 181-219; M arion P., K. B. e la «crisi della psicologia», in «Per un’analisi storica e critica della psicologia» 4-5 (1978) 33-62.

F. Ortu - N. Dazzi

BUGIA Asserzione coscientemente non conforme alla → verità con lo scopo d’indurre altri in errore. Tale asserzione può essere fatta attraverso la parola, lo scritto, il gesto o anche il silenzio. L’uso del termine b. si riferisce in modo particolare all’→ infanzia. 1. Il bambino è in grado di dire b., allorché acquista la capacità di distinguere il vero dal falso e ciò avviene verso i 6-7 anni. All’inizio dell’età scolare la b. è fisiologica e svolge una funzione adattiva alla realtà. Il bambino cioè vi ricorre per conseguire la propria autonomia e per difendere il proprio mondo interno nei confronti dell’ambiente, avvertito come troppo intrusivo. Esistono due principali tipi di b.: a) b. utilitaristica, al fine di conseguire un vantaggio o evitare un castigo (es.: la falsificazione del voto); b) b. compensatoria, al fine di evadere da una situazione di → frustrazione (es.: inventarsi una famiglia più ricca). 2. Il ricorso sistematico alla b. denuncia un esasperato bisogno di onnipotenza ed un’intolleranza nei confronti della realtà. In un simile contesto, può avvenire che l’individuo si trasformi in un bugiardo inconscio e quindi sia incapace di riconoscere che sta mentendo. È il caso di chi comunica superficialmente, senza colore, senza sensibilità e con contenuti futili, e di chi ricorre sistematicamente al cliché nel suo modo di parlare e di agire. Talvolta può avvenire che alcune b. volontarie vengano utilizzate per comunicare in codice verità inconsce. Il bugiardo psicopatico, ad es., usa la b. come metafora attraverso cui inconsciamente cerca di dire una verità che gli è difficile manifestare in termini realistici. Un tipico aspetto patologico della b. è rappresentato dalla mitomania, in cui si manifesta la tendenza ad un’accen-

tuata confabulazione, fino a sfociare, nei casi estremi, nel delirio d’immaginazione ed in comportamenti perversi. Il mitomane è un soggetto labile, iperemotivo e suggestionabile ed evidenzia una seria difficoltà di adattamento alla realtà. Bibl.: Sutter J. M., La b. del bambino, Roma, Paoline, 1974; Ekman P., I volti della menzogna, Firenze, Giunti, 1985; Langs R., La comunicazione inconscia nella vita quotidiana, Roma, Astrolabio, 1988; Anolli L. - M. Balconi - R. Ciceri, Fenomenologia del mentire: Aspetti semantici e psicologici della menzogna, in «Archivio Psicologia Neurologia e Psichiatria» 55 (1994) 1-2, 268-295; A braham K. et al., Bugiardi e traditori, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Delloz D., La b., Milano, Ancora, 2002.

V. L. Castellazzi

BULIMIA La b. consiste in una fame insaziabile ed incontrollabile. Il termine deriva da due parole greche (bous = bue e limòs = fame). Letteralmente: «fame da bue». 1. Tale disturbo, come per l’ → anoressia, nella maggioranza dei casi riguarda il sesso femminile. Tra gli studenti universitari, le femmine denunciano la percentuale del 4,5% contro lo 0,40% dei maschi. Esso inoltre è dalle 5 alle 10 volte più diffuso dell’anoressia. La b. di solito compare verso i 15-16 anni, con punte massime dopo i 20 anni. Il decorso è intermittente con tendenza verso la cronicizzazione. 2. I sintomi principali della b. sono: ricorrenti episodi di abbuffate senza alcun controllo, vomito auto-indotto, uso di lassativi o di diuretici, eccessiva preoccupazione per il peso corporeo, ricorso all’alcol o a sostanze stupefacenti, scarsa → stima di sé, ricerca di appoggio, → depressione. A differenza delle anoressiche, le bulimiche tendono ad essere sessualmente attive, anche se poi denunciano una certa difficoltà nell’ottenere soddisfazione dei loro bisogni emotivi. Entro questo contesto, l’orgia alimentare viene vissuta, per un verso, come tentativo di «prendersi cura» e, per un altro, come 163

BULLISMO

rabbia nei confronti dell’oggetto frustrante e deludente. Bibl.: Igoin L., La boulimie et son infortune, Paris, PUF, 1979; Gordon R. A., Anoressia e b. Anatomia di un’epidemia sociale, Milano, Cortina, 1991; Sánchez Cárdenas M., Le comportement boulimique, Paris, Masson, 1991; Lavanchy P., Il corpo in fame, Milano, Rizzoli, 1994; Selvini Palazzoli M., Ragazze anoressiche e bulimiche, Milano, Cortina, 1998; Miller J. A., Gli imbrogli del corpo, Roma, Borla, 2006; Jeammet Ph., Anoressia b., Milano, Angeli, 2006; R ecalcati M. - M. Zuccardi Merli, Anoressia, b. e obesità, Torino, Bollati Boringhieri, 2006.

V. L. Castellazzi

BULLISMO Il termine italiano b. viene dalla parola inglese bullying (tiranneggiare), termine usato nella letteratura internazionale per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo. 1. Definizione e descrizione del fenomeno. «Il b. consiste nella messa in atto di comportamenti aggressivi, offensivi, umilianti, tendenti all’isolamento ed alla ridicolizzazione, ripetuti costantemente da uno o più alunni (i bulli) nei confronti di un compagno di solito più debole o diverso in qualche caratteristica (la vittima) al cospetto di altri compagni (i testimoni) che si divertono per l’aggressione, incitando i bulli a continuare oppure facendo finta di niente, mantenendo il silenzio e l’omertà» (Mariani, 2005, 75). Secondo questa definizione per poter parlare di b. ci devono essere tre attori: a) il bullo, b) la vittima, c) i testimoni. I coetanei possono assumere, all’interno del gruppo, ruoli diversi, ponendosi dalla parte del bullo, intervenendo a sostegno delle vittime o rimanendo semplici osservatori. C’è anche da sottolineare che si instaura una sorta di complementarità tra bullo e vittima, in quanto quest’ultimo non è in grado di porre fine al sopruso, anzi lo alimenta con i suoi comportamenti goffi e maldestri. I bulli possono essere di tre tipi: a) Il bullo aggressivo: tale soggetto è aggressivo su chiunque possa essere identificato come vittima e non si preoccupa minimamente 164

delle conseguenze del suo comportamento. È impulsivo, è favorevole alla violenza, ha un forte desiderio di dominare gli altri, è molto forte sia psicologicamente che fisicamente, è del tutto insensibile ai sentimenti degli altri ed infine ha un’elevata stima di sé. b) Il bullo ansioso: tale categoria di soggetti ha più problemi di qualsiasi altro bullo o vittima, condividendo molte delle caratteristiche di quest’ultima. Infatti è sia ansioso che aggressivo, è insicuro di sé, e spesso se la prende con ragazzi più grandi e più forti di lui. c) Il bullo passivo: in quest’ultima categoria di bulli rientrano tutti quegli individui che affiancano il leader. Lo fanno per due motivi principali: il primo è per proteggere se stessi, il secondo è per avere lo status di appartenenza al gruppo (Marini - Mameli, 1999, 63). Anche la vittima fa parte del «sistema»: ha la funzione del «capro espiatorio». È un/a ragazzo/a che evidenzia difficoltà nel difendersi e si trova in una situazione di impotenza nei confronti di coloro che lo/a molestano. Presenta elevati livelli di ansia e insicurezza, scarsa autostima; tende ad essere più debole dei coetanei e più preoccupato per l’incolumità fisica. Vi è anche la categoria di vittima provocatrice che è una combinazione di modelli reattivi, ansioso ed aggressivo. 2. L’intervento. Per risolvere o modificare il fenomeno del b. sono necessari interventi ad hoc. Il compito degli insegnanti è quello di intervenire precocemente per modificare comportamenti che tendono a cronicizzarsi. È importante sviluppare una collaborazione tra insegnanti, educatori e famiglia (sovente causa iniziale della violenza del bullo). Ma è soprattutto decisivo lavorare sul gruppoclasse. Ci sono esercizi che aiutano gli alunni a prendere coscienza della grave ingiustizia che si sta perpetrando, dei problemi che essa maschera, delle possibilità che hanno di risolvere, cooperando, i loro problemi. Esistono delle tecniche specifiche per aiutare i bulli a ridurre la loro violenza e altre per sostenere la vittima e farle acquisire delle competenze per reagire più adeguatamente. Sono ormai collaudati i «Circoli di Qualità» (CQ) che hanno una metodologia specifica per affrontare il problema. L’importante è che la scuola, di fronte a tale fenomeno, non lo neghi o lo banalizzi. Essa deve reagire con una serie di provvedimenti anti-b. Se non ha un esper-

BURT CYRIL

to, può acquisirlo dall’esterno, per esempio uno psicologo specializzato sull’argomento. Poco opportuna appare invece la presenza di un tutore dell’ordine. Bibl.: Olweus D., B. a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che op­primono, Firenze, Giunti, 1996; Fonzi A., Il b. in Italia: il fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte alla Sicilia. Ricerche e prospettive d’intervento, Ibid., 1997; Marini F. - C. M ameli, Il b. nelle scuole, Roma, Carocci, 1999; Sharp S. - P. K. Smith, Bulli e prepotenti nella scuola: prevenzione e tecniche educative, Trento, Erickson, 2000; Lawson S., Il b.: suggerimenti per genitori ed insegnanti, Roma, Editori Riuniti, 2001; M ariani U., Alunni cattivissimi: come affrontare il b., l’iperattività, il vandalismo ed altro ancora, Milano, Angeli, 2005; Di Sauro R. - M. M anca, Strategie di intervento e prevenzione del b. in adolescenza, Roma, Edizioni Kappa, 2006.

G. Vettorato

BUONE PRATICHE → Pratiche educative

BURNOUT Il rischio del b. è molto attuale tra quanti sono impegnati in professioni di aiuto agli altri (psicologi, operatori sociali, medici, infermieri, insegnanti, operatori pastorali), cioè tra quanti investono le proprie energie attraverso un eccessivo coinvolgimento con i bisogni delle persone a cui essi si dedicano, una malattia da «eccesso di impegno» (Cherniss, 1983) che comprende una condizione di esaurimento emotivo derivante dallo stress dovuto a fattori sia personali che ambientali. È una sindrome multidimensionale che si traduce nel rischio di esaurire le proprie energie psicofisiche e di reagire ad un ambiente lavorativo considerato come troppo esigente ed incapace di apprezzare la propria dedizione (Gabassi - Mazzon, 1995). 1. A livello psicologico, il b. si riferisce ad un insuccesso nel processo di adattamento emozionale dinanzi alle richieste ambientali, una sorta di strategia che la persona adotta per rispondere alle tensioni stressanti che si accumulano nel contesto della propria professione di aiuto, con conseguenti comportamenti

di demotivazione e di distacco emozionale, ma anche di logoramento psicologico dovuto al contatto estenuante e prolungato con le esigenze e i bisogni degli altri (Edelwich - Brodsky, 1980). Inoltre, dal punto di vista del contesto lavorativo, il b. è considerato come l’esito di una condizione ambientale stressante divenuta ormai intollerabile per i diversi fattori che subentrano, quali il pagamento inadeguato, le condizioni di lavoro precarie, le situazioni di urgenza con cui gli utenti spesso rivolgono le loro richieste (Maslach, 1992; Freudenberger, 1974). 2. I diversi fattori che intervengono nella concezione del b. hanno degli effetti anche sulle strategie di prevenzione: devono coinvolgere non solo la persona attraverso adeguate strategie di coping che permettano di rafforzare la stima personale e la soddisfazione lavorativa, ma anche l’organizzazione e l’ambiente di lavoro per umanizzarlo e renderlo più adeguato non soltanto alle esigenze della struttura lavorativa ma anche ai bisogni dell’individuo (Baiocco et al., 2004). Bibl.: Freudenberger H. J., Staff b., in «Journal of Social Issues», 30 (1974) 159-165; Edelwich J. - A. Brodsky, B. stages of disillusionment in the helping professions, New York, Human Sciences Press, 1980; Maslach C., La sindrome del b. Il prezzo dell’aiuto agli altri, Assisi, Cittadella Editrice, 1992; Gabassi P. G. - M. Mazzon, B.: 1974‑1994. Venti anni di ricerche sullo stress degli operatori socio‑sanitari, Milano, Angeli, 1995; Maslach C. - M. P. Leiter, B. e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della demotivazione al lavoro, Trento, Erickson, 2000; Baiocco R. et al., Il rischio psicosociale nelle professioni di aiuto, Ibid., 2004.

G. Crea

BUROCRAZIA → Amministrazione scolastica

BURT Cyril n. a Londra nel 1883 - m. ivi nel 1971, psicologo inglese. 1. Dopo esser stato allievo di McDougall a Oxford e aver portato a termine, come professore incaricato di psicologia a Liverpool 165

BUYSE RAYMOND

(1907-1912), numerosi studi di tipo empirico e sperimentale sulla misurazione dell’intelligenza (nel 1909 aveva pubblicato sul «British Journal of Psychology» uno studio sui → test sperimentali di intelligenza generale e nel 1911 era stato il primo a costruire, sulla base dei lavori di → Spearman, una procedura per la somministrazione di gruppo dei test mentali) ottiene nel 1912, per interessamento di → Galton, il posto di psicologo scolastico retribuito presso la London County Council Education Authority, il consiglio di contea di Londra. Dirige successivamente una sezione di orientamento professionale dell’Istituto Nazionale di Psicologia Industriale ed è professore di psicologia all’Università di Londra. 2. I suoi studi su gruppi di bambini normali, ipo e iper dotati, e con caratteristiche antisociali, nonché quelli sui gemelli monozigoti educati separatamente, saranno considerati fondamentali per le successive indagini sull’infanzia e sull’educazione. In Mental and scholastic tests (1932), dopo aver proposto una revisione della scala di Binet-Simon, B. presenta una serie di test speciali relativi al livello di educazione raggiunto nella lettura, nella scrittura, nello svolgimento di temi, nell’aritmetica e in altre forme fondamentali di attività scolastica e, in disaccordo con Spearman, sostiene che i punteggi dei test rappresentano una misurazione non di una capacità generale ma di capacità operanti a differenti livelli, e cioè a livello senso-motorio, a livello percettivo, associativo, relazionale. Considera inoltre i fattori in cui la capacità fondamentale è scomponibile alla stregua di costrutti logici e non di agenti causali: servono cioè semplicemente a classificare in maniera coerente le correlazioni individuate fra i punteggi di test diversi. Nel 1938 avanza l’ipotesi di una correlazione fra classificazioni basate sulla contrapposizione tra introversione ed estroversione da un lato e differenze somatiche dall’altro. Propone inoltre uno schema di interpretazione del TAT in termini di livelli di organizzazione (coerenza), grado di osservazione dei particolari, fluidità verbale, estroversione-introversione. Infine, nel 1956 applica la teoria multifattoriale dell’eredità, basata sul metodo di analisi quantitativa di Fisher, all’analisi delle differenze individuali. 166

3. Considerato uno dei principali psicologi del secolo per le sue ricerche sui test attitudinali nella scuola, sull’ereditarietà dell’intelligenza, sull’analisi fattoriale in psicologia e per la grande influenza esercitata sulla psicologia e la pedagogia inglese, B. è invece divenuto in anni più recenti (in conseguenza dello scandalo suscitato dallo psicologo statunitense L. Kamin che nell’articolo The science and politics of IQ [1974] ha denunciato la manipolazione compiuta da B. sui suoi dati per dimostrare la tesi dell’ereditarietà dell’intelligenza) il simbolo di un’indagine psicologica fortemente connotata a livello ideologico e volta a sostenere interventi sociali e pedagogici selettivi e classisti. Bibl.: Glassey W., Educational development of children: the teachers’ guide to the keeping of school records, with a foreword by professor Sir C.B., London, University of London Press, 1950; Hernshaw L. S., C.B., psychologist, London, Hodder & Stoughton, 1979; Fletcher R., Science, ideology and the media: the C.B. scandal, New Brunswick/London, Transaction Publ., 1991.

F. Ortu - N. Dazzi

BUYSE Raymond n. a Tournai nel 1889 - m. ivi nel 1974, pedagogista belga. 1. Ha insegnato per 10 anni nelle scuole secondo le sollecitazioni dell’attivismo (→ Scuole Nuove); come ispettore scolastico e docente ha insistito sull’uso delle tecniche d’indagine nella verifica dei risultati e sull’organizzazione scolastica secondo i principi del taylorismo; è stato collaboratore di → Decroly con il quale ha scritto, ma dal quale ha dissentito contrapponendo la scuola dell’esperienza vissuta a quella che utilizza la ricerca sperimentale. Nel 1928 ha iniziato l’insegnamento all’Università cattolica di Lovanio, ove ha fondato e diretto il Laboratorio di → pedagogia sperimentale. I suoi meriti quale «capofila» della pedagogia sperimentale in Europa (→ Dottrens) lo hanno portato ad essere il primo presidente di Paedagogica (1950), società internazionale di studi e ricerche pedagogiche e poi presi-

BUYSE RAYMOND

dente onorario dell’AIPSLF (Associazione internazionale di Pedagogia Sperimentale di Lingua Fr.). È stato formatore di insegnanti e di ricercatori, animatore della ricerca sperimentale specie tramite i suoi allievi. 2. Ha cercato di definire il contributo della sperimentazione all’interno della pedagogia. Nell’insegnamento e nella direzione delle ricerche s’è occupato della scuola, dell’apprendimento, ha insistito sulla necessità della verifica dei risultati e d’una organizzazione razionale. Gli interessi culturali di B. hanno

riguardato anche l’→ orientamento e la famiglia. Bibl.: B.R., L’expérimentation en pédagogie, Bruxelles, M. Lamertin, 1935; Bonboir A. et al., L’oeuvre pédagogique de R.B., Louvain, Vander, 1969; Gille A., R.B., promoteur de la pédagogie expérimentale, in «Revue de Psychologie et des Sciences de l’Éducation» 10 (1975) 15-24; Montalbetti K., La pedagogia sperimentale di R.B., Milano, Vita e Pensiero, 2002.

L. Calonghi - C. Coggi

167

C CALASANZ José de n. a Peralta de la Sal nel 1557 - m. a Roma nel 1648, educatore spagnolo, santo, fondatore degli → Scolopi. 1. La vita di C. (noto in Italia con il nome di Calasanzio) trascorre in Spagna (1557-1592) e a Roma (1592-1648). Consegue il dottorato in teologia, lavora con vari vescovi, è precettore dei loro domestici. Con questa esperienza si trasferisce a Roma aspirando ad un canonicato; però non riesce nell’intento e arriva a dire, nel 1600: «Ho trovato a Roma il miglior modo di servire Dio, aiutando questi poveri ragazzi; non lo lascerò per nulla al mondo». Dal 1595 si dedica alle opere di carità in diverse congregazioni, tra cui quella della Dottrina cristiana, dove si impartisce l’insegnamento del → catechismo a fanciulli e fanciulle la domenica e i giorni festivi e si insegna ad alcuni a leggere, scrivere e fare di conto; sembra che si sia iscritto alla Dottrina cristiana nella seconda metà del 1599. C. vuole che questa Congregazione gestisca le scuole quotidiane e gratuite da lui fondate nella chiesa di s. Dorotea, ma non vi riesce. 2. In queste scuole, che chiamò «Scuole Pie» (come l’Ordine religioso che le ha fatte sopravvivere), la dottrina cristiana fu la materia principale. C. si preoccupò, tra l’altro, di trovare una metodologia catechistica diversa da quella utilizzata per le altre discipline scolastiche, benché anche la catechesi seguisse la Legge del dinamismo psicologico da lui enunciata per tutte le materie:

«Nell’insegnamento della → grammatica e in qualunque altra materia, risulta di gran profitto per l’allievo che il → maestro segua un metodo semplice, efficace e, per quanto possibile, breve. Per questo si metterà tutto l’impegno nello scegliere il migliore fra quelli indicati dai più dotti ed esperti nella materia» (Constituciones, n. 216). Si seguirà, inoltre, un metodo uniforme, tenuto conto della regionalizzazione e della creatività dei maestri. C. vuole catechisti preparati, un programma ben strutturato, libri, tecniche e tempi adeguati. Benché inserito nel campo della ragione e della cultura, vi è un momento nell’apprendimento catechistico nel quale il fanciullo deve realizzare gli atti richiesti dalla fede che apprende; e tutti gli alunni devono fare la preghiera personale nel → collegio. Questo insegnamento deve essere sistematico, universale e uniforme e, tenendo conto delle scansioni scolastiche, si deve attuare sin dai primi anni e giornalmente. C. si serve del catechismo per le lezioni di lettura (compitazione, sillabazione ad alta voce). Nelle sere della domenica e dei giorni festivi il catechismo viene insegnato nelle chiese parrocchiali a tutto il popolo con una speciale partecipazione degli alunni. Nel noviziato, lo scolopio deve apprendere già «il modo di insegnare la dottrina cristiana» ed i catechisti debbono avere «la cultura e l’autorità che caratterizza il sacerdozio». 3. C. pubblicò un suo catechismo, intitolato Alcuni misteri della Vita e Passione di Cristo Signor Nostro da insegnarsi alli scolari dell’infime classi delle Scuole Pie (la ediz., 169

CALONGHI LUIGI

Roma, 1599; ultima, 1691). Utilizzò e fece utilizzare i catechismi di Bellarmino, Romano, di s. Carlo → Borromeo e le opere di C. Franciotti. Instaurò e mantenne per 50 anni nelle sue scuole (fondò 37 collegi in Italia, Germania, Polonia, Ungheria, Boemia e Moravia) un organizzato e completo movimento catechistico. Davanti ad un tribunale difese il diritto del povero all’educazione primaria e media elementare. Viene considerato il creatore della scuola popolare moderna (1597). Bibl.: Santha G., De sancti Fundatoris nostri in Confraternitate Doctrinae christianae Urbis, praesentia, industria, muneribus, in «Ephemerides Calasanctianae» 6 (1958) 149-161; Cueva D., Catequesis calasanciana, in «Analecta Calasanctiana» 65 (1991) 109-134; Spinelli M., J.d.C., pionero de la escuela popular, Madrid, Ciudad Nueva, 2002.

V. Faubell

CALÒ Giovanni → Neoscolastica pedagogica

CALONGHI Luigi n. a San Bassano (Cremona) nel 1921 - m. a Torino nel 2005, pedagogista sperimentale e docimologo, sacerdote salesiano. 1. Si è laureato in filosofia e teologia; specializzato in Psicopedagogia presso l’Università di Lovanio (Belgio) con R. → Buyse. È stato docente, direttore d’istituto, preside e Rettore della Pontificia Università Salesiana di Roma e professore ordinario all’Università Statale di Torino, Salerno e Roma. è stato Presidente dell’IRRSAE Piemonte. Ha collaborato attivamente al rinnovamento della scuola it. partecipando a convegni e commissioni tecniche del MPI. Particolare impegno ha dedicato dal 1977 al 1993 alla messa a punto della scheda di valutazione per la scuola media (D.M. 5.5.93). 2. Ha sviluppato ampie ricerche empiriche in ambito didattico e docimologico, validando strumenti di rilevazione e controllando ipotesi innovative con il supporto di affinate tecniche statistiche e di approfondimenti qualitativi (riflessione verbalizzata). Ha messo la ricerca a servizio dei problemi della scuola, 170

predisponendo manuali, sussidi diagnostici, test e guide. Ha una vasta produzione scientifica che conta più di 50 voll.; oltre 60 contributi a voll. e quasi 200 articoli. È stato membro del comitato scientifico di numerose riviste; cofondatore di «Orientamenti Pedagogici» e della SIRD; consulente scientifico di sussidiari, testi di lettura, batterie di prove oggettive per la scuola elementare e media. Ha contribuito all’affinamento della metodologia della ricerca didattico-educativa, alla sua diffusione tra gli insegnanti e ha dato un contributo significativo all’introduzione delle teorie e delle pratiche della valutazione formativa nella scuola dell’obbligo italiana. Bibl.: C.L., Valutazione, Brescia, La Scuola, 1976; I d., Sperimentazione nella scuola, Roma, Armando, 1977; Nanni C. (Ed.), La ricerca pedagogica didattica, Roma, LAS, 1997; La M arca A. (Ed.), Ricerca, educazione, didattica. L’opera di L.C.: sviluppi attuali, Palermo, Palumbo, 2006.

C. Coggi

CAMBIAMENTO → Conversione → Recupero

CAMBIO SOCIALE Per c.s. si intendono tutte le trasformazioni che si producono in un dato periodo di tempo nella struttura di una determinata → società. 1. Il concetto non indica di per sé la direzione in cui il cambiamento avviene. L’interesse della sociologia per il c.s. va ricercato nel fatto che in una società, intesa come un insieme di sotto-sistemi interdipendenti, cambiamenti strutturati di un settore possono provocare tensioni e processi di adattamento negli altri. Il c.s. è uno dei problemi più affascinanti e nello stesso tempo più difficili in sociologia. Infatti la sociologia moderna ha iniziato con i tentativi di spiegare le cause del c.s. e in proposito ha cercato di elaborare una teoria che doveva rivelare le «leggi del mondo». La maggior parte delle interpretazioni aveva un carattere evoluzionistico: l’influsso maggiore è stato esercitato da Marx che sosteneva che il «modo di produzione» ed i rapporti di produzione da esso generati erano la «struttura» fondamentale della società, rispetto alla qua-

CAMBIO SOCIALE

le tutte le altre istituzioni, politiche, religiose e familiari, erano la «sovrastruttura». Con lo studio del c.s. si passa immediatamente dai problemi dell’organizzazione della società a quelli riguardanti le sue modificazioni, si passa cioè dalla statica alla dinamica sociale. Il c.s. riguarda il movimento delle persone o delle istituzioni da una posizione ad un’altra nell’ambito di una qualsiasi articolazione della società. Esso è sempre un cambiamento qualitativo, sia positivo sia negativo, e non si riferisce tanto alle vicende sociali di un singolo individuo, quanto piuttosto ai mutamenti collettivi di interi gruppi di persone, come per es. quando, in seguito allo sviluppo industriale, si verifica il passaggio da un’economia agricola ad una industriale. Nello studio del c.s., esattamente come in quello della stratificazione, possiamo distinguere due diversi aspetti: quello che i singoli compiono all’interno della stratificazione, e quello collettivo, dove invece l’attenzione si sposta sulle classi sociali, in quanto il tasso di mutamento di una società viene fatto dipendere dall’evoluzione storica dei rapporti sociali. Va subito detto che dal punto di vista sociologico non soltanto le due dimensioni citate sono singolarmente valide, ma esse sono anche compatibili con tre ordini di fattori, quelli individuali e quelli collettivi, quelli soggettivi e quelli oggettivi, quelli psicologici e quelli economici. 2. Nella divisione del lavoro sociale, → Durkheim (1962) traccia un quadro generale del c.s. come differenziazione. Le società erano un tempo organizzate meccanicamente, avevano leggi repressive ed erano dominate da una coscienza collettiva particolaristica e onnipresente con una → solidarietà meccanica. Gradualmente esse si sono mosse verso una solidarietà organica, dove le leggi sono restitutive e la moralità collettiva è generalizzata ed astratta. Durkheim si concentra qui primariamente sui cambiamenti economici e sulla separazione della religione dalle funzioni politiche e legali. Una delle teorie correnti del c.s. risale a W. Ogburn (1964) e sostiene che nelle società occidentali moderne sia la tecnica a determinare il cammino: ciò significa che la tecnica rappresenta la variabile indipendente e che il progresso in essa provoca negli altri settori della società processi di adattamento. Alcuni autori considerano il

c.s. una categoria generale in cui rientrano tutti i fenomeni, i processi e i movimenti che implicano una qualunque trasformazione della società umana o di qualche sua parte. Se si accoglie questo significato, l’evoluzione, lo sviluppo e il progresso diventano casi speciali o interpretazioni particolari del c.s., fenomeno universale che abbraccia tutto l’ambito degli studi sociologici. 3. I fattori del c.s. possono essere interni o esterni, secondo che abbiano origine all’interno o all’esterno del sistema considerato. Tra i fattori interni sono da includere: il conflitto tra i gruppi, le associazioni, le organizzazioni e le classi sociali, che mobilita e orienta le forze necessarie per introdurre mutamenti più o meno radicali e più o meno rapidi; l’accumulazione del capitale e i nuovi investimenti nei diversi settori produttivi; i movimenti collettivi, soprattutto allo stato nascente. Tra i fattori esterni si annoverano: la guerra, l’occupazione militare, il conflitto internazionale, gli interventi di una potenza straniera politicamente o economicamente dominante, la caduta di un regime legale come quella di uno illegale; forti aumenti o diminuzioni della popolazione, anche per effetto di intensi flussi migratori, per cui un sistema socio-economico, non riuscendo ad assorbire l’incremento demografico, entra in crisi e tende ad essere mutato; lo sviluppo della tecnologia, della scienza, dell’industria o con una parola della cultura materiale; i contatti con altre culture, l’acculturazione, l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, il turismo. 4. Ultimamente non si nota in generale tanto interesse per il c.s. Gli sforzi oggi si concentrano maggiormente sullo studio dettagliato di particolari società, comunità e istituzioni usando mezzi di osservazione, di indagine e di misurazioni sempre più esatti. Il c.s. viene analizzato in sociologia come una condizione normale della società. Ogni società e cultura è sottoposta a un rapido e costante c.s. I mutamenti non sono isolati né temporalmente né spazialmente e le conseguenze tendono a ripercuotersi su intere regioni o in tutto il mondo attraverso la tecnologia moderna e le strategie sociali. Nella mentalità moderna il c.s. si è quasi istituzionalizzato: in questo senso, all’ordine dato della tradizione si so171

CAMPANELLA TOMMASO

stituisce l’accettazione del c. continuo. In altre parole, non è positivo fare quello che tutti hanno sempre fatto, ripetere i modelli prestabiliti, ma innovare, come in economia, o scoprire e riformulare leggi, come nelle scienze. Pertanto si tratta di un passaggio da un insieme relativamente indifferenziato a una diversificazione crescente di ruoli, status, e istituzioni. La società moderna, postindustriale, accelera il processo di divisione del lavoro e aumenta il numero delle funzioni e delle specializzazioni. Bibl.: Durkheim E., La divisione del lavoro sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1962; Ogburn W., On culture and social change. Selected papers, Chicago/London, The University of Chicago Press, 1964; Jeffrey C. A., Teoria sociologica e mutamento sociale, Milano, Angeli, 1990; Bourdieu P. - J. S. Coleman, Social theory for a changing society, Boulder/Colorado, New York, Westview Press, 1991; Crespi F., Evento e struttura. Per una teoria del mutamento sociale, Bologna, Il Mulino, 1993; Toscano M. A. (Ed.), Introduzione alla sociologia, Milano, Angeli, 71993; Nisbet R. A., History of the idea of progress, Estover, Plymouth, Transaction Publishers, 1994; Sztompka P., The sociologv of social change, Oxford, Blackwell, 1994; Ortoleva P., Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Parma, Pratiche, 1995; Belardinelli S. - L. Allodi (Edd.), Sociologia della cultura, Angeli, 2006; Granieri P., La società digitale, Bari, Laterza, 2006.

J. Bajzek

CAMPANELLA Tommaso n. a Stilo, Calabria, nel 1568 - m. a Parigi nel 1639, filosofo italiano. 1. C., religioso domenicano, fu perseguitato e imprigionato per ragioni politiche. È il più tipico filosofo del Rinascimento italiano. Sulla scia di B. Telesio, ma con più profonda capacità metafisica, interpreta lo spirito di rinnovamento del naturalismo rinascimentale e ne formula l’incontro con il cristianesimo nella sua sintesi filosofica, nella gnoseologia e nella metafisica. La prima, accentuando il distacco dalla visione aristotelica, valorizza nel sensus inditus la coscienza (costitutiva) di sé 172

come base di ogni ulteriore conoscenza, dovuta al sensus additus, che deriva dal contatto con gli altri esseri. La presenza della mens (spirito) garantisce l’oggettività del conoscere. Si ha così una sintonia con la nuova ricerca della conoscenza della natura; ma resta la difficoltà di un residuo sensismo. La seconda ha come fondamento la concezione delle tre primalità (potentia, sapientia, amor) costitutive dei vari esseri: in Dio nelle tre divine Persone, e, in modo gradualmente partecipato, negli esseri creati. L’accentuazione dell’amor sui come prima tendenza, che in quanto tendenza all’essere diventa anche amor Dei, porta alla concezione di una religiosità sostanzialmente radicata nella natura (religio indita), che viene precisata e perfezionata dalle religioni positive (religio addita) e nel modo più perfetto dal cristianesimo. 2. La profondità e l’impostazione della sua speculazione pongono il C. nel cuore della cultura rinascimentale. Lo specifico interesse e influsso pedagogico è legato a un aspetto della sua opera utopica: la Città del sole. In essa trovano fantasiosa applicazione i principi elaborati nella filosofia di C., in un tentativo di sintesi politico-filosofico-religiosa e di esaltazione della natura: libertà, spontaneità, superamento dell’egoismo e dedizione al bene comune caratterizzano la vita dei cittadini, governati (in clima di pieno comunismo, sul tipo della Repubblica di → Platone) da un principe-sacerdote (il «Metafisico») assistito da tre magistrati (traduzione in dimensione politica delle tre primalità). 3. L’educazione dei piccoli, maschi e femmine, è realizzata nel contatto con la natura, all’aria aperta; l’apprendimento è attuato attraverso pitture murali sui muri della città, la visita alle botteghe degli artigiani, le attività meccaniche e agricole. In questa visione utopica C. anticipa, in certo modo, l’evoluzione dei metodi pedagogici e didattici. Ciò spiega l’influsso esercitato presso i successivi pedagogisti della corrente realista, per es. → Comenio. Bibl.: a) Fonti: C., La città del sole e altri scritti, a cura di F. Mollia, Milano, A. Mondadori, 1991. b) Studi: Di Napoli G., «L’utopia pedagogica in Moro, C. e Bacone», in Nuove questioni di sto-

CAMPIONE STATISTICO

ria della pedagogia, vol. I, Brescia, La Scuola, 1977; Frauenfelder E., La Città del Sole di Fra’ T. C., Napoli, Ferraro, 1981; Genovesi G. - T. Tomasi, L’educazione nel paese che non c’è. Storia delle idee e delle istituzioni educative in utopia, Napoli, Liguori, 1985; Negri L., Fede e ragione in T. C., Milano, Massimo, 1990; Garin E., Dal Rinascimento all’Illuminismo. Studi e ricerche, Firenze, Le Lettere, 1993; Vasoli C., Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavarino, Milano, B. Mondadori, 2002; A merio R. - M. Guglielminetti - P. Ponzio, «C.», in Enciclopedia Filosofica, vol. II, Milano, Bompiani, 2006, 1588-1595.

M. Simoncelli

CAMPIONE STATISTICO Parte di una popolazione ritenuta rappresentativa dell’intera popolazione in un particolare contesto di studio. 1. Premessa. Quando si pianifica una ricerca – in campo educativo, psicologico, sociale, ma anche in campo fisico, agrario o altro – si ha in mente qual è la popolazione (detta anche universo) che si vuole studiare. Ad es., se si decide di studiare i metodi usati dai docenti italiani per insegnare la storia ai ragazzi che frequentano la scuola media dell’obbligo, la popolazione è costituita da tutti i docenti italiani che in una qualsiasi scuola media insegnano quella disciplina. Una popolazione può essere quantificata in modo preciso. Nel nostro caso, sia pure con qualche difficoltà, sarebbe possibile fare un elenco nominativo di tutti gli insegnanti di storia delle scuole medie italiane. Nella maggior parte dei casi, raggiungere e studiare tutti gli individui che compongono una popolazione è troppo lungo e costoso. Se però si vuole che le conclusioni dello studio, anche se basate su una parte dei soggetti, possano ragionevolmente essere riferite all’intera popolazione, bisogna che la porzione scelta per lo studio – il c. – sia scelta secondo regole ben definite. 2. Tipi di c. Il c. casuale semplice è il tipo di c. che con più rigore rispetta le esigenze di rappresentatività, in quanto garantisce che ogni membro della popolazione abbia le stesse probabilità di essere estratto e di entrare a

far parte del c. Questo si ottiene assegnando ad ogni elemento della popolazione un numero ed estraendo i numeri con un procedimento rigorosamente casuale, simile a quello con cui si estraggono i numeri del lotto. Viene considerata una buona approssimazione al c. casuale il c. sistematico, in cui si parte da un numero scelto a caso e si procede a intervalli uguali. Non sono equiparati ai c. casuali i c .accidentali, scelti «come capita» o, peggio, in base alla facilità di accesso. Sono c. accidentali gli alunni esaminati dai loro stessi insegnanti, gli elettori all’uscita del seggio più vicino alla casa degli intervistatori, i pazienti studiati dai loro terapeuti e così via. I c. – casuali o no – sono detti stratificati quando la popolazione, anziché essere costituita da un’unica lista indifferenziata di individui, è articolata in categorie descrittive quali età, sesso, studi compiuti ecc. Sono detti a gruppi quando la popolazione non è costituita da un elenco di individui, ma da un elenco di gruppi: per es., se ogni elemento della lista è una classe scolastica, una unità abitativa, ecc. 3. Precisione delle misure ottenute nel c. Posto che il c. sia estratto a caso, quanto più è numeroso tanto più rispecchia in modo adeguato le caratteristiche della popolazione da cui è estratto. Il principio di base tenuto presente per stimare la precisione delle statistiche calcolate su c. è definito da una formula nota come disuguaglianza o teorema di Tchebycheff. Se il c. non è casuale ma accidentale si ha motivo di ritenere che quanto più è ampio il c. tanto più sono forti le distorsioni che lo rendono diverso e peculiare rispetto alla popolazione. Bibl.: K endall M. G., The advanced theory of statistics, vol. 1, London, Griffin, 1952; Calonghi L., La scelta del c., Roma, Università Salesiana, 1973; Hays W. L., Statistics for the social sciences, New York, Holt, 21973; Som R. K., A Manual of sampling techniques, London, Heinemann, 1973; De Carlo N. A. - E. Robusto, Teoria e tecniche di campionamento nelle scienze sociali, Milano, LED, 1996.

L. Boncori

CAPACITÀ → Abilità CAPACITÀ CRITICA → Senso critico CAPITALE UMANO → Economia e educazione

173

CAPITALISMO

CAPITALISMO È il sistema economico nato con la rivoluzione industriale (e ad essa intimamente congeniale) nell’Europa occidentale alla fine del sec. XVIII ed ora diffuso in maniera e misura diverse, in quasi tutto il mondo. 1. Il c. è fondato sulla proprietà privata (spesso anonima) dei mezzi di produzione (costituenti appunto quello che si chiama il capitale), sulle elevate (e crescenti) dimensioni delle unità produttive (le imprese), sul ruolo egemone dell’imprenditore, nell’organizzazione dell’attività produttiva, sulla dipendenza dell’apparato produttivo dalle richieste di un mercato libero e concorrenziale. Rispetto all’imprenditore i prestatori di lavoro si trovano in una posizione di subordinazione, sancita dal contratto di lavoro. I capitalisti sono i titolari della proprietà del capitale; ma i rischi (e naturalmente i vantaggi) dell’attività produttiva ricadono sull’imprenditore. Come il lavoro, così anche il capitale, quando non appartiene direttamente all’imprenditore (ed è la norma) deve essere adeguatamente rimunerato, secondo un prezzo determinato dal mercato. Il c. ha quindi esaltato la produttività del denaro; ne ha istituzionalizzato il mercato; ha creato un complesso di istituzioni finanziarie, aventi il compito di raccogliere il risparmio e di farlo affluire verso l’investimento. Simili istituzioni vengono ad assumere nel sistema un potere economico enorme, capace di esercitare forme di pesante condizionamento sulla politica sociale dei popoli. 2. Il primo c. è stato caratterizzato da forme di sfruttamento selvaggio del lavoro, che hanno prodotto, come reazione, la nascita del sindacalismo moderno e la formazione delle ideologie e dei movimenti socialisti. Col trascorrere del tempo, attraverso successivi e continui adeguamenti alle trasformazioni sociali, il c. ha mutato profondamente la sua fisionomia e si presenta oggi, con caratteri notevolmente diversi, costituiti soprattutto da un continuo aumento della produttività e della dimensione delle unità produttive, per una maggiore e più equa diffusione della ricchezza (almeno per i Paesi industriali avanzati), e per un tasso altissimo e crescente di consumi. Ma la creazione di un unico merca174

to mondiale, ha esasperato il divario economico esistente tra Paesi industriali avanzati e Paesi ancora in via di sviluppo, creando forme di miseria intollerabili, da cui non esiste per ora via praticabile di uscita. Dal punto di vista culturale, il c. può essere adeguatamente capito solo sullo sfondo dell’ideologia liberale. Il valore privilegiato da questa forma di pensiero è quello dell’individualità personale. Compito della → società è quello di liberarne tutte le possibilità di espansione attiva e di stimolarne intensamente le prestazioni sia materiali che culturali. Questa liberazione e questo stimolo sarebbero garantiti dal carattere competitivo del sistema capitalista. Il sistema stesso, col suo specifico funzionamento, senza bisogno di programmare nessuna forma sistematica di indottrinamento, esercita un influsso educativo inconsapevole ma efficace, volto a diffondere questa sua specifica visione dell’uomo e della società. Spetta perciò alla scuola e agli educatori di professione il compito di aiutare le nuove generazioni a una valutazione critica di questa ideologia e di una messa in guardia nei confronti di questo indottrinamento occulto, così largamente diffuso nella nostra cultura. Bibl.: Perroux F., Le capitalisme, Paris, PUF, 1960; Sweezy P. M., La teoria dello sviluppo capitalistico, Torino, Bollati Boringhieri, 1970; Dobb M., Economia politica e c., Ibid., 1972; Pont. Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano, LEV, 2004.

G. Gatti

CAPPONI Gino n. a Firenze nel 1792 - m. ivi nel 1876, storico, filologo, letterato, politico, pedagogista italiano. 1. Nasce da una delle più antiche e celebri famiglie fiorentine. Ricco di censo e d’ingegno, possiede una vasta cultura, che gli viene dalla conoscenza delle lingue classiche e moderne, da forti studi, da molte letture, dai viaggi in Italia ed Europa. Significativi quelli nella cosiddetta provincia pedagogica europea di cui dà relazione con Ragguaglio dello stabilimento di educazione del p. → Gi-

CARATTERE

rard a Friburgo (1820), Considerazioni sopra un libro relativo agli Istituti di Hofwyl (1822). È tra i fondatori dell’«Antologia», del «Giornale Agrario Toscano», dell’«Archivio Storico Italiano». È membro della Società fiorentina per la diffusione del → mutuo insegnamento; promuove e sostiene gli asili aportiani; segue con interesse la vita dell’Istituto s. Cerbone dell’amico → Lambruschini; è in relazione personale o epistolare con i maggiori pedagogisti italiani ed europei dell’Ottocento. 2. Oltre ai molti scritti di carattere storico, letterario, economico, politico, va segnalato quello che la critica ritiene il suo capolavoro: Sull’educazione. Frammento di G. C., 1841 pubblicato a Firenze nel 1869, ma stampato anonimo nel 1845. In esso C. insiste perché l’educazione sia fondata sugli affetti, sul rispetto della spontaneità e della → personalità, sull’esigenza di esempi buoni, sul ruolo della → famiglia, in particolare della madre, che educa il cuore. Infatti per C. l’educazione è sviluppo integrale della persona mediante le forze vive dello spirito, che vanno conosciute e rispettate. Per questo è fortemente critico nei confronti di chi fonda l’educazione solo su metodi e precetti. Nel 1856 pubblica Brano di studio morale, con spunti originali di psicologia femminile. Bibl.: a) Fonti: Lettere di G.C. e di altri a lui, a cura di A. Carbaresi, Firenze, Le Monnier, 1882-1890, 3 voll.; G.C., Scritti pedagogici, a cura di A. Gambaro, Brescia, La Scuola, 1968; b) Studi: Nencioni G. (Ed.), G.C.: linguista, storico, pensatore, Firenze, Olschki,1977; Spadolini G., La Firenze di G.C. fra restaurazione e romanticismo: gli anni dell’Antologia, Firenze, Le Monnier, 1986; G.C. Storia e progresso nell’Italia dell’Ottocento, Atti del Convegno di studi (Firenze, 21-23 gennaio 1993), a cura di P. Bagnoli, Firenze, Olschki, 1994.

R. Lanfranchi

CARATTERE Lo studio del c. è stato di notevole interesse per psicologi, pedagogisti ed educatori, anche se il concetto è rimasto sempre poco preciso e definito. Basterebbe un elenco di

definizioni date nel tempo dagli studiosi per capire l’ampiezza entro cui esse si muovono e, in conseguenza, la poca precisione del termine. Si va da definizioni che puntano su caratteristiche quasi congenite e comunque fisse e stabilizzate, a caratteristiche legate al mondo dei → valori e delle → credenze del soggetto interessato. 1. Frequentemente il termine c. è associato a quello di temperamento, dando al primo un peso più «psicosociale» e legato all’educazione e all’ambiente, e al secondo un significato più «somatopsichico» e congenito. Il c., inoltre, ha frequentemente una connotazione morale, assente completamente nelle definizioni di temperamento. Volendo portare agli estremi le varie posizioni degli studiosi potremmo dire che, per alcuni, il c. è qualcosa di strutturale; per altri è qualcosa di reattivo pur garantendo un minimo di «coerenza»del comportamento. 2. Senza impegnarci in un’esegesi delle varie definizioni, ma allo scopo di confermare quanto fin qui detto, eccone alcune, storiche e contemporanee. Per F. R. Paulhan (1902) il c. è «ciò che fa che una persona sia se stessa e non un’altra». Per → Spranger (1927) «il c. è la diversa tipica attitudine assunta dalla persona, di fronte a valori quali quello estetico, economico, politico, sociale, religioso». Molto significativa, nella sua sinteticità, è la definizione di A. Niceforo (1953): «c. è l’io in società». Una delle definizioni che sembra più completa e convincente è quella di R. Diana. Per questo studioso, c. è «l’insieme delle disposizioni congenite e di quelle stabilmente acquisite che definiscono l’individuo nella sua completa attitudinalità psichica e lo rendono tipico nel modo di pensare e di agire». Questa definizione contiene due aspetti significativi della condotta dell’individuo: unità (modo di agire coerente) e stabilità (unità continuata nel tempo). In altre parole, il c. sarebbe una strutturazione psicologica di natura reattiva all’ambiente. Da queste definizioni si coglie bene l’interesse pedagogico della conoscenza del c. e l’attenzione prestata a questa realtà individuale da parte degli educatori di tutti i tempi: atteggiamento di fronte ai valori e disposizioni stabilmente acquisite sono due dimensioni di notevole portata formativa. 175

CARATTEROLOGIA

3. Nonostante ciò, la sua connotazione di staticità ha reso lo studio del c. meno attuale con il progredire della psicologia dinamica e della personalità (termine, quest’ultimo, molto più usato oggi al posto di c.), che, tuttavia, il termine c. lo ha sempre usato: basti ricordare Freud che, già nel 1908, fece il passaggio da «sintomo» nevrotico a «c.» nevrotivo, comprendendo che il sintomo era radicato nel c. dell’individuo e che l’azione terapeutica doveva essere rivolta al c. e non al sintomo. Bibl.: Paulhan F. R., Les caractères, Paris, Alcan, 1902; Spranger E., Lebensformen. Geisteswissenschaftliche Psychologie und Ethik der Persönlichkeit, Halle, Niedermeyer, 1927; Niceforo A., Avventure e disavventure della personalità e dell’uomo in società, Milano, Bocca, 1953; Diana R., Guida alla conoscenza degli uomini. Tipologia caratterologica, Roma, Paoline, 1964; Fedeli M., Temperamenti e personalità: profilo medico e psicologico, Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1992; La M arca A., Educazione del c. e personalizzazione educativa a scuola, Brescia, La Scuola, 2005.

M. Gutiérrez

CARATTEROLOGIA La c. non è certamente di moda, e viene sempre meno presa in considerazione dagli studiosi delle differenze (individuali e di gruppo) del → comportamento. Il calo di interesse per la c. è indubbiamente legato ai limiti intrinseci che essa presenta nel suo intento classificatorio e nella sua staticità, ma è contemporaneamente legato allo sviluppo della psicologia dinamica e della personalità, anche se questa non ha mancato di prendere in considerazione sia l’aspetto classificatorio del carattere che la possibilità di collegare questa tipologia a specifici interventi psicoterapeutici: basti ricordare quanto scritto nella voce «carattere» sul pensiero di Freud e, più recentemente e solo a titolo di esempio, gli studi di Bioenergetica. 1. Lo studio del → carattere nella sua struttura, nei suoi elementi costitutivi, nei fattori che lo influenzano (c. generale) e nei suoi tentativi classificatori in base a elementi comuni (c. speciale) ha comunque costituito un 176

valido tentativo di avvicinamento al singolo individuo, mettendo in risalto elementi caratterizzanti ma paragonabili con altri. Senza addentrarci in approfondite analisi si può dire che le principali scuole caratterologiche hanno avuto alla base dei loro tentativi di classificazione o il tipo (→ tipologia) o il tratto (→ tratti di personalità), considerati isolatamente, in rapporto tra essi, con maggiore o minore intensità di presenza. 2. Sono stati molti i criteri in base ai quali le varie scuole hanno costruito le loro classificazioni. Ad es., tratti caratterologici legati a strutture biologiche (bilioso, sanguigno, linfatico, ecc.); ad atteggiamenti generali di approccio alla realtà (introverso, estroverso; oggettivo, soggettivo); alla morfologia (macrosomico, microsomico; endomorfo, mesomorfo, ectomorfo; leptosomico, atletico, picnico); alla patologia mentale (schizotimico, ciclotimico). Qualsiasi caratteristica psicologica, per essere presa in considerazione per una classificazione tipologica, dovrebbe possedere alcuni requisiti: essere di rilievo e bene definita; avere un’altra caratteristica antagonista; indicare qualcosa di sufficientemente stabile; essere un centro nodale con altre caratteristiche ad essa collegate e da essa, in qualche modo, dipendenti. 3. Nonostante i limiti che presenta qualunque tentativo di «classificare» una persona, non si può negare che le varie scuole caratterologiche abbiano dato un notevole contributo allo sviluppo della → psicologia differenziale e abbiano dato un prezioso apporto agli educatori aiutandoli a cogliere almeno alcune caratteristiche significative dei loro educandi e ad impostare azioni educative che tenessero conto di particolari esigenze individuali (Roldán). L’individuazione dei soggetti «più tipici»; la possibilità di avere uno schema di osservazione uguale per tutti, favorendo i confronti; la possibilità di arrivare alla conoscenza di caratteristiche «nascoste» attraverso quelle più facilmente rilevabili, sono tutti elementi che costituiscono un aiuto per l’educatore nella sua azione di orientamento e indirizzo. Bibl.: Bertin G. M., La c., Milano, Bocca, 1951; Lorenzini G., Lineamenti di c. e tipologia applicate all’educazione, Torino, SEI, 1954; A llers R., Psicologia e pedagogia del carattere, Ibid.,

CARCERE

1960; Roldán A., Introducción a la ascética diferencial, Madrid, Razón y Fe, 1960; Rohracher H., Elementi di c., Firenze, Giunti Barbera, 1970; Lowen A., Il linguaggio del corpo, Milano, Feltrinelli, 2006.

ma in genere non serve alla funzione rieducativa/risocializzante del soggetto deviante dalla norma, dal momento che l’istituzione carceraria, pur in presenza di una legislazione innovativa, nella maggior parte dei casi ancora oggi non risponde ai fini per i quali è stata istituita, per cui in pratica perde la sua funzione «correttiva».

CARCERE

3. Il punto debole dell’attuale sistema carcerario va individuato anzitutto nel continuare ad assolvere prioritariamente ad una funzione custodialistica. E fin quando una istituzione («totale», come la definisce Goffman) ricorrerà a metodi repressivi, di emarginazione ed isolamento, è chiaro che essa potrà difficilmente avanzare la pretesa di essere uno strumento riabilitativo nei confronti di un soggetto da rieducare, dal momento che è essa stessa causa di disadattamento. Al suo interno vengono meno infatti quelle condizioni innovative previste dalla legge per assolvere agli scopi rieducativi/risocializzanti: le misure alternative riguardano una parte della popolazione carceraria, il lavoro rimane per molti un «sogno», le nuove figure professionali, le quali dovrebbero operare nel c. con funzioni rieducative, in realtà risultano a tutt’oggi insufficienti ed infine mancano veri e propri programmi d’intervento coordinati tra le differenti parti deputate alla riabilitazione morale e sociale del soggetto in trattamento carcerario.

M. Gutiérrez

Il c., inteso come luogo di detenzione, è un’istituzione piuttosto recente nella storia. 1. Prima del XIX sec. si ricorreva frequentemente a forme punitive il cui effetto deterrente e dissuasivo consisteva o nelle pene fisiche (torture, lavori forzati...) o in quelle di tipo economico (confisca dei beni, ammende...), mentre per i reati più gravi veniva applicata la condanna a morte. Il c. moderno si fonda invece sulla logica della privazione della «libertà» al fine di rieducare/risocializzare il soggetto che ha «deviato» dalla norma. L’effetto-pena trova applicazione in questo caso nel «luogo» utilizzato per mandare ad effetto tale deprivazione (appunto, il penitenziario), mentre la gravità del reato viene misurata in base al «tempo» durante il quale il cittadino è privato della libertà. 2. Nell’affrontare il tema della funzione educante del c. il legislatore ha tenuto a sottolineare che: «Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi...» (art. 1, Cap. I del Trattamento penitenziario). Questo processo che ha permesso di passare da pene disumanizzanti (come erano in passato quelle fisiche) a forme meno umilianti per la condizione umana e per di più mirate al recupero del soggetto trasgressivo, richiede tuttavia di verificare se sono stati effettivamente raggiunti quegli scopi rieducativi per i quali è stato introdotto l’odierno istituto di pena. Se si misurano i risultati finora conseguiti in rapporto ai fenomeni di recidività dei comportamenti trasgressivi di chi è stato oggetto di un trattamento carcerario, la risposta è doppiamente negativa: un tale trattamento, così come viene attuato oggi, non solo non costituisce un deterrente al reato,

4. La sfida futura di una società che intende essere «democratica» nel pieno senso del termine consisterà perciò nella capacità di saper recuperare il «deviante» lungo il graduale passaggio da forme penitenziarie chiuse/isolate a quelle sempre più aperte e decentratrate nel sociale; fino ad arrivare a proporre una parziale e, chissà, anche totale eliminazione dell’attuale sistema carcerario. Studi e ricerche promosse in ambienti penitenziari (CNOS-FAP, 1989) hanno permesso di rilevare che il c. non è un’isola né deve stare nelle isole; che dare la «morte sociale» al cittadino non assolve alla funzione di riequilibrio dell’ecosistema sociale; che il lavoro è un «diritto per tutti» tanto più per chi intende riscattare la propria posizione di «ristretto»; ed infine che a questa «apertura delle c.», mirata al recupero integrale del soggetto deviante, non può rimanere estraneo il terri177

CARISMA

torio nelle sue variegate componenti, pubbliche e private, le quali sono parte integrante di un «corpo sociale» ove ciascun individuo ha il dovere morale e sociale di assolvere ad un compito di responsabilità nei confronti delle componenti meno sane del sistema. Bibl.: Morrone A., Il trattamento penitenziario e le alternative alla detenzione, Padova, CEDAM, 2003; Santarelli G., Pedagogia penitenziaria e della devianza, Roma, Carocci Faber, 2004; Benecchi D. (Ed.), Dei diritti e delle pene, Modena, Sigem, 2004; Ferrario G., Psicologia e c., Milano, Angeli, 2005; A nastasia S. - P. Gonnella, Patrie galere, Roma, Carocci, 2005; Astarita L. (Ed.), Dentro ogni c. Antigone nei 208 istituti di pena italiani. Quarto rapporto sulle condizioni di detenzione, Ibid., 2006.

V. Pieroni

CARISMA Il c. si può definire come una relazione di potere fra una guida ispirata e i suoi seguaci, che riconoscono in essa e soprattutto nel suo messaggio la promessa di un ordine nuovo a cui essi aderiscono con una convinzione intensa. Per il leader carismatico che occupa una posizione del tutto centrale in un determinato gruppo di adepti o in una comunità emozionale, il messaggio è al tempo stesso una missione. 1. Il termine c., dal gr. charisma (grazia divina), è stato usato in sociologia per primo da E. Troeltsch (1912) e poi approfondito da → Weber (1922). Il c. è il potere straordinario di alcuni personaggi che possiedono un fascino particolare sugli altri. Esso è senz’altro diverso dal potere di un burocrate e si definisce per il suo carattere straordinario, sovrumano e sovrannaturale. Il carismatico è un «inviato da Dio» o da una forza eccezionale. Per lui non sono importanti tanto i compiti da svolgere, che sono vari e molto diversi, ma è importante piuttosto il modo, lo stile con cui realizzare la sua missione. Egli non dispone di un apparato organizzativo, economico o coercitivo perché l’obbedienza è assicurata attraverso la persuasione. L’opposto di un capo carismatico è il tiranno che governa attraverso la forza e la paura, oppure un go178

vernante al quale si obbedisce, indipendentemente dalle sue capacità personali. 2. Nel linguaggio corrente c., popolarità e contagio emotivo sono considerati sinonimi: tuttavia, a livello scientifico le differenze non mancano. Un individuo popolare non pretende niente; invece il capo carismatico è molto esigente. Così il c. non è riducibile alla popolarità anche se molte volte è associato a manifestazioni diffuse di entusiasmo. Il potere carismatico è sempre molto personale e per questo rende fragile l’istituzionalizzazione. Gesù è stato un capo puramente carismatico durante tutta la vita. Il carismatico, come portatore di c., ha su molti un fascino che si fonda probabilmente sull’apprezzamento dei comportamenti e delle prestazioni, ma che si sposta poi gradualmente sulla mera esistenza di essi. Così i carismatici, per il fatto stesso di esserci, contano e sono socialmente importanti; soddisfano i bisogni di dipendenza, di comportamenti individuali e collettivi e tendono a diventare criterio di verità e di valore. In tal senso, nel bene e nel male, i portatori di c. vengono ad avere una loro significatività educativa. Bibl.: Troeltsch E., Die Soziallehren der Christlichen Kirchen und Gruppen, Tübingen, Mohr, 1912; Weber M., Wirtschaft und Gesellschaft, Ibid., 1922; Eisenstadt S. N., Max Weber on charisma and institution buildings. Selected papers, Chicago, University of Chicago Press, 1968; A rdigò A., Crisi di governabilità e mondi vitali, Bologna, Cappelli, 1980; A lberoni F., Movimento e istituzione, Bologna, Il Mulino, 1981; Tedeschi E., Per una sociologia del millennio. David Lazzaretti: c. e mutamento sociale, Venezia, Marsilio, 1989; Tuccari F., C. e leadership nel pensiero politico di Max Weber, Milano, Angeli, 1991.

J. Bajzek

CAROLINGIA: Rinascita → Medioevo CARRIERA → Lavoro → Professionalità CARTESIO (DESCARTES) René → Metodo → Senso comune

CASA-FAMIGLIA La c.f. è una struttura di accoglienza, costituita da una normale abitazione, in cui vive,

CASO: STUDIO DEL

per un periodo di tempo variabile ma non lungo, un ridotto gruppo di soggetti (tra gli 8 e i 10) in assenza di una famiglia o in alternativa ad essa. Oltre a surrogarne le funzioni permette ai suoi ospiti di vivere in un contesto non istituzionale e quindi caratterizzato da relazioni significative e a valenza educativa.

scolastiche, ludiche, occupazionali e relazionali, e garantendo un collegamento con gli altri → servizi del territorio. La realizzazione di tale struttura è quasi sempre di iniziativa pubblica e compete all’Ente Locale titolare delle funzioni socio-assistenziali che per lo più ne affida la gestione al privato sociale in forma di cooperativa di servizio.

1. Si tratta una soluzione prevista dal sistema di offerta dei servizi sociali nei confronti dei minori in attesa di → adozione o di collocazione in → affidamento familiare o di coloro per cui si reputa necessario un allontanamento più o meno lungo dalla famiglia di origine, in quanto questa non è ritenuta idonea a fornire un’educazione appropriata. Si tratterebbe pertanto di una struttura a dichiarata valenza socio-educativa. Analoga è l’esperienza dei «focolari» riservati ad adolescenti che presentano forme di disagio sociale. Tale soluzione viene altresì contemplata anche per altre categorie di utenza pur se con finalità diverse, o per assicurare una stabile comunità di vita. Così si può dire delle strutture per disabili, malati di mente e anziani che assumono una valenza di tipo più socio-assistenziale, rispondendo al bisogno di alloggio e protezione di persone con insufficiente livello di autonomia. Tali sono le comunità alloggio, i moduli comunitari delle Residenze Sanitarie Assistenziali, le comunità protette, le c. rifugio per donne abusate, fino ai gruppi appartamento e ai gruppi assistiti dove la presenza di personale è limitata a poche ore al giorno e gli ospiti sperimentano la loro capacità di autogestione in un percorso di progressiva autonomia. Per ciascun tipo di tali strutture comunitarie, variamente denominate, le Regioni stabiliscono precisi standard strutturali e di personale a cui i soggetti gestori si devono attenere sia per ottenere l’autorizzazione che, eventualmente, per accreditarsi.

Bibl.: Punzi I., Logoterapia e AIDS. L’esperienza della c. f. «Padre Monti», in «Orientamenti Pedagogici» 39 (1992) 1191-1198; C.f. Aspetti sociali e amministrativi, Roma, Fondazione Italiana per il Volontariato, 2001.

2. La c.f. o altrimenti detta «gruppo famiglia» è una struttura residenziale protetta, in cui cioè gli operatori – o una coppia di coniugi riconosciuti idonei – sono presenti nelle 24 ore con compiti di educazione, animazione e sostegno affettivo («figure calde») e materiale (cura, assistenza alla persona, tutela) assicurando altresì ai propri ospiti una normale vita sociale esterna nelle attività

R. Frisanco

CASO: studio del Lo studio del c. rientra nell’approccio idiografico che studia unità individuali. 1. Con tale espressione si fa riferimento, in ambito psicologico, all’impostazione di metodo per condurre e organizzare il lavoro clinico o psicoeducativo su un singolo o su un sistema. A tale riguardo, occorre osservare che non esiste un approccio metodologico unico e che nella maggior parte dei c. l’impostazione adottata dai diversi centri di consulenza e di terapia risente significativamente del modello terapeutico prescelto. Ciononostante sono rinvenibili, pur con sfumature e accentuazioni diverse, alcune linee metodologiche comuni. Nel presentarle operiamo una distinzione tra conduzione e stesura del c. Nella conduzione del c. generalmente vengono seguite queste fasi: definizione dei ruoli e creazione di una collaborazione terapeutica, raccolta dati in funzione della comprensione del problema presentato, sviluppo di un progetto di cambiamento; negoziazione del trattamento; inizio del trattamento e mantenimento delle motivazioni; registrazione e verifica dei progressi; mantenimento del cambiamento; termine del trattamento. 2. Nella stesura del c. occorre curare la presentazione delle voci seguenti: a) Dati generali: richiedente (nome e cognome, età, sesso, composizione familiare, occupazione, livello sociale del paziente) e tipo di richiesta (indicare il motivo della consultazione e 179

CASOTTI MARIO

se quest’ultima è stata ricercata dal soggetto o da altri); date degli incontri; antefatto (informazioni su eventuali consultazioni precedenti alla consultazione attuale). b) Indagine psicologica: aree esplorate (comportamento, sentimenti, cognizioni, relazioni interpersonali, storia familiare, scolastica, lavorativa); strumenti utilizzati (esplorazione soggettiva e oggettiva, osservazione diretta, analisi comportamentale, test oggettivi, test proiettivi, questionari); informazioni ottenute dai singoli strumenti. c) Analisi e integrazione dei dati raccolti: indicazione del modello di analisi prescelto; convergenza degli indici ricavati dai singoli strumenti di rilevazione e organizzazione del problema e dei problemi presentati; presa di posizione (diagnosi e prognosi); indicazioni e controindicazioni per l’intervento. d) Pianificazione dell’intervento: obiettivi remoti e prossimi; forme di intervento (promozione dello sviluppo, → recupero, rieducazione, terapia, intervento in caso di crisi); organizzazione dell’intervento (aiuto al singolo, lavoro col gruppo, lavoro nell’ambiente); strategie e tecniche di intervento. e) Verifica dell’intervento: obiettivi raggiunti, stato attuale del soggetto, follow-up. 3. In ambito più strettamente psicosociale lo studio del c. rientra nei metodi di ricerca qualitativa. Esso ha un carattere essenzialmente descrittivo e può riguardare il singolo individuo, un gruppo, una organizzazione, una comunità. Tra le caratteristiche distintive di tale metodo sono da menzionare: la piccola quantità di unità coinvolte, il riferimento ad un periodo di tempo limitato, l’analisi di eventi che si svolgono in vivo, la finalizzazione alla soluzione di problemi e non alla pura ricerca. Secondo Bromley (1986) le regole fondamentali per condurre efficacemente lo studio dei c. sono le seguenti: riferire i fenomeni in modo veritiero e puntuale utilizzando un linguaggio descrittivo; esplicitare e definire chiaramente scopi e obiettivi; valutare in che misura i risultati sono stati raggiunti, concedersi il tempo necessario per indagare e fare controlli incrociati sulle informazioni raccolte, considerare il contesto ecologico, argomentare con prove ciò che si afferma. La forza del metodo di studio del c. consiste nel suo contributo ad una descrizione accurata e particolareggiata dei fenomeni all’interno di una precisa struttura concettuale. 180

Bibl.: Susskind E. - D. K lein (Edd.), Community research: methods, paradigms and applications, New York, Praeger, 1985; Bromley D., The case study method in psychology and related disciplines, Chichester, Wiley, 1986; Urso A. (Ed.), C. clinici, in «Terapia del Comportamento» 32 (1991) 7-120; McWilliams N., Il c. clinico: dal colloquio alla diagnosi, Milano, Cortina, 2002.

A. R. Colasanti

CASOTTI Mario n. a Roma nel 1896 - m. a Marina di Pietrasanta nel 1975, pedagogista italiano. 1. Si formò alla scuola di → Gentile, con il quale discusse la tesi dal titolo La conce­ zione idealistica della storia (pubblicata nel 1920). Egli si distinse subito come uno dei giovani più promettenti del vivaio gentiliano, ricoprendo, dapprima, le funzioni di re­d attore capo di «Levana» e assumendo, quindi la condirezione de «La Nuova Scuola Italiana», due riviste fondate nei primi anni ’20 dal → Codignola. Pubblicò, in par­t icolare, due studi di carattere teoretico: Introduzione alla pedagogia (1921) e La nuova pedagogia e i compiti dell’educazio­ ne moderna (1923). Tali studi sono tanto più significativi in quanto mostrano che C. era, ormai, avviato a un ripensamento del­ la pedagogia gentiliana. Nel 1923 giunse a Torino per insegnare materie umanistiche presso il Magistero, ma vi restò solo pochi mesi. Sciolta la crisi spirituale nella quale si dibatteva e abbracciato il cattolicesimo, nel 1924 fu chiamato da padre → Gemelli all’Università Cattolica quale docente di pedagogia. A conferma dei suoi nuovi orientamenti giunse la pubblicazione Let­ tere su la religione (1925), che segnava l’abbandono delle tesi idealiste in favore della concezione cristiana della vita e della filosofia aristotelico-tomista. Presso l’Uni­ versità Cattolica C. rimase per circa un quarantennio, assicurando l’insegnamento non solo di pedagogia, ma anche di storia della pedagogia. Con i primi anni ’30 ven­ ne, per altro, collaborando in modo sem­pre più stretto con la casa editrice La Scuo­la e nel ’53 assunse la direzione di «Peda­gogia e Vita», mantenendola fino al 1970.

CASSIODORO

2. Dopo il suo approdo all’Università Cat­ tolica, C. si sforzò di trasferire le prospetti­ve della filosofia neoscolastica nel campo più specifico della riflessione pedagogica. Questa linea di ricerca lo condusse a confi­g urare la pedagogia «come scienza e come arte», ovvero come sapere pratico-poietico volto a promuovere e a migliorare i con­creti processi educativi. Egli sottolineava che il discorso pedagogico, lungi dal con­centrare la sua attenzione sulla dimensio­ne antropologica, era teso a valorizzare an­che le problematiche metodologico-didattiche e ad aprirsi al contributo della stessa sperimentazione. Ma il frutto più significa­tivo del suo impegno di studio fu la messa a punto del concetto di educazione. Nel rin­viare l’uno contro l’altro i riduttivismi che tendevano a privilegiare ora il ruolo del maestro ora quello del discepolo, C. affer­mava che ai fini di una corretta opera edu­cativa occorreva prevedere la piena parte­cipazione di ambedue gli interlocutori, se­condo le linee elaborate da s. → Tommaso nel De Magistro e nello spirito della rifles­ sione promossa dalla pedagogia del nostro → Risorgimento. In tale contesto si collo­cano le critiche che, soprattutto fra gli anni ‘30 e ’50, egli rivolse, non senza qualche esasperazione polemica, all’attivismo del­le → Scuole Nuove, inficiato, a suo modo di vedere, da un’impostazione che, per favo­r ire il cosiddetto spontaneismo dello scola­ro, trascurava le superiori esigenze della verità. Gli scritti pubblicati da C. spaziava­no dalla ricerca squisitamente teoretica (Maestro e scolaro. Saggio di filosofia del­l’educazione, 1930; Pedagogia generale, 1947-48) all’indagine storica (La pedago­g ia di Raffaello Lambruschini, 1929; La pe­dagogia di San Tommaso d’Aquino, 1931; La pedagogia di Antonio Rosmini, 1937). Durante il suo lungo magistero egli si ap­plicò, in particolare, ad approfondire le va­lenze pedagogiche del Vangelo, alimentan­do una corrente di studi che conobbe allo­r a un certo fervore e nel cui ambito doveva emergere → Nosengo, uno dei suoi più fe­deli allievi. Testimonianza di questi inte­ressi, cui C. dedicò vari corsi universitari è lo scritto La pedagogia del Vangelo (1953). Ai suoi occhi, la pedagogia evangelica ac­quistava un’importanza del tutto speciale, poiché era persuaso che essa fosse in con­d izione di autenticare le istanze dello stes­so attivismo, liberandolo

dagli aspetti de­teriori dei quali era, a suo giudizio, intriso. 3. Nell’ultima fase del suo pensiero, C. sem­ brò propugnare un recupero di taluni aspet­ ti dell’idealismo, in special modo nell’in­ terpretazione datane dal Gentile. Tuttavia, nel riproporre le suggestioni della lezione gentiliana, egli intendeva non già rinnegare la visione della pedagogia neoscolastica in favore dell’attualismo, ma riassestare il di­ scorso pedagogico fornendogli una più esplicita fondazione etico-filosofica. L’esi­genza di questo riassestamento gli sembra­va allora tanto più urgente, in quanto aveva l’impressione che, in un contesto culturale che vedeva le cosiddette scienze umane guadagnare terreno, molta ricerca pedago­gica fosse sempre più esposta ai rischi del sociologismo e dello psicologismo. Bibl.: Lombardi F. V., M.C.: la pedagogia della neoscolastica, in «Orientamenti Pedagogici» 10 (1963) 472-493; I d., Filosofia e pedagogia nel pen­siero di M.C., in «Rivista di Filosofia Neoscolasti­ca» 69 (1977) 103-118; Bertin G. M., Pedagogia italiana del novecento. Autori e prospettive, Milano, Mursia, 1989; Damian ­ o E., La sperimentazione pedagogica secondo M.C., in «Pedagogia e Vita» 50 (1992) 6, 44-65; Scurati C., Teoria della didattica e didattica ope­rativa in M.C., in «Pedagogia e Vita» 51 (1993) 1, 59-77.

L. Pazzaglia

CASSIODORO Vissuto tra il 490 ca. e il 580 ca., senatore romano; C. è, insieme a S. Boezio, fautore della rinascita culturale promossa dal re degli Ostrogoti Teodorico, di cui diviene ministro. 1. L’interesse culturale di Flavio Magno Aurelio C. si estende oltre la durata e i limiti del regno di Teodorico in favore della cultura, sia classica che propriamente cristiana, non contrapposte, ma integrate. Gli ambiti di questa sua opera sono diversi. Nell’ambito, che diremmo politico, si impegna per la promozione e la valorizzazione dell’opera dei maestri a tutti i livelli. È significativa, a tal proposito, una sua lettera al Senato, sotto 181

CASTIGHI

il re Atalarico, successore di Teodorico, per propiziare un adeguato stipendio agli insegnanti dei vari gradi delle scuole romane. Nell’ambito ampiamente ecclesiale, il suo interesse si estende alla ricerca dell’integrazione del sapere classico con lo studio serio della Bibbia e dei Padri. Elabora, in accordo con papa Agapito, il progetto di un Centro superiore di studi religiosi e di una grande Biblioteca da realizzarsi in Roma. Le difficoltà della situazione sociale e politica non ne permettono l’attuazione. 2. C., però, non desiste dal suo impegno, ma ne cerca un altro ambito di realizzazione: fonda a Vivarium, in Calabria, una forma di vita monastica, i cui membri si dedichino contemporaneamente alle finalità spiritualiascetiche proprie del monachesimo e a una finalità specificamente culturale nella ricerca dell’integrazione tra lo studio delle Sacre Scritture e dei Padri e quello della cultura classica. Di qui l’importanza di un programma di studi e di lavoro letterario; come pure dell’attività dello scriptorium, per la cura e la trascrizione dei codici. Il programma è contenuto nelle Institutiones divinarum et saecularium litterarum. Questa intenzionale duplice finalità applicata alla vita monastica stabilisce una diversificazione tra il Monachesimo di C. e quello di altri Ordini, come quello Benedettino, nei quali – pur non trascurando, anzi supponendo una base culturale, l’attività degli scriptoria e un meritorio apporto alla cultura – ciò non entra nella finalità della vita monastica, ma resta un mezzo al suo servizio. Tale specificità, mentre caratterizza l’opera di C. nella storia della cultura e della pedagogia, segna anche il limite della sua risonanza nella storia del Monachesimo. Bibl.: a) Fonti: C., Opera omnia, P.L., 69-70; C., Le istituzioni, Roma, Città Nuova, 2001. b) Studi: R iché P., Éducation et culture dans l’Occident barbare, Paris, Seuil, 1967; Xodo C., Cultura e pedagogia nel monachesimo alto medioevale. «Divinae vacare lectioni», Brescia, La Scuola, 1980; Leclercq J., Umanesimo e cultura monastica, tr. it., Milano, Jaca Book, 1989; Cavallo G., «Tra “volumen” e “codex”. La lettura nel mondo romano», in G. Cavallo - R. Chartier (Edd.), Storia della lettura nel mondo occidentale, Roma/ Bari, Laterza, 1995, 37-69; Parkes M., «Leggere,

182

scrivere, interpretare il testo: pratiche monastiche nell’alto medioevo», in Ibid., 1995, 71-90; Bettetini M., «C.», in Enciclopedia Filosofica, vol. II, Milano, Bompiani, 2006, 1696-1697.

M. Simoncelli

CASTIGHI Consistono, in senso ampio, nell’infliggere una pena o dolore (psicologico o fisico) o nel privare di un bene allo scopo di far espiare una mancanza e/o di ristabilire un ordine (morale, giuridico o sociale). In prospettiva pedagogica i c. appartengono alla sfera affettiva dell’educazione e si propongono nell’ambito dei mezzi di motivazione (→ premi). 1. Il tema dei c. occupa un vasto capitolo della storia della pedagogia e della scuola. Basti qui fare alcuni cenni. Ha avuto un forte e duraturo influsso la concezione predominante nell’antichità: «L’orecchio del ragazzo è sopra la schiena, ed egli dà ascolto quando è battuto». Nella → Bibbia (Prv 29,15) si avverte che «il bastone e il rimprovero procurano sapienza». Nella Roma antica la «ferula» è il mezzo comune su cui il maestro basa la propria autorità. Alla fine del primo secolo della nostra era i metodi brutali cominciano ad essere messi in discussione; tuttavia la disciplina scolastica continua ad essere severa e i c. frequenti. Nel clima umanistico rinascimentale, educatori particolarmente sensibili, come M. Veggio (1406-1448), chiedono che «non si impauriscano troppo i bambini con minacce e percosse». Una considerazione sempre più oculata viene fatta poi all’interno delle congregazioni insegnanti (→ Gesuiti, → Barnabiti, → Scolopi, → Fratelli delle Scuole cristiane) e dai maggiori pedagogisti dell’età moderna, convinti, come → Comenio, che ci sono «mezzi più efficaci della frusta». Tra gli educatori del sec. XIX va citato don → Bosco, assertore convinto del → sistema preventivo e della «pedagogia dell’amore», che cerca di liberare gli allievi «dai dispiaceri, dai c., dai disonori». Contro la prassi educativa troppo legata ancora a una disciplina severa, prende posizione, agli inizi del nostro sec., il movimento delle → Scuole Nuove. Riprendendo la tesi rousseauiana della «bontà naturale», alcuni dei loro fautori sono giunti però a posi-

CASTIGLIONE BALDASSAR

zioni di condanna radicale di quanto potrebbe minacciare la «spontaneità del bambino». La riflessione pedagogica sui c. è oggi più attenta e articolata. 2. Il c. educa solo se incluso nell’arco di un intervento che, difendendo dalle attrazioni fuorvianti, aiuta a cambiare in senso positivo la condotta. Questo spesso richiede un lungo cammino. Per sé il c. può essere usato solo in caso di insufficienza soggettiva o oggettiva dei mezzi positivi di sostegno motivante, per arrestare un comportamento sbagliato, connettendolo con un’immagine punitiva che faccia riflettere e scegliere meglio, resistere a false suggestioni e pulsioni. A livello psicologico, il c. induce una tensione distogliente di sofferenza fisica, affettiva, morale; produce conflitto, rifiuto e fuga da ciò che lo ha provocato o lo potrebbe provocare. È antieducativo destinarlo a punire, far espiare, ristabilire la parità offesa. Urta e danneggia il c. che è espressione di vendetta e di aggressività, che umilia e offende la personalità intima e sociale (lo fanno quasi sempre i c. fisici). Infantilizza il «bisogno di pagare» per sentirsi in pace. 3. Quando si ama e si è amati, tutto può servire da c.: lo stesso amore offeso, mostrato sofferente. Sono c. educativamente validi il giudizio critico espresso al momento opportuno, il tratto relazionale bene amministrato. Ma forse il c. educativamente più valido è la coscienza e l’esperienza, magari rinforzata, del bene non fatto, del valore non conseguito, del talento e della opportunità sprecati, dell’ordine offeso, della buona relazione interrotta. L’autopunizione soggettiva per la condotta errata corregge più di ogni danno materiale subìto o del c. esterno. L’educatore deve preparare e coltivare le condizioni perché tali esperienze abbiano luogo nei confronti del bene oggettivo. 4. È debole e perfino non educativo il c. imposto e subìto al di fuori dei rapporti interpersonali e dei progetti in corso. Il metodo preventivo che imposta l’educazione su valori e su forti relazioni positive, riduce i c. o li rende subito educativamente efficaci. Il ricorso ai c. penosi come «camere di riflessione», maltrattamenti, punizioni gravi, costrizioni, ha effetti incerti o ambivalenti,

spesso controproducenti, colpendo la → stima di sé, non includendo la possibilità e l’offerta di contro esperienze, non dando indicazioni per la risalita immediata e continua. Vale il c. che include indicazioni per riparare, che fa reagire con forti motivazioni di ordine affettivo e morale, sociale. Anche il c. fisico, grave o leggero, educa solo in contesti abituali di amore e ragione. Bibl.: Auffray A., Come castigava un santo, Torino, SEI, 1956; Vuri V., «Premi e c.», in L. Volpicelli (Ed.), La pedagogia, vol. X, Milano, Vallardi, 1972, 199-269; Prellezo J. M., Dei c. da infliggersi nelle case salesiane. Una lettera circolare attribuita a don Bosco, in «Ricerche Storiche Salesiane» 5 (1986) 263-308; Scurati C., La disciplina nella scuola, Brescia, La Scuola, 1988; Miller A., La fiducia tradita, Milano, Garzanti, 1995; Pietropolli Charmet G. (Ed.), Ragazzi sregolati. Regole e c. in adolescenza, Milano, Angeli, 20052.

P. Gianola

CASTIGLIONE Baldassar n. a Casatico (Mantova) nel 1478 - m. a Toledo (Spagna) nel 1529, uomo di corte, diplomatico, umanista italiano. 1. Di illustre famiglia imparentata ai Gonzaga, riceve un’eccellente educazione umanistica. È alle corti di Milano, Mantova, Urbino, Roma; ambasciatore in Inghilterra e presso l’imperatore Carlo V; amico di letterati, musicisti, pittori. È una delle figure più rappresentative del Rinascimento italiano perché incarna l’ideale dell’uomo colto, armonico, padrone di sé, pronto all’azione come all’amabile e piacevole conversazione. Per questo Carlo V, alla notizia della sua morte, dice: «È morto uno dei migliori cavalieri del mondo». 2. La sua opera maggiore, Il Cortegiano, è un dialogo ambientato nella corte di Urbino, dove uomini di cultura discutono per delineare la figura del perfetto uomo di corte e della «dama di palazzo». Consta di una dedica e di quattro libri. Il 1° tratta dei requisiti che deve possedere il perfetto cortegiano: nobiltà (non legata a discendenza dinastica), grazia, 183

CATECHESI

abilità nell’uso delle armi, nell’arte della parola, della musica, della pittura, della danza; il 2° discute in che modo e in quali circostanze il cortegiano deve usare le capacità di cui è fornito; il 3° tratteggia la figura ideale della «donna di palazzo»; il 4° affronta i rapporti del cortegiano con il principe, il problema politico e l’amore platonico. Ne Il Cortegiano, C. presenta l’uomo di corte ideale che, per le doti acquisite, ma soprattutto per le sue virtù morali, consiglia il principe a un’azione di governo illuminata e saggia, ispirata alla moderazione, alla giustizia, alla magnanimità, all’amore verso i sudditi. L’opera è subito tradotta nelle principali lingue e in latino ed esercita un influsso notevole su tutte le corti d’Europa. Bibl.: a) Fonti: Opere volgari e latine del conte B.C., raccolte, ricorrette ed illustrate da Giov. Ant. e Gaetano Volpi, Padova, 1733; Il libro del Cortegiano con una scelta delle opere minori di B.C., a cura di B. Maier, Torino, UTET, 1973; Il libro del Cortegiano, Introduzione di A. Quondam, Milano, Garzanti, 1981 (XI ed. 2003). b) Studi: Barberi G., L’onore in Corte. Dal C. al Tasso, Milano, Angeli, 1986; Ossola C., Dal «Cortegiano» all’«Uomo di mondo». Storia di un libro e di un modello sociale, Torino, Einaudi, 1987; Scarpati C., Dire la verità al principe, Milano, Vita e Pensiero, 1988; Gagliardi A., La misura e la grazia. Sul «Libro del Cortegiano», Torino, Tirrenia Stampatori, 1989.

R. Lanfranchi

CASTITÀ → Educazione sessuale → Virtù CATALFAMO Giuseppe → Personalismo pedagogico

CATECHESI La c. (dal gr. katechéin: far risuonare) è l’insegnamento fondamentale della fede cristiana per l’interiorizzazione e maturazione della stessa fede. Essa si trova così nel cuore del processo di → socializzazione religiosa e di trasmissione del patrimonio culturale e religioso del cristianesimo alle nuove generazioni e a quanti vogliono diventare cristiani. Oggi questa attività si rivolge ancora prevalentemente a soggetti in età di sviluppo (fanciulli, adolescenti, giovani), ma si sente 184

l’esigenza di mettere al centro dell’attenzione il mondo degli → adulti. 1. La c.: termini e forme. La c. ha ricevuto denominazioni diverse a seconda dei tempi e dei luoghi: educazione religiosa, insegnamento religioso, dottrina cristiana, catechismo, c., formazione religiosa, educazione della fede, trasmissione della fede, ecc. Il significato preciso di questi termini dipende dai diversi contesti e tradizioni culturali. Per es. nel mondo anglosassone si preferisce parlare di Religious Education o Religious Instruction; nell’area francofona di enseignement religieux o formation religieuse. Attualmente si tende a distinguere chiaramente, pur nella loro complementarità, tra c. e insegnamento della → religione nella scuola, con obiettivi e modalità diverse di attuazione. Le considerazioni che seguono si riferiscono esclusivamente alla c. Negli ultimi decenni vi è stato tutto un movimento di rinnovamento catechetico, soprattutto sotto la spinta del Concilio Vaticano II e di fronte alle nuove sfide della società. Oggi va considerata conclusa la concezione dell’«epoca del catechismo» o del «paradigma tridentino», secondo cui la c. – legata al compendio chiamato «catechismo» – appariva soprattutto come insegnamento dottrinale e trasmissione di conoscenze religiose. Oggi la c. si apre a una visione più personalistica, integrale e incarnata della fede e della sua crescita e quindi assume un’identità più ricca e pluridimensionale, in quanto opera di → iniziazione, di → insegnamento, di → educazione e socializzazione religiosa. 2. La c. «educazione della fede». La caratterizzazione della c. come «educazione della fede» è diventata proverbiale nella Chiesa, e come tale accolta nei documenti ufficiali. Anzi, si può dire che, nello sviluppo del rinnovamento catechistico, l’espressione «educazione della fede» riassume in qualche modo il passaggio dal «catechismo» alla «c.», dalla tradizionale educazione religiosa ad un’azione catechetica più attenta alla densità esistenziale del messaggio cristiano e della relativa risposta credente. Nell’epoca moderna, la riflessione sulla c. ha portato all’accentuazione della sua dimensione pedagogica, anche sotto l’influsso delle → scienze dell’educazione Di fatto, la «cateche-

CATECHESI

tica» come riflessione sistematica sulla c., è sempre stata fortemente collegata alla pedagogia e dominata in un certo senso da una duplice anima: quella «teologica», che ne determina soprattutto i contenuti e le finalità ultime, e quella «pedagogica», che presiede all’individuazione di obiettivi, processi e metodologie (Alberich, 2001). L’espressione «educazione della fede» va intesa correttamente, dal momento che non è possibile influire direttamente dall’esterno su una realtà così «indisponibile» e inafferrabile come la fede cristiana, che teologicamente rimanda alla gratuità del dono divino e alla imprevedibilità della libera risposta umana. Ha senso perciò parlare di «educazione della fede» soltanto in modo indiretto e strumentale, in riferimento alle mediazioni umane che possono facilitare, aiutare e rimuovere ostacoli nel processo di maturazione religiosa. Rimane esclusa qualsiasi forma di intervento diretto sulla fede stessa. Nell’attuazione del suo compito di educazione, la c. deve avere sempre davanti l’orizzonte della → maturità religiosa, evitando possibili forme di indottrinamento e di intervento infantilizzante, col pericolo di bloccare il processo di crescita religiosa. Bisogna riconoscere che non poche volte la c. ha favorito forme di immaturità, di religiosità funzionale e compensatoria, di espressioni inadeguate di fede, sotto la spinta di atteggiamenti clericali e paternalistici o di facili accomodamenti securizzanti da parte di persone che hanno paura della maturità. 3. La c. fatto educativo. Alla c. – nelle sue diverse forme – va riconosciuta una notevole valenza educativa, sia come elemento significativo dell’ → educazione cristiana e religiosa, sia anche per la sua dimensione educativa globale, in quanto fattore di socializzazione, di → alfabetizzazione, di crescita culturale e morale, ecc. È un dato che emerge con chiarezza alla luce della storia e in sede di riflessione teoretica sulla natura della c. 3.1. La c. nella storia: opera di educazione. Uno sguardo alla storia permette di cogliere il peso certamente significativo dell’azione catechistica nei processi di educazione e di promozione, soprattutto a livello popolare e in particolare nell’epoca moderna, attraverso la diffusione dei catechismi e le svariate forme di insegnamento religioso e di predicazione al popolo cristiano (Braido, 1991).

Anzi, in diversi Paesi, la c. è stata spesso uno strumento privilegiato, a volte unico, di alfabetizzazione e di promozione culturale. L’opera della c. appare legata tradizionalmente alle → istituzioni educative e ai luoghi e ambiti della prima socializzazione (famiglia, scuola, chiesa, comunità), assumendo le forme tipiche dell’ → azione educativa: insegnamento, educazione, iniziazione, apprendistato, formazione, alfabetizzazione. Essa ha costituito di fatto, per molte generazioni, uno strumento efficace di socializzazione religiosa, e ha contribuito a plasmare l’identità umana e cristiana di molti credenti. Certo, è vero che non sempre la c. è stata all’altezza della sua vocazione educativa. Essa è apparsa a volte disincarnata, ghettizzata, intenta a una finalità che sembrava lasciar da parte i problemi fondamentali dell’uomo e della sua crescita. Non solo: la storia e l’esperienza ricordano tante forme inautentiche di c. che ne hanno compromesso la valenza educativa, come in certe forme di → indottrinamento e di strumentalizzazione ideologica (→ ideologia) al servizio dell’autorità dominante o di interessi di parte; oppure sotto forma di chiusura confessionale e settaria che è stata di fatto una vera educazione al pregiudizio e all’intolleranza. 3.2. La c. in chiave educativa. Oggi la riflessione catechetica insiste sul fatto che la c. deve essere in funzione della riuscita totale dell’uomo. In quanto trasmissione della parola liberante di Dio, la c. non si deve mai restringere a un settore «religioso» dell’esistenza, ma deve investire la totalità del progetto umano di vita, configurandosi perciò come «aiuto per la vita attraverso l’aiuto della fede» e avendo come scopo di fondo aiutare l’uomo a riuscire nella propria vita. È importante perciò mobilitare e valorizzare le molteplici valenze educative e promozionali dell’azione catechistica, sottolinearne la portata pedagogica e concepirla come un vero processo educativo permanente che deve accompagnare lo sviluppo integrale delle persone e dei gruppi. Tra gli obiettivi catechistici vanno perciò inclusi i grandi traguardi di ogni educazione umana: sviluppo della → personalità, apertura alla socialità, maturità psicologica e affettiva, senso critico, capacità di partecipazione e corresponsabilità. In riferimento alla c. possono essere segnalati diversi fattori e istanze di rilevanza educati185

CATECHISMO

va: a) A livello di conoscenze, la c. trasmette informazioni, arricchisce il patrimonio culturale, fornisce punti di riferimento per la ricerca di senso. b) Appartiene anche al compito della c. permettere la maturazione di esperienze umane basilari, che sono presupposto di ogni autentica crescita cristiana. Per es., senza l’esperienza della fiducia e del perdono è molto difficile capire il significato della penitenza e della riconciliazione; e senza maturità affettiva è impossibile cogliere in profondità il senso dell’amore cristiano. c) La c. è chiamata a dare grande importanza all’educazione morale e all’interiorizzazione dei → valori, indissolubilmente connessi col processo di maturazione nella fede. Vanno promossi perciò valori quali: la fraternità, la → solidarietà, la giustizia, la pace, il coraggio, la veracità, la fedeltà, la gratitudine, la responsabilità sociale, il rispetto del creato, l’apertura alla mondialità, ecc. La c. è anche impegnata nel dialogo e interazione tra fede e cultura e questo, nella situazione attuale, costituisce un problema quanto mai urgente e impegnativo, data la distanza oggi esistente tra fede cristiana e cultura moderna. La c. si trova qui di fronte a una vera sfida culturale, ma anche messa in condizione di svolgere un compito di notevole rilevanza educativa: interpretare la cultura alla luce delle esigenze evangeliche e ripensare il patrimonio della fede cristiana alla luce delle istanze e dei valori della cultura contemporanea. 4. In conclusione: non è concepibile un processo di maturazione della fede, e dunque un esercizio adeguato dell’attività catechistica, senza un innesto mirato sul processo globale di maturazione della personalità. Nell’attuazione di una c. inserita nel processo educativo sarà dunque necessario curare l’integrazione unitaria delle diverse componenti educative, in modo da salvaguardare e portare a maturazione l’unità interiore della persona. Va evitato il rischio di strumentalizzare l’opera educativa in nome degli obiettivi superiori dell’educazione della fede. Ridurre i momenti fondamentali della maturazione umana (crescita culturale, educazione fisica, intellettuale, sociale, ecc.) a semplice mezzo per puntare a obiettivi esplicitamente religiosi (vita di fede, sacramenti, impegno ecclesiale) rivela una concezione inadeguata della maturazione stessa della fede e man186

canza di rispetto per la qualità umanizzante di ogni autentica educazione. È una considerazione che invita a superare ogni dualismo antropologico e pedagogico e ogni malinteso primato della missione spirituale nell’azione dei cristiani. Bibl.: Bissoli C., C. ed educazione, in «Orientamenti Pedagogici» 27 (1980) 55-62; Germain E., 2000 ans d’éducation de la foi, Paris, Desclée, 1983; Exeler A., L’educazione religiosa. Un itinerario alla maturazione dell’uomo, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; Fossion A., La catéchèse dans le champ de la communication. Ses enjeux pour l’inculturation de la foi, Paris, Cerf, 1990; Braido P., Lineamenti di storia della c. e dei catechismi, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1991; Groppo G., Teologia dell’educazione. Origine, identità, compiti, Roma, LAS, 1991; A lberich E., La c. oggi. Manuale di catechetica fondamentale, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2001; Giguère P.-A., Catéchèse et maturité de la foi, Montréal/Bruxelles, Novalis/Lumen Vitae, 2002; Derroitte H., La c. liberata, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2002; Gevaert J., Il dialogo difficile: problemi dell’uomo e c., Ibid., 2005.

E. Alberich

CATECHETICA → Catechesi

CATECHISMO Nella prima accezione della parola, il c. è l’istruzione orale e familiare della religione cristiana fatta dopo il battesimo ai fanciulli e agli adulti. Di qui, a partire dal sec. XVI, il termine è passato a designare, ben presto quasi esclusivamente, il libro che contiene l’esposizione elementare delle verità fondamentali del cristianesimo. Il c. è allora un manuale popolare, un riassunto esatto e sicuro della dottrina cristiana, redatto a domande e risposte, approvato e proposto dal vescovo per la sua diocesi. È avvenuto spesso che fossero detti c. anche libri a domanda e risposta di altri rami del sapere. 1. Il c. come libro di studio per gli alunni si sviluppò dalle formule catechetiche trasmesse per tutto il → Medioevo, accresciute, verso la fine del periodo, sulla base dei «cataloghi dei peccati» usati nella prassi confessionale,

CATECHISMO

come spiegazioni del Credo e del Pater, e poi anche del Decalogo e dell’Ave Maria, e dei cataloghi medievali delle virtù e dei vizi. I c. più diffusi del sec. XVI, quelli di Lutero (1529), Canisio (1555-59), Auger (1563, 1568), Astete (1576), Ripalda (1586) e Bellarmino (1597/98), sono manuali brevi, destinati ad essere appresi a memoria con un minimo di spiegazione. Si compilano anche c. con un discorso espositivo, dal C. Romano o del Concilio di Trento (1566) a numerosi altri dei secoli seguenti, per persone colte o come guida ai catechisti. Si tentano anche «c. storici», che seguono l’esposizione della storia della salvezza. Ma è solo verso la metà del sec. XX che (parallelamente al rinnovamento della → catechesi) si sperimentano nuove forme di c., meno dottrinali, che abbandonano il metodo mnemonico, si ispirano alla → Bibbia e alla → Liturgia e danno spazio all’esperienza di vita e a moderne concezioni del processo di insegnamento-apprendimento.

usato dal c. aveva perduto ogni traccia del dialogo socratico, volto alla ricerca della verità, o di quello della disputa medievale, mirante alla intelligenza di un testo, per diventare uno strumento destinato ai semplici, al fine di inculcare loro una dottrina di cui è garanzia l’autorità del maestro. È un limite che nelle comunità protestanti veniva superato dalla lettura della Bibbia, e in quelle cattoliche dall’educazione familiare e dalla partecipazione alla liturgia parrocchiale, che ne completavano e compensavano l’austerità. Nel mondo cattolico troppo sovente il c. è diventato un sostituto della Bibbia. Mentre questa presenta un insegnamento più aperto e non sistematico, il c. tende a offrire una enciclopedia elementare della dottrina cristiana. L’idea di c. è correlativa a quella di totalità. L’uso del c. ha spesso comportato una mutazione nell’atteggiamento: non si è più nel clima di ascolto e di accoglienza proprio della lectio divina, ma in quello della comprensione e dell’argomentazione. Siamo nell’universo della razionalità, che caratterizza l’età moderna. Inoltre, il carattere «dottrinale» del c. non rendeva ragione della dimensione storica e personale del fatto cristiano. Per motivi teologici e pedagogici, il c. è oggi considerato come uno strumento da concepire in forma nuova, se si vuole assicurare un’educazione religiosa più adeguata sia alla natura del cristianesimo sia al genio dell’epoca contemporanea.

2. Il c. ha costituito, negli ultimi secoli, un fattore importante nello sviluppo della cultura popolare, ed è sempre più riconosciuto come un documento di importanza considerevole per conoscere la storia di un paese e di un popolo; e non solo la storia religiosa, ma quella totale, sociale e culturale. Non ha influenzato solo la formazione del cristiano, ma anche quella dell’uomo in generale. Il c. offre un elemento importante per comprendere come si trasmettono i valori e la rappresentazione del mondo da una generazione all’altra. Non è un fatto isolato, poiché si radica in una fede collettiva, in una pratica sociale, in una cultura. Nella sua forma elementare e volutamente sintetica è in un certo modo l’espressione di un tempo e di una società. Il testo di c. veniva letto ad alta voce, ripetuto, memorizzato: così ha avuto un ruolo incisivo nella formazione di coloro che lo hanno utilizzato, ha contribuito a formare il loro linguaggio religioso, la loro maniera di pensare e di esprimere la propria fede, influenzando la loro visione della vita e tutta la loro cultura. In alcuni Paesi, il c. redatto nella lingua nazionale, ha contribuito a superare il provincialismo dialettale.

Bibl.: M angenot E., «Catéchisme», in Dictionnaire de Théologie Catholique, P. II, T. II, Paris, Letouzey et Ané, 1905, coll. 1895-1968; Gianetto U., «L’idea di c. nella storia della Chiesa», in Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale (Ed.), Il rinnovamento della catechesi in Italia, Brescia, La Scuola, 1977, 41-58; Paul E. - G. Stachel - W. Langer, Katecismus - Ja? Nein? Wie?, Einsiedeln, Benziger, 1982; A lberich E. - U. Gianetto (Edd.), Il c. ieri e oggi, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1987; Audinet J., «Le modèle “catéchisme”: fonction et fonctionnement», in P. Co lin et al., Aux origines du catéchisme en France, Tournai, Desclée, 1989, 261-271; R esines L., Astete frente a Ripalda: dos autores para una obra, in «Teología y Catequesis» 58 (1996) 89-138.

3. L’apprendimento «catechistico» si presta a severe critiche dal punto di vista didattico e pedagogico. Il metodo domanda-risposta

CATECHISTA → Catechesi → Educatore cristiano

U. Gianetto

187

CATECUMENATO

CATECUMENATO Il c. richiama storicamente l’istituzione dei primi secoli della → Chiesa per l’accoglienza e accompagnamento dei candidati al battesimo. È un processo di apprendistato della fede e della vita cristiana con diverse tappe e riti, in vista della piena incorporazione nella Chiesa per mezzo dei sacramenti d’iniziazione (→ sacramenti). 1. Il c. ebbe il suo momento migliore nel sec. III e attesta la serietà con cui era seguito il cammino di conversione e maturazione dei candidati cristiani. Scomparve poi praticamente nel sec. V con la generalizzazione del battesimo dei bambini. Nell’evo moderno si sono avute forme di ripristino del c. in Asia e Africa e, dopo gli anni ’50, anche in Europa e altrove, come esigenza di una società secolarizzata e pluralistica. Il c. prevede ordinariamente 4 tappe: il precatecumenato, tempo di accoglienza e primo approccio alla fede; il c. propriamente detto, tirocinio di catechesi, riti ed esperienze di vita; il tempo della purificazione e illuminazione, che porta ai sacramenti pasquali di iniziazione; la mistagogia o rafforzamento della vita sacramentale e comunitaria. 2. È grande la rilevanza pedagogica del c. in quanto agenzia di → socializzazione religiosa, luogo di apprendimento della fede e esperienza forte di → iniziazione cristiana. Da parte del catecumeno, il c. offre diversi fattori e contenuti (persone significative, processi di apprendimento, momenti celebrativi, riti di passaggio ed esperienze di comportamento) per la maturazione di atteggiamenti e condotte. Il c. impegna anche diverse figure di educatori (accompagnatori, catechisti, padrini, pastori) che svolgono un importante ruolo educativo di discernimento, accoglienza e accompagnamento. Bibl.: Laurentin A., Breve storia del c., Leumann (TO), Elle Di Ci, 1984; Floristán C., Il c., Roma, Borla, 1993; Bourgeois H., Teologia catecumenale, Brescia, Queriniana, 1993; Cavallotto G., C. antico. Diventare cristiani secondo i Padri, Bologna, Dehoniane, 1996.

E. Alberich

CATTANEO Carlo → Risorgimento

188

CATTEDRA → Università CATTELL James McKeen → Intelligenza CAVANIS, fratelli → Congregazioni insegnanti maschili CD-ROM DIDATTICO → Tecnologie dell’educazione e della comunicazione CEE → Organizzazioni internazionali

CENTRO GIOVANILE Vi è anzitutto una questione terminologica che va chiarita. Da una parte la dizione c.g. suppone di assumere il termine come sinonimo (o quasi) di → oratorio (nel qual caso il più delle volte si unificano i due con la terminologia di oratorio-c.g.); dall’altra si suppone una certa differenziazione che esamineremo. 1. Il primo caso è frequente soprattutto fuori Italia, in particolar modo nei Paesi di lingua spagnola. In questi il termine «oratorio» rimanda non alle esperienze ricche che si legano alla tradizione italiana, come ambiente che nel suo insieme risponde al programma di educazione cristiana integrale della gioventù, soprattutto nel tempo lasciato libero da altre istituzioni e passando attraverso le domande più diversificate dei giovani; al contrario esso sta a indicare un luogo di accoglienza di ragazzi e giovani per le sole attività del → tempo libero, e soprattutto per il gioco (come appare a prima vista entrando in un «normale» oratorio: il ricreatorio), oppure come appendice della parrocchia soprattutto per la catechesi dei ragazzi (oratorio), e dunque con connotazioni che potrebbero sapere di passato e di un certo clericalismo. Il termine c.g. allora renderebbe meglio, con la sottolineatura dei destinatari specifici, l’insieme del «progetto». I referenti dei termini diversi sono comunque la stessa realtà che si vuole indicare. Nella realtà italiana in effetti quando si utilizza la dizione ampia oratorio-c.g. è per indicare tutto quell’insieme di progettualità educativa a favo­re dei giovani stessi, diversifi­cando al suo interno, per le diverse fasce di età, itinerari formativi, attività, metodolo­gie, e sollecitando i giovani a diventare gruppo-circolo e ad aprirsi maggiormente all’impegno nel volontariato socio-poli­tico e nell’animazione educativa.

CERRUTI FRANCESCO

2. Nel secondo caso (quando si vuole distinguere tra oratorio e c.g.), si intende esprimere, rispetto all’oratorio, una specifica differenziazione. E allora l’oratorio viene inteso come un ambiente indirizzato ai ragazzi (fino alla preadolescenza), con prevalente apertura alla massa, con livelli di appartenenza vari e spontanei, con speciale sottolineatura dell’aspetto ludico ed espressivo, dove l’educazione viene continuata nella forma della socializzazione assieme alle altre agenzie educative, soprattutto la famiglia, e dove l’educazione religiosa avviene soprattutto attraverso la catechesi sacramentale. Il c.g. viene invece pensato come ambiente destinato ai giovani, con un prevalente rapporto di gruppo (gruppi giovanili), con un’organizzazione e aggregazione più determinate e con un peso decisivo dell’impegno umanocristiano. 3. Nei due casi sono naturalmente i destinatari che determinano la diversità della realizzazione. Si può dire che nel c.g. i giovani sono non solo destinatari, ma promotori, soggetti attivi, assieme agli adulti-educatori, della loro personale formazione ed elaborazione di un progetto di vita, chiamati in causa e sollecitati a liberare le loro risorse e potenzialità, in attivo scambio con le proposte culturali e religiose, con una decisa spinta alla scelta vocazionale. Le proposte dunque diventano più esigenti, le iniziative più diversificate, il grado di coin­volgimento più stretto. Volendo indicare alcuni settori specifici di questo impegno giovanile, si possono citare i seguenti: il settore educativo animativo, quello socio­ culturale, quello socio-politico, di impegno per lo sviluppo e di educazione al servizio (servizio civile, volontariato, anche missionario), di ricerca anche vocazionale. 4. Negli ultimi anni, in Italia, si è notevolmente ridotto l’utilizzo del termine «c.g.» riferito all’oratorio in cui operano da protagonisti anche i giovani, oltre ai ragazzi e agli adolescenti, anche perché la società civile e le istituzioni del territorio (associazioni, partiti politici, assessorati…) hanno dato vita a numerosi centri di aggregazione, ambienti di incontro per adolescenti e giovani (ma anche per ragazzi più piccoli), aconfessionali e destinati a occupare il tempo libero extrascolastico ed evitare che i ragazzi lo trascorrano

in strada o a casa perlopiù da soli. La comunità territoriale infatti si è resa sempre maggiormente conto della necessità di occuparsi dell’educazione dei propri ragazzi e ragazze e di organizzarsi e organizzare luoghi adeguati di aggregazione, di offerte soprattutto in campo espressivo e ludico. Il C. promuove così l’incontro tra soggetti diversi e abilita a una capacità e qualità specifica: la «socialità». Esso si propone dunque come palestra e come setting in cui sviluppare abilità e competenze sociali, e insieme come luogo di espressione del riconoscimento del valore e del funzionamento dello spazio sociale. Bibl.: Orlando V., Il c.g. nella Chiesa e nel territorio, in «I Quaderni dell’Animato­re» 18, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1985; CSPG, Frontiere per gruppi giovanili, Ibid., 1988; Id., Gruppi giovanili a servizio nella società, Ibid., 1989; Vecchi J. E., «L’Oratorio salesiano: luogo di nuova responsa­bilità e missionarietà giovanile», in L’Oratorio dei giovani: insieme per essere fedeli alla vocazione gio­vanile e popolare, Roma, CISI, 1993, 55-72; Atti del primo Meeting dei c. di aggregazione giovanile, Rovigo, 2006.

G. Denicolò

CERRUTI Francesco n. a Saluggia (Vercelli) nel 1844 - m. a Torino nel 1917, educatore e pedagogista italiano. 1. Di famiglia contadina, C. rimase orfano di padre a due anni; nel 1856 entrò come allievo nella prima istituzione educativa fondata da don → Bosco a Torino-Valdocco; si fece salesiano (1862) e fu ordinato sacerdote (1866). Ottenne il dottorato in lettere (1866) presso l’Università di Torino, dove ebbe come professore di antropologia e pedagogia → Rayneri. Nel 1885, chiamato al Consiglio generale dei → Salesiani, fu responsabile degli studi e della stampa. Rimase in carica fino alla morte, realizzando una significativa opera di organizzazione e promozione delle scuole salesiane e delle → Figlie di Maria Ausiliatrice. 2. La produzione letteraria di C. è ampia su svariati temi (letteratura, storia, religione, educazione e didattica); un centinaio di 189

CERTIFICAZIONE DEGLI APPRENDIMENTI

scritti riguardano argomenti pedagogici; fra di essi testi per gli istituti magistrali: L’insegnamento secondario classico in Italia (1882), Storia della pedagogia in Italia (1883), Elementi di pedagogia (1895), Norme per l’insegnamento della aritmetica (1897). C. collaborò in diversi giornali («L’Unità Cattolica», «La Stampa», «L’Italia Reale», «Il Momento») con scritti sulla politica scolastica del tempo e a difesa dei valori umanistici e cristiani della scuola. I suoi interventi furono apprezzati dal ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli. Infine un nucleo significativo di scritti va individuato attorno al sistema preventivo: Idee di don Bosco sull’educazione e sull’insegnamento (1886), Don Bosco educatore (1898), Una trilogia pedagogica: ossia Quintiliano, Vittorino da Feltre e don Bosco (1908), Il problema morale nell’educazione (1916). 3. L’autore è ritenuto il «sistematore delle scuole e degli studi» salesiani (Luchelli, 1917, 22) e «uno dei più fedeli interpreti del pensiero e del sistema pedagogico di D. Bosco» (Atti, 1903, 151). Va ricordata anche la sua opera nell’ambito degli istituti educativi delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Bibl.: a) Fonti: Atti del III congresso dei Cooperatori salesiani, Torino, Tip. Salesiana, 1903; F.C., Lettere circolari e programmi di insegnamento (1885-1917). Introduzione, testi critici e note a cura di J. M. Prellezo, Roma, LAS, 2006. b) Studi: Luchelli A., Don F.C. consigliere scolastico generale della Pia Società Salesiana, Torino, S.A.I.D., 1917; Prellezo J. M., F.C. direttore generale delle scuole e della stampa salesiana, in «Ricerche Storiche Salesiane» 5 (1986) 127-164; Id., Paolo Boselli e F.C. Carteggio inedito (1888-1912), in «Ricerche Storiche Salesiane» 19 (2000) 87-123.

J. M. Prellezo

CERTIFICAZIONE DEGLI APPRENDIMENTI 1. Introduzione. La c.d.a. rappresenta un’a­ zione tesa a descrivere in modo sistematico le acquisizioni della persona ed a registrarle in modo condiviso tra i diversi attori del sistema educativo e del mondo del lavoro, con 190

l’indicazione delle ancore ovvero delle esperienze (formali, non formali ed informali) su cui tali acquisizioni sono state formate. La c. si riferisce a due categorie di fenomeni: a) le competenze intese come fattori che qualificano il grado di autonomia e di responsabilità della persona a fronte di specifiche categorie di compiti/problema dal rilevante valore personale, sociale e professionale; b) nel contempo, essa specifica le conoscenze e le abilità, ovvero le risorse di cui la persona si è impadronita e che ha saputo certamente mobilitare nel lavoro di soluzione dei compiti/problema indicati. Nella c. debbono essere evidenziati i livelli di padronanza delle competenze, che possono essere indicati per gradi progressivi: basilare, adeguato, eccellente. 2. Spiegazione. La spinta finalizzata alla elaborazione di strumenti atti a certificare gli apprendimenti delle persone deriva da tre cause differenti: a) la necessità di garantire la leggibilità e la confrontabilità degli esiti dei percorsi di apprendimento da parte delle imprese che necessitano di personale da impegnare nella propria struttura, tenuto conto della perdita di valore delle tradizionali declaratorie professionali; b) la necessità di consentire – entro grandi sistemi economici e sociali qual è l’ambito dell’Unione europea – la riconoscibilità degli apprendimenti così da consentire la mobilità delle persone ed il loro accesso ai vari sistemi sociali ed economici propri dei diversi stati nazionali; c) la necessità di finalizzare i percorsi formativi a vere e proprie competenze, ovvero non solo al sapere, ma alla sua attivazione effettiva da parte del soggetto nei contesti reali di impegno e dei compiti-problema che questi evidenziano. 2.1. In campo scolastico la c. mira a sollecitare un approccio per competenze e quindi a superare una metodologia eccessivamente centrata sulla didattica disciplinare per trasferimento di nozioni ed abilità, aprendo la strada ad una formazione più autentica in cui la persona è chiamata a confrontarsi con situazioni reali – più o meno problematiche – che sollecitano la sua attenzione, responsabilità e attivazione al fine di giungere ad una soluzione idonea e soddisfacente. Tali competenze della persona sono dimostrate dalla natura dei problemi fronteggiati, dalla

CERTIFICAZIONE DEGLI APPRENDIMENTI

metodologia di intervento, dalla capacità di superare crisi e difficoltà, dalla riflessione discorsiva sulle esperienze attraverso un linguaggio pertinente ed in grado di evidenziare tutti gli aspetti in gioco e quindi di «dimostrare» concretamente l’effettivo possesso del sapere. 2.2. In campo professionale, la c. richiede innanzitutto un’intesa preliminare tra organismi formativi e strutture dell’economia intorno ad un metodo di descrizione delle competenze e ad un repertorio di profili professionali di riferimento per l’azione formativa; inoltre esige una convergenza di sforzi e di strumenti al fine di qualificare il percorso formativo con esperienze virtuali o reali entro le quali la persona sia sollecitata alla mobilitazione delle proprie capacità e risorse; infine richiede un’intesa circa la valutazione ed in particolare la validazione delle competenze acquisite, che rivestono in tal modo un significato non solo legale, ma sostanziale e condiviso. In tal modo la valutazione-c. non si realizza in rapporto a standard «scritti sulla carta», ma in riferimento alla concreta realtà di esercizio delle competenze indicate con il coinvolgimento diretto dei partner sociali. L’azione di c. non può pertanto essere concepita come una mera compilazione amministrativa di schede, ma rappresenta un’azione complessa di natura autenticamente sociale, tesa a soddisfare i seguenti criteri: a) la comprensibilità del linguaggio, che deve riferirsi – in forma narrativa e non quindi in modo stereotipato – a locuzioni e sintagmi che consentano ai diversi attori di visualizzare le competenze descritte; b) l’attribuibilità delle competenze al soggetto tramite l’indicazione delle evidenze che consentano di contestualizzarle entro processi reali in cui egli è coinvolto insieme ad altri attori; c) la validità dei metodi adottati nella valutazione e validazione delle competenze stesse, con specificazione del loro livello di padronanza. 2.3. Circa il modello di c., si prevedono normalmente due fattispecie: a) La c. è legale quando si riferisce al titolo di studio posseduto e indica il rapporto tra il possesso di tale titolo e l’effettiva padronanza delle acquisizioni che vi sono implicate. In tal modo l’atto certificativo risulta un’aggiunta – una sorta di appendice – rispetto alle prassi valutative ed amministrative proprie dei titoli di studio. b) La c. è sociale quando il certificato

cui ci si riferisce rappresenta una documentazione composita che consente di rendere trasparente – quindi leggibile entro categorie comprensibili – la dotazione della persona di capacità, saperi, abilità e competenze, in riferimento alle esperienze entro cui queste si sono formate. 2.4. Nel caso italiano, la funzione certificativa risulta variamente citata nelle leggi relative al sistema educativo ed al mercato del lavoro, anche se il sistema difetta di una vera e propria istituzione di tale funzione, con l’indicazione degli organismi e delle figure professionali cui è fatta carico e delle metodologie e con la precisazione del valore di tali certificati per la persona che li possiede come pure degli impegni per i vari organismi una volta che questa esibisca documenti attestanti la sua preparazione. Infatti, l’oggetto della c. non va visto solo in chiave dichiarativa, ma anche valutativa. In questo secondo significato, esso rappresenta un credito formativo, ovvero l’attribuzione alla specifica acquisizione certificata di un valore esigibile presso un organismo formativo, in vista del raggiungimento di uno specifico titolo. Essa quindi presenta un valore di accessibilità oltre che di risparmio del tempo previsto per coloro che non possiedono le acquisizioni dimostrate nel certificato. 2.5. Il peso reale (in termini di accesso alle azioni formative e di risparmio di tempo) di tale valore viene attribuito da parte dell’organismo ricevente, se questo riconosce la c. emessa da quello inviante ed attribuisce a questa c. un valore in ordine ad un quadro metodologico e descrittivo dei fenomeni oggetto dell’atto certificativo. Di conseguenza, il semplice rilascio di un documento certificativo da parte di un qualsiasi organismo non rappresenta di per sé un credito; perché un credito sia tale bisogna che ci sia un «potere» che lo riconosce o che impone alle organizzazioni coinvolte di riconoscerlo. Tale potere risulta da un’intesa condivisa dai diversi attori, in forza della quale si definiscono i criteri di individuazione delle acquisizioni ed il percorso formativo e relativo livello entro cui la persona può indirizzarsi. 2.6. I crediti formativi sono pertanto da intendere in senso sostanziale, ovvero non solo in riferimento allo sforzo necessario in termini di tempo per soddisfarli (è questa la concezione universitaria del credito), ma 191

CHAMPAGNAT MARCELLIN-JOSEPH-BENOÎT

precisamente agli apprendimenti effettivamente posseduti e validamente accertati. Il credito inteso in senso sostanziale non può essere gestito tramite processi automatici. Esso richiede un approccio discreto, in grado di attribuire alla documentazione attestante gli apprendimenti il giusto valore in termini di personalizzazione del percorso formativo. Ciò richiede comunque un dialogo ed una negoziazione tra i soggetti coinvolti (organismo inviante, organismo ricevente, persona interessata). Ciò definisce un metodo di lavoro necessariamente relazionale e dialogiconarrativo. Bibl.: Schön D. A., Il professionista riflessivo, Milano, Dedalo, 1983; Aubret J. - F. Aubret - C. Damiani, Les bilans personnels et professionnels, Paris, Éditions Eap-Inetop, 1990; Cepollaro G. (Ed.), Competenze e formazione, Milano, Guerini & Associati, 2001; Comoglio M., La valutazione autentica e il portfolio, paper, Roma, 2001; Ajello A. M. (Ed.), La competenza, Bologna, Il Mulino, 2002; CIOFS/FP, Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa, Roma, 2003.

D. Nicoli

CESARIO D’ARLES → Medioevo CHAMINADE Gillaume de → Marianisti

CHAMPAGNAT Marcellin-JosephBenoît n. a Marlhes nel 1789 - m. a L’Hermitage (Loira) nel 1840, sacerdote francese, fondatore dei → Maristi. 1. Viene ordinato sacerdote nel 1816. Fin dal primo contatto con la realtà rurale a Lavalla (Loira), Ch. è colpito dall’abbandono e ignoranza dei ragazzi. Nel 1817, disegna il primo progetto di una congregazione insegnante. Alla morte di Ch. essa contava 280 membri e 40 scuole. La sua prassi educativa si ispira a quella dei → Fratelli delle Scuole cristiane. Nella redazione della Guide des écoles (1817), i primi collaboratori di Ch. usano la Conduite des écoles chrétiennes (1811). 2. La «pedagogia marista», aperta ad altre fonti d’ispirazione (Pascal, → Fénelon, → Rol192

lin, → Dupanloup), mette l’accento su alcuni aspetti che diventano caratterizzanti: → prevenzione e presenza del maestro tra gli allievi; centralità dell’insegnamento religioso e della devozione mariana; canto, non soltanto come fattore educativo, ma anche come mezzo di partecipazione alla vita liturgica parrocchiale; metodo fonico nell’insegnamento della lettura; introduzione di nuove materie come la contabilità e l’educazione fisica. 3. È stato sottolineato giustamente «il metodo dell’amore» anche nella → disciplina, il cui scopo «non è di frenare gli alunni con la forza e col timore dei → castighi, ma di preservarli dal male, di correggerli dei loro difetti, di formare la loro volontà». Di conseguenza, i maestri devono comportarsi da padri e non da padroni, animati da sentimenti di benevolenza, «pur attenuati da una qualche accentuazione dell’autorità e del rispetto, inevitabili in un clima post-rivoluzionario di diffidenza nei riguardi del troppo conclamato e smentito trinomio libertà-uguaglianzafraternità» (Braido, 1981, II, 285); v. anche → Congregazioni insegnanti. Bibl.: Furet J. B., Avis, leçons & instructions du vénérable père Ch., Lyon/Paris, Emmanuel Vitte, 1914; Braido P., Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, vol. II, Roma, LAS, 1981; Zind P., B.M.Ch., son oeuvre scolaire dans son contexte historique, Rome, Maison Généralice, 1991; Lanfray A., M. Ch. et les Frères maristes: instituteurs congreganistes au XIX siècle, Paris, Éditions Don Bosco, 1999; González Lucini F., Marcelino Ch., Madrid, Edelvives, 2004.

J. M. Prellezo

CHARCOT Jean Martin n. a Parigi nel 1825 - m. a Lago di Settons (Morvan) nel 1893, medico neurologo francese. 1. Dopo la laurea in medicina e un tirocinio in anatomia patologica, inizia il lavoro clinico e di ricerca alla Salpêtrière, l’ospizio parigino per donne anziane e indigenti che accoglieva in prevalenza persone affette da malattie croniche e dà un notevole contributo allo studio delle malattie polmonari e

CHIESA

renali. Lega inoltre il proprio nome all’individuazione e illustrazione di diverse sindromi neurologiche e approfondisce il problema delle localizzazioni cerebrali. Nel 1862 apre i laboratori di neurologia e anatomia patologica e assieme a un gruppo di allievi sostiene la necessità di unire al lavoro clinico la ricerca scientifica. Nel 1870, ormai considerato uno dei maggiori neuropatologi dell’epoca, assume la direzione di un reparto della Salpêtrière riservato a pazienti affetti da disturbi convulsivi e identifica e descrive «la grande isteria». 2. Dal 1878 estende il proprio interesse all’ipnotismo, utilizzando anche in questo campo lo stesso metodo, basato sull’analisi dei sintomi, adottato nello studio delle malattie organiche. Nel 1873 viene eletto membro dell’Accademia di Medicina. Nel 1883 è membro dell’Accademia di Scienze e continua a tenere alla Salpêtrière le famose «Leçons du mardi» a cui assisterà anche → Freud, rimanendone profondamente influenzato. Tra il 1884 e il 1885 lavora in particolare sull’isteria traumatica: ne dimostra il meccanismo causale e sostiene la stretta analogia tra le paralisi isteriche post-traumatiche e le paralisi indotte mediante ipnosi. Descrive inoltre l’isteria maschile e approfondisce lo studio delle caratteristiche psicologiche dei pazienti isterici. A partire dal 1892 propone la distinzione tra «amnesia funzionale», nella quale i ricordi possono esser fatti riaffiorare con il ricorso all’ipnosi, e l’amnesia organica, in cui tale richiamo non è possibile. Si interessa inoltre del fenomeno delle «guarigioni per fede», ritenendolo di notevole interesse clinico. Partendo dalla constatazione della prevalenza di soggetti ipnotizzabili tra i pazienti isterici e i pazienti caratterizzati da «temperamento nervoso» e dalla constatazione che negli isterici i fenomeni ipnotici si manifestano spontaneamente, C. giunge a legare strettamente ipnosi e isteria, e a fare dell’ipnotizzabilità un indice della disposizione all’isteria, e cioè della tendenza a mettere in atto un meccanismo di dissociazione mentale. Figura per molti versi contraddittoria, esponente rigoroso della teoria organicista – considerato uno dei maggiori esponenti della medicina francese di fine Ottocento e «padre della neurologia» – riesce a far accettare la realtà dei fenomeni ipnotici legando il

proprio nome alla ricerca sull’isteria e aprendo di fatto la via, in Francia, alla nascita della psicologia dinamica. Bibl.: tra le opere di C.: Leçons cliniques sur les maladies des villards et les maladies croniques (1868), Leçons sur les localisations dans les maladies du cerveau et de la moelle épinière (1880), Leçons du mardi (1884-1885), Les démoniaques dans l’art (1887); La donna dell’isteria: Inversione del senso genitale e altre perversioni sessuali, L’isteria femminile, Milano, Spirali/Vel, 1989, vol. II; Su C.: Dibattista L., J.M.C. e la lingua della neurologia, Roma, Cacucci, 2003; Violi A., Il teatro dei nervi. Fantasmi del moderno da Mesmer a C., Milano, Bruno Mondadori, 2004.

F. Ortu - N. Dazzi

CHIESA Il discorso è limitato alla C. Cattolica nei suoi rapporti con la realtà educativa privilegiando il punto di vista teoretico rispetto a quello storico (→ Cristianesimo). 1. C. e istituzioni educative e scolastiche. La C., vivendo nel mondo, ha dovuto continuamente affrontare e risolvere a livello teorico e pratico, nell’orizzonte significativo della Parola di Dio, quei problemi che nascono dall’inevitabile incarnarsi della sua esperienza di fede nelle culture. Sia il → Magistero della C. che i teologi si sono resi conto che i cristiani, dovendo vivere la loro fede integralmente non solo nell’ambito del cultuale e del religioso ma anche nei settori profani della vita, erano obbligati ad affrontare i problemi emergenti dall’impatto della fede con la → cultura, inventando soluzioni che da una parte fossero coerenti con le esigenze irrinunciabili della loro fede, dall’altra fossero adatte al contesto socioculturale nel quale la fede cristiana doveva incarnarsi. Questo è avvenuto in passato e avviene ancor oggi nel settore educativo e pedagogico. Sono sorti in questo modo, nell’orizzonte significativo della fede cristiana, vari tipi di prassi e di istituzioni educative come pure di teorie pedagogiche, segnate dalla cultura del tempo e del luogo che le ha espresse, diverse tra loro, tuttavia possedenti, ciascuna, una caratteristica che, mentre le accomuna, nello stesso 193

CHIESA

tempo le differenzia dagli altri tipi di educazione. Si tratta infatti di processi educativi, di istituzioni e di teorie pedagogiche messe in opera dalle comunità cristiane all’interno di progetti pastorali ultimamente finalizzati alla → conversione e alla crescita cristiana (→ educazione cristiana, → pedagogia cristiana, → teologia dell’educazione). I rapporti tra C. e istituzioni educative e scolastiche, lungo i secoli cristiani, non furono né monolitici né univoci. È significativo, ad es., il fatto che, nei primi quattro secoli non solo durante le persecuzioni ma anche dopo la pace costantiniana, la C. non abbia pensato a crearsi su larga scala istituzioni educativo-scolastiche proprie, neppure per il suo clero. Accettò di fatto, sia pure come una necessità e malvolentieri, la scuola ufficiale, legata alla religione pagana, cercando di ovviare al pericolo che essa costituiva per la fede, premunendone gli alunni e provvedendo alla loro educazione e formazione cristiana nell’ambito della famiglia e della comunità liturgica. Molto diverso invece è stato il comportamento della C. in campo educativo e scolastico durante il → Medioevo e nell’epoca moderna e contemporanea. Nell’epoca moderna troviamo qualche presa di posizione autorevole da parte del Magistero in difesa dell’educazione cristiana e della scuola confessionale. Ma solo nell’epoca contemporanea, a partire da Pio XI, la C. ha affrontato in modo organico ed autorevole il problema dell’educazione cristiana in due documenti, differenti per importanza e per l’impostazione e la soluzione di alcuni problemi, tuttavia non in contraddizione tra loro: l’Enciclica Divini Illius Magistri (1929-1930) di Pio XI e la Dichiarazione Gravissimum Educationis (1965) del Conc. Vatic. II. 2. Perché la C. deve interessarsi di educazione e di scuola. Dopo il Conc. Vat. II, l’ecclesiologia cattolica colloca nella natura «sacramentale» della C. rispetto al Regno di Dio il fondamento teologico ultimo della sua funzione umanizzatrice nei confronti delle realtà terrestri, tra cui l’educazione e la scuola. Essendo infatti l’impegno fondamentale della C. quello di servire il Regno di Dio (di cui essa è sacramento, cioè segno e strumento) per la salvezza integrale dell’umanità, le comunità cristiane devono sforzarsi di essere testimonianza (con la vita e con la loro 194

azione), annuncio (con la predicazione), attuazione misterica (con la liturgia) di questa stessa salvezza, offerta a tutta l’umanità da Dio nella pienezza dei tempi per mezzo di Gesù Cristo, manifestazione suprema e parola definitiva di Dio al mondo. Ora questa salvezza, annunciata e mediata dalla C. per la presenza in essa dei carismi dello Spirito Santo, è dono gratuito di Dio, ma è anche impegno che investe la totalità dell’esistenza umana. L’agape, donata alla C. dallo Spirito Santo, mentre da una parte orienta tutta la sua azione pastorale alla conversione e crescita in Cristo dell’umanità intera, dall’altra spinge le comunità cristiane a interessarsi in modo particolare delle nuove generazioni; non solo della loro crescita in Cristo, ma anche della loro educazione morale e formazione culturale, in una parola della loro crescita umana, tenendo presente che questa avviene, oggi, in un mondo ampiamente secolarizzato, ideologicamente e religiosamente pluralistico e conflittuale, ampiamente pervaso, attraverso i mass media, di visioni della vita non solo anticristiane ma pure gravemente disumanizzanti. Per questo ed entro questi limiti, essa è Mater et Magistra per l’umanità intera. La situazione che caratterizza il mondo contemporaneo impone sia alla C. universale che alle c. particolari opzioni nuove e coraggiose proprio in campo educativo e scolastico. Per il bene dell’umanità, le comunità cristiane devono preoccuparsi di formare cristiani umanamente e moralmente adulti e maturi. I singoli cristiani poi, ciascuno secondo le proprie competenze e secondo i doni ricevuti, in collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà, devono contribuire, sotto l’ispirazione della fede, a una maggiore umanizzazione ed efficienza delle strutture e istituzioni educative e scolastiche esistenti o, dove questa collaborazione non fosse possibile, devono tentare, a proprio rischio, di progettarne delle nuove, rendendole agenzie di autentica maturazione umana. 3. Modalità di attuazione. Sono principalmente tre le condizioni che permettono alla C. di occuparsi di educazione e di scuola, senza venir meno alla sua missione fondamentale di essere «segno sacramentale» del regno di Dio. La prima consiste nel riconoscimento della bontà e relativa autonomia delle realtà e finalità temporali nei riguardi

CHIESA

di quelle specificamente cristiane. Il Conc. Vat. II (GS nn. 33-39) lo ha affermato in modo esplicito e inequivocabile, presentando questa dottrina come conseguenza necessaria del dogma della creazione da parte di Dio di tutta la realtà con le sue finalità intrinseche. Perciò la promozione di processi educativi e di istituzioni scolastiche, finalizzati al conseguimento di cultura e di autentica maturazione umana, è un’attività «buona» in se stessa, a prescindere da ulteriori finalità specificamente cristiane, alle quali può essere ulteriormente ordinata. Queste ultime, però, non devono né fagocitare né strumentalizzare in modo indebito le finalità umane di ordine temporale, eticamente buone. Affermare la distinzione tra realtà e finalità di ordine temporale e realtà e finalità specificamente cristiane appartenenti all’ordine soprannaturale, non significa tuttavia, in alcun modo, arrivare ad una loro separazione o addirittura ad una loro contrapposizione. Al contrario, pensandole nell’orizzonte della Parola di Dio, si deve giungere ad affermare una loro implicanza reciproca nella prassi pastorale ed educativa delle comunità cristiane. La seconda si attua mediante l’accettazione, umile e sincera, del contributo della saggezza umana, presente nell’esperienza viva delle diverse culture, e dell’apporto delle scienze dell’educazione, assunti, l’uno e l’altro, con vigile senso critico nell’orizzonte della Parola di Dio, in funzione di soluzioni sempre più adeguate dei problemi pedagogici. Non è possibile infatti ricavare dalla Parola di Dio sull’educazione, contenuta nella → Bibbia, e dalle interpretazioni date ad essa dalla tradizione cristiana lungo i secoli, una pedagogia rivelata valida per tutti i tempi e le culture, ma solo orientamenti generali per poterla poi costruire in dialogo con le scienze dell’educazione. Perciò i credenti devono impegnarsi in questa ricerca della saggezza umana e nell’utilizzazione delle conquiste umane sia nel campo del sapere pedagogico che in quello delle istituzioni educative. La terza condizione è data dalla prospettiva misterica ed escatologica che deve guidare la C. nel suo impegno di umanizzazione del mondo. Il continuo esigere, nella Bibbia, la sottomissione del sapere e dell’agire umani alla Parola di Dio fa evidentemente supporre non solo la possibilità ma anche l’esistenza di tensioni e contrasti tra saggezza umana e

saggezza divina anche in campo educativo. Perciò la C., pur rispettando e promuovendo il lavoro della ragione in campo pedagogico, proprio per la sua adesione incondizionata alla Parola di Dio mediante la fede, dovrà essere sempre vigilante e critica verso ogni esercizio della ragione che avvenga in contrasto con il suo Credo. Inoltre pur riconoscendo la bontà e la validità di ogni sforzo educativo per un’umanità sempre più matura, pur collaborando sinceramente con tutti gli uomini di buona volontà all’attuazione di processi di liberazione e umanizzazione degli oppressi, le comunità cristiane dovranno impegnarsi in queste attività temporali, testimoniando, soprattutto con la vita prima ancora che con la parola, di essere animate dalla fede nell’esistenza di realtà e finalità trascendenti. Infine le comunità cristiane, anche quando reagiscono contro ogni forma di oppressione e di emarginazione o si impegnano a promuovere con sincerità e convinzione processi educativi di crescita e maturazione umano-cristiana all’interno delle differenti culture, devono farlo con motivazioni e in una prospettiva differente rispetto a quelle dei non credenti. Esse infatti, fondate sulla Parola di Dio, credono fermamente che la pienezza della perfezione dell’umanità e il compimento definitivo della → maturità umana a livello personale e comunitario non siano utopie illusorie e irraggiungibili. Sono certi che si realizzeranno a conclusione della storia, con la parusia del Cristo glorioso e la resurrezione, con l’instaurazione dei nuovi cieli e della nuova terra per ogni persona umana che si sforza di vivere secondo verità e ama di amore oblativo e operoso il prossimo. La messa in opera – all’interno di questi orizzonti di significato e sulla base di questi fondamenti – di istituzioni educative e di processi di formazione umano-cristiana, mentre da una parte non li sacralizza né clericalizza, dall’altra li umanizza e permette di qualificarli come «cristiani». Bibl.: Nipkow D. E., «Erziehung», in Theologische Realenzyklopädie 10 (1982) 232-253; Valentini D., «C.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 2558-2571; Groppo G. - G. A. Ubertalli, «L’educazione cristiana: natura e fine», in N. Galli (Ed.), L’educazione cristiana negli insegnamenti degli ultimi pontefici. Da Pio XI a Giovanni Paolo

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CICERONE MARCO TULLIO

II, Milano, Vita e Pensiero, 1992, 25-62; Casella F., Punti nodali della riflessione pedagogica dalla Divini Illius Magistri alla Gravissimum Educationis, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 293-304; Zani A.V., Il cammino della C. dalla Gravissimum Educationis a oggi, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 203-226.

e politica. Sottolineiamo in particolare l’apporto dato da C. nel campo filosofico, come realizzatore di un eclettismo che compone elementi prevalentemente stoici con elementi peripatetici e anche platonici, con una prevalenza data all’aspetto pratico su quello speculativo e quindi alla dimensione etica su quella contemplativa.

CIBERNETICA → Didattica → Informatica

3. C. e la pedagogia romana. Le competenze di C. sopra accennate, di filosofo, di letterato e di politico, determinano anche gli elementi costitutivi del suo apporto pedagogico per una sintesi umanistica unitaria. Esso si concretizza nell’ideale dell’oratore, che C. elabora soprattutto nelle sue opere De oratore, Orator, Brutus, Hortensius (perduto). Nella figura e quindi nella formazione dell’oratore richiede l’integrazione armonica di due aspetti: quello culturale e quello virtuoso, tanto da formare quasi una endiadi di humanitas et virtus. Il primato va però alla virtù e alla sapienza, in continuità con la virtus romana ereditata dal mos majorum. Ha così un senso preciso la definizione dell’oratore ricevuta da Catone il Censore: vir bonus dicendi peritus. E si spiega anche che nella sua formazione il primo posto vada alla filosofia (intesa nel senso eclettico sopraddetto). La sapienza avrà dunque la precedenza sulla tecnica; l’eloquenza sulla retorica. In questo C. combatte l’opinione che riserva ai filosofi i temi relativi alla morale, al diritto, alla pietà; che debbono invece essere, in modo diverso e più vivo, trattati anche dall’oratore. Su questa base C. richiede nell’oratore la massima ampiezza di cultura e ricchezza di erudizione: letteratura latina e greca, storia, diritto, vasta esperienza; oltre alle discipline della comune → paideia ellenistica. Tale ampiezza di preparazione culturale era necessaria nell’oratore anche per la vastità e pluralità dei temi di cui si doveva interessare. Cultura contro verbosità. Per questo suggerisce che la sua formazione comprenda anche una permanenza integrativa nelle città della Grecia. Alla visione dell’ideale dell’oratore si aggiunge in C. una buona sensibilità pedagogica: l’attenzione alla natura del giovane; il primo posto dato al talento, il secondo all’arte e all’esercizio; l’adeguamento anche delle mete da raggiungere, senza provocare scoraggiamento in alcuni o presunzione in altri.

G. Groppo

CICERONE Marco Tullio n. ad Arpino nel 106 a.C. - m. a Formia nel 43 a.C, filosofo e uomo politico romano. 1. L’uomo. C. occupa un posto significativo sia nella storia della filosofia, che nella storia della letteratura latina, come pure nella storia politica di Roma. Compie i suoi studi umanistici e giuridici a Roma e li completa in Grecia e nelle colonie greche dell’Asia Minore (Atene, Rodi) particolarmente nel campo filosofico. È fortemente impegnato nella vita politica, sia con la sua attività oratoria in processi di grande importanza, sia per aver ricoperto diverse cariche politiche. Eletto Console nel 63 salva lo Stato dalla congiura di Catilina. Muore per mano dei sicari di Antonio. In questa sede ci interessa particolarmente l’apporto che con il suo pensiero, con i suoi scritti e con la sua attività ha dato alla pedagogia romana: alla sua base culturale, alla sua metodologia e particolarmente alla definizione e alla formazione dell’ideale dell’oratore. 2. C. e la cultura romana. C. è tra i più efficaci creatori di quella sintesi culturale che, superando una stretta chiusura sulla tradizione del mos majorum, ma senza sacrificarla, la apre all’apporto della raffinata cultura greca, dando origine a quella nuova cultura latina che prese il nome di humanitas. Una sintesi che allo stesso tempo è guidata dalla mentalità romana e ad essa è ordinata: l’idealità greca è calata nella concretezza e saggezza pratica romana, di cui C. è tipico modello, portando alla reciproca integrazione in un nuovo equilibrio che definisce l’humanitas, cioè la cultura romana del periodo ellenistico. Una humanitas letteraria, etica 196

CICLO DIDATTICO

4. C. «tipo» dell’orator. L’esperienza politica, il profondo senso della romanità (del mos majorum e della virtus romana, dello Stato romano), la sincera ricerca filosofica, la formazione giuridica, l’ampia erudizione e l’eminente capacità oratoria qualificano la personalità di C. e da essa si proiettano nell’ideale che egli elabora dell’orator. In questo senso → Quintiliano ha potuto asserire che il nome di C. è il nome stesso dell’eloquenza (cfr. Inst. orat. 10,1). È anche questo un elemento importante in prospettiva pedagogica, poter offrire un modello concreto dell’ideale prospettato. 5. Influsso e risonanze. L’influsso esercitato da C. in campo culturale e pedagogico si può costatare a vari livelli. Uno immediato, come si è detto, nell’ambito della cultura ellenistico-romana; con una incidenza determinante sulla formazione dell’oratore, anche quando, con la crisi della Repubblica e l’avvento dell’Impero, il suo impatto sulla vita dello Stato sfumò. A lui sarà debitore anche Quintiliano nella sua Institutio oratoria. Nel ritorno alla classicità degli umanisti rinascimentali (→ Umanesimo rinascimentale) C. non solo è uno dei punti di riferimento più significativi, ma la sua imitazione porta anche a quel fenomeno di decadenza formalistica che si chiamò ciceronianismo. C. resta uno dei maestri validi nella storia della pedagogia. Bibl.: a) Fonti: C, Opere politiche e filosofiche, a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Torino, UTET, 1953; Dell’Oratore, a cura di A. Pacitti, Bologna, Zanichelli, 1974-77, 3 voll.; b) Studi: Narducci E., Introduzione a C., Roma/Bari, Laterza, 1992; Galino M. A., Historia de la educación. I. Edades antigua y media, Madrid, Gredos, 1960; Bonner S. F., L’educazione nell’antica Roma: da Catone il Censore a Plinio il Giovane, Roma, Armando, 1986; Montanari F. (Ed.), Rimuovere i classici? Cultura classica e società contemporanea, Milano, Einaudi, 2003.

M. Simoncelli

CICLO DIDATTICO Dal lat. Cyclus (cerchio), rappresenta l’idea della serie, chiusa in se stessa, che si ripro­ duce periodicamente; per estensione, nel lin-

guaggio pedagogico-scolastico, corri­sponde all’unità comprensiva – una fase della progressione curricolare, in se stessa compiuta – che si ripete modularmente per costituire l’intero del → piano di studi; di fatto, il c si definisce organizzativamen­te come «multiplo» della classe, che resta l’unità operativa minima. 1. Storicamente, si può considerare l’ana­logo della «classe», alla quale si oppone co­me alternativa mirata a correggerne la rigi­da scansione annuale, che impone i ritmi dell’artificio cronologico-formale alla va­rietà dei gradienti di sviluppo individuali. 2. Rispetto alla «classe», c. è una nozione che si distingue per alcuni attributi definienti: a) il riferimento ad uno «stadio» evolutivo della personalità dell’alunno in relazione ai compiti di → apprendimento. Per questo aspetto, il c. si qualifica per la relazione peculiare tra il piano di studi e l’età psicologica del soggetto in formazione, e quindi per la funzio­ne che assolve (come nel francese cycle d’orientation); b) per l’idea di discontinuità che sottolinea, rispetto agli altri c., a ragio­ne della compiutezza interna che esprime; c) viceversa, per l’idea di continuità, con­nessa alla successione di cui rappresenta una parte; d) per la caratterizzazione del ti­ po di insegnamento che richiede in rela­zione allo sviluppo dell’alunno. 3. Introdotto come risposta istituzionale al­ le istanze dell’attivismo (→ Scuole Nuove), l’evoluzione dei modelli didattici verso la centratura sulle discipline di studio, sulle metodologie d’indagine e sugli obiettivi da perseguire ha ottenuto di far perdere rilie­vo ad un termine che si era affermato in­sieme alle denunce dei ritardi e degli in­successi scolastici. 4. Il c. è tornato in auge negli ultimi dieci anni in riferimento a due contingenze : a) la riforma della durata ed articolazione interna dell’intero curricolo scolastico – v. riordino dei c. – in particolare per le divergenti politiche in materia di → obbligo scolastico e, più in generale, di «missione» della scuola; b) le strategie di razionalizzazione della rete scolastica, che ha visto la diffusione degli → «istituti comprensivi» e conseguentemente 197

CICLO DI VITA

la pratica di «curricoli in verticale» fra diversi gradi scolastici. Bibl.: Calidoni M. - P. Calidoni P., Continuità educativa e scuola di base, Brescia, La Scuola, 2000; Cerini G. - M. Spinosi, La scuola in verticale, Napoli, Tecnodid, 2000; Damiano E. (Ed.), Idee di scuola a confronto, Roma, Armando, 2002.

E. Damiano

CICLO DI VITA L’idea di c.d.v. implica una sequenza di eventi che scandiscono l’inizio, lo sviluppo e la conclusione di un processo con caratteristiche di unitarietà interna. 1. La vita dell’uomo nel suo sviluppo dalla nascita alla morte, ha indotto spesso uno studio segmentato per fasi. Del c.d.v. si sono occupati la biomedicina (genetica, auxologia, gerontologia), la → psicologia sociale ed evolutiva (fasi e compiti di sviluppo con le relative soglie critiche), la → demografia, che descrive il c. riproduttivo e i modi in cui si succedono le generazioni dei figli a quelle dei padri, la sociologia della famiglia, che utilizza l’approccio evolutivo o del «c.d.v. familiare» suddiviso in vari stadi, cui competono corrispondenti «compiti di sviluppo familiari». 2. L’uso della categoria del c.d.v. ha diversi pregi connessi sia con la maggior aderenza alla realtà che con la modernità metodologica. Infatti l’attenzione longitudinale ai comportamenti meglio coglie gli eventi consecutivi che definiscono il percorso vitale dei soggetti. Inoltre l’attenzione alla sequenza temporale e delle decisioni fa studiare ogni passo successivo come condizionato dai precedenti. Infine per quanto riguarda la → famiglia, l’approccio del c.d.v. familiare («Developmental Approach») permette di analizzarla come sistema vivente che nasce, si sviluppa e muore avendo in sé una minima relazionalità sociale. Questa verrebbe a cadere quando invece se ne studiano soltanto le variabili singole, come nella prospettiva del concetto di «corso della vita», che per alcuni Autori (Saraceno, 1986) dovrebbe sostituire 198

il c.d.v. Tale approccio allora enfatizzerebbe soprattutto la dimensione individualistica dello sviluppo e della coppia. Nelle società attuali il c.d.v. è molto più complesso che nel passato per una serie di variabili intervenienti di tipo economico, culturale, strutturale e psicologico che alterano e compromettono la regolarità delle sequenze degli eventi attesi o rendono più imprevedibili gli avvenimenti improvvisi. Bibl.: Mcgoldrick M. - E. A. Carter, «Il c.d.v. della famiglia», in F. Walsh (Ed.), Stili di funzionamento familiare, Milano, Angeli, 1986, 259-296; Saraceno C. (Ed.), Età e corso della vita, Bologna, Il Mulino, 1986; Scabini E. - P. P. Donati (Edd.), Tempo e transizioni familiari, Milano, Vita e Pensiero, 1994; Id., Nuovo lessico familiare, Ibid., 1995; Istat, Indagini multiscopo sulle famiglie (2000-2007), Roma, 2000-2007; Romano M. C. - T. Cappadozzi, «Generazioni estreme: nonni e nipoti», in G. B. Sgritta (Ed.), Il gioco delle generazioni. Famiglie e scambi sociali nelle reti primarie, Milano, Angeli, 2002; Bertocchi F., Sociologia delle generazioni, Padova, CEDAM, 2004; Romano R. G. (Ed.) C.d.v. e dinamiche educative nella società postmoderna, Milano, Angeli, 2005; Donati P. P., Manuale di sociologia della famiglia, Roma/Bari, Laterza, 2006.

R. Mion

CICLO DI VITA DELLA FAMIGLIA → Ciclo di vita → Famiglia CINEMA → Mass media

CITTADINANZA Con il termine c. si indicano tanto la rela­ zione tra un individuo e uno Stato quanto i diritti e i doveri che tale relazione com­porta per l’individuo. 1. La c. moderna è il risultato di un duplice evento storico: l’affermarsi dell’idea di na­ zione (con la conseguente trasformazione dell’entità politica a cui gli uomini doveva­no fedeltà: dalla città, dal clan, dall’aristo­crazia alla nazione come entità geografica, culturale e politica) e la distruzione del si­stema dei tre «stati» tipica dell’Ancien ré­gime decretata dalla Rivoluzione francese con la conse-

CITTADINANZA

guente affermazione del prin­cipio dell’uguaglianza giuridica di ciascun cittadino. Negli ultimi due secoli questa di­mensione della c. si è, d’un lato, arricchita sul versante sociale (con la sempre più av­vertita consapevolezza che senza ugua­glianza sociale la stessa uguaglianza giuri­d ica finisce per essere meramente forma­le) e, dall’altro, ha palesato evidenti limiti a fronte della realtà delle grandi comunità governate in modo rappresentativo.

reciproco rispetto delle diversità. Questa posizione – che sta notevolmente influenzando i programmi scolastici di numerosi Paesi europei sulla scorta anche delle suggestioni di importanti documenti internazionali (tra tutti il cosiddetto Rapporto Delors, Learning: the Treasure within, 1996) – si sta tuttavia scontrando con le tesi di quelle culture extra europee che rimproverano alla teoria dei «valori comuni» la sua matrice intrinsecamente illuministica ed eurocentrica.

2. Nella cultura politica contemporanea è possibile individuare – ragionando in ter­ mini molto schematici – alcune principali posizioni. La prima poggia sul presupposto che non sia più possibile nelle società post­ moderne alcun tipo di c. «forte» e cioè pog­ giata su quel nucleo di valori etico-politici (come ad es. la nazione o i valori borghesi) su cui si è svolta per due secoli la cultura politica occidentale. Nel richiamare prefe­ renzialmente la civiltà del cosmopolitismo ellenistico, anziché quella della polis gre­ca, i sostenitori della c. «debole» rilanciano l’insegnamento di stoici ed epicurei che reputarono superato il modello politico-paidetico della polis e sostennero il valore dell’individuo indipendentemente dall’as­sociazione politica di cui faceva parte. Inol­t re essi condividono una concezione di Sta­to smagrito di qualsiasi contenuto ideale (e, dunque, molto diverso per es. dallo Sta­to-nazione otto-novecentesco) il cui compito principale dovrebbe essere quello di mediare i conflitti e garantire la moltepli­cità delle esperienze personali e le pari op­portunità per ciascuno, sottraendo la c. a logiche normative, riconducendola ad una rete di rapporti egualitari basati sul reci­proco riconoscimento (Habermas, Luhmann). Non mancano anche coloro che, pur riconoscendosi in questo contesto, re­putano tuttavia necessarie alcune regole etico-politiche positive generali in grado di promuovere e conservare i valori della de­ mocrazia, giudicata il modello politico più perfetto (Bobbio). Negli ultimi anni, segnati dall’intensificarsi dei processi migratori e dal conseguente misurarsi e confrontarsi di culture, religioni, tradizioni diverse, si sono moltiplicati i tentativi per individuare un nucleo di «valori condivisi» o «valori comuni» (Maffettone, Veca, Viano) intorno ai quali elaborare una nozione di c. improntata al

3. Su posizioni del tutto diverse si muovono le tesi comunitariste (MacIntyre, Arendt, Sanders, Taylor) che ripropongono, invece, la validità dell’idea classica di e, prospettando l’esperienza co­munitaria della polis greca come esemplare e la Politica di → Aristotele come un testo ancora in grado di parlare all’uomo contemporaneo. La c. è così vista in funzione dell’appartenenza alla comunità e nella prospettiva del bene comune ed è così in- tesa sia come categoria politica e sia come impresa educativa. I comunitaristi ipotizza­no infatti uno stretto intreccio tra libertà, solidarietà e responsabilità individuali e co­munitarie e le prassi, i riti, i processi so­ cializzanti ed inculturanti attraverso cui es­sa si costituisce. Anche tra i comunitaristi esistono quanti avvertono tuttavia che l’i­potesi di c. ricca di ideali rappresenta cer­t amente un fondamentale modello teorico, che risulta però di ardua praticabilità nella società complessa nella quale è difficile identificare un nucleo di valori comuni in­torno a cui costruire un ethos comunitario. Per questi autori la c. comunitaria dovrebbe costituirsi in forme «societarie» (e non sta­taliste), facendo riferimento ai diritti dei singoli e dei gruppi sociali così come si realizzano nelle formazioni sociali autonome, quale che sia la loro sfera d’azione (econo­mica, culturale, politica o sociale), intese come insieme o «rete» sociale capace di sta­bilire ed assicurare nuove e più significative relazioni all’interno della società (Donati). 4. Non è difficile constatare come i due principali modelli di c. oggi vivi nel confronto nella cultura contemporanea (universalistico-individualistico e comunitario) implicano approcci educativi molto diversi. Nell’ipotesi della c. universalistica domina­no atteggiamenti formativi ispirati alla tolleranza, al 199

CIVILTÀ

senso di reciprocità delle esperienze, al pieno esplicarsi in senso per lo più individualistico delle attese e aspet­t ative personali, al rispetto della diversità, considerata più come fatto individuale che come valore culturale e collettivo. Nel caso della c. comunitaria prevale, invece, la con­vinzione che tra la dimensione personale e quella storico-sociale della persona umana non c’è contraddizione e che anzi l’una in­tegra l’altra (la libertà senza solidarietà sconfina nell’egoismo particolaristico). Le categorie pedagogiche prevalenti risultano perciò quelle dell’educazione alla respon­sabilità (intesa nel duplice senso di respon­sabilità personale e responsabilità comuni­taria), al superamento di sé, alla partecipa­zione sociale, alla valorizzazione della «memoria» collettiva nella quale s’invera ciascuna esperienza personale. 5. Notevoli suggestioni in prospettiva educativa e pedagogica giungono anche dalle tesi di alcuni autori di ispirazione repubblicana (Gutman, Pettit, Skinner, Viroli) e non (Naval, Höffe) che hanno di recente rilanciato il motivo della «virtù civica» intesa come forma di appartenenza solidale alla società in cui si vive (il cosiddetto «cittadino attivo» o, nel linguaggio americano, il «cittadino patriota»). Lo scopo è quello di sfuggire al rischio intellettualistico connesso alla determinazione del valore condiviso. La virtù civica oltrepassa infatti il principio del valore condiviso, per coinvolgere in presa diretta il cittadino nell’esperienza della socialità civica. Le virtù civiche non pretendono che questi diventi una persona del tutto nuova, ma che più semplicemente sia capace di sacrificare il proprio interesse per il bene comune. Questo approccio di natura politologica manifesta punti di affinità – talvolta anche esplicitamente intrecciandosi – con le iniziative avviate negli Stati Uniti dal Movimento per l’educazione del carattere (tra i suoi maggiori esponenti va segnalato Thomas Lickona). L’obiettivo è quello di creare la «comunità morale» nel senso proposto da Kohlberg attraverso l’esercizio della volontà degli allievi, ponendoli di fronte a impegni severi e stimolandoli a raggiungere risultati eccellenti. Lo scopo è quello di aiutare gli allievi a conoscere l’altro come persona, a stimare i membri della comunità ed a sperimentare sensi di responsabilità verso il grup200

po di appartenenza. La scuola della c. attiva non sarebbe perciò tanto o soltanto quella che si riconosce laicamente in alcuni valori condivisi, ma quella che lavora per sfuggire al rischio che la libertà personale si giochi insindacabilmente secondo il principio dell’autonomia il quale più cresce quanto più il soggetto si ritiene svincolato da un orizzonte che lo oltrepassa. Bibl.: M arshall T. H., C. e classe sociale, Torino, UTET, 1976; M acIntyre A., Dopo la virtù. Sag­gio di teoria morale, Milano, Feltrinelli, 1988; Da m ­ iano E. et al., L’educazione del cittadino, Brescia, La Scuola, 1990; Lickona T., Education for character: how our schools can teach respect and responsibility, New York, Bantam Books, 1991; Bendix J., «C.», in Dizionario del­le scienze sociali, vol. I, Torino, UTET, 1991, 772-777; H abermas J., Morale, diritto, politica, Torino, Einaudi, 1992; Zincone G., Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e le vie della società civile, Bolo­g na, Il Mulino, 1992; Donati P. P., La c. societaria, Bari, Laterza, 1993; Kymlicka W., La c. multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1999; Putman R. D., Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna, Il Mulino, 2004; Toso M., Democrazia e libertà: laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, Roma, LAS, 2006.

G. Chiosso

CIVILTÀ Dall’antichità fino ai tempi più recenti la c. è stata generalmente considerata in un rap­ porto d’identità con la → cultura – intesa in senso prevalentemente classico-umanisti­co – in quanto designa la forma più alta della vita di un popolo. 1. Tale nozione si fonda sulla preferenza ac­ cordata a certi valori; privilegia certe parti­ colari forme di attività o di esperienza uma­ na, ritenute particolarmente indicative del grado di formazione umana e spirituale rag­ giunta da un popolo; e contemporanea­mente esalta quei gruppi umani presso i quali tali forme di esperienza e di attività appaiono particolarmente sviluppate (Ab­b agnano, 1980,130-131). Ad es., per i Lati­ni, e per vari secoli, civilitas era la società dei cittadini: il

CLAPARÈDE JEAN ALFRED ÉDOUARD

civis, l’uomo della città, raf­finato ed evoluto, è contrapposto al ruralis, ossia all’uomo esterno al mondo urbano, e per ciò stesso forestiero ed anche rozzo e villano. Tale concezione di c. ha sempre conservato una notevole connotazione ari­stocratico/elitaria, sia perché in genere solo una minoranza privilegiata riusciva ad ac­cedere pienamente a tale ricchezza cultura­le, sia perché l’«uomo civile» tendeva a di­staccarsi con disprezzo dal resto dell’uma­nità. Troviamo la qualifica di volgo, all’in­terno, di barbari, all’esterno, per designare gli esclusi o gli emarginati, nell’epoca gre­co-latina, medioevale, umanistico/rinasci­mentale, illuministica. Celebri, a questo ri­g uardo, le affermazioni di Orazio: Odi profanum vulgus et arceo (Odi, 3,1) e del poeta cristiano Prudenzio: Tantum distant Roma­na et barbara quantum quadrupes abiuncta est bipedi vel muta loquenti (Contra Symmacum, 2, 817-8). 2. Con l’affermazione della moderna bor­ ghesia, quale classe fortemente differenziata, fiorita con il Rinascimento ed esplo­ sa con l’Illuminismo e il Positivismo, la c. – cioè l’autoapprezzamento che si esprime­ va nell’attribuzione della civilitas al pro­prio modo di vita e ai propri ideali, ossia al­la propria cultura – «divenne piuttosto il metro sul quale la classe borghese misura­va sia gli altri strati sociali, sia anche i po­poli stranieri al di là dei propri confini» (Thurn, 1979, 34-35). Sorge così un impe­r ialismo civilizzatore animato da tenace ze­lo missionario per insegnare ai popoli «non civilizzati» a recepire la cultura europea. Tale mentalità, fondata su una determina­ta gerarchia di valori e privilegiante l’Occidente cristiano, pur stemperandosi negli estremismi classisti e regionalisti, suppor­ta il classico concetto di c. «come simbolo del traguardo più elevato che viene rag­giunto dalle attività culturali degli uomini, di modo che lo si riserva ai livelli più pro­g rediti, nutriti e affascinanti del progresso culturale, mentre lo si nega ai livelli più ar­retrati, che vengono anche definiti appunto incivili. In questo significato emerge l’a­spetto deontologico della cultura superio­re, come fonte di orientamenti morali qua­lificanti e come garanzia di status sociale rispettabile» (Mamo - Minardi, 1987, 638). Una traccia di questa mentalità permane ancora nei nostri giorni: «Alcuni autori ri­

servano il termine c. a manifestazioni su­ periori e particolarmente importanti della cultura: in tale accezione, il grattacielo è “c.”, la capanna, “cultura”; la bomba ato­mica è “c.”, la freccia e il boomerang sono “cultura”» (Costanzo, 1988, 506-507). 3. Da quando poi si cominciò a usare il ter­ mine c. al plurale – come, per es., fa Toyn­bee (1889-1975), che lo contrappone a quello di «società primitive» per indicare le società con mondi culturali relativamen­te autonomi – il termine c. è impiegato semplicemente come cultura (in senso an­t ropologico moderno). Del resto già il clas­sico dell’antropologia culturale, Primitive culture (1871) di Taylor, nella nota defini­zione, parlava di «cultura o c.». In definitiva, quantunque il concetto di c. presso etnologi e antropologi continui tal­ volta a sottolineare uno stadio o grado (re­ lativamente) più avanzato di sviluppo di una società, la dicotomia tra c. e cultura sembra non avere reali fondamenti, ragion per cui oggi i due termini vengono consi­derati comunemente come sinonimi. Oggi, in un contesto di → globalizzazione si parla di incontro tra culture e dialogo interculturale, ma anche di «scontro tra c.». Bibl.: Thurn H. P., Sociologia della cultura, Bre­ scia, La Scuola, 1979; A bbagnano N., «C.», in Id., Dizionario di filosofìa, Torino, UTET, 1980, 131-133: M amo D. - E. Minardi, «Cultura», in E. Dema ­ rchi - A. Ellena - B. Cattarinussi (Edd.), Nuovo dizionario di sociologia, Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1987, 635-642; Costanzo L., «La cultura», in M. Toscano (Ed.), Introduzione alla sociologia, Milano, Angeli, 1988, 489-525; Torrealta M. (Ed.), Incontro e scontro di civiltà, Roma, EdUP, 2006.

M. Montani

CLAPARÈDE Jean Alfred Édouard n. a Ginevra nel 1873 - m. ivi nel 1940, psicologo svizzero. 1. Fondatore e direttore della rivista «Archives de Psychologie» (1901); direttore del laboratorio di psicologia sperimentale di Ginevra (1904); fondatore dell’Institut J. J. Rousseau (1912); segretario permanente dei 201

CLARET ANTONIO MARÍA

congressi internazionali di psicologia (1926) e organizzatore delle conferenze internazionali di psicotecnica (1920). C. ebbe una formazione poliedrica; anche se si maturò nell’ambito del materialismo psicofisico, fu aperto al kantismo, al pragmatismo, e attento alla tradizione protestante espressa nel movimento del cristianesimo sociale. 2. Partendo da una concezione biologica della psicologia, C. sviluppò ricerche nei molteplici settori della psicologia indagando quelle componenti biologiche che trovano nel bisogno, nell’interesse, nell’istinto il punto di partenza dal quale nascono e si differenziano sia le scienze dell’uomo che l’evoluzione stessa dell’individuo. Attraverso la legge dell’interesse momentaneo si comprenderebbe il meccanismo della condotta umana e, attraverso la legge della presa di coscienza, il senso e la direzione della differenziazione e dello sviluppo umano. C. ebbe il merito di studiare i fenomeni psicologici sperimentalmente, senza isolarsi, però, dal processo concreto, cercando sempre una stretta relazione tra il fatto da spiegare e la condotta, ossia, la funzione del fatto psichico. Il concepire l’uomo nella sua interezza, porta C., fra l’altro, a studiare il ruolo dell’ → intelligenza (Genèse de l’hypothèse), il legame fra struttura biologica e attitudini mentali (Comment diagnostiquer les aptitudes chez les écoliers), a privilegiare la sperimentazione psicologica, senza però rinchiudersi in essa. 3. Sostenitore della → pedologia, ritenne che qualsiasi → intervento educativo si dovesse fondare sugli interessi reali del fanciullo, al fine di porre tutto in funzione dei suoi bisogni e quindi del suo naturale processo di sviluppo (Éducation fonctionnelle), per rendere la scuola adatta e proporzionata ai suoi poteri (École sur mesure). C. si inserisce, così, nel movimento delle → Scuole Nuove. Nella sua concezione psicopedagogica C. ritiene che lo scopo della scienza sia quello d’indagare i metodi scientifici più adatti ad educare il singolo alla probità, alla democrazia, alla solidarietà, alla comprensione internazionale, allo spirito critico (Morale et politique). Pur essendo forte in lui una tendenza antropologica fondata sulla biologia e sul funzionalismo, prevale una tensione alta per valoriz202

zare l’uomo proprio attraverso la moralità, il civismo, la ricerca della pace. Bibl.: Trombetta C., E.C.: La famiglia, gli studi, la bibliografia, Roma, Bulzoni, 1976; Bucci S., Inediti pedagogici di E.C., Perugia, Università degli Studi, 1984: Trombetta C., E.C. psicologo, Roma, Armando, 1989; H ameline D., E.C., in «Perspectives» 23 (1993) 161-173.

C. Trombetta

CLARET Antonio María n. a Sallent (Barcellona) nel 1807 - m. a Fontfroide (Francia) nel 1870, educatore spagnolo, catechista, fondatore dei Claretiani, santo. 1. Lavora come operaio e tecnico tessile prima di entrare in seminario (1829). Ordinato sacerdote (1835), alterna il lavoro parrocchiale con l’impegno nelle missioni popolari e nella diffusione della buona stampa; scrive opuscoli e libri, collabora alla fondazione dell’editrice Librería Religiosa di Barcellona. Nel 1849 fonda i Claretiani («Misioneros Hijos del Corazón de María»). Nominato arcivescovo di Santiago di Cuba, C. realizza importanti opere apostoliche e sociali, promuovendo la creazione di scuole gratuite. Offre il suo aiuto a Antonia París, fondatrice di un istituto per l’educazione delle ragazze: «Instituto de María Inmaculada de la Enseñanza». Nel 1857 rientra in patria come confessore di Isabella II e precettore dei figli. 2. Nel periodo di permanenza a Madrid, esplica un’intensa attività educativa e culturale: organizza un seminario e un liceo a El Escorial, crea la Academia de San Miguel, per artisti e intellettuali cattolici, diffonde le biblioteche parrocchiali. Dopo la rivoluzione del 1868 viene esiliato e muore in Francia. L’interesse pedagogico di C. comprende un ampio ventaglio: catechesi, educazione popolare, orientamento vocazionale, formazione dei seminaristi e delle ragazze, educazione familiare. Nella produzione (più di 94 titoli) emergono: El colegial o seminarista, teórica y prácticamente instruido (1860), La colegiala instruida (1864), La vocación de los niños. Cómo se han de educar e instruir

CLASSE SCOLASTICA

(1864). I Claretiani occupano un posto significativo nell’ambito della scuola (→ Congregazioni insegnanti maschili). Bibl.: a) Fonti: A.M.C., Escritos autobiográficos, Madrid, BAC, 1985. b) Studi: Pérez Iturriaga T., «San A.M.C.», in A. Galino (Ed.), Textos pedagógicos hispanoamericanos, Madrid, Narcea, 1974, 989-1008; A laiz A., Vida de san A.M.C., Madrid, San Pablo, 1995; Vilarrubias A., Sant A.M.C. sempre en missió, Barcelona, Centre de Pastoral Litúrgica, 2004.

J. M. Prellezo

CLASSE SCOLASTICA Rappresenta l’unità compositiva della «scuola burocratica», raggruppando un numero più o meno ampio di alunni della stessa età scolastica, tenuti a seguire lo stesso segmento del curricolo formativo, nelle medesime condizioni di tempo e di spazio, sotto la guida dello stesso inse­g nante (o gruppo di insegnanti). 1. Dobbiamo a Michel Foucault la ricostruzione storica delle istituzioni della modernità, fra le quali la scuola «a classi», lo spazio seriale come una delle grandi mutazioni tecniche dell’insegnamento e della «disciplinazione» degli alunni mediante l’inquadramento spazio-temporale. Questo spiega perché la c. è sempre stata considerata (e discussa) in riferimento al potere dell’insegnante ed alla conduzione disciplinare della scolaresca. L’organizzazione per c. fa la sua comparsa con l’avvento dei primi Collegi rina­scimentali e successivamente nelle scuole popolari (→ Comenio, a Patak); da quel momento in poi si estende fino a diventare la struttura organizzativa modulare minima del sistema scolastico. Nel lessico scolastico sta a designare: a) gli alunni all’insieme dei quali s’impartisce l’insegnamento; b) lo spazio fisico – più esattamente aula – dove ha luogo un insegnamento polivalen­te (per distinguerlo, per es., dai laboratori o dalla palestra, spazi didattici specializza­ti). 2. Il dibattito sui ritardi e sull’ → insuccesso scolastico ha sollevato in passato appassio­ nate denunce all’idea di c., soprattutto al­

l’inizio di questo secolo e nel contesto dei movimenti delle → Scuole Nuove. La di­ scussione ha generato proposte differen­ziate di raggruppamenti alternativi al prin­cipio dell’età formale – le cosiddette non-graded schools e le tecniche di streaming e di screening – che si possono ricondurre ai seguenti criteri: a) relativi all’interesse per un argomento; b) alla complementarità per l’esecuzione di un progetto; c) alla elettività delle preferenze fra gli alunni; d) al gra­diente di sviluppo cognitivo effettivamente controllato; e) al rendimento scolastico; f) alla distribuzione dei compiti nel quadro di attività programmate in comune fra c. di­verse (o per l’intera scuola). 3. Tuttavia, la pratica della c. ha resistito alle critiche, risultando un raggruppamen­to conveniente per organizzare il lavoro formativo, soprattutto se si alternano mo­menti frontali con fasi di lavoro di piccolo gruppo, a coppie ed individualizzato e se si offrono occasioni con interscambi e ri­composizione di gruppi con altre c. («c. aperte»). La c., non da oggi, è tutt’altro che un’opzione assoluta, si possono dare raggruppamenti intra-c., come inter-c. fino ad organizzazioni per cicli pluriennali. Oggi l’ICT (Internet Communication Technology) consente l’attivazione di c. «virtuali» per l’apprendimento a distanza (→ e-learning). 4. Sulla scorta del movimento femminista e della «didattica di genere», si è tornato a discutere il criterio consolidato della coeducazione e delle c. miste, riproponendo la differenziazione tra c. maschili e femminili (Salomone). Bibl.: Foucault M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1975; Storia della sessualità, Milano, Feltrinelli, 1978; Goodlad J. I. - R. H. A nderson, The non-graded-school. Scuola senza c., Torino, Loescher, 1972; Shaplin J. T. - H. F. Olds, Team teaching. Una nuova organizzazione del processo educativo, Ibid., 1973; M eirieu P., Lavoro di gruppo e apprendimenti individuali, Firenze, La Nuova Italia, 1987; Freinet C., Oeuvres pédagogiques, Paris, Seuil, 1994; Perrenoud Ph., Les cycles d’apprentissage, de nouveaux espaces-tempe de formation, in «Educateur» 14 (1998) 23-29; De la gestion de classe à l’organisation du travail dans un cycle d’appren-

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CLASSE SOCIALE

tissage, in T. Nault - J. Fijalkow, La gestion de classe, in «Revue des Sciences de l’Education» 3 (1999) 533-570; Salomone R., Same, different, equal: rethinking single-sex schooling, Yale, Yale Univ. Press, 2003.

E. Damiano

CLASSE SOCIALE È uno tra i più cruciali e più controversi concetti della sociologia. In genere c.s. è l’insieme degli individui o delle famiglie che godono della stessa quantità di reddito, prestigio e potere; più specificamente è la posizione occupata dai diversi gruppi nel sistema della stratificazione sociale. 1. Tratti caratteristici. Secondo una descrizione che, al di là di qualunque interpretazione, indichi i tratti caratteristici e costanti della c.s. possiamo rilevare: a) diversamente dalla casta e dai ceti, le c.s. non dipendono da ordinamenti legali e religiosi. I confini tra le c.s. non sono mai netti, così che non esistono restrizioni formali particolari, né tanto meno al matrimonio tra i membri appartenenti a c.s. diverse; b) la c.s. di un individuo non è semplicemente ascritta, ma in buona parte anche acquisita; c) le c.s. si fondano sulle differenze e/o disuguaglianze di potere, di prestigio e di ricchezza, come per es. nel trattamento salariale, nelle condizioni di lavoro, nella proprietà e nel controllo delle risorse materiali. 2. Due accezioni di c.s. Nella letteratura corrente sono emerse due accezioni di c.s.: una definita realista od organica, predominante nel pensiero politico e nella sociologia europea, ed una definita nominalistica od ordinale, predominante nella sociologia americana. In una definizione realista od organica c.s. è quel complesso assai vasto di individui, che si trovano in una posizione simile nella struttura sociale storicamente determinata da rapporti politici ed economici. È un soggetto collettivo, capace anche di azione unitaria, dove l’interdipendenza tra le c.s. (in senso cooperativistico o conflittuale) è alta. L’insieme delle c.s. costituisce una «struttura di c.». La c.s. è il fondamento della disuguaglianza sociale (e non viceversa) in fatto di 204

potere, di ricchezza e di prestigio che si osserva tra le persone, pur in presenza di una riconosciuta uguaglianza giuridica. In una definizione nominalistica, la c.s. è costituita da uno strato di persone sociali che hanno in comune determinate caratteristiche di → status: non solo ricchezza, prestigio e potere, ma anche → stili di vita, educazione e → cultura. L’appartenenza ad una c.s. condiziona infatti in modo oggettivo, cioè indipendentemente dalla coscienza o dalla volontà del soggetto, alcuni fondamentali aspetti della vita, come la professione, il livello del reddito, le possibilità educative, la speranza di vita,lo stile di vita, il prestigio di cui si gode, la possibilità di intervenire nelle decisioni politiche locali e nazionali. 3. Nella storia del pensiero sociologico. L’attuale teoria delle c.s. deriva quasi interamente dagli scritti di Marx , di → Weber, della Scuola di Mosca e di Pareto. Ciò non significa che molti altri autori non abbiano fornito intuizioni valide sulla struttura di c. e sulle forme di disuguaglianza. Marx fonda la definizione di c. sulla opposizione e sfruttamento che i proprietari del capitale e dei mezzi di produzione (i capitalisti) esercitano su coloro che vendono la loro forza-lavoro (il proletariato). Secondo Marx il sistema capitalistico è la fonte delle disuguaglianze sociali e di un differente accesso alle risorse. Contributi più recenti a tale teoria sono stati apportati da Lukacs, da Gramsci e ultimamente da Althusser. Essi hanno corretto l’idea della coercizione e del controllo sul proletariato, esercitato materialmente dallo Stato capitalistico, con la categoria della manipolazione ideologica, dell’indottrinamento e della propaganda. Secondo Althusser, infatti, nella società capitalistica è presente un complesso di istituzioni («gli apparati ideologici di Stato») che riescono a indottrinare e manipolare il proletariato. Weber invece inserisce tra i criteri per la formazione della c.s. anche quelli non economici, come il livello di educazione, la qualificazione professionale, l’occupazione, il reddito, il prestigio, l’etnia di appartenenza, l’affiliazione religiosa, l’autorità, il potere, la capacità di gestire i processi politici e decisionali. Per questo gli si attribuisce l’intuizione di «modello multidimensionale» della stratificazione sociale. Mentre la c.s. è data oggettivamente dai fattori eco-

CLASSIFICAZIONE

nomici, lo status dipende dalle valutazioni soggettive delle differenze sociali espresse dagli individui ed è associato ai diversi stili di vita dei gruppi. La maggior parte dei sociologi ritiene che lo schema weberiano offra una base più flessibile e sofisticata per l’analisi delle c.s. 4. Le c.s. in Italia. L’analisi più documentata e convincente è stata compiuta dall’economista Paolo Sylos Labini, il cui criterio per la stratificazione è stato non tanto il livello di reddito, quanto il modo in cui lo si ottiene. Sulla base di tale categoria l’A. ha distinto sei grandi di c.s.: la borghesia, le c. medie costituite dalla piccola borghesia impiegatizia, dalla piccola borghesia relativamente autonoma e dalla piccola borghesia di alcune categorie particolari, quindi la c. operaia e il sottoproletariato. Rimangono però sempre aperti gli interrogativi circa l’origine delle c.s., le coordinate del potere, i rapporti tra le c. e lo status, il grado di integrazione/differenziazione interna, l’influsso di ciascuna all’interno dei sistemi. Bibl.: Lukacs G., Storia e coscienza di c., Milano, Sugar, 1967; Dahrendorf R., C. e conflitto di c. nella società industriale, Bari, Laterza, 1970; Mauke M., La teoria delle c. nel pensiero di Marx ed Engels, Milano, Jaca Book, 1970; Giddens A., La struttura di c. nelle società avanzate, Bologna, Il Mulino, 1975; Sylos Labini P., Saggio sulle c.s., Bari, Laterza, 1988; Carabana J. - A. De Francisco (Edd.), Teorías contemporáneas de las clases sociales, Madrid, Pablo Iglesias, 1993; Crompton R., C.s. e stratificazione, Bologna, Il Mulino, 1999; Marshall Th., Cittadinanza e c.s., Bari, Laterza, 2002; Bevilacqua E., La società nascosta. C.s. e rappresentazioni ideologiche nell’Italia contemporanea, Milano, Angeli, 2003.

R. Mion

CLASSICITÀ → Grecia: educazione → Roma: educazione

CLASSIFICAZIONE Raggruppamento di oggetti in «classi», cioè in categorie indipendenti. La c. è la forma più elementare di misurazione («scale nomi-

nali»). Rende possibile anche la trattazione statistica dei dati qualitativi e quindi la verifica sperimentale di ipotesi a loro attinenti. 1. Il processo di c. si fonda sul rapporto di equivalenza: tutti gli oggetti inclusi in una classe sono considerati equivalenti tra loro e le differenze tra oggetti all’interno di una stessa classe diventano irrilevanti ai fini della misurazione. Ad es., tra i candidati dichiarati «non idonei» a un concorso possono essere presenti livelli di capacità diversi. Nonostante ciò, il più capace dei «non idonei» è escluso dalla vincita del concorso esattamente come il meno capace. La c. implica il riferimento a più classi indipendenti, che si escludono a vicenda. L’indipendenza comporta che: a) qualsiasi oggetto deve poter essere univocamente classificato in una classe e in nessun’altra; b) l’ordine in cui le classi sono disposte può cambiare a piacere, non avendo significato; c) la denominazione attribuita a ciascuna classe può variare a piacere ed essere espressa sia da una parola sia da un numero. Nel caso l’etichetta sia espressa da un numero, il numero non ha proprietà aritmetiche, ma è un semplice distintivo, come può esserlo una targa automobilistica, il numero sulle maglie dei giocatori ecc. 2. Se la c. è riferita simultaneamente a due sistemi di categorie i dati possono essere inseriti in una «tabella di contingenza», all’interno della quale ogni casella contiene frequenze attinenti simultaneamente a due classi, una per ciascuno dei due sistemi usati. Le operazioni che si possono compiere sulle c. sono sostanzialmente: all’interno di ogni classe il conto delle frequenze e l’identificazione della moda (→ statistica), nell’insieme delle classi la misurazione della variabilità delle frequenze e la stima della → significatività statistica delle differenze tra distribuzioni di frequenze in due sistemi di classi (per es. mediante chi quadro o statistiche d’informazione). Bibl.: Calonghi L., Statistiche d’informazione e valutazione, Roma, Bulzoni, 1978; Cristante F. - A. Lis - M. Sambin, Statistica per psicologi, Firenze, Giunti-Barbera, 1982; Siegel S. - N. J. Jr. Castellan, Statistica non parametrica, Milano, McGraw Hill, 1992 (ed. orig. New York, McGraw Hill, 1988); Lombardo C. - L. Boncori, I test in

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CLEMENTE DI ALESSANDRIA

psicologia. Esercitazioni pratiche, Bologna, Il Mulino, 2007.

L. Boncori

CLEMENTE DI ALESSANDRIA n. nel 150 - m. nel 215, padre della Chiesa. C. di A. (Tito Flavio C.) è il primo padre della Chiesa a tematizzare l’educazione cristiana nei suoi scritti e a concepire la storia della salvezza come una pedagogia divina con la quale Dio educa progressivamente la sua creatura, fino a portarla alla divinizzazione finale. In questo senso C. può definirsi giustamente come il primo pedagogista cristiano. 1. C. nacque probabilmente ad Atene, intorno al 150 d.C. da genitori pagani. Uomo assetato di verità, la cercò sempre con passione, anche attraverso lunghi viaggi, finché scelse come ambiente ideale e più congeniale all’impegno della sua ricerca Alessandria, la metropoli cosmopolita capitale della polivalente cultura ellenistica del suo tempo. Qui C. si convertì al Cristo-Logos e divenne maestro spirituale nel celebre Didaskaléion, la prima scuola cristiana per la catechesi e l’educazione. Durante la persecuzione di Settimio Severo (202-203) C. dovette lasciare la città per rifugiarsi in Cappadocia, presso il discepolo ed amico Alessandro, futuro vescovo di Gerusalemme (intorno al 211). 2. Le opere giunte sino a noi sono: il Protettico, il Pedagogo, gli Strómati, gli Estratti da Teodoto, le Ecloghe profetiche e l’omelia Quale ricco può salvarsi? Ci soffermeremo per un breve cenno solo sull’opera che tratta specificamente dell’educazione. Il Pedagogo consta di tre libri ed è il primo manuale di formazione pedagogica cristiana. Il primo libro contiene la parte più sistematica in cui C. pone i principi fondamentali della sua metodologia pedagogica. Gli altri due libri, invece, dai principi scendono alla prassi, con l’indicazione minuziosa delle norme di comportamento codificate in una specie di galateo proprio dell’educando cristiano. Chiude l’opera un inno poetico al divino Pedagogo, un «cantico dell’infanzia e dei fanciulli». 3. Pedagogia in C. non è semplice categoria 206

di passaggio e occasionale, ma è il filo conduttore di tutta l’opera del Pedagogo. Basti annotare anche solo il fatto che questo termine (e suoi derivati) vi compare ben 163 volte. Contro la mentalità propria dell’ellenismo – recepita anche dallo gnosticismo del suo tempo – piuttosto incurante, per non dire ostile, al mondo dei fanciulli e dei piccoli, C. si schiera appassionatamente dalla loro parte, mettendoli al centro dell’amore educante del divino Pedagogo. «Per noi la designazione dell’età dei fanciulli è la primavera della vita» (Pedagogo I , 5). Bibl.: a) Fonti: M igne , PG 8-9; Staehlin OFrüchtel L.-Treu U., Clemens Alexandrinus (= Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, 12,15,17), Berlin/Leipzig, 1934-1972; M arrou H. I., Clément d’Alexandrie. Le Pédagogue, Paris, Cerf, 1960-1970. b) Studi: Gallinari L., La problematica educativa di C. Alessandrino, Cassino, 1976; Pasquato O., «Crescita del cristiano in C. Alessandrino. Tra ellenismo e cristianesimo: interpretazione storiografica di Marrou H.I.», in S. Felici (Ed.), Crescita dell’uomo nella catechesi dei Padri (Età prenicena), Roma, LAS, 1988, 57-72; Bergamelli F., «C. di A.», in M. Midali - R. Tonelli (Edd.), Dizionario di pastorale giovanile, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992,187-192; Nardi C., Gioventù e riconciliazione cristiana. La proposta di C. Alessandrino, in «Rivista di Ascetica e Mistica» 62 (1993) 343-371; Sanguineti J. J., La antropología educativa de C. Alejandrino. El giro del paganismo al cristianismo, Pamplona, EUNSA, 2003.

F. Bergamelli

CLIMA EDUCATIVO/ SCOLASTICO Si riferisce alle proprietà d’insieme ed alle capacità espressive dell’istituto scolastico, definito come comunità sensibile e ricetti­va rispetto ai compiti di sviluppo ed al be­nessere sociale, intellettuale, emotivo ed affettivo dei soggetti – alunni, insegnanti ed altri operatori – che a vario titolo inte­ragiscono. Secondo questo approccio eco­logico all’educazione, la sinergia degli ele­menti costitutivi comprende anche la con­figurazione degli spazi e degli arredi, l’in­quadramento temporale e i ritmi,

CLIMA EDUCATIVO/SCOLASTICO

quotidia­ni e non quotidiani, le relazioni fra i singo­li ed i gruppi, fino a identificare un → curri­colo implicito della → organizzazione scolastica, che esercita una → didattica indi­ retta in grado di influenzare oggettivamen­te i comportamenti mediante la condivisio­ne pratica delle regole costitutive. 1. L’indagine specifica sul concetto di c.e.s. si colloca nel quadro della ricerca educativa sugli «effetti-scuola», interessata ai risultati in termini di apprendimento, diretto ed indiretto, che il c.e.s. può ottenere. Quando si afferma l’effetto-scuola ci si riferisce all’esperienza piuttosto comune che mostra come ci siano istituti scolastici tristi, squallidi, altri austeri, severi, mentre alcuni sono accoglienti, attraenti, e addirittura gioiosi. Tradotto in forma di domanda, il problema si formula così: il «c.» di una scuola influenza il comportamento degli insegnanti ed il loro rendimento? e il comportamento e l’apprendimento degli alunni? A questi interrogativi si risponde immancabilmente di sì, anche se risulta difficile provarlo. All’origine della ricerca sul «c.» ritroviamo → Lewin, il quale introdusse il concetto già alla fine degli anni ’30 allo scopo di rappresentare le dinamiche indotte dai diversi stili di leadership nei gruppi. Fu egli ad adottare un’immagine già climatica, l’atmosfera, che definisce come «qualcosa di intangibile, una proprietà della situazione sociale complessiva, che potrà essere valutata scientificamente se verrà colta da questo punto di vista» (orig. l948, trad. it. l980, 114). Come si vede, fin dall’origine il concetto si qualifica per la sua portata globale, che si servì in modi peculiari di nozioni geometriche, non metriche bensì topologiche, proprio per identificare fenomeni interpersonali e sociali continui, non riducibili a sommatorie di elementi discreti. Da allora, la ricerca ha continuato a dibattersi intorno alla questione dei rapporti fra le parti ed il tutto, oscillando tra l’approccio di tipo elementaristico, che esamina il peso specifico dei singoli fattori e quello sistemico e olistico, che punta sulle qualità «oggettive» dell’organizzazione nel suo insieme. Un passo avanti rispetto al comportamentismo imperante fu promosso da Argyris nel l958, che riprese la nozione di «c.» in chiave organizzativa, per assumerla all’interno di un modello cibernetico e identificarla come uno stato omeostatico del

sistema e funzione di regolazione sovraordinato rispetto a tre aggregati di variabili: a) le politiche, le procedure e le posizioni formali dell’organizzazione; b) i fattori personali, includenti bisogni, valori e capacità individuali; c) le variabili associate relative agli sforzi degli individui per conformare i propri fini a quelli dell’organizzazione. Secondo questo approccio olistico, il «c.» viene concepito come attributo dell’organizzazione e non la risultante di percezioni individuali. 2. Per quanto concerne la ricerca sui climi scolastici, l’adozione di un’idea di c.e.s. che recupera i contributi della fenomenologia, dell’interazionismo simbolico e dell’etnometodologia, è rintracciabile nel modello di Tagiuri (l968), che si articola su quattro gradi tassonomici: 1) l’ecologia, ovvero gli aspetti materiali della scuola (numero di alunni al totale, numero di alunni per classe, attrezzature, rifiniture dei locali, pulizia, manutenzione…); 2) l’ambiente umano, ovvero le caratteristiche degli alunni e degli operatori, scolastici e amministrativi; 3) il sistema sociale, ovvero l’assetto amministrativo, ruoli e funzioni di singoli, gruppi ed altre aggregazioni, formali ed informali; 4) la cultura, ovvero le norme, le credenze, i valori, i sistemi di significato… prevalenti all’interno della scuola. Più recentemente la Gather Thurler ha proposto, attraverso tre indicatori di portata complessiva – Modalità di relazioni professionali fra gli insegnanti, Stili di direzione, Genere di consenso in rapporto alle finalità educative – una interessante tipologia di «profili climatici»: individualismo, balcanizzazione, grande famiglia, collegialità imposta, cooperazione e interdipendenza. Da segnalare, infine, che tra i fattori che sembrano orientare si­ gnificativamente il c.e.s. sono state indicate la personalità e le strategie educazionali del → dirigente scolastico. Bibl.: Lewin K. - R. Lippit - R. K.White, Patterns of aggressive behavior in experimentally created «social climates», in «Journal of Social Psychology» 10 (1939) 271-299; A rgyris C., Some problem in conceptualizing organizational climate. A case-study of a bank, in «Administrative Science Quarterly» (1958) 2, 501-520; Tagiuri R., «The concept of organizational climate», in R. Tagiuri - G. H. Litwin (Edd.), Organizational climate:

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CODICE

exploration of a concept, Boston, Harvard University, l968, 11-32; Lewin K., I conflitti sociali (l948), Milano, Angeli, 1980; A nderson C. S., The search for school climate: A review of the research, in «Review of Educational Research» 3 (1982) 368-420; Bressoux P., Les recherches sur les effets-écoles et les effets-maîtres, in «Revue Française de Pédagogie» (1994) 108, 91-137; Gather Thurler M., Rélations professionnels et cultures des établissements scolaires: au-delà du culte de l’individualisme?, in «Revue Française de Pédagogie» (1994) 109, 19-39.

E. Damiano

CMC (Computer Mediated Communication) → Tecnologie dell’informazione e della comunicazione

CODICE È una regola, o un sistema di regole, che stabilisce equivalenze tra un sistema di significanti (piano dell’espressione) ed un si­stema di significati (piano del contenuto). 1. Pensato in questi termini esso svolge due fondamentali funzioni: a) comunicativa, dato che senza l’apporto di un appropriato intervento di codifica (e di decodifica) non è possibile alcuna comunicazione (senza una grammatica ed una sintassi la parola ri­mane muta); b) espressiva, in quanto non esiste un uso standard del c., ma esso si de­clina in rapporto alle diverse sensibilità de­gli emittenti (si può fare un uso convenzio­nale o poetico della parola con risultati chiaramente molto diversi). Il c. non è mai sperimentabile fuori da un contesto: esso cioè non opera mai isolatamente, ma sem­pre contemporaneamente e in maniera organica rispetto alla varietà di tutti gli al­t ri c. Questi sono articolabili secondo un doppio criterio: sono c. in senso verticale i c. generali (quelli in base ai quali possiamo dire che il cinema è cinema), particolari (un certo modo di pensare il cinema), singola­ri (sono istituiti ex novo e appartengono spesso a un singolo testo); sono c. in sen­so orizzontale, invece, i c. narrativi (che comprendono le strutture narrative del te­sto, le regole linguistiche e le modalità di discorso impiegate nella sua costruzione), i c. percettivo-figurativi (iconici, scenografi­ci, 208

prossemici, cinesico-gestuali), i c. lin­guistici e sonori. 2. Dal punto di vista sociologico il ruolo giocato dal c. è particolarmente importan­te come distintivo di un determinato → gruppo sociale o di una certa → cultura: nel primo caso, più che di c. è opportuno par­lare di lessici, cioè di sottocodici costituiti da frasi gergali, modi di dire, espressioni dotate di senso esclusivamente all’interno del contesto linguistico entro cui sono utilizzati (si pensi allo slang delle minoran­ze etniche nelle metropoli americane, o al linguaggio dei gruppi giovanili); nel secon­do caso il c. è strumento di produzione e organizzazione del sapere che contraddi­stingue una certa società in una determina­ta epoca storica, in modo tale che dalla co­noscenza del c. dipenda l’accesso al sapere che esso struttura (è il caso dell’aristoteli­smo per il → Medioevo o dell’allegoria per il Barocco). 3. Il carattere condizionale del c. ai fini del­la comunicazione e il suo rilievo in ordine alla definizione di sottosistemi so­ciali e universi culturali rendono ragione della sua importanza pedagogica. La si può indicare in diverse direzioni: a) per quanto riguarda il rapporto tra c. e comunica­zione educativa nella padronanza dei c. della comunicazione va individuata una delle competenze fondamentali dell’insegnante. Grazie a tale competenza è possibile da una parte attivare un’adeguata comunicazione didattica (facendo ricorso alla voce, al gesto, alla prossemica, agli strumenti tecnologici), dall’altra riconoscere nei c. della comunicazione attivati dagli alunni nella classe le loro aspirazioni, le loro difficoltà, il loro eventuale disagio; b) in continuità con questo discorso va registrata la rilevanza peda­gogica di una conoscenza dei rapporti che legano il c. (i c.) con particolari gruppi so­ciali o contesti culturali per potere attivare in relazione ad essi una mediazione pedagogica adeguata. Nei diversi ambiti (didattico, formativo, pastorale) la conoscenza dei c. attraverso i quali un si­stema socio-culturale si costruisce è fun­zione della possibilità di intervenire con ef­ficacia sui soggetti che a tale sistema ap­partengono; c) un ultimo aspetto di importanza dei c. in contesto educativo va infine ricondotto ai media, in particolare i media digitali (Internet, telefono

COEDUCAZIONE

cellulare, videogiochi) che particolare rilievo dimostrano di avere nella attuale cultura giovanile. In margine a questi media è facile riconoscere come il problema stia nella conoscenza dei loro linguaggi, ovvero di ti­po alfabetico. Educare al corretto uso dei c. si­ gnifica in quest’ottica educare alla possi­bilità di comunicare in maniera responsabile, che è poi il primo essenziale obiettivo dell’educazione lingui­stica (→ linguaggio). Bibl.: E co U., La struttura assente, Milano, Bom­piani, 19853; Segre C., Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985; A rdrizzo G. (Ed.), L’esilio del tempo. Mondo giovanile e dilatazione del presente, Roma, Meltemi, 2003; R ivoltella P. C., Screen generation. Gli adolescenti e le prospettive dell’educazione nell’età dei media digitali, Milano, Vita e Pensiero, 2006.

P. C. Rivoltella

CODICE DEONTOLOGICO → Deontologia professionale

CODIGNOLA Ernesto n. a Genova nel 1885 - m. a Firenze nel 1965, educatore e pedagogista italiano. 1. Allievo dell’hegeliano Jaja, laureatosi in filosofia a Pisa nel 1910, dopo aver insegnato nelle scuole secondarie, divenne professore universitario di pedagogia, dal 1918 incaricato a Pisa, dal 1925 ordinario al Magistero di Firenze. Di orientamento idealista, vivamente partecipe nei dibattiti e nelle iniziative per l’innovazione scolastica, collaborò con → Gentile per la sua Riforma della scuola, specie per quanto riguarda il nuovo Istituto Magistrale. Fondò e diresse l’Ente nazionale di Cultura con sede in Firenze, che dal 1923 al 1934 ebbe la «delega» per la gestione di scuole elementari rurali «non classificate» in Toscana e in Emilia. Fondò e diresse importanti riviste scolastiche, pedagogiche e culturali: «Levana» (1922-1928), «La Nuova Scuola Italiana» (1923-1938), «Civiltà Moderna» (1929-1943): «forse la testimonianza più bella di quegli anni difficili» (Garin, 1974, 167), «Scuola e Città» (dal 1950). Con apertura anche alla cultura straniera (con

lancio di → Dewey dopo la II guerra mondiale), diresse negli anni ’20 prestigiose collane presso l’editore Vallecchi, e, da lui fondata nel 1926, La Nuova Italia. Fu il fondatore e direttore dal 1944 della Scuola-città Pestalozzi di Firenze, ispirata a principi educativi di attivismo, cooperazione democratica, autogoverno. Scrisse numerose opere pedagogiche teoriche e di politica scolastica. 2. Devoto e Garin hanno distinto per C. tre periodi (Garin, 1974): uno di preparazione e attuazione della Riforma Gentile; uno, nella forte delusione per i cedimenti statali del Concordato del 1929, di dominante organizzazione e promozione culturale e editoriale; uno infine, con la Liberazione, di polemica laica per la difesa della scuola statale. La storia culturale di C., ha osservato Borghi, è segnata dalla costante attribuzione della «funzione primaria alla azione educativa», finalizzata alla promozione dell’«autonomia del pensiero e della volontà dell’individuo», in un’azione «liberatrice» esaltata prima a livello di coscienza e di cultura, poi in chiave attivistica e democratica, con un’opera concreta di emancipazione degli uomini impegnati e partecipi nel comune contesto di tutti. Un’«evoluzione paradigmatica» e storicamente esemplare e stimolante nella sua tensione e autorevole serietà. Bibl.: a) Fonti: E. C., La riforma della cultura magistrale, Catania, Battiato, 1917; Il problema educativo, 3 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1935-36; Educazione liberatrice, Ibid., 1949; La nostra scuola, a cura di D. Izzo, Ibid., 1970. b) Studi: Izzo D. et al., Prospettive storiche e problemi attuali dell’educazione: studi in onore di E.C., Ibid., 1960; Garin E., Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1974; Cambi F., La «scuola di Firenze» (da C. a Laporta, 1950-1975), Napoli, Liguori, 1982.

G. Cives

COEDUCAZIONE Promozione dell’incontro educativo reciproco dei sessi, sia nell’ambito scolastico, come co-educazione identica o variamente differenziata e integrata, sia nell’ambito estrascolastico, come convivenza, esperienza, 209

COEDUCAZIONE

dinamica spontanea o intenzionale di mutuo influsso e formazione. 1. Pro e contro la c. L’ambiente familiare ha sempre vissuto la compresenza di fratelli e sorelle. L’ambiente sociale ha ammesso scambi reciproci spontanei. La cultura ha problematizzato il fatto. La pedagogia si è divisa. L’educazione ha inventato linee distinte di cura, modelli e stili di vita, comportamenti, formazione, specialmente nelle classi sociali alte e raffinate. L’offerta moderna di scuola segnata da vasta base elementare, accentuato taglio istruttivo, crescente asse scientifico e tecnico, esigenze pratiche di numero e di ambienti, in tempi di nuove posizioni ideologiche e convinzioni scientifiche, ha posto in evidenza problemi, maturato opinioni, prese di posizione e prassi favorevoli o resistenti a una compresenza educativa paritaria dei sessi. Le → Scuole Nuove si sono fatte generalmente paladine della c. (intesa come co-educazione). Sul fronte opposto ci si è appoggiati e ci si appoggia a ragioni psicologiche (varietà di incidenza delle differenze di struttura mentale, di ritmi di sviluppo), sociali (distinzione o dialogo dei ruoli futuri), morali (pericolosità o positività formatrice di incontri precoci), pedagogiche (crescita psicosociale separata per incontro futuro o logicità di continua e progressiva integrazione educativa per la vera identità). 2. Le diverse motivazioni. Le resistenze culturali sono divenute pedagogiche, sostenendo e organizzando forme di lunga preparazione separata, solida e completa dei sessi per un successivo utile incontro (Reddie, Geheeb, → Förster, per ragioni diverse). Si è rimasti lontani da sintesi mature anche nel campo scolastico (Dale), anche perché la compresenza mista ha disatteso le differenze, è stata incapace di gestirle in effettivo dialogo di integrazione delle due differenti forme di mentalità e personalità. Il mondo cattolico europeo era partito con ostilità e allarmi morali (Pio XI). Insegnanti e educatori si erano trovati sprovveduti per attuazioni significative e valide. Perciò, in molti casi, hanno opposto rifiuti pratici. Poi il tema si è fatto extrascolastico. Si è imposta decisamente la ormai generale e abituale convivenza e promiscuità maschile e femminile nella vita giovanile sociale e di gruppo. Non sono stati senza influenza i mu210

tamenti nel costume sociale sessuale adulto e giovanile e il generale clima di pluralismo, di permissivismo, di soggettivismo veritativo e valoriale (→ relativismo). Nei casi di maggiore sensibilità la c. si è accollata la necessità di una tempestiva educazione continua e progressiva alla comprensione, alla conoscenza, alla convivenza maschile e femminile, giovanile e adulta. Si sono chiarificate le distinzioni tra convivenza mista, co-istruzione in compresenza, utilità e metodo dell’intreccio di mutui influssi nei processi di insegnamento e apprendimento condiviso e integrato. Si è cercato di approfondire la c. nel e per il dialogo maschile e femminile profondo, psicologico, morale, culturale e sociale, nella scuola e fuori. Pio XII e Paolo VI cambiarono l’atteggiamento e il giudizio della Chiesa. Il primo riconosceva la positività fondamentale della integrazione maschile e femminile. Il secondo apriva alla c. nella scuola cattolica, poi nella stessa pedagogia e pastorale giovanile. Giovanni Paolo II ha coinvolto ragazzi e ragazze nella condivisone di valori grande e in quella che da lui è stata detta la missione giovanile nei confronti del mondo adulto e della storia. La c. è diventata valore permanente, antropologico, culturale, perfino morale e religioso, correttivo dei limiti della pura spontaneità degli incontri e dei rischi della promiscuità, anche se si è coscienti che essa vada attuata come progetto e processo autenticamente educativo. Benemeriti in proposito il pensiero e l’opera di E. Huguenin, L. Kufner, A.-M. Rocheblave-Spenlé, e altri. Sensibili alla c. sono in genere le istituzioni scolastico-educative, come la FIDAE italiana, i → movimenti ecclesiali, l’associazionismo cattolico, l’Azione Cattolica, lo → scautismo (ma di parere diverso è la Federazione Scaut Europa), i → centri giovanili gli → oratori, e perfino i cammini di ricerca e di prima maturazione vocazionale. 3. Problemi aperti e condizioni pedagogiche. Oggi la c. è modalità generalizzata di convivenza e di crescita. Tuttavia in pratica i problemi restano. Separazioni e incontri non sono per sé risolutivi. Coscienza sociale dei problemi e ricerca pedagogica sono necessarie per vincere «effetti perversi» di amore immaturo, di violenze sulle ragazze, di prostituzione giovanile femminile e maschile, precoce fallimento di unioni di coppia e ma-

COGNITIVISMO

trimoniali, tensioni maschiliste e femministe nella società, nella chiesa, nel lavoro, nella vita sociale e politica, patologie sessuali più o meno gravi. Il problema si rivela soprattutto culturale, prima che pedagogico. Molti passi sono stati fatti, altri restano da fare. L’attuale ritorno di attenzione alle differenze psicologiche e spirituali, di rispetto della diversità di tratti, stili e ritmi, invitano a ricercare apporti e curare scambi integrativi del diverso. Contro la libertà permissiva e l’apertura alla promiscuità irresponsabile o calcolata e più o meno controllata, con cadute di sfruttamento passionale, consumistico e pornografico, oggi sembrano più decisivi e ispiratori gli sviluppi culturali della comune e fondamentale dignità personale dei sessi, relativizzando e relazionando i caratteri della maschilità e femminilità, interpretandoli come ricchezze: ricercando sintesi nell’incontro e nel dialogo, passando dalla complementarità alla integrazione e alla reciprocità, prima in campi limitati, poi sempre più larghi, totali, non solo familiari, ma sociali e culturali. Ma resta fondamentale la formazione di educatori preparati a una c., dove le preoccupazioni profilattiche o moralistiche cedano il passo a una educazione di giovani uomini e donne impegnati nella integrazione creatrice della umanità futura. 4. L’orizzonte della c. La c., spontanea e programmata, è ormai generalizzata negli ambiti della famiglia, della scuola, dell’associazionismo, della vita sociale, morale, religiosa, politica, professionale. Ciò viene pensato ed attuato anche in vista del superamento del disordine sessuale consentito o violento, delle difficoltà di mature e stabili relazioni amicali, coniugali, e globalmente di una civile e dignitosa convivenza sociale. In questo senso, ultimamente, nella letteratura pedagogica, il termine c. è usato anche per indicare la reciprocità di aiuto tra educatori ed educandi nella promozione e qualificazione dell’esistenza personale; ed in senso ancora più vasto per indicare la necessità di aiutarsi, come comunità, nello sviluppo di una società umanamente degna. Bibl.: Foerster W. F., L’educazione etica della gioventù, Torino, STEN, 1911; Calò G., Il problema della c. e altri scritti pedagogici, Roma, Albrighi e Regati, 1914; Huguenin E., La coédu-

cation des sexes, Neuchâtel/Paris, Delachaux, 1929; Gianola P., Problemi della c., in «Orientamenti Pedagogici» 11 (1964) 651-673; Dale R. E., Mixed or single-sex school?, London, Routledge & Kegan, 31974; Galli N., Pedagogia della c., Brescia, La Scuola, 1977; Gianola P., C.: una parola vecchia - un significato nuovo, in «Orientamenti Pedagogici» 33 (1988) 897-906; Fornasa W. - R. M eneghini, Abilità differenti. Processi educativi, co-educazione e percorsi delle differenze, Milano, Angeli, 2004.

P. Gianola

COERENZA → Educazione → Processo educativo

COGNITIVISMO Il c. è uno degli approcci psicologici più antichi ma anche più recenti allo studio dell’attività mentale. 1. Origini e critiche. Le sue origini coincidono con l’apertura a Lipsia da parte di → Wundt di un laboratorio di psicologia sperimentale (1879) e l’esportazione dei principi e idee dello psicologo tedesco negli Stati Uniti per opera di E. B. Titchener (1892). La caratteristica fondamentale della metodologia elaborata nel centro di Wundt era l’uso sistematico della tecnica dell’introspezione nell’indagine sulla mente umana. Soggetti debitamente preparati dovevano osservare la propria esperienza conscia allorché erano colpiti da uno stimolo e tentare di riferirla il più oggettivamente possibile. L’approccio di Wundt allo studio dei processi mentali coscienti dell’uomo suscitò consensi in illustri contemporanei come Ebbinghaus e → James, ma col tempo incontrò crescenti difficoltà sia per l’imprecisione dei risultati che per lo svilupparsi di altri approcci psicologici come: il behaviorismo (Pavlov, → Watson, Thorndike, → Skinner), il gestaltismo (Köhler, Wertheimer) e la → psicoanalisi (Freud). Il primo riteneva che la coscienza fosse un fenomeno dai contorni troppo vaghi e imprecisi perché potesse divenire oggetto di accurato controllo scientifico. Per questo motivo scelse come campo elettivo d’indagine il comportamento direttamente osservabile. Per esso, ad es., l’apprendimento era più un problema di cam211

COGNITIVISMO

biamenti in un comportamento osservabile che qualcosa che avveniva nella mente; allo stesso tempo il pensiero era più un formarsi di associazioni di stimoli che un’attività interna alla persona. Per il gestaltismo, l’attività mentale era frutto di una tendenza innata dell’uomo a dare o trovare ordine nel caos. In contrasto con l’orientamento introspezionista che analizzava uno stimolo in distinte sensazioni, la scuola della gestalt privilegiava i concetti del significato e dell’organizzazione degli oggetti e degli eventi sottolineando come l’esperienza entrasse nella mente in forme strutturate. Per la gestalt molto importante, più delle fasi di un processo, era l’insight, ovvero l’intuizione grazie a cui le varie parti di un problema apparentemente irrelate tra loro diventavano in un istante una struttura coerente. La psicoanalisi sosteneva l’esistenza di un’attività inconscia della mente e la possibilità di trovare in essa la spiegazione più profonda degli atteggiamenti e comportamenti manifesti. 2. Le condizioni che hanno favorito la rinascita della prospettiva cognitivista. Vari fattori ed eventi hanno contribuito al risorgere dell’approccio cognitivista: la crisi del behaviorismo, lo sviluppo degli studi sul linguaggio, la diffusione delle idee di → Piaget, la nascita dell’ → intelligenza artificiale e le possibilità simulative del computer, i progressi nel campo della tecnologia militare. L’approccio behaviorista si diffuse largamente negli Stati Uniti a partire dal 1913, anno in cui Watson proclamò i principi di una scienza oggettiva del comportamento, ma lentamente manifestò anche i suoi limiti. Al suo rapido declino contribuirono in maniera determinante le teorie di Chomsky sull’organizzazione e sviluppo del linguaggio. La critica che il giovane linguista avanzò a metà degli anni ’50 all’interpretazione behaviorista del linguaggio umano di Skinner fu spietata e raccolse ampi consensi. Gardner (1985) fa coincidere la fine del behaviorismo e la nascita del nuovo approccio cognitivista, ed in particolare della «scienza cognitiva», con il Symposium on Information Theory tenutosi al Massachusetts Institute of Technology tra il 10-12 settembre del 1956. Esso, per dirla con Kuhn (1962), significò l’assunzione di un nuovo «paradigma» che realizzò una «rivoluzione» cognitivista. In tale raduno Chomsky offrì 212

una teoria interpretativa del comportamento linguistico in netto contrasto con le posizioni behavioriste. L’analisi del linguaggio umano rivelava che la mente umana non è affatto un «foglio di carta bianco», ma dispone di proprietà formali innate (simili a quelle della matematica) seguendo le quali è in grado di comprendere, produrre e trasformare qualsiasi tipo di frase. Al raduno del MIT parteciparono anche Newell e Simon, che presentarono un programma computerizzato che simulava i processi umani nell’attività di problem solving. Contemporaneamente o qualche anno dopo la presentazione degli studi di Chomsky e di Newell e Simon vengono pubblicate opere che avanzano ipotesi e modelli della mente umana. Nello stesso anno del raduno del MIT, Bruner, Goodnow e Austin (1956) pubblicano un volume sui processi di formazione dei concetti. L’anno successivo, Miller (1957) evidenzia i limiti della memoria, mentre appena un anno dopo, Broadbent (1958), riprendendo una suddivisione della memoria di James in primaria e secondaria, parla di memoria sensoriale e a lungo termine, di processi di attenzione selettiva e descrive i processi attraverso un flow-chart, includendo sistemi di feed-back (sistemi di fasi di trasformazione dello stimolo iniziale con sistemi di reazione aventi funzione di controllo). La strada era aperta. Negli anni seguenti i progressi della ricerca rinforzarono sempre di più la convinzione che la mente dell’uomo non era una «scatola nera» nella quale era impossibile far luce. Neisser (1967), Atkinson e Shiffrin (1968), Paivio (1971), Newell e Simon (1972), McClelland, Rumelhart e il gruppo di ricerca PDP (1986) sono alcuni degli scienziati che contribuirono allo sviluppo del c. Al crollo del behaviorismo e alla nascita di una nuova prospettiva cognitivista concorse anche la diffusione del pensiero di Piaget sullo sviluppo cognitivo del bambino e la riscoperta degli studi di Bartlett sul comportamento della memoria. Lo studioso ginevrino sottolineò come esso avvenisse non grazie a meccanismi di tipo associativo, ma attraverso un processo di adattamento continuo del bambino all’ambiente con il quale viene a contatto. Quando è posta di fronte ad una situazione nuova, la mente si trova in una condizione di squilibrio (o di disadattamento) il cui superamento si verifica attraverso i processi di

COGNITIVISMO

assimilazione e di accomodamento. Con il primo qualunque nuovo dato di esperienza (ad es., un oggetto o un’idea) è incorporato in «schemi» mentali che il bambino già possiede; con il secondo gli «schemi» già posseduti si modificano per adattarsi alle caratteristiche inattese del nuovo dato di esperienza. Al di là della plausibilità delle sue interpretazioni e osservazioni, Piaget contribuì a far sentire come assolutamente inadeguata la posizione behaviorista sull’apprendimento. Alle prospettive aperte da Piaget si può anche aggiungere la riscoperta delle ricerche di Bartlett (1932) sulle conoscenze nella mente. Indagando sul ricordo di soggetti dopo la lettura di una storia, egli scoprì che ciò che era riferito non era una registrazione precisa del testo, ma uno «schema» che si andava via via deteriorando con il tempo. Lo scoppio del secondo conflitto mondiale fornì un nuovo e forte impulso all’approccio cognitivista. La guerra favorì la crescita di interesse non solo per la psicologia dell’orientamento, cioè per i procedimenti efficaci e veloci di selezione e addestramento dei giovani da mandare sul fronte, ma anche per le macchine «intelligenti» in grado di simulare, sostituire e potenziare le capacità mentali dell’uomo. 3. Scienza cognitiva e psicologia cognitivista. Attualmente un certo numero di discipline (apparentemente molto lontane tra loro) sono impegnate nello studio e nella comprensione del funzionamento della mente umana. Esse costituiscono ciò che, con un termine molto generale, si definisce «scienza cognitiva» e sono rappresentate dalla psicologia cognitivista, biologia, antropologia, scienza computazionale, linguistica, filosofia, neuroscienza, educazione. La scienza cognitiva non è un campo di indagine coerente in se stesso, ma una prospettiva che orienta le diverse discipline alla ricerca di una risposta agli stessi problemi e interrogativi; come è rappresentata nella mente la conoscenza? Come viene acquisita e modificata la conoscenza umana? Come funziona la mente umana? Che cosa sono e come differiscono tra loro le conoscenze per immagini, quelle esperienziali e quelle astratte? Stillings e altri descrivono concretamente la prospettiva della scienza cognitiva in questo modo: «Gli psicologi enfatizzano gli esperimenti controllati di laboratorio e le osservazioni dettagliate e sistematiche di com-

portamenti che avvengono naturalmente. I linguisti controllano le ipotesi sulla struttura grammaticale analizzando le intuizioni di un parlante sulle frasi strutturate grammaticalmente e no o osservando gli errori commessi da bambini nel parlare. I ricercatori di intelligenza artificiale controllano le loro teorie scrivendo programmi che riproducono un comportamento intelligente e osservando dove esso non funziona. I filosofi controllano la coerenza concettuale delle teorie cognitive scientifiche e formulano costruzioni generali che teorie corrette devono seguire. I neuroscienziati studiano i fondamenti fisiologici dell’elaborazione dell’informazione nel cervello» (1987, 13). Oltre che da un punto di vista metodologico, la scienza cognitiva può essere definita anche in base alle aree preferenziali di ricerca: la percezione (soprattutto il processo di percezione delle parole fino all’accesso lessicale, oppure i processi di elaborazione delle immagini), la rappresentazione delle conoscenze (concetti o conoscenze complesse), il linguaggio (lessicale, proposizionale e testuale), l’apprendimento (sia di macchine che umano) e il pensare (in modo particolare i processi di ragionamento, di decisione, di soluzione di problemi). La psicologia cognitivista assume sugli argomenti sopra elencati questo particolare punto di vista: ricostruire le fasi e le trasformazioni che uno stimolo subisce dallo stadio iniziale allo stadio finale del processo di elaborazione. Il modello a cui essa si ispira è fondamentalmente quello descritto da Newell e Simon (1972), Lachman, Lachman e Butterfield (1979). Secondo questi studiosi la mente umana va vista come un sistema di elaborazione finalizzato. Nel processo di elaborazione oggetti o informazioni rappresentabili in simboli (cioè elementi connessi da relazioni logiche) sono trasformati in altri simboli da processi che discriminano, selezionano, controllano, confrontano e archiviano. Poiché si svolgono nel tempo, tali processi possono essere analizzati e controllati attraverso il tempo che intercorre tra l’inizio e la fine delle operazioni. Le strutture di elaborazione sono fondamentalmente tre: la memoria sensoriale, la → memoria a breve termine (o anche memoria lavoro) e la memoria a lungo termine. 4. Sviluppi. Dagli inizi e dalle prime intuizioni numerosi sviluppi e differenziazioni si sono 213

COLLEGIO

avuti in questi pochi decenni. Pur rimanendo identico lo scopo finale di scoprire il processo di trasformazione dal suo input al suo output di una qualsiasi prestazione, diverse metodologie hanno dato origine a diversi sviluppi scientifici distinti e dialoganti tra loro. La stretta analogia posta tra le assunzioni di partenza con la scienza computazionale ha portato molti psicologi a scoprire l’attività mentale umana attraverso simulazioni computerizzate. Altri hanno utilizzato l’approccio sperimentale su soggetti reali e normali e continuano a ricercare l’evidenza di fasi di trasformazione. I neuroscienziati cercano nel sistema nervoso il luogo e lo svolgersi dei processi di elaborazione. Altri, abbandonando uno dei capisaldi dell’approccio dell’elaborazione dell’informazione (la rappresentazione simbolica e le fasi di trasformazione), cercano di spiegare il processo di elaborazione solo attraverso un sistema di unità interconnesse che permettono o inibiscono il passaggio dell’informazione («connessionismo»). Bibl.: Bartlett F. C, Remembering, Cambridge, Cambridge University Press, 1932; Bruner J. S. - J. J. Goodnow - G. A. Austin, A study of thinking, New York, Wiley, 1956; Miller G. A., The magical number seven plus or minus two: Some limits on our capacity for processing information, «Psychological Review» 63 (1957) 81-97; Neisser U., Cognitive psychology, New York, AppletonCentury-Crofts, 1967; Atkinson R. C. - R. M. Shiffrin, «Human memory: a proposed system and its control processes», in K. W. Spence - J. T. Spence (Edd.), The psychology of learning and motivation, vol. 2, New York, Academic Press, 1968, 89-195; Paivio A., Imagery and verbal processes, New York, Holt, Rinehart & Winston, 1971; Newell A. - H. A. Simon, Human problem solving, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1972; Lachman R. - J. L. Lachman - E. C. Butterfield, Cognitive psychology and information processing, Hillsdale, Erlbaum, 1979; Gardner H., Mind’s new science, New York, Basic Books, 1985; Stillings N. A. et al., Cognitive science: an introduction, Cambridge, MIT Press, 1987; K ellogg R. T., Cognitive psychology, Thousand Oaks, CA, Sage, 1995; Murray D. J., Gestalt psychology and the cognitive revolution, New York, Harvester & Wheatsheaf, 1995.

M. Comoglio

COGNIZIONE → Metacognizione

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COLLEGIO Collegium in lat. significa gruppo di persone unite fra loro da vincoli ed interessi professionali comuni, come ad es. i c. di artigiani, medici, maestri, ecc. In contesto pedagogico, s’intende per c. una convivenza di giovani, organizzata a fini istruttivi ed educativi, normalmente in regime di internato (→ Comunità educativa/scolastica). In ambiente anglosassone e spagnolo, il c. indica anche la scuola secondaria (spesso con seminternato) e determinate istituzioni di livello universitario. 1. Quando sono create le prime università medievali, sorgono intorno ad esse alloggi per studenti (hospitia), nei quali passare la notte. In seguito compaiono i c. nei quali vivono i collegiali in comune, seguendo alcune norme imposte dal fondatore. Questi c. potevano essere destinati a chierici e a laici. I posti erano limitati e questo obbligava chi li occupava a seguire con regolarità gli studi. Nello stesso tempo nel c. bisognava condurre una vita comunitaria molto simile alla vita monacale. I c. clericali erano di solito diretti da un sacerdote responsabile come priore, mentre nei c. destinati alla formazione dei laici vigeva l’autogoverno e tutto dipendeva dagli stessi collegiali, in accordo con delle norme stabilite dalle costituzioni e dai regolamenti del fondatore. Dai collegiali dipendeva la selezione degli aspiranti, l’amministrazione delle rette e l’imposizione delle misure disciplinari necessarie. Tutti gli incarichi erano a rotazione e chiunque poteva essere eletto priore. Il c. offriva gratuitamente alloggio, vitto, uniforme, biblioteca e, in certi casi, lezioni di ripetizione, impartite dagli stessi professori dell’università. Famoso fu il c. fondato a Bologna nel 1364 dal cardinale Gil de Albornoz per studenti spagnoli che si chiamò e si chiama ancora oggi «Colegio de San Clemente». Durante la sua lunga attività è servito da casa di studio e di formazione ad un ridotto e selezionato gruppo di brillanti studenti. 2. In questi c. universitari furono educati i quadri dirigenti sui quali si edificò lo stato moderno dei secc. XV, XVI e XVII, soprattutto in quelli più prestigiosi, nei cosiddetti c. maggiori spagnoli, che erano meglio dotati economicamente e di più difficile accesso,

COLLOQUIO

per le impegnative prove di selezione. Ogni nazione ebbe i suoi centri di formazione elitaria. Tutti i collegiali di ogni città universitaria erano obbligati a vestire la propria divisa da studente, di colore diverso, a seconda del c. al quale appartenevano. La divisa consisteva in una tunica senza maniche, aperta ai lati e lunga fino ai piedi, più una sciarpa di colore diverso incrociata sul petto e pendente sulle spalle, oltre ad un berretto nero. Questa uniforme era una specie di passaporto che identificava pubblicamente gli studenti e garantiva loro da parte della popolazione il riconoscimento di appartenere al foro universitario, che dava molti privilegi. 3. I c. universitari cominciarono a decadere a partire dal sec. XVII, quando furono controllati dalla aristocrazia, che vedeva in essi una valida agenzia di collocamento alla fine degli studi. In Spagna, Francia e in altri Paesi scomparvero con l’antico regime. Certamente, mantennero il proprio prestigio aristocratico e gli antichi usi medievali i c. di Oxford, Cambridge ed Harvard. Durante il sec. XIX le scuole private spagnole utilizzarono il nome di c. per distinguersi dalle scuole pubbliche statali, frequentate dalle classi più umili. Nel sec. seguente, sia in Francia che in Spagna, si sono creati c. universitari che hanno poco a che vedere con gli antichi c.; la loro funzione è stata la stessa: formare una élite di studenti meglio preparata degli altri in campo scientifico, politico e nelle scienze religiose, d’accordo con le esigenze dei tempi moderni. Molti degli attuali c. universitari, ciononostante, sono più residenze studentesche che centri di formazione. Bibl.: Lafuente V. de, Historia de las universidades, colegios y demás establecimientos de enseñanza en España, 4 voll., Madrid, 1884-1889; D’Irsay S., Histoire des universités françaises et étrangères de ses origines à nos jours, 2 voll., Paris, 1933-1935; M isani A., Educazione di c., Milano, Ancora, 1945; Di Fazio C., C. universitari italiani, Roma, Fondazione Rui, 1975; M artín L., La conquista intelectual del Perú: el colegio jesuita de San Pablo, Barcelona, Casiopea, 2001.

B. Delgado

COLLETTIVISMO → Marxismo pedagogico COLLETTIVO → Makarenko Anton Semënovič

COLLOQUIO Il termine c. non si presta ad una definizione univoca. Infatti, in base allo specifico della disciplina di riferimento che all’interno delle scienze umane è presa in considerazione, possiamo imbatterci in interpretazioni diverse e non sempre sovrapponibili. 1. Trentini (1995) riporta diverse definizioni che ricorrono in letteratura: «una conversazione seria, tendente ad un determinato scopo, ad di là del puro e semplice piacere della conversazione stessa» (Moore, 1941, cit. in Trentini, 1995, 40); «una comunicazione che consiste non soltanto in uno scambio di messaggi verbali, ma piuttosto nello sviluppo di una configurazione delicata e complessa di processi di campo che comportano conclusioni importanti per le persone che entrano a farne parte» (Sullivan, 1954, cit. in Trentini, 1995, 40); «una situazione in cui la comunicazione avviene in primo luogo a voce, in un gruppo di due persone, che si incontrano più o meno volontariamente, sulla base di un rapporto esperto-cliente, con lo scopo di chiarire il modo caratteristico di vivere di una persona» (Stack, 1954, cit. in Trentini, 1995, 40); «un processo di interazione nel quale è importante non tanto il fatto meccanico consistente in una serie di episodi discreti stimolo-risposta; ma piuttosto sono importanti i fini, gli atteggiamenti, le credenze ed i motivi dei protagonisti dell’interazione» (Cannel, 1968, cit. in Trentini, 1995, 40); «un’interrogazione ed un rapporto e più precisamente un’interrogazione diretta a conoscere gli eventi passati della vita del soggetto e a trarre una interpretazione del suo comportamento» (Ancona e Gemelli, 1959, cit. in Trentini, 1995, 40). 2. I contesti del c. possono essere diversificati: scolastico, giudiziario, aziendale, psichiatrico, giornalistico, ecc. In senso più strettamente psicologico i principali ambiti applicativi vengono suddivisi in : c. clinico, c. di ricerca, c. orientativo. Il c. clinico è una tecnica di osservazione e di studio del comportamento umano i cui scopi sono sia quelli di raccogliere le informazioni, che quelli di motivare il soggetto coinvolto ad un auspicabile cambiamento. Il c. di ricerca ha per oggetto di studio la conoscenza di un determi215

COLLOQUIO

nato oggetto che può riguardare diversi ambiti della psicologia e può essere utilizzato sia come strumento che precede la ricerca vera e propria (analisi preliminare su un fenomeno), sia come metodologia per raccogliere dati. Il c. orientativo mira a raccogliere informazioni su comportamenti, atteggiamenti, motivazioni, interessi al fine di aiutare il soggetto a chiarire le proprie scelte scolastiche e professionali. Esso prevede tre momenti salienti: fase esplorativa (accoglienza ed individuazione della soggettività dell’intervistato); fase diagnostica-valutativa (raccolta di dati specifici); fase progettuale (sintesi orientativa e congedo dell’intervistato). Al di là delle diverse formulazioni e dei diversi ambiti applicativi è comunque rintracciabile nelle diverse forme di c. un elemento comune: l’interazione tra due persone. All’interno di quest’ultima gli elementi che sono ritenuti fondamentali dai diversi autori concernono il cosa le persone dicono e il come lo dicono. Risulta pertanto preziosa la cura degli aspetti contenutistici e relazionali tanto da parte dell’emittente come del ricevente. 3. Dal punto di vista contenutistico ai partners in interazione si richiede in primo luogo di curare la formulazione dei messaggi in vista della comprensione altrui, comprensione che dipende prevalentemente dalla scelta delle parole dal proprio universo linguistico, dalla struttura sintattica utilizzata, e dalla organizzazione stessa del messaggio. A questo riguardo occorre tener presenti i parametri della semplicità, dell’ordine, della brevità e della stimolazione. L’emittente, nel trasmettere i significati, adotta il criterio della semplicità quando fa uso di messaggi accessibili e comprensibili per l’interlocutore rispettandone la singolarità (per es. cultura, età, professione, classe sociale). Al contrario viene meno a questo criterio quando usa messaggi non alla portata degli ascoltatori o si perde nella ricerca della formulazione esteticamente migliore, a scapito della chiarezza. Mentre la semplicità riguarda la modalità di costruzione linguistica del messaggio, il criterio dell’ordine concerne la struttura di tutta la comunicazione ed è tanto più importante quanto più la comunicazione è articolata e complessa. L’ordine nel trasmettere i messaggi è di tipo interno e di tipo esterno. L’emittente realizza l’ordine interno quando 216

comunica secondo una sequenza logica ed evidente. L’ordine esterno riguarda gli aspetti formali della trasmissione che l’emittente esplicita indicando le fasi della comunicazione (per es. introduzione, fase espositiva) e distinguendo le parti essenziali dalle meno rilevanti. Il criterio della brevità richiede che l’emittente trasmetta i significati attraverso messaggi propriamente necessari, evitando ridondanze e prolissità. Il criterio della stimolazione, infine, concerne la capacità dell’emittente di rendere la comunicazione interessante, piacevole e coinvolgente. Se i parametri appena descritti riguardano la formulazione dei messaggi (cosa si trasmette), le qualità processuali si riferiscono agli aspetti più propriamente relazionali (come lo si trasmette). A tal proposito, si richiede all’emittente di prestare attenzione al comportamento non verbale, di esprimersi in modo descrittivo ed orientato al problema, spontaneamente ed empaticamente, rispettando la pari dignità, al fine di instaurare un clima di fiducia ed apertura reciproca con le persone in comunicazione. Al contrario quando l’emittente interagisce in modo valutativo, quando cerca di esercitare il controllo, usa strategie manipolative e non si coinvolge come persona, quando dimostra superiorità ed assume atteggiamenti rigidi e dogmatici, facilmente si può creare un clima di difesa e di ostilità. 4. Oltre a curare gli aspetti contenutistici e relazionali nel ruolo di emittenti, ai fini di un buon c. si richiede ai partners in interazione di sapersi ascoltare. Ciò implica una apertura verso la fonte comunicativa nonché l’impegno a comprendere i messaggi nel significato che essi hanno per la fonte comunicativa. In particolare si richiede al ricevente di essere attento ai messaggi nel loro contesto comunicativo, di effettuare comportamenti di supporto e di sospendere preventivamente un atteggiamento critico-valutativo. Si realizza l’attenzione ai messaggi all’interno del contesto comunicativo, quando il ricevente recepisce questi ultimi con un’attenzione non strutturata (Villard-Whipple, 1976) cogliendoli in riferimento all’intero contesto. Nel caso, invece, in cui una persona recepisse in modo selettivo i messaggi, o li interpretasse indipendentemente dal loro contesto, il ruolo di ricevente sarebbe realizzato de-

COLOMB JOSEPH

ficitariamente. Soltanto quando ci apriamo alla totalità dei messaggi comprendendoli secondo gli schemi, le esperienze e le intenzioni dell’emittente, possiamo soddisfare il criterio dell’apertura e della attenzione non strutturata. Realizzare il ruolo di ricevente comprende anche comportamenti di supporto. L’esperienza quotidiana ci mostra come sia indispensabile vedere che gli altri seguono la nostra comunicazione. Nelle situazioni comunicative in cui il ricevente si mostra freddo, si comporta in modo non autentico ed interviene in modo direttivo, non solo non si stabilisce una piattaforma relazionale, ma si possono anche indurre delle esperienze di scoraggiamento e di disinteresse nel proseguire la comunicazione. Ricevere la comunicazione degli altri non soltanto richiede che il ricevente si apra alla totalità della comunicazione dell’altro e che realizzi un adeguato comportamento di supporto, ma che la interpreti appropriatamente. L’interpretazione della comunicazione può essere facilitata se il ricevente esamina il tipo di messaggi, la loro corrispondenza alla realtà e ai diversi contenuti in essa comunicati. Per quanto riguarda il riconoscere i tipi di messaggi, il ricevente dovrà esaminare se si tratta di una costatazione, una valutazione o di una ipotesi sulla realtà. Nel caso della costatazione l’emittente riporta dati di fatto, possibilmente osservati e documentati; nel caso delle valutazioni o ipotesi circa la realtà vengono comunicati contenuti che riflettono le esperienze e le cognizioni dell’emittente sulla realtà. Questo ultimo tipo di comunicazione è comunque da valutare riguardo alla personalità dell’emittente ed alle sue competenze circa il trattamento della realtà in riferimento. La qualità dell’interpretazione della comunicazione dipende anche dalla capacità del ricevente di esaminarla considerando gli aspetti taciti ed espliciti presenti in un messaggio. A questo riguardo Schulz von Thun (1984, 44s.) suggerisce di discriminare i messaggi secondo tre dimensioni: la dimensione contenutistica («Cosa l’altro dice?»), la dimensione relazionale («Come lo dice?», «Come definisce la relazione reciproca?») ed, infine, la dimensione appellativa («Che cosa devo fare, pensare e sentire di fronte alla sua comunicazione?»). Quando il ricevente legge la comunicazione tenendo presenti queste dimensioni facilmente può

cogliere i contenuti nella loro interezza realizzando una buona comprensione. Pertanto, la buona riuscita di un c. non può prescindere dalle competenze comunicative dell’emittente, ma soprattutto del ricevente. Bibl.: Schulz v. Thun F., Verständlich informieren, in «Psychologie Heute» 2 (1975) 42-51; Villard K. L. - L. J. Whipple, Beginnings in relational communication, London, J. Wiley, 1976; Franta H. - G. Salonia, Comunicazione interpersonale, Roma, LAS, 1979; Schulz v. Thun F., Miteinander reden: Störungen und Klarungen. Psychologie der zwischenmenschlichen Kommunikation, Rowohlt, Reinbek, 1984; Franta H., Comunicazione interpersonale nella scuola: dimensioni di ricerca, in «Orientamenti Pedagogici» 32 (1985) 428-440; Trentini G., Manuale del c. e dell’intervista, Torino, UTET, 1995; Lis A. - P. Venuti - M. De Zordo, Il c. come strumento psicologico, Firenze, Giunti, 1995; Pombeni M., Il c. di orientamento, Bologna, Il Mulino, 1995; Crimini P. - E. Del Pianto, Come affrontare una selezione, Milano, Angeli, 2000.

H. Franta - A. R. Colasanti

COLOMB Joseph n. a Lione nel 1902 - m. a Strasburgo nel 1979, sacerdote francese, educatore religioso. 1. Ordinato sacerdote nel 1926, insegnò filosofia nella Facoltà Cattolica di Lione, e venne nominato alla direzione della catechesi nella diocesi nel 1945. Divenuto nel 1954 direttore del Centro nazionale francese della catechesi, in seguito alla crisi del 1957 sul «catechismo progressivo», lasciò Parigi nel 1958 e fondò nel 1962 a Strasburgo l’Institut de Pastorale Catéchétique, che diresse fino al 1971. Si dedicò quindi all’educazione religiosa degli adulti e a scrivere un importante manuale di → catechetica. 2. Merita di essere considerato il contributo di C. alla pedagogia religiosa. Valido organizzatore e promotore del movimento per l’educazione religiosa, fondò a Lione una scuola a tempo pieno per la formazione di catechisti di professione, rivalutò l’opera dei genitori come educatori religiosi e propugnò la necessità dell’educazione religiosa per 217

COLPA: SENSO DI

tutte le età della vita. Segnalò fin dall’inizio l’urgenza di una riforma radicale dell’organizzazione, dei contenuti e dei metodi dell’educazione religiosa e cristiana, adatta a una società in avanzata → secolarizzazione. L’istituzione catechistica doveva trasformarsi in vero e proprio catecumenato, i contenuti dovevano essere arricchiti con gli apporti del movimento liturgico e biblico contemporanei (Aux sources du catéchisme, 1946-48) e del rinnovamento teologico (La doctrine de vie au catéchisme, 1952-54): Bibbia, liturgia e dottrina dovevano contribuire a una solida formazione spirituale. Accettò l’ispirazione della pedagogia attiva in campo religioso, e fondò su studi psicologici il lancio di una catechesi progressiva, che le autorità ecclesiastiche ritennero bisognosa di una necessaria e prudente correzione. La sua più importante opera teorica è il manuale di catechetica Le service de l’Évangile (1968), subito tradotto in lingua it. e sp. C. è un vero teologo della catechesi e rimane soprattutto teologo, però con forti interessi verso gli apporti della psicologia e della sociologia (forse meno della pedagogia), nell’intento proclamato di una composizione tra il mistero cristiano e i dati provenienti dalla situazione culturale e pastorale e dalle scienze umane («fedeltà a Dio e fedeltà all’uomo»). Bibl.: Boyer A., Un demi-siècle au sein du mouvement catéchétique français, Paris, L’École, 1966; J.C. et le mouvement catéchétique, in «Catéchèse» 20 (1980) 80 (n. monogr.); A dler G. - G. Vogeleisen, Un siècle de catéchèse en France, Paris, Beauchesne, 1981.

U. Gianetto

COLPA: senso di La c. è una deviazione volontaria da ciò che è bene; tale «bene» può essere definito dalla valutazione soggettiva, oppure da un’autorità esterna, come il costume sociale, o leggi scritte di origine umana o superiore. La percezione del bene, comunque giunga alla persona, crea in essa un senso del dovere o coscienza morale. La coscienza morale potrà essere così «autentica», se basata su un quadro personale di valori, e «non autentica» se fondata sull’accettazione cieca di norme im218

poste dall’esterno, sotto la spinta di minacce di vario genere, interiori o esteriori. In questa linea si potrebbe dire che il «Superego» della tradizione freudiana è un caso tipico di coscienza non autentica o nevrotica. 1. Il senso di c. deriva dalla percezione della deviazione dal bene o dal non-adempimento del dovere, e cioè da una condotta contro coscienza, e consiste in una ferita alla stima di sé; la gravità di questa ferita dipende dalla misura in cui il bene trascurato è vissuto come importante. Contemporaneamente, se si tratta di una trasgressione che può essere rilevata dagli altri, la persona si sente meno degna della stima altrui e prova un sentimento di vergogna. Il senso di c. si sviluppa come conseguenza della coscienza morale, e ne condivide i fattori. Come la coscienza morale, di cui ne segnala la trasgressione, può essere autentico o non autentico e patologico. Nel senso di c. autentico o normale la persona è centrata sui valori interiorizzati con cui si confronta; l’intensità del disagio provato è commisurata all’importanza del bene trascurato; e la persona è portata ad abbandonare la condotta trasgressiva e a perseguire con maggior forza i valori. 2. Il senso di c. non autentico o nevrotico pone la persona di fronte al suo disagio interiore, da cui vuole liberarsi; essa è così centrata su se stessa; spesso la ferita alla propria dignità diventa generale, tanto che è difficile distinguere senso di c. e vergogna. Il più delle volte a questo senso di c. manca la tensione alla correzione e al miglioramento. L’osservanza delle norme diventa fine a se stessa, e la persona, per liberarsi dal disagio interiore (→ Freud lo chiama «ansietà di coscienza»), cade facilmente in una osservanza puramente materiale o nel perfezionismo. Il fenomeno degli scrupoli è una manifestazione di questi dinamismi perversi. 3. Appare evidente che il senso di c. che abbiamo detto non autentico appartiene all’area delle nevrosi e può essere trattato opportunamente in tale contesto. Bibl.: Bitter W. (Ed.), Angst und Schuld in theologischer und psychotherapeutischer Sicht, Stuttgart, Klett, 1959; Kunz L., Il sentimento di c. negli adolescenti, Torino, SEI, 1965; Sovernigo

COMPETENZA

G., Senso di c. Esperienze di colpevolezza e senso del peccato, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1980; Della Seta L., Le origini del senso di c., Roma, Melusina, 1989; Fossum M. A. - M. J. M ason, Il sentimento della vergogna, Roma, Astrolabio, 1987; Lewis M., Il sé nudo. Alle origini della vergogna, Firenze, Giunti, 1995.

A. Ronco

COMENIO → Komenský

COMPETENZA La parola deriva in realtà dal latino «cum petere», ovvero chiedere insieme, pretendere, ma evoca anche il verbo italiano «competere», cioè far fronte a una situazione sfidante, o il sostantivo «competizione», che riporta all’immagine di atleti che si confrontano per vincere un gara, o di candidati politici, che aspirano a conquistare i voti necessari per ottenere un seggio parlamentare. Le accezioni attuali più comuni sono da una parte di natura giuridica e, dall’altra, di natura professionale. La prima accezione riguarda la legittimità di un mandato, di trattare una categoria di affari, avendo l’autorità per farlo. La seconda, concerne l’autorevolezza che deriva dalla padronanza di un saper condurre in un ambito specifico attività professionali specializzate. L’utilizzazione che progressivamente è stata adottata del termine c. nel mondo della formazione e del lavoro, e poi della scuola, risente di queste due accezioni: è la richiesta di ottenere un riconoscimento della padronanza di capacità specifiche nel contesto in cui si opera; e, contemporaneamente, considerare questo riconoscimento come legittima base per una sua valorizzazione nella propria carriera di studio e/o professionale. 1. Definizione. Una c. è definibile a partire dalla tipologia di compiti o attività che si devono svolgere validamente ed efficacemente. Esse, in base ai compiti per i quali sono richieste, possono essere più specificatamente legate a una disciplina o materia di insegnamento, oppure avere carattere trasversale. In questo secondo caso i compiti hanno caratteristiche comuni quanto a conoscenze, abilità e disposizioni interne che devono essere attivate e coordinate. La complessità e novità

del compito o della attività da sviluppare caratterizzano anche la qualità e il livello della c. implicata. Tali caratteristiche dipendono dall’età e dall’esperienza dello studente. È ben diversa la situazione di un bambino della scuola dell’infanzia, della seconda classe della scuola primaria o della terza classe della scuola secondaria di 1° grado. Una c. si manifesta perché si riesce a mettere in moto e coordinare un insieme di conoscenze, abilità e altre disposizioni interne (interessi, significati, valori, ecc.) al fine di svolgere positivamente il compito o l’attività prescelta. Queste risorse interne debbono essere quindi possedute a un grado di significatività, stabilità e fruibilità adeguato, tale cioè da poter essere individuate e messe in moto quando esse siano necessarie per affrontare il compito richiesto. Tra le risorse che occorre saper individuare, utilizzare e coordinare molto spesso occorre considerare non solo risorse interne, ma anche risorse esterne. Non si tratta solo di risorse di natura fisica o materiale come libri, strumenti di calcolo, computer, ma anche umane come il docente stesso, i compagni, altre persone che è possibile coinvolgere nella propria attività. Si parla oggi di comunità di studenti per indicare che molte volte è la capacità di coordinare la pluralità delle c. possedute dai membri del gruppo che consente di portare a termine il compito o i compiti assegnati. Di qui una definizione sintetica di c. valorizzabile in campo educativo scolastico e formativo: capacità di mettere in moto e di coordinare le risorse interne possedute e quelle esterne disponibili per affrontare positivamente una tipologia di compiti da svolgere e/o di situazioni sfidanti. 2. Sviluppo delle c. Lo sviluppo delle c. è certamente legato alla costruzione di conoscenze e abilità significative, stabili e fruibili, allo sviluppo di disposizioni interiori valide e feconde, ma è la pratica, l’esercizio che ne sta alla base. A questo proposito sono state suggerite varie modalità di intervento per promuoverle nel contesto scolastico. Tra queste, quattro presentano aspetti positivi e qualche problema di attuazione: l’apprendistato cognitivo; la presentazione di una famiglia di situazioni; la pedagogia del progetto; la valorizzazione della situazione-problema (Pellerey, 2004). Lo sviluppo delle c. non avviene solo come complessificazione di sche219

COMPETITIVITÀ

mi interpretativi e d’azione, bensì anche sulla base di un loro adattamento e di una loro valorizzazione in situazioni e contesti diversi da quello nel quale esse sono state sviluppate. Si tratta di ciò che è stato denominato il problema del transfer o trasferimento delle c. La capacità di attivare un processo di transfer o trasferimento delle proprie c., implica lo sviluppo di quattro componenti fondamentali (Pellerey, 2002). In primo luogo occorre promuovere la disponibilità a considerare da un punto di vista superiore le proprie c. in relazione alle nuove situazioni o ai nuovi compiti da affrontare. È una forma di consapevolezza del proprio livello di c. di fronte ai nuovi impegni. In secondo luogo, entra in gioco un’adeguata sensibilità per avvertire, se c’è, la presenza di una distanza tra le c. già acquisite e quelle che si richiederebbero nella nuova situazione. Ciò non basta; occorre anche che si riesca ad avvertire l’entità di tale distanza e quindi quanto impegnativo in termini di tempo e di sforzo personale potrà essere l’adattare o il trasformare le proprie c. In terzo luogo è coinvolta la capacità di individuare quali risorse interne o esterne debbono essere prese in considerazione al fine di affrontare la sfida incontrata. Non solo, se si constata che alcune conoscenze e/o abilità sono inadeguate, essere disponibile ad arricchirle opportunamente. Infine, è bene non dimenticarlo, è richiesta la capacità non solo di giungere alla decisione effettiva di affrontare il lavoro necessario per adattare o trasformare le c. in oggetto, ma anche, e soprattutto, la capacità di impegnarsi per un tempo adeguato e mettendo in campo tutte le forme di controllo dell’azione che consentono di portare a termine la decisione presa. 3. Valutazione delle c. Il riconoscimento da parte degli altri della presenza di una c. non è impresa facile, perché per sua natura una c. è una qualità personale interna non direttamente osservabile. Ciò che possiamo cogliere sono le sue manifestazioni esterne, cioè la capacità di portare a termine validamente i compiti assegnati. Occorre anche dire che di per sé non è sufficiente rilevare una singola prestazione positiva (o negativa) per poter certificare il possesso o meno di una c., bensì occorre disporre di un ventaglio o insieme di prestazioni, sulla base del quale sia possibile 220

arguire la presenza di una c. che costituisca ormai un patrimonio stabile della persona. È possibile, dunque, inferire la presenza di una c. non solo genericamente, ma anche in maniera articolata sulla base di una famiglia di prestazioni, e di un insieme di comportamenti, che svolgono il ruolo di indicatori di esistenza e di livello raggiunto. Solo nel caso di c. elementari che mettano in gioco schemi d’azione di tipo ripetitivo, oppure assai semplici applicazioni di regole e principi, è possibile valutarne l’acquisizione osservando una o poche prestazioni. Dalla constatazione della complessità del processo di valutazione e ancor più di certificazione delle c. deriva l’indicazione di procedere a una raccolta sistematica di elementi documentari provenienti da fonti e secondo metodi diversificati per poter giungere a una conclusione sufficientemente fondata e plausibile. Di conseguenza spesso si suggerisce di procedere secondo un piano di lavoro che si richiama al metodo della «triangolazione», a volte utilizzato nella ricerca educativa e sociale. In sintesi, si tratta di raccogliere informazioni pertinenti, valide e affidabili con una pluralità di modalità di accertamento, in genere almeno tre, che permettono di sviluppare un lavoro di interpretazione e di elaborazione del giudizio che sia fondato e conclusivo. Bibl.: Le Boterf G., De la compétence. Essai sur un attracteur étrange, Paris, Éditions d’Organisation, 1994; Id., Construire les compétences individuelles et collectives, Ibid., 2000; Perrenoud P., Costruire c. a partire dalla scuola, Roma, Anicia, 2003; Varisco B. M., Portfolio, valutazione di apprendimenti e c., Roma, Carocci, 2004; Pellerey M., Le c. individuali e il portfolio, Firenze, La Nuova Italia, 2004; López-Mezquita Molina Ma T., La evaluación de la competencia léxica: tests de vocabulario, su fiabilidad y validez, Granada, Editorial Universidad de Granada, 2007.

M. Pellerey

COMPETITIVITÀ La c. è quella serie di atteggiamenti, comportamenti e processi messi in atto da una pluralità di individui o gruppi sociali che convergono con uguali pretese per il raggiungimento di scopi o risorse identiche, ma

COMPITI EDUCATIVI

fortemente limitate rispetto ad una domanda sempre relativamente eccedente. 1. Distinzioni. Il moltiplicarsi dei soggetti sociali, tratto caratteristico della società complessa, amplifica anche la concorrenzialità rispetto a obiettivi e beni scarsamente riproducibili. Il primo obiettivo della c. è perciò diretto ad ottenere l’oggetto desiderato più che a concorrere con i competitori. Questi vogliono tutti ottenere per sé, sottraendola necessariamente agli altri, la quota più alta possibile della stessa risorsa (reddito, potere, prestigio). La scarsità delle risorse perciò è un elemento essenziale della c., ma non lo è nello stesso modo del → conflitto. Per Park e Burgess, la c. si distingue dal conflitto, in quanto questa è una lotta tra individui o gruppi che non sono necessariamente in contatto, né comunicano tra loro, mentre il conflitto è una contesa in cui il contatto è indispensabile. La c. inoltre è inconscia, mentre il conflitto è sempre cosciente; si manifestano quindi come due tipi di rapporto sociale assai diversi. Dahrendorf però respinge questa distinzione, affermando che sia il conflitto che la c. comportano sempre una lotta per delle risorse limitate (1963). I primi ecologisti hanno considerato la c. come il processo fondamentale dell’umana organizzazione sociale, capace di determinare la stessa distribuzione spaziale e funzionale della popolazione. 2. Prospettive e tipologie. La c. è perciò una categoria che si pone all’incrocio di un sistema sia sociopolitico (c. sociopolitica) che socioeconomico (c. socioeconomica). In questa seconda prospettiva il modello della c. è definito dalla situazione di mercato, in cui le opportunità per competere sono per principio equamente distribuite, come anche le sanzioni sono le stesse per tutti. La c. però viene limitata quando tra i competitori vi è una disuguale distribuzione delle risorse da scambiare, come nel caso del monopolio, in cui il controllo sulla controparte è virtualmente completo. Ciò avviene in modo tipico tra i paesi dipendenti e le multinazionali nei mercati delle materie prime basati su uno scambio ineguale. Infine in una società caratterizzata dal pluralismo culturale si assiste all’emergere anche di una c. socioculturale, di cui un esempio tipico è dato nel campo

della religione dalla concorrenza delle agenzie di significati diverse da quelle religiose o dal diffondersi a macchia d’olio delle → sette religiose. In una prospettiva pedagogica, è tuttora un nodo di discussione l’efficacia della c. nella ricerca del successo, soprattutto in ambito scolastico. In questo contesto essa può essere considerata secondo tre accezioni: come una struttura per l’ → apprendimento (è fatta dal clima, dall’organizzazione, e dall’ethos creato in classe); come tratto di → personalità compulsivamente motivato al successo; come → comportamento teso alla superiorità, nei confronti degli altri, in contrapposizione alla cooperazione. Tutto ciò comporta una serie complessa di fattori dove sono coinvolti atteggiamenti e relazioni interpersonali sia degli insegnanti che degli allievi. Bibl.: Owens L. - R. G. Stratton, The development of a cooperative, competitive, and individualised learning preference scale for students, in «British Journal of Educational Psychology» 50 (1980) 147-161; Bagnasco A. et al., Corso di sociologia, Bologna, Il Mulino, 1997; Comoglio M., Educare insegnando. Apprendere ad applicare il «cooperative learning», Roma, LAS, 2000; Cesareo V. - M. Magatti (Edd.), Comunità, individuo e globalizzazione, Roma, Carocci, 2001; Vasapollo L. et al., Competizione globale. Imperialismi e movimenti di resistenza, Milano, Jaca Book, 2004.

R. Mion

COMPITI EDUCATIVI Possono essere riferiti agli operatori in campo pedagogico – e per estensione alle istituzioni educative – ma anche ai destina­t ari coinvolti nei processi educativi, quan­do vengono designati in quanto soggetti protagonisti della loro educazione. 1. Nella prima accezione, l’espressione c.e. è sinonimo di «finalità», intendendo con questa formulazione l’assunzione, in termi­ ni pedagogici, dei «fini» assegnati alla pia­ nificazione sociale dal progetto simbolico che una comunità si è data in una determi­ nata congiuntura storico-politica. Solita­ mente le aspirazioni societarie, nella fase 221

COMPLESSITÀ SOCIALE

della loro ideazione, si traducono in inten­ zionalità educative che vengono assegnate – in quanto e, appunto – al sistema scola­stico, globalmente o per qualcuno dei suoi gradi: in questo caso, possiamo avere la de­finizione di «programmi scolastici» – più o meno prescrittivi nei riguardi degli opera­tori – i quali, in caso di riorientamenti profon­di delle «finalità», possono essere concepi­t i come vere e proprie «riforme». Queste, in senso proprio, investono ancora più inti­mamente l’istituzione, giungendo a modi­ficare le regole costitutive sulle quali fondavano, mutando di segno, gli aspetti materiali – strutture spaziali, inquadramento spazio-temporale, profili professio­nali, caratteri delle utenze – e la cultura in­terna, ispirando secondo altri → valori il senso delle attività e il significato di norme e comportamenti quotidiani. Sempre in questa prima prospettiva, si tende a parla­re diffusamente di c.e. nelle fasi di transi­zione dei modelli culturali, quando le isti­t uzioni pedagogiche possono apparire in «crisi» e pertanto prolificano le proposte per i cambiamenti auspicati. Oggi, al passaggio alla società post-moderna, tra inflazione dei c.e. attesi, deflazione dell’immagine pubblica degli insegnanti, ricorso a risorse professionali esterne, in grado di colmare lo scarto rispetto alla manifestazione di bisogni educativi non saturati, sullo sfondo della «caduta del programma istituzionale» della scuola-istituzione, la crisi percepita investe il modo stesso col quale l’insegnante è tenuto a concepire le sue funzioni. 2. In senso più tecnico, circola da una deci­na d’anni una seconda accezione del termi­ne, nel contesto di una revisione del → naturalismo pedagogico – indiziato di in­dulgere non-direttivamente ai → bisogni dei soggetti in formazione – e della «peda­gogia per → obiettivi» – accusata di preco­stituire autoritariamente i desideri educa­tivi degli adulti –. Si parla in questo caso di «pedagogia del contratto», all’atto del qua­le si tracciano le condizioni per un nego­ziato capace di ottenere la presa in carico, da parte degli studenti, dei c.e. che hanno contribuito a definire e che si sono impe­gnati a realizzare. Su questa base, l’emergere della soggettività dei «nuovi studenti» ha indotto forme di negoziazione diffusa, continua e latente dei tempi scolastici e dei carichi d’apprendimento. 222

Bibl.: Burguière E. et al., Contrats et éducation, Paris, L’Harmattan-INRP, 1987; R ayou P., La cité des Lycéens, Paris, L’Harmattan, 1998; Derouet J. L., L’école dans plusieurs mondes, Paris, De Boeck, 2000; Dubet F., Le déclin de l’institution, Paris, Seuil, 2002; Drago R., Tempo di scuola. appunti e riflessioni sull’organizzazione del tempo scolastico, 2005, in http://ospitiweb.indire.it/ adi/temposcuola/temposcuola_bibliografia.htm (contatto del 24.06.07).

E. Damiano

COMPLESSITÀ SOCIALE La c.s. costituisce oggi una delle caratteristiche più comuni, assai utilizzate dalla sociologia attuale per definire in maniera più appropriata la società contemporanea, precisamente come «società complessa». Nel gergo comune, complesso è tutto ciò che appare di difficile comprensione ed organizzazione. Tuttavia per una definizione sociologicamente più precisa di c.s. è necessario fare riferimento alla categoria di sistema, che concettualmente designa la possibilità di descrivere come unitaria una pluralità di elementi distinti e le corrispettive relazioni tra le parti che lo compongono. 1. Storia del concetto. Nella cosmologia medioevale sistema indicava tutto ciò che poteva essere pensato come composto, in contrapposizione a ciò che era considerato semplice. Oggi il concetto di c.s. viene descritto come indefinita molteplicità di soggetti sociali e di nessi causali, con il conseguente aumento delle relazioni tra elementi uguali. Una caratterizzazione emblematica, fatta sua dallo stesso Luhmann (1992), descrive la c.s. come un sistema che varia direttamente con il variare: a) del numero e della diversità delle sue componenti; b) dell’ampiezza e dell’interdipendenza relazionale fra di esse; c) delle loro relazioni e della loro variabilità nel corso del tempo. La c.s. può essere considerata quindi a un duplice livello: a) a livello macrosociologico, c. designa lo stato di un sistema sociale così differenziato e ricco di relazioni talmente numerose da rendere difficile l’organizzazione unitaria del sistema; b) a livello microsociologico, c.s. indica un sistema sociale che offre molteplici possibili-

COMPLESSITÀ SOCIALE

tà di scelta, di controllo e di conoscenza, che sono superiori alla stessa capacità di scelta, di controllo e di conoscenza gestibili da una persona ordinaria. 2. Definizione e caratterizzazioni della società complessa. «Società complessa» perciò è quella caratterizzata da un’ampia differenziazione e specializzazione degli attori sociali, dei soggetti, dei sottosistemi politici, economici, culturali, e delle funzioni sociali («specializzazioni funzionali»), da un aumento e differenziazione delle relazioni tra gli stessi, oltre che da una forte imprevedibilità dei loro comportamenti, in ragione di un progressivo allentamento delle relazioni e delle logiche connettive. Nella pluralità, differenziazione e specializzazione dei soggetti, aumenta la difficoltà di interazione per l’aumento della flessibilità e della contingenza come molteplicità di possibilità. All’aumento aritmetico dei soggetti, crescono in proporzione geometrica ed esponenziale le relazioni, e con esse le difficoltà di governare il sistema. Ciò provoca ed esige migliori e più qualificate capacità di adattamento e di coordinamento. Il venir meno poi di valori e norme universali fa aumentare l’individualità dei singoli sottosistemi, la loro libertà e autonomia, che rendono così sempre più problematica e difficile l’interdipendenza delle relazioni. Si giunge perciò a caratterizzare una società complessa come una società acentrica, «a reticolo», articolata in innumerevoli sottosistemi privi di un organo centrale, quasi in contrapposizione alla società gerarchica, organica, strutturata e al paradigma delle società tradizionali del passato, dove dominava una scala di valori, di verità, di autorità, comunemente riconosciuta e accettata che costituiva la chiave di volta del sistema sociale e dell’identità personale. Nelle società complesse, in sintesi, al paradigma gerarchico viene sostituito quello funzionale, rappresentato da un insieme di sottosistemi autonomi, aventi ciascuno propri codici, anche normativi, non definiti da altri. 3. C. e ordine sociale. Come è possibile allora l’ordine sociale? Attraverso la riduzione della c., l’aumento della comunicazione tra i sistemi e la fluidità nei processi di reciproca interpenetrazione, è possibile essere in grado di tenere insieme i sistemi personali e i siste-

mi sociali. Se la differenziazione sistemica suddivide la precedente attività unitaria in diversi sottosistemi, specifici e specializzati, l’interpenetrazione luhmanniana mette in risalto il fatto che determinate componenti di un sottosistema entrano a far parte di un secondo senza cessare di far parte del primo. Infatti all’avanzata differenziazione delle società contemporanee corrisponde una marcata interdipendenza e interpenetrazione dei sistemi sociali: così il sistema economico, mentre è influenzato dal sistema politico, vi risponde manifestando esso stesso un certo influsso sulle decisioni di tipo politico. Valori e pratiche della solidarietà, espressi dalla comunità e dal sistema socioculturale, permeano sia l’agire politico che l’agire economico; egualmente numerose attività educative, proprie del sistema socioculturale, sono svolte regolarmente anche dal sistema economico e dal sistema politico. 4. C.s. e identità personale. Per l’inedita enfatizzazione dell’autodeterminazione nelle società complesse ogni individuo è chiamato a definire la propria → identità, il proprio ruolo, la propria gerarchia di valori sulla base di una personale opera di educazione. Nulla più è dato od acquisito una volta per sempre. Tutto è frutto di una difficile mediazione tra individuo e ambiente sociale, tra i fattori, esterni ed interni, culturali e strutturali, che interagiscono nella definizione dell’identità, del ruolo e della stessa coscienza dell’individuo. Questa evoluzione, di per sé positiva, comporta però dei costi in termini di → stress rispetto al proprio successo individuale, oltre che la difficoltà a comporre in un’identità unitaria le molteplici appartenenze ai distinti sottosistemi. Ne derivano allora almeno tre possibili modelli educativi: a) un modello «debole», che tende a rimuovere come non significativo il problema dell’identità, per risolversi nell’inseguimento delle molteplici, emergenti e mutevoli dimensioni dell’esistenza; b) un modello «rigido», che tende a ricostruire artificialmente identità dure e irriducibili contro la differenziazione policentrica della società; c) un modello «flessibile», che tende a porre la domanda sull’identità a partire dall’esperienza della differenza, stabilendo come interlocutori la coscienza e la norma e come metodo il confronto e la ricerca. 223

COMPLESSO

Bibl.: Lanzara G. F. - F. Pardi, L’interpretazione della c.: metodo sistemico e scienze sociali, Napoli, Guida, 1980; Barbano F. - M. Talamo, C. s. e identità, Milano, Angeli, 1985; Luhmann N. - R. De Giorgi, Teoria della società, Ibid., 1992; Gramigna A. - M. R ighetti, Multimedialità e società complessa. Questioni e problemi di pedagogia sociale, Ibid., 2001; Savagnone G., La scuola nella società complessa, Brescia, La Scuola, 2002; Pasqualini C., Gli adolescenti nella società complessa. Un’indagine sui percorsi biografici e gli orientamenti valoriali a Milano, Milano, Angeli, 2005; Bauman Z., Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2006; Id., Il disagio della postmodernità, Milano, Mondadori, 2007.

2. Attualmente, il termine c., preso in modo a sé stante, è ormai abbandonato nel linguaggio psicoanalitico; sono invece frequentemente usate le espressioni c. di Edipo e c. di castrazione intendendo con ciò riferirsi ad una struttura emotivamente centrale presente in una particolare fase della formazione della → personalità.

COMPLESSO

Bibl.: Green A., Il c. di castrazione, Roma, Borla, 1991; Jung C. G., L’inconscio, Milano, Mondadori, 1992; De Rosa E. - L. R inaldi, Edipo nel mito, nella tragedia, nella psicoanalisi, Castrovillari, Teda, 1992; Bollas C., Perché Edipo?, Roma, Borla, 1993; Dieckmann H., I c. Diagnosi e terapia in psicologia analitica, Roma, Astrolabio, 1993; Lacan J., I c. familiari nella formazione dell’individuo, Torino, Einaudi, 2005; Young R. M., C. di Edipo, Torino, Centro Scientifico, 2006.

Insieme di idee, rappresentazioni e ricordi di elevato valore affettivo, parzialmente o totalmente inconsci, che influiscono sul → comportamento abituale.

COMPORTAMENTISMO

R. Mion

1. Un primo accenno a tale organizzazione inconscia venne fatto da J. Breuer e S. → Freud nei loro Studi sull’isteria (1893-1895), i quali segnalarono che in certi soggetti esistono dei c. di rappresentazione, che, sebbene rimossi, sono attivi. Successivamente, partendo dall’analisi delle reazioni emotive al test delle associazioni di parole, → Jung, tra il 1904 e il 1911, approfondì il concetto di c., intendendolo come un insieme strutturato e attivo di rappresentazioni, pensieri, sentimenti e comportamenti, in parte o completamente inconsci, che ruotano attorno a uno o più archetipi emotivamente carichi. Egli inoltre sottolineò che il c. più che agire nell’individuo, agisce l’individuo. Freud considerò gli apporti di Jung come la dimostrazione della validità dei suoi studi sull’ → inconscio, ribadendo comunque che il concetto di c. era troppo vago e insoddisfacente sul piano teorico e che si prestava a fare da schermo invece che da stimolo per un autentico approfondimento delle dinamiche inconsce. Nonostante ciò J. Lacan, nei suoi Scritti (1966), lo ha definito: «Il più concreto e più fecondo concetto che sia stato apportato nello studio del comportamento umano». 224

V. L. Castellazzi

Il c. è un movimento psicologico, che, sorto nei primi anni del sec. XX, ha domina­to la psicologia sperimentale dagli anni ’40 agli anni ’60, dando vita poi ad alcune ra­mificazioni del → cognitivismo basato sull’Human information processing e ad alcu­ne solide applicazioni in campo terapeuti­co, riabilitativo ed educativo. L’unica forma di c. genuino tuttora vitale è quella che si rifà a → Skinner e che va sotto il nome di c. radicale od operante. Le altre forme di c., quale ad es. quello paradigmatico di Staats, ne costituiscono forme decisamente ibride. 1. Venendo alle origini, il primo c., che tro­va in → Watson il suo più autorevole rappresentante, affonda le sue radici nel → funzionalismo di Carr e nel prammatismo di → James, ponendosi in netta contrap­posizione alla visione strutturalistica di Titchener, dominante nella psicologia ame­r icana dei primi del secolo. Al centro del primo c., vi è il rifiuto dell’introspezione come strumento elettivo per lo studio della psicologia umana. Tale atteggiamento si fondò su premesse eminentemente meto­dologiche. I dati forniti dagli introspezionisti, infatti, erano a quel tempo decisa­mente contraddittori, non prestandosi

COMPORTAMENTISMO

af­fatto a fornire spunti degni di una efficace conoscenza scientifica. Naturalmente il ri­ fiuto dell’introspezione portò con sé anche una riluttanza, endemica a tutti i comportamentisti dell’epoca, a studiare i processi cognitivi, affettivi ecc. dell’uomo, dato che essi non potevano essere esaminati con gli strumenti che la scienza del tempo poteva loro fornire. Al posto della mente, quindi, essi sostituivano il comportamento come oggetto elettivo della ricerca comportamentistica; al posto della struttura mentale, statica rappresentante di una psicologia considerata a quei tempi obsoleta, la rela­zione tra fattori ambientali e comporta­mento umano, in piena armonia con quan­to Darwin aveva introdotto nello studio della biologia. 2. Naturalmente, il fatto di non poter stu­ diare scientificamente fenomeni quali il pensiero, la memoria, l’affettività ecc., non voleva assolutamente implicare un giudizio sulla loro esistenza. Tali fenomeni esisto­no, eccome. Solo che per il c. della prima generazione, mancavano gli strumenti ido­nei ad affrontarli in modo sistematico e scientificamente accettabile. Anticipando Wittgenstein, Watson sosteneva il dovere di parlare solo di ciò che si sa, accettando umilmente l’elevato tasso d’ignoranza del­la psicologia del tempo. Infine, a dare vi­gore al c. watsoniano, contribuì non poco la sua visione progressiva ed ottimistica dell’essere umano, il quale, modificando l’ambiente nel quale si trovava a vivere, potrebbe raggiungere livelli insperati in termini di qualità di vita e di successo per­sonale e sociale. Fu grazie a questa visione progressiva dell’uomo e della società, che Watson scelse come suo campo elettivo d’indagine l’apprendimento animale ed umano, dimostrando, con ricerche che han­no segnato la psicologia del tempo e non solo quella, l’enorme grado di adattamento dell’uomo alle cangianti situazioni di vita. 3. Il movimento iniziato da Watson ebbe la fortuna di attirare l’interesse di numerosi scienziati a lui successivi. Tra questi men­ zione particolare va a Guthrie, Hull, Skinner e Tolman. Ciò che univa i quattro leader della seconda generazione di com­portamentisti era da un lato la filosofia progressiva già enunciata da Watson, dal­l’altro il convincimento che la metodologia scientifica costitu-

iva il mezzo per produrre una conoscenza se non vera, certamente attendibile e sistematica. Al di là di questi elementi accomunanti, furono molti poi quelli che differenziavano l’impianto teo­rico ed esplicativo elaborato da ognuno di loro. Così Guthrie divenne il paladino di una concezione ultramolecolaristica dell’uomo, creando i presupposti per la crea­ zione della psicologia matematica applica­ta al comportamento umano; Hull, che am­biva a divenire il Newton della psicologia moderna, costruì un sistema teorico estre­mamente articolato, alla cui base poneva assiomi e postulati dai quali faceva discen­dere matematicamente delle ipotesi empi­r icamente verificabili; Skinner, interessato allo studio delle relazioni tra comporta­mento e conseguenze da esso prodotte, mostrò invece sfiducia verso la costruzione teorica, garantendo al suo movimento quella duttilità e capacità d’adattamento che gli hanno garantito la sopravvivenza; Tolman, infine, introdusse nel suo tessuto teorico alcuni elementi mutuati dalla → psicoanalisi freudiana e dal cognitivismo del tempo, collocandosi come un’interfac­cia tra il c. «hard» dei suoi colleghi e gli al­t ri movimenti psicologici e più largamente culturali del tempo. Come si vede è errato parlare del c. come di una scuola monoliti­ca, al pari della → Gestalt o della psicoana­lisi freudiana. Manca ad esso quell’unita­r ietà di fondo che ne costituisce la premes­sa inevitabile. 4. Se poi prendiamo in considerazione il linguaggio usato da ognuno dei quattro leader del c. della seconda generazione, es­so si differenzia in modo piuttosto marcato, passando dal linguaggio S-R (stimolo - ri­sposta) di Guthrie, a quello S-O-R (stimo­lo, organismo, risposta) di Tolman ed infi­ne a quello R-Sr (risposta e conseguenza) di Skinner. Da tale frammentazione, di­scende una conseguenza ovvia, tale da sfio­rare la banalità: non è possibile criticare il c. in toto. Ciò che è lecito è invece criticare la costruzione teorica costruita da ognuno dei comportamentisti più rappresentativi. 5. Che ne è ora del c.? Passata l’epoca del­ le contrapposizioni dal sapore più ideolo­gico che scientifico, è maturo il tempo in cui è possibile pervenire a delle conclusio­ni sul c., così come si è evoluto. a) La prima di esse 225

COMPORTAMENTO

è che l’approccio S-R, che ha carat­terizzato la visione di Guthrie, Hull e dei loro allievi e più recentemente quella di Eysenck e di Wolpe, i quali hanno voluto inserire tra la S e la R la O di organismo, ha raggiunto i limiti della sua evoluzione. Esso era troppo collegato alla concezione pavloviana dell’apprendimento umano e della sua patologia e ha pagato inevitabil­mente la perdita di consenso che ha carat­terizzato negli ultimi anni l’inevitabile pa­rabola discendente del paradigma pavloviano. Tuttavia è doveroso ricordare alcune tra le applicazioni terapeutiche che sono state dedotte dalle diverse teorie che si rifanno all’approccio S-R mitigato da Eysenck e Wolpe. Esse hanno a che fare con lo studio di alcune psicopatologie tra le quali i disturbi ansiosi (→ ansia) e quelli ossessivocompulsivi, sui quali sono state elaborate interessanti ipotesi eziogenetiche e proposte strategie d’intervento ad alta ef­ficacia quali la desensibilizzazione sistema­t ica, il flooding ecc. b) La seconda conclu­sione è che il c. prima maniera è vir­t ualmente inesistente, essendosi intrec­ciato con alcune impostazioni cognitivistiche sia in ambito sperimentale che in quel­lo clinico. Per quanto riguarda il primo di questi, basti ricordare i numerosi modelli elaborati per dar conto dei diversi mecca­nismi mnestici nei quali è ancora dominan­te la visione associazionistica tipica dei pri­mi comportamentisti. Per quanto concerne il secondo è sufficiente ricordare alcune tecniche tra le quali lo stress management di Meichembaum e il problem solving di D’Zurilla ecc. che hanno mutuato alcuni dei loro fondamenti teorici dalla ricerca S-R, oltre che da quella skinneriana. c) La terza conclusione ha a che vedere con la crescente diffusione della visione skinne­riana, che superata una fase di appanna­mento, vede ora un secondo rinascimento sia nel campo della ricerca teorica che in quello applicativo. È recente l’elaborazio­ne di una psicoterapia fondata integral­mente sui principi di Skinner, che ha ri­scosso l’interesse del mondo accademico grazie ai lusinghieri risultati ottenuti nei confronti di numerose anomalie compor­tamentali. 6. Queste forme di lotta per la sopravvi­venza del c., assorbito in alcuni casi all’interno di altri mondi teorici od evolutosi in modo imprevedibile rispetto all’itinerario iniziale, 226

non possono non incuriosire, in quanto in palese contrasto col principio di confutazione di popperiana memoria. Tale capacità di sopravvivere a se stesso, modi­ficandosi non costituisce affatto una sor­presa se si riflette sul fatto che il c. non è mai stato solo una visione scientificamente testabile del mondo e dell’uomo. Infatti es­so contiene una filosofia che si rifà all’as­sociazionismo inglese ed al prammatismo americano, che si colloca in contrapposi­zione alle visioni innatistiche e limitanti dell’uomo a favore di una nella quale l’uo­mo è visto come «faber est suae quisque fortunae». Come dice → Dewey «è sempre presente la tendenza alla contrapposizione tra due scuole. La prima sottolinea gli aspetti originari ed innatistici della natura umana; la seconda, invece, la fa dipendere dall’ambiente sociale» (1930, 7). Fintanto che l’uomo vorrà vedersi come causa del proprio destino e non espressione totaliz­zante di un gioco genetico, vi sarà sempre spazio per una visione psicologica, che in un modo o nell’altro si richiamerà al c. Bibl.: Watson J. B., Behaviorism, New York, Nor­ton, 1924 (trad. it. Il c. Firenze, Giunti-Barbera); Dewey J., Human nature and conduct, New York, Modern Library, 1930; Hull C. L., Principles of behaviour, New York, Appleton-CenturyCrofts, 1942; Tilquin A., Le behaviorisme, Paris, Vrin, 1950; Tolman E. C., Purposive behavior in animals and men, New York, Appleton-CenturyCrofts, 1962; Naville P., La psychologie du comportement, Paris, Gallimard, 1963; M ackenzie B. D., Il c. e i limiti del metodo scientifico, Roma, Armando, 1980; M eazzini P., Il c.: una storia culturale, Por­denone, ERIP, 1980.

P. Meazzini

COMPORTAMENTO Il c. è un modo di agire, una condotta, un contegno. Implica un aspetto sociologico in quanto gli effetti del c. interessano i rapporti interpersonali ed ambientali in genere, e un aspetto psicologico che riguarda le motivazioni del c. e le soddisfazioni o insoddisfazioni che derivano al soggetto dai c. attuati. Può riguardare inoltre il c. collettivo con tutti i risvolti psicosociali che ne derivano. Importante, in senso psicologico, è, come si è

COMPRENSIONE

accennato sopra, lo studio delle motivazioni che inducono il c. 1. Storia. È noto che dopo gli studi di Thorndike sull’intelligenza animale, → Watson nei primi decenni del 1900 diede inizio ad una Scuola denominata «behaviorista» che si prefissava di studiare il c. umano come risposta ai vari stimoli che il soggetto può ricevere sia dall’interno che dall’esterno del proprio organismo. Con questa metodologia, analoga a quella usata da Pavlov per i riflessi condizionati, si aveva il vantaggio di poter misurare con sufficiente esattezza il numero e l’intensità degli stimoli e delle risposte, giacché erano tutte cose osservabili. Evidentemente venivano trascurate l’elaborazione interiore operata dalla psiche del soggetto e le motivazioni coscienti o inconsce che determinano le risposte, come pure l’intenzionalità e la progettazione che ciascun individuo può operare. Tuttavia i primi ricercatori in questa direzione, fra cui il rinomato → Skinner, insistettero molto sull’indispensabilità della quantificazione dell’osservabile, in modo da avere dati incontrovertibili e procedimenti scientificamente esatti. È chiaro però che si è resa sempre più imperiosa la necessità di studiare i processi cognitivi e soprattutto quelli emozionali con indagini anche intra­ psichiche e con l’uso di test che dovrebbero rivelare le situazioni inconsce, in modo da avere accanto ai risultati quantificabili dei c. esterni, anche dei dati riferentisi ai processi intrapsichici. È vero che questi ultimi hanno bisogno di interpretazione e non garantiscono l’oggettività, però è anche vero che data la complessità della psiche non si può pretendere di sondarla con un’unica metodologia o con un solo tipo di strumenti, ma si deve fare uso di qualsiasi mezzo valido si abbia a disposizione per poter ottenere il massimo numero di dati attendibili. 2. Situazione attuale. Oggi si parla più volentieri di Scuole cognitivo-comportamentali che, come molte altre Scuole, non trascurano l’apporto di elementi provenienti da fonti diverse. Si va molto più volentieri verso l’interdisciplinarità, che si considera più efficiente e più sicura. Il c. rimane in molte circostanze il dato di partenza indispensabile per poter risalire poi a conoscenze più approfondite.

3. Condizionatori del c. Possono essere condizionatori biologici, psicologici e sociologici. Fra i condizionatori biologici: a) l’organismo nella sua globalità, in quanto a seconda della sua struttura di base, potrebbe essere (seguendo la nomenclatura di De Lisi): forte, celere, abile, agile; forte, lento, inabile, pesante; debole, celere, abile, agile; fiacco, lento, inabile, impacciato. Si possono riscontrare anche forme intermedie; b) la struttura e le funzioni del sistema nervoso, del sistema endocrino e di quello immunitario nelle loro particolarità. Fra i condizionatori psichici: l’immagine di sé che il soggetto si è formata; l’armonizzazione delle varie componenti della → personalità che si è determinata durante lo sviluppo; la governabilità delle pulsioni; le produzioni della fantasia; la gestione dell’ → ansia. Fra i condizionatori sociali si ricordano: i sentimenti, gli atteggiamenti e i c. degli altri sia come singoli individui, sia come società, le condizioni fisiche ambientali. Bibl.: a) I classici: Watson J. B., Behaviorism, New York, 1924; Tolman E. C., Purposive behavior in animals and men, London, 1932; Russel E. S., The behaviorism of animals, London, 1934. b) I moderni: Polizzi V., Psiche e soma, Roma, LAS, 1976; Oliverio A., Biologia e c., Bologna, Zanichelli, 1982; Bruno F. J., Adjustment and personal growth, New York, Wiley, 1983; Andreoli V., La norma e la scelta, Milano, Mondadori, 1984; A rto A., Crescita e maturazione morale, Roma, LAS, 1984; Polizzi V., L’identità dell’homo sapiens, Ibid., 1986; Pancheri P. et al., Trattato italiano di psichiatria, Milano, Masson, 1993; R enna L. (Ed.), Neuroscienze e c. umano, Roma, Vivere In, 2006.

V. Polizzi

COMPRENSIONE Il termine c. può indicare realtà diverse: un processo di decodificazione o il suo risultato finale, il significato espresso da una conversazione, un’intuizione empatica. La c. si realizza in svariate situazioni: nella → lettura, nell’ascolto, nella conversazione, in una → comunicazione verbale e/o non verbale, nella interazione diretta, diadica o di gruppo con o senza possibilità di feedback, come nella comunicazione di massa, tra persone che si 227

COMPRENSIONE

conoscono o non si conoscono, ecc. Si parla di c. in riferimento a differenti modalità di codificazione: verbale, non verbale, visiva, artistica, letteraria, poetica, ecc. Poiché la capacità di c. è soggetta a sviluppo e dipende da vari fattori individuali, si parla di buona e scarsa abilità di e, di buona o scarsa capacità di eterocentrarsi empaticamente o no. 1. C. e codificazione. Spesso la c. viene inconsapevolmente assunta come specularmente opposta al processo di codificazione. I processi di c. e quelli di codificazione possono dirsi specificamente diversi per vari motivi. Il processo di codificazione è un’attività di distribuzione dell’informazione su presupposizioni fatte sul ricevente, mentre il processo di c. ricostruisce il significato a partire dalle informazioni a disposizione e di quelle già possedute. Il ritmo di comunicazione è deciso da colui che comunica; il processo di c. richiede un’adeguazione a questo ritmo (nella comunicazione orale), o è totalmente svincolato da esso (nella comunicazione scritta). Il risultato finale del processo di c. è più vasto (e spesso anche diverso) da quello supposto dal comunicante e nella conversazione è più oggetto di costruzione che di semplice ricezione. La ricerca sui processi di c. è stata molto vasta e così intensa che, quanto è stato prodotto in questi ultimi decenni, supera quello svolto nell’ultimo secolo. Non potendo esaminare i processi di c. di ogni tipo di comunicazione, ci limiteremo ad alcuni aspetti della c. testuale scritta come fenomeno esemplare e tipico di molte modalità comunicative. 2. Processi di c. La c. sembra dipendere sostanzialmente dalla capacità strutturale della mente di utilizzare strategie e meta-strategie. Il processo di c. è sollecitato dallo stimolo linguistico (processo di bottom up, vale a dire dallo stimolo linguistico alla rappresentazione semantica) che attiva le conoscenze previe. La disponibilità di conoscenze previe e la loro attivazione fanno sì che si metta in azione un processo di top down (vale a dire dalle conoscenze presenti nella memoria allo stimolo) che conduce il processo stesso di c. La grande quantità di informazioni veicolate in un messaggio e la velocità con cui vengono veicolate richiedono nel ricevente capacità e flessibilità nel produrre un’ipo228

tesi di significato e una sua falsificazione a partire da nuove informazioni che vengono via via acquisite. Questo è particolarmente necessario e decisivo quando in mancanza di conoscenze previe il processo di c. è principalmente un processo di top down. In questo caso il processo di c. è assai simile a quello scientifico di correzione dell’ipotesi a mano a mano che sopraggiungono nuove informazioni. Le capacità limitate di elaborazione della memoria richiedono processi di selezione e cancellazione di informazioni ritenute non importanti e di integrazione che permettono di costruire progressivamente una rappresentazione astratta del significato che viene acquisito. Il variare della modalità (qualitativa e quantitativa) con cui vengono trasmesse le conoscenze, richiede un uso flessibile di strategie opportune ed efficaci secondo il mutare delle difficoltà del testo o dell’argomento. Poiché ogni comunicazione si basa sul presupposto pragmatico di codificare solo quegli elementi di informazione che si ritengono sufficienti a rendere comprensibile e conciso il messaggio, ogni attività di c. comporta l’uso di conoscenze previe e lo svolgimento di processi inferenziali di completamento o arricchimento del testo. Tale processo spesso può diventare causa di fraintendimenti. La capacità di c., infine, è determinata dall’abilità e competenza a svolgere agilmente e precisamente i processi richiesti e a gestire le risorse disponibili in base a ciò che deve essere conseguito. 3. Strategie e metastrategie di c. L’attività di c. è ulteriormente specificata dalla capacità del ricevente di applicare strategie culturali, sociali, interattive, pragmatiche, stilistiche e retoriche, strategie proposizionali, macrostrategie semantiche e metastrategie. Le strategie culturali sono modalità operative che un ricevente mette in azione a partire da informazioni su differenti luoghi geografici, strutture sociali, istituzioni, eventi, situazioni comunicative, linguaggi, tipi di discorso, atti di parola, condizioni di coerenza locale e globale, norme, modi di ordinare un’informazione, ecc. Le strategie sociali sono operazioni che agiscono su informazioni fornite dal contesto sociale di un gruppo, da istituzioni, da ruoli e funzioni che devono assumere i comunicanti, dai possibili atti di parola che possono essere eseguiti in una

COMUNICAZIONE

situazione comunicativa, dalle differenze di stile relative ad una struttura sociale. Le strategie interattive sono tutte le operazioni cognitive di selezione o di predisposizione delle informazioni da comunicare o degli atti linguistici da eseguire a partire dagli scopi, intenzioni, desideri, preferenze, opinioni, ideologia e personalità di colui che parla o ascolta, ecc. Tutte queste informazioni che reciprocamente due o più comunicanti si scambiano, sono fonti interpretative dei loro messaggi, modificano la forma della comunicazione ed esigono particolari strategie per interpretarla. Le strategie pragmatiche sono un gruppo specifico di strategie interattive. Mentre le precedenti si riferiscono al livello generico e previo della situazione interattiva, le informazioni pragmatiche sono ristrette invece all’atto di parola espresso in una specifica situazione linguistica. Si definiscono strategie stilistiche e retoriche quelle operazioni cognitive che permettono di identificare e qualificare le informazioni comunicate dalla forma stilistica o retorica. La forma comunicativa di molti tipi di discorsi dipende infatti dallo scopo di persuadere, divertire, indurre un senso estetico, ecc. È per questo che vengono scelte figure retoriche (metafore, uso di contrasti, allitterazioni, ripetizioni, analogie, ecc.). Se un ascoltatore vuole comprendere il messaggio non può, quindi, esimersi dall’uso di strategie stilistiche e retoriche, che gli suggeriscono il significato reale delle parole o delle frasi a partire dalle costrizioni formali date dal testo. Le strategie proposizionali sono operazioni tese innanzitutto alla costruzione delle proposizioni. Le macrostrategie semantiche sono operazioni capaci di inferire da diversi atti linguistici o da una serie di proposizioni il significato globale codificato in esso. Le metastrategie sono operazioni che indicano orientamenti e regole da seguire ad un livello superiore delle varie strategie sopra elencate. Esse si incaricano della selezione delle strategie opportune per conseguire lo scopo e del controllo costante di come esse operano, decidono il ritmo da tenere nello svolgimento dei processi, valutano l’opportunità di introdurre nuovi processi a seconda della necessità e pianificano la sequenza delle operazioni da svolgere. Hanno lo scopo di stabilire l’argomento, la sostanza, la macroproposizione di un testo o di indicare,

ad es. se un testo parla di qualche cosa di reale o di fantastico. Bibl.: Flood J. (Ed.), Understanding reading comprehension: cognition, language, and the structure of prose, Newark, International Reading Association, 1984; Singer H. - R. B. Rud dell (Edd.), Theoretical models and processes of reading, Ibid., 1985; Van Dijk T. A., Handbook of discourse analysis, voll. 1-5, London, Academic Press, 1985; Just M. A. - P. A. Carpenter, The psychology of reading and language comprehension, Boston, MA, Allyn & Bacon, 1987; Ho rowitz R. - S. J. Samuels (Edd.), Comprehending oral and written language, New York, Academic Press, 1987, 161-196; Van Dijk T. A., News as discourse, Hillsdale, Erlbaum, 1988; Ruddell R. B. - M. R. Ruddell - H. Singer (Edd.), Theoretical models and processes of reading, Newark, International Reading Association, 41994.

M. Comoglio

COMPUTER → Informatica → Mezzi didattici

COMUNICAZIONE La c. costituisce un fattore essenziale che consente di umanizzare la nostra vita. Individui e sistemi sociali per es. famiglia, situazioni lavorative, educazione, religione) possono ricevere degli stimoli, per una maggiore umanizzazione e cooperazione vicendevole, da significative forme comunicative. Esperienze negative nel relazionarsi agli altri (per es. solitudine, insoddisfazione) possono essere superate ed invece essere sperimentate situazioni positive (per es. sentirsi accettato, potersi fidare degli altri). 1. La definizione della c. Un primo problema considerevole riguarda la definizione della c. Si parla di c. mass-mediatica, di c. sociale, di c. di gruppo, di c. intrapsichica, di c. interpersonale. In ognuna di queste forme di contatto la c. è stabilita secondo particolari principi e leggi. Qui si tratterà la c. in riferimento a soggetti che interagiscono nelle diverse situazioni interpersonali. Una c. di questo genere è caratterizzata da alcune dimensioni comuni: a) le funzioni, che evidenziano lo scopo della c.: trasmissione di informazioni, comprensione o interpretazione, 229

COMUNICAZIONE

scambio di gratificazione, partecipazione a qualcosa, comportamento sociale ed, infine, interazione; b) gli elementi costitutivi: fondamentalmente possiamo distinguere due elementi costitutivi nella c.: quello contenutistico e quello relazionale. Il primo comprende essenzialmente i contenuti che vengono trasmessi nella c., fondamentalmente regolati dalle competenze linguistiche (lessicale, sintattica e pragmatica). Il secondo riguarda invece i comportamenti che vengono posti in essere dalle persone in interazione. Tra i comportamenti sono rilevanti quelli seriali (azioni-reazioni), la gestione del controllo, come scambio, e modo e maniera dell’agire sociale; c) l’organizzazione della c. Riguarda i modi e le norme che regolano il vicendevole interagire tra le persone. In questo caso è rilevante osservare determinati principi e regole al fine di interagire in maniera significativa: ad es. per costituire una piattaforma comunicativa aperta, per garantire relazioni cooperative, per raggiungere gratificazioni vicendevoli e per favorire la creazione di un «noi». 2. Per una c. significativa. Un altro argomento rilevante nello studio della c. riguarda il significato, i principi e le regole per stabilire c. significative. I primi riguardano fondamentalmente aspetti relativi al significato, alle condizioni ed alle qualità processuali della c. Sono interessanti i contributi che provengono dalla filosofia dell’intersoggettività e dalla filosofia del dialogo, specie per ciò che riguarda il rapporto io-tu, il noi, la libertà e la reciprocità del comunicare. Non meno significativi sono i contributi della teologia, particolarmente riguardo al carattere dialogale ed affettivo della relazione Dio-uomo; al rapporto di carità tra gli uomini; al carattere comunitario della vita di fede. Notevoli apporti si trovano anche nella sociologia. Relazioni sociali positive avvengono, secondo alcuni studiosi, quando la persona si muove in senso proattivo nella vita sociale, o quando la società è fondata su solidi principi (per es. economici, del diritto). Contributi sono forniti anche dalla psicologia, quando studia la socializzazione dell’individuo, quando tratta il comportamento sociale e, infine, quando si riferisce alla positiva piattaforma comunicativa. Da studi condotti in sociologia si evince che comportamenti di insicurezza, disconferme, atteggiamenti e singole compe230

tenze stanno in rapporto con lo sviluppo della personalità. Cosi è come dagli studi della psicologia sociale conosciamo l’importanza dell’attrazione interpersonale, della c. nonverbale, dei processi percettivi, delle competenze comunicative, dello stile attributivo, delle relazioni personalizzate e dell’amicizia per la creazione di significative relazioni interpersonali. Gli apporti positivi della psicologia clinica e della psicologia educativa aiutano a costruire significativi rapporti nelle diverse relazioni interpersonali. Tuttavia i contributi maggiori circa la c. possiamo oggi ottenerli dalle scienze sulla c. Così si sa dal modello informatico-cibernetico che, per essere compresi, bisogna controllare per es. i disturbi, il tipo di persona, il tipo di mezzo che fa da tramite. Rilevanti apporti provengono dai modelli della pragmatica linguistica. Tra i maggiori vi sono la grammatica generativa, secondo la quale si distingue tra competenza e performance (realizzazione) nel comunicare, e dalla quale deriva la constatazione che la realtà comunicativa è in funzione delle esperienze e dell’argomentazione degli interlocutori. I modelli sulla c. interpersonale, che considerano l’agire come agire sociale, partono presupposto fatto che in ogni c. vengono anche realizzate delle azioni. Della c. pragmatica si può parlare quando si vede il segno in relazione all’uso che la persona ne fa. Un altro contributo proviene dalla linguistica. Secondo questo riferimento possono essere distinti atti linguistici di tipo performativo (atto di realizzazione) e di tipo proposizionale (indice referenziale) o forme di tipo comunicativo, constatativo, rappresentativo e regolativo. Validi principi provengono anche dall’interazionismo simbolico. Secondo questo modello la c. si sviluppa come una c. discorsiva quando le persone creano una piattaforma comunicativa in cui i membri si sentono liberi di intervenire in riferimento alle loro esperienze; quando possono partecipare con i loro atti linguistici in relazioni paritarie; e quando, allo stesso tempo, sentono che il criterio della verità è riferito al consenso della maggioranza. Infine sono da ricordare i modelli di contatto. Questi sono stati sviluppati dal behaviorismo ed hanno come obiettivo quello di conoscere i processi di equilibrazione tra i gruppi sociali. Fondamentalmente si viene a conoscere quali c. creano un clima umano positivo e produttivo.

COMUNICAZIONE

3. C. e relazione. Lo studio della c. espone anche delle proposte per comunicare nelle diverse situazioni del relazionarsi tra persone nel mondo. In rapporto a queste diverse situazioni si distinguono: a) i problemi legati all’accettabilità ed all’attribuzione. Essi concernono fondamentalmente le questioni esprimibili in termini interrogativi quali: «Vediamo l’altro come è realmente?», «Vediamo l’altro come si sperimenta?», cioè «Comprendiamo l’altro come è realmente?», «L’altro ha l’impressione che noi lo percepiamo come lui si sente?», «L’altro è per me di qualche interesse?». Tali situazioni comprendono i processi relativi all’attribuzione reattiva e proposizionale, all’implicazione dei tratti, alla formazione di impressioni ed alla previsione del comportamento futuro. La persona riuscirà a realizzare questi processi in modo significativo se nel selezionare e organizzare gli stimoli è possibilmente aperta a quelli rilevanti in quanto si può sentire relativamente libera dai propri bisogni, immagini difensive e schemi attributivi; b) i problemi del significato, vale a dire quelli relativi al farsi comprendere e a recepire accuratamente i messaggi degli altri. La c. non è soltanto lo scambio dei messaggi, ma è anche la creazione di rapporti reciproci, cioè di una piattaforma relazionale tra le persone in interazione. I fenomeni di dominazione e di alienazione che impediscono autentici contatti interpersonali e la mancanza di controllo delle dinamiche transazionali, che porta a situazioni di conflitto, possono facilmente costituire delle barriere che impediscono la creazione di significative relazioni interpersonali. Quando invece le persone si incontrano con rispetto, si riescono a controllare senza schemi difensivi; inoltre, quando sono in grado di stabilire rapporti paritari, ci sono le condizioni per significativi rapporti interpersonali. 4. Ricevente ed emittente nella c. La c. di messaggi impegna chi la riceve e chi la origina. Il primo richiede fondamentalmente alla persona di essere aperta nei confronti dei messaggi degli altri, impegnandosi a comprendere la c. dal loro punto di vista, ad essere attento ai messaggi ed al loro contesto comunicativo. Realizzare il ruolo di ricevente comprende anche c. di supporto, quali: riformulare, parafrasare, verbalizzare, confrontare, sintetizzare, ecc. Ricevere la c. dell’altro

non soltanto richiede che il ricevente si apra alla totalità della c. del partner e che realizzi un adeguato comportamento di supporto, ma che la interpreti appropriatamente. L’interpretazione della c. può essere facilitata se il ricevente esamina il tipo di messaggio (per es. descrittivo, valutativo), la sua corrispondenza alla realtà ed ai diversi contenuti in essa comunicati. Il ruolo di emittente riguarda la funzione di rendere comprensibili i messaggi, di realizzare un comportamento relazionale costruttivo e di comunicare in modo appropriato in riferimento all’intera situazione comunicativa. 5. Forme di c. di messaggio. Tra le forme di c. dei messaggi possiamo distinguere quelle che sono utilizzate per descrivere o riferire agli altri sulla realtà, per manifestarsi come portatore di esperienze e per trattare problemi in senso processuale. Nella c. descrittiva l’emittente è intenzionato a riferire sulla realtà agli altri come la vede e la valuta. In questo caso la c. è realizzata secondo il criterio della verità. Tra gli aspetti più importanti che l’emittente deve curare nella trasmissione perché sia rispettato il criterio della verità, vi è la formulazione dei messaggi in vista della comprensione altrui, che dipende prevalentemente dalla scelta delle parole dall’intero universo linguistico, dalla struttura sintattica e dalla loro unità totale. L’emittente può sentirsi facilitato a corrispondere al criterio della verità se comunica secondo i principi proposti della scala «amburghese della comprensibilità» (Schulz v. Thun, 1975), cioè se formula i messaggi rispettando il principio della semplicità, dell’ordine, della brevità e della stimolazione. La nostra vita è facilitata quando possiamo interagire rendendoci responsabili delle nostre esperienze. La trasmissione delle proprie esperienze e dei significati personali riguarda la c. rappresentativa, che rivela come le persone vivono il loro mondo in un determinato momento. Attraverso questo tipo di messaggi la persona comunica i suoi bisogni e le sue reazioni riguardo ai diversi aspetti della vita, senza pretendere che queste sue esperienze siano universalmente valide o significative. L’introdursi come persona che è portatrice di esperienze soggettive non è facile in un clima di competitività, per il timore di mostrarsi deboli o senza controllo. La trasmissione 231

COMUNICAZIONE

dei significati non riguarda solo il fatto di riferire sulla realtà secondo il criterio della verità o di prendersi la responsabilità delle proprie esperienze, ma è spesso realizzata allo scopo di raggiungere delle mete nell’interazione con gli altri. In questo caso possiamo parlare della c. processuale attuata per conseguire obiettivi comuni nella vita con gli altri. In particolare si può trattare per es. della c. regolativa, quando si fa riferimento all’organizzazione dell’interagire sociale, e della c. strategica, attuata per raggiungere degli scopi nella c. con gli altri. 6. La dimensione relazionale. Un altro aspetto del comportamento di trasmissione riguarda la dimensione relazionale, cioè il modo di comunicare dell’emittente, che rivela come egli stabilisca il rapporto riguardo agli altri nella situazione comunicativa. Quando l’emittente formula messaggi in modo descrittivo, orientato al problema e agisce spontaneamente in modo paritario, allora si instaura un clima di fiducia e apertura reciproca con le persone in c. Al contrario, quando l’emittente interagisce in modo valutativo, quando cerca di esercitare un controllo, usa strategie manipolative e non si coinvolge come persona; allo stesso tempo, quando dimostra superiorità ed assume atteggiamenti rigidi e dogmatici, facilmente può creare un clima di difesa. Un ultimo aspetto riguarda il rispetto del criterio della appropriatezza riguardo al contesto comunicativo. La più efficiente c. può fallire gli obiettivi desiderati se l’emittente non rispetta il contesto in cui le persone si trovano in quel momento. Comunicare per es. contenuti negativi alle persone, in presenza di altri, può facilmente costituire un’umiliazione e sviare su argomenti fuori del tema in oggetto. 7. La finalizzazione della c. La c. non soltanto riguarda la trasmissione dei messaggi per trattare la realtà, ma comprende anche strategie relazionali e comunicative per rendere la vita più significativa con gli altri. Tra gli scopi che le persone possono perseguire possiamo elencare i seguenti: ottenere informazioni, controllare il processo comunicativo, cercare affinità, dare messaggi per confortare o consolare, superare situazioni conflittuali, essere ingannevole o ingannare per raggiungere scopi che non si prevede altrimenti di 232

poter raggiungere. Quando le persone non dispongono delle strategie o forme comunicative per raggiungere gli obiettivi nelle relazioni reciproche, facilmente queste relazioni possono diventare insignificanti o perfino disturbate. Nel corso dei training intrapresi dalle persone, al fine di essere più efficienti per comunicare nei loro rapporti interpersonali, si constata spesso come le barriere siano dovute per lo più ad esperienze sfavorevoli o negative pregresse, principalmente nella prima infanzia. 8. La c. personalizzata. Attualmente si trovano molti contributi riguardo alla c. personalizzata allo scopo di aiutare le persone a diventare più sane. Le relazioni personalizzate coinvolgono le storie personali e il futuro immaginato. Creano un clima di «noi», in cui le persone possono interagire in modo reciproco e sviluppare stabili aspettative e strutture di interdipendenza (per es. sicurezza, fiducia). Le relazioni personalizzate portano a tre standard nell’interagire: cioè alla idea della positività, della intimità e del controllo. Risulta per es. che persone in positive relazioni interpersonali sono incoraggianti, allegre e riescono a essere congruenti in parole e fatti. Inoltre alcune ricerche circa l’essere coerenti, il confermare, l’integrare, il risolvere problemi, sono tipiche delle persone che vivono relazioni personalizzate. Un’altra qualità che caratterizza le c. personalizzate consiste, per alcuni studiosi, nel fatto che tra le persone esiste un notevole livello di espressione di intimità. È da notare, al riguardo, che l’espressione di intimità spesso è più facile da realizzare a livello non-verbale che a livello verbale. L’essere controllate richiede, da parte delle persone in interazione, la capacità di anticipare quello che può succedere nel futuro e quella di intervenire su ciò che può succedere. 9. Gli aspetti differenziali. Un problema molto discusso nella c. riguarda gli aspetti differenziali dell’interagire legati allo sviluppo della c. e ai diversi insiemi comunicativi. Per quanto riguarda lo sviluppo della c. è da dire che la spontaneità e la libertà di interagire sono notevolmente incrementate quando le persone si conoscono e sanno anche prevedere le reazioni vicendevoli. Quanto agli aspetti differenziali che fanno riferimento

COMUNICAZIONENON VERBALE

a tipiche forme di vita, è ancora più difficile parlare. Infatti la c. nella famiglia, nella scuola, nei posti di lavoro, nelle istituzioni sociali (per es. in un pensionato, nell’ospedale, in parrocchia) hanno delle particolarità non facili da esporre. Oltre a dover possedere le necessarie strutture di c. appropriate al tipo di sistema sociale (per es. famiglia, scuola) si richiedono anche delle condizioni materiali (per es. strutture, servizi, tempo, interessi) per interagire. 10. La formazione alle competenze comunicative. In base alle esperienze degli studiosi circa le difficoltà di c. vengono offerti training di c. ai quali le persone possono partecipare allo scopo di acquisire competenze fondamentali, strategie comunicative per autopresentarsi o per convincere, tecniche per risolvere conflitti, competenze per trattare problemi relazionali. Prendendo atto che, essendo le competenze comunicative delle strutture complesse, non è facile acquisirle, perché comprendono componenti cognitive, emozionali e comportamentali. Le difficoltà sono soprattutto legate alla personalità dei partecipanti al «training» ed alle situazioni di apprendimento. Per quello che riguarda il primo aspetto nella situazione di «training» si creano i problemi che ognuno ha in genere nello stabilire relazioni significative. Si nota di frequente che i «training», che promettono un profitto immediato, perdono spesso di vista che le competenze comunicative possono essere utilizzate soltanto se le persone dispongono anche di una discreta funzionalità psichica. Riguardo alla situazione di apprendimento, bisogna tener presente che non sono soltanto da curare le dinamiche interpersonali capaci di sostenere il lavoro del gruppo e di ogni partecipante, ma anche il lavoro specifico relativo all’acquisizione di competenze comunicative, evitando – come spesso accade – che si ponga tanto impegno nelle prime al punto che per il lavoro vero e proprio resta in genere troppo poco tempo. 11. Prospettive e vie di sviluppo. Come nella psicologia in genere, anche nella c. si può notare che le ricerche per migliorare la c. tra le persone sono impostate secondo diversi schemi antropologici e convinzioni metodologiche non sempre convergenti. Se da un lato è vero che si possono maggiormente co-

noscere gli aspetti comunicativi a causa delle diverse concezioni antropologiche e la scelta dei metodi di ricerca, è d’altra parte anche vero che è difficile trovare un consenso circa un orientamento comune per impostare lo sviluppo della c. Forse il ripensare come porre la domanda antropologica e come decidere su questioni metodologiche potrebbe aiutare a situare la c. in una prospettiva di studio in cui si potrebbero contemperare le esigenze della persona e degli interlocutori nella giusta misura. Bibl.: Gibb J. R., Defensive communication, in «Journal of Communication» 11 (1961) 141-148; Schulz V. Thun F., Verstandlich informieren, in «Psychologie Heute» 2 (1975) 42-51; Franta H. - A. R. Colasanti, L’arte dell’incoraggiamento. Insegnamento e personalità degli allievi, Roma, NIS, 1991; Becciu M. - A. R. Colasanti, La leadership autorevole, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1997; Heider F., Psicologia delle relazioni interpersonali, Bologna, Il Mulino, 2000; Becciu M. - A. R. Colasanti, L’altro nella c., in «RES» 4 (2002) 39-46; Colasanti A. R., «La c. educativa», in Z. Trenti (Ed.), Manuale dell’insegnante di religione, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2004; Becciu M. - A. R. Colasanti, La promozione delle capacità personali, Milano, Angeli, 2004.

H. Franta

COMUNICAZIONE DI MASSA → Comunicazione sociale → Mass Media

COMUNICAZIONE NON VERBALE La c.n.v. è di solito definita come il processo di c. attraverso l’invio e la ricezione di messaggi senza che siano presenti parole; tali messaggi, che sono a tutti gli effetti contenuti di c., sono costituiti da: gesti; linguaggio del corpo o posture del corpo ovvero il campo di studio della cinesica; espressioni facciali o mimica facciale, che include anche il contatto oculare; c. attraverso gli oggetti, quali possono essere l’abbigliamento, la scelta della pettinatura e anche la disposizione del proprio ambiente abitativo; i simboli e la capacità di disporre graficamente il proprio pensiero o infografica; la c. attraverso l’uso 233

COMUNICAZIONE PSICOLOGICA

dello spazio, o prossemica e il ritmo nel proprio eloquio o cronemica. 1. Alcuni autori includono nella c.n.v. i tratti prosodici del discorso come l’intonazione e l’accento. È più preciso includerli invece nella paralinguistica, con l’aggiunta della qualità della voce, dell’emozione nel flusso della parlata e dello stile di discorso. Di per sé la c.n.v. può aver luogo indifferentemente attraverso tutti i canali sensoriali, la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto e il gusto. A volte due o più canali sensoriali vengono coinvolti simultaneamente. 2. Lo studio scientifico della c.n.v., iniziato con la pubblicazione di Darwin: The expression of the emotion in man and animals, del 1872, ha avuto un rilievo sempre crescente. Nel 1960, Paul Ekman ha offerto un notevole contributo sulle espressioni facciali. I campi di applicazione di tale studio sono l’antropologia culturale, la psicologia e la pedagogia. In riferimento al campo psicologico, la c.n.v. è una componente di notevole importanza per lo studio della c. interpersonale in generale e della c. patologica in particolare, come hanno dimostrato la scuola di Palo Alto e gli studi di Paul Watzlawick. In riferimento al campo pedagogico, la c.n.v. è di rilievo per la comprensione dei fenomeni giovanili che comportano mode nell’abbigliamento, nella pettinatura e sul corpo, come dimostra il dilagare del tatuaggio e il piercing. Le → scienze dell’educazione attingono agli studi sulla c.n.v. anche per delineare proposte di dialogo intergenerazionale. Bibl.: A rgyle M., Il corpo e il suo linguaggio, Studio sulla c.n.v., Bologna, Zanichelli, 2002; Pease B. - A. P ease , The definitive book of body language, Des Plaines (Illinois), Bantam Books, 2006; Pacori M., Come interpretare i messaggi del corpo, Milano, De Vecchi, 52006.

C. Cangià

COMUNICAZIONE PSICOLOGICA Viene definita «psicologica» la c. che ha per oggetto il vissuto dell’altro in interazione. In un messaggio è possibile distinguere un significato denotativo che riguarda gli aspet234

ti referenziali ed informativi delle parole ed un significato connotativo concernente l’insieme degli eventi psicologici che le parole risvegliano nella nostra coscienza (OgdenRichards, 1966). 1. Per gli psicologi il significato denotativo è la relazione tra segno e oggetto cui si riferisce; il significato connotativo è la relazione tra il segno, il suo oggetto e un individuo. In alcuni casi, connotativo indica il significato totale del simbolo per l’individuo, in altri casi il termine viene assunto più specificatamente nell’accezione di significato emotivo. La c.p. fa riferimento al significato connotativo, considerando prioritaria l’esperienza soggettiva che determinati contenuti attivano nell’interlocutore. 2. La c.p. può essere definita come un processo interpersonale, transazionale e simbolico con il quale le persone in interazione raggiungono e mantengono una comprensione reciproca. Essa richiede la capacità di decentrarsi dal proprio Io per cercare di capire e di farsi capire. La c.p. si realizza, nel ruolo di riceventi, quando si comprendono gli elementi di natura emozionale, espliciti e taciti, presenti nel messaggio dell’altro, restituendoli a questi in modo più chiaro e differenziato; nel ruolo di emittenti, quando si considera l’effetto psichico e la risonanza emozionale che un nostro messaggio può avere per la persona che ascolta. Si esplica, pertanto, sia nel mettersi nei panni dell’altro al fine di comprendere il contesto di significati e di valori sottostante al suo universo espressivo, sia nel codificare il messaggio per l’altro, modulandolo sulle sue caratteristiche. Nella relazione di aiuto la c.p. si distingue dalla c. logica, che considera i contenuti del comunicato senza rapportarli allo sfondo esperienziale dell’interlocutore, e dalla c. scenica, che fa riferimento al materiale non simbolizzato. Bibl.: Ogden C. K. - I. A. R ichards, Il significato del significato, Milano, Il Saggiatore, 1966; Mizzau M., Prospettive della c. interpersonale, Bologna, Il Mulino, 1974; Franta H. - G. Salonia, C. interpersonale, Roma, LAS, 1990; Becciu M. - A. R. Colasanti, L’altro nella c., in «RES» 4 (2002) 39-46; Mizzau M., E tu allora?: il conflitto nella c. quotidiana, Bologna, Il Mulino, 2003.

A. R. Colasanti

COMUNITÀ EDUCATIVA/SCOLASTICA

COMUNICAZIONE SOCIALE C.s. è il termine utilizzato nell’Europa con­ tinentale per definire ciò che il pubblico in­ glese ed americano chiama mass communi­ cation. La c. di massa, parola coniata alla fine degli anni ’30, definisce quei processi comunicativi che attraverso particolari tec­n iche e mezzi consentono il simultaneo in­vio di messaggi ad una vasta audience sco­nosciuta ed eterogenea. Nel linguaggio comune, con essa si intendono i giornali, le riviste, il cinema, la televisione, la radio, la pubblicità, la pubblicazione di libri e l’in­dustria musicale. Ma si dovrebbe fare una distinzione tra → mass media e c. di massa. I mass media sono l’agenzia intermedia che permette alla c. di massa di aver luogo. Il termine «massa» può essere confuso con la «teoria della società di massa» ed il voca­bolo c. può essere confuso con la c. inter­personale. La c. di massa è più una categoria di senso comune usata per raggruppare vari fenomeni in modo non analitico. 1. La crescita della tecnologia della c.s. La crescita straordinaria della tecnologia e dell’industria dei mass media ha reso la c. di massa fondamentale nella nostra società. Viviamo infatti nell’«età della c.», dove l’in­ formazione è potere. Questa informazione viene trasmessa attraverso media potenti e ultrarapidi, che determinano cambiamenti nelle società, nelle sottoculture, nelle fami­ glie e negli individui. Vista la situazione, tutte le parti sociali si sono preoccupate dell’influenza della c. sulla società. 2. Effetti della c.s. La portata dell’influenza dei mass media sugli individui e la società è argomento di disputa, dato che le opinioni tra i ricercatori variano da chi la considera minima a chi molto forte. La stima di tale influenza non è mai stata facile, dato che gli esseri umani, oggetto di tali ricerche, so­no spesso imprevedibili. I giovani sono sta­ ti considerati più sensibili all’influenza dei media rispetto agli adulti. Un’area di ri­cerca molto ben sviluppata sugli effetti dei media è quella sulla violenza. La violenza nei media conduce ad un comportamento violento? Alcuni hanno dimostrato feno­meni di imitazione, altri parlano di catarsi. La maggior parte dei ricercatori ritiene che la c. di massa

(tramite gli agenti dei mass media) potrebbe avere un’eventuale in­fluenza negativa specialmente sulle giovani generazioni. Da qui l’importanza di una → e­ducazione ai media quale parte del pro­gramma di studi scolastici e del tempo libero. Bibl.: Black J. - F. C. Whitney, Introduction to mass communication, Dubuque, W. C. Brown Publishers, 21988; Wolf M., Teorie della c. di massa, Milano, Bompiani, 111992; H amelink C. J. - O. Linnè (Edd.), Mass communication research: on problems and policies, Norwood, Ablex Publishing, 1994, 309-322; O’Sullivan T. et al., Key concepts in communication and cultural studies, London, Routledge, 1994; Dominick J., Dynamics of mass communications: Media in the Digital Age with Media World DVD and Power Web, New York (NY), McGraw-Hill College, 92006; Vivian J. C., Media of mass communication, Boston, Addison-Wesley, 2006.

T. Purayidathil

COMUNIONE E LIBERAZIONE → Movimenti ecclesiali

COMUNITÀ EDUCATIVA/ SCOLASTICA La c., come tessuto di relazioni primarie, è l’ambiente naturale di alcune esperienze educative: la → famiglia, i gruppi di vario genere, le aggregazioni religiose. È stata assunta poi come criterio nelle iniziative di accoglienza, assistenza, recupero e riedu­ cazione. In questi ultimi anni viene propo­sta anche come «modello» organizzativo per le istituzioni scolastiche. Questo allar­gamento a tutto l’ambito educativo costi­t uisce una novità della pedagogia contem­poranea. 1. Fattori che concorrono all’emergere della c.e. Alla diffusione della c.e. concorrono tendenze sociali, intuizioni pedagogiche e criteri politici. Tra le prime vanno annove­rati l’estendersi della partecipazione e il bi­sogno di recuperare la dimensione personale in una società che privilegia gli aspet­ti tecnici e funzionali. Tra le intuizioni pe­dagogiche hanno influito soprattutto la ri­considerazione del ruolo del soggetto nel → processo educativo e, di conseguenza, del suo rapporto con gli 235

COMUNITÀ EDUCATIVA/SCOLASTICA

educatori, i con­tenuti e l’istituzione educativa. Dalla peda­gogia viene pure la valorizzazione dell’ → ambiente come fattore educativo: cioè la necessità di predisporre condizioni conver­genti di habitat, presenze, relazioni, pro­poste, attività e strutture che favoriscano i processi di crescita perché provocano una circolazione di valori umani e culturali al­ l’interno del gruppo, neutralizzano gli sti­ moli contrari troppo forti e stabiliscono un interscambio arricchente con le altre agen­zie educative e col contesto in cui l’isti­t uzione opera. A queste tendenze sociali e intuizioni pedagogiche corrisponde un’e­voluzione politica. Negli anni settanta pa­recchi Stati stabiliscono, per le scuole e le iniziative educative, la partecipazione dei genitori e la corresponsabilità del corpo degli educatori (→ organi collegiali). Nel modello comunitario inoltre confluiscono le correnti pedagogiche «laiche» e l’espe­rienza «cattolica». Quest’ultima contava nel suo patrimonio abbondanti indicazioni riguardo al coinvolgimento del soggetto, alla corresponsabilità degli educatori, al compito della famiglia e all’incidenza dell’ambiente. La c. diventa perciò elemento indispensabile nelle istituzioni educative della Chiesa (→ scuola cattolica). 2. Caratteristiche ed esigenze. Le caratteri­ stiche di ciascuna c.e. dipendono dal tipo di istituzione in cui opera (scuola, centro giovanile, convitto, iniziative di riabilita­ zione o rieducazione); dipendono pure dal programma educativo che si propone di svolgere (insegnamento, assistenza, forma­ zione professionale, attività libere); varia­no a seconda dei soggetti (tipo di giovani, proporzione tra giovani e adulti) e delle condizioni socioculturali (abitudini e capa­cità di partecipazione). Alcune esigenze, però, sono comuni a tutti i tipi di c.e. C’è in primo luogo il coinvolgimento attivo e, di conseguenza, la corresponsabilità reale, di tutti coloro che sono interessati al pro­g ramma: educatori, educandi e genitori, gestori e amministratori, organizzazioni di appoggio e forze sociali. Tale coinvolgi­mento tende a creare una mentalità o «cul­t ura» educativa comune e dunque una convergenza dei membri della c. sugli obiettivi, sui valori fondamentali e sui metodi, che si raggiunge non attraverso imposizioni isti­t uzionali, ma mediante la proposta, la di­scussione, i chiarimenti successi236

vi, la rifor­mulazione. Per prevenire il rischio dello → spontaneismo che comprometterebbe i fini istituzionali, vengono definiti i ruoli perso­nali e lo spazio degli organismi di → parte­cipazione. Così, mentre se ne favorisce l’iniziativa, si assicura il loro funzionamen­to organico. La c.e. diventa in questo modo un laboratorio dove, senza perdere di vista i fini e la relativa coerenza dei mezzi, si provano attività varie, si sperimentano va­lori nuovi e si collaudano forme di rap­porto fra persone e gruppi con caratteristi­che, responsabilità ed esperienze di vita di­verse. Perché la c.e. riesca a funzionare come istanza unificante delle risorse e fat­tori educativi si richiedono alcune condizioni. È necessaria una comunicazione cor­retta ed efficace tra i diversi membri e organismi. Nuoce la riserva, la disinforma­zione, il segreto non giustificato, la di­stanza. Non basta la comunicazione di uffi­cio. La c. per sua natura postula quella in­terpersonale. La dirigenza poi sottolinea il ruolo di animazione: risveglia l’interesse per il programma, suscita energie, favori­sce la comprensione sempre più adeguata dei fini, ripropone e riformula gli obiettivi immediati e a medio termine, discute i pro­cedimenti. 3. Compiti della c.e. Alla c. così composta e strutturata si affidano alcuni compiti. Il pri­ mo è elaborare, applicare e verificare il progetto educativo (→ progettazione edu­cativa). In esso esprime i valori che vuole realizzare e trasmettere, le esperienze che intende proporre e i metodi che privilegia. Il progetto è l’indicatore più convincente del grado di consapevolezza e condivisione che una c. ha raggiunto e, allo stesso tem­po, lo strumento più efficace per formarla e consolidarla. Alla c. si chiede anche di pen­sare, proporre e realizzare processi di for­mazione permanente per l’insieme, per le diverse componenti (genitori, educatori) e per gli individui, guardando alla maturazione personale e alla competenza educati­va. I due compiti enunciati ne inducono un terzo: stimolare la reattività culturale nei confronti di quei fenomeni che influiscono sulla condizione giovanile. Da ultimo spet­ta alla c.e. diffondere nel contesto sociale i beni educativi che va sperimentando. Man­t iene dunque collegamenti con gli organi­smi e le iniziative che nel territorio pro­muovono la crescita culturale della collet­tività e dei singoli.

CONCETTO

Bibl.: R eguzzoni M., La scuola come c., in «Ag­ giornamenti Sociali» 4 (1970) 281-292; Corradini L., La c. incompiuta, crisi e prospettive della parte­cipazione scolastica, Milano, Vita e Pensiero, 1979; Tonelli R., «C.e.», in J. Vecchi - J. M. Prellezo (Edd.), Progetto Educativo-Pastorale. Elementi modulari, Roma, LAS, 1983, 399-417; Franta H., Relazioni sociali nella scuola, Torino, SEI, 1985; Dalle Fratte G., Studio per una teoria pedagogica della c., Roma, Armando, 1991; Vecchi J., Pastorale giovanile, una sfida alla c. ec­clesiale, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992, 120-196; I d., Globalizzazione: crocevia della c. e., Torino, SEI, 2002.

J. E. Vecchi

COMUNITÀ TERAPEUTICHE In ambito clinico il concetto è introdotto e sperimentato, a partire dagli anni ’40, da Bion, Main Jones, quale metodo innovativo e rivoluzionario nei confronti della struttura ospedaliera classica. In Italia ha inizialmente larga diffusione nel campo delle tossicodipendenze. Per c.t. si intende un gruppo di persone riunite con il proposito di aiutarsi reciprocamente nel realizzare l’obiettivo comune di cura, risocializzazione e riabilitazione. 1. L’idea centrale, basata sull’assunto metodologico dell’apprendimento sociale e dell’auto-aiuto, è di utilizzare le risorse – strutturali, tecniche, personali – esistenti nell’ambiente di cura come leva di trasformazione dei comportamenti sociali e adattivi del soggetto. Questo implica la collaborazione attiva del residente al proprio ed altrui processo di cambiamento. Il processo decisionale è democratico e la struttura è tendenzialmente egualitaria. Le qualità personali degli operatori e dei residenti hanno lo stesso valore esperienziale delle specifiche competenze specialistiche. 2. La responsabilizzazione, la dignità e la fiducia sostituiscono i controlli eccessivi e le restrizioni. Il sistema di comunicazione interno mira a fornire continuamente il confronto e l’interpretazione del comportamento del residente per come viene percepito dagli altri. Questo processo di capacitazione co-

gnitiva è assunto sia dagli operatori che dagli altri residenti. Il centro della dinamica trasformativa è quindi costituito dalle relazioni interpersonali vissute ed elaborate all’interno della struttura. L’ambiente sociale, che di per se stesso assume la valenza terapeutica, promuove l’acquisizione della capacità di autoaccettazione e di comunicazione interiore come parte della realizzazione di sé e allarga le modalità del funzionamento anche nei contesti interpersonali e intersistemici esterni. Bibl.: Main T., La c.t. e altri saggi psicoanalitici, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1992; Pisanu N., «La ri-educazione del sociale nelle dipendenze», in T. A lbano. - L. Gulimanoska (Edd.), In-dipendenza: un percorso verso l’autonomia, vol. II, Milano, Angeli, 2007.

R. Fiore

CONCETTO Lo studio dei c. ha trovato largo spazio soprattutto nell’ambito della filosofia. L’interesse per l’argomento solo di recente è emerso nel settore della ricerca psicologica sperimentale, che ha inteso indagare come i c. si formino, come vengano utilizzati e da quali elementi siano definiti. L’argomento può anche essere individuato sotto altre voci come rappresentazione concettuale, classificazione o induzione. In ogni caso quando si parla di c., in genere ci si riferisce al significato o a quello che noi sappiamo di qualche cosa sia essa una parola o un oggetto/animale/persona. Sebbene sia ancora recente, la ricerca in questo campo è stata molto intensa e ha dato origine a diversi modelli interpretativi. Descriveremo questi modelli seguendo il loro sviluppo storico. 1. Dal c. classico all’interpretazione probabilistica, fino al modello degli esemplari conosciuti. Il punto di vista «classico» ritiene che un c. descriva la somma delle proprietà o delle caratteristiche necessarie e sufficienti per definire una categoria di esemplari e che quindi si possa dire che ogni elemento appartiene ad esso se possiede tali caratteristiche. A partire dall’inizio degli anni ’70, questa visione è stata sottoposta ad una severa cri237

CONCETTO

tica, sia teorica che sperimentale, da diversi studiosi. L’analisi teorica ha sottolineato che questa impostazione utilizza solo proprietà strutturali, trascurando quelle funzionali (fondamentali per molti c.), non si presta a poter definire c. con caratteristiche tali da farli appartenere anche ad altri c., non è utile nella definizione di c. non evidenti, siano essi comuni o scientifici (ad es., molti scienziati sono incerti se l’«Euglena» sia un animale o un vegetale o «il virus» sia un essere vivente o no). Anche prove sperimentali hanno messo in dubbio l’impostazione classica. Le ricerche sperimentali iniziali sembravano far pensare che non tutti gli esemplari di un c. posseggono allo stesso modo le caratteristiche definitorie necessarie e sufficienti come invece assumeva la posizione classica. Nel decidere se qualcosa apparteneva o no ad un c. fu rilevato un effetto di tipicità che ha ricevuto una precisa definizione da vari studiosi. Su tale effetto si basa il modello indicato come «modello del prototipo»: un c. è descrivibile come un elenco ponderato di caratteristiche più o meno probabili. I risultati sperimentali lasciavano pensare che nella decisione di attribuire un esemplare ad un c., i soggetti operavano un confronto fra le caratteristiche che tipicamente definivano una categoria o un c. e le caratteristiche percepite nell’esemplare in questione. Gli studiosi chiamarono «family resemblance measure» (misura della somiglianza categoriale) la frequenza delle proprietà che un esemplare condivide con altri della sua categoria. Questa misura cresce quanto più un esemplare condivide le caratteristiche che lo definiscono con altri della stessa categoria, mentre diminuisce quanto più le condivide con esemplari appartenenti ad un’altra. Il modello per caratteristiche semantiche prototipiche è stato radicalizzato e ulteriormente modificato con quello detto per «esemplari conosciuti». Un c. non sarebbe definito in base alle proprietà possedute, ma dagli esemplari di cui si è avuta esperienza. L’appartenenza di un singolo caso ad una categoria è determinata dal fatto che esso è sufficientemente simile a uno o a più esemplari conosciuti. Tanto la posizione che descrive i c. come un elenco ponderato di caratteristiche (punto di vista probabilistico), quanto quella con riferimento ad esemplari conosciuti (punto di vista esemplare) sono state soggette ad un’attenta analisi, verifica 238

e critica negli anni recenti. Anzitutto, il punto di vista probabilistico non sembra tenere nella dovuta considerazione il contesto. In secondo luogo, non assegna grande importanza alle «dimensioni» dell’oggetto, mentre ciò per alcuni casi può essere determinante. Inoltre, ha il limite grave di non sottolineare l’interdipendenza delle caratteristiche con cui un c. viene definito. Infine, si potrebbe ritenere che la definizione di un c. secondo un elenco di caratteristiche prototipiche, possa condizionare le modalità del suo apprendimento e cioè che una persona possa trovare più facile imparare categorie o c. che sono chiaramente distinguibili piuttosto che quelli che non lo sono. Tuttavia, è giusto ricordare che studi successivi non sono riusciti a provare tale relazione. Da ultimo, tutti i modelli che ricorrono alla definizione per caratteristiche non dicono nulla sulle costrizioni che tali scelte hanno o dovrebbero avere. Rispetto al modello del prototipo, il modello degli esemplari conosciuti è più sensibile a riconoscere una correlazione fra caratteristiche, tende meno facilmente ad eliminare caratteristiche non appartenenti ad un c. e non trascura l’importanza del contesto o della variabilità dei casi. Tuttavia è assai facile che esso ricada nel modello prototipico assumendo un esemplare come termine di paragone per qualsiasi caso. 2. Dai c. definiti per caratteristiche ai c. organizzati dalle teorie. Ricerche più recenti hanno rilevato che la dimensione «similarità» non è adeguata ad assimilare un esemplare ad un c. o categoria. Questo nuovo punto di vista sostiene che un c. è l’organizzazione di una conoscenza derivante da una teoria (o «paradigma») che il soggetto utilizza nei riguardi del mondo. In altri termini, riconoscere qualcosa come un esemplare di un certo c., non dipende tanto dalla similarità fra caratteristiche dell’esemplare e caratteristiche definienti un c., quanto dal fatto che il caso trova corretta ragione esplicativa in una teoria che definisce il c. Facciamo un esempio. Se chiediamo ad una persona comune di descriverci che cosa è la «vita», ella ci darà certamente una definizione diversa da quella che ci fornirà un medico, un filosofo oppure un bambino di nove anni. Questo modo di vedere sembra molto interessante in quanto chiarisce perché i c. possono essere partico-

CONCETTO DI SÉ

larmente adattabili. Elementi diversissimi potrebbero essere assimilabili ad uno stesso c. Le teorie ci permettono di individuare quali caratteristiche utilizzare per definire qualche cosa, di capire la relazione che stabiliamo tra c. Il fatto che noi assimiliamo cose diverse ad uno stesso c., trascurando il confronto di similarità fra caratteristiche, è stato confermato in recenti ricerche sull’evoluzione del modo di categorizzare dei bambini. Sebbene sembri più soddisfacente e promettente degli altri, questo approccio lascia ancora molti problemi aperti; per es.: Come si sviluppano i c.? Come si stabiliscono relazioni tra c.? Come avviene la costruzione di nuovi c. da altri utilizzati come elementi semplici? Molti c. non sono costruiti in astratto, ma sono profondamente radicati nel contesto sociale: come questi oggetti o eventi sono concettualizzati e utilizzati? La ricerca contemporanea tenta di fornire una risposta a questi interrogativi. Bibl.: Smith E. E. - D. L. Medin, Categories and concepts, Cambridge, Harvard University Press, 1981; Carey S., Conceptual change in childhood, Cambridge, MIT Press, 1985; Murphy G. L. - D. L. Medin, The role of theories in conceptual coherence, in «Psychological Review» 92 (1985) 289-316; Medin D. L. - A. Ortony, «Psychological essentialism», in S. Vosnadiou - A. Ortony (Edd.), Similarity and analogical reasoning, New York, Cambridge University Press, 1989, 179-195; Ross B. H. - T. L. Spalding, «Concepts and categories», in R. Sternberg (Ed.), Thinking and problem solving, Orlando, Academic Press, 1994, 119-148.

M. Comoglio

CONCETTO DI SÉ Il c.d.s. è una delle componenti fondamentali nelle teorie della → personalità e nell’educazione rappresenta uno degli obiettivi importanti della formazione umana. 1. Descrizione. Il c.d.s. consiste in una configurazione complessa di convinzioni, opinioni e atteggiamenti su se stessi e sulle informazioni provenienti da terzi e costituisce la struttura di base della personalità con i suoi attributi cognitivi e motivazionali. Esso può essere considerato anche come un contenito-

re del vissuto cosciente nel tempo. Lo schema iniziale del sé che si forma nell’infanzia facilita la classificazione delle esperienze individuali e delle informazioni provenienti dal di fuori del soggetto per essere assimilate e integrate in una struttura personale. L’assimilazione progressiva dei dati che si riferiscono al sé di un soggetto forma la sua continuità psichica. Il sé globalmente considerato viene distinto in sé esistenziale (io) e in sé categoriale (me). Nel suo primo aspetto il sé è il soggetto di tutti gli attributi e processi, nel secondo ne è l’oggetto (azione dell’io). Nel sé globale vengono distinti ancora altri due aspetti: strutturale e valutativo. Il primo aspetto si riferisce alla percezione globale o settoriale del sé, il secondo riguarda l’apprezzamento dei contenuti della struttura come tale nel suo esito positivo o negativo rappresentata dalla → stima di sé. 2. Struttura. Il c.d.s. globale viene articolato in aree in cui si realizza. Nell’età scolastica il c.d.s. viene suddiviso in due grandi aree: scolastica e non scolastica. La prima si suddivide a sua volta in singole discipline, mentre la seconda comprende la sottoarea fisica, sociale, familiare, personale ed altre ancora; nell’età adulta a tali aree si aggiunge quella professionale. Il c.d.s. viene articolato, anche in rapporto alla sua corrispondenza con la realtà, in sé reale e in sé ideale. Il sé reale consiste nell’adeguatezza della percezione individuale alla realtà, mentre il sé ideale si riferisce alle aspirazioni del soggetto. Il c.d.s. assume delle strutture differenti secondo il sesso, la razza, la classe sociale e l’età dei soggetti, ed in base a tali variabili può realizzarsi in gradi differenti dalla massima positività alla massima negatività (Hattie, 1992). Shapka e Keating (2005), notano che nell’adolescenza varie aree del c.d.s. incominciano a declinare, particolarmente quella scolastica a causa dei nuovi rapporti che si instaurano con il passaggio da livelli di scolarità meno impegnativi a quelli più impegnativi. Gli autori notano anche che l’andamento della curva del c.d.s. dalla preadolescenza alla giovane età assume la forma della lettera U. 3. Formazione. Il c.d.s. incomincia a formarsi in tenerissima età e si delinea con una certa chiarezza quando il soggetto è in grado 239

CONCETTO DI SÉ

di distinguere sufficientemente tra il sé fisico e il sé reale e incomincia ad interagire responsabilmente con i terzi. Nella formazione del c.d.s. intervengono quattro fattori: a) linguaggio: tutto quello che si riferisce alla personalità aiuta il soggetto a classificare e ad organizzare le sue esperienze; b) esito della sua attività: successo o insuccesso; c) giudizio delle persone significative sul suo modo di essere e di agire; d) identificazione del soggetto con i modelli ordinari (genitori, insegnanti) e straordinari (eroi): in tal modo egli assimila i valori dell’essere e del comportarsi. Anche la differenziazione del c.d.s. inizia presto: verso l’ottavo anno di vita i soggetti riescono a distinguere tra il proprio sé scolastico, sportivo, fisico e sociale. La distinzione tra sé reale e sé ideale, secondo Oosterwegel e Oppenheimer (1993) risulta sufficientemente chiara al sesto anno di vita. Il sé fisico svolge un ruolo importante nella formazione del c.d.s. in quanto i primi messaggi che giungono al soggetto sono basati sulla sua prestanza fisica; in relazione al suo schema corporeo egli può prevedere se sarà accettato o meno dagli altri e trarne le conseguenze. Nell’adolescenza, a causa delle notevoli trasformazioni fisiche le ragazze in particolare sperimentano l’incertezza del proprio valore personale e analogamente nella vecchiaia il c.d.s. viene assai modificato. La formazione del c.d.s. non avviene senza incertezze e conflitti. Le informazioni provenienti da terzi vengono selezionate, adattate, distorte prima di essere assimilate o integrate nel sé e il soggetto usa i più svariati meccanismi per proteggere il suo c.d.s. dalla svalutazione (→ autoillusione). Il c.d.s. non realistico, poco strutturato, poco integrato e poco consistente espone il soggetto al rischio di «vulnerabilità». In base ai nuovi dati e in base al cambiamento dell’ambiente sociale e culturale le strutture acquisite vengono sottoposte a revisioni anche nell’età adulta (trasformazione dei ruoli) per cui i soggetti che non sono in grado di operare adeguate trasformazioni rischiano il disadattamento e il deperimento psichico. Questi rischi possono essere evitati se il soggetto ha la fortuna di vivere in una famiglia nella quale il livello di conflittualità è basso, la comunicazione è molto valida e l’espressione dei sentimenti è spontanea. Questo favorisce la formazione del c.d.s. del figlio come risulta dalla ricerca 240

di Mestre, Samper e Pérez-Delgado (2001) condotta sugli studenti della scuola secondaria di II grado. 4. Rapporto con alcune variabili. Il c.d.s. è stato messo in rapporto con le variabili anagrafiche (sesso, livello socioeconomico), con alcune variabili familiari (clima e struttura della → famiglia) e con qualche costrutto (→ locus of control) (Hattie, 1992). È stato esaminato anche il rapporto tra c.d.s. e → autoefficacia determinandone somiglianze e differenze (Bong e Clark, 1999). Particolarmente importante è il rapporto del c.d.s. con il rendimento scolastico (Hattie, 1992). Tale rapporto è determinato da alcune variabili come il livello di scolarità e quello socioeconomico, le abilità e le materie scolastiche. Molto dibattuta è la questione se il c.d.s. positivo sia dovuto a un buon rendimento oppure se porti a un buon rendimento scolastico. Non vi è dubbio che tra le due variabili esiste una mutua dipendenza e la preponderanza di una variabile sull’altra dipende anche dal modo in cui viene gestito l’apprendimento da parte dell’insegnante; in tale rapporto interviene anche lo → stile di apprendimento dell’alunno stesso. Secondo Hattie (1992) gli alunni con uno stile versatile e con apprendimento profondo (opposto a quello superficiale) posseggono un c.d.s. alto. 5. Misurazione. Il c.d.s. viene rilevato prevalentemente tramite questionari (Hattie, 1992), ma esistono anche → scale di valutazione destinate agli insegnanti per misurare il c.d.s. degli alunni. Il limite di tali scale consiste nel fatto che non possono cogliere il vissuto del soggetto, ma soltanto gli aspetti del sé che emergono dal comportamento. Tra i dati rilevati con le due modalità (auto- ed etero-rilevazione) esiste solo un moderato rapporto. 6. Potenziamento. In base ad una metaanalisi di 89 studi Hattie (1992) sostiene che è possibile potenziare il c.d.s., ma l’effetto globale è modesto in quanto il miglioramento complessivo non supera il 10%. L’effetto migliore dell’intervento è stato ottenuto sull’autoaccettazione, seguito dall’aumento della stima di sé, mentre un effetto meno consistente si è verificato in relazione al sé familiare. L’intervento terapeutico basato sui processi

CONDIZIONAMENTO SOCIALE

cognitivi ha avuto un effetto maggiore di quello basato sui processi affettivi, ed è stato superiore sugli adulti che sui bambini e adolescenti: gli adulti in effetti sono più capaci di capire la propria situazione e di cambiarla. Gli psicologi, in confronto agli insegnanti ottengono risultati migliori in virtù della loro maggiore competenza. Infine, gli interventi collettivi condotti nelle singole scuole, sotto forma di campagna promozionale del sé, si sono rivelati quasi del tutto inefficaci. 7. Utilizzazione. Il c.d.s. positivo è un fattore fondamentale nell’adattamento personale e sociale di ogni individuo, è un valido presupposto per comportarsi secondo le aspettative sociali ed in tal senso può costituire un argine alla → devianza. Infatti un iniziale comportamento deviante porta ad una riorganizzazione del c.d.s. e all’assunzione di un nuovo ruolo (del fallito). Il costrutto rappresenta un’importante finalità dell’educazione in quanto in base ad un c.d.s. ben formato il soggetto può interagire efficacemente con il suo ambiente e, per mezzo delle positive valutazioni di terzi, potenziarlo insieme con la stima di sé. Oltre a contribuire all’apprendimento scolastico esso assume notevole importanza nella maturazione professionale dei giovani ed in particolare trova la sua collocazione nella teoria di D. Super che considera il c.d.s. un fattore importante della maturazione professionale e nello stesso tempo una realtà da potenziare da parte dell’educatore in vista della futura attività lavorativa. Bibl.: Poláček K., C.d.s.: descrizione e applicazioni, in «Orientamenti Pedagogici» 29 (1982) 629-637; H attie J., Self-concept, Hillsdale, Erlbaum, 1992; Oosterwegel A. - L. Oppenheimer, The self-system: developmental changes between and within self-concepts, Ibid., 1993; Bong M. - R. E. Clark, Comparison between self-concept and self-efficacy in academic motivation research, in «Educational Psychologist» 34 (1999) 139-153; Mestre V. - P. Samper - E. P érez-Delgado, Clima familiar y desarrollo del autoconcepto. Un estudio longitudinal en población adolescente, in «Revista Latinoamericana de Psicología» 33 (2001) 243-259; Shapka J. D. - D. Keating, Structure and change in self-concept during adolescence, in «Canadian Journal of Behavioural Science» 37 (2005) 83-96.

K. Poláček

CONDIZIONAMENTO Il termine c. ha un significato generico ed uno tecnico, specifico; come termine generico significa qualunque influsso esercitato da fattori esteriori o interiori su un data condotta; come termine specifico si riferisce al processo e al risultato di un determinato tipo di apprendimento, detto appunto e, che, come appare nella voce → apprendimento, può essere il c. classico che si richiama alle ricerche di Pavlov, o il c. operante, come è stato definito da → Skinner. 1. Anche la persona umana può essere soggetta ad un c. classico: basta che uno stimolo di per sé indifferente sia regolarmente associato ad una situazione soddisfacente o negativa, perché tale stimolo giunga automaticamente ad avviare uno stato emotivo, senza l’intervento di fattori personali coscienti. Quanto al c. operante, e cioè l’acquisizione di nuove disposizioni e capacità in grazia di ricompensa o castigo, è chiaro che esso viene ampiamente adoperato in educazione e nel contatto sociale. 2. Il significato educativo del c. è ambivalente: come processo di acquisizione di abitudini, assume anche il pregio di queste, cioè quello di facilitare condotte utili, rendendole immediate e scorrevoli; non si può tuttavia condividere senza riserve la concezione di Skinner, secondo cui l’educazione sarebbe tutta questione di un c. ben guidato, fino all’automatizzazione delle condotte desiderabili: nell’uomo si deve riconoscere un’ulteriore istanza di controllo, che può assumere le abitudini per realizzare intenzioni generali. Bibl.: Visalberghi A. (Ed.), Educazione e c. sociale, Bari, Laterza, 1964; Corsini M. - M. Famiglietti, Scuola media e c. sociale, Roma, Ministero della PI, 1967; Skinner B. F., Walden Due. Utopia per una nuova società, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995.

A. Ronco

CONDIZIONAMENTO SOCIALE È anzitutto necessario chiarire quale possa essere un approccio corretto all’espressione c.s. Solitamente c. è collegato ad → appren241

CONDORCET JEAN-ANTOINE-NICOLAS

dimento e indica le modalità che intervengono per l’acquisizione di comportamenti. L’aggiunta dell’aggettivo «sociale» ed il riferimento all’ambito della riflessione sociopedagogica, fanno sì che si debba chiamare in causa il processo di socializzazione che generalmente accompagna l’apprendimento dei comportamenti sociali. Ma parlare di c. in riferimento al processo di socializzazione è improprio; sarebbe più esatto parlare di adattamento. Un vero e proprio c.s., invece, si verifica nel caso in cui una struttura di potere reprima le opportunità individuali, o una struttura culturale troppo rigida e legata al passato impedisca forme di innovazione o, ancora, se l’ambiente fisico renda problematica la sopravvivenza. In situazioni normali, nelle quali non incorrano questi fattori, se si usa l’espressione c.s., bisogna assumerla come un processo propositivo. 1. La persona è sociale per sua natura e non può esistere che «situata», inserita cioè in una realtà sociale, culturale e ambientale determinata, che aiuta l’individuo a sviluppare le sue potenzialità sociali naturali. La Persona viene gradualmente permeata dalla → società che, attraverso il suo sistema culturale, fornisce soluzioni già sperimentate ai problemi della vita e mediante le reti di relazioni personali e istituzionali sviluppa atteggiamenti e comportamenti legati ai diversi ruoli sociali. Tutto questo avviene secondo modalità costrittive, perché si risponda fedelmente alle attese legate al ruolo e allo status di ciascuno. La società, tuttavia, non è soltanto qualcosa di esteriore alla persona e le pressioni o i controlli che esercita non possono essere intesi in senso esclusivamente costrittivo. La società diventa anche qualcosa di interiore che penetra nel profondo delle persone e ne modella l’identità; non si è solo costretti alla sottomissione, si è anche attratti dagli obiettivi e dagli ideali che la società propone. Nell’esperienza sociale si sperimentano situazioni gratificanti e si scopre che il vivere sociale è connaturale alle nostre esigenze e capace di soddisfare i nostri bisogni. Il c.s. deve quindi essere inteso come una condizione necessaria per lo sviluppo positivo delle potenzialità e per far conseguire delle abitudini e degli atteggiamenti che orientino e rendano abbastanza sicuri i comportamenti. 242

2. Fatte queste precisazioni concettuali di base, non si possono tacere altri orizzonti di lettura del c.s. che inquina attualmente il processo educativo e la vita sociale delle persone. Il sistema educativo formale è sempre più condizionato dalla logica del mercato e si struttura in funzione del mercato e non tanto come diritto al senso e costruzione di senso. La vita umana, inoltre, nella sua fase di diffusione globale, priva un numero sempre crescente di esseri umani di «modi e mezzi, finora sufficienti, di sopravvivenza», accrescendo sempre più la produzione di «rifiuti umani» di «vite di scarto», come dice Bauman. Bibl.: A llport G. W., Psicologia della personalità, Zürich, PAS-Verlag, 1969; Fichter J. H., Sociologia, strutture e funzioni sociali, Roma, Onarmo, 31969; Berger P. L., Invitation to sociology. A humanistic perspective, New York, Anchor Books, 1972; Balbo L. et al., Complessità sociale e identità, Milano, Angeli, 1983; Bauman Z., Vite di scarto, Bari, Laterza, 2005.

V. Orlando

CONDIZIONE GIOVANILE → Giovani

CONDORCET Jean-Antoine-Nicolas n. a Ribemont nel 1743 - m. a Bourg-la-Reine nel 1794, matematico e sociologo francese. 1. Si formò con i gesuiti nel collegio di Navarra. Entrò nell’Accademia delle Scienze di Parigi, della quale fu segretario perpetuo, nel 1769; partecipò all’Assemblea Legislativa e alla Convenzione Nazionale. Accusato dai giacobini, fu tradotto in carcere, dove morì il giorno dopo. La sua formazione matematica e il suo interesse per la dinamica sociale lo portarono ad applicare i metodi scientifici alle scienze sociali. La sua opera più nota è Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, pubblicata postuma nel 1795. All’avvento della Rivoluzione francese, C., come molti altri intellettuali della sua generazione, partecipò attivamente alla discussione dei progetti e dei piani educativi necessari nella nuova società. Scrisse cinque memorie su questo tema e presentò all’Assemblea Legislativa un Rapport sur

CONFLITTO

l’Instruction publique (1792), distante nella sua strutturazione sia dai conservatori che dai radicali. 2. Partendo dalle idee di Talleyrand, difende il principio secondo il quale senza educazione la libertà e la legalità saranno pure chimere. I popoli che giungono alla libertà nell’ignoranza, sono minacciati dal dispotismo e dall’anarchia. C. evita di cadere nell’utopia di un’istruzione pubblica identica in grado di livellare tutti i cittadini. Difende la necessità che il più povero e il più umile acceda ad un’educazione che gli consenta di essere indipendente e di agire di propria iniziativa. Un’istruzione liberale dovrebbe, secondo C., rispettare scrupolosamente la diversità di opinioni e dedicarsi a trasmettere nell’insegnamento le conoscenze positive della verità, lasciando ai genitori la scelta del tipo di → educazione morale e religiosa che desiderano per i propri figli. 3. L’obbligo primario dello Stato sarà quello di assicurare l’emancipazione intellettuale e morale del fanciullo ed il libero sviluppo delle sue facoltà; non sarà lo Stato a decidere i principi filosofici, morali e politici che debbono essere inculcati ai cittadini. Il suo dovere non consiste nell’influenzare la coscienza infantile, bensì nel metterla in condizione di conoscere tutte le idee e le opinioni per poter scegliere tra di esse. 4. La formazione religiosa sarà riservata alla → famiglia. Nella scuola si insegneranno solo le leggi costituzionali comuni a tutti i cittadini e si impartirà la medesima educazione a tutti gratuitamente per i primi quattro anni. Alcune delle idee moderate di C. influenzarono le riforme educative del sec. XIX. Bibl.: Vial F., C. et l’éducation démocratique, Paris, Delaplane, 1902; Cahen C., C. et la Révolution française, Paris, Alcan, 1904; K intzler C., C., L’instruction publique et la naissance du citoyen, Paris, Le Sycomore, 1984; Ortiz J. M., C., un alumno de Navarra: el último ilustrado, Pamplona, Serv. de Publ. Universidad de Navarra, 1991.

B. Delgado

CONDOTTA → Comportamento CONFESSIONE → Sacramenti

CONFLITTO La persona sperimenta il c. quando è motivata ad attuare due o più attività che si escludono vicendevolmente. Si tratta pertanto di situazioni nelle quali si vorrebbero attuare simultaneamente comportamenti incompatibili come avvicinarsi ad una persona e distanziarsi da essa, parlare schiettamente e trattenersi dall’esprimersi per paura di offendere, intrattenere il pensiero che i criminali meritano compassione e pensare che dovrebbero essere mandati su un’isola deserta. 1. Il c. psicologico. Nella letteratura psicologica il c. ha un’importanza centrale nelle → nevrosi, nei disturbi psicosomatici, nelle deviazioni sessuali, nelle psicosi funzionali e in diverse forme di patologia sociale, come nei fallimenti matrimoniali, educativi e professionali. La teoria psicoanalitica dà molta importanza al c. tra gli istinti sessuali regolati dalla società e gli istinti biologici. Essa sostiene che la nevrosi è il risultato della repressione dei desideri libidici mediante l’ → ansia e che lo sviluppo della personalità non è altro che la risoluzione di una serie di c. tra le inibizioni sociali e le esigenze degli istinti biologici. Uno dei modi più costruttivi di risolvere i c. psicologici sarebbe la sublimazione mediante la quale le spinte libidiche represse si scaricherebbero attraverso attività socialmente utili, come quelle artistiche, scientifiche o il lavoro. I teorici della psicologia dell’io hanno dimostrato che l’interesse sociale nella scienza, nell’arte e nel lavoro possono essere indipendenti dallo sviluppo libidico. Anche i teorici psicoanalitici di orientamento culturale hanno proposto spiegazioni alternative a quelle di → Freud. Ad es. → Horney sostiene che lo sviluppo della personalità riguarda essenzialmente la sicurezza e che nelle situazioni sociali, che sono fonte di minaccia, le strategie per affrontarle possono essere esagerate e trasformarsi in c. → Lewin ha distinto tre tipi di c.: a) il c. nel quale la persona si trova tra due aspirazioni con valenza di segno positivo; b) il c. nel quale la persona si trova di fronte ad un’aspirazione che ha valenze positive e negative; c) il c. nel quale la persona si trova di fronte a due aspirazioni tutte e due di valenza negativa. Questi tipi di c. sono noti come c. di 243

CONFLITTO

vicinanza-vicinanza, vicinanza-evitamento, e evitamento-evitamento. Ai tre c. è stato aggiunto un quarto: vicinanza-evitamento doppio. Il c. vicinanza-vicinanza è quello rappresentato dalla «parabola» dell’asino di Buridano, che, di fronte a due mucchi di fieno, non seppe decidersi da quale mucchio mangiare e che perciò morì di fame. Di solito questo tipo di c. è risolto facilmente perché l’equilibrio non è stabile e così anche un piccolo spostamento verso una delle due aspirazioni tende a potenziare la valenza positiva. Il c. vicinanza-evitamento tende ad essere stabile perché le due aspirazioni si contrappongono l’una all’altra in modo che una mossa di avvicinamento produce un aumento della valenza negativa e un movimento compensatorio di evitamento e viceversa. Il c. può generare molta incertezza e vacillazione; è il c. del bambino che deve eseguire un compito spiacevole per avere un premio. Oltre a sentirsi vacillante tra le due possibilità il bambino cercherà di fare il meno possibile e perderà il premio o cercherà qualche mossa evasiva. Il c. evitamento-evitamento è risolto con difficoltà e lentamente; spesso si conclude in un blocco. L’esempio tipico è quello del bambino che deve eseguire un compito, che non gli piace, sotto la minaccia di punizione. Il bambino tenta la fuga e se quella non è possibile, Lewin sostiene che le scappatoie più probabili sono che il bambino si chiude in se stesso o esplode emotivamente. Anche il c. vicinanza-evitamento doppio, che si manifesta in situazioni nelle quali vi sono due attrattive ognuna con tendenze di vicinanza-evitamento, tende a produrre situazioni di blocco. Esso ha notevoli ripercussioni controproducenti quando una o tutte e due le aspettative sono inconsapevoli; spesso il desiderio di una delle attrattive suscita la paura inconscia di perderle tutte e due e così la persona finisce in un doppio c. vicinanzaevitamento. È la situazione caratteristica nella quale si trova un uomo attratto consciamente da due donne ma inconsciamente impaurito da tutte e due, e quindi non si tratta di un semplice c. vicinanza-vicinanza come potrebbe apparire. Il c. psicologico, essendo dentro la persona, si riduce in ultima analisi a un problema di confronto e scelta tra valori e non implica necessariamente interazioni con altre persone o gruppi. Tuttavia il c. interno può essere visto come c. tra diverse 244

parti interne e in quel senso può avere connotazioni relazionali e interpersonali. Quando si esaminano gruppi e organizzazioni, i c. possono essere visti a diversi livelli sistemici: da un lato si può guardare al sistema dei componenti del gruppo o dell’organizzazione e si tratta di c. sociali; ma d’altro canto il c. esterno può essere esaminato dalla prospettiva di un altro livello sistemico, quello dell’individuo, come una espressione analoga del c. interno all’individuo. Una persona che non ha fatto i conti con i c. normativi dentro se stessa, facilmente può interpretare i processi relazionali e interpersonali secondo i significati dei propri c. interni e, ad es., leggere un invito da parte dell’autorità come una imposizione. In altri termini ogni persona nel gruppo potrebbe rispondere non solo agli stimoli oggettivi esterni, fonte di c. sociale, ma anche alle proprie proiezioni interne. In questo senso molti c. interni possono essere visti come c. importanti in senso sociale. 2. Il c. sociale. Due processi strettamente collegati si manifestano in qualsiasi situazione di rapporto umano: un processo conflittuale e un processo integrativo. Quando due persone o gruppi si incontrano, essi possono scegliere di relazionarsi in termini conflittuali o in termini integrativi di collaborazione e reciproco sostegno. Ma i due aspetti non si elidono a vicenda. Se l’incontro iniziale è conflittuale, si sviluppano regole minime di intesa, se non altro l’intesa di non intendersi. Se invece l’incontro è essenzialmente integrativo, necessariamente si svilupperanno dinamiche conflittuali, perché si dovranno comporre le esigenze del gruppo come tale e le esigenze degli individui che lo compongono. Per tal motivo diversi studiosi concordano che là dove esiste l’idea di comunità immancabilmente esiste anche l’idea di c., perché è necessario far fronte a due funzioni incompatibili allo stesso tempo. Il c. avrebbe la funzione di legare insieme gli elementi (persone o gruppi) che prima erano separati e ora agiscono insieme. Il c. di solito si sviluppa quando almeno uno degli elementi della comunità o gruppo si rende conto che una o più aspirazioni o preferenze o strumenti per raggiungere i propri scopi è minacciata od ostacolata dalle intenzioni o dalle attività di uno o più elementi del gruppo o della

CONFLITTO

comunità. Un tipo di c. particolarmente importante è quello che si sviluppa quando un elemento (individuo o sottogruppo di un insieme di gruppi) cambia così ampiamente il campo dell’altro che quest’altro reagisce e la reazione a sua volta cambia il campo del primo elemento che provoca un’altra mossa da parte dell’altro e così via (Boulding, 1962, 25). L’elemento A percepisce, a torto o a ragione, di essere minacciato dall’elemento B. Mentre A ritiene di assumere una posizione protettiva, B la interpreta come offensiva e minacciosa. Quando B risponde «difensivamente», A, che ora ritiene di avere una conferma dei suoi timori iniziali, si attiva ancora di più e il c. si acuisce. Con l’aumento delle minacce e delle offese, non rimane che l’alternativa di lottare fino in fondo, finché uno degli elementi viene costretto a cedere. Se però col crescere delle incomprensioni e delle ostilità lo scotto che si deve pagare aumenta ed è eccessivo per tutti e due gli elementi, il c. diminuisce, ma lascia strascichi di disagio, ansia, timori e presto o tardi il c. riemerge. Se non si trovano soluzioni di reciproca soddisfazione, il c. può sfociare nell’oppressione dell’altro o nella separazione dall’altro e nella disgregazione della comunità. 3. Composizione del c. Diverse strategie sono adottate per operare processi di integrazione quando ci sono c. o prospettive che insorgano. Una strategia è quella di forzare l’altro alla sottomissione sulla base dell’assunto che l’altro «accetta» la soluzione; così si arriva ad una integrazione che però produce una relazione coercitiva. Se l’elemento in causa non accetta la coercizione, e neppure vuole apertamente opporsi, si sviluppa la resistenza passiva, che di solito ha effetti distruttivi sulla comunità in quanto si sviluppano fini e metodi procedurali incompatibili e spesso sconosciuti all’altro; viene meno una intesa contrattuale esplicita. Più comuni e accettate sono invece le strategie di composizione consensuale o di prevenzione mediante la creazione di contratti, di statuti che regolano i comportamenti, di costituzioni che stabiliscono gli orientamenti di base dell’attività della comunità, l’introduzione nelle intese esistenti di articoli di incorporazione, di confederazione, la concessione di autonomie e così via. Le intese non sono necessariamen-

te scritte. Quanto un’intesa integrativa possa essere valida o possa durare dipende da diversi fattori: a) dal potere o dalla volontà da parte di ogni elemento di imporre la propria volontà; b) dall’insoddisfazione evocata o dalle penalità inflitte, dal tipo di rapporto esistente tra gli elementi legati insieme; c) dall’esperienza che altre intese precedenti sono state efficaci per gli elementi coinvolti. In genere se gli elementi A e B sono ugualmente forti e ugualmente insoddisfatti del loro rapporto contrattuale e sono ugualmente convinti che il separarsi comporta elevati costi, allora l’intesa raggiunta probabilmente sarà duratura; gli elementi che compongono la comunità non avranno interesse a essere puntigliosi nelle interpretazioni dell’intesa e possono anche violarla se non ci sono grossi rischi di essere scoperti; comunque intese di questo tipo anche se durature tendono ad avere bassa efficacia. Se invece A è potente e soddisfatto del rapporto con B, ma B è debole e insoddisfatto, è probabile che l’intesa duri ed essendo B debole, l’efficacia dell’intesa sarà probabilmente buona perché A sarà in grado di esigere l’osservanza dell’intesa; l’intesa sarà caratterizzata da molti piccoli c. di rivendicazioni, ci sarà notevole c. nascosto e notevole tensione. B col passare del tempo si sentirà frustrato e se si sentirà forte ritornerà all’attacco, a volte anche come pretesto per separarsi e andarsene. L’abbandono in questo caso spesso deriva anche da una illusoria convinzione di poter punire A per una relazione così poco rispettosa. Se però B continua ad essere debole e diminuisce l’insoddisfazione, col passare del tempo potrebbe accettare come normale la nuova situazione e considerare appropriate diverse vie istituzionali per affrontare i c. Il tempo in questo caso favorisce «l’usurpatore». Nel caso in cui A avesse molto potere, ma non lo volesse usare per imporsi a B, A facilmente potrebbe abbandonare B al suo destino se le perdite derivanti dall’abbandono non fossero significative per A. Nella discussione appena riportata un assunto di base è che una comunità dura se le parti che la compongono ottengono dalla relazione la soddisfazione desiderata. Tale soddisfazione dipende di solito dal quadro di valori che i diversi componenti della comunità intrattengono; tali valori spesso sono espressi in uno statuto, in una costituzione o in altro documento 245

CONFORMISMO

contrattuale accettato dai componenti della comunità. 4. Le intese democratiche. Nelle società occidentali viene dato molto peso all’intesa consensuale piuttosto che a quella coercitiva. La differenza tra consenso e coercizione dipende dal grado nel quale la coesione e la gestione dei c. è democraticamente decisa piuttosto che imposta unilateralmente. Ma dipende pure dal grado nel quale la forza, che eventualmente si usa, deriva dal consenso della maggioranza dei componenti della comunità; se viene usata per gli scopi e secondo i limiti consensualmente sanciti; e se vi è un adeguato livello di protezione per le minoranze dissenzienti. 5. Il c. in campo educativo. L’educazione è rivolta all’azione e si confronta necessariamente con il normativo. La popolazione che l’educatore incontra spesso ha origini etniche, culturali, sociali diverse che superano anche i confini nazionali e continentali e pone dei problemi normativi di alto potenziale conflittuale. Nel processo di socializzazione di cui l’educatore è investito, il compito della integrazione di molteplici elementi normativi conflittuali richiede interventi complessi. Nella società moderna tale complessità si presenta anche all’interno di popolazioni appartenenti alla stessa cultura, per il continuo sovrapporsi di subculture a causa di spostamenti migratori, soprattutto per ragioni di lavoro. L’educatore viene quasi naturalmente investito del compito integrativo e dal successo del suo lavoro può dipendere in modo importante l’agibilità della convivenza umana. Bibl.: Boulding K. E., Conflict and defense: A general theory, New York, Harper, 1962; Grottanello V. L., Gerarchie etiche e c. culturale, Milano, Angeli, 1976; Dahrendorf R., Il c. sociale nella modernità, Bari, Laterza, 1988; Disanto A. M. Il c. educativo, Roma, Borla, 1990; Novellino M., C. intrapsichico e ridecisione, Roma, Città Nuova, 1990; Delle D onne M., Immigrazione in Europa: solidarietà c., Roma, Dipartimento di Sociologia della «Sapienza» di Roma, 1993; Gadotti M., Pedagogia: dialogo e c., Torino, SEI, 1995; Cesareo V., L’altro: identità, dialogo e c. nella società plurale, Milano, Vita e Pensiero, 2004.

P. Scilligo

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CONFORMISMO Il c. si può definire come una accettazione passiva delle norme di comportamento o delle idee del gruppo a cui si appartiene. Esso indica anche l’esecuzione incondizionata degli ordini di un’autorità riconosciuta. 1. Oggi il fenomeno è molto diffuso nella società che è dominata dai → mass media: però, di solito in questo caso si parla più di conformità che di c. Invece l’elemento di base del c. è la rinuncia del soggetto a pensare in modo autonomo, ad agire personalmente, ad esercitare in maniera libera la propria volontà e responsabilità: in altre parole, si tratta dell’accettazione passiva e acritica dei comportamenti, degli atteggiamenti, e delle idee degli altri. Per alcuni psicologi, come per es. → Fromm, il c. risponde ad un profondo bisogno dell’uomo, quello di superare l’isolamento e la propria solitudine. Il legame con il gruppo, in quanto assicura una certa solidarietà ed identificazione, può appagare tale esigenza, e l’individuo attraverso l’adozione passiva dei modelli culturali offerti può così arrivare sino ad annullarsi semplicemente e felicemente nel gregge. Ma il c. si paga sempre con la perdita della propria personalità autentica. 2. Quando la sociologia studia il c. solitamente concentra la sua attenzione sui modelli di condotta. Molti processi di c. possono di fatto essere analizzati come tipi di comportamento funzionale. I canali principali per acquisire i modelli di condotta sono sostanzialmente tre. Il primo, e forse il più importante, è la → famiglia, che è appunto il luogo sociale dove si formano quelle rappresentazioni di valore, quei comportamenti e quelle aspettative destinate a lasciare un segno indelebile nella personalità di un individuo. Il secondo canale è invece il → lavoro, dato che nelle nostre società acquisitive l’attività professionale costituisce uno dei più ricchi serbatoi del prestigio sociale. Il terzo è la → scuola, il cui scopo dovrebbe essere quello di rendere lo status sempre meno dipendente da fattori dati, come la provenienza sociale o il patrimonio (status ascritto) e sempre più connesso alle qualità individuali (status acquisito). La realtà però può essere diversa al punto che talvolta la famiglia e la scuola,

CONGREGAZIONI INSEGNANTI FEMMINILI

invece di favorire il cambiamento, finiscono involontariamente per ostacolarlo producendo un forte c. Bibl.: Fromm E., Fuga dalla libertà, Milano, Edizioni di Comunità, 1963; I d., Psicoanalisi della società contemporanea, Ibid., 1964; Moustakes C. E., Creativity and conformity, Princeton, New York, D. Van Nostrand, 1967; Allport G. W., La natura del pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia, 1973; Milgram S., Obbedienza all’autorità, Milano, Bompiani, 1975; Girard G., C. e atteggiamenti politici, Milano, Angeli, 1977; Mucchi Faina A., Il c., Bologna, Il Mulino, 1998; Furedi F., Il nuovo c. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli, 2005.

J. Bajzek

CONFUCIO n. nel 551 a.C. a Lu - m. ivi nel 479 a.C, filosofo, maestro e statista cinese. 1. C. (da Confucius, latinizzazione del nome cinese K’ung Fu Tzu); suo padre morì quando egli era ancora un bambino e dopo la morte della madre (528 a.C.) dedicò tre anni alla riflessione e allo studio. Nel 505 a.C. entrò in politica, prima come governatore, e poi come ministro dei lavori pubblici e ministro di giustizia. Come amministratore pubblico fu ammirato e apprezzato da tutti. Indignato della vita corrotta di corte, lasciò la politica, e dal 497 a.C. dedicò gli ultimi anni della sua vita a dure peregrinazioni e all’insegnamento, raccogliendo intorno a sé oltre 3.000 discepoli. C. è considerato il primo pedagogo professionale della sua era e il personaggio più grande nella storia e cultura cinese. C. non ha lasciato scritti, però i suoi insegnamenti sono stati raccolti dai discepoli e si trovano in quattro libri: Dialoghi, Il Libro di Mencio, Grande scienza e Giusto Mezzo. 2. C. fu maestro impareggiabile nell’insegnare che bisogna seguire il Tao (la Via) per arrivare alla felicità. La sua proposta è essenzialmente un umanesimo etico. La natura umana è composta di due elementi, quello fisiologico (i cinque sensi corporali responsabili dei comportamenti fisiologici) e quello

psicologico (responsabile dei comportamenti psichici). La sede dei comportamenti psichici o virtù è il cuore. Secondo C. ognuno è nato con un cuore positivo, che per natura ha un senso di virtù, è sensibile alle sofferenze degli altri, sente compassione, cortesia o modestia, ed è dotato del senso del giusto e ingiusto; c’è però la possibilità di sviluppare o perdere la sua sensibilità, poiché l’ambiente esterno può influenzarlo in entrambe le direzioni, anche se non in modo determinante. C. insiste sul ruolo degli insegnanti (genitori e maestri) e sulla creazione di un ambiente proprio, specialmente per i bambini, per imparare. L’educazione è un compito essenzialmente individuale e consiste nell’autocoltivazione o auto-realizzazione in virtù. Il suo scopo è mantenere il cuore positivo e crescere in virtù o sviluppare jen o karuna (il senso dell’umanità o compassione). Le caratteristiche di jen sono sincerità, rettitudine o integrità, giustizia, devozione e obbligo filiale, rispetto reciproco nelle relazioni con gli altri. Jen si fonda sull’amore, prima per i propri genitori, poi per gli altri. Amore vuol dire promuovere il bene materiale e spirituale degli altri, cioè creare una società migliore di giustizia e pace. In Grande scienza sono presentati i sette gradini per imparare ad agire, investigare gli oggetti ed eventi, estendere la propria conoscenza, praticare le virtù cardinali, creare un ordine, ed arrivare a un mondo di pace e intelligenza. Bibl.: Castellani A., La dottrina del Tao, Bologna, Zanichelli, 1927; Lin Huey-Ya, «Confucian theory of human development», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.), The International encyclopedia of education, vol. II, Oxford, Pergamon Press, 1985, 969-972; Sagramola O., «C.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 3083-3087.

S. Thuruthiyil

Congregazioni insegnanti femminili Istituzioni religiose il cui scopo principale è l’assistenza, l’insegnamento e l’educazione della gioventù femminile. 1. Fin dal → Medioevo la storia dell’educa247

CONGREGAZIONI INSEGNANTI FEMMINILI

zione extrafamiliare della → donna è strettamente legata all’azione educativa dei monasteri femminili cui spesso le famiglie, specialmente nobili, affidavano le loro figlie, in tenera età, perché potessero realizzarvi la loro formazione. Nell’età del Concilio di Trento, quando l’impegno educativo della Chiesa si intensificò, si affermò notevolmente il desiderio di molte donne di una vita religiosa sciolta dalla clausura (già manifestatosi precedentemente con la fondazione delle Orsoline e delle Angeliche impegnate prevalentemente nell’educazione). Nonostante gli interventi del Concilio di Trento e di Papa Pio V, che ribadivano l’obbligo della clausura, nel tardo Cinquecento e nel Seicento sorsero nuovi istituti femminili, che accoglievano le fanciulle povere per toglierle dai pericoli della strada e per offrire loro almeno il minimo indispensabile di educazione e di formazione cristiana. 2. Al fervore educativo dell’età della Riforma Cattolica si collega l’origine delle scuole per le fanciulle del popolo, la prima delle quali (o una delle prime) fu fondata da S. Rosa Venerini, la quale andò oltre la tradizione che concedeva la possibilità di istruirsi solo a poche donne «privilegiate» la cui formazione comunque si realizzava o nei monasteri o in famiglia. Le scuole di Rosa Venerini e delle sue compagne, le quali non erano religiose e vivevano in piccole comunità, dedicandosi a «fare scuola gratis alle fanciulle», mirando «ad majorem Dei Gloriam», erano istituzioni educative «nuove» che ebbero il merito di offrire a tutte le donne l’opportunità di istruirsi che nel Seicento veniva offerta soltanto a poche. La «novità» delle scuole della Venerini inoltre è dovuta al fatto che in un’epoca in cui la convinzione della «vulnerabilità» degli esseri umani e particolarmente della donna determinava l’affermazione di istituzioni educative «chiuse» si proponevano come «istituzioni aperte». Le alunne infatti vivevano «in famiglia» nelle loro case, con i loro genitori, cioè in un ambiente naturale. Con queste scuole, che seguivano il «metodo» scritto dalla Fondatrice, che quindi avevano «programmi» e che prevedevano, accanto all’educazione e all’educazione religiosa, anche l’insegnamento dei «lavori femminili», «orari», «maestre» e «regole», si intendeva gettare le basi che potevano consentire a tut248

te le fanciulle di continuare a coltivare la loro spiritualità e il loro saper lavorare (per rendersi economicamente autonome) nel corso della loro esistenza. L’azione di queste scuole, pur essendo culturalmente modesta, contribuì a diffondere, anche se limitatamente, la cultura dell’educazione, a stimolare il Papato, il clero e i «governi» perché si facessero carico della formazione della donna, incoraggiando le famiglie ad assumere le loro responsabilità educativa e aiutandole, rivolgendo la loro attenzione alle madri, le quali erano invitate a partecipare a momenti di preghiera ed a parlare con le maestre dei loro problemi familiari e dell’educazione dei loro figli. Con la fondazione delle scuole, finalmente, si indicava alla donna una prospettiva professionale. Infatti le prime donne laiche, che si facevano chiamare «maestre», sono le prime professioniste dell’educazione che la storia ci presenta, anche se meritano di essere considerate «professioniste» non tanto per le loro competenze e per la loro cultura quanto per la tensione religiosa e morale che sorreggeva la loro azione e per la consapevolezza del significato dell’impegno educativo che testimoniavano nei confronti delle donne adulte con l’intento di sostenere e di aiutare le famiglie nell’educazione cristiana dei figli. Le «maestre», comunque, ebbero il merito, in un tempo in cui faticosamente nel mondo occidentale andava affermandosi la scuola, di creare un’istituzione chiamata a configurarsi come luogo in cui l’educazione, da spontanea e irriflessa, diventa riflessa e specifica, che si propone non solo la trasmissione del sapere ma anche finalità formative. Nelle scuole aperte a tutte le fanciulle dovevano operare educatrici opportunamente preparate allo svolgimento del loro apostolato «magistrale». Pertanto alle donne che si sentivano «vocate» all’insegnamento si concedeva la possibilità di liberarsi dall’obbligo di vivere in famiglia o nei monasteri. 3. Nel corso del Settecento le scuole per le fanciulle e per le giovani si moltiplicarono, anche se il diritto canonico non riuscì ad arrivare ad una collocazione giuridica specifica per gli istituti religiosi, che non prevedevano la clausura e i voti solenni e che talvolta si facevano riconoscere come secolari degli stessi organi civili degli Stati in cui si trovavano ad operare. La presenza di questi istituti si

CONGREGAZIONI INSEGNANTI MASCHILI

è diffusa e si è intensificata, in particolare nell’Ottocento, ottenendo, soltanto alla fine di quel secolo, pieno diritto di cittadinanza nella Chiesa come istituzioni religiose, di cui è stata ampiamente apprezzata l’azione educativa, vista come espressione di apostolato e forma specifica di carità. Nel corso del Novecento le c.i.f. si sono particolarmente impegnate nella formazione professionale (iniziale e in servizio) dei loro membri per renderli «pari all’altezza del loro ufficio», per potenziare la qualità culturale delle loro scuole, che, in questi ultimi anni, in molti Paesi accolgono alunni di ambo i sessi e che spesso hanno conquistato una loro propria identità, determinata dalla loro ispirazione cristiana, dalla fedeltà allo specifico «carisma» e dalla spiritualità dei vari istituti, dalla capacità di rispondere con differenziata adeguatezza alle domande di educazione dei singoli e delle comunità in cui operano. Pertanto la loro proposta formativa si è ampliata ed ha rivolto l’attenzione anche alla formazione professionale. Inoltre, talvolta, le educatrici religiose insegnano anche nella scuola di Stato e le loro scuole, che nell’Ottocento e nel primo Novecento hanno accolto particolarmente bambini e fanciulli, impegnandosi nella preparazione delle educatrici, hanno moltiplicato i loro indirizzi, aprendosi anche all’«educazione a livello universitario», pur testimoniando una speciale attenzione per i «piccoli» e per coloro che sono vittime delle vecchie e delle nuove povertà. 4. A queste c.i.f. si deve il merito di aver diffuso nel mondo la scuola cattolica, impegnandosi particolarmente per la promozione umana della donna, aprendosi ai problemi della società, testimoniando una carità fattiva e operosa, realizzando spesso una forma di «maternità affettiva, culturale e spirituale», alla quale la Chiesa guarda con particolare attenzione e con «speranza», chiedendo alle educatrici di testimoniare il Vangelo, capacità di accoglienza, di ascolto, di relazionalità positiva, di servizio e di coltivare la loro formazione spirituale, culturale e professionale. Bibl.: Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi (Ed.), Conferenze tenute nel primo Convegno nazionale di studio per le Suore insegnanti d’Italia, Milano, Vita

e Pensiero, 1940; Braido P. (Ed.), Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, Vol. I e II, Roma, LAS, 1981; Paolocci C. (Ed.), C. laicali femminili e promozione della donna in Italia nei sec. XVI e XVII, Genova, Associazione Amici della Biblioteca Franzoniana, 1995; Loparco G., Gli Istituti religiosi femminili e l’educazione delle donne in Italia tra Otto e Novecento, in «Seminarium» (2004) 1-2, 209-258; Bartoloni S. (Ed.), Per le strade del mondo laiche e religiose fra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 2007.

S. S. Macchietti

CONGREGAZIONI INSEGNANTI MASCHILI Ci si limita, in questa sede, a citare quelle fondazioni per le quali l’attività dell’ → insegnamento ebbe un rilievo notevole, pur non costituendo l’unico campo d’azione. Per secoli, esse ebbero quasi esclusivamente in mano l’educazione della gioventù, rendendosi al contempo benemerite per la conservazione del patrimonio rappresentato dalla cultura classica. 1. Lasciando da parte le Scuole episcopali, già presenti nei primi secoli del Cristianesimo, e le stesse Scuole monastiche e abbaziali (→ Medioevo), è da ricordare che gradualmente sorsero anche scuole per esterni: in un certo senso nelle scuole dei grandi chiostri potrebbe essere colto il germe dei futuri ginnasi, licei, università, così come nelle scuole dei piccoli chiostri, nelle quali si insegnava a leggere, a scrivere e 1’ → abaco, c’era la base dell’educazione elementare. Ma la nostra attenzione si fissa su quelle fondazioni che avevano la finalità educativa chiaramente esplicitata nelle stesse Regole. Degna di ricordo l’opera svolta dalla C. dei Fratelli della vita comune, ispirantesi alla Regola di s. → Agostino, fondata nel 1340 da Gerardo Groot, olandese, alla quale spetta il merito di avere istituito scuole per i fanciulli e le fanciulle delle classi popolari, ed in seguito una scuola anche per i figli di famiglie agiate; acquistò grande importanza la scuola di Deventer, dalla quale uscirono personalità di rilievo (basti pensare a Tommaso da Kempis, a Rodolfo Agricola, a Giovanni Sturm, ad → Erasmo da Rotterdam). 249

CONGREGAZIONI INSEGNANTI MASCHILI

2. Agli inizi dell’età moderna (nel periodo delle Riforme) è tutto un fiorire di iniziative destinate ad un notevole sviluppo nel campo dell’educazione e della scuola. a) Compagnia (C.) dei Chierici Regolari di Somasca. Fondatore (1546) Emiliani (o → Miani). Scopo fondamentale la cura degli orfani, assai numerosi allora per l’infuriare delle guerre in Lombardia e nel Veneto. L’istituzione prevedeva la presenza anche di un lettore (o maestro), e di un solizitador, addetto alla cura dell’attività lavorativa dei fanciulli. Pur mancando notizie dirette e sicure sul tenore di vita e sulle regole introdotte dal Santo nei suoi orfanotrofi, dalla lettura di testi da lui stesso redatti ci si può formare un’idea abbastanza chiara di quali fossero le finalità ed il metodo seguito. Il Miani raccomandava che ci si accertasse «se i putti lezino et recitano». Oltre alla formazione religiosa ed a quella intellettuale, il Capitolo del 1538 disponeva: «li figlioli piccoli e mezzani, i quali lavorano, si faccian leggere la mattina per lo spazio quasi di un’ora, e lo stesso la sera». Quali i lavori? «arte dei teloni o de spagliere [...], gucchiar barette [...] far della trezza di capelli». Testo fondamentale è rappresentato dagli Ordini per educare li poveri orfanelli conforme si governano dalli R.R. Padri della Compagnia di Somasca (Milano, 1620): citiamo una frase che sintetizza gli aspetti del processo educativo. Dottrina cristiana, leggere, scrivere, abaco, in qualche sede «musica e concerto di sonare», e si aggiunge (cosa di grande rilievo dalla angolatura pedagogica) «acciò che con la comodità di diverse arti e virtù possa ognuno seguire la propia inclinazione, e procacciarsi il vitto honoratamente quando saranno fuori dall’hospitale». Discorso analogo vale per le fanciulle. La cura degli orfani fu il campo primo e principale della C. (cosa ribadita nelle Costituzioni del 1677). Ma i Somaschi svolsero notevole attività educativa anche fra le classi nobili: basti citare la decisione di papa Clemente VIII di affidare a loro la direzione del Collegio Clementino in Roma nel 1595. La scelta era più che giustificata; leggiamo nella Bulla erectionis che i Somaschi erano «educationi juventutis ex professo et peculiari instituto vacare soliti», e che avevano dato prove indiscusse in molte città d’Italia, et «praesertim in civitate Venetiarum». Nel citato collegio (dal quale uscì pure un papa, Benedetto XIV) si poté 250

costruire quel metodo di studi che ebbe una prima redazione nel 1741, senza dimenticare che l’importanza di un metodo era stata affermata nelle Costituzioni del 1626. La struttura delle scuole presso i Somaschi si differenziava dal quinquennio previsto dalla → Ratio studiorum dei collegi gesuiti, in quanto non si fissavano limiti precisi per gli anni di → grammatica, perché ci si voleva garantire che gli allievi passassero allo studio dei classici solo se in possesso di sicure conoscenze grammaticali. Rilevante la parte dedicata alle doti che i maestri avrebbero dovuto possedere: onestà di costumi, solida formazione religiosa, accurata preparazione professionale. b) Chierici Regolari di S. Paolo (→ Barnabiti). Fondatore Antonio Maria Zaccaria (1502-1539). Nelle Costituzioni si faceva divieto ai fratelli di studiare le arti liberali. Non mancano tuttavia spunti di notevole interesse pedagogico: «Sappiate tutti, che è melio lezer pocho et quello masticarlo bene, che trascorrere et vedere molte cose, et più authori, perché questo è più presto pascere la curiosità che studiare». I Barnabiti furono a lungo restii ad accettare alunni esterni nei propri collegi: un mutamento lo si ebbe con p. Bascapè (1584-1593). Destinatari dell’opera educativa furono prevalentemente (anche se non esclusivamente) gli appartenenti alle classi nobili. c) Le Scuole Pie (→ Scolopi). L’apostolato educativo del Calasanzio (→ Calasanz) si può fare iniziare con il 1595, ed i destinatari furono in un primo tempo quasi esclusivamente i fanciulli appartenenti alle classi popolari: a lui, per comune consenso, spetta il merito di avere fondato nel 1597, in uno dei quartieri più poveri di Roma, «la prima scuola popolare in Europa». d) I → Fratelli delle Scuole Cristiane, istituiti dal → La Salle, continuarono in Francia l’opera del Calasanzio, dedicandosi all’educazione ed educazione dei fanciulli delle classi media ed infima. Svolsero la loro attività anche in scuole d’arti e mestieri, con il divieto assoluto dello studio del latino (da ciò il nome loro dato di «Ignorantelli»). e) La Compagnia di Gesù (→ Gesuiti), istituita da Ignazio di → Loyola, fu quella che acquistò la massima importanza e la massima diffusione nel periodo controriformista. 3. Altre esperienze e fondazioni. Tra molte altre, andrebbero ricordate: l’Oratorio di s.

CONGRESSI PEDAGOGICI

Francesco di Sales e la Società Salesiana (1859) di don → Bosco, che fu tra i primi ad istituire scuole serali gratuite per operai, nonché scuole d’arti e mestieri (→ Salesiani); la C. dei Chierici secolari delle scuole della Carità dei fratelli Cavanis a Venezia. Bibl.: oltre alle varie «voci» specifiche nella Enciclopedia pedagogica, a cura di M. Laeng (Brescia, La Scuola, 1989-2003) e nel Dizionario degli Istituti di Perfezione (Roma, 1974), si rinvia al fondamentale lavoro di Escobar M., Ordini e c. religiose, Torino, SEI, 1951-1953. Utile la consultazione dei contributi dedicati alle varie fondazioni, in Nuove questioni di storia della pedagogia, Brescia, La Scuola, 1977 e nell’Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani/Fondaz. C.S.F. Gallarate, 2006.

F. De Vivo

CONGRESSI PEDAGOGICI Riunioni scientifiche regionali, nazionali o internazionali di esperti in pedagogia ed educazione. 1. La loro origine risale alle cosiddette «conferenze dei maestri tedeschi» (il 21° Congresso fu tenuto a Breslau nel 1874), in cui a scopo puramente professionale si trattava di metodologie, procedimenti ed informazioni varie, generalmente relative all’insegnamento primario. Ben presto però divennero riunioni scientifiche a carattere pedagogico, dove si rendevano note ricerche, si diffondevano conoscenze, si confrontavano studi. La loro utilità è stata evidente, perché i relativi Atti costituiscono una fonte sicura e inesauribile di informazioni e sono il fedele riflesso del livello di teorizzazione raggiunto; inoltre l’incontro tra professionisti della pedagogia arricchisce sia il pensiero che la prassi educativa tramite lo scambio di informazioni. I temi trattati dai c.p. abbracciano tutto il panorama della pedagogia e dell’educazione. 2. Dopo che in Germania, si tennero c.p. in Svezia, Francia, Belgio, Stati Uniti, Italia, Spagna ed altri Paesi. Nel 1880 fu tenuto un c.p. internazionale a Bruxelles dalla Lega Belga di Insegnamento; nello stesso anno ve ne fu un altro a Londra, presieduto da Selys

Longchamps, presidente del Senato. Altri c.p. si celebrarono a Londra (1884), Parigi (1889) e Chicago (1893), mentre in altri Paesi si tenevano c.p. nazionali. A Madrid, inoltre, nel 1892 si celebrò il c.p. ispano-portogheseamericano e il c. ispano-americano nel 1900. Particolare rilevanza rivestono i c.p. internazionali organizzati dalla World Association for Educational Research (WAER/AMSE): a Gant (I, 1953) sull’insegnamento universitario delle scienze pedagogiche nell’Europa occidentale; a Firenze (II, 1957) sulla sperimentazione in pedagogia; ad Oslo (III, 1961) sul compito della ricerca nell’educazione sociale; a Cambridge (IV, 1965) sul contributo della ricerca pedagogica nella continuità e nel cambio educativo; a Varsavia (V, 1969) su situazioni e compiti derivati dalle necessità e dai problemi teorico-pratici della civilizzazione moderna, dell’industrializzazione, della democratizzazione e della cultura di massa; a Parigi (VI, 1973) sull’apporto delle scienze fondamentali alle scienze dell’educazione; nuovamente a Gant (VII, 1977) sulla realizzazione della personalità mediante l’educazione; ad Helsinki (VIII, 1982) su personalità, educazione e società; a Madrid (IX, 1985) su educazione e lavoro nella società moderna; a Praga (X, 1989) sulle innovazioni scientifiche e tecnologiche in educazione per il futuro; a Gerusalemme (XI, 1993) sul compito e ruolo delle scienze umane nell’educazione per il mondo del XXI sec. Si tengono anche Giornate, c. specifici (storia, lingue, didattiche, filosofia dell’educazione, scuole infantili, tecnologie educative, educazione ambientale, animazione socioculturale, formazione dei docenti, maltrattamento dell’infanzia, orientamento personale, scolastico e professionale, personaggi concreti...) nazionali ed internazionali. Particolarmente ricchi sono i c. di storia dell’educazione tenuti insieme da spagnoli, francesi e portoghesi, con la partecipazione di italiani, con uno sguardo alla nazione propria ed all’ → America Latina. Bibl.: García Navarro P. de A., Teoría y práctica de la educación y la enseñanza, Madrid, Hernando, 1902; «Bordón» 234 (1980) 234 (n. monogr.); Bucci S., «C.p.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 3091-3101.

V. Faubell

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CONOSCENZA: RAPPRESENTAZIONE DELLA

CONOSCENZA: rappresentazione della Rispetto al passato, in cui prevaleva la ricerca di tipo filosofico sulla natura della c., gli studiosi contemporanei sembrano preferire la ricerca su come la c. sia rappresentabile, su come si trovi nella mente umana, su quanti e quali tipi di c. l’uomo disponga, su come la c. muti, si trasformi, venga acquisita o rimanga nella memoria a lungo termine. Possiamo immaginare la mente come la sede nella quale conserviamo, elaboriamo, organizziamo, inventiamo c. e informazioni. Nel 1972 Tulving ipotizzò un doppio archivio di c.: episodiche e semantiche. Le prime sarebbero c. che si riferiscono a esperienze personali spazialmente e temporalmente definite. Le seconde, di natura più astratta, esprimono l’essenza di qualcosa e su di esse si possono compiere operazioni logiche e inferenziali che non è possibile fare sulle prime. La distinzione di Tulving ha indotto gli studiosi ad analizzare altri tipi di c. 1. Le c. dichiarative. I vari tipi di c. riferentisi a «qualcosa» sono in genere indicati come c. dichiarative. Esse includono tutte le informazioni, sia sensoriali che semantiche che possediamo del mondo che ci circonda. Sono di diversa provenienza e di diverso livello di astrazione; possono appartenere ad un’identica area di significato o di oggetti ed essere in vario modo collegate tra loro o richiamarsi a vicenda. In ogni caso costituiscono la rappresentazione che abbiamo delle cose, degli eventi o delle situazioni del mondo e dell’ambiente nel quale viviamo. Hanno una importanza straordinaria perché ci permettono di muoverci velocemente nella grande complessità della realtà circostante, di categorizzare, di formulare ipotesi, di inferire, di comunicare, ecc. Paivio (Clark-Paivio, 1987) ha sostenuto che, oltre ad un archivio per le informazioni episodiche e semantiche, vi sia nella memoria anche un archivio di immagini. La sua tesi è sostenuta da varie ricerche, anche se non è mancato chi non ha condiviso questa posizione. L’esigenza di ipotizzare differenti processi ed archivi si è inizialmente fondata sulla constatazione che parole ed immagini hanno una realtà profondamente diversa. Le prime sono rappresentazioni simboliche di caratteristiche fonetiche; sono 252

costituite da unità separabili e combinate secondo un ordine sequenziale. Il linguaggio verbale deve essere necessariamente sequenziale, pena la perdita di significato. Diverso è il codice visivo, dove le parti e le unità sono integrate, formano un continuo, sono analoghe agli oggetti reali, sono rappresentazioni olistiche e le varie parti non possono essere distinte, come invece accade per le lettere di una parola. L’uso di moderne metodologie di analisi ha fornito in questo campo dati di estremo interesse. Le rotazioni di immagini mentali hanno presentato caratteristiche assai simili a quelle che avvengono nella realtà. Il tempo necessario per esaminare un’immagine mentale si è dimostrato più o meno lungo a seconda della distanza dell’elemento da trovare dal punto di partenza. I processi connessi a compiti di immaginazione o percettivi, indagati mediante la tecnica del controllo del flusso ematico con emissione di positroni (PET) sembrano essere localizzati in specifiche parti della corteccia cerebrale (Kosslyn et al., 1993). Il movimento svolto o previsto è stato riscontrato corrispondente alla combinazione di vettori di cellule neuronali che indicano la direzione. In generale questo tipo di c. sembrerebbe globalmente possedere intrinsecamente le proprietà degli oggetti e degli eventi; avere una funzione importantissima per il riconoscimento di qualche cosa che viene percepito; mantenere informazioni che al momento dell’acquisizione possono essere riconosciute come poco importanti. 2. Le c. semantiche. Un secondo tipo di rappresentazione di c. è quella simbolica e riferibile all’area dei significati, ai contenuti semantici. La ricerca ha presentato molti modelli di rappresentazione semantica differenziantisi per l’ampiezza dell’unità che intendono rappresentare (parole, frasi, unità più complesse) e per il modo di rappresentarle. Tutti i modelli hanno la caratteristica comune di usare dei simboli: alcuni rappresentano le c. gerarchicamente a forma d’albero o di rete, altri attraverso un elenco a cui vengono associate procedure per la loro interpretazione. La proposizionale è stata la modalità più comune e diffusa. Questa modalità, rispetto a quella per immagini che mantiene «intrinsecamente» la struttura dell’oggetto rappresentato, usa un sistema arbitrario e simbolico e per questo mantiene «estrinse-

CONOSCENZA: RAPPRESENTAZIONE DELLA

camente» la struttura della c. rappresentata. A sostenere l’idea che la rappresentazione sia in grado di descrivere con una certa attendibilità le c. nella mente hanno contribuito diverse ricerche evidenziando come testi con lo stesso numero di parole richiedessero più tempo di lettura se contenevano un maggior numero di proposizioni oppure che il tempo di ricupero di parole lette in testi variasse a seconda che le parole si trovavano nella stessa proposizione o in proposizioni diverse. Questa modalità di rappresentazione ha avuto una grande diffusione sia nel campo della ricerca psicologica che educativa (costruzione delle mappe semantiche, educazione alla lettura e comprensione, apprendere da testo scritto), perché si è dimostrato un procedimento estremamente efficace e flessibile per rappresentare c. non riducibili a quelle concettuali, ma dotate di una complessità tale da essere assimilabili a quelle espresse in testi linguistici. La stessa linea di ricerca ha rilevato anche la presenza nella mente di c. complesse indicate con vari nomi: script, frame, schemi, mental model, cognitive map. Esse hanno in comune la particolarità di contenere le caratteristiche con cui un certo oggetto o evento abitualmente si presenta. Lo script ad es. rappresenta c. complesse costituite da una sequenza temporale di scene, il frame o lo schema rappresentano in genere scene (una stanza) che condividono elementi (muri, soffitto, pavimento, mobilio, quadri, luce, ecc.), forma (rettangolare o squadrata), grandezza (tra i 16 e i 25 mq.) ecc. I mental model rappresentano c. proposizionalmente descrivibili, ma per alcuni miste anche a rappresentazioni analogiche, varianti da persona a persona, da situazione a situazione, esperienze vissute. 3. Le c. procedurali. Dalle c. semantiche vanno distinte le c. procedurali. Esse riguardano azioni, cioè tutte quelle informazioni che una persona possiede relativamente al modo di fare qualcosa. Ad es., sono c. procedurali quelle suggerite da un insegnante ad un alunno perché impari ascrivere, a memorizzare, a calcolare. Le c.-azioni sono rappresentabili attraverso l’indicazione delle procedure che devono essere eseguite (Anderson, 1983). La ricerca su questo tipo di c. non è stata amplissima anche perché l’efficacia del suo uso è stata immediata e grandissima. Le

evidenze più forti sono venute dall’osservazione delle persone affette da amnesia: esse perdono la memoria delle c. dichiarative, ma non di quelle procedurali. Anche gli errori commessi da studenti nelle prestazioni cognitive spesso rivelano un errore o un deficit nella c. procedurale che dovrebbe guidarli nella loro attività. La teoria della c. procedurale ha avuto anche una interessante applicazione nell’apprendimento di abilità. Secondo Anderson (1987) un’abilità verrebbe inizialmente appresa come dichiarativa e solo con l’esercizio e il transfer diventerebbe automatizzata e sarebbe archiviata nella memoria procedurale a lungo termine. L’automatizzazione nelle prestazioni spiegherebbe le differenze tra esperti e principianti. Gli esperti avendo automatizzato le c. dichiarative necessarie per l’esecuzione del compito possono attuare le loro prestazioni in modo più rapido alleggerendo il peso della memoria lavoro. Le conseguenze educative e le possibilità esplicative di molti comportamenti sono state amplissime. Nel campo educativo la teoria della c. procedurale offre un modello di riferimento per stabilire obiettivi di apprendimento, comprendere gli errori di prestazioni e suggerire come intervenire. 4. La c. esplicita e la c. implicita. Se invece di osservare le c. a partire dalla loro realtà, le si considera attraverso il modo in cui possono essere acquisite, esse si distinguono in esplicite e implicite. Le prime sono c. sia dichiarative che procedurali il cui momento di acquisizione è conscio e ricuperabile; le seconde, al contrario, sono quelle il cui ricordo non è posseduto dal soggetto anche se questi dimostra di possederle e di utilizzarle. Sebbene vi possa essere una relazione tra i due tipi di c., alcuni dati di ricerche sembrano dimostrare che esse sono mantenute in archivi diversi (Schacter, 1987; Schacter - Tulving, 1994). 5. Conclusione. La rappresentazione delle c. costituisce certamente la novità maggiore prodotta dalla ricerca cognitivista di questi ultimi decenni. Essa è anche al centro dell’interesse di un nuovo ambito di studi rappresentato dal connessionismo che invece di assumere come «paradigma» interpretativo la metafora del computer assume il cervello. Da questo punto di vista la c. è il prodotto di 253

CONSULENZA PSICOPEDAGOGICA

molte interazioni tra molti elementi semplici come i neuroni tali da formare delle «reti neurali». Bibl.: Tulving E. - W. Donaldson (Edd.), Organization of memory, New York, Academic Press, 1972; Skill acquisition: compilation of weak-method problem solutions, in «Psychological Review» 94 (1987) 192-210; Clark J. M. - A. Paivio, «A dual coding perspective on encoding processes», in M. A. McDaniel - M. Pressley (Edd.), Imagery and related mnemonic processes: theories, individual differences and applications, New York, Springer-Verlag, 1987, 5-33; Schacter D. L., Implicit memory: history and current status, in «Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory, and Cognition» 13 (1987) 501-518; Kosslyn S. M. et al., Visual mental imagery activates topographically organized visual cortex: PET investigations, in «Journal of Cognitive Neuroscience» 5 (1993) 263-287; Schacter D. L. - E. Tulving (Edd.), Memory systems 1994, Cambridge, MIT Press, 1994.

M. Comoglio

CONSIGLIO D’EUROPA → Organizzazioni internazionali

CONSULENZA PSICOPEDAGOGICA Per c.p. s’intende l’assistenza e l’aiuto rivolti alle persone che si occupano in vari modi di educazione, affinché possano guidare ed agevolare lo sviluppo fisico, intellettuale e morale sia dei bambini «normali», sia di quelli portatori di handicap od affetti da disturbi della → personalità. Per queste ultime categorie gli educatori potrebbero aver bisogno di un’assistenza particolare, in quanto devono essere aiutati nella risoluzione di problemi educativi fuori della norma e quindi necessitano di avere la competenza per poter effettuare un invio mirato a un professionista specifico. 1. In ambito educativo la c., nel senso non professionale della parola, è sempre esistita, mentre come professione si è sviluppata solo nel XX sec., divenendo sempre più finalizzata, deliberata, metodica, obiettiva e scientificamente fondata. Sono stati così creati centri specializzati di c.p. che si avvalgono della 254

partecipazione di vari esperti, quali psicologi specializzati, pedagogisti, logopedisti, assistenti sociali, fisioterapeuti ecc. che sono in grado di esaminare, da varie angolature, i problemi e pertanto possono individuare, in collaborazione con la persona in difficoltà, le soluzioni più convenienti. Si suole operare una distinzione tra la forma di aiuto che possono dare la c.p., il counseling e la → psicoterapia. Nella c.p. gli incontri tra lo specialista e la persona in difficoltà sono brevi e mirati alla soluzione della problematica presentata; nel tipo di c. o consultazione, abitualmente chiamato counseling, invece, vengono esaminati con l’aiuto di un esperto, gli aspetti consci delle difficoltà vissute dalla persona affinché questa possa gestire il contesto in cui vive e riprendere il proprio cammino di crescita, di maturazione e possa vivere in maniera positiva l’esperienza scolastica, familiare, o professionale. Nella psicoterapia, infine, il terapeuta per mezzo di vari metodi psicologici e di colloqui individuali o tecniche di terapia di gruppo, cerca di rimuovere i disturbi mentali, emotivi e comportamentali la cui origine può avere radici nell’inconscio. 2. Il consulente psicopedagogico svolge la propria attività prevalentemente in ambito scolastico, anche se a volte si trova questa figura presso i consultori come supporto alla famiglia nel sostenere il figlio, per cui il suo compito assume caratteristiche di volta in volta diverse. Infatti nella scuola materna egli si impegna ad aiutare il bambino ad inserirsi ed a sentirsi accettato come una persona che ha caratteristiche proprie. Attraverso il → colloquio, riservato e personalizzato, con gli insegnanti ed i genitori del bambino, può giungere a ristrutturare qualche aspetto della dinamica familiare e dei comportamenti parentali che possono avere degli influssi negativi sul fanciullo e che spesso si evidenziano nei suoi rapporti con i coetanei. Il consulente non risolve il problema ma deve far nascere nei genitori e nell’ → insegnante la consapevolezza della presenza di una difficoltà, aiutarli a gestirla, e possibilmente a risolverla; deve inoltre orientare i genitori, se necessario, nella scelta di interventi specialistici per risolvere problemi particolari che si manifestano con chiarezza nell’ambiente scolastico. Nella scuola elementare il lavoro del con-

CONSUMISMO

sulente si inserisce nel progetto educativo e pertanto dovrebbe gestire il collegamento tra la scuola materna e la scuola elementare, oltre che tra famiglia e scuola, nella difficile fase dell’impatto, da parte del fanciullo, con una realtà del tutto diversa. Inoltre ha il compito di favorire, presso l’insegnante, una maggiore comprensione dell’alunno e dei suoi problemi. Nella scuola secondaria il consulente acquista un ruolo educativo particolare in quanto, non essendo implicato nelle vicende scolastiche è più adatto a comprendere ed a dialogare con l’adolescente sui problemi della vita che in questa età si presentano complessi ed insormontabili se la loro soluzione viene lasciata al solo soggetto. Nel periodo universitario, infine, il consulente ha una funzione più che altro orientativa per le scelte professionali e occupazionali. 3. Non va dimenticata, infine, l’importanza del lavoro svolto dal consulente sia in ambito rieducativo, dove la sua opera si rivolge a soggetti particolarmente difficili quali i ritardati scolastici, i soggetti caratteriali, le persone con disturbi del linguaggio, i disadattati sociali; sia nel campo della → prevenzione dove, per mezzo di una diagnosi precoce e di un adeguato e tempestivo trattamento, può evitare che nel soggetto si consolidino particolari difficoltà. Bibl.: Rogers C. R. - G. M. K inget, Psicoterapia e relazioni umane, Torino, Bollati Boringhieri, 1970; Zavalloni R. (Ed.), Figura e funzione del consigliere, Roma, Armando, 1975; Korchin S. J., Psicologia clinica moderna, 2 voll., Roma, Borla, 1977; Schneider P. B., I fondamenti della psicoterapia, Ibid., 1977.

W. Visconti

CONSULTORIO → Orientamento → Servizi sociali

CONSUMISMO Il c. è generalmente inteso come quel comportamento sociale, assai spesso compulsivo, irrazionale ed eccessivo, che include l’acquisto, l’uso, il godimento, la fruizione di beni e servizi in cambio di denaro o di altre prestazioni personali. I consumi diventano oggetto di stu-

dio quando se ne analizzano i tipi e la quantità in relazione alla → classe sociale di appartenenza, alla stratificazione sociale, al sistema socio-economico, allo stile di vita, al tipo di → famiglia, alla disponibilità o scarsità delle risorse, nonché alla qualità dei → bisogni. 1. L’approccio allo studio dei consumi può essere articolato secondo tre direttrici: la prima di carattere socioeconomico, dove l’attenzione è posta sul consumatore, le sue motivazioni e gli altri fattori che, secondo la teoria della domanda, influenzano le sue decisioni di acquisto; la seconda di ispirazione sociopolitica, che, orientata all’analisi critica dei consumi e del c., pone al centro il problema dei rapporti tra produzione e consumo, e in particolare la questione del condizionamento dei bisogni da parte della produzione; la terza, di tipo socioculturale, studia le funzioni simboliche del l’attività di consumo e il ruolo qualitativo dei beni nei rituali di comunicazione e di integrazione sociale. Il concetto di consumi e di c. è quindi una nozione al crocevia tra economia, politica, sociologia, psicologia e antropologia. 2. Nella prospettiva socioeconomica, lo studio dei consumi, partito dall’analisi dei bilanci familiari e dai fattori che li condizionano, secondo le leggi di Engel e poi di Halbwachs, ha evidenziato che i modelli dei consumi degli operai e degli impiegati differiscono notevolmente anche a parità di reddito, suggerendo così l’ipotesi che lo status individuale giochi un ruolo fondamentale nella formazione dei gusti e delle preferenze dei soggetti. Ciò è stato approfondito da Veblen nella sua teoria del «consumo vistoso», secondo il quale il fine del consumatore è più quello di ottenere dai consumi una maggior stima e apprezzamento che non una vera e propria utilità pratica (1949). I beni sono anzitutto onorifici, danno immagine, creano un alone di rispetto e di esaltazione. Lo sviluppo poi della teoria di Duesenberry mette in campo la funzione della «privazione relativa», secondo cui l’insoddisfazione derivante dai continui confronti con la classe superiore provocherebbe l’impulso a migliorare sempre il proprio tenore di vita e a desiderare beni di qualità superiore (1969). A parere di Hirsch, infine, il c. diventa un vero e proprio linguaggio, o «status symbol» (1981). 255

CONTENUTI EDUCATIVI

3. Si apre così la strada alla prospettiva socioculturale, dove la tesi vebleniana dei beni come strumento di esibizione competitiva viene portata da Baudrillard alle sue estreme conseguenze. In altre parole il c. non è altro che uno scambio socializzato di segni, un modo per ostentare nella «società affluente» la capacità di spesa dell’individuo («l’ostentazione del lusso») rispetto ai beni anche non fondamentali, in una logica di progressiva autodifferenziazione, vissuta come uno dei bisogni principali. Queste categorie costituiscono infatti la struttura portante del c. e degli stili di vita da esso introdotti, dove i beni di consumo diventano gli strumenti per dare → identità alla persona stessa. Bibl.: Baudrillard J., La società dei consumi, Bologna, Il Mulino, 1976; Paltrinieri R., Il consumo come linguaggio, Milano, Angeli, 1998; Dell’aquila P., «Il consumo dalla società industriale alla società comunicazionale», in C. Cipolla, Principi di sociologia, Ibid., 2000, 510-546; R itzer G., La religione dei consumi. Cattedrali, riti e pellegrinaggi dell’iperconsumismo, Bologna, Il Mulino, 2005; Bauman Z., Homo consumens, Trento, Erickson, 2007.

R. Mion

CONTENUTI EDUCATIVI Tutto ciò che, proposto e assunto in relazione con la vitalità interiore del soggetto, gli permette di crescere ordinatamente in pienezza di vita interna e di relazione. Lo sono sia i vissuti e gli elaborati mentali, sia le realtà esterne, accostate come oggetti o simboli e forme culturali. 1. C., non contenutismo. È preliminare la soluzione di una vecchia polemica contro il contenutismo delle pedagogie scolastiche e extrascolastiche, culturali, catechistiche, professionali, dove dominano i programmi di insegnamento e apprendimento, l’accettazione e l’adesione, con la pretesa di seminare, plasmare, riempire teste come le proverbiali lavagne sulle quali nulla è scritto, formare automi, masse ubbidienti. I denunciatori del contenutismo mettono in primo piano la promozione e cura di processi e stati educanti di → libertà, maturità, sanità fisiche, psichiche 256

e spirituali, relazioni affettive intra e interpersonali, attitudini culturali e virtù morali, spesso vuote di realtà. Forse siamo semplicemente di fronte a nuovi c. che devono bilanciare eccessi di oggettivismo, materialismo, esteriorità, alienazione. Analisi e sintesi sui c.e. esterni partono sempre dalla vitalità personale da maturare in relazione esistenziale con universi di esperienza esterna crescente e comunicante, mantenendo la finalità primaria della → autorealizzazione, anche nella appartenenza e partecipazione larga e competente. 2. Il quadro dei c.e. Si possono distinguere: a) c. reali. Sono le realtà oggettuali che compongono gli universi di identità, appartenenza e partecipazione delle persone e delle condotte. La prima realtà da esplorare, dominare, possedere e gestire è proprio l’io stesso nelle dimensioni corporea, psichica, spirituale, trascendente, individuale, sociale, storica, teologica. Viene poi la → natura, l’intero cosmo prossimo e lontano, la → società e le società degli uomini. Per i credenti, corona ogni altro universo, Dio medesimo, orizzonte religioso primo e ultimo di ogni altro universo; b) c. culturali. Sono gli universi già mediati da varie elaborazioni di informazione, comprensione, sistemazione, assunzione, trasformazione in modo da formare → cultura: modi e stili, ethos e costume, opinioni, credenze e insegnamenti, coscienza e quindi scienza e scienze largamente articolate per ogni realtà, tecniche e tecnologie, elaborati di arte, civiltà, moralità e religione; oggi acquistano particolare rilevanza pedagogica i c. provenienti da o disponibili come «banche-dati» nel mondo della comunicazione di massa e nel mondo virtuale informaticotelematico; c) c. esistenziali ed esperienziali. Sono le condizioni, le situazioni, gli andamenti dell’essere personale, del divenire, crescere, incontrare e relazionarsi. Realisticamente si distribuiscono tra comprensione e incomprensione, aiuti e assenze, libertà e pressione, fino alle condizioni normali o drammatiche e tragiche, quotidiane, economiche, affettive, spirituali di lavoro e di futuro, di fiducia e di fede, di significato e di senso per la vita, di scelte precise e difficili; d) c. e. Sono le idee, i progetti, i processi e i metodi, gli istituti e i piani per affrontare i valori-problemi della educazione attorno ai c.

CONTENUTI EDUCATIVI

precedenti. Per educare l’io, esplorare, comprendere, valutare, assimilare le realtà, inserirvisi, assumere criticamente la società e le società, la cultura e le culture, parteciparvi, metterle in crisi, produrne, abilitare l’autocoscienza e l’esperienza interiore. Sono anche i processi, i progetti e i metodi della propria educazione e rieducazione. Sono i → valori, non da ricevere per trasmissione, ma da costruire leggendo nella realtà e nella condotta, presenze di vita, fonti di motivi, norme, criteri, modelli, sistemi di verità e moralità, → virtù e costume, cultura, perfino trascendenza. Sono le capacità di problematizzazione e soluzione; e) c. strumentali. Sono i modi, i modelli, i processi, le competenze di uso della libertà di incontro, comprensione, → comunicazione, elaborazione e sviluppo, analisi e sintesi: metodologie, tecniche, capacità e abilità, ecc. 3. Perché e come educativi. I c. sono educativi in quanto sono riferibili ad un progetto-programma di esperienza di vita e per la vita. Emergono e chiedono espansione e organizzazione nei luoghi e nei processi formativi della esistenza personale, della famiglia, della scuola, della convivenza sociale, del sistema della comunicazione sociale. Nei vecchi trattati si dicevano beni educativi. L’espressione si collegava alla dottrina classica aristotelico-tomista della coincidenza trascendentale dell’essere (ens) e del bene (bonum). Se ne potrebbe considerare una elaborazione moderna la distinzione dei c.e. riguardanti il sapere, rispetto a quelli relativi al fare, all’essere e al vivere insieme con gli altri, considerati i quattro «pilastri» dell’educazione (Delors). 4. C. nuovi? Oggi le novità sono molte anche dal punto di vista contenutistico. L’umanesimo classico letterario ed esistenziale è passato prima nella filosofia e poi nella teologia con la centralità delle interpretazioni e delle normative dei soggetti individuali e sociali; ed ha dato il primato alle scienze positive e fenomenologiche. Le attenzioni si sono rivolte più verso 1’ → etica che verso la → religione, più verso l’uomo che verso Dio o il mondo stesso (che però negli ultimi tempi ha acquistato nuova udienza a motivo del paventato tracollo ecologico). L’attenzione all’uomo si fa rara per la persona carica di valori, digni-

tà, diritti, doveri e progetti e per l’individuo carico di bisogni e interessi, problemi e preferenze. È cresciuto il peso della → società e del pubblico, che diventano il nuovo soggetto reale, progettuale, di riferimento. A loro volta, nella società dettano leggi la produzione e la tecnica, la → tecnologia, il progresso. La pedagogia ufficiale e istituzionale è interpellata vivacemente da queste novità come anche dalle crisi e sfide moderne e postmoderne e dalla nuova esistenza giovanile e adulta allo stesso tempo globalizzata e frammentata. Prevalgono l’esperienza esistenziale e l’eco dei messaggi mass-mediali e virtualtelematico, ricchi di sfide e controsfide, di proposte e controproposte. La problematicità della situazione attuale tocca direttamente i c., ma anche e soprattutto l’azione educante a riguardo di essi. Si esige accostamento equilibrato, superamento delle incompiutezze imperdonabili, educazione alla informazione, alla riflessione, al giudizio, alla scelta, alla libertà e insieme all’adesione, al consumo e alla riproduzione. 5. Criteri di scelta dei c.e. I c. sono nell’ordine dei mezzi. Fine è l’uomo vivente nella natura e nel mondo, l’homo oeconomicus, sapiens, faber, ethicus, religiosus, politicus, artifex: la persona, uomo-donna, cittadino, lavoratore, professionista, credente. In prospettiva pedagogica, la cultura non è vista tanto e/o in primo luogo nel suo aspetto di patrimonio sociale da tramandare, per la continuità della società di appartenenza (anche se questa funzione sociale dell’educazione non è da escludere), quanto piuttosto come insieme dei c. che costituiscono un utile quadro di riferimento per lo sviluppo di persone, di modo che siano all’altezza delle esigenze della storia sociale, in cui poter operare da soggetti. Ma parlare di cultura educativa non è semplicemente qualificare la cultura a partire da un punto di vista particolare; vuol dire anche e specialmente inserire nel complesso del patrimonio sociale di cultura un criterio selettivo, conseguente ad un giudizio di valore, per cui si viene ad affermare che non tutto ciò che afferisce dalla cultura oggettiva è formativo, ma solo ciò che in tale patrimonio sociale è identificabile mediante criteri di rilevanza oggettiva e di adeguatezza personale, di pertinenza contestuale e di efficacia storica. La considerazione e la 257

CONTESTAZIONE GIOVANILE

proposizione dei c.e., implicano, infatti, un giudizio ed una scelta assiologica, etica e politica, sia da parte dei singoli, sia da parte dei gruppi sociali, sia da parte del corpo sociale nella sua globalità e nei suoi rappresentanti legali, in quanto ultimamente riguardante il modello di sviluppo cui s’intende improntare la vita personale e la vicenda comunitaria. Più direttamente diventano questione di politica educativa e scolastica, ai diversi livelli in cui esse si esprimono. E trovano certamente un loro luogo privilegiato nel momento della programmazione di un qualsiasi progetto educativo. Oggi siamo sempre più coscienti dei dislivelli e delle fratture che spesso esistono tra proposte educativo-culturali familiari, scolastiche, partitiche, imprenditoriali, governative, ecc.; oppure delle diverse opportunità di apprendimento, delle carenze dovute alle condizioni sociali, alla classe di appartenenza, alle condizioni economiche, all’ambiente umano e civile e così via. 6. La ricerca di c.e. per il nostro tempo. Una tale opera di revisione, anzi di riforma dei c.e. e scolastici è particolarmente sentita nel nostro tempo, segnato profondamente dal cambiamento e dalla mobilità sociale ed economica, dalla internazionalizzazione della produzione, dal mercato mondializzato dalla multicultura e dalla globalizzazione dell’esistenza; dalle accresciute possibilità di comunicazione interpersonale e sociale; dall’espansione delle conoscenze (per cui si parla di società della conoscenza e di infosocietà); e dalla preponderanza della razionalità tecnologica. Le difficoltà tuttavia sono molte: sia per ciò che riguarda l’individuazione dei c. sia per ciò che riguarda le modalità educative della loro proposizione. Il pluralismo intra-culturale impedisce di pensare ad un’omogeneità formativa basata sull’acquisizione di uno stesso bagaglio culturale. D’altra parte sembra necessario un denominatore comune, un insieme di idee e valori condivisi, realmente funzionale ad una vita comunitaria e a uno sviluppo equo e sostenibile, oltre che democratico, per tutti e per ciascuno. Un «luogo» concreto di tali c.e. è oggi visto da molti in ciò che globalmente denominiamo «diritti umani». Peraltro, la coscienza pedagogica più avvertita piega i saperi necessari all’educazione. Verso la loro acquisizione competente, sia in senso opera258

tivo che globalmente personal-formativo, in modo che sia permessa a tutti e a ciascuno la sintesi tra il privato ed il pubblico, tra sensibilità individuale e sensibilità sociale, tra coscienza dell’identità personale e coscienza di appartenenza e di partecipazione ad un comune progetto storico, pur nel pluralismo e nella dinamica dell’esistenza individuale sociale, privata e pubblica. Bibl.: Lawton D., Programmi di studio ed evoluzione sociale. Dalla teoria alla pratica, Roma, Armando, 1973; Nanni C., Educazione e pedagogia in una cultura che cambia, Roma, LAS, 19882; Volpi C., Paideia ’80. L’educabilità nell’era del post-moderno, Napoli, Tecnodid, 1988; Vico G., I fini dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1995; Cresson E. - P. Flynn, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1996; Delors J. (Ed.), Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando, 1997; Morin E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Cortina Editore, 2000; I d., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Ibid., 2001; Callari Galli M. - F. Cambi - M. Ceruti, Formare alla complessità, Roma, Carocci, 2003.

P. Gianola - C. Nanni

CONTESTAZIONE GIOVANILE Per c.g. generalmente viene inteso quel fenomeno di protesta e di ribellione dei → giovani, soprattutto studenti, europei e non, contro la → società in generale o la classe politica in particolare, che ha visto nel ’68 il suo momento culminante. 1. Natura e contesto storico. Essa ha avuto origine attorno agli anni ’60 negli USA, partendo spesso da istituzioni formative prestigiose, come le università, per diffondersi poi con fasi alterne e con motivazioni e modalità differenziate in altri Paesi sia dell’Europa orientale che del Terzo Mondo. È stato il cammino di un’ideologia che, passando attraverso le proteste della «generazione Beat» (1955), del movimento Hippy e della «New Left» americana degli anni ’60, ha impresso una forte accelerazione a tutte le componenti della società, riportando in primo piano l’esigenza e la volontà di protagonismo da par-

CONTINUITÀ EDUCATIVA

te dei giovani. I primi fermenti contestativi sistematici apparvero nel 1962 all’Università di Berkeley, a cui seguì dal 1964 al 1967 un più esteso movimento di protesta contro la subordinazione degli istituti di ricerca al potere militare, per culminare nel 1968 con le grandi manifestazioni contro il conflitto vietnamita, l’arruolamento dei giovani americani per quella guerra «infinita», e contro la segregazione razziale. I motivi ispiratori della protesta sono da collegarsi a varie situazioni politiche internazionali, come la Rivoluzione culturale in Cina, la guerriglia in America Latina, la presenza del Che Guevara in Bolivia, l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia. 2. Diffusività e caratteristiche. Al di là delle differenti caratterizzazioni che la protesta veniva ad assumere in ogni Paese, il motivo ispiratore di fondo era dato in misura generalizzata da tre fattori e cioè: dalla più viva consapevolezza della precaria situazione universitaria sia a livello politico che didattico e della conseguente «segregazione sociale» a cui i giovani si sentivano avviati per la mancanza di adeguati sbocchi professionali; dalla ripresa più acuta della loro coscienza socio-politica e del loro peso nelle decisioni che più direttamente li riguardavano; dalla rivendicazione studentesca contro i diversi tipi di autoritarismo dei docenti, della struttura accademica, dell’intera società. In sostanza si era acutizzata sempre più l’insofferenza per un certo tipo di rapporti sociali giudicati insoddisfacenti che ora si tentava di cambiare. La protesta ha avvolto l’intera Europa, e ha contagiato anche gli altri continenti in misura proporzionale. In Italia vi erano state occupazioni di Facoltà già fin dal 1963 alla Normale di Pisa, a Firenze, a Trento (che manteneva stretti collegamenti con Berlino). La protesta si è diffusa poi ad altre Università come Roma, Torino e Milano fino a costituire nel ’68 un Movimento di c. non solo di opinione, ma anche di protesta diretta con scontri di piazza e interventi della polizia. Inoltre, ad un periodo definito di «riflusso», immediatamente dopo il ’68, sono seguite fasi successive denominate in modo assai tipico: «Movimento del ’77», i «Ragazzi dell’85», il «Movimento della Pantera» e negli anni ’90 il Movimento della «Jurassic

School». La c.g. del ’68 si è qualificata per alcuni tratti caratteristici comuni. Tra questi sono stati importanti: la singolare contemporaneità in tutti i continenti, la particolare somiglianza delle idee, degli stessi slogans e dei comportamenti, l’accesa rivendicazione della soggettività, del protagonismo e della leadership giovanile a scapito della direzione adulta, la forte valenza politica e antiautoritaria della protesta, la critica antiistituzionale globale per una più diffusa democratizzazione del sapere. Bibl.: A rdigò A., Interrogativi ed ipotesi sulla protesta dei movimenti giovanili, in «Studi di Sociologia» 6 (1968) 4; Marcuse H., La fine dell’utopia, Bari, Laterza, 1968; K eniston K., Giovani all’opposizione, Torino, Einaudi, 1972; Melucci A., Movimenti di rivolta. Teorie e forme di azione collettiva, Milano, Etas Libri, 1976; Joussellin J., La c.g., Torino, SEI, 1979; A ltieri L. et al., Tempo di vivere. Nuove identità e paradigma giovanile dopo il 1977, Milano, Angeli, 1983; Mion R., «Giovani ’86: Lo specchio infranto», in Ministero P ubblica Istruzione, Salute oggi, Roma, MPI, 1986; Ferrarotti F., La nostalgia dei padri, in «La Critica Sociologica» (1999) 131/132, 1-12; Mucci G., Che cosa è rimasto del Sessantotto, in «Civiltà Cattolica» 151 (2000) 111-124; Berman P., Sessantotto. La generazione delle due utopie, Torino, Einaudi, 2006.

R. Mion

CONTESTO EDUCATIVO → Ambiente

CONTINUITÀ EDUCATIVA Il rapporto tra crescita, sviluppo personale e auto- educazione da una parte, e interventi formativi, istituzioni scolastiche, etero- educazione dall’altra, è oggetto permanente della riflessione e della ricerca pedagogica, che hanno trovato diverse mediazioni operative nelle varie epoche storiche. In Italia, negli ultimi lustri, questo problema è stato identificato come questione di c.e. ed è stato affrontato in diversi modi: dall’esterno, riferendosi alla strutturazione dei cicli scolastici, alla loro organizzazione, ecc.; dall’interno, relativamente allo sviluppo della persona dell’alunno che vive l’esperienza scolastica e alle sue esigenze; oppure, in generale, rico259

CONTINUITÀ EDUCATIVA

noscendo il diritto della persona ad «esprimersi» ed «essere» per quello che è e identificando il compito della struttura educativa nel dare ciò di cui hanno bisogno, sul piano formativo, bambini, fanciulli, preadolescenti, ecc. (Montuschi, 1983). 1. Indicazioni della ricerca. a) La c. dello sviluppo del soggetto, secondo → Erikson, si evidenzia nel fatto che esso non si configura come «pura e semplice successione di parti», ma piuttosto come una «sequenza di stadi», peraltro non rigidamente intesi, all’interno dei quali si delinea la differenziazione e l’emergenza delle «parti», che restano sempre sistematicamente in relazione fra loro. Questa affermazione è stata suffragata dalle ricerche empiriche della psicologia dell’età evolutiva. Tra queste, quelle di → Piaget hanno svolto un ruolo assai considerevole nel delineare alcuni principi fondamentali: le diverse dimensioni della persona – corporea, cognitiva, morale, affettiva e relazionale – sono sempre significativamente presenti e correlate in ogni momento dell’età evolutiva ed oltre; per ogni dimensione esistono particolari momenti critici e decisivi di «emergenza» evolutiva; si possono individuare alcuni principali cicli evolutivi, ma tra l’uno e l’altro non vi sono salti, segmentazioni rigide o barriere, ma nessi e saldature. b) Il principale contributo di mediazione pedagogica tra acquisizioni della ricerca e prospettazione di soluzioni praticabili è venuto da → Hessen che, nell’opera Struttura e contenuto della scuola moderna, ha disegnato un preciso itinerario di «sostegno» scolastico alla realizzazione personale ed ha fondato l’idea di scuola di base, intendendo la c. come progressiva conquista dell’autonomia. Nella proposta hesseniana il rispetto delle caratteristiche psicologiche delle varie età è condizione per una concezione scolastica a misura di persona che eviti precocismi ed «attese» ingiustificate. c) Accanto al problema della c.e. in direzione diacronica, che abbiamo appena delineato, non può essere trascurata la questione dei rapporti sincronici tra le diverse «agenzie» educative che operano contemporaneamente con interventi formativi sul soggetto. Uno specifico contributo utile per affrontare il problema della c. viene dall’«ecologia dello sviluppo umano» elaborata da Bronfenbrenner. In estrema sintesi, 260

la sua ricerca conferma l’importanza della diversità di ambienti formativi per la crescita personale, ma evidenzia anche le condizioni che è necessario rispettare. Afferma, infatti, che «apprendimento e sviluppo risultano facilitati qualora la persona che sta crescendo partecipi a strutture più complesse di attività [...] tuttavia [...] il potenziale evolutivo [...] varierà in proporzione diretta alla facilità e alla quantità di comunicazione bidirezionale esistente tra le due situazioni [...] particolare importanza rivestono le discussioni concernenti una situazione ambientale condotte nell’altra situazione [...] e che [...] la transizione di una persona [...] avvenga insieme a qualcuno nei confronti del quale abbia sviluppato un attaccamento emotivo intenso e duraturo» (Bronfenbrenner, 1986). 2. Soluzioni istituzionali. a) Nei sistemi scolastici dei Paesi dell’Unione Europea si possono evidenziare alcune linee di tendenza comuni che mirano, con strumenti differenziati, a rendere il più costruttivo e continuo possibile il percorso formativo di ogni alunno; ad es.: la diffusione della frequenza di istituzioni per l’infanzia, con diversi Paesi che la considerano obbligatoria; l’aumento progressivo dei sistemi articolati in cicli scolastici in funzione di un migliore adattamento ai «ritmi» degli alunni, che si associa alla definizione ed al controllo di standard di → apprendimento per le diverse età; la diversificazione interna dei percorsi formativi di ogni alunno, direttamente proporzionale alla lunghezza dell’obbligo. In altre parole, non una scuola di base unica e monolitica o segmentata rigidamente secondo schemi d’età, ma una scuola modulata in rapporto alle caratteristiche individuali ed al loro dinamico evolversi, al fine di poter più costruttivamente perseguire gli scopi istituzionali ed educativi della formazione di base. b) Alla luce delle indicazioni della ricerca si può rilevare la presenza di concezioni di «scuola di base» di tipo «lineare» nelle quali si propone che siano definiti in modo preciso, a livello normativo, i «traguardi» che ogni → scuola (materna - elementare - media) deve conseguire, precisando che tali esiti debbono costituire il punto di partenza per il lavoro successivo. Al modello del «domino» e dell’«interfaccia» tra una scuola e l’altra, si contrappone quello di un passaggio processuale fluido, adegua-

CONTRATTO IN EDUCAZIONE

to alla organicità dello sviluppo personale. Le proposte curricolari impostate in chiave lineare, infatti, sembrano trascurare il principio della ciclicità formativa che è, invece, l’elemento centrale di un’impostazione sistemica, la cui portata teorico-operativa deve essere ancora pienamente sfruttata. 3. Prospettive. La c.e. si persegue creando le condizioni anche istituzionali per una positiva evoluzione del processo formativo. Infatti c. non vuol dire prosecuzione meccanica, quanto piuttosto successione non traumatica di esperienze diverse, che proprio in forza della loro diversità sono fonte di arricchimento della formazione, della cultura e, pertanto, della personalità dell’educando, di cui la scuola si fa carico in modo specifico interagendo con le altre agenzie educative. Siamo agli antipodi, cioè, della possibile considerazione banale della c. come eliminazione delle trasformazioni, appiattimento, ovattatura dell’azione formativa. Il punto di riferimento non è né il bambino come è, né come dovrebbe essere, ma è il → processo educativo che, in quanto realizzato da una persona nella sua integralità, esige congruenza e coerenza e, con questo significato, c. 4. In conclusione, il criterio della c. verticale ed orizzontale indica uno specifico modo di considerare i rapporti tra le «agenzie educative» sull’asse diacronico e su quello sincronico, secondo il «paradigma» dell’agire comunicativo che si basa sullo scambio informativo, sulla concertazione, sulla cooperazione. Questa prospettiva implica la condivisione delle finalità educative (formazione integrata della dimensione corporea, cognitiva, affettiva e relazionale della personalità) e la funzionalità specifica dell’azione dei diversi ambienti formativi. Bibl.: H essen S., Struttura e contenuto della scuola moderna, Roma, Armando, 1949; Erikson D., Infanzia e società, Ibid., 1967; Piaget J., Lo sviluppo mentale, Torino, Einaudi, 1983; Montuschi F., Introduzione alla nuova scuola elementare, Ancona, Il Lavoro, 1983; Bronfenbrenner U., Ecologia dello sviluppo umano, Bologna, Il Mulino, 1986; Calidoni M. - P. Calidoni, C.e. e scuola di base, Brescia, La Scuola, 2000; Cerini G. - M. Spinosi, La scuola in verticale, Napoli, Tecnodid, 2000; Santoianni F. - M. Striano,

Modelli teorici e metodologici dell’apprendimento, Bari, Laterza, 2003.

P. Calidoni

CONTRATTO IN EDUCAZIONE Nell’accezione più comune indica il «c. pedagogico» con cui si stabiliscono in modo preciso gli → obiettivi della formazione e i criteri della sua → valutazione; lo → studente si impegna alla prestazione fissata e 1’ → insegnante a fornire l’opportuna valutazione. 1. Le origini vanno ricercate in Francia negli anni ’60, e lo sviluppo avviene tra il ’70 e l’80 sulla base di diversi fattori: la domanda sociale di una formazione flessibile, di lavoro in gruppo, di assunzione di responsabilità; l’evoluzione della pedagogia per obiettivi da una concezione comportamentista ad una prospettiva interazionista, che coinvolge sia il docente sia l’alunno; la sperimentazione della valutazione continua, che viene impostata come un’attività condivisa tra insegnante e studente. Le potenzialità del c. pedagogico sono identificate nel contributo alla responsabilizzazione dell’alunno, all’individualizzazione dell’insegnamento, allo sviluppo della pedagogia per obiettivi, al potenziamento dell’ → autonomia scolastica. Rimane il rischio del tecnicismo, di una negoziazione diseguale, di un adattamento acritico alle regole del mondo produttivo. 2. Una seconda accezione è data dal «c. didattico», con cui si indicano le regole esplicite e soprattutto implicite della trasmissione delle conoscenze. L’insegnante deve far sapere allo studente ciò che vuole che egli faccia, ma non può esplicitarlo in una maniera tale da eliminare ogni suo sforzo intellettuale e ridurre il suo compito all’esecuzione meccanica di una serie di operazioni. La situazione didattica farebbe nascere un c. tra insegnante e studente che determina per ciascuno gli obblighi da assumere nella gestione dell’ → apprendimento. 3. Una terza accezione, ricorrente in Italia nel dibattito sulle politiche formative, fa riferimento a un «nuovo c.» o patto tra le forze sociali per ridisegnare il nostro sistema di 261

CONTROLLO SOCIALE

educazione bisognoso di riforme profonde che, però, sono spesso bloccate dai veti incrociati dei vari gruppi di potere. Bibl.: Asolfi J.-P., «Contrat didactique», in P. Champy - C. Étévé (Edd.), Dictionnaire encyclopédique de l’éducation et de la formation, Paris, Nathan, 1994, 200-201; Filloux J., Du contrat pédagogique, Paris, l’Harmattan, 1996; Terrisse A., «Contrat pédagogiques et contrat didactique: essai d’analyse comparée», in P. Jonnaert - S. Laurin (Edd.), Les didactique des disciplines. Un débat contemporain, Québec, PUQ, 2001, 99-110; Cavallin G., Fondamenti di didattica, Bergamo, Junior, 2003; Costa S., Per un patto educativo, in «Docete» 62 (2007) 364-375.

G. Malizia

CONTRO-CULTURA → Cultura CONTROLLO DELL’APPRENDIMENTO → Apprendimento

CONTROLLO SOCIALE È un → costrutto teorico che indica il processo teso a regolare l’ordine sociale e lo stesso cambiamento della società, affinché esso proceda in conformità con le norme che governano il sistema. Esso mira a prevenire la → devianza o ad impedire che si ripeta e si estenda, ma soprattutto tende a selezionare gli scopi di ogni sistema e a realizzare gli obiettivi di integrazione sociale cui è orientata ogni collettività. 1. Il c.s. riguarda perciò qualsiasi tipo di struttura, di processo culturale, di relazione o di meccanismo esplicito o implicito, manifesto o latente, cui ricorre una collettività per far conformare il comportamento degli individui ai ruoli, alle norme e alle consuetudini sociali. Esso quindi è una forma di costrizione sociale, di cui fanno uso coloro che hanno un’autorità sociale, fondata sul potere, sulla ricchezza, e sul prestigio. Si colloca così al centro delle pratiche di mantenimento e di riproduzione della società nelle sue dimensioni strutturali e sovrastrutturali. 2. Si danno molti tipi di c.s.: patente e latente, diretto e indiretto, primario e secondario, esterno ed interno. Il c.s. interno, o anche 262

primario, di regolazione (che fonda il processo di → socializzazione) consiste nell’orientamento della condotta degli individui sulla base della interiorizzazione dei valori e dei modelli culturali condivisi. Viene sviluppato dal sistema socioculturale attraverso un’ampia serie di attività e di apparati sociali come la famiglia, la scuola, e le altre agenzie educative preposte alla trasmissione della memoria collettiva e degli orientamenti di vita propri di una certa collettività. Per esso l’individuo aderisce alle norme sociali, vi acconsente, ne gode gli effetti di tranquillità e di equilibrio anche psicologico, mentre viene preso da sensi di colpa e di autocritica quando se ne discosta. In questo caso alcuni autori parlano di c.s. come variabile indipendente. Il c.s. esterno, o secondario, si riferisce invece a quel processo sociale per cui si tende ad eliminare la devianza in atto o in formazione o la sua diffusione, attraverso pressioni, sanzioni, punizioni e altre azioni deterrenti a seconda della gravità delle infrazioni. Ciò è compito delle organizzazioni del sistema politico, deputate esplicitamente alla creazione di norme e di leggi ed alla loro osservanza. In questo caso si parla anche di c.s. come variabile dipendente dal potere politico. 3. La categoria del c.s. è stata infine oggetto di interpretazioni diverse sulla base di alcune teorie più sistematiche, che si rifanno ai classici come → Parsons, a A. K. Cohen (1969), a G. Gurvitch e a T. B. Bottomore (1971). Bibl.: Bagnasco A., et al., Corso di sociologia, Bologna, Il Mulino, 1997; Liska A. E., «Social control», in E. F. Borgatta (Ed.), Enciclopedia of sociology, vol. 4, New York, Macmillan, 1992, 1818-1823; Sciolla L., Sociologia dei processi culturali, Bologna, Il Mulino, 2002; Barbero Avanzini B., Devianza e c.s., Milano, Angeli, 2003; Garland D., La cultura del c. Crimine e ordine sociale nella società contemporanea, Napoli, Net, 2007.

R. Mion

CONVERSIONE Il problema della c. viene affrontato, nella sua dimensione pedagogico-educativa, da un punto di vista psicologico e teologico.

CONVERSIONE

1. La c. da un punto di vista psicologico. La c. si presenta come un processo attraverso cui un individuo manifesta progressivamente di recepire nuove idee che si trasformano lentamente in un diverso stile di vita. Tale ricettività può essere attribuita al venir meno della capacità critica, alla notevole pressione esercitata dai mezzi d’informazione, oppure a una soverchia stimolazione del sistema nervoso. D’altra parte, essa può risultare da un confronto sistematico e accurato del proprio sistema di convinzioni con nuovi dati acquisiti dall’esperienza oppure offerti dal contesto ambientale. Così come può rappresentare il risultato di un procedimento di passiva assimilazione di modelli presentati con una forte carica di suggestione, oppure con l’autorevolezza di un capo carismatico. Spesse volte il processo di c. si snoda attraverso varie fasi: inizialmente la persona manifesta delle tensioni non passeggere a livello profondo, soprattutto riguardo al suo rapporto con gli altri, alle sue convinzioni religiose, allo stile personale di vita adottato; da questo stato d’animo scaturisce la tendenza a cercare risposte soddisfacenti, prevalentemente in un contesto religioso; all’interno di tale ricerca il punto di svolta è rappresentato dall’incontro con un determinato gruppo religioso o anche con una specifica persona la cui personalità sprigiona serenità e fiducia; la conseguenza è l’instaurarsi di legami affettivi sempre più intensi, con il conseguente affievolirsi dei rapporti con i membri del gruppo di provenienza, considerati come degli estranei o degli oppositori; l’interazione forte con i nuovi compagni di viaggio rinsalda sempre più i vincoli di appartenenza e mette il soggetto nelle condizioni di accogliere con entusiasmo le proposte di impegno e di disponibilità che gli vengono rivolte e di proseguire con ardore nell’approfondimento del quadro teorico di riferimento. Qualunque sia il processo attraverso cui viene a realizzarsi, occorre aggiungere che la c. – come è stato ampiamente studiato da J. Lofland e L. N. Skonovd (1981) – può presentarsi in diverse modalità: la c. intellettuale, che scaturisce dalla lettura di materiale propagandistico o dalla visione di programmi televisivi; la c. mistica, che si manifesta al termine di un periodo di particolare tensione, spesse volte legato alla sofferenza di una persona cara; la c. sperimentale, che rappresenta un tenta-

tivo di vedere se una nuova esperienza può apportare delle soddisfazioni interiori particolarmente significative; la c. affettiva, che passa attraverso lo sviluppo di intensi legami emotivi con una persona aderente ad un’altra religione; la c. revivalistica, che appare notevolmente legata alla pressione dell’ambiente o di un predicatore dalla straordinaria capacità di convincimento; la c. coercitiva, che si verifica in soggetti che hanno avuto gravi difficoltà psicologiche oppure hanno subito minacce o pressioni di vario tipo. 2. La c. cristiana da un punto di vista teologico. La c., nucleo fondamentale dell’esperienza di fede della comunità cristiana, si presenta al teologo come una realtà complessa. Essa è contemporaneamente dono di Dio e risposta libera dell’uomo. Come qualunque tipo di c. religiosa, essa è un fenomeno eminentemente personale, tuttavia avviene generalmente attraverso la mediazione della comunità ecclesiale, che vive la sua esperienza di fede all’interno di una cultura. Dal punto di vista esistenziale, essa è radicale accettazione di Dio che salva per mezzo di Cristo nello Spirito; è opzione fondamentale che mette in questione tutta la vita dell’uomo; è speranza del mondo definitivo della risurrezione, promesso dal Cristo e già realizzato nella sua persona; è amore e obbedienza a Dio e virtuale dedizione a tutti gli uomini, visti come fratelli, perché possano mettersi sulla via di una salvezza e liberazione integrale. Così intesa, ingloba virtualmente tutta la vita dell’uomo e traspare solo attraverso la testimonianza della vita. Dal punto di vista conoscitivo, la c. si identifica con i contenuti della fede, cioè con la rappresentazione intellettiva e la formulazione linguistica del messaggio salvifico di Dio, rivelato compiutamente in Cristo, messaggio a cui l’uomo aderisce incondizionatamente, facendone la suprema norma del suo pensare e del suo agire. Considerata sotto questa duplice angolazione, la c., oltre a dare un nuovo senso alla vita, diviene, nel credente, realtà oggettivabile (formule di fede), comunicabile (→ evangelizzazione, predicazione liturgica, → catechesi) e oggetto di riflessione e di studio (teologia, scienze umane). 3. C., vita, persona e educazione. La c., in quanto decisione libera e responsabile della 263

CONVERSIONE

persona, è soggetta a tutte le vicissitudini della → libertà umana. Questa infatti, posseduta dalla persona inizialmente solo allo stato germinale, può crescere e maturare se coltivata mediante l’educazione, ma può anche deteriorarsi e diminuire, se trascurata. Libertà e senso di responsabilità sono profondamente condizionati nel loro sviluppo e nella loro maturazione da numerosi fattori sia all’interno della stessa persona sia nell’ambito del contesto socio-economico, politico e culturale, in cui la persona vive. Perciò, pur essendo vero che un’autentica c. cristiana è sempre una forza che tende a permeare tutta l’esistenza dell’uomo ed è nella sua essenza vera celebrazione della libertà, nella sua concretezza esistenziale non è e non può essere uguale in tutte le persone, cioè non può esistere allo stesso livello di perfezione e di maturità, proprio perché la libertà, che la costituisce in quanto risposta umana al dono di Dio, è diversa nell’uomo adulto e maturo che si converte rispetto a quella che può possedere un immaturo o un atipico (un nevrotico, un malato psichico) o una persona costretta a vivere in condizioni subumane. Alla luce di queste considerazioni, la c. cristiana dovrebbe diventare un processo continuo di cambiamento e di crescita o, meglio, una molteplicità di tali processi, diversi per le singole persone e comunità cristiane. I cristiani singoli, le comunità locali e la Chiesa tutta dovrebbero essere immersi in un continuo processo di crescita in Cristo, nella prospettiva di un ideale di perfezione e di maturità, che li trascenderà sempre, perché essenzialmente escatologico (cfr. Ef 4,11-16). Però, proprio perché la libertà umana e il senso di responsabilità possono crescere e maturare, ma anche diminuire e deteriorarsi, se non sono educati, anche i processi di c., sono soggetti alle stesse vicissitudini, dipendendo dalla crescita o dall’involuzione delle persone e delle comunità. Così sul piano della libertà i cristiani (come singoli e come comunità) dovranno passare dall’opzione globale di fede degli inizi della c. alle successive scelte coerenti in tutti gli ambiti, sacrali e profani, della vita. Sul piano della comprensione intellettuale e vitale dei contenuti della loro fede e su quello della loro formulazione linguistica, avranno da passare dalle formule iniziali di tipo globale e spesso anche imperfetto a conoscenze e for264

mulazioni più adeguate, conformi alla loro crescita psichica e culturale. In rapporto alla sfera affettiva e a quella dei comportamenti, i credenti, da uno stato iniziale di conflittualità interiore dovranno passare gradualmente a uno stato di pacificazione relativa mediante processi di maturazione etica; da comportamenti cristiani di tipo saltuario e frammentario a una testimonianza costante e organica di vita cristiana. In breve, i processi di c. e di crescita cristiana chiedono di essere accompagnati da processi di autentica maturazione umana, non però nel senso di processi paralleli o in successione temporale, ma come un unico processo esistenziale di crescita, che sia contemporaneamente maturazione in Cristo e maturazione umana a livello individuale e comunitario (→ educazione cristiana). Bibl.: a) Psicologia della c.: Lofland J. - L. N. Skonovd, Conversion motifs, in «Journal for Scientific Study of Religion» 20 (1981) 373-385; Ullmann C., The transformed self. The psychology of religious conversion, New York, Plenum Publishing Corporation, 1989; McLaughlin M., Knowledge, consciousness and religious. Conversion in Bernard Lonergan and Sri Aurobindo, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 2003; Mondadori L. - V. Messori, C. Una storia personale, Milano, Mondadori, 2004. b) Teologia della c.: A land K., Über den Glaubenswechsel in der Geschichte des Christentums, Berlin, Töpelmann, 1961; Congar Y., La conversion. Étude théologique et psychologique, in «Parole et Mission» 11 (1968) 496-523; Nock A.D., C., società e religione nel mondo antico, Bari, Laterza, 1974; Goffi T., «C.», in Nuovo dizionario di spiritualità, Roma, Paoline, 1982, 288-294; Groppo G., Maturità di fede o maturazione cristiana? Suggestioni e proposte, in «Orientamenti Pedagogici» 30 (1983) 636-645; Comastri A., Dov’è il tuo Dio? Storia di c. nel XX secolo, Milano, San Paolo, 2003; Blasetti L., Che cosa è evangelizzare? C., discepolato, sequela, Milano, Paoline, 2004.

E. Fizzotti - G. Groppo

CONVITTO → Collegio → Istituto CONVIVENZA → Famiglia → Matrimonio CONVIVENZA CIVILE → Educazione sociopolitica CONVIVENZA DEMOCRATICA → Educazione socio-politica

CORPO/CORPOREITÀ

COOPERATIVE LEARNING → Apprendimento cooperativo COOPERAZIONE EDUCATIVA → Freinet Celestin COORDINAMENTO SCOLASTICO → Organizzazione scolastica COPPIA → Famiglia → Matrimonio

CORALLO Gino n. a Randazzo (CT) nel 1910 - m. a Catania nel 2003, educatore e pedagogista italiano. 1. Sacerdote salesiano, fu docente e Rettore dell’Università salesiana di Roma (1966-1968). Libero docente nel 1954, insegnò a Salerno, Bari, Lecce, Roma-Magistero Maria SS. Assunta; dal 1963 fu ordinario di pedagogia a Bari, e dal 1970 a Catania. Nel 1979 diventò primo presidente dell’IRSSAESicilia. 2. Un soggiorno negli Stati Uniti gli diede modo di essere tra i primi recensori della pedagogia deweyana (evidenziandone la valenza pedagogico-democratica ma anche la visione naturalistico-immanentistica). Il suo impianto teorico, fondamentalmente neo-tomistico, ma non privo di influssi neoagostiniani, neo-idealisti (a Roma frequentò le lezioni di G. Gentile) e personalistici, gli fece, fin dall’inizio, porre al centro dell’azione educativa la promozione della libertà, vista come caratteristica peculiare della persona, da qualificare nella sua capacità di scelta personale e di impegno responsabile. Il chiaro riferimento all’etica, alla verità e ai valori gli permise il superamento di impostazioni individualistiche o storicisticoimmanentistiche o funzionalistico-sociali. Azione del docente e attivo coinvolgimento del discente sono anche alla base della sua metodologia pedagogica. Epistemologicamente queste affermazioni si basano su una concezione della pedagogia vista come scienza teorico-descrittiva (pedagogia generale) e normativa (metodologia dell’educazione e pedagogia-didattica, generale e speciale). In questo senso egli ha svolto un ruolo significativo nella cultura e nella docenza universitaria pedagogica degli anni cinquanta e sessanta.

Bibl.: a) Fonti: La pedagogia di Giovanni Dewey, Torino, SEI, 1950; Educazione e libertà, Ibid., 1951; Pedagogia, vol. I: L’educazione, Ibid., 1961; Pedagogia, vol. II: L’atto di educare. Problemi di metodologia dell’educazione, Ibid., 1967. b) Studi: Zanniello G. (Ed.), Educazione e libertà in G.C., Roma, Armando, 2005.

C. Nanni

CORPO/CORPOREITÀ La corporeità è un nodo problematico di notevole spessore sia dal punto di vista speculativo che esistenziale ed educativo in particolare. 1. Aspetti storici ed antropologici. Schematizzando al massimo gli apporti della storia, si possono intravvedere due grandi prospettive sulla corporeità. Per una essa è solo un elemento insignificante, trascurabile o addirittura pericoloso per capire l’uomo e il suo mistero nella sua interezza e integralità, per l’altra, al contrario, è ciò che costituisce l’uomo. Per questa seconda impostazione l’uomo inizierebbe e finirebbe con il c., con nulla che precede e nulla che segue, per l’altra, al contrario, la salvezza deve essere acquistata contro il c. Per distribuire sistematicamente le posizioni antropologiche, bisogna distinguere riguardo al c. la considerazione del fatto e del dato, dal significato e dal valore umano che gli si attribuisce. Per quanto riguarda il fatto, ci sono prima di tutto i modelli monistici e quelli dualistici. Il monismo può negare sia il c. sia l’anima ed in questo caso l’uomo sarà o solo c. (Marx, Sartre, Merleau-Ponty...), o solo spirito (Platone, Spinoza...). Per completare il panorama ci sono da ricordare i modelli o i tentativi unitari. Alcuni, come quello di Aristotele prima e poi di s. Tommaso, sono costruiti con l’ausilio di categorie metafisiche. In questo caso l’unità dell’uomo è ontologica perché è assicurata non da due realtà, ma da due coprincipi, da due cause: la materia e la forma. La teoria generale dell’ilemorfismo, per cui qualsiasi essere fisico è composto di materia e forma, viene estesa anche all’uomo, sebbene la terminologia sia quella di anima e di c. Se questa lettura ha avviato il superamento del dualismo, nella sua formulazione ha reso 265

CORPO/CORPOREITÀ

però complicato spiegare la sopravvivenza dell’anima. San Tommaso ha cercato di perfezionare questa concezione parlando di unità della natura (tra corporeità ed anima) e di unità della persona (un unico soggetto di attribuzione); ha insistito sulla immortalità dell’anima e sulla sua aspirazione di tornare a ricongiungersi ad un c. anche se trasfigurato dalla risurrezione. 2. Il significato della corporeità. Circa il significato del c. troviamo tutta una gamma di valutazioni. Da quelle esageratamente negative a quelle esasperatamente positive, da quelle neutre a quelle altalenanti. Pertanto è d’obbligo annotare che ci troviamo di fronte ad una serie di interpretazioni conflittuali, quando addirittura non si scatena il conflitto stesso delle interpretazioni. A proposito della corporeità non è facile mantenersi nei limiti di una ricerca compassata; quasi sempre si accende la passione per tesi che sono preconcette e ideologiche, le quali travisano l’osservazione e allontanano la verità. Il significato originario e fondamentale del c. umano scaturisce dalla constatazione che non è semplicemente qualcosa, ma è il c. di qualcuno, di un soggetto indeclinabile, di una persona unica ed irrepetibile che al c., con il c. e nel c. dà il segno inconfondibile della sua presenza. Conseguentemente il c. è: a) Rivelazione della persona, della sua interiorità, della sua concretezza, della complessità della sua esistenza, delle risorse interiori ed esteriori che mette in atto, delle possibilità infinite con cui si proietta nel mondo, della dimensione storica e operosa della sua presenza. È espressione dunque della persona nel suo modo incarnato di essere e di manifestarsi. b) Relazione con gli altri. Infatti la presenza dell’uomo nel mondo non è sotto il segno dell’isolamento, ma di una serie indefinita di rapporti, a volte liberi e spontanei, altre volte fissi o istituzionalizzati. Tutto questo lo inserisce in uno spazio e in un tempo ben precisi, in una dimensione familiare, sociale e culturale che lo plasma come una seconda natura. Con il suo c. ognuno sta come persona di fronte alle altre, si pone come loro interlocutore. Se questi rapporti sono negativi o conflittuali allora ne risente la sua crescita, il suo equilibrio, la percezione che egli ha di se stesso e la sua stessa visione del mondo. Se invece sono orientati all’incontro, al dia266

logo, alla comunione, come nell’amicizia e nell’amore, allora portano immancabilmente alla stima e alla promozione dell’altro, alla fedeltà creativa ed eroica con cui il tu conta più di se stessi. E per aiutarlo si è disposti a dare tutto e a darsi totalmente. c) Rielaborazione del mondo. L’uomo proiettandosi nel mondo lo assume e lo trasforma secondo un processo di umanizzazione con cui pone nelle cose il marchio inconfondibile del suo intervento. Il tentativo di orientarsi e di interpretare la realtà lo mettono in ascolto (fede), lo spingono ad elaborare sistemi coerenti di pensiero (filosofie), di conoscenze (scienze), di saggezza (esperienza), di abilità (tecnologie) che gli permettono di vincere l’ostilità e l’ignoranza e di sentire familiare e disponibile la realtà nella quale vive. Una menzione particolare merita il linguaggio che è quella attività di espressione, rappresentazione e comunicazione in cui il c. gioca un ruolo quanto mai importante. Anzi il c. stesso, il volto, i gesti, le smorfie sono la forma di linguaggio insieme più comune ed originaria. d) Differenza sessuale. Il c. esprime il nostro essere o maschi o femmine. Sulla sessualità umana pesano senza dubbio tanti giudizi e pregiudizi che rendono la sua comprensione quanto mai difficile. Basta pensare allo spessore di mitologia con cui, da sempre, è stata accostata la realtà e il mistero della sessualità e più ancora il suo significato. Il sesso è chiaramente un fatto di natura, ma non è soltanto questo. Ci sono delle differenze e delle interferenze culturali, ma le diversità tra i sessi non possono essere delle semplici polarità psicologiche, culturalmente indotte. E pertanto la complementarità sul piano biologico trova il suo inevitabile completamento in quello psicologico, culturale, sociale. Se il sesso (maschile e femminile) nella maggioranza dei casi è un dato, la sessualità (il significato umano che riveste l’essere uomo e donna) è un’acquisizione. Essa consiste essenzialmente nella reciprocità corporea, psicologica, sociale, culturale di uomo e donna. In ciò essi rivelano l’orizzonte completo del loro essere persone e il carattere intersoggettivo ed interpersonale del loro rapportarsi, che non annulla, ma identifica il loro essere o maschio o femmina. Così per costituire l’identità di uno dei due c’è bisogno dell’altro e viceversa. e) Limite. Il c. infatti è comunicazione, ma anche possibilità di equivoci;

CORPO/CORPOREITÀ

è relazione, comunione e distanza, separazione, resistenza. Ci inserisce nello spazio e nel tempo, dentro le leggi del mondo fisico e biologico, ma ci lega talmente a queste dimensioni che non le possiamo assolutamente superare. Ci può dare le gratificazioni di equilibri perfetti e sorprendenti, ma anche le amare conseguenze di squilibri e stravolgimenti vari. È possibilità di vita, ma è anche causa di morte, spesso attraverso malattie e sofferenze inimmaginabili. 3. Prospettiva teologica. La considerazione della morte, quale limite invalicabile dell’esperienza corporea, pone degli interrogativi non soltanto sulla fine e il fine della corporeità, ma sul fine e la fine della stessa persona. La morte distrugge il c., ma il suo significato è soltanto biologico o pone degli interrogativi più profondi ed estesi che investono il significato veramente ultimo dell’uomo? Per ammettere che questo significato l’uomo lo abbia e lo possa avere, nella e attraverso la morte, ci si deve spostare però oltre la stessa morte. Ma una considerazione della corporeità oltre la morte non è un discorso scientifico, né può averne le caratteristiche. La scienza parla di ciò che può osservare e verificare, di ciò che può esporre con categorie e controlli empirici. Se pertanto la scienza non si può spingere al di là della morte, in quanto questa rappresenta la fine del c. e quindi di una riflessione che si possa qualificare come induttiva e per osservazione, la scienza può comunque impostare e presentare le alternative che proprio la disgregazione del c. obbliga a formulare. Perché dunque il discorso teologico abbia un senso e una sua validità, non soltanto per i credenti ma anche per gli altri, è necessario che si limiti a formulare le diverse ipotesi e a mostrare le alternative che la morte impone, anche se presenta pure il dono che l’uomo può accogliere. È da quest’unica prospettiva che presenteremo le indicazioni che una impostazione teologica offre alla comprensione del c. Una prospettiva teologica fondamentalmente ci dice che l’uomo ha delle possibilità dopo e oltre la morte e quali sono queste possibilità. Seguiamo l’articolarsi di queste alternative. Se il significato del c. è soltanto intramondano, perché si conclude ineluttabilmente o si chiude bruscamente con la morte, allora il significato del c., e

dunque dell’uomo, è soltanto legato alla sfera che possiamo catalogare come biologica. Questa conclusione è solidale con la identificazione perfetta tra la persona ed il suo c. Pertanto l’uomo sarà il risultato esclusivo e matematico della sua storia, delle avventure e disavventure della sua esistenza e l’inizio e il termine della sua esperienza sono cronologicamente fissate dalle date della sua biografia. Se invece l’esperienza della persona va al di là della decomposizione del suo c., ciò è possibile alla sola condizione che l’uomo non è soltanto c. ma che la sua esperienza completa fa riferimento a quella dimensione, che per distinguerla da quella materiale, e caratterizzarla nelle sue potenzialità, indichiamo come spirituale. Precisare, però, cosa sia lo spirito è quanto mai difficile, ancora più difficile che riconoscere cosa faccia o possa fare. Se lo si ammette è necessario riconoscere che abbia un’essenza e un’esistenza diversa da quella materiale, che non è schiavo delle necessità e dei determinismi a cui invece è legato l’essere materiale. Se da sempre la corporeità è stata accostata alla materia, ai bisogni della carne e della natura, l’anima è stata intesa come spirito, principio di animazione e forma sostanziale, soggetto dei fenomeni psichici, sorgente di pensiero e di intelligibilità, libertà e volontà. 4. Aspetti psicologici. W. Reich individuò nel c. i «luoghi» della patologia ed elaborò una coerente terapia corporea. Egli scoprì che l’interruzione di un’esperienza emozionale provoca il blocco di specifici processi corporei. Anche se non se ne ha consapevolezza o se ne perde la memoria, le «repressioni» corporee diventano tensioni muscolari, che, progressivamente, si stratificano e si strutturano come corazza caratteriale. Nel c. rimangono le tracce «visibili» della storia affettiva della persona, del dolore, della rabbia, della paura, della disperazione, della gioia che non hanno trovato voce/espressione. I blocchi corporei, dovuti a queste interruzioni, rimangono «attivi» condizionando, in modo decisivo, sia il sistema sensorio (il modo di percepire se stessi e il mondo) sia il sistema motorio (il nostro muoversi ed agire nel mondo). Le tensioni muscolari, in altre parole, determinano le modalità di apertura/chiusura del c. nei confronti di nuove esperienze. L’approccio – teoria e pratica – di Reich operò 267

CORPO/CORPOREITÀ

una rivoluzione nel modo di concepire il rapporto mente/c., non solo nell’ambito della psicoterapia ma anche in quello antropologico. Diede avvio ad un’attenzione e ad un interesse per il c. che, in modi differenti, si ritrova nei principali modelli di psicoterapia elaborati negli anni sessanta. Alcuni allievi di Reich hanno rivisitato in modo innovativo il contributo del maestro: A. Lowen, fondatore della bioenergetica; D. Boadella interessato in particolare allo sviluppo del rapporto c./emozione sin dallo stadio fetale (la «biosintesi»); S. Kelemann, che ha approfondito l’integrazione muscolatura/struttura ossea/ emozioni e ha denominato il suo approccio «Anatomia emozionale». Nel contesto culturale del New Age che enfatizzò l’attenzione per il c. nacquero inoltre numerosi approcci corporei sia con valenza terapeutica (ad es., l’«Urlo Primario» di A. Janov, l’«Energetica vocale» della J. M. Colemann, ecc.) sia con interesse per lo sviluppo del potenziale umano (massaggi, danza, tecniche di meditazione, ecc.). Lo studio del c. risulta inoltre di particolare rilievo nella psicosomatica, nella neuroendocrinologia, nei vari approcci tecnici finalizzati al rilassamento (ad es.: H. Schultz, Jacobson); nelle ricerche sulla comunicazione non verbale. Il ground di riferimento (metamodello di base) delle terapie a orientamento corporeo può essere descritto sinteticamente in alcuni punti-chiave. a) Visione olistica del rapporto c./mente. «Non abbiamo un c. ma siamo un c.» è l’assunto di partenza di ogni terapia corporea. Autori recenti parlano di «mente corporea» (G. Downing, 1995). b) L’importanza dello → schema corporeo. A P. Schilder (1986), maestro di Reich, si devono i primi e i più decisivi studi sullo schema corporeo. Ogni persona elabora un’immagine tridimensionale del proprio c., una rappresentazione che mette insieme sia l’immagine mentale sia le sensazioni propriocettive: una sorta di «anatomia simbolica». Questo schema corporeo, per lo più inconsapevole e in continua ridefinizione, determina lo stile con cui ogni «c.» si vive ed entra in rapporto con il mondo. Lo scarto tra il c. come «dato» e lo schema corporeo o «c. vissuto» è il «luogo» delle patologie e della terapia. c) La respirazione, nelle due fasi di espirazione ed inspirazione, si colloca tra l’attività volontaria e quella involontaria e rappresenta il luogo nevralgico in cui interno 268

ed esterno, organismo ed ambiente si trovano in relazione. Poiché si respira più con il c. «vissuto» che con il c. «dato», le differenti modalità di respirazione (l’intensità, l’armonia, la globalità, ecc.) diventano la «via regia» per accedere allo schema corporeo implicito. L’attenzione e il lavoro sulla respirazione costituisce una competenza di base di tutte le terapie esperienziali. d) Il c. è lo sfondo della nostra identità: da esso emergono i nostri bisogni, in esso avvengono esperienze fondamentali della formazione del sé, in esso sono inscritte situazioni affettive «incompiute». Essere in contatto con il c., ascoltarlo, è il percorso necessario per attingere le radici della nostra identità e ripristinare la circolarità parola/c., ossia la capacità di dare «c.» alla parola e dare «parola» al c. 5. Aspetti pedagogici. «C’è più ragione nel tuo c. che nella tua migliore sapienza» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra). Non è possibile oggi pensare ad un itinerario pedagogico che non attraversi a livello di riflessione e di esperienza la corporeità. Si tratta, ormai, di consolidate acquisizioni che non possono essere disconosciute né dal sapere psicologico, né da quello pedagogico. Descriviamo alcuni itinerari di una formazione alla corporeità. a) Educare ad una visione globale/integrata del c./anima. In un contesto sociale nel quale il c. viene vissuto come «parte», «strumento» di lavoro o di piacere, la formazione alla globalità permette di scoprire l’unità inscindibile di c./anima, ossia il c. come presenza e come luogo dell’intersoggettività. Il poeta ha così sintetizzato questo percorso: «Mi fu dato di nascere una seconda volta quando la mia anima e il mio c. si amarono e si unirono in matrimonio» (K. Gibran). b) Educare alla respirazione. Nel mondo orientale come in quello ebraico l’attenzione alla respirazione («ruah», spirito) è elemento costitutivo della concezione della vita. Già nel 500 a.C. Chuang-tsu aveva detto: «L’uomo vero respira attraverso i talloni, la gente comune attraverso la gola». «Abitare il proprio c.» richiede ed insieme si esprime in una respirazione appropriata, profonda e globale. Imparare ad essere attenti alla respirazione come fiume sotterraneo della nostra consapevolezza ci permette di entrare in contatto con i livelli a noi meno noti della nostra interiorità. Il lavoro sulla respirazione può produrre anche

COSCIENZA

modificazioni degli stati di coscienza. Non per nulla i metodi di meditazione richiedono un’attenzione specifica alla respirazione. Imparando a respirare non si apprende una tecnica ma un modo genuino di centrarsi su se stesso, di affrontare momenti di impegno nel rapporto con il mondo. c) Educare al c. «vissuto». Nella cultura narcisistica viene negato il c. reale ed enfatizzato il c. «visivo». Il soggetto è condannato a raggiungere e mantenere standard di bellezza esterna, decorativa. Ogni percorso educativo deve favorire nella persona l’esperienza interna del riappropriarsi del c. come luogo della propria vitalità. Esemplificando, la mano «vissuta», più che la mano «vista», costituisce il cardine della mia identità che è fondamentalmente corporea. 6. Educare alla grazia. La formazione al c. vissuto porta alla scoperta della grazia come bellezza vibrante inscritta in ciascun c., al di là della valutazione estetica e della seduzione erotica. Un c. che si libera dalle tensioni, dalle paure, e si apre alla respirazione piena ritrova l’armonia dei movimenti, sperimenta la propria grazia e ritrova la fede/fiducia come dimensione «spirituale» della corporeità. Arrendersi al proprio c. – ha scritto A. Lowen – significa comprendere e vivere anche l’arrendersi a Dio. Bibl.: Valeriani A., Il nostro c. come comunicazione, Brescia. La Scuola, 1964; Bruaire C. Philosophie du Corps, Paris, PUF, 1968; Fast J., Il linguaggio del c., Milano, Mondadori, 1972; Sarano J., Il significato del c., Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1975; Gevaert J., Il problema dell’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1981; Schilder P., Immagine di sé e schema corporeo, Milano, Angeli, 1986; Lapierre A. - B. Aucouturier, Il c. e l’inconscio in educazione e in terapia, Roma, Armando, 1987; Bourdieu P., C. tra natura e cultura, Milano, Angeli, 1988; Salonia G., Itinerario bibliografico sul tema: il c. in psicoterapia, in «Quaderni di Gestalt» 6/7 (1988) 167-178; L owen A., Linguaggio del c., Milano, Feltrinelli, 1990; I d., La spiritualità del c., Roma, Astrolabio, 1991; Buber M., Il principio dialogico, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1993; Downing G., Il c. e la parola, Roma, Astrolabio, 1995; L owen A., Arrendersi al c., Ibid., 1995; Gentili A., Le ragioni del c., Milano, Ancora,

1996; M ilitello La Rocca E., Il problema della c.: lo sport attraverso il pensiero cristiano, Troina, OASI, 1999.

C. Peri - G. Salonia

CORRELAZIONE → Metodi didattici → Statistica

COSCIENZA Giudizio ultimo e dettame mediante cui l’uomo, riconoscendo se stesso nella sua essenza e nelle sue modificazioni e avendo una conoscenza riflessa delle cose, orienta il proprio comportamento. 1. Punto di partenza. Nell’ottica psicologica, con il termine c. si fa riferimento tanto al fatto di essere consapevoli (aspetto psicologico) quanto al fatto di essere responsabili (aspetto morale). La c. psicologica («rendersi conto») è una struttura organizzativa che comprende, contemporaneamente, l’essere oggetto e l’essere soggetto del proprio vissuto. La c. morale comprende: i processi cognitivi, cioè il momento di valutazione delle proprie intenzioni e azioni (conoscenza dei principi e delle norme); l’aspetto comportamentale (agire moralmente o evitare i comportamenti proibiti); la risonanza emotiva che il soggetto sperimenta prima, durante e a seguito del proprio comportamento. Lo sviluppo della c. segue il processo di maturazione della persona. Nelle prime tappe dell’età evolutiva, essa è semplicemente il risultato di un processo di interiorizzazione e riproduzione di norme esterne, fondamentalmente parentali («morale istintiva»). Successivamente, i processi infantili di identificazione con i genitori, i risultati del superamento della situazione edipica, i comportamenti imparati mediante l’apprendimento per osservazione e attuati per fedeltà alle persone significative, svincolandosi dai meccanismi che li hanno generati, diventano autonomi e propri della persona («morale umana personalizzata»). 2. Lettura evolutiva della formazione della c. Il processo di formazione della c. si inserisce nel processo globale di maturazione umana. Questa maturazione indica il cammino attraverso il quale il soggetto diventa responsa269

COSCIENZA

bile del proprio comportamento e acquista la capacità di prendere delle decisioni; in quest’ottica, la c. rappresenta il centro decisionale e dell’imputabilità delle azioni umane. Sarebbe desiderabile che la maturazione della c. morale accompagnasse parallelamente tutto il processo maturativo globale della persona. In questo modo, si instaurerebbe un accordo tra la norma interiore (personale) e la norma oggettiva di moralità; si verificherebbe una corrispondenza tra le valutazioni della c. come «norma prossima di moralità», da una parte, e i valori, le prescrizioni, i principi, ecc., come «norma remota di moralità», dall’altra. 2.1. Processi e meccanismi di sviluppo della c. È necessario considerare il processo di crescita e la possibilità di superare le diverse forme di egocentrismo umano, in modo che il soggetto possa prendere c. di se stesso e del mondo sociale in cui vive. Sono molti i fattori e i meccanismi che complicano la possibilità di diventare veramente responsabili. Ne indichiamo tre: frequentemente, la facilità o la difficoltà di prendere c. del proprio valore dipende dall’accettazione avuta da parte delle persone significative; la possibilità di agire secondo le proprie capacità e abilità favorisce la formazione del concetto di sé e quindi la crescita nella presa di c. del proprio valore; la possibilità infine di evolvere gradualmente anche nel proprio senso di responsabilità. 2.2. Sviluppo del giudizio morale. La formazione della c. richiede il rispetto del ritmo di sviluppo e della maturazione del giudizio morale. Senza escludere i fattori emotivi e comportamentali, è evidente l’importanza dei fattori cognitivi, dato l’influsso che essi esercitano nel processo dello sviluppo del giudizio morale. È utile, in proposito, ricordare i tre possibili livelli evolutivi della c. delle regole indicati da → Piaget: il carattere ludico delle regole, il loro carattere sacro e quello consensuale. È possibile osservare un passaggio da una considerazione delle regole come qualcosa di assoluto, di esterno al soggetto, imposto dagli adulti, ad una concezione secondo la quale le regole sono il risultato di un accordo reciproco tra gli individui e, quindi, sono modificabili secondo le esigenze delle persone. I contributi di → Kohlberg sottolineano che il comportamento e le relative valutazioni, in base al diverso livello di sviluppo, trovano il loro fondamento in motivazioni diverse. 270

3. Riflessioni educative. L’educazione morale richiede la programmazione di itinerari che portino alla scoperta e alla realizzazione di tutto ciò che facilita l’attuazione del compito morale dell’uomo. 3.1. Passaggio dalla discussione alla capacità di essere responsabile. Se l’educando si sente protagonista delle sue decisioni e della gestione di quanto lo riguarda, ha la possibilità concreta di maturare nel processo di formazione della c. In questo senso, è importante che egli possa esprimere la sua opinione nelle discussioni che precedono la decisione finale. È necessario non soltanto facilitare la discussione ragionata nel processo decisionale, ma anche riconoscere, favorire ed apprezzare la capacità dell’educando di decidere e di contribuire alla realizzazione delle decisioni intraprese. In questo modo, il soggetto può, con buon fondamento, sentirsi responsabile delle sue azioni. 3.2. Attendere il momento adeguato alla situazione globale dell’educando. L’ → educatore non deve precipitare i tempi o gli eventi, bensì tener conto del contesto socio-ambientale dell’educando. Non si può separare la formazione della c. dal resto dello sviluppo globale del soggetto e, in concreto, dal processo di formazione dell’identità. A questo proposito, può essere utile prendere in considerazione alcune connotazioni dell’ → identità, che possono costituire possibili mete da raggiungere nel processo di formazione della c.: senso dell’unicità, di continuità e di uniformità; identità come principio unificatore e sintetizzatore di solidarietà. 3.3. Accettazione di tutto ciò che è umano. L’uomo tende all’unità e all’integrazione di tutte le sue componenti. Estremamente importante è aiutare il soggetto a prendere contatto con la propria ricchezza e a saper distinguere i diversi aspetti, accettando tutto ciò che è profondamente umano. 3.4. Capacità di autogiudicarsi. Ricordiamo la necessità di aiutare e di «esigere» dall’educando di essere il giudice delle proprie azioni e comportamenti. Il processo di riflessione, che nasce nell’educando nel prendere contatto con il suo mondo personale e profondo, è un elemento essenziale nella formazione della c. Si tratta di un primo passo che offre la possibilità di entrare in contatto anche con il mondo degli altri; in questo modo, mettendosi al posto degli altri, l’educando amplia

COSTRUTTIVISMO

il suo campo percettivo e allarga la sua visione nel giudicare le proprie azioni. Come tappa finale, si richiede che l’educando arrivi a costruirsi la capacità di autovalutazione e a rendersi conto delle ragioni delle sue scelte e del suo agire. L’educatore, tenendo conto dei livelli di moralità, dovrebbe domandarsi continuamente qual è la funzionalità della sua presenza in vista della maturazione morale degli educandi verso il raggiungimento della moralità autonoma. Come suggerimenti, si possono indicare: rispettare la c., indicare e chiedere le ragioni di una azione e/o prescrizione, essere modello di autonomia morale nel rispetto del bene comune e della giustizia/bontà delle decisioni e dei comportamenti concreti, avere e favorire la «c. riflessa» dell’agire umano. Bibl.: Piaget J., Le jugement chez l’enfant, Paris, PUF, 1932; Grof S., La psicología del futuro: lecciones de la investigación moderna de la conciencia, Barcelona, Los Libros de la Liebre de Marzo, 2002; Galati D. - C. Tinti, Prospettive sulla c. Processi di sviluppo e comprensione sociale, Roma, Carocci, 2004; Liotti G., La dimensione interpersonale della c., Ibid., 2005.

A. Arto

COSSÍO Manuel Bartolomé n. a Haro (Logroño) nel 1857 - m. a Collado Mediano (Madrid) nel 1935, storico dell’arte, pedagogista ed educatore spagnolo. 1. Compiuti i corsi umanistici nel collegio agostiniano de El Escorial, C. studia filosofia e lettere all’università di Madrid, dove ha come professore → Giner de los Ríos, con cui stringe duraturi vincoli di amicizia e di collaborazione nell’Institución Libre de Enseñanza (ILE). Nel 1878 va come borsista al Collegio spagnolo di Bologna: vi studia archeologia, letteratura, estetica e pedagogia. Rientrato in patria, pubblica il saggio: Carácter de la pedagogía contemporánea (1879). Nel 1883 vince la cattedra di Storia dell’Arte a Barcellona ed è nominato direttore del Museo pedagogico di Madrid. Da questo momento i due centri di interesse di C. sono l’arte e l’educazione. Tra gli scritti più significativi: El trabajo manual en la es-

cuela primaria (1883), La enseñanza del arte (1885), Los problemas contemporáneos en la ciencia de la educación (1897). Nel 1915 assume la direzione della ILE. 2. Nel pensiero pedagogico di C. emergono tre temi privilegiati: l’educazione educativa, il metodo attivo, il maestro. Un’affermazione del primo scritto, più volte ripresa in seguito, sintetizza le idee sul fine dell’insegnamento: «fare del fanciullo, invece di un magazzino, un terreno fecondo». Coerente con una concezione «integrale e armonica» dell’educazione, C. propone l’ampliamento del programma scolastico, accogliendo, accanto alle materie letterarie tradizionali, anche l’arte, le scienze naturali, il lavoro manuale. Non si tratta però di far assimilare passivamente nuovi contenuti, ma di far sì che l’educando si renda capace di dirigere se stesso. La «fede totale nel maestro» va unita alla centralità dell’alunno, essere attivo e originale. Fu notevole l’influsso di C. nelle riforme della Pubblica Educazione della II Repubblica Spagnola (1931-1935). Bibl.: Prellezo J.M., M.B.C, pedagogo y educador español (1857-1935), in «Orientamenti Pedagogici» 33 (1986) 150-161; Ruiz Berrio J. - A. Tiana Ferrer - O. Negrín Fajardo (Edd.), Un educador para un pueblo. M.B.C. y la renovación pedagógica institucionista, Madrid, UNED, 1987; Portús J. - J. Vega, El descubrimiento del arte español. Tres apasionados maestros: C., Lafuente, Gaya Nuño, Tres Cantos (Madrid), Nivola, 2004.

J. M. Prellezo

COSTRUTTIVISMO Orientamento epistemologico, psicologico e pedagogico-didattico che mette in risalto il ruolo attivo del soggetto nel costruire non solo le sue conoscenze, ma anche l’immagine della realtà nella quale egli vive. 1. Una prima forma di c. che possiamo definire endogena, deriva dagli studi di → Piaget. Essa è stata seguita e diffusa da E. von Glaserfeld, mentre in Italia è stata sostenuta in particolare da S. Ceccato. Tale forma di c. assume la specificazione di «c. radicale» in 271

COSTRUTTO

quanto esclude la possibilità di conoscere la realtà a noi esterna. Ogni nostra conoscenza deriva, secondo questa prospettiva, da una costruzione soggettiva di schemi cognitivi e affettivi che risultano funzionali a un’interazione positiva con l’ambiente fisico e sociale esterno. 2. Il c. sociale si riallaccia in gran parte alle suggestioni di → Vygotskij e in genere alla scuola russa rappresentata in occidente per lunghi anni da Luria. La costruzione della conoscenza, come lo sviluppo dei processi cognitivi più elevati, deriva in questa prospettiva dalle interazioni linguistiche e socio-culturali a cui è esposto il soggetto. Non meccanicisticamente, in quanto nei processi di interiorizzazione del dialogo sociale un ruolo insostituibile viene svolto dalla coscienza o consapevolezza personale. Una mediazione tra le istanze piagetiane e quelle vygotskiane può essere vista nella proposta avanzata da Doise e Mugny circa il ruolo dei conflitti sociocognitivi nello sviluppo della conoscenza. 3. A differenza da quello studiato e privilegiato da Piaget e dal c. radicale, il c. esogeno evidenzia, nello sviluppo della conoscenza e delle capacità intellettuali e pratiche, il ruolo insostituibile dei modelli osservati e quello di un apprendistato guidato da un esperto che non solo indica come fare per acquisire le conoscenze o le competenze intese, ma che predispone anche un piano di esercizio e supervisiona i progressi dell’apprendista, intervenendo in un primo tempo in modo più puntuale e insistente nel correggere e modellare il comportamento, per poi lasciare sempre più autonomo il soggetto nella sua attività intellettuale o pratica. Quest’ultima prospettiva è stata ampiamente esplorata sia nei contesti scolastici evidenziando il ruolo formativo delle comunità di ricerca (BrownCampione), sia in quelli professionali, sottolineando la centralità delle comunità di pratica (Wenger), sia nella costruzione di ambienti di apprendimento segnati dalla presenza di nuove tecnologie (Jonassen). Bibl.: Piaget J., Dal bambino all’adolescente: la costruzione del pensiero, Firenze, La Nuova Italia, 1970; Vygotskij L. S., Mind in society, Cambridge, Harvard University Press, 1978;

272

Doise W. - G. Mugny, La costruzione sociale dell’intelligenza, Bologna, Il Mulino, 1982; Collins A. - J. S. Brown - S. E. Newman, «Cognitive apprenticeship: teaching the crafts of reading, writing, and mathematics», in L. R esnick (Ed.), Knowing, learning, and instruction: Essays in honor of Robert Glaser, Hillsdale, Erlbaum, 1989, 453-494; Phillips D. C. (Ed.), Constructivism in education, Chicago, The National Society for the Study of Education, 2000; Larochelle M. - N. Bednarz - J. Garrison (Edd.), Constructivism and education, Cambridge, Cambridge University Press, 2006; Wenger E., Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano, Cortina, 2006.

M. Pellerey

COSTRUTTO Il c. è un concetto elaborato per mezzo della riflessione e della verifica empirica. In tal modo un semplice concetto viene arricchito di contenuti e diventa un mezzo di comunicazione tra esperti di un determinato settore. Il c. è una componente importante della scienza e viene usato abbondantemente nelle teorie. → Intelligenza e → ansia sono esempi di c. psicologici. 1. Il c. è un’entità puramente teorica che unifica i fenomeni osservabili sotto un solo denominatore. Per es., l’ansia dell’esame si manifesta con sudore, tremolio e pallore. In base a tali segni noi supponiamo l’esistenza dell’ansia come entità psichica. L’ansia però in se stessa è irraggiungibile e viene considerata perciò un c. ipotetico. Il rapporto tra le manifestazioni esterne e il c. (entità interna) viene definito epistemico e cioè solo supposto (Bailey, 1991). 2. Molti c. fanno parte di una teoria; per es. il c. dell’ → autoefficacia fa parte della teoria sociale cognitiva elaborata da Bandura (1986). I c. seguono la sorte delle teorie, durano cioè finché non vengono contraddetti dai dati empirici oppure finché si dimostrano utili (Coolican, 1994). I c. vengono confrontati tra di loro anche fuori dell’ambito della teoria di cui fanno parte; il risultato di tale confronto può essere positivo per entrambi ed in tal caso essi si chiariranno a vicenda,

COSTUME

oppure negativo ed in tal caso risulteranno problematici tutti e due. Alcuni c. sono subordinati ad altri c. in ordine di dipendenza; per es., i soggetti con bassa stima sono aggressivi nei rapporti sociali; i due c., bassa stima e aggressività, stanno in rapporto di dipendenza. 3. I c. vengono usati ampiamente nelle verifiche di numerose ipotesi. Essi svolgono anche un ruolo fondamentale nell’elaborazione e nella validazione dei mezzi diagnostici. In molti casi i quesiti del futuro mezzo diagnostico vengono dedotti dal c. che si intende misurare (il metodo viene chiamato razionale) e successivamente lo stesso mezzo viene confrontato con il medesimo c. In tal modo viene verificata la cosiddetta validità di c. dello strumento. Lo strumento elaborato deve dimostrarsi pienamente conforme al c. perché ne possegga la validità; inoltre fra il c. e lo strumento si stabilisce una reciproca dipendenza ed un progressivo perfezionamento. Teglasi, Simcox e Kim (2007) notano che tra i mezzi diagnostici che rilevano lo stesso c. l’accordo è solo moderato ma non per questo non si debbano utilizzare in quanto è possibile stabilire quale strumento misura meglio il c. 4. I c. sono usati anche per descrivere la → personalità. George A. Kelly (1955) li ha adottati per la descrizione della personalità nell’ambito della sua teoria dei c. personali; per questo autore i c. sono delle strutture concettuali elaborate e utilizzate da singoli individui o da membri di un gruppo per descrivere e interpretare la realtà. La teoria è basata sul presupposto che ogni individuo cerca di esercitare il controllo sul suo ambiente. I c. di Kelly sono bipolari (onesto - disonesto) e applicabili ai vari elementi (oggetto di valutazione: persone o cose). La valutazione viene fatta per mezzo di una «griglia» (Boncori, 1993, 645); il metodo della valutazione e la sua validità sono stati esaminati ampiamente da Bannister e Mair (1968) con esito positivo. La teoria dei c. personali può essere di notevole aiuto, in quanto offre al terapeuta la possibilità di «capire punti di vista del suo cliente»; qualcosa di simile va detto per l’educatore e l’insegnante. Bibl.: K elly G. A., The psychology of personal

constructs, New York, Norton, 1955; Bannister D.- J. M. M air, The evaluation of personal constructs, London, Academic Press, 1968; Bandura A., Social foundation of thought and action: a social cognitive theory, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1986; Bailey K. P., Metodi della ricerca sociale, Bologna, Il Mulino, 1991; Boncori L., Teoria e tecniche dei test, Torino, Bollati/Boringhieri, 1993; Coolican H., Research methods and statistics in psychology, London, Hodder and Stoughton, 21994; Teglasi K. H. - A. G. Simcox - N. Y. K im, Personality constructs and measures, in «Psychology in the Schools» 44 (2007) 215-228.

K. Poláček

COSTUME Modo diffuso di pensare ed agire collegabile alla tradizione culturale di un gruppo o di un’epoca storica. 1. L’etimologia (dal lat. cons[ue]tumen variante popolare del classico consuetudo) collega il termine a «consuetudine», «abitudine». In tal senso sta a significare l’insieme delle usanze, delle credenze, dei modi di essere e di agire che caratterizzano la vita sociale e la cultura di un gruppo, di un popolo, di una nazione, di una collettività in una data epoca (e al limite che caratterizzano un’epoca nella sua globalità). Dal punto di vista soggettivo, ciò si riflette nel modo abituale di agire, di comportarsi e di presentarsi di una persona, dovuto al temperamento personale o acquisito per esperienza, per educazione e per lunga consuetudine e compartecipazione ad un vissuto sociale. Per lo più il c. riveste un certo carattere etico, per cui viene ad essere anche sinonimo di condotta morale consueta di un individuo o di una collettività (come nelle espressioni «buon c.», «mal c.», «uomo o donna di buoni o di pessimi c.». In tal senso si può collegare al termine lat. mores. Un ambito particolare dei c. è dato dai c. educativi, vale a dire dai modi di pensare e promuovere, socialmente, la crescita e la buona qualità della vita personale, individuale e comunitaria, utilizzando modelli e pratiche formative socialmente approvate e tradizionalmente consolidate. 273

COUNSELLING

2. L’attenzione ai c. degli individui e dei popoli è antichissima, ma certamente dall’Illuminismo in poi (cfr. Montesquieu e in genere il mito del «buon selvaggio») ha assunto una rilevante portata critica nei confronti degli → stili di vita e dei modelli di sviluppo tradizionali, o comunque socialmente approvati nella civiltà occidentale. L’ → antropologia culturale ne ha fatto un ambito peculiare di ricerca e di studio, ai cui inizi è senz’altro da porre la ricerca di W. G. Sumner (1906) che già nel titolo, Folkways, mette in luce come i c. diventino «vie», «cammini di vita» per gli individui e per la comunità. Il discostarsi dai c. rischia facilmente l’etichettamento di «deviante», di «strano», di «diverso», con conseguenze e riflessi, non sempre positivi, sull’esistenza personale e su quella di gruppo. Anzi, la violazione dei c. sociali, soprattutto in certe società fortemente difensive, può essere considerata come un attentato o perlomeno un pericolo alla pacifica convivenza, e pertanto severamente punita con pene di vario tipo: prigione, scomunica, esilio, censura, internamento in istituzioni manicomiali o in «gulag», o in campi di lavoro forzato, radiazione da cariche sociali; o quantomeno con forme varie di pubblico disprezzo. I c. assolvono infatti ad una funzione di integrazione e di conformità rassicurante, ed in tal senso sono sentiti come un fattore di coesione, di stabilità, di continuità e di benessere sociale e dal punto di vista soggettivo come un fattore di identità e di appartenenza comunitaria. 3. L’accelerazione del mutamento socioculturale e dell’innovazione scientificotecnologica, l’accresciuta complessità della convivenza sociale, la vasta tendenza alla concentrazione urbana della popolazione, il forte senso del pluralismo e della differenziazione sociale, l’incontro multiculturale apportato dal mercato globale e mondializzato, comportano oggi profonde trasformazioni del c., anche solo rispetto ad un recente passato, in tutti i campi e particolarmente in quello relazionale e sessuale. Il senso di stabilità «sacrale» e di obbligatorietà morale, che i c. tendono ad avere, vengono così ad essere messi in discussione. In più d’un caso vengono sostituiti o compensati dai valori e dalle indicazioni della moda, specie a seguito dell’incisivo influsso dei → mass me274

dia, televisione in particolare, ma anche del crescente utilizzo dei personal computer e delle reti di comunicazione a distanza. Ciò provoca spesso forme di difesa oltranzistica e fondamentalistica dei c. tradizionali; ma anche forme di culto folkloristico di essi. 4. La pratica educativa contemporanea favorisce la conoscenza e la rivisitazione critica del folklore e dei c. locali, nazionali, internazionali e mondiali, attribuendo a tale opera istruttiva valore antropologico e formativo in ordine al consolidamento dell’identità personale, culturale, sociale. A sua volta, la coscienza pedagogica contemporanea, a fronte della notevole ambivalenza dei c. sociali invita a bilanciare i possibili effetti perversi della loro trasmissione con l’introduzione di elementi innovativi e soprattutto con forme di coscientizzazione critica e stimolazione della creatività soggettiva. 5. Al limite si potrebbe dire che la coscientizzazione dei c. sociali in genere e di quelli educativi in particolare, la stimolazione della capacità di giudizio morale autonomo, il rafforzamento della libertà e della responsabilità individuale e comunitaria, fanno parte del c. pedagogico ed educativo contemporaneo: pur nel pluralismo delle giustificazioni e dei quadri di valore, e pur nelle incertezze e diversificazioni delle strategie operative. Bibl.: Sumner W. G., C. di gruppo, Milano, Comunità, 1966 (orig.: Folkways, New Haven, Yale University Press, 1906); Olson M., La logica dell’azione collettiva, Milano, Feltrinelli, 1983; Callari Galli M., Antropologia culturale e processi educativi, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993; Sorcinelli P. (Ed.), Identikit del Novecento: conflitti, trasformazioni sociali, stili di vita, Roma, Donzelli, 2004; Botta G. (Ed.), Tradizioni e modernità. Saperi che ci appartengono, Torino, Giappichelli, 2007.

C. Nanni

COUNSELLING C. proviene dall’ingl. to counsell, in it. consigliare ed è un termine che si utilizza nella lingua originale poiché è di difficile trad. a causa della complessità del mestiere e delle

COUNSELLING

competenze significate. In Inghilterra, lo si scrive con due «l», negli USA con una. 1. Natura. Il c. è una relazione d’aiuto tra un counsellor e un utente in un processo pedagogico di breve durata con la finalità di sviluppare le potenzialità per la prevenzionesuperamento di situazioni di disagio (a livello emozionale, sociale, educativo, culturale, valoriale, esistenziale, religioso, morale, vocazionale) che non comportino una ristrutturazione personale profonda con il ricorso alle tecniche del confronto intrapsichico e/o interpersonale. Il c. ha come oggetto proprio la conoscenza delle dinamiche personali, i problemi, le decisioni e le crisi personali o relazionali. Le sue finalità sono: assicurare all’utente uno spazio per riflettere; abilitarlo o riabilitarlo di fronte al problema; arricchire i suoi significati; scoprire nuove alternative per la sua vita personale, interpersonale, culturale e interculturale; sviluppare le risorse per una migliore qualità di vita personale e/o comune. Il c. si distingue da altre relazioni d’aiuto, specialmente dalla psicoterapia, caratterizzandosi come servizio a soggetti «sani». Questa nota specifica rende valido il c. per chi, facendo fatica ad andare dallo «psicologo» per non sentirsi «malato», può confidarsi con un counsellor come «bisognoso di ascolto» e non come «paziente». Il ruolo del counsellor è intermedio tra l’amico del cuore (non sempre disponibile) e lo psicologo (non sempre necessario). 2. Il processo. Il c. è un processo intenzionale svolto in successivi colloqui che riassumono in sé lo spirito dell’intero percorso con il contributo di varie competenze specifiche. Dal counsellor si richiede una preparazione remota e immediata che privilegia l’accoglienza non giudicante e libera dall’ansia che il soggetto ispira. Nei suoi atteggiamenti egli dovrebbe andare dalla chiusura all’apertura, dal rifiuto all’accoglienza, dalla superiorità alla reciprocità, dal giudizio all’accettazione, dall’improvvisazione alla previsione, dalle incoerenze alla congruenza, dall’indifferenza all’empatia e al coinvolgimento. Da parte dell’utente, è necessaria l’identificazione delle motivazioni «vere» e della condizione di partenza riguardo al c. (accettazione o rifiuto, ammirazione o disprezzo, apertura o riluttanza, scelta personale o costrizione

esterna). Il counsellor, dunque, conduce il soggetto al maggior livello di coinvolgimento possibile attraverso una relazione fiduciosa costruita con domande di senso, rilettura del passato e rielaborazione della progettualità vissuta ma non sempre riflessa. Nella prima fase il counsellor deve facilitare la creazione di un’alleanza per la ricerca della verità. Poi egli rileva i dati essenziali dell’utente, l’interazione iniziale, il problema e i tentativi di soluzione nei termini del soggetto, le sue risorse e l’impressione generale. È importante l’osservazione degli elementi verbali e non verbali (sguardo, sorriso, mimica, tono di voce) e la gestione della distanza e del movimento. Si devono determinare gli obiettivi dell’intervento in forma provvisoria, finché non si raggiunge una conoscenza migliore grazie all’intervento empatico. Infine, si devono comunicare le regole del c., normalmente espresse in un contratto. La seconda fase cerca l’identità personale e i nodi del problema. Nella terza fase si precisano gli obiettivi in termini positivi e verificabili e si progetta il cambiamento. La quarta fase consiste nell’applicazione responsabile del progetto. La verifica dei cambiamenti, quinta fase, chiude il processo; si devono analizzare anche il ritmo imposto e le strategie usate e si devono segnalare gli elementi positivi anche quando il soggetto abbia una visione pessimista di sé. Strumento essenziale del c. è l’ascolto attivo-riflessivo caratterizzato dall’attenzione al soggetto e dall’eliminazione degli ostacoli di ogni tipo. L’ascolto suppone anche la decodificazione dei messaggi e l’eliminazione degli atteggiamenti non facilitanti il → dialogo (valutazione, investigazione, sostegno consolatorio, facile soluzione e interpretazione), e l’assunzione dell’empatia, atteggiamento centrale del mestiere che si traduce nella riformulazione del messaggio, e si sostiene con l’incoraggiamento, il rispetto, la valorizzazione del positivo, la concretezza, l’immediatezza e l’autenticità, frutto dell’autoconsapevolezza e autorivelazione misurata del counsellor. Servono anche le domande di delucidazione per l’esplorazione, il riassunto, la focalizzazione e una comunicazione diretta. Il feedback deve essere descrittivo e non critico, specifico e non generico, sul comportamento e non sulla persona, responsabilizzante e non direttivo. Manifestazione avanzata dell’em275

CREATIVITÀ

patia sono la segnalazione delle incoerenze e dei punti di forza del soggetto e la misura del suo cambiamento. L’intervento applica anche tecniche di influenzamento (informazioni e consigli) come frutto dell’analisi realizzata insieme. Principi etici del c. sono il rispetto del segreto e della privacy, il dominio delle competenze specifiche, la formazione permanente e la disponibilità alla supervisione, il rispetto dei confini della propria professionalità e dei valori dei suoi referenti. 3. Diversi tipi di c. Il c. può essere individuale o di gruppo, familiare o comunitario, e nei differenti contesti in cui si realizza richiede competenze specifiche. Perciò abbiamo diversi tipi di c.: scolastico, lavorativo, aziendale, sanitario, sportivo, filosofico, spirituale, pastorale e vocazionale. Secondo gli strumenti utilizzati abbiamo un c. telefonico o telematico. Secondo la scuola psicologica di riferimento, esistono altri tipi di c.: psicodinamico, cognitivo-comportamentale, umanistico-esistenziale, o secondo un modello integrato. 4. Cenni storici. Il c. inizia con la rivoluzione industriale (1800) nel mondo anglosassone nel settore dell’educazione con programmi di orientamento scolastico e universitario. Nel 1913, nasce la National Vocational Guidance Association, ma più avanti C. Rogers e la psicologia umanistica saranno i veri catalizzatori del c. Più tardi il c. sarà applicato alla riabilitazione, al lavoro, alla salute mentale e al settore militare. In Europa il c. si espande in Inghilterra, come servizio di orientamento pedagogico e di supporto socio-sanitario fatto dagli psicologi. A livello europeo sorgono la British Association for C. (1976) e l’European Association for C. (1994). In Italia sorge la prima scuola femminile di «assistenti sociali» (1929) che facilita l’approccio personale ai problemi dell’ambiente e con il contributo di O. Vallin (1960) venuto dalla Francia prende slancio l’idea della «prevenzione». Tra gli autori italiani risaltano: L. Cian, fondatore del COSPES a Genova (1971); M. Danon, che considera il c. «una professione per il terzo millennio» e ne descrive lo stato attuale; E. Giusti, precursore del Gestalt c., che applica i suoi principi al coaching; A. Di Fabio che inizia all’arte del c. Le scuole esistenti offrono diplomi di tre 276

livelli secondo gli standard dell’Associazione Europea di C. Negli anni ’90 sono sorte varie associazioni che favoriscono la ricerca sul c. e si è creato il Registro Italiano dei Counsellor (2002). La Società Italiana di C. (1993) e il Coordinamento Nazionale dei Counsellor Professionisti (2002) accreditano formazione teorica e pratica e con il Coordinamento Libere Associazioni Professionali, sono impegnati con il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro per regolamentare il c. L’UE però richiede che le professioni con contenuti analoghi a ordini già esistenti siano regolamentate in rapporto a tali ordini e, avendo il c. consistenti connotazioni psicologiche, ancora non è stato oggetto di normative specifiche. Bibl.: Mucchielli R., Apprendere il c., Trento, Erickson, 1987/1997; Carkhuff R., L’arte di aiutare, Ibid., 1989/2004; Rosenthal H., Encyclopedia of c., New York-London, Brunner-Routledge, 2002; Danon M., C., Novara, Red, 2003; Di Fabio A., C. e relazione d’aiuto, Firenze, Giunti, 2003; Ivey A. - M. Ivey, Il colloquio intenzionale e il c., Roma, LAS, 2004.

M. Llanos

COUSINET Roger → Scuole Nuove

CREATIVITÀ La c. è la rara capacità di alcuni individui di scoprire rapporti tra idee, cose e situazioni, di produrre nuove idee, di avere delle intuizioni e di concludere il processo mentale con un prodotto valido e utile nel settore scientifico, estetico, sociale e tecnico di una determinata cultura; il prodotto poi esercita un certo influsso sulla vita degli altri arricchendola oppure producendo in essa un positivo cambiamento. Nella c. vengono distinti tre aspetti: la persona, il processo e il prodotto. 1. La persona. È caratterizzata da → abilità generali, speciali e da alcuni → tratti della personalità che costituiscono la sua motivazione alla produzione creativa. La persona creativa possiede in alto grado i processi ipotetico-deduttivi; risulta alta in fluidità ideativa che consiste nella produzione di idee nuove che vanno incontro a bisogni sociali;

CREATIVITÀ

la c. può essere verbale (ricca produzione di parole), associativa (combinazione di concetti differenti) ed espressiva (produzione grafica o gestuale). La persona creativa è flessibile mentalmente in quanto riesce ad adattarsi a situazioni nuove; è in grado di cogliere ed assimilare nuovi contributi; possiede pure la fluidità categoriale, in quanto passa facilmente da un contenuto all’altro; infine produce con facilità delle associazioni libere: associa, cioè, contenuti, fatti, concetti ed idee in modo insolito, ma socialmente accettabile. Padroneggia pure processi «metasistemici» in quanto comprende bene la struttura di un sistema e riesce a confrontarlo con gli altri e quindi è in grado di valutarli adeguatamente, di trascenderli e di vedere la situazione in una nuova luce. Questa sua abilità la rende sensibile ai problemi di un determinato settore, a raccogliere le informazioni per definirli, a rendersi conto delle incongruenze, a scoprire assunti ed eventuali distorsioni (pregiudizi) o sofismi, a dare delle spiegazioni, a formulare delle ipotesi e a verificarle. Perché tale persona possa produrre un’opera significativa deve possedere anche delle abilità specifiche in una determinata area come quella verbale, numerica, spaziale, oppure in quelle combinate: percettive, psicomotorie e sociali; deve cioè possedere delle abilità straordinarie in uno specifico settore. Oltre ai due tipi di abilità la persona per essere crea­tiva deve possedere in uno specifico settore delle ampie conoscenze che sono presupposto per ogni produzione creativa. Deve possedere il sapere consolidato acquisito con un prolungato studio ed esercizio. Lubart (1994) nota che senza le conoscenze di uno specifico settore è difficile scoprire un problema, capirlo e procedere nella giusta direzione per risolverlo. La conoscenza è un presupposto anche per una scoperta casuale, tanto che Pasteur ha detto: «Il caso favorisce solo una mente preparata». Ogni produzione creativa inizia con il processo algoritmico (soluzione prestabilita) seguito poi dal processo euristico (soluzione innovativa). Il primo è basato sull’intelligenza cristallizzata (sapere consolidato) mentre il secondo è fondato su quella fluida (sapere da ordinare ed elaborare). L’eccessivo possesso del sapere consolidato è però dannoso alla c. in quanto la persona ricorre al metodo collaudato per la soluzione dei problemi e non tenta soluzioni nuove; inoltre esso riduce la

versatilità mentale. Per la produzione artistica abbondanti modelli possono essere dannosi in quanto portano all’imitazione e a non cercare soluzioni originali. Lubart (1994) nota che scarse e ricche conoscenze riducono la c. Accanto alle abilità e alle conoscenze è fondamentale la → motivazione, che è una forza interna che spinge la persona all’azione e alla produzione. Essa ha origine in alcuni tratti della personalità che distinguono le persone creative da quelle non creative. Essi sono di tre tipi: temperamentali: introverso, disinvolto, emotivo, individualista, tollerante dell’incertezza; intellettivi: curioso, indipendente, predisposto ad un ragionevole rischio, conscio del suo valore, di chiara identità, di precisi obiettivi, versatile, flessibile; etici: volitivo, tenace, sensibile al vero e al bello. In sintesi si può dire che le abilità del soggetto sono «calate» in una personalità che possiede delle caratteristiche favorevoli alla produzione creativa. 2. Processo e prodotto. Il processo creativo si articola in quattro fasi: 1ª la preparazione in cui viene scoperto e definito il problema (o l’argomento); segue la raccolta di informazioni e si prospetta la sua soluzione iniziale. 2ª l’incubazione: il problema viene «rimuginato» sotto la soglia della coscienza, vengono associate nuove informazioni a concetti già posseduti, si fanno considerazioni da punti differenti in un processo parallelo (ogni filone di riflessione procede senza incrociarsi con un altro); in questo processo vi è un continuo passaggio dall’incubazione alla preparazione e viceversa. 3ª l’illuminazione: si approda alla soluzione del problema o alla coscienza dell’esistenza di un nuovo prodotto; esso poi viene rifinito ed il suo valore viene esaminato nella 4ª e conclusiva fase: di valutazione. Le quattro fasi si addicono meglio al processo creativo scientifico che a quello artistico. Il prodotto viene valutato dagli esperti del rispettivo settore, deve essere originale e deve risultare utile. Per la valutazione della produzione creativa degli alunni sono state elaborate alcune scale per renderla più oggettiva. 3. Formazione. La produzione creativa avviene in stretto rapporto con l’ambiente socioculturale il quale ad essa offre dei criteri sia per la valutazione dei contenuti che dei 277

CREDENZE

metodi. L’abilità creativa si forma principalmente in due ambiti: familiare e scolastico. Perché il figlio possa essere creativo deve essere incoraggiato all’indipendenza. Sfortunatamente i genitori incoraggiano l’indipendenza, l’autosufficienza ed il senso di responsabilità più nel figlio che nella figlia. Di conseguenza i figli maschi ottengono maggiore successo a scuola, lo attribuiscono alle loro abilità e all’impegno, mentre le figlie lo ascrivono più alla fortuna e al caso. L’effetto di questo atteggiamento differenziato per sesso si manifesta già nella scuola dell’obbligo in quanto il numero degli alunni creativi risulta sensibilmente superiore a quello delle alunne. L’ambiente scolastico formerà alla c. se incoraggerà e sosterrà le scelte autonome e stimolerà l’apprendimento divergente (→ stili di apprendimento). 4. Diagnosi e promozione. L’accertamento delle potenzialità creative degli alunni è reso difficile dalla loro grande varietà. Vengono usati: test attitudinali e di c., scale di valutazione destinate agli insegnanti, esperti e genitori, test sociometrico, colloquio, tecniche proiettive ed anche voti scolastici. Nel contesto scolastico si cerca di promuovere l’abilità creativa degli alunni con i contenuti delle discipline anticipandoli oppure arricchendoli. Tutti e due i modi si attuano nel normale corso delle lezioni e hanno effetto positivo sulla capacità creativa degli alunni. La conduzione dell’accelerazione e dell’arricchimento è affidata ad insegnanti scelti, abili nell’insegnamento, competenti in settori specifici, flessibili mentalmente e molto motivati. Esistono però anche appositi programmi per sviluppare la c. (De Bono, 1992); essi sono impostati sull’apprendimento delle strategie di soluzioni di problemi. Nello stesso tempo viene esercitata la capacità critica dell’alunno e migliorata la sua capacità decisionale. Data l’impostazione cognitiva del procedimento esso è più efficace nel settore scientifico che in quello artistico. 5. Suggerimenti. La capacità creativa degli alunni può essere promossa anche durante il regolare insegnamento: a) valorizzando la produzione originale degli alunni; b) rendendoli sensibili alle valide stimolazioni dell’ambiente sociale; c) incoraggiandoli ad approfondire le loro idee; d) gestendo un 278

modello aperto di apprendimento (possibili estensioni dell’argomento); e) incoraggiando ed apprezzando l’apprendimento autoregolato; f) dando la possibilità di gestire il curricolo in modo autonomo; g) facendo una lineare esposizione di un argomento presentando anche le interpretazioni alternative; h) formando negli alunni l’abitudine di sviluppare a fondo le implicanze delle proprie idee portandole alle estreme conseguenze; i) coltivando processi superiori dell’apprendimento (applicazione, sintesi e valutazione); j) proponendo le attività che facilitano l’esplorazione; k) usando vari metodi di insegnamento: letture personali, discussioni, lavori di gruppo, escursioni e progettazioni. La formazione delle abilità creative rappresenta uno degli obiettivi più ambiziosi dell’ educazione; infatti la capacità creativa è collegata alla piena maturità intellettuale della persona (Poláček, 1994) che la rende libera (trascende i sistemi) ed altamente produttiva. Bibl.: Glover J. A. - R. R. Ronning - C. R. R eynolds (Edd.), Handbook of creativity, New York, Plenum Press, 1989; De Bono E., Strategie per imparare a pensare, Torino, Omega, 1992; Lubart T. I., «Creativity», in R. J. Sternberg (Ed.). Thinking and problem solving, San Diego, Academic Press,21994; Poláček K., In che cosa consiste la maturità intellettuale?, in «Orientamenti Pedagogici» 41 (1994) 207-218; Runco M. A. - S. R. Pritzker (Edd.), Encyclopedia of creativity, 2 voll., San Diego, Academic Press, 1999; Kaufman J. C. - R. J. Sternberg (Edd.), The international handbook of creativity, Cambridge, Cambridge University Press, 2006; Kaufman J. C. - J. Baer (Edd.), Creativity and reason in cognitive development, Ibid., 2006; Sternberg R. J.H. L. Roediger - D. F. Halpern (Edd.). Critical thinking in psychology, Ibid., 2006.

K. Poláček

CREDENZE Durante tutta la sua storia, l’uomo ha sempre cercato di stabilire un rapporto cognitivo con la realtà che lo circonda attraverso una molteplicità di approcci. Accanto all’uso della razionalità strumentale, intesa come l’elaborazione di risposte pragmatiche ai problemi

CREDENZE

quotidiani del vivere, va sottolineata l’ampia produzione delle c., cioè di conoscenze che si pongono su un piano nettamente distinto da quello della razionalità, anche se non necessariamente contrapposto a quello. 1. Tra i tipi più diffusi di c. vi sono quelle religiose, che possono essere definite come l’insieme degli atteggiamenti che gli individui hanno nei confronti di un essere superiore o di una potenza percepita come trascendente. Le c. religiose possono indicare anche un complesso di dogmi o di verità di fede che vanno identificate di volta in volta nelle varie religioni storiche: in questo senso sono proposizioni formulate verbalmente o meno, a cui una persona conferisce pieno assenso. Esse, come confermano molti studiosi, hanno a che fare con i significati ultimi dell’esistenza umana. Quasi tutte le religioni storiche hanno elaborato compiute rappresentazioni del mondo e dell’uomo fondate sul principio dell’immortalità dell’essere umano, anche se non sempre collegate all’idea dell’esistenza dell’aldilà. Inoltre, le c. religiose hanno bisogno di istituzioni come supporto necessario per fornire una struttura di plausibilità alle c. stesse. Ogni c. richiede un simile sostegno sociale ma le c. religiose ne hanno particolarmente bisogno, a causa del carattere straordinario e trascendente delle loro affermazioni. 2. Seguendo diverse indicazioni provenienti dalla storia, dalla fenomenologia e dalla sociologia, si può dire che il → mito è una forma primordiale di c. religiosa in quanto tipo originario di appercezione e di espressione delle realtà religiose primitive. Esso è un’intuizione teorico-pratica di carattere sostanzialmente partecipativo, che tende ad accentuare gli aspetti emotivi, affettivi, vitali. Nella percezione mitica il rapporto tra soggetto e oggetto sacro è per sua natura fluido e fluttuante. Il sacro appare nella sua caratteristica di diverso e di separato, ma allo stesso tempo come qualcosa che esprime necessariamente un rapporto con il soggetto. I miti sono anche la prima forma di spiegazione intellettuale delle percezioni religiose. Essi ripetono le eterne domande – Perché siamo qui? Da dove veniamo? Perché ci comportiamo in un certo modo? Perché si muore? –, interrogativi che la curiosità intellettuale dell’uomo è pronta a porre e a cui risponde nel mito con

un linguaggio immaginativo, cioè simbolico. Fondamentalmente il mito trascende la razionalizzazione. Le c. religiose e la dottrina sono la seconda forma di spiegazione intellettuale del problema religioso. Sul piano della comprensione sociologica si rivela utile l’intuizione durkheimiana secondo cui ogni gruppo umano tende a consacrare su un piano di assolutezza i valori cui affida la legittimazione del proprio esistere (→ Durkheim, 1963). La fede religiosa, tra tutte le forme di c., sembra possedere un potere di integrazione e di propulsione sia a livello individuale sia a livello sociale, relativamente superiore a quello della altre filosofie di vita. 3. Più che la scomparsa della → religione si constata oggi una molteplicità dei segni religiosi. A riguardo del senso della vita, del richiamo ai valori ultimi, del fondamento dell’eticità, la società è piena di segni religiosi e di nuovi credenti, ma la religione non è considerata un’eredità da accogliere e sviluppare ed è sempre meno legittimata dalle interpretazioni approvate dalla tradizione e dalle religioni istituzionalizzate. Esiste una situazione di pluralismo in senso sincretistico che indica il miscuglio, l’intreccio di molteplici e differenti elementi religiosi parziali. Oggi tutti i credenti sono esposti a un’illimitata offerta di culti, pratiche, letterature, c. di altre tradizioni religiose. La diversità religiosa si inserisce all’interno dell’individuo. Così l’uso dei modelli di comportamento religioso si sposta da una religiosità istituzionalizzata e fissa a una individuale ed elettiva che attinge da varie sorgenti. Rimangono però le tracce della religiosità privata e i molteplici sostituti dell’esperienza religiosa. Nella situazione moderna tocca a ciascuno elaborare per proprio conto le sue risposte religiose; in altre parole, il declino della religiosità tradizionale si paga con la fatica dell’essere soggetto. 4. Nella religiosità moderna prevalgono la dimensione soggettiva e l’esperienza personale indipendente da ogni contenuto dogmatico definito. Essa non ha bisogno di proiettarsi in rappresentazioni definite, articolate in corpi dottrinali e socialmente condivise; le sue modalità non producono quasi mai sintesi del tutto compiute, ma piuttosto forme sincretistiche, selezione, giustapposizione, assimilazione, fusione di tratti religiosi diversi. 279

CREDIBILITÀ

Sempre più frequentemente il sincretismo si costruisce con assetti sia religiosi sia secolari. In questo processo i primi rappresentano una risorsa epistemologica, un orizzonte con funzione soprattutto cognitiva e legittimatrice. Ciò che è nuovo nella percezione delle c. moderne è la grande mobilità, la dispersione in molteplici direzioni, la diversità degli oggetti in cui si realizza, la differenziazione delle funzioni a cui assolve. Bibl.: Durkheim É., Le forme elementari della vita religiosa, Milano, Edizioni di Comunità, 1963; Crespi P., La coscienza mitica, Milano, Giuffré, 1970; Eliade M., Storia delle c. e delle idee religiose, Firenze, Sansoni, 1990; Acquaviva S. - E. Pace, Sociologia delle religioni. Problemi e prospettive, Roma, NIS, 1992; Berger P., A far glory. The quest for faith in an age of credulity, New York, The Free Press, 1992; Berzano L., Religiosità del nuovo areopago. C. e forme religiose nell’epoca postsecolare, Milano, Angeli, 1994; R izzi E., La giustificazione «critica» delle nostre c. sul mondo, Firenze, Polistampa, 2000.

J. Bajzek

CREDIBILITÀ Dal punto di vista pedagogico, la c. può es­ sere intesa come la condizione di persone, istituzioni, contenuti di proposte e inviti educativi che innestano dinamiche di coin­ volgimento affettivo e spirituale e muovo­no al consenso. 1. La c. può essere condizione glo­bale di un sistema e di un rapporto o rife­r irsi a un singolo fattore e atto dell’edu­cazione. Appartiene alla pedagogia della → motivazione. Abitualmente gli esiti educativi buoni si attribuiscono agli educatori, le risposte negative o difettose alle condizioni del sog­getto educando o dell’ambiente. Il primo si giu­dica poco disponibile, soprattutto a propo­ste e richieste valide e impegnative. Il secon­do di solito viene rimproverato di scarsa collaborazione, di moltiplicazione delle difficoltà, d’essere responsabile oggi della quasi impossibilità di una buona educazione. 2. La c. si tende a darla quasi per scontata. Invece, oggettiva­mente, la responsabilità 280

prima e ultima dell’intervento educativo è legata a un siste­ma di c., delle persone e delle comunità educatrici, alle loro proposte, alla qualità delle loro media­zioni, alla loro presenza o assenza. Credi­bili sono le persone che testimoniano, che pagano di persona, che mostrano amore e zelo, dedizione, pazienza. Credibili sono le proposte che si mostrano significative e ottengono per questo profonda risonanza interiore anche di fron­te ad attese esigenti e critiche o dub­biose. Credibile è ciò che agisce in profondità, esprime valori permanenti, ma insieme corrisponde allo spirito dei tempi, alla pluralità delle condizioni e delle disponibi­lità. Credibile è un sistema che presenta le prove, i segni di valore e la forza dei contenuti che propone. Credibili sono le personalità e i modi della mediazione che suscitano dinamiche di attenzione e di fiducia, e spingono ad assumere in profondità e con­vinzione quanto viene proposto (v. anche → autorità educativa). Bibl.: Gianola P., «I giovani e la vita religiosa og­g i: tra disponibilità e c.», in CIS, Vocazioni giova­nili e comunità d’accoglienza, Roma, Rogate, 1982, 25-46; Guardini R., «La c. dell’educatore», in Id., Persona e libertà, Brescia, La Scuola, 1987.

P. Gianola

CREDITI → Certificazione CRESCITA → Sviluppo

CRISI Termine di origine gr. (krino = scelgo, discrimino, separo) usato dalla medicina ippocratica per indicare il momento decisivo del decorso d’una malattia. 1. Definizione. In ambito psicopedagogico si riferisce a una fase della vita caratterizzata dalla rottura dell’equilibrio precedentemente acquisito e dalla capacità di trasformare quegli schemi di atteggiamento e di comportamento che si rivelano inadeguati a far fronte alla nuova situazione. 2. Tipologia. La tendenza attuale della moderna → psicopedagogia è quella di distinguere tra vari tipi di c. alla luce di due criteri:

CRISI

la natura del legame della c. stessa con le fasi o gli eventi della vita, e la libertà del soggetto d’affrontare le varie situazioni di c. Prendendo in considerazione, anzitutto, il rapporto tra c. ed esistenza, avremo due tipi di situazioni critiche: a) c. essenziali, perché legate, direttamente o indirettamente, all’evolversi naturale della vita. Tali c., a loro volta, possono esser ancora di due tipi: evolutive, quelle connesse intrinsecamente alle stagioni classiche dell’esistenza umana (infanzia, adolescenza ecc., oggetto della psicologia evolutiva), o a particolari settori di sviluppo (e avremo allora le varie teorie dello sviluppo intellettuale di → Piaget, affettivo-sessuale di → Erikson, morale di → Kohlberg...). Tali c. sono prevedibili o, in ogni caso, è possibile preparare l’individuo ad affrontarle, espletando i corrispondenti «compiti evolutivi». Altro tipo di c. essenziale è la c. vocazionale, legata di per sé a un preciso passaggio evolutivo, quello che dalla → preadolescenza porta all’adolescenza e poi alla giovinezza, lungo il quale il soggetto decide della sua identità ideale e, all’interno d’essa, del suo futuro. Di fatto tale c. dovrebbe accompagnare in qualche modo tutta l’esistenza. b) Il secondo tipo di situazione esistenziale critica è rappresentato dalle c. accidentali, legate a eventi traumatici imprevedibili e indipendenti dalla persona, come lutti, malattie, cambi repentini, incidenti vari e quant’altro venga a turbare in modo emotivamente rilevante e spesso improvviso un certo assetto intrapsichico. La c. accidentale può esser determinata anche da eventi non del tutto imprevedibili né indipendenti dal soggetto, come possono essere situazioni d’infedeltà e incoerenza personali rispetto al proprio piano ideale di vita. Anche la c. accidentale può divenire fattore di sviluppo, purché il soggetto sia aiutato a integrare il limite esistenziale e personale. Prendendo in considerazione il grado di libertà interiore con cui si affronta la c. avremo queste due fondamentali distinzioni: a) c. vera e propria d’identità: è quella che è legata al concetto d’identità, concetto che è per natura sua dinamico al punto da comprendere l’idea stessa di c. Il senso dell’io, infatti, a partire da un nucleo di riferimento sostanzialmente positivo e stabile, deve continuamente riorganizzarsi nella definizione sempre più accurata dei suoi elementi costitutivi (io attuale e io ideale) e del rapporto

interno a essi (di consistenza o inconsistenza), lungo i diversi stadi di sviluppo. Tale c. d’identità è normale e salutare per la crescita, poiché indica un io forte e pure duttile, disponibile a cogliere, di volta in volta, la non corrispondenza tra identità personale, esigenze e provocazioni della realtà esterna, e libero di lasciarsi sfidare dalle mutevoli situazioni della vita; b) diffusione-dispersione d’identità (Identity diffusion): è di natura opposta alla precedente. È una situazione di contrasto fra «stati dell’Io vicendevolmente dissociati» (Kernberg, 1980, 222), come un conflitto interno che la persona non riesce a gestire ed armonizzare e che ne assorbe tutte le energie, impedendole di comunicare con la realtà esterna e di coglierne gli stimoli critici come opportunità educative. Tale chiusura segnala debolezza d’identità e preclude ogni possibilità di formazione permanente. In una prospettiva credente tale distinzione tra c. dell’io e diffusione d’identità prelude a un’altra e corrispondente distinzione, quella tra c. psicologica e c. spirituale: la prima è un conflitto intrapsichico e senza sbocco, d’una parte dell’io contro un’altra parte; la seconda indica la lotta con Dio e i suoi desideri, un confronto con la sua parola e la sua volontà che è sempre oltre il progetto solo umano. È lotta biblica (cfr. Es 32,23-33) e sana, perché espone l’uomo alla massima provocazione e all’autentica realizzazione di sé. 3. C. e opportunità educativa. È ormai un dato acquisito dalle scienze pedagogiche la fondamentale ambiguità del concetto di c. che, infatti, nella lingua cinese, viene rappresentato dalla combinazione di due ideogrammi che indicano pericolo e opportunità. La «pedagogia della c.» è oggi sempre più orientata a studiare come sfruttare e non solo come evitare la c., e a capire come rendere la c. fattore di sviluppo e non di stasi o regressione, momento evolutivo e non involutivo, sottolineando le seguenti caratteristiche della c. «buona» o feconda (in opposizione a quella regressiva-sterile). Essa dev’essere: a) Preparata, almeno per quanto è possibile preparare i passaggi evolutivi dell’esistenza. Basti pensare a certi passaggi strategici, come quello tra preadolescenza e adolescenza, o tra vita attiva e ritiro dall’azione; una c. preparata è spesso una c. prevenuta. b) A volte la c. va addirittura provocata. È l’arte 281

CRISOSTOMO GIOVANNI

educativa finissima del sapere sfruttare certe «situazioni pedagogiche», come i momenti apparentemente negativi di frustrazione, assenza, silenzio, attesa, desiderio inappagato, domanda, lotta, nei quali emerge, in realtà, una dimensione ulteriore e inesplorata dell’uomo, o la verità più profonda del mistero umano. Sapere sfruttare significa la fatica di aiutare a scrutare questa verità, di cogliere il senso più autentico dell’attesa, «scavando domanda e desiderio» (Godin, 1983, 181ss.) per capire cosa il singolo stia cercando anche se non lo sa. La c. vocazionale, ad es., può esser intelligentemente provocata. c) Per esser fattore di sviluppo la c. deve però esser proporzionata, su misura del reale indice di maturità del soggetto, che non potrebbe «intendere» una provocazione eccessiva, né sarebbe adeguatamente sollecitato da proposte o ambienti educativi inferiori al suo livello di maturazione e dunque non abbastanza stimolanti. Secondo Kohlberg, l’autentica situazione critica educativa è quella che propone un compito e una sfida a un livello immediatamente superiore a quello raggiunto dal soggetto (Duska-Whelan, 1975, 65-66). d) Infine, condizione importante è che la c. sia accompagnata da un «fratello maggiore», che aiuti a individuarne la radice profonda, per verificare poi il tipo di risposta. Tale presenza amica, che nella tradizione ascetica cristiana è la guida spirituale, dovrà saper dosare accoglienza e provocazione, pazienza e urgenza, capacità di comprendere e confrontare, e quanto insomma consenta al giovane di vivere intensamente la sua c., e di non evitarla per paura o ignoranza. Bibl.: Duska R. - M. Whelan, Lo sviluppo morale nell’età evolutiva, Una guida a Piaget e Kohlberg, Torino, Marietti, 1975; Godin A., Psicologia delle esperienze religiose. Il desiderio e la realtà, Brescia, Morcelliana, 1983; Guardini R., Le età della vita. Loro significato educativo e morale, Milano, Vita e Pensiero, 1992; Del Core P. (Ed.), Difficoltà e c. nella vita consacrata, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1996; Tripani G., «Perché non posso seguirti ora?» Momenti di prova e formazione permanente, Milano, Paoline, 2004; Grun A., 40 anni: età di c. o tempo di grazia?, Padova, Messaggero, 2006; Parolari C., Vivere le prove con sincerità di cuore, in «Tre Dimensioni» 2 (2006) 207-211.

A. Cencini

282

CRISOSTOMO Giovanni n. ad Antiochia di Siria nel 345/355 - m. a Comana nel 407, padre della Chiesa, santo. 1. Frequenta gli studi filosofici e letterari. Nel 372, ritiratosi tra i monti attorno ad Antiochia, rientra nel 378 ad Antiochia, vi è ordinato diacono (381) e poi presbitero (386). Volle da sempre essere solo «uomo ecclesiastico» e non monaco. Esercita il ministero ad Antiochia per dodici anni, fino alla sua elezione a vescovo e patriarca di Costantinopoli. Contestato oltretutto per le sue riforme, viene esiliato due volte. Muore di stenti a Comana nel Ponto. Possediamo di lui molte Omelie a commento (specie morale) della Scrittura, Lettere e diverse Operette, tra cui due trattati pedagogici: Contro i detrattori della vita monastica e Sulla vanagloria e sull’educazione dei figli. 2. Il pensiero di C. subisce un’evoluzione dovuta alla progressiva esperienza pastorale. Nel trattato Contro i detrattori della vita monastica, egli sostiene la tesi estremista d’inviare i figli nei monasteri fino alla loro maturità spirituale. Ma più tardi (396-397), il trattato Sulla vanagloria e sull’educazione dei figli rappresenta il superamento del precedente: l’educazione morale-religiosa del fanciullo è da lui affidata ai genitori in famiglia, e l’educazione alle pubbliche scuole. La prima parte del trattato (1-15) presenta l’esclusiva preoccupazione dei padri per la futura professione civile dei figli, finalizzata alla gloria umana (Sulla vanagloria); la seconda parte (16-90) pone in termini positivi il problema di una riuscita formazione cristiana dei figli (19-22), passando poi ad esporre i criteri e i modi di soluzione del problema (23-90) (Sull’educazione dei figli). Emerge, per la prima volta in apposita operetta patristica, la necessità dell’educazione morale dei fanciulli in famiglia, il cui animo, molle come cera (20), deve essere educato fin dalla prima età (19). Le stesse Omelie offrono materiale pedagogico. Le fasi di sviluppo psicofisico-spirituale del giovane vengono individuate nell’infanziafanciullezza; adolescenza-giovinezza e fidanzamento-matrimonio. Particolarmente significativa è l’incidenza del vissuto ecclesiale sui giovani, in un tempo di mancanza

CRISTIANESIMO

di forme di associazionismo giovanile e di dominio dell’adultismo. Bibl.: Pasquato O., Pastorale familiare. La testimonianza di G.C., in «Salesianum» 51 (1989) 3-46; Xodo C., «C. G.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia Pedagogica, vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 3369-3373; Pasquato O., «De inani gloria et de educandis liberis», di G.C., in «OCP» 58 (1992) 253-264; I d., «S.G.C.» (345/355-407), in M. M idali - R. Tonelli (Edd.), Dizionario di pastorale giovanile, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2 1992, 1125-1131 (ora in CDr); Id., Katechese (Katechismus), in «RAC», Bd. XX (2003) 447-449; I d., I laici in G.C. Tra Chiesa, famiglia e città, Roma, LAS, 32006.

O. Pasquato

CRISTIANESIMO Il C., fin dalle sue origini, si è sempre occupato di educazione, sia pure con modalità molto diverse. 1. Le chiese cristiane, lungo la loro storia, hanno sempre avuto a che fare con problemi pedagogici e scolastici, anche se questi non furono predominanti. L’influsso del pensiero cristiano sulla prassi educativa, sulle istituzioni e dottrine pedagogiche è innegabile, ma non va neppure sottovalutato l’influsso che la formazione culturale e la scuola ebbero sulla vita delle comunità cristiane. Queste constatazioni sono interpretate e valutate in modi assai differenti – e talora opposti – dalle varie confessioni cristiane. Anche dopo il Conc. Vaticano II, non tutte le divergenze sono state superate; tuttavia si sta sempre più rafforzando, tra le differenti denominazioni cristiane, un fruttuoso dialogo ecumenico (→ Ecumenismo) in questo settore. 2. Lo studio dei rapporti tra C. e educazione dovrebbe essere sia di ordine teoretico che storico, però è talmente vasto da non poter essere compreso sotto un’unica voce. Si è costretti pertanto a suddividerne la trattazione e a collocarla sotto differenti voci. Qui ci limitiamo a segnalarne le principali. Per le trattazioni di ordine storico, cioè riguardanti i rapporti che nei due millenni di vita del C. le chiese e le comunità cristiane hanno instau-

rato con le istituzioni educative e scolastiche presenti nelle varie culture, si possono vedere le seguenti voci: Agazzi, Agostino, Aporti, Barnabiti, Basilio, Benedetto, Borromeo, Bosco, Calasanz, Casotti, Clemente Alessandrino, Comenio, Congregazioni insegnanti, Da Silva, Deontologia, Direzione spirituale, Dottrina sociale della Chiesa, Dupanloup, Ebraismo, Erasmo, Förster, Francke, Figlie di Maria Ausiliatrice, Fratelli delle Scuole cristiane, Gesuiti, Giansenismo, Giussani, Guanella, Guardini, Isidoro di Siviglia, La Salle, Lutero, Manjón, Maritain, Medioevo, Monachesimo, Movimenti ecclesiali, Nebreda, Pietismo, Protestantesimo, Salesiani, Scolopi, Tommaso d’Aquino, Willmann. 3. Lo studio teoretico dei rapporti tra C. e educazione è di natura essenzialmente teologica ed è assai complesso. Comprende anzitutto un primo gruppo di problemi riguardanti il perché la Chiesa – la cui missione di ordine essenzialmente spirituale sarebbe quella di essere «sacramento» del Regno di Dio nel mondo – debba occuparsi anche di educazione e di scuola, che sono invece attività e istituzioni temporali. Questo primo gruppo di interrogativi fa parte della più ampia problematica concernente i fondamenti teologici dell’azione della Chiesa nel temporale. Un secondo gruppo riguarda invece il come la Chiesa possa occuparsi di educazione e di scuola (e, in generale, delle realtà e finalità temporali), senza venir meno alla sua missione spirituale di servizio del regno di Dio. Anche in questo caso la trattazione di questa problematica (che verrà fatta in un clima di dialogo ecumenico, pur privilegiando la prospettiva teologica della Chiesa Cattolica) viene suddivisa in una pluralità di voci, che segnaliamo: Bibbia, Catechesi, Catechismo, Catecumenato, Chiesa, Educazione cristiana, morale, religiosa, spirituale, Esperienza religiosa, Formazione vocazionale, Gruppi di ascolto, Insegnamento della religione cattolica, Pastorale, Pedagogia cristiana, Preghiera, Relativismo morale, Sistema preventivo, Spiritualità, Teologia dell’educazione, Virtù. Bibl.: Corallo G., «Il C. e l’educazione», in L. Volpicelli (Ed.), Pedagogia, vol. 8: Storia della pedagogia, Milano, Vallardi, 1972, 171-221; Quacquarelli A., Scuola e cultura dei primi secoli cristiani, Brescia, La Scuola, 1974; Braido

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CRITICA

P. (Ed.), Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, 2 voll., Roma, LAS, 1981; Sagramola O., Alle radici della pedagogia cristiana: educazione, cultura e scuola nel C. dei primi secoli, Manziana (RM), Vecchiarelli, 2003.

G. Groppo

CRITICA È un termine filosofico, relativo alla natura e al senso razionale della conoscenza, che ha diverse applicazioni in sede di pedagogia e di educazione. 1. Il termine (dal gr. kritiké téchne, arte di giudicare) rimanda alla tecnica di analisi testuale e valutazione delle fonti, al giudizio di opere letterarie e artistiche, e da → Kant in poi, sta alla base del criticismo filosofico, che si caratterizza per l’esame radicale a cui viene razionalmente sottomessa la conoscenza e la ragione stessa nei suoi diversi modi di porsi. È noto che → Lombardo Radice prospettò una c. didattica, intesa come filosofia vissuta che discute e passa al vaglio l’opera didattica, cioè l’istituzione, i metodi, gli atteggiamenti e i comportamenti scolastici concreti; la produzione didattica e pedagogica; gli esperimenti di innovazione didattica e scolastica. In tal modo credette di poter superare il tecnicismo e la pedanteria erudita; di stimolare la formazione degli insegnanti e l’opinione pubblica; di far penetrare nella scuola e nelle famiglie idee pedagogiche nuove e atteggiamenti più rispettosi della → creatività del fanciullo. Negli anni settanta, nel generale clima di radicale contestazione della scuola e della pedagogia, soprattutto negli ambienti tedeschi, si parlò di scienza c. dell’educazione, così come di didattica c. per una educazione e una comunicazione nonautoritaria nella scuola. Oggetto suo proprio sarebbe dovuto essere la denuncia dei condizionamenti ideologici e strutturali, che impediscono una comunicazione dialogica, un apprendimento riflessivo-critico, la ricerca dell’autonomia soggettiva e l’emancipazione individuale e collettiva. Negli anni novanta, a fronte della complessificazione della vita e della crisi della modernità occidentale, si è ripreso a parlare in Italia di pedagogia c. al fine di superare impostazioni scientistiche, ridut284

tive, schematiche, unilaterali; di ricercare itinerari di razionalità educativa; di valorizzare la particolarità, la storicità, la soggettività, la varietà delle situazioni, la ricchezza delle differenze individuali, esistenziali, culturali; di saldare dimensioni epistemologiche, etiche, valoriali, politiche ed operative. 2. In tal senso la c. pedagogica può essere vista come un compito fondamentale della teoria e della → filosofia dell’educazione che indaga e discute pubblicamente le idee e le pratiche educative per saggiarne la validità, l’attendibilità, l’adeguatezza e la significatività sia rispetto ai bisogni educativi e alla domanda sociale di formazione attuale e futura sia rispetto alle esigenze della razionalità e della scientificità contemporanea. A sua volta, in sede di educazione la criticità è tradizionalmente indicata come una caratteristica essenziale dell’educazione moderna e specialmente dell’educazione scolastica, in un più ampio quadro di educazione alla ragione, di → educazione scientifica e tecnologica, di educazione ai → valori della tradizione, alle novità e → mode del tempo. In particolare l’educazione al → pensiero critico si raccomanda oggi a fronte del vasto pluralismo, della multicultura e della complessità vitale che caratterizzano l’esistenza contemporanea. Bibl.: Lombardo R adice G., Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale, Palermo, Sandron, 1936; Bertoldi F., C. della certezza pedagogica, Roma, Armando, 1981; Cambi F. - G. Cives - R. Fornaca, Complessità, pedagogia c., educazione democratica, Firenze, La Nuova Italia, 1991; Granese A., Il labirinto e la porta stretta. Saggio di pedagogia c., Ibid., 1993; R agnedda M., Eclisse o tramonto del pensiero critico? Il ruolo dei mass media nella società post-moderna, Roma, Aracne, 2006; Sartori G., Homo videns. Televisione e post-pensiero, Roma/Bari, Laterza, 2007.

C. Nanni

CROCE Benedetto → Storicismo pedagogico

CULTURA L’etimologia del vocabolo c. ci rinvia al lat. colere (curare, onorare, esercitare), da cui cultus, come in cultus deorum e cultus agri

CULTURA

(locuzione, quest’ultima, divenuta in se­g uito c. agri). Di qui si è sviluppata l’e­spressione c. mentis del tardo Medioevo (in realtà già Cicerone − in Tusculanae Disputationes 2,5,13 − scriveva: C. animi philosophia est) e del primo Rinascimento, che è all’origine del concetto classico tradiziona­le assunto dal termine c. quando venne in­t rodotta nelle lingue moderne (Kluckhohn - Kroeber, 1982). Attualmente il termine c., pur proponendosi in ogni sua accezione di specificare il regno delle attività umane differenziato e rapportato (talvolta contrapposto) al regno della natura, viene ado­perato per indicare fondamentalmente due realtà distinte, di cui però la prima è inclu­sa nella seconda: a) il processo di educa­zione o formazione della persona umana: è il senso tradizionale, classico-umanistico; b) «quel complesso insieme [complex whole], quella totalità che comprende la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società»: è il senso moder­no, sociologico-antropologico, nella prima celebre definizione lanciata nel 1871 da C. B. Tylor, punto di riferimento per tutte le successive rielaborazioni (KluckhohnKroeber, 1982, 99). 1. La c. come visione globale dell’esistenza umana. Per un discorso critico sulla c. − che sempre prenderemo nel senso antropologico-moderno − è necessario superarne la semplice descrizione fenomenologica, per individuarne l’essenzialità e l’importanza, quali premesse e fondamenti per una pro­ posta educativa. Ripercorrendo il proces­so dell’intellezione (umana), mediante il quale l’uomo comprende se stesso come «esistente, con gli altri, nel mondo», si con­figura sempre più chiaramente il concetto filosofico di c. in quanto tale, che potrem­mo così definire: l’insieme dei modi di vita, inscindibilmente espressi sia negli orienta­menti speculativi (letteratura, filosofia, ar­te, religione, musica, ecc.) sia nei compor­tamenti pratici (tecnica, economia, norme sociali, ecc.), che sono creati, appresi e tra­smessi da una generazione all’altra fra i membri di una particolare società; modi di vita che sono indispensabili ai singoli e alla comunità, in un ineluttabile reciproco condizionamento, e che, per la loro finalità ai valori universali di perfezionamen-

to della persona umana, esigono di aprirsi ad un ar­r icchente confronto con le altre c. (Montani, 1991, 37-48). Ne consegue che «la c. non è una specie di ornamento estrin­ seco che verrebbe ad aggiungersi all’esistenza dell’uomo per dargli qualche at­t rattiva supplementare, per principio non indispensabile. È la condizione stessa del­l’esistenza veramente umana» (Ladrière, 1978, 114). La c. è parte costitutiva della natura umana, perché solo la c. «fa di noi degli esseri specificamente umani, raziona­li e critici ed eticamente impegnati. Grazie alla c. discerniamo i valori ed effettuiamo delle scelte. L’uomo si esprime per mezzo della c., prende consapevolezza di se stes­so, si riconosce come un progetto incom­piuto, rimette in questione le sue realizza­zioni, ricerca instancabilmente nuovi signi­ficati e crea opere che lo trascendono» (Unesco, 1982). 2. Gli elementi fondamentali della c. Poiché la c. è tutta opera dell’uomo, se ne potran­ no specificare gli elementi costitutivi fon­ damentali partendo dalla classica distin­ zione dell’azione umana. Ovviamente que­sti diversi fattori culturali saranno stret­tamente uniti tra di loro in quanto costituiscono una struttura, intesa nel senso di un tutto organico formato di elementi solidali, tali che ognuno dipende dagli altri e non può quindi essere pienamente comprensi­bile se non attraverso la reciproca relazio­ne dell’uno con tutti gli altri. 2.1. La lingua. Il «conoscere» è l’azione mediante cui l’uomo tende a rendersi con­ sapevole della realtà (soggettiva e oggetti­va) in un contesto di rapporti dialettici so­ciali. La capacità simbolizzatrice ha avuto una funzione primaria nella caratteriz­zazione dell’uomo, nella trasformazione dell’essere umano in persona e dell’evolu­zione in storia umana: «Senza simbolo non ci sarebbe c., e l’uomo sarebbe un animale, non un essere umano» (Chiavacci, 1977, 667). La forma più importante dell’espres­sione simbolica è la lingua (accanto all’ar­te). Senza una lingua (→ linguaggio) non avremmo una c. La lingua pertanto è for­mativa non meno che formata: prima di essere strumento del parlare essa è legge del­lo stesso pensare. Perciò come una lingua povera e rozza (di un gruppo, di una sub­cultura) rende difficoltosa la riflessione che apre alla consapevolezza dei valori, così 285

CULTURA

una mancata padronanza della lingua ren­de difficoltosa la → comunicazione e la difesa della stessa verità, nonché dei doveri e dei diritti di ogni membro di una co­munità. 2.2. La tecnica. Il «fare» (poiéo) è l’azione umana che ha per fine principale quello di produrre, di dominare e di organizzare una materia esteriore (→ tecnologia). È il do­minio della tecnica, qui intesa nell’accezio­ne generica di attività rivolta a costruire e manipolare processi fisici e sociali per porli al servizio delle necessità esterne della vi­t a. Oltre alla sua palese efficacia applicati­va e produttiva, essa rivela un carattere sin­tomatico del modello di valori dominanti in una società. In più, non va dimenticato che la dispotica pretesa della «grande scienza» e la concomitante superefficienza tecnico-produttiva dei nostri tempi sorreg­gono una colossale struttura di sapere e di potere, in stretti rapporti di dipendenza dallo Stato e dai suoi interessi politico-mi­litari. La c. autentica non è semplicemente il progresso tecnico, ma è lo scopo e l’au­tenticazione di tale progresso. Infatti, antitetico al progresso tecnico-scientifico − pie­namente auspicabile allorché diventa a sua volta coefficiente del perfezionamento del­la persona umana − è possibile, teorica­ mente e storicamente, individuare anche un progresso tecnico-scientifico che si accompagna ad un regresso morale-sociale, in quanto può essere sviluppato da un «uomonon-umano» e creare quindi una «c.-nonculturale». 2.3. Le norme sociali. L’«agire» (prásso) è l’azione umana che mira a formare colui che agisce, a modellarne il comportamento in un contesto di forme del vivere comune e socialmente acquisite. Le norme sociali, che impegnano ogni singolo membro di una → società (e la società stessa) al rispet­ to e all’osservanza, diventano, in definiti­va, l’epifania più appariscente e più genui­na della → Weltanschauung di un popolo. Con una classificazione sociologica ormai divenuta comune distingueremo le norme sociali in: a) folkways, usanze e consuetu­dini tramandate senza speciale riflessione o procedura, seguite più o meno inconscia­mente, e che, di per sé, non cadono direttamente sotto l’ordine morale (per es.: modi di vestire, di mangiare, di divertirsi, ecc.); b) mores, modi di agire che molto più pre­cisamente sono considerati come giusti, ap­propriati e quasi essenziali 286

al bene sociale, e che quindi, se violati, vengono puniti molto più severamente (per es.: fedeltà co­niugale, condotta sessuale, diritto di pro­prietà, rispetto della vita altrui, ecc.); c) leggi, che nelle società più complesse di­ ventano necessarie per assicurare l’ordine sociale, non bastando più la sola opinione pubblica e la sola coscienza degli individui, generalmente sufficienti nelle società pri­ mitive (Bartoli, 1987). Naturalmente il ri­ ferimento ai valori (personali e comunita­r i) sarà molto diverso nelle singole norme delle singole culture: avremo una gradua­lità di rapporto che va dall’indifferenza (etica) ad un pieno coinvolgimento (etico). Tra questi vincoli culturali, l’istituzione po­litica e l’istituzione educativa sono ritenuti i più determinanti ed essenziali nella tra­smissione e nella compattezza del tessuto di una c. 2.4. I valori. Il «contemplare» (theôreô) è l’attività umana che indaga sui → valori per arricchire il regno dell’umanità e tendere all’autenticità della vita. Sono i valori che orientano le fondamentali scelte di com­ portamento (personali e comunitarie) e che rivestono una straordinaria importanza per il gruppo sociale, tanto da venire assunti come criteri di giudizio, norme di condotta e modelli dell’educazione. Biso­g na sottolineare che nelle c. contempora­nee, più sofisticate delle precedenti, il fe­nomeno della comunicazione ha raggiunto modalità, potere, intensità tali da influire sulla consistenza stessa e sulla «esemplarità educativa» dei valori (o dei non-valori) vei­colati. Di qui la necessità, per i contempo­ranei, di potenziare le capacità di analisi, di giudizio, di scelta, affinché il gigantesco «mercato delle notizie» non monopolizzi il dominio delle idee. 2.5. La religione. Un’attenzione privilegia­ ta va accordata al valore religioso, perché motivi di ordine sociologico e teoretico im­ pongono di non eludere la controversa questione se la → religione sia o no il fon­damento ultimo, il costitutivo supremo, la base più profonda di una c. In linea teorica ci sembra non esservi dubbio che nella re­ligione, in cui l’uomo si mette a disposi­zione di Dio, si celi una delle scaturigini più essenziali della c. Passando però al piano esistenziale del rapporto religione-c., sia­mo convinti che la religione tanto più sarà scaturigine di valori culturali quanto più verrà percepita come un «valore» (e non semplicemente come una

CULTURA

fredda «coerenza a delle verità»), quanto più andrà conti­nuamente depurandosi da strumentalizza­zioni arbitrarie (la religio instrumentum re­gni) e quanto più si presenterà come una proposta «ragionevole» (il che non è sinonimo di «razionale»), pienamente rispetto­sa della dignità umana, rigettando fondamentalismi, guerre sante, teocrazie dispo­tiche, roghi, fanatismi, ecc. I cristiani, in particolare, per non separare la religione dalla c., sono oggi vivamente stimolati sia a purificare la loro fede da negative incrostazioni storiche, sia ad impegnarsi in un vi­gile «aggiornamento» sintonizzandosi con i «segni dei tempi», che sono luogo della cre­scita umana e l’«ora» della continuata crea­zione di un Dio-Padre. 3. L’universalismo culturale. Oggi le sem­ pre più numerose relazioni (politiche, eco­ nomiche, turistiche, sportive) uniscono tal­ mente tra di loro i vari popoli della terra da non mettere più in dubbio il cammino di tutta l’umanità verso una mondializzazione della c. La costruzione di tale progetto culturale planetario dovrà trovare l’equili­brio fra due esigenze fondamentali: da una parte, l’esigenza di difendere l’ineliminabi­le singolarità delle c. (con il rischio di chiu­dere e impoverire lo sviluppo della natura umana); dall’altra parte, l’esigenza di aprir­si ai valori di cui altre c. sono portatrici (con il rischio dello scetticismo o del relati­vismo della proposta di sviluppo della na­t ura umana). Sarebbe, allora, più esatto parlare non di c. planetaria ma di dimen­sione planetaria delle c., che è lo sforzo di ogni popolo di rispettare e capire le diver­sità dell’altro. Mondialità culturale non si­g nificherà neppure monocultura, né tanto meno occidentalizzazione forzata delle al­t re c., perché la comunione tra le diverse c. non si dovrà necessariamente configurare − come prevalentemente è avvenuto nel passato − secondo un rapporto di dipen­denza o come estensione geografica di un solo modello culturale, ma piuttosto si co­struirà in un rapporto di mutua priorità, in cui ognuno conserva la propria originalità in un libero dare e avere. Forse solo nei no­stri tempi ci si è convinti della necessità per ogni c. di «mettere in questione − dal suo interno − se stessa, rinunciando alla propria assolutezza e definitività. [...] È finito il tempo in cui gli “altri” erano o un nulla in­significante (i bar-

bari) o il male, i cattivi da combattere e da salvare convertendoli alla propria c.» (Chiavacci, 1977, 671). Pare dunque che la nostra epoca debba ci­mentarsi e qualificarsi nella capacità di dialogo. Ben lungi dall’insinuare l’idea che si debba avallare quel relativismo culturale per cui una c. assiologicamente considerata ne varrebbe un’altra, riteniamo, al contra­rio, che il vero problema stia nel trovare il «criterio di giudizio» per valutare una c., che sarà analogo a quello adoperato per giudicare l’uomo: sarà la verità sull’uomo, nella totalità delle sue dimensioni (corpo­rale e spirituale, individuale e sociale) e quale soggetto di libertà e quindi portatore di responsabilità. Poiché la c. non è un as­soluto (valore assoluto, su questa terra, è solo la persona umana), ma è l’indispensa­bile condizionamento e mediazione per un’armoniosa costruzione dell’universo personale e comunitario, essa si qualifiche­rà e dovrà essere valutata, concretamente, per quanto saprà disinteressatamente offrire, effettivamente favorire e imparzial­mente difendere, per tutti i membri di una società: una sufficiente quantità di beni economici, indispensabili per esistere e vi­vere «da uomini»; l’emancipazione da ogni forma di schiavitù, in un quadro di solida­r ietà e di libertà, senza sacrificare mai l’una o l’altra per nessun pretesto; delle istitu­zioni socio-politiche democratiche e parte­cipative, con conseguente rifiuto di ogni forma di totalitarismo e di paternalismo; il rispetto del principio di sussidiarietà, se­condo cui i poteri pubblici non devono soffocare i corpi sociali intermedi, nei qua­li i cittadini possono (e debbono) adempie­re i loro doveri ed esercitare i loro diritti con maggiore responsabilità e sicurezza; un abbordabile accesso ai «luoghi» e ai «tem­pi» che consentono alle persone di scoprire e maturare i valori; un’energica vigilanza nel rispettare l’integrità e il ritmo della na­t ura (questione ecologica); un’indefessa concomitante preoccupazione per la pace. Bibl.: Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, nn. 28, 46, 33, 44, 15, 26; Rossi P. (Ed.), Il concetto di c.: I fondamenti teorici della scienza antropolo­gica, Torino, Einaudi, 71970; Ladrière J., I rischi della razionalità. La sfida della scienza e della tecnologia alle c., Tori­no, SEI, 1978; Gilson É., La società di massa e la sua c., Milano, Vita e Pensiero, 1981; K luckhohn C. - A. K roe-

287

CULTURA RADICALE

Il concetto di c., intr. di T. Tentori, Bologna, Il Mulino, 1982; Unesco, Conferen­za Mondiale sulle Politiche Culturali, Messico, 1982; Guardini R., La fine dell’epoca moderna. Il potere, Brescia, Morcellia­na, 1984; Rickert H., Il fondamento delle scienze della c., intr. di M. Signore, Ravenna, Longo, 21986; Lazzati G., La c., Roma, AVE, 1987; Szaszkiewicz J., Filosofia della c., Roma, EPUG, 2 1988; Montani M., Filosofia della c.: Problemi e prospettive, Roma, LAS, 1991; Car r ­ ier H., Lexique de la culture pour l’analyse culturelle et l’inculturation, Tournai/Louvain la Neuve, Desclée, 1992; Houston R. A., C. e istruzione nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2000. ber,

M. Montani

CULTURA DIGITALE → Tecnologie dell’informazione e della comunicazione

CULTURA RADICALE Nel corso di quelli che sono stati detti i «difficili anni ’70» sono stati messi in crisi le ideologie, i modelli culturali, i modi tradizionali della ricerca scientifica (e di quella delle scienze umane in particolare); ma si sono pure ricercati nuovi modi di sentire, di fare c. e di fare scienza. In tale contesto può essere collocata quella che è stata denominata globalmente come c.r. (ad indicare un modo globale di sentire che va «alla radice» e che «porta all’estremo» le questioni). 1. Essa si è sostentata soprattutto della psicoanalisi strutturalista post-lacaniana e delle suggestioni di F. Nietzsche; e più genericamente di un certo neo-nichilismo che azzera verità e valori tradizionali e che nega ogni assolutezza. Il concetto tradizionale di soggettività ne esce profondamente scosso. L’uomo è ridotto ad un gioco pirotecnico di pulsioni e di bisogni, che atomizzano l’esistenza individuale e collettiva. Una razionalità immanente alla storia, così come una normatività oggettiva della natura sono considerate assolutamente impensabili. Al limite l’uomo viene paragonato al «rizoma», pianta senza vero fusto e foglie, ricco di riserve interne, dalle diramazioni clandestine e dagli sviluppi sotterranei non prestabiliti. Analogamente la vita collettiva è considerata simile a quella di un formicaio in cui ogni individualità è 288

come dominata da un incessante dinamismo che la supera e che si riproduce oltre ogni mutilazione od eliminazione di questa o quella individualità. Rifiutata ogni fondazione razionale ed ogni collegamento rigido alla tradizione od ogni tentativo di riduzione ad unità organiche, l’esistenza è vista come incessante e libera produzione dei bisogni e dei desideri che liberano «dis-organicamente» la molteplicità spontanea di quelli che son detti «bisogni radicali». Il loro soddisfacimento e la loro libera espansione diventano il principio e la regola suprema d’azione. 2. Tali modi di pensare hanno fatto moda culturale. Per tanti versi hanno interpretato la diffusa aspirazione al benessere e il fascino discreto del consumismo attuale, come pure il desiderio di → emancipazione da ogni forma di soggezione sociale e dall’autoritarismo tradizionale. In tal senso la c.r. è contro l’educazione, vista come apparato e strumento di soggiogamento interiore e di omologazione culturale. Più largamente, oggi essa si manifesta come lotta anti-global contro l’imprenditoria e il mercato mondializzato a difesa delle libertà individuali e di un ecosistema sano; e come laicità progressista e difesa ad oltranza dei diritti umani soggettivi contro ogni forma di fondamentalismo o di ingerenza clerical-conservativa nella vita civile e politica. Bibl.: M arcuse H., Saggio sulla liberazione, Torino, Einaudi, 1969; H eller A., La filosofia radicale, Milano, Il Saggiatore, 1976; Deleuze G. - F. Guattari, Rizoma, Parma, Pratiche, 1977; Acquaviva S., In principio era il corpo, Roma, Borla, 1977; Berni S., Nietzsche e Foucault. Corporeità e potere in una critica radicale della modernità, Milano, Giuffrè, 2005.

C. Nanni

CUOCO Vincenzo n. a Civitacampomarano (CB) nel 1770 - m. a Napoli nel 1823, uomo politico, storico, filosofo, pedagogista italiano. Inizialmente avviato all’avvocatura, partecipa alla rivoluzione partenopea del ’99. Costretto all’esilio, trascorre un periodo a Milano ove

CURE MATERNE

scrive il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 e il Platone in Italia. Fonda il «Giornale Italiano». Torna a Napoli (1805) e ricopre importanti cariche pubbliche. Membro della Commissione appositamente nominata dal re, redige il Rapporto al re Gioacchino Murat e progetto di decreto per l’organizzazione della P.I. (1809). Punto fondamentale del suo pensiero è una chiara derivazione dal → Vico con la conseguente valorizzazione della storia e, in questa, dell’insopprimibile opera dell’uomo (onde la Costituzione politica deve trovare la sua linfa vivificatrice negli usi e nella tradizione del popolo). Valore insostituibile ha l’educazione «senza la quale le migliori leggi restano inutili: esse potranno essere scritte, ma la sola educazione può imprimerle nel cuore dei cittadini». L’educazione deve essere universale (cioè comprendere tutte le scienze e tutte le arti), pubblica (trovare cioè il pieno appoggio nei pubblici poteri) e uniforme (in modo tale, però, che non ne venga «distrutta l’energia dell’individuo»). Un’educazione che «educhi gli uomini alla morale, insegnandola dalla prima età, insegnandola in tutte le età, mostrandola in tutti i modi», sì da educare «la nazione intera, rendendola egualmente potente di senno, di cuore, di mano». Il C., relatore della citata Commissione, prevede una struttura scolastica articolata in direzione generale, educazione primaria, media, sublime (università) concludendo: «in tutto il nostro progetto abbiamo proposto sempre lo scopo di perfezionare non solo le scienze, ma gli uomini». Bibl.: a) Fonti: Cortese N. - F. Nicolini, Scritti vari di V.C., Parte prima (1801-1806), Parte seconda (1806-1815), Bari, Laterza, 1924. b) Studi: Gentile G., V.C. pedagogista, in «Rivista Pedagogica» (1908) 2, 161-180; 3, 257-284; Flores d’A rcais G., La pedagogia di V.C., Padova, CEDAM, 1948; Nicolini G., V.C. pedagogista politico, Padova/Rovigo, 1951; L aporta R., La libertà nel pensiero di V. C., Firenze, La Nuova Italia, 1957; Borghi L. (Ed.), Il Risorgimento, Firenze, Giuntine-Sansoni, 1958; Gambaro A., «La pedagogia italiana nell’età del Risorgimento», in Nuove questioni di storia del Risorgimento, vol. II, Brescia, La Scuola, 1977, 535-792; Scirocco A., L’Italia del Risorgimento (1800-1860), Bologna, Il Mulino, 1990; Scuderi G., Storicismo e pedagogia. Vico, C., Croce, Gramsci, Roma, Armando, 1995; Flores d’A rcais G., «C.», in Enci-

clopedia Filosofica, vol. III, Milano, Bompiani, 2006, 2488-2490.

F. De Vivo

CURE MATERNE La c. di una madre per il figlio si identifica con l’interessamento affettuoso e sollecito che la spinge a provvedere ai suoi bisogni sia di tipo fisico che emotivo. 1. Questa c. deve incominciare già in gravidanza in quanto tutto ciò che la madre vive influirà sensibilmente sul figlio. Infatti è stato ipotizzato, sulla base di diverse ricerche effettuate da psicologi e neurobiologi, che il feto, specialmente nelle ultime settimane di gestazione, accoglie ed in certo modo elabora gli stimoli che la madre consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente gli fa giungere. 2. Dopo la nascita sarà più importante ancora il tipo di interazione che si stabilirà tra il bambino e la madre sulla base della modalità di c. adottata da questa. In tale compito la madre è aiutata nei primi tempi dalla «preoccupazione materna primaria» (Winnicott, 1981, 186), un’elevata identificazione con figlio, che l’aiuta a cogliere le sue prime necessità e bisogni. Molta ricerca ha evidenziato l’importanza della capacità materna sia di fornire c. per il sostentamento materiale che di avere scambi affettivi sintonizzati con il vissuto emotivo del figlio (Stern, 1998). C.m. almeno «sufficientemente buone» (Winnicott, 1981, 64) nel rispondere con prontezza ed in modo costante alle richieste del figlio, nel mostrargli con le parole ed il comportamento non verbale una piena accettazione di tutti i suoi vissuti, avranno un influsso positivo sullo sviluppo del bimbo. Tutto ciò, infatti, influisce sul tipo di attaccamento che questi svilupperà, attaccamento che da vari studi risulta essere un potente organizzatore del successivo sviluppo psico-sociale del bambino, con ripercussioni anche sul suo sviluppo cerebrale (Siegel - Hartzell, 2005). Per il bambino è pericolosa non tanto la perdita delle c. materiali della madre, che però all’occorrenza possono venir soddisfatte altrettanto bene anche da altre persone, quanto 289

CURRICOLO

la privazione o la diminuzione del legame affettivo con la madre stessa. Questo può avvenire per vari motivi legati a problemi personali della madre, che possono essere presenti già da prima della nascita del figlio. Fra i tanti ci può essere il timore per la gravidanza, sia desiderata che non voluta, la delusione circa il sesso del bambino, l’inconscio rifiuto, attraverso il figlio, di qualcosa di sé, o anche difficoltà legate a modelli relazionali negativi sperimentati con i propri genitori e non elaborate. Il disagio materno che a volte giunge fino all’impossibilità psicologica di accudire serenamente il figlio, può favorire in lui difficoltà fisiche, cognitive, esperienziali che potranno evidenziarsi nell’arco della vita e che sarà necessario sanare. 3. È importante che il modo di provvedere ai bisogni del bambino cambi quando questi, crescendo, ha necessità di una guida che non sia iperprotettiva e che lo prepari, attraverso un’accurata frustrazione e una graduale responsabilizzazione, a saper vivere in un mondo che presenta rischi, difficoltà e nel quale esistono norme e valori da seguire. La c.m. deve dunque essere integrata con proibizioni ed eventuali rimproveri attraverso i quali il figlio possa venire a conoscenza di ciò che la società esigerà da lui ed a prevedere, per evitarli, gli eventuali pericoli. Il modo nuovo di manifestargli affetto e apprezzamento, come pure il rispetto verso la sua maggiore capacità cognitiva, permetterà al figlio di sentire che nei momenti di crisi può comunque contare sull’appoggio e l’interessamento della madre e che, sentendosi protetto grazie a questo, potrà raggiungere una valida consapevolezza di sé ed un buon grado di → socializzazione. Bibl.: Bowlby J., C.m. e igiene mentale del fanciullo, Firenze, Giunti Barbera, 1971; Id., Attaccamento e perdita, voll. I e II, Torino, Bollati Boringhieri, 1978; Winnicott D. W., Sviluppo affettivo e ambiente, Roma, Armando, 31981; Stern D. N., Il mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri, 1992; I d., Le interazioni madre-bambino nello sviluppo e nella clinica, Milano, Cortina, 1998; Siegel D. J. - M. H artzell, Errori da non ripetere. Come la conoscenza della propria storia aiuta ad essere genitori, Ibid., 2005.

W. Visconti - C. Messana

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CURRICOLO L’insieme delle esperienze di apprendimento che una → comunità scolastica progetta, attua e valuta in vista di → obiettivi formativi esplicitamente espressi. Dal lat. currere (correre), tradizionalmente indicava il corso di studi frequentato o da frequentare per raggiungere un certo livello di qualificazione scolastica o accademica. Nell’antichità veniva usato anche per indicare ogni carriera politica, culturale, militare. Ancor oggi un curriculum vitae è l’insieme degli studi compiuti e delle esperienze e competenze professionali raggiunte nel corso della propria vita. 1. La nascita dell’idea attuale di c. L’autore, che ha avuto, e ha tuttora, una grande influenza sullo sviluppo degli studi curricolari è Ralph Tyler. In un volumetto del 1949 dal titolo Principi fondamentali per il c. e l’insegnamento, con buon senso e penetrante lucidità gettava le basi di un’impostazione razionale della programmazione della formazione scolastica. Non si trattava, come lui stesso ha sottolineato, di un manuale per costruire un programma educativo, ma solo di uno schema di come esso dovrebbe configurarsi per poter diventare un vero strumento di formazione. Tale schema partiva dall’enunciazione di quattro domande fondamentali, cui occorreva successivamente rispondere per sviluppare qualsiasi c. o piano educativo. Le domande erano: 1) Quali sono le finalità educative che la scuola dovrebbe cercare di raggiungere? 2) Quali esperienze educative, verosimilmente adatte a raggiungere queste finalità, sono disponibili? 3) Come possono in concreto essere organizzate queste esperienze? 4) In quale modo è possibile verificare che queste finalità sono state raggiunte? Queste quattro domande e le relative risposte costituiscono, secondo Tyler, il «quadro di riferimento razionale secondo il quale esaminare i problemi del c. e dell’educazione» (Tyler, 1949, 2). 2. Primi sviluppi. Un’analoga, anche se più sostanziosa impresa, fu compiuta da una allieva di Tyler, Hilda Taba (1962), che impostò un percorso razionale di sviluppo di un piano educativo secondo una serie di passi successivi: 1) diagnosi dei bisogni; 2) formulazione degli obiettivi; 3) selezione dei

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contenuti; 4) organizzazione dei contenuti; 5) selezione delle esperienze di apprendimento; 6) organizzazione delle esperienze di apprendimento; 7) determinazione di ciò che si deve valutare, di come e con quali strumenti è possibile farlo. Se l’intervento deve essere personalizzato è inevitabile giungere ad una conoscenza più approfondita di ciascuno degli allievi: questa è una condizione previa per poter ritagliare su misura un piano educativo. Da questa valutazione iniziale emerge la domanda educativa, cioè l’insieme di conoscenze, abilità e atteggiamenti di cui i giovani necessitano per poter procedere più sicuramente e validamente non solo nelle esperienze scolastiche, ma soprattutto in quelle della vita e della professione. Tra il 1969 e il 1983 Schwab in una serie di interventi, ha criticato la tendenza sviluppatasi dopo Tyler, diretta verso un’eccessiva teorizzazione degli studi curricolari. Il concetto base da cui Schwab parte è quello di «arte del pratico», in altre parole arte del deliberare. Schwab si colloca nel quadro di riferimento elaborato da Tyler, ma ne critica due punti. Il primo concerne l’eccessiva enfasi di Tyler nei riguardi della definizione degli obiettivi. Il problema sta nel fatto che questi si presentano spesso ambigui ed equivoci e quindi offrono poca «materia concreta» per prendere decisioni pratiche. Inoltre è facile giungere a falsi consensi. Il secondo riguarda la poca attenzione posta sulla difficoltà del processo deliberativo, difficoltà derivante dalla complessità del compito. Una mancata formazione alla capacità di prendere decisioni, soprattutto in gruppo, rende impossibile ogni elaborazione curricolare effettiva. Nel frattempo un gruppo di allievi e collaboratori di Tyler, poi giunti a livelli professionali elevati, sviluppava le sue idee soprattutto per quanto riguarda la definizione e la formulazione degli → obiettivi educativi e didattici. Tra questi si possono ricordare B. Bloom, R. Mager, L. Briggs. 3. Alcuni sviluppi europei. Il tedesco S. B. Robinsohn (1976), dopo aver soggiornato negli Stati Uniti al fianco di R. Tyler, propose in Germania nel 1967 un modello di lavoro per l’organizzazione dei c. scolastici, che in qualche modo tenesse conto di due campi principali di applicazione: quello prevalentemente orientato alla formazione culturale e per-

sonale degli allievi e quello principalmente diretto alla loro preparazione professionale. Il punto di partenza per la definizione degli obiettivi educativi e didattici non era tanto collegato da Robinsohn con le analisi dei bisogni individuali, quanto con la ricerca delle situazioni di vita, che con ogni probabilità i giovani si sarebbero trovati a dover affrontare in un più o meno prossimo futuro. La capacità di dominare tali situazioni di vita, secondo questo Autore, può essere scomposta in alcune competenze, qualificazioni e atteggiamenti, che le fanno da presupposto. Dalla individuazione di queste qualifiche deriva la possibilità di selezionare le parti componenti l’intero percorso educativo che si intende organizzare e, in particolare, gli obiettivi. È evidente lo sforzo di ricollegare i bisogni educativi degli allievi con l’insieme delle situazioni personali, sociali, politiche e professionali, che essi dovrebbero saper affrontare in maniera positiva al termine dell’esperienza scolastica. In Inghilterra sono stati particolarmente significativi i contributi di A. V. Kelly e L. Stenhouse. Kelly (1977) riprende e sviluppa alcune utili distinzioni a proposito dei c., anche se si muove nella tradizione inglese di un grande decentramento decisionale, tradizione ora modificata dalla riforma scolastica del 1988, che ha introdotto un «c. nazionale», cioè un programma di studi deciso centralmente da un Comitato nominato dal Ministero dell’ educazione. Egli infatti distingue tra il c. relativo al processo d’insegnamento di una specifica disciplina, quello di un corso di studi e quello di una scuola vista nel suo complesso. Infatti diverse sono le persone, le competenze, le responsabilità coinvolte ai vari livelli; diversi sono i risultati che ci si aspetta di ottenere, il loro grado di specificità e di operatività. D’altra parte è utile anche insistere sulla differenza tra c. ufficiale, c. effettivamente seguito e c. nascosto, quello che può riferirsi ai → valori che fanno da riferimento all’organizzazione e al sistema di relazioni presente nella scuola oppure alle credenze e prospettive del singolo docente. Spesso il c. nascosto è più influente degli altri sullo sviluppo della persona. Infine può essere fatta la distinzione tra c. formale, quello proprio dell’orario di lezione, e c. informale, quello che potremmo definire delle attività integrative o extracurricolari, tra le quali attività sportive, teatra291

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li, ecc. Nel giungere a una definizione di c., Kelly preferisce muoversi in una prospettiva descrittiva più che prescrittiva e definisce il c. come «l’insieme di tutto l’apprendimento che è programmato e sviluppato dalla scuola, sia che si svolga individualmente sia in gruppo, sia dentro che fuori dalla scuola» (Kelly, 1977, 7). L. Stenhouse (1977) ha sviluppato un quadro che per molti versi si pone come alternativo, rispetto alle forme più rigide di organizzazione curricolare basate su obiettivi esplicitamente e chiaramente espressi. Per Stenhouse un c. è un tentativo di rendere comunicabili i principi essenziali e le configurazioni concrete di una proposta educativa, in modo da renderla disponibile all’analisi critica e passibile di una effettiva traduzione operativa. In altre parole un c. è uno strumento per mezzo del quale una proposta educativa è resa pubblicamente disponibile. Esso include tanto il contenuto che il metodo e, nella più larga accezione, rende conto anche del problema affrontato, del suo sviluppo e del suo ruolo entro il sistema educativo. Il c. è considerato da Stenhouse, più come un processo di risoluzione dei problemi inerenti alla vita della scuola e della classe, che come un lavoro segnato da una tecnologia specifica e da scelte di natura ideologica o psicologica specifiche. È un’attività svolta da coloro che nella scuola vivono e lavorano, seguendo la logica della partecipazione democratica alle decisioni e quella di render pubblico e oggetto di analisi e discussione da parte della più larga comunità quanto deciso. 4. Alcuni sviluppi italiani. In Italia M. Pellerey negli anni settanta ha inquadrato il problema della progettazione, conduzione e valutazione dei c. scolastici nell’ambito di una rinnovata concezione della tecnologia dell’educazione che valorizza per analogia i passaggi propri di ogni tecnologia moderna: progettazione del prodotto e del processo produttivo, gestione della realizzazione del progetto, valutazione continua e finale del processo produttivo e del prodotto. Questa prospettiva va però oggi riconsiderata, tenendo conto della pratica educativa e didattica dei docenti, maggiormente legata alla cosiddetta saggezza pratica implicata nel saper prendere decisioni collettive in situazioni complesse e con forti caratterizzazioni contestuali. C. Scurati ha delineato in questo 292

modo le caratteristiche di una programmazione curricolare: «Affrontare una programmazione vera e propria significa determinare precisi obiettivi formativi, operare delle scelte fra valori nell’universo della tradizione e della cultura esistente, articolare ed organizzare forme molteplici e compenetranti di intervento formativo e di comunicazione didattica. In una parola “gestire” con chiare finalizzazioni e complesse strumentazioni operative l’intero arco delle opportunità di sviluppo e di apprendimento di un gruppo di alunni, secondo cadenze ispirate ai nuclei costitutivi della realtà, della razionalità, della socialità e della pubblicità» (Scurati, 1977, 22-24). Recentemente la tematica del c. è stata ripresa da M. Baldacci (2006), che ha evidenziato i due piani secondo cui dovrebbe essere impostato un c.: uno più immediato riferito ai singoli contenuti delle discipline di insegnamento e uno più a lungo termine che tiene conto dello sviluppo delle competenze e delle disposizioni stabili. 5. Tendenze successive negli Stati Uniti. E. Eisner in una serie di interventi ha ripreso la definizione originaria di c. come includente: «tutte le esperienze che l’allievo ha sotto l’egida della scuola» (Eisner, 1985, 40). La parola «esperienze» si riferisce a quanto prova il singolo. In questo senso si può parlare di c. quando esso è stato sperimentato dagli alunni e non prima e, spesso, un alunno impara molto di più di quanto si svolge in classe o è inteso dall’insegnante: in esso giocano un ruolo importante anche gli aspetti informali. Quindi va sostenuta la distinzione spesso avanzata tra c. come esperienza vissuta e c. come documento scritto. D’altra parte la scuola ha una missione da compiere e dunque deve offrire un programma ai suoi utenti. Di qui un tentativo di definizione: «Il c. di una scuola o di un corso può essere concepito come una serie di eventi programmati che intende avere conseguenze educative per uno o più studenti» (Eisner, 1985, 45). Il concetto di c. è stato anche rivisitato dal punto di vista ideologico. M. Schiro (1978) ha indicato una griglia di analisi delle proposte curricolari che distingue due dimensioni. La prima ha come polarità estreme il privilegiare la fonte della conoscenza e l’uso della conoscenza; la seconda, la realtà soggettiva e quella oggettiva. La composizione delle due dimensioni

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dà origine a quattro quadranti entro i quali si possono collocare quattro differenti impostazioni che sottolineano rispettivamente l’alunno, le discipline di studio, la professionalità, la trasformazione sociale. Pinar e coll. (1995) e P. Slattery (22006) hanno riletto le proposte curricolari secondo molteplici prospettive, evidenziando non poche delle problematiche nascoste entro i vari testi sia ufficiali nazionali, sia elaborati dalle singole istituzioni scolastiche e formative, evidenziandone le assunzioni ideologiche spesso implicite. Bibl.: Tyler R. W., Basic principles of curriculum and instruction, Chicago, University of Chicago Press, 1949; Taba H., Curriculum development: theory and practice, New York, Harcourt, Brace and World, 1962; Schwab J. J. et al., La struttura della conoscenza e del c., Firenze, La Nuova Italia, 1971, 1-27; Robinsohn S. B., Curricula scolastici come fondamento di ogni riforma, Roma, Armando, 1976; Frey K., Teorie del c., Milano, Feltrinelli, 1977; K elly A. V., The curriculum. Theory and practice, London, Harper & Row, 1977; M eyer H. L., Introduzione alla metodologia del c., Roma, Armando, 1977; Scurati

C., Un nuovo c. nella scuola elementare, Brescia, La Scuola, 1977; Stenhouse L., Dalla scuola del programma alla scuola del c., Roma, Armando, 1977; Schiro M., Curriculum for better schools, Englewood Cliffs, Educational Technology Publications, 1978; Schwab J. J., Science, curriculum and liberal education, Chicago, The University of Chicago Press, 1978; Pontecorvo C. - L. Fuse, Il c.: prospettive teoriche e problemi operativi, Torino, Loescher, 1981; Lawton D., Curriculum studies and educational planning, London, Arnold, 1983; Eisner E. W., The educational imagination: On the design and evaluation of school programs, New York, Macmillan, 21985; Lewy A., The International encyclopedia of curriculum, Oxford, Pergamon, 1991; Jackson P. W., Handbook of research on curriculum, New York, Macmillan, 1992; Pellerey M., Progettazione didattica, Torino, SEI, 21994; Pinar W. F. et al., Understanding curriculum, New York, P. Lang, 1995; F linders T. (Ed.), Curriculum studies reader, New York, Falmer, 2004; Baldacci M., Ripensare il c., Roma, Carocci, 2006; Slattery P., Curriculum development in the postmodern era, New York, Garland, 22006.

M. Pellerey

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D DA SILVA Carlos Leôncio Alves n. a Recife nel 1887 - m. a Lorena nel 1969, educatore e pedagogista brasiliano. 1. Cresciuto in una famiglia «tradizionale e onesta» e in contatto con i primi missionari salesiani arrivati in Brasile, entra a far parte della congregazione religiosa fondata da don → Bosco per l’educazione dei giovani (→ Salesiani). Compiuti gli studi umanistici e filosofici nel paese natale, continua gli studi ecclesiastici in Italia, ottenendo la laurea in teologia presso la Facoltà teologica di Torino (1916). Ordinato sacerdote, rientra in patria dedicandosi attivamente all’insegnamento e alla direzione di istituti educativi. Frutto delle sue lezioni, come professore di pedagogia nella scuola normale di Recife, è il saggio: Pedagogía. Manual teórico-prático para uso dos educadores (1938). Nel 1939 D.S. viene di nuovo in Europa, chiamato ora da don P. Ricaldone, Gran Cancelliere del Pontificio Ateneo Salesiano (PAS). Dopo aver visitato diversi centri universitari e dopo un periodo di studio a Friburgo, D.S. organizza presso il PAS di Torino l’Istituto Superiore di Pedagogia (oggi → Facoltà di Scienze dell’Educazione), diventandone primo decano (1941). 2. L’opera pratica di organizzatore è accompagnata da un serio impegno di «ripensamento attento e organico» della problematica pedagogica. La consapevolezza della complessità del fatto educativo porta D.S. ad affermare che esso non può essere affronta-

to solo in una prospettiva filosofica. La riflessione sull’educazione deve tener presenti tutti i dati riguardanti la realtà concreta dell’educando offerti dalle diverse scienze (fisiologia, biologia, psicologia, sociologia, storia, teologia). In questo campo D.S. diede un valido contributo. Bibl.: Sinistrero V., La «pedagogia» di C.L.D.S., in «Salesianum» 10 (1948) 242-256; Prellezo J. M., C.L.A.D.S. educador y pedagogo. En el centenario del nacimiento (1887-1987), in «Orientamenti Pedagogici» 35 (1988) 97-120; I d., Salesiani scuola e educazione: repertorio bibliografico 1859-2002, Roma, FSE-UPS (p.m.), 3 2002, 203-205.

J. M. Prellezo

DALTON Plan → Scuole Nuove DANZA EDUCATIVA → Comunicazione e educazione → Musica DARWIN Charles R. → Positivismo e educazione DE DOMINICIS Saverio → Positivismo e educazione DE HOVRE Franz → Neoscolastica pedagogica DECENTRAMENTO SCOLASTICO → Organizzazione scolastica

DECISIONE Il termine d. indica la scelta di una linea di operazioni in un qualche campo. Non tutti i campi di d. entrano nell’ambito di questa 295

DECISIONE

opera: vi sono d. che riguardano la gestione di un’azienda, di un governo, e simili; i sistemi informatici contemplano d. al verificarsi di condizioni predefinite; nella voce presente si considerano unicamente le d. che vengono prese dalle singole persone e che contribuiscono a strutturare il loro futuro. La comprensione del processo di d. ha grande rilevanza educativa, poiché concerne l’iniziativa dell’educando nel costruire la sua persona; è pure chiara la rilevanza morale e giuridica di un processo che evidenzia la responsabilità del soggetto. 1. Natura della d. Occorre in primo luogo chiarire ciò che la d. non è. La d. di cui ci occupiamo non è solo la conclusione automatica di un calcolo di vantaggi e svantaggi delle varie alternative o di un semplice calcolo delle probabilità: in una simile d. la persona che decide non ha alcun ruolo; del resto d. di questa natura possono essere prese in modo anche più chiaro da un computer. A questo riduzionismo deterministico si oppone talora un «libero arbitrio» ugualmente riduttivo: la persona che decide non è solo un «io» o una pura «volontà», ma è una struttura complessa, di intenzioni e abitudini, di impulsi e pressioni sociali, di sentimenti ed esperienze, sospesa tra il passato e il futuro: quando si prendono delle vere d., non si esperimenta la gioia di celebrare la propria libertà, ma si sente il peso e la sofferenza di ciò che si lascia e di ciò che ci si promette di fare. La struttura personale è a diversi gradi di integrazione, così che le singole condotte, e molto più i progetti per un futuro piuttosto vasto e importante, dipendono da dinamismi centrali, da concezioni, stili, intenzioni e progetti generali. È chiaro che la natura della d. appare soprattutto dove sono in gioco cose importanti per il soggetto. La d. si potrebbe perciò descrivere come l’incontro di un progetto o stile generale della persona con situazioni importanti che rappresentano una sfida a tale progetto. L’esito di questo incontro sarà l’incarnazione di questo «io» profondo nelle circostanze concrete, e insieme una chiarificazione della situazione in cui la persona è coinvolta. La d. emerge spesso come risposta ad un conflitto, che nasce sia dalla difficoltà di continuare ad essere se stessi, sia dai nuovi compiti che lo sviluppo impone. A differenza però dei → meccanismi di difesa la d. rappresenta una 296

risposta cosciente, tesa non a difendersi ma a conquistare il proprio futuro. 2. Fenomenologia della d. Le indagini hanno messo in luce come il soggetto passi attraverso vari momenti nel cammino verso la d. Vi è una situazione iniziale che impone alla persona di prendere una d.: essa, confrontata con il conflitto sopra descritto, prova un disorientamento esistenziale di fronte al proprio futuro. Questo stato induce una ricerca in due direzioni: la persona si sforza di chiarire a se stessa qual è il suo progetto e stile personale, cos’è veramente importante per lei nella vita, e, d’altra parte, esamina le possibilità proposte dall’ambiente, e come superare le difficoltà che esso presenta. Spesso a questa fase di ricerca segue un periodo di distanziamento dal problema stesso; tale distacco diminuisce la pressione emotiva che potrebbe oscurare la considerazione e permette di badare ad aspetti più generali della situazione che contribuiscono a chiarire il conflitto e a prendere una d. soddisfacente. Infine, come si è detto, l’aver preso una d. significa poter integrare il seguito della vita con il nucleo dell’identità personale, o progetto generale, nucleo che sovente nel processo della d. viene esso stesso ridefinito e chiarito. Si è anche notato come le d., oltre al fattore della progettualità, sono debitrici anche ad altri fattori, come la pressione delle norme (sia esteriori che interiorizzate), e il peso dell’abitudine. Una volta presa una d., che è costata un notevole impegno psichico, la persona tende a difenderla davanti a se stessa e agli altri, con ragioni autentiche o con razionalizzazioni. L’andamento del processo di d. suggerisce anche una sua classificazione: situazioni urgenti e temperamenti pronti faciliteranno d. veloci e con poca riflessione (d. ardite); se invece la situazione lo permette e il carattere della persona è indeciso, si avranno d. spesso rimandate. Un tipo di d. particolarmente importante per l’educazione è rappresentato dalle cosiddette «d. crescenti»: queste riguardano la realizzazione dei grandi indirizzi e progetti di vita; avviate inizialmente in modo germinale, a poco a poco si possono sviluppare e rafforzare, coinvolgendo settori sempre più vasti della vita, con il crescere dell’esperienza e della percezione dei rispettivi valori. Tali sono le d. professionali, matrimoniali, vocazionali, morali di fondo.

DECONDIZIONAMENTO

3. Applicazioni educative. Alcune osservazioni possono contribuire ad una migliore comprensione educativa della d. In primo luogo si è parlato di un progetto o stile generale della persona come punto di partenza e come prodotto della d. Ora è chiaro che una tale strutturazione psichica richiede una maturità della persona: non può avere un progetto generale per la sua vita chi non è in grado di percepirla, almeno confusamente, come un tutto unico, che abbraccia le varie funzioni dell’organismo umano e insieme il proprio passato e il proprio futuro, e allo stesso tempo intuisce e cerca un bene generale per la sua persona così concepita. Tale maturità non pare possibile prima dell’ → adolescenza, e può essere oscurata da vari condizionamenti. Una valutazione educativa, morale o giuridica di una d. deve tener conto di questi limiti. Ciò non significa che quando non si verificano queste condizioni non si debba fare nulla che riguardi la d. personale, anzi è compito dell’ educazione preparare le disposizioni per una vera d., educando ad aver fiducia in se stessi, a rispettare le esigenze della realtà, ad affrontare le difficoltà con coraggio. Un’altra indicazione educativamente rilevante può venirci dalla complessità della d.: se essa non coinvolge solo un io o una volontà astratta, ma tutta la persona, si avrà d. realistica solo se la persona saprà modificare, indirizzare, attivare tutte le componenti interessate alla realizzazione di quanto è stato deciso, e cioè pensieri, sentimenti, esperienze, valutazioni. Tale realismo di fronte ai propri progetti dovrebbe essere molto formativo e aiutare ad evitare un idealismo velleitario. Bibl.: Thomae H., Dinamica della d. umana, Roma, LAS, 1964; Id., Conflitto, d., responsabilità. Contributo alla psicologia della d., Roma, Città Nuova, 1978; Baron J., Thinking and deciding, Cambridge, Cambridge University Press, 1988; Corradini A., Semantica della preferenza e d. etica, Milano, Angeli, 1989; Ronco A., Introduzione alla psicologia. I. Psicologia dinamica, Roma, LAS, 1991; K lein G. A. (Ed.), Decision making in action. Models and methods, Norwood, Ablex, 1993; Tesio L., Decidere, Milano, Cortina, 2004; Peralta Astudillo Mª J. - Mª J. Giménez Abad - R. Redondo Palomo, Curso de decisión: conceptos y métodos, Madrid, Universitas, 2006.

A. Ronco

DECONDIZIONAMENTO Significa rimuovere le circostanze che permettono il verificarsi del fenomeno dell’ → insuccesso scolastico, o meglio gli ostacoli che impediscono la realizzazione del → diritto all’educazione. In corrispondenza si possono distinguere le possibili strategie in tre aree, dell’eguaglianza, della diversità e della corresponsabilità. 1. In relazione alla prima sarà anzitutto necessario procedere a un cambiamento delle logiche che presiedono al governo della scuola, puntando all’eguaglianza delle opportunità tra gruppi sociali diversi. In particolare, si tratta di assicurare la parità dei risultati medi tra gli studenti di categorie diverse, o almeno di fissare soglie minime che tutti devono raggiungere e di garantire un sostegno particolare agli svantaggiati. 2. Sul piano della differenziazione, l’orientamento principale consiste nell’attuare una pedagogia personalizzata. Questa significa fondamentalmente la messa in opera di quattro strategie: diversificazione dei contenuti dell’insegnamento secondo le potenzialità e l’interesse di ciascuno, differenziazione degli obiettivi (eguali nelle conoscenze fondamentali e diversi negli altri settori in base alle capacità e agli interessi degli allievi), diversificazione dei metodi e differenziazione temporale che vuol dire il riconoscimento ad ogni alunno della possibilità di studiare secondo il ritmo più confacente. 3. Passando all’area della corresponsabilità, in particolare l’ → autonomia della singola scuola permette a quest’ultima di diventare il centro di attribuzione di tutti i poteri che garantiscono alla → comunità educativa il controllo sul complesso delle condizioni del suo funzionamento, in modo da poter fornire risposte efficaci ai → bisogni educativi. Questa strategia dovrebbe consentire alle scuole di valorizzare le relazioni sociali, anziché renderle indifferenti e neutrali, come sta facendo la modernità, e di realizzare la socializzazione educativa come bene relazionale (Donati, 2006). Bibl.: Pieroni V. - G. M alizia, Linee guida per la realizzazione di percorsi/progetti «destrutturati»

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DECOSTRUZIONISMO E EDUCAZIONE

per l’inclusione di giovani svantaggiati. I risultati di un’indagine conoscitiva, in «Rassegna CNOS» 21 (2005) 1, 53-63; Benadusi L., «Dall’eguaglianza all’equità», in N. Bottani - L. Benadusi (Edd.), Eguaglianza ed equità nella scuola, Trento, Erickson, 2006, 19-38; Donati P., «Come combattere disagio giovanile e dispersione scolastica», in S. Versari (Ed.), Cercasi un senso disperatamente, Napoli, Tecnodid, 2006, 57-78.

G. Malizia

DECOSTRUZIONISMO E EDUCAZIONE Con D./Decostruzione (ingl. Deconstruction; fr. Déconstruction; sp. Deconstrucción; ted. Destruktion, Abbau) si intendono normalmente due nozioni unite da un legame di mera filiazione storica, ma assai eterogenee tra loro: gli sviluppi del progetto heideggeriano di una Destruktion o Abbau della metafisica attraverso la ripresa critica dello strutturalismo; l’applicazione specifica alla critica letteraria di alcuni aspetti di questo progetto, sviluppatasi soprattutto nel mondo anglo-americano. 1. Aspetti generali del d. La prospettiva decostruzionistica intende superare il logocentrismo della tradizione occidentale per accedere a un pensiero della differenza radicale (alterità, disseminazione, de-centramento). Irrimediabilmente frammentato, ipotetico, situato costituzionalmente in itinere, il sapere – rinunciando a definire – parla, narra, racconta delle cose-eventi o di sé in modo da interpretare e così produrre nuove o rinnovate comprensioni che «sfondano» le comprensioni precedenti, non potendo più «fondare» alcuna posizione. In Derrida l’ermeneutica si accentua fino a consacrare l’irriducibile molteplicità e la dissoluzione dell’unità culturale, sociale ed esistenziale. 2. Aspetti pedagogici. Il contesto generale del d. ha dato vita anche all’elaborazione di una decostruzione pratico-teorica della pedagogia e ad un nuovo modo di affrontare le questioni educative, di interpretare l’istituzione scolastica e familiare, di mettere a punto riflessioni «alternative». Suo risultato è stata l’elaborazione di un modello di pe298

dagogia critico-radicale che sviluppa la sua riflessione su tematiche quali quelle relative al potere e al dominio (come infrastruttura della cultura/civiltà occidentale), al dualismo tra ragione e affettività (mente e sentimenti), all’etnocentrismo, all’ideologia, alla corporeità, alla mistificazione e all’insegnamento. Derrida a proposito di quest’ultimo tema sostiene che non vi è un carattere neutro e neutrale dell’insegnamento, perché esso si svolge dentro un’istituzione pedagogica che ha proprie forme, norme, obblighi visibili o invisibili, quadri di riferimento, ecc., e che – come tale – può e deve essere sempre sottoposta a critica radicale. Decostruzione e interpretazione si presenterebbero così come due vie complementari per la realizzazione dell’opzione di senso nel sapere pedagogico che da inconscia o condizionata dovrebbe farsi libera, consapevole, razionale. Bibl.: Cambi F., D. e pedagogia. Note ed appunti, in «Studi di Storia dell’Educazione» 12 (1992) 5-34; M ariani A., La crisi del soggetto e la pedagogia contemporanea: il contributo dell’ermeneutica e del d., in «La Rivista di Pedagogia e Didattica» (2005) 5-6, 107-111; I d., Un modello attuale di filosofia dell’educazione: il d. pedagogico. Il profilo e il contributo, in «Rassegna di Pedagogia» 63 (2005) 3-4, 213-224.

M. Mantovani

DECRETI DELEGATI → Organi collegiali scolastici

DECROLY Ovide n. a Renaix nel 1871 - m. a Uccie nel 1932, psicopedagogista belga. 1. Animatore della Società belga di pedotecnia (1905); fondatore della Scuola dell’Ermitage (1907); professore nella Scuola Normale e del Seminario di Buls-Tempels (1914); professore di psicologia all’Università di Bruxelles (1919). Data la sua preparazione medica e i suoi interessi per l’infanzia anormale (Le traitement et l’éducation des enfants irréguliers), D. anima il movimento pedologico (→ pedologia), insistendo sull’opportunità di una pedotecnia, alla quale offre un notevole contributo, specie per quanto

DECROLY OVIDE

riguarda i reattivi mentali. Inoltre, partendo dal principio di un’attività spontanea del fanciullo, D. ritiene che la scuola non debba spezzare il flusso vitale che salda il bambino all’ambiente circostante. I bisogni biologici del l’individuo trovano in quelli culturali il loro corrispettivo nei centri d’interessi e nella funzione di → globalizzazione (La fonction de globalisation et l’enseignement, Séméiologie psychologique de l’affectivité, con Vermeylen). 2. Partendo, quindi, da presupposti biologici D. si apre a degli orizzonti etici fondati sul diritto alla verità, su un’opportuna educazione sessuale, sulla costruzione della propria libertà attraverso un’attività interiore basata sull’iniziativa, responsabilità, disciplina ed ordine, attraverso il superamento di ogni ideologia. Inoltre, dato l’incremento demografico e il progresso tecnologico, D. partecipa attivamente alla costruzione di una scuola che si fa carico delle istanze democratiche e rieducative, soffermandosi sugli aspetti organizzativi scolastici e su alcune istanze che preludono alla docimologia, rivolgendo il proprio interesse all’organizzazione del lavoro scolastico e al controllo degli apprendimenti; il tutto con un approccio di tipo esperienziale, piuttosto che sperimentale come sarà svolto dal → Buyse. Bibl.: Bonn G., Initiation générale aux idées decrolyennes, Bruxelles, Lamertin, 1937; H amaide A., La méthode D., Paris/Neuchâtel, Delachaux/ Niestlé, 31956; Ministère de l’Instruction Publique, Notice biographique sur l’oeuvre du docteur O.D., Bruxelles, Ministère de l’Instruction Publique, [s.d.]; Dubreucq F., «O.D.», in «Perspectives: revue trimestrielle d’éducation comparée» 23 (1993) 1-2, 251-276.

C. Trombetta

DELINQUENZA GIOVANILE → Devianza DEMIA Charles → Sulpiziani DEMOCRATIZZAZIONE → Diritto all’educazione → Educazione socio-politica

DEMOGRAFIA La d. si occupa dello studio quantitativo delle popolazioni umane.

1. Oggetto, strumenti e natura. L’aggettivo «umane» non è superfluo, in quanto nella → statistica il termine popolazione viene usato in senso molto più vasto, per indicare una pluralità di entità (collettivo) che sono uguali rispetto a uno o più caratteri (es.: alunni della scuola dell’obbligo; libri presenti nella biblioteca scolastica). Ma anche a proposito delle popolazioni umane (o popolazioni nell’accezione comune del termine) occorre aggiungere che la d. si occupa di quelle collettività che presentano una certa continuità nel tempo e sono caratterizzate da modalità (territoriali, giuridiche, etniche, religiose) atte a favorirne l’identificazione e a precisarne i contorni. Di queste popolazioni vengono prese in considerazione caratteristiche strutturali (composizione secondo le modalità di diversi caratteri: sesso, età, stato civile, professione, titolo di studio) e dinamiche (fenomeni di movimento: natalità, mortalità, migrazioni). Tale studio ha uno scopo sia descrittivo che investigativo, nel senso della individuazione di leggi o regolarità demografiche e delle complesse relazioni tra caratteri demografici ed altri di natura biologica, economica e sociale. Per raggiungere i suoi obiettivi la d. usa abitualmente, anche se non esclusivamente, il metodo statistico, poiché esso rappresenta lo strumento per eccellenza nello studio quantitativo dei fenomeni collettivi. 2. L’interesse per uno studio scientifico dei fenomeni riguardanti la popolazione. Esso ha inizio con l’esame dei registri di mortalità e natalità delle parrocchie londinesi. Il merito di aver intrapreso questo tipo di studio va all’inglese J. Graunt (1620-1674) che ebbe l’intuizione di «sostituire alle considerazioni dei fenomeni della vita umana, uno studio per classi o gruppi omogenei espressi quantitativamente» (Boldrini, 1968, 58). Egli rilevò e calcolò, tra l’altro, l’eccedenza delle nascite maschili su quelle femminili; un rapporto numerico pressoché costante tra i sessi; la tendenza all’urbanesimo; una stima dell’ammontare della popolazione di Londra; un tentativo di tavola di mortalità, ecc. I dati su cui poteva contare Graunt erano ridotti e i procedimenti adottati ancora grezzi, ma quello che importa (per i successivi sviluppi) è il metodo: si basa su dati di fatto; elabora quantitativamente le informazioni 299

DECROLY OVIDE

raccolte; cerca conferme dei risultati ottenuti; individua regolarità. Si assiste in seguito ad un vivace e rigoglioso sviluppo della statistica demografica, che la porta ad assumere una posizione autonoma e trova una prima sistemazione nell’opera di J. P. Süssmilch (1707-1767). L’ultimo nome da ricordare, in questo breve riferimento agli iniziatori degli studi demografici, è quello di T. R. Malthus. Più che per l’impostazione dei problemi e la raccolta di documenti economici e demografici, il suo nome è ricordato per un’opera (Saggio sul principio della popolazione, edita per la prima volta nel 1798) in cui teorizza il legame tra sviluppo demografico e sussistenza: la popolazione tenderebbe a crescere più velocemente (progressione geometrica) dei mezzi di sostentamento (progressione aritmetica) se non vi fosse il freno dei limiti dei mezzi di sussistenza. Le vedute di Malthus furono criticate da opposti punti di vista, ma al suo nome si continua a far riferimento anche oggi. Gli esempi riportati sopra sono limitati agli albori della d., in quanto non è possibile riassumere, anche solo schematicamente, il vasto e rigoglioso sviluppo degli studi demografici da Süssmilch ai nostri giorni. 3. Temi di studio. Punto di partenza può essere considerata l’informazione relativa all’ammontare della popolazione e alla sua distribuzione ed evoluzione. Un primo approfondimento riguarda aspetti strutturali: composizione per sesso ed età; stato civile. Ma anche altri caratteri sociali (livello di istruzione, professione, luogo di dimora: città-campagna) vengono presi in considerazione perché in grado di fornire indicazioni per un esame più approfondito del comportamento demografico. Particolare attenzione viene dedicata all’esame dell’andamento della natalità e mortalità, per il loro determinante contributo all’evoluzione dell’ammontare e della struttura della popolazione. Il movimento migratorio viene seguito con crescente attenzione per le conseguenze che può esercitare sull’ammontare della popolazione, sulla sua struttura e soprattutto per le ripercussioni di ordine economico, culturale e sociale ad esso collegate. In questo contesto vanno collocate anche le previsioni demografiche, cioè i tentativi di descrivere l’andamento futuro della popolazione sia nella sua 300

consistenza globale che nella distribuzione secondo il sesso, l’età, lo stato civile, ecc. Di esse si avverte l’utilità, e cresce la domanda al riguardo soprattutto in vista di decisioni da prendere per far fronte ai problemi che lo sviluppo della popolazione pone. Gli studiosi di problemi demografici si sono gradualmente convinti che l’oggetto dei loro interessi rappresenta un punto d’incontro tra scienze che studiano l’influsso dei fattori naturali (genetici, biologici, dell’ambiente naturale) e di quelli sociali (culturali, economici, legislativi) sugli sviluppi della popolazione. La constatazione dei complessi legami tra fattori naturali e sociali porta a riconoscere alla ricerca demografica un esplicito carattere interdisciplinare. Di qui il fiorire e l’ampliarsi di nuovi settori di ricerca che tentano di approfondire i diversi aspetti (esigenza imposta dalla complessità dei fattori in gioco) ma anche di organizzare i risultati delle ricerche in vista della proposta di modelli con finalità applicativa. Un promettente sviluppo hanno assunto anche le ricerche di d. storica, volte allo studio di testimonianze sull’evoluzione passata delle popolazioni e sulle loro caratteristiche. Più in particolare la d. permette di disporre di informazioni di grande interesse relative alla famiglia e ai suoi problemi (andamento della nuzialità, separazioni legali e divorzi...), alla natalità (evoluzione nel tempo, nati legittimi e naturali), alla mortalità (evoluzione nel tempo, durata media della vita, mortalità infantile...). Confronti internazionali aiutano a collocare i dati relativi ad un Paese nel più ampio contesto mondiale. 4. Dato l’impatto che l’andamento demografico ha su tutti i grandi settori della società (politico, economico, sociale, etico...), viene dedicata grande attenzione alla documentazione seria e sistematica in proposito. Ad essa provvedono a diversi livelli, appositi uffici statistici come quello delle Nazioni Unite, attraverso il Demographic Yearbook, e le pubblicazioni di EUROSTAT (Ufficio Statistico della UE), il cui accesso è gratuito. Per l’Italia, in particolare, va ricordato il Sistema Statistico Nazionale, affidato all’ISTAT, di cui fanno parte gli uffici di statistica ai diversi livelli. Per quanto riguarda la d., l’ISTAT dispone di un sito ufficiale per la diffusione delle statistiche demografiche, D. in cifre (http://demo.istat.it) a cui si può accedere

DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

liberamente, scaricando i dati che interessano, in formato direttamente utilizzabile. Data la valenza «educativa» dei contributi al Dizionario, va sottolineato anche qui (→ Statistica) la preoccupazione di rendere familiari agli studenti i prodotti della statistica attraverso la collaborazione con la scuola e con l’Università (http://www.istat.it/servizi/ studenti/). Nel contesto della d., in particolare, è importante sottolineare il loro compito di documentazione quantitativa che intende aiutare a meglio conoscere i consistenti cambiamenti che si stanno realizzando nei diversi aspetti delle popolazioni, valutandoli responsabilmente e traendone opportuni insegnamenti, senza la pretesa di trarre solo da essi indicazioni sul modo di porsi di fronte ai grandi problemi che riguardano il significato dell’esistenza e della convivenza umana. Bibl.: Boldrini M., D., Milano, Giuffrè, 1956; P ressat R., L’analyse démographique, Paris, PUF, 1969 (trad. it.: 1970); Natale M. (Ed.), Economia e popolazione. Alcuni aspetti delle interrelazioni tra sviluppo demografico ed economico, Milano, Angeli, 2002; Golini A., La popolazione del pianeta, Ibid., 2003; Istituto Centrale di Statistica, Annuario Statistico Italiano 2006, Roma, ISTAT, 2006; Id., Rapporto annuale 2006, Ibid., 2006: Società Ital. Statistica (Ed.), Rapporto sulla popolazione italiana, Bologna, Il Mulino, 2007; Dumont G. F., La population du monde, Paris, A. Colin, 2006; Caselli G. - J. Vallin - G. Winsch, D. La dinamica delle popolazioni, Roma, Carocci, 2006.

S. Sarti

DEMOLINS Edmond → Scuole Nuove

DEONTOLOGIA PROFESSIONALE In questa sede ci si occuperà in particolare della d. delle professioni educative. Intesa in senso largo, la d.p. s’identifica con 1’ → etica in generale in quanto applicata all’e­sercizio delle professioni. Ordinariamente però essa indica l’insieme delle norme di etica professionale codificate, più o meno ufficialmente, dagli organi di autogoverno di una professione (i cosiddetti «codici di d.p.»). Questi codici hanno, rispetto all’eti­ca professionale intesa in senso largo, con­tenuti minimali ma

più precisi e coattiva­mente esigibili, più debole rimando ai va­lori e l’assenza di qualsiasi scelta riguardo ai fondamenti di senso. A causa dell’assen­za di uno specifico codice di d.p. dell’edu­catore e del profondo coinvolgimento etico dell’educatore nell’esercizio della sua pro­fessione, in questa voce il lemma d.p. sarà inteso nel senso più largo, aperto a tutto lo spessore della problematica etica. 1. L’educazione come promozione umana. L’elemento che, dal punto di vista etico, più specificamente caratterizza la profes­sione educativa è il fatto di occuparsi in modo diretto e immediato dell’umanità dell’ → uomo. In questo senso, essa differi­sce radicalmente dalle professioni orienta­te alla produzione di beni economici o di servizi sociali. La professione educativa promuove questa specificità umana nelle persone concrete degli educandi, favoren­do il loro passaggio da quella potenzialità ricchissima ma germinale che essi sono, ad un’attuazione pienamente sviluppata, qua­le si dà nell’adulto riuscito. La maturazione promossa dall’educazione riguarda tutta la ricchezza umana dell’ → educando: intelli­genza, razionalità, abilità pratiche, sensibi­lità estetiche, sentimenti e affettività, co­scienza morale, responsabilità sociale, pro­t agonismo storico, esperienza morale e religiosa. 2. Un dovere di giustizia. Queste conside­ razioni gettano una luce particolare sulla responsabilità morale dell’ → educatore. Se si pensa al suo influsso sulla riuscita o sul fallimento dell’uomo in quanto uomo, es­sa è difficilmente misurabile. Spesso però la sua responsabilità assume il carattere preciso e rigoroso di un dovere di giustizia: di fatto nella nostra società l’educatore svolge la sua professione, accettando que­sto incarico da parte delle famiglie o da parte della società civile, con una qualche forma di contratto o quasi-contratto impli­cito che carica l’esercizio della sua profes­sione di doveri precisi di giustizia contrat­t uale nei confronti delle famiglie e della so­cietà. Nella misura in cui questi doveri sono contenuti, almeno implicitamente, in quella specie di patto con cui i genitori affidano i loro figli ad altri educatori, tali ob­blighi assumono anche una precisa rilevan­za contrattuale. Gli educatori operano an­che in quanto rappresentanti della società 301

DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

civile e dello Stato di cui fanno parte; a lo­ro è perciò affidata anche la cura delle at­tese e degli interessi di tutta la società. Il rapporto tra la società, come contesto edu­cativo o «educatore globale» da una parte, e il singolo educatore o agenzia educativa dall’altra è necessariamente complesso, e non raramente conflittuale. Tali conflitti toccano la responsabilità morale dell’edu­catore e creano spesso penosi «casi di co­scienza». Uno degli obblighi più seri che in­combono sull’educatore e sull’insegnante è quello di una adeguata formazione per­manente. Necessaria già in forza degli ine­vitabili limiti di ogni formazione di base, essa lo è ancora di più in un mondo in cui il ritmo dei cambiamenti culturali supera sempre le capacità di adeguamento spon­ taneo delle singole persone. 3. Educare nella scuola. Una forma parti­ colarmente seria e chiaramente determina­ ta di obblighi di giustizia contrattuale verso la società e lo Stato è quella cui gli educa­ tori sono vincolati quando operano all’in­ terno della scuola. Nelle società industria­li avanzate, l’istituzione scolastica ha as­sunto dimensioni e rilevanza mai raggiunte in passato, e svolge un insieme di funzioni diverse, decisive per la formazione umana e per lo sviluppo e il benessere della so­cietà. Il fatto di operare all’interno di un’i­stituzione pubblica, o comunque legata agli utenti da un vero e proprio rapporto con­t rattuale, esclude dalla professione dell’ → insegnamento ogni aspetto di puro volon­tariato o di sola gratuità. Non nel senso che simili atteggiamenti le siano preclusi, ma nel senso che, prima ancora di ogni gratuità e prescindendo da ogni volontariato, l’ → insegnante è tenuto all’esercizio compe­tente e serio della sua professione in forza di un obbligo antecedente di giustizia. Que­sto debito stretto di giustizia nei confronti degli allievi, ma anche delle loro famiglie e dell’intera società, investe tutti gli ambiti della professione insegnante: la prepara­zione culturale e pedagogica, remota e prossima, l’aggiornamento e la → forma­zione permanente, lo svolgimento delle le­zioni, la correzione dei compiti e le inter­rogazioni, i consigli di classe e i contatti con i genitori, la sperimentazione didattica e la guida intellettuale individuale, la valutazione imparziale ed equanime delle capa­cità, diligenza, profitto, attitudini degli al­lievi, 302

che legge e tradizione affidano in mi­sura considerevole ai docenti e agli organi collegiali scolastici. Anche se non espres­samente contemplata in nessun contratto collettivo di lavoro, va considerata come dovere di giustizia contrattuale una certa «passione per l’insegnamento e l’educazione», che del resto è un tratto essenziale del­la personalità morale di ogni educatore. 4. L’educazione come promozione morale. Il carattere tendenzialmente unitario, an­ che se estremamente complesso, dell’esi­ stenza umana fa sì che la promozione del­ lo sviluppo dell’uomo, anche solo in un settore particolare della sua vita, coinvol­ga colui che se ne fa carico nella promo­zione di tutto l’uomo e quindi, dato il ca­r attere etico di ogni pienezza umana, nell’ → educazione morale. Tale finalità vie­ne di fatto perseguita anche quando l’edu­catore non intende farlo in modo esplici­to; anzi perfino quando egli non credesse nella sensatezza e praticabilità di una educazione morale, egli farebbe comun­que educazione (o diseducazione) morale, attraverso quello che qualcuno chiama hidden curriculum, il curricolo occulto, ma non per questo meno efficace, costituito dalle sue implicite prese di posizione nei confronti dei valori in cui crede o che ri­fiuta, attraverso la testimonianza della sua vita personale e le modalità del suo stesso → rapporto educativo. 5. L’educazione come fatto di comunica­zione. Ogni dinamismo educativo si risol­ve in una forma di → comunicazione: l’etica della professione educativa è quindi anche una forma di etica della comunicazione, l’etica appunto della comunicazione edu­cativa. Un’importante qualità morale della comunicazione educativa è l’autenticità, che è la modalità specifica della veracità in questo campo. La veracità riguarda anche i contenuti oggettivi del messaggio educati­vo, ma riguarda soprattutto la verità esi­stenziale dell’educatore stesso: egli deve comunicare se stesso per quello che vera­mente è, senza infingimenti e ipocrisie. Attraverso la testimonianza, ciò che egli comunica è la verità stessa del suo essere: egli educa con quello che è, prima ancora che con quello che dice, proprio perché nella globalità di quanto dice e di quanto fa egli esprime se stesso.

DEPRESSIONE

Bibl.: Flitner W. - J. Derbolav, Pro­blemi di etica pedagogica, Brescia, La Scuola, 1988; Günzler C. et al., Ethik und Erziehung, Stuttgart, Kohlhammer, 1988; Thévenot X. et al., Pour une éthique de la pratique éducative, Tournai, Desclée, 1991; Gatti G., Etica delle professioni formative, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992; Bárcena F. - J. C. M élich, La educación como acontecimiento ético, Barcelona, Paidós, 2000.

G. Gatti

DEPRESSIONE Il termine d. indica un continuum di stati emotivi più o meno penosi, che vanno dai normali sentimenti passeggeri di tristezza esistenziale, alla sofferenza più prolungata connessa al lutto normale per la morte di una persona cara, o per la rottura di una relazione affettiva o per la perdita di un ruolo significativo, fino ad una vera e propria sindrome di un grave stato patologico caratterizzato principalmente dai seguenti sintomi: umore disforico, apatia, senso di apprensione angosciosa, debole → stima di sé, tendenza alla lamentela, incapacità di provare piacere, perdita di significato, percezione dolorosa del presente, incapacità di usare le esperienze piacevoli del passato e angoscia del futuro, corpo vissuto come evento di perdita, gravi angosce ipocondriache, indebolimento dell’istinto di conservazione. 1. La d. è una delle patologie più diffuse nella società contemporanea ed è in costante aumento. Si ritiene che nel corso della vita il 17-20% della popolazione denunci una qualche patologia depressiva. Circa la distribuzione tra i sessi, il rapporto maschi-femmine è di 1 a 3. 2. Esistono due tipi fondamentali di d.: la d. nevrotica e la d. psicotica. La d. nevrotica si caratterizza per la relativa stabilità ed integrità delle rappresentazioni del Sé e della realtà, per la tollerabilità del senso di → colpa, del senso di solitudine e di abbandono, per un uso piuttosto moderato dei meccanismi della negazione e dell’idealizzazione. Nella d. nevrotica inoltre riveste un ruolo notevole la conflittualità edipica, per cui l’individuo appare dominato dal primato dell’immagi-

nario triangolare. Stante la sua comparsa a seguito della perdita di un qualcosa che è vissuto come oggetto significativo, fonte di una sicurezza di base, la d. nevrotica è detta anche reattiva. Il calo di senso di benessere, che segue al trauma, mette in luce l’esistenza di una sottostante struttura di personalità più o meno debole. La d. psicotica comporta invece la destrutturazione del nucleo del Sé e quindi un grave deterioramento delle relazioni con gli oggetti interiorizzati. Inoltre l’esame di realtà risulta essere gravemente compromesso e disturbato da allucinazioni e deliri. All’origine della d. psicotica sta il fallimento del processo di separazione-individuazione nella prima fase della vita. 3. Circa l’eziologia esistono diversi modelli esplicativi. Il modello organicistico insiste sui fattori genetici e biochimici. Il modello comportamentistico ritiene che, a seguito di ricompense inadeguate da parte dell’ambiente, l’individuo apprende uno stato di inaiutabilità, fino a trovare una ricompensa nell’assumere il ruolo del depresso. Il modello cognitivo afferma che alla base della d. c’è una triplice configurazione cognitiva distorta e cioè una percezione negativa di sé, del mondo e del futuro. Il modello socioculturale sostiene che la d. è determinata da strutture socioculturali che non sono in grado di fornire all’individuo un senso della vita, per cui ci si trova a dover vivere senza ruoli precisi e finalità ben definite e dentro un contesto di rapidi cambiamenti, che impediscono di sostituire i vecchi valori perduti con altri in grado di fornire uguale sicurezza e stabilità. Il modello psicoanalitico, elaborato da S. → Freud (1917) nel famoso saggio Lutto e melanconia, ritiene che la causa della d. stia nella perdita precoce dell’oggetto della libido entro un quadro narcisistico. Ciò determina: a) una grave ferita al proprio Sé; b) una profonda sofferenza per l’oggetto perduto che, proprio perché tale, viene vissuto, oltre che come oggetto d’amore, anche come oggetto di odio; c) una negazione, attraverso l’introiezione, della perdita dell’oggetto; d) un’identificazione con l’oggetto introiettato. Si determina così uno stato d’indifferenziazione tra il Sé e l’oggetto, per cui il risultato finale è che l’individuo, attaccando sadicamente l’oggetto perché vissuto come frustrante in quanto assente, distrugge an303

DESATELLIZZAZIONE

che se stesso. Come giustamente sottolinea Freud, l’ombra dell’oggetto (cattivo) cade sull’Io, per cui quest’ultimo diviene bersaglio di critica, come lo è l’oggetto perduto. Ciò comporta sia la comparsa del senso di colpa nei confronti dell’oggetto, perché odiato, che il crollo della stima di sé. In particolare, il depresso sperimenta un grave senso di disperazione, in quanto non può appoggiarsi all’oggetto, perché vissuto come distrutto da lui stesso. In sintesi, secondo l’ottica psicoanalitica, la causa fondamentale della d. in età adulta va ricercata nelle esperienze di perdita primaria di un oggetto d’amore interiorizzato e percepito in modo ambivalente. Ne segue che ogni perdita comporta la perdita del proprio essere. 4. D. in età evolutiva. Al pari dell’ → ansia, le manifestazioni depressive nell’età infantile, in generale possono essere considerate come una reazione psicobiologica fondamentale, di tipo transitorio, al fine di trovare un adattamento di fronte alle varie esperienze di separazione connesse con la crescita. Può comunque comparire anche una d. patologica, dove i sintomi più tipici sono: senso d’infelicità, attività autoerotiche, mancanza d’interessi, sensazione di non essere amati, insonnia, fobia della scuola, aggressività, disturbi psicosomatici, perdita dell’appetito. L’inizio dell’ → adolescenza si caratterizza come un periodo in cui è considerata come normale la comparsa di sentimenti depressivi. Ciò è dovuto al fatto che il soggetto sperimenta una perdita sia sul versante narcisistico che oggettuale. Più precisamente, i cambiamenti a livello fisico, psichico e sociale espongono l’adolescente all’esperienza della perdita del corpo infantile, del ruolo infantile e dei genitori infantilmente vissuti. Ciò comporta la rinuncia all’immagine idealizzata del proprio corpo perfetto in quanto percepito come bisessuato, all’immagine grandiosa di sé e all’immagine dei genitori onnipotenti. Rispetto all’infanzia, nell’età adolescenziale, oltre che alla d. di tipo nevrotico, è possibile riscontrare una d. di tipo psicotico. Verso la fine dell’adolescenza può comparire anche la psicosi maniaco-depressiva o bipolare. Le cause principali della d. patologica nell’adolescenza vanno individuate nel fallimento del secondo processo di separazioneindividuazione e quindi, nella persistenza di 304

una relazione simbiotica e nella presenza di oggetti interni persecutori. Bibl.: Freud S., «Lutto e melanconia», in Opere, vol. 8, Torino, Bollati Boringhieri, 1976, 102-118; Jacobson E., La d. Studi comparativi degli stati normali, nevrotici e psicotici, Firenze, Martinelli, 1977; Beck T. A., La d., Torino, Bollati Boringhieri, 1978; Haynal A., Il senso della disperazione. La problematica della d. nella teoria psicoanalitica, Milano, Feltrinelli, 1980; K risteva J., Il sole nero. D. e melanconia, Ibid., 1988; Castellazzi V. L., Psicopatologia dell’infanzia e dell’adolescenza: La d., Roma, LAS, 1993; Stark K., La d. infantile, Gardolo, Erickson, 1995; Jervis G., La d., Bologna, Il Mulino, 2002; Palacio Espasa F., D. di vita, d. di morte, Milano, Cortina, 2004; A rnoux D., La d. in adolescenza, Roma, Borla, 2005; Zuccardi Merli U. (Ed.), Il soggetto alla deriva. D. e attacchi di panico, Milano, Angeli, 2005; Chabert C. et al., Figure della d., Roma, Borla, 2006; Pancheri P. (Ed.), La d. mascherata, Milano, Masson, 2006.

V. L. Castellazzi

DERRIDA Jacques → Decostruzionismo e educazione DESACRALIZZAZIONE → Religione

DESATELLIZZAZIONE Nel processo di sviluppo dell’io delineato da Ausubel, la d. costituisce la tappa della maturità. La «satellizzazione» infatti è una condizione di dipendenza dalle persone significative in cui il bambino (e, più tardi, il preadolescente) pone se stesso per garantirsi sicurezza e protezione; «desatellizzarsi» significa sganciarsi da questa situazione per rendersi autonomi e per raggiungere una sicurezza intrinseca. 1. Nella tappa della maturità del processo di sviluppo dell’io, si possono distinguere due momenti: uno di «risatellizzazione» attorno al gruppo ed un altro di «d. matura» (mèta di maturità personale). Il ragazzo entra nella tappa finale della maturità sentendosi responsabile delle proprie azioni e capace di realizzare i passi necessari per raggiungere le mète che si prefigge. Comincia la costruzione conclusiva della personalità che mira

DESCOLARIZZAZIONE

alla maturità, cioè al raggiungimento delle seguenti mète di sviluppo: capacità di determinare da sé gli scopi che si vogliono raggiungere e di prendere da sé le decisioni che si impongono; accettazione dei valori e delle opinioni secondo la loro validità piuttosto che per il prestigio di coloro che le propongono; aspirazione a scopi più realistici, che siano in concordanza con le proprie possibilità e con le circostanze ambientali; capacità di portare a termine l’opera iniziata sopportando la prestazione senza perdere la fiducia in se stessi; autovalutazione oggettiva, capace di vedere le mancanze e i difetti in ciò che si fa e apprezzando la distanza tra le proprie realizzazioni e le mète che ci si era prefisse; attenuazione della propria motivazione edonistica; sviluppo di una responsabilità morale; accresciuta indipendenza esecutiva. 2. Educativamente si tratta di favorire, nel soggetto, il processo di maturazione attraverso il raggiungimento delle mète di sviluppo: adeguamento delle aspirazioni alle reali capacità personali e alle possibilità offerte dall’ambiente, rinuncia di uno status fondato sull’acquiescenza a una autorità superiore e acquisizione di una crescente indipendenza volitiva ed esecutiva. Bibl.: Ausubel D. P. - E. V. Sullivan, Theory and problems of child development, New York/ London, Grune & Stratton, 1970.

A. Arto

DESCOLARIZZAZIONE La d. ha trovato un proprio spazio e una collocazione storica significativa quando l’industrializzazione è esplosa nel mondo occidentale con tutte le sue contraddizio­ni. Gli interventi dei suoi rappresentanti (I. Illich, E. Reimer, P. Goodman, K.W. Ri­chmond) si pongono nella prospettiva di un’analisi multidimensionale del sovrasviluppo industriale e di una puntuale denun­cia degli effetti negativi che derivano dal­l’avere inserito la produzione in una piani­ficazione razionale di crescita, rendendo gli uomini ingranaggi della burocrazia e pedi­ne delle istituzioni. 1. Le origini. La tematica della d. emerge,

con la sua originale fisionomia, soprattutto negli anni ’60, in un contesto storico e so­cioculturale in cui la tumultuosità delle ri­chieste per il rinnovamento della società e la complessità dei problemi non sempre permettono di trovare le soluzioni più ade­g uate. Molti sono gli aspetti polemici che i descolarizzatori condividono con gli «ani­matori» delle scuole di avanguardia e con le istanze più avanzate della → contestazio­ne giovanile del 1968. Particolarmente viva è in loro la consapevolezza che le istituzio­ni scolastiche non solo sono fortemente in­fluenzate da quelle politiche, economiche e sociali, ma costituiscono con queste una totalità unitaria, in cui ciascun ingranaggio è finalizzato alla conservazione e al conso­lidamento dell’intero sistema sociale, del quale viene proposta una inversione in sen­so «conviviale». Per Illich e per Reimer i problemi dell’educazione non possono es­sere risolti esclusivamente dalla istituzione scolastica. 2. Il dibattito negli anni ‘80. Da tale dibatti­ to emergono motivi di estremo interesse per quanto riguarda il superamento del li­ vellamento e della massificazione operati dai → mass media e dalla spietata legge del → consumismo: contro questi condiziona­menti i descolarizzatori intendono salva­g uardare l’originalità e l’autonomia delle persone, oggi ridotte a «spettatori» e a «clienti» di un complesso ed esteso sistema istituzionale, destinato a distanziarsi sem­pre più dall’uomo. Anche in questa dire­zione la scuola dovrebbe assumersi le pro­prie responsabilità, coinvolgendo in questo difficile compito la comunità, e ristruttu­rando la propria organizzazione comples­siva e i metodi d’insegnamento. 3. Considerazioni critiche. Molte sono state le critiche mosse da diversi studiosi alle proposte dei descolarizzatori, volte a tra­sformare radicalmente l’organizzazione del sistema scolastico e di quello sociale. Che cosa è effettivamente realizzabile nella scuola attuale sulla base delle loro provo­cazioni? Si tratta di una semplice sostitu­zione di nuove etichette a termini ormai obsoleti: da scuola a trama, a centro cultu­rale, a risorsa, a reticolato, o forse ci trovia­mo di fronte alla ricerca di più adeguate opportunità educative per lo sviluppo dell’uomo del nostro tempo? Fino a 305

DESIDERIO

che punto è realizzabile la società «conviviale» fon­data sulla «austerità», in una società come la nostra caratterizzata dal predominio dell’«avere» sull’«essere»? Sono interroga­ tivi di grande peso, a cui i descolarizzatori non danno delle risposte adeguate. Tutta­ via, al di là della foga della loro polemica e dell’effervescenza del loro stile paradossa­le, le esigenze espresse costituiscono un prezioso contributo che può vivificare le ri­cerche attuali e consentire la elaborazione critica di validi programmi per il rinnova­mento della società e della scuola. Bibl.: I llich I., Une societé sans école, Paris, Seuil, 1971; I d., Libérer l’avenir, Paris, Seuil, 1971; R eimer E., School is dead. An essay on alternatives in education, London, Penguin Education Specials, 1971; Caussat P. A. et al., Illich in discussione, Martellago, Emme, [s.d.]; Caporale V., La d. Storia e prospettive, Bari, Cacucci, 2006.

V. Caporale

DESIDERIO Con il termine d. si designa la tensione psichica con cui si aspira a beni che ancora non si possiedono: in questa tensione sono mobilitate in misura diversa sia le tendenze inferiori dell’uomo, legate ai bisogni fisiologici di autoconservazione e di omeostasi, sia le tendenze più specificamente spirituali, legate ai bisogni di autorealizzazione e di autotrascendimento. 1. Per lungo tempo l’educazione si è proposta soprattutto obiettivi di controllo, contenimento e repressione nei confronti della spontaneità del d., nella presunzione di una sua insanabile contraddizione con i fini etici dell’educazione, all’interno di una visione fondamentalmente pessimistica delle tendenze naturali dell’uomo e di una interpretazione dualistica dell’esperienza morale. A partire da → Rousseau, visioni più ottimistiche della struttura delle tendenze naturali dell’uomo si sono fatte strada nella nostra cultura pedagogica, in corrispondenza con l’affermarsi di una diversa concezione dell’uomo, ma anche con l’abbassarsi delle pretese etiche avanzate dalla pressione sociale nei confronti dei sin306

goli. Così, a una pedagogia del controllo e della repressione, è subentrata una pedagogia della spontaneità, della gratificazione e, al limite, del permissivismo. 2. Oggi sembra farsi strada l’idea che, se ogni educazione, proprio per poter essere efficace, deve poter far presa sugli interessi e le energie interiori dell’educando (e quindi anche sul mondo del d.), i d. come tali non possono essere abbandonati alla loro spontaneità immediata, di cui non è garantita la saggezza, ma devono essere selezionati, elaborati, ristrutturati: in una parola, educati. Bibl.: Bloch M. A., Les tendances et la vie morale, Paris, PUF, 1948; A bbà G., Felicità, vita buona e virtù, Roma, LAS, 1989.

G. Gatti

DÉVAUD Michel Eugène n. a Granges-la-Battiaz (Friburgo) nel 1876 - m. a Friburgo nel 1942, pedagogista sviz­ zero. 1. Compiuti gli studi secondari, D. entra in seminario (1897) ed è ordinato sacerdote (1901), ottenendo la laurea in lettere pres­so l’università di Friburgo (1904). I suoi in­teressi pedagogici maturano nei viaggi di studio in Francia, Belgio e Germania. Rientrato in patria, è nominato ispettore delle scuole primarie di Friburgo. Nel 1910 diventa professore di pedagogia generale e didattica all’università. Dal 1921 insegna nella scuola normale di Stato ed è redatto­re del «Bulletin Pédagogique». Le sue ope­re più importanti: Le systéme Decroly et la pédagogie chrétienne (1909), Pour une éco­le active selon l’ordre chrétienne (1934), L’école affirmative de vie (1936), Dieu à l’è­cole (1941). 2. L’impegno di D. per l’istruzione si tra­ dusse in orientamenti per la promozione della → scuola rurale e per il rinnovamento dei contenuti e della didattica. Un tema centrale è il confronto con i «pedagogisti della educazione nuova». Le critiche (na­t uralismo, biologismo, ambiguità del con­cetto di interesse) sono precedute dallo sforzo per individuare le note di «una scuo­la attiva secondo

DEVIANZA

l’ordine cristiano», ri­chiamando anzitutto i presupposti della «scuola tradizionale»: diritti imprescrittibi­li della persona umana, ruolo della famiglia nell’educazione, sottomissione del fanciul­lo all’autorità degli educatori. Nell’ambito della scuola, D. rivendica la «supremazia dell’intelligenza» chiamata a «pronunciare un giudizio chiaro, sicuro, saldamente fon­dato, su ciò che noi siamo, sulle realtà di tutti i giorni». L’attività del maestro va or­dinata all’attività dell’alunno, ma l’attività di questi va ordinata alla verità. La posi­zione di D. ebbe un notevole influsso sui pedagogisti cristiani negli anni centrali del XX sec. (v. anche → Scuole Nuove). Bibl.: Salucci S., E.D., Brescia, La Scuola, 1959; A ntonello G., La figura e l’opera di E.D. per l’in­tegrazione cristiana dell’attivismo nell’educazione e nella scuola, Roma, P.U.L., 1979; Prellezo J.M. - R. Lanfranchi (Edd.), «D.M.E.», in Idd., Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. 3, Torino, SEI, 2004, 276-280.

J. M. Prellezo

DEVIANZA Il termine d. ha perso, negli anni recenti, parte della sua valenza esplicativa, sia perché le diverse teorie sociologiche che interpretano questo fenomeno ne hanno proposto significati contraddittori (fino ad intenderlo come innovazione e stimolo al cambiamento sociale), sia perché nelle società complesse le norme sociali mostrano elevata flessibilità e non definiscono più in termini precisi i criteri di normalità. In psicologia, poi, è sempre stato poco in uso e le caratteristiche di comportamento deviante sono state espresse con termini quali disturbo, sindrome, → psicopatologia, → nevrosi e psicosi. Nonostante queste difficoltà di utilizzazione e di significato, e la frequente sostituzione con il termine disagio, il concetto di d. è ancora rappresentativo per la descrizione di comportamenti non conformi alle norme. In una prospettiva pedagogica, soprattutto, il termine d. è estremamente valido per la descrizione di processi che non conducono alla realizzazione della piena dimensione umana, sociale e relazionale, indipendentemente dal fatto che siano conformi ai modelli normati-

vi istituzionalizzati e diffusi nelle diverse e specifiche culture. Rimane aperto il problema della classificazione dei comportamenti devianti poiché, vista l’indeterminatezza del significato, il termine può rischiare di designare molte e differenti condizioni. Dinitz (1969) propone una classificazione della d. distinguendola in anormalità (i «diversi» e cioè gli handicappati fisici e psichici), malattia (malati mentali, alcoolisti, tossicomani), crimine (quando intervenga una violazione esplicita delle leggi scritte e si entra invece nell’ambito del concetto di delinquenza), alienazione (disadattamento più o meno cosciente nei confronti della realtà sociale), peccato (violazione di valori concernenti il sacro). 1. La d. e la psicopatologia. Nella criminologia classica ad orientamento positivista la d. viene descritta come inerente a tipologie somato-psichiche; il determinismo biologico di Lombroso (1878) è ancor oggi il riferimento d’obbligo per la discussione della compromissione delle aree intellettuali e morali in taluni individui; prima di lui, Pritchard (1835) aveva descritto casi di «follia morale» e «imbecillità morale» come prototipi di uno stato psicopatologico; successivamente Koch (1891) coniò il termine inferiorità psicopatica per indicare tratti di comportamento con labilità dell’io ed incapacità di adattamento. Contestate dall’approccio psicologico e sociologico alla d., che invece la descrivono come variazione a norme prodotte socialmente e dunque relativizzabili ai contesti di riferimento, tali ipotesi deterministiche sono riemerse attualmente, in specie per descrivere la predisposizione personale genotipica, l’ereditarietà della propensione all’uso di droghe ed alcool e l’associazione a comportamenti violenti o aggressivi con fattori neurologici presenti in alcune sindromi come il discontrollo episodico, il danno minimo cerebrale e la personalità antisociale. 2. La d. e la psicologia. L’approccio psicologico alla d. può essere classificato come studio dei processi intrapsichici e relazionali che la determinano. In questo quadro le principali costruzioni teoriche del pensiero psicologico propongono la d. come l’effetto di spinte all’azione sociale non contenute dai dispositivi (variamente denominati) interiorizzati dall’individuo. Senza più riferirsi a 307

DEVIANZA

qualche tratto psicopatologico costituzionale discutono intorno a deficit nell’apprendimento, nella strutturazione della personalità, nelle capacità relazionali, nell’autocontrollo, nella gestione dei conflitti interni e sociali, ecc., conseguenti a percorsi problematici o eventi traumatici in età evolutiva. Il contributo della psicologia è dunque notevole soprattutto perché, pur nelle differenti impostazioni, concettualizzazioni e linguaggi, si muove alla ricerca dell’eziologia del disagio interiore e relazionale che può trasformarsi in esplicito comportamento deviante. 3. La sociologia della d. Lo studio della d. in sociologia è fatto tradizionalmente risalire a → Durkheim (1897). Con i concetti sociologici di anomia e d. si attua un radicale spostamento dall’ottica psicologica e psichiatrica fino a qui prese in considerazione verso l’approccio sociale. Anomia e d. sono due condizioni determinate socialmente, la prima significa mancanza di sufficiente interiorizzazione di norme e valori, la seconda è un «fatto sociale» compiuto da un soggetto in cui si incarnano le tensioni della coscienza collettiva. La letteratura sociologica sulla d. prenderà consistenza solo a partire dai lavori della Scuola Ecologica di Chicago, che analizzerà le sub-culture devianti, l’apprendimento dei processi di d. nel rapporto con individui e gruppi orientati al crimine fino a formulare un vasto repertorio di teorie via via più esplicative e complesse. Con la distinzione di Lemert (1981) tra d. primaria e d. secondaria si attua una svolta nella sociologia della d. Per d. primaria si intende l’atto deviante vero e proprio, originario, e per d. secondaria il rinforzo conseguente all’etichettamento sociale del comportamento deviante. In particolare secondo Matza (1976), ove la reazione sociale attribuisca ad un individuo caratteri di pericolosità, di follia e di d., la persona che trasgredisce sistematicamente una norma sociale sarà invitata a conformarsi alle aspettative degli altri. Ma questo invito al → conformismo per l’individuo avverrebbe in termini tendenzialmente attivi ed a livello cognitivo. Il deviante rimarrebbe sempre, o quasi sempre, consapevole e libero nelle sue scelte, anzi la percezione di un’affinità con individui e gruppi devianti produrrebbe, a catena, maggiore consapevolezza – affiliazione – e maggiore accettazione della 308

definizione sociale – significazione – che gli altri danno di lui. Infatti il suo diventare deviante è conseguenza di rielaborazioni intorno a se stesso, intorno a ciò che lui pensa che gli altri pensino di lui. In altri termini è un processo che avviene intorno alle aspettative di significato che la persona matura attende attraverso la realizzazione di un atto deviante. La teoria della rappresentazione sociale affronta il tema della d. approfondendo il concetto che lo stigma derivi dalle visioni collettive dei diversi gruppi presenti nella società. La conflittualità tra gruppi permette a minoranze attive di imporsi con il loro punto di vista sulla maggioranza e di procedere a far cambiare la visione collettiva di certi comportamenti. Ragion per cui un comportamento considerato più o meno gravemente deviante, può trasformarsi in un comportamento conformista e veder comunque diminuito l’etichettamento precedentemente ricevuto. Il punto saliente del pensiero marxista (→ marxismo pedagogico) sulla d. è che le norme sociali da cui si devia sono definite dalla classe dominante allo scopo di mantenere il potere politico ed economico sulle classi subalterne. Pertanto, la d. è sintomo delle contraddizioni del capitalismo e la sua repressione è funzionale alla riproduzione sociale del sistema. Dalla presa di coscienza della condizione deprivata di proletario e sottoproletario, e dalla comprensione del contenuto politico del processo di d. messo in atto dal singolo per raggiungere ad ogni costo la felicità negata dal capitalismo, i devianti possono trasformare la loro d. individuale in processo di → emancipazione per tutta la società. Il → controllo sociale è uno strumento preventivo per contenere i processi di d. che scaturiscono nella società, sia per le contraddizioni del sistema, sia per l’amoralità dei singoli. Il controllo sociale è deterrent dei processi di d., ed il suo funzionamento viene analizzato in relazione alla forza persuasiva che esercita, in specie nei giovani. Hirschi (1969) ritiene che le relazioni nel gruppo dei pari siano le strutture di supporto per il coinvolgimento reciproco dei giovani in azioni devianti, qualora essi siano bisognosi del conforto di opinioni concordanti con le loro. In pratica la d. è una ricerca di conformità e conforto nel gruppo in ragione della caduta di conformismo con le norme dominanti, che non sono state recepite ed ac-

DEWEY JOHN

cettate. Quando un giovane vive carenze di → socializzazione (iposocializzazione) non interiorizzerà norme e valori che costituiscono la prima struttura del controllo sociale (autocontrollo). La mancanza di deterrenza da parte delle istituzioni – timore di essere escluso, etichettato, punito, arrestato, etc. – agevola la propensione alla carriera deviante. Alla luce delle teorie relazionali la d. può essere letta come un’azione comunicativa (→ comunicazione) del soggetto, costretto entro definizioni sottili e invischianti prodotte dal sistema di relazioni in cui è inserito. La teoria dell’azione comunicativa è molto fertile per colmare alcune lacune delle precedenti teorie. Si tratta di leggere l’atto deviante come espressione comunicativa, anche paradossale, dell’organizzazione interna e relazionale del soggetto che segnala la presenza di un messaggio importante circa l’affermazione della sua identità. Tale messaggio però non è da intendersi come un acting-out dei conflitti intrapsichici come nelle interpretazioni psicologiche della d., né come un comportamento di interazione simbolica più o meno condizionata dalle aspettative previste nel contesto, ma come la ricerca di un effetto reale per ridefinire la posizione del soggetto nel sistema di relazioni cui partecipa. Il concetto di doppio legame di cui un individuo è prigioniero (il doppio legame è un’ingiunzione che contiene a livello metacomunicativo il divieto di obbedire all’ingiunzione) e il concetto di ridondanza (ripetizione di un’azione che sottintende nessi tra atto e contesto) sono centrali per comprendere che nell’azione comunicativa deviante il soggetto ha fatto riferimento a regole ed a significati che ha organizzato internamente sia dal punto di vista cognitivo che emozionale. 4. La d. come processo educativo non riuscito. Alla luce delle teorie relazionali acquista significato più completo l’affermazione della d. come processo educativo non riuscito. Come dimostra H. Franta (1988) le relazioni interpersonali (→ rapporto educativo) sono sempre state concepite lungo la storia della pedagogia come fenomeno fondamentale dell’educazione. In particolare, nella pedagogia personalista, l’uomo non viene mai considerato nella sua individualità ma nel suo relazionarsi al mondo: la sua stessa esistenza è esistenza relazionale. Questo fa dell’educazione

un rapporto a due vie. Se 1’ → educando non incontra educatori che modellano la propria disposizione relazionale e comunicativa sulla base dei suoi vissuti empatizzati, egli non vedrà soddisfatti i propri bisogni e non riuscirà ad acquisire gli specifici valori indispensabili all’arricchimento della sua personalità. Il bisogno di orientamento dell’educando non sarà autocompreso, con esiti di diminuzione della sua educabilità, autopercezione di disagio esistenziale e relazionale, possibile senso di progressiva affinità con azioni trasgressive, vissute come atti comunicativi che possono sconfinare nella d. primaria. In tal senso la d. come fatto psico-sociologico e personale pone per se stessa in questione la qualità dell’ educazione e si viene a proporre come «ardua» domanda di un’educazione «buona». L’educazione costituisce la prima forma di → prevenzione e, se non c’è stata, richiede un intervento di ri-educazione. Bibl.: Cohen A. K., Controllo sociale e comportamento deviante, Bologna, Il Mulino, 1969; H irschi T., Causes of delinquency, Berkeley/ Los Angeles, UCP, 1969; Watzalawick P. - J. H. Beavin - D. D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971; Pitch T., La d., Firenze, La Nuova Italia, 1975; Matza D., Come si diventa devianti, Bologna, Il Mulino, 1976; Ciacci M. - V. Gualandi, La costruzione sociale della d., Ibid., 1977; Lemert E. M., D.: Problemi sociali e forme di controllo, Milano, Giuffrè, 1981; Bandini T. - U. Gatti, Delinquenza giovanile, Ibid., 1987; Franta H., Atteggiamenti dell’educatore, Roma, LAS, 1988; De Leo G., La d. minorile, Roma, NIS, 21998; Williams F. P. - M. D. McShane, D. e criminalità, Bologna, Il Mulino, 2000; Garland D., La cultura del controllo, Milano, Il Saggiatore, 2001; M elossi D., Stato, controllo sociale e d., Milano, Mondadori, 2002; Berzano L. - F. Prina, Sociologia della d., Roma, Carocci, 2003.

V. Masini - G. Vettorato

DEVIAZIONE STANDARD → Statistica

DEWEY John n. a Burlington (Vermont) nel 1859 - m. a New York nel 1952, filosofo e pedagogista statunitense. 309

DEWEY JOHN

1. Vita. D. nacque da una modesta famiglia di agricoltori. La Burlington in cui D. trascorse gli anni giovanili aveva una popolazione di circa quindicimila abitanti, molti dei quali oriundi dell’Irlanda e del Quebec. Vi erano rappresentati in buon numero gli old Americans, discendenti delle famiglie del ceto medio anglosassone stabilitesi nel Vermont o in altre parti del New England, e fu nella tradizione di questo gruppo sociale che D. fu allevato. Frequentò le scuole pubbliche di Burlington e poi si iscrisse all’Università del Vermont. Qui gli insegnamenti del quarto anno, in particolare quelli di economia, filosofia e teorie religiose, influirono decisivamente e permanentemente sul giovane D. che era a quel tempo, come egli stesso ebbe a definirsi, un «vorace lettore». Egli alternava agli studi attività fisiche e sportive, di nuoto e di pesca nel lago Champlain e di campeggio nelle Green Mountains. In questo periodo ebbe a soffrire di notevoli restrizioni educative ad opera della madre, che lo sottoponeva a veri e propri interrogatori al suo rientro a casa per sapere se avesse compiuto qualche azione riprovevole, il che gli provocava, com’egli stesso ebbe successivamente a ricordare, angosciosi e acuti sensi di colpa. Completati gli studi al College D. insegnò per tre anni in una high school e alla fine del 1882 si iscrisse alla Johns Hopkins University di Baltimora per intraprendere studi di filosofia superiore. Qui fu allievo di George Sylvester Morris, visiting professor proveniente dall’università del Michigan ed esponente autorevole del neohegelismo. Conseguito il titolo di Philosophy Doctor nel 1884 D. si trasferì all’università del Michigan, dove, per segnalazione di Morris, prestò servizio come instructor in philosophy and psychology. Col solo intervallo di un anno, che tra il 1888 e il 1889 lo vide professore di filosofia all’università del Minnesota, D. passò un intero decennio nel Michigan. Durante questo tempo i suoi interessi si volsero soprattutto alla filosofia hegeliana e ai neohegeliani inglesi, nonché alla nuova psicologia fisiologica e sperimentale introdotta e sviluppata allora negli Stati Uniti da G. Stanley Hall e da → James. In questi anni maturarono i suoi interessi pedagogici. Le letture e le personali osservazioni lo convincevano che l’organizzazione scolastica non corrispondeva alle indicazioni della psicologia scientifi310

ca e ai principi e alle esigenze della società democratica. Lo sforzo di elaborare una → filosofia dell’ educazione che ponesse rimedio a questi difetti divenne centrale nello sviluppo del pensiero deweyano, e lo arricchì di una nuova dimensione. Alla maturazione ulteriore degli interessi pedagogici deweyani contribuì il suo matrimonio, nel 1886, con Harriet Alice Chipman, assai impegnata sul terreno educativo e sociale. Entrambi amavano molto i bambini, e avendone perduto due in tenera età ne adottarono uno nel corso di un viaggio in Italia. D. lasciò l’università del Michigan nel 1894 per diventare professore di filosofia e presidente del dipartimento di filosofia, psicologia e pedagogia all’università di Chicago. Di là sarebbe passato nel 1904 alla cattedra di filosofia della Columbia University di New York, dove sarebbe restato per venticinque anni nell’insegnamento attivo, e per altri ventidue come professore emerito. In questo periodo la sua reputazione di filosofo, di pedagogista e di attento e autorevole osservatore e critico dei fatti sociali venne progressivamente crescendo, e la sua presenza pubblica si venne accentuando. Contribuì con S. O. Levinson al Kellog-Briand Pact del 1928, e fu uno dei fondatori e primo presidente dell’Associazione di professori universitari. Sul piano più strettamente politico si adoperò per organizzare un partito, ritenendo che i due partiti maggiori del Congresso non fossero all’altezza dei problemi generati dalla grande depressione degli anni trenta. Nel 1937, all’età di 78 anni, D. ebbe a presiedere una commissione che si recò a Città del Messico per ascoltare e valutare ciò che L. Trotsky aveva da dire in risposta alle imputazioni di cui era stato oggetto nei processi moscoviti del 1936 e del 1937. La reputazione internazionale di D. fece sì che fosse invitato in numerosi Paesi per conferenze e interventi di vario genere (Giappone, Cina, Turchia, Russia, Sud Africa, Messico). Negli anni dell’avanzata maturità, a circa vent’anni dalla morte della prima moglie, avvenuta nel 1927, passò a seconde nozze con Roberta Lowitz Grant, insieme alla quale adottò due bambini belgi, fratello e sorella, orfani di guerra. 2. Produzione scientifica. D. ha profondamente segnato la cultura filosofica e pedagogica del nostro tempo, percorrendo itine-

DEWEY JOHN

rari che sono stati variamente definiti come passaggio dallo spiritualismo al naturalismo, dall’assolutismo allo sperimentalismo, dall’idealismo al pragmatismo «strumentalistico», e di qua al transazionalismo umanistico e «olistico» degli ultimi scritti. La produzione deweyana è talmente vasta che un intero e non esiguo volume è stato destinato, già da alcuni decenni, a raccogliere i titoli delle sue opere e di quelle che espongono, commentano o criticano il suo pensiero. Le opere complete (Collected works) di D. sono pubblicate nei 39 volumi dell’ediz. critica a cura di Jo Ann Boydston, Southern Illinois University Press, Carbondale and Edwardville, 1969-1991 divise in The early works, 1882-1898; The middle works, 1899-1924; The later works, 1925-1953. Dai saggi giovanili pubblicati su riviste teologiche, filosofiche e psicologiche, da Scuola e società (1899) a Democrazia e educazione (1916), da Ricostruzione filosofica (1920), Natura e condotta dell’uomo (1922) ed Esperienza e natura (1925), a La ricerca della certezza (1929), e alla Logica, teoria dell’indagine (1938), fino ai saggi pubblicati nel 1946 col titolo Problems of men (Problemi di tutti nella traduzione italiana curata da Giulio Preti) e a Knowing and the known (Il conoscere e il conosciuto) del 1949, la sua produzione si è articolata in tutti gli ambiti della ricerca teorico-speculativa e scientifico-metodologica, portandovi contributi di fondamentale importanza di cui si riconoscono universalmente la grande originalità e l’eccezionale valore e che oggi, dopo un breve periodo di offuscamento, si ripropongono come punti di riferimento di un pensiero teorico metodologicamente agguerrito ma anche – e diciamo pure «deweyanamente» – affrancato dall’«ossessione» teoricistica e cognitivistica. Sia nella fase giovanile che in quella dell’avanzata e tarda maturità, D. ha svolto un ruolo di trait-d’union fra la cultura filosofica europea e quella d’oltre Atlantico. Non si tratta, ovviamente, di un filosofo «per molte stagioni», ma di un «macrobiòs» e di un maestro le cui prospettive travalicano il tempo di vita individuale e si accampano in un presente e in un futuro denso di incognite e di ombre, ma anche rischiarato da speranze che l’umanità approdante al terzo millennio non pare ancora rassegnata e disposta a cancellare e ad escludere dal proprio orizzonte.

3. Concezione filosofica e pensiero pedagogico. In pochi pensatori moderno-contemporanei la connessione di pensiero filosofico e di pensiero pedagogico è organica e strutturale come in D. Per un lungo periodo, tuttavia, essa restò come in una condizione di latenza. La connessione inizialmente più apprezzabile è quella tra filosofia e psicologia, secondo una curvatura che può ben definirsi di tipo idealistico o neoidealistico, e con una significativa mescolanza di interessi metafisicospeculativi, logici e teologici, testimoniati da saggi di varia ampiezza ed ispirazione. Fino al 1897 (D. aveva all’epoca quasi quarant’anni) gli scritti più vicini al pensiero pedagogico erano stati le poche pagine di The psychology of infant language (1894), il Plan of organization of the University Primary School (1895), rimasto praticamente inedito, la risposta ad un questionario pubblicata col titolo The results of child study applied to education (1895), il «paper» Influence of the High School upon educational methods (1896) e la breve nota Pedagogy as a University discipline (1896). Nel 1897 videro la luce altri brevi saggi, quali Ethical principles underlying education, My pedagogic creed e The aesthetic element in education, a cui vennero ad aggiungersi in quello stesso anno altre brevissime note quali The kindergarten and child-study, The psychological aspect of the school curriculum e The interpretation side of child-study, ed alcuni altri di non grande rilevanza, fino a The school and society del 1899, che fu una pietra miliare non solo nel pensiero deweyano, ma anche, più generalmente, in quello della pedagogia moderno-contemporanea. Da quel momento, e per molti decenni, la produzione pedagogica deweyana fu così intensa e influente che non è possibile riferirne in modo analitico, ma se ne può dare tutt’al più un elenco per grandi tappe e per momenti salienti. A opere minori, seppur significative, si alternano opere maiuscole e culminanti come Moral principles in education (1909), Interest and effort in education (1913), Schools of tomorrow (1915) (in collaborazione con Evelyn D.) e il «classico» Democracy and education (1916). Nel 1927 vide la luce il denso volumetto The sources of a science of education e, nel 1938, a ridosso della «grande logica» deweyana (Logica: teoria dell’indagine), fu pubblicato l’agile 311

DEWEY JOHN

volume, anch’esso destinato a diventare un classico con diffusione mondiale, Experience and education. 4. La filosofia pedagogica. Appare materia di riflessione attualizzante, e motivo storico-teorico fondamentale di un ripensamento critico del pensiero deweyano, il problema se la pedagogicità del pensiero di questo filosofo-pedagogista debba esser fatta consistere nelle opere più specificamente dedicate ad approfondire le questioni educative ed a proporre metodologie di vario livello (epistemologiche e pratiche) sul terreno della formazione scolastica, o di quella più generalmente intesa, teorizzata e praticata; o se invece non debba ricercarsi nella chiave e con la chiave di quella filosoficità pedagogica, e quindi non rigidamente teorizzante e cognitivistica, della quale D., non da solo, ma con particolare incisività, ha dato testimonianza in questo e nello scorso secolo. Già se si pensa a opere culminanti e maiuscole come la Logica del 1938, la questione si prospetta con grande importanza e con grande interesse. La logica teorizza e serve all’indagine, e l’indagine risponde a sua volta ad un’esigenza di «accertamento» che non concerne in primo luogo il piano cognitivo, ma la formatività di un soggetto, come l’uomo, dipendente e precario, e che tuttavia aspira e tende ad autodeterminarsi attivamente e a farsi padrone della propria realtà e del proprio destino, pur in un contesto che lo trascende e lo supera. Anche altre opere fondamentali (già prima citate) come Ricostruzione filosofica, Natura e condotta dell’uomo, La ricerca della certezza, Esperienza e natura, Il conoscere e il conosciuto, hanno questo carattere. Più che una pedagogia filosofica o una filosofia dell’educazione quella di D. è una filosofia pedagogica, vale a dire una filosofia – qual è in generale quella pragmatistica e strumentalistica – il cui significato e il cui valore fondamentale è quello di un programma formativo, sia sul piano della costituzione dei soggetti individuali, che della costituzione e della cura dei soggetti collettivi. Di questo si ha un esempio eminente in quella che è forse l’opera più conosciuta e più generalmente apprezzata di D.: Democrazia e educazione. Qui la comprensività etico-sociale del programma democratico allontana da una pedagogia di corto raggio e 312

di piccola curvatura, così come tiene distanti da una filosofia del pensiero «puro» o della speculazione fine a se stessa. Il programma democratico è un programma di formatività individuale e collettiva pensato nei termini di un pensiero concretamente astraente che s’innalza comprensivamente sui particolari, e al tempo stesso rifugge da ogni astrazione «platonicamente» elusiva di ciò che l’esperienza umana, come fatto e come valore, esige di sottoporre alla verifica e al giudizio del pensiero critico e intelligente. In questo D. corrisponde ad una tendenza permanentemente presente nella cultura occidentale fin dal tempo in cui la grecità venne imprimendovi i segni delle sue geniali intuizioni e raffigurazioni: quella di comporre l’alto esercizio spirituale della cura e della formatività praticata nella medicina, nella politica, nella paideia, con la pratica teorica del pensiero concettualizzante e riflessivo. Ed alla luce dei grandi percorsi del pensiero classico, ellenistico, cristiano e moderno contemporaneo l’opera di D. appare pienamente comprensibile ed assume il suo più peculiare ed alto significato, come anche testimoniano le interpretazioni e le utilizzazioni più strettamente contemporanee del suo pensiero. Bibl.: a) Fonti: un elenco completo delle opere di D. e delle trad., aggiornato al 1962 è contenuto nel vol. a cura di M. H. Thomas, J.D.: A centennial bibliography. Il volume include inoltre un elenco pressoché completo degli scritti su D. b) Studi: Corallo G., La pedagogia di J.D., Torino, SEI, 1950; Borghi L., J.D. e il pensiero pedagogico contemporaneo negli Stati Uniti, Firenze, La Nuova Italia, 1951; Visalberghi A., J.D., Ibid., 1951; Bausola A., L’etica di J.D., Milano, Vita e Pensiero, 1960; R aggiunti R., Esperienza artistica ed esperienza scientifica in D., Torino, Edizioni di Filosofia, 1966; Granese A., Il giovane D., Firenze, La Nuova Italia, 1967; Boyd ston J. A. - K. Poulos, Checklist of writings of J.D., Carbondale, University Press, 1978; Verda I., Attualità di J .D., Roma, Armando, 1979; Granese A., Introduzione a D., Bari, Laterza, 2005.

A. Granese

DHO Giovenale → Facoltà di Scienze dell’Educazione → Formazione vocazionale DHUODA di Settimania → Medioevo

DIALETTICA

DIAGNOSI/DIAGNOSTICA Sintesi critica di informazioni su una → personalità, organizzate in funzione di categorie (per es. nosografiche) connesse con la programmazione di un intervento. 1. La d. medica, archetipo a cui dialetticamente si riferiscono altri tipi di d., ha come scopo principale identificare la malattia che affligge il paziente, riferendosi a un sistema di categorie noto («nosografia»). Per analogia, la d. psicologica si propone di sintetizzare le informazioni sulla personalità di un individuo inquadrandole in sistemi pertinenti, che si riferiscano a disturbi mentali (cfr. la più recente edizione del Diagnostic and statistical manual of mental disorders), oppure a categorie anche non patologiche, ma desunte dalla → psicologia evolutiva, dalla psicologia dinamica o da teorie o cognitive. Nella d. psicologica in età evolutiva ha un peso fondamentale l’esame delle relazioni con la famiglia e con l’ambiente e della capacità del bambino di svolgere adeguatamente le funzioni tipiche della sua età. La d. educativa e didattica si propone finalità analoghe, anche se le categorie di riferimento sono assai meno rigidamente codificate. 2. La raccolta delle informazioni nel suo insieme va pianificata in modo da raccogliere dati sufficienti sia per inquadrare i fenomeni abnormi, patologici, sia per operare distinzioni esatte fra categorie diverse («d. differenziale»), sia per progettare un intervento, estendendosi quindi all’individuazione di aspetti sani su cui fare forza. Gli strumenti principali della d. sono l’osservazione diretta, il → colloquio con la persona e con persone che la conoscono bene, i → test. Ciascuno di questi strumenti fornisce informazioni non ottenibili con gli altri e comporta distorsioni diverse: l’osservazione dipende molto dalle situazioni, il colloquio dalle capacità referenziali di chi risponde, i test possono essere scelti in modo non appropriato e avere carenze di validità. 3. La sintesi dei dati raccolti, in genere numerosi, richiede tutta l’«arte» e l’esperienza dell’operatore, e comporta sia applicazioni psicometriche (per es. il riferimento a «norme statistiche» che definiscano operativa-

mente la normalità), sia considerazioni etiche ed epistemologiche. Tra queste ultime, è stata segnalata la non ovvietà della definizione di «normalità»: per es. è «normale» il livello di prestazione offerto dalla media del campione, o è «normale» l’assenza di disturbi? o forse si deve pensare che la normalità sia la piena realizzazione delle potenzialità del soggetto? Già da vari anni sono apparsi programmi computerizzati che si pongono come sussidio per la d. medica e psicologica, anche se le prove della loro validità lasciano ancora a desiderare. La sintesi diagnostica è anzitutto un processo mentale con cui l’operatore chiarisce il problema diagnostico a se stesso. La comunicazione all’interessato, o a chi per lui, è un problema successivo e distinto. Bibl.: R apaport D. - M. M. Gill - R. Schafer, Diagnostic psychological testing, New York, International Universities Press, 1968 ; Korchin S. J., Modern clinical psychology, New York, Basic Books, 1976; Saraceni C. - G. Montesarchio, Introduzione alla psicodiagnostica, Roma, NIS, 1988; Diagnostic and statistical manual of mental disorders, Washington D.C., American Psychiatric Association, 41994; Codispoti O. - P. Bastianoni, La d. psicologica in età evolutiva, Roma, Carocci, 2002.

L. Boncori

DIALETTICA Termine logico-filosofico, relativo al momento discorsivo della ragione, con varie applicazioni in → educazione e in → pedagogia. 1. Dal greco dialektikè téchne (arte del ragionare, del discutere), la d. ha assunto notevoli diversificazioni di significato nel corso del pensiero filosofico. Così ad es. per → Platone la d. designa il movimento dell’anima che dall’esperienza sensibile mutevole ascende di grado in grado alla verità ideale immutabile (= d. ascendente) e da essa ritorna alle cose (= d. discendente). Similmente l’idealismo ottocentesco e il neoidealismo del nostro secolo tentano di ricondurre la frammentarietà e la contraddittorietà del reale umano e storico alla logicità e all’assolutezza dello Spirito assoluto per via d. di tesi, antitesi e sintesi. Rispetto ad essa si pone, come d. «ro313

DIALETTO

vesciata», la d. marxista che dalle contraddizioni materiali storiche muove all’impegno del cambiamento rivoluzionario del sistema economico-politico. Pure contro il panlogismo hegeliano si pone la d. esistenziale di S. Kierkegaard, che rispetto all’intrinseca insostenibilità della vita estetica (incarnata nel Don Giovanni) e della vita etica (incarnata nel padre di famiglia) non vede che «il salto nel buio» della vita di fede (incarnata nella figura di Abramo). In altri, come in → Aristotele e → Kant, rimane fondamentalmente come tecnica della confutazione e modo di argomentare che urge le contraddizioni logiche di idee, concetti, modi di vedere la realtà. 2. In linea con quest’ultimo ambito di significato, la d. si pone come un aspetto dell’educazione intellettuale, relativamente allo sviluppo delle capacità logiche, critiche ed argomentative. In senso più largo, vale a dire in quanto ricerca del vero, tensione all’uno ed apertura al giusto e al bello, essa può essere fatta rientrare nel processo di sviluppo personale come attenzione autoformativa al senso del limite e al superamento di esso. Più specificamente la d. è vista come una componente della → relazione educativa, in cui sono spesso presenti tensioni non facilmente componibili neppure con il dialogo e in prospettiva dinamica (→ antinomie pedagogiche). 3. In pedagogia la d. si mostra nella tensione che spesso si ha tra essere e dover essere, tra fatto e valore, tra teoria e pratica, tra rilevazione dell’esistente e sforzo di prospettazione progettuale, tra domanda di formazione ed offerta educativa. In tal senso viene evidenziato il particolare carattere della logica e del discorso pedagogico e in qualche modo della pedagogia come scienza teorico-pratica. Bibl.: Verra V., La d. nel pensiero contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 1976; Cacciari M., D. e critica del momento, Milano, Feltrinelli, 1978; Sichirollo L., D., Roma, Editori Riuniti, 2003.

C. Nanni

DIALETTO Il d. è inteso e definito dai sociolinguisti co­ me una varietà geografica, storica e lingui­ 314

stica di una lingua nazionale (es. il pie­ montese rispetto all’it.). 1. Ruolo e valore storico. La sua dimensio­ ne e il suo ruolo sono limitati nell’uso tan­to individuale che sociale; esso è parlato generalmente da un individuo e/o da un gruppo in situazioni particolari, in un am­biente geo-sociale ben definito e tra mem­bri della medesima comunità. Il suo ruolo limitato e limitativo lo ha fatto considerare generalmente dai sociolinguisti come una «lingua bassa» (low language), contro la «lingua alta» (high language) rappresenta­t a da una lingua di uso nazionale e ufficia­le («lingua standard»). Il valore storico, però, del d. può superare anche quello del­la lingua nazionale, in quanto ne rappre­senta sia il codice più antico e preesistente sia, a volte, la matrice originaria della stes­sa lingua nazionale (come il toscano rispet­to all’it.). Tale valore storico fa sì che il d. riassuma forme e contenuti culturali tradi­zionali, insiti nell’anima di una comunità di parlanti. Essendo la prima lingua general­mente parlata da un individuo, il d. sta spesso alla base del pensiero e del sen­timento di un individuo dialettofono. Da qui l’accresciuta tendenza, in tempi recen­ti, a ricuperare i d. anche attraverso lo stu­dio storico e scientifico: donde una specifi­ca disciplina denominata dialettologia. 2. Valore educativo del d. Il valore storicoculturale del d. – come, del resto, di qual­siasi lingua minoritaria o «etnica» – ha ri­scosso in questi ultimi anni l’attenzione giustificata dei pedagogisti, al fine di ricuperarne la funzione formativa nell’ambito della cosiddetta «educazione linguistica di base». Il d. diventa così il punto di parten­za di ogni sviluppo ulteriore della compe­tenza linguistica e comunicativa fin dalla scuola dell’infanzia. La riflessione più o meno sistematica sulla struttura e sulle funzioni, oltre che sulla storia e sulle valenze socio­culturali, del d. parlato fin dall’infanzia dal bambino, anziché ostacolare l’acquisizione e lo sviluppo della competenza nella lingua standard, tende a produrre una capacità di approfondita riflessione analitica sui con­cetti universali delle lingue e, conseguen­temente, un grado notevole di sviluppo delle cosiddette «abilità metalinguistiche». Il risultato è stato non soltanto uno svilup­po più elevato delle capacità di

DIALOGO

natura spe­cificatamente linguistica, ma anche una trasposizione delle accresciute abilità cogniti­ve ad altri settori del → curricolo scolastico, come la matematica e le scienze. Pertanto, non solo l’apprendimento precoce di una lingua straniera, ma anche di una lingua minoritaria, come il d., può costituire un forte stimolo e sostegno alla formazione delle competenze linguistiche e cognitive in generale. Se è vero che «si educa il lin­g uaggio mediante la lingua» (ossia, si ar­r icchisce e si perfeziona la capacità di verbalizzazione e comunicazione – «linguag­gio» – mediante l’assimilazione cosciente di un sistema linguistico storicamente e so­cialmente valido – «lingua»), anche il d. non può essere escluso da tale processo di valorizzazione. Bibl.: Rohlfs G., Studi e ricerche su lingua e d. d’I­talia, Firenze, Le Monnier, 1972; De M auro T., Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1974; Grassi C., Elementi di dialettologia italiana, Torino, UTET, 21982; Titone R., Educare al lin­g uaggio mediante la lingua, Roma, Armando, 1985; Nero S. J., Dialects, Englishes, Creoles, and education, Mahwah (NJ), Erlbaum, 2006.

R. Titone

DIALOGO Il termine, dal gr. lógos (parola, discorso) e diá (preposizione che designa il passag­gio attraverso qualcosa, o anche il movi­mento da un punto ad un altro), significa l’andare e tornare della parola tra due o più interlocutori, il colloquiare. La fred­dezza concettuale di questa informazione etimologica non esprime tuttavia la ric­chezza che, nell’esperienza umana, com­porta il d. nel suo significato più denso. 1. Nel sec. XX la filosofia esistenziale, nella sua ver­sione appunto dialogica, ha messo in luce soprattutto le dimensioni personalistiche del d., riconoscendo in esso uno dei momenti essenziali del rapporto io-tu (→ Buber). In questa prospettiva il d. viene inteso come un uscire dell’io da se stesso nella parola (verbale o gestuale) e median­te essa andare verso il tu, per con­segnarsi a lui e a sua volta accogliere la sua parola e in essa la sua stes-

sa intimità. La di­namica dialogale può essere anche pensata e realizzata in senso inverso, a partire dal tu. In ogni caso si vedono già in questa concezione emblematica quali siano le principali caratteristiche e condizioni del d.: coscienza della propria identità, ma an­ che consapevolezza del proprio limite; apertura fiduciosa e piena di rispetto verso l’altro; capacità di donazione e di acco­glienza reciproca. Visto così, il d. si presen­ta come una possibilità, anzi come una ne­cessità per la formazione dell’identità sog­gettiva, della relazione interpersonale e della comunitarietà sociale. In tal senso, ol­t re che al d. interpersonale (e al d. interio­re con se stessi) è da pensare al d. sociale, culturale, politico, religioso, e specifica­mente a quello ecclesiale. Ognuno di essi ha delle connotazioni proprie. 2. Circa il d. ecclesiale si deve rilevare che la Chiesa cattolica ha fatto dei passi notevoli negli ultimi decenni da tale punto di vi­sta. Mentre infatti essa si era ritenuta da se­coli, nell’esercizio del suo → Magistero, quale «Madre e Maestra», e quindi in qualche modo pro­prietaria esclusiva della verità e perciò anche col diritto di insegnarla agli al­t ri, a partire da Paolo VI, che nell’Enc. Ec­clesiam suam (1963) dedicò un’ampia ri­ flessione al tema del d., cominciò a cam­biare profondamente il suo atteggiamento. Così il Concilio Vaticano II dichiarò apertamente, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, di voler dialo­gare con la famiglia umana, apportando ciò che la Chiesa ha di più originale, e cioè la luce che il Vangelo proietta sui problemi e sugli interrogativi umani, ma acco­gliendo a sua volta dal mondo le luci da es­so offerte (GS nn. 3.44). Su questa neces­sità di dialogare con gli altri uomini, cre­denti o no, con le loro idee e sensibilità, con il loro modo di vedere le cose e con le loro impostazioni di vita ritornò il Conci­lio molte volte, sia parlando della forma­zione e del ministero dei presbiteri (OT n. 19; PO n. 12d), che riferendosi all’attività dei laici (AA nn. 14b.17b.31a) o all’attività missionaria (AG nn. 11b.12a.34.38g) o an­cora all’ → ecumenismo (UR n. 11e). Da allora in poi questo atteggiamento andò guadagnando terreno e acquistando mag­g ior forza e concretezza. Uno dei punti più alti in questo cammi­no lo si ritrova nell’Esortazio­ne Apostolica Evan315

DIDATTICA

gelii Nuntiandi (1975), in cui Paolo VI propose, come modalità-chiave dell’annuncio evangelico, l’inculturazione, e cioè il d. serio e sincero con la cul­t ura (in senso antropologico) e con le cultu­re dell’uomo contemporaneo (EN n. 20). 3. Nell’ambito educativo, e in quello pret­ tamente scolastico, si deve sottolineare l’importanza che il d. ha dal punto di vista metodologico (Stefanini, 1954). Si può dire che un pregio particolare, pure se non esclusivo, dell’ → educazione liberatrice è proprio l’essersi proposta come obiettivo la formazione dell’educando all’autodeter­m inazione e, in questo contesto, l’aver propugnato un’educazione «aperta al d.» (Medellín 8c). In tale modo viene superata quella concezione secondo cui solo l’edu­catore educa, mentre l’educando sarebbe solo oggetto di educazione, e viene sosti­t uita da quella secondo cui tutti sono edu­catori ed educandi, ognuno secondo la propria condizione (P. Freire). Educare implica, quindi, intavola­re un d. con gli educandi, ricercando insie­me con essi la verità. Una ricerca nella qua­le l’educatore, senza lasciare da parte la propria identità, offre la sua esperienza e le sue co­noscenze agli educandi, ma è anche aperto e disponibile ad accogliere quanto essi stes­si apportano e ad arricchirsi con il loro contributo. Educare implica inoltre forma­re gli educandi alla capacità di dialogare con le persone in quanto tali, accogliendo­le, rispettandole e contribuendo alla loro realizzazione; ma anche ad avere una sempre maggiore disponibilità, nell’ambito dell’educazione umana generale, a mettere in d. rispettoso e sincero le proprie idee con le idee degli altri, le proprie convinzio­ni con le convinzioni degli altri, le proprie credenze con le credenze degli altri e, nel­l’ambito dell’ → educazione cristiana, a stabilire un corretto d. tra la fede e la scien­ za, e tra la fede e la cultura. Bibl.: Stefanini L., La scuola del d.: interrogazione ed esame, in «La Scuola Secondaria» 3 (1954) 4-5, 4-17; Delhaye Ph., D. Chiesa-mondo secondo la «Gaudium et Spes», Assisi, Cittadella, 1968; Freire P., L’educazione come pratica della libertà, a cura di L. Bimbi, Milano, Mondadori, 2 1974; Jiménez Ortiz A., Por los caminos de la increencia. La fe en diálogo, Madrid, CCS, 1993; Agazzi E. et al., Dall’Areopago a Internet: quale

316

d. nella società globalizzata?, Milano, In Dialogo, 2002; Jacobucci M., I nemici del d. Ragioni e perversioni dell’intolleranza, Roma, Armando, 2005.

L. A. Gallo

DIALOGO INTERRELIGIOSO → Dialogo DIAPOSITIVE → Tecnologia dell’educazione

DIDATTICA Disciplina pedagogica che studia il processo di → insegnamento. La d. viene considerata in generale come una → scienza praticoprescrittiva, cioè come una scienza diretta a dare fondamento e orientamento all’azione di insegnamento o → azione d. Dal gr. didaskein (insegnare). La d. viene anche definita come teoria che studia l’atto didattico (didassi). Se questo studio è basato su metodi di indagine sperimentali, si usa talora l’espressione didassologia. In ingl. è raro trovare l’equivalente didactics. Si preferisce usare l’espressione theory and practice of education oppure methods in education. In ted. oltre a Didaktik viene usato anche il termine Methodik (metodica). Il sostantivo d. viene utilizzato anche per indicare il modo di insegnare proprio di una persona. Si usa dire in questi casi ad es.: il tale professore ha una d. povera. 1. Per una definizione più articolata. Per giungere a una definizione più ricca e comprensiva della d. conviene considerare due suoi aspetti fondamentali, tradizionalmente raccolti nell’espressione «scienza e arte dell’insegnamento», e cioè: a) l’aspetto di sapere generale garantito da riscontri empirici, e che non dipende né dalla modalità con cui si agisce, né dall’inserimento dell’agire in un preciso contesto; b) l’aspetto di sapere pratico, soggettivo, che implica capacità di scelta e decisione in contesti specifici. Per esprimere il collegamento tra questi due aspetti, è stata proposta per la d. la formula «base scientifica dell’arte di insegnamento». Tuttavia, come giustamente fa notare Blankertz, non è possibile impostare una d. senza tener conto di assunzioni generali riguardanti l’uomo, la sua crescita, il suo significato. D’altra parte, questo quadro di riferimento

DIDATTICA

teoretico-filosofico, più che fornire principi dai quali si possano dedurre norme per l’azione d., indica dei confini, segnala delle incoerenze. Inoltre, occorre ricordare come ogni metodo didattico trovi il suo fondamento in assunzioni di natura teorico-filosofica, implicite o esplicite: in motivi, significati, valori che animano lo studioso o l’insegnante stesso. 2. La pratica d. Per esaminare più a fondo la natura della d. occorre definire meglio il concetto di pratica, e di pratica d. in parti­ colare. Riprendendo e parafrasando la definizione di pratica data da A. MacIntyre (1988), si può giungere a identificarla in una forma coerente e complessa di attività umana che si sviluppa in modo collaborativo e che è socialmente stabilita. Nello svolgersi di questa attività si colgono e si realizzano i valori che la caratterizzano e che sono espressi da modelli di eccellenza. Tali modelli non solo sono radicati nella storia, e quindi soggetti a evoluzione nel tempo, ma possono anche essere oggetto di analisi critica teorico-filosofica, scientifica o tecnologica. Da questo punto di vista la d. può essere considerata come un insieme di conoscenze e di competenze che permettono di esercitare la pratica dell’insegnamento in maniera valida e feconda. Essa può essere quindi definita come nel senso tradizionale greco di insieme di competenze operative, sia ideative o progettuali, sia tecnico-pratiche o realizzative. Occorre tuttavia notare come l’azione d. non possa essere considerata come un’azione puramente guidata da regole e principi, anche se questi hanno un ruolo importante nell’esaminare i problemi posti dall’insegnamento e nell’individuare strategie di soluzione: esiste, infatti, una sua componente tacita o personale. M. Polanyi (1990, 139) osserva: «Un’arte non può es­sere specificata nei dettagli, non può essere trasmessa mediante prescrizioni [...] può essere trasmessa soltanto mediante l’esempio del maestro dell’apprendista». La crescita della conoscenza e della competenza professionale così, anche in campo didattico, è legata in gran parte allo sviluppo di una capacità di riflessione nell’azione, oltre che di riflessione prima e dopo di essa. Se questo tipo di conoscenze e compe­tenze non sono descrivibili per mezzo di un sistema di regole, né possono svilupparsi solo sulla base

dell’osservanza di regole espresse e formalmente descritte, come possono essere colte? In genere si risponde: osservando l’azione di persone competenti o esperte e attraverso le interpretazioni che queste ne danno sotto forma di narrazioni. Tali azioni sono caratterizzate in genere dalla capacità di inquadrare immediatamente in modo completo e articolato le varie situazioni e di portare a termine le decisioni conseguenti in modo fluido, appropriato e senza sforzo. Analoga osservazione viene avanzata, evidenziando il ruolo delle intenzioni e delle scelte personali, presenti nell’agire del docente. Pur tenendo conto di queste osservazioni, la pratica d. non solo può, ma deve essere riletta, criticata e sollecitata da vari punti di vista: quello dell’analisi ideale o filosofica (e in questo contesto si può ricollocare l’analisi storica), quello derivante dall’indagine scientifica, e quello proprio dell’approccio tecnologico. Da questi punti di vista la pratica dell’insegnamento diventa essa stessa oggetto di studio, più che di esperienza diretta, di riflessione e di costruzione di competenze personali. 3. L’analisi teorico-filosofica della pratica d. L’analisi ideale o teorico-filosofica della pratica d. ha una lunga storia. Essa si radica nella stessa storia della riflessione critico-propositiva sul modo di insegnare e di imparare, dal mondo assiro-babilonese ai giorni nostri. Basti qui ricordare il ruolo del docente identificato da → Socrate nella metafora della levatrice, o la funzione del dialogo particolarmente sottolineata da → Platone. In questo stesso autore si possono trovare le tracce di un’impostazione diversificata della pratica di insegnamento, una diretta ai comuni cittadini, l’altra a chi è orientato ad assumere funzioni direttive nella società, con conseguente rilievo della selezione. Nel sec. decimosesto si avvia più esplicitamente il discorso relativo ai metodi di insegnamento, di cui è significativa espressione la Grande d. di → Comenio. Possiamo dire che ogni grande corrente di pensiero filosofico e pedagogico ha espresso non solo una sua linea interpreta­tiva della pratica d., ma ha presentato anche modelli di eccellenza per essa. Oggi molte impostazioni teorico-filosofiche del → curricolo, della gestione della classe e dell’azione d. si rifanno alla d. intesa in questo senso. Come esempio si possono citare gli approcci propri 317

DIDATTICA

dell’ → idealismo, del realismo, del → personalismo, del → pragmatismo, del positivismo, delle teorie critiche dell’insegnamento, ecc. La riflessione filosofica inoltre ha spesso criticato le impostazioni sia della d. come scienza, sia della d. come tecnologia. Ad es., è stata esaminata criticamente gran parte delle ricerche sperimentali sull’insegnamento degli anni settanta-ottanta, dirette a rilevare le relazioni esistenti tra le variabili caratterizzanti il comportamento docente e quelle riscontrabili nei risultati formativi raggiunti. Si è osservato come queste fossero poco sensibili all’importanza dell’intenzionalità del docente e degli allievi stessi nella pratica d. Di qui la necessità di estendere o trasformare teorie e metodi di ricerca in modo da includere questa componente della pratica. 4. L’analisi scientifica della pratica d. L’indagine scientifica ha una storia assai più breve. In essa si possono segnalare alcuni orientamenti diversi: ricerche di natura biologica e psicologica e indagini di tipo sociologico e antropologico, a cui si sono presto aggiunte prospettive giuridiche, politiche ed economiche. Si tratta delle cosid­dette → scienze dell’educazione in quanto si sono occupate della pratica dell’insegnamento. Queste vanno intese come scienze applicate, nel senso di scienze che esaminano la pratica d. utilizzando apparati teorici e metodologici propri delle scienze di riferimento. Nel corso della seconda metà del sec. XX è stata però avviata un’indagine di natura scientifica relativa alla pratica d., che non assume come parametri concettuali e metodologici propri quelli di altre discipline. Si è costituita cioè una d. intesa come scienza autonoma, con un proprio apparato concettuale e teorico e pecu­liari metodi di indagine. Il quadro di riferi­mento spesso utilizzato è un triangolo, i cui vertici sono l’insegnante – l’allievo – i con­tenuti, considerato nel suo contesto istituzionale e sociale. Esso viene usato per identificare gli elementi costitutivi da esaminare e che formano l’essenza della pratica d. Si tratta, ovviamente di un → modello, cioè di una rappresentazione generale e astratta della pratica d., che intende non solo descrivere, ma anche fare da supporto per prevedere gli effetti dell’azione d., orientare le decisioni da prendere, controllare lo 318

sviluppo dell’attività e i suoi risultati. Nel contesto francese il modello più diffuso e valorizzato è quello che descrive il processo di transizione, o trasposizione, della conoscenza dalle discipline di riferi­mento (quelle degli studiosi), alle discipline da insegnare nella scuola (quelle considerate nei programmi di insegnamento), a quelle effettivamente insegnate dai singoli docenti, a quelle apprese dai singoli allievi. Il gioco che si svolge a quest’ultimo livello, tra insegnanti e allievi, viene riletto assumendo come quadro teorico il concetto di contratto didattico. I metodi di ricerca tendono in questo caso a valorizzare una stretta collaborazione tra ricercatori e insegnanti, anche mediante forme di vera e propria ricerca-azione (→ metodi di ricerca). Altri modelli elaborati recentemente più o meno nella stessa direzione derivano da metodi e disegni di ricerca sperimentali di tipo quantitativo, oppure da metodi di tipo qualitativo ed ermeneutico, ma si tratta sempre di modelli basati sull’analisi del­le pratiche didattiche attivate in contesti scolastici. Recentemente sono stati avan­ zati anche modelli di tipo logico-erotetico e logico-assiologico, suscettibili di riscontri empirici. Nel primo caso l’insegnamento viene studiato dal punto di vista della congruenza fra domanda di apprendimento presente, anche implicitamente, negli alunni e risposta insegnante in ambiti formativi specifici. Nel secondo, si è elaborato un quadro di riferimento che, partendo dalle intenzioni o finalità educative generali dirette alla costituzione di disposizioni personali derivate da una concezione filosofica della persona educanda, procede verso la definizione degli obiettivi dell’azione d. nell’ordine dell’attuazione di tali intenzio­n i e, nell’ordine della causazione, verso l’organizzazione di situazioni didattiche at­te a promuovere negli alunni le disposizio­ni intese. 5. L’analisi tecnologica della pratica d. Ancor più recente è l’analisi della pratica d. da un punto di vista tecnologico. In questo caso la tecnologia è intesa nel senso moderno di engineering ed è caratterizzata da un apparato specifico di concetti e rappresenta­zioni simboliche, metodi e tecniche di lavoro, che rendono possibile una vera e propria mediazione tra le scienze e le discipline di riferimento e l’azione d. Questo carattere implica

DIDATTICA

non solo un lavoro di analisi e interpretazione del dato «scientifico» sotto il profilo operativo e la progettazione di un itinerario finalizzato e sistematico per l’azione, ma anche un influsso di ritorno, dall’azione realmente esplicata al progetto elaborato, alle stesse scienze dell’educazione. Nel campo dell’insegnamento le varie scienze dell’educazione, o la d. stessa intesa come scienza autonoma, tendono a prospettare informazioni organizzate circa le situazioni e le pratiche didattiche educative. L’attività tecnologica si svolge in senso inverso e consiste nel trasformare le informazioni strutturate sotto forma di rappresentazioni mentali in informazioni calate in forme organizzative e operative esterne. In altre parole, la tecnologia proietta le informazioni astratte e generali in contesti e situazioni concrete, che ricevono, attraverso queste proiezioni, una struttura organizzativa supplementare. Sotto questo profilo il processo scientifico si presenta come il reciproco di quello tecnologico. D’altra parte la tecnologia procede nell’ordine dell’azione secondo lo stesso modello adottato dalla ricerca scientifica nell’ordine della conoscenza: posizione di un problema, formulazione di ipotesi, loro messa alla prova, ritorno alla situazione iniziale, ma con una sua trasformazione nella direzione della risoluzione del problema o dell’emergenza di nuovi aspetti problematici. In conclusione, sembra che il ruolo della mediazione tecnologica nel caso della d. sia quello di una sorta di interfaccia, di nodo di raccordo, tra scienze e discipline di riferimento e l’azione formativa. Essa infatti si trova in stretta intera­zione con le prime e ha come compito spe­cifico quello di dare consistenza e efficacia alla seconda. Non sembra infatti suffi­ciente, in un approccio moderno, utilizzare i contributi delle varie scienze e discipline di riferimento nella risoluzione dei problemi educativi, senza la mediazione di un va­lido sistema di progettazione, conduzione e valutazione dei piani di intervento concreto. Alla d. vista come tecnologia si ri­collegano gran parte delle indicazioni metodologiche relative allo sviluppo del curricolo, agli strumenti e metodi di valuta­ zione, alle tecniche di gestione della classe, alla produzione di testi scolastici, ecc. 6. Articolazioni della d. Dal momento che il campo della d. si è esteso verso il basso,

includendo l’azione di insegnamento rivolta a soggetti minori di sei anni, e verso l’alto, tenendo conto delle attività formative a livello universitario, professionale, e in generale svolte lungo tutto l’arco della vita, la d. può essere a sua volta articolata tenendo conto sia dei contenuti considerati, sia dei destinatari, sia degli strumenti di comunicazione adottati. Tenendo conto delle discipline di insegnamento si hanno le varie d. disciplinari, talora incluse entro quelle che sono state denominate d. speciali e/o d. specifiche. Se si considera invece l’età degli studenti, e si ha la d. evolutiva e quella degli adulti. Se si è attenti alle differenze esistenti tra gli studenti, maschi e femmine, soggetti portatori di handicap e soggetti normali, soggetti disabili e soggetti particolarmente dotati, è questo il campo di studio della → d. differenziale. Naturalmente altre articolazioni riguardano il tipo di scuola e di ambiente considerato (d. della scuola materna, della scuola elementare, della scuola secondaria, universitaria, della formazione professionale; urbana, rurale, ecc.) oppure le tecnologie di comunicazione utilizzate (d. a distanza, → e-learning, ecc.). Bibl.: Titone R., Metodologia d., Roma, LAS, 3 1975; Bertoldi F., Trattato di d. 1° D. generale, Bergamo, Minerva Italica, 1977; Blankertz H., Teorie e modelli della d., Roma, Armando, 1977; M acI ntyre A., Dopo la virtù. Saggio di teo­r ia morale, Milano, Feltrinelli, 1988; Polanyi M., La conoscenza personale, Milano, Rusconi, 1990; Gagné R. M. - L. J. Briggs, Fonda­menti di progettazione d., Torino, SEI, 1990; Borich G. D., Effective teaching methods, New York, Macmillan, 21992; Frabboni F., Manuale di d., Bari, Laterza, 1992; Cornu L. - A. Vergioux, La didactique en question, Paris, Hachette, 1992; Laneve C., Per una teoria della d. Modelli e linee di ricerca, Brescia, La Scuola, 1993; P ellerey M., Progettazione d., Torino, SEI, 2 1994; Laneve C., Il campo della d., Ibid., 1997; I d., Elementi di d. generale, Ibid., 1998; I d., La d. tra teoria e pratica, Ibid., 2003; Baldacci M., I modelli della d., Roma, Carocci, 2004; Damiano E., La Nuova Alleanza. Temi, problemi, prospettive della nuova ricerca d., Brescia, La Scuola, 2006.

M. Pellerey

DIDATTICA DELLE DISCIPLINE → Discipline

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DIDATTICA DIFFERENZIALE

DIDATTICA DIFFERENZIALE La ricerca di procedure e di programmi organici di insegnamento/apprendimento che intendono affrontare le situazioni di «diversità» individuale all’interno della classe è oggetto della d.d., indicata in altri contesti come «insegnamento individualizzato» (individualized instruction) o «adattamento dell’insegnamento alle differenze degli studenti» o «insegnamento in una classe eterogenea» o «insegnamento con presenza di portatori di → handicap nelle classi regolari» o «educazione speciale» nel caso in cui si pensa ad un trattamento speciale per situazioni specifiche. 1. La preoccupazione di adattare le procedure di → insegnamento alle difficoltà e alle esigenze individuali era già presente nell’antico oriente e in diversi momenti della storia della scuola. Tuttavia una ricerca del 1989 condotta in 8 nazioni rilevava che solo 1 insegnante su 20 ricorreva molto spesso durante l’anno ad una istruzione individualizzata (→ individualizzazione). L’idea di accomodare la pratica didattica alle peculiari esigenze di ogni studente ha assunto oggi una tale rilevanza da essere ritenuta da molti insegnanti una delle principali risorse a disposizione della scuola per affrontare un duplice problema: elevare lo standard dell’apprendimento in risposta agli alti livelli di sviluppo della società e fornire a tutti uguali opportunità di formazione e istruzione Vari fattori hanno concorso a rendere attuale l’idea fra gli studiosi delle scienze dell’educazione: l’apprendimento delle conoscenze sulle diversità individuali di intelligenza, di capacità, di stili cognitivi e di livelli motivazionali con i quali gli studenti affrontano l’apprendimento, l’espansione del fenomeno della «multiculturalità» nella maggior parte delle società occidentali, la crescente diffusione di scelte di ordine culturale e politico a favore della piena inclusione nelle classi regolari di individui con particolari deficit di apprendimento, ma anche l’attenzione, seppure limitata, a coloro che mostrano speciali qualità. Tutti questi fattori e il loro intrecciarsi hanno dato origine a categorizzazioni esemplari di studenti: superdotati, normodotati, con ritardo mentale leggero, con ritardo mentale grave o portatori di handicap, ansiosi, con un basso/ 320

alto concetto di sé, demotivati, con una incapacità appresa, con motivazione intrinseca/ estrinseca, a rischio, aggressivi o violenti, integrati o no con i loro compagni, con un rendimento sotto le reali possibilità (under achievement), ecc. 2. La presenza di una grande varietà di tipologie di studenti nella stessa classe (o scuola) ha portato molti a cercare una risposta adeguata. Le soluzioni sono state diverse. Corno e Snow (1986) categorizzano le risposte a due livelli: macro-adattamenti e microadattamenti dell’insegnamento. Nei primi possono essere compresi programmi vasti e complessi come il → mastery learning, l’TGE (Individually Guided Education) e l’ALEM (Adaptive Learning Environment Model). Nei secondi rientrano strategie che intendono venire incontro a particolari difficoltà o problemi da parte degli insegnanti (formazione di gruppi secondo i livelli di abilità, assegnazione di compiti diversificati, strutturazione dell’aula e dell’insegnamento compatibile con diversi stili cognitivi, adattamento agli interessi e motivazioni degli studenti attraverso contratti stabiliti tra studenti e insegnanti, attenzione al ritmo di apprendimento di ciascuno, uso di programmi computerizzati). Corno e Snow, oltre ad indicare le diverse strategie possibili per affrontare le differenti esigenze, sottolineano anche l’utilità di alcuni criteri valutativi per verificare l’efficacia di qualsiasi soluzione venga intrapresa per affrontare il problema: a) con le strategie e i programmi che vengono utilizzati sono raggiunti gli scopi dell’istruzione con particolare riferimento a quelli che sono in maggior difficoltà? b) le soluzioni intraprese mantengono o producono differenze per quanto riguarda acquisizione, transfer e arricchimento nell’apprendimento? c) vi sono studenti che si trovano a disagio per i programmi che vengono attuati? Bibl.: Corno L. - R. E. Snow, «Adapting teaching to individual differences among learners», in M. C. Wittrock (Ed.), Handbook of research on teaching, New York, Macmillan, 31986, 605-629; Wittrock M. C. (Ed.), Handbook of teaching research, New York, Macmillan, 31986, 630-647; M asters L. F. - B. A. Mori - A. A. Mori, Teaching secondary students with mild learning and behavior problems. Methods, materials, strate-

DIDATTICA SPECIALE

gies, Austin, Pro-Ed., 21993; Dunn R. et al., A meta-analytic validation of the Dunn and Dunn model of learning-style preferences, in «Journal of Educational Research» 88 (1995) 353-362; Villa R. A. - J. S. Thousand, Creating an inclusive school, Alexandria, Association for Supervision and Curriculum Development, 1995.

M. Comoglio

DIDATTICA EVOLUTIVA → Continuità educativa

DIDATTICA SPECIALE Processo attraverso il quale l’itinerario for­ mativo definito per rispondere ai bisogni, alle potenzialità, alle peculiarità dei sog­getti in situazione di → handicap e di grave svantaggio socio-culturale trova attuazio­ne concreta in specifiche sequenze di ap­prendimento. 1. L’evoluzione storica del concetto di d.s. è strettamente connessa a quella dell’ → educazione speciale. All’approccio sensista di Itard segue la visione più mirata allo svi­luppo intellettuale di Séguin. Soltanto con → Montessori viene superata la concezione medico-assistenzialistica e si giunge alla centralità di un alunno da educare attra­verso un itinerario didattico rispondente ad uno sviluppo mentale che procede per fasi (anticipazione dei concetti di assimila­zione e accomodamento che saranno successivamente sperimentati e teorizzati da → Piaget). L’alunno handicappato, proprio in quanto presenta un’evoluzione in cui de­terminati stadi assumono carattere patolo­gico o non sono ancora presenti e/o su­perati, necessita di un approccio didattico specialistico. Tali teorie intorno all’handi­ cap trovano piena attuazione in una strut­t ura scolastica che si configura come scuo­la speciale e classe differenziale in cui «al­la diversità» viene data una specifica ri­sposta didattica. Questa concezione della d.s., presente all’inizio del sec. XX nei laboratori protetti e nelle scuole ad indiriz­zo didattico differenziato, si può tuttora ri­scontrare nei sistemi scolastici di molti Paesi dove la scolarizzazione avviene in condizioni di completa o parziale separa­tezza. 2. In Italia l’inserimento degli alunni nor­mali

nella scuola comune, disposto dalla L. 517 del 4 agosto 1977, è pienamente consolidato nella scuola dell’infanzia e in quella dell’obbligo. Più complesso appare il processo d’integrazione nella scuola se­condaria superiore, dove i percorsi didatti­ci e l’organizzazione della struttura scola­stica assumono configurazioni molto diffe­renti rispetto alla scuola di base. In stretto riferimento con la pedagogia della diffe­renza, la d. non si riferisce a percorsi stan­dard da utilizzare in base alle tipologie del­l’handicap, ma assume il carattere della ri­sposta concreta ad un diritto allo studio che diviene diritto all’apprendimento, va­le a dire diritto a ricevere la prestazione di­d attica più rispondente ai propri bisogni personali. Conseguentemente la prestazio­ne didattica è connotata dalla flessibilità e dalla modularità e si situa in un contesto progettuale intenzionale e scientificamente valutabile. Con la L. 104 del 5 febbraio 1992 il processo di integrazione, inteso se­condo questa prospettiva, raggiunge piena significazione in quanto appare ben chiara­mente delineata la struttura organizzativa che si presta ad accogliere, inserire, inte­g rare gli alunni handicappati. I percorsi di­dattici, pertanto, poggiano su una base ra­zionale che pone i suoi punti di forza nel profilo dinamico funzionale (lettura dei re­quisiti d’ingresso e delle potenzialità resi­due) e nel piano educativo individualizzato (sottosistema progettuale nel sistema pro­gettuale della scuola e della classe). 3. In tale contesto la d.s. non è percorso di semplice socializzazione «in presenza», non è percorso di omologazione, è percor­so di «normalizzazione», intesa come po­tenziamento delle «aree sane» per com­pensare i deficit e le compromissioni. Pro­gettazione ed attuazione di questi percorsi didattici non costituiscono competenza esclusiva dell’insegnante di sostegno, ma sono prerogativa di un intero gruppo do­cente, dove le conoscenze e le capacità specialistiche sono al servizio di un’intera co­munità scolastica in cui vanno sempre più emergendo nuove «diversità» generate dal carattere complesso e conflittuale della so­cietà contemporanea. Bibl.: Canevaro A., Handicap e scuola, Roma, NIS, 1983; Cancrini L., Bambini diversi a scuola, Torino, Bollati Boringhieri, 1991; Trisciuzzi

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DIFFERENZA/ DIFFERENZIAZIONE

L., Manuale di d. per l’handicap, Bari, Laterza, 1993; Vico G., Handicap, diversità, scuola, Brescia, La Scuola, 1994.

A. Augenti

DIFFERENZA/ DIFFERENZIAZIONE I concetti di d. e di differenziazione sono ampi e complessi. La loro articolazione di viene sempre più sofisticata in relazione allo sviluppo della ricerca scientifica medico biologica e sociologico-sociale. Né vanno trascurate le implicazioni filosofiche, teologiche e morali che si intersecano con la scoperta di varietà umane da considerare sotto ogni profilo. La d. si riferisce ad uno stato psicologico e sociale dell’individuo che si percepisce e/o è percepito come differente, altro, rispetto ad un universo di per sé compatto ed integrato. La differenziazione è invece un processo e richiama esplicitamente quei cambiamenti progressivi che riguardano lo sviluppo dell’individuo e/o il carattere evolutivo concernente la specie o la razza. Si distingue la differenziazione in senso biologico, dalla modificazione in senso ambientale. 1. Evoluzione del concetto. Soprattutto all’inizio del ’900 si tendeva a considerare il differente come la persona anticonformi sta che poteva facilmente scivolare nel patologico e nel criminologico: si propendeva quindi per l’identificazione delle definizioni di differente e di deviante. Nei decenni successivi gli studi hanno ripetuta mente dimostrato che i termini non esprimono la stessa realtà e che il passaggio dal differente/ diverso al deviante e al delinquente non rappresenta un continuum nel percorso esistenziale della persona. Proprio nel primo caso il soggetto chiede di vivere entro una società che ne legittimi la presenza, eventualmente con modifiche normative. Nel secondo e nel terzo caso vi è invece una trasgressione ora dei codici culturali, ora dei codici penali. In sociologia e in psicologia si parla di teoria dell’associazione differenziata, che sostiene che l’apprendimento di comportamenti subculturali anticonformisti avverrebbe attraverso forme di comunicazione negativa e la re lativa possibilità di azioni di rinforzo o 322

discriminazione. In base a materiale empirico comparato, la → psicologia sociale e l’antropologia culturale notano come le differenziazioni culturali relative a valori e norme intervengono orientando la → comunicazione che può favorire situazioni di conflitto o di comprensione tra appartenenti a culture diverse. Le d. individuali sono state anche studiate nella tendenza al → conformismo: gli individui reagiscono diversamente alla pressione di gruppo. In questo caso la d. registrabile è quella relativa al soggetto e al gruppo, ma ci si riferisce sempre ad una misura che pone a confronto elementi considerati oggetto di analisi di laboratorio. Altra cosa è la d. che negli anni ’70 si è cominciata a valutare guardando al suo carattere di alternativa culturale e politica con risvolti anche comportamentali. Soggetti determinati sono andati a formare categorie specifiche di analisi, al punto da permettere letture circoscritte della struttura e della dinamica sociale. Pensiamo ad es. ai giovani, alle donne, all’infanzia, ai tossicodipendenti, agli omosessuali, al dissenso religioso, ai soggetti con handicap, agli emarginati, alle minoranze, agli stranieri e agli extracomunitari. La d. di queste categorie individuali e sociali viene di volta in volta descritta rispetto alla separazione da un insieme omogeneo per → cultura, razza, religione, morale, stile di vita ed altro. 2. Diritto alla d. e pedagogia della d. Tra le tesi che esaltano la d. come opposto dell’omologazione culturale, vi sono quelle che considerano l’uguaglianza fra uomo e donna realizzabile solo in un «pensiero del genere» appartenente culturalmente a due sessi distinti, ma senza una riscrittura che differenzia diritti e doveri ora per un sesso ora per l’altro. La d. sessuale è una realtà insopprimibile; ciò che appare importante è la definizione dei valori di appartenenza a un genere nel rispetto di ciascuno dei due sessi. Secondo questa visione la d. sessuale risulterebbe necessaria alla conservazione della specie umana, legata alla cultura e ai linguaggi della società di riferimento. C’è poi chi individua nella d. un vero e proprio traguardo formativo nel senso che ogni persona ha diritto a non essere considerata parte indistinta di un tutto amorfo, di un «pluralismo informe». Altra questione è quella della non-d., intesa come diritto all’inse-

DIPARTIMENTO

rimento sociale e umano di minorati fisici, sensoriali e psichici che, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (fine degli anni ’80), riguardano il 13% della popolazione; l’80% delle minorazioni si registrano nel cosiddetto Terzo Mondo. La differenziazione in pedagogia va dall’idea dell’educazione all’unità nella molteplicità, alle questioni metodologiche connesse al superamento della univocità dei programmi di studio. Nella differenziazione didattica si tiene conto della varietà di metodi di insegnamento capaci di attuare i programmi scolastici ufficiali attraverso interventi e mezzi riferibili ad una specifica ispirazione pedagogica, come nel caso delle scuole di metodo (es. metodo → Steiner, metodo → Montessori). Né va dimenticato l’ampio capitolo delle d. individuali e del rendimento scolastico al centro del dibattito tra ambientalisti ed innatisti; nonché la differenziazione della pedagogia come scienza sempre più articolata in nuove discipline. Bibl.: Ballanti G., Modelli di apprendimento e schemi di insegnamento, Teramo, Lisciani & Giunti, 1988; Chistolini S., Tagore Aurobindo Krishnamurti. Unità dell’uomo e universalità dell’educazione, Roma, Euroma-La Goliardica, 1990; M ayor Zaragoza F., Domani è troppo tardi. Sviluppo, istruzione, democrazia, Roma, Studium, 1991; Irigaray L., Io, tu, noi. Per una cultura della d., Torino, Bollati Boringhieri, 1992; Rossi B., Identità e d. I compiti dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1994; Vattimo G., Le avventure della d., Milano, Garzanti, 2001; Sartini A., Figure della d.: percorsi della filosofia francese del Novecento, Milano, Mondadori, 2006.

S. Chistolini

DIFFERENZE INDIVIDUALI → Test psicologici DINAMICA DI GRUPPO → Gruppo: dinamica di

DIPARTIMENTO Nell’ → istruzione superiore il d. si definisce come l’organizzazione di uno o più settori di ricerca omogenei per fini o per metodo e dei relativi insegnamenti anche afferenti a più facoltà. È presente anche nella scuola secondaria dove indica un’articolazione interna del

corpo docente per aree disciplinari o interdisciplinari: il d. contribuisce alle interrelazioni sociali e professionali degli insegnanti e offre una sede per decisioni importanti sui corsi. 1. Nell’Europa continentale l’organizzazione dell’istruzione superiore è fondata tradizionalmente sulle facoltà, e solo di recente ha adottato anche la formula dei d. Questi ultimi erano l’unità di base in Gran Bretagna all’inizio del ’900 e negli Stati Uniti dal sec. XIX. 2. In Italia, dopo la creazione dello Stato unitario, le facoltà hanno fornito la struttura fondamentale delle → università con funzioni organizzative primariamente riguardo all’insegnamento e in secondo luogo alla ricerca. Circa quest’ultima furono col tempo creati gli istituti che hanno registrato una grande espansione dagli anni ’60. Tale modello organizzativo della ricerca comportava, però, irrazionalità, sprechi, sovrapposizioni di competenze e difficoltà di programmazione. Per ovviare a tali limiti veniva avanzata la proposta di introdurre i d. e il dibattito ha trovato una soluzione di compromesso con la L. n. 382/80, che ha autorizzato la sperimentazione dei d. La normativa li prevede come facoltativi, sottopone la loro costituzione a vari controlli di fattibilità, ne focalizza la competenza sulla ricerca, riconosce la loro autonomia amministrativa e stabilisce un numero minimo di docenti e di ricercatori per la loro costituzione. Tale innovazione ha aperto la strada per la creazione di d. di → scienze dell’educazione, che rendono possibile la ricerca, sostengono l’insegnamento e sono divenuti centri di educazione permanente. Bibl.: Gattullo M., «Crisi e cambiamento dell’Università», in R. Moscati, La sociologia dell’educazione in Italia, Bologna, Zanichelli, 1989, 88-117; Clark B. R. - G. Neave (Edd.), The International encyclopedia of higher education, Oxford, Pergamon Press, 1992; Associazione Treellle, Università italiana, università europea, 2003, quaderno 3, 8-182; Torcivia S., L’autonomia dei d. universitari, Bologna, Giappichelli, 2003; Elevati C. - F. Lanzoni, 3+2= La nuova università, Milano, Alpha Test, 2004.

G. Malizia 323

DIPENDENZA DA INTERNET

DIPENDENZA DA INTERNET Per d.d.I. (IAD o Internet Addiction Disorder) si intende una psicopatologia che si presenta in misura notevolmente crescente, in persone affette da sindromi organizzate e note clinicamente come disturbi di personalità, specialmente del tipo ossessivo-compulsivo e dipendente, come depressione e distimia, come DOC (disturbo ossessivo-compulsivo) e infine come fobia sociale e difficoltà nella socializzazione con conseguente ritiro o isolamento sociale. 1. IAD (Internet Addiction Disorder) è l’acronimo che identifica la sindrome da d.d.I. Reale quanto l’alcolismo, provoca gli stessi disagi e le stesse conseguenze di altre patologie da d. (Cantelmi e D’Andrea, 2000). Colpisce la fascia di utenza che va dai 15 ai 40 anni. L’evidente quadro sintomatologico del disagio si manifesta con difficoltà relazionali, eccessivo attaccamento al computer e all’essere sempre connessi (to be always on); inganno circa il tempo trascorso in Rete, ansia e depressione e progressivo allontanamento da qualsiasi altra attività da tempo libero. Inoltre, si manifesta con la fuga, l’isolamento, l’allontanamento dalla realtà, il rifugio nel mondo virtuale con la conseguente rottura delle relazioni sociali più vicine. Secondo Cantelmi e D’Andrea (2000), tra le nuove dipendenze maggiormente più diffuse c’è la d. da cyber-relazioni (cyber relationship addiction), la d. dai giochi online della tipologia MUD (Muds addiction), la d. da informazioni (information overload addiction), il tech-abuse e la trance dissociativa da (Cantelmi e Giardina Grifo, 2002). 2. La comunicazione online, caratterizzata da velocità, immediatezza, economicità, anonimità, facile gruppalità, può avviare le giovani personalità in formazione – quando eccessiva – verso situazioni di d. La Rete affascina i giovani e i giovanissimi per la sua vastità e per l’interattività, ma soprattutto per l’offerta di relazionalità. La Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive (SIIPAC), nella sezione Internet, denuncia che in Italia un adolescente su tre (il 27%) è affetto da patologie da d. L’età a rischio è compresa tra i 13 e i 17 anni e per le nuove droghe non servono sostanze, basta un com324

puter. Il vizio ha radici precoci e si parla di assuefazione e crisi di astinenza da videogame già per bambini di 7/8 anni. Quelle che vengono classificate come patologie di d.d.I. si manifestano a livello somatico e comportamentale con manifestazioni riconducibili alla d. vera e propria e, nei casi estremi, anche alla dissociazione. Bibl.: Young K., Caught in the net: how to recognize the signs of Internet addiction and a winning strategy for recovery, New York (NY), John Wiley and Sons, 1998; Cantelmi T. - A. D’A ndrea, «Fenomeni psicopatologici Internet-correlati: osservazioni cliniche», in T. Cantelmi (Ed.), La mente in Internet. Psicopatologie delle condotte on-line, Padova, Piccin, 2000, 55-93; Cantelmi T. - L. Giardina Grifo, La mente virtuale. L’affascinante ragnatela di Internet, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2002.

C. Cangià

DIPLOMA → Titoli di studio DIRETTIVITÀ → Non-direttività

DIRETTORE È la persona che ha l’incarico di promuo­ vere, coordinare e guidare le strutture e gli atti operativi di un’istituzione educativa (→ dirigente scolastico). 1. Il suo sistema di riferimento sono la na­t ura dell’istituzione, gli operatori di varia forma e funzione, i programmi e gli altri mezzi, da far agire nelle condizioni miglio­ri per attuare gli scopi e i fini educativi pro­pri di ogni specifica istituzione educativa. Ordinariamente l’attenzione viene portata sul controllo e il buon uso dei mezzi. In realtà il fattore dominante sono i fini e gli obiettivi per avviare, promuovere e mante­nere ogni fattore dell’intero sistema nella giusta «direzione» verso di essi. Un «principio di autorità» è inerente al sistema oggettivo di cui il d. è solo gestore. Anzi, la personalizzazione del principio, per sé necessaria, potrebbe avvenire con la parte­ cipazione di pochi, di molti, di tutti, di un gruppo dirigente organico, dove il d. preci­sa la sua funzione in termini di «presiden­za» o di «dirigen­za» di un lavoro convergente e articolato di precise competenze responsabi-

DIREZIONE SPIRITUALE

li e attive (→ co­munità educativa/scolastica). Un d. può es­sere a sua volta dipendente, con vari spazi di autonomia e iniziativa, oppure essere iniziatore e primo responsabile. Deve evi­tare inoltre di vedere sotto di sé solo ese­ cutori e favorire l’iniziativa e la responsabilità, soprattutto riguardo ai mo­di ed alle strategie d’azione. 2. A chi dirige si chiede legittimità, compe­ tenza, → autorità; ma anche abilità nel saper raccogliere informazioni dal basso, ela­ borandole personalmente e collegialmente, condividendo con i propri collaboratori obiettivi e moti­vazioni. In caso di conflitti di ruolo o di problemi amministrativi o di altra na­t ura, il d. deve fare ogni sforzo per mante­nere i primi al centro come ispiratori e re­golatori degli altri. Deve provvedere alla buona organizzazione dei fattori, alla buo­na → comunicazione, al coinvolgimento at­tivo, competente e responsabile di tutti in modo che ognuno trovi gratifica­zione delle proprie aspirazioni e sod­d isfazione nel conseguimento dei fini con­divisi, nell’azione collaborante, nella isti­t uzione sentita come propria. Forse c’è da andare oltre la buona direzione «tecnica». I diretti non chiedono di essere solo orga­nizzati e comandati, ma anche maturati, istruiti e motivati. Fa parte dei do­veri del d. l’innovazione e l’adattamento dell’istituzione, coinvolgendovi l’intero sistema. Bibl.: P eters R., Il nuovo volto dell’autorità, Roma, Armando, 1975; Melese J., La gestion par les systèmes, Suresne, Hommes et Techniques, 1976; Scurati C. - E. Damiano - M. R iboldi, La funzione dirigente nella scuola, Brescia, La Scuola, 1986; A rmone A. - R. Visocchi, La responsabilità del dirigente scolastico, Roma, Carocci, 2005.

P. Gianola

DIREZIONE SPIRITUALE Lo scopo principale della d.s. consiste nel favorire la relazione tra l’uomo e Dio e nel vivere profondamente la dimensione interiore e religiosa della vita. Essa, quindi, rappresenta un aiuto specifico che alcuni cristiani si danno per crescere, individualmente e come comunità di fede, nella relazione con Dio, con

gli altri, con il mondo, con la storia. Qui, per d.s. intendiamo la modalità che avviene sia al di fuori che all’interno del sacramento della riconciliazione, senza richiamare le questioni specifiche della d.s. istituzionalizzata e che ha luogo nelle situazioni di formazione alla vita consacrata o al sacerdozio. Il tema della d.s. si potrebbe facilmente allargare, per es., all’antichità classica, richiamando i nomi di Plotino, Epitteto, Plutarco, Cicerone, Seneca. Sappiamo pure che forme di aiuto asceticomorale molto efficaci sono conosciute anche nell’ambito di altre religioni. 1. L’uso del termine. Nonostante alcuni tentativi fatti in questi ultimi decenni per sostituire nel linguaggio cristiano il termine d.s., e di conseguenza eliminare dall’uso anche il termine stesso di → direttore o padre spirituale, è maturata la convinzione che proprio questi vocaboli risultano i migliori. L’idea della sostituzione dei termini tradizionali è stata motivata da una documentabile esperienza di d.s. che, in qualche misura, si è trovata in contrasto con gli orientamenti offerti una volta dalla teologia ascetica e mistica e che oggi con maggiore competenza ancora offrono la pedagogia, la psicologia e la teologia spirituale. Non si può negare che molte volte un direttore spirituale sicuro più di sé che fiducioso di Dio, ricade in forme di dirigismo, di direttività, di paternalismo. 2. Crisi e attualità della d.s. Fino agli anni settanta, del sec. scorso, non si può parlare di crisi d’identità della d.s. Poi, è sembrato che il contributo che le scienze dell’uomo offrivano per la comprensione e la soluzione dei problemi della persona umana fosse talmente sufficiente da far considerare ormai superata la d.s. Si era così sicuri dell’esistenza di tante terapie di vario genere da considerare la d.s. non all’altezza, perché troppo settoriale, delle finalità per le quali aveva lavorato fino a quel momento. Inoltre, si era nel pieno di una cultura «senza padre», per cui sembrava che la parola «padre» o «direttore» potesse favorire la riproduzione simbolica e bloccante della figura paterna e compromettere la relazione padre-figlio. Questa sfiducia nei confronti della d.s. sembrava sostenuta dal fatto che anche la stessa teologia, essendosi liberata dal linguaggio di un un’antropologia dualista, aveva cominciato ad esprimersi con 325

DIREZIONE SPIRITUALE

quello di un’antropologia integrale. In questo clima di critiche della d.s. è nata anche la proposta dell’animazione comunitaria, intesa come alternativa al tradizionale modo di attuare la d.s. Non si può ignorare l’attualità della d.s., né per il passato, né per il presente. Oggi, poi, vediamo che la ricerca di nuovi maestri si presenta, talvolta, perfino febbrile. Purtroppo, quasi sempre li si considera una specie di maghi, competenti sul piano spirituale, su quello delle tecniche e su quello dei metodi ascetici, così da dare una soluzione a qualsiasi problema. 3. Il senso della d.s. È necessario chiarire il peso che si dà sia al termine d.s. sia a quello di direttore spirituale. A favore di questi vocaboli non è solo una lunga tradizione, ma anzitutto il significato teologico e spirituale che essi esprimono. I termini d. e s. rappresentano due istanze di quell’aiuto che è indispensabile per un credente bisognoso nel suo cammino di fede. Tali istanze non si possono interpretare in modo arbitrario, attribuendo ad esse un significato immaginario, come per es., assegnando allo «spirituale» l’interesse per un’anima disincarnata secondo l’antropologia dualista di una volta e alla d. una volontà di padronanza sulle persone, e quindi un’autorizzazione ad assoggettarsi il diretto o addirittura a plagiarlo. È vero che nel passato, essendosi badato solo al senso del progresso spirituale visto nella luce del dato oggettivo, offerto dalla fede della rivelazione di Gesù Cristo, di solito veniva trascesa la corporeità del diretto. L’equilibrio di cui parla Th. Merton rimaneva sconosciuto: «Il direttore spirituale si interessa a tutta la persona, perché la vita spirituale non è semplicemente la vita della mente, o degli affetti, o della “sommità dell’anima”: è la vita di tutta la persona. Perché l’uomo spirituale (pneumatikós) è colui la cui vita intera, in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue attività, è stata spiritualizzata dall’azione dello Spirito santo, sia per mezzo dei sacramenti, sia dalle ispirazioni personali e interiori». La d.s. è molto più di un consiglio, di un dialogo, di un incoraggiamento. Essa si radica nell’opera dello Spirito santo che è il protagonista principale della nostra crescita spirituale. Il livello su cui si muove la d.s. è quello spirituale, mentre le competenze che offrono le scienze dell’uomo rimangono sul piano psicologico. 326

Alla nostra attenzione non deve sfuggire che nella relazione della d.s. i protagonisti sono tre: lo Spirito santo, che è il vero direttore spirituale, il diretto, che è il vero soggetto nella d.s., e il direttore spirituale umano, che svolge l’opera di mediazione tra i due. 4. D.s. e azione dello Spirito. Per liberare la d.s. da un’immagine di vincolo che lega strettamente e in modo permanente, e per sottolineare il suo carattere transitorio, si dice che essa «è nata per finire». Questa sintesi mette in rilievo la finalità pedagogica della d.s.: aiutare la persona diretta a mettersi in piedi e a camminare da sola. Ecco il motivo per cui il diretto deve avere un pieno spazio di libertà nel suo cammino di ricerca e la coscienza che spetta a lui stesso il dovere di decidere. Perciò il direttore non è colui che si sostituisce alla persona diretta e tanto meno prende il posto dello Spirito santo. È «direttore spirituale» perché collabora con lo Spirito santo per il progresso spirituale della persona diretta. A questo proposito, l’Oriente cristiano, sottolineando l’importanza e il significato spirituale del ruolo che svolge il mediatore tra l’uomo e Dio, fin dai primi tempi parla di «padre spirituale» o, nel caso delle donne, di «madre spirituale» perché particolarmente in quel contesto di vita cristiana il padre spirituale esercita la sua funzione non in virtù di un’autorità ufficiale, ma dell’autorevolezza spirituale. 5. L’itinerario spirituale e i compiti della d.s. Per capire i motivi della perenne attualità della d.s. occorre sapere quali sono i suoi compiti. Adulti nella fede, santi e uomini spirituali, non si nasce, ma si diventa. La storia della spiritualità cristiana conosce il tema dell’itinerario spirituale: tappe o gradi che aprono su tappe successive di crescita spirituale. Il che esprime la convinzione che adulti nella fede, santi e uomini spirituali, si diventa in modo progressivo. L’idea dell’itinerario spirituale è quella che la vita spirituale, sviluppandosi nel tempo, ha le sue leggi proprie che un direttore spirituale deve conoscere per agire di conseguenza. Oggi, inoltre, si è convinti che il progresso spirituale avviene in modo non indipendente dalle leggi della crescita e dello sviluppo umano. Tra le numerose proposte di itinerario, la più corrispondente al realismo del progresso spirituale è quella che lo arti-

DIRIGENTE SCOLASTICO

cola in principianti, proficienti e perfetti. In ogni proposta di itinerario spirituale importanti sono i contenuti delle rispettive tappe perché aiutano il soggetto a riorientare la propria vita verso i valori superiori di cui la carità è il centro. Risulta, anzitutto, urgente che nella d.s. si giunga all’essenziale senza perdere tempo soffermandosi più del necessario su un terreno antistante i veri problemi della persona diretta. Sono proprio i vantaggi che se ne ricavano a mantenere sempre attuale e utile la d.s. Essa, infatti, permette a chi la esercita di influire in maniera forte, significativa e talvolta determinante sul destino delle persone che gli sono state affidate da Dio. Ne sono l’esempio santi come Ambrogio, Agostino, Francesco di Sales, Giovanni → Bosco e tanti altri. 6. La realtà del direttore spirituale. Tra i diversi problemi pratici che la d.s. pone, il primo e il più difficile riguarda la scelta indovinata di un direttore spirituale. È emblematico il pensiero di s. Teresa d’Avila a proposito dell’utilità di avere un direttore spirituale capace: «Se io ho sofferto molto e ho perduto molto tempo, fu appunto per non sapere quello che dovevo fare» (Il libro della Vita, 14,7). S. Giovanni della Croce, a sua volta, in diversi momenti del suo insegnamento avverte che per incompetenza dei direttori spirituali si verificano numerosi danni spirituali. Bibl.: M erton Th., D.s. e meditazione, Milano, Garzanti, 1965; Besnard A. M. et al., Le maître spirituel, Paris, Cerf, 1980; Serenthà L. - G. Moioli - R. Corti, La d.s. oggi. Atti della Quattro giorni Assistenti dell’A.C. di Milano, Milano, Ancora, 1982; Sudbrack J., D.s. La questione del maestro, dell’accompagnatore spirituale e dello Spirito di Dio, Roma, Paoline, 1985; Fossati G. et al., Per essere una guida spirituale, Roma, Libreria Editrice Murialdo, 1987; Barry W. A. - W. J. Connolly, Pratica della d.s., Milano, O. R., 1990; M endizábal L. M., La d.s. Teoria e pratica, Bologna, Dehoniane, 1990; Vernette J., Nuove spiritualità e nuove saggezze. Le vie odierne dell’avventura spirituale, Padova, Edizioni Messaggero, 2001; Capello A. et al., Mistagogia e accompagnamento spirituale. Atti e relazioni della 44a Settimana di Spiritualità, Roma, Teresianum, 2003; Goya B., Luce e guida nel cammino. Manuale di d.s., Bologna, Dehoniane, 2004;

Frattallone R., D.s. Un cammino verso la pienezza della vita di Cristo, Roma, LAS, 2006.

J. Struś

DIRIGENTE SCOLASTICO Per chi è a capo di una scuola è ormai in­valsa la dizione formale «capo d’istituto» laddove si usava dire «preside» per le scuole secondarie e «direttore didattico» per la scuola elementare. Rientrano nella nozione anche tutte le funzioni di sostitu­zione (vicepreside, vicario, facente funzio­ne) e di coordinamento di settori discipli­nari o comunque indicanti responsabilità particolari (middle management). Un termine molto comprensi­ vo, riferito anche alle funzioni di ordine gestionale-amministrativo, è quello di school manager. La dizione school management indica il campo degli studi sulla dirigenza scolastica. 1. Posizione e accesso. In linea di massima possiamo avere: A - capo di istituto Tipo di sistema

modalità di accesso

A- centralizzato burocratico

concorso pubblico

B- collettivistico C- decentralizzato autonomo D- totalitario

Requisiti

titoli culturali, curricolo professionale, superamento di un esame elezione prestigio, consenso curricolo professioselezione nale: qualificazioni, esperienze designazione appartenenza politica

B - responsabile intermedio l’accesso avviene per designazione da parte del capo di istituto o per richiesta da parte dei colleghi o per incarico da parte dei gestori o dell’amministrazione della scuola.

La caratteristica centrale del «capo di isti­ tuto» è di essere responsabile in senso globale della propria scuola e di rappresen­tarla a tutti gli effetti; le altre posizioni ri­spondono invece a compiti più delimitati e settoriali. In alcuni sistemi l’adempimento di tali compiti costituisce presupposto e ti­tolo per l’accesso alla posizione di capo di istituto. 327

DIRIGENTE SCOLASTICO

2. Contenuti. Il d.s. viene considerato se­condo tre fondamentali accezioni: a) fun­zionario; b) leader educativo; c) operatore dell’«educazionale». La prima configura­zione – particolarmente presente nei siste­mi scolastici europei continentali di deriva­zione napoleo­ nica e prussiana – considera il d.s. come una figura completamente e compiutamente inclusa nella logica del­l’amministrazione di natura burocratica, ultimo anello della catena gerarchica di di­sposizioni e poteri formali (uffici, pro­grammi, circolari, ordinanze) che governa­no il funzionamento dell’apparato. Egli de­ve assicurare, quindi, il rispetto delle nor­me, vigilare sull’operato del personale, esaudire tutti gli adempimenti che gli ven­ gono attribuiti allo scopo di promuovere l’istruzione e di perseguire gli obiettivi as­ segnati alla scuola. Il secondo profilo trova le sue radici nelle tradizioni basate sui prin­cipi della decentralizzazione e dell’appar­tenenza della scuola alla comunità, che ve­dono nel d.s. soprattutto il perno animato­re di realtà educativamente significative. La sua attività, pertanto, è considerata ri­levante non tanto dal punto di vista della correttezza formale quanto da quello della efficacia nei confronti delle finalità sostan­ziali della scuola e dei suoi agenti principa­li, vale a dire gli alunni e gli insegnanti. La funzione primaria del d.s., allora, è di con­t ribuire alla «qualità» della propria scuola come luogo formativo. La terza indicazio­ne rimanda alla identificazione dell’«educazionale» come campo intermedio fra il terreno dell’«educativo» e quello dell’«amministrativo» come tali, rispettivamente specifici dell’azione dell’ → insegnante e di quella dell’amministratore vero e proprio. L’«educazionale» costituisce una sorta di nodo centrale di una linea che ha per og­getto le strutture funzionali della scuola e che, provenendo dall’amministrativo, finisce con l’attraversare il campo dell’edu­cativo. La dirigenza scolastica, in quanto settore di attività professionale, si concre­tizza prevalentemente nell’ordine delle strutture funzionali, ma non è lontana in assoluto da quello dei rapporti; in questo senso, vengono ad emergere due principa­li componenti della professionalità diri­genziale, che hanno rispettivamente a che fare con l’ → organizzazione scolastica e con la → relazione educativa. Spetta quindi al d.s. espletare compiti di garanzia, ani­mazione, chiarificazione, facilitazione, 328

con­t rollo, innovazione, guida, sostegno, con­ tatto, rassicurazione, protezione. 3. Prospettive. Gli sviluppi più rimarchevo­ li toccano due precisi settori di attenzione, costituiti dalla ristrutturazione del sistema secondo il principio dell’ → autonomia del­le scuole e dall’introduzione di forme spe­cifiche di preparazione. Per quanto riguar­da il primo punto, la figura del d.s. risulta fortemente modificata in senso manageria­le nell’ipotesi che ad ogni istituzione scola­stica vengano riconosciute delle possibilità di autonomia – vale a dire di autodecisione ed autodeterminazione progettuale – sul piano amministrativo, curricolare e didat­t ico. Come conseguenza, il profilo del d.s. si andrebbe sempre più decisamente stac­cando dalle connotazioni burocratiche per accedere a valori e competenze di impresa, con un considerevole aumento dei poteri e delle responsabilità reali (es.: selezione del personale, gestione budgetaria, ecc.). La seconda questione si riferisce alla costitu­zione di forme apposite di preparazione al­la professione di d.s., che è presente da tempo in alcuni Paesi (es.: Stati Uniti), si sta diffondendo con grande rapidità in molti altri (es.: Gran Bretagna, Olanda, Svezia) ed è ancora assente in Italia, dove si è invece assistito al fenomeno della dif­f usione su vasta scala della formazione in servizio. L’ipotesi di maggiore interesse è rappresentata dall’introduzione di gradi di studio universitario postlaurea (master) appositamente finalizzati. Bibl.: Bush T., Theories of educational management, London, Routledge and Kegan, 1986; Sheive L. T. - M. B. Schonheit (Edd.), Leadership. Examining the elusive, Alexan­d ria (Virg.), Association for Supervision and Curriculum Development, 1987; Smyth J. (Ed.), Critical perspectives on educational leadership, London, The Falmer Press, 1989; Dalle Fratte G. (Ed.), Autonomia risorsa della scuola, Milano, Angeli, 1991; Scurati C. - A. Ceriani, La dirigen­za scolastica. Vicende sviluppi e prospettive, Bre­scia, La Scuola, 1994; Romei P., Autonomia e progettualità, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995; Susi F. (Ed.), Il leader educativo, Roma, Armando, 2000; Sergiovanni T. J., Dirigere la scuola comunità che apprende, Roma, LAS, 2002; Artini A., I leader educativi, Milano, Angeli, 2004.

C. Scurati

DIRITTI UMANI

DIRITTI DEI MINORI → Minori

DIRITTI UMANI Indicano le esigenze fondamentali della persona che vanno soddisfatte per assicurare una realizzazione adeguata di ciascuno nella globalità delle sue dimensioni materiali e spirituali. 1. Il fondamento e i contenuti. I d.u. rappresentano un dato ontico che trova nella dignità della persona la fonte ultima: di conseguenza, essi precedono la legge scritta, che può soltanto riconoscerli e non invece crearli. Nella dottrina giuridica attuale, questa posizione giusnaturalista sembra sopravanzare sia l’interpretazione contrattualistica, che fonda i d.u. su un patto intervenuto tra i gruppi sociali e quindi destinato a cambiare in base ai rapporti di forza reciproci, sia la spiegazione positiva dell’autolimitazione dello Stato sovrano che, pertanto, concederebbe i d.u. e non li riconoscerebbe in quanto preesistenti. Il medesimo orientamento è adottato più o meno esplicitamente anche dalle → organizzazioni internazionali, tra cui vanno segnalate a livello mondiale le Nazioni Unite e sul piano regionale il Consiglio d’Europa. In seguito all’esperienza delle dittature e delle barbarie perpetrate soprattutto nell’ultimo conflitto mondiale, il processo di internazionalizzazione dei d.u. ha trovato un sbocco solenne con l’adozione, il 10 dicembre del 1948, della Dichiarazione universale ad opera dell’Assemblea generale dell’ONU. Il passaggio dalla condizione di pura raccomandazione a norma giuridica vincolante si è successivamente compiuto con l’entrata in vigore nel 1976 di due Convenzioni, o Patti internazionali, rispettivamente sui d. civili e politici e sui d. economici, sociali e culturali. Tra i d. finora riconosciuti a livello internazionale, una prima categoria è costituita da quelli civili e politici, i cosiddetti d.u. della «prima generazione». Sono stati infatti i primi ad essere sanciti sul piano interno a partire dalla seconda metà del sec. XVIII e sono denominati d. «negativi», in quanto fanno divieto all’autorità pubblica di ingerirsi nell’ambito di libertà della persona: si tratta dei d. alla vita, all’identità personale,

alla riservatezza, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, al voto libero e segreto, alla libertà associativa, alle garanzie processuali. La seconda categoria consiste nei d. economici, sociali e culturali o d.u. della «seconda generazione»: vengono anche chiamati d. positivi, in quanto l’autorità pubblica è tenuta a porre in essere interventi specifici per la loro realizzazione, e il loro riconoscimento sul piano statuale è iniziato nella seconda metà del sec. XIX. Di questo gruppo vanno ricordati in particolare i d. all’alimentazione, alla casa, all’educazione, al lavoro, alla salute, all’assistenza. A livello internazionale la prima categoria gode di una tutela più forte rispetto alla seconda. Recentemente si parla anche di d.u. della «terza generazione» o di solidarietà come il d. alla pace, a un ambiente sano, allo sviluppo: su questi il dibattito è ancora aperto, anche se si sta progredendo verso il loro riconoscimento internazionale. 2. L’educazione ai d.u. Sotto la spinta del processo di internazionalizzazione appena descritto ha preso l’avvio anche l’ educazione ai d.u. Infatti, «La comprensione e l’esperienza vissuta dei d. dell’uomo sono, per i giovani, un elemento importante della preparazione alla vita in una società democratica e pluralista» (Council of Europe, 1985, 2). L’elaborazione della disciplina sul piano curricolare ha portato a identificarne gli obiettivi. Tra l’altro, vengono indicati i seguenti: conoscenza degli sviluppi storici relativi ai d.u.; conoscenza delle dichiarazioni, convenzioni e patti contemporanei; conoscenza di alcune delle maggiori violazioni dei d.u.; comprensione della distinzione tra d. politici/legali e sociali/economici, dei concetti di base e delle relazioni tra individui, gruppi e d. nazionali; valutazione critica dei propri pregiudizi e sviluppo degli atteggiamenti di tolleranza; apprezzamento dei d. degli altri; simpatia per coloro a cui sono negati i d.; abilità intellettuali; abilità operative. Passando poi ai contenuti, va anzitutto richiamato un criterio organizzatore fondamentale: l’educazione ai d.u. andrà strutturata in modo da tener conto dell’età dell’allievo, delle sue condizioni e delle situazioni particolari delle scuole e del sistema educativo. Gli argomenti possono essere articolati in quattro gruppi: le principali categorie di d., doveri, obbligazioni e 329

DIRITTO ALL’EDUCAZIONE

responsabilità dell’uomo; le diverse forme di ingiustizia, diseguaglianza e discriminazione; le personalità, i movimenti e i grandi eventi che nella storia hanno contrassegnato la lotta costante a favore dei d. dell’uomo; le principali dichiarazioni e convenzioni internazionali. La didattica di questa disciplina mantiene la lezione tradizionale, purché si ispiri alle migliori pratiche: essa deve riuscire a trasmettere le informazioni essenziali, a spiegare i concetti in modo comprensibile e a stimolare gli studenti a porre domande. Al tempo stesso bisognerà utilizzare altri metodi quali: la discussione di gruppo, i progetti di ricerca, la drammatizzazione e il «roleplay», i giochi e le simulazioni e la partecipazione ad attività pratiche. Il coronamento di queste metodologie è costituito dalla realizzazione della «scuola dei d.u.», cioè di una scuola il cui clima sia propizio per l’apprendimento dei d.u. Nonostante gli sviluppi accennati, rimane il problema di trovare una collocazione per l’educazione ai d.u. all’interno del → curricolo. Infatti, i programmi d’insegnamento sono già sovraccarichi di contenuti e molte aree di nuove conoscenze, finora escluse dalla scuola, sono in lista di attesa. In generale si cerca di risolvere il problema con un compromesso: non una nuova materia separata, ma una dimensione dell’ → educazione socio-politica, in particolare dell’educazione alla cittadinanza democratica. Altre difficoltà riguardano la delimitazione di un minimo di saperi ammessi da tutti, che è continuamente rimessa in discussione. Quanto ai metodi, si constata un’oscillazione continua tra la lezione di morale, la descrizione di organigrammi astratti dei processi politici e sociali e il ricorso alla ricerca. Riguardo poi alla valutazione, è certamente possibile introdurre esami e votazioni, ma la loro importanza è molto relativa per una disciplina che intende fornire conoscenze rilevanti per la vita. Da ultimo, lo scopo ricercato è quello di un influsso sull’agire delle persone, cioè sul modo di vivere con gli altri e con la società, ma una tale proposizione costituisce un problema per una parte notevole degli insegnanti che è legata a una concezione sbagliata della laicità della scuola, intesa come neutralità. Bibl.: Council of Europe, Recommendation No. R (85) 7 of the Committee of Ministers to mem-

330

ber States on teaching and learning about human rights in schools, 14 May 1985; Papisca A., «D.u.», in E. Berti - G. Campanini (Edd.), Dizionario delle idee politiche, Roma, AVE, 1993, 189-199; M arino M., Per una pedagogia dei d.u., Roma, Anicia, 2003; Brander P. - R. Gomes E. K een, Compass. Manuale per l’educazione ai d.u. con i giovani, Roma, Sapere 2000, 2004; Di Pol R edi S., Educazione e d.u., Torino, Marco Valerio, 2004; G ramigna A. - M. R ighetti, D.u. Interventi formativi nel sociale, Pisa, ETS, 2005; Cassese A., I d.u. oggi, Bari, Laterza, 2006.

G. Malizia

DIRITTO ALL’EDUCAZIONE In senso giuridico l’espressione d.a.e. defi­ nisce l’insieme delle prestazioni che assicu­ rano il raggiungimento di un risultato, l’istruzione, mentre da un punto di vista pe­ dagogico si riferisce al complesso delle misure rivolte a garantire l’educazione di ogni uomo, di tutto l’uomo, per tutta la vita. 1. La riflessione pedagogica. Gli anni ’80 hanno segnato l’allargamento del d.a.e., ca­ ratterizzato fino ad allora prevalentemente dai tratti della quantità, dell’uniformità e dell’unicità; tale estensione ha portato a comprendere anche gli aspetti della qua­lità, della differenziazione e della persona­lizzazione. Pertanto non basta assicurare l’accesso di tutti alla scuola e l’eguaglianza dei risultati fra i vari strati sociali, ma è necessario ga­ rantire il d. a un’educazione di qualità. Nella stessa prospettiva si dovrà anche contem­ perare eguaglianza e diversità, tutela ed ec­ cellenza. Un altro orientamento è consistito nel potenziare la partecipazione alla gestione delle strutture formative perché la riduzione e l’eliminazione delle disegua­glianze di opportunità non possono essere realizzate senza il coinvolgimento dei grup­pi che soffrono direttamente dell’impatto delle disparità. Il concetto di d.a.e. mentre si è esteso e diversificato sul piano dei contenuti, ha dato vita in riferimento ai soggetti tutelati a principi au­tonomi. In proposito si possono ricordare quello dell’eguaglianza fra i due sessi; l’ → educazione interculturale che consiste nella messa in rapporto delle cul­t ure, nella comunicazione reciproca, nell’interfe-

DIRITTO ALL’EDUCAZIONE

condazione, mentre esclude l’assi­milazione; l’integrazione dei disabili nella scuola ordinaria, che significa ri­spondere ai bisogni di tutti gli alunni e di ciascuno, dare risposte differenziate per­ché gli alunni sono diversi e fornirle all’in­terno della scuola ordinaria. Comunque, il cambiamento più profondo sul piano pe­dagogico consiste nell’accettazione mon­diale della strategia dell’ → educazione permanente come idea madre delle politiche educative del futuro: essa significa garanti­re l’educazione di ogni uomo, di tutto l’uo­mo, per tutta la vita. 2. I risvolti giuridici e politici. L’assistenza scolastica è stata introdotta formalmente in Italia con la legge Daneo-Credaro del 1911, che sta­bilì l’obbligo di istituire in ogni comune un Patronato scolastico con il compito di assicurare l’iscrizione e la fre­quenza degli alunni nella scuola. Nel 1924 sono state create presso ogni istituto se­condario le casse scolastiche per garantire l’assistenza a tale livello del sistema forma­tivo. A sua volta, l’ → obbligo d’istruzione era stato stabilito precedentemente con la legge Casati (1859), ma la normativa è ri­masta ampiamente disattesa. Con la Costi­t uzione repubblicana viene compiuto un salto di qualità. Infatti, l’art. 34 stabilisce l’apertura della scuola a tutti, l’obbligo di istruzione, la gratuità dell’istruzione, il d. dei capaci e dei meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti di studi; soprattutto, la nostra Carta fonda­mentale concepisce la scuola come uno strumento di rinnovamento culturale e di eguaglianza sociale. In altre parole, la Co­ stituzione ha sancito il d. all’istruzione come un vero e pro­prio d. soggettivo pubblico di prestazione che comporta per la pubblica amministra­zione un obbligo positivo a fare. La Costituzione ha anche attribuito alle Re­ gioni la competenza sull’assistenza scola­ stica. Il relativo trasferimento delle funzio­ ni come anche il decentramento ai Comuni sono stati realizzati durante gli anni ‘70. Lo sbocco finale è rappresentato dalla L. 53/03 che all’art. 2., co. 1, lettera c) assicura a tutti «il d. all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età» nel quadro della promozione dell’«apprendimento in tutto l’arco della vita» – art. 2., co. 1, lettera a). Il salto

di qualità realizzato in materia dalla riforma Moratti ha trovato la sua attuazione concreta con l’approvazione del D. Lgs. 76/05 che definisce la norme generali sul d.-dovere all’istruzione e alla formazione. Nel quadro dell’apprendimento per tutto l’arco della vita, esso ribadisce l’impegno a garantire a tutti eguali opportunità di conseguire livelli culturali elevati e di sviluppare capacità e competenze adeguate a una transizione soddisfacente nella società e in particolare nel mondo del lavoro. L’obbligo scolastico e l’obbligo formativo non vengono dimenticati, trascurati o indeboliti, ma trovano un loro inveramento più pieno nella nuova normativa, nel senso che vengono ridefiniti e ampliati come d. all’istruzione e alla formazione: in altre parole, la fruizione dell’offerta educativa viene a rappresentare per tutti, includendo anche i minori stranieri, sia un d. soggettivo sia un dovere sociale. I giovani incominciano a beneficiare concretamente del d.-dovere con l’iscrizione alla scuola primaria e nella secondaria di 1° grado tale tutela si traduce almeno nella organizzazione da parte delle scuole di iniziative di orientamento. Quanti poi ottengono il titolo del 1° ciclo si iscrivono ad un istituto del sistema dei licei o del sistema di istruzione e formazione professionale fino al conseguimento di un diploma liceale o di un titolo o di una qualifica professionale di durata almeno triennale sino al diciottesimo anno di età. Sul piano informativo, a sostegno dell’attuazione del d.-dovere, viene creato il sistema nazionale delle anagrafi degli studenti. Il nuovo governo di centrosinistra ha deciso di innalzare di due anni l’obbligo di istruzione (cfr. comma 626 della L. 296/06) perché sarebbero necessari per rafforzare ed elevare le competenze di base e per effettuare le scelte di indirizzo e di percorso con una maggiore consapevolezza. Nonostante l’intenzione certamente positiva, nel confronto tra obbligo di istruzione e d.dovere di istruzione e di formazione mi sembra che vada preferita senz’altro la seconda impostazione perché l’obbligo presuppone una concezione di cittadini come sudditi che uno Stato benevolo e lungimirante e sollecito degli interessi loro e dell’intera società costringe ad istruirsi, mentre il d.-dovere rinvia alla consapevolezza dei cittadini circa la loro capacità di assumere in prima persona il compito della propria formazione. 331

DISAGIO

Bibl.: Pototschnig U., «Istruzione (d. alla)», in Enciclopedia del d., vol. XXIII, Milano, Giuffré, 1973, 96-116; Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con D. M. n. 672 del 18 luglio 2001, in «Annali dell’Istruzione» 47 (2001) 1/2, 3-176; Montemarano A., Dall’obbligo scolastico e formativo al d.-dovere all’istruzione e formazione, in «Rassegna CNOS» 21 (2005) 3, 110-116; Malizia G., «La legge 53/2003 nel quadro della storia della riforma scolastica in Italia», in R. Franchini - R. Cerri (Edd.), Per una istruzione e formazione professionale di eccellenza, Milano, Angeli, 2005, pp. 42-63; Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione (29 giugno 2006), Roma, 2006; Romei P., D.-dovere all’istruzione e alla formazione: qualche considerazione, in «Dirigenti Scuola» 24 (2005) 4, 20-26.

G. Malizia

DISABILI → Handicap: portatori di DISADATTAMENTO → Emarginazione

DISAGIO Il termine d. riferito al contesto sociale è di recente utilizzo, in quanto in sociologia si preferisce adottare i termini più specifici di disadattamento, → devianza, → emarginazione con i quali si intende, in modo diverso, uno stato soggettivo e/o oggettivo di mancata integrazione nel tessuto sociale. 1. Il d. è in genere una difficoltà ad adattarsi ad un ambiente o a delle situazioni. Più specificamente il d. evolutivo si presenta come una normale e superabile difficoltà che accompagna la crescita soprattutto nel momento adolescenziale e può essere definito come «la manifestazione presso le nuove generazioni della difficoltà di assolvere ai compiti evolutivi che vengono loro richiesti dal contesto sociale per il conseguimento dell’identità personale e per l’acquisto delle abilità necessarie alla soddisfacente gestione delle relazioni quotidiane» (Neresini-Ranci, 1992, 31). Esso si trasforma in disadattamento quando il malessere diventa diffuso e si esprime come una difficoltà momentanea a rispondere positivamente ai compiti evolutivi propri dell’età soprattutto in termini 332

di relazione con gli altri e di integrazione nel tessuto sociale. Se questo stato perdura può diventare devianza e marginalità sociale oppure, su un altro versante, può entrare in meccanismi di d. psichico profondo. A livello evolutivo il d. è visto come una categoria trasversale, quasi fenomeno fisiologico, che accompagna il ragazzo nella sua crescita e che è legato con la categoria del rischio. 2. Oggi, nella nostra società complessa ed altamente differenziata con maggior facilità il d. evolutivo può degenerare in d. sociale. Questo capita quando i fattori di malessere individuale sono molteplici e vengono assommati a fattori esterni conseguenti per es. a marginalità sociale. Spesso questa inadeguatezza del giovane a inserirsi in un determinato contesto sociale viene attribuita non solo a fattori interni al soggetto, ma soprattutto ad una generalizzata incapacità del mondo adulto a riconoscere le sue esigenze ed il suo bisogno di realizzazione. «Le espressioni di questa inadeguatezza si distribuiscono lungo l’asse privato-pubblico, con specifiche accentuazioni tematiche: l’abbandono familiare, l’incomunicabilità, l’inutilizzazione, il mantenimento di una dipendenza forzata, la mediocrità della risposta, il giovanilismo ad oltranza, la deresponsabilizzazione, il calcolo e il non riconoscimento, la dispersione delle risorse» (Milanesi, 1989, 130). L’ → educazione può entrare a sostegno del giovane come abilitazione a leggere criticamente la propria esperienza ed a progettarla nella prospettiva del valore e del significato della propria esistenza, tenendo conto criticamente delle esigenze della società. Bibl.: Butturini E., D. giovanile e impegno educativo, Brescia, La Scuola, 1985; M ilanesi G. C., I giovani nella società complessa: una lettura educativa della condizione giovanile, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1989; Neresini F. - C. R anci, D. giovanile e politiche sociali, Roma, NIS, 1992; Speltini G. (Ed.), Minori, d. e aiuto psicosociale, Bologna, Il Mulino, 2005; Calvanese E., La reazione sociale alla devianza: adolescenza tra droga e sessualità, immigrazione e giustizialismo, Milano, Angeli, 2005; M ancini G., L’intervento sul d. scolastico in adolescenza, Ibid., 2006.

L. Ferraroli

DISCERNIMENTO

DISCALCULIA Disturbo o difficoltà nell’apprendimento delle abilità di calcolo aritmetico e, più in generale, disturbo o difficoltà nell’acquisizione delle conoscenze matematiche, che si riscontra in soggetti per altri versi in grado di imparare validamente a scuola. Le forme più diffuse di d. riguardano il calcolo scritto. 1. L’origine di questi disturbi può essere riscontrata a vari livelli: a) nella difficoltà di astrazione, il bambino non riesce a trattare i numeri indipendentemente dal loro significato concreto; b) nei procedimenti errati, in quanto sono state automatizzate procedure inadeguate di calcolo; c) in una resistenza psicologica al trattare i numeri e le operazioni per iscritto; d) in altri disturbi più generali come 1’ → iperattività. 2. Quanto al trattamento, è necessario in primo luogo diagnosticare per quanto possibile l’origine delle difficoltà riscontrate. In base a tale diagnosi si può progettare una terapia opportuna. Nel caso, assai frequente, di procedure errate di calcolo già automatizzate, non basta spiegare le ragioni dell’errore e indicare la procedura giusta. Occorre fornire strumenti di controllo dell’errore o degli errori. Generalmente si fa imparare in forma dichiarativa verbale la procedura corretta e si sollecita un uso sistematico di questa come strumento di controllo dell’esecuzione dell’operazione. Eventualmente si può fornire tale procedura verbale per iscritto e sollecitare il suo uso ogni volta che si deve eseguire un’operazione di quel tipo. Per quanto riguarda difficoltà di astrazione, occorrerà agire a questo livello, impostando opportuni programmi di educazione alla rappresentazione astratta di una pluralità di situazioni concrete. Se si tratta di difficoltà di ordine psicologico più complesso, occorrerà ricorrere alla consulenza di uno psicologo specializzato nel settore. Bibl.: Gaddes W. H., Learning disabilities and brain function. A neuropsychological approach, New York, Springer, 21985; Cornoldi C. (Ed.), I disturbi dell’apprendimento, Bologna, Il Mulino, 1991; R eid D. K. - W. P. H resko - H. L. Swanson, A cognitive approach to learning disabilities, Austin, Pro-Ed., 21991; McCarthy R. A. -

E. K. Warrington, Neuropsicologia cognitiva, Milano, Cortina, 1992; Brodini M., Le difficoltà di apprendimento, Tirrenia, Edizioni del Cerro, 1998; Zan R., Difficoltà in matematica, Milano, Springer, 2007.

M. Pellerey

DISCERNIMENTO Termine proprio della teologia biblica e spirituale (dal lat. dis-cerno: ponderare, separare, decidere), ma che indica un’esperienza tipicamente umana. 1. Il d. è una riflessione critica sull’essere e agire umani culminante in una decisione. Punto di riferimento del d. sono le convinzioni e gli ideali personali; suo oggetto sono azioni e motivazioni, atteggiamenti mentali e affettivi (consci e inconsci) dell’individuo di fronte a situazioni problematiche e provocanti, dinanzi a se stessi, agli altri e a Dio, circa la propria vita. Si tratta di un’operazione complessa, non spontanea; articolata, non immediata; individuale o comunitaria, ma sempre aperta al confronto. Per questo è necessaria un’educazione al d., specie in prospettiva vocazionale. 2. Tale educazione comporta l’attenzione ad alcune operazioni tipiche del modello operativo dell’intelligenza e del processo decisionale (Lonergan, 1975): a) Percezione esperienziale: è il momento della raccolta dei dati, e dunque anche della formazione all’attenzione, per poter percepire quanto, in sé e fuori di sé, è connesso con l’oggetto del d. (attrazioni, repulsioni, memoria affettiva, segni dei tempi ecc). b) Comprensione intuitiva: in questa fase avviene un’interpretazione immediata e istintiva dei dati d’esperienza, gestita in buona parte dall’emozione; se ad essa facesse seguito l’azione, sarebbe un’azione impulsiva, che non tiene granché conto del reale né dell’ideale. Sarà necessario, allora, educare a tener sotto controllo quest’emozione e, in genere, quelle emozioni legate alle proprie inconsistenze che tendono a ridurre il campo percettivo-interpretativo condizionando il d. c) Giudizio: l’intuizione emotiva è valutata alla luce dei valori; s’estende così lo spazio ideale e s’arricchiscono i criteri 333

DISCIPLINA

in base a cui giudicare ciò che è bene per il soggetto. Tale fase è gestita soprattutto dalla mente pensante, ma progressivamente anche il cuore dovrebbe lasciarsi attrarre dalla bellezza e verità del bene. Si tratterà proprio di educare l’emozione a questo tipo d’attrazione libera e liberante. d) Decisione: il momento di decidersi giunge, idealmente, quando giudizio riflessivo ed emozione del cuore convergono. Ne deriverà un’azione tipicamente umana perché espressione d’una partecipazione «totale» di cuore, mente, volontà. Si tratta di un d. che, nel caso del credente, diviene coraggio di scegliere «ciò che è buono, a Dio gradito e perfetto» (Rm 12,2). Bibl.: Lonergan B., Il metodo in teologia, Brescia, Queriniana, 1975; Rulla L. M., The discernment of spirits and Christian anthropology, in «Gregorianum» 59 (1978) 537-569; Rupnik M. I., Il d., 1: verso il gusto di Dio, Roma, Lipa, 2001; Id., Il d., 2: come rimanere in Cristo, Ibid, 2002; M artini C. M., Il conflitto di interpretazioni nel d., in «Tre Dimensioni» 2 (2006) 124-129; O’ Leary B., Pietro Favre e il d. spirituale, Roma, AdP, 2006.

A. Cencini

DISCIPLINA Si può dire che la polisemicità del termine, come rilevò già → Comenio, è presente nelle sue origini e uso latini (disciplina: istruzione-ammaestramento, metodo-arte, materia scolastica). Oltre a quello di specifico ambito scientifico, in pedagogia i significati più comuni sono quello di materia scolastica (→ discipline), di insieme di mezzi, norme e metodi cui adeguarsi per raggiungere determinati obiettivi, e, come effetto del precedente, quello di modo di comportarsi, secondo regole imposte o accettate. 1. Qui interessano gli ultimi due, prevalenti nelle lingue straniere; storicamente (prescindendo dal significato ascetico di penitenza corporale) il concetto di d. è stato collegato, in particolare, alla vita scolastica, che richiedeva, con frequenza, il ricorso a → premi e → castighi, regolati, più recentemente, da disposizioni di legge, per ottenere o mantenere coattivamente un ordine esterno, con cui, 334

spesso, la si è identificata. Si può dunque parlare di un suo versante oggettivo, nel primo dei due sensi in questione (meno interessante educativamente), e di uno soggettivo, nell’altro. Sotto il profilo pedagogico, un’attenzione alla d. è presente fin dall’antichità presso gli autori più significativi, in un senso che privilegia le modalità da seguire, da parte degli educatori, per raggiungere determinati obiettivi, non limitati all’apprendere, ma da estendere prioritariamente al campo morale, in cui si colloca il significato soggettivo della d., che così fuoriesce dagli angusti confini della scuola. Fine della d. non è dunque un ordine esterno, per lo più imposto, bensì un perfezionamento del soggetto. In questa linea, più e meno esplicitamente, si sono mossi i classici della pedagogia, da Comenio, che alla d. dà molta attenzione, a → Locke, a → Herbart, alle → Scuole Nuove e ai pedagogisti contemporanei. Nessuno di loro tralascia l’istanza di un ordine esterno, ma non lo enfatizzano e, comunque, lo iscrivono, almeno a partire dal sec. XIX, all’interno del rapporto tra → autorità e → libertà, inteso in senso ampio, anche sociale e familiare, proprio per preservarne l’educatività. 2. Nel discorso sulla d. vanno richiamate le differenze di ruolo dei protagonisti (educatore, educando, ambiente) in rapporto ai due sensi suindicati e le principali letture che, dell’uno o dell’altro, sono state fatte. Anzitutto i mezzi, i metodi e norme, la dimensione oggettiva della d., sono scelti e decisi solitamente, dall’autorità, che, a volte, si identifica con l’educatore, a volte con governanti (donde le conseguenze giuridiche) o, infine, con tradizioni e costumi locali. In questi casi per l’educando, il tutto sa di imposizione e, facilmente, dà luogo a un rigetto. Quanto all’aspetto soggettivo, cioè al modo di comportarsi, esso dipende, solidalmente, sia dall’autorità che dalla libertà. Dalla prima, perché vi influisce più e meno pesantemente (con le paure che può ingenerare, con l’imposizione, con l’esempio, con ragionamenti...); dalla seconda, in quanto l’interiorizzazione o meno delle norme è una scelta del soggetto, in base a motivazioni. Questi richiami, sul piano dell’ educazione, fanno spazio ad altre due letture del fenomeno d., oltre a quella pedagogica: la psicologica e la sociologica. a) La lettura psicologica, che intende inter-

DISCIPLINE

pretarne il senso soprattutto in rapporto al soggetto-educando, è molteplice e variegata, secondo le differenti scuole psicologiche. Quelle di taglio psicoanalitico, specie freudiano, danno una lettura della d. piuttosto negativa, in quanto considerata come ordine esterno, sia pure interiorizzato. Quelle, invece, di tipo umanistico o analoghe, sono più ben disposte verso la d., almeno nel caso di un’assimilazione soggettivamente voluta, tenuto conto di una previa valutazione dei contenuti. b) La lettura sociologica, a sua volta, è pure differenziata secondo le scuole e gli orientamenti di fondo delle singole posizioni: da coloro che esaltano il ruolo delle società, tanto da vedere il singolo strettamente dipendente e come costretto da quelle (N. Elias, per es.); a coloro che, enfatizzando la funzione sociale della stessa educazione, vedono nella d. il «primo elemento della moralità», pur senza trascurarne la valenza e funzione sociale (→ Durkheim, per es.).

Vico G., Educazione morale e pedagogia attivistica, Milano, Vita e Pensiero, 1983; Scurati C. (Ed.), La d. nella scuola. Problemi e prospettive, Brescia, La Scuola, 1987.

3. Per concludere ancora in chiave pedagogica, è utile un richiamo alla gradualità della d., nelle sue manifestazioni, come nella sua acquisizione, e all’esercizio. Sotto il profilo operativo sono da privilegiare l’osservazione, l’esempio e l’imitazione, il tentativo e la sua ripetizione, la responsabilizzazione, la motivazione, il controllo (esterno e personale) e la correzione. Alla d. va fatto ricorso con sensibilità e criterio, secondo i momenti, i soggetti e le circostanze, cercando di superare l’insensata contrapposizione tra il permissivismo e l’autoritarismo, che pure, nel corso della storia, hanno avuto rappresentanti e sostenitori risoluti, ancora nel sec. scorso.

1. La trasposizione didattica. È il processo di trasformazione operato da e in una isti­ tuzione che porta dai contenuti del sapere di riferimento, ad es. il sapere matematico, ai contenuti del sapere da insegnare, ad es. i programmi scolastici di → matematica, e da questi ai contenuti effettivamente inse­gnati, ad es. la → programmazione didatti­ca di un corso di matematica. Il primo pas­saggio avviene in Italia in seno al Ministero della Pubblica Istruzione quando, attraver­so il lavoro di commissioni ministeriali co­stituite a questo scopo, vengono definiti i contenuti di insegnamento per i vari ordini e gradi scolastici e la loro organizzazione interna. Dal confronto tra le posizioni degli specialisti universitari, depositari del sape­re di riferimento, e quelle dei rappresen­tanti dell’istituzione scolastica (ispettori scolastici, presidi, direttori, insegnanti), vengono definiti in concreto le d. da inse­g nare e i loro contenuti. Il secondo pas­saggio avviene in seno alla singola scuola su proposta dei docenti delle varie d. ed è convalidato dal Collegio dei docenti. Si tratta di quella che è definita programma­zione didattica. Sulla base dei → program­mi scolastici ufficiali viene elaborato il pia­no di lavoro per l’anno scolastico in corso, selezionando e ordinando nella loro suc­cessione temporale i differenti contenuti, identificando gli obiettivi da raggiungere, i

Bibl.: a) Classici: Herbart J. F., Pedagogia generale derivata dal fine dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1997; Id., Compendio di lezioni di pedagogia, Roma, Armando 1971; Komensky (Comenio) J. A., Novissima linguarum methodus, in Id., Opera omnia, vol. 15-II, Praga, Academia, 1989; I d., Grande didattica, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993. b) Studi: Seccet-R iou F., La discipline et l’éducation. Du dressage à l’autonomie, Paris, Bourrellier, 1946; Durkheim É., L’éducation morale, Paris, PUF, 1963; Chamberlin L. J., Discipline: the managerial approach, St. Louis, Torchlite, 1980; Elias N., La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1982;

B. A. Bellerate

DISCIPLINE Contenuti di insegnamento organizzati sul­la base dei campi di sapere di riferimento tenendo conto del livello scolastico e di maturità culturale dei destinatari. Letteral­mente d. evoca i termini lat. disco (impa­ro) e discipulus (uno che impara, prende da un altro); ma l’uso fa riferimento anche al­lo sviluppo di capacità di gestione del pen­siero, dell’ → apprendimento in determina­ti campi del sapere e persino di padronan­za del comportamento, della condotta mo­rale e della vita personale.

335

DISCIPLINE

metodi di insegnamento e i modi di → valu­ tazione. Si ha, infine, un ulteriore passaggio: il docente predispone situazioni didattiche concrete in cui gli al­lievi possano acquisire in maniera signifi­cativa e stabile le conoscenze proposte. Questa trasformazione è stata talora definita un’opera di «ingegneria didattica». D’altro canto, nell’attuazione del progetto di → lezione o di unità d’apprendimento entrano in gioco altri fattori trasformativi, come il sistema di relazioni interpersonali instaurato, il clima e l’ordine presente nel­la classe, lo stato motivazionale dell’inse­ gnante e degli allievi. 2. La vigilanza epistemologica. La trasposi­ zione didattica implica una trasformazione del sapere che comporta una sua istituzio­ nalizzazione. Si tratta di un’operazione squisitamente «politica»: di qui il problema della sua legittimazione. In altre parole il sapere di riferimento subisce una duplice modificazione che può provocare un allon­tanamento non indifferente dal suo status epistemologico. Per evitare che questo por­ti a un suo travisamento occorre che a tutti i livelli venga messa in atto una costante vi­gilanza epistemologica, cioè un’azione con­tinua di controllo della correttezza e so­stanziale conformità di quanto proposto per l’insegnamento e di quanto elaborato dalla comunità scientifica. Ciò indica però anche l’apparizione sistematica di uno scar­to tra sapere insegnato e i riferimenti cultu­rali che lo legittimano, scarto dovuto ai vin­coli che pesano sul funzionamento di un si­stema di insegnamento (Arsac, 1992). 3. La struttura delle d. J. S. Bruner (1964, 1971) ha proposto un’idea di → curricolo basato sulle strutture portanti delle varie d. Il curriculum di una d. dovrebbe essere de­ terminato dalla più essenziale comprensio­ne possibile dei princìpi basilari che sor­reggono la d. stessa. Ogni contenuto ha poi una sua struttura, coerenza, bellezza. Que­sta struttura è ciò che conferisce all’ar­gomento la sua fondamentale semplicità, ed è apprendendo la sua natura che riu­sciamo ad afferrare il significato essenziale dell’argomento stesso. La struttura di una d., d’altra parte, è data dai suoi concetti chiave e dai suoi princìpi organizzatori, che, come tali, permettono d’inquadrare i vari dati dell’esperienza e le varie cono­scenze in un quadro organico. In 336

realtà so­no proprio tali concetti e tali princìpi che consentono da una parte la comprensione della materia scolastica, dall’altra una sua ulteriore espansione. Inoltre sta proprio nell’acquisizione più per strutture, che per elementi isolati, la radice della possibilità di un’efficace ritenzione e di un valido transfer. Il concetto di struttura è stato vi­sto da Bruner anche come organizzazione cognitiva, come mezzo per andare oltre l’informazione, per ritenere i dati nella me­moria e per trasferire abilità apprese a si­t uazioni nuove: è il principio secondo cui si apprende, si ritiene e si generalizza meglio il materiale che presenta un’organizza­zione interna. Da tutto questo deriva che le d. possono e debbono essere considerate come insiemi strutturati di conoscenze, abi­lità che possiedono al loro interno, e anche in riferimento alla realtà esterna, sistemi di relazioni e di connessioni; questi insiemi strutturati formano le d. o campi di conoscenza. Tuttavia, occorre evitare di consi­derare questi insiemi come architetture statiche e cristallizzate. Di ogni insieme di concetti e di abilità può essere fornita più di una organizzazione sistematica, anche in settori che sembrano i più refrattari a que­sto pluralismo, come la matematica. Inol­t re ogni campo della conoscenza è un orga­nismo vivo e vitale, che cresce sia a causa di nuove conquiste, sia mediante una più profonda autocomprensione, cioè coglien­do meglio la propria identità. In una pro­spettiva sociologica si potrebbe affermare anche che le d. sono in realtà i gruppi di studiosi che si dedicano alla ricerca e alla sistemazione culturale in quei particolari settori. Bibl.: Bruner J. S., Dopo Dewey. Il processo di ap­prendimento nelle due culture, Roma, Armando, 1964; I d., Verso una teoria dell’istruzione, Ibid., 1971; Ausubel D. P., Educazione e pro­cessi cognitivi, Milano, Angeli, 1978; A rsac G., L’évolution d’une théorie en didactique: l’exemple de la transposition didactique, in «Recherches en Didactique des Mathématiques» 12 (1992) 1, 7-32; Damiano E., L’azione didattica: per una teoria del­l’insegnamento, Roma, Armando, 1993; Pellerey M., Progettazione didattica, Torino, SEI, 2 1994; Gardner H., Sapere per comprendere. D. di studio e d. della mente, Milano, Feltrinelli, 2001; Monasta A., Organizzazione del sapere, d. e competenze, Milano, Carocci, 2002.

M. Pellerey

DISCUSSIONE

DISCRIMINAZIONE → Diritto all’educazione

DISCUSSIONE La d. come mezzo per chiarificare un contenuto o manifestare le proprie opinioni ha trovato un’accoglienza in tutte le società con ideali democratici e pluralistici. 1. Gli obiettivi educativi della d. Gli obiettivi di un metodo d’insegnamento come la d. sono essenzialmente tre: a) rafforzare l’apprendimento; b) promuovere le abilità sociali necessarie per vivere in una società democratica; c) lo sviluppo del giudizio etico. Le ragioni dell’efficacia della d. dipendono dal fatto che si tratta di una situazione che comporta l’uso e il ricupero delle conoscenze previe, il possesso della terminologia, la capacità di sintesi e l’organizzazione macrosemantica dei contenuti, la capacità di stabilire connessioni tra conoscenze interne ai contenuti e tra queste e altre conoscenze esterne già possedute. La d. può anche esigere creatività o pensiero critico; in essa inoltre può essere necessario o stimolante vedere le conseguenze che possono derivare da certi principi o da certe assunzioni, oppure trovarvi applicazioni. In altri casi la d. può essere portata a cercare le assunzioni, i limiti e il confronto critico con altri valori, con altre assunzioni, con le ragioni che provano certe affermazioni, ecc. Oltre a migliorare le abilità cognitive, la d. può essere vista anche come procedimento valido a favorire lo sviluppo e l’integrazione del processo di → socializzazione delle generazioni più giovani. Sono molti oggi a ritenere che alla scuola non spetti più promuovere solo la componente cognitiva della personalità dei giovani, ma che ad essa debba essere affidato anche il compito di favorire la componente socio-relazionale per un inserimento significativo nella società attuale. Gli studenti sono educati al confronto delle idee senza paura o pregiudizi, alla dinamica dell’ascolto attivo degli altri, alla ricerca di soluzioni positive ai conflitti, ad apprezzare il contenuto logico di un’idea invece di avere un attaccamento cieco ed emozionale alle proprie «idee», ad assumere ruoli diversi. Un altro obiettivo significativo del metodo della d. è lo sviluppo del giudizio etico.

Generalmente si ritiene che gli anni dell’ → adolescenza e della giovinezza siano particolarmente critici per lo sviluppo del ragionamento etico nei → giovani. È questo infatti il periodo in cui essi cercano il senso e il valore delle cose e delle azioni, del pensiero e della vita, nel tentativo di dare un orientamento alla loro esistenza e un fondamento alle loro scelte. Nella d. su valori e orientamenti di vita è possibile giungere ad una valutazione critica dell’attendibilità o della profondità umana e sociale di atteggiamenti, comportamenti e scelte. 2. Lo svolgimento della d. Nella fase di preparazione della d. l’insegnante deve mettere in atto alcune «regole del gioco»: delimitare opportunamente l’argomento, tenere presenti alcune informazioni previe che possono essere molto utili, pianificare e classificare gli obiettivi del confronto, osservare che i partecipanti abbiano un minimo di abilità sociali e comunicative. Nella fase di svolgimento egli deve prestare attenzione a tre tipi d’interazioni tra i partecipanti che possono dar origine a tre forme o tipo di conduzione. Nella d. diretta dall’insegnante, è l’insegnante il punto di riferimento. La d., fortemente controllata da lui, segue lo stile di domandarisposta. Nella d. centrata sul gruppo, ognuno si esprime liberamente con spirito di cooperazione e apprezzamento e con domande aperte. Qui l’insegnante resta fuori dal confronto ed è soltanto un osservatore. Nella d. collaborativa, il compito da realizzare costituisce l’obiettivo principale del gruppo. Tutti, compreso l’insegnante che si fa membro del gruppo, partecipano responsabilmente per trovare le soluzioni migliori ai problemi. Come nella fase iniziale della d. si definiscono gli orientamenti e i limiti entro i quali essa dovrà essere affrontata e svolta, così al termine si devono raccogliere in una sintesi i punti chiave generali. Il momento successivo alla d. costituisce la fase finale. Ogni d. deve essere rivista e valutata e il processo di valutazione deve essere considerato parte integrante della procedura. Il metodo della d. non è di difficile applicazione se l’insegnante saprà programmare uno sviluppo delle proprie competenze e di quelle degli allievi. Si richiede, però, l’obiettivo di risultati migliori da parte degli studenti, accompagnato da un atteggiamento riflessivo che aiuta a misurare 337

DISEGNO DELLE RICERCHE

continuamente la sua efficacia attraverso una costante valutazione. Bibl.: Wilen W. W. (Ed.), Teaching and learning through discussion. The theory, research and practice of the discussion method, Springfield, Charles Thomas, 1990; Dillon J. T., Using discussion in classrooms, Buckingham, Open University Press, 1994; R abow J. et al., Learning through discussion, Thousand Oaks, Sage, 3 1994.

M. Comoglio

DISEGNO DELLE RICERCHE Progetto che definisce i campioni inclusi nella ricerca, le modalità di controllo e di misurazione delle variabili studiate e degli effetti, l’assegnazione dei trattamenti. Il d.d.r. si può definire come la schematizzazione del ragionamento in cui si formalizza l’indagine scientifica su un problema. Ad es., un ragionamento quale: «il rapporto tra la variabile dipendente y e le due variabili indipendenti x1 e x2 è una funzione lineare della somma tra una costante b 0, l’effetto della variabile indipendente x1 con peso b1 e l’effetto della variabile x2 con peso b2, più un insieme di fluttuazioni e dovute a errori casuali», si può sintetizzare in: y = b0 +b1x1 + b2x2 + e. 1. Fasi della ricerca. Il momento iniziale della ricerca empirica solitamente è una ricerca sulla letteratura scientifica pertinente, che induce a focalizzare gli obiettivi della ricerca, a formulare ipotesi in termini operativi che ne consentano la verifica o la falsificazione, a identificare gli strumenti di misura più validi per il progetto. Segue la descrizione accurata delle variabili oggetto di studio, sia in riferimento a teorie sia in riferimento agli indicatori empirici su cui si baseranno le misurazioni. A questo punto può essere delineato il d.d.r., in rapporto a cui viene definito anche il d. della campionatura e sono scelti gli strumenti di misura e i test statistici appropriati. 2. Controllo della variabile sperimentale. Il d.d.r. controlla la variabile sperimentale per: a) ridurre l’effetto della «varianza erronea», 338

cioè dell’insieme degli effetti imputabili al caso; b) escludere l’effetto di variabili importanti che possano interferire con la variabile studiata, distorcendo il significato dei risultati. Le decisioni sul grado e le modalità del controllo sono fondamentali. Il massimo controllo si ha negli esperimenti di laboratorio, in cui si esplicitano tutti i possibili aspetti della relazione fra x e y, incluso l’influsso del ricercatore. In questo caso è massima la «validità interna» del d., ma viene meno la «validità esterna», cioè la possibilità di generalizzare i risultati estendendoli a situazioni della vita reale. Nelle «ricerche sul campo» il controllo sulla validità interna è minimo, perché il ricercatore non può modificare la maggior parte dei fattori che influiscono sulla variabile sperimentale. È però massima la possibilità di generalizzare i risultati a situazioni analoghe di vita reale, e quindi è maggiore la «validità esterna». 3. Tipologia dei d.d.r. Per le → scienze dell’educazione sono particolarmente rilevanti le contrapposizioni fra d. che mirano prevalentemente a: a) ridurre la variabilità erronea («rumore di disturbo») o, viceversa, ad aumentare il «volume» dell’informazione, incrementando il numero dei casi esaminati; b) controllare la validità interna garantendo il rigore della connessione ipotesi-risultati o, viceversa, controllare la validità esterna privilegiando la generalizzabilità; c) esaminare simultaneamente più campioni (d. «trasversali»), guadagnando tempo, o viceversa sottoporre lo stesso campione a misurazioni ripetute a distanza di tempo (d. «longitudinali»), guadagnando predittività; d) verificare o falsificare ipotesi rigorosamente formulate, o viceversa privilegiare funzioni prevalentemente esplorative (ricerche descrittive e surveys); in quest’ultima categoria si possono includere i modelli di «ricerca-azione», che mirano prevalentemente alla messa a punto di modelli operativi. Bibl.: K erlinger F. N., Foundations of behavioral research, New York, Holt, 21973: Ercolani A. P. - L. M annetti - A. A reni, La ricerca in psicologia, Roma, NIS, 1990; Luccio R., Ricerca e analisi dei dati in psicologia, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 1996; McBurney D. H., Metodologia della ricerca in psicologia, Ibid., 32001; Nigro G., Metodi di ricerca in psicologia, Roma, Caroc-

DISEGNO SPERIMENTALE

ci, 2001; Di Nuovo S., Fare ricerca. Introduzione alla metodologia per le scienze sociali, Acireale/ Roma, Bonanno, 2003.

L. Boncori

DISEGNO INFANTILE I primi studi sul d. libero dei bambini risalgono alla fine dell’Ottocento e inizio del Novecento. In questo periodo, si distinguono i contributi di C. Ricci (1887), di K. Lamprecht (1905), di → Claparède (1907), di G. Rouma (1912) e di G. H. Luquet(1913). 1. Le tappe di sviluppo del d.i. appaiono essere sorprendentemente costanti e riscontrabili in tutte le varie culture. Verso i due anni il bambino inizia a comprendere che la matita può essere uno strumento di espressione di sé. Dopo i primi tracciati, che appaiono piuttosto automatici anche se già differenziati da bambino a bambino, emerge la capacità di scegliere un punto e, partendo da questo, seguire una direzione con un andamento a spirale. Successivamente vengono disegnate delle forme chiuse più o meno circolari, con un intento in qualche modo rappresentativo sia dei propri vissuti personali che degli oggetti. Verso i tre anni il bambino incomincia a fare d. più o meno riconoscibili come una persona ( fase del cefalopode), in cui lo schema umano è costituito da un cerchio, da cui emergono direttamente le gambe. Segue una fase nella quale allo schema precedente viene aggiunto un altro cerchio considerato come il tronco. Dopo i quattro anni il bambino giunge alla rappresentazione completa della persona in posizione frontale con aggiunta progressiva di particolari del corpo. Verso i sei anni, per indicare il movimento, la figura umana viene rappresentata anche di profilo. 2. I numerosi studi sul d.i. sono unanimemente giunti alla conclusione che il bambino attraverso di esso esprime il suo mondo interiore (sentimenti, desideri, ansie, conflitti, relazioni). In altri termini, proietta in qualche modo la sua storia di vita. Per questo motivo, è considerato come uno strumento privilegiato per la diagnosi. Ma il d., oltre che essere un mezzo diagnostico, si dimostra

utile anche sul piano psicoterapeutico. Tenuto conto della difficoltà da parte del bambino di verbalizzare le proprie emozioni, è infatti molto proficuo nell’ambito del trattamento psicoterapeutico ricorrere, oltre che all’attività ludica, anche a quella grafica. Sono da segnalare in questo campo i contributi di → Klein, di A. → Freud e di → Winnicott. Bibl.: Winnicott D.W., Colloqui terapeutici con i bambini, Roma, Armando, 1974; Medioli Cavara F., Il d. nell’età evolutiva. Esercitazioni psicodiagnostiche, Torino, Bollati Boringhieri, 1986; Balconi M. - G. Del Carlo Giannini, Il d. e la psicoanalisi infantile, Milano, Cortina, 1987; Pizzo Russo L., Il d.: Storia, teoria, pratiche, Palermo, Aesthetica, 1988; M alchiodi C. A., Capire i d.i., Torino, Centro Scientifico, 2000; Quaglia R. et al., Il d.i., Torino, UTET, 2001; Golomb C., L’arte dei bambini. Contesti culturali e teorie psicologiche, Milano, Cortina, 2004; Avalle V., Il d. del bimbo. Un linguaggio universale per seguire il suo sviluppo intellettivo, Ivrea, Hever, 2004; Castellazzi V. L., Il test del d. della famiglia, Roma, LAS, 2006; Id., Il test del. d. della figura umana, Ibid., 2007.

V. L. Castellazzi

DISEGNO SPERIMENTALE Progetto che definisce i criteri di scelta dei soggetti, le modalità del trattamento sperimentale, i procedimenti di somministrazione del trattamento sperimentale e i metodi di misura e di analisi statistica usati nell’esperimento. 1. Il d.s. è un caso particolare di → d. della ricerca. Come quello, si può definire come la schematizzazione del ragionamento in cui si formalizza l’indagine scientifica su un problema. Gli esperimenti, nell’ambito delle «scienze umane», si propongono di descrivere l’effetto di «trattamenti» sperimentali (un metodo d’insegnamento, l’assunzione di un farmaco, la quantità di tempo d’esercizio, ecc.) su una qualche caratteristica di una determinata popolazione, oppure di verificare o falsificare ipotesi su tale effetto. Lo scopo principale del d.s. è evidenziare le relazioni tra variabili indipendenti e variabile dipendente, riducendo al minimo il «rumore» co339

DISGRAFIA

stituito dalla varianza erronea, ossia dall’effetto imputabile al caso. L’entità degli influssi casuali viene stimata in base alla varianza delle differenze tra individui: se questi non sono stati estratti a caso dalla popolazione che si vuole studiare (garanzia di «validità esterna» e quindi di generalizzabilità) e se non sono stati assegnati a caso ai vari trattamenti (garanzia di «validità interna» e quindi di non distorsione degli effetti), viene meno il termine di confronto su cui basa tutta la logica del d.s. I dati solitamente sono elaborati mediante analisi della varianza, più raramente con riferimento a modelli lineari, peraltro interpretabili anche in termini di analisi della varianza. 2. I d.s. fondamentali sono: a) d. casualizzati semplici: si estraggono più campioni casuali dalla stessa popolazione e a ciascun campione si somministra un trattamento diverso; b) «trattamenti per livelli»: dopo aver appaiato i soggetti con riferimento a una variabile di controllo (per es.: età) da ciascuno dei «livelli» vengono estratti tanti campioni quanti sono i trattamenti da somministrare; c) «trattamenti per soggetti»: tutti i trattamenti sono somministrati a tutti i soggetti successivamente, in ordine casuale; d) d. fattoriali: si confrontano gli effetti e le interazioni di due o più variabili sperimentali (nulla a che vedere con il metodo dell’analisi fattoriale); e) d. basati su «blocchi»: ogni trattamento è somministrato a un campione casuale di «blocchi» (per es. di classi scolastiche); ogni soggetto viene assegnato a un blocco secondo un preciso schema di casualizzazione, il più noto dei quali è il «quadrato latino», in cui ogni trattamento ricorre solo una volta per ogni blocco e solo una volta per ogni soggetto. Se i trattamenti confrontati sono più di due, l’analisi della varianza che include tutti gli elementi dell’esperimento può essere seguita da uno o più test «post hoc» in cui i trattamenti vengono confrontati due a due. I d.s., come in genere i d. di ricerca, possono essere attuati con un approccio trasversale (campioni diversi esaminati simultaneamente) o longitudinale («prove ripetute»). Bibl.: Lindquist E. F., Design and analysis of experiments in psychology and education, Boston, Houghton Mifflin, 1953; Cochran W. G. - G. M. Cox, Experimental designs, New York, John

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Wiley & Sons, 21957; Mendenhall W., Introduction to linear models and the design and analysis of experiments, Belmont, Duxbury Press, 1968; K erlinger F. N., Foundations of behavioral research, New York, Holt, 21973; Luccio R., Ricerca e analisi dei dati in psicologia, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 1996.

L. Boncori

DISGRAFIA Disturbo dell’apprendimento nelle abilità di scrittura. Esso è spesso associato a forme di → dislessia. Più specificatamente si parla di d. quando si evidenziano difficoltà a riprodurre i segni alfabetici e numerici. In questo caso è coinvolto prevalentemente il grafismo dell’alunno, anche se si hanno conseguenze sulla difficoltà a seguire regole ortografiche e grammaticali. La diagnosi e la terapia conseguente prendono in considerazione le difficoltà di natura percettiva e di organizzazione spaziale e temporale, la lateralità e l’orientamento destra-sinistra, la rappresentazione dello → schema corporeo, la coordinazione motoria e la → memoria. Bibl.: Cornoldi C. (Ed.), I disturbi dell’apprendimento, Bologna, Il Mulino, 1991; R eid D. K. - W. P. Hresko - H. L. Swanson, A cognitive approach to learning disabilities, Austin, Pro-Ed, 2 1991; Mc-Carthy R. A. - E. K. Warrington, Neuropsicologia cognitiva, Milano, Cortina, 1992; Pratelli M., D. e recupero delle difficoltà grafo-motorie, Trento, Erickson, 1994; Brodini M., Le difficoltà di apprendimento, Tirrenia, Edizioni del Cerro, 1998; Basagli C. (Ed.), La d. senza dislessia. Dalla diagnosi alla riabilitazione, Ibid., 2007.

M. Pellerey

DISLESSIA Disturbo o difficoltà permanente nell’apprendimento delle abilità di lettura. Esso può consistere: a) in una d. fonologica, nella difficoltà cioè di collegare fonemi a lettere, anche se si è in grado di leggere parole familiari (d. superficiale); b) in una d. di origine visiva, che si manifesta nella difficoltà a riconosce-

DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

re correttamente le lettere di una parola; c) in una lettura senza significato, che si evidenzia in una capacità di lettura ad alta voce senza saper cogliere il significato di quello che si legge. 1. In ambito neuropsicologico si distingue tra d. acquisita e d. evolutiva e tra d. superficiale e d. profonda. La d. acquisita, come dice il nome, si riferisce a una difficoltà di lettura che interviene successivamente a uno sviluppo normale di tale capacità a causa di un trauma, di una emorragia o di un intervento chirurgico al cervello. La d. evolutiva, invece, emerge nel corso della crescita del soggetto, in genere quando egli apprende a scuola le tecniche di lettura. La d. superficiale si riferisce alla difficoltà di collegamento tra fonemi e grafemi, mentre quella profonda concerne la capacità stessa di riconoscere le parole e di collegarle al loro significato. 2. Le cause della d. sono state attribuite a vari fattori. Alcune correnti psicologiche la fanno risalire a disturbi emozionali legati alle relazioni interpersonali famigliari; altre, a disturbi nell’evoluzione biologica o a un minimo danno cerebrale; altre ancora, a mal funzionamento dei processi cognitivi. Da queste diverse interpretazioni della causa della d. derivano anche differenti indicazioni terapeutiche. Occorre però ricordare come gran parte dei soggetti che nel corso dei primi anni della scuola elementare manifestano forme di d. evolutiva superi tale disturbo negli anni scolastici seguenti. Gli studi sulle d. acquisite a seguito di lesioni cerebrali, dovute a incidenti, ictus o altro, forniscono indicazioni utili per interpretare i differenti fenomeni di d. registrati. Questo è un campo di indagine privilegiato degli studi di neuropsicologia cognitiva. Bibl.: Jadoulle A., Apprendimento della lettura e d., Roma, Armando, 1978; Boltanski E., Dyslexie et dyslatéralité, Paris, PUF, 1982; Sartori G., La lettura: processi normali e d., Bologna, Il Mulino, 1984; Cornoldi C. (Ed.), I disturbi dell’apprendimento, Ibid., 1991; R eid D. K. - W. P. Hresko - H. L. Swanson, A cognitive approach to learning disabilities, Austin, Pro-Ed., 21991; Ellis A. W., Lettura, scrittura e d., Torino, SEI, 1992; Leddomade B., La d., problema relazionale, Roma, Armando, 1992; McCarthy R. A. - E.

K. Warrington, Neuropsicologia cognitiva, Milano, Cortina, 1992; Stella G., D., Bologna, Il Mulino, 2004; Trisciuzzi L. - T . Zappaterra, La d. Una didattica speciale per le difficoltà nella lettura, Milano, Guerini, 2005.

M. Pellerey

DISOCCUPAZIONE GIOVANILE Limitando l’area di osservazione alle di­ mensioni europee della d.g., si rileva un primo elemento quantitativo diversifican­te: l’incidenza della d. di coloro che hanno meno di 25 anni e la portata dei suoi pro­blemi variano notevolmente tra gli Stati membri della Unione Europea. «Il problema è particolarmente sentito in Italia, do­ve, nel maggio 1994, oltre la metà dei di­soccupati era al di sotto dei 25 anni, anche se tale cifra risultava considerevolmente inferiore a quella registrata nel 1985, quan­do superava il 60%» (Commissione euro­pea, 1994, 147). 1. Al di là di adeguate precisazioni sulle variazioni quantitative del fenomeno (decremento del tasso di natalità, per­manenza prolungata o parcheggio nei si­stemi formativi) e sulle indiscusse caratte­r istiche strutturali del medesimo, occorre rilevare come si sia attualmente più attenti a collegare le analisi economiche a quelle sociali e, per quanto attiene la d.g., alle situazioni pro­blematiche della transizione dei → giovani alla vita attiva. Le categorie dei giovani dai 15 ai 29 anni, nella crisi strutturale dell’oc­cupazione delle società industrializzate, vi­vono infatti esperienze personali diversi­ficate per condizionamenti oggettivi e sog­gettivi, a cui si sommano spesso i ritardi e i limiti degli interventi istituzionali rivolti a discriminare positivamente le categorie svantaggiate culturalmente, socialmente, economicamente (giovani del Sud, ragazze, emigranti, disadattati, drop-out...). 2. Nei Paesi del Nord Europa, come nel ca­so della Francia, le conclusioni di recenti indagini sulla situazione dei giovani di­soccupati individuano due modelli estremi di precarietà giovanile. Il primo, riferito a giovani che si presentano sul mercato del lavoro con il solo titolo del­la scolarità dell’obbligo, 341

DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

si caratterizza per una situazione di «differimento subito» della tradizionale istantaneità e contem­poraneità del reperimento di un’occupa­z ione-matrimonio-autonomia dalla fami­glia di origine. Un secondo modello, tipico dei giovani che dispongono di un titolo di livello secondario generico o con profes­sionalità limitata, rivela situazioni di «istituzionalizzazione della precarietà», che potrebbero instaurare un processo di fissa­ zione o di regresso rispetto al responsabile inserimento nella vita adulta. 3. Nei Paesi del Sud Europa le ricerche rilevano situazioni più diversificate, da cui non sono estranei i modelli culturali interioriz­ zati dai giovani durante il positivo o nega­ tivo percorso scolastico-formativo, la con­ figurazione del mercato locale del lavoro, l’incidenza degli interventi normativi e le­ gislativi rapportati a particolari situazioni di ragazze e ragazzi svantaggiati. Rispetto al ruolo del sistema scolastico, la sesta in­ dagine Isfol sui «percorsi giovanili di stu­ dio e lavoro» conferma i risultati di varie ricerche rilevando come il sistema scolasti­ co italiano, in tutte le sue articolazioni, ten­ de a sovradimensionare le aspettative di inserimento-successo-soddisfazione profes­ sionale dei giovani, accanto ad un servizio insufficiente di orientamento, nonché ad un processo di selezione a più stadi di tipo non solo meritocratico, ma determinato dall’ambiente sociale e culturale di appar­tenenza, al quale si accompagna, però, una certa nuova tendenza dei giovani ad effet­t uare scelte formative in funzione (o in vi­sta) di un dato progetto o obiettivo profes­sionale, anche se realizzabile da una ri­stretta fascia giovanile (Isfol, 1989). 4. Quanto alla configurazione del mercato locale del lavoro, i risultati delle ricerche confermano empiricamente un ampliamento concettuale dell’occupazione/d.g., evidenziando un continuum di si­t uazioni e di ruoli assunti da un medesimo soggetto, con conseguenti forme di lavori saltuari o precari assunte perlopiù da stu­denti che cercano poco attivamente lavoro e da quanti lo cercano ma ne accettano so­lo di un certo tipo, rifiutando ogni altra op­portunità (Zucchetti, 1991). 5. Infine, nel raffronto tra le iniziative legi­ 342

slative e le politiche dell’Unione Europea – più orientate a sostenere e qualificare l’ap­ prendistato (→ formazione professionale), i contratti a tempo parziale, i contratti for­ mazione/lavoro si constata in Italia il prevalere della tendenza ad affidare le so­luzioni di tali problemi ad interventi setto­riali o alle dinamiche del mercato del lavo­ro sia ufficiale, sia informale o sommerso (Censis, 1987). Le prospettive di conteni­mento, più che di soluzione, del problema della d.g., soprattutto in Italia, sembrano richiedere sia interventi complessivi ed articolati, che segnino un superamento della fase dell’emergenza, sia il potenziamento di strategie di progetto. 6. Tra la fine degli anni 2000 e l’inizio del nuovo millennio si sono registrati in Italia un aumento costante dell’occupazione e una riduzione corrispondente della d. e questo per effetto della vitalità e maggiore flessibilità del sistema (Censis, 2006). A sua volta, la d.g. (gruppo di età 15-24 anni) cala dal 27, 1% del 2002 al 20, 6% del 2006; come si vede, anche se il progresso è notevole, tuttavia l’entità del fenomeno rimane sempre grave in quanto il tasso si colloca intorno a un quarto della popolazione. Il dato inoltre presenta una notevole variabilità e il problema riguarda maggiormente le femmine, il Sud e i laureati. Nel confronto con gli altri Paesi dell’Europa, se è vero che l’Italia presenta una bassissima propensione al lavoro che la svantaggia nella competizione con gli altri Stati, è anche vero che al 2005 il tasso di d. era inferiore alla media europea. Bibl.: Cavalli A., La gioventù: condizione o processo?, in «Rassegna Ita­liana di Sociologia» 21 (1980) 519-542; Censis, Rapporto sulla situazione sociale del Paese, Milano, Angeli, 1987; ISFOL, Percorsi giovanili di studio e lavoro, Ibid., 1989; Zucchetti E., Ap­proccio locale al mercato del lavoro, in «Professio­nalità» 11 (1991) 2; Commissione Europea , L’oc­c upazione in Europa 1994, Lussemburgo, Comu­n ità Europee, 1994; Minardi E., Dove va il lavoro in Italia, Faenza, Homeless Book, 1999; Censis, 40° rapporto sulla situazione sociale del Paese. 2006, Milano, Angeli, 2006.

P. Ransenigo

DISPERSIONE SCOLASTICA → Insuccesso scolastico

DIVERTIMENTO

DISPOSIZIONI: educazione delle → Atteggiamenti → Competenza DISTRETTO SCOLASTICO → Amministrazione scolastica DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO → Apprendimento DIVERSITÀ → Devianza → Differenza/Differenziazione

DIVERTIMENTO Le moderne enciclopedie definiscono ancora oggi il d. in rapporto a ciò che serve a svagare, a distrarre, a rallegrare lo spirito, a sollevare l’animo dalle cure quotidiane, dalle fatiche del lavoro, dalle preoccupazioni. 1. Dal punto di vista storico-fenomenologico, in realtà ogni civiltà ha saputo creare da sempre i propri «spazi» per divertirsi: i greci con le olimpiadi, i romani con i circenses, i medioevali con i tornei. Ai giorni nostri le occasioni per divertirsi sono espresse in variegate forme, contesti e dimensioni: si va dai d. che si possono fare nella privacy della propria abitazione alle palestre e ai ben attrezzati campi da gioco, dalla stampa ai programmi televisivi fino all’utilizzo di sofisticati software informatici, dall’ascolto individualizzato della musica alle discoteche/ balere e ai concerti in piazza, dalle scampagnate al turismo organizzato, dalla partecipazione ad un gruppo informale di amici ai d. di massa. A seconda dei casi, quindi, il d. può essere suddiviso in base a differenti settori e bacini d’utenza; prolificano le associazioni ed i clubs con l’unico scopo di far divertire; l’organizzazione di feste e di spettacoli di massa rientra sempre più nei piani e nei bilanci delle amministrazioni pubbliche e degli Enti patrocinanti. Da quando c’è più tempo per divertirsi l’«industria del d.» ha moltiplicato le opportunità a tal punto da diventare un settore trainante dell’economia, della cultura e dell’immagine stessa di una società o di un Paese. 2. Dal canto suo, la sociologia ha predetto da anni l’avanzare di una «civiltà del d.», i cui macrofenomeni emergenti sono dati dalla diffusione del → consumismo, dalla universalizzazione dei prodotti attraverso

la produzione di massa, dalla commercializzazione delle informazioni su base massmediale. Ma la gente si diverte davvero, ed inoltre si può considerare il d. un fattore fine a se stesso? Nell’inquadrare il fenomeno dal punto di vista psico-pedagogico, la concezione edonistico-evasiva del d. appare del tutto riduttiva, soprattutto se considerata in funzione delle potenziali opportunità formative che può offrire il d. Autori come J. Dumazedier tendono infatti a superare tale visione per inquadrarlo nell’insieme delle occupazioni circoscritte al tempo libero alle quali l’individuo si dedica sia per riposarsi e per svagarsi, ma anche per cogliere l’opportunità di formarsi, di partecipare alla vita sociale, di sviluppare le proprie capacità di libera espressione. Che differenza c’è allora tra il d. ed il → tempo libero? Effettivamente risulta difficile operare una distinzione tra i due concetti dal momento che il tempo libero ingloba anche il d., ed entrambi risultano strettamente correlati al fattore «tempo»: con l’aumentare del tempo libero e con il suo espandersi a livello di massa si sono moltiplicate parallelamente anche le occasioni (e/o le ragioni) per consumarlo divertendosi. 3. Tutto ciò richiama all’urgenza di intervenire in questo settore anche con delle proposte «formative». È questo il motivo per cui oggi il d. non può più essere considerato un semplice «momento accessorio» della società attuale, ma ne rappresenta piuttosto una funzione di vitale importanza in quanto è in grado di incidere e di contribuire alla trasformazione della stessa giocando al suo interno un proprio ruolo protagonista, facendosi cioè «spazio» e «momento» educativo. A questo punto il tentativo di inquadrare il d. in una «dimensione formativa» si fa tanto più urgente quanto maggiori sono le occasioni della sua espansione a livello di massa. Spetta adesso agli educatori riuscire ad occupare un tale spazio affinché diventi anch’esso un’«occasione-per-educare» (e non solo per divertire), riscoprendone i valori autentici di raccordo con la «qualità della vita», ed evitando al tempo stesso di relegarlo alla semplice funzione catartica di sfogo/evasione dai problemi del quotidiano. Bibl.: Huizinga H., Homo ludens, Torino, Einaudi, 1968; Johannis T. B. Jr. - C. Neil Bull (Edd.),

343

DIVORZIO

Sociology of leisure, Beverly Hills/London, Sage, 1971; Friedman M. et al., Gli ideali educativi. Saggi di storia del pensiero pedagogico, Brescia, La Scuola, 1972; Dumazedier J., Sociologia del tempo libero, Milano, Angeli, 1985; Piccinelli R., Guida al piacere e al d., Ancona, EXA Media, 2005.

V. Pieroni

DIVORZIO Il d. è, sotto il profilo giuridico, l’atto emesso da un’autorità riconosciuta con cui si pone termine al vincolo matrimoniale durante la vita dei coniugi, accordando ad essi il diritto di contrarre un nuovo matrimonio. Non vanno confusi con il d. né l’atto di annullamento del matrimonio, con il quale si dichiara che tra i coniugi non è mai esistito un legame coniugale, né la separazione legale, che consente o impone ai coniugi di condurre un’esistenza separata, ma non scioglie il vincolo matrimoniale. 1. In Italia il d. è stato introdotto per la prima volta con la legge 898/70 e confermato dal consenso popolare nel referendum del 12/V/1974. Lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio veniva regolato da precise condizioni, modificate poi a seguito dell’entrata in vigore della legge 151/75 di Riforma del Nuovo Diritto di Famiglia e soprattutto con la legge 74/87 che riducendo a tre anni (dai cinque già fissati) dalla separazione il termine minimo per presentare la domanda di d., ne ha semplificato il processo ed abbreviato i tempi. In tutti i paesi occidentali per il forte aumento della fragilità della famiglia e dell’instabilità coniugale il numero dei d. e delle separazioni legali è andato fortemente aumentando dal 1965 ad oggi. In Italia siamo passati dalle 5.600 separazioni del 1965, alle 42.000 nel 1989, alle 45.754 nel 1992 (oltre 80 ogni 100.000 ab.), alle 48.198 del 1993, alle 60.281 del 1997, alle 71.969 del 2000, alle 79.642 del 2002. Per quanto riguarda i d. l’andamento ha le stesse proporzioni, ridotte però di metà, e cioè dai 33.342 del 1997, ai 37.573 del 2000, ai 41.835 del 2002. 2. Fattori concausali nel processo di d. si 344

ritrovano generalmente nei mutamenti storici dell’organizzazione economico-sociale, nell’individualismo affettivo, nella riduzione dell’interdipendenza economica tra marito e moglie, nell’ingresso sistematico della donna nel mercato del lavoro, nella maggior attenzione accordata alla ricerca della propria felicità individuale attribuita al matrimonio e a percorsi alternativi, nella riduzione del controllo e della riprovazione sociale, nella più ampia possibilità di contatti con l’ambiente esterno alla famiglia e di rapporti paritari all’interno della coppia, nello stesso rito civile di celebrazione delle nozze. Il d. giuridico però è sempre preceduto dal d. affettivo e psicologico che lascia sempre effetti negativi sia sui coniugi che sui figli. 3. In una prospettiva psicologica ed educativa il d. è percepito come un fallimento personale per non avere potuto realizzare quella felicità attesa e progettata nei primi tempi. Ammettere tale insuccesso, a sé, agli amici e ai parenti contribuisce a indebolire la propria immagine di sé. Sui figli la separazione dei genitori sconvolge la struttura delle identificazioni e delle relazioni oggettuali, provoca reazioni di aggressività, sensi di colpa e operazioni difensive e insieme protettive. Tutto ciò avviene anche se il d. è vissuto in forme differenziate secondo l’età, il sesso, la qualità del legame familiare, l’educazione ricevuta e la capacità di tollerare relazioni parentali non più lineari, ma traversate da forti interferenze. Forte però è il rischio che i figli riproducano nella propria coppia le stesse interazioni patologiche occorse ai genitori. Bibl.: Maggioni G., Il d. in Italia, Milano, Angeli, 1991; Barbagli M. - C. Saraceno, Separarsi in Italia, Bologna, Il Mulino, 1998; Van Cutsem Ch., Le famiglie ricomposte, Milano, Cortina, 1999; Istat, L’instabilità coniugale in Italia: evoluzione e aspetti strutturali, Roma, Istat, 2001; Bauman Z., Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Roma/Bari, Laterza, 2004; Iori V., Separazioni e nuove famiglie, Milano, Cortina, 2006; Istat, Matrimoni, separazioni e d.-2003, Roma, Istat, 2007.

R. Mion

DOCENTE → Insegnante

DOMANDA EDUCATIVA

DOCIMOLOGIA H. Piéron ha proposto di chiamare d. (dal gr. dokimázo, valuto, sti­mo, e lógos discorso sistematico, scientifi­co) lo studio dei problemi posti dalla → va­lutazione. Il termine è rimasto prevalentemente nei Paesi francofoni. In genere si preferisce parlare di «studio della valutazione scola­stica» o si ricorre a denominazioni più set­toriali (studio dei → voti, degli → esami, del → profitto), per trattare le funzioni e le ca­renze del valutare. 1. Gli studi docimologici inizialmente (dopo la metà dell’Ottocento) hanno evidenziato la mancanza di validità e di affidabilità delle abituali valutazioni scolastiche. Sono state documentate così le di­scordanze emergenti tra più correttori posti davanti allo stesso prodotto e dello stesso correttore chiamato a valutare la medesima prestazione in tempi o in situazioni diverse. È stata segnalata inoltre la scarsa predittività degli esami d’ammissione. J.M. Rice, uno dei pionieri della → pedagogia sperimentale, ha dato inizio alle grandi in­chieste sul profitto degli alunni, utilizzando strumenti tipificati per poter così fondare con­clusioni utili per migliorare il si­ stema scolastico e fornire ai docenti termini di confronto al di là della loro esperienza (→ stan­dard). Nel 1931 la Carnegie Corpora­tion ha finanziato una ricerca internazionale su­ gli esami finali nella scuola secondaria affi­ dandola al Teacher’s College della Columbia University. Sono stati così pubblicati vari studi nazionali di notevole impegno. In questo modo l’importanza della d. è stata ufficializzata e si è avviato lo scambio tra studiosi di diversi Paesi. Ben presto dalla disamina dei voti si è passati alle loro correzioni statistiche e alla revisione di tutto il processo di valutazione, attraverso la messa a punto di strumenti di rilevazione del profitto di tipo oggettivo. Si è transitati così dalla prima fase critica della d. a quella propositiva, detta del Measurement. A questa si sono affiancati successivamente studi centrati sugli aspetti formativi della valutazione che ne hanno esteso gli strumenti e arricchito le strategie (Evaluation). Si è cercato quindi d’individuare i fattori che producono i dissensi e le anomalie docimologiche con vari paradigmi (cfr. ricerche di → Calonghi, Noizet e Caverni per es.). Attualmente il focus si è spostato

sulla necessità di valutare in forma integrata i saperi scolastici e le acquisizioni dell’esperienza secondo le istanze del mondo reale (valutazione autentica, valutazione di competenze). 2. Di fatto la d. si è ispirata per alcune soluzioni ai principi della → psicometria, ma lo stimolo efficace per il suo pieno svi­luppo deriva dalla → didattica. Quest’ultima, al momento della verifica, ha bisogno di fatti certi a proposito delle in­novazioni adottate e lo studio critico delle valutazioni è il momento base, che aiuta a fornirgliene. Bibl.: Piéron H., Examens et docimologie, Paris, PUF, 1963; Bonboir A., La docimologie, Pa­r is, PUF, 1972; Calonghi L., Valutare, Novara, De Agostini, 1983; Coggi C. - A. M. Notti (Edd.), D., Lecce, Pensa Multimedia, 2002; Dubus A., La notation des élèves: comment utiliser la docimologie pour une évaluation raisonnée, Paris, Armand Colin, 2006.

L. Calonghi - C. Coggi

DOMANDA EDUCATIVA L’esigenza di → formazione può essere letta come d.e. personale e sociale, individuale, di gruppo, comunitaria. 1. La pedagogia dell’offerta. Nel nostro tempo sembra abbastanza evidente la ambivalenza di una pedagogia dell’offerta. Essa parte solitamente da progetti, programmi e modelli da trasmettere e far accogliere: è normalmente pedagogia di obiettivi e progetti stabiliti altrove. La metodologia educativa assume il compito di dare attuazione a tali obiettivi o progetti, senza un momento precedente di metodologia pedagogica di ricerca nel campo, per rilevare la d.e. da cui partire e con funzione di riferimento costante lungo l’intero processo di risposta. Tale pedagogia e i sovra-sistemi, che stanno alla radice dell’offerta, presentano debolezze interne, anche a motivo del pluralismo contestuale o di critiche esterne di rifiuto da parte di minoranze non disposte a lasciarsi manipolare. Ma se le pedagogie trasmissorie vengono colte come lontane rispetto alla realtà viva di bisogni, attese e domande, tuttavia, 345

DOMANDA EDUCATIVA

oggi, si hanno nuove forme di proposizione di pedagogia dell’offerta. Adulti e giovani risentono o soggiacciono supinamente alle indicazioni e ai messaggi dei sovra-sistemi che impongono comportamenti e offrono risposte pre-confezionate ai loro scopi: ieri quelli politico-ideologici oggi quelli del neocapitalismo internazionale e del mercato mondializzato. I bisogni sono indotti, l’omologazione è provocata, il consenso e l’adesione catturati. Nel campo dell’educazione, la pedagogia dell’offerta si è presentata come esigenza di adeguazione al mercato del lavoro, al successo professionale e esistenziale all’altezza dei trend attuali, magari innestata su istanze di autorealizzazione, di buona qualità della vita, di accesso ai beni di consumo, di equità e correttezza sociale. Le ricerche, i progetti, i programmi, i libri dell’offerta educativa sono molto sofisticati e sistematici a riguardo, offrono ideali, ricette di soluzioni dei problemi, modi di acquisizione di competenze. 2. Verso una pedagogia della d.e. Rispetto ad una pedagogia dell’offerta sembra oggi importante una pedagogia della d. o forse meglio una pedagogia del campo-d. Essa potrebbe costituire un nuovo indirizzo di pedagogia interdisciplinare. Nella pedagogia della d. persone informate, sensibili, responsabili, competenti e attive, individuano – rispetto alla problematica umana e esistenziale attuale – un campo problematico emergente, personale e/o sociale, adulto e soprattutto giovanile, generale o particolare, speciale e/o specifico; lo leggono in termini educativi di bisogno e possibilità, cioè di d. di intervento valido e efficace per risolverne i problemi di qualità della vita in esso presenti e per promuoverne o consolidarne forme qualificabili come umanamente degne a livello di esistenza personale e comunitaria; analizzano situazioni, necessità, risorse e condizioni; elaborano progetti e programmi di risposta o quanto meno di proposta educativa. La rispondenza alla d. giudica la validità della risposta-proposta. 3. La d.e. In effetti, la d.e. nasce in profondità, nei luoghi e nei tempi della vita individuale e comunitaria, nel suo sorgere, nel suo crescere e maturare. Ma la vita non si sviluppa sempre pacificamente; per cause in346

terne ed esterne trova spesso condizioni di ingiustizia e di esclusione, di oppressione e repressione, di dominazione e di strumentalizzazione manipolatrice, di conflitto e lotta, di difficoltà e limite, di debolezza e errore, di fragilità e peccato: perciò si fa problema, ma sempre valore-problema, in quanto i problemi sono situazioni problematiche della vita, delle persone, del mondo e del loro intrinseco valore. Così nasce nel campo e nei campi la tensione di appello interiore e quindi la invocazione implicita o espressa, e cioè la d. che chiede o vuole ascolto, attenzione, comprensione, cioè intervento di aiuto per la soluzione che liberi i valori di vita e ne risolva i problemi. La soluzione viene da risposte a quanto è palese nella d., aggiungendo e accettando proposte alla d. profonda, ad attese latenti e possibili che all’inizio sono al di là delle capacità di d. esplicita. Si delinea così il quadro completo della educazione personale, sociale, epocale, umana. La credenza e la fede religiosa, in genere e quella cristiana in particolare, vi scorgono l’ordine del trascendente e della grazia, che non ha tanto una d. diretta, ma piuttosto una risonanza nelle profondità dell’uomo fatto da Dio e secondo Dio, a sua immagine e somiglianza, animato da tensioni infinite. In ogni caso bisognerà impostare e prolungare un cammino di ricerca per individuare e definire contenuti, processi, progetti e programmi; per incrementare il dialogo e il confronto democratico. Il risultato atteso è la condivisione ideale e la convergenza operativa. 4. Il campo-d. e i campi-d. La comprensione della d.e. richiede un ulteriore approfondimento del campo-d. e dei campi-d. Il campo-d. totale di riferimento, intervento e azione è, idealmente, il campo della persona, ma realmente è il campo-umanità, campo delle persone oggi viventi sulla faccia della terra nella loro generalità. Bisogna definirne e assumervi pedagogicamente le d., progettare risposte per risolvervi pedagogicamente i problemi di vita e valore. All’interno di questi orizzonti planetari, per interventi e soluzioni più concrete sarà necessario individuare campi-d. particolari dove siano possibili analisi, interpretazioni, elaborazioni di progetti, piani e metodi di risposta. Non è difficile capire come oggi sia profonda, la d. globale e articolata di educazione diretta del-

DOMANDE NELL’INSEGNAMENTO

le persone, ma anche di soluzione, attraverso l’educazione, degli enormi valori-problemi di vario genere, che inquietano i circa sei miliardi di abitanti della terra. Continenti, nazioni, gruppi e singole persone dilatano sempre più e meglio i loro stili di vita, ma vivono anche dilaniati da ingiustizie, oppressioni, impotenza, indegnità di vita, abbandoni fisici e materiali, culturali e spirituali. La d.e. si specifica nelle diverse d. particolari (e nei diversi campi di d.): quelle dei giovani, degli adulti, degli anziani, delle famiglie, dei gruppi, dei movimenti, dell’associazionismo, delle comunità, della società civile, dei diversi soggetti sociali, delle comunità locali, nazionali, internazionali, mondiali, umane. 5. La pedagogia della d. La d.e. chiede un’adeguata e congruente pedagogia. Di tale compito si possono delineare i momenti principali: a) Assumere la d. Le d. si formano nella intimità esistenziale dei vari campi, come concreti vissuti di bisogni, possibilità e tensioni. Si formulano a livello di coscienza implicita ed esplicita interna, sotto forma di interessi e di desideri, e a livello di espressione esterna, sotto forma di richieste di intervento e aiuto personale e sociale, intersoggettivo e istituzionalizzato. Devono essere percepite e assunte, da responsabili e competenti capaci di formulare e/o dare risposte. È indispensabile un filtraggio di qualificazione, di priorità, di organizzazione, ma non di esclusione o manipolazione, con partecipazione d’impegno e competenza. b) Analizzare la d. La realtà del campo-valoreproblema deve essere analizzata in tutte le dimensioni che permettono di individuare con precisione la natura della d., le necessità che essa impone di risolvere, le risorse che offre, le condizioni interne e esterne di operabilità. Questo si ottiene ricavando i dati dai sovrasistemi in cui si colloca, e da cui deriva, dove cerca e progetta la soluzione: il sistema della → personalità (quale struttura, dinamica e situazione antropologica olistica e particolare); i sistemi di → appartenenza e partecipazione sociale, culturale, politica; i sistemi educativi paralleli e interferenti. Dopo di ciò si può pensare al progetto. c) «Educare» la d. La d. del campo e dei soggetti interessati non può essere assunta grezza. Fin dai primi interventi è necessario aiutare i soggetti, gli ambienti, le istituzioni coinvolte, a definir-

ne il senso vero e completo, ad approfondire carenze, soprattutto a rendere consapevoli aspetti e condizioni nascoste, che superano l’immediato, spesso solo simbolico e parziale, e che vanno esplicitati, sostenuti, promossi, consolidati. d) Aprire alla proposta. Avviene quasi sempre che la d. riveli tensioni e integrazioni che stanno al di là dei punti di partenza e di primo approccio. Non si tratta solo di aggiunte estrinseche, ma anche di comprensione della normalità dello stato di invocazione e di attesa che l’immediato contiene e rivela. La d. trova aperture e compiutezza, ma anche la proposta, che nasce per questa via, avrà garanzia di aggancio, di investimento dinamico favorevole per il consenso impegnativo. Bibl.: Lawton D., Programmi di studio ed evoluzione sociale. Dalla teoria alla pratica, Roma, Armando, 1973; Girardi G., Per quale società educare?, Assisi, Cittadella, 1975; Furter P., Les systèmes de formation dans leurs contextes, Berne-Frankfurt, P. Lang, 1980; Dalle Fratte G. (Ed.), L’analisi dei bisogni. Prospettive teoriche e metodologiche emergenti da una ricerca in campo educativo, Trento, Fed. Scuola Materna, 1983; Freire P., La pedagogia degli oppressi, Torino, EGA, 2002; Gianola P., Il campo e la d., il progetto e l’azione. Per una pedagogia metodologica. Edizione a cura di C. Nanni, Roma, LAS, 2003.

P. Gianola - C. Nanni

DOMANDE NELL’INSEGNAMENTO Le d. sono azioni linguistiche generalmente usate per ottenere informazioni. Possono essere utilizzate in moltissimi contesti: nell’intervista, in prove di → valutazione dell’apprendimento, in contesti giuridici o in conversazioni con amici. Data la loro straordinaria efficacia nello stimolare un’attività della mente, sono state particolarmente studiate e ritenute uno strumento molto diffuso ed efficace per l’apprendimento. In questo ambito si distinguono due tipi di d.: d. rivolte direttamente durante una lezione; d. rivolte durante la lettura di un testo da apprendere. 1. Tassonomie di d. Il tipo di d. non è indifferente circa il processo mentale che induce; 347

DONNA

per questo si sono prodotte molte «tassonomie» (classificazioni) dei tipi di d. che possono essere utilizzate da un → insegnante. In genere la classificazione è costruita o in base ad una descrizione di processi mentali o in riferimento alla complessità del processo cognitivo che induce o in riferimento al «dove» può essere trovata la risposta. Si distinguono così d. che: a) spingono semplicemente ad un rilevamento o ricupero di informazioni (si chiede di: vedere, osservare, provare, nominare, ricordare, descrivere, contare); b) richiedono di stabilire un collegamento tra conoscenze nuove e previe (integrare, completare, descrivere, ricordare, definire, connettere, collegare, parafrasare); c) spingono ad un’analisi più approfondita (sintetizzare, analizzare, spiegare il perché, classificare, mettere in una sequenza, riassumere, stabilire analogie); d) pongono una sfida al pensare, immaginare e formulare ipotesi predittive, scoprire (applicare un principio, pianificare, giudicare, predire, inventare, inferire, ipotizzare, generalizzare, ecc.). 2. Uso appropriato ed efficace delle d. Non basta che l’insegnante sappia scegliere la d. che stimola maggiormente l’attività di riflessione. Egli deve anche saper usare questo strumento in modo appropriato. Numerose ricerche offrono un ampio ventaglio di indicatori che possono essere utili a questo scopo: a) contestualizzare la d.: creare cioè un clima non valutativo, dare un senso di libertà nel rispondere, saper trasformare la risposta sbagliata in una corretta, rilanciare ad un’ulteriore riflessione la risposta ricevuta; b) interpretare le diverse risposte dello studente: distinguere cioè tra risposta corretta, ma rapida e sicura, risposta corretta, ma esitante, risposta non corretta per mancanza di riflessione, risposta non corretta per carenza di conoscenza di fatti o del processo e reazioni diverse a seconda dei diversi tipi di risposta; c) dare tempo per la risposta: quanto più è alto il livello di attività cognitiva che la d. induce, tanto maggiore deve essere il tempo lasciato per trovare la risposta. Un tempo maggiore, oltre a garantire un maggior numero di risposte corrette, permette, anche risposte più articolate e complete; d) porre d. non superiori alle possibilità dello studente: una buona d. deve essere preparata esaminando le conoscenze previe che la ri348

sposta esige e i processi che richiede; e) fare d. chiare: strutture sintattiche complesse, d. multiple, uso di un lessico troppo astratto non facilitano la comprensione della d. e quindi rendono difficile una risposta; f) sviluppare le proprie conoscenze sulla materia di insegnamento; esse infatti migliorano la qualità e la pratica delle d. Bibl.: A nderson L. - C. Everston - J. Brophy, An experimental study of effective teaching in first-grade reading groups, in «Elementary School Journal» 79 (1979) 193-223; Rowe M. B., Wait time - slowing down may be a way of speeding up, in «American Educator» 2 (1987) 1; Gall M. D. - M. T. A rtero -Boname, «Questioning strategies», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.), The International encyclopedia of education, Oxford, Pergamon Press, 21995, 4875-4882.

M. Comoglio

DONNA Il termine d. da dŏmna (m), forma sincopata del lat. domina (signora, padrona) da dominus (signore, padrone), analogicamente al biblico «´iš / iššah», entra nella lingua nel 1294. Preposto a un nome femminile, conserva il senso lat. di qualifica nobiliare attribuita alle consorti di personaggi autorevoli o rappresentativi. Nel linguaggio comune indica la persona adulta di sesso femminile. Nel termine d. confluiscono opposte reazioni emotive socio-culturali e socio-religiose che vanno dall’esaltazione all’umiliazione/ sudditanza, come pure polarità alternative, quali Eva/Maria, Diavolo/Angelo, Seduttrice/Consolatrice, Nemica/Rifugio. Spesso indica la d. in relazione, come figlia, sorella, sposa, madre dell’uomo. Difficilmente indica la d. concreta; in questo caso si usa il plurale. Spesso evoca la condizione asimmetrica della d. rispetto all’uomo, un’asimmetria che ha radici remote e persiste nonostante le azioni positive a favore della parità, come se non potesse essere eliminata, ma solo spostata in avanti. 1. Dalla disputa all’autocoscienza femminile. Nel 1595 Orazio Plata traduce e divulga l’opera di Acidalius Valens, Disputatio perjucunda qua anonimus probare nititur «mulieres

DONNA

homines non esse»: «le d. non sono uomini», una tesi tanto ovvia da risultare ridicola, richiama però la mens misogina che identifica la persona umana con il maschio. Graziano (sec. XII) lo affermava sicuro: «L’immagine di Dio è nel ma­schio creato unico, origine di tutti gli uo­mini, che ha ricevuto da Dio il potere di go­vernare come suo sostituto, perché è im­magine di Dio unico. Ed è per questo che la d. non è fatta ad immagine di Dio» (Decretum Gratiani q. 5, c. 33). È una concezione abbastanza generalizzata; è presente in numerose culture anche alternative tra loro; favorisce il transito indisturbato di stereotipi e resiste persino nella modernità: l’unità del genere umano si realizza nel maschio, il principe (archón) che rappresenta il principio (arché). Quindi, la d. è diversa dall’uomo nel senso che è inferiore, minore, bisognosa di essere custodita e sorvegliata. La coscienza dell’uguaglianza ancora nel sec. XVI è solo di d. dell’élite. Con il diffondersi della filosofia razionalistica, che fonda i diritti sulla comune natura umana, matura la consapevolezza dell’uguaglianza tra gli esseri umani che, però, viene più facilmente riconosciuta al servo che alla d. La Rivoluzione francese proclama l’uguaglianza, la libertà, la fraternità; diffonde le idee liberal-democratiche, redige la Dichiarazione dei diritti del cittadino; non riconosce, però, la cittadinanza alla d. Olympie de Gougues viene ghigliottinata nel 1793 per la sua Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne (1791). Le d. più consapevoli danno vita a movimenti di emancipazione, iniziano rivendicando dei diritti civili, ma progressivamente estendono la richiesta alla piena cittadinanza in ambito socio-politico, familiare e religioso. Negli anni ’60 dall’idea di emancipazione si passa a quella di liberazione con la denuncia dei sistemi culturali maschilisti che ritengono la d. il secondo sesso (S. de Beauvoir, Il secondo sesso, 1948). Si accende un vivace dibattito sul rapporto dialettico natura/cultura. Le scienze antropologiche, specie quelle umanistiche, lasciano intravedere l’urgenza di superare la contrapposizione perché l’identità si costruisce dal convergere in unità di molteplici fattori, in particolare il patrimonio genetico, contesto, autodeterminazione del soggetto. 2. L’attuale percorso: tessendo rapporti,

cercando vie nuove. Negli anni ’70 inizia una riflessione propositiva sulla differenza, talvolta espressa in forme radicali che inferiorizzano il maschile a vantaggio del femminile, ricalcando con il segno opposto le orme del patriarcato. Al di là di questi esiti, il movi­mento di pensiero con altre espressioni culturali, specie con la riflessione sulla reciprocità, ha offerto un contributo significativo: ha risvegliato in molte d. il desiderio e l’impegno di crescere in un’iden­tità più profonda, rifiutando l’omologazione al modello maschile e valorizzando la propria e l’altrui diversità come risorsa; ha spinto anche l’uomo a mettere in crisi gli stereotipi e le ambiguità dell’antropologia recepta; è sempre più condivisa l’idea che l’umanità è uniduale nel confronto e nella reciprocità di maschile e femminile. In questo percorso le ragazze, valorizzando le possibilità offerte dalla scolarizzazione di massa, hanno sovente superato i ragazzi: è la generazione femminile del sorpasso negli studi universitari, nelle qualifiche professionali, non però nei poteri decisionali. In questo itinerario di nuova consapevolezza va riconosciuto, non solo a livello ecclesiale, ma globale, il ruolo singolare svolto da Giovanni Paolo II che con la Mulieris dignitatem ha divulgato le acquisizioni emerse dagli studi delle d., specie della teologia al femminile, le ha ricontestualizzate nella Lettera alle d. e in altri interventi. Esse sono riproposte, poi, nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa. Il Papa ha coniato l’espressione «genio femminile» (MD 30,31; Lettera 9-12). È una via singolare per approfondire l’identità e la missione della d.: in questa via – teorica e pratica – sono coinvolti d. ed uomini in reciprocità, valorizzando le rispettive diversità, gestendo responsabilmente gli eventuali conflitti, per costruire una umanità più giusta e solidale. 3. L’antropologia biblico-cristiana fonte di ispirazione per un nuovo umanesimo. Molte studiose, di estrazioni culturali diverse, negli anni ’80 hanno interpellato le teologhe a mettere in luce i valori simbolici femminili presenti nella tradizione biblico-cristiana, in particolare nelle Sacre Scritture, specie i due racconti della creazione (Genesi 1-3) e la vita e opera di Gesù, e nell’esperienza monastica e religiosa, specie le congregazioni religio349

DONNA

se femminili di fine ’700 e ’800 dalle quali emergono d. che con il loro protagonismo anticipano alcune istanze del femminismo. Si individuano raccordi interessanti tra aspirazioni ed istanze umane, specie femminili, e messaggio biblico-cristiano. I due racconti della creazione evidenziano la fondamentale uguaglianza tra d. e uomo che insieme costituiscono l’immagine di Dio; indicano che la sessualità umana non è una semplice differenza fisica, ma è segno nel corpo della chiamata all’amore, che la d. non riceve la sua identità dall’uomo, né viceversa. Nella loro singolarità sono le uniche creature dell’universo che Dio ha creato per se stesse, offrendo loro il dono della sua comunione. Quindi, l’identità e la dignità della creatura umana sono inalienabili, perché radicate in Dio e in Lui giungono a pienezza; la specificità dei due non è isolamento, né la loro unione dice subordinazione della d. all’uomo. La persona umana, maschio e femmi­na, è un evento che accade davanti a Dio e da Lui è salvaguardata; è il vertice della creazione e suo garante a nome di Dio, con la missione di portarla a compimento. Gesù con la sua vita, la sua opera e la sua predicazione rivela il mistero della creatura umana, la sua bellezza: «vale più di tutti gli esseri dell’universo». Nel ricondurre la creazione al suo principio, la riscatta dal male, rivendica la dignità di immagine divina per ogni persona, al di là della sua appartenenza socio-culturale o religiosa, persino al di là della sua condizione morale. Così, poveri, piccoli, peccatori, d., tutti sono destinatari privilegiati del Regno. Smaschera le ideologie che inferiorizzano la d.; denuncia la doppia morale/la legislazione ipocrita che colpisce la d. adultera e rimanda libero l’uomo. Di­chiara che ogni persona, al di là delle dif­ferenze di sesso, lingua, cultura, re­ligione, è fatta per Dio, per rivelare/ annunciare il suo Nome. La vede nella sua integralità: non divide lo spirito dal corpo, anzi nella resurrezione proclama la dignità della corporeità. Raccoglie i figli di Dio dispersi nell’unica famiglia, costituendo una comunità religiosa ove le gerarchie sono capovolte: il primo è l’ul­timo, il capo è il servo; elimina ogni criterio di discriminazione; offre alla parità tra i sessi il fondamento che nessuna legge umana può eludere o misconoscere: Dio Amore. Le d. riconoscono, perciò, in Lui il loro liberatore e nel suo mes350

saggio trovano una fonte alla quale attingere per dare senso alla vita. Maria è l’icona perfetta della d., espressione compiuta del genio femminile, proprio nell’accoglienza operosa perfetta del progetto del Creatore sulla sua creatura. Quale Nuova Eva, con Gesù, Nuovo Adamo, è punto di riferimento nel cammino verso la pienezza della d. e dell’uomo, non rappresentando simmetricamente gli attributi femminili (Maria) e quelli maschili (Gesù) ma, piuttosto, segnalando il principio biblico per cui Dio fin dall’inizio ha voluto l’umanità come maschio e femmina. Indicano, quindi, la via della piena realizzazione nella trasparenza dell’amore. In questo modo la differenza non è divisione, tanto meno contrapposizione, l’uguaglianza non è cancellazione dell’altra polarità, ma una reciprocità fondata su Dio e aperta all’universo. Oggi soprattutto è urgente ricomprendere questo messaggio per elaborare e tradurre in prassi un umanesimo nuovo ove le tre dimensioni – teologale, umanistica e cosmica – si raccordino in unità secondo il progetto originario della creazione in Cristo, ove la differenza d./uomo sia valorizzata nel cammino di uguaglianza nella dignità e di differenza sessuale, oltrepassando ogni tentazione di predominio e ogni fascinazione di isolamento («Non è bene che l’uomo sia solo»). Il cammino è lungo. A livello personale dura tutta la vita che non è mai ripetizione, anzi è sempre libertà protesa verso il bene e il vero. Prendere la scorciatoia della identità costruita occasionalmente dalla libertà individuale, secondo il paradigma della «società liquida» (Bauman) o del mondo virtuale, non è un guadagno; è piuttosto una perdita, genera paura e solitudine, segna il regno del «superuomo» e l’eliminazione dei piccoli, radicale alternativa all’unità della famiglia umana. Lo documentano le fatiche dell’ONU nelle Sessioni della Commissione sulla condizione della d. (cfr. la 49a CSW: 28.02-12.03-2005), come pure quelle dell’EU (cfr. iniziative per l’anno 2007 dedicato alla parità). Il cammino di identità della d. chiama in causa l’uomo e interpella le scienze dell’educazione. 4. Le scienze dell’educazione. Sono richiama­ te ad offrire il proprio contributo alla costruzione di un umanesimo nuovo, nel quale la coscienza della differenza sessuale non sia

DOTTRENS ROBERT-ALEXANDRE

rimossa, ma alimentata; la dimensione teologale emerga sempre più come indispensabile per salvaguardare dai vari attentati la dignità della persona, specie della d. A livello educativo queste scienze vengono interpellate ad elaborare una vera educazione nell’identità sessuale in una corretta coeducazione ove siano eliminati gli stereotipi ed emerga la dignità di immagine di Dio. Per la realizzazione di tali obiettivi è necessario ed urgente ri-centrare la cultura in tutte le sue espressioni nel senso dell’antropologia uni-duale, oltrepassando il relativismo e accogliendo la prospettiva teologica. La d., quindi, pone la questione antropologica: come la d. è relativa all’uomo, l’uomo è relativo alla d., ed entrambi trovano la loro radicale identità nella relazione con Dio e da Lui sono fatti custodi dell’universo. Bibl.: Børresen K. E. (Ed.), A immagine di Dio: modelli di genere nella tradizione giudaica e cristiana, Roma, Carocci, 2001; Mansoret M. (Ed.), D. e filosofia, Genova, Erga, 2001; Roccella E. - L. Scaraffia (Edd.), Italiane. Dall’unità d’Italia alla prima guerra mondiale, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri/Dipartimento per le pari opportunità, 2003; Borriello L. - E. Caruana - M. R. Del Genio - M. Tiraboschi (Edd.), La d.: memoria e attualità, 6 voll., Città del Vaticano, LEV, 1999-2005; Pontificium Consilium Pro Laicis (Ed.), Uomini e d.: diversità e reciproca complementarità, Ibid., 2005; Gaiotti De Biase P., Vissuto religioso e secolarizzazione. Le d. nella «rivoluzione più lunga», Roma, Studium, 2006; Valerio A. (Ed.), D. e Bibbia: storia ed esegesi, Bologna, Dehoniane, 2006.

M. Farina

DOTI → Abilità DOTTORATO → Titoli di studio

DOTTRENS Robert-Alexandre n. a Carouge, presso Ginevra, nel 1893 - m. nel 1984, pedagogista svizzero. 1. Maestro a venti anni, fu direttore didattico dal 1921 al ’27; nel 1931 conseguì il dottorato in sociologia e nel ’52 divenne ordinario di pedagogia all’Università di Ginevra. Fondò

l’École du Mail, sede di innovazioni metodologico-didattiche, che funzionò dal 1925 al ’55, dapprima sotto la direzione sua e poi di suoi allievi. Ogni attività era scandita in osservazione, verifica e ricerca. I suoi contributi sono maturati in seno alla cosiddetta Scuola di Ginevra (→ Claparède, → Ferrière, Bovet, → Piaget) e consistono sia in princìpi pedagogici ricavati dalla psicologia infantile, sia in procedure speciali da adattare a scuole comuni. 2. Buon conoscitore delle scienze umane e sociali, additò nella pedagogia un elemento propulsore di rinnovamento civile e di formazione democratica. Si occupò di organizzazione scolastica, aderendo al movimento delle → Scuole Nuove, con forte impulso alla didattica della lingua, a quella della scrittura, alla → docimologia. Sul piano delle riforme si occupò della → formazione degli insegnanti. D. è noto quale esponente della → pedagogia sperimentale (per cui si collega a → Buyse e Planchard) e quale promotore di un metodo individualizzato, ispirato in parte ad analoghi metodi di C. W. Washburne e di H. Parkhurst. Accolse anche le tecniche di → Freinet, studiò le principali riforme scolastiche ed esperienze pedagogiche in Inghilterra, Germania, Belgio ed Austria. Ebbe incarichi universitari anche all’estero. È stato autorevole membro dell’UNESCO (United Nations Educational Scientifical and Cultural Organisation), del BIE (Bureau International d’Éducation) e di altre istituzioni e associazioni. Bibl.: a) Fonti: tra le opere di D.: L’enseignement individualisé, Neuchâtel, Delachaux et Niestlé, 1936; Éducation et démocratie, Ibid., 1946; Instituteurs hier, éducateurs demain!, Bruxelles, 1966. b) Studi: Izzo D., R. D. e la pedagogia contemporanea, Roma, Armando, 1968; Broccolini G., D., Brescia, La Scuola, 1971; Trombetta C., «D.R.A.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, Ibid., 1989, 4099-4101.

D. Izzo

DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA → Insegnamento sociale della Chiesa DOVERE → Deontologia professionale → Educazione morale DOWN → Sindrome di Down

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DRAMMATIZZAZIONE

DRAMMATIZZAZIONE La d. è una forma di letteratura, sia in prosa che in versi, solitamente scritta come dialogo, ma non finalizzata allo spettacolo pubblico (→ teatro). 1. D. e educazione. La d. è applicata alle attività della classe o del gruppo dove la messa a fuoco non è sulla rappresentazione da fare in pubblico. Caratteristica della d. è perciò la scioltezza, spesso l’assenza di copione, senza problemi per la riuscita e, molte volte, senza prove. L’abbinamento d. ed istruzione/educazione, all’inizio del XX sec. è stato opera della filosofia educativa di Isadora Duncan e del lavoro di Emile Jacques Decloze, lo svizzero fondatore dell’euritmica. Nel XX sec., in Gran Bretagna, sono state esplorate e sviluppate varie attività alternative che vanno sotto il nome di «d. nell’istruzione e nell’educazione». Queste attività e questi corsi non hanno come scopo la rappresentazione di quanto preparato e non fanno alcuna distinzione tra chi recita e gli spettatori. Nei corsi si possono raggiungere vari obiettivi quali lo sviluppo fisico, l’espressione del sé e la d. del sé oltre alle relazioni dinamiche, il gioco dei ruoli all’interno del gruppo che la pratica; i bambini/ragazzi/giovani praticano la presa di decisioni e l’esplorazione della fantasia che aiuta a sviluppare l’immaginazione. Soprattutto in Gran Bretagna con Gavin Bolton e Dorothy Heathcote sono stati fatti notevoli sforzi per mettere al centro del curricolo le attività di d. e per utilizzarne le tecniche e la flessibilità con lo scopo di insegnare varie materie, soprattutto in riferimento alla lingua scritta e orale e alla letteratura. Nel contesto della d. trova collocazione l’espressione corporale che aiuta a migliorare le capacità di espressione e di comunicazione attraverso il proprio corpo, contribuendo non solo allo sviluppo fisico, ma anche allo sviluppo mentale ed emotivo. In America Latina, la d. è stata utilizzata per campagne di → alfabetizzazione e di sviluppo agricolo. 2. Altri usi della d. La terapia della d., o → psicodramma, utilizza tecniche di d. per promuovere la guarigione senza ricorrere all’analisi. Le stesse tecniche sono state utilizzate, soprattutto con pazienti giovani, per far rivelare i loro traumi mentali. 352

Bibl.: Heathcote D. - C. O’Neill - L. Johnson (Edd.), Collected writings on education and drama, Evanston (IL), Northwestern University Press, 1991; Bolton G., New perspectives on classroom drama, Hemel Hempstead, Herter, Simon & Schuster Education, 1992; Heathcote D. - G. Bolton, Drama for learning, Portsmouth, Heinemann, 1994; Taylor P., Researching drama and arts education: paradigms and possibilities, London, Falmer Press, 2005.

C. Cangià

DROGA La d. è un particolare farmaco psicotropo – cioè ad azione sulla psiche – che può sconvolgere la mente e indurvi particolari «interreazioni» che la caratterizzano: abitudine o assuefazione, spesso tolleranza, fino alla dipendenza fisica e/o psichica. 1. Effetti delle d. Le d. producono effetti tossici organici e mentali acuti e cronici e comportamenti psichici devianti (→ devianza), pericolosi per l’individuo che li assume e per la società. È importante precisare il significato dei tre tipi di legame che la d. stabilisce con l’organismo: a) Abitudine o assuefazione: sotto questo termine intendiamo uno stato biologico fisio-psichico, espressione dell’adattamento dell’organismo alla presenza della d., che induce un consumo ripetitivo a intervalli più o meno ravvicinati. b) La tolleranza è un fenomeno biologico per cui l’organismo deve aumentare progressivamente la dose della d. per ottenere gli stessi effetti gratificanti, riuscendo a tollerare in tale maniera quantitativi sempre più elevati al di sopra di quelli tossici e anche letali. La tolleranza è chiamata funzionale quando esiste un’assuefazione progressiva delle cellule bersaglio agli effetti del farmaco. È invece definita metabolica allorché è causata dall’attivazione crescente dei processi biologici che portano alla sua distruzione per cui, pur aumentando la dose assunta, la quantità attiva è sempre la stessa. c) Dipendenza (→ tossicodipendenza): si produce quando la assuefazione ha raggiunto un livello tale che la privazione della d. fa insorgere una particolare condizione chiamata sindrome di astinenza.

DUPANLOUP FÉLIX ANTOINE PHILIPPE

2. Classificazione delle d. Le d. vengono classificate in varie maniere, di cui le più importanti sono le seguenti: a) secondo la natura: naturali o vegetali, cioè non manipolate; estratti: cioè un estratto attivo delle precedenti fino a raggiungere il semplice componente attivo (per es. morfina dall’oppio, cocaina dalla coca, tetraidrocannabinolo dall’hashish e dalla marijuana, ecc.); semisintetiche, per manipolazione di un componente attivo, come la diacetilazione della morfina in eroina; di sintesi come il metadone, le amfetamine, l’ecstasy, ecc.; b) secondo la liceità: lecite come alcool e tabacco, illecite come eroina e cocaina; le illecite, se hanno effetti terapeutici non sostituibili, possono essere consumate purché prescritte da medici su particolari ricette, come morfina e barbiturici; c) secondo la pericolosità: leggere come i cannabici e le benzodiazepine, pesanti come gli oppioidi e la cocaina; d) secondo gli effetti farmacologici predominanti: sedativoeuforizzanti come gli oppioidi e i barbiturici, psicostimolanti come cocaina, amfetamine, caffeina, psicoalteranti o allucinogenodeliranti come LSD, mescalina, hashish; e) secondo la possibilità di acquisto: da strada (che più di frequente vengono tagliate) come eroina e ecstasy, di farmacia come morfina e barbiturici, di cui è garantita la purezza; f) secondo il gruppo chimico farmacologico e di uso: oppioidi, derivati della canapa indiana, coca e cocaina, psicofarmaci, allucinogeni e deliranti, anestetici e solventi volatili, alcool, tabacco, metilxantinici (te, caffè, ecc.). 3. La d. e l’educazione. L’uso della d. si perde nella notte dei tempi: tuttavia esso era limitato alle classi più elevate e gestito rigidamente. Dopo la metà del 1850 l’abuso si diffuse nei Paesi occidentali dapprima tra uomini di cultura e medici, poi tra adulti instabili o curiosi, provocando una serie di leggi, partite dagli USA con l’Harrison Act e accolte da quasi tutte le nazioni con gli attuali accordi di Vienna, ratificati nel 1980. Dopo la seconda guerra mondiale e in particolare dopo il 1960, si è assistito ad una vera e propria rivoluzione. L’abuso ha coinvolto pesantemente i → giovani, divenendo fenomeno di massa. Ne sono scaturite gravissime implicazioni sociali, che hanno richiesto e richiedono l’intervento massivo educativo-pedagogico che

si è svolto e si svolge sulla base di diverse posizioni e tendenze, con differenti molteplici approcci e strategie. Quelle basate sulla → prevenzione sono indirizzate ai soggetti più giovani, che si presume non abbiano ancora assunto la d. (prevenzione primaria). L’educazione, che in questo ambito è l’unico mezzo di approccio e strategia, si basa da un lato sulla descrizione dei danni ineluttabili della d. e dall’altro su una formazione in grado di resistere a questa tentazione. Un primo problema riguarda quali d. si debbano considerare come oggetto dell’insegnamento ad evitarne l’uso. Secondo alcuni solo le d. di abuso, cioè quelle dichiarate illecite. Secondo altri anche le lecite, che possono essere responsabili di comportamenti criminosi. Per altri ancora – e più correttamente – tutte le d., in quanto rappresentano un rischio sociale e tossico assai elevato per l’individuo e/o la comunità. In ogni caso, l’approccio e la strategia educativi debbono essere indirizzati – indipendentemente dal tipo di d. su cui si voglia esercitare la prevenzione – a formare soggetti capaci di rigettare l’uso di queste sostanze contro tutte le attuali suggestioni: moda, spaccio, curiosità, sperimentazione, ricreazione, uso strumentale ed espressivo, ecc. Bibl.: M alizia E., D. 80, Torino, Edizioni Medico-Scientifiche, 41985; Jones H. - M. Jones, Drugs and the mind, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 1987; Nizzoli U. - M. Pissac ­ roia (Edd.), Trattato completo degli abusi e delle dipendenze, Padova, Piccin, 2003; M alizia E. - S. Borgo, Le d., Roma, Newton Compton, 2006.

E. Malizia

DROP-OUT → Insuccesso scolastico → Ritardo scolastico

DUPANLOUP Félix Antoine Philippe n. a Saint-Félix nel 1802 - m. a Lacombe nel 1878, vescovo e pedagogista francese. 1. La vita. Venuto dalla Savoia, fece gli studi ecclesiastici e venne ordinato sacerdote a Parigi nel 1825; si dedicò alla pastorale catechistica parrocchiale fino al 1834 e continuò 353

DURKHEIM ÉMILE

il lavoro educativo come direttore del seminario minore della diocesi di Saint-Nicholas du Chardonnet (divenuto un prestigioso ginnasio), dal 1837 al 1845. Dal 1849 vescovo di Orléans, fu nominato accademico di Francia nel 1854, membro dell’Assemblea Nazionale nel 1871 e senatore della Repubblica nel 1876. Nel 1870 al Concilio Vaticano I prese parte attiva alla discussione sul progetto del piccolo catechismo universale. 2. Gli scritti pedagogici. L’opera più organica che presenta il suo pensiero pedagogico è De l’éducation (1851). Egli vi espone il suo concetto di educazione, azione creatrice, in cui si fondono autorità e disciplina, opera dell’educatore e collaborazione dell’educando. L’educazione inizia dalla famiglia, ma viene completata dall’educazione scolastica e collegiale, e poi da quella nazionale ed ecclesiale. L’educazione pubblica deve essere organizzata dalle famiglie, senza intervento diretto dello Stato, che deve invece garantire la → libertà di insegnamento. Importante è la formazione filosofica e letteraria, anche se le si affiancano quella dell’immaginazione, della sensibilità, del carattere e della coscienza: imparare a ben pensare e a ben esprimersi è fondamentale per l’uomo e per la sua formazione spirituale e religiosa. D. si interessò anche dell’educazione femminile. Difese, contro Gaume e Veuillot, lo studio dei classici pagani. 3. Il contributo all’educazione religiosa. Per la formazione pastorale del clero scrisse i tre volumi Méthode générale de catéchisme (1862) e poi altri due intitolati L’Oeuvre par excellence ou entretiens sur le catéchisme (1869). In questa seconda opera D. descrive dal vivo i catechismi che si facevano alla Madeleine secondo il metodo di Saint Sulpice. Il catechismo è concepito come una funzione religiosa, che si svolge in una cappella apposita in un ambiente di pietà, con momenti che vanno dalla recita alla spiegazione delle verità, alla lettura del vangelo con breve omelia, ai canti e alle preghiere. Il catechismo è opera di educazione cristiana completa, porta all’amore e alla sequela di Gesù Cristo, si trasforma in un «catecumenato della Prima Comunione», a cui segue per gli adolescenti e i giovani adulti un Catechismo di perseveranza, che li conferma nella fede e nella vita cristiana. 354

Bibl.: Dutoit H., Les meilleurs textes de D., Paris, Desclée de Brouwer, 1933; Viotto P., «La pedagogia dello spiritualismo nei paesi di lingua francese», in Nuove questioni di storia della pedagogia, vol. 3, Brescia, La Scuola, 1977, 637-696.

U. Gianetto

DURKHEIM Émile n. a Épinal nel 1858 - m. Parigi nel 1917, sociologo francese. 1. Preparazione scientifica. Si è formato all’École Normale di Parigi. Dopo aver ricevuto una preparazione sostanzialmente filosofica, si è spostato gradualmente verso interessi sociologici. Dal 1887 al 1902 ha insegnato sociologia e pedagogia a Bordeaux. In questo periodo pubblica La division du travail social (1893), Les règles de la méthode sociologique (1895), Le suicide (1897). Nel frattempo (1896) fonda e dirige la rivista «L’Année Sociologique». Nel 1906 viene chiamato alla Sorbona di Parigi, per insegnare sociologia e scienze dell’educazione. 2. Lo sviluppo del pensiero pedagogico. Può essere scandito in quattro periodi: a) La negazione della specificità del fenomeno educativo: sulla base di un triplice riduzionismo, fisiologico-organicistico, evoluzionista-meccanicistico e deterministico, l’attività educativa era considerata una pura funzione del sistema sociale, letto positivisticamente in termini di «fisicalismo sociale». b) Il ricupero della possibilità del discorso pedagogico: l’educazione viene percepita come l’imperativo che tende a modellare l’individuo sulla base delle esigenze sociali, in vista della creazione del consenso. La pedagogia viene percepita come strumento di superamento del meccanicismo deterministico. c) L’educazione come rimedio all’anomia: a partire dall’analisi del «suicidio» (prima verifica sperimentale di un fenomeno sociale), ipotizzato come sintomo delle gravi disfunzioni del sistema sociale, quali l’anomia e la caduta di consenso sui valori fondanti il vivere sociale, D. riconosce l’importanza dell’educazione come rimedio alla disgregazione e al miglior funzionamento della società. Non

DURKHEIM ÉMILE

giunge ancora a percepirla come un’azione diretta alla promozione e all’ → autorealizzazione dell’individuo. d) Il ricupero dell’autonomia della coscienza individuale su quella collettiva: superando il meccanicismo determinista del primo periodo, D. riconosce all’educazione e successivamente all’etica (familiare, professionale, civica e universale) il compito di trasmettere atteggiamenti e norme a scopo esplicitamente integrativo, ma anche di stimolare nell’individuo le risorse di autonomia e di critica (in seguito enfatizzate dai fautori della sociologia critica) rispetto al determinismo sociale dei processi educativi. 3. Valutazione. Il cuore delle preoccupazioni di D. è quello di conciliare «coscienza collettiva» e «coscienza individuale», la prima derivante dalle esigenze della soggiacente impostazione «organicista», la seconda

emergente dalle componenti «morali» del suo pensiero nella fase matura. D. quindi può essere considerato l’ideologo della «dipendenza educativa» e dell’ → integrazione sociale, che orienta l’individuo al consenso sociale e alla solidarietà organica. Considera il conformismo come condizione di autorealizzazione fino al punto di mitizzare l’uomo ultrasocializzato, riducendo così il fatto educativo a funzione sociale. Bibl.: a) Fonti: D. E., Éducation et sociologie, Paris, Alcan, 1922 (postumo); I d., L’educazione morale, Torino, UTET, 1977. b) Studi: Lukes S., E. D. his life and work. A historical and critical study, London, Penguin Books, 1973; Giddens A., D., Bologna, Il Mulino, 1998; Crespi F., Il pensiero sociologico, Ibid., 2002; Poggi G., E. D., Ibid., 2003.

R. Mion

355

E EBRAISMO Per E. si intende il mondo di idee e di vita di quanti, specificamente dopo i tempi biblici, aderiscono alla religione ebraica, da cui tale mondo, anche per quanto riguarda l’educazione, è radicalmente segnato (→ Bibbia). Si tenga presente che l’E. è un fenomeno storico-culturale di quasi due millenni, vissuto in aree diverse di tutti i continenti. Per cui occorre riconoscere differenze ed evoluzione nelle idee e nelle forme educative. Qui ci limitiamo a quelli che sono i principali aspetti condivisi. 1. Presupposto e avvio dell’educazione nell’E. è la conoscenza e la pratica del volere divino espresso dalla Bibbia, segnatamente dalla Torah (o Pentateuco) e dalla tradizione dei padri o antenati. Tutto ciò è raccolto anzitutto nel Talmud, ma viene sempre vivificato da una rilettura attuale, in particolare tramite le feste e i riti. La continuità di credo, i connotati di una intensa spiritualità (nell’E. liberale), l’affermata identità etnica e la fedeltà alla memoria donano all’educazione ebraica i tratti di una vincolante unità. 2. Il legame alla tradizione, orale e scritta, ha determinato, specie nel passato, una forte attenzione all’educazione come istruzione, dunque al momento didattico, all’insegnamento dettagliato e minuzioso, quasi formale, per cui l’educazione riceve un’impronta scolastica, bilanciando così la soggettività personale e l’inevitabile influsso delle culture nelle varie epoche e mantenendo una adesione e comprensione amorosa di un’eredità

ricevuta. La scuola nel mondo ebraico gode di una giusta fama da ormai due millenni, dalle elementari alle accademie rabbiniche (Jeshivot). 3. In profonda sintonia con la rivelazione biblica, anche in quelle correnti moderne dell’E. che si distaccano dalla forma ortodossa, l’attenzione all’uomo, alla sua persona, alla sua dignità, al suo mistero sta al centro dell’educazione ebraica. → M. Buber, A. Heschel, E. Lévinas, F. Rosenzweig ne sono noti testimoni. In tale prospettiva, nell’educazione giocano un peculiare ruolo – insieme alla scuola – diversi altri fattori: la famiglia, vero luogo vitale di ogni educazione; l’impegno etico per cui l’educazione viene intesa come lotta tra inclinazione cattiva e inclinazione buona, determinando così una concezione dello sviluppo umano in termini fortemente morali, con particolare riferimento alla tappa dell’adolescenza, quando l’ebreo diventa bar mitzwah, «figlio della legge», capace di ubbidienza alla norma e dunque di responsabilità; la cura del perfezionamento di sé, grazie in particolare ad una permanente istruzione degli adulti. 4. Dal punto di vista della storia dell’educazione, si distinguono il periodo del Talmud (I-VII sec. d.C.), medievale o Gaonico (dal nome del rettore delle accademie ebraiche), moderno, comprensivo delle correnti ortodosse come i chassidim dell’Europa orientale (sec. XVIII) e liberali o riformato nell’area nord-atlantica. 5. Nell’educazione in generale, in quella 357

ECONOMIA E EDUCAZIONE

cristiana in specie, l’E. diventa passaggio obbligato anzitutto per il suo originale umanesimo, oggi tanto ignorato, ma anche per contrastare ogni forma di antisemitismo, ancora ben radicato. Con esso si intende un atteggiamento negativo di fronte agli ebrei pensati come razza inferiore e dannosa. La Shoah od Olocausto ne è testimonianza terribile. A questo scopo è importante liberare previamente dall’antigiudaismo, ossia da un’interpretazione antiebraica dei testi del NT. Il Vaticano II (Nostra Aetate, 4) e il successivo Magistero segnano nella Chiesa una svolta decisiva. Bibl.: Toaff E. e A., L’educazione presso gli ebrei, Milano, Vallardi, 1971; Cavalletti S., «L’educazione ebraica», in Nuove questioni di storia della pedagogia, vol. I, Brescia, La Scuola, 1977, 11-62; M eghnagi S., «Ebraica, educazione», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. III, Brescia, La Scuola, 1989, 4153-4158; Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, Roma, LEV, 2001.

C. Bissoli

ECKSTEIN Max → Educazione comparata ÉCOLE DES ROCHES → Scuole Nuove ECOLOGIA → Ambiente → Educazione ambientale

ECONOMIA E EDUCAZIONE Nelle moderne società complesse – carat­ terizzate da elevato tasso di sviluppo indu­ striale, da innovazione tecnologica e da squilibri occupazionali – è sempre più ri­corrente la trasposizione all’area educativo-formativa di lessemi terminologici, che hanno diretto riferimento alle discipli­ne economiche: risorsa umana e investi­mento nell’educazione, domanda e offerta formativa, bisogno e fabbisogno educativo-formativo, produttività e indicatori di qua­lità educativo-formativa, valore aggiun­tivo dell’educazione, managerialità nella conduzione delle istituzioni educative, e quant’altro. 1. La prospettiva economica. Fin dalle ori­ gini gli stessi economisti, nell’intento di contribuire a ricercare regole organiche in­torno 358

all’attività economica, non hanno trascurato di considerare l’incidenza della variabile educativo-formativa nell’elabo­razione dei vari modelli interpretativi dei fattori economici. Così è accaduto che la prima sistemazione teorica dell’e. moder­na, quale scienza che studia le scelte razio­nali ordinate all’impiego dei mezzi econo­mici, abbia tenuto conto del contesto socio­culturale inglese della seconda metà del sec. XVIII, perché in quell’epoca scris­sero Smith, Ricardo e gli altri «padri» del­l’e. cosiddetta «classica». In particolare Smith (1723-1790) riconduceva a tre prin­cipi le sue ipotesi di lavoro: la vita degli uomini è retta dall’ordine naturale e prov­videnziale; la libertà economica è conse­g uenza della naturale libertà degli individui; la divisione del lavoro rende minimi i costi e produce la prosperità. Analogo procedimento metodologico, anche se in opposizione diretta ai presupposti del mo­dello degli economisti classici, è stato adot­tato da un altro insigne economista inglese, J. M. Keynes (1883-1946), costretto a con­f rontarsi con le contraddizioni emergenti dalla grave crisi economica degli anni 1920-1930. Nel suo saggio La fine del lasciar fare, pubblicato nel 1926, Keynes esplicitava gli elementi fondanti del proprio modello di analisi economica: «Non è vero che gli in­ dividui dispongano per diritto di una li­bertà naturale nel loro operare economico; il mondo non è governato dall’alto in modo tale da far coincidere sempre l’interesse privato con quello sociale, né è ammini­strato quaggiù in modo tale che i due interessi coincidano in pratica; non è corretto dedurre dai principi dell’e. che un “illumi­nato” interesse particolare operi sempre nell’interesse pubblico; [...] Avanzo quindi l’ipotesi che il progresso consista nello svi­luppo e nel riconoscimento di organismi semiautonomi all’interno dello Stato». I due riferimenti metodologici, risultano em­blematici allorché si intenda individuare la qualità, la natura e l’estensione dei rappor­ti interattivi tra analisi socio-economica e azioni formativo-educative. La rilevanza della conoscenza del quadro di riferimento, a cui si ispirano i diversi mo­delli di analisi economica, è bene esplicitata dall’economista austriaco J. Schumpe­ter (1883-1950), che distingueva tre fasi principali nel lavoro dell’economista: la fa­se di «visione preanalitica», orientata a ri­levare i problemi da studiare; la fase di «concettualizzazione», in cui

ECONOMIA E EDUCAZIONE

si tenta di ra­zionalizzare la complessità dei problemi emersi e si creano categorie mentali utili a dar rilievo agli aspetti più significativi; infi­ne la fase della «teorizzazione» vera e pro­pria, in cui si collegano in strutture logiche − in modelli − gli elementi emersi nella fase precedente. Tuttavia, «le differenze tra ap­procci economici diversi vengono spesso affrontate considerando solo l’ultima delle tre fasi di lavoro indicate da Schumpeter, cioè i modelli teorici» (Roncaglia-Sylos La­ bini, 1993), mentre l’educatore e il forma­tore dovrebbero essere maggiormente motivati a fondare i rapporti interattivi con le scienze economiche partendo priorita­r iamente dai procedimenti di astrazione-concettualizzazione per cogliere la conce­zione di uomo e di società, che vi è sottesa. Infatti, se «è necessario far emergere nel­l’opera educativa in modo vigoroso la di­gnità e la centralità della persona umana, l’importanza del suo agire critico in libertà e responsabilità», bisogna anche aggiunge­re che «il → processo educativo non appro­da a risultati significativi senza un preciso riferimento alle condizioni concrete di realizzazione di tali ideali in un dato conte­sto culturale e socio-economico» (CEI, 1994). In rapporto a tali esigenze, il pro­cesso di accumulazione scientifica della → sociologia dell’educazione ha proceduto secondo varie direzioni. 2. La prospettiva della sociologia dell’edu­ cazione. Una prima direttrice di indagine generale, rappresentata da → Durkheim, afferma una generica e, in un certo senso, astratta dipendenza eufunzionale del siste­ma educativo dall’intera società e dalla specifica situazione industriale. Un secon­do orientamento, rappresentato da → We­ber, assegna all’educazione una più stretta dipendenza rispetto alle esigenze della struttura di potere carismatica, tradizionale o legale, cui corrisponderà l’ideale educa­t ivo dell’uomo iniziato, dell’uomo colto o dello specialista. Una terza direttrice, deri­vata dall’analisi di Marx (→ marxismo pedagogico), pone l’educazione, al pari di qualsiasi altro elemento o processo cultu­rale, nell’ordine sovrastrutturale e, come ta­le, derivante dall’ordine strutturale, più precisamente dai rapporti di produzione che evidenziano sempre la contrapposizio­ ne dicotomica tra due classi, quella degli sfruttatori e quella degli sfruttati. Una

quarta tendenza, sostenuta principalmente da T. Parsons (1956), configura il rapporto educazione-e. secondo il principio dell’interdipendenza tra sottosistema educativo e altri sottosistemi, tra cui quello economi­co, interagenti con il sistema sociale globa­le e generale di riferimento. In una pro­spettiva dinamica ed attuale, il rapporto di interdipendenza tra educazione ed e. si rende più complesso, instabile e problema­tico a causa di alcuni fenomeni strettamen­te connessi tra di loro: l’imporsi di un settore quaternario, centrato sulla ricerca e l’innovazione; il venir meno di una equili­brata corrispondenza fra → sistema forma­tivo e sistema occupazionale; l’estendersi della disoccupazione tecnologica e della dequalificazione dei titoli di studio. Tali di­namiche costituiscono attualmente l’ogget­to di un sempre più ampio dibattito, le cui posizioni possono essere ricondotte a due orientamenti fondamentali. Da una parte la posizione di chi, in modo più o meno consapevole, assegna all’istruzione-educazione un valore prevalentemente «stru­mentale», che può essere espresso secondo la ben nota relazione: quanto più un indivi­duo studia, tanto più potrà accedere a po­sizioni occupazionali di prestigio e conse­g uire quindi redditi più elevati. Altri, pur non negando la presenza di una dimensio­ne strumentale, privilegiano quella «espressiva» orientata, però, all’acquisizione di specifici «ruoli professionali» supportati da una crescente capacità critica «sull’inte­ro ciclo produttivo, dalla politica degli in­vestimenti alle scelte operative riguardanti la vendita del prodotto e, ancor più a mon­te, sull’intero sistema produttivo e sul si­g nificato che esso assume entro uno speci­fico sistema socio-politico-culturale» (Mi­lanesi, 1979, 742). Dall’esito del confronto in atto, tra dimensione strumentale e di­mensione espressiva arricchita dell’educa­ zione in rapporto ai sistemi economici, di­ penderà il destino e la configurazione del sistema formativo in generale e il ruolo specifico assegnato alla formazione nelle società ad alto sviluppo industriale. Bibl.: D urkheim É., Éducation et sociologie, Paris, Alcan, 1922; Schumpeter J., Storia dell’analisi eco­nomica, 4 voll., Torino, UTET, 1960; Morselli E. - G. Stefani, E. politica, Padova, Cedam, 1965; A rdigò A. (Ed.), Sociologia dell’educazione: Que­stioni di sociologia, 2 voll.,

359

ECUMENISMO

Brescia, La Scuola, 1966; K eynes J. M., Esortazioni e profezie, Mila­no, Mondadori, 1968; Cesareo V., Sociologia del­l’educazione, Milano, Hoepli, 1972; Gallino L., «E.», in Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1978; Milanesi G. C., Educazione e professiona­lità, in «Orientamenti Pedagogici» 26 (1979) 740-745; Frey L., Guida all’analisi economica dell’occupazione, Roma, Lavoro, 1980; Roncaglia A. - P. Sylos Labini, «E.», in Enciclopedia delle scien­ze sociali, 3 voll., Roma, Istituto della Enciclope­dia Italiana, 1993; CEI, Democrazia economica, sviluppo e bene comune, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1994.

P. Ransenigo

ECUMENISMO Nel Concilio Vaticano II si afferma che «per “movimento ecumenico” si intendo­no le attività e le iniziative che, a seconda delle varie necessità della Chiesa e l’op­portunità dei tempi, sono suscitate e ordi­nate a promuovere l’unità dei cristiani» (UR, n. 4). 1. L’unità, ritenuta dai padri conciliari «uno dei principali intenti del Sacro Conci­lio», è urgente perché la divisione tra i cre­denti contraddice apertamente la volontà di Cristo, è motivo di scandalo per il mon­do e danneggia la predicazione del vangelo ad ogni creatura (UR, n. 1). In rapporto a questa esigenza la riflessione pedagogica è promossa ad almeno quattro livelli inter­dipendenti. Il primo è relativo all’educazione in sé. In un contesto di pluralismo confessionale, religioso e culturale sempre più complesso è opportuno ridefinire il dover-essere edu­cativo, elaborando nuove e più adeguate teorie capaci di attuare un’aggiornata me­diazione culturale tra le diverse concezioni. Il secondo livello di riflessione riguarda i contenuti di un’educazione ecumenica, co­stituiti dai nuclei centrali e generatori del­la rivelazione cristiana. Per questo si pro­porrà integralmente la figura di Cristo ed il suo mistero di salvezza, la dottrina della Chiesa Cattolica e, con rispetto e lealtà, quella delle altre Chiese e Comunità cri­stiane. Il terzo livello di studio riguarda gli atteggiamenti da formare nelle persone. Si promuoverà un vero desiderio interiore di unità, di rispetto nei confronti dei fratelli separati, di interesse e di stima per i valori 360

cristiani che lo Spirito può suscitare in loro, di ascolto e di dialogo che superi pregiudi­zi storici, autocritica e conversione per quanto nel passato e nel presente può aver impedito il realizzarsi della preghiera di Gesù «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,11). Il quarto livello di interesse è più immediatamente operativo, e concerne gli ambiti, le strutture, i metodi educativi usati per la ricerca e la promozione dell’u­nità. Le esortazioni ricorrenti, nella lette­ratura specializzata, sono per l’attenzione alle concrete situazioni delle persone, dei gruppi, delle loro sensibilità ed effettive possibilità di maturazione. Ambiti che oggi meritano particolare attenzione sono quelli della scuola e della famiglia. Nella scuola, dove possibile, è opportuno promuovere la collaborazione ecumenica nell’istruzione religiosa, presentando con obiettività, pacatezza e senza pregiudizi i punti comuni e le diversità. Allo stesso modo è auspicabile che si operi nell’educazione dei figli, nel caso di matrimoni misti interconfessionali o interreligiosi, evitando l’assunzione di linee educative di fatto agnostiche, neutrali o confuse, che non favoriscono certo l’educazione religiosa. 2. Nel promuovere iniziative e nel fissare e perseguire obiettivi di valenza ecumenica si è chiamati a duttilità, gradualità, e conti­ nuità. Prima di altri, strumenti di forma­zione ecumenica restano l’ascolto e lo stu­dio della Parola di Dio, la predicazione, la → catechesi, la liturgia, la vita spirituale, la carità, capaci di introdurre nel cuore del­l’esperienza di fede cristiana più autentica e comune. Bibl.: Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’e., in AAS 85 (1993) 1039-1119; Pobee J. S., «Educa­zione e rinnovamento», in Dizionario del movimento ecumenico, ediz. it. a cura di G. Cereti - A. Filippi - L. Sartori, Bologna, Dehoniane, 1994, 464-470; K asper W., Vie dell’unità: prospettive per l’e., Brescia, Queriniana, 2006.

R. Rezzaghi

EDILIZIA SCOLASTICA In senso largo, il complesso delle costru­zioni abitabili e dei servizi annessi, comun­que

EDITORIA SCOLASTICA

messo a disposizione della scuola. In senso stretto, quanto detto ma con destina­zione specifica all’esclusivo uso scolasti­co, con servizi annessi (uffici, biblioteche, laboratori, palestre, piscine, infermeria, ecc.). Con la stessa locuzione si intende an­che indicare una specializzazione all’inter­no delle discipline ingegneristiche e architettonico-urbanistiche, e una denomina­zione di capitoli di bilancio del Ministero della Pubblica Istruzione (→ amministra­zione scolastica). 1. Nel passato, la scuola dei primi gradi ve­ niva ospitata dove era possibile, per lo più in stanzoni forniti di sgabelli e poco più; es­sendo essa affidata al clero, non di rado trovava spazio nei locali adiacenti alle chie­ se. Più tardi, estendendosi al mondo laico, trovò sede presso i municipi, ma talvolta anche in locali d’emergenza adattati, come magazzini, depositi e perfino stalle, vagoni ferroviari in disarmo. Molte scuole medie fino ai nostri giorni sono state provvisoriamente sistemate in appartamenti ordinari di case d’abitazione, civili ma angusti. L’esigenza di edifici appositi venne avver­t ita a partire dal risveglio scolastico della Riforma protestante e cattolica, quando fu­rono erette le sedi di grandi ginnasi-licei, per lo più coesistenti con collegi-convitti (→ collegio), molti dei quali ancora esi­stenti. Talvolta in essi erano ospitate anche le scuole di grado inferiore. 2. Con il sec. XIX la pubblica istruzione venne intesa come una funzione pubblica affidata agli enti locali (Comuni, Province) ed allo Stato, e furono allora costruite scuole per ogni livello. Per ultima venne una legislazione organica che fissava nor­me tassative di abitabilità e di funzionalità, e in molti casi i capitolati di appalto per i costruttori. Oggi i Comuni più attenti alle sorti delle scuole destinano ad esse com­plessi edilizi integrati immersi nel verde, che comprendono scuola materna, elemen­tare e media, con alcune economie per l’u­nificazione di certi servizi. 3. Le aule devono avere una cubatura ade­ guata, con aerazione e riscaldamento, am­pie finestre, sedili e tavoli (o banchi) ergo­nomici tali da non indurre a posture scor­rette ed a paramorfismi e in alcuni casi (aule di fisica chimica e scienze e laboratori di istruzione

professionale) le attrezzature ne­cessarie. È anche opportuno che alle pareti si possano appendere carte e cartelloni, ta­vole di esposizione e scaffali per lavori in corso, bacheche, schermi per proiezioni. 4. L’insegnante deve poter disporre di una cattedra (in passato una specie di pulpito o almeno una scrivania su predella rialzata, oggi anche un semplice tavolo non neces­ sariamente in posizione frontale o centra­le) e di armadi e ripostigli, oltre che di mez­zi di scrittura in grande formato. Servono a tale scopo una lavagna nera e/o di resina sintetica con gessetti o pennarelli, ovvero un maxiblocco di fogli di carta su treppie­de. Le scuole meglio attrezzate possono di­sporre di una → lavagna luminosa, registra­tore magnetico, un proiettore, un televi­sore e un computer, utilizzabili a turno, ov­vero uno per aula (→ mezzi didattici). Bibl.: Cicconcelli C., Scuole materne elementari secondarie, Torino, 1958; Fagiolo M., «La casa della scuola», in L. Volpicelli (Ed.), La pedago­ gia, vol. IX, Milano, Vallardi, 1970, 507-567; Titone R. (Ed.), Questioni di tecno­logia didattica, Brescia, La Scuola, 1974; Oreto P. (Ed.), E.s., con CD-ROM, Palermo, Grafill, 2004.

M. Laeng

EDITORIA SCOLASTICA La produzione libraria di una azienda editoriale di media grandezza viene solitamente raggruppata in aree. Fra queste ne elenchiamo alcune possibili: e.s., e. varia, e. di grandi opere e, a partire dagli anni Ottanta, e. multimediale. In tal senso per e.s. si intende la produzione editoriale destinata alla scuola e da questa adottata per la realizzazione di programmi didattici fissati dai Governi e voluti dai consigli dei docenti delle singole scuole (→ programmazione educativa/scolastica). 1. La scuola ingloba nei suoi piani di studio discipline varie e poiché garantisce un mercato sicuro, il contesto editoriale scolastico si presenta affollato e piuttosto complesso. Si tratta di un settore di lavoro in cui non si può improvvisare: fra tutti i libri funzionali infatti, quelli scolastici sono i più studiati e 361

EDUCANDO

tecnicamente curati in quanto maggiormente esposti al controllo sociale e familiare e ad una serrata concorrenza. La funzionalità di tale produzione è legata ad una attenta analisi dei programmi ministeriali e alla loro interpretazione alla luce delle più attuali tendenze pedagogico-didattiche. La progettazione di nuove opere, l’esame di proposte di pubblicazione e la ricerca di autori devono rispondere ad un indirizzo editoriale ben preciso. Una valida editrice scolastica poi non può prescindere da costanti contatti con università, centri didattici e consulenti. Se la stampa, sin dalla sua invenzione, ha avuto un riferimento costante con la cultura è a partire dall’Otto/Novecento che diventa possibile parlare di e.s. vera e propria. Il sapere ideologico-culturale, i grandi avvenimenti politici, i profondi mutamenti sociali, nonché il complesso sviluppo industriale e capitalistico, favoriscono innovazioni tecnologiche in grado di lanciare il libro verso le grandi battaglie contro l’analfabetismo e a favore di una istruzione scolastica generalizzata. In tal senso fanno uso delle nuove tecnologie informatiche (combinandosi con l’e. multimediale). 2. In Italia lo sviluppo del libro scolastico è anche legato ad alcune riforme legislative. Così con la legge Coppino del 1877 l’Italia fu impegnata a rendere operante l’obbligo scolastico e venne data più attenzione ai problemi dell’istruzione tecnica e professionale; mentre la legge Daneo-Credaro intervenne sullo stato giuridico dei docenti e delle scuole elementari. Sono questi gli anni che vedono nascere editrici come Loescher, Paravia, Le Monnier, Zanichelli, Salani e altri. I primi del Novecento vedono nascere La Scuola di Brescia (1904), la SEI di Torino (1908), la Mondadori e la Rizzoli che con Bompiani e Vallecchi sapranno utilizzare validamente ai fini della loro crescita editoriale la Riforma Gentile che tra l’altro porterà nel 1932 all’istituzione dell’Ente Nazionale per le Biblioteche Popolari e Scolastiche. L’impegno di ricostruzione civile seguito alla seconda guerra mondiale vede anche il sorgere di nuove editrici: nascono così Curcio nel 1954, gli Editori Riuniti nel 1953 e la Mursia nel 1952. L’e.s. italiana è stata fortemente attenta alle riforme avviate dai suoi governi repubblicani e attraverso l’Associazione Italiana 362

Editori (AIE) partecipa allo speciale Osservatorio del libro istituito presso il Ministero della Pubblica Istruzione. Bibl.: Bouvaist J. M., Pratiques et métiers de l’édition, Paris, Cercle de la Librairie, 1991; Silva F. - M. Gamboro - G. C. Bianco, Indagine sull’e., Torino, Fondazione Agnelli, 1992; Huenefeld J., The Huenefeld guide to book publishing, Bedford, Mills & Sanderson Publishers, 1993; Cusmano A., E. Guida per chi vuole pubblicare, Bologna, Zanichelli, 1994; Santoro M., Storia del libro italiano, Milano, Editrice Bibliografica, 1994; Cavalli S. P. - G. Fioretti, Come si fa l’editore, Ibid., 1995.

G. Costa

EDUCABILITÀ → Antropologia pedagogica

EDUCANDO Il termine è oggi in crisi in quanto fa pensare al vecchio modello dell’ → educatore che pla­sma e forma chi, per definizione, è da nu­ trire o da aiutare a tirar fuori le proprie po­ tenzialità. In teoria il binomio educatore-e. resta utile semplificazione del discorso, ma è da superare sia evidenziando il ruolo attivo dei soggetti (al singolare e al plurale) da educare sia mettendo in conto la dimensione dinamica del → rapporto educativo. Il gerundio lat. (educandus, «da educare») richiama la doverosità di una entità processuale che richiede un «prendersi cura» (si veda anche → soggetti del­l’educazione). 1. La soggettività è una categoria centrale del pensiero moderno occidentale. La psi­cologia mostra molti volti dell’essere e del divenire della soggettività (ad es. dinamico, psichico, relazionale, comporta­mentale, etico, spirituale, ecc.). Per lo più il volto moderno del soggetto esalta la sua vitalità attiva già in possesso di strutture native latenti e di do­ mande esplicite, di esigenze che vengono pedagogicamente assunte a norma di progetti e di interventi educativi. Da una concezio­ ne ricettiva e consenziente, si è passati a una concezione antropo-biologica che vede la partenza della → vita da patrimoni interiori genetici e generatori in in­terazione o in dialettica evolutiva e formativa con 1’ →

EDUCATIVA DI STRADA

ambiente, con la cultura sociale, con la vita socio-politica. Secondo alcuni il risul­tato di tale interazione mostra fortemente i segni (se proprio non il risultato) del condizionamento ambientale e sociale. Ad evi­t are un pericoloso sbilanciamento che por­terebbe alla negazione della libertà sog­gettiva, è pertanto necessario lungo il cammino educativo favorire la partecipa­zione attiva all’educazione, prima impegnando la tensione interiore al divenire, al crescere e al maturare in direzioni umanamente degne, poi stimolando ad assumere ruoli e fun­zioni di soggettività protagonista auto-edu­catrice e co-educatrice in dialogo con gli agenti esterni: non solo consentendo, ma esprimendo creativamen­ te bisogni, interessi, desideri, motivi, idea­li, prese di posizione, scelte, impegni, responsabilità solidali. 2. Queste affermazioni devono essere man­ tenute dentro un quadro realistico che ve­de il protagonismo di collaborazione o l’iniziativa del soggetto in condizioni di progressività, di difficoltà, di rischio e perfino di errore. Conseguono la necessità o l’opportunità di inter­venti di orientamento, di guida, di correzione, di stimolo, di chiarificazione; e, sempre e in ogni caso, amorevoli forme di accompagnamento. È bene osservare che l’e­ quilibrio sinergico educatore-e. è e deve es­ sere voluto e promosso decrescente nel primo termine e crescente nel secondo. L’educatore diventa lungo il processo d’e­ducazione «progressivamente superfluo» (Pio XII). In ogni caso è da promuovere e sostenere l’equilibrio nei processi di → sviluppo personale, dove la spinta interiore gioca una funzione sponta­nea naturalmente maturante e formativa, ma richiede l’apporto di buone forme di cultura, in una sorta di ermeneutica vitale, traducibile concretamente in comprensione, ricostruzione intelligente, valutazione critica, reazione creatrice, originalità ideativa e comportamentale. Bibl.: Rogers C., Potere personale. La forza inte­r iore e la sua forza rivoluzionaria, Roma, Astrola­bio, 1978; Rossi B., Identità e differenza. I compiti dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1994; Giussani L., Il rischio educativo, Milano, Rizzoli, 2005; Nosengo G., La persona umana e l’educazione, Brescia, La Scuola, 22006.

P. Gianola

EDUCATIVA DI STRADA Il lavoro educativo di strada rappresenta un notevole mutamento in ordine alle tradizionali logiche secondo le quali era possibile formare i soggetti in età evolutiva solamente all’interno degli appositi ambiti e luoghi istituzionali, come la scuola, l’oratorio, l’associazione, ecc. In questi ultimi anni, invece, si sta sempre più diffondendo e consolidando la possibilità di incontrare bambini, adolescenti, giovani, ed i loro gruppi, nei contesti informali dove questi trascorrono parte significativa del proprio quotidiano. Tutto ciò rappresenta una vera opportunità educativa nonostante le difficoltà da superare. In ambito civile il lavoro di strada avvia in Italia il suo percorso evolutivo all’inizio degli anni Ottanta in riferimento alle situazioni di disagio e di difficoltà sociale. Parallelamente a questo movimento, alla fine degli anni Novanta, anche in ambito ecclesiale gli operatori di pastorale giovanile, constatando l’allontanamento delle nuove generazioni dalla Chiesa, si domandano cosa poter fare per ristabilire un dialogo con i giovani. Sempre più esplicitamente si fa presente il bisogno di andare nei luoghi informali dove i giovani amano incontrarsi. Si apre così un tempo di sperimentazione anche a livello ecclesiale. 1. I modelli del lavoro di strada. Come documentato da Maurizio (1999, 12-15), in questi anni sono andate diffondendosi varie tipologie di interventi che vanno, secondo un continuum, da quelli atti a promuovere le risorse dei gruppi e dell’ambiente a quelli orientati alla riduzione del danno provocato da comportamenti devianti, passando attraverso quelli centrati sulle situazioni a rischio. Il primo modello dell’e. territoriale intende promuovere le competenze e le risorse presenti nella comunità per risolvere suoi specifici problemi in riferimento, per esempio, alla sicurezza, alla vivibilità, al senso di appartenenza e di partecipazione dei cittadini alla comunità. Il secondo modello propriamente detto e.d.s. o animazione di strada ha la finalità educativa di prevenire il disagio degli adolescenti e dei giovani affiancando il gruppo dei pari in modo da promuoverne le risorse e favorirne l’inserimento nella comunità. Il terzo modello relativo agli interventi di riduzione del danno ha lo scopo pragma363

EDUCATIVA DI STRADA

tico di diminuire il rischio rispetto a specifiche e urgenti problematiche, come quella della trasmissione dell’Aids. 2. L’obiettivo. L’e.s. si propone di accompagnare gli adolescenti nella loro ricerca d’identità e di senso tramite degli educatori che sappiano porsi con discrezione al loro fianco e che, riconoscendo le loro attese e potenzialità, siano capaci di far emergere, nonostante le varie contraddizioni, quel desiderio di autenticità che è in ogni adolescente. La ricerca, infatti, perché sia incentivata deve essere riconosciuta nel dialogo. In particolar modo, è l’ascolto a riconoscere l’altro come portatore di significati ed ad offrirgli l’opportunità di capire meglio se stesso. Nel momento in cui si racconta, la persona è obbligata a prendere contatto con la propria interiorità e a chiarire anzitutto a se stesso ciò che desidera, ad oggettivare le proprie fantasie. La narrazione di sé in altre parole favorisce la presa di coscienza e la visibilizzazione della propria ricerca interiore offrendo ad essa parole e significati che la definiscano. È una ricerca che acquista sicurezza proprio perché riconosciuta dall’ascolto e dall’interesse di un adulto. Quando poi la narrazione si fa reciproca la ricerca ha l’opportunità di approfondirsi grazie al valore aggiunto portato dall’esperienza dell’altro, dalla sua storia e dalle sue idee. 3. Il luogo d’incontro. Lo spazio per eccellenza scelto dagli adolescenti e dai giovani per stare insieme agli amici nel proprio tempo libero è la strada o la piazza. Secondo i risultati della ricerca La gioventù negata ben il 71% dei ragazzi e delle ragazze passa in questi luoghi una porzione significativa della propria vita di relazione e del proprio tempo libero (Fondazione Labos & Ministero dell’Interno, 1994). La strada è l’ambiente dove incontrarsi per parlare e confrontarsi, dove esprimere idee e passioni, dove raccontare sogni ed emozioni, dove poter stare vicini anche senza dirsi nulla. Qui si scherza, si conversa del più e del meno e si prendono decisioni importanti. La strada offre l’opportunità di condividere la propria storia con quella degli altri divenendo così un potenziale luogo di riflessione oltre che di distrazione. Gli adolescenti ed i giovani abitano la strada e la piazza portandovi il loro carico 364

di speranza e di delusione. È qui che pongono domande e cercano risposte. Per questo l’incontro in questo luogo di quotidianità dei giovani, può rappresentare un evento di grande portata educativa. 4. La strategia. Il percorso dell’e.d.s. prevede cinque tappe (Cazzin, 1999). La mappatura: previamente all’intervento diretto su un gruppo gli educatori osservano le aggregazioni giovanili informali presenti sul territorio. Lo scopo è quello di individuarne le prime caratteristiche e per scegliere la compagnia con la quale tentare l’aggancio. L’aggancio: i due educatori si presentano al gruppo prescelto chiedendo di poterlo incontrare altre volte. Chiaramente questa tappa è assai delicata perché preclusiva a tutto il percorso. Il consolidamento della relazione: superato positivamente l’aggancio c’è bisogno ora di un adeguato tempo perché gli educatori e gli adolescenti possano conoscersi ed aumentare la stima e la confidenza reciproca. In questa fase si sta col gruppo condividendo quanto i ragazzi fanno, ascoltando e dialogando con loro, aiutandoli ad approfondire le proprie domande. Questa fase è molto importante come tempo di approfondimento dei significati. La progettualità: stando insieme educatori e adolescenti stabiliscono una relazione che abbia una certa valenza affettiva. A questo punto gli educatori divenendo un punto di riferimento per l’intero gruppo possono provocarlo nella realizzazione di un progetto che risponda ai suoi interessi ed alle sue capacità. Può nascere in tal senso un’azione in cui gli adolescenti siano i primi protagonisti, si pongano in interazione col proprio ambiente e sperimentino alcuni valori. Anche questa fase ha un valore a riguardo dei significati da elaborare oltre che innescare un processo di socializzazione fra il gruppo e la comunità allargata. È una fase importante anche perché il gruppo prende coscienza delle proprie potenzialità, che è possibile portare a termine i propri sogni o progetti. Il ruolo degli animatori in questa fase è solo quello di facilitare il gruppo nel proprio fare piuttosto che assumere un ruolo attivo di leadership. Il distacco: durante la realizzazione ed alla fine del progetto è importante che gli animatori siano in grado di aiutare gli adolescenti a riflettere su quanto stanno facendo perché tutto ciò li aiuti a prendere consapevolezza di

EDUCATORE

sé, della propria realtà e dei significati sottesi. A questa fase di verifica corrisponde l’elaborazione del distacco degli animatori dal gruppo. Passaggio delicato in cui i ragazzi e le ragazze prendendo consapevolezza delle proprie risorse si proiettano in avanti, verso ulteriori progetti ed interazioni, prendendo spunto e forza da quanto hanno realizzato in compagnia degli educatori. Bibl.: Fondazione Labos e Ministero dell’Interno, La gioventù negata, Roma, TER, 1994; M aurizio R., Il lavoro di strada in Italia: rassegna di eventi e temi, in In strada con i bambini e i ragazzi. Quaderni del Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza, n. 12, Firenze, Istituto degli innocenti, 1999; Cazzin A., Quattro fasi del lavoro di strada con gli adolescenti, in «Animazione Sociale» (1999) 1, 58-63; Bertolino S. - G. Gocci -F. R anieri, Strada facendo, Milano, Angeli, 2000; Gambini P., L’animazione di strada, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2002; R egoliosi L., La strada come luogo educativo, Milano, Unicopli, 2002.

P. Gambini

EDUCATORE In termini ideali si potrebbe dire che è e. chi educa, vale a dire chi guida i processi di liberazione del potenziale vitale, di cresci­ta e maturazione organica e funzionale, d’inserimento libero e attivo nella realtà della vita, di costruzione di sistemi perso­nali di cultura. Con funzione di → formato­re aiuta il soggetto (→ educando e → soggetti dell’educazione) a dotarsi di buone for­me d’essere, di sapere, di agire, di comportar­si, di fare, riferendosi all’esperienza e alla cultura. 1. Tipi di e. Possiamo distinguere diversi ti­ pi di e. a) E. per natura sono i → genitori. Prolungano la generazione nell’educazione, gestendola in condizioni privilegiate affet­ tive, morali, sociali e perciò anche pedago­ giche, perché primarie ed esemplari, anche se con insufficienze inevitabili che richie­ dono l’integrazione esterna di istituzioni e di operatori esterni. Validità e efficacia di­ pendono dalla → maturità globale genera­tiva consapevole e intenzionale a riguardo dei figli e in relazione al proprio dovere e com-

pito. Di­pendono inoltre dal possesso iniziale e pro­g ressivamente aggiornato dei requisiti per proseguirla. Oggi nell’educazione dei figli emergono impreparazioni, influssi culturali e sociali negativi, rapporti difficili con le integrazioni esterne. Si è fatto urgente per i genitori un grave compito di educazione preventiva, di accompagnamento, di inte­ grazione. A padre e madre si aggiungono le altre figure familiari e parentali e in cer­to senso i gruppi di convivenza stretta, incominciando da una presenza quasi naturale dei coeta­nei, anche di diverso sesso. b) E. per pro­fessione voluti dalla società in rapporto alla complessificazione e differenziazione dei compiti sociali. I loro titoli sono l’esperienza e la loro competenza professionale. Nel loro caso i programmi e i metodi sono da costruire, i buoni rapporti e il consenso da meritare, sia quando sostengono, aiutano o integrano la famiglia, sia quando svilup­ pano impegni educativi autonomi di → scuola, animazione, consulenza e orienta­mento, formazione professionale, terapia e rieducazione (insegnanti, anima­tori, orientatori, e. professionali, formatori, terapeuti, ecc.). 2. Qualità dell’e. Un quadro indicativo (che può valere come criterio di selezione e di reclutamento e che può essere utile per progettare la formazione o l’aggiornamen­to degli e.) include: – il possesso, propor­zionato al compito, almeno sufficiente, del­la scienza e dell’arte dell’ → educazione: – la capacità pedagogica di leggere e inter­pretare, nelle situazioni, i bisogni e le pos­sibilità, di definirvi finalità e obiettivi a me­dio e breve termine, di progettare contenuti e processi per le varie dimensioni del­la → persona e della vita da educare. In passato si collegava l’immagine del buon e. con la sua capacità di vedere, valutare e aprirsi affettivamente e relazionalmente agli educandi. Oggi si bada anche alla personalità profonda dell’e. che, emergendo dal suo intimo cosciente o inconscio, condiziona la percezione dei gio­vani e la relazione con essi, tende a tradursi in peculiare clima interpersonale, relazionale ed am­bientale. L’e., con il suo messaggio affettivo e dinamico caratteriale, di personalità glo­bale, mette in gioco idee e mentalità, per­ cezioni e convinzioni, identità e immagini di ruolo, desideri palesi e nascosti, soprat­t utto motivazioni del suo essere e agire co­me e. 365

EDUCATORE

in generale e nella situazione concre­t a. W. Schraml parla di necessaria «igiene mentale dell’e.». Possiede esigenze ideali o le pre­ sume e quasi pretende? Si lascia guidare da esse o le impone? Sviluppa controtransfert, ansia, proiezioni, sublimazioni? Come su­ pera i pericoli dei propri limiti, delle pro­prie vulnerabilità? Manifesta maturità adulta o residui di onnipotenza infantile o di instabilità adolescenziale? In positivo si desiderano 1’ → accettazione profonda e in­condizionata dei giovani nella loro realtà dinamica educazionale; l’attenzione alle persone; la capacità di → amicizia educan­te; il dono paziente e formativo di stima, fi­ducia, libertà, responsabilità, iniziativa; la capacità di comporre ascendente persona­le e concentrazione sui → valori proposti e sulla maturazione personale. 3. Gli stili educativi dell’e. A seconda degli stili educativi che assume, si possono di­stinguere diversi «volti» o «figure» di e. Nel concreto, si tratta per lo più non di estre­ mizzazioni ideali, ma di accentuazioni va­ riamente componibili. a) Il trasmettitore: ri­ produce tradizioni e sistemi, ripete diretti­ve, è docile e fedele nel conservare. Non critica, non innova. Parla a memoria, chie­de memoria. Esalta l’autorità, si propone con autorità. Interroga, non dialoga. b) L’ → animatore: libera forze intime vitali, facilita la crescita, guida la ricerca e la riflessio­ne, impegna a scelte. Spesso è meno atten­to ai contenuti e più alle dinamiche rela­zionali, personalizza i rapporti e i messaggi. c) Il mediatore: sviluppa la vitalità e accen­t ua la guida nel dialogo/ confronto con le realtà esterne (natura, so­ cietà, tecnica, cultura, fede) e nell’interazione dinamica di conoscenza, af­fettività, valutazione, operatività efficiente ed efficace. Forse è lo stile più completo. d) Il manager: organizza quadri, progetti, piani, programmi, istitu­zioni, esperienze. Spesso è meno attento alle persone e agli stessi valori. e) Lo → psicopedagogista: si concentra sui processi for­mali; si preoccupa di sanità personale e di normali approcci mentali, affettivi, com­ portamentali; sblocca situazioni cliniche complicate. f) L’operatore sociale: ama le si­ tuazioni ambientali, contestuali; considera le reti causali e solutive; condivide i pro­blemi e cerca soluzioni comunitarie; tende a progetti e metodi socio-pedagogici, inve­stendovi tecniche raffinate di ricerca e ana­lisi dei bisogni 366

e delle condizioni, prepa­rando programmi adeguati di fattori agen­ti, strutture, mezzi, procedimenti. g) Il carismatico: ha fascino e ascendente di con­senso e seguito. La sua personalità tende a diventare criterio di verità e valore. Parole, gesti, modi di pensare e fare diventano di tutti, fino a sembrare originali. h) L’accentratore personale: fa tutto da sé e attorno a sé. i) Il distributore comunitario organico: preferisce la collaborazione a ogni livello. Ricordando con simpatia l’«e. nato» di → Spranger, si pensa oggi a superare figure parziali d’e., quali l’erudito, il moralista, lo psicologo, il sociologo, l’animatore, ricercando figure poliva­lenti o meglio capaci di operare in → reti educative. 4. Soggetti-e. Sono e.: a) I → giovani come au­toeducatori o coeducatori. I giovani sono veri soggetti attivi della propria educazione in quanto investono nei processi il proprio potenziale di vitalità fisica, psichi­ca, mentale, affettiva, spirituale, di pensie­ro e amore, progetto e condotta. Lo sono quando possono partecipare in modo attivo e re­sponsabile alla propria educazione e formazione; quando colgono senso e valore nei messaggi altrui, li interpretano con significati personali, li tradu­cono in comportamenti fluidi e condotte quotidiane; quando operano con libertà impegna­ta e guidata le scelte che decidono della lo­ro vita, identità, appartenenze e compartecipa­zioni. Questa → co-educazione, che passa alla autoeducazione, può crescere fino a rende­re sempre meno necessario l’e. b) Le co­munità educatrici. L’e. unico è una astra­zione, dopo le figure patetiche dei pedago­ghi di famiglia. Chi educa è in realtà un sistema e. di persone che convergono con ruoli e quali­fiche molteplici e differenziati a un fine comune (famiglia, scuola, la comunità ecclesiale, la città e la società educante, il sistema della comunicazione sociale, del divertimento, dello sport, del lavoro, della politica). I singoli e. hanno personalità e at­tività ben individualizzata, ma il senso e il valore del loro agire sta nel coordinarsi or­ganico e integrarsi in unità sempre maggiori di progetti e processi con­vergenti e divergenti, perfino risultando re­ciprocamente correttivi, comunicando pe­rò idealmente quadri organici di va­lori, giudizi, condotte e operando, come oggi si dice, in rete. La comunità edu­cativa vede tutti i soggetti, adulti e giovani, inter-

EDUCATORE CRISTIANO

ni e di contesto, impegnati in un progetto comune di lavoro, conver­gere in una intesa istituzionale esplicita di consenso, di partecipazione collettiva e dif­ferenziata nella unità plurale di progetto, pro­g ramma, metodo. c) Oggi si diffonde la pre­senza sistematica di → esperti e consulenti specializzati, non per i casi difficili, ma per la buona impostazione preventiva. Tutti, a proprio modo, collaborano al progetto, ve­rificano e valutano per decidere se prose­g uire, correggere, migliorare l’intero siste­ma o qualche fattore di esso, provano miglioramenti ed eventuali sperimentazioni innovative. 5. L’e. in azione. L’e. non è solo una perso­na, ma un ruolo che svolge una specifica funzione nel processo formativo: a) Informa. La promozione della consapevolezza precede ogni altro sviluppo educativo. Dare coscienza e conoscenza è la prima funzione che impegna l’e. Si estende all’io e alla vita intima, agli universi di appartenenza, alle situazioni e accadimenti, ai contenuti di scienza e notizia. Non è semplice informa­zione. Punta a comprensione, interpretazione, giudizio di valutazione oggettiva, soggettiva, personale. Implica conseguen­ze di adesione e azione, ricerca di sintesi di quadri e sequenze, comparazioni, progetti. Richiede all’e., il dominio esperto di molti mezzi, opportunità e tecniche di informa­zione. b) Motiva. Ben al di là di premi e castighi, guida con autorevolezza la va­lutazione e la valorizzazione oggettiva, sog­gettiva, personale di ciò che va assunto, as­similato, condiviso, preferito, scartato. c) Guida esperienze educanti. Oggi, più che per la vita, educa la vita, nella vita. Sa intrecciare positivamente le esperienze spontanee quotidiane con i momenti critici e significativi, ne aggiunge altre capaci di completare l’arco formati­vo. d) Anima. Supera la → direttività del pensare, giudicare, decidere, scegliere e comportarsi, per farsi animatore esperto e promozionale degli stessi atti, aiutandone la personalizzazione intelligente, responsa­bile, libera. 6. Formare gli e. L’e. è un po’ la chiave di volta dell’intero sistema e processo forma­ tivo. Ne vengono di conseguenza l’urgenza e l’importanza di una sua preparazione e formazione (iniziale, in processo, in conti­nuo aggiornamento). Tale opera di forma­zione

è diretta all’intera personalità dell’e. quale «contesto» del suo ruolo. Ma certo meritano particolare attenzione il ruolo e la funzione per se stessi. Sono frutto di formazione adeguata le com­petenze scientifiche antropologiche sui gio­vani d’oggi: facilità e difficoltà, condizioni sociali, culturali, ideologiche e prammatiche del vivere quotidiano, situazioni di con­vergenza o divergenza con le offerte edu­cative. Ma è pure necessaria la competenza di → metodologia pedagogica, per l’inter­ vento nei vari campi di valori e problemi; il saper raccogliere informazioni e domande, il saper preparare progetti e programmi, piani di lavoro; il saper eseguire l’azione educante, veri­ficare, valutare, migliorare. Oltre che la scienza e la strategia, occorrono anche l’arte e la tattica di agganciare, mettere in cri­si negativa e positiva, sviluppare proposte, condurre dialettiche e dialoghi di transa­zione, ottenere consensi e adesioni, destrutturare e ristrutturare, percorrere lun­ghi cammini di ricerca e sviluppo. Bibl.: Schraml W. J., Introduzione alla pedagogia psicanalitica, Roma, Città Nuova, 1973; Peters R., Il nuovo volto dell’autorità, Roma, Armando, 1975; Berset A., Le maître éveilleur, Paris, Centurion, 1978; Toraille R. (Ed.), L’équipe éducative, Paris, ESF, 1981; Postic M., La relazione educativa: oltre il rapporto mae­ stro-scolaro, Roma, Armando, 1983; Bertolini P. (Ed.), L’operatore pedagogico. Problemi e pro­ spettive, Bologna, Cappelli, 1984; Franta H., At­ teggiamenti dell’e. Teoria e training per la prassi educativa, Roma, LAS, 1988; Gianola P., Il campo e la domanda, il progetto e l’azione. Per una pedagogia metodologica. Edizione a cura di C. Nanni, Ibid., 2003; Biasin C., L’ e. Identità, etica, deontologia, Padova, CLEUP, 2005; Ascenzi A. - M. Corsi, Professione e./formatori. Nuovi bisogni educativi e nuove professionalità pedagogiche, Milano, Vita e Pensiero, 2005; Maccario D., Le nuove professioni educative, Roma, Carocci, 2005; Occulto R., Il lavoro di e. Formazione, metodologia, nuovi scenari sociali, Ibid., 2007.

P. Gianola

EDUCATORE CRISTIANO L’espressione e.c. è qui intesa come un singolare collettivo, i cui referenti sono sia la 367

EDUCATORE PROFESSIONALE

persona singola che il gruppo, la comunità, l’istituzione, considerati nelle loro attività educativo-formative della generazione in crescita in funzione della sua maturazione umano-cristiana. 1. Nell’e.c., in modo analogo a quello che avviene nell’ → educazione cristiana, devono essere presenti, distinte ma non separate né separabili, le due componenti che ne definiscono la natura: anzitutto quel complesso di doti umane, unite a una sufficiente preparazione professionale, che lo rendano vero e.; in secondo luogo ciò che lo qualifica come «cristiano». Potremmo definirlo: la persona o la comunità, le quali, avendo già fatto un cammino di crescita umano-cristiana ed essendo già impegnate in un’azione di testimonianza evangelica e di promozione umana, sono in grado di inserire, all’interno del processo di → conversione e crescita cristiana dell’educando, un autentico processo di maturazione umana, e viceversa; però in modo tale che, in ambedue i casi, i due processi, nella persona concreta dell’educando, diventino un unico processo di maturazione umano-cristiana. Per la prima componente rinviamo alla voce relativa (→ maturazione). 2. La realizzazione degli obiettivi e della meta a cui tende l’educazione cristiana esige che vi partecipino, sia pure con responsabilità e contributi diversi, tutte le componenti della comunità ecclesiale: i pastori, nella loro funzione di animazione e guida delle altre componenti della comunità, la famiglia, la scuola, i gruppi giovanili, le associazioni, i movimenti ecclesiali, ecc. Le comunità ecclesiali diventano ambiente adatto per la maturazione umano-cristiana della generazione in crescita alle seguenti condizioni: se sono vere comunità a misura d’uomo; se è presente in esse una forte tensione evangelizzatrice, non disgiunta da un autentico sforzo di promozione umana; e infine se la vita dei loro membri si svolge in un clima di dialogo come atteggiamento, comunicazione e comunione collaborativa. Quest’ultima condizione è molto importante per una maturazione umano-cristiana, che eviti nel giovane, durante il suo processo di crescita cristiana, l’arresto della sua maturazione umana. Il dialogo/atteggiamento si identifica ultimamente con l’apertura e l’accettazione della persona 368

dell’altro e si realizza in concreto quando l’e.c., di fronte ai comportamenti giovanili è capace di risposte, verbali o gestuali, franche e sincere, che non includano tuttavia giudizi negativi sulle persone. Il dialogo/comunicazione, reso possibile dall’accettazione e dalla stima reciproca, realizza un vero rapporto interpersonale tra l’e. e l’educando. Mediante una tale comunicazione il giovane non si sente emarginato, cresce in lui il sentimento di appartenenza alla → Chiesa, condizione questa oggi molto importante per potere attuare un processo di maturazione umano-cristiana in un mondo sempre più secolarizzato e scristianizzato. Conseguenza delle due disposizioni precedenti è la realizzazione, tra i vari partner della comunità educativa, di un’autentica comunione/collaborazione, fatta di disponibilità reciproca, di capacità di modificazione dei propri stereotipi e delle proprie abitudini in favore di imprese comuni, che esigono sacrifici da parte di tutti. I membri della comunità, accettandosi reciprocamente e potendo comunicare in profondità tra loro, sono in grado di aiutarsi reciprocamente per il raggiungimento dello scopo della loro conversione: crescere in Cristo, maturando come uomini; attuare la loro missione di evangelizzazione e di promozione umana nel mondo. Bibl.: Galli N. (Ed.), L’educazione cristiana negli insegnamenti degli ultimi pontefici. Da Pio XI a Giovanni Paolo II, Milano, Vita e Pensiero, 1992; Gatti G., Professione: e.c., Leumann (TO), Elle Di Ci, 1995; Giussani L., Il rischio educativo come creazione di personalità e di storia, Torino, SEI, 1995; Tonelli R., Educhiamo i giovani a vivere da cristiani adulti, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2000; Domínguez Prieto X. M., Etica del docente, Roma, LAS, 2007.

G. Groppo

EDUCATORE PROFESSIONALE Oggi emerge sempre più chiaramente il bisogno di «professionisti dell’educazione». Con la crisi delle agenzie educative tradizionali e la perdita della centralità della scuola, il compito educativo diviene sempre più differenziato e complesso, e questo rende ardua la precisazione di identità, compiti, compe-

EDUCAZIONE

tenze e attività specifiche del professionista dell’educazione. 1. Per una comprensione meno superficiale e settoriale, riportiamo la specificazione del profilo dell’e.p. fatta dall’ANEP (Associazione Nazionale Educatore Professionale): «L’e.p. è l’operatore che, in base ad una specifica preparazione di carattere teorico e tecnico-pratico, svolge la propria attività mediante la formulazione e la realizzazione di progetti educativi, caratterizzati da intenzionalità e continuità, volti a promuovere lo sviluppo equilibrato della personalità e delle potenzialità, il recupero ed il reinserimento sociale di soggetti portatori di menomazioni psico-fisiche e di persone in situazione di disagio o esposte a rischio di emarginazione sociale o di devianza». In questa definizione sono presenti gli elementi essenziali del compito dell’e.p., che egli può svolgere «in strutture e servizi socio-sanitari e socio-educativi pubblici e privati, sul territorio, nelle strutture residenziali e semiresidenziali in regime di dipendenza o libero professionale», come precisa il decreto legislativo n. 520 del 1998 del Ministero della Sanità. 2. Le attività specifiche dell’e.p. possono consistere in relazioni «dirette» con le persone con cui egli condivide il quotidiano e che, attraverso una relazione educativa significativa, accompagna verso un cambiamento. In questo tipo di attività, l’e.p. deve essere attento a comprendere come viene percepito il suo intervento perché il/i soggetto/i preso/i in cura siano veri protagonisti del processo di crescita. La sua attività professionale può anche essere di tipo «indiretto», in quanto può vederlo impegnato in analisi, progettazione, organizzazione e processi di intervento, di verifica e/o di valutazione di attività educative. Vengono invece indicate come attività di secondo livello quelle nelle quali l’e.p. è impegnato nella formazione, nel coordinamento e/o supervisione di altri operatori che svolgono attività educative nel sociale. 3. Per poter rispondere al compito e svolgerlo con efficacia, l’e.p. ha bisogno di adeguate competenze educative che si riferiscono a tre aree principali: quella cognitiva (tutta l’area delle scienze umane, i diversi tipi di soggetti con cui potrà operare), quella metodologica

(capacità di azione che richiederà l’acquisizione di abilità di uso di metodi e tecniche fondamentali per il lavoro personale, di équipe e di rete), e personale (qualità e capacità personali riferite a relazione, comunicazione, controllo, attenzione a diversità culturale, al cambiamento, alla diversità di contesto ambientale e di vita personale, ecc.). Bibl.: Groppo M. (Ed.), L’e.p. oggi, Milano, Vita e Pensiero, 1994; Bassa Poporat M. T. - F. Lauria , Professione e. Modelli, metodi, strategie d’intervento, Pisa, ETS, 1998; Santerini M., L’e. tra professionalità pedagogica e responsabilità sociale, Brescia, La Scuola, 1998; Brunori P. et al., La professione di e. Ruolo e percorsi formativi, Roma Carocci, 2001; Biasin C., L’e. Identità, etica e deontologia, Padova, CLEUP, 2003; Cardini M. - L. Molteni (Edd.), L’e.p. Guida per orientarsi nella formazione e nel lavoro, Roma, Carocci Faber, 2003; Prever F. C. - M. Pidello L. Ronda (Edd.), La responsabilità dell’e.p. Etica e prassi del lavoro socio-educativo, Ibid., 2003; Brandani W. - P. Zuffinetti (Edd.), Le competenze dell’e.p., Ibid., 2004.

V. Orlando

EDUCAZIONE Promozione, strutturazione e consolidamento delle capacità personali fondamentali per vivere la vita in modo cosciente, libero, responsabile e solidale, nel mondo e con gli altri, nel fluire del tempo e delle età, nell’intreccio delle relazioni interpersonali e nella vita sociale storicamente organizzata, tra interiorità personale e trascendenza. 1. Etimologia ed uso del termine. L’etimologia incerta, tra educare (nutrire, allevare, coltivare) ed educere (tirar fuori, sviluppare), fa riferimento ad un intervento promozionale, riferito nel primo caso più agli aspetti organici (allevamento, custodia, assistenza, cura, nutrizione, igiene) ed invece nel secondo caso agli aspetti più interiori (immaginazione, osservazione, intelletto, ragione, senso critico, emotività, relazionalità, espressività, operatività). L’uso storico evidenzia la polisemia del termine, considerato sinonimo di → sviluppo, crescita, apprendimento, formazione, socializzazione, inculturazione, 369

EDUCAZIONE

istruzione, insegnamento, addestramento, aggiornamento; ed evoca ambienti istituzionali particolari come la famiglia, la scuola, le chiese, i gruppi, le associazioni, i movimenti, ma investe anche la responsabilità sociale nel suo complesso: il sistema dei mass-media e dei new media in particolare. Nelle lingue moderne, l’ingl. Education è molto vicino a istruzione o comunque a e. scolastica, mentre si usa Bringing up per il far crescere (specie in famiglia) e Training per la capacitazione ad agire. A sua volta il ted. Erziehung sottolinea l’intervento sul processo di trasformazione umana. 2. Le molte facce dell’e. L’e. può essere intesa in più sensi, accentuando questo o quello dei molteplici aspetti secondo cui può essere considerata. Nell’uso quotidiano, quando si parla di e., s’intende anzitutto una particolare attività umana, connessa a determinate figure e a ruoli particolari, come genitori, maestri, insegnanti, sacerdoti, istitutori, educatori, all’interno di un rapporto interpersonale particolare, e rivolta a nutrire, curare, formare individui della generazione in crescita. È senz’altro l’uso più antico del termine, cui sembra riferirsi l’incerta etimologia (→ azione educativa, azione didattica). Sempre più insistentemente nell’epoca moderna e contemporanea, l’e. viene vista come attività e compito di chi appartiene alla generazione in crescita, e pertanto si è portati ad identificarla con il processo di crescita personale, accentuandone l’aspetto attivo (→ formazione, auto-formazione). In certi casi, riferendosi alla situazione in cui si dispiega l’attività educativa, la si vede come un processo, cioè una sequenza organizzata di attività finalizzate alla strutturazione e al consolidamento della personalità e della sua vita relazionale (→ processo educativo). Altre volte si parla di e. volendo indicare il risultato complessivo e della rilevanza politica di tale attività in un soggetto o in una pluralità di soggetti (come quando si parla di e. in genere o di e. scolastica, di e. classica, di e. tecnico-scientifica o di e. primaria, secondaria, ecc.). Tuttavia, nel linguaggio dell’opinione corrente, per lo più, quando si parla di e. si fa riferimento ad un sistema o insieme di strutture, istituzioni, persone, procedure sociali, in cui si realizzano tutti o in parte i significati enunciati precedentemente (→ sistema formativo, 370

sistema educativo di istruzione e di formazione). Così ad es. si parla di un’e. differente da nazione a nazione (e. europea, asiatica, americana, ecc.); da periodo storico a periodo storico (e. antica, medioevale, moderna); attuata da differenti istituzioni o in diverse situazioni (e. familiare, scolastica, ecclesiale); o secondo particolari modalità, regole di funzionamento o di gestione, (e. pubblica o privata; neutra o confessionale; centralizzata o decentralizzata). Anzi non è raro il caso in cui e. venga intesa puramente come equivalente a scuola e a processi d’istruzione scolastica, soprattutto nella letteratura anglofona o nella pedagogia accademica tradizionale. 3. Novità nella pratica e nei significati di e. Queste diverse prospettive, secondo cui è inteso il termine e., si sono arricchite nel nostro tempo di nuove connotazioni. Per quanto riguarda l’e. intesa come sistema, si va prendendo coscienza del moltiplicarsi delle cosiddette agenzie e situazioni educative. L’e. si compie non solo o non tanto in famiglia o a scuola o in parrocchia o nelle associazioni tradizionali, ma anche e spesso nella strada, nella vita del quartiere, nei gruppi di coetanei o più ancora in quelli che vengono detti gruppi spontanei; nei momenti di gioco e di tempo libero; attraverso la lettura di giornali, fumetti, riviste, libri; nelle discoteche, al cinema, attraverso la radio e la televisione; e oggi soprattutto navigando nella rete telematica con il computer e gli altri strumenti «hifi», lo sport, il divertimento, il turismo, ecc. Anche per quanto riguarda l’e. intesa come attività educante non ci si riduce più all’azione e alla presenza degli educatori tradizionali. Accanto ad essi acquistano sempre più valore il gruppo, i leaders, l’eroe del fumetto, la star del cinema o della canzone, i capi carismatici di movimenti o partiti, i campioni sportivi. Così pure prendono coscienza della loro valenza educativa gli operatori sociali, gli animatori socio-culturali, i terapeuti. E, in genere, si assiste ad un rapido moltiplicarsi e specializzarsi dei ruoli e delle figure educative professionali specifiche quali gli → educatori professionali, gli esperti di processi formativi, i pedagogisti, gli animatori, i mediatori culturali, i tutor, i mentor, ecc. Se poi ci si colloca dal punto di vista dell’e. come intervento sui processi di crescita personale, oggi si mette in risalto, accanto all’assimila-

EDUCAZIONE

zione e all’adattamento, l’aspetto attivo e creativo di colui che è soggetto di e., perlomeno nel senso che, per quanto gli è dato dall’età e dalle doti personali e contestuali, prende sempre più posizione rispetto ai processi di crescita ed ai molteplici interventi formativi o comunque sociali con cui viene ad interagire o in cui si trova a vivere, provando e tentando, spesso rischiando anche gravemente o compromettendo l’avvenire, ed in ogni caso facendosi le sue esperienze; e questo non soltanto nel periodo circoscritto che va dall’età del cosiddetto uso della ragione alla maggiore età. I tempi dell’e. si sono dilatati sia verso il basso che verso l’alto. Si prende sempre più coscienza di una fondamentale coestensività di esistenza e di e., sia pure con modalità diversificate dal punto di vista cronologico e strutturale. Tale coscienza e convinzione sono veicolate dalle categorie di e. prescolastica, di prolungamento dell’e. scolare, di e. ricorrente, di e. degli adulti, di e. per la terza età o, globalmente, di e. permanente (che viene sempre più intesa come e. per tutta la vita, di tutta la vita, in tutte le situazioni di vita). Accanto all’e. formale (intenzionale e organizzata, come l’e. scolastica) si evidenzia il rilevante significato dell’e. non formale (intenzionale ma non troppo organizzata, come in famiglia, nei movimenti, nei centri formativi e sociali) e dell’e. informale (né intenzionale né organizzata, come nel mondo dei vissuti urbani, del divertimento o del mondo del virtuale). Anche l’e. come rapporto oggi è sempre meno compresa come evento atomistico, senza storia, o binomio astrattamente preso: la coppia educando/ educatore (o quella relativa allievo/maestro) per lo più è vista e trattata come realtà plurale o collettiva in entrambi i termini del rapporto: → la comunità educativa viene pensata e voluta come soggetto ultimo dell’e. A sua volta lo stesso rapporto interpersonale tra educando ed educatore, anche quando è visto nella sua singolarità, viene ricompreso nel suo intreccio con il mondo della natura e della cultura, con l’immaginario collettivo e con il mondo del virtuale, e nel suo rapporto con le strutture sociali, economiche, politiche, religiose. I recenti sviluppi delle scienze umane (etologia, psicologia, sociologia, antropologia culturale, linguistica), della psicoterapia ed in particolare delle scienze della comunicazione aiutano a comprendere sempre meglio

le dinamiche complesse e profonde della relazione e della → comunicazione educativa. E sulla base della vasta interazione e reciprocità che tale relazione comporta e induce, si va parlando anche di → coeducazione: non tanto nel senso tradizionale di strategia educativa che fa interagire ragazzi e ragazze, quanto piuttosto come momento del comune processo storico di liberazione e qualificazione umana. Anche l’e. come risultato mostra nuove connotazioni. Le moderne pratiche e concezioni educative hanno tentato di superare l’unilateralità di certe impostazioni tradizionali, troppo spesso eccessivamente moralistiche o, all’opposto, troppo esclusivamente intellettualistiche; oppure troppo umanistiche o, all’opposto, troppo tecniche. Si è ricuperato il carattere pluridimensionale dell’e., in cui si connettono sviluppo fisicobiologico, maturazione psicologica, formazione culturale, crescita morale, maturità religiosa, inserimento, ambientale partecipazione storica e così via, nella prospettiva di una e. integrale della persona, coerente con l’esistenza comunitaria storica. Una maggiore attenzione viene data alle diverse condizioni di vita (→ donna, condizione giovanile, adultità, terza età, anziani) o a chi si trova in condizioni vitali particolari (→ disabilità, disagio, devianza, emarginazione, tossicodipendenza, bulimia, anoressia, malati di AIDS, ecc.). La complessità e i mutamenti in atto nella vita sociale, invitano a prestare speciale attenzione ad alcune dimensioni od aspetti della e. personale e sociale: si parla in tal senso di «nuove e.» (→ e. ambientale, sessuale, alla convivenza democratica, alla legalità, allo sviluppo, alla pace, al pluralismo e alla multiculturalità, ecc.). La globalizzazione e l’informatizzazione generalizzata fanno parlare di società della conoscenza ed enfatizzano la razionalità tecnologica: nuove forme di apprendimento si impongono e nuove competenze si rendono necessarie. Si invoca perciò da tutte le parti e a tutti i livelli una generale riforma dell’apprendimento e dell’insegnamento. 4. La specificità educativa. In questi contesti per tanti versi del tutto nuovi si parla di emergenza educativa. Invero l’età moderna e contemporanea ha esaltato, ma anche aspramente criticato e contestato (→ descolarizzazione, marxismo, psicoanalisi) l’azio371

EDUCAZIONE

ne sociale dell’e. Pur tuttavia, le nazioni e le organizzazioni internazionali connettono strettamente sviluppo sociale ed e., coscienti della funzione sociale dell’e. e del suo essere uno dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino. Alla problematicità di sempre, collegata con la diversità generazionale, con la disparità di esperienza e di vita tra educatori ed educandi, con le interferenze date dalle innovazioni e dai mutamenti che subentrano nel tempo e nelle diverse età della vita, oggi si affianca quella derivata dalla particolarità del vissuto sociale contemporaneo. Questo dilatarsi di prospettiva e di impegno, ma anche di problematicità, richiede a livello logico un supplemento di chiarificazione e precisione, ad evitare confusioni, eccessività, incomprensioni, guasti. Dopo → Rousseau si è preso a parlare di e. della natura, delle circostanze, oltre che di e. come opera dell’uomo sull’uomo. Allo stesso scopo, ma con volontà di una maggior precisione, dopo gli anni venti, i pedagogisti cominciarono a distinguere tra e. intenzionale e e. funzionale. Con quest’ultima (o con le terminologie affini di e. non formale e di e. informale) s’intendono le incidenze più svariate sulla personalità in sviluppo, che sortiscono senza un programma preciso (e senza troppa chiara coscienza educativa) dalle forze socioculturali, politiche, economiche o dall’ambiente. Con e. intenzionale (o con i termini affini di e. formale, di e. sistematica e di e. organizzata) invece si vuole caratterizzare quella serie di azioni e interventi voluti e specifici, predisposti esplicitamente secondo un certo ordine metodico e posti da chi ha compiti e responsabilità educative, individualmente e/o collettivamente, in vista di favorire e promuovere il processo formativo della personalità dei soggetti di e. La crescita personale e la sua formazione impegnano istituzioni e persone in un vasto spettro di azione. All’interno di esso, l’e. sembra caratterizzarsi per l’attenzione alla globalità e alla unitarietà della vita personale. Proprio per questo, ha da tener conto dell’intera gamma di rapporti di cui è intessuta la vita umana (in tal senso si parla di forme dell’e.: fisica, psichica, intellettuale, morale, estetica, religiosa, tecnico-professionale, ecc.). Anzi l’e. sembra trovare il suo proprium, diretto e specifico, nel riferirsi alla strutturazione organica della personalità umana e del suo 372

comportamento storico, cosciente, libero, responsabile e oggi, in un contesto di globale interdipendenza di vita, proattivamente solidale. In questo orizzonte di senso vengono ad essere qualificate educativamente le altre attività formative (l’apprendimento, l’insegnamento, la formazione culturale, gli interventi metodici di socializzazione e d’inculturazione, l’addestramento, l’allevamento, il sano sviluppo biopsichico, ecc.): in modo tale che l’essere umano sano, colto, socializzato, competente, professionista sia persona e viva autenticamente la sua esistenza storica in apertura alla trascendenza. Per tali motivi è da dire che forse solo mediante un’indagine approfondita sulla vita e la libertà umana si potrà comprendere meglio e più adeguatamente il significato specifico dell’e.: nel senso che si fa opera propriamente educativa solo quando si aiuta a crescere in «umanità», quando si agisce per la «genesi della persona», quando si fa opera d’iniziazione all’agire eticamente valido e operativamente capace. Ma è evidente che a questo livello risulta preponderante l’influsso delle concezioni che si hanno del mondo e della vita e più in particolare dell’immagine che si ha dell’ → uomo e del suo destino: storico e religiosamente trascendente. Bibl.: Corallo G., L’e., Torino, SEI, 1961; Peters R. S. (Ed.), Analisi logica dell’e., Firenze, La Nuova Italia, 1971; Brezinka W., La scienza dell’e., Roma, Armando, 1976; De Giacinto S., E. come sistema, Brescia, La Scuola, 1977; Soltis J. F., An introduction to the analysis of educational concepts, London, Addison-Wesley, 1978; Lena M., Lo spirito dell’e., Brescia, La Scuola, 1986; Massa R., Le tecniche e i corpi, Milano, Unicopli, 1986; Mialaret G. (Ed.), Introduzione alle scienze dell’e., Roma/Bari, Laterza, 1989; Nanni C., L’e. tra crisi e ricerca di senso, Roma, LAS, 1990; Delors J. (Ed.), Nell’e. un tesoro, Roma, Armando, 1997; Morin E., I sette saperi necessari all’e. del futuro, Milano, Cortina, 2001; A ngelini G., Educare si deve, ma si può?, Milano, Vita e Pensiero, 2002; Callari Galli M. - F. Cambi M. Ceruti, Formare alla complessità, Roma, Carocci, 2003; Briones G., Epistemología y teorías de las ciencias sociales y de la educación, México D.F./Alcalá de Guadaíra (Sevilla), Trillas /MAD, 2006; Steiner R., L’ e. dei figli, Milano, Mondadori, 2007.

C. Nanni

EDUCAZIONE AI MEDIA

EDUCAZIONE AFFETTIVA La componente affettiva esce dall’intimità vitale profonda, tesa alla conservazione e alla espansione totale. Investe la vita e gli incontri ricavandone stati di gratificazione, piacere, gioia e → felicità o → frustrazione, dolore, dispiacere, sofferenza. 1. L’e.a., che è sempre della persona, pro­muove maturità e ordine in quella componente e dimensione personale che è l’affettività (→ e. sessuale, → emo­zioni, → amore). Essa guida la persona a ot­tenere la massima disponibilità di carica vitale a tutti i livelli, corporeo, psichico, spirituale, operativo, offrendole condi­zioni di libertà e stimoli crescenti per sen­tire bisogni, avere interessi, esprimere desideri, provare emozioni, vivere passio­ni; ed aiuta l’integrazione della → persona­lità. In tal senso l’e.a. integra il mondo dell’e­motività e dell’apertura all’altro nelle funzioni ordinatrici di percezione, interpre­tazione, giudizio, valutazione oggettiva e soggettiva, progetto, ecc. Assicura loro va­lidità di espressione, non imbrigliandoli e soffocandoli, ma investendoli produttiva­mente dentro sistemi di valori, fini e scopi, fino a prospettive etiche e religiose. L’e.a. attraversa le fasi di prima e seconda infan­zia, fanciullezza, pubertà, adolescenza, gio­vinezza, età adulta, anzianità. Privilegia la relazione con se stessi e con le figure pa­rentali, l’amicizia e l’amore in tutte le espressioni. Ne sono luoghi privilegiati i coetanei, la famiglia, la scuola, i gruppi e movimenti, le comunità, lo sviluppo della relazione qualificata maschile-femminile, fino alle dimensioni più larghe della → soli­darietà sociale, ideale, religiosa. 2. Sulla dimensione af­fettiva della personalità e della condotta incidono fattori ereditari, pulsionali pro­fondi, ambientali culturali e modali, esperienziali, favorevoli o conflittuali, conoscenze frutto di riflessione interna o di riferimento assiologico, interpretativo, valutativo e pro­gettuale totale. Da questo punto di vista, l’e.a. è come l’energia delle potenzialità interiori di sviluppo personale, corregge o induce fissazioni e insicurezze, può essere fattore di rieduca­zione o addirittura di terapia nei ca­si di evidente deviazione. Sono decisivi la costruzione previa o contemporanea di quadri di interpretazione valida, il posses-

so convinto di progetti di identità, relazione, appartenenza, partecipazione, l’acquisizione di motivi e criteri di autocontrollo, la possibilità e l’esercizio concreto di espressività affettiva libera e positiva Gli educatori che pos­siedono → maturità affettiva ne fanno am­biente, stile, stimolo per i soggetti in e., sin­goli e collettività. Nella situazione attuale dell’esistenza individuale e collettiva tutto ciò non è assolutamente scontato e facile da realizzare. Bibl.: Bednarski F. A., L’e. dell’affettività alla luce della psicologia di S. Tommaso d’Aquino, Milano, Massimo, 1986; Del R e G., E. sessuale e relazione affettiva, Trento, Erickson, 1994; Ianes D. - H. Demo, Educare all’affettività, Ibid., 2007.

P. Gianola

EDUCAZIONE AI MEDIA Per e.a.m. si intende il processo attraverso il quale vengono acquisite, da una parte, competenze per il consumo citico e per la decostruzione dei «testi» mediali e, dall’altra, il processo attraverso il quale vengono acquisite competenze per la creazione di «testi» mediali. L’e.a.m. va perseguita sullo sfondo della comprensione della natura della comunicazione con particolare riferimento ai mass media e alle telecomunicazioni. Un soggetto educato ai meda conosce le caratteristiche strutturali dei media e come esse tendano ad influenzare il contenuto dei media stessi. 1. Cenni storici. L’alfabetizzazione ai media, iniziata negli anni Trenta secondo il paradigma «inoculatorio» o di protezione dai loro effetti, ha seguito, negli anni Sessanta, il paradigma detto «delle arti popolari», volto ad enfatizzarne il potere all’interno della cultura popolare. Negli anni Ottanta si è riscontrata una presa di coscienza circa il potere ideologico dell’immagine, legato alla sua naturalizzazione, con conseguente nascita del paradigma «rappresentazionale» della realtà attraverso il consumo delle immagini. Lo studio sui media quale campo scientifico ha un’origine recente. Dagli anni Novanta, grazie all’analisi investigativa, l’e.a.m. è entrata in una fase di autonomia critica, come delineato da Masterman (1994) che considera 373

EDUCAZIONE AI MEDIA

l’e.a.m. come una delle poche armi che una società possiede per sfidare il divario di conoscenza e di potere creato dai media stessi. Se negli anni Ottanta la preoccupazione degli educatori era quella di un insegnamento dei media regolamentato, nella scuola primaria e secondaria, la que­stione oggi si è spostata più sul come operare per trasfor­mare l’esperienza dell’e.a.m. in un processo globale che duri tutta la vita. Inoltre, dalla seconda metà degli anni Novanta è andata sempre più stringendosi l’alleanza fra i media tradizionali – stampa di massa, televisione, radio e cinema – e i nuovi media. Multimedialità e telematica sono sempre più due ambiti concettuali che si intersecano integrandosi. L’urgenza di educare all’uso dei media vecchi e nuovi si rivela più che mai un’urgenza prioritaria dell’e. nella società globalizzata. Varie sono le ottiche dalle quali collocarsi per educare ai media vecchi e nuovi. 2. La media education è una strategia per gestire al meglio l’e. alla cittadinanza nella società dell’informazione. Per formare alla comunicazione è necessario immettersi nel flusso di riflessione e proporre strategie operative riferite ai media intesi come risorsa integrale per l’intervento formativo. La media education non si esplicita solo nella scuola, ma anche nella famiglia e nel non profit nelle sue diverse forme. Il termine media education e la corrente culturale dei media educators o educatori ai media ha origine negli anni Settanta in Australia ed è presente in alcune iniziative dell’UNESCO. Nel 1978 viene fondata in Canada l’Association for Media Literacy che sviluppa, nello stato dell’Ontario, riflessioni teorico-pratiche che confluiscono, nel 1989, nel volume Media literacy, libro-guida per le scuole superiori. Gli anni Ottanta vedono nel britannico Len Masterman il teorico più accreditato. Il testo-base che guida il movimento della media education è Teaching the media del 1985. Masterman, in un contributo del 1994, fa os­servare che il punto focale dell’e.a.m. è quello di sviluppare nei bambini sicurezza in se stessi e maturità critica per formulare giudizi motivati sui programmi televisivi e, in seguito, anche su articoli di giornali. Gli educatori di tutto il mondo hanno compreso l’importanza dell’e.a.m. in tal senso, tuttavia la realizzazione concreta di corsi finalizzati 374

a ta­le scopo è ancora agli inizi nella maggior parte dei Paesi, con l’eccezione forse di Scozia, Canada e Australia. Masterman offre ai media educator un quadro concettuale robusto per l’introduzione della media education nella scuola, fondato sulle convinzioni che: i media nella scuola vanno studiati con sistematicità come ogni altra realtà della cultura; i media non sono la realtà, ma una sua rappresentazione, una costruzione di un’immagine di realtà. Con la conseguenza che il primo compito della media education è quello di «decostruire» tale costruzione artificiale della realtà. Per Masterman, quattro grandi categorie guidano il processo di decostruzione: a) gli elementi strutturali presenti nella comunicazione mediale; b) il linguaggio proprio usato dai media, che va insegnato ed appreso; c) i fattori ideologici ed economici ai quali i media sono strettamente legati, che li rendono capaci di far passare come realtà una costruzione «interessata» della realtà; d) La «negoziazione» che il pubblico opera sui significati trasmessi dai media sulla base delle proprie conoscenze, valori e ideologie. In questo senso il pubblico, soprattutto giovanile, va preparato ad essere fruitore critico dei media. Nel 2006 l’UNESCO e la Commissione Europea danno il via al progetto MENTOR, un programma che riunisce esperti e professionisti della media education del bacino mediterraneo e discute sulla formazione dei formatori mettendo a fuoco strategie nazionali e internazionali per lo sviluppo della media education. MENTOR è diventata un’associazione professionale per lo sviluppo della media education nel mondo. Prezioso è il volume Handbook on Information Literacy pubblicato dal Consiglio d’Europa. In Italia, l’associazione MED (Giannatelli e Rivoltella, 2003) crea uno spazio d’incontro e di progettazione tra Scienze dell’E. e Scienze della Comunicazione. 3. La scelta della media literacy o alfabetizzazione ai media potrebbe essere considerata un punto d’arrivo dopo anni di media education (Felini, 2004). La media literacy è il processo di analisi, valutazione e creazione di messaggi sotto una grande varietà di forme. Utilizza un modello basato sull’inchiesta, attraverso il porsi domande circa ciò che si guarda e si legge. L’e. alla lettura dei media è un mezzo per sviluppare la media literacy.

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Offre strumenti per aiutare le persone ad analizzare criticamente i messaggi veicolati dai grandi mezzi di comunicazione di massa, a scoprire dove si nasconde la propaganda, a cogliere valori e non valori delle notizie e a capire come le grandi emittenti influenzano le informazioni presentate. La media literacy ha come obiettivo l’abilitazione delle persone ad essere creatrici competenti e produttrici di messaggi di massa. Trasformando il processo del consumo dei media in un processo attivo e critico, i giovani in formazione acquisiscono una maggiore presa di coscienza del potenziale di manipolazione dei media stessi e capiscono il ruolo dei mass media e dei media partecipativi come la Rete, nella costruzione di visioni particolari della realtà. In sintesi, la media literacy è un approccio all’e. del XXI sec. Offre un quadro di riferimento teorico per accedere, analizzare, valutare e creare messaggi in una grande varietà di forme – dalla stampa a Internet. La media literacy costruisce una comprensione del ruolo dei media nella società e offre abilità fondamentali per la critica e per l’espressione di sé, indispensabili per la cittadinanza e per la democrazia. 4. Con il termine Medienpädagogik sono intesi tutti gli ambiti nei quali i media hanno una rilevanza pedagogica in riferimento all’e., all’istruzione, all’aggiornamento e alla formazione continua. La Medienpädagogik comprende tutte le riflessioni e misure di carattere socio-pedagogico, socio-politico, socio-culturale e tutte le proposte per bambini, adolescenti e adulti che fanno riferimento ai loro interessi culturali e alle loro potenzialità di manifestazione, che riguardano le loro personali opportunità di crescita e di sviluppo, come anche le loro possibilità sociali e politiche di espressione e di partecipazione democratica (Hug, 2001). La Medienpädagogik è praticata soprattutto nell’area linguisitico-culturale tedesca. 5. L’educomunicazione è l’insieme delle politiche e delle azioni inerenti alla pianificazione, all’attuazione e alla verifica di processi e prodotti destinati a creare e rinforzare ecosistemi comunicativi negli ambienti educativi «in presenza» o «virtuali». Tra queste azioni si includono preferenzialmente lo studio sistematico dei mezzi di comunicazione (me-

dia education) fra le pratiche educative, e allo stesso modo ogni sforzo per migliorare il coefficiente espressivo e comunicativo delle azioni educative, comprese quelle destinate all’utilizzazione dei mezzi d’informazione nel processo di apprendimento (information literacy) (De Oliveira Soares, 2001). In America Latina il concetto di educomunicazione è stato utilizzato dal ricercatore uruguaiano M. Kaplún ed è stato messo in discussione nell’International Congress on Communication and Education dalla ricercatrice francese Geneviève Jacquinot, docente all’Università di Parigi 8. Nel suo intervento la ricercatrice affermava che l’educomunicatore non è soltanto un professore specializzato con l’incarico del corso di e. ai mass media, ma un professore del ventunesimo secolo, capace di integrare i diversi mezzi nella sua pratica pedagogica. L’educommunicazione, in realtà, si caratterizza per la ricerca permanente di risposte concettuali e prammatiche alle complesse questioni presenti nelle condizioni di vita della società contemporanea. Il nuovo campo si trova ancora nella fase di definizione della propria identità, essendo elementi fondamentali il carattere interdiscorsivo e interdisciplinare del suo impianto teorico e il livello multiculturale del suo intervento sociale. 6. Educare ai nuovi media. Rappresentazioni informative e concettuali che non sono più lineari e piane affascinano le giovani menti. Nuove competenze cognitive, abilità mentali inedite, modi diversi di parlare e di scrivere si propagano a macchia d’olio e raggiungono i margini della scuola e delle agenzie formative. Cambiano il modo di concettualizzare e sentire e agire nonostante le agenzie formative e contro le stesse (Moeglin, 2005). Il tema della comunicazione mediata dal computer è racchiuso nell’acronimo scientifico CMC ovvero Computer Mediated Communication. Qui la riflessione sulla formazione alla comunicazione diventa d’obbligo. Le dinamiche comportamentali e le modalità di interazione che emergono dalla CMC aprono finestre sul mondo giovanile e chiedono di conoscere e di essere presenti a fianco di chi trascorre il proprio tempo libero in Rete perché sappia costruire relazioni interpersonali autentiche e gratificanti e sappia sviluppare una costruttiva comunicazione di gruppo. 375

EDUCAZIONE AI MEDIA

6.1. Educare all’uso dei videogiochi. Gli studiosi sono unanimi nel riconoscere che si può imparare molto videogiocando. In prima istanza, la manipolazione del mouse, della tastiera e dei diversi sistemi di interazione con il software è propedeutica all’uso del computer tout-court. Competenze quali la rapidità di reazione, l’azione in multi-tasking, la velocità nella raccolta e manipolazione di informazioni, l’esercizio della decisionalità e dell’elaborazione di strategie sono un dato di fatto. Altra straordinaria valenza positiva è il contatto sociale. I ragazzi giocano raramente da soli. La pratica dei videogiochi è un’opportunità di contatto sociale e di interazione con gli altri. Le comunità cosiddette gaming communities o comunità di gioco si stanno moltiplicando sulla Rete perché la più gran parte dei videogiochi è multiplayer. I video­ giochi sono un argomento di discussione molto frequente nelle scuole o nei luoghi di aggregazione fuori dalla scuola, con la felice conseguenza di rinforzare le reti di socializzazione. L’uso dei videogiochi forma a un pensiero associativo, reticolare; apre a una visione pluriprospettica e multidimensionale; favorisce l’approccio multi-interdisciplinare ai domini di conoscenza, la riflessione, l’autocontrollo, l’autonomia, l’intenzionalità, la flessibilità cognitiva, il lavoro collaborativocooperativo, nonché l’opportunità di sviluppare tutte le dimensioni «meta» del pensiero (Cangià, 2001). In riferimento al contenuto dei videogiochi, esso è spesso formativo come nei giochi che utilizzano tecniche di Intelligenza Artificiale. Con il miglioramento dell’attenzione visiva, delle abilità iconiche e spaziali, con l’affinamento del coordinamento occhio-mano, delle competenze di → problem-solving e dell’interazione sociale, viene velocizzata l’attività dei percorsi neurali. In una tipica sessione di gioco il giocatore raccoglie informazioni sull’ambiente, le analizza e prende decisioni basate sulle proprie analisi, poi agisce cambiando lo status dell’ambiente di gioco e iniziando un nuovo ciclo interattivo (Cangià, 2003). Il videogioco infine, mettendo i giovani a contatto con modelli simulativi, li abitua ad avvicinarsi ai fenomeni secondo un approccio complessivo e sintetico, e, in alcuni casi, stimola all’uso di immaginazione e fantasia; abitua infine alla logica, al rigore e alla serietà. I grandi scenari di gioco sviluppati in ambienti «virtuali», 376

come il MUD e il MOO, sono vere e proprie forme di comunicazione molto ricercate e praticate da ragazzi e adolescenti. All’interno di tali scenari gli utenti vivono avventure ricche di sorprese basate su regole e istruzioni predefinite dagli inventori del gioco, ma soprattutto comunicano. 6.2. Educare all’uso della Rete. La riflessione pedagogico-educativa sulla pratica delle chat si sta svolgendo in parallelo con ricerche sugli aspetti psicologici implicati in detta pratica (Turlow, Lengel e Tomic, 2004). Formare alla comunicazione richiede istruire anche sulle ricadute a livello psicologico, richiede un dialogo aperto e continuo con gli adolescenti circa i «luoghi» virtuali che frequentano, richiede interrogarsi sulla qualità della comunicazione che vi si svolge. La «Rete» è la punta dell’iceberg di una tecnologia già collaborativa, simbolo del nuovo paradigma accettato e diffuso in vari settori della società e delle discipline scientifiche. L’ecosistema della Rete sta evolvendosi verso una configurazione che sta trasformando radicalmente il sapere. La Rete effettiva di macchine, di menti, di cyborg è fatta dai bambini, dai ragazzi e dai giovani che frequentano gli ambienti educativi nei quali operano gli educatori. Per questa ragione l’e.a.m. non può prescindere da una seria e approfondita indagine sugli effetti del consumo della Rete che possono arrivare fino a situazioni di vera e propria dipendenza. Bibl.: M asterman L., Teaching the media education, Lon­don, Routledge, 1985; I d., «Media education and its future», in C. J. Hamelink - O. Linné (Edd.), Mass communication research: on problems and policies, Norwood, Ablex Publishing, 1994, 309-322; I d., A scuola di media: e., media e democrazia nell’Europa degli anni ‘90, Brescia, La Scuola, 1997; Hugh T., Medienpädagogik, in «Einführung in die Medienwissenschaft Opladen», Berlin, Westdeutscher Verlag, 2001; Soares I. O., Educomunicación: un concepto y una práctica de red y relaciones, Quito (Ecuador), Redes Gestión y Ciudadania, 2001, 37-52; Cangià C., Educare alla comunicazione interpersonale, ambientale, mediate di massa e manuale-espressiva, in «Orientamenti Pedagogici» 49 (2002) 405-420; I d., Videogiochi e insegnamento/apprendimento: una sinergia inesplorata, in «Orientamenti Pedagogici» 50 (2003) 737-755; Gonnet J., Education aux medias: les controver-

EDUCAZIONE AMBIENTALE

ses fécondes, Paris, Hachette éducation, Centre national de documentation pédagogique, 2003; Giannatelli R. - P. C. R ivoltella (Edd.), Media educator, nuovi scenari dell’e., nuove professionalità, Roma, DESK, 2003; Felini D., Pedagogia dei media, Brescia, La Scuola, 2004; Turlow C. - L. Lengel - A. Tomic, Computer mediated communication, London, Sage Publication, 2004; Moeglin P., Outils et médias éducatifs. Une approche communicationnelle, Grenoble, Presses Universitaires de Grenoble, 2005; Cangià C., La formazione alla comunicazione, in «Orientamenti Pedagogici» 53 (2006) 21- 35.

C. Cangià

EDUCAZIONE ALIMENTARE → Igiene → Salute: educazione alla EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA → Cittadinanza → Educazione socio-politica EDUCAZIONE ALLA CONVIVENZA DEMOCRATICA → Educazione EDUCAZIONE ALLA LEGALITÀ → Educazione socio-politica EDUCAZIONE ALLA MONDIALITÀ → Mondialità EDUCAZIONE ALLA SALUTE → Salute: educazione alla

EDUCAZIONE AMBIENTALE Il significato del lemma richiama l’idea di e., intesa come il processo di formazione dell’uomo nel suo rapporto con l’ → ambiente che lo circonda. Si tratta di una relazione in cui il soggetto è parte dell’ambiente, ma al contempo viene orientandosi ad esplorarlo e conoscerlo. L’e.a., pertanto, risponde a quel processo d’interpretazione e conoscenza dell’ambiente nelle sue caratteristiche morfologiche, geografiche, ecologiche, sociali e, più ampiamente, culturali il cui fine si colloca nello sviluppo di una coscienza ambientale diffusa che favorisca la protezione, il rispetto e la valorizzazione dell’habitat naturale e umano. 1. L’ambiente naturale. Compito di una corretta e.a. sarà allora quello di far maturare la consapevolezza secondo cui l’uomo è parte integrante e certo fondamentale dell’ambiente, senza per questo esserne l’elemento unico, prioritario, assoluto. Al contempo, pro-

prio sull’uomo grava la responsabilità morale di adempiere al processo di salvaguardia dell’integrità ambientale in ogni suo aspetto. La prima direzione prevista dall’e.a. è quella che conduce alla conoscenza della natura sotto il profilo biologico (animale, vegetale, minerale), antropologico ed ecologico, affinché il giovane comprenda l’importanza – per se stesso e per la specie – di una natura conservata e preservata dalla distruzione, dallo sfruttamento cieco delle sue risorse, dalle differenti forme d’inquinamento. 2. L’ambiente storico-economico e sociopolitico. Una seconda direzione predispone la formazione umana verso l’ambiente nelle sue condizioni economiche, storiche, sociali, politiche. La città e le sue molteplici funzioni acquisiscono qui una «eminenza» pedagogica dovuta ai riflessi antropologici riverberati sull’ambiente modificato dall’uomo. 3. L’ambiente estetico ed etico. Questa terza direzione include sia il carattere morale e valoriale su cui ogni corretta e.a. viene impostandosi, sia le peculiarità estetiche rivelate dall’ambiente. Le zone archeologiche, i siti d’interesse speleologico, i beni culturali e l’arte disseminata nell’ambiente ne suggellano una lettura capace di riconoscerlo anche per queste sue apprezzabili dimensioni di → bellezza e di godimento estetico. Le tre direzioni conoscitive dell’e.a. sopra riassunte implicano un’adeguata ricerca d’ambiente. Questa salda la scuola all’extrascolastico colto nelle sue molteplici sfaccettature, riconducendo il mondo di vita del soggetto in corso di formazione verso l’ambiente circostante e quotidiano, ma anche alla volta di territori naturali, sociali, estetici, geograficamente o/e psicologicamente distanti. L’e.a. si apre così: a) alla pedagogia del viaggio vissuto attraverso l’esplorazione e la scoperta; b) all’ → e. scientifica per mezzo della quale studiare l’ambiente; c) all’e. estetica (→ e. artistica) con cui comprendere l’estetica dell’ambiente in quanto linguaggio dell’e.; d) alla pedagogia ecologica intesa come occasione di formazione dell’uomo nell’esercizio della conoscenza degli ecosistemi, dei biosistemi e dei sociosistemi in cui vive. Bibl.: Scurati C. (Ed.), L’e. extrascolastica, Brescia, La Scuola, 1986; Gennari M. (Ed.),

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EDUCAZIONE ARTISTICA

Beni culturali e scuola, Ibid., 1988; Id., Estetiche dell’ambiente, Genova, Sagep, 1988; Jonas H., Il principio di responsabilità, Torino, Einaudi, 1990; Zucchini G. L., Educare all’ambiente, Firenze, La Nuova Italia, 1990; Gutiérrez Pérez J., La educación ambiental, Madrid, La Muralla, 1995; Gennari M., Trattato di pedagogia generale, Milano, Bompiani, 2006.

M. Gennari

EDUCAZIONE ARTISTICA Affine nel significato ad espressioni quali «e. estetica», «e. visiva», «e. iconico-graficopittorica», «e. all’immagine», l’e.a. è stata tradizionalmente suddivisa in una e. all’arte e in una e. attraverso l’arte. 1. H. Read nel suo Education through art (1943), osserva come percezione e immaginazione si coniughino negli assetti psichici della persona che compie l’esperienza estetica. Un sistema motorio e un sistema affettivo fanno sì che sensazioni e sentimenti sottendano al rapporto tra il soggetto e l’arte. Il primo può accostarsi all’altra fruendone significanti e significati. Inoltre, può anche entrare nel mondo dell’arte producendo personalmente forme e contenuti esteticamente e artisticamente ricchi di bellezza. 2. Quanto detto avvia una fondamentale connessione: quella tra → pedagogia e arte. Con essa si chiarisce l’importanza dei percorsi estetico-artistici nel processo di → formazione del soggetto. L’arte vi assume i contorni di una esperienza vitale propria dell’umano, in cui il soggetto si forma e si trasforma entrando in una relazione del tutto personale con il testo estetico-artistico, a sua volta riflesso di un mondo che si specchia in altri mondi: intersoggettivi, interculturali, interrazziali. Ludicità fantastica e pensiero creativo, immaginazione e invenzione, fantasia e progettualità costituiscono alcuni capitoli del discorso sull’e.a. Esso si serve della parola, dell’immagine, del suono, del gesto, del numero; con questi dà luogo ad un intreccio di testi scritti nel linguaggio complesso e affascinante dell’arte. La scuola ha il compito di avvicinare l’uomo, in ogni età della vita, alle dimensioni del messaggio 378

artistico al fine di gustarlo, viverlo, conoscerlo per poi apprendere a generarlo oltre che riceverlo. L’istituzione scolastica si approssima a quelle istituzioni extrascolastiche in cui i beni artistici sono assunti in quanto beni culturali. Musei, pinacoteche, palazzi, chiese, biblioteche, centri storici, cineteche, mediateche, teatri: questi ambienti educativi facilitano il contatto con l’arte nelle sue manifestazioni più significative: la figurazione, la musica, la letteratura, il cinema, la danza. La sua istituzionalizzazione nella scuola ha da fare i conti con una mentalità prevalentemente tecnologistica e utilitaristica, piuttosto ostica verso questo ambito della cultura e della formazione. 3. Le principali linee operative di una didattica dell’arte aprono varie direzioni di lavoro, fra cui non vanno trascurati: a) le civiltà del passato e del presente studiate sotto il profilo della loro cultura artistica ed estetica; b) il collegamento tra linguaggi visivi, arti figurative e ulteriori percorsi estetici quali la poesia, il canto, il → teatro; c) il mondo dei media, articolato in selfmedia, multimedia, ipermedia; d) l’incontro delle forme estetiche dell’arte con quelle della natura; e) l’incontro delle forme estetiche dell’arte con quelle della scienza; f) lo studio dell’opera d’arte a partire dall’artista per giungere al suo fruitore o a partire dal testo onde pervenire alla sua storia; g) le pratiche concrete e continuative dell’arte, che ogni uomo può realizzare soltanto se gli si offre la possibilità di farlo; h) un’abitudine all’invenzione estetica usando materiali, procedimenti, tecniche e tecnologie con lo scopo di narcotizzare lo stereotipo e l’iterazione, liberando invece la scoperta, il viaggio, l’attenzione estetica al cosmo nel mondo umano, la ricerca negli universi dell’arte. Bibl.: Burkardt H., Zur visuellen Kommunikation in der Grundschulpraxis, Ravensburg, Otto Maier, 1974; M artin M., Sémiologie de l’image et pédagogie, Paris, PUF, 1982; Gennari M., Lo sguardo iconico, Brescia, La Scuola, 1984; Quintana Cabanas J. Mª, Pedagogía estética, Madrid, Dykinson, 1993; Gennari M., L’e. estetica, Milano, Bompiani, 1994; Eco U., Storia della bellezza, Ibid., 2004; Medina Benítez Mª D., Educación artística. y su didáctica, Las Palmas de Gran Canaria, Universidad de Las Palmas de

EDUCAZIONE COMPARATA

Gran Canaria, Vicerrectorado de Planificación y Calidad, 2007.

M. Gennari

EDUCAZIONE CAVALLERESCA → Medioevo EDUCAZIONE CIVICA → Educazione sociopolitica

EDUCAZIONE COMPARATA È la disciplina delle → scienze dell’e. che studia i fenomeni e i fatti educativi nelle lo­ro relazioni con il contesto sociale, appli­cando un metodo di ricerca che paragona i sistemi formativi e i loro elementi per chia­rire convergenze e divergenze, al fine di migliorare la conoscenza sia delle loro pe­culiarità sia degli aspetti comuni e di ren­dere più efficace l’e. È una disciplina perché ha oggetto e metodo propri, tuttavia, la tesi prevalente è che abbia natura pluridisciplinare. Comprende tre ambiti: le idee pe­dagogiche, i contenuti e metodi, i sistemi formativi; siccome non rileva della sola pe­dagogia, si preferisce parlare di e.c. piutto­sto che di pedagogia comparativa. Non si può invece dire che ci sia una teoria o un metodo in cui si rico­noscano tutti i suoi cultori. 1. Tendenze principali nel passato. L’e.c., è nata dal desiderio di sapere di più sugli al­ tri popoli e sulle loro usanze educative, un bisogno che ha trovato una sua prima ri­ sposta nei rapporti dei viaggiatori. Si tratta, però, di una letteratura che spesso manca di sistematicità e di valore esplicativo. La nascita come disciplina è generalmente col­ legata con quella dei sistemi nazionali di e. nel sec. XIX e le sue origini vengono fatte risalire a una pubblicazione dell’illumini­sta francese Jullien (1817). L’opera è rima­sta di fatto sconosciuta fin quasi alla metà del ‘900 quando fu scoperta per caso e ri­valutata: per questo motivo alcuni autori ritengono che Jullien non possa essere con­siderato come il padre o l’iniziatore del­l’e.c., ma solo come un precursore. Secondo Jullien essa ha una natura scientifico-sperimentale e svol­ge una funzione pragmatica. Il metodo con­siste nel raccogliere attraverso questiona­ri, dati e osservazioni sui sistemi formati­vi e nell’organizzarli sulla base di tavole sintetiche. Jul-

lien appartiene alla fase del­l’evoluzione detta del «prestito educativo», che occupa tutto il sec. XIX, e ne condivide meriti e limiti. Gli Stati sono impegnati nel­la costruzione dei sistemi scolastici nazio­nali e l’e.c. intende favorirla suggerendo le strutture educative da assumere da altri paesi. Gli studiosi più attenti hanno indica­to le condizioni per tale trasposizione: te­ner conto della diversità dei contesti; sce­gliere solo gli aspetti validi degli altri siste­mi. Comunque, molta della produzione presenta valore scientifico limitato per il suo carattere enciclopedico, la scarsa capa­ cità esplicativa delle conclusioni e la natu­ ra meccanica delle trasposizioni. All’inizio del XX sec. si afferma un nuovo approccio, quello dell’analisi dei fattori. Il sistema for­mativo fa un tutt’uno con la società e, per­tanto, va analizzato in relazione con il con­testo nel quale si è sviluppato. Essendo il risultato dell’insieme delle forze presenti nell’ambiente, sono queste ultime che van­ no identificate se si vuole conoscere meglio la situazione attuale e predire l’evoluzione futura. L’e.c. consente di delimitare con più precisione i fattori operanti in uno o più Paesi. Più in particolare, per Sadler es­sa aiuta a comprendere lo spirito dei sistemi formativi, secondo Hans il suo scopo è di identificare i principi sottostanti o fatto­r i che regolano lo sviluppo di tutti i sistemi formativi, mentre Mallinson ha fondato l’e.c. sui caratteri nazionali. L’analisi dei fat­tori appare dotata di potere esplicativo e di validità scientifica; i suoi limiti vanno visti in un certo determinismo della causalità sociale e storica e nella difficoltà di misu­rare il peso relativo di ciascun fattore. Un altro stadio dello sviluppo, contemporaneo al precedente, è costituito dalla «coopera­zione internazionale», che abbraccia quattro ambiti: lo studio dei problemi educativi in prospettiva transnazionale; la raccolta del­le statistiche che gradatamente raggiunge un livello elevato di qualità ad opera delle → organizzazioni internazionali tra cui pri­meggia l’Unesco; l’individuazione delle tendenze internazionali; la promozione dell’e. internazionale o allo sviluppo. In particolare va ricordato Rosselló che attri­buisce all’ e.c. il compito di delineare le cor­renti che qualificano il movimento educati­vo, di definire cioè le tendenze che carat­terizzano lo sviluppo dei sistemi formativi, conferendo all’ e.c. un approccio prospetti­co. Questa 379

EDUCAZIONE COMPARATA

accentuazione costituisce anche il limite di Rosselló che ha dato troppa ri­levanza alla statistica e ai metodi speri­mentali, trascurando la natura umanistica dell’ e.c. 2. L’evoluzione recente. Dopo la seconda guerra mondiale l’ e.c. sperimenta un vero balzo in avanti, connesso con l’esplosione dell’e., l’internazionalizzazione dei proble­ mi, la competizione tra l’Ovest e l’Est e il processo di decolonizzazione del Terzo Mondo. Incominciano a nascere e a diffon­dersi le associazioni professionali dei com­paratisti, si moltiplicano le università che offrono studi e strutture di insegnamento e di ricerca, aumentano le organizzazioni na­zionali e internazionali che promuovono investigazioni e progetti nell’ e.c. e vengono fondate nuove riviste specializzate. Sul pia­no disciplinare è soprattutto l’introduzio­ne del metodo positivo delle scienze socia­li a consentire il salto di qualità. Nell’evo­luzione recente è possibile distinguere tre gruppi di posizioni che corrispondono anche a fasi diverse dello sviluppo. 2.1. Le posizioni tradizionali. Si affermano negli anni ’50 e soprattutto ’60 e sono ca­ ratterizzate da una prospettiva funzionalista ed evolutiva. Per Bereday (1964) l’e.c. è una geografia politica delle scuole. Il me­todo è articolato in due fasi maggiori, gli studi di area o regionali e quelli comparati­vi, a loro volta distribuite in due ulteriori stadi. Nella prima ciascun paese viene ana­lizzato separatamente dagli altri. In propo­sito, si dovrà anzitutto procedere alla de­scrizione, cioè alla raccolta dei dati educa­tivi secondo una griglia elaborata in pre­cedenza e che deve essere la stessa per tut­ti i Paesi; Bereday insiste sulla preparazio­ne del comparativista che dovrebbe tra l’al­t ro padroneggiare il metodo di una o più scienze sociali, conoscere la lingua dell’a­rea e risiedere per un periodo nella zona. Il secondo momento è dato dall’interpre­t azione, cioè dalla valutazione delle infor­mazioni disponibili sulla base degli ap­procci delle varie scienze sociali allo scopo di identificare cause e connessioni. Gli stu­di comparativi, la seconda grande fase, esa­minano più Paesi contemporaneamente. Con la giustapposizione ogni griglia è avvicinata alle altre per individuare somi­glianze e differenze e arrivare all’elabora­zione di un’ipotesi. Questa viene verificata nel quarto momento attraverso il tratta­mento simul380

taneo di molti o di tutti i Paesi: il risultato dovrebbe essere quello dell’e­nunciazione di leggi o di tipologie. I meriti di Bereday sono la scientificità, la logicità e la chiarezza dell’approccio, mentre i limiti vanno ricercati nell’enfasi induttivistica per cui l’ipotesi non viene presupposta fin dal principio del processo comparativo, nella ricerca esasperata della simmetria e nella pretesa di una conoscen­za enciclopedica nel comparativista. King respinge la possibilità di elaborare una metodologia chiara e precisa nel sen­so che questa non può essere definita una volta per sempre, ma cambia secondo il ti­po di indagine e gli obiettivi perseguiti. Ri­mane il carattere pragmatico dell’e.c. che mira ad elaborare strategie per risolve­re problemi concreti. Se va apprezzato il recupero della natura anche ideografica dell’e.c. e dell’importanza dell’intuizione, l’impostazione di King trova il suo punto debole nell’assenza di una rigorosa stru­mentazione sul piano scientifico. Quest’ul­tima è presente in modo pieno in Noah ed Eckstein (1969). L’e.c. consiste nell’utilizzare dati desunti da varie nazioni per veri­ficare ipotesi sull’e. e sui rapporti tra e. e società. Il metodo è articolato nelle fasi ti­piche dell’analisi delle scienze sociali: iden­tificazione del problema, formulazione di un’ipotesi, operazionalizzazione dei con­ cetti, scelta dei casi, raccolta dei dati relati­vi agli indicatori e ai Paesi, verifica dell’i­potesi e determinazione delle implicazioni sul piano teorico. Se all’inizio sono stati ri­cordati i meriti della proposta, non vanno dimenticati gli aspetti discutibili come il ri­schio di trasformare l’e.c. in una sociologia dell’e. comparata e l’eccessiva quantifica­zione. Il «problem approach» di Holmes non si fonda né sul positivismo né sull’in­duzione, ma sul pensiero riflessivo di → Dewey, in particolare sul → «problem solving», e su Popper, da cui mutua il metodo ipotetico-deduttivo e il dualismo critico che distingue tra leggi sociologiche, regolarità che sfuggono all’intervento uma­no, e convenzioni, prodotte dall’uomo e da lui modificabili (1981). Inoltre, non ricerca le cau­se dei fatti, ma studia gli eventi in quanto predittivi. L’approccio è articolato in cin­que momenti principali: l’analisi del pro­ blema che nasce dal divario tra norme e fatti o tra le norme; l’identificazione dei fattori rilevanti, quelli cioè che spiegano il problema; la formulazione di proposte po­litiche alter-

EDUCAZIONE COMPARATA

native, le ipotesi cioè; la predi­zione logica dei risultati delle strategie in relazione con le condizioni significative dei contesti sotto esame; la comparazione dei risultati predetti con gli avvenimenti osser­vabili. Punti forti di Holmes sono il metodo ipotetico-deduttivo e per problemi e la focalizzazione sulla predizione; meno con­vincenti risultano la trattazione degli aspet­ti quantitativi e le oscillazioni nella defini­zione delle fasi del metodo. 2.2. Una critica radicale. All’inizio degli an­ni ’70 la teoria funzionalista e il metodo po­sitivista, su cui poggiavano le posizioni tradi­zionali, vengono messi in discussione da una società che è divenuta conflittuale e da una scuola che mostra gravi crepe, mentre sul piano scientifico essi sono raggiunti da critiche radicali. Il para­digma umanista sostiene l’origine sociale di tutte le teorie in contrasto con l’approccio realista dell’e.c. tradizionale. Il funzionali­smo radicale, ispirandosi alle interpreta­z ioni neo-marxiste, attribuisce alla scuola la funzione di riprodurre le strutture capi­t aliste per cui ogni tentativo di riformarla che non sia preceduto da una rivoluzione nel modo di produzione è destinato all’in­successo. Appaiono le posizioni di un uma­nesimo radicale che attinge alle riflessioni della → Scuola di Francoforte: in questo quadro si situano le analisi del femminismo che rimprovera all’e.c. tradizionale il silen­zio circa il ruolo dell’e. nella riproduzione dell’ineguaglianza tra i sessi. Si diffondono paradigmi interpretativi, alcuni dei quali propongono l’alternativa etnometodologica, cioè lo studio di come gli individui operino nel processo di costruzione della realtà sociale. L’approccio dell’e.c. deve passare dal piano macro al micro, da una impostazione realista ad una relativista e interessarsi della vita quotidiana. In so­stanza alla fine della decade ’80 si riscon­t ra nell’e.c una situazione di confusione e malessere sul piano metodologico. 2.3. Verso il → pluralismo e la complemen­ tarità. Negli anni ’90 e ancor più nella attuale decade viene accettata l’ete­rogeneità delle posizioni e la complemen­t arità dei diversi paradigmi. Nessuna teo­ria può pretendere il monopolio della verità, ma tutte contribuiscono alla cono­scenza di una società sempre più comples­sa. A questo punto mi limito a ricordare solo le posizioni nuove. Il neo­ funzionalismo mira a coniugare l’ortodos­sia

parsonsiana con paradigmi anche oppo­sti: in particolare ha accettato le interpre­tazioni conflittuali e ha riconosciuto la centralità delle diseguaglianze strutturali. Le teorie critiche hanno attaccato il carat­tere repressivo della cultura e della società occidentale, mettendo in evidenza soprat­t utto le distorsioni prodotte nella coscien­za e l’oppressione sessuale. Nelle versioni post-strutturalista e post-moderna esse hanno affermato la natura frammentata della realtà sociale, la superiorità del paradosso, della diversità, dell’ambiguità e del caso, l’attenzione al contesto locale. Le posizio­n i interpretative si sono mosse o nel senso del rifiuto di ogni teoria totalizzante e del­l’accettazione di una pluralità di metodi o nella direzione della valorizzazione della coscienza, della creatività e dell’emoziona­lità. In conclusione, le critiche radicali degli anni ’70 e ’80 e l’eterogeneità degli anni ’90 e 2000 se hanno avuto il merito di allargare gli orizzonti e gli strumenti della ricerca, non sembra siano riuscite a elaborare costru­zioni metodologiche compiute, capaci di sostituire quelle tradizionali. Bibl.: Jullien M.- A., L’esquisse et vues préliminaires d’un ouvrage sur l’éducation comparée, Paris, Colas, 1817; Bereday G. Z. F., Comparative method in education, New York, Rinehart and Winston, 1964; Holmes B., Problems in education. A comparative approach, London, Routledge and Kegan Paul, 1965; Noah H. - M. A. Eckstein, Toward a science of comparative education, London, Macmillan, 1969; Sinistrero V., Il Vaticano II e l’e., Leumann (TO), Elle Di Ci, 1970; Holmes B., Comparative edu­cation: some considerations of method, London, George Allen and Unwin, 1981; García Garrido J. L., Fundamentos de educación comparada, Madrid, Dykinson, 1986; Schriewer J. - B. Holmes (Edd.), Theories and methods in comparative education, Frankfurt a.M., Lang, 1988; Paulston R. G., «Comparative and international education: paradigms and theories», in T. Husen - L. N. Postlethwaite (Edd.), The International encyclopedia of education, Oxford, Pergamon Press, 21994, 923-933; M aseman V. - A. Welch (Edd.), Tradition, modernity and postmodernity. Special double issue, in «International Review of Education» 43 (1997) 5-6; Crossley M. - P. Jarvis (Edd.), Comparative education for the Twenty-first century. Special Number, in «Comparative Education» 37 (2001) 4; Bray M. (Ed.),

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EDUCAZIONE CRISTIANA

Comparative education. Continuing traditions, new challenges, and new paradigms, Dordrecht, Kluwer, 2003.

G. Malizia

EDUCAZIONE COMPENSATORIA → Diritto all’educazione

EDUCAZIONE CRISTIANA Le espressioni e.c. e «e. dei cristiani» sono due modi corretti per indicare l’azione educativo-formativa, esercitata dalle comunità cristiane e dal singolo cristiano, lungo la storia, sulle nuove generazioni in funzione di una loro maturazione umano-cristiana nei differenti contesti culturali (→ Cristianesimo, → Chiesa, → educatore cristiano). 1. Parola di Dio, tradizione ecclesiale ed e. La Parola di Dio, contenuta nella → Bibbia e trasmessa dalla Chiesa, non contiene una pedagogia rivelata valida per tutti i tempi, i luoghi e le culture, ma solo alcune esigenze fondamentali, a partire dalle quali e ispirandosi ad esse, le comunità cristiane sono chiamate ad impostare la loro prassi educativa nei differenti contesti culturali in cui devono vivere. La determinazione della natura, dei contenuti e della meta dell’e., cioè della → maturità, la scoperta dei metodi e dei mezzi adatti per raggiungerla, la configurazione delle istituzioni educative, sia di quelle naturali, come la famiglia, sia delle altre prodotte dalla cultura, come la scuola, sono lasciate all’inventiva delle generazioni cristiane operanti nelle diverse culture. Questo spiega perché nell’ambito dell’unica fede cristiana, di fatto e di diritto esistano prassi e istituzioni educative e scolastiche plurime, differenti tra loro e tuttavia compatibili con la suprema saggezza contenuta nella Parola di Dio, quindi tali da potersi legittimamente qualificare come cristiane (→ pedagogia cristiana). La Chiesa, lungo la sua storia bimillenaria, pur occupandosi di e. e di pedagogia, non l’ha fatto attraverso interventi dottrinali del magistero quanto piuttosto mediante esortazioni e direttive di tipo pastorale oppure mediante la promozione di esperienze educative e di istituzioni scolastiche, ispirate dalla Parola di Dio. Solo nell’epoca contemporanea 382

la Chiesa ha affrontato il problema dell’e.c., in due importanti documenti: l’Enc. Divini Illius Magistri (1929- 1930) di Pio XI e la Dichiarazione Gravissimum Educationis (= GE) (1965) del Conc. Vaticano II. 2. Dimensioni e obiettivi dell’e.c. oggi. L’e.c. deve essere intesa come un processo unitario di maturazione umana e di crescita cristiana. In esso le due componenti o dimensioni, quella umana e quella specificamente cristiana, pur essendo distinte a livello concettuale, non possono essere separate nella realtà concreta del processo educativo, il quale, a sua volta, riguarda non solo le persone singole ma anche le comunità ecclesiali, perché solo all’interno di queste ultime e mediante la loro capacità educativo-formativa, le persone singole possono crescere e maturare a livello umano e cristiano. 2.1. Prima e fondamentale componente dell’e.c. è la sua dimensione autenticamente umana e attuale. Deve essere un’e. la quale, pur differenziandosi all’interno delle diverse culture, miri a formare uomini maturi. «Tutti gli uomini di qualunque razza, condizione ed età, in forza della loro dignità di persona hanno il diritto inalienabile ad una e. che risponda al proprio fine, convenga alla propria indole, alla differenza di sesso, alla cultura e alle tradizioni del loro paese, e insieme aperta ad una fraterna convivenza con gli altri popoli al fine di garantire una vera unità e la vera pace sulla terra» (GE, 1). Non va dimenticato, però, che oggi i processi educativo-formativi devono realizzarsi in contesti culturali, caratterizzati da un pluralismo esasperato a tutti i livelli, da una conflittualità ideologica e religiosa che giustifica l’uso della violenza; da forme di sincretismo alla New Age, nelle quali l’identità della fede cristiana tende gradualmente a dissolversi. Per conseguenza l’e. dovrà essere concepita come un processo di crescente maturazione delle persone singole e delle comunità, orientato ad una migliore «qualità della vita» e a tipi di promozione e liberazione umana, definiti razionalmente nell’orizzonte delle supreme finalità cristiane. Primo obiettivo di un’e. così intesa è quello di sviluppare, nei giovani e negli adulti, una crescente capacità critica di fronte alle attese, alle aspirazioni e ai progetti di vita, che le agenzie di socializzazione e inculturazione diffon-

EDUCAZIONE CRISTIANA

dono largamente a tutti i livelli attraverso i mass-media, particolarmente la TV, per la sua diffusione capillare e la sua efficacia persuasiva. Tale obiettivo si raggiunge solo se si riesce a suscitare, particolarmente nel mondo giovanile, un tale amore per la verità da essere disposti a porla al di sopra di tutti gli altri interessi. Occorre aiutare i giovani a convincersi che la certezza sul vero senso della vita e l’impegno definitivo a servizio della verità e del bene sono raggiungibili, nonostante il diffuso scetticismo al riguardo. Il secondo obiettivo è quello di aiutare la generazione in crescita a costruirsi un progetto di vita autenticamente umano e ad acquisire quelle disposizioni psichiche che ne rendono possibile la realizzazione, anche quando il primo e le seconde risultino in contrasto con il quadro dei valori, dei progetti di vita e dei comportamenti, veicolati dal sistema culturale dominante. Terzo obiettivo infine di un’e. autenticamente umana e attuale è quello di coltivare nei giovani aspirazioni verso un mondo più umano, libero dalle oppressioni, che escluda i metodi della violenza, rispetti le persone, eviti le emarginazioni dei poveri, per poi orientarli verso un impegno serio e realistico a favore di qualche processo concreto di umanizzazione del mondo. Questi tre obiettivi dovrebbero essere attuati secondo una progettazione pedagogica che trovi la sua giustificazione nelle Scienze dell’e. in dialogo interdisciplinare tra loro e con la teologia (→ epistemologia pedagogica). 2.2. La seconda componente dell’e.c. è data da ciò che, a livello ontologico e teleologico, la specifica in quanto «cristiana». Ora il cristiano è la persona che, mediante la fede e il battesimo, è diventata una nuova creatura in Cristo, un figlio di Dio, però allo stato germinale, per cui è impegnato ad attuare un continuo processo di → conversione e di crescita nella fede, speranza e carità, avendo come meta la perfezione in Cristo o santità (Ef 4,13), concepita però in modo tale da includere al suo interno le finalità e gli obiettivi propri della maturazione umana. Gli obiettivi pertanto dell’e.c., in quanto tale, devono mirare al raggiungimento di una autentica maturazione umana all’interno di una crescita continua verso la perfezione cristiana o santità. Potremmo riassumerli nei seguenti quattro. Primo obiettivo che l’educatore cristiano deve prefiggersi è un annuncio effi-

cace dei contenuti del kerygma cristiano (→ catechesi) alla generazione in crescita, per provocare, con l’aiuto della grazia, un vero processo di conversione, fondamento di ogni crescita cristiana. Si tratta di iniziare soprattutto adolescenti e giovani, gradualmente ma costantemente, ad una comprensione sempre più completa della visione cristiana della vita e del mondo e ad una accettazione sempre più matura della Parola salvifica di Dio in Cristo, mediante una fede viva e operosa, che tende a diventare sempre più matura. Il secondo obiettivo dell’e.c. è una vera iniziazione dei giovani alla vita liturgico-sacramentale delle comunità ecclesiali, che porti con gradualità le nuove generazioni a comprendere e a vivere coscientemente la dimensione cultuale e misterica della vita cristiana attraverso i segni liturgici (→ preghiera, → sacramenti). I giovani devono essere aiutati ad acquisire una religiosità sempre più matura e a superare la dissociazione perniciosa tra l’aspetto cultuale e gli aspetti profani della vita. Terzo obiettivo è l’apprendimento di una vita morale autenticamente cristiana mediante un vero tirocinio di pratica cristiana e, contemporaneamente a tale pratica, l’acquisizione di una conoscenza corretta delle dimensioni profonde del comportamento cristiano e un convincimento personale del suo valore, fondato su motivazioni non solo oggettivamente valide, ma anche percepite soggettivamente come tali (→ e. religiosa). Infine il quarto obiettivo specificamente cristiano dell’e. è l’iniziazione dei giovani all’apostolato ecclesiale, finalizzato alla crescita delle comunità cristiane nella loro dimensione «misterica», all’attuazione del loro fondamentale compito missionario agli uomini d’oggi (= la nuova evangelizzazione) e alla promozione di continui processi di liberazione dalle molteplici oppressioni cui le persone singole e le varie comunità umane sono soggette (→ Chiesa). È evidente che alla realizzazione di questi obiettivi devono partecipare tutte le componenti delle comunità cristiane, dalla famiglia alla scuola, dai gruppi giovanili alle associazioni e ai movimenti ecclesiali. 3. Il processo unitario di maturazione umano-cristiana. Il processo di maturazione umano-cristiana che dovrebbe caratterizzare l’e. dei cristiani, differenziandola dalle altre, va concepito come una realtà comples383

EDUCAZIONE CRISTIANA

sa, profondamente unitaria, all’interno della quale tuttavia sono distinguibili (ma non separabili) componenti personali e componenti comunitarie. Riteniamo che le componenti personali di un tale processo siano l’opzione globale di fede, il progetto di vita umanocristiano e l’acquisizione di quei dinamismi permanenti che rendono possibile una vita umano-cristiana. Ciò che invece abilita le comunità ecclesiali ad essere l’ambiente adatto per la maturazione delle persone va ricercato nella loro dimensione a misura d’uomo, nella presenza in esse di una forte tensione evangelizzatrice non disgiunta da un autentico sforzo di promozione umana e in un clima di dialogo come atteggiamento, comunicazione e comunione collaborativa. L’opzione globale di fede con cui ci si converte al Cristo nella Chiesa, a causa del suo carattere radicale e totalizzante, viene ad essere di fatto un vero progetto di vita ed ha una funzione unificante di tutta la personalità. Proprio per questo possiede una valenza educativa, nel senso che può contribuire efficacemente alla maturazione della persona, purché il processo di conversione e crescita cristiana non sia a scapito della maturazione umana. Infatti il nuovo progetto di vita, incluso nella scelta di fede, provoca generalmente nel convertito un profondo sconvolgimento sul piano del pensiero e dell’azione, esigendo nuovi modi di vedere e giudicare la realtà e nuovi comportamenti. Si crea in lui una situazione conflittuale tra ciò che era prima («l’uomo vecchio», di cui parla S. Paolo) e ciò che è diventato ora («l’uomo nuovo») convertendosi. È una situazione che va superata, ma non a spese dell’umano, nell’accettazione sincera delle aspirazioni autenticamente umane del nostro tempo, nel rispetto di quei valori umani che l’umanità di tutti i tempi ha sempre stimato come mete dello sforzo etico della persona. Convertirsi significa iniziare un cammino di fede, speranza e amore-agape, mediante il quale il convertito si sforza di tradurre nella concretezza esistenziale della sua vita gli impegni che nascono dalla sua scelta radicale e totalizzante. Però, anche quando l’opzione globale di fede si è trasformata gradualmente in progetto cristiano di vita, non per questo si è già arrivati a colmare il vuoto che esiste tra ciò che si vuole essere (la nuova creatura in Cristo) e ciò che di fatto si è ancora; tra la mentalità di fede che si vorrebbe posse384

dere e il modo di pensare e giudicare, che si aveva prima; tra la condotta ideale che ci si propone e quella effettiva, messa in opera nel grigiore della quotidianità. L’itinerario di maturazione cristiana implica ancora un lungo e faticoso lavoro di acquisizione di quelle strutture dinamiche o disposizioni permanenti, che nel linguaggio cristiano sono dette virtù, che orientano il cristiano a valutare e ad agire costantemente secondo gli obiettivi, remoti o prossimi, contenuti nel progetto di vita, ispirato alla fede. Si tratta di un vero «apprendistato» della vita cristiana. Perché il processo di maturazione umano-cristiana del convertito possa realizzarsi, deve avvenire all’interno di famiglie autenticamente cristiane, nelle quali i genitori hanno raggiunto una sufficiente maturità umana; famiglie, coadiuvate da gruppi ecclesiali a misura d’uomo, nei quali l’elemento «comunione» tra i membri sia reale ed evidente, senza escludere una piena apertura all’intera comunità cristiana e al mondo. Si esige inoltre, all’interno di questi gruppi, la presenza di un certo numero di persone umanamente mature, che abbiano già fatto un cammino di crescita della loro esperienza di fede e siano impegnate in un’azione di testimonianza evangelizzatrice e di promozione umana. Sono appunto queste persone quelle che realizzano la figura del vero educatore cristiano. Esse, con la loro autorevolezza, umana e cristiana, possono donare, ai giovani, un efficace aiuto educativo, offrendo loro le condizioni ideali per una conversione e crescita in Cristo, che contenga, al suo interno, un vero processo di maturazione umana. Bibl.: Nipkow K. E., «Erziehung», in Theologische Realenzyklopädie, X (1982) 232-253; A bbà G., Una filosofia morale per l’e. alla vita buona, in «Salesianum» 53 (1991) 273-314; Groppo G., Teologia dell’e. Origine identità compiti, Roma, LAS, 1991; Groppo G. - G. A. Ubertalli, «L’e.c.: natura e fine», in N. Galli (Ed.), L’e.c. negli insegnamenti degli ultimi pontefici. Da Pio XI a Giovanni Paolo II, Milano, Vita e Pensiero, 1992, 25-62; Scholé (Ed.), L’e.c. alle soglie del nuovo millennio, Brescia, La Scuola, 2001; Scholé (Ed.), E. c. e trasformazioni religiose, Ibid., 2004; Malizia G. - C. Nanni et al., A. 40 anni dalla Gravissimum Educationis, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 189-450.

G. Groppo

EDUCAZIONE DI GENERE

EDUCAZIONE DELLA VOLONTÀ → Educazione morale → Volontà EDUCAZIONE DI BASE → Sistema formativo

EDUCAZIONE DI GENERE I termini sesso e genere non sono sinonimi: con il primo si designano i fondamenti biologici che differenziano i maschi e le femmine; il secondo rimanda invece allo stato psicologico che rispecchia il senso interiore di essere maschio o femmina e alle aspettative sociali nei confronti dei due sessi. 1. Durante l’adolescenza, periodo fisicamente e psicologicamente convulso, fatto di incertezze e di insicurezze, l’identità personale, maschile o femminile, è in fase di piena costituzione (Besozzi, 2007). Il determinarsi secondo il proprio sesso biologico è di primaria importanza e si configura diversamente in ragazzi e ragazze nelle inevitabili ambivalenze tipiche della fase adolescenziale. La difficoltà che molti adolescenti incontrano a maturare la loro → identità di genere in modo coerente e naturale con la loro identità sessuale rimanda a tre fondamentali ragioni (Poterzio, 2007): la mancata identificazione in valide figure genitoriali durante l’infanzia nelle quali si possa riflettere un chiaro e felice rapporto → uomo-donna; il non potersi rispecchiare durante l’adolescenza in persone autentiche, da un punto di vista esistenziale, del loro stesso sesso; la carenza grave di amicizie dello stesso sesso durante l’adolescenza e la giovinezza. Una quarta ragione consiste nel fatto che oggi si sta radicando una nuova interpretazione della realtà sessuale: si vuole negare quello che ha costituito sempre uno dei presupposti fondamentali di ogni cultura, vale a dire che la differenza maschile/ femminile è una categoria originaria e fisicamente «involontaria» (non è frutto di una scelta, ma ci è data, al momento della nascita) o per meglio dire, è una realtà biologica e fisiologica fattualmente obiettiva, in quanto cognitivamente ed esperienzialmente verificabile. 2. La scelta pedagogica di differenziare la metodologia educativa in funzione del sesso degli alunni implica la condivisone previa di

un’antropologia filosofica. L’uomo, individuato ed incarnato in una corporeità sessuale (maschile o femminile), manifesta la sua esigenza strutturale del rapporto con l’ → alterità per potersi esprimere in modo compiuto. In questo senso la diversità sessuale non si riduce a rilevazione di un dato estrinseco e funzionale, ma assume il significato di modalità strutturale per la qualificazione della soggettività umana, maschile o femminile. L’uomo, proprio in quanto essere sessuato, mostra e conosce (in sé e nell’altro) la sua incompletezza: la condizione esistenziale sessuata e la presa di coscienza di essere maschi o femmine, apre sia l’uomo che la donna alla consapevolezza della propria finitezza e particolarità (ossia alla presa di coscienza di essere una polarità, finita e non infinita, una parte e non il tutto). 3. Mediante il confronto con l’alterità, l’uomo e la donna acquisiscono coscienza della impossibilità di chiudersi autarchicamente in sé stessi, di pretendere che vi sia un solo modo di osservare, di agire e di essere nel mondo: in questo senso la sessualità costituisce una spinta a trascendere la propria particolarità, nel confronto con la prospettiva dell’altro-da-sé, sessualmente differente e complementare. In questa prospettiva la differenza dei sessi non è intesa come modalità irriducibile e radicale, bensì come modalità relazionale: anzi, si può dire che è la modalità ove la relazionalità dell’io diviene più rilevante sul piano esistenziale; sessualità, alterità e percezione fondante dell’io vengono così a coappartenersi nella dinamica bipolare (maschile/femminile) dell’essere umano. Affinché gli alunni ottengano il massimo beneficio possibile dall’esperienza scolastica, il docente dovrebbe prendere in considerazione anche le caratteristiche della loro identità di genere. Bibl.: Castilla B., La complementariedad varón-mujer. Nuevas hipótesis, Madrid, Rialp, 1993; Barrio M aestre J. M. (Ed.), Educación diferenciada, una opción razonable, Pamplona, EUNSA, 2005; Dee T., The why chromosome: How a teacher’s gender affects boys and girls, in «Education Next» 6 (2006) 4, 68-75; Besozzi E., Il genere come risorsa comunicativa. Maschile e femminile nei processi di crescita, Milano, Angeli, 22007; Poterzio F., Relazioni interpersonali e

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EDUCAZIONE EXTRASCOLASTICA

identità di genere, in «Quaderni Scienza & Vita» del 9-03-2007.

A. La Marca

EDUCAZIONE DIFFUSA → Educazione EDUCAZIONE ESTETICA → Educazione artistica

EDUCAZIONE EXTRASCOLASTICA L’insieme delle occasioni, delle esperienze, degli interventi e delle agenzie formative che non hanno nella scuola (nei suoi curricoli, spazi, orari, funzionamenti) il loro punto di riferimento. In sostanza, tutto quanto avviene, per finalità educative, esternamente alla scuola e al di fuori della sua struttura istituzionale. 1. Opposizione e continuità. L’e.e. si definisce innanzitutto attraverso la distinzione rispetto a quella scolastica, che può assumere un significato puramente descrittivo e di rilevazione di fatto (ciò che non avviene a scuola) oppure un senso più approfonditamente qualitativo e «modale» (ciò che non avviene nei modi e con gli stili della scuola). Seguendo questa seconda accezione, occorre partire dall’analisi di una contrapposizione che ha percorso larghi tratti della pedagogia contemporanea. I sostenitori della pedagogia non direttiva, della → pedagogia istituzionale e della teoria della → descolarizzazione hanno sostenuto il primato del non scolastico sullo scolastico, mentre i fautori dello → strutturalismo, del → marxismo e del → personalismo hanno difeso quello della scuola. L’esperienza extrascolastica – per gli uni – consente di realizzare l’apprendimento come acquisizione di significati personali, libera da canalizzazioni rigidamente e deterministicamente precostituite, improntata a dinamismi di flessibilità ed elasticità, aperta ad una pluralità di risorse e di ambienti, rafforzata dalla gratuità delle occasioni personali di contatto e dall’assenza di apparati esterni di controllo e di autorizzazione. Il tirocinio scolastico – per gli altri – assicura le condizioni di un apprendimento culturalmente rilevante e metodologicamente provveduto, ripulito da ogni incrostazione di dilettantismo ed improvvisazione, orientato all’ ac386

quisizione degli strumenti di analisi e riflessione critica personale. È chiaro, allora, che ad una visione «burocratica» della scuola si contrappone un’immagine «caotica» ed inaffidabile dell’e.e. Se questa contrapposizione risultasse incomponibile, diventerebbe impossibile pensare ad una sintesi tale da riunire in una composita ma armonica visione educativa tutte le diverse «sfere vitali» (→ Pestalozzi) nelle quali si distende e si esplica l’esistenza della persona. La condizione prima di un → progetto formativo adeguato alla complessità ed alla controversa multilateralità della nostra esperienza consiste, invece, proprio nel prospettare il reciproco concorso del mondo della scuola e degli universi dell’ extrascolastico per la formazione dell’uomo in un orizzonte di → valori comuni e nel rispetto della diversità dei linguaggi e delle potenzialità. Lo scolastico può richiamare dall’extrascolastico la maggior distensione ed autenticità delle relazioni interpersonali, la concretezza dei contenuti, la naturalità delle motivazioni, il rispetto del desiderio esplorativo e l’assenza di formalismi; a sua volta, l’extra-scolastico può recepire dallo scolastico il rispetto della competenza, la stimolazione all’autonomia critica, la ricerca di mediazioni scientifico-razionali, il controllo del coinvolgimento emotivo, l’acquisizione di procedure rigorose di indagine, il perfezionamento degli strumenti espressivi. Non si nega, quindi, la scuola, ma non la si assolutizza; non si ignora, a sua volta, la vita, ma non si abbandona l’extrascolastico ad un puro e semplice gioco di forze ed influssi in contrasto fra loro e spesso privi di un orientamento formativo responsabile. 2. Identità dell’extrascolastico. L’«autodidassi» rappresenta l’elemento distintivo fondamentale dell’esperienza extrascolastica, in cui – come dice P. Furter – «l’obiettivo principale è quello di suscitare, sostenere e prolungare un processo attivo di acquisizione continua di ogni individuo all’interno di ciascuna delle situazioni che egli affronta per trasformare il suo vissuto culturale». A questo riguardo, si delineano due principali campi di attenzione: il fenomeno della «formazione diffusa» da una parte e le prospettive della «post-alfabetizzazione» dall’altra. Sul primo piano, è possibile constatare la presenza di un vasto ed articolato mondo di

EDUCAZIONE FISICA

presenze culturali, comprensivo di un arco di contributi quanto mai composito – enti locali ed enti di decentramento, agenzie di divulgazione, agenzie culturali, cinema, musica, teatro, arte, storia, iniziative di aggiornamento tecnico-professionale, strutture di → educazione permanente e ricorrente – fino a poter parlare di sovrabbondanza, di dispersione e di diffrazione delle offerte. Nasce da qui l’esigenza di coordinamento e di razionalizzazione, che sembra aver trovato nel principio della «territorializzazione» il più produttivo criterio unificante. Resta, ad ogni modo, il problema di definire le strutture di autorevolezza e di potere cui affidare il coor­dinamento: enti locali, amministrazioni decentrate, libere associazioni di volontariato e/o professionali? Il tema della post-alfabetizzazione, poi, invita a riflettere sull’importanza di concepire l’e.e. come insieme di opportunità in grado di affrontare efficacemente impegni di consolidamento della preparazione alfabetica di base, di aprirsi a tutte le opportunità di alfabetizzazione in senso culturale, di includere delle possibilità di applicazione e di finalizzazione personale per tutti e di potenziare lo sviluppo delle comunità. Da entrambi i versanti appare evidente che il nodo centrale è costituito dalla messa in atto – per stare ancora con Furter – di «reti formative» intese come «insieme coerente, ma non necessariamente centralizzato o uniformizzato, di tutti gli insegnamenti che si indirizzano a differenti clientele in differenti momenti della loro vita in differenti situazioni». Al centro di questa ideazione, infine, sta la costruzione di una pedagogia dell’ → e. permanente estesa a tutte le età della vita e, al suo interno, la fondazione di una vera e propria andragogia (teoria della formazione dell’adulto), che si concretizza nell’autovalutazione iniziale dei bisogni di formazione da parte dei destinatari stessi, nella loro partecipazione alla gestione della formazione e nell’organizzazione collettiva di essa. Bibl.: Furter P., «La formation extrascolaire et le développement dépendent», in Les modes de transmission. Du didactique à l’extrascolaire, Paris/Genève, PUF-IED, 1976,18-102; M assa R., L’e.e., Firenze, La Nuova Italia, 1977; Asso ciazione P edagogica Italiana , E. scolastica ed extrascolastica oggi, Atti del XIII Congresso Nazionale di Pedagogia, Bologna, Pàtron, 1979;

Furter P., Les systèmes de formation dans leur contextes, Berne, Lang, 1980, 157-191; 315-332; Scurati C. (Ed.), L’e.e. Problemi e prospettive, Brescia, La Scuola, 1986; Cisem, La formazione diffusa, Milano, Angeli, 1986; Pain A., Éducation informelle, Paris, L’Harmattan, 1993; Lamata Cotanda R. - R. Domínguez A randa (Edd.), La construcción de procesos formativos en educación no formal, Madrid, Narcea, 2003.

C. Scurati

EDUCAZIONE FAMILIARE → Famiglia EDUCAZIONE FEMMINILE → Donna → Educazione di genere

EDUCAZIONE FISICA Il concetto di e.f. appartiene a vari campi d’intervento: fisiologico, pedagogico, ludi­co, ecologico. Ciò che tuttavia accomuna questi differenti settori è il concetto di fon­do secondo cui l’e.f. rientra nel più genera­le processo educativo sotteso alla stretta correlazione che passa tra attività fisica e psichica. 1. Scaturiscono da qui alcune delle princi­ pali prerogative dell’e.f.: in primo luogo es­ sa mira ad un miglioramento «globale» del­ l’organismo, in una visione armonica ed in­ tegrale di tutte le sue componenti; in quanto attività pratica, abbraccia tutti que­gli esercizi che tendono ad esaltare nell’in­dividuo le doti fisiche (agilità, plasticità, destrezza, armonia delle forme...) unita­mente alle qualità bio-psichiche, intellet­t uali e socio-relazionali; in quanto attività svolta generalmente in gruppo, essa contri­buisce alla maturazione dell’uomo non so­lo come singolo ma anche come persona pienamente integrata nel sociale; infine in quanto indirizzata a tutti, uomini e donne, bambini, giovani e adulti, sani e ammalati, deboli e forti presenta un significativo ca­r attere di universalità. Di conseguenza an­che la pratica dell’e.f. e gli esercizi a cui fa capo vanno intesi essenzialmente come «mezzi» per raggiungere le finalità sottese. Pertanto essa non può essere un’attività svolta in modo episodico e frammentario, ma va piuttosto «disciplinata» nel tempo e nello spazio. 2. In particolare l’inserimento dell’e.f. tra le 387

EDUCAZIONE INTELLETTUALE

varie → discipline scolastiche corrispon­de agli obiettivi di far acquisire il valore della corporeità in funzione della forma­zione di una personalità equilibrata ed in grado di relazionarsi con gli altri; di conso­lidare una cultura motoria intesa come pre­venzione; di favorire un completo sviluppo psicomotorio della persona; di promuovere lo sviluppo di abilità trasferibili anche al­l’esterno della scuola e/o della pratica del­l’e.f. (nel campo del lavoro, della salute, del tempo libero...). Bibl.: A zzolini D. - F. Manfrin, L’officina del movimento. I laboratori didattici di educazione fisica: verso una nuova epistemologia disciplinare, Azzano San Paolo (BG), Ed. Junior, 2004; Z edda M., Pedagogia del corpo. Introduzione alla ricerca teorica in e. f., Pisa, ETS, 2006.

V. Pieroni

EDUCAZIONE FORMALE → Educazione EDUCAZIONE IN CONTESTO → Reti educative EDUCAZIONE INFORMALE → Educazione extrascolastica

EDUCAZIONE INTELLETTUALE Si può definire come l’insieme degli interventi intesi a realizzare lo sviluppo dell’intelligenza attraverso procedure educative e didattiche. 1. Approcci. L’accostamento pedagogico riflette le concezioni dell’ → intelligenza in generale, che si possono collocare in un arco i cui estremi sono rappresentati, da una parte, dalla nozione di «facoltà» e, dall’altra, dall’idea dell’intelligenza come «strumento mentale» complesso e multilaterale, di cui l’uomo può disporre per qualificare la propria esistenza. Sviluppare e potenziare l’intelligenza, allora, significa garantire lo sviluppo dell’umanità nella sua stessa radice, per cui interesse primario dell’uomo è di imparare a servirsi intelligentemente della propria intelligenza. Le teorie pedagogiche seguono anch’esse una diramazione che va dal particolare-settoriale al complessivogenerale, per cui da una visione dell’e.i. come arredamento e coltivazione di facoltà od abilità settorialmente specifiche si pas388

sa ad una prospettiva che tende piuttosto a vederla come sviluppo della razionalità in senso globalmente personale. 2. Impianti. La dinamica approcci ristrettiapprocci estesi si ritrova anche nei modelli didattici, che possono essere riassunti in questo quadro: approcci ristretti

approcci estesi

• acquisizione di abilità • compiti cognitivi limitati • contesti naturali • controllo dello studente • limitazione dell’errore

• soluzione di problemi • compiti cognitivi ampi • contesti disciplinari • controllo del sistema • utilizzo dell’errore

In definitiva, abbiamo impianti di tipo addestrativo, orientati allo specifico e non fallibilisti, di contro ad impianti di tipo esplorativo, progettuale e fallibilista. 3. Dimensioni. La prospettiva più rilevante consiste nel connettere l’e.i. con il quadro degli studi cognitivi più avanzati (→ cognitivismo), dai quali emergono i temi centrali della concettualizzazione, della → metacognizione, della molteplicità delle intelligenze (Gardner) e dello sviluppo del pensiero, che confluiscono nella proposta integrata di una e. alla → «comprensione» in tutte le varie forme e nei vari stili possibili alla mente. Bibl.: Bruner J. S., Verso una teoria dell’istruzione, Roma, Armando, 1967; De La Garandèrie A., Comprendre et imaginer. Les gestes mentaux et leur mise en oeuvre, Paris, Centurion, 1987; A rgenton A. - L. Messina, Concettualizzazione e istruzione, Bologna, Il Mulino, 1990; Gardner H., L’e. delle intelligenze multiple, Milano, Anabasi, 1995; Lipman M., Educare al pensiero, Milano, Vita e Pensiero, 2005.

C. Scurati

EDUCAZIONE INTERCULTURALE Il termine e.i. entra in maniera diffusa nel patrimonio linguistico italiano allargato, non solo pedagogico, inizialmente alla fine degli anni ’70 ed acquista sempre maggiore risonanza nel decennio successivo per poi raggiungere il suo culmine negli anni ’90 in concomitanza a fenomeni di grande

EDUCAZIONE INTERCULTURALE

porta­t a come: i nuovi movimenti migratori in­ternazionali; lo stato di guerra in diversi paesi del mondo; la richiesta di pace avan­ zata da singoli e da gruppi organizzati; il dialogo tra Europa occidentale ed orienta­le; la missione ecumenica delle chiese; la caduta delle ideologie; lo sfaldamento del­l’assetto politico-geografico successivo alla seconda guerra mondiale; la demistifica­zione del Welfare State; il potere crescente dei mezzi di comunicazione di massa; l’ac­corciamento delle distanze sia in termini di vicinanza tra popoli e culture, sia in termi­ni di mobilità sociale, nel passaggio da una classe sociale all’altra. 1. Precedenti storici. L’e.i. viene citata nei testi universitari degli anni ’50, che si occu­ pano di e. internazionale, di e. allo → svi­luppo, e diviene parte dei corsi intesi a leg­gere la storia e la società secondo un’ottica aperta. Nella scuola italiana l’e.i. è presen­te ma poco visibile, salvo rare eccezioni, come parte generica, talvolta sperimenta­le, dei contenuti didattici ampliati o ristret­ti dagli insegnanti più o meno sensibili a questo aspetto. Nella storia della pedago­gia è difficile non trovare accenni all’e.i., anche se le dizioni potrebbero essere di­verse: e. alla vita sociale e politica (→ Pla­tone); affermazione della dignità umana (→ Kant); importanza dell’insegnamento e dell’apprendimento linguistico, studio del­le lingue straniere (→ Pestalozzi); ricerca dell’unità nella molteplicità (→ Fröbel); spiritualità ed eticità dell’e. (→ Lambruschini); scuola e società (→ Ga­belli, → Dewey). In tappe storiche come la Dichiarazione di Indipendenza americana, la Rivoluzione francese, le guerre mondia­li e nelle fasi del colonialismo e della de­colonizzazione di interi continenti, l’e.i. ha avuto un suo ruolo ed una sua collocazione non sempre univoca e coerente con l’acce­zione attuale. Ad es. durante il nazionalsocialismo in Europa, l’e.i. negli USA si pre­senta come la risposta alla campagna anti­semita di Hitler e successivamente, negli anni ‘60 si parla di pluralismo culturale, ab­bandonando la dizione precedente e di­stinguendo l’una e l’altro dal concetto di e. multiculturale. Con riferimento al materia­ le storico va detto che l’approccio intercul­ turale è nella sostanza stessa dell’e. intesa, da Socrate in poi, anche se con toni diversi, come intervento, processo, aperto e dina­

mico in continua trasformazione finalizza­to allo sviluppo completo dell’essere uma­no. Da questa nozione di base conseguono innumerevoli corollari che spaziano dal bilinguismo all’idea di dimensione mondiale dell’e., dal → volontariato allo scambio tra studenti delle scuole secondarie e dell’uni­versità, dall’insegnamento della religione come disciplina scolastica al dialogo interreligioso, dalla cittadinanza alla cultura costituzionale. Né va trascurato che molta del­la letteratura dell’infanzia è costituita da racconti e da fiabe nate in terre lontane, ri­spetto all’Italia ad es., che hanno lo scopo, tra l’altro, di far entrare in un fantastico costruito con elementi estranei alla quotidia­nità del bambino. 2. Stato della questione. In generale l’e.i. si riferisce all’e. rivolta a due o più gruppi et­ nici. Le → organizzazioni internazionali la pro­muovono costantemente. Per una parte della pedagogia italiana, l’e.i. è un nuovo approccio teorico e pratico all’e., un’ipote­si di lavoro più che una metodologia; per la didattica non è una materia curricolare da introdurre nella scuola, ma uno sguardo in trasversale alle varie materie d’insegna­mento; per la sociologia essa rimanda alle tesi sulla società multiculturale e sul razzi­smo, forse nuove per l’Italia preindustriale del dopoguerra, ma non certo per le grandi metropoli europee e non europee; per la politica si spiega con azioni concrete intese alla reciprocità tra culture, oppure con la modificazione della vita urbana e del mer­cato del lavoro; per l’antropologia si parla di etnocentrismo, di relativismo culturale, di pregiudizio etnico; per la psicologia si ri­corre alle categorie della differenza e del­l’integrazione. Il tutto dimostra che l’e.i. non sembra essere codificabile in regole di nuovo genere, rispetto a concetti portanti propri delle varie discipline. Ciò che invece risulta originale e da osservare e valutare con sensibilità pedagogica è la particolare conformazione interdisciplinare che assu­me oggi in Italia ed in altri Paesi questo ti­po di e. Ci si rende così conto che in ogni contesto la tradizione pedagogica orienta decisamente l’accostamento intermulti-culturale (multietnico, multirazziale, anti­razzista, polisemantico) al punto da far variare notevol­mente espressioni, significati, interpre­tazioni. Lo spazio definito dall’ → e. comparata si arricchisce di denominazioni 389

EDUCAZIONE LIBERATRICE

generali dal contenuto etico-giuridico come la convivenza civile. Bibl.: Secco L. et al., Pedagogia interculturale. Problemi e concetti, Brescia, La Scuola, 1992; Gobbo F., Pedagogia interculturale: il progetto educativo nelle società complesse, Roma, Carocci, 2000; Venza M., Nuove prospettive dell’e. all’intercultura, Messina, EDAS, 2003; Chisto lini S., Pedagogia e carisma nella globalizzazione, Lecce, Pensa MultiMedia, 2003; Nanni A. - S. Curci, Buone pratiche per fare intercultura, Bologna, EMI, 2005; Chistolini S., (Ed.), Pedagogia della cittadinanza. Lo sviluppo dell’intercultura nella formazione universitaria degli insegnanti, Lecce, Pensa MultiMedia, 2007.

S. Chistolini

EDUCAZIONE INTERNAZIONALE → Educazione comparata → Educazione interculturale

EDUCAZIONE LIBERATRICE L’e. è sempre stata concepita come una → liberazione (e → libertà) da condiziona­menti personali e dipendenze esterne per uno sviluppo pieno della → persona. 1. L’e.l. però risulta originale perché nasce e si sviluppa in una situazione sociale con­ creta: quella dell’ → America Latina. Tale situazione genera, riproduce e fissa attra­ verso le strutture e la cultura un rapporto di sfruttamento tra i singoli e i gruppi so­ciali. Ne segue un ordine sociale ingiusto: una violenza culturale da una parte, una di­pendenza interiorizzata dall’altra. L’e.l. si propone di aiutare a superare la dipendenza e instaurare tra gli individui e nella so­cietà un rapporto di intersoggettività piut­tosto che di «cose». Elementi di tale pedagogia si trovano in diverse esperienze, ma il rappresentante di maggiore spicco è Paulo → Freire. Alla sua diffusione, con opportune correzioni, ha contribuito non poco il mo­v imento educativo cattolico sostenuto dal­la Conferenza Episcopale Latinoamerica­na (cfr. II Conferencia General, Medellín: Documentos finales, 1968, IV. Educación) e dalla riflessione sulla liberazione che si svolgeva in discipline e aree di azione col­legate con la pedagogia (teologia, storia, sociologia). 390

2. Nell’e.l. è determinante la concezione della persona: soggetto del proprio svilup­po e destino, essere in divenire, che tende a trascendersi ed essere di più; che si trova però sotto pesanti condizionamenti a cui ri­schia di adeguarsi e arrendersi. Il primo obiettivo è aiutarla a superare la paura del­la propria libertà, a emanciparsi dalle cate­gorie che la cultura ha fatto interiorizzare e dalle dipendenze che il sistema sociale ha legittimato, e a pensare autonomamente. Per questo non serve un’e. di trasmissione, che riproduce atteggiamenti, rapporti e norme: ci vuole una pedagogia problema­tizzante, fatta di comunicazione e di dialo­go, e che ha il suo luogo più adatto nel gruppo. Il linguaggio diventa allora una ri­cerca, un cammino verso il pensiero criti­co, lo strumento principale della presa di coscienza e della prassi. Si tratta di ridare la parola al soggetto aiutandolo a superare il mutismo linguistico. Capire la portata concettuale e concreta dei termini in uso porta a scoprire i meccanismi di oppressio­ ne e dipendenza, mette in questione l’in­ terpretazione che si ha della realtà e ispira la sua trasformazione. Le parole dunque vanno conosciute, decodificate e ricodifi­cate. A partire da quelle che sono genera­t rici di nuovi significati e di conseguenze pratiche si costruisce una nuova e vera im­magine della realtà. E. e coscientizzazione vanno di pari passo. 3. L’e.l. ha una forte accentuazione politica e utopica. La liberazione infatti è un impe­gno della persona e dei soggetti popolari; non può essere ottenuta dal singolo isolatamente. L’azione educativa e culturale in­clude un progetto e un’intenzione politica di trasformazione delle strutture, dei rap­porti e delle norme sociali. Bibl.: Freire P., L’e. come pratica della libertà, Milano, Mondadori, 1975; Celam, Educación evangelizadora, Bogotá, Celam, 1980; Freire P., Pedagogia da esperança, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1992; A ráujo Freire A.M. (Ed.), La pedagogia de la liberación em Paulo Freire, Barcelona, Graó, 2004; Torres Novoa C.A. (Ed.), Lectura crítica de Paulo Freire. Materiales para una crítica de la pedagogía problematizadora de Paulo Freire, Xátiva, Institut Paulo Freire CREC, 2006.

J. E. Vecchi

EDUCAZIONE MORALE

EDUCAZIONE MORALE Ogni vera intenzione educativa ha come obiettivo ultimo, almeno implicito, la pro­ mozione dell’uomo in quanto → uomo, cioè la sua crescita; il fatto educativo e quello morale sono quindi inscindibilmente con­nessi (→ educazione). Ogni influsso educa­tivo ha una sua valenza etica: esercita una certa influenza, fosse pure impercettibile, sulla → personalità morale dell’educando. Ogni forma di e., anche solo settoriale, pro­duce sempre → formazione (o magari de­formazione) morale. 1. Le → scienze dell’e. hanno dedicato in questi ultimi decenni un’attenzione sempre più rilevante, a questa dimensione etica del fatto educativo così che il termine e.m. non indica più soltanto una realtà di fatto da sempre presente al centro dell’attenzione degli educatori veri, ma anche un campo di ricerca e di sapere in via di rapida espan­sione ed approfondimento, che si articola sia su un piano teoretico, come studio pre­valentemente psicologico dello → sviluppo morale, sia su un piano normativo, come guida metodologica alla prassi pedagogica. Il discorso sullo sviluppo morale che pre­cede e condiziona il discorso più propria­mente pedagogico sconfina facilmente nel campo specifico della filosofia morale: esso rimanda sempre a una qualche → antropo­logia e non può evitare di prendere posi­zione sul senso e sulla natura profonda del­l’impegno etico. 2. Riserve particolari può suscitare a que­sto proposito il carattere decisamente uni­laterale della concezione della personalità e del vissuto morale soggiacente ad alcune di queste teorie: esse riconducono molto spesso tutto il complesso dinamismo del­l’esperienza morale a una sola istanza psi­chica, sia essa la pulsionalità (come → Freud), il condizionamento riflesso (come il behaviorismo) o le strutture cognitive (come → Kohlberg). Alcune di queste uni­lateralità comportano tra l’altro una qual­che forma di determinismo etico: il deter­minismo delle pulsioni, quello della ragio­ne oppure quello del puro e semplice con­dizionamento sociale. Non pochi studiosi, più attenti alla complessità del vissuto psi­ cologico umano, stanno elaborando visioni dello sviluppo morale che superano queste unilateralità e i corrispettivi determinismi,

attraverso forme diverse di sincretismo (ma sarebbe meglio dire di «olismo psichi­co») che ricuperano gli aspetti positivi del­le diverse teorie, e li integrano in una vi­sione più completa del vissuto etico. 3. Nel loro insieme, queste teorie possono comunque fornire un utile punto di riferi­mento per una migliore comprensione dei rapporti tra il fatto educativo e quello mo­rale, mettendo in risalto il carattere essen­zialmente autoeducativo dell’impegno mo­rale. La loro decisa focalizzazione del di­scorso etico sul soggetto del fatto morale costituisce uno stimolo a superare la «mo­rale della terza persona» dominante nel­l’era moderna, esclusivamente tesa alla determinazione inequivoca di ciò che è moralmente «corretto» (e perciò alla fon­dazione e alla elaborazione delle norme), in favore di una «morale della prima per­sona», orientata alla crescita progressiva del soggetto morale. Nella prospettiva del­la «prima persona», l’atto morale non è più valutato soltanto in base alla sua efficienza nel produrre risultati, ma anche e più in quanto atto di un soggetto concreto, che ne rimane più o meno profondamente segna­to, diventando, attraverso di esso, più o meno maturo, più o meno realizzato in quanto → persona. 4. Una conseguenza rilevante di questa nuova prospettiva sarà il ruolo che viene ad assumere nell’e. il «principio di gradua­lità». Le diverse teorie dello sviluppo sono abbastanza concordi nell’indicare gli assi principali dello sviluppo morale in alcune polarità, fondamentalmente riconducibili alle seguenti: «eteronomia-autonomia», «prerazionalità-razionalità» ed «egocentrismo-autotrascendimento». Naturalmente una simile scelta orienta, sul piano della → metodologia pedagogica, alla svalutazione di alcune forme tradizionali di e., troppo esclusivamente fondate sull’indottrina­mento e sulla repressione. I dinamismi educativi privilegiati saranno invece rias­sumibili nell’amore accogliente (e quindi non condizionante e non possessivo), nella testimonianza della vita (accompagnata peraltro da una qualche forma di insegna­mento morale che, senza scadere a indot­t rinamento abbia il coraggio umile di chia­mare per nome i valori in cui crede), in un ambiente educativo fatto di ordine, affida­bilità e serenità (che garantisca 391

EDUCAZIONE PERMANENTE

all’educan­do sicurezza interiore e dominio di sé), nel­la presenza di modelli credibili di identifi­cazione e nell’iniziazione al senso di re­sponsabilità attraverso l’impegno in com­ piti di percepibile utilità sociale e come ta­li socialmente riconosciuti. Bibl.: Erikson E. H., Introspezione e responsabi­ lità, Roma, Armando, 1968; Bull N., Moral education, London, Routledge & Kegan, 1969; Galli N., E.m. e crescita dell’uomo, Brescia, La Scuola, 1979; Kohlberg L., Essays on moral development, 3 voll., S. Francisco, Harper & Row, 1981; A rto A., Crescita e maturazione morale, Roma, LAS, 1984; Gatti G., E.m., etica cristiana, Leu­ mann (TO), Elle Di Ci, 1994; Lapseley D. - P. Power (Edd.), Character psychology and character education, Notre Dame, Ind., University of Notre Dame Press, 2005.

G. Gatti

EDUCAZIONE MULTICULTURALE → Educazione interculturale EDUCAZIONE NON FORMALE → Educazione extrascolastica EDUCAZIONE OCCASIONALE → Educazione extrascolastica

EDUCAZIONE PERMANENTE Con il concetto di e.p. si comprendono molteplici ambiti educativi che si prefiggono di sviluppare soprattutto in età adulta e anziana apprendimenti, comportamenti e atteggiamenti in precedenza già acquisiti o del tutto nuovi. 1. Fanno parte del variegato campo scolastico ed extra-scolastico dell’e.p. l’e. degli adulti (il settore si occupa sia del recupero di coloro che, in età giovanile, non hanno conseguito titoli di istruzione, sia di promuovere i bisogni formativi, culturali, tecnologici e di socializzazione presso categorie privilegiate o svantaggiate di cittadini); l’e. p. e ricorrente (si rivolge a giovani adulti e ad adulti dell’età di mezzo nelle situazioni di lavoro per scopi di aggiornamento professionale e riqualificazione). Tuttavia, l’e.p. è anche una filosofia dell’e. dalle antiche origini: rintracciabili nella tradizione classica, medioevale e moderna. Soprattutto in → Platone, → Se392

neca, → Agostino, → Montaigne, → Comenio e in correnti di pensiero quali il pitagorismo, lo stoicismo, l’utopismo (→ Campanella e Moro), l’empirismo, il marxismo e l’esistenzialismo; nelle religioni rivelate; nel variegato universo delle dottrine orientali, nonché nei movimenti ereticali e fideistici (sette, gruppi misterici o anacoretici); nelle dottrine politiche di ispirazione diversa e nelle idealità democratiche, socialiste, libertarie e cristiano-sociali. Ogniqualvolta infatti concezioni e visioni dell’individuo, dell’umanità, di talune classi sociali hanno messo in luce l’intrinseca imperfezione e incompiutezza (personale, intellettuale, morale, sociale) dell’uomo, l’e. è sempre stata reputata un mezzo e un fine non riducibile alla prima fase della vita. 2. Accanto ai valori da apprendere anche nel corso del periodo adulto di fronte a necessità di diverso ordine (speculative, civili, conflittuali e associative, ecc.), attinenti le credenze e le interpretazioni da divulgare, trasmettere, perpetuare l’e.p. rappresenta un analizzatore antropologico. La → ricerca educativa più recente si serve delle categorie che le sono proprie per studiare fenomeni quali il cambiamento, l’apprendimento, le differenze di genere tra uomo e donna, 1’autorealizzazione. Benché l’introduzione del concetto – preceduto da quello di e. degli adulti (già presente alla fine dell’800 nei Paesi anglofoni e del nord Europa) – risalga alla prima metà del XX sec. e voglia ancor oggi esprimere soprattutto un’istanza ideale (diritto allo studio per tutta la vita, ridistribuzione del sapere, emancipazione culturale) o economico-sociale (adattamento alla rapidità dei mutamenti, competizione intellettuale, innovazione tecnologica ricorsiva) l’e.p. ha un valore soprattutto euristico. Qualora venga difatti applicata ad indagini sulla condizione adulta rivela di essa l’intrinseca dinamicità, l’ulteriore volontà di progredire nella conoscenza e nell’affermazione di se stessi; in altri casi – ad es. in psicologia e psicoanalisi – lo studio attiene allo sblocco di situazioni patologiche che si risolvono in domande di riabilitazione e apprendimento, in richieste di integrazione sociale o rimotivazione. Ne consegue che l’e.p., ben lungi dall’essere soltanto un orientamento critico volto a decifrare e riconoscere i luoghi, le

EDUCAZIONE POPOLARE

circostanze, i programmi che consentono all’adulto di tornare in formazione, si va rivelando un prezioso indicatore a livelli diversi. Sul piano concettuale suggerisce l’adozione di modelli teorici ispirati alle nozioni di mutamento e divenire (mai nulla si rivela statico ed uguale a se stesso e tanto meno l’identità o il sé dell’ → adulto); sul piano istituzionale e legislativo questa prospettiva generale suggerisce di elaborare proposte educative che tengano conto di tutte le età della vita, delle disparità e delle disuguaglianze affinché il singolo possa facilmente trovare quanto gli occorre per migliorare; sul piano planetario l’e.p. invita a considerare la formazione uno dei più importanti, e collaterali, fattori di progresso, di e. alla pace, alla solidarietà, alla lotta contro l’analfabetismo che costituisce ancora una delle cause più drammatiche della povertà e del sottosviluppo. Inoltre i processi educativi, quando vengono esaminati secondo i principi dell’e.p., si palesano nella loro intrinseca evoluzione: per tale motivo gli educatori, anche dell’infanzia e dell’adolescenza, che li fanno propri, si interrogano sull’esito «permanente» dei loro insegnamenti, su quali obiettivi pedagogici saranno in grado più di altri di alimentare nei loro allievi una domanda ulteriore di apprendimento al termine del loro tragitto scolastico. 3. L’e.p. ha poi stimolato indagini nuove rispetto a problemi quali: la conoscenza dell’identità dell’adulto, dei suoi ruoli sociali, delle sue responsabilità, nonché della vita anziana oggi destinataria di molteplici attenzioni di tipo formativo (animazione socioculturale, università della terza età, ecc.); le condizioni che favoriscono l’apprendimento degli adulti e le forme specifiche attraverso le quali la mente adulta elabora la conoscenza; lo studio degli effetti della sovraesposizione massmediale sui comportamenti adulti, con particolare riferimento a fenomeni quali la manipolazione, la disaffezione alla lettura, il condizionamento sociopolitico, la crisi del tempo libero «impegnato». Non ultime vanno ricordate le suggestioni provenienti da una disciplina (andragogia: lett. scienza della formazione in età adulta) introdotta dall’americano M. Knowles negli anni ‘70, in merito alla definizione delle strategie e delle tecniche didattiche ottimali per susci-

tare negli adulti il desiderio di conoscere e la valorizzazione della loro esperienza, con la conseguente introduzione nel vocabolario delle scienze dell’e. del concetto di adultità. Esso si mostra come un neologismo che esprime la complessità dell’essere adulti nelle società attuali e, nondimeno, la necessità di riconoscere nell’età matura manifestazioni ed aspetti che ne contraddicono i compiti ad essa tradizionalmente attribuiti: quali il bisogno di gioco, la trasgressione, l’irresponsabilità, ecc. Bibl.: M encarelli M., Dall’e.p. di base all’e. dell’adulto, Brescia, La Scuola, 1970; Lorenzetto A., Lineamenti storici e teorici dell’e.p., Roma, Studium, 1976; Susi F. - S. Meghnagi, L’e.p., Rimini, Guaraldi, 1977; De Sanctis F. M., L’e.p., Firenze, La Nuova Italia, 1980; Pagnoncelli L. (Ed.), L’e. dell’adulto: nuove frontiere, Teramo, Lisciani, 1984; Demetrio D., L’età adulta, Roma, NIS, 1990; K nowles M., Quando l’adulto impara, Milano, Angeli, 1993; Demetrio D., L’e. nella vita adulta, Roma, NIS, 1995; Gelpi E., Lavoro futuro. La formazione come progetto politico, Milano, Guerini, 2002; A lberici A., Imparare sempre nella società conoscitiva. Dall’e. degli adulti all’apprendimento durante il corso della vita, Milano, Mondadori, 2002; A lberici A. - D. Demetrio, Istituzione di e. degli adulti, Milano, Guerini, 2004.

D. Demetrio

EDUCAZIONE POLITICA → Educazione sociopolitica

EDUCAZIONE POPOLARE Di solito aggettivare l’e. significa facilitarne la comprensione precisandone la prospettiva. Non sembra che avvenga la stessa cosa quando le si accosta l’aggettivo popolare, perché esso risulta piuttosto equivoco e suscita atteggiamenti ambivalenti. 1. La scelta di una prospettiva. È indispensabile anzitutto scegliere la prospettiva di approfondimento e precisare il significato di popolare, anche se questo non è semplice. Si potrebbe parlare di e.p. richiamando alcuni aspetti del pensiero di → J. H. Pestalozzi, «apostolo dell’e.p.», e gli approfondimenti di 393

EDUCAZIONE RELIGIOSA

→ E. Spranger; si potrebbe fare riferimento all’esperienza di Don → Bosco e della scuola di Barbiana con Don → Milani; non si può tralasciare il richiamo alla «pedagogia degli oppressi» di P. Freire (→ e. liberatrice) o alla stessa esperienza delle «scuole popolari». Tra tutte queste elaborazioni ed esperienze, scegliamo di precisare il significato di e.p. a partire dalla prospettiva socioculturale, richiamando alcuni aspetti dell’e. in ambienti a prevalente cultura tradizionale, e di fare un rapido richiamo dell’e. emancipatrice/liberatrice. 2. E.p., una modalità tipica di e. Nella prospettiva socioantropologica la denominazione e.p. rimanda al passato e fa pensare a contesti, soggetti, contenuti e metodi che rischiano di essere sminuiti o idealizzati, perché difficilmente riscontrabili nella realtà attuale. I «contesti» evocati sono realtà territoriali alquanto circoscritte che coinvolgevano tutti i livelli sociali, anche se con notevoli differenziazioni circa le prassi di vita. In essi, gli ambienti e la cultura, costituiscono il «paesaggio umano» progressivamente esplorato in cui non si avverte nulla di estraneo e di avverso perché tutto appare familiare e come espansione dei confini della famiglia. In questi contesti ricchi di presenze, l’individuo realizza, per assimilazione progressiva, l’apprendistato della vita, fa sua quell’arte di vivere che costituisce il senso e il contenuto fondamentale della cultura ambientale. Si tratta di una trasmissione e di un’assimilazione esperienziale realizzate a partire dalla condivisione delle esperienze e attraverso il coinvolgimento progressivo nella vita degli adulti. Se da una parte, quindi, nel contesto ambientale tutti sono educatori, perché trasmettono il modo di essere insieme al fare, i metodi educativi sono semplificati al massimo in quanto richiedono attenzione alle modalità del vivere e capacità di assimilazione. Attualmente, questi contesti ambientali sono attraversati da profondi cambiamenti e il processo educativo condivide le fragilità e precarietà di quei paesaggi umani che hanno perso la dimensione comunitaria e stentano a trovare modalità significative di esperienza umana condivisa. 3. E.p. «liberatrice ed emancipatrice». Dallo sconvolgimento di questo mondo e da 394

ciò che si è prodotto come conseguenza, non si può non pensare a una e.p. che aiuti a prendere coscienza dei nuovi rischi di emarginazione e di esclusione conseguenti alla globalizzazione. La prospettiva attuale dell’Eco-Pedagogia considera l’essere umano in un rapporto armonico con il contesto al quale appartiene e questo pone una sfida molto importante alla e.p.: elaborare e costruire alternative alla realtà attuale; un altro mondo è possibile se si riesce a far crescere il numero di coloro che pensano, condividono, partecipano, mettono in atto e socializzano. È la speranza che si fonda anche sul «tesoro» riscoperto nell’e. Bibl.: Spranger E., Ambiente e cultura. Lo spirito caratteristico della scuola elementare, Roma, Armando, 1964; Santomauro G., Civiltà ed e. nel mondo contadino meridionale, Bari, Adriatica Editrice, 1974; Colonna S., Prospettive della società educante, Lecce, Milella, 1979; Delors J. (Ed.), Nell’e. un tesoro, Roma, Armando, 1997; Fuentes N., «E.p. liberatrice ed emancipatrice», in A. Surian (Ed.), Un’altra e. è possibile. Forum Mondiale dell’E. di Porto Alegre, Roma, Editori Riuniti, 2002, 237-248.

V. Orlando

EDUCAZIONE PRESCOLASTICA → Sistema formativo EDUCAZIONE PROGRESSIVA → Scuole Nuove

EDUCAZIONE RELIGIOSA L’e. è naturalmente impegno di ogni tradizione religiosa; si diversifica profondamente a seconda del carattere delle diverse religioni e delle rispettive strutture organizzative. Lo stesso vale per i molteplici movimenti religiosi che si vanno di recente affermando. 1. In un contesto di forte cambiamento. Nel contesto pluriculturale e multireligioso, che va sempre più caratterizzando la nostra società, le spinte al confronto e al ripensamento delle tradizionali strategie educative sono molte e complesse. La conseguenza più vistosa è che l’impegno educativo si porta su versanti fortemente differenziati: in sintesi si può dire che l’e. specificamente confessionale

EDUCAZIONE RELIGIOSA

tende a dilatare i propri parametri; accetta il dialogo con altre confessioni (ricerca ecumenica) e con diverse religioni. Cambia l’obiettivo dell’e.r.: da una preoccupazione sostanzialmente trasmissiva tende a situarsi più direttamente nel quadro di una complessiva maturazione umana, esplorandovi la funzione specifica della religione. Per cui la ricerca pedagogica spazia su versanti diversi: dalla composizione tra dato teologico e antropologico (Germania) all’apporto nell’identificazione del senso della vita (Europa del Nord) all’esplorazione della «religiosità» (Stati Uniti). Nell’insieme si può rilevare una tendenza generale a riprendere la tradizione educativa nei metodi e nelle consuetudini. Qui le indicazioni si limitano alla tradizione cattolica piuttosto recente. Di fatto nella consuetudine dell’Italia l’e.r. si è in tanta parte identificata con l’e. ecclesiale cattolica; questa risulta spartita in molteplici interventi a seconda dei destinatari, dei luoghi, della stessa sensibilità religiosa. Aggregazioni e movimenti ecclesiali hanno di solito una propria opzione educativa, che per lo più si differenzia anche sulla base dell’età e della condizione di coloro cui si rivolge. Negli ultimi decenni, a partire dagli anni ’50 soprattutto, è invalsa una forte spinta innovativa. 2. La denuncia della pedagogia tradizionale. L’itinerario consacrato da una lunga consuetudine risulta compromesso da condizioni complesse che ne hanno minato l’efficacia. Di fatto la → catechesi tradizionale, riportata allo sfondo pedagogico, cui si alimentava, aveva una propria logica educativa. A partire da un forte senso di appartenenza alla Chiesa faceva perno su alcune piste privilegiate: la memorizzazione di elementi essenziali della dottrina; il racconto concentrato sulla storia sacra e le grandi figure che l’avevano popolata; l’esemplarità di figure eminenti nella storia della Chiesa, in quanto modelli cui ispirarsi e da imitare. I fattori che hanno intaccato questo modello sono molti, complessi, non sempre chiaramente identificati; riguardano non solo e forse non tanto l’esperienza ecclesiale, quanto un progressivo mutamento culturale e pedagogico che via via lo rendono incredibile e ne incrinano l’efficacia (Adler-Vogeleisen, 1981). Man mano che vengono meno i presupposti di una catechesi dottrinale si vanno elaborando modelli

diversi, più rispettosi del soggetto e dei suoi dinamismi di maturazione. 3. Successivi modelli educativi privilegiati nella Chiesa. Tutto un movimento catechetico degli anni ’50 rivendica l’originalità dell’annuncio cristiano e la sua singolare forza di coinvolgimento: La catechetica (1953) di Jungmann ne offre una proposta esemplare. 3.1. Dalla preoccupazione «sistematica» al «significato» esistenziale. Progressivamente s’impone la necessità di far riferimento all’esperienza concreta, di accompagnare ciascuno nella sua specifica situazione, di definire le tappe di un itinerario ragionevolmente persuasivo. Non è più una questione di trasmissione della dottrina: è questione di educare la persona ad assumere e a vivere le realtà della fede cristiana. Prima fra tutte l’incontro personale con Cristo e con il Dio recato dal suo annuncio. Il Direttorio catechistico generale (1971), preceduto in Italia dal Documento di base (1970), propongono con autorevolezza i criteri del rinnovamento. Il dibattito che ne segue trova la sua impostazione risolutiva nel Sinodo Universale sulla Catechesi (1977). Vi si sposa autorevolmente il principio dell’incarnazione e ci si sforza di dedurne una pedagogia coerente. 3.2. Nuovi orizzonti educativi. Contemporaneamente nei Paesi in via di sviluppo si profilano condizionamenti di ordine strutturale, resistenze economico-sociali con cui fare i conti. Il tema della liberazione in America Latina alimenta la riflessione teologica e l’azione educativa. La Seconda Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano di Medellín (1968) e la Terza di Puebla (1979) garantiscono una spinta coraggiosa e innovativa. In altri contesti – Asia e Africa soprattutto – sono i problemi dell’emancipazione e dell’inculturazione che si impongono e ricercano strategie e progettazioni educative adeguate. Attualmente anche in ambito europeo risulta chiaro che lo sforzo innovativo è chiamato a dilatare i propri orizzonti. Il richiamo più esplicito è dato da Paolo VI (Evangelii nuntiandi, 1976). Non è più solo una questione di corretto itinerario pedagogico-didattico; è questione culturale di ricupero della funzione autentica della → religione nell’esperienza complessiva e nella maturazione integrale della → persona. 395

EDUCAZIONE SCIENTIFICA

4. Provocazioni in atto in ambito scolastico. A partire dagli anni ’70 soprattutto, la scuola cerca una propria identità educativa. L’affermazione del Documento di base (n. 154), secondo cui «nella scuola, la catechesi deve caratterizzarsi in riferimento alle mete e ai metodi propri di una struttura scolastica moderna» raccoglie le suggestioni di un dibattito già in atto e le rilancia. Legittima una vasta riflessione e un confronto che si protraggono con notevole vivacità lungo tutto il successivo decennio, fino alla revisione del Concordato (1984). All’inizio degli anni ’90 una vasta ricerca ha fatto il punto sulla situazione reale dell’e.r. scolastica in Italia (Malizia-Trenti, 1991). Ha sottolineato i nodi ancora irrisolti e in un certo senso sempre più provocanti: il corretto rapporto fra religione e confessione religiosa; l’integrazione e l’articolazione del riferimento teologicobiblico con la dimensione religiosa esistenziale; la stessa elaborazione educativa da articolare in base alla matrice teologico-biblica o alle scienze pedagogiche [...]. In ogni caso la scuola è diventata un versante educativo alla ricerca di una propria caratterizzazione; un osservatorio privilegiato nell’evidenziare urgenze e strategie educative inedite. 5. Nuove emergenze educative. Naturalmente sono molte e complesse. Si possono segnalare le più significative. a) La prima concerne una sensibilità culturalmente avvertita dell’apporto insostituibile della religione nell’interpretazione dell’esperienza umana. Tanto più che il vuoto lasciato dalla caduta delle opposte ideologie porta l’attenzione e l’interesse sulla religione come fonte e matrice di valore e di significato. b) Secondo la nuova accentuazione ermeneutica l’esperienza è a perno di ogni elaborazione culturale. La proposta religiosa non è tanto considerata per la sua oggettiva verità, quanto per il significato esistenziale che sottende. S’impone un rinnovamento di prospettiva in ambito religioso: va evidenziato il ruolo profetico e utopico della religione, in grado di definire la speranza, di illuminare l’orizzonte; di elaborare i grandi simboli che illuminano l’esistenza. c) Inoltre l’orizzonte culturale in rapido cambiamento, aperto al confronto con nuove e autorevoli tradizioni anche religiose si impone ormai alla verifica educativa. È in gioco la credibilità della proposta stessa: la 396

valenza esistenziale della dimensione religiosa; la solidarietà con la più vasta ricerca religiosa universale; la corretta articolazione fra ricerca religiosa e rivelazione; la funzione della religione nel confronto con le sfide decisive del nostro tempo. Bibl.: Jungmann J. A., Katechetik. Aufgabe und Methode der religiösen Unterweisung, Freiburg, Herder, 1953; Fossion A., La Catéchèse dans le champ de la communication, Paris, Cerf, 1990; Trenti Z., La religione come disciplina scolastica, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; A lberich E., La catechesi della Chiesa, Ibid., 1992; Gevaert J., Catechesi e cultura contemporanea, Ibid., 1993; Congregazione per il Clero, Direttorio generale per la catechesi, Roma, LEV, 1997; Trenti Z. et al., Religio. Enciclopedia tematica dell’e.r., Casale Monferrato, Piemme, 1998; Id., Educare alla Fede. Saggio di pedagogia religiosa, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2000; Vescovi del Quebec, Proporre la fede ai giovani d’oggi. Una forza per vivere, Ibid., 2001; Trenti Z., Opzione religiosa e dignità umana, Roma, Armando, 2003; Trenti Z. - R. Romio, Pedagogia dell’apprendimento nell’orizzonte ermeneutico, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2006.

Z. Trenti

EDUCAZIONE SCIENTIFICA Facendo riferimento alle voci → scienza, più teorica, e → scienze (insegnamento del­le), più didattica, la presente considera lo sviluppo storico di tale insegnamento. 1. L’e.s. era pressoché assente nel mondo antico, tranne che a livelli superiori. → Pla­ tone, da buon pitagorico, diceva a pro­posito della sua Accademia: «nessuno entri che sia ignaro di geometria». E nel Peripato → Aristotele, e Teofrasto che gli succe­dette quale scolarca, impartivano pure ele­menti di biologia e zoologia e nozioni di astronomia. Ad Alessandria d’Egitto, nel Museo e nella Biblioteca, si raccoglievano anche opere di scienze; ed Eratostene mi­surò per primo con notevole approssima­zione il meridiano terrestre, calcolando la differente lunghezza dell’ombra proiettata da un obelisco di altezza data ad Alessan­d ria ed a Siene sul medio Nilo.

EDUCAZIONE SESSUALE

2. Nel → Medioevo l’e.s. trovava posto nel «quadrivio» delle → arti liberali come arit­ metica, geometria, astronomia, e anche co­ me musica (intesa come studio dei rappor­ti matematici tra note). Ma era un’introdu­zione elementare a scopi essenzialmente pratici. L’aritmetica era studiata nei cosid­detti Libri de computo a fini commerciali; la geometria ai fini dell’agrimensura e del­l’architettura; l’astronomia ai fini della na­vigazione e della determinazione del ca­lendario per scopi annalistici e liturgici. Al­la fine del Medioevo cominciarono studi di ottica geometrica, utile anche per lo studio della prospettiva pittorica; e di alchimia, per il trattamento dei metalli e la produ­zione di medicamenti. 3. Nel Rinascimento si ravviva l’interesse per la natura, e poco dopo cominciano gli studi di fisica, chimica, biologia intesi in senso non più solo pratico, ma teoretico. Al nozionismo occasionale si sostituisce una ricerca sistematica al puro scopo di sa­pere. Essa diventa parte dell’e. dell’uomo completo, come lo intendono Leonardo da Vinci e Galileo Galilei. Proprio Leonardo asserisce di non poter soffrire «i trombetti e recitatori delle altrui opere» che tengono davanti agli occhi i libri al punto da non vedere la natura. Galilei è per le «sensate esperienze... e certe dimostrazioni» che muovono dall’esperienza e ne risolvono i nessi osservati in rapporti matematici; per questo appresta regoli, orologi, compassi, mezzi di ingrandimento ottico che con­sentano più precise misure. Inizia allora il grande sforzo di «matematizzazione» del­la fisica che, sostenuto anche dal cartesianesimo che teorizza il mondo come «res extensa», approderà alle grandi sintesi di Newton e Laplace. 4. Con il sec. XVII e il XVIII, oltre agli svi­ luppi della fisica e dell’astronomia, inizia il cammino autonomo di quasi tutte le scien­ze, incluse la mineralogia, la botanica, la zoologia, l’anatomia animale e umana. Ini­zia anche l’osservazione microscopica, si scopre la cellula; si dimostra l’inesistenza della generazione spontanea e si studiano gli infusori. Vengono fatti i primi passi ver­so la divulgazione scientifica con le dimo­strazioni nei salotti, e con la creazione di erbari e di grandi collezioni museali. Na­scono le prime grandi Accademie scientifi­che distinte da quelle letterarie.

5. Il secolo d’oro dello sviluppo scientifico è il XIX; nasce la chimica sciogliendosi da­ gli impacci alchimistici; nascono lo studio dell’elettricità e del magnetismo, della ra­ dioattività e dell’atomo. Nascono la fisio­logia e la psicologia sperimentali. La divul­gazione diventa un nuovo genere lettera­rio, e la filosofia del secolo diventa il «po­sitivismo» che si presenta come filosofia «scientifica». L’e.s. viene ritenuta fonda­mentale ed entra ormai in tutti i program­mi. Lo stile pesantemente nozionistico e l’esaltazione a senso unico delle conquiste fa velo tuttavia allo spirito critico, che vie­ne riguadagnato solo all’inizio del sec. XX dopo la revisione della fisica classica ad opera della prima e seconda teoria dei quanti e della relatività. Quasi contempo­ raneamente vengono rivedute le prime teorie lamarckiane e darwiniane dell’evo­luzione, includendo la genetica mendeliana e le scoperte dei geni e del DNA. Si giunge così ai giorni nostri, quando una nuova consapevolezza epistemologica supera le ingenuità positivistiche e accredita un nuovo spirito problematico e aper­to, che ispira un insegnamento basato sul metodo delle ipotesi. Bibl.: Aubert J. M., Cosmologia: filosofia della natura, Brescia, Paideia, 1968; Daumas M. (Ed.), Storia della scienza, 7 voll., Bari, Laterza, 1976-1978; Laeng M., Unità della cultura e costruzione di concetti scientifici, Lecce, Pensa MultiMedia, 2001; G obbi L., L’e.s. nell’epoca della tecno-scienza: laboratori di storia della scienza, Azzano San Paolo, Junior, 2004; Laeng M., I gradini dell’ascesa. La vita e l’uomo, Brescia, La Scuola, 2004.

M. Laeng

EDUCAZIONE SESSUALE Dimensione dell’e. di base relativa alla ses­ sualità in età evolutiva e nelle diverse età della vita. 1. La sessualità, oggi più che mai, è sentita come simbolo di vita e di morte: demoniz­zata o all’opposto divinizzata, spesso banalizzata e commercializzata nei più diversi modi. Nonostante il notevole impe­g no profuso lungo il corso dei secoli, riesce difficile darne una definizione comprensiva e condivisa. Per il 397

EDUCAZIONE SESSUALE

nostro secolo merita considerazione il tentativo freu­diano di farne l’onnipresente fondamento della civiltà e della cultura. I punti di vista e gli approcci scientifici non riescono a tutt’oggi ad offrire forme di sapere che consentano d’inter­pretarla e di viverla in termini intersogget­tivi e interculturali, di razionalità e di ra­gionevolezza, evitando forme d’irrazionalismo o di mistici­smo radicalizzato. In ogni caso non va pensata in maniera separata dalla categorie più comprensive della persona e della vita comunitaria e di genere. Infatti la sessua­lità umana si presenta come una dimensio­ne pervasiva della vita e della cultura, col­legata con altre espressioni fondamentali dell’esistenza umana personale e colletti­va, quali la corporeità, l’ → amore, l’ → ami­cizia, la stessa → religiosità. Per la coscienza contemporanea è considerata imprescindibilmente uno dei diritti umani soggettivi fondamentali e strettamente connessa con la → differenza individuale e di genere. 2. Una certa socializzazione e inculturazione sessuale sono parte integrante della for­ mazione delle nuove generazioni in ogni ti­po di società ed in ogni periodo storico, per lo più secondo modi di e. informale e di imitazione dei costumi sessuali più o meno approvati socialmente. Essa rientra più o meno esplicitamente nelle forme di iniziazione sociale e nei cosiddetti riti di passaggio. Tuttavia, fors’anche per un cer­to «senso del pudore» legato al carattere di intimità della sessualità, tali pratiche for­mative hanno dato spesso luogo ad ap­prendimenti tutt’altro che limpidi, hanno fomentato paure e hanno spinto a forme di distanziamento o di contestazione dei co­stumi sessuali comunitari. I mutamenti e le innovazioni storico-cultu­rali attuali hanno accresciuto le problema­tiche di sempre e ne hanno apportate nuo­ve, legate in modo particolare alle istanze di emancipazione, di liberalizzazione, di autorealizzazione, di pieno soddisfacimen­to dei bisogni soggettivi, che pervadono il comune modo di sentire attuale anche ri­g uardo alla sessualità personale, non sen­za l’influsso del permissivismo e del consu­mismo sociale. A livello politico, a partire dal secolo scor­so, in molte nazioni, si è invocata una e.s., pubblica e sistematica, per affrontare pro­blemi quali le malattie veneree, il calo de­mografico, il controllo delle nascite, la for­mazione di identità 398

sessuate reciproca­mente rispettose, la diffusione dell’AIDS, la violenza sessuale, l’abuso dei minori; ed in pari tempo per sostenere il rinnova­mento e l’adeguamento storico dei costu­mi sessuali sociali. A livello pedagogico, si sono ritenute in­sufficienti le forme tradizionali di e.s.; si è richiesta una prospettiva educativa «scien­tificamente» confortata, teoreticamente fondata e pedagogicamente progettata; si sono invocate normative deontologiche chiare e figure educative con competenze specifiche. L’e.s. è stata tenuta presente nelle iniziative di e. familiare, nelle scuole per genitori, nei corsi di preparazione al matrimonio Oltre che compito formativo di ognuno, l’attenzione educati­va sessuale è, infatti, anche qualcosa di interesse comunitario e collettivo, in quanto parte integrante della ricerca di una migliore qualità della vita di tutti ed ognuno nel­le diverse età e condizioni della vita, con modalità spe­ciali in ognuna di esse. In tal senso è aspetto costitutivo dell’ → e. permanente. 3. In particolare, l’introduzione dell’e.s. in termi­n i di informazione, di conoscenza e di con­sapevolezza, in vista della conquista del­l’autonomia, della responsabilità, del ri­ spetto di sé e degli altri, della valoriz­zazione della differenza sessuale e di genere, della pro­creazione responsabile e delle diverse op­z ioni etiche ed esistenziali, rientra nel qua­d ro delle finalità della scuola. Questa, infatti, è chiamata a partecipare, con sue specifiche modalità, all’e. delle fondamentali dimen­sioni della persona, del cittadino e del lavoratore. In tal senso l’e.s. si collega con al­t re dimensioni educative trasversali a cui la scuola, per il suo inderogabile compito educativo e non solo istruttivo, dimostra di essere sempre più at­tenta: le cosiddette «nuove e.»; in particolare l’e. alla → salu­te e alla prevenzione dalla droga e da altre malattie sociali (cfr. legge 162/1990). Alcuni la includono nell’ambito della e. alla convivenza sociale, magari proponendola nel quadro più ampio e personalistico dell’ → e. affettiva. Altri pensano che non dovrebbe essere intesa come materia a sé stante, ma piut­tosto come dimensione trasversale a diver­se materie o come parte di tematiche disciplinari. In ogni caso sembrano da privilegiare strategie di tipo interdisciplinare, avvalendosi anche del contributo di esperti esterni, ma

EDUCAZIONE SOCIOPOLITICA

sempre nel quadro della programmazione scolastica. Metodologica­mente occorrerà avvalersi di tecniche fles­sibili, che favoriscano anche la partecipa­zione e la discussione di gruppo. Contenutisticamente ci si dovrebbe comprensivamente rife­rire agli aspetti psicologici, affettivi, etici, sociali, antropologici, storici, culturali e giuridici della sessualità, in modo adeguato all’età e al grado di maturazione degli alun­ni.

una ricerca di coerenza ed integrazio­ne educativa tra scuola, famiglia, chiese e tutte le altre forme che globalmente sono denominate «scuola parallela», a comin­ciare dai massmedia e dall’organizzazione sociale dello sport, del tempo libero e del divertimento. Merita attenzione pedagogi­ca particolare la socializzazione sessuale nei gruppi di pari, specie nel periodo della pubertà e dell’ → adolescenza.

4. Invero la sessualità è già dentro la scuola a livello del cosiddetto «curricolo nascosto», nell’esperienza di cui gli alunni e gli insegnanti sono portatori, nell’informalità quotidiana scolastica e ne­gli stessi interventi più o meno espliciti o più o meno corretti ed efficaci di questo o quel docen­te. In­fatti la dimensione sessuale non è solo un oggetto da studiare o un comportamento a cui addestrarsi, ma una problematica da vi­vere, da chiarire e da risolvere in un conte­sto esistenziale ben determinato ed in una prospettiva di vita individuale e comunita­ria. Essa non si riduce ai soli aspetti geneti­ci, biologici o psicologici. Gli stessi aspetti etico-religiosi, ai quali in tempi non lonta­ni pressoché si riduceva qualunque discor­so sul sesso, talora con toni ossessivi e apo­calittici, hanno da fare i conti con il plurali­smo sociale, con la specificità dell’appren­dimento scolastico e con le diverse sensibi­lità delle famiglie e dei gruppi sociali. Le iniziative puramente informative, preoc­cupate sostanzialmente di fornire le «rego­le per l’uso» del sesso sicuro, pur in sé me­ritevoli di considerazione, rischiano di es­sere riduttive e poco attente alle aspirazio­ ni profonde di una vita sessuale umana­mente degna in sé e per sé, oltre i costumi sociali prevalenti e il non far danno a sé e agli altri. Alla conoscenza di eventi, di pro­cessi, di tecniche, c’è da aggiungere una ri­cerca di significati, di valori, di prospetti­ve, un impegno per atteggiamenti persona­li e stili relazionali che comportano l’ac­cettazione di sé e degli altri, il rispetto e la collaborazione reciproca, in una prospetti­va di amicizia, di amore, di forme di vita coniugale e familiare o celibataria.

Bibl.: Fromm E., L’arte di amare, Milano, Il Sag­ giatore, 1979; Ossicini A., Essere donna essere uo­mo, Roma, ERI, 1984; Zani B. - M. C. Bonini - M. L. X erri, La storia in­finita. L’e.s. a scuola, Milano, Angeli, 1993; Galli N. (Ed.), L’e.s. nell’età evolutiva, Milano, Vita e Pensiero, 1994; M alinconico R., La persona, la problematica del corpo, la sessualità, San Felice a Cancello, Melagrana Onlus, 2003; Verde A. - L. Calcaro, Educare alla sessualità in classe, Tirrenia (Pisa), Edizioni del Cerro, 2006; Olivo S. - V. Iurman - M. Colombo, Affettività e sessualità. Saper ascoltare per saper educare, Trieste, Mgs Press, 2007.

5. Resta comunque che qualsiasi configu­ razione didattica della e.s. avrà bisogno di essere preventivamente sorretta da una competente preparazione degli insegnanti e da

L. Corradini - C. Nanni

EDUCAZIONE SOCIOPOLITICA Si intendono le varie forme di e. che mirano alla formazione della capacità sia di compresenza e di reciprocità positiva, sia di partecipazione responsabile all’esercizio del potere in vista del bene comune. 1. L’ambito e le agenzie. Dopo la seconda guerra mondiale, l’evoluzione dell’e.s. nell’Europa Occidentale è passata grosso modo attraverso quattro fasi. La decade ’60 è stata caratterizzata dall’attuazione di progetti significativi di innovazione in aree quali gli studi sociali, l’e. sociale e le scienze umane, mentre negli anni ’70 l’attenzione si è spostata sull’e. civica e su quella politica. Nel decennio successivo la lista si è allungata e si sono aggiunte altre e. fra le quali le principali sono: l’e. interculturale, allo → sviluppo, alla → pace, alla democrazia, ai → diritti umani e alla legalità. Negli anni ’90 e soprattutto nel 2000 la denominazione più comune è quella di e. alla cittadinanza democratica e tale andamento si spiega a motivo dell’urgenza 399

EDUCAZIONE SOCIOPOLITICA

di attuare nei Paesi la democrazia; in Italia la riforma «Moratti» (L. 53/03) ha preferito la terminologia di e. alla convivenza civile perché comprenderebbe anche coloro che non hanno una cittadinanza formale; altri hanno osservato che è possibile mantenere la dizione e. alla cittadinanza democratica se si intende la cittadinanza in senso pedagogico. Passando al tema delle agenzie educative e incominciando dal dibattito sulla continuità o meno degli atteggiamenti sociopolitici dei figli rispetto ai genitori, va ricordato che si sono contese il campo due posizioni: da una parte, coloro che sostengono la tesi della discontinuità generazionale, si appellano alla rapidità e alla profondità del cambio culturale, al depotenziamento funzionale della → famiglia, all’indifferenza dei giovani rispetto ai valori degli → adulti; altri studiosi, pur non negando la presenza di conflitti tra genitori e figli, ritengono che sussista una continuità sostanziale tra le generazioni. Maggiore accordo sembra esistere circa l’incidenza dell’origine sociale che sarebbe il fattore più influente sulla personalità di base del giovane. L’influsso della scuola sulla formazione sociopolitica rivestirebbe un’importanza secondaria rispetto a quello di altre agenzie. Se si passa ad analizzare la natura dell’azione della scuola sembra che la funzione meramente socializzatrice occupi un posto preminente rispetto a quella educativa: l’insegnamento mirerebbe principalmente a rendere conformi, a inculcare valutazioni favorevoli al sistema, a creare un senso di appartenenza e di fedeltà ad esso. Pur con le gravi carenze appena elencate, non si può negare che la scuola svolga una vera e.s., e possa condurre il giovane a una partecipazione politica libera e cosciente e a una maturità politica. L’azione dei gruppi dei pari non sembra sia molto efficace nel trasmettere i valori politici su cui esiste un largo consenso nella società; al contrario essi rivelerebbero una notevole incidenza come competitori delle tradizionali agenzie educative in quanto risulterebbero capaci di elaborare modelli culturali relativamente indipendenti. Le ricerche tendono a sottolineare l’importanza dei mezzi di comunicazione sociale in rapporto alle diverse modalità dell’e.s. e tale influsso consisterebbe in un rinforzo della predisposizione all’ascolto di certi argomenti, già presente nei soggetti. 400

2. Obiettivi e metodologie. Si tratta di formare un atteggiamento, una strutturazione relativamente stabile di tutta la personalità del soggetto che si esprime a diversi livelli nella disponibilità per l’azione. Analogamente che per qualsiasi atteggiamento i livelli comprendono l’aspetto cognitivo, valutativo, motivazionale e comportamentale. Pertanto un primo obiettivo consiste nella capacità di individuare, interpretare e valutare i problemi sociopolitici in una società in cui l’informazione è in vario modo e da più istanze manipolata. Bisognerà far acquistare quei saperi che permettono di penetrare la realtà sociale: in particolare, va sottolineata l’importanza di una seria formazione scientifica che, trasfondendo negli allievi il senso del rigore intellettuale e della verifica nell’esperienza, li immunizzi dal semplicismo, dal dogmatismo e dall’avventurismo di tante attività sociali. Dovranno poi essere assunti i parametri di valutazione che si possono sintetizzare nel valore-uomo, nella libertà, nella giustizia, nell’eguaglianza, nella pace, nell’amore, nei valori della fede. La seconda grande area di obiettivi si può definire come la formazione della volontà di partecipare alla realizzazione del bene comune. Bisognerà in proposito attivare una serie di motivazioni per l’impegno sociopolitico. In particolare si richiede la formazione di un habitus etico-sociale che spinga l’individuo a dare il proprio contributo alla vicenda umana fino a pagare di persona. Il servizio degli altri e del popolo deve essere l’obiettivo da perseguire in vista di un bene comune che assicuri a tutti le condizioni necessarie per realizzare la propria personalità. Un’altra dimensione dell’e.s. è quella creativa e in questo caso si parla di capacità utopica. Con essa non si intende naturalmente un sogno folle, né un comodo pretesto a un alibi per sfuggire a responsabilità immediate, ma ci si riferisce a un’immaginazione prospettica, capace di individuare nel presente potenzialità trascurate e di elaborare un progetto lungimirante di trasformazione della società. Dal punto di vista operativo le capacità da formare sono varie. Si può ricordare anzitutto quella di programmazione, cioè di tradurre nell’oggi le linee direttrici di un progetto. Rientrano in questo ambito le capacità tecniche di creare il consenso su un programma e sulla scelta di alcuni uomini, di utilizzare le strutture politiche per conseguire il potere e

EDUCAZIONE SPECIALE

realizzare il bene comune, di saper pervenire a un compromesso con forze contrapposte senza irrigidimenti preconcetti e senza cedere sull’irrinunciabile. Vanno richiamati anche il dominio del linguaggio, l’animazione dei gruppi, le capacità decisionali e quelle promozionali. Indubbiamente la metodologia generale da privilegiare consiste nel far partecipare il giovane ad azioni concrete; la partecipazione diretta va, tuttavia, promossa con gradualità. Nella scuola la formazione dovrà essere organizzata intorno a unità globali, dovrà fornire gli strumenti per una discussione critica e aperta delle questioni di attualità e presupporre la presenza di un clima democratico e la partecipazione reale di tutti alla gestione. Nei gruppi sarà consigliabile accentuare l’aspetto dell’esperienza, ricorrendo principalmente a metodiche che si basano sulla prassi piuttosto che sulla elaborazione teoretica e culturale. Bibl.: Milanesi G. C. (Ed.), E. e politica, Torino, SEI, 1976; Shaver J. (Ed.), Handbook of research on social studies, teaching and learning, New York, Macmillan, 1991; Birzea C., L’éducation à la citoyenneté démocratique: un apprentissage tout au long de la vie, Strasbourg, Conseil de la Coopération Culturelle, 2000; Santerini M., Educare alla cittadinanza. La pedagogia e le sfide della globalizzazione, Roma, Carocci, 2001; E. alla convivenza civile, in «Annali dell’Istruzione» (2005) 5/6, 3-135 (n. monogr.); Chistolini S. (Ed.), Cittadinanza e convivenza civile nella scuola europea, Roma, Armando, 2006.

G. Malizia

EDUCAZIONE SPECIALE Si può intendere come lettura delle poten­ zialità e dei bisogni individuali, e come for­ mulazione degli obiettivi per il recupero e l’integrazione di soggetti in situazione di → handicap determinato da disabilità senso­ riali, fisiche, intellettive e psichiche. In sen­ so più lato è da riferirsi anche all’approc­cio pedagogico nei confronti di soggetti in situazione di grave svantaggio socio-cul­t urale. 1. Storicamente l’e.s. nasce come risposta al problema di un recupero dell’handicappa­to da non intendersi esclusivamente in chiave

terapeutica, ma che contempli tutti gli aspetti afferenti la dimensione formati­va nel superamento del pessimismo della medicina e nella riaffermazione dell’im­portanza della relazione tra docente e alunno. Nel XIX sec. sono da considerarsi come pionieri dell’e.s. Itard e Séguin, se­g uiti all’inizio del XX sec. da → Montessori. Contemporaneamente Pinel ed Esquirol pongono le basi della moderna psichia­t ria in una concezione del manicomio come casa di cura più che come luogo di segrega­zione. Sempre all’inizio del XX sec. l’e.s. evolve in un approccio integrato tra psi­ chiatria e pedagogia nell’indirizzo pragma­ tico dei laboratori inglesi protetti di Clarke, nell’ortopedagogia di → Decroly e Vermeylen e in Italia nelle asserzioni di De Sanctis. 2. L’e.s. contemporanea si colloca nel più vasto contesto di una → pedagogia generale che valorizza le differenze individuali in un percorso formativo in grado di orienta­re lo sviluppo dell’individuo secondo le po­tenzialità e le capacità personali. Questa prospettiva trae forza e legittimazione dal personalismo cristiano e dall’approccio ecologico-sistemico. Si riferisce, inoltre, al­le riflessioni filosofiche intorno al pensie­ro debole, all’epistemologia scientifica e al­la teoria della complessità. La formazione della persona handicappata poggia sul riconoscimento di un diritto soggettivo ina­lienabile e pone i suoi punti di forza in una progettualità responsabile, razionale, in­tenzionale e in una relazione interpersona­ le dove l’altro, non separato dal sé, de­termina la dimensione dell’incontro educa­tivo. L’e.s. non viene più circoscritta ad ambiti settoriali, ma si pone in una prospet­tiva di prevenzione («normalità» da tutela­re e rafforzare) e di intervento precoce (patologia da diagnosticare e controllare). Essa risponde ai bisogni di formazione del­le «diversità» determinate da fattori biolo­gici e sociali e, su quest’ultimo versante, a diversità nuove e originate dal carattere complesso e contraddittorio della società contemporanea che, soprattutto nella scuo­la, determinano situazioni di difficoltà, di­sagio e marginalità. Bibl.: Itard J., Sull’e. di un uomo selvaggio, ovve­ro sui primi sviluppi fisici e morali sul giovane «sauvage» dell’Aveyron, Parigi, Goujon, 1801; Séguin E., Théorie et pratique de l’éducation des enfants arriérés et idiots, Paris, Baillière, 1841;

401

EDUCAZIONE SPIRITUALE

Montessori M., Manuale di pedagogia scientifica, Napoli, Mo­rano, 1921; Decroly O., Avviamento all’attività in­tellettuale e motrice mediante i giochi educativi, Firenze, La Nuova Italia, 1951; Canevaro A. - G. Gaudreau, L’e. degli handicappati, Roma, NIS, 1988; Genovesi G., Scienza dell’educazione e pedagogia speciale, Roma, Carocci, 2005.

A. Augenti

EDUCAZIONE SPIRITUALE È sempre più comune, soprattutto nel contesto culturale anglosassone, distinguere tra e.s. ed e. religiosa. La prima si riferisce soprattutto alla cura della crescita dei valori spirituali e delle esperienze di interiorità da parte dei soggetti in formazione, mentre la seconda fa riferimento a una tradizione di fede e di pratica religiosa, spesso di natura confessionale. 1. Il contesto sociale, culturale e materiale attuale certamente spinge a un ripensamento profondo del rapporto tra spiritualità e e. La presenza sempre più importante nei percorsi educativi di giovani che hanno riferimenti culturali e religiosi molteplici sollecita una riflessione approfondita sulle finalità e le modalità d’azione nel favorire attribuzioni di senso e di prospettiva esistenziale, sviluppo di valori e motivi di natura spirituale, esperienze di vita interiore e relazionale profonda, apertura all’autenticità personale e alla totalità nella visione della realtà sociale e naturale. In tale contesto emergono segnali di un interesse crescente per la considerazione di una dimensione spirituale dell’e., che pur non essendo direttamente ed esplicitamente religiosa, tuttavia è aperta a un approfondimento religioso. D’altra parte, non sembra possibile uno sviluppo autentico della stessa dimensione religiosa della vita umana senza che esperienze esistenziali radicali sollecitino ad andare oltre la superficialità del quotidiano, la provvisorietà dell’immediato, la materialità del consumo. Non solo, occorre che i percorsi educativi, anche scolastici, siano luogo e tempo d’esperienze etiche, estetiche e veritative autentiche, d’esperienze esistenziali che sollecitano un risveglio dell’interiorità, d’accompagnamento per le vie di 402

un viaggio, di un’avventura spirituale verso il senso ultimo della vita, verso le finalità fondamentali dell’esistenza, verso l’incontro personale profondo con l’Assoluto. 2. Di conseguenza sono sempre più numerosi gli studi sia psicologici, sia pedagogici che fanno riferimento a questa dimensione del processo educativo, anche perché a essa la ricerca di senso e di prospettiva esistenziale è normalmente ricondotta. Baumeister (1991), ad es., dopo aver esaminato i risultati di numerose ricerche, conclude affermando che la ricerca di una vita ricca di senso è fondata su quattro tipologie fondamentali di bisogni. Si tratta di quattro sistemi di motivi che guidano le persone a dare senso alle loro esistenze. Una prima area concerne il bisogno di motivi e valori di riferimento. Il soddisfacimento di questo bisogno origina un senso di benessere o di positività per la propria vita e giustifica gli sviluppi del proprio agire. Un secondo ambito di motivi riguarda il bisogno di prospettiva, in quanto gli eventi presenti acquistano significato in funzione di eventi futuri. A questi due principali bisogni vengono associati altri due bisogni in qualche modo correlati ai primi. Si tratta del bisogno di provare senso di efficacia e quello di autostima o di selfworth. Lo stesso H. Gardner (2003), pur essendo dichiaratamente materialista, ha dovuto ammettere l’esistenza di una intelligenza da lui definita «esistenziale» e che può ricondursi alla dimensione spirituale dell’esistenza umana. Bibl.: Baumeister R. F., Meanings of life, New York, Guilford, 1991; H ay D. - R. Nye, The spirit of the child, London, Harper-Collins, 1998; Mil­ ler J. P., Education and the soul. Toward a spiri­ tual curriculum, New York, State University of New York Press, 2000; Pellerey M., Spiritualità e e., in «Orientamenti Pedagogici» 49 (2002) 1, 39-54; Gardner H., «Esistono altre intelligenze? Il caso delle intelligenze naturalistica, spirituale ed esistenziale», in R. Vianello - C. Cornoldi (Edd.), Intelligenze multiple in una società multiculturale: Ricerche e proposte di intervento, Bergamo, Junior, 2003, 7-26; Gollnick J., Religion and spirituality in the life cycle, New York, Peter Lang, 2005; Noddings N., E. e felicità. Un rapporto possibile, anzi necessario, Trento, Erickson, 2005; Ota C. - C. Erricker (Edd.), Spiritual education. Literary, empirical and pedagogical

EDUCAZIONE TECNICA

approaches, Brighton, Sussex Academic Press, 2005.

M. Pellerey

EDUCAZIONE STRADALE Ambito educativo scolastico ed extrascolastico, finalizzato all’acquisizione di comportamenti corretti e responsabili dei cittadini utenti della strada. 1. Il «nuovo codice della strada» (D.L. 30.4.1992) prevede all’art. 230 programmi di e.s. nelle scuole di ogni ordine e grado. La strada e quanto in essa accade sono una viva manifestazione della complessificazione della convivenza sociale contemporanea a forte predominanza urbana ed hanno una rilevante incidenza sulla vita e l’esperienza personale e sulle relazioni interpersonali e sociali. Nelle indicazioni nazionali decretate in applicazione alla L. 53/2003, l’e.s. figura tra le sei e. comprese nell’e. alla convivenza civile, intesa non come disciplina autonoma ma come compito di tutta la comunità scolastica. 2. Essa è rivolta all’apprendimento delle indicazioni, norme e comportamenti corretti relativi all’uso e alla sicurezza stradale; alla capacità di autonomia e di senso di responsabilità come utenti della strada; al rispetto e solidarietà civile ed umana. Più in generale l’e.s. coinvolge il globale rapporto con sé, con gli altri, con le istituzioni, con il mondo dei linguaggi, dei simboli, delle norme, dei → valori. In tal senso è da vedere anche come un aspetto dell’e. generale della persona e delle comunità.

re il → lavoro come esercizio di operatività, sia di far acquisire conoscenze tecniche utili per sviluppare una mentalità più attenta alle problematiche della produttività e all’inserimento delle persone nel mondo del lavoro in modo critico e costruttivo, oltre che in modo professionalmente valido. 1. L’esigenza di una cultura del lavoro si fa sempre più sentire in una società che deve continuamente confrontarsi con l’evoluzione tecnologica, che possiamo dire è immersa nella tecnica. È una constatazione che può creare forti perplessità o grandi entusiasmi, che in ogni caso evidenzia la necessità di educare alla tecnica in particolare le nuove generazioni. L’e.t. è un tentativo di promuovere la conoscenza dello sviluppo tecnologico necessaria per assumere ruoli professionali in linea con il momento storico in cui si è chiamati ad operare. Nel contesto italiano il termine e.t. ha assunto un significato molto legato alla scuola dell’obbligo in quanto è una delle discipline del programma del ciclo triennale, che si prefigge come finalità di contribuire alla comprensione della realtà tecnologica, del mondo tecnico e all’apprendimento di alcune conoscenze specifiche su tale mondo.

EDUCAZIONE TECNICA

2. L’ e.t. non è però solo un problema scolastico. Anche fuori di esso, per inserirsi nel mondo del lavoro con un certo ruolo ben definito, diventa sempre più importante conoscere aspetti di tipo generale legati ai settori tecnologici e a quelli produttivi nel loro insieme. Diventa perciò indispensabile attivare un qualche momento promozionale per acquisire una sensibilizzazione sull’insieme dei metodi e dei mezzi utilizzati in un processo produttivo dove concorrono conoscenze, capacità e strumenti del lavoro umano necessari per alimentare il progresso di un popolo; e dove c’è bisogno di cultura per non sentirsi estranei a un mondo sempre più tecnologico. Per la generazione in crescita una e. sistematica in tale ambito diviene più pressante e impegnativa; in pratica si tratta di una necessità che deve essere in qualche modo soddisfatta attraverso una e.t. che faccia maturare le persone verso la comprensione di questa realtà tecnologica, così come oggi si presenta.

Per e.t. si intende lo sforzo di coltivare e promuovere una cultura capace sia di valorizza-

Bibl.: Famiglietti M., La ricerca sul pensiero tecnologico come motore della formazione per

Bibl.: Cecconi V. - L. D’A ngelo - V. Pecchia, E.s. per le scuole dell’obbligo, Roma, Laurus Robuffo, 2002; Biondo D., E.s. e rischio accettabile. Interventi psicoeducativi per la scuola secondaria, Trento, Erickson, 2006.

C. Nanni

403

EGOCENTRISMO

tutti e per tutta la vita, Palermo, IRRSAE Sicilia, 2000; Famiglietti M. et al., Tecnologia e informatica dai tre anni all’età adulta, Napoli, Tecnodid, 2004.

N. Zanni

EDUCOMUNICAZIONE → Educazione ai media

EGOCENTRISMO Con il termine e. vengono definite alcune forme di comportamento poste in atto dal­la persona in dipendenza di una particolare visione del mondo circostante unicamente dal proprio punto di vista e solo in rappor­to a se stessa. 1. L’e. assume forme diverse nelle varie età in relazione allo sviluppo cognitivo della persona. Se ne può individuare una prima, caratteristica del periodo che va dalla na­ scita ai due anni, della quale il bambino non è consapevole in quanto, a causa del­l’età, non ha ancora acquisito la percezione di sé come persona separata dagli altri e conseguentemente il suo modo di espri­mersi e di comportarsi rispecchia questo stadio di sviluppo. La seconda forma, tipi­ca del periodo che va dai due ai sei anni cir­ca, si può individuare osservando il parti­colare uso del → linguaggio che viene fatto dal bambino non per comunicare con gli al­t ri o per informare, ma che rispecchia, in­vece, la sua incapacità di porsi dal punto di vista dell’altro e che mostra come egli non avverta la necessità di far comprendere il proprio ragionamento agli altri. Nel bam­bino, inoltre, si individua un tipo di pensie­ro caratterizzato da grande concretezza ed irreversibilità; il suo modo di ragionare prende in considerazione isolatamente i vari momenti dell’esperienza, disinteres­sandosi del tutto dell’effetto che le sue co­municazioni possono avere sull’altro, se­condo la tipica modalità del pensiero non ancora socializzato. Si può dire che il sog­getto è incapace di rendersi conto che il proprio punto di vista è solo uno fra i vari modi di vedere le cose e che ne esistono molti altri. Un terzo tipo di e. è indivi­duabile nel periodo adolescenziale, in cui compare la cosiddetta «onnipotenza del pensiero» che 404

sembra spiegare quella che si ritiene sia la caratteristica di questa età in cui dominano un grande idealismo ed una enorme fiducia nelle proprie possibi­lità e capacità. In questo periodo il sogget­to ha però la possibilità cognitiva di riesa­minare le sue posizioni nei riguardi delle idee espresse dagli altri e della realtà, per cui potrebbe, volendo, superare la posizio­ne egocentrica. 2. Infine vi è l’e. dell’ → adulto nel quale si possono individuare sia gli aspetti descritti e che si presentano quindi come forme di un precedente tipo di e., non ancora supe­rato, sia forme di rigidità di giudizi, di at­teggiamenti e di comportamenti poco fles­sibili ed aperti alla revisione. Queste mo­d alità sono più difficili da identificare come forme di e. in quanto possono apparire quali aspetti specifici della personalità in­dividuale. In sostanza si può dedurre che l’e. aumenta quando la persona percepisce di non avere a disposizione altre modalità per far fronte alle difficoltà della vita che si presentano in forma per lei nuova, men­t re diminuisce quando essa sente di posse­dere una certa sicurezza personale che le permette di riesaminare i propri punti di vista e le proprie modalità d’essere senza timore di venir sopraffatta dalle situazioni e dalle persone dell’ambiente circostante. Bibl.: Elkind D., Egocentrism in adolescence, in «Child Development» 38 (1967) 1025-1034; Flavell J. H., La mente. Dalla nascita all’adolescenza nel pensiero di J. Piaget, Roma, Astrolabio, 1971; A ebli H. - L. Montada - U. Schneider, L’e. del bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1976.

W. Visconti

EGUAGLIANZA DELLE OPPORTUNITÀ → Diritto all’educazione

E-Learning Processo di apprendimento complesso che, attraverso la mediazione di un supporto basato su ICT, favorisce lo sviluppo di conoscenze, abilità e competenze della persona che partecipa all’esperienza. 1. La lettera «e» è da intendersi per molti l’abbreviazione di electronic learning (scrit-

EMANCIPAZIONE

ta in modi diversi: elearning, e-l., eLearning, «e»learning, ecc.). È un termine che secondo M. de Leeuwe è continuamente in evoluzione. Per l’American Society for Training and Development (ASTD) il termine e. ricopre applicazioni e processi quali: open distance learning (ODL), computer based training (CBT), web based training (WBT), supported on-line learning, informal on-line learning, e molti altri ancora. 2. Con questo termine è possibile quindi designare approcci che vanno dall’erogazione di contenuti attraverso Internet o supporti Cd/Dvd, all’interazione dialogica mediata dalle ICT, alla simulazione di sistemi del mondo reale attraverso laboratori virtuali, alla produzione collaborativa di contenuti in Rete, alla conduzione dell’insegnante di attività in classe supportate dalle tecnologie infotelematiche (si veda la riflessione dal gruppo DELG, Distributed and Electronic Learning Group, per l’LSC, Learning and Skills Council, 2002). 3. La progettazione di un buon sistema di e-l. non può evitare di affrontare molti aspetti che secondo B. H. Khan sono in sintesi riconducibili alle seguenti dimensioni: pedagogica, tecnologica, istituzionale, etica, gestionale, valutativa, relativa alle risorse e al progetto dell’interfaccia. Un punto di partenza fondamentale è costituito dalle scelte pedagogiche e didattiche, le quali devono essere guidate dall’analisi dei contesti e dei destinatari della formazione. La sola selezione di tecnologie di supporto all’apprendimento (piattaforme LMS o ambienti di apprendimento personalizzati PLE) non è sufficiente a garantire il successo nell’apprendimento. Bibl.: Rossett A., The ASTD E-L. Handbook, New York, McGraw-Hill, 2002; Clark R. C. - R. E. M ayer, E-l. and the science of instruction. Proven guidelines for consumers and designers of multimedia learners, San Francisco, CA, Pfeiffer, 2003; Trentin G., Apprendimento in rete e condivisione delle conoscenze, Milano, Angeli, 2004; K han B. H., E-l.: progettazione e gestione, Trento, Erickson, 2004; A ldrich C., Simulations and the future of learning. An innovative (and perhaps revolutionary) approach to e-l., San Francisco, CA, Pfeiffer, 2004; Bruschi B. - M. L. Ercole, Strategie per l’e-l. Progettare

e valutare la formazione on-line, Roma, Carocci, 2005; Associazione Nazionale dell’Editoria Elettronica (A nee), Osservatorio ANEE/ASSINFORM e-l., Milano, Editori per la Finanza, 2006 (http://www.anee.it); Trinchero R., Valutare l’apprendimento nell’e-l., Trento, Erickson, 2006; Calvani A. (Ed.), Rete, comunità e conoscenza. Costruire e gestire dinamiche collaborative, Ibid., 2006.

M. Bay - R. Trinchero

EMANCIPAZIONE Superamento di una condizione di subordinazione e di dipendenza, per una condizione di → libertà da condizionamenti e di → autonomia nel modo di agire e di pensare. 1. Tratto dal mondo giuridico, in cui sta ad indicare l’atto con cui il figlio (o lo schiavo) è sciolto dal potere paterno ed acquista lo stato di → adulto (e di libero), lungo il corso della storia il termine ha assunto una connotazione politico-sociale, come è nelle espressioni e. dell’umanità, e. della borghesia, e. della classe operaia, e. della → donna, ecc.: l’idea di fondo è la liberazione da una condizione di inferiorità giuridica, sociale, civile, umana rispetto all’assetto sociale dominante. In questa linea, dall’età moderna in poi, si è esaltata la funzione emancipativa dell’istruzione e dell’educazione (ma anche il suo potere di subordinazione e di dominazione). 2. Negli anni ’70, soprattutto negli ambienti tedeschi, l’e. è diventata una categoria centrale in sede educativa e pedagogica. Essa è stata considerata sinonimo di liberazione del soggetto dall’ignoranza e da ogni minorità, in vista dell’autonomia personale e di una società libera e comunicativa. Più specificamente l’e. ha dato forza ispirativa a quegli indirizzi pedagogici, di diverso riferimento culturale, che allora furono etichettati globalmente come pedagogia della «nuova sinistra». Essa si muove nella linea dell’alternativa pedagogico-educativa. Si contesta sia l’educazione tradizionale, considerata repressiva e autoritaria, sia la pedagogia accademica, considerata strumento di conservazione e di riproduzione degli assetti e della cultura dominante. La liberazione dai condi405

EMARGINAZIONE

zionamenti soggettivi è proiettata nel globale processo di liberazione dai condizionamenti strutturali e istituzionali, nella lotta politicoculturale contro le alienazioni del potere. In sede educativa si privilegia una comunicazione anti-autoritaria, una didattica critica, forme di autogestione. Pedagogisti ed educatori sono proposti come «avvocati» dell’educando e come «teorici critici» che stimolano la presa di coscienza e la partecipazione alla comune lotta di e.

EMARGINAZIONE

1. La Scuola di Chicago, animata da Lynd e Lynd, Burgess, Park, McKenzie, Anderson, Zorbaugh, Shaw, ha studiato il meccanismo attraverso cui si attua l’e. nelle aree urbane e lo descrive come «trasmissione culturale» dei valori e dei comportamenti. Dentro gli slums i giovani apprendono atteggiamenti e modalità di comportamento che hanno visto esercitate dagli adulti e imitandoli; scoprono poi di poter trarre un’utilità, anche economica, da tali comportamenti e li trasformano in condotte stabili. Nel → funzionalismo la società è invece descritta come un complesso sistema di relazioni personali o tra gruppi e di ruoli: essa, infatti, si sviluppa storicamente attraverso un processo di differenziazione sociale. Quando la divisione del lavoro sociale aumenta progressivamente, il processo di produzione di funzioni sociali specializzate può risultare più veloce della capacità di creare o riadattare le norme ed i valori che aiutano l’individuo e le collettività a stare insieme. Pertanto sono marginali coloro che cercano di adottare senza successo mete e valori del gruppo di cui vogliono far parte. Particolare accento ai processi razionali e consapevoli dei soggetti viene posto da Cohen (1969) nell’interpretare marginalità e devianza. Esse sono sintomo del conflitto tra classi sociali in quanto prodotte dalla presa di coscienza della disparità nel raggiungere le mete e nelle opportunità di utilizzare mezzi istituzionali. Per questo motivo le classi inferiori si autoemarginano e sono convinte di non farcela a raggiungere le mete proposte da quelle dominanti. Di conseguenza emergono diversi valori di riferimento: quelli borghesi dei giovani della classe superiore o media e quelli alternativi dei giovani appartenenti alla classe lavoratrice.

Per e. si intende la mancata integrazione nel sistema sociale da parte di soggetti o gruppi che vengono discriminati sulla base della loro diversità. I motivi dell’e. possono essere di ordine etnico, culturale, religioso, economico o comportamentale. L’e. è un processo sociale e relazionale che tende a spingere gli individui al confine della normalità e della legalità (→ devianza). Dal punto di vista educativo l’e. può produrre condizioni di svantaggio e di fallimento nel → processo educativo specie in relazione all’ → insuccesso scolastico.

2. Attualmente con la categoria dell’e. si tende a leggere le presenze deboli nella società – povertà, devianza, immigrazione, condizione degli anziani, ecc. – come fenomeni conseguenti all’articolazione strutturale della società post-industriale e globalizzata. Dall’e. vista come un fenomeno interstiziale relativo alla mancanza di integrazione sociale si è pervenuti alla sua lettura come condizione permanente ed irreversibile per un alto numero di persone nella società postindustriale (Paci, 1978; Ginatempo, 1983). Tale espansione è conseguenza dell’espulsio-

3. Per solito, ma non necessariamente, il quadro di riferimento ideologico è vicino ad un → marxismo libertario o alle forme estreme della teoria critica della → Scuola di Francoforte e della loro dialettica «negativa». Queste posizioni pedagogiche riprendono intenzioni liberatrici, illuministiche, solidaristiche, di inserimento dell’e. nei concreti processi storico-culturali, ma appaiono piuttosto limitate per la debolezza e vaghezza dei riferimenti, per il carattere quasi solo contestativo e reattivo al potere dominante e per la subordinazione dell’educazione alla politica. Bibl.: Mollenhauer K., Erziehung und Emanzipation, München, Juventa, 1968; Lempert W., Leistungsprinzip und Emanzipation, Frankfurt, Suhrkamp, 1975; Brezinka W., La pedagogia della nuova sinistra, Roma, Armando, 21980; Veca S., Cittadinanza: riflessioni filosofiche sull’idea di e., Milano, Feltrinelli, 1990; Vattimo G., Nichilismo ed e., Milano, Garzanti, 2003.

C. Nanni

406

EMIGRAZIONE

ne dai processi produttivi, comunicativi ed integrativi di quote crescenti di popolazione, tagliate fuori dai nuovi modelli di sviluppo. Ciò porta ad un cambiamento di significato dell’e. che, nel suo progressivo diffondersi, diventa meno visibile, più sommersa e contribuisce alla caduta dei processi integrativi di una società priva di centro. Sempre meno persone si sentono inserite nei processi integrativi della società. Non si tratta di devianza, né di esplicita e. dal contesto sociale, quanto di una oggettiva esclusione dai processi considerati rilevanti nell’economia della vita quotidiana, dalle mete di successo proposte dalla cultura contemporanea e dalle garanzie offerte ai soggetti integrati in modo pieno. La strada rimasta per ottenere garanzia ed integrazione per le quote marginali della popolazione è quella di accedere ai benefici ed ai diversi sussidi proposti dalle strutture assistenziali dello → Stato sociale. Questo propone già una contraddizione poiché se il marginale riesce a riscattare la sua condizione e ad uscire dalla deprivazione per volontà di intraprendenza e di iniziativa personale, perde contemporaneamente anche le forme di assistenza che lo aiutavano. Dunque egli è, in qualche modo, costretto a rimanere dentro la sua dimensione marginale poiché ogni mutamento gli propone un aggravio di problemi. Non sembra invece possibile intravedere una nuova utilizzazione della marginalità come esercito di riserva. Infatti, la marginalità, come ha spiegato Milanesi, «viene definita in termini di effettiva esclusione, isolamento, neutralizzazione dei giovani che è l’effetto più o meno intenzionale di obiettiva e. gestito dal sistema sociale nel suo complesso e spesso rafforzato da fenomeni di autoemarginazione posti in atto da aliquote minoritarie dei giovani stessi. I segni dell’e. sono numerosi: il soggiorno artificiosamente prolungato nelle strutture formative, l’esclusione dal lavoro legale, lo sfruttamento nel lavoro illegale, la condanna a funzioni di consumo coatto, la limitazione ed esclusione dalle diverse opportunità di partecipazione protagonista e lo svuotamento ed esclusione dalle forme stesse di partecipazione subalterna» (1985, 11). 3. Altri interpretano l’e. ancora più esplicitamente come conseguenza della mancata realizzazione di quei bisogni ed aspirazioni

post-materialistici individuati nello storico studio «La rivoluzione silenziosa» da Inglehart (1983). In questa prospettiva la marginalità non è un semplice status sociale ed economico ma una condizione esistenziale. Inglehart riprende la scala dei → bisogni individuata da → Maslow ed afferma che i bisogni post-materialistici espressi specialmente dai giovani contemporanei sono così marcati da portarli, ove privi di risposte, a vivere una condizione marginale. La dimensione di marginalità è quindi una conseguenza del mancato coinvolgimento esistenziale nelle sfere del sociale che circondano i soggetti. Tutto ciò, non a seguito di qualche particolare problema, né di qualche trauma, né di qualche etichettamento o, comunque, di difficoltà contingenti, ma per mancanza di qualcosa che non è materialmente accessibile perché si colloca nella sfera delle motivazioni, delle aspirazioni e dei desideri. I bisogni post-materialistici sono paradossalmente la mancanza di desideri e di mete. Bibl.: Cohen A. K., Controllo sociale e comportamento deviante, Bologna, Il Mulino, 1969; Ginatempo N., Marginalità e classi sociali, Milano, Angeli, 1983; I nglehart R., La rivoluzione silenziosa, Milano, Rizzoli, 1983; Milanesi G. C., La condizione giovanile tra lotta per l’e. e lotta per l’identità, in «Orientamenti Pedagogici» 32 (1985) 7-22; Rossini V., Marginalità al centro: riflessioni pedagogiche e percorsi formativi, Roma, Carocci, 2002; Mozzanica C. M., Marginalità e devianza, itinerari educativi e percorsi legislativi, Saronno, Monti, 2002; Barone P., Pedagogia della marginalità e della devianza: modelli teorici e specificità minorile, Milano, Guerini, 2004.

V. Masini - G. Vettorato

EMIGRAZIONE Con riferimento all’unità politica di uno Stato e al suo complesso demografico-territoriale si distinguono le «migrazioni interne» dalle «migrazioni esterne», inten­dendo rispettivamente gli spostamenti di popolazione entro i confini politici di detto Stato oppure gli spostamenti da uno Stato all’altro in entrata (immigrazione) ed in uscita (e.) rispetto al territorio di osserva­zione. 407

EMOZIONI/EMOTIVITÀ

1. Caratteri dell’e. Le migrazioni sono un fenomeno sociale di rilevanza mondiale poiché tutti i Paesi vi sono interessati an­che se in diversa misura e gli effetti di esse sono di carattere strutturale e relazionale in quanto viene alterata la distribuzione della popolazione e vengono messe in atto specifiche dinamiche collettive ed indivi­duali che incidono sull’assetto urbano-rurale, sull’offerta/domanda dei servizi, sulla psicologia soggettiva, familiare, di gruppo. Nei vari Paesi non vi è un generale consen­so circa la definizione del «migrante» ed i criteri variano perfino all’interno dello stesso Stato da un’epoca all’altra. Più spes­so ci si riferisce alla durata e al motivo del­lo spostamento, comprendendo nella voce chi cambia la propria residenza e chi si muove per lavoro o per ragioni familiari a causa della pressione demografica diffe­renziale (diversità nel rapporto di ritmo tra sviluppo demografico e sviluppo economi­co) tra luogo di provenienza e luogo di de­stinazione. Dal punto di vista storico le mi­grazioni dell’antichità avvenivano soprat­t utto per gruppi e gli stessi nuclei familiari si muovevano insieme, mentre le migrazioni contemporanee sono essenzialmente in­dividuali; si muove il singolo nucleo fami­liare, e possono assumere il carattere di «catena migratoria»: l’e. viene favorita da relazioni sociali primarie (familiari, paren­tali, amicali) con i precedenti migranti. 2. Momenti storici dell’e. italiana. Le fasi principali dell’e. italiana sono relative: a) al grande esodo, soprattutto di contadini del Sud del periodo che va dal 1876 al 1915; b) al periodo tra le due guerre mondiali nel quale vi è l’e. verso Europa e Nord dell’I­talia e verso Argentina e USA; c) all’epoca successiva alla seconda guerra mondiale con l’incremento dell’e. verso il Canada, l’Australia, il Sud Africa e con l’aumento delle migrazioni interne, dal Sud verso il Nord della Penisola. Dalla fine degli anni ’80 in Italia si verifica una tendenza rove­sciata, per lo più a livello percettivo socia­le, rispetto alle precedenti epoche: da Pae­se di e. diviene Paese di immigrazione per soggetti sostanzialmente giovani, con livel­lo di istruzione medio-alto provenienti dal­l’Africa settentrionale, dall’Asia del Sud-Est, dall’Europa dell’Est. 3. Aspetti educativi. Dal punto di vista del­ 408

l’offerta e della domanda di istruzione è in particolare la scuola dell’obbligo a doversi attrezzare intellettualmente e tecnicamen­ te per meglio rapportarsi alla società multietnica, anche partendo da iniziative di → educazione interculturale, di formazio­ne universitaria dei docenti, di educazione alla cittadinanza e alla cultura costituzionale. Organismi internazionali e nazionali, amministrazioni locali e movimenti di → volontariato, trovano nell’educazione degli → adulti migranti una forma costante del loro intervento. Nel­l’ambito dei migranti assumono aspetti specifici la pedagogia della seconda lingua, la formazione culturale, l’educazione alla salute e l’educazione civica. Bibl.: Tierney J. (Ed.), Race, migration and schooling, London, Holt Rinehart Winston, 1982; Chistolini S., Donne italoscozzesi. Tradizione e cambia­mento, Roma, Centro Studi E., 1986; Biffoli Dezzutti D. - A. T. Torre (Edd.), Immagini dell’altro nella cultura europea contemporanea, Torino, L’Harmattan Italia, 1996; Giusti M. (Ed.), Ricerca interculturale e metodo autobiografico. Bambini e adulti immigrati: un progetto, molte storie, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1998; Lazzari F., L’attore sociale fra appartenenze e mobilità: analisi comparate e proposte socioeducative, Padova, CEDAM, 2000.

S. Chistolini

EMILIANI Girolamo → Miani

EMOZIONI/EMOTIVITÀ Con il termine emotività si intende, in sen­so stretto, la capacità di provare e. e l’in­sieme dei processi implicati in tale feno­meno. Nel linguaggio comune invece con emotività si viene a indicare o il grado di → ansia che il soggetto non riesce a gestire con tutta padronanza oppure l’impulsività di risposta a vari stimoli; quindi un’insuffi­ciente capacità di controllo dell’equilibrio psico-affettivo. Occorrerà quindi non con­fondere la risposta istintiva in senso biolo­gico con la risposta spontanea in senso psi­cologico; quest’ultima è educabile ed en­t rambe fanno parte dell’autenticità della persona. In tal senso l’intera capacità emo­t iva del soggetto rappresenta la sua dimen­sione affettiva cioè la capacità

EMOZIONI/EMOTIVITÀ

di vivere gradevolmente o sgradevolmente la pro­pria situazione esistenziale con il coinvol­g imento della triplice componente bio-psi­co-sociale. 1. Tentativo di definizione. Le e. sono fe­ nomeni bio-psichici complessi che hanno come componente oggettiva somatica una modificazione dell’equilibrio organismico (omeostasi biologica) e come componente soggettiva una sensazione intensa di grade­ volezza o sgradevolezza. Si articolano in due momenti successivi strettamente cor­relati; il primo momento è immediato, istintivo e si chiama «protoemozione», il secondo è valutativo e rappresenta l’ap­porto cognitivo di tutto il processo. La pro­toemozione è dovuta all’armonizzazione o disarmonizzazione che si stabilisce tra le caratteristiche dello stimolo (oggetto, si­t uazione, immagine ecc.) e le caratteristi­che dei nostri recettori, soprattutto cen­t rali; per es. vedere un ragno, un animale viscido, una frutta marcia, oppure sentire un odore sgradevole, un rumore stridente, una stonatura musicale, provoca il senso immediato del ribrezzo o del disgusto; al contrario, vedere un cucciolo, un cerbiat­ to, o sentire una musica armoniosa, provo­ca un’istintiva attrazione. La valutazione cognitiva è il giudizio che noi formuliamo circa la bontà o la pericolosità, l’utilità o inutilità o altro valore o disvalore dello sti­molo. Tale giudizio influisce sulla proto­emozione rafforzandola, moderandola o estinguendola e influisce sui comporta­menti orientandoli e graduandoli. Per es. altro è incontrare avventurosamente una tigre o altro animale pericoloso liberi, al­t ro è vederli in gabbia al giardino zoologi­co: provocano e. diverse. 2. Significato delle e. P. Pancheri mette in evidenza il significato positivo delle e. di­ cendo: «L’e. è una modificazione delle con­ dizioni omeostatiche di base, finalizzata al­la conservazione dell’individuo e della spe­cie per mezzo di specifici comportamenti e di modificazioni somatiche che ne costitui­ scono il supporto fisiologico e metabolico». Possiamo ampliare aggiungendo che nel termine «conservazione» è incluso il gusto o disgusto che si prova nelle e. e quindi la gradevolezza o sgradevolezza di certe si­t uazioni che possono rendere la vita accet­t abile o meno. Le modificazioni fisiche in­teressano

tutto l’organismo, sono partico­larmente vistose quelle a carico dell’ap­parato respiratorio, circolatorio, digeren­te, della secrezione ghiandolare esocrina ed endocrina, dei muscoli mimici, della pel­le, del tono muscolare. Molto interessanti le considerazioni di A. Yardley: «Sentire è un termine che noi associamo all’esperien­za sensoriale. Si riferisce anche all’eccita­zione mentale delle e. C’è un rapporto stretto tra aspetti sensoriali e aspetti emo­tivi del sentire, e gran parte di ciò che il bambino impara, in particolare durante i primi anni di vita, viene visto in questa re­ lazione. A partire dalla nascita il bambino è capace di rispondere emotivamente. Le sue risposte emotive sono parte del suo comportamento naturale. [...] Nel bambi­no allevato in un ambiente rassicurante e amorevole, dove le persone hanno verso di lui un atteggiamento benevolo, si affer­merà l’abitudine di essere generalmente fe­lice, mentre il bambino allevato tra conflit­t i e disaccordi svilupperà una tendenza a ri­spondere negativamente alla vita». Su que­sta capacità protoemotiva congenita si svi­lupperà progressivamente l’apporto cogni­tivo della valutazione di cui si è detto pri­ma. Tale apporto influenzerà tanto l’equi­librio psichico quanto quello biologico. Pancheri così conclude al proposito: «Sia l’evidenza clinica che sperimentale ci per­mettono di vedere come le modalità di attivazione del sistema nervoso vegetativo (SNV) sono influenzate anzitutto dalla va­ lutazione cognitiva dello stimolo e quindi da una serie di interazioni reciproche sia con il sistema nervoso centrale (SNC) che con le modificazioni tessutali indotte dal SNV stesso e dai suoi servomeccanismi». L’intensità delle e. oltre che dalla forza o violenza dello stimolo dipenderà dalla struttura biopsichica del soggetto e dal modo con cui si è abituato a reagire agli sti­moli durante la crescita sia infantile che adolescenziale. Su questa caratteristica ap­presa nel corso dello sviluppo influiranno decisamente i modelli avuti. 3. Fisiologia delle e. Come substrato anatomo-fisiologico dei processi emotivi viene oggi indicato dagli esperti il sistema limbico del cervello che include strutture telencefaliche (circonvoluzione limbica, ippocam­po, nuclei del setto) e strutture diencefalomesencefaliche (regione ipotalamica, subtalamica e compartecipazione del sistema reticolare attivante). 409

EMPATIA

L’ipotalamo in parti­colare, in quanto direttamente collegato col sistema nervoso vegetativo e con quel­lo endocrino, svolge una funzione di pri­maria importanza che spiega tutti i corre­lati biologici delle e. Il collegamento del sistema limbico con le aree cognitive e coative della corteccia cerebrale ci spiega la possibilità dell’influsso cognitivo e dell’in­tenzionale modificazione del fenomeno emotivo da parte del soggetto stesso. La biochimica del cervello conosce oggi pa­recchi mediatori chimici presenti nel pro­cesso emotivo, la loro funzione e la funzio­ne dei recettori cellulari. 4. Possibilità di intervento. La conoscenza di questi dati, che la scienza si propone di approfondire, profila la duplice possibilità di intervento sia nell’ambito farmacologi­co sia in quello educativo. Quest’ultimo con azione equilibrata porterebbe il sog­getto a saper gestire le proprie e. e pur la­sciando libera la spontaneità di esse ne di­sciplinerebbe l’intensità e le modalità espressive. Ne segue che il soggetto potrà vivere liberamente le proprie e. senza pro­vocare perturbamenti né biologici né rela­zionali. Bibl.: Izard C. E., Human emotions, New York, Plenum Press, 1977; Pancheri P., Stress, e., malat­t ia, Milano, Mondadori, 1980; Polizzi V., L’iden­tità dell’homo sapiens, Roma, LAS, 1986; Gainotti G. - C. Caltagirone, Emotion and the dual brain, New York, Springer Verlag, 1989; Denez G. - L. Pizzamiglio (Edd.), Manuale di neuropsicologia, Bologna, Za­nichelli, 1990; Contini M. G., Per una pedagogia delle e., Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1992; Oatley K., Breve storia delle e., Bologna, Il Mulino, 2007.

V. Polizzi

EMPATIA L’e. è la capacità di comprendere cosa un’altra persona sta provando. La parola deriva dal greco (empateia) e veniva usata inizialmente per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava l’autore-cantore al suo pubblico (condivisione estetica). Nelle scienze umane, l’e. designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da uno sforzo di comprensione dei loro vissuti che esclude ogni forma di giudizio morale. In senso gene­rale, essa 410

esprime la tendenza ad identificarsi emozio­ nalmente con un’altra persona, mantenen­do, al contempo, la consapevolezza del confine interindividuale. Le espressioni metaforiche di mettersi nei panni dell’altro e di calzare le scarpe dell’altro traducono in modo semplice, ma pregnante, il significa­to di essa. 1. Circa la natura dell’e. gli autori offrono interpretazioni diverse: alcuni la conside­rano uno stato emozionale, altri un pro­cesso cognitivo, altri ancora un processo cognitivoaffettivo, altri, infine, una com­petenza interazionale. Coloro che interpre­tano l’e. come uno stato esperienziale, la definiscono come reazione emozionale, co­me un immedesimarsi nel vissuto soggetti­vo dell’altro fino a sperimentarlo come proprio. In tale interpretazione le funzioni percettive e cognitive assumono un ruolo del tutto secondario. L’e., così intesa, è so­stenuta – secondo gli autori – da processi diversi: istintivi, inconsci di identificazione, di partecipazione rifles­siva allo stato affettivo dell’altro (Lipps, 1909; Greenson, 1960; Rogers, 1957, cit. in Franta et al. 1992, 42-43). Coloro che interpretano l’e. come un processo cognitivo la definiscono essenzial­mente come comprensione cognitiva, ossia come capacità di assumere il ruolo dell’al­t ro così da vedere il mondo dal suo punto di vista, senza tuttavia sperimentarne ne­cessariamente gli stati emozionali (Mead, 1934; Borke, 1971; Schreiber, 1977, cit. in Franta et al., 1992, 44). Per molti autori la discussione relativa al fatto se l’e. consista nel vivere lo stato espe­r ienziale di un altro o se consista, invece, nell’assunzione, attraverso processi menta­li, del ruolo o della prospettiva di un altro, è del tutto priva di senso. Così secondo Deutsch-Madle (1975, cit. in Franta et al. 1992, 45) il comportamento empatico appare come il risultato sia di processi mentali che emozionali; pertanto, attribuirlo ad un solo tipo di funzioni psi­chiche significa limitarne notevolmente la complessità. Gli autori del terzo orienta­mento preferiscono, quindi, interpretare l’e. come un processo cognitivo-affettivo. Essi lasciano però aperto il problema di co­me interagiscano le due categorie di fun­zioni; non è chiarito, infatti, se nella com­prensione empatica precedano le funzioni cognitive o quelle affettive e in che modo vada ponderato il loro influsso nell’inter­dipendenza reciproca.

EMPIRISMO

2. Coloro, infine, che interpretano l’e. come una competenza in­terazionale, tendono a porre l’accento sulle unità processuali che la operativizzano. L’e. viene così a coincidere con la capacità di seguire e di accompagnare il flusso delle esperienze dell’altro in interazione, verba­lizzandole momento per momento (Ro­gers, 1975 cit. in Franta et al., 1992, 46). Al di là delle differenze esistenti nelle varie interpretazioni dell’e. considerate, è presente in ciascuna di esse il tentativo di risolvere la dicotomia soggetto-oggetto. Le differenze interpretative, infatti, sono da attribuirsi, in ultima analisi, alle convinzio­ni circa il modo migliore per unirsi all’altro pur restandone separato. Come afferma Schuster (1979, 73) la base dell’e. risiede nella risoluzione della dicotomia soggetto-oggetto. Secondo le neuroscienze il substrato anatomico funzionale dell’e. è rappresentato dai neuroni specchio, un gruppo di cellule localizzate in una precisa parte del cervello aventi la capacità di potersi attivare sia per eseguire una determinata azione, sia in seguito di una osservazione simile compiuta da un altro individuo. Così esperienze recenti indicano che osservare un consimile che esprime un’emozione, stimola nell’osservatore i medesimi centri cerebrali che si attivano quando lui stesso presenta una reazione emotiva analoga. In particolare il centro neuronale deputato a questa funzione sarebbe l’insula, una zona del cervello dove sono rappresentati gli stati interni del corpo e dove si attua l’interazione visceromotoria (Rizzolatti-Sinigaglia, 2006). Bibl.: Schuster R., Empathy and mindfullness, in «Jour­nal of Humanistic Psychology» 19 (1979) 71-77; Franta H. - A. R. Colasanti - R. M astromarino, Formazione al rapporto terapeutico. Relazione e comunicazione empatica, Roma, IFREP, 1992; R izzolatti G. - C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Cortina, 2006.

A. R. Colasanti

EMPIRISMO Il termine indica un fondamentale atteg­ giamento di pensiero che fa derivare dall’esperienza (empeiria) ogni conoscenza.

1. L’e., che trova le sue radici nella teoria aristotelica, fa dell’esperienza sensibile ed empirica la precondizione essenziale della conoscenza intellettuale e teorica e, al pari dell’ → innatismo, si presenta nella storia della filosofia occidentale in versioni più o meno ristrette e radicali. Nel pensiero filo­sofico moderno l’orientamento empirista trova la sua più compiuta espressione nell’e. inglese, ricollegabile in parte alle posi­zioni sostenute da F. Bacon (1561-1626), che legava strettamente la prospettiva em­pirista al metodo e agli scopi della ricerca scientifica. A sua volta → Locke considera­to il caposcuola dell’e. inglese, identifica nell’origine e nella validità della conoscen­za il problema centrale della filosofia e in polemica con il razionalismo cartesiano di­mostra l’insostenibilità del concetto di idea innata. Riconducendo inoltre alla sensa­zione la conoscenza del mondo esterno e alla riflessione (o introspezione come suc­ cessivamente sarà indicata) la conoscenza del mondo interno della mente, Locke con­ sidera l’associazione di idee, e cioè i colle­ gamenti e le connessioni che «naturalmen­te si creano tra le idee», la sostanza della conoscenza razionale; in tal modo egli dà inizio a quella analisi introspettiva della mente che per duecento anni costituirà il metodo principale della psicologia. 2. G. Berkeley (1685-1753) porta al limite le posizioni di Locke. I suoi contributi più significativi sono essenzialmente riassumi­bili: a) nella teoria della percezione spazia­le (Essay towards a new theory of vision, 1709), che rappresenterà la base di tutte le successive teorie della percezione visiva, da quella di Helmholtz nel XIX sec. a quel­le di Gibson, Gregory, → Piaget, Held, e b) nella teoria dei segni (Treatise on the principles of human knowledge, 1710). Berke­ley fa coincidere percezione ed esperienza, riducendo la realtà delle cose al loro esse­re percepite (esse est percipi). D. Hume (1711-1776), approfondendo le posizioni di Berkeley, spiega il funzionamento mentale dell’uomo e dell’animale sulla base delle leggi che regolano l’associazione delle idee e finisce quindi per minare alla base la fi­ducia stessa nelle capacità razionali della mente umana. Identificando nelle sensa­zioni, negli istinti, nelle abitudini e nei pre­giudizi l’unica guida per il pensiero mette­rà infatti in discussione la possibilità stessa dell’induzio411

EMPIRISMO METODOLOGICO

ne scientifica, negando in defi­nitiva la possibilità di scoprire una qualsia­si connessione necessaria tra causa ed ef­fetto. Individuando nelle associazioni per somiglianza, per contiguità e per causalità i processi fondamentali che regolano l’in­telletto, ritiene che i «legami segreti» che si stabiliscono tra le idee portino la mente a congiungerle con maggiore frequenza. So­stenendo inoltre che la conoscenza si limi­ta necessariamente alla conoscenza dei processi fondamentali della mente, che può tutt’al più inferire l’esistenza di oggetti rea­li e di altre menti, riducendo poi il soggetto impegnato nell’attività conoscitiva ad un grumo o collezione di percezioni differenti, che si succedono l’un l’altra con incredibi­le velocità e che sono in perpetuo flusso e movimento, getterà l’e. nel vicolo cieco dello scetticismo radicale. 3. Nella sua polemica contro le posizioni di Hume, il filosofo scozzese T. Reid (1710-1796), che fa derivare la possibilità stessa del ragionamento dalla esistenza di una do­tazione innata di istinti e di intuizioni e che rivolge particolare attenzione allo studio delle strutture del linguaggio nonché al corso dell’azione e della condotta umana, modifica l’e. radicale introducendovi una serie di presupposti innatisti. In particolare Reid identifica nel → senso comune – e cioè nella credenza condivisa nell’esistenza di un mondo oggettivo dotato di qualità se­ condarie, nella consapevolezza della pro­pria identità ed esistenza reale e della persistenza delle altre persone – la base di tutta la filosofia e la garanzia della cono­scenza. 4. Il suo pensiero, da cui T. Brown pren­ derà le mosse per formulare le leggi della associazione secondaria, influenzerà pro­ fondamente l’associazionismo di → James e J. S. Mill (1806-1873). In particolare Mill, che propone nel suo Analysis of the phenomena of the human mind (1829) – «la più pura espressione della filosofia associazionista» – il principio della «associazione sin­crona», considera gli oggetti della nostra conoscenza come costituiti da una somma di sensazioni diverse che, associate stretta­mente l’una all’altra costituiscono i «percetti» e quindi le «idee». A sua volta Mill, con la sua «chimica mentale» estende il principio delle idee sincrone anche alla for­mazione delle idee com412

plesse e reintrodu­ce nella prospettiva empirista elementi che riconoscono alla mente una possibilità di attività autonoma. Per Mill dunque – che nel Sistema di logica (1843) sostiene la plausibilità della «scienza della natura umana» e cioè della psicologia – proprio l’esperienza fornisce l’idea della uniformità dei fenomeni naturali: sino a che tale idea non venga di fatto smentita, si ha dunque il diritto di estendere universalmente il va­lore delle conoscenze particolari acquisite sulla base della osservazione induttiva, nonché di confermare la validità, sia pure provvisoria, delle leggi e dei concetti scientifici. 5. L’orientamento empirista, che si era ma­ nifestato in Francia in forme estreme ed esasperate nel sensismo di Condillac, nel meccanicismo di La Mettrie nonché nel ri­ duzionismo di Cabanis e di Helvetius, as­ sumerà in Germania caratteristiche pecu­ liari. L’e., dunque, sottolineando il ruolo della sensazione e dell’esperienza nella for­ mazione delle idee, contribuirà a determi­ nare la definizione wundtiana dell’oggetto e del metodo della psicologia e costituirà non solo il riferimento teorico privilegiato della teoria wundtiana e dello strutturali­smo di E. B. Titchener, del funzionalismo e del comportamentismo watsoniano, ma continuerà ad esercitare, in forme spesso non facilmente riconoscibili, un notevole peso nell’impostazione del problema del rapporto tra esperienza e strutture innate che si presenta ancor oggi come di non fa­cile soluzione. Bibl.: Geymonat L., Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano, Garzanti, 1976; Mecacci L., Storia della psicologia del novecento, Roma/ Bari, Laterza, 1992; Danzinger K., La costruzione del soggetto, Ibid., 1995; Sellars W., E. e filosofia della mente, Torino, Einaudi, 2004.

F. Ortu - N. Dazzi

EMPIRISMO METODOLOGICO L’espressione sta ad indicare un approccio di sociologia della scuola che, pur collocandosi sostanzialmente nell’ambito del → funzionalismo, assume caratteristiche proprie rispetto ad altri orientamenti presenti nello stesso quadro teorico.

EMULAZIONE

1. Gli elementi distintivi vanno ricercati nell’uso sofisticato del metodo quantitativo e nell’oggetto che è costituito dal problema della diseguaglianza delle opportunità nell’istruzione. Sulla nascita di tali prospettive ha influito il contesto degli anni ‘60. Lo → Stato sociale è in piena crescita e assume sempre più un atteggiamento interventistico anche nell’istruzione ai fini di realizzare una maggiore eguaglianza. Esso intende procedere sulla base di indicazioni scientificamente corrette: pertanto, potenzia gli investimenti pubblici nella ricerca anche educativa. 2. L’approccio sotto esame concentra la sua attenzione sul problema delle disparità tra i ceti nell’educazione, cercando di misurare con più precisione la loro consistenza e di identificare i fattori che le condizionano. Questi ultimi vengono individuati in genere nella classe di appartenenza, mentre le posizioni divergono circa l’impatto della scuola, anche se prevale l’opinione che le attribuisce un ruolo significativo. Il metodo utilizzato è principalmente numerico, empirico, statistico; al tempo stesso, non mancano esempi di ricerca-azione nella forma di una quasi sperimentazione. Bibl.: K arabel J. - A. H. H alsey (Edd.), Power and ideology in education, New York, Oxford University Press, 1977; Morgagni E. - A. Russo (Edd.), L’educazione in sociologia. Testi scelti, Bologna, CLUEB, 1997; Schizzerotto A. - C. Barone, Sociologia dell’istruzione, Bologna, Il Mulino, 2006.

G. Malizia

EMULAZIONE È «desiderio e sforzo di eguagliare o superare qualcuno» (Zanichelli); è misurarsi per migliorare (il termine indica oggi anche peculiarità di un sistema informatico). 1. Sotto il profilo psicologico e sociale pos­ siamo constatare differenti declinazioni di e. Si va dall’esi­genza innata nell’età evolutiva di raffron­tarsi agli altri per riprodurne tratti signifi­cativi (→ identificazione), allo sforzo conscio nell’età adulta per raggiungere o sopravanzare livelli o qualità altrui (rivalità);

dal bi­sogno di autoaffermazione che conduce al confronto sociale continuato (competizio­ ne), alla sfida per raggiungere prestazioni sportive sempre più elevate, misurandosi secondo regole convenute (agonismo), o ancora a un metodo di apprendimento scolastico basato sulla competi­zione degli esiti raggiunti (meritocrazia). Questi fenomeni so­no interpretabili quali espressioni dell’ag­g ressività umana, in contesto collettivo. In realtà non è facile rintracciare situazioni di interazione che manifestino percorsi di semplice comparazione. Del resto lo stesso processo di → socializzazione com­porta riferimenti a modelli da valutare, an­che in contraddizione. A spiegazione del fenomeno ven­gono formulate diverse teorie: l’innato istinto di aggressività dominerebbe l’uomo (→ Freud, → Lorenz), la volontà di po­tenza sarebbe la base per com­ prendere la personalità dell’individuo (→ Adler), la sequenza frustrazione-aggres­sione spiegherebbe opportunamente il legame tra stimoli ed esiti (Berkowitz). Senza dubbio la tendenza alla competizione è un fattore di ri­levanza primaria nella spiegazione della → dinamica di gruppo. 2. Sotto il profilo educativo la questione si pone in termini ambivalenti. L’e. può es­ sere considerata positiva, se viene orien­tata a promuovere le proprie abilità per giungere a un armonico miglioramento personale (sviluppo di sé); oppure se ci si impegna a eguagliarle nell’accettazione delle qualità altrui (reciprocità). Assume inve­ce un accento problematico, se non negativo, quando prevale la volontà di dominio sull’altro al fine di soverchiarlo (oppressione) o allorché si esige da se stes­si uno sforzo insensato per superarsi (per­fezionismo). Lo sviluppo dell’io esige un buon rapporto con sé e un’equilibrata re­ lazione con gli altri: ciò avviene nella possibilità di scegliere tra rivalità o cooperazione, reciprocità o selezione, superiorità o opportunità. La conferma proviene dai bambini dei Kibbuz, più portati alla collaborazione; mentre i bambini america­ni (classe media) si mettono in competizio­ne anche quando non sarebbe ragionevole. Di certo lo spirito di ri­ valità presenta grossi rischi, che si chiama­no egocentrismo, → individualismo, disin­teresse egoistico. È determinante la motivazione che sta alla base dell’e.: si vuol crescere nell’autoaffermazione sugli altri o tendere allo svi413

ENCICLOPEDIA

luppo delle proprie po­tenzialità? La prospettiva educativa si rifà in questo a una scelta antropologica, cul­t urale ed etica. L’«Éducation Nouvelle» (Europa del ’900) fonda la sua teoria pedagogica sul principio della collaborazione nel rispetto delle differenze, e dell’esplicitazione delle potenzialità. L’i­ deologia dominante dell’organizzazione economica moderna (libero mercato) guar­da alla competitività quale proposta riso­lutiva e la considera come legittima moda­lità d’azione pedagogica e di cambiamento istituzionale. È attuale oggi considerare la competizione e la meritocrazia come possibili percorsi per superare l’appiattimento e l’egualitarismo, anche in istituzioni educative. Al contempo si sta sviluppando una rilevante corrente che vede nella cooperazione educativa una pertinente e valida soluzione. La realtà umana rimane comunque terreno di ambiguità: sarà sempre compito dell’educazione qualificare la comunica­zione e i rapporti, perché si possa giungere a intese soddisfa­centi e a relazioni adeguate. Si tratta in definitiva di monitorare la tendenza alla competizio­ne, perché si risolva in modo benefico per tutti e di orientare l’e. a tradurre in tensione migliorativa la reciprocità, facilitando un ambiente di educazione partecipata. Bibl.: Netzer H. (Ed.), Der Wetteifer in der Erziehung, Weinheim, Beltz, 1961; R ich J. M., Competition in education, Springfield Illinois, C.C. Thomas, 1992; Reboul O., I valori dell’educazione, Milano, Ancora, 1995.

G. B. Bosco

ENCICLOPEDIA Presso i greci e. significò «ciclo educativo», sistema completo di educazione, che com­prende tutte le discipline ed il loro fon­ damento. Il termine riapparve nel sec. XV, indicando l’insieme delle conoscenze espo­ste in forma sintetica ed in ordine alfabe­tico. 1. A volte non è facile distinguere tra e. e di­ zionario. → Isidoro di Siviglia, V. de Beauvais, → Llull, e F. Bacon trasmisero il loro scibile in opere di carattere enciclopedico. L’e. più famosa è quella francese, il cui ti­ tolo completo è Encyclopédie, ou Diction414

naire raisonné des sciences, des arts et des métiers, par une société de gens de lettres, la cui pubblicazione ebbe inizio nel 1751 e si concluse nel 1776. Ad essa colla­borarono, tra gli altri, Voltaire, → Rous­seau, D’Alembert, Diderot, Holbach ed Helvetius. Benché gli estensori degli arti­coli avessero idee differenti, erano d’ac­cordo sui principi comuni del pensiero dell’epoca: ottimismo sul futuro dell’umanità, tolleranza religiosa, importanza dello svi­luppo della tecnica, dell’industria, dell’a­gricoltura e delle arti, fiducia nella capacità razionale dell’uomo, nella libertà, nel pro­g resso indefinito, considerazione per le scienze applicate, interesse per lo studio e l’osservazione della natura, opposizione al­ l’eccessivo potere del clero e della Chiesa, valorizzazione dell’esperienza personale, ecc. 2. L’E. fu allo stesso tempo apprezzata e contrastata. Si è discusso molto sulla sua possibile in­fluenza sulla Rivoluzione francese; per al­cuni costituì una sua causa remota mentre per altri fu un apporto in più nel vasto pro­ cesso di trasformazioni sociali e politiche che determinarono inevitabilmente la fine del cosiddetto antico regime. Anche in se­ de pedagogica le idee dell’e. hanno avuto la loro influenza, soprattutto in termini di antitradizionalismo e di centramento sul soggetto dell’educazione e sullo sviluppo della sua «naturale» libertà. Bibl.: Collison R. L., Encyclopedias: their history through the ages, New York, 1966; Walsh S. P., Anglo-American general encyclopedias. A historical bibliography, 1703-1967, New York/ London, 1968; R eoyo C. (Ed.), E. temática Espasa, Madrid, Espasa-Calpe, 2000.

B. Delgado

EPISTEMOLOGIA PEDAGOGICA L’e.p. è quella parte della riflessione e del discorso sull’educazione che affronta problemi quali: a) se la → pedagogia sia scien­za e quale tipo di scienza; se sia scienza uni­ca o il nome collettivo di una pluralità di scienze; b) nel secondo caso, ricerca il fon­d amento epistemologico della loro colla­borazione interdisciplinare (→ interdisciplinarità). Questa problematica ha una sua storia che in que-

EPISTEMOLOGIA PEDAGOGICA

sta sede non è possibile ri­chiamare anche solo sommariamente. Al­lo stato attuale della ricerca, le risposte a questi interrogativi sono molteplici e di­scordanti; tuttavia nuovi orientamenti del­l’e. contemporanea rendono possibile una migliore impostazione dei problemi e fan­no intravedere interessanti piste di solu­zione. 1. La nozione di scientificità. Per risponde­re al primo gruppo di problemi, occorre chiarire la nozione di scientificità. Nel lin­g uaggio ordinario il rigore e l’oggettività so­no generalmente ritenuti i caratteri fonda­mentali della scienza. Però a livello delle teorie epistemologiche, essi sono interpre­tati in modo notevolmente diverso. Il successo in­negabile avuto dalle scienze fisico-mate­m atiche nell’epoca moderna comporta sempre il pericolo di una concezione ridu­zionista della nozione di scientificità. Si de­ve riconoscere tuttavia che, in questi ultimi decenni, sta diffondendosi tra gli episte­mologi un nuovo orientamento: senza smi­nuire la grande lezione di rigore e ogget­tività data dal modello rappresentato dalle scienze empirico-matematiche, si tende a concepire la scientificità, non più in modo rigidamente univoco ma secondo un signi­ficato analogico che ammetta altri modelli di lettura scientifica del reale, rigorosi e og­gettivi anche se diversi da quello matema­tico. All’interno di questa prospettiva si colloca la presente trattazione. Conveniamo di chiamare scienza qualun­que complesso di conoscenze, espresse me­diante uno specifico linguaggio formale, frutto di ricerche fatte secondo un deter­minato → metodo e riguardanti un determi­nato oggetto, caratterizzate sia dal rigore e dall’oggettività che dalla sistematicità e dall’autocrescita. Questo concetto di scienza dovrebbe essere applicabile in modo ana­logico a tutte le scienze: dalle scienze della natura alle scienze umane, alla filosofia e secondo alcuni anche alla teologia. Il rigore e l’oggettività restano caratteristiche prime e fondamentali della scienza. Attribuiamo però al termine «oggettività» due significati distinti. Il primo è il più im­mediato: dire che la scienza è oggettiva si­g nifica che le sue affermazioni trovano ri­scontro nella realtà, sono vere. Il secondo significato è invece più tecnico; forse sa­rebbe meglio esprimerlo col termine «oggettualità», perché significa che ciò di cui

si occupa la scienza non è la realtà esterna al conoscente, ma il punto di vista con cui la scienza guarda questa realtà e che per convenzione viene detto «oggetto». Nonostante l’apparenza contraria, questi due si­g nificati non si escludono, sono invece strettamente connessi e interdipendenti, almeno all’interno della teoria gnoseologi­ca del realismo critico. Questa infatti sup­pone che dalla realtà esterna al conoscente (ricca di tanti aspetti differenti che nel conoscente diventano punti di vista diver­si) la scienza, mediante una particolare gri­glia di lettura, detta «metodo di ricerca», si ritaglia e costruisce mentalmente il suo og­getto, che poi esprime con un linguaggio «formale» ma non necessariamente mate­matico. Quindi oggetto e metodo di una scienza sono interdipendenti, per cui l’op­ zione per un determinato oggetto è condi­ zionata dal metodo scelto per conoscerlo; per conseguenza la scelta di un deter­minato metodo rende possibile la costru­zione mentale di un oggetto, il quale, non essendo totalmente estraneo alla realtà esterna perché astratto da essa, ne esprime degli aspetti reali, senza tuttavia esaurirne la ricchezza. Fine intrinseco di ogni scienza è di dare una spiegazione rigorosa del suo oggetto. Perciò decide quali sono i proble­mi importanti posti da tale oggetto; formu­la ipotesi plausibili per la loro soluzione e definisce i criteri in base ai quali sarà in grado di verificare l’oggettività delle ipote­si formulate. Questi criteri (detti protocol­li o anche postulati-base) sono costituiti da proposizioni che esprimono generalmente «dati di fatto» ritenuti evidenti all’interno della scienza; però possono essere anche parametri concettuali, quali ad es. i risulta­ti di ricerche raggiunti da altre scienze e riconosciuti come sicuri all’interno della scienza in questione. Sulla base di questi criteri viene verificata l’oggettività o verità delle «spiegazioni» che la scienza dà del suo oggetto. Questa verifica deve poter es­sere fatta da tutti i soggetti che hanno ac­ cettato tali criteri. Così intesa, l’oggettività del sapere scientifico si identifica con «l’in­ tersoggettività» ed è detta «debole» e sempre parziale, in quanto non ri­g uarda mai tutti gli aspetti della realtà esterna al soggetto ma solo quelli contenuti nell’oggetto; infine è anche contingente, nel senso che può essere sempre perfezionata o sostituita da spiegazioni più adeguate. La seconda caratteristica 415

EPISTEMOLOGIA PEDAGOGICA

della scienza è costituita dalla sistematicità e dall’autocre­scita. La ricerca scientifica non si accon­tenta di ricerche frammentarie, ma tende a organizzare tutte le sue conquiste in sinte­si organiche. Si conviene pertanto di chia­mare scienza solo quel tipo di sapere che si presenta come sistema di conoscenze colle­gate da nessi logici formalmente corretti, il cui scopo è quello di arrivare a creare teorie complessive del proprio oggetto. Una scienza, che, affinando sempre più il suo metodo di ricerca, progredisce in estensio­ ne e comprensione del suo oggetto, è capa­ce di autocrescita, perché scopre in esso nuovi ambiti (estensione) e più profondi li­velli di intelligibilità (comprensione), pri­ma inaccessibili a causa dell’inadeguatezza o grossolanità della griglia di realtà (cioè del metodo e dei criteri di protocollarità) utilizzata o anche a motivo delle novità in­sorte nella realtà, prima impensabili. L’autocrescita della scienza comporta un conti­nuo processo di revisione e riformulazione delle sue teorie per adeguarle sempre più alla realtà. 2. Scientificità e pedagogia: le → scienze del­ l’educazione. Alla luce di questa concezio­ne della scientificità possiamo dare una ri­sposta al primo gruppo di problemi che ci siamo posti nei riguardi della pedagogia. Siccome qualunque frammento di realtà è suscettibile, dal punto di vista della cono­scenza, di una molteplicità di punti di vista, cioè di oggetti e di relativi metodi, e quindi di scienze differenti, è evidente che la realtà «educazione» diventa necessaria­mente fonte di una pluralità di scienze differenti, ognuna delle quali rappresenta so­lo una spiegazione parziale di essa. Quindi non è solo legittimo ma è necessario parla­re di «scienze dell’educazione». Ognuna di esse, definendo in precedenza i suoi postu­lati-base e il suo metodo di ricerca, ritaglia dalla complessa realtà educativa solo que­gli aspetti conoscibili attraverso il metodo scelto e, partendo da ipotesi plausibili, co­struisce teorie passibili di verifiche alla lu­ ce dei postulati-base decisi in partenza. Da questo punto di vista, il termine → «pedago­ gia», se inteso come studio scientifico della realtà educativa, deve considerarsi il nome collettivo delle scienze dell’educazione. E che esistano effettivamente numerosi stu­ di scientifici sull’educazione, differenti dal punto di vista dell’oggetto e del metodo, è 416

un dato incontrovertibile. Ciascuno di essi appartiene ad una scienza «madre» diffe­ rente (filosofia, storia, psicologia, biologia, medicina, sociologia, antropologia, diritto, ecc.) dal punto di vista dell’oggetto e del metodo; tutti però hanno come scopo co­mune di contribuire, ciascuno con il suo ap­porto, limitato ma insostituibile, a «spiega­re» quella realtà esterna al soggetto che è l’educazione. Ma l’educazione non è sol­tanto una realtà da conoscere; è anche e so­prattutto una prassi, un complesso di azio­ni da compiere, caratterizzate dalla libertà e dall’intenzionalità, che fanno riferimen­to, consapevolmente o no, a norme più o meno tradizionali di un’arte educativa, la quale a sua volta dipende da una concezio­ne del mondo e dell’uomo. Questa prassi educativa esige di essere «valutata» in quanto progetto in funzione di finalità plurime, ordinate gerarchicamente in rapporto alla finalità suprema della qualificazione della vita personale, individuale e comuni­taria. Quindi l’educazione, da questo ango­lo di visuale, dà origine ad una pluralità di oggetti studiati da molteplici discipline, che richiedono per una loro composizione ed integrazione una fattiva collaborazione in­ terdisciplinare. 3. Il fondamento epistemologico dell’interdisciplinarità tra le scienze dell’educazione. Il problema delle condizioni che rendono possibile la collaborazione interdisciplinare tra le scienze dell’educazione è affron­t ato alla voce → interdisciplinarità. Nella diversità delle opinioni antiche e nuove a riguardo, ci si riferisce in particolare alla teoria delle «tradizioni di ricerca» di L. Laudan (Austin, Texas, 1941). Essa, pur essendo ampiamente debitrice verso i contributi di K. Popper, di Th. Kuhn, di P. Feyerabend e di I. Lakatos, rappresenta una forma aggiornata e equilibrata nell’ambito dell’e. con­temporanea. Considerando i problemi scientifici nella duplice prospettiva, dia­cronica e sincronica, Laudan evidenzia un fenomeno caratteristico, e cioè che le teo­rie scientifiche, prodotte dalle varie scien­ze, non operano mai da sole ma sempre a gruppi, in cui si completano, si precisano, si sostengono a vicenda. Si tratta di teorie di scienze diverse (però aventi come scopo comune di studiare una determinata realtà, nel caso nostro l’educazione) che condi­vidono un insieme di assunti generali

ÉQUIPE PSICOPEDAGOGICA

ri­g uardanti questa realtà (denominabili co­ strutti mentali «transpecifici»); e determi­ nati principi metodologici per la soluzione dei problemi che riguardano l’oggetto di ciascuna. Tali teorie, pur appartenendo a scienze diverse, sono in un certo senso im­ parentate tra di loro, cioè formano un gruppo omogeneo, una «tradizione di ricerca»; possono pertanto dare origine ad un’autentica collaborazione interdiscipli­nare. In questa prospettiva all’interno delle scienze dell’educazione si possono indivi­duare un gruppo di teorie filosofiche psicologiche sociologiche etiche tecnologi­che, riguardanti l’educazione sia come realtà da spiegare sia come prassi da valu­tare, progettare e operazionalizzare, che siano compatibili tra di loro per il fatto di possedere costrutti concettuali e parametri metodologici transdisciplinari. Una loro collaborazione effettiva renderà possibile un’interpretazione dell’educazione ed una progettazione della prassi educativa più vi­ cina alla realtà e più conforme alle finalità educative viste nella loro integralità. Nel caso di una pedagogia cristianamente ispi­ rata, tale collaborazione tra le scienze del­ l’educazione include anche la → teologia dell’educazione. Bibl.: Agazzi E., «Criteri epistemologici fonda­ mentali delle discipline psicologiche», in G. Siri (Ed.), Problemi epistemologici della psicologia, Mi­lano, Vita e Pensiero, 1976,3-35; I d. (Ed.), I sistemi tra scienza e filosofia, Torino, SEI, 1978; Laudan L., Il progresso scientifi­co. Prospettive per una teoria, Roma, Armando, 1979; Agazzi E., «L’e. contemporanea: il concetto attuale di scienza», in G. Galeazzi (Ed.), Scienza e filosofia oggi, Milano, Massimo, 1980, 7-20; Id., «La natura del modello», in G. Dalle Fratte (Ed.), Teoria dei modelli in pedagogia, Trento, F.P.S.M., 1984, 31-64; Ladrière J., L’articulation du sens, 2 voll., Paris, Cerf, 1984; Serafini G., E.p. in Italia (1945-1995), Roma, Bulzoni, 1995; A bbà G., Felicità vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, Roma, LAS, 1995; Bertagna G., Avvio al­la riflessione pedagogica, Brescia, La Scuola, 2000; Sola G. (Ed.), E.p., Milano, Bompiani, 2002; Mariani A. (Ed.), Scienze del­l’educazione. Intorno a un paradigma, Lecce, Pensa Multimedia, 2005; Vilanou C. et al., Epistemología del aprendizaje humano, Madrid, Fundación Fernando Rielo, 2006.

G. Groppo

ÉQUIPE PSICOPEDAGOGICA L’é.p. (gruppo di lavoro, team, ecc.) indica un insieme di figure (esperti in scienze del­ l’educazione, psicologi, medici, ecc.) che operano in modo organico, strutturato e in­ terdipendente, all’interno di una istituzio­ne, di un centro o di un servizio, allo scopo di conseguire congiuntamente determinati scopi. L’é.p. si propone di coinvolgere e di far interagire diverse competenze profes­sionali specialistiche a servizio dell’educa­zione in vari ambiti applicativi. Essa è di­stinta dall’é. clinica che riguarda specialisti che attendono ad un compito terapeutico o assistenziale. Inoltre non va confusa con gruppi di lavoro che si prefiggono scopi di­dattici o con la pedagogia di gruppo che ri­g uarda l’educazione all’interno, attraverso e a favore di un gruppo. 1. Sotto l’aspetto strutturale, l’é.p. si confi­ gura come cooperazione di diverse figure professionali, raggruppate in un organi­gramma al cui vertice si pone una figura professionale con compiti di guida e di coordinamento. È auspicabile che la fun­zione direttiva in una é.p. venga ricoperta e svolta da un esperto in scienze dell’educa­zione (→ psicopedagogista) e non da altre figure (come, ad es., medico, → psicologo, terapeuta o altri), per non snaturare la ti­pologia del servizio e non creare subordi­nazione dell’approccio pedagogico ad altri tipi di approccio. Esemplificando, l’é.p. trova applicazione nella scuola, per il so­stegno agli allievi con difficoltà di → ap­ prendimento, e di socializzazione e per portatori di → handicap; nei → servizi so­ciali per il recupero del disadattamento e del disagio a favore dei minori (ragazzi, adolescenti, ecc.); nei servizi e centri di orientamento, per l’informazione e il counseling orientativo; nei consultori familiari, nelle comunità-famiglia e nei centri per la tutela dei minori, ecc. 2. Quanto al funzionamento l’é.p. si ispira allo spirito e al metodo del lavoro di grup­ po che richiede la presenza delle seguenti condizioni: a) l’ interdisciplinarità median­te l’apporto specifico di diverse e distinte figure professionali; b) l’integrazione di­namica e interagente degli operatori, se­condo un piano di lavoro concordato e multifocale; c) la 417

ERASMUS ROTERODAMUS DESIDERIUS

finalizzazione degli inter­venti a servizio dei singoli e dell’istituzio­ne, in attuazione di un progetto educativo esplicitato e coerente (→ progettazione). Sotto l’aspetto applicativo si pongono tra le altre le seguenti istanze: a) la necessità del­la formazione psicopedagogica degli opera­tori, abilitandoli soprattutto al lavoro in é. (training adeguati di formazione, tirocini guidati e supervisione); b) la riappropria­zione di guida e finalità pedagogiche all’in­terno delle é.p., contrastando la tendenza ad assegnare la conduzione di esse a personale sociale e sanitario, col rischio di medicalizzare l’educazione o di posporla a fi­nalità istituzionali di altro tipo (servizio sa­ nitario, politiche giovanili, gestione del ter­ ritorio, ecc.). Bibl.: Pavan G., Il lavoro di é., in «Anziani Oggi», n. 3/4, dic. 1999; Bonomo V., Il lavoro d’é. nelle professioni sociali, in «Educare.it - Rivista on line» 2003, 7; Mariani V., Il lavoro d’é. nei servizi alla persona, Livorno, Edizioni del Cerro, 2006.

S. De Pieri

ERASMUS: programma → Europa → Università

ERASMUS ROTERODAMUS Desiderius n. a Rotterdam nel 1466/1469? - m. a Basilea nel 1536, umanista, teologo, pedagogista, educatore olandese, noto con questo suo pseudonimo. 1. Vita e opere. Figlio di un sacerdote e cagionevole di salute, risente di questa sua condizione. Entrato in convento, dopo la morte del padre (forse, nel 1483), emette i voti nel 1488. Coltiva lo studio dei classici in contrasto con i suoi confratelli. Ordinato sacerdote nel 1492, polemico con l’ignoranza dei frati e dei tradizionalisti, lascia il convento nel 1493, come segretario del vescovo di Cambrai, e inizia i suoi viaggi per l’Europa. Studia teologia a Parigi, fa il precettore, va in Inghilterra e si convince della necessità di una riforma. Tornato, pubblica gli Adagia e si stabilisce a Lovanio (1502-4), dove stampa l’Enchiridion militis christiani (1503). Ritorna quindi a Parigi, poi in Inghilterra e, 418

quale accompagnatore di due giovani, va in Italia e si laurea in teologia a Torino (1506). Durante il ritorno e soggiorno in Inghilterra, prepara il Moriae Encomium (1511). Ivi rimane fino al 1514 ed elabora alcuni dei suoi scritti più importanti di educazione: De ratione studii ac legendi interpretandique auctores liber (1511), Declamatio de pueris statim ac liberaliter instituendis e De duplici copia verborum ac rerum (1512). Aiutato da Carlo V, gli dedica l’Institutio principis christiani. Nel 1516 riparte per Bruxelles, per l’Inghilterra e poi per Lovanio, dove insegna teologia (1517). Scosso dallo scisma di Lutero, torna a Basilea (1521) con un atteggiamento pacifista ed estraneo alla politica, pur criticando duramente i cattolici. Ripubblica i Colloquia familiaria (1522) e, intervenendo nelle polemiche teologiche, il De libero arbitrio (1524), poi il Ciceronianus e il De recta latini graecique sermonis pronuntiatione (1528), che ne hanno consolidato la fama di umanista e filologo. Nel 1529 si trasferisce a Friburgo, a causa della «riforma» impostasi a Basilea, ma vi torna nel 1535. 2. Il pensiero. E. coltivò tre interessi principali: letterario-umanistico, filosofico-teologico e didattico-educativo. Per il loro continuo intrecciarsi, una debita comprensione può avvenire soltanto avendoli presenti tutti e seguendoli nel loro affermarsi e nel loro sviluppo. L’interesse umanistico, si concretò, dopo la lettura e studio di L. Valla e si espresse come doctrina e cioè come stile di vita tipico dell’uomo, connotato da libertà e da ricerca di piacere. Non basta quindi puntare sull’imitazione letteraria dei classici, come volevano taluni umanisti del tempo. Questa tesi di unità tra modo di esprimersi e vita, caratterizza il Ciceronianus. La stessa istanza unitaria e realistica differenzia la sua concezione filosofico-teologica, in polemica con i teologi del suo tempo, che si perdevano in dispute inutili e ben lontane dagli insegnamenti della Bibbia, fonte privilegiata della stessa scienza e autorità indiscussa. Tuttavia la sua lettura va sottoposta a una critica testuale, per poterne ricavare un’attendibile visione antropologica (Philosophia Christi), secondo la quale l’uomo, caduto, si salva con la sua condotta morale, guidata dalla ragione, che ne supporta anche l’edu-

ERASMUS ROTERODAMUS DESIDERIUS

cabilità. È dunque la «natura» stessa, che lo abilita allo scopo, ma quel concetto non è del tutto preciso, per gli influssi intrecciati dei classici (pagani e no) e della Scrittura. Più chiara la sua posizione nei confronti della → religione: allora scandalosa, oggi assai più condivisa. Critica una religiosità fondata sul culto e apparato esterno; rifiuta una Chiesa strumentalizzata dal clero; vuole una miglior formazione di tutti, specie rispetto al Nuovo Testamento. Esige una religione «interiore», in sintonia con le promesse battesimali e la rivelazione: di qui alcune sue perplessità su taluni dogmi e precetti («Presenza reale» nell’Eucaristia; frequenza dei sacramenti; culto dei santi...). In tale contesto trova spazio il suo interesse pedagogico. E. si è ritenuto più «istruttore» che educatore; tuttavia la sua produzione, diffusa tra gli educatori e nelle scuole, ne fa un pratico, oltreché teorico dell’educazione, per quanto non ne dia mai una definizione. La ritiene comunque indispensabile ed efficace e conseguentemente da iniziare al più presto, perché, a suo avviso, gli uomini «non nascuntur, sed finguntur». L’educazione, di conseguenza, è un dovere anche verso la società e verso Dio, in quanto comporta una formazione alla «pietas», alle discipline «liberali», ai doveri della vita e alla probità dei costumi. Si tratta quindi di un’educazione integrale e cristiana, poiché anche la sua pedagogia si rifà a una «philosophia Christi». E. tuttavia, nonostante numerose aperture, ritiene che non tutti abbiano diritto alla prosecuzione degli studi. L’educazione è un’«arte», che esige dall’educatore amore, competenza e comprensione, che suppone osservazione ed esperienza. Inoltre sono indispensabili la gradualità e l’adattamento, che tengano conto anche del peccato originale. Le donne possono educare solo nei primi anni, sebbene abbiano diritto a una formazione pari a quella del maschio. Metodologicamente vanno seguiti tre principi: «natura, ratio, exercitatio», attenzione cioè alle tendenze individuali, a norme comportamentali e alla pratica, con un relativo primato della ragione. Non si trascuri inoltre l’imitazione, che richiede l’esempio, e l’emulazione, ma soprattutto occorre un’impostazione ludica dell’insegnamento e una sua continuità. Segue in E. una precettistica anche minuta, in rapporto al curricolo di studi, che vede

comunque una priorità delle lingue, da apprendersi con l’uso e, ove occorra, con la lettura dei classici. Lat. e gr. si apprendono meglio in parallelo. L’istruzione sistematica va iniziata attorno ai sette anni, badando più all’intelligenza che alla memoria, più a obiettivi etici, che puramente istruttivi, donde una relativa disattenzione per le scienze e per la politica. Importante invece la libertà nella scelta dello stato, con una sua preferenza per il matrimonio. A tal fine, da raccomandare i viaggi. Quanto alle scuole, di cui condanna la brutalità, sono da preferire quelle pubbliche e con un numero ridotto di alunni (5-6 per classe). 3. La fortuna di E. è stata alterna, ma ha costituito un’attrazione il suo impegno di coerenza (nonostante taluni suoi cedimenti) e di rigore, specie verso le istituzioni, così come la ricerca di verità, di armonia e di pace, contro ogni intolleranza e autoritarismo: posizioni per cui è particolarmente apprezzato oggi. Al suo successo, e non solo tra i contemporanei, contribuì lo stile limpido e penetrante, ma mordace e ironico. Dal punto di vista pedagogico sono da ricordare come sue fonti esplicite → Vives e → More, suoi amici, e, benché non sia stato sistematico, va riconosciuto un suo notevole influsso su molti pedagogisti posteriori, tra cui → Comenio e → Locke. Bibl.: a) Fonti: Opera omnia Desiderii Erasmi Roterodami..., Amsterdam, North-Holland Publishing Co., in corso di stampa dal 1969; Scritti pedagogici, a cura di A. Gambaro, Torino, «L’Erma», 1935. b) Studi: M eissinger K. A., E. von Rotterdam, Wien, Gallus Verlag, 1942; Gambaro A., La pedagogia di E. da Rotterdam, in «Il Saggiatore» 1 (1951) 30-48; 141-159; 221-243; Eckert W. P., E. von Rotterdam Werk und Wirkung, 2 voll., Köln, Wienand, 1967; Tracy J. D., E. The growth of a mind, Genève, Droz, 1972; Augustijn C., E. Der Humanist als Theologe und Kirchenreformer, Leiden/Köln, 1986; Halkin L.-E., E. von Rotterdam. Eine Biographie, Zürich, 1989; Zweig S., E. da Rotterdam, Milano, Rusconi, 1994 (orig. 1935); Margolin J. C., E. précepteur de l’Europe, Paris, Seuil, 1995; Rummel E., E., London, 2004; Abellán J. L., El erasmismo español, introducción, J. L. GómezMartínez, Madrid, Espasa-Calpe, 32005.

B. A. Bellerate

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EREDITARIETÀ

EREDITARIETÀ 1. Parlare di e. in un dizionario pedagogico vuol dire parlare di uno dei fattori che condizionano il → comportamento umano. Ma vuol dire anche parlare di questo fattore mettendolo in rapporto con l’altro fattore condizionante lo sviluppo ed il comportamento delle persone e cioè con 1’ → ambiente. Infatti, «nature» (natura) e «nurture» (nutrizione, stimolazione interna) sono i due fattori a cui vanno attribuite le differenze individuali. Per e. si intende la somma dei geni trasmessa all’individuo dai genitori al momento del concepimento, oppure la proprietà di alcuni caratteri «biologici» di essere trasmessi dai genitori ai figli. L’e. assicura la costanza delle diverse specie di esseri viventi e consente ad ogni individuo di essere un esemplare unico della propria specie. Il patrimonio genetico del singolo è, in effetti, composto da elementi che provengono dagli antenati, ma secondo processi di ricombinazione che sfociano in un insieme, in una costellazione di geni strettamente individuale. Paradossalmente, l’e. agisce in due sensi divergenti: da una parte garantendo la costanza delle caratteristiche generali della specie; dall’altra assicurando le variazioni individuali. Per ambiente intendiamo, in questo contesto, tutte le forze di sviluppo che non siano quelle contenute nei geni, oppure la somma totale di stimoli che l’individuo riceve a partire dal momento del concepimento. 2. Per quanto riguarda il rapporto e.-ambiente, gli studiosi del problema hanno assunto posizioni estreme e posizioni intermedie. Le posizioni estreme vanno da → Watson (e con lui i behavioristi) che arrivava a dire che sarebbe riuscito a portare in qualunque direzione un soggetto (verso la musica, la matematica, la criminalità, ecc.) ammettendo un minimo influsso dell’e. e un’azione quasi determinante dell’ambiente, fino agli innatisti radicali, per i quali tutto è segnato in partenza. Già la presenza di posizioni così radicali dà il senso della complessità del problema, che è stato studiato utilizzando svariati approcci metodologici che potessero offrire una maggiore garanzia di validità ai risultati. A. Anastasi raggruppa in cinque categorie i vari metodi usati per lo studio tra e. e ambiente: l’allevamento 420

selettivo, largamente usato dai genetisti e da essi mutuato in campo psicologico; lo studio dello sviluppo normale del comportamento sulla base dei rapporti tra maturazione e apprendimento; il ruolo dei fattori strutturali nello studio del comportamento, partendo dalla convinzione che il comportamento può essere influenzato dalla e. solo attraverso caratteristiche sugli effetti di precedenti esperienze sul comportamento (per esempio i casi dei bambini selvaggi); studi sulle somiglianze e differenze tra membri di una stessa famiglia. Oggi nessuno dubita del peso dell’ambiente nella strutturazione della personalità e nelle sue manifestazioni comportamentali. R. Truzoli in una ricerca sul rapporto e.-ambiente alla luce degli studi sul genoma e delle neuroscienze conclude dicendo che questi studi rafforzano la linea di ricerca che prende sempre più in considerazione, nei campi più svariati (dalla ricerca farmacologica ai processi formativi e lavorativi), il ruolo significativo delle variabili ambientali. 3. Tra gli studi sui membri di una stessa famiglia, quelli che permettono di arrivare a conclusioni più sicure sul rapporto tra e. e ambiente sono quelli relativi a coppie di gemelli monozigoti, essendo identico in loro il patrimonio genotipico. Teoricamente, lo studio metodologicamente più corretto potrebbe consistere nell’analizzare le differenze tra gemelli dizigoti vissuti nello stesso ambiente e le differenze tra gemelli monozigoti vissuti in ambienti diversi: ci sarebbe da una parte l’influsso della e., essendo identico l’ambiente e dall’altra l’influsso dell’ambiente essendo identica l’e. R. Zazzo ha studiato accuratamente questo problema arrivando alla conclusione che nei termini detti il problema è mal posto (1960). Lo psicologo francese dimostra ampiamente che la pretesa identità dei gemelli monozigoti non esiste e che e. e ambiente non bastano a rendere conto della formazione di una individualità. L’effetto di coppia conferisce a ciascuno dei partners caratteristiche che non appartengono né alla e. né all’ambiente come vengono abitualmente definiti. Le ricerche in questo campo, dopo un periodo di alti e bassi, hanno nuovamente attirato l’attenzione degli studiosi e si sono creati numerosi registri di gemelli disposti a collaborare.

ERIKSON ERIK HOMBURGER

4. Nonostante la complessità del problema e le difficoltà di affrontarlo con una corretta e valida metodologia, sia clinica che statistica, è tuttavia possibile arrivare ad alcune conclusioni: non esiste un’azione esclusiva dell’e. o dell’ambiente; qualunque caratteristica individuale può dipendere da entrambi i fattori, per cui il problema oggi non è quello di quale fattore sia più importante; e. e ambiente non si addizionano, ma interagiscono in modi non ancora del tutto ben conosciuti; l’ambiente esercita un influsso che è condizionato dal patrimonio genetico e, a sua volta, questo agirà in modo differente in diverse condizioni ambientali: molte attività e funzioni dei geni sono aperte a influenze di tipo ambientale così come è possibile che i geni possano condizionare l’azione dell’ambiente. Bibl.: Zazzo R., Les jumeaux: le couple et la personne, 2 voll., Paris, PUF, 1960; Anastasi A., Psicologia differenziale, Firenze, Editrice Universitaria, 1965; Jacob F., La logique du vivant, une histoire de l’érédité, Paris, Gallimard, 1970; Morrison Ford U., Tu sei unico: storia dell’e., Roma, Armando, 1983; Gazzaniga M., La mente della natura. Il cervello umano tra e. e ambiente, Milano, Garzanti, 1997; Truzoli R., Il rapporto e.-ambiente alla luce degli studi sul genoma e delle neuroscienze, www.aarba.it/JARBA/2005/ Truzoli.

M. Gutiérrez

ERIKSON Erik Homburger n. a Francoforte nel 1902 - m. a Hartwich (Mass.) nel 1994, psicologo tedesco. 1. Si trasferisce nel 1927 a Vienna dove insegna alla Burlingham School ad orientamento psicoanalitico. Dopo aver completato, nel 1933, il training psicoanalitico e aver iniziato l’attività clinica come analista infantile sotto la guida di A. → Freud, si trasferisce a Boston. Membro dell’Institute for Child Welfare, nel 1942 insegna, come professore di psicologia, a Berkeley alla University of California e continua a svolgere privatamente la sua attività clinica. Nel 1950, presso l’Austen Riggs Center, si occupa prevalentemente di giovani con problemi psicosociali, tra il 1960

e il 1970 insegna alla Harvard University psicologia dello sviluppo umano. 2. Profondamente influenzato dal pensiero di H. Hartmann, E. M. Kris e R. Lowenstein, e interessato, fin dai suoi primi scritti, all’applicazione della teoria psicoanalitica ai dati sociali e antropologici e alla utilizzazione, in ampia misura, di metodi osservativi basati o derivati dalla → psicoanalisi, ha concentrato il suo interesse sul funzionamento dell’Io, sottolineando in particolar modo la funzione sintetica dell’Io, la funzione integrativa del Sé e l’importanza dell’ambiente psicosociale. Facendo riferimento alla teoria biologica dell’epigenesi, inizia, tra il 1930 e il 1940, ad elaborare una teoria dello sviluppo psicosociale che troverà in Infanzia e società (1950) la sua espressione più completa. In questo scritto, ormai considerato un classico, E., sulla base di una concettualizzazione degli stadi di sviluppo epigenetico dell’Io (dove il passaggio da uno stadio all’altro è legato alle particolarità del contesto sociale) propone una teoria generale dello sviluppo psicologico che integra fattori psicodinamici e fattori sociali e rappresenta la prima teoria psicoanalitica che investe l’intero ciclo della vita, prendendo in considerazione l’adolescenza, la giovinezza, la maturità e la senescenza e negando alla maturità il carattere di uno stadio destinato a segnare la fine della crescita psicologica. Dopo aver sostenuto che ogni fase del ciclo di vita è caratterizzata da un compito evolutivo specifico, che deve essere risolto in qualche modo prima che l’individuo proceda nella fase successiva, E. individua 8 «crisi nucleari» o stadi dello sviluppo psicosociale – 1) fiducia di base/sfiducia (prima infanzia); 2) autonomia/vergogna e dubbio (primi passi); 3) iniziativa/colpa (età prescolare); 4) industriosità/inferiorità (età scolare); 5) identità/confusione dei ruoli (adolescenza-giovinezza); 6) intimità/isolamento (giovinezza); 7) capacità generativa/ stagnazione (mezza età); 8) integrità dell’io/ disperazione (tarda età) – e propone il concetto di modalità d’organo per render conto del meccanismo con cui la società influenza la soluzione individuale data alle diverse «crisi nucleari». 3. Sulla base del concetto di mutualità, E. sostiene la coordinazione, e la relazione re421

ERMENEUTICA PEDAGOGICA

ciproca, tra il bambino e la figura adulta significativa e ritiene che le istituzioni sociali trasmettano all’individuo, in ciascuna fase dello sviluppo, i diversi aspetti della realtà sociale, influenzando così la soluzione personale degli specifici problemi di ogni fase epigenetica. Ne I problemi dell’identità dell’Io (1956, 1959) e in Gioventù e crisi di identità (1968) discute il conflitto cruciale relativo alla identità e alla polarità identità-dispersione. Dopo aver sottolineato la differenza fra il concetto di identità e di identificazione e aver descritto la crisi di identità dell’adolescente come una serie di «crisi normative» che caratterizzano ciascuna fase psicosociale dello sviluppo, E. distingue nettamente tra crisi normativa e crisi psicotica o nevrotica e descrive il quadro clinico della «dispersione acuta dell’identità», che rappresenta l’unica applicazione clinica del suo schema psicosociale. È inoltre da ricordare l’utilizzazione, da parte di E., della teoria psicogenetica per la ricostruzione di grandi personaggi storici visti nell’interazione tra la struttura della loro personalità e l’ambiente storico-sociale in cui vissero. Nei suoi studi su M. Lutero (Il giovane Lutero, 1958), G. B. Shaw, Gandhi, nonché nella sua discussione del «sogno di Irma» e del «caso Dora», E. utilizza la tecnica della biografia psicoanalitica per sottolineare in modo particolare le capacità di «sintesi costruttiva» che consentono l’integrazione di eventi solitamente considerati patogeni. Bibl.: a) Fonti: opere di E.E., Infanzia e società, Roma, Armando, 1963; Il giovane Lutero; Ibid., 1967; La verità di Gandhi: sulle origini della nonviolenza militante Milano, Feltrinelli, 1972; Gioventù e crisi d’identità, Roma, Armando, 1974; Autobiografia in parallelo con Freud, Gandhi e la nuova generazione, storia individuale e momento storico, Ibid., 1976; L’adulto: una prospettiva interculturale, Ibid., 1981; I giocattoli del bambino e le ragioni dell’adulto, Ibid., 1981; I cicli della vita: continuità e mutamenti, Ibid., 1984; E. E. H. - J. M. E. - H. K ivnick, Coinvolgimenti vitali nella terza età, Ibid., 1997. b) Studi: K aplan D., La psicoanalisi dopo Freud, in «Psicologia Contemporanea» 2 (1974) 36-41; M aier H. W., L’età infantile: guida all’uso delle teorie evolutive di E.H.E., J. Piaget, R. R. Sears nella pratica psicopedagogica, Milano, Angeli, 1975; Smelser N. J., Amore e lavoro: E.H.E.; e altri saggi di Leonard

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I. Pearlin, Milano, Rizzoli, 1983; Roazer R. H., E. tra sociologia e psicoanalisi, Roma, Armando, 1982.

F. Ortu - N. Dazzi

ERMENEUTICA PEDAGOGICA Dalla classica arte e tecnica dell’interpretazione di testi (in gr. hermeneutikè téchne), nel corso della storia, specie dopo Schleiermacher e Dilthey, il termine e. è venuto a significare più ampiamente i vari tipi di teoria generale dell’interpretazione e un modo di fare filosofia. 1. Forme di e. Dagli anni ‘80 in poi, l’e. può essere vista come una sorta di koiné filosofica della cultura (vale a dire come un comune modo di pensare), allo stesso titolo in cui lo furono, sia pure in modi diversi, l’esistenzialismo nel primo decennio del secondo dopoguerra, il marxismo nei tardi anni sessanta e lo strutturalismo negli anni settanta. Questa enfasi contemporanea sull’e. ha imboccato due vie principali: una prima, sulla scia di Heidegger, Gadamer, Pareyson, Ricoeur (e a loro modo Habermas e Apel), va oltre l’ambito disciplinare e metodologico e considera piuttosto il fenomeno interpretativo come tratto costitutivo dell’esistenza umana; una seconda, permane invece a livello di metodo e di tecnica dell’interpretare. La prima è portata avanti da filosofi di professione; la seconda da studiosi di diritto (Betti), di letteratura (Hirsch, Szondi), di Bibbia (Bultmann e suoi prosecutori). La prima è più un’arte di «leggere» il «testo analogico» della vicenda e dell’esistenza umana storica; la seconda intende restare una metodologia scientifica operante su terreni regionali, all’interno di quelle che, con termine diltheyano, sono classificabili come scienze dello spirito. Nella prima la problematica è filosofica nel senso più largo, nella seconda ci si allarga dal metodologico anche e piuttosto ad un dibattito di tipo epistemologico. Nella prima è centrale il discorso degli esiti dell’e., se cioè si può, attraverso essa, arrivare, per dirla hegelianamente, a nuove «enciclopedie», seppure segnate dalla storicità e dalla situazionalità geo-culturale (come sembra prospettare Gadamer); o se per tale via si rende possibile

ERRORE: PEDAGOGIA DELL’

la realizzazione dell’ideale di una società auto-trasparente e illimitatamente dialogica e comunicativa (come vogliono Habermas e Apel); o se invece essa, come espressione tipica della «post-modernità», non consacri l’irriducibile molteplicità e la dissoluzione dell’unità culturale, sociale, esistenziale (come vuole soprattutto il «decostruttivismo» di Derrida o il «pensiero debole» di Vattimo e Ferraris). Per quest’ultima modalità, il riferimento è a F. Nietzsche, a M. Heidegger e al cosiddetto secondo Wittgenstein (quello dei «giochi linguistici»). Nella seconda prospettiva il dibattito è invece attorno alla validità scientifica e all’oggettività del metodo ermeneutico. In tale contesto acquista tutta la sua importanza la critica di Betti a Bultmann (che non terrebbe distinti significato storico e significatività esistenziale) e l’indicazione dei quattro canoni dello stesso Betti per una corretta metodica ermeneutica (autonomia dell’oggetto; totalità e coerenza delle considerazioni; attualità dell’intendere; corrispondenza dell’intendere con il significato oggettivo delle forme rappresentative da interpretare). 2. L’e.p. L’e., come interpretazione e comprensione del vissuto e della tradizione educativa sociale (ed in particolare del → rapporto educativo inserito in determinati contesti storico-culturali), è stata alla base di quel modo di intendere la pedagogia come scienza dello spirito, sviluppatosi nella scia di Dilthey, nella Germania prehitleriana e del secondo dopoguerra. Ad essa appartennero pedagogisti come → E. Spranger, T. Litt, H. Nohl, W. Flitner, E. Weniger (di cui è stato discepolo il massimo esponente vivente, W. Klafki). Criticata nel corso degli anni sessanta da parte della pedagogia scientifico-sperimentale (nel contesto di quello che è passato alla storia come il Positivismus Streit, vale a dire il dibattito sulla «positività» della scienza), nel corso degli anni ’80, e non solo in Germania, l’e.p. è ritornata a suscitare un notevole interesse nell’ambito della pedagogia. Questa infatti, oggi più che mai, è chiamata a cogliere il senso dell’educazione, a ripensare a fondo la cultura educativa, a contribuire ad attingere una qualità vitale migliore. A ciò è stimolata dal mutamento e dall’innovazione storico-culturale in atto, dal vasto pluralismo e dal «conflitto delle interpretazioni» scien-

tifiche ed ideologiche, dalla caduta dei miti e dal tramonto delle «grandi narrazioni» pedagogiche del recente passato, dall’accrescersi delle dinamiche multiculturali e dall’esplosione dei → mass-media e dei nuovi-media informatizzati, dalla mondializzazione del mercato e dal complessificarsi della vicenda storica personale, nazionale ed internazionale. In questo faticoso lavoro di lettura e di intervento a favore della crescita e della buona qualificazione dell’esistenza individuale e comunitaria, l’e. si offre come uno strumento conoscitivo ed orientativo di prim’ordine: non da sola, ma congiuntamente alla semiotica, al fine di decodificare i segni e le parole della vita e del processo formativo; alla retorica, per intravedere la ragionevolezza dell’agire educativo; e magari all’estetica e alla saggezza religiosa, per cogliere stimoli e orizzonti valoriali di una qualche trascendenza e ulteriorità rispetto alla condizione esistenziale attuale. Bibl.: Bleicher J., L’e. contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1986; Betti E., L’e. come metodica generale delle scienze dello spirito, Roma, Città Nuova, 1987; Mura G., E. e verità, Roma, Città Nuova, 1990; M alavasi P., Tra e. e pedagogia, Firenze, La Nuova Italia, 1992; Vattimo G., Oltre l’interpretazione, Roma/Bari, Laterza, 1994; Moscone M., Filosofia e. oggi, Roma, Studium, 1995; Jung M., L’ e., Bologna, Il Mulino, 2002; Gennari M., Interpretare l’educazione: pedagogia, semiotica, e., Brescia, La Scuola, 22003; Gadamer H., E. Uno sguardo retrospettivo, Milano, Bompiani, 2006.

C. Nanni

EROTISMO → Educazione sessuale

ERRORE: pedagogia dell’ Si può intendere per e. l’affermazione di una proposizione falsa e per pedagogia dell’e. lo studio delle strategie di gestione dell’e. destinate alla formazione culturale ed educativa del ragazzo. 1. E. ed → apprendimento. Nella prima metà del ’900, Brueckner ed altri, basandosi sull’analisi dei compiti e su una scomposizione logica delle difficoltà del calcolo ele423

ESAMI

mentare, avevano costituito liste di «occasione d’e.» e «prove diagnostiche», utili per un esame sistematico dell’ apprendimento. Altri, come Fernald, hanno sostenuto i vantaggi del dare sistematicità e analiticità al recupero e costruito strumenti e schede per facilitarlo. I coniugi Schonell hanno realizzato qualcosa di analogo per il calcolo delle quattro operazioni aritmetiche e per l’ortografia. I tentativi citati danno rilievo agli e. e alle possibili occasioni di e., ma non partono da un modello di apprendimento tipico, unitario; → Piaget invece ha cercato di descrivere gli e. come esiti degli stadi di sviluppo del pensiero e i «piagetian’s test», tratti dalle sue opere da studiosi inglesi, sono stati proposti come strumenti di diagnosi dello sviluppo. È stata così data espressione all’intuizione della scuola attiva (→ Scuole Nuove) che oppone l’itinerario logico (secondo la logica adulta) a quello psicologico (che riflette anche gli apparenti zig zag dello sviluppo). Secondo tale prospettiva l’e. è visto come un manifestarsi della logica infantile rispetto a quella adulta. In questa linea Bruner asserisce che gli e. sono sovente solo un procedere secondo vocabolario e grammatica tipici dello stadio di sviluppo. Questi autori interpretano dunque l’e. come un momento fisiologico della crescita. La psicologia cognitiva ha studiato, più recentemente, le «misconcezioni» o preconcezioni, cioè quelle concezioni spontanee, avallate spesso dall’esperienza percettiva, che sono nettamente distinte dalla conoscenza scientifica (per es. la concezione tolemaica contrapposta a quella galileiana) e che permangono spesso, anche dopo anni di studio. 2. L’e. nel modello della valutazione formativa. Il filone di studi che va sotto il nome di valutazione formativa ha dato rilevanza all’e. Secondo questo modello, bisogna elaborare degli iter personalizzati per portare l’alunno ad una base comune (gli → standards), distinguendo tra e. vero e proprio, livello di maturazione e stile cognitivo. Dalle ricerche sul → problem solving si vede che ogni ragazzo procede per vie personali, che vanno rispettate, seguite o rettificate. Gli e. allora sono importanti per interpretare e anche per riprogrammare. Recentemente è stata studiata la natura anche emozionale dell’e. 424

Bibl.: Wertheimer M., Productive thinking, New York, Harper, 1959; Bruner J. S. - R. R. Olver - P. M. Greenfield, Lo sviluppo cognitivo, Roma, Armando, 1973; Czerwinsky Domenis L., Un e. utile: trasformare gli sbagli in opportunità di apprendimento, Gardolo (TN), Erickson, 2005; Astolfi J.-P., L’erreur, un outil pour enseigner, Issy-les-Moulineaux, ESF, 2006; Fiard J. - E. Auriac, L’erreur à l’école: petite didactique de l’erreur scolaire, Paris, L’Harmattan, 2006.

C. Coggi

ESAMI L’e. è un accertamento del grado di preparazione degli studenti per consentir loro di proseguire o accedere ad un percorso scolastico, formativo e universitario, o di conseguire un titolo di studio. Può anche abilitare i candidati a svolgere una professione o un mestiere. Il Ministero, regolando con leggi e disposizioni gli e., intende esercitare un controllo sul buon funzionamento del sistema di istruzione nei diversi ordini e gradi e assicurare un giudizio equo sulla preparazione di ciascuno. 1. Si tratta di un tipo di valutazione sommativa, che ha lo scopo di giudicare complessivamente i risultati di una attività di → apprendimento e il grado di maturazione raggiunto, per classificarli con scopi certificativi, selettivi o predittivi. L’e. ha abitualmente una funzione certificativa, quando è situato alla fine di un percorso più o meno lungo (può essere collocato al termine di un ciclo di studi, come l’e. di Stato; o alla fine di un corso universitario). L’e. può assumere anche una funzione predittiva, come nel caso della selezione attuata con i test d’ingresso all’Università, finalizzata ad individuare gli studenti che hanno maggiori attitudini e dunque più probabilità di concludere con successo il curricolo scelto. 2. Nel sistema scolastico italiano, come in generale in quelli europei, gli e. sono diventati progressivamente meno frequenti. Si è passati per esempio da una situazione come quella prefigurata dalla L. Casati (13.11.1859, n. 3275) che prevedeva e. di ammissione, per accedere al grado scolastico successivo; e. di

ESEMPLARITÀ

promozione condotti a fine anno dai docenti della classe con l’intervento degli esaminatori della classe successiva; e. di licenza, per la conclusione dei vari ordini di studi; e. di abilitazione (al termine dell’istruzione tecnica), a quella attuale, in cui sono state abolite numerose occasioni d’e. Per esempio, non esistono più gli e. di ammissione alla scuola media e quelli al termine della scuola primaria. 3. I problemi che si sono posti e si evidenziano a proposito degli e. sono vari. Si dovrebbe cominciare dal valore stesso dell’e., che per essere equo per gli studenti, spesso è condotto da esaminatori in parte o interamente diversi dai docenti che hanno tenuto i corsi. Si dà così per sicuro che le valutazioni dei docenti siano attendibili; che l’alunno sia sempre se stesso e renda per quello che sa senza interferenze emotive; che quanto gli si chiede e quanto si ottiene sia un campione rappresentativo di quello che ha appreso nel ciclo di studi. Se l’e. si svolge solo su alcune materie, inoltre, si suppone che la campionatura di discipline e di gangli essenziali al loro interno sia valida per una diagnosi completa. La conduzione dei colloqui e l’espressione delle valutazioni sono lasciate alla professionalità degli esaminatori, senza l’apertura sistematica alla ricerca e senza capitalizzare con metodo l’esperienza accumulabile con gli anni. Si è discusso anche sull’utilità che gli esaminatori siano «esterni» alla scuola oppure siano i docenti della medesima: ci sono ragioni per entrambe le opzioni. Bibl.: Hotyat F., Les examens, Paris, Bourrelier, 1962; Calonghi L., Valutazione, Brescia, La Scuola, 1976; Belhost B. (Ed.), L’examen: évaluer, sélectionner, certifier, Paris, INRP, 2002; Cresswell M., Heaps, prototypes and ethics: the consequences of using judgements of student performance to set examination standards in a time of change, London, Institute of Education, 2003; Salas Parrilla M., Cómo preparar exámenes con eficacia, Madrid, Alianza, 2007.

L. Calonghi - C. Coggi

ESCLUSIONE → Inclusione ESCRIVÁ DE BALAGUER Josemaría → Movimenti ecclesiali ESCUELAS DEL AVE MARÍA → Manjón Andrés

ESEMPLARITÀ Il termine rimanda all’arte, alla tecnica, al comportamento morale e civile. Dal punto di vista pedagogico può essere intesa come la condizione dell’ → educatore che si propo­ ne come → modello da imitare nell’essere e nell’agire. 1. L’ → imitazione è dinamica abituale nei processi di socializzazione o inculturazione. Il giovane ha bisogno di incontrare non solo verità astratte e frammentarie, ma concrete, vissute, vicine alla propria condizione e perciò tali da poter essere a sua volta apprese. In tal senso l’e. si pone come concreta forma di «discrepanza ottimale» di apprendimento; ed è condizione ricercata dai giovani in chi si presenta e propone come guida di perce­zioni e di pensieri, di interpretazioni e di proposte che implicano impegno e fatica, cambio, adesione e che, quindi, hanno bisogno di chiare e forti → motivazioni liberatrici di energie. Peraltro il gioco educativo dell’e. non è in­ genuo. Per assumere e assolvere pieno va­lore educativo, l’e. non può concentrarsi principalmente nell’ascen­dente della persona che risulta suggestiva, attraente, fascinosa, persuasiva. Neppure può limitarsi alla praticità dell’esempio-modello of­ferto. Deve essere via alla penetrazione di comprensione e di adesione ai valori di cui l’educatore è portatore. 2. Oggi l’e. educativa è piuttosto in crisi sia a motivo del contesto cultural-educativo che vede l’e. come segno di imitazione pedissequa e di impedi­mento alla spontaneità creativa personale sia perché è difficile da realizza­re nell’attuale complessificazione attuale post-moderna, multiculturale e globalizzata della vita e della cultura. Perciò si parla preferibilmente di testimone e → testimo­nianza, dove l’accento è posto piuttosto sui valori di cui l’esempio e il mo­dello si fanno mediatori, mostrando la pos­sibilità e stimolando a riesprimerli a proprio modo nella propria condizione e situazione. Bibl.: H argreaves D. H., Interpersonal relations and education, London, Routledge and Kegan, 1972; Berset A., Le maître éveilleur, Paris, Centurion, 1978; Poulat E. et al., Témoins et témoignages, Milano, Arché, 2003.

P. Gianola

425

ESIODO

ESERCIZIO → Seminario: metodo di studio → Tirocinio

ESIODO Di provenienza eolica, vive nella Beozia alla fine del sec. VIII a.C, ed è uno dei massimi poeti dell’antichità greca. 1. Rapsodo di → Omero e poi suo seguace nelle forme metriche, è, come lui, trasmettitore di antiche tradizioni, ma a lui si contrappone per l’idealità che è oggetto del suo canto. Come poeta, e per l’esplicita intenzionalità dei suoi poemi, si pone come educatore del popolo (nella figura del fratello Perse) ed entra a pieno diritto nel grande novero dei forgiatori dell’ideale greco di areté. Vi entra però con un ruolo particolare e in certo senso unico, in quanto, superando la cerchia elitaria della classe aristocratica e guerriera esaltata nei poemi omerici, rivela e celebra l’ideale umano nella classe umile dei contadini. Si ha così il senso greco dell’areté (come raggiungimento di dignità e formazione umana) i cui contenuti, tuttavia, non sono quelli che si affermeranno, nell’evoluzione della → paideia greca, nel paradigma umanistico-liberale della formazione e cultura del cittadino greco. 2. E. celebra un’areté alla quale si perviene attraverso la via dura del lavoro dei campi, che permette il raggiungimento del benessere. Ne esalta la dignità e ne presenta numerose norme. Lavoro, benessere, areté sono i passi di questa visione ricca di eticità. Essa però, oltre al lavoro, è sostenuta, anzi costitutivamente integrata, da altri due pilastri: quello di una profonda religiosità e quello di un forte senso del diritto. La prima, fondata su una concezione della divinità vicina agli uomini e loro protettrice (le Ore, la Eris buona), è presentata da E. specialmente nel poema La Teogonia. Il diritto, strettamente collegato alla visione religiosa (Zeus fonte del diritto), è visto come il dono che Zeus ha fatto agli uomini («sommo tra i beni») e che garantisce la dignità e la bellezza della convivenza umana segnandone la differenza da quella degli animali. Esso fa parte dell’ideale di areté cantato nel poema Le opere e i giorni. 426

3. Va sottolineato che E., proponendosi come educatore e difendendo esplicitamente, rivolto al fratello Perse, la validità della formazione per via di insegnamento, previene la polemica sulla insegnabilità dell’areté e vi dà una soluzione positiva. Il quadro di areté di cui E. è maestro, scarsamente sentito nella tradizione greca, ne è però una valida integrazione e resta preziosa eredità per tutta la cultura umana. Bibl.: a) Fonti: E., Le opere e i giorni, in: E., Pindaro, Teocrito, Eronda, trad. it. e introd. di E. Romagnoli, Bologna, Zanichelli, 1964. b) Studi: Montanari F., Introduzione a Omero, con un’appendice su E., Firenze, Sansoni, 1990; Jaeger W., Paideia. La formazione dell’uomo greco, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991.

M. Simoncelli

ESISTENZIALISMO Movimento che si caratterizza per l’analisi della singolarità dell’esperienza storico-esistenziale. 1. Il clima culturale che lo prepara. Per rilevare, anche solo a grandi linee, i tratti salienti dell’e. è d’obbligo il riferimento al clima culturale di fine Ottocento che lo prepara e lo accompagna, per molti aspetti alternativo e polemico rispetto ai grandi sistemi razionali di stampo idealistico e positivistico. Personalità di grande rilevanza culturale, da Nietzsche a Dostojewski, a Kafka; l’attività letteraria di molti «filosofi» – da Sartre a Marcel – documentano una sensibilità diffusa: la filosofia esistenzialista si afferma come interprete, talora esasperata, di questo clima culturale. 2. L’affermazione successiva. All’inizio del sec., anche in polemica con la mentalità positivista, si va imponendo una sensibilità singolarmente nuova. Affiora l’interesse per la → persona, il suo compito, il suo destino. Ritorna il problema del singolo. Kierkegaard diventa attuale e il suo diario, la suggestione delle annotazioni estrose e sincere, comunque personalissime, propongono un confronto vivo e stimolante: si delinea un movimento di pensiero che passa sotto il nome di

ESOTERISMO

«Kierkegaard-Renaissance». Semplificando si potrebbe dire che il clima esistenzialista passa attraverso alcune tappe fondamentali. Con Pareyson (1911) si potrebbero accettare tre date, certamente importanti. Il 1919 vede la pubblicazione di Römerbrief di K. Barth e la Psychologie der Weltanschauungen di K. Jaspers. Nell’opera del teologo, come in quella dello psichiatra-filosofo, il riferimento a Kierkegaard è esplicito. L’uno e l’altro propongono la rivalutazione acuta del singolo. Nel 1927 vengono pubblicate due opere destinate ad una risonanza vastissima: Sein und Zeit di M. Heidegger e il Journal métaphysique di G. Marcel. Li accomuna l’intento fondamentale di ancorare l’uomo ad una realtà che lo fondi: l’esistenza propone in Heidegger il problema dell’essere, in Marcel l’appello alla trascendenza. Nel 1932 escono i tre volumi della Philosophie di Jaspers; ed è dello stesso anno il primo fascicolo di «Recherches philosophiques», con l’articolo critico di Marcel sulla filosofia jaspersiana. Anche qui qualcosa di peculiare li accomuna: l’interesse per quella che Jaspers ama definire «la situazione fondamentale». 3. Il significato. Si configura un movimento complesso di clamorosa e spesso conclamata carica innovativa. Per lo più, avvalendosi della metodologia fenomenologica, resta concentrato su un’analisi lucida e impietosa dell’esistenza, della situazione di precarietà che la minaccia; alla ricerca – spesso vana – del fondamento che la possa garantire. L’e. è moda passata: ma la sua risonanza in ambito culturale è difficilmente misurabile, specialmente attraverso la successiva, più ampia e diffusa riflessione esistenziale. Specificamente in ambito educativo la centralità dell’esistenza, la singolarità che la caratterizza e quindi il rispetto che esige; temi esistenziali quali la solitudine, l’incomunicabilità, l’angoscia; ma anche la libertà, l’amore, la fedeltà, vi hanno trovato una esplorazione penetrante e nuova; sono diventati riferimento irrinunciabile. Ed in sede pedagogica hanno rafforzato la tendenza per metodi clinici ed approcci biografici ed autointerpretativi. Bibl.: Mounier E., Introduction aux existentialismes, Paris, Denoël, 1947; Wahl J., Petite histoire de l’existentialisme, Paris, Maintenant, 1947; Chiodi P., L’e., Torino, Loescher, 1969; Pa-

reyson L., Studi sull’e., Firenze, Sansoni, 1971; A bbagnano N., Introduzione all’e., Milano, Il Saggiatore, 1972; Neri R., Didattica e filosofia dell’e., Roma, Armando, 1975; Beck H., Ex-insistenz: Positionen und Transformationen der Existenzphilosophie, Frankfurt a. M., Peter Lang, 1989; Prini P., Storia dell’e. da Kierkegaard ad oggi, Roma, Studium, 1989.

Z. Trenti

ESOTERISMO Dottrina segreta, comunicata a fedeli e discepoli di una filosofia o di un maestro, che svela i misteri dell’universo e i suoi fini ultimi. 1. Come indica l’etimologia, l’e. (= nascosto, segreto) si contrappone all’essoterismo (= esterno, pubblico), e si riferisce a un corpo dottrinale che viene generalmente trasmesso dal maestro ai suoi discepoli attraverso due strade: quella dell’insegnamento orale, realizzato in un contesto prevalentemente personale, con una comunicazione, quindi, che va da bocca a orecchio così da preservarla da eventuali manomissioni di intrusi, e quella dell’insegnamento scritto, che utilizza un linguaggio coperto, che richiede un’interpretazione e un’iniziazione. Storicamente, l’e. è presente sempre e dappertutto: presso gli oracoli caldei, presso i sufi dell’Islam, in Ippocrate, in Keplero, nei mistici egiziani, tibetani, cinesi, negli sciamani, in scienziati, letterati, artisti o filosofi. 2. Alla base dell’e. viene individuata una tradizione orale che Dio, o gli dèi, hanno sempre posseduto, che hanno avuto in eredità e i cui depositari sono i profeti e i maestri. Si tratta, quindi, di una gnosi che parte dalla concezione di una struttura sacra della natura umana e sintetizza simboli e miti di tutte le religioni. Alla sua base, pertanto, vi è l’origine delle razze umane e delle lingue (da qui l’uso di codici e di cifre), oltre che l’attribuzione agli dèi di funzioni di ispirazione e di rivelazione. L’accesso, in qualunque contesto ci si trovi, avviene allo stesso modo: iniziazione, meditazione, ascesi, digiuno. Basandosi sul risveglio e sull’ampliamento della coscienza nei diversi piani della realtà, l’e. si 427

ESPERIENZA: FATTORE EDUCATIVO

accompagna a una padronanza di sé (il «Conosci te stesso e conoscerai l’universo degli dèi» di → Socrate) e a un potere sugli elementi. Di conseguenza, in esso convergono l’ermetismo, l’occultismo, lo spiritismo, l’alchimia, la cabala, l’astrologia, l’invocazione degli spiriti e la comunicazione con l’aldilà. 3. Dal punto di vista educativo, l’e. va considerato con attenzione, sia per la presa che ha su un gran numero di persone e sia per le reazioni che scatena. Rapporti interpersonali trasparenti, visione ottimista della vita, percezione delle vere dimensioni della realtà, impegno per la giustizia e la solidarietà, precisi punti di riferimento in campo ecclesiale e soprattutto una presentazione della religiosità che accompagni la persona nel suo cammino di crescita sono alcuni degli itinerari che vanno tenuti presenti per favorire una maturazione che rifugga dal facile ricorso al misterioso e all’esoterico. Bibl.: Wehr G., Wörterbuch der Esoterik: Zugänge zum spirituellen Wissen von A-Z, Freiburg, Herder, 1989; Troisi L., Dizionario dell’e. e delle religioni, Firenze, Convivio, 1992; Dethlefsen T., Il destino come scelta: psicologia esoterica, Roma, Mediterranee, 1993; Giovetti P., Dizionario del mistero: il mondo dell’ignoto, dell’e. e della parapsicologia, Ibid., 21995; Faivre A., Esoterik im Überblick - Geheime Geschichte des abendländischen Denkens, Freiburg im Breisgau, Herder, 2001; Gatto Trocchi C., Affare magia. Ricerca su magia ed e. in Italia, Brescia, Queriniana, 2001; Lissoni A. - A. Hussain, E. e mondo islamico, Sesto Fiorentino, Olimpia, 2005; Pruneti L., La via segreta. Scritti di simbologia iniziatica e di e., Bari, Laterza, 2005; Mirabail M., Dizionario dell’e. Storia, simbologia, allegoria, Milano, Red Edizioni, 2006; Tuczay C., E. e magia nel Medioevo, Roma, Newton & Compton, 2006.

E. Fizzotti

ESPERIENZA: fattore educativo Termine dai molti significati, che sembrano congiungersi nell’idea di una conoscenza molto vicina al vissuto e all’esistenza umana nel mondo, con gli altri, nella storia e nell’apertura al possibile, all’ulteriore, al di 428

più, al trascendente. Dal punto di vista contenutistico può essere intesa come il complesso delle informazioni ed acquisizioni conseguite da un individuo o da un gruppo storico attraverso il tempo (e perciò sinonimo di → cultura individuale e/o collettiva). 1. L’analisi concettuale mette in risalto la molteplicità degli ambiti (e. interna, esterna), dei modi (e. soggettiva, interpersonale, di gruppo, comunitaria, collettiva, storica), dei livelli (e. sensibile, intellettuale, emotiva, sentimentale, estetica, etica, religiosa, mistica), dei momenti (e. precedente, concomitante, susseguente), delle forme (e. diretta, indiretta, riflessa). Nel solco della tradizione e del senso comune (che fa sinonimo di e. l’«aver visto», il «toccato con mano», l’«esserci passato»), la filosofia, fin dall’antichità, ha accentuato la componente sensibile, intuitiva, diretta, emozionale dell’e.; ma ne ha messo pure in luce la problematicità, una certa opacità ed ambiguità conoscitiva (fino ad una facile esposizione all’ingannevolezza, che scambia l’apparenza per realtà). Specie con → Aristotele, se ne sottolinea la situazionalità e particolarità conoscitiva, ma pure la fondamentalità e la basilarità per ogni ulteriore conoscenza, che dalla percezione sensibile giunge all’intellezione concettuale e al ragionamento teorico e pratico. In età moderna si arriva a contrapporre e. a ragione (empirismo contro razionalismo), ma se ne fa pure il punto di partenza obbligato della ricerca scientifica. Per parte sua la scienza moderna dilata il concetto di e., facendovi confluire componenti sensoriali e psicologiche, ma anche logiche, quantitative, tecniche, che però sottopone al controllo dell’ → osservazione metodica e sistematica e all’intervento attivo dell’esperimento «artificiale». Peraltro il pensiero contemporaneo di varia matrice (fenomenologia, esistenzialismo, spiritualismo, radicalismo), come le molteplici avanguardie artistiche e letterarie, accusano l’astrattezza e il tecnicismo scientifico e filosofico, e stimolano a ritornare all’immediatezza non codificata dell’e., «lasciando la parola alle cose» (Husserl) ed immergendosi intuitivamente nella realtà esperienziale più profonda. Per parte sua, il freudismo evidenzia la componente inconscia dell’e.; lo spiritualismo bergsoniano la dimensione sovraconscia e la fenomenologia scheleriana

ESPERIENZA RELIGIOSA

la dimensione intenzional-eidetica (vale a dire l’essere rivolta a cogliere l’essenza profonda di quanto viene a coscienza). È ancora rilevante la distinzione/opposizione tra e. esterna-osservativa ed e. interna-riflessiva e simpatetica, che porta a contrapporre scienze naturali e scienze dello spirito. Di questo dibattito si ha il riflesso, tuttora irrisolto, nell’attuale comprensione delle scienze umane e sociali e nella ricerca storica contemporanea, oscillanti tra idiografia e nomotetica, tra metodi quantitativi e metodi qualitativi, tra prospettive positivistiche e prospettive ermeneutiche. Nel clima della complessità e globalizzazione contemporanea si evidenzia per un verso la universalizzazione e per altro verso la frammentazione dell’e. 2. Dewey considera l’e. come fonte precipua e termine di confronto di una scienza dell’educazione Insieme con lui, l’intero movimento delle → Scuole Nuove fa dell’e. il punto di partenza dell’educazione; e del «fare e.» il metodo per eccellenza dell’apprendimento. La ristrutturazione migliorata dell’e. è per J. Dewey il fine stesso dell’educazione. In questa linea, la pedagogia contemporanea e i programmi scolastici vedono nell’e., di cui il soggetto è portatore, un contenuto essenziale da correlare con il patrimonio sociale di cultura, e propongono l’e. come un mezzo educativo necessario in ogni tipo di educazione (familiare, scolastica, catechetica, professionale). Tuttavia – come lo stesso Dewey aveva già avvertito in E. e educazione (1938) – per la buona qualità educativa dell’e., occorre che si tengano in conto le costanti della «continuità» e dell’«interazione». Metodologicamente si dovrà pertanto tener conto delle reali situazioni delle persone, delle loro storie personali, dei loro cammini, delle loro scelte, delle loro aspirazioni. E al fine di dilatare ed arricchire l’e. soggettiva, sarà da introdurre saggiamente e sistematicamente alle risorse culturali offerte dall’ambiente. Allo stesso tempo sarà da stimolare il soggetto educando a maturare l’e. personale, esigendo collaborazione e partecipazione e usando strumenti adeguati al momento vitale e ai processi di crescita personali; non trasmettendo concetti universali e astratti, ma impegnando la globalità personale nella sua sensibilità, motricità, passionalità, intelligenza, volontà, operatività in atti validi,

in pratiche significative, in esercizi attivi e supervisionati: con l’obiettivo di superare un fare e. slegato e frammentato, e di aiutare gradualmente a vivere da soggetti, consapevolmente, responsabilmente, solidarmente, nella realtà e nella storia del proprio tempo e della propria comunità di appartenenza o di acquisto in una prospettiva umana globale. Bibl.: Dewey J., E. e educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1967; Freire P., L’educazione come pratica della libertà, Milano, Mondadori, 1973; Galimberti U., Psichiatria e fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 1979; Gevaert J., La dimensione esperienziale della catechesi, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1984; Bertolini P., L’esistere pedagogico, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1988; Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001.

C. Nanni

ESPERIENZA RELIGIOSA Nell’orizzonte educativo attuale l’e. assume una singolare rilevanza; viene esplorata da scienze diverse e in dimensione differenziata. L’e.r. a sua volta è attraversata da analisi molteplici, per lo più articolate e complementari. Perfino la ricerca storico-fenomenologica confluisce nell’e. fondamentale dell’uomo religioso, studiato a perno di manifestazioni svariate, che vi riscontrano il vero fulcro interpretativo (Couliano-Eliade, 1992). 1. L’e.r. nella ricerca recente. Anche lo studioso della tradizione biblica si riporta all’e. di fede di un popolo per capirne la singolarità e la missione. La storia intera di Israele è leggibile solo sulla base della sua e. di fede: «Israele attinge ad uno strato profondo dell’e. storica, che al metodo storico-critico è inaccessibile. Poiché si tratta di cose riguardanti la sua fede, solo Israele è qui competente a parlare» (von Rad, 1974, 1, 134). La rivelazione stessa è dunque attinta all’e. interiore, un’e. che fa storia e fa tutt’uno con la storia. Bultmann ha richiamato in maniera lucida il passaggio obbligato all’e. anche là dove si vuole ricuperare la serietà e l’oggettività della vicenda storica: «Il rapporto dell’uomo verso la storia è diverso da quello verso la natura [...] se si volge alla storia deve confes429

ESPERIENZA RELIGIOSA

sare a se stesso che egli è una parte della storia e che quindi dice riferimento ad un ambito coerente di rapporti, in cui egli stesso con il suo essere è intrecciato» (Bultmann, 1972, 99). È chiaro che con richiami del genere si concentra l’obiettivo della ricerca sull’e.r. di un popolo o del singolo credente. La ricerca attuale, anche nella sua elaborazione più esigente – filosofica –, si è concentrata sull’e. concreta: ne ha sondato lo spessore, ne ha perseguite le ramificazioni. La ricerca religiosa stessa si è sempre più consapevolmente orientata all’e.: ha inteso sondarne il mistero che la caratterizza, il richiamo alla trascendenza che l’attraversa (Scheler, 1972). Perciò ha anche progressivamente dilatato l’orizzonte di esplorazione portandosi man mano dal dato confessionale al presagio religioso (Marcel, 1976). 2. Aspetti qualificanti dell’e.r. L’e. è termine abusato. La riflessione fenomenologica ed esistenziale l’ha attraversato in tutte le direzioni. Ha tenuto fermi due poli opposti e complementari: l’e. comporta un rapporto obbligato con l’oggetto; anzi, nell’istanza più rigorosa husserliana, ha preteso di lasciar affiorare intatta l’essenziale verità delle cose. Tuttavia una verità si dispiega – si svela – sempre ad una coscienza, e perciò chiama in causa la responsabilità del soggetto. Sotto il profilo educativo si potrebbe dire che un’e. si dà ogni qualvolta c’è partecipazione vissuta e significativa ad una qualunque provocazione. Se ne possono evidenziare gli aspetti qualificanti: anzitutto si tratta di trasferirsi dal vissuto alla consapevolezza del vissuto (dimensione cognitiva); e per lo più sollecitare una presa di coscienza in grado di prender le di stanze dal vissuto, per misurarlo sulla base di criteri autentici di valutazione (dimensione critica); soprattutto perché l’e. indica un necessario riferimento a dati oggettivi con cui è costitutivamente in rapporto, pure da analizzare ed accogliere nella loro intrinseca verità (dimensione veritativa); per quanto sia importante avvertire che il dato oggettivo è sempre assunto dal soggetto, secondo una propria irrinunciabile prospettiva: un punto di vista parziale e interpretativo (dimensione ermeneutica). 3. E.r. e socializzazione. Alcuni studiosi hanno esplorato le condizioni che favorisco430

no il nascere di una certa concezione di vita («cosmo sacro») e le leggi di socializzazione che sollecitano il singolo individuo e gli consentono di interiorizzarla (Luckmann, 1969). Assecondando la traccia di → Weber hanno esplorato il ramificarsi e il differenziarsi nelle società più avanzate delle competenze e dei ruoli religiosi; dello strutturarsi di processi educativi capaci di suscitare e alimentare l’e.r. Non meno interessante la ricerca psicologica attorno all’e.r. La provocazione di → Freud e di → Jung in ambito specificamente religioso sono alla base di un approfondimento e di una verifica che tende soprattutto a differenziare il desiderio, l’aspirazione o – come Freud preferiva – l’illusione dalla componente interiore e dal suo approdo al reale. Studiosi di psicologia religiosa quali → Allport, Godin, Vergote e tutta una scuola cosiddetta umanistica hanno aperto un versante di ricerca di grande interesse, ne hanno intravisto le risorse umanizzanti o addirittura terapeutiche (Frankl, 1972). 4. E.r. e atto di fede. Più recentemente studi notevoli si concentrano sull’atto di fede, inteso come specifica e. interiore, di per sé non obbligatoriamente religioso (Fowler, 1981) e tuttavia decisivo per interpretarne la logica dell’evoluzione e della maturazione umana e religiosa (Oser, 1988). La risonanza e il significato del rapporto religioso impegnano una parte rilevante della ricerca fenomenologico-esistenziale recente. Contributi significativi vengono soprattutto da G. Marcel, secondo il quale l’e. denuncia un margine insanabile di precarietà e appella alla trascendenza: ripiega nell’insignificanza, se non è «sostenuta dall’armatura del sacro» (Marcel, 1963); l’aspetto più specificamente interpersonale nell’atto religioso è analizzato soprattutto da → Buber (Buber, 1993). Il tema del → linguaggio costituisce un terreno di analisi singolarmente stimolante, sia per articolare in termini consapevoli l’e.r. (Ricoeur, 1969) che per identificare la specificità dell’atto di fede (Ladrière, 1984). 5. E.r. e vita ecclesiale. Per la ricaduta in ambito ecclesiale, la teologia riscopre nel riferimento alla figura di Cristo e alla più lontana tradizione biblica l’esigenza di far leva sull’e. storica ed esistenziale; di esplorarla in profondità proprio sulla base degli apporti

ESPERTO

che la rivelazione e la tradizione possono offrire. Dal punto di vista specificamente educativo il principio dell’incarnazione è assunto autorevolmente come riferimento qualificante ed esemplare della → evangelizzazione e della → catechesi. Un Sinodo della Chiesa universale specificamente sulla catechesi (1977) riscopre nel principio dell’incarnazione il fondamento capace di comporre esigenze apparentemente inconciliabili o comunque fortemente divaricate, quali la fedeltà a Dio e la fedeltà all’uomo, nell’elaborazione delle strategie educative della comunità credente. Bibl.: M arcel G., Le mystère de l’être, Paris, Aubier, 1963; Luckmann T., La religione invisibile, Bologna, Il Mulino, 1969; R icoeur P., Le conflit des interprétations. Essais d’herméneutique, Paris, Seuil, 1969; Scheler M., L’eterno nell’uomo, Milano, Jaca Book, 1972; Bultmann R., Gesù, Brescia, Queriniana, 1972; R ad G. von, La teologia dell’Antico Testamento, 2 voll., Brescia, Paideia, 1974; M arcel G., Giornale metafisico, Roma, Abete, 1976; Lévinas E., Totalité et infini, La Haye, Nijhoff, 1980; Fowler J. W., Stage of faith: the psychology of human development and the quest for meaning, San Francisco, Harper-Row, 1981; Ladrière J., L’articulation du sens, Paris, Cerf, 1984; Couliano I. P. - M. Eliade (Edd.), Religioni, Milano, Jaca Book, 1992; Buber M., Il principio dialogico ed altri saggi, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1993; Trenti Z. et al., Religio. Enciclopedia tematica dell’educazione religiosa, Casale Monferrato, Piemme, 1998; Trenti Z., Opzione religiosa e dignità umana, Roma, Armando, 2003; Trenti Z. - R. Romio, Pedagogia dell’apprendimento nell’orizzonte ermeneutico, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2006.

Z. Trenti

ESPERTO Una notevole mole di studi è stata prodotta in questi anni su ciò che contraddistingue un e. e competente da un principiante. Frensch e Sternberg danno una definizione operazionale di «competenza»: «L’abilità, acquisita con l’esercizio, a comportarsi qualitativamente bene in un compito in una particolare area d’informazione» (1989, 157).

Gli studi sull’argomento sono stati avviati in relazione al gioco degli scacchi e sono proseguiti in molte altre aree di competenza dimostrando che: 1) Le persone e. richiamano meglio dalla memoria le informazioni specifiche di loro competenza. L’importanza di questa caratteristica era stata evidenziata da de Groot (1965) e conclusioni simili sono state ottenute anche da altre ricerche: in fisica, nella programmazione del computer, nella diagnostica radiologica, nella comprensione di un testo, nello scrivere e in scienze sociali. Sembra che ciò sia dovuto al fatto che gli e. dispongono di un’organizzazione significativa degli elementi d’informazione. L’abilità di riconoscere strutture significative non indica un’abilità superiore di percezione, ma riflette l’organizzazione della conoscenza (Chi-Glaser-Rees, 1982). 2) Le persone e. rappresentano meglio la conoscenza. Esse vedono e rappresentano il problema, nella loro specifica area di competenza, a livello molto profondo facendo riferimento a principi strutturali, mentre i principianti lo rappresentano a livello superficiale facendo riferimento a elementi concreti e marginali. Un’ipotesi di spiegazione plausibile è stata quella di riconoscere agli e., rispetto ai principianti, la capacità di ricorrere e recuperare più facilmente dalla memoria regole di classificazione. In generale si può affermare che l’organizzazione della conoscenza delle persone e. si focalizza sui principi fondamentali della specifica area di competenza e su ciò che può ostacolare l’uso di questi principi, mentre nei principianti la conoscenza non riflette la comprensione semantica della specifica area di competenza. 3) Le persone e. sono più veloci a risolvere i problemi e fanno meno errori. La competenza in una specifica area di informazione è caratterizzata principalmente dalla skilled performance: un’esecuzione veloce ed esatta nella propria area di competenza. La prestazione migliore degli e. deriverebbe da schemi specializzati che la guidano. Se la prestazione viene invece disturbata da una presentazione strana o irregolare del problema o da strutture non significative oppure da problemi mal strutturati, le persone e. perdono la capacità di percepire quale schema possa essere utile o debba essere ricuperabile e di conseguenza vanno a cercare strategie generali di risoluzione del problema. 4) Le persone e. impegnano mol431

ESSENZIALISMO PEDAGOGICO

to del loro tempo nell’analisi qualitativa del problema e applicano la strategia di «working forward». Le ricerche sui problemi mal definiti (Voss et al., 1983) hanno evidenziato che, all’inizio del processo di soluzione del problema, le persone e. cercano innanzitutto di «capire bene» il problema e vi aggiungono dei vincoli (Glaser-Chi, 1988). La strategia che di preferenza applicano nella soluzione del problema è il working forward. Esse, lavorando forward, generano ipotesi basandosi sull’informazione presentata dal problema. 5) Le persone e. possiedono notevole conoscenza nella loro specifica area di competenza. Varie ricerche fanno pensare che le persone e. non siano migliori per una capacità cognitiva fondamentale, quanto invece per la disponibilità maggiore di informazioni nella memoria e per la possibilità più efficace di richiamare dalla memoria delle procedure cognitive. Questi risultati indicano che la differenza tra le persone e. e i principianti è da attribuirsi fondamentalmente a ciò che esse sanno e a come usano ciò che sanno; e ciò grazie all’esperienza ed esercizio. 6) Le persone e. sono capaci di controllare le loro attività nella specifica area di competenza. Risulta anche evidente che le persone e. possiedono un forte auto-controllo delle loro attività. Gli e., generalmente, sono più consci quando commettono errori, quando non riescono a capire il problema e quando hanno bisogno di valutarne le soluzioni. Quando sono stati invitati a stimare la difficoltà di un problema, essi hanno fornito una valutazione esatta (Chi-Glaser-Rees, 1982). Dalle ricerche sull’«expertise» sembra anche che sia più significativo valutare i soggetti per la loro competenza che non per le loro capacità generali, ma in proposito c’è ancora molto da ricercare (Voss et al., 1983). Bibl.: De Groot A., Thought and choice in chess, The Hague, Mouton, 1965; Chi M. T. H. - R. Glaser - E. R ees, «Expertise in problem solving», in R. J. Sternberg (Ed.), Advances in the psychology of human intelligence, Hillsdale, Erlbaum, 1982, 7-75; Voss J. F. et al., «Problem solving skills in the social science», in G. Bower (Ed.), The psychology of learning and motivation: Advances in research and theory, vol. 17, New York, Academic Press, 1983, 165-213; Glaser R. - M. T. H. Chi, «Overview», in M. T. H. Chi - R. Glaser - M. J. Farr (Edd.), The nature of expertise,

432

Hillsdale, Erlbaum, 1988, xv-xxviii; Frensch P. A. - R. J. Sternberg, «Expertise and intelligent thinking: When is it worse to know better?», in R. J. Sternberg (Ed.), Advances in the psychology of human intelligence, vol. 5, Ibid., 1989, 157-188; Moon B. - A. S. Mayes (Edd.), Teaching and learning in the secondary school, London, Routledge, 1994, 107-113.

M. Comoglio

ESPRESSIONE CORPORALE → Drammatizzazione

ESSENZIALISMO PEDAGOGICO Teoria pedagogica che propugna la comu­ nicazione a tutti gli educandi degli elemen­ti essenziali o costitutivi della cultura. Si op­ pone, per la sua stessa natura, alla teoria del → pragmatismo, dell’educazione utilitaria e a tutta la concezione esistenzialista. 1. Propone un modello di → uomo «quale dovrebbe essere», più che «come è». In ter­mini educativi più teorici, ammette le di­spute metafisiche, ricerca la verità fra le va­rie opinioni proposte su un medesimo ar­gomento e non strumentalizza né la co­noscenza né la → verità; si tratta di un mo­dello atemporale o eterno. Per l’e.p. la ve­r ità è, non si fa; una conoscenza può essere veritiera anche se non è verificabile o se la sua verificabilità non presenta alcuna uti­lità. Si basa sull’unità, identità e omoge­neità della natura di tutti gli esseri, che im­plica un destino generale e per questo pro­pugna una educazione comune di base per tutti gli individui della specie, senza limita­zioni né differenze. Questa base deve esse­re come quella dell’educazione primaria, invariabile, comune a tutti gli uomini, qua­ lunque siano le loro condizioni individuali e sociali, compresa la cosiddetta → educazione speciale. 2. In termini metodologici o didattici, si chiama educazione essenziale, generale o fondamentale (cultura generale) l’educa­zione necessaria a tutti gli individui, qualunque sia il sesso, la classe sociale o la si­t uazione personale, ed ogni essere umano deve possederla poiché il fine che persegue è quello di formare, prima di tutto e so­prattutto, l’essere

ESTROVERSIONE

umano. Si ritiene che la cosiddetta educazione di base, primaria o elementare si attui con i requisiti richiesti da questo tipo di e.p. Si oppone alla edu­cazione definita specializzata che è quella che l’educando riceve al fine della realizza­zione della propria e peculiare vocazione e che prepara lo specialista (tecnico, artista, architetto, militare, avvocato, sacerdote, medico...). Presentano questo modello di uomo atemporale i neoscolastici (Mercier, → Maritain, Gilson), i neoidealisti (Lachelier, Hamelin, Croce, Lagneau, Bradley, Royce), gli spi­r itualisti (Newman, Blondel), i fenomenologisti (Brentano, Hus­serl, Scheler). Da questi presupposti parto­no coloro che hanno difeso con gli scritti o potrebbero essere inquadrati per la loro prassi in teorie pedagogiche essenzialistiche (→ Laberthonnière, → Paulsen, → Willmann, → Gentile, → Lombardo Radice, Alain, → Calasanz, don → Bosco, Ruiz Amado, → Manjón, García Hoz).

cepisce, sente, pensa e agisce in rapporto a tale realtà. L’introverso invece rivolge la sua energia psichica verso il suo interno, verso i suoi stati psichici e la sua esperienza interiore. La percezione, il sentimento, il pensiero e l’azione sono determinati più da fattori soggettivi che non dalla realtà.

L’e. è una delle dimensioni fondamentali nella descrizione della personalità ed ha la sua collocazione già nella tipologia dei temperamenti di Galeno. In quanto contrapposta all’introversione è stata ampiamente elaborata da → Jung (1948) e successivamente adottata in vari questionari di personalità (Cattell e Eysenck).

2. L’e. sembra essere universale, presente in tutte le culture, ma è maggiormente valorizzata in quella occidentale, mentre nell’Oriente predomina l’introversione. L’e. viene considerata anche più «sana» in quanto l’introversione sembra predisporre i rispettivi soggetti alla patologia (narcisismo). Eysenck (1981) ha associato l’e. con il nevroticismo e lo psicoticismo, per descrivere in modo esauriente la personalità. Egli ha opposto in tal modo alla struttura dei Big Five (cinque dimensioni fondamentali della personalità), proposta da McCrae e John (1992), i Gloriouse Three, ed in base ai dati ottenuti dai suoi questionari, ha stabilito un rapporto fra le tre dimensioni. Il nevroticismo si situa rispetto all’e., in rapporto ortogonale attraversandola al centro e proseguendo verso il polo opposto che è la stabilità emotiva. Lo psicoticismo con il suo polo opposto (controllo degli impulsi) assume una posizione obliqua, equidistante tra l’e. e il nevroticismo. Lungo queste coordinate Eysenck ha situato vari disturbi della personalità. Jung considera l’e. una variabile bimodale che fonda due tipi di persone (estroversi e introversi) ma la maggior parte dei teorici della personalità intende l’e. come una variabile continua con un gran numero di casi situati intorno alla media; questo dà origine ai tipi «misti». La dimensione e.introversione è stata sottoposta a numerose verifiche empiriche e i risultati sono stati raccolti in tre volumi (Eysenck, 1970-1971). Le verifiche sull’e. continuano tuttora e i risultati vengono pubblicati nella rivista «Personality and Individual Differences».

1. L’e. è formata da vari tratti come socievolezza, assertività e dominanza. Dell’introversione fanno parte la riservatezza, il distacco e la serietà. La dimensione bipolare dà origine a due differenti tipi nell’interazione sociale: l’estroverso e l’introverso. L’estroverso indirizza la sua energia psichica verso la realtà esterna e cerca di interagire efficacemente nel suo ambiente. Si può dire che egli per-

3. Dai dati delle ricerche condotte sull’e. risulta che la dimensione è utile nel capire e controllare varie realtà umane, come l’interazione sociale, i rapporti intimi tra le persone, il rendimento scolastico e professionale, i disturbi psichici, i comportamenti antisociali e criminali. Nel campo strettamente educativo la dimensione e.-introversione può essere di aiuto nell’impostazione dell’apprendimen-

Bibl.: Tusquets J., Hacia una pedagogía esencial y existencial, in «Perspectivas Pedagógicas» 17 (1966) 9-20; Fullat O., Filosofías de la Educación, Bar­celona, CEAC, 1979; Suchodolski B., Pedagogia de l’essència y pedagogia de l’existència, Vic, EUMO, 1986.

V. Faubell

ESTETICA → Educazione artistica

ESTROVERSIONE

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ETICA

to individualizzato. Infatti, è stato constatato che gli estroversi apprendono meglio con il metodo della scoperta, mentre gli introversi traggono maggiore profitto dal metodo espositivo (Poláček, 1994). I due tipi preferiscono anche attività lavorative differenti: gli estroversi commercio, servizi sociali, insegnamento e gli introversi arte, ingegneria e ricerca. Bibl.: Jung C. G., Tipi psicologici, Roma, Astrolabio, 1948; Eysenck H. J. (Ed.), Readings in extraversion-introversion, voll. 1-3, London, Staples Press, 1970-1971; Id., A model for personality, Berlin, Springer, 1981; McCrae R. R. - O. P. John, An introduction to the Five-Factor Model and its applications, in «Journal of Personality» 60 (1992) 175-215; Poláček K., «L’apprendimento completo e la metodologia per valutarlo», in C. Bissoli (Ed.), Il documento di valutazione nell’insegnamento della religione nella scuola elementare, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1994.

K. Poláček

ETÀ EVOLUTIVA → Psicologia evolutiva ETEROEDUCAZIONE → Antinomie pedagogiche → Educazione

ETICA Il termine e. è usato per indicare sia una delle esperienze più vive e più profonde della vita umana, l’esperienza morale, sia il sapere relativo a questa esperienza. 1. Come forma specifica di sapere etico ha avuto a lungo quasi esclusivamente contenuti di genere normativo e fondativo. Oggi questi contenuti tradizionali sono stati affiancati, e a volte sostituiti dal discorso metaetico (e. analitica) e da quello psicologico-evolutivo. È soprattutto a questo secondo livello, rivolto alla comprensione dei dinamismi psicologici soggiacenti all’esperienza morale e al suo sviluppo, che l’e. ha acquistato una rilevanza nuova per la pedagogia. L’idea che quella morale sia un’esperienza essenzialmente evolutiva, che attraversa fasi di sviluppo qualitativamente (e non solo qualitativamente) diverse sta infatti alla base di tutta la ricerca più recente sui problemi specificamente pedagogici della → educazione morale. Ma essa 434

comporta anche un più generale ripensamento della psicologia dell’esperienza morale e del fatto morale in se stesso. 2. In questa nuova visione il fatto morale assume una dimensione costitutivamente educativa (almeno nel senso di autoeducativa): l’impegno morale non appare più rivolto all’esecuzione di un bene esterno alla persona ma, in linea con l’impostazione aretologica (basata sulle virtù) della filosofia classica, primariamente all’autoplasmazione e. della persona stessa. In questa prospettiva acquista una certa rilevanza pedagogica la tradizionale contrapposizione tra naturalismo (il bene è nella linea delle tendenze naturali dell’uomo) e dualismo morale (il bene, nella forma del dovere, fa violenza alle inclinazioni originarie della persona). Nel primo caso l’educazione dovrà inevitabilmente esercitare una certa violenza, fosse pure solo psicologica sull’e.; nel secondo caso dovrà solo assecondare le buone forze della natura. 3. Un ultimo campo d’intersezione tra morale e pedagogia è rappresentato dalla ricerca di un «minimo comun denominatore» di principi e norme etiche condivisibili da tutte le frastagliate province culturali della nostra società e capace quindi di poter essere elevato a materia ufficiale di insegnamento morale nella scuola pubblica e a obiettivo di educazione da tutte le agenzie educative della → società (Mindestkonsens). Su questa linea vanno segnalati i tentativi di J. Rawls, di J. Habermas e di O. Apel. Pedagogisti di professione o psicologi come → Kohlberg hanno dato un loro interessante contributo alla ricerca filosofica in questo campo. Tali autori trovano questo «minimo comun denominatore» non tanto in determinati contenuti normativi o valoriali quanto in determinati criteri formali di valutazione, come il «principio di universalizzabilità o di reciprocità», oppure nei presupposti trascendentali della comunicazione argomentativa. 4. In una situazione di estrema fluidità e frammentazione culturale come è la nostra attuale, l’e. cristiana è chiamata a farsi carico di questo nuovo ambito di problematica, intessendo un dialogo più approfondito e spassionato con la ricerca filosofica e con le → scienze dell’educazione.

ETOLOGIA E EDUCAZIONE

Bibl.: Valori P., L’esperienza morale, Brescia, Morcelliana, 1971; De Finance J., E. generale, Cassano Murge (Bari), Tipografia Meridionale, 1984; Simon R., Ethique de la responsabilité, Paris, Cerf, 1993; Wanjiru Gichure C., Ética de la profesión docente. Estudio introductorio a la deontología de la educación, Pamplona, EUNSA, 1995; Caputo F., E. e pedagogia, Cosenza, Pellegrini, 2005.

G. Gatti

ETNOCENTRISMO → Cultura → Educazione interculturale

ETOLOGIA E EDUCAZIONE Disciplina che studia il comportamento de­ gli animali osservandoli nel loro ambiente naturale. 1. L’e., dal gr. éthos (costume) e lógos (di­ scorso), letteralmente significa studio dei costumi. La sua data di nascita è fissata nel 1935 e suo fondatore è considerato → Lo­renz. L’e. si distingue dalle altre scienze na­t urali perché, pur non ignorando i con­t ributi offerti dalle ricerche di laboratorio, considera significative solo le informazio­n i ottenute attraverso l’osservazione del comportamento degli animali nel loro am­biente naturale, facendo attenzione che l’osservato non avverta la presenza dell’os­servatore. Al centro degli studi dell’e. so­no gli schemi di comportamento che carat­terizzano una particolare specie animale («comportamenti tipici della specie»). Essi sono stati studiati e descritti da K. Lorenz, N. Tinbergen e K. von Frisch come comportamenti caratterizzati da «schemi ad azione fissa» (cioè da una sequenza di comportamenti fissati nel patrimonio ge­netico della specie), innescati da «stimoli-chiave» provenienti dall’ambiente e che hanno luogo in «periodi critici» (cioè in un determinato arco di tempo di vita dell’ani­m ale). Esempi di comportamenti tipici del­la specie sono l’imprinting (impronta, im­pressione) e i comportamenti aggressivi; in entrambi i casi, i ricercatori hanno conclu­so che si tratta di comportamenti costituiti dall’interazione tra una base genetica ed elementi appresi. Ma qual è il peso da attribuire ai due fattori? La ricerca della ri­sposta a que-

sta domanda costituisce il pro­blema fondamentale dell’e. 2. L’e. umana studia il comportamento umano comparandolo a quello degli altri animali; tale studio segue una metodologia che si basa sull’osservazione, ma, oltre a descrivere gli schemi comportamentali os­servati, si domanda quali siano gli scopi adattativi di tali condotte. La ricerca mo­derna va confutando il modello energetico di Lorenz (per cui schemi di comporta­mento innati consentono di scaricare l’e­nergia psichica) per sostituirlo con un mo­dello informazionale, più aderente alle at­t uali conoscenze neurologiche. Secondo quest’ultimo modello, sono le informazioni che provengono sia dall’organismo che dal­l’ambiente a dare il via ai comportamenti; ed è il sistema nervoso che, informato at­ traverso un meccanismo di feedback circa il mutamento delle condizioni scatenanti, blocca il comportamento. Un approccio etologico alla psicologia dell’età evolutiva ha offerto importanti contributi dal punto di vista educativo: 1) ha fornito strumenti utili per studiare i comportamenti dei bam­bini in età preverbale e per poter ipotizza­re la funzione adattativa di tali comporta­menti; 2) ha ridefinito il bambino come es­sere competente e attivo (e non solo come impulsivo e reattivo); 3) la nozione di im­printing trasferita al comportamento uma­no ha contribuito all’elaborazione della teoria dell’attaccamento (Bowlby); 4) ha consentito di rilevare delle analogie col comportamento animale mostrando alcuni meccanismi che, sia negli uomini che negli animali inferiori, sono in grado di elimina­re o ridurre le reazioni aggressive; 5) sot­tolineando l’importanza dell’osservazione, l’e. ha concesso un recupero dell’aspetto comportamentale dell’attività umana (surclassato da una tendenza introspezionistica) pur senza ignorare o negare la capacità intellettiva e apprenditiva. Bibl.: McGrew W. C, II comportamento infantile: studio etologico, Milano, Angeli, 1977; Blurton J. N. G., Il comportamento del bambino. Studi etologici, Fi­renze, La Nuova Italia, 1980; Poli M., Psicologia criminale e e., Bologna, Il Mulino, 1981; Bowlby J., Attaccamento e perdita, Torino, Bollati Boringhieri, 1972-1983; Hinde R. A., E., Milano, Rizzo­li, 1984; Boakes R., Da Darwin al comportamenti­smo, Milano, Angeli, 1986; Lis A.

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EURISTICA

- P. Venuti, L’osservazione in psicologia genetica, Firenze, Giunti Barbera, 1986; Tinbergen N. - E. A. Tinbergen, Bambini autistici. Nuove speranze di cura, Milano, Adelphi, 1989; Scapini F. - R. Campan, E., Bologna, Zanichelli, 2005.

D. Antonietti - J. M. Maíllo

EURISTICA Il termine deriva dal gr. eurísko (trovo). In pedagogia, sottolinea la scoperta autonoma, guidata e orientata, con risorse personali da attivare metodologicamente e didatticamente. 1. Non mancano le componenti storiche e qualitative, da quelle platoniche a quelle medievali. La tradizione tomista, ad es., sottolinea l’autonomia di chi apprende, e il maestro coopera efficacemente sul piano dell’attualizzazione: «Docens causat scientiam in addiscente, reducendo ipsum de potentia in actum» (Tommaso d’Aquino, 1983, q. 117, art. 1). L’educazione, in questo contesto, è intesa come «azione diretta ai valori trascendentali dello spirito ma compiuta da un soggetto che li ha solo potenzialmente, o è, verso essi, in potenza» (Casotti, 1953). Più recentemente si fa anche riferimento a metodologie qualitative e fenomenologiche che sottolineano gli effetti della ricerca sull’esperienza stessa del ricercatore (Moustakas, 1990), con dimensioni riflessive e formative, personali e professionali (Etherington, 2004). Riguardo all’apprendimento, viene sottolineata l’importanza di periodi sensibili, particolarmente aperti all’apprendimento (Montessori, 1952; Vygotsky, 1966). Si sottolinea la maturazione intellettuale, riferita a miglioramenti di capacità in assenza di una specifica esperienza pratica e attribuibili a influenze genetiche e/o casuali (Ausubel, 1983), e l’idoneità cognitiva (readiness), riferita al «livello di funzionamento cognitivo, in rapporto a quanto un particolare compito di apprendimento richiede» (ivi). 2. Una metodologia educativa di tipo euristico include un’analisi culturale ed evolutiva in grado di formulare proposte adatte ad una ricerca più autonoma da parte dei soggetti traendo «il massimo vantaggio dalle capaci436

tà cognitive esistenti e dalle modalità di assimilazione dei concetti e delle informazioni» (Bruner, 1960), ampliando le opportunità di apprendimento: insegnare un dato argomento ad un bambino in una certa età significa presentare la struttura di quella materia in termini consoni al modo di vedere le cose del bambino; è in questi termini che il compito didattico è stato interpretato sul piano di una traduzione (ivi). Il metodo euristico ha anche ispirato molte iniziative improntate all’attivismo (Mencarelli, 1989), come la tradizione delle scuole attive (→ Scuole Nuove), in cui si considera il discente come protagonista e con un ruolo non secondario nell’iter di apprendimento interpretato come processo di ricerca. Bibl.: Montessori M., La mente del bambino, Milano, Garzanti, 1952 (orig. The absorbent mind, Adyar-Madras, 1949); Casotti M., Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, 1953; Bruner J. S., The process of education, Cambridge, Mass., Harvard Univ. Press, 1960; Vygotsky L. S., Pensiero e linguaggio, Firenze, GiuntiBarbera, 1966; Ausubel D. P., Educazione e processi cognitivi, Milano, Angeli, 1983; Tommaso d’Aquino, La somma teologica, Bologna, ESD, 1984; Mencarelli M., «Attivismo», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 1217-1226; Moustakas C., Heuristic research: design, methodology and applications, London, Sage, 1990; Etherington K., Heuristic research as a vehicle for personal and professional development, in «Counselling and Psychotherapic Research» 4 (2004) 2, 48-63.

G. Boncori

EUROPA: sistemi educativi In questa voce il tema dell’educazione in E. è stato accostato soprattutto dal lato del dibattito sugli scenari dello sviluppo dei sistemi formativi. 1. L’evoluzione. In seguito a un lento processo che ha avuto inizio alla fine dell’800, durante la prima metà del sec. XX si è affermato in E. un modello di sistema educativo che si può definire «scuolacentrico». In altre parole, gradualmente la scuola ha raggiunto una posizione di monopolio sulla formazio-

EUROPA: SISTEMI EDUCATIVI

ne; inoltre, l’educazione era intesa come un processo unico, graduale e continuativo che si realizzava senza interruzione una sola volta nella vita più particolarmente nella giovinezza. Alla fine degli anni ’60 tale modello ha incominciato a essere messo in discussione. Esso sembrava ostacolare lo sviluppo integrale della persona umana poiché istituzionalizzava la discontinuità del ciclo vitale, separando nettamente il momento formativo dal momento produttivo e la giovinezza dall’età adulta e dalla vecchiaia. Inoltre, in una società in cui il ritmo del progresso scientifico e tecnologico è accelerato, la frequenza iniziale per quanto prolungata della scuola non è sufficiente una volta per tutte a preparare per l’intero arco della vita. 2. L’educazione nella società della conoscenza. A partire dagli anni ’70 e soprattutto nelle decadi ’90 e 2000 si viene affermando un nuovo modello, quello cioè della → educazione permanente o dell’apprendimento per tutta la vita. Secondo questo scenario lo sviluppo integrale della persona richiede l’educazione di ogni persona, di tutta la persona, per tutta la vita. 2.1. Le strategie macrostrutturali. Anzitutto, va ricordata l’alternanza: questa significa che il sistema di istruzione e di formazione deve prevedere la possibilità di spezzare la sequenza dell’educazione in diversi tempi – in modo da rinviare parte o parti della formazione a un momento successivo al periodo della giovinezza – e di alternare momenti di studio e di lavoro. Lo sviluppo integrale della persona richiede il coinvolgimento lungo l’intero arco della vita, oltre che della scuola, di tutte le agenzie educative; inoltre, accanto allo Stato, i gruppi, le associazioni, i sindacati, le comunità locali e i corpi intermedi devono assumere e realizzare la responsabilità educativa che compete a ciascuno di loro. Pertanto, nei Paesi europei il sistema formativo non è più costituito solo dalla scuola, ma tende a presentarsi come una struttura sistemica complessa e differenziata di istituzioni e agenzie diverse, un sistema formativo integrato. Tuttavia, l’integrazione non significa omogeneizzazione ma diversificazione e flessibilità entro un quadro di offerte tra loro coordinate: in questo senso la formazione professionale non viene più concepita gene-

ralmente come un addestramento finalizzato all’insegnamento di destrezze manuali, o peggio come qualcosa di marginale o di terminale, ma rappresenta un principio pedagogico capace di rispondere alle esigenze del pieno sviluppo della persona secondo un approccio specifico fondato sull’esperienza reale e sulla riflessione in ordine alla prassi. Un’altra strategia consiste nell’autonomia che trova consensi unanimi, in quanto consente alla singola scuola di gestire la sua vita sulla base della libertà dei soggetti educativi; nella medesima linea si colloca il riconoscimento della libertà effettiva di scelta educativa. Negli ultimi anni è aumentata la consapevolezza dell’importanza della istruzione e della formazione come strumento per lo sviluppo locale e per la collaborazione internazionale, soprattutto a livello europeo. In questo quadro si inserisce il «processo di Bologna» che costituisce l’evento principale degli ultimi anni per l’università in E.: la meta finale è di creare uno spazio europeo dell’istruzione superiore allo scopo di rafforzare l’incidenza formativa dei sistemi nazionali e di accrescere le opportunità di lavoro e la mobilità dei cittadini. 2.2. Le strategie a livello microstrutturale. Anzitutto, l’orientamento che tende a diffondersi nei vari Paesi dell’E. va nel senso di riconoscere a ciascun giovane il diritto a una istruzione e formazione prolungate. Questa strategia può assicurare ai giovani quell’ampia preparazione di base idonea a promuovere la crescita personale, l’orientamento, la prosecuzione degli studi, l’inserimento nell’attività lavorativa e la partecipazione responsabile alla vita democratica. In tale quadro, la scuola secondaria deve essere una scuola aperta a tutti, che offre a ciascuno le opportunità più ampie di apprendere, che evita gli sbocchi senza uscita verso i livelli superiori, che in tutti gli indirizzi conserva elementi essenziali comuni, che consente di rettificare le proprie scelte in itinere e che prevede ponti o moduli di collegamento tra i vari indirizzi. È anche essenziale realizzare due tipi di integrazione: uno tra diversi livelli del sistema e in particolare fra la istruzione e la secondaria e l’università e l’altro all’interno della stessa scuola secondaria tra i cicli, le sezioni e le classi, combattendo la frammentazione mediante la definizione di aree di conoscenze e di competenze. Al tempo stesso, 437

EVANGELIZZAZIONE

la diversificazione dovrà essere la più ampia nel senso che l’istruzione e la formazione potranno essere a tempo pieno o parziale, e generali, tecniche o professionali e dovranno coinvolgere oltre alla scuola, la formazione professionale e le diverse agenzie di socializzazione interessate. Se le nuove tecnologie dell’informazione sono all’origine della cultura del frammento, è anche vero che la società della conoscenza esprime una domanda forte di cultura generale che va senz’altro soddisfatta dal sistema formativo. Per la formazione al lavoro sarà necessario fornire ai giovani una combinazione equilibrata di conoscenze di base, di competenze tecniche e di atteggiamenti sociali. La diffusione dei corsi post-secondari si giustifica con la necessità di fornire la formazione professionale a livello di specializzazione spinta dato che questa non viene più offerta in molti Paesi dalla secondaria superiore dove, invece, si mira a formare la professionalità di base. Da ultimo, di fronte alla svolta epocale risultante dalle sfide della globalizzazione e della nuova economia basata sulla conoscenza, nel 2000 l’Unione Europea si è data a Lisbona un programma al tempo stesso ambizioso e realistico per questo decennio e ha individuato in un grande rafforzamento dell’istruzione e della formazione la chiave di volta per realizzare una crescita durevole del nostro continente. Bibl.: Cresson E. - P. Flynn, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1995; Conclusioni della Presidenza. Consiglio Europeo di Lisbona, 23 e 24 marzo 2000, Bruxelles, 2000; Malizia G. - C. Nanni, «Istruzione e formazione: gli scenari europei», in Ciofs/Fp - Cnos-Fap (Edd.), Dall’obbligo scolastico al diritto di tutti alla formazione: i nuovi traguardi della formazione professionale, Roma, 2000, 15-42; M alizia G. (Ed.), Pedagogia e didattica universitaria dopo la riforma, in «Orientamenti Pedagogici» 51 (2004) 5, 749-956; R eguzzoni M., Il sistema formativo in E., in «La Civiltà Cattolica» 156 (2005) 3714, 549-558; Dawson, C., Los orígenes de Europa, Madrid, Rialp, 2007.

G. Malizia

EUROPASS → Europa → Formazione professionale EUTANASIA → Vita

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EVANGELIZZAZIONE Termine specificamente cristiano, non presente come tale nel Nuovo Testamento, derivato dal verbo «evangelizzare», ampiamente documentato nel NT, tornato nell’attualità soprattutto dopo il 1950. Nel significato biblico originale si riferisce alla predicazione del Vangelo in vista della → conversione a Dio e della scelta di essere discepolo di Gesù Cristo secondo il suo Vangelo. 1. In prospettiva storica il termine si riferisce all’opera dei missionari cristiani in mezzo a popoli non cristiani per annunciare il Vangelo e fondare delle comunità cristiane. A partire dal XVI sec., il → catechismo come istituzione e come libro, è stato spesso, sia per cattolici che per protestanti, luogo e strumento di → alfabetizzazione, specie attraverso le scuole domenicali (Europa, USA, Canada) e nelle missioni cristiane (per esempio in Africa). La catechesi cristiana ha anche sempre assicurato il compito dell’ → educazione morale ed ha promosso (XX sec.) la giustizia sociale, l’ → insegnamento sociale della Chiesa, i diritti umani, la promozione economica, sociale e culturale dei poveri del terzo mondo. La preoccupazione dell’e. ha influito notevolmente nella creazione di scuole cattoliche per i poveri, sia nelle missioni che nei Paesi occidentali, diventando «segni» di una presenza benefica del cristianesimo. In senso ampio l’e. cristiana ha svolto nella storia una funzione umanizzante sul piano sociale e culturale. I grandi valori europei, anche se ormai in veste secolare, sono incontestabilmente segnati dalla loro estrazione cristiana. 2. Nell’ultimo decennio, di fronte all’inefficacia del tradizionale dispositivo di trasmissione della fede, basato su diversi elementi della società cristiana, che ormai non esiste più come tale, il compito di proporre il Vangelo in vista di una scelta personale e consapevole della conversione e della fede in Gesù Cristo, è diventato urgenza prioritaria in tutti i paesi europei, segnati da scristianizzazione, → secolarizzazione, e forte pluralismo religioso e culturale. 3. Per caratterizzare i processi formativi del → catecumenato e della rinnovata catechesi

EVANGELIZZAZIONE

cristiana, si usano termini che hanno attinenza con il linguaggio pedagogico, ma che nello stesso tempo sono critici nei confronti dei precedenti modelli pedagogici e didattici che prevalevano nella catechesi del XX sec. Il catecumenato è un periodo di apprendistato cristiano; l’accompagnatore personale ha una funzione importante di assistenza e di guida. C’è grande rispetto dei ritmi personali di crescita. La «pedagogia catecumenale» è ormai proposta come riferimento per la catechesi dei battezzati. 4. In nessuno di questi significati il termine è primariamente pedagogico. Vero è che

nella realizzazione storica e concreta dell’e. interferiscono diversi problemi educativi. Lo specifico di questi aspetti è però toccato da altre voci di questo dizionario. Bibl.: Paolo VI, Evangelii nuntiandi, Città del Vaticano, LEV, 1975; Gevaert J., Prima e., Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; I d., La proposta del Vangelo a chi non conosce il Cristo, Ibid., 2001.

J. Gevaert

EXTRACOMUNITARI → Emigrazione EYSENCK Hans Jurgen → Comportamentismo

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FACILITATORE

F FACILITATORE Il f. può essere definito come un professionista «consulente di processo nelle organizzazioni e agente di benessere relazionale nei gruppi e nel sociale» (De Sario, 2005, 13). 1. Non può, pertanto, essere ridotto soltanto al ruolo di tutor o di mediatore di comunicazione e discussione in gruppi o riunioni. La figura professionale del f. si specifica per la sua capacità di organizzare e gestire risorse sociali e tecniche a un tavolo di lavoro (catalizzatore); di facilitare la comunicazione nel gruppo e nella riunione (mediatore); di gestore di conflitti tra persone e delle tensioni emotive delle singole persone (agente di aiuto), di sostenitore e motivatore di apprendimento nei singoli, nel gruppo, nella organizzazione (motivatore). 2. Tutto questo lo realizza in tre ambiti fondamentali: le organizzazioni, il sociale e il territorio; all’interno dei quali l’attenzione va agli adulti (uomini e donne), per renderli consapevoli e attori protagonisti e per fare da ponte per incentivare dinamismo e dialogo. Questo è il modo più semplice e completo di precisare ciò di cui si occupa, le sue competenze fondamentali, gli ambiti e le finalità di intervento. Vi è, tuttavia, anche un altro aspetto che non si deve trascurare. 3. In riferimento agli adulti e all’adultità da sviluppare e abilitare a nuove possibilità, il f. è anche formatore, un’azione che mette in atto per migliorare processi e percorsi

di apprendimento come self empowerment. Questa azione si concretizza in una metodologia che attiva quattro fasi, ciascuna con attenzioni e obiettivi specifici: formazione «orientamento» (aiutare a pensarsi in modo positivo nel nuovo), formazione «competenza» (acquisizione di nuove metodologie e di uso di nuovi strumenti), formazione «elaborazione» (di resistenze e di preoccupazioni che impedirebbero di aprirsi al nuovo), formazione «azione» (verifica operativa del nuovo a partire da sperimentazioni fatte). Queste sono tutte attenzioni importanti per un intervento formativo efficace con gli adulti. Il f., sia come consulente di processi o agente di benessere sociale, che come f. di processi di apprendimento, trasmette conoscenza, è attento alle persone e ha cura del clima d’aula o di ambiente di formazione. In questo modo egli diventa anche «tessitore di reti» e protagonista di processi di innovazione nelle organizzazioni, nella formazione e nel sociale in generale. Bibl.: Bruscaglioni M., Per una formazione vitalizzante. Strumenti professionali, Milano, Angeli, 2005; De Sario P., Professione f. La competenze chiave del consulente alle riunioni di lavoro e ai forum partecipati, Ibid., 2005; Id., F. dei gruppi. Guida per la facilitazione esperta in azienda e nel sociale, Ibid., 2006; Rotondi M., Facilitare l’apprendere. Modi e percorsi per una formazione di qualità, Ibid., 2006.

V. Orlando

FACOLTÀ → Abilità

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FACOLTÀ DI SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

FACOLTÀ DI SCIENZE DELL’EDUCAZIONE Istituto universitario di insegnamento, di studio e di ricerca nell’ambito delle scienze riguardanti la teoria pedagogica e i fatti educativi. 1. Precedenti storici. Le f.s.d.e. sono di recente creazione. Benché l’espressione si sia generalizzata nella seconda parte del sec. XX, all’interno di uno stesso Paese o contesto culturale vengono usati oggi nomi diversi. Allo scopo di collocare in una adeguata cornice gli inizi e lo sviluppo delle prime f.s.d.e. propriamente dette, si accenna ad alcuni precedenti e, in particolare, al posto che l’insegnamento della → pedagogia ha occupato progressivamente nell’ordinamento scolastico. Dalle notizie sui seminari creati nel sec. XVII da Ch. Demia e da G. B. de → La Salle «per la formazione dei maestri di scuola» si desume che lo scopo prefisso era fondamentalmente pratico. Lo stesso si deve dire del Seminarium praeceptorum fondato da → Francke nel sec. XVIII. Nel corso del sec. XIX, per rispondere all’istanza di preparazione pedagogica degli insegnanti, viene organizzata la → scuola normale, nel cui programma è sempre più presente lo studio della pedagogia. In Italia detta scuola fu preceduta dalle scuole provinciali e dalla scuola superiore di → metodo (1845); quest’ultima (presso l’Università di Torino) fu trasformata in «cattedra di pedagogia». Nel 1887 venne creata la cattedra di pedagogia alla Sorbona (sospesa tra il 1917 e il 1956). Riferendosi alle università francesi, Compayré scriveva alla fine del sec. XIX: si «insegna la pedagogia, sia in una cattedra magistrale come a Parigi, sia in corsi e conferenze come a Lione e a Tolosa»; e precisava che la pedagogia era chiamata ufficialmente «science de l’éducation». Negli Stati Uniti i Departments of the Science and Art of Teaching si erano diffusi notevolmente. In diverse università tedesche (Jena, Heidelberg, Halle, Lipsia), fin dal sec. XVIII i professori di filosofia erano tenuti a dettare un corso di pedagogia (Pädagogik). Sono noti, in particolare, i testi delle lezioni di → Kant e di → Herbart. 2. Scuole e istituti di s.d.e. Iniziative più organiche vengono attuate nei primi decenni 442

del sec. XX. Nel 1912, → Claparède e Bovet fondano a Ginevra l’École des Sciences de l’Éducation (Institut J. J. Rousseau), intesa come centro di ricerca, d’informazione e di propaganda. Il suo motto (discat a puero magister) ne esprime l’orientamento generale: portare gli educatori a una migliore conoscenza del bambino come presupposto per una educazione scientificamente valida. Precisando le origini dell’opera, Bovet scriveva: «Je ne vis que le Tessin et l’Italie, où les Scuole di Pedagogia de Credaro inauguraient alors quelque chose d’analogue à ce que nous voulions créer» (Bovet, 1932, 16). Nel 1929 l’Institut fu affiliato alla f. di Lettere dell’università di Ginevra. Nello stesso anno il senato accademico approvò la risoluzione di «étudier le plan d’une Faculté des Sciences de l’Éducation» (Bovet, 1932, 131). Ma solo nel 1967 è creata in Francia una licence in s.d.e. Nel 1969 l’Istituto di psicologia e pedagogia di Lovanio venne trasformato in f. di psicologia e s.d.e. Nel 1937, a opera dei padri benedettini, era sorta in Brasile la Facultade Livre de Filosofia e Pedagogia, aggregata alla Università cattolica di São Paulo. Ma in nessuno di questi casi si trattava di una f.s.d.e. nel senso pieno del termine. 3. La F.s.d.e. dell’Università Salesiana (= FSE). Nel 1941 erano iniziate invece a Roma, presso la Congregazione degli Studi, le pratiche per l’approvazione, «come f. di pedagogia», dell’Istituto fondato presso il Pontificio Ateneo Salesiano (= PAS) di Torino, da → Leôncio Da Silva (1887-1969), per iniziativa di P. Ricaldone, rettor maggiore dei → Salesiani e gran cancelliere del PAS. In un primo momento, le autorità vaticane ritengono che la pedagogia «non sia una scienza sufficientemente autonoma», constatando che non esistono istituti del genere «né nel campo ecclesiastico né in quello civile». Il parere favorevole di alcuni uomini di cultura (→ Maritain, Garrigou-Lagrange, Paschini, Pende), la progressiva organizzazione dell’Istituto torinese e la serietà delle ricerche svolte e degli scritti pubblicati sulla rivista «Orientamenti Pedagogici» da P. Braido, → Calonghi, P. G. Grasso, R. Titone, spingono l’organismo vaticano ad accogliere la «novità», approvando nel 1956 l’Istituto Superiore di Pedagogia (= ISP). In momenti diversi collaborarono, nell’ISP/FSE, → Corallo, P. Giano-

FACOLTÀ DI SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

la, → Sinistrero, G. Dho. L’approvazione sanzionava «il principio, secondo cui uno studio solido e rigoroso delle s.d.e. esige un tale complesso di ricerche teoriche, positive, storiche e tecniche, da giustificare l’organizzazione di un complesso curriculum studiorum altamente qualificato, a livello universitario» (Braido, 1956, 647). Nel dare la notizia ai lettori, un collaboratore di «Scuola Italiana Moderna» scriveva: «La prima f. di Pedagogia è sorta in Italia nel nome di don Bosco» (Giammancheri, 1957, 7-8). Di fatto il titolo di f.s.d.e. venne conferito ufficialmente nel 1973, quando il PAS diventò Università Pontificia Salesiana (= UPS), con sede a Roma. Sin dalla sua approvazione, l’ISP funzionò autonomamente come f. universitaria. Anzi, con la sua impostazione teoretico-positiva e la sua struttura scientifica unitaria e complessa, esso si configurò come un’istituzione originale nell’ambiente pedagogico degli anni ’60. Per l’attuazione dei compiti di ricerca e di docenza la FSE comprende oggi diversi istituti (teoria e storia, metodologia pedagogica, metodologia didattica e della comunicazione sociale, catechetica, psicologia, sociologia) e centri (consulenza psicopedagogica, osservatorio della gioventù). I corsi si articolano nei seguenti curricoli di specializzazione: teoria-storia e metodologia dell’educazione, pedagogia sociale, pedagogia per la scuola e la formazione professionale, psicologia dell’educazione, pastorale giovanile e catechetica (in collaborazione con la f. di Teologia dell’UPS). All’interno della FSE funziona anche una scuola superiore di psicologia clinica. In stretto rapporto con l’ISP sorse a Torino l’Istituto Pedagogico delle → Figlie di Maria Ausiliatrice, trasferito a Roma ed elevato nel 1970 a Pontificia f.s.d.e. «Auxilium». Alle scelte teoriche e metodologiche della FSE si è ispirata l’impostazione di alcuni centri superiori, come la f. di Pedagogia dell’Università Pontificia di Salamanca (Spagna). 4. F.s.d.e. e di scienze della formazione. L’organizzazione degli studi pedagogici a livello universitario si presenta attualmente variegata e sono in corso profondi cambiamenti. A livello europeo sono in atto notevoli processi di innovazione e di coordinamento dell’università e dell’istruzione tecnico-superiore, in linea con quello che è stato detto il → proces-

so di Bologna (1999). Le indicazioni europee e la domanda sociale di formazione, hanno portato in Italia a mutamenti anche nel settore educativo-scolastico. A livello universitario, già nel 1995, le f. di Magistero erano state soppresse e trasformate, per lo più, in f. di s. della formazione, al cui interno si collocava il corso di laurea in s.d.e., di quattro anni di durata, articolato in un biennio propedeutico e un successivo biennio con tre indirizzi (insegnanti di scienze umane, educatori professionali, esperti nei processi di formazione); anche nelle f. di lettere poteva essere attivato un corso di laurea in s.d.e. Ma queste stesse impostazioni, a seguito del processo di Bologna, sono state modificate, a cominciare dall’adozione di due cicli rispettivamente di tre anni (corso di laurea) e di due anni (corso di laurea Magistrale) a cui fa seguito il ciclo del dottorato (tre anni). Si sono avviati in molte sedi universitarie Master di specializzazione. Ma la situazione è ancora fluida e in processo, anche a seguito della riforma scolastica e della conseguente necessaria revisione del reclutamento e della formazione universitaria degli insegnanti, che a tutt’oggi (2007) non ha ancora avuto definitiva attuazione. In Spagna le Escuelas Normales si sono trasformate, nel 1970, in Escuelas Universitarias de Formación del Profesorado; esistono inoltre f. autonome di Ciencias de la Educación. Nelle università inglesi e nordamericane viene usato il nome di School of Education; e vi esistono Teachers college per la formazione degli insegnanti. In Germania hanno avuto una lunga tradizione le Pädagogische Hochschulen; negli anni ’70, dalla loro fusione con le Fachhochschulen o con le Theologische Hochschulen sono sorte le Gesamt-hochschulen. In America Latina la terminologia è varia. Al di là delle differenti modalità organizzative (→ istruzione superiore, → organizzazione scolastica), è sempre più affermata oggi l’esigenza di un «sistema» di approcci scientifici diversi (storico, psico-sociologico, sperimentale, teorico, metodologico, tecnologico, didattico) alla realtà educativa. Bibl.: Bovet P., Vingt ans de vie. L’Institut J.J. Rousseau de 1912 à 1932, Neuchâtel/Paris, Delachaux & Niestlé, 1932; Braido P., Una scuola universitaria di pedagogia, in «Orientamenti Pedagogici» 3 (1956) 647-650; Giammancheri

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FAMIGLIA

E., La prima f. di pedagogia è sorta in Italia nel nome di don Bosco, in «Scuola Italiana Moderna» 66 (1957) 17, 7-8; Debesse G. M. - G. Mialaret, Trattato delle scienze pedagogiche, 1. Introduzione, Roma, Armando, 1971; Malizia G. - E. Alberich (Edd.), A servizio dell’educazione. La FSE dell’UPS, Roma, LAS, 1984; Prellezo J. M., Alle origini della FSE, in «Orientamenti Pedagogici» 48 (2001) 876-906; Galliani L. - E. Felisatti, Maestri all’Università. Modello empirico e qualità della formazione iniziale degli insegnanti, Lecce, Pensa, 2002.

J. M. Prellezo

FAMIGLIA Il termine f. deriva dal latino familia, dove però, come si dice nel Codice giustinianeo (VI, 38, 5), comprendeva, oltre a genitori e figli, «parenti e beni, liberti e patroni non esclusi gli schiavi» (chiamati appunto anche famuli). Qui la f. è pensata quasi solo dal punto di vista pedagogico, in quanto luogo che facilita o ostacola la crescita personale. 1. Contro e a favore della f. nella tradizione occidentale. Potremmo, a mo’ di schema, far risalire a → Platone e ad → Aristotele la principale fonte ispiratrice delle accezioni prevalentemente negative o positive del termine f. Per Platone, che anche in ciò amava rifarsi al modello spartano, la f. non rappresentava un valido ambiente educativo, essendo l’uomo assorbito dalla vita pubblica e la donna più adatta all’allevamento (anatrophè) che all’educazione dei figli (paidèia). Molto più valida dal punto di vista educativo è la paiderastìa, sia pure nella forma sublimata (che da lui prese nome), nella quale la presenza degli atti sessuali (aphrodìsia) è velata se non annullata, dato che nella coppia d’amanti (uno giovane e uno adulto, modello e guida del primo) viene a stabilirsi «una comunione molto più intima e una più salda amicizia di quella che lega i genitori ai figli» (Simposio, 27, 209 c). A tale filone di pensiero «antifamilistico» si può riallacciare per l’epoca moderna → Rousseau, almeno parzialmente, e poi Marx ed Engels e, nel sec. ventesimo, ad es., → Wyneken, per il quale «f. e educazione non hanno niente a che fare l’una con l’altra. La f. è un’istituzione che serve da un lato 444

alla propagazione della specie e, dall’altro [...] all’organizzazione del consumo [...] .Se anche i genitori amano i loro figli, non amano la giovinezza che c’è in loro» (Schule und Jugendkultur, Jena, Diederichs, 1919,13). Di poco posteriori e ben più note furono su questa stessa posizione alcune opere di Reich (La rivoluzione sessuale, Milano, Feltrinelli, 1963) e di Horkheimer, Adorno e Marcuse come gli Studi sull’autorità e la f. (Torino, 1974). Questi Autori furono gli immediati precursori degli antifamilisti degli anni sessanta e settanta del sec. scorso, come gli psichiatri R. Laing e D. Cooper, la psicoanalista M. Mannoni, lo psicosociologo G. Mendel, per i quali la f. era il principale ostacolo alla formazione di individui disinibiti e psichicamente sani, capaci di dar vita ad un nuovo e più giusto ordine sociale. Si può dire che essi tendessero a vedere nella f. il fattore genetico di tutti gli egoismi (dal contadino al borghese) e di tutti gli autoritarismi, dal maschilista e patriarcale fino alle tragiche dittature europee del XX sec. Diverso il discorso di neo­ femministe come B. Friedan, che dopo aver denunciato «la mistica della femminilità» (così il titolo di un libro del 1963), giungeva a dire che la f. rappresenta in realtà una frontiera del femminismo, uno spazio effettivo di controllo del proprio destino. Per Aristotele invece la f. è cellula costitutiva della società, con il padre a rivestire una triplice autorità: di padrone verso gli schiavi, di re verso i figli e di «presidente» (árchon) nei riguardi della moglie. Per lo Stagirita radicale importanza hanno i rapporti tra marito e moglie (carattere sunduastikós, «coniugale» dell’essere umano) e i rapporti tra genitori e figli, nei quali il padre e la madre riconoscono una parte di se stessi (cfr. Politica, I, 2, 1252a e Etica Nicomachea, VIII, 12, 1162). La posizione favorevole si accentuerà con gli Stoici, specie di età romana, attenti particolarmente al rapporto di coppia, fino a postulare con Musonio Rufo, Plutarco, Seneca o Quintiliano una perfetta reciprocità. Si può dire che la posizione favorevole alla f. sia stata ripresa negli ultimi due secoli da Kant, → Pestalozzi, Fröbel e soprattutto da Hegel. Quest’ultimo ha sottolineato la trasformazione, attraverso appunto la f., dell’«egoismo dei desideri» in «qualcosa di etico» e ha aiutato a cogliere l’intimo nesso che lega l’amore di coppia con l’amore per i figli, nel quale il primo si «og-

FAMIGLIA

gettivizza», rendendo inseparabili le immagini dei coniugi (Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, 1971, 160). Innumerevoli sarebbero le citazioni che si potrebbero trarre dall’opera di Tocqueville, in parte anche da Spencer e Durkheim, fino alle rivalutazioni della sociologia americana del II dopoguerra, Burgess e Parsons in particolare e a quelle più recenti del noto etologo Lorenz e del suo allievo Eibl-Eibesfeldt o dei sociologi Brigitte e Peter Berger (1984, 239); e questo vale – almeno in parte – anche per una f. proletaria, come osserva un pedagogista marxista, G. Snyders, poiché almeno la f. «non è così direttamente, come la fabbrica, sotto la presa del padrone [...] è una possibilità per l’operaio di cominciare ad appartenersi, dunque di resistere meglio» (1985,131). 2. La f. nella tradizione religiosa ebraicocristiana. Fin dal I libro della Bibbia (Gn 1,27-28 e 2,18-24), l’unione coniugale è vista sia come remedium concupiscentiae, finalizzato alla procreazione («Siate fecondi e moltiplicatevi...»), sia come remedium solitudinis («Non è bene che l’uomo sia solo... abbandonerà suo padre e sua madre, si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola»). In quella tradizione l’essere maschio e femmina è detto «somiglianza ed immagine di Dio», di un Dio che nella rivelazione di Cristo apparirà sempre come «alleato» dell’uomo, la cui essenza viene definita dall’evangelista Giovanni come «amore». Specie alcuni Padri greci insisteranno sulla omotimìa (pari onore che si deve a marito e moglie) e prima ancora sulla omónoia, sull’intesa profonda fra i due. Diciamo allora che la riflessione cristiana rafforza sì il filone familistico, tanto per il rapporto di coppia quanto per quello genitori/figli (si ricordino le osservazioni sulla reciprocità fra marito e moglie o fra genitori e figli contenute nelle «tavole domestiche» di alcune lettere paoline), ma porta pure nuovi motivi a favore di quello antifamilistico, come apparirà chiaramente anche nella tendenza teologica e letteraria diffusasi, specie a partire dal Medioevo, che contrappone – secondo le indicazioni dell’opera di D. De Rougemont (L’Amore e l’Occidente, Milano, 1977) – éros e agápe, amore-passione per un altissimo, irraggiungibile ideale e amore coniugale, fondato su una concreta e quotidiana comunione di vita.

3. Valori e problemi della f. moderna e contemporanea. Tra i fattori che hanno portato al sorgere della f. moderna e contemporanea è certo da considerare la mutata organizzazione del lavoro, che ha finito per fare della f. un’unità di consumo più che di produzione, ma che ha anche portato ad un progressivo miglioramento delle condizioni igieniche, alimentari e sanitarie della popolazione e ad una sempre più generalizzata diminuzione della mortalità infantile. Si devono anche considerare fattori culturali, come la creazione della «nuova poesia d’amore», segnalata già a partire dal XII sec. nell’opera cit. del De Rougemont, o, ancor più, la rivoluzione culturale e spirituale, iniziata con la Riforma (cattolica e protestante), che stimolò, fra l’altro, a portare l’ascesi e la vita metodica fuori dai chiostri nella vita familiare e professionale, viste come occasione privilegiata di effusione della grazia divina. Il mutamento avvenuto nelle strutture, ma, più ancora, nelle relazioni familiari ha modificato le modalità di rapporto non solo fra i coniugi, ma anche fra genitori e figli, con un’interazione continua fra questi due tipi di rapporti, per cui le prime forme di controllo della fecondità portavano a modificazioni nell’atteggiamento verso i figli, ma presupponevano anche un cambiamento nei rapporti fra i coniugi e al tempo stesso rafforzavano questo cambiamento. Di qui il modificarsi dei livelli di tempo, energie, risorse da dedicare ai figli, il crescere del senso di responsabilità dei genitori e delle aspettative nei riguardi dei figli, la disponibilità anche a manifestare loro tenerezza ed affetto. I figli, almeno tendenzialmente, non sono più trattati come «cose» (pueri quasi res parentum diceva l’antico diritto romano-barbarico), ma come soggetti, seguiti nei loro processi formativi dagli stessi genitori, senza troppi pregiudizi per il sesso o l’ordine di nascita. Non vengono, in genere, negati principi di riferimento etico, ma si tende a relegarli in uno sfondo sempre meno rilevante per la vita quotidiana. Così in Italia ci si sposa per circa il 70% ancora in chiesa, non ci si limita in genere a fare «convivenze», ci si separa e si divorzia in misura relativamente limitata (ma decisamente di più fra le coppie «giovani»), si tende ad avere figli «legittimi», ecc. È però altrettanto noto che in Italia si ha uno dei tassi di natalità più bassi del mondo e che è considerevole il tas445

FAMIGLIA

so di abortività volontaria, analogo a quello dei cosiddetti Paesi più sviluppati (un terzo e più rispetto ai nati vivi negli ultimi anni). Si parla anche per l’Italia di puerocentrismo (valore enfatizzato dell’infanzia, desiderio intenso di un figlio, almeno adottato, ecc.), ma si tratta troppo spesso di un puerocentrismo «narcisistico», di proiezione dei propri desideri e aspettative, con investimenti affettivi di tipo compensatorio o captativo piuttosto che oblativo. È insomma un puerocentrismo diverso non solo da quello evangelico, per il quale il fanciullo rappresenta il modello della sequela cristiana (il Regno di Dio appartiene ai fanciulli e a quelli che sono come loro, «a mani vuote», in attesa di ricevere attenzione e aiuto, senzadar nulla in cambio), ma anche da quello della migliore tradizione pedagogica, almeno da → Comenio in poi, teso alla promozione della personalità del figlio/allievo. Più realisticamente bisogna parlare di f. adult-center e childfree, dove, per dirla con → Erikson (I cicli della vita, Roma, Armando, 1984, 52), «l’eccessiva preoccupazione per il proprio sé» è anche da attribuire alla «patogena soppressione del bisogno procreativo», al sottrarsi ad una connotazione fondamentale dell’adulto in quanto tale, la «generatività» e la «cura» o la loro sublimazione in atteggiamenti e comportamenti di produttività e creatività al servizio delle nuove generazioni. Sempre meno ci si preoccupa di instaurare nei primi anni di vita la «fiducia di base» di cui parla Erikson, come «esperienza dell’accordo tra le proprie esigenze e la previdenza materna» e sempre meno anche si mostra attenzione alle «differenze di stadio» dei propri figli, in contrasto con una funzione fondamentale d’ogni educatore, quella di custodire lo specifico di ogni età, impedendo che una fase si degradi fino ad essere solo funzionale a quella successiva. Si è passati «dall’era della protezione all’era dell’iniziazione», come ha mostrato M. Winn (Bambini senza infanzia, Roma, Armando, 1992, 17-95), mentre N. Postman (La scomparsa dell’infanzia, Roma, Armando, 1984, 115) ha sottolineato come la generalità dei bambini tenda oggi ad affidarsi non tanto all’autorità di genitori e maestri quanto a quella – divenuta di fatto sempre più incontrollabile – dei → mass-media, cioè sempre di adulti, ma che ben poco si fanno carico di preoccupazioni educative. Pur 446

con le notevoli differenze rispetto agli altri «Paesi sviluppati» che ancora caratterizzano l’Italia, si può dire che anche la f. italiana attuale si avvii sempre più verso modelli di organizzazione lesivi di elementari diritti dei minori, quello anzitutto di avere una propria f., con un padre e una madre, non più f. o le cosiddette f. miste, formate da tronconi di precedenti f. fallite (patchwork families). Al modello della f. «moderna» come «cittadella del privato», carica di tensioni, ma «obbligatoriamente unita» (un guscio «vuoto», che pure non si rompe) sta affiancandosi anche in Italia la f. «postmoderna», dalla struttura instabile e imprevedibile nel tempo, fondata più sui diritti individuali degli sposi che sulle loro responsabilità di fronte alla compagine familiare, mentre la relazione amorosa, non più congelata nell’istituto matrimoniale, tende a sciogliersi nell’«amore liquido», di cui parla Z. Bauman. Tale nuova f. richiede di fatto ai figli uno sforzo di adattamento e di comprensione in genere superiore alle loro caratteristiche di sviluppo e alle loro capacità emotive. 4. F. spazio educativo? Affinché la f., oltre ad essere «centro di redditi e di consumi» o «punto di riferimento affettivo», riesca ad essere anche «spazio educativo», con capacità di orientamento etico per i figli e per gli stessi coniugi, occorre anzitutto che gli adulti accettino le loro responsabilità e non giochino ad essere perennemente giovani e che si rafforzi la tendenza ad una consistente comunicazione intrafamiliare, non ridotta a «negoziazioni strumentali» sul tempo trascorso fuori casa o su problemi economici o di lavoro, come alcune ricerche hanno evidenziato. «Non litigano più – osserva P. Donati (1997, 297) – perché parlano di cose banali […]. I genitori educano senza assumere, né chiedere ai figli che si assumano precise responsabilità etiche […]. Il conflitto diventa perciò latente e si sposta su un altro terreno, quello di convinzioni intime, che non sono oggetto di comunicazione». Difficoltà ulteriori derivano dalla restrizione della natalità che porta a ridurre sempre più la «società fraterna», capace di integrare, in misura talora determinante – sia pure non senza contraccolpi di aggressività negativa – l’azione educativa dei genitori, facendo sperimentare, nella quotidiana vita familiare, la

FAMIGLIA

radicale uguaglianza di ciascuno riguardo a bisogni, diritti e doveri. Meglio si superano così i diffusi atteggiamenti di permissivismo diseducativo o di immotivata alternanza di posizioni contrastanti, favorendo la progressiva acquisizione di un’autonoma coscienza morale, fondata sulla convinzione della necessità di principi e regole per la convivenza e sul rispetto reciproco, e superando il rischio del protezionismo d’un figlio sempre preceduto dai genitori nei suoi desideri e nella sua ricerca, raramente indotto a provare il senso dell’insicurezza e del confronto (Galli, 1988, 73-83). A differenza, però, di quanto avevano sostenuto i teorici della «morte della f.» degli anni ’60 e ’70, la f. rimane, almeno per i giovani, al vertice di ciò che conta nella vita, un luogo privilegiato di comunicazione interpersonale, come ripetono i Cinque Rapporti Iard sulla condizione giovanile in Italia, dal 1984 al 2003. Rispetto agli anni della contestazione che colpì anche la f., i sociologi parlano di «f. pacificata», mentre sottolineano «l’erosione dell’autorità nella scuola», indicando differenze notevoli tra la prima e la seconda. «I rapporti genitori-figli – osserva L. Sciolla (2006, 21) – mostrano di mantenere una solida legittimazione e autorevolezza, rafforzata dal clima prevalente di dialogo e di reciprocità, tra genitori e figli […] e da un elevato grado di identificazione dei figli, nei modelli culturali trasmessi», mentre nella scuola prevalgono «modelli improntati ad una sorta di indifferenza reciproca». In questo stesso apprezzamento, però, c’è il rischio di una «fiducia eccessiva», che può contribuire a fare restare troppo a lungo i giovani nella f. d’origine, a scoraggiare in loro l’idea di f. come progetto di vita, ad accrescere la paura ad assumersi la responsabilità di farsi una f. propria, continuando a considerare quella di origine come un rifugio. È la realtà, specificamente italiana, della «f. lunga», per l’adolescenza prolungata dei nostri ragazzi, la maggiore scolarizzazione, una mancata politica di opportunità abitative e lavorative per i giovani, la diffusa tolleranza dei genitori «disposti – per dirla con il V Rapporto CISF (Donati, 1997, 256-257) – a concedere tutto il concedibile: dalle chiavi di casa alla relazione sessuale prematrimoniale», garantendo nello stesso tempo vari e consistenti vantaggi pratici, con la loro «presenza e disponibilità quotidiana», con «alti

margini di libertà e bassi livelli di partecipazione», anche alle faccende di casa. La f. non si limita a rispecchiare i conflitti sociali ed è piuttosto – come ha scritto Snyders (1985, 140) – «un luogo di tenerezza agitata», con tensioni, dispute, lamentele, ma «controbilanciate dall’affetto» e con possibilità reali di arrivare a positive soluzioni. Non si tratta tanto di puntare nuovamente sul vecchio modello borghese della f. come trampolino di lancio del successo dei figli (una «pedagogia familiare» più che altro preoccupata di cosa «fare» dei figli o di cosa «far fare» loro), ma piuttosto su una nuova qualità della vita e della relazione interpersonale anche nell’ambito familiare. Primo presupposto per fare della f. uno spazio educativo è infatti proprio la capacità di dar vita a rapporti effettivi di dialogo, di reciprocità piena, dove si vuole davvero il bene dell’altro, «si risponde sempre all’altro» (o almeno ci si giustifica se non si risponde) e si sa che «non si userà contro l’altro ciò che è stato comunicato» (Donati, 1989, 44 e 134). Di fatto nella f. più che in altre forme di convivenza possono «dialetticamente» armonizzarsi libertà e responsabilità, autonomia e solidarietà, cura dei singoli e ricerca del bene comune, forza progettuale e disponibilità all’imprevisto, sollecitudine e discrezione, sana aggressività e capacità di perdono, disponibilità alla comunicazione, ma anche all’ascolto e al silenzio rispettoso, alla paziente attesa o all’impazienza non rinunciataria di chi non si arrende di fronte alle difficoltà. Sono tutti questi, fra l’altro, valori preziosissimi per preparare alla più ampia vita sociale e politica, nelle sue due dimensioni fondamentali di trasformazione dei rapporti di forza in rapporti regolati dal «diritto» e di condivisione dei problemi e delle responsabilità di una stessa convivenza umana, in nome della solidarietà. Proprio in un’esperienza concreta d’amore occorrerà trovare la forza di non rimanere legati ad essa, di comprendere nella propria attiva tenerezza gli altri uomini, specie i più piccoli e indifesi, la capacità anche di accedere al «nuovo ethos generativo» di cui ha parlato Erikson nel libro cit. (1984, 52 e 65), che porti ad «una più universale cura, centrata sul miglioramento delle condizioni di vita di tutti i bambini». Bibl.: Butturini E., Disagio giovanile e impegno educativo, Brescia, La Scuola, 1984 e 1986;

447

FANCIULLO

Barbagli M., Sotto lo stesso tetto, Bologna, Il Mulino, 1984 e 2000; Berger B. - P. L. Berger, In difesa della f. borghese, Ibid., 1984; Buzzi C. A. Cavalli - A. De Lillo et al. (Edd.), Primo, secondo, terzo, quarto e quinto rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Ibid., 1984-2003; Snyders G., Non è facile amare i propri figli, Firenze, La Nuova Italia, 1985; Galli N. (Ed.), Vogliamo educare i nostri figli, Milano, Vita e Pensiero, 1985 e 1988; Scabini E. - P. Donati (Edd.), La f. «lunga» del giovane adulto, Ibid., 1988; Donati P. (Ed.), Primo, Secondo, Terzo, Quarto, Quinto, Sesto, Settimo, Ottavo e Nono Rapporto Cisf sulla f. in Italia, Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1989-2005; Pati L., La politica familiare nella prospettiva dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1995; Donati P. - I. Colozzi (Edd.), Giovani e generazioni, Bologna, Il Mulino, 1997; Cavallera H. A., Storia dell’idea di f. in Italia, 2 voll., Brescia, La Scuola, 2003-2006; Bauman Z., Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Roma/Bari, Laterza, 2004; Garelli F. - A. Palmonari - L. Sciolla, La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione dei valori tra i giovani, Bologna, Il Mulino, 2006; Butturini E., La f.: un vincolo che viene da lontano, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 1, 29-49.

sociologia) per la conoscenza della fanciullezza e in particolare delle sue potenzialità educative ed ha favorito lo sviluppo di questi settori di ricerca.

Fanciullo

FANTASIA

Con questo termine, spesso considerato come sinonimo di «bambino» ed oggi poco usato perché ritenuto legato ad una concezione romantica della fanciullezza, si indica l’essere umano che vive la fase di crescita compresa tra l’infanzia e l’inizio dell’adolescenza.

La f. è l’attività mentale per mezzo della quale il soggetto conserva, riproduce e crea immagini che possono o meno corrispondere alla realtà. Essa emerge alla coscienza psicologica spesso spontaneamente ed i suoi contenuti si riferiscono ai ricordi, agli stati emotivi del passato come anche alle speranze del futuro. La f., pur lavorando sui contenuti reali, si distingue radicalmente dalla realtà. Essa «produce» il non esistente e spesso distorce la realtà stessa; la sua funzione nella vita umana è molteplice.

E. Butturini

1. Nella storia della pedagogia la «scoperta del f.» ha coinciso con la cultura attivistica con la quale le intuizioni di → Comenio e di → Rousseau hanno incominciato a tradursi nella pratica educativa e particolarmente in quella scolastica. In seguito alla cosiddetta «rivoluzione copernicana» infatti alla centralità dell’educatore e/o del maestro si sostituisce la centralità del f., considerato il protagonista della sua educazione. 2. La «scoperta del f.» è collegata all’interesse delle scienze umane (pedagogia, psicologia, psicanalisi, antropologia culturale, 448

3. La psicologia dello sviluppo nel corso del Novecento ha studiato le modificazioni fisiche, emotive, cognitive e comportamentali ed ha esplorato in estensione e in profondità le funzioni che interagiscono nella personalità del f. (motricità, percezione, pensiero, linguaggio, affettività). Questi studi hanno rilevato che nella fanciullezza, grazie anche all’educazione formale realizzata nella scuola, possono avvenire significativi consolidamenti sul piano cognitivo ed intellettuale e su quello morale per quanto riguarda il senso della giustizia, della solidarietà e della responsabilità. Bibl.: Piaget J., La rappresentazione del mondo del f., trad.it., Torino, Boringhieri, 1973; Tagliaferri F. et al., F. e società, Vicenza, Del Rezzara, 1980; Gutiérrez J. G., «L’interesse superiore del f.» in prospettiva pedagogica. Riflessioni e proposte, in «Prospettiva EP» 29 (2006) 1, 77-104.

S. S. Macchietti

1. Prima di tutto la f. rappresenta una fase preparatoria allo sviluppo cognitivo del → bambino. Nella fase psicomotoria egli esplora l’ambiente, progressivamente si rende conto della sua individualità e incomincia a percepire la realtà. Essa assume un importante ruolo nei suoi giochi ed è anche un notevole fattore del suo sviluppo affettivo. Ai soggetti

FASCISMO

di tutte le età, la f. offre un’alternativa alla realtà e in tal modo contribuisce al ripristino delle forze e al mantenimento dell’equilibrio psichico. L’evasione nel mondo della f. può aiutare a sopravvivere in situazioni disperate come dimostrano le esperienze di alcuni soggetti nei campi di sterminio oppure nei bagni penali; la f. alimenta anche la fiducia in un possibile cambiamento. 2. Il rifugiarsi nella f. può consentire al soggetto di soddisfare dei desideri negati dalla realtà ed anche la possibilità di compensare l’insuccesso con il successo in un altro settore. Il soggetto, inoltre, può servirsi della f. per mettere in moto alcuni → meccanismi di difesa, come la proiezione e la razionalizzazione, che sono delle valvole di sicurezza della vita psichica. In alcuni casi il soggetto può essere assorbito dalla f. in modo tale da non rispondere alle domande dell’ambiente; la f., in questi casi, sostituisce la realtà e diventa patologica, sfociando in allucinazioni oppure in paranoia. Quando è di minore intensità, il soggetto può realizzare in essa le sue tendenze narcisistiche di grandezza inesistente. 3. La f., durante le varie fasi della vita umana, può assumere dei contenuti morbosi, come la paura della → morte nell’infanzia, nell’adolescenza e nella vecchiaia. La morte, come via d’uscita da una situazione disperata, viene presa in considerazione talvolta da alcune coppie di fidanzati (Romeo e Giulietta). La f. ha un ruolo importante nelle → tecniche proiettive in quanto può rivelare i desideri repressi del soggetto. Inoltre si presta ad interventi terapeutici di vario tipo tanto con soggetti in tenera età (terapia del gioco) come con adulti (terapia sessuale). 4. La f. svolge un ruolo primario nella produzione creativa sia artistica che scientifica, perché per mezzo di essa vengono prodotte opere originali. La f. in questo caso assume la denominazione di fluidità ideativa e rappresenta il culmine della maturità intellettiva del soggetto creativo (Poláček, 1994). La f. è sviluppata nell’età prescolare e poi nell’istruzione primaria dal personale delle due istituzioni per mezzo dei giochi, del disegno, delle forme e dei colori e per mezzo di brevi racconti, della drammatizzazione

delle fiabe e delle canzoncine. Sono disponibili anche attraenti pubblicazioni che suggeriscono ai genitori di non mortificare la f. dei figli (Buzyn, 2007). Ma la f. deve essere stimolata e guidata anche nelle fasi successive della vita dei preadolescenti e degli adolescenti nel suo duplice compito educativo in modo che il soggetto possa servirsene per raggiungere il suo equilibrio psichico e per potenziare la sua → creatività e nello stesso tempo controllarla perché non sfoci in forme di disadattamento (→ narcisismo e senso dell’onnipotenza). Bibl.: Singer J. L. - K. S. Pope (Edd.), The power of human imagination: new methods in psychotherapy, New York, Plenum Press, 1978; Shorr J. E. et al. (Edd.), Imagery: current perspectives, Ibid., 1989; Roskos-Ewoldsen B. - M. J. IntonsP eterson - R. E. A nderson (Edd.), Imagery, creativity, and discovery: a cognitive perspective, Amsterdam, North-Holland, 1993; Poláček K., In che cosa consiste la maturità intellettuale?, in «Orientamenti Pedagogici» 41 (1994) 207-218; Buzyn E., Mamma, papà, lasciatemi il tempo di sognare. Gioco, f. e creatività nello sviluppo del bambino, Milano, De Vecchi, 2007.

K. Poláček

FASCISMO Movimento politico italiano (ma esportato anche altrove) fondato da B. Mussolini nel 1919, divenuto partito nel 1921, e con la «Marcia su Roma» del 28 ottobre 1922 giunto al governo e poi divenuto regime a carattere autoritario, antiliberale, antidemocratico e antisocialista e a ispirazione nazionalista durato sino al 25 luglio 1943. Un tentativo di rilanciarlo con l’appoggio dell’esercito tedesco, in chiave repubblicana e vagamente socializzante, ebbe luogo con la Repubblica di Salò (13 settembre 1943 - 25 aprile 1945), ma con ben scarso prestigio e seguito, e fu stroncato dalla vittoria degli eserciti alleati, appoggiati dalla Resistenza. 1. Il f. al potere puntò con forza a condizionare l’educazione, dalla Riforma → Gentile del 1923 alla Carta della Scuola di Bottai del 1939, con la sua ispirazione classista, autoritaria, statalista, tendenzialmente totalitaria, 449

FEMMINISMO

mirando a «fascistizzare» la scuola sempre più, sia nell’amministrazione che nello spirito, affiancandola con proprie specifiche organizzazioni giovanili ginnico-sportive e paramilitari (l’Opera Nazionale Balilla dal 1926, poi Gioventù Italiana del Littorio dal 1937). In particolare la riforma della scuola promossa dal filosofo Gentile come ministro della pubblica istruzione nel 1923, e giudicata allora da Mussolini la più fascista delle riforme, si avvalse anche di concetti maturati nei precedenti decenni liberali, ma diede all’istruzione un ordinamento e un governo gerarchici e coattivi e approfondì lo stacco tra l’istruzione dei ceti subalterni e quella dei ceti dirigenti e privilegiati. Ciò tra l’altro abolendo la scuola tecnica e la sezione fisicomatematica dell’istituto tecnico, che aveva prima consentito con l’accesso all’università una possibilità di ascesa sociale. Margini di spirito liberale, → Lombardo Radice, pedagogista, allora direttore generale dell’istruzione elementare, riservò alla scuola elementare, introducendovi la considerazione del dialetto e delle tradizioni popolari, valorizzando espressione e spontaneità. Ma tutto ciò fu presto logorato e stravolto. Simbolica in tal senso l’introduzione nelle elementari con legge del 1929 del libro di testo unico di Stato, strumento di condizionamento e di propaganda. Il Ministero della Pubblica Istruzione divenne nel 1929 dell’Educazione Nazionale e nel 1931 anche i professori universitari dovettero giurare fedeltà al regime fascista. Il culmine della «fascistizzazione» di tipo rozzo e impositivo si ebbe nel 1935-36 col ministro C. M. De Vecchi, «quadrumviro» della rivoluzione fascista. 2. Il condizionamento più abile e organico dell’istruzione sul piano politico del f., «dell’Impero e delle Corporazioni», si ebbe con la Carta della Scuola del ministro G. Bottai, che aveva saputo unire all’imposizione la seduzione della gioventù e della cultura. Con coperture demagogiche (come l’«umanesimo del lavoro»), fu però qui confermata la vecchia separazione rigida tra popolo e borghesia, tra attività manuali e attività intellettuali, prospettando una marcata saldatura eterodiretta, al servizio dello Stato e non dell’individuo, tra «servizio scolastico» e successivo «servizio del lavoro». La II guerra mondiale impedì di attuare le indicazioni della Carta. 450

Una delle poche realizzazioni riguardò nel 1940 la scuola media unica, triennale con lat., che apriva agli studi successivi. Ma unica in realtà non era perché aveva accanto la scuola d’avviamento professionale senza sbocchi. E vastissima era la schiera dei bambini che non andavano a scuola oltre le elementari, o non completavano i corsi di queste, se pure erano mai andati a scuola (gli analfabeti in Italia nel 1931 erano stati ancora il 21% della popolazione, e il 24% di quella femminile). Bibl.: Borghi L., Educazione e autorità nell’Italia moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1951; Tomasi T., La scuola italiana dalla dittatura alla repubblica, Roma, Editori Riuniti, 1971; Tranfaglia N., «F. il regime», in F. Levi - U. Levra - N. Tranfaglia (Edd.), Storia d’Italia - 1, Firenze, La Nuova Italia, 1978, 405-417; Bellucci M. - M. Ciliberto, La scuola e la pedagogia del f., Torino, Loescher, 1978; M azzatosta T. M., Il regime fascista tra educazione e propaganda, Bologna, Cappelli, 1978; Ostenc M., La scuola italiana durante il f., Bari, Laterza, 1981; Gaudio A., Scuola, Chiesa e f., Brescia, La Scuola, 1995; Charnitzky J., F. e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), Firenze, La Nuova Italia, 1997.

G. Cives

FAVOLA → Fiaba FEDE → Educazione religiosa → Religione → Virtù FEEDBACK → Comprensione → Comunicazione FEIJOO Jerónimo → Illuminismo FELICITÀ → Benessere

FEMMINISMO Il termine f., composto dal latino femĭna/femininus e dal suffisso ismo entra nella lingua it. nel 1896; il francese féminisme era entrato già nel 1837, mentre femmina comparve nel 1250. Femĭna deriva dal part. medio di un antico fēre (allattare, essere fecondo), da cui anche fetus (allattare, generare, creare, il cui compimento è il parto). La radice DHĒ (I) è largamente attestata; e, come verbo, appare nelle aree indiana, slava, germanica. Con l’ampl. in «l» si ha felice, figlio; in «n» si ha fieno (legato al nutrimento) e fenera-

FEMMINISMO

tizio (prestito nel senso del produrre frutti; di qui usura). F. entra, quindi, in una grande famiglia, imparentato con femĭna, felix, fetus: costruito da una radice che designa il generare, creare, nutrire, far vivere, produrre frutti, quindi essere e rendere felice. È curioso che il Dizionario di antropologia, etnologia, antropologia culturale, antropologia sociale curato da U. Fabietti e F. Remotti, edito da Zanichelli, non abbia le voci femmina, femminile, donna: rimanda a maschile e uomo. Oggi a f. si associa il termine genere da gĕnus/gignĕre. 1. Il termine f. oggi è divenuto un grande contenitore ove si raccolgono elementi eterogenei relativi alla questione femminile: rivendicazioni pacifiche o violente; programmi socio-culturali e azioni positive a favore della parità tra i sessi; iniziative politiche e attività legislative dirette a tutelare e promuovere tale parità; studi in vari ambiti disciplinari riguardanti problemi, aspirazioni, istanze ed idealità femminili, molti dei quali acquistano cittadinanza anche nelle università; movimenti regionali e internazionali, centri di studio e di documentazione «donna», associazioni ed istituzioni governative e non, iniziative teori­che e pratiche finalizzate a promuovere nelle donne una nuova consapevolezza della loro identità sessuale. F. ha assunto co­sì molteplici, talvolta alternativi, significa­t i divenendo evocativo e allusivo, a volte generico ed ambiguo. I risultati rag­ giunti nel rimuovere gli ostacoli e crea­re le condizioni per la parità tra i sessi han­no contribuito a dargli un’accezione positiva, mentre all’inizio aveva un significato negativo e polemico. Soprattutto dagli anni 014660 designa un complesso, variegato e vasto movimento socio-culturale, teorico e pratico, che opera nell’ambito dei diritti economici, giuridici, sociali, politici, civili, religiosi, ponendo al centro la questione femminile, intesa come riflessione e azione dirette a favorire la vera parità tra i sessi, quindi la piena realizzazione della donna, con particolare attenzione alla sua identità. Esprime, così, uno degli aspetti più rivoluzionari della svolta culturale avvenu­ta negli ultimi due secoli. Nel terzo millennio ha vecchi e nuovi compiti: orientare più decisamente verso l’eliminazione di ogni forma di discriminazione per un’antropologia uniduale, richiamando

l’attenzione sulla condizione della donna che non ha ancora acquisito in tutti i contesti socio-culturali e religiosi una vera e piena cittadinanza e, ove l’ha raggiunta, rischia di perderla, come attestano la tratta degli esseri umani e l’aumento delle violenze anche tra le mura domestiche. Il f., così, continua la sua funzione di denuncia contro le varie e subdole forme di sfruttamento ed oppressione; incoraggia a rimuovere gli osta­coli che impediscono la vera parità tra i ses­si e promuove itinerari di crescita nell’identità femmini­le. È un compito complesso che esige un’illuminata e coerente opera di formazione e autoformazione, una vigilanza sulle dinamiche socio-culturali, socio-economiche e socioeducative, sulle istituzioni varie, sui meccanismi di rappresentazione, sulle comunicazioni di massa per evitare il permanere o il ritorno di stereotipi, discriminazioni, rivalità. È latente un’operazione in cui l’appello all’uguaglianza va verso il monosessismo e quello alla differenza legittima forme più sofisticate di discriminazione e violenze. Il f. interpella, quindi, l’educazione perché con iniziative concrete favorisca genuini itinerari di identificazione nei singoli e nelle comunità, specie nelle nuove generazioni, promuovendo una più profonda e motivata consapevolezza delle ragioni per cui l’essere umano esiste da sempre come maschio e femmina. È importante, soprattutto dopo Pechino (IV Conf. mondiale sulla donna), per il prevalere del termine genere che, in contesti socioculturali dalle «identità fluide», rischia di innescare dinamiche omosessuali e proporre modelli antropologici narcisistici. La mens decostruzionista, soprattutto nel post-strutturalismo, oltre a inflazionare anni di ricerche scientifiche sulla differenza sessuale e conquiste del f. quale movimento di soggetto storico collettivo, rischia di condurre, sotto il segno della libertà confusa con l’arbitrio, al qualunquismo antropologico che rimuove la struttura relazionale, quindi solidale e comunionale della persona. 2. Storia. Ricostruire la storia del f. è un’impresa ardua: abbraccia la storia dell’umanità, in quanto la rivalità tra i sessi, come lascia intendere il racconto biblico delle origini (cf Gn 3,16), risale ad epoche remote. L’antifemminismo/maschilismo – mens discriminatoria non solo di alcuni uomini, ma anche 451

FEMMINISMO

di certe donne –, secondo diversi studiosi (donne e uomini), può nascondere nell’uomo il rifiuto o la rimozione della sua natia dipendenza dalla donna (madre) e, in genere, la coscienza di essere generati. Vivaci ricerche di archeologia, di etnologia e di antropo­logia culturale vorrebbero scoprirne le origini e dimostrare l’esistenza di civiltà, anteriori a quelle patriarcali, fondate su valori simbolici femminili. Non è qui il caso di entrare in queste complesse problematiche. Offro solo qualche nota sul f. moderno, base di quello contemporaneo. 3. Motivi ispiratori, cause, fasi, tipologie. Alcuni segnalano cinque correnti di pensiero: a) quella legata al movimento liberaldemocratico, che opera per aprire al­le donne l’accesso al mondo dei diritti; b) quella che s’ispira alle idee socialiste che ten­de a correggere la tesi della diversità natu­rale tra donna e uomo, ritenendo le differenze di ruoli e la supremazia dell’uomo come prodotti di processi storici da rovesciare con la lotta di classe; c) quella che si rifà all’esistenzialismo, in particolare a Simone de Beauvoir, che sottoli­ nea l’individualità e la libertà del soggetto, e vede nella cultura la causa della diversità/ subordinazione della donna; d) quella che coltiva le prospettive psicoanalitiche e mette in crisi la concezione di Freud, vedendo nella differenza sessuale uno strumento di autonomia e di specificità femmi­nili; e) quella che accoglie alcune tesi dello strutturalismo e post-strutturalismo che ricerca le radici del predominio ma­schile nelle socio-culture, per cui vuole liberare con la decostruzione dall’identità sessuale «ereditata», per costruirne altre secondo le opzioni delle libertà individuali. Queste correnti s’intrecciano, talvolta si arricchiscono reciprocamente. Sono vie che spingono a ripensare l’antropologia con ricerche multidisciplinari e multiculturali. Possono però diventare strumenti ideologici di pressione anche politica pure in istituzioni internazionali, quando la prepotenza di lobby prevale sulla ricerca della verità. Cancellano, così, l’obiettivo fondamentale del f.: oltrepassare le gabbie degli stereotipi per un umanesimo veramente integrale. Di fatto certe correnti decostruzioniste utilizzano la categoria «genere» per imporre una via ideologica monosessista che rimuove l’alterità paradigmatica tra uomo e donna. È 452

una scorciatoia nel difficile cammino d’identità all’interno della «fluidità» sociale. Ma l’identità non è arbitrio. È dono e compito/ responsabilità ove, superando le alternative tra natura, cultura, libertà, si raccordano patrimonio genetico, patrimonio culturale/ contesto, autonomia/responsabilità del soggetto nella comunità umana. In questo itinerario può svolgere un ruolo fondamentale il personalismo, soprattutto cristiano, che negli studi sul f. è quasi del tutto dimenticato. Grande, invece, è l’apporto offerto di fatto dal cristianesimo. In questo senso vi è una rilettura critica della storia che sottolinea la forza liberatrice del Vangelo. Tra le cause del f. moderno si indicano tre grandi rivoluzioni: fran­cese, industriale e del senti­mento. Si individuano varie fasi che, con caratteristiche diverse, attraver­sano molte socioculture secondo una traiettoria ideale: dalla rivendicazione dell’uguaglianza all’afferma­ zione della diversità/complementarità; dal riconoscimento della diversità alla ricerca e attuazione della reciprocità valorizzando in modo propositivo anche il conflitto tra i sessi. Quest’ultima fase è la più esigente e impegnativa. Infatti, il riconoscimento costruttivo dell’uguaglianza/diversità tra i sessi è alla base della capacità di accoglienza dell’altro come diverso da sé. Nel f. convergono pure tre tipologie di percorsi: quello detto laico o a-confessionale, quello che matura nell’alveo del cristianesimo, quello operante nella vita consacrata femminile. Pur avendo caratteristiche e vie diverse, si arricchiscono reciprocamente e convergono in molti aspetti, quali la trasversalità, ecumenicità, universalità. Soprattutto a partire dagli anni ’80 sono state realizzate iniziative e ricerche condivise ove l’antropologia biblico-cristiana con la triplice dimensione relazionale della persona (teologale, umanistica e cosmica) è stata accolta come un luogo di risorse simboliche valido al di là delle appartenenze. Dopo Pechino, soprattutto con il decostruzionismo, è emersa una via rivendicativa individualistica che incide sulla possibilità di azioni comuni a favore delle donne. Le difficoltà, che stanno emergendo in sede ONU e nella Comunità Europea, ne sono un segno. La speranza è nella elaborazione di un nuovo umanesimo che consideri la persona nella sua integralità, quindi anche nella sua diversità sessuale, e si faccia carico dei diritti umani universali,

FÉNELON FRANÇOIS DE SALIGNAC DE LA MOTHE

base dei «diritti civili», difendendo le donne e tutti coloro che sono senza voce, umiliati nella loro dignità e identità. 4. Una via. Il f. è a una svolta. Si parla di postf.: se vuole lavorare per il bene dell’umanità e non per interessi di parte, cioè dei potenti, deve accogliere la sfida del personalismo e promuovere l’antropologia uniduale, del maschile e del femminile. Giovanni Paolo II ha avviato questo percorso e soprattutto nella Mulieris Dignitatem e nella Lettera alle donne ha offerto una profonda riflessione che anche nella Chiesa non è stata ancora del tutto valorizzata. Il Papa interpella le donne, soprattutto credenti, ad elaborare un nuovo f. (Evangelium vitae 99), attingendo a quel «genio femminile» verso il quale l’umanità intera è tanto debitrice. Prendere sul serio questa «genialità» può attuare una nuova coniugazione di fecondità e felicità. Bibl.: Cavaglià P. - H. C. A Chang - M. Farina - E. Rosanna (Edd.), Donna e umanizzazione della cultura alle soglie del terzo millennio. La via dell’educazione, Roma, LAS, 1998; Schoo yans M., Nuovo disordine mondiale. La grande trappola per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2000; Roccella E., Dopo il f., Roma, Ideazione Editrice, 2001; M ancina C., Oltre il f.: le donne nella società pluralista, Bologna, Il Mulino, 2002; Roccella E. - L. Scaraffia, Contro il cristianesimo. L’ONU e l’Unione Europea come nuova ideologia, Casale Monferrato, Piemme, 2005.

M. Farina

FÉNELON François de Salignac de la Mothe n. nel Castello di Fénelon nel 1651 - m. a Cambrai nel 1715, scrittore francese, pedagogista e membro dell’Académie française, vescovo di Cambrai. 1. F. appartiene a una famiglia nobile, ma povera. Riceve un’ottima educazione umanistica, che completa con gli studi universitari di teologia. Nel 1675 è sacerdote. Il vescovo di Parigi gli affida, nel 1678, l’Istituto delle Nouvelles catholiques: un’istituzione che

ha lo scopo di rinsaldare nella fede cattolica donne e ragazze provenienti dal protestantesimo e di aiutare quelle desiderose di convertirsi al cattolicesimo. Restano famose le due «missioni» che, per volontà di Luigi XIV, svolge tra i protestanti: numerose sono le conversioni dovute alla sua bontà, nobiltà di tratto, comprensione delle anime, discrezione. Dal 1689 è alla corte del Re Sole come precettore del duca di Borgogna, nipote del re; è anche direttore spirituale di molti nobili. Con la sua bontà, unita a saggia fermezza, costanza e a un metodo adatto, riesce a trasformare il duca di Borgogna da ragazzo viziato e ribelle in un giovane principe affabile, moderato, amante dello studio, consapevole delle proprie responsabilità. Per lui scrive le Avventure di Telemaco, Dialoghi con i morti e Favole che lo educano alla giustizia, alla verità, al rispetto di ogni persona, alla tolleranza. 2. F. è ormai un’autorità alla corte di Francia quando, improvvisa, scoppia la tempesta: la controversia con Bossuet sulla dottrina del quietismo (dottrina mistica che si propone l’unione con Dio attraverso l’annullamento della volontà umana); la pubblicazione (1699) – a sua insaputa – delle Avventure di Telemaco, in cui è esplicito il rifiuto dell’assolutismo, della guerra, dello sfarzo e della corruzione di corte; la condanna romana dell’opera Spiegazione delle massime dei santi sulla vita interiore. Luigi XIV, punto sul vivo dalle pagine di Telemaco, ordina a F. di non presentarsi più a corte, e di rimanere a Cambrai, di cui è vescovo dal 1695, e di evitare ogni rapporto personale ed epistolare con il duca di Borgogna e con i nobili di corte. A Cambrai F. esplica la sua attività pastorale a favore della popolazione colpita dalla carestia e dalla guerra di successione spagnola. Trova anche il tempo per completare il Trattato dell’esistenza di Dio iniziato negli anni giovanili, per rispondere a molte lettere, per inviare all’Accademia di Francia – di cui è membro dal 1693 – la famosa Lettera all’Accademia (1714), vera opera di critica letteraria. 3. In campo pedagogico, oltre alle opere per il duca di Borgogna, è ricordato soprattutto per L’educazione delle fanciulle (1687) dove, oltre a tematizzare il problema dell’educazio453

FENOMENOLOGIA E EDUCAZIONE

ne della donna, offre preziosi suggerimenti sull’educazione in genere: iniziare l’educazione fin dalla prima infanzia; conoscere, attraverso il gioco, l’indole di ogni bambino; non tediare il fanciullo con precetti o lezioni noiose, ma svegliarne la curiosità, favorirne la confidenza con un atteggiamento sereno, amorevole; importanza dell’esempio e della coerenza di vita nelle persone addette all’educazione. È favorevole all’educazione delle fanciulle in famiglia, quando è costume educarle nei conventi. Notevole il suo influsso sui sec. XVIII e XIX. Bibl.: a) Fonti: le migliori ediz. delle Oeuvres complètes di F. sono quelle di Versailles-Paris, 1820-1830, 34 voll. b) Studi: Goré I. L., L’itinéraire de F., Paris, PUF, 1957; Terzi C., F. La personalità e l’attualità del pensiero educativo, Roma, Ciranna, 1971; Cappa F., La fede e l’amore di sé. F.F. e la coscienza religiosa nell’età cartesiana, Milano, Glossa, 2003.

R. Lanfranchi

FENOMENOLOGIA E EDUCAZIONE Anche se ci sono stati dei precedenti nel l’uso filosofico del termine f., oggi esso è comunemente riferito alla teoria e alla metodologia di E. Husserl, sviluppati successivamente in varie direzioni da numerosi allievi ed estimatori. Tra tali direzioni si può citare anche quella pedagogica, pur se Husserl non si occupò mai esplicitamente di tematiche educative. Numerosi punti-chiave del suo pensiero, infatti, hanno o possono avere un chiaro significato ed un’importante valenza pedagogici. 1. Il punto di partenza del pensiero di Husserl ed il suo «modo di pensare» consistono in una sorta di rivendicazione della presenza della soggettività nel costituirsi del senso del mondo e quindi anche di ogni autentico processo conoscitivo. Poiché tale soggettività ha nell’intenzionalità la sua caratteristica fondante, essa non va intesa in senso idealistico ma esistenziale in quanto è sempre e comunque in relazione con l’oggetto. È così che la vera realtà per l’uomo è ciò che risulta dall’incontro tra la realtà oggettiva e il sog454

getto intenzionante: il fenomeno appunto, che cionondimeno si costituisce in modo originario nella coscienza (rappresentando quelle che Husserl definisce le «essenze»). Perché sia possibile cogliere tali essenze è tuttavia necessario mettere tra parentesi («epoché») i giudizi comuni o pregiudizi, soprattutto quelli di tipo oggettivistico-naturalistico. La relazione con l’oggetto è quindi irrinunciabile per la soggettività, così come la relazione con l’altro da sé è irrinunciabile per il costituirsi della persona. 2. Interessanti sono le conseguenze pedagogiche che si possono ricavare da quella impostazione, a partire dall’invito a cogliere l’esperienza educativa nella sua essenza che peraltro è sempre storicamente data, proprio perché anch’essa fondata sulla relazione non solo tra due (o più) individui, ma anche tra le tre dimensioni della storia (passato, presente e futuro). La relazione dunque deve essere considerata come il punto forte per ogni teoria pedagogica e per ogni prassi educativa, anche se essa non è affatto garantita potendo essere nella concretezza dell’esistenza disattesa, contraddetta, calpestata. In secondo luogo, appare pedagogicamente molto interessante la nozione di «visione del mondo» (che è l’insieme strutturato dei fenomeni vissuti individualmente o socialmente) sia perché il diventarne consapevoli rappresenta il traguardo primo di ogni processo formativo, sia perché nel rapporto educativo concreto è indispensabile per 1’ → educatore cogliere la visione del mondo (capacità definibile in termini di «entropatia») attuale dell’ → educando per poterla sviluppare e, se del caso, metterla in crisi al di fuori di un comportamento autoritario e perciò violento. È ovvio che da questa impostazione emergono molteplici indicazioni anche metodologico-operative, sia nel l’ambito di un’educazione «normale» sia in quello di un’educazione «speciale», tra cui peraltro c’è una chiara continuità. Indicazioni che, pur dando grande rilevanza al l’attività dell’educando, non lo considera no come l’unico protagonista dell’evento educativo in cui infatti l’educatore rappresenta l’altro necessario polo. Bibl.: Paci E., Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Milano, Il Saggiatore, 1963; Bertolini P., L’esistere pedagogico, Scandicci (FI),

FESTA

La Nuova Italia, 1988; de Monticelli R., La conoscenza personale: introduzione alla f., Milano, Guerini, 2003.

P. Bertolini

FERRER I GUARDIA Francisco → Anarchismo

FERRIÈRE Adolphe n. a Ginevra nel 1879 - m. a Ginevra nel 1960, pedagogista svizzero. 1. Fondatore nel 1899 del Bureau International des Écoles Nouvelles che si fuse nel 1925 nel Bureau International d’Éducation, fondatore della rivista «Pour l’Ère Nouvelle» (1931). Nel 1921, nel Congresso di Calais, fu tra i fondatori della Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle. Svolse un’intensissima attività pubblicistica e culturale e fu promotore instancabile d’incontri, contatti e collaborazioni internazionali tanto da essere considerato uno dei massimi esponenti, in campo teorico e pratico, dei problemi internazionali dell’educazione. Si prefisse di riaffermare, difendere e diffondere i principi basilari della nuova visione scaturita dal movimento di Calais e nei suoi lavori (L’école active) interpreta le varie tendenze di riforma dalle loro origini spirituali rimproverando ai sistemi tradizionali di non tener conto della natura fisica e psichica dell’educando (→ Scuole Nuove). Di fronte alle tendenze che cercavano d’imporsi per una scuola attiva basata su metodologie e tecniche operative, F. fonda le Groupe français d’Éducation nouvelle (GFEN) per affermare la superiorità di una pedagogia sperimentale. 2. In F. sembra prevalere un atteggiamento eclettico, volto ad armonizzare spunti, dottrine, orientamenti e direzioni di pensiero di natura orginariamente diversa e non di rado contrastante; ciononostante esistono in lui dei nuclei tematici tali da denotare un convinto radicamento di natura metafisica ed etica. Ciò è dovuto sia ai suoi contatti con → Decroly e con → Dewey e più ancora alla concezione bergsoniana di Elan vital a cui si ricollega, pur non chiarendolo, il concetto d’interesse quale pietra angolare della scuola

attiva. Sulla base di questo principio come della legge biogenetica, la sua pedagogia attivistica si svolge come dimensione vigilante rispetto alla spontaneità dell’educando in un orientamento spiritualistico. Il rapporto uomo-natura, la connessione tra apparato biofisiopsichico ed interiorità, appaiono collegati da una rete profonda di legami e condizionamenti reciproci che F. cerca di recuperare in un continuo riferimento alla psicologia sperimentale, alla psicologia del profondo, alla filosofia di tendenza evoluzionista e bergsoniana come a quella ascetico-mistica. La scuola attiva, pertanto, rappresenta la risposta operativamente necessaria alle istanze da lui indicate e professate. Anche se oggi la sua legge biogenetica può suscitare delle perplessità è indubbio che essa ha avuto il merito di elaborare una diversa educazione fondata sull’interesse vitale con il quale è possibile sviluppare un’adeguata concezione dell’uomo civilizzato, ossia di un uomo che anela alla libertà e alla convivenza. Bibl.: Faria de Vasconcellos A., Une école nouvelle en Belgique, Neuchâtel, Delachaux & Niestlé, 1915; Ferraro D., A.F. e l’attivismo scolastico, Bologna, Leonardi, 1970; Mencarelli M., «Il movimento dell’Attivismo», in Nuove questioni di storia della pedagogia, Brescia, La Scuola, 1977; H ameline D., A.F., in «Perspectives: revue trimestrielle d’éducation comparée» 23 (1993) 379-406.

C. Trombetta

FESTA 1. Una prospettiva pedagogica della f. ha come necessario punto di partenza un duplice approccio disciplinare: antropologico (cioè il modo con cui nella tradizione e nella storia se ne è vissuto ed espresso il senso), e sociologico (che ne esamina le modalità e le funzioni nella società attuale). Approcci che interagiscono poi con la propria concezione filosofica e valoriale di uomo. Iniziamo con l’accostamento antropologico. Il fenomeno f. rimanda, già nella stessa terminologia e nel linguaggio corrente, a una serie di fatti che indicano almeno due grossi ambiti semantici, uno di tipo più religioso (rito, celebrazione, tempo, calendario, solennità, sacro, 455

FESTA

liturgia... significati richiamati dall’aggettivo «festivo»), l’altro più laico e quotidiano, dei tempi «normali» (allegria, gioia, gioco, tempo libero, vacanza, spettacolo... significati richiamati dall’aggettivo «festoso»). Di comune ad entrambi vi è almeno l’elemento della sospensione dal lavoro e dalla fatica dell’abitudinarietà. Nel primo ambito la f., come rito periodico che coinvolge la comunità, è colta nella storia delle religioni come il riaggancio al tempo primitivo e agli atti fondatori della divinità che rigenera il tempo e il mondo (capodanno, pasqua e sabato ebraici, pasqua cristiana...), e dunque come la re-immersione periodica dell’uomo nella vitalità e nell’offerta di senso che è il sacro, da cui viene rimandato poi alla fatica della vita quotidiana e sociale e alla sua esigenza di progettualità. La f. dunque come tempo del sacro. Nel secondo ambito la f. si ridisegna come tempo del gioco, ambito estraneo al mondo del lavoro (terreno della necessità, dell’organizzazione, della razionalità strumentale), e come territorio del gratuito, delle attività fruitive, delle cose che non hanno uno scopo ma un senso, quasi di sospensione dalla realtà e dai bisogni. La f. dunque come tempo del gioco. 2. L’analisi sociologica, come complementare accostamento al fenomeno f., permette di individuare, nel mondo moderno o postmoderno, da una parte il bisogno e la riscoperta della f. nelle tante manifestazioni e linguaggi in cui si esprime (specie giovanili), soprattutto nel suo senso di opposizione al quotidiano e al lavoro (→ tempo libero); dall’altra il suo svuotamento di senso (soprattutto religioso) e il suo tradursi in angoscia. Da cui il tentativo di surrogarlo col → consumismo e la manipolazione dei → bisogni. Il tempo «libero» rischia così di trovarsi già «occupato» dalle mille proposte o imposizioni della produzione capitalistica. Il «bisogno» di f. e di risignificazione di essa viene colto oggi – al di là del richiamo religioso – anche dal mondo dei laici più sensibili attraverso una nuova analisi della situazione dell’uomo nell’epoca della tecnica e della razionalità strumentale. Appiattito nella sua identità dall’attività lavorativa, divenuta l’unico indicatore della sua riconoscibilità, l’uomo sembra in grado di conoscersi e riconoscersi a partire unicamente dalle sue capacità in termini 456

di funzionalità ed efficienza, in un epocale passaggio dalla marxiana alienazione «nel» lavoro all’alienazione «da» lavoro. La f. allora, qualora se ne ricuperi il senso anche nel silenzio, nella contemplazione e nel riposo, dunque nella presa di distacco dall’appiattimento nella prestazione, può essere quell’àncora di salvataggio che permette all’uomo di ricuperare «il cuore», di ri-accedere alla sua interiorità. 3. In questo quadro di riferimento e di contestualizzazione, si ripropongono alcune mete di ricupero e risignificazione della f., per la riumanizzazione dell’uomo. a) Ritrovare la gratuità del necessario. Se la f., istituendo l’ordine del mondo, immette la circolazione di senso dentro la vita, essa permette di scoprire nella progettualità e fatica del quotidiano, nella necessità e durezza della vita, quell’elemento di ordine e di giustizia che è il «di più» della vita stessa, che diversamente resterebbe chiusa nell’orizzonte della razionalità allo scopo della lotta ai bisogni e per la sopravvivenza. In altre parole tutto ciò significa ritrovare la bellezza delle dimensioni elementari della vita, che l’uomo corre il rischio di scartare trovandole scontate. b) Riscoprire la necessità del gratuito. La possibilità di ricchezza della società di oggi permette di sviluppare ciò che è intrinsecamente gratuito (il festoso), nella fruizione di ciò che è buono e bello, al di là dell’agire per necessità. Queste sono attività che, pur non essendo necessarie per sopravvivere, sono necessarie per «vivere», e dunque non possono essere classificate nel «superfluo». La direzione di queste attività che aprono a tipi diversi di relazione, può essere triplice: un rapporto contemplativo con la natura, un rapporto rammemorativo (che rinnova il passato facendone memoria) con i prodotti dell’uomo nella storia (beni culturali), un rapporto di fruizione reciproca nel convivere umano (convivialità). Bibl.: Moltmann J., Sul gioco, Brescia, Queriniana, 1971; Floris F., Le f. dei giovani, in «Note di Pastorale Giovanile» 15 (1981) 6, 3-35; Pollo M., La domenica luogo del centro esistenziale e religioso della vita, in «Note di Pastorale Giovanile» 17 (1983) 4, 11-17; R izzi A., Il segreto del tempo, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1993; Galimberti U., Paesaggi dell’anima, Milano, Monda-

FIDUCIA

dori, 1996; Id., Psiche e téchne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999.

G. Denicolò

FIABA La f. è un racconto che implica elementi e avvenimenti fantastici anche se non tratta sempre di fate. 1. Il termine in senso moderno comprende racconti popolari (Märchen) quali Cenerentola e racconti di fate (Kunstmärchen) di invenzione successiva quali Il Principe Felice del 1888 scritto da Oscar Wilde. Non è sempre facile distinguere se l’origine delle f. sia orale o letteraria dato che i racconti popolari hanno subito un trattamento letterario già dagli inizi e, viceversa, le f. scritte sono state riportate alla tradizione orale. Le prime collezioni italiane di f. quali Le piacevoli notti (1550) di Gianfranco Straparola contengono rielaborazioni in stile raffinato di f. quali Biancaneve, La Bella addormentata e La serva nella torre. Una collezione successiva, fedele alla tradizione orale, è stata quella francese, di Charles Perrault, I racconti di Mamma Oca del 1697 a cui appartenevano Cenerentola, Cappuccetto Rosso e La Bella e la Bestia. La raccolta Kinder-undHausmärchen (1812-15) dei fratelli Grimm è direttamente trascritta dalla tradizione orale. È stata grande l’influenza di Perrault e dei fratelli Grimm in tutto l’Occidente. Altro maestro delle f., il danese Hans Christian Andersen, trae i suoi racconti dalla tradizione, ma li connota di elementi autobiografici e di satira sull’epoca in cui viveva. Gli psicologi del XX sec., → Freud e → Jung hanno interpretato elementi delle f. come manifestazioni di paure e desideri universali. 2. Ogni soggetto che comincia a sfogliare un libro di illustrazioni o che ascolta con attenzione una storia letta ad alta voce, può essere considerato un potenziale consumatore di f. L’arco di età che comprende un tale soggetto va fino ai 14 o 15 anni. Alcune considerazioni appannano questa definizione: oggi i ragazzi sono spinti dall’ambiente verso una maturazione precoce perciò, sebbene leggano ancora libri di bambini, leggono sempre

più libri per adulti. I bambini inoltre continuano a vivere negli adulti e così, molti libri per bambini vengono letti dagli adulti (Alice nel Paese delle Meraviglie di L. Carroll, Winnie-the-Pooh di A. A. Milne). Oggi lo stesso fenomeno si presenta con la saga di Harry Potter. La lettura delle f. dalla natura apparentemente crudele e arbitraria è, in un certo senso, una riflessione istruttiva della necessità dei bambini di disfarsi delle proprie paure e di affrontare le successive fasi dello sviluppo con maggiore maturità e senso del reale, come afferma Bettelheim in Uses of enchantment (1976). Bibl.: P ropp V. J., Morfologia della f., Roma, Newton Compton, 1992 (l’opera originale è del 1928); Gatto G., La f. di tradizione orale, Milano, Led , 2006.

C. Cangià

FICHTE Johann → Idealismo pedagogico FIDANZAMENTO → Matrimonio

FIDUCIA La f. è condizione e atteggiamento basilare per sostenere un → rapporto educativo in vista della qualità e della crescita degli interlocutori. Senza di essa non è possibile un autentico incontro tra persone che intendano giungere a uno scambio reale in umanità e in educazione. 1. Avere f. significa presumere in anticipo che qualcosa possiede un senso plausibile, pur non potendolo ancora configurare, sulla base di antecedenti esperienze persuasive; vuol dire disporsi a raggiungere un traguardo sperato, che suscita o motiva raffigurazioni creative, processi cognitivi, disposizioni ad agire. La relazione educativa, basata sulla f., consiste quindi essenzialmente in una relazione interpersonale (simmetrica o asimmetrica), che coinvolge la personalità intera dell’interlocutore. Non si tratta solo di un ritrovo delle menti, bensì di un sintonizzarsi dei sentimenti (→ intelligenza emotiva) e di una implicazione sociale (intelligenza sociale di Goleman). In realtà si configura come un incontro accogliente di persone differenti che si presentano nella loro dignità umana 457

FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE

e nel mistero della propria libertà, mediate dai contenuti culturali e dalle strutture istituzionali, dai codici etici e dai convincimenti religiosi. Nel → processo educativo, la f. vicendevole non si riduce perciò a sintonia affettiva e apprezzamento reciproco, quasi risolvendosi in essi. Al di là di ogni elemento contingente, essa trova la sua radice nel riconoscimento pieno della dignità della → persona umana e della crescita virtuosa della vita, per cui è sempre meritevole di credibilità e di affidamento. 2. Nella costruzione della biografia personale, la f. è un atteggiamento che si manifesta costantemente presente. Differenti possono essere gli approcci (fenomenologico, psicoanalitico, umanistico…), ma l’esito volge sempre verso una sua evocata esigenza. Per cui alla radice sta la f. di base, che scaturisce dal rapporto fondamentale tra madre e figlio (→ Erikson), creando sicurezza e sostegno. Si evolve poi progressivamente nell’accettarsi incondizionatamente a vicenda (→ Rogers), nella coppia, nella → famiglia, nel gruppo dei pari, nella comunità scolastica, allorché matura in un processo di scambio positivo. La disponibilità dell’educando assume così forme progressive diversificate (identificatoria nell’infanzia, controdipendente nell’adolescenza, individualizzata nella giovinezza) sino a giungere all’accoglienza critica e alla f. ragionata. Al tempo stesso l’intenzionalità dell’educatore, collocandosi nella comprensione dei complessi aspetti personali e sociali dell’educando, approda sempre più all’autorevolezza intrinseca delle proposte educative che avanza. In questo modo vengono evitati i due noti rischi educativi dell’autoritarismo (con l’imposizione di modelli identificatori) e del permissivismo (con il sottrarsi alla responsabilità educativa che sfida a pronunciarsi e a proporre). 3. Il terreno della f. è quello della disponibilità a riconoscere che insieme, anche se a diversi livelli di consapevolezza, si può costruire un progetto comune: lealtà e verità, amicizia e rispetto, libertà e responsabilità sono elementi essenziali per maturare come uomini e donne all’insegna dell’autorevolezza di proposte e di modelli, di scelte e di testimonianze. Senza dubbio la competenza culturale e pedagogica dell’educatore è un 458

grande sostegno in quest’azione educativa fondata sulla f., ma la ricchezza di umanità e il farsi compagni di viaggio sono senz’altro determinanti per crescere nella f. reciproca. La visione antropologica ispira e guida qualsiasi istanza di metodo (E. Stein, P. Ricoeur). Bibl.: Milan G., Educare all’incontro, la pedagogia di Martin Buber, Roma, Città Nuova, 1994; Galli G., Psicologia delle virtù sociali, Bologna, CLUEB, 1999; Bosco G. B., Educare nello spirito di don Bosco, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2002.

G. B. Bosco

FIGLI → Famiglia → Genitori

FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE Istituto religioso fondato da → san Giovanni Bosco e → santa Maria Domenica Mazzarello nel 1872 a Mornese (AL) per l’educazione cristiana delle fanciulle e delle giovani dei ceti popolari. 1. Il nome Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA) esprime l’identità mariana della Congregazione voluta dal Fondatore come «monumento di riconoscenza» a Maria e come risposta alle sfide educative della donna. Il suo inizio ufficiale avviene a Mornese, il 5 agosto 1872. Dopo appena cinque anni vengono aperte case in Francia e in Uruguay. Approvato dal vescovo di Acqui nel 1876, l’Istituto è riconosciuto di diritto pontificio da Pio X il 7 settembre 1911. Alla morte della Confondatrice M. D. Mazzarello, avvenuta a Nizza Monferrato il 14 maggio 1881, le religiose educatrici erano 166, le novizie 48, le case 26. Oggi l’Istituto è diffuso in 90 nazioni e conta circa 14.000 religiose che operano nei cinque Continenti. La comprensione e traduzione del metodo salesiano in ambito femminile avviene gradualmente lungo la storia dell’Istituto anche grazie all’apporto di alcune figure significative. Emilia Mosca (1851-1900), prima Consigliera scolastica generale delle FMA (1876-1900), ha il merito di aver innestato sul giovane ramo dell’Istituto femminile di don Bosco la sua idea educativa contribuendo ad esprimere al femminile il metodo di don Bosco mediante

FIGURE PROFESSIONALI

la ricchezza della sua personalità e la competenza pedagogica. Ella segue (con la collaborazione del salesiano → Cerruti) la lunga e faticosa pratica del pareggiamento della prima Scuola Normale di Nizza Monferrato e con la sua azione promuove l’impostazione metodologico-salesiana delle scuole in Italia e in altre nazioni. Angela Vespa (1887-1969), Consigliera Scolastica dal 1938 al 1955 con incisività e competenza pedagogica si ispira al modello educativo dei Fondatori. Pur senza trascurare l’efficienza organizzativa, mira soprattutto ad incrementare la formazione pedagogico-salesiana delle educatrici, mostrandosi particolarmente aperta alla valorizzazione delle opportunità culturali e didattiche del tempo. Ella si pone nel variegato e complesso panorama culturale con capacità di discernimento delle idee innovative e nel confronto fedele con la tradizione educativa salesiana. Nei suoi orientamenti, infatti, si nota l’evoluzione che l’Istituto ha operato nei riguardi dell’attivismo, cambiamento dovuto sia alla sua lungimiranza e perspicacia, sia alla visione più positiva della pedagogia cattolica nei confronti delle nuove teorie pedagogiche. 2. La scelta preferenziale delle varie opere educative gestite dalle religiose, in collaborazione con laici e laiche, è per gli oratoricentri giovanili, la catechesi e per le scuole di ogni ordine e grado: scuole dell’infanzia, primarie, secondarie, professionali e universitarie. Tra le attività di tipo promozionale vi sono: orfanotrofi, case-famiglia, convitti per studentesse ed operaie, laboratori di cucito e di artigianato e associazioni di volontariato. La spiritualità dell’Istituto si ispira alla sintesi dottrinale ed antropologica di s. Francesco di Sales e di s. Teresa di Ávila, voluti da don Bosco come Patroni dell’Istituto. Nella sua storia più recente, l’Istituto ha continuato a potenziare l’autocoscienza femminile e la sua apertura alle grandi sfide della società contemporanea, e la qualità della formazione culturale e religiosa, dando una specifica attenzione alla promozione della cultura della vita nell’ottica di un’antropologia solidale ispirata al Vangelo e aperta a prospettive interculturali e interreligiose. Nella realtà globalizzata, segnata da nuove opportunità e al tempo stesso da nuove minacce alla vita e alla famiglia, le FMA riaffermano l’impegno

di rispondere alla chiamata ad essere segno ed espressione dell’amore preveniente di Dio in modo credibile, così da alimentare la speranza nelle nuove generazioni. Bibl.: Bibliografia sull’Istituto delle FMA, Roma, Ist. FMA, 1996; Capetti G. (Ed.), Cronistoria [dell’Istituto delle FMA], Ibid., 1974-1978, 5 voll.; Id., Il cammino dell’Istituto nel corso di un secolo, Ibid., 1972-1976, 3 voll.; Loparco G., Le FMA nella società italiana (1900-1922), Roma, LAS, 2002; Ruffinatto P., La relazione educativa. Orientamenti ed esperienze nell’Istituto delle FMA, Ibid., 2003.

P. Ruffinatto

FIGURE PROFESSIONALI Comprendono tutte le f. che svolgono funzioni relative alle fasi del processo educativo. Qui ci si limita a parlare di quelle che non sono trattate in altre voci. 1. Professioni e processi organizzativi. Una professione è caratterizzata da tempi lunghi di formazione, da un codice etico, dal controllo sulle ammissioni, da un corpus di conoscenze, dalla priorità del servizio al cliente sull’utilità personale, dall’autonomia nell’esercizio pro­fessionale. Se si applica tale definizione a tutte le f. che operano nel campo dell’educazione, si possono avere casi in cui vengono a mancare alcune delle note: allora si parla di semi-professione o di status professionale. In questo momento nelle organizzazioni educative è in atto un processo di differenziazione e di moltiplicazione delle funzioni. 2. Tendenze nella riorganizzazione della f. p. La promozione integrale della persona significa che l’educando occupa il centro del sistema educativo. Oltre alle f./funzioni tradizionali, c’è bisogno di nuove che si occupino dell’accoglienza, dell’orientamento, dell’accompagnamento e del tutoraggio. Un’altra tendenza riguarda l’affermarsi dell’approccio progettuale per cui le strutture fondate su un’impostazione a tempi lunghi vengono sostituite da un disegno organizzativo flessibile, focalizzato su progetti determinati sul piano temporale. Anche in questo ambito si richiede l’introduzione di f. e funzioni speci459

FILANTROPISMO/ FILANTROPINISMO

fiche. La complessità crescente delle organizzazioni implica la previsione di forme nuove di integrazione e la creazione di f./funzioni di raccordo e di coordinamento: si tratta di favorire la combinazione più efficace degli sforzi dei singoli individui che compongono un gruppo o di più sottogruppi. L’organizzazione viene descritta in termini di sistema aperto nel senso che si può conservare solo sulla base di un flusso continuo di risorse da e per l’ambiente. Anche in questo caso c’è bisogno di f./funzioni che presidino i relativi compiti. In un mondo in cui la qualità della vita ha assunto un’importanza centrale, le istituzioni formative non possono limitare la loro attenzione alle problematiche quantitative: ciò implica la introduzione di f./funzioni che si assumano la responsabilità della qualità. Questo modello organizzativo deve essere flessibile nel senso che la realizzazione delle tendenze richiamate può essere la più varia, da un’attuazione elementare alla più complessa. Per rendersene conto è sufficiente considerare le funzioni strumentali al piano dell’offerta formativa o le attività di collaborazione con il dirigente del contratto del comparto scuola o esaminare i profili professionali del contratto della formazione professionale. Bibl.: M alizia G., Il direttore e lo staff di direzione come perno del rinnovamento organizzativo della Formazione Professionale, Roma, CNOS-FAP, 1996; Forma-C enfop, Contratto collettivo nazionale della formazione professionale. 1 gennaio 1998-31 agosto 2003, Roma, s.d.; Contratto collettivo nazionale del comparto scuola. Quadriennio giuridico 2002-05 e 1° biennio economico 2002-03, in http://www.edscuola. it (09.07.07); Capaldo N. - L. Rondanini, Gestire e organizzare la scuola dell’autonomia, Trento, Erickson, 2002.

G. Malizia

FILANGIERI Gaetano → Illuminismo

FILANTROPISMO/ FILANTROPINISMO Movimento educativo dell’illuminismo tedesco, legato – soprattutto per le implicazioni scolastiche – alla figura ed all’opera di J. B. Basedow (1724-1790). Laicità ed utilitarismo 460

caratterizzarono il f., nel quale è evidente il richiamo a → Comenio e → Rousseau per il naturalismo e al La Chalotais per l’organizzazione scolastica. 1. La figura e l’opera di J. B. Basedow. Basedow, precettore del figlio del consigliere von Qualen di Borghorst, dal 1749, sperimenta, per un triennio, con l’allievo la validità di un metodo educativo oggetto di una dissertazione, Inusitata et optima honestioris iuventutis erudiendae methodus (1752), in cui è evidente l’influsso dell’Orbis pictus comeniano. Vi si afferma l’importanza dell’istruire giocando, del valore della conversazione, della necessità di una solida preparazione dell’insegnante. Fallita la carriera accademica anche per certi atteggiamenti eterodossi, lascia l’interesse per la filosofia e la teologia, e torna al problema educativo-scolastico. Nel 1768 pubblica le Relazioni ai filantropi ed ai benestanti circa le scuole, gli studi e la loro influenza sul benessere pubblico, opera di enorme successo. Qui e in lavori successivi si ispira, per la vagheggiata riforma scolastica, alle tesi del La Chalotais. Basedow tratteggia un sistema scolastico diretto da un Consiglio Supremo di controllo della Pubblica Istruzione, responsabile di tutto quello che riguarda l’educazione (scuole, libri, teatri). Le scuole dovevano essere: speciali per il popolo, ordinarie per i ragazzi delle classi elevate, destinati a frequentare il ginnasio dai 15 ai 20 anni. Ogni settarismo doveva essere bandito. Nel ’70 pubblica il Trattato dei metodi pei padri e le madri delle famiglie e dei popoli. Al suo appello per ottenere fondi per le pubblicazioni rispondono in molti: ecco il Libro elementare, uscito in una prima edizione nel 1770, e in edizione completa, riveduta ed ampliata in 4 volumi, nel 1774, corredato da un atlante con 100 illustrazioni. C’era un po’ di tutto, una sorta di enciclopedia, nella quale si parlava di scienze umane e naturali da lui giudicate utili per gli alunni. Ma dove applicare le sue teorie? Ecco un nuovo appello per la raccolta di fondi, ma questa volta la risposta è piuttosto fredda. Ciononostante il giovane principe di Anhalt-Dessau, lo chiama a Dessau, e qui egli può dar vita ad un istituto organizzato secondo le sue idee, il Philantropinum. Diciamo tra parentesi che in uno dei viaggi compiuti per la raccolta dei fondi Basedow ha come compagno Goethe,

FILANTROPISMO/FILANTROPINISMO

che ci dà una interessante (anche se non molto elogiativa) descrizione della sua figura. A proposito della validità del suo metodo d’insegnamento delle lingue, si potrebbero citare i risultati ottenuti con sua figlia, Emilia (in ricordo di Rousseau?), che a tre anni e mezzo era in grado di cogliere gli errori di chi parlava in francese e in tedesco, e che a nove anni traduceva direttamente in tedesco gli autori latini. Il Basedow pubblicava pure una sua rivista, «Archivio Filantropico», nella quale presentava i risultati ottenuti nel suo istituto, e sollecitava i genitori ad iscrivervi i loro figli, magnificando gli ideali ai quali si ispirava e la somma apertura, perché – diceva – «noi siamo filantropi o cosmopoliti», in quanto «scopo dell’educazione deve essere quello di formare un europeo, la cui vita possa essere così onesta, utile al pubblico e lieta, come l’educazione la può rendere». A volte certe lezioni facevano scalpore, quale quella (descritta, per conoscenza diretta, dal prof. Schummel di Lipsia) dedicata a tutte le fasi del parto. Gli allievi del Philantropinum vestivano in divisa, si curava molto l’ordine e la pulizia personale; notevole importanza avevano, oltre gli esercizi tesi a rafforzare il fisico, l’equitazione e il ballo. Pur mirando a creare un clima di superamento delle differenze, si attribuiva valore alla → emulazione, con conseguenti premiazioni. Ma Basedow, uomo innegabilmente di grandi idee, era tutt’altro che un organizzatore, per cui la sua istituzione – nella quale pur operavano valenti collaboratori ed assistenti – rapidamente decadde. Il fondatore lasciava ad altri la responsabilità della conduzione nel 1784, ma nessuno riuscì a riorganizzare il Philantropinum, che si chiudeva nel 1793. 2. La diffusione del f. Tuttavia, malgrado il fallimento, le idee si erano diffuse, e sorgevano istituzioni che al Philantropinum si ispiravano, anche perché le iniziative furono dovute a uomini che avevano vissuto l’esperienza di Dessau e/o che erano convinti sostenitori della necessità di un radicale mutamento nel sistema scolastico. A titolo di esempio si potrebbe citare il caso di J. H. Campe (1746-1812), che dirigeva una scuola filantropica a Brunswich e divenne consigliere per l’educazione. Non essendo riuscito a dar vita ad un sistema scolastico dichiaratamente laico, si unì ad altri filantropisti, ed espose

in un’opera in 16 volumi, Revisione generale del sistema scolastico e dell’educazione (1785-1791), quegli aspetti del movimento filantropinico che – sgombrato il terreno dalle utopie di Basedow – avrebbero potuto essere realizzati per la bontà dei principi ispiratori. Così i principi si vennero affermando anche se le istituzioni non sempre ebbero fortuna. Oltre all’istituto di Campe, può essere ricordato quello di Trapp, e soprattutto quello fondato a Schnepfenthal da C. G. Salzmann (1744-1781), già collaboratore di Basedow, che aveva lasciato Dessau (dove era stato insegnante di religione). Ottenne l’appoggio di Ernesto II di Saxe-Gotha, e proprio nei pressi di Gotha fondò un istituto che avrebbe avuto vita assai più lunga e assai meno tormentata del Philantropinum di Dessau. Anch’egli si ispira al Rousseau relativamente alla visione della bontà della natura ed alla corruzione della società, e proprio all’interno di tale concezione mira a condurre l’esperienza scolastica della sua istituzione. Riafferma nei suoi scritti il valore della conoscenza diretta della natura in tutti i suoi aspetti, e sollecita l’educatore a servirsi di tutto quello che la natura stessa può offrirgli, onde compensare l’eventuale mancanza di attrezzature ad hoc. Ma proprio per il valore che egli attribuiva alla funzione dell’ → educatore (che doveva possedere «ingegno, tatto, abilità per trattare razionalmente gli allievi e cattivarsene la fiducia») delinea un «Progetto di educazione dell’educatore». Innegabilmente la sua concezione era utopistica: egli vagheggiava la presenza di molti studiosi dotti nelle varie discipline, sia nel campo della pedagogia, sia in quelli delle varie scienze (dall’anatomia all’igiene); non doveva mancare una ricca biblioteca e persino un’emeroteca; pensava all’esistenza di una sala teatrale, assai utile agli educatori per insegnare «a modulare la voce, a comporre la fisionomia, le movenze e le pose». Ma il Salzmann stesso pare, ad un certo punto, accorgersi della grandiosità del suo progetto, ed allora scrive: «L’attuazione di questo piano importerebbe certo spese ingenti: ma non è l’educazione l’ufficio più importante di uno Stato [...]?». Si vede allora costretto a ridurre di molto i suoi sogni: «Rinunzio quindi a questo disegno bello a leggersi, difficile a tradursi in pratica, a chi si dedica all’educazione ne presento uno più semplice che si compendia in tre parole: 461

FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE

educa te stesso». Ma non si creda che la constatazione delle difficoltà e la conseguente riduzione delle aspirazioni abbia impedito a Salzmann di operare proficuamente. Ecco il «Collegio-famiglia» in campagna a Schnepfenthal. Della cinquantina di allievi presenti ben 15 sono figli del fondatore, ai quali si uniscono orfani di amici. Egli vive direttamente la sua esperienza e, vedendo nel gioco una componente essenziale del processo educativo, scrive: «Rinunzi ad educare chi non sa giocare con i bambini». Ma in genere tutta la vita del collegio è vista come vita di comunità, in buona parte esente da certe esagerazioni e da certe contraddizioni presenti a Dessau. Il collegio continuò la sua attività sino ai primi dell’Ottocento. 3. La valutazione del f. Essa non è stata univoca, ma il movimento ha lasciato per certi aspetti una traccia profonda. Ebbe un atteggiamento di favore il barone von Zedlitz, ministro di Federico il Grande dal 1771 al 1798. Ad Halle veniva istituita la prima cattedra di pedagogia, affidata al Frapp (già assistente di Basedow). Kant fu all’inizio favorevole, anche se in un secondo tempo non mancò di esprimere qualche critica. Nettamente ostile l’atteggiamento di Herder e dei sostenitori del neoumanesimo classico. Bibl.: Gerlach O., Die Nationalerziehung im 18. Jahrhundert dargestellt in ihrem Hauptvertreter, 1932; Blättner F., Storia della pedagogia, Roma, Armando, 31965; Boyd W., Storia dell’educazione occidentale, Roma, 61970; Sacchi R., «Basedow, Johann Bernard», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 1511-1515; Dietrich T., «Salzmann, Christian Gotthilf», in Ibid., 10265-10268; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi, Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. II, Torino, SEI, 1996, 211-224; Calò G., «F.», in Enciclopedia Filosofica, vol. V, Milano, Bompiani, 2006, 4109-4111.

F. De Vivo

FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE Approccio, e secondo alcuni disciplina, che studia l’ → educazione, lo → sviluppo e la → formazione dal punto di vista filosofico. 462

1. Due modi di fare f.d.e. Nella tradizione occidentale la problematica educativa è stata fatta spesso oggetto di indagine da parte della riflessione filosofica, specialmente nell’ambito della f. classificata come «pratica», vale a dire volta a trovare le ragioni dell’agire sociale umano, politico e morale (al cui interno si poneva l’agire educativo). Ma oltre questa via più antica, nella f. moderna si è venuta ad avere anche un’altra via di filosofeggiare attorno all’educazione, quella che parte dalla problematica educativa e da essa arriva a tematizzare filosoficamente i problemi teorici presenti in essa. Questo secondo modo di procedere si riscontra in ambienti anglosassoni, già dalla fine del secolo scorso. È noto come → Dewey dettò vari corsi intitolati «f.d.e.» al Teachers College della Columbia University di New York. Ed è anche nota la sua concezione della f.d.e. come «teoria generale dell’educazione», con funzione di sintesi prospettica, rispetto agli altri contributi di cui si dovrebbe nutrire una scienza dell’educazione. Ma forse un apporto maggiormente significativo al sorgere di un’autonoma disciplina filosofica dell’educazione viene dagli sviluppi di quella che è stata chiamata la Scuola di Londra, guidata fino al 1983 da R. S. Peters. Essa si è mossa nella linea dell’analisi del linguaggio scientifico e non scientifico sull’educazione, visto nelle sue connessioni con l’agire morale e sociale: l’educare, l’educazione, l’essere educatori, l’insegnare, il fare scuola, la cultura educativa. Parallelamente, negli ambienti di lingua inglese, fioriscono società scientifiche e riviste espressamente di f.d.e. Recentemente è dato notare un certo avvicinamento tra questi indirizzi «analitici» di ricerca e quelli fenomenologico-ermeneutici «continentali», relativi all’azione umana storico-sociale e la sua qualificazione etica. 2. La ricerca teorico-pedagogica italiana e le sue stagioni. Nel trentennio seguito alla seconda guerra mondiale la pedagogia italiana ha cercato di guadagnare una sua dignità scientifica, in reazione alla stagione «neo­ idea­listica» del periodo fascista, troppo sbilanciata sul riferimento filosofico. E tuttavia la politica educativa e scolastica è stata sostenuta da saggi di natura teorica o comunque da convincimenti teorici di fondo, che, in riferimento ai grandi schieramenti politico-cultu-

FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE

rali del cosiddetto «arco costituzionale», si raggruppavano in tre principali indirizzi: l’indirizzo personalista, vicino alle forze politiche cristiano-democratiche (ispirato al personalismo di Mounier e di → Stefanini o alla f. di → Maritain); l’indirizzo cosiddetto laico, vicino al variegato settore delle forze liberal-socialiste (ispirato al pragmatismo di Dewey o alla f. liberal-democratica di Calogero o al problematicismo di Banfi); l’indirizzo marxista, vicino alle forze politiche social-comuniste (e fondamentalmente ispirate al marxismo di → Gramsci). Nel corso degli anni settanta, a seguito del forte movimento di critica che ha coinvolto l’intera cultura e che ha scosso profondamente la fiducia accordata alle scienze umane, si è riproposta l’esigenza di una «via filosofica» all’educazione ed alla pedagogia. Essa era motivata dalla volontà di evitare impostazioni settoriali, assolutizzazioni unilaterali, dogmatismi ideologici (tanto più pericolosi quanto più nascosti o travestiti di scientificità o di conclamata aderenza ai fatti). Dopo questa prima stagione focalizzata principalmente sull’analisi critica del linguaggio e delle idee educative e sulla ricomposizione pedagogica dei «dati» provenienti dalle scienze umane, la ricerca teorico-pedagogica si è concretamente mossa lungo tre fondamentali percorsi: uno, qualificabile sostanzialmente come epistemologia pedagogica (che privilegia il rapporto con la pedagogia); l’altro, come analisi e interpretazione teoretica diretta dell’esperienza educativa (e che privilegia piuttosto il rapporto con l’educazione). Negli ultimi tempi, in un clima preoccupato per la globale problematicità della temperie culturale, per le sorti della democrazia e per un futuro di civiltà, anche l’approccio teoricopedagogico è stato chiamato a riconsiderare globalmente l’educazione, la formazione ed il sapere ad esse relativo (privilegiando il rapporto con la cultura formativa e la cultura in genere). 3. F. implicita e pedagogia come f. applicata. Una visione generale del mondo e della vita, un certo quadro di → valori, una concezione della conoscenza ed in particolare della scienza, sono soggiacenti alle affermazioni pedagogiche che si dicono scientifiche o che sono frutto di ricerca empirica. Spesso queste concezioni di fondo non

sono esplicite o sono assunte acriticamente. In molti casi sono mescolate ad altri contenuti culturali pre-scientifici di provenienza esperienziale, tradizionale, politica. A motivo di ciò si corre facilmente il rischio di riversare sulla ricerca scientifica (da fare o fatta) pregiudizi intellettuali, riduttivismi antropologici, intenzioni profonde, soggettive o di parte (e quindi ideologiche nel senso peggiore del termine). Appartiene piuttosto al passato anche la posizione che considera tutta la pedagogia come una f. applicata. È evidente in questa posizione il rischio di una subordinazione della intera pedagogia alla f., misconoscendo le altre fonti della ricerca pedagogica (esperienza, indagine storica, analisi sociologica e psicologica, rilevazione antropologico-culturale, ecc.). Fissando lo sguardo sui principi si può arrivare a perdere di vista l’irriducibile originalità del momento pratico. E forse si verrebbe a misconoscere pure un dato tipico della tradizione: quello che vuole non solo che la pratica educativa sia illuminata dalla riflessione filosofica, ma anche che essa stessa diventi una fonte e uno stimolo di prim’ordine per fare f. e per valutare lo spessore conoscitivo dei principi filosofici. D’altra parte, a suo modo, questa posizione viene a ribadire l’importanza dell’attenzione teoretica ai problemi educativi. 4. La f.d.e. come atteggiamento particolare di fronte ai problemi educativi e come attenzione epistemologico-pedagogica. Per ciò che riguarda lo statuto epistemologico, secondo alcuni l’approccio filosofico all’educazione più che una disciplina specifica starebbe ad indicare un atteggiamento e un modo particolare di affrontare i problemi educativi, specialmente per ciò che riguarda il fine e il senso dell’educazione, il rapporto tra educazione e valori o il riferimento a questioni quali l’uomo e la natura, la sua libertà, il suo futuro, ecc. Per chi la f. è irrimediabilmente ideologia, qualora pretendesse di proporre una qualche visione del mondo e della vita, l’unica possibilità di essere di una f.d.e. è quella di porsi come indagine sulle scienze e cioè come epistemologia o come metateoria. In questo caso, più che parlare di f.d.e. (considerata nel migliore dei casi come trascrizione pedagogica di una qualche ideologia), si dovrebbe più correttamen463

FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE

te parlare di f. delle scienze educative o di epistemologia pedagogica o di metateoria dell’educazione. Suoi compiti sarebbero ad es. individuare i rapporti tra ideologia e ricerca scientifico-educativa; studiare le condizioni essenziali del costituirsi del sapere scientifico sull’educazione, la sua specificità, i suoi compiti, i suoi limiti, i suoi contributi; vagliare la logicità intrinseca ed estrinseca del «congegno pedagogico», vale a dire del complesso dei metodi, dei modelli, delle procedure, delle strategie e degli interventi che si propongono; o infine ricercare lo «specifico» della pedagogia rispetto alle altre scienze dell’educazione. Ma per il conseguimento di questi obiettivi generalmente non si crede necessaria una disciplina specifica. Si crede sufficiente una vigilanza critica nella ricerca educativa e nelle affermazioni pedagogiche. Ad evitare residui neopositivistici, è ascoltata da molti la lezione del razionalismo critico popperiano e quella della critica dei postpopperiani al neopositivismo ed al feticismo dei metodi. E quindi si ammette che un’indagine di tipo filosofico possa chiarire problemi, smascherare miti e pregiudizi pedagogici o avanzare ipotesi, o prospettare nuovi modi di vedere e di pensare l’educazione e di agire educativamente. In tal senso la f.d.e. sarebbe come l’«aurora» della scienza o delle scienze dell’educazione. Ma di solito non ci si spinge alla problematizzazione radicale dei principi, dei «fondamenti» ultimi e della «ontologia/metafìsica» che sta sullo «sfondo» della ricerca scientifica o della riflessione su di essa. 5. La f.d.e. tra le scienze dell’educazione. C’è invece chi vede possibile una f.d.e. non solo come una delle fonti per una scienza dell’educazione, ma come disciplina autonoma all’interno del plesso disciplinare che affronta la problematica educativa (e che globalmente può essere denominato → scienze dell’educazione in senso largo). Ad essa si verrebbe ad affidare il compito generale d’investigare sui problemi teorici dell’educazione secondo le modalità proprie dell’approccio filosofico. Rispetto alle altre discipline, la f.d.e. si porrebbe tra quelle che privilegiano il momento analitico-interpretativo del conoscere; e quindi troverebbe a monte di se stessa le discipline a prevalente carattere rilevativo (biologia, psicologia, 464

antropologia e sociologia, storia dell’educazione e della pedagogia, ecc.) e prim’ancora l’intero complesso delle scienze umane e sociali, in vista di una chiara fenomenologia dell’educazione. Nell’espletamento della sua funzione critico-prospettica la f.d.e. contribuirebbe a mettere in luce le linee di tendenza, gli orientamenti innovativi nei confronti dell’intervento educativo, le conseguenze di certe decisioni e strategie educative. E quindi si porrebbe come momento previo o valutativo rispetto alle discipline a carattere metodologico-progettuale (metodologia, didattica, docimologia, tecnologie educative, ecc.). Essa troverebbe la sua punta di diamante nella ricerca di una visione generale che permetta di cogliere il senso e i significati dell’educazione. In ambito cristiano si crede che in tale compito la f.d.e. è affiancata e può interagire proficuamente con la → teologia dell’educazione. In ciò si mostrerebbe chiaramente come l’autonomia disciplinare si aprirebbe all’interdisciplinarità, vale a dire all’incontro, all’interazione e alla coordinazione con le altre discipline pedagogiche e con altri tipi di ricerca educativa, nell’orizzonte ultimo di una risposta più adeguata e attendibile ai problemi dell’educazione e della cultura formativa. L’approccio filosofico verrebbe a porsi come organo dell’intero, dell’universalità e dell’apprensione comprensiva e significativa degli «oggetti»: nel caso specifico, dell’educazione e del sapere pedagogico. Ciò, evidentemente, non è senza la coscienza del rischio di produrre costrutti concettuali assolutizzanti e grettamente ideologici, nel senso che possono risultare poco aderenti alla realtà concreta o addirittura che possono coartarla e manipolarla concettualmente e linguisticamente ai fini di interessi particolaristici, magari non sempre intenzionalmente voluti. Dovendosi basare solo sulla razionalità e la forza argomentativa di quanto si viene affermando, appare abbastanza chiaro che in tale materia non è facile giungere ad affermazioni apodittiche e chiaramente incontrovertibili. Ma si può ragionevolmente pensare che esse siano attendibili nella misura in cui sono tali da resistere ai tentativi di criticabilità nei loro confronti. Ciò va rilevato come condizione previa, soprattutto in questo nostro tempo segnato dal rifiuto delle «grandi narrazioni» o dei saperi sistematici (→ postmoderno/

FILOSOFIA: INSEGNAMENTO DELLA

postmodernità) e dalla elevata coscienza del pluralismo culturale contemporaneo. È appena da notare come questa impostazione presuppone un concetto largo di scienza (vista come sapere rigoroso e giustificato, non totalmente circoscrivibile alle scienze empirico-logiche). A sua volta, come ogni altra forma storica di far f., anche questo modo specifico di filosofare sull’educazione e sulla formazione (e/o sul sapere ad esse relativo) si esprimerà in forme, metodi ed esiti diversificati e pluralistici, in rapporto alle urgenze storico-ambientali, al contemporaneo e comunitario sentire, alla personale comprensione ed esperienza di vita e di fede. Per tal motivo, più che di un’univoca f.d.e. sarebbe più corretto parlare di concrete f.d.e., che realizzano in modo analogo lo stesso e specifico compito. Bibl.: H essen S., Fondamenti filosofici della pedagogia, Roma, Armando, 1956; Braido P., F.d.e., Zürich, PAS-Verlag, 1967; M aritain J., Pour une philosophie de l’éducation, Paris, Fayard, 1969; P eters R. S. (Ed.), Analisi logica dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1971; Bertin G. M., Educazione alla ragione, Roma, Armando, 1975; Cives G., La f.d.e. oggi, Firenze, La Nuova Italia, 1978; D ucci E., L’uomo umano, Brescia, La Scuola, 1980; Volpi C., Paideia ’80. L’educabilità umana nell’era del post-moderno, Napoli, Tecnodid, 1988; Serafini G., Questioni di f.d.e., Roma, La Goliardica, 1988; Nanni C., L’educazione tra crisi e ricerca di senso, Roma, LAS, 1990; Fullat O., Filosofías de la educación, Barcelona, CEAC, 1992; Acone G., Declino dell’educazione e tramonto d’epoca, Brescia, La Scuola, 1994; Mantegazza R., F.d.e., Milano, Mondadori, 1998; Iori V., F.d.e. Per una ricerca di senso nell’agire educativo, Milano, Guerini, 2000; Cambi F., Manuale di f.d.e., Roma/Bari, Laterza, 2000; Gennari M., F. della formazione dell’uomo, Milano, Bompiani, 2001; Nosari S., L’educabilità, Brescia, La Scuola, 2002; G ranese A., Istituzioni di pedagogia generale. Principia educationis, Padova, CEDAM, 2003; A ltarejos F. - C. Naval , F.d.e., Brescia, La Scuola, 2003; Altarejos F. - C. Naval, Filosofía de la educación, Barañáin (Navarra), EUNSA, 22004; Mollo G., Il senso della formazione, Ibid., 2004; Nanni C., Introduzione alla f.d.e., Roma, LAS, 2007.

C. Nanni

FILOSOFIA: insegnamento della L’insoddisfazione per la quasi secolare e spesso disattesa riforma gentiliana della scuola in Italia ha suscitato anche nell’insegnamento della f. molte sperimentazioni didattiche riassumibili nella contrapposizione tra metodo storico e metodo problematico. 1. Lo «status quaestionis». Negli anni ‘90 del sec. scorso i «programmi Brocca» della scuola secondaria, in questo recepiti anche dalle riforme successive, per conciliare l’esigenza di contestualità tipica del metodo storico con l’esigenza di criticità tipica del metodo analitico o per problemi e insieme cercare di evitare sia il pericolo di una rassegna di opinioni che genera scetticismo sia il pericolo di un indottrinamento ideologico nell’analisi dei problemi, hanno indicato come metodo proprio dell’insegnamento della f. l’impostazione storico-problematica, con una scansione cronologica per anno, alcuni grandi autori da trattare obbligatoriamente e una serie di nuclei tematici per ogni anno fra i quali operare una scelta. Nel contesto interculturale odierno, per evitare contrapposizioni drammatiche o nuove dittature ideologiche, è necessario accrescere la criticità per un dialogo sereno. L’antitesi tra soggettivo e oggettivo, soggettivo potenziato all’eccesso nel mondo virtuale e oggettivo spesso confuso con giochi di potere, va superata in una loro fondazione unitaria nel primato della alterità come radicale irriducibilità; allora è veramente possibile un ripensamento in radice della educatività della f., a partire dalla categoria dell’Altro. 2. Per una rifondazione dell’insegnamento della f. Si tratterebbe infatti di progettare uno «statuto epistemologico» dell’insegnare ricomponendo il programma a partire da un concetto nuovo, il concetto di scientificità scolastica. La disciplina scolastica della f. non è una riduzione didattico-liceale della corrispondente scienza accademico-universitaria perché non ha come criterio organizzativo un principio intrinseco alla disciplina e cioè la completezza formale dell’argomento, ma un criterio estrinseco e cioè le esigenze dell’educando, i bisogni di una persona in crescita. Occorre quindi proporre un iti465

FILOSOFIA: INSEGNAMENTO DELLA

nerario di sviluppo della razionalità entro la disciplina, che possa essere assunto da ogni alunno come itinerario di sviluppo della propria umana razionalità, al fine di potere individuare un proprio «ruolo» in una società «multiculturale». 3. Suggerimenti operativi. In questo orizzonte epistemologico il momento più significativo sarebbe la comunicazione fra esperienze per una loro trasferibilità. Le tappe di questo percorso, potrebbero essere le seguenti: a) Prima tappa: Una docenza più profondamente comprensiva della razionalità già presente nella disciplina filosofica. In particolare, un migliore utilizzo educativo: 1) dello «statuto epistemologico», ossia dei criteri di formalizzazione dei contenuti, che la disciplina usa come criteri di interpretazione e organizzazione del reale (ad es., il concetto di «spazio» per la geometria); 2) dell’«orizzonte ermeneutico»; ossia la quantità e qualità di reale raggiungibile con quei criteri, e quel tipo di razionalità; 3) della «storicità» e in essa del «principio della trasgressione» come criterio «ri-creativo» del reale. b) Seconda tappa: Una docenza «analogica» e cioè capace di creare interazione tra «testi» e «ripensamento sistematico». In un primo momento si tratterebbe semplicemente di utilizzare alcuni filosofi come espressione più alta di un momento teoretico (ad es. Fichte per l’etica; Schelling per l’estetica...) e di comparare alcuni modelli lontanissimi nel tempo e nello spazio (ad es. la mistica di Eckart e lo Zen di Suzuki), per fare intendere i cammini paralleli dello stesso spirito umano. Si può arrivare poi a presentare la f. di un pensatore, come riflessione su un’esperienza vitale già conclusa per consegnarla teoreticamente a tutta l’umanità (ad es. → Platone per la polis; s. → Tommaso per la esperienza comunale; Cartesio per l’assolutismo dinastico...). c) Terza tappa: Una docenza capace, contemporaneamente, di accogliere la nuova cultura dei mondi vitali e di integrarla con la tradizionale cultura umanistico-scientifica tipica della scuola, perché capace, previamente, di strutturarla secondo specifici criteri di formalizzazione. Così, ad es., l’introduzione della tematica della → pace si è rivelata come un nuovo modo di fare cultura perché il criterio di collaborazione fra persone diventa 466

criterio altrettanto razionale quanto quello della coerenza logica per la riflessione. 4. Conclusione e sintesi. Il punto nodale starebbe quindi nella capacità del soggetto docente di mettere in moto un processo di riflessione sullo «statuto epistemologico dell’insegnare», in cui l’intuizione della scientificità scolastica si strutturi in una teoria di insieme, entro la quale le tradizionali discipline scolastiche diventino modelli strutturati e successivi di razionalità, per uno stimolo, confronto e misura con l’itinerario di sviluppo della propria razionalità da parte di ogni singolo alunno. Ciò che diventa quindi primario nell’insegnamento non è solo quello che ha detto un determinato filosofo, ma il perché una data f. ha progressivamente convinto gli esseri umani di una determinata epoca e perché poi altre sono risultate più convincenti e sono perciò prevalse. Sono quindi i paradigmi di un passaggio «da ... a ...» più che una presunta conoscenza di fini ultimi, ciò che determina il senso del progredire educativo realizzabile attraverso l’insegnamento della f. Bibl.: Forment E. et al., Enseñanza de la filosofía en la educación secundaria, Madrid, Rialp, 1991; Folscheid D. - J. S. Wunenburger , Metodologia filosofica, ediz. it. a cura di G. Zuanazzi, Brescia, La Scuola, 1996; De Pasquale M. (Ed.), F. per tutti. La f. per la scuola e la società del 2000, Milano, Angeli, 1998; Berti E. - A. Girotti, F. La f. nel dibattito sui saperi essenziali e sulla nuova professionalità del docente, Brescia, La Scuola, 2000; R estelli S. (Ed.), La f. e le altre discipline. Percorsi didattici multidisciplinari per la scuola superiore, Milano, Angeli, 2000; Schoepflin M., L’insegnamento della f. in Italia, oggi, Roma, Casa editrice Leonardo da Vinci, 2001; Trombino M., L’officina del pensiero. Insegnare e apprendere f. Manuale-laboratorio didattico, Milano, LED Edizioni Universitarie, 2004; Morini P., La f. per modelli di razionalità: una proposta metodologica, in «Comunicazione filosofica» 17 (2006) 4-13; I lleterati L. (Ed.), Insegnare f. Modelli di pensiero e pratiche didattiche, Torino, UTET, 2007.

P. De Giorgi - M. Marin

FINANZIAMENTO SCOLASTICO → Amministrazione scolastica

FINE DELL’EDUCAZIONE

FINE DELL’EDUCAZIONE Il f.d.e. è insieme la meta e l’orizzonte del­l’ → azione educativa. All’interno di un pro­getto esso si specifica e si articola in fina­lità, che a loro volta trovano negli → obiettivi la loro determinazione controllabile, veri­ficabile e valutabile in termini di conoscen­ze, atteggiamenti e abilità che si intendono conseguire attraverso → l’intervento educati­vo. 1. Il discorso pedagogico sul f. e sulle fina­lità dell’educazione. Parlare di f.d.e. è oggi non facile per la crisi, l’innovazione, il → pluralismo e il multiculturalismo di idee, di valori e di cultura che attraversano la vicenda storica attuale. Peraltro l’enfasi sulla tecnologia spinge a preoccuparsi più dell’efficacia e della produttività che delle questioni di princi­ pio; porta ad affidarsi più alle strumentazioni rigorose e precise, che alle teorie astratte, più alle mete da raggiungere che alle questioni umane e sociali che vengono messe in gioco dai processi produttivi. Sic­ché è facile che il discorso sui f. ultimi, sul quadro ideale di riferimento, sulle riper­cussioni umane delle strategie d’azioni, resti piuttosto implicito (anche se non per questo meno incidente sulla qualità totale del processo). In tal senso negli anni tra­scorsi si è parlato di pedagogia degli obiet­tivi che metteva in ombra la pedagogia del f. Tuttavia è da dire che oggi, il discorso sui f. e sulle finalità, come quello delle teorie e dei → valori ha ripreso consistenza forse anche a motivo dei limiti e dei rischi di una prospettiva troppo tecnologica o troppo pragmatica, di cui si va prendendo coscien­za. Attraverso un tale lavoro la pedagogia offre all’educazione le indicazioni che dan­no senso a contenuti, processi, metodi, istituzioni. I f. chiedono specifica­mente alla pedagogia due contributi: anzitutto una teoria della funzione dei f. nel progetto educativo: definizione funzionale di scopi, finalità specifiche, obiettivi; esigenza di caratteri di chiarezza, comunicatività, operabilità della loro formulazione, per as­solvere la funzione complessa in fase di progettazione, attuazione, verifica e valu­tazione dei risultati, proseguimento otti­male. Poi una metodologia per i responsa­bili e gli operatori, quando si impegnano a formulare concretamente quadri e sequen­ze per l’elaborazione operazionale

all’in­terno di un progetto. È l’aspetto che ora viene considerato. 2. Determinare i f. I f.d.e. si determinano per via deduttiva o induttiva? La → storia della pedagogia co­nosce le due vie e le loro composizioni. Nella pedagogia classica prevaleva la deri­vazione deduttiva dall’alto, o meglio l’as­sunzione dall’esterno, da premesse assiologiche e deontologiche di natura filosofica, teologica, morale, giuridica o culturale. Fissare e asse­g nare le finalità dell’educazione in buo­ne forme di vita e di condotta della persona era diritto della → famiglia, della → Chiesa e modernamente dello Stato. Per altri le finalità educative erano considerate come preesistenti per volontà di Dio, e iscrit­ te nella natura dell’uomo. Alla pedagogia, come ancilla, veniva assegnato il compito di attuarle con opportune metodiche e tecniche, magari in collaborazione con psicologia in vista dell’adegua­tezza significativa agli educandi. Al mutare moderno dei modi di pensare, concentrati non più sulle idee e sui valori ideali, ma sul­la realtà e i suoi problemi, le prospettive sono cambiate. Nella prassi pedagogica i f. non sono più idee e valori, ma problemi da risolvere, scopi e risultati da perseguire, considerando stati di partenza e di arrivo dentro i contesti dove si colloca l’educazione o meglio la → formazione. In questo la­voro fanno da guida nuovi riferimenti em­pirici: biologia, psicologia, società e socia­lità, economia, convivenza civile e politica, neo-umanismi di scienza, arte, → cultura, eticità e religione, nel loro dive­nire storico; con attenzione alle identità culturali e perfino alle condizioni di opi­nione, usi e costumi, consensi e regole di maggioranza. La traduzione progettuale si orienta variamente nei pedagogisti e edu­catori a finalità di conoscenze di vario indi­r izzo, ad attitudini e atteggiamenti perso­nali e sociali, a competenze operative a forme di convivenza democratica e solidale. For­se oggi una posizione più matura invita a trovare la sintesi tra le due posizioni. In questo senso non si tratterà più solo di finalità di valori discendenti, né so­lo di obiettivi di problemi contingenti da ri­solvere o di esiti da promuovere, ma di fi­nalità pedagogiche e educative in vista del conseguimento di valori che si intravedono nella situazione formativa concreta allo stato di problemi e che chiedono alla peda­gogia la 467

FINE DELL’EDUCAZIONE

traduzione delle istanze composite in termini operabili di scopi, finalità, obiet­tivi a lungo, medio e breve termine. 3. Finalità a lungo termine. Sono i risultati che l’educazione, una volta ben attuata, consegna ai sovrasistemi che ultimamente la motivano, ne regolano l’insieme dei pro­getti e processi e per i quali l’educazione nasce e opera, offrendo il suo specifico contributo. Si possono porre in questo am­bito problemi che oggi nella realtà mon­diale e locale, trovano spazi normali o insufficienti, giusti o negati, o comunque li­mitati. Piani e progetti d’educazione sono chiamati a promuovere tali valori, contri­buendo a risolvere o per lo meno a ridurre i problemi. Vi rientrano: a) valori-proble­mi dell’uomo-persona individuale. Mirano a garantire una condizione di vita umana­mente degna che oggi è troppo limitata, spesso fallimentare, negata a troppi: nasce­re sani, essere amati, accolti, aiutati a ma­t urare e a sviluppare la propria personalità, nel concreto vivere storico-comunitario e nei suoi trend di sviluppo. Diventare sostanzialmente ed esistenzial­mente → persone, sviluppando e maturan­do qualità, dignità, libertà, consapevolezza, virtù. Aprirsi e prepararsi per il largo e ret­to inserimento partecipativo, attivo nei si­stemi di società, cultura, lavoro, fede. Tro­vare significati e senso, criteri e norme per sé, per la vita, per l’agire, per gli accadi­menti. Superare o rimediare i condiziona­menti fisici, mentali, culturali, recuperarando le devianze e le emarginazioni, e inte­grando le diversità. Trovare condizioni di libertà e giustizia. Valorizzare l’identità maschile e femminile e la varia integrazio­ne. Saper affrontare ogni fatto dell’esisten­za con consapevolezza, responsabilità, solidarietà, competenza, valore: sono queste alcune fi­ nalità di questo tipo; b) valori-problemi della → società. Vi viene compreso: Pro­muovere nelle società patrimoni culturali di verità, amore, giustizia, comprensione, solidarietà e pace. Trasformare la → società e le so­cietà, le istituzioni, le convivenze, ogni vol­t a che è giusto, in comunità di persone. Migliorare le condizioni dei beni e dei servizi. Far evolvere la convivenza civile e la strut­t ura politica in funzione del bene comune. Superare i regimi totalitari di privilegio e violenza. Risolvere in modo positivo i gra­vi problemi locali e del mondo: fame, casa, lavoro, sa468

nità, studio, libertà, emigrazione. Formare quadri responsabili civili e politi­ci a tutti i livelli, nonché operatori dotati di competenza e amore. Ampliare la parteci­pazione attiva di tutti. Raggiungere condi­zioni comuni di progresso, uguaglianza, libertà. Riqualificare gruppi in crisi: fami­glia, scuola, lavoro, città, chiese; c) valori-problemi della cultura. Si può collocare qui: conservare la cultura, fruirne, produrla. Coltivare se stessi. Promuovere la ricerca e lo sviluppo delle scienze, arti, tecniche dell’uomo, della natura, della vita, dello spirito. Equilibrare e armonizzare gli assi cultuali che li riguardano. Risolvere i temi della pluralità delle culture e quindi di ogni cultura: conservazione, integrazione, tran­sizione critica, innovazione. Formare all’u­so valido dei mezzi della comunicazione sociale, a diventarne operatori; d) valori-problemi del → lavoro e della → professio­nalità. In questo ambito si colloca: umaniz­zare il lavoro, socializzarsi nel lavoro, pro­fessionalizzare i lavori. Maturare una cul­t ura, etica, spiritualità, politica del lavoro. Garantire il rifornimento dei quadri pro­fessionali per ogni livello e indirizzo. Pro­muovere la concezione imprenditoriale del lavoro con partecipazione attiva. Garantire un lavoro trasformatore dell’uomo e non solo della natura; e) valori-problemi degli ordini di → morale e → religione. Qui è da pensare a: passare da sistemi di tradizione e trasmissione a sistemi di costruzione o ri­ costruzione personale e attuale delle nor­me dai valori inerenti nella realtà e nella vita. Promuovere vite ricche di coscienza e sensibilità, di virtù di bontà e giustizia, aperte all’infinito e all’assoluto dell’uomo, fino agli orizzonti religiosi, per i credenti. Rispondere alla domanda trascendente dell’etica e del divino come realtà ogget­tive e come dimensioni della persona, si­g nificati e condizioni di pienezza e di sal­vezza. Per i cristiani in particolare, percor­rere a fondo i cammini di vita-fede-vita, impostare e risolvere i temi di → vocazione e missione, attuare storicamente i piani tra­scendenti di Dio in Cristo, per la Chiesa, nel mondo. Queste finalità educative di lungo termine evitano conflitti di priorità instaurando un maturo policentrismo che vede ognuna al centro del riferimento di ogni altra e a suo tempo in rapporto peri­ferico con ogni altra al centro. E in quanto educative, vedere e attuare queste finalità nel formarsi e

FINE DELL’EDUCAZIONE

nella qualificazione umana delle persone (individui, gruppi, comunità) per il tramite di idee, progetti, programmi, interventi di aiuto e di stimolo per l’appunto educativo. 4. F. a medio termine. Sono i risultati attesi dall’azione edu­cativa al termine degli anni giovanili, in rapporto ai f. precedenti. L’ipotesi è che entrando nella «maggiore età» la persona pos­sa essere considerata sufficientemente educata e in grado di inserirsi auto­ nomamente nelle realtà adulte e provvedere alla sua permanente riqualificazione umana, pur usufruendo dei «servizi» sociali di formazione permanente. Oggi la politica educativa e la pedagogia propendono per una coestensività di evolutività e vita (e quindi di dilatamento dell’educazione «per tutta la vita», a tutte le dimensioni della vita, in tutte le situazioni di vita). Ma forse l’ipotesi sopra indicata si può mantenere per impostare proficuamente il lavoro degli anni precedenti, che avrebbero il loro «télos», vale a dire il loro finalismo educativo, che oggi, rispetto alla → paideia classica, si esprimerebbe: nella figura dell’uomo capace di un uso abituale largo e retto della → libertà; dell’uomo preparato per entrare esperto e onesto nei ruoli sociali, politici, economici; nella persona che ha rag­giunto un idoneo patrimonio di saper fare, sapere e saper essere, saper vivere insieme con gli altri nel mondo e nella storia, pur aperta al trascendente; dell’uomo capace di de­cisioni e scelte libere, responsabili, solidali, utili. O che – in termini bio-psico-sociali – si esprimerebbe: nella → maturità adulta della personalità integrata sufficientemente capace di funzionalità completa, dotata di contenuti e capace di inserimenti e relazioni, di assu­mere ruoli e funzioni esperti. Si tratta di maturità or­ganica e funzionale, relazionale, sociale e culturale, etica e morale, religiosa (e cri­stiana), vocazionale e professionale, per af­f rontare bene la vita di ogni giorno. 5. F. a breve termine. Sono costituiti dai quadri programmatici della formazione e dalle sequenze del loro sviluppo. Vi rientrano: a) un quadro orizzontale di obiettivi attorno ai quali lavorare con continuità e che hanno co­me quadro le aree educative della crescita organica e funzionale, fisica corporea, mentale, spiri­t uale, sociale, morale, religiosa, cristiana, sessuale, cultuale,

artistica, orientativa; le → relazioni reali ed esistenziali dell’Io con sé, con gli altri, con la natura, la società, la cultura, gli accadimenti, con Dio (e, in ambito cristiano, con Cristo e con la Chiesa); i problemi ca­ratteristici che si presentano nelle diverse fasi dello → sviluppo evolutivo d’infanzia, pubertà, adolescenza, giovinezza, età adulta; l’acquisto degli strumenti del vivere e convivere, lavorare, comunicare, esprimersi con libertà cre­scente, come scienze, lingue, tecniche, ar­ti, → virtù morali e sociali; b) la sequenza verticale lungo il passare degli anni, con l’attuarsi della maturazione generale, in cui sono da tener presenti i gradi e passi suc­ cessivi del divenire maturativo e solutivo del quadro precedente, ponendo e attuan­do gli obiettivi successivi che accompagna­no le età evolutive della maturazione progressiva, gli avvenimenti che chiedono aiu­to, alimento, correzione (e, nell’ipotesi dell’educazione permanente, quelle diverse età, condizioni e situazioni di vita). 6. Rendere operazionali i f. L’indicazione non basta. L’operazionalità si persegue de­finendo i f. che si intendono promuovere o ottenere nei soggetti mediante l’educazio­ne. Si descrivono i contenuti di tale stato fi­nale: le → conoscenze che si richiedono per avviarlo e per svolgerlo e acquisirlo; gli → atteggiamenti e i comportamenti, intimi e relazionali; le → compe­tenze della vita personale e sociale. Di essi si precisano l’estensione voluta, la rigorosità di acquisizione e padronanza, le tolleranze minime e le varianze. È necessario artico­lare la finalità ultima in una sequenza ana­litica di unità minori di natura dispositiva e preparatoria, contenutistica, processuale e finale. Si determina una scala progressiva di obiettivi di avvicinamento: di buona partenza e buon cammino (comuni­cazione del f. e degli obiettivi scalari, con­senso sul f. e sui mezzi, ricerca dei modi va­lidi e efficaci); di acquisizione intermedia e successiva; di promozione e garanzia di condizioni di buon andamento che rendo­no il f. raggiungibile (attenzione, tensione, impegno, comprensione, decisione, lavoro di ricerca); tempi di lavoro (lunghi, brevi, immediati, urgenze); ritmi lasciati liberi o rigorosi; valutazioni dei risultati, degli andamenti, delle strutture operative. Si suppongono (e sono quindi eventualmen­te da verificare e promuovere) le 469

FLORES D’ARCAIS GIUSEPPE

buone at­titudini di tutti gli operatori e l’effettivo impiego dei supporti esecutivi: mezzi, stru­menti, processi, procedimenti che si credo­no necessari, utili, possibili, attrezzatura dei luoghi. È infine da dire che il discorso pedagogico sul f. e sulle finalità dell’educazione ha una «normatività» te­leologica, non tecnica: dice, cioè, i traguar­di da raggiungere ed i grandi principi del­l’azione, ma è «incompetente» per ciò che riguarda concretamente il come, il quando, il dove, con chi e con che mezzo o rispetto a chi tali fina­lità sono da perseguire. Di ciò non c’è scienza, ma solo incontro, confronto ragionato e pra­ tico, azione prudente, tatto. Bibl.: M aritain J., L’educazione al bivio, Brescia, La Scuola, 1963; Freire P., La pedagogia degli op­pressi, Milano, Mondadori, 1971; D’Hainaut L., Des fins aux objectifs pédagogiques. Paris, Nathan, 1977; Birzea C., Rendre opérationnels les objectifs pédagogiques, Paris, PUF, 1979; Giesecke H., Das En­de der Erziehung, Stuttgart, Klett-Cotta, 1985; Scurati C., Profili nell’educazione. Ideali e modelli pedagogici nel pensiero contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero, 1996; Gianola P., Il campo e la domanda, il progetto e l’azione. Per una pedagogia metodologica. Ediz. a cura di C. Nanni, Roma, LAS, 2003.

P. Gianola - C. Nanni

FLORES d’ARCAIS Giuseppe n. a Pontelagoscuro (Ferrara) il 20 giugno 1908 - m. a Padova il 4 agosto 2004, pedagogista italiano. 1. Professore ordinario di Pedagogia dal 1953 nell’Università di Padova, dal 1975 è stato professore ospite nella Facoltà di Filosofia dell’Università di Würzburg dalla quale ha ricevuto il dottorato honoris causa nel luglio 1981. È stato uno dei fondatori della Facoltà di Magistero dell’Università di Padova e viene unanimemente considerato uno dei massimi esponenti del → personalismo pedagogico italiano. Con Raffaele Resta ha fondato e diretto ininterrottamente dal 1941 «Rassegna di Pedagogia», la più antica rivista del settore in Italia. Contemporaneamente ha diretto anche le riviste «Lumen»; «Studi Teatrali»; «Studi Cinematografici e Televisivi»; «I Li470

cei e i loro Problemi», «Il Gazzettino della Scuola» . 2. Scritti principali: Preliminari di una fondazione del discorso pedagogico, Padova 1972; Premessa deontologica del discorso pedagogico, Padova 1975; Le ragioni di una teoria personalistica dell’educazione, Brescia 1987; Pedagogie personalistiche e/o pedagogia della persona , Brescia 1994; Intervista alla pedagogia, Brescia 1998. Numerosi gli articoli nelle riviste su citate. La copiosa produzione pedagogica di F.d’A., orientata allo spiritualismo cristiano, maturato attraverso la lezione di E. Trailo e di → Stefanini , sulle orme del pensiero di → Mounier, → Maritain e del mondo degli intellettuali che si raccolgono attorno alla rivista francese «Esprit», elegge la persona a primum del discorso della/sulla educazione. Su queste basi teoretiche arricchite dal confronto con indirizzi filosofico-pedagogico contemporanei, F.d’A. conferisce sistematicità ad una pedagogia personalista iuxta propria principia che l’Università di Padova ha ereditato e porta avanti come tratto caratteristico nel panorama nazionale degli studi pedagogici. Bibl.: a) Fonti: tra i principali scritti di F. Le ragioni di una pedagogia personalistica, Brescia, La Scuola, 1987; Pedagogie personalistiche e/o pedagogia della persona, Ibid., 1993; F.d’A. - C. Xodo Cegolon, Intervista alla pedagogia, Ibid., 1998.b) Studi: Sul pensiero di G.F.d.A., in «Rassegna di Pedagogia» (2006) 1-4 (n. monogr.); Xodo C., «Il Magistero di Padova e i suoi maestri», in Id. (Ed.), Il Novecento secolo dell’università. Tra continuità e rottura, Padova, CLEUP, 2000.

C. Xodo

FOBIA → Nevrosi FOCUS GROUP → Ricerca educativa/pedagogica

FONDAMENTALISMO Genericamente f. indica una linea conservatrice e intransigente in materia religiosa e per estensione in ogni altro ambito di vita. Vi è strettamente apparentato l’integrismo o integralismo, pur esso storicamente di matri-

FORMATORE

ce religiosa, oggi descrivibile come un indirizzo ideologico che, partendo dal presupposto dell’assoluta validità dei propri principi, mira a stabilire la propria egemonia in campo religioso, politico e culturale, rifiutando più o meno drasticamente ogni mediazione critica e il dialogo sincero con forme diverse di pensiero.

correnti conservatrici di matrice nordamericana, ecc. Una educazione adeguata, muovendosi sul binario del confronto e del dialogo, mette a fuoco il rapporto corretto tra dati di fede e di ragione, segnatamente la giusta autonomia delle realtà terrestri, i diritti della verità e la pratica del discernimento cristiano in una società complessa e pluralistica.

1. Il f. assume visibilità organica agli inizi del sec. XX in ambito protestante, frammentandosi poi in tanti movimenti religiosi (→ sette). Tema originario e privilegiato del confronto riguarda le origini del mondo e dell’uomo, e la loro evoluzione, contrapponendo una interpretazione letteralista della → Bibbia ai risultati, ritenuti eversori della fede, da parte della ricerca scientifica. Non si può negare certe volte la retta intenzione di difendere la verità della fede, ma anche il pericolo di voler ricavare dalla Bibbia delle risposte-ricetta su ogni problema. In sostanza, annota con severità la Pontificia Commissione Biblica, «il f. mette nella vita una falsa certezza, poiché confonde i limiti umani del messaggio biblico con la sostanza divina dello stesso messaggio» (L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Roma, LEV, 1993). Oggi si deve parlare di diversi f. a seconda dei diversi contesti culturali e religiosi nei quali movimenti, gruppi e organizzazioni sono nati e agiscono.

Bibl.: Barr J., Fundamentalism, London, SCM, 1977; Pace E. - R. Guolo, I f., Roma/Bari, Laterza, 1998; Pace E. - P. Stefani, Il f. religioso contemporaneo, Brescia, Queriniana, 2000; Mayer J. F., I f., Leumann (TO), Elle Di Ci, 2001; Vorglimler H., «F.», in Nuovo dizionario teologico, Bologna, EDB, 2004, 297.

2. Il f. connota una mentalità e determina una condotta in cui «il bisogno di sicurezza, a causa della paura e della debolezza dell’Io, porta alla dipendenza servile da una personalità guida, a negare la libertà di coscienza, la tolleranza e la libertà in genere, alla rigorosa difesa di principi morali ristretti (con la fissazione nell’ambito della sessualità); all’elaborazione di fronti e di immagini nemiche (“congiura del mondo”), all’assoluta incapacità di dialogo» (Vorglimler, 2004, 297). È inevitabile il costituirsi di gruppi chiusi, dall’ubbidienza cieca e con rituali fissi. Lo sbocco nel fanatismo violento in nome di una distorta concezione di religione è oggi drammatica realtà. Molto concretamente, oggi si impone come oggetto di attenzione, anzitutto il f. o integrismo islamico nelle sue varie sfaccettature, ma anche il fenomeno dei «cristiani rinati» (born again), i teorici del «disegno intelligente» (Intelligent Design) nelle

C. Bissoli

FORMALISMO → Antinomie pedagogiche

FORMATORE Operatore che svolge precisa attività di for­ mazione nei confronti di altre persone nel­ l’ambito extrascolastico, al fine di far per­ venire l’utente al possesso di diverse abilità nei vari campi di attività in cui opera. 1. Etimologicamente il termine deriva dal lat. formare (dare forma, plasmare), e ri­ chiama la duplice idea di una sostanza cedevole, plasmabile, ed al contempo l’idea che l’essere umano possieda un patri­monio innato da estrarre e sviluppare. Le aree di attività affini sono l’educazione, l’i­struzione e l’insegnamento (educatore, in­segnante). L’attività del f. (→ formazione) si esercita in un contesto strutturato, com­posto di reti formali e informali di diversi operatori, quasi sempre in équipe. Insieme all’Istituzione presso cui opera esprime un progetto formativo condiviso in obiettivi, contenuti, metodi e strumenti, tipi di veri­fica, che attua autonomamente in funzione dell’utenza e dell’organizzazione stessa. Il f. consulente tende così ad avere una pro­pria struttura permanente e a rivendicare uno spazio istituzionale tra committenza e utenza, formalizzando prestazioni e pro­cessi. Si intende la formazione come pratica sociale, nel senso di una attività educativa riguardante adulti in situazione di transi­zione sociale; sul pia471

FORMAZIONE

no metodologico si in­tende come processo trasformativo inten­zionale avente influenza sociale globale. 2. Lo stato professionale di questo opera­tore è eterogeneo e diverso da Paese a Pae­se, e pertanto è difficile una definizione univoca, anche a causa della mancanza di uno statuto e inquadramento professionale omogeneo. Diverse sono le accezioni in cui il termine è usato: docente, istruttore, tu­tor, maestro di apprendistato, animatore, job trainer. Tali accezioni appartengono al campo economico, socio-culturale e socio-professionale e differiscono all’interno di questi a seconda che pertengano a sistemi di → formazione professionale o a sistemi di formazione continua. Il riferimento co­mune di tali termini è il momento erogativo della formazione, il corso o stage. 3 Esistono diverse categorizzazioni del f., a seconda degli obiettivi del tipo di interven­ to: professionali, interventi di primo inse­ rimento, di riconversione, di perfeziona­ mento, di promozione in rapporto a sog­getti in situazione lavorativa; personali, interventi rivolti allo sviluppo dell’espres­sione individuale di ogni singola persona; sociali, interventi riguardanti la vita non professionale, familiare, associativa ecc. I settori di intervento sono in sintesi quello pubblico, delle politiche formative, del la­voro e politiche sociali; quello privato le­gato alle richieste aziendali, consulenze tecnologico-organizzative o domande indi­viduali extraprofessionali; quello autoge­stito, basato sull’autoorganizzazione degli interventi, la cooperazione, il → volonta­riato. 4. Le tipologie più recenti del f. considera­ no diverse variabili, quali la natura concor­ renziale o no degli organismi che lo impie­ gano, le funzioni o i ruoli effettivamente ri­coperti, le caratteristiche del rapporto di lavoro, se permanente o occasionale. Si avranno pertanto le figure del responsabi­le della formazione, con funzione di gestio­ne, amministrazione, direzione, ricerca e formazione dei f.; dell’esperto (→ insegnante, specialista); dell’ → animatore; del consu­lente esterno all’intervento con funzione di informazione, documentazione, orienta­mento. Le competenze richieste al f. sono insieme orga472

nizzative ed educative, dun­que tecniche ma anche relazionali e valo­riali. 5. Il tipo di f. è strettamente dipendente dalla filosofia della formazione nelle diver­se culture organizzative. Se la formazione è intesa come trasmissione di conoscenze e informazioni – normalmente ciò avviene in culture organizzative normativo-burocratiche – il f. si presenterà come istruttore; nel­le culture tecnocratiche, che intendono la formazione come sviluppo delle capacità professionali e/o relazionali del soggetto, sarà conduttore di processi di comunicazio­ne; nelle culture di tipo permissivo-individualista la formazione è intesa come ani­mazione dell’espressività e il f. sarà anima­tore; nelle culture dove la formazione è intesa come cura della crescita personale, generalmente culture di tipo familistico, il f. sarà da intendersi come terapeuta. Bibl.: Quaglino G. P., Fare formazione, Bologna, Il Mulino, 1985; Bellotto M. - G. Trentini (Edd.), Culture organizzative e formazione, Mila­ no, Angeli, 1990; Maggi B. (Ed.), La formazione: concezioni a confronto, Milano, Etas, 1991; Pardilla A., Il f. e la formatrice testimoni di Cristo, Roma, Claretianum, 1999.

M. Groppo - L. Righi

FORMAZIONE Il termine f. ha avuto molti usi ed ancora oggi è inteso in molti sensi. Nel linguaggio comune e nella letteratura pedagogica il termine è sinonimo di educazione, di → apprendimento, di → istruzione, di → addestramento ed in un certo senso li coinvolge tutti. 1. F. come attività plasmatrice. Un primo significato, che si riscontra ancora nel linguaggio comune, viene dal concepire il «formare» nel senso di «dar forma», di configurare, di plasmare, di foggiare e forgiare, come fa lo scultore con il marmo, come fa il vasaio con la creta, o il musicista e il pittore con la propria ideazione artistica. Questo significato rimane anche per l’opera educativa, intesa come plasmazione umana. F. sta per attività (e risultato della attività) che la generazione adulta (e per essa in primo luogo i → genito-

FORMAZIONE

ri, gli insegnanti, i maestri, e gli educatori in genere) mette in atto per dare configurazione armonica e composta all’umanità del bambino, costituzionalmente informe, disorganica, incompleta, carente, ma insieme plastica, flessibile, aperta a miglioramenti e perfezionamenti. Ciò viene attuato mediante la interiorizzazione di un quadro di idee, valori e norme precostituite, a cui occorre essere socialmente uniformati o conformati o omologati o assimilati o comunque integrati; attraverso l’esercizio e la pratica di modelli di comportamento socialmente approvati: l’esito atteso è il conseguimento di abitudini di vita, di pensiero e d’azione umanamente degni e socialmente efficaci. In particolare il termine f. veniva e viene usato in relazione alla strutturazione e al rafforzamento delle disposizioni temperamentali personali, come è nell’espressione «f. del → carattere». La coscienza pedagogica contemporanea tende a distanziarsi da questa concezione di f. in quanto sembra trattare la personalità del fanciullo come fosse una materia inanimata o un oggetto di produzione degli adulti, e quindi sostanzialmente passiva rispetto all’attività formativa degli educatori. In questa linea si spiegano il sospetto e la critica di coloro che vedono nell’educazione e nella f. la riproduzione degli assetti sociali e culturali dominanti; e dal punto di vista psicologico l’imposizione e la riproposizione ai giovani da parte del mondo adulto degli antichi divieti e degli antichi pesi ad esso già accollati. A fronte di ciò nel corso della storia dell’educazione si sono avute ricorrenti forme di contestazione (→ descolarizzazione), in nome ed in difesa di una libera e spontanea espansione vitale. 2. F. come prender forma umanamente degna. È pur vero che nella tradizione culturale occidentale oltre il significato fisico di forma (in gr. morfé), che sta per figura, configurazione e delineazione di qualcosa, ci sono altri due significati: quello di esemplare di un’opera o di modello da imitare; ed in senso traslato quello di immagine di un essere con tutte le caratteristiche proprie alla sua specie (significato variamente collegabile alla tradizione filosofica dell’ilemorfismo aristotelico). Questi altri significati di forma non sembrano aver avuto molta fortuna in sede pedagogica, e tuttavia non paiono del tutto assenti. Così, secondo le antiche versioni latine del-

la Bibbia e i Padri della Chiesa, Cristo è la «forma», cioè modello delle virtù. Parimenti «forma» è talvolta sinonimo di «norma», sia nell’antichità che nel medioevo. In questa linea l’ideale cristiano era visto come «imitazione di Cristo». In modo simile il significato filosofico di forma si può scorgere nell’idea di f. vista come impegno personale per l’acquisizione della propria misura di umanità (auto-f.); oppure, in una prospettiva per così dire aristotelica, come attuazione delle potenzialità immanenti dell’essere umano di ciascuno, in quanto sua causa finale e causa che provoca il movimento verso l’attuazione: nell’orizzonte del conseguimento di quel «mestiere di essere uomini» che sintetizza i diversi ruoli personali e dà loro consistenza e unitarietà. O ancora, diventa sinonimo di ricerca della totalità relazionale, sana ed organica, come sembra essere nella psicoterapia contemporanea, che si rifà alla teoria della → Gestalt (in tedesco «forma», «configurazione totale e completa»). Anche questo significato di f. è oggi esposto alla critica di coloro che negano che si dia una totalità organizzata di senso che orienti e legittimi i processi e gli interventi formativi, in quanto sarebbe rimaner vittime di un pensiero assoluto e rozzamente metafisico. Costoro negano un’intenzionalità finalistica in quella che nativamente si pone come «formatività umana», vale a dire la caratteristica dell’essere umano che rispetto agli altri esseri pone maggiormente in evidenza l’esigenza di maturazione e di determinazione organica e la disponibilità ad aprirsi al mondo e agli altri al fine di una completezza umana individuata e singolarmente caratterizzata. Si vede qui subito come nel concetto di f. vengano a confluire questioni filosofiche più vaste sia riguardanti la realtà in generale che il conoscere umano sia più direttamente l’immagine dell’uomo e del suo destino. 3. F. come processo integrativo dello sviluppo personale. L’idea di f. ha preso consistenza pedagogica nell’età moderna in connessione con l’accentuazione dell’immagine moderna dell’uomo costruttore di sé e con l’affermarsi dell’idea di progresso e di sviluppo segnato dall’intervento della razionalità e delle capacità operative e tecniche umane. In questa linea f. è venuta a significare ed essere la risultanza del processo (e il processo stesso), in 473

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cui la persona umana porta a maturazione le potenzialità soggettive, apprende ciò di cui è carente, consolida le proprie capacità, si abilita a vivere la vita personale e relazionale. Ciò avviene nell’interazione con l’ambiente e le sue concrete possibilità storiche, culturali, materiali e di umanizzazione; e con la mediazione e il sostegno di figure (genitori, educatori, maestri, insegnanti, istitutori, animatori, assistenti, ecc.), istituzioni (famiglia, scuola, chiese, gruppi, associazioni, massmedia, ecc.), attività individuali e sociali più o meno appositamente intraprese a questo scopo (→ prevenzione, cura, assistenza, addestramento, socializzazione, inculturazione, insegnamento, istruzione, educazione, catechesi, animazione, ecc.). In questo senso → Rousseau, nel primo cap. dell’Émile, afferma che «ciascuno di noi è formato da tre specie di maestri»: la natura («lo sviluppo interno delle facoltà e degli organi»); gli uomini («l’uso che ci viene insegnato a fare di questo sviluppo»); e le cose («acquisto dell’esperienza personale relativa agli oggetti»). In termini simili oggi si parla di educazione diffusa o informale (=le influenze dell’ambiente e delle dinamiche della comunicazione sociale), di educazione non-formale (iniziative od occasioni istituzionali o contestuali con vasta risonanza formativa, come quelle che vengono dall’organizzazione dello sport, dal mondo del divertimento o dall’associazionismo o dall’ambiente familiare); e di educazione formale, appositamente messa in atto da quello che viene detto il sistema sociale di f. La necessità della integrazione e della coerenza tra questi molteplici fattori della f. è indispensabile per il successo e la positività dell’intero processo. In vista di ciò la pedagogia moderna e contemporanea ha discusso sul peso che i singoli fattori hanno nella f. umana, come ad es. è stato tra nativisti (che esaltano il ruolo del patrimonio genetico, ereditario e congenito) ed empiristi (che invece esaltano il ruolo dell’ambiente e delle possibilità di esperienza); o si son dati da fare per trovare i metodi e le strategie migliori: a cominciare dallo stesso Rousseau che per il periodo che va dalla nascita alla pre-adolescenza credeva che la cosa migliore fosse lasciare il massimo della spontaneità, senza intervenire (educazione negativa opposta ad educazione positiva, fatta di interventi, consigli, castighi, premi, ecc.). Gli 474

studi psicologici hanno aiutato a cogliere le dinamiche profonde, e spesso inconsce, presenti nel processo formativo, ma anche la parte attiva, ricostruttiva ed operativa che il soggetto normalmente ha, nella dialettica tipica del processo formativo tra mondo tendenziale soggettivo, stimolazioni ambientali ed intenzionalità sociali. 4. F. tra Bildung e abilitazione a ruoli professionali o sociali. Etimologicamente il significato di f. come processo di integrale sviluppo personale può essere riferito al termine tedesco «Bildung» (che dice insieme l’immagine umana ideale, la cultura che umanizza e l’azione di umanizzazione attraverso tale cultura). Nel mondo dell’illuminismo e romanticismo tedeschi f. venne a significare «coltivazione di sé», «cultura dello spirito» (nel significato tedesco di «spirito», «der Geist», che implica intellettualità, esteticità, eticità, religiosità, cultura e la loro armonica composizione personale). Questo ideale di umanità armonica ed equilibrata resta nella tradizione umanistica di ogni tempo; mentre l’accento sull’autocostruttività ne dice la modernità. Tuttavia in tempi più vicini a noi, soprattutto nell’immediato dopoguerra, la rilevanza della ricostruzione civile e l’impulso della ripresa economico-produttiva (e fors’anche un certo spirito pragmatistico e tecnologico) hanno portato a pensare la f. quasi esclusivamente in termini di apprendimento e di abilitazione a ruoli lavorativi, professionali, sociali (come nel termine ingl. training e nelle espressioni: f. degli insegnanti, dei genitori, dei lavoratori, dei formatori, degli animatori, del personale, dei quadri, ecc.). L’accento è posto sull’acquisizione di competenze comportamentali e relazionali (legato all’apprendimento di un congruo sapere, saper fare e saper essere e operare con gli altri, congiunti ad un adeguato tirocinio d’iniziazione pratica). 5. F. come funzione dell’evoluzione umana. Negli ultimi tempi il significato di f. va dilatandosi. Essa è ritenuta questione centrale e risorsa imprescindibile nelle politiche nazionali ed internazionali da parte degli organismi governativi (come la CEE o il Consiglio d’Europa o l’Unesco) e non governativi (come le diverse associazioni comunitarie ed internazionali di ricerca e di cooperazio-

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ne operativa, di tutela e di promozione dei diritti umani di tutti e specialmente delle minoranze e delle fasce sociali tradizionalmente emarginate). A livello mondiale, è invocata (e sostenuta economicamente nei concreti progetti di intervento) come termostato dell’equilibrio mondiale e come fattore di sostegno per lo sviluppo dei popoli. La mancata effettività del diritto alla piena alfabetizzazione e il diffuso analfabetismo culturale, rischiano infatti di non permettere a quote sempre più estese della popolazione di «leggere» i sofisticati alfabeti e decifrare i codici procedurali, attraverso cui si esprime o che impone la società industriale e postindustriale, sia a livello di produzione che di esistenza. In tal senso il problema della f. viene strettamente connesso con gli altri grandi nodi dello sviluppo, quali l’economia, la salute, l’ambiente, la popolazione, la democrazia interna e internazionale. La f. non riguarda quindi solo competenze specifiche di ruolo o di status sociale, ma più largamente esistenziali, globali, di vita. Parimenti non viene pensata solo per l’età evolutiva ma per l’intero arco dell’esistenza (come è nelle espressioni: f. degli adulti, continua, iniziale, in process, permanente, universitaria, ecc.). La costruzione e la qualificazione della vita personale individuale e comunitaria è vista come qualcosa di costante, pervasivo e perdurante per tutta l’esistenza. Parallelamente si viene a mettere in evidenza una diversa immagine dell’età adulta, anch’essa non completa, ma bisognosa di integrazione e di continua cura della buona qualità della vita rispetto alle novità e ai mutamenti che intervengono nel corso delle diverse età e alle occasioni offerte dai nuovi mezzi della comunicazione sociale o agli stimoli del mercato mondializzato e della globalizzazione della vita e della cultura. In questo senso la f. viene ad essere una modalità tipica della vita personale e sociale, una funzione che caratterizza l’evoluzione umana, lo sviluppo storico e il futuro civile dell’umanità intera; un punto fermo nella logica delle trasformazioni e del mutamento socio-culturale (→ educazione degli adulti; educazione interculturale). Bibl.: Beretta A. - M. S. Barbieri, Il centauro e l’eroe, Bologna, Il Mulino, 1974; Boutin A, Formation et développement, Bruxelles, Mardaga, 1983; Fabre M., Penser la formation, Paris, PUF,

1994; Dalle Fratte G., Pedagogia e f., Roma, Armando, 2004; Alessandrini G. (Ed.), Pedagogia e f. nella società della conoscenza, Milano, Angeli, 2005; Margiotta U., Pensare la f. Strutture esplicative, trame concettuali, modelli di organizzazione, Milano, Mondadori, 2007; Muzi M. (Ed.), Nuovi soggetti della f. e strategie della differenza, Milano, Unicopli, 2007.

C. Nanni

FORMAZIONE A DISTANZA → Insegnamento a distanza FORMAZIONE CONTINUA/IN SERVIZIO → Formazione degli insegnanti

FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI Il termine f.d.i. si usa prevalentemente co­me sinonimo di preparazione all’insegna­mento – nel senso di «f. di base» (basic trai­ning) –, ma progressivamente sono entrate nell’uso espressioni come «f. in servizio» (in-service training) e «f. permanente» (continuing education), fino a costituire l’idea di un sistema unitario e coordinato di f. che accompagna il soggetto lungo i cicli distin­t i della sua biografia professionale, dal­l’orientamento, alla iniziazione, fino all’e­sercizio diretto dell’insegnamento ed ai passaggi di carriera in rapporto alla dif­ferenziazione funzionale dei compiti all’in­terno dell’istituzione scolastica. 1. La f. in servizio. Essa ha presentato, in questo dopoguerra, nei Paesi occidentali, due approcci divergenti. Il primo prende il nome dalla strategia principale, «Ricerca & Sviluppo»: lungo una articolata progressio­ne, si succedono le fasi di ideazione, pro­duzione (dai prototipi di laboratorio fino alla prova sul campo) e valutazione, fino all’implementazione ed alla disseminazione, con diffusione a regime. Mentre le opera­zioni indicate sono affidate a task-forces composte da epistemologi, disciplinaristi e psicologi, cui è affidata la gestione dell’in­tero circuito, gli insegnanti vengono iden­tificati come destinatari di pacchetti di­dattici prêt à former. Questo schema di massima ha conosciuto stagioni differenti, ordinabili a seconda dello stile relazionale adottato nei confronti degli insegnanti: a 475

FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI

dominanza tecnologica, con l’accento posto sulla riduzione degli aspetti ripetitivi della gestione di aula, mediante teaching machines e software d’istruzione program­mata; a dominanza disciplinare, quando la competizione internazionale denunciò i ri­t ardi inaccettabili della scuola rispetto agli avanzamenti della ricerca scientifica ed im­pose la presenza degli studiosi delle mate­r ie da insegnare nella progettazione dei curricoli; a dominanza antropologica, quan­do gli insuccessi ripetuti delle tattiche pre­cedenti indussero a riconoscere nell’inse­g nante il nucleo duro della resistenza al­l’innovazione, suggerendo di sollecitare l’emergenza di leadership interne alla cate­goria – i cosiddetti agenti di cambiamento – oppure la variante «analisi dei bisogni» in cui il punto d’attacco è l’indagine sui problemi pratici incontrati sul terreno (comunque mirate a far apprezzare le potenzialità risolutive dei materiali pre­disposti dagli esperti). Il secondo filone prende le mosse dalle esperienze di → Lewin e punta dichiaratamente sulla centra­lità del soggetto-insegnante e sul contesto sociale, culturale e tecnico della sua azione professionale, visto come «campo di forze» da far evolvere costruttivamente verso il → problem posing ed il problem solving. In questo orientamento, la strategia principa­le è designata come «Ricerca-Azione», che si caratterizza per la prossimità alla sede del cambiamento atteso, l’interazione tra fasi esplorative e fasi operative nel quadro di una collaborazione intensiva fra ricerca­tori ed insegnanti. Le varianti hanno potu­to riguardare una diversa combinatoria dei momenti di conoscenza e di intervento, che solo eccezionalmente sono riuscite ad evitare il «modello del deficit», con l’operatore confermato nel ruolo di tributario, ma anche con il ricercatore emarginato nel ruolo di semplice animatore se non con una funzione riduttivamente strumentale (Barbier). Recentemente, nel tentativo di superare gli equivoci della Ricerca-Azione, si è sviluppato il movimento degli «insegnantiricercatori» (Novoa). In tutti questi casi, la «f.» si presenta come una terza com­ponente della coppia «ricerca» e «azione», vista come comunicazione «a-due-vie», in grado di sensibilizzare i due soggetti alle istanze – diverse ma convergenti, del rigore e del­l’efficacia – di cui il partner è portatore. Nel caso italiano, in particolare, dove la f. in servizio è 476

denominata con la formula più riduttiva di «aggiornamento» (da «aggior­nare», riportare alla luce o attualizzare competenze già note), il centralismo del si­stema scolastico ha comportato un mo­nopolio pressoché esclusivo da parte del­l’amministrazione nelle attività di f. in servizio (Carli et al.). L’esperienza decentrata degli Istituti Regio­nali per la Ricerca, Sperimentazione e Ag­giornamento Educativi (IRRSAE), poi trasformati in IRRE (Istituti Regionali per la Ricerca Educativa), hanno confermato, nei loro esiti, potenzialità non del tutto espresse e limiti noti dei modelli internazionali (Teacher’s Centre) cui si erano ispirati. 2. La f. iniziale. Per rappresentare in ter­mini essenziali l’ampiezza e la profondità del dibattito ci concentreremo sulle pro­poste di f. iniziale di livello accademico (o equipollenti), articolando l’esposizione in base a quelli che possono essere considerati gli elementi costitutivi dell’inse­g namento: a) la materia da insegnare; b) la conoscenza dell’alunno; c) l’azione di inse­g nare. Difatti, si può affermare che la f. ini­ziale si definisce sia attraverso la sequenza che li dispone – in progressione – lungo il corso degli studi universitari (modello consecutivo), oppure la varia combinatoria mediante la quale li alterna fin dall’inizio del curricolo formativo (modello integrato). È appena il caso di ricordare che il «modello consecutivo» è il più diffuso e insieme il più criticato, mentre il «modello integrato» è quello che promette la migliore professionalizzazione, ma non riesce ad affermarsi a ragione delle resistenze – culturali e pratiche – che gli si oppongono. Le maggiori difficoltà di concezione e di realizzazione riguardano le funzioni distinte e connesse del Laboratorio e del Tirocinio, le due strutture formative in grado di correggere e superare il «modello consecutivo». Il Laboratorio è un dispositivo che si è definito nelle sue peculiarità in relazione al Tirocinio ed alla sua evoluzione. Negli USA il Tirocinio si era venuto affermando – in un contesto di libero mercato formativo – come una modalità di professionalizzazione alternativa rispetto a quella universitaria. All’inizio si trattò – in una congiuntura (anni ’80) di penuria d’insegnanti – come un tipo di reclutamento e inquadramento che si realizzava mediante l’offerta alle scuole di un «mentore» o di uno

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staff di formatori (per 5-6 corsi), ma ben presto si affermò come via preferenziale capace di migliorare la qualità della f., scavalcando le istituzioni universitarie, sulla base di un giudizio severo sulla professionalizzazione accademica. Un’evoluzione analoga, per molti versi esemplare, ha avuto la f. iniziale degli insegnanti in un Paese pioniere al riguardo come l’Inghilterra (Bourdoncle). In Canada era stata addirittura una università (Ottawa) ad ideare – sulla base dei medesimi presupposti critici – una f.d.i. (del grado primario) già sperimentata nella f. di altre professioni: f. sul terreno, collaborazione degli insegnanti in servizio, concertazione intensiva con le scuole. Del resto, la valutazione negativa della professionalizzazione universitaria era condivisa dai famosi Rapporti degli anni ‘80, elaborati in ambienti sensibili alla competizione economica globale (Carnegie Task Force, Holmes Group), poco teneri verso la «corporazione» dei formatori accademici ma molto decisi circa l’opportunità di fare della f.d.i. il problema centrale dell’intero sistema universitario; fino all’ipotesi di creare un Centro di Pedagogia presso i campus universitari per coordinare la molteplicità delle strutture esistenti (Goodlad). Questa strategia prevedeva inoltre di offrire un modello professionale di insegnante capace di accentuare la dimensione pratica, promuovendo una collaborazione stretta con gli insegnanti sul campo (con scuole e insegnanti associati, scuole-laboratorio...) e incrementando in numero e misura – nei programmi di f. iniziale – il Tirocinio. È in questo contesto che comincia ad emergere, in Nord-America, il Laboratorio nella sua specificità rispetto al Tirocinio. Nel corso degli anni ’70, infatti, l’insuccesso dell’approccio alla f.d.i. in termini di competenze attese – mediante griglie jobs-skills’ ispirate al comportamentismo – aveva generato una serie d’inventari perlomeno disorientanti, ma anche rischi sempre più evidenti di omologazione dei comportamenti (quando non, ambiguamente, del controllo sulle pratiche professionali degli insegnanti che contraddicevano le istanze per uno statuto autonomistico della professione docente). Ma, quel che più conta, in quella stessa prospettiva di incremento delle abilità tecniche, i cambiamenti apparivano (a dir poco) modesti. La diffusa insoddisfazione per questi risultati cominciò, fin dai primi

anni ’80, ad affermare un riorientamento del paradigma «applicazionista» e a far emergere un approccio «umanistico» alla professione, insieme ad una preoccupazione per la portata morale dell’insegnamento (Goodlad, Soder, Sirotnik). Quando, a partire da una tesi deweyana (1904), ripresa e sviluppata da Argyris e Schoen, si venne affermando il modello dell’insegnante «professionista riflessivo» che avrebbe trovato una eccezionale varietà di svolgimenti, non soltanto negli States, si mise in evidenza la centralità del Laboratorio, come cerniera capace di saldare i tempi della preparazione «formale» e della preparazione «pratica» attraverso l’analisi, la progettazione e la riflessione sull’insegnamento-azione. La identificazione del Laboratorio come spazio protetto fra Università e Scuola, ottenne di generare l’idea di un sistema formativo coordinato fra Corsi accademici, Laboratori e Tirocinio, superando i limiti della linearità e della giustapposizione, per assumere i caratteri dell’alternanza. Quale che sia il ritmo temporale – la sequenza di segmenti alterni (Corsi-Laboratorio-Tirocinio) o addirittura il rovesciamento della sequenza tradizionale (Tirocinio-LaboratorioCorsi) – il Laboratorio risulta collocato con una palese funzione d’interfaccia fra teoria e pratica. Questa costante delle differenti modalità di esecuzione comporta comunque due opzioni metodologiche «regolari»: (a) non si dà Tirocinio senza Laboratorio, a titolo di progettazione e di riflessione («decontestualizzazione» dell’esperienza); (b) non si dà Laboratorio senza riferimenti al Tirocinio e ai Corsi («contestualizzazione» della teoria). 3. Un problema aperto: il nesso teoria-pra­ tica. Non è difficile riconoscere come il di­battito pedagogico sulla f.d.i. ed i conse­ guenti approcci e modelli relativi alla f. in servizio ed alla f. iniziale si siano dovuti mi­ surare con il tema del rapporto fra teoria e pratica, il vero nodo da sciogliere. Non pare che ci siano, nelle scienze dell’educazione, altri argomenti che abbiano fatto colare tanto inchiostro: ma la letteratura di ricerca – non di retorica – è decisamente scarsa (v. gli Handbooks dedicati, quello curato da Houston nel 1990 e da Sikula, Buttery and Guyton nel 1997, dall’Associazione dei formatori degli insegnanti, statunitense ma con 477

FORMAZIONE DEI FORMATORI

un’estensione geoculturale mondiale, Cina e Giappone compresi), le diagnosi non mancano, ma quelle che latitano sono le proposte. Non c’è da sorprendersi, però: la ragione risiede nel fatto che la f. è il punto critico dove si condensa tutta la problematica della ricerca sull’ → insegnante, ancora oggi l’oggetto inesausto della ricerca educativa. Bibl.: A rgyris C. - D. A. Schoen, Theory in practice: Increasing professional effectiveness, San Francisco, Jossey-Bass, 1974; Carli R. et al., L’aggiornamento degli insegnanti: una proposta di intervento psico­sociale, Firenze, La Nuova Italia, 1980; Lanier J. E. - J. W. Little, «Research on teacher education», in M. C. Wittrock (Ed.), Handbook of research on teaching, 3, Macmillan, New York, 1986, 527-569; Scurati C., Una nazione s’interroga, in «Pedagogia e Vita» (l986) 6, 565-578; G oodlad J. I., «School-University partnership for educational renewal», in J. I. Goodlad - K. A. Sirotnik, School-University partnership in action: Concepts, cases and concern, New York, Teachers College Press, 1988, 3-31; Houston W. R. - M. Haberman - J. Sikula (Edd.), Handbook of research on teacher education, New York, MacMillan, 1990; Bourdoncle R., L’évolution des sciences de l’éducation dans la formation initiale des enseignants en Angleterre, in «Revue des Sciences de l’Education» (l993) 1, 133-152; McBride R. (Ed.), Teacher education policy, London, The Falmer Press, l996; Sikula J. - T. Buttery - E. Guyton (Edd.), Handbook of research on teacher education, New York, MacMillan, 1997; Il tirocinio nella f. iniziale degli insegnanti. Esperienze straniere, in G. Dalle Fratte, La scuola e l’università nella f. primaria degli insegnanti. Il tirocinio e il laboratorio, Milano, Angeli, l998, 137-145; Luzzatto G., Insegnare ad insegnare, Roma, Carocci, 1999; Damiano E., L’insegnante. Identificazione di una professione, Brescia, La Scuola, 2004.

E. Damiano

Formazione dei Formatori 1. F.d.f.: una moda o una grande opportunità? Da circa un quarantennio, intorno agli anni ’60 del sec. scorso, siamo entrati in un periodo di trasformazione radicale della nostra civiltà. La rivoluzione industriale aveva inaugurato l’era del cambiamento e, si 478

può dire, intorno a questa data, si era ormai pronti ad adattarsi ad esso. Tuttavia questo quarantennio ci ha introdotti nella fase di un cambiamento accelerato, a cui è difficile stare al passo. Un cambiamento spartiacque che, proprio intorno agli anni ’60, ha dovuto prendere atto che ogni sistema organizzativo, da quelli più semplici a quelli più complessi, non può più configurarsi come un modello chiuso (centrato quasi esclusivamente sulle caratteristiche interne dell’organizzazione) ma deve cedere il sopravvento al modello aperto, centrato sull’importanza dei rapporti con l’ambiente e con la società. Uno spartiacque analogo è stato segnato per la chiesa e per le chiese dal Concilio Vaticano II; esso ha davvero aperto porte e finestre ed ha permesso che entrasse aria nuova fra le comunità cristiane ed ha inaugurato un vero cambio di paradigma per ogni realtà personale ed istituzionale della vita cristiana. Tutto questo ha portato alla necessità di una ridefinizione della natura e del significato di una persona educata e formata. La definizione tradizionale a sistema chiuso esaltava il valore preminente della conoscenza e l’educazione come una trasmissione di contenuti cognitivi, per cui la persona formata era la persona istruita. Invece oggi il bisogno di formare è mutato: non è più visto come una mancanza da colmare ma come una richiesta di risposte per il proprio ed altrui benessere e funzionalità, per evitare l’obsolescenza, che pone continuamente davanti lo scacco matto di venire estromessi dal gioco del cammino della storia. È interessante notare che, contemporaneamente con lo spartiacque fra i sistemi chiusi e sistemi aperti, proprio intorno agli anni ’60 si è configurata ed è stata lanciata l’educazione degli adulti, in quello che si potrebbe definire il manifesto di Montreal (1960) dal titolo: L’educazione degli adulti in un mondo in trasformazione; educazione non come un servizio di recupero ma come un diritto del riconoscimento e del valore della persona, che deve possedere i mezzi per esprimersi adeguatamente lungo l’intero arco della sua esistenza. Spinte sociali ed esigenze personali hanno mosso, almeno teoricamente, gli intenti a promuovere una politica culturale ed educativa intesa a costruire una società a «immagine della educazione permanente», come sentenziava il Consiglio di Europa nel 1973. Tutto ciò aiutava ad affrontare lo choc

FORMAZIONE DEI FORMATORI

culturale del cambio epocale, imparando a riconciliarsi col proprio tempo; a pensare in modo complesso in una continua ricerca in mezzo al dispiegarsi del nuovo; ad apprendere ed affrontare il cambiamento; a riappropriarsi della propria soggettività, costruendo delle relazioni significative con gli altri, conciliando le esigenze di apprendimento dei singoli con quelle di sviluppo della comunità di cui si è parte. Anche la Chiesa si è mossa dopo il Concilio con queste preoccupazioni ed intenzioni. Ne sono testimoni due testi importanti: la Ratio Institutionis Sacerdotalis del 1970 e la Pastores dabo vobis del 1992. In esse viene sottolineata particolarmente la f. integrale umana e cristiana dei candidati. A questo scopo si insiste su una particolare preparazione dei formatori e sulla f. permanente, che, in questo ultimo decennio, viene assunta a paradigma di tutta la f. Di qui si sono moltiplicate con una fecondità impressionante scuole di f., di aggiornamento e di riqualificazione sia nel campo aziendale dell’impegno lavorativo, sia nell’ambito delle professionalità e dei servizi sociali, sia nel campo strettamente educativo e formativo. Per servire questa utenza e questa abbondante domanda si sono parallelamente moltiplicate scuole e corsi per formatori a tutti i livelli, che, oltre una preparazione base professionale e di ruolo, curano abilitazioni specifiche per compiti di f. specializzata in settori e strutture particolari. Anche per quanto riguarda la f.d.f. dei Seminari e degli Istituti religiosi abbiamo avuto in questi 40 anni un progressivo aumento di domanda e di numero di corsi e scuole istituite precisamente allo scopo. Ora, a distanza di 40 anni, è opportuno fare un primo doveroso bilancio: che cosa viene veramente formato nelle persone e come viene gestita questa f.d.f.? La f. umana è un’arte antica quanto il mondo ma, forse, mai come oggi, è messa in discussione dall’aggressivo predominio della tecnica. In linea con questa tendenza culturale, stuoli di educatori, formatori e pedagogisti si sono rivolti alle varie tecnologie dell’istruzione «cosificando» l’educazione e la f., col rischio concreto di banalizzare la persona. E ciò con la scusa che la f. cambia perché cambiano le metodologie, la tecnologia dell’apprendimento, l’imporsi di tecniche e linguaggi nuovi e con la convinzione che un ruolo, per essere ben giocato, deve fare affidamento su

risorse professionali di formatori con una loro ampia risorsa «tecnica» di strumenti di intervento. La verità elementare, risultata valida sempre, è che solo un uomo forma un altro uomo, accompagnandolo lungo sentieri che contemplano la progressiva acquisizione dell’autonomia e, nello stesso tempo, l’assunzione della responsabilità verso di sé, gli altri ed il creato. Per fare una buona f. occorre, coltivare, come dono prezioso, la simpatia di tutto ciò che è autenticamente umano e dare una forma profonda ed armoniosa allo sviluppo umano. Occorre dunque passare da una f. centrata sui prodotti (un tempo il bagaglio di istruzione, oggi il bagaglio delle tecniche), ad una f. centrata sui processi di generatività della persona tra il suo passato ed il suo futuro, perché possa alfine diventare pienamente se stessa. Occorre costituire un processo continuo di f. dell’intero essere umano, per imparare ad imparare per tutta la vita: imparare a vivere insieme; imparare a conoscere; imparare a fare; imparare ad essere. 2. Nuovi scultori di uomini. Occorre dunque una nuova linea ed un nuovo stile di f., che deve partire proprio ed innanzi tutto dai leaders formatori (promotori, gestori, docenti, animatori dei numerosi corsi e scuole per formatori), visto il ruolo che tali scuole stanno esercitando sull’educazione a tutti i livelli. Non è qui il caso di specificare un curricolo di f.d.f. nei dettagli. La cosa più conveniente è invece offrire le grandi linee portanti che devono stare alla base e nella mens di una vera f.d.f., al fine di sbloccare gli inceppamenti della nostra società ed assicurare che lo sviluppo della dimensione della coscienza raggiunga quella del potere tecnico dominante. La f. attuale manca per lo più dello spirito di sintesi e le conseguenze sono una rilevante debolezza, che si manifesta particolarmente nel rifiuto dello sforzo e dell’impegno e nella durezza del cuore. L’avventura umana avrà ristabilito il suo equilibrio e potrà progredire al massimo, in tutti i sensi, se farà camminare insieme la crescita delle conoscenze, quella dell’azione e quella della coscienza o della vita interiore. Sapersi inserire e posizionare nella realtà con il senso della misura, della proporzionalità, senza cui non è possibile esprimere un giudizio e formulare un discernimento. Tutto questo va 479

FORMAZIONE PROFESSIONALE

ben oltre uno scopo immediato, che troppo sovente occupa la mente ed il cuore anche dei formatori contemporanei. 3. Qualche direzione di cammino. Riflettere e capire; progettare e costruire. Ma in quali direzioni? Ne proponiamo tre, che sembrano fondamentali ed urgenti, nella linea dei nuovi scultori di uomini, attraverso 3 specie di arricchimenti, fondamentali per la f.d.f.: 3.1. Arricchimento della conoscenza. Dal momento che ogni insegnamento si trova sempre all’incrocio dell’azione e della riflessione e ogni azione è tanto più efficace quanto più è stata lungamente meditata, occorre favorire la pluralità dei punti di vista e formare dei formatori che sappiano agire come uomini di pensiero e sappiano pensare come uomini di azione fra una continua polarità dialettica degli elementi nella ricerca di una sintesi sapienziale, con una buona immaginazione creativa, sempre protesi in avanti, scrutando il movimento della costellazione del futuro. Per la f. dei sacerdoti e dei consacrati questa visuale aperta e protesa in avanti diventa oltremodo importante. 3.2. Arricchimento dell’azione. Fra attivismo e relativismo si celebra oggi la sconfitta del mito di Prometeo, il simbolo di un’umanità che si fa da se stessa nell’illusione di un progresso illimitato. Il predominio del narcisismo della persona rinchiusa nel presente ed isolata in se stessa è la domanda angosciosa di redimere un’azione senza prospettive. C’è bisogno di ridare vita all’azione attraverso la riscoperta della reciprocità vicendevole. La relazione infatti è il fondamento di ogni crescita. Formare alla reciprocità diventa allora una preziosissima carta da giocare per il futuro. Certo, una f. di questo genere dona ai formatori una più grande apertura di spirito, porta a sentirsi responsabili degli altri, a combinare insieme sforzo di donazione e motivazioni di amore con equilibrio, serenità e grande possibilità di adattamento. La f.d.f. di consacrati e di sacerdoti gioca nella fondazione di un nuovo stile di relazionalità ad intra e ad extra delle strutture ecclesiali una delle carte più necessarie del suo futuro. 3.3. Arricchimento della vita interiore. Il senso della spiritualità è in definitiva l’energia nascosta di ogni educazione profonda e di ogni cultura ed oggi manca un insegnamento spirituale, che tenga a freno il potere 480

scientifico dell’uomo. È il mondo delle aspirazioni intime, della coscienza, del senso del sacro, della relazione con l’Infinito. Tutto ciò si esprimerà nella f. del carattere, nella sensibilità all’estetica, nell’incoraggiamento alla pratica della creatività, nell’iniziazione ad una sana relazione con sé, con gli altri, con l’Altro, nel senso del sacro e delle forze spirituali. Per i formatori della vita consacrata e sacerdotale tutto questo confluirà nella persona del Cristo come alfa e omega di ogni realtà, punto di partenza e di arrivo del senso della vocazione e della f. a questi particolari stati di vita, baricentro equilibratore e sintesi vitale di biologia, psicologia e grazia della persona; f. dunque alla fede, alla sequela e alla testimonianza. Bibl.: A lessandrini G., Manuale per l’esperto dei processi formativi, Roma, Carocci, 1998; Basile J., Des nouveaux sculpteurs d’hommes. Un enseignement pour débloquer notre société, Bruxelles, La Renaissance du Livre, 1977; Tacconi G., Alla ricerca di nuove identità, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2001; Delors J. (Ed.), Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando, 62003; Meloni E., Accompagnare la f. Il sé, gli altri, l’Altro, Bologna, EDB, 2005.

G. Roggia

FORMAZIONE INIZIALE → Formazione degli insegnanti FORMAZIONE PERMANENTE → Educazione permanente FORMAZIONE POLITICA → Educazione sociopolitica

FORMAZIONE PROFESSIONALE Con una certa approssimazione per f.p. si potrebbe intendere un processo attraverso il quale delle persone possono acquisire, aggiornare o anche solo migliorare le proprie conoscenze e capacità in vista di un esercizio più produttivo e responsabile di un’attività professionale. 1. Il termine e i suoi significati. Il significato di f.p. si presenta con sfumature diverse. In alcuni ambienti è sinonimo di intervento formativo rivolto a giovani per avviarli velocemente al lavoro, un → addestramento breve

FORMAZIONE PROFESSIONALE

per un inserimento rapido nel mondo produttivo. In altri, invece, acquista un significato più ricco legato all’acquisizione di conoscenze e competenze finalizzate ad una professione indipendentemente dall’età degli allievi. Si parla anche di prima f.p., intendendo con tale denominazione tutti quegli interventi rivolti normalmente a giovani che per la prima volta affrontano il problema di una preparazione sistematica al mondo del lavoro, e di una seconda e terza f.p. se l’intervento viene rivolto a persone che hanno già acquisito un qualche tipo di professionalità o attraverso una preparazione precedente o anche solo con una f. sul lavoro. In quest’ottica la f.p. viene considerata come un momento intensivo di approfondimento e di sviluppo sia professionale che umano, in una visione di f. permanente; un momento di preparazione ad un ruolo professionale. Attualmente si fa sempre più strada un concetto di f.p. più attento alla situazione concreta di un mondo in rapida evoluzione tecnologica, dove è necessario rispondere alle esigenze formative di una società in continuo cambiamento e progettare quindi una f.p. flessibile, facilmente modificabile, che entri in una realtà dinamica. La f.p. si presenta come un insieme di azioni finalizzate alla preparazione di giovani e adulti ad un’attività lavorativa dipendente o indipendente sia per un inserimento nel mondo produttivo in generale, sia per assumere un compito specifico in un settore ben definito di esso. Richiede un processo attraverso il quale le persone, generalmente dopo una preparazione di base, possono acquisire o anche solo migliorare conoscenze e capacità per l’esercizio di un’attività professionale adeguata ai mutamenti della situazione socioeconomica in continuo cambiamento. 2. F.p. e concezione del lavoro. Il significato di f.p. dipende molto dalla visione globale della società nel suo insieme ed in particolare dalla visione che si ha circa l’articolazione del mondo del lavoro. Si può sentire parlare di f.p. come di un momento in cui progettare e gestire interventi mirati alla riqualificazione del personale, all’acquisizione di capacità manageriali nelle aziende, allo sviluppo delle motivazioni; ma si parla di f.p. anche come di una modalità di addestramento utilizzata nella preparazione del personale per i reparti produttivi delle aziende assumendo ruoli di

tipo esecutivo. Nel definire la f.p. è necessario tenere continuamente presente tutto ciò che riguarda il mondo del lavoro e la sua organizzazione, in quanto, direttamente o indirettamente, esso contribuisce a dare un significato alla f.p. e alla progettazione di interventi formativi ad essa legati. Se si vuole, ad es., preparare delle persone per ruoli esclusivamente esecutivi, capaci di operare in un ambito molto ristretto svolgendo mansioni molto definite e circoscritte con scarsa o nulla autonomia decisionale, allora per f.p. si intenderà un momento molto addestrativo, di breve durata e comunque orientato all’acquisizione di competenze molto specifiche. Non faranno parte di tale momento altri elementi non strettamente necessari per un immediato inserimento nel contesto produttivo ma molto importanti per una crescita professionale e una reale possibilità di riqualificazione nel futuro. Se invece si vuole vedere la f.p. come un momento di maturazione non solo professionale ma anche umana, etico-sociale, politico-sindacale, allora per f.p. si intenderà qualcosa di più articolato e complesso. 3. Evoluzione storica. Per altro la concezione della f.p. dipende anche dall’evoluzione storica della produzione del lavoro. Certamente il significato che diamo oggi al termine f.p. è alquanto diverso da quello dato al tempo dell’impero romano o nel sec. XI e per molti aspetti anche da quello che veniva dato solo qualche decina di anni or sono. È difficile fare dei confronti e dei paragoni, in quanto troppo diversi erano l’ambiente sociale in cui ci si trovava ad operare e i fini che si volevano perseguire. Ci sono certamente elementi di grande interesse e notevoli somiglianze che ci permettono di capire meglio alcune impostazioni attuali, ma non si vede più una grande validità per una forma di f.p. fatta attraverso un apprendistato più o meno diversificato, un addestramento e un apprendimento del mestiere quasi in un’ottica familiare attraverso l’imitazione, l’attenta osservazione e la ripetizione di operazioni singole sino ad acquisirne destrezza ed abilità, come poteva avvenire in modo generalizzato in tempi non lontanissimi. Modalità simili si presentavano già allora con dei limiti particolarmente quando si trattava di costruire attrezzature sofisticate ed era necessario imparare a lavorare i diversi materiali con tecniche nuo481

FORMAZIONE PROFESSIONALE

ve, avere conoscenze sul tipo appropriato di utensili necessari alla produzione dei nuovi manufatti. Sono dovuti però passare diversi anni per accorgersi che era sempre più necessario avere una f. sistematica e flessibile per riuscire a soddisfare quanto veniva richiesto dalle nuove professioni emergenti. Il processo che fece concretizzare la necessità di preparare le persone in modo più organico e con una professionalità arricchita anche da una base teorica fu lento e contrastato. È necessario attendere il periodo delle grandi scoperte e della rivoluzione industriale per assistere a cambiamenti consistenti sul modo di fare f.p. Le esigenze delle nascenti industrie obbligarono in qualche modo a ripensare seriamente le modalità di formare il personale per il mondo produttivo sempre più concorrenziale ed esigente. La stessa organizzazione del lavoro si era trasformata rapidamente, passando da un sistema in cui era il lavoro a raggiungere il lavoratore, ad un sistema in cui il lavoratore doveva spostarsi presso le grandi industrie ed ivi lavorare. Di conseguenza anche la f.p. ha dovuto modificarsi notevolmente e preparare il personale per un mondo non più solo artigianale, ma industriale che operava grosse concentrazioni e monopoli. In un primo momento, quando l’industria si organizzò in modo da avere bisogno di pochi tecnici ben preparati capaci di mettere a punto l’intero ciclo produttivo gestendolo nel tempo e di molti operai poco preparati chiamati a svolgere mansioni elementari, nella f.p. si offriva una preparazione molto qualificata per alcune poche persone e una semplice, rapida, relativamente dequalificata per la maggioranza delle altre. In Francia nel 1794 fu fondata un’Accademia di Arti e Mestieri; alla fine del 1700 sorsero diverse «scuole domenicali di arti e mestieri», prima in Germania e poi in altre nazioni, legate nella maggioranza dei casi ad ambienti religiosi. L’Inghilterra, con una serie di interventi legislativi intorno al 1850, istituì scuole diurne e serali per la classe operaia. Gli imprenditori stessi iniziarono corsi di istruzione per i loro dipendenti. Nei secoli XVIII-XIX si ebbero poi tentativi in diversi Paesi, particolarmente in campo cattolico, attraverso l’istituzione di Centri di f.p. strutturati secondo esigenze locali, in particolare nelle periferie delle grandi metropoli. All’inizio del sec. XX il problema venne affrontato in modo più sistematico, 482

con interventi diretti da parte dello Stato e la problematica sulla f.p., si delineò meglio nei primi decenni in particolare nel mondo tedesco, dove si prese a criticare una f.p. troppo legata alla sola acquisizione di capacità manuali e venne suggerito di collegare competenza operativa ad una buona sensibilità civica. Si prospettò una «scuola del lavoro», che avrebbe dovuto comprendere contemporaneamente una f. di base per preparare all’inserimento immediato nel mondo produttivo e una f. più generale maggiormente aperta ai valori. Si volle infine una f.p. che inserisse nei suoi programmi interessi più ampi rispetto a quelli strettamente professionali anche in vista di un completamento della f. in momenti successivi. Nel periodo precedente alla prima guerra mondiale molti governi, spinti anche da necessità belliche, potenziarono notevolmente la preparazione professionale delle persone in modo più o meno strutturato, prendendo normalmente come riferimento, diretto o indiretto, i sistemi scolastici. Dal secondo dopoguerra sino ad oggi l’interesse verso articolazioni innovative e flessibili della f.p. è aumentato anche da parte di organismi nazionali e internazionali. L’attenzione si è spostata molto dal mestiere e dal posto di lavoro, al ruolo e alla persona che dovrà occupare tale posto. 4. Modalità di intervento nella f.p. Le modalità con cui si organizzano gli interventi di f.p., capaci di dare la preparazione richiesta variano da nazione a nazione. Nei Paesi industrializzati si nota comunque una crescente attenzione ad una f.p. orientata verso una globalità di interessi e ad una polivalenza professionale che renda più agevole l’assunzione nel contesto produttivo di un ruolo aperto a sviluppi futuri, facilitando così sia la mobilità orizzontale che quella verticale. Proprio l’esigenza di acquisire anche una certa disponibilità al cambiamento spinge la f.p. verso un’articolazione flessibile e capace di rinnovarsi sistematicamente. A livello mondiale particolarmente significative sono le raccomandazioni di organismi come l’Unesco dove si sottolinea molto l’interesse per il «destinatario» dell’intervento di f.p.: «l’uomo» con una pluralità di interessi che superano la sola acquisizione di capacità specifiche inerenti la professione e dove si evidenzia con forza il carattere evolutivo

FORMAZIONE VOCAZIONALE

della f.p. In ambienti a noi più vicini, ad es. in Europa occidentale e particolarmente nella Comunità Europea, si insiste molto sulla necessità di dare alla f.p. un carattere polivalente, globale, attento alle esigenze della persona e ai suoi mondi vitali. Certamente, pur potendo evidenziare ancora molti aspetti problematici, si può affermare che nei Paesi industrializzati è stato fatto un salto di qualità nel modo d’intervenire nella f.p. Se si confrontano anche solo gli anni del secondo dopoguerra con il momento attuale, si constata facilmente che si è avuta una maturazione della società in genere per quanto riguarda il problema formativo, una evoluzione tecnologica molto rapida e uno sviluppo della capacità di confronto globale sul problema del mondo del lavoro tra imprenditori e forze politiche, sociali, sindacali. Tutto ciò ha portato ad una nuova attenzione alla f.p. per cercare di ricucire quello strappo insanabile di un sistema socio-produttivo messo fuori equilibrio dalle nuove tecnologie. Il senso del termine ha perciò una valenza dinamica con sfumature che variano nel tempo pur conservando il significato fondamentale di momento preparatorio al mondo del lavoro. Bibl.: Malizia G. et al., Le parole chiave della f.p., Roma, CNOS-FAP, 2004; Franchini R., Per una istruzione e f.p. di eccellenza, Milano, Angeli, 2005; De Vita A., L’e-learning nella f.p. Strategie, modelli e metodi, Trento, Erickson, 2007; Prellezo J. M., Le scuole professionali salesiane (1880-1922), in J. G. González et. al., L’educazione salesiana dal 1880 al 1922, vol. 1, Roma, LAS, 2007, 53-94; Negri M. P. - M. Castoldi (Edd.), Professionalità e f. Empowerment per le scuole, Milano, Angeli, 2007.

N. Zanni

FORMAZIONE RELIGIOSA → Educazione religiosa FORMAZIONE RICORRENTE → Educazione permanente

FORMAZIONE VOCAZIONALE Il termine può indicare due modi di sviluppo personale, uno più generale e uno più specifico (e con caratteristiche particolari in ambito cristiano).

1. In generale. In rapporto a persone adulte il termine f.v. indica il processo attraverso il quale la → persona si impegna liberamente nell’organizzare e unificare la sua vita, dentro le sue possibilità e in interazione con la comunità umana, in funzione di una vita di valore anche mediante una → professionalità conseguente (come è soprattutto in ambito anglofono dove vocational è riferito al tipo di carriera professionale a cui si aspira e a cui ci si prepara con la formazione professionale). In rapporto a persone in età evolutiva la f. aiuta il soggetto ad entrare nella vita adulta secondo un itinerario che le permette di affrontare il problema della propria → identità personale e del suo integrale sviluppo in relazione con gli altri e con la società. Lungo questo percorso la persona in crescita acquista la capacità di autodefinirsi, di affrontare il senso della propria unicità personale, di apprezzare la propria persona, d’impegnarsi spinta dai valori, di prendere posto nel proprio ambiente, d’integrare la forza vitale dell’amore, di riconoscersi nella propria singolarità e di perseverare nel proprio impegno. L’attività di → orientamento trova qui una sua significativa funzione. Allo stesso modo la presenza di un formatore è di primaria importanza. Con l’esempio ispiratore della sua vita, le conoscenze professionali e il valore delle realizzazioni, questi può aiutare il giovane a riflettere e ad approfondire, con libertà interiore, le opzioni, che lo conducono a discernere il proprio progetto di vita. Queste tuttavia dovranno essere assunte nel progetto formativo in maniera tale che il formando possa incorporare nel suo campo di responsabilità la visione integrale della persona. La f.v. è ben riuscita, stabile e positiva, solo quando la persona giunge ad armonizzare e integrare i vari aspetti della sua personalità con il senso della propria esistenza. La f. non è mai solo quello che si riceve, ma ciò al cui contatto si cresce reagendo personalmente, con responsabilità e intelligenza. 2. Identità personale e vocazione cristiana. In questo senso specifico (e cristiano in particolare) f.v. sta a significare un processo risultante dalla relazione tra le forze vitali della propria persona (l’io attuale, ossia ciò che specifica la persona nel suo essere e nel suo agire abituale) e il rapporto, assolutamente originale e fondante, con la chiamata di Dio 483

FÖRSTER FRIEDRICH WILHELM

a collaborare allo sviluppo organico della comunità ecclesiale con differenti funzioni, ministeri, carismi (l’io ideale, ossia ciò che l’uomo è chiamato ad essere con il suo progetto di vita). La f.v., a livello cristiano, si colloca, perciò, nel contesto della vocazione e missione della → Chiesa. Essa è un processo verso una nuova configurazione e rappresentazione di sé, attraverso cui le inclinazioni e le doti naturali della persona, sollecitate dalla chiamata di Dio e con l’aiuto del formatore e del sistema di f., giungono a maturazione per lo svolgimento di una missione. 3. Elementi educativi processuali. La f.v. è un processo di promozione dello sviluppo integrale di: 1) tutto l’ → uomo con tutte le risorse personali liberamente donato a Dio, coinvolto con la propria storia (l’ambiente, la cultura e la mediazione di figure e di strutture di sostegno come la famiglia, la scuola, la comunità sociale ed ecclesiale), in una peculiarità differente di funzioni, ministeri e carismi; 2) in continua consolidazione della carica ideale del progetto di vita, mai del tutto pienamente posseduto e attuato; 3) in cammino progressivo di consolidamento della propria identità vocazionale. Per giungere a scoprirla e realizzarla, «il formando» s’impegna liberamente in un processo in cui si rende cosciente dei propri valori di fondo e dell’orizzonte lungo il quale dove portare avanti la ricerca; si dimostra capace di integrare i differenti aspetti della propria personalità in funzione della natura del progetto vocazionale; acquista sufficiente autonomia psichica per prendere decisioni stabili in accordo al senso che ha dato alla propria vita e al progetto da costruire; 4) in un impegno personale di disponibilità incondizionata e di abbandono illimitato della propria esistenza a Qualcuno o a qualcosa di significativo. Nella nostra visuale è essenzialmente Cristo, a cui consegnare incondizionatamente la propria vita, perché ne disponga come vuole; 5) coadiuvato da una guida che conosce le potenzialità e i limiti della persona e presta il suo aiuto temporaneo, perché questa possa discernere in sé l’azione di Dio e prendere una decisione vocazionale con tutta libertà e responsabilità. Bibl.: Szentmartoni M, Identità personale. Un concetto ambiguo, in «Orientamenti Pedagogici»

484

35 (1988) 440-448; Cencini A. - A. M anenti, Psicologia e f. Strutture e dinamismi, Bologna, Dehoniane, 1992; Alday J. M., La f. alla vita consacrata nel magistero della Chiesa. Dal Concilio Vaticano II ad oggi, Roma, Rogate, 1993; Cencini A., I sentimenti del Figlio. Il cammino formativo nella vita consacrata, Bologna, EDB, 1998; Imoda F., Sviluppo umano, psicologia e mistero, Ibid., 2005.

V. Gambino

FÖRSTER Friedrich Wilhelm n. a Berlino nel 1869 - m. a Zurigo nel 1966, educatore, pedagogista e moralista tedesco. 1. Suo padre, Wilhelm, era astronomo e professore universitario. Dopo il ginnasio, F. studia economia e filosofia, laureandosi con una tesi su Lo sviluppo dell’etica kantiana (1893). Prende parte alla Società per la cultura etica, divenendo direttore del periodico «Ethische Kultur» (1895-1904). Condannato «per lesa maestà», a causa delle critiche rivolte a Guglielmo II, va in esilio a Zurigo (1897), nella cui università diviene libero docente. Giunto alla convinzione della debolezza di una morale fondata unicamente sulla ragione, F. lascia la Ligue Morale Internationale, aderendo al cristianesimo. All’interesse per la morale si associa una sempre maggiore attenzione all’educazione. Tra gli scritti più noti: Jugendlehre (1904), Lebenskunde (1905), Schule und Charakter (1907), Autorität und Selbsterziehung (1917), Religion und Charakterbildung (1925), Alte und Neue Erziehung (1935), Politische Ethik und Politische Pädagogik (1953). Rientrato in patria, nel 1913, deve andare di nuovo in esilio a causa della sua opposizione al nazismo. Soggiorna in Svizzera, Francia e negli USA. 2. F. ha affrontato con realismo, in prospettiva cristiana, importanti questioni pedagogiche, ancora attuali: educazione in comune dei sessi, pedagogia sessuale, la scuola e l’alcolismo, i suicidi degli scolari, psicanalisi e pedagogia morale, educazione femminile. Considerando la pedagogia «non solo come scienza dell’educazione dei fanciulli, ma come scienza ausiliare di tutte le profes-

FOUCAULT MICHEL

sioni dell’uomo», F. allarga le sue riflessioni al movimento operaio, alla vita politica, all’umanizzazione dell’economia, convinto che, senza una vera educazione morale, il progresso e il potere sulle forze della natura rischiano di essere utilizzati per «il più tremendo annientamento della vita umana». Attraverso numerosi scritti, editi più volte e tradotti in molte lingue, F. ha esercitato un forte influsso sugli educatori cristiani. Bibl.: F.W.F., Scuola e carattere. Problemi pedagogico-morali della vita scolastica; a cura di A. Agazzi, Brescia, La Scuola, 1970; Modugno G., F.W.F. e la crisi dell’anima contemporanea, Bari, Laterza, 1946; Laeng M., F.W.F., Brescia, La Scuola, 1970; Id., «F.F.W», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. II, Ibid., 1989, 4990-4991.

J. M. Prellezo

FORTEZZA → Virtù

FORZE SOCIALI Sono considerate f.s. tutti quei soggetti che hanno potere sociale e politico all’interno dei sistemi sociali, così da influenzarne i comportamenti e gli orientamenti collettivi. 1. Oltre alle f.s. tipiche della struttura sociale, come le istituzioni classiche e le agenzie di socializzazione tradizionali (→ famiglia, scuola e Chiesa) oggi stanno emergendo con una loro precisa identità le diverse organizzazioni del sistema politico come i partiti, le assemblee politiche, le varie formazioni corporative e i numerosi movimenti sindacali. Ma anche il sistema di produzione economica sta costituendo e organizzando le proprie f. produttive (gli imprenditori) in ordine ad una maggior efficienza delle sue strategie e della stessa politica economica. Ciò si realizza attraverso i vari soggetti emergenti, nuove f.s., come le aziende contadine e artigiane, le organizzazioni di cooperative, le piccole e medie imprese di tipo industriale, le multinazionali, le borse e la rete amplissima delle banche. 2. Due fenomeni in particolare stanno influenzando la strutturazione delle f.s. con

effetti notevoli sulla vita politica, economica e culturale dei vari Paesi. Innanzitutto il processo della differenziazione e specializzazione sociale proprio delle società complesse che, stimolando alla visibilità ed al protagonismo, ha incentivato il sorgere e l’affermarsi di una pluralità di movimenti sociali in tutti i settori della vita pubblica. In secondo luogo il processo della globalizzazione che, reso possibile dai progressi della tecnologia e della comunicazione, sta creando un sistema di interdipendenza a livello mondiale tra le varie società nel quale si affermano f.s. di carattere sovra- o transnazionale quali le varie → Organizzazioni Internazionali identificate da una miriade di sigle che costituiscono il panorama variegato dell’attuale «sistemamondo». Bibl.: Scidà G., Globalizzazione e culture, Milano, Jaca Book, 1991; Giddens A., Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino, 1994; Gallino L. et al., Manuale di sociologia, Torino, UTET, 1997; Biorcio R., Sociologia politica. Partiti, movimenti sociali e partecipazione, Bologna, Il Mulino, 2003; Vasapollo E., Competizione globale. Imperialismi e movimenti di resistenza, Milano, Jaca Book, 2004; Martinelli A., La democrazia globale. Mercati, movimenti, governi, Milano, Bocconi, 2004; De Nardis F., Cittadini globali. Origine e identità dei nuovi movimenti, Roma, Carocci, 2005.

R. Mion

FOUCAULT Michel n. a Poitiers nel 1926 - m. a Parigi nel 1984, intellettuale e filosofo francese. 1. La sua produzione può essere divisa generalmente in due periodi: il primo, relativo alle teorie raccolte nelle opere Storia della follia nell’età classica, Nascita della clinica, Le parole e le cose e L’archeologia del sapere; il secondo, caratterizzato da vari studi sulla sessualità e sull’esercizio e funzionamento del potere in rapporto con il sapere. Ebbe una vita assai movimentata. 2. La prospettiva antropologica. Il pensiero di F. si inserisce soprattutto nella prospettiva strutturalistica, contrapponendo alla pras485

FRANCKE AUGUST HERMANN

si umana libera la ferrea logica delle strutture in cui viene a manifestarsi la «morte dell’uomo». Si tratta di un determinismo demistificatore della libertà, ritenendo che gli atti umani siano risultante e sintesi di processi ancestrali bio-genetici, combinati con componenti della cultura diacronica e dell’ambiente, che determinano il linguaggio e tutti gli altri particolari moduli espressivi del pensiero e dell’azione. Il soggetto liberamente volente resta così annullato come tale, ridotto a mero spazio di interazione di forze del passato e del presente, all’interno di una «struttura anonima». 3. Aspetti pedagogici. F. non è stato un pedagogista, tuttavia ha considerato paradigmi pedagogici fondamentali quali le pratiche e le forme di governo e di disciplinamento dei corpi sociali, il rapporto tra sapere (e sua genealogia) e potere educativo, le tecnologie d’esame, la sessualità tra libertà e controllo, la cura di sé come manifestazione di verità e di autodominio, le strategie di formazione dei soggetti. Bibl.: F.M., Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli-BUR, 2 1980; M ariani A., Attraversare F. La soggettività, il potere, l’educazione, Milano, Unicopli, 1997; Id., F.: per una genealogia dell’educazione. Modello teorico e dispositivi di governo, Napoli, Liguori, 2000.

M. Mantovani

va altri istituti e comprendeva una farmacia, una stamperia e una biblioteca. Tra gli scritti di pedagogia: Kurtzen und einfältigen Unterricht (Insegnamento breve e semplice) del 1702 e Der grosse Aufsatz (Il grande saggio), edito solo nel 1962. 2. F., stimolato dal pietismo, che interiorizzò dopo una fase intellettualistica, sottolinea l’apporto dell’esperienza, in quanto derivata dal cuore, dall’intelletto e dall’azione. Fine ultimo di tutto era, da un lato, l’onore e gloria di Dio e, dall’altro, l’acquisizione e promozione di una saggezza pratica («Klugheit»): un insieme di sapere e di esperienza, che richiama idee di Alsted e di → Comenio. Voleva un’impostazione severa degli studi e della disciplina, con castighi anche corporali, eliminando vacanze e ricreazioni. Esigeva precisione, pur con l’aiuto di adeguati sussidi, dando centralità alla Bibbia, rispetto alle scienze e alla matematica. Nel seminario per maestri puntava a una formazione sia teorica che pratica e per le ragazze richiedeva un avviamento ai lavori casalinghi. 3. Le istituzioni di F., più che gli scritti, intrisi di utopia, ebbero un grande influsso, sebbene ne sia stata attenuata l’impostazione religiosa e siano stati accentuati gli obiettivi didattico-educativi. Bibl.: M enck P., Die Erziehung der Jugend zur Ehre Gottes und zur Nützen der Nächsten, Wüppertal, A. Henn, 1969.

B. A. Bellerate

FRANCKE August Hermann n. a Lubecca nel 1663 - m. a Halle nel 1727, professore universitario, teologo e pedagogista del → pietismo. 1. Accostatosi a P. J. Spener e contrastato dai luterani ortodossi, trovò la sua strada, nel 1687, fondando una scuola per poveri ad Amburgo. Nel 1691 ottenne una cattedra a Halle, ove si trasferì, creando molteplici istituzioni: una scuola per poveri, un orfanotrofio, una scuola per la borghesia (divenuta, con la prima, Deutsche Schule), un internato per nobili (Paedagogium), un semiconvitto per professori e alunni e un seminario per maestri. Il complesso, tuttora esistente, prevede486

FRANKL Viktor Emil n. a Vienna nel 1905 - ivi morto nel 1997, psichiatra austriaco, fondatore della logoterapia e analisi esistenziale. 1. Figlio di un impiegato ministeriale, F. fin dal liceo fu in relazione epistolare con → S. Freud, che incontrò nel 1924 e che nello stesso anno ne pubblicò un saggio nell’Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse. Come membro della Società di Psicologia Individuale di → A. Adler, F. tenne conferenze a studenti e operai su tematiche esistenziali e nel 1927 fondò e diresse la rivista Der

FRANTA HERBERT

Mensch im Alltag, in cui propugnò la fondazione di Centri di Consulenza per giovani bisognosi di aiuto psichico e morale. Laureato in medicina nel 1930 e specializzato in neurologia e psichiatria, dal 1939 al 1942 diresse il reparto di neurologia del Rotschildspital, riservato a pazienti ebrei. 2. Deportato nel 1942 a Theresienstadt (Böhmen), F. fu nel 1944 prima ad Auschwitz e poi a Kaufering III e a Türkheim (filiali di Dachau). Liberato il 27 aprile 1945, fece ritorno a Vienna, dove ricevette la notizia della morte della moglie e della mamma. Nominato primario del Policlinico neurologico, ruolo che svolse per 25 anni, F. nel 1946 diede alle stampe prima Ärztliche Seelsorge e poi Ein Psychologe erlebt das Konzentrationslager, in cui descrisse con fine sensibilità le impressioni e le esperienze dei tre anni trascorsi nei Lager e testimoniò che solo coloro che percepivano di avere un compito da portare a termine superavano le più degradanti situazioni. 3. Membro onorario di società mediche e psicoterapeutiche, dottore honoris causa in decine di Università, alpinista provetto, F. ha affrontato scottanti problematiche esistenziali, convinto che tutti sono in grado di dire sì alla vita, nonostante tutto. Nel 1992 personalità del mondo accademico internazionale (H. Hunger, G. Guttmann, F. Vesely, E. Fizzotti) hanno fondato il V.-F.-Institut, che cura la bibliografia internazionale e pubblica testi inediti, assieme a testi editi, nelle Gesammelte Werke, presso l’editrice Böhlau di Vienna, a cura di A. Batthyany, K. Biller e E. Fizzotti. In Italia, presso l’Università Salesiana di Roma, l’Associazione di Logoterapia e Analisi Esistenziale Frankliana (A.L.Æ.F.) organizza seminari, convegni, corsi di formazione e laboratori, e pubblica la rivista quadrimestrale Ricerca di senso, alla quale collaborano i migliori specialisti in logoterapia sia italiani che esteri. Bibl.: Opere di F.V.E. in it.: Le radici della logoterapia. Scritti giovanili 1923-1942, Roma, LAS, 2000; Teoria e terapia delle nevrosi, Brescia, Morcelliana, 32001; Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione, Ibid., 52002; Alla ricerca di un significato della vita, Milano, Mursia, 42005; La sfida del significato. Analisi esistenziale e ricerca

di senso, Trento, Erickson, 2005; Logoterapia e analisi esistenziale, Brescia, Morcelliana, 62005; Uno psicologo nei lager, Milano, Ares, 172005; Homo patiens. Soffrire con dignità, Brescia, Queriniana, 32007; F.V.E. - P. Lapide, Ricerca di Dio e domanda di senso. Dialogo tra un teologo e uno psicologo, Torino, Claudiana, 2006.

E. Fizzotti

FRANTA Herbert n. a Tuschkau (Cecoslovacchia) nel 1936 - m. a Benediktbeuern (Germania) nel 1995, psicologo tedesco. 1. Professore di psicologia all’Università Pontificia Salesiana (UPS) di Roma e alla Philosophisch-Theologische Hochchule der Salesianer Don Boscos a Benediktbeuern (Germania). Costretta a lasciare il Paese (1945), la famiglia F. si trasferisce a Scheinfeld-Germania (1949). Completata la scuola superiore, diviene salesiano (1957) e sacerdote (1966), lavorando poi per alcuni anni in Brasile. Consegue nel 1970, presso il Pontificio Ateneo Salesiano (Roma), la licenza in Filosofia-Pedagogia; nel 1971, il diploma di qualificazione professionale in Psicologia e nel 1972 il dottorato in Filosofia-Pedagogia con indirizzo psicologico. Frequenta a Bonn (Germania) i seminari di Hans Thomae, al cui metodo psicobiografico dedicherà il suo dottorato. Dal 1973 approfondisce il campo della psicoterapia. 2. I suoi interessi scientifici sono rivolti primariamente a quella che amava chiamare la psicologia applicata, ossia una psicologia finalizzata a trasmettere, tra le persone comuni, concetti e strumenti propri della psicologia, con lo scopo di sviluppare capacità e competenze idonee ad affrontare i problemi della vita. Sostenitore di molti aspetti della visione adleriana dell’uomo e della funzionalità psichica, ribadisce non solo negli scritti, ma anche nei suoi insegnamenti, l’importanza del decentramento dall’Io, dell’interesse sociale, dell’incoraggiamento. Dal punto di vista più strettamente terapeutico si orienta soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita verso l’approccio cognitivo-comportamentale del quale apprezza la scientificità e il ri487

FRATELLI DELLE SCUOLE CRISTIANE

gore metodologico. Le sue idee al riguardo hanno dato vita al programma della Scuola Superiore di Specializzazione in Psicologia Clinica dell’UPS, all’ideazione e all’attuazione della quale ha attivamente collaborato. Si deve menzionare, infine, il suo interesse per la prevenzione e, in tempi più recenti, per la psicologia della salute. Il pericolo del → relativismo etico, dell’immanentismo, della visione epicurea che possono permeare in modo più implicito che esplicito alcune prassi psicoterapiche costituiscono per F. un aspetto di notevole importanza non sufficientemente approfondito e problematizzato. Tuttavia, le sue idee al riguardo, che non fa in tempo a pubblicare (a causa della prematura morte), rimangono come viva testimonianza, tra gli allievi, che hanno avuto il privilegio dei suoi insegnamenti. Bibl.: Tra le opere principali di H. F.: Psicologia della personalità. Individualità e formazione integrale, Roma, LAS, 1982; Atteggiamenti dell’educatore, Ibid., 1988; Relazioni sociali nella scuola, Torino, SEI, 1988; Comunicazione interpersonale, Roma, LAS, 1990; L’arte dell’incoraggiamento, Firenze, La Nuova Italia, 1991.

A. R. Colasanti

FRATELLI DELLE SCUOLE CRISTIANE

il La Salle ai suoi religiosi); c) un educatore formato spiritualmente e preparato professionalmente, capace di dedicarsi di preferenza agli alunni poveri, dotato di robuste qualità umane come: «contegno, semplicità, ponderazione, saggezza, pazienza, equanimità, zelo, vigilanza, pietà, generosità». 2. Mediante le loro istituzioni scolastiche – spesso innovative nei programmi e nei metodi oltre che attente alla centralità della persona dell’alunno – i f. hanno dapprima (sec. XVIII) anticipato lo Stato moderno nel fornire ai ceti meno abbienti i rudimenti della cultura popolare; poi (sec. XIX) hanno piuttosto assecondato lo Stato borghese nel suo sforzo di democratizzare la scuola e di orientarla verso le nuove professioni indotte dalla crescente industrializzazione; oggi, si orientano in prevalenza verso l’ → alfabetizzazione nelle aree critiche del terzo mondo, verso iniziative socio-educative a favore di giovani a rischio, o verso creazioni scolastiche e post-scolastiche di tipo alternativo. Attenzioni prioritarie della congregazione fin dall’origine sono state quella della formazione dei maestri (→ «scuole normali» o istituti magistrali), della sussidiazione didattica (→ editoria scolastica, → riviste pedagogiche), e ultimamente anche della → ricerca e sperimentazione educativa a livello di insegnamento primario, secondario e superiore (→ congregazioni insegnanti maschili).

Congregazione insegnante composta esclusivamente di religiosi laici, che vivono canonicamente in comunità e operano professionalmente «in associazione» con gli educatori che collaborano nelle loro istituzioni. Fondata in Francia alla fine del Seicento da s. JeanBaptiste de → La Salle, la congregazione si è estesa a livello internazionale specialmente durante il XIX sec. e gli inizi del XX.

Bibl.: R igault G., Histoire générale de l’Institut des Frères des écoles chrétiennes, 9 voll., Paris, Plon, 1938-1954; Gil P. M., Tres siglos de identidad lasaliana, Roma, Études Lasalliennes, 1994; Bédel H., Initiation à l’histoire de l’Institut des FSC, 3 voll., Ibid., 2001-2007.

1. L’intuizione originaria del fondatore è che l’educazione è un vero e proprio ministero evangelico non «ordinato», che esige: a) un uomo «completo» (di qui la scelta dello stato religioso laicale, libero da incombenze pastorali tipiche della vita clericale); b) una persona indivisa tra impegno educativosecolare e tensione ascetico-religiosa («non fate differenza tra i vostri compiti professionali e la ricerca della perfezione», ingiunge

FREINET Célestin

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F. Pajer

n. a Gars nel 1896 - m. a Vence nel 1966, educatore francese. 1. Vita e opere. Fin da piccolo F. aiuta i genitori nel lavoro dei campi. Nel 1915 si diploma maestro elementare e subito dopo partecipa alla prima guerra mondiale. Nel 1916 viene ferito ad un polmone, ma preferisce rinun-

FREIRE PAULO

ciare alla massima pensione di invalidità per insegnare nella scuola elementare e, insoddisfatto della metodologia tradizionale, apre la scuola alla «vita», collegando la cultura con le esperienze dei fanciulli. Per rendere più interessante l’apprendimento mette a punto le tecniche didattiche che lo renderanno famoso: il testo libero, la tipografia, la corrispondenza interscolastica e lo schedario. Decide di esplorare con la scolaresca la campagna e di visitare le botteghe degli artigiani, dando agli alunni la possibilità di scrivere i «testi liberi» sulle cose osservate e sui sentimenti provati. I «testi» vengono successivamente stampati con un complesso tipografico molto semplice. L’insieme dei testi costituisce il «libro della vita», strumento didattico alternativo ai libri di testo ufficiali che F. rifiuta di adottare, perché espressioni del → capitalismo. Attraverso il rinnovamento scolastico egli intende cambiare la società in senso marxista. Avvertendo il limite dell’innovazione isolata, si fa promotore di un Movimento Cooperativistico, nel quale coinvolge molti insegnanti, che simpatizzano per le sue idee politiche e per le sue tecniche didattiche. Dopo aver dato le dimissioni dalla scuola pubblica per contrasti con le autorità scolastiche, si stabilisce con la famiglia a Vence, dove fonda una scuola sperimentale, attiva ancora oggi. Con altri insegnanti istituisce a Cannes l’Institut Cooperatif de l’École Moderne per produrre i sussidi didattici collegati con le tecniche, che si diffondono anche in Italia e nel mondo. 2. Il pensiero pedagogico. F. oppone il carattere «pratico» della sua pedagogia «popolare», rivolta ai lavoratori sfruttati dal capitalismo, all’astrattezza di certe pedagogie «senza basi sufficientemente solide» (L’éducation du travail, Gap, Ophyris, 1949, 88-89). È esemplare il suo impegno nell’attuazione di una scuola attiva (→ Scuole Nuove), che superi la «scuola-caserma» e la «classe-tempio», a vantaggio della «scuola-comunità» e della «classe-laboratorio». La pedagogia freinetiana presenta un carattere cooperativistico, poiché è l’espressione del Movimento degli insegnanti. Assume insieme, nella pratica educativa, un carattere sperimentale e un ancoraggio alla saggezza popolare. 3. Bilancio critico. F. è uno dei rappresen-

tanti più significativi dell’attivismo pedagogico francese. Egli ha avuto il merito di aver dimostrato che l’azione educativa non può essere affidata al caso, né svolgersi in modo isolato rispetto alla famiglia e alla comunità. La sua proposta pedagogica ci sembra inconsistente sul piano teorico, perché procede su basi molto semplicistiche a causa della preoccupazione di aderire al «buon senso popolare» per evitare ogni forma di astrattismo. Il suo contributo più originale e ancora oggi molto attuale è costituito dalle tecniche didattiche che vengono usate al di là della ideologia e della stretta sequenzialità da lui voluta. Bibl.: a) Fonti: principali opere di F.: L’école moderne française, Gap, Ophyris, 1946; Les dits de Mathieu. Une pédagogie moderne de bon sens, Cannes, B.E.N.P., 1949; Les techniques F. de l’École Moderne, Paris, Bourrelier, 1964. b) Studi: Eynard R., C.F. e le tecniche cooperativistiche, Roma, Armando, 1968; Caporale V., La scuola attiva. F., Bari, Cacucci, 2006.

V. Caporale

FREIRE Paulo n. a Recife il 19 settembre 1921 - m. a São Paulo il 2 maggio 1997, educatore e pedagogista brasiliano, massimo esponente della pedagogia della liberazione. 1. Figlio di un ufficiale di polizia e di una maestra e cattolica praticante, imparò da essi il dialogo. Laureato in Diritto, fu sensibilizzato alla pedagogia dalla moglie Costa Oliveira, maestra elementare e direttrice didattica. Nel 1961 fonda a Recife il Movimento di Cultura Popolare per l’educazione degli adulti. Il colpo di stato militare del 1964 lo costrinse all’esilio in Cile e negli Stati Uniti. Il Consiglio Mondiale delle Chiese, lo inviò in Guinea Bissau. Ritornato definitivamente in Brasile nel 1985, promosse la scuola pubblica dello Stato di São Paulo. 2. Partita come alfabetizzazione coscientizzante delle popolazioni adulte rurali brasiliane, la pedagogia freireana arriva a una impostazione pedagogica globale. Azione educativa e liberazione socio-politica sono 489

FREUD ANNA

congiunte. L’utilizzo dell’approccio marxista gli costò l’accusa di comunismo. La prospettiva è quella dell’umanesimo cristiano di E. → Mounier e J. → Maritain e della linguistica generativa di N. Chomsky. La condizione di oppressione è letta con la categoria dialettica hegeliana di oppressi e oppressori: gli oppressori non possono essere tali senza la dominazione «oggettiva» degli oppressi; questi, a loro volta, espropriati della loro coscienza e della loro parola, pensano come l’oppressore avendone introiettato l’ideologia e leggono fatalisticamente la loro condizione. Convinto che «nessuno libera nessuno, nessuno è liberato da nessuno, ma ci si libera insieme», oppone a una educazione «depositaria» o «bancaria» (in cui l’educando è come un deposito bancario di nozioni e tecniche) una educazione «problematizzante». Il fine di essa è stimolare a prendere coscienza della propria situazione e coglierne i «temi generatori» e le «prospettive inedite di azione», attraverso il dialogo comunitario, nella prospettiva di una civiltà dell’amore. Nell’ultimo periodo ha proposto come integrazione una «pedagogia dell’autonomia» e una «pedagogia della speranza». 3. Oltre le critiche antitetiche di comunismo (da parte della destra liberal-conservatrice) e di borghesismo (da parte della sinistra popolar-rivoluzionaria) o di scarsa attenzione all’emergenza della donna e all’innovazione comunicativa dei mass-media (e dei new media), fatte a F. negli ultimi suoi anni di vita, permangono interrogativi circa l’adeguatezza del metodo freireano a fronte della complessificazione e globalizzazione dell’esistenza sociale attuale e dell’educazione contemporanea; e, più specificamente, circa la consistenza teorica intrinseca del modello e la composizione organica dei riferimenti di cui fa uso. Bibl.: a) Principali opere di F.: La pedagogia degli oppressi, Torino, EGA, 22002 (orig.: 1970); Pedagogia dell’autonomia, Ibid., 2004; Pedagogia da esperança, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1992. b) Studi: Gadotti M., Leggendo P.F., Torino, SEI, 1995; Nanni C., Coscientizzazione, liberazione, democratizzazione. L’azione educativa e la pedagogia di P.F., in «Orientamenti Pedagogici» 45 (1998) 210-225.

C. Nanni

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FREUD Anna n. a Vienna nel 1895 - m. a Londra nel 1981, psicoanalista austriaca. 1. Ritenuta uno dei precursori e dei fautori più entusiasti della psicoanalisi dei bambini, alla quale ha dato un notevole impulso, F.A. nasce a Vienna nel dicembre del 1895. Ultimogenita dei sei figli di S. → Freud, diviene membro della Società Psicoanalitica di Vienna nel 1922, dopo aver completato gli studi magistrali e l’addestramento psicoanalitico. Nel 1938 si trasferisce a Londra. La sua opera ha ampiamente influenzato la teoria, la tecnica e la ricerca psicoanalitiche. 2. Il suo contributo teorico più significativo, che costituisce una lettura d’obbligo per chiunque si accosti alla psicoanalisi, è rappresentata dallo scritto L’Io e i meccanismi di difesa (1936). Esso prende avvio dal lavoro di S. Freud (1926) Inibizione, sintomo e angoscia in cui l’angoscia viene concepita non più come la trasformazione di energia libidica non scaricata, come voleva la teoria tossicologica precedente, ma come reazione dell’Io allo stato di pericolo, assumendo il carattere di un segnale con cui si invoca difesa. Ne L’Io e i meccanismi di difesa F.A. riprende il paradigma teorizzato dal padre dell’Io-conflitto-difesa, incentrando lo studio dell’Io ancora essenzialmente sulla funzione difensiva di tale istanza, tuttavia lascia intravedere in esso i prodromi della nozione dell’Io-adattamento. Tale scritto rappresenta, quindi, un ponte dallo studio della patologia allo studio della normalità e, storicamente, l’anello di congiunzione tra l’Io teorizzato dall’ultimo Freud e quello delineato dalla più recente psicologia dell’Io. Dopo L’Io e i meccanismi di difesa la maggior parte degli scritti di F.A. appaiono più clinici e pratici che teorici; gran parte del suo lavoro è dedicato a mantenere la peculiarità dell’approccio psicoanalitico, pur integrandolo con i progressi ottenuti nel campo della psicologia dell’Io e con le scoperte derivanti dalla psicoanalisi e dall’osservazione diretta dei bambini. Come lei stessa afferma (1966, 985s), nel suo lavoro ha avuto «l’opportunità di mantenere uno stretto collegamento fra teoria e pratica, di verificare costantemente le idee teoriche con l’applicazione pratica e di ampliare l’operare

FREUD SIGMUND

pratico e le misure pratiche con la crescita delle conoscenze teoriche». La possibilità di questa proficua interazione teoria-prassi è offerta in prima istanza dalle attività svolte presso la Clinica Hampstead di terapia infantile che lei stessa fonda a Londra, dopo la prima guerra mondiale, assumendone la direzione. 3. La determinazione del tipo di sofferenza che ogni singolo bambino subisce, richiede considerazioni diagnostiche alle quali F.A. (1965) dedica gran parte del suo secondo scritto fondamentale: Normalità e patologia nell’età infantile. In esso spiega l’impossibilità di assumere i parametri della patologia mentale degli adulti per lo studio della patologia infantile e propone tre modalità per valutare il grado di normalità o patologia presenti in un bambino, basati rispettivamente sullo sviluppo delle pulsioni, dell’Io e del Super Io, sul tipo di angoscia e di conflitto e su alcune caratteristiche generali dell’Io ritenute fattori di stabilità. Introduce, inoltre, il profilo diagnostico in cui i dati raccolti secondo le tre modalità vengono organizzati sinteticamente tenendo presenti gli aspetti dinamici, genetici, economici, strutturali e adattivi della personalità. 4. Un altro contributo particolarmente significativo è offerto dal concetto di linee evolutive lungo le quali si organizza progressivamente la personalità del bambino. Rappresentano le sequenze interattive tra Es, Io e Ambiente che tracciano l’intero cammino percorso dal bambino dall’immaturità alla maturità. Rivestono un alto valore pratico, in quanto forniscono la base indispensabile per ogni valutazione della maturità o immaturità emotiva del bambino, dando inoltre la possibilità di stabilire in quali circostanze evolutive egli è pronto per affrontare determinate esperienze. Per questo trovano immediata applicabilità in campo educativo, costituendo uno dei maggiori apporti di F.A. alla teoria psicoanalitica dello sviluppo. Bibl.: Lustman S. L., The scientific leadership of A.F., in «Journal of American Psychoanal. Ass.» 15 (1967) 810-827; K ris E., «Recensione di: A.F., “L’Io e i meccanismi di difesa”», in E. K ris, Scritti di psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, 281-291; F.A., Opere, 3 voll., Ibid., 1978;

Freud S., Opere, vol. 10, Ibid., 1978, 231-317; F. A., Conferenze per insegnanti e genitori, Ibid., 1986; Id., L’aiuto al bambino malato, Ibid., 1987; Peltzman B. R., A. F.: A guide to research, New York, Garland, 1990; F.A., Lezioni ad Harvard. Il bambino malato, il suo ambiente, il suo sviluppo, Milano, Cortina, 1991; Young-Bruehl E., A.F.: una bibliografia, Milano, Bompiani, 1993; F. A., Normalità e patologia del bambino. Valutazione dello sviluppo, Milano, Feltrinelli, 2003.

A. R. Colasanti

FREUD Sigmund n. a Freiberg (Moravia) nel 1856 - m. a Londra nel 1939, medico e psicoanalista austriaco. 1. Vita e opere. Nato da una famiglia ebraica, dopo gli studi secondari si iscrive nel 1873 alla Facoltà di medicina di Vienna. Frequenta il laboratorio di anatomia comparata diretto da C. Claus e successivamente l’istituto di fisiologia di Ernest von Brücke, dove entra in contatto con Breuer, già noto per le sue ricerche neurofisiologiche e che avrà una parte rilevante nella nascita della psicoanalisi. Conseguita nel 1881 la laurea in medicina, pressato da esigenze economiche, abbandona la carriera di ricercatore e inizia a esercitare privatamente la medicina. Ottenuta nel 1885 la nomina a Privatdozent, si reca per 6 mesi a Parigi dove, alla Salpètrière segue le lezioni di → Charcot sull’isteria e le malattie del sistema nervoso. Colpito dalla sua personalità e dalle sue teorie, riprende l’attività e dirige il reparto neurologico dell’Istituto Pediatrico di Vienna. Nel settembre del 1886 sposa Marta Bernays. Nel 1895, pubblica, in collaborazione con J. Breuer, Gli studi sull’isteria, considerato il punto di partenza della psicoanalisi. In questo stesso anno, subito dopo la rottura con Breuer, si immerge nella stesura de Il progetto di una psicologia, saggio rimasto incompiuto e pubblicato postumo solo nel 1950. Pur dedicandosi all’attività privata, continua ad essere attratto dalla ricerca e nel 1884 pubblica un articolo sulle proprietà analgesiche della cocaina. Nel 1896, dopo la morte del padre, concentra sempre di più il proprio interesse sul problema della etiologia dell’isteria e delle nevrosi 491

FREUD SIGMUND

in genere. Negli anni successivi, in diversi saggi, F. sostiene l’applicabilità del modello proposto ne L’interpretazione dei sogni alla spiegazione di diverse manifestazioni psichiche della vita normale (Psicopatologia della vita quotidiana, 1901; Il metodo psicoanalitico freudiano, 1903). Con i Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) alcuni concetti ricevono una formulazione più dettagliata, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra sessualità infantile e adulta. Ottiene intanto, nel 1902 il titolo di professore straordinario titolare all’Università di Vienna e in diversi scritti ribadisce l’importanza centrale della sessualità (Le mie opinioni sul ruolo della sessualità nell’etiologia delle nevrosi, 1905). Dopo il 1906, con il primo gruppo di allievi, pone le basi del movimento psicoanalitico. Nel 1909 viene invitato negli Stati Uniti da S. Hall. Nel 1920 F. è nominato professore ordinario dell’Università di Vienna e pubblica Al di là del principio del piacere, saggio in cui introducendo il concetto di pulsione di morte propone un’ulteriore riformulazione della sua teoria. Nel 1923 gli viene diagnosticato un cancro al palato e alla mascella. Nonostante la malattia e la perdita della figlia Sophie e del nipote H. Halberstadt, a cui era particolarmente legato, F. continua a lavorare: L’Io e l’Es (1923), Il problema dell’analisi condotta da non medici (1926). Nel 1927 pubblica L’avvenire di un’illusione e nel 1929 Il disagio della civiltà che, assieme a Totem e tabù (1913), e a Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) possono essere considerati come un tassello fondamentale nella costruzione della visione antropologica freudiana, visione essenzialmente pessimistica e riassumibile nell’ipotesi della stretta relazione fra una parziale rinuncia al soddisfacimento degli istinti e la nascita della civiltà. Gli ultimi anni della vita di F. sono dedicati a definire lo statuto epistemologico della psicoanalisi (Costruzione nell’analisi, 1937). Nel 1938, in seguito alle persecuzioni antiebraiche, è costretto a rifugiarsi a Londra. Poco prima della sua morte viene eletto membro della Royal Society. 2. F. e la psicoanalisi. Il termine psicoanalisi compare negli scritti freudiani nel 1896 (Nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa) e sostituisce i termini precedentemente usati di «analisi psichica» e «analisi psicologica». 492

Sulla base della definizione data nel 1922 dallo stesso F. si possono identificare nella psicoanalisi tre livelli strettamente interrelati. La psicoanalisi può cioè essere considerata: «1) un procedimento per l’indagine di processi psichici cui altrimenti sarebbe praticamente impossibile accedere; 2) un metodo terapeutico basato su tale indagine per il trattamento dei disturbi nevrotici; 3) una serie di conoscenze psicologiche acquisite per questa via che gradualmente si assommano e convergono in una nuova disciplina scientifica» (Psicoanalisi, 1922). Nella costruzione della teoria psicoanalitica, sono schematicamente individuabili tre fasi. La prima fase (1887-1897), segnata dalla collaborazione e dal successivo distacco di F. da Breuer, trova il suo momento conclusivo nella scoperta che il ricordo delle esperienze traumatiche non rappresenta il ricordo di avvenimenti reali ma di fantasie che soddisfanno un desiderio infantile. A partire dalla collaborazione con J. Breuer e dalla riflessione sul caso di Anna O. – che costituirà il primo dei casi clinici presentati negli Studi sull’isteria (1895) – F. giunge progressivamente ad elaborare, grazie anche all’abbandono dell’ipnosi, un nuovo metodo, il metodo delle libere associazioni, basato sul postulato del determinismo psichico e atto a sottolineare l’importanza della vita sessuale del paziente nonché l’esistenza di avvenimenti traumatici, sempre di natura sessuale, verificatisi durante l’infanzia. Nel periodo compreso tra il 1897-1923 vengono elaborati i concetti fondamentali della psicoanalisi. Questa seconda fase è caratterizzata dalla progressiva accentuazione dell’importanza attribuita al modo in cui l’apparato psichico affronta esigenze ed impulsi interni e al modo in cui li rappresenta. Sulla base dell’autoanalisi e del lavoro clinico con i pazienti, F. era giunto, nel 1897, a considerare erronea la teoria del trauma sessuale infantile (La sessualità nell’origine delle nevrosi, 1898) e a ipotizzare che i ricordi di traumi sessuali, che così di frequente affioravano nelle libere associazioni dei suoi pazienti non si riferissero ad avvenimenti passati realmente accaduti ma esprimessero piuttosto fantasie derivanti da desideri di natura sessuale. Ne L’interpretazione dei sogni (da lui considerata come una delle pietre miliari della psicoanalisi, come «la via maestra alla conoscenza della vita mentale inconscia») F.

FREUD SIGMUND

formula non solo un’originale teoria del sogno ma pone le basi di una nuova psicologia, presentando uno specifico modello della mente e utilizzando una serie di concetti – quali inconscio, processo primario e secondario, complesso edipico, rimozione, difesa, conflitto dinamico – che occuperanno sempre una posizione centrale nella elaborazione della teoria psicoanalitica adulta. Il funzionamento mentale viene descritto nei termini dei rapporti tra il sistema PC (percezionecoscienza), Prec (preconscio) e Inc (inconscio) separati fra loro da barriere che modulano l’accesso dei diversi contenuti mentali. Grazie al sogno, considerato la «via regia per l’inconscio», diviene, secondo F., possibile studiare le caratteristiche distintive dell’Inconscio e dei suoi rapporti con il pensiero cosciente. La rimozione costituisce a questo punto della teoria freudiana il meccanismo fondamentale responsabile da un lato della selezione del materiale che avrà accesso alla coscienza e dall’altro della formazione del sintomo, del sogno e di altre manifestazioni della psicopatologia della vita quotidiana. Nel 1905, nei Tre saggi, F. identifica inoltre l’elemento motivazionale fondamentale della vita psichica nella pulsione, considerata come strettamente ancorata al terreno biologico e concettualizzata in termini energetici, e propone un modello di sviluppo psicosessuale di tipo chiaramente evoluzionistico, che trova il suo punto centrale nel complesso edipico. Nell’interpretazione del transfert viene identificato lo strumento fondamentale della tecnica psicoanalitica e vengono inoltre postulati due principi di funzionamento della vita psichica, il processo primario, operante nell’inconscio, e il processo secondario, caratterizzato dal contatto con la realtà e dalla possibilità di differire il soddisfacimento di esigenze pulsionali. Un ulteriore sviluppo in questa fase è dato dalla formulazione del concetto di narcisismo (1914) e dalla edificazione, negli scritti metapsicologici (1915-1917), della struttura teorica della psicoanalisi. La formulazione del concetto di pulsione di morte, che compare nel 1920 nello scritto Al di là del principio di piacere chiude questa fase intermedia. La terza fase, che prende inizio dalla pubblicazione, nel 1923, di L’Io e l’Es, trova il suo punto centrale nella formulazione della teoria strutturale che sostituendosi al modello topico, presentato nel

1900 nell’Interpretazione dei sogni, riconduce il funzionamento mentale ai rapporti fra tre strutture psichiche dell’Io, dell’Es e del Super-io. L’Es rappresenta il polo pulsionale della personalità, il Super-io, costituito dalla introiezione delle figure genitoriali, così come sono state vissute dal bambino, veicola gli ideali e i divieti delle figure genitoriali, e l’Io, istanza mediatrice tra l’Es, i divieti del Super-io e le esigenze di realtà, costituisce «il rappresentante degli interessi della persona nella sua totalità». All’Io spetta dunque il compito di modificare la realtà esterna in funzione delle esigenze pulsionali, mediante il controllo degli apparati che presiedono alla percezione, memoria e motilità, nonché di controllare, mediante il ricorso a specifici meccanismi di difesa, le richieste provenienti dall’Es. La dinamica della vita psichica è ricondotta ad una molteplicità di conflitti: tra le pulsioni di vita e le pulsioni di morte, tra le esigenze provenienti da diverse istanze, tra le diverse parti componenti ciascuna istanza. Dalla nuova riconcettualizzazione dell’apparato psichico F. estenderà da un lato l’indagine psicoanalitica a realtà extracliniche (psicologia delle masse, l’origine e il senso della religione, dell’organizzazione sociale e della civiltà) e dall’altra ritematizzerà il campo di applicazione clinica proponendo una classificazione della psicopatologia in termini di meccanismi di difesa e di dinamiche conflittuali. Di conseguenza vengono introdotte delle modifiche sostanziali nella tecnica terapeutica il cui strumento fondamentale, l’interpretazione, deve mettere l’Io in condizione di reintegrare quelle parti della vita psichica che la rimozione aveva reso non più disponibili. 3. Psicoanalisi ed educazione. Fin dal 1898 F. aveva messo in rilievo il peso delle pratiche educative nei confronti della sessualità. Nel 1905 nei Tre saggi sulla teoria sessuale se da un lato sostiene che l’educazione «deve limitarsi a favorire ciò che è organicamente predeterminato» – e cioè lo sviluppo del disgusto, del pudore, di ideali estetici, considerati una sorta di argine della pulsione sessuale – dall’altro punta il dito contro pratiche educative fortemente repressive della sessualità e il ricorso a punizioni corporali. Ancora nel 1908, nel Caso clinico del piccolo Hans, F. sottolinea come l’educazione 493

FREUD SIGMUND

possa esercitare un profondo influsso a favore o a sfavore della predisposizione alla malattia e come quindi le pratiche educative dovrebbero tendere non alla repressione delle pulsioni sessuali ma piuttosto a rendere «l’individuo atto alla civiltà e utile membro del consorzio umano». Da questa prospettiva, sostiene F., la psicoanalisi è in grado di offrire preziosi contributi alla messa a punto di adeguati metodi pedagogici. Nel 1910 ritorna sull’importanza di opportune misure educative in grado di guidare un armonioso sviluppo del bambino nonché sull’inadeguatezza della pedagogia dell’epoca. Nel 1911 ne I due principi dell’accadere psichico, scritto di notevole importanza teorica, l’educazione viene definita come «un incitamento a superare il principio di piacere e a sostituirlo con il principio di realtà»: gli interventi educativi vengono dunque considerati, in questa prospettiva, come un «ausilio al processo evolutivo che riguarda l’Io». Nel 1913 in L’interesse per la psicoanalisi F. stigmatizza nuovamente il ruolo delle pratiche educative nella «repressione violenta dei moti pulsionali socialmente inutilizzati o perversi», che è all’origine di una «rimozione che instaura una successiva malattia nevrotica». L’educazione dovrebbe quindi «guardarsi dal seppellire i moti pulsionali», limitandosi piuttosto «ad incoraggiare i processi attraverso i quali queste energie possono venire indirizzate su una buona strada». In questo senso «le rivoluzionarie recenti scoperte della psicoanalisi attinenti alla vita psichica del bambino» si rivelano preziose per la messa a punto di una moderna pedagogia che voglia porsi l’obiettivo di prevenire la nevrosi e la perversione. Sempre nel 1913, nella sua prefazione a Il metodo psicoanalitico, di O. Pfeister – che può essere considerato uno dei primi tentativi di coniugare psicoanalisi e pedagogia – F., pur sottolineando come la psicoanalisi «rimanga in un rapporto di esteriorità rispetto al lavoro educativo», ribadisce il valore preventivo dell’azione educativa orientata psicoanaliticamente, attribuendole il compito di «vigilare affinché certe disposizioni e tendenze del bambino non rechino alcun danno al singolo e alla società». Pur ritenendo ancora valida questa prospettiva, nel 1915, in Considerazioni attuali sulla vita e sulla morte, F. pone l’accento sull’importanza della «costrizione esterna esercitata dall’educa494

zione, ritenuta essenziale per la costruzione della civiltà, che trova il proprio fondamento nella rinuncia al soddisfacimento pulsionale. L’educazione psicoanaliticamente orientata svolgerebbe così una funzione preziosa nella trasformazione della vita pulsionale, orientandola verso il bene e verso la conversione dell’egoismo nell’altruismo». Queste posizioni rimarranno sostanzialmente invariate. Su di esse ritorna ancora in L’avvenire di un’illusione (1927) e in Introduzione alla psicoanalisi (1932). Nel 1925, nella sua introduzione a Gioventù traviata di August Aichorn, un pedagogista che si era specializzato nel trattamento di giovani con tendenze antisociali, ribadisce la distinzione fra opera educativa e psicoanalisi. Pur considerando la terapia psicoanalitica una sorta di «rieducazione», F. mette in guardia dalla tentazione di sostituire la psicoanalisi alla pedagogia e sostiene che «le ricerche psicoanalitiche possono giovare alle attività educative intese a guidare [il bambino] alla conquista di una propria personale maturazione, ad aiutarlo nella crescita e a salvaguardarlo da eventuali errori [...] e che dunque se la psicoanalisi può essere molto utile all’educazione non è tuttavia idonea a prenderne il posto». Nella seconda serie di lezioni dell’Introduzione alla psicoanalisi, a cui si è già fatto cenno, mette in particolare rilievo la problematicità degli interventi pedagogici. Secondo F.: «l’educazione [...] deve cercare una via tra Scilla del lasciar fare e Cariddi del divieto frustrante, compito se non insolubile particolarmente complesso». Ed è proprio sulla base delle difficoltà di trovare l’optimum educativo che F. vede nell’analisi degli insegnanti e degli educatori un’auspicabile misura preventiva. Ancora nel 1937, in Analisi terminabile e interminabile, mette in guardia contro le ambizioni terapeutiche ed educative, identifica nella professione dell’educatore una delle tre professioni impossibili e prospetta l’educazione come una serie di interventi volti ad aiutare l’Io «a spostare lo scenario del conflitto dall’esterno all’interno, a dominare il pericolo interno prima che si sia trasformato in pericolo esterno». Tali idee sull’educazione saranno riprese ed esplicitate dalla figlia A. Freud. Bibl.: a) Fonti: le opere complete di F. sono state pubblicate in tre diverse edizioni: l’ediz. ted.

FRÖBEL FRIEDRICH WILHELM AUGUST

(Gesammelte Werke, 1940-52, 18 voll.) è curata da A. Freud et al.; l’ediz. ingl. (Standard Edition, 1953-74, 24 voll.) è curata da J. Strachey e l’ediz. it. (Opere, 1966-1980, 12 voll.) è curata da C. L. Musatti. b) Studi: Sulloway F., F. biologo della psiche, Milano, Feltrinelli, 1982; Gay P., F., una vita per i nostri tempi, Milano, Bompiani, 1988; K aufmann P. (Ed.), L’apporto freudiano. Elementi per un’enciclopedia della psicoanalisi, Roma, Borla, 1996; Q uinodoz J.-M., Leggere F. Scoperta cronologica dell’opera di F., Ibid., 2005.

F. Ortu - N. Dazzi

FRÖBEL Friedrich Wilhelm August n. a Oberweissbach (Turingia) il 21 aprile 1782 - m. nel castello di Marienthal, Turingia, il 21 giugno 1852, pedagogista e educatore tedesco. 1. Vita. La madre di F. morì l’anno seguente la sua nascita e il padre, pastore protestante, lo affidò alle cure dei cinque fratelli maggiori e di persone estranee, per cui l’infanzia di F. è stata particolarmente infelice. Nel 1799 si iscrisse ai corsi di filosofia nell’università di Jena, ma li abbandonò dopo due anni per ristrettezze economiche. Nel 1805 F. accettò l’invito di Gruner, allievo di → Pestalozzi, ad insegnare nella sua scuola di Francoforte. Precettore, poi, dei tre figli della famiglia Holzhausen, li portò a Yverdon, la scuola di Pestalozzi, ove lui stesso fu docente e alunno (1808-1810). Rientrato in Germania, si iscrisse prima all’università di Gottinga (1811) e poi a quella di Berlino (1813) per seguire i corsi di mineralogia del Weiss e di filosofia dello Schleiermacher. Divenuto assistente di Weiss e vice direttore del Museo mineralogico di Berlino, abbandonò l’impiego nel 1816, dopo la morte del fratello Cristoforo, per prendersi cura dei tre nipoti a Griesheim, ai quali si aggiunsero i due nipoti del fratello Cristiano. Nel 1817 F. si trasferì a Keilhau, ove fondò: «L’Istituto universale tedesco di educazione di Keilhau»; nel 1826 scrisse la sua opera pedagogica L’educazione dell’uomo; tra il 1831 ed il 1836 fondò e diresse tre istituti in Svizzera: Wartensee, Willisau e Burgdorf. Ritornato in Germania, F. fondò «L’Istituto per l’educazione dell’impulso

all’attività di bambini e giovani» (1837) a Blankeburg, ove aprì il suo primo «Kindergarten» (1840), che si diffuse in altre città. Nel 1851 il governo prussiano ordinò a F. di chiudere i Giardini d’infanzia, accusati di diffondere orientamenti sovversivi nei riguardi della religione e della politica. Nel 1860 l’ordine fu revocato, ma F. era morto nel 1852. 2. L’educazione dell’uomo (1826). L’opera, pensata da F. come un’analisi del processo educativo lungo tutta la vita umana, tratta soltanto delle prime due età: l’infanzia e la fanciullezza. Il pensiero di F. è stato influenzato dalla poesia romantica e dalla filosofia idealistica di Novalis, Schiller, Ficthe, Schelling, Schleiermacher, ma si specifica soprattutto come un «panenteismo» alla maniera di Karl Christian F. Krause (1781-1832), secondo il quale tutto è scaturito da Dio e tutto da Dio è condizionato; e, in particolare, l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, crea, opera ed agisce in modo simile a Dio. Tuttavia, l’uomo non ha coscienza di ciò, ed è opera essenziale dell’educazione portarlo a questa consapevolezza mediante la gradualità delle forme attraverso le quali Dio si manifesta e soprattutto agisce, perché tutto è attività. Attività che ci appare in Dio come creazione, nell’uomo come lavoro, nel fanciullo come → gioco. Il divenire e l’attività, data l’identità assoluta di Dio con l’uomo e la natura, si esplicano anche come Dio che gioca nel fanciullo, lavora nell’uomo e crea nella sua trascendentalità. Gioco, lavoro e creatività sono tre momenti necessari di un unico processo di sviluppo immanente all’umanità: lo sviluppo del divino che è nell’uomo, per cui l’educazione è essenzialmente auto educazione, attività spontanea, fino alla consapevolezza del divino che è in ciascuno di noi e alla sua libera realizzazione. Sviluppo ed educazione sono sempre completi in ciascuna età, e in ognuna l’educazione deve ispirarsi alla vita circostante contemporanea. Nella scuola, in cui deve dominare l’attività spontanea del fanciullo che è il gioco, ci si educa e ci si istruisce vivendo: nulla si apprende in teoria, ma attuando il vero, il bene e il bello e operando in proprio e in collaborazione con i compagni. Durante l’infanzia (fino ai 2 o 3 anni), la seconda infanzia (3 – 6 anni) e la fanciullezza (fino ai 10 o 12 anni) si devono 495

FROMM ERICH

sviluppare e consolidare in modo opportuno tre forze: religione, laboriosità e temperanza. F. indica, come ambiente particolarmente adatto all’educazione, la famiglia per la prima infanzia, il giardino per la seconda e la scuola per la fanciullezza, con una figura dominante in ciascuno di essi: la madre, la maestra-giardiniera e l’insegnante. Nella seconda parte dell’Educazione dell’uomo F., che ha legato il suo nome al Kindergarten, parla dell’istruzione degli alunni delle scuole elementari, che dovrebbe essere perseguita mediante attività di gioco e di lavoro. 3. Il Kindergarten. L’interesse di F. per l’istituzione prescolare è nato gradualmente e sotto una molteplicità di influssi, in particolare quelli di Krause, che, tra l’altro, gli fece conoscere un opuscolo di → Comenio sul problema (la Schola infantiae), e di Pestalozzi. F. non usa il nome di «Giardino» solo per romantica similitudine, si fonda, invece, su un concetto più profondo: allo stesso modo che nel giardino i fiori si schiudono da sé, così nel Kindergarten i bimbi si sarebbero potuti liberamente esplicare e svolgere da sé, in spontaneità, «germogliando» e «fiorendo» dal loro intimo, nella serenità del gioco e della vita di natura. Oltre i giochi spontanei, quelli preparatori al futuro lavoro produttivo e le occupazioni, F. propone anche dei giochi detti «doni», derivanti da una concezione metafisica della realtà che si esprime in forme geometriche, che sono offerti come materiale di osservazione e di azione, mezzi del conoscere, del fare da sé, del costruire. I «doni» sono i seguenti: La palla elastica e le palle di lana di diverso colore, peso e grandezza; il bambino, giocando e divertendosi, apprende le idee di unità e di pluralità e impara a conoscere le proprietà fondamentali dei corpi. La sfera, il cubo e il cilindro: la sfera rappresenta la massima mobilità, il cubo la stabilità, il cilindro la situazione intermedia. Il cubo scomponibile, inoltre, soddisfa un tipico istinto infantile, quello di rompere una cosa per vedere com’è fatta e ciò che c’è dentro. Il compito educativo delle maestre era agevolato da una serie di tavole esplicative, che accompagnavano ogni dono. Nonostante il didatticismo formale di molti fröbeliani, per i quali i «doni» divennero degli schemi senza vita, resta il loro profondo valore pedagogico. 496

4. Valutazione. Il valore del gioco per l’educazione del fanciullo era già stato sottolineato, tra gli altri, da Quintiliano, Vittorino, Locke, Fénelon, Rousseau, Pestalozzi, ma solo F. ha formulato con chiarezza il principio che il gioco è tutta l’attività del fanciullo. Mentre prima di F. i bambini erano affidati a delle sale di custodia e ad asili con finalità assistenziali o con attività precoci di istruzione come quello di Aporti, con F. si afferma una nuova istituzione educativa, il Kindergarten, nella quale ci si prende cura dello sviluppo del fanciullo e della sua personalità attraverso la sua attività spontanea: il gioco. Con F., infine, si è incentivato anche l’ambito progettuale dei materiali didattici per la scuola dell’infanzia, al quale si sono ispirate per analoghe iniziative le sorelle → Agazzi e la → Montessori. Bibl.: a) Fonti: F.F., Ausgewählte pädagogische Schriften, Paderborn, Schöning, 1965; F.F., L’educazione dell’uomo, a cura di G. Flores d’Arcais, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993; b) Studi: Blättner F., Storia della pedagogia, Roma, Armando, 61972; Gasparini D., «F.F.», in Nuove questioni di storia della pedagogia, II, Brescia, La Scuola, 1977, 431-471; Id., «F.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. III, Ibid., 1989, 5156-5167; Bucci S., Educazione dell’infanzia e pedagogia scientifica. Da F. a Montessori, Roma, Bulzoni, 1990; Grazzini M., Il grande F. delle opere minori, Brescia, Istituto di Mompiano, 1999; D’alessandro C., Problemi pedagogici nelle teorizzazioni e nelle pratiche educative dell’età romantica, Napoli, Liguori, 2003; «F.», in Enciclopedia filosofica, vol. V, Milano, Bompiani, 2006, 4494-4496.

F. Casella

FROMM Erich n. a Francoforte nel 1900 - m. a Muralto (Locarno) nel 1980, sociologo e psicoanalista tedesco. 1. Nato in ambiente ebraico osservante, compì la sua formazione a Heidelberg, seguendo gli insegnamenti dei maestri del pensiero sociologico moderno. Affascinato dalle tesi di → Weber, costruì su di esse la sua psicologia sociale. Dopo aver conseguito nel 1922 la

FRUSTRAZIONE

laurea con una tesi sulla sociologia della diaspora, si dedicò esclusivamente agli studi di psicologia e di psicoanalisi, specializzandosi a Berlino alla scuola dei primi allievi tedeschi di → Freud. Emigrato negli Stati Uniti a seguito della persecuzione nazista, insegnò in diverse università americane e fu direttore del Dipartimento di Psicologia dell’Università Nazionale del Messico. Nei suoi scritti ha manifestato una profonda corrispondenza al quadro culturale della contestazione radicale degli anni ‘60. 2. Il libro che viene tutt’ora considerato una delle sue migliori produzioni è Fuga dalla libertà in cui non solo analizza il nazismo dal punto di vista psicoanalitico, ma offre una chiave di lettura di una nuova visione antropologica. Tesi centrale del suo pensiero è che l’uomo, mentre matura l’esigenza della → libertà e dell’indipendenza, si sente sempre più solo, nel suo rapporto con la realtà esterna, perché minacciato nelle sue forze, preso da un sentimento di impotenza e di ansietà dinanzi agli aspetti soverchianti e pericolosi del mondo esterno. In una tale situazione si impongono tre meccanismi di fuga dalla libertà: l’autoritarismo, la distruttività e il conformismo, ai quali è possibile far fronte con il ricorso alla → religione. Approfondendo tale tesi in Avere o essere?, F. individua una duplice modalità di esistenza. Da una parte c’è l’avere, ossia l’impulso alla sopravvivenza che, centrato sull’acquisto e sul dominio di proprietà private e di possessi non materiali, come il proprio io, le altre persone, la reputazione, la conoscenza, alimenta avidità, inimicizia e violenza. Dall’altra c’è l’essere che, avendo come caratteristica principale l’attività libera e finalizzata, implica autotrascendenza, crescita, interesse per gli altri, amore. 3. In tale contesto, la religione, da lui analizzata principalmente nell’opera Psicoanalisi e religione, viene ad assumere un duplice volto: quello dell’autoritarismo e quello dell’umanesimo, con conseguenti risvolti educativi. Nella religione autoritaria, in cui è centrale l’abbandono nelle braccia di un potere trascendente, l’uomo concepisce se stesso come creatura inetta e meschina, considera Dio come un essere dispotico e terribile, e si sente dominato da un sistematico senso

di colpa; nella religione umanistica, invece, vengono poste in risalto le capacità insopprimibili dell’uomo, Dio viene delineato come misericordioso e comprensivo, emerge con forza la dimensione positiva della ricerca appassionata e faticosa del senso della propria esistenza. Bibl.: a) Fonti: opere di F.E. trad. in it., Avere o essere?, Milano, Mondadori, 1977; Fuga dalla libertà, Ibid., 1987; Psicoanalisi e religione, Ibid., 1987; Io difendo l’uomo, Milano, Bompiani, 2004; Il coraggio di essere, Bellinzona, Casagrande, 2006; b) Studi: P unturi G., Progetto uomo: è possibile? Interrogativi di E.F., Roma, Templari, 2 1980; Eletti P. L. (Ed.), Incontro con E.F., Firenze, Medicea, 1988; Funk R. (Ed.), Il meglio di E.F., Milano, Mondadori, 1990; Fizzotti E. - M. Salustri, E.F., in Idd., Psicologia della religione con antologia dei testi fondamentali, Roma, Città Nuova, 2001, 153-179.

E. Fizzotti

FRUSTRAZIONE Il termine f. indica lo stato psicologico di insoddisfazione e di delusione sperimentato quando si incontra un ostacolo che impedisce, o interrompe, un’azione finalizzata alla soddisfazione di un bisogno o di un motivo: tanto più i motivi o i bisogni in gioco sono importanti, tanto più la f. ha ripercussioni pesanti nel vissuto di un individuo. 1. Esempi di situazioni frustranti sono la dilazione, la mancanza, o la perdita, cioè situazioni in cui rispettivamente si deve rimandare a tempi successivi la soddisfazione di un’esigenza, non si hanno a disposizione i mezzi necessari a soddisfare i propri motivi, oppure si avevano tali mezzi ma li si è successivamente perduti. Ci si può sentire frustrati anche in caso di fallimento, soprattutto se a seguito del mancato successo si sente messa in discussione la propria → stima di sé (Ronco, 2006). In caso di f. la persona, non potendo gratificare direttamente un dato motivo o bisogno, si trova a dover raggiungere un diverso equilibrio dinamico attraverso nuovi comportamenti, tenendo conto, in modo più o meno costruttivo, dell’ostacolo frappostosi nel soddisfacimento delle proprie esigenze. 497

FUNZIONALISMO

Dal momento che nel processo di → socializzazione si fa spesso l’esperienza di non poter soddisfare una qualche esigenza personale e di sentirsi quindi frustrati, la ricerca psicologica si è interessata in particolare a come la f. influisca sulla condotta della persona, cercando di individuare quali reazioni si possono avere nelle situazioni frustranti. 2. In proposito è possibile distinguere a grandi linee tre modelli teorici: un primo modello, ispirandosi alla teoria freudiana rivista secondo la teoria dell’apprendimento, ipotizza il rapporto tra f. e → aggressività (Dollard et al., 1967) che può essere diretta verso di sé o verso gli altri (Rosenzweig, 1944); un altro, invece, evidenzia come la f. induca alla fissazione, cioè all’attuazione di un comportamento stereotipato che non si evolve più plasticamente con il mutare delle situazioni (Maier, 1949); il terzo modello, infine, ipotizza che la f. favorisca la regressione, cioè il ritrarsi verso un modo di pensare, sentire e agire più primitivo e immaturo (Barker et al., 1941). Negli ultimi anni, pur prendendo spunto da tali teorie, i ricercatori ritengono che sia riduttivo collegare alla f. un solo tipo di reazione, ma che per comprendere la risposta di una persona in una situazione frustrante occorra tener presente l’interazione di molteplici fattori sociali, ambientali e personali, tra cui gli apprendimenti passati e come viene valutata e interpretata la situazione in questione; inoltre, soprattutto in campo educativo, si evidenzia che non sempre la f. ha un ruolo negativo o induce una disfunzione nel comportamento, ma che quando essa risulta proporzionata alle capacità e alle risorse dell’educando, può essere per lui uno stimolo per riorganizzare in modo creativo e costruttivo il proprio agire verso il raggiungimento della meta desiderata. Bibl.: Barker R. - T. Dembo - K. Lewin, Frustration and regression: an experiment with young children, in «Univ. of Iowa Studies in Child Welfare» 18 (1941) 1; Rosenzweig S., «An outline of frustration», in J. V. Hunt (Ed.), Personality and the behavior disorder, vol. I, New York, Ronald, 1944, 379-388; M aier N. R. F., Frustration: the study of behavior without a goal, New York, McGraw-Hill, 1949; Dollard J. et al., F. e aggressività, Firenze, Giunti-Barbera, 1967; K naus W. J., «Children and low frustration tolerance», in A.

498

Ellis - M. E. Bernard (Edd.), Rational-emotive approaches to the problems of childhood, New York, Plenum Press, 1983, 139-158; Berkowitz L., Frustration-aggression hypothesis: examination and reformulation, in «Psychological Bulletin» 106 (1989) 59-73; Ronco A., Introduzione alla psicologia. vol. 1. Psicologia dinamica, Roma, LAS, 62006.

C. Messana

FUNZIONALISMO Con il termine f. si intende tutto quel complesso di teorie che interpretano i fatti sociali in relazione al loro apporto alla realizzazione di fenomeni sociali più ampi o alle attività di una istituzione o dell’intera società. Si tratta di posizioni riscontrabili in vari campi, dalla sociologia, all’antropologia, alla linguistica, alla psicologia. L’oggetto tenuto qui presente è l’educazione e l’ottica quella sociologica in quanto prevalente nell’ambito considerato. Tra gli autori più importanti dal punto di vista scelto va anzitutto ricordato → Parsons. Per questo studioso ogni fenomeno sociale deve essere esaminato in termini di azione sociale che, a sua volta, è funzione sia di una struttura societaria consistente nei rapporti istituzionalizzati tra le persone, sia della corrispettiva cultura rappresentata dai valori, dalle norme e dai modelli, sia del sistema di personalità dei singoli attori sociali, cioè della cultura da questi interiorizzata (1937). In secondo luogo va citato R. K. Merton a cui si deve in particolare un ripensamento degli assunti parsonsiani: egli ha rivisitato le tre tesi fondamentali del f. classico, precisando che la funzione svolta da un elemento della società non è sempre necessaria per il funzionamento del tutto, può essere superflua, anzi potrebbe non essere positiva (1949). 1. La concezione di società. Il f. interpreta la società come un sistema di parti interdipendenti al cui interno si realizza una vera divisione del lavoro nel senso che ciascun sottosistema svolge funzioni specifiche e mette a disposizione degli altri le sue prestazioni in modo da consentire la conservazione e lo sviluppo del sistema. Nonostante ciò nella società non mancano disfunzionalità delle

FUNZIONALISMO

parti e difetti di interscambio; tuttavia questi non portano generalmente a rotture irreparabili, in quanto il sistema riesce a mantenersi in una condizione di integrazione e di equilibrio attraverso i processi di → socializzazione, cioè mediante la trasmissione ed interiorizzazione di un quadro di valori comuni. La concezione organicista del f., se riesce a spiegare con facilità lo status quo, si trova invece a disagio di fronte alla questione del cambio. Esso, infatti, viene attribuito a fattori negativi: in pratica, è dovuto sia a carenze nella formazione che divengono occasione di devianza, sia alle difficoltà che i sottosistemi incontrano nell’articolazione reciproca a causa della continua complessificazione della divisione del lavoro e dell’aumento della specializzazione delle parti. La stratificazione, a sua volta, viene ritenuta non solo un dato di fatto universale, ma anche un meccanismo necessario per il funzionamento della società in quanto garantisce la selezione dei migliori. Il valore delle posizioni sociali non è eguale per tutte, ma alcune presentano una rilevanza più grande per il sistema. Al tempo stesso non sono molte le persone dotate delle capacità che possono essere trasformate nelle competenze richieste per svolgere i ruoli più importanti. Siccome la funzione necessaria per acquisire le abilità attese implica notevoli sacrifici di tempo e di risorse, la società per invogliare i soggetti dotati ad affrontarli deve assicurare loro adeguate ricompense materiali e morali, cioè un reddito e una condizione sociale più elevata. 2. Le funzioni della scuola. Entro questo quadro il sottosistema scuola svolge anzitutto la funzione di trasformare le capacità in competenze. Nelle società tradizionali vi provvedono istituzioni che sono incaricate contemporaneamente di altri compiti; nel sistema industriale, a causa dell’intensificarsi della divisione del lavoro e della specializzazione, nasce e si sviluppa un sottosistema specializzato e differenziato come quello scolastico. In secondo luogo il f. mette in risalto la interdipendenza fra istruzione ed economia. La forte espansione dei sistemi formativi che ha avuto luogo nel mondo durante gli anni ’50 e ’60 andrebbe ricondotta allo sviluppo parallelo della domanda di forza lavoro qualificata. La crescita dell’economia ha influito direttamente sulla richiesta di manodopera

specializzata e ha comportato l’esigenza di una formazione più elevata di porzioni crescenti di giovani, per due motivi: ha determinato un passaggio della forza lavoro dal settore primario verso il secondario e il terziario, cioè verso comparti che si caratterizzano per una domanda più ampia ed elevata di competenze; inoltre, il ritmo accelerato del cambio tecnologico ha prodotto l’elevazione continua del livello delle abilità professionali necessarie per l’inserimento nei vari settori del sistema produttivo. Al tempo stesso la scuola espandendosi svolge una funzione determinante nello sviluppo tecnologico perché rende più produttivo il lavoro e aumenta il ritmo dell’innovazione tecnologica. Il f. concepisce l’istruzione come strumento di progresso sociale. È vero che le disparità sono accettate come necessarie, ma è anche vero che la distribuzione dei ruoli deve avvenire in base al merito. In questo senso l’espansione dell’istruzione consente l’ascesa dei giovani dei ceti più bassi, dotati di elevate capacità, e contribuisce a una ripartizione più giusta delle opportunità formative fra le classi. La scuola è anche funzionale all’ → integrazione sociale. Essa infatti motiva a comportarsi secondo i modelli dominanti. In questo senso assicura la sopravvivenza della società e la sua integrazione. Alla fine degli anni ‘60 il paradigma funzionalista è entrato in crisi. La sua visione consensuale non riusciva più a interpretare in modo adeguato una società che era divenuta conflittuale. La contestazione studentesca e la ricerca pedagogica avevano messo a nudo le gravi carenze della scuola, ponendo così in discussione la esaltazione ingenuamente positiva che ne aveva fatto il f. Con gli anni ‘80, tuttavia, si è avuto un graduale recupero della funzione positiva della scuola e anche un suo rafforzamento. Questo ha contributo alla nascita di un neo-f. che mira a coniugare l’ortodossia parsonsiana con paradigmi anche opposti: in particolare ha accettato le interpretazioni conflittuali e ha riconosciuto la centralità delle diseguaglianze strutturali. Bibl.: Parsons T., The structure of social action, New York, MacGraw-Hill, 1937; Merton R. K., Social theory and social structure, Glencoe, The Free Press, 1949; Parsons T., The social systems, London, Routledge & Kegan Paul, 1952; Morgagni E. - A. Russo (Edd.), L’educazione in

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FUNZIONALISMO

sociologia. Testi scelti, Bologna, CLUEB, 1997; Besozzi E., Società, cultura, educazione: teorie, contesti e processi, Roma, Carocci, 2006; Schiz-

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A. - C. Barone, Sociologia dell’istruzione, Bologna, Il Mulino, 2006.

zerotto

G. Malizia

GABELLI ARISTIDE

G GABELLI Aristide n. a Belluno nel 1830 - m. a Padova nel 1891, pedagogista italiano. 1. Dopo i primi studi a Venezia e aver partecipato nella Guardia nazionale alla difesa della repubblica veneziana di Manin (1848-1849), segue studi di giurisprudenza a Padova, interrompendoli per esigenze familiari e ottenendo una semplice «assolutoria» nel 1854. Comincia allora a far praticantato presso il tribunale e poi a lavorare in uno studio di avvocato, iniziando la collaborazione a periodici giuridici, come «L’Eco dei Tribunali», la «Gazzetta dei Tribunali» e il «Monitore dei Tribunali» da lui fondato. Per sfuggire al servizio militare sotto l’Austria si avvale di un posto di perfezionamento all’Università di Vienna, ricavandone un forte entusiasmo per la riforma protestante, ed è quindi costretto a farsi esule, trasferendosi a Firenze, a Torino, poi a Milano. Divenuto direttore di una scuola tecnica e nel 1865 direttore del Convitto Longone di Milano, si occupa nel 1866 di problemi dell’educazione sul «Politecnico», poi soprattutto sulla «Nuova Antologia» e su «Il Risveglio Educativo». Nominato Provveditore centrale a Firenze nel 1869, Provveditore a Roma dal 1874 al 1881. 2. G. prende parte, con viva attenzione per le scuole straniere, a numerose indagini, inchieste e commissioni ministeriali, preparando nel 1888 gli importanti programmi della scuola elementare, ispirati alla promo-

zione dello «strumento testa» e alla capacità concreta di valorizzazione dei sensi e dell’osservazione. Nel 1886 e poi nel 1891 è eletto deputato della Destra in posizioni socialmente conservatrici, ma rimane sempre in posizioni avanzate in campo culturale, civile e pedagogico. Nel 1869 G. pubblica L’uomo e le scienze morali (Milano, Brigola), opera filosofica divulgativa di stampo empiristico e utilitaristico che propone lo sviluppo del motivo dell’«amor di sé» in quello dell’amore dell’umanità e dell’etica universale, esaltando lo spirito scientifico e il collegamento delle scienze morali, utilizzando la statistica e collegando e società, nell’ispirazione sperimentalistica di un galileismo applicato alle scienze morali stesse. 3. G. è un positivista «metodologico» o «temperato» che si collega alle posizioni di Cattaneo e dell’amico Villari, con ascendenze illuministiche. Al centro è il suo metodo critico e antiaprioristico d’indagine e d’insegnamento, ben distinto dall’impostazione naturalistica e metafisica del pretenzioso positivismo sistematico di fine Ottocento, come è ben lumeggiato nel suo fondamentale saggio Il positivismo naturalistico in filosofia (in «Nuova Antologia», febbraio 1891). In analogia col → Dewey (certo di ben maggiore forza teoretica), G. propone un metodo d’insegnamento critico, sperimentale, antidogmatico di grande modernità, e tutto questo in uno stile chiaro, aperto e divulgativo, che fa dello studioso veneto il maggiore scrittore italiano di cose pedagogiche e scolastiche della seconda metà del secolo scorso, con 501

GALATEO

particolare competenza nel settore della scuola primaria. 4. Apprezzato nel suo tempo, è stato esaltato dagli idealisti, da Gentile in poi, che vedevano in lui un inconsapevole precorritore dell’idealismo, anziché il positivista critico che era realmente. È dopo la seconda guerra mondiale che G. è stato apprezzato nella sua peculiarità di rilevante positivista metodologico, in una ricerca che è tuttora aperta. Bibl.: a) Fonti: G.A., Il metodo d’insegnamento nelle scuole elementari d’Italia, Relazione per l’XI Congresso pedagogico italiano, Roma, 1880, Torino, Paravia, 1880 (più volte riedito: cfr. ad es. di recente, a cura di G. Genovesi, Firenze, La Nuova Italia, 1992); L’istruzione in Italia, con introd. di P. Villari, 2 voll., Bologna, Zanichelli, 1891. b) Studi: Lombardi F. V., G., Brescia, La Scuola, 1964; Tomasi T., Società e scuola in A.G., Firenze, La Nuova Italia, 1965; Bonetta G. (Ed.), A.G. e il metodo critico in educazione, L’Aquila, Japadre Editore, 1994; Cives G., La pedagogia scomoda. Da Pasquale Villari a Maria Montessori, Firenze, La Nuova Italia, 1994; De Vivo F. P. Zamperlin (Edd.), Nuovi contributi allo studio di A.G., Padova, Alfa 60 Editrice/Università degli Studi di Padova/Dip. di Scienze dell’Educazione, [1995].

G. Cives

GADAMER Hans Georg → Ermeneutica pedagogica

GALATEO Nel linguaggio comune il termine evoca il complesso di buone maniere che regolano le relazioni interpersonali e sociali. In tal senso è sinonimo di buona creanza, di gar­bo, di urbanità, di civiltà, di cortesia, di buona educazione, di proprietà, di corret­tezza, di gentilezza o, come si dice, di «bon ton» relazionale. 1. Il termine deriva dalla nota opera di mons. Giovanni Della Casa, intitolata appunto G., ovvero de’ costumi e uscita po­stuma nel 1558, dove, ad un giovane «all’i­n izio del viaggio della vita» si indica «cosa convenga di fare [...] in comunicando ed in usando con 502

le genti». Il titolo, latinizzazio­ne di Galeazzo (Galateus), dice probabil­mente la destinazione del libro al giovane Galeazzo Florimonte, vescovo di Sessa. A motivo di questa referenza letteraria, il termine g. è applicato anche ad ogni libro che contenga norme di buona educazione e condotta. 2. La contestazione giovanile e progressi­sta della fine degli anni sessanta del sec. XX, ha stigmatizzato il g. come formalismo vuoto, «bon ton» piccolo borghese, falsità istitu­ zionalizzata, ipocrisia e doppiezza in guan­ti bianchi; o, nella migliore ipotesi, l’ha vi­sto come gentilezza di facciata, distanza vellutata, distinzione sofistica, senso di su­periorità sprezzante. Ma il logorarsi delle procedure del sistema sociale e il manife­starsi vistoso delle patologie di esso, il montare del disagio diffuso e l’allargarsi delle forme di violenza verbale e della vol­garità aggressiva, il bullismo giovanile telematizzato, sembrano in questi ultimi anni aver reso cospicua una riemergente e diffusa «voglia di gentilezza» come pure il desiderio di una vita e di una convivenza sociale umanamente serena e dignitosa. La proprietà del linguaggio e la civiltà del comportamento, la ricerca di modi gentili e delicati di essere con sé e con gli altri, so­no ricompresi da parte di molti come segno di un vasto bisogno di difesa e di promo­zione della dignità personale o anche come una forma di rispetto dell’alterità persona­le e sociale; o ancora come una concreta strategia per modi di essere cittadini all’in­segna della correttezza, della trasparenza e della democrazia. 3. In sede propriamente educativa il g. po­ trebbe non solo aiutare lo sviluppo delle capacità di → comunicazione interpersona­ le e di efficacia comportamentale nella vita sociale, ma potrebbe dare nuovo senso al­ l’autodisciplina di mente, di cuore e di vo­ lontà che una vasta tradizione pedagogica crede di poter indicare come mèta educati­va e come strategia alternativa ad una di­sciplina eteronoma, autoritaria e costritti­va. Un’azione educativa in proposito avrà da dispiegarsi nella direzione dell’istruzio­ne, della motivazione e dell’addestramen­to, in modo da coniugare l’informazione con la significatività e il «tirocinio» pratico di qualcosa che si mostra come desiderabi­le ed umanamente de-

GALTON FRANCIS

gno. Un efficace rin­forzo e stimolo potrà venire dalla chiara e significativa testimonianza delle figure educative, dei gruppi sociali e della collettività nella sua globalità. Peraltro l’amara costatazione di prassi contrarie in proposi­to insinua come tutta la questione assuma una sua dimensione etica, diventi cioè un aspetto di quella «questione morale» che si pone in maniera forte alla convivenza civi­ le del nostro tempo. Bibl.: a) Per il testo di G. Della Casa: G., Torino, Einaudi, 2006. b) Studi: Sotis L., Bon ton. Il nuovo dizionario delle buone maniere, Mila­no, Mondadori, 1989; Lerario A., G. 2000. Gar­ bo, cortesia e buone maniere nella società moderna, Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1991; C remones­ e A., Il libro della buona creanza, Milano, Rizzo­l i, 1992; Cremaschi M., Sì grazie, no grazie. Il g. oggi, Milano, Xenia, 1997; Bellinzaghi R., Il g. oggi, La Spezia, De Vecchi, 2005.

C. Nanni

GALTON Francis n. nel 1822 a Duddeston - m. ad Haslemere nel 1911, scienziato, naturalista e statistico inglese. 1. Opponendosi all’associazionismo di → Locke e Mill e reagendo a → Wundt (interessato a stabilire le leggi psicologiche universalmente valide), G. dà origine alla psicologia differenziale; fonda un laboratorio antropometrico operando un certo numero di misure su migliaia di soggetti e stabilendo dei rapporti fra tali variabili. Nella rilevazione dei dati G. è estremamente preciso e preferisce la valutazione quantitativa dei fenomeni rispetto a quella qualitativa («Whenever you can, count»). Elabora il primo questionario della → personalità per rilevare le abitudini quotidiane e le preferenze della gente. 2. Adottando la teoria evoluzionistica del cugino Darwin, fonda la genetica comportamentale. Si rende conto del forte peso dei fattori genetici nello sviluppo e nella formazione della personalità come anche della stabilità culturale. Un viaggio in Africa lo

convince della superiorità della razza bianca su quella di colore e nota il lento progresso culturale dei diversi popoli. Nello stesso tempo osserva l’interazione tra «natura e cultura», optando però per una maggiore efficacia dei fattori genetici rispetto a quelli ambientali. Su queste osservazioni fonda il suo determinismo biologico. Trova la conferma della sua teoria nella continuità delle caratteristiche straordinarie degli uomini geniali, documentandola con gli «alberi genealogici» di varie famiglie (come quella di Bach). Confrontando le varie caratteristiche dei gemelli mono- e di-zigoti e quelle dei loro fratelli e notando la maggiore somiglianza tra i primi trae ulteriore conferma alle sue ipotesi. In base alla supposta predominanza dei fattori genetici propende per l’eugenetica positiva: scoprire giovani dotati, farli sposare e far procreare loro dei figli ancora più dotati. Su tale proposta Darwin si è mostrato critico in quanto la teoria gli appariva in contrasto con la selezione naturale. G., con il determinismo biologico e con le sue osservazioni sulle persone geniali riportate nell’opera Hereditary genius inculca nell’opinione pubblica la convinzione che l’ → intelligenza sia determinata geneticamente e che quindi sia fissa per tutta l’esistenza. In collaborazione con K. Pearson elabora il metodo correlazionale e il metodo della regressione multipla (→ statistica), mentre per poter confrontare i dati delle molteplici variabili ottenute in misure differenti (chili, centimetri) inventa con lo stesso Pearson i punti z. 3. G., bambino prodigio (a tre anni legge, scrive e studia lat. e fr.), da adulto riesce a liberarsi dai condizionamenti del suo tempo, fonda nuove aree di ricerca e promuove nuovi metodi di indagine; molte sue proposte teoriche sono attuali ancora oggi: si pensi al complesso e tanto discusso rapporto tra natura e cultura (Rogers, 1995). Bibl.: G.F., Hereditary genius: an inquiry into its laws and consequences, London, Collins, 1868/1962; in sp.: Herencia y eugenesia, trad., introducción y notas de R. Álvarez Peláez, Madrid, Alianza, 1988; Rogers T. B., The psychological testing enterprise: an introduction, Pacific Grove, Brooks/Cole, 1995.

K. Poláček

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GANDHI MOHANDAS KARAMCHAND

GANDHI Mohandas Karamchand n. nel 1869 a Porbandar - m. assassinato nel 1948 a Nuova Delhi, uomo politico, filosofo, educatore indiano. 1. Vita e opera. G. nacque in una famiglia indù della casta Vaisya. A 13 anni si sposò; nel 1891 si laureò in giurisprudenza a Londra; andò nel 1893 in Sudafrica in cerca di lavoro. Vedendo la discriminazione razziale, fondò il Congresso Indiano del Natal nel 1894; sfidò la legge discriminativa del governo sudafricano e diede vita al movimento Satyagraha (lotta di non violenza). Al suo ritorno in India nel 1915 fondò la sua Satyagraha Ashram presso Ahmedabad; organizzò lotte politiche non violente contro il governo britannico in India; nel 1919 fondò il settimanale «Young India». Già dal 1920 G. venne chiamato Mahatma (Grande Anima). Tra il 1922 e il 1947, fu coinvolto attivamente nella lotta politica e nella riforma sociale, per creare unità e pace tra i musulmani e indù, e si impegnò per l’abolizione della casta degli intoccabili. 2. Teoria e pratica dell’educazione. Lo scopo ultimo dell’esistenza è l’autorealizzazione, che consiste nel raggiungere la Verità (Dio) o moksha. Per G. non violenza o ahimsa, che non significa mera passività ma forza morale e spirituale, è l’unica via per trovare la Verità. L’ambizione di G. era creare un ordine sociale attraverso le Sarvodaya Samaj, cioè delle comunità di servizio caratterizzate dalla semplicità, rinuncia, uguaglianza, libertà, servizio e sacrifici: una società senza classi e senza stato. Per la realizzazione di questo nuovo ordine G. indicò alcuni programmi concreti, tra cui The Hindustani Talimi Sangh (associazione per l’educazione) considerata la più importante in quanto l’educazione è il mezzo più potente e indispensabile per la creazione del nuovo ordine sociale. Per G. educazione è la formazione totale (del corpo, mente e spirito) dell’educando. L’educazione gandhiana si basa su tre H: Hand - mano, Heart - cuore, Head - testa. Il lavoro manuale, anche il più umile, fa parte essenziale del processo educativo, insegna la dignità di ogni tipo di lavoro, mette lo studente in rapporto diretto col mondo, lo aiuta ad imparare un mestiere per il futuro e a di504

ventare un buon cittadino. A questo riguardo G. era il primo a dare l’esempio facendo egli stesso ogni tipo di lavoro manuale. G. propose un’«educazione di base», obbligatoria, fra i sette e i quattordici anni. Questo schema di «educazione di base» fu accettato e messo in pratica dal Congresso nazionale indiano dal 1938. Alcuni punti salienti di questo schema sono: coeducazione, lavoro manuale obbligatorio per tutti, conoscenza generale che deve precedere l’educazione letteraria; lo studente inoltre deve conoscere le motivazioni di ogni studio e imparare a leggere prima di sapere scrivere. Il gioco ha un ruolo essenziale nel processo di apprendimento e l’istruzione deve essere impartita nella lingua materna, mentre ogni studente deve imparare la lingua nazionale (Hindi); l’educazione religiosa è ritenuta necessaria; ognuno dev’essere aiutato e incoraggiato a vivere nella sua propria religione; lo studente deve imparare un mestiere per la vita futura e gli insegnanti debbono essere animati da uno spirito di servizio e amore. G. considerò il suo schema come l’ultimo e il migliore dono alla nazione; egli fu un vero maestro dell’uomo, di ogni classe o fede, casta o colore, sesso o razza; il suo messaggio educativo ha un valore perenne e universale. Bibl.: a) Fonti: G. M. K., Basic education, Ahmedabad, Navajivan Publishing House, 1951; Id., Towards new education, Ibid., 1953. b) Studi: Patel M. S., The educational philosophy of M.G., Ibid., 1953; Capitini A., «Introduzione alla pedagogia di G.», in Educazione aperta, vol. I, Firenze, La Nuova Italia, 1967, 171-184; Piatti M., G. e l’educazione, Bologna, EMI, 1983.

S. Thuruthiyil

GARCÍA HOZ Víctor → Personalizzazione → Tassonomia GEHEEB Paul → Scuole Nuove

GEMELLI Agostino n. a Milano nel 1878 - m. ivi nel 1959, francescano, psicologo, fondatore dell’Università Cattolica del S. Cuore. 1. Proveniente da un’agiata famiglia lombarda di agricoltori e registrato all’anagrafe con

GENETICA

il nome di Edoardo, si laureò in medicina e, in seguito a una profonda conversione, entrò a far parte dell’Ordine francescano, assumendo il nome di Agostino. Ordinato sacerdote nel 1907, prese ad approfondire con impegno e solerzia gli studi di biologia e quelli di psicologia, sottolineando, attraverso la creazione della «Rivista di Filosofia Neoscolastica» nel 1909 e della rivista «Vita e Pensiero» nel 1914, il ruolo fondamentale della riflessione filosofica cristiana per rispondere al riduttivismo positivista e idealista. 2. Particolare attenzione G. riservò allo studio delle condotte delinquenziali, opponendosi fermamente agli studi di antropologia criminale di C. Lombroso, secondo il quale i condizionamenti sarebbero dovuti non solo a componenti ambientali socioeconomiche, ma anche a fattori indipendenti dalla volontà, come l’ereditarietà e le malattie nervose. Una tale prospettiva, a suo parere, annullava del tutto la responsabilità individuale e toglieva ogni spazio significativo al libero arbitrio nell’esperienza di maturazione e di crescita personale. 3. Analizzando l’esperienza religiosa, G. sottolineò la necessità di immedesimarsi profondamente nel vissuto altrui, di guardare con simpatia ad alcuni modelli particolarmente significativi (ad es. s. Francesco d’Assisi, s. Bernardo, s. Giovanna d’Arco), e di evitare di confondere i fenomeni mistici con alcune manifestazioni patologiche. Rispettoso dell’individualità e dell’originalità di ogni persona, G. riconobbe anche l’utilità della scienza psicologica per un discernimento vocazionale, nella consapevolezza che la grazia non prescinde dalla natura umana. A tale scopo, si impegnò perché i direttori spirituali e i responsabili della formazione nei seminari e nelle comunità religiose avessero un’adeguata formazione psicologica, suggerendo anche concreti strumenti diagnostici con i quali individuare eventuali patologie da sottoporre a più approfondito esame da parte di tecnici. Bibl.: a) Fonti: G.A., Idee e battaglie per la cultura cattolica, Milano, Vita e Pensiero, 1933; La personalità del delinquente nei suoi fondamenti biologici e psicologici, Milano, Giuffrè, 1946; La psicologia al servizio del discernimento delle

vocazioni e della direzione spirituale dei seminaristi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957; Il francescanesimo, Assisi, Porziuncola, 2000. b) Studi: Sticco M., Padre G., Milano, O.R., 1975; P reto E., Bibliografia di padre A.G., Milano, Vita e Pensiero, 1981; Bocci M., A.G. rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia, Brescia, Morcelliana, 2003; Picicco A., Padre A.G., Padova, EMP, 2005.

E. Fizzotti

GENERAZIONE → Famiglia

GENETICA È la scienza che studia la trasmissione dei caratteri da una generazione all’altra (det­ti perciò: ereditari), i meccanismi e i pro­cessi che attuano tale trasmissione e le leg­gi che li governano. 1. In quanto scienza sperimentale, la g. ri­ conosce come fondatore l’abate agostinia­no Gregorius Mendel (1822-1884), che col­tivò con metodi selettivi e con incroci mi­r ati piante di piselli ed elaborò in termini matematici i risultati delle sue ricerche. Riuscì così a formulare due leggi che go­vernano i fenomeni essenziali della tra­smissione dei caratteri e che vengono così enunciate: «legge della disgiunzione o se­g regazione dei fattori che determinano i caratteri» e «legge della indipendenza degli alleli». Una terza legge definita da Mendel «legge della dominanza» non ha trovato successivo riscontro giacché esistono casi in cui nessuno dei due fattori prevale sul­l’altro. Questi risultati furono pubblicati da Mendel nel 1866, ma non furono presi in considerazione forse perché in quel tempo egli non era conosciuto come un’autorità scientifica. Successivamente (1900) tre stu­diosi (H. De Vries, C. Correns e Von Tschermak) riscoprirono indipendente­ mente le stesse leggi, però con grande lealtà riconobbero la precedenza a Mendel. 2. Numerosi altri scienziati di alto valore si sono succeduti e continuano a succedersi nell’ambito di questi studi che diventano sempre più complessi e più interessanti an­che per le numerose applicazioni pratiche che si possono fare. Ricordiamo fra i più notevoli 505

GENITORI

i nomi di W. Johannsen che coniò i termini: gene, genotipo e fenotipo; di W. Bateson che collaborò in modo decisivo al­lo studio delle variazioni e coniò i termini: allelomorfo, omozigote ed eterozigote; di Th. Morgan con la sua scuola, celebre per gli esperimenti sul moscerino «drosophila melanogaster» e la produzione delle muta­zioni. 3. Oggi si tende a denominare la g. mendeliana come g. formale in quanto prevale in essa l’osservazione e l’interpretazione dei fenomeni più il calcolo matematico, mentre si definisce g. molecolare quella attuale in quanto prevalentemente lavora sulla molecola degli acidi nucleici (DNA ed RNA). Celebri a questo proposito i nomi di F. Crick e J. D. Watson. Attualmente gli apporti di studiosi, soprattutto giapponesi, statunitensi, inglesi e francesi stanno fa­cendo progredire questa scienza in modo vistoso. 4. L’applicazione della g. alla coltivazione delle piante e all’allevamento degli anima­li è molto diffusa e si possono ottenere nuove varietà nell’ambito della stessa spe­cie. Nell’uomo serve a dare spiegazioni dei fenomeni ereditari e a prevenire molti er­rori dovuti a matrimoni non compatibili. La g., studiando inoltre 1’ → ereditarietà di alcune strutture essenziali dell’organismo (il sistema nervoso, il sistema muscolare, il sistema endocrino, il sistema immunitario e l’apparato digerente) indica anche quali sa­ranno i modi fondamentali di reazione dell’individuo per quanto riguarda le for­me innate dei riflessi sia semplici che com­plessi; su questi poi si instaurano forme ac­quisite di risposta o modalità creative origi­nali che però risentiranno inevitabilmente delle condizioni innate delle strutture di base. Si denomina ingegneria g. lo studio della localizzazione topografica dei genidi nella molecola del DNA e la possibilità di intervenire per correggere eventuali errori naturali. È chiaro che in tal senso bisogna tener conto non solo delle grandi difficoltà che si interpongono al raggiungimento dei singoli genidi, ma anche dell’equilibrio che si deve mantenere nell’insieme dei genidi del patrimonio cromosomico per non de­ terminare scompensi o sconvolgimenti. Bibl.: M intz B., Genetic engineering in laboratory mammals, Città del Vaticano, Pontificia

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Accade­mia delle Scienze, 1984; Serra A. et al., Medicina e g. verso il futuro, L’Aquila/Roma, Japadre Edi­tore, 1986; Cherfas J., Ingegneria g., Torino, Bollati Boringhieri, 1986; Dulbecco R., Il progetto della vita, Milano, CDE, 1987; M angia M., G. e uo­mo, Bologna, Zanichelli, 1994; Plomin R., Genetics and experience. The interplay between nature and nurture, London. Sage, 1994; Gallori E., G., Firenze, Giunti, 2007.

V. Polizzi

GENITORI Un g. è un padre o una madre; una persona che genera e dà la vita. Oltre alla genitorialità biologica esiste la genitorialità adottiva nella quale il g. non è stato partecipe alla procreazione del figlio, ma, sia in termini giuridici che in termini sociali ed affettivi, viene considerato alla stessa stregua del g. biologico. Diventare g. implica il passaggio da una situazione di coppia ad un’altra realtà molto diversa dalla precedente, in quanto l’interazione non è più solo diadica, ma allargata ad altri membri, i figli, che vengono a far parte della famiglia. Nella nuova concezione della vita matrimoniale si è fatto strada il concetto che il figlio che nascerà sarà il frutto di una decisione consapevolmente presa, almeno il più delle volte, da entrambi i coniugi. Questo costituisce per essi l’inizio del cammino che li porterà a diventare g. 1. Divenire madre. Non è una cosa semplice ed automatica come di solito si crede; non bisogna infatti dimenticare che una madre, prima di assumere questo ruolo, è soprattutto una donna con una propria vita e con un proprio particolare modo di essere e di sentire che dovrà subire un cambiamento nel momento in cui avrà un figlio. Perciò la maternità si presenta come uno dei più importanti momenti che la donna può vivere in quanto, pur essendo un evento naturale e fisiologico, esso rappresenta per lei un periodo critico che mette a dura prova le sue capacità di adattamento, a causa degli importanti mutamenti che avvengono nel suo corpo, nella sua psiche e nelle relazioni sia sessuali che interpersonali. Infatti la donna vive dentro di sé una molteplicità di sentimenti che possono andare dalla paura alla gioia, dall’entusiasmo

GENITORI

all’incertezza, dall’accettazione al rifiuto di questo suo nuovo stato che la porterà ad una diversa realizzazione di sé. Si può dire che, sotto certi aspetti, l’amore materno è qualcosa che si forma, e che si apprende, tranne casi particolari, un giorno dopo l’altro; è qualcosa che la futura madre sente nascere dentro di sé, e che si rivolge ad un essere che sente formarsi e crescere pian piano, per nove lunghi mesi. 2. Divenire padre. È un’esperienza simile per quel che riguarda i dubbi e le incertezze, ma di tipo diverso da quella della madre, in quanto un padre sente che con il divenire g. chiude la sua vita di ragazzo ed inizia quella di uomo in cui vi sono nuove e più specifiche responsabilità. Infatti la paternità porta con sé nuove preoccupazioni: il padre ha un accresciuto senso di responsabilità sia dal punto di vista economico che da quello educativo, acquista la sensazione dell’importanza della sua esistenza divenuta necessaria per poter provvedere alla famiglia che si è formata; nasce in lui la paura di essere meno importante per la moglie a causa del figlio e di non poter più avere con lei la calda ed esclusiva intimità dei primi tempi. Tutto, o quasi, si ridimensiona con la nascita del figlio. L’idea del ruolo paterno che si aveva un tempo sta lentamente modificandosi, ed al concetto del «buon padre» che provvedendo al sostegno economico della famiglia si estrania da essa impegnandosi in un lavoro che diventa quasi un alibi per evadere dalla situazione familiare, si va sostituendo quello di un padre presente con i suoi figli, con un nuovo ruolo, una presenza non più autoritaria, ma autorevole ed affettuosa. Si tratta certamente di un compito che implica una ristrutturazione del concetto culturale di uomo, un tempo cristallizzato nelle formule che indicavano il padre come il capo famiglia, la cui autorità era indiscussa e che costituiva la sola indicazione di apertura alla vita sociale. Inoltre, essere g. comporta anche il compito di potenziare la propria capacità di amare. 3. Cambiamenti nella vita di coppia. Sono molte le difficoltà che si presentano alla coppia con la nascita del figlio, e fra queste è da ricordare quella di saper affrontare il cambiamento che subisce la situazione diadica nella quale fino adesso la coppia è vissuta.

Infatti uno dei compiti dei g. consiste nel ridefinire i propri ruoli all’interno della vita di coppia e nel riorganizzare la loro relazione. Ciò può essere vissuto come un periodo critico, anche se prevedibile in quanto fa parte dello sviluppo di gran parte delle famiglie, ma non per questo meno difficile a viversi. Infatti il divenire g. rompe anche l’equilibrio della diade coniugale, creando un momento di disorganizzazione, che va superato attraverso l’attuazione di alcuni compiti che porteranno ad un buon adattamento e ad un adeguato funzionamento familiare. Tra questi compiti vi sono quelli di saper far posto al figlio all’interno della vita di coppia, sia dal punto di vista affettivo che per quel che riguarda l’andamento familiare e le cure fisiche che debbono essere prestate al bambino; di definire la comunicazione in modo da poter entrambi esprimere i propri dubbi, le difficoltà e le gioie cosicché nessuno dei due si senta tagliato fuori dalla relazione col figlio; di imparare a risolvere le difficoltà in modo costruttivo ed arricchente senza giungere ad un conflitto più o meno palese; di ridefinire la relazione con la propria famiglia di origine in quanto il ruolo di coniugi è cambiato con l’essere divenuti, a loro volta, g. L’aver scelto di avere un figlio è una decisione importante per entrambi i coniugi, e la nascita del bambino, sia esso maschio o femmina, conferma pubblicamente il loro amore e richiede una loro crescita interiore. Quindi, essere padre e madre vuol dire oggi avere una relazione personale in cui il ruolo dell’uno non si può dissociare da quello dell’altro, e in cui ciascuno è corresponsabile dell’atteggiamento dell’altro nella vita familiare. Questa interdipendenza, non priva di conflitti, dà maggiore responsabilità ai g. nel loro compito di educatori. 4. Comportamento genitoriale. La caratteristica più importante di un adeguato comportamento genitoriale sta nel fornire al figlio stabilità, sicurezza ed affetto, ma a causa di una serie di eventi di carattere psichico, fisico o sociale, può manifestarsi in un g., od in entrambi, la presenza di un’organizzazione cognitiva problematica che può influire sul comportamento parentale ed arrecare danni di varia entità al figlio. Infatti, va tenuto presente che oltre alla modalità di comportamento adottato dai g. verso il figlio, è 507

GENTILE GIOVANNI

importante anche il modo in cui questi percepisce ed assimila i loro atteggiamenti e le loro intenzioni. Infatti è attraverso questo processo che giunge a costruire una propria realtà genitoriale che, se positiva, facilita il raggiungimento di una soddisfacente salute psichica. 5. G. di un figlio adottato. È infine necessario fare cenno ad una realtà che diviene sempre più comune, ossia quella di essere g. di un figlio adottato (→ adozione). Di solito si ritiene che le esperienze vissute da un bambino adottato siano diverse da quelle di un bambino che vive con i g. naturali, come pure si crede che vi siano difficoltà diverse da superare quando si è g. adottivi. In realtà i g. adottivi incontrano difficoltà educative non più grandi, bensì diverse, da quelle che avrebbero con un loro bambino, forse perché può accadere che le caratteristiche insite nella loro famiglia si conformino con qualche difficoltà a quelle di un bambino di diversa provenienza. Alcune volte, poi, può essere difficile per loro rinunciare a veder realizzate, in quel figlio che non è stato da loro generato, i propri sogni e le proprie aspirazioni. Altre volte ancora essi rimangono incerti su quale modalità educativa usare con questo figlio poiché si chiedono se si sarebbero comportati nello stesso modo se fosse stato proprio un loro figlio. Questi ed altri problemi rendono perciò più difficile allevare un bambino adottato, anche se indubbiamente la scelta dell’adozione è stata dettata da un grande ed altruistico amore. 6. La «cura» educativa. Il divenire e l’essere g. comporta dunque, in tutti i casi, una notevole maturità personale e di coppia che deve procedere continuamente verso un arricchimento ed un rinnovamento, avendo come base una grande capacità d’amare. In questo senso si evidenzia la necessità di una particolare «cura» educativa per diventare e per essere g.: sia a livello personale, sia a livello di coppia, sia a livello intra e interfamiliare. In risposta a tale esigenza, negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi libri in cui vengono proposti itinerari per g., allo scopo di sostenerli nel loro agire educativo. Bibl.: Binda W., «Dalla diade coniugale alla triade familiare», in E. Scabini (Ed.), L’organizza-

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zione famiglia tra crisi e sviluppo, Milano, Angeli, 1985, 175-201; Guidano V. F., La complessità del sé. Un approccio sistemico-processuale alla psicopatologia e alla terapia cognitiva, Torino, Bollati Boringhieri, 1988; Cattabeni G., G. non si nasce, si diventa, in «Famiglia Oggi» 44 (1990) 30-37; Guiducci P. L., Accogliere la vita nascente. Una scelta totale, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; M astromarino R., Prendersi cura di sé per prendersi cura dei figli, Ibid., 1995; Bellantoni D., Ascoltare i figli. Un percorso di formazione per i g., Trento, Erickson, 2007; Bavarese G., Dal divenire coppia al divenire g., Roma, Aracne, 2007.

W. Visconti

GENOVESI Antonio → Illuminismo

GENTILE Giovanni n. a Castelvetrano (Trapani) nel 1875 - m. a Firenze nel 1944, filosofo italiano. 1. Vita e opere. Compiuti gli studi liceali a Trapani, s’iscrive alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha come professore di filosofia Donato Jaia, suo primo maestro d’ → Idealismo, che lo incoraggia ad approfondire anche lo studio della pedagogia. Nei quattro anni di università G. legge i classici della filosofia, gli autori italiani dell’Ottocento, Hegel. Nella tesi di laurea approfondisce il pensiero di Rosmini e Gioberti (1897). Il tema della dissertazione al termine del corso di perfezionamento a Firenze è Dal Genovesi al Galluppi (1898). Studia il pensiero di C. Marx, intervenendo al dibattito che si svolge in Italia dal 1895 al 1900 sul valore del marxismo. Frutto di queste letture e discussioni è lo scritto La filosofia di Marx (1899). L’opera di filosofo e di scrittore fecondo si coniuga, in G., con un forte impegno personale nella scuola: professore di filosofia nei licei di Campobasso e di Napoli e nelle università di Palermo, di Pisa e di Roma; ministro della Pubblica Istruzione (1922-1924). È di questo periodo la riforma scolastica del 1923, nota come «Riforma G.». Aderisce al → fascismo e occupa posti nevralgici nell’ambito culturale: membro del Gran Consiglio, presidente dell’Istituto Treccani, commissario per la Scuola Normale di Pisa, presidente del

GENTILE GIOVANNI

Consiglio Superiore della P.I. (1926-1928). Dopo il delitto Matteotti, G. rimane fedele al fascismo e aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. Viene ucciso da un gruppo di partigiani a Firenze davanti al cancello di casa. 2. Pensiero. La pedagogia di G. è strettamente connessa alla sua concezione filosofica (che egli chiama «attualismo»). Bisogna perciò richiamarne alcuni concetti chiave: la sola realtà solida, che sia dato affermare, e «con la quale deve perciò legarsi ogni realtà che io possa pensare, è quella stessa che pensa; la quale si realizza ed è così una realtà soltanto nell’atto che si pensa. Quindi l’immanenza di tutto il pensabile all’atto del pensare; o, tout court, all’atto; poiché di attuale, per quel che s’è detto, non c’è se non il pensare in atto; e tutto quello che si può pensare come diverso da questo atto, in tanto si attua concretamente in quanto è immanente all’atto stesso. [...] L’atto della filosofia attualistica coincide appunto col nostro pensiero» (G., 1933, 21-22). Non esiste, per G., una realtà che è data e si pone come oggetto di fronte al soggetto. Per lui questo modo di pensare è tipico del realismo che, se ha ragione nel dire che esiste una certa indipendenza degli oggetti d’esperienza dal pensiero, tuttavia non può rivendicarne una totale indipendenza. Tutto, anche la nostra esperienza, non è altro che la realtà stessa del pensiero, cioè la realtà che viene posta in atto o in essere dall’attività pensante. L’attività pensante, d’altra parte, non è condizionata da nulla, neppure dallo spazio e dal tempo; anzi l’universo diventa immanente al pensiero, che lo pensa e si esaurisce in esso senza alcun residuo: ogni realismo e intellettualismo è superato; la libertà dell’io è assoluta perché viene negata l’esistenza di ogni limite esterno. La realtà è spirito, assoluta attività pensante, Atto puro, soggetto trascendentale in cui viene meno ogni contrapposizione e dualità di atto e fatto, oggetto e soggetto, essere e dover essere, pensare e pensato. Lo spirito è autocoscienza che si conquista, riconoscendosi come unica realtà. Perciò legge fondamentale del pensiero e dell’essere è la legge dell’unità. 3. Pedagogia e filosofia. Nel Sommario di pedagogia come scienza filosofica, G. sviluppa in modo sistematico le idee già contenute nello scritto Il concetto scientifico di

pedagogia, nel quale l’educazione è definita «formazione dell’uomo secondo il suo concetto». E l’uomo, per G., «non è anima e corpo; ma, poiché è anima, è anima sola; e il suo corpo non esiste se non come un momento dell’anima, nella quale non sussiste se non idealmente» (G., 1908, 23). Educare è quindi formare l’uomo in quanto spirito, cioè soggetto che esiste nell’atto stesso che si pensa, vale a dire che ha coscienza di sé, che è autocoscienza. Si può allora dire che se la pedagogia è scienza dell’educazione e se l’educazione è il farsi dell’uomo secondo il proprio concetto, ne consegue che la pedagogia è scienza dello spirito e in quanto tale coincide con la filosofia. Quindi, qualora sussista una distinzione tra filosofia e pedagogia, ciò dipende dal non saper individuare correttamente i loro oggetti. L’identificazione della pedagogia con la filosofia è, per G., totale. «La distinzione, in verità, regge finché non si veda che lo spirito, oggetto della filosofia è appunto quella formazione dello spirito, che è oggetto della pedagogia. Ma quando per spirito non s’intende se non appunto lo svolgimento, la formazione, l’educazione, insomma, dello spirito, la filosofia stessa (tutta la filosofia, quando la realtà sia concepita assolutamente come spirito) diventa pedagogia, e la forma scientifica dei singoli problemi pedagogici diventa la filosofia» (G., 1914, 14). Perciò tutte le antinomie dell’educazione – essere e dover essere, educatore e educando, autorità e libertà, eteroeducazione e autoeducazione – non hanno più ragion d’essere, perché nella concezione idealistica i due spiriti – educatore e educando – si fondono nell’atto educativo, cioè nel momento in cui c’è o si fa educazione. 4. Influsso e risonanza. L’influsso dell’attualismo sulla cultura italiana nella prima metà del Novecento è stato forte e durevole. L’azione e il pensiero di G., a loro modo, hanno dato sostegno all’attivismo nazionalistico dell’Italia al suo primo decollo industriale, contribuendo allo svecchiamento della cultura e all’apertura internazionale. Ciò è collegabile: a una sua prima collaborazione con Croce nella rivista «Critica»; all’insegnamento universitario; alle molte iniziative culturali da lui avviate («Giornale Critico della Filosofia», Enciclopedia Italiana, collana di classici di filosofia e di storia); ai legami che 509

GEOGRAFIA: INSEGNAMENTO DELLA

l’attualismo stabilisce con il fascismo; alla scuola gentiliana, che annovera tra i primi seguaci G. Saitta, V. Fazio Allmayer, → Lombardo Radice; alla sua spiccata personalità, che lo rende maestro dallo stile inconfondibile, capace di entusiasmare per gli ideali di un umanesimo culturale, personale e sociale. La concezione educativa di G. contribuisce a ridare vitalità e dignità ai valori spirituali, religiosi e umanistici della scuola, liberandola dallo scientismo positivista; a fare del maestro una persona professionalmente preparata, spiritualmente ricca, che utilizza, ma non si lascia irretire nei metodi e nelle tecniche didattiche ben sapendo che il vero insegnamento va oltre e più in profondità. Nella seconda metà del sec. si assiste a un declino dell’attualismo pedagogico, dovuto anche a limiti reali della sua impostazione. La riduzione della pedagogia a filosofia può innescare in ambito pedagogico il mal vezzo dei discorsi retorici e inconcludenti; l’esclusione di ogni dualità o antinomia emargina i soggetti reali dell’educazione e riduce oltremisura la complessità educativa. D’altra parte, in tempi recenti sono valutati positivamente aspetti rilevanti e ancora fecondi dell’opera di G., in particolare «il grande sforzo di elevare ai più alti livelli scientifici e formativi le istituzioni culturali. Per tali aspetti, che vanno al di là delle particolarità di azione didattica e di scelta di contenuti scolastici, il pensiero e l’opera di G.G. sono tuttora vitali e presenti nella cultura italiana del Novecento» (Cavallera, 1995, 51). Bibl.: a) Fonti: G.G., Preliminari allo studio del bambino, Firenze, Sansoni, 91969; Opere filosofiche, Milano, Garzanti, 1991; Lezioni di pedagogia, Firenze, Le Lettere, 2001; Sommario di pedagogia come scienza filosofica. 1. Pedagogia generale. 2. Didattica, Ibid., 2003; La nuova scuola media, Ibid., 2003; La riforma della scuola in Italia, Ibid., 2003; Educazione e scuola laica, Ibid., 2003. b) Studi: H essen S., L’idealismo pedagogico in Italia. G.G. e G. LombardoRadice, Roma, Armando, 1966; Chiosso G. et al., Opposizione alla riforma G., Torino, Quaderni del Centro Studi «Carlo Trabucchi», 1985; G.G. e l’educazione degli italiani, in «Nuova Secondaria» (1988/1989) 7, 25-39; Gaudio A., Educazione e fascismo in alcuni studi recenti, in «Annali di Storia dell’educazione» 1 (1994) 295-302; Cavallera H., La pedagogia di G.G., in «Pedagogia e

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Vita» 53 (1995) 25-51; Colombo K., La pedagogia filosofica di G.G., Milano, Angeli, 2004.

R. Lanfranchi

GEOGRAFIA: insegnamento della La g. (etimologicamente: scrittura o descrizione della terra) è una disciplina complessa e in continuo divenire, non solo descrittiva ma anche esplicativa della terra vista in stretta relazione con l’uomo che è osservatore e attore, per cui il suo oggetto di studio riguarda il fatto antropofisico, l’habitat umano, la biosfera, l’ecosistema, quindi la sinergia uomo-ambiente dalla scala locale a quella mondiale. Data la vastità del suo ambito di studio si parla della pluridimensionalità della scienza geografica, che esige un modo nuovo di affrontarla. Oggi l’insegnamento della g. non può non prendere in considerazione le cosiddette nuove scienze «sistemiche»: ecologia, scienze della terra, cosmologia. 1. L’insegnamento della g. nella storia del­ l’educazione e della pedagogia. La g. è strettamente collegata all’insegnamento della → storia, in quanto la collocazione dei fatti e degli avvenimenti va fatta nel luogo e nel tempo del loro accadimento. Proprio per questa sua funzione di localizzazione di genti e Paesi, l’insegnamento della g. è sempre esistito fin dall’antichità, sebbene in modo limitato e non scientifico, spesso subordinato alla storia. L’importanza dello studio della g. è stata rilevata in particolare da → Comenio, → Locke, → Rousseau e → Kant. Dal punto di vista didattico la g. ha cominciato ad avere un’attenta considerazione nella pedagogia contemporanea. La g. però è una delle materie di studio, che ha riscosso minor interesse per l’apprendimento, perché il suo insegnamento non raramente veniva limitato a un noioso inventario di nomenclature e di dati da studiare a memoria. 2. Finalità e obiettivi dell’insegnamento della g. La finalità ultima dell’insegnamento della g. consiste nel formare cittadini attivi e responsabili del mondo, che sappiano convivere armonicamente con il loro ambiente e modificarlo in modo creativo e responsabile guardando al futuro. Si tratta di dare all’uo-

GESTALT

mo la coscienza della dimensione spaziale della sua esistenza, ossia una coscienza geografica che esprime la consapevolezza dei legami tra l’ambiente fisico e i sistemi soprattutto politico-economici, e delle conseguenti responsabilità dei gruppi umani e di ogni singolo cittadino nei confronti del territorio sia locale che mondiale. Perciò non solo è importante conoscere le caratteristiche di un territorio, ma anche e nello stesso tempo, sapere, servendosi degli approcci sia sincronici che diacronici, quando-come-perché si è arrivati ad una determinata configurazione territoriale così pure sapere perché, dove e in che misura è possibile modificare/riorganizzare un territorio, e con quale impegno e responsabilità. È una disciplina la cui rilevante valenza formativa si coglie oggi più che mai, proprio in questa considerazione metodologica: descrizione e ricerca delle cause immediate e remote del fatto antropofisico nonché dell’attuale biosfera. 3. Contenuti e metodi dell’insegnamento della g. Per tale insegnamento, come per la storia, bisogna trovare un adeguato dosaggio e combinazione circa i contenuti relativi ad alcune apparenti dicotomie: g. fisica e g. antropica, g. regionale e g. nazionale, g. nazionale e g. continentale, g. continentale e g. mondiale. Il criterio didattico è quello di partire dall’ambiente dell’alunno, dal vicino al lontano, in cerchi concentrici, in adeguamento alle diverse età degli alunni. Lo studio della g. deve essere un avviamento al metodo scientifico con un appropriato linguaggio della g. A tale scopo, attraverso l’osservazione diretta, la lettura delle carte, la consultazione di dati statistici ecc., bisogna sviluppare l’attitudine razionale alla ricerca delle cause, degli effetti e delle correlazioni esistenti fra i vari fatti e fenomeni, allo studio dei processi evolutivi, alla comparazione. È disponibile oggi un ampio ventaglio di → mezzi didattici per la g.: oltre ai classici strumenti materiali (carte geografiche, atlanti, cartelloni plastici, mappamondo, ecc.) c’è la possibilità di un continuo arricchimento grazie alla diffusione dei mass-media, ai viaggi sempre più facilitati (con possibilità di fotografare e di fare riprese dal vivo) e agli elaboratori elettronici. Bibl.: Baldacci O., Perché la g., Brescia, La Scuola, 1980; H aubrich H. (Ed.), International

focus on geographical education, Braunschweig, Georg-Eckert-Institut für Internationale Schulbuchforschung, 1982; Bordman D. (Ed.), New directions in geographical education, London, The Falmer Press, 1985; De Vecchis G. (Ed.), The teaching of geography in a changing Europe, Roma, Domograph, 1991; Souto González X., Didáctica de la geografía: problemas sociales y conocimiento del medio, Barcelona, Ediciones del Serbal, 1999.

H.-C.A. Chang

GESTALT Termine ted. che corrisponde al signifi­cato di «struttura unitaria», «configurazio­ne armonica». Esso è legato a due correnti di ricerca, nate in periodi e con obiettivi di­versi: la psicologia della G., una scuola teo­r ica tedesca che negli anni Venti ha studia­to la percezione, e la psicoterapia della G., una scuola clinica post-analitica, sviluppa­tasi negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, nell’ambito delle psicoterapie umanistiche. Tuttavia, come vedremo, il fatto che que­ste due scuole siano accomunate dal nome G. non è casuale. 1. La psicologia della G. La Gestaltpsycho­ logie o Scuola di Berlino si inserisce tra le scuole strutturaliste della percezione, di cui rappresenta sicuramente quella che ebbe il maggiore influsso sullo sviluppo della psi­ cologia (Ronco, 1977, 41ss.). La nascita della psicologia della G. si fa ri­salire al 1912, quando M. Wertheimer scrisse un articolo in cui identificava un processo percettivo unitario – da lui chia­mato fattore «phi» – grazie al quale i sin­goli stimoli verrebbero integrati, nel sog­getto, in una forma dotata di continuità. Ciò significava che quello che prima era stato considerato un processo passivo – il percepire – veniva ad essere pensato come qualcosa di gran lunga più attivo, come un’attività subordinata a certi principi organizzativi generali. Wertheimer intuì che non sono gli stimoli elementari ad es­ sere colti dall’organismo che percepisce ma piuttosto le stesse configurazioni unitarie. In altre parole, per l’organismo che perce­pisce, l’insieme significativo è lo stimolo (Wertheimer, 1959). Da qui la legge gestaltica per cui il tutto viene prima delle parti. Wertheimer 511

GESTALT

individuò una serie quasi in­finita di «leggi» sul funzionamento delle G. percettive, la più importante delle quali è la legge della pregnanza: ciò che viene per­cepito contiene una forma organizzata che è la migliore possibile, in date condizioni ambientali, ossia risponde ad un principio di economia dell’organizzazione (il massi­mo dell’informazione nella struttura più semplice). Gli psicologi della G. si impe­g narono in ricerche approfondite che po­tessero validare le loro intuizioni sul processo percettivo e, in questo percorso, il lo­ro modello si spostò verso una accen­ tuazione dei fattori interni all’organismo nella formazione delle G., allontanandosi dalla prospettiva originaria di Wertheimer sulla possibilità di quantificare oggettiva­mente, nell’ambiente, le «buone G.». Il contributo di → Lewin portò la psicolo­gia della G. fuori del laboratorio, nella realtà molto più complessa della vita quoti­diana, che egli considerò come «il campo» in cui l’individuo si muove per raggiungere i propri obiettivi. Il campo percettivo è per Lewin una sorta di sfondo, di mappa men­tale da cui emergono di volta in volta figu­re nuove, che poi ritornano nello sfondo per lasciare il posto ad altre figure, perce­pite dall’organismo come rilevanti per il raggiungimento dei propri scopi. Ciò impli­ca che uno stesso oggetto può essere per­cepito con significati diversi a seconda de­gli obiettivi o del bisogno che l’individuo avverte in quel momento, così come essi in­ teragiscono con il contesto situazionale in cui sono inseriti. In altre parole, per Lewin (1935) il bisogno organizza il campo. Que­ ste intuizioni di Lewin diedero il via a una serie di ricerche sul → problem solving (che diventava il paradigma di tutta l’attività co­ gnitiva del soggetto) e sul concetto corre­lato di insight (Köhler, 1947), così impor­t ante per la psicoterapia, nonché sul «ca­rattere di richiesta» delle situazioni in­compiute (Zeigarnik, 1927). Un’ulteriore elaborazione della psicologia della G. dal punto di vista dello sviluppo di una teoria della personalità e della psi­coterapia fu il contributo del neurologo K. Goldstein, del quale fu assistente di labo­ratorio per un breve periodo F. Perls, che poi avrebbe fondato la psicoterapia della G. Goldstein, come Lewin e Perls, fu al fronte durante la Prima Guerra Mondiale e molte delle sue ricerche furono condotte su ex-combattenti con danni cerebrali. Questi 512

studi condussero Goldstein ad affermare che il comportamento è organizzato in mo­ do da coinvolgere sempre l’intero organi­smo (Goldstein, 1939; 1940). L’unico im­pulso o istinto di cui si possa parlare nel comportamento umano è l’impulso a inte­ragire con l’ambiente e a organizzare quel­la interazione in schemi. Goldstein affermò ciò con forza, opponendosi alla tendenza meccanicistica che caratterizzava alcuni studi psicologici, non ultimo il modello freudiano, e che vedevano nella riduzione della tensione il fine ultimo del comporta­mento umano. Goldstein chiamò impulso all’auto-attualizzazione questo unico vero impulso, che organizza tutti gli altri pseudo-impulsi e comportamenti dell’organismo in modo gerarchico. 2. La psicoterapia della G. La psicoterapia della G. si inserisce tra le terapie umanisti­ che. Nasce a New York, nel 1950 circa, dal­le intuizioni di F. Perls, uno psicoanalista ebreo tedesco, emigrato negli anni Qua­ranta per motivi razziali in Sudafrica e poi negli Stati Uniti, e per opera di un gruppo di intellettuali statunitensi, profondi cono­scitori della psicoanalisi, che elaborò le in­t uizioni di Perls. Questi, insoddisfatto del­la teoria freudiana dell’Io, intuì che l’in­t roiezione termina il proprio compito evo­lutivo fondamentale molto prima di quanto avesse teorizzato → Freud e indicò nello svi­luppo dei denti ( fase dentale) l’evidenza fi­siologica di tutto ciò. La capacità di masti­care e di mordere che nasce nell’organismo con lo sviluppo dentale dà assoluto rilievo all’aggressività in un momento evolutivo significativamente anteriore a quello teo­rizzato da Freud. Inoltre, l’aggressività stessa venne intesa da Perls in termini po­ sitivi, di sopravvivenza e di crescita fisica ed esistenziale dell’organismo. In questo senso il pensiero di Perls si poneva quale modalità di superamento del dualismo pre­sente nella metapsicologia freudiana tra impulsi dell’individuo e necessità dell’organizzazione sociale. Infatti, dal momento che l’individuo è soggetto che destruttura e ristruttura, gli si apre la possibilità con­creta di vivere nel proprio mondo con pie­nezza. Le tre parole-chiave del titolo del primo li­bro di Perls, scritto nel 1945, prima ancora della fondazione della psicoterapia della G. – L’Io, la fame, l’aggressività (Perls, 1995) – sintetizzano la sua critica alla teoria freudiana sulla natura

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umana: non aver dato il giusto e fondamentale rilievo alla capacità dell’Io di soddisfare i propri bisogni (la fa­me) attraverso un’attività autoaffermativa (l’aggressività), che gli consente di assimi­lare o rifiutare l’ambiente, a seconda che esso gli si presenti come nutriente o nocivo. L’Io, la fame, l’aggressività diventarono quindi gli elementi portanti di questo nuo­vo modello di psicoterapia, i cui fonda­menti sono contenuti nell’opera di F. Perls, R. Hefferline e P. Goodman, G. therapy: excitement and growth in the human personality (1951). Alla base di esso c’è la convinzione che ogni esperienza non può che avvenire al confine del contatto tra un organismo ani­male umano (così si esprimevano, in termi­ni organicistici, i fondatori della psicotera­pia della G.) e il suo ambiente. È proprio ciò che avviene in questo confine che è di­sponibile all’osservazione scientifica e al­l’eventuale intervento terapeutico. Il pro­ cesso di contatto tra l’organismo umano e il suo ambiente consente all’individuo di imparare ad orientarsi nel mondo e ad agire su di esso al fine autoconservativo di assi­milare la novità − il diverso da sé − e di cre­scere. Il confine di contatto è pertanto il luogo in cui è possibile mettere insieme la creatività (che esprime l’unicità dell’individuo) con l’adattamento (che esprime la reciprocità necessaria al vivere sociale). Il modo in cui l’individuo fa (o non fa) contatto con il pro­prio ambiente descrive la sua funzionalità psichica. All’adattamento creativo, inteso come meta dello sviluppo sano dell’indivi­duo, possiamo ricondurre il concetto di maturità in psicoterapia della G. Esso non risponde a un modello univoco di salute (From, 1985), ma consente la modulazione individuale su parametri di autorealizza­zione e di accoglienza della novità portata dall’ambiente/altro. I bisogni individuali e quelli comunitari vengono integrati senza il sacrificio «a priori» di nessuno (Perls et al. 1951, 456ss.). Nella psicoterapia della G., quindi, la crescita di una persona verso l’autonomia coincide con la sua capacità di decidersi per l’incontro con l’altro, con il Tu. A livello clinico, dall’intuizione di Perls conseguirono alcune sostanziali differenze nella prassi psicoterapica: si pensi per esempio alla ridefinizione positiva dell’ag­ gressività del paziente, al valore di recupe­ro della spontaneità organismica dato alla capacità di concentrazione, che Perls sosti­t uì alle

libere associazioni, alla geniale sostituzione del concetto di causa-effetto con quello di funzione (From, 1985). 3. Gli sviluppi successivi della teoria e della prassi della psicoterapia della G. sono stati caratterizzati da una varietà di scuole, che si diversificano per il rilievo dato alla teoria del sé in quanto processo di contat­to, l’essenziale novità di questo approccio tra le terapie umanisti­che. Esse possono essere raggruppate in tre indirizzi: 1) la scuola di New York, rimasta fe­dele alle intuizioni del gruppo fondatore, le ha sviluppate con contributi teorici e applicazioni cliniche in situazioni di gruppo; 2) il movimento co­siddetto «viscerale», sviluppatosi lungo la costa californiana degli Stati Uniti, in se­g uito alle dimostrazioni «miracolose» (non supportate da spiegazioni teoriche) fatte da Perls con gruppi di pazienti affa­scinati dall’uso della drammatizzazione nel setting terapeutico, individua nella consa­pevolezza lo strumento terapeutico e dà valore alla soggettività, al corpo e alle emo­zioni nella crescita della persona; 3) infine, la scuola di Cleveland, un orientamento più eclettico che si focalizza sulla creazione di un linguaggio comune anche ad altri approcci terapeutici e su applicazioni a vari campi del sociale, come la con­sulenza aziendale. Da un punto di vista critico, l’avere intuito l’ap­porto creativo e significante che la forza aggressiva dell’organismo dà alle relazioni umane ha sostenuto nei primi decenni un clima teorico improntato spesso a una ribellio­ne fine a se stessa, che ha minato significa­tivamente l’adesione unanime ai paradigmi origina­li che caratterizzano i fondamenti dell’approccio. Tale mancanza di unitarietà del corpo teorico e meto­dologico ha lasciato oggi il posto ad un comune interesse per uno sviluppo in chiave ermeneutica capace di dare risposte alle esigenze della attuale società. Bibl.: Zeigarnik B., Über das Behalten von erledigten und unerledigten Handlungen, in «Psychologische Forschung» 9 (1927) 1-85; Lewin K., A dynamic theory of personality, New York, McGraw-Hill, 1935; Goldstein K., The organism, Boston, American Book Company, 1939; Id., Human nature in the light of psychopathology, Cambridge, Harvard University Press, 1940; Köhler W., G. in psychology, New York, Liveright,

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GESUITI

1947; Perls F. - R. H efferline - P. Goodman, G. therapy: excitement and growth in the human personality, New York, The Julian Press, 1951; Wertheimer M., Productive thinking, New York, Harper & Row, 1959; Ronco A., Introduzione alla psico­logia, vol. 2. Conoscenza e apprendimento, Roma, LAS, 1977; From I., Requiem for «G.», in «Quaderni di G.» 1 (1985) 22-32; Perls F., L’io, la fame, l’aggressività, Milano, Angeli, 1995.

M. Spagnuolo Lobb

GESTIONE DELLA SCUOLA → Amministrazione scolastica

GESUITI Membri della Compagnia di Gesù, ordine religioso di chierici regolari fondato da s. Ignazio di → Loyola, approvato da Paolo III (1540). 1. Finalità e mezzi. Nacquero come un gruppo di presbiteri che desideravano prima di tutto servire sotto il vessillo della Croce solamente il Signore Gesù, e la sua sposa la Santa Chiesa sotto il Romano Pontefice, dedicandosi intensamente alla salvezza e santificazione delle proprie anime nel servire quelle del prossimo. La loro spiritualità si fonda nella «conoscenza intima» della Persona di Gesù Cristo, contemplato, amato e seguito; nella preghiera personale, e nel servizio ecclesiale per la difesa e propagazione della fede. Per realizzare questo obiettivo, essi si servono di quei mezzi che maggiormente ad esso conducano: predicazione della Parola, insegnamento, Esercizi spirituali, catechesi, sacramenti, missioni estere, opere assistenziali, promozione umana e della giustizia sociale, mezzi di comunicazione, ecc. I g. si distinguono per il loro particolare voto di obbedienza al Papa circa le missioni che egli dovesse loro affidare. La loro struttura di governo è molto gerarchica: il preposito generale è eletto a vita dalla Congregazione Generale della Compagnia (formata dai superiori provinciali e da altri eletti nelle congregazioni provinciali). La Formula dell’Istituto è la loro Regola fondamentale, sviluppata nelle Costituzioni, redatte da s. Ignazio (con l’aiuto speciale del p. Polanco) tra gli anni 1539-53. 514

2. Storia. Il motto dell’Ordine (A maggior gloria di Dio) è stato messo in pratica dalle loro prime attività nel sec. XVI, sia in Europa, nella difesa e propagazione della fede, sia nei territori cristiani, sia nei Paesi «di Missione», attraverso i diversi ministeri e servizi apostolici: dal lavoro catechetico alla ricerca scientifica, dall’attenzione spirituale ai malati alle opere di civiltà delle Riduzioni americane, dalle opere d’insegnamento alle riviste ed altri mezzi di comunicazione. Erano 10 i primi compagni (Favre, Xavier, Laínez, Salmerón, Rodríguez, Bobadilla, Jayo, Broet, Coduri e Ignazio) che fissarono il loro centro di attività a Roma. L’8 aprile 1541 Ignazio fu eletto a preposito generale, ed i compagni presenti a Roma fecero la professione solenne il 22 dello stesso mese nella basilica di san Paolo fuori le mura. I primi collegi per esterni furono estensione o apertura ai laici dei collegi fondati anzitutto per la formazione dei futuri g. A Gandía (Spagna) aprirono un collegio per studenti della Compagnia con accesso anche ai figli dei «moreschi» (1546); similmente fecero a Messina (1548), per altri studenti esterni; il Collegio Romano – origine dell’Università Gregoriana – fu fondato nel 1551 ed in esso si sarebbero formati i futuri g., i seminaristi diocesani e perfino cattolici secolari molto impegnati. A partire dal 1553 nei collegi dei g. si cominciarono ad impartire anche lezioni di Filosofia e Teologia. I collegi gesuitici divennero anche centri cittadini di assistenza sociale e spirituale. Quando Ignazio morì (1556) i g. erano più di un migliaio, e i loro collegi erano 39, sparsi in 7 nazioni europee; nel 1580, i collegi erano 140; nel 1600 erano 245; e nel 1626 giunsero a 444. A questi bisogna aggiungere 56 seminari, oltre alle istituzioni universitarie per gli studenti g. L’insegnamento era gratuito, perché era ritenuto ministero apostolico. Per questo, quando era creato un collegio, si cercava sempre che avesse una «fondazione» (rendite o donazioni che assicurassero il suo mantenimento). Mediante tale strumento i g. incidevano nelle strutture della società. Si dedicarono pure alla predicazione, come avevano fatto ai loro inizi, a Siena e a Parma, mandati da Paolo III. Altri furono inviati ad espletare missioni diplomatiche in favore della Santa Sede (Broet e Salmerón furono nunzi apostolici in Irlanda, 1541). A richiesta di Paolo III, Ignazio inviò al Con-

GIAMMANCHERI ENZO

cilio di Trento Laínez e Salmerón (1546). P. Favre, uno dei più fedeli amici di Ignazio, accompagnò in Germania il dr. Pedro Ortiz, diplomatico, il quale partecipò alle dispute religiose tra cattolici e protestanti a Worms e Regensburg. Tutta questa attività era accompagnata, fin dai primordi della Compagnia, dalla predicazione al popolo e dagli Esercizi spirituali dati alle singole persone. Salmerón si distinse per i suoi sermoni, Favre guadagnò la simpatia di molti in Italia, in Germania e in Spagna, e scrisse un Memoriale che i g. considerano come emblematico. Nel sec. XVI si consolidò il metodo d’insegnamento fino alla formazione della → Ratio studiorum, che servirà da guida ai g. nell’educazione ispirata all’umanesimo cristiano. Agli inizi del Seicento, essendo preposito generale il p. Acquaviva, si realizzò la definitiva separazione fra i centri di formazione dediti esclusivamente ai g. e gli altri centri (collegi e università) indirizzati ai non g. La Compagnia trovò difficoltà nel suo apostolato a causa del regime assolutista degli Stati, opposto alla centralizzazione romana rappresentata dai g. Si svilupparono, però le missioni popolari e gli Esercizi. La Compagnia fu espulsa da alcuni Stati monarchici sotto l’influsso di ministri «filosofi» (Pombal nel Portogallo, Choiseul in Francia, Tanucci a Napoli, Aranda in Spagna); in seguito, Clemente XIV firmò il breve Dominus ac Redemptor (1773) mediante il quale la Compagnia era soppressa in tutta la Chiesa. Una delle ragioni per cui i g. furono sistematicamente perseguitati dai membri della cultura laicista ed illuminista (enciclopedisti e massoni inclusi) fu l’universale rilevanza che aveva acquistato il modello pedagogico gesuitico, che rendeva la Compagnia decisiva per la cultura religiosa e la civiltà cattolica. Pio VII, tramite la bolla Sollicitudo omnium ecclesiarum (1814) ripristinò la Compagnia, mirando particolarmente al servizio reso dai g. nel campo dell’insegnamento. La nuova Compagnia, nell’Ottocento, diede alcuni segni di intransigenza, conseguenza delle persecuzioni precedenti, e del desiderio di consolidare le sue radici. I 600 g. del 1814 giunsero, nel 1960, a 36.038, e crebbero soprattutto durante i generalati dei pp. Ledóchowski (1915-42) e Janssens (1946-64). Nel 2007 erano 19.554, e preparavano la Congregazione Generale per gennaio 2008, in cui, tramite permesso esplicito del

Papa, sarebbe stato scelto il nuovo Generale, dopo le dimissioni di P. Kolvenbach. Durante il sec. XIX i collegi e le università dei g. negli U.S.A. raggiunsero notevole sviluppo, influendo (assieme all’attività di molti altri istituti religiosi dediti all’insegnamento) sulla crescita del numero dei cattolici nell’America del Nord. Tra i più noti studenti dei g. sono da ricordare s. Giovanni della Croce, Cartesio, s. Francesco di Sales, ecc. Bibl.: García Villoslada R., Manual de historia de la Compañía de Jesús, Madrid, Aldecoa, 1941; Martini A., La Compagnia di Gesù e la sua storia, Chieri, La Civiltà Cattolica, 1951; Thomas J., Il segreto dei g.: Gli Esercizi spirituali, Casale Monferrato (AL), Piemme, 21988; Bangert W. V., Storia della Compagnia di Gesù, Roma, Marietti, 1990; Guibert J. de, La spiritualità della Compagnia di Gesù. Saggio storico, Roma, Città Nuova, 1992; De Rosa G., I G., Leumann (TO), Elle Di Ci/La Civiltà Cattolica, 2006.

F.-J. de Lasala

GIAMMANCHERI Enzo n. a Brescia il 19.7.27 m. ivi il 4.11.05, sacerdote, intellettuale e promotore di iniziative culturali. 1. Licenziato in Teologia a Venegono (1953) e laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano (1958), dopo l’ingresso nel Comitato di Redazione de La Scuola (1955), dal 1958 fece parte del Consiglio di Amministrazione, divenendo – con il passare del tempo – la figura di riferimento dell’Editrice bresciana. Qui diresse collane e promosse iniziative culturali fino alla morte (tra l’altro, fu segretario di Scholè, 1978-05; direttore di «La Famigliaۛ», 1966-71, e «Pedagogia e Vita», 1970-88; condirettore di «Scuola Italiana Moderna», 1981-98). A Brescia insegnò Filosofia nel Seminario (1951-56 e 1969-02) e all’Istituto «Arici» (1956-69), e Pedagogia all’Università Cattolica (1966-76). Fu inoltre vicario episcopale per la cultura, 1976-80; delegato vescovile per le istituzioni culturali, 1980-99; consultore della Congregazione per l’educazione cattolica, 1999-05. 2. Studioso di ampio respiro, ha coltivato la 515

GIANSENISMO

passione per l’educazione e la scuola essendo convinto che la fede cristiana sa ispirare cultura (tra i suoi interventi spiccano quelli sul movimento cattolico e in favore dell’IRC concordatario e della scuola cattolica) e che l’appartenenza ecclesiale – in schietta e intelligente obbedienza al Magistero – offre un’identità che sa dialogare con tutti. Formatosi nella Neoscolastica milanese (tra i suoi maestri, era solito annoverare Gustavo Bontadini, Mario Casotti e Sofia Vanni Rovighi), si confrontò lealmente con le diverse tendenze culturali – a cominciare dal marxismo – essendo guidato dalla fiducia nella indefettibilità della verità e nell’accordo di ragione e fede. Ai suoi molteplici interessi – che lo resero attento critico della cultura e dei costumi – corrisponde un’ampia rete di rapporti personali e istituzionali: le sue carte, conservate presso l’Archivio storico de La Scuola, sono in fase di riordino nel Fondo G. Bibl.: a) Fonti: G.E., Educazione e senso della vita, Brescia, La Scuola, 2000; Id., Pensieri sulla guerra, Brescia, La Quadra, 2002; Id., Alla scuola di Paolo VI. Appunti, Brescia, La Scuola, 2003. b) Studi: Mons. E.G., Ibid., 2006; E.G.: fede, cultura, educazione, Ibid., 2007.

G. Mari

GIANOLA Pietro → Facoltà di Scienze dell’educazione → Personalismo pedagogico

GIANSENISMO Il G. trae il nome da Cornelio Giansenio (Cornelius Jansen, 1585-1638), vescovo d’Ypres, autore di una voluminosa opera dal titolo Augustinus (1a ediz. 1640) relativa al problema allora vivamente dibattuto della libertà dell’uomo e della grazia divina. Giansenisti erano detti coloro che, nonostante le condanne ecclesiastiche, difendevano l’Augustinus come una fedele silloge del pensiero di sant’ → Agostino d’Ippona o comunque sostenevano dottrine che sembravano riproporre quelle di Giansenio. 1. L’esperienza pedagogica giansenista nel corso del ’600 e del ’700 non ha precisi riferimenti alla trattazione teologica del vescovo d’Ypres. Suoi modelli ideali sono 516

Port-Royal, i suoi Messieurs, il loro pensiero e la loro attitudine morale, le loro → Petites Écoles e i loro libri. Per quanto mutino i condizionamenti storici e culturali nel corso di due secoli, identica è nel complesso la visione religiosa e l’attitudine di fondo che i giansenisti nutrono nei confronti di coloro ai quali è destinata la loro opera educativa. Le Petites Écoles non sopravvissero alla campagna repressiva che si scatenò contro i giansenisti e contro Port-Royal. Saint-Cyran (1581-1643), considerato dal card. Richelieu come un capofila di opposizione alla linea politica della monarchia, fu trattenuto a lungo in prigione; i «solitari» di Port-Royal des Champs vennero dispersi e perseguiti; il più battagliero, Antoine Arnauld (1612-1694), fu costretto alla clandestinità e all’esilio; il drappello di allievi venne disperso e dissolto attorno al 1660-61; le monache dei due monasteri, di Port-Royal de Paris e di PortRoyal des Champs, furono vessate perché non sottoscrivevano il formulario di adesione alla condanna delle cinque proposizioni estratte dall’Augustinus e condannate da Innocenzo X nel 1653 (bolla Cum occasione). Nel 1710-13 il monastero di Port-Royal des Champs fu demolito per ordine del re. 2. In queste congiunture l’attività educativa del G. si espande nelle direzioni più varie facendo proprie certe iniziative che nel ’600 si erano sviluppate sull’onda delle istanze umanistiche, della riforma religiosa e di una migliore preparazione delle classi alte della società. Nel sud della Francia ad Alet e a Pamiers i due vescovi locali, impegnati nei programmi di riforma tridentina, ma sostenitori ardenti dell’ortodossia di Giansenio, organizzarono gruppi di donne che in qualità di «reggenti» s’incaricavano di promuovere l’istruzione catechistica nell’intera diocesi. Entrambi i gruppi furono dissolti alla morte dei due prelati. Sorte analoga toccò in quegli anni all’Institut de l’Enfance, congregazione religiosa femminile con scopi di istruzione e di assistenza fondata a Toulouse da un amico del vescovo di Alet. In modo precario, tra sospetti e persecuzioni, svolsero la loro attività di educatori in collegi, in seminari e in scuole private vari personaggi che tra ’600 e primo ’700 rifiutarono di sottoscrivere il formulario relativo alle cinque proposizioni condannate di Giansenio e che inoltre, anziché accettare

GIANSENISMO

la bolla Unigenitus (1713) che condannava cento e una proposizioni estratte dalle Réflexions morales di Pasquier Quesnel, fecero appello al concilio ecumenico. Tra questi si distinsero come educatori, insegnanti e scrittori Ch. Huré (1639-1717), A. Paccory (1649-1730), E. Gaudron (1672-1732), J.-B. Roussel (1686-1740), M. Tissart (1669-1745), F.-Ph. Mésenguy (1677-1763). Sono da ricordare inoltre vari membri dell’Oratorio di Francia, interdetti in genere dall’accedere agli ordini sacri e allontanati dall’insegnamento che svolgevano presso collegi in diocesi rette da vescovi dichiaratamente antigiansenisti. Diversa fu la sorte di una comunità di educatori costituita da semplici laici e fondata dal prete Charles Tabourin. Il primo nucleo di maestri iniziò nel 1709 e a partire dal 1713 costituì una rete di piccole «scuole di carità» maschili nel faubourg Saint-Antoine a Parigi affiancata da scuole femminili tenute dalle Soeurs de Sainte-Marthe. Nonostante le traversie del fondatore, ch’era giansenista e appellante, le «scuole Tabourin» si diffusero anche altrove in Francia (Orléans, Auxerre, Normandia). Soppresse nel 1793 dalla Convenzione, poterono riaprire a Parigi nel 1802 e dedicarsi all’educazione di ragazzi della piccola borghesia in un pensionato che poté durare fino al 1887 coltivando la memoria di Port-Royal e proseguendone i metodi di formazione al rigore morale. 3. È soprattutto la produzione catechistica a prolungare del G. originario la visione fondamentalmente pessimista della natura umana, bisognosa della grazia in ordine al bene da discernere e da perseguire. Tra i numerosi catechismi giansenisti (tutti in genere sull’onda di quello composto da SaintCyran per i bambini delle Petites Écoles) ebbero particolare fortuna quello di mons. Colbert (1667-1738), vescovo di Montpellier, e gli altri del Mésenguy e di P.-E. Gourlin (1695-1775). Vasto influsso esercitarono nel ’700 e nel primo ’800 gli Essais de morale di P. Nicole (1625-1695). 4. La necessità di coltivare la buona formazione fin dalla prima infanzia è una istanza che caratterizza la riflessione pedagogica originaria di Port-Royal. Tra gli scritti che insistettero su tale tema sono da ricordare: De l’éducation chrétienne des enfants (1661)

di A. Varet (1632-1676), Avis salutaires aux pères et aux mères qui veulent se sauver par l’éducation chrétienne qu’ils doivent à leurs enfants (1719) di A. Paccory e Les règles de l’éducation des enfants di P. Coustel (1621-1704). Sul solco della precettistica destinata ai sovrani si collocano lo scritto De l’éducation d’un prince (1670) di P. Nicole e la Institution d’un prince (1739) di J.-J. Duguet (1649-1733). Il saggio di Nicole documenta l’attenzione che i portorealisti dedicano alle qualità morali e alla capacità di giudizio. L’ampio trattato di Duguet respira già i preludi del riformismo illuminato e prospetta un quadro di conoscenze che include anche lo studio dell’agricoltura e del commercio. Di vasto successo furono anche le opere pedagogiche e didattiche di Rollin, vicino allo spirito di Port-Royal. 5. Tra fine ’700 e primo ’800 si distinse come esponente del tardo G. francese H. Grégoire (1750-1831). Nel 1793-94 in sintonia con il giacobinismo politico si fece promotore di progetti radicali per la unificazione linguistica che avrebbe comportato in Francia l’abbandono dei linguaggi e dei dialetti regionali. Tra riformismo illuminato e restaurazione emerge in Italia la figura di P. Tamburini (1737-1827), combattivo nel sostenere i temi teologici dell’agostinismo, polemico portavoce del «partito» che non era opposto ai sovrani riformatori ma al cattolicesimo «ultramontano» imperniato sulla fedeltà alle tendenze politiche del papato. Tamburini affronta i temi dell’educazione in epoca rivoluzionaria nelle lezioni di filosofia morale tenute all’università di Pavia. In termini positivi vi prospetta le risorse naturali dell’uomo (sottacendo il tema dell’intrinseca debolezza della natura, bisognosa dalla grazia risanatrice di Cristo) e perora a favore di un insegnamento meno legato all’apprendimento del lat., più abilitante alle scienze sperimentali e più in ordine alla formazione civile. 6. I libri del G. più a lungo adoperati nell’insegnamento scolastico in Francia e altrove furono La logica o l’arte di pensare di Arnauld e Lancelot, il Nuovo metodo per apprendere agevolmente la lingua lat. e quello per apprendere facilmente la lingua gr., entrambi dello stesso Lancelot. Un Compendio del nuovo metodo per apprendere la lingua 517

GINER DE LOS RÍOS FRANCISCO

lat. fu in uso nelle regie scuole del Piemonte nel periodo della restaurazione. F. De Sanctis (1817-1883) ricordava che a Napoli aveva imparato il lat. sul «Portoreale». Il Nuovo metodo fu ancora ristampato a Napoli nel 1848 e il Compendio nel 1853. Perdurarono insomma quei testi nei quali era netto il carattere innovativo in campo didattico, era meno esplicita l’ispirazione profondamente religiosa del G. e più agevole la trasposizione entro i quadri di una cultura laica moderna, potenzialmente post-cristiana. Bibl.: Gazier A., Histoire générale du mouvement janséniste des origines jusqu’à nos jours, 2 voll., Paris, Champion, 1922; Cognet L., Le jansénisme, Paris, PUF, 1968; Zovatto P., Introduzione al G. italiano (Appunti dottrinali e critico-bibliografici), Trieste, Facoltà di Magistero, 1970; Stella P., Il G. in Italia. Piccola antologia di fonti, Bari, Adriatica, 1972; Taveneaux R., La vie quotidienne des jansénistes aux XVIIe et XVIIIe siècles, Paris, Hachette, 1973; M artianais C.-M., Un pédagogue méconnu. Le diacre Ambroise Paccory (1649-1730), Rome, Maison St. J.-B. de La Salle, 1976; Hildesheimer F., Le jansénisme en France aux XVIIe et XVIIIe siècles, Paris, Publisud, 1991; Hildesheimer F. - M. Pieroni Francini, Il G., Cinisello Balsamo (MI), Pao­line, 1994; Stella P., Il G. in Italia, 3 voll., Roma, Storia e Letteratura, 2006.

P. Stella

GIARDINO D’INFANZIA → Fröbel → Scuola dell’infanzia

GINER DE LOS RÍOS Francisco n. a Ronda nel 1839 - m. a Madrid nel 1915, filosofo, pedagogista e educatore spagnolo. 1. Compiuti gli studi secondari nella città natale, inizia quelli giuridici a Barcellona (1852), dove riceve l’influsso del pensatore hamiltoniano Llorens i Barba. Nell’università di Granada ha i primi contatti con il «panenteismo»del filosofo tedesco K. Krause (→ Krausismo). Allontanato dalla cattedra universitaria dal governo conservatore, G. fonda a Madrid, con altri professori krausisti, la Institución Libre de Enseñanza (1876), centro superiore di studi e d’insegnamento 518

secondario, che dirige fino alla morte. Tra gli scritti più noti: Instrucción y educación (1879), El espíritu de la educación en la Institución Libre de Enseñanza (1880), Educación y enseñanza (1889), La enseñanza individual y la escuela (1895), Pedagogía universitaria (1905). Nei suoi saggi filosofici e giuridici sono anche presenti i problemi educativi. 2. Il pensiero pedagogico di G. si innesta in una concezione antropologica di matrice krausista: G. definisce l’uomo come un «essere di unione», composto organico di due sfere (corpo e spirito) in intima connessione e azione reciproca. Attraverso lo strumento del corpo, l’uomo entra in contatto con le altre realtà finite; poiché l’uomo (essere in relazione) è membro dell’«universale organismo nel quale tutti gli esseri convivono». Nei primi scritti G. concepisce l’educazione come un fatto di dimensioni cosmiche. È compito dell’uomo fare in modo che tutti gli esseri dispieghino le loro forze in «unità proporzione e armonia», in cui si fonda la perfezione di ogni sfera del mondo. Tale impegno esige, anzitutto, dall’uomo stesso la propria realizzazione, cioè l’educazione per antonomasia, il cui fine è «formare l’uomo come tale, in armonia e unità di tutte le sue forze». Per G. l’impegno educativo non ha un limite definito, non si riduce a un periodo determinato della vita, ma coincide con essa e «dura fino a quando essa dura». In questo contesto si profila la funzione educativa della scuola, concepita da G. come un «laboratorio di ricerca personale», dove l’impostazione memoristica e autoritaria cede il posto ai metodi «intuitivi e socratici», «personali e attivi». 3. La concezione religiosa gineriana – vicina al panenteismo krausista – e alcune sue tesi, come la → coeducazione e la scuola neutra, provocarono forti riserve negli ambienti cattolici spagnoli. In Italia è stata messa molto in risalto la risonanza della sua opera: «il rinnovamento in senso europeo della università e della cultura spagnola dell’Ottocento fu, in gran parte, merito del movimento krausista e dell’Institución» (Mazzetti, 1966, 78). Bibl.: M azzetti R., Educazione e scuola nella Spagna contemporanea, Firenze, La Nuova Italia, 1966; Prellezo J. M., F.G. de los R. y la

GINNASTICA

Institución Libre de Enseñanza. Bibliografía (1876-1976), Roma/Madrid, LAS/CCS/, 1976; Id., Rinnovamento della scuola. Proposta di F.G. de los R., in «Orientamenti Pedagogici» 26 (1979) 939-953; Á lvarez P. - E. M. Ureña (Edd.), La actualidad del krausismo en su contexto europeo, Madrid, Universidad Comillas, 1999; Díaz E. et. al., Educación y universidad, Madrid, C. Estudios R. Areces, 2005

J. M. Prellezo

GINNASIO Dal gr. gymnásion, era originariamente il luogo dove i giovani si esercitavano nudi (gymnói) in attività atletiche. In seguito il termine assunse il significato più ampio e complesso di luogo di istruzione ed educazione, di centro di ritrovo delle comunità greche, con una differenziazione fra ginnasi per fanciulli, per efebi e per adulti. 1. Vi si impartiva, soprattutto ai giovani, oltre l’educazione fisica, l’istruzione letteraria e musicale, da parte di grammatici, filosofi, retori, filologi e citaristi. In età ellenistica le città dell’Oriente conservarono i g. come simbolo di grecità, mentre a Roma essi trovarono scarso sviluppo, dovuto forse ad una certa avversione per la ginnastica. Nel periodo imperiale la funzione dei g. si può ritenere sia stata ripresa a Roma dalle terme, edifici pubblici per bagni, con annessi luoghi di riunione, palestre e biblioteche. Si fa menzione solo di g. privati, il primo dei quali è attribuito a Nerone. 2. Nell’accezione di luogo di istruzione, il termine g. figura negli ordinamenti scolastici di diversi Paesi europei, a partire dal sec. XIX. In Italia, con la legge Casati coincideva con i primi tre anni della scuola secondaria classico-umanistica (g. inferiore) e con il biennio della scuola secondaria superiore (g. superiore), che proseguiva con il triennio del → liceo classico. Tale struttura rimase invariata nella riforma → Gentile (1923), fino alla legge Bottai (1939), che abolì il g. inferiore per istituire una parvenza di scuola media unica (accanto alla scuola di avviamento professionale), in cui confluirono i corsi inferiori delle scuole di secondo grado (liceo

classico, liceo scientifico, istituto magistrale, istituti tecnici). Ancora oggi sopravvivono in Italia i due anni del g. superiore (quarto e quinto), in attesa di una ristrutturazione di tutta la scuola secondaria di secondo grado. La tradizione dei g. è attestata anche in Germania (Gymnasien), oggi a caratteri differenziati (linguistico-moderno, matematicoscientifico, classico) e articolati in tre anni di scuola secondaria inferiore e in tre anni di secondaria superiore. In Danimarca i tre anni di Gymnasium, ad indirizzo classico e ad indirizzo matematico, costituiscono il corso di scuola secondaria superiore. In Olanda l’istruzione secondaria che prevede uno sbocco universitario è articolata in tre tipi di scuola: Atheneum, Gymnasium (con latino e greco obbligatori) e Lyceum. Anche in Grecia figura il Gymnasio, come scuola secondaria inferiore, cui segue il Lykeio, i cui diversi indirizzi sono stati unificati con la riforma del 1997-98. Non in tutti Paesi di Europa la scuola secondaria porta la denominazione di g. In Francia, per es., la secondaria inferiore è chiamata Collège e quella superiore Lycée; in Inghilterra vi corrispondono più tipi di scuola secondaria; in Spagna una Enseñanza Básica, cui seguono il Bachillerato e la Formación profesional. Bibl.: Marrou H. I., Storia dell’educazione nell’antichità, Roma, Editrice Studium, 1950; Cives G. (Ed.), La scuola italiana dall’Unità ai nostri giorni, Firenze, La Nuova Italia, 1990; Caron J. C., «I giovani a scuola: collegiali e liceali» (fine XVIII - fine XIX sec.), in G. Levi - J. C. Schmitt (Edd.), Storia dei giovani, vol. 2: L’età contemporanea, Bari, Laterza, 1994, 161-232; www.eurydice.org/portal/page/portal/Eurydice/ DB_Eurybase_Home.

G. Proverbio

GINNASTICA Rappresenta quella parte dell’educazione fisica che definisce, precisa e si interessa di far eseguire con armonia ed esattezza i movimenti fisici, a corpo libero o con attrezzi. 1. La g. ha avuto un ruolo assai importante lungo la storia a partire dalle civiltà greca e romana. Secondo molti studiosi il termine 519

GIOCO

deriva infatti dal gr. gymnós (nudo), poiché nell’antica Grecia la g. veniva considerata un’arte del movimento fisico a servizio della grazia e della bellezza del corpo che, appunto, era nudo al momento degli esercizi ginnici. I romani spogliarono il concetto greco di g. di quelle qualità estetico-valoriali che lo caratterizzavano, limitandosi piuttosto alla formazione di un corpo sano e robusto, atto a sopportare le fatiche della lotta e della guerra. Nelle successive fasi della storia l’attività ginnica è rimasta a lungo trascurata; solo nel XVIII sec. è tornata in vigore, grazie soprattutto ai «concorsi sportivi» introdotti tra le attività organizzate in occasione di grandi celebrazioni nazionali (prima in Germania e successivamente in altri Stati europei). 2. Da allora la g. si è diffusa poco alla volta in tutto il mondo, fino ad entrare a far parte dei Giochi Olimpici (nel 1896 la g. maschile e nel 1928 quella femminile). Ancora oggi le gare vengono disputate separatamente da maschi e femmine, ma negli esercizi si continua a dare particolare importanza alla grazia e alla fluidità dei movimenti, recuperando almeno in parte l’antico concetto greco che univa la forza fisica espressa nell’esercizio a quella estetica ed armonica delle forme. Attualmente la g. trova applicazione non soltanto nell’attività sportiva ma anche in altre attività ludiche, militari (o paramilitari), dello spettacolo, della salute. Tutto questo ha permesso di fare una distinzione tra g. olimpica e quella militare, coreografica, respiratoria, ritmica, preventiva, correttiva..., ognuna secondo quegli scopi e quelle finalità che fanno capo ai differenti destinatari ed alle variegate forme, luoghi e momenti d’applicazione. Bibl.: Zaccà O., Enciclopedia sportiva, Catania, Zaccà-Sport, 1960; Enrile E. (Ed.), Dizionario dello sport, Alba, Paoline, 1977; Wright G. (Ed.), Illustrated handbook of sporting terms, s.l., Hampton House Production Ltd., 1978; Petiot G. (Ed.), Le Robert des sports. Dictionnaire de la langue des sports, Paris, Le Robert, 1982; M agnanimi A., Il corpo fra g. e igiene: aspetti dell’educazione popolare nell’Italia di fine Ottocento, Roma, Aracne, 2005.

V. Pieroni

GIOBERTI Vincenzo → Risorgimento GIOCATTOLO → Gioco

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GIOCO Tutti gli studiosi sono concordi nell’attribuire al g. un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’uomo, in quanto porta a far emergere le sue peculiari qualità potenziali: correre, saltare, lanciare, mettere alla prova il proprio corpo di fronte ad ostacoli di varia natura sono caratteristiche spontanee e naturali che appartengono all’«homo ludens». È questo il motivo per cui l’attività ludica è stata da sempre considerata una componente fondamentale del processo evolutivo che va dall’infanzia all’età adulta, quale veicolo di particolari valori portanti come la gratuità, la libertà di espressione, la creatività, la gioia, la festa, la vitalità, l’apprendimento polivalente, la cooperazione. Dal canto suo Huizinga definisce il g. un’attività libera, volontaria e del tutto gratuita, compiuta entro certi limiti di tempo e di spazio, seguendo regole liberamente accettate, provvista di un fine in sé e accompagnata da un sentimento di tensione e di gioia. Al g. spesso si accompagna e/o ne è una indispensabile componente il giocattolo, fin dall’antichità considerato nelle sue multiformi versioni creative, tutte comunque accomunate da un unico principio, funzionale allo sviluppo delle facoltà creative, immaginative ed intellettuali del soggetto ludico; semmai la messa in discussione di tale principio afferisce alla sua perfettibilità (per → Montessori deve avere una struttura perfezionata) o meno (per → Dewey deve rimanere allo stato grezzo). 1. Le teorie sul g. Fin dall’antichità filosofia e pedagogia e, più recentemente, psicologia, sociologia e antropologia si sono interessate di volta in volta al g. cercando di rispondere, ognuna dal proprio punto di vista, a due principali quesiti: che cosa è il g., perché l’«homo ludens» gioca. → Platone ed → Aristotele avevano attribuito al g. la funzione di «esercizio» che prepara alla vita, ma è soprattutto all’inizio di questo sec. che sono nate varie teorie sul g. Per K. Gross il g. è un pre-esercizio di attività future, serve cioè ad esercitare le più importanti abilità e funzioni necessarie per un buon adattamento dell’individuo all’ambiente. D. W. → Winnicott ha contribuito con varie opere allo studio del g. sui bambini ricostruendone lo scenario motivazionale sotteso: egli sostiene che il g.

GIOCO

più che un’attività distinta dalle altre è una dimensione propria di qualsiasi attività umana in quanto creativa. L. E. Peller ha individuato 4 fasi nel g. del bambino: narcisistica, pre-edipica, edipica, post-edipica. R. Callois dal canto suo ha proposto una classificazione dei g., suddividendoli in 4 categorie: di competizione, d’azzardo, d’imitazione (o rappresentazione di un ruolo), di stimolo di stati emotivi. E. H. → Erikson distingue tre tipi di g.: quelli che si svolgono nell’autosfera (esplorazione del proprio corpo), quelli nella microsfera (riguardano l’ambiente circostante/vicino) e quelli nella macrosfera (coinvolgono l’ambiente sociale più allargato). E. A. Plaut suddivide il g. in 8 stadi, ciascuno rispondente ad una diversa fase della vita: scoperta del g. (prima infanzia), differenziazione del g. (seconda infanzia), g. simbolico (età pre-scolare), g. con ruoli (età scolare), giocosità con confini (adolescenza), g. integrato (giovinezza), g. generativo (età adulta), g. creativo (età matura). → Piaget e → Klein sono tra coloro che hanno studiato più a fondo l’attività ludica in rapporto alle varie tappe evolutive della vita del bambino. Il primo, pur non avendo formulato una vera e propria teoria sul g., ne ha approfondito tuttavia lo studio nel trattare lo sviluppo dell’attività intellettuale e della maturazione del bambino. Ne è scaturita così una classificazione secondo la quale il g. può essere suddiviso in tre categorie: di immaginazione o simbolico, di esercizio o funzionale, di regole. In sostanza l’A. distingue il simbolo ludico, in cui la rappresentazione è adattata a qualcosa di eterogeneo (g. simbolico), dall’intelligenza, in cui l’immagine è adeguata all’oggetto o all’esperienza reale e produce un’azione che opera sul concreto (g. di regole). A livello di ricerca sperimentale quest’ultimo si è dimostrato un prezioso strumento per stimolare l’evoluzione del bambino sul piano della partecipazione, della creatività, dell’accettazione e del rispetto delle regole, della costruzione di rapporti stabili e collaborativi nel gruppo, di democratizzazione della vita di gruppo. L’interpretazione dell’inconscio attraverso la tecnica del g. è l’obiettivo primario che si propone M. Klein, la quale parte dall’inconscio per arrivare gradualmente all’«Io» del bambino utilizzando il g. come fattore catartico. Secondo tale A. il linguaggio del g. è lo stesso di quello dei sogni e va trat-

tato non solo analizzandolo simbolicamente ma studiando anche le associazioni fra i vari significati simbolici presenti in esso. Si tratterà perciò di fare attenzione al soggetto dei g., al tipo di g., al motivo del passaggio da un g. all’altro. Tra l’interpretazione del g. di Piaget e quella freudiana di Klein si riscontrano analogie e differenze. Per entrambi il g. mobilita tutte le potenze della psiche, dall’intelligenza all’emotività, e si radica nel profondo della stessa. La principale differenza tra i due consiste nel fatto che Piaget auspica che si realizzi un equilibrio tra «assimilazione» ed «accomodamento»; in tal senso le funzioni della creatività ludica sono integrate in quelle delle condotte intelligenti. Viceversa, per la teoria kleiniana l’ispirazione del g. è di ordine emotivo e non intellettuale; pur appoggiandosi al reale, lo trascende in virtù del potere trasfigurativo del simbolismo presente in esso, inteso quale generatore di rappresentazioni. Dall’insieme delle analisi riportate, i molteplici studi sulla natura e funzione dell’attività ludica possono essere ricondotti a tre principali filoni interpretativi: quello funzionalista, che cerca di stabilire quale sia la funzione del g. per perseguire un dato scopo; quello cognitivista, che vede il g. come metodo di apprendimento sia ai fini dello sviluppo dell’intelligenza, sia a scopo riabilitativo; quello della psicologia dinamica, che arricchisce l’attività ludica di significati e funzioni fino a farla divenire il mezzo attraverso cui il bambino arriva a conoscere e ad accettare i desideri più inconsci. 2. «A che g. giochiamo?». Anche lo → sport è g. e, viceversa, il g. può diventare sport. Cos’è quindi ciò che distingue il g. dallo sport e che cosa invece li accomuna? Come lo sport, il g. è un mezzo ideale per lo sviluppo della socialità, in quanto coinvolge le persone in un processo di azione e reazione dove la presenza delle «regole» fa da «collante» per la realizzazione di tale attività. La differenza, sostanziale, consiste nel fatto che lo scopo del g. non è necessariamente quello di consentire all’individuo di affermare la propria superiorità sugli altri, pur facendo salva quell’attività agonistica di base secondo la quale «senza avversario non c’è g.». Nel g., di rimando, vengono attesi e salvaguardati alcuni valori che nello sport non sono prioritari (quando non vengono del tutto disat521

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tesi), quali l’amicizia con l’altro, la scoperta dello spirito comunitario, il manifestarsi del senso di fiducia e di sicurezza che proviene dal giocare assieme, il senso di «gruppo». In sostanza, il g. dà importanza alla solidarietà più che all’ostilità, alla cooperazione più che all’opposizione, alla → socializzazione più che alla competizione (senza peraltro escludere la componente agonistica); favorisce le attività motorie di ogni tipo e luogo senza restrizioni di spazio, di tempo e di età; valorizza le situazioni in cui l’impatto affettivo ha una profonda risonanza sulla personalità di chi lo esercita; moltiplica le esperienze relazionali con persone e gruppi sociali diversi. Dal versante funzionale l’accento si sposta quindi sulla dimensione socio-comportamentale. I g., in particolare i g. con regole, rappresentano di conseguenza degli ottimi strumenti di maturazione della personalità in quanto permettono di passare da una socializzazione di tipo affettivo a una di carattere cooperativistico, da una visione egocentrica dei rapporti a quella che tiene conto anche del punto di vista dell’altro, da un approccio istintivo ad un maturo ed equilibrato confronto su base competitivo-agonistica. In sintesi, il g. svolge una funzione che è in grado di coinvolgere l’intera personalità dell’«homo ludens». Bibl.: Huizinga H., Homo ludens,Torino, Einaudi, 1968; Piaget J., La costruzione del reale nel bambino, Firenze, La Nuova Italia,1973; Winnicott D.W., G. e realtà, Roma, Armando, 1974; Callois R., I g. e gli uomini, Milano, Bompiani, 1981; Polisportive Giovanili Salesiane, A che g. giochiamo?, Roma, Juvenilia, 1991; D’A ndretta P., Il g. nella didattica interculturale, Bologna, EMI, 1999; Kaiser A., Genius ludi: il g. nella formazione umana, Roma, Armando, 2001; Lucchini E., Giocattoli e bambini dall’antichità al 2000, Lanciano, Ed. Carabba, 2003.

V. Pieroni

GIOIA → Allegria

GIORNALE Per g. si intende una pubblicazione stampata giornalmente, settimanalmente o, comunque, a intervalli frequenti, contenente notizie e pubblicità. 522

1. L’espansione di questo strumento di comunicazione è segnata dalle invenzioni e innovazioni della tecnologia grafica, che hanno caratterizzato la storia della stampa dalla sua origine e in questo secolo in particolare. È stato infatti il logotype, un sistema di composizione a mano inventato nel 1682 e basato sulla fusione di un gruppo di lettere in blocco, a permettere la realizzazione rapida di stampati e quindi la nascita dei primi fogli quotidiani. Allo stesso modo che le innovazioni tipografiche di John Bell (1745-1832), stampatore inglese e fondatore del «Morning Post», resero possibile con l’introduzione della spaziatura la lettura rapida delle notizie. 2. Il procedimento litografico inventato nel 1796 consentì la graduale introduzione delle immagini e subito della caricatura politica. Il primo foglio con periodicità giornaliera, nato a Lipsia nel 1660, fu «Leipziger Zeitung» mentre il primo g. londinese fu il«Daily Courant» nel 1702. Entrambi i g. sono legati alla realizzazione in questi Paesi del servizio postale. Anche nel resto dell’Europa vedono la luce numerose «gazzette», per lo più legate al mondo della letteratura e dell’economia. In Italia la maggior parte dei g. moderni sono nati fra l’Otto e il Novecento. La diffusione e il moltiplicarsi dell’editoria giornalistica sono legati alla scolarizzazione di massa e a sempre nuove invenzioni tecnologiche che rendono il g. commercialmente fruibile. L’invenzione della radio prima e della televisione successivamente, ha imposto cambiamenti redazionali non indifferenti. Hubert Beuve-Méry, direttore e fondatore del g. francese «Le Monde», ha così sintetizzato le differenze: la radio lancia la notizia, la TV la fa vedere, il g. la spiega. I nuovi sistemi informatici ed elettronici hanno oggi trasformato le redazioni dei g. in centrali informative, internazionalmente collegate e dalla fruizione immediata. 3. Il mondo educativo e scolastico ha avuto relazioni con i g. in duplice direzione. Il g. viene considerato come oggetto e fonte di studio da un lato e dall’altro diventa esso stesso strumento di formazione e di sperimentazione. Gli stessi produttori di g., con iniziative tipo «Il quotidiano in classe», mirano a formare i loro futuri clienti e lettori.

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L’uso del desktop publishing dal 1985 ha rilanciato la pubblicazione dei g. studenteschi che sembravano soccombere di fronte al diffondersi di radio e televisione all’interno dei campus e dei college universitari e nelle scuole in genere. Molte scuole producono g. in proprio con iniziative che, negli Stati Uniti, spesso escono dall’ambito prettamente scolastico per irraggiarsi nell’intera comunità civile in una simbiosi fatta di informazione e → comunicazione. Bibl.: D’A mico N. - L. Della Seta, Il quotidiano di classe, 2 voll., Bologna, Zanichelli, 1981; Lazzaroto F. (Ed.), Giornalini giornaletti, Roma, Nuove Edizioni Romane, 1990; Chernevez O., Faire son journal au lycée et au collège, Paris, Centre de Formation et de Perfectionnement des Journalistes, 1991; Cervellati M. - G. Farini, G. e didattica, Teramo, Giunti e Lisciani, 1992; Spirlet J. P., Utiliser la presse à l’école de la maternelle à la 6e, Paris, Centre de Formation et de Perfectionnement des Journalistes, 1995; Hodgson H. V., Giornalismo in pratica, Torino, SEI, 1996; Murialdi P., Storia del giornalismo italiano, Bologna, Il Mulino, 1996; Salemi G., L’Europa di carta. Guida alla stampa estera, Milano, Angeli, 2002; Hallin D. - P. M ancini, Modelli di giornalismo, Bari, Laterza, 2004; Costa G. - F. Zangrilli, Giornalismo e letteratura, Caltanissetta, Sciascia, 2005; Basso S. - P. L. Vercesi, Storia del giornalismo americano, Milano, Mondadori, 2005; Costa G. - A. Paoluzi, Giornalismo. Teoria e pratica, Roma, LAS, 2006.

G. Costa

GIOVANI Soggetti umani particolarmente interessanti per l’educazione e la pedagogia, a motivo della loro condizione vitale al termine dell’età evolutiva e delle preoccupazioni sociali per il loro attivo e positivo inserimento nel mondo adulto. 1. Il disagio interpretativo. Rispetto ad appena vent’anni fa oggi disponiamo di un quadro assai articolato di riflessioni teoretiche e di una vasta collezione di ricerche empiriche sui g. (Mion, 1985). Eppure l’accumulo di dati e di considerazioni non è privo di aspetti problematici. Tra questi: la molteplicità

delle prospettive adottate non rende i dati immediatamente componibili in un quadro sinottico; l’accresciuto pluralismo di approcci e di metodi, l’eccedenza di prospettive, i complessi problemi metodologici rendono difficile una sintesi unitaria ingenerando smarrimenti o appiattimenti riduttivi della ricchezza degli sforzi iniziali. 2. Il concetto di gioventù. Sia nel linguaggio comune che nel lessico delle scienze sociali regna una certa confusione in merito al contenuto, cui si fa riferimento quando si utilizzano le parole «g.», «gioventù» o «giovinezza». Nel linguaggio comune questi termini indicano in genere una fase di transizione interposta tra l’infanzia e l’età adulta. Assai spesso essi sono marcati di accentuazioni valutative sia positive che negative, di potenziale forza rivoluzionaria o di immatura generazione «bohémienne». Neppure nell’ambito delle scienze sociali la terminologia è consolidata. Vi è incertezza in particolare sui significati di « → adolescenza» e di «gioventù» e sui confini tra le realtà corrispondenti alle varie fasi di vita. Alcuni autori usano di fatto i termini come sinonimi, gli psicologi dell’età evolutiva tendono a parlare di «adolescenza», mentre il termine «gioventù» è usato prevalentemente dai sociologi, assieme a quello di «condizione giovanile» che ne esprime specialmente la sua valenza strutturale sociopolitica. Adottando la prospettiva secondo cui adolescenza e giovinezza sono due fasi diverse della vita, tale distinzione risulta abbastanza facile se si sottolinea l’importanza delle trasformazioni biosomatiche. Se invece si evidenziano quelle biopsichiche il problema si complica, e ciò in misura molto maggiore se si prendono in considerazione anche i mutamenti sia politici che economici e culturali della società. Ulteriori fattori di complessificazione sono dati dai processi di anticipazione individuale che in alcuni ambiti si stanno verificando per effetto dell’accelerazione del cambio sociale e dell’innovazione tecnologica. In sintesi una corretta impostazione dello studio della cultura giovanile dovrà tener conto in modo complementare di una duplice linea di lettura: descrittiva (presentazione dei dati) e interpretativa (ricerca delle cause, dei fattori intervenienti e delle ragioni esplicative), e di un duplice livello di analisi: strutturale 523

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(relativo alle condizioni obiettive esterne di tipo socio-politico ed economico) e culturale (relativo ai valori, stili di vita, risposte esistenziali e comportamentali che i g. nella loro soggettività elaborano in rapporto ai processi a cui sono sottoposti nelle strutture). Si dovrà inoltre prendere in considerazione una pluralità di approcci, che secondo una prospettiva educativa privilegiano nello studio della condizione giovanile certe dimensioni particolari e specifiche. Essi sono: gli approcci biofisiologico, psico-evolutivo, demografico (espansione e/o contrazione delle fasce giovanili), storico, etno-antropologico, pedagogico (interventi educativi scanditi da fini, obiettivi e strategie metodologiche), politico (interventi strutturali organizzati della società politica), sociologico (la cultura giovanile come sottosistema organico nel più vasto sistema sociale). In una prospettiva socio-pedagogica, come è la nostra, si può risolvere il problema terminologico rinviandolo alla definizione del terminus ad quem, considerando cioè g. tutti coloro che, se da un lato hanno superato la soglia dell’infanzia, dall’altro non hanno ancora raggiunto appieno lo status della persona adulta: si tratta di quanti sono impegnati nel compito di diventare adulti. Questa definizione non è del tutto soddisfacente, perché dice poco sulle caratteristiche della gioventù e insiste solo su quelle che ai g. mancano per essere adulti. È un’ulteriore conferma della difficoltà di fissare i confini dell’età giovanile che perciò risultano assai incerti.

gioventù vive una fase prolungata di preparazione e di attesa. I figli dei nobili si preparano per le carriere militari e burocratiche; i figli della borghesia professionale si orientano a seguire le carriere dei padri; i figli della borghesia industriale e commerciale sono in attesa di ereditare le imprese familiari. Nelle istituzioni educative, i g. sono tenuti per lungo tempo a stretto contatto con i coetanei dello stesso sesso, e ciò dà luogo alla formazione di gruppi solidaristici di carattere ludico, religioso, intellettuale e politico, sulla cui base si sviluppano assai spesso stili di vita, correnti culturali e movimenti politici, che si contrappongono all’ordine morale, sociale e politico della società adulta. Verso la fine del sec. XIX quando ormai il periodo di «moratoria» dell’istruzione secondaria e superiore coinvolge una quota crescente di figli dei ceti medio-alti, i gruppi giovanili assumono più spesso una connotazione ideologica che si rivolge sia verso i movimenti nazionalistici sia verso quelli radicali e socialisti. In questo stesso periodo si accentua l’interesse per i g. anche da parte dello Stato, soprattutto in vista della formazione dei grandi eserciti territoriali. La «militarizzazione» della gioventù, che troverà il proprio fondamento nella coscrizione obbligatoria al servizio militare, raggiungerà il culmine nelle grandi organizzazioni giovanili di massa dei regimi totalitari di stampo sia nazionalistico (la Hitlerjugend in Germania, la GIL in Italia), che comunistico (i Komsomol in Russia).

3. Nelle società della rivoluzione industriale, la condizione giovanile si trasforma radicalmente rispetto alla storia del passato. Nelle campagne con il diffondersi dell’industria agricola domestica, aumentano le opportunità per i g. di rendersi economicamente indipendenti dalla famiglia patriarcale o anche di emigrare verso le città. Nelle città, l’apprendistato entra in crisi per la presenza di una classe permanente di lavoratori salariati e perché anche l’apprendista si stabilizza nella condizione di lavoratore salariato dipendente. Nello stesso tempo è difficile parlare di fase giovanile del ciclo di vita per quegli adolescenti che vanno ad ingrossare le file del proletariato industriale nelle fabbriche, in cui entrano, appena lasciata la sponda dell’infanzia. Nei ceti urbani benestanti, la

4. Nelle società avanzate contemporanee. I confini tra le varie età del ciclo di vita appaiono sempre più sfumati. Non vi sono più veri e propri riti di passaggio per l’ingresso nell’età adulta, anche se come tali vengono ritenute le seguenti cinque soglie: la conclusione degli studi e/o del percorso formativo, l’entrata nel mondo del lavoro, l’uscita dalla casa paterna, il matrimonio, le responsabilità della maternità e della paternità. Negli ultimi venti anni vi è stato un cambiamento radicale nei modi in cui queste cinque soglie sono attraversate: vi è la tendenza a dilazionare ognuno di questi passaggi, a non seguire l’ordine con cui sono segnati, a dilatare le distanze tra il tempo della prima e dell’ultima. La dilatazione e la moratoria psicosociale cresce con l’elevarsi della classe

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sociale di appartenenza. È possibile individuare di fatto quattro modelli di «moratoria psicosociale della gioventù»: – il modello mediterraneo caratterizzato da un aumento degli anni di studio, dalla precarietà lavorativa e dal prolungamento della coabitazione con i genitori, anche quando si è raggiunta l’indipendenza economica; – il modello nordico, in cui i g. precocemente abbandonano la casa, vivono o da soli o in convivenze, che non preludono al matrimonio, mentre questo viene ritardato così come la decisione di avere figli; – il modello francese che ha in comune con quello mediterraneo la tendenza al prolungamento degli studi, e con quello nordico una più lunga moratoria tra abbandono della casa e matrimonio; – il modello britannico in cui la gioventù precocemente termina gli studi, entra nel mercato del lavoro e si sposa, ma ritarda invece ad avere figli. La generalizzazione dell’istruzione e l’allungamento dei percorsi formativi sono processi che hanno portato alla diffusività della condizione di studente. E ciò per diversi fattori: la domanda di lavoro sempre più qualificato richiede tempi lunghi di formazione, i g. sono sollecitati a proseguire gli studi nell’attesa che ciò garantisca loro maggiori opportunità di mobilità sociale, infine l’istruzione e la cultura sono diventati valori non più limitati a qualche élite particolare. Il prolungamento della fase giovanile diventa quindi una conseguenza anche del processo di scolarizzazione di massa. La conclusione dei cicli formativi non significa più ingresso automatico in un ruolo lavorativo stabile sia perché oggi è difficile stabilire la fine della fase di formazione, sia perché si inseriscono sempre più ampi periodi di disoccupazione e di lavoro precario, anche vari anni dopo la conclusione degli studi. Ciò significa un prolungamento dei rapporti di dipendenza economica, e soprattutto psicologica, dalla famiglia di origine. La prolungata transizione dalla → scuola al → lavoro determina inoltre la dilatazione dei tempi di uscita dalla → famiglia di origine e di formazione di una nuova famiglia. Anche nella sola Europa occidentale il fenomeno della de-coabitazione varia molto da Paese a Paese, e secondo i modelli già indicati: quello «mediterraneo» (più dipendente anche nelle norme morali) e quello «nordeuropeo» (più indipendente e permissivo). Col prolungar-

si della coabitazione con i genitori mutano anche i rapporti fra le generazioni. Infatti da un’ambivalenza adolescenziale, che si muove tra dipendenza e indipendenza, questi rapporti tendono a diventare nella famiglia «lunga» (Scabini e Donati, 1988) meno asimmetrici. Ciò è determinato proprio dagli stili di esercizio dell’autorità parentale, che in queste condizioni concede ai figli di godere gradi di libertà e di autonomia crescenti, senza eccessive differenze tra maschi e femmine. 5. La cultura giovanile. Le dilatazioni dei tempi di ingresso nella vita adulta e i fenomeni collaterali costituiscono la base sulla quale oggi si sviluppano valori, orientamenti, stili di vita e atteggiamenti particolari che sono comunemente designati col termine di «cultura giovanile». Essi condizionano anche i processi di formazione dell’identità personale, caratterizzata da quella che è stata definita «l’incertezza biografica». Per cui più che un processo teso al raggiungimento dello status adulto l’adolescenza sembra diventare quasi una «condizione», certo non permanente, ma tuttavia abbastanza consistente, proprio per il prolungamento della moratoria psicosociale, così da dar vita a forme di cultura proprie delle fasce di età coinvolte. Tratti salienti della cultura giovanile possono in conclusione essere identificati nei seguenti: – accentuata valorizzazione del «sé» e dell’autorealizzazione nell’eccedenza delle opportunità di scelte molteplici per definire il proprio futuro (valori «post-materialistici»; «neo-individualismo» e «cultura del narcisismo»); – cura preferenziale dell’autoesplorazione attraverso la comunicazione e la relazione con gli altri; – attenzione al tempo concentrata prevalentemente sul presente in una «sindrome di destrutturazione temporale» (Cavalli, 1985); – desiderio di non restringere con scelte troppo precoci l’orizzonte dei futuri possibili; – molteplicità di appartenenze che si fanno sempre più deboli e provvisorie, in considerazione dei benefici ottenibili; – insistente domanda di protagonismo e di soggettività; – tendenza alla reversibilità delle decisioni, alla relativizzazione degli assoluti e dei riferimenti fondamentali, all’accettazione acritica del pluralismo, all’indifferenza religiosa; – disponibilità sempre più ampia di quote del 525

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tempo libero da programmare; – proliferazione delle attività espressive in particolare di quelle musicali secondo una forte tendenza all’omologazione dei gusti anche a livello internazionale; – elevato grado di esposizione ai → mezzi di comunicazione di massa; – accurato e selettivo conformismo nell’abbigliamento, nella foggia dei capelli, nel linguaggio e nei segni esteriori di appartenenza, in adesione a identità provvisorie ma collettive; – cura difensiva dell’immagine e delle mode giovanili rispetto alle imitazioni e contraffazioni degli adulti. Infine un’attenzione particolare va data all’emergere di comportamenti collettivi che negli ultimi trent’anni hanno costellato l’orizzonte giovanile nei diversi → movimenti di protesta politica. Alla fine degli anni ’60 in America e in Europa sono sorti movimenti giovanili con un profilo ideologico-politico di stampo contestatore e rivoluzionario che hanno trovato visibilità nelle → università. Successivamente nella metà degli anni ’70, in un clima generale di «riflusso nel privato» questi movimenti hanno assunto tratti diversi, meno politicizzati, ma non meno espressivi, secondo un duplice orientamento, quello radicale della violenza contro lo Stato (Brigate Rosse) e quello dai toni più morbidi, ironici ed espressivi degli «indiani metropolitani». Ormai però lo stile dell’aggregazione movimentistica studentesca si era affermato e si organizzava nelle diverse occasioni, specialmente nelle «marce della pace» e nelle contestazioni contro la scuola: «il movimento del ’77», «i ragazzi dell’85», «la pantera nera del ’90», per quanto riguarda specificamente l’Italia. Compaiono nel frattempo anche altri fenomeni collettivi del tutto diversi e di segno contrastante: da un lato le manifestazioni musicali (concerti rock, live), che aggregano pacificamente decine di migliaia di g. e dall’altro episodi, legati per lo più al tifo sportivo, che vedono gruppi di g. in scontri anche violenti ed in azioni vandaliche. La frequenza di tali episodi è andata crescendo negli anni ’80 e in tutti i Paesi europei. Anche se coinvolge solo minoranze di g., segnala tuttavia l’esistenza di un potenziale aggressivo che trova modo di esprimersi solo in comportamenti distruttivi. In generale tuttavia la cultura giovanile non è per definizione conflittuale rispetto a quella adulta; più spesso esprime non tanto il conflitto, quanto lo «scarto» generaziona526

le che si produce fisiologicamente in società soggette a rapidi e profondi processi di mutamento, quasi assumendo i caratteri di una subcultura. In ogni caso le rappresentazioni sociali, che della gioventù sono venute maturando lungo la storia, possono essere sinteticamente indicate in alcune metafore relative al modo con cui la società da sempre ha guardato ai g.: come soggetti da educare e da formare, come energia da incanalare, come capitale sociale da incentivare, come pericoloso problema sociale da controllare. Sulla maggiore o minore predominanza di queste immagini si sono poi nei secoli innestati gli interventi delle più benemerite istituzioni educative, religiose e laiche fino agli attuali progetti educativi delle varie amministrazioni locali («Progetti G.») oltre alle differenziate politiche sociali nazionali ed oggi anche europee. Bibl.: M ion R., Rassegna storico-bibliografica delle più importanti ricerche in sociologia della gioventù: 1945-1985, in «Orientamenti Pedagogici» 32 (1985) 985-1034; I d., Domanda di valori e di religione nei g. dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, in «Salesianum» 57 (1995) 305-357; Scabini E. - P. Donati (Edd.), La famiglia in una società multietnica, Milano, Vita e Pensiero, 1993; M erico M. (Ed.), G. come. Per una sociologia della condizione giovanile in Italia, Napoli, Liguori, 2002; Buzzi C. - A. Cavalli - A. De Lillo (Edd.), G. del nuovo secolo. Quinto Rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002; Sorcinelli P. - A. Varni (Edd.), Il secolo dei g. Le nuove generazioni e la storia del Novecento, Roma, Donzelli, 2004; Prandini R. S. Melli (Edd.), I g. capitale sociale della nuova Europa. Politiche di promozione della gioventù in un welfare societario plurale, Milano, Angeli, 2004; Barro M., I g. e l’Europa. Rappresentazioni sociali a confronto, Ibid., 2004; Secondulfo D., La bella età. G. e valori nel nord-est di un’Italia che cambia, Ibid., 2005; Semisa D., Under 18. Leggere il presente, pensare il futuro, Ibid., 2005; Granieri G., Blog generation, Roma/Bari, Laterza, 2005; Cesareo V. (Ed.), Ricomporre la vita. Gli adulti g. in Italia, Roma, Carocci, 2005; Eurispes, 7° Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, Roma, EURISPES, 2006; Mion R., Evoluzione della domanda educativa dei g., in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 227-248.

R. Mion

GIROLAMO

GIRARD Grégoire

GIROLAMO

n. a Friburgo nel 1765 - m. ivi nel 1850, educatore e pedagogista svizzero.

n. a Stridone nel 347 ca. - m. a Betlem­me nel 419/420, monaco e scrittore latino, santo.

Membro di una famiglia numerosa e benestante, riceve un positivo influsso dalla madre e dall’ambiente familiare. Terminati gli studi superiori (1781) si fa francescano e nel 1788 è sacerdote. Nel 1798 partecipa al concorso indetto dalla Repubblica Elvetica per riorganizzare cultura e scuola: lo vince presentando il Progetto di educazione pubblica. Nel 1804 è prefetto delle scuole francesi a Friburgo e organizza le scuole popolari. Nel 1809 è scelto come membro della commissione ispettiva all’Istituto di Yverdon e nel 1810 ne presenta la Relazione, che risulta il miglior scritto sul metodo di → Pestalozzi avendone colto e compreso i principi ispiratori. Conosciuto il metodo di → mutuo insegnamento, nel 1816 lo introduce nelle sue scuole con alcune modifiche (insegnamento misto). Scrive Grammatica per le scuole rurali (1821). Nel clima della restaurazione il metodo da lui usato è visto con sospetto. Il Consiglio municipale di Friburgo delibera l’abolizione del mutuo insegnamento: G. si dimette insieme ai suoi maestri. Si ritira a Lucerna, dove inizia a scrivere il Corso di lingua, organizza la scuola locale dei poveri e quella nei cantoni di montagna. Nel 1827 pubblica Guida di Friburgo giudicata un’esemplare lezione attiva di geografia, di storia e studio dell’ambiente. Nel 1840 riceve la nomina a Cavaliere della Legion d’Onore francese per le sue opere pedagogiche e nel 1844 il premio Monthyon dell’Accademia Francese per l’opera Insegnamento regolare della lingua materna. Molti pedagogisti europei visitano le sue scuole. Notevole l’influsso di G. sulle scuole popolari del Risorgimento italiano.

1. G., compiuti brillantemente gli studi let­ terari, a Roma si convertì al cristianesimo, si dedicò alla vita monastica e seppe infon­dere entusiasmo per gli ideali della vita ascetica e per lo studio biblico a nobildonne romane del IV sec. Da Roma, ove era segretario di papa Damaso (382-385), si recò poi a Betlemme e per circa trent’anni continuò a svolgere un’intensa attività come formatore di anime e insegnante di fanciulli, per educarli al cristianesimo e al­la cultura classica. Mise al servizio della Chiesa la sua vasta cultura, scrivendo varie opere esegetiche, dogmatico-polemiche (contro gli eretici del tempo), storiche e agiografiche, un vasto epistolario (uno fra i migliori della letteratura latina e testimo­n ianza preziosa delle sue vicende personali e della società a lui contemporanea) e diverse opere di revisione e traduzione, so­prattutto di testi biblici (la Volgata) e di au­tori greci.

Bibl.: a) Fonti: le opere di G. sono edite a cura della Société Fribourgeoise d’Éducation, Édition du Centenaire, Fribourg, S. Paul, 1948. b) Studi: Petrini E., L’opera e il pensiero di padre G., Brescia, La Scuola, 1960; Weisskopf T., «Pater G.G. aus protestantischer Sicht», in Bildungspolitik im schweizerischen Föderalismus, Bern, Haupt Verlag, 1985, 175-186.

R. Lanfranchi

2. Il pensiero pedagogico di G. è espresso principalmente nelle Lettere 107 e 128, pic­ coli gioielli di pedagogia pratica. Trattano della formazione di ragazze cristiane e so­ no scritte con intensità espressiva, con co­ noscenza della psicologia dell’animo fem­ minile e dell’età evolutiva. Le principali idee si possono così sintetizzare: a) Educa­zione integrale della persona umana, te­nendo conto dei vari aspetti che concorro­no alla formazione del fanciullo: la pre­ghiera, lo studio, il lavoro manuale, il gioco. b) Particolare sottolineatura della dimensione e dei valori religiosi, mettendo al centro la Parola di Dio e proponendo modelli di santità cristiana. c) Apertura alla dimensione culturale, pur con un prudente atteggiamento verso la cultura pagana. d) Clima di se­renità e di fiducia, di ottimismo e di inco­raggiamento, di apertura ai valori culturali, ma anche prevenzione dalle occasioni pec­caminose ed esclusione di compagnie equi­voche (G. si rivolge ad una fanciulla già consacrata a Cristo). e) Il ruolo insostitui­bile e fondamentale dei genitori, i quali riu­sciranno ad «educare più con l’esempio che con le parole» (Ep. 107,9) e dovranno sce­gliere come maestri e pre527

GIUSSANI LUIGI

cettori persone fi­date moralmente e culturalmente. 3. Sono particolarmente significativi e in­ novativi i seguenti orientamenti e intuizio­ ni pedagogiche: a) L’importanza data all’e­ ducazione fin dalla prima infanzia, crean­do un ambiente favorevole per lo sviluppo armonico del bambino. b) Il valore dell’e­ducazione della donna (per lo più disatteso nell’antichità), riconoscendole il diritto di avere una formazione completa in tutti i campi e di potersi dedicare all’attività intellettuale. c) Conciliazione tra l’inse­gnamento tradizionale romano (→ Quinti­liano) e la novità cristiana: valorizzazione della cultura classica, con l’innesto però del cristianesimo. Bibl.: a) Fonti: Labourt J., Les lettres de S. Jérôme, 8 voll., Paris, Les Belles Lettres, 1949-1963 (trad. it.: Cola S., S.G. Le Lettere, 4 voll., Roma, Città Nuova, 1962-64. b) Studi: Mincione G., La pedagogia dell’infanzia e della fanciullezza nelle lettere 107 e 128 di S.G., in «Pedagogia e Vita» 47 (1985/86) 309-321; Lanfranchi R., San G. e l’educazione della donna, in J. M. Prellezo e R. Lanfranchi, Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. I., Torino, SEI, 1996, 184-191; Maritano M., «La cura del corpo nelle “lettere pedagogiche” di G. (Epp. 107. 128)», in E. dal Covolo - I. Giannetto (Edd.), Cultura e promozione umana. La cura del corpo e dello spirito nell’antichità classica e nei primi secoli cristiani. Un magistero ancora attuale?, Troina, Oasi, 1998, 309-339; Milazzo V., Educare una vergine. Precetti e modelli in Ambrogio e G., Catania, Tip. Universitaria, 2002.

M. Maritano

GIUSSANI Luigi n. a Desio (Milano) nel 1922 - m. a Milano nel 2005, sacerdote, educatore, fondatore del movimento Comunione e Liberazione (CL). 1. Presso la Facoltà Teologica di Venegono Inferiore G. riceve una solida formazione culturale e teologica. Allo studio si accompagnano l’amore per la letteratura (in particolare per la poesia di Leopardi), l’arte e la musica; la conferma della ragionevolezza e della verità dell’educazione cristiana ricevuta in 528

famiglia; la scoperta del Cristianesimo come avvenimento di grazia che risponde all’inquietudine religiosa dell’uomo. Di fronte ai primi segni della secolarizzazione, G. decide di dedicarsi all’insegnamento della religione e alla presenza cristiana fra i giovani. Nel 1954 dà vita a Gioventù Studentesca (GS), primo nucleo di CL. Dopo un decennio di insegnamento nel Liceo classico «Berchet» di Milano, nel 1964 passa alla cattedra di Introduzione alla Teologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Svolge un’intensa attività educativa e pubblicistica, dimostrando fin dai primi tempi un’esplicita attenzione per le questioni educative come documentano articoli e saggi di varia mole, fra cui le voci «Educazione» per l’Enciclopedia cattolica e «Adolescente, famiglia, scuola» per l’Enciclopedia dell’adolescenza. Si tratta di testi nati non a tavolino e con approccio pedagogico, bensì basati sull’esperienza di presenza e di testimonianza cristiana, vissuta insieme agli studenti e agli adulti che, col passare degli anni, si legano a lui, formando comunità cristiane progressivamente sparse in tutta Italia. Nel 1972 esse assumono il nome di CL. Nel 1977 G. sistematizza la propria visione educativa nel volume Il rischio educativo (successive ed.: 1995 e 2005). La trilogia denominata Percorso, nata dalle lezioni a scuola e in università – Il senso religioso, All’origine della pretesa cristiana, Perché la Chiesa – conosce larga diffusione e viene tradotta in diverse lingue. Nel 1993 fonda la collana «I libri dello spirito cristiano» (Rizzoli) e nel 1997 la collana discografica «Spirito gentil». Muore nel febbraio 2005. 2. La riflessione religiosa e educativa di G. si svolge intorno ad un doppio baricentro: la coltivazione del senso religioso e la sfida/ accettazione del rischio implicito nell’esercizio della libertà e della volontà. Ogni uomo, per il fatto stesso di esistere, afferma nella sua vita, anche inconsciamente, un significato per cui vale la pena di vivere. È questo il «senso religioso» intrinseco ad ogni esperienza umana: è la condizione stessa dell’uomo che mette in moto gli interrogativi ultimi sul significato. Se il senso religioso è così comune, perché gli uomini incontrano tanta difficoltà nell’identificare nell’esistenza del Mistero l’esistenza di Dio e cioè del significato che è «oltre l’uomo»? La risposta

GLOBALITÀ DIDATTICA

è semplice: l’uomo non è disposto ad accettare la categoria del «rischio», presumendo di essere in grado egli stesso e da solo di trovare tutte le risposte necessarie per dare il senso alla vita. Con l’espressione «rischio» G. intende un duplice atteggiamento: il rischio come la capacità dell’uomo di sfuggire alla doppia tentazione dell’arroganza razionalistica e dello scetticismo sistematico e, per un altro verso, il rischio come disponibilità ad accettare di «mettersi in gioco» e cioè di lasciarsi pervadere da ciò che potrebbe sconvolgere la vita ordinaria. Il rischio si configura, in altre parole, come la metafora dell’uomo che accetta di provarsi e di congiungere nella propria vita ragione e volontà (non solo l’intuizione del senso religioso, ma anche la volontà di esplorarlo e approfondirlo), che esercita la propria libertà non per ampliare la presunzione del proprio dominio, ma per conquistare un livello più profondo di conoscenza del Mistero e cioè di Dio (la libertà come liberazione dai vincoli che condizionano l’uomo, aprendogli una conoscenza più profonda). L’esperienza religiosa e l’avventura educativa passano attraverso la piena dedizione di sé, dal momento che il principio di obbedienza (da non confondere con l’atteggiamento di subordinazione o di sottomissione) racchiude in sé la volontà di accettare che Dio sia, in ogni cosa, il riferimento decisivo, l’unità di misura e il criterio ideale della propria vita. Per G. educare è perciò «aiutare l’animo dell’uomo a entrare nella totalità della realtà» (la realtà come esperienza quotidiana e realtà come Mistero che ci trascende), accettando la funzione orientatrice di un’autorità (non opprimente, ma liberante in quanto fondata sulla parola di Dio) e sperimentando la dimensione del rischio e l’esercizio della libertà. È attraverso questa duplice esperienza che la persona si scopre parte del progetto di Dio. L’educazione è perciò «la proposta di una risposta» da vivere come evento personale nel quale interagiscono intelligenza, affettività, intersoggettività (comunione con gli altri), apertura al trascendente. Bibl.: a) Fonti: L.G., Opere. 1966-1992, Milano, Jaca Book, 1994; Il cammino al vero è un’esperienza, Torino, SEI, 1995; Realtà e giovinezza. La sfida, Ibid., 1995; Primi scritti, a cura di E. Buzzi, Genova, Marietti, 1997; Avvenimento di

libertà, Ibid., 2002. b) Studi: su G. limitatamente agli aspetti di carattere più specificamente educativo: numerosi riferimenti in Camisasca M., Comunione e Liberazione, 3 voll., Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2001-2006; Chiosso G., Teorie dell’educazione e della formazione, Milano, Mondadori-Università, 2003; Scola A., Un pensiero sorgivo. Sugli scritti di L.G., Genova, Marietti, 2004; Id., Il rischio educativo di L.G., in «Atlandide» (2006) 53-61.

G. Chiosso

GIUSTIZIA → Diritti umani → Virtù

GLOBALITÀ DIDATTICA È un principio didattico connesso con quelli della → gradualità, dell’unitarietà e dell’integralità. 1. Nella storia della didattica il termine g. (da «globale» = complessivo, totale, intero) è stato usato per esprimere un concetto psicologico e gnoseologico secondo cui l’intuizione del tutto è anteriore alla cognizione delle parti e all’integrazione, concetto riferito soprattutto alla caratteristica della percezione infantile, ma non solo (già s. → Tommaso scriveva come la prima percezione di un oggetto è necessariamente sub confusione quadam). Titone (1975), ad es., riconoscendo che la nostra conoscenza ogni qualvolta si presenti come iniziale è confusa e globale, ossia imperfetta, parla del «principio della g. dell’apprendimento iniziale» attribuendovi un significato di «indubbia universalità». I termini «globalizzazione» e «globalismo» vengono utilizzati in genere per indicare la traduzione didattica di tale concetto psicologico e gnoseologico, come lo è il cosiddetto «metodo globale» proposto da → Decroly (1929) ed utilizzato in particolare nell’insegnamento della lettura e della scrittura. 2. L’iter didattico metodologico che si adegua a tale principio prevede i seguenti passaggi rispondenti al principio della gradualità: a) il momento globale e sincretico, che è caratterizzato dalla conoscenza sommaria, intuitiva o indistinta delle strutture globali; b) il momento della differenziazione o momento analitico, caratterizzato dall’individuazione 529

GLOBALIZZAZIONE E EDUCAZIONE

e dall’approfondimento dei diversi aspetti; c) il momento dell’integrazione o momento sintetico, caratterizzato dalla ricostruzione organica e dalla ristrutturazione consapevole degli elementi in una nuova totalità significativa. Seguire questi passaggi comporta, in pratica, la necessità di tener presenti, come punto di partenza, l’esperienza vitale dell’alunno, il suo vissuto e il suo contatto diretto con la realtà, le sue conoscenze pregresse e i suoi interessi. 3. La regola didattica «dal globale all’analitico», applicata anche all’organizzazione scolastica in generale, è presente già in → Comenio; è denominata «procedimento ciclico e a spirale» e consiste nel mantenere ad ogni livello scolastico l’intero orizzonte scientifico culturale, progredendovi per approfondimenti e specializzazioni. 4. Si è discusso circa la validità del criterio della «globalizzazione» nell’organizzazione didattica curricolare. Si è concordi che la globalizzazione costituisce solo il punto di partenza e che non tutto l’apprendimento può essere globalizzato. Come ha suggerito → Hessen, di una completa globalizzazione didattica si può parlare soltanto in riferimento alla prima classe elementare in cui non ci sono vere e proprie materie, ma diverse attività. Oggi, la g.d. ha un significato molto più ampio di quello iniziale, che evidenzia cioè l’esigenza sia dell’integralità, sia dell’unitarietà dell’educazione. L’apprendimento, infatti, investe l’intera personalità ed è inserito sempre nel processo globale e totale dello sviluppo, pertanto ogni atto didattico deve interessare tutta la persona. La g.d. sottolinea pure l’esigenza dell’integrazione tra scuola ed extrascuola, da un lato, e della dimensione mondiale da tener presente nell’educazione e nell’insegnamento, dall’altro. Il che esige di ridefinire i compiti della scuola e di rivedere i suoi contenuti didattici. Bibl.: Decroly O., La fonction de globalisation et l’enseignement, Bruxelles, Lamertin, 1929; Comenio G. A., Didattica magna [1657], Firenze, Sansoni, 1936, 215-216; H essen S., Struttura e contenuto della scuola moderna, Roma, Armando, 1955; Smeriglio L., «Il globalismo», in L. Volpicelli (Ed.), La pedagogia, vol. 10, Milano,

530

Vallardi, 1972, 127-196; Mencarelli M., Metodologia didattica e creatività, Brescia, La Scuola, 1974, 102-112; Titone R., Metodologia didattica, Roma, LAS, 31975; Pérez G. - A. Aguado, Bases didácticas del proyecto 5/8, Madrid, Narcea, 2 1981.

H.-C. A. Chang

GLOBALIZZAZIONE E EDUCAZIONE Col termine g. si indica un dinamismo di dimensioni planetarie, che sta trasformando, nel nostro tempo, tutto il vissuto umano, a partire dal campo dell’economia, ma coinvolgendo l’assetto politico e sociale, la cultura e perfino l’orientamento ideologico e il vissuto religioso, in tutti i Paesi del mondo. Esso influisce quindi anche sulla realtà educativa, coinvolgendo l’educazione nella → famiglia e nella scuola, e l’influsso educativo dei mezzi di → comunicazione sociale. 1. Dal punto di vista economico, essa è costituita essenzialmente da un processo di progressiva unificazione di tutto il mondo, in un unico grande mercato, dominato da una competizione e da una selezione spietata, estesa e radicale. Da questo punto di vista, la g. è il punto di arrivo di una lunga marcia iniziata con la rivoluzione industriale e con il progresso tecnologico e l’accumulazione capitalistica. Oggi questo dinamismo è diventato così imponente da costituire qualcosa di assolutamente inedito nella storia dell’uomo e si impone all’attenzione universale come causa di problemi, timori, e speranze di vastità e gravità finora impensabili. La g. comporta una esasperata competizione economica mondiale, che coinvolge tutte le nazioni e tende a produrre quella specifica forma di insicurezza economica, che ne rappresenta l’aspetto più temuto. In questa lotta non ci sono più posti al sicuro per i primi arrivati, quali che siano i loro meriti storici e le posizioni già conquistate. Questo mette spesso in pericolo quella «sicurezza sociale», che è la conquista più preziosa dei Paesi industrializzati. Ma questi svantaggi colpiscono in modo molto più grave i Paesi poveri, gravati da forti debiti pubblici, da bassi livelli di istruzione, da apparati amministrativi

GLOBALIZZAZIONE E EDUCAZIONE

poco efficienti anche se autoritari. Uno degli effetti perversi della g. è l’influsso, tendenzialmente negativo, che essa può esercitare sull’espletamento dei compiti educativi della famiglia. La precarietà del lavoro e l’insicurezza economica che spesso l’accompagnano possono provocare nei genitori sentimenti di insignificanza e di impotenza e perciò anche di delegittimazione educativa, rendendo più fragile il loro influsso educativo sui figli. Si tratta di tendenze che, già presenti nella normale evoluzione delle società industriali, trovano una ulteriore spinta nel generale clima di insicurezza favorito dalla g. 2. Ma la g. non è soltanto un fatto economico: lo sviluppo della scienza e della tecnica ha dotato l’umanità di strumenti artificiali di comunicazione, in grado di moltiplicare quasi indefinitamente le possibilità comunicative del linguaggio umano: di qui la cosiddetta g. comunicativa che rappresenta qualcosa di assolutamente inedito nella storia dell’umanità. Si direbbe che essa stia lentamente creando una «nuova coscienza», cioè un modo nuovo di pensare, di agire, di essere uomini. Lo studio di questo fenomeno rivela meglio l’uomo a se stesso: le scienze della comunicazione (semiotica, linguistica strutturale, ecc.) rappresentano oggi forme importanti di accesso alla conoscenza della specificità umana dell’uomo che la pedagogia non può ignorare. Purtroppo la comunicazione mass­ mediale non si svolge nello spazio asettico di una società innocente. Sottoposta anch’essa alla competizione globale, è costretta a perseguire obiettivi di audience, prescindendo da qualsiasi preoccupazione educativa. Questo vale evidentemente in modo particolare per la TV: essa non si serve, se non in misura marginale, della mediazione, più tipicamente spirituale, della parola; il suo → linguaggio è quello, estremamente immediato e, in un certo senso elementare, delle immagini; da qui il suo influsso nell’educazione, nel bene e nel male. Naturalmente una valutazione serena ed oggettiva della comunicazione di massa deve prendere in considerazione anche quegli aspetti che sono, almeno potenzialmente positivi, in funzione di un intervento attivo, che mobiliti e potenzi il suo influsso educativo. Si impone quindi la necessità di una educazione alla gestione e alla fruizione della comunicazione di massa

che sia funzionale allo sviluppo equilibrato della → personalità. 3. La g. coinvolge profondamente anche le forme della convivenza umana. Essa tende a mettere sempre più in crisi le forme tradizionali della convivenza, largamente fondate su un certo localismo spontaneo, cioè su una forma di socialità di breve raggio, legata al fatto, per sé puramente fisico e casuale, del vicinato. Il vicinato generava, quasi per tendenza spontanea, il sentimento della appartenenza a un popolo, dotato di tradizioni, di una lingua e di una sua specifica cultura, che entrava a costituire l’identità dei soggetti, generando sicurezza interiore, forme di solidarietà e senso sociale e fornendo un potente sostegno ai compiti educativi della famiglia. Tutto questo viene in qualche modo sommerso dal potere aggregante della g. della convivenza; l’appartenenza si estende all’intero mondo, ma diluendosi ed indebolendosi, spesso in misura più che proporzionale. Viene meno nei giovani quell’apprendistato della vita sociale che era offerto in passato dalle convivenze di breve raggio, di loro natura più responsabilizzanti. L’anonimato sostituisce la forza coesiva del vicinato: il giovane appartiene al mondo, ma in una maniera diluita e impersonale che non mette minimamente in questione il fondamentale individualismo che, del resto, impregna tutta la cultura del mondo in cui vive. Si può dire che qualcosa di simile coinvolga anche l’educazione religiosa, che ha bisogno di convinzioni profonde e di esempi convincenti. 4. Non è dato ancora sapere verso quale futuro stia muovendosi il mondo globalizzato. Ma è certo che la g. carica di responsabilità nuove gli operatori dell’educazione; ma non si può ignorare che essa offre loro anche nuove occasioni ed opportunità educative globali che è loro compito non lasciar cadere. Bibl.: Mantovani M., Quale g., Roma, LAS, 2000; Bauman Z., Dentro la g. Le conseguenze sulle persone, Roma/Bari, Laterza, 2001; Zamagni S., «Una lettura socio-economica della g.», in G., comunicazione, tradizione. Progetto di ricerca interdisciplinare. Quaderni della Segreteria Generale CEI, Roma, CEI, 2002, 177-200.

G. Gatti

531

GLOTTODIDATTICA

GLOTTODIDATTICA Ambito pedagogico-didattico relativo all’insegnamento delle lingue. 1. Storia e concetto della g. La g. (il termine è stato introdotto in Italia da R. Titone negli anni ’60, ma già esisteva alcuni anni prima come titolo di una rivista polacca, «Glottodidactica»); solo da pochi decenni è assurta al ruolo di scienza nell’ambito delle scienze pedagogiche. Essa rappresenta un settore delle cosiddette «didattiche speciali», ossia delle metodologie d’insegnamento delle varie discipline scolastiche (didattica della storia, della geografia, della matematica, delle scienze, ecc.). Il suo oggetto specifico è lo studio teorico e la definizione metodologica dei procedimenti di insegnamento delle lingue (lingua prima e lingue seconde: queste intese in senso stretto come qualsiasi lingua usata come codice ufficiale nel medesimo ambiente sociopolitico, o in senso largo come le lingue straniere, ossia parlate al di fuori dei confini nazionali). La storia della g. risale a tempi remotissimi, addirittura a cinque millenni fa, con i Sumeri, gli Egizi e altri popoli dell’Asia Minore. Gli studi storici documentano l’evoluzione dei metodi di insegnamento linguistico da quelli «diretti» a quelli fondati sulla «grammatica e traduzione», a quelli più scientifici recenti, come i metodi «strutturali» o «audio-orali», ai metodi di tipo «funzionale-comunicativo». Ma i tentativi di definizione della struttura scientifica della g. sono assai recenti: essi risalgono alla fine degli anni ’50 e inizio degli anni ’60, in Italia, ad opera di R. Titone, seguito da G. Freddi e G. Porcelli. 2. Dimensioni scientifiche della g. La g. ha avuto inizio dal momento che si è fatto appello alle scienze della comunicazione come fonti di chiarimento dei processi di acquisizione della prima e delle seconde lingue. In particolare, l’accostamento multi e interdisciplinare ha utilizzato i dati delle teorie, dei modelli e dei dati di ricerca della linguistica (teorica, descrittiva e applicata), della psicologia (psicologia sociale, psicolinguistica, psicopedagogia), della sociologia (sociolinguistica, antropolinguistica, etnolinguistica), della cibernetica e della scienza informazionale, della metodologia della ricerca 532

sperimentale e operativa, ecc. Ovviamente, alla radice delle teorie scientifiche ha dovuto collocarsi una filosofia del linguaggio, capace soprattutto di spiegare la profondità e la ricchezza «umana» del linguaggio: donde il superamento delle teorie riduzionistiche del comportamentismo, ma anche del cognitivismo, in una visione integrale e integrata di orientamento «umanistico-personalistico» (→ Stefanini, Titone). Infine, la g. come scienza metodologica speciale, per assumere una valida funzionalità all’interno delle scienze dell’educazione, ha dovuto inserirsi nell’ambito del processo di formazione totale della personalità dell’educando, e mirare non soltanto all’acquisizione di abilità o competenze linguistico-comunicative, ma soprattutto a uno sviluppo delle potenzialità profondamente «umane» del parlante-discente (da quelle cognitive, a quelle affettive, sensomotorie, interazionali, morali). Bibl.: Titone R., G.: un profilo storico, Bergamo, Minerva Italica, 1980; I d., Orizzonti della g., Perugia, Guerra, 1990; Id., Avamposti della g. contemporanea, Ibid., 1991; Freddi G., G. Fondamenti, metodi e tecniche, Torino, UTET, 1994; Porcelli G., Principi di g., Brescia, La Scuola, 1994; Cangià C., L’altra g., Firenze, Giunti, 1998; Balboni P. E., Dizionario di g., Perugia, Guerra, 1999.

R. Titone

GOVERNANCE E EDUCAZIONE → Amministrazione scolastica

GRACIÁN Baltasar n. a Belmonte de Calatayud (Saragozza) nel 1601 - m. a Tarazona nel 1658, scrittore, pensatore e pedagogista gesuita spagnolo. 1. G. attualizza e rielabora la → Ratio studiorum in funzione delle coordinate ideologiche ed estetiche della sua generazione. Gli ideali pedagogici dell’umanesimo rinascimentale che furono incorporati nella Ratio, a distanza di un sec., secondo G., dovevano essere rivisti. Era necessario introdurre in essa i vocaboli tipicamente barocchi di acume, ingegno e concetto. Dopo aver seguito i paradigmi proposti nell’insegnamento gesuitico,

GRADUALITÀ

bisognava superarli e andare più in là, raggiungendo l’acutezza, l’ingegnoso, l’esemplare e l’espressione scelta; in altre parole, bisognava raggiungere l’originalità. La maggioranza delle opere di G. persegue questo scopo. El héroe (1637) espone le caratteristiche del gigante, dell’uomo sagace, bellicoso, filosofo, politico e cortigiano. Tre anni dopo G. pubblica El político, di cui, a suo parere, Ferdinando il Cattolico, il «non plus ultra degli eroici re d’Aragona» incarnò le virtù. Nel El discreto analizza attentamente concetti pedagogici importanti come genio, ingegno, esercizio, atteggiamento, cultura, ritmo di apprendimento, ecc. L’antico «conosci te stesso» socratico viene attualizzato da G., che ritiene che «il primo passo del conoscere è conoscersi». L’Oráculo manual y arte de prudencia (1647) è una raccolta di aforismi, che riassumono il suo pensiero tipicamente ignaziano: «Cerca di esercitare i mezzi umani come se non avessi quelli divini e quelli divini come se non avessi quelli umani» (aforisma 251). L’aforisma 300, l’ultimo, riassume in poche parole il suo ideale pedagogico: l’uomo santo, che rende l’uomo «prudente, attento, sagace, giudizioso, saggio, valoroso, moderato, completo, felice, credibile, veritiero e universale eroe. Tre s rendono felice: santo, sano e saggio». 2. Opera somma della riflessione pedagogica di G. è El criticón, che apparve in più tempi (1651, 1653 e 1657). I suoi protagonisti simboleggiano la vita dell’uomo naturale (Andrenio) che si lascia condurre dai suoi istinti ed impulsi e la vita dell’uomo educato e giudizioso (Critilo) che pensa prima di agire. È un’opera importante della pedagogia universale che ricorda la novella del filosofo autodidatta arabo-spagnolo Ibn Tufail e che precorre di oltre un sec. le idee di → Rousseau. Andrenio è il figlio della natura che agisce spontaneamente, è attratto dall’apparenza e si lascia trasportare dai piaceri della vita. Critilo è più cauto e non si fida delle apparenze; la sua guida è la diffidenza, la prudenza e la riflessione. El Criticón è il fustigatore universale della società di G., che si identifica con l’atteggiamento pessimista di Quevedo, di Cervantes, di Calderón, di Valdés e di quanti ritengono che il mondo è pura apparenza, puro inganno. L’unica cosa vera e resistente è la virtù, frutto di un’edu-

cazione accurata, l’unica cosa che resta dopo che è calato il sipario del grande teatro del mondo. Bibl.: Coster A., B.G., Zaragoza, 1947; Batllori M., G. y el barroco, Roma, 1958; Correa Calderón E., B.G.: su vida y su obra, Madrid, 1961; Batllori M. - C. Peralta, B.G. en su vida y en sus obras, Zaragoza, 1969; García Gibert J., B.G., Madrid, Síntesis, 2002; B.G. IV Centenario (1601-2001), Zaragoza, Instituto Estudios Altoaragoneses, 2003.

B. Delgado

GRADUALITÀ La g. (dal lat. gradus: passo, scalino, grado) in pedagogia indica uno dei principi metodologici dell’educazione e dell’insegnamento riconosciuto fin dall’antichità, soprattutto a partire da → Comenio che, con la nota formula «natura non facit saltus», la considerò come uno degli aspetti più essenziali del metodo secondo natura. 1. Tale sottolineatura fu ripresa in particolare da → Rousseau in polemica con le forme didattiche adultistiche, sostenendo che ogni età ha la sua educazione. Tale principio afferma l’esigenza di rispettare il processo naturale e cognitivo, «iuxta propria principia», quindi di procedere secondo i seguenti criteri: a) dal semplice al complesso; b) dal globale indifferenziato all’analitico differenziato: dal tutto alle parti (criterio importante nell’insegnamento della lingua sia materna che straniera, in particolare in quello della lettura e della scrittura; → globalismo didattico); c) dal noto all’ignoto; d) dal vicino al lontano (è un criterio applicato soprattutto nell’insegnamento storico e geografico); e) dal facile al difficile; f) dall’episodico e occasionale al sistematico; g) un procedimento ciclico e a spirale (utilizzato nell’organizzazione dei piani di studi per diversi gradi scolastici). 2. Una particolare accezione della g. è stata data da → Herbart e dai suoi discepoli con la teoria dei «gradi formali» (Formal-stufen), ossia la chiarezza (che esige la concentrazione), l’associazione (comparazione), il sistema e il metodo. Ziller scompone la chia533

GRAMMATICA

rezza in analisi e sintesi; Rein, invece, in preparazione e presentazione. → Willmann nella sua opera Didattica come teoria della cultura (1882-1889) approfondì il significato di questo principio che egli chiama «principio della graduazione», riferito soprattutto all’organizzazione del contenuto didattico, che deve rispettare sia l’aspetto/ordine storico sia quello psicologico delle discipline di studio. Con → Vygotskij e Bruner si afferma l’esigenza di una g. a spirale che consiste nello sviluppare le conoscenze in estensione e profondità. Bibl.: Willmann O., Didattica come teoria della cultura, Brescia, La Scuola, 1962; Titone R., Metodologia didattica, Roma, LAS, 31975.

H.-C. A. Chang

GRAMMATICA Il termine g. viene utilizzato con significati diversi: l’arte di scrivere correttamente una lingua e il libro con cui la si insegna; la scienza che studia la forma e la struttura di una lingua definendone e descrivendone gli elementi costitutivi. 1. I greci mostrarono un grande interesse per la g., considerata strumento necessario per un uso appropriato della lingua. Nelle scuole ellenistiche lo studio della g. si impartiva a tre livelli: a livello primario, da parte del grammatistés, secondario da parte del grammatikós e superiore da parte del sophistés o retore. La g. assunse grande importanza presso gli alessandrini e rese possibile la traduzione dell’A. T. in gr. (versione dei Settanta) oltre che la continuità delle antiche opere classiche greche e lo sviluppo delle tecniche di critica testuale e dei criteri di autenticità e di completezza. 2. In questo clima, esteso alle diverse città ellenistiche, lavorò Dionisio di Tracia, maestro di Rodi, autore della prima g. greca o manuale (téchne), che si diffuse con successo in tutte le scuole. Per la prima volta vengono analizzate le diverse parti del discorso e si identificano le vocali, le consonanti, le sillabe, i dittonghi, i nomi, i verbi, gli articoli, ecc. I latini ellenizzati ereditarono la g. di 534

Dionisio e l’applicarono allo studio del lat. nelle scuole. Nel Basso Impero eccelsero i contributi di Donato con la sua Ars grammatica e le Institutiones grammaticae di Prisciano. Alla semplice g. analitica del maestro di Rodi si aggiunsero la sintassi, lo studio dei casi delle preposizioni latine, gli idiotismi, i barbarismi, l’ortografia, la dizione, la metrica, ecc. La g. di Prisciano (m. nel 526), professore che insegnava lat. a Costantinopoli a studenti greci, fu utilizzata come testo scolastico nel → Medioevo da Boezio, s. Benedetto, Cassiodoro, → Isidoro di Siviglia e da Beda il Venerabile, che l’integrarono nei loro testi pedagogici come una parte importante. 3. La considerazione per la g. continuò durante il Rinascimento e fino al sec. XVII, periodo in cui il lat. fu a poco a poco abbandonato nelle scuole popolari a favore delle g. delle lingue nazionali utilizzate sia nelle scuole di → La Salle, sia in quelle di Port-Royal. Nel sec. XIX si insegnò in tutte le scuole europee la g. della lingua nazionale. Bibl.: Chomsky N., Aspects of the theory of syntax, Cambridge, Mit Press, 1965; R iché P., Les écoles et l’enseignement dans l’Occident chrétien de la fin du Ve siècle au milieu du XIe siècle, Paris, Montaigne, 1979; M arrou H. I., Storia dell’educazione nell’antichità, Roma, Studium, 1984; Mourelle de Lema M., Elio A. de Nebrija y la génesis de una gramática vulgar, Madrid, Grugalma, 2006.

B. Delgado

GRAMSCI Antonio n. ad Ales (OR) nel 1891 - m. a Roma nel 1937, intellettuale e uomo politico italiano. 1. Vita e opere. Di famiglia impiegatizia, con una borsa di studio frequenta la facoltà di lettere di Torino (1911). Non termina il curricolo, si avvicina ai socialisti e si dedica pienamente alla politica. Fonda, con amici, il settimanale (poi quotidiano) «L’Ordine Nuovo» (1919) e nel 1921 partecipa alla fondazione del partito comunista, di cui diviene uno dei dirigenti. Nel 1922 va a Mosca in rappresentanza del partito presso il comitato esecutivo della II Internazionale. Viene elet-

GRAMSCI ANTONIO

to deputato (1924), ma, in seguito ai provvedimenti speciali, viene confinato e nel 1928 è condannato a più di 20 anni e destinato a Turi. In carcere legge, riflette e scrive le Lettere e i Quaderni dal carcere. Nel 1934 chiede un periodo di libertà vigilata, che gli è concesso, ma nell’aprile del 1937 peggiora e si ricovera a Roma, dove muore il 27, per emorragia cerebrale. 2. Il pensiero pedagogico. Premesso che l’impegno principale di G. era di ordine politico, la sua pedagogia, se così si può dire, si regge e si nutre, fino a identificarsi, di quella politicità. Infatti, mentre per il marxismo classico erano determinanti i rapporti di produzione e la struttura economica, per lui diventa risolutiva un’unità organica, dinamica, anzi dialettica e operativa di struttura e sovrastruttura, costituente il «blocco storico». Ogni struttura storica concreta è animata da una sovrastruttura e, quando essa è dominante, esercita un’egemonia. Finora questa è stata nelle mani della classe-padrona, soprattutto in Italia, dove non ci sono stati eventi storici rivoluzionari e innovativi. Occorre un ribaltamento, per cui l’«egemonia» passi nelle mani della classe lavoratrice (operaia e contadina), dando il via a una società democratica. Ciò non è possibile tuttavia, se il proletariato non si impadronisce della cultura, che poi dovrà imporre, e a tal fine diventa insostituibile l’opera dell’educazione, che richiede l’intervento di «intellettuali organici», inseriti cioè nella massa per farsene interpreti e promotori, in un rapporto di reciprocità dialettica. Infatti l’uomo è «prodotto storico» dei rapporti sociali animati da una volontà di intervento, e tale prodotto è portatore di una cultura, che per diventare egemone ha da essere autonoma, organica, omogenea e criticamente rapportata alle altre. In questa linea si opera una «formazione storica» che, libera da ogni determinismo e innatismo, darà luogo all’uomo nuovo e alla società nuova, all’insegna di una libertà disciplinata, contrapposta a ogni forma di spontaneismo libertario («sgomitolamento»). La disciplina infatti «limita l’arbitrio e l’impulsività», ma «non annulla la personalità e la libertà»; cosicché un «pizzico di coercizione» è di fatto indispensabile per la vita sociale, che richiede un conformismo dinamico, non imposto, ma proposto e accettato. Su

queste basi si articolano le sue proposte per la scuola, prima funzionale alla subalternità della classe proletaria, che dovrà essere unitaria, al di sopra della contrapposizione tra cultura tecnica e umanistica, consentendo a tutti l’accesso a un ulteriore sviluppo culturale, al contrario della «riforma Gentile», classista e borghese. La scuola dell’obbligo deve essere fondamentalmente umanistica, nel senso di un nuovo umanesimo, prassico (ideale = «moderno Leonardo da Vinci»), e, al tempo stesso, disinteressata e formativa. In questo sta l’avvio della nuova società, guidata dal «nuovo principe», il partito, non dirigistico e impositivo, ma collaborativo e dialettico, teso all’elevazione della classe operaia. Le stesse tesi sono fondamentalmente riprese nelle sue Lettere, mirate, in particolare, all’educazione dei suoi figli. 3. Valutazione. G., da anni studiato e apprezzato anche all’estero, offre una reinterpretazione del marxismo (discussa specie in Italia), che identifica con la «filosofia della prassi», accentuandone il carattere storicistico e dunque dialettico, di concretezza e relatività alle differenti situazioni. In tale prospettiva acquista più pregnanza anche la dimensione pedagogica (→ marxismo pedagogico), non autonoma, ma inscindibilmente correlata alla sua lettura del reale umanostorico. Bibl.: a) Fonti: le Opere giovanili di G. sono raccolte in 5 voll., Torino, Einaudi 1954-1971; le Lettere dal carcere, Ibid., 1947; Quaderni dal carcere, l’ediz. critica a cura di V. Gerratana, 4 voll., Ibid., 1975. b) Studi: fino al 1967, la bibliografia è raccolta in: G. e la cultura contemporanea, 2 voll., Roma, Editori Riuniti, 1970, vol. II, 477-544; Cammett J. M., Bibliografia gramsciana 1922-1988, Ibid., 1991. Quanto alla pedagogia: Lombardi F., Idee pedagogiche di A.G., Brescia, La Scuola, 1969; Manacorda M. A., Il principio educativo in G.: americanismo e conformismo, Roma, Armando, 1970; R agazzini D., Leonardo nella società di massa - Teoria della personalità in G., Bergamo, Moretti Honegger, 2002; Baratta G., Le rose e i quaderni. Il pensiero dialogico di A.G., Roma, Carocci, 2003.

B. A. Bellerate

GRASSO Pier Giovanni → Facoltà di Scienze dell’educazione → Sociologia

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GRECIA: EDUCAZIONE

GRECIA: educazione L’apparizione della cultura greca segna un vero salto di qualità dopo le grandi culture orientali mesopotamiche ed egiziana. Essa costituisce la culla di tutta la tradizione occidentale; in essa ancora ci riconosciamo per gli aspetti essenziali della nostra attuale civiltà. 1. Gli inizi. Il primo autore a cui possiamo fare riferimento è il poeta → Omero, ma i contenuti dei poemi omerici e la loro elaborazione ci rimandano a un periodo anteriore, il cosiddetto Medioevo greco. Dobbiamo risalire al IX sec. a.C. per le origini della cultura greca, che si estese nel bacino in cui era fiorita la precedente cultura micenea. Nella sua formazione e nel suo sviluppo influiscono le tre stirpi greche, portatrici di indoli e caratteristiche culturali diverse, pur convergenti nello spirito ellenico: gli Ioni, i Dori e gli Eoli. Creatori di questa cultura sono via via i poeti, i filosofi, i politici. 2. La centralità dell’uomo. L’elemento differenziante la cultura greca dalle culture preelleniche è la centralità dell’uomo, per cui possiamo dire che la G. è all’origine di una vera cultura umanistica; si è perciò potuto chiamare il popolo greco il popolo antropoplasta per eccellenza (Jaeger, 1991). Vi possiamo evidenziare la scoperta (l’intuizione) dell’intima natura e dignità dell’uomo, cantata già dai primi poeti con la suggestività del mito e la forza dell’epica, e approfondita successivamente dalla speculazione filosofica; la celebrazione dell’uomo nelle varie espressioni della letteratura e dell’arte, come pure nelle celebrazioni panelleniche, ricche di sport e di cultura; la creazione della città dell’uomo nelle poleis greche (tipica l’Atene di Pericle nel V sec.) e nella graduale affermazione della democrazia; la formazione dell’uomo, in quella → paideia (formazione dell’uomo greco, appunto) che ha concretizzato nelle sue varie fasi e ha tramandato quella stessa cultura. La paideia è inscindibile dalle varie espressioni e dai vari contenuti di quella cultura, come pure dall’evoluzione della sua storia. In questo senso poeti, filosofi e politici sono gli educatori della G. In questa storia distinguiamo un periodo arcaico (non solo nel senso di antico, ma anche 536

in quello di arché come principio generatore di quei paradigmi di umanità che resteranno fondamentali per tutta la storia greca); un periodo aureo nella creatività del V e IV sec. a.C.; e un periodo di diffusione e consolidamento, il periodo ellenistico, dopo la perdita dell’indipendenza delle città greche con l’occupazione macedone alla fine del IV sec. a.C. 3. La formazione dell’uomo greco. La formazione dell’uomo greco mira alla sua completezza: tutto l’uomo in tutte le sue potenzialità, in un intento di armonia, che è già presente nell’ideale dell’Eroe cantato da Omero, ma che si andrà perfezionando, superando fasi di predominio di alcuni aspetti, come quello militare e quello ginnico sportivo. Questa totalità è espressa in alcuni binomi cari alla tradizione della paideia greca. Il primo è «ginnastica e musica». Con ginnastica si indica la cultura del corpo, che caratterizza la formazione greca in tutte le sue fasi, anche se con diverse accentuazioni; la ginnastica ha come maestro il pedotriba. Con musica, oltre al culto della musica in senso stretto, si indica tutto l’ambito della cultura, cioè delle discipline protette dalle muse; nella scuola ha come maestri il citarista, il grammatico (didàskalos) e il retore. Un secondo binomio tocca più intimamente la portata della paideia, con due termini che qualificano l’idealità formativa greca: il «bello» e il «buono», rispettivamente kalòs e agathòs. «Buono» indica la realizzazione di quel valore dell’uomo che i Greci fin dall’antichità omerica chiamavano areté, e che formava l’anèr agathòs. In un primo momento si ritenne che il vero valore umano si potesse realizzare solo nell’aristocrazia (àristos, superlativo di agathòs), ma con l’affermazione della democrazia e con l’apporto caratteristico dei → Sofisti nel V sec. a.C., si estende gradualmente a tutti i cittadini greci, superando quella che è stata chiamata la polemica sulla insegnabilità dell’areté, cioè sulla possibilità di conseguire areté per via di educazione «Bello» – concetto così caratteristico del senso estetico e dell’arte e della letteratura greca – indica in primo luogo la bellezza fisica nella cura del corpo e nel culto della corporeità, pur nella ricerca della completezza della formazione; ma raggiunge, particolarmente nell’apporto dei filosofi, quel valore di interiorità che lo

GRUPPI DI ASCOLTO

rende inscindibile e in parte quasi sinonimo del valore umano espresso dal termine agathòs. Perciò i due termini vengono fusi in quello più comprensivo di kalokagathìa (unione di kalòs e agathòs). Come si vede, il greco guarda all’ideale di uomo (in certo senso all’idea); ciò porta a una minore attenzione alla realtà del bambino e alla processualità del fatto educativo, con la conseguente caratteristica di → adultismo della pedagogia greca. Altra conseguenza è il considerare elementi di paideia solo gli aspetti liberali della vita (lo sport, le lettere, la musica, la filosofia, la politica) non le pur fiorenti attività produttive e commerciali. Di questa paideia della kalokagathìa la città di Atene resta la capitale e la maestra, anche quando la rivale dorica Sparta, dalla seconda metà del VI sec. a.C., si chiude in un rigido militarismo e si emargina dall’evoluzione democratica della paideia. 4. Paradigmi ideali di paideia. Si è accennato a una sostanziale unitarietà dell’ideale greco. In essa si deve però rilevare la diversità delle realizzazioni, sia per l’evolvere stesso della cultura greca, sia per l’originalità dell’apporto dei vari poeti e pensatori. Si può così cogliere la varietà di paradigmi, che interpretano e arricchiscono il quadro della paideia: diversi modi di attuare l’ideale dell’anèr agathòs, sia diacronicamente, sia sincronicamente, con l’accentuazione o anche la contrapposizione di diversi elementi dell’ideale greco, nella diversa ricerca dell’armonia della formazione. Dal loro insieme si ha la visione complessa e ricca della paideia. Un rapido accenno ci porta ad evidenziare i seguenti paradigmi ideali: a) quello dell’Eroe cantato da Omero (sec. VIII-VII), che rimane paradigma fontale per tutta la storia della paideia; b) quello del contadino, cantato da → Esiodo (sec. VII), con intento educativo, ma con applicazione diversa da quella di Omero: l’areté del lavoro; c) quello del soldato, cantato nel sec. VII da Tirteo a Sparta e da Callino a Efeso; d) quello dello sportivo, cantato nel sec. V da Pindaro; e) quello del cittadino: ideale comune e prioritario, con accentuazioni diverse, a tutte le correnti di paideia, a cominciare dal politico/poeta Solone (Arconte ad Atene nel 594 a.C.); f) quello del retore, forgiato dai Sofisti del V sec. e perfezionato da → Isocrate (V-IV sec.); g) quello del filosofo, che ha avu-

to in → Platone la sua espressione più elevata. Nell’ideale retorico e in quello filosofico si affermano nel IV sec. le due scuole, in parte contrapposte, che raccolgono l’apporto di tutta l’evoluzione della paideia e ne tramandano l’eredità ai secoli successivi. 5. La scuola. Nell’attuazione dell’educazione greca, in particolare con il suo allargamento popolare all’affermarsi della democrazia, una parte importante ha l’istituzione della scuola. Essa inizia alla fine del V sec. e ha la sua più compiuta organizzazione nel periodo ellenistico, nei tre gradi: la scuola primaria (o scuola del didàskalos); la scuola secondaria (o scuola del grammatikòs); la scuola (superiore) di retorica. A queste scuole, più comuni, se ne aggiungono altre di tipo più elitario, in particolare le scuole di filosofia e quelle di medicina. Attraverso la diffusione della scuola, la cultura greca raggiunge la massima espansione, anche con l’appoggio dell’universalismo di Roma, conquistata essa stessa da quella cultura (→ storia della scuola). Nel clima culturale della paideia appare il → Cristianesimo, che in essa ha la prima → inculturazione, accogliendone molti aspetti positivi e dandovi un proprio apporto per una più completa formazione dell’uomo in quella che S. Clemente Romano chiama en Christò paideia. Bibl.: Galino M. A., Historia de la educación. Edades antigua y media, Madrid, Gredos, 1988; Golden M., Children and childhood in classical Athens, Baltimore, Maryland, John Hopkins University Press, 1990; Jaeger W., Paideia. La formazione dell’uomo greco, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; M arrou H. I., Storia dell’educazione nell’antichità, trad. it. di U. Massi, Roma, Studium, 1994; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi, Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. 1: Dall’educazione antica alle soglie dell’Umanesimo, Torino, SEI, 2004.

M. Simoncelli

GREGORIO MAGNO → Medioevo

GRUPPI DI ASCOLTO 1. In senso lato il nome indica strutture pubbliche di attenzione ai bisogni altrui. In un 537

GRUPPO

significato più preciso, qui accolto, comprende il radunarsi di un certo numero di persone adulte, intorno alla → Bibbia per una lettura credente, tramite in particolare la lectio divina. È un fenomeno che con nomi diversi si è venuto affermando a seguito del Vaticano II, segnatamente in America Latina (comunità ecclesiali di base) e progressivamente si sta estendendo in Africa ed Asia, mentre in Europa si manifesta in ambito cattolico e protestante. In Italia, i g.d.a., che si radunano sovente nelle case, esprimono il desiderio della Parola di Dio attinta alla sorgente della Scrittura, senza eccessive mediazioni catechistiche. Nascono con una certa spontaneità, dal basso, come si dice, specialmente nelle grandi città: se ne contano diverse migliaia nella diocesi di Milano, oltre seicento a Venezia, un migliaio ed oltre a Firenze, altrettanti a Roma. Una variante ancora più strutturata è data dai → movimenti ecclesiali. 2. Fattori che qualificano i g.d.a. sono quelli propri del → g. e della dinamica di esso: l’atteggiamento soggettivo dei partecipanti (precomprensione), la struttura del piccolo g., il metodo di lavoro. Alla luce dell’esperienza, questi appaiono i punti-forza: la coscienza di fede e lo stile di fraternità, un competente animatore del g., un approccio non casuale, ma programmato, al testo sacro, una buona esegesi, la presa di parola dei partecipanti. In certe diocesi, per favorire la comunione ecclesiale, si fa riferimento ad un libro biblico comune a tutti indicato dal Vescovo. Nella misura in cui questi fattori sono fragili, anche l’esperienza vacilla e muore. Per questo nella Chiesa italiana è costituito un settore nazionale di apostolato biblico che organizza corsi di formazione degli animatori biblici (La Verna, Rho), incrementa la formazione dei g.d.a. nelle singole comunità, affronta nodi teologici e pastorali quali il rapporto tra Bibbia e Catechismo, tra Bibbia e vita di fede, tra Bibbia ed impegno sociale. Bibl.: Sacerdoti di Varese, I g.d.a. Corso base per la formazione degli animatori, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1994; Barbieri G. F., Alla scuola della Parola. Sussidio per i g.d.a., Ibid., 1995; Bissoli C., «Va’ e annunzia» (Mc 5,19). Manuale di catechesi biblica, Ibid., 2006.

C. Bissoli

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GRUPPO Definizioni troppo generiche di g., inteso per es. come sinonimo di collettività, si dimostrano inutilizzabili proprio per la loro indeterminatezza. Occorre perciò distinguere tipi diversi di g. e differenziarli rispetto ad altre forme aggregative. Riprendendo e integrando una tipologia ormai «classica» (Cooley, 1909), un’importante distinzione passa fra g. primario e g. secondario. 1. Il «g. primario». È un insieme ristretto di persone (→ famiglia, g. di amici, g. di adolescenti, talvolta «fermenti» collettivi in ambito religioso o politico, ecc.) che interagiscono in misura intensa, secondo moduli solidaristici di origine emotiva più che razionale. Le piccole dimensioni rafforzano l’interdipendenza fra i membri; consentono la possibilità di incontri faccia a faccia (Homans, 1950), la conoscenza e la comunicazione diretta; favoriscono inoltre rapporti relativamente intensi e durevoli, limitando così la dispersione (cioè l’interazione fra membri persiste oltre i momenti di incontro formali). La rilevanza dei rapporti interpersonali, la condivisione di atteggiamenti e di stili di vita, la percezione di se stessi come persone piuttosto che per i ruoli svolti, insomma l’identificazione con la totalità del g. spesso prevalgono su altri scopi e finalità. Uguale rilevanza riveste la percezione di appartenere al g., di condividere con gli altri membri alcune importanti qualità (età, affiliazione religiosa...), di contribuire alla solidarietà interna. 2. Il «g. secondario». Il g. secondario (associazioni, società sportive, partiti, «g. di interesse», istituzioni, ecc.) invece è maggiormente esteso, organizzato in maniera più formale e più differenziata, basato su un’interazione meno «calda» e meno profonda. Inoltre esso si prefigge compiti specifici e «istituzionalizzati», proiettati soprattutto verso l’esterno, da conseguire secondo criteri di efficacia/efficienza, anche a costo di abbassare il livello di gratificazione interna. Poiché il significato di «g. secondario» comprende anche quello di «associazione» (→ associazionismo), ad essa rinviamo, limitando qui la definizione di g. alle aggregazioni di natura «primaria». Naturalmente la distinzione primario/secondario non è netta,

GRUPPO

poiché vi è sempre una valenza primaria nel g. secondario e viceversa. Ad es., il g. primario condivide con altre aggregazioni (folla, pubblico...) i caratteri di fluidità, flessibilità, transitorietà, ma ha anche un certo grado di sistematicità, regolazione, coordinamento funzionale che lo avvicina invece alle aggregazioni secondarie. In seno a una aggregazione secondaria possono costituirsi articolazioni più vicine al tipo primario, come nel caso di piccoli g. che siano emanazione, più o meno diretta, di istituzioni religiose, culturali, sportive, ecc. (Amerio et al., 1990,42). Altre aggregazioni sono di difficile classificazione, come per esempio le «cerchie sociali» che intrecciano rapporti primari (relazioni amicali/parentali) e obiettivi proiettati all’esterno (v. per es. network politici, forme di selfhelp, ecc.). Per queste forme particolarmente ibride si potrebbe forse parlare di g. quasi-primari. 3. I piccoli g. Sono stati molto studiati, spesso nella convinzione che ciò fosse il modo migliore per comprendere le «forme elementari del comportamento sociale» e per estendere da lì la comprensione della società in generale. Sembra però illusorio pretendere di individuare un punto di vista privilegiato nell’analisi della società. Volta a volta il g. è stato analizzato per studiare le aggregazioni di diseredati (Scuola di Chicago), l’organizzazione del lavoro (Roethlisberger-Dikson, 1939), la conversazione quotidiana e i processi comunicativi (Bales, 1950), le reti di rapporti (Moreno, 1943), le dinamiche interne (Lewin, 1951), ecc. Anche i g. giovanili sono stati studiati molto: inizialmente, negli Stati Uniti degli anni ’30-’40, l’attenzione si è rivolta quasi esclusivamente alle bande o ai g. di amici, considerati espressione, rispettivamente, delle fasce marginali e delle classi medie. In un momento successivo l’interesse di sociologi, antropologi, psicologi, pedagogisti ha travalicato i confini americani e, nel contempo, si è esteso anche a molte altre forme di g. o di associazioni. 4. La diffusione dei g. Probabilmente questa estensione dell’analisi ha accompagnato la diffusione di g., propagatisi per il concorso di varie condizioni. Una di queste può essere la contiguità spaziale, le distanze territoriali oggi ridotte anche grazie all’incremento della

comunicazione e della mobilità. Spesso i g. si basano su questa contiguità o definiscono un loro territorio di appartenenza che delimiti anche spazialmente i confini con l’outgroup. Fra le cause della diffusione dei g. vanno ricordati anche il diffondersi di un senso di solitudine, il disagio rispetto all’inadeguatezza di altre agenzie (per es. la famiglia), la «freddezza» di altre aggregazioni, il senso di impotenza rispetto alla complessità sociale o riguardo alle decisioni dei grandi apparati, delle istituzioni collocate nei livelli più alti dell’organizzazione sociale. Tutto ciò può spingere il singolo a entrare in un g. per immergersi nelle correnti «calde» dei rapporti interpersonali; per trovare risposte adeguate ai propri bisogni giudicati importanti; per realizzare azioni concrete e immediate, controllabili direttamente. Le motivazioni che presiedono all’ingresso in un g. sono quindi abbastanza distanti da ragioni esplicitamente utilitariste. «Quando gli individui che scoprono di avere degli interessi in comune si riuniscono, non lo fanno solo per difendere i loro interessi, ma per essere uniti, cioè per non sentirsi spersi fra avversari, per sentire il parere della comunità, per sentirsi divenuti, di molti, uno solo» (Durkheim, 1971, 21). 5. Le funzioni del g. Secondo Simmel (1908), nella società si intrecciano due distinte esigenze di natura psicosociale: da una parte l’uniformità, la coesione, l’uguaglianza, lo «essere per gli altri», la fusione nel g. di appartenenza; dall’altra, la volontà di distinguersi, di segnare una differenza dagli altri appartenenti, di «essere per sé». Il rapporto fra queste due opposte esigenze è di natura dialettica, priva di conciliazione definitiva; ma proprio il conflitto fra i due opposti consente, sempre secondo questo A., la formazione dell’individuo. In particolare, aprirsi oltre la cerchia familiare, partecipare a più g. esterni ed intersecantisi, vivere quella dialettica svolgono un’importante funzione nella formazione dell’individualità. Sulle orme di Simmel troviamo altri autori, più recenti (per es. Crespi, 1985, 381 ss.) Per le sue caratteristiche, il g. può diventare spazio di spontaneità, creatività, affettività; l’intensità dei rapporti interpersonali può sollecitare una disposizione più matura e responsabile verso gli altri, con positive conseguenze su un assetto più armonico della sfera emotiva. 539

GRUPPO

Una dialettica interna al g. e meno vincolata da preoccupazioni formali può facilitare nel soggetto una maggiore criticità → Freud (1921) sottolinea inoltre l’importanza della funzione di → identificazione con la quale si stabilisce la solidarietà tra i membri del g., che si assimilano l’uno all’altro sia per effetto delle costrizioni normative del SuperIo, sia in conseguenza degli «istinti» e delle pulsioni dell’Es. Per agevolare ulteriormente le funzioni formative del g., può svolgere un ruolo importante il leader. Egli è sempre una figura strategica per l’influenza che esercita e per la distribuzione dell’autorità e delle informazioni. Lippit-White (1943) e → Lewin (1951), a proposito dei g. di ragazzi, sottolineano proprio la necessità di una leadership «democratica»: animato da intenti partecipativi e pedagogici, il leader sollecita la massima collaborazione, accetta critiche e suggerimenti, favorisce il dialogo. Egli può contemperare positivamente due necessità: tutelare le norme del g. (codificate o latenti che siano) per garantire la conformità e la prevedibilità dei comportamenti; ma deve anche introdurre quel tanto di innovazione che consenta al g. di adattarsi costantemente alla realtà esterna in mutamento. 6. La funzione pedagogica del g. Le potenzialità possibili in questo tipo di aggregazioni e nei loro leader spiegano perché spesso si auspica che l’educazione venga svolta proprio attraverso g. Essi facilitano nei loro aderenti il cambiamento di opinioni o di atteggiamenti (Asch, 1952): quando il singolo membro avverte un desiderio di riconoscimento reciproco, di sicurezza, egli è disposto a seguire i riferimenti, i modelli che prevalgono nel g. Al punto 2 è stata inoltre richiamata la capacità di coinvolgimento che il g. può sviluppare. Solo in casi estremi questo coinvolgimento finisce per annullare la personalità individuale, mentre è sicuramente più facile cadere in un → conformismo comunque non patologico. Una forte identificazione, il timore nel singolo di lacerare la coesione interna o di perdere con il g. anche la propria identità individuale, spostano le ragioni dell’adesione al g. dalla simpatia fra aderenti alla difesa dell’unità fine a se stessa. In alcuni casi, per le stesse ragioni difensive, le norme del g. diventano oggetto di attaccamento affettivo, tanto da suscitare reazioni 540

sproporzionate contro coloro che le violano o tentano di modificarle. Se queste dinamiche si diffondono fra i vari aderenti, il g. si irrigidisce e ciò va a scapito della sua proiezione verso l’esterno, della sua funzionalità e della sua capacità di incidenza sulla realtà (Amerio et al., 1990, 38). Soprattutto in situazioni di crisi, di forte disorientamento, di mutamenti inquietanti, alcuni g. (primari e quasi-primari) offrono al singolo l’occasione di ri-socializzarsi, cioè di abbandonare completamente i vecchi riferimenti e di riscrivere daccapo le proprie mappe cognitive fino ad una trasformazione apparentemente totale della propria soggettività: in questi casi il g. viene organizzato in maniera molto simile alle agenzie di « socializzazione primaria», quali la famiglia, per cercare di ripeterne l’efficacia. Agli occhi del singolo il g. diviene così fonte di costanti conferme, mondo-base, realtà per eccellenza, confine marcato rispetto all’esterno, luogo di interazioni concentrate soprattutto sugli agenti più significativi di questa ri-socializzazione, spazio simbolico nei cui confronti il singolo stabilisce rapporti di identificazione forte e di stretta dipendenza emotiva (BergerLuckmann, 1969). Se alcune condizioni della nostra società favoriscono questi esiti, altre producono tendenze opposte. Infatti oggi si diffonde anche il fenomeno delle «multiappartenenze» del singolo, il quale aderisce a più aggregazioni evitando, spesso intenzionalmente, di investire gran parte di se stesso in un’unica appartenenza. Inoltre egli può sempre mantenere una distanza dal suo ruolo nel g. e avere la capacità di negoziare le interpretazioni, i ruoli, le aspettative; solo così sarà in grado di dominare se stesso, di offrire un apporto efficace agli altri aderenti, di padroneggiare situazioni impreviste. Infine, tranne che in momenti «forti» durante i quali il g. si ricompatta in maniera decisa, l’identificazione è un fenomeno discontinuo e distribuito irregolarmente fra i membri. 7. I g. giovanili. Molti g. sono formati da giovani che vi trovano un motivo di grande interesse. Le considerazioni generali fin qui proposte valgono a maggior ragione per i g. giovanili, con qualche accentuazione ulteriore. Per effetto dei modelli di socializzazione liberale prevalsi dal secondo dopoguerra in Occidente, la personalità giovanile richiede

GRUPPO: DINAMICA DI

un sostegno del g., una difesa necessaria ad un ego non abbastanza strutturato per far fronte ai rapporti sociali che coinvolgono singoli segmenti di ruolo piuttosto che l’intera persona. Specialmente nelle nuove generazioni il g. è un insieme di riferimenti significativi (eventuale presenza di adulti che «guidano» il g., disponibilità di uno spazio fisico a propria esclusiva disposizione, punto di riferimento territoriale non casuale, norme, stili, gerghi comuni). Il g. è vissuto come la prima grande occasione di autonomia dal mondo adulto; un’evoluzione rispetto ai g. precedenti formati da bambini o pre-adolescenti; un banco di prova di quelle cooperazioni e conflitti in cui il giovane entrerà con la vita di adulto; un’importante occasione per maturare competenze comunicative, valutative, gestionali, relazionali. I g. dunque assumono un valore cognitivo-costruttivo come luogo di apprendimento nei processi di sviluppo e di formazione identitaria. La funzione di socializzazione svolge un ruolo preminente (anche se non sempre esplicito) fra le finalità interne, spesso in maniera autonoma rispetto ad altre agenzie di socializzazione: tale funzione, d’altra parte, non si contrappone radicalmente alla socializzazione familiare, scolastica, ecc. ma se ne differenzia, in un gioco di costante negoziazione fra generazioni (Amerio et al., 1990). Pur con tutti i rischi richiamati, il g. può ridurre la tensione rispetto ad una pressione esagerata dei genitori e costituire un valido fattore di maturazione rispetto all’egocentrismo e all’egoismo infantile. Bibl.: Durkheim É., Division du travail social, Parigi, Alcan, 1893; Simmel G., «Die Erweiterung der Gruppe und die Ausbildung der Individualität», in O. R ammstedt, Georg SimmelGesamtausgabe, XI, Frankfurt a. M., Suhrkamp (trad. it. Individuo e g., Roma, Armando, 2006); Moreno J. L., Who shall survive? Foundations of sociometry, group psychotherapy and sociodramma, New York, Beacon House, 1943; Bales R. F., Interaction process analysis: a method for the study of small groups, Cambridge, AddisonWesley, 1950; Homans G. C, The human group, New York, Harcourt Brace, 1950; Lewin K., Field theory in social science, New York, Harper, 1951; Asch S. E., Social psychology, New York, Prentice-Hall, 1952; A merio P. et al., G. di adolescenti e processi di socializzazione, Bologna, Il

Mulino, 1990, 31-51; Crespi F., Le vie della sociologia, Ibid., 1994; Paroni P., Un porto in strada: g. giovanile e intervento sociale, Milano, Angeli, 2004.

P. Montesperelli

GRUPPO: dinamica di Per dinamica di g. si intende lo studio della natura dei g., le leggi del loro sviluppo, le relazioni tra individui e g., le relazioni reciproche tra i g. e le loro organizzazioni. Altre due accezioni trovano notevole consenso tra gli studiosi: a) la dinamica di g. come ideologia politica riguardante il modo di organizzare e dirigere i g.; acquistano importanza in questa concezione la leadership democratica, la partecipazione di tutti nel processo decisionale, i vantaggi della mutua collaborazione sia per l’individuo che per la società in generale; b) la dinamica di g., soprattutto dopo gli anni ’70, è stata vista spesso come processo di sensibilizzazione, di esperienze di g., di discussioni non strutturate che dovrebbero portare alla capacità di comprensione reciproca e di apertura in un ambiente pluralistico (Scilligo, 1992). 1. La produttività nel g. Le persone si inseriscono nei g. per ragioni funzionali. Tipiche ragioni funzionali sono le seguenti: 1’ → appartenenza, cioè per ritrovarsi con persone ed amici; il confronto sociale, per avere un luogo di riferimento nelle situazioni di incertezza; la realizzazione di → valori, per sentirsi protette e accompagnate nell’attuazione di valori importanti; la produttività, per vantaggi di lavoro mediante la divisione dei compiti; la → stima di sé, per lo status proveniente dall’appartenenza; la protezione, per difendersi da minacce esterne. Spesso solo la presenza di altri aumenta la produttività se i compiti sono relativamente facili (l’effetto della facilitazione sociale), ma la produttività tende a diminuire se i compiti sono difficili (l’effetto della inibizione sociale) (Zajonc, 1965). Il lavoro fatto interagendo con altri viene ritenuto di solito come vantaggioso, anche se non è sempre così: spesso infatti si produce il fenomeno della deresponsabilizzazione di alcune persone nel g. Nel lavoro di g. si possono avere risultati più efficienti 541

GRUPPO: DINAMICA DI

se i compiti sono suddivisibili e si introduce un’adeguata organizzazione, altrimenti il lavoro di g. può diminuire la produttività. Perché il g. sia produttivo, occorre adeguata motivazione e organizzazione. Se i membri del g. hanno bassi livelli di difensività, si abbassano i livelli di esclusione competitiva dell’altro e aumenta la capacità di collaborazione assertiva che tiene conto della protezione di sé e dell’altro. 2. La struttura del g. Nei g. interattivi molto presto si produce struttura, cioè avviene una suddivisione di ruoli definiti da precise regole di comportamento che stabiliscono le norme che deve osservare la persona che occupa il ruolo; ad es. in un ristorante ben presto ci sarà chi fa da cuoco, chi fa da cassiere, chi prende gli ordini dai clienti, chi li serve. Per mantenere la struttura del g. sono importanti la comunicazione e l’attrazione tra i membri. Normalmente emergono due capi diversi: il capo che si incarica dell’organizzazione e il capo che si cura delle relazioni tra le persone (Bales e Slater, 1955). 3. Il capogruppo o leader. Quando i g. crescono nella numerosità dei membri, si sviluppa necessariamente una struttura ed emerge un capogruppo. Di solito per l’affermarsi del capogruppo, oltre alla numerosità dei membri (= più di quattro o cinque persone), occorre anche che il g. abbia la sensazione che può riuscire nel suo compito, che la riuscita è apprezzata, ed è presente una persona che sia in grado di assumersi la funzione di leader. Il g. nel creare il leader rinuncia a una parte del potere e quindi il leader emerge solo sotto condizioni particolari, ad es. se c’è il pericolo che non si riesca a portare a termine i compiti che il g. si propone e se c’è bisogno di distribuire equamente i risultati del lavoro di g. Oggi si sa anche (Fiedler, 1978) che l’emergere del leader e lo stile richiesto nel leader dipende dalle caratteristiche della situazione. Tipicamente si riscontrano due tipi di leader, quello orientato alle relazioni con le persone e quello orientato alla soluzione dei problemi riguardanti i compiti del g. Le situazioni possono essere favorevoli, in quanto i compiti sono relativamente semplici, il rapporto leader-membri è buono e il leader ha potere nell’ottenere benefici per i membri; se queste condizioni non si verifi542

cano allora le condizioni sono sfavorevoli. In generale nelle condizioni molto favorevoli e molto poco favorevoli emerge un leader capace di organizzare e gestire i compiti, mentre invece nelle situazioni mediamente favorevoli tende ad emergere il leader che è capace di gestire le relazioni tra le persone. I g. di solito hanno bisogno della presenza di tutti e due i tipi di leader e difficilmente i due stili di leader si possono riscontrare nella stessa persona. Di qui non solo la difficoltà di avere un solo leader che faccia tutto in un g., ma anche la pratica impossibilità di avere un leader uguale per tutte le situazioni. 4. La comunicazione nei g. Esistono diversi modi di comunicare nei g. Prototipici sono due: la rete di comunicazione centralizzata e la rete circolare. Nella rete centralizzata la comunicazione passa necessariamente attraverso un distributore centrale per arrivare agli altri membri. Nelle reti circolari la comunicazione passa da un membro all’altro senza passare necessariamente attraverso un distributore centrale dell’informazione. Si è riscontrato che nelle situazioni di compiti semplici le reti centralizzate sono più efficienti, mentre sono più efficienti quelle circolari per compiti complessi (Shaw, 1964). Con problemi complessi nella rete decentralizzata, rispetto a quella centralizzata, tende ad essere presente maggiore soddisfazione nel g. Quando l’informazione da passare è eccessiva le reti centralizzate tendono ad intasarsi e a creare inefficienza. 5. Conformismo sociale nei g. Soprattutto nelle situazioni ambigue, le persone, di fronte ai pareri degli altri con i quali fanno g., cambiano idea e trasformano le proprie opinioni, e tale cambiamento tende a permanere anche dopo l’avvenuta pressione di g. (Jacobs & Campbell, 1961). Nelle situazioni dove il g. sostiene in maggioranza un’opinione di fronte a un individuo che non può consultarsi con altri, l’individuo può talora accettare come corretto anche ciò che è ovviamente incorretto (Asch, 1951). Sembra che il fenomeno si verifichi perché la persona si fida di più degli altri che di sé (influsso informativo) o per il suo desiderio di essere come gli altri e di non essere rifiutato (influsso normativo). Moscovici (1976) ha dimostrato che una minoranza compatta può avere un grande im-

GUANELLA LUIGI

patto nel provocare un cambiamento verso l’innovazione, anche se va contro il parere della maggioranza. L’impatto della minoranza coerente sembra particolarmente forte se essa si presenta flessibile nelle sue negoziazioni; la minoranza coerente ha meno impatto se è rigida e dogmatica. Secondo Moscovici l’opinione della maggioranza provoca un processo di confronto sociale in cui la persona confronta la propria risposta con quella degli altri, mentre l’opinione della minoranza coerente provoca un processo di verifica, cioè un processo cognitivo avente lo scopo di capire perché la minoranza persiste con coerenza nel mantenere le opinioni che sostiene. Nelle discussioni di g. si è riscontrato che avviene uno spostamento verso i pareri inizialmente mediamente condivisi dal g. (Myers, 1982), provocando spostamenti verso posizioni estreme e di maggiore rischio o maggiore cautela; il fenomeno è comunemente conosciuto sotto il nome di polarizzazione di g. Il fenomeno si verifica nelle più svariate situazioni: nell’uso degli stereotipi, nelle impressioni interpersonali, nel comportamento prosociale o antisociale, nelle contrattazioni, nelle decisioni delle giurie, nei g. di consulenza, nei g. di sostegno sociale, nei g. religiosi e nei giochi d’azzardo. Alla base dello spostamento di opinione verso posizioni più estreme sembra ci siano i fenomeni dell’influsso informativo e normativo ai quali è stato accennato parlando del conformismo. Le implicanze del fenomeno sono importanti, soprattutto in riferimento ai g. nei quali i membri pensano la stessa cosa: nelle decisioni delle giurie, dei comitati, dei governi, avviene una polarizzazione anche verso posizioni sbagliate, poco sagge e talora disastrose; di qui l’utilità della presenza di g. di opposizione. Una conseguenza pericolosa dei processi implicanti il conformismo è l’ubbidienza cieca all’autorità nelle dittature e nei plagi di g.; alcune conseguenze sono ben note nei comportamenti implicanti pulizie etniche, stermini nei campi di prigionia e suicidi di massa. Come si può vedere, nelle pressioni di g. sono implicati gravi problemi di natura etica e morale (Milgram, 1974). Bibl.: Asch S. E., «Effects of group pressure on the modification and distortions of judgments», in H. Guetzkow (Ed.), Groups, leadership and

men, Pittsburg, Carnegie, 1951; Bales R. F. - P. E. Slater, «Role differentiation in small decisionmaking groups», in T. Parsons - R. F. Bales (Edd.), Family, socialization and interaction process, Glencoe, Free Press, 1955; Jacobs R. C. - D. T. Campbell, The perpetuation of an arbitrary tradition through several generations of a laboratory microculture, in «Journal of Abnormal and Social Psychology» 62 (1961) 649-658; Moscovici S., Social inf luence and social change, London, Academic Press, 1976; Myers D. G., «Polarizing effects of social interaction», in H. Brandstätter - J. H. Davis - G. StockerK reigauer (Edd.), Group decision making, New York, Academic Press, 1982; Scilligo P., G. di incontro: teoria e pratica, Roma, IFREP, 1992; Zanardi A., Dinamiche Interpersonali e sviluppo del sé, Milano, Angeli, 2001.

P. Scilligo

GUANELLA Luigi n. a Fraciscio di Campodolcino (Sondrio) nel 1842 - m. a Como nel 1915, sacerdote della diocesi di Como, fondatore delle congregazioni religiose delle Figlie di Santa Maria della Provvidenza e dei Servi della Carità.   1. Dal 1875 al 1878 fu religioso salesiano e completò la sua formazione pedagogica. Don → Bosco resterà per G. «sempre un “maestro”, di cui intende rimanere discepolo docile ma insieme intraprendente e libero» (P. Braido, in M. Carrozzino, 1989, 8). La sua attività, vivacemente polemica contro la → massoneria e il liberalismo, trova però ispirazione in convincimenti e motivazioni umanitarie e religiose essenzialmente costruttive: la fede in Dio è sicura garanzia della dignità della persona umana che «per quanto sia avvolta nelle tenebre merita rispetto e venerazione»; la carità cristiana è sorgente di sollecitudini per i più deboli: fanciulli, disabili, anziani, «a prescindere dall’età, dal ceto sociale o dal genere». 2. Il contributo più specifico della sua pedagogia è riferito alle persone disabili attraverso un’opera educativa che coinvolge «il corpo, la mente e l’anima della persona» favorendone la crescita in un clima di famiglia e con dolcezza di modi; si confronta con 543

GUARDINI ROMANO

le denominazioni dell’epoca (frenastenici, idioti, imbecilli) e sceglie di chiamarle buoni figli per togliere «dalla fronte degli sventurati anche le ultime rughe della umiliazione e del dolore»; crea anche per loro laboratori di arti e mestieri e li inserisce nelle colonie agricole per «farli contenti e riabilitarli»; vuole portarle tra la gente non solo «per utile sollievo ma per edificazione del prossimo, perché questi impari a rispettarle e a soccorrerle» poiché «chi fa il più per queste persone meglio veglia sugli altri». Suo principio è quello dell’educabilità per tutti: «Se non si può infondere il fosforo nei cervelli mancanti, si può migliorare naturalmente la loro condizione con un trattamento umanitario e coll’utilizzare le loro forze nei lavori manuali». Per l’educatore «tutti recano istessamente l’impronta di nobiltà» e quindi valorizzandone le «capacità limitatissime» si deve «ingegnare a cavare da loro il meglio possibile», con l’obiettivo di «restituirli alla società». Attento alle esperienze contemporanee (De Sanctis, → Montessori, Gonelli Cioni), G. si avvalse del somasco Pietro Parise (1861-1946), esponente del movimento di Bourneville e Seguin.

teologia e fu ordinato sacerdote nel 1910. Libero docente di teologia dogmatica a Bonn, nel 1923 fu incaricato di teologia cattolica a Berlino anche se associato alla facoltà teologica di Breslavia. Sospeso dall’insegnamento dal nazismo nel 1938, lo riebbe nel 1945 prima a Tubinga e dal 1948 a Monaco. G. è tra le figure più rappresentative del pensiero cattolico tedesco e tra gli ispiratori del Concilio Vaticano II. I suoi scritti (tra cui indimenticabile il volume di meditazioni Il Signore) costituiscono un’eredità di pensiero di notevole incidenza anche fuori dell’ambiente te desco. 2. La sua teoria gnoseologica dell’opposizione polare e la sua Weltanschauung cattolica, offrono contenuti e presupposti per un’esistenza di verità e di libertà a partire dalla fede. Dal 1920 G. divenne il capo incontrastato del movimento giovanile tedesco. Profonda e vasta fu la sua opera di educatore come professore universitario, come guida spirituale, come predicatore e conferenziere. L’autoformazione, l’educazione liturgica e alla preghiera, la formazione di una solida coscienza morale, traducono a livello educativo quella preoccupazione per l’uomo e per la civiltà moderna che gli meritarono il premio della pace degli editori tedeschi (1952) e il premio Erasmo per il suo contributo alla coscienza europea (1962). La sua teoria pedagogica si incentra sull’incontro interpersonale e l’impegno per un’esistenza libera e responsabile.

Bibl.: a) Fonti: G. L., Opere edite e inedite, I-IV, Roma, Nuove Frontiere, 1988-1999; «La Divina Provvidenza» 1 (1892) - 22 (1915). b) Scritti: Carrozzino M., Don G. educatore, Roma, Nuove Frontiere, 1982; Id., Don G. e Don Bosco, Ibid., 1989; Braido P., Caratteri del «sistema preventivo» del Beato L.G., Ibid., 1992; Prellezo J. M., «L’interesse di Don G. per il mondo della scuola», in L’apostolato caritativo di Don G., Ibid., 1993, 161-226; Carrozzino M., «Cenni biografici e scritti di Pietro Parise, esperto di pedagogia «emendativi» e collaboratore di Don G.», in Ibid., 227-257; Diéguez A. M., «G.L.», in Dizionario biografico degli italiani, vol. LX, Roma, Ist. della Enciclopedia Italiana, 2003, 240-242.

Bibl.: R.G., Persona e libertà, Brescia, La Scuola, 1987 (contiene i saggi Fondazione della teoria pedagogica e L’incontro); Id., Le età della vita, Milano, Vita e Pensiero, 2003; Ascenzi A., Lo spirito dell’educazione. Saggio sulla pedagogia di R.G., Ibid., 2003; Fedeli C., Pienezza e compimento, Ibid., 2003.

GUARDINI Romano

GUARINO GUARINI

n. a Verona nel 1885 - m. a Monaco nel 1968, teologo ed educatore italo-tedesco.

n. a Verona nel 1374 - m. a Ferrara nel 1460, umanista ed educatore italiano.

1. Educato a Magonza, dove il padre era console, dopo una crisi adolescenziale, studiò

1. È noto anche come G. Veronese dal luogo di nascita. Studia «arte grammaticale» e re-

M. Carrozzino

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C. Nanni

GUILFORD JOY PAUL

torica a Verona e Padova; si reca a Costantinopoli (1403-1408), dove approfondisce il gr., accolto come domestico e allievo nella casa dell’erudito Crisolora. Rientrato in patria, G. diventa lettore di gr. nello Studio di Firenze; si trasferisce a Venezia (1414), dà lezioni private e apre nella sua casa un convitto (contubernium), ospitandovi un gruppo di ragazzi; stabilitosi a Verona (1419) è nominato professore comunale. Nel 1429 accetta l’invito di Nicolò II d’Este che lo vuole precettore dei figli. Dal 1442 fino alla morte è professore di retorica nello Studio di Ferrara. 2. Il pensiero pedagogico di G. è raccolto nelle lettere ad allievi e amici e nell’opera postuma Grammaticales regulae (1488), curata dal figlio Battista. Questi si ispira alla «lunga esperienza d’insegnamento» del suo «ottimo genitore» nel saggio De ordine docendi et discendi, in cui insiste sull’ordine graduale da seguire nell’apprendere e nell’insegnare le lingue gr. e lat., considerando lo studio della → grammatica come fondamento necessario. Prendendo le mosse dalle proposte di → Quintiliano, G. articola la scuola in tre gradi: elementare; corso medio o grammaticale; corso superiore o di retorica, che non solo si prefigge di formare l’oratore (vir bonus dicendi peritus), ma cura anche il genere epistolare, importante nel momento storico. Assieme ai classici latini e greci, vengono letti anche autori cristiani (→ Agostino, → Girolamo). G. accentua il «fine professionale», cercando di formare insegnanti ed ecclesiastici colti. La fama di G. è legata alla serietà d’impostazione della sua scuola. Fu stimato dai contemporanei come «maestro di cultura e di vita». Bibl.: Bertoni G., G. da Verona fra letterati e cortigiani a Ferrara (1429-1460), Ginevra, Olschki, 1921; P rellezo J.M. - R. Lanfranchi, «La scuola di G.G.», in Idd., Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. 2, Torino, SEI, 2004, 19-28.

J. M. Prellezo

GUILFORD Joy Paul n. a Marquette (Nebrasca) nel 1897 - m. a Los Angeles nel 1987, psicologo statunitense.

1. Entrato in contatto, negli anni della sua formazione, con autori quali Titchener, C. Dallenbac, K. Koffka, che gli fa conoscere la teoria del pensiero dei gestaltisti, H. Helson, con W. McDougall, allievo di Ch. Spearman e L. Thurstone che stimoleranno il suo interesse per lo studio della → personalità e dell’ → intelligenza, G. (che svolge la maggior parte del suo lavoro come direttore dell’unità di ricerca dell’aeronautica americana nel corso della seconda guerra mondiale e successivamente come direttore dell’Aptitudes Research Project alla University of Southern California) è noto soprattutto per i suoi studi sulla misurazione psicologica e per le numerose indagini di tipo statistico sui fattori di personalità, tra cui fa rientrare le abilità intellettuali. 2. Nel suo modello l’intelligenza è intesa come un insieme di contenuti (distinti in contenuti figurativi, simbolici, semantici, comportamentali); di operazioni (distinte in operazioni di valutazione, di produzione convergente, di produzione divergente, di memoria, e di cognizione) e di prodotti, distinti in 6 tipi, e cioè unità, classi, relazioni, sistemi, trasformazioni, implicazioni. Dalla combinazione di contenuti, prodotti e operazioni derivano ben 120 capacità differenti. G. introduce inoltre la distinzione tra produzione (o pensiero) convergente e produzione (o pensiero) divergente, attraverso la quale viene inserita nella struttura dell’intelligenza la creatività, intesa come processo di produzione divergente di nuove e originali soluzioni rispetto a quelle collaudate del processo di produzione convergente. Sono inoltre da ricordare i suoi contributi di tipo metodologico, dedicati in particolare alla discussione dell’analisi fattoriale e alla sua utilizzazione negli studi dedicati all’analisi della personalità. Bibl.: a) Fonti: principali opere di G.: Psychometrics methods (1936), The nature of human intelligence (1967), Personality (1969). b) Studi: H all C. S. - G. Lindsay, Teorie della personalità, Torino, Bollati Boringhieri, 1966; M ecacci L., Storia della psicologia del Novecento, Roma/ Bari, Laterza, 1992.

F. Ortu - N. Dazzi

GURVITCH Georgij → Sociologia dell’educazione

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H HABERMAS Jürgen → Ermeneutica pedagogi­ ca → Etica → Scuola di Francoforte

HANDICAP: portatori di Non è sempre facile trovare il vocabolo più adatto per esprimere una realtà, soprattutto se questa è complessa e tocca le persone. Co­ sì succede nel caso di cui ora ci occupiamo. Le persone con h. sono quelle che o fin dalla nascita o in seguito a evento morboso o trau­ matico presentano una menomazione fisica, sensoriale o psichica che impedisce o rende loro più difficile vivere una vita autonoma e indipendente. 1. Uso terminologico. La terminologia usa­ta per riassumere questo concetto con mi­gliore o peggiore fortuna, è stata molto va­r ia: de­ ficiente, minorato, anormale, sub­normale, ipodotato, ecc. sono tutti termini usati e cri­ ticati. L’elenco è più ampio se lo restringiamo al campo dell’h. mentale, co­minciando dalla classica distinzione tra idiozia, imbecillità e debolezza. Sempre nel campo dell’h. menta­ le, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, già nel 1954, propo­se il termine di «insuf­ ficienza mentale». Successivamente si è an­ dato affermando, perché ritenuto più social­ mente accettabi­le e meno carico di prognosi negativa, il termine handicappato o persona portatri­ce di h., sia esso fisico, sensoriale o menta­le. Ultimamente ha prevalso la dizione «diversamente abile». Alle tre categorie so­ pra indicate (fisico, sensoriale e mentale) si

farà ora riferimento, dando maggior rilievo alla pro­blematica relativa alle persone con h. men­tale. 2. Gli h. fisici o motori. Ne sono portatrici quelle persone che per difetto di sviluppo congenito o acquisito sono diventate defi­ citarie nell’uso del corpo e delle membra. Una classificazione di questi h. motori può essere fatta a seconda dell’origine cerebrale, spinale, muscolare o osseo-articolare. È evi­ dente che ciascuno di questi tipi di minora­ zione pone problemi specifici per l’influsso che esercita sulla → personalità o sul com­ portamento del soggetto e per le possibilità di → recupe­ro che offre. Le conseguenze di queste minorazioni sullo sviluppo globale della persona sono collegate alla loro gravi­ tà, agli eventuali di­sturbi associati e possono produrre insi­curezza e sensi di esclusione e di abbando­no. L’azione di recupero e riabi­ litazione, ol­t re che essere tempestiva, deve mirare ad un recupero funzionale, a dare alla persona il massimo possibile di autonomia e indipen­denza ed a garantire una valorizza­ zione per­sonale e sociale. È importante sot­ tolineare, però, che l’h. non porta necessaria­ mente al disadattamento ma che il disadatta­ mento è solo uno dei modi di vivere l’h. 3. Gli h. sensoriali. Si riferiscono, in modo particolare, alle minorazioni visive e a quelle uditive, nelle principali gradazioni di gravità (ciechi e ambliopi per gli h. visivi, sordomuti e sordastri per gli h. uditivi). Anche queste defi­cienze sensoriali pongono problemi di svi­luppo equilibrato e armonico delle perso­ 547

HANDICAP: PORTATORI DI

ne che ne sono portatrici e richiedono inter­ venti psicopedagogici adeguati. Gli inter­ venti di recupero nel caso di h. sensoriali hanno alla base due tipi di azione: l’utilizzo ottimale dei resti sensoriali e il potenzia­ mento della cosiddetta supplenza sensoria­le. I resti sensoriali vanno bene utilizzati anche con eventuali protesi, eccetto nei ca­si in cui una loro sovrastimolazione possa essere no­ civa. La supplenza sensoriale, e cioè la so­ stituzione delle funzioni di un senso con il potenziamento degli altri, è un fenomeno ben conosciuto, anche se le spie­gazioni di esso non sono unanimi: c’è una superiorità compensatoria di tipo organico (non è stato mai dimostrato)? c’è un mi­gliore utilizzo de­ gli altri sensi con risultati non raggiunti nella normalità? c’è un arric­chimento degli altri sensi dovuto alla ne­cessità di rispondere ad esigenze della vita quotidiana? Queste ul­ time ipotesi sembra­no più accettabili della prima. Nell’inter­vento rieducativo lo scopo è quello di por­t are la persona con h. senso­ riale il più vicino possibile a fare tutto ciò che fanno coloro che di h. sensoriale non soffrono. 4. L’h. mentale. Nel campo dell’h. partico­lare rilievo assume l’h. mentale o insufficienza mentale. Si tratta di un problema comples­ so e difficile. È complesso il con­cetto, sono complesse le ripercussioni sullo sviluppo globale della personalità, sono complesse le modalità di intervento così come sono com­ plesse le posizioni più o me­no ideologiciz­ zate che conducono ai vari ti­pi di azione di recupero. Tre distinzioni iniziali vanno fat­ te per aiutare la compren­sione del concetto di h. o insufficienza mentale: insufficienza congenita, precoce e insufficienza acquisi­ ta; già Esquirol distin­g ueva, a suo tempo, tra demente e deficiente: il primo è un uomo privato dei beni che possedeva, il secondo si è trovato sem­pre nella povertà. Bisogna distinguere inol­t re tra insufficienza mentale e insufficienza affettiva: la frequente inte­ razione tra svi­luppo intellettivo e sviluppo affettivo può condurre a diagnosi sbagliate. Molti casi, diagnosticati inizialmente come insuffi­cienze mentali si sono dimostrati in seguito a trattamento psicoterapeutico forme di → autismo o di → psicosi infantili. C’è in­ fine da distinguere tra vero h. e falsa anor­ malità, dovuta quest’ultima, in particolare, a 548

fattori estrinseci allo sviluppo, e cioè a forme di abbandono intellettuale, morale o fisico. 5. L’identificazione e la successiva classifi­ cazione delle forme di h. mentale. Sono an­d ate cambiando nel tempo passando da impostazioni diagnostiche legate ad un so­ lo sintomo ad impostazioni più complesse: si passa, per es., da una diagnosi basata sul linguaggio, all’età mentale o al quozien­te di intelligenza, all’esame globale della perso­ nalità e del comportamento. Si arriva così al cosiddetto «quoziente di sviluppo» di A. Gesell, quoziente che si ricava dall’a­nalisi di quattro aspetti della personalità: comporta­ mento motorio, comportamento linguistico, comportamenti di adattamento e compor­ tamento personale e sociale. Oc­corre per­ ciò affermare che l’h. mentale co­sì come è multideterminato è anche multidimensiona­ le. Ragionando in questo mo­do, P. Parent e C. Gonnet affermano che la nozione di de­ bolezza mentale non ha l’u­nità concettuale che qualche volta le è at­t ribuita e R. Zazzo sottolinea che «la de­bolezza mentale non è definibile soltanto per il ritmo intellettuale di crescita». Que­sta concezione più dinamica del concetto di h. mentale ha favorito il supe­ ramento della irrecuperabilità ed ha stimola­ to pe­dagogisti ed educatori ad un maggiore im­pegno sul piano scolastico ed educativo. 6. Dalla diagnosi al recupero. Le migliori possibilità di recupero sono legate alla pre­ cocità dell’intervento; da ciò nasce l’e­sigenza di una diagnosi precoce. Questa può essere soltanto il risultato di una stret­ta collabora­ zione tra genitori, asili di infanzia e scuole materne e servizi socio-sa­nitari per l’infan­ zia. I genitori vanno aiuta­t i a superare tre grossi ostacoli che ritardano il recupero: la non accettazione dell’h., l’ansia per il futu­ ro del figlio, l’iper-protezionismo. La → fa­ miglia, pertanto, di­venta la prima struttura per il recupero del­le persone portatrici di h. mentali. La famiglia dovrà successivamente accompa­g nare l’azione svolta da altre strut­ ture di recupero, come i centri di riabilita­ zione, la scuola ed i centri di → formazione professionale. L’azione integrata di famiglia, scuola, formazione professionale, servizi so­ ciali e di riabilitazione deve portare al rag­ giungimento di un obiettivo, meta di tutto l’impegno educativo e rieducativo: l’inseri­

HANDICAP: PORTATORI DI

mento sociale e lavorativo della persona por­ tatrice di h. All’azione della famiglia, prima struttura di riabilitazione e inserimento, si aggiunge in un secondo momento la scuola, dalla materna alle superiori. Sono stati or­mai superati i tempi degli istituti medico-psicopedagogici, delle scuole speciali (ri­mangono, evidentemente, istituzioni spe­cializzate per i gravissimi), delle classi speciali e delle classi differenziali. 7. H. e scuola. L’attenzione sistematica del­la scuola al problema del recupero dei sog­getti portatori di h., e in particolare di h. mentale, risale alla fine dell’Ottocento ed ai primi anni del Novecento. Nomi in­ternazionalmente il­ lustri della psichiatria e della pedagogia ita­ liana hanno messo le basi degli interventi istituzionali di recupe­ro. Basti ricordare S. De Sanctis, M. → Montessori, G. Montesano, C. Bonfigli. Del 1899, infatti, è la creazione della Lega Na­zionale per la Protezione dei Fanciulli defi­cienti. Alla costituzione della Lega fece se­g uito, nel 1900, la prima Scuola Magistrale Ortofrenica a Roma e, nel 1901, il primo Istituto Medico-Psico-Pedagogico. L’azio­ne di recupero scolastico vide fasi al­ terne di interesse e di routine e solo alla fine de­gli anni sessanta, in concomitanza con la ri­voluzione socio-culturale di quegli anni, as­sunse rilievo e ottenne un riconoscimento legislativo a cui, pur lentamente, ha corri­ sposto un’adesione convinta e partecipe del­ la scuola in particolare e della società ci­vile in generale. La lotta all’ → emargina­zione di ogni tipo portò anche ad una rifles­sione sui problemi dell’h. e alla necessità di muoversi nella direzione del superamento di ogni in­ tervento sostanzialmente o apparentemente discriminatorio. Nel 1971 la L. n. 118 del 30 marzo, all’art. 28 affer­ma, anche se con qual­ che limitazione lega­ta alla gravità dell’h., che l’istruzione del­l’obbligo deve avvenire nelle classi norma­li della scuola pubblica. Questa normativa fu perfezionata e meglio specifi­ cata nella L. 517 del 1977. Dalla scuola si am­ pliò l’azione di lotta all’emarginazione nella formazione professionale, nell’inserimen­ to lavorativo, nelle varie manifestazioni di vita sociale. All’insegna della deistituzio­ nalizzazione si è lavorato per favorire un’in­ tegrazione sociale delle persone a ri­schio: si è trattato, dall’inizio degli anni set­t anta ad oggi, di un’azione di grande porta­t a civile,

anche se condotta a volte senza condizioni che ne garantissero l’efficacia. Si è lavorato con carenza di strutture ade­g uate e con ope­ ratori sociali e scolastici non sempre oppor­ tunamente e adeguatamente preparati. 8. Formazione professionale e h. Oltre al lavoro della scuola, va anche riconosciuto il contributo dato dalla formazione profes­ sionale per favorire un inserimento lavora­ tivo delle persone con h., nella con­vinzione che un vero inserimento sociale (obiettivo ultimo dell’azione di recupero) non può es­ sere raggiunto se non si ottiene anche un inserimento lavorativo rispetto­so della di­ gnità della persona. Gli inter­venti tendenti all’inserimento lavorativo hanno potuto av­ vantaggiarsi di notevoli contributi dell’Unio­ ne Europea che, non solo finanziariamente, ma anche con la promozione di scambi di esperienze tra i paesi membri, ha facilita­ to l’arricchimento a livello di metodologie, tecniche, stru­menti e preparazione degli operatori. L’o­biettivo «integrazione» nasce dalla centra­lità della persona e dalla conse­ guente esi­genza di aiutare i portatori di h. ad un recupero di dignità, di autonomia e di pro­tagonismo che, senza ignorare difficoltà oggettive, non parta da posizioni pregiudi­ ziali di totale o parziale irrecuperabilità. A questo riguardo, e lasciando ad altre voci gli aspetti operativi di integrazione scola­stica, lavorativa e sociale (→ sostegno edu­cativo, recupero, rieducazione), vanno sottolineate alcune essenziali esigenze. 9. L’integrazione sociale degli handicappati. Va detto in primo luogo che nessuna ve­ra in­ tegrazione sociale della persona con h. è pos­ sibile se non esiste accettazione da parte del­ la società in cui deve integrarsi e se da parte della popolazione civile la persona con h. non viene accolta con le sue li­mitazioni: in­ fatti non c’è integrazione sen­za accettazione. È anche importante ricor­dare che per quanto riguarda le possibilità di recupero della per­ sona con h. non è pos­sibile fare delle progno­ si a priori: non si possono porre limiti iniziali all’intervento educativo. Va infine detto che occorre pre­stare particolare attenzione alla parte sana della persona handicappata; a vol­ te, l’at­tenzione all’aspetto deficitario corre il ri­schio di far dimenticare lo sviluppo di altre capacità e potenzialità. Sempre in riferimen­ 549

HARDWARE DIDATTICO

to all’integrazione sociale vanno segnalate tante iniziative oggi esistenti che favoriscono il recupero e l’inserimento di queste persone, tra cui, l’organizzazione nazionale e interna­ zionale di gare e olimpiadi che prevedono la loro partecipazione. Bibl.: Zazzo R., Une recherche d’équipe sur la dé­bilité mentale, in «Enfance» 4-5 (1960) 333-497; Zavalloni R., La pedagogia speciale e i suoi problemi, Brescia, La Scuola, 1967; Pesci G., Handicap­pati e scuola in 7 paesi europei, Roma, Armando, 1977; Bellomo L. - L. R ibolzi, L’inse­ rimento degli handicappati nella scuola dell’ob­ bligo, Bologna, Il Mulino, 1979; Edgerton R., Il ritardo mentale, Roma, Armando, 1979; Co massi M., Per l’inseri­mento degli handicappati nella scuola. Leggi e di­sposizioni amministrative ordinate e commentate, Pisa, Edizioni del Cerro, 1981; Pavone M. - M. Tortell­ o, Handicappati, scuola, enti locali, Firenze, Nuo­va Guaraldi Edi­ trice, 1983; Morganti E. (Ed.), Gli handicappati dopo la terza media, Bologna, Cap­pelli, 1984; Vico G., Handicappati, Brescia, La Scuola, 1984; Gatto F., Educazione, scuola, diver­sità, Roma, Herder, 1991; Ceppi E., I minorati del­la vista. Sto­ ria e metodi delle scuole speciali, Roma, Arman­ do, 1992; M eazzini P., Psicopatologia dell’h., Milano, Masson, 1996; Battaglia A. et al., Figli per sempre, Roma, Carocci, 2002.

M. Gutiérrez

HANS Nicholas → Educazione comparata

HARDWARE DIDATTICO Il termine h. indica tutta la parte visibile e tangibile di un sistema, di una macchina, in particolare di un computer (→ mezzi didat­ tici). Viene usato in contrapposizione o in modo associato con il termine → software per indicare una delle due parti in cui nor­ malmente si distingue la macchina com­ puter: quella fisica costituita da elementi meccanici ed elettronici che viene chiamata hard (duro). Quando si parla di hard di un computer, normalmente si intende quella parte della macchina che comprende l’unità centrale di elaborazione (CPU - Central Pro­ cessing Unit) con la sua memoria interna, le periferiche (monitor, tastiera, stampanti), la o le memorie esterne di massa (dischi rigidi 550

o flessibili, dischi ottici, CD-Rom), tutte par­ ti fisiche, toccabili, diverse da quella meno visibile costituita da adeguati programmi e indicazioni chiamata software ugualmente indispensabile al funzionamento. Per rende­ re un computer operativo è necessario ave­ re un h. con caratteristiche conosciute e un adeguato software. Solo l’insieme delle due parti permette alla macchina di «vivere». A volte in senso esteso si utilizza il termi­ ne h. con il significato dato sopra anche per strumenti diversi dal computer, come una lavagna luminosa o un sistema televisivo: in questo senso il termine indica tutto ciò che rende una macchina allo stato potenziale di funzionamento. Bibl.: Corsi G., A scuola con il personal compu­ ter, Firenze, Giunti e Lisciani, 1991; Scalisi R., Users: storia dell’interazione uomo-macchina dai mainframe ai computer indossabili, Milano, Guerini, 2001; Rathbone A., PC H. e software. Il manuale che mancava, Milano, Unwired Media, 2006; Congiu S., Architettura degli elaboratori. Organizzazione dell’h. e programmazione in lin­ guaggio assembly, Bologna, Patron, 2007.

N. Zanni

HARRIS Maria → Catechesi → Educazione re­ ligiosa HEGEL Georg W. Friedrich → Idealismo peda­ gogico

HERBART Johann Friedrich n. a Oldenburg nel 1776 - m. a Gottinga nel 1841, filosofo e pedagogista tedesco. 1. Biografia e opere. Figlio unico di una ma­ dre brillante e di un padre burocrate, ebbe la prima educazione in famiglia da precettori e dimostrò notevoli doti musicali. Studiò poi nel locale ginnasio e nel 1794 intraprese gli studi di filosofia a Jena, in contrasto con il padre. Fu discepolo prediletto di Fichte e si iscrisse a una società studentesca sotto la sua guida. Nel 1796 ebbe una crisi intellettuale e maturò il distacco da Fichte, alla ricerca di una via personale, appoggiandosi ai preso­ cratici e a → Platone. Accettò, in questa situa­ zione, l’invito a fare il precettore nella casa di K. F. Steiger, in Svizzera, occupandosi dei

HERBART JOHANN FRIEDRICH

tre figli maggiori (di 14, 9 e 7 anni) fino al 1800. Qui mise a punto le sue idee pedago­ giche, grazie agli incontri con → Pestalozzi e alla sua stessa esperienza, giungendo, al tempo stesso, a una prima organica formula­ zione del suo pensiero filosofico. Tornato in patria, continuò la sua riflessione in questa doppia direzione, mentre terminava gli stu­ di. Dal 1802 al 1808 fu professore univer­ sitario a Gottinga; dal 1808 al 1831 lo fu a Königsberg, ricoprendo la cattedra che fu di → Kant; ampliò i suoi interessi ed esperien­ ze pedagogiche, soprattutto con l’apporto di studi psicologici, con la creazione di un «se­ minario», cui volle affiancare una scuola mo­ dello, e con il consolidarsi, attorno a lui, di una «Società pedagogica». Fallito il tentativo di sostituire Hegel a Berlino, tornò a Gottin­ ga, anche per ragioni climatiche, dove inse­ gnò fino alla morte, accelerata, forse, dalle incomprensioni, a livello politico, dopo la bufera scatenatasi con le purghe all’universi­ tà del 1837, quando era decano della facoltà. Il suo comportamento, di fatto remissivo di fronte all’imposizione governativa, gli valse allora un quasi totale isolamento e giudizi assai negativi, da parte di critici posteriori. Si sposò con una sua studentessa (1811), ma non ebbe figli propri; adottò praticamente, con il consenso e l’aiuto della moglie, l’or­ fano di un suo allievo, Otto Stiemer, debo­ le di mente, dal quale, nonostante i relativi successi, non ebbe particolari gratificazioni. La vita di H., apparentemente piana, è sta­ ta irta di difficoltà: dalla salute cagionevole, alle incomprensioni del padre, al distacco da Fichte, ai problemi economici (che gli im­ posero, tra l’altro, di tenere lezioni private), all’assenza di attesi apprezzamenti, fino agli scontri aperti del 1837. Ciononostante la sua produzione «scientifica», che portò all’affer­ marsi di una sua «scuola», più pedagogica che filosofica, è stata abbondante e innovati­ va. A prescindere dai Berichte allo Steiger, e da scritti pedagogici minori del 1801-3, tra cui anche gli incompiuti Diktate zur Päda­ gogik, il primo saggio più organico e ampio fu: Pestalozzis Idee eines ABC der Anschau­ ung, seguito da un’interessante appendice sulla «Rappresentazione estetica del mon­ do» (1804). Nel 1806 vi fecero seguito la sua opera pedagogica più nota: Allgemeine Pä­ dagogik aus dem Zweck der Erziehung ab­ geleitet, le incompiute Pädagogische Briefe

(1830-1832) e, nel 1835 e 1841, le due edizio­ ni dell’Umriss pädagogischer Vorlesungen. Per gli altri scritti filosofici e psicologici, che pure hanno spesso attinenza con la pedago­ gia, si vedano le Sämtliche Werke. 2. Il pensiero pedagogico. È inscindibilmen­ te collegato a quello filosofico (al cui interno H. colloca la pedagogia, come anche altri faranno), che è il risultato di influssi kantia­ ni, da lui riconosciuti, di resti razionalistici e dell’idealismo, che invece decisamente ri­ getta. La sua filosofia, denominata realismo, rilancia il ruolo e il senso dell’esperienza, della quale va resa condivisibile la cono­ scenza (la cui validità egli giustifica criti­ camente) e che sarà collocata a fondamento di tutta la sua concezione, anche pedago­ gica. Affrontato per tempo e con serietà il problema epistemologico, giunge alla con­ clusione che la filosofia è «elaborazione di concetti» e si articola in logica, metafisica e estetica, che, a sua volta, comprende l’esteti­ ca in senso stretto e l’etica. Ognuna di loro può essere «pura» o «applicata», cosicché la pedagogia nel sistema herbartiano trova precisamente il suo posto nell’etica applicata (unitamente alla politica, che riguarda il so­ ciale anziché il singolo) e dunque è scienza filosofica, sostanzialmente subordinata alla sola → etica, da cui deriva il suo fine ultimo: la virtù. L’apporto della psicologia invece, da cui pure dipende, è solo di carattere strumen­ tale. Tuttavia H. riconosce un’autonomia alla pedagogia, in quanto «punto centrale di una sfera di ricerche», che può quindi elaborare «un proprio pensiero indipendente», serven­ dosi di un metodo preferibilmente deduttivo. È pertanto una scienza pratica e applicata, che si articola, come le altre, in un momento sintetico (esposto nella Pedagogia generale) e uno analitico (di cui dovevano trattare le Lettere pedagogiche). A tale scienza, di cui H. è comunemente ritenuto il fondatore, fa riscontro un’«arte dell’educazione», ispirata dalla teoria e all’origine del «tatto pedago­ gico», che caratterizza un buon educatore. a) Dalla psicologia, che H. ha esposto a livello più popolare in un’apposita enciclopedia e a livello scientifico in due volumi (Psycholo­ gie als Wissenschaft), derivano tuttavia al­ cuni concetti rilevanti per la sua pedagogia. In particolare: la cerchia delle idee (elabo­ razione soggettiva delle masse di «rappre­ 551

HERBART JOHANN FRIEDRICH

sentazioni» o di atti psichici, che contribu­ irà alla formazione del carattere), i gradi formali (molto strumentalizzati in funzione didattica dai seguaci di H., i quali interven­ gono nella formazione e nel consolidamento della cerchia di idee) e, soprattutto, la pla­ smabilità (Bildsamkeit), «il concetto fonda­ mentale della pedagogia», in quanto permet­ te e giustifica, al tempo stesso, l’intervento educativo sia del soggetto, che dall’esterno. La plasmabilità tuttavia non ammette mani­ polazione, poiché il soggetto è sempre atti­ vo e libero; è invece collegata e dipendente dall’individualità, come dalla cerchia delle idee, dalle circostanze di luogo e di tempo, nonché dall’ambiente umano (Umgang), in cui il soggetto stesso vive e da cui trae le sue prime esperienze. Troppo spesso si sono di­ menticati questi fondamenti teorici delle tesi herbartiane. b) Anche l’articolazione dell’in­ tervento educativo, esposta soprattutto nel­ la Pedagogia generale, nei tre momenti del governo, dell’insegnamento e della coltura morale si ricollega alla psicologia, pur con­ sentendo da parte della riflessione pedago­ gica un’elaborazione autonoma. D’altronde, dice H., «la separazione di questi concetti serve per la riflessione dell’educatore», poi­ ché in realtà non sono sempre disgiungibi­ li. Il governo è il meno importante, con una funzione preparatoria, e il meno duraturo: riguarda specialmente i primi anni di vita e vi hanno parte soprattutto l’amore e l’autori­ tà dei genitori, come anche le occupazioni, ma non va impostato sulla sorveglianza. Il suo fine sta nel creare l’ordine, che permette la fruibilità degli interventi educativi. L’in­ segnamento (Unterricht) invece ha un ruolo preminente, benché in chiave educativa più che intellettualistico-istruttiva. Suoi obietti­ vi sono, da una parte, l’interesse. dall’altra, la multilateralità del medesimo. Ora l’inte­ resse, concetto su cui H. ha riflettuto a par­ tire dal 1800, lo identifica tardivamente con l’«autoattività» e si suddivide in diversi tipi, di cui quelli suaccennati sono i principali, in quanto riguardano i due aspetti fonda­ mentali della vita: il conoscere e il rappor­ tarsi agli altri, pur con diverse modalità. La multilateralità dell’interesse, fine peculiare dell’insegnamento educativo e sua condizio­ ne, punta a un equilibrio e, al tempo stesso, a un progressivo ampliamento dei due filo­ ni principali (conoscenza e partecipazione), 552

che accrescono e moltiplicano le possibilità umane, superando, al tempo stesso, i difet­ ti dell’unilateralità e della superficialità. In questa funzione compaiono i «gradi forma­ li», che s’inseriscono nel gioco delle masse di rappresentazioni e dunque della cerchia delle idee. La coltura (Zucht) infine, che sotto il profilo educativo si qualifica come «morale», perché tesa appunto alla morali­ tà, cui garantisce stabilità ed efficienza, ha come fine la «fortezza del carattere nella mo­ ralità». Il concetto di carattere, variamente chiarito da H., ha, in ogni caso, una conno­ tazione di neutralità etica, che è superata in­ vece con la «coltura», che aiuta a vincere la «lotta interiore», presente in ognuno. La for­ mazione del carattere è dunque importante, dal momento che consente il miglior utilizzo delle proprie possibilità, ma è indispensabi­ le, dal punto di vista educativo, la «fortezza del carattere nella moralità», che assicura l’orientamento etico nell’agire. c) In questo quadro H. inserisce riflessioni didattiche di rilievo, sul significato e sulla sequenzialità delle discipline scolastiche, per es., in rap­ porto alle finalità dell’insegnamento. Così, superando precedenti posizioni, dà un posto qualificante e di guida alle scienze, in rap­ porto all’interesse di conoscenza, e alla sto­ ria, in rapporto a quello di partecipazione. Nell’attività didattica è comunque impre­ scindibile un’attenzione al passato dell’al­ lievo, all’esperienza acquisita a livello tanto conoscitivo quanto di partecipazione. In essa inoltre riconosce un ruolo particolare, da un lato, all’intuizione, di eredità pestalozziana, pur intendendola diversamente; e dall’al­ tro alla concentrazione, che comporterebbe non solo la non dispersione frammentata dei singoli insegnamenti, all’interno dell’ora­ rio scolastico settimanale, ma soprattutto la possibilità di organizzarlo per qualsiasi materia in «episodi». In tal modo, mentre gli allievi più dotati possono intrattenervisi con approfondimenti, ci sarà una possibili­ tà di recupero per i meno dotati. Nella sua difesa del singolo soggetto e delle sue pecu­ liarità, H. richiede classi poco numerose e si oppone alla determinazione dei programmi a livello statale, perché o non adatti ai sin­ goli o molto generici. Si può vedere in ciò un tentativo di conciliazione tra le esigenze a lui contemporanee dei filantropisti, cen­ trati sulla didattica, e dei neoumanisti, cui

HESSEN SERGEI OSSIPOVIC

premeva più la qualità del soggetto. Quanto all’organizzazione della scuola H. ne ha dife­ so un duplice orientamento, che si potrebbe dire tecnico e classico, entrando però anche nel merito della struttura delle classi e degli esami, con osservazioni d’avanguardia. Infi­ ne ha offerto un chiaro contributo, per l’epo­ ca, alla pedagogia emendativa (prendendo in considerazione le anormalità), a quella evolutiva, specie in chiave psicopedagogi­ ca, e si è anche occupato di orientamento, rigettando l’interferenza allora decisiva dei genitori nella scelta della scuola. Tuttavia ha chiaramente sostenuto che l’educazione «è un affare della famiglia», proprio in con­ trapposizione a intrusioni ancora più esterne e impositive. La scuola è stata riconosciuta da lui come un male necessario, inevitabi­ le, date le situazioni sociali, più che come un’istituzione positiva; e in tutto ciò sembra indiscutibile anche l’apporto della sua espe­ rienza personale. 3. Valutazione. L’influsso delle tesi herbar­ tiane è stato molto esteso (dall’Europa, agli USA, al Giappone) e significativo, tanto da costituire in alcuni Paesi vere e proprie «scuole». Alla luce degli studi più recenti s’impone tuttavia un ridimensionamento dei giudizi più comunemente espressi su H., in senso sia elogiativo-apologetico, da parte di suoi discepoli, sia critico-negativo, da parte di chi non ne ha compreso adeguatamente il pensiero. Da un lato, non si può negare un certo razionalismo, da cui una relativa arti­ ficiosità, e un disimpegno politico, collegato alla sua attenzione prevalente per il singolo, sebbene abbia affermato che «l’uomo non è nulla fuori della società» (K., VI,16). Dall’al­ tro, vanno invece respinte le accuse di intel­ lettualismo, di moralismo o di «magistro­ centrismo» (→ Dewey), che contrastano con la sua visione antropologica di uno svilup­ po solidale, sia intellettuale che operativo, confermato anche dal rigetto delle classiche «facoltà» umane, tra loro realmente distinte, se non indipendenti. Tra i meriti sta anche l’attenzione al singolo con le sue peculiarità, ma soprattutto l’educatività dell’insegna­ mento, che non può prescindere, proprio per questo, dal collegamento con l’esperienza e con le conoscenze già acquisite e che perciò richiede grande flessibilità, persino a livello istituzionale.

Bibl.: una bibliografia pressoché completa in P ettoello R., Idealismo e realismo. La for­ mazione filosofica di J.F.H., Firenze, La Nuova Italia, 1986, 256-288; Sämtliche Werke. In chro­ nologischer Reihenfolge, a cura di K. Kehrbach - O. Flügel, 15 voll. + 4 voll. di Briefe von und an H., a cura di Th. Fritzsch, Aachen, Scientia, 1989 (in it.: Pedagogia generale derivata dal fine dell’educazione, a cura di I. Volpicelli, Firenze, La Nuova Italia, 1997); Asmus W., J.F.H. - Eine pädagogische Biographie, 2 voll., Heidelberg, Quelle & Meyer, 1967-1970; Bellerate B., La pedagogia in J.F.H. Studio storico-introduttivo, Roma, LAS, 1970; Geissler E., H.s Lehre vom erziehenden Unterricht, Heidelberg, Quelle & Meyer, 1970; Blass J. L., Pädagogische Theo­ riebildung bei J.F.H., Meisenheim a. Glan, Hain, 1972; Bellerate B., J.F.H. und die Begründung der wissenschaftlicher Pädagogik in Deutsch­ land, Hannover, Schrödel, 1980; K lafkowski M., Die philosophische Grundlegung des erzie­ henden Unterricht bei H., Aalen, Scientia Verlag, 1982; Pettoello R. (Ed.), J.F.H. - 1841-1991, Set­ timo Milanese, Marzorati, 1992; Volpicelli I., H. e i suoi epigoni. Genesi e sviluppo di una filosofia dell’educazione, Torino, UTET, 2003.

B. A. Bellerate

HESSEN Sergei Ossipovic n. a Ist-Sijssolsk in Siberia nel 1887 - m. a Lodz in Polonia nel 1950, pedagogista rus­so di cultura mitteleuropea. 1. Vissuto in Russia, in Germania, in Ceco­ slovacchia, in Polonia, conoscitore di sette lingue tra le quali l’it., H. è stato un tipico rappresentante della cultura mitteleuropea germanico-slava della prima metà del Nove­ cento. Studente ad Heidelberg ed a Freiburg dove si laureò, fu allievo di H. Rickert e di → Weber. Insegnò alle univer­sità di Pietrobur­ go, di Praga, di Varsavia e di Lodz. 2. La sua concezione filosofica deriva dalla teoria rickertiana dei valori intesi come un «dover essere» che supera la stessa vita so­ ciale, e quindi rientra in senso lato nel tra­ scendentalismo neokantiano. L’educazio­ne (Erziehung) come ausilio al processo di sviluppo psicofisico non esaurisce pertan­ to la promozione della persona umana, 553

HORNEY KAREN

che si attua appieno solo nella cultura (Bil­ dung) come assimilazione dei valori nella formazione interiore della libertà creativa. Secondo la teoria dei valori, le scienze na­ turali tendono a leggi di tipo generalizzan­ te, mentre le scienze storiche tendono alla comprensione dell’individuale. L’educazio­ ne mira alla personalità del singolo, an­che se in rapporto storico con la cultura del suo tempo. 3. La sua concezione pedagogica si ricava soprattutto dal libro Fondamenti della pe­ dagogia come filosofia applicata scritto pri­ ma del 1936, che illustra come l’uomo pos­ sa svolgere la sua cultura morale attraverso un’iniziale anomia ed eteronomia (assenza di legge e assunzione di legge esterna) ver­ so il traguardo dell’autonomia (attuazione di legge interna); e la sua cultura intellet­ tuale attraverso la conquista di una sempre più intima unità del sapere, dapprima solo episodico, poi sistematico e infine scien­ tifico; questa successione, come H. illustra nel libro Struttura e contenuto della scuola moderna, corrisponde anche ai gradi della scuola e alla prevalenza di un metodo cor­ rispondente (globale, complessivo, corre­ lato, concentrato). 4. Attento alla pedagogia del suo tempo, H. ha svolto penetranti studi su Tolstoj, De­ wey, Montessori, Gentile, Lombardo Radi­ ce, Kerschensteiner; è stato un pionie­re dei primi studi di pedagogia comparata. Si è anche occupato di educazione fisica, musi­ cale, artistica, ambientale. H. ha eser­citato una notevole influenza sulla pedago­gia ita­ liana attraverso le traduzioni dei suoi scritti e l’insegnamento di Lombardo Ra­dice e di L. Volpicelli. Bibl.: Baroni A., H., Brescia, La Scuola, 1959; H.S.I., Difesa della pedagogia, Roma, Avio, 1950; Mazzetti R., S.H. ricercatore tra due civil­ tà, Fi­renze, La Nuova Italia, 1965; Neri R., Esa­ me critico della pedagogia di S.H., Roma, E. De Sanctis, 1968; A ngle I. C. - C. Lasorsa (Edd.), Il bene e il male in Fëdor M. Dostoevskij/S.H., Roma, Armando, 1980.

M. Laeng

HOLMES Brian → Educazione comparata HORKHEIMER Max → Scuola di Francoforte

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HORNEY Karen n. ad Amburgo nel 1885 - m. a New York nel 1952, psicologa tedesca. 1. Dopo la laurea in medicina e la specializ­ zazione in psichiatria porta a termine, presso l’Istituto Psicoanalitico di Berlino, il training psicoanalitico con K. Abraham e H. Sachs. Nel 1919 inizia l’attività privata e diventa membro ordinario dell’Istituto Psicoanalitico di Berlino. Pubblica, fino al 1932 (anno in cui si trasferisce negli Stati Uniti come condi­ rettore dell’Istituto Psicoanalitico di Chica­ go), diversi lavori in cui è già evidente il suo profondo interesse per problemi di tecnica analitica e per le determinanti culturali della personalità nonché l’insoddisfazione per la teoria psicoanalitica classica. In particolare la H. discute la teoria pulsionale e l’universa­ lità del complesso edipico. Considera inoltre l’angoscia di base, concettualizzata come «il sentimento del bambino di essere isolato e impotente in un mondo ostile» e derivante da fattori sociali e culturali, la condizione primaria per i successivi disturbi di perso­ nalità. Nel 1927 sottolinea, nel dibattito svi­ luppatosi nell’Istituto di Berlino sull’«analisi laica», la necessità di una preparazione me­ dica e psichiatrica. 2. Nel 1935 è lettrice presso la School for So­ cial Research e porta avanti la critica alla te­ oria pulsionale freudiana attribuendo un’im­ portanza sempre più rilevante all’ambiente e ai fattori socio-culturali nella formazione della personalità. Nel 1941, per le sue tesi sempre più esplicitamente in contrasto con il pensiero psicoanalitico classico, viene so­ spesa dall’incarico di didatta presso il New York Psychoanalytic Institute: la H. presen­ ta quindi le proprie dimissioni dall’istituto newyorchese e insieme a W. Silverberg e C. Thompson aderisce al gruppo dei cosiddetti «neofreudiani» o culturalisti. Nelle sue ul­ time pubblicazioni sottolinea l’importanza dell’interazione tra i bisogni fondamentali (il bisogno di avvicinarsi agli altri, di auto­ affermarsi e di mantenere la distanza) e le richieste sociali nella formazione della per­ sonalità e propone, utilizzando il concetto di immagine idealizzata (definita come una im­ magine di sé fittizia e illusoria e che indica la distanza o discrepanza tra l’immagine che

HUMBOLDT KARL WILHELM

una persona ha di se stessa e il sé reale della persona) una serie di importanti considera­ zioni sullo sviluppo del Sé.

una in olandese. → Comenio, nella sua analisi dei diversi tipi d’intelligenza, cita più volte lo scritto del filosofo spagnolo.

Bibl.: tra le opere di H.: Die Technik der psycho­ analytischen Therapie (1917), Maternal conflicts (1933), Psychogenetic factors in functional female disorders (1933), Self-analysis (1942) (Autoanali­ si, Roma, Astrolabio, 1971), Feminine psychology (1967) (Psicologia femminile, Roma, Armando, 1973); Bres Y., Freud et la psychanalyste améri­ caine K.H., Paris, Vrin, 1970.

Bibl.: J.H. de S.J., Examen de ingenios para las ciencias; edición de G. Serés, Madrid, Cátedra, 2005; Galino A. (Ed.), Textos pedagógicos his­ panoamericanos, Madrid, Narcea, 1974, 359-401; Prellezo J. M., «H. de S.J.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. III, Brescia, La Scuola, 1989, 5813-5826; Salillas R., Un gran inspirador de Cervantes: el Dr. J.H. y su examen de ingenios, Pamplona, Analecta, 2003.

F. Ortu - N. Dazzi

HUARTE DE SAN JUAN Juan n. a San Juan del Pie de Puerto (Navarra) nel 1529/30 - m. a Baeza nel 1588, filosofo e me­ dico spagnolo. 1. La vita di H. (di cui si hanno poche notizie sicure) trascorre negli anni centrali del «siglo de oro» spagnolo. Studia filosofia all’univer­ sità di Baeza e medicina ad Alcalá; esercita infine la professione medica. L’unico scritto noto è l’Examen de ingenios para las ciencias (1575). Il lungo titolo sintetizza il contenuto del libro: Esame degl’ingegni degli uomini per apprender le scienze in cui si mostra la differenza di abilità che vi è negli uomini e il carattere che ad ognuno corrisponde in par­ ticolare. Allo scopo scientifico si aggiunge una finalità pratica: «È opera da cui chi leg­ gerà con attenzione troverà il modo del suo ingegno e saprà scegliere la scienza che più gli è utile» (Venetia, 1586). 2. Le tesi centrali della concezione di H. sono: «nella specie umana esistono tipi dif­ ferenti d’ingegno, ma ad ogni uomo corri­ sponde, in grado prevalente, un solo tipo. D’altra parte, ogni scienza richiede «il suo ingegno determinato e specifico». La portata di questi fatti viene analizzata in prospettiva sociale (il bene della Repubblica) e indivi­ duale (la necessità di sviluppo di ogni uomo). Nell’Examen, si offre la prima classificazio­ ne delle scienze e delle professioni, secondo le facoltà psichiche. Per misurarne la portata della diffusione e dell’influsso, basti dire che sono state individuate 28 edizioni in sp., 24 in fr., 7 in it., 6 in ingl., 3 in lat., 2 in ted.,

J. M. Prellezo

HUMANITAS ROMANA → Roma: educazione

HUMBOLDT Karl Wilhelm n. a Potsdam nel 1767 - m. a Tegel nel 1835, filosofo, politico dell’educazione, filologo te­ desco. 1. Tra i suoi incarichi, vi fu quello di Capo della Sezione di Insegnamento e Culti del Ministero dell’Interno prussiano (1809-1810). Nell’ambito dell’epoca classico-idealistica tedesca (1770-1830), H. si colloca nel se­ condo periodo, quello classicistico in senso stretto. Il suo ideale fu quello di fondere la forza del potere dello Stato con quella della cultura tedesca: superare il funzionalismo assolutistico e dar vita ad un’attività moral­ mente libera. Il suo ideale educativo fu la formazione integrale, umanistica e armonica dell’uomo interiore; il concetto di Bildung (formazione) è di quest’epoca. H. distinse l’educazione generale da quella professiona­ le (separazione tra uomo e cittadino, contro la tradizione corporativistica); unificò il si­ stema d’insegnamento: scuola elementare, insegnamento scolastico (istruzione media, Schulunterricht, Gymnasium per la forma­ zione non utilitarista) e Università, ognuno come gradino formativo. Per la scuola ele­ mentare adottò i principi fondamentali di → Pestalozzi; la scuola media si resse secondo i principi del Neoumanesimo (con intenso studio dei classici) e fu propriamente il fon­ datore dell’Università di Berlino (1810), che dotò di abili professori e a cui diede ampia libertà di cattedra per la formazione e per la 555

HUMBOLDT KARL WILHELM

scienza. Si trattò di una rivoluzione borghese non applicata in tutte le sue conseguenze, ma che incanalò tutta la politica educativa tede­ sca del sec. XIX. 2. Liberale convinto, le sue idee si scontraro­ no con quelle delle alte sfere della corte prus­ siana per cui abbandonò la politica nel 1819, dedicandosi alla vita intellettuale; tradusse Pindaro, Eschilo, Simonide ed altre opere greche. Il suo lavoro filologico fu importan­ te tanto che si può considerare un iniziatore della filologia moderna. Scrisse anche ottimi lavori sulla civilizzazione dell’India. La filo­ sofia del linguaggio, della storia, l’estetica e la pedagogia furono il vasto campo del suo

556

interesse. Contestò il fatto che la geografia, come scienza descrittiva, non aveva ottenuto una sua autonomia dalle scienze matemati­ che fino al sec. XIX, cosa che invece smenti­ scono i programmi scolastici dell’ultimo ter­ zo del sec. XVIII in Paesi come la Germania, l’Italia, la Spagna. Bibl.: M enze C., Die Bildungsreform W.K.H., Hannover, Schrödel, 1975; A bellán García J. - G. Ossenbach Sauter , Guillermo de H. (1767-1835) y la reforma prusiana. Un sistema nacional de educación, in «Revista de Ciencias de la Educación» 27 (1981) 9-27.

V. Faubell

I IDEALI → Valori

IDEALISMO PEDAGOGICO Con l’espressione i.p. si designa una parti­ colare modalità di rapporto tra la filosofia e la pedagogia, perseguita, nell’Italia della prima metà del Novecento, da autori come → Gentile, → Lombardo Radice e in misura diversa, più contaminata da altri influssi, da professori come Gino Ferretti, → Codignola, Bernardino Varisco. 1. Mentre in tutte le grandi tradizioni filo­ sofiche la pedagogia era di fatto uno svi­ luppo del confronto necessario tra premes­ se teoriche e la realtà depositaria dei dati dell’esperienza, così da configurarsi più co­ me arte che come scienza, l’i.p. tende come suo dovere teorico e logico ad assorbire la pedagogia nella filosofia che diventa il luo­ go in cui si fondano tutte le scienze, quelle della natura come quelle dello spirito. L’i.p. si distingue perciò dal → positivismo pedago­ gico o dallo → storicismo pedago­gico per la ricerca di un principio unitario che non solo vivifichi, ma fondi tutta l’e­sperienza uma­ na. In realtà, più che di i. sa­rebbe opportuno parlare, nel caso italiano, di neoidealismo. Se infatti di una filosofia idealistica moderna si può parlare con rife­r imento a tutti i con­ testi europei, l’i. italia­no, di matrice mista, rinascimentale e kan­tiana prima ancora che hegeliana, è molto particolare perché è stato generato oltre che da un intento speculativo,

dal bisogno civile di ricondurre ad unità e ra­ zionalità l’impetuoso affacciarsi della società bor­ghese alla vita dello Stato. Premessa della soluzione metafisica dell’attualismo gentilia­ no fu certamente l’appello crociano per una «rinascita dell’ideale», nei primi anni del secolo. Esso segnava il massimo tenta­t ivo di apertura della cultura nazionale e risor­ gimentale al confronto europeo e in­sieme il migliore contributo italiano alla ri­nascita della filosofia come problema fondamenta­ le dell’uomo, come fondazione umanistica della metafisica o dell’antimetafisica. Ma mentre per Croce gli sviluppi furono con­ trassegnati da un sempre più marcato storici­ smo e in campo politico da un intransigente liberalismo, per una parte degli intellettuali italiani, riunitisi intorno alla figura di Genti­ le, la scoperta della pos­sibilità teorica di far coincidere la pedago­gia con la filosofia e per suo tramite con la didattica, aprì le porte di un impegno di­retto nel campo della forma­ zione e in particolare in quello della scuola, che portò a schierarsi dalla parte dell’autorità incar­nata dallo Stato. Più che per ogni altra sua versione contemporanea vale pertanto per il neoidealismo italiano la definizione di «pedagogico», perché non esiste nessun si­ stema speculativo contemporaneo che con più forza di quello di Giovanni Gentile ab­bia legato il carattere autogenetico dello spirito alla pratica autoeducativa del conoscere-fa­ cendo e alla riforma dell’educazio­ne e della scuola attraverso la riqualifica­zione e la ri­ motivazione degli insegnanti e dei maestri. La personalità è l’unità asso­luta dell’uomo nel suo farsi e l’educazione – affermò Gen­ 557

IDEALISMO PEDAGOGICO

tile a più riprese – non può assolutamente riferirsi all’uomo se non «immedesimando­ si con il suo movimento radicale e perciò conformandosi intera­mente alla sua unità» (Gentile, 1920). Parallelamente però, anche la nazionalità di un popolo non consisteva – per il filosofo siciliano – semplicemente nel suo contenu­to empirico o molteplice, «ben­ sì nella for­ma che un certo contenuto della coscienza umana assume quando si ritenga costituti­vo del carattere di un popolo». 2. Le posizioni avversarie dell’i.p. sono sta­te fin dalle origini la psicologia e l’etica nel­la loro legittima pretesa di darsi uno statu­to di scienze autonome parziali al servizio di un approccio pluralista al sapere e alla vita. Non a caso Gentile prese le mosse nel 1900 dalla critica allo → Herbart. La con­t rapposizione era prima ancora che sulle premesse di contenuto o sui fini, sul con­cetto del meto­ do della conoscenza che per l’i. non poteva essere che unico ed univer­sale, fondato sul processo dell’autocoscien­z a. Perché tutto ciò che si poneva al di fuo­r i e che resisteva alla dialettica dello spiri­to non era criticabile in quanto distinto, ma addirittura in quanto irreale. La moltepli­cità era il prodotto di un soggetto costantemente sollecitato a sogget­ tivare il suo og­getto. E tuttavia non avrebbe potuto esi­stere un’autocoscienza astratta, che non si concretasse in una coscienza che non fos­se sempre coscienza di qualche cosa. È in questo contesto che prese sempre più po­sto all’interno dell’i.p. l’affermazione gen­ tiliana dell’educazione come sintesi a prio­r i e dunque come possibile risoluzione del­la dualità tra maestro e allievo nell’unita­r ietà dell’atto educativo. Un atto educativo non determinato tanto dalla qualità psico­logica del rapporto quanto dalla coinci­denza dei momenti spirituali di educatore ed educan­ do, che battono all’unisono pur procedendo distintamente a compiere il medesimo atto. Intorno a questo tipo di rapporto maestroscolaro venne a ricosti­t uirsi l’intera costella­ zione dei concetti e delle pratiche educative tradizionalmente esaminate come momenti successivi di un percorso empirico e quindi a fondarsi an­che una particolare teoria della li­ bertà basata sul riconoscimento interiore del dover essere della sostanza spirituale. Ed è in questa prospettiva di superamento di ogni dualismo empirico che poté essere enfatiz­ 558

zato il carattere «spirituale» della cultura come fondamento della società: «La cultu­ra, la vita spirituale che per opera del mae­stro acquistiamo, non è solo qualche cosa di inti­ mo a noi, ma noi stessi, nella vita in cui que­ sto noi si realizza: più intimo a noi, direbbe G. Bruno, che noi non siamo a noi medesi­ mi. Di modo che, se ogni incontro e contatto dell’uomo con l’uomo è una so­cietà, e quindi un’amicizia che richiede mu­t ua fede e accor­ do di anime, la consuetudi­ne dell’educatore e dell’educando è intrin­sechezza spirituale, unità intima, amore» (Gentile, 1913). 3. Il problema dell’i.p., così come per ogni altra filosofia che pretenda di assorbire la pedagogia, è sempre stato quello di va­lutare se l’impianto speculativo di cui si era dotato, molto potente, soddisfacesse in realtà a tutte le esigenze della pedagogia, anche perché il valore di una teoria si mi­sura sulla sua capa­ cità di rispondere non soltanto ad un bisogno astratto di spiega­zione, ma anche a domande specifiche di vita quotidiana e ad interrogativi nuovi. Il contributo di analisi e di esperienza vissuta di Lombardo Radice fu a tal fine deci­ sivo. Se come teoria generale dell’educazione egli non avrebbe potuto spingersi oltre il suo maestro Gentile, come creatore di di­dattica ed autore di programmi scolastici – sono suoi quelli per la scuola elementare del 1924 – sep­ pe arricchire il panorama pe­dagogico italiano con utilissime riflessioni sulla spontaneità e la libertà del fanciullo, ma soprattutto dimo­ strando che dalla me­desima impostazione filosofica si potevano trarre indicazioni peda­ gogiche ed educati­ve diverse e quindi ripor­ tando il rigido schematismo gentiliano a con­ frontarsi con metodi ed esperienze di scuola che valeva­no, prima ancora per la loro leggi­ bilità in termini filosofici, per la loro straordi­ naria efficacia nel motivare, nell’interessare e nel far maturare i ragazzi. Bibl.: Gentile G., Sommario di pedagogia genera­le, vol. I, Bari, Laterza, 1913; Id., La rifor­ ma del­l’educazione, Milano, Treves, 1920; Hessen S., L’i.p. in Italia. G. Gentile e G. LombardoRadice, Roma, Armando, 1966; Braido P., Filo­ sofia dell’educazione, Zürich, PAS-Verlag, 1967; Piccioni L., I. e filosofia del Neo-i. italiano, Urbi­ no, Univer­sità, 1983; Bobbio N., Profilo ideologico del Nove­cento italiano, Torino, Einaudi, 1986.

G. Tognon

IDENTIFICAZIONE

IDENTIFICAZIONE Per i. si intende l’insieme dei processi che portano un soggetto ad assumere sia gli aspetti della → personalità di un’altra perso­ na presa come modello, che le sue caratte­ ristiche e i → valori; essa comporta dunque una modificazione, una riorganizzazione di modi di fare, di pensare, di desideri, interes­ si, ecc., per assomigliare al modello. Questa i. può anche avvenire nei riguardi di gruppi sociali e di istituzioni. Il termine, usato per la prima volta da S. → Freud nel 1897 in una lettera a Fliess, fu in seguito da lui modifi­ cato e variamente specificato, nonché usato nelle sue opere successive con varie acce­ zioni. Freud però intendeva riferirsi sempre ad un meccanismo fondamentale dell’evo­ luzione della persona, che contribuisce alla formazione della personalità, che plasma il carattere e forma l’identità personale. Dopo Freud è stato scritto molto sull’i., considerata sia un meccanismo di difesa che un processo evolutivo normale. 1. L’i. è vista dai teorici della personalità come uno stato a cui la persona giunge attraverso un processo di imitazione di un modello che, nei primi anni, è rappresentato dai genitori; successivamente il fanciullo si identifica con altre figure quali fratelli più grandi, amici, personaggi dello spettacolo ed altri. Facilita il processo di i. la presenza di una dimensione affettiva e la percezione di una somiglianza tra il soggetto ed il modello, nonché la con­ sapevolezza del prestigio e della competenza del modello stesso. Non uno solo di questi fattori determina l’i., ma l’interazione di tutti e tre, anche se con peso diverso. Il processo, inoltre, è sempre presente, sia pure in varie forme, lungo tutto l’arco della vita della per­ sona e può essere usato per affrontare meglio la separazione da oggetti d’amore. Sono state individuate diverse modalità di i. che hanno preso vari nomi. Ricordiamo così l’i. «ana­ clitica» che avvenendo nel primo periodo di vita del bambino ha come oggetto la madre e si presenta come uno stato di fusione con lei, con durata non prevedibile. 2. Un’altra forma, identificata da A. → Freud, è l’i. con l’«aggressore», che compare nel bambino verso i 15-18 mesi d’età, epoca in cui cominciano ad apparire in lui le prime

spinte verso l’autonomia in contrasto con le regole imposte dalla madre. In questa si­ tuazione che il bambino percepisce come difficile per lui, egli introietta alcuni aspet­ ti dell’onnipotenza attiva ed aggressiva che sente posseduti dalla madre al fine di ridurre 1’ → ansia. Verso i 3-6 anni ricompare nuo­ vamente la spinta all’i., ma questa volta essa ha per oggetto il genitore del sesso opposto percepito troppo potente per venir attaccato direttamente, è interessante tener presente che a volte è possibile identificarsi non con l’aggressore, ma con l’aggressione subita o anche soltanto immaginata. 3. Vi sono poi dei tipi di i. che si basano su processi di esteriorizzazione, e fra questi ricordiamo l’i. «proiettiva», concetto moto dibattuto e su cui ci sono posizioni diverse; in generale essa consiste nel proiettare parti del Sé su di un oggetto esterno. Se la per­ sona che riceve la proiezione è disposta ad accoglierla ed a restituirla al soggetto alleg­ gerita e resa più sopportabile, accompagnan­ dola con un atteggiamento affettuoso, l’esito di tale proiezione sarà positivo. Vi sarà al contrario un esito negativo se la proiezione viene respinta dalla persona ed anzi caricata di aspetti personali spiacevoli e cattivi. Ciò avviene, di solito, a causa dei problemi delle persone oggetto della proiezione. Sempre in questo settore ricordiamo quel tipo di i. che si può chiamare di «dipendenza» in quanto la persona sente di poter vivere solo in un rapporto di amore e di sicurezza offerto­ le da un’altra persona a lei cara. Va tenuto presente che questa i. è diversa da quella chiamata «speculare» in quanto in questa il soggetto dà solo importanza alle somi­ glianze con sé individuate nell’altro e in cui considera l’altro come la copia di se stesso. Questo costituisce un pericolo in quanto, per la formazione di una corretta immagine di sé, è necessario che l’altro sia percepito come differente da se stesso. Pure basata su mec­ canismi di esteriorizzazione, è l’i. chiamata «imitativa» o «adesiva» che però è molto di­ versa dalle precedenti in quanto il soggetto si identifica solo con l’apparenza esterna ed il comportamento dell’altro senza che nella sua personalità si verifichino modificazioni pro­ fonde. Ma, se la modalità identificatoria non si ferma a questo, anche tale particolare tipo di i. può essere positiva in quanto permette 559

IDENTITÀ

di fare esperienze di successi o di sconfitte attraverso l’uso dell’onnipotenza e delle ca­ ratteristiche dell’altro, fino a giungere a sa­ per dominare il mondo delle cose, a sapersi adattare alle situazioni, ad organizzarsi nelle azioni in maniera personale e creativa. 4. Da quanto esposto è facile individuare quante e quali siano le difficoltà insite nel processo di i. intrapreso da ogni persona poiché esso potrebbe anche avere un esito patologico qualora l’oggetto di i. non fosse empaticamente disponibile come modello. Si può individuare in questi ed in altri tipi di i. anche una caratteristica protettiva quando essi permettono alla persona di sottrarsi per qualche tempo a forze avverse che vorreb­ bero privarla con violenza della possibilità di crescere e di vivere la propria affettività, non consentendole così di costruire o con­ servare la propria identità; se grazie all’i. la persona può guadagnare del tempo per ri­ organizzare le proprie capacità di reazione agli eventi, si può cogliere la positività di tale funzione. Le varie i. hanno anche un ruolo positivo e di aiuto nella crescita quan­ do, grazie all’i. con un modello positivo e gratificante, viene permessa l’interiorizza­ zione delle norme, la formazione della co­ scienza, e quella di atteggiamenti specifici del proprio sesso, nonché una soddisfacente → socializzazione. Bibl.: Freud S., «Minute teoriche per Wilhelm Fliess», in S. Freud, Opere 1892-1897. Progetto di una psicologia ed altri scritti, Torino, Bolla­ ti Boringhieri, 1968, 58-63; Schafer R., Aspetti dell’interiorizzazione, Roma, Armando, 1972; Grinberg L., Teoria dell’i., Torino, Loescher, 1982; Erikson E. H., Gioventù e crisi di identità, Roma, Armando, 1984; Sandler J., Proiezione, i., i. proiettiva, Torino, Bollati Boringhieri, 1988; D’A lessio C., Il fanciullo dotato. I. e ambiente educativo, Salerno, Edisud, 2002.

W. Visconti

IDENTITÀ Per lungo tempo il termine i. è stato onni­ comprensivo e solo in un secondo momento sono state introdotte distinzioni tra i. per­ sonale, sessuale, di genere e sociale. 560

1. Tipi di i. Per i. personale si intende una struttura mentale, con proprietà sia cogni­tive che affettive, che comprende la per­cezione di sé come essere distinto e sepa­rato dagli altri, con un insieme di caratteri­stiche diverse, pur nella loro similarità, da quelle di ogni altro individuo. Essa consen­te una percezione ed una valutazione di sé come persona con una propria coerenza ed una continuità che persi­ ste nel tempo, pro­vocando così la sensazione di essere un in­dividuo unico, con una propria realtà. L’i. sessuale è legata al modo in cui la persona si percepisce e si definisce in re­ lazione al proprio corpo. Infatti alla nascita ogni individuo presenta delle caratteristiche ses­suali specifiche che gli sono date dagli or­gani sessuali in base a cui lo si definisce co­me uomo o donna. Il sesso è quindi legato alle caratteristiche biologiche della perso­na a cui si accompagnano le attitudini che si sviluppano nel tempo in quanto legate all’es­ sere predisposti come uomo o donna. Per i. di genere si intende il riconoscimento e la consapevolezza che ciascuno ha di sé come maschio o femmina, ed è, di conse­g uenza, una creazione culturale, legata a fenomeni socioculturali, che di solito si consolida nel → bambino in maniera speci­fica e stabile verso la fine dell’età pre­scolare. Da questo periodo in poi il modo in cui il → fanciullo si rela­ ziona con i geni­tori si diversifica in rappor­ to alle carat­teristiche sessuali. Nel periodo di età che va approssimativamente dai 6 ai 12 anni, nel fanciullo viene ad organizzarsi quella che si può chiamare i. sociale, poiché gli viene ormai assegnato un posto nella so­ cietà, posto in parte mobile essendo legato al suo sviluppo, in parte potenziale, in quanto si può far riferimento a quella che sarà la sua futura professione, ed in parte permanente, come quando, ad es., ci si ri­ferisce al suo cre­ do religioso. 2. L’elaborazione dell’i. Ciascuna persona durante gli anni evolutivi elabora un pro­ prio concetto di i. che comprende l’insieme dei ruoli e delle qualità che, a suo parere, la distinguono da ogni altra. In questo lavoro di selezione e di appropriazione di tratti, scopi, motivazioni, valori, ecc., agiscono elemen­ ti cognitivi, fattori inconsci e pres­sioni so­ ciali. Tutto ciò avviene tra molte difficoltà. Infatti nella prima fanciullezza si trovano delle forme di i. che possono ve­dersi come

IDEOLOGIA

immaginarie in quanto fanno ri­ferimento a personaggi eroici, o sono un adeguamento ad i. volute o suggerite dagli educatori ed ac­ cettate sotto la spinta del­l’affetto che lega il soggetto alle persone si­gnificative che gliele propongono. Sono i. che possono convivere insieme ed ignorar­si a vicenda. Ma proprio perché sono in lar­ga misura forme di i. sug­ gerite o solo una sintesi di ruoli e qualità che, a parere del giovane soggetto, possono differenziarlo dagli altri, cadono in crisi nel periodo ado­lescenziale. Infatti nell’ → adole­ scenza il giovane attraversa una fase di vera e pro­pria confusione di i., in quanto non riu­ scendo a vedere con chiarezza «chi è», ten­ ta di sperimentare varie i. cambiando an­che stile di vita e modalità di rapporto con cose e persone. Ciò gli permette di ela­borare una i. che pur non cancellando com­pletamente quella instaurata nel preceden­te periodo di età, risulti una rielaborazio­ne delle nuove esperienze di vita ed un riadattamento alle stesse in accordo con il nuovo concetto di sé. Quello che dall’e­sterno può essere con­ siderato come uno stato di incertezza e di insicurezza, rappre­senta in realtà una lotta che la persona in­gaggia con se stessa e con il mondo che lo circonda al fine di perfezio­ nare la sua cre­scita emotiva, cognitiva ed esperienziale. 3. L’evoluzione del senso d’i. Continua an­ che da → adulti, nonché da → anziani. In ogni periodo agiscono sul proprio concetto di i. i molti eventi della vita che inducono la perso­ na a fare il punto della propria situa­zione, a rimettersi in discussione ed a ridi­mensionare alcuni aspetti della propria personalità, non­ ché i modi di pensare e di provare l’affettività. Questa variazione del concetto della propria i. deve necessaria­mente avvenire affinché il soggetto sia in grado di riconoscersi e prose­ guire nei suoi compiti per non incorrere nel pericolo di cadere in una disorganizzazione della pro­pria i. Per quel che riguarda il perio­ do del­la vecchiaia bisogna inoltre ricordare che l’i., contrariamente a quanto appare, non si cristallizza in una data forma fino alla fine della vita della persona, ma seguita a subi­re un’evoluzione anche se con ritmi molto più lenti di quelli delle età precedenti. Alla base dell’i., intesa in senso complessivo, so­no in­ dividuabili tratti stabili che permetto­no alla persona di riconoscersi sempre, in ogni età

ed in ogni situazione della vita, malgrado la molteplicità dei cambiamenti che sono avve­ nuti e che stanno avvenendo. È infine da tener presente che, se nella for­mazione dell’i., un fattore essenziale è rap­presentato dall’espe­ rienza di un amore sol­lecito ed attento, al­ trettanta importanza as­sume l’accettazione dell’esperienza della propria solitudine on­ tologica che, pur nel dolore che può portare con sé, permette di scoprire il proprio sen­ so di continuità, di comprendere quanto sia importante il giungere a valorizzare se stessi indipen­dentemente dall’opinione degli altri e di fortificare la propria volontà per consegui­ re mete sempre più alte. Bibl.: Mussen P. H. - J. J. Conger, Lo sviluppo del bambino e la perso­nalità, Bologna, Zanichel­ li, 1981; Guidano V. F., La complessità del Sé - un approccio sistemico-processuale alla psicopato­ logia e alla terapia cognitiva, Torino, Bollati Bo­ ringhieri, 1988; Duveen G., «Asimmetria nello sviluppo dell’i. di genere», in C. A rcidiacono (Ed.), I., genere, differenza. Lo svi­luppo psichico femminile nella psicologia e nella psicoanalisi, Milano, Angeli, 1992; Oliverio Ferraris A., La ricerca dell’i. Come nasce, come cresce, come cambia l’idea di sé, Firenze, Giunti, 2007.

W. Visconti

IDENTITÀ DI GENERE → Donna → Educazio­ ne di genere → Uomo: immagine/modelli

IDEOLOGIA Insieme organico di idee, implicante una certa visione del mondo e della vita, con funzione regolativa e normativa della pras­si, politica in particolare. 1. Gli illuministi francesi dell’Enciclope­ dia e il loro epigono A. Destutt de Tracy (1754-1836), introduttore del termine, cre­ devano necessaria per i loro tempi un’in­ dagine cri­t ica sull’origine, la natura e il valore delle idee, in opposizione alle dot­ trine tradizio­nali. L’i. veniva così ad essere un aspetto della battaglia degli illuministi contro l’An­cien régime. Pare sia stato Na­ poleone a bol­larli come «ideologhi», cioè gente astratta, non concreta, segnando così il termine di una connotazione ironica 561

IGIENE

e negativa, vicina a quella che le darà K. Marx (→ Marxismo). Dopo di lui, l’i. è stata considerata come una razionaliz­zazione e giustificazione teorica del potere politico e dei privilegi economico-sociali delle classi dominanti, come uno strumento di conser­ vazione dell’assetto so­ciale esistente e come dominazione «mentale» delle classi subal­ terne. In tal senso lo stesso Marx chiamò i. l’idealismo tedesco, in quanto espressione ideale degli interessi della «classe» prussia­ na al potere in Germania, e bollò lo stesso materialismo di L. Feuer­bach come i. del­ la borghesia illuministica. A partire dagli anni venti, con i cosiddetti sociologi della conoscenza (K. Mannheim, R. K. Merton, G. Gurvitch, P. A. Sorokin) e con neomarxisti, come G. Lukács o → Gramsci, si mette in risalto un versante se­mantico più positivo di i., nel senso che, pur sorgendo come espressione e giustificazio­ne di parte, può dar forza a ideali di liberazione e pro­ mozione umana, stimolare la costruzione di strategie operative, favorire teoriz­z azioni filosofiche, scientifiche e tecnologiche. 2. L’educazione e la formazione (e la scien­ za o le teo­rie pedagogiche) possono risultare «apparato ideologico» (come le disse L. Al­ thusser) per la trasmissione, la riproduzione e l’in­teriorizzazione delle i. dei gruppi socia­ li dominanti. Negli anni ’80 si è parlato di «tramonto dell’i.», ad indicare la caduta del carattere assolutizzante ed egemonizzante di essa. Ma è venuta a cadere anche la sua funzione di mediazione culturale e di spinta ideale: specie nell’oggi, sempre più dominato dal «discreto fascino» dell’i. neo-capitalisti­ ca e dalla propaganda consumistica del mer­ cato mondializzato. In tal senso la vi­gilanza critica, l’idealità umanistica, la responsabili­ tà etica e la correttezza deontologica restano tratti imprescindibili del lavoro educativo e del­la ricerca pedagogica. Bibl.: Broccoli A., I. e educazione, Fi­renze, La Nuova Italia, 1974; Rossi Landi F., I., Milano, ISEDI, 1977; Catalfamo G., L’i. e l’educazio­ ne, Messina, Peloritana, 1980; Colletti L., Il tramonto dell’i., Roma/Bari, Laterza, 1980; A ntonucci M. C., I. e comunicazione. Costruzio­ ne di senso e nuove tecnologie, Milano, Angeli, 2006.

C. Nanni

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IGIENE È quella branca della medicina che mira a conservare la salute prevenendo o elimi­ nando i pericoli che la minacciano. Studia i mezzi idonei a favorire il normale svolgi­ mento delle varie funzioni dell’organismo e si interessa della bonifica dell’ → am­biente. In questo senso abbraccia tutto l’ambito della medicina preventiva, ma non si limita soltanto ad esso, poiché si estende all’ambito psicologico cercando di garanti­re l’equilibrio psichico di ogni soggetto e il suo armonico inserimento nell’ambiente sociale. Inoltre, configura i principi gene­rali in base ai quali vengono emanate le norme operative. 1. Articolazioni. La pratica dell’i., si attua a livello sia individuale (personale) sia col­ lettivo (pubblica). L’i. personale si riferi­ sce tanto al corpo quanto alla mente. Per la prima parte tratterà (e si curerà) dell’a­ limentazione, del vestiario, del lavoro, del­lo → sport, del disinquinamento degli am­bienti. Per la seconda parte aggiungerà la regola­ mentazione del sonno (indispen­sabile per il sistema nervoso centrale quale substrato fi­ sico delle attività mentali); lo sviluppo della capacità di auto ed etero-gratificazione; la gestione delle emozioni, degli affaticamenti e degli adattamenti; la cura di validi rappor­ ti interpersonali ecc. L’i. pubblica si occupa degli ambienti (suo­lo, acqua, aria, abitazioni comunitarie, uf­fici, mezzi di trasporto pub­ blico); del lavo­ro collettivo e delle condizioni in cui esso viene svolto. Sorveglia sulle mi­ nacce che possono derivare da eventuali in­ curie nello Smaltimento dei rifiuti e previene le epide­mie. Si distingue pertanto un’i. gene­ rale e un’i. speciale per diversi settori. Si può considerare anche un aspetto promoziona­le dell’i., che si identifica con l’educazione alla → salute. 2. Cenni storici. Nelle antiche civiltà non sono mancate le prescrizioni e le proibizio­ ni per garantire la salute. Nella Bibbia esse sono numerose e assumono una forma di sacralità che alcune volte le fa assomiglia­ re alle prescrizioni liturgiche. Nella forma scientifica moderna bisogna riferirsi al sec. XVIII e XIX specialmente dopo le scoperte di Pasteur sui germi e la possibilità di steri­ lizzazione. Le bonifiche e le disinfe­stazioni

ILLUMINISMO

hanno eliminato tanti pericoli di contamina­ zione e l’avvento degli antibio­tici ha dato la possibilità di combattere con successo i bat­ teri. Contro i virus invece si approntano di solito forme indirette che stimolano le difese dell’organismo. Le vac­cinazioni, l’apporto vitaminico abbondan­te, specie alimentare, e tutti i ritrovati che possono stimolare ade­ guatamente le difese immunitarie sono prov­ vedimenti utilissi­mi per difendersi contro gli aggressori mi­crobici. 3. Note generali d’i. L’aria che respiriamo dovrebbe avere pressappoco la seguente composizione: Azoto 78%, Ossigeno 21%, gas rari, fra cui il più importante è l’argo, 1%, biossido di Carbonio (anidride carbo­n ica) 0,04%. Non ci dovrebbero essere né altri gas né germi patogeni né molto pulvi­scolo né so­ stanze allergizzanti, nocivi spe­cialmente per le vie respiratorie. La tem­peratura dell’aria dovrebbe aggirarsi fra i 15 e i 25 gradi, tenu­ to conto che la tempe­ratura interna dell’orga­ nismo è fra i 39 e i 40 gradi. Il grado di umi­ dità è pure di note­vole importanza e non ci dovrebbero esse­re più di 8 grammi di vapore acqueo per metro cubo di aria. Un’umidità troppo bas­sa lede la mucosa delle vie respi­ ratore, mentre una troppo alta, specialmen­ te se fredda, favorisce le artrosi e le forme reumatiche. L’umidità alta e calda deprime il funzionamento del sistema nervoso. 4. L’alimentazione dovrebbe essere valuta­ta bene sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Si parte dal dato fonda­mentale che il metabolismo basale, cioè il consumo di energie a completo riposo e a temperatura standard è di circa 1.500 calo­rie per un sog­ getto di metri 1,70 di altezza, 70 Kg di peso e metri quadrati 1,70 di su­perficie corporea. A queste calorie del metabolismo basale bi­ sogna aggiungerne altre 1.000 per un lavoro medio e 1.500 per un lavoro pesante, con un totale di 3.000 calorie. Gli sportivi, i minato­ ri, i militari in situazioni particolari possono raggiungere occasionalmente cifre più alte; tuttavia è sempre necessario non eccedere per non determinare sovrappeso. Le diete variano a seconda delle temperature ambien­ tali, del lavoro da svolgere e del periodo di cre­scita o meno. La dieta mediterranea ha pressappoco queste indicazioni: glicidi da 60 a 65%, lipidi da 20 a 25%, protidi da 15 a

20%, tenendo conto che nel periodo di cresci­ ta si aumentano i protidi che rappre­sentano il principale materiale di costru­zione. 5. L’i. scolastica tiene conto non solo delle cubature e del riscaldamento degli ambien­ ti interni e dell’idoneità di quelli ester­ni con parchi e attrezzature per i giochi, ma anche della resistenza degli allievi al lavoro men­ tale a seconda dell’età. Diamo qualche rife­ rimento: un bambino di 6-7 anni può presta­ re attenzione per non più di un quar­to d’ora consecutivo e durante il corso del­la giornata può eseguire lavori mentali per non più di tre ore; uno di 12-13 anni per 4 ore circa; una persona adulta per circa 8 ore. Una cosa estremamente importante dal punto di vista psico-pedagogico sareb­be che le varie agen­ zie educative (famiglia, scuola, parrocchia, club, ecc.) condivides­sero gli stessi princi­ pi pedagogici, avessero in comune i valori umani fondamentali e una stessa visione an­ tropologica di base in modo da non disorien­ tare i soggetti in cre­scita. Bibl.: Checcacci L., Medicina preventiva e I., Mi­lano, Ambrosiana, 1984; Lyon J., Il libro del­ le vita­mine, Torino, Garzanti, 1987; K enney R., Fisiolo­gia dell’invecchiamento, Roma, Il Pensie­ ro Scien­tifico, 1991; D’Alterio G. - A. Pisacane, AIDS e adolescenti, Ibid., 1993; Del Toma E., Le scelte alimentari, Ibid., 1993; A rnaud P. - G. Broyer (Edd.), Corpo e movimento, Roma, Bor­ la, 1994; Aloi Totaro E., I. come educazione alla salute, Reggio Calabria, Falzea, 1999.

V. Polizzi

ILLICH Ivan → Descolarizzazione

ILLUMINISMO 1. Con il termine I. (Ilustración in sp.) si in­ dica la corrente cul­t urale (effetto e causa allo stesso tempo) che accompagna gli avveni­ menti culturali, scientifici, sociali, economi­ ci e politici che attraverseranno l’Europa tra la fine del sec. XVII ed il XVIII. Dal punto di vista pedagogico, si carat­terizza per la scoperta della stretta relazio­ne esistente tra → educazione, virtù, felicità umana e pro­ gresso sociale. Si genera in tal modo una fi­ ducia illimitata nell’educazio­ne. Questa deve 563

IMITAZIONE

essere un processo ispira­to all’esperienza (empirismo), opposta a quella scolastica, al progresso, che è conce­pito come antago­ nistico e incompatibile con la tradizione, e alla ragione di fronte alla autorità, compresa quella religiosa. L’I. diventa essenzialmente operativo, me­diante le riforme secolarizza­ trici dell’inse­g namento – non necessaria­ mente scristia­nizzanti – che facciano da base all’educa­zione moderna. Lo Stato inizia così i siste­mi di educazione nazionale. 2. L’I. assume aspetti diversi nei vari Pae­ si. L’Enlightenment preparato da → Locke ha la sua patria in Inghilterra. A. Smith (1723-1790) tratta il tema della virtù (molto rile­vante nell’I.) e pone il sentimento come ba­se della morale. La Francia è il Paese in cui l’I. o Philosophie des lumières si diffu­ se maggiormente. Fra i cosiddetti philoso­ phes, F. M. Arouet de Voltaire (1694-1778) è il propagandista più attivo contro la fede cattolica. Il sensista E. Bonnot de Condillac (1715-1780) influenza le riforme dell’educa­ zione con i dodici libri del suo fa­moso Cours d’études. Il materialismo e l’a­teismo di Dide­ rot (1713-1784) e di D’Alem­bert (1713-1783) radicalizzano le idee illu­ministe nella Ency­ clopédie o Dictionnaire raisonné des scien­ ces, des arts et des métiers (1751-1765) che appronta le basi ideologiche della Rivolu­ zione francese. Durante l’I. o Aufklärung in Germania, le scuole di origine pietista e il Paedagogium di Halle fondati da → Fran­ cke introducono il reali­smo didattico e, dalla Prussia, rappre­sentano un modello per tutta l’Europa; so­no considerate il precedente del­ la Realschule tedesca, tipo di insegnamento secon­dario senza studi classici. 3. In Italia, l’I. si sviluppò con ritmo diffe­ rente negli antichi Stati. Nel Regno di Sar­ degna si attua la riforma dell’Università di Torino (1720). Il suo ispiratore, Francesco d’Aguirre, scrive Della fondazione e rista­ bilimento degli Studi generali di Torino, un modello per le riforme scolastiche di tutto il secolo. A Napoli si mette in evidenza A. Genovesi che, nell’anno accademico 1754-55 insegna all’università economia politica in it. L’educazione è per lui un problema politi­ co, sociale ed economico. G. Filan­gieri, che nella sua Scienza della legislazio­ne (1785) radicalizza le idee del Dispotismo illumina­ 564

to, mette tutta l’educazione nelle mani del­ lo Stato e ignora le capacità edu­cative della famiglia. Le riforme ebbero maggior portata a Milano, Modena, Man­tova e Parma. Spe­ cialmente quest’ultima divenne ben presto un centro diffusore dei Lumi. 4. In Spagna l’I., a partire da Carlo III (1759-1788), darà inizio alla politica sco­ lastica del dispotismo illuminato. B. J. Feijóo (1694-1764) nel Teatro crítico uni­ versal (1726-1741) e nelle Cartas eruditas (1742-1760), difende un insegnamento ispi­ rato al­l’esperienza, all’utilità e alla ragione; P. de Olavide (1725-1803) con il Plan de estu­ dios de la universidad de Sevilla (1768), rea­ lizza la prima riforma dell’università iniziata in Spagna; G. Mayáns y Siscar (1699-1781) contribuisce con Idea del Nuevo método que se puede practicar en la enseñanza de las universidades de España (1767); → Jovella­ nos affronta sistematicamente, per la prima volta, le questioni educative nella sua Me­ moria sobre Instrucción Pública o Tratado teórico práctico de enseñanza (1802). Il se­ colarismo dell’I., spagnolo rende in generale compatibile l’esercizio della ra­gione con l’or­ todossia della fede cattolica. Bibl.: Santos Puerto J., Martín Sarmiento: ilus­ tración, educación y utopía en la España del s. XVIII, La Coruña, Fundación Pedro Barrié, 2002; Bolufer Peruga M., Visiones de Europa en el siglo de las luces: el viaje fuera de España, in «Studio» 28 (2002) 167-204; Enciso A lonso Muñumer I. (Ed.), Carlos III y su época: la mo­ narquía ilustrada, Barcelona, Carroggio, 2003; M ateos Dorado D., Campomanes doscientos años después, Oviedo, Inst. Feijoo de Estudios del s. XVIII, 2003.

Á. Galino - Á. del Valle

IMITAZIONE L’i. è una forma di → apprendimento che viene adoperata intenzionalmente, ma che si verifica anche in modo spontaneo, e già si ritrova negli animali superiori. 1. Nella formazione degli sportivi e nell’ap­ prendimento delle lingue straniere si impara per i. Anche il comportamento religioso del

IMMAGINI

fanciullo incomincia dall’i. Nell’imitare un comportamento aggressivo o un comporta­ mento altruistico, l’i. assume una rilevan­ za etica, nella misura in cui ciò avviene in modo responsabile e libero. Anche l’i. spon­ tanea è rilevante per la → socializzazione. Talvolta però risulta nociva (per es. un colpo di karate nel cortile della scuola elementa­ re). L’i. di aggressioni fu oggetto di ricerca da parte di A. Bandura a partire dal 1963. Con sperimentazioni sempre rinnovate, dal vivo o per mezzo di un filmato, si mostrava a bambini (di circa 50 mesi) come si colpisce, calpesta e tratta male una bambola di plasti­ ca. Una parte dei bambini osservati imitava spontaneamente il comportamento; la mag­ gior parte però soltanto dietro promessa di reinforcement (succo di frutta, cioccolati­ no). Il risultato fu chiaro: praticamente tutti i bambini imparano per i., vengono quindi «formati» (shapped: acquisition), anche se (momentaneamente) non traducono a livello motorio ciò che hanno imparato. Dietro rein­ forcement praticamente tutti i bambini ma­ nifestano (emission) l’aggressione che hanno imparato intrinsecamente (performance). 2. Per ciò che riguarda l’aspetto educativo, non appena è stata osservata un’aggressio­ ne, immediatamente dovrebbe seguire come feed-back un apprezzamento negativo. Il comportamento successivo (anche nel grup­ po) va controllato ed eventualmente, propor­ zionatamente all’età, va punito. Anche se da molti l’i. è considerata una forma primitiva di apprendimento, essa è tuttavia necessaria. L’importante è che a livello educativo ven­ ga trasformata in un libero «apprendimento dell’esempio». Certo, vi sono anche cattivi esempi, persino tra i cristiani (abuso di po­ tere, cfr. Mt 23). «Apprendimento dell’esem­ pio» non è da considerarsi a priori come «manipolazione». Ognuno impara attraverso l’i. dei genitori e degli educatori gli atteggia­ menti etici fondamentali. 3. Passando all’agire autonomo, personal­ mente responsabile, si impara ad assumere un atteggiamento libero e creativo di fron­ te all’esempio. L’apprendimento per mezzo della ragione (discorso) ha una funzione li­ berante e rinforzante a questo riguardo. La tendenza a considerare il discorso critico come l’unica forma legittima di apprendi­

mento etico significa «intellettualismo sul piano dell’ → educazione morale». Bibl.: Bandura A., Influences of model’s re­ inforcement contingencies on the acquisition of imitative responses, in «Journal of Personal­ ity and Social Psychology» 1 (1965) 6; Stachel G. - D. Mieth, Ethisch Handeln Lernen, Zürich, Benziger, 1978; Visconti W., «I.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. III, Brescia, La Scuola, 1989, 5930-5933.

G. Stachel

IMMAGINE CORPOREA → Schema corporeo

IMMAGINI Dal lat. imago, il termine i. ha accezioni molteplici e diversificate. Si tratta della ri­ produzione di una persona o di un oggetto sotto forma pittorica o scultorea; dal punto di vista della fisica, l’i. è l’insieme di punti (reali o virtuali) dove vanno a convergere, dopo essere pas­sati attraverso un sistema di lenti, i raggi lu­minosi provenienti dai diver­ si punti di un corpo luminoso scelto come oggetto. Nella scienza informatica l’i. è una replica esatta del contenuto di una memoria di massa come può essere il disco rigido. Nel campo del marketing, l’i. è la sintesi delle opinioni che il pubblico ha di un’impresa e dei suoi prodotti, derivante da un processo di sedimentazione delle relazioni fra pubblico e impresa e/o prodotti. L’i. grafica è un se­ gno grafico riconoscibile (logotipo, marchio) adeguato alla tipologia di una impresa e alle caratteristiche dei suoi prodotti. Un’i. virtua­ le è l’i. formata dai raggi luminosi provenien­ ti da un oggetto che passano attraverso lenti convergenti (concave). L’i. virtuale risiede tra le lenti e l’oggetto ed è eretta. 1. Dal punto di vista fisiologico si parla di i. retinica, da quello tecnico si parla di i. fo­tografica o, nel caso del cinema, di foto­ gramma. In riferimento alla televisione tra­ dizionale, si tratta dell’insieme di linee oriz­ zontali de­scritte nel corso di un’analisi com­ pleta del soggetto trasmesso. In riferimento alla televisione digitale l’i. è ottenuta grazie a dati digitali di modulazione che vengono compressi e richiedono una decodifica. È 565

IMPEGNO EDUCATIVO

possibile produrre l’i. sinteticamente, anche in movimento, come le i. di sintesi della real­ tà virtuale rea­lizzata su computer o le i. 3-D o le i. olo­grafiche e stereoscopiche. 2. Applicazioni didattico-educative e forma­ tive. I. sono le illustrazioni di vario tipo, in bianco e nero e/o a colori, presenti nei libri di testo; i fotomontaggi composti dall’incollare insieme i. o parti di i. su una sin­gola carta o utilizzando programmi di grafica per com­ puter; le i. su acetati proiettate con la lavagna luminosa sono state oggi sostituite dalla pro­ iezione attraverso il computer e il proiettore (→ mezzi didattici). 3. Ricerche in psicologia cognitiva. Studi scientifici sulle i. mentali hanno ac­cresciuto la comprensione della relazione tra i. e per­ cezione e hanno aiutato a iden­tificare le pro­ prietà spaziali, percettive e trasformazionali delle i. nonché come le i. interagiscono con la percezione e come le scoperte visive pos­ sono essere fatte usan­do le i. Queste ricerche hanno portato una notevole ricaduta didat­ tica: la formazione di i. mentali di oggetti e/o di concetti facili­ta la comprensione e la me­morizzazione di conoscenza dichiarativa e di conoscenza procedurale. In riferimento alle loro applicazioni pratiche, le i. possono essere usate per migliorare la prestazione percettiva, per modificare il coordinamen­to visivo-motorio, per verificare relazioni spa­ ziali tra gli oggetti (→ scienza). Bibl.: Gombrich E.H., The uses of images, Lon­ don, Phaidon, 2000; Jensen R. A., Envisioning the word: the use of visual images in preaching, Augsburg, Fortress Press, 2005.

C. Cangià

IMMIGRAZIONE → Emigrazione

IMPEGNO EDUCATIVO È l’atteggiamento e la modalità etica atti­ va, che ri­g uarda il singolo → educatore, gli → edu­candi e l’intero sistema educativo, che pas­sa dal bisogno al valore, al senso, al moti­ vo, al compito, all’attuazione concreta e alla sua continuità nel tempo e nella vita delle persone e delle società. 566

1. La psicologia sociale di S. A. Asch (1955) e le ricerche sulla decisione di H. Thomae (1960) hanno dimostrato speri­mentalmente la possibilità e le vie alla formazione di compiti e decisioni autonome, rifiutando l’opinione che l’unico movente dell’i. possa essere l’egoismo (desiderio, paura), magari sublimato, dilatato, condi­viso e prolungato verso esiti migliori. 2. L’i.e. include l’attenzione alla situazione e ai suoi problemi, la tensione ai fini, la con­ centrazione coerente e costante sui mezzi che vi conducono, l’azione necessa­r ia e le condizioni che la rendono valida e sicura. Negli educatori è decisione ferma di inve­ stire nella situazione («campo») le mi­gliori risorse personali, di promuovere con­dizioni e mettere in atto gli strumenti per operarvi in modo giusto e ottenere i risul­tati voluti e richiesti. Nei → giovani è at­tenzione agli edu­ catori, tensione per co­gliere i messaggi pro­ grammatici interiori ed esteriori, assunzione dei fini ultimi e scalari, concen­t razione attiva delle forze sui mezzi per produrre i risultati. Per tutti è massima convergenza attiva nel lavoro comune o, come oggi si dice, di rete. Nei gruppi e nelle comunità l’i.e. presuppone la condivisione ideale e la conver­genza ope­ rativa, per quanto diversamente giustificata e motivata. Ciò richiede l’i. dei responsabi­ li per il confronto e il dialogo a tal fine. Per impegnarsi ogni soggetto potrebbe mettere in gioco → va­lori e motivi o convergere sem­ plicemente sulla oggettività dei risultati e quindi sull’uso efficace dei mezzi. Tuttavia la condi­visione degli stessi valori e motivi è condi­zione ideale, spesso da produrre come pre­messa non sempre facile da conseguire. 3. Nelle → istituzioni formative l’i.e. condi­ viso e convergente è obiettivo previo da ot­tenere con la condivisione unitaria di in­ teressi, responsabilità, amore, volontà, at­ tenzioni. Ma anche la competenza generale e specifica, a saper operare in team o in rete, è fattore di buona disponibilità all’i. Lo è pure la valoriz­zazione delle persone, la stima, la fiducia, l’esistenza di margini di libertà di con­t ributo attivo, libero, creativo. Nel siste­ ma è fondamentale e primario l’i.e. di chi è responsabile e promotore. L’ → esemplarità che si fa → testimonianza, dilata e realizza la condivisione attiva dei valori e dei motivi, la

INCONSCIO

fiducia e l’energia personale che alimentano l’i.e. e lo fanno perseverare nel tempo, anche attraverso difficoltà e momenti di crisi o di stress.

ambiente di apprendimento aperto. In questo quadro va anche garantita a ciascuno l’uti­ lizzazione delle nuove tecnologie data la loro rilevanza ai fini dell’i.s.

Bibl.: Butturini E., Disagio giovanile e i.e., Bre­scia, La Scuola, 1984; Santelli Beccegato L. (Ed.), Bisogno di valori: per un rinnovato i.e. nella società contemporanea, Ibid., 1991; Giussani L., Il rischio educativo, Milano, Rizzoli, 2005.

2. Obiettivi e strategie a livello micro. Un primo obiettivo consiste nello sviluppare le capacità per la → società della conoscenza. Passando nello specifico, bisognerà raffor­ zare l’alfabetizzazione di base e consentire a tutti di acquisirne un livello operativo ade­ guato perché qui risiede la chiave di volta di tutte le successive capacità di apprendimento e dell’occupabilità. Strategia fondamentale per raggiungere questo obiettivo è di rendere l’apprendimento più attraente. Nella stessa li­ nea altri due impegni del prossimo decennio consistono nell’incentivare gli studi scientifi­ ci e tecnici e nel migliorare l’apprendimento delle lingue straniere data la loro incidenza sulla i. ed esclusione sociale delle persone.

P. Gianola

INCHIESTA → Ricerca educativa/pedagogica

INCLUSIONE SOCIALE Per i.s. si intende un processo multidimen­ sionale di interventi rivolto ad assicurare la piena partecipazione di tutti alle opportunità sociali. Qui ci si limiterà all’ambito educa­ tivo. 1. Obiettivi e strategie a livello macro. Di fronte alle sfide della globalizzazione e della nuova economia basata sulla conoscenza, nel 2000 l’UE si è data a Lisbona un programma per questo decennio e ha individuato in un grande rafforzamento dell’istruzione e della formazione la chiave di volta per realizzare, tra l’altro, l’i.s. Ricordo i capisaldi, rilevan­ ti per il nostro tema, di questo progetto che vincola tutti i Paesi dell’Unione, compresa l’Italia. In primo luogo si tratta di migliorare la qualità e l’efficacia dei sistemi di istruzio­ ne e di formazione in modo da consentire a tutte le persone di realizzare il loro po­ tenziale in qualità di cittadini e di rendere i sistemi sociali più competitivi e dinamici. La prevenzione dall’esclusione sociale deve prendere le mosse proprio dalla realizzazio­ ne di questo impegno perché è provato che la probabilità di cadere nella emarginazione è notevolmente superiore tra quanti sono privi di una preparazione e di qualifiche adeguate. Pertanto si richiede che tutti i cittadini pos­ siedano conoscenze, competenze e capacità adeguate e aggiornate per contribuire allo sviluppo proprio e del Paese. Nella stessa li­ nea si pone l’obiettivo di facilitare l’accesso di tutti all’istruzione e alla formazione lungo l’intero arco della vita e di consentirlo in un

Bibl.: Consiglio, Programma di lavoro dettaglia­ to sul follow-up circa gli obiettivi dei sistemi di istruzione e di formazione in Europa, in «Gazzet­ ta ufficiale delle Comunità europee» (14.6.2002), C 142, 1-22; M alizia G. - C. Nanni, Istruzione e formazione: gli scenari europei, in Ciofs/Fp Cnos-Fap (Ed.), Dall’obbligo scolastico al diritto di tutti alla formazione: i nuovi traguardi della formazione professionale, Roma, 2002, 15-42; Standing Conference of European Ministers of Education, Building a more humane and in­ clusive Europe: role of education policies, Draft final declaration, Istanbul, 4-5 May 2007.

G. Malizia

INCONSCIO In senso descrittivo si riferisce all’insieme dei contenuti mentali che non sono presenti nel campo attuale della consapevolezza. En­ tro quest’ottica, dal punto di vista dinamico esistono due tipi d’i.: il primo è inaccessibile alla coscienza, mentre il secondo con uno sforzo di memoria può essere facilmente ri­ evocato; quest’ultimo è denominato precon­ scio. In senso topico riguarda uno dei sistemi descritti da S. → Freud nella sua prima teoria della personalità (concezione stratigrafica: conscio, preconscio, inconscio). Nella sua seconda formulazione teorica (concezione 567

INCULTURAZIONE

strutturale: Es, Io, Super-Io), i caratteri ge­ nerali dell’i. sono attribuiti principalmente, anche se non in modo esclusivo, all’Es. 1. L’i., i cui contenuti sono rappresentanti delle pulsioni, è caratterizzato da processi emotivi dominati dal principio del piacere e che quindi non tengono conto delle leggi del pensiero razionale. Esso inoltre è essenzial­ mente dominato da processi dinamici che si manifestano sia attraverso il meccanismo della rimozione (→ meccanismi di difesa) che nella produzione di derivati di ciò che è rimosso (ritorno del rimosso) attraverso for­ mazioni di compromesso (sogni, lapsus, atti mancati, sintomi nevrotici o psicotici, attivi­ tà creativa, ecc.). 2. L’i. si forma nella prima infanzia come ri­ sultato di una rimozione di una serie di rap­ presentazioni mentali originate da stimoli percettivi esageratamente intensi e fonte di ansia. Esso dà origine alla realtà psichica dell’individuo, detta anche realtà interna o soggettiva, che si distingue e talvolta si oppo­ ne alla realtà esterna o oggettiva. Maggiore è il predominio della realtà psichica su quella esterna, più alto è il rischio di disturbi ne­ vrotici o psicotici. L’accesso all’i., è possibile solo attraverso un’analisi accurata dei propri desideri, delle proprie emozioni e dei propri comportamenti condotta all’interno del rap­ porto terapeutico psicoanalista-paziente. In particolare, Freud sottolinea che la via regia per accedere all’i., è rappresentata dall’anali­ si dei sogni. 3. → Jung ritiene che non esiste solo un i. per­ sonale, costituito da esperienze individuali infantili rimosse, ma anche un i. collettivo, inteso come insieme di contenuti (archetipi, simboli, miti) derivati da esperienze fonda­ mentali del genere umano. Bibl.: Jung C. G., Psicologia dell’i., Torino, Bol­ lati Boringhieri, 1968; Ellenberger H. F., La scoperta dell’i. Storia della psichiatria dinami­ ca, Ibid., 1976; Freud S., «L’i.», in Opere, vol. 8, Ibid., 1976, 49-88; M atte Blanco I., L’i. come insiemi infiniti, Torino, Einaudi, 1981; Lang R., La comunicazione inconscia nella vita quotidia­ na, Roma, Astrolabio, 1988; Akoun A., El in­ consciente a debate: comprender, saber, actuar revisión y actualización, Natalia Ojeda, Bilbao;

568

Mensajero, 2002 Tallis F., Breve storia dell’i., Milano, Il Saggiatore, 2003; Frankl G., Esplo­ rare l’i. Un nuovo metodo per l’analisi del pro­ fondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2005; Mollon P., L’i., Torino, Centro Scientifico, 2006.

V. L. Castellazzi

INCULTURAZIONE Per i. s’intende il processo educativo per cui i membri di una → cultura vengono resi co­ scienti e partecipi della cultura stessa. 1. In questo processo, l’individuo non è un soggetto passivo, ma accoglie i modelli e i valori culturali con il suo giudizio critico. Inoltre, nell’individuo si sviluppa una cresci­ ta continua della capacità di interpretare in maniera autonoma e personale ciò che vede o che gli viene proposto. Tutta la società si preoccupa per i giovani che sono chiamati a far parte della sua realtà e storia comune. L’i. comprende particolarmente l’assunzione del patrimonio sociale comune di conoscenze, idee, valori, norme, tecniche, modelli opera­ tivi, ecc. L’i. si coglie con maggior eviden­ za durante l’infanzia, quando il → bambino viene educato ad essere → uomo o → donna nell’ambito della → famiglia e dei gruppi spontanei di coetanei. All’interno del pro­ cesso d’i. si può parlare di tre stadi: a) si in­ forma l’individuo; b) si forma la sua visione mentale; c) si orienta il suo comportamento. L’informazione nutre la coscienza e l’indivi­ duo che, da creatura del tutto dipendente, di­ venta una persona responsabile e autonoma. Oltre ai tre stadi, c’è anche l’imitazione che è un aspetto dell’i., che appare determinante soprattutto al periodo infantile. L’imitazio­ ne però non appartiene soltanto al periodo dell’infanzia, ma continua tutta la vita e pro­ segue con il processo d’i. 2. Il processo di i. può avvenire in due modi: formale e informale. Secondo i sistemi propri della società, a un determinato momento del loro sviluppo, i giovani – maschi e femmine – vengono affidati a specifiche istituzioni (la → scuola) o a specifiche persone (i maestri, ecc.), ai quali si attribuisce il compito dell’i. formale. Diversa è l’i. informale, che si attua continuamente lungo tutta la vita dell’indivi­

INDICATORI

duo. La distinzione tra i. formale e informa­ le, pur essendo netta, non dev’essere assunta come assoluta. Per es., anche durante il pro­ cesso dell’i. formale in una istituzione rigida, niente può inibire l’individuo a cogliere tutto ciò che gli si presenta in maniera informale. 3. Questa concezione di i. viene sempre più frequentemente scambiata con il termine → socializzazione. Però, la socializzazione è oggetto di studio di varie discipline scienti­ fiche; per es., la psicologia, la sociologia ecc. e ognuna di esse le dà un significato diffe­ rente, seguendo il suo punto di vista. Men­ tre nella prospettiva psicologica si bada ai meccanismi e ai processi evolutivi, in quella sociologica la socializzazione va studiata sulle procedure sociali che determinano la condizione sociale, individuale e colletti­ va. Invece, nell’ambito dell’ → antropologia culturale l’interesse per la socializzazione si svolge attorno al rapporto tra il mondo della cultura e la personalità, individuale e col­ lettiva; a tale senso si avvicina a quello che noi chiamiamo i. Nel quadro della cultura, l’i., come anche la socializzazione, è vista da parte dell’individuo come l’insieme dei pro­ cessi da acquisizione della cultura, e da parte del gruppo come il sistema di comunicazio­ ne di cultura. 4. È necessario fare una distinzione anche tra i. e acculturazione per cogliere meglio il significato dell’una e dell’altra, perché all’i. si accompagna o si sovrappone l’accultura­ zione. Benché per fini analitici sia possibile isolare il processo di i., non sarebbe esatto considerarlo in maniera avulsa dai contatti che una cultura ha con un’altra. Mentre l’i. riguarda la dinamica interna di una singola cultura in relazione ai suoi membri, l’accul­ turazione si riferisce alle relazioni esistenti tra più culture e agli effetti che derivano dai loro contatti. Ma è da notare che, essendo la cultura non statica, ma dinamica, si può dire che una delle sue costanti è il fatto di essere sempre in trasformazione. Ora tale processo da Herskovits è chiamato anche accultura­ zione. Nel linguaggio antropologico la paro­ la acculturazione è in uso fin dal 1948, e si è diffusa ormai nel linguaggio anche degli storici. Tuttavia il fenomeno è stato da sem­ pre studiato, sia pure con prospettive diverse da quelle attuali.

5. Nell’ambito pastorale i. è usato per indi­ care l’inserimento del cristianesimo nelle culture, sia nell’annuncio della Parola come anche nella → catechesi. Benché l’uso eccle­ siale della parola i. nel 1979 fosse considera­ to un «neologismo», oggi non è più conside­ rato una scelta facoltativa, ma qualifica ogni attività della missione della chiesa. Questo concetto è meglio precisato nell’attività li­ turgica e nella → catechesi, in quanto si tratta di un incontro dialettico fra la fede cristiana ed una cultura particolare, in cui tutte e due vengono ratificate, sfidate e trasformate o ar­ ricchite in vista del regno di Dio. Bibl.: Bernardi B., Uomo cultura società. Intro­ duzione agli studi etno-antropologici, Milano, Angeli, 1977; Groome T., I.: come procedere in un contesto pastorale, in «Concilium» 30 (1994) 1, 159-176; Pace E. (Ed.), Dizionario di sociolo­ gia e antropologia culturale, Assisi, Cittadella, 1989; Nanni C., L’educazione tra crisi e ricerca di senso, Roma, LAS, 1990; Tentori T., Antropo­ logia culturale. Percorsi della conoscenza della cultura, Roma, Studium, 1990; Roest-Crollius A., Teologia dell’i., Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1993.

C. De Souza

INDICATORI Il termine i. – dal lat. in-dico (rendo noto, manifesto), ingl. indicator, fr. indicateur, sp. indicador, ted. anzeiger, weiser – connota qualsiasi fatto, condotta, comportamento uti­ lizzabile come segno più manifesto e descri­ vibile di un altro più complesso o astratto. 1. Autorevoli studi europei dell’Organiz­ zazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) analizzano da tempo gli i. dell’educazione e dell’istruzione ad uso di educatori, responsabili politici, studenti e genitori. Le informazioni riguardano pre­ stazioni, risorse, livello di partecipazione, organizzazione di sistemi scolastici, criteri per valutare competenze di base, numero­ sità delle classi, durata dell’anno scolastico, prestazioni dei sistemi d’istruzione a livello quantitativo e qualitative (OECD, 2006). Gli i. mirano a fornire (Oakes, 1986) dati pre­ dittivi, politicamente rilevanti, confrontabili, 569

INDIVIDUALISMO

stabili, comprensibili, attuabili, economica­ mente sostenibili, statisticamente validi e affidabili sul sistema scolastico (obiettivi, profitto, problem solving) e sul rendimento (Cuttance, 1994; Odden, 1990), con lo sco­ po di controllare eziologicamente lo stato presente e il mutamento futuro (punti forti e deboli), per decisioni di sviluppo politico e amministrativo (Wyatt et al., 1989). 2. Nella ricerca pedagogica gli i. sono im­ portanti per osservare, misurare, valutare, elaborare i dati. La validazione sperimen­ tale ne verifica la corrispondenza rispetto al costrutto, alla popolazione, al campione (Calonghi, 1976). Per es., per valutare la capacità critica, si descrive il costrutto e le operazioni mentali di verifica con criteri in­ terni (logico-formali) o esterni (realtà); tali condotte osservabili costituiscono gli i.; nel­ la fascia evolutiva della preadolescenza gli i. possono riguardare la verifica di errori (Bon­ cori, 1989; 1995) in sequenze di seriazioni e classificazioni, con materiale non verbale (per es. ordinamento in figure variamen­ te classificate e disposte) o verbale (per es. ordinamento di frasi in un racconto). Nella pratica educativa si parla di obiettivi com­ portamentali come i., espressi concretamen­ te come condotte o attività (Mager, 1986), evolutivamente e culturalmente coerenti: ad es., gli i. della socializzazione nella preado­ lescenza includono segni riguardanti moda­ lità di raggruppamento sociale «tipo gang», con segni critici di maturazione (Bruner et al., 1966) adatti a questa fascia evolutiva e sperimentalmente validati (Boncori, 1992; 1994). Istanze educative per la disponibilità di validi i. per l’osservazione e la valutazio­ ne contribuiscono allo sviluppo di banche di obiettivi (Buckley & Harris, 1970), con i. validati per diverse aree e fasce evolutivoculturali e scolastiche. Bibl.: Bruner J. S. et al., Studies in cognitive growth, New York, Wiley, 1966; Buckley S. - J. H arris, The banking of multiple-choice ques­ tions, in «British Journal Medical Education» 4 (1970) 42-52; Calonghi L., Valutare, Brescia, La Scuola, 1976; Oakes J., Education indicators: A guide for policymakers, Santa Monica, CA, Rand Corporation, 1986; Boncori G., Test di pensiero critico «Caccia all’errore 12», Roma, Kappa, 1989; Odden A., «Making sense of education in­

570

dicators - The missing ingredients», in T. J. WyT. J. - A. Ruby (Edd.), Education indicators for quality, accountability and better practice, Ibid., 1990, 33-50; Boncori G., «Obiettivi educa­ tivi», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogi­ ca, vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 8345-8357; Cuttance, P., Monitoring educational quality through performance indicators for school prac­ tice, in «School Effectiveness and School Im­ provement» 5 (1994) 2, 101-126; Boncori L., «I.», in M. Laeng, cit., 5987-5989; Boncori G., Guida all’osservazione pedagogica, Brescia, La Scuola, 1994; OECD, Uno sguardo sull’educazione: Gli i. dell’OCSE - ediz. 2006. att

G. Boncori

INDIVIDUALISMO Il termine i. indica in modo generico una qualche forma di attenzione preminente alla soggettività individuale, sia da parte del sog­ getto stesso, come forma di comportamento egocentrico, sia nell’ambito della filosofia sociale, come forma di interpretazione della socialità umana. In questa seconda accezio­ ne, essa è diffusissima nella nostra cultura. 1. La → società viene vista, in questa con­ cezione, dalla prospettiva del singolo indi­ viduo: essa si riduce perciò a una somma di individui. Ognuno di questi individui è por­ tato a cercare il suo interesse personale, l’ap­ pagamento dei suoi bisogni, potenzialmente illimitati. Egli vede gli altri esclusivamente nella prospettiva del suo vantaggio personale e li tratta come mezzi da utilizzare, o come ostacoli da superare nel perseguimento dei suoi intenti. È chiaro che una simile radicale contrapposizione di egoismi tenderebbe, per sua natura, a sfociare in una guerra di tutti contro tutti. Se questo non si verifica, è sol­ tanto perché sarebbe troppo contrario all’in­ teresse di ognuno. È infatti interesse di tutti i singoli addivenire a una certa composizione consensuale e quasi contrattuale (il cosid­ detto «contratto sociale») di queste pretese contrastanti. La società nasce (non una sola volta, in un lontanissimo «illo tempore», ma in ogni singolo presente storico) da questa tregua d’armi tra gli interessi conflittuali dei singoli, in forza di un interesse comune. La società nasce quindi dall’egoismo dei singoli

INDIVIDUALIZZAZIONE

individui, è conforme ai loro veri interessi. L’egoismo del singolo, per trasformarsi in forza di coesione sociale, ha solo bisogno di essere «razionale», cioè di riconoscere l’im­ possibilità di portare avanti, nella loro illimi­ tatezza, tutte le sue pretese e il vantaggio di accettare dei limiti, in cambio della cosiddet­ ta «certezza del diritto». L’egoismo razionale (o meglio la razionalità dell’egoismo) è così l’unica virtù sociale, l’unica vera qualità mo­ ralmente positiva dell’uomo. Naturalmente non viene chiusa del tutto la porta alle più diverse forme di solidarietà disinteressata, ispirate a sentimenti di pietà e di filantropia; ma si tratta di un optional di lusso che viene lasciato alla gratuita generosità dei singoli, senza altri obblighi che non siano quelli lega­ ti alle libere scelte etiche degli individui.

e non può mai essere considerata mezzo nei confronti di nulla. Ma proprio questa stessa dignità e non-strumentalizzabilità di «ogni» persona vieta al singolo individuo di guar­ dare alla società-convivenza (e quindi alla società in quanto insieme di persone) come a un mezzo. La vocazione sociale costituisce l’uomo nella verità del suo essere: non è il segno della sua indigenza, ma del suo desti­ no di essere spirituale, fatto per realizzarsi nell’apertura disinteressata agli altri.

2. La filosofia sociale esattamente opposta a quella dell’i. è il collettivismo (→ marxismo pedagogico). La prospettiva, in questa visio­ ne, è del tutto diversa: chi analizza il fatto sociale si pone dalla parte della società stes­ sa, considerata come un assoluto, rispetto al quale i singoli individui non hanno né esi­ stenza, né dignità autonoma. L’individuo è solo «parte» della società, proprio nel senso in cui l’ingranaggio è parte della macchina e la cellula parte dell’organismo; egli non esiste che come «parte»: è mezzo nei con­ fronti della società-fine. Solo la società-stato è il vero soggetto della storia, il beneficiario ultimo del Grande Progresso Illimitato di cui questa storia è fatta. La dedizione incondi­ zionata al «collettivo», qualunque esso sia di fatto, è la sola virtù sociale, l’unica forma di positività etica.

Bibl.: M aritain J., La persona e il bene comune, Brescia, Morcelliana, 1968; Utz A. F., Ethique sociale, Bale/Roma, Herder, 1970; VandeplansHolper C., Sviluppo sociale e morale, Roma, Armando, 1977; M affettone S., Verso un’etica pubblica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1984; Gil Villa F., I. y cultura moral, Madrid, Centro de Investigaciones Sociológicas, 2001.

3. Accanto a queste due concezioni del socia­ le, chiaramente caratterizzate da una certa unilateralità, ne esiste una terza, che sembra salvare meglio di queste due sia il valore e la dignità della persona, sia la sua costitutiva vocazione sociale. Questa concezione è mol­ to più vicina delle precedenti alla visione cri­ stiana dell’uomo e, come tale, è stata di fatto ripetutamente proposta dall’insegnamento sociale della chiesa. Essa si fonda sul primato della persona umana nei confronti di tutte le cose, e quindi anche delle istituzioni da essa stessa create per la sua autorealizzazione e per la strutturazione della sua convivenza. La persona umana ha quindi lo statuto di «fine»,

4. L’i., nella forma della expedient morality, è alla base del vissuto morale infantile. Aprire gradualmente il → bambino a quelle forme di riconoscimento dell’altro e di altruismo che caratterizzano la maturità morale è compito importante dell’educazione sociale.

G. Gatti

INDIVIDUALIZZAZIONE L’i. consiste nell’adeguare gli interventi educativo-didattici alle caratteristiche indi­ viduali del soggetto, per aiutarlo a crescere nel miglior modo possibile. 1. È un principio che afferma la necessità di rispettare, nel contesto dell’azione educativodidattica, le differenze sia interindividuali che intraindividuali in rapporto a interessi, capacità, ritmi, difficoltà, attitudini, caratte­ re, inclinazioni, esperienze precedenti di vita e di apprendimento. In ciò è evidente l’ap­ porto della → psicologia differenziale. L’i. s’impone come problema nella scuola demo­ cratica che deve essere scuola di tutti e di cia­ scuno, e diventa un principio maggiormente significativo in sede didattica richiedendo di conoscere in profondità ciascun alunno, e di rispondere adeguatamente alle sue esigenze formative in termini di integrazione, recupe­ ro e sviluppo. L’i. non si effettua solo verso 571

INDOTTRINAMENTO

il basso, ma anche verso l’alto, per cui una → didattica differenziale deve includere ne­ cessariamente un’attenzione anche ai → su­ perdotati. Il discorso relativo alla didattica differenziale e alla pedagogia speciale rien­ tra nella prospettiva di questa. È un principio che va applicato in senso personalizzante, promotore cioè della formazione integra­ le della personalità. Per questo nell’ambito iberoamericano si parla del principio della personalizzazione inclusiva dei due principi dell’i. e della socializzazione. 2. L’i. può andare dall’applicazione circo­ scritta di una semplice tecnica didattica fino alla completa riorganizzazione dell’insegna­ mento e della struttura scolastica; inoltre può avvalersi di mezzi tecnologici e dell’assisten­ za tutoriale. Una corretta i. deve effettuarsi piuttosto in gruppi eterogenei che omogenei. La pedagogia contemporanea ha sostenuto fortemente la necessità di un’i. soprattutto didattica. Essa presenta un vasto panorama di esperienze, espedienti, realizzazioni al ri­ guardo. Oggi, con l’impiego degli elaborato­ ri elettronici, la didattica, anche dal punto di vista dell’i., trova realizzazioni interessanti e significative. La recente normativa scolastica italiana esige di elaborare e quindi realizza­ re, per ogni alunno, il cosiddetto → Piano di studi personalizzato. Bibl.: García Hoz V., Educación personalizada, Madrid, CISC, 1970; Gronlund N. E., Individu­ alizing classroom instruction, New York, Mc­ millan, 1974; Titone R., Metodologia didattica, Roma, LAS, 31975,163-236; 390-423; Baldacci M., L’istruzione individualizzata, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993; Tenuta U., I., autonomia e flessibilità nell’azione educativa e didattica, Brescia, La Scuola, 1998; Jaligot A. - G. Wiel, Construire des stratégies de nouveau départ. Organiser des parcours scolaires personnalisés, Lyon, Chronique Social, 2004.

H.-C. A. Chang

INDOTTRINAMENTO Interiorizzazione di idee, valori, modelli di comportamento, come esito di propagan­da, informazione, insegnamento, istruzio­ne, catechesi, a fini o con esiti di conformi­smo 572

acritico o di settarismo culturale, poli­t ico, religioso. 1. Il termine ha normalmente un significa­ to peggiorativo, collegato con forme di «la­ vaggio del cervello» (come si pratica presso certe sette o gruppi fondamentalistici o sot­ to regimi autoritari) o con forme di «omo­ logazione» (come effetto della propaganda politica o mass-mediale). Il pericolo o l’in­ tenzione dell’i., è molto sentito dalla men­ talità moderna, sensibile al problema delle libertà democratiche. 2. In sede pedagogica il tema è connesso con questioni, quali l’incidenza educativa della → comunicazione di massa, la cosid­detta laicità della scuola, 1’ → insegna­mento della religio­ ne, il rapporto tra educazione, pedagogia e → ideologia, e più largamente si riverbera sul → rapporto edu­cativo in genere. Il rischio dell’i. attraversa l’insegnamento sia a livello di in­ tenzione sia a livello di contenuto sia a livello di me­todo. In termini generali si può affer­ mare che l’i. può essere evitato se l’insegna­ mento sarà veramente tale, cioè offerta di quel tanto di informazioni e di strategie di apprendimento adeguate alla reale do­manda degli allievi e alle loro effettive ca­pacità, in modo tale che sia loro possibile continuare a ricercare e ad istruirsi da sé in libertà. In­ formazione corretta, sistemazio­ne riflessa e critica, stimolazione integrati­va sembrano essere i tratti di un insegna­mento che eviti l’i., ma parallelamente an­che il vuoto di in­ formazioni (che lascia nell’ignoranza e nel pregiudizio), il mecca­nicismo e lo speciali­ smo (che non permet­tono la formazione di quadri culturali di ri­ferimento), o stili didat­ tici che non stimolano o non lasciano liberi di appren­dere. Bibl.: R eboul O., L’i., Roma, Armando, 1979; Morin E., La testa ben fatta, Milano, Cortina, 2000.

C. Nanni

INDUISMO Tra le religioni attualmente esistenti, l’I. è quella più antica, poiché esiste da quattro­ mila anni. L’I. non è una religione organiz­

INDUISMO

zata e neppure un’unica religione, poiché si presenta come «un mosaico di religioni», da una religione della natura al politeismo o al monoteismo, dal panteismo al monismo; non ha un fondatore, né un’autorità centrale, né impone credenze, dogmi o pratiche religio­ se. Gli elementi comuni che caratterizzano un indù sono: fede nell’autorità infallibile dei Veda; fede in Dio, in una forma o in un’al­ tra; fede nella concezione ciclica del mondo e della storia; fede nel karma-samsara (tra­ smigrazione delle anime); fede nello mukti o moksha (la liberazione definitiva dell’anima); osservanza della varnasrama-dharma (leg­ ge della casta e degli stadi di vita); qualche rito cultuale. Per comprendere il sistema di educazione (moderna ed antica) dell’India ci si deve riferire sempre al contesto religioso, che ha come scopo ultimo lo moksha, e an­ che ad alcuni concetti e categorie della vita sociale e del sistema di valori dell’I.: varna (quattro caste), purusartha (quattro scopi dell’esistenza umana) e asrama (quattro sta­ di della vita). 1. L’educazione e le quattro caste. La società induista è divisa in quattro caste: brahmina, ksotriya, vaisya e sudra. Esiste anche una quinta casta (pancama), gli intoccabili o «paria». Anche l’educazione si basò su que­ sta divisione delle caste; essa divenne mono­ polio delle tre caste superiori, mentre l’ulti­ ma casta (inclusi gli intoccabili e le donne) ne fu esclusa. Nel periodo vedico l’educazio­ ne consisteva principalmente nello studio dei Veda. 2. L’educazione e i quattro scopi della vita dell’uomo. L’unico summum bonum della vita umana, secondo la Sanatana Dharma è lo moksha: lo stato di felicità assoluta (la realizzazione di Dio). L’educazione deve ser­ vire proprio a questo fine. I saggi, le scrit­ ture e i sistemi filosofici indicano numerose vie (morga) e metodi (sadhana o yoga) per arrivarvi e ogni branca della conoscenza deve servire a questo scopo. La conoscen­ za suprema, secondo le Upanishad, consiste nella conoscenza intuitivo-esperienziale del Brahman. Ma dato che l’uomo è una com­ binazione di materia e spirito, è necessario soddisfare i bisogni di entrambe le compo­ nenti per avere una vita felice. Per soddisfare i bisogni materiali, l’individuo deve cercare

di fornirsi dei mezzi necessari: artha (ric­ chezza e fama); deve trarre dalla vita anche godimenti psico-fisici: kama (piacere e amo­ re); però i beni materiali e i piaceri psico-fi­ sici devono essere regolati secondo le norme morali: dharma. Così, artha kama, dharma e moksha sono i quattro scopi della vita e l’educazione è diretta ad aiutare l’individuo a raggiungerli. 3. L’educazione e i quattro stadi della vita dell’uomo. La vita dell’individuo è divisa in quattro stadi (a’srama): brahmacarya (perio­ do di studi sacri), grhastha (vita di famiglia), vanaprastha (vita di eremita) e sannyasa (vita di perfetta rinuncia). Con il rito di ini­ ziazione (upanayana), verso i dieci anni di età, si è introdotti nel periodo di brahmacar­ ya sotto la guida di un guru per essere istru­ iti nei Veda e ricevere l’educazione. Durante questo periodo lo studente lascia la sua casa e si trasferisce alla casa del guru o all’asram (scuola o eremitaggio del guru). Il guru ha un ruolo assoluto e indispensabile; egli è colui che distrugge l’ignoranza (avidyā) – causa di tutti i mali – e rivela al discepolo la cono­ scenza sacra; è colui che proclama la giusta legge (dharma) per la sua realizzazione fina­ le. Questo periodo, che dura più o meno per altri dodici anni, è uno stadio di intensa vita religiosa (con quattro voti di castità, povertà, austerità e studi sacri) e disciplina monasti­ ca. Gli studi sacri consistono principalmente nell’imparare a memoria i Veda, ma questo periodo si riduce generalmente a pochi gior­ ni simbolici. Nel secondo stadio, l’accento è sul matrimonio e sui diritti e doveri del capofamiglia. Durante questo periodo, an­ che se lo sforzo è prevalentemente fisico, il capofamiglia non deve esimersi dagli studi dei Veda. Vanaprastha è il periodo dedicato totalmente allo studio, meditazione, preghie­ ra, insegnamento e a scrivere dei libri a be­ neficio dell’umanità intera. L’ultimo stadio (sannyasa) è quello della «rinuncia totale», di «unione con Dio». 4. Neo-I. e educazione. I protagonisti del neo-I. (Dayanand, Vivekananda, → Gandhi, → Tagore e → Aurobindo) sono stati ispirati dagli ideali religiosi, però allo stesso tempo hanno cercato di unire questi ideali con il progresso materiale. Dayanand, per es., fon­ dò nel 1875 la Arya Samaj, che aveva come 573

INFANZIA

scopo educativo la liberazione della società indù dai vari pregiudizi e superstizioni. Per realizzare questo scopo la Arya Samaj gesti­ sce varie scuole e collegi dove grande impor­ tanza è data allo studio delle scienze naturali e applicate. Bibl.: A ltekar A. S., Education in Ancient In­ dia, Benares, Kishore, 31948; K abir H., Indian philosophy of education, London, Asia Publish­ ing House, 1961; Nanavaty J. J., «Hindu Educa­ tion», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.), The International encyclopedia of education, vol. 4, Oxford, Pergamon Press, 1985, 2257-2261; Mookerji R. K., Ancient Indian education. Brah­ manical and Buddhist, Delhi, Motilal Banarsi­ dass, 1989.

S. Thuruthiyil

INDUSTRIALIZZAZIONE → Società

INFANZIA L’etimo del termine rimanda all’età in cui il → bambino non parla (in-fans). Nell’uso corrente la parola i. indica quel periodo della vita che va dalla nascita ai sei anni di età che si distingue in prima (0-3 anni) e in seconda i. (3-6 anni). Talvolta si parla di terza i. come sinonimo di fanciullezza e di i. fetale per indicare il perio­ do di sviluppo del prematuro che si estende dalla nascita alla data presunta del parto. 1. L’i. è un’età preziosa, la cui importanza è stata gradualmente scoperta dalla pedagogia da → Comenio in poi. Esaltata da → Rousseau e considerata età del gioco da → Fröbel, è sta­ ta riscoperta dalle sorelle → Agazzi e dalla → Montessori. Le teorie classiche (da quelle di Fröbel, da quelle di → Aporti a quelle delle Agazzi e della Montessori) sono oggi assun­ te per la funzione culturale che hanno eser­ citato e che continuano ad esercitare e per le sollecitazioni che esprimono nei riguardi della ricerca scientifica che ha privilegiato come suo oggetto l’i. Dei contributi di questa ricerca si fa tesoro per definire ed afferma­ re l’educabilità del bambino, per conoscerne il potenziale educativo che chiede di essere coltivato, sviluppato e valorizzato, prestando attenzione a tutte le funzioni che interagi­ scono sinergicamente nella personalità in­ 574

dividuale. Le varie scuole psicologiche e le diverse teorie che ad esse si collegano sotto­ lineano infatti «l’unità e la sinergia delle di­ verse funzioni (motorie, percettive, affettive, sociali, intellettuali) nello sviluppo del bam­ bino». In questa prospettiva appare evidente la necessità di superare le visioni riduttivisti­ che dell’i. e le rappresentazioni che di essa si danno, che evidenziano la complessità e le contraddizioni di cui è vittima, influendo sull’identità reale dei bambini e sui rapporti che gli adulti instaurano con loro. 2. Gli studi di psicologia dello sviluppo di­ mostrano che il bambino è psicologicamente forte e capace di conquistare la capacità di tenersi per mano, di sentirsi saldo su se stes­ so, di comunicare, di esprimersi, di interagire con gli altri, di essere attivo nel flusso della vita, di osservare, di intuire, di capire la so­ lidarietà che sostiene il mondo, di gratificare la propria curiosità, di decifrare l’orizzonte della cultura umana, di soddisfare il bisogno di significato e di senso. Emerge infatti da queste teorie l’immagine di un bambino at­ tivo, «costruttore» e «lettore della realtà», «protagonista della propria storia», «capace di interagire con le figure di riferimento» e con i «coetanei» di influenzare gli altri, di conquistare competenze, di acquisire pro­ gressivamente un sistema di norme morali e sociali. Per coltivare ed esprimere queste sue «potenzialità» è indispensabile che il bambi­ no possa soddisfare i suoi bisogni fisiologici, affettivi, cognitivi che, mentre chiedono di essere analiticamente studiati e conosciu­ ti, reclamano una risposta unitaria, cioè un sistema di interventi coordinati. Questi bi­ sogni interagiscono e si condizionano nella personalità individuale ed emergono in un sistema in cui si riconosce via via il bisogno del bambino di essere amato e di amare, di giocare, di immaginare, di esercitare la li­ bera scelta, di sperimentare, di comunicare, di esprimersi, di apprendere, di soddisfare la «domanda di senso» e le esigenze «spiritua­ li». Se il bambino ha questi bisogni e se deve essere considerato la «misura» di tutti gli in­ terventi rivolti all’i., questi bisogni meritano di essere soddisfatti e ad ognuno deve essere concesso di concretizzare i diritti che ad essi corrispondono, i quali costituiscono, a loro volta, un sistema, che si configura come ri­ sposta ad un insieme di istanze unificate.

INFERENZA

3. Nel diritto all’educazione si assommano e si sintonizzano tutti questi diritti ed il suo esercizio è collegato a quello di tutti gli altri, in particolare a quello della vita, a quello di vivere in un’atmosfera di affetto, alla sicu­ rezza sociale, alla salute, al benessere, alla pace ed alla rimozione di svantaggi affetti­ vi, culturali, sociali, economici. La concre­ tizzazione di questi diritti esige l’impegno della famiglia, della scuola, della comunità civile, che sono chiamate ad operare inten­ zionalmente e responsabilmente in vista della realizzazione dell’ideale della «qualità della vita», che è legata al rispetto ed alla cura dell’i., la quale ha bisogno di premura e di protezione. Essa anche oggi è un’età so­ cialmente debole e la nostra stessa cultura, pur riconoscendola «come soggetto sociale e culturale dotato di una sua specificità», e pur offrendole «opportunità» di crescita umana, la rende anche vittima di condizionamenti, di negligenze, di deprivazioni, di violenze di «vecchie e nuove povertà». Milioni di bambini, come risulta dai recenti rapporti UNICEF e di quelli del Centro Nazionale di documentazione e di analisi per l’i. e l’adole­ scenza («Istituto degli Innocenti», Firenze), sono ancora «esclusi e invisibili», malnutriti, privi di un’identità ufficiale, delle attenzioni dei genitori, fruttati, abusati e vittime della guerra. 4. È pertanto indispensabile prestare una maggiore attenzione alle condizioni esisten­ ziali, alle attese, alle promesse e al significa­ to vitale dell’i., che non può essere tradita né dall’esaltazione astorica e idilliaca di questa «età dell’oro» né dalle logiche del consu­ mismo, del conformismo e dell’adultismo o dalle perduranti forme di precocismo e nella scuola da un programmismo sterile ed am­ bizioso e quindi incapace di consentire ad ogni bambino di essere tale, di apprendere ad apprendere e di vivere gioiosamente la sua vita. Bibl.: M encarelli M., I. progetto pedagogico, Brescia, La Scuola, 1987; Cuccurullo R. et al., I. e «luoghi» educativi, Roma, Euroma-La Go­ liardica, 2002; Paparella N., Pedagogia dell’i., Roma, Armando, 2005; Pati L., I. violata e soli­ darietà sociale, Milano, Isu Università Cattolica, 2006; Moro A. C., Una nuova cultura dell’i. e dell’adolescenza, Milano, Angeli, 2006; Limone

P. (Ed.), L’accoglienza del bambino nella città globale, Roma, Armando, 2007.

S. S. Macchietti

INFERENZA Il processo mentale mediante il quale da premesse si traggono conclusioni (→ ragiona­ mento). Più specificatamente, e in relazione al processo di → comprensione di un testo scritto, l’i. è un’attività mentale con la quale si inducono nuove conoscenze da informa­ zioni suggerite dal testo. Dagli anni ’70 fino ad oggi, la ricerca psicolinguistica si è inte­ ressata moltissimo alla natura del processo inferenziale. 1. I. logiche e pragmatiche. Un’i. linguistica può dedurre, dalle informazioni fornite dal testo, un nuovo contenuto informativo at­ traverso un processo logico. In questo caso si parlerà di i. logica. Tuttavia non tutte le nuove informazioni che possiamo dedurre da un testo sono estratte secondo un processo logico formale. Assai più spesso più che dal testo esse sono estratte dal modo di intendere quanto si dice e cioè dalle «rappresentazio­ ni» che si posseggono dei fatti in questione. Queste i. sono quelle che più comunemente facciamo e sono dette: i. pragmatiche. Esse hanno origine dalla nostra mappa cognitiva e dal modo con cui è organizzata la rappresen­ tazione di una conoscenza. Un’i. può essere anche definita per il grado di certezza che può avere nei confronti delle informazioni che vengono date. Essa può dunque essere necessaria, probabile o possibile. Da una stessa informazione possono essere estratte molte informazioni nuove, ma non tutte go­ dono dello stesso grado di attendibilità. 2. I. retrospettive ed elaborative. Nella com­ prensione di un testo linguistico si possono aggiungere nuove informazioni anche in al­ tri due modi: attraverso le i. chiamate elabo­ rative inference (i. frutto di elaborazione) o forward inference (i. prevedibili), oppure attraverso le cosiddette bridging inference (i. che fa da ponte) o backward inference (i. retrospettiva). Le prime sono i. che un ascoltatore o lettore può fare, per arricchire e ampliare il testo, ma non sono necessarie 575

INFORMATICA

per la comprensione; le seconde sono invece necessarie e devono essere compiute al fine di preservare la coerenza del testo. 3. Rilevanza formativa. Molti studi sono stati e continuano ad essere condotti sui processi inferenziali linguistici. Essi sono molto uti­ li per rilevare e conoscere meglio i processi di comprensione, per scoprire l’origine delle difficoltà di comprensione o della compren­ sibilità di un testo, per indagare più a fondo l’attività della mente umana, per capire le ra­ gioni per le quali nel corso della lettura non si verifica un’esplosione di i., e quali siano le i. che hanno un effetto maggiore sul ricordo di ciò che è letto o ascoltato, per analizzare le variazioni della capacità inferenziale a se­ conda dell’età, per chiarire il momento in cui i processi inferenziali avvengono (se durante o dopo la lettura di un testo), ecc. I fatti ac­ quisiti sembrano essere i seguenti: a) la pro­ duzione di i. dipende dal tipo di testo: il testo espositivo è più comprensibile se richiede meno i. di quello narrativo; b) la quantità e la possibilità di i. dipendono dalla quantità di conoscenze disponibili nel lettore; c) la quan­ tità di i. dipende anche dall’età del soggetto che legge. Gli anziani manifestano difficoltà ad effettuare i. a motivo del difficile control­ lo del flusso di conoscenze attivate dalla loro memoria a lungo termine; d) la quantità di conoscenze attivate nei testi narrativi tende a diminuire a mano a mano che si procede nella lettura; e) struttura delle conoscenze, interesse e scopo possono spiegare il perché non avvenga un’esplosione dei processi infe­ renziali; f) le i. causali e motivazionali faci­ litano la costruzione di una rappresentazione testuale coerente. Bibl.: R ickheit G. - H. Strohner (Edd.), Infer­ ences in text processing, Amsterdam, North-Hol­ land, 1985; Hamm V. P. - L. H asher, Age and the availability of inference, in «Psychology and Ag­ ing» 7 (1992) 56-64; McKoon G. - R. R atcliff, Inference during reading, in «Developmental Re­ view» 99 (1992) 440-466; Graesser A. C. - R. J. K reutz, A theory of inference generation during text comprehension, in «Discourse Processes» 16 (1993) 145-160; K intsch W., Information accre­ tion and reduction in text processing: inferences, in «Discourse Processes» 16 (1993) 193-202; van den Broek P. - R. F. Lorch jr., Network represen­ tations of causal relations in memory for narra­

576

tive texts: evidence from primed recognition, in ibid., 75-98.

M. Comoglio

INFORMATICA Il termine risale agli anni ’60 ed è legato alle due parole «informazione» e «automatica». 1. I diversi significati. L’i. fa parte del nostro mondo. Quando si accenna a questo argo­ mento spesso quasi istintivamente vengono alla mente complessi sistemi automatici che fanno da supporto alla raccolta, elaborazione e distribuzione delle informazioni e si pen­ sa a grandi calcolatori e tecnici altamente specializzati. In effetti i. è una parola che può indicare molte cose: strumenti, modo di pensare, utilizzazione di computer e po­ trebbe essere vista quasi come un’estensione dei poteri mentali dell’uomo nel comunicare attraverso le macchine. Il significato dato al termine può quindi variare molto in ampiez­ za. Alcuni vedono l’i. come una tecnica del «saper usare il computer» o di sapersene ser­ vire per impieghi specifici. Altri le attribui­ scono tutti i compiti di trattamento di ogni tipo di → informazione e di sapere. 2. I. e condotte algoritmiche e sistemiche. In ogni caso prima e al di sopra del problema della macchina che elabora le informazioni in maniera automatica e della capacità di un suo utilizzo razionale sta un complesso di conoscenze e di condotte, proprie del pensie­ ro razionale umano, oggi generalmente defi­ nite come condotte algoritmiche e sistemiche che fanno parte del mondo informatico. In ogni attività sia manuale che intellettuale si rende necessario organizzare comportamen­ ti e operazioni in maniera valida ed efficace, per trovare itinerari e procedure che consen­ tano di raggiungere determinati risultati in maniera rapida ed economica. In definitiva molti dei problemi che la vita e il lavoro ci pongono debbono essere risolti in termini di azioni, di natura prevalentemente manuale o prevalentemente intellettuale, da eseguire in maniera coordinata e produttiva. In una visione ampia l’i. dovrebbe assolvere a tutti i compiti di trattamento dell’informazione, del sapere più o meno organizzato e dei pro­

INFORMATICA

cedimenti risolutivi (→ algoritmo) necessari per dare una risposta concreta ai problemi, possibilmente individuando delle procedure standardizzate fatte di operazioni elemen­ tari e di momenti decisionali velocemente modificabili. Si può dire che l’i. si interessa dell’analisi e della risoluzione dei problemi mediante la ricerca di una procedura efficace e generalizzabile. 3. I. come disciplina e come elaborazione elettronica. Nel mondo francese, da cui il termine proviene, i. sta per quell’insieme di discipline scientifiche e tecniche applicate al trattamento dell’informazione con mezzi au­ tomatici; o, detto in altri termini, l’i. è vista come una disciplina che si occupa essenzial­ mente del trattamento automatico dell’infor­ mazione; quindi come tutto ciò che ha una qualche pertinenza con lo studio teorico e tecnologico-pratico dell’elaborazione dei dati e dei computer che sono gli strumenti utilizzati in tale elaborazione. Nel mondo anglosassone si parla più di elaborazione elettronica dei dati (electronic data proces­ sing) riducendo, in un certo modo, la visione generale di una «scienza» che vuole studiare i problemi nella sua globalità, praticamente solo al modo di raccogliere, decodificare, elaborare e conservare le informazioni at­ traverso strumenti automatici. Non fa parte dell’i., in tale interpretazione, tutto ciò che riguarda direttamente o indirettamente pro­ blematiche ad essa legate come potrebbe es­ sere l’impatto che la tecnologia ha sul modo di comunicare le informazioni tra uomini e tra uomini e macchina, sulle strutture e sui processi produttivi, sull’organizzazione del lavoro e sul tempo libero. 4. I. e mentalità tecnologica. In una conce­ zione piuttosto ampia per i. si intende quindi una capacità di risolvere problemi di natura produttiva, organizzativa e gestionale me­ diante algoritmi di risoluzione, cioè median­ te una successione di operazioni ordinate e finite, ovvero mediante sistemi di comunica­ zione capaci di una efficace interazione. Cer­ tamente tutto ciò esige un uso di strumenti che in questo caso potremmo vedere ben rappresentati dal computer, ma esige anche una mentalità che è sottesa a questo modo di procedere e che può definirsi di tipo tec­ nologico. Il pensiero infatti è orientato alla

risoluzione dei problemi in maniera efficace; esso è guidato da obiettivi chiaramente defi­ niti, il cui raggiungimento è la condizione di validità di tutto il lavoro intellettuale e orga­ nizzativo. Si richiede pertanto di far entrare in gioco un’analisi sistematica delle infor­ mazioni disponibili e di quelle da ricercare; occorrerà allora fare una attenta analisi non solo delle informazioni necessarie, ma anche delle loro reciproche relazioni interne e della progettazione di un sistema o di un procedi­ mento che possa risolvere il problema di cui ci si occupa. Si prefigura in qualche modo non solo una maniera di raccogliere infor­ mazioni omogenee, di fare un archivio, su un particolare campo o settore, organizzato in funzione di una gestione automatizzata, di fare cioè una banca dati, ma anche di codifi­ care tali informazioni in modo economico ed efficace, di elaborarle secondo un procedi­ mento corretto e produttivo, di registrare in­ fine i risultati di questo lavoro. È chiaro che oltre agli strumenti occorrono dunque stra­ tegie di pensiero e forme di rappresentazione delle soluzioni emergenti tali da permetterne la discussione ed il controllo. 5. Riflessi formativi. I riflessi dell’i. sul­ la formazione sono molteplici. L’uso degli strumenti diventa non solo un esercizio abi­ litativo, ma può influenzare il comportamen­ to, esaltando l’aspetto operativo e tecnico dell’essere e dell’agire umani. La logica al­ goritmica e lo spirito tecnologico non sono senza influenza sulla mentalità e sul modo di accostare ed operare sulla realtà, di rela­ zionarsi con gli altri, di pensare allo svilup­ po sociale. Al limite possono ingenerare un concetto di uomo in cui diventa preponde­ rante l’aspetto mentale e quello trasformati­ vo e rielaborativo. La pedagogia avrà quindi da comporre questa prospettiva informatica con una visione integrale e organica della vita e dell’esistenza. L’educazione dovrà fare altrettanto a livello di formazione intellettua­ le, culturale, professionale e di → educazione permanente. Bibl.: La Torre M., Principi di i., Firenze, La Nuova Italia, 1994; A raldi P. - B. Schifo (Edd.), Internet e l’esperienza religiosa in rete, Mila­ no, Vita e Pensiero, 2000; Cioffi G. - V. Falzo ne, Manuale di i., Milano, Il Sole 24 ore, 2002; Caltabiano C. - M. Lori - G. Nuzzo, Ulisse e

577

INFORMAZIONE: TEORIA DELLA

le sirene digitali: internet e lo sviluppo della so­ cietà dell’informazione in Italia, Milano, Angeli, 2002; Zocchi P., Internet: la democrazia possibi­ le: come vincere la sfida del digitale divide, Mila­ no, Guerini, 2003; Teti A. - E. Cipriano, Eucip. Il manuale per l’informatico professionista. Certi­ ficazione Core Level, Milano, Hoepli, 2005.

N. Zanni

INFORMAZIONE: teoria della Nell’uso corrente l’i. si identifica con la tra­ smissione di notizie o di fatti. Con l’avvento della teoria dell’i. (Shannon-Weaver, 1949), con lo studio cioè della successione delle grandezze fisiche e misurabili che compon­ gono un messaggio, il termine ha assunto un significato più ristretto, che non coincide con il contenuto di un messaggio, ma con il suo aspetto quantitativo, con il «carico», o il valore, che gli elementi linguistici acqui­ stano, in relazione al grado di incertezza e di imprevedibilità della loro occorrenza nel contesto. l. Così nella successione dei lessemi nella struttura frasale la capitale d’Italia è... il termine Roma è altamente prevedibile e per­ tanto di i. nulla. All’opposto, nel sintagma nominale un bicchiere di..., esistendo la pos­ sibilità di più occorrenze (acqua, latte, vino, birra...), l’elemento integrativo adnominale che vi compare sarà contrassegnato da un alto grado di i. Se ne evince che, quanto mag­ giore è la probabilità di occorrenza di un ele­ mento linguistico, tanto minore è la quantità di i. che viene trasmessa; o, detto altrimenti, la quantità di i. è inversamente proporzionale alla probabilità di occorrenza di un determi­ nato elemento. Il numero di possibili alter­ native, come nell’esempio del sintagma no­ minale un bicchiere di..., consente inoltre di quantificare il grado di i.: la scelta infatti di una fra due alternative ugualmente probabili determina l’unità di misura della quantità di i., unità chiamata bit, abbreviazione dall’in­ gl. Bi(nary digi)t («cifra binaria»). 2. Fra i testi altamente informativi figura­ no, per la specificità della loro natura, quel­ li poetico-letterari, in quanto dotati di una forte ambiguità; la parola poetica, infatti, 578

passando dalla lingua di uso alla lingua di ri-uso, subisce una sorta di «straniamento», che la priva della sua trasparenza denotati­ va per renderla connotativamente «opaca» o ambigua, risemantizzandola sulla base dell’insieme compositivo in cui si colloca e delle interpretazioni che ne traggono i letto­ ri. Vale anche in questo caso il principio già affermato: il grado di i. di un testo poetico è pari al suo grado di ambiguità e impreve­ dibilità. Si veda, per es., la brevissima liri­ ca di G. Ungaretti M’illumino / d’immenso, dove «immenso» è informativamente ricco, per l’imprevedibilità di cui è connotato. Al­ trettanto si verifica nel testo di G. Caproni «Pensierino facile»: Ecco cosa non bisogna / mai scordare: la sola / verità ammissibile / è una: la menzogna, con l’inattesa «menzo­ gna» della chiusa. Bibl.: Shannon C. E. - W. Weaver, Mathemati­ cal theory of communication, Urbana, University of Illinois Press, 1949; Miller G. A., Linguaggio e comunicazione, Firenze, La Nuova Italia, 1972; Beccaria G. L., L’autonomia del significante, Torino, Einaudi, 1975; Jakobson R., Poetica e poesia, Ibid., 1985; A ngeleri E., I.: significato e universalità, Torino, UTET, 2000.

G. Proverbio

INIBIZIONE Il termine i. deriva dal lat. inhibitio che vuol dire divieto, proibizione. In neurofisiologia esso sta ad indicare la soppressione di deter­ minate scariche nervose o i processi relativi a tale soppressione. In psicologia è usato in diversi ambiti teorici: comportamentistico, dell’apprendimento, del profondo. 1. Al di là delle differenze, il termine riguar­ da comunque sempre un comportamento bloccato o danneggiato da un’attività di al­ tro tipo. Dal punto di vista psicoanalitico l’i. consiste in un dinamismo inconscio che comporta la restrizione di una funzione dell’Io per far fronte all’angoscia relativa a pulsioni, sia libidiche che aggressive, inac­ cettabili a livello conscio. Tale processo può essere normale o patologico. In questo secondo caso esso è un sintomo di un con­ flitto interno, fonte di angoscia (ad es.: desi­

INIZIAZIONE

deri incestuosi o pulsioni distruttive nei con­ fronti di un genitore). Il meccanismo dell’i. comporta un impoverimento dell’energia psichica a disposizione dell’Io. In altri termi­ ni, la vita psichica dell’individuo viene più o meno gravemente sterilizzata. S. → Freud ha introdotto il concetto di i. della meta per indicare il meccanismo psichico per cui una pulsione, a causa di ostacoli interni o esterni, non raggiunge in modo diretto il suo soddi­ sfacimento, ma attraverso attività o relazioni più o meno lontane dallo scopo primario. A sua volta → Klein ha posto l’accento sull’i. dell’attività simbolica, determinata dalla presenza di un forte sadismo nel primo anno di vita. Essa è indicata come uno dei sintomi principali presenti nei bambini psicotici. 2. L’i. può riguardare qualsiasi funzione dell’Io. Si possono distinguere tre tipi d’i.: a) l’i. intellettiva, che investe prevalentemente l’attività cognitiva e che può portare all’ → insuccesso scolastico; b) l’i. a fantasticare, per cui l’individuo appare scarsamente crea­ tivo e profondamente conformista; c) l’i. re­ lazionale, che blocca o rende estremamente angoscioso ogni rapporto con gli altri. Questi tre tipi d’i. dell’Io nella pratica clinica sono presenti più o meno contemporaneamente. Bibl.: Freud S., «I., sintomo e angoscia», in Id., Opere, vol. 10, Torino, Bollati Boringhieri, 1978, 237-317; K lein M., «Contributo alla teoria dell’i. intellettiva», in Id., Scritti 1921-1958, Ibid., 1978, 269-281; Castellazzi V. L., L’i. intellettiva nella teoria psicoanalitica, in «Orientamenti Pedago­ gici» 42 (1995) 63-83.

V. L. Castellazzi

INIZIAZIONE L’i. (dal lat. in-ire) è una condizione univer­ sale dell’esistenza umana, anche se assume differenti modalità e tipologie secondo i po­ poli e le epoche. In generale, fa riferimento al processo di adattamento, di apprendimen­ to e di socializzazione che ogni persona deve realizzare in rapporto all’ambiente fisico, so­ ciale, culturale e religioso in cui viene a tro­ varsi. L’i. mette in relazione l’individuo che accede e il gruppo che l’accoglie: comporta un passaggio e una trasformazione globale

della persona nel suo essere profondo, nella sua identità personale e sociale; diventa pure occasione di identificazione per il gruppo stesso il quale, attraverso tutto il processo, «si dice» ciò che è e ciò che vuol essere. 1. L’i. presenta tre forme storiche principa­ li: i. tribali (passaggio dall’ → adolescenza alla condizione adulta); i. religiose (entrata nelle religioni misteriche, o in sette o società segrete); e i. magiche (per l’acquisto di certi poteri sovrumani). Tappe tipiche di ogni i. sono: una situazione iniziale di separazione o rottura riguardo al passato; un momento intermedio di prove, unite a racconti che ne danno il significato; una situazione finale di novità, col passaggio simbolico dalla morte alla vita e l’acquisto di una nuova identità e appartenenza. Nel processo ci sono momenti di istruzione, esperienze di interiorizzazio­ ne e momenti rituali. Caratteristiche proprie dell’i. sono anche la temporalità, la dura­ ta programmata, e la regolazione sociale, cioè l’istituzionalizzazione del percorso. L’i. così intesa trova nel contesto africano, dove rappresenta il percorso educativo normale di trasmissione culturale e religiosa da una generazione all’altra, l’applicazione più au­ tentica. 2. Nel cristianesimo l’i. gode di rinnovato in­ teresse. L’i. cristiana, pur rimanendo a pieno titolo i., costituisce una entità costitutiva­ mente diversa rispetto alle altre i. per la sua fondazione e motivazione storico-salvifica, cioè il riferimento all’evento storico di Gesù Cristo, e la sua originale accezione teandri­ co-ecclesiale: l’intervento di Dio, l’impegno di rinnovamento interiore del credente, la mediazione ecclesiale. In ambito cristiano l’i. significa propriamente l’azione trasfor­ mante operata dai sacramenti d’i.; e in senso ampio, il processo di interiorizzazione della fede e del comportamento cristiano che por­ ta alla piena incorporazione nella Chiesa e nella vita cristiana. 3. In ordine all’educazione, l’i. ha non poche valenze educative, per la sua condizione glo­ bale, esistenziale, e di esperienza forte che ne garantisce l’efficacia. Come forma di ap­ prendimento, l’i. non è dell’ordine della tra­ smissione di un sapere, ma di introduzione in un «mistero», di → maturazione della per­ 579

INNATISMO

sona attraverso una trasformazione e l’incor­ porazione in una → comunità. L’attuale crisi educativa della generazione adulta, il rifiuto di ogni riferimento a ciò che «trascende» l’individuo, una diffusa mentalità che privi­ legia il facile e la tendenza alla reversibilità delle decisioni, il venir meno di momenti e riti simbolici di discontinuità, minano pro­ gressivamente il valore dell’i. e impongono una attenta riflessione su questo significativo itinerario educativo. Bibl.: Eliade M., Initiation, rites, sociétés se­ crètes, Paris, Gallimard, 1959; R ies J. - H. Limet (Ed.), Les rites d’initiation, Louvain-la-Neuve, Centre d’Histoire des Religions, 1986; Shorter A., Songs and symbols of initiation. A study from Africa in the social control of perception, Nai­ robi, The Catholic Higher Institute of Eastern Africa, 1987; Fayol-Fricout A. - A. Pasquier - O. Sarda, L’initiation chrétienne, démarche catéchuménale, Paris, Desclée, 1991; L’initiation chrétienne, in «Croissance de l’Eglise» (1993) 108, 5-90; Meddi L. (Ed.), Diventare cristiani, Napoli, Luciano, 2002.

M. Gahungu - U. Montisci

INNATISMO Orientamento filosofico che sostiene l’esi­ stenza di idee o di principi conoscitivi o pra­ tici presenti nell’uomo dalla nascita e quindi indipendenti da ogni esperienza. L’i. – che trova la sua formulazione più antica nella te­ oria platonica della reminiscenza – permea, nella sua polemica con 1’ → empirismo, tutta la storia della filosofia occidentale, presen­ tandosi in versioni più o meno ristrette e radicali a seconda della diversa interpreta­ zione proposta per le idee innate, conside­ rate comunque presupposto essenziale della validità di ogni conoscenza e garanzia della stabilità e assolutezza dei principi morali. 1. Se → Platone, e tutti gli autori del pensiero classico che alla sua teoria si rifanno, sostan­ zializzano le idee innate, concettualizzando­ le alla stregua di sostanze mentali, Descartes e Leibniz ridefiniscono a loro volta le idee innate come disposizioni della mente, come tendenze a reagire a determinate stimola­ zioni sensoriali secondo forme invarianti. 580

In particolare Leibniz con il suo i. virtuale non ammette il possesso di vere e proprie conoscenze anteriori ad ogni esperienza ma sostiene che l’uomo nasce dotato di tendenze e virtualità mentali senza le quali la stessa esperienza non sarebbe possibile. Per Lei­ bniz dunque la mente, con la sua capacità di costruire sintesi e di stabilire rapporti e cor­ relazioni è la funzione presupposta di ogni esperienza possibile. 2. Nel pensiero moderno le posizioni innati­ ste, che assumono in genere un carattere più sfumato e articolato, caratterizzano ad es. la tesi di H. Spencer che vede nei caratteri che appaiono innati negli individui il frutto evolutivo delle esperienze della specie. Per Spencer l’uniformità di alcuni procedimenti intellettuali che si presentano negli individui in un momento determinato dell’evoluzione deriva dal fatto che il singolo eredita quanto la specie è venuta lentamente accumulando e ha di volta in volta stabilizzato attraverso op­ portune modificazioni del sistema nervoso. Nella sua riformulazione kantiana, l’orienta­ mento innatista si presenta in forme nuove nelle cosiddette scienze umane e costituisce, ad es., la base della antropologia struttura­ le elaborata da Lévi-Strauss nonché della teoria del linguaggio proposta da Chomsky che identifica in una innata «grammatica universale generativa» la precondizione all’acquisizione del linguaggio e attribuisce all’esperienza semplicemente la funzione di «mettere in moto» uno schematismo innato. Presupposti fortemente connotati in senso innatista caratterizzano inoltre la teoria degli istinti specifici di McDougall nonché la tipo­ logia di → Sheldon e l’etologia di → Lorenz che attribuiscono importanza fondamentale all’azione dei fattori ereditari nella genesi e nella strutturazione delle condotte. La psico­ analisi freudiana, la teoria piagetiana dello sviluppo, l’etologia post-lorenziana offrono, ciascuna nel proprio ambito e in termini di­ versi, una soluzione intermedia tra l’ambien­ talismo e l’i. 3. Secondo gli orientamenti prevalenti, la presenza di strutture psichiche e di schemi comportamentali innati non solo è molto meno significativa di quanto la psicologia scientifica potesse inizialmente ritenere ma soprattutto non è isolabile da fattori acqui­

INNOVAZIONE

siti: ogni modalità innata, nella misura in cui esiste ed è significativa, viene comun­ que modificata, esaltata o repressa, mutata nei suoi significati e nei suoi fini in ragio­ ne di eventi educativi, ambientali e dunque storico-culturali. Complessivamente, i dati tratti dalla ricerca psicologica sottolineano la complessità dell’interazione fra le struttu­ re innate di comportamento e le specifiche caratteristiche dell’ambiente. In particolare la contrapposizione tra ambientalismo e i. è densa di implicazioni ideologiche: si pensi al dibattito particolarmente vivo negli Stati Uniti, relativo all’ereditarietà o meno della superiorità intellettuale di alcuni gruppi ri­ spetto ad altri. L’orientamento innatistico, dunque, in contrapposizione alle teorie che considerano di importanza primaria ciò che è acquisito, finisce per legarsi ai principi del darwinismo sociale e costituisce in questo senso la premessa scientifica al principio della disuguaglianza selettiva degli indivi­ dui. Bibl.: Mecacci L., Storia della psicologia del no­ vecento, Roma/Bari, Laterza, 1992; R aggiunti R., I. e linguaggio nel pensiero di Leibniz, Mas­ sarosa, Del Bucchia, 1998; I d., Da Tommaso a Rosmini: indagine sull’i. con l’ausilio dell’esplo­ razione elettronica dei testi, Venezia, Marsilio, 2003; Barsky R. F. - N. Chomsky, Una vita di dissenso, Roma, Datanew, 2004; Chomsky N. M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, Roma, DeriveAppro­ di, 2005.

F. Ortu - N. Dazzi

INNOVAZIONE È un vocabolo di recente comparsa nella let­ teratura pedagogica, ma ha avuto successo immediato soprattutto a partire dagli anni ’70, anche ad opera degli organismi interna­ zionali. 1. L’i. come termine richiama il cambiamen­ to, ma nell’ambito pedagogico essa non in­ dica qualunque cambiamento. Un’autentica i., ben lungi dall’improvvisazione, dal cam­ biamento fine a se stesso, dal pragmatismo deleterio, richiede una serietà di ricerca, spe­ rimentale e non, con un’intenzione delibe­

rata e un accurato processo di programma­ zione-realizzazione-verifica, il cui risultato deve costituire un effettivo miglioramento qualitativo. Essa indica così l’applicazione dell’esito positivo della ricerca e spesso viene a significare la strategia della ricerca-azione (Action research; Aktionforschung). 2. L’i. è un processo complesso che si effet­ tua a vari livelli: istituzionale, organizzativo, didattico, e richiede competenze e strategie, nonché l’assicurazione delle condizioni e dei mezzi necessari. In questi ultimi decenni la scuola ha vissuto un periodo intenso di tra­ sformazioni profonde attraverso le i. relative a: revisione dei programmi e → programma­ zione, nuovi sistemi di → valutazione e di → formazione degli insegnanti, collegialità, integrazione scolastica degli handicappati, apertura della scuola al sociale, sperimenta­ zione, continuità educativa, valorizzazione dei nuovi mezzi tecnologici, → e-learning, ecc. I campi toccati dall’i. hanno contempla­ to, perciò, non solo i cambiamenti concet­ tuali (programmi e metodi di insegnamento, → software didattico compreso, in relazione all’individuazione dei nuovi compiti specifi­ ci della scuola), ma anche i cambiamenti re­ lazionali e organizzativi (la partecipazione interna-esterna come criterio organizzativo e formativo, il → team teaching), e i cambia­ menti materiali riguardanti attrezzature e sussidi (laboratori multimediali, hardware audiovisivi, biblioteche di lavoro, TV a circu­ ito chiuso e aperto, computer, internet, ecc.). Le riforme scolastiche, sia grandi che picco­ le, sono pure delle i. pedagogiche, sebbene non sempre in senso positivo soprattutto se sono dovute esclusivamente all’ideologia del regime politico. 3. Urge oggi creare delle vie per un’oppor­ tuna comunicazione e cooperazione tra ri­ cercatori, insegnanti e organi decisionali: istituire dei centri di ricerca in connessione diretta con le scuole e gli insegnanti, sia per favorire un flusso ininterrotto d’informazioni tra persone interessate e una partecipazione attiva alla ricerca da parte degli insegnanti, sia per consentire alle autorità competenti di valutare ostacoli e difficoltà nell’introdurre certe i. In ogni caso, l’adeguata formazione iniziale e continua degli insegnanti costitui­ sce il motore principale dell’i. 581

INSEGNAMENTO

Bibl.: Ceri, Études de cas d’innovation dans l’enseignement, 4 voll., Paris, Ocde, 1973; Huberman A. M., Understanding change in educa­ tion. An introduction, Paris/Genève, Unesco/BIE, 1973 (31979); House E. R., Tres perspectivas de la innovación educativa, in «Revista de Educación» 36 (1988) 5-34.

H.-C. A. Chang

INQUINAMENTO → Ambiente → Educazione ambientale

INSEGNAMENTO L’attività volta a promuovere l’acquisizione di → conoscenze, → abilità, → atteggiamen­ ti e → competenze negli altri per mezzo di opportuni sistemi di rappresentazione e di → comunicazione. Dal lat. insignare, im­ primere segni, il termine è stato ben presto utilizzato per indicare la rappresentazio­ ne delle informazioni e delle conoscenze in signo sensibili, cioè secondo un sistema di segni sensibili (in signo ponere). D’altra parte insignare significa anche indicare, far segno. L’azione di i. può quindi essere letta sia come azione che mira a rendere sensibili, percepibili le conoscenze, le competenze, i → valori che si intendono proporre all’azione di → apprendimento degli allievi, sia come in­ dicazione del loro significato, del loro grado di plausibilità e del loro valore soggettivo e collettivo (→ insegnante). 1. Alcuni concetti chiave. S. → Tommaso d’Aquino afferma che: «Il maestro non causa il lume intellettuale del discepolo, né diret­ tamente le specie intelligibili, ma con il suo i. stimola il discepolo perché, applicando la capacità del proprio intelletto, formi i con­ cetti dei quali, dal di fuori, offre i segni» (Tommaso d’Aquino, 1965, 119-121). E an­ cora: «Il maestro, nei riguardi del discepolo, non fa altro che proporgli dei segni o indi­ cargli qualcosa con parole o con gesti [...]. L’insegnante esercita una funzione esteriore, come il medico che risana; e come la natura interiore è la principale causa della guari­ gione, così il lume interiore dell’intelletto è la principale causa del sapere» (Ibid., 113). Non solo l’attivazione dei processi di appren­ dimento, dunque, ma anche il loro controllo 582

non può essere di conseguenza e in generale che solo indiretto: esso è infatti mediato dai sistemi di segni adottati, includendo tra que­ sti anche i sistemi di relazione instaurati. È il principio fondamentale su cui si fonda la cosiddetta «didattica mediale», espressione che si riferisce all’uso valido e produttivo di adeguati media (ambienti e strumenti) di comunicazione culturale per raggiungere gli → obiettivi didattici intesi. Il primo e fonda­ mentale sistema di segni è il contesto o am­ biente di apprendimento stesso considerato nella sua totalità: edifici, aule e loro attrez­ zature e relativo stato di manutenzione e di pulizia; materiali e strumenti didattici dispo­ nibili ed effettivamente utilizzati; sistemi e modalità di relazione attivate e atmosfera ge­ nerale presente sul piano della comunicazio­ ne interpersonale; caratteristiche personali, culturali e professionali dei docenti; attivi­ tà didattiche progettate e sviluppate; forme linguistiche e conversazioni adottate; ecc. È quello che possiamo chiamare il medium co­ municativo fondamentale che costituisce la cornice di sfondo entro cui sono lette, inter­ pretate e valutate le singole azioni didattiche. In questo contesto o ambiente di base vengo­ no via via predisposti e valorizzati sistemi di segni e media particolari. 2. Diversità dei media usati nell’i. I sistemi di segni principali attraverso cui possiamo rappresentare i contenuti della comunica­ zione culturale sono dati dalle parole (dette o scritte) e dalle immagini (statiche o dina­ miche) (Pellerey, 1990), più o meno stretta­ mente intrecciate tra di loro. L’esperienza soggettiva di quanto è segno o può farsi se­ gno può essere diretta oppure mediata. In questo secondo caso si ha l’interposizione di un ulteriore sistema rappresentativo: è il caso del cinema, della televisione, del computer, ma anche del testo scritto, delle opere d’ar­ te riprodotte a stampa, ecc. Nell’esperienza diretta la percezione, l’attribuzione di signi­ ficato e l’appropriazione delle conoscenze e delle competenze rappresentate sono guida­ te e sorrette dall’interazione con una o più persone presenti. Nel secondo caso, invece, la percezione, l’attribuzione di significato e l’appropriazione dei contenuti sono nelle sole mani del soggetto. Nel primo caso si costi­ tuisce un sistema di interazioni triangolare in cui oltre alla rappresentazione e all’azione

INSEGNAMENTO

di comprensione e appropriazione del sog­ getto esiste una meta-comunicazione tra in­ segnante e allievi che sovrintende alla loro interazione. Nel secondo caso l’interazione è bipolare: tra soggetto e rappresentazione. Non solo, esiste una profonda differenza strutturale tra l’i. sviluppato tramite l’uso dell’interazione orale e quello che valorizza testi scritti, → audiovisivi, computer. Nella conversazione, nell’incontro diretto orale, la validità e correttezza della comunicazio­ ne vengono immediatamente e con conti­ nuità guidate e controllate dall’insegnante. Nell’uso di testi scritti, come in tutte le altre forme di comunicazione indiretta, anche ar­ tistica, ci si affida all’interpretazione. Nella lettura di testi scritti a carattere espositivo, per es., dominano la riflessione, l’analisi, la ricerca del senso, la logica, la ricerca di co­ erenza. Anche psicologicamente l’uso della parola è profondamente diverso dall’uso di altri mezzi comunicativi. Il parlare, infatti, nasce dal nostro profondo, dalla nostra inti­ mità, anche se col tempo subisce evoluzioni e perfezionamenti; lo scrivere è un processo guidato da norme consapevolmente inventa­ te, anche se ormai lo si percepisce come na­ turale, in quanto profondamente interioriz­ zato. E questo vale per molte altre tecnologie di comunicazione, come il cinema, la tele­ visione, il computer, soprattutto usato come strumento multimediale. 3. Modelli di i. L’attività pratica che si svolge nell’insegnare coinvolge tre variabili essen­ ziali: l’insegnante, lo studente, il contenuto di i. A queste tre variabili occorre evidentemen­ te aggiungere il contesto nel quale tale attivi­ tà si svolge. Il prevalere dell’una o dell’altra di queste variabili favorisce la costituzione di una tipologia di modalità di i. Gli elementi che possono essere individuati per caratte­ rizzare tali prevalenze possono essere così sintetizzati: l’approccio teorico-filosofico che viene privilegiato; l’inquadramento psi­ cologico che tende e specificare le modalità di sviluppo dei processi di apprendimento; l’impostazione curricolare che viene adotta­ ta. Utilizzando questo quadro di riferimento si possono distinguere almeno quattro mo­ delli base di i.: a) il modello classico nel qua­ le prevale il contenuto e in maniera minore l’insegnante, considerato esperto e modello; b) il modello tecnologico che esalta la scelta

e l’organizzazione didattica dei contenuti; c) il modello personalistico, che sottolinea la centralità dell’alunno, attivo costruttore del­ le sue conoscenze; d) il modello interattivo, che focalizza l’attenzione sull’interscambio tra insegnante e alunno; è durante questa interazione che si costruiscono le conoscen­ ze. Ovviamente nessuno di questi modelli esaurisce la complessità del lavoro di i., per cui il docente dovrà impostare la sua attività strutturando un suo personale approccio, te­ nuto conto dei suoi orientamenti ideali e dei vincoli istituzionali entro cui egli è tenuto a svolgere la sua professione. 4. Analisi e valutazione dell’i. L’analisi dell’i. può essere sviluppata a partire da approcci disciplinari molteplici. Dal punto di vista della psicologia comportamentale sono state sviluppate tecniche di analisi e modificazio­ ne del comportamento insegnante, in parti­ colare esaminando gli scambi verbali inter­ correnti tra docente e allievi. Classico è stato il lavoro pionieristico di Flanders (1970). Da un punto di vista più didattico si possono ri­ cordare i lavori di Dussault et al. (1976). Tec­ niche osservative sistematiche e partecipanti hanno cercato di esplorare più dall’interno il contesto specifico dell’i. La microsociologia ha utilizzato recentemente metodi etnogra­ fici e narrazioni, o storie di vita, dei docen­ ti per risalire dai comportamenti esterni ai pensieri e ai sentimenti che animano docenti e allievi durante le interazioni didattiche. La macrosociologia si è interessata, invece, spesso utilizzando il concetto di sistema, al complesso dell’i., visto come insieme strut­ turato di relazioni interpersonali e istitu­ zionali, di reciproche influenze, di ruoli, di organizzazione dei tempi, degli spazi e delle persone. D’altra parte l’attività di i. ha come scopo fondamentale quello di promuovere un’acquisizione significativa, stabile e fru­ ibile di conoscenze, abilità e atteggiamenti da parte degli studenti. Di conseguenza la qualità dell’i. si misura dai risultati che esso riesce a raggiungere nonostante la diversità di preparazione, di capacità, di motivazione che presentano gli allievi. Tuttavia occorre evitare forme ingenue di valutazione dei ri­ sultati dell’i. scolastico o professionale che si basano solo sui livelli finali di apprendi­ mento. Ciò che caratterizza la bontà di un sistema di i. è il guadagno conoscitivo che 583

INSEGNAMENTO A DISTANZA

riesce a raggiungere, cioè la differenza tra stato di preparazione iniziale e risultati finali raggiunti, ovviamente tenendo conto dei vari condizionamenti sociali, economici e cultu­ rali sempre presenti. La tendenza a valutare efficacia ed efficienza dell’i. solo sulla base di standard finali raggiunti e riduzione di co­ sti finanziari valorizzando una metafora eco­ nomicista, può risultare gravemente dannosa nel contesto scolastico, in quanto può indurre facilmente sia a forme più o meno esplicite di selezione, sia ad abbassamento generalizzato dei livelli finali di conoscenza. Bibl.: Tommaso d’Aquino (s.), De magistro, Roma, Armando, 1965; De Giacinto S., Struttu­ ra dell’i., Napoli, Morano, 1967; Flanders N. A., Analysis teaching behavior, Reading, AddisonWesley, 1970; Lapp D. et al., Teaching and learn­ ing. Philosophical, psychological, curricular applications, New York, Macmillan, 1975; Dussault G. et al., L’analisi dell’i., Roma, Armando, 1976; Joyce B., Models of teaching, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 21986; Ballanti G., Modelli di apprendimento e schemi di i., Teramo, Lisciani & Giunti, 1988; Not L., L’enseignement répon­ dant, Paris, PUF, 1989; Scurati C. (Ed.), Realtà e forme dell’i., Brescia, La Scuola, 1990; Mastromarino R., L’azione didattica, Roma, Armando, 1991; Gimeno Sacristán J. - A. I. Pérez Gómez, Comprender y transformar la enseñanza, Ma­ drid, Morata, 1992; Calidoni P., I. e ricerca in classe, Brescia, La Scuola, 2004; Bottero E., Il metodo d’i., Milano, Angeli, 2007.

M. Pellerey

INSEGNAMENTO A DISTANZA Sistema didattico organizzato mediante l’uso di diversi mezzi di comunicazione nel quale gli atti di i. sono eseguiti separatamente da­ gli atti di → apprendimento. 1. Più specificatamente l’i. a d. è una forma di istruzione in cui si ha: a) una quasi perma­ nente separazione tra docente e discente, e questo la diversifica dall’i, tradizionale faccia a faccia; b) una organizzazione educativa che progetta e prepara i materiali didattici, che li fornisce sistematicamente agli studenti, che li assiste nel loro apprendimento con siste­ mi di accertamento delle loro acquisizioni, 584

e questo la diversifica da uno studio perso­ nale e da programmi di auto-apprendimento; c) un uso integrato di sistemi di comunica­ zione (come posta, telefono, telematica) e di supporti vari (come stampa, audio, video, programmi informatici, programmi mul­ timediali); d) una comunicazione a due vie tra studente e organizzazione didattica che attiva, anche se con modalità che implicano una separazione spaziale e temporale, una forma di dialogo didattico; e) una forma di i. individuale, che solo può implicare anche in­ contri, seminari e attività di apprendimento in gruppo. Negli ultimi anni è stata coniata l’espressione → e-learning per indicare forme di apprendimento basate su collegamenti in rete tramite Internet e sull’uso di materiali di tipo digitale. 2. L’i. a d. ha avuto i suoi prodromi in varie forme di istruzione per corrispondenza. Si è sviluppato poi con la diffusione del sistema postale al fine di favorire lo studio e l’appren­ dimento di competenze professionali soprat­ tutto dove le distanze e le condizioni sogget­ tive impedivano la partecipazione ad attività di studio collettivo tradizionale. Oggi esso è assai diffuso in tutti i continenti, soprattutto nel campo universitario e della formazione professionale. In Italia si hanno alcune orga­ nizzazioni private e, più recentemente, sulla base anche di alcune iniziative universitarie, soprattutto nel campo dell’aggiornamento, sono state emanate norme per l’attivazione di corsi universitari a distanza. Sono presen­ ti anche iniziative di formazione permanente basate su e-learning. Bibl.: Sarramona J., Tecnología de la enseñan­ za a distancia, Barcelona, CEAC, 1975; Bertoldi F., Formazione a distanza. La seconda didattica, Roma, Armando, 1980; Pellerey M., «Verso un sistema di orientamento e formazione a distan­ za», in ISFOL, Quaderni di formazione, 6, 1983, 21-228; Vertecchi B. (Ed.), Insegnare a distan­ za, Firenze, La Nuova Italia, 1988; K eegan D., Principi di istruzione a distanza, Ibid., 1994; Willis B. (Ed.), Distance education: strategies and tools, Englewood Cliffs, Educational Tech­ nology Publications, 1994; Trentin G., Dalla formazione a distanza all’apprendimento in rete, Milano, Angeli, 2004; De Vita A., E-learning: parole e concetti. Glossario ragionato della for­ mazione e del lavoro in rete, Ibid., 2004; Cri-

INSEGNAMENTO SOCIALE DELLA CHIESA

P., E-learning. Formazione, modelli, pro­ poste, Roma, Armando, 2006.

spiani

M. Pellerey

INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE → Religione: insegnamento della

INSEGNAMENTO SOCIALE DELLA CHIESA Con i.s.d.C. si intende l’insieme delle indica­ zioni e delle proposte riguardanti la presenza e l’azione sociale dei cristiani, degli uomini di buona volontà, nel corso dell’ultimo sec., a seguito degli interventi (encicliche, lettere, discorsi, ecc.) papali, conciliari, episcopa­ li circa la «questione sociale». Rispetto al passato, in cui prevaleva la dizione «Dot­ trina sociale della Chiesa» l’i.s.d.C. postconciliare non solo ha approfondito meglio il suo rapporto con 1’→ evangelizzazione e la → catechesi, ma ha definito meglio la propria natura e funzione nella missione della Chie­ sa e il suo rapporto con il mondo, la società, la cultura. 1. L’i.s.d.C. elemento essenziale della nuo­ va evangelizzazione e della catechesi. Con le ultime encicliche sociali l’i.s.d.C. è defi­ nitivamente ascritto all’ambito della teologia morale (cfr. Sollicitudo rei socialis [SRS], n. 41). Ciò autorizza Giovanni Paolo II ad af­ fermare anche che l’i.s.d.C. è componente essenziale della «nuova evangelizzazione» (cfr. Centesimus annus [CA], n. 5). Uno stu­ dio più approfondito della natura dell’i.s.d.C. e della catechesi porta proprio a concludere che tra i due c’è un’implicazione reciproca e che l’i.s.d.C. è anche elemento essenziale dell’educazione alla fede. Se nell’azione ca­ techetica e nei suoi sussidi didattici viene a mancare la recezione costante ed aggiornata dell’i.s.d.C. e il riferimento all’esperienza di vita da cui questo erompe e a cui rimanda, non si educa adeguatamente ad una fede matura. Detto diversamente, occorre che l’i.s.d.C. venga «veicolato» o «mediato» nella cate­ chesi. Esso deve, in certo modo, «nascere» una seconda volta: essere cioè «ritrascritto» per le diverse categorie di persone – specie giovani e adulti – nei vari contesti ecclesiali di catechesi, non esclusi i centri di ascolto,

i movimenti e le associazioni di apostolato. In particolare, va inserito nella dinamica della «Parola totale» (annuncio, celebrazio­ ne, servizio) e «ridetto» come messaggio per la fede, come «materia» sacramentale per la preghiera, come compito per un servizio ani­ mato dalla Carità di Cristo. 2. La natura e il senso culturale dell’i.s.d.C. «La dottrina sociale della Chiesa non è una “terza via” tra capitalismo liberista e collet­ tivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radi­ calmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è neppure un’ideologia, ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse real­ tà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esa­ minandone la conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uo­ mo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il com­ portamento cristiano» (SRS, n. 41). L’i.s.d.C. è cioè un sapere teorico-pratico, che non si limita alla contemplazione della realtà socia­ le e dei suoi problemi; non si limita neppure all’indagine sulle cause dei mali e ad espri­ mere giudizi etici. È sapere formulato col fine di trasformare la realtà sociale, di modo che questa possa essere più conforme al di­ segno di Dio, secondo il quale tutte le realtà terrene debbono essere poste al servizio del­ la crescita in pienezza della persona. È sape­ re, pertanto, che nascendo dall’esercizio del ministero di evangelizzazione della Chiesa in campo sociale, non solo «denuncia» i mali e le ingiustizie, ma simultaneamente e prin­ cipalmente «annuncia» l’opera di salvezza di Gesù Cristo, le vie di azione, le modalità più consone, le progettualità germinali più adatte per liberare ed umanizzare il lavoro, l’economia, la politica, la comunità mondia­ le, la famiglia, i mezzi di comunicazione so­ ciale, l’ecologia, rispettandone l’autonomia, destinandoli ultimamente a Cristo stesso, per mezzo del quale e in vista del quale sono stati creati (Col 1,3.12-20), partecipando alla sua incarnazione, redenzione e ricapitolazio­ ne (Col 1,15). 3. L’apporto alla catechesi. Ciò premesso, è 585

INSEGNAMENTO SOCIALE DELLA CHIESA

facile comprendere come l’i.s.d.C. aiuta, in definitiva, gli educatori alla fede e la loro opera di catechesi nel far crescere i credenti nell’adesione al mistero totale di Cristo, nel vivere la totalità esistenziale della fede, della speranza e della carità anche con riferimen­ to al sociale. In particolare, l’i.s.d.C. dà un apporto fondamentale all’opera di catechesi in quanto: a) educa all’approccio alla storia, al coinvolgimento in essa, ove Gesù Cristo e il suo Spirito sono già all’opera, per asso­ ciarsi alla loro azione trasformatrice; b) abi­ lita, quindi, al discernimento e alla profezia, ossia all’individuazione negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni degli uomi­ ni di ciò che indica la presenza o il disegno di Dio in se stesso e di ciò che lo contra­ sta (cfr. Gaudium et spes, n. 11); e, inoltre, a vivere le realtà sociali rimanendo uniti a Gesù Cristo e, pertanto, purificandole, con­ solidandole ed elevandole in Lui: il discer­ nimento e la profezia, mentre sono avviati innanzitutto dall’ascolto della Parola di Dio, si avvalgono anche dell’apporto delle scien­ ze umane e sociali per la conoscenza della questione sociale, e vanno attuati vivendo nella comunione ecclesiale; c) presenta, per conseguenza, i tratti – sia pure sintetici e bisognosi di ulteriori mediazioni – di quella ricapitolazione in Cristo, che i credenti sono chiamati a concretare, specie tramite la gra­ zia e una liberazione integrale, in un deter­ minato periodo storico e in un determinato contesto socio-culturale, collaborando con gli altri uomini di buona volontà; d) indica principi di riflessione (ad es. la persona uma­ na è immagine di Dio, della Comunità tri­ nitaria), criteri di giudizio (ad es. il primato dell’uomo sul capitale, uso critico dei mezzi forniti dalle scienze sociali per l’analisi della situazione), metodi e direttive di azione (ad es. la lotta per la giustizia, la via della non violenza, l’opzione preferenziale per i pove­ ri), atteggiamenti di vita, abbozzi di umane­ simi e di culture (dello sviluppo, della pace, dell’ecologia, dell’economia, della politica), fondamentali ed omogenei con un’esistenza umana, cristiana, ecclesiale, che voglia es­ sere a servizio della «nuova creazione», già inaugurata da Cristo (2 Cor 5,17; Gal 6,15; CA, n. 62); e) suggerisce, in definitiva, le mo­ dalità essenziali del compimento umano in Dio con riferimento al sociale; e, congiunta­ mente, in un contesto culturale che propone 586

solo etiche «deboli» e post-moderne, ovvero semplici etiche dialogiche o della legalità, del consenso, delle reciproche garanzie, di legit­ tima difesa, tutte debitrici di una prospetti­ va di «terza persona», sollecita un’«etica di prima persona», cioè un’etica le cui norme e i cui precetti sono individuati guardando all’adempimento del bene e della crescita in pienezza della persona reale e concreta, e non a partire dal punto di vista di un «osser­ vatore imparziale». 4. Oltre i pregiudizi. Tra i vari pregiudizi sull’i.s.d.C. due in modo particolare resisto­ no. Innanzitutto, il pregiudizio che l’i.s.d.C. sia qualcosa di superfluo o di facoltativo o di secondario per il credente, al punto che non raramente viene prima la scelta del partito, dell’associazione e del movimento e poi si afferma che l’i.s.d.C. è dalla propria parte. Ora, ciò equivale a porre le premesse di una sua inevitabile strumentalizzazione. Do­ vrebbe al contrario essere l’i.s.d.C. ad orien­ tare nella scelta del partito, dell’associazione o del movimento in campo sociale e politico. Ma non solo. Una volta operata l’adesione a questo o a quel partito, a questa o a quell’as­ sociazione, l’i.s.d.C. dovrebbe continuare ad essere punto di riferimento ineludibile per giudicare della bontà di ciò che è teorizzato e fatto all’interno dei partiti, delle associa­ zioni e dei movimenti. La ragione di tutto ciò risiede nel fatto che l’i.s.d.C. appartiene al credente quale patrimonio teorico-pratico, sapienziale, che egli ha in dotazione in quan­ to cristiano e in quanto membro della comu­ nità ecclesiale, il cui compito è anche quel­ lo dell’evangelizzazione del sociale. Esso inerisce al credente come uno «specifico» e come una «vocazione» che l’accompagnano ovunque, in ogni campo dell’agire sociale. In secondo luogo, oggi continua a sussistere anche il pregiudizio che l’i.s.d.C. non serve a cambiare progetti societari, sistemi, strut­ ture ed istituzioni. Esso, al più, offrirebbe l’indicazione di correttivi che possono lenire i mali delle società e dei mercati, senza però modificarli dal di dentro, nei loro meccani­ smi e nella loro impostazione di fondo. Sicu­ ramente l’i.s.d.C. non propone questo o quel sistema politico, economico o ideologico concreto, alternativo a quelli esistenti. Non è il suo compito. Tuttavia, esso, segnalando come cogenti quei principi e quelle direttive

INSEGNANTE

di azione di cui si è già detto, offre quanto è necessario per riformare o per sostituire, se ne è il caso, sistemi ed istituzioni antiu­ mani. Detto altrimenti, l’i.s.d.C. è tutt’altro che astratto. Esso viene, infatti, a porsi come fondamento e motivazione per l’azione (cfr. CA, n. 57). Se accolto, entra a costituire l’in­ tenzionalità più profonda dell’agire, nonché le modalità della sua attuazione, in modo così decisivo e radicale da comandare irre­ sistibilmente il cambio delle ideologie, dei sistemi, delle istituzioni, la loro umanizza­ zione globale. 5. Per un uso pedagogico dell’i.s.d.C. Pur­ troppo spesso l’i.s.d.C. rimane lettera morta perché parecchi credenti o non lo conoscono ancora o non hanno la competenza per tra­ durlo in linguaggio politico e culturale. An­ che da questo punto di vista, allora, occorre che nella catechesi, nelle università, nei vari centri culturali, nelle associazioni e nei mo­ vimenti ecclesiali o di ispirazione cristiana, si sviluppi un’intensa e costante opera for­ mativa avente come riferimento irrinuncia­ bile l’i.s.d.C. Così, da un punto di vista più pratico, occorre avviare alla conoscenza dell’i.s.d.C., non certo tramite semplici sun­ ti, volgarizzazioni, articoli di giornale o di rotocalchi. È indispensabile la lettura specie degli ultimi testi delle encicliche, che po­ trà essere più fruttuosa se avviene tramite «laboratori» pastorali-catechetici, tramite gruppi e comunità educativi, ove l’indagine sui problemi cui rinvia l’i.s.d.C. e il dibattito sulla loro soluzione si svolgono a più voci e sulla base di competenze diverse, integranti­ si fra loro. Ciò verso cui si deve, però, pun­ tare, in ogni caso, è la creazione nel credente di una sensibilità che gli consenta di vivere la dimensione sociale della propria fede e del Vangelo con la stessa Carità di Gesù Cristo. Bibl.: Toso M., Umanesimo sociale. Viaggio nel­ la dottrina sociale della Chiesa e dintorni, Roma, LAS, 22002; Id., Welfare society. La riforma del welfare: l’apporto dei pontefici, Roma, LAS, 2 2003; Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace , Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano, LEV, 2004; Id., Dizionario della dottrina sociale della Chiesa, a cura di S. Ecc. G. Crepaldi e E. Colom, Roma, LAS, 2005.

M. Toso

INSEGNANTE Dal lat. insignare: indicare (da «indice», mo­ strare con il dito della mano) mediante segni, marcare qualcosa con un contrasse­g no, si­ gnificare, esprimere: corrisponde al­l’azione di tradurre in rappresentazione – in «segni» – la realtà che non è possibile, conveniente o sicuro, conoscere adeguata­mente attraver­ so l’esperienza diretta, e pertanto richiede l’intervento efficace di una mediazione – → l’insegnamento, che so­stituisce la realtà con l’indicazione dei cor­r ispondenti segni con­ venzionali – e di un mediatore – appunto, l’i. Espressione attestata già nell’XI sec., si ge­ neralizza nell’uso con la diffusione, a partire dal XVII, del Collegium, la scuola burocra­ tica dell’età mo­derna che si è prolungata nei sistemi contemporanei di educazione forma­ le. Si dà una stretta correlazione fra svi­luppo organizzativo dell’istituzione scola­stica e de­ finizione amministrativa del «ruo­lo» dell’i., fino a farlo coincidere sic et simpliciter con il «personale che, all’interno delle scuole, è incaricato dell’educazione degli alunni» (Recommandation concernant la condition du personnel enseignant, Unesco, 1966). 1. I. e società. L’istituzionalizzazione dell’i. è un dato ricorrente e precoce, anche se non disponiamo a tutt’oggi di una ricostru­ zione storico-sistematica della sua figura. A seconda dei sistemi sociali e delle epoche storiche, ha potuto variare il tipo dei con­ tenuti dell’insegnamento, l’età, il numero, il ceto dei soggetti destinatari, ma si danno analogie strette per quanto concerne il rico­ noscimento ufficiale della funzione affidata e la regolamentazione pubblica dell’attività svolta. La legittima­zione sociale – licenza di, abilitazione a – emerge in relazione ad alcune condizioni esterne ed interne: fra le prime, la presa di coscienza dell’identità culturale, per es. a seguito di eventi immi­ gratori/emigratori, occupazione di altri ter­ ritori umanizzati, minacce di acculturazione forzata per inva­sioni subite; fra le seconde, contesti di in­tegrazione orientati alla pro­ duzione di una cultura generale unificante, conseguenti a processi di urbanizzazione, di differenzia­zione istituzionale e centralizza­ zione del potere politico, insieme all’insorge­ re di amministrazioni burocratiche sia pure em­brionali. Mentre nasce la scuola, con il 587

INSEGNANTE

compito di assimilare, nel quadro di un pro­ getto storico di egemonìa, le culture partico­ lari di ceto, di monopolizza­re la produzione culturale e di determinare le credenziali per accedere al mercato cul­t urale – → titoli di studio e mobilità sociale – gli i. vengono definiti come ti­tolari della «funzione docen­ te»: compito specialistico, tendenzialmente esclusivo, che pone termine all’insegnamen­ to come attività complementare incorpora­ ta nelle pratiche di socializzazione, propria di figure quali il sacerdote-i., il filosofo-i. e l’uomo di cultura in genere. L’i. può così essere definito attraverso i vincoli che deli­ mitano l’esercizio della sua funzione (o, per il verso opposto, in correlazione alla → libertà d’insegnamento): i controlli impo­sti possono essere di tipo soggettivo, quali – epoca per epoca – la dipendenza servile dal committente, la fiducia personale, la presta­ zione di un giuramento, l’accerta­mento della competenza, in senso sostanziale ed in senso formale, fino a comprendere l’organizzazio­ ne di appositi istituti di formazione («scuole normali»); di tipo oggettivo, quando riguar­ dano i contenuti dell’in­segnamento – oggi i → programmi di studio – selezionati in base agli interessi delle autorità committenti (in genere le chiese e gli stati) e dei loro proget­ti simbolici, nel quadro spazio-temporale defi­ nito da regole prescrittive e costitutive che vincolano → compiti educativi, determinati da uno status giuridico di grado esecutivo, in condizioni d’esercizio non di rado precarie e con emolumenti di sopravvivenza. Questa intrinseca corrispondenza tra i. e istituzione può contribuire a spiega­re le difficoltà che si frappongono regolar­mente ai propositi di in­ novazione nel cam­po dell’insegnamento: da una parte, stante l’assimilazione fra scuola e i., può sembra­re plausibile – come nelle dia­ gnosi ancora attuali della Rand Corporation (1984), della Carnegie Foundation (1986), dell’Holmes Group (1986) – proporre che solo una rin­novata formazione degli i. pos­ sa costituire la leva della riforma scolastica; dall’altra, i cambiamenti introdotti attraver­ so lo svi­luppo organizzativo del sistema sco­ lastico – orari, raggruppamenti degli alunni, team teaching, partecipazione dei genitori e di altri soggetti esterni... – incontrano resi­ stenze, ostacoli e barriere nella «zona gri­gia» dell’istituzione rappresentata dalla «cultura antropologica» degli i. L’intreccio dei fatto­ 588

ri soggettivi e strutturali fanno delle rifor­ me scolastiche un impegno proibitivo, che richiede una strategia globale e combinata, articolata in tempi medio-lunghi, in un con­ testo di stabilità politica. Mentre rinviamo lo svolgimento di questi motivi alla voce → in­ novazione scolastica, qui occorre giustifica­ re le ragioni della codificazione istituzionale dell’i., che abbia­mo disegnato – al negativo – attraverso i vincoli imposti all’esercizio della sua atti­vità, ma che può aver luogo – anche al po­sitivo – attraverso i processi di idealizza­ zione della sua rappresentazione sociale. Eb­ bene, non è difficile collegare la neces­sità, universalmente avvertita e praticata, della legittimazione pubblica della figura dell’i. alla sua rilevanza sociale e culturale: secon­ do quanto mostrano, convincente­mente, gli studi integrati di biologia, etolo­gia, psicana­ lisi ed antropologia culturale, l’inettitudine dell’uomo alla nascita è cor­relata all’attitu­ dine pedagogica, che fa del­la «genericità» originaria uno straordinario potenziale di affermazione sull’ambiente, a condizione di una laboriosa e prolungata dipendenza dall’adulto e della necessaria declinazione dell’aggressività interna al gruppo in senso di appartenenza e con­d ivisione pratica di norme e di va­lori. La convergenza di questi apporti multidiscipli­nari conclude con il ri­ conoscimento dell’in­segnamento come fun­ zione costitutiva del sociale e del culturale. Pertanto, collocato sulla soglia obbligata e determinante della sopravvivenza della cul­ tura al momento del cambio genera­zionale, l’i. non può – suo malgrado – non essere oggetto ambivalente di attese esagerate e di sospetti inconfessabili: di qui la prassi uni­ versale della minuta codificazio­ne del ruolo, fino alla sua burocratizzazio­ne «esemplare», che plasma l’aria di famiglia degli i., in par­ ticolare i loro sempre denunciati comporta­ menti individualistici ed isolazionisti. 2. I. e professione. Come abbiamo anticipa­to, si può leggere la questione degli i. dall’altro verso, quello della libertà dell’insegnamen­to, compreso dalla letteratura pedagogico-socia­ le sotto il titolo della «professionalizzazione» dell’i. Secondo gli indicatori pro­pri di questo «ideal-tipo» del lavoro socia­le, messi a punto dal → funzionalismo – prestigio, formazione di livello accademi­co, frequentazione della ricerca scientifica per l’innovazione teorico-

INSUCCESSO SCOLASTICO

pratica, specifica deontologia altruistica nei rapporti con i clienti corri­spondente all’au­ togoverno dell’attività, supportato da un as­ sociazionismo diffuso, unificato e sensibile all’immagine esterna della categoria – per l’i. si può arri­vare a parlare, eventualmente, di «semi­professione» oppure di «professio­ nalità in senso ristretto». Difatti, nessuno di quei tratti si può considerare caratterizzante della categoria (anche se è innegabile che al suo interno si distinguono da sempre delle élites professionalizzanti): ma sono i requisi­ ti stessi della professionalità ad essere messi in discussione. Una prima serie di obiezio­ ni – ad opera della sociologia conflittualista ed interazionista – riguarda il giudizio sul­la professionalizzazione dei servizi sociali, cri­ ticata innanzitutto per i suoi esiti – non sem­ pre positivi – per una migliore qualità delle prestazioni al pubblico, ma anche contestata per l’accaparramento delle conoscenze pres­ so i tecnici, «mutilante» per la gente comu­ ne, resa sempre più dipen­dente, sospettata per i legami con il potere politico e infine disvelata nei dispositivi di mercato adottati per accreditarsi presso il pubblico. Eppure il «mito» della professiona­lizzazione (Bou­ rdoncle) resiste, almeno fra i pedagogisti: dapprima attraverso l’osserva­z ione delle effettive operazioni di cui consiste il lavoro di aula e di scuola – evi­denza di compor­ tamenti di tipo interattivo, contestuale, di improvvisazione riflessiva – che manifesta­ no un «sapere professionale» complesso e sofisticato, per quanto inconscio e sottova­ lutato dagli stessi i. Inoltre, l’indagine sulle pratiche d’insegnamento ha portato ad iden­ tificare un tipo di professionalità a carattere «morale», specifica dell’i. (Goodlad, Fen­ stermacher). Oggi, sullo sfondo del «ritor­ no» della filosofia pratica, assistiamo all’af­ fermazione di una epistemologia dell’azio­ ne come forma di conoscenza propria, fuori del pa­radigma «applicazionista», che ha in­ dotto un radicale rinnovamento de­gli studi, che guardano all’i. esperto come fonte della ricerca didattica (Tochon), nella prospetti­ va di una diversa funzione della teoria, con implicazioni di considerevole portata per la professionalizzazione e la → formazione degli i.

Si tratta di un concetto relativo in quanto il modo di accostare il problema cambia tra i Paesi in relazione alla tradizione educativa, alle caratteristiche dei programmi, ai tipi di valutazione adottati e alla focalizzazione pre­valente, se sull’educando o sull’istituzio­ ne scolastica. Comunque, esistono alcuni → indicatori abbastanza comuni del­l’i. come i tassi di abbandono, le percen­t uali di ripeten­ za e i flussi di passaggio da un livello scola­ stico all’altro. In ogni caso in questa sede ci si limiterà a trattare degli aspetti quantitati­ vi e dei fattori del feno­meno, mentre per le strategie di intervento si rinvia alla voce → decondizionamento.

Bibl.: Prandstraller C., Sociologia delle pro­ fessioni, Roma, Città Nuova, 1980; Damiano E.,

1. Dati di base. Le organizzazioni interna­ zionali hanno denunciato a più riprese la

Società e modi dell’educazione. Verso una teo­ ria della scuola, Milano, Vita e Pen­siero, 1984; Goodlad J. I. - R. Soder - K. A. Sirotnick, The moral dimensions of teaching, San Francisco, Jossey-Bass, l990; Schoen D. A., The reflective turn: case studies in and on educational practice, New York, Teachers College Press, l991; Bourdoncle R., La professionalisation des ensei­ gnants. Les limites d’un mythe, in «Revue Fran­ çaise de Pédagogie» (1993) 105, 83-120 ; Tochon F. V., L’enseignant expert, Paris, Nathan, 1993; Gauthier C., Pour une théorie de la pédagogie. Recherches contemporaines sur le savoir des en­ seignants, Paris/Bruxelles, De Boeck Université, 1997; Cenerini A. - R. Drago, Professionalità e codice deontologico degli i., Trento, Erickson, 2000; Recherche sur la pensée des enseignants: un paradigme à maturité, in «Revue Française de Pédagogie» (2000) 133, 129-157; Campbell E., The ethical teacher, Maidenhead-Philadelphia, Open University Press, 2003; Damiano E., L’i. Identificazione di una professione, Bre­scia, La Scuola, 2004; Sant­ oni Rugiu A., Maestre e mae­ stri. La difficile storia degli i. elementari, Roma, Carocci, 2006; Damiano E., L’i. etico. Saggio sull’insegnamento come azione morale, Assisi, La Cittadella, 2007.

E. Damiano

INSTITUCIÓN LIBRE DE ENSEÑANZA → Giner de los Ríos → Krausismo

INSUCCESSO SCOLASTICO

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INSUCCESSO SCOLASTICO

gravità della situazione in Europa; riporto solo due dati che hanno il vantaggio dell’og­ gettività riconosciuta e del riferimento a tutti i Paesi dell’UE (Commission of the European Communities, 2006). Uno dei benchmarks (macroindicatori) del programma di Lisbona riguarda l’abbandono scolastico e formativo: nel 2000 la media europea si collocava al 17,7% e, sebbene nel 2005 si noti un miglio­ ramento perché la percentuale si abbassa al 14,9%, tuttavia il dato è ritenuto troppo ele­ vato e soprattutto mal distribuito tra i diversi Stati e si teme che nel 2010 non possa essere raggiunto l’obiettivo del 10%; per il periodo 2000-05 l’Italia può vantare una considere­ vole riduzione, dal 25,3% al 21,9%, anche se rimane molto lontana dalla media europea. L’altro macro-obiettivo consiste del numero degli alunni minori di 15 anni con bassa abi­ lità di lettura-scrittura: l’UE faceva registra­ re nel 2000 una percentuale del 19,4% e nel triennio a cui si riferiscono le misurazioni disponibili (2000-03) non solo non si è ve­ rificato un miglioramento, ma anzi si osser­ va un peggioramento, anche se leggero, in quanto il dato dell’UE è salito al 19,8%; a sua volta l’Italia presenta un aumento ancora superiore dal 18,9% al 23,9%. Per il nostro Paese aggiungo solo due dati: uno che sot­ tolinea il peso del capitale culturale sull’i.s. – dei diplomati che possono vantare un pa­ dre laureato, i tre quarti circa (73,4%) sono iscritti all’università, mentre la percentuale scende a poco più del 40% (42,6%) per i figli dei diplomati, a intorno a un quarto (26,9%) per i ragazzi con padre in possesso di licen­ za media e a neppure un quinto (17,7%) per i giovani il cui genitore può contare unica­ mente su una licenza elementare; l’altro che evidenzia come la struttura prevalentemen­ te generalista dell’educazione, determinata da un continuo processo di licealizzazione dell’educazione tecnica e professionale, non ha condotto al successo e ha lasciato il 33% dei giovani in età fuori del percorso formati­ vo (Sugamiele, 2006). 2. I fattori dell’i. Un gruppo di interpreta­ zioni fa riferimento ai condizionamenti ge­ netici. L’i. dipenderebbe da carenze intrin­ seche all’individuo riguardanti specifica­ mente l’ → intelligenza iscritta nell’eredità genetica, carenze che possono essere sco­ perte attraverso → test ed essere misurate 590

dal quoziente intellettuale. Tale spiegazio­ne è stata criticata principalmente per due mo­ tivi: anzitutto, essa finisce per ridurre l’in­ telligenza a semplice punteggio; in se­condo luogo, se è vero che ogni persona possiede uno specifico patrimonio geneti­co, è altret­ tanto vero che ciascuna matura una propria identità sulla base dell’espe­r ienza, dell’ → apprendimento e dell’am­biente. Altre teorie si richiamano allo sviluppo psico-affettivo dell’individuo. La co­struzione della per­ sonalità andrebbe di pari passo con il suo iter scolastico che pre­senterebbe i seguenti passaggi critici: l’educazione prescolasti­ ca, la primaria, la se­condaria e l’educazio­ ne superiore. Ciascuna transizione richiede l’adattamento a nuove situazioni; gli alunni non rispondono tutti egualmente agli stimo­ li esterni e alcuni in­contrano problemi che incidono sul loro comportamento scolastico. Queste diffi­coltà possono consistere nel ri­ fiuto totale della scuola che secondo alcuni autori sa­rebbe da attribuirsi a una reazione contro la madre e alla difficoltà di accettare l’au­torità paterna; è frequente anche riscon­ trare un atteggiamento di passività e di ras­ segnazione. Alcuni studiosi hanno messo in evidenza il legame tra l’i.s. e particolari si­ tuazioni psico-affettive come la separa­zione dalla famiglia, il fenomeno della ri­valità con i fratelli, i problemi fisici ed emotivi con­ nessi con la pubertà. Una serie di interpreta­ zioni fa riferimento alla diversa im­portanza che l’alunno attribuisce al successo scola­ stico: tale relazione è certamente segnata dall’appar­tenenza di classe, ma non va ri­ dotta ad es­sa, perché le persone non posso­ no essere concepite come la pura incarna­ zione del proprio ceto. Le spiegazioni che si ispi­rano all’ → interazionismo concentrano l’attenzione sul funzionamento della singola scuola. È centrale la costru­zione personale e soggettiva degli eventi da parte degli in­ segnanti e degli alunni. L’in­terazione delle varie parti coinvolte nella formazione è alla base dei processi sociali e relazionali che condizionano l’i. dell’allie­vo. In particolare tale approccio ha chia­mato in causa le attese degli insegnanti, le reti di comunicazione che si instaurano nel­le classi, i metodi di valuta­ zione e le condi­zioni di apprendimento. Sul piano sociolo­gico si è assistito al pas­saggio dall’interpretazione trionfalista e ingenua della teoria della deprivazione cul­t urale (l’i.

INTEGRAZIONE SOCIALE

sarebbe da attribuirsi a tratti cul­t urali nega­ tivi della famiglia), al pessimismo radicale della teoria della ri­produzione (che ricono­ sce alla scuola uni­camente il ruolo di perpe­ tuare l’ordine so­ciale), per giungere con la ripro­duzione contraddittoria e le concezioni del neo-weberianesimo a un recupero della funzione positiva della scuola che si accom­ pagna contemporaneamente alla de­nuncia del suo contributo al mantenimento delle disparità esistenti nel sistema sociale. I ca­ pisaldi di una nuova impostazione van­no cercati nell’autonomia relativa della scuola, nella sua funzione «controfun­z ionale» ri­ spetto agli eccessi del capitali­smo (perché trasmette «meta-capacità» cioè abilità ge­ nerali di dominare il ritmo accelerato del cambio tecnologico e perché è ispirata ai valori di libertà, di eguaglianza e di parte­ cipazione propri dello Stato de­mocratico) e nella sua capacità di fornire ai ceti emer­ genti uno strumento di lotta per legittimare, tramite i titoli conseguiti, la lo­ro emanci­ pazione. Più recentemente è stato osservato che i processi di emarginazione dei giova­ ni vanno attribuiti tra l’altro al fatto che la scuola, come la modernità, considera solo gli individui e le entità collettive, ma non ne vede le relazioni sociali che li costituiscono (Donati, 2006). Bibl.: Eurydice, Measures to com­bat failure at school: a challenge for the construction of Eu­ rope, Luxembourg, Office for Official Publica­ tions of the European Communities, 1994; Besozzi E., Società, cultura, educazione: teorie, con­ testi e processi, Roma, Carocci, 2006; Commission of the European Communities, Progress towards the Lisbon Objectives in education and training. Report 2006, Brussels, 2006; Asensio J. Mª., Cómo prevenir el fracaso escolar, Barce­ lona, CEAC, 2006; Donati P., «Come combattere disagio giovanile e dispersione scolastica», in S. Versari (Ed.), Cercasi un senso disperatamen­ te, Napoli, Tecnodid, 2006, 57-78; Schizzerotto A. - C. Barone, Sociologia dell’istruzione, Bo­ logna, Il Mulino, 2006; Sugamiele D., Dati utili per l’attuazione del sistema educativo di istruzio­ ne e formazione, in «Presenza Confap» 21 (2006) 1-2, 7-52.

G. Malizia

INTEGRAZIONE EDUCATIVA/SCOLASTICA → Handicap: portatori di → Qualità

INTEGRAZIONE SOCIALE Nelle scienze umane il termine i. risulta piuttosto articolato nei suoi significati espli­ cativi e problematico nel campo stret­tamente pedagogico ed educativo. Dal pun­to di vista della sociologia l’i. in generale si oppone ai concetti di dispersione, → devian­za, anomia, disfunzione, emarginazione, → conflitto, di­ sgregazione, differenziazione. 1. Il processo integrativo è spesso studiato te­ nendo conto della prospettiva dell’equi­librio sociale più o meno stabile. Quando lo stato di equilibrio appare compromesso si intervie­ ne con analisi causali intese a ri­stabilire le condizioni normali di vita, vale a dire condi­ zioni socialmente riconosciute come adatte e legalmente accettate per la convivenza paci­ fica. La tensione all’equi­librio non si esauri­ sce nel ritorno a stati di stabilità sociale, ma anche, secondo le tesi del conflitto sociale costruttivo, nell’in­staurazione di una nuova compattezza. I sociologi studiano i processi e i gradi di i. di un sistema sociale. Secondo l’analisi so­cio-antropologica, norme, valo­ ri, cultura, costumi, ed anche le istituzioni come la scuola, condizionano, favoriscono/ ritarda­no il processo di i. In psicologia si hanno definizioni parallele con riferimento espli­cito alla unificazione delle parti scom­ poste in un tutto di ordine superiore, dove regna l’armonia e dove l’ideale trova la sua espressione massima. 2. L’uso corrente del termine i. può essere in­ terpretato come richiesta di superamento del­ la frammentarietà di un sociale vissuto sem­ pre più come carente di rapporti co­munitari significativi. Non c’è conflitto tra le genera­ zioni, ma c’è isolamento delle esperienze su cui non vi è riflessione co­mune. Assistiamo a due effetti socio-psico­logici opposti che hanno ripercussioni no­tevoli nel campo della pedagogia: infatti, si accettano contempo­ raneamente le teorie dell’i., che mirano alla stabilità e quelle che, sostenendo la legittimi­ tà del diverso, non del deviante, tendono a far convivere varie etnie in uno stato di rispetto della pluralità culturale. La scuola in quanto isti­t uzione che educa e socializza tende all’i., all’inserimento del diverso, ma la pedago­gia come area di riflessione teorica sull’uo­mo e per l’uomo guarda in modo critico ad ogni 591

INTELLIGENZA

forma di i.s., culturale, psicologica richia­ mandosi alla ricchezza di ogni persona che deve essere lasciata libera di crescere e che va scoperta nella sua ricchezza indi­viduale. L’ → educazione interculturale è la risposta teorica e pratica della pedagogia alla presen­ za degli appartenenti a culture altre, come immigrati e rifugiati, nella realtà sociale e scolastica italiana. Bibl.: Alberoni F., Contributo allo studio dell’i.s. dell’immigrato, Milano, Vita e Pensiero, 1960; Sergi N. - F. Carchedi (Edd.), L’immigrazione straniera in Italia. Il tempo dell’i., Roma, Ediz. Lavoro/Iscos, 1991; Chistolini S. (Ed.), Educa­ zione inter­culturale. La formazione degli immi­ grati in Italia, Gran Bretagna, Germania, Roma, Euroma-La Goliardica, 1992; Demetrio D. - G. Favaro, Immigrazione e pedagogia intercultura­ le. Bambini, adulti, comunità nel percorso di i., Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1992; Ferrucci F., Disabilità e politiche sociali, Milano, Angeli, 2005.

S. Chistolini

INTEGRISMO → Fondamentalismo → Ideologia

INTELLIGENZA L’amplissimo uso del termine i. rende il suo significato molto incerto e sfumato. Anche il campo di ricerca sull’i. è estremamente vasto e complesso con il sovrapporsi di livelli di studio, di punti di vista teorici e di cambia­ menti storici. La diversità di opinioni fa pen­ sare che difficilmente sia possibile fornire una definizione autonoma di i. Il concetto è connotato in maniera diversa al variare della fascia d’età (adulti/bambini), dei gruppi (in­ segnanti/scolari) e del periodo storico (ini­ zio/fine sec.). 1. Le teorie biologiche sull’i. L’approccio biologico all’i. si è sviluppato in due grandi gruppi di teorie. All’interno del primo gruppo alcune teorie si sono impegnate nello studio della localizzazione cerebrale delle funzio­ ni, cioè al problema del controllo dell’attività psichica da parte di zone diverse del cervel­ lo. Ad es. la teoria di Luria attribuisce la fun­ zione ideativo-progettuale per programmare, regolare e verificare l’attività mentale al lobo 592

frontale (parte anteriore del telencefalo), la funzione sensoriale per analizzare e recepire informazioni al lobo temporale, parietale e occipitale, la funzione attiva per la regola­ zione del tono e della veglia alle altre parti del cervello. Altre teorie, invece, si sono de­ dicate ad analizzare l’apporto specializzato di ciascuno dei due emisferi all’attività men­ tale in toto. Così si è scoperto che l’emisfero sinistro manifesta funzioni di tipo analitico e logico, mentre quello destro funzioni di tipo più olistico ed espressivo (teorie del dop­ pio emisfero). Altre, applicando sofisticate metodologie di studio (misurazione elettro­ encefalografica dei potenziali evocati, riso­ nanza magnetica, analisi del flusso ematico, rilevazione dell’emissione di positroni), han­ no tentato di approfondire la comprensione della relazione tra attività mentale e cervello attraverso l’esame dei correlati elettrici delle funzioni cerebrali (teorie fondate sull’attivi­ tà cerebrale). 2. Teorie psicologiche dell’i. Le teorie psi­ cologiche dell’i. si caratterizzano per il fat­ to che invertono il rapporto di questa con il fondamento biologico. Esse hanno visto due sviluppi: le teorie psicometriche e le teorie cognitiviste. Le prime si sono mosse per alcuni decenni nel tentativo di forni­ re una mappa geografica delle → abilità e di misurare l’i. Vanno sotto il nome di teo­ rie psicometriche le teorie differenziali che cercano di individuare le varie abilità dell’i, attraverso lo studio delle differenze indivi­ duali. Esse, utilizzando soprattutto l’analisi fattoriale, hanno proposto non solo diverse abilità fondamentali dell’i., ma anche diverse organizzazioni all’interno di queste. Tra gli autori si possono ricordare anzitutto → Gal­ ton e → Binet: questi, pur continuando nella linea della ricerca previsionale dei risultati scolastici, spostò l’osservazione del compor­ tamento intelligente dai processi percettivi e sensoriali ai processi cognitivi complessi: attenzione, comprensione, immaginazione, ecc. Goddard tradusse negli Stati Uniti i test di Binet, provocandone una grande diffusio­ ne oltre le intenzioni. La ricerca sull’i. ebbe un nuovo e forte sviluppo con l’apporto del­ lo psicologo inglese → Spearman. A lui va il merito di aver introdotto l’analisi fattoriale nella ricerca sull’i. → Guilford ha proposto un modello di i. (SOI) costituito da 120 fattori

INTELLIGENZA

in una versione e da 150 in una successiva. Le abilità fattoriali possono essere raccolte in tre tipi di categorie (contenuti, prodotti e processi) e visualizzate su un cubo. Altri au­ tori hanno proposto invece modelli di i. ge­ rarchicamente strutturati. Essi appartengo­ no a due distinte correnti: una inglese e una americana. Fanno parte della prima → Burt e Vernon, della seconda J. M. Caltell. A partire dalla fine degli anni ’60 si sono sviluppate te­ orie volte a spiegare le differenze individuali di i. come differenze procedurali (teorie co­ gnitiviste). Questa linea della ricerca succes­ sivamente si è suddivisa in vari orientamenti che differiscono fra loro sul piano soprattutto metodologico e quindi teorico. Si parla di teo­ rie della correlazione dei processi e di teorie delle componenti fondamentali. Nell’indagi­ ne sull’i. le prime hanno cercato di correla­ re compiti semplici che nella ricerca cogni­ tivista erano stati oggetto di attenta analisi (richiamo, rotazione mentale di immagini) e test utilizzati per la misurazione dell’i. Le seconde si sono orientate verso l’approccio diretto tentando di isolare i processi mentali che avvengono in una prestazione richiesta da un test. Possono essere considerate co­ gnitiviste anche tutte le teorie che ricorrono all’analogia con il computer per descrivere e simulare attività cognitive (teorie dell’i. ar­ tificiale come approccio all’i.). 3. Teorie contestuali. Un altro approccio, che affonda le sue radici nella teoria evolu­ zionista e nell’antropologia culturale del sec. scorso, ha provato a comprendere l’i. a par­ tire da un’indagine che cercasse di scindere la componente genetica dalla componente ambientale. L’argomento, così genericamen­ te definito, si è precisato in due ambiti di ri­ cerca. Da una parte si è cercato di scoprire le limitazioni imposte dall’ereditarietà sul potenziale intellettivo dell’individuo e i mu­ tamenti prodotti dalle condizioni ambientali (teorie sull’ereditarietà dell’i.). Dall’altra si è voluto capire se l’i. sia culturalmente segnata fino al punto da doversi parlare di i. diverse a seconda delle diversità culturali oppure se vi siano elementi universali ed altri cultura­ li (teorie sulle differenze culturali d’i.). Le due posizioni oggi sono meno distanti di un tempo. Si riconosce infatti l’importanza e la pervasività di tutte e due le dimensioni sulle differenze individuali di i.

4. Le teorie interattive dei sistemi. Alle te­ orie dell’i. che accentuano il ruolo dei pro­ cessi cognitivi e contestuale, si oppongono le teorie che rimarcano la caratteristica dell’interazione tra le due dimensioni (teorie interazioniste). All’interno di queste possono essere collocate la teoria dell’i. multipla di H. Gardner e quella tripolare di R. J. Sternberg. Secondo il primo, l’i. non è un costrutto o un’entità unitaria, bensì un insieme di sette costrutti intellettivi (da cui i. multiple). Si parla di i. linguistica, i. logica matemati­ ca, i. spaziale, i. musicale, i. fisico-motoria, i. interpersonale, i. intrapersonale. R. J. Sternberg, in particolare, descrive l’i. come una struttura in interazione con il contesto secondo tre diverse modalità: adattamento all’ambiente, adattamento dell’ambiente a se stesso, selezione di un nuovo contesto quan­ do questo non si adatta alla mente. I livelli di novità o di automaticità sono elementi carat­ teristici di un’i. che, nel suo interagire con l’ambiente, utilizza tre componenti di elabo­ razione cognitiva: processi metacomponen­ ziali, processi di acquisizione e processi di prestazione. 5. Le teorie dello sviluppo. Da ultimo si segna­ lano le teorie dello sviluppo dell’i. In questa prospettiva che attraversa tutte le teorie pre­ cedenti, si rilevano due orientamenti diversi: sociali e psicologico-cognitivisti. Le teorie sociali sottolineano l’incidenza dell’apporto esterno allo sviluppo dell’i. (cfr. → Vygot­ skij e Feuerstein). Nelle teorie psicologicocognitiviste si distinguono due/tre approcci: cognitivista computazionale, neo-piagetiano e post-formalista. Il primo, applicando la metafora computazionale allo sviluppo, vede l’i. come uno sviluppo di processi, conoscen­ ze dichiarative e processi di autocontrollo metacognitivo. Il secondo riprende aspetti piagetiani integrandoli con prospettive della scienza cognitiva. Il terzo studia lo sviluppo dell’i. oltre i limiti del pensiero logico for­ male a cui si era fermato → Piaget. Le teorie della i. hanno avuto grande incidenza sulle pratiche educative. In particolare l’approccio post-formalista risulta molto interessante per l’educazione degli → adulti e per iniziative di → educazione permanente. Bibl.: Sternberg R. J. et al., People’s concep­ tions of intelligence, in «Journal of Personality

593

INTELLIGENZA ARTIFICIALE

and Social Psychology» 41 (1981) 37-55; Sternberg R. J. - D. K. Detterman, What is intelli­ gence? Contemporary viewpoints on its nature and definition, Norwood, Ablex, 1986; Fodor J. A., La mente modulare, Bologna, Il Mulino, 1988; Sternberg R. J., Metaphors of mind. Con­ ceptions of nature of intelligence, Cambridge, Cambridge University Press, 1990; Id., Thinking and problem solving, San Diego, Academic Press, 1994; Neisser U. et al., Intelligence: knowns and unknowns, in «American Psychologist» 51 (1996) 77-101.

M. Comoglio

INTELLIGENZA ARTIFICIALE L’i.a. è una disciplina teorico-pratica nella quale operano sia scienziati che filosofi. Nel suo aspetto squisitamente informatico, essa comprende la teoria e le tecniche per lo svi­ luppo di algoritmi che consentano alle mac­ chine (tipicamente ai calcolatori) di mostrare un’abilità e/o attività intelligente, almeno in domini specifici. L’i.a. viene definita come la capacità del computer di eseguire compiti co­ munemente associati con i processi intellet­ tuali propri dell’uomo quali il ragionamento, la scoperta dei significati, la generalizzazio­ ne e l’apprendimento dall’esperienza fatta (→ intelligenza). Il termine è anche usato per parlare del ramo della scienza informatica che si occupa dello sviluppo di sistemi dotati di queste capacità. In campo pedagogicodidattico l’interesse per l’i.a. è legato ai Si­ stemi Esperti realizzati per l’apprendimento di campi di conoscenza con l’assistenza di un tutore elettronico facente parte del sistema. 1. La storia dell’i.a. Le ricerche sull’i.a. sono iniziate subito dopo lo sviluppo del computer negli anni ’40. I primi ricercatori hanno capi­ to che era possibile far eseguire al computer l’automatizzazione dei processi del pensie­ ro e con il passare degli anni fu dimostrato come il computer potesse essere program­ mato per eseguire compiti logicamente mol­ to complessi come la soluzione di problemi, la dimostrazione di teoremi e il gioco degli scacchi. Negli anni ’60 le ricerche sull’i.a. pongono l’accento sulla rappresentazione della conoscenza. Dal 1972 al 1982 circa, il gruppo di Roger Schank, all’Università di 594

Yale, ha prodotto numerosi programmi di simulazione della comprensione umana del linguaggio. L’i.a. nell’ultimo decennio tratta dell’individuazione dei modelli (corretta de­ scrizione del problema da risolvere) e degli algoritmi (procedura effettiva per risolvere il modello). 2. I campi dell’i.a. Sono stati fatti progressi nello sviluppo di programmi che abilitano il computer a capire comandi nel linguag­ gio naturale e lo rendono capace di tradur­ re. L’abilità di identificare forme grafiche o immagini è associata anch’essa all’i.a. perché implica sia impegno cognitivo che astrazione. Anche la robotica è governata dall’i.a. tramite l’abilità di riconoscimento di modelli. L’applicazione dell’i.a. nella scuola e nella formazione è un campo di notevole interesse. 3. Le applicazioni pedagogico-didattiche dell’i.a. I Sistemi Esperti sono forse il mag­ gior successo dell’i.a. e si prospetta che in futuro avranno una vastissima applicazione. Sono formati da una notevole base di dati che è la raccolta della conoscenza di perso­ ne esperte in un dato campo; da un’interfac­ cia amichevole che permette allo studente di specificare il problema da risolvere e di chiarificarlo man mano che il sistema pone domande. Il Sistema Esperto, dopo un certo numero di interazioni con lo studente, se ne fa un modello e gli propone i problemi da ri­ solvere e le informazioni in modo adeguato alle sue conoscenze e al suo modo di ragio­ nare. Bibl.: Russell S. J. - P. Norvig, Artificial Intel­ ligence: a modern approach, Upper Saddle River (NJ), Pearson Education, 22003; Negnevitsky M., Artificial Intelligence: a guide to intelligent systems, Harlow (England), Addison Wesley, 2005.

C. Cangià

INTELLIGENZA EMOTIVA Il costrutto di i.e. deriva dai precedenti con­ cetti di i. sociale e i. personale. Nel delineare la sua teoria dell’i. multiple, Gardner (1983) descrisse due forme di i. personale: l’i. intra­

INTELLIGENZA EMOTIVA

personale, che è la capacità di accedere alla propria vita affettiva, e l’i. interpersonale, che è la capacità di leggere gli stati d’animo, le intenzioni e i desideri degli altri. 1. Queste abilità fondamentali dell’i. perso­ nale sono centrali nel costrutto di i.e., che Salovey e Mayer (1990) definirono origina­ riamente come «la capacità di monitorare le proprie e le altrui emozioni, di differenziarle e di usare tale informazione per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni». Que­ sta definizione implica l’idea che il sistema affettivo funziona in parte come sistema di elaborazione delle informazioni e delle per­ cezioni. Salovey e Mayer affermarono infatti che i processi sottostanti l’i.e. vengono atti­ vati quando l’informazione affettiva entra per prima nel sistema percettivo. Le emozio­ ni in questo senso non solo non disturbano l’efficace approccio razionale alla risoluzio­ ne dei problemi, ma al contrario forniscono importanti conoscenze sulla relazione della persona con il mondo esterno. Possedere questa «sensibilità» consente di affrontare il quotidiano in modo più efficace. Essere emotivamente intelligenti quindi, aiuta a ge­ stire al meglio la vita privata, il lavoro e più in generale i rapporti con gli altri. L’i.e. non è determinata geneticamente ma si appren­ de e può essere migliorata nel corso di tutta la vita. L’i.e. si può sviluppare attraverso un adeguato allenamento, diretto soprattutto a cogliere le emozioni e i sentimenti, propri e altrui. Oltre alla consapevolezza e all’apprez­ zamento dei propri sentimenti soggettivi, l’i.e. comprende la percezione e la conside­ razione dei comportamenti emotivi non-ver­ bali, le sensazioni corporee evocate dall’atti­ vazione emozionale. Vi sono però differenze individuali nella capacità delle persone di elaborare ed usare tali informazioni. Mayer e Salovey (2000) hanno sottolineato in ma­ niera più decisa «la capacità di pensare sui sentimenti». Individui con elevati livelli di i.e. riescono facilmente ad identificare e de­ scrivere i sentimenti in sé stessi e negli altri, a regolare efficacemente gli stati di attivazio­ ne emozionale in sé stessi e negli altri. 2. A partire dal 1995 D. Goleman ha reso popolare il concetto di i.e. descrivendola come un insieme di capacità: motivare sé stessi, persistere nel perseguire un obietti­

vo nonostante le frustrazioni, controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, mo­ dulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare. D. Goleman (1999) ha enfatizzato soprattutto le differenze indivi­ duali degli aspetti psicologici e funzionali delle emozioni. Uno dei limiti di Goleman è costituito dal fatto che la sua rassegna scien­ tifica, pur essendo piuttosto corposa, è confi­ nata prevalentemente alle ricerche in ambito neuro­psicologico e sociale, mentre trascura il vasto contributo delle scienze cognitive e comportamentali. Vengono infatti lasciati in un secondo piano gli importantissimi con­ tributi di autori quali Bandura, Seligman, Lazarus e vengono completamente ignorati gli studi di A. Beck ed A. Ellis sui processi cognitivi e sul rapporto tra pensiero ed emo­ zioni. Un altro limite riscontrato nella divul­ gazione che Goleman ha elaborato del concet­ to di i.e. sta nel fatto che non ne ha dato una chiara definizione mentre ha fatto solo una descrizione delle strategie atte a potenziarla. Tale mancanza di dettagli ha favorito il proli­ ferare di programmi di formazione e «crescita personale» dove si trovano mescolati vari ap­ procci che utilizzano l’etichetta di «i.e.», ma che sono ben lontani da ciò che P. Salovey e J. D. Mayer intendevano con tale espressione. 3. Le abilità che compongono l’i.e. sono indi­ cate dai diversi autori con terminologie dif­ ferenti. Il costrutto di Peter Salovey e John Mayer si articola in 16 abilità, raggruppabili in 4 categorie: percezione, valutazione ed espressione delle emozioni; uso delle emo­ zioni per facilitare il pensiero; comprensione e analisi delle emozioni; regolazione con­ sapevole delle emozioni per promuovere la crescita personale. Goleman distingue due principali categorie: le competenze persona­ li, riferite alla capacità di cogliere i diversi aspetti della propria vita emozionale e le competenze sociali, relative alla maniera con cui comprendiamo gli altri e ci rapportiamo positivamente con essi. Entrambe sono ca­ ratterizzate da abilità specifiche. Bibl.: Gardner H., Frames of mind: The theory of multiple intelligences, New York, Basic, 1983; Salovey P. - J. D. M ayer, Emotional intelligence, in «Imagination, Cognition and Personality» (1990) 9, 185-211; Goleman D., Emotional intelli­

595

INTERAZIONE EDUCATIVA

gence: why it can matter more than IQ, New York, Bantam Books, 1995; Id., Working with emotional intelligence, London, Bloomsbury, 1998; M ayer J. D. - P. Salovey - D. R. Caruso, «Models of emotional intelligence», in R. J. Sternberg (Ed.), Handbook of intelligence, Cambridge, Cam­ bridge University Press, 2000, 396-420; Goleman D., Social intelligence: the new science of social relationships, New York, Bantam Books, 2006 (trad. it.: I. sociale, Milano, BUR, 2007); Waterhouse L., Multiple intelligences, the Mo­ zart effect, and emotional intelligence: a critical review, in «Educational Psychologist» 41 (2006) 207-225.

A. La Marca

INTELLIGENZA MULTIPLA → Intelligenza INTENZIONALITÀ EDUCATIVA →Antropo­ logia pedagogica → Educazione

INTERAZIONE EDUCATIVA L’i.e. si presenta come un processo molto complesso in cui possiamo globalmente di­ stinguere aspetti contenutistici (per es. te­ mi riguardanti l’apprendimento) e relazio­ nali, cioè fenomeni legati al rapporto in­ terpersonale. Entrambe le dimensioni sono interdipendenti e vengono a costituire, nel­la loro reciproca dinamica, l’i.e. 1. Termini e definizione. I termini usati per trattare l’interagire educativo dal punto di vista relazionale sono molti. Troviamo ad es., rapporto educativo, relazione peda­ gogica, contatto educativo, piattaforma co­ municativa, atto pedagogico, i.e., atmo­sfera pedagogica. Sebbene questi termini siano spesso usati indistintamente, nel pre­sentare la comunicazione educativa dal punto di vi­ sta relazionale preferiamo adot­tare quelli di i. e comunicazione educativa, in quanto essi considerano più esplicita­mente la situazione interpersonale come processo nel quale in­ tervengono i diversi partners, sia pure su un piano di non parità. Per quello che riguarda la definizione del­l’i. o comunicazione edu­ cativa possiamo in­t enderla come ricerca dei mezzi e delle strategie da porre in atto per la concretizzazione del comportamento educativo nel suo aspetto relazionale e so­ ciale. È impor­t ante rilevare, inoltre, che le 596

relazioni po­sitive nell’ambito educativo sono il risulta­to della totalità interazionale, cioè delle qualità processuali verbali e non ver­ bali dei partners in comunicazione, dei fat­ tori istituzionali (per es., il tipo di ambiente educativo) e dei fattori situazionali (per es., l’inizio dell’anno scolastico). L’espe­r ienza emozionale dei partecipanti relati­vamente a questa struttura totale viene a costituire il clima o l’atmosfera umana nel­la i.e. 2. La dimensione relazionale dell’educazio­ ne. L’importanza di considerare nell’edu­ cazione la dimensione relazionale viene at­t ualmente confermata dagli studi sulla socializzazione della persona in diveni­ re, sull’esperienza degli educatori circa il ruo­lo favorevole di un clima interumano posi­t ivo nei processi di apprendimento e sul ri­conoscimento del fatto che il modo di rela­zionarsi nell’educazione ha delle conse­ guenze non soltanto per la formazione dei giovani, ma anche per la stabilità o la rifor­ ma della vita sociale. Sin dalle prime rifles­ sioni sull’educazione, il rapporto educati­vo è stato trattato come un fenomeno pedago­ gico di primaria importanza. Stori­camente si possono distinguere due tipi di contributi da parte dei pedagogisti: a) ri­flessioni sporadi­ che, in cui il rapporto edu­catore/educando è considerato con un cer­to grado di pregnanza e di rilevanza. In questa visione sono conte­ nute riflessioni occasionali sul rapporto edu­ cativo (per es. secondo → Rousseau, → Her­ bart, → Makarenko), e sugli stili educativi come tipici modi d’interagire; b) trattazioni sistema­tiche, in cui l’i.e. è interpretata come mo­dello di base dell’agire educativo secon­ do i principi di una teoria pedagogica (per es. Dilthey, → Buber). Lo studio della realtà educativa ha ricevuto, intorno alla metà di questo secolo, notevoli impulsi dalle ricer­che empiriche. In merito a questi influssi le di­ verse scienze dell’educazione hanno as­sunto, nello studio della realtà educativa, oltre all’ermeneutica intuitiva, anche me­todi em­ pirici di ricerca. Conseguentemente a questa innovazione metodologica, le rela­zioni inter­ personali nell’educazione inizia­no ad essere viste come un fenomeno interazionale da studiare come una totalità pluridimensionale interdipendente, con un ulteriore chiarimen­ to sui diversi fenomeni della comunicazione educativa.

INTERAZIONE EDUCATIVA

3. Le dimensioni della i.e. L’i.e. fa riferi­mento a strutture, disposizioni organizza­tive, co­ municazioni verbali e non verbali. Essa può essere letta secondo tre fonda­mentali dimen­ sioni: la dimensione di controllo (C), la di­ mensione emozionale (E), la dimensione di tra­sparenza-congruenza-autenticità (A). 3.1. La dimensione C concerne quei com­ portamenti dell’educatore che stabiliscono i confini di competenza all’interno del rappor­ to. Al polo negativo di tale dimensione col­ lochiamo l’educatore autoritario che impone una disciplina rigida, si occupa poco dei bi­ sogni degli altri, ha una concezione piutto­ sto ristretta del comportamento socialmente accettabile, utilizza forme verbali direttive (ordini, confronti, moralizzazioni, domande accusatorie, colpevolizzazioni, promessericatti), usa il suo potenziale di gratifica­ zione in modo direttivo-repressivo. Al polo positivo abbiamo l’educatore autorevole che incoraggia negli altri la responsabilità so­ ciale, la stima di sé, l’iniziativa individuale, la partecipazione attiva alle attività comuni, pur mantenendo la guida, la direzione e un ragionevole controllo. Dispone del proprio potenziale di gratificazione in modo socialeintegrativo favorendo la corresponsabilità e la collaborazione. Nel comunicare fa uso di forme verbali (inviti, proposte, parafrasi, chiarificazioni, informazioni) che riflettono il valore e la dignità degli interlocutori e ne stimolano l’autodeterminazione, il libero im­ pegno, la corresponsabilizzazione. 3.2. Mentre la dimensione C riguarda il com­ portamento di guida dell’educatore, la dimen­ sione E fa riferimento al suo comportamento socio-affettivo ed include quell’insieme di modalità relazionali tramite le quali l’edu­ catore metacomunica all’altro in che modo lo percepisce e lo valuta. Al polo negativo di questa dimensione troviamo l’educatore freddo, distaccato, svalutante e rifiutante. Al polo positivo l’educatore caloroso, inco­ raggiante, valorizzante, sensibile ai bisogni individuali. Le qualità processuali proprie della dimensione E sono: l’accettazione in­ condizionata, la stima, il rispetto, la genti­ lezza, la cordialità, la bontà. 3.3. La dimensione A concerne il grado di congruenza insito nel comportamento re­ lazionale dell’educatore. Al polo positivo di tale dimensione collochiamo l’educatore costruttivamente autentico, che è in contat­

to con le proprie esperienze e che è capace di comunicarle adeguatamente valutandone l’opportunità per l’andamento dell’interazio­ ne. Al polo negativo di questa dimensione abbiamo, invece, l’educatore difensivo, che interagisce a partire dal ruolo, strategico, che trattiene le informazioni o le manipola, irresponsabilmente schietto, che esprime le sue esperienze senza calcolare gli effetti del­ la propria autopresentazione. 4. Atteggiamenti dell’educatore. Affinché si crei un’atmosfera favorevole per la crescita individuale e di gruppo si richiede all’educa­ tore di interagire, prevalentemente, secondo le polarità positive delle tre dimensioni con­ siderate. Dal punto di vista del controllo è importante che egli realizzi una guida auto­ revole attuando interventi regolativi e orien­ tativi legittimati non dal suo status o ruolo, ma da un’esigenza oggettiva. In particolare ciò si esplica nel promuovere la partecipa­ zione attiva alla gestione della vita comune, nell’accrescere nelle persone in formazione le capacità per relazionarsi responsabilmen­ te verso le proprie scelte immediate e futu­ re, nel favorire l’autodirezionalità. Dal pun­ to di vista socio-affettivo è importante che l’educatore abbia cura dell’individualità di ciascuna persona e la rispetti, nutra fiducia nelle possibilità e nelle potenzialità che que­ sta ha di apprendere e di svilupparsi, affini la sua sensibilità nel coglierne i sentimenti e i pensieri. Dal punto di vista della congruen­ za è importante che l’educatore si impegni a rendere il più possibile nota l’intera situa­ zione educativa, si introduca nella comuni­ cazione in modo diretto e chiaro e si assuma la responsabilità delle proprie imperfezioni e dei propri limiti. È auspicabile, infine, che l’educatore sia aperto all’esperienza, ossia sia disposto a cambiare conformemente al mutare dei bisogni e delle situazioni, anziché aderire rigidamente a piani predeterminati. Quando l’educatore, nel contesto in cui ope­ ra, si rapporta secondo le polarità positive delle dimensioni C, E ed A, si instaura un cli­ ma di autorevolezza e partnership, per cui le persone sviluppano sentimenti positivi verso se stesse e verso la situazione interattiva e si sentono più disposte e motivate ad esporsi, a partecipare e a collaborare. Occorre precisa­ re che sebbene siano individuabili nelle po­ larità positive delle dimensioni menzionate, i 597

INTERAZIONISMO SIMBOLICO

comportamenti relazionali ottimali, lo stesso educatore può avere, come è facile prevede­ re, efficacia diversa con persone diverse. Per ogni persona, infatti, il modo di percepire l’educatore e di reagire nei suoi confronti dipenderà necessariamente dalla propria or­ ganizzazione cognitiva ed emotiva. Tuttavia, nonostante tali innegabili differenze nella percezione degli atteggiamenti educativi, la maggior parte delle persone trae giovamento dal contatto con educatori autorevoli, com­ petenti, incoraggianti, empatici ed autentici. Bibl.: Franta H., Atteggiamenti dell’educatore, Roma, LAS, 1977; Lumbelli L. et al., Educazio­ ne come discorso: quando dire è fare educazione, Bologna, Il Mulino, 1981; Franta H., Relazioni sociali nella scuola. Promozione di un clima uma­ no positivo, Torino, SEI, 1985; Id., Atteggiamenti dell’educatore, Ibid., 1995; Zucchermaglio C., Discutendo si impara: i. sociale e conoscenza a scuola, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995; Franta H. - A. R. Colasanti, L’arte dell’inco­ raggiamento. Insegnamento e personalità degli allievi, Roma, Carocci, 1999; Bastianoni P., In­ terazioni in comunità: vita quotidiana e interven­ ti educativi, Ibid., 2000; Bazzanella C. (Ed.), Sul dialogo. Contesti e forme di i. verbale, Mi­ lano, Guerini, 2002; Trombetta C., Psicologia dell’educazione e pedagogia. Contributo storicocritico, Milano, Angeli, 2002; Villamira M. A., Comunicazione e i. Aspetti del comportamento interpersonale e sociale, Ibid., 2002; Perricone Briulotta G., Manuale di psicologia dell’educa­ zione. Una prospettiva ecologica per lo studio e l’intervento sul processo educativo, Milano, Mc­ Graw-Hill, 2005; Petruccelli F., Introduzione alla psicologia dell’educazione, Milano, Angeli, 2005; Myhill D. - S. Jones - R. Hopper, Talking, listening, learning: effective talk in the primary classroom, Maidenhead, Open University Press, 2006.

H. Franta - A. R.Colasanti

INTERAZIONE SOCIALE → Conf litto → Gruppo: dinamica di

INTERAZIONISMO SIMBOLICO L’i.s. è uno degli approcci più utilizzati per l’interpretazione del processo di → socializ­ zazione. 598

1. Storia e sviluppo della teoria. La teoria dell’i.s. ritrova le sue origini nel pensiero di alcuni Autori a cavallo del XX sec. come James (1890) e Cooley (1902). L’interesse si sviluppò notevolmente tra il 1920 e il 1950 per l’apporto di G. H. Mead (1934), H. Blu­ mer, H. Gerth e C. W. Mills (1953). Diminuì invece tra gli anni ’50 e ’60 per riprendere poi nell’ultimo ventennio con Thomas (1966), Goffman (1969), Meltzer (1967 e 1973), Blasi (1972), Stryker (1985), Reynolds (1990). 2. Postulati e principi teorici. Tre sono le premesse essenziali che stanno alla base della teoria: a) Gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose sulla base dei significati che tali cose hanno per loro. b) Il significato di tali cose deriva dall’i. sociale che ognuno ha con gli altri: l’importanza del fattore rela­ zionale è tale che la concezione che gli altri hanno del soggetto influisce sulla sua stessa autopercezione (gli «altri significativi»). c) Questi significati sono elaborati e trasforma­ ti in un processo simbolico e interpretativo messo in atto dalla persona nell’affrontare le situazioni della vita. Su questi postulati si fondano dei principi-guida: a) La perso­ nalità dell’individuo si forma attraverso un processo in cui l’Io è il soggetto e il «me» (self) ne può costituire l’oggetto. Il «self» è l’individuo stesso in quanto è oggetto di au­ topercezione. Esso si sviluppa attraverso un continuo confronto di stimoli esterni e che l’«io» filtra e interpreta sulla base di immagi­ ni e di significati che egli viene costruendosi sulla realtà. b) La realtà esterna è costituita sostanzialmente da due elementi comple­ mentari: l’«altro generalizzato» e «l’altro significativo». L’«altro generalizzato» è in­ terpretato come l’insieme delle attese della comunità (attese di ruolo) nei confronti del soggetto (Mead), o come Superego (→ Freud), o come l’uditorio interno con cui l’individuo interagisce (Gerth e Mills). Esso è memoria, personificazione interiore di tratti della so­ cietà. L’«altro significativo» è l’adulto che riveste una particolare importanza e funzio­ ne nei confronti dell’Io. Sulla base di queste relazioni ne rinforza l’identità e riveste una particolare rilevanza nell’orientare o condi­ zionare il comportamento dell’individuo. I fattori che ne condizionano la significatività sono l’immagine che il soggetto ha di sé, la posizione sociale, l’età, il sesso, l’attacca­

INTERDISCIPLINARITÀ

mento, la stima, l’affinità percepita, l’autorità esercitata, le risorse a disposizione, il grado di intimità. c) L’Io quindi agisce sulla base delle rappresentazioni simboliche della real­ tà e delle «definizioni delle situazioni» ela­ borate. Ciò è espresso dal postulato di W. I. Thomas: «Se gli uomini definiscono delle si­ tuazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». d) Il processo è interattivo perché l’attività individuale è possibile solo con l’appartenenza ad una comunità signifi­ cante, per cui possiamo attribuire lo stesso significato agli stessi segni. Alla teoria si rimprovera il rischio di lasciare fuori dal suo ambito interpretativo gli aspetti oggettivi e strutturali della società. Bibl.: Blumer H., Symbolic interactionism, En­ glewood Cliffs, Prentice Hall, 1969; Meltzer N. J. W. Petras - L. T. R eynolds, L’i.s., Milano, An­ geli, 1980; Ciacci M. (Ed.), I.s., Bologna, Il Muli­ no, 1983; Wallace A. R. - A. Wolf, La teoria so­ ciologica contemporanea, Ibid., 1995; Goffman E., Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino, Einaudi, 2003; Perrotta R., Cronici, specchi e maschere. I.s. e comunicazione, Bologna, CLUEB, 2005; Blumer H., La metodologia dell’i.s., Roma, Ar­ mando, 2006; Goffman E., Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riu­ nione, Torino, Einaudi, 2006.

R. Mion

INTERCULTURA → Educazione interculturale

INTERDISCIPLINARITÀ Il termine i. è relativamente recente; non si sono ancora stabilizzate né la sua dizione e ortografia (alcuni infatti scrivono e dicono «interdisciplinarietà») né il suo contenu­ to semantico. Oltre che di i., oggi, si parla an­che di multidisciplinarità o pluridiscipli­ narità e di transdisciplinarità, ma anche in questo caso non si è concordi nel definire le reciproche differenze. 1. Chiarificazione dei termini. Riteniamo anzitutto che l’i. vada distinta dalla multi­ disciplinarità o pluridisciplinarità. Esiste un fenomeno assai comune nell’ambito della ricerca scientifica, che consiste nel­

l’utilizzazione funzionale di una scienza da parte di un’altra. La prima (scienza princi­ pale) si serve, per una migliore conoscenza del suo oggetto, delle competenze (metodi e risultati) dell’altra scienza (scienza ausi­ liaria), senza tuttavia che si arrivi ad un ve­ ro dialogo e a una reciproca collaborazione tra esse. Questo fenomeno, detto anche co­ municazione unidirezionale tra scienze, nel­ la logica aristotelica assumeva il nome di su­ balternazione. Oggi, quando alcuni parlano di multidisciplinarità (o pluridisci­plinarità), sembra proprio che intendano questo tipo di rapporto. La multidiscipli­narità, così intesa, per noi, non è ancora i., anche se può diven­ tarne la premessa. Dal­l’i. distinguiamo anche la transdisciplinarità, però solo nel senso che la consideria­mo come un suo possibile e auspicabile punto di arrivo. L’i. si verifica quando, tra due o più scienze, si ha non solo la sempli­ce utilizzazione delle competenze di una di esse (cioè la multidisciplinarità), ma anche un vero dialogo o scambio reciproco di informazioni tra scienze differenti. Questo comporta la messa a confronto delle loro ot­ tiche diverse, lo sforzo di mutua integra­zione fra queste, la consapevolezza della parzialità dei risultati di ciascuna e nello stesso tempo della loro indispensabilità nella comprensione di un problema o di una realtà complessa, in breve, quella che si potrebbe definire un’ef­ fettiva collabora­zione «interdisciplinare». La collaborazione interdisciplinare, che può av­ venire an­che tra scienze di ambiti differenti, quando ha successo, può arrivare a produrre co­strutti transdisciplinari, nel senso che rie­ sce a produrre metodi di ricerca, concetti e modelli di realtà, proficuamente utilizzabili da più scienze, ciascuna, però, nell’ambito del suo oggetto specifico e col suo meto­ do. Naturalmente sia l’i. che la transdisci­ plinarità trovano la loro giusti­ficazione solo all’interno di una teoria epi­stemologica (→ epistemologia pedagogica). 2. L’i. nell’ambito della pedagogia. In cam­po pedagogico-didattico l’i. fu di moda ne­gli anni Settanta-Ottanta; però il modo di intenderla non fu sempre corretto, soprat­t utto quando la si contrapponeva alla disciplinarità. L’esi­ genza dell’i. è sentita da quei pedagogisti, i quali, ritenendo necessario ricorrere ad una molteplicità di discipline scientifiche per una conoscenza adeguata della realtà educativa e 599

INTERDISCIPLINARITÀ

per la costruzione di pro­grammazioni peda­ gogiche e didattiche, preferiscono parlare di → scienze del­l’educazione invece che di → pe­ dagogia. Il mondo dell’educazione, infatti, si presenta così complesso da esigere di esse­re studiato da una pluralità di scienze. Ognuna di esse lo affronta da un angolo di visuale diverso da quello delle altre, utilizzando un metodo di ricerca, un mo­dello conoscitivo e un linguaggio tecnico propri. Però nessuna di esse è in grado, da sola, di offrire una so­ luzione globale dei problemi teorici e prati­ ci dell’educazione; d’altra parte i contributi speci­fici di ciascuna sono indispensabili al fine di evitare pericolose unilateralità sia a li­vello teorico che pratico. Quindi l’i. e la transdisciplinarità tra le scienze dell’educa­ zione diventa una necessità, anche se poi la loro realizzazione concreta presenta notevoli dif­ficoltà e richiede previamente che si rea­ lizzino deter­minate condizioni. 3. Condizioni per il dialogo interdisciplina­ re in funzione della collaborazione transdi­ sciplinare tra le scienze dell’educazione. È necessaria anzitutto, da parte dei due o più partner del dialogo, l’accettazione leale dell’approccio multidisciplinare alla real­ tà educativa. Inoltre, si deve tener sempre presente che il dialogo interdisciplinare non avviene sul piano astratto dei vari tipi di scienza in quanto tali, ma su quello con­ creto delle loro realizzazioni storiche, cioè fra teorie di discipline appartenenti a scien­ ze differenti, e che ciascuna di queste teo­rie è, per sua natura, sempre soggetta a processi di falsificazione. In terzo luogo è necessario che i rappresentanti delle diffe­renti scienze dell’educazione, oltre a cono­scere bene il linguaggio scientifico della propria speciali­ tà, devono poter compren­dere in modo suf­ ficiente anche quello del­l’altra o delle altre con cui entrano in rapporto interdisciplinare. Infine si richiede che ciascuna delle scienze dell’educazione definisca chiara­mente l’og­ getto e il metodo specifici della sua indagine sul campo comune dell’educazione, fornendo i risultati o le informa­zioni che è riuscita ad ottenere. Il campo comune di tutte le scien­ ze dell’educazione è la vita umana nella sua realtà esistenziale, visto come un tutto unita­ rio, durante i suoi processi di crescita verso la maturazione, mediante quel complesso di attività e isti­t uzioni che chiamiamo educa­ 600

zione. Ognu­na delle scienze dell’educazione lo consi­dera da un suo angolo di visuale, cioè se­condo quel modello di realtà predefinito in base agli strumenti metodologici che essa ritiene di poter utilizzare. Però perché il dia­ logo tra le scienze dell’educazione passi dal piano della comunica­zione a quello dell’ef­ fettiva collaborazio­ne, occorre un’ulteriore condizione: la creazione di costrutti mentali i quali, oltre ad essere propri e specifici di una di esse, possano essere contemporane­ amente ac­cettati e utilizzati anche dall’altra o dalle altre. Questi costrutti mentali sono «transdisciplinari», perché conservano la loro valenza seman­tica e la loro forza dimo­ strativa in due o più scienze differenti, però in modo diverso in ciascuna. Se le scienze dell’educazione riu­scissero a elaborare tali costrutti, allora il dialogo si trasformerebbe in vera col­laborazione su problemi di inte­ resse comu­ne, avente come scopo la costru­ zione di sintesi pedagogiche, unitarie, frutto dei contributi di scienze diverse ma tutte inte­ressate alla soluzione dei problemi edu­ cativi. Sembra che la teoria epistemologica delle «tradizioni di ricerca» di L. Laudan, ipotizzando la possibilità che grup­pi di te­ orie appartenenti a scienze diverse abbiano in comune un’ontologia e una metodologia di ricerca, costituisca un valido fondamento epistemologico sia dell’i. che della transdisci­ plinarità. Il problema si complica maggior­ mente nel caso della → pedagogia cristiana, dove deve attuarsi un dialogo interdiscipli­ nare tra scienze dell’educazione e → teologia dell’educazione. Approcci intrinsecamente e subito transdisciplinari, come la fenome­ nologia e l’ermeneutica, sono stati invocati e adoperati per superare la specializzazione disciplinare e i suoi limiti, specie dopo gli anni ’80. Peraltro la necessità dell’i. trova oggi una ragione in più a fronte dell’accre­ sciuta complessificazione dell’esistenza che fa parlare di «inter-problematicità». Bibl.: A ntiseri D., I fondamenti epistemologici del lavoro interdisciplinare, Roma, Armando, 1972; Schilling H., Teologia e scienze dell’edu­ cazione. Problemi epistemologici, Ibid., 1974; Laudan L., Il processo scientifico. Prospettive per una teoria, Ibid., 1979; Groppo G., «Teolo­ gia e scienze umane: dalla conflittualità al dialo­ go», in D. Valentini (Ed.), La teologia. Aspet­ti innovativi, Roma, LAS, 1989, 53-78; Agazzi E.,

INTERDISCIPLINARITÀ

Cultura scientifica e i., Brescia, La Scuola, 1994; Torres Santomé J., Globalización e interdiscipli­ nariedad: el curriculum integral, Madrid, Morata, 4 2000.

G. Groppo

INTERESSE L’i. si colloca nell’area della → motivazione di cui è l’espressione culminante. Nella sua componente affettiva, viene inteso come una reazione positiva dell’individuo ad oggetti e a situazioni di piacevolezza reale o supposta. La componente cognitiva rappresenta il con­ tenuto dell’i., che può essere generico o speci­ fico; il primo si riferisce alle aree di i. (sociale, religiosa, artistica, sportiva); il secondo ad una situazione specifica (lettura, pesca, reci­ ta). Le due componenti sono dosate in modo differente in rapporto ad oggetti e situazioni e condizionano la stabilità e l’intensità dell’i. 1. L’i. è radicato nel bisogno, che esprime la carenza dell’organismo che induce il sog­ getto a ridurre il bisogno allo scopo di rag­ giungere l’equilibrio fisiologico o psichico e quindi uno stato di benessere. La carenza può essere di natura fisiologica o psicologi­ ca e quindi produce un bisogno fisiologico o psichico. I due tipi di bisogni sono disposti in una struttura gerarchica che va dai biso­ gni fisiologici e culmina con quei spirituali. La spinta dell’organismo alla riduzione del bisogno è generica e può essere soddisfat­ ta in vari modi. Il soggetto, in contatto con l’ambiente, polarizzerà le sue scelte su un determinato oggetto (ad es. il genere di bi­ bita) oppure su una determinata situazione (ad es. la lettura) e attraverso ripetute scel­ te trasformerà la generica spinta in i. Gli i. sono affini ad altri costrutti motivazionali come preferenze e valori e a causa di que­ sta base motivazionale comune non è facile separarli nettamente. I teorici sono in grado soltanto di stabilire la loro successione, come già indicato prima, partendo dai bisogni, proseguendo con gli i. e approdando ai valo­ ri. Infatti Savickas (1999), seguendo Donald Super vede nei valori all’apice della struttura gerarchica dei tre costrutti motivazionali in quanto questi ultimi esprimono il significato dell’esistenza umana.

2. Considerata la forza motivante dell’i. → Decroly ha pensato di fondare l’apprendi­ mento su di esso; ha infatti proposto di or­ ganizzare le attività scolastiche intorno a «centri di i.» e basare contenuti e metodi sui «veri bisogni» degli alunni. Le sue proposte hanno avuto una grande eco nell’educazione e l’attenzione degli insegnanti si è spostata dalla materia all’alunno. Passato il periodo di Decroly, l’i. nell’apprendimento scolastico è stato assimilato alla motivazione allo stu­ dio nella sua duplice componente intrinse­ ca ed estrinseca con il cosiddetto approccio profondo e superficiale, corrispondente alla motivazione intrinseca (apprendere conte­ nuti di studio per la crescita e soddisfazione personale) ed estrinseca (studiare puramente per vantaggi sociali come lode e premio). In pratica tutti i questionari sull’apprendimento includono le scale che rilevano i due tipi di motivazione. 3. L’i. ha avuto anche una vasta applicazione nello sviluppo e nella scelta professionale per cui gli i. generali si possono trasformare in i. professionali; in questo ambito essi assumo­ no la denominazione dalle aree professionali (i. scientifici, tecnici, amministrativi). Sprini e collaboratori (2005) hanno tracciato la sto­ ria degli strumenti destinati a rilevare gli i. professionali dal loro uso in Italia (dagli anni ’50 in poi). L’opera segna un valido contri­ buto all’affermarsi di tali strumenti (questio­ nari e inventari) nel contesto italiano. L’indi­ cazione su quali strumenti conviene adottare attualmente nell’orientamento è offerta da Boncori (2006) nel suo aggiornato manuale. I dati ottenuti da tali strumenti contribuiscono alla comprensione dello sviluppo professio­ nale dei giovani nell’ambito di alcune teorie della scelta professionale (→ orientamento). Essi infatti guidano la scelta e contribuisco­ no alla stabilità nel corso o nell’attività lavo­ rativa oltre che alla soddisfazione professio­ nale (Dawis, 1991). Quando negli anni ’50 si sono diffusi i questionari per «misurare» gli i. è sorto il problema del rapporto tra gli i. espressi (verbalmente) e quelli misurati. Gli i. misurati sono stati considerati «profondi» in quanto manifestavano una struttura moti­ vazionale stabile, mentre gli i. espressi ave­ vano una struttura più fluida e malleabile. Il rapporto fra i due tipi tuttora non è chiaro (Spokane e Decker, 1999), ma attualmente 601

INTERIORITÀ

nell’esame di un progetto professionale ven­ gono presi in considerazione entrambi. Par­ ticolarmente Holland ha assunto i due tipi di i. nel suo Self-Directed Search con «Sogni ad occhi aperti» (Holland, Powell e Fritz­ sche, 2003). In sintesi, Savickas (1999) co­ glie molto bene il significato degli i. notando che essi lanciano un ponte tra la persona e l’ambiente per creare un rapporto vitale tra le due «sponde». Il rapporto tra la persona e l’ambiente (lavorativo) si manifesta nelle attività che soddisfano i bisogni, realizzano i valori, stimolano lo sviluppo, potenzia­ no l’adattamento contestuale e realizzano l’identità della medesima persona. L’intera­ zione tra la persona e l’ambiente professio­ nale nella teoria della scelta professionale di Holland è stata presente dall’inizio della sua elaborazione. Bibl.: Dawis R. V., «Vocational interests, val­ ues, and preferences», in M. D. Dunnette - L. M. Eough (Edd.), Handbook of industrial and organizational psychology, vol. 2, Palo Alto, Consulting Psychologists Press,21991; Savickas M. L. - A. R. Spokane (Edd.), Vocational inter­ ests: Meaning, measurement, and counseling use, Palo Alto, Davies-Black, 1999; Savickas M. L., «The psychology of interests», in Ibid., 19-56; Spokane A. R.- A. R. Decker, «Expressed and measured interests», in Ibid., 211-233; Holland J. L. -A. B. Powell - B. A. Fritzsche, SDS Selfdirected search, Firenze, O.S., 2003; Sprini G. et al. (Edd.), Gli i. e la loro misurazione, Milano, Angeli, 2005; Boncori L., I test in psicologia: Fondamenti teorici e applicazioni, Bologna, Il Mulino, 2006.

K. Poláček

INTERIORITÀ Il termine i. viene per lo più inteso nel senso di ciò che è «dentro» l’uomo, la vita spiritua­ le, la → coscienza, la convinzione personale, l’autenticità, in contrapposizione alla vita esteriore dell’individuo nei suoi rapporti so­ ciali con gli altri. 1. La nozione, già propria di → Socrate, di → Platone e dello stoicismo, divenne fonda­ mentale nel → cristianesimo con s. → Agosti­ no, il quale affermò che l’uomo ha dentro di 602

sé la sua più profonda verità: «in interiore homine habitat veritas» (De vera religione, 39, 72). L’uomo interiore coincide per s. Ago­ stino con l’homo spiritualis, perché per il suo spirito è veramente ad immagine di Dio e aderisce alla Verità «nulla interposita per­ sona» (quaest. 51, 4). Con quest’espressione, che ha le sue radici nella Scrittura, s’intende il principio dell’i. – l’homo interior –, che s. Agostino ha intuito in se stesso e ha poi formulato mirabilmente nei suoi scritti, dalle Confessioni alla Città di Dio. In essi si sotto­ linea la centralità del cuore come luogo inti­ mo della persona, il punto in cui convergono tutte le sue potenze e da cui si dipartono tutte le attività (cfr., tra l’altro, Epist. 147). Il cuore in questo modo è il concetto più sintetico per designare la persona nella sua i. e aprirsi allo spirito di vita di Dio (cfr. Le Confessioni X, 6-8). 2. All’educazione interessa il concetto di i. È lì che l’uomo trova la capacità di rientrare dentro di sé, di andare al di là delle realtà che vede, di comprendere il senso delle azioni che compie e di esprimere la propria identità con libertà senza sottostare alla schiavitù dei giudizi e apprezzamenti della società. Prima di estrinsecarsi nelle sue azioni l’uomo vale per le sue decisioni interiori: egli è profonda­ mente ciò che nella sua i. vuole, odia ed ama. Gli eventi umani non sono se non la proie­ zione materiale e temporale delle decisioni interiori dell’uomo. L’i. è dunque una chia­ ve fondamentale dell’esistenza umana e una dimensione centrale dell’educazione. Essa, a un livello d’i. più superficiale, condurrà la persona in formazione ad avere un effettivo dominio e libertà sia su quanto le soprag­ giunge dall’esterno e possiede un’esistenza indipendente dalla conoscenza che essa ne può avere, sia su quanto tocca la sua coscien­ za psicologica (idee, sentimenti, ecc.). L’edu­ cazione aiuterà la persona a prendere distan­ za riguardo ad entrambi, a sentirsi libera interiormente, a relativizzarli e a superarli con piena → autonomia, nonostante la for­ za dei sentimenti e delle emozioni. Ognuno porta in sé, nel suo intimo più profondo, fin dall’inizio del suo esistere, un germe di posi­ tività, «l’uomo nascosto nell’intimo del cuo­ re» (1 Pt 3,4). Questo seme (ossia l’io ideale) è ciò che l’uomo nel suo interno vuole e ama. Un’autentica educazione non può assoluta­

INTERIORIZZAZIONE

mente prescindere da questo seme, che in­ dica la direzione del cammino formativo da seguire. Proprio per questo ha grande valore nell’educazione il principio di s. Agostino: «noli foras ire» (De vera religione, 39, 72). Tutto questo richiede una stretta collabora­ zione tra spiritualità e pedagogia per la cura e lo sviluppo dei sensi interiori, sui quali la tradizione cristiana ha offerto in ogni epoca un notevole apporto. 3. Il pericolo più insidioso è il soggettivi­ smo radicale, cioè la coscienza che tende a diventare individualista, prendendo i propri sentimenti ed emozioni come misura delle proprie azioni senza nessuna legittimazione oggettiva. Oggi diventa quindi importan­ te e irrinunciabile dedicare una particolare attenzione alla formazione della coscienza personale e un’educazione all’i., fondata sul senso della propria libertà e sulla attenzio­ ne rispettosa (seppure non senza confronto e diritto di reciprocità) dell’alterità delle cose, del tempo, degli ideali, della cultura, della società, delle istituzioni, degli altri, di Dio. Bibl.: Alessi A., Filosofia della religione, Roma, LAS, 1991; Agostino, Le Confessioni. Introdu­ zione e commento di H. U. von Balthasar, Casa­ le Monferrato (AL), Piemme, 1993; M artini C. M., Cambiare il cuore, Milano, Bompiani, 1993; Goya B., Psicologia e vita spirituale. Sinfonia a due mani, Bologna, EDB, 1999; Bianchi E., Les­ sico della vita interiore. Le parole della spiritua­ lità, Milano, BUR, 2004.

V. Gambino

INTERIORIZZAZIONE Il termine i. si riferisce al processo attraver­ so cui si acquisiscono dall’esterno sistemi di convinzioni, norme, → valori, atteggiamenti, e modelli di comportamento, assorbendoli e integrandoli progressivamente nella pro­ pria struttura di personalità. In tal modo il soggetto trasforma la regolazione esterna del proprio agire ad opera degli agenti di socializzazione, in autoregolazione ed auto­ controllo, per cui egli si adegua alle norme e alle richieste della società non per pressioni esterne dirette o anticipate (es. attesa della ricompensa, paura della punizione) ma per­

ché è convinto intimamente della validità dei valori a cui ispira la sua condotta. 1. La → psicologia evolutiva pone particola­ re attenzione al processo di i. e al costrutto della coscienza ad esso collegato, al fine di comprendere i dinamismi attraverso cui la persona impara ad autogovernarsi. In pro­ posito i diversi approcci teorici (cognitivoevolutivo, psicanalitico, dell’apprendimento sociale) hanno posizioni differenti sul ruolo più o meno attivo che la persona ha nella dia­ lettica con l’ambiente sociale; essi, comun­ que, individuano in genere nell’identificazio­ ne uno dei meccanismi centrali dell’i. (Arto, 1984, cap. 3). Dagli anni ’90 in poi, grazie anche alle ricerche che hanno evidenziato il ruolo attivo del bambino fin dalle sue prime esperienze relazionali, si è affermata una concezione di i. non più intesa come un pro­ cesso unidirezionale di trasmissione interge­ nerazionale ad opera degli agenti di socializ­ zazione, ma come un processo bidirezionale, transazionale di reciproco cambiamento, in cui il bambino, interpretando, valutando, accettando o meno le influenze ricevute, è considerato co-costruttore delle linee guida della condotta (Killen - Smetana, 2006). 2. L’i. riguarda, dunque, quelle forme di re­ golazione dell’agire, che all’inizio dipendo­ no da controlli estrinseci, e che la persona fa proprie man mano che comprende (e nel­ la misura in cui comprende) quali condotte vengono rinforzate, o meno, e impara ad an­ ticipare le conseguenze delle sue azioni. A partire dal controllo esterno, si può indivi­ duare nel processo d’i. un’evoluzione verso l’autonomia nel regolare il proprio agire: la persona, infatti, si autoregola dapprima limi­ tandosi ad introiettare, cioè a rappresentarsi internamente, i moniti degli educatori, poi facendo propria la condotta dei modelli con cui si identifica, ed infine integrando piena­ mente ciò con cui si è identificata, dando cioè un significato ed un valore personale alla re­ golazione del suo agire (Deci - Ryan, 2004). 3. Per promuovere tale evoluzione nell’i., è importante che nell’ambiente educativo sia presente una guida autorevole, grazie alla quale l’educando possa imparare ad assu­ mersi la responsabilità del proprio agire comprendendo il senso dei limiti e delle ri­ 603

INTERVENTO EDUCATIVO

chieste con cui inevitabilmente deve fare i conti e sentendosi sostenuto emotivamente nelle frustrazioni sperimentate, invece di sentirsi oppresso e umiliato da un controllo autoritario, o sentirsi disorientato in un con­ testo antiautoritario e permissivo che non gli offre una struttura di riferimento per orien­ tarsi nella crescita (Franta, 1988). Risulta, dunque, fondamentale favorire un clima re­ lazionale positivo in cui l’educando venga sia incoraggiato ad essere autonomo e a parteci­ pare alle decisioni da prendere, sia aiutato a comprendere e a riflettere sul danno che può arrecare agli altri una sua eventuale azione antisociale. Bibl.: A rto A., Crescita e maturazione morale, Roma, LAS, 1984; Franta H., Atteggiamenti dell’educatore. Teoria e training per la prassi educativa, Ibid., 1988; Deci E. L. - R. M. Ryan (Edd.) Handbook of self-determination research, Rochester, N. Y., University of Rochester Press, 2 2004; K illen M. - J. Smetana (Edd.), Handbook of moral development, Mahwah, N. J., Lawrence Erlbaum Associates, 2006.

C. Messana

INTERNATO → Collegio INTERNET → Tecnologie dell’informazione e della comunicazione INTERPRETAZIONE → Ermeneutica pedago­ gica → Linguaggio INTERROGAZIONE → Didattica → Domande nell’insegnamento → Esami INTERSOGGETTIVITÀ → Comunicazione → Persona

INTERVENTO EDUCATIVO È l’«entrar dentro» una situazione formati­ va problema­tica, l’«operare mediando tra» i fattori in gioco dell’atto educativo, coinvol­ gendosi intenzionalmente e in modo com­ petente, allo scopo di liberare il potenziale vitale umano del o dei partner educativi, svi­ luppando o ricupe­rando qualità di vita, pro­ muovendo ruoli e sostenendo l’inserimento attivo, responsabile e solidale nella realtà esistenziale, favorendo condizio­ni di libertà e di felicità. 1. L’i.e. è risposta ad una domanda che pro­ 604

viene da ogni persona, specie da chi è in condizione e in età evolutiva, ma in ge­nere da tutti coloro che sono variamente bisogno­ si di aiuto per divenire, crescere, maturare, migliorare, vivere e affrontare umanamente i problemi che sempre si af­facciano sulla sce­ na dell’esistenza individuale e comunitaria. Più particolarmente la domanda di i.e. viene dalle famiglie, dal­le società, dai gruppi so­ ciali, dallo Stato, dalle chiese, come specifi­ cazione della loro responsabilità educativa. Al limite si può dire che l’i.e. è richiesto da ogni problema umano sociale, politico, eco­ nomico, culturale che contiene, come istan­ za «appellante», un momento trasversale di educazione. 2. La coscienza e il bisogno di i.e. sono cer­ tamente oggi molto sentiti in corrispondenza alle novità, complessità e difficoltà dell’esi­ stenza contemporanea. Ma non è senza sen­ so la questione se al bisogno e al dovere cor­ risponda la volontà, la competenza, l’azione effettiva. C’è chi arriva a chiedersi: «educare si deve, ma si può?». In effetti le difficoltà relazionali in genere e quelli della coppia genitoriale in particolare, la tenuta del me­ nage familiare, il clima di insicurezza e di incertezza generalizzata, rendono non facile e caricano di angoscia il → rapporto educati­ vo, sballottandolo spesso tra permissivismo e ossessività di presenza, tra paure e rigidi­ tà, tra concessioni e richieste di prestazioni eccessive, tra un lasciar fare schivante e un autoritarismo immotivato. 3. Per conto suo, l’i.e., in quanto azione uma­ na, si realizza nei limiti di molte scelte e loro condizioni. In tal senso, il primo lavoro per operare pedagogicamente nel campo edu­ cativo è la lettura analitica dei termini ef­ fettivi della domanda, raccogliendovi i dati di necessità, risorsa, condizione. Que­sto aspetto dell’i.e. spazia attraverso l’in­dagine conoscitiva e valutativa dei sistemi di per­ sonalità (struttura e dinamica, situa­z ione generale e evolutiva, storia persona­le), di socialità e cultura, di politica (condizioni di potere, di legisla­zione e legittimità, di pro­ getto e sostegno o di impedimento e diret­ tiva), di educazio­ne (formale, non formale, informale) che si intendono mettere in atto. L’i.e. non può limitarsi ad assumere passiva­ mente la → do­manda educativa nella condi­

IPERATTIVITÀ

zione primiti­va spontanea, ma deve compie­ re un’azio­ne previa e continua di educazione della stessa domanda, per aiutarla a formarsi interiormente, a formularsi ed esprimersi, li­ berandola dall’immaturità e dalla rozzez­za, dall’emergenza simbolica o magari de­viata, ma anche da filtri ingiusti connessi a stati di incoscienza, di rimozione, di confusione dei problemi, per procedere verso una domanda esplicita, matura, impegnata e magari pro­ gressiva. 4. Determinazione dell’i.e. La presenza nei processi di i.e. di variabili di varia natura spiega la compresenza di molte diverse pe­ dagogie. Le precomprensioni sono di natu­ra personale (temperamento e carattere, cultura e competenza), metapedagogica (assiomati­ ca, filosofica, teologica, scientifica, tecno­ logica, sociopolitica), pedagogica (ideali, prospettive, metodologie, strategie) attuate operando i pro­cessi di intervento, di pro­ gettazione, di azione, di verifica. Tali pre­ comprensioni si riverbe­rano nell’i.e. in atto. Nella tradizione pe­dagogica si distingue un i.e. diretto da quel­lo che opera sui contesti o tramite altre me­diazioni (i.e. indiretto); un i.e. di tipo ne­gativo, che si limita ad impe­ dire che qual­cosa o qualcuno turbi il libero e spontaneo agire dell’educando) o all’oppo­ sto un i.e. positivo (che agisce rafforzando o stimo­lando l’educando con premi, castighi, ammonizioni, incoraggiamenti o altri tipi di rinforzo (→ non direttività). Rispetto poi agli effetti che si intendono perseguire, si pensa ad i. preventivi o invece ad i.e. di re­cupero o addirittura terapeutici, quando si ha da cu­ rare devianze, effetti perversi, ma­li che sono andati a pesare sulla vicenda formativa degli educandi (→ prevenzione, recupero). Bibl.: Coombs A. H., The world educational cri­ sis, London, The Oxford University Press, 1968; Dalle Fratte G., «I riferimenti as­siologici», in I d. (Ed.), Teoria e metodo in peda­gogia, Roma, Armando, 1986, 121-125; Brezinka W., L’edu­ cazione in una società disorientata, Ibid., 1989; Gianola P., Una pedagogia tra sfide e contro­ sfide, in «Orientamenti Pedagogici» 41 (1994) 173-187; A ngelini G., Educare si deve, ma si può?, Milano, Vita e Pensiero, 2002; Baldacci M., Personalizzazione o individualizzazione?, Trento, Erickson, 2006.

P. Gianola

INTERVISTA → Colloquio → Riflessione parla­ ta INTROVERSIONE → Estroversione

IPERATTIVITÀ Disturbo dell’ → apprendimento caratteriz­ zato da impulsività, difficoltà di attenzione (sindrome da deficit attentivi), alto livello di attività motoria (sindrome ipercinetica). In genere è associato ad alcuni, o molti, di que­ sti altri sintomi: mancanza di coerenza, emo­ tività, scarso coordinamento viso-motorio, → discalculia, → dislessia, deficit di memoria. 1. È difficile stabilire cause precise dell’i. Molto spesso si tratta solo di costituzione fi­ sica particolarmente vitale ed esuberante alla quale è stata associata un’influenza negativa derivante da reazioni famigliari inadeguate o, più comunemente, presenti nel contesto scolastico. Altre volte, nei casi più difficili e complessi, possono essere coinvolte cau­ se biologiche e/o psicologiche. Poca fortuna ha oggi l’attribuzione di tali comportamenti a minimo danno cerebrale, cioè a minima lesione o mal funzionamento cerebrale non registrabile da strumenti diagnostici. 2. Nel tempo hanno avuto rilievo vari tipi di trattamento: farmacologico, cognitivo, co­ gnitivo-comportamentale, comportamentale, didattico. Nel primo caso vengono utilizzati farmaci particolari che tendono a ridurre so­ prattutto l’impulsività e l’instabilità motoria. Non sempre si hanno risultati validi e spesso si hanno effetti negativi dal punto di vista attributivo, cioè si insinua la convinzione che solo per mezzo di questi farmaci è pos­ sibile controllare il proprio comportamento (dipendenza). I metodi cognitivi, all’oppo­ sto, suggeriscono lo sviluppo di forme di autocontrollo mediante l’interiorizzazione di istruzioni appropriate. Sono state anche sviluppate metodologie basate sulla modifi­ cazione del comportamento tramite opportu­ ni programmi di rinforzo. I metodi didattici, spesso definiti anche metodi diagnosticoprescrittivi, valorizzano l’uso di esercizi progressivi di rilassamento, di sviluppo della capacità di attenzione e di concentrazione, di capacità di controllo dell’impulsività e del 605

IPERTESTI

coordinamento motorio sulla base di una dia­ gnosi accurata delle caratteristiche personali e di un programma individualizzato di inter­ venti. Oggi la tendenza più diffusa considera la sindrome della difficoltà di attenzione e i. come derivante da cause multidimensionali e di conseguenza anche i metodi di intervento tendono ad assumere analoga impostazione. Occorre anche segnalare l’importanza di una diagnosi seria, soprattutto nei casi più diffi­ cili, e quella della collaborazione tra le varie istituzioni educative (scuola, famiglia, con­ sultori, ecc.). Bibl.: Ross D. M. - S. A. Ross, Hyperactivity, current issues, research, and theory, New York, Wiley, 21982; Valett R. E., Il bambino iperattivo a scuola, Roma, Armando, 1983; K irby E. A. - L. K. Grimley, Disturbi dell’attenzione e i., Tren­ to, Erickson, 1989; Cornoldi C. (Ed.), I disturbi dell’apprendimento, Bologna, Il Mulino, 1991; Cornoldi C., Le difficoltà di apprendimento a scuola, Ibid., 1999; Marzocchi G. M., Il bam­ bino con i. e disattenzione, Ibid., 2003; Cimbelli P. - M. Bertelli, DDAI: Bambini difficili. Un ap­ proccio multidimensionale alle difficoltà di atten­ zione e i., Firenze, Zenit, 2007.

M. Pellerey

IPERTESTI La tecnologia ipertestuale/ipermediale si è definita subito (alla prestigiosa conferenza tenutasi nell’Università del North Carolina, Chapel Hill, nel 1987) come una tecnologia per l’arricchimento di un ambiente didattico o autodidattico. Ha le caratteristiche di met­ tere il controllo nelle mani dell’utente e di offrire una grande quantità di informazioni a cui è possibile accedere rapidamente attra­ verso connessioni logiche. Legati a tanta of­ ferta di i. ci sono però i problemi del sovrac­ carico cognitivo e del perdersi nell’iperspa­ zio, per cui è necessario porsi interrogativi sull’architettura del documento ipertestuale, sulle possibilità di navigazione offerte e, in generale, sull’usabilità del prodotto. 1. Definizione e struttura degli i. L’i., definito già da T. Nelson come scrittura non sequen­ ziale (Nelson, 1974), è descritto da Conklin come «medium per pensare e comunicare 606

basato sul computer» (Conklin, 1987, 32), da Marchionini come «rappresentazione elet­ tronica del testo che si avvantaggia delle ca­ pacità di accesso casuale che ha il computer per superare il mezzo strettamente sequen­ ziale della stampa su carta». Nell’ambito del rapporto utente-computer l’i. viene visto come rispondente all’esigenza di favorire nettamente il controllo del primo sul secon­ do. Nella definizione dell’i. intervengono gli elementi: base di dati, metodologia di pro­ grammazione che offre attività relazionali sofisticate in un insieme di dati, non-linea­ rità/non-sequenzialità, tridimensionalità (nel senso che l’informazione può essere percorsa avanti, indietro e in profondità visualizzan­ do, a comando, testi al momento invisibili ma connessi al testo in primo piano), dinami­ cità e assenza di schema. La struttura dell’i. e dell’ipermedia (un i. arricchito di immagini fisse, di immagini in movimento, di grafici e del suono) ha due elementi fondamentali: i nodi e i legami (link). È possibile suddividere le informazioni segmentandole in modo tale che ad ogni concetto corrisponda una serie di altri concetti, anche se, per non affati­ care il lettore, di solito vengono forniti dei «pezzi» d’informazione (chunks) significati­ vamente consistenti. I link, simili agli archi nei grafi orientati, si possono definire come strumenti di trasporto da un nodo ad un altro dell’i.; essi legano dei punti-sorgente a puntidestinazione e, in questo caso, sono legami referenziali, oppure vanno a formare un gra­ fo ad albero nel quale da un nodo-genitore si accede a nodi-figli percorrendo una rigida gerarchia stabilita dall’autore dell’i. Il valore principale del link sta nella sua connettività e la vera portata di un’applicazione iperte­ stuale è espressa dalla topologia o organiz­ zazione della rete determinata dai link. In molti casi l’organizzazione può essere rela­ tivamente semplice: una foresta di gerarchie (dette alberi) sono sporadiche connessioni trasversali. 2. Il quadro di riferimento teorico degli i. La necessità di teorizzazioni e quadri di riferi­ mento convincenti è stata sentita fin dall’ini­ zio dell’applicazione della tecnologia iperte­ stuale alla didattica. Jonassen (1989) propo­ ne un quadro di riferimento che si richiama alla teoria dello schema, più precisamente, al modello delle «reti strutturali attive» di

ISIDORO DI SIVIGLIA

Quillian e agli schemi di apprendimento e di rappresentazione della memoria di Norman, Gentner e Stevens e ai principi dell’istru­ zione «a rete» (web learning) che offrono la base concettuale per la teoria dell’istruzione cosiddetta «dell’elaborazione». Secondo Jo­ nassen, l’applicazione dei principi dell’inse­ gnamento-apprendimento a rete va un passo più in là permettendo di far combaciare la struttura a rete del campo di conoscenza con la rete semantica del soggetto che apprende. 3. Il potenziale educativo degli i. La tecno­ logia ipertestuale permette, in primo luogo, di personalizzare il processo di acquisizione della conoscenza facendo interagire gli uten­ ti con le nuove informazioni nel modo per loro più significativo e venendo poi incontro all’esigenza degli stessi di controllare, con il contenuto, anche il processo dell’appren­ dimento. Le applicazioni didattiche coprono tutti i campi della conoscenza: dallo studio delle lingue antiche, materne e moderne alle scienze biologiche e fisiche e alla geografia. 4. Gli i. alla base di Internet. http è l’acro­ nimo di Hypertext Transfer Protocol, o pro­ tocollo di trasferimento di un i., usato come principale sistema per la trasmissione di in­ formazioni e dati sul web. In pratica, quando da un testo viene attivato un collegamento ad un altro testo, caratteristica tipica dell’i., interviene questo particolare protocollo che gestisce i vari collegamenti attivati. Si parla anche di collegamento ipertestuale interno ad un sito quando si indirizzano parole di un documento a parti del medesimo. In genera­ le si seleziona con il mouse la parola sottoli­ neata dal tag di rimando o collegamento. Il grandioso i. che è Internet può costituire un pericolo maggiore di entropia cognitiva e di perdita nell’iperspazio. 5. Applicazioni attuali degli i. La possibili­ tà di essere connessi sia con piccole reti sia con Internet permette di attivare scambi, in tempo reale, su ricerche in via di realizza­ zione e di navigare in maniera ipertestuale nel ciberspazio. Ciò ha consentito lezioni in ambienti di teledidattica, con la trasmissione di materiali testuali arricchiti da immagini, da suoni e da filmati. Oggi l’i. diventa signi­ ficativamente più ricco grazie a tecnologie quali il podcasting, sistema che permette di

scaricare in modo automatico documenti uti­ lizzando un feeder. Bibl.: Nelson T.H., Computer Lib/dream machi­ nes, South Bend, The Distributors, 1974; Conklin J., Hypertext: an introduction and survey, in «IREE Computer» 20 (1987) 20-62; Jonassen D. H. - H. M andl (Edd.), Designing hyper­ media for learning, Heidelberg, Springer, 1990; Chakrabarti S., Mining the Web: discovering knowledge from hypertext data, Amsterdam, Morgan-Kaufmann Publishers (ora Elsevier), 2000; Bromme R. - E. Stahl, Writing hypertext and learning, New York, Pergamon/Elsevier Sci­ ence, 2002; Modiano R. - L. F. Searle - P. L. Shillingsburg (Edd.), Voice, text, hypertext: emerging practices in textual studies, Seattle, University of Washington Press, 2004; Landow G. P., Hypertext 3.0: critical theory and new me­ dia in an era of globalization, Baltimore, John Hopkins UP, 2006.

C. Cangià

IPOTESI → Ricerca educativa/pedagogica

ISIDORO DI SIVIGLIA n. a Cartagena nel 562? - m. nel 636 a Sivi­ glia, erudito, arcivescovo di Siviglia. 1. Attraverso le sue opere ed i suoi disce­ poli svolge un grande lavoro nella restaura­ zione culturale e spirituale della sua epo­ca, che darà luogo al cosiddetto «rinasci­mento isidoriano». Dopo le invasioni nordiche I. continua a trascrivere nel suo scriptorium di Siviglia buona parte degli umanisti classici, quelli dell’antichità cri­stiana, e i testi prope­ deutici elaborati per l’insegnamento da dotti e compilatori del­l’epoca ellenistica. Nell’in­ sieme monu­mentale delle sue opere racco­ glie, classifi­ca e ricolloca nell’universo isido­ riano gli autori dell’antichità, avvalendosi di un me­todo di lavoro etimologico. Ricerca gli elementi più semplici del sapere nella com­ posizione-scomposizione delle parole; la­vora sull’origine, le differenze, le antino­mie, le omonimie, il significato. Salva così per i po­ steri il linguaggio scritto e orale, elemento di base di ogni cultura. Nell’ap­porto pedagogico di I. si evidenziano, so­prattutto, le Sentenze o Etimologie, che rappresentano il primo ten­ 607

ISLAMISMO

tativo di siste­matizzazione del dogma e della morale cat­tolici. Nei XX libri delle Origini o Etimo­logie, I. riorganizza enciclopedica­ mente il sapere del suo tempo. I primi quattro libri sono dedicati al trivium e al quadrivium, una sintesi delle → arti liberali che avrà for­ tuna nelle scuole dell’alto → Medioevo. 2. Il contributo pedagogico di I. oltrepassa però i limiti dell’enciclopedia. Partendo dalla concezione cristiana, indica il fine dell’edu­ cazione in una teologia della salvezza. La formazione umana deve dare senso a tutte le conoscenze, che il processo educativo orien­ terà verso la → virtù. Questa, a sua volta, tende alla → saggezza cri­stiana. I doveri del saggio sono quelli di ap­prendere ed insegna­ re. Il → maestro, come dirà il IV Concilio di Toledo (633) presie­duto dallo stesso I., sarà dotto, virtuoso, ca­pace di adattarsi ad ogni tipo di intelligen­za. Con le sue opere, I. rea­ lizza «una praelectio monumentale, una isa­ goge, un portico che consentirà l’ingresso prima alla rinascita carolingia e poi ai tre secoli se­g uenti» (P. Riché). Bibl.: a) Fonti: San I. de Sevilla. Etimologías. In­ troducción de M ª C. Diez Diez, Madrid, BAC, 2000. b) Studi: R iché P., Éducation et culture dans l’Occident barbare, Paris, Seuil, 31962; Fontaine J., San I. de Sevilla. Génesis y originalidad de la cultura hispánica en tiempos de los visigo­ dos, Madrid, Encuentro, 2002; A rce M artínez J., San I., Doctor Hispaniae, Sevilla, Fundación El Monte, 2002.

Á. Galino - Á. del Valle

ISLAMISMO Il termine (dall’arabo islàm, sottomissione e abbandono a Dio) designa comunemente la fede (imān) e la religione (dīn) monoteista basata sulla predicazione di Maometto, con­ siderato dai musulmani l’ultimo e definitivo profeta inviato da Dio (in arabo Allāh). 1. L’importanza del sapere religioso. Un nu­ mero impressionante di versi coranici sotto­ linea la suprema importanza del sape­re (‘ilm) e la grande considerazione di Dio, nel senso di «sapere rivelato» (cfr. C 96,1-5; 58,11). Le raccolte canoniche delle tra­dizioni (ha­ 608

dith) assegnano una posizione di prestigio a coloro che esaltano l’‘ilm. Se­condo alcu­ ne tradizioni, è dovere di ogni musulmano, uomo o donna, vecchio o gio­vane, acquisire il sapere: «La ricerca del sa­pere è obbliga­ toria per ogni musulmano» (Muhammad Ali, A manual of hadith, Lon­don, 1983, 39). L’individuo che ha familia­rità con il «sapere rivelato» (‘alim) è ri­spettato nell’Islam, e tra­ smettere tale sa­pere è una nobile occupazio­ ne. È risaputo che sin dalle origini la civiltà islamica ha dato notevoli contributi ai vari filoni dell’erudizione. 2. Luoghi ed istituzioni. Gli studi religiosi − incentrati intorno al Corano − furono portati avanti sia all’interno che intorno al­la mo­ schea, sede delle cinque preghiere li­t urgiche giornaliere. Qui si insegnava a re­citare, leg­ gere e scrivere il Corano, e anche i comandi rivelati e la dottrina della fede. Comparvero degli specialisti religiosi, gli Ulema, per re­ citare il Corano e imparare a memoria le Tra­ dizioni. In breve tempo, quando dall’essenza di queste due fonti fondamentali fu ricavata la sharî ‘a (legge), gli Ulema divennero uo­ mini le cui attività si focalizzavano sull’ap­ plicazione della leg­ge e l’insegnamento delle capacità neces­sarie per farlo. Con il trascor­ rere del tem­po, le moschee della congrega­ zione (Jami’ masjid) nelle cittadine e città più grandi di­vennero centri con un program­ ma di studi più diversificato e complesso. La scuola co­ranica (maktab) è l’istituzione ed il luogo in cui i bambini di quattro o cinque anni di età imparano a leggere e scrivere. Scopo principale di tale conoscenza è permettere al credente di leggere e recitare perlome­no alcune parti del Corano in modo corret­to, un elemento essenziale del culto islami­co, e rendere edotti sugli elementi di base e diret­ tamente pertinenti alla legge religio­sa. L’in­ segnante, tradizionalmente, era pa­gato ad intervalli, quando gli studenti pro­g redivano nell’apprendimento del Corano. Dato che i moderni sistemi scolastici hanno sostituito oggi quello tradizionale, la scuo­la coranica è diventata un’istituzione in lar­ga misura prescolastica o parallela a livel­lo educativo per i bambini più piccoli. Un madrasa («un luogo dove studiare») è una scuola tradizionale di studi superiori, che presuppone la prepara­ zione del maktab. Il madrasa in origine era più una residenza che un luogo separato di

ISLAMISMO

studi, dato che l’i­struzione veniva impartita nella moschea stessa, con gli studenti sedu­ ti intorno al maestro. I madrasa-s, nel senso di scuole o college separati istituzionalmen­ te, presero avvio in molte parti del mondo musulma­no nell’XI sec., quando le autorità seco­lari lottarono per ottenere il controllo sul­le istituzioni religiose. Tra i più famosi vi erano i madrasa «Nizamiyya» fondati dal vi­ sir Nizam al-Mulk (morto nel 1092) in Iraq e Persia, e l’Università al-Azhar fon­data come scuola della moschea al Cairo nel 972, che sa­ rebbe ben presto diventata il centro più famo­ so ed influente a livello mondiale della cultura musulmana. Persino questi madrasa-s, sepa­ rati a livello di istituzione, erano comunque ospitati per lo più nei locali di una moschea. Anche nei conventi sufi (khanqah; tekke) vi era molto spesso un madrasa. In vaste parti del mon­do musulmano tradizionale, infatti, lo studio del Corano, delle tradizioni e della leg­ge andavano di pari passo con l’iniziazio­ ne al cammino sufi di avvicinamento a Dio nella pratica (tariqa) e nel pensiero (ma’ri­ fa). C’erano inoltre molte persone istruite che impartivano lezioni in uno o due filoni del sapere nelle loro case o nelle case di no­ bili. In molti stati musulmani medievali, i madrasa-s erano interamente finanziati dal­ lo stato tramite concessione di terre e sotto forma di salari regolarmente pagati al corpo insegnante. Comunque, nella mag­gior parte dei casi, tanto allora quanto og­gi, essi erano mantenuti dal sostegno pub­blico, spesso sot­ to forma di donazioni pie (awqaf ), che com­ prendevano possedimenti di vario tipo che producevano rendite, ma anche sotto forma di denaro contante, abi­ti, attrezzature, ecc. che venivano offerti regolarmente e perio­ dicamente. I matktab-s e i madrasa-s sono sempre stati aper­ti a tutti. Il sapere religioso nelle società islamiche non è mai stato prero­ gativa solo delle classi più elevate o di alcune famiglie: gli Ulema persino oggi continuano ad ap­partenere ad uno spaccato della società, più in particolare la classe dei piccoli uo­mini d’affari, degli artigiani e di quelle pro­fessioni con redditi più bassi. Grazie alle borse di studio e ad uno stile di vita molto semplice, l’istruzione del madrasa è acces­sibile ai figli della gente comune. 3. Metodi. Per quanto riguarda i metodi di trasmissione del sapere, non si nota una

differenza tra i livelli elementare ed avan­ zato. Le materie che erano insegnate nei madrasa-s consistevano nel commento al Corano, nella tradizione e nella legge isla­ mica (per es. manqul: le scienze trasmes­se), ma anche nella filosofia, medicina, scienze naturali, lingue e musica (per es. ma’qul: le scienze razionali). Fino a non molto tempo fa gli studenti sedevano in cerchio intorno al proprio insegnante, che leggeva loro ad alta voce e spiegava un te­sto scritto dagli inse­ gnanti stessi, oppure commentava il testo di un autore preceden­te. Di norma gli studen­ ti non dovevano prendere appunti durante la lezione. Una volta imparato a memoria il materiale spie­gato, essi ottenevano dall’inse­ gnante una licenza (ijaza) che li autorizza­ va a trasmet­tere ciò che avevano appreso ad altri. Occorre sottolineare il carattere orale di que­sto metodo di trasmissione del sapere: an­cora nel XX sec. il sapere acquisito uni­ camente sulla base di testi scritti, era con­ siderato inaffidabile. L’insegnante e le opere studiate contavano più del nome dell’istitu­ zione e del contenuto in quanto tale, tant’è vero che esisteva la consuetudi­ne di viaggia­ re da un insegnante all’altro. Come indica un manuale pedagogico del XIII sec.: «Rico­ nosci che (il tuo mae­stro) è padre della tua anima e causa della sua creazione e essenza della sua vita, così come il tuo genitore è padre del tuo corpo e della sua esistenza» (cit. in F. Robinson, Atlas of the Islamic World since 1500, 34). I madrasa-s si rive­ larono un modello per le università europee. Dai madrasa-s di Fatimid in Egitto, ad es., si diffusero delle tra­dizioni come quella di indossare le toghe nere da college e la divi­ sione in facoltà pre- e post-laurea. I testi del passato non men­zionano praticamente alcun insegnante di sesso femminile; alcune don­ ne, special­mente di nobile retaggio, acqui­ sirono un’istruzione islamica di alto livello, ma solo in tempi più recenti vennero fondati dei ma­drasa-s per ragazze, soprattutto nel sud e sud-est asiatico. 4. Situazione contemporanea. L’istruzione istituzionalizzata dei madrasa-s, come si ri­t rova nella maggior parte del mondo mu­ sulmano di oggi, sembrerebbe aver perso molto di quel tipo di qualità personale del­ l’insegnamento che nel passato incoraggia­va la ricerca individuale. Ciò che pratica­mente 609

ISOCRATE

non è cambiato è la tendenza con­servatrice insita nel sistema dei madrasa-s. Compito dell’educazione dei madrasa-s dovrebbe es­ sere quello di indicare la via in una formu­ la definitiva, che lo studente de­ve tentare di mantenere «pura» fino all’Ul­t imo Giorno, di trasmetterla ed interpre­t arla. Si impara­ no così molte enunciazioni fisse a memoria, senza la necessità di com­prenderle e l’enfasi è posta più sull’imparare come le cose do­ vrebbero essere alla luce della rivelazione che sul riflettere criticamente sugli eventi passati e futuri ed imparare da essi. La pre­ mura di conservare ciò che potrebbe andare perduto ha molta più importanza del tentati­ vo di scoprire quali aspetti della verità sono ancora nascosti. Agli studenti «sono inse­ gnate mate­r ie che non hanno praticamente alcun peso sulla loro vita quotidiana, perché sono ap­parentemente preparati ed addestrati per diffondere il «messaggio divino» in una so­cietà moderna e cosmopolita senza i mo­ derni strumenti del sapere» (Mushirul Haq, Islam in Secular India, Simla, 1972, 40). L’esistenza di madrasa-s privati ha creato una dicotomia nel sistema scolasti­co: da una parte ci sono le istituzioni seco­lari moderne, college ed università, dove i figli e le figlie dell’élite possono permet­tersi un’istruzione moderna, dall’altra ci sono i madrasa-s ge­ stiti privatamente che attraggono i figli del­ le classi inferiori op­presse. Molti comitati e conferenze sono stati organizzati da vari governi per aiutare a migliorare questi ma­ drasa-s ed integrarli nel più ampio sistema scolastico nazionale. Ma il divario tra l’istru­ zione secolare e l’in­segnamento teologico si è continuamente allargato. Il sistema dei madrasa-s è inti­mamente collegato al pro­ blema dell’iden­tità della comunità musulma­ na. Come siste­ma integrato e globale, l’Islam ha una pro­pria concezione della storia, della società, dell’economia e della cultura, una visione che è stata forzatamente propugnata dagli Ulema e dai loro madrasa-s. Ciò spiega la lotta tra i modernisti progressisti che vo­ gliono reinterpretare, ricostruire e ridefini­ re i principi dell’Islam ed i conservatori Ulema, il prodotto di questi madrasa-s, che tenacemente si aggrappano ai modelli tradi­ zionalisti di vario tipo a spese di una riela­ borazione creativa della società musulma­na e del pensiero religioso islamico nel mondo contemporaneo. 610

Bibl.: Moreno M. M., L’I. e l’educazione, Mila­ no, Istituto Editoriale Galileo, 1951; R itton A. S., Ma­terials on Muslim education in the Mid­ dle Ages, London, Luzac, 1957; Eickelmann D., The art of memory: Islamic knowledge and its social repro­duction, in «Comparative Studies in Society and History» 20 (1978) 485-516; A lAttas M. A l-Naquib, Aims and objectives of Islamic education, Jeddah, King Abdulaziz Uni­ versity, 1979; M akdisi G., The rise of colleges, Edinburgh, University Press, 1981; R ahman F., Islam and modernity. Transformation of an intel­ lectual tradition, Chica­go/London, University of Chicago Press, 1982; Rob ­ inson F., Atlas of the Islamic world since 1500, Oxford, Phaidon, 1982; Schreiner P. et al., Le cinque grandi religioni del mondo. Induismo, Buddismo, I., Cristianesimo, Brescia, La Scuola, 2002.

C. W. Troll

ISO-900 → Certificazione degli apprendimenti → Qualità dell’educazione

ISOCRATE Vissuto ad Atene tra il 436 e il 338 a.C., re­ tore greco. 1. Contesto. I. riveste una particolare im­ portanza in una fase significativa per la de­ finitiva strutturazione della cultura e della pedagogia dell’antica →Grecia. Inizialmente logografo (scrittore di discorsi), nel 393 apre ad Atene la sua scuola di retorica, che gli at­ tira grande fama e con la quale influisce in modo determinante sulla scuola del periodo ellenistico e su tutta la successiva corrente umanistica. Fu alunno dei sofisti Prodico e Gorgia, ma non fu, probabilmente, estraneo all’influsso di → Socrate. 2. L’ideale del retore. Pur continuando la tradizione sofistica, porta a perfezione «l’ar­ te della parola», la retorica, non solo per la forma letteraria, ma anche per l’importanza e la dignità da lui riconosciuta alla parola nella vita dell’umanità e nella cultura: essa ci distingue dagli animali; nulla d’importante avviene senza la parola. In ciò I. si differen­ zia sia dalla scuola platonica, che riduceva la retorica a strumento della dialettica, sia dalla scuola dei → Sofisti in cui la parola era

ISOCRATE

svilita a strumento, quasi neutro, di convin­ cimento per qualsiasi opinione. Il retore, per I., non poteva prescindere dal mettere la pa­ rola al servizio dei più grandi valori umani e farne mezzo di comunicazione di questi stessi valori sia nell’ambito personale che in quello politico. Senza giungere alla pretesa della conoscenza assoluta della verità (e in ciò si distingue dalla scuola di → Platone), I. non può accontentarsi del gioco utilitaristico delle opinioni al modo dei Sofisti. La doxa (opinione) cui guarda riveste per lui la di­ gnità del bene raggiungibile nell’onestà della ricerca umana, attraverso l’uso della parola. La retorica è, così, inseparabilmente connes­ sa con l’etica. 3. La formazione del retore. In questa linea I. si propone come educatore, formatore di altri maestri di retorica, di politici, più am­ piamente di uomini saggi. Questo, in sinte­ si, per lui il paradigma dell’uomo formato, come lo descrive nel suo Panathenaikòs (30-33): dignità, accortezza, equità, giusta valutazione delle situazioni, cortesia, co­ stanza e autodominio, ponderatezza, giu­ sta considerazione di sé, disinteresse. In questo compito educativo I. si distingue sia dalla superficialità imputata ai Sofisti, sia dall’astrattezza dell’utopia di Platone, per un vivo senso di serietà/eticità e di concretezza, rispondente alla realtà della vita. Si fondono quindi per un risultato unitario due ambiti di educazione: quella tecnica dell’arte della pa­ rola e quella più intima e comprensiva della formazione umana. La scuola di retorica di I. presuppone la scuola primaria e secondaria (fino ai 14 anni), ormai comunemente accolte nelle città greche, con i contenuti indicati per la pedagogia greca nel binomio ginnastica e musica (nel senso «letterario» del termine), cui aggiunge la matematica e l’eristica, qua­ le parziale contatto con la dialettica filosofi­ ca. Per l’apprendimento dell’arte del discor­ so la scuola di I. esige alcune doti di natura, indispensabili per il retore. Il suo insegna­ mento contempla una parte teorica, non molto sviluppata; dà invece grande spazio all’esercizio. Esso comprende in particolare lo studio e l’imitazione di modelli, attuando il binomio modello-imitazione (paràdeigma e mìmesis). In concreto I. presentava i suoi stessi discorsi come modelli. Importante era la partecipazione (discussione, dialogo) dei

discepoli alla formazione stessa del discorso. Il contatto personale determinava un clima di familiarità e di amicizia, che costituiva un elemento qualificante della scuola di I. e rendeva possibile attuare uno dei requisi­ ti da lui ribaditi: la funzione di modello del maestro (e, a raggio più ampio, del retore). Questo clima permise pure che le relazioni con i suoi illustri discepoli si protraessero, in molti casi, anche dopo gli anni (3 o 4) della scuola, quando essi si trovavano nel disim­ pegno di importanti responsabilità nella vita pubblica. Oltre all’aspetto tecnico e metodo­ logico, e con importanza formativa anche maggiore, I. si preoccupava della scelta dei temi, mai banali o leggeri, ma, contro ogni formalismo, in accordo con il valore e la di­ gnità della parola e con la dimensione etica. In tal modo lo stesso impegno di ricerca e di elaborazione della parola diventava ap­ profondimento di valori e orientamento di vita, preparando anche alla missione sociale legata alla professione del retore e facendo­ ne un testimone dei valori che doveva di­ fendere. 4. Le due scuole. Abbiamo accentuato la di­ versificazione della retorica di I. e della sua pedagogia sia nei riguardi dei Sofisti, che nei riguardi di Platone. Sarebbe però unila­ terale fermarsi a una pura contrapposizione. L’apporto specifico di I. si apprezza in un più completo quadro della cultura e della → pai­ deia greca; in esso prende valore la continu­ ità con l’azione culturale svolta dai Sofisti, che in lui assume una più incisiva valenza pedagogica, e l’integrazione con la dimen­ sione filosofica di Platone. Va infatti richia­ mata l’importanza delle due scuole che si affrontano in questo quarto sec. e delle due dimensioni, filosofica e retorica/letteraria, che caratterizzeranno sempre lo sviluppo successivo della cultura greca. 5. Incidenza e risonanza. L’importanza dell’azione di I. si misura anche dall’influsso che ha esercitato sulla paideia greca del suc­ cessivo periodo ellenistico e su tutta la tradi­ zione della scuola umanistica. Il suo impe­ gno, non riuscito, per un’unione panellenica di tutte le città greche e per la salvaguardia dell’eredità culturale della Grecia, lo portò a promuovere il superamento della contrappo­ sizione tra greci e barbari proprio in nome 611

ISPETTORE

della cultura: greci si è più per la cultura che per il sangue. Per questo, sia pur con qualche enfasi, I. fu detto padre dell’umanesimo. È indubitabile il successo avuto dal suo ideale di paideia, che resterà punto di riferimento anche nella formazione dell’orator dell’hu­ manitas romana. Bibl.: a) Fonti: I., Orazioni, a cura di A. Argentari e C. Gatti, Torino, UTET, 1965. b) Studi: Cecchi S., La pedagogia di I., in «Rivista di Studi Classi­ ci» (1959) 3; Cloché P., I. et son temps, Paris, Les Belles Lettres, 1963; Proussis C. M., «L’oratore: I.», in Gli ideali educativi. Saggi di storia del pensiero pedagogico, Brescia, La Scuola, 1972; M arrou H. I., Storia dell’educazione nell’anti­ chità, Roma, Studium, 1994; M asaracchia A., I. Retorica e politica, Roma, GEI, 1995; Saïd S. - M. Trédé - A. Le Boulluec, Histoire de la lit­ térature grecque, Paris, P.U.F., 1997.

M. Simoncelli

ISPETTORE Persona che su incarico ufficiale svolge fun­ zioni sia di controllo e monitoraggio delle at­ tività, del funzionamento e delle at­t rezzature/ strutture delle scuole, sia di so­stegno tecnico ai processi formativi. 1. Da un punto di vista comparativo, più cre­ sce la centralizzazione del sistema for­mativo (→ amministrazione scolastica) e maggiore diviene la probabilità che la fun­zione ispet­ tiva sia concepita come control­lo. Se inve­ ce prevale la tendenza al de­centramento e all’autonomia, essa si spo­sta verso il soste­ gno e la consulenza. In alcuni Paesi la valu­ tazione delle prestazio­ni dei docenti durante un’ispezione può pe­sare sulla promozione. La categoria è di so­lito articolata in un ruo­ lo di livello nazio­nale, federale o statale e in un secondo, più ampio, di carattere regiona­ le, dipartimen­tale o locale. Altri due tipi di distribuzione si fondano sulle materie o sui livelli scola­stici. Inoltre, i sistemi centraliz­ zati inten­dono l’i. come parte integrante del mi­nistero e come un fun­zionario dello Sta­ to; altri gli riconoscono un certo grado di indipendenza. Una tendenza in atto mira ad attribui­re all’i. un ruolo centrale nello svilup­ po della qualità della scuola. 612

2. In → Italia già con la L. Casati n. 3725/1859 l’i. occupava una posizione importante ed è stato concepito secondo il modello centrali­ stico. Un note­vole cambiamento si è prodot­ to con i de­creti delegati del 1974 che hanno seguito due principi: da una parte hanno riorganizzato la funzione ispettiva in un quadro unitario; dall’altra l’hanno pensata come l’attività di esperti professionali ai fi­ ni dell’accertamento tecnico-didattico, l’ag­ giornamento e la sperimentazione: questa impostazione è stata consacrata nel Testo Unico in materia di istruzione (D.L.vo n. 297/94). Il DPR n. 347/00 e la normativa se­ guente sulla riorganizzazione del Ministero non hanno abolito la figura dell’i. tecnico, ma sono accusati di aver iniziato un proces­ so che potrebbe portare alla sua sparizione di fatto, perché avrebbero introdotto il concetto di «dirigente con funzioni tecniche» che non sarebbe la stessa cosa dell’i. tecnico. Pertan­ to la funzione ispettiva tecnica andrebbe ri­ definita da un punto di vista organizzativo e funzionale in un rapporto unitario con la di­ rigenza amministrativa e scolastica e cercan­ do di valorizzare la sua terzietà autonoma. Bibl.: Vincenzi V., «I.», in M. Laeng (Ed.), Enci­ clopedia pedagogica, vol. IV, Brescia, La Scuo­ la, 1990, 6239-6240; Watson J. K. P., «School inspectors and supervision», in T. Husen - T. N. Postletwaite (Edd.), The International ency­ clopedia of education, Oxford, Pergamon Press, 2 1994, 5247-5252; Gli i. tecnici: una risorsa per l’autonomia delle scuole, Alessandria, Edizio­ ni dell’Orso, 1998; Capaldo N. - L. Rondanini, Gestire e organizzare la scuola dell’autonomia, Trento, Erickson, 2002.

G. Malizia

ISTERIA → Nevrosi ISTITUTI DI PENA → Carcere → Servizi sociali

ISTITUTO I latini usarono la parola institutio nel sen­ so di educazione e istruzione. Con questo significato la usarono → Quintiliano (Institu­ tiones oratoriae), s. → Girolamo, Lat­tanzio e → Vives (Institutio foeminae christianae). Il termine indicò anche il luogo nel quale veni­ va impartita l’educazione, re­gola e modo di

ISTITUZIONE: E GIOVANI

vivere nei diversi ordini re­ligiosi. Importan­ te fu l’Institut de France, che raggruppava le cinque accademie crea­te con la legge del 23 agosto 1795, ed aveva il compito di racco­ gliere le scoperte e di perfezionare le scienze e le lettere. Di grande interesse per lo svi­ luppo della pe­dagogia europea contempora­ nea fu l’Insti­tut Jean-Jacques Rousseau des Sciences de l’Éducation, fondato il 21 otto­ bre 1912 a Ginevra in occasione del secondo centena­r io della nascita di Rousseau. I suoi fonda­tori furono → Claparède e P. Bovet e intor­no ad esso lavorarono medici, psicologi e pedagogisti di chiara fama, come → Ferriè­ re, → Dottrens, P. Rosselló, → Piaget e mol­ti altri. In esso si formarono varie genera­zioni di professionisti dell’educazione di tutti i pa­ esi europei. Altri importanti i. a carattere pe­ dagogico sono stati il Zentral Institut für Er­ ziehung und Unterricht crea­to a Berlino nel 1915 e l’I. pedagogico di Vienna (1868), l’I. pedagogico J. A. Comenio di Praga (1919), l’I. di Psicologia e Pe­dagogia di Tilburg in Olanda (1915), l’Institute of International Education di New York e l’I. Superiore di Pedagogia di Torino (1941). Bibl.: L’I. educativo assistenziale, Roma, Am­ mini­strazione per le Attività Assistenziali, 1969; The world of learning, London, Europa Publica­ tions, 1986; Annuario DEA delle università e i. di stu­dio e ricerca in Italia, Roma, DEA, 1988.

B. Delgado

ISTITUZIONE: e giovani Per i. si intende un insieme di modelli di comportamento che caratterizzano un deter­ minato gruppo sociale e che gli permet­tono di rispondere ai → bisogni e alle aspi­razioni orientati verso il raggiungimento degli scopi sociali. 1. Presupposti. L’i. assume accezioni diver­se (organizzazione, associazione, comples­so di valori, modelli di comportamento) ma non si confonde con esse. Anzi, le presup­pone, poi­ ché richiede: un determinato li­vello di orga­ nizzazione per il persegui­mento sistematico dei fini predefiniti; l’associazione di persone che svolgono fun­zioni socialmente rilevan­ ti, per esempio nella scuola, negli ospedali,

nei partiti, nel­le cooperative, ecc.; un com­ plesso di → va­lori, usi, costumi e norme che regolano una sfera dell’esistenza sociale; un modello o schema di → comportamento so­ cialmente riconosciuto. 2. Prospettive di base. Due prospettive di base sono all’origine del concetto: una che proviene da una forte associazione tra na­t ura umana e cultura e un’altra dall’asso­ciazione tra valori/fini e cultura. La prima, di orienta­ mento funzionalista, intende l’i. nel quadro dell’analogia tra società e orga­nismi viventi. Le i. sono forme complesse di mediazione simbolica orientate alla re­golamentazione di funzioni generali della vita sociale (ripro­ duzione, → socializzazio­ne, produzione, go­ verno, controllo, ecc.). Esse costituiscono il modo con cui la vita sociale trova continua­ zione nel tempo in quanto la società organiz­ za le strutture orientate alla soddisfazione dei bisogni so­ciali. Il concetto è collegato a quello di ruo­lo e di status: mentre il ruolo è connesso al comportamento che si attende da una per­sona che occupa una determinata posizio­ne nella società, lo status sociale co­ stituisce la condizione dell’insieme dei sog­ getti che assumono ruoli specializzati. L’i. è quindi composta da una struttura complessa di ruoli specializzati o modelli di comporta­ mento che si associano attorno ad un’atti­vità fondamentale o ad un bisogno sociale. La se­ conda prospettiva associa il concetto di i. a quello di cultura, nel senso che gli atti che si compiono sono caratterizzati da motivazioni profonde o disposizioni del bi­sogno indotte dall’interiorizzazione di va­lori e di norme. La cultura tende a orienta­re il soggetto verso determinati valori la cui significatività trova consenso nella società. Essi rappresentano mete da raggiungere, provocano le moti­ vazioni, suscitano i biso­g ni che attivano il soggetto all’azione: la re­golarità delle azioni dà origine a modelli di comportamento che vengono spesso istitu­zionalizzati per dare una risposta organiz­zata ed efficiente ai suoi bisogni. 3. I. e attori sociali. L’i. richiede un mini­ mo di consenso attorno ai valori costituiti a partire dai processi di socializzazione e di interiorizzazione dei valori e dalle pratiche comuni come le norme sociali, i costumi e la moralità. Attraverso tali processi gli at­tori 613

ISTITUZIONI EDUCATIVE

sociali tendono ad assimilare le forme conso­ lidate delle rappresentazioni, dei mo­delli di comportamento, dei ruoli e delle regole che costituiscono l’i. Se, da una par­te, i soggetti della socializzazione vengono condizionati dai modelli istituzionali esi­stenti, come quel­ li familiari, educativi, economici e politici, dall’altra, essi tendono ad innovarli, a dare significato a particola­ri aspetti della cultura da cui derivano nuo­vi riferimenti valoriali e modelli di com­portamento che orientano sia il cambia­mento delle i. che l’insorgere di altre più adatte a rispondere ai bisogni emergenti. 4. L’i. educativa. Soprattutto durante il pe­ riodo evolutivo giovanile, essa svolge una particolare funzione nei processi di so­ cializzazione e interiorizzazione delle nor­ me, delle rappresentazioni e dei valori so­ ciali, il che rinforza il consenso attorno alle i. Essa fornisce ai soggetti un bagaglio cul­ turale che li rende integrati nella società a cui appartengono, ma coglie anche le loro nuove domande e l’emergere di nuovi va­lori e bisogni che tendono ad innovarla e a ren­ derla sempre attuale. Mentre le genera­zioni adulte tendono a esprimere la loro adesione alle i. in forma più accentuata, i → giovani avvertono più spesso l’eventuale rigidità e resistenza delle i. al cambiamen­to. Risultato di un consenso, le i. si forma­no e si trasfor­ mano con gli uomini e con le situazioni; esse si rinnovano o decadono a seconda della loro capacità di rispondere ai bisogni emergenti. 5. La nascita o il cambiamento delle i. Si at­t ua attraverso il processo di istituzionaliz­zazione che può evolversi sia in forma na­t urale che positiva. Nel primo caso esso è il frutto della lenta elaborazione di un qua­d ro di riferimen­ ti valoriali dove vengono codificate le regole, sedimentate le nuove rappresentazioni (usi, costumi e tradizioni) e giuridicamente rico­ nosciuti gli atteggia­menti collettivi. Nel sen­ so positivo la nor­mativa giuridica precede la formazione di una nuova i. che si sviluppa in base ad un costume esistente. Si deve in­ fine considerare che il processo di istituzio­ nalizzazione si presta al controllo sociale sia da parte del sistema politico che educativo, attraverso meccanismi che tendono a rinfor­ zare le i. stabilite e a controllare i processi di socia­lizzazione promossi dalla scuola, dalla fa­miglia e dai mezzi di comunicazione. 614

Bibl.: Freund J., Théorie du besoin, in «L’An­ née Sociologique» (1971) 13-64; Gallino L., La so­cietà. Perché cambia, come funziona, Torino, Para­via, 1980; Garelli F., «I.», in M. Midali - R. Tonelli (Edd.), Dizionario di pastorale giova­ nile, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1989, 468-474; Moscat­ o M. T., «Istituzionalizzazione», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. IV. Brescia, La Scuola, 1990, 6253-6257; Toscano M. A. (Ed.), Introduzione alla sociologia, Mila­ no, Angeli, 71993.

G. Caliman

ISTITUZIONI EDUCATIVE L’insieme delle organizzazioni sociali con specifiche strutture, quadri di riferimento culturali, procedure e modelli di comporta­ mento, a vario titolo riferibili all’aiuto so­ ciale e personale di formazione. Per questo nel linguaggio pedagogico si parla anche di i. formative. Nel linguaggio sociologico e in quello della comunicazione sociale si usa frequentemente la terminologia «agenzie educative» o «agenzie formative». 1. I.e. e responsabilità socio-educativa. Le i.e. rap­presentano l’organizzazione concreta, so­cialmente riconosciuta e per lo più giuri­ dicamente regolata, della responsabilità educativa, sia personale che comunitaria. In questa linea esse vengono ad essere il modo sociale di corrispondere fattivamen­te al di­ ritto/dovere che ogni persona/citta­dino ha di crescere, di svilupparsi e di for­marsi (e da cui derivano i diritti all’educazione, all’istruzio­ ne e allo studio). Le i.e. sono l’ambito in cui, di fatto e di diritto, si realizza l’educazione intenzionale, vale a dire la mole di in­terventi mirati e organizzati al conseguimento delle fi­nalità educative (→ fine dell’educazione). In tal senso rappresentano l’espressione più cospicua dell’educazione formale, rispetto a tutto il mondo dell’educazione non formale, occasionale, infor­male, ecc. 2. I.e. e sviluppo sociale. La storia delle i.e. è parte rilevante della storia dell’educazione e della pedagogia. L’approccio socio-educativo ne fa l’oggetto diretto della sua indagine. A motivo della loro intrinseca in­serzione nel­ la vicenda storica sociale, si può affermare

ISTITUZIONI EDUCATIVE

che c’è una storia e una geografia delle i.e. Come le al­t re i. sociali, anche le i.e. sono soggette ad un processo storico di comples­ sificazione, di mutamento e di specializza­ zione, parallelo e concomitante al grado di sviluppo della vita sociale. Così, in società primitive, si ha la preponderanza educativa dell’i. familiare patriarcale o del clan, accan­ to all’educazione informale nel vissuto della realtà comunitaria; anche se non mancano forme speciali d’iniziazione, come ad es. «la scuola della foresta» in cer­te tribù africane o l’educazione cavallere­sca nel medioevo europeo. In società inter­medie – come nelle società a prevalenza agricola e rurale o dove comunque predo­minano mentalità e modelli comportamen­t ali pre-industriali – accanto alla famiglia prendono rilievo educativo le chiese, in quanto i.e. oltre che etico-religiose, e a ma­no a mano si diffonde la scuola d’ini­ ziativa privata e pubblica. In società di prima in­dustrializzazione e ad incipiente prevalen­ za urbana, la scuola, divisa in ordini e gra­di sempre più vasti e articolati, prende la do­ minanza sulle altre i.e., andando verso forme di istituzionalizzazione di massa, più o meno direttamente controllabili dal potere politico statale, locale o periferico. 3. Il carattere complesso delle i.e. Oltre che per la complessificazione, per così dire contestua­le e storica, le i.e. risultano com­ plesse in se stesse: per l’incrociarsi di strut­ ture, finalità, modi, compiti non tutti dello stesso segno; per le molteplici relazioni non sempre omogenee e coincidenti che intercor­ rono tra loro: ad es. tra scuola e famiglia; tra fa­miglia e gruppi, associazioni, movimenti, tra famiglie e chiese; per i diseguali rapporti con gli altri sotto-sistemi sociali e le loro i.: ad es. con il mondo economico, po­litico, cul­ turale; con l’organizzazione poli­tica, i parti­ ti, i sindacati; con il mondo im­prenditoriale, il mercato internazionale, l’occupazione e la capacità di spesa fami­liare; con gli organi della comunicazione sociale e le nuove stru­ mentazioni informa­t izzate; con le diverse forze organizzate del territorio: anch’esse tutte coinvolte in profondi processi di muta­ mento e di innovazione. Le i.e. danno luogo a complessi giochi d’in­terazioni e di relazio­ ni interne ed esterne. Vi s’intersecano una molteplicità d’in­terventi di tipo giuridico, economico, legi­slativo, politico, culturale,

religioso, ecc. Vi sono persone che agisco­ no ed interagi­scono: con problemi quindi di comunica­zione e di rapporto. Vi è un’«ani­ ma», uno stile, dei metodi diversificati. Ogni i.e. ha poi la sua particolare «cultura». Ac­ canto a quelli propriamente formativi, vi vengono di solito perseguiti fini di altro tipo; sono attraversate da bisogni, interessi, valori di­versificati. 4. Diffusività della funzione educativa nella società contemporanea. I processi storicosociali attuali – che fanno parlare non solo di società post-industriale, ma anche di infosocietà, di società della conoscenza e della comunicazione – mettono in questione l’idea stessa di i.e. Esse perdono i loro esatti confini e la funzione sociale di educazione e di for­ mazione viene compartecipata, in maniera diffusa, da altre i. e forme di vita sociali. In tal senso non solo viene meno il cosiddetto «scuolacentrismo», vale a dire la centralità e la quasi esclusività formativa della scuola, ma si va oltre lo stesso «poli­centrismo for­ mativo», vale a dire l’ammis­sione e la legit­ timità di molteplici luoghi e centri di forma­ zione (famiglia, scuola, chie­se, sistema della comunicazione sociale, gruppi, movimenti, ecc.). La prospettiva di un → sistema formati­ vo integrato coinvolge sul terreno del diritto/ compito sociale e soggettivo di istruzione, formazione e edu­cazione l’intero corpo so­ ciale istituzionalmente organizzato. Accanto alla → fami­glia, alla → Chiesa, alla → scuola, nelle sue varie ed articolate forme storiche, vengono ad assumere vasta rilevanza educa­ tiva, nonostan­te abbiano propriamente altre finalità, le i. connesse con l’organizzazione dell’informazione, della comunicazione so­ ciale, dello spettacolo, del gioco, dello sport, del tempo libero, della prevenzione e della salute pubblica; o an­che all’organizzazione della propaganda economica e politica; o an­ cora ai movi­menti ed alle associazioni ideo­ logiche e re­ligiose; per non parlare delle mol­ teplici forme di educazione informale, che si de­terminano nell’insieme delle interazioni sociali, nelle dinamiche dei gruppi sponta­ nei e dei gruppi di pari in particolare. Si va ben oltre la stessa idea degli anni settanta che parlava di «scuola parallela», riferendosi soprattutto ai mass-media. Scuola, famiglia e Chiesa non sono più le uniche e totali agen­ zie d’educazione e di socializzazione. Esse 615

ISTITUZIONI EDUCATIVE

si praticano e si realizzano in vasta misura anche nel gioco interattivo dei nuovi media e nella multiforme «navigazione» telematica e «virtuale». 5. Le i.e. nella crisi e nell’innovazione del­ la vita e delle i. sociali. Dopo il Rapporto Faure sulle stra­tegie dell’educazione (1973), si è preso a parlare un po’ enfaticamente di «società educante», ma anche di società poco «educativa». In effetti, le i.e. tra­dizionali ri­ sentono delle crisi, delle muta­zioni e delle innovazioni che attraversano le i. sociali e le società storiche nel loro in­sieme, a tutti i li­ velli della vita sociale a fronte di quella che è stata detta con parola alla moda «globalizza­ zione», «post-modernità», «iper-modernità», «modernità liquida». Al­lo stesso tempo por­ tano ancora il peso d’incrostazioni storiche, di privilegi in disuso, di chiusure particola­ ristiche. La stessa con­testazione dell’auto­ ritarismo e del burocraticismo della scuola (contro cui negli an­ni sessanta e settanta si sono mossi i movi­menti della descolarizza­ zione) o l’autoritarismo della famiglia e delle chiese (giudicate spesso arre­t rate, integrali­ stiche, indottrinanti, se non addirittura op­ pressive, soffocanti, autoritarie), sembrano sopravanzati dal timore diffuso della loro insignificanza e incapacità educativa. Le i.e. tradizionali, appaiono infatti, variamente, ma pesantemente coinvolte nelle comples­ se problematiche del pubblico e del privato, del personale e del politico, dei ruoli e del­ l’identità personale, relazionale, culturale, vitale che affetta tutti e ciascuno, persone, gruppi, associazioni, i. sociali a livello loca­ le, nazionale, internazionale, mondiale. 6. I.e., educazione permanente e educazione integrale. Se per un verso viene evidenziato il carattere di «tesoro» che l’educazione vie­ ne ad assumere per sapere, saper fare, saper essere, saper vivere insieme con gli altri in questi non semplici inizi del sec. XXI, come vuole il Rapporto Delors (1997), per altro verso viene ad essere ratificata da molte par­ ti una vera e propria «emergenza educativa», a cui l’intera società dovrebbe corrisponde­ re. A fronte di tale problematicità, la peda­ gogia contemporanea, oltre ad affermare la necessaria integrazio­ne e coerenza tra le i.e., spinge anche a guadagnare una prospettiva formativa di educazione permanente, invi­ 616

tando a dislo­care le opportunità dell’appren­ dimento lungo tutto l’arco dell’esistenza e nelle di­verse età della vita, con alternanza e ricor­renza di periodi di studio e di lavoro (= Lifelong education). Invita a saper appro­ fittare di tutte le occasioni sociali di forma­ zione, quelle dell’educazione formale, ma anche quelle dell’educazione non formale e informale (= on going education). Stimola ad arrivare a forme d’individualizzazione e d’apprendi­mento padroneggiato e al contem­ po invita a praticare forme di apprendimento cooperativo. In una prospettiva di educa­ zione alla con­vivenza democratica, sprona a superare una visione culturo-centrica e socio-centrica della formazione, puntando su un’educa­zione integrale, di tutte le dimen­ sioni dell’esistenza (= Lifewide education), li­ beratrice, interculturale, capace di sostenere forme di vita persona­lizzate e responsabiliz­ zate, eque e solidali, critiche ed in­novative, in un contesto vitale pluralistico, cangiante, multi-culturale, fortemente e costantemente innovativo. 7. Riforma delle i.e. e riforma sociale. Risul­ ta subito evidente che tale compito eccede le possibilità della ricerca e della ri­flessione pe­ dagogica, così come l’azione educativa isola­ ta. Non è solo questione di cambio di didatti­ ca rispetto ai nuovi modi di apprendere lega­ ti alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Occorre anche un serio e preciso impegno socio-politico di riforma culturale e sociale, in modo che sviluppo per­sonale e sviluppo sociale progrediscano e si attuino congruentemente. Ad un livello più alto, forse si richiede anche che l’intera comunità sociale prenda coscienza dell’e­ sigenza di mettersi «in stato di formazio­ne». Infatti, all’accelerato processo di mutamento e di cambio sociale dovrebbe cor­r ispondere il considerare la formazione come tratto ca­ ratterizzante della vita, della cultura e dello sviluppo sociale nella sua globalità, e non solo come obiettivo della generazione adulta nei confronti della generazione in crescita, a cui si deputano le i.e. Peraltro saranno pure da precisare ambiti e cri­teri di intervento e di esercizio con­creto della responsabilità edu­ cativa, sia al­l’interno delle singole i.e., sia a livello di coordinazione tra esse, sia infine a livello di società nazionale, internazionale e mon­diale: un lavoro culturale a cui possono

ISTRUZIONE

da­re il loro specifico contributo le scienze dell’educazione, impegnandosi per una cul­ tura educativa adeguata al tempo presente e a quello futuro. Bibl: Faure E. (Ed.), Rapporto sulle strategie del­ l’educazione, Roma, Armando/UNESCO, 1973; Cresson E. - P. Flynn, Insegnare e apprendere. Verso la società cognitiva, Bruxelles, Commis­ sione Europea, 1996; Delors J. (Ed.), Nell’educa­ zione un tesoro, Roma, Armando, 1997; Scanzio F. (Ed.), La società dell’apprendimento, Roma, Edizioni associate, 1998; Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Cor­ tina, 2001; A ngelini G., Educare si deve ma si può?, Milano, Vita e Pensiero, 2002.

C. Nanni

ISTITUZIONI FORMATIVE → Istituzioni educative

ISTRUZIONE Sistema organizzato da parte della comu­ nità nazionale o locale per promuovere la trasmissione e/o l’elaborazione culturale, la → formazione tecnica e professionale e l’e­ ducazione alla convivenza e alla partecipa­ zione sociale. Sollecita e guida l’acquisizio­ ne di conoscenze o di abilità in altri attra­ verso l’organizzazione di opportuni per­corsi formativi. Dal lat. instruere, «prepa­r are, costruire, insegnare», derivato da struere, «collocare a strati, connettere». L’origine lat. del termine sottolinea il ruo­lo che l’i. ha nel promuovere non solo l’ac­quisizione di co­ noscenze e di abilità in sen­so generico, ma soprattutto nel favorire una loro organizza­ zione interna coerente e permanente. Spesso si identifica il grado di i. di una persona con il livello di studi raggiunto, tuttavia sareb­ be più opportuno tener conto dell’effettivo risultato conse­g uito non solo nello studio scolastico e ac­cademico, ma anche in atti­ vità di appro­fondimento e in esperienze di apprendi­mento meno formali. 1. I. ed educazione pubblica. In Italia nel dopoguerra si è preferito usare l’espressio­ne Ministero della Pubblica I. al posto della più diffusa e precedente «Mini­stero dell’Educa­ zione Nazionale», per ri­spettare meglio la

Costituzione ed evitare equivoci circa il ruo­ lo dello Stato nella de­finizione dei program­ mi e nella gestione pubblica delle scuole. Questa distinzione, molto ragionevole nella sua impostazione originaria, ha condotto a poco a poco a un equivoco: che la → scuo­ la non abbia un compito educativo generale della persona, ma solo un compito istruttivo nei settori culturali e/o professionali. Tutta­ via questa opposizione appare teoricamente e opera­tivamente fuorviante in quanto non si può dare educazione senza i., né i. senza edu­cazione, nel senso che ogni trasmissione culturale e formazione professionale porta in sé esperienze e aperture valoriali e, inol­t re, la vita stessa che si conduce nell’istitu­zione destinata all’i. è inevitabilmente se­g nata da sollecitazioni educative. La pro­mozione cul­ turale e professionale della persona è cioè in­ scindibilmente legata a una sua crescita etica e sociale. Inoltre l’i. attivata come servizio pubblico promosso dallo Stato italiano mira non solo alla for­mazione culturale e profes­ sionale, ma an­che personale, sociale ed etica degli alunni. 2. I. ed educazione. La polemica sopra ac­ cennata può essere superata se si considera da una parte il ruolo dello Stato, dall’altra quello della → comunità educante scolasti­ca e, infine, quello del singolo docente. Certa­ mente lo Stato non è titolare di un progetto educativo totalizzante: la famiglia in parti­ colare ha nei processi educativi un ruolo pri­ mario. Tuttavia, proprio perché i → valori e i principi che guidano la convi­venza civile e democratica sono decisi dal­la comunità na­ zionale su basi consensuali, essi costituisco­ no l’orizzonte educativo in cui con coerenza la comunità educativa scolastica ha il compi­ to e la responsabilità di elaborare un proget­ to educativo che in­terpreti e completi quan­ to indicato dalla Costituzione, dalle leggi e dai programmi scolastici ufficiali. I processi istruttivi, quanto a contenuti e obiettivi, in cui lo Sta­to ha competenza specifica, vanno quindi assunti, riletti e adattati alla popola­ zione scolastica concreta (→ programmazio­ ne educativa/scolastica). 3. I processi istruttivi di base. Lo sviluppo dell’i, è stato un obiettivo fondamentale che lo Stato italiano è tenuto a perseguire. Essa è un diritto-do­vere dei cittadini al fine di par­ 617

ISTRUZIONE

tecipare a pieno titolo alla vita democratica, sociale, economica e produttiva della nazio­ ne. L’i. obbli­gatoria è diventata quindi un problema centrale per lo sviluppo non solo sociale e culturale, ma anche economico e finanzia­r io. Nell’Ottocento si è individuato un li­vello minimo di tre anni di i. obbliga­ toria. Tale livello è stato progressivamente in­nalzato a otto anni, secondo il dettato co­ stituzionale. Sono in atto iniziative parla­ mentari per portare a dieci anni tale obbli­go oppure fino al compimento dei sedici anni. La tendenza però è verso il prolungamento fino ai diciotto anni. La condizio­ne di fatti­ bilità e di validità formativa di ta­li progetti è data dal livello di flessibilità e di articola­ zione del → sistema formativo, piuttosto che dalla uniformità e dalla uni­cità dei percorsi educativi scolastici. 4. Per una teoria dell’i. Teorie generali sul­ la scuola e sui suoi compiti educativi si so­ no succedute nel tempo. Si possono citare le ampie elaborazioni sviluppate da → Herbart, da → Willmann, da → Hessen. Negli anni cin­ quanta si è manifestata una diffusa nuova sensibilità per lo studio dei processi istrutti­ vi. Tale sensibilità era particolar­mente solle­ citata dalle trasformazioni so­ciali, economi­ che ma soprattutto tecnolo­giche che si suc­ cedevano con ritmo cre­scente. Una scuola di massa protratta nel tempo e adatta a formare cittadini compe­tenti e capaci di partecipazio­ ne esigeva un ripensamento non solo dell’im­ pianto disci­plinare, ma soprattutto di come andavano considerate e valorizzate le varie → di­scipline da includere nel curricolo di stu­ di. Una proposta influente venne da Bruner (1967), che sintetizzò efficacemente i risul­ tati di studi e ricerche degli anni cinquanta e sessanta. Si trattava di individuare i nu­clei portanti, le idee generatrici, i principi di svi­ luppo che costituiscono la struttura portante delle varie discipline e concentra­re 1’ → inse­ gnamento su questi elementi es­senziali, più che disperdersi in una molte­plicità sconnessa di nozioni e conoscenze particolari. In realtà gli sviluppi concreti dei programmi di studio italiani varati negli anni settanta e ottanta hanno seguito un orientamento diverso, non solo moltipli­cando le discipline di studio, ma anche esa­gerando nella indicazione dei loro conte­nuti. E. Morin (2000) ha insistito sul­ la necessità di favorire lo sviluppo di una 618

«testa ben fatta, piuttosto che una testa ben piena», rispettando l’adagio tradizionale di insegnare «non multa sed multum». Questa indicazione pur accettata in linea teorica, non ha trovato in genere molto spazio pra­ tico. Ha prevalso la richiesta degli stu­diosi delle differenti discipline di dare spa­zi ade­ guati e autonomi a ciascuna di esse, riman­ dando a ipotetiche operazioni di scel­ta e or­ ganizzazione concreta dell’impianto genera­ le formativo affidate ai Collegi dei docenti e ai Consigli di classe. L’indicazio­ne come­ niana di insegnare tutto a tutti è stata presa troppo alla lettera in tempi e realtà culturali assai diversi. 5. Forme di i. La teoria dell’i. distingue in genere varie forme concrete di i. Molte di queste si connettono con quanto passa sot­to il titolo di → metodi didattici e di → didatti­ ca. Tuttavia alcune distinzioni pos­sono essere prese in considerazione in que­sto contesto. La prima concerne la distin­zione tra i. diretta e i. indiretta. Come gli aggettivi indicano chia­ ramente, il primo ti­po di i. mira direttamente ed esplicitamen­te a insegnare concetti e abili­ tà specifici. Esso si presenta in genere come diretto al­l’intera classe e centrato sull’inter­ vento espositivo e valutativo dell’insegnante, che espone i vari argomenti, pone domande o interroga gli alunni, sollecita l’esercizio, cor­ regge gli errori, riassume gli argomenti svi­ luppati, verifica le acquisizioni raggiun­te dai singoli. Un insegnamento indiretto si presenta in genere come basato su una ri­cerca guidata dal docente, che partendo da problemi chiara­ mente individuati, sollecita l’indagine autono­ ma sia dei singoli sia di piccoli gruppi oppor­ tunamente organizza­ti. L’insegnante sostiene il lavoro indivi­duale o di gruppo, facilitando la ricerca delle informazioni, la loro verifica e valorizzazione, il confronto tra le conclu­ sioni via via raggiunte, l’organizzazione fi­ nale delle conoscenze acquisite. Bibl.: Willmann O., Didattica come teoria della cultura, Brescia, La Scuola, 1962; Bruner J. S., Verso una teoria dell’i., Roma, Armando, 1967; Bertoldi F., Teoria siste­mica dell’i., Brescia, La Scuola, 1977; Vertecchi B., La qualità dell’i., Torino, Loescher, 1978; Tornatore L. et al., In­ segnamento: contenuti e metodi, Milano, ISEDI, 1978; Bottani N., La ri­creazione è finita: dibatti­ to sulla qualità dell’i., Bo­logna, Il Mulino, 1986;

ISTRUZIONE PROGRAMMATA

R avaglioli F., Fisionomia dell’i. attuale, Roma, Armando, 1986; Laporta R. (Ed.), Le ragioni dell’i., Roma, Istituto della Enci­clopedia Italia­ na, 1987; Cedrone C. (Ed.), Centra­lità e qualità dell’i., Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1990; Morin E., La testa ben fatta, Milano, Cortina, 2000; Sandulli A. M., Il sistema nazionale di i., Bolo­ gna, Il Mulino, 2004; Bertagna G., Il pensiero manuale. La scommessa di un sistema educativo di i. e formazione professionale di pari dignità, Soveria Mannelli, Rubettino, 2006.

M. Pellerey

ISTRUZIONE DIRETTA In genere con i.d. (direct instruction) viene inteso un metodo didattico in cui l’inse­ gnante è il protagonista principale, colui che dirige, modella, controlla, riceve e for­ nisce feedback correttivi e aiuta a raggiun­ gere il comportamento desiderato di fatti e di sequenze di azioni. Il termine, che è ap­ parso nella letteratura educativa alla fine del secolo scorso, è usato con altri termini si­ mili come: systematic teaching, explicit in­ struction, explicit teaching, active teaching, effective teaching. 1. Tutti questi termini insistono sul fatto che «se vuoi che lo studente impari qualco­ sa, insegnaglielo direttamente». Il metodo ha conseguito un’ampia diffusione e secon­ do Rosenshine (1995) può assumere diver­si aspetti: l’i. condotta dall’insegnante, le pro­ cedure per un insegnamento efficace, quel­ le utilizzate per insegnare delle strate­g ie cognitive, quelle usate per l’i. di proces­si di aritmetica e lettura e la situazione di appren­ dimento condotta dall’insegnante mentre gli studenti assistono passivamen­te. L’i.d. non ha una definizione ufficiale e definitiva. Per Duffy e Roehler, essa signi­fica «una parti­ colare attenzione alla scuola, una sequenza precisa del contenuto, un elevato impegno e coinvolgimento degli studenti, un attento e costante controllo, un feedback correttivo dato agli studenti» (1986, 35). Nonostante i vari significati e usi del termine, si può dire globalmente che il metodo dell’i.d. si propo­ ne l’obietti­vo di insegnare allo studente come fare qualcosa e come apprendere in modo si­ gnificativo qualche contenuto.

2. L’i.d. richiede fondamentalmente lo svolgi­ mento di alcune funzioni (Rosenshi­ne, 1986; Rosenshine-Meister, 1995): a) la revisione e il controllo del lavoro eseguito nella lezione precedente (ri-insegnamento se necessario) o la presentazione di quello che deve essere appreso, sia esso un conte­nuto o un processo mentale in piccoli passi; b) la pratica guidata dall’insegnante attra­verso un pensare ad alta voce (modeling) con verifica della → com­ prensione, sugge­rimenti per superare le dif­ ficoltà che si incontrano, domande e risposte; c) il feed­back, le correzioni e le ripetizioni se è ne­cessario; d) la presentazione di pre­ stazioni esemplari del compito; e) la pratica indi­pendente in cui lo studente mette in atto ciò che ha imparato mentre l’insegnante sor­ veglia e controlla l’esecuzione; f) la re­visione settimanale o mensile. Bibl.: Duffy G. G. - L. R. Roehler, The subtle­ ties of instructional mediation, in «Educational Lea­dership» 43 (1986) 23-27; Rosenshine B. V., Synthesis of research on explicit teaching, in «Edu­cational Leadership» 43 (1986) 145-153; Rosenshi n ­ e B. V. - C. Meister, «Direct instruc­ tion», in L. W. A nderson (Ed.), International encyclopedia of teaching and teacher education, Oxford, Pergamon Press, 1995, 143-149.

M. Comoglio

ISTRUZIONE ELEMENTARE → Scuola → Si­ stema formativo ISTRUZIONE OBBLIGATORIA → Scuola → Sistema formativo ISTRUZIONE POSTSECONDARIA → Scuola → Sistema formativo ISTRUZIONE PRIMARIA/SECONDARIA → Scuola → Sistema formativo

ISTRUZIONE PROGRAMMATA L’i.p. è una delle tecniche didattiche che han­ no riscosso maggior successo a livello mon­ diale a partire dagli anni ’50. La letteratura sull’argomento è vastissima. L’i.p. è legata ai nomi di S. L. Pressey che, a par­tire dal 1924, inventò, insieme ai suoi colla­boratori, un dispositivo di autoistruzione (teaching machines), e di altri due statuni­tensi, → B. F. Skinner e N. Crowder. Essa, di difficile de­ finizione, può essere considerata come una 619

ISTRUZIONE PROGRAMMATA

tecnica dell’autoapprendimento che compor­ ta una programmazione strutturata, costruita cioè con particolari sequenze pro­g rammate in progressione logica e con massima gra­ duazione delle difficoltà, che consentono allo studente di procedere se­condo il proprio ritmo verificando imme­diatamente l’esattez­ za o meno delle rispo­ste date. Le sequenze si distinguono in li­neari e ramificate e posso­ no presentarsi sotto forma di libro, fascicoli, schede, di­schetti, quindi con supporto mec­ canico o elettronico. 1. Skinner e i programmi «lineari». Skinner è l’esponente del programma chiamato «li­ neare» che viene costruito in base a quat­ tro principi: a) della partecipazione attiva per cui provoca una risposta da «costruire» da parte dell’alunno come completamento di un’informazione o un’asserzione; b) dei piccoli passi (step by step) secondo cui ogni passo corrisponde a un riquadro ( frame) e ad una unità di contenuto ridottissima (item) c) del feedback continuo, ossia del­la cono­ scenza immediata dei risultati me­d iante il confronto con la risposta-model­lo; d) del rispetto del ritmo di apprendi­mento di cia­ scun alunno. Skinner, secondo la teoria del rinforzo, crede che le risposte ripetutamente giuste rinforzino/gratifichi­no l’apprendi­ mento e perciò, non volendo che l’alunno sia indotto in errore, i programmi devono esse­ re costruiti in modo da assicurare almeno un successo del 90%. 2. Crowder e i programmi «ramificati» o «in­ trinseci». Crowder, pur accettando i principi della risposta attiva e della confer­ma imme­ diata delle risposte giuste, propo­ne, a diffe­ renza dei programmi lineari, un modello di programmazione articolata e flessibile, ossia programmi plurisequenziali chiamati «rami­ ficati» (branching programs) o «intrinseci» (intrinsic programs) corrispondenti alle ri­ sposte scelte. L’indi­vidualizzazione avviene non solo secondo il ritmo di ciascuno, ma anche permettendo a ciascuno un percorso differenziato in ba­se ai risultati che egli man mano consegue. Di qui il cosiddetto «libro mischiato» (scrambled book) il quale, pur avendo la numerazione ordinaria delle pa­ gine, prevede un ordine di lettura personale secon­do la sequenza dipendente dalle proprie scelte. Infatti, in ogni frame, accanto alle al­ 620

ternative della scelta multipla, viene in­dicata la pagina del rinvio. A seconda del modo di indicare la risposta-modello si parla di libri a programmi verticali, cioè con la risposta esatta posta accanto all’u­nità successiva, o di testo orizzontale, che pone la risposta esatta nella pagina suc­cessiva. 3. La tecnica. La tecnica dell’i.p. non si pre­sta allo stesso modo per tutte le materie di stu­ dio. I programmi skinneriani, di unisequen­ zialità assoluta, si prestano maggior­mente per introdurre gli alunni negli ar­gomenti nuovi, soprattutto elementari e fondamen­ tali, quelli crowderiani per l’autoapprendi­ mento delle conoscenze com­plesse, mentre quelli di Pressey, di linearità a scelta multi­ pla, sono più indicati per il riepilogo, l’eser­ cizio o il recupero e non co­me materiale di autoapprendimento vero e proprio. Il compu­ ter, di uso sempre più dif­f uso oggi, facilita enormemente la costru­zione e l’impiego di tali programmi. La lo­gica dell’i.p., con la sua rigorosa program­mazione delle sequenze di apprendimento, è il prototipo della tecno­ logia dell’insegna­mento, nel senso che per ogni unità si pro­g rammano minuziosamen­ te i microele­menti di obiettivo, contenuto, strategia di­dattica, controllo. Tale tecnica, perciò, rappresenta una perfetta realizza­ zione di → algoritmi didattici: accertamento delle condizioni di ingresso, definizione dei com­piti/obiettivi, riordinamento sequenzia­ le dei contenuti, prove di verifica. La tecni­ ca dell’i.p., senza dubbio, contribuisce alla strutturazione logica dei contenuti didatti­ci, all’individualizzazione, ad una nuova con­ cezione della valutazione, alla chiarez­za e all’essenzialità dell’informazione for­nita. Se ha riscosso tanto successo ciò è do­v uto pro­ prio a queste caratteristiche a cui la didattica deve prestare attenzione, pur non risolven­ done tutti i problemi. Infatti lascia scoperte importanti aree: la promozione del pensiero divergente, la creatività, la socializzazione. Essa va quindi integrata con il metodo della ricerca (che incoraggia l’iniziativa culturale), con la creatività, con l’assunzione di respon­ sabilità, ecc. Bibl.: Gavini G., Manuel de formation aux tech­ niques de l’enseignement programmé, Paris, 1965; Skinner B. F., The technology of teach­ ing, New York, 1968; Pocztar J., The theory and

ISTRUZIONE SUPERIORE

practice of programmed instruction. A guide for teachers, Pa­r is, ESF, 1972; Vaccaroni F., «L’i.p.: aspetti, pro­blemi, prospettive», in E. Bernacchi Cavallini et al., Il modo nuovo di fare scuola, Milano, Fab­bri, 1978,141-193; Ferrández A. - J. Sarramona - L. Tarín, Tecnología didáctica. Teoría y práctica de la programación escolar, Barcelona, CEAC, 41979.

H.-C. A. Chang

ISTRUZIONE RELIGIOSA → Educazione reli­ giosa → Religione

ISTRUZIONE SUPERIORE Considerando il → sistema formativo arti­ colato per livelli di i., si parla di i.s. con ri­ ferimento al terzo livello che comprende la formazione postsecondaria e l’i. universi­ taria destinata ai soggetti di età 20-24 anni. Secondo le statistiche annuali dell’Unesco, la registrazione dei dati quantitativi (istitu­ zioni, insegnanti, studenti) relativamente all’i. al terzo livello va riferita alle → uni­ versità, alle istituzioni equivalenti alle uni­ versità, ad altre istituzioni di terzo livello non universitarie. 1. Le università italiane sono per lo più sta­ tali e godono di autonomia amministrati­ va e didattica. Il Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica svolge un ruolo di supervisione, ha com­ piti di indirizzo e di programmazio­ne, non di gestione diretta delle risorse. L’accesso all’università è possibile per tut­t i coloro i quali escono dalla scuola secon­d aria di se­ condo ciclo (o grado), avendo conseguito il diploma di Stato di maturità, o titolo equi­ valente (licenza liceale euro­pea, baccalau­ reato internazionale, diploma secondario straniero riconosciuto). Tutta­v ia chiunque abbia superato il venticin­quesimo anno di età può iscriversi ai corsi universitari anche senza il completamento della scuola se­ condaria (L. 910/1962). La durata dei corsi varia da tre (es. fa­coltà umanistiche) a sei anni (es. medicina) ed al termine viene ri­ lasciato il titolo di dottore ed il diploma di laurea nella disci­plina specifica. Importanti cambiamenti sono stati introdotti con il d. m. 509/1999 di riforma della didattica uni­

versitaria, sintetizzata nella formula «3+2», e con il d. m. 270/2004 che ha modificato alcune delle norme precedenti. Gli obietti­ vi della riforma sono: creare un sistema di studi articolato su due livelli di laurea; per­ mettere agli atenei di definire in autonomia gli ordinamenti didattici dei corsi di studio; facilitare la mobilità degli studenti; ridurre i tempi di conseguimento del titolo e gli ab­ bandoni; dare contenuti professionalizzanti ai corsi di studio. Lo spazio europeo dell’i.s. delineato nella Dichiarazione di Bologna (1999) promuove l’allargamento e l’intensi­ ficazione dei rapporti tra i Paesi dell’Unione europea, partendo dal nucleo fondamentale dato dalla conoscenza. I Consigli Europei di Lisbona (2000) e Barcellona (2002) deli­ neano le strategie politiche per una econo­ mia competitiva, dinamica, basata su infor­ mazione, formazione e coesione sociale, da attuare entro il 2010. 2. Fanno parte dell’ordinamento universi­ tario le Scuole dirette a fini speciali (es.: Educatori di comunità; Educatrici profes­ sionali; Assistenti sociali) e le Scuole per diplomi universitari (es.: Abilitazione alla vigilanza nelle scuole elementari) trasfor­ mate in corsi di laurea con la riforma uni­ versitaria del 1999. Tra le altre istituzioni che forniscono una forma­z ione superiore postsecondaria, con rilascio di una laurea di primo livello, vi sono gli Istituti di i.s. artistica (es.: Accademie di Belle Arti); il precedente Istituto supe­riore di educazione fisica (ISEF) è stato trasformato in Istituto universitario di scienze motorie (IUSM). Gli studi post-laurea pre­vedono il Dottora­ to di ricerca, le Scuole di specializzazione, i Corsi di perfezionamento, i Master di I e di II livello. Bibl.: Chistolini S., «Sistemi educativi nei pae­ si della Comunità Europea», in M. Laeng (Ed.), Atlante della peda­gogia: I luoghi, vol. 3, Napoli, Tecnodid, 1993, 245-462; Segre M., Accademia e società: conversazioni con Joseph Agassi, Sove­ ria Mannelli, Rubbettino, 2004; A lma Laurea, Condizione occupazionale dei laureati. Pre e post riforma. VIII Indagine 2005, Bologna, Alma Laurea, 2006; Tognon G. (Ed.), Una dote per il merito. Idee per la ricerca e l’università italiane, Bologna, Il Mulino, 2006.

S. Chistolini 621

ITALIA: SISTEMA DI ISTRUZIONE E DI FORMAZIONE

ITALIA: sistema di istruzione e di formazione Il tema è affrontato in una prospettiva si­ stemica: in altre parole, lo si è analizzato nell’ottica dei modelli di sviluppo dell’edu­ cazione a livello internazionale e nazio­nale. 1. Un cammino lento e faticoso. Il punto di partenza è la L. Casati del 1859 che rap­ presenta il primo progetto globale di → si­ stema di educazione e di formazione. Essa prevedeva una scuo­la elementare di 4 anni e un obbligo di 2 in tutti i comuni e di 4 in quelli con più di 4000 abitanti (una norma che per lungo tempo ha trovato grosse difficoltà di attuazione a causa dei problemi finanziari dei Comuni stessi), mentre l’educazione se­ condaria era organizzata sulla base della di­ cotomia tra scuole umanistiche, centrate sul­ la cultura classica e aperte all’università, per la for­mazione della classe dirigente, e scuole tec­n ico-professionali senza sbocchi o con sbocchi ristretti sull’educazione superiore, per preparare la piccola borghesia agli im­ pieghi medi e bassi e alle mansioni ese­cutive specializzate. Un’altra tappa fonda­mentale è costituita dalla Riforma → Gen­tile (1923). La grave crisi economica suc­cessiva alla prima guerra mondiale aveva provocato un aumen­ to notevole della di­soccupazione intellettua­ le; pertanto, uno degli obiettivi principali del provvedimen­to fu l’istituzione di meccani­ smi per la di­fesa dell’educazione secondaria e superiore dall’affollamento. Inoltre, nelle elementari vennero introdotti i metodi attivi e nella secondaria fu potenziata la dimen­ sione sto­r ico-letteraria, artistica e filosofica rispetto agli indirizzi scientifici e tecnici. Contem­poraneamente la riforma assicurava un’e­stesa esposizione delle masse giovanili alla socializzazione politica a servizio del regi­me fascista nelle scuole complementari, poi trasformate in avviamento professiona­ le. Un vero salto di qualità venne compiuto dal­la Costituzione repubblicana (1947) che in­serì il sistema di educazione e di formazio­ ne in un quadro nuo­vo di principi. L’ordina­ mento scolastico è finalizzato al pieno svi­ luppo della persona umana all’interno di una concezione plura­lista della società e svolge la sua funzione in connessione inscindibile con l’attività delle comunità naturali e delle formazioni sociali in cui avviene la matura­ 622

zione del­la persona, soprattutto con la fami­ glia. Inoltre, esso va organizzato secondo i prin­cipi di libertà, di eguaglianza sociale e di democrazia; tuttavia, la loro attuazione è avvenuta lentamente e tra vari ostacoli. Negli anni ’50-’70 è prevalso un modello li­neare e semplice di educazione fondato su presup­ posti di quantità, unicità, centraliz­zazione. Durante il periodo accennato si è assistito a un’esplosione della domanda di scolarizza­ zione, si è passati da una scuola elitaria a una di massa in particolare attra­verso l’introdu­ zione della media unica (1962) e lo Stato si è sforzato di adeguare il sistema formativo alle richieste del paese, dando priorità alle fasce giovanili, senza però riuscire a sod­ disfare pienamente e in modo tempestivo le esigenze emergenti. Le tendenze che sono emerse durante gli anni ’80 puntano verso un modello com­plesso, ispirato ai principi della qualità, del­la differenziazione e per­ sonalizzazione dei servizi, della molteplicità delle risorse for­mative, del decentramento. Tali orientamenti hanno trovato attuazione prevalentemente attraverso ini­ziative poco appariscenti e limitate, però fattibili, avviate dal basso e dal centro nel­la forma della spe­ rimentazione. Nel periodo considerato non sono tuttavia mancate le grandi riforme: è sufficiente pensare all’ap­provazione dei nuo­ vi programmi (1985) e del nuovo ordinamen­ to (1990) delle ele­mentari, all’introduzione nel 1991 dei nuo­vi orientamenti della scuola materna stata­le. 2. La recente stagione delle riforme. A partire dalla metà degli anni ’90 la riforma del siste­ ma di educazione e di formazione è divenuta assolutamente necessaria e urgente non solo per le carenze interne della nostra scuola, ma anche per lo scenario radicalmente diverso in cui esse vengono a operare, quello cioè della → società della conoscenza. Nelle L. di riforma, la 30/00 e la 53/03 rispettivamente dei ministri Berlinguer e Moratti, si possono cogliere alcuni orientamenti da tutte e due condivisi. In primo luogo, viene fornita una definizione alta delle mete da perseguire che si fonda sulla centralità delle persona che apprende. La L. «Moratti» perfeziona tale dettato, aggiungendo che la riforma dovrà rispettare le scelte educative della → famiglia e soprattutto che andranno favorite la for­ mazione spirituale e morale. Inoltre, tutte le

ITARD JEAN MARC GASPARD

ipotesi di cambiamento avanzate tendono a ridisegnare l’architettura complessiva del si­ stema, conferendogli una nuova organicità e unitarietà. Va anche notato lo sforzo comune di allineare la nostra scuola e la nostra forma­ zione a quelle degli altri Paesi dell’Europa. Tra le due L. si osservano anche delle inte­ ressanti linee evolutive. Così non si può non evidenziare che solo nella L. 53/03 si viene incontro in maniera adeguata alle esigenze di sviluppo dei giovani: infatti, con il ripri­ stino della durata ottennale del primo ciclo si valorizza pienamente la specificità delle età evolutive della fanciullezza e della preadole­ scenza e, prevedendo un percorso graduale e continuo di formazione professionale pa­ rallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, si risponde per la prima volta in modo soddisfacente alle esigenze di for­ mazione degli adolescenti e dei giovani che hanno l’intelligenza nelle mani. La L. 53/03 porta in primo piano il principio della per­ sonale responsabilità educativa degli alunni e delle famiglie mediante l’introduzione dei piani di studio personalizzati. Inoltre, essa recepisce il passaggio da un modello fonda­ to sulle esclusive prerogative dello Stato ad uno che fa interagire in maniera integrata tre diverse → competenze: quella dello Stato, quella delle Regioni e degli enti territoriali e quella delle istituzioni scolastiche autonome. L’evoluzione però non è completa per quanto riguarda il riconoscimento effettivo del di­ ritto alla → libertà di educazione. In disconti­ nuità con il recente passato, il Ministro della Pubblica Istruzione del governo di centro-si­ nistra del 2006 ha dichiarato di non avere in animo di elaborare una riforma complessiva del sistema. Questo significa che il quadro generale di riferimento rimane la riforma Moratti, anche se è intenzione dell’esecuti­ vo di apportare il massimo di innovazioni consentite dal fatto di procedere mediante i decreti attuativi di una legge delega. In parti­ colare per il secondo ciclo, è stata bloccata la sperimentazione del disegno delineato dalla L. 53/03 e sono stati prorogati di 18 mesi i decreti legislativi non scaduti della riforma Moratti. Con un accordo contrattuale è stata disapplicata l’attuazione del tutor e il portfo­ lio, là ove si prevede di adottarlo, lo si realiz­ zerà solo per i suoi aspetti formativi, didatti­ ci e di supporto ai processi di apprendimento degli allievi. Inoltre, è stato elevato di due

anni l’obbligo di educazione, cioè fino ai 16, sono stati ripristinati gli istituti tecnici e gli istituti professionali sono stati riportati all’in­ terno del sistema dell’educazione secondaria superiore. Sul lato positivo vanno ricordate sia l’introduzione dei poli tecnico-profes­ sionali, sia l’agevolazione delle donazioni in favore delle istituzioni scolastiche statali. In conclusione, se alla riforma Moratti si pote­ va rimproverare di aver avviato innovazioni senza coinvolgere in maniera soddisfacente le componenti della scuola e senza preparare in modo adeguato gli operatori, gli interventi del governo di centro-sinistra si presentano come una specie di controriforma strisciante tendente ad eliminare alcune tra le innova­ zioni più significative della L. 53/03 come la parità tra il sottosistema dell’istruzione e quello dell’istruzione e della formazione pro­ fessionale. Bibl.: De Vivo F., Linee di storia della scuola ita­ liana, Brescia, La Scuola, 1983; Ber­toni Jovine D., La scuola italiana dal 1870 ai gior­ni nostri, Roma, Editori Riuniti, 21987; Nanni C., La ri­ forma della scuola: le idee, le leggi, Roma, LAS, 2003; Malizia G., «La L. 53/2003 nel quadro del­ la storia della riforma scolastica in Italia», in R. Franchini - R. Cerri (Edd.), Per una istruzione e formazione professionale di eccellenza, Mila­ no, Angeli, 2005, 42-63; Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commis­ sione Cultura, Scienza e Istruzione. Camera dei Deputati (29 giugno 2006), Roma, 2006; Tonini M., Editoriale, in «Rassegna CNOS» 22 (2006) 3-16.

G. Malizia

ITARD Jean Marc Gaspard n. a Oraison, Provenza, nel 1775 - m. a Pa­rigi nel 1838, psicologo francese. 1. Allievo di Pinel e seguace di Condillac, I., considerato uno dei primi autori a dare inizio allo studio scientifico dell’orecchio, dopo aver lavorato all’Ospedale militare di Parigi e successivamente alla scuola milita­re di Val-de-Grâce, redige nel 1821 un Trattato di malattie dell’orecchio e dell’u­dito ricco di casi clinici accuratamente stu­diati che rap­ presenta il primo testo vera­mente completo 623

ITARD JEAN MARC GASPARD

di otologia. Il suo interes­se per i disturbi dell’udito e della parola, nonché per la redu­ cazione dei deboli men­tali, fu risvegliato nel 1789 dal ritrovamen­to nei boschi di Aveyron di un «bambino selvaggio». 2. I. si dedica così alla reducazione del bam­ bino di Aveyron, considerato da Pinel un «idiota incurabile». Dopo 5 anni, I. che aveva attribuito lo stato del bambino sel­vaggio alla totale mancanza di azione edu­cativa e che si era riproposto di offrirgli un’educazione e di condurlo alla vita so­ciale abbandonò il suo compito conside­rando insufficienti e de­ ludenti i risultati ot­tenuti. Nonostante i suoi sforzi non era in­fatti riuscito a promuovere nel bambino di Aveyron i progressi sperati che si limitava­no essenzialmente alla acqui­ sizione di al­cune semplici discriminazioni sensoriali, al riconoscimento degli oggetti, alla com­prensione del significato di alcu­ ne parole, alla capacità di collegare nomi a oggetti, nonché a quella di scrivere qualche parola e soprattutto alla tendenza a preferire il contatto sociale all’isolamento. Il bambino, raggiunta la pubertà, non sembrava inoltre ulteriormente educabile. Da questo mo­mento in poi I. si dedicherà, come medico dell’Isti­

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tuto per i sordomuti di Parigi, all’e­ducazione e istruzione dei sordomuti. 3. I suoi scritti, e i procedimenti adottati nella reducazione del «bambino selvag­gio», esercitarono una forte influenza sul suo al­ lievo Séguin e in particolare su → Montes­ sori, che proprio da I. riprenderà gran parte del suo materiale didattico e dei suoi giochi educativi. Bibl.: a) Fonti: I.J., Les premiers développe­ ments du sauvage de l’Aveyron (1801); Id., Traité des maladies de l’oreille et de l’audition (1821). b) Studi: M assimi P. (Ed.), Il fanciullo selvaggio dell’Aveyron, Roma, Armando, 1980; Moravia S., Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron: pedagogia e psichiatria nei testi di J. I., Ph. Pinel e dell’ano­ nimo della «Décade», Bari, Laterza, 1972; Genovesi G. (Ed.), Rileggendo I. Problemi educativi e prospettive pedagogiche dei Memories, Milano, Adda, 2001; A nnacontini G., Victor e I. tra na­ tura e cultura, Ibid., 2002.

F. Ortu - N. Dazzi

ITINERARIO → Procedimento didattico → Pro­ cesso educativo

J JAMES William n. a New York nel 1842 - m. a Chocorua (New Hampshire) nel 1910, filosofo e psi­ cologo statunitense. 1. Nato in una agiata e raffinata famiglia di intellettuali segue negli anni della prima giovinezza la famiglia in numerosi viaggi in Europa e compie in parte la sua formazio­ ne scolastica in Francia e in Svizzera. Dila­ niato tra vocazioni artistiche e scientifiche, tormentato dalla esigenza di conciliare la sua forte propensione al misticismo con il pensie­ ro scientifico frequenta dapprima la Lawren­ ce Scientific School ed entra poi nel 1863 alla Harvard Medicai School. Dal 1865 trascorre 18 mesi in Germania dove approfondisce lo studio della medicina. Dopo la laurea (1869) attraversa un perio­do di profonda depressio­ ne, che lo porterà alle soglie del suicidio; la­ vora tra il 1873 e il 1876 all’Harvard College come istruttore di anatomia e di fisiologia e, nonostante la sua scarsa propensione per il lavoro speri­mentale, apre quello che è con­ siderato il primo laboratorio di psicologia degli Stati Uniti. Inizia, nonostante le sue perplessità sulla condizione prescientifica della → psico­logia, da lui paragonata alla «fi­ sica prima di Galileo e alla chimica prima di Lavoi­sier» a tenere dei corsi di psicologia in cui discute in particolare i rapporti tra biolo­gia, fisiologia e psicologia. Nel 1885 è no­minato professore di filosofia e, tra il 1889 e il 1897, insegna psicologia. Nel 1890 pub­ blica la sua opera principale The principles of psychology.

2. Abbandonato il suo interesse sistematico per la psicologia, J. si dedica alla filosofia, divenendo uno dei principali esponenti del pragmatismo americano. Continua tuttavia a occuparsi di psicologia, pubblicando tra l’altro una versione ridotta dei Principles e proponendo in Talks to teachers on psychol­ ogy and to students on some of life’s ideals (1902), una applicazione in campo pedago­ gico delle sue tesi filosofiche e psi­cologiche. Nuovamente in Europa, tiene ad Edimburgo una serie di conferenze, le Gifford Lectures, che saranno pubblicate con il titolo The vari­ eties of religious experience: a study on hu­ man nature (1902). Nel 1905 partecipa al V congresso di psicologia a Roma, presentando una relazione sulla «Nozione di coscienza». Negli ultimi anni pubblica im­portanti ope­ re di filosofia, tra cui A pluralistic universe (1909), fortemente influenzata dal pensiero del filosofo francese H. Berg­son. 3. Nella sua opera principale, The princi­ples of psychology, considerato il classico della psicologia statunitense, J. applica alla com­ prensione dei fenomeni psichici un metodo insieme fenomenologico e genetico-funzio­ nale di matrice darwiniana. Dopo aver soste­ nuto che la psicologia è una scienza naturale e che soltanto una cono­scenza del funziona­ mento nervoso e cere­brale può consentire una conoscenza profonda delle nostre idee, propone una spie­gazione degli eventi men­ tali in termini fi­siologici. La memoria viene così spiegata in termini di vie cerebrali e le emozioni ven­gono interpretate sulla base della teoria (nota come teoria di J.-Lange), 625

JOVELLANOS MELCHOR GASPAR DE

già formu­lata nel 1884 nell’articolo What is an emotion? Identificando l’emozione con le sen­sazioni somatiche che la accompagnano, J. sosteneva essenzialmente che tali mani­ festazioni somatiche precedono e rendono possibile l’emozione, che diventa così con­ sapevolezza (psicologica) dello stato cor­ poreo alterato venuto progressivamente ad instaurarsi. Sulla base di un empirismo ra­ dicale, inteso come accettazione della va­ rietà e ricchezza delle forme dell’esperien­za oltre che della centralità dello studio del fun­ zionamento del sistema nervoso, J. so­stiene la necessità di integrare i dati otte­nuti con l’introspezione con quelli derivan­ti dall’uti­ lizzazione rigorosa dell’osserva­zione di la­ boratorio e del metodo com­parativo, e dà inizio a quello spostamento dall’analisi della coscienza allo studio del comportamento che porterà al comporta­mentismo watsoniano. Secondo J., inoltre, la mente è sempre impe­ gnata in una atti­vità di scelta e la coscienza, «che è sempre più interessata ad una parte del suo ogget­to che ad un’altra e accetta, respinge o sce­glie continuamente ciò che pensa [...] è ca­ratterizzata dal perseguimento di mete fu­t ure e dalla scelta dei mezzi per rag­g iungerle». La coscienza dunque (che fa­rebbe la sua comparsa nell’uomo come strumento di adattamento all’ambiente) può adeguatamente essere descritta dalla meta­ fora di un fiume che scorre. In pole­mica con l’elementismo degli strutturalisti, J. propone quindi il concetto di flusso di coscienza, di un continuum cioè, in peren­ne mutamento, non ulteriormente scompo­nibile e analizza­ bile. Ritiene inoltre che un costituente fon­ damentale della coscienza personale, che è possibile cogliere utiliz­zando il ricorso all’introspezione, sia rap­presentato dal Sé empirico, e cioè da «tut­to ciò che si è tentati di chiamare con il no­me di me». Nel Sé em­ pirico, secondo J., sono identificabili diversi aspetti, descrivi­bili come «Sé materiale» – e cioè il corpo, i propri genitori, i propri og­ getti –, «Sé so­ciale» – e cioè il modo in cui ci considerano gli altri («ogni uomo, scrive J., ha tanti sé sociali quanti sono gli individui che lo rico­noscono e ne portano l’immagine nella lo­ro mente») – e «Sé spirituale» e cioè la di­mensione interna o soggettiva dell’uo­ mo, le sue facoltà o disposizioni psichiche. Bibl.: A llport G. W., W.J. and the behavioral

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sciences, in «Journal of H. S. Behavioral Sci­ ences» 2 (1966) 145-147; Dazzi N., Introduzione a W.J. Antologia di scritti psicologici, Bologna, Il Mulino, 1981; Guarnieri P., Introduzione a J., Bari, Later­za, 1985; Johnson M. G. - T. B. H enley (Edd.), Reflections on the principles of psychology: W. J. after a century, Hillsdale, Law­ rence Erlbaum Asso­ciates, 1990; Montolalu J. J., Truth as dynamic experience in W.J. ‘s prag­ matism, Romae, P. Universitas Urbaniana, 1995; Costa C., L’io e Dio. L’esperienza religiosa in W. J., Roma, Armando, 2002; Stara F., Passione, azione e ragione: il credo pedagogico di W.J., Ibid., 2004.

F. Ortu - N. Dazzi

JENA PLAN → Scuole Nuove

JOVELLANOS Melchor Gaspar de n. nel 1744 a Gijón - m. a Vega de Eo (Astu­ rias) nel 1811, poligrafo illuminista spagno­ lo. 1. J. pone l’educazione in cima ai suoi mol­ teplici interessi, e preconizza lo studio di determinate materie fuori dell’università, che considera irriformabile, a causa del suo corporativismo oltranzista: Discurso sobre la necesidad de cultivar en el Principado el estudio de las Ciencias Naturales (1782); fonda a Gijón (Asturie) un edificio dedica­ to all’insegnamento delle «scienze utili», il Real Instituto de Náutica y Mineralogía: Discurso inaugural del Real Instituto de Náutica y Mineralogía (1794). Aggiungerà presto un’iniziazione alle scienze umane: Discurso sobre la necesidad de unir el estu­ dio de la Literatura al de Ciencias Naturales (1797). Il Reglamento literario e institucio­ nal del Colegio de Calatrava (1790) costitu­ isce il suo principale contributo alla forma­ zione universitaria. Nella Sátira a Ernesto, una delle migliori poesie del secolo, critica la deplorevole educazione delle classi privi­ legiate. Il Plan de educación de la nobleza (1798), redatto per sua diretta ispirazione, corrisponde al periodo in cui fu ministro di Grazia e Giustizia (1797-98). 2. J. espone in maniera sistematica il suo pensiero pedagogico in un’opera tardiva, la

JUNG CARL GUSTAV

Memoria sobre Educación Pública o Tratado teórico práctico de enseñanza (1802?). Parte dal concetto di educabilità come categoria definitoria dell’essere umano, e approfondi­ sce le relazioni tra istruzione e morale, alla luce del postulato personale della libertà: l’istruzione sarà lo strumento universale di educazione, mentre la virtù è il suo obiettivo principale. J., che introduce in Spagna il ter­ mine educazione civica, le dà in quest’opera grande spazio. Nelle Bases para un Plan ge­ neral de Instrucción Pública (1809) J. defini­ sce le caratteristiche dell’educazione genera­ le: pubblica, universale, civica, umanistica, estetica e tecnica. Pone una speciale enfasi nell’educazione della → donna. La dominante pedagogica del suo riformismo rende J. una figura emblematica dell’ → Illuminismo. Bibl.: Álvarez-Valdés y Valdés J., J., enigmas y certezas, Gijón, Fundación Alvargonzález y Fundación Foro J. del Principado de Asturias, 2002; Caso J., Vida y obra de J., Oviedo, Cajas­ tur, 2004; Sánchez Corredera S., J. y el jovella­ nismo, Oviedo, Pentalfa, 2004

Á. Galino - Á. del Valle

JULLIEN Marc-Antoine → Educazione compa­ rata

JUNG Carl Gustav n. a Kesswil (Svizzera) nel 1875 - m. a Kü­ snacht nel 1961, psicologo e psicoanalista svizzero, fondatore della psicologia analitica. 1. Nato in una famiglia fortemente religio­ sa (il padre era pastore protestante), compì la sua formazione all’Università di Basilea, ove conseguì la laurea in medicina nel 1902. Studiò con lo psicopatologo francese P. Janet alla Salpêtrière e fu assistente dello psichia­ tra svizzero E. Bleuler al Burghölzli. L’in­ contro che nel 1907 ebbe con → Freud costi­ tuì una svolta nella sua vita. L’anno seguen­ te, infatti, fu nominato redattore del primo periodico di → psicoanalisi, lo «Jahrbuch für psychoanalytische und psychopathologische Forschung», e nel 1911 fu eletto presidente della Società psicoanalitica internazionale. Divergenze radicali sul carattere non sessua­ le della libido, portarono J. a rompere defi­

nitivamente i suoi rapporti con Freud e ad aprirsi a problematiche filosofiche, letterarie, storiche, religiose, esoteriche. Per salvare la psicoterapia in Germania dagli attacchi del regime nazista, nel 1933 accettò la presiden­ za della Allgemeine ärztliche Gesellschaft für Psychotherapie. A partire dal 1935 ten­ ne lezioni al Politecnico di Zurigo, al Centro Tavistock di Londra, alla Harvard University di Cambridge, alla Yale University di New Haven. Nel 1948 fondò a Zurigo un istituto di ricerca che ancora oggi porta il suo nome. 2. Uno degli aspetti particolarmente nuovi all’interno del sistema junghiano è quello che riguarda la libido. Mentre, infatti, Freud la considerava come unica fonte di energia psichica, vero aspetto pulsionale e sola spin­ ta al comportamento, J. riteneva che in real­ tà nell’uomo sono presenti diverse forme di energia psichica, tutte importanti e decisive come spinte pulsionali, e tra esse va collo­ cata – senza alcun primato particolare – la libido. Un altro aspetto che differenzia J. da Freud riguarda la combinazione tra causalità e teleologia. Secondo lo psicologo svizzero, infatti, il comportamento quotidiano è dovu­ to, oltre che a tutta una serie di fattori cau­ sali (storia individuale, razza, appartenenza, ecc.), anche a orientamenti finalistici, ossia a fini e aspirazioni che ogni singolo indivi­ duo scorge dinanzi a sé nel corso della sua esistenza. 3. Di conseguenza, la teoria della persona­ lità di J. sottolinea non tanto i determinismi biologici e i legami infantili, il più delle volte traumatici, così come sostiene Freud, ma il bagaglio di un passato molto più lontano, che affonda le radici nelle primitive esperienze della specie umana e che è composto da miti, religioni, usi e riti. Di conseguenza, 1’ → in­ conscio non è considerato esclusivamente un ricettacolo individuale di esperienze infan­ tili rimosse, ma anche il luogo collettivo di una psiche oggettiva, che rimanda alle basi filogenetiche, istintuali della specie umana; ed è proprio all’inconscio collettivo che ap­ partengono gli archetipi, che sono strutture fondamentali dell’esperienza psichica, predi­ sposizioni a rivivere le esperienze essenziali della specie umana, modelli o stampi su cui si specificano le diverse tappe della matura­ zione umana. 627

JUNG CARL GUSTAV

4. Tra gli archetipi J. considera di massima importanza il Selbst (il Sé), che è l’immagi­ ne della maturità psichica, il modello dell’in­ tegrazione funzionale e della stabilità della personalità. Esso è il punto centrale, attorno a cui si raggruppano tutti gli altri sistemi, li mantiene uniti e dà equilibrio, unità e stabili­ tà. All’educatore, quindi, è affidato il compito di garantire l’«autosviluppo sorvegliato» del bambino e di tenerlo lontano da ogni tipo di pericolo, così che possa raggiungere l’unione armonica del conscio con l’inconscio. Bibl.: J.C.G., Psicologia ed educazione, Roma, Astrolabio, 1947; Id., Determinanti psicologiche del comportamento umano, in Opere, vol. VIII, Torino, Bollati Boringhieri, 1976, 131-143; Storr

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A., J., Milano, Mondadori, 1990; Carotenuto A., C.G.J. La strada dell’individuazione, in Id., Trat­ tato di psicologia della personalità e delle diffe­ renze individuali, Milano, Cortina, 1991, 193-251; De Rosa G., J., la religione e il cristianesimo, in «La Civiltà Cattolica» 145 (1994) 3449, 445-458; 3452, 129-142; M àdera R., C.G.J. Biografia e teoria, Milano, Mondadori, 1998; Fizzotti E. - M. Salustri, C.G.J., in I dd., Psicologia della religione con antologia dei testi fondamentali, Roma, Città Nuova, 2001, 75-102; Gaillard C., Il museo immaginario di C.G.J., Bergamo, Mo­ retti & Vitali, 2003; Pieri P. F., Introduzione a J., Roma/Bari, Laterza, 2003; Vitale A., Terapia e suggestione. Il potere emotivo della falsa co­ scienza. Il caso C.G.J., Roma, Aracne, 2006.

E. Fizzotti

K KANT Immanuel

1. Dopo una fase influenzata dalla filosofia del razionalismo leibniziano-wolffiano (periodo pre-critico), a partire dal 1770 K. sviluppò la sua originale filosofia (periodo critico), nell’intento di rispondere a tre principali domande: a) che cosa possiamo sapere; b) che cosa dobbiamo volere; c) che cosa possiamo sperare. Ad esse rispondono le tre Critiche (della Ragion pura, della Ragion pratica, del Giudizio), stabilendo che la nostra conoscenza è limitata al mondo dei fenomeni, ma che il nostro dovere ci fa soggetti di un regno dei fini che va oltre di essi. I postulati della ragion pratica (Libertà, immortalità, Dio) ci permettono di asserire valori oltre la sfera empirica giudizi sul bello e sui fini ci fanno intravedere quali possano essere questi valori.

3. A differenza di → Rousseau, di cui pure ammira l’acutezza, K. ritiene che il fanciullo non sia «naturalmente buono», e condivide piuttosto le tesi luterane sulla persistenza di tracce di un «male radicale»; perciò il fanciullo non può essere lasciato allo spontaneo sviluppo delle sue tendenze. Al contrario, queste devono essere disciplinate. L’educazione è necessaria affinché l’uomo passi dalla natura alla cultura, dall’animalità all’umanità. Oltre ad assimilare «regole dell’abilità» e «consigli della prudenza» necessari alla vita adulta, ma basati su imperativi «ipotetici» o strumentali, l’educando deve essere avviato ad obbedire alla voce della → coscienza che detta il dovere morale, che invece è incondizionato, in quanto è imperativo categorico. Nelle sue lezioni di Pedagogia, trascritte da un discepolo, egli insiste soprattutto sulle virtù della sincerità e della lealtà, ed è ostile agli accomodamenti e ai compromessi con la coscienza, che deve essere libera e intemerata.

2. Dalla sua filosofia K. ricava un’impronta fortemente morale alla concezione educativa, che non è permissiva bensì centrata sul senso del dovere come obbedienza alla legge autonoma della ragione. Questa non consiste nel piegarsi a un legislatore esterno (fosse pure presentato come divinità), ma nello svolgere la legge intrinseca della ragione, che pone l’esigenza di «universalizzare» la condotta, vale a dire di assumere come regola dell’agire quella che si vorrebbe come legislazione universale. Il principio «fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te» è una interpretazione fedele della legge.

4. Tuttavia, K. è uno studioso della psicologia del suo tempo e si occupa degli aspetti dello sviluppo e dei temperamenti nella sua Antropologia prammatica e in alcuni paragrafi della Metafisica dei costumi; perciò si rende conto che un rigorismo assoluto potrebbe avere effetti controproducenti, e in via transitoria ammette che il rispetto rettamente inteso verso l’autorità dei genitori e degli educatori, e in ultima istanza di Dio, possa avviare alla moralità. In questo senso nell’opera La religione nei limiti della pura ragione egli dà un’interpretazione razionale del cristianesimo e del luteranesimo, mo-

n. a Königsberg nel 1724 - m. ivi nel 1804, filosofo e professore di pedagogia tedesco.

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KERSCHENSTEINER GEORG

strando la congruenza di questo con i dettami della ragione. In queste opere egli tiene conto dei dati empirici e storici che possono in certi casi contrastare, ma in altri favorire l’educazione al dovere. Personalmente, egli era stato allevato nell’osservanza luterana di indirizzo pietistico nel Collegio Fridericianum, e per qualche tempo aveva avuto esperienze di insegnamento come precettore, prima di essere per lunghi anni docente universitario, non solo di logica e metafisica, ma anche di matematica e geografia fisica. Bibl.: Campo M. - V. M athieu (Edd.), Questioni di storiografìa filosofica, vol. 3, Brescia, La Scuola, 1974, 9-132; R igobello A., «K. pedagogista», in Nuove questioni di storia della pedagogia, Ibid., 1977, 207-239; Kauder P., I.K. über Pädagogik: Studien, Baltmannsweiler, Hohengehren, Schneider-Verlag, 1999; Bianchi M. L., Commento alla Critica della facoltà di giudizio di K., Firenze, Le Monnier, 2005.

M. Laeng

KERGOMARD Pauline → Scuola dell’infanzia

KERSCHENSTEINER Georg n. a Monaco di Baviera nel 1854 - m. a Waldeck nel 1932, pedagogista tedesco. 1. Il K. è soprattutto noto come il pedagogista della «scuola di lavoro» (Arbeitschule). In realtà egli non è stato il solo a sostenerla, e per quanto centrale nel suo pensiero questo concetto non esaurisce la sua concezione educativa. Egli ama rifarsi al pensiero di Goethe che aveva esaltato nel Wilhelm Meister e nella conclusione del Faust il «lavoro costruttore» come principio di civiltà umana; e trova molte consonanze nell’opera educativa e negli scritti di → Pestalozzi, che sul lavoro fondava la redenzione dei derelitti e delle classi subalterne. Le sue opere II concetto della educazione civica (1909) e II concetto della scuola di lavoro (1912) quasi contemporanee all’assunzione del compito di Ispettore nelle scuole di Monaco, illustrano il nocciolo delle sue idee. La scuola deve preparare il cittadino «utile allo Stato», che è per questo utile anche a se stesso. Ciò si esplica attraverso l’educazione al lavoro educativo, che 630

non ha compiti immediati di natura economica, ma è nondimeno lavoro «produttivo». È insita al lavoro, che si cimenta con una materia per trasformarla secondo un progetto, una capacità creativa che però fa i conti con la «disciplina dell’obiettività». 2. K. trova, come già → Rousseau e → Dewey, rispondenti a questi scopi la falegnameria e il lavoro della cucina, e ne fa larga applicazione nelle scuole di Monaco. Imparare a segare un’assicella senza sprecare legno, per fabbricare uno sgabello, uno scaffale, un carrettino, vuol dire applicare le proprie forze in maniera razionale. La cucina è al centro della casa, ed è insieme un laboratorio di scienze e di chimica applicate. In grande, questo si attua attraverso tutte le manifestazioni della tecnologia nel Deutsches Museum, il primo museo del mondo nel suo genere, di cui K. diventa direttore dopo M. von Linde. Ma K. è anche un teorico, come dimostra nel suo lavoro sull’Assioma fondamentale del processo formativo (1917), che è il principio di «congruenza» tra le forze formative esterne e le disposizioni del soggetto. Egli si rifà per questo a Rickert e quindi al pensiero del → neokantismo. Si occupa inoltre diffusamente del disegno infantile, un tema allora dibattuto in Germania. Bibl.: K. G., Theorie der Bildung, Leipzig, Berlin, Teubner, 1926; Gaspari G., Educazione e lavoro in K., Firenze, La Nuova Italia, 1940; Laeng M., K., Brescia, La Scuola, 1967; Simmerle J. G., Il pensiero filosofico e pedagogico in G.M.K.: per una scuola moderna e attiva, tre tomi in un vol., Trento, Arti grafiche Artigianelli, 1976; Gonon P., G.K.: Begriff der Arbeitsschule, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2002.

M. Laeng

KEY Ellen → Scuole Nuove

KILPATRICK William Heard n. a White Plains nel 1871 - m. a New York nel 1965, filosofo, pedagogista e educatore statunitense. 1. Fin dalle prime esperienze come insegnante nelle scuole pubbliche e presso il Mercer College (Georgia), K. è attento alle istanze di

KLEIN MELANIE

rinnovamento dell’insegnamento. Dal 1909 fino al 1938 è professore all’università di Columbia. Le sue esperienze didattiche più significative hanno luogo dopo la prima guerra mondiale, in un momento in cui le idee fröbeliane e montessoriane trovano molti consensi negli USA. Ma l’ispirazione più forte riscontrabile nel suo scritto più noto, Il metodo dei progetti (1918), va ricercata in → Dewey. Altri saggi tradotti in it.: Educazione per una civiltà in cammino (1926), La funzione sociale, culturale e docente della scuola (1943), Filosofìa dell’educazione (1951). 2. Nella concezione del K. si coglie lo sforzo per elaborare i motivi caratteristici dello strumentalismo deweyano. I principi e gli orientamenti generali sui quali poggia il suo «metodo dei progetti» sono: a) il principio dell’esperienza; b) l’affermazione della scuola come luogo di vita, perciò suscitatrice di attività «tendenti ad uno scopo»; c) la necessità di «simpatizzare con l’infanzia»; d) il processo d’apprendimento ha il punto di partenza in una situazione problematica che suscita l’intenzione di superarla. In prospettiva didattica, K. distingue quattro tipi di «progetti»: a) del produttore (fare qualcosa, ma in senso ampio, non soltanto di fare con le mani); b) del consumatore; c) dei problemi; d) di apprendimento specifico. Il «metodo dei progetti» ha arricchito la pedagogia moderna, con il suo impegno teso a suscitare l’interesse per le materie, nello sforzo di rispondere alle esigenze di ogni allievo come soggetto attivo, nell’attenzione alla prospettiva sociale del lavoro realizzato nella scuola. Bibl.: Corallo G., La didattica moderna negli U.S.A., Brescia, La Scuola, 1951; A ndreolo R., W.H.K. e l’educazione progressiva, Roma, Armando, 1967; Agnello L., «K.W.H.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. IV, Brescia, La Scuola, 1990, 6383-6386.

J. M. Prellezo

KING Edmund → Educazione comparata

KLEIN Melanie n. a Vienna nel 1882 - m. a Londra nel 1960, psicoanalista austriaca.

1. Allieva di K. Abraham (1877-1925) è senz’altro, dopo → Freud, colei che ha fatto compiere un notevole passo in avanti alla riflessione psicoanalitica, gettando specialmente una nuova luce sul complesso mondo dell’infanzia. Inizialmente, le sue scoperte sui dinamismi operanti nei primi mesi di vita, specie quelli relativi alla pulsione di morte e alla fantasia, suscitarono un’aspra polemica nell’ambito del mondo psicoanalitico. Attualmente i suoi contributi sono invece considerati come estremamente preziosi per la comprensione non solo della psiche infantile, ma anche delle patologie degli adulti. 2. Secondo la K. nel primo anno di vita si succedono due posizioni: la posizione schizo-paranoide e la posizione maniaco-depressiva. Essa usa il termine posizione per sottolineare il tipo di rapporto che si instaura con l’oggetto e che poi, sia pure con diverse tonalità, si riscontrerà lungo tutto l’arco della vita. Inoltre la K. denomina tali posizioni in termini psichiatrici, dal momento che le vicende psichiche iniziali del bambino sono, a suo avviso, assimilabili agli stati psicotici (schizo-paranoidi o maniaco-depressivi) dell’adulto. 3. La posizione schizo-paranoide (dalla nascita al terzo-quarto mese) è caratterizzata dalla presenza di un’angoscia persecutoria e da una modalità schizoide della relazione con l’oggetto. I → meccanismi di difesa predominanti sono: la scissione, l’introiezione, la proiezione, l’identificazione proiettiva e la negazione. La posizione maniaco-depressiva (inizio verso i cinque-sei mesi) è caratterizzata dall’angoscia depressiva, per cui il bambino passa dalla preoccupazione di non essere danneggiato dall’oggetto alla preoccupazione di non danneggiarlo. I principali meccanismi di difesa sono: il lavoro del lutto, la riparazione e la maniacalità. I contributi della K. hanno aperto la strada alla cura della schizofrenia e della psicosi maniacodepressiva. Bibl.: a) Fonti: opere della K. trad. in it.: Nuove vie della psicoanalisi (in coll.), Milano, Il Saggiatore, 1966; Amore, odio e riparazione (in coll.), Roma, Astrolabio, 1969; Psicoanalisi dei bambini, Firenze, Martinelli, 1969; Invidia e gratitudine, Ibid., 1969; Analisi di un bambino, Torino,

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KOHLBERG LAWRENCE

Bollati Boringhieri, 1971; II nostro mondo adulto e altri saggi, Firenze, Martinelli, 1972; Scritti 1921-1958, Torino, Bollati Boringhieri, 1978. b) Studi: Segal H., Introduzione all’opera di M.K., Firenze, Martinelli, 1968; Geets C., M.K., Roma, Astrolabio, 1972; Castellazzi V. L., Psicoanalisi e infanzia. La relazione oggettuale in M.K., Roma, LAS, 1974; Segal H., M.K., Torino, Bollati Boringhieri, 1981; Grosskurth Ph., M.K. Il suo mondo e il suo lavoro, Ibid., 1987; Hinshelwood R. D., Dizionario di psicoanalisi kleiniana, Milano, Cortina, 1990; K risteva J., M. K. La madre, la follia, Roma, Donzelli, 2006.

V. L. Castellazzi

KOHLBERG Lawrence n. a New York nel 1927 - m. nel 1987, psicologo statunitense d’orientamento cognitivista. 1. Cenni biografici. Nel 1945, al termine dei suoi studi superiori, comincia ad interessarsi a problemi d’ordine morale. Frequentando l’Università di Chicago ha modo di conoscere il pensiero di → Platone e → Dewey, e approfondisce la conoscenza di altri autori, quali → Socrate, → Kant e → Locke, che influenzeranno il suo lavoro. I corsi post-universitari in psicologia clinica gli consentono di entrare in contatto con il comportamentismo e con le idee di → Rogers, → Bettelheim e → Piaget. Proprio sullo sfondo del lavoro di quest’ultimo, nel 1955, inizia una ricerca sullo sviluppo del ragionamento morale che lo porta ad interessarsi dello sviluppo morale in campo educativo. Nel 1967, all’Università di Harvard, in collaborazione con E. Turiel, J. Rest e M. Blatt, crea un gruppo di ricerca e fonda un centro di educazione morale. Tra il 1968 e il 1976 perfeziona lo schema di → sviluppo morale che costituisce il suo grande contributo alla psicologia dell’educazione. Secondo alcuni critici, nella vita e nel lavoro di K., alla grande capacità di cogliere la realtà in modo originale ed elastico non corrisponde un’altrettanto rilevante abilità nel costituire verifiche razionali ed empiriche. È, forse, in questa difficoltà di sintesi, e la conseguente insoddisfazione, nell’esperienza sia vitale che lavorativa, che si può ricercare la fonte delle sue crisi depressive e del suicidio con cui pose fine alla sua vita. 632

2. Teoria dello sviluppo morale. K. interpreta lo sviluppo morale come un processo di ristrutturazione cognitiva del concetto di sé e dell’ambiente circostante che si svolge su tre livelli. Il primo livello è detto «preconvenzionale»: lo stadio 1 è caratterizzato da un «orientamento alla punizione e all’obbedienza» che si ferma nel considerare le conseguenze fisiche di un’azione; lo stadio 2 è caratterizzato da un «orientamento relativista strumentale» secondo il quale una cosa è buona se soddisfa i propri bisogni. Il secondo livello è detto «convenzionale»: lo stadio 3 è caratterizzato da un «orientamento interpersonale del bravo/a bambino/a» secondo il quale è buono quel comportamento che gli altri si aspettano e che approvano; lo stadio 4, «orientamento alla legge e all’ordine costituito», riguarda le persone che si riconoscono come appartenenti a quella società che è volta ad appianare divergenze e a perseguire il bene comune. Il terzo livello è denominato «post-convenzionale»: chi si trova allo stadio 5 («orientamento legalistico verso il contratto sociale») interpreta le norme sociali come garanzia del bene comune, ma è disposto a venire meno al contratto sociale qualora le regole si mostrino dannose o poco funzionali; lo stadio 6 (raggiunto da un’esigua minoranza di adulti) è caratterizzato da un «orientamento al principio etico universale» secondo il quale il comportamento morale è quello che scaturisce da una scelta personale coerente con i principi assunti autonomamente. K. ipotizza l’esistenza di un settimo stadio che costituisce un orientamento esistenziale basato su una prospettiva metafisico-religiosa della realtà. Bibl.: K.L., «Stage and sequence: the cognitivedevelopmental approach to socialization», in D. A. Goslin (Ed.), Handbook of socialization theory and research, Chicago, Rand McNally and Company, 1969, 347-480; A rto A., Crescita e maturazione morale. Contributi psicologici per una impostazione evolutiva e applicativa, Roma, LAS, 1984; Kuhmerker L. - U. Gielen - R. L. H ayes, L’eredità di K. Intervento educativo e clinico, Firenze, Giunti, 1995; Viganò R., Psicologia ed educazione in L.K. Un’etica per la società complessa, Milano, Vita e Pensiero, 1998; Hersh R. H. - D. P. Paolitto - J. R eime, El crecimiento moral: de Piaget a K., Madrid, Narcea, 2002.

A. Arto

KOLPING ADOLF

KOLPING Adolf n. a Kerpen presso Köln l’8.12.1813 - m. a Köln il 4.12. 1865, teologo, educatore sociale tedesco. 1. Proveniente da una famiglia di umili condizioni, compiuta a tredici anni l’istruzione elementare, diventa apprendista calzolaio e lavora come garzone di bottega in laboratori artigiani del circondario: a Sindorf, Düren, Lechenich. Infine riesce ad entrare come lavorante in una calzoleria di Colonia: un posto redditizio, che però K. ricorderà come ambiente moralmente dissoluto e religiosamente indifferente, tipico del mondo in cui lavoravano i garzoni di bottega del tempo. Ma è proprio questa esperienza che porta il giovane a maturare la decisione di intraprendere la via del sacerdozio. Nel 1837 si iscrive al Gymnasium, conseguendo la maturità classica. Da aprile 1841 ad agosto 1842 è a München per lo studio della filosofia e della teologia cattolica, alla scuola di insigni maestri, tra cui Döllinger, Haneberg, Windischmann e J. Görres. Seguono a Bonn tre semestri prescritti per l’accesso al sacerdozio, che a Pasqua del 1844 consentono a K. di entrare come alunno nel seminario di Köln. Fu ordinato sacerdote il 13 aprile 1845 e subito assegnato come cappellano alla parrocchia di S. Lorenzo del centro industriale di Elberfeld-Wuppertal, e catechista nel Gymnasium locale. 2. Ne veniva significativamente arricchita la conoscenza delle positive qualità dei lavoratori dell’artigianato e degli operai delle fabbriche, ma anche dei gravi problemi legati all’industrializzazione: l’urbanizzazione, la crisi della famiglia, la disoccupazione, le perturbazioni sociali e politiche. Ad Elberfeld fu di particolare importanza l’incontro con il direttore didattico della scuola femminile cattolica, il sac. Johann G. Breuer (1821-1897), socialmente impegnato, fondatore di un’Associazione di giovani lavoratori artigiani. L’esperienza di assistente spirituale della nuova comunità formativa e culturale insieme a quella precedente di apprendista calzolaio e garzone e l’accresciuto contatto col mondo del lavoro spingevano il K. a realizzare un progetto più vasto a favore del mondo giovanile artigiano e operaio.

Nell’autunno del 1846 fondava il primo «Gesellenverein» (Casa di assistenza e di insegnamento professionale), del quale diveniva nel 1847 preposto ecclesiastico. Nel 1848 scrive l’opuscolo programmatico Der Gesellenverein. Zur Beherzigung für alle, die es mit dem wahren Volkswohl ernst meinen (Gesellenverein. Ad incitamento di quanti intendono prendere in seria considerazione il vero bene del popolo, II ed. 1852): il «Gesellenverein» è l’«Accademia [l’università] del popolo». 2. Diventato vicario del duomo di Köln, il 6 maggio 1849 fondò anche in questa città un Gesellenverein, destinato a diventare il centro mondiale di tutte le organizzazioni di giovani operai (le Kolpingswerke) a cui diede vita. Esse, infatti, si diffusero presto in varie città della Germania, dell’impero austro-ungarico, della Svizzera, degli Stati Uniti, dell’America Latina, ottenendo la solidarietà e l’appoggio delle più svariate categorie di persone. Ivi i soci trovavano protezione, sicurezza, ordine, sostegno. A Köln egli continuò a svolgere anche un’intensa attività giornalistica popolare cattolica, dirigendo per molti anni i settimanali «Rheinische Volksblätter» e «Volkskalender», di notevole diffusione. 3. Sacerdote «educatore popolare», «diacono del popolo» (Höffner), né rivoluzionario né agitatore politico, K. si batté per un coraggioso inserimento del clero nel vivo dei problemi sociali, che erano anche problemi morali e religiosi: «Se la vita del popolo deve tornare ad essere come vuole la Chiesa (kirchlich), la Chiesa deve diventare di nuovo popolare (volkstümlich)». In realtà, lo scopo del Verein è anzitutto religioso e morale e sociale-professionale con l’esclusione di una formazione politica specifica. La prassi educativa è ispirata a idee cristiane tradizionali: primato della famiglia, destinazione domestica della donna sposa e madre, ordine sociale, formazione integrale dell’uomo come imago Dei, la «famiglia» come spirito e struttura dell’ambiente educativo, la centralità del padre, il «cuore» come centro della metodologia educativa. 4. La fama di santità largamente diffusa già alla morte prematura di K. si accrebbe col 633

KOMENSKÝ JAN AMOS

passare del tempo. Nel 1984 ebbe inizio a Köln il processo informativo per la beatificazione. Il 13 maggio 1989 furono decretate le virtù eroiche. La beatificazione fu fissata al 27 ottobre 1991, con esplicito riferimento al centenario della pubblicazione dell’enciclica sociale «Rerum Novarum» di Leone XIII (cfr. AAS 84, 1992, 567-568; omelia di Giovanni Paolo II, ibid., 844-848). Bibl.: Linke K. (Ed.), A.K. spricht zum Volk. Aus der Lebens-und Erziehungsweisheit eines grossen Volksmannes, Limburg-Lahn, Lahn-Verlag, 1940; Schäffer S. G., A.K.: Sein Leben und sein Werk, Köln, Kolping-Verlag, 1952; Wothe F. J., A.K.: Leben und Lehre eines grossen Erziehers, Rechlinhausen, Paulus-Verlag, 1952; G öbels H., Ausgewählte pädagogische Schriften, Paderborn, F. Schöningh, 1964; Bellerate B., A.K. (1813-1865). Sacerdote, educatore, pubblicista, in «Orientamenti Pedagogici» 12 (1965) 1128-1173; Göbels H., K.A., in «Neue Deutsche Biographie» 12 (1980) 575-577.

P. Braido

KOMENSKÝ Jan Amos n. a Nivnice nel 1592 - m. ad Amsterdam nel 1670, teologo, poligrafo, pedagogista ed educatore moravo, più noto con il nome latinizzato di Comenio. 1. Vita e opere. Di famiglia benestante, ri­ mase orfano nel 1603. Affidato a una zia, frequenta le scuo­le dell’«Unità dei Fratelli», comunità reli­g iosa di ascendenza hussita, cui la famiglia apparteneva e che si occuperà degli studi di K.: prima nella scuola latina di Přerov (1608-1611), poi nell’Accademia di Herborn per la teologia, con uno stage presso l’Università di Heidelberg (1613). A Herborn ebbe come docenti J. Alsted e J. Fischer, dai quali derivò la ten­denza al millenarismo e all’enciclopedismo. Nel 1614 tornò a Přerov come insegnante e poi rettore; nel 1616 fu ordinato sa­cerdote e pubblicò Grammaticae facilioris praecepta, ispirata a → Ratke, ma non conser­vata. Sposatosi, fu inviato a Fulnek come pastore e rettore della scuola locale. La guerra dei Trent’anni (1618-1648) causò la distruzione di Fulnek e una pestilenza, in cui K. perse la moglie e due figli (1622). Do634

vette allora nascondersi presso il baro­ne von Žerotín a Brandys, dove, dopo al­cuni tentativi di scritti enciclopedici, completò diverse opere religioso-consola­torie, tra cui il Centrum securitatis (1625) e si risposò (1624). La lettura della Didactica di E. Bodinus, ne riaccese l’in­teresse educativo, mentre l’incontro con K. Kotter, di cui tradusse le «profezie», ne rafforzò la tendenza millenaristica. Nel 1628, acuitasi la persecuzione religiosa, dovette rifugiarsi a Leszno in Polonia, senza poter più rientrare in patria. Insegnò nel ginna­sio della fiorente comunità dei Fratelli, di­ventandone rettore. Terminò la Didactica in ceco, che tradurrà poi, ampliandola e adattandola, in lat. Pubblicò la Janua linguarum reserata (1631), di grande succes­so, la Physicae synopsis e l’Informatorium der Mutterschule (Manuale della scuola materna, 1633). Si aprì, al tempo stes­so, alla dimensione pansofica, pur conti­nuando a preparare testi scolastici, in quanto, eletto «Senior» (vescovo) nel 1632, fu incaricato degli interessi culturali della comunità. In Olanda conobbe i de Geer, suoi mecenati fino alla morte. Si occupò, a Elbląg (1642), di testi scolastici per la Svezia, ma non tra­scurò l’ascolto di profezie, né incontri ireni­ci ed ecumenici, mentre approfondiva l’in­teresse pansofico (Pansophiae diatyposis 1643 e inizio della Consultatio catholica 1645). Pubblicata la Methodus linguarum novissima (1648), dopo la morte della mo­glie, rientrò a Leszno e nel 1649 si risposò. Invitato a Sárospatak (Transilvania) nel 1650, si impegnò in una riforma delle scuo­le, con relativi testi. Ma nel 1654 rinunciò all’impresa per l’opposizione di docenti lo­cali e per le sue crescenti preoccupazioni politiche. Tornò quindi a Leszno, da cui dovette fuggire definitivamente (1656), perdendo ancora una volta i suoi beni, con il saccheggio del­la città. Si ritirò così ad Amsterdam, ap­poggiandosi alla famiglia de Geer. Pubbli­cò la Schola ludus (1656) e poi il suo fa­moso testo illustrato Orbis sensualium pictus (1658), preparati a Sárospatak; e, nel 1657, l’Opera didactica omnia (2 voll., in fo­ lio), in cui fu pubblicata, per la prima volta, la Didactica magna. Affrontò anni difficili, per la salute e per le ri­correnti polemiche, ma tentò con impegno di completare la De rerum humanarum emendatione consultatio catholica, rimasta ciononostante incompiuta. Pubblicò, nel frattempo, l’Angelus pacis

KOMENSKÝ JAN AMOS

(1667) e l’Unum necessarium (1668), oltre ad altri scritti mi­nori. Raccolti vari materiali, imbastì i Clamores Eliae (editi solo nel 1977), tra il 1665 e il 1670, quando affaticato e an­g ustiato per la sorte della sua gente e della sua chiesa, morì. In precedenza aveva messo a punto, tra l’altro, la Janua rerum reserata, pubbli­cata postumi nel 1681. 2. Il pensiero pedagogico. K., celebrato per i suoi manuali scolastici e, dal secolo scor­so, per la Didactica Magna, si era sempre proclamato «theologus», più che per l’inte­resse per la sua chiesa, per l’impegno nel decifrare, propagare e realizzare la volontà divina, norma suprema di ogni agire. Essa si manifesta, a suo avviso, mediante i «tre libri divini»: la Bibbia, la natura e la mente umana, con un indiscutibile primato della prima, testo del­ la rivelazione, che rimane però aperta e non conclusa, lasciando spazio alle profezie, cui aderisce con certa ingenuità. In questa li­nea teocentrica, si muove durante tutta la sua vita, polemizzando con i contempora­nei, pur senza disconoscere il relativo va­lore delle scienze. Due principi ne guidano il pensiero: il triadismo e l’armonia univer­sale, entrambi fondati nella Scrittura e avvalorati dalle sue riflessioni, che lo fanno passare da un iniziale enciclopedismo alla concezione pansofica. In questa, anche con un ricorso quasi ossessivo al prefisso gr. «pan», egli evidenzia l’esigenza di globalità e universalità («Uni-versum» = tensione all’Uno, che è Dio) onniinclusiva, organi­ca e coordinata, pur nelle sue svariate arti­colazioni. Dio, uno e trino, creatore e matrice di tutto l’esistente, ne è parimenti il padre e il fine e, nella persona di Cristo, il redentore, a causa del peccato originale umano. L’uomo, figlio e immagine di Dio, è, a sua volta, «microcosmo» e mediatore tra Lui e le creature, che a Lui deve ricon­durre, secondo un’ispirazione, in K., mistico-neoplatonica. A tal fine è dotato di «se­mi innati», che, sviluppati, lo abilitano al suo compito, benché parta come una «ta­bula rasa». In tal senso K. mette a punto tutta una serie di triadi, che specificano le possibilità umane e i sentieri da percorrere, come è detto specie nel Triertium catholicum. Tra le altre (a volte, con i termini invertiti): gli organi per la lettura dei libri divini: «sensus, ratio, fides», usando: «mens, manus, lingua», da cui il «sapere, agere, loqui» (SAL: una delle triadi fondamentali).

Questa, mediante «analysis, synthesis, syncrisis» permette l’esplicazione di «theoria, praxis, chresis». Le due ultime triadi, oltre­ ché tipiche di K., hanno un ruolo particola­re sul piano educativo. Infatti non solo rivelano meglio l’armonia universale, ma consentono di raggiungere obiettivi altri­menti impossibili, come la conoscenza di Dio, necessariamente analogica e quindi per confronto (sincrisi), e un uso del sape­re e agire, che porti a un’autentica fruizio­ne gratificante e rasserenante (cresi). Per­tanto l’operare umano, nella sua compiutezza è, al tempo stesso, teorico-pratico e fruitivo, come chiarisce appunto la pansofia, «sapienza universale», operativamente connotata e unificante ogni sapere umano, superando la frammentarietà dell’enciclo­pedismo. Su questa base, K. afferma e giu­stifica la centralità della dimensione edu­cativa, cui dedica appunto la quarta delle sette parti della Consultatio: opera com­plessiva per una riforma universale, pur­ troppo non pubblicata integralmente che nel 1966. La prima e la settima parte («Panegersia» e «Pannuthesia») sono, rispetti­vamente, introduttiva e conclusiva; la se­conda e la terza («Panaugia» e Pansophia» o «Pantaxia») sono più teoriche; la quarta e la quinta («Pampaedia» e «Panglottia») esprimono il momento pratico-applicativo, sotto il profilo individuale; mentre la sesta («Panorthosia») delinea, dal punto di vista sociale e ai vari livelli, il cammino per un esito fruitivo, in un orizzonte stimolante e originale, ma indubbia­mente utopico. Due componenti caratterizzano il pensiero pedagogico di K.: quella metodologica, im­posta dall’affermarsi delle scienze; e quella contenutistica, frutto delle sue informazio­ni e di una elaborazione teorica e pratica. Quan­to al metodo, sottolinea anzitutto il trinomio neces­sità, possibilità e facilità dell’educazione, riconducibili, rispettivamente, al raggiun­gimento del fine dell’uomo, alla sua dota­zione naturale («libri», «organi», «stru­menti») e alla «spontaneità» del processo. Di qui, in sintonia con Ratke, la naturalità dell’educazione stessa, giustificata prima sul modello dei processi naturali (cfr. Didactica magna) e poi sulla stessa natura umana: evoluzione con significativi risvolti didattici, non ridu­cibili alla gradualità, ciclicità e continuità, caratterizzanti la sua didattica scolastica. Infatti, nel corso degli anni, si allargano gli spazi per 635

KOMENSKÝ JAN AMOS

una partecipazione dell’allievo, affiancando alla «didactica» (ars docendi), la «mathetica» (ars discendi), dando così più spessore a sue precedenti affermazio­ni, come: «agendo discitur», «fabricando fabricamur» e simili. Quanto ai contenuti, K., partito dall’esigenza di insegnare tutto, sia pure relativamente (in funzione cioè della «sapienza» e della felicità), a tutti, «nemine usquam neglecto, quia omnes sunt homines», integra poi questo binomio con un terzo membro, globalmente, inte­gralmente, creando la triade pedagogica­ mente, forse, più importante: «omnes, om­ nia, omnino». Definito l’orizzonte, K. trac­ cia il cammino, che consente di raggiun­gere detti obiettivi: la «panscholia», «pambiblia» e «pandidascalia» (cfr.: «Pampae­dia»). Si ipotizzano dunque scuole, testi e insegnanti per tutti e per ogni situazione. Dei docenti K. si era occupato specialmen­te durante il suo soggiorno a Sárospatak, pur ribadendo poi l’esigenza della loro pre­parazione e delle altre doti, che li devono qualificare; dei manuali richiama la facilità e, possibilmente, unicità con quelle altre attenzioni che ne rendono proficuo l’uso. Più ampia la trattazione sulle scuole, che, contrariamente ad altri suoi progetti ante­r iori, diventano coestese all’intera vita umana, con cui (in una visione del tutto in­novativa) si identificano, perdendo il loro carattere di istituzione e di rapporto bipolare. Si parte così dalla «scuola prenatale», con spazi, sussidi e fini propri (come tutte le al­t re), per passare poi alla «scuola dell’infanzia», «della fanciullezza», «dell’adolescenza» e «della giovinezza» o accademia (già pre­senti queste nella Didactica magna) e, quindi, alla «scuola della virilità», «della vecchiaia» e «della morte». A ognuna è de­dicato, con indicazioni tradizionali e no, un capitolo, non sempre completato: quello sulla morte (scuola aggiunta «in extremis») è appena abbozzato. Non sfugge certo il carattere radicalmente riformistico, se non rivoluzionario, di questa visione pedagogica di K.: funzionale sul piano individuale e sociale e integrata, ulteriormente, dalla ricerca e proposta di una lingua unica, per agevolare la comunicazione e collaborazione tra gli uomini (cfr. «Panglottia»). Introduce inoltre correzioni (egli parla di «emendatio») da apportare anche all’interno della famiglia, degli stati e delle chiese, sotto il controllo di organismi inter­nazionali («Collegium lucis», 636

«Consilium oecumenicum» e «Concistorium pacis»), per costruire una vita umana diversa e più soddisfacente. In questa prospettiva assu­me un rilievo crescente la dimensione poli­t ica, ma conserva e, forse, accresce il suo significato la dimensione religiosa, senza la quale nulla è fattibile per K. Di qui la pos­sibilità, quanto meno, di un suo ripensamento globale e tardivo, per cui l’educazione per­de il proprio ruolo centrale a vantaggio di un fattore religioso-politico, come sembrerebbe avvenire con i Clamores Eliae, benché restino di difficile lettura per la loro fram­ mentarietà e incompiutezza. 3. Valutazione. Con un’evoluzione conti­nua nei suoi atteggiamenti e nel suo pensiero, K. è stato ed è oggetto di interpreta­zioni diverse e contrastanti. Prima, si è pas­sati da letture in chiave puramente didattica, a letture più comprensive con accentuazione di interessi, a volte, filosofici; a volte, stori­co-letterari; a volte, filologici, socio-politi­ci, pedagogici e, poi, teologico-religiosi: tutti indubbiamente presenti in lui e sovrapponentisi, con momenti di maggior at­tenzione all’uno o all’altro. Dall’inizio alla fine tuttavia K. ha due preoccupazioni principali, in sintonia con la sua missione di «teologo»: quella per il suo popolo e la sua chiesa e quella per la salvezza del genere umano, che percepisce sempre più insensibile ai richiami di Dio e dei «profeti». Di qui il suo ultimo tentativo con i Clamores Eliae, dove accanto a più estese e crude critiche, pro­spetta anche nuove possibilità di conver­sione. L’opera di K. e la sua personalità non hanno esercitato tutto l’influsso che avrebbero potuto avere in altre circostanze e se fossero stati conclusi e pubblicati, a suo tempo, tutti i suoi scritti. Ha goduto però di grande fama e fu richiesto da più parti, così da essere riconosciuto «magister nationum». Oggi, studiato specie in patria e in Germania, se ne apprezzano soprat­t utto altri aspetti, con un’accentuazione del suo impegno per la pace e per la riconciliazione tra le chiese, e si riconosce in lui il fa­scino di un’umanità cosciente, responsabile e aperta, nonostante i disagi e le peripezie sofferti. Malgrado lo svantaggio di partenza, con la perdita dei genitori, ha saputo riprendersi, lavorare con impegno, lottare e progettare con entusiasmo e con slancio utopico, un rinnovamento della società umana, puntando su tutto il disponi-

KORCZAK JANUSZ (GOLDSZMIT HENRYK)

bile, in virtù di una rivisitazione globale della con­dizione umana, chiamata a cooperare con Dio per la salvezza del mondo. L’esempio della sua vita, animata da un’incrollabile speranza e da una salda fede, ha fatto di K. un testimone e un promotore di fratellanza, di pacificazione e di coinvolgimento re­ sponsabile in una ricerca continua, critica e, nonostante qualche rigidità, feconda. Bibl.: a) Fonti: Comenii J.A., Opera omnia, Pragae, Academia scientiarum bohemoslovaca, 1969ss., in 25 voll, più gli indici. In it. si segnalano: Opere di C., a cura di M. Fattori, Torino, UTET, 1974; Grande didattica, a cura di A. Biggio, Firenze, La Nuova Italia, 1993; La riforma universale del mondo, a cura di G. Formizzi, Verona, Il Segno dei Gabrielli, 2003. b) Studi: Bellerate B., La sincrisi nella metodolo­g ia di G.A.C, in «Salesianum» 24 (1962) 86-110; Schaller K., Die Pädagogik des J.A.C. und die Anfänge des pädagogischen Realismus im 17. Jahrhundert, Heidelberg, Quelle & Meyer, 21967; Bellerat­ e B. (Ed.), C. sconosciuto, Cosenza, Pellegrini, 1984; Schaller K. (Ed.), Zwanzig Jahre C. forschung in Bochum, Sankt Augustin, Academia Verlag, 1990; I d. (Ed.), C. 1992 - Gesammelte Beiträge zum Jubiläumsjahr, Ibid., 1992; Bell­ erate B., C. e l’educazione, in «Pedagogia e Vita» 52 (1994) 1, 31- 42; Ferranti C. (Ed.), J.A.C. 1592-1670, Macerata, Quodlibet, 1998; Cauly O., C.: l’utopie du paradis, Paris, PUF, 2000; Bellerate B. A., Società ed educazione in Europa (Secoli XVI-XVII), Milano, Unicopli, 2004; Valeriani A., Pellegrini nel labirinto del mondo e del vivere, Ibid., 2006.

B. A. Bellerate

KORCZAK Janusz (GOLDSZMIT Henryk)

  n. a Varsavia nel 1878 o 1879 - m. a Treblinka nel 1942, medico, scrittore, educatore ebreo.   1. Orientato all’assimilazione con i polacchi, iniziò da giovane l’attività letteraria con lo pseudonimo di K. Laureatosi in medicina, esercita prima nella guerra russo-giapponese, poi con i bambini, con un crescendo per l’interesse educativo, culminato con la direzione di un orfanatrofio per ebrei e, in seguito, di un altro per cattolici. Pubblica molto (articoli, libri per ragazzi e saggi), parla alla

radio e fa anche un viaggio in Palestina già nel 1934. Nel 1936 si ritira dal secondo orfanotrofio e, durante la guerra mondiale, affronta enormi sacrifici e difficoltà per mantenere quello ebraico. Nell’agosto del 1942, rifiutata la possibilità di salvarsi, è eliminato con tutti i suoi ragazzi nel campo di sterminio di Treblinka. Tra le opere: Jak kochac dzieci (1920, trad. it.: Come amare un bambino, ediz. prima ridotta, con altri scritti, 1979; poi completa: Milano, Luni, 1996); Krol Macius Pierwszy (1923, trad. it.: Re Matteuccio 1°, Milano, Emme, 1979); Prawo dziecka do szacunku (1929, trad. it.: Il diritto del bambino al rispetto, parziale, in: Come amare...; completa: Milano, Luni, 1994) e Pamiętnik (trad. it.: Diario dal ghetto, Roma, Cacucci, 1986; Milano, Luni, 1997).   2. Nel pensiero di K. si intersecano due filoni: biografico e educativo. Il primo l’ha visto passare da una posizione agnostica a un recupero della fede mosaica e combattere con l’incubo della pazzia paterna, da cui la rinuncia al matrimonio e la dedizione al secondo interesse. Questo si articola attorno a tre poli: il bambino, l’educatore e le istituzioni. Più originali e significativi gli apporti al primo, per cui rivendica i diritti del bambino, mentre ne denuncia la mancanza di conoscenza, se non in base a pregiudizi. Rispetto all’educatore e alle istituzioni esprime valutazioni molto critiche, soprattutto per le loro posizioni di potere e oppressive, che egli supera impostando l’autogoverno, con pieno coinvolgimento dei ragazzi e un tipo di didattica attiva e dinamica. Tuttavia «nessuna opinione dovrebbe diventare una convinzione assoluta o una convinzione valida per sempre».   3. K., «non adatto per una gabbia» definitoria, ha conquistato l’ammirazione di tutti quelli che l’hanno incontrato, soprattutto perché «un uomo buono» (Arnon) e radicalmente impegnato.   Bibl.: per gli scritti in polacco: K.J., Bibliografia publikacij J. Korczaka i o J. Korczaku w Polsce 1943-1987, a cura di A. Lewin, Heinsberg, Agentur Dieck, 1988. Inoltre: Ignera B., Der religiöse Humanismus J.Ks, Giessen, tesi ciclost., 1980; Dauzenroth E., Ein Leben für Kinder, Gütersloh, G. Mohn, 1981; Licharz W. (Ed.), J.K. in seiner

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KRAUSISMO

und in unserer Zeit, Frankfurt a.M., Haag - Herchen Verlag, 1981; R ella Cornacchia A. T., J. K. - Una vita per l’infanzia, Milano, Emme, 1983; Bellerate B. - M. L. De Natale - J. Kuberski, L’impegno educativo di J.K.: scrittore, medico, educatore polacco (1878-1942), Bari, Cacucci, 1986.

B. A. Bellerate

KRAUSISMO Dottrina filosofica e sistema etico fondato sulle idee del pensatore tedesco Krause; nel K. si coglie un forte interesse per l’educazione. 1. Karl Ch. Friedrich Krause (1781-1832) fu un uomo poliedrico: filologo, storiografo, musicista, matematico, giurista e pedagogista. Passò quasi inosservato di fronte ai grandi filosofi tedeschi seguaci o contrari a → Kant, come Fichte, Schelling ed Hegel. Questi professori di metafisica dovevano preparare un corso di pedagogia, seguendo il principio secondo cui ogni buon filosofo doveva essere anche un buon pedagogista. Krause per un certo periodo ebbe grande ammirazione per → Pestalozzi, ma comprese i limiti del suo impianto pedagogico e quelli dei suo seguace → Fröbel, soprattutto riguardo alla mitizzazione della nazione e della cultura tedesca che questi trasmetteva ai suoi alunni nell’istituto di Keilhau. Krause preferiva una educazione umana bella, giusta e universale, utile per tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla razza, dalla lingua e dalla cultura. Questo ideale filosofico e pedagogico fu da lui esposto nell’Ideal de la Humanidad (1811), opera di evidenti risonanze comeniane e chiara espressione del credo massonico che il suo autore volle riformare. Questo Ideale oltrepassò le frontiere tedesche e fu letto in vari Paesi europei attraverso i discepoli di Krause. 2. In Spagna ebbe un relativo successo negli ambienti filosofici ed universitari di Madrid e per suo influsso si diffuse la pedagogia di Fröbel e si fece un decisivo passo avanti nel rinnovamento del pensiero pedagogico, nelle istituzioni, nei metodi e nella politica educativa spagnoli. Sotto la sua influenza furono 638

organizzati congressi pedagogici in ambito ispano-americano, si moltiplicarono le riviste specializzate, sorse il Museo Pedagogico Nazionale, fu favorita l’integrazione della donna nel mondo del lavoro e dello studio a tutti i livelli, furono create moderne residenze per studenti, che sostituirono gli antichi collegi universitari scomparsi già da tempo, e fu resa possibile la creazione di un ambiente favorevole allo studio, ai viaggi di specializzazione, mediante borse di studio e aiuti speciali, che produssero un rapido cambiamento della mentalità e delle vecchie istituzioni. 3. In tutto o in gran parte di questo sforzo di modernizzazione ebbe un ruolo importante → Giner de los Ríos, krausista, fondatore della Institución Libre de Enseñanza (1876), centro privato di istruzione elementare e secondaria fondato a Madrid e pioniere in Spagna ed in Europa di numerose innovazioni pedagogiche. Bibl.: Cacho Viu V., La Institución libre de enseñanza. Orígenes y etapa universitaria (1860-1881), Madrid, Rialp, 1962; Prellezo J. M., Escuela confesional y escuela neutra en el pensamiento de F. Giner, in «Orientamenti Pedagogici» 23 (1976) 959-984; Menéndez Ureña E., Krause, educador de la humanidad. Una biografía, Madrid, Univ. Pont. de Comillas, 1991; Menéndez Ureña E. - J. Fernández - J. Seidel, El «Ideal de la Humanidad» de Sanz del Río y su origen alemán, Ibid., 1991.

B. Delgado

KRISHNAMURTI Jiddu n. a Madanapalle nel 1895 - m. a Ojai Valley nel 1986, pensatore, filosofo, mistico e educatore indiano. 1. Vita e opera. K. fu istruito dal chiaroveggente C. W. Leadbeater e da A. Besant della Società Teosofica, ad Adayar (Madras) in quanto pensavano che il piccolo Jiddu fosse il veicolo ideale per l’imminente incarnazione di Lord Maitreya (Maestro del mondo). Fu così fondato nel 1911 l’Ordine delle Stelle dell’Oriente con lo scopo precipuo di preparare il mondo per la venuta del Maestro del mondo nella persona di K. Tuttavia nel 1929,

KRUPSKAJA NADEZDA KONSTANTINOVNA

dopo un periodo vissuto in esperienza «mistica», egli improvvisamente sciolse l’Ordine della Stella e la sua associazione con la Società Teosofica. «Io affermo che la verità è una terra senza sentieri... A me interessa solo una cosa essenziale: liberare l’uomo». Da allora fino alla sua morte egli girò per il mondo per proclamare il messaggio di libertà e di liberazione. 2. Insegnamento. Secondo K. il mondo è in una crisi senza precedenti e l’unica via di uscita è una «rivoluzione totale» o «radicale», che può essere realizzata solo individualmente e costituisce una rivoluzione psichica o «trasmutazione mentale». Questa rivoluzione non è qualcosa da realizzare nel futuro ma nell’immediato, nell’adesso costante. Come attuare questa «rivoluzione totale»? K. non indica dei metodi o vie, ma invita a vivere in «consapevolezza». Una vita di piena «consapevolezza» (choiceless awareness) o «attenzione olistica» risveglia l’intelligenza e causa una «rivoluzione psicologica» rendendo la mente vuota dei suoi «contenuti psicologici» (l’«io» e il processo psicologico). Una tale mente è «intera», «vuota di sé» ed è trasformata, piena di energia, di intelligenza e amore, ed assolutamente libera. 3. Educazione. Secondo K. i bambini possiedono già questa mente «intera» che è sana e «religiosa»; sono pienamente aperti ad «osservare», «ascoltare», «creare» e «fondersi» con la vita stessa; quindi sono liberi. Però nel cammino della loro vita creano un falso mondo che consiste nel «contenuto psicologico della coscienza» che è la causa di tutti i problemi personali e sociali (divisione in caste, razzismo, nazionalismo, competizioni, religioni, ecc.). Lo scopo dell’educazione dev’essere appunto consentire ai bambini di «vivere pienamente» la loro vita di libertà. Educazione è l’arte di imparare a vivere da tutto il movimento della vita. L’«arte di vivere» consiste nell’avere un rapporto aperto di amicizia con la natura e con gli altri. Per questo la scuola dovrebbe essere il luogo che offre lo spazio e il tempo per «osservare», «contemplare», «creare», «imparare», vivere nella «consapevolezza» e «intelligenza svegliata» con compassione e amore. Il rapporto educativo tra gli insegnanti e gli alunni è di comunione e comunicazione. K. fondò varie

scuole in India, America ed Inghilterra allo scopo di creare individui psicologicamente liberi, anche se c’è da sottolineare che la sua concezione di natura umana è troppo influenzata dalle dottrine di → Rousseau. Bibl.: a) Fonti: J.K., On education, Madras, Krishnamurti Foundation India, 1974; Id., Education and significance of life, New Delhi, B. I. Publications, 1981; Id., Lettere alle scuole, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1983. b) Studi: Thuruthiyil S., Fascination and limits of an utopia - K.’s approach to liberation, in «Salesianum» 51 (1989) 251-305; Sapio M., «K.J.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. IV, Brescia, La Scuola, 1990, 6428-6435; T huruthiyil S., The joy of creative living. Radical revolution of the mind, Rome, LAS, 1999.

S. Thuruthiyil

KRUPSKAJA Nadezda Konstantinovna n. a Pietroburgo nel 1869 - m. a Mosca nel 1939, pubblicista e pedagogista russa impegnata politicamente. 1. Vita e opere. Figlia unica di nobili decaduti, ammira il padre ufficiale e, dopo la sua morte, conclude gli studi in un ginnasio privato, puntando, nella scia di → Tolstoj, all’insegnamento. Matricola all’università, entra in contatto con circoli marxisti e insegna in una scuola serale e festiva per adulti. Nel 1893 incontra Lenin, di cui condivide l’attività: arrestata e rilasciata, si fidanza e lo sposa poi in Siberia, condividendone del tutto peripezie e impegni e consacrandosi su sua sollecitazione alle questioni femminili. In esilio, collabora a riviste e all’organizzazione del partito e prepara la sua opera maggiore, Formazione popolare e democrazia, che pubblicherà al suo ritorno in patria (1917), dove si dedica principalmente ai problemi dell’educazione, collaborando con Lunačarskij, contro il Proletkult (cultura proletaria) e per una politecnicizzazione della scuola. Dal 1921 al 1924 è al servizio di Lenin, malato, e, dopo la sua morte, se ne fa interprete, contro Stalin. Nel 1927 entra nel Comitato centrale, con cedimenti nei confronti di Stalin; nel 1931 è membro dell’Accademia delle 639

KRUPSKAJA NADEZDA KONSTANTINOVNA

Scienze; nel 1936 dottore «honoris causa» in pedagogia e inizio del declino con la → pedologia; nel 1937 membro del «Praesidium». I suoi scritti sono raccolti in: Pedagogičeskie sočinenija v 11 tomach (Opere pedagogiche in 11 voll.), a cura di N. K. Gončarov, Mosca, Izdatel’stvo Akademii pedagogičeskich nauk, 1957-1963. 2. Il pensiero. Parte da un’accurata conoscenza degli orientamenti prerivoluzionari (aveva fatto parte del movimento: L’educazione libera), della pedagogia occidentale e del marxismo. Tesa verso la democrazia, vede prevalere il centralismo e la burocrazia. In pedagogia cerca gli apporti di altre scienze, specialmente della psicologia e sociologia (→ pedologia), in chiave materialistica e non precettistica, come contributo alla conoscenza e crescita del bambino. Punta sull’autoformazione, ma nel collettivo, in funzione della costruzione del socialismo: di qui la morale sovietica, aliena ad ogni religione, sia pure socialista, ma aperta all’internazionalismo proletario. La K. si è interessata, in particolare, per l’educazione popolare (impegnata nella campagna per l’alfabetizzazione) e degli adulti, nonché per la ricostruzione di una scuola unitaria e politecnica, in vista di «un uomo onnilateralmente sviluppato», senza discriminazioni e coercizioni. Più che per il collettivo, presente nell’extra-scuola, si è

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battuta per la politecnicizzazione (→ marxismo pedagogico), variamente interpretata, che comportasse, senza esaurirvisi, un lavoro produttivo, rapportato a tutte le discipline pertinenti, unendo così teoria e prassi. Altri suoi interessi riguardarono l’educazione extra-scolastica (specie dei pionieri) e pre-scolastica, anche familiare, nonché la figura dell’insegnante, cui offre significative indicazioni didattiche, centrate sempre sul soggetto. 3. Valutazione. Vissuta prima all’ombra di Lenin, se ne fa poi memoria, ritirandosi a poco a poco dalla scena pubblica, nonostante le cariche. Non ha mai rinunciato agli interessi educativi, malgrado le difficoltà e incomprensioni, tanto da essere «una delle più tragiche figure della storia della rivoluzione» (Trockij). Bibl.: gli studi sulla K. sono raccolti in: N.K.K. Bibliografija trudov i literatury o žizni i dejatel’nosti, 2 voll., Mosca, Izdatel’stvo Akademii pedagogičeskich nauk, 1969 e 1973. Inoltre: Rudneva E. I., Pedagogičeskaja sistema N.K.K., Mosca, Izdatel’stvo Mosk, Universiteta, 1968; McNeal R. H., Bride of the revolution - K. & Lenin, Londra, Gollancz, 1973; Baumann U., K. zwischen Bildungstheorie und Revolution, Weinheim, Beltz, 1974.

B. A. Bellerate

L LA SALLE Jean-Baptiste de n. a Reims 1651 - m. a Rouen nel 1719, sacerdote, educatore francese, fondatore di una congregazione religiosa composta unicamente di insegnanti laici, dediti prevalentemente all’insegnamento scolastico e all’educazione giovanile (→ Fratelli delle scuole cristiane). Canonizzato nel 1900, è il patrono universale dei maestri e degli educatori cristiani (Pio XII, 15 maggio 1950). 1. La fondazione educativa di L.S. prende corpo verso la fine del sec. XVII in un contesto sociale europeo segnato dagli squilibri della prima industrializzazione (i figli di operai, di artigiani e di poveri non ricevono in famiglia alcuna istruzione, né esistono scuole se non a pagamento). Essa si inserisce inoltre nell’alveo storico della riforma postridentina, sia cattolica (→ Calasanzio, gli Oratoriani, Démia...) che protestante (→ Comenio), tesa a valorizzare l’istruzione popolare come tramite basilare per l’educazione civile, cristiana e professionale dei giovani. 2. L.S., fondando soprattutto scuole popolari e gratuite, fa saltare il privilegio delle «petites écoles» e dei maestri scrivani del tempo, che reclutavano solo gli scolari di famiglie benestanti in grado di pagarsi l’istruzione. Nelle scuole lasalliane l’insegnamento primario è concepito come base per la → formazione professionale. Di qui le innovazioni di metodi e programmi rispetto all’educazione classica data nei collegi (→ Gesuiti): sostitu-

zione del latino con la lingua materna; studio non solo di testi letterari ma anche di manoscritti in uso nella vita corrente (atti pubblici, lettere d’affari, conti commerciali...); introduzione di attività didattiche connesse con le professioni artigianali e commerciali (attivando materie nuove come geometria, disegno, agrimensura, contabilità, meccanica e tecniche di lavorazione e di costruzione…); adozione del metodo di insegnamento simultaneo e graduato mediante una distribuzione monitorata degli alunni in classi omogenee (in sostituzione dell’insegnamento individualizzato allora in vigore). 3. Fondamentale nel sistema educativo di L.S. è la formazione umana e pedagogica dei maestri-educatori. A questo scopo fonda una congregazione laicale di insegnanti-religiosi, crea seminari per maestri di scuole rurali, scrive diverse opere di pedagogia pratica, di spiritualità, di ascetica. Tra queste, oltre alle Regole e alle Meditazioni per i suoi religiosi, ci sono testi destinati all’educazione civica e all’insegnamento etico-religioso come le Règles de la bienséance et de la civilité chrétienne (che hanno conosciuto ben 125 edizioni dopo la morte di L.S.), o come Les devoirs d’un chrétien (270 edizioni). Ma la descrizione dettagliata dell’organizzazione scolastica e dei metodi didattici è contenuta nella celebre Conduite des écoles, frutto congiunto delle migliori esperienze educative di La S. e di quelle dei primi Fratelli, e più volte aggiornata «sul campo» alla luce della prassi educativa dell’intera congregazione (24 diverse edizioni tra il 1720 e il 1920). Un 641

LABERTHONNIÈRE LUCIEN

vero trattato di «pedagogia contestuale» per la gestione della scuola. 4. La fortuna pedagogica di L.S. non si è esaurita con la sua esperienza di educatore e di scrittore; è continuata nella vitalità secolare e internazionale della sua congregazione (e, indirettamente, in particolare dal sec. XIX, nella fioritura di altre → congregazioni insegnanti, sia maschili che femminili). Così l’opera lasalliana, oltre ad aver posto le basi in Francia dell’insegnamento primario e tecnico-professionale adottato poi dalla generalità degli Stati moderni, ha interessato la storia mondiale della pedagogia scolastica, con una risonanza che ancor oggi non cessa di espandersi. Bibl.: a) Fonti: J.-B. de L.S., Opere complete, ediz. it. a cura di S. Barbaglia, 6 voll., Roma, Città Nuova, 1993-2005; Collana Cahiers Lasalliens. Textes, études, documents, 64 voll., Roma, Maison gén. FSC, 1959-2007. b) Studi: Calcutt A., De L. S. A city saint and the liberation of the poor through education, Oxford, 1993; Gallego S., Vida y pensamiento de s. J.-B. de La S., vol. 1: Biografía; vol. 2: Escritos, Madrid, BAC, 1986; Scaglione S., Bibliographia internationalis Lasalliana, in «Rivista Lasalliana» 68 (2001) 1-2; Valladolid J. M., La S. catequista, Madrid, PPC, 2007.

F. Pajer

LABERTHONNIÈRE Lucien n. a Chazelet nel 1860 - m. a Parigi nel 1932, filosofo francese. 1. Nato da una famiglia di umili artigiani, compì i suoi studi in seminario e, dopo l’ordinazione sacerdotale, entrò nella Congregazione dell’Oratorio, ricoprendo dapprima l’incarico di professore di filosofia e poi le funzioni di direttore del celebre collegio di Juilly. L’esperienza educativa che venne compiendo lo stimolò a scrivere la Théorie de l’éducation, pubblicata per la prima volta nel 1901. In polemica con i teorici della cosiddetta educazione indipendente secondo cui ogni oggetto andava lasciato al suo libero e spontaneo sviluppo, egli affermava che una tale prospettiva, oltre che concretamente 642

impraticabile, sarebbe stata deleteria e, pertanto, rivendicava la necessità della presenza attiva del maestro. Non si deve però credere che egli fosse portato a giustificare qualsiasi intervento dell’educatore. Sosteneva che, al pari di ogni altra autorità, anche quella del maestro cambiava volto a seconda delle intenzioni da cui era animata. A suo modo di vedere, c’erano due tipi di autorità: l’autorità «asservitrice» (asservissant), che usava del potere e del sapere di cui disponeva per assoggettare gli allievi ai propri fini particolari, e l’autorità «liberatrice», che cercava al contrario di porre se stessa a servizio di coloro che le erano affidati per aiutarli a prendere in mano le sorti del loro destino. Egli riteneva che solo chi si sforzava di attuare il secondo tipo di autorità meritava il titolo di educatore. 2. Nel 1903, essendo stato sciolto l’Oratorio a seguito della legge sulle congregazioni religiose in Francia, L. prese dimora a Parigi e da quel momento dedicò le sue energie all’approfondimento delle tematiche filosofiche e religiose, partecipando a quel profondo sforzo di rinnovamento della cultura cattolica, che si diffuse un po’ in tutta Europa e a cui gli storici avrebbero poi dato il nome di modernismo. Tra il 1903 e il 1904 uscirono due suoi scritti che concorsero a farne conoscere il pensiero: Essais de philosophie religieuse e Le réalisme chrétien et l’idéalisme grec. In aperto contrasto con certa teologia cattolica, a suo giudizio troppo inficiata d’intellettualismo, egli sosteneva che la conquista filosofica del vero era frutto non solo della → ragione, ma anche delle disposizioni interiori del soggetto. Tale concezione nasceva in lui dal convincimento che ogni presa di posizione sull’essere rinviava, in modo più o meno esplicito, a una interpretazione dell’assoluto e che questa interpretazione comportava sempre un’opzione fondamentale sul senso dell’esistenza. Egli pensava cioè che, per avere la certezza e il possesso della → verità, occorreva affermare Dio e che per riuscire a cogliere Dio come principio, era necessario cominciare con l’assumerlo come fine. Queste tesi furono duramente biasimate dagli esponenti della cultura teologica neoscolastica, i quali accusarono il loro autore di fideismo.

LABORATORIO

3. Chiamato a far parte della Société Française de Philosophie nel 1905 L. ricevette l’incarico di dirigere le «Annales de Philosophie Chrétienne». Sotto la sua guida, il periodico sarebbe diventato una delle pubblicazioni di punta della cultura cattolica francese. Nella primavera del 1906 L. incorse negli strali della censura ecclesiastica: gli Essais e Le réalisme furono infatti messi all’indice. La vicenda avrebbe dovuto consigliargli una maggiore prudenza, tanto più che, dopo la promulgazione, nel 1907, dell’enciclica Pascendi volta a condannare le dottrine moderniste, nel mondo cattolico prese a diffondersi un pesante clima di sospetti. Ma L., incurante dei rischi, proseguì lungo la sua strada, non perdendo per altro occasione d’attaccare i teologi che guardavano con favore a un’alleanza della Chiesa con l’Action française, il movimento di destra guidato da Charles Maurras. Questa sua coraggiosa linea di condotta non restò senza conseguenze. Tra la primavera e l’estate del 1913 egli fu raggiunto da alcuni gravi provvedimenti: l’8 maggio veniva posta all’indice la serie delle «Annales de Philosophie Chrétienne» uscita sotto la sua direzione; il 16 giugno analoga sorte toccava a due suoi brevi saggi; il 30 giugno gli fu consegnata un lettera del prefetto della Congregazione dell’Indice con cui gli si interdiceva di pubblicare i risultati dei suoi studi. La proibizione di pubblicare, cui L. si sottopose e dalla quale non sarebbe stato più affrancato, ne fece una specie di «murato vivo», anche se egli poté continuare a svolgere l’attività di ricercato conferenziere, oltre che di animatore di piccoli gruppi. Merita ricordare che, nonostante la condanna da cui era stato colpito, a lui non di rado ricorsero sacerdoti e persino vescovi per farsi aiutare nella redazione di testi e documenti. 4. Nel ’29, presa visione di un dibattito apertosi in tema di scuola sulle pagine della rivista di un sindacato di insegnanti, scrisse una lettera nella quale delineava il profilo di quella che avrebbe dovuto essere una scuola pubblica rispetto alle diverse opzioni culturali e religiose presenti nella società. Le precisazioni da lui fornite al riguardo si collocavano in ideale continuità con quanto aveva sostenuto nella Théorie de l’éducation. L. prendeva le distanze sia da chi non esitava a concepire la scuola pubblica a servizio di

una determinata concezione sia da chi pensava che, per restare al di sopra delle parti, essa fosse chiamata a stendere il silenzio sui problemi e sulle varie posizioni in campo. A suo modo di vedere, se si voleva che la scuola pubblica attendesse alla propria vocazione educativa, bisognava che i suoi insegnanti, evitando la neutralità non meno della partigianeria, potessero rendere ragione delle idee in cui credevano. In altri termini, egli stimava che la scuola pubblica doveva vedere nella pluralità delle posizioni da cui era caratterizzata non un male da subire o da occultare, ma un’opportunità da mettere a frutto al fine di una più efficace opera di collaborazione nella leale ricerca della verità. Bibl.: tra gli studi più recenti: Beillevert P. (Ed.), L. L’homme et l’oeuvre, Paris, Beauchesne, 1972; Pazzaglia L., Educazione religiosa e libertà umana in L., Bologna, Il Mulino, 1973; Perrin M. Th., La jeunesse de L. Printemps d’une mission prophétique, Paris, Beauchesne, 1980; La pensée de P.L.L. Colloque philosophique organisé à l’occasion du 50ème anniversaire de sa mort par la Faculté de Philosophie de l’Institut Catholique de Paris et l’Oratoire de France, in «Revue de l’Institut Catholique de Paris» (1983) fasc. VIII.

L. Pazzaglia

LABORATORIO È stato scritto che la pedagogia ha perso progressivamente fiducia nel potere magico della parola – «basta parlare perché gli alunni comprendano e apprendano» (De Landsheere G., 1978, 14) – e ha cercato di produrre nuove situazioni educative in cui si potessero conciliare l’insegnamento individualizzato, il lavoro socializzato, la partecipazione diretta dell’alunno, assicurando da parte dell’insegnante il ruolo di guida e di consulenza. 1. Il l. rientra nel quadro di queste «nuove» situazioni educative. Il termine l. evoca un ambiente provvisto di strumenti e materiali idonei, e una situazione (anche temporale) che richiede alle persone una partecipazione diretta per sperimentare e produrre risultati. Il l. è di fatto un metodo attivo di apprendimento che chiama in causa l’alunno perché personalmente o in gruppo sperimenti e 643

LAENG MAURO

lavori sul proprio apprendimento in un ambiente idoneo avendo a disposizione un supporto preparato dall’insegnante. 2. Il l., così come è inteso oggi, ha conosciuto vari cambiamenti nel tempo. Dapprima circoscritto all’ambito delle scienze sperimentali (l. di fisica e di chimica) gradualmente si è esteso ad altri contenuti dell’insegnamento. Negli anni ’60 un posto privilegiato fu riconosciuto al l. linguistico partendo dal presupposto che una lingua non è materia astratta ma viva, e che uno dei modi migliori per acquisirla è esercitarla. La proposta venne dagli Stati Uniti e all’inizio fu accolta con una certa diffidenza in Europa. Nel 1963 fu scritto che «rien ne nuit au Laboratoire de langues que de s’appeler Laboratoire et de venir d’Amérique» (Guénot, 1963, 27). Era l’epoca in cui le teaching machines invadevano il mercato europeo e il l. linguistico fu annoverato in un primo tempo tra queste. Ben presto fu impiegato come l. d’istruzione per le altre materie, l’uso della «macchina» non apparve prioritario e lo si scoprì come metodologia di apprendimento che coinvolgeva in modo più significativo l’allievo. L’esperienza di «l. didattico» nel microteaching risultò positiva ai fini della formazione dei futuri insegnanti attraverso simulazioni di situazioni scolastiche (strutturate in modo da garantire il raggiungimento di obiettivi specifici) dove alcuni sono protagonisti e altri osservatori. 3. Oggi il metodo di l. è comunemente usato non solo nell’ambito dell’apprendimento scolastico ma anche in corsi e convegni per facilitare ai partecipanti la possibilità di «lavorare» su ipotesi e proposte concrete mettendo a loro disposizione spazio materiale e di tempo e una varietà di supporti di documentazione adeguati. Bibl.: De Landsheere G., La formazione degli insegnanti domani, Roma, Armando, 1978; No vak J. D. - D. B. Gowin, Imparando a imparare, Torino, SEI, 1989; Gagné R. M. - L. J. Briggs, Fondamenti di progettazione didattica, Ibid., 1990; Frabboni F., Il l., Roma/Bari, Laterza, 2007.

M. G. Caputo

LABORATORIO EDUCATIVO → Laboratorio

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LAENG Mauro n. a Roma nel 1926 - m. a Roseto (PE) nel 2004, pedagogista italiano. 1. Cenni biografici. Figlio di Walter (Gualtiero) di origine svizzera, laureatosi in filosofia a Milano, all’Università Cattolica, insegnò per 15 anni nelle scuole secondarie e per 35 anni pedagogia nell’Università di Roma, prima nella Fac. di Magistero e poi nella Fac. di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre, dove è stato anche direttore dell’Istituto di pedagogia, preside della Facoltà di Magistero, direttore del Museo storico della didattica, ora dedicato al suo nome, e infine professore emerito. Si tratta di una delle figure eminenti della cultura filosofica, scientifica, psicologica, pedagogica del Novecento italiano ed europeo. Ha collaborato con molte istituzioni, dando contributi originali: dal CEDE di Frascati, di cui fu vicepresidente, all’OCSE, al Consiglio d’Europa, all’UNESCO, ad associazioni professionali italiane ed europee. Ha fondato nel 1965 e diretto fino alla fine il periodico Didattica delle Scienze ed ha coordinato la Commissione ministeriale che ha elaborato i Programmi della scuola elementare del 1985. Il suo amore per la chiarezza concettuale e la sua passione didattica sono all’origine di una serie fortunata di volumi, in particolare del suo Lessico Pedagogico, tradotto in più lingue; e soprattutto della sua monumentale Enciclopedia Pedagogica (Brescia, La Scuola, 1990-93) in 6 voll., di oltre 6.000 pagine, dovute a 500 collaboratori di vari Paesi, arricchita nel 2003 di un 7° vol. (Appendice A-Z). 2. Produzione pedagogica. a) Sul piano storico, i suoi studi hanno fornito alimento al noto manuale Reale Antiseri Laeng, in 3 voll., Filosofia e Pedagogia dalle origini a oggi (Brescia, La Scuola, 1985) più volte ristampato, e ad una Antologia Pedagogica, pure in 3 volumi. b) Nel settore comparativo ha collaborato come Technical Officer alla ricerca internazionale IEA sulla valutazione del profitto scolastico. È stato vicepresidente internazionale della CESE (Comparative Education Society in Europe), collaborando alla costruzione del sistema informativo EUDISED. Frutto delle sue frequentazioni in-

LAMBRUSCHINI RAFFAELLO

ternazionali è l’Atlante della Pedagogia, in 3 voll. e 4 tomi (Napoli, Tecnodid, 1989-1993). c) Sul piano teoretico la sua ricerca ha preso le mosse da Problemi di struttura della Pedagogia (1960), si è sviluppata in Educazione nella civiltà tecnologica (1969 e 1984), in Educazione alla libertà civile morale e religiosa (1980 e 1992), e nella sintesi Nuovi Lineamenti di Pedagogia e nella guida Pedagogia della collana Professione docente (La Scuola, 1999). d) Sul piano sperimentale la sua multiforme attività è confluita in Pedagogia sperimentale (1992 e 1998). e) Sul piano didattico, oltre ai manuali citati, si ricordano i Lineamenti di didattica (1978 e 1996) e i volumi Insegnare scienze (1998), Pedagogia e Informatica (1985), Movimento, gioco, fantasia (1990). Bibl.: a) Fonti: M.L., Sentieri della memoria: note retrospettive. Esperienze e riflessioni. Aneddoti e curiosità, Roseto, 2000 (presso l’A.); I d., Il mio itinerario alla pedagogia, in «Pedagogia e Vita» (2001) 3, 48-56; b) Studi: Corradini L. (Ed.), Pedagogia, ricerca e formazione. Saggi in onore di M.L., Roma, Seam, 2000; Id., «L., M.», in M.L. (Ed.), Enciclopedia pedagogica. Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, 825-829; Id., Profilo della vita e dell’opera di M.L., in «Pedagogia e Vita» (2006) 3-4 , 179-210.

L. Corradini

LAICO/LAICITÀ → Chiesa → Educazione religiosa

LAMBRUSCHINI Raffaello n. a Genova nel 1788 - m. a San Cerbone (Figline Valdarno) nel 1873, educatore e pedagogista italiano. 1. Studia nel seminario di Orvieto, e dopo l’ordinazione presbiterale ricopre vari incarichi ecclesiastici prima in Umbria (subendo un periodo di esilio in Corsica) e poi presso la curia romana. Nel 1816 si ritira nella sua azienda agricola a S. Cerbone, svolgendo un’azione di sperimentazione agraria in contatto con quella del Ridolfi, e compie studi di botanica e di fisica. Fonda nel 1827, insieme a C. Ridolfi e L. de Ricci, il «Giornale Agrario Toscano», sostenendovi la necessità di una

pedagogia agraria basata sul → mutuo insegnamento e sulla valorizzazione delle conoscenze già spontaneamente diffuse. Fonda e dirige dal 1830 l’istituto di S. Cerbone, piccolo collegio privato, facendone il laboratorio pratico della sua riflessione pedagogica e nel 1831 la scuola delle feste per gli artigiani della zona. Collabora con l’«Antologia» di Vieusseux, pubblicandovi i suoi primi scritti di carattere strettamente pedagogico, tra cui l’importante memoria Sulla istruzione del popolo. Intreccia un intenso scambio epistolare privato con → Capponi e Tommaseo, da cui emergono le sue propensioni verso una radicale riforma della Chiesa. Dirige e in larga parte scrive in prima persona la celebre «Guida dell’Educatore» (1836-1845), edita dal Vieusseux, prima rivista pedagogica italiana nel senso moderno del termine, che ha come supplemento le «Letture per i Fanciulli» (1836-1842) poi «Letture per la Gioventù» (1844-1845). I contributi del L. spaziano dalla filosofia dell’educazione alla didattica applicata. Le finalità dell’educazione sono connesse alla definizione delle qualità dell’educatore, che offre anzitutto un esempio. Seguono trattazioni sui premi e i castighi, l’educazione familiare e un trattatello Delle virtù e dei vizi. La «Guida» di L. ospita anche una serie di strumenti didattici che riguardano il metodo di lettura, di cui viene proposta una versione di quello sillabico, l’aritmetica, la scrittura, compreso un piccolo corso di calligrafia, e infine la grammatica, l’analisi logica e alcune elementari lezioni di lingua latina. Importanti anche i contributi sull’istruzione religiosa, con narrazioni bibliche e trattazioni sulla morale e la preghiera. 2. Pur nella forma non sistematica emerge dalla molteplicità degli scritti di L. l’affermazione della necessità che l’educazione tenga presenti tutte le dimensioni dell’uomo e la concezione della pedagogia come scienza fondamentalmente pratica e sperimentale. Sempre a L. sono dovuti il saggio Sopra la necessità di scuole magistrali, e il dialogo Sulla libertà d’insegnamento, in cui sostiene la completa libertà dell’insegnamento privato, nel contesto di una presenza pubblica all’altezza dei bisogni della generalità della popolazione. Nel 1849 ripubblica in modo organico, col titolo Della educazione e del645

LAPORTA RAFFAELE

la istruzione (Firenze, Vieusseux, 1849), i suoi scritti apparsi sulla «Guida». Nel 1852 pubblica la prima giornata dei dialoghi Della istruzione (cfr. l’ediz. definitiva, Firenze, Le Monnier, 1871) che cerca di offrire una sintesi tra «buon senso» e moderne dottrine pedagogiche, tenendo insieme presenti Capponi e → Tommaso d’Aquino, esortando l’educatore a seguire le fasi dello sviluppo fisico e psichico dell’educando. Dopo aver chiuso il suo Istituto, svolge nel 1847-49 un significativo ruolo politico, nel gruppo di Ricasoli. 3. Nel 1859 è nominato dal Ridolfi, ministro della P. I. del governo provvisorio toscano, ispettore generale delle scuole, compiendo, in collaborazione con Buonazia, Conti e Gotti, una vera e propria rifondazione della scuola toscana, soprattutto elementare, servendosi anche della rivista pedagogica «La Famiglia e la Scuola» (1860-1861) in cui L. pubblica la seconda giornata dei dialoghi Della istruzione, le sue lezioni di grammatica e le sue conferenze sulle caratteristiche ideali del maestro. Nominato senatore nel 1860, rimane nell’amministrazione centrale del Ministero della P. I., come ispettore centrale per l’insegnamento elementare, svolgendo un rilevante ruolo nell’amministrazione delle scuole toscane almeno fino al 1865. Collabora al periodico «La Gioventù» (1862-1871) ed è tra i protagonisti di vivaci polemiche sull’evoluzionismo e sulla questione della lingua. È professore di pedagogia e antropologia, all’Istituto di Studi Superiori di Firenze dal 1867 e sovrintendente dello stesso Istituto. La fortuna del L. si esplica attraverso la tradizione educativa moderata toscana, l’influsso di questa su quella piemontese e, per questo tramite, sulla tradizione della scuola e della pedagogia italiana. Nel Novecento, quando L. è ormai un classico della pedagogia italiana, viene riattualizzato ad opera di Gambaro e → Casotti. Bibl.: a) Fonti: L.R., Riforma religiosa nel carteggio inedito di R.L., Torino, Paravia, 1923-1926; Scritti politici e di istruzione pubblica, Firenze, La Nuova Italia, 1937; Scritti di varia filosofia e religione, Ibid., 1939; R.L. - G. P. Vieusseux, Carteggio, Firenze, Le Monnier/Fondazione Spadolini, 1997-2000. b) Studi: Casotti M., R.L. e la pedagogia italiana dell’Ottocento, Brescia, La Scuola, 1964; Gentili R., L.: un liberale cattolico

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dell’800, Firenze, La Nuova Italia, 1974; Gaudio A., Educazione e scuola nella Toscana dell’Ottocento. Dalla Restaurazione alla caduta della Destra, Brescia, La Scuola, 2001; Cambi F. (Ed.), R.L. pedagogista della libertà, Reggello, FirenzeLibri, 2006.

A. Gaudio

LANCASTER Joseph → Mutuo insegnamento

LAPORTA Raffaele n. a Pescara nel 1916 - m. a Firenze nel 2000, pedagogista italiano. 1. Laureatosi in giurisprudenza, divenne insegnante liceale di filosofia e storia. Arrivò alla pedagogia «per il gusto di fare scuola» e di cercare di migliorarla, lavorando con gli insegnanti nell’ambito dei CEMEA e del Movimento di cooperazione educativa. Fondamentale fu per lui la direzione della Scuola Città Pestalozzi di Firenze, una «istituzione sperimentale di differenziazione didattica» istituita nel 1945 su iniziativa di → Codignola per la realizzazione degli ideali democratici. Egli precisò in questo modo i caratteri della scuola: «spirito di servizio, rigore culturale, forte senso autocritico, sviluppato anche collettivamente, a partire dal 1959 in poi, apertura costante all’innovazione, “laicità”, intesa come apertura a tutte le manifestazioni dello spirito, comprese quelle di ogni credo religioso». 2. Vinto il concorso di pedagogia, insegnò nelle università di Siena, Firenze, Cagliari, Bologna, Roma, Chieti. Diresse la rivista «Scuola e Città», espressione di un «laicismo» spesso illuminato e dialogico. La sua ricerca teorica si è sviluppata con coerenza e con continui approfondimenti, per mezzo secolo. Elegante, garbato, generoso, realista e idealista, positivista e romantico, ha scavato nei terreni fondamentali della pedagogia in Educazione e libertà in una società in progresso (1960), in La comunità scolastica (1963) e in La difficile scommessa (1971), per approdare al monumentale L’assoluto pedagogico. Saggio sulla libertà in educazione (1996), tutti con La Nuova Italia di Firenze: contro l’ideologia e per la libertà della scuo-

LAVORO

la dalle ragioni della politica, in dialogo con tutti, intorno al nucleo che gli sembrava più promettente, quello di un’educazione sottratta a logiche altre, in particolare le ideologie. Dell’educazione infatti sospettava, perché ne temeva la prevaricazione. «L’idea di verità non ha senso nel processo di sopravvivenza dell’uomo, come nella sua educazione. Non è una Verità, ma è la libertà dell’educando la sua condizione e al tempo stesso il suo fine». Animò un vivace dibattito epistemologico, a partire dal suo saggio La via filosofica alla pedagogia, in «Bollettino della società filosofica italiana», 1975, nn. 90-91. In un carteggio con chi scrive, parlò di «una difficile fede nell’uomo, sempre mortificata e sempre rinascente nel rapporto con gli uomini: con i giovani soprattutto». È ritenuto uno dei maestri della pedagogia e della cultura politica del ’900. Bibl.: a) Fonti: R.L., La mia pedagogia nell’attuale contesto culturale, in «Pedagogia e Vita» (2000) 2, 12-25. b) Studi: Corradini L., La «scom­ messa pedagogica» di R.L., in I d., Dialogo pedagogico e partecipazione scolastica, Milano/ Roma, Massimo/UCIIM, 1980; Scritti in onore di R.L., Chieti, Il Vecchio Faggio, 1990; Frabboni F. et al., Le frontiere dell’educazione. Scritti in onore di R.L., Firenze, La Nuova Italia, 1992 (contiene un profilo e una vasta bibl.).

L. Corradini

LAUREA → Titoli di studio LAVAGNA → Mezzi didattici

LAVORO L’accostamento dei termini l. ed educazio­ ne richiama una duplice connessione dina­ mica: l’educazione al l. o formazione in vi­sta dell’attività lavorativa ed educazione nel l. quale occasione specifica di crescita umana. 1. L., educazione e contesto storico-culturale. Nel corso della storia questo duplice nesso assume una consistenza molto diver­sificata, perché variando il concetto di l. nei diversi contesti culturali, mutano di conse­g uenza significati e prassi educative riguar­danti l’attività lavorativa. Nel mondo occi­dentale è soprattutto la riflessione filosofi­ca a offrire, nel

corso dei secoli, una serie di concezioni emblematiche di l., a cui sono inevitabilmente sottesi dei particolari orientamenti dell’educazione. Nell’anti­chità (Grecia e Roma), prevaleva una valutazione negativa del l., considerato come attività manuale riservata agli schiavi, men­t re era proprio degli uomini liberi dedicar­si alla guerra, alla politica, alla speculazio­ne. Più oltre, nell’epoca paleocristiana, il l. fu visto come mezzo di espiazione, come sofferenza solo attenuata dal senso di par­tecipazione all’attività creativa di Dio. Du­rante il → Medioevo esso assurge con le corporazioni a strumento di solidarietà economica, politica e religiosa. Ma è solo con il Rinascimento che viene esaltato co­me veicolo di progresso civile e di autono­m ia personale. Col → protestantesimo Lu­tero ne fa «un servizio» e Calvino una via di ascesi, come valore etico per la consa­crazione della vita nel mondo. L’Illumini­smo e l’Idealismo ne mantengono l’imma­g ine positiva quale elemento di dignità sociale. Questo ottimismo viene successiva­mente incrinato con l’evoluzione del → ca­pitalismo verso ampie forme di sfrutta­mento del l. umano. Marx, riconoscendo il l. come azione vicendevole di scambio tra uomo e natura, ne denuncia anche i risvol­t i spesso alienanti. Le critiche si appro­fondiscono poi con la Scuola di Francofor­te. Intanto lo scenario del rapporto fra svi­luppo del l. e società si fa più complesso. L’esplosione delle rivoluzioni industriali porta alla frantumazione dei mestieri tra­ dizionali e al diffondersi dell’automazione, dell’informatica, della robotica, della ter­ ziarizzazione delle attività economiche, fa­ cendo assumere al l. un significato talmen­te polimorfo da suscitare problemi biologi­ci, psichici, filosofici, politici e conseguen­ temente educativi. Ormai tutte le correnti della filosofia contemporanea riservano al l. una riflessione attenta e spesso centra­le: sorto come strumento dell’uomo, esso può diventare un potenziale per la sua cre­scita, ma insieme una realtà che lo sover­chia e ne minaccia il destino (Friedmann, 1971), fino ad esserne preconizzata la fine (Rifkin, 1995). La stessa Chiesa cattolica, anche at­t raverso una serie di encicliche papali ema­nate in particolare dal 1891 ad oggi, ha inteso elaborare un’etica del l. costantemente rispettosa del­le esigenze della persona in contesti in di­venire. 647

LAVORO

2. Pedagogia e l. Il pensiero pedagogico ha considerato il l. come componente specifi­ca dell’educazione solo a partire dalla fine del 1700. In precedenza, non era mancata una certa valorizzazione dell’operatività fondata sull’esperienza pratica e manuale. Ma di una «scuola del l.», sia pure come mezzo di riscatto delle classi povere, parlò per primo → Pestalozzi nel 1790, tuttavia bisognò attendere il periodo a cavallo tra il XIX e il XX sec. perché la pedagogia ri­conoscesse al l. una funzione precisa di ma­t urazione della persona. Da allora, a se­conda delle varie aree geografiche e cultu­rali, vi è stato un moltiplicarsi di proposte, dibattiti ed esperienze. Nell’ambiente te­desco, fu soprattutto → Kerschensteiner a formulare una vera sintesi pedagogica sul l., esaltato per la sua relazione con i valori, la sua utilità civile e i potenziali di sviluppo nelle capacità di ideazione, pianificazione e controllo. Negli Stati Uniti dell’industria­lismo taylorista e fordista, → Dewey denunciò i pericoli dell’economicismo e del­l’individualismo, indicando nell’attività professionale uno spazio privilegiato di collaborazione sociale. → Kilpatrick, suo discepolo, propose come obbligatoria nei colleges qualche esperienza di l. Sulla scia del pensiero marxista la pedagogia russa (→ marxismo pedagogico), andò svilup­pando l’idea di una «formazione politecni­ca», a base sia teorico-scientifica che prati­co-polivalente, orientata a formare il gio­vane come padrone della macchina e vero protagonista nella vita collettiva. Lo sviz­zero Ferrière considerò la scuola come un insieme di attività svariate che, passando dal gioco al l., dall’imitazione alla costru­zione autonoma, sollecitasse un impegno sia manuale che intellettuale e sociale. In Italia, nel solco di una ricca tradizione di → formazione professionale, offerta da istitu­zioni religiose (Somaschi, → Fratelli delle Scuole cristiane, → Salesiani), → Gentile e → Lombardo Radice proposero un currico­ lo scolastico capace di fondere gioco e l. → Gramsci propugnò una scuola unica, fatta di cultura generale e di esperienze succes­sive di orientamento alla professione. In­torno alla seconda metà del secolo vari stu­diosi aggiungono ulteriori elementi di ri­flessione e proposta. → Hessen diffonde a livello europeo l’idea di una scuola longi­t udinale unica orientata a superare una mentalità produttivistica, per una cultura della solidarietà e 648

dello sviluppo globale dell’uomo che, a suo avviso, va liberato nel l. e non dal l. Litt è per un’educazione che sottragga dalle dinamiche fagocitanti del­l’evoluzione economica e tecnologica, attraverso un recupero della libertà con scelte di valore sugli indirizzi dell’attività pro­duttiva. → Maslow, gerarchizzando i biso­g ni dell’uomo al l., pone a loro vertice di­namico l’autorealizzazione, come tensione a diventare pienamente se stessi. 3. Evoluzione tecnologica e profes­sionalità. Fino a un passato recente i termini mestiere e → professione indicavano un insieme di competenze precise, costituite da capa­cità e abilità specifiche, necessarie per lo svolgimento di una particolare mansione. Oggi questa connessione è pressoché di­sciolta. Sparita la vecchia cultura agricola e artigiana, la stessa società industriale si va trasformando rapidamente nella società delle informazioni e dei servizi, con muta­menti che investono ormai tutta l’impalca­t ura della professionalità tradizionale. In questo quadro si riducono fortemente le prestazioni puramente esecutive, mentre si dilatano enormemente quelle di program­mazione, controllo e informatizzazione. Oggi anche il lavoratore tradizionale deve possedere doti di intellettualizzazione circa i processi del l., iniziativa, mobilità geografica e professionale, flessibilità di fronte alle esigenze di aggiornamento con­tinuo e di acquisizione di nuove tecnologie, di collegamento con settori diversi dal pro­prio: dalla finanza al marketing, dal diritto alle scienze sociali e della comunicazione. L’apparire di una nuova «classe creativa» (Florida, 2003) sta accelerando inoltre lo sviluppo di un diverso professionalismo, in cui diventa prioritaria la capacità di col­laborare e di acquisire linguaggi scientifi­co-culturali, la consapevolezza e duttilità nei ruoli organizzativi, l’abilità di problem solving, l’attitudine alle scelte e de­cisioni e il possesso di impianti valoriali di fondo ispirati alla → tolleranza e all’interculturalità. Nel contempo questa evoluzione aumenta i rischi di obsolescenza professionale che rende sempre più spesso necessari interventi di ricollocazione e di riorientamento. 4. L’educazione e la formazione professionale. Alla luce di queste trasformazioni, attuali e di prospet­tiva, l’educare al l. e nel

LAVORO

l. comporta ormai nuove ottiche, sia nella riflessione pedago­gica che negli interventi concreti. Infatti l’educazione è destinata non solo a valicare gli ambienti tradizionali della famiglia e della scuola, ma ad estendersi al corso del­l’intera esistenza individuale, nella prospettiva del lifelong learning. UNESCO, Consiglio d’Europa, OCSE e l’UE lo stan­no affermando da qualche decennio. In Italia questa cultura pedagogica del l. si sta affermando. Sono tuttavia ancora ampiamente da integrare concetti e prassi inerenti l’educazione (intesa come maturazione globale della persona sotto il profilo etico, psicologico, religioso e socia­le), l’istruzione (finalizzata all’accresci­mento culturale) e la formazione profes­sionale (come risposta alle esigenze di au­torealizzazione nell’ambito lavorativo). Vanno meglio definiti in sé, e resi fra loro realmente integrati e flessibili, sistemi formativi come l’istruzione tecnica e professio­ nale e la formazione professionale. Nella panoramica variegata dell’attuale «cantiere delle riforme», sembra si possano segna­lare alcune aree privilegiate di educazione professionale e, in esse, alcune esigenze particolari di intervento: a) L’orientamento come modalità educativa permanente. L’a­z ione orientativa corrisponde, all’interno del processo educativo, all’aiuto fornito al­la persona affinché possa realizzare le sue potenzialità mediante scelte adeguate verso la professione, dalla giovinezza all’età adulta. In questo senso orientamento sco­lastico e professionale risultano comple­mentari, in quanto il primo pone l’atten­zione sullo sviluppo globale dell’individuo e sui problemi di apprendimento, mentre il secondo è focalizzato sulle scelte di studio o di l. che consentiranno la sua matura­zione professionale. b) Una scuola rinno­vata, aperta e per tutta la vita. Una prima esigenza di una scuola orientata al l. è un suo collegamento più stretto con la pro­ spettiva della professione. Secondo alcune proposte formulate più direttamente per la situazione italiana, il sistema scolastico do­ vrebbe essere possibilmente unitario dal­ l’infanzia all’università e prevedere uscite e rientri più facili rispetto al mondo del l. Scuola e università dovrebbero confrontarsi costantemente con il mondo lavorativo e imprenditoriale, mentre la stessa cultura professionale dovrebbe tra­sformarsi in vera «cultura del cambiamento», nell’ottica di una

qualificazione conti­nua rispetto al «diverso e possibile» e di un apprendimento esteso a tutta la vita. c) La formazione professionale: iniziale, continua e plurima. La formazione professionale, in quanto dimensionata sullo sviluppo econo­mico e produttivo, è in continua evoluzio­ne e si sta configurando verso un vero e proprio sistema, come raccomandato fortemente dalla UE. Nella situazione italiana è possibile de­lineare in essa una certa varietà di dimen­sioni tra la formazione iniziale di base (di livello secondario), una nuova formazione superiore non accademica (di livello terziario) e la formazione continua. d) Linee educative trasversali. Tutte le iniziative dovrebbero svolgere un’azione di educazione globale dei giova­ni e delle giovani, che nella scuola e nelle strutture formative, vanno preparati a ri­cercare nel l. un’occasione di autorealizza­zione individuale e sociale. In questo senso è importante la «motivazione» al l.: sotto il profilo dei suoi aspetti sociali, retributivi e del suo significato esistenziale personale. Andrebbe insieme evidenziata la dimen­sione cognitiva dell’attività lavorativa, qua­le ambito di conoscenza per il superamen­to dei problemi. Inoltre sembra da favorire un reale processo di socializzazione al l. nel percorso di formazione dell’identità perso­nale lungo i momenti diversi della carriera professionale. 5. Problematiche connesse con l’educazione al l. L’educazione professionale non può non includere anche riflessioni e prassi spe­cifiche circa esperienze strettamente colle­gate con quella del l. La disoccupazione, ad es., che permane un fenomeno di vaste di­mensioni, postula aiuti preventivi e pun­t uali, per contenerne i danni psicologici, stimolare tecniche efficaci di ricerca del l., destare le risorse psicologiche e sociali del­l’individuo. Lo stesso tempo libero, che sembra avere significative correlazioni con l’attività lavorativa, va fatto rientrare in un’educazione professionale che sia for­mazione globale dell’uomo. Nelle situazioni di devianza si può trovare nel l. una via pedagogica efficace (ergoterapia) al recu­pero e allo sviluppo della personalità. In tempi più recenti sono emerse anche le nuove problematiche legate all’andamento demografico, all’invecchiamento della popolazione e alla crisi dei sistemi pensionistici (tipiche dell’ageing society). Le sfide poste 649

LE SENNE RENÉ

all’educazione dalla realtà di un l. umano, estremamente polimorfo e desti­nato a evoluzioni imprevedibili, sono sfide pienamente aperte che restano di vitale importanza per l’intera qualità dell’esi­stenza, a livello tanto individuale che col­lettivo. Bibl.: Negri A., Filosofia del l. Storia antologica, Milano, Marzorati, 7 voll., 1980-1981; R ifkin J., La fine del l., Milano, Baldini e Castoldi, 1995; Beck U., Il l. nell’epoca della fine del l., Torino, Einaudi, 2000; Donati P., Il l. che emerge, Torino, Bollati Boringhieri, 2001; Fraccaroli F. - G. Sarchielli, È tempo di l. Per una psicologia dei tempi lavorativi, Bologna, CLUEB, 2002; ISFOL, Prolungamento della vita attiva e politiche del l., Milano, Angeli, 2002; Florida R., L’ ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, Milano, Mondadori, 2003; A lessandrini G. (Ed.), Pedagogia e formazione nella società della conoscenza, Milano, Angeli, 2005; M arcaletti F., L’orizzonte del l. Il prolungamento dell’esperienza professionale nell’ageing so­ciety, Milano, Vita e Pensiero, 2007.

G. Tònolo

LAVORO DI GRUPPO → Équipe psicopedagogica → Seminario: metodo di

LE SENNE René n. a Elbeuf-sur-Seine nel 1882 - m. a Parigi nel 1954, filosofo e psicologo francese. 1. Professore prima di filosofia e successivamente di psicologia pedagogica e filosofia morale alla Sorbona, negli ultimi anni si dedica allo studio del → carattere ed elabora una caratterologia che prende le mosse dalle ricerche sperimentali compiute dallo psicologo olandese G. Heymans, fondatore della scuola caratterologica di Groninga. Per L.S. il carattere è immutabile; è definito come l’insieme di disposizioni congenite, che costituisce lo scheletro mentale dell’uomo, non dipende dunque dalla storia dell’individuo ma è presente dalla nascita e assicura attraverso il tempo l’identità strutturale dell’individuo, condizionandone lo sviluppo psicologico. Esso rappresenta una sorta di armatura che, pur essendo mentale, non è che lo scheletro della vita psicologica, collocato ai con650

fini tra l’organico e il mentale. L.S. pone una distinzione netta tra carattere e personalità: quest’ultima nella sua costituzione comprende il carattere e tutti gli elementi acquisiti nella vita dell’individuo che hanno specificato il carattere in un senso o in un altro. La personalità è cioè la totalità completa dell’Io – concettualizzato come essenzialmente libero – di cui il carattere non è che la forma fondamentale e invariabile. 2. Per L.S. la caratterologia ha un valore essenzialmente pratico, è cioè volta a migliorare le azioni umane, ponendosi come ausilio agli interventi educativi, che devono tendere a «specificare» il carattere senza introdurvi alcuna «modificazione». Secondo L.S., cioè, gli interventi educativi dovranno prestare attenzione a non distruggere o alterare nessuno degli elementi del carattere preesistenti, limitandosi invece ad aggiungervi nuove note che contribuiranno a determinarlo e a differenziarlo. L.S. identifica nell’emotività, intesa come quella disposizione della nostra vita mentale per cui si può essere più o meno fortemente scossi o impressionati da un avvenimento, nell’attività, definita come quell’atteggiamento che spinge l’uomo ad agire, a lavorare più per rispondere ad un bisogno che egli sente profondamente che non per ottenere ciò che desidera o potrebbe conseguire con la sua attività e nella risonanza o ripercussione, intesa come la misura delle nostre reazioni di fronte alla emotività e all’azione le tre proprietà fondamentali del carattere. Dalla combinazione di queste proprietà tra loro e con un gruppo di proprietà supplementari L.S. fa derivare otto tipi di carattere, minuziosamente e realisticamente descritti. Inoltre, nello sforzo di proporre una sintesi tra l’interpretazione filosofica e psicologica o scientifica dell’uomo, delinea, a conclusione della sua caratterologia, la psicodialettica, intesa come quel processo educativo che è dato dalle dialettiche o norme intenzionali con le quali l’io reagisce alla situazione che il carattere gli impone e cerca di orientarlo nella vita morale e verso un perfezionamento di tutta la personalità. Bibl.: a) Fonti: L.S.: Le mensonge et le caractère, Paris, Alcan, 1930; Id., Traité de caractérologie, Paris, PUF, 1945. b) Studi: Centineo E., R.L.S.: idealismo personalistico e metafisica axiologica,

LEE JAMES MICHEL

Palermo, Palumbo, 1952; Galli N., La caratterologia di G. Heymans e di R.L.S.: rassegna storica, esposizione sistematica, applicazioni pedagogiche, Roma, PAS, 1965; Dollo C., Momenti e problemi dello spiritualismo: Varisco, Carabellese, Carlini, L.S., Padova, CEDAM, 1967; Giordano M., L.S. tra spiritualismo e caratterologia, Cassano (BA), Ecumenica, 1975; Spinelli G. P. (Ed.), La bolla di L.S., Caserta, Centro stampa biblioteca comunale, 1996; Canullo C. (Ed.), Coscienza e libertà: itinerario tra Maine de Biran, Lavelle, L.S., Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2001.

F. Ortu - N. Dazzi

LEADERSHIP Con il termine l., alcuni autori fanno riferimento alle modalità mediante le quali si concretizza l’esercizio dell’autorità e del potere esercitata dal leader all’interno di un gruppo sociale (Reber, 1990), modalità che esercitano influssi sul comportamento altrui, determinando un cambiamento nei comportamenti, nelle opinioni, negli atteggiamenti, nei bisogni, nei valori (Minguzzi, 1973). Molte ricerche sulla l. hanno dimostrato la correlazione tra lo stile comportamentale del leader, il clima sociale e la produttività dei gruppi dove viene esercitata (Scilligo, 1973). 1. Le sorgenti della l. riguardano la competenza riconosciuta al leader dal gruppo; il potere informativo della comunicazione che intercorre tra il leader e gli altri membri del gruppo; oppure, l’azione del leader espressa sotto forma di benefici o coercizioni (Gergen - Gergen, 1990). Il leader può avere alcune caratteristiche di personalità che si riflettono nel modo con cui vive l’autorità, per esempio con uno stile autoritario, quando esercita un forte controllo e dà direzione ed efficienza al gruppo; con uno stile democratico se offre direzionalità e permette ai membri di partecipare alle decisioni; oppure con una l. permissiva se rinuncia al controllo e dà spazio all’autodeterminazione del gruppo (Lewin, Lippitt e White, 1939). Oppure può essere una persona che esercita delle funzioni comportamentali specifiche a seconda delle situazioni in cui viene a trovarsi, integrando i tratti individuali con le motivazioni ambientali (Fiedler, 1967). Tali caratteristiche eser-

citano la loro influenza sulle prestazioni del gruppo, sul clima relazionale e socioemotivo e sul grado di soddisfazione provato dai suoi membri. 2. Dal punto di vista psicoeducativo, si avverte sempre più l’esigenza di una l. che non sia solo efficiente e funzionale, ma che sappia integrare i bisogni reali delle persone e del gruppo dove agisce, con le risorse presenti nell’ambiente e accessibili ad ognuno. Bibl.: Lewin K. - R. Lippitt - R. W hite, Patterns of aggressive behavior in experimentally created «social climates», in «Journal of Social Psychology» 10 (1939) 271-299; Fiedler F. E., A theory of l. effectiveness, New York, McGraw-Hill, 1967; Minguzzi G. F., Dinamica psicologica dei gruppi sociali, Bologna, Il Mulino, 1973; Scilligo P., Dinamica di gruppo, Torino, SEI, 1973; Reber A. S., Dizionario di psicologia, vol. II, Roma, Lucarini, 1990; Gergen K. J. - M. M. Gergen, Psicologia sociale, Bologna, Il Mulino, 1990; M arch J. G. - T. Weil, L’arte della l., Bologna, Il Mulino, 2002.

G. Crea

LEARNING ORGANIZATION → Apprendimento

LEE James Michel n. a New York nel 1931 - m. a Birmingham (Ala) nel 2004, laico statunitense, teorico e promotore dell’educazione religiosa. J.M.L., dopo studi di Storia e un Dottorato in Education conseguito nella Columbia University, ha affrontato il problema della → catechesi e dell’educazione religiosa sottolineando, oltre all’imprescindibile rapporto con la teologia, la sua dimensione pedagogica. La catechesi era «religiosa», ma era «educazione». L’aspetto educativo doveva dominare il suo metodo e la sua prassi. Secondo lui, l’istruzione religiosa (intendendo per istruzione ogni forma di insegnamento/ apprendimento: come prodotto e come processo, cognitivo e affettivo, verbale e non verbale, conscio e inconscio, e stile di vita) si fondava sulle scienze dell’educazione e sulle scienze umane, che egli chiamava, secondo 651

LEGISLAZIONE SCOLASTICA

l’uso americano, social sciences. Ne conseguiva un social-science approach, che egli descriveva, in una ampia trilogia, intesa a creare una macro-teoria dell’educazione religiosa. Su questa concezione aveva elaborato nel 1966 un programma dottorale in educazione religiosa nella University of Notre Dame, da lui brillantemente diretto fino alla brusca soppressione dell’intero dipartimento di educazione nel 1974. Importanti sono stati anche i suoi studi sulla spiritualità e l’impegno dell’educatore religioso e la sua attività come fondatore della Religious Education Press, dedita a pubblicazioni educative di alta qualità. Nonostante le critiche a cui le sue posizioni sono state sottoposte, si riconosce a J.M.L. il merito di avere sollecitato i catecheti ad apprezzare le ricerche delle scienze umane tenendo conto dei loro risultati, e di aver dato rilevanti contributi teorici circa la natura e le mete dell’educazione religiosa e della catechesi. Bibl.: a) Fonti: tra le opere di J.M.L., la trilogia: The shape of religious instruction. A social science approach, Mishawaka, Ind., Religious Education Press, 1971; The flow of religious instruction, Ibid., 1973; The content of religious instruction, Birmingham, Ala., Religious Education Press, 1985). b) Studi: Thompson N. (Ed.), Religious education and theology, Ibid., 1988; Gareth G., A critical evaluation of the contribution of J.M.L. toward a spirituality of the religious educator, Roma, Università Pontificia Salesiana, 1994 (tesi dott. pubblicata in estratto: Roma, 2000).

U. Gianetto

LEGISLAZIONE SCOLASTICA È l’insieme delle norme che presiedono all’organizzazione del sistema scolastico in un determinato ordinamento. 1. Diritti, l, valori. La l.s. si distingue dalla indicazione dei diritti costituzionali che ri­ guardano l’istruzione e lo studio. Tuttavia non è possibile elaborare una compiuta l.s., se non si tiene conto dei diritti che la pre­cedono. Essa è infatti – se coerentemente intesa – lo strumento che serve a dare at­t uazione a quei diritti, intendendosi in ge­nerale la l. come 652

l’assetto formale che una determinata società in un determinato tempo si dà per attuare i → valori di cui si sente ed in concreto è portatrice. Il termine l.s. usualmente ricomprende, tuttavia, sia l’impianto costituzionale dei diritti e dei doveri inerenti all’ → istruzione e alla → scuola, sia il concreto ordinamento scolastico attuativo di quei diritti. Distin­ gueremo, comunque, tra istruzione in sen­so soggettivo o passivo, vale a dire l’insie­me delle conoscenze che il cittadino ha il diritto di, e deve, acquisire per poter rea­lizzare effettivamente i suoi diritti di citta­dinanza e concorrere al progresso materia­le e spirituale proprio, delle sue comunità vitali, dell’intera società (e in questo senso il diritto all’istruzione è esso stesso un «di­ritto di cittadinanza») e istruzione in senso oggettivo o attivo, vale a dire «una plurali­tà di insegnamenti [...] coordinati tra loro o resi sistematici, così da rendere possibile quel risultato complessivo che, una volta raggiunto, supera e prescinde dai singoli in­segnamenti e dalle persone che li hanno forniti, per entrare a far parte, come valore autonomo, della realtà personale del sog­getto “istituito”» (Pototschnig, 1961,47): il primo significato di istruzione attiene alla sfera dei diritti; il secondo attiene più specificamente alla sfera della l.s. Intenderemo altresì per insegnamento «qualunque manifestazione, anche isolata, del proprio pensiero che, riguardando l’ar­te e la scienza, abbia in sé forza tale da il­luminare altri su “lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” (art. 9 del­la Cost. italiana)» (Ibid.) e che, più specifi­camente, sia impartito al fine di fornire ele­menti di istruzione. Intenderemo, ancora, per scuola una particolare «organizzazione [...] nell’ambito della quale [...] i diversi insegnamenti si coordinano tra loro in modo da assicurare il raggiungimento del risulta­to comune (quello di istruire) e che si vale, in vista di questo suo scopo, di tutti quegli elementi personali, tecnici e materiali che garantiscono continuità e sistematicità al­l’azione di coloro che operano nella scuo­ la» (Pototschnig, 1961, 83): la l.s. è pertanto l’insieme delle norme che regolano la scuola come organizzazione unitaria di persone, attività e beni volta al fine di ga­rantire gli spazi di insegnamento e di assi­curare istruzione. In questo senso si parla anche di servizio scolastico – più estesa­mente – di servizio di istruzione (ripren­dendo in esso non

LEGISLAZIONE SCOLASTICA

solo l’ambito dell’in­segnamento scolastico ma anche quello della → formazione professionale). La l.s. sarebbe allora l’insieme delle norme che regolano il servizio scolastico (o il servizio di istruzione), per assicurarne il funziona­mento e il coordinamento al fine del sod­disfacimento del diritto all’istruzione dei cittadini e del progresso materiale e spiri­t uale della società. La l.s. si pone quindi come strumentale per il perseguimento di quei valori e non come «fine a se stessa». Anzi, la sua dignità e completezza – la sua stessa efficacia ed ef­ficienza – si valutano proprio in funzione del migliore – più efficace ed efficiente – perseguimento e raggiungimento di quei valori (valori, si badi, sì «esterni» all’ordi­namento ordinante, ma non certo ad esso «estranei», se è vero che l’assetto costitu­zionale dell’ordinamento ordinante li fa propri – come «principi fondamentali» o «valori superiori» dell’ordinamento giuri­ dico [cfr. art. 1 della Cost. del Regno di Spagna del 1978] – per così dire «costituzionalizzando» il riferimento ad essi e il nesso necessario per i valori e la legislazio­ne: non diversamente intende la Cost. ita­liana quando individua come compito del­la 1. quello di indirizzare e coordinare «a fi­ni sociali» le attività dei soggetti dell’esperienza giuridica o quello di assicurarne la «funzione sociale»). 2. Il rapporto educativo come rapporto giuridico. In sé, il → rapporto educativo non ha bisogno di l. Esso infatti natural­mente si inserisce nel quadro dei rapporti personalissimi tra genitori e figli (prima di tutto) e tra formazioni sociali originarie e loro membri. In quanto «introduzione alla realtà», l’educazione è dovere-diritto ina­lienabile dei genitori, ai quali la società e le sue istituzioni hanno il dovere di fornire i supporti strumentali necessari per il suo pieno adempimento; ma non hanno alcun diritto di avocarlo a sé. Segnatamente il ruolo delle istituzioni è quello di assicurare le condizioni giuridiche ed economiche e di definire le norme generali in forza delle quali tale dovere-diritto di istruire ed edu­care i figli («anche se nati fuori del matri­monio», aggiunge la Cost. italiana, art. 30, primo comma) si può e si deve esplicare. In questo senso la l.s. interviene ad assicurare organizzazione, criteri e finalità generali, all’interno dei quali si esplicano le libertà e si rendono effettivi i diritti dei

differenti soggetti del rapporto educativo; mentre il rapporto educativo entra nella sfera del­l’ordinamento, il quale assume nei suoi confronti un ruolo positivo e promozionale e non un ruolo – o un compito – impositivo e cogente. In questo senso il rapporto edu­ cativo può essere inteso anche come rap­ porto giuridico, siccome rapporto tra due o più soggetti regolato dal diritto. 2.1. I soggetti. Ogni soggetto che «entra» nel rapporto educativo è portatore e titolare di un proprio ruolo, di un proprio com­pito, di propri diritti e di una propria li­bertà, per l’effettivo esercizio e la piena esplicazione dei quali la l.s. è tenuta ad as­sicurare la cornice normativa generale e le condizioni giuridiche necessarie, ivi com­presa la disponibilità delle risorse umane e strumentali, organizzative ed economiche adeguate. a) Gli allievi sono una delle parti fonda­mentali (anzi, la parte fondamentale, senza la quale esso neppure si instaura) del rap­porto educativo/formativo. Essi godono delle garanzie fondamentali che il costitu­zionalismo democratico contemporaneo ri­conosce all’uomo e al cittadino, non solo per sé e per il proprio sviluppo (diritto) ma anche in funzione del progresso della com­pagine politica, economica e sociale del proprio Paese e della comunità internazio­nale (dovere). Pertanto gli ordinamenti di pressoché tutti i Paesi del mondo sta­biliscono per ogni cittadino un certo perio­do di istruzione «di base» obbligatoria, variamente disponendo circa le provviden­ze per confermare che essa non è solo un dovere, ma risponde anche alla realizza­zione di un diritto: vanno lette in questo senso le affermazioni dell’art. 34 della Co­st. italiana secondo cui «la scuola è aperta a tutti», e l’istruzione «inferiore» è «obbligatoria» e «gratuita». Non diversamente sta­bilisce l’art. 27 della Cost. spagnola del 1978 («Tutti hanno diritto all’istruzione»; «l’istruzione primaria è obbligatoria e gra­ tuita»). E non sono che esempi. b) I genitori sono l’altra parte fondamentale del rapporto educativo/formativo: essi so­no titolari di un dovere-diritto ad istruire ed educare i figli, in ragione dello specia­lissimo rapporto naturale che si instaura tra loro. Proprio la speciale e insuperabile naturalità di tale legame è tra i fondamen­ti di tutta la disciplina giuridica del servizio scolastico negli ordinamenti democratici. Infatti la individuazione del rapporto geni­tori/figli come il fondamentale 653

LEGISLAZIONE SCOLASTICA

nucleo del rapporto educativo, fa sì che tutti gli altri soggetti e le loro posizioni giuridiche vi si adeguino e vi si conformino, nell’orga­ nizzazione del servizio scolastico. Così la legge fondamentale (Grundgesetz) della Repubblica Federale tedesca, art. 6 (II) stabilisce che «la cura e l’educazione dei fi­gli sono un diritto naturale dei genitori ed un precipuo dovere che loro incombe, la comunità statale sorveglia la loro attività»; e la Cost. italiana non diversamente si esprime agli articoli 30 e 31. È interessante notare come le più recenti Costituzioni eu­ropee, e segnatamente quelle dei Paesi sla­vi, riprendano questi principi (Cost. un­gherese del 1989, art. 67.2; Cost. croata del 1990 art. 63; Cost. bulgara del 1991, art. 47.1). Va altresì ricordato che, in senso conforme si muove la Convenzione euro­pea dei diritti; firmata a Roma il 4 no­ vembre 1950, protocollo addizionale fir­mato a Parigi il 20 marzo 1952 (art. 2), re­cepita nell’ordinamento italiano con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e nel Parla­mento Europeo, con la risoluzione del 14 marzo 1984, ha affermato, tra l’altro, «il di­ritto dei genitori di scegliere per i propri fi­gli, tra diverse scuole equiparabili, una scuola in cui questi ricevano l’istruzione desiderata». c) Gli insegnanti hanno nel sistema del servizio scolastico che si va delineando una duplice posizione: da una parte essi sono titolari della → libertà di insegnamento; e dall’altra sono, per così dire, mediatori di istruzione, o collaboratori dei titolari del diritto ad istruire ed educare i figli. Essi, esplicando la propria professionalità, adempiono la funzione docente (che è fun­ zione inequivocabilmente pubblica, nel senso indicato in premessa), intesa come «esplicazione essenziale dell’attività di tra­smissione della cultura, di contributo alla elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tal processo e alla formazione umana e critica della loro professionalità», «nel rispetto della co­scienza morale e civile degli alunni». La trasmissione della cultura, la promozione della formazione della personalità degli alunni nel rispetto della loro libertà e della loro coscienza morale e civile sono il com­pito specifico e la funzione sociale degli in­segnanti nel sistema delineato. d) Le formazioni sociali originarie (oltre al­la famiglia) – intese come le comunità cul­t urali e/o religiose, le comunità locali, le comunità di lavoro, la comunità nazionale (che è cosa 654

ben diversa dalla stato-perso­na), le stesse comunità sovranazionali – hanno anch’esse un ruolo, allargato ma pri­mario, nel rapporto educativo scolastico/formativo. Esse sono portatrici di quella tradizione culturale la cui trasmissione è parte centrale della funzione docente (in­tesa qui in senso aspecifico e allargato); esse sono altresì il luogo di integrata for­mazione di quella personalità dei cittadini (e tra essi degli alunni) il cui pieno sviluppo è tra i fini del sistema istituzionale demo­ cratico, e sono, al pari delle persone singo­le, titolari dei diritti fondamentali di cittadinanza. Anche le formazioni sociali sono parte integrante del rapporto educativo scolastico/ formativo, e possono svolgere un ruolo assai importante nella determina­zione dei criteri di gestione del servizio, specialmente quando la struttura è forte­mente accentrata, come capita finora so­prattutto nei Paesi mediterranei e di più giovane democrazia. Fra le formazioni so­ciali di cui si parla sono anche le autono­mie locali (intese come le comunità locali) che, esprimendosi anche (ma non soltanto) attraverso gli enti locali, hanno il compito (e il diritto) di far valere l’importanza del rispetto delle situazioni, delle tradizioni, delle esperienze, dei bisogni locali, al fine della migliore efficienza e della più profi­cua efficacia del servizio scolastico/for­mativo. e) Le istituzioni svolgono nel contesto del rapporto educativo scolastico/formativo un ruolo necessario, sebbene – come si è visto finora – non sufficiente. Esse hanno il com­ pito di apprestare le condizioni giuridiche e le risorse umane e materiali necessarie per­ ché il rapporto educativo si possa svolgere e sviluppare efficacemente tra i soggetti che ne sono protagonisti. Si vuole ribadire che non esiste – alla luce di quanto detto sopra – una «sovranità» dello Stato nel campo dell’istruzione, e tanto meno dell’educazione, bensì il riconoscimento da par­te dell’ordinamento costituzionale della originaria soggettività nel rapporto educa­tivo scolastico/formativo delle «parti» che abbiamo indicato, e della loro titolarità di diritti e libertà derivanti da tale originaria soggettività. Ne consegue anche il compito istituzionale per l’insieme dei pubblici po­teri, quali enti esponenziali dello Stato-co­munità, di dettare le norme generali sull’i­struzione, sia in ordine ai criteri e agli stan­d ard organizzativi e funzionali, sia in ordine ai riferimenti comuni di valore, in­

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dicati nelle diverse Costituzioni attraverso il riferimento ad alcuni principi fondamen­tali (intesi come presupposti del sistema politico, economico e sociale, e come contenuto minimo e irrinunciabile per il con­seguimento dei «fini sociali», senza tutta­via pretendere alcun compito o «potere» educativo per le strutture istituzionali); co­me pure il compito di istituire scuole – nel senso esposto in apertura – per l’effettivo esercizio del diritto all’istruzione dei citta­dini. 2.2. I diritti. Emerge allora che, intenden­do il rapporto educativo come rapporto giuridico (e per la parte in cui così può es­sere inteso), la sua regolamentazione giuri­dica deve comprendere il riconoscimento di diritti, l’apertura all’esercizio di libertà, l’apprestamento e l’organizzazione e la ge­stione operativa di strumenti (o strutture) per assicurare, su un piede di libertà e di uguaglianza, l’esercizio di quei diritti. Il primo diritto che viene in considerazio­ne, e il cui riconoscimento effettivo ed effi­cace costituisce il fondamento di qualsiasi ordinamento democratico della materia, è il diritto all’istruzione. Esso ha due versan­ti: il diritto a ricevere istruzione, che appar­tiene originariamente ad ogni uomo quale diritto primario di umanità e ad ogni citta­dino quale diritto primario di cittadinanza. È diritto incondizionato, da esercitarsi su un piede di libertà e di uguaglianza senza discriminazioni basata su distinzioni di ses­so, di razza, di lingua, di religione, di opi­nioni politiche, o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza a mi­noranze, di ricchezza, di nascita o di qual­ siasi altra condizione (cfr. art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fonda­mentali), nonché di stato giuridico delle strutture ove in concreto – fatti salvi gli standard del servizio e rispettate le norme generali sull’istruzione – si intende eserci­t are tale diritto (→ pubblico/privato). Il secondo versante del diritto all’istruzio­ne è il diritto a dare istruzione. Esso, a sua volta, può essere visto sia dall’angolatura generale, come appartenente in primis ai genitori e alle formazioni sociali, sia dal­l’angolatura particolare della libertà (o diritto alla libertà) di insegnamento per così dire «individuale», o «professionale», co­ me appartenente a coloro che come pro­prio contributo al progresso materiale e spirituale della società esercitano – indivi­dualmente

o all’interno di strutture scolastico-formative – l’insegnamento dell’arte, della scienza e la trasmissione del patrimo­n io culturale dell’umanità. Anche il diritto a dare istruzione è diritto costituzionale soggettivo, vuoi per i soggetti comunitari (cfr. art. 2 della Cost. italiana), vuoi per i soggetti individuali, o come esplicitazione della generale libertà di espressione del proprio pensiero, o (meglio) come diritto specificamente riconosciuto in sé dall’or­dinamento. Il secondo diritto è il diritto allo studio, in­teso secondo una complessa stratificazione di elementi: l’accesso ai luoghi di istruzione; le condizioni di permanenza in essi; la qualità dell’istruzione impartita, sia dal punto di vista degli strumenti, sia dal pun­to di vista delle persone (preparazione e aggiornamento degli insegnanti); la parte­cipazione all’organizzazione del servizio scolastico/formativo, sia per quel che con­cerne la programmazione (insediamenti, edilizia, ecc.), sia per quel che concerne la concreta gestione (formazione delle classi, iniziative di supporto, di appoggio, collaterali, di integrazione, ecc.). Tale diritto pertiene alla esclusiva titolarità della persona dello studente (o dei suoi legali rappresen­tanti), a prescindere dal luogo e dalla con­figurazione giuridica della struttura in cui in concreto esso viene esercitato. Gli inter­venti positivi per la sua concreta effettuabilità e realizzazione sono di norma affidati agli enti locali (Länder, Regioni, Cantoni, ecc.), cui è anche normalmente demandato di delegare la concreta erogazione a garan­zia di uguaglianza agli enti locali «minori», fino – negli ordinamenti anglosassoni – al­le neighbourhood (organizzazioni di quar­tiere o di «vicinato»). Il diritto allo studio – quale diritto a disporre delle condizioni giuridiche e delle risorse strumentali e umane per l’effettiva realizzazione del di­ritto a ricevere istruzione – è venuto matu­rando una sua specifica e speciale l., di nor­ma locale. 2.3. Le libertà. Da tutto quanto detto fino­ra discende che, nel contesto dell’ordinamento relativo al rapporto educativo sco­lastico/ formativo, hanno cittadinanza alcu­ne libertà specifiche, e segnatamente la libertà di scelta educativa e conseguente­mente scolastica, che compete agli alunni e alle loro famiglie, la libertà di istituzione scolastica e la libertà d’insegnamento. Il dovere-diritto di istruire e di educare i fi­gli (nonché per tutti di istru655

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irsi e di riceve­re adeguata educazione) porta con sé, co­me naturale e necessaria conseguenza, il diritto alla libera scelta scolastico/ formati­va, e questo sotto due distinti rispetti: il pri­mo, relativo ad una libertà di scelta per co­sì dire orizzontale, che riguarda l’indirizzo degli studi, breve piuttosto che lungo e im­pegnativo, tecnologico piuttosto che uma­ nistico, e così via; il secondo, relativo ad una libertà di scelta per così dire verticale, che riguarda la cultura, il «progetto educa­tivo» (→ progettazione educativa), i valori, la concezione dell’uomo e della società (quello che la Convenzione europea di sal­vaguardia dei diritti chiama «filosofia»), cui ispirare il curriculum della formazione e degli studi. Ciò coinvolge direttamente la libertà di scelta del tipo di scuola sia sotto il primo rispetto, sia sotto il secondo. Per rendere effettivamente operante questa libertà di scelta della scuola dal punto di vista della qualificazione culturale viene affermata, in tutti gli ordinamenti democratici, la libertà di istituzione scolastica, sia come diretta­mente derivante dalla libertà d’intrapresa e dalla libertà d’espressione – e più specifi­camente dalla libertà d’insegnamento – sia (e di più) come il necessario supporto realizzativo alla libertà di scelta scolastica, la quale solo nel pluralismo dell’offerta sco­lastica può trovare un’adeguata risposta. E qui nasce anche l’interesse pubblico ad assicurare tale pluralismo, che legittima gli interventi positivi da parte delle pubbliche istituzioni per garantirlo su un piano di li­bertà, parità ed eguaglianza. Il pluralismo delle offerte scolastico/for­mative è il frutto, dunque, della libertà di istituzione scolastico/formativa, la quale a sua volta si radica nella libertà di insegna­mento. Essa riguarda sia i singoli sia le for­mazioni sociali. Si tratterà nel primo caso di una libertà connotata da specifiche ca­ratteristiche soggettive (professionalità, requisiti, condizioni, ecc.) e oggettive (nor­me a tutela e garanzia); nel secondo caso di una libertà più generale, attinente alla realizzazione di quello che abbiamo chia­mato «diritto alla tradizione», alla trasmis­sione della propria cultura. È qui, per es. (oltre che nel compito di rispon­dere alle esigenze dei titolari del diritto all’educazione e alla libera scelta scolasti­co/formativa), che trova fondamento la li­bertà riconosciuta alle istituzioni scolasti­co/formative di ispirazione religiosa. 656

3. Servizio di istruzione e l.s. Si possono trarre da quanto detto fin qua alcune conclusioni specificamente relative alla l.s. 3.1. Il ruolo dello Stato. Si può pensare che lo Stato consideri come proprio fine l’im­partire una specifica istruzione, con de­terminati contenuti, per la formazione di una precisa figura di cittadino, con certe caratteristiche e non altre. Avremo così la figura dello Stato educatore (o Stato etico), per il quale l’istruzione è mezzo per conse­g uire fini propri, a prescindere da quelli in­dividuali o sociali (comunitari) dei cittadi­ni. Si può altresì pensare che lo Stato con­sideri come proprio fine l’assicurare le condizioni di fatto e di diritto per il pieno, libero, autonomo sviluppo della persona­lità dei cittadini nelle e con le loro forma­zioni sociali. Nel primo caso lo Stato, attraverso la pro­pria l.s. (di norma accentrata e centralistica), detterà i contenuti stessi dell’istru­zione, e controllerà che essa si orienti ver­so l’inculcazione negli studenti di valori predeterminati con la stessa l. Non si tratterà di un servizio scolastico, ma di una funzione scolastica dello Stato stes­so, attuata esclusivamente attraverso pro­pri organi e uffici. Nel secondo caso lo Stato, attraverso la propria l.s. (di norma delegata alle autono­mie locali e decentralizzate), detterà le norme generali nel quadro delle quali l’i­struzione si svilupperà con autonomia, e veglierà perché essa si venga elaborando ed impartendo in un quadro di par condi­cio, relativamente alle condizioni e ai requisiti oggettivi e all’effettiva realizzazione del diritto allo studio e delle libertà cui s’è accennato. Si tratterà non di una funzione dello Stato stesso, ma di un servizio da esso attuato per l’effettiva realizzazione dei di­ritti dei cittadini e delle loro formazioni sociali, e per il sostegno all’adempimento dei loro doveri naturali e originali. Negli ordinamenti democratici (quali quel­li dei Paesi dell’Unione Europea, ad es.), si verifica il secondo caso, che si basa sull’esplicito «riconoscimento che l’azione dello Stato, per quel che riguarda l’istru­zione, non è diretta al soddisfacimento di un interesse proprio, non essendo l’istru­zione un “fine” dello Stato, ma che d’altra parte, avendo lo Stato – accanto ed in concomitanza con l’iniziativa di altri soggetti – un indeclinabile compito di provvedere all’istruzione, quest’ultima è un’at­tività che già in quanto tale – e cioè a pre­scindere dal soggetto pubblico o privato che la svolge – è

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tutt’altro che irrilevante per l’ordinamento, il quale, pertanto, pro­prio per tale ragione, può dettarne le “nor­me generali”» (Pototschnig, 1961, 62). Si veda in questo senso l’art. 33, secondo comma, della Cost. italiana, per il quale «la Repubblica detta le norme generali sull’i­struzione ed istituisce scuole statali per tut­ti gli ordini e i gradi». 3.2. La l.s. La l.s. detterà dunque le norme di quadro all’interno delle quali si potrà svolgere, in autonomia e con il fine di assi­curare il pieno sviluppo della persona uma­na, come singolo e nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, l’istruzio­ne, intesa come funzione non dello Stato-persona, ma della società, dello Stato-co­munità («la Repubblica»), e pertanto come servizio. Tale l., pertanto, determinerà l’ordina­mento dei servizi dell’istruzione primaria e secondaria e l’ordinamento delle scuole primarie e secondarie; le condizioni e i requisiti oggettivi (standard) ai quali ogni scuola, a prescindere dalla sua configura­zione giuridica, possa e debba entrare a fa­re parte del sistema del servizio dell’istru­zione (pubblico/privato); gli strumenti per assicurare la partecipazione sociale alla gestione del servizio stesso; lo stato giuridico del personale docente, direttivo, ispettivo, nonché non docente; le norme relative alla sperimentazione e ricerca educativa, al­l’aggiornamento culturale e professionale, la misura dell’autonomia riconosciuta alle singole strutture scolastico/ formative; e co­sì via.

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Bibl.: Pototschnig U., Insegnamento Istruzione Scuola, Milano, Giuffré, 1961; Garancini G., Costituzione, scuola e libertà, Roma, FIDAE, 1985; Crema F. E. - G. Pollini (Edd.), Scuola, autonomia, mutamento sociale, Ro­ma, Armando, 1989; Glenn C. L., Choice of schools in six Nations, Washington D.C., Depart­ment of Education, 1989; Dalle Fratte G. (Ed.), Autonomia risorsa della scuola, Milano, Angeli, 1991; Commissione Europea, Insegnare ed apprendere, Bruxelles/ Luxembourg, Ufficio delle Pubblicazioni Ufficiali delle Comunità Europee, 1996; Garancini G., «Riforme e federalismo», in Cssc-Centro Studi Per La Scuola Cattolica, A confronto con le riforme: problemi e prospettive. Scuola cattolica in Italia. Quarto Rapporto, Brescia, La Scuola, 2002, 74-95; Cicatelli S., Conoscere la scuola. Ordinamento. Didattica. Legislazione, Brescia, La Scuola, 2004.

2. Cenni sulle origini. Al di là di una manualistica scolastica che ha informato nel tempo su un genere ritenuto minore nell’ambito di più generali suddivisioni letterarie (Lollo, 2003), la bibliografia critica più recente ha assunto che «il criterio ordinatore delle periodizzazioni e della ricerca delle fonti» debba essere «il destinatario, la categoria dell’infantile e giovanile» (Bernardinis, 1989) prima delle eventuali specificazioni (non sostitutive e non intercambiabili) di «scolaro», «figliolo» o simili. Una prima percezione del giovane come destinatario del dialogo educativo appare nell’opera di → Fénelon, Télémaque, del 1699, che, pur leggibile e valutabile anche da altri punti di vista, si è diffusa come lettura pedagogica in tutta Europa fino a tutto l’Ottocento. Ancor prima, postumo, era apparso nel 1632-34 in napoletano il Cunto de li cunti di G. B. Basile (1575-1632), o vero lo trat-

G. Garancini

Complesso delle opere letterarie specificamente proposte all’attenzione e alla fruizione di un pubblico compreso nell’arco dell’età evolutiva e di quelle che, pur scritte in origine per adulti, sono state apprezzate nel tempo e sentite come proprie dai giovani lettori. 1. Denominazione. La denominazione di l.g. si configura ancora oggi come sintesi pratica che reinterpreta dizioni utilizzate nel dibattito pedagogico degli ultimi secoli, quali «l. per l’infanzia» (ancora oggi utilizzata nell’ambito universitario), «l. infantile», «l. per ragazzi», «libri per fanciulli», «l. per l’infanzia e l’adolescenza» cui si vorrebbe aggiungere, ma non da tutti, «l. per giovani adulti». Nel ripercorrerne la storia si possono percepire la diversa attenzione rivolta nel tempo alle varie tappe dell’età evolutiva e il conseguente diversificato interesse per le letture a queste considerate connesse: da strumento educativo per lo più imposto e non sempre ben distinto da una funzione istruttivo-didattica, a consapevole esperienza di sempre più libera scelta della lettura come accompagnamento e costruzione della propria crescita personale. In questa logica la denominazione sembra poter assumere una «pregnanza categoriale» (Bernardinis, 1989) che aiuti una riflessione ancora non esaurita sullo statuto epistemologico della disciplina.

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tenemiento de peccerille, anche se la polisemia testuale lo fa ritenere di intenzionalità adulta. Basile precede La Fontaine (1668) e Perrault (1697), risultando essenziale fonte scritta per la → fiaba europea, come era ben noto ai Grimm. Nella forma letteraria via via assunta, il fiabesco, in cui si riconosce persistenza di miti e antichi reperti antropologici, pur dopo oscillazioni nel tempo sulla sua efficacia educativa, appare oggi importante, alla luce di apporti psicologici, per lo sviluppo e la strutturazione dell’immaginario infantile. 3. L.g. tra pedagogia e l. Le difficoltà tuttora persistenti di definizione e di indagine teorica sulla disciplina nascono dalla sua complessità interna. Essa si è infatti sviluppata negli ultimi secoli in rapporto alla comprensione e valutazione adulta delle categorie di → infanzia e → adolescenza, alla diffusione illuministica dell’istruzione, all’autonomia del processo formativo elaborata da → Rousseau, «che rifiutava l’uso della l. quale fonte di modelli» secondo un’ottica adulta (Bernardinis, 1989). Ma nell’Ottocento, oltre i pochi testi di alto livello e notevole diffusione, lo scrivere per l’infanzia è stato, particolarmente in Italia, connotato da un pedagogismo intenzionale, sia di matrice cattolico-liberale e di influsso manzoniano, sia di orientamento mazziniano, con conseguente strumentalità degli assetti linguistico-narrativi al fine extraletterario di un’educazione comunque «nazionale» e di fatto poco propensa a sviluppare autonomie giovanili. Facile è stato il rifiuto di Croce fin dal 1905 di un’arte «infantile» e pesante il suo condizionamento sulla produzione novecentesca per l’infanzia e l’adolescenza non in termini economicoeditoriali ma di esistenza critico-culturale al di fuori dell’ambito pedagogico. In questo settore, una riflessione in cui non si possono dimenticare gli apporti degli studiosi P. Hazard e M. Soriano e l’approfondimento della pedagogista A. M. Bernardinis, si avverte a lungo l’esigenza di individuare la specificità della l.g. Con A. Faeti, già docente di l. per l’infanzia nell’Università di Bologna, la polemica sulla valutazione letteraria della l.g. sembra cessare di esistere come problema critico: la formazione pedagogica di Faeti gli consente di percorrere (1977) con innovativa creatività gli spazi lasciati aperti dalle 658

asserzioni di Croce. Non teme infatti di collegare la produzione «infantile» innanzitutto con l’illustrazione e poi col romanzo popolare, con la pubblicistica e con tutto ciò che si legge a circolazione diffusa, senza limiti geografici, anche se trascurato dalla critica ufficiale. L’affermarsi delle tendenze strutturalistico-semiologiche e poi ermeneutiche porta a complesse e non concluse ridefinizioni di testo, di mittente e di destinatario, all’interno di processi in cui la stessa fruizione estetica appare atto soggettivo ma canalizzato e orientato da una pluralità di condizionamenti istituzionali e culturali, da decodificare anche con adatte competenze, tra cui, di rilievo, quelle filologiche. La l.g., che ha acquisito con maggiore chiarezza il dato del «destinatario», ha fatto propri in maniera diseguale gli apporti più direttamente testuali (ma si veda Rodari 1973). Si è arricchito il rapporto già maturo con l’illustrazione e via via si è problematicamente avvertita nella proposta editoriale l’incidenza dei cambiamenti ideologici, delle trasformazioni interculturali (di cui sono indice significativo le case editrici Sinnos e Carthusia) e della globalizzazione. Sono emerse intersezioni accentuate dei linguaggi mediali e multimediali, hanno acquistato peso alcune tendenze diffuse verso mete esoterizzanti, mentre è apparsa difficile e difficoltosamente cercata la relazione con la storia, tra distopia e orizzonte utopico, tra coscienza del costruire e rifiuto del crescere. L’attuale attenzione alla lettura mette in rilievo il piacere del leggere, una «pedagogia della lettura» mirante a far acquisire il gusto del rapporto personale con il libro pur senza escludere apporti dialogici e orientativi. Rimane presente, anche se in gradi diversi di consapevolezza, il nodo problematico sotteso alla l.g.: che le autonomie e le scelte giovanili non appaiono separabili da proposte e scelte adulte. Tra queste ha un rilievo particolare la produzione del testo, che è tanto più di provenienza adulta (singolare e di editing) quanto meno è alta l’età del destinatario. La l.g. non può fingere di ignorare che tra autore e lettore non esiste solo la disparità delle competenze (attiva e passiva), ma una disparità più profonda cui si potrebbe dare il nome di generazionale. Solo accettando questa disparità (ovviamente nel testo, che è il solo vero luogo della comunicazione letteraria cui comunque la l.g. appartiene) si

LETTERATURA: INSEGNAMENTO DELLA

può realizzare il «dialogo paritario tra autore e lettore» (Bernardinis, 1989) che è di squisita natura pedagogica. Sembra infatti connotazione giovanile la domanda e proprio dell’adulto l’accoglierla in quanto domanda esistente, quali che siano le sue attitudini a rispondervi. Attraverso la scrittura e mirando intrinsecamente al «bene dell’opera» (→ Maritain), lo scrittore che è anche adulto formalizza la problematica di cui è portatore in modo da offrirla, nell’esito creativo in cui si dispone, al piacere e allo scavo di un lettore «giovane» che gli chiede in ultima analisi di essere se stesso nell’opera per poter procedere a sua volta a conoscersi liberamente. Nella diversità dello scambio, quindi, si realizza la parità di esso: la scrittura si fa luogo, con modalità diverse, di comune accrescimento di umanità. In questo senso è importante una l.g. (nella quale si potrebbe individuare e studiare un’eventuale produzione di giovani per giovani o per adulti, con tutte le sue variabili), da non rifiutare per una pretesa e accentuata precocità infantile né da prolungare probabilmente oltre una piena adolescenza, ma da lasciare a una libera attrazione che induca a leggere testi dell’uno e dell’altro versante (giovanili, cioè, o adulti) con una pluralità di esigenze personali e di strumenti interpretativi. Bibl.: Bernardinis A. M., «L.g.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. IV, Brescia, La Scuola, 1989, 6717-6732; Maritain J., La responsabilità dell’artista, tr.it. Brescia, Morcelliana, 1963; Rodari G., Grammatica della fantasia, Torino, Einaudi, 1973; Soriano M., Guide de littérature pour la jeunesse, Paris, Flammarion, 1975; Faeti A., L. per l’infanzia, Firenze, La Nuova Italia, 1977; H azard P. Uomini ragazzi e libri, Roma, Armando, 31980; Lollo R., Sulla l. per l’infanzia, Brescia, La Scuola, 2003; Fava S., Percorsi critici di l. per l’infanzia tra le due guerre, Milano, Vita e Pensiero, 2004; Faeti A., Specchi e riflessi, Cesena, Soc. Ed. Il Ponte Vecchio, 2005; Colin M., L’age d’or de la littérature d’enfance et de jeunesse italienne, Caen, Presse Universitaire de Caen, 2005; Boero P. - C. De Luca, La l. per l’infanzia, Roma/Bari, Laterza, 1995 e ristampe fino al 2006; De M aeyer J. (Ed.), Religion, children’s literature and modernity in Western Europe 1750-2000, Leuven, University Press, 2005; dal 2006 è uscita presso l’Università di Macerata la rivista internazionale «History

of Education and Children’s Literature»; Blezza Picherle S., Raccontare ancora, Milano, Vita e Pensiero, 2007.

R. Lollo

LETTERATURA INFANTILE → Letteratura giovanile

LETTERATURA: insegnamento della L’insegnamento della l. implica questioni teoriche oltre che psico-pedagogiche. 1. Infatti richiede come presupposto un sufficiente grado di sviluppo della capacità di lettura, applicata agli scopi di informazione, ricreazione e diletto. Pertanto presuppone nel giovane una certa maturità delle sue funzioni psichiche superiori, intellettuali ed estetiche. Ma chiede anche che si pigli posizione nella questione della funzione della l. → Platone parla di una polemica, già vecchia ai suoi tempi, tra poeti e filosofi. In fondo, le teorie più recenti dell’«arte per l’arte» o della «poésie pure» non costituiscono grandi novità rispetto alle polemiche più antiche; benché non si possa identificare la «eresia didascalica» – come Poe chiamò la concezione della poesia come strumento di edificazione – con la dottrina rinascimentale secondo cui la poesia piace e insegna o insegna piacendo. La storia delle teorie estetiche si potrebbe quasi riassumere nell’oscillazione dialettica, in cui tesi e antitesi sarebbero date dall’oraziano dulce e utile. Ciascuno dei due predicati, presi separatamente, non può che dar origine a teorie incomplete perché unilaterali. All’istanza secondo cui la poesia (o la l. in genere) è diletto risponde l’istanza che vede la poesia come insegnamento. All’idea che la l. dovrebbe ridursi a mezzo di persuasione risponde l’idea di una l. neutra, ridotta a suono puro o a vergine immagine. La verità sembra stare nella sintesi delle due note oraziane. Si è parlato anche abbondantemente della funzione catartica dell’arte, da cui non andrebbe esclusa la l., che mirerebbe a liberare o il lettore o lo scrittore dalla pressione angustiante delle emozioni. Ma non è forse egualmente vero che la l., anziché calmare le emozioni, ha talvolta il potere e l’effetto di incitarle? 659

LETTURA

2. È evidente che, sebbene il letterato non si ponga la questione della funzione o degli effetti dell’opera d’arte, tale questione è ineludibile sul piano morale ed educativo, e va quindi risolta da ciascun insegnante- educatore nella sincerità della propria coscienza. Hosic nel 1917 aveva raccolto e rilevato quattro obiettivi propri dello studio letterario: a) allargare, approfondire ed arricchire la vita immaginativa del giovane; b) destare un senso sincero di ammirazione per le grandi personalità sia degli autori (scrittori) che degli attori (o personaggi descritti); c) elevare il potere di godimento spirituale; d) far conoscere al giovane ambito e contenuto del patrimonio letterario. A sua volta, a livello liceale, Taylor ha indicato queste finalità: la l., nel suo valore di universalità, conferisce a) un senso della interdipendenza vitale nella società umana; b) un affinamento e un ravvivamento del sentire, del pensare, del fare umano in ciascun individuo che vi si accosta e rivive l’esperienza letteraria genuinamente in se stesso; c) un senso del processo creativo e ricostruttivo con cui l’uomo trionfa sul processo disintegrativo della realtà cosmica; d) un ampliamento delle prospettive del giudizio e della decisione. 3. Per giudicare della dinamica psicopedagogica dell’esperienza letteraria bisogna tener presenti i due aspetti che la costituiscono: l’aspetto contenutistico e l’aspetto formale. La l. non è solo contenuto, come non è solo forma: ciò che la distingue da altri prodotti spirituali dell’uomo è appunto la fusione di un contenuto di alto valore spirituale con una forma autenticamente «bella». Perciò l’esperienza letteraria non si può ridurre a un fatto meramente intellettuale, di assimilazione di dati culturali (culturalismo), ma nemmeno ad un semplice fascio di vibrazioni estetiche (estetismo). Per cui, se da una parte non si può fare insegnamento letterario, col rimpinzare la mente del giovane di nozioni storiche o formali, dall’altra non ci si deve fissare unicamente sull’apprezzamento e sull’imitazione di una forma vuota, che in questo caso non sarebbe più «valore» ma «orpello». 4. L’accostamento alla l. esige un buon avviamento alla lettura: l’insegnare a leggere secondo i fecondi canoni della «l. estetica di prima impressione» e della «l. estetica appro660

fondita». Sarà anche necessario indirizzare gli allievi alla «lettura ricreativa». Il gusto della vera l. si coltiva dirigendo intelligentemente, già fin dalle elementari, la scelta delle letture ricreative. Infine, è opportuno un avvertimento sul contenuto dell’insegnamento letterario. Dovrebbe essere bandito un certo feticismo per la l. del passato, che è sempre aggravato da un atteggiamento di sdegnoso ripudio per la l. contemporanea. Anche nella scuola media, anziché proibire la lettura degli autori contemporanei (certo, giudiziosamente scelti), è proprio da questi che dovrebbe iniziarsi l’accostamento ai valori letterari, e ad essi si dovrebbe poi ancora tornare dopo l’esplorazione (indispensabile) del passato. Solo in questo senso la didassi linguistica riuscirebbe autenticamente «funzionale». Bibl.: Coveri L. (Ed.), Insegnare l. nella scuola superiore, Firenze, La Nuova Italia, 1986; A rmellini G., Come e perché insegnare l., Bologna, Zanichelli, 1987; Blau S., The literature workshop: Teaching texts and their readers, Portsmouth (NH), Heinemann, 2003; Beach R. W. - D. Appleman, Teaching literature to adolescents, New York (NY), Lawrence Erlbaum Associates, 2006; Dorfman L. R. - R. Cappelli, Mentor texts: teaching writing through children’s literature, K-6, Portland (Maine), Stenhouse Publishers, 2007.

R. Titone

LETTURA Il termine l., assunto in modo generico come sinonimo di «decodificazione», va ulteriormente specificato nel suo oggetto. Si parla in questo modo di l. del testo verbale, di l. dell’immagine, di l. del cinema, di l. della pubblicità, di l. dell’arte, di l. del fumetto (per non parlare di l. della realtà, di fatti od eventi). 1. Nel passato il saper leggere è stato riferito in particolare all’abilità di decodificare il linguaggio verbale e la scuola si è molto impegnata perché questa potesse da tutti essere acquisita. Oggi il saper leggere occupa uno spazio semantico più ampio, ma non meno intenso è stato l’impegno della scuola per educare le generazioni più giovani alle nuove abilità di decodificazione (di lettere,

LEWIN KURT

parole, strutture, segni, immagini). I risultati tuttavia non sono stati sempre all’altezza delle intenzioni. L’apprendimento di altre abilità di l. spesso avviene a scapito di quelle verbali. Nonostante il rilievo di altre forme linguistiche, quelle verbali conservano certamente una superiorità per quanto riguarda l’apprendimento e lo sviluppo di conoscenze complesse (→ strategie cognitive). 2. Gli effetti di una buona o scarsa abilità nella capacità di l. linguistica può avere effetti molto devastanti in altri campi. Da molti psicologi scolastici si sottolinea come una debolezza nella capacità di leggere sia un chiaro indicatore di uno studente a rischio di diventare più avanti un drop-out. Vari motivi oggi sottolineano l’importanza di un’attenzione educativa particolare per la capacità di decodificazione linguistica: a) la necessità di un suo possesso molto sofisticato per l’apprendimento e lo sviluppo elevato di conoscenze; b) la necessità di conoscere la complessità dei processi connessi alla → comprensione del testo linguistico per intervenire adeguatamente nell’educazione, nel ricupero e nelle difficoltà; c) la sua rilevanza fondamentale per molte altre competenze; d) la sua necessità per una comunicazione interpersonale efficace, ma anche per una conoscenza di se stessi. Bibl.: Pearson P. D. (Ed.), Handbook of reading research, New York/London, Longman, 1984; Barr R. et al. (Edd.), Handbook of reading research, vol. II, Ibid., 1991; Ruddell R. B. - M. R. Ruddell - H. Singer (Edd.), Theoretical models and processes of reading, Newark, International Reading Association, 1994.

M. Comoglio

LÉVINAS Emmanuel → Alterità

LEWIN Kurt n. a Mogilno, Posnania, nel 1890 - m. a Newtonville (Mass.) nel 1947, psicologo tedescostatunitense. 1. Frequentò le università di Friburgo e Monaco e ottenne il dottorato all’Università di Berlino nel 1914, dove poi insegnò dal 1921

al 1933, quando lasciò la Germania e si trasferì negli Stati Uniti. Fu visiting professor a Stanford e alla Cornell University e successivamente divenne professore di psicologia infantile all’università statale dell’Iowa dal 1935 al 1945. Nel 1945 si trasferì al Massachusetts Institute of Technology e vi fondò il Research Center for Group Dyna­m ics. Durante trenta anni di attività di ricerca empirica spaziò in diversi ambiti scientifici. All’inizio si interessò soprattutto di processi cognitivi e di percezione, di dinamica della → motivazione e delle emozioni individuali, di processi interpersonali riferiti al rinforzo e alla punizione, al conflitto e all’influsso sociale; più tardi si interessò di leadership, di clima sociale, di norme di gruppo e di valori. Un filo conduttore nella sua ricerca fu sempre la convinzione che l’attività di ricerca doveva oltrepassare i tradizionali confini delle scienze sociali e cogliere la complessità in cui l’individuo si muove; fu pertanto un costante promotore dell’approccio interdisciplinare in psicologia. 2. L. è conosciuto soprattutto per la teoria del campo che sostiene essenzialmente che gli eventi sono determinati da forze che agiscono su di essi dentro i limiti di un campo immediato, piuttosto che da forze che agiscono a distanza. La teoria del campo è allo stesso tempo un metodo per analizzare le relazioni causali per creare costrutti scientifici, quindi una metateoria, e allo stesso tempo è un insieme di costrutti, creati attraverso la ricerca empirica, per descrivere e interpretare i fenomeni psicologici e sociali. Il concetto fondamentale della teorizzazione di L. è quello di spazio vitale, che si riferisce alla totalità degli eventi o dei fatti che determinano il comportamento dell’individuo in un dato momento. Questa posizione suscitò notevoli controversie nella → psicoterapia sulla base dell’assunto che i processi causali sono processi del qui e ora, che in genere contrastava con le posizioni della teoria di → Freud. Aspetti importanti dello spazio vitale sono la persona e l’ambiente psicologico così come esiste per l’individuo. 3. In ambito pedagogico tra gli influssi più notevoli si possono annoverare la ricerca-azione e i processi riguardanti la dinamica dei gruppi. Numerosi studenti di L. hanno portato avanti 661

LEZIONE

i suoi concetti e il suo lavoro. I più noti tra essi sono D. Cartwright, L. Festinger, M. Deutsch, J. W. Thibaut, H. H. Kelley. Bibl.: principali opere di L. trad. in it.: Teoria dinamica della personalità, Firenze, Giunti-Barbera, 1968; Il bambino nell’ambiente sociale, Firenze, La Nuova Italia, 1971; Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, Bologna, Il Mulino, 1972; I conflitti sociali, Milano, Angeli, 1980.

P. Scilligo

LEZIONE Dal lat. lectio (lettura). Nelle università medioevali per lectio si intendeva la lettura e la spiegazione di un testo: è questa la fonte originaria del termine l., inteso come spazio di tempo nel quale il docente svolge il suo insegnamento (→ scolastica). Nel corso degli anni si è passati da un concetto di l. inteso come esposizione orale dei contenuti di una materia ad un concetto più ampio inteso come → azione didattica, consistente in un intervento complesso da parte dell’insegnante, finalizzato a stimolare nell’allievo un apprendimento significativo. 1. R. Titone (1959) distingue tre tipi di l. a seconda della rilevanza data al contenuto della materia e al processo di apprendimento: a) La l. «logocentrica» si focalizza sugli aspetti logici e quantitativi della materia cui si riferisce. L’attività principale è nelle mani dell’insegnante il quale, seguendo prevalentemente un metodo deduttivo, tende a trasmettere, al maggior numero di allievi, il massimo del contenuto nel minor tempo possibile. Questo tipo di l. è caratterizzato da tre momenti: la spiegazione, lo studio individuale e la recitazione. b) La l. «psicocentrica» sposta l’attenzione dall’oggetto di studio (la materia) al soggetto che apprende, ponendo l’accento sul processo psicologico dell’apprendimento. Di conseguenza obiettivo principale di questo tipo di l. è trasmettere la materia considerando i fattori psicologici del soggetto, i suoi bisogni, i suoi interessi e le sue predisposizioni. In questo contesto diventa indispensabile che l’insegnante, nello svolgimento della l., segua un chiaro metodo didattico che tenga presente come: motivare l’allievo all’ap662

prendimento; trasmettere l’idea centrale del contenuto dell’apprendimento; stimolare l’allievo ad applicare ed integrare il nuovo materiale appreso; valutare l’apprendimento. c) La l. «empiriocentrica» pone l’accento sull’esperienza spontanea dell’allievo e mira a far sì che quest’ultimo possa raggiungere gradi sempre crescenti di sviluppo. La l. è quindi vista come un’esperienza di vita dell’allievo tendente a promuovere lo sviluppo globale della sua personalità. In essa si possono distinguere tre fasi: la fase iniziale di pianificazione, la fase centrale di svolgimento e la fase terminale di valutazione. 2. Attualmente la l. è intesa come l’ultimo anello di una lunga catena costituita dalla → programmazione educativa e didattica. Una o più l. compongono un’unità didattica e più unità didattiche costituiscono la programmazione educativa e didattica. La l., le unità didattiche e la programmazione formano un ciclo in cui si susseguono tre momenti: la progettazione, la realizzazione e la valutazione. La valutazione può essere anche utilizzata come base per una nuova progettazione e in questo modo ha inizio un nuovo ciclo. Affinché una l. sia efficace e di conseguenza aiuti l’allievo a raggiungere un apprendimento significativo, è necessario che il docente, oltre ad essere competente nei contenuti disciplinari, sia capace di trasmetterli in modo comprensibile, sia in grado di considerare i principi di metodo e sia esperto nell’instaurare una buona relazione con gli allievi. L’insegnamento, infatti, non può prescindere dai contenuti che si vogliono trasmettere per cui è fondamentale che l’insegnante li abbia assimilati e sia in grado di esporli, in funzione di chi ha di fronte, cioè con un linguaggio ed una complessità diversa a seconda del livello di formazione di ciascun allievo. Ciò può essere favorito mediante una comunicazione che risponda ai criteri di semplicità, brevità, ordine e stimolazione che R. Tausch e A. Tausch (1979) hanno identificato come dimensioni peculiari di un linguaggio comprensibile. Inoltre è importante che il docente, nelle diverse fasi della l., tenga presenti alcuni principi di metodo: a) nella fase iniziale della l. – motivare gli allievi, – esplicitare gli obiettivi che si propone di raggiungere, – verificare l’acquisizione dei prerequisiti necessari al nuovo apprendimento; b) nella

LIBERAZIONE

fase centrale della l. – scegliere quali materiali utilizzare, – riflettere su come spiegare, porre le domande, intervenire di fronte ad un errore e interessare gli allievi; c) nella fase finale – individuare modi per verificare l’apprendimento, – scegliere gli esercizi di rinforzo da proporre. La l. può risultare più efficace se inserita in un positivo contesto relazionale insegnante-allievo. A tale scopo è necessario che il docente assuma uno stile educativo autorevole, che si contrappone a quello lassista e a quello autoritario e che abbia competenze comunicative che gli consentano di accogliere l’allievo, rinforzarlo, stimarlo ed essere empatico (→ empatia). Bibl.: Titone R., «L.», in Dizionario enciclopedico di pedagogia, vol. 3, Torino, SAIE, 1959, 84-94; Pellerey M., Progettazione didattica, Torino, SEI, 1979; Tausch R. - A. Tausch, Psicologia dell’educazione, Roma, Città Nuova, 1979; Franta H., Atteggiamenti dell’educatore, Roma, LAS, 1988; Gagné R. M. - L. J. Briggs, Fondamenti di progettazione didattica, Torino, SEI, 1990; Mastromarino R., L’azione didattica. Qualità ed efficacia nella classe, Roma, Armando, 1991.

R. Mastromarino

LIBERAZIONE Il termine l. fa riferimento etimologicamente a → libertà, ma vi aggiunge una connotazione particolare, poiché designa il passaggio da una situazione di schiavitù ad una di libertà. Come tale è utilizzato in svariati contesti che vanno dall’affrancamento individuale da situazioni di oppressione fisica, psichica, morale o religiosa, al superamento collettivo di situazioni di dipendenza e sottomissione da parte di interi popoli e continenti. 1. A partire dalla seconda metà del sec. XX il termine ha acquistato dei risvolti particolari, per via dei «movimenti di l.» sviluppatisi specialmente tra i popoli del cosiddetto Terzo Mondo. La spinta è venuta inizialmente dall’ → America Latina. La presa di coscienza della situazione di estrema povertà della stragrande maggioranza degli abitanti del continente, e l’individuazione delle cause strutturali che la provocano e che configurano una situazione di nuova dipendenza e

schiavitù (teoria della dipendenza), fomentarono delle forti aspirazioni ad un cambiamento globale e diedero origine ad un vasto tentativo di l., che si è espresso in qualche caso estremo anche in forma di lotta armata. Tale ricerca di l. si è caratterizzata per aver sottolineato soprattutto i condizionamenti economici della povertà, senza tuttavia trascurare quelli sociali, politici e culturali. In altri continenti i movimenti di l. sorti successivamente hanno acquistato delle sfumature peculiari, determinate dalle condizioni in cui versavano. Così, in Africa è stata molto accentuata la componente culturale della l.; nell’Asia povera (India, Filippine) è stata la sua dimensione religiosa ad essere presa in speciale considerazione, in ragione della forte presenza delle antiche religioni profondamente radicate nei popoli; negli Stati Uniti, tra i negri, i movimenti si sono raggruppati in ragione della segregazione razziale. 2. Uno degli aspetti della l. a cui si è prestata particolare attenzione, specialmente nell’America Latina, è stato quello educativo. Si è così sviluppata quella che venne chiamata → «educazione liberatrice», una «pedagogia degli oppressi» (→ Freire) mirata prioritariamente alla trasformazione dell’educando in soggetto della propria educazione. L’educazione liberatrice si caratterizza per il fatto di essere umanizzante, critica, dialogica e coscientizzatrice. Essa si propone di portare l’educando da uno stato di coscienza non corrispondente al contesto storico in cui vive, ad un altro che gli permetta una partecipazione effettiva, oggettiva e critica nel processo storico in cui è inserito. 3. La Chiesa cattolica, specialmente attraverso le Conferenze Generali del suo Episcopato di Medellín (Colombia 1968) e di Puebla (Messico, 1979), diede un valido contributo ai tentativi di l. del Continente. Medellín, in particolare, dedicò uno dei suoi 16 capitoli al tema dell’educazione liberatrice, in cui si coglie l’influsso esercitato dalle proposte di Freire. Ci sono anche dei considerevoli apporti sulla tematica nel documento dedicato alla → catechesi. Bibl.: Freire P., La pedagogia degli oppressi, Milano, Mondadori, 1971; Balducci E., L., in J. B. Bauer - C. Molari (Edd.), Dizionario te-

663

LIBERTÀ

ologico, Assisi, Cittadella, 1974, 313-322; Mongillo D., L., in V. Bo et al. (Edd.), Dizionario di pastorale della comunità cristiana, Assisi, Cittadella, 1980, 323-325; Boff L. - C. Boff, Libertad y liberación, Salamanca, Sígueme, 1982; Gutiérrez G., Teología de la liberación. Perspectivas, Salamanca, Sígueme, 172004; A ráujo Freire A.M. (coord.), La pedagogía de la liberación en Paulo Freire, Barcelona, Graó, 2004; Gelpi E., Educación permanente. La dialéctica entre opresión y liberación, Xàtiva, Edicions del CREC, 2005.

L. A. Gallo

LIBERTÀ Condizione umana in cui si agisce non per costrizione esterna, ma per decisione cosciente e volontaria in vista di qualcosa che si intende perseguire o realizzare in situazioni concrete. Nella pedagogia contemporanea la l. è vista come → fine specifico dell’educazione e come tratto qualificante del rapporto educativo (→ autorità educativa). 1. La comprensione storica della l. Nel mondo greco-romano la l. (in gr. eleuthería; in lat. libertas) era principalmente di carattere politico, riferita all’autonomia dello Stato (della pólis o della res publica) o ai cittadini in quanto non sottomessi a poteri dispotici di imperatori, re, tiranni o in quanto non in condizione di schiavitù. Ma della l. si trattava anche in relazione al fato e alla responsabilità morale (cfr. poesia, tragedia, sofisti, stoici, → Socrate). Nell’Etica Nicomachea (III, 1), → Aristotele ha sottolineato l’imputabilità soggettiva, la dimensione conoscitiva e la non costrittività esterna dell’agire libero. Il platonismo e il neo-platonismo hanno indicato il Bene come orizzonte della l. Nel pensiero cristiano, si pone l’accento sulla dimensione interiore e morale. La l. è stata messa in relazione con il tema del peccato personale e di quello dell’umanità nella sua globalità, della salvezza, della grazia, dell’aiuto divino creatore, liberante, redentore e provvidente; ma anche con i temi difficili del libero arbitrio personale, della pre-scienza divina, della predestinazione dei giusti. L’età moderna ha accentuato l’autonomia soggettiva, la l. 664

d’azione, le l. civili e politiche, ma ha cercato di discutere il divario tra idealità e concretezza per una l. incarnata nella storia. Peraltro il sec. xx l’ha collegata con la tragicità, l’assurdità, la finitezza dell’esistenza, come anche con le lotte di → liberazione dei popoli, delle classi oppresse, delle minoranze e dei gruppi soggetti a poteri disumanizzanti e alienanti. 2. Per un concetto comprensivo di l. L’idea di l., per chi si muove nella tradizione culturale occidentale e moderna, è più che un semplice concetto. È carica di emozionalità, di atteggiamenti di difesa, di aspettative, di desideri. Come concetto contiene aspetti diversi che, se assolutizzati, rischiano di contraddirsi a vicenda: come può succedere quando la si pensa come spontaneità assoluta; o all’opposto come controllo razionale di tutto; o come autonomia soggettiva senza alcun legame esterno; o come adesione incondizionata a un’idea suprema o ad un gruppo o partito o movimento. In tal senso nel discorso sulla l. si devono tener insieme livelli diversi e aspetti tra loro complementari. Anche considerata astrattamente come atto isolato, risulta costituzionalmente insieme e sempre «l. da» (costrizione, almeno psicologica), «l. per» (qualcosa che si pone come termine intenzionale dell’agire), «l. in» (interiore capacità di scelta «ragionevole» rispetto a possibilità concretamente date) e «l. di» (esercizio pratico in qualche ambito del reale, ad es. di pensiero, di parola, di circolare, di commerciare, ecc.). In quanto realtà non è tanto del tipo «c’è/non c’è», ma piuttosto del tipo «più/meno», «nella misura in cui», «in quanto», «a patto che», e così via. D’altra parte è pure abbastanza chiaro che essa non si realizza in astratto né come singolo atto, slegato da ogni contesto e da ogni storia. Le scienze umane, la letteratura e i mass-media hanno messo in luce le complesse dinamiche consce ed inconsce che attraversano, condizionano e stimolano la l. umana. Non è una l. «senza condizioni», né è una l. senza storia o fuori della storia. È, come si dice, sempre una l. «incarnata», una l. «in situazione», «intrisa di tempo e di giorni»: fisica, psichica e spirituale, pratica. Peraltro, il pensiero esistenziale e fenomenologico ha messo in risalto che l’essere umano più che possedere la l., è l. Essa è struttura

LIBERTÀ DI INSEGNAMENTO

ontologica originaria che lo costituisce. Non è una «cosa», ma piuttosto il modo specifico di essere dell’agire umano, individuale e collettivo, caratterizzato da assenza di costrizione e procedente da decisione razionale pratica («deliberato consenso»). Essa dà forma e completezza ai contenuti dell’azione dell’uomo, qualificandola come umana, ma a sua volta è misurata proprio dalla sua rilevanza umana. Trova cioè il suo criterio di valore nella promozione umana integrale, individuale e generale, di cui è capace. Senza di essa le azioni dell’uomo rimarrebbero infra-umane o sub-umane. La nostra diretta esperienza ci attesta amaramente come molte delle nostre azioni sono di questo tipo. S. → Tommaso d’Aquino distingueva per questo gli actus humani dagli actus hominis (atti procedenti dall’essere umano, ma non qualificabili come umani). In tal senso la l., più che un dato è un compito, che chiede impegno morale e educazione. 3. Tra l. negata e ricerca di l. La condizione umana contemporanea sembra radicalizzare la questione della l. Essa viene esaltata e difesa contro ogni forma di soggezione, di alienazione, di plagio, di indottrinamento, e d’altro canto appare praticamente negata dalla massificazione sociale e dall’omologazione culturale (attuata tramite il sistema mass-mediatico che invade il «privato»), dalle spinte del mercato internazionale (che utilizza le tecnologie informatiche e telematiche), dalla diffusa mentalità consumistica (che getta individui e masse in un presentismo alienante e in una ricerca spasmodica di sensazioni senza quadro e senza progetto). La complessità dell’esistenza sociale, come anche la mondializzazione del sistema economico-politico, sembrano rendere evanescente la l. personale e quella dei popoli, nella trama intricata delle dinamiche strutturali psicologiche, intellettuali, culturali, socioeconomiche. D’altra parte la diffusa «preoccupazione per l’uomo», per i diritti umani di tutti, per una buona e migliore qualità della vita, per il destino del mondo e degli ecosistemi, per l’accesso di tutti i popoli e dei diversi gruppi o strati sociali alla scena della storia, spinge ad andare oltre la difesa delle «l. moderne» e ad aprirsi all’altro, ad uscire da sé nella dedizione senza misura o lungo le strade non sempre controllabili dell’amicizia

e dell’amore, nell’impegno solidale di liberazione. In effetti la l. è «con-l.», che chiede di coniugare interdipendenza effettiva e solidarietà voluta e ricercata fattivamente, nella coscienza della corresponsabilità storica per l’umano. In questa linea il pensiero cristiano contemporaneo prospetta l’idea che se non si vuol ridurre la l. ad una «passione inutile» (J.-P. Sartre), occorre non costringerla entro la «curva dei giorni» (A. Camus), ma porla in relazione con la trascendenza di Dio: visto non come concorrente dell’uomo nella l., ma promotore di essa. A questo scopo si fa riferimento alle indicazioni bibliche di Dio che chiama l’uomo alla vita, lo forma a sua immagine e somiglianza, fa alleanza con lui, lo soccorre e lo libera per farne un popolo; che nell’incarnazione, nella morte e resurrezione del Cristo toglie la separazione tra cielo e terra, tra sacro e profano, tra carne e spirito in modo che «ogni carne vedrà la salvezza» di Dio, la cui «gloria è l’uomo vivente» e i cui comandamenti sono la «legge dell’amore» di un Dio Padre, non l’imposizione di un «dio-tiranno». Bibl.: R igobello A., Il futuro della l., Roma, Studium., 1978; Laeng M., Educazione alla l. civile, morale, religiosa, Teramo, Lisciani e Giunti, 1980; Penati G., Decisione e origine. Sulla verità della l., Brescia, Morcelliana, 1983; Laeng M., Educazione alla l., Teramo, Lisciani & Giunti, 1992; Smith Michael P., Educare per la l., Milano, Eleuthera, 1990; Zavalloni R., Educarsi alla responsabilità, Assisi, Porziuncola, 1996; Sen A martya K., La l. individuale come impegno sociale, Roma/Bari, Laterza, 2007.

C. Nanni

LIBERTÀ DELLA SCUOLA → Scuola libera

LIBERTÀ DI INSEGNAMENTO La l.d.i. non appartiene solo agli operatori professionali della scuola: essendo un diritto che rientra in quel grappolo di diritti originari della persona e delle sue forma­zioni sociali, il cui riconoscimento origina­r io costituisce una delle caratteristiche strutturali dell’impianto costituzionale, ne sono titolari sia i singoli sia le comunità. E tuttavia non c’è dubbio che la l.d.i. riguardi specialmente 665

LIBERTÀ DI INSEGNAMENTO

coloro che sono operatori stabili della struttura scolastica. 1. Nella dottrina giuridica sul diritto scola­ stico si discute ampiamente – e da lungo tempo – se la l.d.i. sia una specificazione della più generale l. di espressione del pen­siero, o sia una l. autonoma, con un suo specifico e originario fondamento. Non so­lo, ma una parte della dottrina, special­mente quella tedesca, tende a derubricare la l.d.i., e a non più collocarla tra i diritti individuali di l., ma tra «die institutionellen Garantien» (Köttgen), le garanzie isti­t uzionali assicurate al libero esercizio di un diritto nell’ambito di strutture predetermi­nate e preordinate, tanto che si giunge acu­t amente a distinguere tra l.d.i. tout court e l.d.i. (Amorth). Per chiarire i fondamenti della l.d.i., occor­re ricordare due elementi originari: la so­cialità dell’istruzione e la funzione educati­va dell’istituzione. Nel primo piano va cer­t amente rilevato come la finalità di istru­zione non si limiti all’espressione di una cultura, in maniera indifferenziata, ma alla sua finalizzazione all’interesse esterno, in primo luogo dei destinatari diretti di tale espressione (per i quali, anzi, l’insegna­mento ricevuto è risposta a un diritto, il di­r itto all’istruzione), e della società tutta, dalle comunità territoriali di più vicino riferimento fino alla comunità nazionale e a quella internazionale. Nel secondo piano va rilevato che l’insegnamento si esplica naturalmente in un rapporto, nel quale vengono in considerazione e in rilievo due soggetti, l’insegnante e l’allievo (e media­t amente la comunità sociale), tra i quali l’insegnamento crea una corrente, una ten­sione educativa necessaria alla stessa costituzione del rapporto giuridico. C’è chi arriva ad affermare che «attualmente la l.d.i. è data nell’interesse diretto e prima­r io della società, non in quello di coloro cui, di per sé, la norma si rivolge» (Pototschnig). Senza addentrarci ulteriormente in questa discussione – per altro suggesti­va e decisiva per stabilire alcuni confini ba­silari per affrontare correttamente l’intera problematica del diritto scolastico – cre­diamo di poter rilevare che: a) la l.d.i. non può essere considerata di esclusiva perti­nenza del singolo individuo, e da questi op­posta a chicchessia, ma trova la sua più compiuta caratterizzazione e il suo più pie­no sviluppo nell’ambito di un → rapporto educa666

tivo; b) essa non può essere riferita esclusivamente ad un singolo individuo insegnante, ma va estesa ad altri soggetti, e segnatamente a quelle formazioni sociali «ove si svolge la personalità» dell’uomo e del cittadino riconosciute dall’ordinamento costituzionale, a partire dalla famiglia; c) essa non può essere limitata alla semplice espressione del pensiero e della cultura, ma non può che estendersi all’intero rappor­to educativo, e pertanto anche alla pre­disposizione del complesso degli strumenti per realizzare al meglio tali rapporti (e cioè, in ultima analisi, alla istituzione e ge­stione di scuole ed istituti di educazione). Nella scuola istituita e gestita dallo Stato o da altri soggetti di diritto pubblico, la l.d.i. è programmaticamente ed istituzionalmen­ te l. individuale, vale a dire espressione di un rapporto individualistico con la legge, e trova i suoi vincoli nella responsabilità in­ dividuale di fronte ad un soggetto di diritto pubblico, che deve curare esclusivamente gli aspetti formali. Tuttavia, nei confronti dell’ente pubblico istitutore e gestore la tu­ tela della l.d.i. funziona come una tutela negativa, una affermazione di l. da qualsia­si intervento o interferenza esterni, salvo quelli relativi da una parte all’ordine pub­blico ed al buon costume e dall’altra agli standard e agli assetti formali dell’organiz­zazione e del servizio. Nelle scuole istituite e gestite da soggetti di diritto privato, la l.d.i. disegna e fa parte di un rapporto più complesso, dato che la scuola non statale – altrimenti detta cor­rettamente (anche letteralmente in altri or­dinamenti europei) → scuola libera – nasce dall’incontro, variamente organizzato e giuridicamente formalizzato, di diverse l., della l., e della l.d.i. di diversi soggetti. 2. C’è tuttavia un elemento unificante, che insieme dà senso costruttivo alla l.d.i., sia che si esplichi nelle scuole istituite e gesti­te da enti di diritto pubblico sia che si espri­ma attraverso scuole istituite e gestite da soggetti di diritto privato: ed è l’esplicazio­ne, l’adempimento della medesima funzione docente. Essa è funzione radicalmente pubblica, perché rivolta al pubblico, anche se è un pubblico speciale, specifico di quel­la scuola. Essa risponde al diritto-dovere dei genitori di istruire ed educare i figli, e più in generale al diritto all’istruzione dei cittadini. La funzione docente realizza la l. costrut­tiva, posi-

LIBERTÀ DI INSEGNAMENTO

tiva degli operatori scolastici: è il loro modo di partecipare all’organiz­zazione sociale e di concorrere, in adempi­mento del dovere di solidarietà, allo svi­luppo ed alla crescita della società. È in questa accezione pienamente pubblica e partecipativa della funzione docente che la l.d.i. anche nella scuola istituita e gestita dallo Stato può qualificarsi non solo come l. negativa, vale a dire come potere di in­terdizione dell’individuo di fronte ad even­ tuali intrusioni nella sua sfera giuridica, ma anche qui come l. positiva, l. per costruire un nuovo modello di rapporti. 3. La funzione docente è, dunque, una specificazione di quella attività o funzione che ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, per concorrere «al progresso mate­riale o spirituale della società». E siccome i doveri che vengono in evidenza in questi principi fondamentali della Cost. repubbli­cana sono i «doveri inderogabili di solida­rietà» (art. 2 Cost.), ne deriva che lo svolgi­mento della funzione docente non con­figura soltanto un diritto soggettivo, e non inerisce quindi soltanto alla sfera giuridica individuale, ma rientra anche nell’adempi­mento di un dovere di solidarietà, impo­nendo che vi si dedichi la dovuta attenzio­ne, il dovuto rispetto per la personalità, l’i­dentità culturale, lo sviluppo integrale dei destinatari (gli allievi), sia come singoli, sia nel contesto dell’insieme delle formazioni sociali dove si svolge e costruisce la loro personalità (dalla famiglia al complesso della società organica). In questo contesto, pertanto, la l.d.i. non si può configurare soltanto come un diritto soggettivo, e come una l. individuale e negativa opponibile tout court ai terzi, e in qualche modo conflittuale con le loro sfere giuridiche individuali: bensì va configurata come una garanzia per lo svolgimento cor­retto e tendenzialmente completo di quella funzione di cui si diceva. Pertanto le moda­lità di attuazione della l.d.i. non possono non tenere conto delle modalità previste dalla Cost., prima fra tutte quella della par­tecipazione. Infatti la l.d.i. si integra ne­cessariamente con la partecipazione alla vi­t a della scuola e della/e comunità di rife­ rimento, e con la sua corresponsabilizzazione (il concorso) con lo sviluppo sia dell’identità personale e sociale degli al­lievi sia della società.

4. La l.d.i., dunque, si esplica nel e attra­ verso il sistema scolastico-formativo o, ma più riduttivamente, attraverso la scuola, in­tesa come organizzazione e molto di più come istituzione. Essa viene in considerazione in relazione: a) ai fondamenti istitutivi della scuola; b) alle modalità organizzative; c) agli altri di­r itti o interessi che sono presenti nella scuola e che in essa ed attraverso di essa tendono alla loro realizzazione (diritti e/o interessi degli allievi, delle loro famiglie, della società organica, della stessa pubblica amministrazione). La l.d.i. può essere, in sostanza, definita co­me «la l. di partecipare al progetto educativo-formativo della scuola (non dello Sta­to, che per definizione e per scelta demo­cratica non si occupa dell’educazione na­zionale ma della pubblica istruzione), con i propri apporti professionali originali (che debbono, naturalmente, essere originali e professionali) e di concorrere alla sua rea­lizzazione (e, a determinate condizioni, al­la sua elaborazione)». In relazione ai fondamenti istitutivi della scuola, la l.d.i. si situa necessariamente in rapporto con il contesto della scuola stessa, con la sua tavola valoriale, quale è dettata non già dall’organizzazione o dall’apparte­nenza patrimoniale a un ente pubblico, bensì dai concreti soggetti coinvolti nell’e­sperienza della comunità scolastica, gli al­lievi, le loro famiglie, gli insegnanti, l’inte­ra società locale di riferimento. In tal senso la tavola valoriale della scuola, della singo­la scuola non può che essere in relazione stretta con la tavola valoriale della comuni­tà. E quanto più esse coincideranno, tanto maggiore sarà l’efficacia del servizio sco­lastico formativo. Quanto meno esse coin­cideranno, tanto meno efficace sarà il lavo­ro sviluppato – se sviluppato – nell’istitu­zione. 5. In relazione alle modalità di organizza­ zione della scuola, giova prima di tutto di­ stinguere tra la l.d.i., costitutiva dei criteri organizzativi, dopo che istituzionali, della scuola, dalle l. dell’insegnante, contingenti e determinabili praticamente in relazione alle diverse caratteristiche del servizio e al­lo sviluppo delle relazioni aziendali nella scuola: sulla base di una periodica contrat­t azione, che non può a sua volta non tene­re conto del patrimonio della tradizione sindacale e dei ben delimitati confini del­l’ordinamento. 667

LIBERTÀ: EDUCAZIONE ALLA

Emerge con sufficiente chiarezza l’esigen­ za che le modalità di organizzazione – fatte salve quelle generalissime attinenti ad un’adeguata omogeneità di standard, di condizioni oggettive (igienico-sanitarie, per es.), al generale buon andamento del servizio ed alla correttamente intesa imparzialità nel suo adempimento – siano su­bordinate e strumentali rispetto alle fina­lità statutarie dell’ente e di ogni singolo plesso scolastico e/o formativo, e soprat­t utto alla realizzazione dei diritti dei sin­goli e degli interessi collettivi coinvolti nel processo educativo e nell’utilizzazione del suo prodotto. La l.d.i. – nel rispetto dei di­r itti e degli interessi altrui – dovrebbe fare perno su «esigenze di carattere organizza­tivo che non discendano direttamente dal­le esigenze dei destinatari/ committenti del servizio». In questo senso, in piena autonomia dell’insegnante, a sua volta immersa e come garantita nell’autonomia dei soggetti e del­le formazioni sociali destinatari/commit­t enti del servizio, si esplica appieno la fun­z ione docente la quale, giova ricordarlo, è trasmissione/comunicazione di cultura e – prima ancora – contributo alla sua elabo­r azione, impulso alla partecipazione di giovani e meno giovani alla loro stessa for­mazione ed all’educazione dei figli (diretti e mediati attraverso l’accettazione consa­pevole e responsabile di una sorta di paternità sociale che è il fondamento di tutta la legislazione partecipativa). Proprio perché il fine ultimo è la formazione «umana e cri­tica» della/e personalità dei giovani viene ad essere l’esercizio della funzione docente come espressione e seme di l. e responsa­bilità. Bibl.: Pototschnig U., «Insegnamento (l. di)», in Enciclopedia del diritto, vol. XXI, Milano, Giuffré, 1971, 721-751; Talamanca A., L. della scuola e l. nella scuo­la, Padova, CEDAM, 1975; Cecchini A. I., L. del­l’informazione, della scuola e dell’insegnamento nella Costituzione italiana, Ibid., 1983; Pizzi A., «Insegnamento e scuola (l. di)», in Enci­clopedia giuridica, vol. XVII, Roma, Treccani, 1989, 1-6; Corradini L. - G. M acchia - A. Milletti - S. Cicatelli, Professione docente e autonomia delle scuole, Brescia, La Scuola, 2001; Cicatelli S., Conoscere la scuola. Ordinamento didattica legislazione, Ibid., 2004.

G. Garancini

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LIBERTÀ: educazione alla L’identità della → persona consiste nella coscienza della l. come capacità interiore di realizzarsi secondo un progetto personale. Tale progetto deve «condurre fuori» ciò che è dentro la persona. Ma non è possibile «condurre fuori» qualcosa se non proponendo un modello di ciò che la persona può e deve essere. Tale processo coinvolge il soggetto attivamente anche nella dimensione cognitiva, che avvia una ricerca caratterizzata da una ragione morale. 1. Nella sua vita, la persona si realizza come sintesi instabile di → valori corporei (legati al contesto) e spirituali (trascendenti), in una continua ricerca di equilibrio. La «corporeità» fa prendere coscienza che l’io, che è situato nel contingente, è costretto a fare i conti con il suo spazio-tempo. La «spiritualità» fa comprendere che si può oltrepassare la situazione contingente, sia perché si hanno radici nel passato e si è proiettati verso un futuro, sia perché si possono esprimere valori che hanno un rapporto con il trascendente. In tale processo la l. non può essere intesa in senso assoluto, ma in relazione ad una situazione, ad una convivenza che la esprime; né può essere goduta come bene acquisito una volta per sempre. Si tratta di una conquista graduale e progressiva che suppone un itinerario educativo. 2. Come conquista, la l. non è mai definitiva, ma si attua superando gradualmente i limiti. I mali vanno evitati in quanto mali, come aspetti che riducono, limitano, o arrestano l’umanità dell’individuo: ma possono essere recuperati per quel nucleo che in essi v’è di realtà dotata di significato e di valore. Perciò la conquista delle l. comporta un lungo cammino individuale e collettivo (→ liberazione, educazione liberatrice), che implica il passaggio da orizzonti limitati a più ampi traguardi che non solo fondano in maniera più radicale e universale quella norma che regola la l. individuale, ma corrispondono alla conquista di un più elevato grado di l. Educare, in tale prospettiva, vuol dire abilitare alle scelte per il proprio progetto di vita, per diventare persona «adulta». Ciò richiede attenzione all’educando, alla sua esperienza umana, alle sue capacità intellettuali, emo-

LIBRETTO FORMATIVO DEL CITTADINO

tive, psicologiche; attenzione all’educatore, che deve lasciarsi coinvolgere e che deve anticipare un senso alle scelte del soggetto, mettendosi in gioco; attenzione agli insegnamenti, ai contenuti della condotta morale, ai giusti comportamenti; ma soprattutto attenzione alle motivazioni, alle intenzioni, agli atteggiamenti interiori, alla virtù. Importanza particolare assume la vita concreta ed il ruolo della famiglia (i genitori), ma anche il valore dell’aiuto che viene dalla scuola, dagli amici, dalla comunità religiosa di appartenenza: insegnare il bene è farlo emergere, con autonomia, razionalità ed altruismo. 3. In questo orizzonte di senso si pone il problema dell’educazione alla l.: mirare cioè alla maturazione della persona, perché si è liberi quando si è autenticamente se stessi, sviluppando quei valori umani su cui si è fondati per realizzare in sé l’uomo o la donna, attraverso un’autodisciplina che è coscienza critica e dominio personale nelle scelte che permettono di «essere di più», di dare qualità umana alla propria esistenza, di acquisire abitudini di l. Infatti questa educazione non si identifica con un insegnamento rivolto a sviluppare tecniche per l’autonomia e la decisione personale, che pure sono indispensabili, ma deve mirare all’espressione della l. come acquisizione di valori più «autenticamente e pienamente umani», vissuti nella tonalità che caratterizza l’individualità di ognuno. L’educazione alla l. perciò significa educare all’umanità piena, perché ogni educazione è autentica se è promozione di umanità nella sua integralità e unitarietà personale. Siccome la persona è irripetibile, educare alla l. significa permettere che ognuno diventi cosciente delle proprie condizioni interiori ed esteriori, in vista della riuscita di una propria esperienza di uomo/ donna. Ne consegue che non si può educare alla l. con metodi coercitivi, ma stimolare, persuadere, convincere ad essere liberi. Educare alla l. sottolinea più il concetto positivo di l. (libertas specificationis = fare questo o quello) che il suo negativo (libertas exercitii = fare o non fare). Il momento negativo è importante per superare il determinismo e il fatalismo, ma da solo non promuove la l. Perciò nel contesto culturale segnato dall’individualismo, dall’utilitarismo, dall’efficientismo e dal presentismo, l’educazione alla l. deve essere caratterizzata da un aiuto a crescere

nella responsabilità, nella solidarietà, nella ricerca condivisa del bene comune, nell’impegno di partecipazione «civile» per la promozione e la tutela dei → diritti umani di tutti e di uno sviluppo «dal volto umano» per tutti i popoli e per le generazioni venture. Educare ai diritti umani vuol dire non limitarsi a trasmettere una serie di pur utili nozioni, ma richiede un processo lungo con una strategia preventiva efficace di difesa della dignità di ogni individuo. 4. Allora l’educazione alla l. richiede istruzione, dialogo, senso critico, realismo, motivazione, discussione. Ma anche capacità creativa e senso dell’utopia (cioè il gusto per gli ideali che si vogliono realizzare, anche se in modo limitato). Occorre perciò esercizio, esperienza, tirocinio guidato, accompagnamento; occorre «far pratica» di l. nel concreto della vita comune del proprio tempo, delle istituzioni, delle forze qui e ora disponibili. Sarà necessario aiutare a trovare la «discrepanza ottimale» tra ideale e reale, ad essere coraggiosi e prudenti allo stesso tempo, a «toccar con mano» possibilità e limiti personali e sociali. E saranno pure necessarie opportune e scadenzate forme di valutazione, di verifica e di supervisione interpersonale e (o anche) comunitaria. Bibl.: Bausola A., L. e responsabilità, Milano, Vita e Pensiero, 1980; Serio G., Educazione e l. nell’era tecnologica, Napoli, Tecnodid, 1988; Poupard P., Dio e la l.: una proposta per la cultura moderna, Roma, Città Nuova, 1991; L aporta R., L’assoluto pedagogico. Saggio sulla l. in educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1996; Montessori M., Educazione alla l., Bari/Roma, Laterza, 1999; Balducci E., Educazione e l., Casale Monferrato (AL), Piemme, 2000; Bernardi M., Educazione e l., Milano, Fabbri, 2002; Rey O., Une folle solitude. Le fantasme de l’homme auto-construit, Paris, Seuil, 2006.

G. Morante

LIBRETTO FORMATIVO DEL CITTADINO 1. Introduzione. Il l.f.d.c., definito in sede istituzionale nazionale ai sensi dell’accordo Stato-Regioni del 18 febbraio 2000, rappre669

LIBRO

senta «il l. personale del lavoratore […] in cui vengono registrate le competenze acquisite durante la formazione in apprendistato, la formazione in contratto di inserimento, la formazione specialistica e la formazione continua svolta durante l’arco della vita lavorativa ed effettuata da soggetti accreditati dalle regioni, nonché le competenze acquisite in modo non formale e informale secondo gli indirizzi della Unione Europea in materia di apprendimento permanente, purché riconosciute e certificate» (art. 2 comma i. Decreto Legislativo 10 sett. 2003 n. 276). Si tratta di un documento che si aggiunge, qualificandolo, al l. di lavoro e mira a raccogliere, sintetizzare e documentare le diverse esperienze di apprendimento dei lavoratori nonché le competenze da essi comunque acquisite: nella scuola, nella formazione, nel lavoro, nella vita quotidiana. Ciò al fine di migliorare la leggibilità e la spendibilità delle competenze e l’occupabilità delle persone. 2. Spiegazione. La realizzazione di questo documento trae origine dalla limitatezza delle declaratorie professionali basate sulle qualifiche come fonte per precisare la padronanza professionale del titolare; esso si presenta quindi come uno strumento dinamico in grado di accompagnare la persona in tutto l’arco della sua esperienza formativa e lavorativa in coerenza con il concetto di lifelong learning. Questa concezione è coerente con le strategie e le azioni dell’Unione Europea finalizzate alla trasparenza delle competenze e alla mobilità delle persone tanto che il l. può essere considerato il corrispettivo italiano di EUROPASS, il passaporto delle qualifiche e delle competenze che favorisce la «portabilità» delle stesse in Europa, con la differenza che il l. rappresenta la carta d’identità per muoversi sia sul territorio nazionale, sia attraverso le diverse esperienze di apprendimento e lavoro. È infine coerente con la Borsa Continua del Lavoro per favorire l’incontro domanda-offerta di lavoro. Il l. fornisce informazioni sul soggetto e sul suo curriculum di apprendimento formale, non formale e informale, per la ricerca di un lavoro, per la mobilità professionale e per il passaggio da un sistema formativo all’altro; rende riconoscibili e trasparenti le competenze comunque acquisite e sostiene in questo modo l’occupabilità e lo sviluppo 670

professionale; aiuta gli individui a mantenere consapevolezza del proprio bagaglio culturale e professionale anche al fine di orientare le scelte e i progetti futuri. Bibl.: Autieri E. - G. Di Francesco, La certificazione delle competenze. Innovazione e sostenibilità, Milano, Angeli, 2000; Frega R., Dalla competenza alla navigazione professionale, in «Professionalità» 62 (2001) 7-18; Alberici A.- P. Serreri, Competenza e formazione in età adulta. Il bilancio di competenze, Roma, Monolite Editore, 2002; Isfol, La certificazione delle competenze: analisi comparativa internazionale dei dispositivi di certificazione di alcuni Paesi europei, Roma, ISFOL, 2003; P ugliese S., Valutazione e sviluppo delle competenze, Milano, Ipsoa, 2004; Bordignon B., Certificazione delle competenze, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.

D. Nicoli

LIBRO In origine pellicola interna di un fusto usata per la scrittura, in seguito parte di un’opera scritta, designa oggi sia un insieme ordinato di fogli cartacei rilegati, scritti e, più frequentemente, stampati, sia, per metonimia, il testo in essi contenuto. 1. L’industria della carta, sviluppatasi in Europa tra il XIV e il XV sec., produce il materiale che, insieme al perfezionarsi della tecnica tipografica, costituisce il l. come oggi lo conosciamo. I primi l. di carta stampata prendono il nome di incunaboli e sono spesso impreziositi da incisioni. La componente iconica raggiunge nel tempo elevati livelli tecnici, anche in rapporto alla domanda dell’editoria scientifica, fino all’esito eccezionalmente raffinato dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert (1751-1772). Diversi erano stati nel tempo i materiali su cui tramandare e diffondere la parola scritta: dal III millennio a.C. le tavolette incise in cuneiforme trasmettono la cultura mesopotamica; prevale poi per lungo tempo il papiro, in fogli o rotoli nell’area dell’antico Egitto e per tutto il mondo classico, molto gradualmente sostituito dalla pergamena. Di questo materiale sono costituiti i codici, che possono essere anche raschiati e riscritti (palinsesti) e

LICEO

che sono molto spesso miniati. Si preferisce in seguito per maggiore praticità e minori costi la carta (esistono codici umanistici cartacei) con cui si realizza la diffusa esigenza di «scrittura artificiale», cioè, di fatto, della stampa (Gutenberg, 1456). 2. Nella sua storia, al l. sono stati attribuiti compiti di conservazione/testimonianza della cultura e di diffusione delle informazioni e delle idee. Proprio con la stampa si sviluppa infatti il l. funzionale: il trattato scientifico, l’opera divulgativa, la libellistica. Al l. come veicolo di idee e di formazione è collegato il suo significato pedagogico più evidente, spesso non separabile dai problemi dell’alfabetizzazione e dell’insegnamento. Ma su entrambi i versanti la cultura e la civiltà del l. sono chiamate oggi a confrontarsi con il futuro multimediale, soprattutto in rapporto all’acquisizione, alla disponibilità e al controllo delle informazioni. Ne deriva la necessità, da elaborare in termini pedagogici, di un equilibrato discernimento tra la rapidità delle accelerazioni culturali e l’esigenza della memoria storica. Bibl.: Di M ilano V. (Ed.), Manuale enciclopedico della bibliofilia, Milano, Sylvestre Bonnard, 1997; Blumenberg H., La leggibilità del mondo. Il l. come metafora della natura, Bologna, Il Mulino, 1999; Barbier F., Histoire du livre, Paris, Armand Colin, 2000 (tr. it.: Storia del l. dall’antichità al XX secolo, Bari, Dedalo, 2004); Brezzi P., Storia del l. e dell’editoria, dai codici a Internet, Roma, Visceglia, 2005.

R. Lollo

LICENZA → Titoli di studio

LICEO Dal gr. Lykaion óros (lat. mons Licaeus), designava la località nei pressi di Atene che traeva nome dal santuario di Apollo Licèo e dove → Aristotele aprì una scuola nella quale svolgeva il suo insegnamento di filosofia. Più tardi il termine passò ad indicare in genere luoghi pubblici, in cui si tenevano esercitazioni letterarie e filosofiche, e divenne infine, talora unito al termine → ginnasio, titolo di scuola superiore.

1. Così avvenne in Italia, dove la L. Casati (1859) istituì il l. classico di tre anni, che con i cinque anni di ginnasio che lo precedevano (inferiore e superiore), segnò la scuola di più alto livello culturale, fondata prevalentemente sull’insegnamento del lat. e del gr. La riforma → Gentile (1923), per mantenere al l. classico la sua posizione di prestigio, vi affiancò il l. scientifico, in cui, in sostituzione del gr., venne dato più spazio all’area delle discipline fisico-matematiche e potenziato l’insegnamento delle lingue straniere. Con un decreto legge del 1926 venne istituito anche il l. artistico. In tempi successivi sorsero altri tipi di l., come il l. linguistico, e più recentemente, il l. psico-socio-pedagogico (rispondente all’istituto magistrale), il l. europeo, il l. tecnologico... 2. Fra gli ordinamenti scolastici europei si segnala la presenza del l. particolarmente nella scuola francese, dove il licée si identifica con la secondaria superiore (preceduta dalla inferiore denominata collège), articolata in l. generale (a più indirizzi: letterario, economico-sociale, scientifico) e tecnologico (scienze e tecnologie terziarie, industriali, di laboratorio, medico-sociali) e in l. professionale, orientato ad una istruzione generale di base e tecnico-pratica. In Lussemburgo la denominazione l. copre tutto l’arco della scuola secondaria inferiore e superiore, di tipo generale (lycées) e di tipo tecnico (lycées techniques). Anche in Olanda il Lyceum, accanto all’Atheneum e al Gymnasium, costituisce un tipo di scuola secondaria con sbocco universitario. La Grecia, dopo il Gymnasio (secondaria inferiore), prevede il Lykeio (secondaria superiore) a indirizzi unificati dopo la riforma del 1997-98. Per ulteriori notizie cfr. anche la voce → ginnasio. Bibl.: Cives G. (Ed.), La scuola italiana dall’Unità ai nostri giorni, Firenze, La Nuova Italia, 1990; Caron J. C., «I giovani a scuola: collegiali e liceali (fine XVIII - fine XIX sec.)», in G. Levi - C. Schmitt (Edd.), Storia dei giovani, vol. 2, L’età contemporanea, Bari, Laterza, 1994, 161-232; www.eurydice.org/portal/page/portal/Eurydice/ DB_Eurybase_Home.

G. Proverbio

LIETZ Hermann → Scuole Nuove

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LINGUA MATERNA: INSEGNAMENTO DELLA

LINGUA MATERNA: insegnamento della 1. L’orientamento didattico che si offre oggi all’insegnante di l. rappresenta sostanzialmente il frutto di due diversi indirizzi: una mutata concezione della l., posta in evidenza specialmente dalla linguistica descrittiva, e una più sentita aderenza alle istanze psicologiche del processo di apprendimento. La prima esigenza, quella linguistica, ha certamente contribuito a destare nell’insegnante un vivo senso della mutabilità delle strutture della l. e insieme del valore primario, per l’insegnamento, della contemporaneità, ossia dei modelli linguistici offerti dai parlanti e dagli scrittori odierni. La seconda ha invece fatto sì che il metodo didattico si adeguasse più efficacemente a certi obiettivi pratici di educazione linguistica e a certi ritmi che sono peculiari del discente proprio nella sua graduale conquista dello strumento linguistico. 2. Rispetto al concetto tradizionale di fissità e trascendenza della norma grammaticale, la linguistica attuale, pur riconoscendo l’esistenza di una norma che governi l’uso della l., rifugge tuttavia dall’attribuire un valore assoluto alle leggi linguistiche. Anche la fonologia e la morfologia, che pure rappresentano le strutture più fortemente obiettivate del linguaggio, non sono tuttavia prive di una certa suscettibilità di variazione individuale e di evoluzione nel tempo. Tali norme linguistiche (fonologiche, morfologiche, lessicali, e soprattutto sintattiche e stilistiche), di conseguenza, non possono avere valore assoluto, ricavate come sono da una fase stabilizzata della l., per essere applicate ad atti espressivi mutevoli insieme ai sentimenti degli individui, alle esigenze dell’ambiente, allo svolgimento della cultura. In pratica, il problema si traduce nella difficoltà di determinare i canoni della correttezza linguistica, soprattutto sotto l’aspetto più cruciale della ortodossia grammaticale. Non c’è forse problema più scottante, oggi, nell’insegnamento della grammatica. In fondo, si tratta di scegliere tra una presunta «autorità», trascendente la l. stessa, e l’uso socialmente dominante. Da tutto ciò consegue per l’insegnante l’impreteribile necessità di aggiornarsi sui contributi della scienza linguistica sia per attingerne criteri di sano progressivismo, sia 672

anche per evitare affrettate iconoclastie nei riguardi delle formule tradizionali. Accanto allo studio filologico, che nutrirà particolarmente la sua cultura letteraria, egli dovrà aprirsi non meno alle nuove visioni della linguistica sincronica, che lo rendano idoneo ad intendere e equamente valutare i contributi della l. contemporanea. In secondo luogo, va notato che l’accettazione dell’istanza psicologica da parte della didattica linguistica ha rivoluzionato le tradizionali concezioni metodologiche. Per cui l’orientamento attuale della didattica linguistica viene a presentare due evidenti contrassegni: a) aderenza ai fattori psicologici dell’apprendimento quale si verifica soprattutto nell’allievo giovane; b) funzionalità di obiettivi, per cui più non si concepisce un insegnamento tendente ad imbottire i cervelli di definizioni astratte e di nomenclature grammaticali, ma si vuole dare all’allievo l’immediata capacità di far buon uso della l. che gli si insegna. 3. Possiamo ridurre a due le finalità della l.m.: a) assicurare al giovane uno strumento perfetto di autoespressione, curando la capacità espressiva sia nel suo aspetto formale, e perciò assicurando le due doti della sincerità (adeguazione fra mente e parola, quindi rifuggente dalla retorica – espressione che supera il contenuto dell’esperienza personale – e dalla inespressione – forma inadeguata al contenuto –) e dell’originalità (esistente qualora l’eloquio sia specchio fedele dell’animo individuale); sia nel suo aspetto materiale, curando quindi la ricchezza dell’eloquio (vocabolario sufficientemente nutrito) e la consapevolezza linguistica (possesso cosciente delle esigenze grammaticali); b) ad uno scopo di maggior perfezione linguistica e spirituale, si rende però necessario lo studio della → letteratura che deve trasmettere al giovane quei valori culturali e quella perfezione di sentire che sono incastonati nelle creazioni culturali del genio nazionale. 4. Ma perché tali finalità possano essere veramente raggiunte, oltre ad un solido contenuto di programma scolastico, si richiede l’applicazione di una metodologia didattica «razionale». La vera coscienza riflessa di un problema del «metodo» nell’insegnamento linguistico è di data recente: la riposizione critica del problema la troviamo in Comenio

LINGUA STRANIERA: INSEGNAMENTO DELLA

(→ Komenský), → Rousseau, → Pestalozzi, → Fröbel, e poi soprattutto nei pedagogisti del sec. XIX e nei contemporanei. Un’impronta particolare è stata lasciata in questo campo da un maestro ginevrino del secolo scorso, il francescano p. → Girard, e da un didatta italiano del nostro secolo, → LombardoRadice. I risultati di questa revisione critica si possono riassumere in un solo principio: ritornare al metodo «naturale», le cui leggi essenziali sono implicite nel metodo materno per la coltura del linguaggio infantile. Il metodo «naturale» – considerato come procedimento ideale – è un metodo vivo, ossia sostanziato di «parlare» e schivo dalle definizioni astratte e dalla fredda nomenclatura; globale e concreto, in quanto rispondente ai bisogni e agli interessi reali del giovane e fondato sull’intuizione o sulla percezione di entità globali (il discorso, la frase, totalità insomma aventi senso compiuto) e non sulla analisi di elementi semplici staccati dal tutto organico a cui appartengono; graduale, che cioè manuduce il giovane lungo le tappe progressive del suo sviluppo espressivo senza forzarlo. 5. Da un punto di vista tecnico, due sono sostanzialmente le garanzie di efficacia didattica nell’insegnamento delle l., e particolarmente di quella nazionale: a) creare un «ambiente linguistico» favorevole alla libera e corretta espressione; ciò richiede di far sorgere nella classe un ambiente di spontaneità familiare, misto quindi di confidenza e di serietà, che permetta agli allievi di parlare con moderata libertà per manifestare bisogni e interessi reali di vita (oralmente o per iscritto); e di assumere il parlare e lo scrivere spontaneo come contenuto del proprio insegnamento, che dovrà essere nella scuola primaria in gran parte spicciolo od occasionale; b) funzionalizzare il metodo per tendere a perfezionare l’«uso» della l. In pratica, ciò significa: orientare la grammatica, la conversazione, la lettura e il vocabolario al perfezionamento della composizione (orale e scritta). Pertanto, nel primo stadio dell’insegnamento linguistico tutto deve diventare avviamento al comporre. Soltanto in seguito, mediante un progredito studio della letteratura, si tenderà all’affidamento della coscienza linguistica e all’assimilazione di valori culturali ed estetici.

Bibl.: a) Natura della l.: Bloomfield L., Language, London, Allen and Unwin, 1933; De Saussure F., Cours de linguistique générale, Paris, Payot, 1949 (trad. it. Bari, Laterza, 1970); Devoto G., «Essenza della l.», in La didattica della l. it., Genova, Centro Didattico Naz. per la Scuola Elem., 1955. b) Psicologia del linguaggio: Bruner J., Lo sviluppo del linguaggio nel bambino, Roma, Armando, 1991; Freddi G., Il bambino e la l., Padova, Liviana, 1991; Vygotsky S. L., Pensiero e linguaggio, Bari, Laterza, 1992; Titone R., La psicolinguistica ieri e oggi, Roma, LAS, 1964/1993. c) Didattica della l.: Id., L’insegnamento delle materie linguistiche e artistiche, Ibid., 1963; Tulasiewicz W. - A. A dams, Teaching the mother tongue in a multilingual Europe, London, Continuum International Publishing Group, 2005.

R. Titone

LINGUA STRANIERA: insegnamento della La questione didattica dipende molto dai presupposti teorici che si danno. 1. Gli ultimi sviluppi del concetto di didattica delle l. hanno posto in evidenza la necessità di una fondazione scientifica multi e inter-disciplinare. Le basi interdisciplinari di questa nuova scienza sono costituite da una varietà di saperi di natura linguistica, psicologica, sociologica, antropologica ed etnologica, pedagogica, cibernetica e informatica, e di metodologia della ricerca psicopedagogica, ma altresì da una visione storica dell’evoluzione dei metodi glottodidattici lungo i secoli. La visione storica è tuttavia il punto di partenza, in quanto permette di vagliare le esperienze e le concezioni in base alla loro efficacia a posteriori, e di formulare ipotesi fondate come guida a nuove esperienze e a nuove teorie. Oltre i documenti su antichissime tradizioni didattiche risalenti ai Sumeri e agli Egizi, ai Greci e ai Romani nell’ambito di una scuola plurilingue, nella storia ricorrono i nomi di grandi pionieri della teoria glottodidattica, come il celebre pedagogista boemo → Comenio (sec. XVII) e i maestri delle scuole di Port-Royal, fino alla rivoluzione della fine del sec. XIX e della prima metà del nostro sec. 673

LINGUAGGIO

2. Il primo problema posto dalla pedagogia interlinguistica e interculturale è quello della definizione delle finalità dell’apprendimento delle l., soprattutto nelle prospettive della società contemporanea, ma anche in funzione di uno sviluppo integrale dell’uomo fin dalla prima infanzia. Sul piano della componente linguistica in senso sistemico e sociale, si è proposto negli anni ’50 il problema dell’analisi comparativa e contrastiva (somiglianze e differenze) delle l. coinvolte nel processo di apprendimento; un confronto tra le caratteristiche strutturali della prima l. e della seconda l., in funzione di una prevenzione degli errori soprattutto di interferenza. Nella stessa prospettiva della linguistica descrittiva si sono posti vari problemi: quello del contatto tra l. e culture diverse (sociologia del biplurilinguismo), delle varietà dei codici intrasistemici (le microlingue, ossia l. per scopi e livelli diversi, livelli di apprendimento graduati secondo l’età e la scolarizzazione, usi professionali e scientifici, varietà linguistiche secondo i contesti sociali e comunicativi, ecc.), dell’apprendimento della grammatica vs. l’acquisizione di abilità automatizzate, ecc. Sul piano della psicologia (→ psicolinguistica) dei processi di apprendimento di una seconda l., si sono studiati i fenomeni psicologici del → bilinguismo, nelle sue diverse forme individuali e sociali, e, più profondamente, i fattori governanti un’acquisizione ottimale di una seconda l. (di ordine senso-motorio, cognitivo, affettivo, sociale, culturale, morale). Su questo terreno si sono confrontate tendenze teoriche di diverso orientamento: dalla teoria comportamentistica a quella cognitivista, a quella affettivo-clinica, e finalmente al tentativo di un superamento delle unilateralità e dei riduzionismi grazie alla sussunzione di una visione integrale e integrata quale la teoria «umanistico-personalistica», postulante il coinvolgimento – sia a livello finalistico che causale – di tutte le componenti della personalità del discente (v. il Modello olodinamico di Titone, che postula la compresenza e convergenza di tre livelli essenziali della operatività umana: il livello tattico, strategico ed egodinamico). 3. Dalla deduzione da questi fondamenti scientifici di natura intersistemica, e dal risultato induttivo delle ricerche sperimentali 674

e/o operative, si è giunti a definire la configurazione di orientamenti (approcci) e metodi (sistemi procedurali) validi e più efficaci che nel passato, destinati a conferire sicurezza di intervento da parte dell’insegnante e di partecipazione da parte dello studente. Due problemi derivati sono in corso di studio in molti Paesi: quello della scelta e della validazione di adeguate tecniche glottodidattiche (da quelle di natura verbale a quelle più recenti di natura iconica: audiovisive, cibernetiche/computazionali, drammatiche/teatrali); un secondo, ma non ultimo in importanza, è il problema dell’adeguata formazione dell’insegnante di l., sul piano della competenza linguistica e su quello della capacità professionale-didattica. Infine, nella prospettiva di una ottimale collocazione dell’apprendimento di una l2 sulla scala della scolarizzazione e dello sviluppo psico-sociale del discente, si vanno oggi tentando in molti Paesi esperienze di insegnamento della l2 a livelli precoci, dalla scuola materna alla scuola elementare (si vedano gli esperimenti anche italiani, fin dal 1960). Bibl.: Titone R., Glottodidattica: un profilo storico, Bergamo, Minerva Italica, 1980; Id., Theoretical models and research methods in the study of second language acquisition, Toronto, CISC, 1988; I d., Introduzione alla glottodidattica: le l.s., Torino, SEI, 1990; Serra Borneto C. (Ed.), C’era una volta il metodo. Tendenze attuali nella didattica delle l.s., Roma, Carocci, 1998; Cangià C., L’altra glottodidattica. Bambini e l.s. fra teatro e computer, Firenze, Giunti, 1998.

R. Titone

LINGUAGGIO Si definisce l.: a) la capacità dell’uomo di scambiare informazioni o comunque di en­ trare in comunicazione con i propri simili; b) l’oggetto di tale scambio comunicativo, in quanto strutturato in codici e lessici; c) la pratica sociale attraverso la quale detta fa­coltà produce il suo oggetto. Ciascuna di queste definizioni implicherebbe compe­ tenze disciplinari articolate ed eterogenee che riguardano la psicolinguistica, la lin­ guistica, la semiologia, la sociologia, la filosofia del l., rendendo ragione della indi­scussa

LINGUAGGIO

centralità del l. nel pensiero contemporaneo. Tenendo sullo sfondo tale orizzonte problematico è possibile indicare almeno i nodi attorno ai quali il dibattito teorico si è volta a volta organizzato. 1. Il l. come facoltà comunicativa. La lin­ guistica ha sin dall’inizio (Saussure) chiari­to la differenza del l. rispetto al fenomeno della lingua pensata come «il prodotto so­ciale della facoltà del l.», o meglio come «un insieme di convenzioni adottate al­l’interno di un gruppo di individui per con­sentire l’uso sociale di questa facoltà». Con questo, essa assume anche un ben preciso punto di vista circa l’origine del l., optan­do per l’ipotesi convenzionalista, già soste­nuta da Ermogene nel Cratilo platonico. Secondo questa posizione teorica, il rap­porto che lega la materialità significante della parola (piano dell’espressione) con il significato cui essa rinvia (piano del conte­nuto) è puramente arbitrario: quindi, ad esempio, non vi è una ragione particolare per cui il noto animale lanuto si chiami pecora in italiano, sheep in inglese o ovelha in portoghese. A questa ipotesi si oppone quella naturalista che, facendo leva soprattutto sullo studio delle onomatopee, evidenzia invece il forte radicamento della parola alle cose: così il verbo tintinnare avrebbe a che fare con il rumore della moneta quando rimbalza più volte per terra. Decidere dell’origine naturale o convenzionale del l. significa de­cidere del suo valore strumentale. La tra­dizione occidentale ha sempre concepito il l. come un mezzo attraverso il quale veico­lare messaggi. Contro questa concezione strumentalista da più parti (Heidegger, Wittgenstein, Gadamer, Habermas) si è reagito anche in ragione della riscoperta del nesso di coappartenenza tra essere e l. I risultati di questo ripensamento vanno nel­la direzione sia di una riflessione sulla profondità della dizione metaforica (Ri­coeur) come l. dell’essere, sia, più in gene­rale, di un ripensamento dell’ontologia e dell’antropologia proprio a partire dalla centralità del l. 2. Il l. oggetto. La → semiologia ma anche le altre scienze umane e sociali hanno ormai fissato la scansione del l. nelle due grandi aree del verbale e del non verbale. Il l. ver­ bale va inteso come un enunciato (o un in­ sieme di enunciati) orale o scritto la cui fun-

zione è di descrivere stati di cose (con­stativo) o produrre effetti nel destinatario (performativo). Più articolato il discorso nel caso del l. non verbale. Ad esso si pos­sono ricondurre infatti: gli elementi para-linguistici (mimica, gestualità, prossemica; tono, timbro e altezza della voce), gli ele­menti sonori (rumori e musica), gli ele­menti iconici. In entrambi i casi (verbale e non verbale) è facile ri­conoscere una possibilità di analisi del l. ad al­meno tre livelli (Morris): il livello sintattico delle relazioni, interne al sistema linguisti­co, tra i suoi elementi costitutivi; il livello semantico della capacità di questo sistema di rinviare a una determinata struttura simbolica; il livello pragmatico della sua efficacia comunicativa. Si tratta in sostanza, secondo un’altra nota terminologia (Au­stin), delle tre dimensioni del l. come si­stema di segni (locuzione), sedimentazio­ne di contenuti (illocuzione), produzione di comportamenti (perlocuzione). Soprat­t utto quest’ultima dimensione è oggi al centro dell’attenzione delle scienze sociali tanto da giustificare prima la nascita e poi l’affermazione della prag­matica (Levinson) come nuovo campo di­sciplinare. 3. Il l. come pratica sociale. Lo scambio co­ municativo, l’interazione fra i parlanti, è ciò che consente di definire il l. come una pratica sociale, forse la più rilevante delle pratiche sociali umane. In quest’ottica si può senz’altro dire che il l. è costitutivo della struttura profonda della persona, cioè del suo essere in relazione. Secondo il vec­chio paradosso spiritualista, infatti, anche per parlare da solo a solo, con me stesso, nel chiuso silenzioso della mia coscienza, ho bisogno del l. A maggior ragione non può prescindere dal l. l’altro movimento relazionale, quello che pone in rapporto persona e persona. Come una lunga tradi­zione teoretica ha messo in luce (Hegel, Husserl, Sartre) la costruzione della co­scienza trova nel riconoscimento, e quindi nell’incontro con l’altro, il proprio mo­mento insostituibile. Nella misura in cui il l. rende possibile tale incontro, esso si lascia comprendere come condizione del formar­si di quella struttura socioantropologicamente importantissima che è l’intersog­gettività. Lo si comprende bene, oggi, se si pensa alla rilevanza che l’analisi della comunicazione ha assunto nello studio dei processi di formazione in rete telematica o delle culture giovanili. 675

LINGUAGGIO ARTIFICIALE

4. L’importanza educativa. Proprio in rela­ zione a questo spazio umano e sociale si può comprendere l’importanza educativa del l. che si può ricondurre ad almeno tre rilievi. Anzitutto, come la sociologia del­l’educazione neomarxista e certa pedagogia cattolica (Don Milani) hanno indicato, educare al l. significa ridurre lo → svantaggio sociale. Perché questo sia possibile è necessario smettere di pensare l’educazione linguistica come apprendi­mento di abilità (alfabetiche) in vista di prove da superare (Postman): questo ti­po di educazione, infatti, mantiene anziché ridurre lo svantaggio (Bourdieu). La nuova concezione dell’insegnamento del l. che occorre promuovere intende il l. come capacità di porre domande, di ela­borare metafore che sintetizzino la conoscen­za, di produrre definizioni (Postman): in sostanza il passaggio auspicato è da una concezione strumentale e riproduttiva del l., a una concezione culturale ed espressiva. In se­condo luogo, l’educazione linguistica po­t rebbe configurarsi come vera e propria meta-educazione in grado di porre in dia­logo le diverse discipline. A prescindere dal set di competenze che le appartengono, ogni disciplina è anzitutto un gioco linguistico dotato di elementi e di regole: lo è evidentemente la letteratura, ma lo sono anche la matematica e la biologia che servono, come direbbe Galileo proprio con metafora linguistica, a leggere il libro della natura. Capire questo implica il compito di ogni educatore di educare a quel tipo particolare di l. in cui il sapere della sua area disciplinare si esprime. Non solo. Consente di ripensare su base linguistica seria l’equivoca interpretazione della transdisciplinarità (o → interdisciplinarità) come semplice convergenza sui contenuti. Da ultimo, proprio alla luce di quanto detto è possibile indi­care una terza valenza educativa del l. Esso si presenta all’educatore come un formi­dabile strumento metodologico per l’ap­proccio alla complessità nel senso, se non di una sua riduzione, almeno dell’offerta al soggetto di una importante mappa cogniti­va ai fini di un suo più facile orientamento. Bibl.: Morris C., Lineamenti di una teoria dei se­gni, Torino, Paravia, 21970; Austin J. L., Come fa­re cose con parole, Casale Monferrato (AL), Marietti, 1974; Saussure F., Corso di linguistica generale, Roma/Bari, Laterza, 51987; Bertuccelli Papi M., Che cos’è la pragmatica, Milano,

676

Bompiani, 1993; Ferrari S., Metodi e strumenti per l’analisi psicopedagogia dei forum, Milano, Guerini Studio, 2006.

P. C. Rivoltella

LINGUAGGIO ARTIFICIALE Sistema di segni (alfabeto), dotato di un suo lessico, di una sua grammatica, di una sua sintassi e di una sua logica, costruito dall’uomo per risolvere determinati problemi di → comunicazione. 1. I l.a. più noti sono quelli usati nell’ambito dell’ → informatica e nell’uso dei com­puter. Tuttavia possono essere considerati tali anche quelli utilizzati nella segnaletica stradale e nel disegno tecnico, anche se spesso vengono a mancare alcuni caratteri propri di un l. autonomo, come la sintassi o la logica. L’alfabeto Morse è un esempio di l.a. ridotto al suo solo alfabeto. Di natura ancora diversa è il linguaggio dei segni e quello Braille utilizzati nella comunicazioni con soggetti sordi e/o sordomuti. 2. L’aggettivo «artificiale» contrappone i l.a. a quelli naturali, cioè a quelli storicamente sviluppati dall’uomo per comunicare con i suoi simili. I l.a., infatti, hanno avuto origine in genere nella comunicazione uomo-macchina. All’uso diretto di leve e manovelle è succeduto progressivamente, a partire dalla fine del sec. XVIII, l’uso di un sistema di segni che la macchina fosse in grado di riconoscere. Il primo l.a. di questo tipo può essere identificato nelle tavole o schede a buchi utilizzate nei telai meccanici e nei carillon. Oggi i l.a. utilizzati nelle tecnica sono assai numerosi e sono costruiti e usati per affrontare specifici problemi e di lavoro e di comunicazione. Tra questi sono particolarmente diffusi i l. usati per comunicare con i computer e con tutte le altre macchine che utilizzano sistemi di elaborazione basati su microprocessori. Bibl.: Mauri G., Comunicare con il computer: i l., Milano, Jackson, 1986; Pellerey M., Informatica: fondamenti scientifici e culturali, Torino, SEI, 1986; Goldschlager L. - A. Lister, Introduzione all’informatica. Algoritmi, strutture, sistemi,

LITURGIA

Ibid., 1988; Calvani A. (Ed.), Scuola, computer, l., Torino, Loescher, 1989; Schank R. C., Il computer cognitivo. L., apprendimento e intelligenza artificiale, Firenze, Giunti, 1989; Fondamenti di informatica. Vol. 2: Reti, basi di dati, multimedia, l., algoritmi, Bologna, Zanichelli, 2006; Guida G. - M. Giacomin, Fondamenti di informatica, Milano, Angeli, 2006.

M. Pellerey

LINGUISTICA → Linguaggio

LINGUISTICA TESTUALE La l. del testo, o l.t., viene inaugurata intorno agli anni settanta, ad indicare lo spostamento dell’oggetto di studio dall’unità-frase all’unità-testo, per l’insufficienza della frase a dare ragione di numerosi fenomeni, quali la coreferenza, la selezione degli articoli, la pronominalizzazione, l’ordine delle parole, l’intonazione... Ad essa si deve il merito di aver individuato le proprietà fondamentali del testo, quali la coesione, o compattezza formale, e la coerenza, o unità di significato. 1. Nello sviluppo della l.t. vanno segnalati alcuni momenti importanti, che hanno consentito di perfezionare la nozione di testo: il momento interfrastico, il momento comunicativo e il momento pragmatico. Il momento interfrastico ha indotto a definire il testo quale «sequenza coerente di frasi», dove l’attenzione più che al testo in sé è rivolta ai meccanismi di coesione, garanti della coerenza testuale: i fenomeni di coreferenza (ripetizioni lessematiche, sostituzioni, pronominalizzazioni anaforiche e cataforiche) e i connettivi testuali, quali le congiunzioni e alcuni tipi di avverbio. 2. Al momento comunicativo appartiene la definizione di testo inteso come «insieme di frasi tematicamente coerente», in cui sia chiaramente riconoscibile l’intenzione comunicativa. E ciò avviene soltanto attraverso quella che è chiamata la «progressione tematica», che consiste di solito nella assunzione, nelle frasi che costituiscono la sequenza testuale, di un elemento noto (detto «tema») e nell’apporvi un elemento nuovo (detto

«rema»). Non vi è progressione tematica, per es., nella sequenza Luigi possiede una macchina potente. Mentre la mamma di Paolo è inglese. Nel momento pragmatico, infine, si evidenzia che, accanto all’intenzione comunicativa, nel testo deve essere riconoscibile anche l’intenzione pragmatica o pratica del locutore: in altri termini, ciò che questi intende «fare» parlando. Il testo viene così definito come «manifestazione di un potenziale illocutivo», di quell’aspetto del testo cioè, chiamato appunto illocutivo, che permette di cogliere che cosa si proponga il parlante «agendo» linguisticamente, che è segnalato peraltro dai verbi «performativi» (promettere, domandare, consigliare). 3. Così inteso il testo può essere costituito anche da una sola frase (ti consiglio di partire) o da una sola parola (parti), dove il verbo performativo è sottaciuto, ma dove si coglie ugualmente l’azione l. e l’intenzione pratica del locutore. Nella pratica didattica, l’analisi dei testi non dovrebbe trascurare gli aspetti ora segnalati, ai fini di una adeguata comprensione da parte degli studenti e, conseguentemente, di una corretta produzione. La competenza testuale ricettiva consiste infatti nella capacità di segmentare, riformulare e riassumere un testo (dunque nella capacità di comprenderlo nei suoi livelli). Bibl.: Weinrich H., Sprache in Texten, Stuttgart, Klett, 1976; Conte M. E. (Ed.), La l.t., Milano, Feltrinelli, 1977; Schmidt S. J., Teoria del testo, Bologna, Il Mulino, 1982; De Beaugrande R. A. - W. U. Dressler, Introduzione alla l.t., Ibid., 1984; Chini M. - A. Giacalone R amat (Edd.), Strutture testuali e principi di organizzazione dell’informazione nell’apprendimento linguistico, numero monografico di «Studi It. di L. Teorica e Applicata», 1, 1998; Andorno C., Introduzione alla l.t., Roma, Carocci, 2003.

G. Proverbio

LITURGIA Il termine si trova per la prima volta nel gr. classico, dove leitourgía denota un’attività pubblica, svolta liberamente a servizio dei concittadini. Con il tempo l. presenta un qualunque servizio reso alla collettivi677

LITURGIA

tà o alla divinità. Nella Bibbia greca l. indica sempre un «servizio religioso» reso a JHWH, mentre il NT adotta altri termini per definire la realtà del nuovo culto «in spirito e verità» inaugurato da Gesù Cristo. Al termine di un’ampia pagina biblico-teologica (cfr. SC 5-7), il Vaticano II presenta la l. come «l’esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo». L’azione rituale, con il linguaggio tipico dei segni e dei simboli, è il luogo di annuncio e realizzazione dell’opera santificatrice del Padre, per Cristo, nello Spirito; l. pertanto non equivale solo a rito, ma indica una realtà cui il rito stesso rinvia. Per evidenziare meglio questa realtà è stata attuata la riforma liturgica nella Chiesa di rito romano, e si è rinnovata la pastorale e la catechesi. Tanto la ricca documentazione liturgica, quanto la variegata produzione pastorale e catechistica che hanno caratterizzato le Chiese locali dal Vaticano II in poi, mostrano quanto sia urgente continuare nell’impegno di comprensione della l. in modo da educare ad essa valorizzando i più diversi ambiti della vita, e secondo i ritmi del tempo. Il traguardo che dà senso ad ogni espressione cultuale, è costituito dalla l. della vita, cioè dal «culto spirituale» (Rm 12,1-2). 1. Comprendere la l. Dal momento in cui è risuonato il comando di Cristo: «Fate questo in memoria di me» la Chiesa celebra il memoriale della Pasqua del suo Signore non ripetendo dei riti quasi fine a se stessi, ma elevando al Padre, con il loro linguaggio, il culto spirituale: celebrato nei diversi segmenti del quotidiano, attraverso il linguaggio simbolico e rituale, esso è l’unico che permette, in un contesto di fede, una reale comunicazione divino-umana, e viceversa. La mediazione sacerdotale di Cristo continua ad attuare quella comunione-comunicazione portata a compimento una volta per tutte sulla Croce, perché ogni persona che si apre all’annuncio del Vangelo possa realizzare la più profonda liberazione interiore attraverso l’incontro reale ed efficace con il Dio della vita nella celebrazione sacramentale. I sacramenti, pertanto, attuano questo incontro a condizione che siano realmente simboli di quella volontà di incontro con il fratello, e di quel desiderio di liberazione da ogni forma di male, quali si devono attuare nel quotidiano impregnato di Vangelo. 678

2. Un itinerario nel tempo. L’esperienza di Dio Trinità non può mai essere ridotta ad un momento puntuale; essa si attua e si prolunga nel tempo secondo quei ritmi che la pedagogia liturgica ha condensato nella progressiva strutturazione dell’anno liturgico. La sua articolazione è finalizzata a far vivere al fedele nel tempo l’esperienza misterica della Pasqua di Gesù Cristo. L’alternarsi di «tempi forti» (tempo natalizio e tempo pasquale) e del «tempo ordinario», di solennità, feste e memorie costituisce l’occasione per una conformazione sempre più piena e totalizzante a Cristo, Uomo nuovo e perfetto. Per questo, ciò che dà significato alla dimensione tempo non è la successione dei giorni e delle stagioni, ma la certezza di vivere l’opera della salvezza all’interno di un ciclo naturale, in cui gli elementi «sole» e «luce» sono assunti come segni di Cristo «sole di giustizia» e «luce che non conosce tramonto». Dal momento che l’esperienza del mistero passa attraverso il rito, anche l’anno liturgico (in armonia con i ritmi quotidiani della l. delle Ore) costituisce un’esperienza educativa che permette al singolo di realizzare il proprio itinerario di fede e di vita. Educare ai dinamismi del rito liturgico è pertanto cogliere i contenuti e le metodologie di uno dei linguaggi chiamati ad esprimere e a realizzare quanto racchiuso nel mistero di quel tempo che scorre dall’Incarnazione fino al suo compimento nella Parusía. 3. Educare alla l. della vita. Il titolo rinvia al ruolo educativo da attuare in ordine alla formazione liturgica. Dal momento in cui il Cristo ha inviato i suoi discepoli, Parola e Sacramento sono sempre stati accompagnati dall’impegno della comunità ecclesiale nell’educare all’esperienza viva e vivificante della Pasqua di Cristo. Come l’annuncio della Parola si realizza attraverso forme diverse, così la celebrazione del Sacramento richiede il supporto della formazione, della catechesi e dell’animazione. In tal modo Parola e Sacramento possono realizzare quella l. della vita o quel culto spirituale che si identifica con la libera accettazione della proposta divina, in attesa di una risposta che il rito è capace di esprimere in verità quando questa è già stata ritualizzata nella vita. Nella stessa prospettiva è doveroso ricordare che la l. nel suo insieme ha la capacità innata di

LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI

educare a se stessa. Infatti, mentre la Chiesa celebra, l’assemblea celebrante è educata a fare della propria vita un culto. Alla luce della Parola rivelata e annunciata nella l., i testi eucologici (= preghiere ufficiali presenti nel libro liturgico) diventano una memoria impegnativa e prospettica per chi partecipa all’azione liturgica con le necessarie disposizioni interiori. L’insieme dei linguaggi della l. contribuisce, inoltre, a coinvolgere la persona nella sua totalità: tutti i sensi sono chiamati in azione, secondo il tipo di celebrazione e secondo le situazioni e i tempi liturgici. Linguaggio verbale e non verbale, unitamente alla ministerialità e al livello di fede dell’assemblea che celebra, contribuiscono non solo alla percezione esperienziale del mistero, ma anche alla sua vera e propria immedesimazione, in modo che il mistero celebrato e vissuto diventi una vera e propria mistica. In questo senso la dimensione catechetico-pastorale non può mai mancare in un itinerario educativo ordinato al vertice dell’esperienza religiosa cristiana quale si attua nel sacramento. Un percorso educativo cristiano non potrà dirsi tale se non si apre all’esperienza sacramentale, e ad essa conduce sollecitando l’operatore pastorale ad attivare tutte quelle competenze che caratterizzano il proprio ambito di ricerca, in vista di un umanesimo integrale. Bibl.: A ldazábal J., Vocabulario básico de liturgia, Barcelona, Centre de Pastoral Litúrgica, 1994; Sartore D. - A. M. Triacca. - C. Cibien (Edd.), L., Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2001; Sodi M. - A. M. Triacca (Edd.), Dizionario di omiletica, Leumann (TO) /Gorle (BG), Elle Di Ci/Velar, 2002; Basurko X., Historia de la liturgia, Barcelona, Centre de Pastoral Litúrgica, 2006.

M. Sodi

LIVELLI EDUCATIVI → Organizzazione scolastica

LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI 1. Introduzione. I l.e.d.p. rappresentano i requisiti richiesti ad un organismo formativo – indipendentemente dalla sua natura giu-

ridica – affinché i percorsi che esso attiva siano in grado di soddisfare i diritti civili e sociali dei cittadini. Essi costituiscono nel contempo i requisiti per l’accreditamento delle strutture formative presso le Regioni e Province autonome, secondo l’approccio sostenuto dall’Unione europea. La presenza di questo dispositivo giuridico è il segnale di un sistema formativo non monopolistico ma aperto e pluralistico, con taluni aspetti di concorrenzialità tra gli organismi, nel quale si esercita una funzione di governance da parte dell’ente pubblico. 2. Spiegazione. Il decreto 226/05 relativo al secondo ciclo degli studi propone una serie di l.e d.p., così specificati: a) Il primo indica le caratteristiche dell’offerta formativa e precisamente il soddisfacimento della domanda di frequenza, l’orientamento ed il tutorato, la continuità formativa, i tirocini e l’alternanza. b) Il secondo riguarda l’orario minimo annuale (almeno 990 ore l’anno) e l’articolazione dei percorsi, prevedendo le tipologie triennale e quadriennale. c) Il terzo concerne la metodologia della personalizzazione, il riferimento alle competenze previste dal Pecup (Profilo educativo, culturale e professionale dello studente), l’insegnamento della religione cattolica, il riferimento a figure e profili professionali di differente livello, gli standard minimi formativi definiti dalla Conferenza Stato-Regioni. d) Il quarto si riferisce ai requisiti dei docenti, distinguendo tra «personale docente» che deve essere in possesso di abilitazione all’insegnamento, ed «esperti» che debbono essere in possesso di documentata esperienza maturata per almeno cinque anni nel settore professionale di riferimento. e) Il quinto indica la necessità di una valutazione collegiale, l’obbligo di rilascio a tutti gli studenti della certificazione periodica e annuale delle competenze, oltre che dei titoli di studio, la necessaria presenza di docenti ed esperti nelle commissioni per gli esami, la registrazione delle competenze certificate sul «libretto formativo del cittadino». f) Il sesto e ultimo elemento richiede che le strutture ed i relativi servizi abbiano specifici organi di governo e garantiscano: l’adeguatezza delle capacità gestionali e della situazione economica, il rispetto dei contratti collettivi nazionali di lavoro del personale dipendente, la completezza dell’offerta 679

LLULL RAMÓN

formativa comprendente entrambe le tipologie dei percorsi triennali e quadriennali, lo svolgimento del corso annuale integrativo di preparazione all’esame di Stato, l’adeguatezza dei locali, della strumentazione didattica, della dotazione tecnologica, la disponibilità di attrezzature e strumenti, la capacità di progettazione e realizzazione di stage e tirocini. Bibl.: Osborne D. - T. Gaebler, Dirigere e governare. Una proposta per reinventare la pubblica amministrazione, Milano, Garzanti, 1995; Palumbo M., Il processo di valutazione, Milano, Angeli, 2001; Commissione europea, La governance europea - Un libro bianco, COM (2001) 428 definitivo/2, Bruxelles, 5.8.2001; Battistelli F. (Ed.), La cultura delle amministrazioni, Milano, Angeli, 2002; Lion C. - P. M artini - S. Volpi, Le sfide per la valutazione nel nuovo contesto di governance, in «Osservatorio Isfol», 2003, 3, 185-205.

D. Nicoli

LLULL Ramón n. a Mallorca nel 1232 - m. probabilmente ivi nel 1315, filosofo e letterato spagnolo. 1. Ll. (noto in Italia come Raimondo Lullo) apprese la lingua araba con uno schiavo musulmano che aveva comprato, cosa che gli consentì di studiare l’antica cabala e concepire il progetto di fare una sintesi a base di lettere e segni cabalistici desunti dalla logica araba per la quale poter dimostrare ai musulmani e ai giudei la veridicità della religione cristiana. Era questo l’obiettivo delle varie redazioni della sua Ars magna e dei suoi frequenti viaggi, con cui cercava di convincere papi, re e generali francescani e domenicani della necessità di riconquistare il mondo musulmano e di convertirlo al cristianesimo mediante l’arte che egli aveva elaborato. 2. Tra le sue numerose opere sono di particolare rilevanza quelle di interesse educativo e didattico, scritte sempre in catalano, come Doctrina pueril, catechismo dedicato a suo figlio Domènec e composto in forma semplice per poter essere utilizzato dai maestri di scuola. Ll. espone i precetti della fede, i 680

rudimenti della retorica, della logica, della teologia, ecc. Nel Llibre d’Evast e d’Aloma e de Blanquerna son fill, presenta una coppia cristiana idealizzata che educa cristianamente il figlio Blanquerna. Altre opere a spiccato carattere didattico e moraleggiante sono il Llibre de maravelles, concepito come enciclopedia scritta in forma di dialogo tra un maestro ed un suo discepolo, l’Arbre de ciència, che tratteggia le caratteristiche e gli obblighi sociali dei nobili, dei borghesi, dei giudici, degli avvocati, dei cavalieri, ecc. A quest’ultima classe sociale dedica il Llibre de l’Ordre de Cavalleria, molto vicino nella struttura e nel contenuto alle numerose opere medievali destinate a rendere moderati gli atteggiamenti dei militari ai quali si chiede di difendere la Chiesa e proteggere i più deboli con le loro armi. 3. In generale, attraverso dei personaggi ideali (Blanquerna, Aloma, Evast, il cavaliere, il saggio, l’eremita, ecc.) Ll. difende una società profondamente cristiana lontana dai costumi rudi e barbari del suo tempo. Bibl.: a) Fonti: R. Ll., Arte breve; introducción y traducción de J. E. Rubio, Barañán (Navarra), Eunsa, 2004. b) Studi: Carreras y A rtau T., Filosofía cristiana de los siglos XIII al XV, 2 voll., Madrid, 1938 e 1941; Tusquets J., R.Ll. pedagogo de la cristiandad, Madrid, 1954; Cruz Hernández M., Historia del pensamiento en el mundo islámico, Madrid, 1981; Pons G., 15 días con R.Ll., Madrid, Ciudad Nueva, 2005.

B. Delgado

LOCKE John n. a Wrington (Somersetshire) nel 1632 - m. a Oates (Essex) nel 1704, filosofo inglese. 1. Vita e opere. Studente alla Westminster School ed al Christ Church College di Cambridge, acquisì una vastissima preparazione ma non scelse nessun tipo di carriera, restando uno studioso indipendente. Direttamente coinvolto nelle vicende culturali e politiche come esponente del partito «whig» (ideologia liberale e costituzionalista), fu esiliato in Olanda, da dove rientrò in patria al seguito dei nuovi sovrani Maria e Guglielmo d’Oran-

LOCKE JOHN

ge. Ricoprì importanti incarichi pubblici ed infine si dedicò esclusivamente alla riflessione filosofica e scientifica. La sua amplissima produzione costituisce una delle fonti basilari del pensiero occidentale moderno soprattutto nei campi della gnoseologia, della filosofia politica e della pedagogia. 2. Il pensiero. L. afferma, ponendo con questo il fondamentale assioma dell’empirismo, l’equivalenza fra il concetto di conoscenza e quello di esperienza, che costituisce il limite invalicabile di ogni possibilità conoscitiva, poiché in essa risiedono le uniche opportunità per la mente dell’uomo, attraverso le sue facoltà (sensazione, intuizione, dimostrazione), di ricevere ed elaborare oggetti (idee) provvisti di un qualche genere di contenuto. La vita cognitiva è quindi circoscritta all’ambito di ciò che è riportabile ad un contenuto mentale effettualmente presente. Il rifiuto dell’innatismo sorregge anche l’analisi del comportamento etico e politico, nella quale assume un ruolo centrale il principio della corrispondenza a leggi, la cui origine può essere rintracciabile nella volontà divina, negli ordinamenti civili e nella pubblica opinione. Anche in questo caso, l’impostazione empirista appare quanto mai lineare: il bene ed il male non costituiscono proprietà in sé e per sé, ma consistono nella conformità o difformità ad una di queste leggi; il motivo dell’agire è dato dal disagio per un bene assente di cui si avverte il bisogno; il fondamento della convivenza civile degli uomini va identificato in uno stato ideale degno della natura di un essere razionale, in cui avviene una «delega» all’autorità politica per la salvaguardia dei diritti soggettivi inviolabili dell’ individuo (vita, libertà, proprietà); sul terreno religioso, è necessario allontanarsi da ogni dogmatismo per accedere ad una concezione che lascia libera ogni credenza purché non contrasti con i principi morali e con le leggi (tolleranza). Il mondo umano delineato in questa visione teorica ha influenzato alle radici tutte le rivoluzioni liberali dell’età moderna. 3. L’educazione. I notissimi Pensieri sull’educazione nascono da una raccolta di consigli che L., esperto di grande reputazione anche nel campo medico ed igienistico, inviava ad alcune famiglie amiche. Va però detto che,

al di là dell’occasionalità pratica dell’origine, appaiono evidenti nelle sue indicazioni le tracce delle riflessioni e delle competenze acquisite nell’ambito della ricerca teoretica, politica e scientifica generale. Siamo quindi in presenza di uno dei primi casi in cui un «filosofo» applica con sistematicità ed autentico interesse il suo sapere alle problematiche dell’educazione. Il messaggio fondamentale della pedagogia di L. consiste – come ha affermato A. Carlini – in «un profondo senso della dignità della persona umana», intesa come portatrice di una sostanziale ed originale attività autonoma di ordine spirituale, che vede nella coscienza il suo punto unificante. Il soggetto è un essere razionale, sottoposto a leggi ma titolare di diritti che va garantito in ogni campo di esperienza nei confronti di qualsiasi genere di oppressione. Anche in pedagogia L. dispiega il suo paradigma empirista, che lo porta ad un atteggiamento realista, pratico – il terreno immediato di riferimento è l’educazione dei figli delle famiglie nobili ed alto-borghesi della nuova Inghilterra: i «gentlemen» – sorretto dalla continua ricerca dell’equilibrio fra le evidenze dei dati e dei fatti ed il rispetto delle «regole» di natura psicologica e morale derivate dalla conoscenza oggettiva della natura umana. Il bambino va osservato e compreso nella sua naturalezza ed individualità caratteristica, allo scopo di coglierne immediatamente l’indole, le inclinazioni e le attitudini, così da favorire le buone e correggere le cattive; i genitori non devono lasciarsi fuorviare dagli eccessi emotivi ed affettivi mentre gli educatori (precettori) devono ispirare il loro operato alla dolcezza ed alla comprensione; la cura del corpo (indurimento) è il presupposto della disciplina morale della volontà; l’istruzione intellettuale non deve perseguire finalità di informazione enciclopedica o di ornamento ma badare all’acquisizione di abilità pratiche e dei principi basilari del ragionamento e della dimostrazione; la formazione del giovane trova il suo culmine in un prolungato viaggio all’estero, nel quale, sotto la guida di un saggio ed esperto accompagnatore, può fare diretta esperienza della grande varietà di usanze, vizi e virtù presenti nel genere umano. 4. Universalismo o particolarismo? La questione critica principale è costituita dal pro681

LOCUS OF CONTROL

blema se la pedagogia di L. è tale da confinarsi in una limitata prospettiva di classe e di ceto oppure se essa presenti caratteristiche tali da comprendere valori e significati validi anche al di fuori di questa contingente applicazione. In effetti, è vero che la sensibilità moderna (ma anche quella anteriore) ha individuato strade che in L. non sono assolutamente presenti; ma va anche riconosciuto che egli ha fatto compiere alla pedagogia di ambientazione nobiliare dei decisivi passi in avanti, che hanno reso possibile «rendere partecipabili al maggior numero di persone» (King) le qualità impersonate dal suo «gentleman». In questo senso, il suo è il contributo che per primo ha introdotto nella nostra civiltà educativa alcune essenziali verità pedagogiche. Bibl.: Cranston M.,. J.L. A biography, London, Longmans e Green, 1957; Scurati C., L., Brescia, La Scuola, 1967; K ing E. J., Prospettive mondiali dell’educazione: Il «gentleman» e l’evoluzione di un ideale, Roma, Armando, 1968; Benne K. D., Il gentleman, in P. Nash - A. M. K azamias - H. J. Perkinson (Edd.), Gli ideali educativi, Brescia, La Scuola, 1972, 221-256; Scurati C., L., in Nuove questioni di storia della pedagogia, Ibid., 1977, vol. II, 31-76.

C. Scurati

LOCUS OF CONTROL Il termine indica un → costrutto psicosociale appartenente ad una estesa area di controlli che le persone possono esercitare sugli eventi personali e collettivi. Il l.o.c. si riferisce alla convinzione che il soggetto ha riguardo al rinforzo che segue le azioni dipendenti dal suo comportamento. Nel caso contrario il rinforzo viene considerato come dipendente da fattori esterni al soggetto (caso, fortuna o fato). I primi soggetti vengono considerati degli Interni (I), i secondi degli Esterni (E). L’autore del costrutto è J. B. Rotter (1966), che lo situa nella teoria dell’apprendimento sociale. 1. Poiché i soggetti situati ai due poli del costrutto assumono posizioni diverse in rapporto alla causalità del proprio comportamento, essi si differenziano per mezzo di numerosi 682

criteri sociali. Gli Interni controllano meglio il loro ambiente, cercano di acquisire delle informazioni in vista delle loro decisioni, si dimostrano sensibili alle stimolazioni dell’ambiente sociale e resistono maggiormente ai condizionamenti esterni; sono inoltre socialmente più valorizzati in quanto risultano socievoli, efficienti, tolleranti e autonomi. Gli Esterni presentano problemi di adattamento e in quanto agli attributi personali risultano ansiosi, aggressivi, dogmatici e sospettosi. Gli Interni hanno maggiore successo professionale e nel lavoro risultano competenti, aggiornati e coscienziosi. Gli Esterni, oltre ad aver un minore successo professionale, sono esposti ai rischi dell’abuso di alcool e dell’uso di → droga ed esercitano un minore controllo sulle abitudini nocive alla salute (fumo ed eccessiva alimentazione). Lungo i due poli del costrutto si collocano i tipi meno definiti. Furnham e Steele (1993), seguendo O’Brien, hanno proposto come tipi intermedi Realisti e Strutturalisti. Mentre gli Interni sono tali in tutte le situazioni, i Realisti sono a volte Interni e a volte Esterni in base alla specifica situazione. Gli Strutturalisti, che si collocano tra Realisti ed Esterni (e sono chiamati in questo caso Fatalisti), agiscono da Esterni secondo le esigenze sociali. I due tipi intermedi sono probabilmente maggiormente aderenti alla realtà in quanto si rendono conto dei limiti che la realtà pone all’attribuzione della responsabilità personale e non assumono l’atteggiamento di deresponsabilizzazione degli Esterni. 2. Il costrutto è stato messo in rapporto con le varie realtà sociali come il rendimento scolastico, l’adattamento generale, l’autocontrollo personale, la responsabilità sociale, l’uso di sostanze dannose e la perseveranza nelle abitudini nocive alla salute, le psicopatie e l’esito della psicoterapia, dimostrandosi utile per la comprensione di tali fenomeni e offrendo la possibilità di modificarli positivamente. 3. Per rilevare il costrutto, Rotter ha elaborato un breve questionario (Poláček, 1980), che diagnostica i due poli del costrutto (I-E). Come hanno attestato Furnham e Steele (1993), sono disponibili più di cinquanta questionari per rilevare il l.o.c. Il rapporto tra di loro, come risulta dalle verifiche di Furnham

LOGICA E EDUCAZIONE

(1987) e Hau (1995), è tutt’altro che univoco; i dati infatti confermano da un lato la multidimensionalità del costrutto e dall’altro sottolineano l’incertezza nell’elaborazione dei questionari su quali dimensioni del l.o.c. siano da realizzare. Una recente conferma di ciò è stata offerta da Leone e Burns (2000) con la loro ricerca su una ottantina di studenti universitari ai quali hanno somministrato tre più noti questionari del costrutto. È stato riscontrato solo un discreto rapporto tra qualche scala dei tre questionari mentre per le rimanenti i coefficienti risultavano bassi. Nell’interpretazione dei risultati di un questionario occorre fare stretto riferimento alla concezione del costrutto elaborato dal rispettivo autore. 4. Esistono delle convincenti conferme che genitori protettivi, affettuosi, con comportamento coerente (rinforzo costante) e ragionevolmente severi contribuiscono a rendere Interno un figlio. È possibile inoltre effettuare interventi educativi che promuovono la crescita del giovane dalla dimensione Esterna a quella Interna. Il costrutto infine è associato al concetto positivo di sé e all’ → autoefficacia. Con quest’ultima il l.o.c. ha in comune gli effetti positivi del controllo interno e le due componenti di entrambi: una individuale e l’altra collettiva. Tanto l’autoefficacia quanto il l.o.c. prima di tutto sono individuali e poi nell’insieme di tanti soggetti diventano sociali. L’opinione pubblica è costantemente messa di fronte a fatti pubblici preoccupanti (inquinamento, corruzione finanziaria, bancarotta fraudolenta, conflitto generazionale, riscaldamento del globo e altri ancora) di fronte ai quali i singoli si considerano impotenti ma il costrutto tiene desta l’attenzione dei soggetti Interni su tali pericoli. 5. Il l.o.c. è stato assunto da B. Weiner (1974) nella sua teoria dell’attribuzione causale del comportamento. Per interpretare la causalità del successo e dell’insuccesso che le persone attribuiscono agli eventi, Weiner, accanto al l.o.c., colloca altre due componenti: stabilità e controllabilità dell’evento. Un esempio può chiarire la funzione delle tre componenti: un alunno può attribuire il fallimento in un esame scritto di matematica alla seguente combinazione delle tre situazioni: esterna, variabile, incontrollabile; in tal caso l’insuccesso

è dovuto alla prova inadatta; interna, stabile, incontrollabile; l’insuccesso è dovuto alla sua scarsa abilità in matematica; interna, variabile, controllabile; l’insuccesso è dovuto al suo scarso impegno. In base all’attribuzione della causalità il futuro comportamento del soggetto assumerà modalità diverse a cui seguiranno comportamenti differenti. Tale attribuzione ha una fruttuosa applicazione nell’apprendimento scolastico e costituisce un buon indice di motivazione al lavoro. Bibl.: Rotter J. B., Generalized expectancies for internal vs external control of reinforcement, in «Psychological Monographs» 80 (1966) 10, 1-28; Weiner B., Achievement motivation and attribution theory, Morristown, General Learning Corporation, 1974; Poláček K., L.o.c: concetto, risultati e misurazione, in «Orientamenti Pedagogici» 27 (1980) 410-418; Furnham A., A content and correlational analysis of seven l.o.c. scales, in «Current Psychological Research and Reviews» 6 (1987) 244-255; Furnham A. - H. Steele, Measuring l.o.c: a critique of general, children’s, health-and work-related l.o.c. questionnaires, in «British Journal of Psychology» 84 (1993) 443-479; H au K. T., Confirmatory factor analyses of seven l.o.c. measures, in «Journal of Personality Assessment» 65 (1995) 117-132; Leone C. - J. Burns, The measurement of l.o.c.: assessing more than meets the eye?, in «Journal of Psychology» 134 (2000) 63-76.

K. Poláček

LOGICA E EDUCAZIONE Dal gr. logiké (tékhne) è arte del pensiero (o del discorso) corretto. 1. La presenza nei curricoli. Un vero e proprio insegnamento della l., intesa come disciplina autonoma e con una propria funzione all’interno di un piano di studi, si comincia a riscontrare solamente verso il sec. X. Ciò nonostante si può affermare che la componente l. è stata presente in qualsiasi forma di trasmissione culturale, fin dai tempi più antichi. Si tratta però di una presenza che si è realizzata progressivamente in forme varie e molteplici, tanto che si potrebbe parlare di diversi modelli di ricerca l. nelle singole epoche, aventi fini e metodi propri. Le sette 683

LOGICA E EDUCAZIONE

→ arti liberali avevano costituito il sistema di sapere «enciclico» per → Quintiliano prima e nella fortunata allegoria di Marziano Capella poi, il cui De nuptiis philologiae et Mercurii et de septem artibus liberalibus nel → Medioevo fece testo. Fra le artes sermocinales Alcuino assegnò alla l., detta indifferentemente dialettica, un ruolo di coronamento finale del corso scolastico, riservato nell’antichità alla → retorica. Ed insieme a quest’ultima fino alla fine del sec. IX dominò il campo filosofico, teologico, scientifico, politico ecc. Fine dell’insegnamento della l. è trattare gli argomenti più astratti e oggettivi, è mirare al raggiungimento della verità, nel senso della verità scientifica, attraverso lo scontro delle opinioni. Con il sorgere delle → università la l. assunse un’importanza sempre maggiore. Verso la fine del sec. X e l’inizio dell’XI si innesca quel processo di progressiva subordinazione della retorica alla l. che giungerà a compimento nel sec. XIII, allorché tutto il vasto settore delle sette arti sembrerà restringersi alla sola l./dialettica che finirà col meritare la lode iperbolica di Pietro Ispano nelle sue Summulae logicales. Si ricordi la contesa sorta, in questo secolo, fra la scuola di Parigi, in cui si esaltava la l., perché in grado di fornire gli schemi dell’organizzazione astratta delle cose e dei processi che si riflettono nel linguaggio, e la scuola di Orléans, in cui si opponeva gagliarda resistenza a tale indirizzo. Tale contesa che ebbe grande risonanza, dette argomento a un grazioso componimento del poeta Enrico d’Andéli, La bataille des sept arts. Nel Rinascimento la l. visse vicende alterne anche se l’importanza e il ruolo di essa non furono mai totalmente messi in discussione in quanto si vide nella disciplina l. lo strumento privilegiato per il ricupero di quell’ideale formativo classico in complementarità con la retorica (Agricola, Melantone, → Vives ed altri logici umanisti). Nel XVI sec. i gesuiti nella → Ratio studiorum accanto alle «lettere umane, la filosofia naturale e morale, la metafisica, la teologia scolastica e positiva» posero la l. Un contributo allo sviluppo degli studi logici ed un affinamento degli strumenti critici venne anche dalla scuola di Port-Royal. Definita come «l’arte di ben condurre la propria ragione nella conoscenza delle cose, sia per istruir se stessi, sia per istruir gli altri», la l. si configurò come tentativo coerente e poten684

te di ricondurre il linguaggio ai suoi usi più corretti e pertinenti, scartandone le deformazioni emotive (che qui ricevono una trattazione straordinariamente accurata) e i veli di ideologia che potrebbero tradire la funzione primaria. L’ → Illuminismo settecentesco mostrerà – com’è noto – grande fiducia nella l., che nella sua forma moderna è l. matematica. Il fervore intellettualistico dell’epoca non poteva non riflettersi in campo educativo ove l’insegnamento della l. si affermò in modo definitivo. Nell’epoca contemporanea il passaggio dalle l. «pre-formali» a quelle «formali», la costituzione della cosiddetta teoria dei modelli e il delinearsi della fuzzy logic assumono rilevanza assai densa per l’avanzamento della metodologia della ricerca pedagogica e didattica. 2. Le possibilità formative. La presenza della l. è anzitutto nell’ambito dell’ → educazione intellettuale. Dell’insegnamento della l. si rilevano le enormi possibilità formative che nascono dall’innegabile valenza di correttezza formale da fornire al pensiero e al discorso. Dalle richieste di un insegnamento di tipo logico-metodico alla didattica di un apprendimento sistematico è tutta una serie di indicazioni che precisano il cammino educativo e scolastico. 3. Il ruolo nelle «didattiche lineari». Il matematicismo cartesiano, con la messa al bando delle arti e delle lettere in nome di una l. chiara e distinta, rivive nelle richieste di quelle nuove indicazioni didattiche che 1’ → istruzione programmata prima e le forme programmatorie curricolari poi hanno ritenuto essere le uniche valide per un sicuro apprendimento. Magistro-centrismo, primato della lectio, disposizione rigorosamente l. del discorso, azione insegnativa ridotta ad un gioco di componenti elementari e sovente schiacciata su una tecnologicità rassicurante sono soltanto alcuni dei modi che caratterizzano queste impostazioni. Da qui i dubbi sollevati dalla più matura riflessione pedagogica e didattica contemporanea contro il pericolo di determinismo didattico, insito nella predisposizione di programmi in sequenze lineari. Bibl.: Sutton R. E. - R. H. Ennis, «Logical operations in the classroom», in T. Husen - T. Neville Postlethwaite (Edd.), The international

LOGOTERAPIA

encyclopedia of education, Oxford/NewYork, Pergamon Press, 1985, 3129-3139; Kosko B., Il fuzzy-pensiero, Milano, Baldini & Castoldi, 1995; Mela G. S., L. e razionalità dell’Occidente cattolico, Roma, Armando, 2006; Bencivenga E., Dio in gioco. L. e sovversione in Anselmo d’Aosta, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; Larrey Ph., Il pensiero sulla l., Roma, Lateran University Press, 2006; Berto F., L. da zero a Gödel, Roma/Bari, Laterza, 2007.

C. Laneve

LOGOTERAPIA Orientamento psicologico e psicoterapeutico che vede nella ricerca di senso la motivazione fondamentale dell’esistenza e indica concrete modalità per intervenire nella soluzione di stati di disagio esistenziale. 1. La l., di cui è stato fondatore lo psichiatra ebreo → Frankl, occupa un posto di rilievo tra le scuole contemporanee di psicologia, da un lato per la sua contrapposizione alle riduttive visioni dello psicologismo e del determinismo di stampo psicoanalitico e comportamentista, e dall’altro per il legame con le concezioni filosofiche dell’esistenzialismo e del personalismo e con le teorie della personalità di matrice umanistica. 2. Triplice è il punto di partenza della visione antropologica della l.: 1) l’uomo è fondamentalmente libero, non perché non è sottoposto ad alcun condizionamento di carattere biologico, psicologico, sociologico, culturale, religioso, ma perché conserva sempre la radicale possibilità di prendere un atteggiamento nei confronti dei condizionamenti; 2) l’uomo non cerca, come motivazione primaria del suo agire, la soddisfazione del piacere (come viene rilevato dalla → psicoanalisi di Freud) o quella del potere (come è sostenuto dalla psicologia individuale di → Adler), ma piuttosto è guidato da una volontà di significato (e in questa prospettiva la parola greca logos viene interpretata come significato della vita), che si manifesta in una continua tensione tra la realtà esistenziale in cui si trova a vivere e il mondo dei valori che gli si presenta come appello e come sfida; 3) la vita dell’uomo conserva sempre un suo significato, nono-

stante le limitazioni dovute all’età, alla salute, alla sofferenza, ai fallimenti nel campo professionale o affettivo. Di conseguenza, agli appelli della vita si risponde non solo realizzando i valori di creazione (il lavoro, l’attività, l’impegno politico), o i valori di esperienza (l’amore, la musica, l’arte), ma soprattutto i valori di atteggiamento in situazioni-limite quali la sofferenza inevitabile, la colpa, la morte. «Una fede incondizionata in un significato incondizionato della vita» rappresenta, dunque, il nucleo centrale della l., avvalorato sia dall’esperienza tragica, vissuta personalmente da Frankl nei lager nazisti, e sia dal contatto con pazienti affetti da disturbi a matrice esistenziale, diagnosticati come nevrosi noogene. 3. Concepire l’esistenza come un compito unico e originale che va individuato e realizzato con piena responsabilità, comporta per la l. un triplice atteggiamento: 1) accogliere e vivere la dialettica tra essere e dover-essere, tra quotidianità e mondo dei → valori, tra realizzazioni concrete e potenzialità innumerevoli; 2) essere fondamentalmente orientati al di fuori di se stessi (a tale proposito Frankl ha coniato la parola autotrascendenza), e quindi superare la facile tentazione di ricercare solo l’immediatezza del piacere, oppure l’illusorietà del successo; 3) riuscire a prendere una giusta distanza dalle situazioni di limite e di difficoltà in cui ci si viene a trovare (in questo caso si parla di auto distanziamento), facendo leva sulla forza di resistenza dello spirito. 4. Accanto a tre fenomeni dalla portata tragica per il mondo giovanile (suicidio, aggressività e tossicodipendenza), espressioni eloquenti della mancanza di valori e del vuoto esistenziale, la l. individua altre forme nevrotiche ampiamente presenti nel tessuto sociale contemporaneo: la nevrosi meccanica, conseguenza del crescente tempo libero che viene occupato con bravate che sfociano in comportamenti devianti; la nevrosi della domenica, che si manifesta in comportamenti massificanti e alienanti nelle discoteche, negli stadi, nei luoghi di ricerca esasperata del piacere; la nevrosi di disoccupazione, che assale sia i giovani alla ricerca di lavoro, sia gli anziani che, al termine di una vita operosa, si vedono impediti, a seguito del pensio685

LOMBARDO RADICE GIUSEPPE

namento, nel partecipare ai ritmi normali di produttività. 5. Dal punto di vista pedagogico, la l. offre notevoli spunti. Va sottolineato il suo accento su un’educazione centrata sull’individuazione e la realizzazione di compiti personali unici e originali, corrispondenti all’unicità e all’originalità della singola persona. Parimenti va evidenziato il ruolo fondamentale della libertà, della responsabilità e della coscienza, con cui scorgere i «diecimila comandamenti» che sono impliciti nelle «diecimila diverse situazioni della nostra unica vita». E poiché nessuno può «dare» un significato alla vita di un altro, né si possono distribuire ricette su quello che gli altri devono fare, l’incontro educativo nella prospettiva della l. può essere raffigurato come un’equazione a due incognite, laddove la prima incognita è costituita dalla personalità dell’ → educatore e la seconda dall’individualità dell’ → educando: entrambi sono irripetibili, originali, unici, ed entrambi sono rivolti al superamento di ogni senso di dipendenza di pensiero e di azione, alla scoperta delle modalità imprevedibili del vivere quotidiano, all’individuazione di una gerarchia di valori che assegni al piacere e al dominio, all’autoaffermazione e alla soddisfazione dei propri istinti il loro vero posto, che è quello di essere prodotti laterali, effetti di una realizzazione adeguata del senso della propria esistenza. Bibl.: Lukas E., Dare un senso alla famiglia. L. e pedagogia, Milano, Paoline, 1987; Fizzotti E. R. Carelli (Edd.), L. applicata. Da una vita senza senso a un senso nella vita, Brezzo di Bedero, Salcom, 1990; Fizzotti E., Per essere liberi. L. quotidiana, Milano, Paoline, 1992; Id. (Ed.), «Chi ha un perché nella vita…». Teoria e pratica della l., Roma, LAS, 21993; Fizzotti E. - I. Punzi, Solidarietà come ricerca di senso. Il contributo della l. nella formazione del volontario, Brezzo di Bedero, Salcom, 1994; Bruzzone D., Autotrascendenza e formazione. Esperienza esistenziale, prospettive pedagogiche e sollecitazioni educative nel pensiero di Viktor E. Frankl, Milano, Vita e Pensiero, 2001; Fizzotti E., L. per tutti. Guida teorico-pratica per chi cerca il senso della vita, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2002; I d. (Ed.), Nuovi orizzonti di ben-essere esistenziale. Il contributo della l. di V.E. Frankl, Roma, LAS, 2005; Id. (Ed.), Il senso come terapia. Fondamen-

686

ti teorico-clinici della l. di V.E. Frankl, Milano, Angeli, 2007.

E. Fizzotti

LOMBARDO Pietro → Medioevo

LOMBARDO RADICE Giuseppe n. a Catania nel 1879 - m. a Cortina d’Ampezzo nel 1938, educatore e pedagogista italiano. 1. Nacque in una famiglia modesta, ma ricca di serenità educativa. La scuola fu per L.R. un’esperienza positiva. Completò i suoi studi alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove strinse amicizia con → Gentile. Laureato in filosofia iniziò l’attività docente a Firenze al collegio «Le Querce» dei Barnabiti; acquistò poi una lunga esperienza in diverse scuole normali, prima di ricoprire la cattedra di pedagogia all’Università di Catania. Nel 1923 fu chiamato da Gentile al Ministero dell’Educazione Nazionale come direttore generale dell’istruzione elementare, da cui si dimise in seguito al delitto Matteotti e ritornò all’insegnamento presso il Magistero dell’Università di Roma (1924-1938). Partecipò come volontario alla prima guerra mondiale; dopo la disfatta di Caporetto svolse il ruolo di educatore dei soldati. 2. Aderì al movimento idealistico passando da una prima fase di stretta dipendenza come discepolo di Gentile a quella di comune ma autonoma collaborazione alla rivista la «Voce» (1908-1915) di Prezzolini, per passare poi alla diretta collaborazione politica con il filosofo dell’attualismo allo scopo di realizzare la riforma del 1923 nel settore della scuola elementare, fino ad un quasi distacco senza rotture negli anni successivi. Tradusse la filosofia idealistica nelle problematiche educative e scolastiche, sviluppando questi principi che sarebbero per L.R. i caratteri fondamentali dello spirito umano: «1. Spontaneità di sviluppo. 2. Integrità e concomitanza di sviluppo di tutte le attività spirituali. 3. Coscienza dell’autonomia e valutazione di sé, come spirito non individuale». A queste tre leggi corrispondono tre idee essenziali: «1. Lo spirito è in ogni momento

LORENZ KONRAD ZACHARIAS

tutto lo spirito. 2. Esso genera se stesso. 3. Si possiede come spirito universale» (Il concetto dell’educazione, 1911, 38). Dall’equivalenza di spirito e coscienza, e di questa con i suoi contenuti, scaturisce il concetto di educazione come «vita mentale umana in ogni suo palpito» (Ibid., 15). L’educazione così intesa è «l’opera di ogni essere pensante da lui compiuta più o meno chiaramente»; è un «processo di interiorizzazione» e nello stesso tempo è «universale collaborazione tra gli uomini» (Lezioni di pedagogia generale, 1916, 27, 52). 3. I suoi orientamenti pedagogici gli hanno consentito di sviluppare in modo organico le varie problematiche educative, dalla elaborazione di una teoria della scuola alla fondazione di una nuova critica didattica; dalla formazione dei docenti alla formulazione di nuovi programmi di studio e prescrizioni didattiche per le scuole elementari. Nell’approfondire le relative tematiche ebbero certa incidenza prima il pensiero pedagogico americano (→ Dewey, Emerson), e il riformismo sociale di Salvemini e in generale il socialismo umanitario dei primi anni del Novecento poi, non ultimo, il movimento per l’«educazione nuova». I vari indirizzi del rinnovamento della cultura pedagogica e sociale del suo tempo si rispecchiano nella formulazione della teoria della «scuola come organo dello spirito» nel primo stadio del pensiero di L.R. (cfr. Saggi di propaganda politica e pedagogica, 1907-1910; Idealismo e pedagogia, 1912). Nel secondo stadio la scuola è intesa come «organo dell’educazione nazionale» e della «nazione educatrice» (Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale, 1913; L’ideale educativo e la scuola nazionale, 1916). Il terzo e più aperto stadio, rappresentato dalla «scuola serena», ebbe inizio con il dichiarato antifascismo del saggio Accanto ai maestri (1925) e continuò negli anni successivi (Athena fanciulla, 1925; II problema dell’educazione infantile, 1929). 4. Recenti pubblicazioni sottolineano l’importanza del contributo di L.R. nella costruzione di una «didattica della collaborazione» e nel delineare la centralità della figura degli insegnanti. La critica è concorde nel considerare L.R. uno dei principali protagonisti del rinnovamento della pedagogia, della

scuola e della didattica nell’Italia della prima metà del Novecento; svolse infatti un’intensa e continua attività educativa a livello teorico ed operativo, impegnato a fondo nella politica scolastica, nell’insegnamento, come autore di opere largamente diffuse e promotore di importanti iniziative editoriali. Bibl.: Luzuriaga L., «Estudio preliminar» a Líneas generales de filosofía de la educación de L.R., Madrid, La Lectura, 1928; Catalfamo G., G.L.R., Brescia, La Scuola, 1958; Giraldi G., G.L.R. tra poesia e pedagogia, Roma, Armando, 1965; Picco I. (Ed.), G.L.R. Atti del convegno internazionale di studi per il centenario della nascita (1879-1979), L’Aquila, Gallo Cedrone, 1980; Sordina E., Il pensiero educativo di G.L.R., Roma, La Goliardica, 1980; Cives G., Pedagogia del cuore e della ragione. Da G.L.R. a Tina Tomasi, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1994.

S. Bucci

LONG LIFE LEARNING → Educazione permanente

LORENZ Konrad Zacharias n. a Vienna nel 1903 - m. ad Altenberg nel 1989, naturalista ed etologo austriaco. 1. Figlio di un noto medico, L. segue i corsi di medicina a Vienna, dove si laurea nel 1928. Nel periodo degli studi universitari è decisivo l’influsso esercitato da F. Hochstetter, che lo avvia all’approfondimento dell’anatomia comparata. In tale orientamento va individuato il primo germe delle successive ricerche di L. sugli uccelli. È anche rilevante l’influsso esercitato dai lavori di Heinroth (1910) e di Craig (1918) nell’affermazione della teoria secondo cui i processi istintivi si fondano sulla filogenesi. Sotto l’ispirazione di Von Werxhül (1909-1929), L. studia le radici dell’aggressività animale e di quella umana. La pubblicazione, nel 1935, dei risultati delle prime investigazioni sul costituirsi dei rapporti affettivi tra gli uccelli (Der Kumpan in der Umwelt des Vogels) viene considerata come il momento in cui nasce la etologia, di cui L. è considerato fondatore assieme all’olandese nazionalizzato britannico, N. Tinbergen. Con questi e con K. von Frisch 687

LOYOLA ÍÑIGO LÓPEZ DE

condivide, nel 1973, il premio Nobel per la fisiologia e la medicina. 2. Dal punto di vista metodologico, L. studia il comportamento animale nell’ambiente naturale, spostando «l’area di gravità della ricerca dal laboratorio al campo». In questo contesto vengono messi in evidenza gli aspetti ereditari del comportamento, cioè gli istinti caratteristici di ogni specie animale. Fin dai primi studi l’attenzione di L. si centra, in modo particolare, su una forma precoce e irreversibile di apprendimento, determinata geneticamente nei suoi tratti tipici, chiamata da lui imprinting, che condizionerebbe il futuro comportamento sessuale e sociale dell’individuo secondo la specie animale a cui esso appartiene. I risultati delle ricerche di L. divengono noti molto presto agli scienziati europei e nordamericani; ma sono soprattutto i suoi saggi a carattere divulgativo (le sue «storie di animali») quelli che hanno contribuito a diffondere le idee dell’etologo austriaco anche tra i non «addetti ai lavori». 3. Negli ultimi decenni si sono fatte più forti le riserve degli studiosi nei confronti del sostanziale innatismo di L. Resta tuttavia importante la sua incidenza sulla formazione e sullo sviluppo. Va sottolineato in particolare il suo progressivo interesse «per gli aspetti dell’educazione, della cultura, della civiltà, dell’ecologia e delle possibili degradazioni che, oltre a creare tensioni, violenze, aggressività, mettono in discussione il patrimonio genetico e portano a involuzioni naturali, biologiche, sociali» (Fornaca-Di Pol, 1993,418).

LOYOLA Íñigo López de n. a Azpeitia (Euskadi, Spagna) nel 1491 - m. a Roma nel 1556 (chiamato pure Ignazio fin dal tempo dei suoi studi a Parigi), fondatore dei → Gesuiti. 1. Tutta la sua vita si svolse in chiave pedagogica. Durante la sua convalescenza nella casa paterna (era stato ferito in guerra a Pamplona) sperimentò l’avvicendarsi dei suoi stati d’animo. In seguito, a Manresa (1522), facendo gli esercizi spirituali, comprese che Dio lo trattava come fa un maestro col suo discepolo. Nel 1523 fece un pellegrinaggio in Terra Santa. Al suo ritorno, studiò lat. a Barcellona, inserendosi in una classe di ragazzi (1524). Nel 1526 apprese i primi rudimenti della filosofia ad Alcalá de Henares; fu coinvolto in un processo contro gli alumbrados. L. desiderava che i suoi seguaci rinnovassero la loro vita, pregassero ed esaminassero la loro coscienza, confessandosi e ricevendo l’Eucarestia: era la pedagogia della fede. A Salamanca (1527) non gli fu possibile studiare, infatti fu incarcerato a causa dei sospetti della Inquisizione, ma in seguito fu dichiarato innocente. Completò i suoi studi a Parigi, sperimentando con sollievo l’esattezza del metodo pedagogico della Sorbonne, conseguendo il titolo di Maestro nelle Arti (1534).

J. M. Maíllo

2. Il modus parisiensis fu il modello pedagogico che più tardi lui e i suoi compagni accettarono per i collegi gesuitici (→ Ratio studiorum). Nelle aule della Sorbonne frequentavano le lezioni e poi, nei rispettivi collegi facevano la ripetizione, adoperando metodi attivi. Ricevette gli Ordini Sacri a Venezia nell’anno 1537, ma celebrò la sua prima Messa la notte di Natale del 1538, a Roma, davanti alla reliquia del presepe di Gesù, a Santa Maria Maggiore. Il desiderio di «aiutare le anime» aveva condotto L. a cominciare a portare a termine i suoi studi come un presupposto del suo apostolato futuro, specialmente quando né lui né i suoi compagni sarebbero potuti andare a Gerusalemme. Predicare in povertà si tradusse per lui pure nel dedicarsi al ministero dell’educazione.

LOURENÇO FILHO Manuel B. → Scuole Nuove

Bibl.: García Villoslada R., Sant’I.d.L., Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1990; Tellechea

Bibl.: a) Tra le opere di L. trad. in it.: Evoluzione e modificazione del comportamento, Torino, Bollati Boringhieri, 1971; Il comportamento animale, Novara, De Agostini, 1977; e in sp.: Hablaba con las bestias, los peces y los pájaros, Barcelona, Tusquets, 2006. b) Studi: Wieser W., K.L. e i suoi critici, Roma, Armando, 1977; Fornaca R. - R. S. Di Pol, Dalla certezza alla complessità. La pedagogia scientifica del ‘900, Milano, Principato, 1993.

688

LUZURIAGA MEDINA LORENZO

Idígoras I., Ignacio de L. solo e a piedi, Città di Castello (PG), Borla, 1990; Barlone S. (Ed.), I. di L., un mistico in azione, Roma, Città Nuova, 1994; R ahner H., Come sono nati gli Esercizi. Il cammino spirituale di sant’I. di L., Roma, Ed. Adp, 2004.

F.-J. de Lasala

LUDICITÀ Dal lat. ludus, ovvero → gioco, divertimento, passatempo. Insieme al significato di manifestazione pubblica a carattere religioso (ludi), il termine indica, nell’antica Roma, la scuola e, conformandosi in ludimagister, il → maestro di scuola. 1. Accreditato da tale originaria accezione, primeggia, come intrinseco allo «stato» ludico, il carattere educativo. La l. si lega a un modo di vivere nella quotidianità, nonché a una modalità di rapporto dell’uomo con il mondo. «Ludico» non è semplicemente un atteggiamento o un comportamento sotteso all’attività di gioco, sebbene a questa la l. si connetta più frequentemente che ad altre manifestazioni ed espressioni umane. Nello sviluppo di molteplici esperienze culturali proprie dell’uomo, dal mito al culto, dalla rappresentazione estetica al linguaggio, è rintracciabile un fattore ludico. Processi, dinamiche ed essenze ludiche pervadono l’universo umano. Si potrà concludere che anche gli animali giocano, ma solo l’uomo è ludico. 2. La l. richiama qualità formative per il soggetto di qualsiasi età. Gioia e creatività, armonia e libertà sono racchiuse in essa. Le connotazioni della l. si saldano al vissuto personale piuttosto che a codici sociali, mentre le denotazioni riflettono prioritariamente i caratteri tipici del gioco. La l. è in grado di permeare, con le sue caratterizzazioni, l’esperienza di vita di ciascun essere umano, facendosi «semantica» personale e sociale. In tal senso, la stessa cultura può essere colta sub specie ludi, mentre l’uomo si appropria dell’attributo ludens. Accanto all’educazione che tiene conto della perfettibilità dell’homo sapiens e faber, si delineano quindi processi educativi volti al suo connaturale essere ludens. Nel lavoro e nel tempo libero, nello

sport e nel gioco, la persona che partecipi ludicamente trae da se stessa valenze formative. Inoltre, la l. sostiene e incentiva il rapporto con l’altro in famiglia, a scuola e nella società, senza permettere che questa relazione si esaurisca in un semplice incontro casuale. 3. La partecipazione ludica e il vissuto ad essa correlato non possono essere imposti né limitati da necessità o ritualità quotidiane. Non sono individuabili ambiti esistenziali circoscritti spazio-temporalmente, ove la l. si esprima in modo preferenziale. L’infanzia vive spontaneamente tutto ciò che la sua natura le offre; la l. ne guadagna in termini di autenticità, creatività, originalità. L’adulto, al contrario, tende a falsificare la sua stessa essenza umana quando reprime la propria espressività ludica esaurendola in rari momenti di gioco. La l. è in grado di pervadere ogni linguaggio, inventando e realizzando molteplici fenomenologie. Bibl.: Huizinga J., Homo ludens, Amsterdam, Pantheon Akademische, 1939; R ahner H., Der spielende Mensch, Einsiedeln, Johannes, 1952; Fink E., Spiel als Weltsymbol, Stuttgart, Kohlhammer, 1960; Caillois R., Les jeux et les hommes. Le masque et le vertige, Paris, Gallimard, 1967; Moltmann J., Die ersten Freigelassenen der Schöpfung. Versuche über die Freude an der Freiheit und das Wohlgefallen am Spiel, München, Kaiser, 1971 (trad. it.: Sul gioco. Saggi sulla gioia della libertà e sul piacere del gioco, Brescia, Queriniana, 1988); K aiser A., Antropologia pedagogica della l., Brescia, La Scuola, 1996.

A. Kaiser

LUKÁCS György → Marxismo pedagogico LULLO Raimondo → Llull Ramon LUNAčARSKIJ Anatolij → Marxismo pedagogico LUTERO Martin → Protestantesimo

LUZURIAGA MEDINA Lorenzo n. a Valdepeñas nel 1889 - m. a Buenos Ai­res nel 1959, pedagogista spagnolo. 1. È stato uno dei principali innovatori del­l’educazione in Spagna e in → America 689

LUZURIAGA MEDINA LORENZO

La­t ina nella prima metà del sec. XX. Fre­ quentò la Escuela Superior de Magisterio e l’Universidad di Madrid. Completò gli stu­di pedagogici nelle università di Jena e Berlino. Ispettore di Insegnamento ele­mentare, lavorò nel Museo Pedagógico Nacional di Madrid sotto la direzione di → Cossío, portando a termine una intensa at­t ività di ricerca e di diffusione delle idee pedagogiche. Dal 1933 fu professore di Or­ganizzazione dell’insegnamento e politica pedagogica a Madrid. Intellettuale impe­g nato, partecipò nella lotta per la moder­n izzazione della scuola; preparò la relazio­ne che la Scuola Nuova presentò al Partito Socialista Operaio spagnolo, e occupò ca­r iche importanti nell’Amministrazione du­r ante la Seconda repubblica spagnola. A causa della guerra civile dovette partire per l’esilio e cominciò la seconda parte della sua vita, privata e pubblica, in Argentina. Fu nominato professore dell’Università di Tucumán e poi ottenne la cattedra di Storia dell’educazione e della pedagogia presso l’Università di Buenos Aires. Prese parte a numerose iniziative culturali come la crea­zione dell’editrice «Losada» (in cui diresse la celebre «Biblioteca pedagógica») e della rivista «Realidades». 2. L., tipico rappresentante della genera­zione del 1914, capeggiata da → Ortega y Gasset, suo ispiratore in campo filosofico, riceve un

690

forte influsso dal pensiero peda­gogico di → Giner de los Ríos, di → Natorp, di → Kerschensteiner e di → Dewey, che si riflette nella proposta e nell’impegno di formazione dell’uomo libero e completo. Perché questo ideale possa essere raggiun­to da tutti gli esseri umani, L. propone e difende vigorosamente la scuola attiva e pub­blica, neutrale e unificata. Tra i numerosi scritti, vanno ricordati come più importan­ti: El analfabetismo en España (1919), La escuela unificada (1922; recente ediz.: Madrid, 2001), La educación nueva (1927), Historia de la educación pública (1949), Pedagogía social y política (1954). D’altra parte uno dei maggiori successi co­me pubblicista è stata l’edizione durata quindici anni della «Revista de Pedagogía» (1922-1937) a Madrid e un anno a Tucumán, in cui fu­rono presentate tempestivamente in castigliano le idee pedagogiche più innovatrici del momento storico. Bibl.: Ruiz Berrio J., «L.L.M.», in Á. Galino (Ed.), Textos pedagógicos iberoamericanos, Ma­ drid, ITER, 1968, 1605-1626; L.L. y la política edu­cativa de su tiempo, Ciudad Real, Diputación Provincial, 1986; Barreiro V., L.L. y la renovación educativa en España (1889-1936), A Coruña, Do Castro, 1989; Lozano Seijas, C., «La coherencia de un liberal honrado». Prólogo a L.L.., La escuela nueva pública, Buenos Aires, Losada, 2002, 9-44.

J. Ruiz Berrio

M MACCHINE PER INSEGNARE L’introduzione di un mezzo meccanico o elettromeccanico per imparare non è una novità del nostro tempo. Il termine m.p.i. però risale a questo secolo ed è legato agli studi sull’ → istruzione programmata per potenziare l’istruzione automatizzata. Attualmente ha un significato più articolato di quello iniziale espresso da Pressey e → Skinner dove veniva accentuato maggiormente la «m.» e meno il «programma» che rende la m. interessante. L’insieme delle funzioni necessarie per insegnare può essere compiuto in vari modi attraverso un rapporto diretto con l’insegnante o mediato attraverso altri materiali e m. Anche se oggi con i sistemi computerizzati la m.p.i. ha perso la sua importanza primitiva ha ancora una certa significatività soprattutto dove si hanno situazioni particolari di insegnamento dovute a casi di soggetti in difficoltà per motivi diversi determinati da forme più o meno gravi di → handicap. Potremmo definire la m.p.i. come un meccanismo d’istruzione usato per produrre cambiamenti sistematici nel comportamento di uno studente. Essa è strutturata in modo che possa adempiere ad un insieme di funzioni utili ai fini dell’ → apprendimento di una persona. Naturalmente le m.p.i. devono avere un programma di insegnamento ben strutturato nei più piccoli dettagli e devono prevedere un minimo di interazione con chi le sta utilizzando, diversamente risultano demotivanti e in fondo poco utili. Bibl.: Calvani A., Manuale di tecnologie

dell’educazione, Pisa, ETS, 1999; Id., Che cos’è la tecnologia dell’educazione, Roma, Carocci, 2004.

N. Zanni

MADRE → Famiglia → Genitori

MAESTRE PIE Dall’età postridentina fino alla seconda metà dell’Ottocento questa espressione è stata usata «genericamente» per indicare delle donne che, individualmente o unite in comunità, senza professare voti, si sono dedicate all’insegnamento del catechismo, all’educazione delle fanciulle e delle adulte, spesso ispirandosi alle Scuole della Dottrina cristiana. 1. In senso specifico la denominazione di M.P. è propria di alcuni istituti religiosi, anche se essa venne attribuita fin dal 1685 alle giovani che si erano unite a santa Rosa Venerini (1656-1728) costituendo una libera associazione di donne laiche che vivevano da secolari, e non dovevano né volevano essere religiose per essere libere «da altre devozioni», tenendo «in grandissima considerazione il fare scuola gratis alle fanciulle». Successivamente le scuole della Venerini (che all’inizio furono aperte per le bambine povere), in cui si impartiva un insegnamento (individuale e simultaneo) religioso (catechismo, preghiera, orazione mentale), istruttivo (lettura – raramente la scrittura – e far di conto) e operativo (lavori femminili), seguendo 691

MAESTRO

fedelmente il metodo stabilito dalla Fondatrice, accolsero tutte le fanciulle «a motivo del maggior bene che ne sarebbe derivato» e le adulte per momenti di conversazione e di preghiera. In seguito al Dec. Pont. 1-2-1933 le M.P. Venerini poterono emettere voti pubblici ed il loro istituto divenne una congregazione religiosa. 2. All’esperienza di S. Rosa Venerini si collega l’origine delle M.P. Filippini di Montefiascone (Dec. Dioc. 1690 e Dec. Pont. 1760), fondate da S. Lucia Filippini (1672-1732) mentre alcuni istituti, la cui azione è rivolta prevalentemente all’educazione femminile, sono sorti successivamente: M.P. Operaie (primo Settecento), M.P. di Sant’Agata (1820), M.P. dell’Addolorata (1893). Bibl.: Macchietti S. S., Rosa Venerini all’origine della scuola popolare femminile, Brescia, La Scuola, 1986; Centro Studi dell’Unione Superiore Maggiori d’Italia, Le religiose in Italia, suppl. n. 40 aprile 2001 di «Consacrazione e Servizio».

S. S. Macchietti

MAESTRO Il termine m. può avere tre significati: di «caposcuola» o di guida eminente nel campo della cultura o della scienza; di «capo d’arte» nel campo artistico o industriale; di «educatore» e «insegnante» in senso generale, e specificamente di insegnante nella scuola elementare. Le università medievali assegnavano il titolo di Magister a chi avesse completato un corso avanzato nelle varie discipline, soprattutto nelle artes liberales (→ Medioevo). Oggi, nelle università britanniche e statunitensi rimane il titolo di Master conseguibile al termine di un curricolo avanzato nelle materie liberali (Master of Arts) o nelle materie scientifiche (Master of Science), corrispondente al titolo italiano di Laurea. 1. Sulla personalità e sul ruolo del m. hanno dissertato filosofi medievali di grande risonanza: da Boezio a → Tommaso d’Aquino. La funzione essenzialmente «ministeriale» del m. è stata sottolineata soprattutto da Tommaso, che considerava la funzione magistrale come coadiuvante subordinato all’agente 692

principale, che è la natura del discepolo: un concetto che sarà poi, dopo secoli, ripreso e sviluppato dall’Attivismo moderno con la formulazione del principio della centralità dell’allievo (→ Scuole Nuove). I costitutivi della professionalità magistrale sono sostanzialmente: 1) funzione di «guida», «animatore», «trascinatore», arricchendosi di doti squisitamente «umane»; 2) doti spirituali, culturali, psicologiche, didattiche; 3) possesso e uso pertinente di tecniche didattiche, destinate a facilitare e a rendere efficace il comunicarsi e il comunicare (→ insegnante →, → insegnamento). 2. L’idoneità a insegnare educativamente nella scuola primaria (o «scuola di base») richiede un processo previo di selezione e di formazione del m. Selezionare i candidati alla professione magistrale in base a precisi requisiti attitudinali, riducibili ai seguenti: 1) attitudini: fisiche, intellettuali, sociali; 2) disposizioni: affettive, morali, religiose, temperamentali, caratterologiche. L’esame di tali complessi di attitudini e disposizioni deve essere sostanzialmente di ordine diagnostico e prognostico. In molti Paesi, gli Istituti o le Facoltà di preparazione magistrale svolgono sia una funzione selettiva che formativa. La formazione, in particolare, esige un processo di direzione e orientamento di tipo istruttivo e addestrativo (mediante l’insegnamento di nozioni psicologiche, pedagogiche, didattiche; e mediante un tirocinio guidato e controllato). Importante è la valutazione periodica e ben mirata dell’acquisizione di capacità precise di ordine psico-pedagogico e didattico, generale e specifico per le diverse discipline d’insegnamento. 3. Il concetto di m. nella sua formulazione classica ha due significati; uno «possessivo» di → maturità piena della personalità; uno «dativo», di capacità comunicativa dei valori personali. Nel primo senso, l’uomo è magister sui (padrone del suo essere e del suo agire); nel secondo, è magister alterius (guida degli altri per arricchirli). Prima di essere m. degli altri, l’uomo deve essere m. di se stesso. Questa è chiamata tradizionalmente «legge di maestria», illustrata ampiamente dal filosofo dell’educazione Raffaele Resta. Ovviamente, nel m. ben formato si richiede una chiara e operativa conoscenza del testo, dei principi

MAGISTERO DELLA CHIESA

e dello spirito dei programmi ufficiali della scuola primaria. In Italia, i Programmi del 1985 rappresentano una formulazione scientificamente giustificata e storicamente matura delle modalità di attuazione di un curricolo formativo del fanciullo moderno. Bibl.: Titone R., Psicodidattica, Brescia, La Scuola, 1977/1986; Postic M., La relazione educativa. Oltre il rapporto m.-scolaro, Roma, Armando, 1993; G rillo M. R., Il m.: umanità e saggezza, Ibid., 2003.

R. Titone

MAGIA → Esoterismo MAGISTERO → Università

MAGISTERO DELLA CHIESA In orizzonte cristiano-cattolico, M. sta ad indicare il potere e la pratica che la → Chiesa ha di insegnare e interpretare autorevolmente il messaggio evangelico e la tradizione ecclesiale. Solitamente si distingue un M. ordinario, affidato alla comunità cristiana che adempie tale compito con la → catechesi, la predicazione, le lettere pastorali, ecc.; e un M. straordinario o solenne di cui fanno parte gli insegnamenti del Papa e dei concili ecumenici, tesi a conservare indefettibilmente il patrimonio di fede e a definire aspetti della dottrina cristiana. 1. Sempre presente negli interessi del M.d.C. il tema dell’educazione negli ultimi tempi è stato oggetto di particolare attenzione. Basti ricordare nel sec. scorso quanto si afferma in alcuni tra i documenti più significativi, come l’enc. di Pio XI Divini illius Magistri, il decreto Gravissimum Educationis (GE) del Vaticano II, o il Codice di Diritto Canonico del 1983, che dedica all’argomento un ampio e rinnovato sviluppo rispetto al precedente (can. 793-821). Il motivo di questa dilatata attenzione magisteriale per l’educazione sta sia nell’accresciuta importanza che l’argomento ha avuto nel contesto sociale e culturale odierno sia nella pluralità di visioni pedagogiche oggi presenti, non sempre immediatamente coniugabili con una visione cristiana della → vita e della → persona. La situazione è il risultato di un’evoluzione storica. All’inizio

dell’epoca moderna, in continuità con la propria tradizione, la Chiesa cattolica ribadiva in modo inequivocabile la sua competenza in ambito educativo, nella convinzione che non esisteva altra educazione che non fosse stata quella cristiana. Lo possiamo verificare, ad es., nelle autorevoli affermazioni del Concilio Lateranense (1512-1517) e del Tridentino (1545-1563). Nei secoli successivi, tuttavia, si assiste al progressivo affermarsi del pluralismo culturale ed al sorgere della pedagogia come sapere autonomo, a volte non cristiano. Comincia così, per la Chiesa cattolica, un confronto che la porta in più occasioni a reagire per affermare i principi della sua tradizione, in alcuni casi ponemicamente, in altri ricercando il dialogo. 2. La posizione più autorevole del M. odierno sull’argomento è espressa nel documento GE del Vaticano II. Tra i punti fermi del documento va registrata la convinzione che «tutti gli uomini di qualunque razza, condizione ed età, in forza della loro dignità di persona, hanno il diritto inalienabile ad una educazione che risponda al proprio fine, convenga alla propria indole, alla differenza di sesso, alla cultura e alle tradizioni del loro Paese, e insieme aperta a una fraterna convivenza con gli altri popoli al fine di garantire la vera unità e la vera pace sulla terra» (GE 1). I primi responsabili dell’educazione sono i genitori, ai quali competono il diritto e il dovere di promuovere lo sviluppo dei figli sotto ogni aspetto: fisico, intellettuale, morale e religioso. Per svolgere il loro compito hanno il diritto di godere delle condizioni necessarie, e di avere a disposizione i mezzi idonei. Compete alla società civile, in particolare allo Stato, non violare questo diritto fondamentale. Anzi, lo Stato, con la ricchezza delle sue strutture educative, è chiamato ad aiutare il compito della famiglia, in virtù della sua funzione sussidiaria ed in forza della giustizia distributiva (cfr. GE 3,2; 6,1; 6,2). A sostegno della responsabilità educativa si pone in modo del tutto particolare la Chiesa. Essa ritiene di dover essere riconosciuta idonea al compito di educare già come società umana; ma ancor più in virtù della sua missione pastorale. La responsabilità educativa della Chiesa, infatti, scaturisce dalla sua missione salvifica e non investe esclusivamente i minori, ma riguarda le loro famiglie, 693

MAGISTRALE: ISTITUTO/SCUOLA

le istituzioni e l’intera società, nella quale è chiamata ad essere segno profetico di valori cristiani ed umani. Bibl.: Sinistrero V., Il Vaticano II e l’educazione, con la dichiarazione su l’educazione cristiana. Genesi, testo, commento, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1970; Codice di diritto canonico, 1983, can. 793-821; Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 1988, nn. 57-63; Groppo G., Teologia dell’educazione. Origine identità compiti, Roma, LAS, 1991; Galli N. (Ed.), L’educazione cristiana negli insegnamenti degli ultimi pontefici. Da Pio XI a Giovanni Paolo II, Milano, Vita e Pensiero, 1992; Pont. Cons. Iustitia et Pax, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano, LEV, 2004.

R. Rezzaghi

MAGISTRALE: istituto/scuola L’istituto m. (scuola secondaria di durata quadriennale finalizzata alla preparazione degli insegnanti elementari) e la scuola m. (fino al 1933 definita scuola di metodo per l’educazione materna, di durata triennale, per la formazione degli insegnanti della scuola materna) furono entrambi istituiti nell’ambito della riforma scolastica del 1923, rispettivamente previsti dal R.D. 6.05.1923, n. 1054 e dal R.D. 31.12.1923, n. 3106. 1. L’istituto m., inizialmente di durata set­ tennale (quadriennio inferiore e triennio superiore) e organizzato secondo un im­pianto umanistico e didattico ispirato a quello del ginnasio-liceo, sostituì le preesi­stenti → scuole normali, con il proposito di privilegiare più la formazione culturale che le competenze tecnico-professionali come dimostrava l’arricchimento dei programmi (che prevedevano anche l’insegnamento della filosofia e del lat.) e la contestuale soppressione del tirocinio che ampio spa­zio aveva avuto nella tradizione normali­sta. L’abilitazione m. consentiva l’accesso, previo esame di ammissione, agli Istituti superiori di Magistero per il conseguimen­to della laurea universitaria (pedagogia, materie letterarie, lingue e letterature stra­niere) e del diploma di vigilanza ai fini del­la carriera direttiva nella scuola elementare. La scuola m., a sua volta, regola694

mentò finalmente in modo organico dopo un di­battito e tentativi durati per molti decenni, la preparazione del personale docente nel­le scuole infantili. Mentre gli istituti m. fu­rono presenti in prevalenza nell’ambito dell’istruzione statale, le scuole m. (caso piuttosto infrequente nel sistema scolastico italiano) furono per lo più affidate all’ini­ziativa di enti e privati con un intervento dello Stato piuttosto modesto. 2. Col trascorrere degli anni tanto l’istituto m. quanto la scuola m. sono stati interessa­ ti da notevoli cambiamenti, pur nella per­ manenza del quadro normativo definito nel 1923. In seguito alla unificazione, pre­vista dalla riforma Bottai del 1939, dei cor­si inferiori nella scuola media triennale, l’i­stituto m. assunse la fisionomia quadrien­nale che conserva tuttora. Con i pro­grammi del 1945 furono introdotti l’inse­gnamento della psicologia e la pratica del tirocinio allo scopo di potenziare gli aspet­ti professionali del corso di studi. La libe­ralizzazione degli accessi universitari del 1969 rese infine necessaria la creazione ne­gli istituti m. del cosiddetto quinto «anno integrativo» per equiparare la durata qua­d riennale ai corsi quinquennali degli altri istituti secondari. Nel frattempo il riordino degli esami di Stato del febbraio 1969 tra­sformò l’abilitazione m. in «maturità m.». A partire dalla fine degli anni Settanta, in mancanza di interventi riformatori nel set­tore dell’istruzione secondaria (più volte progettati, ma mai andati in porto) tanto l’istituto m. quanto la scuola m. sono stati soggetti a numerosi processi di sperimen­ tazione quinquennale. Sono state in tal senso avviate numerose esperienze di liceo pedagogico e di liceo psico-socio-pedago­gico. Le vicende sopra descritte si sono, a loro volta, intrecciate con i dibattiti sulla qualità, la durata e l’impianto culturale della formazione degli insegnanti primari e della scuola materna. Con il tempo è prevalsa la convinzione dell’opportunità del suo spo­stamento a livello universitario. Questo traguardo, già indicato nella L. delega del 1973, è stato sancito dalla L. di rifor­ma universitaria n. 341 del 1990 che ha in­fatti previsto l’istituzione di un apposito corso di laurea per la formazione degli in­segnanti primari e della scuola materna (corso di laurea in Scienze della formazio­ne primaria) avviato in una ventina

MAKARENKO ANTON SEMËNOVIČ

di sedi universitarie a decorrere dall’anno accademico 1997-98. Di conseguenza con D.L. 10 marzo 1997 il Ministero della Pubblica Istruzione ha progressivamente soppresso i corsi dell’Istituto M. che ha definitivamente cessato di esistere alla fine dell’anno scolastico 2001-02. Resta aperto il dibattito nel­l’ambito del riordino della scuola secondaria se sia opportuna la persistenza di un indirizzo psi­co-sociopedagogico (tesi sostenuta da quanti ritengono necessario coltivare la cultura socioeducativa fin dagli anni ado­lescenziali, pur in un quadro di ampia fles­sibilità, già fatta propria dalla Commissione Brocca e confermata dalla L. n. 53/2003 che prevede il liceo delle Scienze Umane) anche per l’accesso ai corsi uni­versitari di tipo pedagogico oppure sia suf­ficiente una buona formazione culturale generale. Bibl.: M inistero dell’Educazione Nazionale, Dalla riforma Gentile alla Carta della scuola, Fi­renze, Vallecchi, 1941; Agazzi A., La formazione dell’insegnante, Bari, Laterza, 1964; De Vi v ­ o F., La formazione del maestro dalla legge Casa­t i ad oggi, Brescia, La Scuola, 1986; Zuccon G. C., Il progetto della Commissione Brocca. Piani di stu­dio della scuola secondaria superiore e programmi del biennio, Ibid., 1991; Di Pol R. S., Cultura pedagogia e professionalità nella formazione del maestro italiano, Torino, Sintagma, 1998; Luzzatto G., Insegnare a insegnare. I nuovi corsi universitari per la formazione dei docenti, Roma, Carocci, 1999; Chiosso G., Le débat sur la formation des enseignants en Italie, in «Politique d’Éducation et de Formation» (2002) 5, 81-94; Galliani L. - E. Felisatti, Maestri all’Università. Modello empirico e qualità della formazione iniziale degli insegnanti, Lecce, Pensa, 2002; Damiano E., L’insegnante. Identificazione di una professione, Brescia, La Scuola, 2004.

G. Chiosso

MAIEUTICA → Socrate

MAKARENKO Anton Semënovič n. a Belopol’e nel 1888 - m. a Golicyno nel 1939, scrittore, pedagogista e educatore ucraino.

1. Vita e opere. Di famiglia operaia e credente. Di salute cagionevole, dopo l’anno per poter insegnare (1904), si dedica sempre più alle letture, specie con l’inizio dell’insegnamento a Krjukov nel 1905 e poi a Dolinskaja (1911). Nel 1914 è ammesso all’istituto magistrale triennale di Poltava e frequenta un gruppo di studenti orientato alla socialdemocrazia. Fatto il militare a Kiev, per pochi mesi, a causa della salute, termina il corso a Poltava, con un saggio su La crisi della pedagogia moderna, premiato con la medaglia d’oro, e nello stesso anno (1917) è direttore di una scuola per ferrovieri a Krjukov. Nel 1919 si trasferisce, come direttore, a Poltava, dove è membro di organismi sindacali. Nel 1920 è incaricato della direzione della colonia di lavoro per ragazzi di strada a Triby, dove arriverà la Grigorovič. Alla fine dell’anno ottiene di passare nella fattoria Trepke a Kovalevka e, falliti i tentativi psico-pedagogici, si impegna nella costruzione del collettivo. Nel 1922 nascono i «reparti», con propri comandanti, e cominciano le ispezioni ufficiali, con valutazioni alterne. M. va a Mosca per un breve periodo di studio, cui fanno seguito nel 1923-24 due suoi articoli sulla colonia «Gor’kij» (come la chiamò). Nasce il «Consiglio dei comandanti» e la banda musicale, migliorano pure le condizioni economiche generali (1924), ma cominciano gli scontri con il Commissariato per l’educazione popolare (Narkompros). Nel 1925, si costituisce il Komsomol (associazione della gioventù comunista) e inizia una corrispondenza regolare con Gor’kij. Nel suo 5° anniversario, si decide il trasferimento della colonia, che passerà, nel 1926, al convento di Kurjaž, dove c’erano già centinaia di altri ragazzi. Nell’ottobre 1927 è contattato dalla GPU per organizzare e dirigere una loro «comune», in onore di F. E. Dzeržinskij, mentre è aspramente criticato per il militarismo e i castighi. Nel dicembre 4 educatori e 60 ragazzi si trasferiscono nella comune, solennemente inaugurata. Nel ’28 viene discussa con lui l’impostazione della medesima; poco dopo, viene proibito il sistema dei «comandanti» e si propone l’affidamento della colonia al comitato esecutivo di zona: M. pensa di dimettersi. Nel luglio, Gor’kij visita la colonia e la comune. Poco più tardi, si impone a M. o di rinunciare ai comandanti o di lasciare la colonia. M. si ritira e accelera la stesura 695

MAKARENKO ANTON SEMËNOVIČ

del Poema pedagogico, pressato da Gor’kij. Nell’agosto del ’29 arriva nella comune un «direttore politico» e M., sentendosi emarginato, pensa ad altre possibilità. Nel 1930 scrive Na veletens’komu fronti (Sul fronte gigantesco), che consegna per la stampa con la prima parte del Poema: questa è respinta. La comune prospera e si costituisce una «facoltà operaia». M. mette a punto la Mars 30 goda (Marcia dell’anno 30), mentre, contro il suo parere, si annullano i posti di educatore e prendono il sopravvento interessi economici (1931). Al ritorno dalle vacanze, si vede sostituito da un nuovo direttore. In novembre stampa la Marcia dell’anno 30 e prepara, per il 5° anniversario della comune, Pedagogi poržimajut plečami (I pedagoghi alzano le spalle). È incoraggiato e aiutato da Gor’kij, che insiste sul Poema, cui M. si sta dedicando e di cui si pubblica la prima parte (1933). Nel 1934, diventa membro dell’associazione degli scrittori dell’URSS. Nelle vacanze fa l’ultimo viaggio con i comunardi e finisce la 2a parte del Poema, che esce nel 1935. Malato di cuore, in luglio è nominato funzionario al Commissariato per le colonie di lavoro e si trasferisce a Kiev, da dove spedisce la 3a parte del Poema, che uscirà nel 1936. Dopo un soggiorno a Mosca, prepara, con la moglie, Kniga dlja roditelej (Il libro per i genitori). A giugno muore Gor’kij e, a luglio, ha luogo il ripudio ufficiale della → «pedologia» con piacere di M., che chiede l’esonero dalle sue funzioni per dedicarsi a scrivere. Si svolgono i grandi processi epurativi e si rilanciano le tesi di M., allineato sulle posizioni ufficiali; accetta la direzione temporanea della colonia di Brovary, nei pressi di Kiev, mentre pubblica vari articoli d’occasione. Nel febbraio del ’37 si trasferisce a Mosca, dove si moltiplicano i suoi interventi orali e scritti. La sua salute peggiora e deve ricoverarsi più volte. È ancora oggetto di polemiche in patria, mentre all’estero, dove sono già in commercio tre traduzioni del Poema, si diffonde la sua fama. Nel gennaio del 1939 gli è conferito l’«Ordine della bandiera rossa» per i suoi meriti letterari e, da allora, si moltiplicano i consensi. Ripresenta domanda di iscrizione al partito (accolta dopo la sua morte), si propone alla direzione di una scuola di Mosca (ottenendone risposta affermativa) e, dopo un viaggio a Char’kov, si ritira nella casa degli scrittori di Golicyno, dove, 696

volendo rientrare nella capitale, muore nella stazione, il 1° aprile. 2. Il pensiero pedagogico. Formatosi sui classici, se ne distacca, come dalla pedologia, nell’impatto con i colonisti, pur avendo impiantato, prima, un laboratorio psicologico. Elaborò, nella scia del marxismo-leninismo e della tradizione russa, una concezione collettivistica, di cui venne formulando gradualmente le tesi teoriche. Il Poema pedagogico ne è testimonianza. 2.1. L’«uomo nuovo»: è il punto di partenza teorico; coincide, di fatto, con l’uomo sovietico, anima ed espressione della nuova società: è «un cittadino utile, qualificato, formato e politicamente istruito ed educato», lottatore, creativo, votato alla causa. Gli compete una «nuova etica», non individualistica, come la vecchia, ma tesa a unire gli uomini, alla creazione del collettivo. La sua educazione sarà dunque politica, frutto di un processo induttivo dall’esperienza, anziché da deduzioni da una supposta natura o da altre scienze, come voleva la pedologia. Si tratta di una nuova logica, dal basso, per la costruzione e non per uno sviluppo precostituito dell’«uomo nuovo». Al più si potrà dedurre il «metodo della pedagogia dai nostri fini» (Soč., V, 362). Di fatto, fine ultimo è la felicità, «nostro dovere morale» (Ibid., 453-454), e questa felicità dev’essere collettiva. 2.2 Il collettivo: di origine russa, per M. è il tutto dell’educazione; è metodo, mezzo e fine; «il collettivo educa». Include giovani e vecchi, educandi ed educatori, con ruoli e funzioni differenziate, in base al principio: «le più elevate richieste all’uomo, ma, al tempo stesso, il più grande rispetto di fronte a lui» (Ibid., 229), con una responsabilizzazione di tutti e il superamento del «principale vizio pedagogico», la «convinzione che i ragazzi sono soltanto oggetto di educazione» (Ibid., III, 137). Anche gli educatori sono organizzati in collettivo, sebbene questo sia «forse, il più difficile problema della nostra pedagogia» (Ibid., 177), sul quale «nella futura pedagogia si dovrà scrivere tutto un libro» (Ibid., 183): il che egli stesso cercò di fare. Il collettivo dei ragazzi invece è organizzato attorno a un centro, come persona (all’origine, il direttore, poi anche il dirigente pedagogico, del Komsomol e dei pionieri) e come stanza, con un insieme di

MAKARENKO ANTON SEMËNOVIČ

reparti o collettivi di base, che condividono, ciascuno sotto un comandante, vita e impegni e che, uniti, costituiscono l’assemblea, con potere decisionale e giudiziario. Un ruolo importante, come organo esecutivo, aveva il consiglio dei comandanti (nel quale si entrava per cooptazione) e, a livello di quotidianità, il comandante di turno, cui spettava la responsabilità disciplinare dell’intero collettivo per un tempo limitato (e variato). Originariamente, il direttore è stato il punto di riferimento principale nella vita del collettivo. M. confessa di essere stato, all’inizio, un dittatore, mancando altri supporti, ma poi progressivamente si trasforma in educatore, con compiti specifici, quale primo membro del collettivo stesso. Tali compiti riguardavano specialmente i rapporti con i singoli, verso i quali era sempre disponibile, e che poteva anche castigare, ma non perdonare, che doveva amare, senza sdolcinature però e senza pretendere un contraccambio. Il collettivo ha un suo stile e tono. Il primo è definito dalla disciplina cosciente (di derivazione leniniana), più fine che mezzo educativo, nonché dall’ordine, dalla pulizia, dalle tradizioni, simboli, divise e comportamenti comuni; il tono, che ne dipende, dev’essere sempre «maggiore»: espressione di un clima di allegria, entusiasmo e disponibilità generalizzati e contagiosi. In tale prospettiva, al suo interno, si distingue tra un «attivo», con funzione di animazione e di esempio, un «sano passivo», costituito dai nuovi e dai piccoli, un «attivo pigro», fatto dai furbi, dalla condotta variabile secondo le convenienze, e, infine, la «palude», che raccoglieva gli inerti. 2.3. Il lavoro e la metodologia del collettivo: il lavoro è stato lo strumento più efficace per la costruzione del collettivo, sebbene poi affiancato dalla scuola, con ugual numero di ore (4 e 4 ogni giorno), ma con un differente apporto educativo. Il lavoro è, in senso stretto, produttivo, benché con modalità diverse (prima agricolo, poi di laboratorio e, infine, di fabbrica). Esso era solennizzato da un proprio cerimoniale, con feste, momenti celebrativi e particolari incentivazioni, con modalità diverse specie in rapporto al «salario». Le situazioni di emergenza od occasionali, con esigenze transitorie, hanno portato alla costituzione dei «reparti misti», «la scoperta più importante» nello sviluppo del collettivo. Erano transitori, composti, prevalente-

mente, da comandanti, sottoposti, nel caso, agli ordini di un colonista, evitando così l’affermarsi di caste privilegiate. La metodologia operativa si articola, con l’esperienza e il superamento della contrapposizione tra educazione e rieducazione, in due momenti: 1’«esplosione», iniziale, di impatto con il collettivo, con una sovversione di abitudini e comportamenti, in funzione di una svolta radicale; e l’«infiltrazione», successivo, più duraturo, con una penetrazione e assimilazione graduale e cosciente degli indirizzi del collettivo, anche mediante la competizione. Essa si realizza però a livello di gruppo, anziché individuale, stimolata dal «sistema delle prospettive»: «nostra seconda importantissima istituzione». La prospettiva, a breve, medio o lungo termine, propone una meta raggiungibile, che consente ai ragazzi «la gioia del domani», «vero stimolo della vita umana»; inoltre, applicata alla produzione impegna al superamento di sé, alla lotta, alla vittoria: tutti concetti paradigmatici in M. e con risvolti catartici. Le prospettive furono utilizzate anche con riferimento all’alcoolismo, alla religione e soprattutto al furto. 3. Valutazione: consentendo con quanto M. dice: «io non posso affermare di essere giunto a conclusioni definitive. Io resto ancora, come probabilmente voi, nello stadio della ricerca e del divenire» (Ibid., 251: asserto del 20.10.1938), va rilevato che egli ha conosciuto momenti di esaltazione e di rigetto acritici, momenti di ricerca diffusa e di stanca, al pari dei classici dell’educazione, nel cui novero merita comunque di entrare per il suo impegno, la sua originalità e per le difficoltà che ha incontrato e che non sempre è riuscito a superare con chiarezza. Le possibilità aperte dopo la caduta del comunismo contribuiranno indubbiamente a una sua più equa valutazione, con l’apertura degli archivi, sebbene permanga qualche interpretazione più ideologica che storica. Bibl.: a) Fonti: Sočinenija v semi tomach (Opere in 7 voll.), Mosca, Izdatel’stvo Akademii pedag. nauk, 1956-1958 (cit.: Soč.); Sočinenija v os’mi tomach (8 voll.), Ibid., 1983-1986; Gesammelte Werke, Marburger Ausgabe (ediz. critica in corso: voll. 1, 2, 7, 9, 13), Ravensburg, Maier, 1976-1978. b) Studi: contributi più recenti e innovativi: Makarenko V. S., «Erinnerungen an meinem Bru-

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MANJÓN ANDRÉS

der», in G. Hillig (Ed.), M.-Materialien III, Marburg, VWG, 1973, 157-222 (trad. it. A.S.M. nelle memorie del fratello, a cura di B. Bellerate, Roma, Armando, 1977); Hillig G. - S. Weitz (Edd.), M.Diskussionen international, München, Minerva Publikation, 1989; Bellerate B. A., A.S.M. oggi, in «Pedagogia e Vita» (1995) 1, 11-30; H illig G., M. im Jahr des «grossen Terrors», Marburg, Makarenko-Referat, 1998; Floris F.Ch., La pedagogia familiare nell’opera di A.S.M., Roma, Aracne, 2005.

B. A. Bellerate

MALATTIA → Salute: educazione alla

MANJÓN Andrés n. a Sargentes de la Lora (Burgos) nel 1846 m. a Granada nel 1923, giurista ed educatore spagnolo. 1. Vita e opere. Nato in una famiglia contadina, in cui spicca la figura della madre, donna profondamente religiosa. La «circostanza» storica in cui compie gli studi e fa le prime esperienze docenti è assai travagliata (instabilità politica, scontri sociali, analfabetismo). Quando fonda la prima scuola «per ragazze bisognose», M. è ormai prete e professore di Diritto presso l’università di Granada. La scuola, che chiama dell’«Ave-María», sorge in un quartiere periferico, dove «l’ignoranza e la povertà, la trascuratezza e l’abbandono si davano la mano con la corruzione e lo scandalo». L’opera avemariana si estende a molte città spagnole e trova consensi anche all’estero. Avviata l’esperienza, M. ne racconta le origini e lo sviluppo in brevi scritti: Hojas (fogli) e Memorias. 2. Pensiero pedagogico. M. usa l’espressione «capitale di idee», per riferirsi allo scritto del 1897: Condizioni pedagogiche di una buona educazione e quali ci mancano. Questo saggio offre la migliore sintesi del suo pensiero: precisato il concetto di pedagogia («insieme di principi scientifici e regole pratiche il cui scopo finale è la formazione di uomini integri e completi»), vengono esaminate le «condizioni» dell’educazione: integrale, iniziata fin dalla culla, graduale e continua, progressiva, organica e armonica, «attiva da parte 698

dell’allievo e del maestro», estetica, morale, religiosa, libera, manuale. Questi temi sono approfonditi in scritti posteriori: El maestro mirando hacia dentro (1915), Hojas paternoescolares (1916). È agevole rilevare in essi nuclei dottrinali di efficacia educativa: visione integrale del bambino, amore alla natura, famiglia come ambiente formativo, ruolo della donna, opera educativa come progetto e «cosa di tutti», scuola strumento di rigenerazione sociale. 3. Critica. La figura di M. è oggetto di giudizi contrastanti. La valutazione dei nuclei accennati consente di superare silenzi e interpretazioni riduttive che mettono in risalto quasi esclusivamente determinati aspetti suggestivi (scuola all’aria aperta, giochi didattici, «mapas en relieve»). Accanto ad alcuni punti problematici (proposta del «catechismo come materia centrale»; innovazioni didattiche non accompagnate da una pari attenzione per il rinnovamento dei contenuti), vanno sottolineati giustamente i pregi: valorizzazione del contatto con l’ambiente naturale in un clima di spontaneità e gioia, rilievo dato alla famiglia, uso di metodi intuitivi e attivi. Bibl.: a) Fonti: Edición nacional de las obras selectas de A.M., [Granada], Ave-María, 1945-1956; Diario del P. M. 1895-1923. introd. y texto crítico de J. M. Prellezo, Madrid, BAC, 2003. b) Studi: Dévaud E., Pédagogie à ciel ouvert, in «Revue Belge de Pédagogie» 20 (1939) 416-427; Montero J., Didáctica manjoniana, Granada, CEPPAM, 1959; Prellezo J. M., Educación y familia en A.M. Estudio histórico-crítico, Zürich/ Roma, PAS-Verlag, 1969; Id., Bibliografía de M. (1882-1997), Granada, Ave-María, 1997; García M. E., Las Escuelas del Ave María de Arnao, Castrillón, Patronato Municipal de Cultura, 2004.

J. M. Prellezo

MANN Horace n. a Franklin (Massachusetts) nel 1796 - m. ad Antioch (Ohio) nel 1859, politico nordamericano, riformatore scolastico e studioso di problemi educativi. 1. M., figlio di contadini del Massachusetts,

MAPPE CONCETTUALI

crebbe in estrema povertà e lottò nei primi anni della sua vita per ottenere un’istruzione. I suoi insegnanti, egli dichiarò, «erano bravissima gente; ma molto scarsi come insegnanti». Un piccolo lascito gli permise di iscriversi alla Brown University dove ottenne un brillante curriculum come studente. Successivamente studiò legge e divenne un procuratore di grande successo. M. fu eletto all’assemblea legislativa dello Stato nel 1827 e ricoprì per dodici anni la carica di segretario del Consiglio per l’Istruzione del Massachusetts. Durante quel periodo rivoluzionò l’organizzazione e l’insegnamento nella scuola pubblica e fu di valido aiuto nell’istituzione della prima scuola normale negli Stati Uniti (1839). Fu membro della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti dal 1848 al 1853; dal 1853 all’anno della sua morte fu presidente dell’Antioch College dell’Ohio. 2. Fu sua la visione di una democrazia fondata e costantemente rigenerata da una popolazione istruita. Sarà sempre ricordato negli annali della storia dell’istruzione americana come colui che gettò le fondamenta del sistema scolastico pubblico. Egli creò la «scuola pubblica gratuita»: una scuola non per la gente comune, ma comune a tutte le genti. L’evento più importante nella vita di M. fu l’approvazione da parte dell’assemblea legislativa dello Stato del Massachusetts, nel 1837, di un disegno di legge che stabiliva la creazione di un Consiglio Statale per l’Istruzione e la nomina di M. quale suo primo segretario. Nel 1847 ricevette il permesso di visitare «ciascuno dei paesi europei» e di studiare i loro sistemi pedagogici. Il suo scopo era di trovare «spunti per guidare il popolo americano nella soluzione dei problemi riguardanti l’istruzione». Da questa visita, durata sei mesi, derivò il famoso Seventh annual report che riportava fedelmente le sue osservazioni ed i suoi giudizi ricavati dalle numerose scuole che aveva visitato. Il rapporto ebbe un tale impatto da essere definito uno dei libri che hanno cambiato l’America. Nel corso dei suoi viaggi, M. trovò «molte cose all’estero, che noi, in patria, faremmo bene ad imitare» anche se nel complesso, trovò più cose da deplorare che da lodare nelle scuole straniere. 3. Nel campo dell’istruzione, M. aveva forti

convinzioni ideologiche e democratiche. Era decisamente contrario alle punizioni corporali e le condannava con parole durissime: «Dare un ceffone ad un bambino sul capo perché non ha imparato le lezioni, è all’incirca tanto saggio quanto lo sarebbe colpire un orologio con un martello perché non segna l’ora esatta». La scuola pubblica americana, egli insisteva, deve servire l’intera comunità, in cui sono rappresentate numerose sette religiose. L’insegnamento del settarismo religioso era per M. ambiguo e controproducente per gli scolari americani. Nella sua crociata per una migliore istruzione, M. inveì contro le squallide condizioni delle scuole nel suo Stato e chiese che ne fossero costruite di nuove che soddisfacessero opportuni requisiti sanitari. Volle che ciascuna scuola fosse dotata di una propria biblioteca e quando ciò non fu possibile, incoraggiò l’apertura di biblioteche affinché ogni bambino potesse avere una buona biblioteca entro una mezz’ora di cammino dalla propria casa. M. sconvolse la pratica convenzionale sostenendo l’impiego di un maggior numero di donne insegnanti e riuscì a far aumentare i salari degli insegnanti in tutto lo Stato. Un’ammonizione contenuta nel suo ultimo discorso in occasione della consegna dei diplomi all’Antioch College è un esempio perfetto della sua coscienza sociale: «Vergognati di morire prima di aver riportato una qualche vittoria per l’umanità». Bibl.: H all Tharp L., Until victory: H.M. and Mary Peabody, Boston, 1953; Messerli J., H.M., a biography, New York, 1972; Cremin L. A., American education: the national experience, 1783-1876, New York, 1979; Pagano G. - V. Giura (Edd.), L’Italia del secondo Settecento nelle relazioni segrete di W. Hamilton, H.M. e J. Mourray, Napoli, Esi, 1997.

M. Ribotta

MANUALE → Editoria scolastica → Libro MAO-TSE-TUNG → Marxismo pedagogico

MAPPE CONCETTUALI Le m.c. sono rappresentazioni in forma grafica di un insieme di concetti in relazione fra loro. I concetti sono indicati da ter699

MARIANISTI

mini o brevi espressioni e, generalmente, sono racchiusi in box che ne evidenziano il livello di generalità. I legami tra i concetti sono individuati da linee o frecce e spesso il loro significato viene dichiarato con etichette verbali (Novak, 2001). Le m.c. consentono la rappresentazione in forma logico-iconica di un tema o ambito di conoscenza, di cui mettono in evidenza la struttura. 1. M.c. e formazione. Il valore formativo attribuito alla formalizzazione della conoscenza per mezzo delle m.c. consiste nel favorire la rielaborazione personale di contenuti culturali, l’organizzazione e l’acquisizione del sapere in termini di apprendimento significativo (Ausubel, 1989), tale da modificare, potenziandola, la matrice cognitiva del discente. 2. M.c. e insegnamento. Le m.c. sono impiegate in didattica quali dispositivi per presentare i contenuti disciplinari in forma sintetica e strutturata; costituiscono uno strumento per la progettazione da parte del docente di percorsi di apprendimento organizzati e coerenti; vengono utilizzate quali strumenti di → valutazione dell’apprendimento adatti a rilevarne la dimensione processuale (processi di concettualizzazione, logico-deduttivi ecc.). Bibl.: Ausubel D., Educational psychology. A cognitive view, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1967; Novak J. D. - D. B. Gowin, Learning how to learn, New York, Cambridge University Press, 1984 (trad.it., Imparando a imparare, Torino, SEI, 1989); Novak J. D., Learning, creating, and using knowledge: Concept maps as facilitative tools in schools and corporations, Mahwah, New Jersey, 1998 (trad. it., L’apprendimento significativo. Le m.c. per creare e usare la conoscenza, Trento, Erickson, 2001).

D. Maccario

MARCUSE Herbert → Scuola di Francoforte

MARIANISTI Religiosi della Compagnia di Maria, fondati a Burdeos nel 1817 dal sacerdote francese Guillaume de Chaminade (1761-1850). 700

Questi, nel suo isolamento di Saragozza (1797-1800), si dedicò alla creazione della Congregazione come risposta alla decristianizzazione rivoluzionaria: il suo obiettivo era difendere la fede e propagare i principi cristiani. La sua finalità consiste nell’educazione della gioventù, nella formazione dei più piccoli (tramite congregazioni mariane) e nell’attività missionaria. I sacerdoti esercitano anche il ministero sacerdotale, esercizi spirituali, ecc. Non escludono nessun genere di opere (risonanze del «quodcumque dixerit facite» delle nozze di Cana): scuole normali e di agricoltura, parrocchie, missioni, collegi, orfanotrofi e ospedali. Chaminade voleva formare uomini di fede, ma non lo fece attraverso la prevenzione o la preservazione, bensì «per contagio». Lo spirito di famiglia è presente in tutta la pedagogia marianista. La sua attività principale è l’educazione a tutti i livelli, anche se la maggior parte dei suoi membri si dedica all’insegnamento superiore nelle università. Fin dall’inizio i M. si sono distinti per un insegnamento selettivo ed una metodologia ugualmente innovativa, come si dimostrò già a Saint-Remy (scuola normale e di agricoltura e collegio d’istruzione media) in cui il contatto diretto con i fenomeni studiati in fisica, storia naturale ed altre materie, e le riproduzioni geografiche realistiche costituirono una novità. Il cosiddetto «esercizio generale» fu un procedimento didattico caratteristico in cui, servendosi di una parola significativa (es. fiume), si intavolava un lungo discorso tra insegnanti e alunni della scuola primaria, cosa che diminuiva la tendenza libresca della scuola tradizionale. Alcuni dati statistici danno l’idea dell’evoluzione dei m.: nel 1841 avevano 27 case e 215 membri; nel 1982, 230 case e 2.000 membri; nel 1987, rispettivamente 227 e 1922; nel 1992, 223 e 1.815; nel 1995 hanno all’incirca 175.000 alunni e 6 università. Oggi, i membri della Famiglia Marianista sono 9.000 ca. in ca. 30 Paesi. Bibl.: Reseña histórica de la Compañía de María, Madrid, SM, 1950; Darbon M., G. J. Chaminade, Paris, 1980; Tuñón Á., Educadores en los colegios marianistas, Madrid, Servicio de Publicaciones Maristas, 2002.

V. Faubell

MARIONETTE → Teatro

MARITAIN JACQUES

MARISTI Detti anche Piccoli Fratelli di Maria o Fratelli M. Fondati nel 1817 da → Champagnat, una delle personalità francesi che, durante la prima metà del sec. XIX, cercano, per mezzo dell’educazione, di contrastare la laicità sorta nel secolo precedente. La finalità dei M. è l’educazione della gioventù, senza alcuna limitazione nei gradi e nei tipi d’insegnamento. Impartiscono l’insegnamento dall’asilo sino alle università o alle scuole tecniche superiori e abbracciano tutte le classi sociali, con speciale considerazione per i Paesi in via di sviluppo o per le missioni, con varie editrici dedicate alla pubblicazione di libri scolastici ed alla propagazione della dottrina cristiana e della devozione alla Vergine Maria. La loro assoluta dedizione all’educazione li porta a rinunciare al sacerdozio. Per l’aspetto docente subirono l’influsso lasalliano delle «piccole scuole» e in campo catechetico quello del metodo di s. Sulpizio. Certamente giungono a creare uno «stile proprio» caratterizzato dall’impegno, la presenza, il desiderio della salvezza delle anime; caratteristico è il loro emblema delle tre violette (umiltà, semplicità e modestia), la formazione del cuore, la coscienza, la volontà e l’impegno per il rinnovamento didattico e metodologico. La loro evoluzione statistica: nel 1840, 50 case, 310 membri, 7.000 alunni; nel 1995, 822 case e 5.297 membri. Bibl.: Coste J. - G. Lessard, Origines maristes, 4 voll., Roma, 1960-67; Furet J. B., Vie de Joseph-Benoît-Marcellin Champagnat, Lyon, 1856 (trad. sp. 1931; trad. it. 1955; ed. crit., Zaragoza, 1979); Santamaría J. L., Maristas de Zaragoza (1903-2003), Zaragoza, Colegio «El Pilar-Maristas», 2004.

V. Faubell

MARITAIN Jacques n. a Parigi nel 1882 - m. a Tolosa nel 1973, intellettuale francese. 1. Di famiglia protestante e di formazione positivistica, sensibile all’insegnamento di H. Bergson, dopo un periodo di adesione al socialismo rivoluzionario, grazie all’in-

fluenza di Leon Bloy, nel 1906, si convertì al cattolicesimo insieme alla moglie Raïssa, di origine russa, con cui ebbe una profonda intimità spirituale. Trovò nella filosofia aristotelico-tomista lo strumento intellettuale con cui leggere ed affrontare i problemi dell’uomo contemporaneo. Docente all’Institut Catholique di Parigi, insegnò pure all’Istituto di studi medioevali di Toronto, a Princeton e alla Columbia University. Ambasciatore presso il Vaticano tra il 1945-1947, dopo la morte della moglie (1960), si ritirò presso i Piccoli Fratelli di Ch. Foucault, difendendo con Il contadino della Garonna il Concilio Vat. II da interpretazioni modernistiche. La sua influenza in campo cattolico è ancora oggi molto forte, pur non senza distanziazioni critiche. 2. Sono noti il suo realismo critico gnoseologico e la sua proposta di «umanesimo integrale». Essi fanno da quadro di riferimento anche alla sua → filosofia dell’educazione. I mali e le speranze del nostro tempo pongono «l’educazione al bivio». In polemica con le concezioni pragmatistiche, comportamentistiche e tecnicistiche, M. riafferma la necessità di un’immagine integrale dell’uomo per l’educazione, così come è data dal pensiero greco-giudaico-cristiano. L’uomo è indissolubilmente persona, cioè interiorità, spiritualità, totalità e trascendenza, e individualità, cioè materialità, membro della specie e della società. 3. Questa immagine dell’uomo regola la metodologia educativa, che, come l’arte medica, è «cooperativa della natura». Gli agenti principali dell’educazione sono la natura e lo spirito dell’educando. L’educazione è chiamata a incoraggiare e favorire le disposizioni fondamentali della persona (l’amore alla verità e alla giustizia, l’apertura positiva all’esistenza e al lavoro, la disposizione alla cooperazione e alla vita sociale e politica); ad aiutare a liberare il potere intuitivo interiore; a stimolare l’unità spirituale e la sapienza personale; a liberare l’intelligenza invece di sovraccaricarla, mediante il dominio della ragione sulle cose imparate. Una cultura integralmente umanistica, non solo letteraria o artistica, ma anche scientifica e tecnica, è indicata come contenuto dell’«educazione liberale per tutti» (non solo per alcuni pri701

MARXISMO PEDAGOGICO

vilegiati). La scuola, organizzata democraticamente, con forme di autogoverno studentesco, è vista come il luogo privilegiato per l’educazione alla «carta democratica» (diritti personali, civili, politici, libertà, democrazia, eguaglianza, giustizia sociale, libertà religiosa, tolleranza, pluralismo, partecipazione alla promozione del bene comune, doveri civili, coscienza comunitaria e umanitaria, ecc.), pur nel pluralismo delle giustificazioni teoriche e degli approcci metodologici. Bibl.: Dal punto di vista pedagogico è fondamentale: Pour une philosophie de l’éducation, Paris, Fayard, 1969 (nuova trad. it. con ampio commento a cura di G. Galeazzi, Brescia, La Scuola, 2002). Tra gli studi: Viotto P., J.M., Brescia, La Scuola, 51976; Balletta C., Valenze filosoficopedagogiche e implicanze didattiche in J.M., Noli (SV), Natrusso Communication, 2006.

C. Nanni

MARX Karl → Marxismo pedagogico

MARXISMO PEDAGOGICO Più che di una tipica corrente pedagogica, che fa capo a un maestro, con una propria «scuola», si tratta di un complesso di idee e, ancor più, di tentativi pedagogico-educativi, che hanno avuto in K. Marx l’ispiratore e che si sono venuti sviluppando, per oltre un secolo e con modalità differenti, in varie parti del mondo. 1. L’educazione in K. Marx (1818-1883). Vissuto nel cosiddetto secolo pedagogico, non ha avuto, se non di riflesso, interessi educativi, espressi frammentariamente in scritti e prese di posizione orali. Ma quanto da lui scritto a riguardo ha avuto un notevole riferimento a motivo del credito accordato politicamente alla sua socio-filosofia dalle varie forme di comunismo. Nella linea del suo materialismo storico, l’uomo è visto, protagonista e prodotto, al tempo stesso, della storia (e non entità metafisica predefinita), vittima, in una condizione di capitalismo dominante, di un processo di alienazione, vale a dire di estraniazione da sé, e di mercificazione del proprio lavoro, di cui è il «padrone» a disporre. Peraltro l’uomo, essere sostanzialmente socia702

le e storico – a differenza dell’antropologia materialistica di L. Feuerbach (1804-1872), l’individuo è per lui un’astrazione – con la divisione capitalistica del lavoro, viene inserito in una determinata «classe». In una sorta di «darwinismo sociale», la storia è lotta per la supremazia tra classi. La classe proletaria – come si dirà nel Manifesto del partito comunista (1848) scritto insieme con l’amico e mecenate F. Engels (1820-1895) – troverà nell’unione e nella lotta di classe la negazione della sua condizione di soggezione; e con l’abbattimento del sistema capitalistico di produzione, in un lavoro non più alienato, la sua e la comune liberazione. Lotta di classe e lavoro diventano pertanto assi portanti di una diversa formazione dell’uomo che realizzi una società nuova, senza classi, senza proprietà privata e senza stato (tutte espressioni storiche della supremazia borghese-capitalistica ) per un «regno della libertà», e per un uomo sviluppato «onnilateralmente», non più valutato per ciò che produce, ma per ciò di cui è capace e per ciò di cui ha bisogno (cfr. Critica ai programmi di Gotha del 1875). Al contempo ciò permetterà una nuova cultura, in cui teoria e prassi non sono più disgiunte e contrapposte; e in cui struttura economica e sovrastruttura ideale assumono un ruolo di dipendenza reciproca e non unidirezionale, come in regime borghese. Nella critica alla società borghese-capitalistica è coinvolta anche l’educazione e le sue istituzioni: quella familiare, perché nella società borghese «viene spezzato ogni legame di famiglia»; quella ecclesiastica perché è un prodotto storico di → ideologia; quella scolastico-statale, perché lo Stato è il supporto politico del potere della classe borghese dominante, e perciò va rivista in chiave di esplicita socialità e di rispondenza ai bisogni del fanciullo. Sono anche rigettate le scuole professionali del tempo, destinate – a suo parere – solo a una più proficua resa capitalistica del lavoro. La proposta è dunque di una «educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli, abolizione del lavoro dei fanciulli in fabbrica nella sua forma attuale. Combinazione dell’educazione con la produzione materiale, ecc.» (Manifesto). Egli non esclude il lavoro in fabbrica (che poteva andare dalle due alle sei ore, a partire dai nove anni), poiché vede nel lavoro «uno dei più potenti mezzi di trasformazione dell’odierna società». Nelle Istruzioni ai

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delegati del 1866 dichiara: «Per formazione noi intendiamo tre cose; primo: formazione intellettuale; secondo: preparazione fisica; terzo: educazione politecnica, che trasmetta i fondamenti scientifici generali di tutti i processi di produzione e che, contemporaneamente, introduca il fanciullo e l’adolescente all’uso pratico e alla capacità di maneggiare gli strumenti elementari di tutti i mestieri». La formazione morale, non presente in questo testo, è invece sottolineata più volte altrove. Essa non è demandata alla scuola, a cui si affida l’istruzione scientifico-pratica, ma, secondo lui, va gestita soprattutto da altre agenzie (famiglia, associazioni, partito). È appena da notare come tutto il discorso resti fortemente occasionale e asistematico, né è salvo da elementi utopistici, pur non senza spunti di realismo storico e di innovazione sociale, a cui variamente ci si riferirà da parte dei seguaci di Marx. 2. La pedagogia sovietica. Le condizioni storiche della Russia, prive di un capitalismo avanzato, come richiedeva Marx per una rivoluzione comunista, hanno imposto, non senza un’attenta riflessione, una revisione del m. nella sua applicazione sovietica. In sede pedagogica, non sono stati senza influsso gli apporti della cultura russa del secolo precedente: da Pirogov a Cerniševskij, da Caadajev a Ušinskij, da Pisarev a → Tolstoj. Inoltre, al di là delle direttive ufficiali, per un paio di decenni (fino al 1936) sono fiorite, almeno nel campo pedagogico, posizioni variegate e individuali contrastanti. Lenin (1870 – 1924), che aveva delegato alla → Krupskaja, sua moglie, e a Lunačarskij, Commissario per l’educazione, l’attenzione ai problemi educativi, ha tuttavia ribadito alcuni orientamenti fondamentali. Da Marx ha ripreso l’idea dell’uomo nuovo, onnilaterale, da costruire; della cultura, come strumento della rivoluzione e presupposto per la realizzazione del comunismo e, nella situazione di potere in cui è venuto a trovarsi, per il superamento del burocratismo (cfr. esigenza di rivoluzione culturale, in: Sulla cooperazione, del 1923). Convinto della funzione strategica dell’istruzione scolastica ne richiede il prolungamento dell’obbligo fino ai 16 anni e la pensa, come per Marx – senza però approfondirne il concetto – come «scuola politecnica», in cui vi sia un indispensabile col-

legamento con il lavoro. Tipica l’insistenza di Lenin sull’«educazione politica», con alla radice una «disciplina cosciente»; sull’«emulazione» e sul principio del «meglio meno, ma meglio». Rilanciò il concetto «russo» di collettivo e dimostrò attenzione ai problemi delle donne e della gioventù. La campagna di alfabetizzazione per la «rieducazione delle masse», la lotta contro i ragazzi di strada, con la fondazione di istituzioni apposite, non impedirono discordanze sul ruolo della scuola, di cui Šul’gin voleva la «morte»; sul senso della «politecnicità» (per la Krupskaja e altri, per es., avvio alla conoscenza tecnico-pratica della produzione e al lavoro stesso, mentre per → Makarenko, restavano semplice somma di insegnamento e di lavoro, senza alcun collegamento diretto); e infine sul senso dell’educazione stessa e, quindi, della pedagogia (per la Krupskaja e altri legata alla → pedologia, per Makarenko anzitutto al «politico»). La forte rilevanza data dal m.-leninismo al ruolo prevalente del partito e a un concetto pervasivo di dialetticità (il materialismo storico diventa anche dialettico), non sarà senza una qualche ricaduta sul terreno dell’educazione in senso di quasi esclusiva preoccupazione per la formazione del consenso. Con Stalin, poi, e con il suo centralismo che non ammetteva più dissensi e, di conseguenza, con l’introduzione del «culto della personalità», si arriva a un irrigidimento generalizzato e autoritario anche nella politica educativa. Seppure legato alla supremazia socialistico-sovietica e soggetto ad una progressiva e radicalizzata ideologizzazione, che ha represso ogni possibilità di espressione personale di libertà, è innegabile un grande impegno per l’istruzione che ha portato l’URSS a livelli molto alti, anche in un confronto internazionale, e ne ha favorito lo sviluppo scientifico-tecnologico. 3. Educazione e pedagogia nei regimi ad ispirazione marxista - comunista. Il modello pedagogico-scolastico dell’URSS – pur nel clima di «guerra fredda» e di competizione con il blocco occidentale – dopo la seconda guerra mondiale, e fino al crollo del cosiddetto «comunismo reale» del 1989, è stato, di fatto, gradualmente esteso a tutti i Paesi dell’Est europeo, da essa politicamente dipendenti, pur con varianti nazionali. Ed è stato seguito anche da molti Paesi del cosid703

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detto «terzo mondo» o che uscivano dal regime di colonialismo occidentale. Una certa originalità e distanza dal modello sovietico è riscontrabile nel comunismo cinese, che anche in sede pedagogica è stato improntato piuttosto al pensiero e alla politica di Mao Ze-dong (1893-1976). Ma anche in lui – nonostante il suo primo scritto sia stato uno Studio sull’educazione fisica (1917) – la tematica pedagogica resta frammentaria e risente della cultura cinese, che, pur non unitaria, era ispirata principalmente dal taoismo e dal confucianesimo, sui quali Mao innesta il m.-leninismo. Per superare le contraddizioni nel popolo e vincere l’antagonismo dei nemici del popolo, l’educazione è vista anche sempre come rieducazione «dagli errori passati per evitare errori futuri», dando in ogni caso priorità alla pratica («Chi si seppellisce fra montagne di libri, più studia e meno sa» [1954]). Indispensabile in questo processo rivoluzionario la mobilitazione delle masse. Lo sguardo rivolto al «popolo», in una dialetticità di momenti storici nella stessa gestione del potere, fu tra i motivi del distacco dall’URSS staliniana (1960). In questa linea, dalla condanna del culto della personalità (1956), passò all’appoggio della libertà di critica e di dissenso, con il movimento dei «Cento fiori» e delle «Cento scuole» (1957): preludio al lancio della rivoluzione permanente, avviato con la campagna per l’«educazione socialista» e sfociato nella «Grande rivoluzione proletaria culturale», gestita dalle «guardie rosse», nel 1966. Ma l’opposizione interna al partito e la violenza politica, costrinsero lo stesso Mao a moderare quella «rivoluzione» e anzi a far eliminare, tra il 1972-74, la «banda dei quattro» (tra cui la moglie di Mao). Con la 2a Costituzione, viene ad evidenziarsi il declino del maoismo. La rivalutazione degli studi superiori, la creazione di «comuni», gruppi di studio, scuole modello, spinge, da una parte, all’emulazione ma, dall’altra, non allenta la sorveglianza e la repressione (cfr. quella della piazza di Tienanmen del 5 aprile e 4 giugno 1989), nel non facile equilibrio tra difesa dei principi rivoluzionari e le esigenze di una progressiva e prepotente industrializzazione. A esiti simili sembrano irrimediabilmente portare anche i tentativi di instaurazione del modello maxista-sovietico di istruzione negli altri Paesi, come ad es. nel regime comunista cubano instaurato da Fidel 704

Castro e Che Guevara, dopo la vittoria definitiva contro il dittatore Batista (1959), grazie agli aiuti offerti dall’URSS e negati dagli USA. Anche qui acquistano tutta la loro rilevanza pedagogica la lotta contro l’analfabetismo ridotto con una impegnativa campagna di alfabetizzazione (1961), dal 30% al 4%; la costruzione di scuole, specie in campagna, la moltiplicazione dei docenti e delle biblioteche popolari, la riforma progressiva di tutti i livelli di scolarità, università compresa. La costruzione del consenso politico ha portato a dare importanza al1’ → educazione degli adulti e ad iniziative di istruzione popolare, che come in occasione della zafra, raccolta della canna da zucchero, cercano di coinvolgere tutto il popolo fin quasi a fare di tutta Cuba «una grande scuola». Ciò non toglie peraltro non solo l’analfabetismo di ritorno, ma anche la difficoltà di prevedere un futuro di democrazia e di libertà. Queste ambiguità sembrano attraversare anche la rivoluzione sandinista (cosiddetta in quanto ispirata a A. C. Sandino, 1888-1934) che si cercò di attuare in Nicaragua, tra il 1979-1990, anno in cui il partito fu battuto politicamente da libere elezioni. L’esplicita partecipazione dei cristiani ha influito sugli orientamenti generali non solo politici e pedagogici, ma anche relativi alla idea marxista della religione come «oppio dei popoli». Rilevante pure l’educazione dei bambini in età prescolare e degli adulti , delle classi più umili con la creazione di appositi «talleres» (laboratori), in cui si cercava di coniugare istruzione, lavoro e coscientizzazione politica. 4. L’oggi del marxismo pedagogico. Specie nell’America Latina, il m. è stato visto, e da alcuni ancora viene considerato come una fonte ispirativa dei movimenti di liberazione popolare (dei poveri e dei deboli e recentemente degli indigeni) e quindi combinato sovente con il cristianesimo (cfr. la teologia della → liberazione; e la pedagogia di → Freire). Il rischio, dal punto di vista pedagogico, è stato e resta quello dell’indottrinamento, frutto di ideologia negativa, da tutti teoricamente rifiutato, ma praticamente perseguito. È anche da dire che gli indirizzi educativi del m. non hanno avuto come unico punto di riferimento gli Stati in cui si è realizzata una rivoluzione, ma hanno avuto sviluppi, almeno teorici, in pensatori della portata di

MASLOW ABRAHAM HAROLD

Lukàcs, di → Gramsci, di Bloch, di Marcuse, di Sartre e di altri. Oggi nei confronti del m., si danno due orientamenti: quello più «realistico», che lo colloca tra le realtà storiche datate e sorpassate, e quello più «utopisticoprudenziale», che gli riconosce possibilità di sopravvivenza, se non di resurrezione, con una più diretta gestione da parte degli «esclusi dal potere» e, comunque, non senza una precisa e rigorosa assunzione critica. Bibl.: a) In generale: M anacorda M. A. (Ed.), Il m. e l’educazione, 2 voll., Roma, Armando, 1964-1965; Trebisacce G. (Ed.), Materialismo storico e educazione, Cosenza, Laboratorio, 1984. b) Su Marx: M anacorda M. A., M. e la pedagogia moderna, Roma, Editori Riuniti, 1966; Formizzi G., La pedagogia di K.M., Brescia, La Scuola, 1973; Van Si N., Conception de l’éducation chez K.M. et A. Gramsci, Roma, Antonianum, 1980. c) Sulla rivoluzione sovietica: Froese L., Ideengeschichtliche Triebkräfte der russischen und sowjetischen Pädagogik, Heidelberg, Quelle & Meyer, 21963. d) Sulla Cina: Price R. F., Education in communist China, London, Routledge & Kegan, 21975; I d., Education in modern China, Ibid., 1979. e) Sulla rivoluzione cubana: Bernal del R iesgo A., Errores en la crianza de los niños, L’Avana, Instituto del libro, 1970; f) Sulla rivoluzione nicaraguense: Girardi G., Sandinismo, m., cristianesimo: la confluenza, Roma, Borla, 1986. g) Riflessioni attuali: Cambi F., Libertà da... L’eredità del m.p., Firenze, La Nuova Italia, 1994; Salvadori M. L., La parabola del comunismo, Bari, Laterza, 1995; Bidet J. - E. Kouvélakis (Edd.), Dictionnaire Marx contemporain, Paris, PUF, 2001.

B. A. Bellerate

MASLOW Abraham Harold n. a Brooklyn nel 1908 - m. in California nel 1970, psicologo statunitense. 1. M. nasce da genitori ebrei, di origine rus­ sa, poveri sia economicamente che cultu­ ralmente; le sue origini pesano sulla sua in­ fanzia e lo portano a vivere in modo isola­to e infelice gli anni della scuola. L’epi­sodio bellico di Pearl Harbor lo impres­siona profondamente e lo spinge ad assu­mere l’impegno di dimostrare che l’uomo è capace di essere

molto di più di un distruttore. Nel 1962, al Brooklyn Col­lege, dando vita ad una associazione che in­tendeva studiare la → personalità totale e sana, segna la nascita della psicologia uma­nista. Nel 1968 è presidente dell’American Psychological Association ed è soprattutto noto per gli studi sulla → motivazione e l’elaborazione di una gerarchia dei → bi­sogni. 2. Insoddisfatto della teoria della «riduzio­ne della tensione», elabora una teoria del­la motivazione che, accanto ai motivi di ca­renza, considera i motivi di crescita. Men­t re i bisogni di carenza emergono a causa di un qualche deficit che spinge l’organi­smo a ristabilire l’equilibrio turbato, i biso­gni di crescita esprimono la tendenza a ve­r ificare e realizzare le proprie potenzialità. M. ritiene che i diversi bisogni siano orga­n izzati gerarchicamente in cinque categorie fon­d amentali: fisiologici; di sicurezza (bisogni volti a salvaguardare l’integrità fisica e psichica; per es., bisogni di protezione e di­pendenza); di appartenenza e di amore (bi­sogno di sentirsi inseriti in una rete di rela­zioni significative); di stima (bisogno di sentirsi competente e di essere considerato tale dagli altri); di → autorealizzazione. I bisogni sono innati, ma il modo di gratifi­carli è, in massima parte, appreso. Se non si riesce a soddisfare un bisogno, si va in­contro a disfunzioni psichiche o fisiologi­che e il bisogno resta dominante finché non viene gratificato. Se, al contrario, un bi­sogno è costantemente soddisfatto, cessa di avere rilevanza e si verifica la crescita del­la persona: il bisogno gratificato lascia il posto all’emergenza del bisogno più alto nella scala gerarchica. Solo quando la per­sona ha gratificato tutti i bisogni di carenza può impegnarsi nella lotta per migliorare se stessa, per sviluppare appieno le proprie potenzialità, per autorealizzarsi. 3. Il valore del lavoro di M. si può enuclea­re attorno ai seguenti aspetti: a) il suo pun­to di partenza è la personalità sana; b) gerarchizza i bisogni individuando una se­quenza nel loro emergere; c) dà nuove informazioni nell’ambito della psicologia del lavoro evidenziando che chi lavora non è stimolato essenzialmente o esclusiva­mente dai bisogni di sicurezza, ma anche dai bisogni di sviluppare capacità e compe­tenze. Rispetto ai limiti della teoria, 705

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anche le critiche si raccolgono attorno a tre punti: a) metodologia: M. non ha definito chiara­mente i concetti implicati nella sua teoria rendendo impossibile una sua verifica em­pirica; ha usato un campione limitato; non ha documentato a sufficienza i diversi passaggi dell’elaborazione della teoria; b) con­ cetto di → personalità: se la creatività è ca­ ratteristica della personalità autorealizza­t a, ci si deve aspettare che le persone che si trovano ai livelli più bassi della scala ge­rarchica non siano creative; nella realtà, però, spesso, sono proprio le persone mol­to sofferenti ad aver dato vita, per es., ai capolavori dell’arte; c) la gerarchia non sembra includere alcuni bisogni umani che pure sono considerati importanti dalla teo­r ia (per es., i bisogni di crescita e creati­vità). Bibl.: a) Principali opere di M.: Verso una psicolo­gia dell’essere, Roma, Ubaldini, 1971; Religions, values and peak-experience, Harmondsworth, Penguin Books, 1986; Motivazione e personalità, Ro­ma, Armando, 1990. b) Studi: M addi S. - P. Costa, Humanism in personology: Allport, M. and Mur­rey, Chicago/New York, Aldine Altherton, 1972.

D. Antonietti

MASS MEDIA Tecnologie organizzate che rendono possibile la comunicazione di massa. In un senso molto ampio qualsiasi discorso, scritto, gesto, espressione facciale, abito o rappresentazione può essere considerato un mezzo di comunicazione. Ma sempre più il termine media è associato ai media tecnici ed in particolar modo ai m.m. In termini pratici, con m.m. si intendono solitamente i giornali, le riviste, il cinema, la televisione, la radio e la pubblicità, la pubblicazione di libri, l’industria musicale, ecc. Si dovrebbe fare una distinzione tra m.m. e comunicazione di massa. I m.m. possono anche essere utilizzati per scopi individuali, privati o organizzativi. Gli stessi media, che trasmettono messaggi ad una vasta audience per scopi pubblici, possono anche essere utilizzati per annunci personali, messaggi in favore di qualcuno o qualcosa, appelli filantropici, offerte di lavoro e molti altri tipi di informazioni ed espressioni cul706

turali. Nel mondo contemporaneo i confini tra pubblico e privato, tra reti di comunicazione individuale e su larga scala sono sempre più labili. 1. Le istituzioni dei m.m. Si sono suddivise in base al tipo di tecnologia usata: stampa, cinema, televisione, ecc. L’attività principale dell’istituzione dei m.m. è la produzione e distribuzione di contenuto simbolico. Sono organizzati in modo professionale e strutturati burocraticamente. I media si sono sviluppati gradualmente attorno alle attività chiave di pubblicazione e ampia diffusione delle informazioni e della cultura. Con l’avvento della democrazia in tutto il mondo i m.m. tendono ad essere progressivamente liberi, ma in quanto strumenti di controllo sociale, operanti nella sfera pubblica, essi sono andati soggetti a regolamentazione legale. In tutto il mondo sia nei Paesi democratici che in quelli a regime dittatoriale hanno acquistato una forte incidenza sull’opinione pubblica e sono per questo considerati come «potere» ricercato sia dalle maggioranze che dalle minoranze. 2. Libri. Si potrebbe sostenere che la storia dei media moderni cominci con il → libro stampato. All’inizio era solo un mezzo tecnico per riprodurre quello che in precedenza era copiato a mano. Gradualmente i libri attraversarono degli stadi di sviluppo dall’élite, alla massa, a forme di specializzazione. Lo sviluppo tecnologico del procedimento con i caratteri mobili rese possibile la produzione di libri. Ci sono tre tipi essenziali di pubblicazioni: generali, professionali, didattiche. Il segmento più vasto dell’industria è costituito da libri didattici. I libri stanno diventando sempre più media giornalistici, dato che possono essere prodotti in massa e commercializzati rapidamente. Oltre a ciò, la nuova tecnologia dei computer sta accrescendo la capacità del libro di rispondere ai bisogni personalizzati dei singoli comunicatori e lettori. Rispetto ad altri media, i libri sono più individualizzati dato che la loro lettura rappresenta un’esperienza personale. 3. Giornali. La pubblicazione regolare delle notizie risale almeno al 59 a.C., quando i romani affiggevano dei fogli di notizie pubbliche chiamati Acta Diurna. Le parole

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giornale e giornalismo hanno la radice nello stesso termine, giorno, e l’aspetto quotidiano, attuale o tempestivo delle notizie è sempre stato un fattore essenziale dei giornali. Come gli altri media, anche i giornali hanno attraversato degli stadi di sviluppo. Iniziarono come media d’affari e commerciali per un’audience d’élite, poi diventarono gradualmente m.m. per un’audience popolare ed infine si specializzarono per i vari segmenti di audience. In questi ultimi anni i molti giornali dei Paesi avanzati sono diminuiti di numero, ma c’è la tendenza alla creazione di società che posseggono catene di giornali che generano efficienza e profitto. Nonostante lo sviluppo della televisione, i giornali danno ancora impiego al maggior numero di lavoratori e raccolgono la più alta quantità di entrate pubblicitarie. Con la crescita di altri media tuttavia i giornali stanno cambiando: essi sono ora meno interessati alla mera pubblicazione delle notizie e più all’interpretazione e all’analisi delle stesse. Con l’avvento della democrazia in tutto il mondo, inoltre, sono diventati progressivamente liberi e questo processo, a volte, ha assunto la forma di una maggiore sofisticazione dei mezzi di controllo applicati alla stampa. In linea di massima, però, la libertà di stampa è considerata essenziale per la sopravvivenza della democrazia. 4. Riviste e periodici. La prima rivista inglese fu «Review», pubblicata a Londra nel 1704 da Daniel Defoe ed era un incrocio tra un giornale ed una rivista. La prima pubblicazione del genere che usò la parola «rivista» fu «Gentlemen’s Magazine», fondata da Edward Cave nel 1731. Iniziarono nel sec. XVIII per pochi eletti e verso la fine del sec. XIX, grazie ai progressi nella tecnologia della stampa e alla crescita dell’alfabetizzazione, cominciarono a raggiungere un’audience di massa. Nonostante la competizione crescente di altri m.m., in modo particolare della radio e della televisione, le riviste hanno continuato ad essere influenti e forti a livello finanziario, specializzandosi per i vari segmenti di audience. Esse godono di uno speciale vantaggio rispetto agli altri media, dato che possono essere prodotte da uno staff molto piccolo e richiedono un minimo investimento iniziale. Il calo nella circolazione globale delle riviste (a partire dalla

metà degli anni ’80) è stato compensato da un crescente numero di periodici specializzati e diretti a precisi segmenti di pubblico dei lettori. Le riviste a fumetti (per intrattenimento) e i bollettini (per informazione) sono due tipi di periodici, sviluppatisi nel XX sec., che hanno un pubblico di lettori di massa. 5. Cinematografia. La cinematografia, nei suoi cento anni di storia, ha vissuto cambiamenti significativi. Molte scoperte a partire dal 1824 dimostrarono il fascino costante del riprodurre il moto e culminarono verso la fine del XIX sec. con la scoperta di una telecamera cinematografica da parte di Thomas Edison; sono anche noti gli esperimenti dei fratelli Lumière (1895). Dalla metà del sec. XX la cinematografia iniziò ad esprimere i bisogni di una società in trasformazione. Negli ultimi trentacinque anni l’industria cinematografica è molto cambiata; un tempo era la maggiore forma di svago, ma ora serve come fonte primaria di materiale per il mezzo televisivo. Nonostante la competizione, in modo particolare della televisione, il cinema rimane il più internazionale dei m.m. Questo mezzo selettivo va incontro ai gusti e alle ambizioni dei giovani per le tematiche trattate. Nonostante la diminuzione della sua audience diretta, il mezzo gode di una certa centralità come vetrina per altri media e come fonte culturale, dalla quale derivano libri, strisce di fumetti, canzoni, «star» e «serial» televisivi. In questo modo la cinematografia è rimasta una creatrice di cultura. Come mezzo gode della libertà, ma da nessuna parte può esigere pieni diritti di espressione politica ed artistica dato che la maggior parte dei Paesi mantiene un apparato per la licenza, la censura ed altri strumenti di controllo. 6. Radio e televisione. La radio e la televisione hanno molto in comune e quindi vengono trattate insieme, anche se ciascuna meriterebbe di essere affrontata separatamente. La storia della radio è lunga più di 90 anni, quella della televisione più di cinquanta. Rispetto ad altri media essi sono innovativi nel senso che sono basati sulla possibilità dell’osservazione diretta, della trasmissione e della registrazione degli avvenimenti nel momento in cui accadono. Un’altra caratteristica distinti707

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va della televisione e della radio è che l’autorità pubblica ha su di essi un alto potere di regolamentazione, controllo e licenza. I due m.m. hanno in comune un terzo aspetto: storicamente presentano entrambi uno schema di distribuzione centro-periferia e la televisione nazionale è sempre stata associata alla vita politica e ai centri di potere della società. La radio contemporanea è più un mezzo locale che nazionale in termini di audience ed entrate e le abitudini di ascolto sono in larga parte personali. Potrebbe essere definito un mezzo mobile dato che per le persone l’ascolto della radio può rappresentare una seconda attività mentre lavorano o giocano. È sopravvissuta alla dura concorrenza della televisione e si è evoluta in un mezzo nuovo ed aggressivo con frequenze FM e AM che forniscono una varietà di servizi che includono musica, sport, e radiocronache ed un’audience sempre più segmentata. Come la radio, la televisione sta cercando nuove identità e funzioni. Sebbene occupi una posizione dominante nei Paesi avanzati, è un mezzo giovane in crescita e sviluppo; negli ultimi tempi quest’industria sta affrontando la dura concorrenza determinata dall’arrivo di nuove tecnologie. Nonostante ciò, l’intrattenitore, l’informatore, il persuasore è l’educatore di massa della società. Il pubblico ha bisogno di imparare a controllare questo mezzo potente e ad usarlo per i propri scopi invece di essere controllato da esso. 7. Discografia. L’industria discografica include riproduzioni audio e video su dischi, cassette magnetiche e dischi laser. Di tutti i media, questo è il più difficile da trattare dato che sta vivendo i cambiamenti più rapidi e, in futuro, diventerà probabilmente il più potente. Nei suoi confronti, i consumatori possono esercitare un controllo diretto su ciò che vedono ed ascoltano, come pure sul luogo ed il momento della visione o dell’ascolto. Il significato sociale della musica non è stato oggetto di molta attenzione da parte dei ricercatori sulla comunicazione. È comunque un importante strumento di → socializzazione, impegnato nelle cause sociali e con un notevole avvicendamento di talenti e contenuti. La musica popolare trasmessa dai m.m. è stata collegata all’idealismo dei giovani, alla critica politica, ad una presunta degenerazione ed edonismo, all’assunzione 708

di droga, alla violenza e ad atteggiamenti antisociali. Ma occorre ricordare che la musica ha avuto anche un ruolo nei movimenti nazionalisti per l’indipendenza (per es. in Irlanda ed Estonia). Il contenuto della musica non è stato molto regolamentato, ma la sua distribuzione si è concentrata nelle mani di società costituite a questo scopo e le tendenze considerate devianti sono state oggetto di alcune sanzioni. In generale, però, la musica più popolare ha continuato ad esprimere e a rispondere a valori tradizionali e bisogni personali. Con l’avvento di Internet la musica viene distribuita e venduta online. 8. Mezzi telematici e nuovi mezzi elettronici. Il termine telematico indica la combinazione fra televisione e → informatica. Nel processo per la loro realizzazione sono coinvolti molti tipi di tecnologia. I nuovi mezzi telematici sono offerti al pubblico principalmente sotto due forme: il televideo e il videotel. Il televideo mette a disposizione molte informazioni aggiuntive sotto forma di testo, tramite la trasmissione aerea, per integrare la normale programmazione televisiva e può essere richiamato su iniziativa dell’utente. La telefonia tramite Internet, abbinata alla webcam, permette la comunicazione sincrona. I nuovi media includono anche video game e CD-ROM per computer (CD significa compact disc, ROM memoria a sola lettura). I CD-ROM permettono un accesso flessibile e semplice a un’enorme quantità di informazioni tramite dischi che possono essere letti dal computer. La produzione non ha più bisogno di essere concentrata in grandi strutture localizzate in posizione centrale (come per i film o la televisione), né di essere collegata integralmente alla distribuzione (tipico dei film e della televisione), né di essere controllata così centralmente. Con la possibilità di fornire direttamente per via elettronica la stampa nelle case, questi m.m. entrano in concorrenza anche con i vecchi mezzi di stampa. 9. La loro incidenza e la loro rilevanza educativa sono riconosciute da tutti. Un’educazione ai m.m. è auspicata all’interno della scolarizzazione di base e come aspetto di → educazione permanente, di educazione delle comunità e dell’opinione pubblica. Per questi aspetti si rimanda in particolare alla voce → educazione ai media.

MASSONERIA

Bibl.: Farrar R. T., M. communication: an introduction to the field, New York, West Publishing Company, 1988; Gerbner G., International encyclopedia of communications, New York, Oxford University Press, 1988; Hiebert R. E. - D. F. Ungurait - T. W. Bohn, M.m. V, New York, Longman, 1988; Mc-Quail D., Le comunicazioni di massa, Bologna, Il Mulino, 1993; Rondolino G., Storia del cinema, Torino, UTET, 31995; Wang G. - J. Servaes, The new communications landscape: demystifying media globalization, Oxford (UK), Routledge, 2000; Baran S. J. - S. Baran, Introduction to m. communication: media literacy and culture, Mountain View (CA), Mayfield, 2001.

T. Purayidathil

MASSONERIA L’opera realizzata dalla m. in campo edu­ cativo è poco nota. Nella sua tappa medioevale, denominata operativa, la m. die­de prova della sua specifica vocazione edu­ catrice. Così la corporazione di costruttori o massoni, analogamente ad altre corpora­zioni impartì l’istruzione tecnica propria del mestiere. I massoni operativi si preoc­cuparono pure della formazione morale degli apprendisti e dei compagni attraverso un particolare insegnamento esoterico, che cominciava con delle enigmatiche cerimo­nie d’iniziazione nel momento della am­missione degli apprendisti. Servendosi di un supporto rituale proprio, nelle logge medioevali si infuse una spiritualità di ra­dice cattolica e si trasmisero le chiavi sim­boliche dei distinti elementi architettonici. 1. Con la fondazione della Grande Loggia di Londra nel 1717, la m., che aveva speri­ mentato una forte evoluzione nel sec. XVII, cominciò la sua tappa contemporanea o speculativa. Lungo la medesima, i massoni abbandonarono l’aspetto profes­sionale e centrarono le loro mete educative esclusivamente sugli aspetti intellettuali e morali. I principi ideologici generali sui quali fondarono la formazione furono enunciati schematicamente nelle Costitu­zioni di Anderson del 1723, carta magna della m. contemporanea. Questi furono, fondamentalmente, il neutralismo religio­so, politico e filosofico

come fondamento dell’unità istituzionale, il rispetto scrupo­loso delle credenze individuali, il filantro­pismo, l’armonicismo sociale e l’universali­smo. Tali principi furono interpretati e sviluppati filosoficamente, tra gli altri, negli scritti massonici di Lessing, Herder, Göthe, Fichte e Krause. 2. Muovendo dai postulati andersoniani e dai lavori degli autori citati, la m. si collocò su una terza via educativa, caratterizzata dal fatto di situare l’educazione fuori delle tradizioni stataliste e confessionali. Una terza via educativa che, formulata con pre­cisione da → Comenio, Basedow, → Pestalozzi, → Fröbel e da altri pedagogisti vicini alla sensibilità massonica, o loro stessi mas­soni, richiedeva una educazione integrale, indipendente, universalista, tollerante e fi­lantropica. Tuttavia, dalla seconda metà del sec. XIX, molte sezioni massoniche eu­ropee e latino-americane reagirono violen­temente contro le condanne della Chiesa Cattolica, e, influenzate dal positivismo al­lora in auge, si rifugiarono in posizioni ra­zionalistiche, agnostiche e, non poche vol­te, anticlericali e antireligiose, passando a difendere un laicismo educativo radical­mente razionalista e, in fondo, intollerante. 3. Le logge speculative mantennero per i loro affiliati l’insegnamento esoterico ere­ditato dalle corporazioni medievali, arric­chendo i riti e i simboli tradizionali con al­t ri nuovi presi da leggende cavalleresche, ermetistiche, rosacrociane ecc. Ma fonda­rono anche numerose istituzioni docenti, sostenute dal loro sforzo o con la collabo­razione di altre organizzazioni affini, per trasmettere alla società profana i valori che difendevano nelle loro riunioni interne. Tra queste istituzioni, si distinsero l’U­niversità Libera di Bruxelles, le Leghe dell’Insegnamento belga, francese e italiana, l’Associazione Nazionale Italiana per l’I­struzione e l’Educazione Popolare, e un grande numero di piccole scuole che ordi­ nariamente ebbero vita breve. Bisogna sot­ tolineare anche che lo → Scautismo venne a istituzionalizzare le idee pedagogico-massoniche del suo fondatore, il fratello Baden Powell. Bibl.: Tomasi T., M. e scuola dall’Unità ai nostri giorni, Firenze, Vallecchi, 1980; Bartier J., Laïcité et Franc-Maçonnerie, Bruxelles, Univer-

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MASTERY LEARNING

sité de Bruxelles, 1981; Álvarez P. et al., Monografía: Masonería y educación en la historia, in «Historia de la Educación. Revista Interuniversitaria» (1990) 7-182; 277-323; Id., La masonería como escuela de formación del hombre, Madrid, Universidad Comillas, 1996; Á lvarez P. F., La m., escuela de formación del ciudadano: la educación interna de los masones españoles en el último tercio del siglo XIX, Madrid, Universidad Pontificia Comillas, 2005.

P. Álvarez

MASTER → Titoli di studio

MASTERY LEARNING L’espressione ingl. m.l. o l. for m. viene usata ormai a livello mondiale e corrisponde al significato di apprendimento per la padronanza (pédagogie de la maîtrise, Zielerreichendes Lernen, Aprendizaje para el dominio). 1. Il m.l. è una strategia dell’organizzazione/ realizzazione/verifica del processo didattico utilizzabile nelle ordinarie situazioni didattiche di classe, volta a far pervenire tutti gli alunni alla padronanza (m.) intesa come acquisizione di obiettivi (conoscenze e abilità) previsti dal → curricolo. A tale scopo è necessario definire chiaramente le unità didattiche, indicative di obiettivi, contenuti, metodi e mezzi, assicurare i prerequisiti, servirsi della → valutazione cosiddetta «formativa» per individuare tempestivamente carenze, difficoltà, lacune, errori di apprendimento dei singoli alunni al fine di disporre le corrispondenti strategie didattiche (procedure e mezzi integrativi e correttivi). Da questo punto di vista la procedura del m.l. può essere applicata in vari modi anche indipendentemente dalla teoria particolare degli esponenti di tale strategia, ossia J. B. Carroll (1963), B. S. Bloom (1971) e J. H. Block (1978). 2. La strategia si basa su un preciso riferimento teorico enunciato da Carroll il quale sostiene che: a) l’apprendimento scolastico dev’essere gratificante, positivo; b) la maggioranza degli studenti (90%) può apprendere purché l’istruzione sia di buona qualità (buona strutturazione logica delle sequenze; passaggio per m.; conoscenza degli obiettivi) 710

e purché si rispetti il ritmo, ossia si conceda il tempo necessario ad ognuno. Egli introduce quindi un concetto particolare di attitudine, basato sul fattore tempo e rifiuta il ricorso alla curva normale per la distribuzione dei risultati del rendimento scolastico. 3. Al di là della teoria, di stampo behaviorista, che sottende a questa strategia, e dell’uso prevalente dei tests come strumenti di verifica, il m.l. ha influito molto sul rinnovamento della didattica, soprattutto sul discorso della programmazione e della valutazione con tutto ciò che queste operatività comportano, ossia circa la necessità di precisare gli obiettivi, di motivare gli alunni, di diagnosticare le difficoltà e fornire i rimedi (materiali didattici per ripassi ed esercizi) appropriati a ciascuno, di controllare costantemente il progresso degli studenti (valutazione formativa). In questo senso il m.l. può essere considerato anche come una delle migliori tecniche dell’individualizzazione didattica. Bibl.: Block J. H., M.L.: theory and practice, New York, Holt, Rinehart & Winston, 1971; Block J. H. - L. W. A nderson, M.L. in classe, Torino, Loescher, 1978.

H.-C. A. Chang

MATEMATICA: didattica della Disciplina che studia i processi di insegnamento e apprendimento della m. nel contesto scolastico e più in generale formativo (e concretamente il modo di intendere e di praticare tale insegnamento e apprendimento). 1. Natura e sviluppi. Tradizionalmente si coagulava sotto il titolo di → didattica un insieme di suggerimenti e di norme pratiche derivanti dall’esperienza pratica e dalla riflessione critica su di essa. Talora si includevano in essa anche derivazioni più o meno deduttive da principi e teorie di natura filosofica. Non si trattava tanto di una scienza autonoma, quanto di un condensato organizzato e ragionato di quanto di meglio era stato possibile trovare nel contesto dell’attività didattica, oppure di norme e orientamenti proposti come applicazione di concetti e principi di origine teorica. Spesso questi ultimi erano utilizzati

MATEMATICA: DIDATTICA DELLA

per spiegare o legittimare esperienze ben riuscite. Recentemente il quadro è abbastanza mutato. Due tendenze sembrano emergenti: la prima di natura scientifica, l’altra tecnologica. L’approccio scientifico alla didattica della m. è stato propugnato soprattutto in Francia, dove un ruolo non indifferente in questa direzione è stato svolto da vari Centri di ricerca presenti in Istituti Universitari e in collaborazione con insegnanti di scuola primaria e secondaria. Si è voluta impostare tale disciplina come una scienza autonoma, con suoi peculiari oggetti di ricerca e specifiche metodologie di indagine. Il sistema concettuale o quadro teorico di riferimento non è così derivato da altre → discipline o campi di investigazione, ma è originale e, per dirla alla Feyerabend, incommensurabile con i quadri concettuali di discipline anche prossime, come la → psicologia dell’educazione o la → pedagogia istituzionale. Sono stati così sviluppati in modo originale apparati teorici di notevole interesse (Brousseau, 1986). La seconda tendenza vede la didattica della m., come del resto la didattica delle altre discipline, come un «engineering», cioè una mediazione tecnologica e sociale tra le scienze dell’educazione, la m. e le discipline a essa correlate (come la storia della m., l’epistemologia della m., ecc.), e l’azione concreta di insegnamento (Freudenthal, 1978). Il carattere di mediazione implica non solo un lavoro di analisi e interpretazione del dato «scientifico» sotto il profilo didattico, e la progettazione di un itinerario finalizzato e sistematico per l’azione, ma anche un influsso di ritorno, dall’azione realmente esplicata al progetto e alle stesse scienze sia dell’educazione, sia matematiche. 2. La concezione della m. È stato spesso evidenziato il ruolo che ha nell’impostazione dell’azione di insegnamento della m. la concezione che di questa hanno sia il docente che lo studente. È stato elaborato da Pellerey (1983) un quadro di riferimento a due dimensioni che consente di esplorare e descrivere tali concezioni. La prima dimensione contrappone una concezione formale a una sostanziale dei vari concetti e procedimenti. La seconda, considera su polarità opposte una concezione descrittiva e una costruttiva delle differenti conoscenze. Ne derivano quattro quadranti. Il primo riguar-

da una concezione formale e descrittiva: la m. è vista come una scienza già formata e caratterizzata dai suoi aspetti formali. Nel secondo quadrante la m. è concepita come una scienza che ognuno deve ricostruire personalmente approfondendo i significati dei suoi vari elementi costitutivi. Il terzo quadrante si riferisce a processi costruttivi di abilità solo formali mediante esercizi graduati ed esecuzione accurata di algoritmi. Nel quarto quadrante la m. esiste già fuori di noi ben ordinata nella sua organizzazione concettuale, a noi basta scoprirne le varie componenti e i differenti significati. 3. Gli ostacoli epistemologici. Uno dei concetti introdotti dalla scuola francese che ha avuto un buon riscontro empirico è quello di ostacolo epistemologico. G. Bachelard ha introdotto tale concetto definendolo come una pre-comprensione che impedisce l’accesso delle conoscenze a uno status scientifico. Un campo di ricerca, secondo tale filosofo, diviene scienza solo dopo che siano stati superati tutti i suoi ostacoli epistemologici. Per Bachelard la m. per sua natura è priva di questi ostacoli, ma se si riconosce a questa disciplina uno statuto più empirico, allora occorre tenerne conto. È questa la tendenza sviluppatasi a partire dalle indicazioni epistemologiche di I. Lakatos (1976), che considerava la m. come una scienza quasi-empirica. Nell’ambito didattico un ostacolo epistemologico può quindi essere concepito come un complesso di difficoltà concettuali connesse con una teorizzazione non adeguata. Gli errori ripetuti sistematicamente ne possono essere un segnale, in quanto sono il risultato del sistema concettuale dello studente, delle sue intuizioni, dei modi di affrontare i problemi in genere o in particolari ambiti di studio. Il compito dell’insegnante sta nell’aiutare lo studente a prender coscienza delle sue concezioni inadeguate, a scoprirne le inconsistenze o le conseguenze errate e, quindi, a superarle. Diventano perciò necessari interventi didattici mirati e convenientemente strutturati, pena la permanenza di concezioni inadeguate e conseguenti incomprensioni ed errori. 4. La costruzione delle conoscenze matematiche. Si è abbastanza concordi oggi nel sostenere che le conoscenze matematiche 711

MATRIMONIO

possono essere acquisite in maniera significativa, stabile e fruibile solo se il soggetto viene impegnato attivamente nel costruirne i significati concettuali e le abilità procedurali. Le differenze di posizione riguardano i contesti in cui tale costruzione si svolge. Il costruttivismo radicale, detto anche endogeno, che deriva in ultima analisi dalle teorie piagetiane, afferma che ciascuno costruisce il proprio sapere interagendo con l’ambiente e il risultato di questa costruzione ha caratteri pronunciati di soggettività. Il costruttivismo esogeno si appoggia al concetto di apprendistato cognitivo e valorizza il ruolo di un modello che esplicita i processi implicati nell’apprendimento e nel pensiero matematico e guida poi l’acquisizione di tali processi mediante un esercizio prima seguito e corretto da vicino, poi sempre più autonomo. Il costruttivismo dialettico o sociale punta invece sul ruolo della discussione e del confronto interpersonale nello sviluppo di significati e di metodi di lavoro. I tre citati approcci al costruttivismo (endogeno, esogeno e dialettico) possono essere opportunamente valorizzati al fine di garantire la significatività e la stabilità degli apprendimenti.

Bibl.: Lakatos L, Proofs and refutations, the logic of mathematical discovery, Cambridge, Cambridge University Press, 1976; Freudenthal H., Weeding and sowing. Preface to a science of mathematical education, Dordrecht, Reidel, 1978; Pellerey M., Per un insegnamento della m. dal volto umano, Torino, SEI, 1983; Id., Esplorazioni di m., Milano, Mursia, 1985; I d., «Mathematics instruction», in T. Husen - T. N. Postlethwaite, International encyclopedia of education, Oxford, Pergamon, 1985, 3246-3257; Brousseau G., Fondements et méthodes de la didactique des mathématiques, in «Recherches en Didactique des Mathématiques» 7 (1986) 2, 33-115; Pellerey M., «Didattica della m. e acquisizione delle conoscenze e delle competenze matematiche», in M. Laeng et al., Atlante della pedagogia, vol. 2. Le didattiche, Napoli, Tecnodid, 1991, 205-232; R esnick L. B. - W. W. Ford, Psicologia della m. e apprendimento scolastico, Torino, SEI, 1991; A rtigue M. et al. (Edd.), Vingt ans de didactique des mathématiques en France, Grenoble, La Pensée Sauvage, 1994 ; D’A more B., Didattica della m., Bologna, Pitagora, 2001; Id., Didattica della m. e processi di apprendimento, Ibid., 2004; Zan R., Difficoltà in m., Milano, Springer, 2007.

5. L’atteggiamento verso la m. La m. costituisce tradizionalmente per molti allievi una sorgente di ansia e di paura. Un atteggiamento negativo verso la m. può emergere abbastanza presto nel corso dell’esperienza scolastica. Varie ricerche hanno messo in risalto come già in terza elementare emergano segni di tensione. Le esperienze cognitive ed emozionali connesse con l’incomprensione e con l’insuccesso stabiliscono a poco a poco una percezione di sé negativa sia per quanto riguarda la propria capacità, sia per quanto concerne le attese future. Ne consegue una caduta motivazionale e un conseguente minor impegno nello studio, cosa che a sua volta rinforza non solo la paura dell’insuccesso, ma anche il suo verificarsi. Si spiega così come tutte le indagini sia nazionali, sia internazionali abbiano evidenziato un progressivo calo di interesse e di atteggiamento positivo fino a raggiungere per una elevata percentuale di soggetti un vero e proprio rifiuto psicologico. Ne consegue la necessità di impostare progetti didattici che tengano maggiormente in conto questa dimensione dell’apprendimento matematico.

MATERIALISMO → Marxismo pedagogico MATERIE → Discipline MATERNITÀ → Famiglia → Genitori → Matrimonio MATETICA → Apprendimento

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M. Pellerey

MATRIMONIO Nella sua prospettiva globale il m. viene generalmente considerato sia come istituzione che come processo. 1. Il m. in quanto istituzione. Rappresenta quell’atto con cui viene legittimata l’unione coniugale permanente di due partner di sesso diverso, celebrata da un’autorità rappresentativa dell’organizzazione sociale dei due soggetti che lo contraggono, la quale convalida la reciproca volontà delle parti e attribuisce a ciascuno dei due coniugi uno status (quello matrimoniale) e dei ruoli precisi. Tale atto si formalizza e si esprime visibilmente in un rito (civile o religioso) a seconda del tipo di autorità (civile o religiosa) davanti alla quale

MATRIMONIO

esso viene celebrato. È un atto che si completa nel momento stesso in cui si svolge senza la necessità di un perfezionamento successivo. Esso produce degli effetti concreti che sono determinati in base agli ordinamenti legislativi dei singoli Paesi. Il m. quindi costituisce la base giuridica della → famiglia dando fondamento istituzionale (sociale e visibile) ad un sistema di relazioni (familiari) da cui derivano diritti e doveri sia rispetto ai singoli che lo contraggono, sia rispetto alla società che lo ratifica. In particolare esso regola le relazioni dei coniugi, il dovere di tutela dei figli e il processo della successione ereditaria. Tali prerogative richiedono perciò che le unioni siano durature, stabili e fondate su un contratto di sostegno reciproco. Non si tratta quindi di un affare semplicemente privato o individuale, ma sociale e di gruppo. Il m. quindi si è venuto configurando come il fondamento dell’istituzione sociale sia per l’esigenza reclamata dell’esogamia in ordine alla costruzione della società, sia per il divieto dell’incesto, sia per la suddivisione dei ruoli. Si capisce allora perché il m. non possa essere abbandonato al caso e perché la scelta del coniuge sia oggetto di norme precise. Ciò era abbastanza pacifico nelle società semplici e tradizionali, dove la «soggettività» era sacrificata alla «coscienza collettiva» e al controllo sociale. Nell’attuale società complessa, invece la scelta del coniuge e la formazione della coppia stanno sempre più diventando interessi di ordine privato, mentre si viene ponendo in secondo ordine tutto ciò che è struttura e istituzione. 2. Il m. come processo. In questa prospettiva viene considerato come una relazione sociale particolare, dove l’enfasi cade sulla formazione, stabilizzazione, qualità e durata della relazione e sui cambiamenti che avvengono lungo il ciclo della vita familiare. Fattori strutturanti diventano allora lo sviluppo della comunicazione, la distribuzione del potere nella coppia e l’organizzazione degli stili di vita, i modelli di decisione, i processi di apprendimento dei ruoli coniugali, la distribuzione del tempo familiare anche in rapporto al lavoro extradomestico della → donna. La capacità di esprimere adeguatamente i propri sentimenti, pensieri, emozioni, diventa la misura del grado di intimità nella coppia e della frustrazione conseguente nel caso in

cui le attese non vengono soddisfatte. Così quando la qualità della comunicazione è buona, altrettanto lo è la soddisfazione coniugale e la felicità della coppia. Ma quando quella incomincia ad incrinarsi, anche questa ne risente e rischia di deteriorarsi. Ciò costituisce un elemento cruciale della vita di famiglia oggi più ancora che in passato, proprio perché le attese e le domande rivolte al m. sono diventate più esigenti e per ciò stesso meno facilmente realizzabili senza un impegno reciproco di educazione alla vita di famiglia. Ieri ci si aspettava di «fare un buon m.», oggi ci si attende soprattutto un «m. felice». Ciò però predispone ad un più facile accumulo di frustrazioni e quindi a una maggior fragilità della relazione, a un aumento delle patologie coniugali che portano a tassi crescenti di separazioni e di → divorzi, alla diffusione delle unioni libere e di forme di vita di coppia alternative al m. Il trionfo soggettivistico e privatistico dell’amore romantico, se da una parte costituisce il fondamento della coppia, dall’altra non può prescindere da un necessario supporto istituzionale proprio del m., che molto spesso aiuta a risolvere situazioni facilmente dissolvitrici. 3. Le trasformazioni dei comportamenti matrimoniali. Rispetto al passato, in Italia si assiste oggi ad un forte calo dei m.: dall’inizio del secolo infatti quando il tasso di nuzialità era del 7.7 per mille, arrivando anche all’8.2 nel 1963, si è giunti al 6.7 del 1975, al 5.8 del 1978, al 5.3 del 1992, al 4.7 del 2002 e al 4.3 del 2005, anno in cui sono stati celebrati poco più di 250mila m. Rimane stabile infatti dal 2004 al 2005 il numero di m., che passa da 250.764 del 2004 (anno in cui si era raggiunto il minimo storico) a 250.968 del 2005. Continuano invece a diminuire i m. celebrati con rito religioso che scendono a 169.638, il 67,6% del totale (erano il 68,8% nel 2004), mentre quelli con rito civile salgono a 81.330, il 32,4% del totale (erano il 31,2% nel 2004). Prende piede inoltre il fenomeno delle convivenze prematrimoniali, come unioni flessibili, fasi di ingresso e di prova per la vita coniugale. Maggiore precocità dei rapporti sessuali, ritardo nei tempi di accesso al primo impiego stabile, indisponibilità degli alloggi, ingresso più frequente delle donne nel mercato del lavoro, facilitazioni per una più prolungata permanenza nella famiglia di 713

MATURITÀ

origine, sono alcuni fattori, espressione del cambiamento del clima socio-culturale che sta trasformando i tradizionali modelli di nuzialità. Tale evoluzione si è accompagnata a modificazioni anche dell’età al primo m., che ha registrato a partire dagli anni ’60 e fino ai primi anni ’70 una rapida anticipazione. Se tra il 1960 e il 1975 l’età media si riduce di 1,4 anni per i maschi (da 28.6 a 27.2) e di 0,8 anni per le femmine (da 24.8 a 24), ma successivamente, a partire dagli anni ’80, si registra una posticipazione dell’età al m., che passa tra il 1981 e il 1991 da 24.1 a 25.9 anni per le donne e da 27.3 a 28.7 per gli uomini, fino al 2005, quando l’età media dello sposo è attorno ai 32 anni e delle spose a poco meno di 30 anni. Anche la differenza di età degli sposi alle nozze subisce una lenta e progressiva diminuzione da 3.8 anni del 1960 a 2.8 nel 1991 e a 2.9 del 1998. Tali trasformazioni si riflettono anche sui cambiamenti nel modello procreativo. L’evoluzione della natalità, che dal tasso del 27.7 per mille del 1926 è passato al 23 per mille del 1946, al 19.7 del 1964, al 9.7 del 1986, al 9.4 del 2002, ha visto la progressiva posticipazione della maternità ad un’età media per la donna al primo parto di 30.4 anni. 4. Verso una nuova cultura del m. L’esaltazione del principio dell’individualizzazione, dell’autorealizzazione e del privatismo nella rappresentazione sociale del m. non ne facilita l’immagine di istituzione sociale, soprattutto nelle giovani generazioni. Lo stesso ritorno alle radici e «ritorno alla famiglia», da più parti osservato e richiesto, ha bisogno di un’azione educativa e promozionale per rafforzare la coscienza del valore sociale del m. e della sua rilevanza pubblica, sociale e politica. Tutto ciò costituisce infatti una piattaforma di base assai importante per una ormai necessaria ed indilazionabile educazione dei giovani alla famiglia e al m. Bibl.: Galli N., Educazione dei giovani alla vita matrimoniale e familiare, Milano, Vita e Pensiero, 1993; Rossi G. (Ed.), Lezioni di sociologia della famiglia, Roma, Carocci, 2001; Osservatorio Nazionale sulle Famiglie e le politiche L ocali (Ed.), Famiglie: mutamenti e politiche sociali, vol. 1, Bologna, Il Mulino, 2002; Barbagli M. et al., Fare famiglia in Italia, Ibid., 2003; Rossi G. (Ed.), La famiglia in Euro-

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pa, Roma, Carocci, 2003; Donati P. P., Manuale di sociologia della famiglia, Roma/Bari, Laterza, 2006; Istat, Il m. in Italia: un’istituzione in mutamento. Anni 2004-2005, Roma, ISTAT, on-line, 12.02.2007; Id., Indagini multiscopo sulle famiglie (2000-2007), voll. vari pubblicati nel periodo, Roma, ISTAT, 2000-2007; Id., Rapporti annuali sulla situazione del Paese (2000-2007), voll. annuali pubblicati nel periodo, Ibid., 2000-2007.

R. Mion

MATURITÀ Il termine m. si presenta con una varietà di significati (dal suggestivo etimo celtico ma, che sta ad indicare il passaggio dalle tenebre alla luce o il raggiungimento della pienezza del frutto acerbo). In termini generali essa sta per: a) le competenze che costituiscono la meta, vertice e compimento insieme, dello sviluppo di un organismo; b) le competenze adeguate per affrontare una determinata situazione, l’«essere-pronti-per»; c) nel senso comune, leggermente in disuso, l’età intermedia tra la giovinezza e la vecchiaia, considerata come il periodo più pieno e fruttuoso della vita. Il termine descrive, in ultima analisi, il livello più alto e completo di funzionalità di un organismo, come vertice della sua evoluzione o come compito specifico. Implicito nel termine è il riferimento al processo autonomo di maturazione che avviene in ogni organismo attraverso il progressivo evolversi, sotto la spinta di fattori interni e ambientali, verso livelli sempre più complessi e stabilizzati di differenziazione e di integrazione. Si parla di m. fisica, mentale, affettiva, sociale, morale, civile, personale, religiosa e così via. Si può intendere comunque la m. anche a livello globale, come m. umana che nasce dall’interazione dei differenti livelli di m. Nel presente contributo ci si soffermerà sulla m. psicologica, poiché essa costituisce un punto cardine nella costruzione e nella integrazione della m. globale. Tuttavia anche tale approccio richiede si sia attenti alla «antropologia latente», e alle questioni epistemologiche ad esso soggiacenti. 1. L’evoluzione storica del concetto. Da poco più di un secolo il concetto di m. è oggetto privilegiato di ricerca da parte della psico-

MATURITÀ

logia sperimentale e clinica. Questa infatti non può prescindere dall’assunzione di un modello di sanità e di m. (sebbene i due termini, spesso usati come sinonimi, non siano equivalenti, poiché la m. fa riferimento in modo univoco alla «pienezza di salute» e ha come alternativa l’immaturità, che può anche non essere patologica). S. → Freud fa implicitamente coincidere la m. con la capacità del soggetto di fare luce su di sé con coraggio ed estrema onestà permettendo all’Io un indispensabile controllo delle componenti pulsionali della vita psichica. Si opera, così, una mediazione tra le esigenze dell’Es e le istanze del Super-Io. Maturazione come passaggio dal principio di piacere al principio di realtà ed, in ultima analisi, capacità di lieben und arbeiten (amare e lavorare). Negli anni ’50, a livello sociale e culturale, avviene il decisivo cambiamento di orizzonte antropologico dall’ideale di un uomo adattato in modo «non repressivo», all’uomo «autorealizzato». Si tratta, nei termini di Kohut, del passaggio dall’uomo «colpevole» (guilty man) della → psicoanalisi, all’uomo «tragico» (tragic man) che lotta per la realizzazione di se stesso. Dopo gli anni ’50, in consonanza con una prospettiva di uomo non deterministico, si approda a indicazioni «positive» circa la m. umana. → Allport (1968) caratterizza la personalità matura per i seguenti criteri: a) l’estensione dell’io: capacità di dedicarsi a una grande varietà di interessi, e di progettarli nel futuro; b) l’oggettivazione dell’io: capacità di valutazione realistica di sé e degli altri con un senso di umorismo sui limiti propri e altrui; c) una filosofia di vita che crei unità e impegno responsabile nell’azione; d) la capacità di un caldo e profondo rapporto con se stessi e con gli altri; e) la competenza nelle abilità realistiche nella soluzione dei problemi concreti della vita; f) un senso di compassione nei riguardi della condizione umana, in ogni sua espressione individuale e comunitaria. M. Jahoda (1958) individua sei criteri indispensabili per esaminare la funzionalità psichica: 1) gli atteggiamenti positivi verso il Sé; 2) la crescita, lo sviluppo e l’autorealizzazione: 3) l’integrazione; 4) l’autonomia; 5) la percezione della realtà; 6) la padronanza (mastery) dell’ambiente. A sua volta → Maslow (1982), uno dei fondatori del Movimento per lo Sviluppo del Potenziale Umano, propone ben sedici criteri di m.,

in cui sono rilevabili alcune idee-guida: capacità di percepire la realtà in maniera accurata e di accettarla; capacità di privacy e di inventiva; spontaneità, genuinità, creatività e non conformismo nel vedere e valutare le cose; capacità di amicizie valide; capacità di rapporti democratici; senso dell’umorismo e tolleranza; capacità di conciliare gli opposti. Decisivi si rivelano soprattutto gli apporti di → Rogers, di → Frankl e della terapia della → Gestalt. La m. secondo Rogers (1970), è definita come la capacità del soggetto di avere «potere personale». Ciò implica, allo stesso modo che per Freud, la conoscenza autentica di se stessi, ritenuta possibile però da Rogers anche mettendo tra parentesi l’inconscio, grazie ad un clima relazionale non valutativo, di fiducia, di accettazione e di stima positiva reciproca. Nel drammatico contesto dei campi di concentramento nazisti nasce invece la → Logoterapia di Frankl (1977). La terapia della Gestalt presenta la m. come un processo funzionale nel quale il sistema sensorio (consapevolezza della direzione verso cui l’organismo intende muoversi) agisce in intima connessione con il sistema motorio (energia e capacità di portare a compimento l’intenzionalità dell’organismo). A livello relazionale, la terapia della Gestalt descrive la m. della persona come capacità di contatto. Il benessere o il malessere derivano dalla qualità delle relazioni che la persona instaura con l’ambiente (Perls-Goodman, 1971). Comincia inoltre ad apparire centrale nella comprensione della persona, della sua m. come anche della sua eventuale patologia, la prospettiva evolutiva. Non solo si pensa la m. come un compito dello sviluppo e l’autonomia personale come punto di arrivo dello sviluppo infantile (Salonia, 1989), ma, soprattutto con → Erikson, si vede la m. come processo coestensivo all’esistenza e si parla di m. diverse proprie di ogni età della vita. 2. Dagli anni ’70 alla fine degli anni ’80: il principio reciprocità e la società complessa. Negli anni ’70 l’interesse per l’incontro interpersonale come espressione dell’apertura dell’uomo che si autorealizza, si trasforma in quello che possiamo chiamare il principio reciprocità. La relazione supera la prospettiva della «feeling expression» e delle caratteristiche di congruenza ed empatia (Franta-Salonia, 1979) per diventare, in un significativo 715

MATURITÀ

cambiamento di paradigma, chiave di lettura della realtà. Si pensi ai fondamentali lavori di G. Bateson (1976) e agli sviluppi della Terapia della Gestalt. Si può dire che dalla pubblicazione del testo Pragmatica della comunicazione umana (Watzlawick-BeavinJackson, 1971) in poi, la lettura sistemica diventa fattore indispensabile di ogni competenza relazionale: la m. è interpretata all’interno del sistema in cui il soggetto si trova inserito (come il tutto che dà significato alla parte), con la relativa accentuazione della competenza relazionale e comunicativa, e la progressiva sottolineatura della dimensione «ecologica» della m. stessa, vista quale capacità di sentirsi inseriti in totalità tanto ampie da includere perfino la terra ed ogni forma di habitat umano. L’uomo si scopre immerso in una complessità irriducibile che lo costringe a mutare punto di vista sul proprio organismo come sul mondo in cui vive, né l’uno né l’altro comprensibili ormai con spiegazioni lineari e monocasuali, ma leggibili solo con strumenti nuovi, capaci di cogliere la circolarità e l’intreccio tra (e dentro) i sottosistemi ad ogni livello e «tarati» sulle inevitabilità del caos e del disordine, secondo il principio dell’order from noise. L’impossibilità di una osservazione «neutra» ed «oggettiva» all’interno di un sistema complesso, riapre in maniera radicalmente nuova la questione della «conoscenza della conoscenza» rendendo problematica, nel nostro caso, ogni definizione di m. che non espliciti i propri presupposti epistemologici. 3. Le prospettive attuali. Oggi una rinnovata riflessione sulla m. deve tener conto della diffusa «frantumazione sociale» come anche della fine delle grandi appartenenze, scaturita dai mutamenti epocali dell’89, ed è altresì chiamata a misurarsi con il senso di frammentazione del soggetto che non si percepisce integro e coerente e non può porsi quale effettivo interlocutore della complessità e della inestricabilità quotidiana dei messaggi. In una cultura assolutamente restia a tracciare parametri valutativi, la m. si va configurando come apertura della persona alle potenzialità germinali del proprio esserci, nell’abbandono netto di modelli antropologici forti e di ogni cultura dell’eroe, per ritrovare la freschezza e la preziosità di ogni esistenza, pur fragile, debole e ferita. 716

3.1. L’orizzonte dell’interiorità creativa. In una società frantumata, il primo itinerario di maturazione mira al senso dell’integrità personale. La m. è qui anzitutto capacità di contatto con se stesso, disponibilità ad interrogarsi in una mai conclusa conoscenza della propria interiorità, integrazione dei propri bisogni con le proprie intenzionalità e potenzialità, per potersi sentire soggetti attivi, nei propri contesti vitali, capaci di cambiare i vincoli in risorse, grazie ad una aggressività vissuta anzitutto come discernimento critico dei messaggi e positiva forza assertiva, e grazie ad una esperienza integrata della propria immagine corporea («corpo vissuto») non più asservito alla riduzione visiva del «corpo immagine». Tale ritrovamento di sé dentro la frantumazione, ridà forza per sostenere la difficile colpa della separazione e riapre il soggetto alla creatività del gioco − come esplorazione di competenze e relazioni in una dimensione di spontaneità e di leggerezza − e alla forza unificatrice del raccontare, capacità che dà senso alla molteplicità degli eventi. 3.2. L’orizzonte della condivisione. In una società pluricentrica, in cui la struttura gerarchica è sostituita da quella a rete, diventa necessario apprendere nuove modalità paritarie per ricostruire il «noi», come luogo in cui «consegnare» la propria autonomia. Compito drammatico della m. è oggi riapprendere le regole della relazione, scorgendo l’autenticazione dell’unicità soggettiva, nel riconoscimento pieno del valore dell’altro proprio perché differente. Si profila un ethos della parità, che richiede il superamento incessante delle ricadute nella dipendenza e nella controdipendenza (delega, invidia, gelosia, accusa: «il mondo delle chiacchiere») e il congedo coraggioso dalle evasioni narcisistiche nella eccezionalità personale o di gruppo. Il riconoscimento è terreno di lotta (Gadamer, 1983): esso non è possibile effettivamente senza il rischio del conflitto, in cui vengono espresse sino in fondo le reciproche modalità di esistenza e di resistenza (paura/ desiderio di invadere e di essere invasi) e le differenze reciproche emergono con la massima intensità, consentendo così la realizzazione di una situazione nuova e nutriente per i soggetti in gioco (Gadamer, 1983; PerlsGoodman, 1971). In tale prospettiva l’amicizia diventa luogo di apprendimento della ef-

MAZZARELLO MARIA DOMENICA

fettiva compagnia; la relazione amorosa si fa momento di strutturazione dell’esistenza, in un’intimità affettiva e corporea radicalmente collocata dentro l’orizzonte della fedeltà a se stessi e all’altro; il lavoro diventa ambito di collaborazione e di competenza. 3.3. L’orizzonte della responsabilità. In una società sottoposta al rischio dell’individualismo esasperato, percorsi della m. passano attraverso il sentirsi responsabili dell’altro, come capacità di «prendersi cura»: prendersi cura di chi cresce (abbandonando le scorciatoie distruttive del dominio e del convincimento unidirezionale, per lo sviluppo di una educazione propositiva incentrata sul confronto e sull’obiezione); prendersi cura degli ultimi, di coloro che pur abitando la casa comune non usufruiscono degli stessi diritti e delle stesse possibilità degli altri. Si accede alla m. del tempo postmoderno quando ci si sente custodi responsabili anche del fragile, del caduco in quanto tale e dell’umanità futura. Naturalmente gli orizzonti delineati, mentre tentano di indicare le strade della m. percorribili in un presente vario e difficile, presuppongono continuamente un ritrovato senso del limite e del confronto aspro e liberante con le assurdità dell’esistenza. L’interrogativo duro che ad ogni ipotesi di m. viene dalla violenza, dalla guerra come anche dal dolore dei singoli e dalla morte, non può essere eluso: essere maturi significa prima di tutto imparare a cercare un significato umano e una possibilità di crescita anche nel massimo dell’orrore e dello smarrimento, nel tempo della speranza oltraggiata e del terribile silenzio di Dio, non più da eroi, ma da uomini che si fanno carico umilmente della propria debolezza e di quella degli altri. La definizione della m. è costretta a rimanere un work in progress, una domanda aperta per ogni diversa sensibilità culturale. Wege, nicht Werke (sentieri, non opere), direbbe Heidegger, perché nella m. non conviene forse parlare di definizioni o di parametri, ma di sentieri aperti. Bibl.: A llport G. W., Psicologia della personalità, Zürich, PAS-Verlag, 1968; Perls F. - R. Hefferline - P. Goodman, Teoria e pratica della terapia della Gestalt, Roma, Astrolabio, 1971; Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1976; Franta H. - G. Salonia, Comunicazione interpersonale, Roma, LAS,

1979; M inuchin S., Famiglie psicosomatiche, Roma, Astrolabio, 1980; Maslow A. H., Motivazione e personalità, Roma, Armando, 1982; Gadamer H., Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1983; Freud S., Il disagio della civiltà, X, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, 553-563; Salonia G., Dal Noi all’Io-Tu: contributo per una teoria evolutiva del contatto, in «Quaderni di Gestalt» 8/9 (1989) 45-54; H illesum E., Diario, Roma, Adelphi, 1990.

G. Salonia

MATURITÀ: diploma di → Titoli di studio

MAZZARELLO Maria Domenica n. a Mornese (AL) nel 1837 - m. a Nizza Monferrato (AT) nel 1881, educatrice italiana, confondatrice con don → Bosco dell’Istituto delle Figlie → di Maria Ausiliatrice. 1. Nata e vissuta in ambiente rurale di sane tradizioni religiose popolari, ma aperta e sensibile alla situazione femminile del suo tempo, M. si propone come un’educatrice attenta e sollecita, con un proprio stile, in sintonia profonda con il → sistema preventivo di don Bosco. L’incontro decisivo della giovane mornesina con il Santo (1864) orientò, infatti, un cammino di ricerca e di realizzazione della missione educativa da lei già iniziato. Membro attivo di un’associazione femminile laicale (Figlie di Maria SS. Immacolata) aperta ad una missione apostolica caritativa ad ampio raggio, M. ricercò e scoprì la sua vocazione educativa lasciando il lavoro dei campi per rivolgersi alle ragazze di Mornese. Cogliendone, infatti, la necessità di aiuto ed accompagnamento graduale e completo, iniziò con alcune compagne (1863) un laboratorio di cucito, quindi un piccolo internato (1864) che si trasformò in una casa-famiglia (1867). Don Bosco orientò, tramite don D. Pestarino, il piccolo gruppo che aveva colto sensibile e in sintonia con la sua proposta educativa: e con un susseguirsi di alterne vicende giunse alla fondazione in Mornese dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, religiose che nel nome di Maria si dedicarono all’educazione delle giovani «specie le più povere ed abbandonate» (1872). M. guidò con sapienza e con l’esempio di vita i 717

MEAD MARGARET

primi passi dell’istituto nella realizzazione di un progetto di vita religiosa che fa dell’educazione delle giovani una via di santità (1872-1881). Il collegio di Mornese ebbe poi la sua espansione a Nizza Monferrato (1879), quindi, ancora vivente M. a S. Cyr (Francia) (1877), in Uruguay (1878), in Argentina (1879): denominatore comune la preoccupazione formativa delle ragazze, attraverso lo studio, il lavoro, la vita di preghiera, la serena e familiare convivenza. 2. Intuitiva ed aperta, M. riuscì a creare un ambiente educativo pervaso di semplicità e di spontaneità, ma contemporaneamente impregnato di serietà, di impegno culturale, di chiarezza di mete alla luce dei valori evangelici. Chiarezza di interventi, convergenza nelle mete e nei mezzi, concretezza nelle proposte: un progetto educativo condiviso dalle prime educatrici alla scuola della parola e della vita della madre. M. si rivelò capace di proporre il raggiungimento di una identità femminile atta ad affrontare con serietà la vita e con competenza la società, fondandosi, secondo la visione cristiana della vita a cui era stata formata, su un’armonica fusione di valori evangelici assimilati ed armonizzati con quelli umani. Nelle sue poche e preziose lettere troviamo indicati i suoi principi di vita, espressi con sano realismo (la brevità e la preziosità dell’esistenza!) e quell’attenzione alla persona, quel «prendersi cura» dell’altro che caratterizzava la sua vita. Bontà, delicatezza di tratto, ma fermezza e chiarezza nell’agire; ambiente sereno ed operoso; collaborazione e corresponsabilità fra educatori, e fra e con gli educandi; intesa serena con le famiglie; ricerca di modalità adatte secondo tempi e luoghi: tratti che ancora oggi caratterizzano l’azione educativa delle Figlie di Maria Ausiliatrice in fedeltà alle origini, ma aperte alle esigenze dell’oggi. Bibl.: Posada M. E (Ed.), Attuale perché vera. Contributi su S.M.D.M., Roma, LAS, 1987; Cavaglià P., «Linee dello stile educativo di M.M. L’arte del “prendersi cura” con saggezza e amore», in P. Cavaglià - P. Del Core, Un progetto di vita per l’educazione della donna. Contributi sull’identità educativa delle FMA, Ibid., 1994, 131-162; Cavaglià P. - A. Costa (Edd.), Orme di vita tracce di futuro. Fonti e testimonianze sulla prima comunità delle FMA (1870-1881), Ibid.,

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1996; Posada M. E. - A. Costa - P. Cavaglià, La sapienza della vita. Lettere di M.D.M., Roma, Istituto FMA, 2004; Fernández A. M., Le lettere di M.D.M. Testimoni di una mediazione carismatica, Roma, LAS, 2006.

A. Deleidi

MAZZINI Giuseppe → Risorgimento

MEAD Margaret n. a Philadelphia nel 1901 - m. a New York nel 1978, antropologa statunitense. 1. M., allieva di Franz Boas e Ruth Benedict, si trova ad operare dopo l’apertura della scuola statunitense alle teorie europee e, in particolare, al pensiero di S. → Freud con l’indirizzo di «cultura e personalità» di R. Linton e A. Kardiner. In questo contesto, in un primo periodo M. si pone due obiettivi: da una parte persegue la ricerca sul campo di piccola area, tipico della scuola boasiana; da un’altra, integra questo primo obiettivo, sia teorico che metodologico, prendendo come specifico campo d’indagine il processo di costruzione della personalità individuale nell’ambito del relativo apprendimento culturale. In questa prospettiva M. dedica particolare attenzione agli esiti culturali dei tratti biologici e comportamentali della differenza sessuale. Scopo di questo taglio d’analisi è l’identificazione delle caratteristiche culturali salienti e specifiche, in opposizione al determinismo biologico, ed assunto di base è che ogni cultura seleziona, tra le varietà dei possibili comportamenti «naturali», un segmento limitato e conforme ad una «configurazione» psico-culturale. Dal punto di vista metodologico, inoltre, M. è tra i primi antropologi ad avvalersi degli strumenti e delle tecniche di registrazione audio e fotografica. 2. In un secondo periodo, su scala maggiore e con risultati teorici discussi, M. prende in considerazione la formazione e l’esito psicologico degli individui adulti con l’obiettivo di delineare e definire il loro «carattere nazionale». È questo un ulteriore sviluppo degli interessi iniziali di M. ma anche dell’indirizzo di «studi di comunità», volti a rintracciare il modello fondamentale e specifico dell’agi-

MECCANISMI DI DIFESA

re di una comunità, con l’obiettivo dichiarato, in questo caso, di contribuire attraverso la conoscenza alla comunicazione dei diversi Paesi del mondo ed eliminare l’incomprensione ed il sospetto reciproci. A partire poi da questa prospettiva ed in collaborazione con altri antropologi statunitensi (come R. Benedict), sotto il patrocinio dell’Unesco, nel periodo dell’immediato secondo dopoguerra, M. prende parte ai programmi di «antropologia applicata» allo sviluppo dei paesi non industrializzati. L’analisi antropologica è centrata sulla trasformazione culturale indotta dal processo di modernizzazione e di innovazione tecnologica delle comunità, nel tentativo di rispettare i valori culturali locali.

sentimenti, atteggiamenti, comportamenti. Possono essere adattivi o patologici. Sono adattivi quando sono in grado di garantire all’Io un sano equilibrio, che permette di non compromettere l’esame della realtà. Sono disadattivi, o patologici, allorché sono usati in modo troppo intenso, coatto e ripetitivo e quindi non tengono più conto della realtà. In questo caso, l’Io rischia di impoverirsi e di disintegrarsi, dal momento che le sue risorse vengono interamente consumate in operazioni di difesa. Esistono m. difensivi più primitivi, quali la proiezione, l’introiezione, la scissione, l’idealizzazione, la negazione e l’identificazione proiettiva, e m. difensivi più evoluti, quali la razionalizzazione, la compensazione e la sublimazione.

3. Infine, durante tutto il suo percorso di studio M. dedica particolare attenzione agli aspetti educativi (valori, strategie ed esiti) messi in atto dalle diverse culture, semplici e complesse, oggetto delle sue ricerche.

2. I principali m.d.d. sono: a) Annullamento: correzione, riparazione o espiazione di pensieri o azioni investite da pulsioni rimosse. Ciò viene simbolicamente raggiunto attraverso pensieri o azioni che hanno un significato opposto. b) Diniego: rifiuto di riconoscere un aspetto disturbante della realtà. A differenza della negazione, non c’è l’esplicitazione di un’espressione verbale negativa. c) Formazione reattiva: rovesciamento nel loro contrario di idee, desideri, azioni rimosse. L’individuo cioè cerca di soddisfare in qualche modo quanto è rimosso accentuando ed esaltando a livello cosciente l’esatto opposto. d) Identificazione: processo con cui l’individuo assimila un aspetto di un’altra persona e si trasforma in parte o in tutto nel modello di quest’ultima. Attraverso tale m. l’Io tenta di sfuggire da una situazione psichica angosciante, cercando l’altro come contenitore. Ci sono diversi tipi d’identificazione: progressiva, regressiva, con l’aggressore, con l’altro sesso e proiettiva. e) Intellettualizzazione: ricorso esasperato al pensiero astratto, al fine di evitare il contatto con le proprie emozioni. Un modo tipico è quello di rifugiarsi nelle generalizzazioni e in narrazioni in terza persona. f) Isolamento: separare, a livello di coscienza, i pensieri o le azioni dai contenuti emotivi. L’individuo è incapace di sperimentare con- temporaneamente gli aspetti cognitivi ed affettivi di una situazione. Con il ricorso a tale m. l’individuo può diventare cosciente di contenuti mentali rimossi, non invece degli aspetti emotivi ad essi connessi e viceversa. g) Negazione: m. per cui l’in-

Bibl.: a) Fonti: tra le opere di M. trad. in it.: L’adolescente in una società primitiva: adolescenza in Samoa, Firenze, Editrice Universitaria, 1954; Maschio e femmina, Milano, Il Saggiatore, 1962; Antropologia una scienza umana, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1970. b) Studi: H arris M., L’evoluzione del pensiero antropologico. Una storia della teoria della cultura, Bologna, Il Mulino, 1971; Callari Galli M., Antropologia e educazione. L’antropologia culturale e i processi educativi, Firenze, La Nuova Italia, 1975; Colleredo S., Un amore oltre l’orizzonte. Vita e viaggi di M.M., Torino, Einaudi, 2003.

M. Squillacciotti

MECCANISMI DI DIFESA Processi psichici attraverso cui l’Io si protegge o dalle pulsioni o dal Super-Io o da → stress provenienti dal mondo esterno, avvertiti come dolorosi ed insopportabili. 1. I m.d.d. sono il sedimento di modalità strutturatesi nella prima infanzia per far fronte a situazioni conflittuali, fonte di angoscia. Essi agiscono in modo prevalentemente inconscio, e quindi automatico, e si manifestano attraverso pensieri, percezioni,

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MEDIATORE INTERCULTURALE

dividuo, pur manifestando un desiderio, un pensiero, un sentimento, un comportamento, fino allora rimossi, si difende, negando che gli appartengono. Nella negazione viene implicitamente affermato quanto si sta negando. h) Proiezione: esistono due tipi fondamentali di proiezione. I. Proiezione attributiva: quando l’individuo sposta inconsciamente su un altro caratteristiche sue proprie, di cui però ha coscienza. II. Proiezione difensiva: quando l’individuo sposta inconsciamente su un altro caratteristiche sue proprie rimosse, perché fonte di angoscia. In questo secondo caso, ciò comporta una fuga dalla responsabilità dei propri pensieri o comportamenti ed un’attribuzione al mondo esterno di desideri o proibizioni provenienti dal proprio mondo interno. i) Razionalizzazione: processo di giustificazione, per cui l’individuo cerca di dare delle spiegazioni coerenti dal punto di vista logico a sentimenti, idee e azioni, di cui a livello conscio non sono percepite le vere motivazioni. In altri termini, l’individuo deforma inconsciamente la realtà esterna allo scopo di trovare una spiegazione razionale ad emozioni o comportamenti determinati dal proprio mondo interno. l) Regressione: ritorno a degli stadi anteriori di sviluppo, di pensiero, di relazioni oggettuali, di strutture comportamentali. L’Io ricorre alla regressione, allorché è esposto a situazioni di frustrazione. La fase di sviluppo verso cui ritorna è connessa al punto di fissazione (orale, anale o fallica) più o meno rigida della libido. La regressione può essere adattiva, quando è facilmente reversibile ed è al servizio dell’Io, per cui da essa ricava sollievo, o disadattiva, allorché l’Io regredisce ad un punto tale, da perdere il contatto con la realtà in modo irreversibile, come nel caso della psicosi. m) Rimozione: difesa primaria dell’Io. Essa sta all’origine della formazione dell’inconscio. Il suo obiettivo è quello di allontanare dalla coscienza pulsioni e loro derivati (pensieri, sentimenti, emozioni, ricordi, desideri) fantasticati come minacciosi. n) Scissione: secondo → Freud, comporta il sorgere di due atteggiamenti psichici dell’Io nei confronti della realtà esterna: l’uno tiene conto della realtà e l’altro la nega e la sostituisce con un prodotto del desiderio. Secondo → Klein è il considerare se stessi o gli altri come totalmente buoni o totalmente cattivi, per cui viene meno la capacità di cogliere, entro un 720

quadro d’integrazione, gli aspetti positivi e negativi di sé o degli altri. o) Spostamento: un’idea, un desiderio o un’azione sono indirizzati verso un oggetto (persone, animali, cose, situazioni) più accettabile e meno angoscioso rispetto a quello originario. p) Sublimazione: incanalamento, attraverso una modulata inibizione, di idee, sentimenti, comportamenti potenzialmente disadattivi, connessi con le pulsioni libidiche o aggressive, in idee, sentimenti, comportamenti socialmente accettabili. Esempi classici di tale m. sono l’attività artistica, la competizione sportiva, la ricerca intellettuale. Bibl.: White R. B. - R. M. Gilliland, I m.d.d., Roma, Astrolabio, 1977; Freud A., «L’Io e i m.d.d.», in Opere, vol. 1, Torino, Bollati Boringhieri, 1978, 151-265; Nicasi S., I m.d.d.: Studio su Freud, Milano, Il Saggiatore, 1981; Poláček K., I m.d.d. nel contesto educativo, in «Orientamenti Pedagogici» 43 (1996) 1009-1033; Lingiardi V. - F. M adeddu, I m.d.d.: Teoria, valutazione, clinica, Milano, Cortina, 2002.

V. L. Castellazzi

MEDIA EDUCATION → Educazione ai Media

MEDIATORE INTERCULTURALE Non è possibile definire in modo rigido la figura professionale del m.i. La stessa denominazione, infatti, è messa in discussione da quanti preferiscono parlare di «m. culturale» o definirlo in altro modo, sottolineando aspetti diversi del suo ruolo e profilo professionale. Per comprendere la sua identità cercheremo di precisare i vari elementi che ne specificano la figura professionale. Possiamo anzitutto dire che si è cominciato ad avvertirne la necessità con il cambiare delle condizioni e dei progetti degli immigrati: stabilizzandosi nel territorio nazionale hanno bisogno di essere riconosciuti come interlocutori delle istituzioni e come soggetti di cui vanno rispettati i diritti e riconosciuta la diversità etnica, culturale e religiosa. 1. Il m.i. può essere visto, pertanto, come una risposta istituzionale, in una società che di fatto si riconosce come multietnica, e che incontra difficoltà di accoglienza, di

MEDIOEVO

inclusione sociale e di capacità di risposta ai bisogni delle persone immigrate per difficoltà di relazione, di comprensione e di comunicazione. Vi è quindi bisogno di un operatore sociale che sia capace di fare da m. in situazioni di specifiche prestazioni da parte dei servizi per agevolarne l’accesso e l’uso da parte degli immigrati; di facilitare la comunicazione e comprensione tra gli operatori istituzionali e gli stessi immigrati per favorire il riconoscimento e l’accoglienza dei bisogni, aiutando a gestire eventuali conflitti; di facilitare i contatti, incoraggiare l’interazione e lo scambio, aiutando a riconoscere le differenze e le specificità culturali, linguistiche e religiose. 2. Il m.i., pertanto, presta la sua opera a livello concreto orientando gli immigrati ai servizi pubblici e privati di cui hanno necessità e facilitandone l’accesso; facilita le relazioni e rimuove barriere di incomprensione attraverso la sua competenza linguistica e culturale; cerca di superare distanze e precomprensioni attraverso un’opera di negoziazione e interscambio tra identità culturali diverse. Per poter fare tutto questo deve avere un’ottima competenza linguistica sia in riferimento all’italiano che ad un’altra lingua; deve essere anche un buon comunicatore ed avere capacità di gestione di eventuali conflitti e tensioni che possono nascere a motivo dell’incomprensione e/o della difficoltà di accettazioni di regole che possono contrastare con abitudini e patrimonio culturali del luogo di origine; conoscere ed essere aggiornato circa l’ordinamento istituzionale della nazione che accoglie. 3. Secondo Massimiliano Tarozzi (1998) gli ambiti fondamentali nei quali il m.i. può intervenire efficacemente sono i seguenti: 1) Situazioni di emergenza, nelle quali è necessario facilitare l’accesso a un servizio, aiutare a interpretare una situazione, a facilitare un inserimento scolastico più adeguato. Tutti questi sono interventi legati all’emergenza e quindi a termine; 2) Funzione di back office, come consulenza e supporto ai responsabili di servizio pubblico e privato per tutto quello che può essere utile per l’espletamento del loro servizio rispettoso della condizione degli immigrati; 3) Animazione interculturale; superata l’emergenza, sarà importante l’at-

tenzione alla diversità delle culture per essere in grado di valorizzare le differenze come risorse per il bene comune. 4. Per un compito così importante e delicato il m.i. ha bisogno di un’adeguata formazione. Oltre ai corsi che si svolgono a livello locale (per es. le province di Roma e di Reggio Emilia) alcune università (Trieste, Padova, Venezia) hanno istituito dei corsi di laurea per consentire una preparazione adeguata a questa professione. Bibl.: Tarozzi M., La mediazione educativa. «M. culturali» tra uguaglianza e differenza, Padova, CLUEB, 1998; Belpiede A. (Ed.), Mediazione culturale. Esperienze e percorsi formativi, Torino, UTET, 2002; Beccatelli Gurrieri G., Mediare culture. Nuove riflessioni tra comunicazione e intervento, Roma, Carocci, 2003; Petilli S. et al., M.i. Un’esperienza formativa, Roma, Sinnos, 2004.

V. Orlando

MEDIOEVO Illitteratus, sed morali experientia doctus è, a dire di Sicario di Cremona (MGH, SS 31, p. 165), Federico Barbarossa [1]: un esergo più che pertinente per le annotazioni che seguono. La storia dell’educazione lungo il M. non può essere costretta nei termini della storia delle Istituzioni scolastiche, con la quale tuttavia collude [1]. La scuola, pur nelle sue disparate accezioni, non raccoglie che una sparuta minoranza, e questa prevalentemente maschile. La stragrande maggioranza matura alla vita, quando avviene, in contesti diversi: la famiglia anzitutto, il parentado, le consociazioni di varia indole, gli apprendistati, le botteghe, i cantieri, i laboratorii, l’episcopio o la canonica, e la corte principesca o regale. Il controllo di codesti ambiti può certo riuscire arduo, ma è di certo ineludibile. La nostra voce deve così includere e la complessiva evoluzione della vicenda (1.), e il censimento, almeno, delle variegate proposte (2.), delle concorrenze più significative (3.) nella valutazione della storiografia più accreditata; per concludere sugli esiti (4.). 721

MEDIOEVO

1. Evoluzione storica. Anzitutto un cenno di periodizzazione. È ovvio che il discrimine che fa capo al 476 è del tutto convenzionale. Tra la Tarda Antichità del sec. IV e l’Alto M. del sec. VII le vischiosità sono innumerevoli e della più disparata indole [2]. Sulla metà del sec. VI, tragicamente decisiva, deflagra però la peste giustinianea, che, dimezzando complessivamente la popolazione del mondo romano, stabilisce una prima lugubre cesura. E altrettale divario opera, a valle dell’Evo Medio, l’altra peste, la Grande, che spopola l’Occidente sulla metà del sec. XIV [3]. Tra l’una e l’altra funerea iattura si inscrive la nostra storia. 1.1. Secc. VI-VII: la persistenza della educazione antica. La travagliata convivenza tra Romani e Barbari, se impone ai primi forzosa rassegnazione, non accorda per ciò stesso agli altri sfrontata esuberanza. Indiscutibile era per i sopravvenienti la dignità e il prestigio della cultura degli indigeni; e tanto consente, negli insediamenti barbarici, in Africa, in Spagna, nella Gallia meridionale e in Italia, la relativa sopravvivenza delle idealità e delle metodologie della cultura già accreditata. Allorché in Spagna, ove i Visigoti erano entrati come alleati dell’Impero, il principe svevo Miro chiede all’arcivescovo Martino di Braga, originario a sua volta della Pannonia (†579), prospettive di condotta degna, ne ottiene una Formula vitae honestae. Codesta guida alla rettitudine non si appella alle acerbe prescrizioni evangeliche, ma propone, togliendolo a → Seneca, il programma delle quattro virtù cardinali. Non ci riesce di sapere se Miro ne abbia tratto profitto, ma sta di fatto che il sistema basato sulla quadriga virtutum, manterrà, fino a tutta la Rinascenza carolingia e oltre credito persistente [4]. In Italia, Severino Boezio († 584), illustre rampollo d’una delle più quotate famiglie senatorie, propone manuali scolastici per lo studio delle discipline del Quadrivio e traduce e commenta, sull’esempio delle iniziative alessandrine, parte dell’opera logica di Aristotele, introdotta dalla Isagoge di Porfirio. Il suo De consolatione philosophiae, concepito sotto il segno del Commento di Macrobio al Sogno di Scipione, e redatto ormai da detenuto, è pervaso di umori stoici e platonici. Un altro illustre funzionario di Teodorico, Cassiodoro († 580), avanza il progetto d’una Scuola superiore di scienze religiose, onde 722

completare e coronare le scuole di mera retorica. Il disegno fallisce a Roma, ma si concreta in Calabria, nel Vivarium. Le Institutiones, che ne raccolgono le prospettive, costituiscono un vero e proprio manuale delle sette → arti liberali (grammatica, dialettica, retorica, aritmetica, geometria, astronomia e musica), ormai integrate all’interno d’una più comprensiva cultura sacra, congruamente corredate di bibliografia assortita [5]. Un altro senatore, formatosi anch’egli nella scuola antica e finito sul soglio di Pietro, Gregorio Magno († 604), si è rivelato, nonostante reiterate renitenze un eccellente pedagogo. La sua Regula pastoralis, un manuale per la formazione del buon pastore, vescovo o semplice prete, si guadagna tosto tanta stima da passare per accreditato, accanto alla Scrittura e alle determinazioni canoniche [6]. Straordinariamente importanti sono anche i Dialogi, una collezione in quattro libri di biografie edificanti atte a proporre compiute esemplificazioni di vita riuscita. In Spagna, → Isidoro di Siviglia († 636), di formazione monastica, ma tosto vescovo, raccoglie, nelle Etymologiae, la più consultata enciclopedia che il M. trovi disponibile. Venti libri che condensano tutta la cultura fruibile, dalle arti liberali alla medicina, al diritto, alla letteratura ecclesiastica e profana, alla cosmologia, alla guerra, allo spettacolo, al lavoro umano e agli strumenti che lo servono [7]. 1.2. La prima insorgenza della scuola clericale. La Chiesa non aspetta il totale degrado delle istituzioni antiche per organizzarne di proprie. Da tempo c’è chi eccepisce che riesumare proditorie espressioni della cultura pagana possa conferire alla formazione cristiana degli incolti, minori o adulti che siano. Meglio attenersi alla saggezza garantita dei testi scritturistici. È codesto cauto proposito a suscitare e sorreggere le nuove istituzioni, monastiche, episcopali o parrocchiali che siano; ed è del tutto naturale che resti appannaggio dell’iniziativa ecclesiastica il perseguirne la realizzazione. Raccolto sotto la presidenza di Cesario di Arles († 542), già monaco a Lérins, il Concilio di Vaison (529) dispone l’istituzione di scuole aperte all’educazione di ragazzi, sia che auspicabilmente si votino alla clericatura, sia che intendano restare laici. In nessun caso si coglie che i vescovi manifestino a quest’epoca particolare interesse per le arti liberali. La frattura tra

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la programmazione classica e la nuova è ormai consumata. È invece sicuro merito della iniziativa benedettina l’aver raccolto, con il retaggio della nuova cultura, l’impegno di riassettarne i contenuti, riducendo eccedenze e ricuperando improvvide remissioni [8]. In Britannia, lungo tutto il sec. VI, la cultura celtica si è sviluppata in relativo isolamento; tosto però la evangelizzazione reca sulle isole britanniche il fascino della tradizione romana. La perfusione che progressivamente vi si consuma suscita sì alti fervori da travasarne la fecondità prima sulla Gallia e quindi su tutto il continente. Per l’indigeno il latino resta tuttavia idioma estraneo. Si sarebbe potuto tradurne i prodotti utili; e invece si preferisce impararlo. Anzitutto ricorrendo a Donato [9.10], e poi accedendo gradualmente alle produzioni eccellenti che il latino ha espresso. Ed eccolo il segreto incentivo del reiterato peregrinare di Benedetto Biscop († 690), abate, tra Jarrow e Roma, gravato ad ogni rientro da sarcine di libri. Jarrow è l’una delle grandi abbazie della Northumbria, cui si deve la formazione di Beda il Venerabile († 795). Oblato, settenne a Wearmouth, si era tosto stabilito a Jarrow, ove insegnò incessantemente per quarant’anni. Non si può non richiamare taluno dei suoi titoli: De orthographia, De schematibus et tropis, De metrica ratione, e poi il De rerum natura, e soprattutto la Historia ecclesiastica gentis Anglorum, la più trascritta, nel seguito, delle produzioni di Beda. Quando egli morì, il suo discepolo Egberto ebbe modo di raccogliere l’oblazione di Alcuino, cui passò esaltati i nuovi interessi culturali, preparandolo con ciò stesso a divenire l’istitutore dell’Europa carolingia. 1.3. Concorrenze laicali. Per quanto volenterosa, l’iniziativa benedettina non può manifestamente coprire l’intiero continente, né sovvenire a tutte le necessità del caso. È facile sorprendere presso le corti dei varii dignitarii giovani dignitarii servire quali apprezzati funzionarii. Il caso di Didier († 655), futuro vescovo di Cahors, può riuscire esemplare. Deve alla propria famiglia la prima educazione; la madre, anzi, ne conforta la maturazione, consegnando a patetiche lettere le sue trepide aspettative. Alla corte di re Dagoberto, ove incontra altri giovani intenti a prepararsi sotto la direzione del prefetto di corte a futuri incarichi amministrativi, Didier lavora a sua volta come tesoriere.

Alla stregua della madre di Didier, più d’un ecclesiastico, vescovo o abate, è chiamato a disegnare congrue prospettive per ogni buon proponimento, dando così vita ad una cospicua serie di proposte di comportamento, gli Specula, un genere che troverà nel seguito prossimo e remoto pertinace interesse. Paolino d’Aquileia († 802) compone, prima del 799, un Liber exhortationis ad Heiricum, per il duca Eric di Friuli, l’uno dei più abili generali di Carlomagno; Alcuino di York († 804), dedica prima (ca. 800) un De virtutibus et vitiis al margravio Wido di Bretagna, e quindi (801-4) la Disputatio de rhetorica et de virtutibus a Carlomagno; Smaragdo di St.-Mihiel († 825-30), una Via regia (814-16) a Luigi il Pio; Giona d’Orleans (t 843), un De institutione regia a Pipino I d’Aquitania; Sedulio Scottus († 860), un Liber de rectoribus christianis, a Lotario II, e per finire, Hincmaro di Reims († 882), un De regis persona et de regis ministerio (873), più un De ordine palatii, a Carlo il Calvo [11]. 1.4. Sec. VIII-IX: il riordino carolingio. Di una via regia, re Carlo aveva di certo impellente bisogno. Venuto alla cultura solo da adulto, penò non poco per apprendere da Pietro di Pisa rudimenti elementari, ma si giovò della intelligente assistenza di Alcuino († 804). Con una Admonitio generalis e l’Epistola de litteris colendis inaugura la produzione legislativa scolastica, cui concorreranno i suoi successori: «Si persegua in ogni vescovado e in ogni monastero la lettura dei Salmi, il canto, il computo e lo studio della grammatica; e altrettanto facciano le parrocchie rurali nel loro piccolo» [12.13.14]. Il volenteroso impegno si realizza al meglio nelle grandi abbazie: St.-Denis, St.-Wandrille, St.-Riquier, Corbie, Reichenau, St.-Emmeran, St.-Gallen. Lungo il sec. IX le supreme cure passano, prima a Luigi il Pio (778-840), e quindi a Carlo il Calvo (823-877). Con il primo collaborano validamente il tedesco Rabano Mauro († 856), abate di Fulda e poi arcivescovo di Magonza; e l’aquitano Giona d’Orléans († 843), vescovo della stessa. A Rabano la nostra storia deve una Institutio clericorum, un manuale ormai convenzionale per la formazione del clero, e poi un De rerum naturis et verborum proprietatibus et de mystica earumdem rerum significatione, una singolare enciclopedia, che, se raccoglie per un verso l’eredità di Isi723

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doro di Siviglia, per l’altro la sopravvanza, corredandone sistematicamente le materie con assortite illustrazioni. A Giona viene anzitutto accreditato un De institutione laicali. Il conte Manfredo, destituito nell’828, perché ribelle, da Luigi il Pio, gli aveva chiesto qualche indirizzo di vita onesta per quanti uxorio vincolo ligantur. Giona replica con un manuale di vita morale. Uno speculum per laici, tosto affiancato dal De institutione regia sopra citato. A Carlo il Calvo presta la propria esuberante cooperazione l’arcivescovo di Reims, Hincmaro († 882). Influentissimo in terra franca e scrittore fecondo, dedica al suo sovrano il De regis persona e il De ordine palatii di cui sopra. Anche lo scottus Sedulio dedicava il suo Liber de rectoribus christianis (855-59) a Lotario II; e se la penuria di fonti non consente di ipotizzare collaborazioni ulteriori, la composizione si rileva uno dei prodotti più interessanti che la nostra storia possa riesumare nel periodo. Sull’esempio della Consolatio boeziana esso propone venti capitoli di prose intercalate da tratti in versi di metro sempre variato. La dignità regale è radicalmente ministeriale nel contesto della trascendente dominazione di Dio. Devono per ciò stesso riuscire ineccepibili e il servizio e il servitore. Nello stesso arco di tempo insiste il singolare Liber manualis accreditato a Dhuoda di Settimania. Aveva sposato, nell’821 a Aix-la-Chapelle, il conte Bernardo di Settimania, ed ebbe da questi Guglielmo, cui, sedicenne, è dedicato il Liber. Redatto a Uzès tra la fine dell’841 e l’inizio dell’843, vuole essere per l’adolescente primogenito l’affidabile guida del vero aristocratico [15.16]. 1.5. Sec. X-XI: Infausti inceppamenti. Le iniziative carolingie si esauriscono lentamente sull’inizio del sec. X. E tuttavia il pregiudizio di un torpido globale offuscamento, a trista conseguenza delle sciagurate irruzioni di Normanni, Ungari e Saraceni, è decisamente smentito dalla storiografia più aggiornata e attenta [17]. Persistono generose velleità. Re Alfredo il Grande (849-901), nel Wessex, aspira a ricreare i fasti di Carlomagno; e Ottone I (912-973), anch’egli Grande, perseguirà, con qualche successo in Italia, analoghi propositi. Resta confortante, nonostante l’una o l’altra contingente riserva, una residua vitalità delle istituzioni monastiche, mobilitate e rinvigorite dalle riforme cluni724

siane. Particolarmente feraci sono, ai nostri interessi, Cluny, anzitutto, ove Oddone († 942), di famiglia aristocratica e colto di suo, prima canonico di s. Martino di Tours e poi abate, si occupa appassionatamente di scuole e nella Vita S. Geraldi confessoris, biografia del conte Geraldo d’Aurillac, morto cinquantenne, può proporre un persuasivo ideale di vita compiuta. E poi Fleury, ove opera, autorevole e fecondo, l’abate Abbone († 1004) e si può leggere, redatto da tale Isembardo, uno Speculum puerorum. E quindi Micy; St.-Martial di Limoges; Fécamp; Jumièges; Mont St-Mihiel; Bec-Helloin, in Francia. Nelle terre dell’Impero, Corvey; Gandersheim, ove poetessa, drammaturga e commediografa, Hrosvitha († ca. 1000) può proporre, pur ispirandosi a Terenzio, scenografie volenterosamente edificanti a illetterati e meno [16]; Tegernsee; St. Emmeran; Reichenau; St. Gallen. La produttività monastica dedica precipuo interesse alla agiografia. Però più che mera ricerca di tutorio patrocinio, essa tende ormai ad accreditare al titolare tal corredo di virtù da sollecitare discretamente volenterosa emulazione. Il santo, oltre che provvido protettore, autorevole mediatore nei confronti d’una divinità imperscrutabile, è anche esempio canonizzabile di vita compiuta [18.19]. 1.6. Scuole municipali. Il ricupero e lo sviluppo degli spazi urbani, maggiori e minori, in Italia anzitutto, e poi qua e là in Europa a cominciare dal nord, offre all’educazione nuove opportunità. Ovunque prosperano, più o meno floride scuole municipali. A Reims opera Gerberto d’Aurillac († 1003), docente illustre nell’insegnamento delle arti del quadrivio, finito precettore di Ottone III, e poi papa col nome di Silvestro II [20]. A Chartres, Fulberto († 1028) avvia la scuola che diventerà famosa nel sec. XII [21]. Lo schema delle Sette arti, cui codeste scuole ancora si affidano, sollecitato ormai per più versi, è prossimo ad esuberare da ogni lato [22]. La rilettura cristiana lo aveva piegato a funzioni propedeutiche nei riguardi della scienza sacra; ora il ricupero di eterogenee eppur feconde tradizioni classiche, facenti capo a Plauto, Terenzio, Cicerone, Catullo, Ovidio, Seneca, Giovenale, Orazio, Servio (cfr. il Libellus scholasticus di Egbert di Liège) rendono turgido lo schema in vista di venture efflorescenze [23.24].

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1.7. Sec. XII-XIV: Le nuove effervescenze. Venendo al sec. XII, e ai seguenti XIII e XIV, convenzionalmente la storia dell’educazione cede a quella delle istituzioni scolastiche: la scuola episcopale, per il primo, e l’università, per gli altri. Quanto sia fallace codesto affidamento può essere significato al meglio dal Lai d’Aristote di Henri des Andelys, attivo a Parigi tra il 1220 e il 1240 [25]. Aristotele rimprovera ad Alessandro corriva condiscendenza nei riguardi di certa concubina, da cui però viene lui stesso sedotto. Morale: se non può nulla la scienza contro la seduzione femminile, una compiuta educazione non può essere delegata alla scuola. 1.7.1. Sussidii tecnici. Gli espedienti atti a raggiungere la preponderante massa di soggetti, per i quali la scuola non è nemmeno remota evenienza, si fanno ora innumeri. Resta tuttavia ancora intentato il controllo esaustivo di tutte le disponibilità fruibili. Anzitutto nell’ambito delle tecniche letterarie. I progressi a partire dal sec. XI, dell’alfabetizzazione [26.27] inducono la proliferazione di sussidii disparati, sia per l’apprendimento della mera arte dello scrivere [28], sia, a fini di più sostanziale profitto, nella manualistica grammaticale. Straripano le tradizioni di Donato e Prisciano; e mentre la Summa Prisciani di Pietro Helias (ca. 1150) trova l’onore di essere accolta nello Speculum doctrinale di Vincenzo di Beauvais († 1264), nel 1199, per l’acculturazione dei due nipoti del vescovo di Dol-de-Bretagne, Giovanni de la Mouche, Prisciano in persona deve vestire contro voglia le incomode misure dei 2645 esametri del Doctrinale di Alessandro di Ville-Dieu († 1240) [9.29]. Ancora ad esordienti, giovani e meno, sono dedicate le Artes dictaminis, tra la fine del sec. XI e il sec. XIV. Esse rappresentano prima una ricerca di stile, e poi la rassicurante convenzionalità delle varie cancellerie, municipali, ecclesiastiche o principesche. Scuole diverse, facenti capo a Bologna, Orléans e Parigi, formano innumeri precettori e tecnici, tra Alberto di Montecassino († 1087) e Lorenzo di Aquileia († 1300) [30]. Ma oltre all’arte della composizione, c’è, per l’adulto accreditato, quella della comunicazione omiletica: l’Ars praedicandi [31.32], alimentata a sua volta, da sussidii di varia indole, florilegii, bestiarii, fiorarli, lapidarli, e quant’altro [33.34]. Inequivoco urge l’assillo per la varietà degli interlocu-

tori. Monaci e monache, canonici, prelati e chierici semplici, studenti, coniugati, donne, artigiani e professionisti; gli esterni, giudei, musulmani, catari e quant’altro; sono tutti fatti oggetto di peculiare discrezione. Ulteriore attenzione merita la drammatizzazione. Benché circolino discretamente e Plauto e Terenzio, non è ad essi che il Ludus medievale si ispira; è piuttosto l’equivalenza ludus sive exemplum che accredita la drammaturgia lungo il sec. XI e seguenti. Le fatali eccedenze che la secolarizzazione induce sono debitamente censurate. La Eruditio didascalica di Ugo di St.-Victor († 1141) prevede la theatrica [35.36]. Oltre che in sacra rappresentazione, la vivacità dell’animazione si produce in epopee allegoriche di varia indole e misura, rubricate Altercano, Certamen, Conflictus, Causa; che mettono a confronto l’uomo e la morte, la carne e lo spirito, i vizii e le virtù, e financo le complementari adolescenze di Elena e Ganimede, Fillide e Flora, Fiorenza e Biancofiore. E non è tutto, giacché di animazione si alimenta il ricupero della favolistica del Novus Hesopus o del Novus Avianus, ad edificazione dei piccini e meno [37.38]. Ogni comunicazione resta tuttavia precaria se non se ne sollecita la congrua assimilazione. E così l’educazione medievale dedica alla mnemotecnica l’interesse, che, in temperie di prevalente oralità, non può non meritare [39]. 1.7.2. Trattatistica pedagogica. Un sì imponente arsenale di tecniche letterarie è naturalmente funzionale nei confronti della cospicua produzione pedagogica disponibile. Si tratta anzitutto di trattatistica strategica, e meramente programmatica e positivamente prospettica. Un esempio eccellente di trattatistica programmatica è proposto dal già citato Didascalicon o Eruditionis didascalicae libri septem di Ugo di St.-Victor († 1141). Altrettanto apprezzabile è l’Heptateuchon di Teodorico di Chartres († a. 1155), un’imponente introduzione all’enciclopedia delle scienze, particolarmente documentata circa le fonti cui di caso in caso attinge. La trattatistica prospettica, in una temperie in cui un diffuso platonismo sollecita brame e nostalgie del Valore assoluto, vede affluenze più che volenterose. Il misterioso Onorio Augustodunensis († 1152) delinea le sue ardimentose prospettive prima nel De animae exilio et patriae e quindi nella Scala coeli; 725

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Herrad di Landsberg († 1195), badessa di Hohenburg, in Alsazia, le adotterà per le sue consorelle nel suo Hortus deliciarum. Bernardo Silvestris († ca. 1160) dedica a Teodorico di Chartres, la sua Cosmographia, conclusa nel 1147. Attingendo, più che alla Bibbia, a Virgilio e Ovidio, delinea nella sua prima parte, aperta al megacosmos, come il Noùs metta ordine e bellezza nell’universo, in cui si incastona l’uomo, il microcosmos, del quale la seconda parte dell’elaborato racconta la formazione, con l’aiuto di Urania e Fysis, e dice il difficile equilibrio. Analoghe coordinazioni tenta Alano di Lille († 1203), con il Deplanctu naturae (ca. 1165) e l’Anticlaudianus (ca. 1182). È degna di nota, a questa data, la simpatia per → Aristotele, contro Platone, che Alano apertamente dichiara [40]. Evochiamo per ultimo lo Speculum universale, il capolavoro di Randolfo Ardens († 1200), non ancora apprezzato per quel che merita. Anch’egli, consapevole della strutturale fragilità dell’uomo, ne dispone la progressiva maturazione in un sistema di acquisizioni virtuose, un equilibrio in cui si compongono virtù ponderative (Virtutes discretivae), virtù affettive (Virtutes affectuosae, amativae o odiativae), e virtù spregiative (Virtutes contemptivae). Da richiamare anche qui che neanche Randolfo può avere sottomano i dati che Aristotele consegna alla sua Etica nicomachea [41]. La produzione prospettica, non più complessiva, ma in certo modo monografica, cui può proficuamente attingere una storia della pedagogia, non è ancora inventoriata. Qui non possiamo che segnalare gli ambiti più promettenti. La Narrativa anzitutto, sia che si esprima in epopea, in romanzo, in mera storia: dall’anonimo Roman d’Eneas (a. 1170), dall’Alexandreis di Gualtero di Chatillon († 1184), al De duabus civitatibus di Ottone di Freising († 1158), alla Historia ecclesiastica di Pietro Manducator († 1179), allo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais († 1264) [42.43]. Immediatamente al seguito, la Agiografia [44]; sia che si esprima in composizioni seriali, sia che proponga monograficamente singole Vitae, sia che selezioni in exempla comportamenti notevoli. Lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, appena citato, apre non meno di novecento dei suoi tremilaottocento capitoli a Vitae e Miracula [45.46.47]. Tipici nel genere restano e la Legenda aurea 726

di Giacomo di Varazze († 1298) [48], e i più contenuti Speculum sanctorale del domenicano Bernardo Gui († 1331) e Sanctiloquium sive speculum legendarum del benedettino Guido di Chartres († 1350). Queste due ultime rubriche consentono di richiamare ancora il genere degli Specula, di cui abbiamo fatto menzione ai primordii. Naturalmente ci sono specula per tutti: per il semplice cristiano (Speculum humanae salvationis); per il laico (Sp. laicorum); per il chierico (Sp. clericorum); per il ragazzo (Sp. puerorum); per i reggitori in carica o in aspettativa (Sp. principis) [11.49]; per le loro consorti (The mirror of the Queen) [50.51]; per le vergini (Sp. virginum) [52]; per le beghine (Mirouers des simples ames anienties di Margherita Porete, † 1310); per il curiale e il cavaliere (Policraticus di Giovanni di Salisbury, † 1180; Libre del Ordre de Cavalleria, di Raimondo Lullo, †1316) [53.54]; per il magi- strato esordiente (Sp. iuris di Guglielmo Duranti Speculator, †1296); per il libertino giulivo (Sp. amatorum mundi o peccatoris); per lo sciocco idiota (Sp. stultorum di Nigel Wireker, † 1207). Per tutti e ciascuno la prospettiva di un comportamento esemplare [45.55.56]. Le strategie più elaborate esprimerebbero tuttavia mere velleità se non se ne perseguisse la disciplinata prosecuzione. Di ciò si occupa pertinacemente la trattatistica tattica; ed è facile immaginare quanto risulti opulenta e zelante la strabiliante concorrenza. C’è anzitutto la produzione propriamente catechetica dalle misure minime dei settenarii (vizii, virtù, doni dello Spirito S., opere di misericordia) [57.58.59], all’Elucidarium di Onorio Augustodunensis († 1140), nel quale l’avventura umana è inserita tra il primordiale avvio e l’esito definitivo. Altissima qualità dimostrano il De sacramentis christianae fidei di Ugo di St.-Victor († 1141); il Compendium theologicae veritatis di Ugo Ripelin († 1268); il Breviloquium di Bonaventura di Bagnoregio († 1274); la stessa Summa theologiae di Tommaso d’Aquino († 1274), proposta ad eruditionem incipientium; e comunque il Rotulus pugillaris di Agostino di Dacia (t 1285), elaborato pro instructione iuvenum. La produzione omiletica, immensurabile, e tuttavia manifestamente pertinente, in particolare per le insistenti applicazioni ad status, ha già riscosso attenzioni mirate. Qui basterà richiamare i saggi complessivi

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già citati [32.33.34.60] e una preziosa nota di A. Vauchez [61], dedicata alla diffusione e alla recezione del messaggio religioso. Un terzo genere di trattatistica tattica raccoglie la produzione parenetica, essa pure considerevolissima e per buona parte raccolta nel prezioso repertorio di M.W. Bloomfield [59]; dalla Disciplina clericalis di Pietro Alphonsi († 1140); al De disciplina scholarium (1230-40) dello Ps. Boezio; allo Speculumi maius di Vincenzo di Beauvais; alla Vita scholastica di Bonvisin da la Ripa († 1315); al De institutione vitae di Riccardo Rolle di Hampole († 1349); all’Horologium sapientiae di Enrico Suso († 1366). Non può essere trascurata inoltre la produzione censoria. Anche qui qualche provvido consuntivo ci facilita il compito, giacché il genere risulta affollatissimo. Le rubriche di cui codesta storiografia si interessa possono riuscire repellenti. Ma ciò non toglie che, a partire dal Corrector et medicus (Decretorum l. XIX) di Burchard di Worms († 1025), le varie Summae confessorum, i varii Manualia curatorum, gli innumeri Poenitentialia, raccontano più di quanto non si immagini dell’indefessa condiscendenza che, in una sorta di persistente educazione , sollecita l’uomo del M. a ricuperare per continuare a vivere [62.63.64]. La produzione maggiore di Giovanni di Freiburg († 1298), una Summa confessorum e il Tractatus de instructione confessorum, apprezzatissimi, può riuscire, nel caso, esemplare. Non vogliamo tralasciare, per finire con la pubblicistica pedagogica tattica, il contributo che viene al riguardo dalla satira. Che essa si produca in latino o in volgare, in prosa o in versi, in privato o sul proscenio, di certo fa da estrema acerba sanzione, in un contesto già culturalmente evoluto e perciò suscettibile di sofferenza e capace di nausea. Dall’Ysengrinus di Nivard di Gand († 1148), al Pange lingua Magdalenae di Filippo di Grève († 1236), tutti, con altri innumeri censori, assolvono al meglio il loro serioso compito [65.66]. 2. I destinatarii dell’educazione. Stante il costo dei materiali scrittorii e le difficoltà tecniche della riproduzione dei testi, il M. vive in costante oralità [67]; una oralità, per giunta, che, fatte salve marginali eccedenze, è sostanzialmente monodica. A gestirne infatti il sistema non c’è che il clero, il soggetto

cui è sopravvenuto l’onere suppletorio d’ogni residua iniziativa. Di contro, per ciò stesso, a sostenere il ruolo di destinatario, non c’è il minore, cui convenzionalmente si accredita naturale duttilità, ma il laico, l’uomo attuale o potenziale cristiano, tra battesimo e unzione. Naturalmente egli attraversa, evolvendo, stagioni diverse. Isidoro di Siviglia ne conta non meno di sei: infantia, pueritia, adolescentia, iuventus, gravitas e senectus (Etym., XI, 2). E però ben di più e di meglio può esprimere il recente saggio di J. A. Burrew, The ages of Man (Oxford, 1986). 2.1. Il minore: modelli culturali. Le valutazioni tanto minimaliste quanto sommarie di P. Ariès (1970, 1973) hanno comunque sortito l’esito di concentrare sul tema dell’infanzia medievale interessi prima lesinati. Segnaliamo qui qualche consuntivo: M. Winter, Kindheit und Jugend im Mittelalter (Freiburg, 1985); R. Carron, Enfant et Parenté dans la France médiévale, Xe-XIIIe siècles (Genève, 1989); S. Shahar, Childhood in the Middle Ages (London, 1990); A. Giallongo, Il bambino medievale. Educazione e infanzia nel M. (Bari, 1990); D. Alexandre-Bidon, Grandeur et renaissance du sentiment de l’enfant au Moyen Age, in «Histoire de l’Éducation» (1991, 39-63). Prima e durante e dopo le età più duttili, legittimo o bastardo, il ragazzo medievale assume auspicati o forzosi ruoli di sicuro rilievo. A otto anni Jean de Brie († ca. 1379), conduce al pascolo le oche, a dieci accudisce ai maiali, a quattordici provvede a duecento ovini, diventa quindi intendente di un consigliere parlamentare, frequenta l’università, è presentato a corte, ove Carlo V di Francia gli sollecita la stesura del Traité de l’art de bergerie, che lo renderà famoso. I ruoli meglio identificabili possono essere ricondotti a tre, l’ultimo dei quali è di fatto plurimo. Il primo è l’oblatura, una sorta di professione religiosa presuntiva. La Regula Benedicti e le Consuetudines monasticae descrivono il rito: durante la liturgia della Messa, il genitore presentando le offerte avvolge anche la mano del figlio nella tovaglia dell’offertorio; poi sottoscrive eventualmente la cessione; spetta quindi all’abate benedire il saio e rivestire il ragazzo dopo averlo tonsurato. Non senza traumi, ma senza soverchie angustie, come annota M. Lahaye-Geusen, Das Opfer der Kinder: Ein Beitrag zur Liturgie und Sozialgeschichte des Mönchtum 727

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im Hohen Mittelalter (Altenberge, 1991). Studente è infatti un altro dei ruoli che il ragazzo medievale riveste, come e quando può. Un ruolo multiforme, giacché assume indole e consistenza in contesti disparati. Diversa è infatti la situazione dello studente nel chiuso del chiostro, da quella dello studente in locazione nelle dipendenze della cattedrale, o ospite del docente affidatario, o nel collegio accreditato, o presso l’una e l’altra delle molteplici disponibilità dell’università (L. Moulin, La vie des étudiants au Moyen Age, Paris, 1991). Un terzo ruolo proposto al ragazzo medievale, di fatto molteplice, è quello dell’apprendistato, ovviamente aperto alle innumeri disponibilità fruibili, qualora naturalmente di caso in caso gli riescano. Esso comincia appena a suscitare l’interesse che merita. Si controllino H. Felzer, Jugend in der mittelelterlichen Ständegesellschaft. Ein Beitrag zum Problem der Generationen (Wien, 1971); Les entrées dans la vie, initiations et apprentissages (Nancy, 1982). 2.2. L’adulto: modelli culturali. Come abbiamo lasciato intendere, l’uomo medievale non può mai considerare conclusa la propria preparazione alla vita. Questa, oltre tutto, si apre a stadii intemporali, rispetto ai quali ogni previo avvio non può che essere provvisorio. Come non tentare di soccorrere l’assillo dell’adulto con congrua sollecitudine? Naturalmente, così come si presta al bambino, al ragazzo e all’adolescente assistenza tatticamente assortita rispetto ai ruoli che in concreto essi sviluppano, così anche qui è espediente altrettale determinazione. E di fatto dai Praeloquia (934-36) di Rather di Verona († 974) agli esuberanti sermonarii di un Raoul Ardent († 1200), di un Alano di Lille († 1203), di un Pietro di Poitiers († 1205), di un Giacomo di Vitry († 1240), o di un Guiberto di Tournai († 1284), i chierici non hanno cessato di interessarsi da presso alla vita del laico, e domestica e professionale, consapevoli dei triboli che fatalmente lo affliggono. È anche qui scontato che, al fine di serrare allo stremo l’essenziale, non si può non schematizzare, e nel caso lo si può fare senza pregiudizio sulla scorta di consuntivi già accreditati. Consideriamo affidabili: H. Fichtenau, Lebensordnungen des 10. Jahrhunderts. Studien über Denkart und Existenz im einstigen Karolingerreich (Stuttgart, 1984); H.-W. Goetz, Leben im Mittelalter vom 7. bis 728

zum 13. Jahrhundert (München, 1986); L’uomo medievale (Bari, 1987). Il controllo degli apporti che essi recano alla storia che ci interessa rivela particolarmente promettenti il ruolo del laicato, anzitutto, nelle peculiarità che lo sostanziano, la sessualità, la nuzialità e la famiglia; il ruolo della professionalità (ministerium), che pratica in agricoltura, artigianato, mercatura, milizia e officialità amministrativa; il ruolo della clericatura, che esprime pastorale, predicazione e scolarità; e quello, naturalmente della vita monastica o regolare, che importa, oltre alle espressioni già sostenute dalla caricatura, anche certa tensione a vita di più esaltata perfezione. Circa il laicato e le sue peculiarità suggeriamo il controllo del saggio complessivo di A. Vauchez, Les laïcs au Moyen Age. Pratiques et expériences religieuses (Paris, 1987); e delle monografie che elenchiamo: J. Goody, The development of the family and marriage in Europe (Cambridge, 1983); D. Herlihy, Medieval households (Harvard, 1985); J. A. Brundage, Law, sex, and Christian society in Medieval Europe (Chicago, 1987). Nell’ambito delle professionalità (ministeria) si può considerare fruibile la miscellanea già citata, L’uomo medievale (Bari, 1987). Il ruolo denominato milizia e cavalleria, per una storia della pedagogia medievale che voglia restare proba, deve essere ristudiato. Il cavaliere resta soprattutto un uomo di guerra, e di tanta peculiarità prende piena coscienza già sugli inizii del sec. XI. L’orgoglio di appartenere ad un lignaggio di prodi lo esalta, contrapponendolo al resto del laicato. Il reclutamento inoltre finisce poco a poco per essere riservato alla discendenza, maschile ovviamente, che il corpo coopta nella cerimonia dell’investitura: una cerimonia laica all’origine, lungo la quale si rimettevano al quindicenne postulante l’arma e l’armatura. E così la classe si chiude su se stessa, e dacché vive di guerra, effettiva o mimata, non può sempre riscuotere i consensi altrui. L’ideale di un umanesimo cavalleresco deve essere probabilmente ridimensionato. Riescono in ogni caso espedienti il saggio di J. Fiori, L’idéologie du glaive. Préhistoire de la Chevalerie (Genève, 1983), e i contributi di F. Cardini, condensati nel capitolo «Il guerriero e il cavaliere» del già citato L’uomo medievale (pp. 83-123). All’officialità amministrativa, alle difficili virtù che essa esige, è aperta la miscellanea cura-

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ta da J. Fleckenstein, Curialitas. Studien zu Gründfragen der höfischritterlichen Kultur (Göttingen, 1990). Per la clericatura resta ancora fruibilissimo il saggio di F.W. Oediger, Über die Bildung der Geislichen im späten Mittelalter (Leiden, 1953). Per il tratto antecedente concorre validamente il più recente contributo di J. Laudage, Priesterbild und Reformpapsttum im 11. Jahrhundert (Köln, 1984). Sulla vita monastica e regolare, la bibliografia è enorme. Il più recente consuntivo fruibile è il Medieval monasticism. Forms of religious life in Western Europe in the Middle Ages, di C. H. Lawrence (London, 1989); avvia, oltretutto, compiacentemente a bibliografia più impegnativa. 3. Le istituzioni attive. Evochiamo anzitutto la → famiglia. Tipologia e struttura della famiglia medievale sono quanto mai vaghe. Ne fanno certo parte i soggetti che dividono lo stesso sangue, i consanguinei; ma non solo. Accedono cognati, proximi, familiares, vicini, una folla di consociati che può raggiungere gli estremi della tribù. Il modello canonico di cellula elementare, monogamica, indipendente e autosufficiente, è tardivo e a tutto il sec. XIII risulta complessivamente poco o punto attestato. Nell’insieme il casato, la domus, assolve comunque la sua funzione incubatrice, pur in congiunture singolarmente aspre [68], Per cominciare, i coniugi non convengono anagraficamente alla pari. Non sono mai coetanei. La ragazza è accasata al più presto; fin troppo presto per la Chiesa, che fisserà sui dodici anni l’età minima (cfr. Decret. Greg. IX. IV, II, 6 di Alessandro III). Il matrimonio precoce costituiva espediente abituale per evitare che, nell’eventualità della morte del genitore, le risorse famigliari rientrassero nelle disponibilità del superiore conferente; anche nelle corporazioni, onde supplire alla scomparsa del titolare dell’esercizio, la vedova risposava. Però, accoppiata in età minima, magari a coniuge disamato, la donna non può non trovarsi esposta alle dolci circonvenzioni di più congeniali iuvenes in aspettativa. Il maschio raggiunge al contrario maggiore età, il trentennio, prima di sposare, e ciò non può non porre ai suoi comprensibili spasimi più di un problema. A mettere tutto in conto, l’incidenza d’una mortalità infantile incombente fino a tutto il sesto anno, la precocità dell’avvio alla

vita, nubilità e apprendistato, e per finire la più che plausibile assenza di nonni, non si può non concludere quanto scarso sia l’ambito d’una ingenua infanzia. Troppo poco, perché una parvenza di personalità vi possa anche solo germinare. Comunque la famiglia costituisce di fatto il grembo primordiale dell’educazione medievale. Ai sussidii citati a proposito del minore, aggiungiamo qui, le recenti miscellanee Haus und Familie in der spätmittelalterlichen Stadt (Hrsg. A. Haverkamp, Köln, 1984); Haushalt und Familie in Mittelalter und früher Neuzeit (Hrsg. T. Ehlert, Sigmaringen, 1991), e infine Femmes, mariages, lignages: XIIe - XIVe sièc. (Mélanges offerts à G. Duby, Bruxelles, 1992). Finitime e talora invasive nei confronti della famiglia, si impongono esigenti le Consociazioni. Ne abbiamo segnalato la pertinenza dicendo dell’oblatura e dell’apprendistato negli ambiti, naturalmente delle varie professionalità. Non aggiungiamo nulla. La scuola invece si è tagliata purtroppo la parte prevalente nella storia dell’educazione medievale. Una sua promozione l’ha comunque esercitata; ed è probo, fatta salva l’eccezione più volte avanzata, riconoscerne qui il legittimo merito. All’avvio essa è monastica, municipale e cattedrale; evolve poi in università. I titoli, se non maggiori, più aggiornati sono stati annotati in → Scolastica e Pedagogia. Collaterali all’istituzione universitaria, quasi altrettali trasposizioni informali, sono gli Studia generalia, centri di studio provinciali, accreditati dall’uno o dall’altro Capitolo generale o dalla diretta autorità del superiore generale dell’uno o dell’altro Ordine regolare. Molti ne dispongono, traendone effettivamente profitto ai fini di una sempre più accurata selezione del personale (cfr. W. A. Hinnebusch, The history of the Dominican order, II: Intellectual and cultural life to 1500, New York, 1973; M. M. Mulchahey, «First the Bowis Bent in Study»: Dominican Education before 1350, Toronto, Canada, Pontifical Institute of Mediaeval Studies. Studies and Texts, 132, 1998). Per ultima, ma proprio per l’immensurabile imponenza della sua funzione, evochiamo la → Chiesa. Dicendo della famiglia medievale abbiamo annotato come essa si sia data cura di fissare i termini minimi della nubilità femminile. La misura fa di fatto parte dell’immane sforzo di decantare le smanie del magma 729

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demografico europeo nella disciplina della monogamia. Orbene, tale proposito fa parte, a sua volta, del più solenne impegno che la Chiesa medievale fortunosamente mantiene nei confronti dell’uomo e della sua avventura. Il caso della scuola ne è solo un aspetto. È quanto dimostrano le innumeri Storie della Chiesa. Ma a nostra volta riteniamo più opportuno evocare due delle più recenti e accreditate Storie dell’Europa: Le Moyen Age (Ed. R. Fossier, Paris, 1982-, in 3 voll.), e lo Handbuch der europäischen Geschichte (Hrsg. Th. Schieder. Bd. 2., Hrsg. F. Seibt, Stuttgart, 1987). Al seguito tuttavia dobbiamo evocare i volumi IV-V-VI, aperti al M., nella monumentale Histoire du Christianisme des origines à nos jours (Cur. J.-M. M. Ayeur, C. Petri, L. Pietri, A. Vauchez, M. Venard, Paris, 1990-93). Soddisfatte così le attese più impegnative, ecco un contenuto, ma prezioso consuntivo: H. Martin, L’Eglise éducatrice. Messages apparents, contenus sous-jacentes (in «Histoire de l’Éducation», n. 50: Educations médiévales: L’enfance, l’école, l’Eglise en Occident, VIe-XVe siècles, pp. 91-117). 4. Esiti: educazione e società. Gli esiti, più o meno lusinghieri, devono essere colti sul fatto. La storiografia comincia ad aprirsi a tal sorta di controllo (cfr.. C. Gauvard, De grâce espéciale: Crime, État et Societé en France à la fin du Moyen Age, Paris, 1991, 2 voll.). Le grandi storie della Chiesa appena citate seguono passo passo la nostra epocale vicenda e ne forniscono al minuto il sommario. Al loro riconosciuto conforto aggiungiamo per chiudere un più spedito consuntivo: K. Bosl, Gesellschaft im Aufbruch. Die Welt des Mittelalters und ihre Menschen (Regensburg, 1991). Bibl.: [1] Grundmann H., Litteratus-illitteratus. Das Wandel einer Bildungsnorm vom Altertum zum Mittelalter (Aufgewählte Aufsätze. Schriften der MGH, 25,3: Bildung und Sprache, 1-66); [2] Demandt A., Die Spätantike. Romische Geschichte von Diocletian bis Iustinian, München, 1989; [3] Russel J. B., Population in Europe, 500-1500, in The Fontana economic history of Europe (Ed. C. Cipolla), London, 1972, 25-70; [4] Mähl S., Quadriga virtutum. Die vier Kardinaltugenden in der karolingischen Geistesgeschichte, Köln, 1969; [5] H adot I., Arts libéraux et philosophie dans la pensée antique, Paris, 1984; [6] Murphy J. J., Rhetoric in the Middle Ages. A

730

History of rhetorical theory from saint Augustine to the Renaissance, Berkeley, 1974; [7] Fontaine J., Isidore de Seville et la culture classique dans l’Espagne visigotique, Paris, 1959, 1983; [8] R iché P., Éducation et culture dans l’Occident barbare, VIe-VIIIe siècles, Paris, 1962; [9] Holtz L., Donat et la tradition de l’enseignement grammatical, Paris, 1981; [10] Law V., The insular latin grammarians, Woodbridge, Suffolk, 1982; [11] Anton H. H., Fürstenspiegel und Herrscherethos in der Karolingerzeit, Bonn, 1968; [12] Edelstein W., Eruditio und sapientia. Weltbild und Erziehung in der Karolingerzeit. Untersuchungen zu Alcuins Briefen, Freiburg im Br., 1965; [13] Contreni J. J., Carolingian learning, masters and manuscripts, Hampshire-Brookfield, 1992; [14] Carolingian culture: Emulation and Innovation (Ed. R. McKitterick), Cambridge, 1994; [15] Dhuoda, Manuel pour mon fils. Ediz. crit. par P. Riché, Paris, 1975; [16] Dronke P., Women writers of the Middle Ages. A critical study of texts from Perpetua († 203) to Marguerite Porete († 1310), Cambridge, 1984; [17] Fossier R., Enfance de l’Europe. Aspects économiques et sociaux, Xe-XIIe siècles, Paris, 1987; [18] Vauchez A., «Il santo» (in L’uomo medievale, a cura di J. Le Goff), Bari, 1987, 351-390; [19] Heffernant Th. J., Sacred biography. Saints and their biographers in the Middle Ages, Oxford, 1988; [20] R iché P., Gerbert d’Aurillac, le Pape de l’an Mil, Paris, 1987; [21] M ac K inney L. C., Bishop Fulbert and education at the School of Chartres, Notre Dame, 1957; [22] The Seven liberal arts in the Middle Ages (Ed. D.L. Wagner), Bloomington, 1983; [23] Beaujouan G., «The transformation of the Quadrivium», in Renaissance and renewal in Twelfth Century (Ed. R. L. Benson - G. Constable), Oxford, 1982, 463-487; [24] Les arts mécaniques au Moyen Age (Ed. G. H. Allard & S. Lusignan = Cahiers d’Études Médiévales, VII), Montreal-Paris, 1982; [25] Grlma = Grundris der Romanischen Literatur des Mittelalters (Hrsg. H.R. Jauss - E. Höhler), Heidelberg, 1968; [26] Stock B., The implications of literacy. Written language and models of interpretation in the eleventh and twelfth centuries, Princeton, 1983; [27] Clanchy M. T., From memory to written. England, 1066-1307, Oxford, 1993; [28] Gasparri F., Introduction à l’histoire de l’écriture, Turnhout, 1994; [29] Bursill-Hall G. L., A census of medieval latin grammatical manuscripts, Stuttgart, 1981; [30] Wortbrok F. J. - M. K laes - J. Lutten, Repertorium des artes dictandi des Mittelalters, München, 1992; [31] Charland T.

MEDITAZIONE

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P. T. Stella

MEDITAZIONE Un senso moderno ed ampio di m. è quello che si ispira al New Age: assimilazione di verità, realtà, bellezza per mezzo del corpo 731

MEMORIA

e dello spirito, in cui i sentimenti e l’intuizione svolgono un ruolo essenziale. Nel senso classico m. indica un esercizio spirituale: per mezzo di una costante recita/sussurrazione di parole della Scrittura (in particolare Torà e Salmi) la m. rinuncia al pensiero oggettivo e alla volontà propria, si mette nel servizio esclusivo di Dio, e in tal modo viene purificata, eventualmente illuminata (ad es. il rosario).

Bibl.: Stachel G., Gebet - Meditation - Schweigen, Freiburg, Herder, 21993; Viotto P., «M.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. IV, Brescia, La Scuola, 1989, 7558-7561.

1. Tale esercizio è già documentato nell’AT, poi nel IV sec. in Egitto (immigrati, monaci della regola di san Pacomio). In forma variata viene pure praticata dai monaci occidentali, → monachesimo, e infine sostituita dalla m. ignaziana. Forme orientali di m. furono pure studiate e praticate nell’Occidente: TM = ripetere interiormente oppure sussurrare per un certo tempo, il che produce un senso di distensione. Il buddismo Theravada, per es. quello della Thailandia, pratica il sentire o vedere «soltanto una cosa»: questo suono, questa costellazione, l’entrata e l’uscita del respiro attraverso il naso. Il → buddismo Zen pratica lo za-zen (seduta-m.): seduto per terra, abbandonare ogni eventuale pensiero e fantasia, restando però sveglio, limitandosi a respirare soltanto. Il medico J. H. Schultz inventò il → training autogeno: fare in modo che le diverse parti del corpo disteso siano alternativamente pesanti e calde, ottenendo in questo modo la distensione somatica e psichica.

MEMORIA

2. Per la prassi pedagogica è raccomandabile il limitarsi al solo guardare (la natura, l’arte...) o al solo ascoltare (suono delle campane, musica, una poesia, una parola di Gesù). Con i canti di Taizé la gioventù mondana impara il silenzio ripetendo minuti di seguito le stesse parole: «En todo amar y servir» (s. Ignazio di → Loyola). Nella scuola sarebbe da praticarsi il momento quotidiano di silenzio suggerito dalla → Montessori: seduto dritto, lo sguardo abbassato, attento soltanto al respiro. Un procedimento estetico efficace anche nel culto religioso consiste nell’osservare in modo raccolto la realtà con la quale voglio unirmi, anzitutto l’aspetto bello e impressionante, poi anche il dolore. Simone Weil raccomanda una «attention absolue» nello studio. È una fra le cose più importanti che un giovane possa imparare. 732

G. Stachel

MELANTONE Filippo → Protestantesimo → Umanesimo rinascimentale

Il termine m. è abitualmente utilizzato per indicare la capacità di ricordare avvenimenti per lungo tempo oppure il processo mediante il quale una traccia mnestica di recente formazione si consolida in maniera stabile. Dal punto di vista scientifico, e in particolare all’interno dell’orientamento cognitivista, il termine è impiegato come sinonimo di mente e di tutto ciò che fa riferimento all’attività cognitiva e talvolta anche di intelligenza. In questa prospettiva generale si parla più di «sistemi di m.» che di m. come un’entità unica e indivisibile. 1. I maggiori progressi della ricerca sulla m. si ebbero dopo la seconda guerra mondiale con lo sviluppo delle scienze neurologiche e il declino del behaviorismo in campo psicologico. Un dato ormai condiviso è che la m. è da considerare non come una struttura unitaria, ma come un sistema multicomponenziale. Pertanto la m. è a tutt’oggi descrivibile in vari sistemi: a) La m. sensorialepercettiva funziona ad un livello pre-semantico, è un’attività diretta al mondo esterno e mantiene le rappresentazioni percettive che permettono di riconoscere lo stimolo sensoriale esterno e di trasformarlo in esperienze di oggetti, immagini, suoni, gusti. Essa è finalizzata alla scoperta e discriminazione delle combinazioni di energia distribuita spazialmente e temporalmente nel mondo fisico che ci circonda e stimola i nostri sensi, agisce per lo più a livello non-conscio (m. implicita) e le informazioni che essa elabora sono considerate di tipo non-dichiarativo. In essa si distinguono tre subsistemi riferentisi alla forma delle parole, alla forma acustica delle parole e alla struttura di oggetti. b) La m. a breve termine o, meglio, m. lavoro è un sistema che permette il mantenimento tem-

MERAVIGLIA

poraneo di una informazione oggetto di elaborazione per un compito complesso come la comprensione, la soluzione di un problema o un ragionamento. A promuovere l’interesse in questo settore di ricerca è stata l’analogia mente-computer assunta dall’approccio cognitivista e la scoperta di alcuni fenomeni che rilevavano come senza una ripetizione (rehearsal o ripetizione subvocalica) continua un’informazione fosse facilmente dimenticata e come le parti iniziali e finali di una sequenza di informazioni fossero meglio ricordate delle parti centrali (recency effect o effetto di recenza). L’idea di una m. a breve termine è oggi sostituita con quella di m. lavoro costituita da tre sottosistemi: esecutivo centrale (uno spazio limitato che agisce come un sistema attenzionale o come interruzione di una attività su un piccolo numero di informazioni o di processi), fonologico (in grado di mantenere e manipolare informazioni verbali) e visivo-spaziale (in grado di mantenere ed elaborare informazioni visive o spaziali). Poiché svolge la sua attività in modo conscio, si dice che il sistema della m. lavoro appartiene alla m. esplicita. c) La m. semantica ed episodica (→ conoscenza) sono due archivi di m. che fanno riferimento a due sistemi diversi di informazione. La prima si può dire che contenga tutte le informazioni e credenze che una persona possiede del mondo che lo circonda (tutto ciò che si conosce del mondo). Fanno parte di essa i concetti e i concetti relazionati ad altri concetti. Molta della ricerca recente è stata dedicata alla individuazione di come le informazioni presenti nella m. dichiarativa e semantica siano organizzate. Schacter e Tulving (1994) hanno particolarmente insistito sulla presenza di un secondo sistema di m. neurologicamente distinto indicato come m. episodica. Esso conterrebbe tutte le informazioni che permettono ad un individuo di ricordare fatti o eventi del suo passato e di cui è stato testimone. Sebbene abbia delle relazioni con la m. semantica, da essa si distingue per il modo in cui l’informazione è codificata e mantenuta (rappresentazioni che fanno riferimento a caratteristiche di spazio, tempo e contesto e relazione ad altre esperienze). d) La m. procedurale (conoscenza) è il sistema meno conosciuto. Essa contiene informazioni e conoscenze connesse a prestazioni e attività sia cognitive che motorie o di tipo

algoritmico. Non contiene rappresentazioni del mondo esterno, i suoi prodotti non sono di natura cognitiva, si attiva quando sono presenti certe condizioni, opera in modo automatico e senza controllo conscio. 2. A seconda del suo operare in modo conscio o non conscio, si può categorizzare la m. in: m. esplicita e implicita. La prima comprende il sistema della m. lavoro (con i sottosistemi verbali e visivi) e di quella episodica; la seconda comprende i sistemi della m. di rappresentazione percettiva (si tratta di m. non-dichiarativa, con i sottosistemi visivi, uditivi e strutturali), di procedure (cioè una m. non-dichiarativa in riferimento ad abilità motorie, cognitive e ad associazioni) e di rappresentazioni semantiche (con sottosistemi visivi e relazionali tra concetti o caratteristiche). Bibl.: Spence K. W. - J. T. Spence (Edd.), The psychology of learning and motivation, vol. 2, New York, Academic Press, 1968; Bower G. H. (Ed.), The psychology of learning and motivation, vol. 8, Ibid., 1974; Tulving E., How many memory systems are there?, in «American Psychologist» 40 (1985) 385-398; Morris P. E. - M. Grunberg (Edd.), Theoretical aspects of memory, London, Routledge, 21994; Baddeley A. D. - G. Hitch, The recency effect: implicit learning with explicit retrieval, in «Memory & Cognition» 21 (1993) 146-155; Schacter D. L. - E. Tulving (Edd.), Memory systems 1994, Cambridge, MIT Press, 1994.

M. Comoglio

MENTE → Cognitivismo → Ragionamento

MERAVIGLIA Il termine m. (dal lat. mirabilia, neutro pl. di mirabilis, mirabile) è il sentimento di sor­ presa per il nuovo, lo straordinario, l’inatte­ so. «La m. è un moto sentimentale che sulle prime impedisce il corso naturale dei pen­ sieri, ed è quindi spiacevole, ma poi tanto più favorisce il fluire dei pensieri verso la rappresentazione inattesa ed è quindi pia­ cevolmente eccitante [...]. Un novellino nel mondo si m. di tutto; ma chi è diventato per la molteplice esperienza familiare col corso 733

MERICI ANGELA

delle cose, si fa un principio di non meravi­ gliarsi di nulla» (Kant, 1993, 151-152). 1. Usata anche come sinonimo di → stupo­re, la m. viene via via differenziandosene, rinvenendo una propria identità come affe­zione cognitiva che si colloca all’interno della fenomenologia del conoscere. La dif­ferenza che è possibile stabilire tra stupore e m. è la stessa che si trova, ad esempio, in → Kant, tra intelletto e ragione, tra bello e sublime e, prima ancora, → Aristotele e → Platone rispetto ad uno stupore come aporéin (sorpresa, m., sconcerto dell’igno­to) (Aristotele, 1984, 77) e uno stupore co­me thaumázein (ammirazione, commozio­ne per qualcosa di familiare e normalmen­te invisibile). La m., che nasce da una sovreccitazione sensoriale è un sentire primigenio, istintivo, precipitoso; essa è della natura dell’emozione piuttosto che della passione. Quest’ultima infatti è riflessiva, l’emozione invece «agisce come un fiotto che rompe la diga» (Kant, 1993, 192). Coltivata, la m. può tramutarsi essa stessa in passione, curiosità, interesse che predi­spongono favorevolmente il soggetto ad apprendere. Legata alla conoscenza, la m. si dissolve con la conoscenza medesima. Essa funziona perciò da campanello d’al­larme, segnale, soglia tra il noto e l’ignoto; indica una disposizione attiva del sogget­to che si accinge a conoscere. Per → Vico è «figliola dell’ignoranza che partorisce la scienza» (Vico, 1982, 192); Cartesio, per valorizzarne la funzione di apertura e di scambio con la realtà, considera la m. «pri­ma di tutte le passioni» (Cartesio, 1994, 83). 2. Al di là delle diverse interpretazioni giova sottolineare l’importanza attribuita alla m. nella conoscenza e l’ineluttabile coin­ volgimento emotivo del soggetto nel pro­cesso del conoscere: si intende, a partire tuttavia da un determinato modo di cono­scenza. La cultura delle passioni che si svi­luppa correlata a quella della ragione subi­sce inevitabilmente le stesse variazioni cui è soggetta la ragione medesima. In partico­lare, i cambiamenti che si sono verificati sul piano epistemologico (passaggio dal meto­do induttivo a quello deduttivo, slittamen­to della conoscenza dal teoretico al prati­co, al pragmatico) sono alla base di una costante attenuazione del senso del meravi­glioso nella nostra vita, fino quasi alla sua progressiva scomparsa. 734

3. Sotto l’aspetto pedagogico-educativo il recupero della m. si impone per due ordini di motivi: a) affermazione di un umanesi­mo dialettico tra sensibilità e ragione, in senso schilleriano, a partire dall’inversione della tendenza ad uno sradicamento della sensibilità, favorito dalla progressiva esten­sione dei processi di razionalizzazione nel­la nostra vita; b) rivalutazione pedagogico-educativa della conoscenza teoretica ri­spetto a quella pratico-pragmatica. Un cor­rettivo all’azione manipolatrice-trasformatrice della scienzatecnica attraverso la promozione di un sentimento della realtà, la m., fatta di rispetto, senso del limite, ri­conoscimento del reale e promozione di un sapere osservativo-descrittivo accanto a quello tecnico-poietico. Bibl.: Vico G. B., La scienza nuova, a cura di P. Rossi, Milano, Rizzoli, 21982; A ristotele, La me­tafisica, a cura di G. Reale, Milano, Rusconi, 21984; Bodei R., Geometria delle passioni, Milano, Feltri­nelli, 1991; K ant I., Antropologia pragmatica, Ba­r i, Laterza, 1993; Cartesio R., Le passioni dell’anima, a cura di E. Lojacono, Milano, TEA, 1994; Xodo C., Stupore ed educazione: ragione e passio­ne, in «Scuola e Didattica» 15 (1994) 10-13.

C. Xodo

MERICI Angela n. a Desenzano nel 1474 - m. a Brescia nel 1540, santa italiana, fondatrice di ordine religioso. 1. All’età di 23 anni entrò nel Terz’ordine Francescano ed iniziò a dedicarsi all’assistenza dei poveri, facendosi interprete della difficile situazione in cui vivevano le donne «nubili» e «vedove». A questo scopo fondò la Compagnia di Sant’Orsola, che si rivelò virtualmente capace di uno sviluppo quantitativo e qualitativo che si è tradotto in varie forme di vita consacrata: comunità di vergini associate, viventi nel proprio ambiente familiare e di lavoro; collegi di vergini legate a Dio con uno o più voti privati; monasteri religiosi tradizionali e gruppi di vita comune, alla cui base c’è la fedeltà alla dottrina spirituale vissuta dalla M. e presentata in tre documenti (Arricordi che vanno

METACOGNIZIONE

alli colonelli; Il Testamento..., la Regola). I principi essenziali della Regola si riconducono a tre dimensioni essenziali: la totale consacrazione a Dio; la dedizione completa alle opere di carità cristiana (tra le quali si colloca l’insegnamento della dottrina cristiana), l’attuazione di un vincolo di sacra carità nei rapporti interpersonali, ispirati allo stile familiare, che è risultato molto fecondo dal punto di vista educativo, chiedendo capacità di animazione, di amore reciproco per tutte le figliole e di «dolcezza». 2. La M. ha elaborato una dottrina essenziale di pedagogia spirituale che costituisce il fondamento di un’educazione cristiana, attenta alla famiglia, che si è espressa in diverse traduzioni istituzionali nel settore educativo, catechistico ed apostolico e che è alla base dell’azione di associazioni e di istituti religiosi diffusi in tutto il mondo, impegnati anche nell’attività scolastica. Bibl.: M ariani L. - E. Tarolli - M. Seynaeve M., A.M. Contributo per una bibliografia, Milano, Ancora, 1986; Belotti G., A.M.: la società, la vita, le opere, il carisma, Brescia, Centro Mericiano, 2004; Mazzonis Q., Spiritualità genere e identità nel Rinascimento. A.M. e la Compagnia di sant’Orsola, Milano, Angeli, 2007.

S. S. Macchietti

MERTON Robert → Funzionalismo

METACOGNIZIONE Per eseguire delle semplici attività cognitive (verificare una informazione, risolvere un piccolo problema di matematica, comprendere un racconto, ecc.) è necessario non solo disporre di una grande quantità di processi, ma anche saper coordinare e controllare in modo efficace l’intera attività mentale. 1. Il concetto di m. Il termine m. (metamemory) è stato introdotto nel 1971 nella letteratura e nella ricerca cognitivista da Flavell, promotore con Friedrichs e Hoyt, nel 1970, del primo studio sui processi metacognitivi nei ragazzi. Il termine si diffuse soprattutto attorno al 1975, suscitando interesse e discussioni, sia per la scarsa chiarezza del

concetto sia per il tipo di tecniche utilizzate per indagarlo (Cavanaugh-Perlmutter, 1982). Nella ricerca sulla m. confluiscono quella sull’attività conscia nel processo di apprendimento, quella sul controllo dell’attività cognitiva, quella sul progressivo sviluppo di auto-controllo (self-regulation) che trova le sue radici in → Piaget; e infine, quella vygotskiana che pone l’accento sulla progressiva interiorizzazione della capacità di auto-controllo dell’attività cognitiva appresa. In termini generali si potrebbe considerare la m. come quell’insieme di informazioni che il soggetto possiede a livello conscio (secondo alcuni anche inconscio) sulle sue capacità e attività cognitive e sul modo opportuno di utilizzarle nell’esecuzione di compiti come leggere, studiare, scrivere, imparare a memoria, disegnare, risolvere un problema, ecc. La m. ha suscitato molto interesse sia a livello di ricerca teorica (alcuni studiosi vedono in essa il luogo e la causa delle differenze individuali di intelligenza) che di applicazione pratica (la nozione sembra offrire la possibilità di elaborare interventi educativi più efficaci con soggetti che manifestano dei problemi di apprendimento). 2. Modelli di m. In pochi anni si sono sviluppati diversi modelli di m. Flavell, ritenuto il pioniere degli studi sull’argomento, considera la m. come la sensibilità particolare che il soggetto manifesta nell’utilizzazione di una determinata strategia per affrontare un problema cognitivo. Wellman, pur allineandosi con le posizioni di Flavell, vede nella m. il sovrapporsi successivo di diverse aree di conoscenze: l’esistenza di un mondo cognitivo interno rispetto ad uno esterno; la capacità di distinguere un processo cognitivo da un altro; la coscienza della possibile integrazione di processi diversi e delle situazioni che richiedono la modifica di un processo cognitivo o che permettono un efficace controllo delle proprie attività mentali. Kluwe ritiene che la m. non sia altro che il sistema di controllo dell’attività cognitiva. Baker e Brown (1984) attribuiscono alla m. le abilità di pianificazione prima dell’esecuzione del compito (previsione dei risultati, elenco di strategie, varie forme di prove vicarie ed errori, ecc.); monitoraggio delle strategie durante l’apprendimento; controllo, revisione, valuta735

METACOGNIZIONE

zione dell’efficacia delle strategie utilizzate; valutazione dei risultati dell’azione strategica secondo i criteri di efficienza ed efficacia. Borkowski, Pressley e altri la pongono in relazione con variabili di natura individuale e/o ambientali, cioè in termini evolutivi e/o sociali. E, in particolare, evidenziano la relazione tra componenti della personalità (motivazione o attribuzione, stima di sé, stima delle proprie capacità), contesto culturale e sviluppo della m. 3. I contenuti della m. Al di là delle differenze o affinità che caratterizzano i vari modelli descritti, nella m. si riconoscono tre distinti contenuti: la conoscenza metacognitiva, l’attività di regolazione metacognitiva e la loro integrazione. La conoscenza metacognitiva, che può essere genericamente definita come ciò che il soggetto sa delle sue capacità cognitive, comprende le conoscenze circa se stesso come persona che apprende e i fattori che possono influenzare le sue prestazioni («conoscenza dichiarativa» della m.), le conoscenze che riguardano il modo in cui si esegue una strategia cognitiva («conoscenze procedurali» della m.), le conoscenze riguardanti il «quando» e il «perché» è utile applicare una strategia invece di un’altra. Quest’ultimo tipo di conoscenza è molto importante perché rende duttile e flessibile l’attività della mente a seconda delle situazioni e degli scopi di apprendimento che devono essere conseguiti. Un secondo gruppo di attività metacognitive riguardano il controllo e la regolazione dell’attività cognitiva. Queste vengono in genere raggruppate in tre tipi: attività di pianificazione ( planning), di controllo durante la stessa attività (monitoring) e di valutazione (evaluation). L’integrazione dei due gruppi di componenti dà origine a «teorie metacognitive» o «teorie della mente», spesso inconsce (teorie tacite) o riguardanti solo alcuni aspetti o argomenti (teorie informali). Nella piena maturità dovrebbero raggiungere il livello della piena coscienza (teorie formali), tanto da costituire un sistema a cui la persona può ricorrere con sicurezza per comprendere, correggere e regolare la propria attività mentale. 4. Lo studente metacognitivamente sviluppato e maturo. In un contributo del 1992 736

Borkowski e Muthukrishna hanno delineato il profilo di uno studente metacognitivamente maturo in quanto e nella misura in cui possiede un vasto repertorio di strategie, sa quando e dove ogni strategia può essere utile e qual è lo sforzo che essa richiede e la impiega in modo efficiente per svolgere compiti nuovi e complessi. Uno studente capace e intelligente sa pianificare il proprio pensiero e il proprio comportamento, ha sviluppato una tendenza coerente a pensare un corso di azioni prima di agire. Elabora piani che sono spesso rappresentati internalmente, ma anche facilmente trasferibili in rappresentazioni esterne. Esamina e controlla le proprie prestazioni, riconosce che una attività cognitiva non sempre procede come è stata pianificata e che il fallimento può essere il segnale per cambiare le strategie o persino l’intero piano. Ha un sistema motivazionale personale e ha dietro di sé una storia di sostegno da parte dei genitori, della scuola e della società in senso ampio che hanno favorito in lui lo sviluppo di tale capacità cognitiva. Bibl.: K reutzer M. A. - S. C. Leonard - J. H. Flavell, An interview study of children’s knowledge about memory, in «Monographs of the Society for Research in Child Development» 40 (1975) 1-57; Cavanaugh J. C. - M. Perlmutter, Metamemory: a critical examination, in «Child Psychology» 53 (1982) 11-28; Baker L. - A. L. Brown, «Metacognition skills of reading», in P. D. Pearson (Ed.), Handbook of reading research, New York, Longman, 1984, 353-394; Borkowski J. G. - N. Muthukrishna, «Moving metacognition into classroom: “Working models” and effective strategy teaching», in M. Pressley - K. R. H arris - J. T. Guthrie (Edd.), Promoting academic competence and literacy in schools, San Diego, Academic Press, 1992, 477-501; Cornoldi C., M. e apprendimento, Bologna, Il Mulino, 1995.

M. Comoglio

METACOMUNICAZIONE → Comunicazione METAFISICA → Filosofia dell’educazione → Valori METALINGUAGGIO → Linguaggio METATEORIA → Epistemologia pedagogica METE → Obiettivi METODI DI RICERCA → Metodo → Ricerca educativa/pedagogica

METODI DIDATTICI

METODI DIDATTICI Modalità operative che facilitano un’acquisizione significativa, stabile e fruibile dei contenuti proposti dall’azione d’insegnamento. Il ruolo di un m.d. è quello di creare le condizioni, che consentano la messa in moto delle operazioni intellettuali, affettive e comportamentali necessarie all’incorporazione del contenuto dell’apprendimento nella struttura conoscitiva dell’alunno. Il termine deriva dal gr. méthodos (ordine), e didáskein (insegnare), e indica ordine nell’insegnare oppure ordine nell’insegnamento. La disciplina che studia sistematicamente i m.d. è la metodica, detta anche metodologia didattica (o più semplicemente → didattica). 1. Cenni storici. La ricerca di una modalità pratica ottimale di insegnare è stato un obiettivo a lungo perseguito. Nel corso dei secoli la sua definizione ha oscillato tra una fondazione teorica e una empirica. Si può subito ricordare il cosiddetto m. socratico, che si basa su un dialogo stretto tra insegnante e discente al fine di far nascere in lui la nuova conoscenza intesa. Tale m. è anche definito, in analogia a quanto fa una levatrice, m. maieutico. Insegnare significa anche convincere della verità o bontà di quanto si vuole far acquisire. Di qui due strade metodologiche fondamentali: una basata sull’arte della persuasione (la retorica), l’altra fondata su procedimenti di indagine razionale (la dialettica). La prima strada è stata privilegiata dai grandi retori romani → Cicerone e → Quintiliano, la seconda da → Tommaso d’Aquino, che formalizza il m. dialettico secondo canoni precisi. La nuova atmosfera culturale che si diffonde a partire dal diciassettesimo secolo porta alla ricerca di un m.d. universale, che consenta di «insegnare tutto a tutti [...] con tale sicurezza che sia pressoché inevitabile conseguire buoni risultati». È quanto prospetta → Comenio nella sua Grande didattica. Spetta a → Herbart elaborare procedimenti didattici basati su fasi, o livelli successivi, di apprendimento attentamente strutturati e basati su processi psicologici di natura associativa, che integrano momenti empirici (di apprendimento), razionali (di comprensione) e tecnici (di applicazione), secondo l’interpretazione di → Willmann (1962). D’altra parte in tutti gli studiosi del m. è in genere presente una con-

cezione attiva dello studente, concezione che si ritrova particolarmente sottolineata nei m. proposti dalle cosiddette → Scuole Nuove. Con la nascita della psicologia sperimentale la ricerca di m.d. validi ed efficaci diventa più sistematica e più che appoggiarsi su teorie pedagogiche generali, si collega con assunti e m. di natura psicologica (→ psicologia dell’educazione), seguendo spesso l’avvicendarsi dei paradigmi di indagine via via presenti nell’ambito psicologico. Accanto e spesso in dialogo con la psicologia nasce anche una didattica sperimentale, che mette a confronto in modo empirico m. di insegnamento diversi per farne emergere valenze e limiti. 2. Impostazione del problema del m. La determinazione del m.d. da seguire ha due ruoli fondamentali: a) favorire l’acquisizione da parte degli allievi dei contenuti formativi prescelti; b) raggiungere gli → obiettivi educativi, intesi come schemi concettuali, atteggiamenti e competenze che incidono più profondamente e permangono più stabilmente nella personalità dell’educando. Nel tempo si sono avute spesso accentuazioni unilaterali di uno dei tre poli fondamentali dell’insegnamento: docente, discente e contenuto. Così di volta in volta si è avuta una sopravvalutazione delle esigenze della materia o dei contenuti da apprendere, un’esclusiva considerazione degli interessi e dei bisogni dell’allievo, una mitizzazione della sua attività esplorativa autonoma, un centramento eccessivo su ciò che fa l’insegnante. Si è trattato spesso di una utilizzazione ideologica di particolari teorie pedagogiche, psicologiche o sociologiche. Una specie di deduttivismo che in realtà tendeva a imprigionare in uno schema intellettualistico rigido una dinamica assai complessa e difficile da comprendere e controllare. Ciò è risultato tanto più deleterio e improduttivo, quanto più queste teorie si presentavano come approcci parziali ed erano solo debolmente fondate su evidenze pratiche e sperimentali. In realtà ogni problema metodologico richiede un forte impegno mediatore tra le finalità educative assunte, la domanda formativa emergente nell’azione educativa e le indicazioni di possibili direzioni di marcia che provengono dalle varie → scienze dell’educazione. Certamente il problema del m.d. è uno dei più immediati nell’impostare l’azione 737

METODI EDUCATIVI

formativa, ma non è possibile considerarlo in maniera isolata e autonoma. Esso è da collegare in maniera assai stretta almeno con due altri aspetti dell’elaborazione di un itinerario formativo: la scelta e definizione degli obiettivi e la determinazione dei contenuti. In fin dei conti non è possibile giungere alla elaborazione di un m. se non si sa dove si vuole arrivare. D’altra parte al fine di impostare un m. valido ed efficace occorre considerare attentamente sia la struttura conoscitiva dell’allievo, sia quella propria del contenuto da apprendere. Di conseguenza non è possibile affermare in astratto l’esistenza di un m. migliore di altri o più giusto; neanche è possibile una predeterminazione del m. rispetto ai tre poli fondamentali della programmazione educativa: la popolazione scolastica e la domanda educativa che essa pone; i traguardi formativi e gli obiettivi didattici che di conseguenza emergono come rilevanti o prioritari; i contenuti formativi intesi come mezzi pedagogici che ci consentono di avvicinare tra di loro l’uno agli altri. 3. Proposte metodologiche. Da quanto sopra ricordato deriva una conseguenza evidente: al docente interessato si possono o suggerire alcuni più significativi principi di m. da seguire nel suo lavoro, oppure proporre alcuni m. che nella pratica hanno dato buoni risultati, invitandolo a esplorarli e adattarli alla propria situazione. Alcuni fondamentali principi di m. sono stati suggeriti da Pellerey (1994). Tra questi si possono ricordare i principi di: a) significatività, garantire il collegamento delle nuove conoscenze con quelle già possedute; b) motivazione, promuovere la messa in moto dei processi implicati nell’apprendimento; c) direzione, orientare l’azione di apprendimento verso obiettivi chiaramente indicati; d) continuità e ricorsività: l’acquisizione di conoscenze e competenze è un processo a lungo termine che va promosso con continuità e ritornando più volte su di esse; e) integrazione e organizzazione, favorire il collegamento e una buona organizzazione interna delle diverse conoscenze affrontate; f) stabilizzazione, guidare e sostenere il ricordo di quanto studiato; g) trasferibilità, sollecitare l’uso delle conoscenze applicandole a situazioni nuove e la traduzione da un sistema di segni a un altro. Quanto a m. che hanno dato risultati positivi nella loro utilizzazione su vasto 738

raggio e che tengono conto di questi principi, si possono citare il m. di individualizzazione dell’insegnamento elaborato da → Dottrens, il m. a spirale suggerito da → Bruner, il m. di sviluppo di una lezione suggerito da GagnèBriggs (1990), il m. dell’apprendimento per la padronanza (→ mastery learning) elaborato inizialmente da B. Bloom (Block, 1972), il m. della ricerca proposto da Pellerey (1994). Più complesso è l’insieme dei m. suggeriti dal → costruttivismo nelle sue differenti versioni. Così oggi è vivo il dibattito relativo ai m. ispirati a impostazioni collaborative, competitive e individualistiche. Bibl.: Willmann O., Didattica come teoria della cultura, Brescia, La Scuola, 1962; Gage N., Teaching methods, New York, Macmillan, 1969; Block J. H. (Ed.), Mastery Learning. Procedimenti scientifici di educazione individualizzata, Torino, Loescher, 1972; Luzuriaga L., Métodos de la nueva educación, Buenos Aires, Losada, 1973; Titone R., Metodologia didattica, Roma, LAS, 31975; Bloom B. S., Caratteristiche umane e apprendimento scolastico, Roma, Armando, 1979; A ebli H., Zwoelf Grundformen des Lehrnes, Stuttgart, Klett, 1985; Gagnè R. M. - L. J. Briggs, Fondamenti di progettazione didattica, Torino, SEI, 1990; Pellerey M., Progettazione didattica, Ibid., 21994; Meirieu P., Faire l’école, faire la classe, Paris, ESF, 2004; Lang H. R. - B. N. Evans, Models, strategies, and methods for effective teaching, Boston, Allyn and Bacon, 2005; Borich D., Effective teaching methods, New York, Prentice Hall, 62006.

M. Pellerey

METODI EDUCATIVI I. m.e. so­no i modi d’essere e di agire che gli opera­tori dell’educazione ritengono più rispon­denti, validi ed efficaci per conseguire gli obiettivi e realizzare i fini educativi, disponendo i mezzi in relazione alla promozione degli scopi che si intendono raggiungere. Un progetto educativo, pensato e co­struito con motivazione razionale e anche esperienziale e geniale, contiene sempre un certo numero di modi che danno forma ca­ratteristica alla sua organizzazione e attuazione. 1. Metodo: concetto e funzione. La → storia

METODI EDUCATIVI

della pedagogia, quando non è solo storia del­le idee pedagogiche o addirittura pre-pe­ dagogiche, è principalmente storia dei pro­ getti e dei m.e. E tuttavia il problema del m. è specificamente connesso all’età moder­na, al sorgere e all’imporsi delle scienze della natura legate al controllo empirico e alla logica matematica. Ma proprio la stret­ta connessione tra le idee e i m. fa pensare che, a loro volta, i m. abbiano la capacità di condizionare il senso e di dimostrare la ve­r ità delle idee asserite e dei fini proposti. Il momento del m. è il momento della razio­nalità operazionale dell’azione e dell’inte­ro progetto educativo. Non si tratta sem­plicemente di una razionalità astratta, teo­r ica, ma di una razionalità reale, rela­zionale, tecnologica, strumentale. Solo così il m. può mettere nelle migliori condizioni e nei migliori rapporti tutti i complessi fattori agenti e interferen­ti: soggetti operatori, contenuti, fini, obiettivi e sco­pi, mezzi e procedimenti, processi e verifi­che. Il m.e. non è solo o semplicemente tec­nica esecutiva d’educazione; include ogni volta scelte e riferimenti interpretativi, assiologici, scientifici, culturali. Investe fina­lità e obiettivi, strutture e dinamiche, leggi di vita, di sviluppo, di divenire. Impegna idee, sentimenti, apprezzamenti, atteggia­menti e condotte. È presenza di amore e dedizione, capacità di virtù e di precedenza esemplare, pieno coinvolgimento interper­sonale. Implica scelta di contenuti reali e ideali, mezzi adeguati, comunicazioni e re­lazioni, scambi aperti e disponibili. Elabo­ra codici normativi ben fondati, condivisi, tendenti all’oggettività superiore. 2. M.e. come tipi pedagogici reali. In un la­ voro sistematico E. Weber (1972) indaga e classifica le modalità metodologiche che l’educazione assume in relazione a diversi fattori antropologici, ideologici, sociali, po­ litici, psicologici. Ma i m.e. non sono sem­pre frutto di rigore scientifico; sono spesso opera geniale di educatori creativi e di isti­t uzioni accreditate, gli uni e le altre non sprovveduti di buoni fondamenti culturali, morali, esperienziali. La riflessione peda­gogica li ha fatti oggetto di studio. Sistemi e m.e. tipici si riferiscono in genere all’educazione nella sua totalità, come modi di or­ganizzarla e realizzarla accentuando l’uso di qualche procedimento, atteggiamento, contenuto, fi-

nalità, processo e forma di rapporto, luogo d’intervento, organizza­zione dei ruoli, mezzi, fattori educativi, elaborazione del quadro di obiettivi finali e prossimi. Spesso hanno quadri di → valori da proporre come fini, risorse e problemi. Don → Bosco è pie­namente concepibile solo in orizzonti cristiani. → Makarenko s’innesta nell’ordine comu­nista, pur rivedendolo con qualche critica originale. Dewey è statunitense e del suo tempo. Un elenco è difficile e non ancora elaborato. Alcuni m.e. storici sono più conosciuti e ancora ispiratori. È possibile riprendere e integrare il quadro di «modi di educazio­ne» e più precisamente di «tipi pedagogici reali» proposto e analizzato per i tempi re­centi da H. Henz (1975). a) Il m. preventivo fa suo il motto: «preveni­re e non reprimere». In don Bosco spiccano la chiara visione cristiana di riferimento, la piena dedizione e la costante convivenza in clima di → amo­re e familiarità, lo spazio alla libertà e integrità giovanile, la valorizzazione con­temporanea di studio, gioco, lavoro, pietà, la preparazione sociale, secondo il trinomio di «ragione, religione, amorevolezza». b) I m.e. terapeuti­ci si applicano ai ragazzi difficili dentro gli ambiti normali dell’educazione, mirano con mezzi psicopedagogici alla trasformazione mentale, al cambio personale, con procedimenti per lo più non-direttivi ed assegnano ampio ruolo ai processi di chiarificazione delle percezioni e dei motivi. c) Il m. integrativo di autogo­ verno, libertario, antiautoritario si oppone al dominativo e autoritario, come vi si oppongono tutti i m. integrativi democratici che prendono forme di città, villaggi, co­munità, repubbliche dei ragazzi. Vi domi­nano la parità, l’autogestione, la partecipa­zione e la corresponsabilità, il ruolo attivo del giovane. d) Il m. della pedagogia dei va­lori insiste sulla proposta o sull’esperienza dei valori, con progressione di assimilazio­ne educativa. e) Il m. ascetico guida la lotta vincente dell’autodisciplina verso la libertà interiore dello spirito e verso Dio. f) Il m. pedagogico esistenziale privilegia i mezzi di richiamo, risveglio, suscitamento, esortazione, incontro, impegno, elaborazione di avvenimenti cri­tici e apprezza l’auto-orientamento. Al qua­d ro di Henz si possono fare alcune aggiun­te. Il m. psicoanalitico guida l’espressione, rielaborazione e sublimazione del desiderio. Il m. funzionalistico lavora su bisogni e interessi. 739

METODI EDUCATIVI

I m. di → animazione, persona­le, di gruppo e movimento, sul campo, nel territorio, in ambiente, privilegiano l’impian­to sociopedagogico. Alcuni m. organici mettono al centro l’esperienza giovanile organizzata e guidata: lo → Scautismo, che privilegia la esperienza di vita, l’impegno, la responsabilità attiva, la forte program­mazione, la natura, il gioco educativo e, og­gi, la continuità con la realtà. Sono almeno da segnalare altri m.e., quale quello dell’Azione Cat­tolica, quelli che coinvolgono i giovani in esperienze adulte significative di movi­menti e di → volontariato, i m. di comunità di recupero e ri­educativa, i m. per l’accostamento e accompagna­mento sulla strada. 3. Principi di m.e. Un quadro di principi di m. dovrebbe trovare posto in ogni progetto e istituzione educativa, oltre che nella formazione di chi opera nell’educazione e nella rieducazione. Concetto e quadri di proposte sono ormai diffusi nella miglio­re letteratura pedagogica. Uno studio in proposito dovrebbe analiz­zare per ogni principio il quadro di riferimento ideale e esperienziale, la defini­ zione operazionale, una ricostruzione sto­ rica, l’uso corretto, una valutazione critica. Qui si propongono i seguenti: a) Personalizzare. Traduce in metodologia il miglior → personalismo. Fa dell’io persona­le il soggetto primario della propria vicenda educativa, pur in costante dialogo con gli operatori. L’ → educando è visto come protagonista che, nell’educazione, investe in modo attivo la propria vitalità, energia, con­sapevolezza, comprensione, adesione, con­senso, creatività personale. Con l’ → educatore è impegnato nei processi bipolari di inse­g namento e apprendimento, motivazione e adesione, proposta e consenso. Viene su­perata la retorica del personalismo teorico che dichiara natura, valore e dignità, senza dare spazi di libertà effettiva, sempre limitata ma sempre bisognosa di rischiare e sperimentare per fare veri cammini educa­tivi di personalizzazione. La individualizzazione aderisce alle condizioni e situazioni particolari che ogni soggetto presenta. b) Socializzare. Parte assumendo e trattan­do il soggetto nella pienezza dei suoi contesti relazionali di vita, cultura, sviluppo. Privilegia per l’educazione condizioni di in­ contro, → gruppo, comunità, movimento. Vi funzionano sia le dinamiche relazionali che i m. e le tecniche del lavoro comune per l’effi740

cace produzione dei fini, lontano da estremi devianti di individualismo e massificazione. L’educatore non ne è so­pra, fuori o accanto, ma dentro, pari per la massima accettazione e prossimità, asim­metrico per contare quanto è giusto per il progresso educativo. Ogni cammino inizia comunicando e assumendo gli obiettivi, prosegue condividendo la scelta, volontà, attuazione dei mezzi, termina con la colle­gialità delle valutazioni. c) Valorizzare. Educare non è trasmettere valori, ma guidare a costruirseli scopren­doli nella vita posseduta e promessa in ogni realtà, comportamento, condotta: valori oggettivi e valor sog­gettivi, qui, nel poco, nel già e nel non ancora. La via della vita e dell’educazione è l’amore. Ma l’amore è risposta mo­strata e dimostrata dalla ricchezza di valo­re oggettivo, soggettivo, personale, letto nelle cose, nelle persone, nelle azioni. Per­tanto si chiede all’educatore di operare sia su ogni proposta educativa per evidenziar­ne il valore-motivo, sia sul giovane perché lo percepisca nel giudizio pratico, vi aderi­sca e lo assuma come prospettiva motivante. d) Fare esperienza. Considera la centralità dell’esperienza in ogni comprensione concreta e valida di vita personale. La libertà si educa solo esercitandola. Ne segue un’educazione nella vita, più che alla vita e per la vita, aiutando e sostenendo, accompagnando e riproponendo e andando avanti, come la scienza, anche «per prove ed errori». e) Prevenire. È sempre più facile che la cor­rezione e la → rieducazione. Il → sistema preventivo ne fa il principio di m. chiave: si anticipa, prepa­rando condizioni vincenti al sopraggiunge­re di confronti, tentazioni, difficoltà gravi; al contempo si promuovono potenzialità soggettive e contestuali. Gli educatori prevengono i giovani con preparazione idonea, cura tempestiva, of­ferta di rapporti carichi di amore, stima, fi­ducia, esemplarità, comunicando e venendo incontro a domande di valore. Ma si lasciano anche prevenire dai giovani che li precedono con la loro vitalità, con le loro domande e suggerimenti. L’eventuale rieducazione consiste non nel riportare entro ordini sociali, magari origi­ ne delle devianze o nella mera correzione dei comportamenti, ma nella guida a ritrovare la verità di profondità vitali autentiche e di condizioni idonee per riviverle. f) Realismo, pluralismo, flessibilità, pro­gressività. Il realismo educativo evita di idealizzare,

METODO

generalizzare, semplificare. Ri­porta ogni atto educativo a stretto contatto con la realtà ambientale, collettiva, perso­nale. Il campo è letto nelle sue molteplici e pluralistiche possibilità reali. La flessibilità e perciò la provvisorietà ipotetica di ogni premessa, opzione proget­t uale, metodica, istituzionale è contro ogni rigidità, uniformità, fissità. Si è attenti all’esperienza, all’infinità delle variabili, ma si ricerca anche la verificabilità di ogni asserto e la adattabi­lità di ogni scelta. g) Tensione critica e conflitto ottimale. Lo stato abituale di «crisi ottimale» di tensio­ne e conflitto interni, è generatore di svi­luppo, di crescita, di ulteriore maturazione qua­litativa e quantitativa. Il troppo debole non ser­ve; il troppo forte fa violenza e suscita resi­stenze e fughe. È ottimale quando è offer­to e sentito come esperienza valida e signi­ficativa e alla portata di ciascuno. h) Equilibrare e comporre. I m. non sono tecniche dall’effetto sicuro. L’applicazione sprovveduta provoca problemi. Sono più modi di essere che di pensare e fare, legati a tipi di cultura e personalità. Ognuno di essi può rinnovare l’intero sistema, ma può anche non essere più adeguato al mutare della vita delle persone e dei contesti esistenziali.

tore dello studio o dell’azione. De­riva etimologicamente dalle parole gr. odòs (strada) e metà (oltre) e significa «la strada che si percorre». Quando è riferita all’attività di indagine indica «la strada che si percorre nell’indagare» o «la via della ra­gione seguita». 1. L’uso in ambito educativo. La parola m. è stata usata fin dall’antichità in campo educativo in quanto accostabile a quella di «pedagogo», colui che conduce un fanciul­lo. La pedagogia diveniva così in senso me­taforico «la strada che si percorre nel con­durre un fanciullo». Di qui l’uso diffuso delle espressioni → m. educativi, → m. di­d attici, m. di insegnamento. Per analogia è stato poi utilizzato lo stesso termine anche nel caso di un soggetto che conduce se stes­so: m. di apprendimento, m. di → studio, ecc.

P. Gianola

2. M. e metodologia. L’espressione meto­ dologia associa all’idea di percorso quella di discorso, dal gr. logos e logìa. La meto­ dologia può quindi essere definita, come giustamente è stato fatto da R. Descartes, Discorso sul m. In quest’ultimo caso l’espressione però era direttamente riferita al m. razionale da seguire nell’indagine fi­losofica. In generale il termine m. nella sua accezione di via della ragione può essere definito forma di razionalità umana. L’at­t uale discussione o discorso sul m. verte proprio sulle varie vie della ragione o forme di razionalità che sono disponibili al­l’uomo nel pensare, nel comunicare, nell’agire; anche perché dal XVII sec. fino alla metà del XX sempre più è stata assolutizzata una sola via della ragione, quella analitico-scientifica. Ma oggi si riconosce che la ricerca può seguire una molteplicità di m. di indagine, che la qualità delle sue con­ clusioni non può essere solo riferita al ri­gore seguito nel rispetto di una sola manie­ra di procedere. Così a m. di indagine analiticoscientifici si accostano m. dialettici e interpretativisti, m. quantitativi e m. quali­tativi, giungendo spesso a vere e proprie forme di triangolazione tra m. di natura differente.

Percorso o itinerario da seguire per otte­nere risultati validi e affidabili in un qualsiasi set-

3. M., metodologia e scienze dell’educazio­ne. In questo ambito si nota una certa dis­sonanza tra chi accetta il termine metodo­logia nel senso di discorso sui m. educativi (metodologia educativa) oppure didattici (metodologia didattica) e chi vuole riservare l’espressio­ne

Bibl.: Weber E., Erziehungsstile, Donauwort, Auer, 31972; H enz H., Lehrbuch der systematischen Pädagogik, Freiburg, Herder, 19754; Diel P., Les principes de l’éducation et de la rééducation, fondée sur l’étude des motivatìons intimes, Paris, Payot, 1976; Gianola P., «M.», in J. E. Vecchi - J. M. Prellezo (Edd.), Progetto educati­vo pastorale. Elementi modulari, Roma, LAS, 1984, 175-187; Lenzen D. (Ed.), Enzyklopädie der Erziehungswissenschaft, vol. IV: Methoden und Medien der Erziehung und des Unterrichts, Stuttgart, Klett-Cotta, 1985; Gianola P., Il campo e la domanda, il progetto e l’azione. Per una pedagogia metodologica, Edizione a cura di C. Nanni, Roma, LAS, 2003; García Hoz V., L’educazione personalizzata, Brescia, La Scuola, 2005; Baldacci M., Personalizzazione o individualizzazione?, Trento, Erickson, 2006.

METODO

741

METODO: SCUOLE DI

«metodologia» al solo discorso relativo ai m. di indagine in ambito educativo o sui m. di riflessione critica sull’educazione (→ metodologia pedagogica). Di qui l’espressione spesso usata di «didattica e metodologia», in cui si accosta il discorso sul m. di insegnamento a quello sul m. di ri­cerca in questo settore. Si può aggiungere che in ambito tedesco e italiano è stata uti­lizzata nel passato prevalentemente la pa­rola «metodica» per l’esame dei m. dal punto di vista pratico e il termine «meto­dologia» per la discussione dei m. dal pun­to di vista teorico. Anche nelle → scienze dell’educazione ci si avvia a un più marca­to pluralismo di m. di indagine, accostando ai tradizionali m. teorici e storici, m. empi­r ici di tipo quantitativo e qualitativo e m. cosiddetti interpretativisti. Bibl.: A ntiseri D. - B. M. Bellerate - F. Sel­ vaggi , Epistemologia e ricerca pedagogica, Roma, LAS, 1976; Morin E., Il m. Ordine, disordine orga­nizzazione, Milano, Feltrinelli, 1977; Pellerey M., Grida di guerra e ipotesi di conciliazione in peda­gogia, in «Orientamenti Pedagogici» 37 (1990) 217-227; Coulon A., Ethno­ méthodologie et éducation, Paris, PUF, 1993; Desantes-Guanter J. M. - J. López Yepes, Teoría y técnica de la investigación científica, Madrid, Síntesis, 1996; Jaeg ­ er R. M. - T. Barone (Edd.), Complementary methods for research in education, Washington, American Edu­cational Research Association, 21997; A ntiseri D., Teoria unificata del m., Torino, UTET, 2001; Green J. I. - G. Camilli - P. B. Elmore, Handbook of complementary methods in education research, Mahwah, LEA, 32006; Morin E., Il m., vol. 3., La conoscenza della conoscenza, Milano, Cortina, 2007.

M. Pellerey

METODO BIOGRAFICO → Metodo → Ricerca educativa/pedagogica

METODO: scuole di Nome con cui sono denominate le prime istituzioni italiane per la formazione dei maestri elementari nell’Ottocento. 1. La prima «scuola normale di m.» viene aperta, presso l’università di Torino, nell’ago742

sto del 1844. Ne è professore → Aporti. Si hanno notizie di altre esperienze precedenti: a Milano, F. Soave (1743-1806), seguendo le indicazioni del governo austriaco, apre nel 1787 il primo Istituto di metodica, con un corso per la preparazione all’insegnamento. A Napoli è creata nel 1789 una scuola per la formazione dei maestri elementari, che ha vita breve. Anche in Piemonte si era già sentita l’esigenza di formare i maestri. Nel 1838 V. Troya ottiene dal Magistrato della Riforma di applicare i m. di → Pestalozzi e di → Girard. 2. I risultati positivi e le richieste pervenute, in un contesto di interesse per l’istruzione popolare, portano al corso del 1844. Esso, benché di breve durata (un mese), riscuote un grande successo. Con Regie Lettere Patenti (1845), le scuole di m. hanno una prima regolamentazione. Viene precisato il loro obiettivo: «diffondere universalmente le cognizioni e la pratica delle migliori dottrine d’educazione». Accanto alla «scuola superiore di m. eretta nell’università di Torino» (1845), e «destinata a formare professori di m.», sono istituite le scuole provinciali, «destinate a formare maestri delle scuole elementari» (art. 1). Tra il 1846 e il 1848 una ventina di città hanno una propria scuola di m. La durata delle lezioni, nel corso di «m. superiore», è di un anno scolastico; viene ammesso chi attesta di aver compiuto un corso in una facoltà. Nelle scuole provinciali, invece, la durata è di tre mesi; le frequentano i maestri in esercizio e gli «aspiranti maestri», superato l’esame di ammissione. Essi, dopo aver ottenuto la patente di maestro, non possono esercitare la professione senza aver fatto «un anno di tirocinio» compiuto «presso un Maestro normale» (art. 31). La L. Boncompagni del 1848 distingue due tipi di scuole provinciali: a) scuole di m., per la preparazione all’insegnamento nelle scuole elementari superiori; b) scuole inferiori di m., per l’insegnamento nelle scuole elementari inferiori. 3. Con il Regolamento del 1853, le scuole di m. (aperte ormai alle allieve maestre) diventano scuole magistrali. Con la L. Casati del 1859, le «scuole magistrali maschili e femminili» sono destinate a «formare maestri elementari di grado inferiore» (art. 370). Della formazione dei maestri di grado supe-

METODOLOGIA PEDAGOGICA

riore si occupano invece le → scuole normali. I corsi cominciati a Torino, pur con il loro modesto programma, hanno avuto il merito di aver contribuito a centrare l’attenzione degli studiosi sul problema del m., portandolo «dallo stato della empirica frammentarietà verso quello della sistemazione e deduzione scientifica» (Vidari, 1922, XXI). Bibl.: R ayneri G., Della instituzione di scuole di m. provinciali superiori, in «Giornale della Società d’Istruzione e d’Educazione» 3 (1852) 494-499; Vidari G., «Le prime scuole di m. e i primi principi di metodica», in A. G. R ayneri, Primi principi di metodica, Torino, Paravia, 1922, III-XXVII; Gambaro A., «La pedagogia italiana nell’età del Risorgimento», in Nuove questioni di storia della pedagogia, vol. II, Brescia, La Scuola, 1977, 535-796; Bellatalla L., Storia della pedagogia: questioni di m. e momenti paradigmatici, Firenze, Le Monnier, 2006.

J. M. Prellezo

METODOLOGIA PEDAGOGICA La m. fa riferimento all’intenzione di usare regole precise per condurre bene la ricerca conoscitiva o operativa in un determinato settore (ad es. la pedagogia per l’educazione). Il → metodo è diventato preoccupazio­ne costante da quando l’uomo ha costatato che si potevano garan­tire esiti migliori seguendo norme, vie e procedimenti ri­spondenti a un piano prestabilito in luogo di operare a caso e a rischio o anche con intuito geniale o con saggezza. Sono in tal modo sorti il metodo del pensare bene (la → logica) e il metodo del fare bene (la → tecnologia). Poi si è affacciato un impegno più completo: pensare e fare bene cose valide, intrecciando criteri di forma e sostanza, impegnando armoniosamente una larga gamma interdisciplinare di natu­ra formale, contenutistica ed assiologica. 1. Natura e compiti. La m. è di per sé riflessione sul metodo. Non insegna metodi, ma inse­g na a ricercare e discutere in maniera cor­retta, critica o euristica attorno ad essi in ogni campo di applicazione, per poi tra­ durli in modelli operativi che pervengono a prodotti finali costruendo, analizzando,

mi­gliorando. La m.p. è il luogo dove la → pedagogia si fa scienza autonoma dell’educazione, con sta­t uto che la definisce e la distingue, in­dividuandone le caratterizzazioni. È la ri­cerca scientifica che discute e definisce i metodi (o più largamente i procedimenti razionali) delle operazioni dirette a inter­ venire, progettare, agire e verificare nei fatti e negli atti dell’educazione. Ha come oggetto remoto e prossimo l’educazione, intesa non come insegnamento-apprendi­mento (→ didattica) o come cura medica di disfunzioni psichiche (terapia), ma come formazione della personalità e soluzione dei problemi umani, mediante la promo­zione o il ricupero delle qualità della vita dell’uomo in quanto uomo, dalla nascita al­la morte e oltre, nelle dimensioni indivi­duali, sociali, storiche, eterne. Abitual­mente la → ricerca pedagogica cade subito sull’ → azione educativa. Sarebbe meglio allora chiamarla m. educativa, ed è quel che di so­lito si trova sul mercato come prodotto commerciale di insegnamento, letteratura, prassi. Ma si può prospettare un impegno di più vaste propor­zioni: quello della ricerca metodologica del fatto edu­cativo nell’arco del suo accadere totale, dal suo nascere, definirsi, progettare, agire, ve­rificare e migliorare. Questo è il vero mo­mento della m.p. Essa acquista il suo senso all’interno di una concezione della peda­gogia, in cui, oltre allo spazio della pedago­gia filosofica (intesa come ricerca teorica concettuale e razionale su che cosa è l’educazione) ed oltre alla pedagogia scientifica positiva (volta a chiarire quali sono la con­dizione strutturale e dinamica e la situazio­ne effettiva del campo educativo e dei fat­tori bio-psicologici, sociologici, culturali, politici, ideologici che entrano nel fatto educativo) viene ad evidenziarsi la pedago­gia metodologica, tesa a precisare che cosa fare e come fare per assumere, riorganiz­zare, rilanciare in modo adeguato e valido l’intero fatto educativo, compiendo con metodo le operazioni necessarie per pre­ parare i fattori agenti e la loro collocazione nel campo, organizzare modelli di progetti e metodi, condurre l’atto educativo con va­ lidità di risultati e efficacia di mezzi. Que­ st’ultima è propriamente la m.p. 2. I passi della m.p. A sua volta, al suo in­ terno, si possono distinguere in successione diversi momenti ed aspetti: a) m. dell’ → in­ 743

METODOLOGIA PEDAGOGICA

tervento. Ricerca le condizioni di partenza e le possibilità d’azione. Vede il campo e i campi del fatto educativo costituiti dalle ne­cessità umane di bisogno e possibilità di di­venire, coglie le risorse e le condizioni che natura e arte impongono e favoriscono. Coinvolge responsabili, protagonisti e operatori che devono «intervenirvi» con modi competenti e giusti, in vi­sta di progetti validi e efficaci. L’intervento si concre­tizza in operazioni eseguite per scegliere i campi d’azione, per condurre con sufficien­za conoscitiva e normativa le analisi di rac­colta dei dati personali, sociali e culturali, politici, educativi, per orientare alle solu­zioni; b) m. del → progetto. Indaga le ope­razioni di rappresentazione anticipata, coglie la nor­ mativa valida ed efficace dei fattori educati­ vi, in se stessi e nel loro gioco interfattoriale nell’azione e nelle istituzioni educative. Gli stessi opera­tori progettano se stessi. Prendono atto dei loro compiti, ruoli, funzioni, modalità di intervento. Decidono la loro definizione: società e città educante, sistema di educatori e coe­ducatori, comunità educativa e scolastica, gruppi, asso­ciazioni, movimenti, ecc. Scelgono e com­pongono gli stili educativi, organizzano la formazione remota e prossima, prospetta­no e programmano gli elementi della loro azione: → obiettivi e finalità a lungo, medio e breve termine, contenuti, processi, relazioni, mez­zi, principi di m., forme di controllo e di ve­rifica. Conclude il progetto delle → istitu­zioni: con estensione di macro, medio, microsistema, istituzioni naturali e quasi na­t urali, sociali pubbliche, libere e volontarie, di integrazione, di supplenza, di libera gestione; c) m. della azione educativa. È il momento della m. educativa intesa in senso specifi­co, vale a dire volta a chiarire come con­durre l’azione con validità ed efficacia attra­verso passaggi metodici di esecuzione: ag­gancio, crisi, proposta, dialogo, sintesi; come condurre la partecipazione attiva au­toeducante e coeducante dei soggetti: inte­riorizzare, integrare, organizzare e riorga­nizzare la personalità mentale, affettiva, morale, sociale, la condotta e la vita; d) m. di verifica. Momento della valutazione dei risultati, ed in esso dell’in­tero sistema che li ha ben prodotti o non prodotti, chiedendosi: chi valuta? Chi è valutato? Co­me? Con quali conseguenze di prosegui­mento, correzione, cambio, miglioramento? 744

3. Ambiti e livelli. Sem­bra opportuno oggi prevederne almeno tre: a) la m.p. generale: ha la presunzione e il compito di condurre la ricerca e di offrire elementi di metodo per interventi, proget­t i, azioni e verifiche che siano validi al livello di universale e di totale applicabilità in ogni campo geografico, problematico, assiologico, situazionale; b) la m.p. particola­re: ricerca e risolve nella particolarità di aree geografiche, personali, problemati­che, istituzionali; c) la m.p. speciale: assu­me per sé alcuni campi dotati di peculiare difficoltà di analisi e soprattutto di risposta e proposta educatrice o più spesso rieduca­t rice: minorazioni gravi organiche e fun­zionali, devianze accentuate, gravi depri­ vazioni e difficoltà culturali, morali, diffe­ renze personali e socio-culturali, ecc. 4. Livelli di determinazione modale. Si pos­ sono inoltre distinguere quattro grandi li­velli di determinazione modale: a) Al primo livello la m.p. considera le strutture forma­li. A livello di massima formalità ricerca la struttura di ogni fatto pedagogico educati­vo come un caso di prassi di azione sociale: situazione (realtà, valori-problemi, fini-obiettivi, risorse, condizioni), operatori (persone, responsabili e loro ruoli, infor­mazioni, intenzioni, competenze), azione (intervento, progetto, istituzione, metodi, atti). A un livello ancora formale la m.p. illustra il quadro operativosequenziale del percor­so pedagogico-educativo: intervenire (il campo e la domanda, responsabili e prota­gonisti, scelta del campo e della domanda, raccolta analitica dei dati, risorse, condi­zioni per il progetto, le variabili di natura personale, pedagogica, meta-pedagogica, as­siologica e scientifica), progettare (sogget­t i, obiettivi, contenuti, processi, relazioni, mezzi, principi di metodo, procedimenti, istituzioni, disponibilità per l’azione), rea­lizzare (eseguire l’azione e guidare la ri­sposta educante, le strategie e tattiche ra­dicali e d’emergenza), verificare (valutare, retro-agire, innovare). Dentro questo mo­dello sono presentate e discusse le deter­minazioni sostanziali che la teoria e la situazione offrono, non per un giudizio e per una scelta, ma solo per indicare i luoghi e le forme dell’inserimento necessario e corret­ to da attuare a suo tempo e luogo. b) A un secondo livello la m.p. aggiunge alcune de­ terminazioni sostanziali generali. Riprende

MEUMANN ERNST

il modello precedente operativo-sequen­ziale, determinandolo alla luce di scelte so­stanziali (assiologiche, scientifiche, esperienziali, storiche, personali o convenzionali) mostrandone le applica­zioni a un sistema ancora generale di at­t uazione del fatto educativo. È il momento della costruzione di sistemi e piani pedago­gici generali di azione all’interno di scelte decise e motivate altrove: assiomi, teorie, progetti sociali e storici (es.: pedagogia cri­stiana, laica, islamica, materialista, sincretistica, pluralistica e liberale). c) A un terzo livello la m.p. ricerca e offre modelli di intervento, totali, particolari e speciali, prossimi alla piena concretezza delle con­ dizioni del campo (geografico, personale, problematico, ma anche culturale, assiologico, pluralistico). Insegna a elaborare mo­delli progettuali corretti in condizioni to­talmente determinate: oggi, qui, io, noi... Siamo a livello di azione-intervento. La m.p. dovrà ricercare e dare indicazioni per guidare un lavoro di conduzione razionale generale, ma anche di ri-emergenza o inse­rimento di tutte le variabili al di là di ogni semplificazione formale, scientifica e tec­n ica, per passare alla massima determina­zione. d) Esiste un ulteriore livello della m.p.: è quello dell’intuizione, dell’invenzione creatri­ce, dell’esperienza, della saggezza e, perfino, della prova e del rischio. 5. Tre aree concentriche di attuazione. Un’ultima articolazione porta a precisare tre aree concentriche dell’applicazione me­ todologica. La prima area è della m.p. per­ sonale, dove ogni individuo è soggetto di intervento e di azione educativa. La snatu­ra l’ → individualismo, specialmente quan­do non riesce a emergere a livello di → per­sonalismo. Ma la banalizza anche la massi­ficazione dei luoghi e dei metodi. Si focalizza sull’educazione della persona. C’è poi l’area della m.p. sociale (→ pedagogia sociale) che ha come campo ambienti e territori, gruppi, condi­ zioni collettive di bisogno e domanda, ma soprattutto si qualifica per l’apertura delle soluzioni che puntano all’inserimento ed alla partecipazione. È, infine, urgente, oggi più che ieri, portarsi sull’area della m.p. politica, diretta a un lavoro severo di presenza, intervento, legislazione, proget­to, sostegno, azione politica attorno all’educazione, sviluppando interventi di massi­ma comprensione di

area e di progetto, ne­cessaria per potenziare e garantire anche le aree precedenti. Bibl.: Braido P., La teoria dell’educazione e i suoi problemi, Zürich, PAS-Verlag, 1968; M assa R., La scienza pedagogica, Firenze, La Nuova Italia, 1975; De Giacinto S., L’educazione come sistema, Brescia, La Scuola, 1977; Gianola P., Significato di un corso universitario di m.p. generale, in «Orientamenti Pedagogici» 27 (1980) 251-267; Dalle Fratte G. (Ed.), Teoria e modello in pedagogia, Roma, Armando, 1986; Galvan S., La logica del modello, in «Il Quadran­ te Scolastico» 10 (1987) 35, 32-52; Gianola P., Re­s ponsabilità della pedagogia, pedagogia responsa­bile, in «Orientamenti Pedagogici» 37 (1990) 9-22; Pellerey M., Educare. Manuale di pedagogia come scienza pratico-progettuale, Roma, LAS, 1999; Gianola P., Il campo e la domanda, il progetto e l’azione. Per una pedagogia metodologica. Edizione a cura di C. Nanni, Ibid., 2003; García Hoz V., L’educazione personalizzata, Brescia, La Scuola, 2005.

P. Gianola

MEUMANN Ernst n. a Urdingen, Basso Reno, nel 1862 - m. ad Hamburg nel 1915, pedagogista tedesco. Allievo e assistente di → Wundt, professore di filosofia e pedagogia alle Università di Zurigo (1897), di Königsberg, di Münster, di Halle e di Hamburg (1911), M. applica alla pedagogia i metodi della psicologia sperimentale e fonda con A. Lay nel 1905 la rivista «Die Experimentelle Pädagogik». M., che intendeva fondare la pedagogia sulla psicologia sperimentale facendo dell’esperimento un metodo per lo studio del fatto educativo e definendo criticamente i fini educativi esclusivamente in base ai criteri di tipo esperienziale, svolge un’intensa opera divulgativa con le sue conferenze e con la pubblicazione di diversi scritti, contribuendo così al risveglio nella pedagogia dell’interesse per i fattori psicologici e stimolando – nonostante gli evidenti limiti della sua impostazione – la fondazione scientifica della pedagogia. Bibl.: principali opere di M.: Über Ökonomie and Technik des Lernens (1903); Vorlesungen zur

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MEZZI DIDATTICI

Einführung in die experimentelle Pädagogik und ihre psychologische Grundlagen (1911-1914); Abriss der experimentellen Pädagogik (1920).

F. Ortu

MEZZI DIDATTICI Con la denominazione m.d. potremmo intendere tutti quei materiali o strumenti che possono essere utilizzati negli interventi formativi. Qualsiasi apparecchiatura o materiale cioè, che faciliti, aiuti in qualche modo, i processi di insegnamento-apprendimento. A volte il loro nome varia a seconda dell’ambiente in cui si utilizzano e delle peculiarità che si intendono sottolineare. Si sente parlare, in modo più o meno appropriato di sussidi didattici, di materiale → audiovisivo, di m. per l’istruzione, di risorse per l’aula, di attrezzature didattiche. Tutte le denominazioni comunque sottolineano l’aspetto principale del m.d. che è quello di rendere il processo di insegnamento-apprendimento più facile e più efficiente in relazione agli obiettivi da raggiungere. 1. Utilizzazione. In campo pedagogico si sente sempre di più la necessità di facilitare i processi formativi attraverso metodologie, m. e strumenti che rendano gli interventi più interessanti, attenti alle nuove sensibilità delle persone ed al nuovo modo di comunicare. Il m.d. certamente non risolve problemi di carenza organizzativa o contenutistica e, se viene considerato in modo isolato, può anche dimostrarsi un elemento poco significativo e diventare controproducente. Può far nascere, in particolare inizialmente, delle forti speranze di miglioramento pedagogico-didattico che difficilmente vengono poi concretizzate creando così successivamente amarezza e frustrazione per la poca o nulla efficacia degli investimenti fatti. Oggi nell’ambiente formativo sono presenti diversi m.d. Inevitabilmente però una loro utilizzazione sistematica nei processi di insegnamento-apprendimento obbliga a ripensare l’intera progettazione con tutto ciò che viene coinvolto nella fase operativa: ambienti, persone, obiettivi da raggiungere e contenuti da comunicare, modalità da utilizzare. I m.d. perciò, per contribuire efficacemente 746

a miglioramenti significativi e duraturi dovrebbero essere considerati nell’insieme di un progetto globale e non come elementi autonomi, quasi staccati dalla realtà formativa. Utilizzati senza continuità o in modo sporadico e casuale, difficilmente contribuiscono positivamente allo sviluppo degli interventi progettati. Molto si è fatto nel perfezionare i m.d. tradizionali come il libro di testo e per progettarne di nuovi. Il perfezionamento dei m.d. tradizionali e la costruzione di nuovi è quanto mai utile, crea però non pochi problemi di tipo gestionale e pedagogico-didattico obbligando a ripensare le modalità con cui si interviene nel mondo formativo a tutti i livelli. È praticamente difficile avere un buon apprendimento in un gruppo strutturato, senza un uso sistematico e non saltuario di strumenti che aiutino ad estendere i messaggi tradizionali, perfezionarli, renderli più intuitivi e facilmente ripetibili, soprattutto per chi ha scarse capacità di astrazione. Inoltre è praticamente difficile gestire tali m. efficacemente se operatori ed allievi non acquisiscono capacità di gestire e leggere i nuovi linguaggi. L’avvento del testo stampato nel passato ha creato una situazione analoga obbligando a rivedere radicalmente le modalità di intervento nei processi formativi di allora. Il m.d. può diventare realmente un elemento di motivazione e di innovazione nel processo formativo e un concreto aiuto nell’agire quotidiano, però è necessario in chi lo usa una conoscenza delle sue peculiarità e una capacità di ottimizzarne le possibilità pedagogico-didattiche inserendolo nello sviluppo dell’intervento nel modo e al momento opportuno. 2. Tipologia. Nel classificare i m.d. potremmo essere più attenti alle caratteristiche pedagogico-didattiche oppure a quelle tecniche, storiche, commerciali, di utilità pratica. In base a ciò che si intende evidenziare si possono avere diversi prospetti. Una classificazione utile in campo formativo è quella che distingue tra m.d. tradizionali e altri m.d. tipo audiovisivi, computer o sistemi integrati come potrebbe essere ad es. una stazione multimediale o un laboratorio linguistico. È una classificazione che ci permette di evidenziare maggiormente alcune caratteristiche fondamentali tipiche dei nuovi strumenti: come il maggior numero di possibilità

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didattiche, la possibilità di conservazione del → software didattico, la maggiore o minore difficoltà di utilizzazione, i costi iniziali e di esercizio, la trasportabilità, le esigenze di opportune strutture come aule attrezzate per un loro uso ottimale e la necessità di fonti energetiche per il funzionamento. Tra i m.d. tradizionali possiamo collocare la grande famiglia delle lavagne, i cartelloni, le fotografie, i poster, i plastici, i modelli, i block notes giganti e in particolare, in ambienti scolastici, i libri, le dispense, le schede, i fogli di lavoro. Sono questi m. che non necessitano di energia elettrica per funzionare e che possono essere utilizzati in condizioni più disparate senza richiedere ambienti particolarmente attrezzati. In un certo senso li potremmo chiamare m. visivi il cui software non è proiettabile o m. «poveri» come alcuni autori li chiamano, sottolineando così il basso costo di gestione, la possibilità di utilizzo in ambienti assai diversi e poco attrezzati e senza richiedere fonti energetiche particolari. Sono m. ancor oggi molto utilizzati, per la loro semplicità e praticità. Tra gli altri m.d. potremmo invece collocare: m. audiovisivi; laboratori linguistici; m. informatici; sistemi integrati più o meno interattivi (Personal Computer [PC] + videoregistratore + lettore di dischi); stazioni multimediali. Sono m.d. più o meno sofisticati. Alcuni di essi utilizzano esclusivamente o in modo integrato il PC e richiedono in ogni caso un’organizzazione didattica efficiente e costi sia per l’acquisto come per la gestione normalmente maggiori dei m.d. più tradizionali, oltre che un personale preparato per un loro uso anche solo minimale, fonti di energia e sovente aule attrezzate. 3. Uso nell’ambito formativo. Oggi vi si fa largo uso di m., sussidi, strumenti didattici, molti dei quali sono conosciuti. Qui ne vengono presentati tre: uno «tradizionale», la lavagna comune; uno più recente, ma legato alla didattica tradizionale, la lavagna luminosa; ed infine uno completamente innovativo, plurifunzionale, non legato esclusivamente al mondo formativo, il computer. La scelta è stata fatta tenendo presente il forte uso per i primi due e la novità per il terzo. 3.1. Lavagna. Uno dei più comuni strumenti utilizzati in un’aula scolastica è certamente la lavagna: una lastra di ardesia o di materia-

le sintetico di dimensioni diverse, sulla cui superficie piana si può scrivere, disegnare e cancellare facilmente. a) Anche se non è uno strumento didattico antichissimo (l’apparizione della lavagna di ardesia nelle aule scolastiche risale a circa 150 anni or sono) e non si può prevedere che continuerà ad avere la popolarità avuta sino ad oggi, è difficile pensare di svolgere dei corsi senza che in qualche modo venga chiamata in causa. Si utilizzano normalmente gessetti bianchi o colorati per le lavagne di ardesia o di materiale sintetico sovente di colore verde e, per quelle con superficie laminata bianca, pennarelli colorati di diverso spessore. Particolarmente le lavagne bianche vengono rese magnetiche interponendo una lamina metallica sotto la superficie su cui si scrive. Ci sono anche lavagne fosforescenti retroilluminate che evidenziano le scritte fatte con pennarelli opportuni, lavagne di ceramica o di altro materiale e per usi particolari. b) Estendendo il senso del termine, potremmo anche parlare di lavagne di panno, lavagne adesive su cui si possono riportare scritte o figure. Nelle grandi aule scolastiche si trovano grosse lavagne mobili, a fogli scorrevoli verticalmente in modo da rendere disponibile, per un intervento, vaste superfici. La lavagna è ancora oggi uno strumento molto semplice ed economico per spiegare, presentare concetti, fare dimostrazioni. Non esige una preparazione particolare da parte di chi la utilizza; è solo necessario acquisire un minimo di manualità nello scrivere in modo che si possa leggere bene da ogni punto dell’aula per coinvolgere tutti i presenti con efficacia, e saper scegliere gli strumenti per scrivere e cancellare in modo da facilitare le operazioni essendo necessario farlo e cancellare praticamente con continuità. 3.2. Lavagna luminosa. Apparecchiatura che proietta su uno schermo adeguato, scritte, disegni o immagini riportate su un supporto trasparente prima o durante l’intervento (→ lezione, conferenza). a) È un m.d. molto diffuso per la sua praticità e possibilità d’uso in ambienti normali. Inoltre permette la proiezione dei trasparenti rimanendo sempre rivolti verso il pubblico, controllando meglio così il processo comunicativo e l’efficacia immediata di quanto si sta presentando. Ci sono in commercio diversi tipi di lavagne luminose. Normalmente si usano lavagne a 747

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cassonetto, a volte un po’ ingombranti, ma adatte ad aule più o meno grandi. Ci sono anche lavagne luminose portatili molto leggere e compatte. Le lavagne luminose sono costituite da una sorgente luminosa montata su un sistema a specchi concavi per convogliare meglio il fascio di raggi luminosi verso il piano di lavoro; da una grossa lente (lente di Fresnel) su cui vengono posti i supporti trasparenti; da un sistema ottico di lenti e specchi per concentrare e dirigere il fascio luminoso su uno schermo generalmente alle spalle del relatore e da un sistema di raffreddamento per mantenere la temperatura della lampada nei limiti voluti. Esistono anche lavagne luminose per usi particolari con possibilità di aggiungere accessori per proiettare contemporaneamente diapositive oppure per ottenere una simulazione del movimento. È uno strumento audiovisivo che risale al dopoguerra. b) Rispetto alle lavagne tradizionali ha una migliore resa e possibilità di preparare e conservare il prodotto (software), ma ha un costo di gestione maggiore della lavagna tradizionale dovuto al ricambio periodico della sorgente luminosa, al costo dei pennarelli e supporti trasparenti. Inoltre richiede ambienti con sorgenti di energia elettrica opportune. È comunque un m.d. molto utile nella presentazione di un argomento specialmente se i trasparenti sono stati costruiti con attenzione alle esigenze di una comunicazione efficace e se viene presentato con tecniche che aiutano a seguire il discorso: la rivelazione graduale, la sovrapposizione di più trasparenti, l’animazione di alcuni particolari o il completamento di un trasparente base con ulteriori indicazioni. 3.3. Computer. È un termine preso dalla lingua ingl. che indica una macchina capace di elaborare dati in base a programmi prestabiliti. Potrebbe essere definito come un insieme di circuiti elettronici e di altri dispositivi, uno strumento di carattere universale, capace di elaborare informazioni per scopi prestabiliti. a) Una macchina diversa da quelle tradizionali. Il computer è una macchina che può essere finalizzata di volta in volta a vari compiti specifici secondo le esigenze, modificando solo le indicazioni dei programmi che sono preposti al suo funzionamento e non la struttura fisica. Si presenta quindi come una macchina con caratteristiche di «universalità», aperta e flessibile. È costituito da una 748

componente fissa detta hardware e da una componente logica flessibile, i programmi, denominati normalmente software (→ informatica), senza i quali è praticamente un insieme di pezzi tanto costosi quanto inutili. Il termine computer (in it. si potrebbe chiamare «elaboratore») può indicare realtà fisiche diverse. Attualmente sono presenti sul mercato computer con costi e potenzialità operative assai vari. Ci sono i microcomputer portatili (alcuni tipi, per le piccole dimensioni e peso, vengono chiamati lap top) o da tavolo, da ufficio, chiamati anche personal computer per indicare un uso prevalentemente personale e autonomo, non in un gruppo o in rete; i minicomputer; i main-frames e i supercomputer utilizzati nei grandi centri di ricerca, nei laboratori, nelle imprese e nella burocrazia dove è necessario avere il controllo di situazioni particolari, ad es. gestione di banche dati, contabilità, controllo della situazione di pratiche, rotte dei satelliti. Ci sono poi altri computer particolari dedicati a usi specifici, come ad es. giochi, controlli di fenomeni o di processi che integrano servizi o servomeccanismi. b) Una macchina recente. Anche se i primi tentativi di facilitare i calcoli aritmetici mediante macchine risalgono ad epoche remote, bisogna attendere il 1600 con G. Schikard, Pascal e Leibniz, e più in particolare il 1800 con T. di Colmar e C. Babbage per vedere costruito un qualche dispositivo che assomigli, almeno per alcune funzioni, al computer attuale. La prima generazione di computer, come oggi noi li concepiamo, risale agli anni ’40 con la costruzione di una macchina automatica, prima per opera di H. Aiken dell’università di Harvard con l’aiuto della IBM, chiamata Mark I e poi da parte di W. Mauchly-Presper Eckert dell’università della Pennsylvania, chiamata ENIAC. La prima macchina fu costruita utilizzando circa 3000 relais telefonici; la seconda con 18.000 valvole termoioniche. Quindi, a ritmi sempre più crescenti, sia negli USA che in Europa, si sono fatte molte ricerche per perfezionare tali macchine e da allora si sono susseguite ben 4 generazioni segnate da cambi tecnologici molto vistosi. Il computer è passato dal componente base della valvola termoionica degli anni ’50, al transistor degli anni ’60, al circuito integrato (chip) degli anni ’65-70, al circuito altamente integrato LSI (Larg Scale Integration) degli anni ’70-80, sino agli at-

MEZZI DIDATTICI

tuali. L’evoluzione tecnologica ha portato a prestazioni sempre più elevate ed a consumi energetici, costi ed ingombri sempre più bassi. c) Utilizzazione. Non c’è ormai settore produttivo e di servizi nella società attuale che in qualche modo non utilizzi un computer direttamente o indirettamente. Si sono creati certamente non pochi problemi di tipo sociale legati all’occupazione, alle nuove fonti di potere e di «aristocrazia informatica», però si sono aperti nuovi campi di ricerca che solo qualche decina d’anni fa non erano immaginabili. In campo formativo il computer si sta dimostrando assai valido per migliorare i processi di insegnamento-apprendimento, sia come «personal», a sé stante, sia condividendo risorse ad es. in rete come elemento di un gruppo, sia come elemento integrativo nella gestione di altri strumenti. I primi tentativi di utilizzare i computer ai fini dell’apprendimento risalgono agli anni ’50, sotto l’influsso dell’ → istruzione programmata. Gli ostacoli più gravi che si sono subito presentati sono stati innanzitutto di tipo economico, dovuti agli alti costi dell’hardware, quindi di tipo culturale, gestionale e pedagogico-didattico. Già dall’inizio, pur sottolineando un futuro brillante per tale nuovo strumento, fu necessario confrontarsi con delle nuove problematiche legate principalmente alla creazione di attese ingiustificate e di false sicurezze; all’impoverimento dell’informazione per le semplificazioni che si dovevano fare; al rischio di abbandonare, nei processi formativi, le tradizionali forme di insegnamento già collaudate; all’impoverimento di rapporti interpersonali; alla necessità di rivedere la logica del gruppo «classe» per lasciare spazio ad un insegnamento più individuale, tipico del personal computer, che si presta meglio per un uso in piccoli gruppi o singolarmente. Il perfezionamento tecnologico e ulteriori studi sui processi di insegnamento-apprendimento hanno comunque evidenziato anche le sue grandi possibilità nei processi formativi per lo sviluppo delle singole discipline e nell’insegnamento assistito (in inglese C.A.I., Computer Aided Instruction). L’uso del computer nei processi formativi può essere quindi molto articolato. Può aiutare nel reperire informazioni in tempo reale; creare un ambiente per fare delle esercitazioni (drill & practice); per esercitarsi in calcoli, formule o acquisire abilità specifiche; per guidare

nell’apprendimento (tutorial) con livelli di interattività diversi; per simulare fenomeni fisici e matematici; per aiutare nella risoluzione di problemi (→ problem solving); per simulare un «compagno di giochi»; per aiutare nell’acquisizione di una cultura informatica; per elaborare testi e dispense (word processor), fogli elettronici (spreadsheets) e archivi (data base), tabulati contabili; per disegnare (computer design) o operare in ambiente grafico in generale o infine per produrre animazioni, ipertesti più o meno complessi, banche dati. Le applicazioni didattiche del computer non sono poche e sono aperte; molto dipende dal software disponibile e dalle possibilità degli operatori. Nella formazione il computer non ha un ambito ben definito come lo hanno altri strumenti, ad es. una lavagna luminosa. Si presenta ancora come uno strumento relativamente giovane, non completamente conosciuto nelle sue potenzialità, anche se abbastanza potente e capace di venire incontro a svariate esigenze. È però una macchina che ha bisogno di contenuti e programmi fatti dall’uomo per diventare utile, programmi che, oltre ad essere tecnicamente validi, necessitano anche di una impostazione pedagogico-didattica, in quanto saranno utilizzati in ambienti formativi. In questo senso un suo sviluppo nel campo della formazione è condizionato dallo sviluppo del software didattico, non sempre abbondante e didatticamente interessante. Tuttavia, nonostante limiti reali che si evidenziano in un suo uso sistematico, è certamente uno strumento che può contribuire notevolmente a rendere l’insegnamento più personalizzato e rispettoso di ritmi di apprendimento diversi; diventare un «amico simpatico» nello studio che non si adira mai e che fa risparmiare tempo in operazioni ripetitive di calcolo e di scrittura. Può quindi migliorare i processi di insegnamento-apprendimento, anche se non in modo automatico e senza uno sforzo di aggiornamento da parte del personale operante nell’ambiente formativo. Bibl.: Filippazzi F. - G. Occhini, Il computer: capire e applicare l’informatica, Milano, Il Sole 24 Ore, 1990; Ellington H. - P. R ace, Producing teaching materials. A handbook for teachers and trainers, London, Kogan Page, 1994; Homson J. B., M. di comunicazione e modernità: una teoria sociale dei media, Bologna, Il Mulino,

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MEZZI EDUCATIVI

1998; Varisco B. M. (Ed.), Nuove tecnologie per l’apprendimento: guida all’uso del computer per insegnanti e formatori, Roma, Garamond, 1998; Cerretti F., La comunicazione: dalla cultura orale alla cultura elettronica, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2000; Ferri P., Teoria e tecniche dei nuovi media: pensare formare lavorare nell’epoca della rivoluzione digitale, Milano, Guerini, 2002; Galliani L. et al., Tecnologie informatiche e telematiche, Lecce, Pensa Multimedia, 2002; Davis M., Il calcolatore universale: da Leibniz a Tauring, Milano, Adelphi, 2003.

N. Zanni

MEZZI EDUCATIVI In senso largo m.e. è tutto ciò che rende possibile il passaggio ai fini: gli agenti e le agenzie, i contenuti, i progetti e i metodi, i sussi­di materiali, edilizi, finanziari, le condizio­n i che facilitano relazioni e processi. In senso stretto lo sono solo le operazioni-azioni che, componendosi in vasta sintesi, producono direttamente l’educazione. 1. I m.e. si collocano nelle istituzioni educative, impe­gnano tutti gli agenti e i fattori. Il m. sta tra la partenza e l’arrivo e permette il passag­gio. Il m.e. permette al giovane di passare dalla partenza potenziale all’esito formativo, all’educatore dalla intenzione all’attua­zione; ad educandi ed educatori permette l’attuazione della relazione educativa. La pedagogia tedesca ha svisce­rato lungamente il tema, offrendo quadri e elaborazioni. Già → Herbart (1776-1841) distingueva il governo, l’insegna­mento e la «coltura morale». Göttler (1950) distingue i m. attiva­ ti dall’educatore e quelli vissuti dall’edu­ cando sotto la sua guida: m. di stimolazione e repressione, di fissazione e liberazione. Il quadro mi­gliore sembra quello di J. Spieler (1944): m. di esercizio e abitudine, m. della persua­sione, della formazione culturale e della guida all’azio­ne, cui aggiunge la guida d’autoeducazio­ne e il contatto attivo con il giovane al di fuori dell’azione educativa. Su queste basi si cerca qui di seguito di indicare un quadro sistematico dei m.e. 2. I m. dell’informazione. Vale il principio di → Rosmini: quello che io non so, per me 750

non esiste. L’informazione è la condizione iniziale di ogni essere e agire umano. I suoi m. avviano l’educazione. Alla base stanno l’incontro con la realtà, l’osservazione di­ retta, l’esperienza vissuta interiore, spon­ tanea, riflessa. Più efficace può essere l’indicazione di esperti. La → lezione è m. an­tico e moderno, sistematico, ma purtroppo unidirezionale, pur con i molti correttivi che oggi si collegano ad essa. La integrano la ricerca individuale o di gruppo, il dialo­go, la conversazione, la discussione. La let­t ura aiuta a spaziare. Efficace può essere la narrazione. Globalmente valgono la paro­la, il linguaggio, i concetti, le scienze, gli audiovisivi. Oggi si pone in tutta la sua ambivalenza la navigazione in internet e l’uso delle banchedati informatiche. È efficace l’esemplarità. 3. I m. di motivazione. Collegano fini e pro­ poste con le dinamiche di assimilazione e adesione pratica: la vitalità intima, il senti­ mento, l’amore, la coscienza del dovere. Al primo posto è sempre stata posta la → au­ torità degli educatori, oggi dei contenuti. Accanto, in funzione strumentale, si può porre il binomio classico e discutibile dei → premi e castighi. Oggi si considera piutto­sto la → motivazione legata alla valorizza­zione, oggettiva, soggettiva, personale. L’amabilità attrae e lega. L’amore congiunto a ogni comunicazione la carica di dinami­ca persuasiva, obbligante o distogliente. Le norme educano non tanto perché coman­dano o proibiscono, ma se e in quanto escono dai valori della realtà e della con­dotta e le regolano. La stessa cosa vale per rego­le, regolamenti, statuti, discipline, ordini, comandi, proibizioni. Potere, governo, au­torità, diritto e dovere, controllo, direzio­ne, comando sono m. educativi solo se ca­ricati ed espressivi delle forze di ragione e vita che li sostengono e ispirano e di cui si fanno mediatori. In tale luce di indicazio­ne e richiamo profondo valgono l’esorta­zione, la lode e il biasimo o rimprovero, l’incoraggiamento, la censura, la fiducia e la stima, la testimonianza, l’avvertimento. La verità chiara e penetrante è fonte di ottima motivazione, specialmente se si fa messaggio e proposta, congiunti a testimo­nianza che lascia trasparire i valori che li motivano e a esemplarità ammirevole e ideale. Motivano impegni assunti, promes­se, appartenenze e adesioni a gruppi e co­munità, con il soste-

MIANI (EMILIANI) GIROLAMO

gno dell’amicizia, della stima, dell’aiuto, dell’accettazione e del po­tenziamento, perfino dell’emulazione lon­t ana dall’invidia e aperta alla collaborazio­ne e all’affidamento di responsabilità. Completano la → meraviglia, lo → stupore, l’ammirazione, la curiosità, l’esperienza precedente o procedente gratificante. In al­t ra direzione si affacciano la fede, la pre­ghiera, la grazia, connettendo lo spirito umano con lo Spirito Santo di Dio. 4. I m. di guida educante. Vengono primi l’incontro, il → colloquio personale, il → dialogo, soprattutto se dan­no spazio alla domanda, all’interrogazione o le suscitano, le maturano, ne valorizzano l’apporto. Ideali sono la coscienza e l’autodirezione, personale, di gruppo, di comu­nità, di istituzione, magari con guida ester­na maturante. Autorità, regolamenti, tra­dizioni, comandi, codici e leggi, direzioni, controlli sono indicatori educativi se espressivi di mediatori oggettivi di realtà e doverosità di contesto e sistema e se sono promoto­r i di vita. Così l’assistenza è esemplare e evocatrice, più guida che sicurezza di ordi­ne. La direzione educatrice e spirituale of­f re aiuto sistematico progettuale. Valgono l’orientamento e il discernimento. 5. I m. di esperienza guidata educante. La esperienza educante della vita è buon m. se attua tre condizioni: se è carica dei conte­ nuti idonei per far crescere; se è partecipa­ta attivamente con larghezza e profondità tale da impegnare, maturare, arricchire ogni dimensione della persona; se è media­t a dalla guida esperta oggettivamente e ef­ficace soggettivamente degli educatori. La vita educa in e con momenti quotidiani o forti. Accadimenti e andamenti personali, comunitari, ambientali, sociali, culturali, politici, religiosi, professionali offrono oc­casioni. Sono m.e. importanti la → tradizione culturale, la convivenza sociale, la vita di famiglia, la scuola, la comunità religiosa, la comunicazio­ne sociale. Più prossimi sono gli incontri giovanili, informali e organizzati, special­mente tra coetanei, gli incontri e la relazio­ne maschile e femminile, il → tempo libero, di libero impegno, il → volontariato, esperienze di arte varia e attività culturali; il → gioco, libero, dilettantistico, agonisti­co; le celebrazioni e le → feste, le marce e le dimostrazioni motivate, le visite, le espe­rienze di libertà responsabile.

Bibl.: Spieler J., Die Erziehungsmittel, Olten, V. O. Walter, 1944; Göttler J., System der Pädagogik, München, Kösel, 1950; Geissler E. E., Erziehungsmittel, Bad Heilbrunn, Klinkhardt, 19826; Lenzen D. (Ed.), Enzyklopädie der Erziehungswissenschaft, vol. IV: Methoden und Medien der Erziehung und des Unterrichts, Stuttgart, Klett-Cotta, 1985; Buckingham D., Media education: alfabetizzazione, apprendimento e cultura contemporanea, Trento, Erickson, 2006.

P. Gianola

MIANI (EMILIANI) Girolamo n. a Venezia nel 1486 - m. a Somasca (BG) nel 1537, santo, fondatore dei Chierici Regolari Somaschi, educatore italiano. 1. Abbandonata la carriera militare, si affida alla guida spirituale di G. P. Carafa (poi papa Paolo IV). Sacerdote nel 1518, si dedica alla cura degli orfani (1524) e delle derelitte (1527). Dà vita alla Fondazione De’ servi dei poveri, approvata da Paolo III (1540) e divenuta Congregazione dei Chierici Regolari di Somasca (Breve di Pio V, 1567). 2. L’orfanotrofio ha per suo volere una chiara funzione educativa, non solo dall’angolatura religiosa ma anche sul piano intellettuale e professionale (apprendimento di un mestiere). Nell’istituzione i compiti erano ben precisati: vanno ricordati il direttore (responsabile di tutto l’indirizzo educativo), il lettore (o maestro), il solizitador (l’organizzatore del lavoro) (→ Congregazioni insegnanti maschili). L’esigenza di mirare alla formazione del soggetto tenendo conto delle caratteristiche di ciascuno, già presente in qualche frammento degli scritti del Fondatore, è ripresa dagli Ordini per educare li poveri orfanelli conforme si governano dalli RR. PP. della Compagnia di Somasca: il testo è del 1620 ma non si discosta dalle linee tracciate da M. La cura degli orfani (maschi e femmine) è ribadita come compito specifico dalle Costituzioni del 1677. Illuminante quanto scrive un biografo di M., P. Tortora: «Né mai si creda che mentre la mano è intenta all’opera, divaghi lo spirito in vani pensieri o la lingua si sciolga in chiacchiere inutili [...]. Due volte al giorno, la sera terminato il lavoro, ed il 751

MICROPEDAGOGIA

mattino non sorto ancora, erano ammaestrati sopra i precetti della legge cristiana e sopra gli articoli della cattolica fede; poscia venia lor insegnato l’alfabeto, l’ortografia, il compitare e il leggere esattamente; e colla viva sua voce Girolamo gl’informava spesso e coltivava nella virtù». 3. Accanto all’attività nel campo degli orfanotrofi va ricordata – anche se successiva a questa – la fondazione e la conduzione dei collegi per i giovani delle classi nobili: importanti, per es., il Collegio Gallio in Como (Bolla di papa Gregorio XIII del 1583), e l’incarico affidato ai Somaschi nel Collegio Clementino in Roma da papa Clemente VIII. Finalità e metodo educativi si trovano nelle Regole circa del studio (1600). Altri testi da consultare in proposito sono l’Ordine da tenersi nelle nostre scuole di P. S. Santinelli (ca. 1707), e la Methodus studiorum (1741). Bibl.: a) Fonti: Frammenti di scritti di M. in G. Landini, Piccolo contributo di scritti vari critico-storico-letterari e un discorso sulla vita di s. G. Emiliani, Como, 1920 (anche in «Rivista di Somasca», 94, 1942). b) Studi: Ordine dei Chierici Regolari Somaschi nel IV centenario della fondazione, Roma, 1928; De Vivo F., «I Somaschi», in Nuove questioni di storia della pedagogia, vol. I, Brescia, La Scuola, 1977, 663-690; Pellegrini C., «San G. M. e i Somaschi», in P. Braido (Ed.), Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, vol. I, Roma, LAS, 1981, 45-74; A rmogathe J.-R., «Cultura e educazione nella riforma cattolica», in C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavarino, Milano, Mondadori, 2002, 488-505.

F. De Vivo

MICROPEDAGOGIA Per m., nozione recentemente introdotta nel lessico pedagogico, si intende un punto di vista attinente sia i comportamenti di ricerca che l’assunzione di particolari stili educativi. 1. Tale prospettiva, a livello teoretico, si riconduce a scuole di pensiero quali la fenomenologia, la psicoanalisi, l’approccio sistemico nonché il metodo biografico. Della 752

prima corrente utilizza i concetti salienti di rappresentazione, intenzionalità, relazione; della seconda, la categoria di vissuto e latenza mentre della teoria dei sistemi quelli di comunicazione, contesto, complessità. L’attenzione biografica si palesa invece laddove viene messa sempre al primo posto l’idea di «storia di vita» sia dell’individuopersona coinvolto in situazioni educative le più diverse (quale che sia l’età dei formandi), sia la stessa esperienza educativa. Questa infatti, nella prospettiva micropedagogica, viene considerata un’autobiografia «scritta» dai diversi protagonisti della vicenda formale o informale di apprendimento. La m. è riconoscibile pertanto laddove si faccia attenzione al particolare, alle soggettività, agli specifici ambienti di vita senza perseguire l’elaborazione di conclusioni generalizzanti, ma, piuttosto, l’analisi delle circostanze che contestualmente, e rispetto a quelle specifiche persone, suscitano eventi di carattere pedagogico. Per il suo carattere idiografico (lo studio dell’irriducibile singolarità della situazione educativa) e non nomotetico (tendente a individuare regole e leggi generali di comportamento), la m. è riconducibile alle correnti qualitative della ricerca scientifica, riconoscibili in sociologia (tale scienza, per prima, si è servita del prefisso «micro» per designare i fenomeni non quantificabili), in antropologia, in psicologia dinamica, il cui interesse precipuo mira a fornire non soltanto descrizioni delle realtà empiriche considerate, bensì delle interpretazioni e degli orizzonti di significato. 2. La prassi del ricercatore ad orientamento «micropedagogico» è riconoscibile in rapporto al principio in base a cui «l’osservatore si include nell’osservazione» che è in netto contrasto con le posizioni positivistiche, viceversa intenzionate a rivendicare la neutralità di un corretto comportamento euristico. L’implicazione del ricercatore comporta da parte di costui la riflessione attenta dei costrutti mentali (l’individuo ha sempre una episteme) e quindi delle teorie, sofisticate o ingenue, che lo guidano; l’autocontrollo delle interazioni che la sua presenza suscita tra i soggetti; la preoccupazione per i significati simbolici che la sua presenza ingenera: disturbo, attaccamento, ripulsa, affezione, ecc.

MILANI LORENZO

3. Lo stile educativo micropedagogico è quindi al contempo anche un comportamento di ricerca (la m. opera affinché gli educatori riconoscano sempre il loro ruolo di ricercatori e si formino in tal senso) che valorizza non pochi assunti della tradizione attivistica americana ed europea. Tecnicamente tale indirizzo si avvale di strumenti ricognitivi quali il colloquio, lo studio del caso, l’osservazione partecipante, la raccolta di storie di vita, ecc. Anche la ricerca-azione – la metodologia che studia i problemi attraverso il coinvolgimento diretto di coloro che in prima persona li vivono e non sempre sanno esprimerli – fa parte del filone «trasformativo» dell’intento micropedagogico. Nondimeno le pratiche valutative nell’insegnamento e nella formazione, assumendo tale paradigma, operano includendo in percorsi di autovalutazione critica i destinatari delle più diverse azioni educative. Bibl.: Becchi E. - B. Vertecchi (Edd.), Manuale critico della ricerca e della sperimentazione educativa, Milano, Angeli, 1984; Cipriani R. (Ed.), La metodologia della storia di vita, Roma, Europa, 1987; Poisson Y., La recherche qualitative en éducation, Quebec, Université du Quebec, 1990; M assa R. (Ed.), La clinica della formazione, Milano, Angeli, 1991; Mucchielli A., Les méthodes qualitatives, Paris, PUF, 1991; Demetrio D., M.: La ricerca qualitativa in educazione, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1992; Kanizsa S., Che ne pensi?, Roma, Carocci, 1993; M antovani S., La ricerca sul campo in educazione. I metodi qualitativi, Milano, Mondadori, 1998; Castiglioni M., La ricerca in educazione degli adulti: l’approccio autobiografico, Milano, Unicopli, 2002.

D. Demetrio

MICROTEACHING → Simulazione MIGRAZIONE → Emigrazione → Educazione interculturale

presso il Pontificio Ateneo Salesiano. Dal 1965 al 1989 è professore di sociologia della religione e dell’educazione presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma dove svolge l’incarico di direttore dell’Istituto di Sociologia dell’Educazione quasi ininterrottamente dal 1972 al 1989. Negli ultimi anni è direttore di ricerca presso il Labos e la Fondazione Italiana del Volontariato. 2. Pensiero e opere. La sua attività scientifica si caratterizza per originalità, chiarezza e comunicatività. Coniuga in maniera versatile psicologia, sociologia e pedagogia, contribuendo a rafforzare la tradizione nella ricerca empirica esistente nella FSE. Il suo modello intreccia strettamente teoria e prassi, riflessione e operatività. È tra i primi in Italia ad aver utilizzato tecniche sofisticate come l’analisi fattoriale e delle corrispondenze e la «path analysis». Restano punto obbligato di riferimento le sue ricerche sulla religiosità e la condizione giovanile, sulla socializzazione, sulla formazione professionale, sulla pace, sulla prevenzione, la devianza e il volontariato. In particolare, nella sociologia dell’educazione il suo merito consiste nella definizione originale di oggetto e metodo in opposizione agli orientamenti di origine inglese e statunitense. Riguardo alla condizione giovanile M. sostiene che le problematiche possono essere identificate nella marginalità e nella frammentazione strutturale e culturale e che, nonostante ciò, i giovani dispongono di rilevanti potenzialità positive. Bibl.: a) Fonti: M.G., Sociologia della religione, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1973; M.G. - M. A letti, Psicologia della religione, Ibid., 1973; M.G. (Ed.), Oggi credono così, Ibid., 1982; M. G., I giovani nella società complessa, Ibid., 1989. b) Saggi: M alizia G. - V. Pieroni, Ricordando un amico e un maestro, in «Rassegna Cnos» 10 (1994) 2, 105-115.

G. Malizia

MILANESI Giancarlo n. a Pavia nel 1933 - m. a Genzano nel 1993, sociologo della religione e della educazione italiano. 1. Vita. M. nasce a Pavia nel 1933 ed entra dai Salesiani; consegue il dottorato in pedagogia

MILANI Lorenzo n. a Firenze nel 1923 - m. ivi nel 1967, sacerdote e educatore italiano. 1. Di famiglia alto-borghese, colta e agnosti753

MINORI

ca, compie i primi studi in casa con un’insegnante privata e li prosegue a Milano, dove la famiglia si trasferisce all’inizio degli anni ’30. Nel 1933 è battezzato con il fratello e la sorella per evitare rischi di persecuzioni antisemite: la mamma, infatti, è ebrea. Terminati gli studi liceali (1941) sceglie la pittura, contrariamente alla carriera universitaria, che è prassi familiare. Il 1943 segna una svolta decisiva e radicale nella vita di M.: è l’anno della conversione a un cattolicesimo convinto e dell’entrata in seminario. Sacerdote nel 1947 è mandato a S. Donato di Calenzano, paese vicino a Prato, come coadiutore dell’anziano parroco. M. è colpito dalla profonda ignoranza della popolazione la cui pratica religiosa è formale, perché manca di forti convinzioni. 2. M. studia la situazione e decide di aprire una scuola per i giovani perché è convinto che per risvegliare in loro il senso religioso è necessario risvegliare prima il senso dell’umano. Si fa maestro dei giovani senza badare alla loro tessera di partito: unica tessera valida è un’umanità bisognosa di liberare intelligenza e cuore. Alla morte del parroco (1954) è «confinato» a Barbiana – una sperduta parrocchia del Mugello, senza strada carrozzabile – perché il suo modo di fare pastorale non è ben accetto e la sua persona è alquanto scomoda. Anche a Barbiana trova ignoranza, aggravata dalla timidezza e dalla solitudine tipiche dei montanari. Anche qui stesso rimedio: la scuola con cui appropriarsi della parola per comprendere gli altri, esprimere se stessi e poi accogliere la Parola che salva. La scuola di don M. è esigente ed austera, ma non priva di rapporto interpersonale e di autentico amore pedagogico, tanto che M. chiama quei piccoli montanari «figlioli». A Barbiana porta a termine un lavoro iniziato a S. Donato: Esperienze pastorali (1967), un saggio sociologico che pone in evidenza le carenze di una certa pastorale. Con i ragazzi della scuola di Barbiana scrive Lettera a una professoressa (1967), in cui critica un certo tipo di scuola, incapace di adeguarsi alle esigenze dei meno favoriti, selettiva in base a determinati canoni di cultura. Viene pubblicata nel maggio del 1967, a un mese dalla sua morte. Da ricordare la lettera Ai cappellani militari toscani e Lettera ai giudici, entrambe del 1965, come critica dell’istituzione militare ed ora raccolte in L’obbedienza non è 754

più una virtù (1976). La sua figura e la sua opera sono oggetto di polemiche e letture di parte. Bibl.: a) Fonti: Esperienze Pastorali, Firenze, L.E.F., 1958; Scuola di Barbiana, Lettera a una Professoressa, Ibid., 1967; Lettere di Don L.M. priore di Barbiana, a cura di M. Gesualdi, Milano, Mondadori, 1970; Lettere alla mamma, a cura di A. Milani-Comparetti, Ibid., 1973; Alla Mamma, a cura di G. Battelli, Genova, Marietti, 1990; Anche le oche sanno sgambettare, Roma, Stampa Alternativa, 1995; I care ancora. Inediti. Lettere, appunti e carte varie, Bologna, EMI, 2001. b) Studi: Di Giacomo M., Don M. tra solitudine e Vangelo, Roma, Borla, 2002; Lancisi M., Il segreto di don M., Casale Monferrato (AL), Piemme, 2002; Moraccini M., Scritti su L.M., Milano, Jaca Book, 2002; Simeone D., Don L.M. da S. Donato a Barbiana, Milano, Università Cattolica, 2003; Eiterer O., La morte di L.M., Firenze, Polistampa, 2006; Pecorini G., Il segreto di Barbiana, ovvero l’invenzione della scuola, Bologna, EMI, 2006.

R. Lanfranchi

MINISTERO PUBBLICA ISTRUZIONE → Amministrazione scolastica MINORANZE → Educazione interculturale

MINORI Convenzionalmente l’universo dei m. comprende il gruppo di età 0-17 anni e si articola in tre grandi fasce: m. in età prescolare (0-5); dai 5 ai 14; dai 14 ai 17. È una categoria che si sovrappone parzialmente ad altre quali → bambini, → infanzia, → preadolescenza, → adolescenza e → giovani. 1. A unificare i vari gruppi contribuisce anzitutto il diritto e in particolare quello internazionale. Le leggi della maggior parte degli Stati considerano come m. tutti i soggetti che non hanno compiuto il diciottesimo anno di età. Una definizione simile si trova nella Convenzione internazionale sui diritti del bambino del 1989. Il documento si qualifica, rispetto alla precedente Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959, sia per la sua natura giuridicamente vincolante per gli Stati contraenti, sia per il contenuto più am-

MITO

pio e innovativo che dà notevole rilevanza ai diritti indispensabili alla crescita. 2. Altro fattore unificante è la ricerca. In particolare riguardo all’Italia, i dati evidenziano che nei processi di → socializzazione l’influenza principale continua ad essere esercitata dalla famiglia; tuttavia, l’incidenza non è così preponderante come in passato. Nei confronti dei bambini la televisione sta sostituendo le forme tradizionali di socializzazione dell’immaginario, ma l’interazione con il teleschermo si presenta alquanto povera. La stragrande maggioranza degli adolescenti giudica la tv divertente e interessante e quindi un ottimo mezzo di svago; al tempo stesso, è giudicata violenta dal 40% quasi e volgare da oltre la metà (Eurispes - Telefono Azzurro, 2004). Inoltre, essi si rivelano grandi utenti di radio, film, musica leggera e calcio-spettacolo e dimostrano una passione crescente per il gioco elettronico e il personal computer. Nella vita quotidiana un ruolo sempre più rilevante viene svolto dal gruppo dei pari che si palesa come l’interlocutore primario dei m. Se cresce la percentuale dei m. che prosegue gli studi dopo l’obbligo, è anche vero che la scuola sempre meno esaurisce l’area dell’esperienza dei m. Il rapporto con gli insegnanti assume un’importanza fondamentale per i m. tale da contenere o escludere nella maggioranza dei casi forme di scortesia. Rispetto a fenomeni di teppismo o ad atti di violenza, si evidenzia il dato di una metà di scuole in cui si verificano furti; abbastanza diffusi risultano anche gli episodi di bullismo che accadono in oltre un terzo dei casi. Nell’attuale contesto di grave disoccupazione i m. lavorano in misura sempre più modesta. A loro parere il lavoro assolve principalmente ad una funzione pratica, quella cioè della indipendenza economica (oltre un terzo). Il lavoro inteso invece come realizzazione personale e concretizzazione dei propri sogni interessa meno di un quinto dei m. Se migliorano le loro condizioni igieniche e sanitarie, crescono invece le preoccupazioni per il consumo della droga. Analogamente l’immagine della trasgressione minorile è caratterizzata dalla microcriminalità urbana, in particolare dai reati connessi alla droga. Il 6° rapporto nazionale Eurispes definisce i m. come «esploratori senza frontiere tra opportunità e rischi». Certamente è dovere delle

nuove generazioni diventare esploratrici del futuro; è però altrettanto vero che essere senza frontiere significa essere senza protezione e sicurezza. Bibl.: Consiglio Nazionale dei M., I m. in Italia, Milano, Angeli, 1988; Id., Secondo rapporto sulla condizione dei m. in Italia, Ibid., 1990; Accornero G., M. e giovani: non solo doveri, in «Tuttogiovani Notizie» 10 (1995) 37, 5-23; Eurispes - Telefono A zzurro, 5° Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Roma, 2004; Id., 6° Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Roma, 2005.

G. Malizia

MISSION → Progetto educativo MISURAZIONE → Ricerca educativa/pedagogica → Statistica

MITO Nel pluralismo delle interpretazioni (storico, etnico, filosofico, religioso, psicoanalitico, linguistico), m. esprime fondamentalmente una realtà (avvenimento, persona, visione) di eccezionale importanza, paradigmatica, svincolata per sé da valutazioni puramente razionali, antecedente sovente i tempi storici, di portata simbolica, come archetipo, per spiegare il senso ultimo delle realtà storiche e contingenti. 1. Il m. è recepito dalla filosofia e dalla teologia come portatore di verità profonde in stile sapienziale (come ad es. il «m. della caverna» in → Platone e i racconti di creazione e di peccato in Gn 1-3). Ciò che importi questo nel processo educativo non è difficile a cogliersi. Ne enunciamo quattro aspetti: a) Comporta il riconoscimento che la mediazione razionale tipica dell’educazione non esaurisce le risorse di comprensione della realtà, per quanto riguarda in particolare il senso ultimo della → persona e del mondo in cui vive. b) Comporta ancora un misurato apprendimento del m. e del suo significato filosofico-religioso nell’approccio ai grandi interrogativi degli inizi (arché) e della fine (éschaton) (→ educazione religiosa). c) Comporta pure il riconoscimento della valenza 755

MOBILITÀ SOCIALE

del m. come linguaggio, capace di allargare un mondo altrimenti esposto alla riduzione logico-operativa e tecnico-produttiva, introducendo ad una più compiuta comprensione del mondo mediante l’esperienza poetica e religiosa. d) Comporta infine la sollecitazione critica verso i tanti abusi della mitizzazione o mitomania, che erige a valore di principio fondante e a sapienza-guida, illusioni, ideologie, passioni, fantasie non di rado malate. 2. Nell’ambito dell’educazione cristiana, si ricorderà che la → Bibbia proponendo accadimenti storici come luoghi della rivelazione di Dio, invita a cogliere la verità del m. in limpida aderenza all’annuncio di un Dio unico e in una continua attenzione alla luce del Logos o Verbo fatto carne nella persona di Gesù di Nazaret. Bibl.: Eliade M., M. e realtà, Torino, Borla, 1966; R izzi A., Il sacro e il senso. Lineamenti di filosofia della religione, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1995; Levi-Strauss C., M. e significato, Milano, Il Saggiatore, 1995.

C. Bissoli

MOBILITÀ SOCIALE La m.s. è il passaggio di un individuo da uno → status sociale ad un altro, da uno strato ad un altro lungo una struttura gerarchica di classe (m. verticale), o da una posizione sociale ad un’altra entro lo stesso strato, → classe, o gruppo (m. orizzontale). 1. La m. verticale può essere ascendente, quando il movimento tende verso l’alto della scala socio-economica, migliorando lo status, e discendente quando è mobile verso il basso e il soggetto perde di status. Si parla inoltre di m. intragenerazionale (o di carriera), quando ci si riferisce alla m. verticale sperimentata da un singolo individuo nelle promozioni e avanzamenti della propria carriera professionale. La m. intergenerazionale invece è quella che si riferisce all’ascesa o alla discesa di status sociale che avviene dai nonni, ai figli e ai nipoti. La quantità di m. verticale in una società rappresenta l’indice principale del suo grado di «apertura» e di flessibilità lungo la scala socio-economica. 756

È un fenomeno universale, regolato in genere da norme più o meno esplicite operanti all’interno dei sistemi sociali. 2. I fattori influenti sulla m.s. possono essere di tipo strutturale: come la flessibilità/rigidità della stratificazione sociale, il rapporto tra domanda e offerta del mercato del lavoro, lo sviluppo demografico, la struttura della parentela; e di tipo culturale: come l’ideologia della m., le immagini prevalenti di società, le regole del gioco e della carriera, l’uguaglianza delle opportunità. La m.s. produce effetti evidenti sia sulla società che sull’individuo, come per es. il cambiamento della composizione delle classi; il cambio dei valori dagli strati di partenza a quelli di arrivo; l’incremento della partecipazione negli ascendenti e di opposizione radicale nei discendenti; tensioni, ansia/incertezza rispetto ai temi dell’identità, dei valori, del protagonismo sociale; flessibilità dei confini fra strati, classi e ristrutturazione dei rapporti tra le diverse organizzazioni sociali. Bibl.: R ifkin J., La fine del lavoro, Milano, Baldini & Castoldi, 1997; Sennet R., L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, 1998; Beck U., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci, 2000; Pisati M., La m.s., Bologna, Il Mulino, 2000; Lazzari F., L’attore sociale fra appartenenze e m. Analisi comparate e proposte socio-educative, Padova, CEDAM, 2000; R anci C., Le nuove disuguaglianze sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002; Ballarino G. - A. Cobalti, M.s., Roma, Carocci, 2003; Fullin G., Vivere l’instabilità del lavoro, Bologna, Il Mulino, 2004; Paci M., Nuovi lavori, nuovo welfare, Ibid., 2005.

R. Mion

MODE PEDAGOGICHE Istanze e modi emergenti ciclicamente nell’ambito dell’educazione e della pedagogia, che esaltano costrutti, modelli, prospettive educative, suscettibili di critica o comunque soggetti al logorio del tempo e della pratica educativa concreta. 1. Nel linguaggio comune, con il termine m. indichiamo non solo la foggia corrente di ve-

MODELLO

stire e di acconciarsi, ma anche il costume, il modo di vivere e di comportarsi che emerge e si impone in un determinato periodo o epoca e che interpreta, almeno per un certo tempo, il gusto e il sentire sociale prevalente. Spesso si tratta di fenomeni indotti dalla propaganda messa in atto dal sistema della → comunicazione sociale, ma talora si ha a che fare con risposte ad esigenze ed urgenze profonde, emergenti dalle vicende e dal gioco storico-sociale. 2. Questa doppiezza si nota anche nelle m.p.: esse possono indicare esigenze fondamentali dell’educazione oppure affermazioni pedagogiche piuttosto passeggere. Esempi recenti possono essere riferiti allo → spontaneismo, alla creatività, all’educazione ai valori, alle competenze, alla multimedialità, al cooperative learning, al tutor, ecc. In tal senso si impone costantemente un’analisi critico-linguistica delle «parole nuove» dell’educazione e della pedagogia e una critica della «certezza pedagogica». È certamente questo un compito dell’ → epistemologia pedagogica o comunque di una riflessione teorico-pedagogica. Bibl.: Bertoldi F., Critica della certezza pedagogica, Roma, Armando, 1981; R eboul O., Il linguaggio dell’educazione, Ibid., 1986.

C. Nanni

MODELLO In campo educativo: schema concettuale e operativo secondo cui può essere strutturata e ordinata la pratica educativa in rapporto a un principio teleologico, un ideale di → uomo e di → società, che ne assicuri coerenza e organicità. 1. Approfondimento del concetto. La definizione adottata riprende, adattandola, quella di G. M. → Bertin: «schema concettuale secondo cui possono essere connessi e ordinati i vari aspetti della vita educativa in rapporto ad un principio teleologico che ne assicuri coerenza e organicità» (Bertin, 1968, 68). Un m. educativo è caratterizzato dunque dalla tensione verso un ideale di uomo e di società. Ma se ogni m. di pratica educativa è intrinsecamente caratterizzato dagli ideali guida

che esso include circa il bene del singolo e di quello della comunità, occorre riconoscere che nell’idea di m. educativo sta la ricerca o la proposta di un’«eccellenza» nella pratica educativa stessa. Eccellenza che include coerenza con gli ideali guida perseguiti e organicità nella strutturazione delle azioni messe in atto, secondo le espressioni di Bertin. Un m. educativo, da un punto di vista descrittivo, può essere definito come una particolare strutturazione delle variabili fondamentali che entrano in gioco in una pratica educativa a partire da un insieme di concetti, principi e metodi di riferimento. Al posto del termine m. è spesso usato con analogo significato quello di sistema e anche quello di metodo. Così nella tradizione pedagogica salesiana si parla di → sistema preventivo, riprendendo l’espressione stessa di s. Giovanni → Bosco. 2. Ulteriori significati. Occorre però ricordare come il termine m. venga usato in una pluralità di accezioni che vanno dalla persona che fa da m. di riferimento per apprendere o sviluppare una competenza (ad es. il mastro artigiano), a una struttura fisica che riproduce in maniera ridotta, ma fedele, una qualche realtà del mondo (m. di edificio, mappamondo). La prima di queste due accezioni va estesa sia al concetto di testimonianza, sia a quello di esperienza indiretta o vicaria, tipiche di un apprendimento osservativo, quale si ha nell’assistere a uno spettacolo televisivo. La psicologia sociale utilizza in quest’ultimo caso le parole inglesi model e modeling (m. e fare da m.). In campo sia psicologico, sia educativo, sia spirituale si giunge a parlare di «m. ideali», riferimenti prospettici che includono il concetto di eccellenza, oppure di «m. reali», personaggi storici o viventi, che concretizzano un proprio ideale di vita. 3. La modellizzazione. Per chiarire ancor meglio il concetto di m. si può cercare di precisare il processo di modellizzazione. Esso consiste nell’individuare gli elementi salienti di una situazione, o di una pratica, e le relazioni fondamentali che la caratterizzano e nel rappresentare gli uni e le altre in forma adeguata. Tale rappresentazione può assumere forme varie: verbali, mediante descrizioni e narrazioni; fisiche, mediante disegni, diagrammi, immagini fisse o in movimento; simboliche, mediante opportuni sistemi 757

MODELLO

di segni. La relazione che collega il m. alla realtà della pratica educativa a cui esso fa riferimento non può essere che di tipo omeomorfico, cioè di similitudine o di analogia, e non di isomorfismo. In effetti non solo si ha una riduzione della complessità della situazione reale, ma anche una sua rappresentazione analogica. In un m. di pratica educativa possono essere individuati concetti, principi e metodi che riguardano piani logici differenti: 1) Piano delle asserzioni o degli assunti impliciti di natura teorica (filosofica, teologica). Essi riguardano la concezione stessa della persona umana e della società, del loro significato, del loro destino, del loro bene. Da qui derivano le finalità fondamentali che caratterizzano la messa in opera di una pratica educativa ispirata al m. Questo piano viene definito «assiologico», perché riguarda i valori a cui il m. si ispira e quelli che intende promuovere attraverso la sua attivazione pratica. 2) Piano delle assunzioni di ordine scientifico in senso largo, in particolare di tipo psicologico e relativo allo sviluppo del soggetto nelle sue varie dimensioni, alle relazioni e interazioni educative, ai processi di apprendimento e di acquisizione delle conoscenze e delle competenze. Occorre chiarire che l’aggettivo scientifico qualifica le conoscenze a cui si rifà il m. in quanto derivanti da una qualche disciplina scientifica applicata all’educazione, come la psicologia dell’educazione o la → sociologia dell’educazione. Questo piano viene definito «scientifico», perché riguarda le conoscenze disciplinari di cui il m. tiene conto in maniera più o meno critica e mediata. 3) Piano dei principi operativi e di metodo. Nella storia della pedagogia, soprattutto di quella che può essere definita «pedagogia pratica», sono molte le proposte di questo tipo, generalmente raccolte sotto il titolo di indicazioni metodologiche o principi di metodo. Basti qui citare a questo proposito Corallo (1967) e Bertin (1968). Questo piano viene anche definito «prasseologico», perché appunto prende in considerazione gli aspetti operativi o pratici del m. Il termine prasseologico deriva dai vocaboli gr. praxis e logos che indicano un’organizzazione razionale della pratica educativa. 4. Componenti. Meirieu (1994) indica cinque componenti fondamentali di un m. educati758

vo scolastico. Per analogia qui esse vengono estese a ogni m. educativo. 1) Il grado di strutturazione delle conoscenze, delle competenze, degli atteggiamenti e dei valori a cui ci si riferisce nel processo educativo. Si possono porre agli estremi di un continuo l’approccio destrutturato e basato su esperienze naturali o anche occasionali e per converso, un approccio assai organizzato, sia quanto a situazioni educative, sia quanto a una loro successione temporale. 2) Tipologia delle situazioni educative attivate. Ad es. si può impostare l’azione educativa in modo collettivo, rivolto cioè all’intero gruppo degli educandi, e basato sulla comunicazione diretta e unidirezionale; oppure preferire una situazione di natura più interattiva e centrata sugli interscambi tra educatore e gruppo e tra i membri del gruppo; oppure ancora dare spazio privilegiato agli interventi individualizzati. 3) Tipologia e qualità degli strumenti e materiali educativi adottati. Ad es., si può accennare ai diversi media coinvolti: dal → teatro, in particolare il teatro cosiddetto educativo, alla musica, sia come fruizione sia come produzione, all’uso del videoregistratore o del cinema, a quello del → computer e della → multimedialità, a quello del libro e del giornale. A questo proposito si può ricordare come la scelta dello strumento non è indifferente. Anche senza esasperare la posizione di chi dice, come Mac-Luhan, che il vero messaggio è dato dai caratteri propri del mezzo adottato, occorre riconoscere che uno stesso contenuto educativo ha una ben diversa valenza formativa a seconda di come e con quale mezzo viene proposto. Ben diverso è il caso di un coinvolgimento attivo personale in un’impresa a forte valenza educativa, da quello di una proposta a descrizione puramente verbale o anche presentata per mezzo di uno spettacolo da vedere. 4) Tipologia e qualità delle relazioni prefigurate. Qui entriamo nel campo del sistema di rapporti interpersonali e di quelli istituzionali. Tuttavia la piattaforma comunicativa che s’intende attivare o che viene privilegiata è certamente carattere peculiare di un m. educativo. L’accettazione di relazioni interpersonali tra educatore ed educando basate sull’ → empatia, sull’accettazione incondizionata, sulla vicinanza ai suoi problemi esistenziali, è cosa ben diversa dalla teorizzazione di rapporti basati sul principio dell’autorità,

MODERNITÀ

della distanza, del rispetto di regole e regolamenti imposti dall’esterno. 5) Modalità di valutazione adottata. Anche in questo caso si possono distinguere: forme diagnosticopragmatiche, dirette a conoscere per agire oppure a classificare gli educandi; valutazione formativa, intesa come modalità di regolazione o pilotaggio dell’azione educativa, oppure come giudizio sulla qualità delle prestazioni degli educandi; valutazione finale o sommativa più o meno concordata tra i vari partecipanti alla comunità educativa. Bibl.: Corallo G., Pedagogia, II: L’atto di educare, Torino, SEI, 1967; Bertin G. M., Educazione alla ragione, Roma, Armando, 1968; Blankertz H., Teorie e m. della didattica, Ibid., 1977; Dalle Fratte G. (Ed.), Teoria dei m. in pedagogia, Trento, FPSM, 1984; Id. (Ed.), Teoria e m. in pedagogia, Roma, Armando, 1986; Joyce B. - M. Weil, Models of teaching, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1986; Scurati C., Realtà e forme dell’insegnamento, Brescia, La Scuola, 1990; Meirieu P., «Méthodes pédagogiques», in P. Champy - C. Étève (Edd.), Dictionnaire encyclopédique de l’éducation et de la formation, Paris, Nathan, 1994, 660-666; Id., La pédagogie entre le faire et le dire, Paris, ESF, 1995; Pellerey M., Educare. Manuale di pedagogia come scienza pratico-progettuale, Roma LAS, 1999; Baldacci M. (Ed.), I m. della didattica, Roma, Carocci, 2004.

M. Pellerey

MODERNITÀ Il termine, dal lat. tardo modernum, derivato dall’avv. modo (= or ora), sta propriamente per «attuale». Ma storicamente è venuto ad indicare l’atteggiamento ed il modo di vedere tipico della coscienza storica occidentale post-medioevale, che tende a distinguersi dall’epoca precedente non solo cronologicamente ma anche in termini di prospettive culturali, di sistemi di significati e di criteri di valutazione per ciò che concerne la qualità della vita individuale e collettiva. 1. Già nel periodo medioevale ci si poneva il problema della differenza tra antichi e moderni. È nota l’affermazione riferita a Bernardo di Chartres, secondo cui noi mo-

derni saremmo come dei nani sulle spalle dei giganti (riportata da G. di Salisbury, Metalogicon, III, 4). Ma la coscienza moderna acquista tutto il suo tipico significato con la concezione umanistico-rinascimentale dell’uomo-microcosmo e dell’uomo costruttore (homo faber) del proprio destino. I secoli successivi hanno rafforzato il forte carattere antropocentrico della concezione moderna del mondo e della vita. L’uomo è visto come prospettiva totalizzante, come centro solare («uomo copernicano») attorno a cui tutto il resto vien fatto ruotare. Posta piuttosto in ombra la dimensione creaturale e quella di particella dell’universo, l’uomo moderno ha esaltato la sua qualità di soggetto e costruttore della storia, grazie alle sue capacità di libertà, di razionalità e di potenza politica. L’Illuminismo ha dato ulteriore consistenza teorica a queste prospettive umanistiche, affidandole alla forza illuminante della ragione, vista essenzialmente non come ragione contemplativa ma come ragione pratica, cioè funzionale e strumentale all’efficacia operativa dell’agire, della capacità produttiva e dell’abilità trasformativa dell’uomo nei confronti della natura e dell’ambiente. Scienza e tecnica ne sono diventate le figure culturali principali. L’affermazione dell’autonomia delle realtà terrestri si è combinata con una crescente tendenza alla secolarizzazione dei modi sociali dell’esistenza, poggiata su una fede laica nelle potenzialità umane di sviluppo illimitato, di progressiva liberazione, eguaglianza, giustizia sociale e felicità per tutti: nell’orizzonte di un «regno della libertà» e di una «pace universale», in cui si avrebbe finalmente il pieno affrancamento da ogni feudalesimo interiore ed esteriore. 2. Queste prospettive ideologiche sono alla base anche del concetto di «modernizzazione», vale a dire dell’insieme dei criteri orientativi dell’azione politica sia nei confronti dello «svecchiamento» dell’organizzazione sociale interna sia nel confronto politico-internazionale sui modelli di sviluppo, secondo cui regolare i processi di trasformazione economica, sociale, civile, giuridica a livello mondiale. Ne sono considerati «indicatori»: la partecipazione attiva dell’intera popolazione maschile e femminile a tali processi, la possibilità reale di mobilità ed innalzamento sociale, uno stato di diritto garante della si759

MODULI DIDATTICI

curezza e delle libertà individuali, l’effettivo accesso di tutti ai beni di consumo del mercato internazionale, un’equa ripartizione e distribuzione delle risorse, la diffusione del benessere attraverso l’azione privata e pubblica. 3. L’ → alfabetizzazione, l’ → istruzione e la → formazione sono considerate condizione di base per il conseguimento di questi obiettivi (formazione). La fiducia nel potere illuminante dell’istruzione e nella forza rigenerante dell’educazione è stata vista come fondamentale fin dall’inizio dell’età moderna. Tuttavia, negli ultimi decenni – specie in rapporto ai tragici esiti delle due guerre mondiali, dell’eurocentrismo imperialistico e colonialistico, delle ideologie politiche totalitarie di destra e di sinistra, degli effetti ecologicamente devastanti dell’industrializzazione e del neo-capitalismo internazionale – la visione moderna è diventata oggetto di forti critiche. Diversi esponenti della → Scuola di Francoforte ne hanno evidenziato l’eclisse della ragione e la riduzione ad una umanità ad una sola dimensione. Altri ne criticano il carattere lineare, quantitativo e necessario del concetto di sviluppo, poco attento agli aspetti di contingenza, di non continuità, di situazionalità, di involuzione, di differenziazione soggettiva e socio-culturale, di creatività e di responsabilità etica individuale e collettiva. Così pure si problematizza fortemente la fiducia moderna nella razionalità e nella trasparenza dell’azione umana storica, che non sembra vedere la fondamentale ambivalenza delle scelte e delle produzioni umane. Individualismo, eclisse dei fini, perdita della libertà politica ne sarebbero gli «effetti perversi» più cospicui. Da parte religiosa se ne evidenzia il riduzionismo immanentistico, il materialismo economicistico, il laicismo anti-ecclesiastico che enfatizzano l’efficienza e il successo, rendono estremamente difficile il senso della gratuità e forme di pensiero spirituale aperto alla trascendenza o al desiderio del totalmente altro. In tal senso si è parlato di «fine della m.» o più comunemente di un passaggio a forme non univoche e non unidirezionali di → post-m. o, in positivo – in rapporto al forte incremento dell’innovazione tecnologica e delle sue potenzialità trasformazional-umanistiche – di seconda m. o di iper-m. 760

4. Per parte sua, la riflessione teorico-pedagogica evidenzia il forte tasso di problematicità che attraversa quelli che erano considerati i capisaldi della cultura educativa moderna: la fiducia nelle capacità soggettive di libertà e di trasformazione umana del reale; la fede quasi «sacrale» nella razionalità, nella scienza e nella tecnica; la speranza della possibilità di una comunicazione trasparente e di un dialogo corretto e fruttuoso tra le persone, i gruppi sociali, i popoli, le nazioni e le culture. Per altro verso è stimolata ad andare oltre le forme tradizionali di fare scienza e a ricercare forme di discorso pedagogico più adeguate alle molteplici possibilità conoscitive umane, fortemente provocate dall’accresciuta interazione multiculturale e dalle possibilità offerte dai nuovi media computerizzati. Ad un livello più ampio è chiamata a collaborare con altri approcci scientifici e teorici nella ricerca di una cultura formativa di un qualche significato e futuro rispetto ai modi «attuali» di essere, di agire, di educare. Bibl.: Fromm E., Avere o essere?, Milano, Mondadori, 1977; Guardini R., La fine dell’epoca moderna, Brescia, Morcelliana, 1979; Vattimo G., La fine della m., Milano, Garzanti, 1985; A rendt H., Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1989; Habermas J., Il discorso filosofico della m., Roma/Bari, Laterza, 1991; Campanini G., Cristianità e m., Roma, AVE, 1992; Touraine A., Critique de la modernité, Paris, Fayard, 1992; Giddens A., Le conseguenze della m., Bologna, Il Mulino, 1994; Taylor C, Il disagio della m., Roma/Bari, Laterza, 2006; Eisenstadt S., Sulla m., Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.

C. Nanni

MODULI DIDATTICI Il termine m. (dal lat. modulus, diminutivo di modus, misura, regola, modello) nell’ambito didattico viene utilizzato di recente per indicare un insieme di esperienze di apprendimento (costruite generalmente in forma di → unità didattica), riferite ad una disciplina o ad alcune discipline di studio, con l’indicazione precisa degli obiettivi da raggiungere, dei prerequisiti e della durata complessiva di svolgimento. A volte viene usato come sinonimo di unità didattica.

MONACHESIMO

1. Ogni m.d. è un micro-curricolo (→ curricolo), quindi include, in rapporto ai soggetti alunni a cui è destinato, gli elementi essenziali costitutivi quali: obiettivi - contenuti - procedimenti/attività - mezzi - momenti e modalità della verifica. La caratteristica di un m. è la possibilità di combinarlo variamente con altri, in relazione con le competenze o qualificazioni previste; la durata dello svolgimento di un m. spesso viene a coincidere con la periodicità interna assunta (settimanale, mensile, trimestrale, o quadrimestrale e più). Si parla così di corsi o insegnamenti modulari, o di organizzazione per m. che non ha una struttura sequenziale bensì quella a rete con un’ottica sistemica. 2. Data la diversa componibilità dei m. la modularità viene utilizzata soprattutto nell’ambito della → formazione professionale dove gli utenti possono essere, in partenza, di livello diverso di preparazione e aver bisogno di uscire al termine di un m. e di rientrare per proseguire la qualificazione più elevata attraverso altri m. La struttura di ogni m. include: titolo (tema disciplinare, pluri o interdisciplinare, o trasversale), sommario (indicazione dei destinatari, delle unità didattiche previste e della durata in termini di giorni, settimane e ore), finalità e obiettivi (espressi in termini di conoscenze, competenze e capacità), prerequisiti, contenuti (temi, argomenti, problemi), mezzi (libro, saggi, fotocopie, software didattico, ecc.), metodi, valutazione (criteri e tipi di prove). 3. Nell’ambito italiano si parla dell’organizzazione modulare anche in riferimento alla scuola primaria in cui di recente si è introdotta la pluralità dei docenti anziché il maestro unico, cosicché due classi vengono affidate a tre insegnanti e tre classi a quattro insegnanti. Ovviamente la programmazione educativo-didattica secondo questa riforma comporta una modalità particolare, chiamata appunto «organizzazione modulare». Bibl.: Arends R. et al., Handbook for the development of instructional modules in competencybased teacher education programs, Buffalo, The Center for the Study of Teaching, 21973; Warwick D., Teaching and learning through modules, Oxford, Basil Blackwell, 1988; Tiriticco M., La progettazione modulare nella scuola dell’au-

tonomia, Napoli, Tecnodid, 2000; Zanchin M. R. (Ed.), Le interazioni educative nella scuola dell’autonomia: itinerari di didattica modulare, Roma, Armando, 2002.

H.-C. A. Chang

MONACHESIMO Preistoria e protostoria dell’istituzione monastica non può interessare qui più di tanto. Esistono del resto, fruibilissimi, consuntivi che consentono di accedere a codesti ambiti [1]. 1. L’istituzione assume rilevanza nei confronti dell’educazione, allorché incontra a sua volta Benedetto da Norcia (ca. 480-550). Di probabile origine senatoria, disgustato dalle futilità che la scuola gli passava, e più ancora dalla mediocrità della vita di città, se ne fuggì con la nutrice prima ad Affile e poi a Subiaco. Tale Romano, monaco, lo avviò alla pratica della vita solitaria. Solitudine tosto troppa affollata, al punto da indurlo a passare su Monte Cassino, ove visse con la comunità cenobitica che diresse fino alla morte. 2. La Regola, da lui composta, include settantatré capitoli al seguito di un prologo. Il monastero, che essa organizza, prevede una società cenobitica, retta da un abate eletto. Un anno di probandato è offerto a quanti vogliano valutare, in vista di un’ardua perseveranza, fino alla morte, le proprie attitudini. Materialmente ricavata da una precedente Regula Magistri, tuttora anonima e redatta nel meridione d’Italia, a ridosso della metà del secolo, quella di Benedetto resta originalissima nell’indole. Indiscutibile, per cominciare, la sua perentorietà formale [2]. All’epoca in cui i giuristi dell’Impero sono impegnati a coordinare la disparata proliferazione della giurisprudenza classica, anche Benedetto vuole scritta la sua Regola e ogni novizio deve leggerne o sentirne leggere ripetutamente il testo. Correlativamente l’obbedienza è la virtù decisiva. Il c. 68 propone il caso di una disposizione insostenibile dal monaco, presunto non renitente, ma effettivamente esausto o incapace; ebbene, egli deve chiarire al superiore le proprie condizioni, giacché in tutto e per tutto l’abate è di 761

MONACHESIMO

lui responsabile al cospetto di Dio; e qualora questi insista, il monaco deve obbedire, confidando a sua volta nell’aiuto di Dio. Appunto dalla paterna discrezione dell’abate (cfr. c. 64) è commisurata la complessiva autoritarietà del regime. Il monastero costituisce in effetti, a quanto dichiara il prologo della Regola, una scola a servizio di Dio: Constituenda est ergo nobis dominici scola servitii (Prol., 45); e scola nel gergo di Benedetto denomina l’uno dei distaccamenti militari che difendono, tra San Pietro e il Tevere, la città dilagata al di là delle mura. Più che un ritiro tranquillo e tutto sommato confortevole, il suo monastero è un avamposto, una sorta di unità di combattimento in cui reclute vogliose sono accuratamente addestrate al combattimento per raggiungere, sotto l’illuminata guida dell’abate, il controllo della sensualità e la disciplina della volontà. 3. Per più versi però il chiostro collude con la scuola nel senso ormai condiviso del termine. La Regola prevede la presenza di oblati, minori offerti al monastero dai rispettivi genitori; e per loro dispone alfabetizzazione e cultura; quanto basta, per cominciare, per poter prendere parte degnamente, in coro, alla celebrazione liturgica. E però Donato e Prisciano non lesinano indiscrezioni sulla produzione classica che sottende ed esprime le loro grammatiche; sicché il passo da queste a quella resta persistente lusinga [3]. 4. Oltre a fissare i tratti del giorno da dedicare alla lettura e allo studio, naturalmente più a fini di maturazione spirituale che di mera curiosità intellettuale (cfr. c. 8,3; 9,8; 48 passim), la Regola dispone inoltre che in Quaresima ciascun monaco prelevi in Biblioteca un codice da leggere integralmente lungo tutto l’anno: Accipiant omnes singulos codices de biblioteca, quos per ordinem ex integro legant (c. 48,15) [4]. Ma come leggere senza libri? L’abbazia di Bec registra l’ammutinamento di una comunità in struggente indigenza e perciò priva di testi e tuttavia chiamata all’ineludibilità della meditazione da un inflessibile giovane priore. E così i chiostri fanno spazio agli scriptoria e alle biblioteche [5]. 5. Unità di combattimento per accaparrarsi, nella più radicale disponibilità, la con762

discendenza di Dio, il monastero sollecita e piccini e adulti. Questi anzitutto, più che non i primi. La perentorietà del c. 7: De humilitate ha scosso fin la imperturbabilità di un → Tommaso d’Aquino. Al di là del Magister anonimo, al di là di Cassiano, Benedetto attinge ad un Libellus de humilitate di estrazione provenzale, nel quale la accezione tardoantica del termine si è appropriata delle connotazioni neotestamentarie: l’umile controlla a tal punto le movenze della propria vita, da riuscire a lasciarne a Dio la definitiva disponibiltà. Non è facile dire come di fatto vivessero, i monaci, sì tese prospettive. Per un verso l’esercizio della → meditazione su testi autorevoli mette di continuo in questione insufficienze e mancamenti, in un continuo doloroso confronto con i parametri d’un inespugnabile ideale [6]; per l’altro, il chiostro esprime anche esercizi, i cosiddetti Ioca monachorum [7], il cui ingenuo minimalismo suscita più d’una perplessità. Fino a che punto siffatti intrattenimenti esprimono effettiva maturità? 6. Alle stesse strenue tensioni sono animosamente chiamati anche i piccini; ma naturalmente con la discrezione e il garbo che il c. 70 reclama. Non è facile lenire il trauma dell’oblatura [8]; né, qualora esso fosse stato comunque sopito, crescere disinibiti in un chiostro, affollato da maschi più o meno maturi, ai quali solo perché la Regola lo esige (c. 63,12) si può dare del nonno [9]. E tuttavia, tanto e tale resta il bisogno di tenera accoglienza, che l’esclusione dalla comune convivenza costituisce la prima delle punizioni che la Regola commina; si condisce la segregazione con rimproveri, privazioni e sanzioni corporali, solo se il malcapitato non è nemmeno in grado di stimare quanta poena sit excommunicationis (c. 30, 1-3). Fino ai quindici anni i varii monachuli dovrebbero trovare benevola assistenza presso tutti gli adulti del chiostro. Amorevole, dacché è previsto che le angustie della disciplina siano sempre accomodate alle risorse dell’età: Infantum vero usque quindecim annorum aetates disciplinae diligentia ab omnibus et custodia sit; sed et hoc cum mensura et ratione (c. 70,4). A nessuno è comunque lecito pretendere più di tanto, senza incorrere nei rigori della Regola e nelle rimostranze dell’abate (c. 37,1).

MONDIALITÀ: EDUCAZIONE ALLA

7. A qualche decennio dalla morte di Benedetto i Longobardi invasero la penisola. La resistenza bizantina fu tosto sopraffatta e Montecassino saccheggiata e distrutta (577). Per un secolo e mezzo l’insediamento rimase deserto. Nel 593 Gregorio Magno inserisce nei suoi Dialogi la biografia di Benedetto, divulgandone i meriti. Curiosamente, tuttavia, l’Italia, la Spagna, la Provenza, l’Aquitania, le zone di più assestata romanità, si mostrano poco o punto interessate. Inopinata giunge la fervente adesione delle comunità miste colombano-benedettine. Convinti della eccellenza della Regola di Benedetto, i Colombaniani franchi, anglosassoni o celti, si diedero a diffonderne la adozione, al punto che il sec. VIII la vede ormai generalmente diffusa. Anche l’Italia longobarda viene finalmente coinvolta. Nel 720 l’abbazia di Montecassino risorge e Benedetto torna al lavoro in Europa [10].

MONDIALITÀ: educazione alla

Bibl.: [1] Lexikon MA, VI, München, 1993: Mönch, Mönchtum; MEL - Medioevo Latino, Spoleto, 1979 s.; [2] Jacobs U. K., Die Regula Benedicti als Rechtbuch. Eine rechthistorische und rechtstheologische Untersuchung, Köln, 1987; [3] Leclercq J., L’amour des Lettres et le désir de Dieu. Initiation aux auteurs monastiques du Moyen Age, Paris, 1957, 1990; [4] Nebbiai - Dalla Guardia D., Les listes médiévales de lectures monastiques. Contribution à la connaissance des anciennes bibliothèques bénédictines, in «Revue Bénédictine» XCVI, 1986, 271-326; [5] Lehmann P., «The Benedictine Order and the transmission of the literature of ancient Rome in Middle Ages», in Forschung des Mittelalters, III, 173-183; [6] Carruthers M, The book of memory. A study of memory in medieval culture, Cambridge, 1970; [7] Brunhölzl F., Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, I, München, 1975; [8] M artin McL aughlin M., «Survivors and surrogates. Children and parents from the Ninth to the Thirteenth Centuries», in The history of childhood (Ed. L. De Mause), New York, 1974, 101-181; [9] De Jong M., Growing up in a carolingian monastery: Magister Hildemar and his oblates, in «Journal of Medieval History» IX, 1983, 99-128; [10] P rinz F., Askese und Kultur. Vorund frühbenediktinisches Mönchtum an der Wiege Europas, München, 1980; P enco G., M. e cultura, Seregno, 1993.

1. L’educazione alla m. è dunque diventata una necessità, un imperativo pedagogico. L’uomo di oggi, infatti, è in ritardo con se stesso. La storia sta camminando più velocemente della coscienza (E. Balducci). C’è una sfasatura tra la società – che è di fatto planetaria – e la coscienza umana che è ancora pre-planetaria. In termini di consapevolezza, scrive E. Morin, stiamo ancora all’età del ferro dell’epoca planetaria. Abitiamo sull’arancia blu (così è apparsa la Terra nel 1957 all’uomo che la guardava per la prima volta dall’oblò di una capsula in orbita), ma dentro di noi c’è ancora una coscienza dello «spicchio». L’interdipendenza planetaria è ben lontana dall’essere vissuta come categoria etica e ancora meno dal diventare una nuova concezione della governance e della sovranità in politica. Il vecchio principio di indipendenza e di sovranità nazionale non basta più. Non è possibile infatti affrontare problemi globali come l’ecologia, le migrazioni, la guerra, la fame, l’aids... con politiche locali o nazionali. A ragione, Giovanni Paolo II ha affermato (2004): «occorre un grado superiore di ordinamento internazionale». Si comprende così la ragione per cui il politologo statunitense Banjamin Barber abbia proposto di celebrare ogni anno la Giornata mondiale dell’Interdipendenza. E di farlo il 12 settembre, il primo giorno dopo l’11, perché esso non si ripeta mai più. A questa iniziativa simbolica, ma

P. T. Stella

Pluriverso, ecumene globale, società delle reti, età del meticciato, ecc., sono appena alcune delle espressioni che vengono utilizzate per caratterizzare il mondo d’oggi. Ma dentro ognuno di noi – ha osservato l’intellettuale francese J. Daniel – c’è ancora una contraddizione tra sedentarietà e nomadismo, tra nostalgia del particolare e spinta verso l’universale, tra il desiderio di ancorarsi a un’identità e la solidarietà che ci imponiamo nei confronti degli altri. Tuttavia, per la prima volta, il proposito di Terenzio, che → Montaigne ha reso celebre, «niente di ciò che è umano mi è estraneo», ha cessato di essere una morale ed è divenuto un obbligo: ognuno è diventato il vicino dell’uomo più lontano di questa terra. Il sentimento della distanza sta per scomparire. Sta per nascere in sua vece il «sentimento» dell’interdipendenza.

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MONTAIGNE MICHEL EYQUEM DE

fortemente significativa, hanno già aderito numerosi organizzazioni e movimenti della società civile globale. 2. Alla luce di tutto questo, il ritorno parallelo dei localismi e dei fondamentalismi è tutt’altro che assurdo e appare come il tentativo (inadeguato, certamente, ma non irrazionale) di rimettere al centro se stessi, di ripartire dalla propria terra, dal proprio gruppo etnico, culturale, religioso rifiutando quel senso di parzialità e di relatività che la nuova situazione storica di globalità e di meticciamento impone di accettare. L’educazione alla m. si colloca precisamente in questo contesto storico così complesso e conflittuale che coinvolge tutti, a Nord e a Sud del pianeta. L’Unesco, il Consiglio d’Europa, il Parlamento Europeo, il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione hanno approvato, negli ultimi anni, numerose dichiarazioni che sollecitano le agenzie educative a muoversi nella direzione della m. e dell’interculturalità anche per ridurre e per prevenire i fenomeni di razzismo, intolleranza, xenofobia e discriminazione. Non v’è dubbio, infatti, che l’educazione alla m. interessi tutte le discipline scolastiche e l’universo della comunicazione sociale, ma un ruolo particolare spetta all’educazione civica. Pensiamo soltanto al tema dei diritti umani e della cittadinanza (nazionale, europea, mondiale), oppure a quello delle istituzioni democratiche (politiche, economiche, sociali) a livello internazionale. Un grande contributo alla costruzione di una società più giusta e conviviale può venire dalle religioni e dallo sforzo congiunto di riconoscere i principi universali di una comune etica mondiale (H. Küng). 3. Educare alla m. non significa in nessun caso «reductio ad unum» delle diversità, omologazione e uniformità, ma indica la «convivialità delle differenze» e quindi la valorizzazione dell’alterità come risorsa e perfino come diritto ad essere «altro». La vera ricchezza di cui il mondo dispone è infatti la diversità delle culture, delle religioni, dei tanti punti di vista che sono destinati a convivere in uno spazio comune e plurale. L’unità della famiglia umana esige infatti cittadinanza «glocale», oltrepassamento di ogni etnocentrismo, etica del genere umano, 764

disponibilità a costruire, insieme agli altri, la civiltà del con-vivere, affrontando positivamente le sfide incalzanti dell’identità, della laicità e dell’etica pubblica. Bibl.: Nanni A., Progetto m., Bologna, EMI, 1985; Balducci E., L’uomo planetario, Fiesole, ECP, 1990; Morin E., Terra. Patria, Milano, Cortina, 1994; Mancini R. et al., Etiche della m. La nascita di una coscienza planetaria, Assisi, Cittadella, 1996; Tomlison J., Sentirsi a casa nel mondo, Milano, Feltrinelli, 2001; Küng H., Etica mondiale per la politica e l’economia, Brescia, Queriniana, 2002; Ceruti M. - G. Bocchi, Educazione e globalizzazione, Milano, Cortina, 2004; Nanni A., Profeti di m. Il movimento CEM nella scuola italiana, Bologna, EMI, 2007.

A. Nanni

MONOPOLIO SCOLASTICO → Libertà di insegnamento → Scuola libera

MONTAIGNE Michel Eyquem de n. a Montaigne Périgord (Francia) nel 1533 - m. ivi nel 1592, scrittore e pensatore francese. 1. Da bambino fu educato nel suo castello da un istitutore tedesco, che gli parlava sempre in lat., lingua che apprese meglio ancora del fr., sua lingua materna. Uomo di complessa personalità, è stato considerato in maniera contraddittoria: come uno scettico, come un epicureo, come uno stoico e come un razionalista. È un Proteo dai mille volti di difficile classificazione, preoccupato e ripiegato sempre su se stesso come unico punto di riferimento. Conosceva bene i classici latini; i suoi preferiti furono → Seneca e → Plutarco, tradotto. I suoi giudizi sono contraddittori e si muovono sul terreno del relativismo e dello scetticismo. M. cerca la verità, ma non è capace di giungere ad alcuna conclusione. I suoi Saggi sono stati molto apprezzati nel corso dei secoli; essi sono una riflessione personale e originale dell’uomo confuso, che vive in mezzo alla guerre di religione francesi che produrranno grandi cambiamenti politici ed instaureranno un profondo pessimismo alla fine del sec. XVI e del Barocco.

MONTESINO PABLO

2. Sul terreno pedagogico M. non va oltre un abbozzo dei principi generali che devono orientare l’educazione. Dà importanza al passato e alla natura umana e preferisce la formazione dell’uomo alla sua preparazione professionale o scientifica. Formare l’uomo equivale a formare il giudizio per essere capace di pensare autonomamente, giungendo ad avere opinioni proprie e a scoprire la verità. La capacità di giudizio consente di pensare con chiarezza e precisione, cosa che porta ad agire positivamente. La filosofia dell’educazione di M. si può sintetizzare nel principio secondo il quale vale più una testa ben fatta che una testa ben piena. Per raggiungere questa meta, bisogna stimolare la curiosità e l’iniziativa, l’osservazione e l’esperienza personale, il comportamento sociale, il metodo intuitivo, come anche lo studio delle cause che hanno prodotto gli avvenimenti storici. Il curriculum propugnato da M. è aristocratico. Egli disdegna le scienze pure ed elogia l’educazione fisica tradizionale della nobiltà dei secoli passati: corsa, lotta, equitazione, caccia, uso delle armi, danza, lingue moderne e conoscenza dei diversi Paesi. Il suo metodo è sintetizzabile in una «severa dolcezza», equidistante dalla severità spartana e dalla educazione più permissiva impartita alla nobiltà. Riguardo alla → donna, mantiene gli antichi pregiudizi secolari; non crede che essa sia adatta all’educazione superiore e ritiene che le sue conoscenze non debbano andare oltre quelle necessarie per una buona conduzione della casa; la donna è saggia quando sa distinguere una camicia da un giubbetto. Ritiene inoltre che la natura femminile è debole e malaticcia anche se dice che probabilmente questi limiti sono dovuti all’insufficiente educazione ricevuta. Ciononostante, non si preoccupa affatto di indicare delle direttive minime che potrebbero essere tenute presenti per un’educazione razionale della donna. Bibl.: Villey P., L’influence de M. sur les idées pédagogiques de Locke et Rousseau, Paris, Flammarion, 1911; Id., Les sources et l’évolution des idées de M., Paris, Hachette, 1933; Aulotte R., M.: Essais, Paris, PUF, 1988; Navarro J., La extrañeza de sí mismo: identidad y alteridad en M.d.M., Sevilla, Fénix, 2005.

B. Delgado

MONTESINO Pablo n. a Fuente del Carnero (Zamora) nel 1781 - m. a Madrid nel 1849, medico e educatore spagnolo. 1. Medico di professione, nel suo lungo esi­ lio in Inghilterra (1823-1834), cerca di ac­ quisire una formazione pedagogica innova­ trice. Trionfante il liberalismo in Spagna, M. partecipa attivamente all’opera di con­ figurazione del sistema educativo spagno­lo. Benché riservi l’insegnamento seconda­r io per le classi agiate, egli inizia una lotta decisa per offrire un’istruzione di qualità al popolo; e con questo scopo riesce a stabili­re le scuole normali (fu direttore della pri­ma di esse), le scuole infantili e di adulti. La sua opera pedagogica più importante è il Manual para los maestros de las escuelas de párvulos (1840). Hanno pure interesse i Ligeros apuntes y observaciones sobre la instrucción secundaria o media y la superior o de universidad (1836) y el Curso de educación (inedito fino al 1988). 2. M. diede molta importanza alla pedago­ gia inglese, specialmente a → Locke, ma anche ad altri autori coevi come → Owen e Wilderspin. Hanno esercitato influsso su di lui autori classici spagnoli (→ Quintiliano, → Vives) e stranieri (→ Comenio, → Rous­seau, e specialmente → Pestalozzi). Le sue idee pedagogiche poggiano sulla dottrina empirista della conoscenza; e all’educazio­ne dei sensi e della capacità di giudizio de­dica molta attenzione. Ma, per questa stes­sa ragione unita alla sua formazione come medico, a M. interessa molto l’educazione fisica dell’essere umano. Queste esigenze non gli impediscono però di collocare la formazione morale come fine dell’educa­zione. Sotto l’influsso di → Kant, di Pesta­lozzi e del rev.do inglese W. Paley, cerca una via di educazione morale basata nelle forti convinzioni di formazione di abiti mo­rali fin dalla prima infanzia. Nemico di memorismi e astrazioni, M. propugna un inse­gnamento attivo. Bibl.: a) Fonti: P.M., Curso de educación. Estudio preliminar de A. Martínez, Madrid, Publicaciones del M.E.C., 1988; P.M., Liberalismo y educación del pueblo. Edición e introducción de B. Sureda García, Madrid, Biblioteca Nueva, 2006.

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MONTESSORI MARIA

b) Studi: Sureda B., P.M.: liberalismo y educación en España, Palma de Mallorca, Prensa Univer., 1984; Ruiz Berrio J., «Introducción crítica», in P.M., Manual para los maestros de escuelas de párvulos, Madrid, C.E.P.E., 1992; Vega L., P.M. y la modernización educativa de España, Zamora, Inst. de Estud. Zam., 1998.

J. Ruiz Berrio

MONTESSORI Maria n. a Chiaravalle nel 1870 - m. a Noorwjk am See (Olanda) nel 1952, educatrice e pedagogista italiana. 1. Laureatasi in medicina nel 1896 e divenuta assistente alla clinica psichiatrica dell’Università di Roma, si dedicò allo studio della psicologia infantile, interessandosi dell’educazione dei fanciulli frenastenici e delle loro scuole. Queste esperienze, la lettura degli scritti di Itard e di Séguin e la frequenza dei corsi di S. Sergi (nella Facoltà di Lettere e Filosofia) la sollecitarono alla fondazione della prima Casa dei Bambini (1907), che segnò l’inizio di un impegno di ricerca ed educativo cui rimase fedele nel corso dell’intera esistenza. Dopo aver elaborato il suo metodo, fondò scuole per la formazione delle educatrici delle Case dei Bambini e si impegnò a divulgarlo in tutto il mondo (negli Stati Uniti d’America, in Spagna, in India, in Olanda...) dove si sono formate numerose associazioni «montessoriane» di cui la più nota è quella internazionale con sede ad Amsterdam. 2. La pedagogia scientifica di M. trova la più significativa espressione nelle Case dei Bambini, nella cui istituzione si esprime anche una profonda ansia di redenzione sociale, di giustizia, di amore ed un profondo messaggio di pace rivolto a tutta l’umanità. Alla base di questa pedagogia c’è infatti la volontà di rinnovare l’educazione, di combattere contro i pregiudizi antichi che ribadivano la schiavitù del bambino e quindi dell’uomo, di liberare la sua anima dai «ceppi» e di aiutare l’umanità a costruire un mondo migliore. La M. volle educare i bambini scientificamente per procedere fuori dalle vie che tutti più o meno avevano percorso, per realizzare una «pedagogia innovatrice, fondata su studi obiettivi 766

e precisi», volta a trasformare la scuola e ad agire direttamente sugli scolari portando loro «una nuova vita». Per realizzare questa educazione utilizzò contributi offerti dalla psicologia, dalla biologia e dall’osservazione sperimentale, che le consentirono di conoscere le forze latenti del bambino e la «sua fame interiore», di studiare i mezzi più idonei per alimentarla e di organizzare un ambiente educativo, capace di sollecitare l’«embrione spirituale» ad esprimersi e di coltivare la sua «mente assorbente», con la convinzione che il germe fecondo «donde proviene la vita» si realizza e «si sviluppa secondo il destino biologico fissatogli dall’eredità». La libertà per la M. è liberazione della vita dagli ostacoli che ne impediscono il normale sviluppo; pertanto la Casa dei Bambini si configura come un ambiente arredato con tavoli e seggiole leggerissimi, lavabi, credenze, a misura di bambino, in cui egli può «agire dietro una serie di scopi interessanti da raggiungere, incanalando così nell’ordine e nel perfezionamento la sua attività». L’educatrice funge da trait d’union tra il bambino – che, grazie alla sua mente assorbente, «è creatore di se stesso» ed è «creativo» – e l’ambiente, «scientificamente predisposto», in cui egli è come il «germe vivente racchiuso in quel bozzolo che la sapiente natura ha determinato per proteggerlo e per corrispondere ai suoi bisogni vitali». Nella sua «Casa» il bambino può scegliere liberamente gli oggetti «sui quali liberamente reagisce». Essi infatti sono proporzionati alla sua capacità di utilizzazione, e le sue azioni «vanno collegandosi l’una all’altra, aiutandolo a organizzare la propria mente che deve tutte dirigerle». 3. Il materiale che integra la funzionalità dell’ambiente di relazione prende il nome di materiale di sviluppo. Esso è nato dalle esperienze condotte da M.M. con i subnormali ed è utilizzato ai fini dello sviluppo sensomotorio, del tatto, del senso barico, del senso termico, della vista, dell’udito del bambino. È costituito da tavolette completamente o alternativamente lisce o rugose, da campioni di tessuti, da tavolette di identica dimensione ma di peso diverso, da recipienti da riempire con acqua di differente temperatura, da cilindretti da incastrare in supporti, da serie di cubi decrescenti per costruzioni, da prismi, da asticciole, da tavolette avvolte da filo co-

MORE THOMAS

lorato, scatole sonore, campanelli. Gli oggetti più significativi sono quelli che si prestano agli esercizi sistematici, che impegnano i sensi e l’intelligenza e implicano la collaborazione armoniosa di tutta l’attività psichica e motrice del bambino e lo conducono gradualmente a conquistare gli apprendimenti fondamentali della cultura come il leggere, lo scrivere e il contare. Questo materiale, secondo la M., è «uno strumento sistematico di psicologia che può paragonarsi ad una palestra per la ginnastica dello spirito», ed il bambino, esercitandosi spontaneamente, «progredisce nello sviluppo e perciò anche nell’acquisto della cultura». Esso vuole proporsi come risposta alla domanda interiore di ciascun bambino e quello sensoriale è offerto secondo una tecnica che richiede l’ordine delle presentazioni successive (riconoscimento di identità, di contrasti, di somiglianze), le preparazioni esterne che aiutano la concentrazione (isolamenti del senso) e l’isolamento del materiale stesso. Le lezioni hanno un compito di chiarificazione, pertanto debbono essere brevi, semplici e obiettive e si svolgono secondo precisi ritmi (primo tempo: motivazione e presentazione dell’oggetto; secondo tempo: verifica – il bambino è chiamato a riconoscere l’oggetto o i suoni terzo –; terzo tempo: ulteriore verifica anche attraverso le domande). Questo materiale, se correttamente usato, rende possibile l’autoeducazione e «realizza in maniera concreta la esigenza della libertà nell’educazione». Il suo uso suscita nei bambini varie reazioni psichiche, tra le quali la «polarizzazione dell’attenzione», mentre la ripetizione degli atti assume una particolare importanza. Un altro pregio notevole di questo materiale è dovuto al fatto che in esso «è insito» il controllo dell’errore, «cosicché il bambino riesce da sè a correggere i suoi errori attraverso la ripetizione degli esercizi» e ha la possibilità di osservare, di esercitarsi con gli oggetti, di fare confronti e di formare giudizi, di ragionare, di decidere e di raggiungere lo sviluppo delle facoltà intellettuali e del carattere. Questa crescita sul piano dell’educazione intellettuale (che è preceduta e favorita dall’educazione dei sensi) su quello della formazione del carattere e su quello sociale (morale e religioso) consente la realizzazione dello sviluppo armonico della personalità dell’uomo e l’autoeducazione e, indirettamente, di «ingrandire»

il mondo e di «liberarlo dalle catene che gli impediscono di avanzare». Bibl.: a) Fonti: opere principali della M.: Il metodo della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle case dei bambini (1909), Manuale di pedagogia scientifica (1921), I bambini viventi nella Chiesa (1922), La mente del bambino (1952). b) Studi: Valitutti S., Il problema dell’educazione nel pensiero di M.M., Roma, Ed. Vita dell’Infanzia, 1953; De Bartolomeis F., M.M. e la pedagogia scientifica, Firenze, La Nuova Italia, 1953; Bertin G. M., Il fanciullo montessoriano e l’educazione infantile, Roma, Avio, 1963; Leonarduzzi A., M.M. Il pensiero e l’opera, Brescia, Paideia, 1967; Scocchera A., M.M. Quasi un ritratto inedito, Firenze, La Nuova Italia, 1990; Loschi T., M.M. Il progetto scuola nella visione ecologica dell’uomo e del bambino, costruttori di un mondo migliore, Bologna, Cappelli, 1991; Schwegman M., M.M., Bologna, Il Mulino, 1999; Centro di Studi Montessoriani, Linee di ricerca sulla pedagogia di M.M., Milano, Angeli, 2005; Tornar C., La pedagogia di M.M. tra teoria e azione, Ibid., 2007.

S. S. Macchietti

MORALE → Educazione morale → Etica

MORE Thomas n. a Londra nel 1480 - m. ivi nel 1535, umanista e politico inglese. 1. L’ → Umanesimo rinascimentale e la scoperta di nuovi mondi influirono profondamente nel superamento della mentalità medievale e nella nascita del pensiero moderno, nel quale l’educazione doveva avere un importante compito. Visto che le continue guerre europee ed i dissensi teologici, politici e culturali continuavano come per i tempi passati, alcuni intellettuali europei cercarono di superare il pessimismo prodotto dai nuovi tempi mediante l’→ utopia, cioè mediante il sogno di un mondo ideale in cui principi ed intellettuali dovevano fare da guida nel rinnovamento della politica di ogni nazione. 2. Le utopie più note furono quelle di M., → Campanella (1623) e F. Bacone (1627). M. inventò il neologismo: De optimo reipublicae 767

MORTE

statu deque nova Insula Utopia libellus vere aureus (1516). Parte dallo schema platonico della Repubblica, ma presenta uno Stato senza classi né caste sociali, senza proprietà privata, tollerante e contrario ad ogni persecuzione a causa delle credenze, eccetto che nei confronti di atei e materialisti, che M. esclude dal suo Stato ideale. Il lavoro agricolo viene insegnato a fanciulli nella scuola. I cittadini devono imparare obbligatoriamente un mestiere e lavorano sei ore al giorno; vestono allo stesso modo e non conoscono il denaro; mangiano insieme come gli spartani in tavoli presieduti dai magistrati e dagli anziani. Lo studio è riservato ai più intelligenti, a giudizio del filarca, autorità responsabile per ogni trenta famiglie. Se, una volta selezionati questi giovani, essi deludono le speranze riposte in loro, torneranno al lavoro manuale. D’altra parte gli operai che dimostrano capacità nello studio, potranno dedicarsi ad esso, lasciando il lavoro. 3. La concezione antropologica di M. è ottimistica: gli uomini nel suo mondo ideale saranno felici e raggiungeranno il piacere nel senso epicureo. Secondo lui, la natura umana è destinata alla felicità come bene supremo, purché si viva conformemente alla natura, della quale l’uomo fa parte ad immagine e somiglianza di Dio. Vivere secondo natura significa vivere secondo → virtù. Bibl.: Vázquez de Prada V., Sir T.M., Lord Canciller de Inglaterra, Madrid, 1962; M arc’H adour G., L’univers de T.M.: chronologie critique de M., Erasme et leur époque (1477-1536), Paris, 1963; Santinello G., Studi sull’umanesimo europeo, Padova, 1969; Fontán A., Erasmo, M., Vives: el humanismo cristiano europeo, Madrid, 2002.

B. Delgado

MORO Tommaso → More Thomas MORTALITÀ → Demografia → Insuccesso scolastico

MORTE Il significato comune di tale termine è descritto in senso lato come cessazione delle funzioni vitali negli organismi viventi e, in 768

senso stretto, come cessazione della vita personalizzata dell’individuo. Esso è comunque suscettibile di analogie e metafore, specialmente nell’ambito etico, psicologico, figurativo e poetico. 1. La m. come fatto reale. L’esperienza insegna che l’uomo è un essere mortale. La sua → vita umana ha una fine, per cui la presenza della m. è un «fatto reale» nell’esistenza di ogni uomo. Nonostante questa incontrovertibile verità, il passaggio da un umanesimo dell’essenza ad un umanesimo dell’esistenza, orientato dalla visione ottimistica di un mondo sempre più teso verso mete di progresso e di benessere, ha provocato nell’uomo moderno un preciso atteggiamento: egli ama passare sotto silenzio l’argomento della m. Essa sembra essere in contrasto con l’idea moderna di sviluppo. Da un punto di vista filosofico la m., in verità, ci appare con una certa ambiguità che genera ansia, paura, fuga, angoscia. Vista dal lato che rivolge verso di noi, la m. non toglie il velo, né il significato immanente alla vita contiene in sé abbastanza luce e forza per dirci se la m. è una seconda nascita o un aborto definitivo. Per la sola ragione umana è impossibile sapere se essa rappresenta un compimento o un annientamento. È per questo che la m. conserva il suo volto di sfinge e diviene, per esperienza vissuta, una delle sorgenti privilegiate dell’ansia, della paura, dell’angoscia. La parola «fine» che essa pronuncia è ambivalente: può significare «tutto è finito», cioè il nulla; oppure «la vita è mirabilmente rifinita», cioè ha la sua pienezza e compiutezza. 2. La m. subìta e la m. vissuta. Le risposte dell’uomo di fronte alla m. vanno oggi in due direzioni: o lottare contro il fatto biologico della m., ed è lo sforzo tecnico-scientifico, o cercare di sciogliere la sua ambiguità andando alla ricerca di nuove interpretazioni, ed è lo sforzo umanistico. Questa seconda strada è quella che ha in sé l’umanizzazione della m., perché venire a capo del «morire» non significa ancora venire a capo della m. Il superamento del morire rimane ancora nell’ambito delle possibilità umane, il superamento della m. significa dare una reale risposta alla tensione trascendente dell’uomo. La m., quindi, non va né subita, né rimossa,

MOTIVAZIONE

né negata, ma va vissuta. Infatti, si muore come si è vissuti: se uno vive bene anche la m. è vista come «sorella»; ma se uno vive male, muore anche male e la m. è vista come «nemico». La m. è vista come alterazione in tutte le culture, ma occorre accettare la sua negatività e la sua positività, occorre che l’uomo sia protagonista davanti al suo mistero; e per essere tale l’uomo deve accettare la m. come condizione del limite: solo così la m. si invera nella «totalità» che trascende il limite umano. La stessa suggestione esistenzialistica heideggeriana vede nella assunzione della m. una via di autenticità per l’esistenza e per la libertà umana: essere-per-la-m. In quest’ottica si può e si deve parlare allora della sacralità della m.: se non c’è senso del vivere, non c’è senso della m. Di fronte allo scacco della m. una concreta via d’uscita viene fornita dall’esperienza cristiana, forse paradossale per il mondo, ma insostituibile per il credente: la m. è vista come alleato per il vivere, un alleato difficile ma che aiuta l’uomo a non chiudersi in se stesso, nel tempo e nella corruzione, dove può cercare il senso soltanto in ciò che non ha senso definitivo. La consapevolezza che la m. è reale e che l’essere umano è finito fa sì invece che egli senta il bisogno di affrontare, senza finzioni e ad occhi aperti, ciò che è assolutamente vero e fondamentale. La fede cristiana ha in questo senso una grande potenzialità educativa perché ci insegna che Gesù Cristo ha accettato per sé la m., per riscattare la m. di tutti. L’esempio di Cristo, oltre che darci la garanzia del suo supremo potere sulla m., ci colma di una speranza, capace di restituire alla polvere quel che è polvere e di attendere da Dio quel che Dio ha promesso: «Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me non morirà in eterno» (Gv 11,25-26). Bibl.: R ahner K., Sulla teologia della m., Brescia, Morcelliana, 1965; Boros L., Mysterium mortis, Brescia, Queriniana, 1969; Bucciarelli C., I giovani di fronte alla m., Roma, PAS-Verlag, 1974; Gevaert J., Il problema dell’uomo, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992; Bianchi E. et al., La m. e il morire, Bologna, Dehoniane, 1995; De Hennezel M., La m. amica, Milano, Rizzoli, 1996; R izzi A., L’uomo di fronte alla m., Rimini, Pazzini, 2006.

C. Bucciarelli

MOTIVAZIONE Il termine m. designa un ampio arco di fattori che, dall’interno del soggetto, determinano la sua attività. La specificità della m. si comprende bene se si considera la condotta come una relazione dell’organismo psico-fisico con il suo → ambiente: tale organismo ha una propria struttura (fisiologica, psichica, sociale, esistenziale), che tende a conservare e sviluppare nel contatto con l’ambiente. Le esigenze di tale struttura, in quanto sentite e vissute dal soggetto, costituiscono la m., cioè l’insieme delle forze interiori che si esprimono principalmente in quattro modi: a) iniziare un’attività, b) dirigerla verso la soddisfazione delle esigenze sentite, c) mantenerla in atto finché tale fine non sia raggiunto, d) e sensibilizzare selettivamente nella percezione degli oggetti che riguardano il motivo vissuto. In questo modo accettiamo una concezione funzionalista e relazionale della m.: essa «serve» ad un proficuo incontro fra organismo e ambiente e pone in relazione questi due mondi. Occorre anche precisare che l’influsso dell’ambiente può evidenziare, suggerire e far diventare urgenti delle tendenze che, pur essendo radicate nella struttura originale del soggetto, non si svilupperebbero pienamente senza l’intervento esterno; su questa constatazione si fonda l’azione intenzionale o spontanea atta a suscitare o canalizzare i motivi, come avviene nell’educazione, nella consulenza psicologica e nella psicoterapia, nella propaganda, o, più genericamente, nell’apprendimento sociale. Questa osservazione evidenzia l’importanza dello studio della m. oltre al puro interesse teorico. 1. Teorie generali sulla m. La descrizione appena data della m., con il richiamo alla natura relazionale della condotta, lascia intravedere un’ampia discussione sulla natura della m., soprattutto quando si tratta di definire quello che è stato indicato come «organismo»; come si vedrà, le differenti opzioni teoriche condizionano la comprensione del modo di influsso della m. e la classificazione dei vari motivi. Rifacendoci ad una classica distinzione di → Allport (1963), pare che nella comprensione della m. ci si possa riferire a due teorie, che Allport denomina rispettivamente «proattiva» e «reattiva». La teoria reattiva si richiama all’empirismo inglese del 769

MOTIVAZIONE

XVII sec. e al → positivismo; secondo questa corrente l’uomo è fondamentalmente passivo («tabula rasa»), e perciò costruito dall’ambiente, sia sotto l’aspetto conoscitivo (in cui tutto è spiegato con l’associazionismo, vale a dire con la concezione che afferma che il patrimonio di informazioni è importato completamente dall’esterno e organizzato secondo collegamenti dati dall’esperienza), che sotto l’aspetto tendenziale (in cui è centrale la pressione sociale, per cui facciamo nostri i motivi vigenti nell’ambiente). Con l’avvento della psicoanalisi viene individuato un altro fattore dello sviluppo, quello degli impulsi inconsci innati, che sfuggono in gran parte all’iniziativa del soggetto. La m. centrale della persona resta soprattutto quella di accomodamento e di difesa di fronte a tali forze esterne o istintive. La teoria proattiva dal canto suo ha le radici nel razionalismo mitteleuropeo (Wolf, Leibniz, ecc.). Essa ritiene che l’uomo è attivo per iniziativa interiore. La sua capacità di comprendere se stesso e la realtà che lo circonda gli permette di autodeterminarsi e di progettare il suo futuro. La persona, secondo questa corrente, è capace di una m. centrale che tende alla realizzazione di beni o scopi intuiti con la sua originale capacità conoscitiva. Una teoria della m. più vicina alla realtà dovrà tener conto e dell’originale iniziativa dell’«organismo» e del reale influsso dell’ambiente. È chiaro per ogni teoria che la m. è un’energia interiore: ciò appare evidente dai quattro effetti sopra nominati nella sua descrizione, e in particolare nelle situazioni di conflitto. Le due correnti divergono tuttavia nel descrivere la gestione di tale energia. La corrente reattiva, che ha presenti soprattutto i motivi a base fisiologica e impulsiva, suppone che l’organismo sia governato da un equilibrio ottimale dato fin dall’inizio dalla natura; quando questo viene disturbato da mutamenti interni o esterni, si sperimenta una tensione fisiologica, finché tale equilibrio non sia ricostituito (legge della omeostasi). Si avrebbe così un succedersi ciclico di fasi di una tensione che cresce e viene ridotta da opportune attività (drive reduction); a queste fasi corrisponderebbero sensazioni soggettive di piacere e di dolore. La corrente proattiva invece riconosce, oltre ai motivi derivati dalla necessità di conservare un equilibrio fisiologico e psichico iniziale, anche altri motivi suggeriti dall’apertura 770

di orizzonte offerta dalla conoscenza (riflessa o intuitiva). Questi motivi non tendono a ricostituire uno stato primitivo, anzi, ogni conquista diventa premessa per conquistare beni o → valori che possono essere sempre nuovi; descrivendo questo tipo di motivi il Nuttin usa giustamente il termine di «compito aperto»: e grazie a questi motivi la persona può essere in continuo sviluppo. Come esempi si portano i motivi di esplorazione, di comprensione, di affermazione di sé, di incontro con gli altri, di espressione, di ricerca di un significato esistenziale. 2. Classificazione dei motivi. Poiché i motivi sono espressione vissuta delle esigenze dell’organismo, come si rivelano nell’interazione con l’ambiente, pare opportuno richiamarsi a tali esigenze per delinearne una classificazione. Si deve tuttavia essere coscienti che, come in ogni classificazione, si corre il rischio di trascurare o accentuare determinati aspetti e di usare categorie troppo generali o troppo specifiche. A superare tali rischi non ci aiuta neppure lo strumento classico dell’analisi fattoriale, caro alla tradizione inglese, poiché esso non restituisce che quello che le variabili iniziali hanno considerato, e la sua interpretazione comporta decisioni soggettive del ricercatore. Si deve inoltre osservare che, nell’esperienza concreta, il soggetto è mosso spesso da un tessuto di vari motivi, e non di rado il motivo che sembra essere più evidente, a sua volta è magari strumentale alla soddisfazione di un motivo più profondo e generale. In vista di un modello integrato, che accolga le istanze delle due teorie generali della m., sarà da tener fermo per un verso la molteplicità dei motivi, ognuno ugualmente originale, e per altro verso l’interazione dei vari piani di esigenze dell’organismo: infatti ogni riduzionismo che neghi le altre componenti della m. si rivela contrario alla realtà psichica osservata. Come non è realistico ignorare i condizionamenti fisiologici, impulsivi e ambientali, così è impossibile spiegare l’impegno costante in attività che non presentano alcuna utilità fisiologica o alcuna soddisfazione di motivi impulsivi senza riconoscere motivi proattivi. Si deve pure rilevare che i motivi si sviluppano con la persona, seguendo cioè la sua maturazione e la sua esperienza; questi due fattori modificano l’organismo e perciò le sue

MOTIVAZIONE

esigenze; lo sviluppo conoscitivo amplia l’orizzonte dei beni che il soggetto può desiderare, l’emergere della percezione di sé può portare al centro dell’attenzione la cura dei valori con cui la persona si identifica; la soddisfazione di bisogni più elementari può lasciar liberi di attendere a soddisfazioni a lunga portata. Queste considerazioni ci permettono di dubitare che i conflitti infantili permangano immutati in tutte le persone anche nell’età adulta, come afferma la psicoanalisi freudiana. Tenendo in conto queste osservazioni, si presenta ora una proposta di classificazione: a) Bisogni fisiologici. Espressione della base fisiologica dell’organismo, diventano urgenti quando si fanno sentire mancanze di elementi richiesti. Tipici esempi sono la fame, la sete, il bisogno della respirazione, la conservazione della temperatura, l’eliminazione, componenti fisiologiche dell’attività sessuale, il sonno, e molti altri aspetti dell’equilibrio fisiologico, che si manifestano specialmente in momenti di deficienza. Particolarmente studiati dal comportamentismo, questi bisogni sono anche spesso oggetto della medicina e dell’igiene. Dal punto di vista psicologico si rileva che tali bisogni si distinguono dagli scopi, in quanto non seguono un bene intuito con la conoscenza, ma operano come spinte cieche; essi possono interagire con motivi di altra natura: la fame può essere percepita come pericolo per la sopravvivenza, la denutrizione può portare all’apatia e alla depressione, nell’esperienza fisiologica della sessualità o della droga si può cercare un’esperienza di novità e di infinito; del resto è noto come l’anoressia e la bulimia siano soprattutto problemi di personalità, e segnali di m. frustrate di affetto, di attaccamento, di ricerca di significato. b) Bisogno di informazione. Poiché l’organismo opera in un dato ambiente, sorge presto in esso il bisogno di essere informato sulle buone occasioni e sui possibili pericoli. Le ricerche hanno dimostrato l’esistenza di un bisogno generale di stimolazione e di esplorazione; sembra assodata la funzione della stimolazione sensoriale nell’avviare l’attività della formazione reticolare ascendente, che a sua volta ridesta l’attività della corteccia; d’altra parte la «deprivazione sensoriale» provoca notevoli disturbi nell’ideazione, nel coordinamento, nell’umore. È anche nota l’attività esploratoria di animali ed esseri umani, sen-

za che vi sia alcun’altra ricompensa. Il bisogno di informazione si esprime ad un livello più ampio nella ricerca di una sistemazione generale delle informazioni, che porta a quadri di riferimento: se le varie informazioni sono coordinate e coerenti, al soggetto si manifestano più chiaramente le opportunità ed i pericoli della situazione. Di fatto tendiamo a collocare ogni informazione nel suo contesto (come appare dai fattori conoscitivi della percezione). Le ricerche sulla dissonanza cognitiva (Festinger, 1971) e il meccanismo di difesa della razionalizzazione indicano, in diversi modi, che tendiamo ad una mappa coerente delle nostre informazioni. Una dimostrazione macroscopica di questa tendenza si trova nelle varie forme di filosofia, popolare o sistematica, da sempre presenti nelle diverse culture. La formazione di un quadro comprensivo di riferimento ha notevoli effetti sulla formazione e canalizzazione dei motivi: essa apre infatti un ampio orizzonte di realtà con cui il soggetto può mettersi in relazione, e, comprendendo anche la prospettiva futura, permette sia un’integrazione «trasversale» della condotta, unificando cioè le varie componenti interne ed esterne attualmente presenti, sia un’integrazione «longitudinale», nel dare unità al continuo individuale che va dal passato al futuro. c) Bisogno di sicurezza. Dato che l’organismo è in divenire e si confronta con l’ambiente in cui vive, ha l’esigenza di conservare le proprie caratteristiche e di svilupparle. Questa esigenza si traduce, nell’uomo, nella necessità di percepire che è in grado di affrontare in modo utile le difficoltà ed i compiti proposti dalla sua vita e dall’ambiente e che potrà farlo anche in avvenire. Tale senso di competenza, attuale e prevista, è l’oggetto proprio del bisogno di sicurezza. La componente più generale del bisogno di sicurezza è un buon concetto di sé, un senso di capacità, di dignità e di valore. Ci difendiamo automaticamente da ciò che ci sminuisce ai nostri occhi, come dimostra l’uso del meccanismo di difesa della rimozione. Una componente oggettiva del bisogno di sicurezza è la chiarezza della situazione: l’ambiguità può nascondere pericoli imprevedibili; anche la disponibilità dei mezzi necessari condiziona il sentimento di sicurezza. La non soddisfazione di questo bisogno produce un senso di insicurezza, di paura o ansietà. La paura può essere normale 771

MOTIVAZIONE

o patologica: è normale quando l’apprensione è proporzionata alla gravità oggettiva di un pericolo reale, è patologica quando non è proporzionata, o non ha un oggetto definito. In questo caso è l’espressione di un sentimento generale di indegnità e incapacità. Le radici di tale ansietà di base sono spesso da ricercarsi nella mancanza di affetto nei primi anni della vita. d) Motivo di sviluppo di sé. L’organismo non ha solo l’esigenza di conservarsi, ma anche quella di svilupparsi. Vari studiosi anno posto questo motivo al centro della struttura della personalità: → Adler lo vedeva nel bisogno di superare i propri limiti; più recentemente → Maslow e → Rogers hanno sottolineato la tendenza all’autorealizzazione; nella psicologia americana sono frequenti le ricerche sul bisogno di successo: il Need Achievement è uno dei motivi rilevati dal TAT. Il motivo di sviluppo può essere vissuto a breve, a medio e a lungo termine, a seconda dell’estensione temporale dell’impegno nell’eseguire il compito proposto: si può voler riuscire in una partita di gioco, in un corso di studi o infine in una professione che coinvolge gran parte della vita. In alcune ricerche sono emerse due dimensioni del livello di aspirazione verso il proprio successo: le mete proposte possono essere più o meno realistiche, e cioè adeguate alle possibilità del soggetto, e più o meno coraggiose, a seconda del temperamento della persona. e) Motivi sociali. Nell’ambiente la persona trova oggetti del tutto particolari: altre persone. Esse dimostrano di avere funzioni del tutto simili alle nostre: anch’esse percepiscono, ragionano, hanno intenzioni e sentimenti. È perciò possibile condividere con loro qualcosa della nostra vita psichica. La risposta all’offerta di questa possibilità è diversificata: in alcuni essa viene rifiutata; l’isolamento si traduce in estraneità, invidia, competizione; altri assumono un atteggiamento opposto di conformismo e di dipendenza, fino ad abdicare alla propria identità; infine altri entrano in dialogo costruttivo, in ascolto attivo e in collaborazione. La collaborazione conoscitiva si traduce in scambio di informazioni: ogni individuo approfitta dell’esperienza elaborata attraverso i millenni in quella che chiamiamo cultura, ed è capace non solo di trasmettere, ma anche di rielaborare e accrescere il patrimonio ricevuto. D’altra parte la percezione e il pensiero degli altri forniscono una 772

verifica dei nostri processi: spesso è ritenuto «oggettivo» quello che è visto allo stesso modo dai più. Le ricerche sulla «pressione di gruppo» pongono il problema di quale sia di volta in volta il giusto equilibrio fra originalità individuale e consenso culturale. Vi è pure una collaborazione nel campo dei motivi e dell’affettività: le mete che si apprendono nel contatto con i genitori, gli educatori e le varie agenzie educative sono in genere più ampie di quelle a cui si giungerebbe da soli, e, nel cammino verso la realizzazione di questi scopi, la persona può essere efficacemente sostenuta dalle persone vicine. Tuttavia anche in questo campo la pressione dei modelli o il richiamo emotivo dovrebbero essere rielaborati secondo parametri aderenti all’identità della persona. In conclusione rimane vero che il processo di umanizzazione passa attraverso il contatto con altre persone. In particolare, tra i bisogni sociali si annovera il bisogno di affetto e di amicizia, data e ricevuta: è il bisogno di essere vicino ad un’altra persona, di condividere pensieri, sentimenti e intenzioni, e insieme di essere accettati in questa condivisione. A vari livelli l’affetto accresce l’intimità o condivisione, elimina le barriere e le difese, e dà un tono affettivo di gioia e di sicurezza. Pare interessante l’osservazione del Maslow, che distingue un amore altruistico ed un amore egocentrico, e riscontra nel primo le condizioni che maggiormente favoriscono l’interazione, la comprensione degli altri, l’aiuto anche terapeutico, e l’esito dell’intervento educativo. Altri motivi sociali sono quello di appartenenza ad un gruppo (affiliazione), o quello di dominio sugli altri (potenza); questi motivi sono considerati più da vicino in psicologia sociale. f) Motivi esistenziali. L’ampliamento e la sistematizzazione globale del quadro di riferimento cui si è accennato sopra, conferiscono una dimensione nuova ai motivi di sicurezza, di sviluppo e di incontro. Collocata in una visione totalizzante, la persona ricerca una sicurezza definitiva, uno sviluppo di tutto il proprio essere senza limiti di tempo, e una comunione interpersonale che giustifichi una dedizione reciproca senza riserve. I motivi esistenziali spingono la persona a ricercare un significato definitivo per la propria esistenza, a dare unità dinamica a tutta la condotta; tale significato di vita è in rapporto con i valori ultimi come sono vissu-

MOTIVAZIONE

ti dalla persona. I motivi esistenziali si evidenziano in momenti di riflessione generale sulla propria vita, e nei momenti di crisi profonda, quando la frustrazione di tali motivi può portare effetti traumatici, come si riscontrano ad es. nei tentativi di suicidio, o nelle «nevrosi noogene» come le denomina V. → Frankl, cioè nelle situazioni in cui la persona ha davanti a sé solo il vuoto. Nella lunga storia delle culture si trovano tracce evidenti di tali motivi: nelle filosofie, tese alla comprensione globale della realtà e della vita, e nelle varie religioni, in cui si esprime la ricerca di salvezza definitiva e di un bene ultimo. Anche varie teorie generali della personalità considerano l’importanza di una intenzione centrale, di un progetto generale della propria esistenza, di un orientamento verso l’essere, che si rivela la chiave ultima per la comprensione della condotta della singola persona. 3. La rilevazione dei motivi. Data l’incidenza della m. sulla condotta, si comprende come sia importante poterla rilevare in modo attendibile. Tuttavia questo compito va incontro a notevoli difficoltà. In primo luogo, come si è detto fin dall’inizio, ogni condotta può essere guidata da più di un motivo (si ricordi il manzoniano «quel guazzabuglio del cuore umano»); inoltre occorre distinguere fra motivi apparenti o di superficie, e motivi ultimi o di origine: questi ultimi spesso si rivestono dei primi, che pure si impongono immediatamente all’attenzione. Inoltre i motivi non sono sempre attualmente urgenti, ma rivelano la loro presenza e intensità in una situazione che li chiama in causa. Così, ad es., il motivo di sicurezza si fa impellente in occasioni di pericolo, e l’alternativa del suicidio può presentarsi in una situazione disperata, senza che sia necessario supporre un motivo costantemente intenso di suicidarsi. Questa osservazione può essere rilevante quando si valutano i risultati di un test, che richiede di reagire a situazioni immaginarie, prive dell’urgenza della situazione reale. I metodi per la misura della m. coincidono in larga parte con le tecniche di esame della personalità: si utilizzano i questionari di personalità e le tecniche proiettive; ognuno di questi generi di strumenti ha il suo campo d’indagine (motivi coscienti o inconsci) e richiede opportuna formazione per una adeguata interpretazione. Anche i risulta-

ti di tali strumenti sono differenti, e vanno da punteggi definiti e confrontabili a sintesi complessive della struttura della personalità. Per un accostamento globale ai motivi della persona si utilizza pure il colloquio e l’analisi di documenti personali (diari, saggi e simili). Vi sono infine metodi strettamente sperimentali, che sono usati particolarmente nella ricerca su animali, e comprendono il controllo del ritmo di soddisfazione, la misura degli ostacoli superati, la misura della rapidità ed efficacia dell’apprendimento dei modi per ottenere la soddisfazione. 4. Il significato educativo dello studio della m. è già stato evidenziato varie volte nel corso di questa voce. La conoscenza più adeguata di queste forze interiori può servire da guida nel processo di autoformazione e nell’accompagnamento educativo. Lo sviluppo e la strutturazione della m. in una persona in formazione dipendono in modo particolare dal sostegno esterno. In tale periodo i motivi possono essere presentati nella loro forza di attrazione, soprattutto mediante il processo di identificazione con un modello, sorretti dall’approvazione, illuminati dall’informazione. Una particolare attenzione si dovrà avere nel favorire m. intrinseche o autentiche, in modo che i motivi di origine siano quelli che possono integrare la → personalità in tutte le sue componenti. Bibl.: A llport G. W., Divenire. Fondamenti di una psicologia della personalità, Firenze, GiuntiBarbera, 1963; Atkinson J. W., La m., Bologna, Il Mulino, 1973; Maslow A. H., M. e personalità, Roma, Armando. 1973; A llport G. W., Psicologia della personalità, Roma, LAS, 1977; Cattell R. B., Personalità e m. Una analisi scientifica, Bologna, Il Mulino, 1982; Nuttin J., Teoria della m. umana, Roma, Armando, 1983; H amilton V., Strutture e processi cognitivi della m. e della personalità, Bologna, Il Mulino, 1987; Dienstbier R. (Ed.), Perspectives on motivation, Lincoln, Nebraska University Press, 1990; Ronco A., Introduzione alla psicologia, vol. 1, Roma, LAS, 1991; Nuttin J., M. e prospettiva futura, Ibid., 1992; H eckhausen H. - J. Kuh (Edd.), Motiva­ tion, Volition und Handlung, Göttingen, Hogrefe, 1996; Gatti R., Saper sapere: la m. come obiettivo educativo, Roma, Carocci, 2002; Lombardo C., M. ed emozione, Roma, Borla, 2006.

A. Ronco

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MOUNIER EMMANUEL

MOUNIER Emmanuel n. a Grenoble nel 1905 - m. a Châtenay Malabry nel 1950, pensatore e pubblicista francese. 1. Massimo esponente del → personalismo cristiano di «Esprit», la rivista da lui fondata nel 1932. Tra gli scritti, conviene ricordare almeno il Manifesto al servizio del personalismo comunitario (1936), il Trattato del carattere (1946), Che cos’è il personalismo? (1947), Il personalismo (1949). Di fronte alla crisi del XX sec., M. rivendica l’assoluta centralità della → persona di cui sono costitutive la vocazione (la chiamata a svolgere un compito), l’incarnazione (l’inserimento in una situazione storica) e la comunione (la realizzazione in un ambito comunitario). La persona, specie quella malata (come la figlia Françoise) o costretta (come lui stesso, incarcerato durante la seconda guerra mondiale) è sacra come un’ostia e come un altare. Discepolo di J. Chevalier e C. Péguy, in contatto con → Maritain e con altri, tra cui G. Marcel e N. Berdjaev, M. intende vincere sul piano teorico le strettoie dell’esistenzialismo e del marxismo; e sul piano socio-politico, contro il «disordine costituito» e il nichilismo europeo, lotta per un «nuovo rinascimento» e una «rivoluzione personalistica e comunitaria», oltre il capitalismo borghese e il collettivismo comunista. 2. Anche sul piano del carattere individuale, M. presenta un uomo «drammatico e completo» che costruisce la sua personalità in lotta con l’ambiente e con il proprio corpo, aprendosi all’azione, alla relazione cosciente con gli altri, all’attività intellettuale, alla vita spirituale e all’espressione religiosa. L’educazione si pone nei processi di personalizzazione individuale e comunitaria. Suo compito non è fare, ma suscitare le persone. Non è una fabbrica di addestramento al conformismo familiare, sociale, statale, ecclesiale, perché la persona appartiene solo a se stessa, pur formandosi in comunità e per mezzo di esse. Riafferma la funzione educativa della → famiglia, ma ne denuncia pure i rischi di autoritarismo. Polemizza contro la falsa neutralità della scuola e lo statalismo educativo. La scuola è uno strumento dell’educazione tra molti altri. L’educazione scolastica è un 774

ambito dell’educazione totale. Denuncia l’ → adultismo, l’intellettualismo, l’autoritarismo e l’antidemocraticismo dell’educazione tradizionale, che ignorava la persona del fanciullo, ma è pure contro l’attivismo delle → Scuole Nuove sviato, a suo avviso, dall’ottimismo liberale e da un’immagine angusta e naturalistica di uomo. Bibl.: Lacroix J., M. éducateur, in «Esprit» 18 (1950) 839-851; Montani M., Persona e società. Il messaggio di E. M., Leumann (TO), Elle Di Ci, 1978; Lombardi F. V., Politica ed educazione nel personalismo di M., Milano, Massimo, 1980; Bombaci N., Una vita, una testimonianza. E. M., Messina, A. Siciliano, 1999; Toso M. - Z. Formella - A. Danese (Edd.), E.M. Persona e umanesimo relazionale. Vol. I: Nel centenario della nascita (1905-1950); vol. II: M. e oltre, Roma, LAS, 2005.

C. Nanni

MOVIMENTI Nel campo sociale l’individuazione delle caratteristiche dei m. sembra molto elusiva dal punto di vista concettuale, essendo­ vi una larga varietà di definizioni difficil­ mente comparabili tra loro; in genere vi si comprende insieme il «coinvolgimento di un gran numero di individui, un basso li­vello di organizzazione, la spontaneità del­l’azione, l’esistenza di un’ideologia comu­ne, l’identificazione di un avversario, la fi­nalità di cambiare (o mantenere) il sistema sociale in qualche suo aspetto, l’essere cau­sa o effetto di un processo di mutamento». Ne consegue che grande rilevanza ha lo studio di dinamiche e processi quali la mo­bilitazione, il reclutamento, l’ideologia, la leadership, l’organizzazione, la prassi e la strategia d’azione ed i loro risultati. 1. L’interesse per i m. viene dalla loro na­ tura di specchio del sistema nel suo insieme. Come è stato notato «nelle società moderne, il processo di crescita della com­plessità sociale si traduce in una disartico­lazione dell’universo simbolico, che pone ad ogni attore problemi di definizione del profilo sociale; con la frantumazione delle identità, e la disgregazione di ogni prin­cipio simboli-

MOVIMENTI ECCLESIALI

co unitario, individui e gruppi sono proiettati in uno stato angosciante di incertezza; l’emergere di m. che tentano di riorganizzare la propria identità è tra le conseguenze di questi processi». L’incertezza concettuale si traduce nel­l’ambito classificatorio, mutevole a secon­da degli indicatori di base assunti. Si pos­sono riconoscere m. basati sulle norme o sui valori, a seconda del livello dell’azione che si mira a ricostruire, ovvero a seconda della natura della credenza generalizzata. Ma si possono distinguere, e sono stati in­ dicati dalla storiografia, m. sociali generali e specifici, naturalmente secondo l’ampiez­ za degli obiettivi, attivi (riformistici e rivo­ luzionari) ed espressivi (anche fenomeni di moda); l’attenzione maggiore è andata ai m. sociali (rivendicativi, politici e di classe) e più in generale a m. trasformativi, rifor­ mistici, redentivi, alternativi, a seconda che il mutamento desiderato sia totale o par­ziale e che coinvolga la struttura sociale o gli individui, in relazione alla mobilitazione di grandi masse, tali da assumere rilevanza storica, o di semplice protesta, limitati a gruppi ristretti con varie motivazioni. 2. Da un punto di vista tipologico occorre tenere conto di m. politici attraverso i qua­li si tende a fare politica al di fuori dei par­titi; di m. religiosi (confessionali, ecclesia­stici o neo-religiosi) come riscoperta di opportunità nella tensione al benessere ed alla assicurazione individuale; né sono tra­scurabili il m. pacifista, quello ecologico, quello femminile, del → volontariato e si­mili nei quali il tasso ideologico fornisce unità, rafforza i legami, consente di ricono­scere alleati ed avversari, e fa «da base alla definizione e alla contrattazione degli spa­zi del m. in relazione al più ampio sistema sociale». Molti m. (politici, ecclesiali so­prattutto, e così via) continuano a chia­marsi tali nonostante una marcata organiz­zazione e perfetta integrazione istituziona­le: la autodefinizione costituisce allora parte del collante ideologico. Bibl.: Carboni C., Classi e m. in Italia, Bari, Later­za, 1986; Angel W., Youth movements of the world, Haslow, Longman, 1990; Eyerman P. - A. Jamison, Social movements, Cambridge, Polity Press, 1991; Fauvel-Rouif D. (Ed.), La jeunesse et ses mouvements, Paris, C.N.R.S., 1992; Neveu E., I m. sociali, Bologna, Il Mulino, 2001; Caimi

L., Spiritualità dei m. giovanili, Roma, Studium, 2005.

A. Turchini

MOVIMENTI ECCLESIALI La fede cristiana è sempre stata vissuta in forme associate (→ associazionismo), come mostra la storia delle confraternite e dei diversi sodalizi. In tempi recenti, però, soprattutto dal Concilio Vat. II ad oggi, si è assistito ad una nuova stagione aggregativa dei fedeli, caratterizzata sia dal riproporsi di precedenti associazioni, come la → Azione cattolica, sia dal sorgere e dal diffondersi di m., soprattutto laicali, che hanno dato rinnovato impulso alla vita della → Chiesa (→ Scautismo cattolico, Opus Dei, «Cursillos» di cristianità, Focolarini, Giovani cooperatori salesiani, Comunione e Liberazione, Gioventù aclista). 1. In un contesto culturale frammentato, che ha comportato anche la crisi e l’evoluzione delle strutture ecclesiali, i m. sono stati forze vive ed hanno avuto il merito di costituire polarità forti, capaci di orientare la fede di molti credenti e di raccoglierla in significative forme di esperienza ecclesiale. Nel far ciò, essi hanno contribuito non poco a dar forma storica a quella «ecclesiologia di comunione», che il Sinodo straordinario dei Vescovi del 1985 ha indicato come idea centrale del Concilio per interpretare il popolo di Dio. Pur interessandosi di ambiti pastorali diversi della vita ecclesiale, sociale, culturale e politica, i m. hanno contribuito a promuovere una rinnovata e preziosa azione educativa, tesa a far riscoprire e a far vivere la → vocazione battesimale del credente, che prima di ogni missione specifica consiste nella chiamata alla comunione col Cristo nella Chiesa. 2. L’educazione alla comunione organica, vissuta nella diversità e complementarità dei carismi, è anche all’origine della riconosciuta ed apprezzata varietà delle «pedagogie cristiane» che caratterizzano i diversi m., qualificate da specifici e rinnovati itinerari di fede, unitamente a moderne metodologie. Si tratta di itinerari elaborati e costantemente verificati alla luce di precisi «criteri di ecclesialità», in più occasioni richiamati 775

MULTIMEDIALITÀ

nei documenti magisteriali, anche a fronte di qualche difficoltà a volte creata all’armonia della comunione dall’esuberanza di certi m. Seguendo la Christifideles laici li possiamo così indicare: 1) il primato dato alla vocazione di ogni cristiano alla santità, promuovendo un’intima unione tra fede e vita; 2) la responsabilità di confessare la fede cattolica su Cristo, sulla Chiesa e sull’uomo in modo integrale, in obbedienza al Magistero; 3) la testimonianza di una comunione ecclesiale salda e convinta in relazione filiale col Papa e il vescovo e in rapporto con le altre forme aggregative di apostolato nei confronti delle quali vivere relazioni di stima e di collaborazione; 4) la conformità e la partecipazione al fine apostolico della Chiesa, che consiste nell’impegno per una nuova evangelizzazione, la santificazione degli uomini e la formazione cristiana della loro coscienza; 5) l’impegno di una presenza nella società umana, a servizio dell’integrale dignità dell’uomo, alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Bibl.: Cei, Criteri di ecclesialità dei gruppi, m. e associazioni dei fedeli nella Chiesa. Nota pastorale della Commissione episcopale per l’apostolato dei laici, 1981, ECEI/3, nn. 587-612; Sinodo dei Vescovi, Vocazione e missione dei laici. Proposizioni, 1987, EV/10, nn. 2103-2214; Esortazione apostolica post-sinodale «Christifideles laici» di sua santità Giovanni Paolo II su vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, 1988, EV/11, nn. 1606-1900; Pontificium Consilium P ro Laicis (Ed.), I m. nella chiesa. Atti del Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali Roma, 27-29 maggio 1998, Città del Vaticano, LEV, 1999; Id., Atti del II congresso mondiale dei m.e. e delle nuove comunità dal titolo «La bellezza di essere cristiani e la gioia di comunicarlo» (Rocca di Papa, 31 maggio - 2 giugno 2006, in stampa).

R. Rezzaghi

MULTICULTURA → Educazione interculturale MULTIDISCIPLINARITÀ → Interdisciplinarità

MULTIMEDIALITÀ La m. interattiva è una tecnologia derivata dall’ → ipertesto che, in aggiunta alle ca776

ratteristiche della non-sequenzialità, nonlinearità e presenza di legami, prevede la compresenza di diversi linguaggi simbolici di comunicazione della cultura e/o delle informazioni associando, sullo stesso supporto fisico dell’ → hardware, l’immagine grafica, fotografica, 3-D, cinematografica, musicale e sonora. L’interattività si definisce per la vasta gamma di proposte che il software offre ad ogni richiesta informativa dell’utente. Nel campo applicativo dell’educazione e dell’istruzione, la m. interattiva, oltre ad offrire i vantaggi propri della compresenza dei linguaggi, si arricchisce di modelli comunicativi che integrano la comunicazione interpersonale a quella di massa e si arricchisce inoltre di modalità psicologiche di fruizione che stimolano contemporaneamente i processi percettivi, emotivi e cognitivi. 1. Definizione e caratteristiche. La → comunicazione è il risultato dell’interazione di una serie di segnali, trasportati da vettori, ciascuno dei quali colpisce uno o più di uno dei cinque sensi. La m. è un medium «multicanale» o medium «multivettoriale» che, servendosi dei supporti fisici dell’hardware e del software, si rivolge contemporaneamente a più sensi dell’utente, soprattutto alla vista e all’udito. Si caratterizza per la compresenza di media diversificati quali: il testo, la grafica, l’animazione, l’immagine 3-D, la voce, la musica, l’immagine fissa, il video digitale. Ad ognuno dei media possono essere assegnate proprietà specifiche che potenziano ogni singolo medium come, ad es., per il testo: il font, la dimensione, il colore, le caratteristiche (sottolineatura, neretto, ecc.), il posizionamento nella pagina, la rotazione, ecc. Una struttura multimediale è costituita da un insieme di nodi, ognuno dei quali utilizza diversi media per esprimere il proprio contenuto informativo. Durante l’esplorazione dell’applicazione, l’utente può: ricercare le parti che maggiormente lo interessano, soffermarsi su di esse per il tempo che ritiene necessario e approfondire maggiormente alcuni argomenti trascurandone altri. 2. Fondamenti della comunicazione multimediale. La comprensione globale di una comunicazione è fortemente influenzata dalla sequenza dei messaggi, dalla loro gerarchizzazione e dai media che la veicolano. La

MULTIMEDIALITÀ

compresenza di questi tre elementi permette un maggior coinvolgimento dell’utente come parte attiva perché stimola l’attenzione, la curiosità epistemica e l’apprendimento significativo. Per un’efficace stimolazione della percezione e dell’attenzione dell’utenza, la realizzazione di pacchetti multimediali interattivi si fonda sull’analisi del contesto comunicativo (classe, apprendimento a distanza, chiosco informativo), sulla definizione del modello dell’utente (età, conoscenze previe, utilizzazione delle informazioni); sull’analisi delle tecnologie da implementare e sull’individuazione delle metodologie. L’interattività è il fattore che distingue il nuovo modo di comunicare; con l’interattività, l’informazione non è più unidirezionale e non segue schemi preordinati, permette all’utente di decidere non solo a quali informazioni accedere, ma anche secondo quale percorso. Grazie all’interattività il flusso di conoscenze da esplorare e trattare è stabilito in larga misura dal destinatario mentre nella comunicazione tradizionale (soprattutto di massa), la scelta dei contenuti è determinata esclusivamente dall’emittente. Con le interfacce grafiche e sonore in continua evoluzione, il grado di interattività sta aumentando. 3. Tipologia dei pacchetti multimediali interattivi. I pacchetti multimediali interattivi coprono una vasta gamma di interessi e di bisogni. I «libri animati» (living books) sono provvisti di pochi link, ma offrono una notevole ricchezza di interazioni all’interno della stessa videata. Per quanto riguarda l’informazione, è possibile consultare atlanti ed enciclopedie di ogni tipo, grandi raccolte di testi letterari e musicali, manualistica per ogni necessità, corsi teorici e/o pratici, simulazioni, programmi ad hoc per aziende, giochi educativi e di evasione di ogni genere e per ogni età. I supporti più diffusi sono il CD-ROM (Compact disk - Read only memory), utilizzabile su tutti i computer attraverso un lettore e la Rete. 4. Utilizzazione educativo-didattica della m. interattiva. Il termine «edutainment» nasce dalla fusione di «education» (istruzione) e «entertainment» (divertimento). Il filone più importante di programmi multimediali interattivi si basa sull’esigenza di imparare divertendosi e stimola nuove considerazioni

pedagogico-didattiche circa il processo di insegnamento-apprendimento. I libri elettronici sono «giochi intelligenti» in cui le informazioni sono integrate con piacevoli immagini, animazioni e suoni. L’utilizzazione delle nuove tecnologie multimediali interattive nell’ambito della scuola strutturata prevede un ripensamento dei programmi e della suddivisione in discipline. 5. Prospettive future. L’integrazione del computer multimediale con le tecnologie della Rete permette di collegarsi con reti informative in tutto il mondo. I mondi virtuali sono la frontiera più avanzata di applicazione della m. interattiva. Hanno la grafica accattivante dei videogiochi online del tipo MMORPG (Massively Multiplayer Online Role Playing Game) senza obbligare a portare a termine missioni complicate. I migliori mondi virtuali si vantano di dettagli grafici per le chat estremamente amichevoli e offrono agli iscritti la possibilità di crearsi avatar o alter ego eccezionali e di girare liberamente. I mondi virtuali attuali richiedono un sofisticato rendering 3-D per offrire alternative alla vita reale. La possibilità di simulare un mondo artificiale, simile a quello reale, utilizzando appositi guanti, casco e tuta, dà accesso a mondi virtuali con vari campi di applicazione formativa e didattica quali la creazione di mondi artificiali per compiere esperimenti rischiosi, l’esplorazione di mondi artistici o archeologici impossibili da riprodurre altrimenti, la costruzione di progetti per studiarne, dall’interno, gli effetti. Nei mondi virtuali come Second Life si tengono interi corsi universitari, incontri, conferenze e presentazione di libri attraverso un’immersione totale in un ambiente virtuale che assomiglia in tutto e per tutto all’ambiente reale. La teledidattica, grazie alla m. interattiva più avanzata, si è trasformata e non offre più soltanto la possibilità di trasmettere immagini oltre la voce di un esperto che tiene le proprie lezioni a distanza, offre anche una vera e propria immersione nei luoghi storici, negli esperimenti di chimica, fisica, in situazioni che vengono appositamente ricreate affinché l’apprendimento sia il più possibile immersivo. Questo è stato reso possibile dalla Rete Internet dove si moltiplicano corsi che offrono informazioni in codici diversi. 777

MURIALDO LEONARDO

genze del tempo: «Noi dobbiamo tendere con tutti i nostri sforzi a fare dei nostri giovani buoni operai cristiani, ma dobbiamo applicarci pure a fare di essi operai abili, bravi cittadini, d’esempio nella società e lievito nel mondo che viene sorgendo tra scosse e agitazioni» (Disc., 1865).

Bibl.: Schwier R. A. - E. R. Misanchuck, Interactive multimedia instruction, Englewood Cliffs, Educational Technology Publications, 1993; Baldassare A. (Ed.), M. interattiva, Bari, Edizioni del Sud, 1994; Vaughan T., Multimedia: making it work, New York, McGraw-Hill, 1998; Cangià C., Teoria e pratica della comunicazione multimediale, Roma, Editoriale Tuttoscuola, 2001; Clark R. - E. Mayer, E-learning and the science of instruction: proven guidelines for consumers and designers of multimedia learning, San Francisco, CA, Pfeiffer, 2002; M aragliano R., Nuovo manuale di didattica multimediale, Roma/ Bari, Laterza, 2004.

Bibl.: M.L., Epistolario, vol. I, a cura di A. Marengo, Roma, Editrice Murialdina, 1970; M arengo A., Contributi per uno studio su L.M. educatore, Roma, Tip. S. Pio X, 1964; Dotta G. - G. Fossati - D. M agni, L.M., gli artigianelli e l’Oratorio San Martino, Roma, Editrice Murialdo, 2004.

MURIALDO Leonardo

MURRAY Henry Alexander

n. a Torino nel 1828 - m. ivi nel 1900, educatore italiano, fondatore della Pia Società di s. Giuseppe (Giuseppini), santo.

n. a New York nel 1893 - m. a Cambridge nel 1988, medico e psicologo statunitense.

C. Cangià

1. Ricevuta una solida formazione umanistica e teologica, dopo l’ordinazione sacerdotale, collabora con don → Bosco nell’opera degli → Oratori, dirigendo quello di San Luigi di Torino (1857-1865), con annesse scuole festive e diurne. Nell’anno trascorso nel seminario di S. Sulpizio (1865), ha occasione di conoscere le istituzioni educative francesi, soprattutto le opere a favore della gioventù operaia del T. David (1823-1891). Rientrato in Italia, assume la direzione del Collegio degli Artigianelli di Torino (fondato nel 1849 da G. Cocchi), e lo trasforma in una «scuola interna di qualificazione al lavoro», intenta a formare «onesti e virtuosi cittadini di tanti poveri ragazzi che abbandonati a se stessi diverrebbero troppo facilmente l’obbrobrio e il flagello della società» (Epist. 1, 91). 2. Uomo sensibile ai problemi giovanili e del lavoro, M. esplica la sua attività su più fronti: fonda scuole di arti e mestieri e colonie agricole, oratori e patronati, case-famiglia per operai; partecipa attivamente nel campo dell’impegno sociale organizzato, collaborando alla fondazione della prima Associazione degli Operai Cattolici (1871). Fin dai primi anni dell’impegno tra i giovani, M. formula il suo scopo, in sintonia con le ur778

J. M. Prellezo

1. Dopo aver conseguito ad Harvard la laurea in storia, si laurea in medicina alla Columbia University (1919). Si specializza in biologia e chirurgia e prosegue i suoi studi a Cambridge, laureandosi in biochimica. Inizia quindi ad interessarsi di psicologia e di psicoanalisi, legge i testi di S. → Freud e di → Jung. Nel 1928 viene promosso assistente e direttore della Clinica Psicologica della Harvard University. Completata la formazione psicoanalitica, è tra i fondatori della Società Psicoanalitica di Boston e a partire dal 1937, anno in cui diventa professore associato di psicologia, promuove ad Harvard lo studio della teoria psicoanalitica, proponendosi di individuare gli strumenti per sottoporre a verifica empirica le intuizioni cliniche di Freud e mettere così a punto una serie di strumenti per la misurazione della personalità. I risultati di questo lavoro di ricerca verranno esposti nel volume Explorations in personality (1938). Nel 1943, anno in cui mette a punto e pubblica il Thematic Apperception Test (TAT Test di appercezione tematica), che è ancor oggi uno dei → test proiettivi maggiormente usati nell’indagine clinica della personalità, lascia Harvard per entrare nel Corpo Medico dell’esercito, dove fonda e dirige l’Office of Strategie Services, con il compito di selezionare e reclutare i candidati per missioni segrete o pericolose.

MUSEI

2. Nel 1947 riprende ad Harvard, dove verrà nominato professore, gli studi sulla personalità, continuando a mettere a punto la sua teoria psicologica e pubblica The assessment of men (1948). Continua inoltre a coltivare interessi storici e letterari e, nel periodo della «guerra fredda», in una serie di articoli polemici, sottolinea il rischio di una guerra atomica e sostiene la necessità che gli intellettuali si impegnino in una «azione pedagogica che consenta una radicale conversione, o rieducazione ai valori della vita e della libertà» La teoria di M. – la «personologia» – che vuol essere una teoria comprensiva della personalità, ha il proprio nucleo nello studio dell’individuo considerato in tutta la sua complessità. Dopo aver messo in rilievo il carattere organico del comportamento e l’importanza del contesto ambientale e socio-culturale, M., pur sottolineando le basi biologiche della personalità e del comportamento, sostiene che i dati fondamentali dello psicologo non sono rappresentati dai processi fisiologici e neurologici che sottendono il comportamento ma piuttosto dai procedimenti, e cioè dalle interazioni tra il soggetto psicologico e il suo oggetto. 3. Secondo M., un’adeguata comprensione della → motivazione umana deve basarsi su un sistema che faccia uso di un numero sufficientemente vasto di variabili per riflettere, almeno in parte l’immensa complessità dei motivi umani allo stato più elementare. Centrale, nella sua «personologia», è il concetto di bisogno, definito come «un costrutto (o immagine conveniente o concetto ipotetico) che simboleggia una forza [...] nella zona cerebrale che organizza la percezione [...] la volizione [...] e che si manifesta inducendo l’organismo a ricercare o a evitare lo scontro o, qualora esso sia in atto, a badare e a rispondere a pressioni di natura particolare». Per M. i bisogni sono caratteristicamente accompagnati da un sentimento o emozione di intensità variabile, sono persistenti nel tempo e danno inoltre origine a un particolare corso di comportamento o fantasia che cambia lo stato iniziale in modo da creare una situazione finale che fermi, calmi o soddisfi l’organismo. Dopo aver sottolineato le determinanti socioculturali e l’unicità essenziale di ogni persona o comportamento, e sostenuto la necessità di uno studio completo, parti-

colareggiato e intensivo del soggetto singolo nonché l’importanza della cooperazione fra le varie discipline nello studio della personalità, M. ribadisce l’importanza dell’osservatore o psicologo; e mettendo a punto la tecnica del concilio diagnostico, che include diversi osservatori, tutti impegnati, seppure da differenti punti di vista, nello studio dello stesso soggetto. Bibl.: M.H.A. (Ed.), Personality in nature, society and culture, New York, Knopf, 1971; Maddi S. R. - P. Costa, Humanism in personology: Allport, Maslow and M., Chicago, Aldine-Atherton, 1972; R abin A. I. et al., Further explorations in personality, New York, Wiley, 1981.

F. Ortu - N. Dazzi

MUSEI Il nome deriva da quello dell’edificio elle­ nistico dedicato alle Muse annesso alla grande Biblioteca di Alessandria d’Egitto. Dall’antichità all’epoca moderna non sono esistiti m. nel senso moderno, bensì raccol­ te talora anche cospicue di opere d’arte nei templi, negli edifici pubblici, nelle dimore regali e principesche. Accanto alle raccolte d’arte spesso vi sono oggetti rari, strani o curiosi, come pepite, cristalli, conchiglie, fossili, ossa di animali preistorici, meteori­ti caduti dal cielo, denti di narvalo ritenuti di unicorno, che costituiscono le Wunderkammer (camere delle meraviglie). 1. Il m. moderno nasce dopo l’apertura (gratuita o pagante) al pubblico delle predette raccolte, e con l’incremento di esse a fini di studio e di promozione della cultura. Un forte impulso alla trasformazione vie­ne dato dalla Rivoluzione francese, che do­po le prime distruzioni di regge e monaste­r i dovute alla furia estremista, si interessa invece alla conservazione ed esposizione dei beni culturali e artistici; essa estende la sua attenzione anche alle raccolte scienti­fiche (di minerali, piante, animali), agli strumenti e alle tecnologie, creando il pri­mo grande m. del genere a Parigi nel Conservatoire des Arts et Métiers a Saint Mar­tin des Champs. Gli scavi archeologici e lo studio sistematico della storia dell’arte incentivano la creazione di m. di 779

MUSICA E EDUCAZIONE

belle arti; ad essi si aggiungono m. storici e archivi nazionali di documenti. Da parte sua il po­sitivismo con l’interesse alla divulgazione scientifica favorisce i m. naturalistici. Con la democratizzazione degli Stati europei e americani, l’apertura delle raccolte trasfor­ mate in m. pubblici viene generalizzata, e l’affluenza dei visitatori ascende ai parec­chi milioni annuali odierni.

MUSICA E EDUCAZIONE

2. Un m. è «un’organizzazione di segni ico­ nici» (U. Eco) e come tale un sistema di messaggi essenzialmente visivi. Sono quin­di fondamentali la scelta dei pezzi che van­no esposti, la loro comparazione e sequen­za, la disposizione in vetrine illuminate, l’organizzazione delle visite, l’abbinamen­to degli oggetti a cartellini esplicativi, a schede descrittive, a guide e libri, l’offerta di riproduzioni e facsimili, di sussidi audio­visivi, di strumenti informatici e di CD in­terattivi. I vecchi m. artistici assembravano in disordine centinaia di opere in poco spa­zio, più che altro in funzione di tesoro o di decoro; quelli scientifici allineavano mi­gliaia di minerali, di piante, di insetti, di animali imbalsamati o conservati sotto al­cole o formalina. L’effetto era opprimente e la visita faticosa. Oggi vengono scelti per la esposizione al pubblico pochi pezzi ve­ramente significativi, e messi in evidenza con tecniche «vetrinistiche» di sicuro richiamo. Le vaste raccolte di base e quelle specialistiche sono invece custodite in de­positi per gli studiosi e gli scambi.

1. Significato della m. È facile notare come la m. investa in mille modi l’esistenza dei giovani e non, e quanto incida nella vita quotidiana, fino al punto che spesso que­st’ultima venga definita a «tempo di m.». Dietro tale accentuato e rinnovato interes­se delle nuove generazioni per la m., c’è una rete di aspirazioni, desideri, conflitti e relazioni, che merita attenzione. Come al­tre forme di espressione, la m. riesce a co­municare il mondo interiore, in forza di una ricca valenza simbolica e un grande potere evocativo. Essa, perciò, ha potuto as­sumere ed esprimere pienamente l’oriz­zonte di senso che avvolge la vita delle gio­vani generazioni, divenendo occasione di comunicazione, di trasmissione di senso, di socializzazione e di espressione di vita in forma tanto simbolica quanto concreta. Sul significato della m. e sulla sua capacità in­trinseca di parlare all’uomo e di far parlare l’uomo col suo linguaggio, c’è la testimo­nianza di uno sviluppo costante nella sto­r ia del pensiero umano. La persona uma­na, dotata di intelligenza, sentimento, de­siderio, emozioni, tesa alla realizzazione della propria autonomia e libertà, ha in ogni tempo e situazione colto ed espresso, attraverso la m., le dimensioni fondamen­tali della sua esistenza: la relazionalità, la storicità e la trascendenza.

3. Le discipline museali costituiscono oggi accanto a quelle bibliografiche e biblioteconomiche un importante settore dei beni culturali; vi attendono la museografia e la museologia. Ma notevole interesse è quel­lo della didattica della → educazione arti­stica e della → educazione scientifica. Bibl.: Angela A., M. e mostre a misura d’uo­mo, Roma, Armando, 1988; Pedagogie del m., Ge­ nova, SAGEP,1991; Gallo Barbisio C. - C. Quaranta (Edd.), Il significato del m. laboratorio di territorio, Torino, Tirrenia Stampatori, 1997; Nardi E., Leggere il m.: proposte didattiche, Formello, SEAM, 2001; M. didattico: polo MUSIS permanente: 8. aggiornamento: 12. settimana della cultura scientifica, marzo 2002, Roma, Euroma, 2002.

M. Laeng

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Il fenomeno musicale ha interessato nume­ rosi studiosi non solo di teoria musicale, di storia della m., di semiologia, di estetica musicale, ma anche esperti di filosofia, psi­ cologia, sociologia, pedagogia, linguistica, e più recentemente di scienze della → co­ municazione.

2. Il linguaggio musicale. Il linguaggio mu­ sicale, oltre a penetrare e ad esprimere la parte più intima e recondita della persona, quella che costituisce il mistero stesso del­l’uomo, permette una comunicazione ricca e sensata tra le persone, perché collima mi­rabilmente con la struttura dialogica e in­terpersonale dell’essere umano. Alcune esigenze peculiari della m., come ad es. l’a­scolto, il silenzio, la condivisione, portano la persona da uno stile di chiusura e di soli­t udine alla partecipazione e alla manifesta­zione delle proprie convinzioni e del pro­prio sentimento. Strumento di comunica­zione e di comunicazio-

MUSICA E EDUCAZIONE

ne interpersonale, essa crea spazi di verità, libertà, gioia, entusiasmo, poiché conduce gradualmente l’uomo nel profondo di se stesso e contem­poraneamente lo spinge ad aprirsi alla realtà che lo circonda, manifestando il tut­to di sé. La comprensione dello stimolo musicale e della sua percezione occupa gli studiosi di psicologia, già impegnati a con­ siderare gli effetti dei contesti e delle varie forme musicali. Anche l’esperienza del­ l’appropriazione musicale è vista in riferi­ mento allo schema culturale personale, senza tralasciare la discussa problematica circa la m. come dote naturale oppure acquisita. Dal punto di vista dell’estetica della m. viene riaffermata in maniera in­discussa l’idea di una stretta analogia tra m. e sistema linguistico. Il codice musicale è una ricchezza che possediamo naturalmen­te, come esseri umani; occorre ovviamente abilitarsi a decodificare, per ottenere il massimo della comunicazione. Pur differenziandosi la valenza culturale ed evocativa dei diversi messaggi musicali, dati dal­la varietà delle forme e dei generi, ogni co­municazione sonora tende a raggiungere la persona nel profondo, per stimolarla al­ l’assimilazione del messaggio e all’elabora­ zione di una risposta pertinente ed origina­le nel contempo. Ecco le funzioni attribui­te al linguaggio musicale: a) una funzione ludica, che permette di interpretare e sen­tire la vita come gioco; b) una funzione ca­tartica, che purifica e rasserena la persona nelle diverse situazioni difficili della sua esistenza (→ musicoterapia); c) una funzio­ne didascalica, attraverso la quale la m. si trasforma da semplice codice linguistico a forza educativa; d) una funzione creativa, che consiste nel riuscire ad esprimere at­t raverso la m., in forma artistica, un conte­nuto originale; e) una funzione religiosa, per cui la m. conduce l’uomo alla gratuità, alla bellezza e alla profondità del proprio essere; di qui facilmente può scaturire l’a­pertura alla trascendenza. 3. Simbolismo e pedagogia. La m., come forza di concentrazione della persona su se stessa, fa maturare l’attitudine all’ascolto e orienta l’uomo ad allargare l’orizzonte in­ terpretativo dell’intera sua esistenza. Emerge chiara una funzione simbolico-formativa, in un certo senso pedagogica, della m. da non trascurare. Essa, infatti, come del resto le altre arti, viene a contribuire di­rettamente

alla formazione integrale della personalità, attraverso lo sviluppo dell’in­t elligenza e del carattere. Tali condizioni sono richieste per la maturazione umana, e sono essenzialmente prerogativa per ap­prendere ed esercitare un’arte. Il grande valore educativo dell’arte consiste proprio nell’esercizio dell’immediatezza impulsiva ed estrosa e nell’affermazione della liber­t à. Man mano che le capacità umane si sviluppano, si comprende il linguaggio e il senso della m., ma d’altra parte le abilità musicali e il gusto estetico contribuiscono alla definizione di alcuni tratti della perso­nalità. Il linguaggio musicale troppe volte è stato considerato misterioso e incomprensibile, oppure privo di spessore semantico e dotato soltanto di un significato struttura­le. Esso certamente non indica con preci­sione oggetti, eventi, personaggi, manca cioè di potenza denotativa, ma esprime la realtà in modo simbolico, rappresentando degli oggetti, degli eventi e dei personaggi solo le caratteristiche astratte che riman­d ano alla realtà significata in quanto tale. Si dice perciò che la m. ha una forte valen­za simbolica e riesce così a descrivere una molteplicità di azioni, di stati d’animo, e di vicende umane, in modo che l’uomo ne percepisca pienamente il relativo messag­gio. La funzione simbolica della m. può es­sere colta nell’espressione sonora più sem­plice come nell’opera d’arte maggiormente complessa. In concreto essa si esplicita in quattro ambiti di significato: il primo (ono­matopeico), il più semplice, è quello che ri­g uarda la capacità del suono di imitare al­ cune voci dalla natura, come ad esempio il vento, gli animali, ecc.; il secondo (sinestesico) si fonda sull’analogia tra realtà percepibili da sensi diversi (si accostano qualità visive, spaziali, tattili ecc. a quelle sonore); il terzo (fisiognomico) ambito di significato simbolico della m. copre l’ordine psicologico-emotivo. La m. può esprimere stati psichici ed emozioni, perché queste situa­ zioni sono sempre accompagnate da modi­ ficazioni fisiologiche; il quarto (temporale) considera la capacità della m. di esprimere realtà disposte nel tempo. Il campo della significazione musicale si completa con lo studio della valenza evocativo-connotativa. Questa, più che fondarsi sulla struttura del codice musicale, fa leva sulla cultura e sulle convenzioni maturate tra gli uomini nel cor781

MUSICOTERAPIA

so dei secoli; si direbbe quindi che è un fatto determinato dalla mediazione culturale. 4. L’educazione musicale a scuola. Le linee portanti di questa breve riflessione sulla m., sul suo significato, sulla sua funzione di linguaggio e sulla sua valenza simbolica e pedagogica, costituiscono parte di un am­pio quadro di riferimento a cui gli attuali pro­grammi per la scuola media italiana si sono ispirati. Ai fini infatti della maturazione espressiva e comunicativa del preadole­scente, ultima categoria di studenti che s’imbatte nella m. a scuola, risulta più si­gnificativo ed efficace un modello di edu­cazione musicale che passi da una preoccu­pazione di didattica musicale ad una peda­gogia della e con la m. Bibl.: Della Casa M., La comunicazione musica­ le e l’educazione, Brescia, La Scuola, 1974; I nuovi programmi per la scuola media. Interpretazioni, commenti, testi, Ibid., 1979; Peretti M., Pedagogia ed esperienza musicale, Ibid., 1980; Cano C., Simboli sonori, Milano, An­geli, 1985; Stefani G., M. con coscienza, Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1989; Ferrari F., Giochi d’ascolto. L’ascolto musicale come tecnica di animazione, Milano, Angeli, 2002.

A. Lobefalo

MUSICOTERAPIA La m. è una disciplina organizzata ed una professione; entrambe includono aspetti scientifici, artistici ed interpersonali, raggruppati intorno a due poli principali: la musica (suono) e la terapia intesa come intervento con valenza pedagogica e clinico-riabilitativa. 1. Gli aspetti scientifici riguardano l’approccio secondo criteri di oggettività, verificabilità, affidabilità, ecc., alla ricerca, allo studio ed alla comprensione del rapporto musica (elemento sonoro sensoriale) essere umano, per una sua formalizzazione teorica. Gli aspetti artistici concernono la conoscenza della musica, delle sue componenti multisensoriali, dei mezzi vocali-strumentali, ai fini di una loro applicazione strutturata e creativa, effettuata da persona specializzata, secondo le necessità dell’utente nel contesto terapeutico. Gli aspetti interpersonali sono 782

relativi alle esperienze sonoro-musicali ed alle relazioni che si sviluppano attraverso di esse (relazione musica-utente; relazione utente-terapeuta; relazione musica-terapeuta) utilizzate come forze dinamiche di cambiamento dal musicoterapeuta nel processo sistematico di intervento. 2. Come disciplina la m. ha una caratteristica unica in quanto combinazione di musica e terapia. Essa si basa sulle teorie dello sviluppo (biologico, cognitivo, emotivo, relazionale) e si occupa specificamente della conoscenza tacita (emozioni e relazioni) elaborata a livello pre-verbale e a-verbale (sensoriale). Come professione la m. richiede una formazione in campo psico-terapeutico o pedagogico e musicale. Nella pratica professionale, la m. può essere considerata secondo aree e livelli di applicazione. Le aree sono quella riabilitativo-terapeutica e quella educativopedagogico-ricreativa. I livelli di intervento sono determinati dalla rilevanza della m. rispetto alla salute della persona, alla indipendenza clinica della m. rispetto ad altre terapie utilizzate in quel caso, al tipo di relazione terapeuta-musica-utente, alla profondità dell’intervento ed al grado di cambiamento terapeutico (o di sviluppo) raggiunto dalla persona in difficoltà. 3. Come terapia la m. è caratterizzata dalla modalità di trattamento, distinguendosi dalle altre per il ruolo centrale del suono, della musica e delle esperienze musicali nel processo terapeutico. I soggetti coi quali è preferibile intervenire con la m. sono persone che per vari motivi (clinici, psicologici, di sviluppo) presentano carenze nella comunicazione verbale (per es. autistici, non udenti), resistenze verso una terapia verbale, persone che hanno difficoltà ad essere in contatto o ad esprimere le proprie emozioni congruentemente, persone con difficoltà nell’interazione sociale (bambini iperattivi, pazienti psicotici) ed, infine, persone con problemi cognitivi (disturbi dell’attenzione) e neuropsicologici (difficoltà di coordinazione cognitivo-motoria, demenza). Un nuovo campo di applicazione della m. è in medicina (cure palliative, oncologia) e in ostetricia. 4. Gli obiettivi dell’intervento possono essere: migliorare l’attenzione, la percezione e la

MUTUO INSEGNAMENTO

memoria attraverso l’ascolto guidato; sviluppare strategie cognitive, capacità di soluzione di problemi e decisionali con metodi di improvvisazione/composizione; sperimentare sensazioni ed emozioni e controllarne la loro espressione attraverso le componenti dinamiche, ritmiche e melodiche della musica; incrementare la capacità simbolico-verbale, l’organizzazione del discorso e del comportamento motorio associandoli a stimoli musicali; ampliare l’autoconoscenza mediante l’immaginario guidato con la musica; facilitare il coinvolgimento e l’interazione sociale con esperienze musicali di gruppo; innalzare il livello di attivazione e motivazione per il piacere connesso alla musica; migliorare il contatto con la realtà oggettuale attraverso l’uso degli strumenti. 5. Controindicazioni all’applicazione della m. sono da ricercarsi in quei rarissimi casi di intolleranza o reazione negativa ai suoni, come nell’epilessia musicogena. La m. può essere utilizzata in sedute individuali o di gruppo, con frequenza variabile (una o più volte la settimana) e con durata dai 30 minuti a due ore circa (per le sessioni di Guided Imagery and Music). Al cliente non è richiesta alcuna conoscenza musicale, in quanto ogni essere umano è predisposto biologicamente al mondo dei suoni e ad attività connesse (ascolto, riproduzione vocale). Anche persone con preparazione musicale possono usufruire della m.: in questo caso l’elemento sonoro-musicale è un mezzo di conoscenza (introspezione) del proprio mondo interiore e non una pura espressione artistica. 6. La m. ha elaborato metodologie (tecniche, setting terapeutico, mezzi, modalità relazionali, ecc.) e strumenti specifici per la diagnosi, l’analisi, il trattamento e la valutazione periodica per determinare lo stato di salute psicofisico o lo stadio di sviluppo della persona, nonché l’efficacia delle procedure impiegate. La m. può essere utilizzata sia «in terapia» (tecnica inserita in altri approcci terapeutici verbali), sia «come terapia» (modalità principale di trattamento). I metodi principali, attivi e ricettivi, riguardano: ascoltare, improvvisare, ricreare, comporre; tali metodi possono includere altre forme artistiche (disegno, pittura, movimento, storie, poesie, ecc.) e tecniche verbali. Tra i metodi

di m. attiva, quello di Nordoff e Robbins è utilizzato per disturbi evolutivi. Tra quelli ricettivi, la Guided imagery and music di H. Bonny, utilizza esperienze immaginativometaforiche per modificare stati di sofferenza e/o promuovere una crescita psico-spirituale. Tali esperienze, evocate dall’ascolto, in uno stato di rilassamento, di specifici programmi di musica classica, sono facilitate dall’interazione verbale continua con il terapeuta. Ricerche e studi trasversali e interdisciplinari, in campo internazionale confermano l’efficacia specifica della m., sia come pratica terapeutico-riabilitativa che educativopedagogica, a livello neuropsicologico e psicologico. Sono, comunque, necessari maggiori approfondimenti per comprendere gli effetti (es. sulle emozioni, parametri immunitari ed endocrini) delle complesse variabili che entrano in gioco nella prassi musicoterapica al fine di programmare interventi mirati a particolari bisogni e scopi dei diversi utenti. Bibl.: Bruscia K. E. (Ed.), Casi clinici di M., 2 voll., Roma, ISMEZ, 1995-1999; Bruscia K. E. - D. E. Grocke (Edd.), Guided imagery and music: the bonny method and beyond, Gilsum, NH, Barcelona Publishers, 2002; Wigram T. et. al., A comprehensive guide to musicotheory, clinical practice, research and training, London, Jessica Kingsley, 2002.

G. Giordanella Perilli

MUTAMENTO SOCIALE → Cambio sociale

MUTUO INSEGNAMENTO Metodo che si serve della collaborazione degli alunni più capaci per l’istruzione di quelli meno bravi. 1. Origine e significato. Il ricorso alla collaborazione degli alunni nell’istruzione dei propri compagni ha radici lontane nella storia della scuola. Sono stati individuati indizi di una sorta di m.i. nell’antico Egitto, in Grecia, in India. Il metodo acquista lineamenti più precisi nel sec. XVI nelle scuole festive della Dottrina cristiana. Il numero di ragazzi che le frequentano e la mancanza di collaboratori obbligano il fondatore, Castellino da 783

MUTUO INSEGNAMENTO

Castello, a ricorrere all’aiuto dei più grandi. Pratiche analoghe si trovano nel sec. XVII nelle scuole di Ch. Demia e negli istituti dei → Fratelli delle Scuole cristiane; ma il «metodo m. sistematicamente organizzato» è opera degli inglesi Andrew Bell (1753-1832) e Joseph Lancaster (1778-1838); ad essi si richiamano le esperienze realizzate nella prima metà del sec. XIX. Perciò il m.i. viene denominato spesso metodo inglese o sistema monitoriale e sono chiamate Monitorial schools le scuole organizzate secondo tale metodo. 2. Tratti caratteristici e diffusione. Nel 1797 Lancaster, maestro quacchero, apre in un sobborgo operaio di Londra una scuola elementare. Per renderne più economica la spesa e più rapida l’istruzione a un maggior numero di ragazzi (in un contesto di progressiva industrializzazione) si avvale dell’opera degli scolari più svegli quali monitori o ripetitori degli altri, giungendo a escogitare una strategia didattica che consente a «un solo maestro di tenere una scuola di mille allievi». Nel saggio Improvements in education as it respects the industrious classes of the community (1803), Lancaster dice di aver perfezionato il suo metodo dopo la lettura del libro An experiment in education made at the male asylum in Madras (1797) di Bell, pastore anglicano, organizzatore di un asilo a Madras, ispirato alla pratica dei maestri indù. Nel 1811 sorge a Londra la British and Foreign School Society, per la diffusione delle scuole monitoriali; ma il laicismo antidogmatico di Lancaster trova l’opposizione della chiesa anglicana, che promuove la fondazione della National Society for Promoting the Education of the Poor e chiama Bell alla direzione del movimento delle scuole mutue per i ragazzi anglicani. Lo scritto lancasteriano è stato tradotto in diverse lingue; ma fuori della Gran Bretagna hanno avuto fortuna i saggi che presentano il «metodo combinato» di Bell e Lancaster, che ne integra gli elementi più caratteristici: struttura semplice delle scuole (una vasta aula rettangolare); divisione dei ragazzi in più classi per ognuna delle materie (lettura, scrittura, aritmetica) presiedute da un monitore; utilizzazione, al posto dei libri, di tavole o cartelloni appesi al muro; le differenti occupazioni scandite da segnali (tocchi di campanello) e comandi («silenzio», «entrate»...). Le scuole organiz784

zate secondo il m.i. si moltiplicano rapidamente in Europa e America. Tra il 1815 e il 1820 ne sorgono in Francia più di 1000. Anche nei diversi Stati italiani il m.i. è accolto con entusiasmo dagli ambienti liberali. Le voci contrarie, però, si fanno sentire presto. La reazione che segue ai moti rivoluzionari degli anni ’20 accusa le scuole mutue di «scuotere l’ordine sociale» in quanto «contrarie ai principi di autorità e subordinazione». Verso la metà dell’800 tali scuole sono scomparse proprio a causa delle divergenze politiche, della sfiducia del pubblico e della progressiva apatia dei sostenitori. 3. Sviluppi attuali. Anche oggi, nelle varie parti del mondo, la tecnica del m.i. viene spesso applicata con modalità e per obiettivi diversi senza che l’insegnante ne sia consapevole e lo chiami m.i. Essa ha avuto diversi sviluppi soprattutto nell’ambito statunitense. Lo testimoniano diversi studi pubblicati al riguardo (cfr. Gartner-Kohler-Reissman 1971, Alien 1976). In realtà la varietà della sua applicazione è dovuta alla sempre più diffusa valorizzazione della funzione di tutor, che può essere svolta da qualsiasi persona – anche con handicap – che sia in grado di provvedere ai bisogni dello studente in termini di rimedio/correzione, integrazione, esercizio, sviluppo, così pure da parte degli elaboratori elettronici. Tutto ciò, dentro o fuori dell’ambito scolastico. Da questo punto di vista va distinto il «peer tutoring» (tra gli stessi compagni) – m.i. propriamente detto, altamente collaborativo e cooperativo, nonché disinteressato – dal «cross-age tutoring» (da parte dei grandi, anche adulti, ai più piccoli di età) che è più diffuso soprattutto fuori della scuola, spesso a pagamento. Anche nell’ambito scolastico i tutors studenti, che si aiutano reciprocamente nell’apprendimento di un contenuto o nell’acquisizione di determinate abilità, possono essere non solo della stessa classe, ma anche di classi diverse, della stessa o diversa età. In tali casi si esige un’organizzazione sia scolastica che didattica molto flessibile, ed assume un’importanza fondamentale la valutazione cosiddetta «formativa». Gli obiettivi/benefici possono essere vari: non solo l’ → individualizzazione didattica, ma anche la → socializzazione e la solidarietà tra i compagni, la motivazione allo studio, l’occupazione costante degli al-

MUTUO INSEGNAMENTO

lievi, così pure l’applicazione del cosiddetto modello «Learning by teaching» e quello di essere, da parte dei tutors, alla portata dei compagni. L’esito positivo dipende, ovviamente, dalla qualità umana e didattica dei tutors. Non vanno, pertanto, ignorati i possibili inconvenienti tra cui in particolare: il lavoro piuttosto mnemonico, la mancanza di un contatto continuato con gli alunni da parte degli insegnanti, i tutors non muniti di una preparazione professionale, il rischio di una possibile influenza «dispotica» da parte dei tutors. In ogni caso, anziché un uso abituale e sistematico del m.i, sarebbe meglio un suo uso parziale e cauto, curando soprattutto la qualità delle relazioni interpersonali e valorizzando, nel contempo, sia la teoria delle cosiddette intelligenze multiple, sia il ricco significato di m. (reciproco) i./apprendimen-

to nella nostra società che si caratterizza sempre più come multiculturale. Bibl.: Insegnamento mutuo o storia dell’introduzione e della propagazione di questo metodo per le cure del dott. Bell e di G. Lancaster..., Ancona, Arcangelo e Figlio Sartori, 1820; Gambaro A., «La pedagogia nell’età del Risorgimento», in Nuove questioni di storia della pedagogia, vol. II, Brescia, La Scuola, 1977, 535-796; Gartner A. - M. C. Kohler - F. R eissman, Children teach children: learning by teaching, New York, Harper & Row, 1971; A llen V. L. (Ed.), Children as teachers: theory and research on tutoring, New York, Academic Press, 1976; Falchikov N. et al., Learning together: peer tutoring in higher education, London/New York, Routledge & Falmer, 2001.

J. M. Prellezo - H.-C. A. Chang

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N NARCISISMO Amore verso l’immagine di sé. 1. Il termine, che si richiama al mito di Narciso, nella letteratura psicoanalitica ha assunto diverse accezioni. È stato usato per indicare un fase dello sviluppo, una perversione sessuale, un tipo di scelta oggettuale, un tipo di → personalità più o meno sana. 2. S. → Freud (1914), in un suo saggio fondamentale (Introduzione al n.), distingue tra n. primario, proprio dei primi mesi di vita, in cui il bambino non riconosce l’oggetto ed investe tutta la libido su se stesso e n. secondario in cui, a seguito di una regressione o dell’instaurarsi di una struttura psicotica, si verifica un ritiro della libido dagli oggetti e un conseguente ripiegamento su di sé. Mentre il primo rappresenta una fase di vita fondamentale e necessaria per la crescita di un individuo sano, il secondo evidenzia una difesa patologica nei confronti dell’oggetto. → Klein nega l’esistenza di un vero e proprio n. primario. Essa afferma che fin dall’inizio esiste un Io, sia pure appena abbozzato, in grado di instaurare delle relazioni oggettuali. Inoltre più che di stadio narcisistico, ritiene che si debba parlare di «stati» narcisistici, intesi come ritorno della libido su oggetti interiorizzati. 3. Un vissuto sano ed armonico nei primi anni di vita permette l’emersione di un n. normale. Esso è costituito da un benessere di fondo, derivante da un’autostima, da una

visione realistica integrata e costante di Sé, dall’equilibrio tra le pulsioni libidiche ed aggressive, dall’armonia tra le istanze della personalità (Es, Io, Super-Io, Ideale dell’Io, Io ideale), dalla capacità di vivere relazioni profonde e dalla disponibilità a dare come a ricevere. In caso contrario, s’instaura un n. patologico. Il narcisista patologico si caratterizza per un senso di grandiosità, per un estremo accentramento su se stesso, per un ideale dell’Io tirannico, esigente, perfezionista, per una sistematica negazione dell’altro. All’interno della patologia narcisistica si possono individuare quattro tipi di personalità: implorante, paranoide, manipolativa ed esibizionistica. Bibl.: Grunberger B., Il n., Bari, Laterza, 1977; Green A., N. di vita, n. di morte, Roma, Borla, 1985; Sassanelli G., L’Io e lo specchio. N. e sviluppo mentale nella prima infanzia, Roma, Astrolabio, 1989; Grunberger B., Narciso e Anubi. Psicopatologia e n., Ibid., 1994; Lowen A., Il n. L’identità rinnegata, Milano, Feltrinelli, 2003; Di R isio S., Derive del n. Psicoanalisi, psicosi, esistenza, Milano, Angeli, 2005; Manzano J. - F. Palacio Esapasa, La dimensione narcisistica della personalità, Ibid., 2006; Semi A., Il n., Bologna, Il Mulino, 2007.

V. L. Castellazzi

NARRAZIONE Nell’educazione il racconto o n. proveniente dalla vita svolge un ruolo importante. I geni787

NATORP PAUL

tori (i nonni) e gli insegnanti raccontano in forme diverse, talora in modo epico, ciò che essi stessi – od altri – hanno vissuto e ciò che fu esperienza di vita propria od altrui. 1. La n. ha una ovvia funzione informativa, ma con il valore aggiunto di coinvolgere le persone, facendo fare loro, nel tempo breve della n., una esperienza molto estesa di partecipazione . Per questo la n. è, nel bene o nel male, un potente fattore di trasmissione di significati vitali e ponte fra le generazioni. I diversi saperi, specialmente umanistici, quali la storia e la religione, ne sono mediazioni privilegiate. Psicologia e pedagogia, oltreché la didattica, si interessano della n. Purtroppo nella società dominata dai mezzi della → comunicazione sociale la pratica della n. è in ribasso. Per cui ancora più di prima si avverte il bisogno di tornare alla forma narrativa, riprendendo progressivamente la pratica e il gusto delle «grandi n.» (J.F.Lyotard). Lo sviluppo della n. conosce un cantiere speciale, quello dei bambini. Per lo sviluppo del loro «atteggiamento», la n. di→ fiabe rimane fondamentale, anche dal punto di vista della psicologia del profondo. 2. Per la pedagogia religiosa è rilevante il fatto che nella → Bibbia (in particolare nell’AT) la fede è trasmessa in massima parte per mezzo di n., con delle proprietà singolari. Abbondanti sono i dettagli che riflettono vivacemente la realtà, vi è unità di «forma e contenuto», per cui la forma non si può modificare in modo arbitrario. Si ricordi il colloquio tra Abramo e Isacco in Gn 22,6-8. Se il narratore resta fedele alla forma della n. biblica, allora la trasparenza è garantita: il testo (scarno) e «ciò che rimane tra le righe» lascia trasparire la presenza di Dio ed attesta la fede. La fede intesa come esistenza nello Spirito di Dio permette al narratore di mettersi mediante la n. nella «contemporaneità» (Kierkegaard) con il fatto raccontato, per es. con Abramo, Mosè, Elia, Gesù. 3. Per la n. biblica, ma analogamente di altri contenuti, sono da segnalare i seguenti principi fondamentali: preparazione per mezzo di una semplice esegesi e meditazione; linguaggio immaginifico appropriato all’uditorio; narrare i fatti concreti in modo tale che sulla «scena interiore» degli ascoltatori si 788

concretizzi nuovamente l’evento; non praticare la psicologizzazione (Drewermann), ma lasciare all’ascoltatore la libertà di entrare nel cerchio. Passaggi troppo concentrati vanno esplicitati, però senza falsificare, mentre va adoperato il mezzo della ripetizione per dare maggiore peso a un particolare. Parlare poco di Dio, e se necessario farlo per mezzo di metafore; lasciare dei vuoti che gli ascoltatori potranno colmare nella discussione successiva; non cedere mai al discorso di moda, ma parlare con «dignità», restando vicino alla semplicità e alla dignità del linguaggio biblico. Bibl.: Schroer H., «Erzählung», in Theologische Real-Enzyklopädie, vol. 10, 1982, 227-232; Zerfass R. (Ed.), Erzähler Glaube - erzählende Kirche, Freiburg, Basel, 1988; Desideri I., «N.» in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 8066-8069; Tonelli R. - L. A. Gallo - M. Pollo, Narrare per aiutare a vivere. N. e pastorale giovanile, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992; Rollo D., N. e sviluppo psicologico. Aspetti cognitivi, affettivi, sociali, Roma, Carocci, 2007.

G. Stachel

NATALITÀ → Demografia

NATORP Paul n. a Düsseldorf nel 1854 - m. a Marburgo nel 1924, filosofo e pedagogista tedesco. Storico della filosofia e della pedagogia an­ tiche e moderne, N. fu uno dei maggiori rappresentanti della Scuola di Marburgo, di cui era capo H. Cohen, eminente com­ mentatore e interprete di → Kant. Oltre al­ le tre sfere riconosciute da Cohen, la logi­ca, l’etica e l’estetica, N. aggiunge quella psicologica. Nei suoi studi storici N. inter­preta in senso kantiano La teoria delle idee di Platone (1903) che presenta non come sostanze trascendenti nell’iperuranio, ma come «idee regolative» nel senso della dia­lettica trascendentale. Alla morale platoni­co-kantiana deve ispirarsi anche la riforma della società. In tal senso è orientato il suo maggiore contributo alla pedagogia, la Pe­dagogia sociale (1899) che vede l’educazio­ne del singolo condizio-

NATURA

nata da quella so­ciale e viceversa. La prospettiva herbartiana che vede la pedagogia come un rapporto di mediazione tra psicologia ed etica è per­t anto troppo limitata. Il processo educativo deve coinvolgere tutte le forme della cul­t ura, logiche etiche ed estetiche, in un com­pito infinito di rinnovamento continuo, nel quale gli educati di oggi saranno gli educa­tori di domani. Bibl.: Ruhloff J., P.N.s Grundlegung der Pädagogik, Freiburg, Lambertus, 1966; Philonenko A., L’École de Marburg: Cohen, N., Cas­sirer, Paris, Vrin, 1989; N. P., Philosophische Systematik, Hamburg, Meiner, 2000.

M. Laeng

NATURA Etimologicamente il termine n. (dal gr. physis) viene da «nasci», nascere, trarre origine (gr. ghen); n. è dunque ciò che genera e fa scaturire da sé: letteralmente, quindi, il termine indica l’insieme delle caratteristiche innate, distinte da una considerazione fisica o scientifica delle stesse. 1. Evoluzione del concetto di n. lungo la storia. Alle origini della filosofia greca il concetto di n. include di solito la totalità del reale, ma con la sofistica e con → Socrate la nozione perde gradatamente la sua indeterminatezza e la sua onnicomprensività. In → Platone e in → Aristotele il termine indica talvolta, come nei presocratici, tutta la realtà nelle sue varie forme, e parimenti soltanto il mondo inferiore e mutevole, contrapposto all’immutabile universo ideale o alla realtà non fisica. La svalutazione della n. così intesa trovò una sua accentuazione con il neoplatonismo (coincidenza con il non-essere) e con il Cristianesimo (la n. è sì testimonianza del divino, ma può deviare l’uomo dal suo destino ultraterreno). Nella filosofia medioevale il vocabolo fu assunto come sinonimo di essenza, ad esprimere il principio formale costitutivo di un ente, in quanto origine attiva delle sue operazioni. Il concetto della n. come causa efficiente e finale e come totalità vivente e necessaria è al centro del naturalismo del Rinascimento e dalla filosofia rinascimentale si viene gradualmente districando la moderna

scienza della n. L’uomo infatti, ministro e interprete della n., tanto più può agire e comprendere, quanto più intorno all’ordine della n. avrà appreso con l’azione e con il pensiero. Allo spiritualismo ottocentesco è familiare il concetto della n. come degradazione e stasi provvisoria della libera creatività dello spirito. Il positivismo tentò un’interpretazione unitaria della n., utilizzando ampiamente il concetto di evoluzione (Spencer), mentre il carattere «storico» della n. e del suo indissolubile legame con la prassi umana appare l’aspetto più caratteristico dell’impostazione marxista del problema. Nell’epoca moderna il concetto di n. è per lo scienziato e per il filosofo un termine che indica il campo degli oggetti in cui trovano applicazione efficace le tecniche di osservazione e di indagine. Polemicamente il → naturalismo ha quindi significato limitazione all’esperienza ed esclusione del soprannaturale (sia metafisico sia religioso), senza peraltro identificarsi con il materialismo. 2. Naturalismo pedagogico e sue implicanze. Sotto il titolo di → «naturalismo» la storiografia filosofica ha ordinato e catalogato varie correnti di pensiero e vari indirizzi di ricerca ed uno di questi di una certa rilevanza culturale e sociale è il naturalismo pedagogico, che possiamo descrivere come una concezione dell’educazione che fa suo il principio dell’assoluta autonomia della n. dell’uomo, escludendo dal processo formativo elementi provenienti dal campo della spiritualità e del mondo soprannaturale. Questa posizione naturalistica trova nell’opera di → Rousseau la sua scaturigine ed è proprio con il filosofo ginevrino che prendono consistenza, in termini critici e propositivi, i temi che stanno alla base del naturalismo pedagogico. Il naturalismo pedagogico in questi ultimi secoli ha assunto poi varie modalità e accentuazioni. Di conseguenza in pedagogia, soprattutto per influenza di → Comenio, di Rousseau e di → Pestalozzi, si è parlato di metodo naturale e con tale espressione si intende ogni metodo che, messi da parte preconcetti aprioristici ed artifici, si adegui sia alle strutture logiche degli argomenti o alle norme etiche dei comportamenti presentati e sia alla n. del fanciullo, quale è data nel suo spontaneo sviluppo. In conclusione occorre dire che il naturalismo pedagogico, 789

NATURALISMO

da un’angolazione di analisi critica, presenta in sé valenze indubbiamente e universalmente riconosciute e apprezzate come autentica risorsa umanistica. Rimangono però le differenziazioni e le contrapposizioni derivanti da una diversa concezione della persona umana: la concezione naturalistica dell’uomo e dell’educazione, infatti, trova sul suo cammino la fondata contrapposizione di chi parte dai valori, dalla →cultura, dalla realtà spirituale, del principio della trascendenza, elementi visti cioè come ontologicamente privilegiati sul piano della prassi normativa. Bibl.: Braido P., La teoria dell’educazione e i suoi problemi, Zürich, PAS-Verlag, 1968; Mo rin E., La méthode. La vie de la vie, Paris, Seuil, 1980; Scurati C., «N.-naturalismo pedagogico», in G. Flores d’A rcais (Ed.), Nuovo dizionario di pedagogia, Roma, Paoline, 1982, 856-862; L’idea di n., in «Studium» (1987) 4-5 (n. monogr.); N., filosofia della, in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 8083-8087.

C. Bucciarelli

NATURALISMO Posizione teorica che in vario modo assolutizza la → natura come principio di tutto. Ad essa viene ricondotta o ridotta la vita dello spirito, la conoscenza, l’etica, l’esteti­ca, la pedagogia, il diritto. Aspirazione al piacere, funzionalità bio-psichica, imita­zione della natura, leggi e diritti naturali, risposta ai bisogni, sviluppo dell’esperien­za, diventano criteri del vero, del buono, del bello, del giusto. 1. Le differenziazioni interne dipendono dal diverso modo di intendere la natura stessa: una più esemplata sul fisico-cosmico e una più esemplata sul biologico-umano; una fondamentalmente mecca­n icistica, atomistica e materialistica; l’altra più vitalistica e panteistica. Al n. si oppon­gono quelle posizioni che considerano al­cuni campi di esperienza umana (intellet­t uale, estetica, etica, religiosa) come supe­riori e non riducibili alla natura; e che con­siderano «fallacia naturalistica» l’identi­ficazione di fatto e valore. Esaltano la libertà, la originalità e la creatività dello 790

spirito (e le corrispondenti «scienze dello spirito», rispetto alle «scienze natu­rali»). Un certo n. sembra presente nell’at­t uale ecologismo. Le possibilità di intervento sulla natura derivate dalle bio-tecnologie, dall’informatica, dalla telematica, dalla robotica ripropongono in modo nuovo i rapporti natura-cultura e pongono gravi questioni morali ed etiche. 2. In pedagogia, oltre il n. rousseauiano, continua ad avere una certa risonanza il n. empiristico-pragmatista di → Dewey: l’inte­ ra realtà fisica, umana, storica, culturale è vista come un insieme di campi di espe­ rienza e di pratica umana, trattabile scien­ tificamente secondo una logica ricostrutti­va, interattiva o transattiva, nell’orizzonte di un miglioramento funzionale di razio­nalità e di democrazia sociale. Al n. è pure riconducibile l’enfasi spontaneista, specie nelle versioni vicine alle posizioni di A. S. Neill o al freudismo di W. Reich. Bibl.: Dewey J., Esperienza e natura, Torino, Paravia, 1980; Alcaro M., Filosofie della natura, Roma, Manifestolibri, 2006; Costa P. - F. Michelini, Natura senza fine. Il n. moderno e le sue forme, Bologna, EDB, 2006.

C. Nanni

NAZIONALITÀ → Educazione interculturale

NAZIONE La n. in senso moderno nasce con la Rivo­ luzione francese e, sul piano dell’elabora­zione teorica, specialmente con il → Ro­manticismo tedesco. Mentre nel primo caso essa si manifesta in forme altamente politicizzate innervate degli ideali di libertà e giustizia, nel caso tedesco l’idea di n. si sostanzia soprattutto di tradizione storica, tendenze morali, religiose, culturali, costumi e usanze. 1. L’intreccio di queste due diverse (ma non antagoniste) impostazioni ha a lungo dominato la storia europea degli ultimi due secoli, svolgendo una potente azione educativa nella duplice prospettiva dell’interiorizzazione del sentimento di ap­partenenza ad una comunità sovraindividuale fornita di propri fini e di formazione alla lealtà civica mediante la pro-

NAZIONE

mozione del solidarismo nazionale. Anche in Italia l’educazione nazionale ha avuto lunga e importante storia, dall’età romantica e ri­ sorgimentale (→ Cuoco, Mazzini e Giober­ti) alla prima metà del Novecento (Varisco, Vidari, → Lombardo-Radice e → Gentile). Fin dall’indomani dell’Unità la classe diri­gente avvertì l’urgenza di «fare gli italiani» al di là delle divergenze che avevano se­gnato l’esperienza risorgimentale. Gli stru­menti culturali e istituzionali mediante cui fu perseguito questo obiettivo furono mol­teplici: dal servizio militare vissuto come momento di partecipazione alla vita della n. alla scuola intesa come luogo di forma­zione della coscienza comune. In partico­lare il processo di unificazione nazionale fu perseguito con l’insegnamento della lingua nazionale, lo studio della storia e della geo­grafia e la formazione etico-civile. 2. Nel dibattito sulla n. è oggi possibile in­ dividuare tre principali posizioni teoriche. In primo luogo si assiste ad un forte ritorno della n. etnocentrica incentrata sui vincoli di sangue e di territorio con la rivalutazio­ne del localismo come espressione di vera libertà in funzione polemica contro il cen­t ralismo livellatore. In questa prospettiva la cittadinanza è perciò prerogativa soltan­to di coloro che appartengono all’etnia per vincolo di sangue o che, per una lunga permanenza, hanno ormai assimilato i valori e le norme dell’ethos. L’educazione nazional-etnocentrica, vissuta spesso in forme istintive e senza mediazioni, si manifesta principalmente in forme di stretta identifi­cazione tra individuo e comunità, con l’e­saltazione della tipicità e unicità dei carat­teri nazionali e la diffidenza verso tutto ciò che risulta non strettamente coerente e funzionale con la tradizione. 3. Speculare a questa tesi, si pone l’analisi di chi ritiene ormai improponibile il ricorso alla n. e ai valori da essa espressi per legit­timare la convivenza e lo Stato. Secondo questa prospettiva la cittadinanza sarebbe semplicemente l’insieme dei vincoli reci­proci che consentono la convivenza nel ri­spetto delle libertà di ciascuno, a prescin­dere dal luogo e dalla famiglia di nascita, dalla formazione culturale, dalle convin­zioni religiose, ecc. (Habermas, Veca). Al­l’esaurirsi della funzione regolativa della n. corrisponde anche

il venir meno dell’edu­cazione nazionale. Ormai si potrebbe par­lare soltanto di semplice educazione alla convivenza, incentrata sul rispetto delle fondamentali regole universalistiche intor­no a cui si costituisce la democrazia come il principio di tolleranza, il rispetto della di­versità, la libera concorrenza e la pari di­gnità delle opzioni ideali, la partecipazio­ne produttiva alla vita sociale. Esiste infine una terza posizione su cui sono attestati quanti si dichiarano favore­voli alla «n. dei cittadini», prospettando con questa formula una reinterpretazione della n. ancora in grado di parlare all’uomo delle società contemporanee, ma in for­me e modalità nettamente e inequivocabil­mente distinte dalle tendenze nazio-etno-centriche. Le virtù civiche della lealtà e della solidarietà, cui è assegnata la funzio­ne legittimante della convivenza democra­tica, hanno bisogno di essere gradualmente e faticosamente coltivate. Questo processo formativo si fonda su un duplice riconosci­mento: la presa di coscienza di comuni ori­gini storiche, ovvero di comuni matrici cul­t urali, e la verifica che esistono ancora buo­ne ragioni attuali per mantenere viva la de­mocrazia. La sintesi tra il riconoscimento delle radici storiche e quello delle ragioni della convivenza democratica dà per l’ap­punto corpo alla «n. dei cittadini» in senso pieno. Questo notevole investimento formativo finalizzato a radicare il senso di ap­partenenza nelle coscienze dei cittadini do­vrebbe svolgersi nella consapevolezza che esistono comunità e persone con altre tra­ dizioni culturali e che nessuna di esse può pretendere di porsi come l’unica detentrice della perfetta umanità. La «n. dei cittadi­ni» rifugge dalla chiusura in se stessa, ma sa aprirsi al dialogo, comprendere la diver­sità e riconoscere quanto di buono c’è nell’altro, esercitare l’ospitalità. 4. Le tesi a confronto sul ruolo regolativo (e implicitamente educativo) dell’idea di n. si misurano e intercettano le ipotesi di integrazione europea e i suoi valori fondanti. Quale posto riservare alle n. e a «quali» n. nella costruzione di un’identità e respiro e dimensioni continentali? Quanti ritengono ormai del tutto esaurita la funzione dell’ethos nazionale puntano a rappresentare l’unità europea come innervata al più alto livello dei princìpi di cittadinanza universale che, a loro giudi791

NEBREDA ALFONSO MARÍA

zio, non avrebbero bisogno di trovare radicamento in una precisa identità di popolo. Su una posizione molto diversa stanno invece quanti ritengono irrinunciabile la storia delle diverse n. e propendono per un’Europa federale costituita da un insieme di Stati (o addirittura Regioni) n. Una terza posizione è infine ravvisabile nelle proposte di coloro che profilano un’idea di Europa che sul piano politico inglobi tutti (o, per lo meno, gran parte) i poteri sovrani degli Stati membri, ma nel contempo continui ad alimentarsi dei valori propri delle diverse culture e identità nazionali. Bibl.: Chabod F., L’idea di n., Bari, Laterza, 1961; Chiosso G., L’educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, Brescia, La Scuola, 1983; Gellner, E., N. e na­zionalismo, Roma, Editori Riuniti, 1992; H aber m ­ as J., Morale, diritto, politica, Torino, Einaudi, 1992; Rusconi G. E., Se cessiamo di essere una n., Bologna, Il Mulino, 1993; Acone G., Declino del­l’educazione e tramonto d’epoca, Brescia, La Scuo­la, 1994; Nussbaum M. et al., Piccole Patrie, grande mondo, Milano, Reset, 1995; Traniello F., «Dalla N. ai nazionalismi», in A. D’Orsi (Ed.), Alla ricerca della politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, 156-167.

G. Chiosso

NAZISMO → Fascismo

1962 approfondisce il suo pensiero in Europa, ispirandosi specialmente ai francesi P.-A. Liégé (1921-1979) e F. Coudreau (1916-2004), e dandovi una prima formulazione sistematica nella tesi di dottorato sostenuta alla Pont. Univ. Gregoriana (1962: Jalones para una preevangelización en Japón. El universitario japonés frente al Mensaje). In seguito, N. si fa diffusore dell’istanza pre-evangelizzatrice con la docenza (Tokyo e Roma), l’intensa produzione pubblicistica, l’attiva partecipazione alle Settimane Internazionali di Catechesi, specialmente quella di Bangkok (1962), e la direzione dell’East Asian Pastoral Institute (1965-1978). Bibl.: a) Fonti: N.A.M., Session d’étude asiatique sur la catéchèse missionnaire. Bangkok, 31 octobre - 3 novembre 1962, in «Lumen Vitae» 17 (1962) 623-637; Id., Jalones para una preevangelización en Japón. El universitario japonés frente al Mensaje, Roma, Pont. Univ. Gregoriana, 1964; Id., Kerygma in crisis?, Chicago, Loyola University Press, 1965. b) Studi: Tacorda L.T., A. M. N., S.J. (1926- ) and the Missionary Problem of Preevangelization, Tesi di dottorato, Roma, Univ. Pont. Salesiana, 1994 (pp. 382-387, bibl. completa dell’A.); Calle J. M., In memoriam. A.N., S.J. Founder, East Asian Pastoral Institute, in «East Asian Pastoral Review» 42 (2005) 207-208.

G. Biancardi

NECESSITÀ EDUCATIVE → Bisogni → Domanda educativa

NEBREDA Alfonso María n. a Bilbao nel 1926 - m. a Tokyo nel 2004, gesuita spagnolo. Gesuita nel 1945, dal 1950 al 1958 è missionario in Giappone, a contatto con il mondo studentesco universitario. L’atteggiamento degli studenti nei confronti della religione, caratterizzato da indifferenza, ateismo, avversione, pregiudizio (specialmente nei confronti del cattolicesimo), fa maturare in lui la convinzione che la proposta del messaggio evangelico a chi non è cristiano va preceduta da un paziente lavoro di pre-evangelizzazione volto a eliminare qualsiasi precomprensione negativa verso la religione e, in positivo, a valorizzare ogni possibile apertura dell’uomo al trascendente. Tra il 1958 e il 792

NECKER DE SAUSSURE Albertine n. a Ginevra nel 1766 - m. a Mornay nel 1841, pedagogista svizzera. 1. Ragazza intelligente trova nell’ambiente familiare il miglior incentivo allo studio delle discipline umanistiche e scientifiche, che apprende con un lavoro ordinato e continuo sull’esempio del padre, rinomato botanico e geologo. A 19 anni sposa J. Necker, nipote del celebre ministro di Luigi XVI, e cugino di M.me de Staël con cui la N. stringe amicizia e alla cui morte scriverà una biografia: Notizia sulla vita e gli scritti di M.me de Staël (1819). Diventa madre di quattro figli, che segue con amore intelligente annotando su un

NEOKANTISMO PEDAGOGICO

Diario le sue osservazioni e i progressi da loro compiuti. Quando il marito è nominato consigliere di Stato organizza un «salotto» per incontri politici e culturali. 2. Dal 1799 una serie di lutti di persone care e una progressiva sordità mettono a dura prova la sua capacità di cogliere la vita in tutti i suoi aspetti. Non si autocompiange, ma inizia a scrivere L’educazione progressiva o Studio del corso della vita, opera in tre volumi pubblicata a Parigi. Nel 1839 lo scritto viene insignito del premio Montyon dell’Accademia di Francia. È apprezzato dai pedagogisti dell’Ottocento, in particolare da → Lambruschini, → Rosmini e → Capponi, che dice: «un libro che ogni uomo si glorierebbe di aver scritto, ma che solo una donna poteva scrivere». L’opera traccia l’itinerario della formazione umana attraverso tre periodi fondamentali della vita: infanzia e fanciullezza; adolescenza e prima giovinezza; maturità e vecchiaia. Il 3° vol., che ha per titolo Studio della vita delle donne, è la parte più originale dell’opera perché parla dell’educazione della donna in quanto tale, di un’educazione in cui si possa meglio percepire l’autentico destino umano. Bibl.: a) Fonti: N.D.S.A., L’éducation progressive ou étude du cours de la vie, Paris, Paulin, 1841, 3 voll.; Educazione progressiva, traduzione di F. Damonte, introduzione e note di M. La Torraca, Bologna, Patron, 1970. b) Studi: Bernardinis A. M., Il pensiero educativo di A.N.D.S., Firenze, Sansoni, 1965.

R. Lanfranchi

NEOKANTISMO PEDAGOGICO Si denomina n., o anche neocriticismo, la corrente fautrice di una ripresa di motivi kantiani nella seconda metà del sec. XIX, dopo l’esaurimento dell’idealismo di Fich­ te, Schelling ed Hegel. Il motto «torniamo a Kant!» fu dovuto all’opera di Liebmann, Kant e gli epigoni (1865), che constatava come gli interpreti romantici e quelli posi­tivistici del criticismo fossero andati en­t rambi fuori strada rispetto alla fedeltà al pensiero autentico del fondatore. 1. Per garantire questa fedeltà occorreva an-

zitutto rifarsi ai testi. Nacque una agguerrita scuola di «filologi kantiani» che ebbe il suo organo nella rivista «Kantstudien» (fondata nel 1896, più volte interrot­ta e ripresa fino ai nostri giorni) e sfociò in una apposita società, la «Kantgesellschaft» (fondata nel 1904). Furono intraprese nuo­ve edizioni più accurate con un imponente apparato di commenti, a cura di A. Riehl, E. Cassirer e altri. 2. In verità, salvo il riferimento ai testi, le interpretazioni di → Kant continuarono a svilupparsi su linee divergenti: soprattutto su due, una di tipo psicologistico che vede­ va le forme a priori come risultati dell’evo­ luzione della specie ormai divenuti innati nell’individuo; e una di tipo metafisico, che vedeva nelle forme a priori qualcosa di più, radicato in un fondamento trascendentale se non addirittura trascendente alla manie­ra di Platone. Le conseguenze educative erano diverse, giacché la prima doveva pri­vilegiare i processi di sviluppo endogeni, e la seconda i processi di formazione esoge­ni. In sostanza, sotto l’ombrello del n., si sono avvicendate parecchie correnti, unite peraltro dal rifiuto della concezione del mondo fisico come l’unico mondo (soste­nuta invece dai monisti e materialisti) e dal pari rifiuto dell’assorbimento panlogistico nello spirito universale (sostenuto dagli idealisti e neoidealisti). In questo senso il n. ha favorito le posizioni pluralistiche e spiritualistiche; soprattutto ha ribadito una netta divisione tra fenomeni e noumeni. Non si possono confondere oggetti sensibi­li e oggetti intelligibili, e ancor meno esse­re e dover essere, fatti e valori. Dopo in­ contri con lo → storicismo, gli ultimi svilup­ pi hanno preso vie nuove, e si fondono oggi con le correnti della → fenomenologia e della → ermeneutica. Oltre ad alcuni pensatori indipendenti come → Paulsen, le due scuole di Marburgo e di Heidelberg hanno espresso il nerbo del n. Sono appartenuti alla prima H. Cohen, → Natorp, E. Cassirer e molti loro allievi che hanno soprattutto cercato di esplorare le molte forme che può assumere l’a priori attraverso il giudizio riflettente, oltre a quelle strettamente categoriali. Alla se­conda W. Windelband e H. Rickert che hanno cercato di definire una tipologia dei valori, che pur essendo a priori e inde­r ivabili dai meri fatti, però in essi si calano e si attuano attraverso le forme della cul­t ura e della storia. 793

NEOSCOLASTICA PEDAGOGICA

3. È dalla partecipazione ai valori di vero, bello, buono, santo, giusto, utile, sano (e di compassione, simpatia, cooperazione, com­ prensione, pace, ecc.) che prendono rilie­vo i cosiddetti beni di civiltà (Kulturwerte) che annoverano i prodotti dell’arte e della scienza, del diritto e del lavoro dell’uomo. Nei confronti di questi si svolge la forma­zione culturale (Bildung) che fa l’uomo «colto» ossia coltivato, educato in senso in­tellettuale e morale. Bibl.: si veda la Grande antologia filosofica, Mila­no, Marzorati, 1975, vol. XVII, 613-685 (vasta bi­bl. sugli sviluppi e la critica del kantismo a cura di V. Verra); Gigliotti G., Il neocriticismo te­desco, Torino, Loescher, 1983; Besoli S. - M. Ferrari - L. Guidetti (Edd.), N. e fenomenologia: logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza. Atti del convegno internazionale, L’Aquila, 29-31 marzo 2001, Macerata, Quodlibet, 2002; Guidetti L., L’ontologia del pensiero: il nuovo n. di Richard Honigswald e Wolfgang Cramer, Ibid., 2004.

M. Laeng

NEOMARXISMO → Marxismo pedagogico

NEOSCOLASTICA PEDAGOGICA «N.» è termine concettualmente e storicamente connesso con il termine → «Scolastica». In generale, si accreditano alla n.p. autori che nei secoli XIX e XX in ambito cattolico hanno trattato i problemi teorici e metodologici dell’educazione posti dal pensiero e dalla prassi moderna, mediante la riassunzione innovativa di principi e idee che si rifacevano alle grandi scuole filosofiche e teologiche medioevali e in particolare a s. → Tommaso d’Aquino: non pochi, infatti, soprattutto al seguito dell’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII (4 agosto 1879) hanno identificato la n. con il neo-tomismo, seppure non sempre rigorosamente e univocamente interpretato. Inoltre, alcuni hanno associato l’ascendenza n. o neotomistica a svariate forme di personalismo spiritualista, tra cui alcune fondate anche in antropologie ispirate a una metafisica dell’essere di matrice aristotelico-tomista. 1. Pertanto le posizioni individuali non risultano, sempre omogenee tra loro; tuttavia, 794

nel confronto tra antico e moderno, appaiono sostanzialmente solidali sui seguenti punti: a) l’inserzione della pedagogia o delle → scienze dell’educazione nel quadro epistemologico classico, aristotelico-tomistico, con particolare sottolineatura della funzione fondante e normativa della filosofia realista dell’educazione; b) l’introduzione nel sistema delle scienze dell’educazione, da parte di non pochi, anche della pedagogia sperimentale quale aspetto legittimo e fecondo della ricerca scientifica in campo educativo; c) il confronto critico con alcune filosofie di volta in volta dominanti, in particolare con il positivismo generatore del «naturalismo pedagogico», e coll’idealismo immanentista che fagocita totalmente il «pedagogico» nella filosofia; d) l’apertura alle nuove scienze dell’uomo, in particolare alla sociologia e alla psicologia, pur preservando la riflessione pedagogica da ogni deriva nel sociologismo e nello psicologismo e rivendicando la necessaria fondazione della pedagogia sulla filosofia: «Ogni pedagogia è basata su una filosofia della vita. Ogni verace pedagogia sulla filosofia totale della vita. La vera pedagogia sulla vera filosofia della vita» (De Hovre, Le Catholicisme, 5); e) l’equilibrata valutazione filosofico-teologica e la giusta valorizzazione metodologica dell’attivismo (→ Dévaud); f) il rifiuto critico del nazionalismo e dello statalismo in campo educativo e scolastico; g) l’apertura dell’educazione e della riflessione pedagogica al «religioso», raggiunto con la ragione o con la fede nella «rivelazione» e la conseguente ipotesi di una esplicita → teologia dell’educazione quale parte essenziale di un compiuto sistema di scienze dell’educazione; h) la discussione dei temi relativi alla laicità, al pluralismo e alla conflittualità nell’ambito della scuola e delle altre istituzioni educative, entro corretti rapporti tra le principali agenzie educative: Stato, chiesa, società, famiglia; i) l’approfondimento innovativo delle classiche «antinomie pedagogiche» – autoeducazione ed eteroeducazione, autorità e libertà, educazione intenzionale e educazione funzionale –, integrando e superando le posizioni di matrice rousseauiana, marxiana, deweyana; 1) l’insistenza nel ricondurre la molteplicità delle dimensioni educative al nucleo centrale costituito dalla formazione alla libertà nella responsabilità morale: «l’educazione è

NEOUMANESIMO PEDAGOGICO

in primo luogo opera di formazione morale» (Mercier, Principes d’éducation chré­ tienne, 13). 2. Il movimento neoscolastico, infatti, riconosce come uno dei suoi protagonisti, anche sotto il profilo pedagogico, D. J. Mercier (1851-1926), fondatore dell’Institut Supérieur de philosophie (1882) presso l’Università cattolica di Louvain, autore anche del denso studio citato, Principes d’éducation chrétienne (1912). Gli si avvicina con analogo vigore speculativo, spiccata modernità e personale sforzo di ripensamento innovativo → Maritain. Tra molti altri pedagogisti di indirizzo neoscolastico, talora in senso neotomistico oppure con varianti personalistiche, si distinguono: → Casotti (Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell’educazione, 1930); Fr. De Hovre (1884-1950), autore di un lucido Essai de philosophie pédagogique (1927); F. Olgiati (1886-1962), Primi lineamenti di pedagogia cristiana (1924); G. Nosengo (1906-1968), La persona umana e l’educazione (1948); R. Blanco y Sánchez (1861-1936), Teoría de la educación (1930); J. Zaragüeta y Bengoechea (1883-1974), Pedagogía fundamental (1942); G. Di Napoli (1910-1980), II concetto di educazione. Lineamenti di filosofia pedagogica (1952); N. Petruzzellis (1910-1988), I problemi della pedagogia come scienza filosofica (1945); → Sinistrero, Sulla problematica dell’educazione, in «Salesianum» 9 (1947) 386-399; 10 (1948) 79-102; → Corallo, La pedagogia della libertà. Saggio di pedagogia generale (1948, 1951); A. Agazzi, I problemi dell’educazione e della pedagogia (1978). Bibl.: De Hovre F., Le Catholicisme, ses pédagogues, sa pédagogie, Bruxelles, Dewit, 1930; Olgiati F. (Ed.), Indirizzi e conquiste della filosofia n., Milano, Vita e Pensiero, 1934; Braido P., La teoria dell’educazione e i suoi problemi, Zürich, PAS-Verlag, 1968; Coreth E. - W. M. Neidl - G. P fliegersdorfer (Edd.), La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, vol. II, Ritorno all’eredità scolastica, a cura di G. Mura e G. Penzo, Roma, Città Nuova, 1994; M ari G., Razionalità metafisica e pensiero pedagogico, Brescia, La Scuola, 1998; Coreth E., Antropologia filosofica, Brescia, Morcelliana, 2004.

P. Braido

NEOUMANESIMO PEDAGOGICO Orientamento culturale e pedagogico ted. fiorito fra la fine del XVIII e la prima metà del XIX sec. incentrato sull’idea del primato formativo della cultura classica in quanto espressione ideale insuperata di umanità. 1. Contenuti. Il n. presenta diverse componenti e comprende nel suo seno differenti autori di grande importanza e significatività – Lessing, Goethe, Herder, Schiller, von Humboldt, Schleiermacher, Wolff – , che appaiono tutti, sia pur nella varietà dei loro contributi e dei loro apporti, tesi ad affermare, di contro al predominio dell’ → Illuminismo razionalistico di stampo francese, una nuova idea di → Umanesimo e, conseguentemente, un nuovo principio formativo. Dall’impianto illuministico viene ripreso il principio dell’universale, ma esso viene sottratto all’equivalenza con una astratta razionalità di tipo scientifico-concettuale per essere coniugato con le istanze dell’immediatezza individuale e storica. Nasce, in questo modo, l’idea dell’universale-concreto, e quindi della possibilità di ritrovare in una espressione ben individualizzata ed esistente di attività (identificata, a seconda dei vari autori, nella poesia, nel → gioco, nella storia, nella religione) o di civiltà (idealtipica la grecità classica) le «forme» assolute nelle quali l’umanità ha impresso la sua caratteristica impronta. Esistono, quindi, delle forme originarie ideali che, attraverso la formazione (Bildung), devono essere riproposte per divenire il fondamento educativo del nuovo umanesimo. Sul piano metodologico, il n. presenta due fondamentali diramazioni: la prima si muove in direzione soprattutto storica ed estetica, mentre la seconda, che ispirerà le riforme degli studi liceali ed universitari pressoché in tutto l’Occidente, segue un orientamento di tipo filologico-letterario. In sostanza, con una pedagogia degli «ideali» da conquistare convive una pedagogia dei «modelli» da imitare, che, sul piano scolastico, ha finito col prevalere. 2. Riprese e limiti. Nel nostro sec. le più dirette riprese delle posizioni del n. si sono avute in Germania attraverso la riproposizione della → paideia greca come ideale pedagogico ed in Italia nel quadro dell’idealismo 795

NEUROSCIENZE

assoluto gentiliano, che ha sostanzialmente mutuato dalla tradizione humboldtiana l’assetto del sistema dell’istruzione nazionale. Connessioni con la mentalità neoumanistica si possono trovare anche nelle formulazioni essenzialistiche della pedagogia americana (v. ad es. il Progetto Paideia). Il nodo critico fondamentale è costituito dalla difficoltà di sciogliere le esigenze del n. in una visione realmente universale in senso democratico e popolare dello sviluppo. Ugualmente cruciale è l’analisi delle derive che lo hanno portato a sfociare in alterazioni di carattere nazionalistico e statalistico contrarie, alla fin fine, agli stessi assunti di partenza. Bibl.: Blättner F., Storia della pedagogia moderna e contemporanea, Roma, Armando, 1961, 183-196; Leser H., Il problema pedagogico, voll. III (388-576) e IV, Firenze, La Nuova Italia, 1965; De Pascale C. (Ed.), Il problema dell’educazione in Germania: dal n. al Romanticismo, Torino, Loescher, 1979; A dler M. J., Il progetto Paideia, Roma, Armando, 1985; Gennari M., Storia della Bildung, Brescia, La Scuola, 1995.

C. Scurati

sviluppati i modelli realistici per identificare le sedi precise dell’attività elettrica del cervello rilevata mediante elettroencefalografia (EEG). Le attuali frontiere delle n. sono rappresentate dalla conoscenza precisa di quali regioni corticocerebrali sono responsabili di singole funzioni motorie, sensitive e cognitive e dallo sviluppo di strategie efficaci mirate al recupero e alla riabilitazione delle funzioni perse. Alcuni scienziati considerano la scoperta dei neuroni specchio una delle più importanti delle n. negli ultimi dieci anni. I metodi delle n. dialogano con le scienze cognitive e con la filosofia della mente generando il campo delle n. cognitive che interessano più da vicino il campo dell’educazione. Bibl.: Kandel E. R. - J. H. Schwartz - T. M. Jessell, Fondamenti delle n. e del comportamento, Milano, CEA, 1999; Bear M. F. - B. W. Connors - M. A. Paradiso, N. Esplorando il cervello, Milano, Masson, 2002; R izzolatti G. - C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Cortina, 2006.

C. Cangià

NERI Filippo → Oratoriani

NEUTRALITÀ DELLA SCUOLA → Scuola cattolica → Scuola laica

NEUROSCIENZE

NEVROSI

Le n. (neurofisiologia, neuroanatomia e neurobiologia) sono lo studio scientifico del sistema nervoso. Loro compito è descrivere il cervello e il suo funzionamento in condizioni normali; determinare come il sistema nervoso si sviluppa, matura e si mantiene e trovare le strategie per prevenire e curare le patologie e i disordini neurologici che lo possono colpire. La ricerca di frontiera nel campo delle n. va dallo studio e utilizzo delle cellule staminali per riparare il tessuto nervoso danneggiato alla visualizzazione del cervello «in vivo» per comprendere dove e come esso svolga le funzioni vitali cui è preposto ed eserciti le capacità cognitive e intellettive che lo caratterizzano. Negli anni ’70 si sono ottenute le prime immagini anatomiche del cervello umano grazie alla TAC o tomografia assiale computerizzata; negli anni ’80 è stata utilizzata la RMN o risonanza magnetica nucleare; negli anni ’90 si sono

Disturbo psichico i cui sintomi simboleggiano un conflitto inconscio tra le varie istanze della personalità (Es, Io e Super-Io). Esso affonda le sue radici nelle vicende dei primi anni di vita e costituisce un compromesso non riuscito tra le pulsioni rimosse e la difesa nei loro confronti. Generalmente tale disturbo è egodistonico: l’individuo vorrebbe disfarsi dei sintomi di esso, perché fonte di sofferenza.

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1. Considerazioni generali. Il termine n. è stato introdotto da W. Cullen (1710-1790) verso la fine del XVIII sec. I primi studi sistematici sulle n. risalgono alla seconda metà dell’Ottocento per opera di → Charcot e continuati poi da P. Janet (1859-1947). Ma i contributi più significativi al riguardo sono senz’altro quelli di S. → Freud. Nel 1895, in collaborazione con J. Breuer (1842-1925), egli pubblica Studi sull’isteria e altri scritti. Inizialmente Freud pone una distinzione

NEVROSI

tra n. attuali, la cui eziologia è fatta risalire ad una disfunzione somatica della sessualità del momento presente, e psiconevrosi, in cui viene invece indicata come avente un ruolo fondamentale l’esistenza di un conflitto psichico prevalentemente inconscio e basato sulle vicende della prima infanzia. Queste ultime comprendono la n. isterica, la n. fobica e la n. ossessiva. Sebbene Freud non abbia mai abbandonato del tutto il concetto di n. attuale, oggi questo termine è pressoché scomparso dalla nosografia, dal momento che, pur riconoscendo l’importanza dei fattori presenti, questi sono comunque da considerarsi dei semplici elementi scatenanti e non invece delle cause, che vanno ricercate nel vissuto passato dell’individuo. In linea generale, Freud colloca la genesi della n. nel conflitto edipico non risolto e nella conseguente ansia di castrazione. a) Oltre alle tre n. classiche citate di cui si dirà a parte, sono da segnalare i seguenti tipi: 1) La n. d’ → ansia. Essa è caratterizzata da un’ansia dominante e diffusa e cioè non diretta ad alcun oggetto o ad alcuna situazione specifica. L’individuo si dimostra estremamente pessimista, ricorre ad una vigilanza esagerata e appare sempre affaticato. Freud inizialmente la considerava una n. attuale e la riteneva una conseguenza di comportamenti sessuali, che tendevano a bloccare la scarica adeguata dell’eccitazione sessuale. 2) La n. da successo. L’individuo di fronte al successo si sente in colpa di avere eliminato il padre e quindi inconsciamente si autopunisce soccombendo alla sua stessa riuscita. 3) La n. depressiva (→ depressione). 4) La n. di carattere. Essa comporta l’assenza dei sintomi classici (angoscia, isteria, fobia, ossessione). Il conflitto intrapsichico è invece rappresentato da tratti del carattere. Tale n. è ego-sintonica e cioè appare evidente all’osservatore esterno, ma non al soggetto interessato, che anzi la nega. In altri termini, l’individuo avverte il suo comportamento come congeniale a sé e quindi lo difende soprattutto attraverso il meccanismo della razionalizzazione. 5) La n. di destino. E determinata dal ripetersi periodicamente di eventi tra loro concatenati e generalmente sfortunati, per cui l’individuo è convinto di essere in balia del destino. In realtà le cause vanno ricercate a livello inconscio e più precisamente nel meccanismo della coazione a ripetere. 6) La n. di tran-

sfert. Riguarda la ripetizione da parte del paziente delle modalità nevrotiche infantili nei confronti dello psicoterapeuta nell’ambito del setting analitico. 7) La n. d’organo. Si riferisce ad un conflitto psichico che si manifesta attraverso il cattivo funzionamento di un organo o di un sistema organico. Oggi per indicare tale disturbo si preferisce usare il termine malattia psicosomatica. 8) La n. infantile. Essa è stata particolarmente messa a fuoco da Freud nei casi clinici del Piccolo Hans del 1909 e dell’Uomo dei lupi del 1918. Dall’analisi dei testi freudiani risulta che il termine n. infantile assume un duplice significato: un momento dell’evoluzione psichica, in cui il bambino vive un conflitto espresso o no da sintomi simili a quelli propri di una n. strutturata; uno stato psichico disturbato, espresso da una serie di sintomi che rivelano un’organizzazione conflittuale interiorizzata. In questo secondo caso l’eziologia, secondo Freud, è da ricercarsi nel conflitto edipico non risolto. L’individuo usa i → meccanismi di difesa della fissazione e/o della regressione; inoltre denuncia un Io debole nei confronti sia delle pulsioni che della realtà esterna e sperimenta stati di angoscia. Relativamente alla prima accezione, Freud si riferisce ad una situazione che potremmo denominare conflitto di sviluppo. Esso è considerato come inevitabile in quanto fa parte della crescita normale del bambino. Tale inevitabilità è sottolineata nel saggio Inibizione, sintomo e angoscia del 1925 e ciò a causa di tre fattori tra loro interrelati: biologico (l’individuo sperimenta inizialmente un periodo molto ampio d’impotenza, di dipendenza e di bisogno di aiuto); filogenetico (l’individuo, come la specie, vive uno sviluppo bifasico della sessualità); psicologico (l’individuo ha inizialmente un apparato psichico imperfetto, per cui l’Io vive le pulsioni interne come pericolose). 9) La n. narcisistica. È caratterizzata dal ritiro della libido sull’Io e si oppone alla n. di transfert. 10) La n. traumatica. È dovuta all’esperienza reale di gravi traumi fisici o psichici ed è stata studiata soprattutto in connessione con le vittime della guerra. Essa può essere acuta, ritardata o cronica e comporta la riesperienza ripetitiva dell’evento traumatico, una diminuzione della reattività, uno scarso coinvolgimento con la realtà esterna, una forte insicurezza ed uno stato disforico. Nel momento in cui il trauma vie797

NEVROSI

ne rivissuto, l’individuo appare irritabile, socialmente isolato e talvolta distruttivo. Una caratteristica tipica di tale n. è la comparsa di sogni ripetitivi, in cui il trauma viene rivissuto. Ciò è motivo di paura di sognare che provoca come conseguenza l’insonnia. b) Mentre nell’ambito psicoanalitico si mantiene sostanzialmente la terminologia sopraccennata, in campo psichiatrico sono in atto dei mutamenti. Ad es., il DSM-IV-R (1994), pur accogliendo la nosologia tradizionale delle n., propone una diversa denominazione. Più precisamente al posto del termine n. viene preferito quello di disturbo. 2. N. isterica. Disturbo nevrotico in cui il conflitto psichico è rappresentato da sintomi sensoriali o motori senza una base anatomica individuabile (isteria di conversione) o da intense manifestazioni ideative ed emotive (isteria d’angoscia). Il termine isteria deriva dal gr. hysteron (utero), poiché la medicina ippocratica faceva risalire i sintomi propri di tale patologia ad una disfunzione dell’utero e pertanto si riteneva che fosse un disturbo esclusivamente femminile. Rispetto ad un secolo fa, oggi l’isteria sembra pressoché scomparsa. Di fatto è però semplicemente cambiato il modo di manifestarsi del conflitto sottostante e cioè il medesimo disagio è ora rappresentato attraverso sintomi depressivi o psicosomatici. S. Freud vede nell’isteria il prototipo della n. Si distinguono due tipi di isteria: 1) Isteria di conversione. Ricorrendo al meccanismo difensivo dello spostamento, l’individuo tenta di dominare il conflitto psichico attraverso sintomi somatici motori (paralisi, afonia, singhiozzo, tics, ecc.) o sensoriali (anestesie, perdita dell’udito, disturbi visivi, ecc.). Ciò che viene alterato è una funzione del corpo o in eccesso (es. tachicardia) o in difetto (es. paralisi), mentre gli organi perturbati rimangono integri. 2) Isteria d’angoscia. Essendo l’apparato difensivo della rimozione piuttosto debole, il tentativo di evitare il conflitto riesce solo in parte, per cui l’individuo si sente travolto da una profonda angoscia, che tende poi a trasformarsi in manifestazioni fobiche. Il conflitto psichico di cui soffre l’isterico è determinato dal fatto che l’oggetto d’investimento emotivo è allo stesso tempo desiderato e temuto, dal momento che esso è a connotazione edipica e quindi a contenuto incestuoso. Per cui, al 798

fine di potere in qualche modo mantenere il rapporto con l’oggetto, si ricorre all’esibizione dei sintomi di conversione somatica o di angoscia, come mezzo per attirare l’attenzione. La tipica difficoltà dell’isterico a gestire le emozioni dipende dal fatto che alla base c’è una posizione libidica di tipo orale-fallico, dovuta al fallimento della fase anale, che impedisce un adeguato ancoraggio ed una congrua canalizzazione delle pulsioni primarie. È difficile riscontrare una vera e propria isteria nell’infanzia. Più che altro esiste un isterismo che si può definire fisiologico. Normalmente l’isteria di conversione tende a comparire verso la fine dell’età di latenza. Nell’età adolescenziale, data la particolare situazione conflittuale che il soggetto vive, è possibile rilevare manifestazioni isteriche. 3. N. fobica. Una seconda n. è quella fobica (dal gr. phóbos: terrore, panico). Essa può essere intesa come paura irrazionale, abnorme, carica di angoscia, nei confronti di oggetti, attività o situazioni, anche se obiettivamente non pericolosi. Ciò comporta un impellente bisogno di evitamento. Manifestazioni tipiche presenti in ogni fobia sono: angoscia cosciente ed intensa fino al terrore, reazioni neurovegetative (tremori, rossori, pallori, sudorazione, aumento della frequenza respiratoria, ecc.), inibizione dell’attività, scarsa concentrazione del pensiero fino all’inibizione intellettuale, instabilità psicomotoria. A seconda degli oggetti, delle attività o delle situazioni, le fobie vengono diversamente denominate. Ad es.: la paura degli animali (zoofobia); la paura di muoversi in ambienti aperti (agorafobia); la paura di arrossire (ereutofobia). Mentre nel passato era vista come una forma d’isteria, ora la fobia viene collegata alla n. ossessiva. S. Freud colloca la genesi della fobia nella fase del conflitto edipico. Come ogni altro sintomo nevrotico, la fobia rappresenta un compromesso tra le varie istanze (Es, Io e Super-Io) della personalità. I meccanismi di difesa usati dal fobico sono la rimozione non del tutto riuscita delle pulsioni (libidiche o aggressive), la proiezione di tali pulsioni all’esterno, lo spostamento dall’oggetto originario ad un altro e l’evitamento di oggetti, di attività e di situazioni che rappresentano a livello simbolico le pulsioni rimosse. Un esempio classico dell’uso di tutti questi meccanismi difensi-

NICHILISMO E EDUCAZIONE

vi è dato dal Caso clinico del piccolo Hans (S. Freud, 1909). Con il termine controfobia s’intende un atteggiamento, per cui l’individuo affronta con piacere oggetti o situazioni che sono consciamente o inconsciamente temuti. Spesso tali oggetti o situazioni sono di per sé pericolosi e sono abitualmente motivo di angoscia per le persone «normali». La controfobia non è altro che una difesa maniacale attraverso cui l’individuo, superando l’angoscia, persegue il soddisfacimento di un bisogno di onnipotenza. 4. N. ossessiva. È un tipo di n. che si manifesta con sintomi o prevalentemente ossessivi o prevalentemente coatti. Per questo motivo viene denominata anche n. ossessivo-coatta. L’ossessione (dal lat. obsidere: assediare) riguarda un’idea, un desiderio, un dubbio, una proibizione, un comando o un’immagine che s’intromettono in maniera imperativa nella coscienza. Il contenuto ossessivo interferisce nell’apprendimento, nella memoria, nella capacità di concentrazione. La coazione (dal lat. cogere: costringere) riguarda invece un’azione o una serie di azioni ripetitive ed incoercibili. Essa ha caratteri simili all’ossessione, ma in più comporta il passaggio all’azione, come, ad es., il toccare, il lavarsi le mani, il contare, il pronunciare determinate parole, ecc. Nella n. ossessivo-coatta si nota un alternarsi di azioni e contro-azioni, di tentativi di soddisfare le pulsioni e bisogni di negazione di esse, dove l’individuo non è mai certo che i meccanismi di difesa messi in atto hanno funzionato in modo corretto. Secondo S. Freud la causa della n. ossessivocoatta va ricercata nell’eccessiva stimolazione dell’ → aggressività, verificatasi nella fase sadico-anale, nei confronti degli oggetti d’amore, conseguentemente vissuti in modo ambivalente, e nella prematura e rapida maturazione dell’Io e della contemporanea emersione di un Super-Io particolarmente crudele e colpevolizzante, il tutto come conseguenza di situazioni stressanti, a cui il bambino viene precocemente esposto. I meccanismi di difesa maggiormente usati nella n. ossessiva sono: la formazione reattiva, la regressione, l’isolamento, l’intellettualizzazione, lo spostamento e l’annullamento retroattivo. Bibl.: Breuer J. - S. Freud, «Studi sull’isteria», in S. Freud, Opere, vol. 1, Torino, Bollati Borin-

ghieri, 1967, 171-439; Freud S., «Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (Caso clinico del piccolo Hans)», in Opere, vol. 5, Ibid., 1972, 481-589; I d., «La disposizione alla n. ossessiva. Contributo al problema della scelta della n.», in Opere, vol. 7, Torino, Bollati Boringhieri, 1975, 235-244; I d., «Dalla storia di una n. infantile (Caso clinico dell’uomo dei lupi)», in Opere, vol. 7, Ibid., 1975, 487-593; Freud A., «N. ossessiva: riepilogo delle concezioni psicoanalitiche», in Opere, vol. 3, Ibid., 1979, 935-949; A dams P. L., Le ossessioni nei bambini, Ibid., 1980; Battistini A. (Ed.), Le n. infantili, Ibid., 1983; Israel L., L’hystérique, le sexe et le médecin, Paris, Masson, 1976; Sacerdoti G., «Isteria», in A. A. Semi (Ed.), Trattato di psicoanalisi, vol. 2, Milano, Cortina, 1989, 123-150; Encore l’hystérie, in «Revue Française de Psychanalyse» (1986) 3 (n. speciale); Spacal S., «La n. ossessiva», in A. A. Semi (Ed.), Trattato di psicoanalisi, vol. 2, Milano, Cortina, 1989, 217-254; A mati M ehler J., «Fobie», in I d., Trattato di psicoanalisi, vol. 2, Ibid., 1989, 151-216; Castellazzi V. L., Psicopatologia dell’infanzia e dell’adolescenza: le n., Roma, LAS, 2000.

V. L. Castellazzi

NICHILISMO E EDUCAZIONE Tra le molte e contrastanti accezioni del termine n., due sono quelle che, in direzione opposta, riguardano direttamente il problema dell’educazione. Da una parte quella, per lo più in voga nelle forme del discorso comune, secondo la quale il n., in quanto indifferenza pratica nei confronti di qualsiasi valore, non è che la negazione, individuale e sociale, di qualunque possibilità educativa. Viceversa, sotto un diverso e ben più complesso punto di vista storiografico, per n. s’intende, a partire da Nietzsche, la critica filosofica più radicale del pensiero moderno e della sua tradizione metafisica. Secondo tale prospettiva esso designa non già una dottrina peculiare, quanto piuttosto il termine interpretativo della situazione storica propria dell’uomo contemporaneo. Un termine che, includendo la negatività radicale nella struttura fondamentale dell’esistenza, sembra dettare anche un compito eminentemente pedagogico: educare l’uomo contro il proprio tempo, in vista di un oltrepassamento dei valori correnti. O 799

NOMADELFIA

verso la direzione estetica del desiderio. O verso quella etica dell’autenticità esistenziale. In quest’ultimo senso l’educazione sembra consistere nella tragicità del contrasto tra il soggetto e il mondo che lo circonda. Tragicità che, contro gli usuali sentimenti di valore, finirebbe per coincidere, tuttavia, con l’elemento profetico di un nuovo comando morale: diventare ciò che si è. Bibl.: P enzo G., Il n. Da Nietzsche a Sartre, Roma, Città Nuova, 1976 (con antologia); Caracciolo A., Pensiero contemporaneo e n., Napoli, Guida, 1976; Volpi F., Il n., Roma/Bari, Laterza, 1996 (con bibliografia); Löwith K., Il n. europeo (1939), Ibid., 1999; Erbetta A., Pedagogia e n. Cinque capitoli di filosofia dell’educazione, Torino, Tirrenia Stampatori, 2007 (con bibliografia).

A. Erbetta

NIDO → Sistema formativo

NOMADELFIA Comunità educativa familiare di orientamento cristiano fondata da don Zeno Saltini (1900-1981) nel 1947. Il nome N. (dal gr. nómos, legge, e adelfós, fratello) esprime i tratti fondamentali dell’opera: un luogo «dove è legge la fratellanza». 1. Nato in una famiglia contadina, Zeno Saltini sentì molto presto l’urgenza di un rinnovamento della società nello spirito del Vangelo. Giovane studente, si impegnò nel ricupero di giovani delinquenti, creando per loro l’Opera Realina (1924-1927); conseguito il dottorato in diritto (1929), e ordinato sacerdote (1931) diede vita all’opera dei Piccoli Apostoli per l’accoglienza di ragazzi abbandonati (S. Giacomo Roncole), trasferitasi nel 1947 a Fossoli (Modena). Accanto alle giovani «mamme di vocazione», responsabili di piccoli gruppi di bambini, don Zeno chiamò a collaborare varie coppie di coniugi e alcuni sacerdoti. Il movimento apostolico-educativo si sviluppò con la creazione dell’Unione dei Padri di Famiglia. Il rifiuto della proposta di creare un «nuovo paese nel paese» (1946) mosse don Zeno a fondare N., nella cui Costituzione (1948) si stabiliva «come legge la fraternità cristiana vissuta sotto forma comunitaria». 800

2. Con il «Movimento della fraternità umana», don Zeno intendeva costruire una società radicalmente democratica e solidale come alternativa a quelle proposte dal comunismo e dal capitalismo. La fondazione destò però i sospetti e l’opposizione dei ceti conservatori. Ai contrasti e alle accuse degli ambienti esterni si aggiunsero pure le difficoltà interne di carattere economico e amministrativo. Nel 1957, le autorità vaticane del Santo Uffizio invitarono il fondatore ad allontanarsi da N., che fu dissolta dall’autorità civile. Pur di poter continuare la sua attività, don Zeno chiese e ottenne la «riduzione allo stato laicale» (1953), e con un gruppo rimastogli fedele, fondò una nuova comunità, con lo stesso nome di N., nella tenuta Rossellana di Grosseto, organizzandola secondo il sistema dei «gruppi famigliari», costituitisi nel 1961 come «libera associazione civile». Nel 1981 i nuclei familiari della comunità erano 81. Questi, dopo la morte del fondatore, chiamarono come guida don Ennio Tardini. Nel 1962 don Zeno, riammesso alle sue funzioni sacerdotali, era stato nominato parroco di N. 3. Il significato pedagogico di N. va visto nel contesto della proposta di rigenerare la società attraverso la solidarietà universale voluta dal Vangelo. Dalle poche pagine scritte da don Zeno, e soprattutto dalla sua esperienza educativa, emergono principi e orientamenti vigorosi: primato dell’amore e della fiducia nei giovani, collocati «sulle vie della libertà»; centralità della famiglia aperta e del clima familiare nell’ambiente educativo. L’impostazione di N. risponde alla convinzione che si impara attraverso la vita, e la vita nella comunità-famiglia è l’unica scuola in cui si impara a essere liberi dai condizionamenti di una società ingiusta per poter assumere l’impegno di farla solidale e giusta. Bibl.: Saltini Z., N. è una proposta, Grosseto, Nomadelfia, 1965; Belotti G., La comunità familiare di N., Roma, LAS, 1976; Bogliancini R. G., N. Una comunità educante, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1980; Costituzione della popolazione di N., Nomadelfia, [s.e.], 1995.

A. García-Verdugo

NOMADI → Emarginazione

NORMALITÀ

NON-DIRETTIVITÀ Criterio educativo mirante a valorizzare la capacità di autodirezione del soggetto ed anche orientamento pedagogico, affermatosi soprattutto negli anni ’60 e ’70, connesso con le concezioni antiautoritarie e con la → pedagogia istituzionale. 1. Collocazioni. In quanto criterio educativo, il principio della n.-d., che consiste, ricollegandosi idealmente al modello dell’Emilio di → Rousseau, nel sostenere che il soggetto possiede capacità di autoconduzione ed autoorientamento che non vengono utilizzate ed anzi represse ed atrofizzate dal tradizionale rapporto autoritario, circola ampiamente nella visione della scuola attiva, dove si esprime anche in concrete e specifiche realizzazioni (come il lavoro per gruppi, le cooperative scolastiche, l’autogoverno). In quanto orientamento pedagogico, esso trova la sua formulazione più compiuta nel pensiero di → C. Rogers, che, dopo aver elaborato una originale concezione della terapia come relazione di aiuto centrata sul cliente, ne ha proposto una versione in chiave educativa, ripresa ed applicata soprattutto nella cultura francese, in cui la funzione dell’educatore e dell’insegnante consiste nel «facilitare», sulla base dei reali sentimenti di «empatia» e di «congruenza» che egli prova nei suoi confronti, i processi autonomi di sviluppo e di apprendimento del soggetto. 2. Discussioni. Il punto di vista non direttivo, nelle sue varie espressioni e modulazioni, è stato sottoposto a numerose critiche, il cui nucleo centrale è costituito dalla chiusura di ogni valore e ogni significato nell’interno esclusivo del sentimento psicologicamente inteso, per cui viene a cadere la possibilità di ancorare il processo educativo a qualsiasi elemento di fondazione oggettiva (morale, storica, culturale, sociale). In sostanza, il modello originario della terapia finisce coll’invadere ogni altra ulteriore determinazione. Nello stesso tempo, non deve venire dimenticata, di contro, la funzione di richiamo nei confronti degli eccessi autoritaristici e conformistici e non devono essere sottostimati la valorizzazione delle potenzialità positive della persona e l’appello al principio relazionale dell’→ empatia.

Bibl.: Zavalloni R., La terapia non direttiva nell’educazione, Roma, Armando, 1971; Rogers C., Libertà nell’apprendimento, Firenze, GiuntiBarbera, 1973; Scurati C., N.-d., Brescia, La Scuola, 1976; Genco A., Educazione nuova e n.-d., Ibid., 1977; Bellingreri A., Per una pedagogia dell’empatia, Milano, Vita e Pensiero, 2005.

C. Scurati

NON-VEDENTI → Braille: metodo → Handicap: portatori di NON-VIOLENZA → Gandhi → Pace: educazione alla → Tolleranza NORMA → Statistica → Valutazione NORMA MORALE → Educazione morale → Etica

NORMALITÀ 1. Nel tentare di definire il concetto di n. ci si imbatte nella difficoltà di trovare una descrizione che sia condivisa dalla maggior parte degli studiosi. Esistono, infatti, notevoli divergenze nell’interpretare la n. che riflettono differenti prospettive. D’altra parte, quando si vuole intervenire per favorire il superamento di disturbi psicologici o per promuovere lo sviluppo della personalità, è necessario far riferimento a determinati parametri che permettono di analizzare, secondo il criterio della n., l’agire psichico dell’individuo consentendo di valutare tanto lo stato psichico attuale quanto lo stato psichico ideale al fine di comprendere verso quali obiettivi debba essere orientato l’intervento. 2. Offer e Sabshin (1974) nell’analizzare le diverse definizioni di n. tratte dalla letteratura clinica e dalle scienze umane e sociali, arrivano a sistematizzarle in quattro categorie, che riflettono quattro differenti prospettive nel concepire la n. Nella prima categoria rientrano le definizioni della n. come salute. La n., cioè, viene concettualizzata in negativo come assenza di malattia; lo stato psichico dell’individuo viene considerato normale quando, dall’esame clinico, non emergono sintomi di interesse psicopatologico (approccio medico-psichiatrico). Nella seconda categoria rientrano le definizioni della n. come utopia. La n. viene a coincide801

NOSENGO GESUALDO

re con il funzionamento ideale o ottimale, di fatto non riscontrabile in realtà. I parametri di riferimento sono sviluppati sul modello di persone eccellenti che si distinguono per le loro qualità personali o in base al punto ideale o finale di promozione terapeutica (teoria psicoanalitica e teoria umanistica). Nella terza categoria rientrano le definizioni della n. come media statistica. La n. fa riferimento a ciò che statisticamente si colloca al centro di una distribuzione della curva normale; la persona, cioè, è considerata normale se, oltre all’assenza di sintomi patologici possiede caratteristiche tipiche di un soggetto medio del gruppo di appartenenza. Il concetto di n. è in questo caso intrinsecamente connesso al valore medio della distribuzione delle caratteristiche individuali del gruppo di riferimento (studi sociologici e comportamentisti). Nella quarta ed ultima categoria rientrano le definizioni della n. come processo. La n. è concepita come un processo che si svolge nel tempo. In tale interpretazione dinamica del concetto di n. assumono particolare rilievo i processi che garantiscono alla persona un funzionamento ottimale nel rapportarsi al mondo e nel gestire le diverse situazioni di vita (Erikson, 1959). Nonostante le diverse interpretazioni ed accezioni di n., nella cultura occidentale si possono registrare alcuni parametri comuni che consentono di stimare il funzionamento normale di un individuo. Tra questi: buona immagine di sé ed autostima positiva e realistica; capacità di stabilire e mantenere relazioni profonde e durevoli; presenza di motivi di crescita piuttosto che di motivi di deficienza; adattabilità, flessibilità e tolleranza allo stress; empatia e rispetto nei confronti degli altri; abilità di funzionamento psicologico (percezione, memoria, problem solving); buone strategie di coping; saldo senso della vita e dei valori. Bibl.: Erikson E. H., Identity and the life circle: psychological issues, New York, International Universities Press, 1959; Offer D. - M. Sabshin, Normality: theoretical and clinical concepts of mental health, New York, Basic Books, 21974; Kenneth Wing J., N. e dissenso: psichiatria, psicoanalisi, medicina, società, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1983; Denes G. - L. Pizzamiglio (Edd.), Manuale di neuropsicologia: n. e patologia dei processi cognitivi, Bologna, Zanichelli, 1990; Fromm E., I cosiddetti sani: la patologia

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della n., Milano, Mondadori, 1996; Andreoli V., La fatica della n., in «Quaderni Italiani di Psichiatria» 20 (2001) 1, 25-35; Belardinelli S., La n. e l’eccezione: il ritorno della natura nella cultura contemporanea, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2002; Liverta Sempio O. - A. Marchetti - F. Leccio (Edd.), Teoria della mente: tra n. e patologia, Milano, Cortina, 2005.

A. R. Colasanti

NORMATIVITÀ → Epistemologia pedagogica

NOSENGO Gesualdo n. a San Damiano (Asti) nel 1906 - m. a Roma nel 1968, educatore italiano. 1. Laureatosi in pedagogia a Milano nel 1934 presso l’Università Cattolica, insegnò per vent’anni religione nelle scuole statali e poi pedagogia religiosa al Pontificio Ate­neo Urbaniano. Fondò nel 1944 e diresse fino alla morte l’Unione Cattolica Italiana degli Insegnanti Medi (UCIIM) e influì in modo incisivo sul rinnovamento della scuo­la in Italia. 2. Attuando nell’insegnamento della reli­gione la lezione didattico-attivistica di M. → Casotti, con una serie di scritti, nati in gran parte dalla pratica della scuola tra il 1936 e il 1942, si affermò come il pioniere dell’in­t roduzione dell’attivismo (→ Scuole Nuove) nell’insegnamento religioso in Italia, inte­g randolo con l’insistenza sulla concentra­zione dell’insegnamento della religione cat­tolica nella persona di Cristo, avviando l’a­lunno all’amicizia con Cristo, con metodi adatti alla sua età. Nel periodo romano stu­diò e scrisse sull’educazione religiosa del­l’adolescente, documentando, con molte testimonianze, l’idea che le esperienze che il giovane fa di Dio sono molto importanti per il suo sviluppo religioso; l’educatore deve ridestarle, farvi riflettere sopra e fis­sarle nella memoria e nella storia persona­le del giovane. Si aprì con naturalezza ai nuovi indirizzi di → catechesi biblicoliturgica. Nel campo della pedagogia della scuola si impegnò intensamente nel lavoro delle riforme scolastiche e della formazio­ne professionale e personale degli inse­g nanti, parlando e scrivendo estesamente sulla professionalità dell’insegnante, sulla scuola,

NOZIONISMO

sulla persona umana e l’educazio­ne, con libri e numerosissimi articoli, parti­colarmente sui periodici da lui fondati e di­retti: «La Scuola e l’Uomo», «Ricerche Di­dattiche», «Fede e Scuola». Pur con qual­che limite, dovuto a carenze di approfon­d imento teologico o filosofico, la sua insi­stenza sulla vocazione dell’educatore, sull’adozione dei metodi attivi e sulla neces­sità di rivolgersi a tutta l’esperienza e la persona del giovane, fanno di lui un pio­niere e un trascinatore nel movimento pedagogico-scolastico e in quello dell’educa­ zione religiosa scolastica in Italia. Bibl.: Uciim , G.N. (1906-1968), Firenze, Le Monnier, 1969; Pagella M., G.N., una vita per la scuo­la, Roma, UCIIM, 1969; Santonocito C., Pensiero educativo e pedagogico di G.N., Ibid., 1974; Ruta G., Il contributo di G.N. alla pedago­g ia religiosa in Italia, in «Orientamenti Pedagogi­ci» 40 (1993) 823-854; Id., Ricerca bibliografica sul­le opere di G.N., in «Salesianum» 55 (1993) 751-775; Cavallotto G., Prima la persona: G.N., una vita al servizio dell’educazione, Roma, Urbaniana University Press, 2000.

U. Gianetto

NOVIZIATO È la fase iniziale della → formazione con­ sacrata intenzionale e sistematica. 1. La sua prassi accompagna l’intera storia della vita consacrata. Riguarda soggetti che hanno già maturato una chiara e forte op­ zione vocazionale e che ne chiedono sia la verifica, sia la maturazione verso la iden­ tità teologale, spirituale, comunitaria, mis­ sionaria apostolica e verso la appartenenza e la partecipazione qualificata, generale e particolare in un istituto o gruppo eccle­siale, secondo i carismi di fondazione e di tradizione e secondo l’attuale collocazione nella Chiesa e per il mondo. Dal punto di vista personale, il n. è l’esperienza educati­va che corona l’apertura a Dio con la voca­zione-missione nella Chiesa e nel mondo, secondo uno stile di vita caratterizzato da un impegno totale di povertà evangelica, di dedizione a Dio, di carità verso la condi­zione umana: come Abramo, Mosè, Maria, gli Apostoli, i discepoli e discepole di Cri­sto che ricercano pri-

ma di e sopra ogni co­sa il Regno di Dio e la sua giustizia. 2. Il metodo educativo è originale: pratica essenziale delle forme della nuova scelta di vita; e, nel tempo stabilito di uno o due an­ni, sviluppo del piano formativo di istru­ zione, motivazione, interiorizzazione e in­ tegrazione crescente dei valori consacranti della carità perfetta, fino alla maturità per il segno-rito di professione o impegno ana­ logo (temporanei nella regolazione cano­nica, ma permanenti nella intenzione teo­logica e spirituale). La maggiore età, oggi richiesta, e la accertata preparazione uma­na e cristiana, la decisione, la domanda ac­cettata al termine di un cammino di preno­viziato, garantiscono l’attitudine al lavoro di formazione. Ne sono agenti la realtà di Chiesa e istitu­to, la comunità formatrice di n. con mae­stro/a, gruppo formatore, la vita comune e l’azione dialogante degli stessi novizi che in­sieme assimilano i nuovi valori. I ritmi del n. sono l’introduzione consapevole e par­tecipante, il tempo centrale di identificazione e formazione, la preparazione del­l’atto conclusivo, l’avvio della fase di ulte­r iore formazione, base di una vita intera di fedeltà crescente e creatrice. Bibl.: Barea E., El noviciado. Directorio y plan for­mativo, Madrid, Publicaciones Claretianas, 1993; Llanos M., Servire le vocazioni nella Chiesa. Pastorale vocazionale e pedagogia della vocazione, Roma, LAS, 2006.

P. Gianola

NOZIONISMO Il termine n. non va confuso con quello di nozione (dal lat. notio, deriv. da noscere, conoscere) che designa l’elemento di qualunque contenuto del sapere, per cui viene usato come sinonimo di concetto, idea la cui assimilazione è la base indispensabile di ogni conoscenza più ampia ed elaborata. 1. Il n., invece, è da intendere come tendenza didattica che favorisce il formarsi di una cultura basata su nozioni soltanto mnemoniche, sia misurando il valore intellettuale con l’accumulazione e memorizzazione del803

NUOVA SOCIOLOGIA DELL’EDUCAZIONE

le nozioni, sia ponendo l’accento esclusivo sull’informazione – pericolo in crescita nella nostra infosocietà –, e di conseguenza utilizzando principalmente, per non dire esclusivamente, la → lezione intesa come tecnica di trasmissione di nozioni fatte apprendere atomisticamente. In questo modo il n. trasforma la nozione da strumento necessario (ma non sufficiente) in fine dell’apprendimento, della cultura e dell’educazione. 2. In tale tendenza si è ben lungi dal concepire l’alunno come agente principale del suo apprendimento e l’apprendimento come conquista personale dello stesso. Per essa è importante adeguare l’alunno al programma anziché il programma all’alunno. In realtà anche lo stesso programma viene concepito in modo astratto, centrato sull’oggetto della conoscenza, ancorato al passato statico senza tener presenti le esigenze formative dell’alunno che viene ritenuto una tabula rasa da riempire di nozioni. 3. Per il n. l’insegnamento non può essere che verbale, collettivo, libresco, spesso e facilmente impositivo, riducendosi tutto a travaso di notizie, senza favorire quindi un’elaborazione personale e critica da parte dell’alunno, rendendo l’apprendimento staccato dalla vita, riducendolo alla memoria di formule già fatte e non prodotte dall’allievo stesso. Per il n. scompare praticamente la libertà, la vera attività dell’alunno. Il n., perciò, facilmente può portare alla passività, alla ricezione meccanica, all’intellettualismo, all’ → individualismo, al culto dei bei concetti, all’erudizione, allo studio fine a se stesso, al dogmatismo, da una parte, e all’autoritarismo, all’ → adultismo dall’altra, ragion per cui la scuola impropriamente detta «tradizionale» è stata fortemente criticata di pedantismo. Oggi con la sottolineatura dell’unitarietà e organicità del sapere (→ interdisciplinarità) e del metodo di studio e di ricerca, così pure con gli studi dell’apprendimento scolastico, il n. dovrebbe essere debellato anche dalla prassi. Bibl.: Volpicelli L. (Ed.), Lessico delle scienze dell’educazione, vol. 2, Firenze, Vallardi, 1978, 772 (voci: «Nozione»; «N.»); Ausubel D. P., Educazione e processi cognitivi: guida psicologica per gli insegnanti, Milano, Angeli, 1978; Novak J., L’apprendimento significativo. Le mappe con-

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cettuali per creare e usare la conoscenza, Trento, Erickson, 2001.

H.-C. A. Chang

NUOVA SOCIOLOGIA DELL’EDUCAZIONE L’approccio emerge agli inizi degli anni ’70 ad opera di un gruppo di docenti dell’Università di Londra che propugnava la nascita di una n.s.d.e. 1. A loro giudizio, la «vecchia sociologia dell’educazione» sarebbe da identificarsi con il → funzionalismo e le teorie conflittuali. Essa metterebbe l’accento sulle questioni macrostrutturali relative ai rapporti tra il → sistema formativo e le altre istituzioni. La metodologia si caratterizzerebbe per gli studi quantitativi, su campioni numerosi, con tecniche statistiche molto sofisticate. I nuovi sociologi rimproverano alla vecchia sociologia di aver accettato senza discutere le definizioni dei problemi date dagli educatori; inoltre, ne denunciano le tendenze deterministiche e il pregiudizio che solo il quantitativo sia scientifico. 2. La n.s. presenta caratteri opposti: si ispira alla → fenomenologia, all’ → interazionismo simbolico e all’etnometodologia. I temi più importanti sarebbero l’interazione docentealunno, le categorie usate dagli insegnanti e il curricolo, perché è lo stesso concetto di sapere pedagogico che è divenuto discutibile. Quanto ai metodi d’investigazione, vengono preferite l’osservazione partecipante e quella diretta senza partecipazione. 3. La n.s. ha esercitato una funzione di risveglio poiché ha messo in luce questioni teoriche cruciali, prima ignorate o trascurate, e ha indicato nuovi orientamenti di ricerca. Tra gli apporti più interessanti va ricordata la focalizzazione sugli aspetti micro della scuola e la sottolineatura del protagonismo delle componenti della comunità educativa. Inoltre, è anche vero che i programmi non sono realtà ontologiche o degli a-priori del pensiero, ma costituiscono tra l’altro il risultato di una costruzione storico-sociale che nasce dai rapporti tra i gruppi e le persone e che

NUTTIN JOSEPH

va studiata con un approccio sociologico: in questo senso è esemplare la teoria dei codici educativi di B. Bernstein (1971,1973,1977). 4. Una carenza grave della n.s. consiste nell’iper-relativismo e iper-politicismo nel senso che cultura, educazione e scienza non vengono definite altro che come il prodotto di elaborazioni sociali e politiche. Un secondo limite è l’accoglimento delle posizioni discutibili della teoria della riproduzione. Bibl.: Bernstein B., Class, codes and control, London, Routledge & Kegan Paul, vol. I, 1971, vol. II, 1973, vol. III, 1977; Young M. F. D. (Ed.), Knowledge and control, London, MacMillan, 21980; Morgagni E. - A. Russo (Edd.), L’educazione in sociologia. Testi scelti, Bologna, CLUEB, 1997; Besozzi E., Società, cultura, educazione: teorie, contesti e processi, Roma, Carocci, 2006; Schizzerotto A. - C. Barone, Sociologia dell’istruzione, Bologna, Il Mulino, 2006.

G. Malizia

NUOVE TECNOLOGIE → Informatica → Tecnologia dell’educazione

NUTTIN Joseph n. a Zwevegem, Bruges nel 1909 - m. a Lovanio nel 1989, psicologo belga. 1. N. si laurea in filosofia e teologia all’Università Cattolica di Lovanio e viene ordinato sacerdote nel 1938. Dal 1923 è prima allievo e poi collaboratore di A. Michotte, nel Laboratorio di Psicologia di Lovanio. Nel 1946 è ordinario di Psicologia nella stessa Università, e da questa cattedra svolge un’intensa opera di ricerca e di organizzazione, come membro fondatore della Società Belga di Psicologia. Le riviste «Psychologica Belgica», «International Journal of Psychology», «Studia Psychologica» lo hanno come fondatore o direttore o principale collaboratore. 2. La caratteristica saliente dell’opera di N. è quella di aver approfondito in egual misura la riflessione teorica e la ricerca positiva, e di aver collegato in modo sostanziale questi due accostamenti alla psicologia. La riflessione teorica di N. è sostenuta dalla sua solida for-

mazione filosofica e teologica; gli è perciò facile scoprire i limiti delle antropologie sottese alla psicoanalisi freudiana o al comportamentismo, teorie imperanti fino agli anni sessanta. La discussione dei presupposti della psicoanalisi è presentata nel volume del 1950, divenuto un classico e tradotto in varie lingue: Psychanalyse et conception spiritualiste de l’homme, nel quale è condensata la sua posizione teorica, che ribadisce il diritto nativo ai motivi non impulsivi, l’originalità dell’iniziativa della persona, la funzione della conoscenza nel dirigere l’azione umana e nel prospettare il futuro. La componente sperimentale, già sempre presente, emerge nell’opera del 1953 Tâche, réussite et échec, in cui N. mette in discussione che l’apprendimento avvenga per una cieca associazione fra operazione e ricompensa, secondo la cosiddetta «legge dell’effetto» proposta dal behaviorismo, e dimostra sperimentalmente che, almeno nell’uomo, si formano strutture cognitive che la persona può utilizzare nel contesto dei suoi motivi. L’approfondimento teorico e le successive ricerche sono sfociate in varie opere della maturità: ricordiamo nel 1965 La structure de la personnalité e nel 1980 Théorie de la motivation humaine. Du besoin au project d’action. Il costrutto caratteristico di «compito aperto», per indicare la possibilità dell’uomo di progettare il proprio futuro illuminato dall’intuizione cognitiva, diventa oggetto di una ricerca sperimentale. Frutto di questa ricerca è un interessante strumento di rilevazione di tensione al futuro, edito nello stesso anno 1980 (Motivation et perspective d’avenir). 3. Alla sua morte N. lascia una preziosa eredità agli psicologi ed agli educatori, in particolare con il suo studio della → motivazione umana, la sua difesa della componente cognitiva e spirituale della personalità, e l’intuizione di una sempre possibile apertura al futuro, che illumina il presente. Bibl.: a) Fonti: opere di N. trad. in it., Comportamento e personalità, Zürich, PAS-Verlag, 1967; La struttura della personalità, Roma, Paoline, 1973; Teoria della motivazione umana. Dal bisogno alla progettazione, Roma, Armando, 1983; Psicanalisi e personalità, Alba, Paoline, 1984; Motivazione e prospettiva futura, Roma, LAS, 1992. b) Studi: Galli N., J.N. e la psicologia del-

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NUTTIN JOSEPH

la personalità, in «Orientamenti Pedagogici» 11 (1964) 293-320; Gorzegno O., Lineamenti di una teoria della personalità nel pensiero di J.N., in «Orientamenti Pedagogici» 16 (1969) 1095-1126;

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Turco M., «Bibliografia di J.N.», in J.N., Motivazione e prospettiva futura, Roma, LAS, 1992, XXXVII-LI.

A. Ronco

O OBBEDIENZA

1. La libertà del decidere d’accordo con → valori personali è centrale nell’educazione: il fine educativo non sarebbe tanto il dover obbedire, quanto l’imparare ad obbedire con personale responsabilità. L’intervento dell’autorità, in questa educazione, assume forme di relazione stimolante, offerte con prudenza, valutate in giustizia, applicate con moderazione, perseguite con per­severanza. L’educatore ha un’identità per­sonale autenti­ ca ed un’identità sociale empatica (→ Rogers, Curran). L’autorità edu­cativa si esercita più con la propria eccel­lenza e competenza che con lo «status» pro­fessionale. La personalità dell’educatore garantisce l’auto-realizzazio­ ne nell’o. con una bontà ben disposta e una socievolezza stimolante (Remplein): alle­ gria, buonumo­re, sicurezza, fiducia, empatia, comprensio­ne. La → bontà è una condizione essenziale: per mezzo dell’amore, si passa dal dover obbedire al voler obbedire.

religione ed etica, o. umana ed autorità di­ vina, sempre in ordine al bene personale e sociale. Questi postu­lati richiamano la liber­ tà e l’apertura del­l’amore. In tale orizzonte di senso l’o. ap­pare come promozione della fra­ ternità uni­versale in libertà ed uguaglianza. Questo tipo di o. è criterio valido dell’ordine so­ciale e si apre a progetti di solidarietà: in essi si esercita lo spirito dell’o. La volontà dell’ordine è fondamento dell’o.: dalla vo­ lontà dell’ordine personale in sé, alla vo­lontà dell’ordine sociale. In tal senso essa rientra, ben motivata, nel contesto dell’e­ducazione alla convivenza sociale, specie per ciò che attiene a comportamenti ed at­teggiamenti di fronte alle leggi della so­cietà organizzata. Si tratta di una educa­zione difficile, perché l’o. è stata spesso in­vocata in relazione a com­ portamenti e atteggiamenti di passiva sotto­ missione a ri­chieste od ordini ingiusti o per­ lomeno di­scutibili (obiezione di coscienza) e per­ché suppone il senso di appartenenza e quello di comunitarietà dell’esistere: atteg­ giamenti entrambi piuttosto difficili oggi a fronte del diffuso soggettivismo etico, indi­ vidualismo sociale e tendenziale massifica­ zione che caratterizza l’esistenza umana contemporanea.

2. L’o. è disposizione attitudinale e rispo­sta esistenziale all’ordine e all’autorità; matura con il volontario esercizio della → responsa­ bilità. Si tratta d’un processo di al­lenamento per esperienze poggiate su ve­rità riconosciu­ te (→ ragione) e convertite in spirito di amore gioioso (→ amore). Il ri­ferimento ad un Dio personale (→ religione) mette in relazione

Bibl.: Curran Ch., Counseling in catholic life and education, New York, Macmillan, 1952; R emplein H., Psychologie der Persönlichkeit, München, Reinhard, 61967; Bachnaier H. K., L’o., fonda­mento dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1969; Esteve Zugazaga J. M., Autori­ dad, obediencia y educación, Madrid, Narcea, 1977; Marrocu G. (Ed.), L’o. e la disobbedienza

L’o. è accettazione di prescrizioni, è essen­ za di auto-realizzazione secondo bisogni di appartenenza, stima, auto-realizzazione (→ Maslow).

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OBBLIGO D’ISTRUZIONE

nella Bibbia, L’Aquila, ISSRA, 1996; Gilardonti A., I meccanismi dell’o. e le tecniche della re­ sistenza, Milano, Nimesis, 2005.

A. Sopeña

OBBLIGO D’ISTRUZIONE Per o.d.i. si intende il dovere imposto per leg­ ge al cittadino di ricevere una formazio­ne al­ meno sufficiente per inserirsi nella so­cietà o per continuare gli studi. Ad esso corrisponde il diritto del singolo all’istruzione e il diritto/ dovere della società, da una parte, di esige­ re che il cittadino si istruisca e, dall’altra, di porre le condizioni affinché quest’ultimo possa a sua volta esercitare il suo diritto/do­ vere. 1. Le tendenze generali. Sull’introduzione dell’o.d.i. hanno influito ragioni di diversa natura. Anzitutto, vanno ricordati i motivi religiosi che risalgono al → Medioevo e che poi hanno trovato terreno fertile nella Ri­ forma: si mirava, infatti, a favorire la par­ tecipazione alla vita e alla cultura religio­sa. Successivamente, 1’ → Illuminismo ha con­ tribuito con la dottrina dei diritti natu­rali e in particolare di quello allo sviluppo integrale delle capacità ricevute dalla na­t ura. I sovra­ ni illuminati, i movimenti na­zionali e recenti teorie economiche hanno messo in evidenza i benefici che una citta­dinanza colta può for­ nire alla crescita del Paese. A loro volta, i sin­ dacati e i partiti progressisti hanno insistito sulla promozio­ne delle classi popolari anche attraverso l’istruzione. Nonostante ciò, l’in­ troduzione dell’o. in Europa dovrà attendere la secon­da metà del sec. XIX. Se veniamo ai nostri tempi, una prima tendenza consiste nel vo­ler coniugare contemporaneamente egua­ glianza e diversità. Il consenso generale sul principio che l’educazione è un diritto di tut­ ti senza discriminazioni né per il singolo né per alcun gruppo, è accompagnato dalla cre­ scente consapevolezza che esso non significa una formazione eguale per tutti ri­g uardo alle strutture e ai contenuti. Inol­t re, l’istruzione obbligatoria non può più essere concepita come una formazione suf­ficiente per tutta la vita, ma va pensata co­me una preparazio­ ne iniziale che si integra in un progetto di → educazione permanen­te. La politica di un 808

progressivo allungamento dell’o. non ha mai incontrato opposizioni di principio nei Paesi dell’Unione Europea. In questi ultimi anni, si registra in proposito una tendenza inte­ ressante al superamento del concetto stesso di o.d.i. e alla sua sostituzione con quello di diritto-dovere all’istruzione e alla formazio­ ne. Infatti, l’o.d.i., se dal punto di vista stori­ co ha esercitato una funzione essenziale nel passaggio da una scuola per pochi a una per tutti, al presente sembra costituire piuttosto un impedimento alla piena realizzazione dei diritti di → cittadinanza. In una società complessa come l’attuale, la focalizzazione scolasticistica perde di senso perché ciò che conta è il risultato e la sua qualità e non i percorsi con cui si ottengono che possono essere i più vari. Inoltre, l’istruzione e la → formazione, prima che dei doveri, sono dei diritti della persona e vanno assicurati a tutti in modo pieno. Pertanto, le varie istituzioni che le garantiscono devono operare in → rete, in una prospettiva di → solidarietà coopera­ tiva piuttosto che come alternative tra loro escludentisi. 2. La situazione italiana. In → Italia l’istru­ zione obbligatoria è stata introdotta dalla L. Casati (1859) per la durata di 2 anni ed ele­ vata successivamente a 3 nel 1877, a 6 nel 1904 e a 8 nel 1923. La normativa è ri­masta però ampiamente disattesa per mol­to tempo e soltanto negli anni ’70 ha trova­to un’attua­ zione sostanziale. Anche se in un quadro di principi senz’altro più avan­zato, la Costitu­ zione repubblicana (1947) si è limitata a riaf­ fermare all’art. 34 che l’istruzione inferiore è obbligatoria e gratui­ta per almeno 8 anni. Durante la decade successiva il dibattito si è concentrato sul si­gnificato dell’espressione «istruzione infe­r iore» se essa cioè volesse dire un’istruzione elementare in cui si for­ nivano i rudi­menti del sapere – una inter­ pretazione che implicava il mantenimento del doppio ca­nale dell’avviamento e della media – oppu­re semplicemente un’istruzio­ ne che veniva prima. Alla fine è prevalsa la seconda in­terpretazione, giustificata anche da valide ragioni psico-pedagogiche e di giustizia so­ciale, ed è stata varata nel 1962 la scuola media unica, obbligatoria, orien­ tativa e se­condaria, benché di primo grado. Dalla fine degli anni ’70 esisteva anche un largo consen­so sull’opportunità di prolunga­

OBERLIN JEAN-FRÉDÉRIC

re l’o. da 8 a 10 anni, fino cioè ai 16 di età, per fornire a tutti i giovani una formazione in linea con gli altri Paesi dell’ → Europa e corrispon­dente alle esigenze culturali e pro­ fessionali sempre più elevate della società industriale. Nonostante ciò, l’elevazione è stata realizzata solo negli anni ’90. L’intro­ duzione dell’o. formativo con la L. 144/1999, che sanciva l’o. di frequenza di attività for­ mative fino al compimento del 18° anno di età da assolvere in percorsi anche integrati di istruzione e formazione nel sistema di istru­ zione scolastica, nel sistema della formazio­ ne professionale di competenza regionale o nell’esercizio dell’apprendistato, riconosceva la pari dignità a tutti gli itinerari formativi previsti dopo l’o.d.i. In altre parole, l’uscita dalla scuola per iscriversi alla formazione professionale non era più vista come un ab­ bandono, ma come un completamento nor­ male del proprio curricolo formativo in vista del conseguimento della qualifica. Ma la ri­ forma Berlinguer (L. 30/2000) ha continuato a mantenere la formazione professionale in una posizione di fondamentale marginalità e di subalternità rispetto al percorso scolastico. Quasi contemporaneamente veniva innalza­ to l’o. scolastico di un anno con la L. 9/99, e in prospettiva di due anni con la L. 30/2000: questo ha fortemente penalizzato gli ado­ lescenti, soprattutto i più svantaggiati e in difficoltà, per effetto sia dello spostamento della scelta dell’o. formativo al secondo anno della scuola secondaria superiore, sia soprat­ tutto dell’imposizione dell’o. scolastico e di frequenza ad una scuola che li costringeva a un parcheggio di un anno nelle aule sco­ lastiche. Al contrario, la riforma Moratti (L. 53/03) si è mossa nella linea della tendenza che è emersa recentemente in Europa al su­ peramento del concetto stesso di o.d.i. ed ha assicurato a ognuno il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno 12 anni o, co­ munque, sino al conseguimento di una qua­ lifica entro il diciottesimo anno di età. Da ultimo, il nuovo governo di centro-sinistra, pur deciso a mantenere come quadro gene­ rale di riferimento la riforma Moratti, e cer­ tamente con una intenzionalità positiva, ha innalzato di due anni l’o.d.i., cioè da 8 a 10 (cfr. comma 626 della L. 296/06), perché sa­ rebbero necessari per rafforzare ed elevare le competenze di base e per effettuare le scelte di indirizzo e di percorso con una maggiore

consapevolezza. Per le ragioni esposte sopra questo provvedimento mi sembra che costi­ tuisca un arretramento. Bibl.: Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con D. M. n. 672 del 18 luglio 2001, in «Annali dell’Istruzione» 47 (2001) 1/2, 3-176; M alizia G., «La legge 53/2003 nel quadro del­ la storia della riforma scolastica in Italia», in R. Franchini - R. Cerri (Edd.), Per una istruzione e formazione professionale di eccellenza, Mila­ no, Angeli, 2005, 42-63; Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commis­ sione Cultura, Scienza e Istruzione (29 giugno 2006), Roma, 2006; Nicoli D., Diritto-dovere di istruzione e formazione o o. scolastico, in «Pre­ senza CONFAP» (2006) 1-2, 53-59.

G. Malizia

OBERLIN Jean-Frédéric n. a Strasburgo nel 1740 - m. a Waldersbach nel 1826, pastore evangelico e educa­tore francese. 1. Nasce in una famiglia numerosa. Il pa­d re, professore di ginnasio, inculca nei fi­gli «abiti di ordine, di economia e di gene­rosità ver­ so i poveri». Compiuti gli studi umanistici e teologici, O. esercita l’ufficio di precetto­ re. Nel 1767 è nominato pastore di Ban de la Roche, località montuosa, tra l’Alsazia e la Lorena. La popolazione, co­stituita da rudi contadini, era per la mag­gior parte analfabe­ ta, sfruttata dai proprie­tari terrieri. Convinto dell’efficacia dell’istruzione per migliorare tale situazione, O. fornisce di scuola i vil­ laggi che comprende la parrocchia. Sulla sua esperienza si con­serva solo un regolamento inedito: Règlement de police et de discipline pour les écoles (1778). 2. L’organizzazione scolastica delineata ri­ flette il modello militare a cui O., adole­ scente, si era interessato. Gli alunni più grandi partecipano alla responsabilità del­la vita della scuola mediante l’esercizio di di­ verse cariche (le guardie, i comandanti di un plotone, il giurato, l’anziano). L’aspetto più noto e originale dell’opera sociale e educati­ va di O. è quello di aver avviato una «sorta di scuola materna» per i figli dei contadini. 809

OBIETTIVI

I bambini vengono raccolti in sa­le chiama­ te asiles, dove le «conduttrici del­l’infanzia» li lasciano giocare liberamente (a contatto con la natura, coltivando aiole e giardini) e insegnano loro «alcune regole di pulizia, l’orrore alla menzogna, il rispet­to verso i poveri», mediante il racconto di storie edi­ ficanti e attraverso l’esempio. Nella proposta si racchiudono elementi significativi della → scuola dell’infanzia. Bibl.: Stucki A., J.F.O., Basilée, [s.e.],1945; Missinne L. E., J.F.O. (1740-1826): un précurseur de la planification de l’enseignement, in «Revue de Psychologie et de Pédagogie» 29 (1967) 117, 29-32; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi, Educa­ zione e pedagogia nei solchi della storia, vol. 3, Torino, SEI, 2004, 55-58.

J. M. Prellezo

OBIETTIVI Intenti educativi, formativi o didattici che la → comunità educativa o formativa, o anche il singolo insegnante, elabora in modo chiaro e non ambiguo come riferimento esplicito per la → progettazione, conduzione e → va­ lutazione della propria → azione educativa e didattica. Si distingue spesso in base al ca­ rattere di generalità e astrattezza che assume l’espressione di tali intenti tra finalità, propo­ siti, mete e o. 1. Finalità istituzionali e o. educativi e di­ dattici. L’azione educativa che si svolge nella scuola, come ogni azione umana, è orientata verso dei fini. Discutere dei → fini dell’azione educativa scolastica è compito delle teorie dell’ → educazione e della scuo­ la. Più specifico e immediato, invece, è il di­ scorso relativo alle finalità istituzionali della scuola, finalità proprie dell’istituzione in cui si opera e che quindi superano la competen­ za del singolo insegnante, come della stessa scuola. Il processo educativo scolastico è, infatti, un processo intenzionale e l’istitu­ zione scolastica è al servizio della comunità nazionale e locale. La fonte di tali finalità sta nelle leggi e nei decreti che hanno dato origine e caratterizzazione ai vari ordini e gradi scolastici e nei programmi di studio in vigore. 810

2. O. educativi e didattici e comunità educa­ tiva. È inerente alla definizione di o. il pro­ cesso decisionale attraverso il quale la comu­ nità educativa locale giunge alla determina­ zione e alla formulazione non solo delle mete da porre a fondamento dell’azione educativa e didattica a favore di un gruppo di giovani preciso, ma anche dei modi di verifica del loro raggiungimento. Tale processo si svolge tra due poli di riferimento fondamentali: le finalità istituzionali e i bisogni di educazione dei giovani. Le prime vanno lette e interpre­ tate contestualizzandole alla cultura e alla condizione giovanile dell’ambiente in cui si opera; i secondi vanno rilevati nella maniera più fedele possibile e rispondente al tipo di intervento prefigurato e quindi interpretati alla luce dei valori e delle finalità istituzio­ nali contestualizzate. Si tratta di realizzare una vera e propria mediazione operativa tra un quadro ideale e una situazione reale, tra un dover essere e dati di fatto. Questo lavo­ ro consente anche di assegnare priorità tra i vari o. Da una parte infatti sono considerati i valori e le finalità educative secondo un or­ dine di importanza dettato da considerazioni generali, dall’altro viene studiata la distanza o discrepanza esistente tra la loro presenza ideale nei giovani e la loro attuale presenza. Questo lavoro consentirà alla comunità la scelta e l’organizzazione degli o. educativi. 3. O. educativi e o. didattici. La distinzio­ ne tra o. educativi e o. didattici può essere fatta derivare da tre elementi fondamentali (Pellerey, 1994): a) il contesto di riferimento, se cioè riguardano la crescita della persona considerata nella sua totalità (o. educativi) o se si riferiscono all’acquisizione di cono­ scenze, abilità e atteggiamenti connessi con una disciplina o un’area disciplinare parti­ colare (o. didattici); b) l’estensione tempo­ rale a cui fanno appello, se cioè riguardano una formazione da raggiungere in un lasso di tempo considerevole, al limite nel corso di tutta la vita (o. educativi), oppure mirano al conseguimento di competenze in un tem­ po ragionevolmente breve (o. didattici); c) il grado di specificità, precisione e verificabi­ lità (o. didattici), o se restano ad un livello di specificazione minore e di conseguenza la possibilità di verificarne il conseguimento è collegata a indizi e mediazioni (o. educativi). Recentemente Baldacci (2006) ha proposto

OBIETTIVI

di distinguere i due livelli, riferendo il primo ai singoli contenuti delle discipline di inse­ gnamento, e attribuendo al secondo mete a più a lungo termine, tenendo conto dello svi­ luppo di competenze e di disposizioni stabili (abiti). 4. Ruolo e funzione degli o. Il ruolo e la fun­ zione degli o. possono essere riassunti sotto quattro titoli. Il primo concerne la necessi­ tà di convergenza delle iniziative educative delle azioni e intenzioni dei singoli e dei gruppi particolari. Un secondo titolo riguar­ da la possibilità stessa di elaborare un iti­ nerario educativo e una → programmazione dei tempi, delle persone, dei luoghi e delle risorse. Gli o. sono criteri di giudizio e di decisione nella predisposizione di percorsi educativi concreti. Senza di essi è ben diffi­ cile riuscire a trovare e a selezionare quanto è necessario, o anche solo utile, alla realizza­ zione dell’impresa educativa che la comunità vuole sviluppare. Il terzo titolo si riferisce alle questioni di comunicazione. Comuni­ cazione tra gli educatori e le famiglie, tra le comunità educative e le altre comunità (ci­ vile, ecclesiastica...). I giovani da una parte debbono poter partecipare alla definizione degli o., a mano a mano che l’età e la matura­ zione personale li rendano capaci di giudizio e di discernimento (sarebbe ben strano che i primi interessati al processo formativo ve­ nissero esclusi da questo momento decisio­ nale), dall’altra debbono essere informati sia all’inizio sia costantemente circa gli intenti che guidano l’azione e l’impegno educativo dell’istituzione. Il quarto titolo è connesso con i primi. Gli o. educativi sono il concreto orizzonte di valori entro il quale la comunità educativa cammina. Costantemente quindi ci si dovrà confrontare con essi per verificare se le iniziative, il clima, i rapporti, le scelte, i risultati, sono con essi coerenti o se invece se ne discostano più o meno fortemente e per quali cause. 5. La determinazione degli o. educativi. La determinazione degli o. educativi impegna tutta la comunità educativa locale. Le stra­ de che possono essere percorse sono sostan­ zialmente tre: una ascendente, che parte cioè dalla realtà della popolazione scolastica, l’altra discendente, che cerca di derivare le indicazioni da quadri di riferimento teorici

più generali (di natura filosofica, psicologi­ ca, sociologica, ecc.); una terza che integra in maniera dinamica le prospettive dell’una e dell’altra. Quest’ultima via si basa sul concetto di bisogno educativo inteso come discrepanza, o distanza, esistente tra una si­ tuazione o stato educativo desiderato o «qua­ le dovrebbe essere» e la situazione «quale essa è». Il primo riferimento è quindi messo in relazione con un giudizio di valore, il se­ condo con una rilevazione, quanto è possibi­ le oggettiva e pertinente. La valutazione dei bisogni è in sintesi il processo che porta alla determinazione degli o. sulla base di assun­ zioni di ordine valoriale e di rilevazioni em­ piriche e che conduce alle decisioni relative all’ordine di precedenza degli interventi. Per la determinazione degli o. didattici è ormai consuetudine seguire l’impostazione sugge­ rita da R. Tyler (1949), secondo il quale, se si vuole giungere a degli o. veramente utili nel­ lo scegliere le esperienze di apprendimento più opportune e nel pilotare l’insegnamento, non basta indicare quello che farà l’insegnan­ te e nemmeno elencare gli argomenti o i con­ tenuti dell’apprendimento; occorre, invece, tenere presente contemporaneamente sia la condotta da apprendere sia l’area nella qua­ le essa deve essere esplicata. Dal momento che si tratta di due dimensioni strettamente intersecate tra di loro è naturale usare una matrice a doppia entrata dove in una dimen­ sione sono elencate le capacità che l’allievo deve sviluppare e nell’altra sono enumerate le specificazioni contenutistiche in cui tali capacità devono essere sviluppate. Negli anni sessanta e settanta sono state elaborate molte indicazioni operative basate su questa impostazione. Tra queste si possono ricorda­ re la varie tassonomie degli o. educativi, tra le quali le più diffuse furono quelle dovute a B.S. Bloom e collaboratori. 6. Gli o. comportamentali e le critiche svi­ luppate nei loro riguardi. Sono stati definiti comportamentali quegli o. che rispondono alla definizione che ne ha data R. Mager (1972, 3): «intento comunicato da una defi­ nizione che descrive un cambiamento che ci si prefigge di realizzare in un allievo: defi­ nizione di come un allievo dovrebbe com­ portarsi quando ha completato con successo una esperienza di apprendimento. È la de­ scrizione di un modello di comportamento 811

OBIETTIVI: ANALISI DEGLI

che, a nostro avviso, l’allievo deve saper esibire». Numerose critiche sono state avan­ zate nei riguardi degli o. comportamentali. Si è ad es. affermato (Eisner, 1985) che solo in parte gli o. possono essere espressi in ter­ mini comportamentali. Questo è possibile quando si tratta di abilità abbastanza preci­ se e facilmente osservabili, ma è oltremodo difficile farlo quando si tratta di processi cognitivi più generali e complessi, come la capacità di soluzione di problemi, o di at­ tività di natura espressiva i cui risultati in termini di esperienze di apprendimento non possono essere predefiniti con chiarezza in quanto dipendono da molti fattori concor­ renti. 7. Critiche alla pedagogia per o. L’impianto educativo poggiato sul principio di proget­ tazione dell’azione didattica sulla base di o. predefiniti è stato spesso contestato. In pri­ mo luogo si mette in risalto la fondamentale e irripetibile caratterizzazione dei diversi soggetti educandi. Volerli tutti imbrigliare in un unico progetto e in un analogo percorso educativo significa da una parte misconosce­ re la realtà e la dignità delle singole persone, dall’altra esporsi a brucianti delusioni e fal­ limenti. In secondo luogo si constata che è difficile prevedere in anticipo tutti i bisogni e le possibilità educative che durante l’attività formativa emergeranno. Essere prigionieri di un progetto prefabbricato rende ciechi e sordi a nuove istanze, a occasioni inaspet­ tate, a nuove presenze e a nuove prospetti­ ve. Le cose veramente importanti nel fatto educativo sono l’attività e l’esperienza che vengono proposte, che devono essere in sé cariche di potenzialità e di valori in molte direzioni. Ciascun giovane le vivrà secon­ do il suo animo e la sua motivazione, le farà fruttificare secondo i propri ritmi, il pro­ prio stile, arricchendo se stesso secondo le proprie esigenze e prospettive (Stenhouse, 1977). In terzo luogo ci si espone a pericoli di formalismo tecnicista, di burocraticismo, di comportamentismo riduttivo (Damiano, 1991). A questa serie di obiezioni si risponde generalmente con una molteplicità di argo­ mentazioni. Si afferma in primo luogo che il processo educativo promosso dalla scuola è un processo caratterizzato dall’intenziona­ lità e dalla sistematicità e quindi ha bisogno di riferimenti chiari per poter essere impo­ 812

stato, attuato e valutato. Occorre poi mettere in evidenza che non è possibile a una comu­ nità di tale fatta agire senza elaborare una ipotesi educativa, che coinvolga sia nella sua definizione, che nella sua realizzazione tut­ te le componenti interessate. Infine occorre certamente evitare tecnicismi e riduzionismi pericolosi, ma 1’azione educativa esige per sua stessa natura un riferimento progettuale sia per quanto concerne la sua dimensione etico-sociale, sia per quanto riguarda la sua componente tecnico-pratica. Bibl.: Tyler R. W., Principles of curriculum and instruction, Chicago, University of Chicago Press, 1949; Mager R., Gli o. didattici, Teramo, Lisciani e Zampetti, 1972; Id., L’analisi degli o., Ibid., 1974; Stenhouse L., Dalla scuola del pro­ gramma alla scuola del curricolo, Roma, Ar­ mando, 1977; De Landsheere V. e G., Definire gli o. dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1977; D’H ainaut L., Des fins aux objectifs de l’éducation, Bruxelles, Labor, 1979; H ameline D., Les objectifs pédagogiques, Paris, ESF, 21979; Bloom B. S. (Ed.), Tassonomia degli o. educativi: Vol. 1: Area cognitiva, Teramo, Lisciani & Giun­ ti, 1983; Bloom B. S. - D. R. K rathwohl - B. B. M asia, Tassonomia degli o. educativi: Vol. 2: Area affettiva, Ibid., 1984; Eisner E., The educa­ tional imagination: On the design and evaluation of educational programs, New York, Macmillan, 2 1985; Damiano E., La razionalità dell’insegna­ re. Per un bilancio della «Pedagogia per o.», in «Il Quadrante Scolastico» 14 (1991) 51, 10-42; Pellerey M., Progettazione didattica, Torino, SEI, 21994.

M. Pellerey

OBIETTIVI: analisi degli Dal lat. objacere (essere posto davanti), il termine o. è stato introdotto nel linguag­ gio pedagogico in polemica con «finalità» – identificata con la retorica e la vaghezza se­condo le quali si definivano tradizional­ mente le intenzionalità educative – ed ha costituito la parola-chiave di un modello didattico – la «pedagogia per o.», appunto – che si è imposto all’attenzione in Europa nella particolare congiuntura degli anni ’70. Senza entrare nel merito delle contin­genze culturali che ne avevano ispirato l’origine

OBIETTIVI: ANALISI DEGLI

(gli USA degli anni ’50 con Tyler) né del­ le «vie nazionali», che in Italia e negli altri Paesi europei l’hanno denotato in mo­di dif­ ferenziati, l’opzione a favore degli o. si giu­ stifica essenzialmente come istanza diffusa: a) per «princìpi di legittimazione», capaci di promuovere la convergenza uni­taria delle attese rivolte alla scuola; b) per «principi di organizzazione» in grado di as­sicurare l’op­ portuna razionalità strumenta­le all’azione d’insegnare. Nell’insieme, si tratta di ac­ quisire i requisiti della scientifi­cità al lavoro educativo. 1. In questo contesto, l’analisi degli o. con­ siste in una complessa e sofisticata proce­ dura di progettazione dell’insegnamento che si caratterizza per l’enfasi sui risultati attesi sui quali far leva per rendere preve­dibili e controllabili le operazioni di aula e di scuo­ la. Prescindendo dalle numerose varianti che si conoscono, la programma­zione per o. si compie attraverso due pas­saggi connessi: a) la legittimazione e b) la operazionalizza­ zione. Il primo si costrui­sce come processo di deduzione: nel qua­d ro delle finalità asse­ gnate dalla società all’istituzione scolasti­ ca, si tratta di identifi­care il cambiamento dell’alunno in quanto corrispettivo – in si­ tuazione – connotato da necessità (= quel cambiamento, e nessun altro che quello) e sufficienza (= quel cam­biamento, e solo quel­ lo). Dal punto di vista tecnico, è il riferimen­ to al tempo di realiz­zazione – medio e breve termine – che consente di tradurre la «fina­ lità» in «o.» pertinenti. La deduzione con­ sente inoltre di coprire altre dimensioni del progetto pedagogico-scolastico: all’interno, orienta­re sul piano etico e attivare a livello socio-emotivo il consenso degli insegnan­ ti; all’e­sterno, accreditare le intenzionalità forma­tive della scuola presso il pubblico, in particolare le famiglie, invitati a condi­videre ed a sostenere l’impegno degli inse­g nanti. Il secondo passaggio è più articola­to per­ ché investe il campo decisionale del­l’azione didattica, ovvero il calcolo delle condizioni d’esercizio utile a ridurre l’incertezza delle scelte da compiere in molte­plici direzioni e in tempo reale. Il disposi­tivo contempla: a) La valutazione antici­pata, ovvero (I) la for­ mulazione rigorosa del cambiamento atte­ so, tale da indicare le azioni dell’alunno in un contesto dato, e i criteri in base al quale

potranno essere ri­conosciute dall’insegnan­ te, e (II) la classi­ficazione delle prestazioni dell’alunno, in modo da indicare i criteri in base ai quali potranno essere apprezzate dall’insegnan­te (a questo proposito si adot­ tano tassono­mie, più o meno standardizzate – per ren­dere comparabili i giudizi – e dif­ ferenziate a seconda degli ambiti curricolari mirati). b) Il disegno della conduzione, ovve­ ro (III) la selezione dei contenuti, (IV) la de­ terminazione della sequenza metodologi­ca, dei raggruppamenti degli alunni, delle tecni­ che e dei materiali, (V) il computo dei tempi necessari e degli spazi arredati uti­lizzabili. c) Il controllo di fattibilità, ovvero (VI) l’ac­ certamento dei prerequisiti pres­so gli alunni ed, eventualmente (VII) in­terventi resi op­ portuni per mettere gli alunni in condizione di seguire proficua­mente l’attività didattica predisposta. 2. Il successo della «pedagogia per o.» pres­so l’amministrazione scolastica e gli inse­g nanti è apparso vasto e immediato, presu­m ibilmente perché ha consentito di razio­nalizzare le pratiche didattiche e di pro­ muovere efficacemente l’immagine profes­ sionale. Frequenti, tuttavia, e numerose so­no le obiezioni mosse a questa strategia di pro­ grammazione: – innanzitutto la labo­r iosità della procedura, che richiede com­petenze elevate, non facilmente reperibili presso gli insegnanti, e la macchinosità, che richiede tempi e impegni di coordinamento proibiti­ vi; – la difficoltà di anticipare la va­lutazione, rappresentandosi nella fase di progettazione gli esiti di un’attività forma­tiva non ancora esperita e comunque frutto dell’interazio­ ne, non sempre né facilmen­te prevedibile, con gli studenti; – il riduzio­nismo imposto dall’uso dei verbi d’azione per rendere «vi­ sibili» i cambiamenti voluti presso gli alunni quando riguardano cono­scenze e competen­ ze cognitive profonde; – gli ostacoli opposti dalla struttura retico­lare delle discipline di studio ad essere or­dinate in strumenti lineari come le tasso­nomie; – l’inopportunità di per­ corsi preco­stituiti per un’azione come l’inse­ gnamento, che si costruisce integrando gli studenti e adattandosi flessibilmente ai loro compor­tamenti. 3. A seguito della discussione critica (av­ viata, lealmente, all’interno del movimento 813

OCEANIA: SISTEMI EDUCATIVI

medesimo), ma anche a fronte di reazioni polemiche quando non preconcette, oggi della Pedagogia per O. restano fuori gli estremi, come la «operazionalizzazione», la limitazione degli o. all’interno del «domi­ nio» motorio, pratico e cognitivo di rango inferiore (ad esclusione, quindi, dell’ambi­ to più pregnante sul piano educativo, come sociale-emotivo-affettivo e, a scuola, del li­ vello cognitivo più avanzato), il ricorso per approssimazione di massima alle tassono­ mie (soprattutto a riguardo della loro «line­ arità»), il rifiuto netto di indicatori «metri­ ci» e quantitativi all’atto della valutazione, l’ammissione di frammentarietà (e nume­ rosità) degli o. Buttata via l’acqua sporca (soltanto?), resta una sorta di «canone» della programmazione – lo schema O.-MetodiContenuti-Valutazione – il nucleo di un’idea d’insegnamento concepito come attività ra­ zionale, una sorta di «sentire comune» con­ solidato, ormai divenuto patrimonio genera­ le. Oggi è la «Pedagogia delle Competenze» che si presenta come una evoluzione non di­ fensiva della Pedagogia per O. e ripropone lo stesso orientamento di fondo, adattato ad una congiuntura culturale ben diversa dagli anni della sua affermazione istituzionale. Bibl.: Meyer H. L., Introduzione alla metodolo­ gia del curriculum, Roma, Armando, 1977; De Landsheere G. e V., Definire gli o. dell’educa­ zione, Fi­renze, La Nuova Italia, 1977; Birzea C., Gli o. edu­cativi nella programmazione, Torino, Loescher, 1979; Filograsso N., Gli o. dell’edu­ cazione. Fon­damenti epistemologici, Venezia, Marsilio, 1979; Gage N. L., The paradigms wars and their aftermath: A ‘historical’ sketch of re­ search on teaching since l989, in «Educational researcher» (l989) 7, 4-10; Boselli G., Postpro­ grammazione, Firenze, La Nuova Italia, l991; P ellerey M., Progettazione didattica, Torino, SEI, 21994; Crispiani P. - N. Serio (Edd.), Ma­ nifesto sulla progettazione. Testo e commento al Manifesto di Chiaravalle, Roma, Armando, l996; Damiano E., Didattica ed epistemologia. Indagine sui fondamenti di alcuni modelli d’in­ segnamento, in «Pedagogia e Vita» (2004) 4, 75-106.

E. Damiano

OBIEZIONE DI COSCIENZA → Servizio ci­ vile volontario OCCUPAZIONE → Lavoro

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OCEANIA: sistemi educativi In quella che E. Sabatier chiamava la «via lattea terrestre» l’universo educativo ap­pare altrettanto differenziato e costituito da pic­ cole unità indipendenti. Sebbene le nume­ rose isole dell’Oceano Pacifico si trovino vicino a paesi altamente industria­lizzati, non condividono con essi i concet­ti di «svilup­ po» e di «povertà», mentre prevale la norma etico-culturale del self-help. Dell’O. fanno parte tre grandi com­plessi insulari: Melane­ sia, Micronesia, Po­linesia. 1. L’istruzione in Melanesia (Papuasia Nuo­ va Guinea, Isole Salomone, Nuova Cale­ donia, Figi, Vanuatu). In Papuasia Nuova Guinea e nelle Isole Salomone l’istruzione formalmente intesa inizia con l’arrivo de­gli europei e con le missioni cristiane dive­nute stabili dal 1870. Nel 1873 la «London Mis­ sionary Society» lancia il primo pro­gramma di alfabetizzazione ed apre la pri­ma scuola di formazione degli insegnanti a Port Moresby. Dal punto di vista ammini­strativo vige il de­ centramento dei poteri ed ogni responsabi­ lità scolastica è di compe­tenza provinciale. L’istruzione non è obbli­gatoria. La primaria (community schools) inizia a 7 anni e dura 6 anni. La secondaria comincia a 13 anni e prevede dai 4 ai 6 an­ni di studio, 5 nelle Isole Salomone. La fre­quenza della scuola non è generalizzata e diminuisce sensibilmente al livello secon­dario; anche per questa ragione i curricoli sono predisposti in modo da fa­ vorire il reinserimento dei ragazzi, soprat­ tutto se provenienti dalle aree rurali. Dopo il deci­mo anno di scuola inizia l’istruzione al ter­zo livello che comprende l’università, i cen­t ri per la formazione dei docenti, gli istitu­ti tecnici, collegi statali e non statali. Gli indirizzi maggiormente potenziati sono quelli di carattere economico. Dal 1977 ad Honiara (Isole Salomone) funziona il Cen­t ro dell’Università del Pacifico del Sud. Nella Nuova Caledonia la prima scuola aperta dal governo francese risale al 1860. Dopo l’au­ tonomia (1976), l’istruzione pre­primaria (4-6 anni di età) e quella prima­ria, quinquennale, sono di responsabilità locale, mentre la scuo­ la secondaria, settennale (4+3 anni di corso) e l’istruzione di terzo livello seguono le di­ rettive della Francia. Nelle scuole si insegna in fr. ed il modello di insegnamento è quello

OCEANIA: SISTEMI EDUCATIVI

della scuola francese. L’obbligo dura fino a 14 anni. In tutta la Melanesia è rilevante l’ab­ bandono della scuola anche per la seletti­vità delle prove di passaggio da un livello all’al­ tro. Il fenomeno interessa in minor misura i bambini europei. Per l’istruzione superiore in genere i giovani si recano nel­le università francesi. L’arcipelago delle Fi­gi, indipenden­ te dalla corona britannica dal 1970, continua a mantenere legami po­litici e sociali con il Regno Unito, la Nuova Zelanda, l’Australia attraverso l’apparte­nenza al Commonwealth Britannico, non­ché con l’India dal momento che dal 1879 vi è stata un’alta immigrazione di lavorato­r i indiani. La scuola fu di inizia­ tiva meto­dista (sec. XIX) ed ancora oggi la chiesa metodista risulta la più seguita. Anche nel­le Figi l’istruzione non è obbligatoria, seb­ bene ci siano piani volti alla generalizza­zione dell’istruzione per i primi 10 anni di scuo­ la. Le scuole multirazziali convivono con le scuole dove vi è una unica compo­nente etni­ ca. Nell’arcipelago è organizzata la formazio­ ne degli insegnanti della secon­daria; possono essere conseguiti i titoli di bachelor, master, Ph.D.; sono predisposti corsi di educazione degli adulti e per corri­spondenza. A Vanuatu (ex Isole Ebridi) si parlano più di 100 dialet­ ti melanesiani ol­t re a fr. e ingl., bislama (il cosiddetto ingl. pidgin nato dall’incontro tra lingua euro­pea e lingua locale). Ancora negli anni ’80 l’analfabetismo adulto (oltre 15 anni di età) è intorno al 47%. Dall’indipenden­ za (1980) Vanuatu cerca di emanciparsi dai precedenti modelli educativi coloniali, pro­ muovendo un sistema nazionale d’istruzio­ne a livello di scuola secondaria. 2. L’istruzione in Micronesia (Isole Caroli­ ne, Isole Marshall, Marianne settentriona­li, Kiribati). Dalla dissoluzione del prece­dente «Territorio di amministrazione fidu­ciaria degli USA» (1947) nasce nel 1986 la Confe­ derazione degli Stati della Microne­sia (Yap, Truk, Pohnpei, Kosrae) che con Palau forma l’arcipelago delle Isole Caro­line. Nel 1989 solo la Repubblica di Palau continua a far parte del precedente «Terri­torio». Progres­ sivamente gli USA hanno cessato di essere presenti con l’ammini­strazione fiduciaria, ma restano responsa­bili per la difesa e gli aiuti economici. In Micronesia l’obbligo va dai 6 ai 14 anni di età e l’offerta di istruzione copre i tre livel­li. Gli insegnanti sono formati nel

Community College (Marianne settentrio­ nali) ed in base ai programmi comuni alle Univer­sità di Guam e delle Hawaii, esperti dell’e­ducazione bilingue producono materiali di­dattici e sussidi nelle sette maggiori lingue micronesiane. Kiribati, ex Isole Gilbert bri­ tanniche, è in­dipendente dal 1979. Su questi atolli l’i­struzione è obbligatoria da 6 a 15 anni di età (6 anni di primaria e almeno 3 di secon­ daria) e funziona il collegamento via satellite con l’Università del Pacifico del Sud (Figi). 3. L’istruzione in Polinesia (Nuova Zelan­da, Isole Cook, Niue, Tokelau, Tonga, Sa­moa, Polinesia francese, Tuvalu, Isole Wallis e Fu­ tuna). I Maori, primi abitanti della Nuova Ze­ landa, rappresentano oggi circa il 12% della popolazione e il passato colo­niale britanni­ co (1792-1947) si fa ancora sentire nell’im­ postazione dell’educazione. La preprimaria (4-5 anni) è organizzata in modi diversi ed è significativo che nella co­munità dei Maori sono le madri stesse a se­g uire i figli. L’istru­ zione obbligatoria e gra­t uita, di competenza delle autorità distret­t uali, va dai 5 o 6 ai 15 anni di età (primaria + secondaria di primo ciclo). L’istruzione al secondo livello riceve fondi dal Ministe­ro dell’Istruzione. Servizi specifici sono of­ferti a coloro che vivono nel­ le zone più in­terne (corsi per corrisponden­ za) e ai por­tatori di handicap. Al terzo livello d’istru­zione si accede previo superamento di ap­positi esami. Diverse iniziative riguardano l’educazione degli adulti ed altrettanto cu­ rata è la ricerca pedagogica, il New Zealand Council for Educational Research è attivo dal 1934. Le Isole Cook, Niue, Toke­lau sono territori autonomi uniti alla Nuo­va Zelanda da un’associazione libera che contempla la cittadinanza neozelandese, aiuti economici, scambio di personale e materiale scolastico. Nelle Isole Cook la prima istruzione forma­ le su modello occi­dentale fu introdotta dal missionario J. Williams (1823); in preceden­ za l’educazio­ne dell’infanzia era di esclusiva competen­za della famiglia e degli anziani. Oggi si prevedono dieci anni di obbligo sco­ lastico (6-16 anni di età). L’istruzione secon­ daria è offerta presso Colleges locali e per l’u­niversità i giovani si recano nelle Figi, in Papuasia-Nuova Guinea, in Australia, nel­le Samoa occidentali. Accanto alla scuola sta­ tale funziona la scuola non statale ad opera delle missioni, cristiane. A Niue e a Tonga 815

OFFERTA FORMATIVA: PIANO DELLA

l’obbligo è dai 6 ai 14 anni. L’arci­pelago delle Samoa, già occupato dagli Olandesi (1722), passò nel 1900 agli USA (l’Est) e alla Ger­ mania (l’Ovest). Nelle Sa­moa occidentali, indipendenti dal 1962, l’obbligo è di 11 anni (3+3+2+3) e sussisto­no i due modelli educa­ tivi: quello tradizionale fondato sulla vita del villaggio, e quel­lo occidentale. Nelle Samoa orientali alla primaria di 8 anni segue la se­ condaria di 4 anni. In genere nelle scuole primarie viene mantenuta la lingua locale, mentre nelle secondarie si insegna in ingl. nella Poline­sia francese l’obbligo è dai 6 ai 14 anni, la secondaria è sia statale che con­ fessionale, e dal 1986 il governo francese ha promosso la costruzione di una università a Tahiti. A Tuvalu, già Isole Ellice, la scuola primaria dura 7 anni e la secondaria 3 anni con un sistema di studio e di valutazione che ri­prende quello ingl. nelle Isole Wallis e Fu­ tuna la scuola segue il modello francese. 4. Problemi in discussione. Questioni aper­ te restano: a) la decolonizzazione delle aree ancora politicamente dipendenti e la cre­ azione di modelli educativi autonomi; b) il finanziamento di piani per superare l’analfa­ betismo e promuovere lo sviluppo dell’istru­ zione obbligatoria, nonché la qua­lificazione professionale dei giovani; c) la pressione del movimento antinucleare che prefigura un al­ tro ecosistema globale; d) la creazione della Comunità del Pacifico utile anche all’istru­ zione a distanza. Bibl.: Cantero C. L., The evolution of formal education in Micronesia. A future prospects, in «Asian Culture Quarterly» 12 (1984) 3, 91-96; Thomas R. M. - T. N. Postlethwaite (Edd.), Schooling in the Pacific Islands. Colonies in transition, Oxford, Pergamon, 1984; M arshall J. - M. Peters, Te Reo O Te Tai Tokerau. The as­ sessment of oral Maori, in «Journal of Multilin­ gual and Multicultural Development» 10 (1989) 6, 499-514; Chistolini S., «Australia e O., Edu­ cazione», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia peda­ gogica. Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, 106-108; Garzella S., Sottosopra: scrittori con­ temporanei del Sud Pacifico, Roma, Robin, 2006; Mapelli N., O.: oltre l’orizzonte dei Mari del Sud, Roma, Bulzoni, 2006.

S. Chistolini

ocse → Organizzazioni internazionali

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Offerta formativa: piano della 1. Il Piano dell’o.f. (Pof) nella normativa. Art. 3 del Dpr. 275/99: «1. Ogni istituzione scolastica predispone, con la partecipazione di tutte le sue componenti, il piano dell’o.f. Il piano è il documento fondamentale costituti­ vo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la proget­ tazione curricolare, extracurricolare, educa­ tiva ed organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia. 2. Il piano dell’o.f. è coerente con gli obiettivi generali ed educativi dei diversi tipi di indi­ rizzi di studi determinati a livello nazionale a norma dell’articolo 8 e riflette le esigenze del contesto culturale, sociale ed economi­ co della realtà locale, tenendo conto della programmazione territoriale dell’o.f. Esso comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, e valorizza le corrispondenti professionalità». Commi 1 e 2 dell’art. 9 del Dpr. 275/99: si parla di «ampliamenti dell’o.f. che tengano conto delle esigenze del contesto cultura­ le, sociale ed economico delle realtà locali. I predetti ampliamenti consistono in ogni iniziativa coerente con le proprie finalità, in favore dei propri alunni e, coordinandosi con eventuali iniziative promosse dagli enti locali, in favore della popolazione giovanile e degli adulti. I curricoli determinati a nor­ ma dell’articolo 8 possono essere arricchiti con discipline e attività facoltative che, per la realizzazione di percorsi formativi integrati, le istituzioni scolastiche programmano sulla base di accordi con le regioni e gli enti lo­ cali». 2. Il Pof in un’ottica statalista. Per ragioni storiche, quando, nel nostro Paese, si im­ piega l’espressione «ottica statalista», si in­ tendono richiamare due qualificazioni. La prima presuppone legittimo e doveroso un sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione costituito in maniera monopo­ listica o quasi-monopolistica da istituzioni scolastiche statali. La seconda ritiene che tale sistema possa funzionare bene, garantendo equità e qualità a livello nazionale, soltanto se organizzato al proprio interno in maniera piramidale, gerarchica e centralista (gli sto­ rici dicono ‘napoleonica’). Questa modalità organizzativa si riferisce sia ad una burocra­

OFFERTA FORMATIVA: PIANO DELLA

zia statale (centrale, regionale, provinciale, di scuola) che «obbedisca» alle direttive di metodo e di contenuto emanate dal vertice, il Ministro della P.I., sia ad una burocrazia locale, di scuola, fondata su un «potere» gerarchico dei «dirigenti sui dipendenti» o, comunque, di gruppi elitari sull’insieme dei docenti, degli studenti e delle famiglie. 2.1. Redigere il Pof in quest’ottica, significa, dunque, da un lato, costruirlo con il meto­ do della «modularità aggiuntiva». Il centro detta sia il curricolo nazionale, quello ugua­ le per tutte le scuole della Repubblica (art. 8 del Dpr. 275/99), sia i limiti formali del suo possibile adattamento alla realtà locale (per es., affidare il 20% delle ore del curricolo na­ zionale all’autonomia delle singole istituzio­ ni scolastiche). Ogni scuola, sulla base delle «esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale» e «tenen­ do conto della programmazione territoriale dell’o.f.» deliberata dagli enti locali, nonché delle eventuali risorse aggiuntive messe a di­ sposizione da questi ultimi, stabilisce succes­ sivamente: a) la parte del curricolo nazionale obbligatorio, che non modifica; b) gli adatta­ menti locali al curricolo nazionale obbliga­ torio, nella misura autorizzata dalle norme nazionali; c) l’eventuale integrazione locale del curricolo nazionale con attività opzionali obbligatorie o facoltative; d) le modalità or­ ganizzative (tempi, luoghi, risorse) con cui intende concretizzare i punti precedenti. 2.2. Dall’altro lato, redigere il Pof nell’ot­ tica statalista significa, inoltre, attribuire a questo documento il ruolo e la funzione che un tempo erano svolti dai Programmi di in­ segnamento ministeriali e dalle disposizio­ ni emanate dal Ministero per attuarli. Così come studenti, docenti e famiglie dovevano «obbedire» alle norme ministeriali romane, analogamente essi dovrebbero ora «obbedi­ re» alle disposizioni contenute nel Pof. Per quanto il Pof «vada costruito nella scuola» e per quanto «tale costruzione debba permet­ tere l’accordo tra istanza centrale, normativa e unitaria, ed istanza locale, pragmatica e flessibile» non viene meno il fatto che si trat­ ti comunque di un prodotto elaborato in ma­ niera elitaria e verticistica, sottratto alla ne­ goziazione diretta e cooperativa degli attori poi direttamente coinvolti nella sua pretesa azione formativa in situazione (i concreti studenti di un gruppo classe, i loro concre­

ti genitori, i docenti realmente presenti con loro). 3. Il Pof in un’ottica sussidiaria. Ben altre caratteristiche assume il Pof se, superando le inerzie della logica statalista, si inserisce nell’ottica della sussidiarietà e dell’autono­ mia (L. n. 59/97, Dpr. 275/99, L. n. 62/2000; riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, L. n. 53/03). In questo caso, esso, an­ zitutto, implica un sistema educativo nazio­ nale composto da istituzioni scolastiche sta­ tali e non statali, in regime di equipollenza e di parità anche economica. In quanto do­ cumento «costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche», diventa, perciò, lo strumento che garanti­ sce alle famiglie (art. 21, L. n. 59/97; L. n. 62/2000, L. n. 53/03) la libertà di scegliere, per i figli, una scuola nella quale, fatti salvi i comuni valori costituzionali, si professino comunque processi educativi e didattici, con relative ricadute organizzative, coerenti con le convinzioni condivise dai genitori. In se­ condo luogo, il Pof non è più il risultato di una costruzione modulare aggiuntiva, con il centro responsabile della predisposizione del nucleo curricolare da riproporre poi uguale in tutto il Paese e la periferia incaricata sia di adattare in parte tale nucleo uniforme, sia di arricchirlo con eventuali addizioni. Diventa piuttosto, in tutte le sue parti, il prodotto di una progettualità pedagogica che coinvol­ ge cooperativamente e protagonisticamente tutti i soggetti concreti del processo educa­ tivo che si promuove in una scuola, e per la sua intera durata. Ciò è possibile, da un lato, se il centro non pretende più di interpreta­ re il dispositivo dell’art. 8 del Dpr. 275/99 come una variabile dei vecchi Programmi di insegnamento, ma ragiona solo per norme generali sull’istruzione e livelli essenziali di prestazione sull’istruzione e formazione professionale, cioè per vincoli da assegnare all’autonoma e responsabile azione proget­ tuale dei docenti e delle scuole (art. 33 della Costituzione e L. n. 53/53). Dall’altro, se an­ che a livello di scuola si procede allo stesso modo: non più, quindi, confezionare prima dell’inizio dell’anno un Pof che i docenti e le famiglie sono poi tenuti ad applicare e, quindi, a considerare alla stregua dei vecchi Programmi di insegnamento, ma attribuire al Pof la funzione di precisare i vincoli di 817

OMERO

risorsa e di risultato che docenti, studenti e famiglie dovranno considerare per progetta­ re ed attuare, in autonomia e responsabilità, i contenuti, i metodi, i tempi ecc. della pro­ pria azione educativa. In questa prospettiva, come peraltro ricorda l’art. 3, comma 2 del DPR 275/99, il Pof diventa davvero lo stru­ mento che «comprende e riconosce le diver­ se opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari» che lavorano nella scuola e fa­ vorisce, di conseguenza, i processi di conti­ nua presa in carico personale dei compiti di insegnamento e apprendimento da parte di tutti gli attori dei processi educativi, in ogni momento della vita della scuola. Bibl.: Bertagna G. - S. Govi - M. Pavone, Pof. Autonomia delle scuole e o.f., Brescia, La Scuola, 2001; Bertagna G., Valutare tutti, valutare cia­ scuno. Una prospettiva pedagogica, Ibid., 2004; I d., Pensiero manuale. La scommessa di un si­ stema di istruzione e di formazione di pari digni­ tà, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006 (parte II e conclusioni); Id., «La figura del docente nella riforma», in CSSC-Centro Studi per la Scuola Cattolica, Il ruolo degli insegnanti nella scuola cattolica. Scuola cattolica in Italia, Ottavo Rap­ porto, Brescia, La Scuola, 2006.

G. Bertagna

OMERO Vissuto tra il IX e l’VIII sec. a.C., è chia­ mato per antonomasia «l’educatore della Grecia», in quanto è all’origine della cul­ tura greca, non solo cronologicamente, ma perché coglie e comunica con la forza del­ la poesia epica alcune linee di formazione umana, che restano comune retaggio di tut­ ta la cultura greca. 1. Ne indichiamo in sintesi gli elementi essen­ ziali, senza fermarci sul cosiddetto problema omerico (identità e unicità del poeta designa­ to con questo nome). O. è, in primo luogo, testimone e trasmettitore di una tradizione culturale precedente (il cosiddetto Medioevo greco) che sopravvive e diventa patrimonio culturale attraverso i suoi poemi: l’Iliade e l’Odissea. È pure testimone di un tipo di educazione che si attuò nel ceto aristocrati­ co delle corti (il re e i suoi nobili guerrieri), 818

sia come ideale di areté, sia come processo di formazione dei giovani nella vita della corte e all’arte militare. L’ideale aristocratico, come realizzazione superiore di umanità, risulta così punto di partenza per la visione greca dell’uomo e della sua formazione. Tale ide­ ale O. canta, con incomparabile ispirazione poetica, nelle figure degli Eroi; perciò esso è chiamato ideale eroico: l’eroe impersona un tipo di areté (nel senso di pieno valore uma­ no) che si afferma come paradigma e punto di riferimento per tutte le successive fasi del­ la cultura/paideia greca. Con ciò O. realizza anche, in modo eminente, la caratteristica del popolo greco di avere nei poeti (insieme ai filosofi e ai politici) una fonte della sua → pai­ deia e dimostra la forza pedagogica in parti­ colare della poesia epica in quanto trasmetti­ trice di paradigmi di umanità. 2. I contenuti di paideia sono notevolmente diversi nelle due epopee, l’Iliade e l’Odissea, come diverso è l’ambiente in cui gli eroi sono collocati: quello guerriero nella prima; quello civile nella seconda. Il valore paradigmatico delle figure degli eroi omerici sta soprattutto nell’eccellenza dell’ideale umano ricercato e celebrato e nell’equilibrio degli elementi che lo compongono e che, unitamente, formano areté. Ciò interpreta il senso di completezza, costante nell’ideale formativo greco. La ricer­ ca dell’eccellenza (il dover essere migliore di tutti, la celebrazione dell’aristéia dell’eroe) traduce il bisogno dell’attuazione più perfet­ ta del valore umano (areté appunto). L’equi­ librio (o integralità) è dato, nel paradigma dell’eroe, dalla ricerca e realizzazione non solo del valore militare, ma, insieme, della saggezza. Integrazione, quindi, di interiorità ed esteriorità, indicata da O. nell’espressio­ ne: «essere dicitore di discorsi e operatore di azioni», che intende caratterizzare l’eroe. Una sintesi in cui rientrano le molteplici doti dell’ideale cavalleresco. La ricerca e celebra­ zione della propria eccellenza comportano anche una particolare visione etica, propria dell’areté eroica: l’etica dell’onore, da non svilirsi in vuota ambizione, ma da conside­ rare come il bisogno dell’eroe di una verifica e una comprova dell’eccellenza raggiunta. 3. O. previene pure la polemica sull’insegna­ bilità dell’areté (→ Grecia: educazione), non solo perché egli stesso compie un’opera di

OMOSESSUALITÀ

educazione del popolo greco, ma perché la stessa formazione degli eroi è frutto di un in­ tervento (o addirittura di un mandato) educa­ tivo (per es. il centauro Chirone e Fenice per Achille nell’Iliade; Mentore-Atena per Tele­ maco, figlio di Ulisse, nell’Odissea). L’are­ té virile ha certo il primo posto nei poemi omerici. È tuttavia celebrato anche l’ideale femminile, in modo suggestivo (si ricordino, per es., le figure di Clitemnestra, di Crisei­ de, di Penelope, di Nausicaa) e con la stessa esigenza di integralità: al binomio «operato­ re di azioni e dicitore di discorsi» dell’eroe corrispondono bellezza e saggezza e abilità domestiche nell’ideale della donna. Bibl.: a) Fonti: Iliade, trad. it. di G. Tonna, introd. di F. Codino, Milano, Garzanti, 1983; Odissea, trad. it. di G. Tonna, introd. di F. Codino, Ibid., 1985. b) Studi: Jaeger W., Paideia. La forma­ zione dell’uomo greco, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; Marrou H. I., Storia dell’educazio­ ne nell’Antichità, Roma, Studium, 1994; Montanari F. (Ed.), O. Gli aedi, i poemi, gli interpreti, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1998.

M. Simoncelli

OMOSESSUALITÀ L’o. vera e propria costituisce una condizio­ ne abbastanza ben definita, non assimilabile con alcune forme di comportamento sessual­ mente invertito temporanee od occasionali. L’attrazione erotica verso il proprio sesso e la ripulsione, spesso invincibile per quello complementare hanno nell’o. vera e propria un carattere di esclusività e stabilità, che ne fanno una vera struttura psichica. 1. Tale situazione non è il prodotto di una scelta; in se stessa non ha quindi una vera e propria rilevanza etica in senso proprio. Si dice a volte che essa è una condizione natu­ rale. Dicendo questo, oggi si fa spesso non tanto una constatazione ovvia sulla non vo­ lontarietà di questa condizione, ma una va­ lutazione discutibile di natura ultimamente etica sul comportamento omosessuale che viene così giudicato non moralmente diver­ so da quello eterosessuale. Naturalmente si tratta di un equivoco: quando si parla di na­ tura in questo campo, il criterio di riferimen­

to non può prescindere dall’ → etica. E dal punto di vista etico, l’omosessuale può esse­ re un peccatore o un santo, ma il suo modello di sessualità non è un modello vero: è in sé una forma mancante della sua regola, quali ne possano essere la volontarietà e l’eventua­ le colpevolezza soggettiva. L’individuazione, finora purtroppo solo incerta, delle sue cause, se può avere un grande interesse dal punto di vista clinico, non può dirci nulla sulla col­ pevolezza soggettiva dell’omosessuale: avere delle tendenze non è in sé peccato, come non lo è il soffrire di qualsiasi altra forma di per­ versione sessuale. Diversa, e comunque non facile sarà la valutazione del comportamento omosessuale soggettivo. 2. Il motivo fondamentale della sua oggettiva negatività è naturalmente l’inautenticità di un gesto d’amore che non rispetta il signifi­ cato oggettivo e le leggi interne del linguag­ gio della sessualità. Questo non dice nulla sulla qualità psicologica dell’amore omoero­ tico; ma tale qualità non può essere l’unica ragione della valutazione etica: la qualità eti­ ca del linguaggio di questo amore, non può essere ignorata in questa valutazione. A una valutazione così negativa del comportamen­ to preso in sé stesso, non può naturalmente corrispondere sempre un giudizio altrettanto negativo sulla responsabilità, e quindi sulla effettiva qualità morale, dei singoli sogget­ ti. In misura varia, ma spesso molto grande, questo comportamento sembra essere condi­ zionato da meccanismi psicologici che dimi­ nuiscono, fino ad annullare, la volontarietà e la responsabilità morale della persona. 3. Il comportamento nei confronti dell’o. si ispirerà pertanto a criteri educativi, non na­ turalmente nel senso di considerare l’omo­ sessuale come un «minore», ma nel senso di aprirgli il più largo orizzonte, a lui concreta­ mente possibile di maturazione umana e di vera → autorealizzazione. L’atteggiamento di base dovrà essere la totale accettazione dell’omosessuale come persona, la compren­ sione del suo dramma, la solidarietà leale con le sue sofferenze e i suoi problemi. Si cerche­ rà di rompere la barriera della solitudine e dell’incomunicabilità, che la società spesso erige nei suoi confronti, e che rappresenta il principale ostacolo al suo ricupero anche morale. Ci si dovrà chiedere quale sia l’ideale 819

OPINIONE

umano di vita più ordinata e più umanamente ricca a lui concretamente possibile. Quando egli fosse veramente disposto a percorrere fino in fondo il difficile itinerario di un riordi­ namento totale della sua vita, tale ideale, sup­ posta l’impossibilità di una vera guarigione clinica, si aprirebbe, nel suo livello più alto, a una astinenza totale e alla sublimazione della sua libido nelle attività superiori dello spirito. Questo peraltro potrà essere raggiunto, anche nella migliore delle ipotesi, solo gradualmen­ te, attraversando, non senza gravi lotte, le tappe intermedie di volta in volta concreta­ mente possibili. Ma, anche se si deve ricono­ scere che l’amicizia omosessuale che si espri­ me anche sessualmente costituisce un male meno grave della promiscuità risultante da relazioni sessuali con compagni che mutano continuamente, essa va ritenuta moralmente difendibile solo alla condizione che sia solo una piattaforma per il decollo di una libera­ zione ulteriore e si accompagni quindi con un certo impegno di graduale ridimensionamen­ to del peso della sessualità e dei suoi appetiti nel complesso della vita. Bibl.: Overing et al., L’o., Brescia, Queriniana, 1967; Bottani A. (Ed.), Educazione alla sessua­ lità, Milano, Ancora, 1982; Gius E., Una messa a punto della o., Torino, Marietti, 1972; Kosnik A. et al., La sessualità umana, Brescia, Queriniana, 1978; Thévenot X., Homosexualités masculines et morale chrétienne, Paris, Du Cerf, 1985; Teisa S., O. e vita morale: tentativo di un approccio integrato, Roma, P. Studiorum Universitas a S. Thoma Aq., 2001; Lacroix X., In principio la dif­ ferenza: o., matrimonio, adozione, Milano, Vita e Pensiero, 2006.

G. Gatti

ONESTÀ → Educazione morale → Virtù ONU → Organizzazioni internazionali OPEN UNIVERSITY → Insegnamento a di­ stanza OPERATORE → Formazione professionale → Servizi sociali

OPINIONE Nella considerazione della paideia classica l’o. (dal gr. doxa da dokéo: io ritengo, sono dell’o.) risponde ad una conoscenza piuttosto 820

superficiale e condivisa; contro l’o. un’edu­ cazione autentica è in dovere di mettere in atto strategie di verifica e di autenticazione. 1. Il metodo maieutico socratico compren­ de appunto come prima tappa la denuncia dell’o.: «la domanda» che → Socrate formula magistralmente tende sia a porre a confronto le varie o. per verificarne la contraddizione e quindi l’inconsistenza (→ Platone, Sofista, 230) sia a denunciare la superficialità che di­ sattende aspetti più profondi e risolutivi della questione. In ambito filosofico il riferimento alle o. altrui, specialmente quelle della tradi­ zione, è sempre stato importante: ha costitu­ ito il presupposto su cui articolare un’argo­ mentazione consapevole e rigorosa. 2. Nella più recente riflessione neoscolastica il confronto con le o. ha assunto una sfuma­ tura piuttosto apologetica e talora polemica, dovuta anche al difficile rapporto della rifles­ sione cristiana con la cultura moderna. Nella ricerca contemporanea l’aspetto polemico è notevolmente rientrato: la pluralità delle culture e la consapevolezza della parzialità insita in ogni affermazione ha dato rilevanza alla diversità delle o., di cui si tende a valo­ rizzare la complementarità. Sul piano sociale l’o. pubblica è luogo di raccordo di volontà e di giudizi per effetto di scambi di comunica­ zioni e di esperienze. Essa appare come ele­ mento unificante l’organizzazione di gruppo e della società per il suo ruolo di controllo e di omologazione dei comportamenti. 3. Sul versante specificamente educativo l’o. assume oggi singolare rilevanza: si è chiara­ mente avvertita l’importanza che il contesto e l’ambiente culturale assumono nella for­ mazione della persona: donde l’attenzione ai → mass media, come fonte di informazione diffusa che fa o. Anche per quanto concerne l’elaborazione del processo educativo l’at­ tenzione centrata sul soggetto e la sua reale situazione cognitiva ed esistenziale costitui­ scono il presupposto obbligato per calibrare l’intervento educativo, specialmente là dove si privilegiano metodologie induttive. Bibl.: Jaeger W., La formazione dell’uomo gre­ co, Firenze, La Nuova Italia, 1970; A pel K. O., Comunità e comunicazione, Torino, RosenbergSellier, 1977; R ibolzi L., Processi formativi e

ORATORIO

strutture sociali, Brescia, La Scuola, 1984; Gergen M. M., Psicologia sociale, Bologna, Il Muli­ no, 1985; Cesareo V., La società flessibile, Mi­ lano, Angeli, 1987; Habermas J., La rivoluzione in corso, Milano, Feltrinelli, 1990; R icoeur P., Critica e convinzione, Milano, Jaca Book, 1997.

Z. Trenti

OPUS DEI → Movimenti ecclesiali

ORATORIANI Movimento spirituale-pedagogico francese Movimento spirituale-pedagogico italiano. 1. Pierre de Bérulle (1575-1629, card. dal 1627) fonda nel 1611 (con approvazione pon­ tificia del 1613), l’«Oratorio di Gesù Cristo», un’associazione di sacerdoti secolari che vi­ vevano in comunità senza voti, dedicati alla formazione iniziale e permanente degli ec­ clesiastici. Accettano poi anche dei collegi, dove conducono in molte parti della Francia per quasi due secoli (vengono soppressi nel 1792) una esperienza di pedagogia cristiana con molti tratti originali. Il fondamento del­ le scuole è radicalmente religioso-spirituale, inteso a formare Gesù Cristo nel cuore degli allievi. L’istruzione letteraria è un mezzo a questo scopo. Vi è incluso l’insegnamento del fr., della storia, delle scienze (geogra­ fia, cartografia, matematica) e della filoso­ fia moderna cartesiana, ma la base resta il trilinguismo (lat., gr., ebraico) che apre allo studio della Bibbia e dei Padri della Chiesa. Gli allievi appartengono alla piccola e media borghesia piuttosto che alla nobiltà. Si cerca di superare l’antitesi fra la pietà e lo studio, il metodo è quello della comprensione, dolcez­ za, riserbo, discrezione, fondati sulla carità, l’interiorità e una spiritualità teocentrica e cristocentrica. 2. Filippo Neri (1515-1595), sacerdote dal 1551 e proclamato santo nel 1622, trasferi­ tosi da Firenze a Roma, vi promosse negli anni ’50 un movimento spirituale-educativo che prese il nome di → Oratorio e da cui sca­ turì nel 1575 una Congregazione di preti e chierici secolari viventi in comune, e dedi­ ti all’ → educazione cristiana dei fedeli e in particolare dei giovani. L’Oratorio si presen­

ta come un raggruppamento libero e diver­ sificato di giovani e adulti, invitati a passare le ore pomeridiane in trattenimenti spiritua­ li, nell’ascolto della Parola di Dio, esposta e commentata in modo familiare e in vista del perfezionamento della vita cristiana. Vi vengono promossi il culto eucaristico, la confessione e la direzione della coscienza, la musica e le arti figurative, e anche il gioco e il divertimento, in un’atmosfera di festosa cordialità. Alla pedagogia dell’Oratorio fi­ lippino si ispira il trattato di → Antoniano. La Congregazione si diffuse in Italia, in Europa, in America e in India. Ne furono membri, tra molti altri, il P. Faber e il card. Newman e i beati Giovenale Ancina, Antonio Grassi e Sebastiano Valfré, come pure i card. Capece­ latro e Giulio Bevilacqua. Bibl.: a) Su P. Bérulle: Dagens J., Bérulle et les origines de la restauration catholique (1575-1611), Paris-Bruges, Desclée de Brouwer, 1952; Plongeron B., «Du modèle jésuite au modèle oratorien dans les collèges français à la fin du XVIIIe siè­ cle», in J. Preaux (Ed.), Église et enseignement, Bruxelles, Éditions de l’Université de Bruxelles, 1977, 89-136; Braido P. (Ed.), Esperienze di peda­ gogia cristiana nella storia, vol. II, Roma, LAS, 1981, 9-64. b) Su F. Neri: M arciano G., Memorie historiche della Congregazione dell’Oratorio, 5 voll., Napoli, De Bonis, 1693-1702; Capecelatro A., Vita di S. Filippo Neri, Roma, Desclée et Lefebvre, 1901; Cistellini A., S. Filippo Neri, l’Oratorio e la Congregazione oratoriana. Storia e spiritualità, Brescia, Morcelliana, 1989.

U. Gianetto

ORATORIO Che l’o. in quanto istituzione educativa spe­ cifica non sia una realtà omogenea appare evidente quando se ne considerino la sto­ria e i diversi filoni pedagogici e spirituali a cui si ispira e da cui è stato «plasmato». 1. La storia dell’o. si può rintracciare ancor prima dei tempi di s. Filippo Neri a Roma e di s. Carlo → Borromeo a Milano (sec. XVI) con le varie esperienze di formazione cri­ stiana della gioventù ci si può anche richia­ mare ai Patronati e Opere della Gioventù di derivazione francese (sec. XVIII) o a quelli 821

ORATORIO

veneziani. L’Ottocento vede il consolidarsi di tale istituzione attraverso la sua reimpo­ stazione nel clima sociale del tempo contras­ segnato dai problemi fin troppo noti della prima industrializzazione e urbanizzazione. Nuove forme di o. nascono così attorno a fi­ gure come L. Pavoni a Brescia, don G. Coc­ chi e soprattutto don G. → Bosco a Torino.

crisi generalizzata dell’o., uno scadimen­ to fino alla sua marginalizzazione sociale, mentre si tentavano nuovi sentieri per il suo rinnovamento: quello catechistico, sociopolitico, ludico-sportivo, associazionistico e dell’o. come «casa della comunità». Una rinnovata consapevolezza attuale dell’impe­ gno della Chiesa verso le nuove generazioni, dell’urgenza inderogabile di formazione e prevenzione, la crescita di nuove domande nella stessa condizione giovanile rilanciano oggi l’istituzione dell’o. come uno degli am­ bienti privilegiati dove è possibile abilitare le nuove generazioni alla crescita di sé nel­ la solidarietà, in una parola dove è possibile rinnovare l’educazione per riappassionarsi alla vita, e riattivare i canali comunicativi tra Chiesa e giovani per la loro educazione alla fede e anche per avviare a un certo protago­ nismo giovanile.

2. Ciascuna tradizione, ricollegata alla sua memoria storica, spirituale e pedagogica, ha consolidato nel tempo l’immagine che le è propria, nel continuo tentativo di riproporre l’identità di origine nel confronto con i pro­ blemi via via emergenti. Oggi se ne conosco­ no diversi riferimenti carismatici (specie se legati a Congregazioni religiose, come gli → Oratoriani e i → Salesiani), diverse tradi­ zioni, diversi modelli di organizzazione, su scala regionale e nazionale. La realtà dell’o., tuttavia, è avvertita ancora come un’impor­ tante se non decisiva istituzione, integrata o da integrare ad altre istituzioni, di valida ef­ ficacia formativa per le giovani generazioni. Accanto a tale riconoscimento e sottostanti alle differenze, talvolta anche di sostanza, è possibile individuare alcuni punti di riferi­ mento comuni che si sono consolidati nella storia: la caratteristica di essere «per tutti», soprattutto per ragazzi e giovani dei ceti polari (come tentativo di «ricerca-avvicina­ mento» dei giovani stessi e non di attesa di un loro avvicinamento alle strutture usuali di educazione-evangelizzazione); la strut­ turazione di un «ambiente» tipico, aperto e protetto, dove incontrarsi tra generazioni, non solo per il tempo libero; la creazione di un «clima» di familiarità e di «simpatia» per gli interessi e le domande giovanili; la «via educativa» attraverso cui abilitare i gio­ vani a gestire la propria vita; e la speciale «formula» di offerta formativa attorno alle dimensioni del gioco, del catechismo, del lavoro e dell’aggregazione (ricreatorio, o., laboratorio), come momenti espressivi di un globale progetto di educazione integrale, di ispirazione umanistico-cristiana.

4. Nel rinnovamento e riproposizione dell’o. come ambiente e «progetto» educativo glo­ bale, nella dinamica di sintesi fede-vita, si intrecciano così la memoria e la tradizione, i «segni dei tempi», le nuove prospettive pedagogiche e le domande dei giovani. In questa direzione si pensano e si coniugano il rilancio dell’ → animazione come metodo e stile educativo, l’apertura al sociale e ci­ vile nel territorio, l’attenzione agli sbocchi e itinerari educativi, la reinterpretazione delle «attività formative» nelle più ampie catego­ rie di «espressione giovanile», «evangelizza­ zione», «animazione culturale», l’attenzione alla «educazione di rete» nel collegamento più stretto con parrocchie e associazioni che hanno come preoccupazione educativa gli stessi giovani e operatori. Ma anche assu­ mendo una certa dimensione missionaria in un duplice movimento: abbassando la soglia di ingresso (anche nella gradualità delle pro­ poste) e «andando verso i giovani» là dove essi sono: i nuovi luoghi (o «non-luoghi») giovanili, reali o virtuali: la strada, le disco­ teche, i bar, le palestre, gli stadi e luoghi dei concerti, internet…

3. Nella riscoperta e riattualizzazione del ca­ risma specifico si è mossa la tradizione degli o., fino a ottenere espliciti riconoscimenti ecclesiali non meno che di pedagogisti ed educatori. Gli anni del dopo Concilio e i fe­ nomeni della contestazione hanno visto una

5. L’opera degli o. è stata recentemente so­ stenuta a più livelli anche dal legislatore (sia dal Parlamento Italiano con la L. 206/2003, sia da diverse Regioni del nostro Paese) che ne ha riconosciuto «la funzione sociale ed educativa» nell’ottica della sussidiarietà vol­

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ORGANI COLLEGIALI SCOLASTICI

ta a evidenziare e promuovere, in ordine al conseguimento del bene comune, la sogget­ tività peculiare di una realtà tanto efficace e diffusa in Italia. 6. Nel 2001, promosso dalla Conferenza Epi­ scopale Italiana, con la quale agisce in stretto contatto, è nato il Forum degli O. Italiani, lo strumento di coordinamento nazionale degli organismi ecclesiali che dedicano speciale cura all’O., che ha l’intento di: «studiare la realtà delle nuove generazioni in costante cambiamento per mantenere viva l’attenzio­ ne sulle loro esigenze educative; sostenere e coordinare l’azione educativa degli o.; pro­ muovere e finanziare la ricerca pedagogica e metodologica e individuare strutture ade­ guate; rappresentare gli o. italiani e favori­ re il raggiungimento dei loro obiettivi nelle istituzioni locali, nazionali e internazionali» (cfr. lo Statuto del Foi). È formato da oltre 30 membri: Coordinamenti regionali di Pa­ storale giovanile; Istituti religiosi e Congre­ gazioni che hanno l’O. nel loro carisma (Sa­ lesiani, Figlie di Maria Ausiliatrice, Giusep­ pini, Filippini, Canossiani…); Associazioni (ANSPI, NOI, Azione Cattolica, CSI, PGS, CTG…); Federazioni o Coordinamenti locali di o. Il Foi promuove ogni anno in Italia una Giornata di attenzione pastorale e sociale agli o., il 26 maggio, memoria di san Filippo Neri. Bibl.: Caimi L., «L’O. salesiano: la specificità di una proposta peda­gogica», in Don Bosco. Ispira­ zione, proposte, stra­tegie educative, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1989; Floris F. - M. Delpiano, L’O. dei giovani, Ibid., 1992; L’O. dei giovani: in­ sieme per essere fedeli alla voca­zione giovanile e popolare, Roma, CISI, 1993. Diocesi di Milano, Sinodo 47° - Cap. 11: Pastorale giovanile e o., Milano, 1995; A peciti E., L’O. ambrosiano da san Carlo ai giorni nostri, Milano, Ancora, 1998; Sigalini D., O.: uno spazio di aggregazione in­ dispensabile per educare i giovani alla fede, in «NOI book» (2002) 1; «Ponti tra la strada e la chiesa». L’O. salesiano agli inizi del terzo millen­ nio, in «Note di Pastorale Giovanile» (2002) 2; Il volto missionario degli o. nei prossimi anni – speciale «O. oggi e domani», in «L’Eco degli O.» (2003) 7-8; Sabbadini M., Il «mistero» dell’o., in «NOI book» (2004) 12; Spezzibottiani M., Non c’è o. senza domenica, Foi - Collana O., Roma, EDB, 2005; Gracili R. (Ed.), Funzione educativa

e sociale degli O. nelle comunità locali, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2005; Cappelli Q., Negli o. l’o., Brescia, ANSPI, 2007; sito internet: www.oratori.org (con link ai siti di tutte le altre realtà oratoriane); periodico: «L’Eco degli O.». Rivista della Fondazione diocesana per gli o. milanesi - fondata nel 1907 - Ed. In Dia­ logo.

G. Denicolò

ORGANI COLLEGIALI SCOLASTICI Strumenti di partecipazione alla vita e alla gestione della → scuola. Previsti in Italia fin dal 1859 a livello provinciale e nazionale, sono stati successivamente modificati, in­ tegrati e democratizzati negli anni ’70. 1. L’evoluzione della collegialità nella scuo­ la. La necessità di uscire da un lungo pe­ riodo di tensione, soprattutto fra studenti e docenti, contrapposti da una schematica ideologia rivoluzionaria elaborata nella se­ conda metà degli anni ’60, periodo della cosiddetta contestazione globale, portò le forze culturali e politiche a cui si deve la Costituzione italiana a ricercare una nuo­va mediazione culturale, che rendesse pos­sibile la convivenza delle componenti e delle forze che confliggevano nella scuola. Ne uscirono la L. delega 477/1973 e i de­creti delegati del 1974, che fornirono alla scuola una mappa complessivamente accettabile di mediazio­ ne verso l’alto, che non solo riconosceva le posizioni guada­g nate sul campo dalle di­ verse componenti, ma le impegnava tutte a un «lavoro» cultu­rale e relazionale che i più prudenti chia­mavano → partecipazione (ri­ spettivamente dei docenti, studenti, genitori e forze so­ciali, queste ultime solo a livello distrettua­le) alla vita e alla gestione della scuola (con la distinzione fra ambiti politico, didattico, amministrativo, in riferimento ai diversi o.c.), e che i più innovatori chiama­ vano, con indubbia enfasi, ge­stione sociale della scuola. I luoghi istituzionali di questa nuova con­cezione della scuola e dell’organiz­ zazione incaricata di darle concretezza sono ap­punto gli o.c., rinnovati nella composizio­ ne e nei poteri o isti­t uiti ex novo, a livello di classe e d’inter­classe, d’istituto e di circolo, 823

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di distretto (novità assoluta, ora abbandona­ ta), di provincia e di nazione (il Consiglio nazionale della P.I. sostituì il Consiglio su­ periore di antica memoria). Per i genitori e per gli studenti sono state previste assemblee a livello d’istituto, e comitati di rappresen­ tanti, con poteri solo di tipo espressivo-con­ sultivo, mentre veniva rafforzato il collegio dei docenti, cui spettano poteri di tipo didat­ tico-disciplinare, e veniva istituito ex novo il consiglio d’istituto e di circolo, composto dai rappresentanti delle componenti scolasti­ che, oltre al capo d’istituto, con poteri di tipo organizzativo-gestionale. Fra siste­ma delle assemblee, dei comitati e dei con­sigli non esiste però un raccordo di tipo rappresentati­ vo e funzionale. Dei consigli di classe e dei consigli di circo­lo e d’istituto fanno parte i rappresentanti dei genitori (e degli alunni nelle scuole secondarie superiori): essi non sono invece presenti a livello na­zionale, nel CNPI, Consiglio nazionale del­la P. I. I geni­ tori sono anche presenti a li­vello distrettuale e provinciale, mentre gli studenti solo a livel­ lo distrettuale. Nono­stante alcuni tentativi di modifiche parla­mentari, questo disegno è so­ stanzialmente immutato dal 1974, e mostra tutti i suoi an­ni. I limiti del compromesso fra centralismo e partecipazione non hanno tar­ dato però a manifestarsi. Il «carburante ide­ ologico» spinse per un certo tratto in avanti la «macchina» scola­stica, ma non riuscì ad alimentare quella cultura pedagogica e quel­ la capacità d’in­terazione finalizzata all’edu­ cazione, nel rispetto di ruoli e competenze diverse, che costituiscono il vero fondamen­ to di una re­lazionalità matura e produttiva. D’altra parte il legislatore delegato del ’74 previde che il nuovo apparato partecipativo avesse il compito di fare della scuola una comunità aperta all’ambiente, ma non riu­ scì a fornirgli strumenti normativi e finan­ ziari utili a renderlo motivante ed efficiente. Si cercò in tal modo di contene­re, sotto un ombrello di tipo valoriale, le spinte conflit­ tuali relative alla conquista degli spazi e dei poteri. Dopo iniziali en­t usiasmi, l’alleanza tra docenti e genitori in funzione antiburo­ cratica entrò in crisi. Molti docenti hanno te­ muto i ge­nitori vicini più che i ministri lon­ tani: la co­municazione, appena avviata, si è rallenta­ta e talora interrotta per equivoci, per be­ghe locali o per astratte contrapposizioni ideologiche, e per caduta di interesse nei ri­ 824

guardi di un meccanismo che si rivelava più complicato e meno gratificante del previ­sto. All’interno dei consigli di classe il dia­logo è risultato talora vivace e produttivo, talora stentato, per la difficoltà di ottenere recipro­ ca non superficiale conoscenza e chiarezza di ruoli e di compiti fra inse­gnanti, genitori e studenti. Il cambiamento insomma non è stato pie­namente vissuto e attuato. 2. Conquiste e limiti della democratizzazio­ ne degli anni ’70. Il legislatore ha implici­ tamente riconosciuto, sia pure in termini un po’ approssimativi, i diritti degli studenti, ha so­lennemente sancito la libertà d’insegna­ mento dei docenti, finalizzandola però alla promozione della personalità dello studen­ te e vincolandola al rispetto della sua co­ scienza, ha riconosciuto spazi e diritti ai genitori, legittimando la pluralità delle visio­ ni della vita e dei ruoli, impegnando però tutti al confronto collegiale, dai consigli di classe a quelli d’istituto a quelli di distret­ to, a quelli provinciali, nella prospettiva di una scuola intesa come comunità educativa che interagisca con la più vasta comunità so­ ciale e civica. Tali diritti sono stati poi pre­ cisati, per gli studenti, col dpr 10.10.1996, n. 567 e col dpr 24.6.1998, n. 249, Statuto delle studentesse e degli studenti, e per i genito­ ri col dpr 301 2005, che istituisce i Forum delle associazioni di genitori, FONAGS, a livello nazionale e regionale. Conquiste im­ portanti, ma di debole impatto nel costume scolastico. Centralismo e decentramento, libertà del docente e collegialità, didattica e ammini­strazione, pluralismo e impegno educativo, apprendimento e partecipazione, discipli­ne curricolari e attività extracurri­ colari so­no coppie di valori non alternative, ma componibili: questo il succo della «diffi­ cile convivenza» resa possibile dalle scelte pe­d agogiche e organizzative compiute dai decreti delegati. Come spiegare il nuovo di­ sagio, la cattiva comunicazione, i sospetti e il pratico ab­bandono del campo della mag­ gior parte dei genitori? Qualcuno denuncia la scarsità o l’illusorietà dei poteri trasferiti alla base, qualche altro invece ritiene che questi po­teri siano troppi e che gli organismi parte­cipativi siano una palla al piede di chi vuo­le modernizzare, o, all’opposto, conser­ vare la scuola. Indubbia­mente il «taglio» dei diversi o.c., lo scolle­gamento fra il sistema

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delle assemblee ge­nerali, dei previsti comi­ tati dei rappresen­t anti e dei consigli hanno le loro responsa­bilità. Le critiche però sono state talora globalistiche e poco attente alla distinzione di piani e livelli, dei valori in gioco e degli strumenti previsti per salvare questi valori. Il rischio maggiore è quello di tentare di uscirne semplicemente con la ri­ mozione del problema, come se tutto il tema della democrazia scolastica fosse frut­to di un equivoco, di un problema mal po­sto o di una congiuntura un po’ folle, che ha confuso le idee alle persone per bene, inducendole a cose inutili o sconvenienti. 3. La collegialità sfidata dalle «educazioni», dalle competenze e dall’efficienza. Di fatto questa scuola, che difende la sua autonomia anche nei riguardi della componente genito­ ri, deve poi registrare notevoli difficoltà per quanto concerne gli apprendimenti, come ri­ velano le indagini OCSE PISA, che vedono i ragazzi italiani in complesso meno prepara­ ti dei loro compagni europei; difficoltà che hanno a che fare non solo con le competenze didattiche dei docenti, ma anche, da parte degli studenti, col disagio, la demotivazione, la devianza, la droga, la dispersione scolasti­ ca, la delin­quenza e la disoccupazione: tutti temi che chiamano in causa le dimensioni esi­stenziale, motivazionale, relazionale del la­voro scolastico e i rapporti fra scuola e si­ stema formativo. Il ricu­pero dell’esistenziale può giustificare una nuova fase d’intesa tra scuola e famiglia, che prenda in considera­ zione, come ha fatto la L. 309/1992, il con­ cetto di salute. Se la salute può essere intesa come quello stato di benessere fisi­co, psi­ chico, sociale, morale che dà ener­gia, tono e prospettive alla vita, e che dalla cultura ri­ cava ragioni e significati positivi, di essa non deve interessarsi solo una fami­glia che istitu­ zionalmente ha il diritto e il dovere di «man­ tenere, istruire ed educare i figli», ma anche una scuola, che abbia il compito di «pro­ muovere attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni» e cioè non solo di «trasmettere», ma di «elaborare» cultura, nel rispetto del­la coscienza morale e civile degli alunni. La teoria pedagogi­ca del sistema for­ mativo integrato, prima che utopia legata alle idee della società edu­cante e dell’educazione permanente, è frut­to della necessità operati­

va di chi intenda risolvere i problemi in ter­ mini istituzio­nalmente e professionalmente corretti. Il tutto va coordinato col dovere di una valutazione, che sia attenta agli aspetti nazionali e internazionali, come agli aspetti locali e personali. L’INVALSI e l’INDIRE vanno ripensati come agenzie di supporto all’autonomia e alla funzionalità del sistema educativo d’istruzione e formazione. 4. Il ridisegno dei confini del sistema costitu­ zionale di educazione e di istruzione. Dopo la fase della scuola nazionalburocratica e la fase della scuola democratica, regi­striamo infatti, a partire dalla fine degli an­ni ’80, una domanda insistente di efficacia/efficienza del servizio, identificato nella prospettiva della scuola autonoma, manageriale, di qualità. Le fasi precedenti non sono superate, ma restano presenti nell’organismo della scuola, come negli alberi i cerchi di fasi di vita precedenti. La terza fase è iniziata sul piano normativo, ma non ha raggiunto ancora standard di ef­ ficacia/efficienza soddisfacenti. Dopo i cam­ biamenti vorticosi della stagione del primo Centro sinistra, che hanno introdotto novi­ tà istituzionali rimaste poi in vigore (il dpr 8.3.1999, n. 275 attribuisce alle singole scuo­ le autonomia e personalità giuridica; la nuova Costituzione varata dalla l. cost. 3/2001 la ri­ conosce all’art. 117), è giunta la legge delega 28.3.2003 n. 53 del ministro Letizia Moratti, con i relativi provvedimenti delegati, fra cui le Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati, ispirate dall’idea guida della personalizzazione, che ha introdotto il con­ cetto di cooperazione tra scuola e genitori (art.1), ma che mette in ombra la collegialità. Su questa base si rende ancor più necessa­ ria la modifica dei decreti delegati del ’74, sia quelli a livello scolastico, sia quelli a li­ vello territoriale. Quanto ai primi, le novità che derivano dall’autonomia, dal dimensio­ namento-accorpamento delle scuole com­ prensive, in verticale e in orizzontale (1998) e dal conferimento della dirigenza ai capi d’istituto, dotati di poteri e responsabilità ge­ stionali (d. leg. 30.3.2001, n. 165), pongono problemi di difficile armonizzazione delle procedure decisionali. Quanto agli o. a livel­ lo nazionale e periferico, il d. leg. 30.6.1999, n. 233 di Berlinguer che li ha riordinati non è entrato in vigore. Lo stesso è accaduto al testo «Norme concernenti il governo delle 825

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istituzioni scolastiche», votato nella passata legislatura il 23.2.2005 dalla VII Commis­ sione della Camera. Il clima culturale si è fatto più incerto. Si può dire che si sia ab­ bassata la marea delle energie motivazionali di tipo ideale, ideologico, pedagogico e poli­ tico, e anche demografico e finanziario, che avevano indotto il Parlamento ad un’apertura di credito verso le componenti scolastiche e le forze sociali, mettendo in cantiere le navi­ celle degli o.c. La nuova stagione del Centro sinistra, iniziata il 2006, sta cercando di con­ solidare gli ordinamenti sul piano della defi­ nizione giuridica e operativa dei confini fra ambiti e poteri sul piano della governance, anzitutto nel Tavolo Stato-Regioni; e cerca di rilanciare la partecipazione, con una rin­ novata iniziativa parlamentare, sul «governo partecipato delle istituzioni scolastiche» e sui «rapporti tra queste, le istituzioni della Repubblica e il territorio». Il «sistema educa­ tivo d’istruzione e formazione», articolato in sottosistemi statale e paritario, va governato a quattro livelli relativamente indipendenti: statale, regionale, locale e scolastico, secon­ do le prospettive ancora acerbe del nuovo te­ sto costituzionale, che affidano allo Stato le «norme generali sull’istruzione» e «la deter­ minazione dei livelli essenziali delle presta­ zioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, m e n). Che cosa è bene dire a livello di legge statale e che cosa la­ sciare alle regioni e all’autonomia dei singoli istituti, in materia di regolamento sugli o.c.? È certo che la normativa dev’essere a maglie più larghe. 5. Un quadro di riferimento per l’azione. Per quanto riguarda la vita degli o.c. interni alla scuola, si tratta di superare la distonia attuale e di valorizzare quel poco di partecipazione che si riesce ad ottenere, con criteri di acco­ glienza, di trasparenza, di spirito di servizio, non disgiunto dal rispetto dell’istituzione, dei ruoli e delle persone. A livello di istituto e di classe, si possono in­dicare gli elementi di una possibile matrice decisionale, da cui risultino risposte perti­nenti ad un complesso sistematico di do­mande: chi partecipa a che cosa, perché, come, dove, quando, con quali risultati. Ri­cordiamo intanto che si possono raggiun­gere diversi livelli di partecipazione: si va dall’informazione, alla consultazione, 826

all’elaborazione, alla decisione, all’esecu­ zione. Non è opportuno che per ogni materia i genitori e gli studenti debbano salire ogni gradino di questa scala. Occorre poi passa­ re in ras­segna i momenti fondamentali del currico­lo scolastico, dagli obiettivi educativi agli obiettivi didattici, ai contenuti discipli­ nari, ai metodi, alla condotta o disciplina nel­ la scuola, alla valutazione, e metterli in rela­ zione, in una tabella a doppia entrata, con i soggetti della comunità scolastica, dirigen­ti, docenti, genitori, personale ATA, altre figu­ re professionali esterne. Se sulla conoscenza dei ragazzi, sugli obiet­t ivi educativi, sulla disciplina, sui comportamenti, sulle moti­ vazioni, sul complesso dell’organizzazione scolastica l’intervento dei genitori appare utile e pertinente, sui metodi d’insegnamen­ to e sulla valutazio­ne certo lo è meno, o non lo è affatto. L’ipotesi da verificare è che la partecipazione quale si è attuata finora nella scuola debba il suo relativo insuccesso alla mancata distinzione fra momenti espressivi e momenti decisionali e che ai genitori (e agli studenti) interessi assai più poter espri­ mere le loro aspettative, i loro bisogni e le loro valutazioni che partecipare alla presa di decisioni in materia di curricolo. Bibl.: Corradini L., Democrazia scolastica, Bre­scia, La Scuola, 1975; I d., La co­munità in­ compiuta, Milano, Vita e Pensiero, 1979; Agazzi L., Struttura organizzazione e attività degli o.c., Brescia, La Scuola, 1982; Corradini L., Edu­care nella scuola. Cultura comunità curricolo, Ibid., 1983; Id., «I nessi tra famiglia e scuola e l’asso­ ciazionismo familiare in campo sco­lastico», in P. Donati (Ed.), Terzo Rapporto sulla famiglia in Italia, Cinisello Balsamo (MI), CISF-San Pao­ lo, 1993, 193-244; Auriemma S. - M. Tiriticco, Carta dei servizi e progetto d’istituto, Napoli, Tecnodid, 1995; Corradini L., Essere scuola nel cantiere dell’educazione, Roma, SEAM, 1995; Osservatorio Sulla Scuola Dell’Autonomia, Rapporto sulla scuola dell’autonomia 2004, Roma, LUISS University Press/Armando, 2004; Associazione Treellle, Il governo della scuola autonoma: responsabilità e accountability, Fon­ dazione per la scuola della Compagnia di San Paolo, Seminario n. 5, settembre, 2005; Barbieri E., «Governo della scuola», in G. Cerini - M. Spinosi, Voci della scuola, vol. V, Napoli, Tecnodid, 2005.

L. Corradini

ORGANIZZAZIONE SCOLASTICA

ORGANISMO Si intende per o. un’entità unitaria risul­tante dall’organizzazione strutturale e fun­zionale di diverse componenti che prendo­no il nome di organi, apparati, sistemi. 1. Il termine è usato in diverse discipline, dalla fisica alla cibernetica, alla sociologia e alla stessa pedagogia (→ organi collegiali, → istituzioni educative). Ma l’uso più co­mune è quello della biologia, dove si dà particolare risalto all’o. vivente. Tale entità è capace di svolgere le «funzioni vitali» o funzioni bio­ logiche di base, che sono: la ca­pacità di assi­ milazione, di adattamento at­tivo e passivo, di riproduzione, di autoge­stione. Tali capacità sono espresse in for­ma più elementare degli altri o. più sem­plici della scala dei viventi e in forma più elaborata man mano che cresce la complessificazione degli o. stessi. Negli anima­li più elevati della scala zoologica si può parlare, con sempre maggiore chiarez­ za, di funzioni più strettamente biologiche e fun­zioni psichiche. 2. Nell’ → uomo (homo sapiens) si parla an­ che di attività mentale. L’essere infatti, da­ta la complessità della sua struttura, è ca­pace di svolgere funzioni che si denomina­no «cultu­ rali». L’o. umano, o soma del­l’essere umano, consta di organi e sistemi appropriati fra cui i più importanti sono: il sistema nervoso che coordina tutte le atti­vità dell’o. e costituisce il substrato delle più elevate funzioni psichiche e mentali; il sistema cardio-circolatorio che consente l’irrorazione di ogni parte dell’o.; il sistema muscolo-scheletrico che, coordina­ to dal si­stema nervoso, attua le posture e i movimenti; l’apparato digerente che serve per l’alimentazione; il sistema secretore che provvede alla depurazione. 3. È evidente che per educare adeguata­mente un soggetto umano è necessario conoscere bene anche le esigenze del suo o. e le risonan­ ze di esse nei sentimenti, negli atteggiamenti e nei comportamenti del soggetto medesimo. Lo studio appropriato della biologia entra così a far parte del cur­riculum delle scienze dell’educazione (→ biologia e educazione). Bibl.: Polizzi V., Psiche e soma, Roma, LAS, 1976; M artínez Costa J., Biología, personalidad

y con­ducta, Madrid, Paraninfo, 1981; Polizzi V., Iden­t ità dell’homo sapiens, Roma, LAS, 1986; Umiltà C. (Ed.), Manuale di neuroscienze, Bolo­ gna, Il Mu­lino, 1995; R eitano M. (Ed.), Appunti di fonda­menti anatomo-fisiologici dei processi psichici, Ro­ma, Kappa, 1996.

V. Polizzi

ORGANIZZAZIONE SCOLASTICA L’o.s. è quella disciplina delle → scienze dell’educazione che studia la gestione dei si­ stemi formativi a livello micro (singola scuo­ la) allo scopo di conoscerla meglio e di ren­ derla più efficace. Per il livello macro, come per la giustificazione della definizione di o.s. vedi → amministrazione scolastica: data la difficoltà di tracciare un confine netto tra le due voci si consiglia di leggerle insieme. L’o.s. è anche il complesso degli organi, del­ le persone e delle strutture che provvede al funzionamento della singola scuola. 1. La nuova cultura delle o. Nell’accezione più condivisa o. significa quel tipo di unità sociale che si caratterizza per la finalizza­ zione a obiettivi specifici. In questo senso si distingue da una famiglia, da una comuni­ tà, da una nazione che, invece, perseguono una pluralità di fini generali. La definizione è stata messa in discussione in relazione alla scuola in quanto se è vero che quest’ultima si propone la meta dell’educazione, tuttavia tale finalità si presenta complessa e moltepli­ ce. Un altro tratto distintivo dell’o. sarebbe costituito dal coordinamento delle attività individuali in vista dell’interesse generale. Non mancano anche in questo caso osser­ vazioni circa l’eccessiva sottolineatura del controllo dall’alto, implicita nel concetto appena richiamato, rispetto alle più comuni forme di autodisciplina dei membri. La te­ oria organizzativa più antica si caratterizza per la focalizzazione sulla razionalità tecni­ ca e funzionale, sull’efficienza, sul rapporto ottimale tra mezzi e scopi. L’accento è po­ sto su due proprietà strutturali: la specifi­ cità dei fini e la formalizzazione dell’o. Un secondo approccio, la scuola delle relazioni umane, benché sia sorto in contrapposizione alla concezione razionale, ha di fatto sotto­ lineato due aspetti che si presentano come 827

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complementari ai precedenti, piuttosto che contraddittori. Le o. non possono essere con­ cepite semplicemente come meccanismi mi­ rati al perseguimento di fini specifici esterni di produzione, ma costituiscono anche dei gruppi sociali che devono preoccuparsi di soddisfare una serie di bisogni di autoso­ stentamento e di mantenimento del sistema. In secondo luogo viene affermata l’impor­ tanza delle strutture informali che possono incidere su quelle formali, perfezionandole, condizionandole e persino cambiandole. No­ nostante gli indubbi progressi compiuti dalla riflessione e dalla prassi, le due concezioni citate conservano un carattere autocentrato. Tuttavia, già negli anni ’70 l’o. viene ad esse­ re concepita in termini di sistema, cioè come un insieme di parti tra loro interrelate, e que­ sto sistema è aperto nel senso che si trova in un rapporto di stretta interdipendenza con il contesto in cui opera. Esso può conservarsi solo sulla base di un flusso continuo di risor­ se da e per l’ambiente; lo scambio con il con­ testo costituisce il meccanismo fondamenta­ le che consente il funzionamento dell’o. In­ dubbiamente, apertura non significa assenza di confini, ma piuttosto sta a sottolineare la loro flessibilità: l’o. deve certamente impe­ gnarsi per conservarli, ma al tempo stesso svolge attività che si situano oltre i confini stessi. Il collegamento con l’ambiente mette in crisi tra l’altro uno degli assunti di fondo della prospettiva razionale che presupponeva l’esistenza di un modello di o. migliore in as­ soluto e si sforzava di elaborarlo; la formula più valida dipende al contrario dalle carat­ teristiche del contesto in cui opera l’o. L’ap­ proccio del sistema aperto mette in evidenza come le o. (con particolare riguardo a quelle formative) non si presentano sempre come strutture compatte le cui parti siano stret­ tamente collegate e coordinate tra loro, ma anche come o. a maglie larghe (loose cou­ pling). Le relazioni tra le varie componenti si caratterizzano spesso per la complessità e la variabilità, per la mancanza di rigidità delle connessioni per la forte autonomia ope­ rativa di ciascun sottosistema. La leadership non appare sempre come un’unità di coman­ do monolitica, ma si rivela anche come una coalizione piuttosto allentata di gruppi mu­ tevoli, ciascuno con i propri interessi, obiet­ tivi e strategie. La presenza di collegamenti non molto rigidi non costituisce di per sé un 828

ostacolo allo sviluppo, ma può contribuire in maniera importante alla crescita, stimo­ lando l’intraprendenza delle componenti. Il sistema aperto è anche in grado di regolarsi autonomamente in base a propri parametri. La complessità della società attuale pone tre sfide alle o.: cresce la diversità, cioè il nu­ mero degli elementi tra loro differenti, anche fortemente, da trattare al medesimo tempo; l’imprevedibilità diviene una condizione normale; aumenta l’interdipendenza tra i fat­ tori da tenere sotto controllo. Questa situa­ zione ha messo in risalto l’insufficienza dei meccanismi strutturali con cui le o. avevano cercato finora di far fronte alla complessità, quali, per citare quelli comuni anche alle scuole, i regolamenti, i programmi, gli orari, l’articolazione in dipartimenti, la gerarchia e la delega. Una strada alternativa è consistita nel rafforzamento dei centri decisionali me­ diante la diffusione della distinzione «staff/ line». Gli esperti che compongono lo «staff» forniscono consulenza tecnica ai dirigenti generalisti che sono incaricati delle delibe­ razioni definitive: ciò consente di aumentare la capacità di trattare le informazioni senza introdurre un decentramento formale e sen­ za infrangere il principio dell’unicità della funzione di comando, anche se molto potere viene acquisito dagli esperti. Una strategia promettente è costituita dall’o. a matrice che consiste nell’introduzione di un gruppo di meccanismi strutturali che mirano alla promozione della comunicazione delle infor­ mazioni a livello orizzontale, mentre finora si era generalmente cercato di potenziare i canali verso l’alto o il basso. Il tratto qualifi­ cante è dato dalla compresenza sia di reparti funzionali che garantiscono lo svolgimento dei dinamismi verticali e rispondono a biso­ gni consolidati, sia di gruppi di progetto che assicurano le connessioni laterali e vengono incontro alle domande mutevoli del conte­ sto. Un’altra strategia rilevante è offerta dal modello della qualità totale. La qualità viene intesa in base a una prospettiva non più in­ terna all’impresa, ma esterna, e consiste nel­ la soddisfazione del cliente per cui diviene centrale nel rapporto con l’esterno l’impegno per identificare la domanda: è la qualità per­ cepita che è decisiva e la misura operativa è fornita dal successo commerciale. All’in­ terno, poi, il collega non deve più essere im­ maginato come un competitore, ma come un

ORGANIZZAZIONE SCOLASTICA

cliente a cui fornire un prodotto di qualità. A monte vi sarebbe la riscoperta della finaliz­ zazione del processo produttivo all’uomo che tornerebbe al centro della scena, anche se lo sganciamento della definizione della qualità da parametri assoluti potrebbe essere foriero di un relativismo pericoloso. Comunque, i modelli a matrice, progettuale e della qualità totale segnano il passaggio dalla burocrazia alla «adhocrazia». Un ulteriore progresso è rappresentato dai modelli culturali di o. che concentrano l’attenzione sui principi, le idee, i simboli e le tradizioni condivisi dai membri di una o. in quanto contribuiscono a definire l’identità dell’o. L’approccio ritiene che l’o.s. non sia un scienza applicativa, come nell’im­ postazione tradizionale, ma sostiene che il suo oggetto è la pratica riflessiva, cioè una interrelazione tra teoria, intuizione ed espe­ rienza. Dal punto di vista organizzativo, i principi fondamentali sono quelli della co­ operazione, dell’empowerment dei membri dell’o., della responsabilità nella gestione, della partecipazione, della significatività del proprio lavoro e dell’equilibrio tra compe­ tenza e autorità. 2. Modelli di o.s. Tra i più antichi e diffusi si può ricordare quello burocratico ispira­ to alle teorie organizzative di → Weber. La singola scuola è qualificata da tratti come il carattere gerarchico dell’autorità, la divi­ sione del lavoro, la specializzazione basata sulla competenza, la strutturazione in ruoli impersonali, una regolamentazione fondata su norme generali e astratte, una carriera per merito. La formula burocratica ha costituito uno strumento utile per regolare i rapporti tra diritti, responsabilità, ruoli e funzioni e per coordinare o. complesse; inoltre, ha tro­ vato ampie applicazioni nei sistemi formativi centralizzati e più recentemente nei Paesi in via di sviluppo durante la fase di costruzio­ ne delle strutture statali. Sul piano negativo, essa non offre adeguato riconoscimento a dimensioni importanti dei processi educati­ vi come l’autonomia della singola scuola, la professionalità degli insegnanti, la persona­ lizzazione dell’azione educativa, l’efficacia, la flessibilità e l’innovatività degli interventi. Il modello industriale classico segue i prin­ cipi dell’o. tayloristica del lavoro: standar­ dizzazione, che si manifesta nella presenza di un curricolo nazionale, di esami centra­

lizzati, di requisiti minimi di conoscenze e di competenze; specializzazione, a livello di insegnanti e di programmi; sincronizza­ zione, che si esprime in calendari ed in orari dettagliati; concentrazione, per cui si tende a coniugare varie attività nella stessa isti­ tuzione; razionalizzazione delle offerte sul territorio; centralizzazione dei controlli. La formula presenta i suoi vantaggi soprattutto in un contesto di espansione della scuola, ma può portare a gravi inconvenienti perché la scuola non è del tutto identificabile con una grande impresa stile anni ’30 o ’60. Il model­ lo politico, ispirato alle teorie conflittuali di Weber e neo-marxiste, concepisce la scuola come un’o. in cui la lotta per il potere o sui valori tra gruppi di interesse è normale e va risolta attraverso la negoziazione. La formu­ la è utile per rispondere alla domanda di par­ tecipazione e di democrazia che ha raggiunto il sistema formativo durante soprattutto gli anni ’70 e per correggere una visione troppo idilliaca della scuola. Al tempo stesso non manca di svantaggi perché può portare a una conflittualità endemica, a una svalutazione della professionalità, a forme di assemblea­ rismo e soprattutto si muove in controten­ denza rispetto agli orientamenti attuali del rinnovamento della scuola che sottolineano la collaborazione, la comunità e il lavoro di gruppo. Il modello culturale è caratterizza­ to da: complementarità tra coordinamento centrale e potere d’iniziativa e decisionale locale, focalizzazione sulla comunità educa­ tiva, partecipazione delle varie componenti, centralità dell’educando, responsabilità per i risultati, imprenditorialità, innovazione dal basso, introduzione di una funzione interme­ dia fra dirigenti e docenti. Corrisponde agli orientamenti più recenti della teoria organiz­ zativa e può essere interpretato in due forme diverse, una manageriale che subordina le finalità formative alle esigenze organizzati­ ve e di mercato e una educativa che afferma la priorità della formazione. Il modello nella seconda accezione sembra adeguato sia sul piano ideale sia su quello pratico della cor­ rispondenza alle caratteristiche della società complessa. La sua realizzazione, però, pre­ suppone una cultura organizzativa conforme nelle componenti della scuola, soprattutto nel personale docente e dirigente, e una po­ litica di impulso, sostegno, coordinamento e verifica da parte del centro senza indebite 829

ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

ingerenze gestionali. Il modello culturale ha approfondito in particolare le funzione del­ la leadership educativa, articolandola nelle seguenti direzioni: la funzione tecnica che consiste nell’uso di valide tecniche di ge­ stione (pianificazione, gestione del tempo, coordinamento, programmazione e o.); la funzione di gestione delle relazioni umane che si esprime nella capacità di rapportarsi con le persone, si esplica nel sostegno al mi­ glioramento e ha come base la motivazione e lo sviluppo degli studenti e del personale, a partire da quello docente, nella prospettiva della collegialità e dell’autonomia scolastica; la funzione educativa in senso stretto che de­ riva dalla conoscenza esperta dell’istruzione e dell’educazione e fa percepire il dirigente come leader riconosciuto dai propri inse­ gnanti; la funzione simbolica che si esprime nella capacità di finalizzazione, di visione, o di far cogliere il senso delle cose, di indicare le priorità, di orientare ed identificare le varie componenti della scuola e interpretare i loro sentimenti e aspettative; la funzione cultura­ le che è la forza chiave per creare un’identità condivisa attorno ai valori distintivi dell’isti­ tuto e per inserire i nuovi collaboratori e studenti, per costruire un pensiero comune e una «comunità morale». Bibl.: Bredeson P. V., «Organizational theory in education: comparative management perspec­ tives», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.), The International Encyclopedia of Education, Oxford, Pergamon Press, 1994, 4240-4246; Scott W. R., Le o., Bologna, Il Mulino, 1994; Bush T., Manuale di management scolastico, Trento, Erickson, 1997; Everard B. - G. Morris, Gestire l’autonomia. Manuale per dirigenti e staff di direzione, Ibid., 1999; R ibolzi L. (Ed.), Il dirigente scolastico, Firenze, Giunti, 1999; M alizia G. (Ed.), Un’educazione di qualità per il XXI secolo, in «Orientamenti Pedagogici» 48 (2001) 577-828; Sergiovanni T. J., Dirigere la scuola comunità che apprende, Roma, LAS, 2002; Serpieri R., Leadership senza gerarchia, Napoli, Liguori, 2002; Cssc-Centro Studi Scuola Cattolica, Dirigere e coordinare le scuole. Scuola Cattolica in Italia. Sesto Rapporto, Brescia, La Scuola, 2004; Toni R., Il dirigente scolastico, Milano, Mondadori, 2005; English F. W. (Ed.), Encyclopedia of educational leadership and ad­ ministration, Thousand Oaks, Sage, 2006.

G. Malizia

830

ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI Molte sono le o.i. che, direttamente o indi­ rettamente, si occupano di problemi edu­ cativi; soltanto poche, però, sono tali in senso stretto, cioè interstatali. Sorte per pro­ muovere e rendere stabile e organica la co­ operazione fra gli Stati membri in vista del conseguimento di scopi comuni, esse hanno struttura, organi e norme giuridiche propri che disciplinano gli interessi di cia­scun Pae­ se. 1. Al di là degli scopi specifici, gli obiettivi comuni in ambito pedagogico sono: offrire una visione di insieme sui problemi educa­ tivi, individuare tendenze e indirizzi, pro­ porre soluzioni ai problemi, valutare i ri­ sultati di queste e confrontarli. L’efficacia reale del loro operato dipende dal potere effettivo che ciascuna ha di impegnare gli Stati membri. Gli strumenti operativi di cui dispongono sono Direttive e Regolamenti (gli unici per sé vincolanti perché hanno valore di leggi), Convenzioni (forme deci­ sionali con possibilità di diventare vinco­ lanti ma soltanto se ratificate dagli Stati e integrate nella legislazione nazionale), Rac­ comandazioni, Risoluzioni, Dichiara­zioni e Avvisi (non vincolanti se non come impegno morale, e con contenuti sovente di natura pratica). Tutte le o.i. offrono un contributo significativo a livello conosciti­vo (studi, ri­ cerche, incontri, dibattiti), ope­rativo (speri­ mentazioni, progetti pilota) e informativo. Reti per la raccolta di docu­mentazione e per lo scambio di informa­zioni sui sistemi for­ mativi europei sono sta­te attivate dalla CEE con EURYDICE, dal CdE con l’EUDISED, sull’istruzione e l’e­d ucazione mondiale dall’UNESCO con il BIE. Quest’ultima, in collaborazione con le altre o.i., elabora le statistiche educative attraverso un ufficio con sede a Parigi a cui si deve, tra l’altro, la pubblicazione del­l’annuario internazionale dell’educazione. 2. CEE (Comunità economica europea) ora UE (Unione Europea): è dotata di struttu­re istituzionali dal Trattato di Roma (1957) e si è occupata, dal suo nascere, della → forma­ zione professionale nei Paesi ade­renti (art. 118 e 128 del Trattato). L’obiet­tivo limitato

ORIENTAMENTO

rispecchia lo scopo proprio dell’istituzione: «promuovere lo sviluppo economico degli Stati Membri». Soltanto con difficoltà e len­ tamente gli interessi educativi si espandono fino al Trattato di Maastricht (1991), in cui, per la prima vol­ta, le competenze comunita­ rie riguardanti l’educazione e la formazione vengono uffi­cialmente ampliate e ratifica­ te (art. 126 e 127). Nel 1975 viene creato a Berlino il CEDEFOP (Centro Europeo per lo sviluppo e la formazione professionale) con il compito di fornire consigli e informa­ zioni tecniche e scientifiche alle istituzioni della Comunità. La CEE è l’unica o.i. che ha un’autorità reale sancita da poteri sovrana­ zionali, con possibilità di emanare Direttive e Regola­menti.

5. UNESCO (Organizzazione delle Nazio­ ni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura): Istituto specializzato e autonomo dell’ONU, fu fondato a Londra nel 1945 e iniziò le sue attività a Parigi nel 1946. L’o. si propone di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza, rafforzando, attraverso educazione, scienza e cultura la collaborazione tra le nazioni. Per il numero degli Stati aderenti è la prima e sicuramen­te la più importante o.i. che si occupa di proble­ mi educativi. La sua peculiarità strutturale e operativa deriva dal suo ca­rattere mondiale. La struttura di lavoro dell’Unesco è costitu­ ita innanzitutto dalle «Commissioni nazio­ nali». L’o. dà grande importanza alla coope­ razione.

3. CdE (Consiglio d’Europa): è la prima o.i. europea creata nel dopoguerra (1949) con lo scopo di promuovere la riconcilia­zione e la pace tra i popoli. Fin dal suo na­scere il CdE ha sostenuto la cooperazione culturale e edu­ cativa come mezzo per av­vicinare gli Stati e per raggiungere una pa­ce durevole. Nel 1954 ha attivato al suo in­terno la «Convenzione Europea della Cultura», a cui possono ade­ rire anche Stati che non fanno parte a pieno titolo dell’o., per partecipare ai programmi in materia di cul­t ura, educazione, sport e gio­ ventù. Il pro­g ramma riguardante la cultura e l’educa­zione, parte integrante dell’o., è svi­ luppato dal CDCC (Consiglio per la coope­ razione culturale) al cui interno operano 4 comita­ti permanenti.

Bibl.: Unesco (Ed.), L’Unesco et l’éducation dans le monde, Paris, 1985; Conseil de l’Europe , Conférence permanente des M inistres Européens de l’éducation, La coopération européenne en matière d’éducation: activités de l’Une­sco, du Conseil de l’Europe, des Commu­ nautés européennes…, Strasbourg, 1991; R issom H. W., Unesco and the new Europe, in «Interna­ tional Review of Education» 38 (1992) 700-705; Skilbeck M. - I. Whitman, OECD and education links with central and eastern Europe, in Ibid., 696-700; Unità Italiana di Eurydice, Normati­ va comunitaria in materia di istruzione, Firenze, Biblioteca di Documentazione Pedagogica, 1992; Allegri M. R., Le o.i. Strategie e strumenti del­ la comunità internazionale, Padova, CEDAM, 2002.

4. OCSE (Organizzazione per la coopera­ zione e lo sviluppo economico): è creata a Parigi nel 1961 con lo scopo di promuovere la cooperazione e lo sviluppo economico, con­ dividendo la fiducia nei valori demo­cratici e in una economia di libero mercato. La sua po­ litica formativa riflette gli scopi istituzionali. L’o. non dispone di alcun po­tere coercitivo né finanziario. Il Comitato per l’educazione (uno tra i tanti) e il CERI (Centro per la ri­ cerca e l’innovazione nell’in­segnamento), organismo che funziona in modo autonomo in seno all’OCSE, attuano congiuntamente i programmi in tale ambi­to. I principali inte­ ressi dell’o. sono: il con­t ributo dell’istruzio­ ne allo sviluppo sociale e alla perequazione economica; il migliora­mento della qualità dell’insegnamento.

C. Di Agresti

ORIENTAMENTO L’o. è un processo educativo unitario in cui vengono distinti alcuni aspetti ed accen­t uati alcuni obiettivi dando in tal modo ori­gine alle seguenti specificazioni: o. voca­zionale, scolastico, personale e professio­nale. Nel senso generale, che sta alla base di queste specificazioni, l’o. consiste nel­l’aiuto che l’educatore offre al soggetto perché egli pos­ sa elaborare un progetto di vita e realizzarlo durante le singole fasi del­lo sviluppo. 1. Tipi. Con l’o. vocazionale il soggetto è aiutato a scoprire la sua chiamata ad una 831

ORIENTAMENTO

vita impostata sui valori sociali e religiosi a servizio degli altri. L’o. scolastico consi­ ste nel costante aiuto dato all’alunno perché egli possa avere successo negli studi e per­ ché possa operare progressivamente le scel­te scolastiche consone al suo modo di esse­re. L’o. personale consiste nell’aiuto al sog­getto perché affronti in modo adeguato la vita e prenda le sue decisioni in modo co­struttivo, assumendo responsabilmente le conseguen­ ze delle sue scelte. Infine l’o. professionale consiste nell’aiuto offerto al soggetto perché sviluppi alcune sue carat­teristiche in vista di una futura occupazio­ne, formi le sue prefe­ renze in rapporto a tale occupazione per rea­ lizzare poi, eserci­tando la relativa attività la­ vorativa, determinati → valori. Questi aspetti dell’o. sono basati sull’aiuto dato al soggetto ad auto­definirsi, a formare in tal modo la sua iden­tità personale e sociale e ad autorealiz­ zarsi (Macario et al., 1989). L’esito di questo processo formativo è rappresentato dalla col­ locazione del soggetto nella vita attiva svolta con soddisfazione e dal raggiun­gimento di un determinato stato sociale. 2. Discipline fondanti. L’o. trae contenuti e metodi da numerose discipline: la → filoso­fia dell’educazione offre l’informazione sul si­ gnificato del destino umano e in modo speci­ fico sul significato della attività lavo­rativa; la → metodologia pedagogica offre delle norme sul come deve avvenire la for­mazione intel­ lettiva, sociale, etica e pro­fessionale del sog­ getto; la → sociologia del­la gioventù dà delle importanti informazio­n i sulle aspirazioni, atteggiamenti, tenden­ze dei giovani e in modo particolare sul si­gnificato che il lavoro assume nei loro pro­getti esistenziali. Segue poi il contributo delle singole psicologie: la → psicologia del­lo sviluppo, con la descrizione delle fasi evolutive, offre dei criteri di valuta­ zione dei processi maturativi e dei condizio­ namenti che gli specifici sviluppi subisco­no, come quello affettivo, sociale, intellet­t ivo ed etico; su tali sviluppi si innesterà quello professionale; la → psicologia diffe­renziale informa sulle caratteristiche indi­viduali nel loro aspetto attitudinale, emo­zionale, moti­ vazionale e sulla caratterizza­zione dei grup­ pi professionali; la → psico­logia del lavoro, in una prospettiva piutto­sto remota, media informazioni sull’adat­t amento al lavoro e sulle possibili fonti di soddisfazione; la → 832

psicologia clinica infi­ne offre informazioni sulle eventuali tendenze devianti del sogget­ to e quindi con­t roindicazioni all’esercizio di una specifica attività lavorativa. In sintesi, nelle disci­pline citate possono essere distin­ ti i contri­buti che si riferiscono ai fini, alle cono­scenze della società e del soggetto. Da esse vengono tratti dei → costrutti e adottati dei metodi in base ai quali vengono elaborati dei progetti di o. 3. Metodi e approcci. Il passaggio del sog­ getto dalla scuola al lavoro viene mediato con vari metodi. Il primo è rappresentato dal­ la diagnosi con la quale vengono esami­nate varie componenti del soggetto. A tale scopo sono adatte scale di valutazione de­stinate all’insegnante, questionari per rile­vare le più svariate dimensioni della perso­nalità ed al­ cuni test dai quali emerge l’individualità del soggetto nei suoi lati for­ti e deboli e le sue capacità. Un secondo metodo è rappresenta­ to dalla valutazione dell’apprendimento delle singole materie condotto dall’insegnante; il successo scolastico ne costituisce il migliore predittore. Il terzo metodo è rappresentato dal → collo­quio nella sua duplice funzione: completa­re le informazioni mancanti e ope­ rare una sintesi di tutti i dati in un quadro organico e consistente in stretto rapporto con il pro­getto di vita e con quello professionale del soggetto. Tale sintesi è un presupposto per una valida decisione professionale. In tale contesto si possono individuare tre ap­ procci all’o.: scelta professionale, sviluppo professionale e processo decisionale. Nel primo l’orientatore aiuta il soggetto a ope­ rare una valida scelta, che consiste nell’ac­ cordo della struttura della personalità con i requisiti specifici dell’occupazione. Il se­ condo è articolato in base alle fasi della vi­ta umana; e pertanto lo sviluppo professio­nale viene visto come una parte della cre­scita. Gli stadi evolutivi sono caratterizzati da compe­ tenze acquisite che impongono decisioni da prendere e che rappresentano nello stesso tempo indici di maturità. Nel terzo approc­ cio il soggetto raccoglie infor­mazioni sulle varie attività lavorative, sele­ziona alternati­ ve adatte valutandone van­taggi e svantaggi, opera la prima scelta e la verifica con un’ul­ teriore riflessione ed in­fine la valuta. La fina­ lità di questo approc­cio consiste soprattutto nell’acquisizione della capacità decisionale.

ORIENTAMENTO

Il processo vie­ne articolato in alcuni stili de­ cisionali, co­me quello razionale, intuitivo ed emozio­nale. Nel primo predominano i fattori logi­ci e vengono esaminati i pro e contro del­ la scelta; il secondo tiene conto dei vantaggi e degli svantaggi in modo globale; il terzo infine è basato sui motivi affettivi. Lo stile ra­zionale sembra più adatto degli altri due in quanto risulta correlato con l’età dei sog­getti; si nota infatti un progressivo sposta­mento in rapporto all’età dei soggetti dallo stile intui­ tivo ed emozionale allo stile ra­zionale. 4. Teorie. Sull’o. professionale sono state elaborate varie teorie tra le quali le più no­te sono quella di A. Roe, di J. L. Holland e di D. E. Super. La Roe sostiene che lo svi­luppo professionale sia guidato dallo stile educati­ vo dei genitori. L’autrice distingue vari stili educativi che soddisfano i bisogni dei figli in modo differente e che quindi li formano o li deformano. In base ai bisogni formati il figlio opta per una specifica area profes­ sionale; per es., il figlio amato dai ge­nitori, acquisendo le competenze di una va­lida in­ terazione con le persone si oriente­rebbe ver­ so le professioni che richiedono il contatto sociale; al contrario, il figlio ri­fiutato dai ge­ nitori si orienterebbe invece verso il settore tecnico. La teoria offre del­le utili indicazioni per capire la struttura dei bisogni del sogget­ to e il modo in cui tende a soddisfarli nell’at­ tività lavorativa. Holland fonda la sua teoria sui tipi professionali; sostiene che vi sono fondamental­mente sei tipi professionali e sei identiche aree. Il tipo è attratto dalla rispetti­ va area e se entrerà in essa sarà soddisfatto, renderà bene nel lavoro e sarà perseverante. Le stesse conseguenze sono previste in rap­ porto agli indirizzi scolastici e alle facoltà universitarie. La teoria offre, quindi, delle valide predizioni sull’esito dell’interazione del soggetto con il suo ambiente scolastico e lavorativo. Super basa la sua teoria sulle fasi evolutive e successivamente sulle fasi della vita umana dalla preparazione all’abbando­ no dell’attività lavorativa. Lo svi­luppo viene visto come potenziamento del concetto di sé ed è articolato nell’arco evo­lutivo principal­ mente in tre costrutti: → in­teressi, → abilità e → valori. Nell’infanzia le prime preferen­ ze professionali sono basate sul sentimento di piacevolezza, nell’adole­scenza vengono prese in considerazione le abilità mentre in

giovane età emergono i valori. Il → concetto di sé positivo è un valido presupposto alla continuità dello sviluppo; se potenziato inol­ tre esso equivale ad una buona maturazione professionale. Vice­versa, un concetto di sé negativo limiterà l’esplorazione professio­ nale alle aree pro­fessionali meno impegna­ tive; se poi è an­che indifferenziato non per­ metterà al sog­getto di confrontarsi con aree professiona­li specifiche, renderà difficile la sua scelta e se sarà effettuata essa risulterà instabile. Le tre teorie si completano: la pri­ ma pone l’accento sull’origine del progetto profes­sionale, la seconda sulla sua consoli­ dazione per mezzo dell’interazione sociale e la ter­za sulla realizzazione e la conduzione del­l’intero processo professionale. 5. Fattori ed effetti. L’o. si realizza in una determina­ta cultura intesa come un sistema di credenze, costumi, valori e istituzioni che rap­presentano il significato dell’esistenza umana e in modo specifico il significato del lavoro. Tra le istituzioni, la prima è la fa­ miglia che entra nel processo dell’o. con il suo livello socioculturale e con i suoi valo­ri ed atteggiamenti. Insieme con le aspira­zioni sul futuro del figlio i genitori facilita­no op­ pure involontariamente ostacolano il suo svi­ luppo professionale. La seconda isti­t uzione formativa è la scuola con i suoi pri­mi mo­ delli professionali per l’alunno, le differenti discipline scolastiche e con la va­lutazione dell’apprendimento. Infine, la terza consiste nei centri di o. che guidano l’intero processo in vista di un valido inse­rimento del sogget­ to nella società. Al giorno d’oggi il processo dell’o. può essere gestito efficace­mente con il computer, usufruendo di banche dati o di informazioni di rete. Bibl.: Viglietti M., O.: una modalità educativa per­manente, Torino, SEI, 1988; Macario L. et al., Orientare educando, Roma, LAS, 1989; Walsh W. B. - S. H. Osipow (Edd.), Career counseling: contemporary topics in vocational psychology, Hillsdale, Erlbaum, 1990; M acario L. - S. Sarti, Crescita e o., Roma, LAS, 1992; Guichard J. - M. Huteau, Psicologia dell’o. professionale, Milano, Cortina, 2003; Cospes, Orientare alle scelte: Percorsi evolutivi, strategie e strumenti operativi, Roma, LAS, 2005; Guindon M. H. L. J. R ichmond, Practice and research in career counseling and development-2004, in «The Ca­

833

ORTEGA Y GASSET JOSÉ

reer Development Quarterly» 54 (2005) 90-137; Greenhaus J. H., «Career dynamics», in I. B. Weiner (Ed.), Handbook of psychology, vol. 12, New Jersey, Wiley, 2003, 519-540; H arrington T. E. - T. A. H arrigan, Practice and research in career counseling and development-2005, in «The Career Development Quarterly» 55 (2006) 98-167.

K. Poláček

ORIENTATORE → Orientamento ORSOLINE → Congregazioni insegnanti fem­ minili

ORTEGA Y GASSET José n. a Madrid nel 1883 - m. ivi nel 1955, saggi­ sta e filo­sofo spagnolo. 1. Conseguito, all’università Madrid, il dotto­ rato in filosofia e let­tere (1904), completò gli studi filosofici in Germania (Lipsia, Berlino, Marburgo), dove ricevette l’influsso della scuola neo­kantiana. Nel 1910 occupò la cat­ tedra di metafisica all’Università di Madrid, dopo essere stato professore di filosofia pres­ so la Escuela Superior del Magisterio. Nel 1923 fu nominato membro della Real Aca­ demia de Ciencias Morales y Políticas. Nel­lo stesso anno fondò la «Revista de Occi­dente», attraverso cui diffuse l’opera dei pensatori tedeschi contemporanei. Nel 1931 è eletto deputato della seconda repubblica spagnola; ma l’anno seguente, «deluso dal settarismo» della costituzione repubblicana, abbandona l’attività politica. Dal 1936-39 vive in esilio a Parigi; poi in Argentina. Ritorna in Spa­ gna nel 1946. Il pensiero filosofico di O. «po­ trebbe riassumersi e fissarsi nella frase che si legge già nelle Meditaciones del Quijote (1914): “Io sono io e la mia circostanza”. Il mondo è concepito come una “prospettiva” che rientra in modo essenziale nella esi­ stenza umana» (Muñoz Alonso-Savignano, 2006, 8202). 2. I saggi su temi peda­gogici rappresentano una parte modesta nell’insieme della vasta produzione di O. Tra i più significativi: La pedagogía del paisaje (1906), Sobre los es­ tudios clásicos (1907), «Prólogo» a Pedago­ gía general di Herbart (1914), Pedagogía y 834

anacronis­mo (1923), Misión de la universidad (1930), El Quijote en la escuela (1945). Que­ sti saggi non costituiscono una trat­t azione completa e sistematica. Idee e sug­gestioni sull’educazione e la scuola si tro­vano pure in scritti non prettamente peda­gogici, e si inse­ riscono nel quadro del pensiero filosofico di O. Per questi l’uomo, capace di una prospet­ tiva che cambia, non può limitarsi a contem­ plare la realtà, ma deve modificarla e crearla nella sua propria «circunstancia», dandole il senso e signifi­cato di cui è priva quando egli comincia il compito di costruire se stes­ so, aiutato da­gli «artifici» e dai «reattivi» di un interven­to «positivo» esterno. L’uomo è mosso dal­le idee e dalle credenze, ma solo queste ultime, a cui è «inesorabilmente uni­ to», lo spingono all’azione che diventa strada del­la propria autorealizzazione. La società, invece, come piattaforma di comunicazio­ne, lo porta alla convinzione che in essa non può manifestarsi che come un essere anonimo e impersonale. Profondamente caratterizzato nella sua sfera individuale dalla → solitudine, l’uomo cerca di superarla entrando nella pro­ spettiva e nell’essere de­gli altri mediante l’→ amicizia. Insoddisfatto, perché essa non lo rende capace di uscire totalmente da se stes­ so, ricorre all’espres­sione più alta dell’amici­ zia, che è l’amore. Ma se questo si riduce ad uno «scambio di solitudini», se gli altri «non sono qualche cosa» per lui e non fa la scelta di vivere in comunità di vita con loro, con piena consa­pevolezza di quella scelta e ac­ cettando le responsabilità che nascono dalla medesi­ma, neppure l’amore rende l’uomo ca­ pace di uscire da se stesso. 3. Nella prospettiva di → Natorp, O. conce­ pisce la politica come una pedagogia socia­ le per la trasformazione della società, tra­ sformazione impossibile da raggiungere per mezzo di una «pedagogia individuale», che sarebbe «un errore e un progetto steri­le». Vi­ cino, d’altra parte, alle tesi di → Herbart, af­ ferma che la pedagogia poggia su due scien­ ze filosofiche: l’etica e la psicolo­gia. Cercan­ do di superare l’«anacronismo» del pensiero pedagogico, propone una scuola – unica e laica – fondata su una «pe­dagogia perenne» che offra a tutti una educazione essenziale, che adatti l’ambiente all’uomo e non l’uomo all’ambiente. Il significato del contributo di O. alla storia dell’educazione va individuato

ORTOGRAFIA

soprattutto nell’influsso del suo pensiero, in particola­re, sulla cultura spagnola e ispanoameri­cana contemporanea. A gran parte de­ gli scritti orteghiani di filosofia, sociologia e critica letteraria è infatti sottesa una vigo­ rosa intenzione educativa. Bibl.: Escolano A., Los temas educativos en la obra de J.O. y G., in «Revista Española de Peda­gogía» 26 (1968) 211-230; Rukser U., Bi­ bliografía de O., Madrid, Revista de Occidente, 1971; Escolano A., «J.O. y G.», in Á. Galino, Textos pedagógicos hispanoamericanos, Madrid, Narcea, 1974, 1539-1577; La Rubia P rado F., Una encrucijada española: ensayos sobre M. de Unamuno y J.O. y G., Madrid, Biblioteca Nueva, 2005; Muñoz Alonso A. - A. Savignano, «O. y G., J.», in Enciclopedia filosofica, vol. 8, Milano, Bompiani/Fondazione C. S. F. Gallarate, 2006, 8201-8204.

J. M. Prellezo

ORTOGRAFIA Agli effetti didattici, pare convenga accet­tare la distinzione tra o. d’uso e o. grammaticale. La prima rappresenta la riprodu­zione della parola in se stessa, come è data dal vocabola­ rio, indipendentemente dalle alterazioni che il dinamismo grammaticale viene ad inseri­ re. La seconda si connette appunto con que­ ste alterazioni verbali. 1. Fattori psicologici della scrittura ortogra­ fica. Tanto nel primo quanto nel secondo caso la riproduzione ortografica non è le­gata esclusivamente a fattori d’ordine per­cettivo, sensoriale, ma anche a fattori lin­g uistici o di articolazione fonetico-motoria, e non meno a fattori di carattere intellet­t uale. J. Simon aveva già criticato le teorie sensoriali, che facevano dipendere l’o. to­t almente dalle immagini verbali localizzate nell’emisfero sinistro del cervello, poiché, come risultava dalle sue esperienze, la ri­produzione orto­ grafica della parola dipen­de anzitutto dalla memoria uditiva associata alla memoria vi­ siva (segno fonico + segno grafico), e inoltre da operazioni men­tali di connessione logica, analogica, eti­mologica. La psicologia dell’o. si è venuta definendo soprattutto attraverso gli studi delle cause della «disortografia».

Ecco al­cune delle conclusioni, a cui sono pervenu­ti gli sperimentatori: a) Lo scrivere male non dipende di per sé dal leggere male, ma entrambi i difetti emergono da una stessa causa più fondamentale: secondo Simon ed altri psicologi francesi, tale causa starebbe in un disordine o in una deficienza nella perce­ zione dello spazio e del tempo. Vale a dire, il soggetto si dimostra incapace di orientarsi nello spazio, non riconoscendo la destra e la sinistra, l’alto e il basso, così che le lettere sarebbero conseguentemente collocate fuori posto o verrebbero confuse tra loro (es.: p, b, d, q, e, d’altra parte, n e u). Parallelamente si è riscontrata una cor­relazione tra difficoltà ortografica e defi­cienza nella riproduzione di ritmi e ca­denze. b) Affine a questa pare vi sia una se­conda causa: la dominanza o preferen­ za laterale, particolarmente nella forma del mancinismo. Il disturbo più grave sarebbe la «scrittura speculare». Ma le cose si com­ plicano molto quando intervenga una «pre­ ferenza laterale incrociata» (mano destra e occhio sinistro). c) Secondo altre ricerche, i difetti visivi non sarebbero legati tipica­ mente alla disortografia; vi sarebbe invece una correlazione tra conoscenza lessicale ed o. (più che non tra QI ed o.), e così pure un netto influsso sull’o. dei seguenti fatto­ri: pro­ nuncia, bilinguismo, articolazione fo­natoria, e forse anche il cambio di scuola e di metodi didattici. d) Cause di difficoltà possono an­ cora essere il non applicare le regole foneti­ che, una scarsa immaginazio­ne visiva e una pronuncia difettosa. e) La buona o. ha un’alta correlazione positiva con l’abilità fonetica e la discriminazione visiva, non necessaria­ mente invece con la discriminazione uditiva. f) Generalmente, chi legge correttamente, scrive anche bene. Pertanto, possiamo affer­ mare sintetica­mente che alla base dell’abilità ortografica stanno fattori percezionali, mo­ tori (capa­cità normale di scrittura), fonetici, intellet­tuali e culturali. Conseguentemente, un metodo didattico che voglia assicurare un effettivo possesso dell’o., deve prender le mosse da una considerazione psicologica multilaterale. 2. Indicazioni psicologiche per una didatti­ ca dell’o. I problemi fondamentali di una didattica dell’o. si possono racchiudere in due categorie: il contenuto lessicale e il me­ todo da usarsi. a) Parlando di contenuto, 835

ORTOPEDAGOGIA

è necessario distinguere due aspetti di im­ mediato valore metodologico: quali parole dovrebbero saper scrivere correttamente gli allievi di un dato livello scolastico? e quali sono gli errori più comuni a ciascuno stadio della scolarità? Sostanzialmente, dunque, se si vuole progettare un program­ma razionale di insegnamento ortografico, occorre risol­ vere il problema della quan­tità e gradualità del vocabolario ortografi­co, nonché il pro­ blema della correzione de­gli errori comu­ ni. Ciò significa che occor­rerà determinare sperimentalmente anzi­t utto il contenuto del «vocabolario di ba­se» usato dagli adulti nel­ lo scrivere, e, in secondo luogo, il contenuto di un vocabolario scritto proprio dei fanciulli dei diver­si stadi di evoluzione psichica. La ricerca e compilazione di un vocabolario di base comportano un lavoro di proporzioni co­lossali. Stabilito il contenuto, è necessa­ rio determinare per ciascun grado scolastico quali parole debbano essere insegnate. A tale proposito, i criteri finora usati per la compila­ zione di un vocabolario ortografico graduato si possono ridurre ai seguenti: 1) importan­ za della parola rispetto alla sua permanenza nell’uso; 2) difficoltà della pa­rola nella sua composizione fonetica; ma questo criterio è oggi integrato da altre considerazioni: 3) considerazioni logiche, tra cui l’appartenen­ za delle parole ad un comune tema o ad una comune famiglia lessicale che viene man mano costruita; e 4) frequenza dell’uso di tali parole negli scritti dei fanciulli; poiché, pur ammetten­do che una certa parola offra particolari difficoltà ortografiche, qualora essa venga usata frequentemente da fanciulli dell’epo­ca attuale, i quali la odono pronun­ ciare al­la radio o al cinema e la vedono scrit­ ta sui giornali, è evidente che la rispettiva o. do­vrà essere curata fin dagli inizi. b) Al pro­ blema del contenuto fa immediatamente se­ guito quello del metodo. Oggi, le ricerche più severe hanno condotto anzi­t utto a precisare i settori didattici, che si of­f rono come terre­ no funzionale e vitale per un insegnamento occasionale dell’o. Così si è chiarita l’utili­ tà di connettere tale inse­g namento con la composizione scritta, con l’espressione orale (pronuncia), con la let­t ura, con la scrittura (corsiva o stampatel­lo). Pertanto, si afferma che un certo ap­prendimento occasionale si ha di fatto e do­vrebbe essere coltivato in tali settori dell’insegnamento. Tale insegnamen­ 836

to siste­matico dovrebbe incominciare là ove vien meno quello occasionale o incidentale. Ap­propriati test diagnostici amministrati pri­ma dello studio sistematico riveleranno agli allievi e all’insegnante quali parole non so­no state ancora imparate occasionalmente, economizzando in tal modo e motivando il lavoro della lezione di o. Bibl.: Calonghi L., Errori orto­grafici nella scuo­ la secondaria, in «Orientamenti Pedagogici» 7 (1960) 245-265; Titone R., L’inse­g namento del­ le materie linguistiche e artistiche, Ro­ma, LAS, 1963; Frith U. (Ed.), Cognitive processes in spell­ ing, London, Academic Press, 1980; Fresch M. J. - A. Wheaton, Teaching and assessing spelling, New York (NY), Scholastic Books, 2002; Marten C., Word crafting: teaching spelling, Ports­ mouth (NH), Heinemann, 2003.

R. Titone

ORTOPEDAGOGIA Il Lessico universale (vol. 15, 520) intende l’o. come: «L’insieme delle conoscenze e del­ le tecniche educative rivolte a influen­zare le facoltà intellettuali di soggetti men­talmente ritardati o con anomalie del ca­rattere al fine di migliorare le possibilità di una loro in­ tegrazione nel consorzio sociale. Tale pro­ gramma trova pratica realizzazio­ne nell’ope­ ra di tecnici specializzati (orto­pedagogisti) in problemi particolari riguardanti la vita sco­ lastica, il lavoro, l’attività ricreativa, ecc.». La Nuova enciclopedia universale (vol. 14, 515) scrive che si tratta di un «termine usato, soprattutto nei paesi di lingua anglosassone, per indicare quella pedagogia che si interes­ sa, con metodolo­gie e tecniche specializzate, dei problemi relativi all’educazione dei sog­ getti irrego­lari, ipodotati o disadattati». Date le sue finalità altamente umanitarie, l’o. dà la giusta misura degli sforzi che la scienza fa per mettersi al servizio di tutti compresi coloro che per ragioni indipen­denti dalla loro volontà non potrebbero farcela da soli e han­ no assoluto bisogno di essere assistiti. A se­ conda del tipo di soffe­renza si distinguono le seguenti principali categorie di soggetti con ritardo congenito o acquisito dello sviluppo mentale, psichi­co, sensoriale (vista, udito e qualche volta anche tatto), motorio (pare­

OSSERVAZIONE

si, paralisi, spa­smo) o per malattie interne congenite. Fi­nora, per la maggior parte, gli ortopedago­g isti provenivano dalla classe medica e pa­ramedica, adesso anche gli psi­ cologi non medici portano il loro prezioso contributo. Una particolare sottolineatura va posta per i progressi attuati dalla tecnica per l’or­tofonia, per le attrezzature a favore dei non vedenti e non udenti, per la riabilitazio­ ne motoria. Bibl.: Allen J. R., Human stress, its nature and control, New York, Macmillan, 1983; Ancona L. - M. Di Giannantonio, Le radici della sofferen­ za mentale, Roma, Borla, 1987; A ragona M. - L. Di Geronimo, II training auto­geno e lo stress, Messina, EDAS, 1987; Garofolo G., Preven­ zione psicosociale e salute, Roma, Borla, 1989; Vico G., Disadattamento, Brescia, La Scuola, 1991; Biondi M., La Psicosomatica nella prati­ ca cli­nica, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1992; McK ay M. - P. Fanning, Self-esteem, Oakland, New Harbinger Publications, 1994; M inuto I., La patologia del linguaggio infantile, Firenze, La Nuova Italia, 1994.

V. Polizzi

OSSERVAZIONE L’o. è una rilevazione di informazioni inten­ zionale e rigorosa. In senso tecnico osservare è distinto da vedere (percepire con gli occhi) e da guardare (che aggiunge intenzionali­ tà), e implica un guardare selettivo, secondo ipotesi, finalizzato a rilevare informazioni in modo valido e costante. L’o. comporta un osservatore adeguatamente formato, un contesto scelto con attenzione, un oggetto da osservare ben delimitato, strumenti idonei e coerenti, un modo di raccogliere, codificare e analizzare i dati rilevati per trarne con­ clusioni. 1. La classificazione delle forme di o. può es­ sere operata adottando diversi criteri. A se­ conda del grado di partecipazione dell’osser­ vatore, ad es., si distinguono: l’o. documen­ taria (fondata su notizie d’archivio, registra­ zioni audio, video, diari…); l’o. indipendente (con il ricercatore nel contesto da osservare, però adeguatamente distanziato dallo stesso) e partecipante (con il coinvolgimento diretto

dell’osservatore nel contesto). A seconda del grado di controllo esercitato dal ricercato­ re sull’ambiente si possono distinguere: l’o. naturalistica (con la quale si rilevano i com­ portamenti del soggetto nel suo ambiente na­ turale), l’o. in condizioni controllate (in cui si impone un certo grado di vigilanza sulla situazione da osservare) e l’o. in ambiente artificiale. Tenendo conto del diverso grado di strutturazione preliminare degli strumenti si possono distinguere: le tecniche di o. si­ stematica (con risultati numerici) e quelle di descrizione narrativa (che richiedono la ste­ sura di resoconti). Tra gli strumenti di o. si­ stematica si possono distinguere: check-list, sistemi di segni, sistemi di categorie, siste­ mi di codifica interattiva e → scale di valu­ tazione. Tra le tecniche narrative si possono annoverare: diari, registrazioni anedottiche, annotazioni autobiografiche. Gli strumenti di o. possono essere distinti inoltre in base al fatto che prevedano una rilevazione diretta dei comportamenti (es. check-list) o mediata attraverso l’autodescrizione del soggetto (es. questionario, scale). 2. Circa a metà del sec. XIX si è sviluppa­ to nella → pedagogia un filone di studi che recepi­va lo statuto delle scienze naturali. Si è cer­cato dunque di teorizzare anche un tipo d’o. che consentisse rilevazioni ogget­tive dei fatti, che fondasse spiegazioni generalizza­ bili. Secondo questo approccio l’osservatore doveva evitare di modificare la situazione, non farsi influenzare emotivamente, perché le rilevazioni non fossero distorte. Per raggiun­ gere tale scopo doveva usare mezzi idonei, ovvero strumenti di rilevazione strutturati. Dal 1960-70 hanno cominciato ad emer­gere riserve verso questo tipo d’o. e si è andato affermando un altro paradigma epistemolo­ gico. Si è optato per l’o. partecipante d’una esperienza che viene colta in modo olistico. Questo tipo di o. mira alla comprensione o interpretazione della situazione, a descri­vere e caratterizzare casi più che alle generalizza­ zioni. Adotta tec­niche d’analisi qualitativa. L’osservatore vive nella situazione che os­ serva (questo gli dà modo di capirla dall’in­ terno), non assume una posizione distaccata, ma al contrario cerca di servirsi dell’empatia per comprendere più a fondo. L’osservatore si propone così di sco­prire il significato di quel fenomeno viven­te che è la situazione 837

OTTIMISMO

pedagogica conside­randola nella sua globa­ lità, per non de­vitalizzarla. I procedimenti e gli stru­menti di o. che si possono usare nella ricerca qualitativa sono svariati: dal metodo cli­nico piagetiano, alla → riflessione parlata di → Claparède e → Buyse, all’intervista non direttiva, al focus group, alle varie forme di o. del → problem solving.

visione umanistica che crede nella possibi­ lità della crescita dell’uomo, pur nelle am­ biguità e ambivalenze, e che si ra­dica sulla realtà salvifica proposta dall’evangelo. E anche se non si nasce ottimisti per decreto, si può diventarlo agevolmente, orientando il proprio modo di interpretare gli eventi e di guardare all’esistenza umana.

Bibl.: Zambelli F., L’o. e l’analisi del comporta­ mento, Bologna, Patron, 1983; P erricone G. (Ed.), Agire l’o.: modelli e percorsi, Milano, Mc­ Graw-Hill, 2003; Simpson M. - J. Tuson, Using observations in small-scale research: a begin­ ner’s guide, Glasgow, SCRE, 2003; Baumgartner E., L’o. del comportamento infantile, Roma, Carocci, 2004.

2. Nella prospettiva pedagogica ci si dibat­te tra l’o. utopico, che promette infinite possi­ bilità di successo all’educazione (idealismo, essenzialismo, naturalismo, po­sitivismo) e il pessimismo nichilista, che ne­ga all’educa­ zione ogni capacità di vincere i condiziona­ menti ereditari o ambientali (manicheismo, dirigismo, comportamentismo, innatismo). L’o. realista ritiene sempre possibile educare con successo, pur riconoscendone tuttavia limiti e difficoltà. È questo l’o­rientamento di grandi educatori come un don → Bosco. Essi riconoscevano che la via dell’o. è percorribi­ le nel rapporto educativo: l’edu­cando si trova in situazione di attese e di potenzialità; l’e­ ducatore fa propria la disponibilità comuni­ cativa, specie nella sua espressione oblativa; la re­lazione tra loro dispone a instaurare ed esplicitare un’esperienza significativa di crescita educativa. In questo processo l’at­ teggiamento ottimistico suscita energie e risorse impensate negli interlocutori, che percorrono, con il dialogo e il confronto, le vie della ricerca del bene educativo e dei va­ lori esistenziali. La stra­da dell’o. è percor­ ribile, perché si constata una sufficiente in­ determinatezza nella costituzione biologica e nei condizionamenti ambientali, e lo stato di potenzialità del soggetto assicura la di­ sponibilità al processo di sviluppo. La natu­ra razionale e intenzionale della persona, come la sua libertà e responsabilità etica rendo­ no pertanto possibile il percorso educativo. In definitiva è la natura sociale e spirituale dell’uomo a renderlo educabile nell’ottica dell’esito positivo, anche in si­t uazioni dram­ matiche. Lo ha accertato V. → Frankl quando parla di «o. tragico»: la «volontà di signifi­ cato» restituisce all’uo­mo la felicità, poiché «potenzialmente non solo esiste un senso in­ condizionato della vita, ma anche un valore incondizionato dell’uomo: è questo a fare la dignità uma­na». L’o. sul senso della vita ren­ de pratica­bile l’educazione ai grandi valori e ideali dell’esistenza umana.

C. Coggi

OSSESSIONE → Nevrosi

OTTIMISMO L’o. è l’attitudine a valutare favorevol­mente lo stato e il divenire della realtà (Za­nichelli). 1. Nella «ruota delle emozioni» (una classi­ ficazione di R. Plutckik) l’o. è considerato come uno stato emotivo che compone in armonia le emozioni primarie della gioia e dell’aspettativa. L’una si collega stretta­ mente a un’attività gratificante che tende verso lo scopo desiderato; la seconda si pone a livello di valutazione e apprezza­ mento degli avvenimenti, prevedendone un esito positivo (D. Krech e R. S. Crutchfield). Secondo E. → Erikson l’o. sarebbe l’atteg­ giamento fiducioso che si sviluppa con la risoluzione del­le crisi psicosociali (raccor­ do tra individuo e ambiente) attraverso le otto fasi dello svi­luppo sino alla maturità. Nelle correnti cul­t urali odierne esso viene collocato nel cosiddetto «pensiero positi­ vo» o «cultura del sì», che prospetta il ri­ conoscimento e la valorizzazione di tutte le positività del vi­vere sociale moderno e che rende abili a sviluppare una personalità in continua maturazione, a usufruire della vo­ glia di vivere, a osare ciò che è creativo e divergente di fronte a situazioni inedite, a usare la forza della fede per giungere al me­ glio. Oggi riscontriamo inoltre o. in quella 838

OWEN ROBERT

Bibl.: Frankl V. et al., O. per vi­vere OK, Milano, Paoline, 1991; Peale N. V., Il pensiero positivo oggi, Roma, Armenia, 2004; Seligman M. E. P., Imparare l’o., Firenze, Giunti, 2005.

G. B. Bosco

OTTO Berthold n. a Bienowitz (Slesia) nel 1859 - m. a Ber­ lino nel 1933, pedagogista tedesco. 1. Nato in una famiglia benestante, studiò glottologia, economia politica, filosofia e pedagogia. Le sue idee innovatrici riguar­ do all’insegnamento e le prime esperienze realizzate in questo campo, come maestro privato, ebbero vasta eco. Con l’aiuto del governo prussiano, che lo invitò a trasfe­rirsi a Berlino, si dedicò alla diffusione del suo «sistema» e all’applicazione del mede­simo in una scuola privata (1906) divenuta famosa. Alla base dell’organizzazione di questa c’era il principio che la riforma del­la società deve essere allo stesso tempo po­litica, economica e pedagogica. 2. Vicino alla concezione rousseauiana del­ la persona e dell’educazione, O. ritiene che l’apprendimento «naturale» – l’unico ade­ guato per il bambino – consiste in «una cre­ scita spirituale» personale, e che educare si­ gnifica offrire una «relazione spirituale» che consenta la normalità di tale crescita. L’am­ biente ideale a questo scopo è la famiglia, che deve essere formata perché si trasformi in una vera «scuola domestica». I principi che reggevano l’andamento della «scuola con maestro domestico» (Hauslehrerschu­ le) di O. erano la naturalità e la li­bertà nel comportamento. Il contatto con la natura, lo sport, il gioco (applicato pure all’insegna­ mento), le feste, i viaggi di stu­dio, il lavoro in gruppi, la flessibilità dell’o­rario, l’autovalu­ tazione (Selbstprüfung), l’autoapprendimen­ to (Selbstlernen), l’uso della lingua propria dell’età e l’autonomia della comunità educa­ tiva erano il veicolo logico di un’educazione naturale, che, una volta alla settimana, tro­ vava una sua espressione caratteristica nella «lezione comprensiva» (Gesamtunterricht) in forma di dialogo aperto attorno a un tema propo­sto dagli stessi alunni.

3. O. è ritenuto uno dei pionieri del movi­ mento di riforma pedagogica (→ Scuole Nuove). Le sue realizzazioni didattiche eb­ bero notevole risonanza e furono accolte e sviluppate da altri riformatori; nell’ambito della scuola pubblica statale il tipo di or­ ganizzazione proposto trovò però pochi con­ sensi. Bibl.: O.B., Ausgewählte pädagogische Schrif­ ten [Scritti pedagogici scelti], besorgt von K. Kreitmair, Paderborn, Schöning, 1963; Scheibe W., Sto­ria della pedagogia del XX secolo, Roma, Pao­line, 1964; I d., «O.B.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 8626-8631.

A. García-Verdugo

OWEN Robert n. a Newtown (Galles) nel 1771 - m. ivi nel 1858, riformatore sociale e educatore ingle­ se. 1. Nato in una famiglia di modesti commer­ cianti del Galles, O. riceve l’istruzione che impartivano le scuole del tempo: «leggere correntemente, scrivere in scrittura leggibi­ le e capire le quattro regole dell’aritmetica». Dai sei ai nove anni viene assunto dal mae­ stro come suo «assistente». Nel darne notizia O. aggiunge un commento: «questi due anni furono perduti per me, eccetto che acquistai così ben presto l’abitudine d’insegnare agli altri quel che sapevo» (Vita, 2). D’allora la sua formazione è autodidatta. Dopo «lunghe lotte interne» abbandona la fede religiosa, rimpiazzata «dallo spirito di carità univer­ sale». 2. Quando nel 1800 assume la direzione di una filanda a New Lanark (Scozia), decide di mettere in atto le sue idee di riforma sociale. Prende misure per migliorare l’ambiente di lavoro e le misere case degli operai, convin­ to che l’uomo è «creatura delle circostanze o delle condizioni in cui si trova a vivere». Da tale considerazione prendono le mosse le sue esperienze scolastiche (→ scuola dell’infan­ zia) e la critica nei confronti di una società che non esita a spendere somme ingenti per punire i delinquenti, ma che non fa nulla per 839

OWEN ROBERT

«prevenire i delitti» eliminando le circostan­ ze che tendono a generare il malcostume. Sono alcune delle idee esposte da O. negli scritti: Per una nuova concezione della so­ cietà (1813), Osservazioni sugli effetti del sistema industriale (1815). Bibl.: Mazzetti R., Socialismo utopistico e cul­

840

tura, Napoli, Libreria Scientifica, [s.d.]; Silver A. (Ed.), R.O. on education, Cambridge, University Press, 1969; Baldini M. (Ed.), Utopia e pedago­ gia, Brescia, La Scuola, 1976; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi, Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. IlI, Torino, SEI, 2004.

J. M. Prellezo

P PACE: educazione alla La p. è un concetto complesso che richiede­ rebbe, per essere esplorato, riferimenti a cul­ ture diverse e ad autori di ogni tempo. Baste­ rebbe soltanto evocare il concetto greco di eirene, quello di pax romana, quello ebraico di shalom, quello evangelico-cristiano ma anche di altre culture e religioni. In generale la p., quando non è «dono» divino, è pensata come una condizione di armonia che è per lo più il risultato del superamento di un con­ flitto. 1. Quando in Italia si usa l’espressione «edu­ cazione alla p.» ci si collega, esplicitamente o no, ad una tradizione pedagogica che si è incarnata in figure come → Montessori, Ca­ pitini, → Milani ed altri. Ma è a partire dal­ la metà degli anni ’70 del sec. scorso che si è fatta strada una vera e propria pedagogia nonviolenta. Il fenomeno si accompagna da una parte alla crescita del «movimento della p.» e dall’altra alle pressioni degli organismi internazionali. In Italia, al contrario di altri Paesi (ad es. gli Stati Uniti e la Svezia), man­ cano corsi di studi istituzionalizzati a livello universitario: non ci sono corsi di laurea o di specializzazione e neanche insegnamenti specifici nell’ambito della Peace research. Una delle finalità principali dell’educazione alla p. è la formazione di un uomo «nonvio­ lento», che abbia cioè fiducia in sé e negli altri; che sappia intervenire in modo crea­ tivo e personale nella realtà che lo circonda per modificarla nel senso dell’umano; che si impegni a risolvere attivamente i conflitti

senza violenze e prevaricazioni ma facendo leva sulle risorse costruttive già presenti e sviluppandone altre; che sappia operare nel quotidiano con collegamenti più ampi nella dimensione mondiale, che sia sempre alla ricerca della verità senza darla per scontata o rivendicandone l’esclusivo possesso. Per insopprimibile dimensione etico-politica, l’educazione alla p. è sempre, al contempo, educazione al cambiamento e alla giustizia, alla solidarietà e alla convivialità planetaria delle culture e dei popoli. Essa ripropone dunque con forza la politicità del fatto edu­ cativo, la coerenza tra mezzi e fini, facendo scoprire la connessione tra modelli sociali e modelli educativi e fra educazione e politica. 2. I percorsi di educazione alla p., se letti in riferimento agli obiettivi appaiono caratte­ rizzati da uno «spostamento» dall’asse co­ gnitivo all’asse relazionale. In breve, la p. non appare come un insieme di «conoscenze», ma come una «relazione» diversa con l’altro. Relativamente ai contenuti, gli itinerari di educazione alla p. presentano una seconda caratteristica ben marcata: non sono centrati su «temi», ma su «problemi» e, in particola­ re, su «conflitti». Nella nostra società mul­ ticulturale l’educazione alla p. è chiamata ad affrontare nuove forme di conflittualità come quelle legate allo scontro di civiltà e alle guerre dei simboli. Sono tanti gli esempi che confermano che viviamo già da tempo in una società «iconoclasta», dove si lotta per i segni, le immagini, le icone, i simboli cultu­ rali e religiosi. È per questo che se si vuole ridurre tale conflittualità è necessario pre­ 841

PAIDEIA

parare la convivenza dei simboli. Particolar­ mente importante appare oggi il dialogo con l’Islam e l’attenzione ad evitare quegli stere­ otipi che lo associano con il terrorismo. Non vi è dubbio, tuttavia, che oltre a fare i conti con l’attuale contesto multiculturale e mul­ tireligioso, l’educazione alla p. deve partire dal presupposto che la cultura della guerra e della violenza è dentro il linguaggio e dentro l’immaginario per cui bisogna decolonizzare l’immaginario e disarmare la cultura (R. Pa­ nikkar). Solo così si potrà avere un pensiero nuovo e purificato dal pregiudizio che vede nella violenza e nello scontro la soluzione dei conflitti e delle ingiustizie. 3. La diffusione di percorsi di educazione alla p. nella scuola e nella società ha contribuito a «decostruire» e modificare alcuni diffusi pregiudizi sui temi della guerra, della razza, della violenza strutturale, della p. positiva e negativa, dell’aggressività, del conflitto, del­ la competitività, del nemico. Dal punto di vi­ sta della didattica, ha richiamato l’attenzione sull’importanza delle relazioni interpersona­ li, degli stili comunicativi, dell’organizza­ zione degli spazi, dei linguaggi multimediali e delle tecniche metodologiche. Bibl.: Corradini L., Vivere senza guerra. La p. nella ricerca universitaria, Milano, Guerini e Associati, 1989; Farné R., La scuola di Irene, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1990; M ascia M. (Ed.), Per una pedagogia della p., Fiesole, Cultura della P., 1994; Satha-A mand C., Islam e nonviolenza, Torino, Ega, 1997; Margalit A., La società decente, Milano, Guerini e Associati, 1998; Galtung J., La trasformazione non violen­ ta dei conflitti, Ibid., 2000; Panikkar R., P. e di­ sarmo culturale, Milano, Rizzoli, 2003; Morelli U., Conflitto, Roma, Meltemi, 2006.

A. Nanni

PACIFISMO → Movimenti → Pace: educazione alla PADRE/I → Famiglia → Genitori

PAIDEIA Caratteristica della cultura greca (→ Gre­cia: educazione) è stata la scoperta e la celebra­ zione del valore dell’uomo nella sua indivi­ 842

dualità e nell’insieme delle sue capa­cità. La sua formazione è designata con il termine p. Esso, pur derivando dalla radice pais (ragaz­ zo), più che il processo e gli interventi edu­ cativi attraverso cui il giovane giunge alla maturità e alla perfezione del­l’uomo, indica l’ideale stesso della forma­zione dell’uomo greco, cioè la realizzazio­ne di quel valore umano che, con altro ter­mine, i greci chia­ mavano areté. 1. Il termine p., per indicare la ricchezza del suo contenuto e le caratteristiche parti­colari in determinate fasi dello sviluppo della cul­ tura greca, è associato ad altri ter­m ini, indi­ cativi di aspetti integranti dell’i­dealità che esprime. Così i due concetti di kalòs (bello) e agathòs (buono) sono usati per qualifi­ care chi ha raggiunto la forma­zione ideale dell’uomo. Fin dall’antichità colui che ha re­ alizzato il valore umano è designato con il termine anèr agathòs (let­teralmente: uomo buono); agathòi sono chiamati gli aristocra­ tici, in tempi in cui l’areté è ritenuta retag­ gio dell’aristocrazia. Ma anche il termine kalòs, pur indicando direttamente la bellez­ za fisica, cui il greco è molto sensibile, è as­ sunto a connotare più integralmente l’ideale della formazione dell’uomo anche nella sua interiorità. I due termini vengono, perciò, fusi insieme, per esprimere più compiuta­ mente nella sua globalità l’ideale di areté, comprensivo del­la formazione fisica e della formazione ci­v ica/etica/culturale. Si parla così, in par­t icolare per l’educazione atenie­ se, di una p. della kalokagathìa (sintesi di kalòs kai agathòs). 2. Il termine p. è più usato nell’epoca elle­ nistica (dalla fine del sec. IV a.C.) e risente delle caratteristiche proprie della forma­ zione greca in tale periodo. In esso si ha una rapida e universale diffusione della scuola. Si afferma maggiormente, sulla scia di → Isocrate, il tipo di formazione ispirato all’ideale retorico, in cui predomina l’indi­ rizzo letterario, che, con lo studio degli Au­ tori, congloba i vari elementi di quel sape­ re generale che è chiamato enkyklios p. Le discipline che compongono il quadro di questa p. sono chiamate enkyklioi. Quando → Roma accoglierà l’influsso de­terminante della p. greca, gli stessi termini hanno una versione latina: la p. è chiamata humanitas

PARSONS TALCOTT

e gli enkyklioi bonae artes o liberales artes. I tipi più rappresentativi di questo ideale, nella sua forma più elevata, sono nel mondo ellenistico il grammatico e il retore; a Roma l’orator. Nella nuova impostazione data dal → Cristianesimo, Cle­mente Romano parlerà della en Christò p. e della p. tou fobou tou Theoù (la p. del ti­mor di Dio).

n. a Colorado Springs nel 1902 - m. a Mün­ chen nel 1979, sociologo statunitense funzio­ nalista.

dividuali e collettive, orientate verso l’inte­ grazione sociale. Gli individui agirebbero in base ad una serie di regole apprese e interio­ rizzate tramite i processi di socializzazione primaria e secondaria. Nella misura in cui l’attore sociale viene ad integrarsi nel siste­ ma, egli contribuisce al suo mantenimento e il suo agire risulta funzionalmente positivo («eufunzionale»); in caso contrario egli di­ venterà funzionalmente negativo («disfun­ zionale»). L’educazione ha il compito di cre­ are le condizioni essenziali perché il sistema possa funzionare bene favorendo la parteci­ pazione (mediante la socializzazione spe­ cie quella familiare, il decondizionamento degli istinti, l’interiorizzazione dei modelli cooperativistici), orientando l’assunzione dei ruoli adatti (mediante lo sviluppo delle predisposizioni attraverso la scuola), raffor­ zando l’interiorizzazione delle motivazioni (mediante l’apprendimento di modelli che favoriscono l’uniformità delle condotte e gli «orientamenti di valore» conformi alla cultura vigente). Ne risulterà una persona­ lità adattata al sistema, il quale da tutto ciò sarà garantito nel suo ordine e nel suo equi­ librio.

1. La formazione iniziale. È il principale esponente del → funzionalismo e l’erede intellettuale di → Weber. Nella sua forma­ zione scientifica egli è debitore a Cooley, → Durkheim, ma soprattutto a Veblen, a Mali­ nowski e a Weber. Nel 1927 entrò come do­ cente alla Harvard University. La struttura dell’azione sociale (1937) è stata la sua pri­ ma opera sociologica importante, cui seguì tra le altre nel 1951 Il sistema sociale, e nel 1955 Famiglia e socializzazione, in cui fa convergere elementi della teoria psicanali­ tica.

3. Valutazione. La concezione della società superintegrata non trova facili riscontri nel contesto contemporaneo delle società com­ plesse (→ complessità sociale) attraversate dagli squilibri del pluralismo, e della conflit­ tualità negli stessi processi di socializzazio­ ne. In definitiva il valore e il limite delle teo­ rie di P., sta nel legittimare la socializzazione come tecnica di organizzazione del consenso generalizzato attorno alle norme e ai modelli già legittimati dalla società, senza porsi però interrogativi sulla società stessa in continua trasformazione.

2. Lo sviluppo del pensiero. Riflettendo sull’educazione in prospettiva funzionalista, P. assume come punto di partenza: il rifiuto del determinismo organicista di Durkheim (accettandone però il principio evoluzioni­ sta che considera la presente società come la migliore possibile) e il rifiuto del determi­ nismo culturale che attribuisce alla cultura un peso assoluto nell’interazione sociale. P. ritiene che gli attori sociali agiscono te­ leologicamente in base alle richieste della società. Essa determina le singole azioni in­

Bibl.: H amilton P., T.P., Bologna, Il Mulino, 1989; A lexander J., Teoria sociologica e muta­ mento sociale, Milano, Angeli, 1990; Holmwo od J., La sociologia dopo l’epoca delle ideolo­ gie. T.P. e la sociologia come professione, in «Quaderni di Teoria Sociale», 2002, 2, 61-84; Sciortino G. et al., T.P., Milano, B. Mondado­ ri, 2005; Bortolini M., L’immunità necessaria. T.P. e la sociologia della modernità, Roma, Mel­ temi, 2005.

Bibl.: Jaeger W., P. La formazione dell’uomo gre­co, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; M arrou H. I., Storia dell’educazione nell’anti­ chità, Roma, Studium, 1994.

M. Simoncelli

PAOLINO D’AQUILEIA → Medioevo PARITÀ → Scuola libera PARKHURST Helen → Scuole Nuove PARROCCHIA → Catechesi → Chiesa

PARSONS Talcott

R. Mion

843

PARTECIPAZIONE SCOLASTICA

PARTECIPAZIONE SCOLASTICA Processo socioculturale per cui i soggetti che direttamente o indirettamente (e quin­di con diversi titoli, motivazioni e capacità) danno vita all’istituzione scolastica, con­corrono con ruoli diversi e con interazioni formali e informali a qualificarne le finalità e la natura e a determinare le modalità concrete di eser­ cizio delle sue funzioni. 1. Il concetto di p. Partecipare è un verbo che qualifica i suoi significati in rapporto all’attività e alla funzione a cui si «prende parte». Il partecipare a certi tipi di attività è spesso condizione di felicità per i singoli ed è aumento delle probabilità di riuscita, come diceva eudemonisticamente il Rap­p orto Faure (Unesco, 1972); ma può anche essere un’occasione di ostacolo e di rallen­tamento dell’attività stessa; e può, per i sin­goli, au­ mentare la sofferenza e il senso dell’impo­ tenza, anziché la soddisfazione. I processi di p. nascono spesso dalle riven­dicazioni di chi considera il proprio stato di marginali­ tà o di emarginazione come un’in­giustizia. Come dimostra un’esperienza an­che non lontana, i movimenti partecipativi sono però esposti sia al ricatto colpevoliz­zante dei de­ tentori del potere, sia al corto circuito ideo­ logico di chi veda come unica­mente valida e dotata di legittimità e di senso la propria azione volta a contestare e a rivendicare il potere. D’altra parte l’e­sperienza stessa del­ la p. politica entro le strutture democratiche del paese e della p. sociale, entro le strut­ ture previste dalle leg­gi degli anni ’70, dai quartieri alla scuola, alla sanità, alle aziende, ha profondamente deluso quelle consistenti masse di persone, che avevano creduto di poter fare espe­rienze esaltanti di dialogo e di cambiamen­to istituzionale, attraverso il con­ tributo di tutti, dai professionisti agli utenti ai sem­plici cittadini. Le ricerche sociali de­ gli ul­timi anni hanno messo in luce il calo di at­teggiamenti partecipativi e di disponibilità all’impegno sociale nelle istituzioni. Le re­ sponsabilità, come di solito succede di fronte a fenomeni vasti e complessi, sono di ordine economico-sociale, di ordine isti­t uzionale e di ordine culturale, anche se di­verse analisi attribuiscono maggior peso all’uno o all’al­ tro fattore. C’è chi denuncia la scarsità degli spazi di decisionalità offerti alla p. sociale, 844

chi denuncia la chiusura del personale tecni­ co e burocratico di fronte agli «esterni», chi lamenta l’impreparazio­ne e l’invadenza o la latitanza dei soggetti chiamati a partecipare, c’è chi dichiara ad­dirittura improponibile la p. per certi set­tori, come quello scolastico, che per la loro natura dovrebbero essere ri­ servati solo agli «addetti ai lavori». 2. Ripensare le ragioni, gli ambiti e i me­ todi della p.s. Il discorso vale in particola­ re per la scuola. Risulta indispensabile un chiarimento intorno al concetto di p.s., che viene spesso frainteso o relegato ai margini della vita della scuola, contro la previsione costituzionale che fa della p. un fine di tut­ to l’ordinamento repubblicano (art. 3). Una concezione pedagogicamente corretta esige che la p. si carat­terizzi in modo coerente ai diversi processi e momenti in cui si artico­ la la scuola, in modo da valorizzarne e non da snaturarne le caratteristiche educative. E poiché la p. da un lato «produce», dall’altro «costa», e cioè ostacola il raggiungimento di altri fini concorrenti, si dovrà prendere in considerazione ogni momento del curri­colo, per valutare, in rapporto alla diverse compo­ nenti, ai diversi organi e ai diversi soggetti, chi è bene che partecipi, a che cosa, quando, come e perché. Inclusioni e pre­clusioni apo­ dittiche mal si accordano con la natura della relazione educativa e con la natura dell’isti­ tuzione scolastica, che è un’organizzazione «sui generis» (→ organi collegiali scolasti­ ci). Occorre perciò una chiara distinzione tra momento espressivo-comunicativo, che trova spazio soprattutto in assemblee ade­ guatamente preparate, di classe e di istitu­to, nonché nei comitati dei rappresentanti dei genitori e degli studenti, e momento elabo­ rativo-decisionale, che trova spazio soprat­ tutto nei collegi dei docenti, nei con­sigli di classe e d’interclasse, con particola­re rilievo per gli insegnanti, e nei consigli d’istituto. Il problema, a questo proposito, è quello di ve­ rificare se la formula istituzionale uscita dai decreti delegati del 1974 preveda una equi­ librata distinzione tra ambiti tecnici di tipo amministrativo e di tipo didattico e ambiti politici e pedagogici, aperti per na­t ura loro all’apporto degli studenti, dei ge­nitori e, per certi aspetti, anche delle forze sociali. Ciò è venuto chiarendosi a metà de­gli anni ‘90, nel contesto del varo, da parte del Governo, delle

PARTECIPAZIONE SCOLASTICA

«Carte dei servizi socia­li», tra cui la «Carta del servizio scolasti­co», che andrebbe elabo­ rata in termini di «contrat­to formativo» fra docenti, genitori e stu­denti e che si caratte­ rizza essenzialmente per il PEI, il progetto educativo d’istituto, divenuto POF dopo il dpr 275/1999 sull’autonomia. Chi è portatore del bisogno, ha titolo a far­lo presente, a chiarirlo a se stesso, a pre­sentarlo in un contesto in cui la domanda di beni e servizi possa emergere con chia­rezza, senza intimidazioni, confu­ sioni e mi­stificazioni: in un contesto in cui la doman­da possa anzi precisarsi in un dia­ logo con i responsabili tecnici del servizio, per arric­chirsi di conoscenze e di possibilità d’in­fluire sulla qualità del servizio stesso, in termini sempre più competenti, rispettosi ed efficaci. Chi è portatore della compe­tenza è tenuto ad aiutare la domanda a pre­cisarsi, a confrontarsi con le caratteristiche e con i limiti del servizio, a impegnarsi ad attuare, per la propria parte, il progetto educativo, nei suoi risvolti organizzativi e didattici. In sede di auspicabile modifica dei decreti dele­ gati si dovrebbe precisare, lasciando spazio all’autonomia delle scuole, che l’organizza­ zione delle istituzioni scolastiche s’ispira ai principi costituzionali di p., di promozione del pieno sviluppo della persona umana, di autonomia, di sussidiarietà, dando alla scuola i caratteri di una comunità che inte­ ragisca con la più vasta comunità sociale e civica. In essa si distinguono le funzioni di indirizzo e di programmazione, che spettano agli organi di governo, consiglio d’istituto e collegio dei docenti, le funzioni di delibera­ zione pedagogico-didattica e disciplinare, che spettano agli organi tecnico-didattici e disciplinari dei docenti, le funzioni di ge­ stione e di coordinamento, che spettano in particolare al dirigente scolastico, e le fun­ zioni di comunicazione, consultazione e proposta che spettano, oltre che alla compo­ nente professionale della scuola, anche agli organismi dei genitori e degli studenti. Una concezione aggiornata e non aziendalistica della scuola implica non solo le funzioni del gestire, ma anche quelle dell’informare, del comunicare, dell’educare all’esercizio di qualche forma di democrazia, per assicurare ai giovani anche competenze di cittadinanza, a cui tra l’altro si riferisce l’educazione alla convivenza civile, presente nella L. 53/2003 e nelle Indicazioni nazionali. Nei regolamenti

delle singole scuole è corretto pensare alla definizione dei modi della p., che possono variare da scuola a scuola. Continuità, buona amministrazione e snellezza organizzativa, p., autonomia, efficacia ed efficienza dell’in­ segnamento e dell’apprendimento non sono valori alternativi, ma valori concorrenti, tra cui mediare con prudenza, in rapporto alle diverse condizioni storiche, psicologiche e sociali. Una scuola accogliente, dialogica, capace di decidere, assume la responsabili­ tà di «governa­re» i processi d’insegnamen­ to, di comuni­cazione, di decisione e cioè di motivare, di chiarire, sostenere e limitare i diversi ruoli, con modalità coerenti al rag­ giungimento delle finalità istituzionali. La p. chiama in causa la comprensione di com­ plesse e ambivalenti dinamiche e la fi­ducia che uno ha nei propri mezzi e in quel­li dei propri simili, in rapporto alla speran­za e alla volontà di rendere più umano l’or­dine sociale e più vicina la soluzione di uno o più pro­ blemi. In questo contesto si può notare che educare alla p. significa indurre i meno in­ formati, motivati, provveduti e di­sponibili, non solo all’offerta, alla richiesta, alla prote­ sta, ma anche alla corresponsabi­lità e insie­ me al distacco. Si tratta quindi di accettare la dinamica della rivendicazione, del conflitto, della colpa, di qualche vitto­r ia e di qualche sconfitta inevitabile: la p. è cioè anche lot­ ta, ma un tipo di lotta che aspira o dovrebbe aspirare non solo alla giustizia e all’efficacia/ efficienza, ma anche alla riconciliazione e alla pace: una pace in­tesa come l’ordine che rende possibile l’e­g uale esercizio di tutti del diritto ad esse­re, a crescere, a produrre, a contare e ad avere di più, ma non tanto da compromet­tere o da distruggere quel bene di cui si vuole parte o essere parte, o che si vuol concorrere a produrre. 3. Nuove prospettive, nel contesto di una paideia ispirata alla Costituzione. È questo il senso profondo dell’autonomia scolasti­ ca. Ma in questo contesto si vede anche il senso di metodologie e tecniche nuove che aiutino la p. Attraverso la stampa e Internet si co­munica in rete e si pongono le premes­ se per una p. meno mitologica e rissosa, ma più attenta e produttiva di quella degli an­ ni ’70, con cui è iniziata la fase della p. isti­ tuzionalizzata. L’informatica aiuta. Un docu­ mento-quadro entro cui sembra rimotivabile 845

PASTORALE

un nuovo processo partecipa­tivo è quello al­ legato alla d.m. 8.2.1996 n. 58, dal titolo Nuo­ ve dimensioni formati­ve, educazione civica e cultura costituzio­nale, che conduce a sintesi le norme e le iniziative tese a fare della scuo­ la un terreno accogliente per le diverse «edu­ cazioni» vei­colate da altrettante emergenze negative e che, scavando nel codice geneti­ co della scuola repubblicana, rintraccia un orizzon­te di senso per l’esperienza scolasti­ ca, schiacciata fra degrado e cyberspazio, fra culturalismo e burocratismo, fra sogni e de­lusioni, fra volontariato e bullismo. A sua volta il dpr 567/1996 e successive modifiche offre opportunità di utilizzazione più am­pia degli spazi e delle potenzialità formati­ve del­ la scuola, e quindi della p. dei soggetti, sia a livello di rappresentanti (i co­siddetti gruppi di p.) sia a livello di gruppi di riferimento. Fra questi si segnalano i tre forum rispettiva­ mente delle associazioni di studenti, di geni­ tori e di insegnanti, riconosciuti dal MPI. Bibl.: Corradini L., La difficile convivenza. Dalla scuola di stato alla scuola della comunità, Brescia, La Scuola, 61975; Id., Democrazia sco­ lastica, Ibid., 1975; Censis, Scuola e p. sociale. Il primo anno di applicazione dei decreti delegati, Ro­ma, 1976; Corradini L., La comunità incom­ piuta, Milano, Vita e Pensiero, 1979; I d., Esse­ re scuola nel cantiere dell’e­ducazione, Roma, SEAM, 1995; Corradini L. - W. Fornasa - S. Poli (Edd.), Educazione alla convivenza civile, Roma, Armando, 2003; R ichiedei G., Genitori in associazione: una risorsa per il Paese, AGe Lom­ bardia, Brescia, Tipolitografia Queriniana, 2006; Chistolini S. (Ed.), Cittadinanza e convivenza civile nella scuola europea, Ibid., 2006; Corradini L., Educare nella scuola nella prospettiva dell’UCIIM. Nuovi scenari nuove responsabilità, Ibid., 2006; Id., La fiducia, radice della cittadi­ nanza, nel dialogo tra famiglia e scuola, in I d. (Ed.) Pedagogia e cultura per educare, Cosenza, Pellegrini, 2006; Id. Cittadinanza, in G. Cerini M. Spinosi, Voci della scuola, VI, Napoli, Tecno­ did, 2007; Gruppo di lavoro ministeriale (co­ ord. da L. Corradini), «Legalità e cittadinanza», in Scuola e legalità. Primo rapporto del Comitato Nazionale Scuola e Legalità, Roma, MPI, 2007.

L. Corradini

PARTITI → Politica Pascal Blaise → Petites Écoles de PortRoyal

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PASSERON Jean-Claude → Marxismo pedago­ gico PASSIONI → Affettività

PASTORALE P. è l’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale, animata dallo Spirito Santo, rea­ lizza per l’attuazione nel tempo del pro­getto di salvezza di Dio sull’uomo e sulla sua sto­ ria, con riferimento alle concrete si­t uazioni di vita. La p. si interessa di pro­blemi con­ creti. Essa è azione, prassi, orga­nizzazione di risorse e progettazione d’in­terventi. Cer­ tamente però tutto questo è possibile solo all’interno di un’attenta e in­tensa riflessione, soprattutto teologica. La p. riflette sull’insie­ me delle azioni che la comunità ecclesiale pone per attuare la sal­vezza, per interpretar­ le, verificarle, ripro­gettarle. La dimensione pratica della p. la pone continuamente nella necessità di con­f rontarsi con tutte quelle di­ scipline che, in qualche modo, si interessano degli stessi problemi e ne cercano soluzioni, eventual­mente a partire da preoccupazio­ ni diffe­renti. È tipico, a questo proposito, il con­f ronto con 1’educazione sul piano prati­ co della comprensione e della soluzione dei problemi, a partire da una riflessione che li sappia comprendere ed interpretare. La defi­ nizione del tipo di rapporto da instau­rare tra educazione e p. riguarda lo statuto delle due discipline. In questa voce, si propone un’ipo­ tesi che assume come punto di riferimento il dato teologico relativo al­la natura e ai com­ piti della p. 1. Modelli diversi. P. e educazione non so­ no la stessa realtà, dal punto di vista for­male e sostanziale. Eppure sono molti e in­tensi i punti di contatto, come porta a sup­porre, almeno implicitamente, un certo modo di esprimersi comune tra gli addetti ai lavori. Per indicare i compiti e le respon­sabilità di coloro che sono impegnati nel­l’ambito della p. si utilizza spesso la formu­la: «educazione alla fede» (o «educazione della fede», come preferisce dire qualcu­no). Il termine → edu­ cazione possiede una sua innegabile rilevan­ za tecnica, che le → scienze dell’educazione analizzano e precisano. È corretto attribuire questi riferi­menti ai processi che riguardano

PASTORALE

la fede e il suo sviluppo? O, al contrario, si tratta di un modo di dire solo analogico? La tradizio­ne p., vissuta e riflessa, offre diffe­ renti ri­sposte a questi interrogativi. 1.1. Primo modello: ricomprendere l’educa­ tivo a partire dal teologico. Nel modello che per tanto tempo ha dominato il campo della p., si parla molto di educazione alla fede e s’insiste sugli interventi necessari per attuar­ la. In esso però la voce «educazione» è as­ sunta solo in una visione analogica rispetto a quella caratteristica delle scienze dell’edu­ cazione. Il suo contenuto è derivato, quasi deduttivamente, dal dato teologico. Così, in ultima analisi, è svuota­t a ogni seria preoc­ cupazione educativa nel­l’azione p. Questo modo di comprendere il rapporto tra teolo­ gia ed educazione è or­mai in concreto supe­ rato nella riflessione e nella prassi p. Sono possibili però quelle sue rivisitazioni, accor­ te e intelligenti, che conservano l’abitudine di comprendere i problemi p. solo a partire dalle esigenze del dato teologico. Nella defi­ nizione delle procedure relative all’ → evan­ gelizzazione, per es., si insiste molto sulla dimensione oggettiva e veri­tativa dell’espe­ rienza cristiana. È attivato un continuo con­ fronto critico tra la sapien­za dell’uomo e il dato della fede, quasi per restaurare quelle esigenze a carattere «apologetico», troppo frettolosamente ac­cantonate nel recente pas­ sato. I giovani so­no sollecitati ad apprendere, con pazienza e fermezza, i contenuti oggetti­ vi della fede nella loro precisa codificazione linguistica. Si parte dall’ipotesi che l’educa­ zione ad ac­cogliere e a comprendere il lin­ guaggio og­gettivo della fede aiuti e sostenga la vita di fede, sotto il profilo della consape­ volezza riflessa e del confronto con le varie istanze del sapere umano. 1.2. Secondo modello: l’autonomia dell’edu­ cativo. Il modello precedente ha una specie di rovescio della medaglia in quelle prassi che tendono a far prevalere l’educativo sopra ogni impegno p. La logica è semplice: la co­ scienza di quanto sia stretto il rapporto tra dimensioni antropologiche e teologiche por­ ta a concludere che i compi­ti della p. sono già egregiamente assolti quando si realizza una corretta azione edu­cativa. Prevale l’abitudine di chiamare le cose con i loro nomi concreti, evitando l’a­strattismo del linguaggio religio­ so. Sono accolti i ritmi e i tempi dei normali proces­si evolutivi. La fiducia verso le scienze

dell’educazione sollecita a programmare con serietà e competenza gli interventi adeguati. L’azione p. parte di conseguenza da una ge­ rarchia di preoccupazioni e di esi­genze, di­ versa da quella tradizionale. Mol­ti problemi religiosi passano in secondo piano, per fare spazio ad altri, vissuti come più urgenti. 1.3. Terzo modello: la separazione netta de­gli ambiti. Lo stimolo della «teologia dia­lettica» si è fatto sentire presto anche nel­l’ambito del­ la p. Alcune sue indicazioni, particolarmente incisive, hanno trovato fa­cile risonanza in operatori di p., reattivi ri­spetto all’eccessiva pedagogizzazione del­la fede e della vita cri­ stiana. Alla base sta l’affermata irriducibilità del mondo della fede al mondo profano e la constatazione teologica che nella Rivelazio­ ne c’è solo un discorso soteriologico, estra­ neo ad ogni in­teresse educativo. Dio è Dio; egli è il total­mente altro, colui che è nascosto e avvolto nel mistero. All’assoluta e somma superio­rità di Dio va contrapposta l’estrema e in­finita inferiorità dell’uomo. Cito alcune in­dicazioni pratiche che, in qualche modo, si ispirano a questa prospettiva teologica: il rifiuto di ogni mescolamento dell’educati­ vo nell’ambito della p.; l’affermazione che l’unica preoccupazione veramente urgente è quella in fondo più semplice: moltiplicare le occasioni di contatto tra Dio e l’uomo. Di qui l’insistenza sui momenti di preghie­ra, sulle celebrazioni liturgiche e sacra­mentali, sull’ascolto della Parola di Dio; la contesta­ zione, almeno pratica, dell’esi­stenza di un problema originale di «p. gio­vanile», come se i giovani avessero titoli e difficoltà parti­ colari rispetto alla salvezza di Dio; l’enfasi sulla comunità di fede e di vita ecclesiale come luogo, accogliente e pervasivo, dove tutti i problemi possono essere risolti. 1.4. Quarto modello: la scelta educativa in uno «sguardo di fede». Esistono modelli p. in cui è facile riconoscere una fiducia nel­ l’educazione, costruita a partire da una teo­ logia della Rivelazione. La Parola di Dio, offerta della Rivelazione, assume una sua speciale visibilità umana per farsi conosce­re, per rendersi vicina e accessibile all’uo­mo in vista della fede. C’è quindi un aspet­to del­ la Rivelazione, inseparabile da quel­lo tra­ scendente, che è alla portata delle capacità di apprendimento dell’uomo. Esi­ste, in altre parole, un visibile, rivelatore dell’invisibile, un contenente veicolo al contenuto, un signi­ 847

PASTORALE

ficante che conduce al significato. Per questo è affidato all’educazione un contributo irri­ nunciabile anche per la p.: il visibile è il luo­ go di presenza del mistero e via privilegiata per entrarvi. 2. Una prospettiva. Chiariti i termini, si può entrare nel merito, alla ricerca di soluzioni. È certo che la risposta deve nascere da una chiara meditazione sulla fede perché la que­ stione riguarda la natura dell’esperien­za di fede e non solo le modalità pratiche della sua trasmissione. 2.1. Leggere il processo nella logica dell’In­ carnazione. Consideriamo l’evento che dà origine alla decisione di fede: la Rivela­ zione. Essa rappresenta il punto centrale per sapere se si può parlare di educabilità della fede ed eventualmente in che senso. Il contenuto della Rivelazione è Gesù Cri­sto: il mistero di Dio in Gesù Cristo. E cioè l’al­ leanza: un’alleanza d’amore fra tre Per­sone nell’unità di una stessa vita (ciò che Dio è); un’alleanza d’amore tra Dio e l’uo­mo per la realizzazione della salvezza (ciò che Dio fa); un’alleanza d’amore tra gli uo­m ini e Dio nella e per la fede (ciò che Dio attende). Quest’annuncio presenta un ca­r attere tra­ scendente. Si possono prendere seriamente le esigenze dell’educazione, quando ci po­ niamo al servizio di un evento di questa na­ tura? Non è possibile rispon­dere in astrat­ to, dimenticando il modo con cui di fatto Dio ha voluto realizzare la Rivelazione. La Tradizione ci sollecita a pensare alla Rive­ lazione alla luce e nel mi­stero dell’Incar­ nazione, perché l’evento di Gesù il Cristo ne rappresenta il contenuto e il modello più radicale. Il riferimento al­l’Incarnazione ci ricorda che la Parola di Dio è «incarnata»; assume, in altre parole, una sua visibilità. Questo visibile è la vita umana, quell’esi­ stenza concreta e quo­tidiana che forma l’og­ getto delle cure edu­cative. Nella Rivelazio­ ne è importante di­stinguere tra il dono di Dio e il modo con cui questo dono si rende presente, vicino, provocante. La presenza di Dio è sempre «mistero» santo, sottratto ad ogni possibi­l ità di manipolazione e di comprensione esaustiva. Dal dono di Dio scaturisce l’ap­pello alla libertà e responsa­ bilità d’ogni uo­mo. Tutto questo investe in­ negabilmente il dialogo diretto e immediato tra Dio e ogni uomo e tocca quelle profon­ 848

dità dell’esi­stenza umana che sfuggono ad ogni pro­cesso educativo. Dono e chiamata si realiz­zano però «in parole umane»: assu­ mono una dimensione di visibilità storica e quoti­d iana, legata a quelle regole educati­ vo-comunicative, che sono oggetto anche delle scienze dell’educazione e, in generale, del­l’approccio antropologico. La conclusio­ ne è immediata: se la Rivelazione assume la vita quotidiana e i suoi dinamismi come suo strumento espressivo, il rapporto tra educa­ zione e p. è molto stretto (proprio dal punto di vista dei compiti della p. stessa). 2.2. Il concreto. Queste distinzioni orienta­no verso un modello di p. che fa spazio ai contri­ buti, teorici e pratici, delle scienze dell’edu­ cazione, fino a riconoscere la loro funziona­ lità indiretta nella maturazione della fede. a) La priorità del dono di Dio per la fede. Pri­ ma di tutto è indispensabile riconoscere che la fede si sviluppa sul pia­no misterioso del dialogo tra Dio e ogni uo­mo. Questo spazio di vita sfugge ad ogni tentativo di intervento dell’uomo. In esso va riconosciuta la priorità dell’iniziativa di Dio. La risposta dell’uomo consiste nel­l’obbedienza accogliente: la fede è un do­no, in senso totale; proviene quindi dall’u­dire e non dal riflettere, è accoglienza e non elaborazione. b) L’educazione alla fe­de sul piano delle mediazioni educative. L’ap­ pello di Dio che costituisce il fonda­mento del processo di salvezza, si fa sem­pre parola d’uomo, per risuonare come parola compren­ sibile dall’uomo, e cerca una risposta perso­ nale, espressa in gesti e parole dell’esistenza quotidiana. C’è quin­di una dimensione del processo di salvezza che si svolge secondo modi comuni ad ogni processo educativo e comunicativo. Non rappresenta un aspetto che s’aggiunge a quello dell’immediatezza dell’azione di Dio, ma un’esigenza che la pervade tutta. L’azione p. è, nello stesso tem­ po e con la stessa intensità, un atto sottratto alla qua­lità della relazione interpersonale, perché attinge direttamente nel mistero di Dio po­tenza ed efficacia, ed è intensamente con­dizionato dalla qualità umana dei gesti e delle parole poste e dalla disponibilità «edu­ cabile» del soggetto. Il condizionamento (positivo o negativo) è collocato nel rap­porto del «segno» rispetto all’evento. At­t raverso le modalità antropologiche in cui si svolge, il segno diventa sempre più espressivo rispet­ to alle attese del soggetto e sono ricostruite

PASTORALE

queste attese per sinto­nizzarle con l’offerta della fede e della sal­vezza. Questo è l’ambito tipico dell’azione p. Riconosce la funzione insostituibile di tutti gli interventi educativi rispetto al­l’educazione della fede: essi hanno il com­pito di attivare, sostenere, mediare il pro­cesso di salvezza, nel doppio movimen­ to di proposta e di risposta. c) La potenza di Dio investe anche gli interventi educativi. Le due modalità (quella misteriosa in cui si espri­me l’appello di Dio alla libertà dell’uo­ mo e quella delle mediazioni educative) non so­no sullo stesso piano. Bisogna riconoscere, in una fede confessante, la priorità dell’in­ tervento divino anche nell’ambito educati­vo, più direttamente manipolabile dall’uo­mo e dalla sua cultura. La fede dunque ri­conosce la grandezza dell’educazione: li­berando la capacità dell’uomo e rendendo trasparenti i segni della salvezza, essa libe­ra e sostiene la sua capacità di risposta re­sponsabile e ma­ tura a Dio. Ma la fede ri­conosce che anche l’educazione rimane, come tutti i fatti umani, sotto il segno del peccato. La fede dunque deve esprimere un giudizio sull’educazio­ ne dell’uomo in genere e, in particolare, sul modello edu­cativo umano che può essere utilizzato nel proporre la fede alle nuove ge­ nerazioni. Questo, in fondo, non è attentato al dovere di rispettare l’autonomia dei fatti umani. Significa invece che l’approccio edu­ cativo e comunicativo è giudicato dall’evento al cui servizio si pone. Nel nostro caso com­ porta la constatazione che questo approccio, anche se è legato ad esigenze tecniche, av­ viene sempre nel mistero di una potenza di salvezza che tutto avvolge: la grazia sal­vifica possiede una sua rilevanza educati­va, certa e intensa anche se non è misura­bile attraverso gli approcci delle scienze dell’educazione. 3. Una p. attenta all’educazione. Le rifles­ sioni appena suggerite portano a conclude­re sulla necessità di assumere gli atti educa­tivi anche nei processi di educazione alla fede, almeno fino ad un certo punto. Il con­fi ne non è di quantità ma di qualità. Infatti non c’è un primo tratto di strada percorri­bile in compagnia con i dinamismi antro­pologici, e un secondo tratto dove tutto re­sta affida­ to all’imponderabile presenza dello Spirito. Potenza di Dio e competenza umana sono invece compagni di viaggio dalla partenza all’arrivo, anche se sono in­terlocutori diver­

si, cui va riconosciuto uno spazio pratico molto differente. 3.1. A confronto. Il confronto tra educazione e p. sollecita a realizzare i due processi in modo da assicurare a ciascuno il guada­g no che il contributo dell’altro è in grado di offri­ re. La p. assume le esigenze dell’e­ducativo, con disponibilità e attenzione, su­perando ogni tentazione di strumentalizza­zione. Il pluralismo, però, investe e attra­versa an­ che l’educazione e la frammenta in diverse figure. Il riferimento antropologi­co sotteso non è indifferente per la qualità del servizio di promozione della vita e del­la speranza, cui l’educazione tende. Essa cerca quindi un’ispirazione che la collochi pienamente dalla parte della vita e della sua qualità. Un dialogo e un confronto pos­sono introdurre nei due processi un princi­pio interessante di verifica e di rinnova­mento. Tra i tanti modi attraverso cui si può realizzare la p., chi crede all’educazione preferisce quelli in cui è rispettata me­glio la preoccupazione della gradualità, della chiamata alla responsabili­ tà. Essa si realizza sempre in una presenza acco­gliente, che fa dei gesti di vicinanza, di ser­vizio, di promozione e di amore la sua pa­ rola più convincente. In un tempo in cui lo scontro tra le culture avviene sempre di più attorno alla qualità della vita, alla ricerca di senso e ai fondamenti della speranza, chi è impegnato sulla frontiera dell’educazione ri­ conosce di avere un compito che riempie di gioia e di responsabilità, riguardo alla vi­ta e alla sua promozione. La collaborazio­ne, teo­ rica e pratica, con chi opera nel­l’ambito della p. aiuta ad inventare e speri­mentare modelli di esistenza, capaci di dire oggi chi è l’uomo e la donna al cui servizio tutti sono solleci­ tati a piegarsi. 3.2. L’educazione è il nome concreto per di­re oggi «promozione umana». L’educazione è la grande sfida che la cultura attuale lancia a coloro che credono all’uomo e alla sua digni­ tà. Per questo, anche chi è impe­g nato espli­ citamente nell’ambito della p., riconosce di assolvere intensamente il suo compito, impe­ gnando tutte le risorse nel­l’ambito dell’edu­ cazione. Nel nome dell’educazione gioca la sua fede e la sua spe­ranza. Attorno alle esi­ genze dell’educazione chiede la collaborazio­ ne di tutte le persone che amano l’uomo e ne cercano una promozione, oltre le differenze cultu­rali e religiose. La comunità ecclesiale 849

PAULSEN FRIEDRICH

ri­conosce la «portata salvifica dell’educazio­ ne» anche come evento già compiuto e pre­ ciso (anche se parziale), nell’ordine della sal­ vezza di cui è sacramento. La comunità eccle­ siale riconosce così nell’educazione il modo privilegiato per realizzare oggi i ne­cessari impegni di «promozione umana» nell’ambito dell’evangelizzazione. Affer­mando la sua fi­ ducia nell’educazione, sen­te di essere fedele al suo Signore. Con lui crede all’efficacia dei mezzi poveri per la rigenerazione personale e collettiva e cre­de all’uomo come principio di rigenerazio­ne: restituito alla gioia di vivere e al corag­gio di sperare, riconciliato con se stesso, con gli altri e con Dio, può costruire nel tempo il Regno della definitività. Bibl.: Schillebeeckx E., Intelligenza della fede. In­terpretazione e critica, Roma, Paoline, 1975; Coudreau F., Si può insegnare la fede? Riflessio­ ni e orientamenti per una pedagogia della fede, Leu­mann (TO), Elle Di Ci, 1978; Latourelle R. - G. O’Collins (Edd.), Problemi e prospettive di teolo­g ia fondamentale, Brescia, Queriniana, 1980; Vecchi J. E. - J. M. Prellezo (Edd.), Pras­ si educativa p. e scienze dell’educazione, Roma, Editrice SDB, 1988; Tonelli R., Per la vita e la speranza. Un progetto di p. giovanile, Roma, LAS, 1996; Istituto di Teologia p. - Università Pontificia Salesiana, P. giovanile. Sfide, prospettive ed esperienze, Leu­mann (TO), Elle Di Ci, 2003.

R. Tonelli

PASTORALE GIOVANILE → Giovani → Pasto­ rale PATRISTICA → Cristianesimo → Pedagogia cri­ stiana

PAULSEN Friedrich n. a Langenhorn nello Schleswig nel 1846 m. a Berlino nel 1908, filosofo neokantiano tedesco. 1. Tra i neokantiani, P. occupa un posto di ri­ lievo per la sua monografia su → Kant (1898); essa presenta una interpre­t azione blanda­ mente «metafisica» delle for­me a priori che s’accosta a quella platonizzante di P. → Natorp e che ha influenzato anche il nostro P. Martinetti. P. fu tra gli au­tori più letti in 850

patria e più tradotti all’este­ro (in ingl., fr., it., russo, cinese, giappone­se). La sua Introdu­ zione alla filosofia (1892) ebbe più di 40 ediz. in ted. La sua opera più vasta fu il Sistema dell’etica e dot­trina dello Stato e della socie­ tà (2 voll., 1889) che sosteneva la teoria di un so­cialismo «etico» platonico-kantiano e non marxista, che ebbe risonanza, incontrandosi per certi aspetti col «socialismo della catte­ dra» proposto su altre basi da vari autori. 2. In pedagogia ebbe fortuna una sua Storia dell’istruzione superiore (1885), e una Peda­ gogia (1911) più numerosi saggi. Egli nega il contrasto tra religione e scienza proclamato aggressivamente dal monismo materialisti­ co dello Haeckel e del Büchner; nega pure il contrasto tra educa­zione individuale e socia­ le; ma soprattutto nega con forza quello tra educazione uma­nistica e educazione scien­ tifica, rivendi­cando a quest’ultima pieno diritto contro le nostalgie di tipo esclusiva­ mente lettera­r io prevalenti nei ginnasi-licei tedeschi. I tempi esigono altre scelte, tra le quali rien­t rano anche la formazione tecnicoprofes­sionale, l’educazione degli adulti, la crea­zione di opportunità di formazione ulterio­re (università popolari, biblioteche popola­ri). P. fu onorato come maestro fra gli altri da → Otto e Spranger. Bibl.: De Sarlo F., «Il volontarismo di F.P.», in Fi­losofi del tempo nostro, Firenze, 1916; K lose O. et al. (Edd.), Briefwechsel, 1876-1908. Ferdinand Tönnies, F.P., Kiel, Hirt, 1961; Hume D., Dialoge über natürliche Religion: über Selbstmord und Unsterblichkeit der Seele, Berlin, Kirchmann’s Philos. Bibliothek, 1977.

M. Laeng

PAURA Risposta razionale e motivata tesa ad evitare oggetti (persone, animali, cose), situazioni o avvenimenti realmente pericolosi. 1. Secondo J. Bowlby (1975) l’organismo umano ha una predisposizione filogenetica­ mente strutturata a reagire con la p. di fronte ad indizi naturali di pericolo. La funzione fondamentale della p. quindi è quella di se­ gnalare la minaccia e di mobilitare l’indi­

PEDAGOGIA

viduo ad un’azione di difesa. L’esperienza della p. comporta un’emozione più o meno intensa con connesse modificazioni fisiche originate dall’eccitazione del sistema nervo­ so simpatico. 2. Piccole e transitorie p. sono facilmente riscontrabili nel periodo dell’età evolutiva intesa in senso stretto. Esse in via normale tendono a scomparire spontaneamente con il crescere dell’età. Inoltre quasi sempre sono connesse con una determinata fase dello svi­ luppo (es.: la p. del buio tra i tre e i cinque anni) o con il momento di passaggio da una fase all’altra (es.: la p. della solitudine nella prima → adolescenza). Va sottolineato che l’assenza totale di p. in certe fasi dello svi­ luppo è indice di patologia. 3. Oltre ad una p. normale, c’è una p. patolo­ gica, denominata più precisamente fobia (→ nevrosi). Questa è riscontrabile allorché il soggetto di fronte ad un pericolo dà risposte inadeguate rispetto alla reale situazione, rea­ gisce in modo sproporzionato rispetto all’età e denuncia un’ansia abnorme e persistente nel tempo. Bibl.: Bowlby J., La separazione dalla madre, Torino, Bollati Boringhieri, 1975; Zlotowicz M., Le p. infantili, Torino, SEI, 1978; Speltini G., Inquietudini e p. nell’adolescenza, Bologna, Cappelli, 1982; Falorni M. L. - A. Smorti, La p. tra fantasie e realtà, Roma, Borla, 1984; Rogge J. U., Quando i bambini hanno p., Milano, Pratiche, 1998; Oliverio Ferraris A., Psicologia della p., Torino, Bollati Boringhieri, 2007; K ast V., Le fiabe di p. Il trauma della separazione e il rischio della simbiosi, Como, Red, 2007; Bourke J., P. Una storia culturale, Bari, Laterza, 2007.

V. L. Castellazzi

PAVLOV Ivan Petrovič → Apprendimento → Condizionamento PAVONI Ludovico → Oratorio → Sistema preven­ tivo

PEDAGOGIA Comunemente il termine è riferito alla di­ sciplina scientifica relativa all’ → educazio­ ne. Ma più largamente è applicato a qualsiasi

riflessione, studio, ricerca scienti­fica e non scientifica, su e per l’educazione, la → forma­ zione, 1’ → istruzione. 1. Etimologia e usi storici. Come suggerisce l’etimologia (dal gr. pais, fanciullo, e agogós, guida, custode), dalla funzione del paidago­ gós, schiavo o liberto incaricato di accompa­ gnare i fanciulli a scuola o in pa­lestra, e suc­ cessivamente dalla funzione dello schiavo o liberto preposto all’educazione dei giovani aristocratici, il termine è passato ad indicare, in senso figurato, il fat­to, l’attività dell’edu­ cazione, specie quella morale. Ma ancora → Clemente Alessan­d rino (ca. 150 - ca. 215) indicava Cristo come «pedagogo». Tradotto in lat. con disciplina, institutio, il termine ri­ torna in uso alla fine del sec. XV e lo si trova nell’Institutio Christiana di Cal­vino (1536), che parla di una p. divina, ad indicare la cura misericordiosa e provvi­denziale con cui Dio guida l’umanità, co­me padre e maestro. Verso la fine del sec. XVIII viene usato per indica­ re anche il sa­pere riguardante l’educazione, la teoria e la scienza dell’educazione. In it. è quasi del tutto scomparsa la distinzione tra la p. (l’e­ducazione) e la pedagogica (la teoria del­l’educazione). In ingl. education è usato sia per il fatto che per la dottrina dell’edu­ cazione; ma per la teoria dell’educazione sta entrando nell’uso, soprattutto a livello in­ ternazionale, il termine pedagogy (e un po’ meno il termine educalogy). In ted. si ha Pä­ dagogie (Erziehung: prassi educativa), e Pä­ dagogik (Erziehungslehre: dottrina dell’edu­ cazione); ma anche Erziehungswissenschaft (scienza dell’educazione). In rap­porto allo sviluppo dell’educazione perma­nente si è proposto, ma senza troppo successo, di sosti­ tuire il termine p. con quello di andragogia (oltretutto tacciato di «maschilismo»). 2. P. non scientifica e p. scientifica. Norme, precetti, esortazioni, ammonimenti, sen­tenze o pensieri sull’educazione, si ri­scontrano nelle diverse culture. Idee pedagogiche sono espresse in forma letteraria, artistica, filmi­ ca, televisiva nelle diverse letterature nazio­ nali e nella produzione culturale mondiale; fanno inoltre parte del­le ideologie, dei pro­ grammi politici, come delle concezioni reli­ giose (e degli scritti delle grandi religioni). L’arte di educare si alimenta delle tradizioni e delle inno­vazioni educative apportate lungo 851

PEDAGOGIA

i secoli dai grandi educatori o da interventi politi­ci per la formazione sociale. Il discorso sul­l’educazione si dà sotto forma di trattazio­ ne storica o di investigazione scientifica di vario tipo (biologico, psicologico, sociolo­ gico, antropologico, linguistico); o anche sotto forma di riflessione di tipo filosofico e teologico; o ancora di ricerca e progetta­zione di tipo metodologico, tecnologico, di­dattico. A mezza via tra il letterario e lo scientifico, tra intuizione e rigore logico, tra analisi fat­ tuale e prospettiva utopica, si pongono i sag­ gi a carattere pedagogico. In tal senso si può parlare di p. come ambito culturale (dell’area umanistica) e in parti­colare scientifico (tra le scienze umane), che ha cominciato ad avere un suo specifi­co assetto disciplinare tra la fine del sec. XVIII e la prima metà del XIX. 3. Antecedenti e genesi della p. come disci­ plina. Il miglioramento dei metodi e delle tecniche educative è stato sempre un fatto pratico, «artistico», oltre che teorico. Lun­ go il corso di molti secoli la riflessione su e per l’educazione non ha avuto una sua or­ ganizzazione disciplinare propria. Essa è sta­ ta sviluppata all’interno del problema e del discorso sull’uomo e il suo agire o più spesso all’interno delle concezioni filosofi­che sulla vita politica e l’organizzazione dello Stato, come ad es. è in → Platone ed → Aristotele ed in genere nel mondo greco­-romano. Nel pe­ riodo patristico e medioe­vale la p. è più che altro un capitolo della morale teologica, vale a dire della riflessio­ne volta a interpretare il senso dell’agire umano alla luce dell’evento del Cristo, Si­g nore risorto e Verbo di Dio; oppure come problema catechetico, vale a dire relativo alla trasmissione, all’insegna­ mento e alla comprensione dei contenuti di fede (come è ad es. in → Agostino e → Tom­ maso d’A­quino). Ma nel corso del → Medio­ evo si svi­luppa pure un’ampia precettistica per l’educazione di chi ha da svolgere fun­ zioni particolari (come i re, i principi, i nobi­ li, i chierici, i monaci, ecc.). Essa perdurerà anche nell’età moderna allargandosi ad altre catego­rie di persone: alle dame, alle donne, ai gentiluomini, ai semplici cristiani, ai giova­ni. Lo spirito umanistico-religioso ha reso sen­ sibili all’educazione di ragazzi e ragazze dei ceti popolari. La preoccupazione tipi­camente moderna per le scienze della na­t ura e il me­ todo scientifico, hanno fatto ri­cercare anche 852

in sede educativa «il meto­do naturale», colto nella natura delle cose (→ Comenio), nella na­ tura dell’intelligenza umana e nella peculia­ rità delle lingue e delle arti (→ Ratke) o nella natura psicolo­gica dell’educando, come insi­ steranno più tardi → Rousseau o → Pestalozzi. La p. ten­de ad essere piuttosto vista come → meto­dologia e → didattica. Con i nuovi modi di produzione legati a quella che è stata detta la «rivoluzione industriale» dalla fine del sec. XVIII in poi, con l’emergenza della borghesia e con le istanze politiche liberal-democratiche a seguito della rivoluzione francese, con l’en­ fasi sull’istruzione tipica dello spirito illumi­ nistico, e successiva­mente con l’esaltazione romantica della fanciullezza, si è venuta a creare una vasta domanda di formazione che ha spinto ver­so una diffusa scolarizzazione «scientifica», pubblica e tendenzialmente di massa; ha ri­chiesto una nuova cultura per la conoscen­za del bambino e per la professione di → maestro o di insegnante. In tal senso ha fat­to sorgere il bisogno di una disciplina ap­ posita, la p., che come, auspicava lo stesso → Kant, trattasse razionalmente i problemi educativi. 4. La ricerca dell’identità disciplinare. Pur con tutte le critiche, il ruolo di Rousseau è stato certamente fondamentale: nel suo Émi­ le la proposizione di una nuova educazione, che non corrompesse l’originario buono stato di natura dell’uomo, chiedeva di essere col­ legata alla critica socio-cultu­rale e all’utopia politica. Dall’Illuminismo in poi, una certa vena pedagogica ha per­vaso la mentalità co­ mune, le costruzioni di pensiero più diverse e le diverse scienze umane che si sono venute affermando in questi ultimi due secoli, per eccellenza considerate scienze dell’emanci­ pazione e del­la liberazione. Ma ciò ha gioca­ to a svan­taggio della p., che è rimasta esposta alla predominanza di forme disciplinari più for­ti. Nella prima metà dell’800 → Herbart si augurava che la p. riflettesse di più sulle pro­ prie idee e coltivasse maggiormente un suo pensiero indipendente non facendosi colo­ nizzare da nessuno. Invece di fatto continuò largamente la dipendenza della p. dalla filo­ sofia di varia denominazione (idealismo, re­ alismo, positivismo, attuali­smo, storicismo, pragmatismo, neo-kanti­smo, marxismo, spi­ ritualismo, personali­smo, neo-scolasticismo, ecc.), fino ad esse­re identificata come «scien­

PEDAGOGIA

za filosofica» da → Gentile. D’altra parte il prevalere della parabola positivistica ha av­ vicinato o ha subordinato la p. al biologismo evolutivo, al sapere medico e psichiatrico, alla socio­logia o alla psicologia, dietro la richiesta pressante di una p. quale «scienza dell’educazione»: assimilata ad una psicope­ dagogia da parte degli autori del movimento delle → Scuole Nuove; o ad una sociologia dell’educazione da parte di → Durkheim (che per questo di­stingueva scienza dell’educa­ zione da teo­ria dell’educazione e da p. prati­ ca). Negli ambienti tedeschi, tra le due guer­ re si pre­se ad avanzare la proposta di una p. intesa come «scienza dello spirito», centrata su una riflessione di tipo ermeneutico della relazione educativa e finalizzata ad una so­ lida formazione culturale. In tempi più vi­cini a noi è da segnalare anche un accosta­mento della p. alle scienze del comporta­mento e della comunicazione (antropolo­gia culturale, etologia, linguistica, semiolo­gia, ecc.). Tutta­ via questa stessa «scienza dell’educazione» è stata radicalmente mes­sa in questione dalla ventata della conte­stazione culturale che tra la fine degli anni sessanta e nel corso degli anni settanta ha investito le scienze umane in genere, considerate irrimediabilmente ideologica­mente inquinate e subordinate al potere sociale dominante. La crisi ha per un verso ridimensionato e per altro verso sti­ molato le scienze umane a ricomprendersi, a tro­vare spessore e validità conoscitiva razio­ nale, oltre le tradizionali angustie discipli­nari e le rigidità metodologiche peculiari, affron­ tando tematiche culturalmente ed esisten­ zialmente significative. In sede pe­dagogica, se in un primo tempo ha prevalso la critica alle ideologie pedagogiche, dietro l’influsso della psicoanalisi, del marxismo libertario, della sociologia critica, dello strutturalismo, successivamente sono state particolarmente ascoltate influenze deri­vanti dall’organizza­ zione e dalla program­mazione economicosociale, dalle nuove tecnologie informatiche e dagli studi sulle intelligenze artificiali, sui processi cogniti­vi e sulla comunicazione in­ terpersonale e sociale. 5. La situazione attuale. Il travaglio – o se­ condo altri lo sviluppo – della p. come di­ sciplina scientifica è a tutt’oggi in atto. Per ciò che concerne l’assetto disciplinare si di­scute se essa debba intendersi come disci­plina spe­

cifica ed unitaria o piuttosto deb­ba risolversi come ambito scientifico multi­disciplinare globalmente denominato → scienze dell’edu­ cazione; o se debba inten­dersi come momen­ to «generale» e sintetico della riflessione, delle teorie, delle ricer­che, delle tecnologie e delle pratiche edu­cative; o piuttosto come disciplina scientifi­ca dell’organizzazione del sapere e dell’in­tervento educativo, tra le co­ siddette «scienze pratiche», attorno a cui si fanno ruotare le specificazioni educative del­ le scienze umane (come la biologia dell’edu­ cazione, la psicologia dell’educazione e dello svi­luppo, la sociologia dell’educazione, l’an­ tropologia educativa, ecc.), la storia delle idee e delle pratiche e delle istituzioni edu­ cative, la didattica e le didattiche discipli­nari o le diverse educazioni (educazione fisica, morale, alla cittadinanza, ecc.), la → tecnolo­ gia dell’educazione, e magari anche una → filosofia dell’educazione: tutte viste come di­ scipline ausiliarie o contestuali della p. In tal senso la p. è assimilata ad una in­gegneria, ad una clinica dell’educazione, ad una metateo­ ria del discorso educativo, ad una logica o ad una sistemica dell’azione educativa. 6. I nodi problematici. La ricerca dell’iden­ tità disciplinare della p. non è un puro fat­ to accademico o epistemologico, ma è col­ legata con le istanze che vengono dal mon­do dell’educazione, con il modo di inten­dere la scienza e il sapere sociale, con le esigenze provenienti dalla vicenda storico-culturale cui ci si riferisce. Finora la p. per la mag­ gior parte è stata quasi solo – come insinua l’etimologia – rivolta all’età evolu­t iva e al mondo della scuola e degli inse­g nanti. Ora invece la dilatazione della for­mazione a tutte le età della vita (→ educazione permanente) e a tutte le situazioni vitali dell’esistenza per­ sonale e comunita­r ia, il moltiplicarsi delle figure e delle isti­t uzioni a valenza educati­ va, il complessificarsi della domanda sociale di formazione richiedono anche una cultura ed un sapere pedagogico ben più variegato e specializ­zato che non quello tradizionale. Allo stes­so modo il carattere misto del sape­ re peda­gogico, che fondamentalmente è visto co­me un «conoscere per educare», richiede oltre l’indagine empirico-positiva, anche uno sforzo teorico e progettuale e una va­lutazione critica dei modelli operativi uti­lizzabili negli interventi e nelle varie situa­zioni educative. 853

PEDAGOGIA CRISTIANA

In tal senso si parla di «scienza pratica», che coniuga razionalità scientifica con razionali­ tà pratica e tecnologica, logica di­mostrativa con argomentazione retorica e dialettica. Più ampiamente, la scienza pe­d agogica dovrà connettersi con le «buone pratiche» educa­ tive, con l’arte dell’educazione, con la poli­ tica educativa, con le teorie educati­ve, con il complesso mondo dell’industria culturale e della comunicazione mass-mediale e newmediale. Infine è da dire che la p. – come del resto le altre scienze umane – è oggi messa in que­stione dai profondi processi di muta­ mento culturale, di innovazione tecnologica, di pluralismo e del muticulturalismo appor­ tato dalla → globalizzazione della produzione economica e della esistenza sociale. 7. Per una nuova paideia. Più o meno co­ scientemente si avvertono i limiti di tan­t i modi di pensare e di prospettare la vita e l’educazione. Sicché la p. è oggi chiamata non solo a fornire informazioni, idee, mo­ delli per l’educazione, ma anche a dover ri­pensare globalmente l’educazione, la for­ mazione, l’istruzione. Oltre la produzione di condizioni facilitanti l’apprendimento e la maturazione personale è richiesta di es­sere critica e ricerca di una paideia, vale a dire di una «cultura formativa», di un’humanitas de­ gna di essere intenzionalmente ed impegna­ tivamente perseguita nella dif­ferenza della vita personale e nella complessità dell’orga­ nizzazione socio-economico-politica; e nel­ la prospettiva di una migliore qualità della vita di tutti ed ognuno, dei sin­goli e delle comunità. In tale contesto sto­r ico-culturale si fanno più evidenti il senso e la legittimità del pluralismo e della differen­ziazione degli approcci e delle impostazio­ni, ma anche la necessità del confronto e del dialogo inter­ disciplinare e sociale sui problemi della vita e dell’esistenza personale e comunitaria. In ciò consiste la «sfida» della p., che pure oggi è «sfidata», fino all’esautorazione, dalla vi­ cenda culturale contemporanea: aiutare a ripensare la vicenda umana nella sua globa­ lità, a prospettarne uno sviluppo «dal volto umano», e quindi a porre le basi e provare prospettive, modelli, sperimentazioni per un aiuto sociale, competente, responsabile e solidale, per la buona qualità della vita di tutti, piccoli e grandi, persone e comunità. È pe­raltro da notare che la limpidezza teorica 854

ha da fare i conti con i compromessi e le ca­ renze della pratica sociale ed istituzionale, delle procedure giuridiche ed accademiche, dei finanziamenti economici e delle inizia­ tive politiche, che limitano in modo più o meno grave l’investigazione e la ricerca, al di là delle buone volontà personali e delle competenze scientifico-professionali. Bibl.: De Giacinto S., L’educazione come siste­ ma, Brescia, La Scuola, 1977; R iverso E., La p. come ricerca scientifica, Cassino, Garigliano, 1979; Vis­ alberghi A. - R. M aragliano - B. Vertecchi, P. e scienze dell’educazione, Mila­ no, Mondadori, 1979; Brezinka W., Metateoria dell’educazione, Roma, Armando, 1980; Volpi C., La p. come sapere progettuale, Roma, Bulzoni, 1982; M assa R., Le tecniche e i corpi. Verso una scienza dell’educazione, Milano, Unicopli, 1985; Nanni C., Educazione e scienze dell’educazione, Roma, LAS, 1986; Dalle Fratte G. (Ed.), Teo­ ria e modello in p., Roma, Armando, 1986; Borrelli M. (Ed.), La p. italiana contempo­ranea, 2 voll., Cosenza, Pellegrini, 1995; Corsi M., Come pensare l’educazione, Brescia, La Scuola, 1997; Bertagna G., Avvio alla riflessione pedagogica, Ibid., 2000; Cambi F. et al., P. generale, Firenze, La Nuova Italia, 2001; Tarozzi M., P. generale, Milano, Guerini, 2001; G ranese A., Istituzioni di p. generale. Principia educationis, Padova, CEDAM, 2003; Bertolini P., Ad armi pari. La p. a confronto con le altre scienze sociali, Tori­ no, UTET, 2005; Laneve C. - C. Gemma (Edd.), L’identità della p. oggi, Lecce, Pensa MultiMe­ dia, 2005.

C. Nanni

PEDAGOGIA COMPARATA → Educazione comparata

PEDAGOGIA CRISTIANA È indubbia la presenza nel → Cristianesi­ mo di riflessioni pedagogiche, costruite sul fondamento o nell’orizzonte di una visione cristiana dell’uomo e del mondo. Si possono rintracciare già nella → Bibbia e negli scritti dei Padri, ma anche in opere di teologi e di pedagogisti cristiani delle varie epoche. Gli storici della p. sono soliti collocarle sotto la categoria generica ma significativa di p.c., indipendentemente dalla loro scientificità.

PEDAGOGIA CRISTIANA

1. Parola di Dio e pluralismo delle p.c. Dal­ lo studio della Parola di Dio sull’educazio­ ne emerge una conclusione un po’ sconcer­ tante per chi crede di poter ricavare la p.c. direttamente dalla Rivelazione. La Bibbia e la Tradizione della → Chiesa, infatti, non contengono una p. rivelata in senso stretto, valida per tutti i tempi i luoghi e le culture. Già nella Bibbia, ma molto più nella tradi­ zione cristiana, sono rintracciabili differenti concetti di educazione, molteplici proposte o modelli di umanesimo e di maturità umana, tutti pensati o come esigenze della Parola di Dio o almeno come compatibili con essa. Inoltre tutto questo insieme di materiale pe­ dagogico è «datato», cioè si trova inserito e condizionato dal tipo di → cultura nel quale la Parola di Dio si è manifestata o è stata in­ terpretata dalla comunità dei credenti lungo i secoli. Ciò che invece possiamo ricavare dalla Bibbia e dalla Tradizione della Chiesa come esigenze irrinunciabili della Parola di Dio in campo educativo e pedagogico, sono solo alcuni principi fondamentali di tipo an­ tropologico e teleologico, a partire dai quali e ispirandosi ad essi, le comunità cristiane sono chiamate ad impostare non solo la loro prassi educativa ma anche le loro teorie pe­ dagogiche nei differenti contesti culturali in cui devono vivere la loro fede. La più fon­ damentale di queste esigenze, quella che in certo senso le riassume tutte, si trova nelle «tavole domestiche» della lettera agli Efesi­ ni (Ef 6,4). Il Cristo-Kyrios e il suo Vangelo (che interpreta autorevolmente la Torah anti­ cotestamentaria e la completa), costituiscono il fondamento ultimo e il criterio. Tuttavia l’adesione incondizionata alla Parola di Dio mediante la fede non dispensa il credente dalla ricerca di quella saggezza umana che deve guidarlo nella sua attività educativa e dall’utilizzazione delle conquiste umane sia nel campo del sapere pedagogico che in quel­ lo delle istituzioni educative. Quindi è legit­ timo affermare che la ricerca circa la natura, i contenuti, la meta dell’educazione, cioè la maturità, lo studio dei metodi e dei mezzi adatti per raggiungerla, la configurazione delle istituzioni educative, quali la famiglia e la scuola, in una parola, la p., tutto questo è lasciato da Dio all’inventiva delle generazio­ ni cristiane, operanti nelle diverse culture. Questo spiega perché, nell’ambito dell’unica fede cristiana, di fatto siano esistite e di di­

ritto possano continuare ad esistere autenti­ che teorie pedagogiche, differenti tra loro e tuttavia compatibili con la suprema saggezza del Vangelo, quindi tali da potersi legittima­ mente qualificare come cristiane. 2. Condizioni fondamentali perché una p. possa dirsi cristiana. La legittimità, all’in­ terno dell’unica fede, di una pluralità di p.c. non esclude tuttavia la possibilità di tensioni e contrasti tra le p. cresciute al di fuori della rivelazione e i contenuti della fede. È neces­ sario pertanto definire le condizioni per cui una p. possa dirsi cristiana. La p.c. dovrà an­ zitutto essere autentica p., cioè rispettare e promuovere il lavoro della ragione in campo educativo, costruendo o optando per teorie pedagogiche valide e aggiornate. Però, a cau­ sa dell’adesione incondizionata alla Parola di Dio di chi la costruisce, essa dovrà essere sempre vigilante verso quelle teorie educati­ ve e progettazioni pedagogico-didattiche in contrasto con i contenuti della rivelazione, esercitando nei loro confronti una funzione critica. In secondo luogo la p.c., mentre da una parte, con ricerche sempre più approfon­ dite, tenta di definire, all’interno delle diver­ se culture, le mete dei processi educativi e il complesso di tutti quei valori di autentica crescita umana e di progresso sociale che esse comportano, dall’altra, a motivo e alla luce dei contenuti della fede che essa suppo­ ne, dovrà sempre pensare e progettare tali mete in funzione di quella finalità superiore, che è la «perfezione cristiana» o «santità». È compito pertanto della p.c. tracciare itine­ rari di autentica maturazione umana all’in­ terno di processi di → conversione e crescita cristiana (→ educazione cristiana). In terzo luogo, quando la p.c. progetta e promuove, nell’orizzonte della fede, processi educativi di crescita e maturazione umano-cristiana a livello personale e comunitario, dovrà sempre farlo in una prospettiva escatologi­ ca, utopica per i non credenti ma reale per i cristiani, la prospettiva cioè dei «nuovi cieli e della nuova terra» (Ap 21), preannunciata dalla resurrezione di Cristo. 3. Natura e scientificità della p.c. Circa la natura e la scientificità della p.c. sono sorte in passato ed esistono ancora attualmente opinioni differenti e antitetiche, determinate da precomprensioni riguardanti sia la natura 855

PEDAGOGIA CRISTIANA

della p. (è scienza o arte? quale tipo di scien­ za: normativa? ermeneutica? sperimentale? scienza unica o pluralità di scienze?) sia le condizioni per cui un sapere possa esse­ re detto scientifico (autonomia? criticità?). Soprattutto il disaccordo circa la questione se la p. sia scienza unica e, in questo caso, di che tipo, oppure indichi una pluralità di scienze, incide fortemente sulla natura e scientificità della p.c. Tra coloro che riten­ gono la p. scienza unica del fatto educati­ vo, c’è chi la concepisce come filosofia, chi come scienza normativa, chi la pensa come scienza ermeneutica e chi ne fa una scienza empirico-sperimentale. All’interno di questo gruppo eterogeneo, già nella prima metà del sec. scorso, soprattutto in ambiente tedesco, la natura e la scientificità della p.c. divenne oggetto di contesa. Si discuteva se fosse le­ gittimo da un punto di vista epistemologi­ co unire insieme scientificità e dipendenza da una fede. Un problema analogo veniva posto per la filosofia cristiana. La maggior parte dei pedagogisti di estrazione cattolica, almeno fino al Concilio Vaticano II, dava a questo problema una risposta affermati­ va. Questa posizione era condizionata dalla certezza che la p. fosse una scienza norma­ tiva dei processi educativi e quindi dovesse fondarsi su una visione del mondo, cioè su una metafisica e un’antropologia, ricavabili sia da una filosofia che da una fede (nel caso nostro, dalla fede cristiana), senza tuttavia perdere, in quest’ultimo caso, l’autonomia propria delle scienze normative. Risponde­ vano invece negativamente quasi tutti gli al­ tri pedagogisti, molti dei quali apparteneva­ no all’area evangelica. Erano convinti che il far dipendere la p. da una visione del mondo ricavata da una fede, significava vanificarne l’autonomia (dote questa ritenuta, da tutta la modernità, essenziale per la scienza) e, per di più, ideologizzare la fede. A partire dagli anni Settanta, però, anche un numero notevo­ le di pedagogisti cattolici (non solo dell’area tedesca) rinuncia sia alla concezione della p. come scienza normativa sia alla propo­ sta del → Willmann di pensare la p.c. come «scienza cristiana dell’educazione» e opta, generalmente, per una concezione della p. come scienza ermeneutica. Per conseguenza la p.c. o viene relegata nell’ambito delle Er­ ziehungslehren (precettistiche pedagogiche), prive di dignità scientifica, oppure viene 856

collocata all’interno della teologia (Schil­ ling, 1974). Però, già a partire dagli anni Cinquanta, emerse e si affermò, non solo in Italia, la posizione di coloro che ritengono la p. il nome collettivo di una pluralità di scien­ ze differenti, unificate però dal fatto di avere un campo comune di indagine, l’educazione, sebbene poi ciascuna di esse la studi da un punto di vista diverso da quello delle altre scienze dell’educazione. In questo contesto furono fatte nuove proposte circa la natura e la scientificità della p.c. Per L. da Silva essa consta di tre gruppi distinti di principi: p. di ordine scientifico-sperimentale (sono le «conclusioni» delle tre scienze sperimentali dell’educazione: la biologia, la psicologia e la sociologia); p. di ordine filosofico (conclusio­ ni della filosofia dell’educazione); e infine p. di ordine teologico (conclusioni della teologia dell’educazione). Tutti questi principi, nono­ stante la loro eterogeneità genetica (deriva­ no da scienze diverse), polarizzandosi tutti attorno ad un unico oggetto formale, l’edu­ cabilità umana, danno origine ad un’unica scienza, la p.c, concepita come scienza in­ tegrale dell’educazione umana. Anche G. → Corallo ritiene la p.c. un tipo di sapere com­ plesso, perché risulta dalla collaborazione tra scienze diverse: una filosofia dell’educazione aperta alla rivelazione cristiana; una teologia dell’educazione con la funzione di integrare le conquiste valide ma parziali della filoso­ fia dell’educazione; e infine una metodologia pedagogica che dipenda, oltre che dalla filo­ sofia, anche dalla teologia. In una prospet­ tiva analoga a quella di G. Corallo sono da collocarsi anche P. Braido e V. Miano per quanto riguarda la natura della p.c. Oggi la trasformazione della p. in scienze dell’edu­ cazione può considerarsi un fatto compiu­ to, anche se non è inteso da tutti allo stesso modo. L’unico tipo di conciliazione possibile tra queste esigenze antitetiche sembra essere 1’ → interdisciplinarità. Essa però è intesa in modi diversi e contrapposti. È evidente che, in questa prospettiva epistemologica, il pro­ blema della natura e della scientitificità della p.c. si debba porre in modo nuovo rispetto al passato. A noi sembra impraticabile la scor­ ciatoia di chi vorrebbe trasformare il sin­ tagma «p.c.» in quello di «Scienze cristiane dell’educazione». Indipendentemente dalla possibilità di una sua interpretazione corret­ ta dal punto di vista epistemologico, ritenia­

PEDAGOGIA ISTITUZIONALE

mo questa soluzione, oggi soprattutto, fonte di equivoci senza fine. Escludiamo inoltre che la p.c. possa identificarsi con la teologia dell’educazione. L’unica formula che, a no­ stro parere, potrebbe salvare, da una parte la scientificità dei contributi di ciascuna delle scienze dell’educazione e, dall’altra, la pos­ sibilità di una loro effettiva collaborazione interdisciplinare è l’appartenenza di tutte le teorie che vi partecipano a una comune «tradizione di ricerca» (→ epistemologia pe­ dagogica), compatibile con la Parola di Dio. Ai convegni di Scholé (Brescia), che raduna pedagogisti cristiani italiani, va il merito di tenere aperto un dibattito sulla p.c. a partire dal 1954. Gli Atti sono editi da La Scuola di Brescia. Bibl.: Schilling H., Teologia e scienze dell’edu­ cazione. Problemi epistemologici, Roma, Ar­ mando, 1974; Scholé (Ed.), Teologia e scienze dell’educazione. Atti del XXVIII Convegno di Scholé, Brescia, La Scuola, 1990; Groppo G., Te­ ologia dell’educazione. Origine identità compiti, Roma, LAS, 1991; Mari G., P.c. come p. dell’es­ sere, Brescia, La Scuola, 2001; Chiosso G., Pro­ filo storico della p.c. in Italia (XIX e XX secolo), Ibid., 2001; Sagramola O., Alle radici della p.c.: educazione, cultura e scuola nel cristianesimo dei primi secoli, Manziana, Vecchiarelli, 2003; Bissoli C., Il dibattito sulla p.c. Alcune pun­ tualizzazioni, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 2, 357-368.

G. Groppo

PEDAGOGIA ISTITUZIONALE Indica una corrente contemporanea della p. francese che rifiuta una concezione autorita­ ria della scuola e si schiera, invece, a soste­ gno dell’autogestione pedagogica. 1. La p.i. nasce nel clima antistituzionale che caratterizza gli anni intorno al ’68, come punto di coagulo di una serie di tendenze: l’educazione attiva e cooperativa di → Frei­ net, la non direttività di → Rogers, le teorie psicodinamiche di → Lewin e le posizioni della psicoterapia istituzionale. Essa conte­ sta la p. tradizionale, considerata astratta, teorica e burocratizzata, che crea solo con­ formità, passività, inibizione del desiderio e

dell’iniziativa, e che, pertanto, non è in grado di cambiare la scuola e, in ultima analisi, la società anche perché sono le strutture sociali a condizionare il sistema educativo. Al con­ trario, la strada per una riforma passa attra­ verso il rigetto dell’«istituito», cioè dell’orga­ nizzazione imposta dall’alto a servizio degli interessi dominanti, e l’assunzione di un at­ teggiamento «istituente», cioè controistitu­ zionale, che si concretizza nell’autogestione di persone e gruppi. 2. Nella scuola quest’ultima significa che l’insegnante interviene non più a partire dai contenuti precostituiti nei curricoli, ma dalle domande della classe, e lascia che siano gli alunni a decidere i metodi e i programmi. Il funzionamento del gruppo di autogestione è guidato dai principi della soddisfazione di tutti i suoi membri, dell’aggiustamento conti­ nuo ai loro desideri e dell’accesso al confron­ to con la società. Il compito dell’insegnante consiste nel ruolo di facilitatore dell’appren­ dimento, di analista, di tecnico dell’orga­ nizzazione. All’interno della p.i. convivono tre tendenze: una direttiva, di ispirazione marxista, secondo cui l’insegnante propone modelli di autogestione; una semi-direttiva, di origine freinetiana, nella quale la propo­ sizione di modelli lascia ampio spazio all’au­ toformazione personale; una non-direttiva, di influsso rogersiano, che concepisce l’inse­ gnante come puro consulente. La p.i., dopo il successo della fine degli anni ’60, è stata messa in discussione e viene criticata sia per la sua pretesa di realizzare le riforme basan­ dosi solo sul microsociale, sia per la propo­ sta di un’autogestione che manca di finalità e di motivazioni chiare. Al tempo stesso le va riconosciuto il merito di aver fornito un con­ tribuito prezioso all’analisi delle istituzioni e allo sviluppo dell’approccio sistemico. At­ tualmente in Francia la p.i. è impegnata ad allargare l’analisi istituzionale dalla singola classe all’intero istituto. Bibl.: Lapassade G., L’autogestion pédagogique, Paris, Gauthier-Villars, 1971; Lobrot M., A quoi sert l’école?, Paris, Colin, 1992; A rdoino J. - R. Loureau, Les pédagogies institutionnelles, Pa­ ris, PUF, 1994; Meirieu P. - F. Oury, Y a-t-il une autre loi possible dans la classe?, Mouans-Sar­ toux, PEMF, 2001; Oury F. - A. Vasquez, Vers une pédagogie institutionnelle?, Vigneux, Ma­

857

PEDAGOGIA SOCIALE

trice, 2001; I mbert F. - Le Grpi, La pédagogie institutionnelle pour quoi? pour qui?, Ibid., 2004; Laffitte R., Essais de pédagogie institutionnel­ le, Nîmes, Champ Social, 2006.

G. Malizia

PEDAGOGIA LAICA → Pedagogia cristiana

PEDAGOGIA SOCIALE La p.s. è una scienza pratica, sociale e edu­ cativa non formale che giustifica e com­ prende in termini più ampi il compito della → socializzazione, e in modo particolare la → prevenzione e il → recupero nell’ambito delle deficienze della socializzazione e del­ la mancata soddisfazione dei → bisogni fon­ damentali. 1. Si possono identificare quattro principa­ li approcci alla p.s. Un primo la concepisce come scienza dell’educazione sociale del­ l’individuo, il quale ha bisogno di maturare la responsabilità sociale e la capacità di contri­ buire al bene comune: questo compito spet­ ta alla p.s. Un secondo approccio la intende come dottrina dell’educazione politica e na­ zionalista dell’individuo: sog­getto dell’educa­ zione diventa quindi lo Stato, a cui i fini e gli obbiettivi dell’indivi­duo devono conformarsi e sintonizzarsi. La p.s. così intesa diventa p. nazionalista, rivolta alla formazione civica della gioventù. Una terza concezione la vede come p. del­la società, nel senso che deve gui­ dare que­st’ultima nella formazione dei suoi mem­bri. Tale influsso educativo della società avviene più che nei rapporti individuali (ge­ nitori, maestri, gruppo dei pari) nella cultura del gruppo sociale, dell’ambiente sociale, dei mezzi di comunicazione e del­l’educazione informale. In questo senso, il mezzo più va­ lido per la socializzazione non è una società indistinta, ma i corpi inter­medi, la comunità o le istituzioni che la compongono (ad es. la famiglia, la chiesa, il sindacato, le comunità di recupero). Un quarto approccio accentua l’intervento preventivo e di ricupero nei casi in cui vie­ne a mancare un’adeguata socializ­ zazione. Tale intervento è stato inizialmente concepito come educazione dell’infanzia e della gioventù disagiata, per poi espandersi al­l’educazione degli adulti, degli anziani e 858

delle famiglie a rischio. Si tratta particolar­ mente dell’educazione non formale, e si ri­ ferisce spesso all’ambito dei → servizi so­ciali, purché essi abbiano anche una fun­zione edu­ cativa e non soltanto assistenziale (Quintana Cabanas, 1984). 2. I precursori della p.s. si possono rinveni­re nell’azione caritativa del cristianesimo, e in pedagogisti come → Pestalozzi e → Fröebel, prima ancora che essa venisse sistema­tizzata come disciplina. L’azione socio-educativa supera l’ambito delle istituzioni caritative e passa a svilupparsi all’interno delle politiche assistenziali e sociali. Il ter­mine è di origine tedesca ed è stato utiliz­zato inizialmente da K. F. Magwer nel 1844, nella «Pädagogische Revue», e in se­g uito da A. Diesterweg (1850) e → Natorp (1898), che l’analizza come disci­ plina pedagogica. Sono state le problemati­ che so­ciali emerse dall’industrializzazione a par­tire della metà del sec. XIX, soprattutto in Germania, a spingere la sistematizzazione della p.s. come scienza e disciplina. 3. Attualmente la p.s. sembra orientarsi sem­ pre di più verso la realizzazione pratica della educabilità umana rivolta a persone che si trovano in condizioni sociali sfavo­revoli. Il lavoro dell’educatore sociale emerge quindi come una necessità della so­cietà industria­ lizzata, in quanto in essa si sviluppano situa­ zioni di disagio che si ma­nifestano in forme di povertà, di → emar­ginazione, di consumo di → droga, di ab­bandono e di mancata parte­ cipazione so­ciale. La p.s. si realizza partico­ larmente all’interno degli interventi educati­ vi inten­zionali e non formali, ed è organizza­ ta al di fuori delle normali agenzie educative come quella scolastica e familiare. Si diffe­ renzia quindi dall’educazione formale che si svol­ge direttamente nella famiglia e nella scuo­la, e da quella informale, caratterizzata dal­la mancanza di intenzionalità educativa e che si sviluppa attraverso la convivenza fa­ miliare, del gruppo dei pari, e dei mezzi di comunicazione. Bibl.: Agazzi A. (Ed.), Educazione e società nel mondo contemporaneo, Brescia, La Scuola, 1965; Quintana Cabanas J. M., Pedagogía social, Ma­d rid, Dykinson, 1984; Fermoso P., Pedagogía so­cial. Fundamentación científica, Barcelona, Herder, 1994; Quintana Cabanas J. M., Textos

PEDAGOGIA SPERIMENTALE

clásicos de pedagogía social, Valencia, Nau Lli­ bres, 1999; Romans M. - A. Petrus - J. Trilla, Profissão: educador social, Porto Alegre, ART­ MED, 2003.

G. Caliman

PEDAGOGIA SPERIMENTALE Con tale denominazione viene designato sia il complesso sistematico delle norme meto­ dologiche da usarsi per lo studio positivosperimentale dei fatti educativi e di­dattici, sia l’insieme organico dei risultati, delle con­ clusioni raggiunte utilizzando un’appropria­ ta metodologia sperimentale. Questa duplice concezione si riflette nelle denominazioni diversamente usate dai va­ri autori e nelle di­ verse lingue. 1. Origine e sviluppo. → Herbart riteneva che la p. si appoggiasse sulle conclusioni della filosofia e della psicologia, ma co­stituisse un sapere indipendente e scientifi­co, basato anche su fatti rigorosamente accertati. Le origini della p.s. si legano a quelle della spe­ rimentazione in psicologia. È stato → Wundt a dare origine a quest’ultima. I suoi studi e i suoi esperimenti non hanno riguardato il fat­ to educativo e neppure fatti psicologici rile­ vanti per un educatore. I suoi allievi invece si sono occupati di psicologia scolastica, di controllo dei risultati dell’apprendimento, di strumenti per la misura delle attitudini e dei prodotti del conoscere, attivando laboratori di p.s. e pubblicando mono­grafie e manuali. Tra questi si possono ricordare E. Meumann, che collaborò con W. Lay in Ger­mania, V. Mercante in Argentina, M. Schuyten in Bel­ gio, W.H. Winch in Inghil­terra, il gruppo degli allievi americani, tra cui J.M. Rice. Il sorgere e lo svilupparsi della p.s. è dipeso da vari motivi oltre che da una tendenza allo svi­ luppo delle scienze sperimentali presente un po’ ovunque. È stato però anche oggetto di polemiche, di riser­ve, di incertezze. In Ger­ mania Dilthey, al­lievo di Herbart, contrap­ poneva a una scienza che voleva «spiegare» i fatti (erklären) una conoscenza che voleva com­prenderli (verstehen), più consona alla pe­culiarità di una scienza umana; dava così origine a una corrente di pensiero destina­ta a riemergere (→ ricerca educativa). Una tra­

dizione che risale a → Rousseau aveva posto il fanciullo al centro delle cure edu­cative, insistendo sull’utilità di creargli at­torno un ambiente naturale, appropriato, formativo ma gaio. Da questo filone erano maturate ini­ ziative di vario genere: quelle che traevano indicazioni per l’educazione dalla medicina, dalla psicologia e insisteva­no perché i pro­ blemi della crescita infan­tile fruissero delle conquiste scientifiche. Il metodo scientifico cui diceva d’ispirarsi → Montessori può es­ serne un esempio; le po­lemiche e le proposte fatte dalla p. scienti­fica (recensite da → Buy­ se nella Expérimentation en pédagogie e da Fornaca e Di Pol in La p. scientifica) sono altri esempi di questa tendenza. Anche la p. nuova, quella attiva, quella funzionale (per quanto queste denominazioni possano de­ signare movimenti distinti) avevano la preoc­ cupazione di adeguarsi ai progressi della p., della psicologia e della medicina. Non c’era però, nei più, l’estensione, for­malmente inte­ sa, della → sperimentazione vera e propria ai fatti educativi. Buyse, per sottolineare que­ sta realtà, contrapponeva la p. expérienciée a quella expérimentale, da lui propugnata. In vari studiosi di → pedologia e psicotecnica, come essi stessi si de­nominavano, la divari­ cazione tra innova­zione attivistica e ricerca in educazione era meno accentuata. → Binet, → Claparède, → Decroly, ognuno con la pro­ pria fisionomia, cercavano d’introdurre nella scuola la ri­cerca, si occupavano molto degli anormali, trasferendo i metodi diagnostici della psi­cologia allo studio di questi allievi e inse­rendo nella didattica abituale il mate­ riale e le iniziative prima predisposti per i ragazzi in difficoltà. Studiosi come Binet si consi­deravano (ed erano considerati) psico­ logi, ma effettuavano ricerche scolastiche che interessavano la didattica e la p. (Les idées modernes sur les enfants, 1911). Agli inizi del secolo cominciarono ad apparire negli USA, oltre alle molte ricerche, manuali bi­lancio per la misurazione dei risultati nella scuola e per la sperimentazione (W. McCall, How to experiment, 1924). In Francia Th. Simon, collaboratore di Binet, pub­blicò nel 1922 La pédagogie expérimentale e accolse, sul bollettino della Société Binet, i contributi per una «scuola su misura». Claparède fece il bilancio dei metodi della p.s. (Psychologie de l’enfant et pédagogie expérimentale). In Belgio R. Buyse, allievo di O. Decroly, trac­ 859

PEDAGOGIA SPERIMENTALE

ciò una storia del me­todo sperimentale, illu­ strò una serie di pia­ni d’esperimento e rac­ colse ricerche mo­dello (L’expérimentation en pédagogie, 1935). La ricerca nomotetica in p. aveva raggiunto così lo stato adulto. Le opere citate ignoravano per lo più i pro­ blemi epistemologici ed offrivano invece considerazioni su come condurre di fatto le ricerche. Tracciando un bilancio della pro­ duzione americana ed europea in p.s., si rile­ vano ricerche poderose per numero ma non sempre altrettanto per rilevanza teo­retica e pratica. Già Binet sottolineava, a suo modo, l’abbondanza di ricerche cono­scitive, con­ dotte senza una teoria interpre­tativa, prote­ se a rilevare fatti limitati, senza compiere il ciclo che dalle constatazioni ri­sale a modelli interpretativi più generali e più profondi, per poter offrire indicazioni utili a chi opera nel cam­po scolastico. 2. Positivismo e ricerca positiva. L’ambien­te culturale in cui si è sviluppata la p.s. è, in sen­ so largo, il → positivismo, espresso anche in varie forme come il sociologismo, il pragma­ tismo, lo scientismo. Per i positivi­sti l’unico metodo veramente scientifico è quello indut­ tivo, fondato sull’osservazione e sull’espe­ rimento, che si applica indistin­t amente a tutti i fenomeni, naturali, cultu­rali, sociali, educativi. Si pensa anche a una «metafisica induttiva» che non vuol però arrivare ad al­ cun assoluto, ma è simile a un’etica sociale, espressione delle esigenze storiche di una so­ cietà. Il positivismo ha ispirato e giu­stificato lo studio osservativo e speri­mentale dei fat­ ti positivi e l’inci­denza della p.s. sull’orga­ nizzazione scola­stica e nel trattamento dei meno dotati e dei disabili. L’Italia, fino all’af­ fermazione e al prevalere dell’idealismo, era un esempio di questo fervore di iniziative. Gli studi di p.s. hanno ripreso a svilupparsi a metà del XX sec., nell’ultima decade si sono istituite le prime cattedre universitarie. La p.s. ha trovato e trova giustificazione in un quadro filosofico diverso dal quello del po­ sitivismo, come av­viene per il metodo speri­ mentale usato nel­le scienze e quale è andato formulandosi con sempre maggior precisio­ ne e rigore, da Bacone a Galileo, a Descar­ tes. Per parec­chi studiosi è appunto questo il metodo da usare anche, in modo analogico, nella p.s., mutuandolo appunto dalla ricerca scienti­fica. è quindi storicamente e teorica­ 860

mente inesatto qualificare come positivistico ogni metodo sperimentale. Il determinismo che stava dietro alle posizioni positiviste è stato progressivamente superato dalle teorie più recenti, che si rifanno al realismo critico, che arriva ad asserti probabilistici con cui si interpretano le regolarità. Dunque diversi paradigmi epistemologici dal positivismo in poi hanno fondato i metodi di ricerca quanti­ tativa (ricerca educativa). Il filone ermeneu­ tico e fenomenologico sono invece il quadro di riferimento dei metodi qualitativi. 3. Diffusione della p.s. L’opera di Buyse è rimasta per anni un apporto isolato in Euro­ pa; altrettanto è da dire per le molte e in­ teressanti ricerche sviluppate presso l’Uni­ versità di Lovanio, soprattutto sotto forma di tesi di licenza o di dottorato. Buyse esclude dalla ricerca pedagogica i «fatti morali» e quindi la limita al settore tecnico e alla di­ dattica. Così penserà anche E. Planchard, di­ scepolo di Buyse e docente a Coimbra, che si è de­dicato soprattutto alla divulgazione del metodo sperimentale e degli strumenti per la rilevazione. Lo studioso belga, e gli altri che lo hanno seguito, hanno posto queste restrizioni perché ritenevano scarsamente compatibile una ricerca sperimentale, for­ malmente intesa, con la filosofia professata allora da molti cattolici. Questa posizione è stata superata dai contributi dei pedagogisti ita­liani. In proposito va sottolineato che l’Ita­ lia è arrivata tardi alla ricerca sperimentale in educazione, ma ha insi­stito sul proble­ ma epistemologico. Dopo la seconda guer­ ra mondiale, in Eu­ropa l’esempio di Buyse ha avuto più se­g uito. Oltre all’Università di Lovanio, → Dottrens a Ginevra, G. Mialaret a Caen, → Calonghi all’Università Salesiana in Italia, V. García Hoz a Madrid so­no stati, con le loro ricerche e gli studi da loro ispira­ ti, i rianimatori di questo tipo di ricerca. In molte nazioni la sperimentazione in didattica e in p. ha assunto proporzioni sempre mag­ giori e si è data un’organizza­zione efficien­ te. Presso le università sono state isti­t uite cattedre e sezioni apposite; si sono creati mezzi di espressione e di confronto con ri­ viste specializzate e convegni. Sono apparse le rassegne periodiche delle ricerche come l’Encyclopedia of educational research, i bilanci inglesi (Educational research in Britain, editi perio­dicamente dalla Universi­

PEDAGOGISTA

ty of London Press), quelli statunitensi (Re­ view of re­search in edu­cation, editi a cura dell’A.E.R.A.), gli ampi manuali di ricerca sull’insegnamento (Handbook of research on teaching), che continuano con aggiorna­ menti e com­pletamenti curati da specialisti. Il progres­so riguarda anche aspetti meno estrinseci e concerne in particolare questio­ ni edumetriche: nella rilevazione è stata su­ perata un’angusta concezione della misura dei fatti in favore della loro valutazione; le tecniche statistiche si sono arricchite e affi­ nate per sfruttare le possibilità dei computer, per adeguarsi così meglio alla com­plessità delle situazioni. L’elaborazione di dati non metrici e non parametrici, i nuovi piani d’esperimento, la campionatura e la pianifi­ cazione delle ricerche, lo studio e la verifica delle loro condizioni di validità, so­no state oggetto di sforzi più intensi e di più consa­ pevoli impostazioni, anche epistemo­logiche. Da studi quasi esclusivamente di­d attici e piuttosto frammentari, si è passati a verifi­ care l’efficacia di interventi educativi, a dare più rilievo al quadro teorico e all’incidenza dei fattori sociali, allo studio dei problemi visti nella loro complessità, includendo le variabili legate alle caratteristiche personali e quelle meno facilmente quantificabili. 4. Conclusione. Già all’origine, ma ancor più dopo le articolazioni assunte dalla ri­ cerca educativa e didattica, la denomina­ zione p.s. appare inadeguata. Privilegia, apparentemente, l’aspetto sperimentale su quello osservativo; sembra ritenere esau­stivo il metodo sperimentale, mentre non è l’unica prospettiva da adottare per lo stu­dio empiri­ co dei fatti educativi. Non include inoltre i metodi qualitativi di ricerca che si sono dif­ fusi sempre più, ad integrazione dell’approc­ cio quantitativo sperimentale della ricerca. Oggi si privilegia inoltre la distinzione tra gli aspetti metodologici e gli esiti conseguiti con gli stessi. Bibl.: R ichard G., Pédagogie expérimentale, Paris, Doin, 1911; Rusk R., Introduction to ex­ perimental education, London, Longman, 1912; Freeman F.N., Experimental education. Labora­ tory manual and tipical results, Boston, Hough­ ton Mifflin, 1916; Zuza F., Alfred Binet et la pé­ dagogie expérimenta­le, Louvain, Nauwelaerts, 1943; Drese P.O., La didactique expérimentale

de W.A. Lay, Ibid., 1956; Montealegre A., For­ mation de la méthode expérimentale et son uti­ lisation en pé­dagogie, Ibid., 1959; Becchi E., Problemi di sperimenta­lismo educativo, Roma, Armando, 1969; Coggi C. - L. Calonghi, Ricer­ ca e scuola, Teramo, Giunti, 1990; Viganò R., P. e sperimentazione. Metodi e strumenti per la ricerca educativa, Milano, Vita e Pensiero, 2002; Burton D. - S. Bartlett, Practitioner research for teachers, Thousand Oaks, Sage, 2005.

L. Calonghi - C. Coggi

PEDAGOGISTA È un termine di recente invenzione, non presente in molte lingue. Il suo significato, tuttora non univoco, si è venuto preci­sando, grosso modo, durante l’ultimo sec., con l’af­ fermarsi della → pedagogia co­me scienza e i relativi problemi di ordine epistemologico. 1. Fin dall’antichità (e in qualche lingua è ri­ masto con il senso di p.) era usata la pa­rola «pedagogo», per indicare chi si pren­deva cura dei minori per istruirli e prepa­rarli alla vita sociale. A poco a poco, l’in­teresse per questo impegno si è venuto amplificando, soprattutto con il diffonder­si delle scuole, e, gradualmente, ha preso corpo l’esigenza di sviluppare una «scien­za», che se ne occupas­ se. Ciò è avvenuto, nella prima metà del sec. XIX, soprat­t utto con → Herbart, il quale ha riconosciu­to specifiche connotazioni a tale scienza e una sua particolare collocazione in rappor­to alle altre. Da allora si è avviato un di­scorso epistemologico nei confronti del­ la «pedagogia» (che dura tuttora) e si sono creati spazi per coloro che si dedicavano a un approfondimento teorico non solo sulla natura di tale scienza, ma, parallelamente, del suo oggetto e dei problemi che ne deri­ vavano sui vari fronti, in cui l’edu­cazione poteva aver luogo: dalla famiglia, alla scuo­ la, ai più svariati raggruppamenti umani. A costoro, che come Herbart, non rifuggivano anche da tentativi pratici è sta­to dato il nome di p. Successivamente però e, in specie, in questi ultimi decenni, con l’articolarsi della pedagogia nelle «scienze dell’educazione» e degli impegni educativi in ambienti nuovi ed eterogenei rispetto ai tradizionali (comunità terapeutiche, luoghi di lavoro...), si è utiliz­ 861

PEDOFILIA

zato il termine p. in un senso più ristretto, distinguendo all’interno delle funzioni, che si erano ritenute proprie di quell’unica figu­ ra, altre compe­tenze specifiche (come quella didattica, tecnologica, storica, per i diversa­ mente abili...), che, un tempo, erano gestite in modo unitario dal professore di «pedago­ gia», nei limiti della loro emergenza. 2. Oggi si tende pertanto a chiamare p. più propriamente colui che si dedica alla ri­ flessione teorico-critica sulla natura della scienza pedagogica dell’e­ducazione (o «pe­ dagogia»), che ne è l’oggetto, dei fattori e agenti che vi contribuiscono, in una parola, su tutto ciò che ne costituisce la problema­ tica. Infatti, su questo piano, più ancora che su quello operativo, non esiste a tutt’oggi un consenso (cosa peraltro diffi­cile anche in altri campi, nella prospettiva teorica), so­ prattutto da quando si è venuta rivendicando un’autonomia dall’onnicom­prensiva «peda­ gogia» di un tempo, a una → filosofia, a una → metodologia e, persino, a una → teologia dell’educazione. D’altron­de, a complicare il discorso, si sono venute affiancando al p., al didatta, allo storico della «pedagogia», ai docenti universitari insomma, e agli in­ segnanti e educatori, in genere, altre figu­ re, come l’operatore pe­d agogico, colui che si impegna in interventi educativi organici in situazioni definite, al quale si attribuisce e si richiede anche una preparazione teori­ ca specifica, ma che resterebbe comunque connotato prioritaria­mente dalla sua azione sul campo, a costui taluni attribuiscono la denominazione di p. pratico. Non sembra tuttavia, come già accennato all’i­nizio, che esista, in merito, un’unanimità di opinioni, anzi la discussione continua su riviste e pub­ blicazioni varie. Bibl.: Braido P., La teoria dell’educazione e i suoi problemi, Roma, LAS, 1968; Cambi F., Il congegno del discorso pedagogico, Bologna, CLUEB, 1986; Nanni C., Educazione e scienze dell’educazione, Roma, LAS, 1986; Granese A. (Ed.), Destinazio­ne pedagogia, Pisa, Giardini Editori, 1986; Bertolini P., L’esistere pedagogi­ co, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1988; Medina Rivilla A., La formación práctica del educador social, del pedagogo y del psicopedagogo, Ma­ drid, UNED, 2005.

B. A. Bellerate

862

PEDOFILIA Il Manuale diagnostico e statistico dei di­ sturbi mentali (IV-TR) colloca la p. tra le parafilie, in passato denominate perversioni. La p. consiste in un’attrazione sessuale in­ controllabile da parte di soggetti adulti, uo­ mini o donne esterni alla cerchia familiare, nei confronti di bambini dell’uno e dell’al­ tro sesso, i quali, proprio perché tali sono costretti a vivere una relazione asimmetrica dominante-dominato, dove essi non sono af­ fatto in grado di dare un consenso respon­ sabile al contatto sessuale in cui vengono coinvolti. 1. Relativamente all’abuso sessuale sui mi­ nori, è opportuno distinguere tra incesto e p. Anche se tra i due fenomeni ci sono delle analogie (entrambi annullano la differenza tra le generazioni), i contesti sono diversi. In particolare, essi rimandano a due differenti tipi di relazioni. Subire un abuso sessuale da un proprio familiare, soprattutto se genitore da cui il bambino dipende in maniera totale e da cui si aspetta protezione e conferma di sé, è ben più grave rispetto all’abuso perpetrato da un non familiare o addirittura da un estra­ neo. Il termine p. è quanto mai improprio e ambiguo per indicare l’abuso sessuale sui minori, poiché, derivando etimologicamen­ te da paidòs (fanciullo) e filia (amore), esso significa amore per il bambino. Ciò che non è. Sarebbe quindi più opportuno sostituirlo con l’espressione abuso sessuale extrafami­ liare all’infanzia. Va inoltre sottolineato che la p. è un fenomeno quanto mai complesso e variegato che rimanda, a seconda dei casi, a condotte di soggetti con strutture di persona­ lità differenti: nevrotica, psicotica o perver­ sa. È dunque più corretto parlare di pedofilie e non di p. Tale distinzione si rivela parti­ colarmente utile in sede d’intervento psico­ terapeutico, sia sul versante dell’abusato che dell’abusante. 2. La p. non va confusa con l’ → omoses­ sualità e non riguarda solo soggetti di sesso maschile. Il pedofilo può essere maschio o femmina, eterosessuale o omosessuale o bisessuale. Inoltre, non risulta correla­ to a particolari parametri socio-culturali, economici o geografici. Può appartenere a qualsiasi classe sociale e a qualsiasi livello

PEDOLOGIA

di istruzione. È quasi sempre un soggetto insospettabile, con una buona capacità di adattamento alle regole sociali. È un im­ maturo, rimasto fissato a schemi relaziona­ li di tipo pre-edipico. Da ciò il suo modo confuso di vivere la dimensione affettivosessuale che finisce per disorientare grave­ mente il minore. È un egocentrico, sostan­ zialmente ripiegato su se stesso e quindi privo di capacità empatica, per cui non si rende pienamente conto dei danni inferti all’abusato. Tende anzi a negarli o comun­ que a minimizzarli. Ciò spiega la resisten­ za del pedofilo ad accettare un trattamento psicoterapeutico. Ignora i bisogni e le esi­ genze affettive del bambino. Attraverso il meccanismo della proiezione, nel rivolger­ si a lui, non mira altro che a soddisfare la sua fame di amore e di potenza. Esistono diversi tipi di pedofili: i regrediti, i fissati, i latenti, gli occasionali, coloro che denun­ ciano una prevalente componente erotica (la cosiddetta «p. dolce») e coloro che de­ notano una prevalente componente sadica. Attualmente, stanno prendendo piede nuo­ ve modalità di condotte pedofile quali, ad es., la pedopornografia, cyberpedofilia e il turismo sessuale, il satanismo. 3. Abitualmente, se si escludono i casi di co­ strizione violenta ed improvvisa, i bambini più a rischio di abuso sessuale da parte del pedofilo sono quelli che denunciano un gran­ de bisogno di affetto, dal momento che in fa­ miglia non lo hanno trovato o non lo trovano. Sono spesso bambini soli, rifiutati, abbando­ nati a se stessi e maltrattati e quindi psichi­ camente molto fragili, con scarsa autostima e fiducia in se stessi. La gravità delle riper­ cussioni sull’equilibrio psichico del bambino che subisce un atto pedofilo dipende: dall’età della vittima, dalle sue risorse psichiche e da quelle del suo ambiente familiare, dal­ la modalità, dalla frequenza e dalla durata dell’abuso, dal legame di dipendenza fisica e affettiva, più o meno forte, della vittima con l’abusante, dalla struttura di personalità del pedofilo, dal prestigio o meno che il pedofilo gode nella vita dell’abusato, dal tipo di rea­ zione (solidale o accusatoria) che i genitori e l’ambiente socio-educativo assumono allor­ ché l’abuso viene rivelato o scoperto, dall’at­ tivazione tempestiva o meno di un intervento psicoterapeutico.

Bibl.: Oliverio Ferraris A. - B. Graziosi, P. Per saperne di più, Bari, Laterza, 2001; Schinaia C., P. pedofilie. La psicoanalisi e il mondo del pe­ dofilo, Torino, Bollati Boringhieri, 2001; Picozzi M. - M. M aggi (Edd.), P. Non chiamatelo amore, Milano, Guerini e Associati, 2003; Castellazzi V. L., L’abuso sessuale all’infanzia, Roma, LAS, 2007.

V. L. Castellazzi

PEDOLOGIA Il termine p. (discorso - scienza del bambi­ no) è stato introdotto nel linguaggio psico­ pedagogico alla fine del sec. scorso (1893) da O. Chrisman, in Germania. Questa «scien­ za» ha per oggetto il bambino, nor­male e no, con il compito di coordinare tut­ti i dati del­ le altre scienze, che lo riguarda­no, in modo da offrirne una comprensione possibilmente globale, in funzione educati­va, secondo indi­ cazioni già di → Herbart. 1. La p., in un primo momento, si è svilup­ pata all’interno della psicologia, come una sua branca (in essa, poi, ignorata); succes­ sivamente ha assunto più rilievo l’interesse pedagogico, tanto da identificarne l’ogget­ to nella stessa educabilità del bambino. Per questo la p. si è venuta esprimendo con di­ verse connotazioni nei vari Paesi. Trasferi­ tosi Chrisman negli Usa, la p. vi trovò imme­ diatamente grande risonanza, dando luogo ad ampie discussioni su contenuti e metodi. La diffusione in Europa (dalla Spagna alla Russia, dove aveva avuto in → Tolstoj un dissodatore del terreno) avven­ne soprattutto grazie allo stimolo del france­se E. Blum. I principali sviluppi e applica­zioni hanno ri­ guardato la preparazione di test (→ Binet), problemi della scuola (in Francia), degli anormali (in Belgio: → Decroly), dell’adole­ scenza (Usa: St. Hall), di pedagogia speri­ mentale (in Germania: Lay e → Meumann) e di rapporti con l’antropo­logia (in Italia: Ser­ gi, → Montessori). 2. La p. però ha goduto di particolare at­ tenzione in Urss fino al 1936, quando fu uf­ficialmente proscritta. A parte gli orienta­ menti tolstojani, nei primi anni dopo la ri­ voluzione, quando la psicologia si sviluppò 863

PENSIERO

intensamente e quando si cercava una linea educativa che potesse entrare in sintonia con il marxismo, la p., inserendosi su movi­menti preesistenti in cerca di armonizza­zione tra «scienze» in senso stretto ed esi­genze edu­ cative del bambino, fu vista co­me la teoria portante, grazie, in particolare, a → Blonskij e alla → Krupskaja, che se ne fecero paladini. Proprio per questo in Urss poté sopravvive­ re al disfacimento che colpì la p. negli altri Paesi, nel corso e dopo la prima guerra mon­ diale, per crollare in seguito al rigetto dei suddetti, suoi principali sostenitori. Bibl.: Chrisman O., Paidologie - Entwurf zur einer Wissenschaft des Kindes, Jena, Vopeli­ us, 1896; Blum E., La pédologie: l’idée, le mot, la chose, in «Année psychologique» 5 (1899) 229-231; Becchi E., Problemi di sperimentalismo educativo, Roma, Armando, 1969; Laeng M., La pedagogia speri­mentale, Scandicci (FI), La Nuo­ va Italia, 1992.

B. A. Bellerate

PENSIERO In psicologia il termine p. viene utilizzato per designare tanto l’insieme dei fatti psi­ chici quanto l’attività intellettuale-razionale dell’ → uomo. Esso abbraccia cioè tutta una serie di processi cognitivi e attività psichiche superiori, spesso non facilmente descrivibili in modo sufficientemente preciso. 1. Con p. dunque si indica un’attività, o una serie di attività mentali, volte a stabilire la comunicazione con il mondo esterno, con se stessi e con gli altri e a costruire ipotesi sul mondo e sul nostro modo di pensare. Le diverse concettualizzazioni, definizioni e in­ terpretazioni proposte per la natura e l’attivi­ tà del p., strettamente dipendenti dagli orien­ tamenti teorici e dalle metodiche di ricerca adottate dalle diverse scuole psicologiche, sono riassumibili nella contrapposizione tra p. razionale, caratterizzato dall’impiego di procedimenti di tipo deduttivo-induttivo, e p. intuitivo, che procederebbe attraverso la riorganizzazione, vissuta come non media­ ta, del campo problematico; tra p. creativo e p. tradizionalmente ancorato o rigido o stereotipato; tra p. «produttivo» e p. cieco, 864

che procede cioè secondo il classico sche­ ma per «tentativi ed errori»; tra p. autistico, dominato dai bisogni e dalle aspirazioni del soggetto e p. realistico, teso a soddisfare le domande di realtà. 2. L’interpretazione proposta dagli associa­ zionisti, che prendendo in considerazione i processi elementari di p. avevano sottoline­ ato i legami tra le impressioni sensoriali e la componente immaginativa, viene pienamen­ te adottata dalla psicologia scientifica di fine Ottocento. La psicologia wundtiana, nella sua definizione di scienza della coscienza o della esperienza interna immediata, utiliz­ zando «l’introspezione sperimentale», aveva programmaticamente limitato la propria in­ dagine alla «percezione interna» degli eventi esterni, e si era concentrata sulle sensazioni e rappresentazioni immediatamente presenti alla coscienza, riducendo inoltre il p. ad una combinazione di elementi psichici. Per B. E. Titchener, ad es., che nega decisamente l’esi­ stenza di un «p. senza immagini», i processi di p. vengono immediatamente ricondotti a sensazioni, immagini e affetti. L’applicazio­ ne dell’indagine scientifica alle attività intel­ lettuali superiori riceverà un impulso fonda­ mentale dalle investigazioni sui processi di apprendimento e di memorizzazione portate avanti da Ebbinghaus e dai ricercatori della scuola di Würzburg, che porranno il proble­ ma della natura e delle caratteristiche del p. – considerato un processo dinamico dotato di proprietà specifiche – in termini completa­ mente differenti da quelli prospettati in chia­ ve elementista e associazionista dalla scuola di Lipsia. Secondo O. Külpe (che dopo essere stato assistente di → Wundt fonda a Würz­ burg nel 1896 un laboratorio di psicologia), → Bühler (che affronta il problema della for­ mazione dei concetti nel bambino e quello dei rapporti tra p. e linguaggio), N. Ach (che concettualizza la formazione dei concetti come un processo dinamico, non riducibile ad una semplice catena associativa tra sensa­ zioni, idee e immagini), O. Seltz (che propo­ ne una concezione del p. come processualità e produttività) e A. Messer (che svolge una serie di ricerche di psicologia sperimentale sul p.), le leggi delle operazioni del p., im­ plicando un determinismo particolare, sono totalmente differenti da quelle che regolano i processi sensoriali e immaginativi. È dun­

PENSIERO

que pienamente plausibile fondare le attivi­ tà volte alla soluzione di compiti mentali su un p. privo di immagini. Il funzionalismo studia il p., concettualizzato come un flus­ so continuo non scomponibile in immagini mentali, essenzialmente nella sua funzione adattativa, mettendone in luce le relazioni con la percezione, la motivazione e l’appren­ dimento. Per Carr, ad es., che considera le idee come sostituti di stimoli percettivi, il p. è determinante nel permettere all’organismo di adattarsi all’ambiente circostante. Nella sua formulazione watsoniana, il → compor­ tamentismo, che rinuncia ad avvalersi dei dati di coscienza in quanto non indagabili sperimentalmente, riduce il p. – considerato da → Watson come «linguaggio rimasto allo stato subvocale a causa dell’insufficienza de­ gli organi fonatori», come «null’altro che un parlare a noi stessi» – ad un fenomeno mu­ scolare localizzato nell’area laringea, ad un «abito laringeo». Per il comportamentismo dunque lo studio del p. coincide con quello del linguaggio e viene quindi inteso come una risposta alla stimolazione ambientale. La scuola della → Gestalt, al contrario, con­ sidera il p. soprattutto dal punto di vista di un’attività volta alla soluzione dei problemi; ne mette in risalto gli aspetti creativi e le im­ plicazioni percettive, rifiutando decisamente la prospettiva associazionistica ed empiristi­ ca, in favore di una concezione «globalisti­ ca» dei processi in gioco (M. Wertheimer, K. Duncker). Nella soluzione dei problemi – fortemente influenzata dai fattori motivazio­ nali e da elementi derivanti dalle esperienze passate del soggetto – è cioè possibile sche­ matizzare alcune fasi principali, che consi­ stono innanzitutto nella riorganizzazione percettiva, gerarchicamente ordinata, del campo in esame, in processi di centramen­ to e di ricerca di rappresentazioni migliori, e nella trasformazione del campo percetti­ vo stesso che consente «una nuova visione della situazione più profonda che comporta cambiamenti nel significato funzionale degli elementi» (Wertheimer, 1960). I processi co­ gnitivi implicati nell’attività di soluzione dei problemi sono stati oggetto di indagine da parte di J. S. Bruner, J. L. Goodnow e G. A. Austin (A study of thinking, 1956), e → Pia­ get, J. Baldwin, → Lewin e → Vygotskij, sep­ pure in prospettive teoriche differenti, ripro­ ponendo il problema della genesi della cono­

scenza, del rapporto tra la mente e il mondo esterno, nonché di quello tra p. e linguaggio. È comunque il → cognitivismo la corrente psicologica che in modo più significativo ha rivisitato le teorie tradizionali, nate in ambi­ to filosofico, circa le procedure di astrazione, la verifica delle ipotesi, i processi deduttivi e induttivi attraverso cui il p. trova la sua ar­ ticolazione. Partendo dal presupposto che la mente non si limita a registrare informazio­ ni, ma le filtra e le elabora intervenendo in modo attivo, il cognitivismo ritiene: a) che i concetti non sono il prodotto dell’astrazione ma l’espressione del modo in cui l’esperienza è stata organizzata: essi sono dunque predit­ tivi, nel senso che consentono di trattare gli eventi futuri se il soggetto li organizza con lo stesso stile di esperienza; b) che l’esperienza prende le mosse da un costrutto personale il quale funziona o da sistema chiuso che im­ pedisce l’arricchirsi dell’esperienza stessa o da schema aperto che riduce la sua compo­ nente schematica man mano che accoglie i contenuti empirici bisognosi di una continua ristrutturazione della esperienza stessa; c) che i fattori emotivi influenzano le proce­ dure logiche e d) che nella comunicazione il messaggio può essere alterato dal contesto comunicativo con conseguenti fraintendi­ menti e misconoscimenti che la logica uti­ lizzata per la programmazione dei computer rende evidenti (H. Lindsay - D. A. Norman, Human information processing, 1972). 3. Una nuova impostazione negli studi sul p. è stata proposta da quegli indirizzi di ricerca che fanno riferimento alla teoria dell’infor­ mazione. Utilizzando la simulazione su cal­ colatore e l’elaborazione di appositi modelli, questa prospettiva di ricerca sostiene l’analo­ gia tra il funzionamento mentale e il funzio­ namento dei calcolatori elettronici e vede nel p. uno «strumento per l’elaborazione dell’in­ formazione». Il comportamento quindi di­ pende da un programma che si organizza a partire da un insieme di processi di informa­ zione elementare e che è sotteso da una serie di piani specifici, intendendo per piano «qua­ lunque tipo di processo gerarchico nell’am­ bito dell’organismo in grado di controllare l’ordine in cui va eseguita una sequenza di operazioni» (G. A. Miller, K. H. Pribram, E. Galanter). In tal senso A. Newell e H. Simon (A human problem solving, 1972) portano 865

PENSIERO CRITICO

avanti lo studio delle strategie utilizzate nella soluzione di problemi ricorrendo ai resoconti verbali forniti dai soggetti relativamente ai loro processi mentali, aprendo così la via ad un nuovo filone di ricerche intorno ai pro­ cessi metacognitivi, e cioè al complesso di idee e credenze che ogni individuo sviluppa nel corso della propria vita intorno ai propri processi cognitivi. Lo studio dei processi di p., condotto secondo «categorie naturali», impiegate dai soggetti in situazioni concre­ te, mette in luce l’organizzazione gerarchica dei concetti all’interno di una rete semantica, composta da reti e nodi concettuali studiabili sperimentalmente (J. Anderson, Language, memory and thought, 1976). Particolare sviluppo ha avuto negli ultimi anni lo stu­ dio delle strategie di → problem solving e di ragionamento (D. Kahneman e D. Tversky, Judgment under uncertainty, 1974), non sen­ za ricadute nella didattica e nella messa in opera di strategie dell’apprendimento. Bibl.: Geymonat L., Storia del p. filosofico e scientifico, Milano, Garzanti, 1976; Neisser U., Psicologia cognitivista, Firenze, MartelloGiunti, 1976; Johnson-Laird P. N., La mente e il computer, Bologna, Il Mulino, 1990; K anizsa G., Vedere e pensare, Ibid., 1991; Danzinger K., La costruzione del soggetto, Roma/Bari, Laterza, 1995; Sternberg R. J. - E. E. Smith, La psicolo­ gia del p. umano, Roma, Armando, 2000; Casadio C., Logica e psicologia del p., Roma, Carocci, 2006; Sacchi S., Psicologia del p., Ibid., 2007.

F. Ortu - N. Dazzi

PENSIERO COMPLESSO → Complessità

PENSIERO CRITICO Il p.c. è parte integrante della più vasta area dell’attività cognitiva relativa ai processi del riflettere, pensare e inventare. 1. Negli ultimi anni l’argomento ha suscita­ to un notevole interesse sia perché molti studenti, pur avendo molte più informa­zioni che nel passato, si adattano a ciò che vedo­ no o sentono senza sottomettere ad analisi e a ponderata valutazione idee o opinioni, sia perché oggi è più che mai ne­cessario rispon­ dere con prontezza alle con­tinue trasforma­ 866

zioni del mondo del lavoro e della società in generale. In proposito si possono individuare due orientamenti del­la ricerca. R. H. Ennis definisce il critical thinking: «una riflessione ragionevole fo­calizzata sul decidere che cosa credere o fa­re» (Ennis, 1987, 10). Secondo questo auto­re il p.c. richiede in primo luogo di saper chiarificare, sapersi focalizzare su un pro­blema, saper analizzare gli argomenti, sa­per porre domande e risposte stimolanti; e ad un livello più elevato saper definire con­ cetti e valutare definizioni in base alla for­ma in cui si presentano, saper utilizzare strategie adatte per definire un contenuto, identificare assunzioni, decidere azioni da intraprendere, interagire con altri. In secondo luogo il p.c. significa saper dare il giusto peso al proprio argomentare, saper giudicare la credibilità di una fonte, saper osservare e giudicare le osservazioni che vengono presentate. Infine esso vuol dire saper fare inferenze corret­ te, saper fare e valutare le deduzioni, saper indurre e svol­gere corrette induzioni, espri­ mere giudizi di valore. Tutte le abilità e le disposizioni conseguenti sono interdipen­ denti e inte­rattive tra di loro. R. Paul (1990) invece connette il p.c. con la consapevolezza del radicamento del p. in strutture e sistemi linguistici e culturali. Il p.c. è quindi pi­gliar coscienza del fondamento multilogico dei propri p.; è prendere in seria considerazio­ ne le alternative che si presentano; entrare in contatto empatico con un modo di pensare diverso dalle proprie prospettive. Ciò sup­ pone di essere capaci di porsi «domande so­ cratiche», portare al­la luce le caratteristiche salienti del pro­prio p., analizzare e valutare concetti o termini problematici, ricostruire i punti di vista alternativi, ragionare da diver­ se pro­spettive e razionalmente identificare e con­siderare la forza e la debolezza di ognuna di esse. 2. Pur nella varietà delle posizioni, alcuni punti sembrano tuttavia abbastanza chia­ ri: a) l’educazione al p.c. è un’abilità molto complessa perché non si limita all’educa­ zione di processi mentali, ma include anche altri tratti e atteggiamenti della mente e della persona. Ad es. Paul (1990) parla an­che di umiltà, coraggio, empatia, integrità, perse­ veranza, fiducia nella ragione e im­parzialità rispetto ai punti di vista; b) l’e­ducazione al p.c. richiede il possesso e il corretto uso di

PERCEZIONE

abilità e processi mentali di alto livello, so­ prattutto delle capacità logi­che, di → problem solving e creative; c) il p.c. richiede strategie di pianificazione, di direzione, di controllo e di valutazione; d) un’educazione al p.c. non sembra avvenire attraverso un aumento della quantità dei contenuti, né si tratta di una ma­ teria scola­stica specifica. È invece importan­ te che ogni insegnante nell’ambito della sua ma­teria sappia insegnare a pensare in modo critico e prima ancora che sia egli stesso ca­ pace di p.c. Bibl.: Ennis R. H., «A taxonomy of critical thinking dispositions and abilities», in B. Baron - R. J. Sternberg (Edd.), Teaching thinking skills: theory and practice, New York, Freeman and Company, 1987, 9-26; Paul R. W., «Critical and reflective thinking: a philosophical perspec­ tive», in B. F. Jon ­ es - L. Idol (Edd.), Dimensions of thinking and cognitive instruction, Hillsdale, Erlbaum, 1990, 445-494; Boncori G., Educare la capacità critica, Ro­ma, CRISP, 1995; Center for Critical Thinking, Critical thinking work­ shop handbook, Santa Rosa, Foundation for Crit­ ical Thinking, 1996; Valletta J., P.c. e azione educativa, Lecce, Pensa Multimedia, 2007.

M. Comoglio

PERCEZIONE Rispetto alla → sensazione, con cui è inti­ mamente connessa e da cui è difficilmente distinguibile dopo le prime settimane di vi­ta, la p. da un punto di vista psicologico-evoluti­ vo è una funzione psichica che, at­t raverso gli organi di senso interni ed ester­ni, permette all’organismo psicofisico di recepire ed ela­ borare impressioni ed infor­mazioni circa oggetti, qualità ed eventi del mondo esterno. Non appartengono alla p. le rappresentazioni e le immagini mentali che non sono provoca­ te direttamente da impressioni sensoriali. 1. Precisazioni. La p. è fondamentale nella teoria della conoscenza perché, per mezzo di essa, il soggetto entra in rapporto con l’am­ biente e con la realtà. Essa è connota­t a da oggettività perché apprende il reale ma in­ sieme da selettività o soggettività, in quan­ to il soggetto può filtrare e decodifi­care il mondo esterno solo in parte o in cer­ti suoi

aspetti a seconda delle condizioni e caratte­ ristiche personali in cui avviene il processo di p. (di qui il detto della filosofia scolastica: quidquid recipitur ad modum recipientis re­ cipitur). Quando la p. coglie gli stimoli non in modo isolato ma globale, in un contesto fondato sulla totalità dell’e­sperienza, vie­ ne detta appercezione. Il pro­dotto della p. è detto percetto o p. (visiva, uditiva, tattile, gustativa, olfattiva, cene­stesica, ecc.). È an­ che da ricordare la p. su­bliminale, riferita al riconoscimento degli stimoli presentati al di sotto della soglia percettiva. L’individuo non ne è consape­vole, ma l’esito della p. così in­ dotta si rile­verebbe attraverso modificazioni compor­t amentali (si vedano le applicazioni nel campo della propaganda, con il ricorso alla persuasione occulta). La valutazione di ta­li esiti richiede tuttavia rigore, onde evita­re affrettate generalizzazioni. 2. Sviluppo storico e teorie sulla p. La p. è stata una delle funzioni psichiche più stu­ diate dalla psicologia sperimentale, soprat­ tutto ai suoi inizi. Sul piano teorico si pon­ gono ancora oggi dei quesiti sul rapporto tra p. e altre funzioni psichiche, come le rappresentazioni cognitive, la → memoria, la risonanza emotiva, l’apprendimento, la motivazione, ecc. In particolare, la psicolo­ gia della → Gestalt ne ha fornito un quadro interpretativo ampiamente fondato, perve­ nendo al concetto di forme, intese come p. di elementi o parti, ma colte nella loro to­ talità. Di qui le leggi di globalità, struttu­ ra, costanza e pregnanza. → Lewin, con la teo­r ia del campo percettivo, ha raccordato la p. con le dinamiche ambientali interagenti (psicologia topologica). Anche la p., come del resto le altre funzioni psichiche, è se­ gnata storicamente dal tipo di approccio te­ orico che viene assunto, per cui ritrovia­mo posizioni divergenti e talora antitetiche a ri­ guardo del modo di interpretarne la na­t ura e il funzionamento (teorie genetiche e costrut­ tivistiche, → cognitivismo, behavio­r ismo, → analisi transazionale, approccio sistemico, ecc.). Si ha l’impressione, a tutt’oggi, che le varie teorie escogitate in più di cent’anni di psicologia restino molto lontane da un ap­ proccio interpretativo adeguato e attendibile sul modo con cui av­viene la conoscenza e, più in genere, sul porsi stesso del rapporto tra l’organismo psicofisico e l’ambiente. 867

PERCORSO FORMATIVO

3. Alcuni aspetti della fenomenologia della p. Sembrano particolarmente rilevanti al­cuni aspetti del fenomeno della p., in ordi­ne so­ prattutto ai risvolti pedagogici e so­ciali che vi sono connessi. A titolo esempli­ficativo accenniamo ai seguenti: a) la p. sensoriale propriamente detta, che coglie il reale at­ traverso il sensorio normale e quel­la extra­ sensoriale (ESP), che nella para­psicologia si rapporta con il mondo dell’occulto e anche delle esperienze di alte­r azione e amplifi­ cazione prodotte da so­stanze allucinogene (droghe e affini); b) la p. delle immagini, a seguito dello sviluppo assunto dai mass me­ dia, con i mutamenti intervenuti nelle mappe cognitive delle nuove generazioni (si parla, ad es., di recu­pero dell’emisfero destro sul sinistro); c) la distorsione percettiva, indotta dai condizio­namenti socio-culturali, in ordi­ ne a stereo­tipi razziali o a pregiudizi; d) l’im­ portanza di una corretta p. di sé (autoperce­ zione), come base dell’equilibrio psichico e della sicurezza psicologica in ordine alla pro­ spettiva temporale e alla progettualità. 4. Rilevanza pedagogica di una corretta for­ mazione del processo percettivo. Sotto il profilo pedagogico sembrano opportune al­ cune attenzioni e strategie per una cor­retta formazione dell’attività percettiva: a) si pone anzitutto il problema della riabili­tazione per­ cettiva in tutte le forme di han­dicap in cui la p. viene compromessa (ri­corso alle funzioni vicarie, stimolazione e recupero funzionale, ecc.); b) centrale è poi l’esigenza della for­ mazione all’oggettività nella p. della realtà e l’accesso allo spirito critico per contrastare i condizionamenti percettivi e socio-culturali, soprattutto quelli veicolati da una troppo dif­ fusa sot­tocultura massmediale; c) la forma­ zione del concetto di sé attraverso una cor­ retta autopercezione che integri, nell’imma­ gine di sé, aspetti positivi e desiderabili con quelli negativi e problematici; d) il contra­sto alle distorsioni percettive (psicopa­tologia della p.), ravvisabili nelle varie for­me di pa­ ranoia, di pregiudizio e, più in ge­nere, degli stereotipi (sessuali, razziali, sociali, cultura­ li, religiosi, ecc.). Bibl.: Cesa- Bianchi M. - R. M asini - F. P erussia, «Dalla psicologia della p. alla psicologia ambientale: alcune recenti tendenze», in P. Di Blasio - L. Venini (Edd.), Competenze cogniti­

868

ve e sociali: Processi di interazione e modelli di sviluppo, Milano, Vita e Pensiero, 1992, 17-31; Cicogna P. C. (Ed.), Psicologia generale, Roma, Carocci, 1999 (capitolo sulla p. di Massironi); Wilson J. - P. Rookes, La p., Bologna, Il Mulino, 2002; Delle Fave A. et al., Psicologia Generale, Bologna, Monduzzi, 2005.

S. De Pieri

PERCORSO FORMATIVO Il p.f. si può intendere in due accezioni: una, di senso lato, che si riferisce all’itinerario che un qualsiasi soggetto in formazio­ne se­ gue lungo la sua scolarità, quindi in­dicativa sia dei gradi/ordini/tipi di scuola frequenta­ ta, sia delle altre agenzie educati­ve (famiglia, associazionismo dentro e fuo­r i della scuola e degli ambienti religiosi, ecc. in cui è inse­ rito); l’altra, di significato ristretto, riferita cioè al cammino specifico che si segue per giungere ad una determi­nata qualificazione professionale, cosicché si parlerà, ad es., del p.f. degli insegnanti di scuola dell’infanzia, o primaria, o seconda­r ia di I e di II grado, così via, indicando non solo la durata di cia­ scun grado e ordi­ne della scuola ma anche il tipo di formazione specifica seguita. Oggi, con il riconosciuto principio della → forma­ zione permanente, il p.f. si estende a tutta la vita. 1. Circa la prima accezione, il p. dell’obbli­ gatorietà scolastica varia a seconda dei Pae­ si. La scuola primaria (pure di varia du­rata) è obbligatoria ormai in tutti i Paesi e rarissi­ mamente differenziata; la scuola se­condaria è variamente strutturata a seconda dei Pae­ si, con una differenziazione maggiore a li­ vello del II grado. L’ → obbligo di istruzione in molti Paesi include anche la secondaria inferiore e in alcuni anche quel­la superio­ re giungendo cioè fino a 18 anni di età. La tendenza generale è quella di prolungare la durata dell’obbligo, ma i pro­blemi di grande attualità riguardano sia la struttura della se­ condaria di II grado – che esige un equilibrio tra la dif­ferenziazione precoce e la mas­sima comprensività –, sia il raccordo tra scuola e centri di formazione professionale di durata più breve, come an­che l’alternanza scuola e lavoro.

PERDONO

2. Al problema del raccordo si collega la seconda accezione di p.f. poiché è in gioco la → formazione professionale entro e/o al di fuori del sistema scolastico formale, pro­ blema che diventa complesso se connesso con quello del prolungamento dell’obbligo scolastico.

cità relazionali, speranza nel futuro, ridu­ zione dell’angoscia) è sembrato significativo riconsiderare, ormai sulla base più sicura di ricerche empiriche nonché di nuovi appro­ fondimenti provenienti dalle scienze umane, filosofiche e teologiche, il valore specifica­ mente umano del p.

Bibl.: OCDE, L’enseignement obligatoire face à l’é­volution de la société, Paris, Ocde, 1983; Palomba D. - N. Bertin (Edd.), Insegnare in Europa. Comparazione di sistemi formativi e pe­dagogia degli scambi interculturali, Milano, Angeli, 1993; CERI-OCSE, Apprendere a tutte le età. Le politiche educative e formative per il XXI secolo, Roma, Armando, 1997.

2. Per quanto compito della famiglia, della scuola o di altre istanze educative, l’educa­ zione al p. si colloca ormai in una forma­ zione etica allargata. Sotto questo aspetto l’educazione etica, spesso dominata dalla psicologia conoscitiva e genetica di → Kohl­ berg, va riconsiderata in diversi sensi. Infatti una visione più completa di moralità com­ prende, oltre l’aspetto della giustizia, quello della misericordia e del p. che, diversamente dalla giustizia, non richiedono reciprocità. In tal senso la coscienza morale ben formata comporta qualcosa di più dello sviluppo del giudizio morale nel senso della psicologia cognitiva. Più che con l’apprendimento, l’in­ teriorizzazione del principio etico del p. si realizza attraverso l’identificazione con per­ sone che presentano il comportamento del p., che si ammira e che si fa proprio. Oltre a ciò l’uomo religioso sarà incline al p. nella mi­ sura in cui abbia assimilato la benevolenza divina nei suoi confronti. Modelli concreti (genitori, educatori, insegnanti, animatori) e figure ideali (eroi, santi, Gesù Cristo...) do­ vranno necessariamente mediare la virtù del p. con i loro atteggiamenti specifici. Tuttavia si deve sottolineare anche la necessità di pre­ sentare a livello teorico il senso e il valore del p. con i vari motivi pro e contro questa virtù. Programmi educativi e catechistici a livello didattico, esperienziale e comporta­ mentale costituiscono i fattori educativi in grado di promuovere lo sviluppo etico della capacità del p.

H.-C. A. Chang

PERDONO La risposta misericordiosa nei confronti di una persona o di un gruppo che ha fatto del male o ha offeso ingiustamente un’altra per­ sona o un gruppo. 1. Nell’atto del p., la persona sostituisce af­ fetti (odio o rancore), conoscenze (giudizi duri) e comportamenti (vendetta o rappre­ saglia) nei confronti dell’offensore, sebbene in sé giustificati, con sentimenti, giudizi e atti positivi di rispetto, di accettazione e di comprensione che passano sopra, almeno a livello di atteggiamento persona le, l’ingiu­ stizia e il disagio subiti. Il p. si distingue dalla giustizia per il fatto che costituisce un dono incondizionato e non necessariamente reciproco verso una persona che non lo meri­ ta. Il p. non nega l’ingiustizia né la dimentica ma smette di giudicare la persona esclusiva­ mente in termini di quello che ha fatto. Non è dunque né mancanza di coraggio e di forza né una forma di debolezza morale. L’atto del p., al contrario, richiede una forma conside­ revole di coraggio (e magari dovrà lasciare che la giustizia sociale segua il suo corso). Di origine religiosa, il p. è stato un valore molto sottolineato nei sistemi educativi tradiziona­ li che facevano capo alla tradizione giudaica e soprattutto a quella cristiana. Ultimamente il suo valore terapeutico e risanatore è sta­ to scoperto nell’ambito delle scienze sociali. Per i suoi aspetti positivi (stima di sé, capa­

Bibl.: Floristán C. - C. Duquoc (Edd.), Il p., in «Concilium» 22 (1986) 2 (n. monogr.); Enright R. D. - E. A. Gassin - C. U. Wu, Forgiveness: a developmental view, in «Journal of Moral Edu­ cation» 21 (1992) 2, 99-114; Chauvet L. M. - P. de Clerck (Edd.), Le sacrement du pardon entre hier et demain, Paris, Desclée, 1993; Lambert J. et al., Pardonner, Bruxelles, Facultés Universitai­ res Saint-Louis, 1994; Giulianini A., La capacità di perdonare, Milano, San Paolo, 2005.

J. Schepens

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PERENNIALISMO PEDAGOGICO

PERENNIALISMO PEDAGOGICO Espressione e teoria che deriva dalla filo­ sofia rinascimentale (A. Steuchus la usò per la prima volta nel 1540: «filosofia pe­renne» nella sua De perenni philosophia li­bri X ), che si sforza di dimostrare che i principi educativi fondamentali sono già presenti nelle opere e negli avvenimenti dell’Anti­ chità e che si vanno trasmettendo attraverso la storia. 1. Si tratterebbe dell’insieme di verità fon­ damentali, leggi del pensiero e dell’opera educativa che, a partire dagli antichi scrit­ tori ed educatori greci e latini, i santi Padri, i dottori della Chiesa, i teorici dell’e­ducazione e gli educatori, hanno raccolto, accresciuto e valorizzato empiricamente o scientificamen­ te, sottoponendole alla criti­ca del filosofo dell’educazione. Fondamen­t almente il p.p. coincide con 1’ → essenzia­lismo pedagogico, senza giungere ad identificarvisi. In realtà i grandi pensatori che aderiscono all’essen­ zialismo attribuiscono una grande autorità estrinseca alla teoria del p. Uno degli autori moderni che segue questa dottrina, ma che amplia il campo del p.p. è → Willmann. 2. Il possibile errore in cui può incorrere il p.p. è quello di non riuscire a depurare le nuove conoscenze per incorporarle nel pensiero tradizionale o di riferirsi a princi­ pi ritenuti immutabili e che in realtà non lo sono. La causa principale degli attacchi al­ la cosiddetta scuola tradizionale (ripetiti­va, immobilista, alessandrinista) deriva da una cattiva comprensione o da una prassi equivo­ cata del p.p. L’errore nel p.p. è di­rettamente proporzionale all’intellettuali­smo che può manifestarsi nella scuola men­t re il successo educativo è proporzionato all’apertura della mente. 3. Tutte le metodologie e le pratiche edu­ cative basate sulle filosofie fenomenologi­ stiche, pragmatistiche, esistenzialistiche, si oppongono nettamente a quelle derivate dal p., per cui un’educazione basata su una delle due concezioni si distingue dall’altra per la sua maggiore o minore versatilità. «Fattore fondamentale nel programma educativo fu l’insegnamento delle lingue classiche e la conoscenza della cultura an­tica. Più tardi si 870

dovette rinnovare questo programma con­ servando, tuttavia, il suo carattere basato sempre sui cosiddetti “va­lori perenni”, cosa che spiega il nome di p. che gli hanno dato negli Stati Uniti» (Suchodolski, 1971, 171). Bibl.: Barion J., Philosophia perennis als Prob­ lem und als Aufgabe, 1936; Truyol Serra A., La situación filosófica actual y la idea de la filosofía pe­renne, in «Anales de la Universidad de Mur­ cia» (1947-48) 343-366; Suchodolski B., Tratado de pe­dagogía, Barcelona, Península, 1971.

V. Faubell

PERETTI Marcello → Personalismo pedago­ gico

PERSONA L’essere umano, in quanto radicalmente ca­ pace di autonomia, libertà, responsabilità ed auto-trascendenza. 1. Il termine lat. persona originariamente traduceva quello gr. prósopon (maschera, personaggio che gioca un ruolo in un’opera teatrale). Analogamente gli stoici parlano di p. ad indicare che l’uomo ha da giocare nel mondo il ruolo assegnatogli dal desti­no. Ma nel corso delle controversie teolo­giche sulla Trinità e sull’incarnazione del Verbo, duran­ te i primi secoli del Cristia­nesimo, p. venne ad essere identificata anche con il termine hypóstasis (supporto, soggetto, sostanza). In questa linea si pone la classica definizio­ne di p. data da Boezio («sostanza indivi­duale di natura razionale»), ricalcata poi da Tommaso d’Aquino («ogni individuo do­t ato di natura razionale»), che però evi­denziò anche l’ori­ ginario aspetto di rela­zione e di operare nel mondo, contenuto nel termine. Nel diritto romano p. indica chi è soggetto di diritti, in con­t rapposizione a chi è schiavo, agli anima­ li o alle cose. Nell’età moderna p. è assimi­ lata all’io, alla coscienza morale, soggetto di imputabilità e di re­sponsabilità del proprio operare. È con il sec. XX che il concetto di p. è diven­tato basilare, dando luogo a svariate forme di personalismo, tra cui sono da se­ gnalare quello di → Mounier, di M. Scheler, di → Guardini, di → Stefanini o dello stesso → Maritain.

PERSONALISMO PEDAGOGICO

2. Con p. si vuole significare che l’essere umano manifesta nell’operare qualcosa che lo fa apparire come «eccezionale», «diver­ so», «altro», pur nel­l’innegabile somiglianza, continuità e comunanza con altri esseri uma­ ni e con gli animali o le cose. In particolare si intende mettere in luce che l’uomo è un «essere-in-sé», soggetto, non mai riducibile completamente ad oggetto da nessu­no. Nel rapporto con gli altri nel mondo, nell’ami­ cizia e nell’amore o magari nella tensione e nel conflitto inter-individuale e collettivo, riconosce gli al­t ri come «altri sé» ed è rico­ nosciuto da loro come «se stesso». Peraltro l’uomo, in quanto p., grazie alla sua corporei­ tà e spiritualità, si mostra come essere aperto agli altri («esse-ad»), «essere di comunione», che si realizza nel rapporto con il mon­do (nel lavoro), con gli altri (nei rapporti interperso­ nali e nella vita comunitaria), con Dio (nella religione e nella comunione di fede). In que­ ste sue modalità di essere si fa risiedere la sua dignità ed assolutezza di fine e di valore («esse per se»), non mai ri­ducibile totalmente a mezzo o a strumento, come l’u­manesimo moderno, con → Kant e lo stesso Marx, ha imparato a recitare (→ diritti umani). 3. Nella pedagogia contemporanea la p. reale è vista come la pietra di paragone e l’obietti­ vo orientante di ogni progettazio­ne e di ogni intervento educativo. Ma que­sta stessa affer­ mazione abbisogna di essere ben compresa e posta nel suo retto conte­sto, pena di dare adito ad orientamenti educativi fuorvianti, esposti al rischio di spiritualismo, d’intel­ lettualismo astratto o di individualismo, che mal si combinereb­bero con prospettive co­ muni alla concezio­ne di p., vista come spirito incarnato, esi­stenza incarnata, realtà comu­ nitaria, impe­gnata nel mondo e nella storia. Oggi, a motivo delle possibilità di interventi tecnologici sul soma e sulla psiche umana, è da esplorare pure il termine → personalità e di → personalizzazione, anche per calibrare meglio l’intervento educativo. Bibl.: R igobello A. (Ed.), Lessico della p. uma­ na, Roma, Studium, 1986; M ilano A. - A. Pavan (Edd.), P. e personalismi, Napoli, Dehonia­ ne, 1988; Flores d’A rcais G. (Ed.), Pedagogie personalisti­che e/o pedagogia della p., Brescia, La Scuola, 1994; Spaemann R., Persone. Sulla differenza tra «qualcosa» e «qualcuno», Roma/

Bari, Laterza, 2005; Peroli E., Essere p. Le origi­ ni di un’idea tra grecità e cristianesimo, Brescia, Morcelliana, 2007.

C. Nanni

PERSONALISMO PEDAGOGICO Indirizzo di pensiero in cui, sulla scorta del­ la concezione dell’ → uomo come soggetto libero, responsabile dei suoi atti, aperto agli altri, orientato al vero e proteso al be­ne, si configura l’educazione quale opera promo­ zionale della → persona, considerata nella totalità delle sue funzioni, nella con­cretezza dei suoi processi evolutivi e nella fattualità del suo radicamento sociale. 1. Storia e identità del p. Come fenomeno storico e culturale il p. nasce in Francia, con → Mounier e la rivista «Esprit», da lui fondata nell’ottobre del 1932, insieme ad al­ cuni amici intellettuali di varia prove­nienza ideologica. Siamo in un periodo di diffuse inquietudini etico-politiche connes­se all’af­ fermazione dei totalitarismi di de­stra (in Italia, in Germania, in Spagna) e al conso­ lidamento della dittatura sovietica. Nel ri­ flettere sulla vicenda del p., → Stefa­nini, pur non escludendone origini risalenti addirittu­ ra alla filosofia greca, là dove, co­me per i → Sofisti e → Socrate, si registra, nonostante il persistente «intellettualismo», l’«inclinazio­ ne» a ricondurre il pensiero-parola alla sua fonte personale, osserva che il terreno pro­ prio in cui si pongono i semi per lo sviluppo di quest’indirizzo è, nella scia dell’orizzonte antropo-teologico di­schiuso dall’ebraismo, il cristianesimo. Sempre per lo Stefanini, il p. costituisce il deus absconditus che agita in profondità tutto il pensiero moderno, senza riuscire veramente, salvo qualche caso (ad es., Pa­scal, Kierkegaard, Jacobi, Schiller, Schleiermacher, Maine de Biran, Gioberti, → Rosmini), a emergere in superficie. Dal ra­zionalismo cartesiano all’empirismo, dal panlogicismo immanentistico hegeliano al materialismo storicistico marx-engelsiano si snoda un itinerario speculativo in cui la persona, sia pure per ragioni diverse, sten­ ta ad essere riconosciuta nelle sue costitu­ tive dimensioni di singolarità, profondità, libertà e trascendenza. È comunque tra Ot­to 871

PERSONALISMO PEDAGOGICO

e Novecento, specialmente per merito degli spiritualisti francesi (si pensi a E. Boutroux, H. Bergson, M. Blondel, → Laberthonnière), che si delineano prospettive di pensiero in varia misura anticipatrici del vero e proprio p. L’attribuzione di que­sta denominazione a un sistema filosofico si deve, per primo, a Ch. Renouvier, il qua­le, nell’opera Le per­ sonnalisme, del 1903, presentava la dottrina della personalità co­me l’ultima definizione del suo criticismo. In realtà, Laberthonniè­ re probabilmente già dal 1894 aveva redat­ to un Esquisse du système personnaliste, che a causa di so­spetti di natura dottrinale fu pubblicato po­stumo, nel 1942. Particolari espressioni del p. si ebbero, all’inizio del No­ vecento, negli Stati Uniti, ad opera di studio­ si come B. P. Bowne, W. E. Hocking, intenti a una revi­sione dell’astratta dialettica ideali­ stica, al fine di riscattare, in alcuni casi se­ condo un’ottica cristiana, la concretezza del prin­cipio individuale-personale. Nel 1919 fu anche promossa la rivista The Personalist. Il p. di Mounier, debitore, per quanto con­cerne i contemporanei, di vari influssi (da Bergson a Blondel, da Scheler a Marcel, da Berdjaev a Le Senne), intendeva essere «fi­losofia», ma non «sistema». Avverso a ogni forma d’ideo­ logia, esso si proponeva come pensiero aper­ to, dinamico, critico, dispo­nibile al confron­ to, orientato al cambia­mento. Il «progetto» mounieriano si di­spiegava in un disegno di ampio respiro che, muovendo dal riconosci­ mento della centralità della persona, inve­ stigata nelle sue fondamentali dimensioni d’«incarnazione», di «comunicazione» e di «vocazio­ne», prefigurava, contro il «disordi­ ne sta­bilito» del XX sec. e le «derive» sia del ca­pitalismo sia dei totalitarismi, un model­ lo di organizzazione socio-politica di forte im­pronta «comunitaria». Fede democratica, tensione utopica e carica profetica alimen­ tavano questa prospettiva «rivoluzionaria» orientata alla progressiva edificazione di una «comunità di persone», in cui i diritti di ciascuno andavano armonizzati con gli interessi del bene comune. Il movimento personalistico di «Esprit» manifestò al suo interno diverse tendenze, di cui, sul piano specificamente filosofico, si resero inter­preti studiosi come J. Lacroix, P. Landsberg, M. Nédoncelle, P. Ricoeur. Subito dopo la se­ conda guerra mondiale, il p., che nell’ambito della filosofia socio-politica aveva intanto re­ 872

gistrato, fra gli altri, il con­t ributo di Maritain (all’inizio collaboratore della rivista di Mou­ nier), conobbe an­che fuori della Francia fe­ conda fioritura. Un discorso a sé merita il p. italiano. Alla stregua di quanto verificatosi per i perso­nalisti americani d’inizio secolo, pure da noi la maturazione del p. si produsse nel confronto con l’idealismo, precisamente nella formulazione attualistica. Se A. Car­ lini tentò di uscire dall’attualismo attraver­ so un processo di «esistenzializzazione del trascendentale», sulla scorta dell’esigenza di recuperare la concretezza individuale del soggetto considerato nel suo intrinseco rapporto con l’Assoluto, Stefanini, anch’egli sensibile al fascino spiritualistico della filo­ sofia gentiliana, senza tuttavia accon­sentire mai con essa, approdò nella fase matura della sua ricerca a una «metafisica della persona», premessa e fondamento di un programma di «summa personalistica», con sviluppi sui versanti etico, sociale, este­tico e pedagogico. Per impulso dello Stefa­nini e, in seguito, di alcuni suoi allievi (→ Flores d’Arcais, A. Ri­ gobello, G. Santinello) l’Università di Pado­ va divenne dagli anni cinquanta il maggiore centro d’irra­diazione del p. in Italia. Intorno al proble­ma dell’identità del p., le posizioni degli studiosi appaiono diversificate. Già nel 1946 Maritain era indotto a considerarlo non come «una scuola» o «una dottrina», ma piuttosto come un «fenomeno di rea­zione [...] inevitabilmente molto misto» contro gli op­ posti errori del totalitarismo e dell’individua­ lismo (La persona e il bene comune, Brescia, Morcelliana, 1963, 8). Al­l’inizio degli anni settanta J. Lacroix, in so­stanza, confermava la tesi precedente. Egli infatti reputava il p. non una vera e propria filosofia, né una sorta di orientamento ideologico, bensì un’«antiideologia», ovverossia un’aspirazione spe­ culativa e un at­teggiamento di spiccata rile­ vanza esisten­ziale, fortemente connessi con l’attività pratica. Da queste valutazioni dis­ sente però A. Ri­gobello, il quale, riallaccian­ dosi a una di­stinzione dello Stefanini, pro­ pone intanto una duplice accezione di p. In senso stretto esso designa una filosofia il cui centro teoretico è costituito dall’intuizione originaria della persona, colta nel comples­ so dei suoi valori e significati essenziali. Ne consegue, come ulteriore compito di ricerca per que­sto indirizzo, l’approfondimento in chiave fenomenologico-esistenziale di quel­

PERSONALISMO PEDAGOGICO

la pri­maria intuizione, con costante riguardo ai contesti storico-ambientali di riferimento e alle relative implicanze socio-culturali. In senso ampio il p. indica una posizione spe­ culativa e un complesso di atteggiamenti pratici, morali, sociali, politici contraddi­ stinti dal riconoscimento del primato della persona, che postula il rifiuto di qual­sivoglia forma di strumentalizzazione della medesi­ ma. Però il quadro teoretico o me­tafisico in cui la figura dell’essere perso­nale si situa e trova giustificazione va ri­cercato altrove: per es., nel pensiero scolastico o in indirizzi di vario tenore umani­stico o, ancora, nel siste­ ma esistenzialisti­co. Autori come Mounier e Stefanini ap­partengono alla prima posizione, altri co­me Maritain alla seconda. Il Rigobel­ lo con­viene poi con chi ravvisa nel p., sotto il profilo storico, un «fenomeno di reazione». Ma, a suo giudizio, sul piano speculativo, l’indirizzo in questione risulta riduttivamen­ te interpretato se lo si presenta come sempli­ ce «anti-ideologia». Ciò, perché il te­ma della persona appare di tale pregnanza teoretica da essere, oltre che centrale nella ricerca fi­ losofica, capace anche di porre il problema dell’identità della filosofia stessa. 2. Dal p. filosofico al p.p. Il p.p. trova col­ locazione storica e culturale in quanto sin qui detto. Anch’esso, come «applicazione» e sviluppo interno della riflessione perso­ nalistica, rappresenta un fenomeno tipico del Novecento e, in special modo, del se­condo dopoguerra. Anticipazioni se ne pos­sono però reperire nell’intera storia della pedago­ gia occidentale, precisamente là do­ve l’edu­ cazione è concepita come opera promozio­ nale di un soggetto libero, re­sponsabile delle proprie azioni, fonte di di­g nità incoercibi­ le, teso alla ricerca della ve­r ità e del bene. Da Socrate ad → Agostino, da → Tommaso d’Aquino a → Vittorino da Feltre ed → Era­ smo da Rotterdam, da → Comenio e → Pe­ stalozzi agli spiritualisti del Ri­sorgimento (Gioberti, Rosmini, → Lambruschini, → Cap­ poni, Tommaseo) si presenta una galleria di autori, i quali, pur nella va­r ietà degli indi­ rizzi, convergono intorno alla prospettiva pedagogica sopra indicata. A motivo di ciò possiamo allora parlare di una sorta di p.p. perennis che si snoda dall’anti­chità al Nove­ cento, emergendo però in que­sto secolo con espressioni di particolare con­sistenza. Circa

il problema dell’identità di ta­le indirizzo, conviene ricordare un’anno­tazione dello Ste­ fanini. Egli denominava personalistica «una pedagogia la quale s’ac­centri sul concetto di persona e la persona umana definisca come una sostanza spiritua­le, razionale, singolare, libera, responsabile, incarnata, mondanizza­ ta» (Il p.p., in «La Scuola e l’Uomo», 1957, 3, 3). Senza nega­re a questa definizione il pregio della chia­rezza, è però opportuno avere presente l’invito di A. → Agazzi a non attribuire al p.p. un significato troppo limi­ tativo, tale cioè da ridurne l’estensione alla sola pedagogia cattolica o addirittura alla sua corrente «spiritualistica». Questo, per­ ché, anche in prospettive antropologico-pe­ dagogiche «laiche», quando s’introducono, seppur in maniera più o meno surrettizia, riferimen­ti tipici della dimensione spirituale dell’uo­mo, si finisce, volenti o nolenti, con l’acce­dere alle tesi degli spiritualisti/per­ sonalisti. Alla luce di simili osservazioni, sembra al­lora plausibile tenere viva la distin­ zione tra p.p. in senso stretto e in senso am­ pio. Il pri­mo concerne pedagogie che, sulla scorta di antropologie in grado di fornire un’interpretazione realisticamente adeguata del­l’uomo, reputano l’educando come perso­ na da promuovere nell’armonica integra­lità del suo essere bio-psichico, sociale, spiri­ tuale, nonché nella pienezza della vo­cazione storica e metatemporale; il secon­do riguarda indirizzi educativi che, sebbene tributari di visioni antropologiche per qual­che aspetto carenti, risultano nondimeno attenti ai prin­ cipali bisogni di crescita del soggetto e alla tutela del medesimo rispet­to a qualsiasi ma­ nipolazione di carattere ideologico, politico, tecnocratico. Limitatamente al Novecento, nell’una o nell’altra categoria vanno iscritti numerosi pedagogisti o comunque studiosi dei pro­blemi dell’educazione. Citiamo, per es., i nomi di Laberthonnière, → Montesso­ ri, → Spranger, → Förster, → Dévaud, → Will­ mann, Schneider, → Guardini, Meylan, → Freire. Anche in Mounier, il capitolo relati­vo ai problemi educativi e scolastici assume no­ tevole rilievo. L’educazione vi appare come processo teso ad autenticare la voca­zione personale nel contesto di una specifi­ca ap­ partenenza comunitaria. Persona e comunità risultano i due poli indissolubili di un «pro­ getto educativo» in cui la pro­mozione della libertà, dell’intelligenza, del­la volontà, dello 873

PERSONALISMO PEDAGOGICO

spirito dialogico, del senso di responsabilità prende forma entro una prospettiva di reali­ stica attenzione all’inci­denza dei vincoli po­ sti al singolo dalla di­mensione bio-psichica e dall’ambiente. Sul versante istituzionale e scolastico il disegno si configura poi secondo una proposta di scuola aperta alla totalità dei bisogni for­mativi dell’alunno, pluralistica, laica e par­tecipata. Con Mounier l’altro auto­ re, anch’egli non pedagogista di professione, che contribuì al progressivo delinearsi del p.p. contemporaneo fu Maritain. Nell’orizzonte di un’antropologia incisivamente espressa con la formula dell’«umanesimo integrale», il pensatore neo-tomista andò suggerendo un modello educativo avente come fine lo svi­ luppo del soggetto secondo un’articola­zione armonica di tutte le sue dimensioni (spirito e corpo, intelligenza e sentimento, amore e vo­ lontà, libertà e grazia). In àmbi­to scolastico, il progetto si condensava nel­l’idea dell’«edu­ cazione liberale per tutti», attenta non solo ai valori delle culture clas­sica e scientifica, ma anche alle istanze del­la preparazione prati­ co-professionale, non­ché nella sottolineatura dell’urgenza del­l’insegnamento della «carta democratica». Mounier e forse ancor più Ma­ ritain incise­ro sullo sviluppo del p.p. tanto in Europa quanto in America. Eco notevole del loro contributo si ebbe pure in Italia dopo la fi­ne della seconda guerra mondiale. Da noi però fu sempre lo Stefanini ad assumere un ruolo di spicco per la crescita di un movi­ mento pedagogico di marca personalistica. Nella riflessione a cavallo tra gli anni qua­ ranta e cinquanta egli giungeva a prospet­tare l’idea di educazione come «maieuti­ca della persona». Da lì traeva sviluppo un’ampia prospettiva di «personalizzazio­ne» dei pro­ cessi, delle istituzioni (in ispecie la scuola) e dei contesti educativi, in cui si fondeva­ no equilibratamente motivi d’i­spirazione pedagogico-cristiana, istanze della migliore tradizione umanistica, sug­gerimenti della lezione attivistica. Tutto ciò in un quadro interpretativo e prospetti­co dei rapporti tra persona e società espresso con la formula del «socialitarismo personalistico». Insieme con altri colleghi (→ Casotti, Calò, Agazzi, → Nosengo), lo Stefanini, nel 1954, fu all’ori­ gine di Scholé, il Centro di Studi Pedagogici fra i docenti universitari cristiani, promos­ so con il so­stegno dell’Editrice La Scuola di Brescia. Esso divenne l’ambito dove i pe­ 874

dagogisti cattolici andarono via via appro­ fondendo fondamenti e orientamenti di una pedago­gia che, per quanto modulata secondo dif­ferenti sensibilità teoriche (dal neo-tomi­ smo al realismo, dallo spiritualismo rosmi­ niano al p.), intendeva proporsi con coe­renza rispetto all’idea di persona, unani­memente considerata come principio ispi­ratore di ogni programma di educazione. Tra i partecipan­ ti della prima ora, oltre ai citati promotori, ricordiamo gli italiani Agosti, Baroni, Bon­ gioanni, Braido, Catalfamo, → Corallo, Gia­ nola, → Laeng, Peretti, Petrini, Petruzzellis, Santomauro, Zavalloni e gli stranieri Bar­ bey, → Buyse, García Hoz, Muñoz Alonso, Planchard. 3. Recenti riflessioni sul p.p. All’inizio de­ gli anni settanta il problema dell’identità del p.p. riemerse con un certo vigore in Italia. Ne furono principali protagonisti G. Catal­ famo e M. Peretti. Il primo, fautore di un «p. senza dogmi», maturato sulla scorta di una revisione «critica» della pedagogia cattoli­ co-personalistica, a suo giudizio incapace di esprimere sino in fondo le istanze proble­ matiche e storico-progettuali proprie di una visione «aperta» dell’educazione; il secon­do, propugnatore di un «p. senza equivoci», ri­ gorosamente fondato sul piano metafisico e ancorato all’universo dei «perenni» princì­pi/ valori cristiani, anche se sensibile alle ne­ cessarie mediazioni/innovazioni storico-cul­ turali, di cui deve rendersi interprete ogni proposta educativa. L’esito del dibattito val­ se a confermare per lo stesso settore peda­ gogico la compresenza di una pluralità d’in­ dirizzi personalistici, la cui obiettiva diversi­ ficazione sul piano dei presupposti teoretici non pregiudicava, ad ogni buon conto, la convergenza intorno al concetto centrale dell’educazione come processo pienamen­ te promozionale della persona. Negli ultimi tempi, l’interesse per il p. è andato crescen­ do. P. Ricoeur ha però mes­so in guardia dal rischio di dare vita a una sorta di «archeolo­ gia personalistica», per­ché, a suo dire, «il p. è più davanti a noi che dietro» (cit. da A. Dane­ se, Prospettive neopersonaliste, in «Prospet­ tiva Persona» [1992] 1-2, 5). L’osservazione si applica an­che a quello pedagogico. Pure in questo settore occorre non tanto «ripetere» quan­to piuttosto «svolgere» creativamente e con adeguatezza storica il «messaggio» di

PERSONALITÀ

un’esperienza culturale ricca di elabora­zioni teoriche e di proposte operative. So­lo così il p.p. può disporsi ad affrontare con credibilità le impegnative sollecitazio­ni dell’attuale tem­ perie di pensiero post­moderno e a misurarsi in modo efficace con le «sfide» educative po­ ste dalla società «complessa», mass-mediale e multietnica. Vanno in questa direzione le recenti prese di posizione a favore di una prospettiva «neo-personalistica», rispetto alla cui ela­borazione è anche da registrare un pro­mettente avvio di dialogo tra pedagogisti d’ispirazione cristiana e di orientamento lai­ co. La ricorrenza del centenario della nascita di Mounier (1905-2005), celebrata anche in Italia con particolare risalto, è stata occasio­ ne di ripresa della questione personalistica in tutta la sua estensione, compresi, quindi, gli aspetti pedagogici e educativi. Quanto a questi ultimi si può dire che dalle riflessioni emerse in tale circostanza si è avuta confer­ ma della validità di un p. «aperto» e «dia­ logico», capace, pertanto, di misurarsi senza prevenzioni con i problemi posti all’educa­ zione dall’odierna società globalizzata, mul­ tietnica e tecnologico-informatica. Bibl.: per il paragrafo 1: R igobello A. (Ed.), Il p., Roma, Città Nuova, 1975; R icoeur P., Meurt le personnalisme, revient la personne... in «Esprit» (1983) 1. 113-119; Nepi P., «Persona, personalità, p.», in A. R igobello (Ed.), Lessico della perso­ na umana, Roma, Studium, 1986,177-210; Id., «Il p. e la crisi della soggettività», in A. R igobello (Ed.), Soggetto e persona. Ricerche sull’autenti­ cità dell’e­sperienza morale, Roma, Anicia, 1988; Pavan A. - A. Milano (Edd.), Persona e perso­ nalismi, Mila­no/Napoli, Dehoniane, 1987; M elchiorre V. (Ed.), L’idea di persona, Milano, Vita e Pensiero, 1996. Per i paragrafi 2 e 3: Catalfamo G., I fon­damenti del p.p., Roma, Armando, 1966; Peretti M., Breve saggio di una pedagogia per­ sonalistica, Bre­scia, La Scuola, 1978; M anno M., Nuove ricerche sul p., Ibid., 1982; Macchietti S. S. (Ed.), Pedagogia del p. italiano, Roma, Città Nuova, 1982; Guardi n ­ i R., Persona e li­ bertà (trad. dal ted.), Brescia, La Scuo­la, 1987; Flores d’A rcais G., Le «ragioni» di una teoria personalistica dell’educazione, Ibid., 1987; Galino Á. - J. M. P rellezo - Á. Del Valle , Per­ sonalización educativa. Génesis y estado actual, Madrid, Rialp, 1991; Musaio M., Il p.p. italiano nel secondo Novecento, Milano, Vita e Pensiero, 2001; Chiosso G., Profilo storico della pedago­

gia cristiana in Italia (XIX e XX sec.), Brescia, La Scuola, 2001; Toso M. - Z. Formella - A. Danese (Edd.), Emmanuel Mounier. Persona e uma­ nesimo relazionale nel centenario della nascita (1905-2005), 2 voll., Roma, LAS, 2005-2006.

L. Caimi

PERSONALITÀ Già → Allport ai suoi tempi diceva che esi­ stevano circa cento definizioni di p., tutte diverse tra loro. A queste si potrebbero ag­ giungere altrettante defi­nizioni date da altri ricercatori negli anni a seguire. Per evitare di creare una nuova definizione, ci limitiamo a trattare della p., avendo presente: ciò che caratterizza l’in­dividualità nella sua singola­ rità; i fattori che contribuiscono alla forma­ zione delle singole variabili di p.; la forma­ zione della p. La disciplina che studia queste questioni è detta psicologia della p. 1. La caratterizzazione tipologica. Un pri­mo modo di descrivere la p. individuale è quello della caratterizzazione tipologica. Essa si è sviluppata, in particolare, in modo sistema­ tico nella psicologia differenziale e nella psi­ cologia della p., con l’impegno di elaborare gruppi di caratteristiche che han­no tra altro, come criterio di varianza indi­viduale, l’ap­ partenenza ad un determinato sesso, ad una razza specifica, ad una parti­colare costitu­ zione somatica o ad un tipico stile cognitivo. Rilevanti per la descrizione tipologica sono i tipi costituzionali e gli sti­li cognitivi. Le tipo­ logie costituzionali ri­g uardano l’esistenza di una relazione tra determinate caratteristiche fisiche e spe­cifiche caratteristiche psichiche. Così Kretschmer (1953) osservando i pazien­ ti nella clinica in cui lavorava, avanzò l’idea che i disturbi mentali rientranti nel quadro della schizofrenia, degli stati maniaco-de­ pressivi e dell’epilessia, fossero collegati a ben pre­cisi tipi di costituzione somatica che egli denominò picnico (basso e rotondo), aste­nico (alto e sottile), atletico (ben propor­ zionato) e displastico, quanto non rientra­va in alcun tipo puro. Sheldon (1940; 1942) in­ trodusse l’idea di variabili continue con cui è possibile caratterizzare più realistica­mente il fisico di un individuo, e inoltre af­fermò che esiste un rapporto tra la struttura biologica 875

PERSONALITÀ

dell’individuo (somatotipo) e la dinamica della sua p. 2. La descrizione della p. secondo i tratti. Altri, per descrivere la p. si rifanno al co­ strutto dei tratti. Essi, secondo Carr-King­ sbury (1937-38), possono essere interpre­tati come tendenze dedotte dal comporta­mento individuale che predispongono o rendono idonei gli individui a comporta­menti uguali e consistenti. Per quanto ri­g uarda l’elabora­ zione e la classificazione dei tratti, Lersch (1966) e Allport (1969) si limitano a semplici teorizzazioni, mentre Cattell (1957) e Ey­ senck (1947) usano tec­niche statistiche allo scopo di trovare quei fattori che possono rap­ presentare unità de­scrittive. Guilford (1959) è piuttosto critico a riguardo della ricerca degli elementi ulti­mi della p. e propone uno studio dei tratti che consideri l’aspetto qua­ litativo dei com­portamenti e che sia capace di trovare le caratteristiche diverse (per es. morfologi­che, motorie). Nell’elaborare i trat­ ti, gli studiosi spesso non partono dalla tota­ lità dell’individuo come fonte di avvenimenti comportamentali da considerare, ma si ser­ vono principalmente di quei fatti psichici iso­ lati che possono essere osservati e misu­rati in situazioni controllabili (questionari, situa­ zioni sperimentali, ecc.). Tra le varia­bili da considerarsi maggiormente rappre­sentative al fine di caratterizzare le diffe­renze indivi­ duali figurano le seguenti quat­t ro dimensio­ ni: estroversione-introversio­ne, adattamento emozionale, accentuazio­ne emozionale ed autonomia nella formazione dei giudizi. 3. L’approccio situazionale. Rispetto a co­ loro che credono che i tratti intrapsichici sia­ no fondamentali per descrivere e predi­re il comportamento individuale, l’approc­cio si­ tuazionale considera le differenze in­dividuali come risultanti da fattori situa­zionali. Secon­ do questo approccio i com­portamenti indivi­ duali sono da ricercarsi nei diversi legami stimolo (S) - risposta (R) che condizionano il comportamento della persona nelle diverse situazioni di vita. In particolare per conosce­ re le differenze in­dividuali, che aderiscono al situazionalismo propongono di osservare anzitutto che cosa una persona fa nelle di­ verse situazio­ni, per poi rilevarne le reazio­ ni (R) alle condizioni specifiche (S) del suo ambiente. Tali comportamenti vengono dai 876

behavioristi chiamati abiti. Quindi, mentre i sostenitori del modello intrapsichico della p. in­terpretano le variabili di p. come cause del comportamento individuale, i behavioristi considerano gli abiti come unità specifiche del comportamento individuale. Mentre i behavioristi concordano in linea di massi­ma sulle variabili da loro elaborate, esisto­no del­ le divergenze nell’interpretare l’at­t uazione di un determinato abito. Per alcu­ni il comporta­ mento individuale costituisce una reazione a uno o più stimoli, per altri le singole reazioni sono risposte a stimoli in­condizionati e a sti­ moli condizionati. 4. Approccio interazionale. Come si è visto il modello intrapsichico ritiene che i fatto­ri re­ sponsabili delle differenze individuali siano fondamentalmente all’interno della p., men­ tre l’approccio situazionale afferma che la fonte di tali differenze è legata alle condizio­ ni ambientali. Secondo l’approccio interazio­ nale la persona va vista piuttosto in relazio­ ne al suo mondo, per cui il com­portamento individuale è il risultato del­l’interazione tra persona-situazione. Fon­d amentalmente si possono distinguere tre indirizzi, ognuno con una diversa interpre­tazione degli aspetti dell’interazione indi­viduo-ambiente: l’intera­ zionismo statico o lineare, l’interazionismo come interdipen­denza cognitivo-dinamica e l’interazioni­smo come transazione. a) L’in­ terazionismo statico o lineare. Considera il comportamento individuale come il risul­ tato a cui contribuiscono simultaneamen­ te le varia­bili indipendenti della persona e dell’am­biente. Tra le variabili indipendenti posso­no esistere delle relazioni causali o funzio­nali; comunque queste due categorie di variabili sono definite indipendentemente una dall’altra. Il comportamento che ri­sulta dalle condizioni personali e ambien­tali non produce effetti sulla persona e sul­l’ambiente. Un esempio tipico di tale interazione si può trovare nel modello di Murray (1938, 61), quando interpreta il comportamento indivi­ duale in funzione dei bisogni (needs) e delle tendenze o forze ap­partenenti al campo og­ gettivo o ambientale. b) Per l’interazioni­ smo cognitivo-dina­mico il comportamento umano è il risulta­to della dinamica cognitiva individuale che, a sua volta, dipende sostan­ zialmente dall’apprendimento della persona nel relazio­narsi al suo mondo, lungo l’inte­

PERSONALITÀ

ro arco del­la vita. Questo apprendimento è interpre­t ato diversamente dalla corrente compor­tamentista ad orientamento cogniti­ vo, dal­la corrente fenomenologica e dall’in­ terazionismo sociale. Tra i comportamentisti di orientamento cognitivo si accetta comune­ mente la tesi secondo cui il comportamen­to umano non viene controllato semplice­mente attraverso proprietà personali e sti­moli am­ bientali, ma viene condizionato in particolar modo dalla dinamica cognitiva dell’indi­ viduo, che trasforma l’interazione perso­ na-ambiente in una situazione sog­gettiva. Come rappresentante di questo approccio ricordiamo Mischel (1976, 182). Per altri studiosi (Rogers, 1951) il com­portamento individuale non risulta dall’interpretazione cognitiva della realtà at­t uata dalla persona, ma dipende da come la persona la compren­ de e da come la spe­rimenta. In questo senso possiamo dire che secondo l’approccio co­ gnitivo di tipo feno­menologico, l’individuo non agisce in rela­zione alla realtà soggettiva, ma al modo in cui essa è percepita e speri­ mentata sogget­tivamente. Un terzo modo di interpretare il comportamento individuale in senso co­g nitivo è quello compreso come agire so­ciale. In tal caso il comportamento indivi­duale è fondato sull’interpretazione e sulla concordanza delle aspettative nella comu­nicazione interpersonale. Questo modo si contraddistingue da tutte le altre corren­ ti in quanto mette in evidenza il significato co­me base fondamentale del comportamen­ to umano. Questa corrente sostiene inoltre che i significati-simboli vengono appresi e modificati progressivamente dagli indivi­ dui nelle loro interazioni sociali. Al centro viene posto il problema dell’identità per­ sonale e dell’identità sociale. c) L’approc­cio transazionale. Secondo Pervin (1976) esso si basa su tre proprietà principali: «a) nessuna parte del sistema resta indipen­dente sia dalle altre parti del sistema, sia dalla totalità del sistema; b) una parte del sistema non agisce semplicemente sulle al­t re parti del sistema, ma tra di loro esiste una relazione recipro­ ca nella quale la na­t ura della relazione non è di tipo causa-ef­fetto, ma transazionale; c) l’azione di una parte del sistema ha delle conseguenze an­che sulle altre parti del si­ stema». Secondo questa visione l’interazione individuo-am­biente non può essere di tipo lineare sta­tico, in quanto non è una sempli­

ce interdi­pendenza tra variabili personali e variabili ambientali, né esprime un rapporto di cau­sa-conseguenza tra esse. L’interazione co­me transazione si presenta, invece, come una relazione complessa, per cui il com­ portamento è il risultato delle azioni reci­ proche della persona e dell’ambiente e del­le reazioni reciproche che queste azioni pro­ vocano. Il caratterizzarsi della transa­zione attraverso azioni e reazioni recipro­che viene riferito soltanto all’aspetto for­male dell’inte­ razione individuo-ambiente. Argyle (1977) nel suo modello generativo interpreta l’agire individuale come risulta­to della reciproca de­ finizione di abilità, di aspettative e di norme della comunicazione delle persone in intera­ zione; Lantermann (1980) invece propone un modello ecletti­co: il comportamento di una persona in un ambiente attuale è in funzione di un condi­zionamento interdipendente dei fattori personali ed ambientali. 5. Salute-malattia della p. Dal punto di vista pedagogico è interessante studiare la gene­si e la formazione della p. Oggi un modo di far­ lo è quello di considerare la p. secondo la ca­ tegoria salute-malattia. Volendo esa­minare le diverse accezioni terminologiche riferite alla salute-malattia della p., si può facil­ mente rimanere impressionati dai nu­merosi costrutti utilizzati per descriverla. Tra que­ sti vi sono: adattamento, maturità, autorea­ lizzazione, competenza, identità, integrità, controllo, benessere, normalità, ecc. La di­ versità nell’uso di questi costrut­ti è indicati­ va del fatto che esistono diver­genze nell’in­ terpretare lo stato di salute-malattia della persona. Le diverse defini­zioni si possono raggruppare nelle seguenti categorie: a) Nor­ malità come assenza di malattia. Secondo la prassi tradizionale lo stato psichico dell’in­ dividuo viene conside­rato normale quando dall’esame clinico non emergono sintomi di interesse psico­patologico. b) Normalità e salute come media statistica. Attualmente nella psicologia clinica, il criterio di assenza di stati patolo­gici rilevanti viene considerato come con­dizione necessaria, ma non basilare per va­lutare la persona sana o integrale. Per co­loro che definiscono la normalità in rife­ rimento a criteri di tipo statistico, la p. è da considerarsi sana se, oltre all’assenza di sin­ tomi patologici, possiede qualità processuali (come per es. abilità, tratti stilisti­ci) tipiche 877

PERSONALITÀ

di un soggetto medio del grup­po di riferi­ mento. Anche in questo modo di interpretare la salute si sono riscontrati notevoli limiti per il fatto che il «soggetto-tipo» non soltanto è molto difficile da defi­nire, ma anche per il fatto che la salute-ma­lattia stabilite con cri­ teri statistici non sono rappresentative per descrivere le persone (perché per es. appar­ tengono a diversi stra­ti sociali o hanno avu­ to diversi influssi cul­t urali). c) Salute come concetto ideale-uto­pico. Un altro modo per definire la norma­lità fa riferimento alla p. ottimale. Con­t ributi in questo senso sono stati offerti dai diversi modelli terapeutici (per es. Io forte, Sé), dalle ricerche su in­ dividui particolarmente validi e su persone che si distinguo­no per la loro biografia. Pur essendo inte­ressante per conoscere i punti di arrivo, in questo approccio rimane aperta la questio­ne circa la normalità delle persone. d) Sa­lute-malattia come equilibrio dinamico del­la totalità individuale. Nella psicologia at­t uale si prende progressivamente atto del ruolo attivo che l’individuo ha nei confron­ ti del suo mondo e sempre più viene posta l’enfasi sulle risorse a cui questi può attin­ gere per far fronte alle richieste che incon­t ra nel relazionarsi al mondo. Nell’esaminare i fattori responsabili dell’adattamento dell’in­ dividuo, si tende ad assumere non più una visione statica, ma processuale e d’insieme (olistica). 6. Il coping. A questo riguardo è molto ri­ levante il costrutto di coping. Esso costitu­ isce attualmente un importante oggetto di studio nella psicologia ed è stato defini­to in modi diversi. Le varie definizioni, tut­t avia, hanno in comune il fatto di conside­rare il coping come un processo mediante il quale le persone cercano di gestire la discrepanza percepita tra le richieste loro poste da una si­ tuazione stressante e le proprie risorse. Tra le qualità processuali caratte­rizzanti il coping possiamo distinguere: meccanismi o strate­ gie intrapsichiche, risorse personali e risorse sociali, modalità interazionali cognitive e comportamentali. È di qualche interesse la questione circa quali forme del coping sia­ no maggiormen­te funzionali per l’individuo nel relazionar­si alle specifiche situazioni del suo intera­gire. In genere gli individui che dispongono di meccanismi o strategie intrapsichiche di tipo proattivo, o che pos­ 878

siedono risorse personali e risorse sociali, o che possiedono buone modalità cognitive e comportamen­tali, sono più in grado di per­ cepire e valu­tare il loro interagire col mondo e di utiliz­zare comportamenti convenienti e funzio­nali alle specifiche situazioni. Vero è che la salute-malattia costituisce, anche se non è sempre ammesso, una dimensione uni­ ca. In questo caso la persona può, sempre fino ad un certo punto, essere sana e malata. Di maggiore attualità nell’interpretare in sen­so olistico l’interagire della persona, si rivelano i modelli «bio-psico-sociali-spirituali», che mettono in particolare rilievo il rapporto tra salute e «come si pensa il mondo». 7. Psicologia clinica e salute-malattia. Tra i modelli che interpretano la salute-malattia in senso olistico, vi sono quelli in cui pre­vale la prospettiva centrata sulla persona, quelli secondo cui domina la prospettiva ambien­ tale ed, infine, quelli in cui vale la prospet­ tiva della corrispondenza persona-ambiente. Tipici modelli in cui prevalgono le attività delle persone sono riscontrabili per es. in Engel (1962; 1979) e in Hurrelmann (1989; 1991). Per Engel la totalità biopsicosociale è costituita da un sistema integrato composto in una struttura gerar­chica formata da tanti altri sottosistemi. Ogni sistema costituisce una parte in­tegrativa dell’immediato sistema gerarchi­co superiore ed è attraverso scambi di informazione che avviene il legame con tutti gli altri sistemi della totalità biopsico­ sociale. Per Hurrelmann la salute-malattia è interpretata in riferimento ai contributi rag­ giunti dalle ricerche realizzate sotto il para­ digma stress-salute. Secondo questo modello il bios individuale è visto nella sua totalità biopsicosociale e la salute-malattia è investi­ gata alla luce dei recenti principi teorici della socializzazione. La salute è, secondo questo modello, interpretata in rife­rimento al grado di riuscita della socializ­zazione dell’indivi­ duo nel relazionarsi al suo mondo. Modelli olistici della salute-malattia che rientrano nella prospettiva ambientale sono quelli che danno rilevante importanza ad influssi so­ cioculturali, poli­tici, ecologici ecc. Diversa­ mente sono in­terpretati i fattori e i processi secondo i modelli olistici che riferiscono la salute-malattia al criterio della corrispon­ denza persona-ambiente. Secondo questi modelli il rapporto salute-malattia è riferito

PERSONALIZZAZIONE

al rag­giungimento dell’equilibrio personaam­biente. L’equilibrio della dinamica perso­ na-ambiente è interpretato, per es., da Ka­plan (1983) e da Lauth (1982) in riferi­mento al rapporto tra aspettative e compe­tenze indi­ viduali e tra esigenze psicofisiche ed esigen­ ze ambientali. In ogni caso la sa­lute-malattia resta una questione della vita personale nella sua globalità: ad essa la te­rapia, la preven­ zione, l’educazione e l’i­struzione dovranno necessariamente, co­munque e sempre, ulti­ mamente riferirsi. Bibl.: Murray H., Exploration in personality, Oxford, Univ. Press, 1938; A llport G. W., Per­ sonality, a psychological interpretation, New York, Henry Holt and Co., 1945; Rogers C. R., Client-centered therapy, Boston, Houghton, 1951; Eysenck H. J., The scientific study of personal­ ity, London, Routledge and Kegan, 1952; Pervin L. A., Personality: theory, assessment, and research, New York, John Wiley, 1970; Mischel W., International psychology, Ibid., 1976; Franta H., Psicologia della p. Individualità e forma­ zione integrale, Roma, LAS, 1982; Mischel W., Lo studio della p., Bologna, Il Mulino, 1996; Perwin L. A. - P. J. Oliver, La scienza della p.: teo­r ie, ricerche, applicazioni, Milano, Cortina, 2003; Lauriola M. - A. Saggino - M. Balsamo, Tratti di p. nel contesto educativo: successo ed orientamento scolastico, in «Giornale Italiano di Psicologia dell’Orientamento» (2005) 1, 13-25.

H. Franta

PERSONALIZZAZIONE In ambito pedagogico la p. si riferisce all’atti­ vità educativa finalizzata alla valorizzazione di ogni persona concreta, con le sue caratte­ ristiche peculiari, con la sua originalità, con il suo bisogno fondamentale di comunicazio­ ne e di condivisione. 1. Il movimento delle → scuole nuove, all’ini­ zio del XX sec., introdusse il concetto di insegnamento individualizzato per reagire ad una prassi scolastica che offriva lo stesso tipo di insegnamento a tutti gli alunni e pre­ tendeva da tutti gli stessi risultati. Ben presto si vide che se a scuola si poneva attenzione solo agli aspetti individuali della formazione degli alunni, trascurando quelli sociali, i ri­

sultati non erano soddisfacenti. La capacità relazionale degli alunni non veniva infatti adeguatamente coltivata. Nacquero così le prime realizzazioni parziali di quella che V. García Hoz definì «educazione personalizza­ ta», una espressione da lui coniata verso la metà degli anni sessanta del XX sec., quando costruì un sistema che ha avuto applicazioni pratiche, prima nelle scuole spagnole e poi in alcune scuole italiane non statali, abbon­ dantemente documentate da pubblicazioni scientifiche. Dall’estate del 2002 alla pri­ mavera del 2006 il sostantivo «p.» e l’ag­ gettivo «personalizzato» si ritrovano spesso anche nei documenti ufficiali del Ministero dell’Istruzione. 2. Quando i pedagogisti affermano che l’es­ sere umano è una persona intendono sotto­ lineare che non è semplicemente un organi­ smo che reagisce agli stimoli dell’ambiente, ma un essere attivo che si interroga, osserva, modifica l’ambiente in cui vive e si lascia modificare da esso: un essere che è princi­ pio delle proprie azioni e che è naturalmente aperto alle relazioni. Nel concetto di perso­ na sono racchiuse le due dimensioni − in­ dividuale e sociale − dell’essere umano, da considerare sempre insieme; mentre invece quando si pone esclusivamente l’accento solo su una di esse si finisce inevitabilmente nel riduzionismo pedagogico, nei suoi due estre­ mi dell’individualismo o del collettivismo. 3. Le note distintive di un’attività didattica personalizzata sono: la presenza, nella pro­ gettazione, di obiettivi e quindi di attivi­ tà sia comuni che individuali; la ricerca di una forma di eccellenza personale per ogni alunno; la contemporanea attenzione alle di­ mensioni di socievolezza-comunicazione e di unicità-originalità dell’alunno; la proget­ tazione sia di attività obbligatorie che di at­ tività facoltative/opzionali e quindi una certa partecipazione degli alunni nella scelta delle loro attività di apprendimento; l’uso di un apparato progettuale che tenda alla forma­ zione nell’alunno di una visione unitaria del sapere; lo svolgimento delle unità di appren­ dimento, evidenziandone la significatività soggettiva, problematizzando i contenuti, fa­ cendo riferimento all’esperienza dell’alunno, ricollegando le nuove conoscenze a quelle già possedute; la valutazione criteriale effet­ 879

PESTALOZZI JOHANN HEINRICH

tuata sulla base della diagnosi iniziale e della previsione dei risultati possibili per l’alunno; la valutazione della personalità scolastica, nelle due dimensioni del comportamento scolastico e del comportamento di lavoro; la valutazione delle competenze piuttosto che delle singole prestazioni; il coinvolgimento attivo dell’alunno nella sua valutazione; la comunicazione degli esiti delle valutazioni mediante l’uso di giudizi articolati, o almeno di profili, piuttosto che di aggettivi o numeri, che inevitabilmente finiscono per appiattire e per uniformare in modo generico; la pe­ riodica sintesi educativa effettuata dall’inse­ gnante per il singolo alunno e la conseguente riprogettazione condivisa del suo lavoro sco­ lastico. Nell’educazione personalizzata l’in­ segnante ha una funzione di guida, capace di orientare, stimolare e motivare gli alun­ ni all’impegno per raggiungere gli obiettivi previsti sia comuni che individuali. Bibl.: Bernal Guerrero A., Análisis del tra­ tado de educación personalizada. Génesis y aportaciones, in «Revista Española de Pedago­ gía» (1999) 212, 16-49; García Hoz V. et. al., Dal fine agli obiettivi dell’educazione perso­ nalizzata, Palumbo, Palermo, 32002; Bertagna G., Valutare tutti valutare ciascuno, Brescia, La Scuola, 2004; M artinelli M., La p. didat­ tica, Ibid., 2004; García Hoz V., L’educazione personalizzata, Ibid., 2005 (tit. orig.: Educación personalizada, Madrid, Rialp, 81988); La M arca A., Educazione del carattere e p. educativa a scuola, Ibid., 2005; Id., La p. tra famiglia e scuo­ la, Ibid., 2006.

G. Zanniello

PERVERSIONE → Piscopatologia

PESTALOZZI Johann Heinrich n. a Zurigo nel 1746 - m. a Brugg nel 1827, educatore e pedagogista svizzero. 1. Vita e opere. All’età di cinque anni rimane orfano di padre. Viene educato, con il fratel­ lo e la sorella, dalla madre e dalla domestica in un clima di intenso affetto. Conosce mol­ to presto la realtà sociale in cui vive, perché trascorre le vacanze presso il nonno paterno, pastore evangelico in una parrocchia vicino 880

a Zurigo, o presso lo zio materno, medico di professione. Rimane fortemente colpito dalla povertà e ignoranza dei contadini, ma ancor più dal cambiamento che subiscono i fan­ ciulli quando iniziano la scuola e il lavoro: dal loro volto spariscono gioia e spensiera­ tezza. Forse è da cercare in quest’esperienza la volontà di P. di dedicarsi con tutte le forze e per tutta la vita all’educazione del popolo. Frequenta la scuola pubblica. Al Collegium Carolinum si entusiasma per la politica e per le teorie fisiocratiche. Nel 1769 sposa Anna Schulthess e con lei si stabilisce presso Birr, dove ha comperato una vasta estensione di terreno incolto. Chiama la proprietà agri­ cola Neuhof e ne fa un istituto educativo per fanciulli poveri. Nel 1770 nasce Jac­ queli, l’unico figlio, così chiamato in onore di → Rousseau di cui P. condivide le idee. L’azienda agricola fallisce e nel 1779 P. deve chiudere l’istituto, che ospita una cinquanti­ na di ragazzi. Segue un periodo di riflessio­ ne e di pubblicazioni, di cui si segnalano le principali: La veglia di un solitario (1780); Sulla legislazione e l’infanticidio (1783); Leonardo e Geltrude (1781-1787), romanzo d’ambiente che ha molto successo e fa co­ noscere P. al grande pubblico; Le mie ricer­ che sul corso della natura nello sviluppo del genere umano (1797). Scoppiata la Rivolu­ zione fr. P. aderisce ai suoi ideali e ottiene la cittadinanza francese onoraria. Tuttavia, dopo la violenta repressione delle truppe francesi entrate in Svizzera, prende le di­ stanze dall’azione rivoluzionaria e apre una scuola per orfani di guerra a Stans (1798). Vi rimane per cinque mesi progettando e sperimentando il suo metodo, come si legge in Lettera a un amico sul proprio soggiorno a Stans (1800). Lasciata la scuola di Stans, perché adibita ad ospedale militare, si porta a Burgdorf, vicino a Berna. Qui organizza meglio la scuola ed elabora compiutamente le sue dottrine metodologiche, che trovano spazio in alcuni scritti: Il metodo (1800), sviluppato poi in Come Geltrude istruisce i suoi figli (1801); L’A B C dell’intuizione (1801); Libro delle madri (1803). Lasciata anche Burgdorf, perché il castello diventa sede della prefettura, P. accetta l’offerta di aprire un istituto a Yverdon (1805), che ben presto acquista fama mondiale, grazie al perfezionamento del suo metodo e all’aiuto di validi collaboratori. L’istituto è chiuso nel

PESTALOZZI JOHANN HEINRICH

1825 in seguito a forti contrasti interni, che P. non riesce a sanare. Si ritira amareggiato e ormai ottantenne a Neuhof, dove scrive II canto del cigno, sintesi delle sue esperienze educative e teorie pedagogiche, e suo testa­ mento spirituale. 2. Pensiero pedagogico. P. non ha elabora­ to una teoria pedagogica sistematica, perché le sue opere nascono dall’esperienza e dal­ la sua passione per l’educazione del popolo. Tuttavia è possibile enucleare da esse quegli elementi che risultano fondamentali per una corretta impostazione dell’azione educativa. Per P. l’educazione è un processo che, rispet­ toso delle leggi della natura umana, abili­ ta l’uomo all’uso di tutte le sue facoltà per raggiungere la perfezione etica. P. si distac­ ca dall’iniziale e acritica accettazione della concezione roussouiana dell’uomo e impo­ sta l’educazione come sviluppo simultaneo, armonico e integrale di tutte le facoltà che sono tipiche dell’uomo. 3. Metodo educativo. La lunga esperienza educativa porta P. a puntare sul metodo natu­ rale. Si tratta di scoprire l’ordinamento psico­ logicamente elementare e graduale dell’edu­ cazione per guidare lo sviluppo integrale del soggetto senza incaute anticipazioni o dan­ nosi ritardi. L’educazione deve perciò avere i caratteri dell’elementarità, gradualità, inte­ gralità, senza dimenticare il ruolo che in essa ha l’intuizione. → Girard, nella sua Relazione del 1810 stesa in seguito alla visita compiu­ ta all’istituto pestalozziano di Yverdon, così riassume il metodo di P.: «Circondare la gio­ ventù di idee sensibili, vive e chiare, far ri­ salire l’insegnamento a’ suoi primi elementi, elevarsi di là passo passo, in una gradazione misurata e lenta, dare all’attività spontanea del fanciullo tutto lo slancio possibile, for­ mare in lui l’uomo, senza trascurare tuttavia differenze che l’individuo e la sua vocazione particolare presentano: ecco le regole fonda­ mentali di questo sistema di educazione co­ nosciuto in Europa sotto il nome di Metodo del P.». 4. Ambienti educativi. In consonanza con il metodo naturale, l’ambiente educativo che ha maggior incidenza nell’educazione del fanciullo è la famiglia. Diversamente da Rousseau, che «sequestra» il bambino dal

suo ambiente naturale – la famiglia –, P. ne esalta le funzioni educative: «È assodato che il focolare domestico riunisce i fattori essenziali di ogni verace educazione uma­ na in tutta la loro estensione» (Discorsi alla mia casa). Nell’ambiente familiare la madre ha un ruolo fondamentale in ordine all’edu­ cazione, perché attraverso di lei si svilup­ pano nel bambino i germi dell’amore, della fiducia, della riconoscenza, della socialità, della sicurezza. La famiglia è perciò il luo­ go delle relazioni essenziali ed esemplari dell’esistenza; è il luogo dello sviluppo in­ fantile animato dall’amore, è il luogo dove «la vita educa». Dopo la famiglia la scuola è un ambiente educativo perché continua il processo iniziato nella casa domestica e per­ mette al fanciullo di ampliare e arricchire le sue esperienze di vita. Tuttavia la scuola è educativa solo ad una condizione: se non si contrappone all’educazione familiare, ma se la continua e la integra. 5. Influsso. L’esperienza educativa di P. ha influito su tutti gli educatori e pedagogisti del periodo romantico. Anche se non tutto della sua opera e dei suoi scritti può essere ritenuto valido, tuttavia gli siamo debitori nel nostro modo di concepire l’educazione e la scuola. Inoltre gli si riconosce la profonda sensibilità con cui affronta temi e problemi sempre attuali: l’importanza dei primi anni di vita nella formazione della personalità equilibrata e completa; l’importanza della relazione madre-bambino e dei rapporti fa­ miliari; il ruolo dell’amore nel processo edu­ cativo. Bibl.: a) Fonti: J. H. P., Sämtliche Werke, ediz. critica delle opere di P. curata da A. Buchenau, H. Stettbacher e E. Spranger, Berlin/Zürich, W. de Gruyter/Fuessli, 1927-1976, 28 voll.; Sämtliche Briefe, epistolario completo in 13 voll., Zürich, Fuessli, 1949-1976. b) Studi: Meylan L., L’attua­ lità di P., Firenze, La Nuova Italia, 1962; Delekkat F., P.: l’uomo, il filosofo, l’educatore, Ibid., 1967; Genco A., Il pensiero di G.E.P., Padova, Liviana, 1968; Silber K., P.: L’uomo e la sua opera, Brescia, La Scuola, 1971; Soëtard M., P. ou la naissance de l’éducateur: étude sur l’évo­ lution de la pensée et de l’action du pédagogue suisse (1746-1827), Frankfurt, Lang, 1981; Id., P., Paris, PUF, 1995.

R. Lanfranchi

881

PETITES ÉCOLES DE PORT-ROYAL

PETITES ÉCOLES DE PORT-ROYAL L’espressione P.É. (piccole scuole) viene mol­ to usata nel Seicento in Francia per in­dicare le scuole «di iniziazione», in cui si in­segnano i primi rudimenti del leggere e del­lo scrivere. Hanno avuto speciale risonanza le «piccole scuole» fondate dall’abate di Saint-Cyran (1581-1643), con la collabora­z ione attiva di un gruppo di intellettuali, i «solitari» di Port-Royal. Queste P.É. non sono però sem­ plici scuole elementari: i gio­vani vi ricevono una formazione com­pleta in un ambiente di internato. 1. Le tappe principali che scandiscono la breve vita delle P.É. de P.-R. sono queste: nell’estate del 1637 un pic­colo gruppo di ra­ gazzi è accolto a Port-Royal-des-Champes, un monastero femminile cistercense a 25 km da Parigi, per iniziativa di Saint-Cyran. Que­ sti, all’i­nizio della sua attività, si propone di for­mare sacerdoti istruiti e capaci, ma molto presto, rispondendo alle attese degli amici, vengono raccolti a Port-Royal ragazzi che non intendono abbracciare lo stato eccle­siastico. Come primo maestro è scelto un giovane prete: Antoine Singlin (1607-1664). I contra­ sti con l’autorità reale e con quella ecclesia­ stica sono all’origine di di­versi cambiamenti di sede (Port-Royal-de-Paris, Chesnay, PortRoyal-des-Champes, Les Granges, Chesnay). Dopo aver cono­sciuto anche momenti di for­ zata dispersio­ne degli allievi, le scuole furono soppresse da Luigi XIV nel 1660. 2. Le P.É. si collocano nel contesto del mo­ vimento di riforma etico-religiosa promos­so dal → Giansenismo. A questa voce riman­ diamo per ciò che riguarda gli orien­tamenti culturali, i maestri, la produzione letteraria e pedagogica. Alla preoccupazione di rigore morale e al­la critica dei costumi e della reli­ giosità del tempo è unita, nei portorealisti, una forte sensibilità scolastico-educativa. Senza ne­gare l’importanza della funzione della fa­m iglia nell’ambito dell’educazione, essi affermano la necessità dell’istruzione e danno una speciale importanza alla scuo­ la. Un insegnamento solido è considerato in­d ispensabile per poter conoscere quello che si deve fare nella vita e per prepararsi in modo adeguato a servire Dio e difende­re 882

le proprie convinzioni. In prospettiva schiet­ tamente cristiana, le P.É. si propon­gono di raggiungere alcuni obiettivi: pre­servare dal male gli «eletti», restaurare la natura deca­ duta, chiarire la ragione e rad­d rizzare la vo­ lontà. Su questa base poggia­no i valori della libertà interiore, della sin­cerità, della padro­ nanza di sé. 3. Nella proposta dei mezzi educativi, uno speciale accento viene pure messo sugli aspetti religiosi: a) creazione di un ambien­te pulito mediante la scelta attenta dei mae­stri e delle persone che entrano in contatto con gli allievi; è proibita la frequenza dei teatri e le opere classiche si studiano in edizioni «purgate» dai passaggi ritenuti pe­r icolosi; b) disciplina seria, anche se sem­pre paterna e ragionevole; c) castighi poco frequenti, e quelli corporali in casi gravi dopo aver esau­ rito altri mezzi; d) vigilanza continua per prevenire le occasioni di peri­colo. Il maestro responsabile di ogni grup­po di ragazzi (da quattro a sei) è sempre presente tra di loro nei diversi momenti della giornata e nei di­ versi ambienti, anche nella camerata di sera. Curare la dimensione morale e religiosa non significa trascurare gli altri aspetti del­ l’educazione; anzi a Port-Royal si mira con serietà a far imparare «l’arte di ben con­durre la propria ragione nella conoscenza delle cose» (Lancelot-Arnauld, 1969, 104). I titoli di due testi fondamentali sono, a questo pro­ posito, significativi: Grammaire generale et raisonnée (A. Arnauld - C. Lancelot), la Lo­ gique de Port-Royal (A. Arnauld - P. Nicole). D’altra parte, il pro­gramma culturale, svolto con gradualità, è ampio: lettura, scrittura, lingue (fr., lat., gr.), spiegazione di autori, matematica e materie scientifiche, geografia e storia, retorica, filosofia. 4. Dal punto di vista pedagogico, la risonanza e l’influsso di Port-Royal sono lega­ti anzitutto alla ricca personalità dei «solitari», all’impe­ gno educativo di questi «asceti austeri e amo­ revoli» e alla fortuna e diffusione dei loro sag­ gi e testi scolastici, in cui si avvertono tracce di autori classici (→ Cicerone, → Quintiliano, → Seneca) e di altri più recenti (→ Erasmo, → Montaigne, → Descartes, → Comenio). Bibl.: Lancelot C. - A. A rnauld, Grammatica e logica di Port-Royal, a cura di R. Simone, Roma,

PIAGET JEAN

Ubaldini, 1969; Delforge F., Les P.É. de P.-R., 1637-1660, Paris, Cerf, 1985; Hildesheimer F. M. Pieroni Francini, Il Giansenismo, Cinisello Bal­samo (MI), Paoline, 1994; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi, Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. 2, Torino, SEI, 2004; Weaver F. E., La contre-réforme et les Constitutions de Port-Royal, Paris, Cerf, 2004.

J. M. Prellezo

PIACERE → Benessere

PIAGET Jean n. a Neuchâtel nel 1896 - m. a Ginevra nel 1980, psicopedagogista svizzero. 1. Gli inizi. Dopo un precoce interesse pel­ le scienze naturali (a dieci anni pubblica il suo primo articolo scientifico sul passero albino, si laurea in zoologia a venticinque anni e nel 1918 si specializza con una tesi sui molluschi), P. sviluppa progressiva­mente un crescente interesse per la psi­chiatria e la psicologia. Frequenta così a Zurigo l’ospe­ dale psichiatrico diretto da E. Bleuler, ini­ zia la lettura delle opere di → Freud, segue i seminari di → Jung e per al­cuni mesi è in analisi con S. Spielrein. I suoi forti interessi di tipo speculativo lo portano poi, tra il 1919 e il 1921, a Parigi dove se­g ue alla Sorbona le lezioni di G. Dumas e di H. Piéron. Pren­ dendo spunto dal pen­siero del filosofo fran­ cese H. Bergson, P. si propone di utilizzare gli strumenti della scienza sperimentale per studiare le forme successive di elaborazione della ragione nell’ontogenesi delle condotte umane. Ini­zia così, mettendo a punto pres­ so il labora­torio di → Binet un metodo per la standar­dizzazione dei → test mentali per bambini di → Burt, a prestare particolare at­ tenzione alle strategie seguite dal bambino per giungere alla soluzione dei problemi e nel 1921 accetta il posto di direttore di ricer­ ca pres­so l’Institut J. J. Rousseau, offertogli da → Claparède. 2. Le ricerche sistematiche e gli incarichi in­ ternazionali. Si trasferisce definitivamente a Ginevra e inizia le sue ricerche sistemati­che sullo sviluppo infantile occupandosi speri­ mentalmente e teoricamente della struttura­

zione del pensiero nel bambino e nell’adole­ scente. Ne studierà dunque le prime attività percettive e motorie, il costi­t uirsi di un mon­ do oggettivo e le prime manifestazioni, tra il primo e il secondo an­no di vita, dell’intel­ ligenza senso-motoria e quindi dell’attività rappresentativa. Suc­cessivamente prenderà in esame l’attività imitativa, il gioco sim­ bolico e il linguaggio verbale, e giungerà a delineare un quadro e un’analisi complessiva della rappresenta­zione del mondo nel bambi­ no, caratteriz­zata dall’egocentrismo, dal rea­ lismo, dalla non reversibilità delle operazio­ ni di pen­siero. In seguito, sulla base di una serie di osservazioni sistematiche condotte con il metodo clinico, analizzerà lo svilup­ po del pensiero dai quattro agli otto anni, il com­parire della reversibilità, il formarsi delle principali nozioni di quantità, numero, mo­vimento, spazio. Porterà infine a termine, in collaborazione con B. Inhelder, una se­r ie di studi sull’evoluzione dell’intelligen­za sino ai quindici-sedici anni (processo ipotetico deduttivo, processo di induzione, concetto di probabilità). Nel 1929 viene no­minato diret­ tore del Bureau International de l’Éducation e nel 1940, alla morte di Claparède, diretto­ re dell’Istituto J. J. Rous­seau e professore di psicologia sperimenta­le a Ginevra. Dirige inoltre gli «Archives de Psychologie», che si caratterizzeranno sempre più come il pe­ riodico della scuola piagetiana. Al termine della II Guerra Mondiale ricopre importan­ ti incarichi all’Unesco e insegna a Ginevra storia della scienza e alla Sorbona di Parigi, come suc­cessore di Merleau-Ponty, psicolo­ gia gene­tica (1952-1963). Nel 1954 fonda a Ginevra un Centro Internazionale di Episte­ mologia genetica con impianto interdiscipli­ nare (psicologia, logica ed epistemologia) e prende posizione contro il metodo filosofi­cospeculativo rapportandolo criticamente al metodo scientifico. Si occupa inoltre dei pro­ blemi dello strutturalismo cercando di met­ tere in luce un punto di vista metodo­logico comune ai diversi campi di ricerca. 3. Lo sviluppo mentale del bambino. Sin dall’inizio, l’interesse principale di P. per lo → sviluppo infantile si è incentrato sulla genesi della capacità logica, da lui definita «l’assiomatica della ragione». Individuato nella psicologia dell’intelligenza il centro dei propri interessi teorici e sperimentali, P. ha 883

PIAGET JEAN

teso a dare un’esatta interpretazione psico­ logica dei concetti e delle operazioni logiche (concetto di spazio, tempo, ecc.; operazioni di disgiunzione, congiunzione, esclusione) studiandone la genesi e lo svi­luppo e uti­ lizzando un metodo, l’analisi ge­netica dei processi, che postula un paralle­l ismo tra l’acquisizione individuale e l’ac­quisizione storica. Secondo P. la capacità di ragiona­ mento logico non è innata nel bambino ma si costituisce progressiva­mente, presentandosi sotto forma di strut­t ure operative, in connes­ sione con il lin­g uaggio e i rapporti sociali: l’atto logico consiste nell’operare, nell’agire sulle cose o sugli altri. È necessario dunque, se si vuo­le comprendere come si costruisce l’appa­rato concettuale di cui il pensiero si avvale, seguire il soggetto nella sua attivi­ tà nel­l’ambiente che lo circonda. Sulla base di queste premesse la condotta intelligente, l’adattamento, possono venir descritti con una dialettica funzionale di due processi: quello di assimilazione e quello di accomo­ damento, dove, secondo P., anche i riflessi elementari (ad es. il riflesso della suzione nel neonato) contengono già elementi di assi­ milazione e dove il pensiero logico astratto, quale il ragionamento matemati­co, è defini­ bile come un comportamento interiorizzato e concettualizzato. Secondo P., lo sviluppo mentale del bambino, dal­l’infanzia all’adole­ scenza, può essere de­scritto come un lungo percorso che condu­ce alla acquisizione di modalità adulte di conoscere il mondo e di entrare in relazio­ne con gli altri. In questo percorso è possi­bile identificare una serie di stadi, ognuno dei quali svolge un ruolo fon­ damentale e ineliminabile. In esso possono essere iden­tificati due periodi principali: il periodo senso-motorio (dalla nascita ai primi due anni di vita) e il periodo concettuale (dai 2 anni ai 15 anni). Questi due periodi sono a loro volta suddivisibili in stadi. Nel periodo senso-motorio il bambino sviluppa progres­ sivamente le proprie modalità di inte­razione con l’ambiente, passando dall’uso esclusivo dei riflessi alle coordinazioni visuo-motorie. Impara cioè a coordinare percezione e mo­ vimento e raggiunge, tra i 4 e gli 8 mesi, la «permanenza della perso­na» e la «permanen­ za dell’oggetto»: ap­prende cioè che le perso­ ne e gli oggetti so­no entità separate da lui che mantengono la propria esistenza anche se scompaiono dal suo campo visivo. Alla 884

fine del periodo senso-motorio il bambino è in grado di for­marsi delle immagini mentali e può iniziare a operare con le rappresenta­ zioni interne che non richiedono la presenza immediata di oggetti o persone. Il perio­ do concettua­le è suddiviso in tre momenti: lo stadio preoperatorio (dai 2 ai 7 anni), lo stadio delle operazioni concrete (dai 7 agli 11 an­ni) e lo stadio delle operazioni formali (da­gli 11 ai 15 anni). Nello stadio preparato­rio si assiste allo sviluppo delle rappresen­tazioni esterne (fase preconcettuale) e delle operazio­ ni mentali di classificazione e seriazione degli oggetti (fase del pensiero intuitivo). Nello sta­ dio delle operazioni concrete il bambino ac­ quisisce progressi­vamente la capacità di com­ piere operazio­ni mentali facendo riferimento a oggetti concreti, cose o persone e inizia a utilizza­re i concetti di numero, peso e volume. Lo sviluppo mentale giunge a termine nello stadio delle operazioni formali, caratteriz­zato dalla acquisizione della capacità di compie­ re operazioni mentali utilizzando esclusiva­ mente simboli, e dal conseguente accesso al metodo ipotetico-deduttivo nel­la soluzione di problemi logico-matematici. 4. L’epistemologia genetica. La via che por­ta alla elaborazione dell’epistemologia ge­netica parte dunque dallo studio dello svi­luppo psicologico del bambino. Essa è in­tesa da P. come «scienza separata dalla filosofia ma le­ gata a tutte le scienze umane e alla biologia», volta a rintracciare la ge­nesi dei concetti di spazio, di tempo, cau­salità o numero e clas­ se che a loro volta si formano per successivi adattamenti e che permettono la concettua­ lizzazione dello sviluppo mentale nei termi­ ni di un adatta­mento via via più preciso alla realtà. In quanto tale, l’epistemologia geneti­ ca «è in grado di affrontare questioni fino a quel momento esclusivamente filosofiche in una maniera risolutamente sperimentale». Le considerazioni epistemologiche di P. si ba­sano dunque sulla ricerca sperimentale, sia psicologica sia biologica, e sul ricorso a un metodo strutturale che procede per ap­ prossimazioni successive. Le sue afferma­ zioni sullo sviluppo mentale del bambino, le sue conclusioni riguardo al tipo di acqui­ sizioni logiche, affettive, percettive dei di­ versi stadi dello sviluppo medesimo, sono corredate da un complesso di dati di osser­ vazioni e elaborazioni statistiche tali da con­

PIANIFICAZIONE DELL’EDUCAZIONE

sentire una verifica della loro validità e sono ricche di implicazioni da un punto di vista di­ dattico e pedagogico, sottolineando l’esigenza di adeguare i metodi e i conte­nuti dell’inse­ gnamento ai diversi stadi del­lo sviluppo co­ gnitivo, affettivo e morale del bambino. Bibl.: a) Fonti: tra le opere di P. trad. in it.: Giu­ dizio e ragiona­mento nel bambino, Firenze, La Nuova Ita­lia, 1958; Il linguaggio e il pensiero nel fanciullo, Firenze, Giunti-Barbera, 1965; La na­ scita dell’intelli­genza, Firenze, La Nuova Italia, 1968; Il giudizio morale nel fanciullo, Fi­renze, Giunti-Barbera, 1972; Dove va l’educazione, Roma, Armando, 1978. b) Studi: Filograsso N., J.P. e l’educazione, Urbino, Argalìa, 1974; Hers R. H., Promoting moral growth: from P. to Kohl­ berg, New York/London, Longman, 1979; Evans R. I., Cos’è la psicologia: lo sviluppo della mente umana, l’educazione, i meccanismi dell’appren­ dimento spiegati dal più grande studioso di pro­ cessi cognitivi: J.P., Milano, Mondolibri, 2002; Taroni P., Introduzione a P., Urbino, Quattro­ venti, 2005; Gardner H., Riscoperta del pensie­ ro e movimento strutturalista. P. e Lévi-Strauss, Roma, Armando, 2006; Filograsso N. - R. Travaglini (Edd.), P. e l’educazione della mente, Mi­ lano, Angeli, 2007.

F. Ortu - N. Dazzi

PIANI DI STUDIO PERSONALIZZATI → In­ dividualizzazione → Personalizzazione

PIANIFICAZIONE DELL’EDUCAZIONE È l’organizzazione, secondo una scansione temporale, dello sviluppo del → sistema for­ mativo o di una sua parte. 1. Benché una qualche p.d.e. ci sia sempre stata, è solo dopo la seconda guerra mon­ diale che si parla comunemente di piani e si diffondono nei ministeri le strutture di p.d.e. Per prima l’Unione Sovietica le at­t ribuisce un posto di rilievo: l’impostazione è carat­ terizzata da centralizzazione, unità gerar­ chica di comando, controllo ideologico del curricolo e stretta integra­zione fra scuola ed extrascuola, educazione dei giovani e degli adulti, p.d.e. e p. econo­mica. Nei Paesi capi­ talisti, nonostante la fiducia nelle capacità di

autoregolazione del mercato, si riscontra una notevole presenza della p.d.e. dato l’interes­ se degli Stati a sviluppare l’educazione. La p.d.e. si qualifica per la na­t ura indicativa dei piani, per la tendenza al decentramento, per la preferenza verso gli incentivi. Nei Paesi in via di svi­luppo la p.d.e. ha occupato da­ gli inizi un posto centrale sia per l’influsso delle organizzazioni internazionali, sia per convin­zione propria perché, a motivo anche del successo apparente negli Stati comunisti, la p.d.e. si presentava come uno strumento essenziale per distribuire in modo efficace le scarse risorse disponibili. I risultati mo­desti della p.d.e. e il crollo del blocco co­munista hanno creato alla fine degli anni ’80 del XX sec. confusione e incertezza da cui si è usciti attraverso l’adozione di ap­procci più qualita­ tivi, decentrati e parte­cipativi. 2. Attualmente si pensa che la p.d.e., pur im­ plicando notevoli aspetti tecnici, non possa essere considerata un’attività pretta­mente tecnica, ma sia invece intrinsecamente po­ litica perché incide sul futuro del sistema formativo. Di fronte alla scarsa ef­ficacia dell’impostazione centralistica ci si orienta verso una decentrata, partecipati­va e aper­ ta; tuttavia, rimane l’esigenza del coordina­ mento tra le diverse strutture che consenta di valorizzare i rapporti di complementari­ tà esistenti e di realizzare sinergie generali. Quanto ai modelli economici di riferimen­ to, ha perso terreno l’approccio della «ma­ no d’opera» per la difficoltà di prevedere nel lungo periodo le esigenze di forza lavo­ro; in­ vece, guadagnano consensi la formula della doman­da sociale, che punta ad identificare i biso­gni dei cittadini, e l’analisi costi-benefici che valuta i vantaggi e gli svantaggi delle al­ ternative proposte allo scopo di determi­nare la più efficace. Le relazioni tra istruzione e formazione da una parte e crescita economi­ ca dall’altra non si possono basare solo sulla domanda di lavoro, ma bisogna anche tenere conto della qualità dell’offerta; si richiede pertanto un monitoraggio costante della do­ manda e dell’offerta al fine di elaborare stra­ tegie concertate. Tale approccio andrebbe realizzato nel quadro di un modello persona­ lista che ponga al centro la persona e non il sistema economico. Bibl.: R izzi F., «P.d.e.», in M. Laeng (Ed.),

885

PIANO DI STUDI

Enciclopedia pedagogica, vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 9058-9061; Farrel J. P., «Plan­ ning education: Overview», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.), The international ency­ clopedia of education, Oxford, Pergamon Press, 2 1994, 4499-4510; Lodigiani R., La formazione come risorsa, in «Studi di Sociologia» 37 (1999) 3, 345-368; Bertrand O., Planning human re­ sources: Methods, experiences, and practices, Paris, Unesco, 2004; Cecchini A. - A. Plaisant, Analisi e modelli per la p., Milano, Angeli, 2005; Bertagna G., Il pensiero manuale, Soveria Man­ nelli, Rubbettino, 2006.

G. Malizia

PIANO DELL’OFFERTA FORMATIVA → Offerta formativa: piano della

PIANO DI STUDI Per p.d.s. s’intende generalmente, almeno nella lingua it., l’insieme/elenco delle ma­ terie di studio corrispondenti ad un deter­ minato titolo di studio. Perciò ogni grado e ordine scolastico ha il suo p.d.s. previsto per rispondere al raggiungimento di determinate finalità. L’espressione p.d.s., utilizzata anche a livello universitario, s’identifica spesso con il cosiddetto «curricolo di studi» risponden­ te alla specializzazione scelta, perseguito secondo un certo ordine, a volte scelto per­ sonalmente dallo studente e concordato con le autorità responsabili. 1. Non sempre tale termine viene utilizzato con una distinzione chiara nei confronti di → programmi scolastici e curricoli, perché, a seconda dei Paesi, variano leggermente la denominazione e la prassi secondo il sistema dell’amministrazione scolastica. Tuttavia, nella maggioranza dei casi, ogni p.d.s., se riferito ai gradi e agli ordini scolastici, assu­ me un carattere di riferimento e di guida del sistema scolastico nazionale, in quanto giu­ stifica ed esige l’elaborazione dei programmi scolastici nazionali e dei curricoli a livello locale della singola scuola come applicazio­ ne-adeguamento dei programmi ufficiali alla situazione concreta. 2. A seconda del tipo di sistema amministra­ tivo adottato dai Paesi può essere lasciato un 886

certo margine di libertà alle singole scuole di scegliere il p.d.s. che si ritiene opportuno. È in gioco l’autonomia o meno della scuola a livello non solo didattico, ma anche organiz­ zativo, gestionale, economico e finanziario. Il problema è complesso e solo pochi Paesi l’hanno risolto, globalmente o parzialmen­ te. Anche il p.d.s., come i programmi scola­ stici, va rivisto periodicamente in rapporto non solo allo sviluppo epistemologico e alla considerazione pedagogico-didattica delle singole discipline di studio nei confronti dei soggetti in formazione, ma anche in relazio­ ne alle nuove esigenze della società. Basti pensare all’introduzione, in tanti Paesi, della lingua straniera come materia obbligatoria anche nella scuola primaria, dell’informatica nei diversi gradi scolastici, alla soppressione della lingua latina, ecc. Bibl.: Unesco, Programmes d’études et éduca­ tion permanente, Paris, Unesco, 1979; Porter J., Le concept de troncs communs de formation appliqué à des situations complexes d’appren­ tissage, Ibid., 1983; Petracca C., Progettare per competenze. Verso i piani di studio personalizza­ ti, Milano, Elmedi, 2003.

H.-C. A. Chang

PICO DELLA MIRANDOLA Giovanni n. a Mirandola nel 1463 - m. a Firenze nel 1494, umanista italiano. 1. G.P. dei conti della Mirandola è uno dei più rappresentativi umanisti del Quattrocen­ to italiano. Membro dell’«Accademia Plato­ nica» di Firenze; ampiamente aperto a tutte le correnti filosofiche e culturali, ricerca, al seguito di Marsilio Ficino (1433-1499), la concordanza di tutte le correnti filosofiche in una filosofia perenne. Per una prova di que­ sta convergenza progetta, per l’anno 1487 a Roma, un convegno di filosofi e uomini di cultura (che vari ostacoli renderanno inat­ tuabile) per confrontarsi su 900 tesi, da lui elaborate dalle più diverse derivazioni; tesi che gli causarono molte ostilità e anche l’ac­ cusa di eresia. 2. Dalla irrealizzabile concordia filosofica

PIETISMO

passa alla ricerca di una rigenerazione mo­ rale, sulla linea del suo contemporaneo fra’ G. Savonarola († 1498). Di particolare rilievo e significatività, anche in un quadro di peda­ gogia del Rinascimento (→ Umanesimo rina­ scimentale), è la sua concezione della dignità dell’uomo, fatto da Dio artefice del proprio destino, con la possibilità (per la sua intel­ ligenza) di farsi ogni cosa. Questa visione dell’uomo, acuta interpretazione della men­ talità umanistica, ha la sua massima espres­ sione nel De hominis dignitate, l’orazione introduttiva alle 900 tesi. Vi si rispecchia, in dimensione più filosofica, quella concezione dell’uomo artefice che era già stata propu­ gnata da Leon B. Alberti (1404-1472). Bibl.: a) Fonti: G.P.d.M., Discorso sulla dignità dell’uomo, ediz. con testo latino a fronte a cura di G. Tognon; prefazione di E. Garin, Brescia, La Scuola, 1987. b) Studi: Di Napoli G., G.P.d.M. e la problematica dottrinale del suo tempo, Roma, Desclée, 1965; De Lubac H., L’alba incompiuta del Rinascimento. P.d.M., Milano, Jaca Book, 1977; Garfagnini G. C. (Ed.), G.P.d.M. Conve­ gno internazionale di studi nel cinquecentesimo anniversario della morte (1494-1994), Firenze, Olschki, 1997; Frosini F. (Ed.), Leonardo e P. Analogie, contatti, confronti. Atti del Convegno di Mirandola (10 05. 2003), Ibid., 2005.

M. Simoncelli

PIETISMO In Germania nella prima metà del Seicento già si delineava la nascita del razionalismo illuministico, ma contemporaneamente in seno al → protestantesimo sorgeva un mo­ vimento religioso che, in un certo senso, ri­ sentiva dell’indirizzo giansenistico. 1. Iniziatore del P. fu Filippo Giacomo Spe­ ner (1635-1705), che mirava a reagire all’at­ teggiamento dogmatico ed all’eccessivo formalismo dottrinale dei teologi luterani, esaltando il valore della purezza della co­ scienza e del sentimento che va colto nella sua immediatezza. Come i giansenisti (→ Giansenismo) anche i pietisti muovevano dal principio della natura umana corrotta dal peccato originale. Conseguentemente il processo educativo, se solo la fede e la pietà

possono risanare l’uomo, deve esse­re guida­ to da un’amorevole vigilanza sul fanciullo, evitando che questi sia fuorviato da gioie an­ che innocenti (e quindi niente giochi, niente premi, niente elogi). 2. Fondatore della pedagogia pietistica e del­ le attuazioni scolastiche a questa ispira­te fu → Francke. Seguì studi di teologia, fi­losofia, filologia, storia. Istituì a Lipsia il Collegium philobiblicum, e fu insegnante all’università. Di lui va ricordata la grande aspirazione ad istituire un «Seminario uni­versale in cui si procacciasse un reale mi­glioramento di tutte le classi sociali in Ger­mania, in Europa, in tutte le parti del mon­do». Forse da questa an­ golatura si possono giustificare le varie scuo­ le da lui fondate ad Halle. Si preoccupò dap­ prima dei ragazzi poveri, la cui ignoranza lo aveva colpito; accanto alle scuole, fondò poi l’orfanotro­fio, per ragazzi e ragazze sepa­ ratamente, nel 1695 il Paedagogium, dove alcuni stu­denti da lui diretti si dedicavano all’istruzione dei ragazzi provenienti da fa­ miglie abbienti. Nasceva successivamente il Seminarium praeceptorum, frequentato da stu­denti di teologia mantenuti gratuitamente nell’orfanotrofio, con l’obbligo di insegna­re due ore al giorno nel Paedagogium. Un nuo­ vo seminario veniva aperto nel 1707, destina­ to proprio alla preparazione degli insegnanti (Seminarium selectum praecep­torum). Altra istituzione fu poi la scuola la­tina (il nostro ginnasio). In definitiva, ecco i dati relativi alla situazione alla morte del Francke: 134 fra maschi e femmine nell’or­fanotrofio, 1725 nelle scuole tedesche (o elementari), divise in due categorie, pove­ri e abbienti, 400 nella scuola latina, 82 nel Paedagogium. Va ricor­ dato che, proprio in vista di uno stretto rap­ porto tra scuola e vi­ta, negli istituti di Halle non si trascurava l’istruzione professionale. Uomo estrema­mente pratico il Francke fondò pure una farmacia, una tipografia con vendi­ ta di li­bri, una biblioteca, un gabinetto di sto­ ria naturale e arte. Tra gli scritti del Francke è da ricordare la Breve e semplice istruzione sul modo di indirizzare i bambini verso la vera beatitudine divina e la saggezza cri­ stiana (1702). Occorre intendere rettamen­te col cuore e con l’intelletto le sentenze della Bibbia sì da tradurle «in atti di fede e d’amo­ re», e la preghiera altro non è che un libero rivolgersi a Dio con proprie parole. Pace con 887

PIGMALIONE: EFFETTO

Dio e apertura al mondo: la vera saggezza ha come fondamento scienza ed esperienza. Occorre mirare alla fondazio­ne di un Cri­ stianesimo bene operante. Un solo cenno alla organizzazione. Per le ma­terie, oltre alla componente religiosa, l’in­segnamento preve­ de lettura, scrittura, arit­metica, musica. Nel Paedagogium si ag­giunge lo studio del lat., del gr., dell’ebrai­co, ed anche delle lingue orientali. Si attri­buisce importanza alla hi­ storia naturalis. La giornata si articola nelle varie attività dalle 5 alle 22. Domina il senso della con­cretezza anche di fronte alla realtà econo­mica, e le autorità laiche vedono con favo­re l’iniziativa. 3. I tentativi di sviluppo di attività artigia­nali troveranno realizzazione nelle Realschulen, frutto duraturo della pedagogia pietista. Per primo diede una struttura a queste J. J. He­ cker, un discepolo del Francke: la nuova isti­ tuzione ebbe il pieno appoggio di Federico il Grande. In essa poté sviluppare il suo meto­ do tabellare e letterale. Bibl.: a) Fonti: Spener Ph. J., Pia Desideria (1675), ediz. critica a cura di K. Aland (1940), trad. it. a cura di R. Osculati, Torino, Claudia­ na, 1986. b) Studi: Calò G., «Francke e il P. nella storia della pedagogia», in Dall’umanesimo alla scuola del lavoro, Firenze, La Nuova Italia, 1940; Catalfamo G., «Il pensiero pedagogico nei seco­ li XVII e XVIII», in M. F. Sciacca (Ed.), Grande antologia filosofica, vol. XVI, Milano, Marzo­ rati, 1968, 228-235; Hoser E., «Francke», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. III, Brescia, La Scuola, 1989, 5085-5088; Sacchi R., «P.», in Ibid., vol. V, 1992, 9090-9092; Id., «Spe­ ner», in Ibid., vol. VI, 1994, 11036-11038; Buzzi F., «P.», in Enciclopedia Filosofica, vol. IX, Mi­ lano, Bompiani, 2006, 8621-8622.

F. De Vivo

PIETRO LOMBARDO → Scolastica

PIGMALIONE: effetto L’effetto P. trova la sua applicazione nel­ l’educazione, particolarmente nell’appren­ dimento, con una progressiva trasforma­ zione del suo significato. P. è un mitico re di Cipro, il quale, dopo aver scolpito la sta­t ua di 888

Venere, se ne innamora. L’idea fondamenta­ le del mito che un in­tenso rapporto affettivo può modellare una persona è stata elaborata da G. B. Shaw nell’opera teatrale Pygmalion, in cui un professore di letteratura trasforma l’uso non corretto della lingua inglese di una fio­raia di origine ungherese in un uso perfet­ to. Negli anni ’40 Robert Merton ha sostenu­ to che le aspettative, anche se fondate sulle convinzioni errate, si realizzano ed ha co­ niato l’espressione «profezia che si autorea­ lizza». 1. Negli anni ’60 del sec. scorso, Rosenthal e Jacobson (1968) ipotizzarono che le aspetta­ tive de­gli insegnanti potrebbero produrre un ef­fetto benefico sullo → sviluppo intellettua­le dei loro alunni. Essi idearono un espe­rimento per dimostrare che è possibile creare negli insegnanti con informazioni errate sui loro alunni delle aspettative po­sitive o negative sulla loro intelligenza, e di conseguenza che essi li avrebbero trattati nel modo corrispon­ dente promovendo o inibendo il loro svi­ luppo intellettuale. I due autori riportarono varie conferme speri­mentali sull’effetto del­ le aspettative degli insegnanti esattamente come avevano ipo­tizzato. L’opera ebbe note­ vole eco e stimolò ul­teriori verifiche; tuttavia sollevò anche nu­merose critiche (Poláček, 1985). In base a tali contributi l’effetto delle aspettative è stato esteso anche ad altre va­ riabili (oltre all’intelligenza) come la motiva­ zione ed è stata operata la distinzione tra le aspettati­ve indotte sperimentalmente e quelle natu­rali (razza, sesso, livello socioculturale del­l’alunno). È stata chiarita inoltre la portata dell’autorealizzazione delle predizioni, una logica conseguenza delle aspettative (pre­ dizione positiva o negativa che l’insegnan­te fa sull’alunno e che questi poi realizza). Una delle conclusioni importanti sulle aspettati­ ve riguarda il fatto che esse devo­no essere fondate sulla realtà; le aspettati­ve superiori alle possibilità dell’alunno hanno un effet­ to transitorio e non fanno parte del tessuto vitale del soggetto. La fio­raia di Shaw lo ha espresso molto bene: «Ho dimenticato la mia lingua di una volta e la nuova che ho appreso è inutilizzabile». 2. L’effetto P. trova applicazione anche in al­ tri settori della vita umana: nella medicina (effetto placebo e operazioni simulate danno

PLATONE

sollievo agli ammalati), nella ricerca sociolo­ gica (il campione tende a comportarsi secon­ do le aspettative dello sperimentatore), nel rapporto terapeutico. In questo ultimo caso il terapeuta può tro­vare molto gratificante il rapporto con il paziente e per prolungarlo può cercare di mantenere il paziente in uno stato di di­pendenza e in tal modo ritardare la separa­zione. A tale scopo ritarda la sua cre­ scita e riduce la sua autonomia. Allo stesso modo può comportarsi un genitore verso il figlio. 3. Dalla pubblicazione dell’opera di Rosen­ thal e Jacobson (1968) sono passati più di 35 anni e sull’effetto P., sulle aspettative e sulle predizioni che si autorealizzano sono state condotte numerose ricerche. Da esse è possibile trarre, come hanno fatto Jussim e Harber (2005) le seguenti considerazioni di cui alcune operazionali: a) la profezia che si autorealizza avviene realmente nelle classi, ma l’effetto è solo modesto, non aumenta sensibilmente nel tempo e spesso progres­ sivamente diminuisce; b) tale profezia può realizzarsi in modo notevole per soggetti appartenenti a gruppi fortemente etichettati e stigmatizzati socialmente; c) è molto incer­ to se le aspettative positive contribuiscano allo sviluppo dell’intelligenza e quelle nega­ tive lo inibiscano; d) se le aspettative degli insegnanti producono un effetto (positivo o negativo) lo fanno molto di più perché sono fondate sui dati piuttosto che su errate suppo­ sizioni. Sarebbe ingenuo, notano Trouilloud e Sarazzin (2003), credere che le aspettative negative possano essere del tutto eliminate in quanto esse fanno parte delle convinzioni irrazionali, presenti in tutte le aree della vita personale e sociale. Bibl.: Rosenthal R. - L. Jacobson, Pygmalion in the classroom: Teacher expectation and pupils’ intellectual development, New York, Holt, Rine­ hart and Winston, 1968; Poláček k., Le aspet­ tative degli insegnanti e il ren­dimento scolastico degli alunni, in «Orientamenti Pedagogici» 32 (1985) 651-666; Trouilloud D. - P. Sarazzin, Les connaissances actuelles sur l’effet Pygma­ lion: Processus, poids et modulateurs, in «Revue Française de Pédagogie», 2003, 145, 89-119; Jussim L. - K. D. Harber, Teacher expectations and self-fulfilling prophecies: Knowns and unknowns, resolved and unresolved controversies, in «Per­

sonality and Social Psychology Review», 2005, 9, 131-155.

K. Poláček

PIZZIGONI Giuseppina → Scuole Nuove PLANCHARD Émile → Pedagogia sperimentale → Personalismo pedagogico

PLATONE Vissuto ad Atene tra il 427 e il 347 a.C., fi­ losofo greco. 1. Filosofo, politico, educatore. P., sommo rappresentante della speculazione greca, è pure tra coloro che massimamente hanno contribuito alla costituzione della → paideia greca, plasmando quell’ideale filosofi­co che, unitamente a quello retorico propo­sto dalla scuola di → Isocrate, costituirà sempre uno dei due pilastri dell’edificio della cultura gre­ ca. Alunno di → Socrate, ne continua e per­ feziona il pensiero. Fin da giovane è forte­ mente attratto dall’interesse per la → politica. In essa fa le prime esperien­ze, brevemente, nell’Atene dei trenta ti­ranni (404); più tardi in Sicilia presso Dio­nigi il vecchio (388) e successivamente presso Dionigi il giovane (367 e 361). Non trova, però, ascolto presso i governanti; ma non abbandona la sua voca­ zione politica: diventa maestro e formatore di politici attraverso la sua scuola filosofica, l’Accade­mia, fondata ad Atene nel 387, con la strut­t ura di associazione religiosa, presso il bo­sco sacro dedicato ad Accademo, ricco di riferimenti religiosi e culturali. L’Accade­ mia sarà di fatto formatrice, oltre che di fi­ losofi, di politici, consiglieri di governanti e legislatori. 2. Il paradigma del filosofo-politico. I due aspetti, filosofico e politico, sono intima­ mente collegati nella visione e nell’opera di P., per il quale il filosofo, mentre realiz­za la più elevata forma di areté (cioè del va­lore umano), è colui che ha il compito di gover­ nare le città e fare le leggi, divenendo così anche educatore dei suoi concittadini. Pensa infatti – come dice chiaramente nel­la lettera VII autobiografica – che solo ad opera dei fi­ losofi si possa giungere ad una legislazione giusta e ad una retta conduzio­ne dello Stato. 889

PLATONE

La formazione del filosofo sarà così anche la via per la formazione del­le città e dei cit­ tadini. Si presentano dun­que diversi aspetti da considerare in una vi­sione unitaria del pensiero filosofico/peda­gogico/politico di P.: il valore di areté proprio della speculazione filosofica nella ricerca della verità; il tipo di formazione umana che da tale speculazione deriva; il modello ideale di città e di Stato guidato dai filosofi; il curricolo proposto per la for­mazione del filosofo/politico. 2.1. La ricerca del vero. La ricerca della → ve­r ità, come suprema occupazione della men­te umana e garanzia dell’autenticità di quei valori su cui si fonda la formazione del­ l’uomo, contrappone la scuola filosofica di P. (come fu già per Socrate) a quella reto­rica dei → Sofisti e dello stesso Isocrate. Tale ri­ cerca comporta l’impegno totale del filo­sofo e un’ascetica che lo porti a staccarsi dai dati sensibili e dall’esperienza della na­t ura, per elevarsi gradualmente nel mondo dello spirito fino alla contemplazione delle idee dell’iperuranio. Ivi l’anima ha già contem­ plato le idee in una precedente esi­stenza, per cui il suo sapere è un ricordare. Al vertice delle idee nell’iperuranio P. col­loca le idee del Bello e del Buono (il «Bel­lo in sé» e il «Buono in sé» che per P. è la stessa divinità). Ciò è particolarmente si­g nificativo, se pen­ siamo alla parte che il bello e il buono hanno nella visione della paideia greca, la paideia della kalokagathia, di cui ci offre, dunque, la più elevata visio­ne filosofica. Parallela alla esaltazione della speculazio­ne filosofica si ha in P. una svalutazione dell’arte (vista come imitazione della natu­ra, ombra a sua vol­ ta delle idee dell’iperu­ranio) e della poesia (esaltazione della fan­tasia e strumento della inadeguata presen­tazione della divinità fatta dai poeti). Questa posizione di P. (da parte sua logi­ca, e peraltro parzialmente superata nel­l’ultima opera incompiuta, le Leggi), lo mette in contrasto con la grande valorizza­ zione che l’arte e la poesia hanno in tutta la paideia greca. Nel suo impegno il filosofo è sostenuto dal­l’azione interiore di eros (pre­ sentato nel mito come essere in parte umano e in parte divino) da cui deriva sia il dina­ mismo della sua elevazione nella contem­ plazione e quindi della sua autoformazione, sia la spinta della sua azione educativa (eros edu­cativo), per riprodurre e moltiplicare nel­ l’alunno la sua stessa formazione. Tocchia­ 890

mo così quel compito educativo che, in for­za della sua contemplazione della verità, com­ pete al filosofo, espresso da P. nel mito della caverna (Rep. lib. VII) e che si collega stret­ tamente con il compito politico, riser­vato esso pure al filosofo. 2.2. L’ordine interiore. L’aspetto etico del­ la formazione ha una sua espressione nel­ l’ordine che P. vuole realizzare nell’anima umana e, parallelamente, nello Stato. Esso si fonda sulla concezione della triplice di­ visione dell’anima umana (tripsichismo) in nous (anima razionale), appetito irascibile e appetito concupiscibile e dell’ordine da stabilire tra essi per realizzare un giusto equilibrio interiore. Ognuna delle tre ani­me possiede una propria caratteristica o virtù: rispettivamente la saggezza, il corag­gio e la ricerca del benessere (moderata dalla tempe­ ranza). Il predominio dell’una o dell’altra de­ termina la vocazione indi­viduale di ciascuno e il suo posto nello Sta­to. L’armonia interio­ re è data dall’azione moderatrice esercitata dall’anima razio­nale (il nous) sulle altre due. P. la esprime nel Fedro con il mito dell’au­ riga che guida e modera i due cavalli, uno bizzoso e im­pulsivo, l’altro lento e obbedien­ te. Questa prospettiva di ordine interiore, mentre ci dà una prima presentazione delle tre virtù cardinali (la prudenza, la fortezza e la tem­peranza, che nel loro coordinamento dan­no come risultato la giustizia) dà anche la più radicale interiorizzazione di quella eu­ ritmia che è parte sostanziale dell’ideale del­ la paideia greca. 2.3. La dimensione politica. Questa forma­ zione interiore diventa il modello di riferi­ mento anche per la formazione della città e dello Stato. P. stabilisce, infatti, un paral­ lelismo tra l’anima e lo Stato, nel quale si il­ lumina anche il compito politico che egli af­ fida al filosofo. Al tripsichismo corri­sponde la tripartizione platonica dello Sta­to. In esso P. contempla tre classi: quella degli addetti alle arti produttive (lavorato­ri, commercian­ ti, artigiani) che corrispon­de (nell’individuo) all’appetito concupisci­bile e in cui deve pre­ valere la virtù della temperanza; quella dei custodi (o soldati) che corrisponde all’ap­ petito irascibile e in cui prevale la virtù del coraggio e della for­tezza; quella dei gover­ nanti, che corrispon­de all’anima razionale e in cui deve preva­lere la virtù della saggezza o prudenza. La situazione virtuosa (la giusti­

PLURALISMO

zia) si avrà nel­lo Stato se ciascuno occuperà perfettamente il suo posto e se vi sarà la pie­ na in­tegrazione e collaborazione tra le varie componenti. Emerge tra di esse il compito di guida, che spetta ai governanti, che per­ciò, nella concezione platonica, non po­t ranno essere che i filosofi, che hanno con­templato la verità, il Bello in sé e il Buono in sé. Ne deriva anche il compito etico edu­cativo dello Stato, guidato dai filosofi. 3. La formazione del filosofo-politico. È evi­ dente l’importanza che l’educazione ac­quista in questa visione dello Stato, sia nel suo complesso, sia nella specifica forma­z ione delle classi che lo compongono. La forma­ zione più accurata sarà, chiaramen­te, riser­ vata alla classe dei filosofi/gover­nanti. Vie­ ne in secondo luogo quella dei custodi. Più semplice, riducendosi all’ac­quisizione delle tecniche delle rispettive at­tività, sarà quella della classe dei lavorato­ri. Nella Repubblica e nelle Leggi P. pro­pone particolareggiata­ mente il curricolo formativo. In esso è evi­ dente l’impostazio­ne unitaria, orientata, nei singoli gradi, al vertice della formazione del filosofo/poli­tico. Vi è recepita quella forma­ zione (ri­spondente al binomio ginnastica e musica), che già si era affermata nella scuola dei gradi elementare e medio, fino circa ai 18 anni, e si concludeva con l’efebìa (allora periodo di formazione ginnico-militare, dai 18 ai 20 anni ca.). P. vi apporta accentua­ zioni e integrazioni proprie della sua con­ cezione della paideia e della prospettiva della formazione del filosofo per la quale era una preparazione (propaideia). Esse avran­ no una loro incidenza, in parte sullo stesso programma della contempora­nea scuola di Isocrate e poi nel seguito del­la tradizione scolastica del periodo elleni­stico. Segnalia­ mo in particolare: a) nel campo della ginna­ stica il ricupero del valo­re di preparazione militare (sarà importan­te specialmente per la classe dei custodi), il suo valore educativo, l’accentuazione an­che dell’aspetto igienico, il valore pedago­gico e di disciplina morale della danza; b) per la componente lettera­ ria richiamiamo la già citata svalutazione della poesia e il ri­cupero di autori di prosa; c) particolar­mente significativa l’aggiunta e il ruolo del­le matematiche, gradualmente in tutti i li­velli della scuola: prima (per tut­ ti) in forma elementare orientata a fini pra­

tici, poi, in modo sempre più impegnativo, come disci­plina formativa e selezionatrice, partico­larmente significativa nella propaide­ ia del filosofo. Sulla linea delle matematiche è l’impostazione e la funzione formativa del­ lo studio dell’astronomia. Di notevole rilievo è il concetto, che appa­re per la prima volta, di selezione in base alle capacità dell’allievo. Ai 20 anni si con­clude il periodo della pro­ paideia (in gran parte comune al programma previo alla scuola di retorica di Isocrate). Di qui, per selezione dei capaci, parte la forma­ zione specifica del filosofo, ancora lunga e sem­pre più impegnativa. Essa comprende tre ulteriori fasi: un decennio di approfondi­ mento delle scienze matematiche; un quin­ quennio di esercizio della dialettica (di pu­ra filosofia); il tutto sarà completato da quindici anni di esperienza politica, per giungere (a 50 anni ca.) al filosofo/politico pienamente formato. Non si pensi a una scuola noiosa e pedante: l’Accademia è ca­ratterizzata dallo stile del dialogo e dal cli­ma di amicizia e di ricerca comune, che le dà speciale dinami­ smo e spirito di famiglia. Con P. si consolida la componente filosofi­ca della cultura greca. Un influsso parti­colare ha esercitato anche sui Padri della Chiesa e sulla prima incultu­ razione del Cri­stianesimo. Bibl.: a) Fonti: P., Opere, 2 voll., Bari, Laterza, 1966; P., Diálogos. Introducción de C. García Gual, Madrid, Espasa Calpe, 2007. b) Studi: Stefanini L., P., Padova, CEDAM, 1949; Sciacca M. F., P., Milano, Marzorati, 1967; Funghi M. S., P. e l’educazione, Torino, Loescher, 1979; Jaeger W., Paideia. La formazione dell’uomo gre­ co, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; M arrou H. I., Storia dell’educazione nell’antichità, Roma, Studium, 1994; Zanatta M. (Ed.), L’arte del persuadere: la retorica in P. e Aristotele, Mi­ lano, Unicopli, 2002.

M. Simoncelli

PLURALISMO Il concetto di p. connota l’idea di «pluralità», di «molteplicità» e ammette applicazioni e contesti diversi. Esiste un p. socio-cultura­ le, cioè la situazione, propria di una società complessa, di plu­ralità di visioni del mondo, di valori e di schemi comportamentali pre­ 891

PLURALISMO

senti in un determinato contesto socia­le (la sua negazione è il «monismo»). C’è anche un p. storico-politico che riflette la prassi giuridica e politica che dà diritto di citta­ dinanza alle diverse posizioni ideolo­g iche e culturali (all’opposto del «totalita­r ismo»). Ma si parla anche di p. in ambito educati­ vo, come metodo e obiettivo pedagogico che punta all’acqui­sizione di atteggiamenti tolleranti e rispet­tosi della diversità (educa­ zione alla demo­crazia, contro ogni forma di intolleranza). 1. Il p., conquista dì civiltà. Storicamente, il p. è frutto della modernità, e si è imposto nell’evo moderno man mano che si affer­ mavano i valori della libertà, tolleranza e i diritti della persona, e veniva superato il mo­ nismo culturale ed etnocentrico europeo. Ma è soprattutto il p. socio-culturale che si trova alla base di quello storico-politico e diven­ ta oggetto di preoccupazione pedagogica. Infatti, in una società complessa si moltipli­ cano e si intrecciano le più diverse proposte culturali, sia in modo sistematico, sia nella continua offerta di concezioni di vita, nor­me e schemi di condotta, idee e valori, valuta­ zioni, ecc. In tale situa­zione, nessun sistema o elemento culturale detiene più il monopo­ lio della proposta, ma si attua il libero gioco di un mercato culturale che, abbandonata la pretesa di imporre de­terminati prodotti, ac­ cetta come situazio­ne normale il confronto, la coesistenza e la pluralità delle posizioni. Pur senza negare i rischi e le ambiguità che esso comporta, il p. va valutato positiva­ mente, come una conquista e un segno di civiltà, in quanto portatore di → valori e ga­ ranzia per il riconoscimento dei diritti per­ sonali e la promozione della giustizia e della pace sociale. Il p. è in fondo espres­sione di maturità e di responsabilità, ma si presenta anche carico di ambiguità, ed è perciò neces­ sario puntare a un giusto equilibrio tra due posizione estreme: il mo­nismo totalitario e intollerante da una par­te ed il relativismo e permissivismo dall’al­t ra. 2. Possibilità e rischi educativi. I riflessi del p. in campo educativo sono molti. Da una parte, in una società pluralistica l’opera edu­ cativa può ricevere non pochi stimoli e av­ valersi di possibilità sconosciute nel pas­sato: promozione di personalità aperte al dialogo 892

e al rispetto della differenza; ampi orizzonti di arricchimento culturale; supe­ramento di pregiudizi e chiusure; nuove possibilità di maturazione del senso critico, ecc. Ma non bisogna negare l’esistenza di conseguenze negative, soprattutto in ordi­ne all’educazio­ ne dei giovani. In una so­cietà pluralistica in­ fatti appare fortemente modificato e scosso il processo di → socia­lizzazione, in quanto la molteplicità esa­sperata e contradditto­ ria di messaggi cul­t urali si traduce spesso nell’impossibilità di una coerente integra­ zione personale, nella relativizzazione dei valori e quindi nell’in­capacità di maturazio­ ne della propria iden­tità. Molti giovani sono così vittima di una massificazione anonima e di un’assunzione acritica delle offerte del p. culturale, e non di rado cadono nelle po­ sizioni estreme del­la iposocializzazione (ca­ renza di interio­r izzazione di norme e valori e di ragioni di vita) o della ipersocializza­ zione (assunzio­ne globale e indiscussa delle idee e valori caratteristici di alcuni gruppi e movimenti securizzanti). In tutti questi casi sono in ag­g uato atteggiamenti antieduca­ tivi di fana­t ismo, immaturità, intolleranza e violenza. Ed è paradossale che il p., pre­ messa natu­rale alla tolleranza, possa proprio diventa­re fonte del suo contrario, vale a dire, del­l’intolleranza. Anche il mondo degli → adulti appare scosso dagli effetti del p., in quanto privo di punti di riferimento solidi ed incapace perciò di dominare la com­plessità e dinamicità della situazione. È spiegabile così che molti adulti si sentano perplessi e si rifugino in forme esasperate di soggetti­ vismo e di identità «di basso pro­filo». Sono queste in parte le ragioni che portano oggi all’esigenza della → educazione permanente. Da un punto di vista peda­gogico, quindi, il p. rappresenta certamen­te un problema e un compito aperto. Si trat­ta anzitutto di chiari­ re, a livello di finalità e obiettivi educativi, quali modelli di società e di personalità van­ no promossi attraverso l’opera educativa. E bisogna pure indivi­duare metodi e stili edu­ cativi per un’autentica educazione alla de­ mocrazia, alla tolleranza e all’accettazione positiva della diversità. Vanno ripensati in questo senso il ruolo delle diverse agenzie e istituzioni educative (→ famiglia, → scuola, → istitu­zioni, mezzi di → comunicazione so­ ciale, ecc.). Inoltre si è oggi molto sensibili all’ef­fettiva attuazione di un autentico p. del­

POLITICA

le istituzioni (spec. della scuola e dei mezzi di comunicazione sociale) e nelle istituzioni, nell’accoglienza e rispetto delle pluralità re­ ligiose, ideologiche e culturali. Bibl.: Bellerate B. (Ed.), P. cul­turale ed edu­ cazione: Atti del 3° «Colloquio» interideologico promosso da «Orientamenti Pedagogici» tenuto­ si a Roma 8-9 dicembre 1978, Roma, a cura di «Orientamenti Pedagogici», 1979; A moriggi R., «P. culturale», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 9193-9198; De Souza C., Dalla multiculturalità alla interculturalità, in «Orientamenti Pedagogi­ ci» 51 (2004) 569-580; De Vita R. - F. Berti - L. Nasi (Edd.), Identità multiculturale e multireli­ giosa. La costruzione di una cittadinanza plura­ listica, Milano, Angeli, 2004; I d., Democrazia, laicità e società multireligiosa, Ibid., 2005.

E. Alberich

PLUTARCO Vissuto tra il 46 e il 126 d.C., filosofo e mo­ ralista greco di Cheronea. 1. P. esercitò per molto tempo il suo inse­ gnamento a Roma. Uomo di vasta cultura e scrittore fecondo, di formazione eclettica, è uno dei più validi rappresentanti della → paideia ellenistica. Affronta con fine intui­ to psicologico e con speciale accentuazione della dimensione etica e della fondazione filosofica i problemi dell’educazione dei gio­ vani. L’opera più famosa di P. sono Le vite parallele, in cui si trova una preziosa fonte di informazioni su istituzioni e personaggi si­ gnificativi dell’antichità greco-romana, con una particolare valenza pedagogica nella presentazione e valutazione etica delle figure di Uomini illustri che offre come modelli di vita. In questa stessa linea sono importanti le sue Opere morali. 2. Specificamente pedagogico è lo scritto Sul modo di leggere i poeti. Esso risponde a un problema già sentito da → Platone, ma vis­ suto più intensamente nel mondo cristiano: l’impatto pedagogico dello studio dei poeti classici sui giovani. In esso presenta criteri di valorizzazione, di saggia selezione e di cautela, che ispireranno il più famoso «Di­

scorso ai giovani sulla lettura dei classici» di → Basilio Magno. 3. Ricordiamo qui, per la sua significatività nella storia della pedagogia, il De liberis in­ stituendis, che è stato a lungo erroneamente attribuito a P. È un esempio di quell’interesse specifico per lo studio dell’educazione gio­ vanile, che si afferma nell’età ellenistica. La sensibilità per la parte della natura, della ragione e dell’esercizio integra la conside­ razione e valorizzazione dell’opera del ma­ estro. Quest’opera, tradotta nel 1411-12, ha avuto notevole ripercussione sui pedagogisti dell’Umanesimo rinascimentale. Bibl.: a) Fonti: P., Vite parallele, trad. di C. Care­ na, Torino, Einaudi, 1958; Vite parallele - Pericle e Fabio Massimo, trad. e note di A. Santoni, Mi­ lano, Rizzoli, 1991; Vite parallele - Catone Uti­ cense, Bruto, Lucullo, voll. I e III, Torino, UTET, 1998. b) Studi: Gerini G. B., Idee pedagogiche di P., Voghera, Officina d’Arti Grafiche, 1912; Galino M. Á., Historia de la educación. Edades antigua y media, Madrid, Gredos, 1988; Atti del IX Convegno Plutarcheo della Int. Plutarch So­ ciety, a cura di I. Gallo, Napoli, D’Auria, 2004; Moreschini C., Valori letterari delle opere di P. Studi offerti al professore I. Gallo dall’IPS, Ma­ laga, Universitaria, 2005.

M. Simoncelli

POLITICA 1. Potere politico e → formazione. Vi è con­ nessione tra esercizio del potere politico e processo educativo. L’azione p. implica ne­ cessariamente una concezione dell’uomo e della società (eguaglianza e perequazione sociale, tolleranza e pacifica convivenza, p. culturale e difesa delle minoranze, ecc.). La formazione non può sfuggire a quei model­ li politici con cui nella prassi deve misurar­ si (assetto istituzionale, distribuzione del potere, ripartizione dei ruoli, ecc.). Da una parte l’esercizio del potere comporta scelte di indirizzo e di intervento, con conseguen­ te incremento ad una cultura della p. che è anche ricerca e formazione Dall’altra il con­ seguimento di un’istruzione superiore o di nozioni speciali si configura come una con­ dizione primaria, tale da permettere la stra­ 893

POLITICA

da al successo e a vere e proprie posi­zioni di potere. Politologi e attori politici svolgono ruoli concettualmente distinti, tuttavia non separabili, talora assommati in una stessa persona se questa appartiene ad uno schiera­ mento politico. Infatti la p. è arte e scienza: arte come tecnica, tattica e prudenza insie­ me; scienza come elabora­zione di strutture conoscitive. Da → Socra­te in poi, gli aspetti politici dell’educazio­ne vengono messi in ri­ salto sotto questo o quel profilo. Per → Platone vi è coincidenza tra formazione dei filosofi e formazione dei reggitori della polis. Nella storia occi­dentale, con l’avvento del concetto di societas, i grandi movimenti politici sono sta­ti preceduti, accompagnati o seguiti dalla fondazione di istituzioni educative. Circa gli studiosi del nesso tra p. e educazione pos­ siamo partire da J. Locke e → Rous­seau, per giungere a W. von Humboldt e J. S. Mill e terminare con i più vicini ai pro­blemi del no­ stro tempo: da M. Weber a M. Horkheimer, J. → Maritain e J. Rawls. L’idea di p. come vocazione, l’umanesimo inte­g rale e il neo­ contrattualismo uniscono e di­stinguono p., formazione e giustizia. Ugual­mente la teo­ ria critica non mirava al puro aumento del sapere, bensì all’emancipazio­ne dell’uomo. Ulteriori contributi sono rica­vabili tuttora dalla riflessione di → Gramsci sul nesso tra azione educativa e prassi p. L’esercizio del potere può assumere due aspetti nei riguar­ di dell’universo educati­vo. Si può parlare di una p. educante oppu­re di una p. educativa. Nel primo caso, la p. stessa, in quanto ordi­ namento della società secondo un orienta­ mento valoriale, pone le premesse dell’edu­ cazione, intesa come iniziazione etica e civi­ le. È in una società, e più precisamente entro istituzioni giuste, che un soggetto esistente diviene soggetto responsabile, consapevole, storico. Ciò che è accidentale o precario è elemento costi­t utivo delle singole realtà, pro­ blematiche per natura e definizione rispetto a deter­minati obiettivi da spostare sempre più avanti e in vista di valori perennemente da realizzare. La p. esercita una sua funzio­ ne educante proprio perché indirizzata, con forte realismo, nelle sue espressioni più no­ bili, verso quei fini che, per largo consenso, sono fondamentali per ogni assetto socia­ le: libertà, razionalità, democrazia, ugua­ glianza, sicurezza, progresso, solidarietà. Tuttavia l’indagine circa i risultati deve es­ 894

sere avalutativa, ossia imparziale e oggetti­va a prescindere dai motivi ideali a cui si sono richiamati gli attori politici. L’Occi­dente del secondo dopoguerra, nei casi fe­lici del­ la ricostruzione e della pace, ha mo­strato la tendenza verso una paideia fatta, come dev’essere, di cultura (coltivazione e tutela di beni artistici e scientifici) e di ci­viltà (ordina­ mento razionale delle istitu­zioni, sulla base dei diritti dell’uomo e del cittadino). Ora, la connessione tra p. e edu­cazione non è mai un punto di partenza, bensì una meta perenne. Finanche le situa­zioni migliori possibili pre­ sentano punti di frizione. Se poi guardiamo ad archi di tem­po secolari, se non addirittura millenari, scorgiamo non poche fratture tra esercizio del potere e disegno ordinato del­ la società. La classe p., in ogni epoca, mira a interessi politici. Entro questa prospettiva la forma­zione, la cultura, la scienza posso­ no essere strumentalizzate per il potere o a favore dell’immagine di chi lo detiene. Il mecena­tismo è prodigo di benefici per poche per­sone ed ignora il rimanente della socie­ tà. L’assolutismo illuminato si ispira alla ra­ gione che, in primo luogo, è ragione di Sta­to. Il tiranno che erige monumenti perenni, a testimonianza della propria gloria, oppri­me chi non si piega ai suoi voleri. Ogni for­ma di protezionismo culturale e formativo, a favore di individui o di ceti privilegiati, tende alla egemonia e alla censura. Se la cultura ufficia­ le, in nome di un ugualitari­smo di facciata, è omologata, vengono ostacolate la irriducibi­ lità e singolarità di ciascuna persona e ogni forma di creatività individuale o collettiva. La p. educativa, almeno così come viene in­ tesa comunemente in senso riduttivo, si oc­ cupa di quelle particolari istituzioni sociali che, insieme a vari apparati di supporto, han­ no per scopo l’istruzione di vario livel­lo ed indirizzo. Se non sono accettabili, per nessun campo politico, l’improvvisazione e il dilet­ tantismo, tanto più questa afferma­zione vale per coloro che gestiscono strut­t ure e risorse per la formazione delle co­scienze. Sono fa­ cilmente prevedibili effetti perversi, a danno di intere generazioni, quando gli attori poli­ tici sono impreparati e quando vi sono con­ traddizioni tra suc­cessive gestioni. Per ogni caso ed ogni si­t uazione l’impatto dottrinale o ideologico è indubbio, se non addirittura funzionale. Però va colto esso stesso come oggetto d’indagine per i segnali che fornisce

POLITICA

e le conseguenze che provoca. Inoltre tutte le iniziative politiche cadono su realtà dina­ micamente complesse, rese tali dai rappor­ti di forza esistenti tra ceti e gruppi sociali che esprimono interessi e aspettative più o meno maturi e livelli culturali di base più o meno elevati. Per queste ed altre ragioni non esisto­ no istituzioni e modelli educativi trasferibili da una situazione nazionale all’altra, anche se si possono costruire cri­teri e paradigmi per valutare differenti si­t uazioni e confron­ tarle. Un discorso paral­lelo, integrativo e complementare a quello della p. educativa è quello sulla → educa­zione sociopolitica. Con quest’ultima espres­sione ci riferiamo sia alla maturazione dei cittadini in quanto tali sia ad una vera e propria materia scolastica. Uno dei fini dell’educazione, considerata sotto questo profilo, è la formazione dei soggetti e dei gruppi sociali alla cultura p., fatta di con­cettualizzazione e di determinate cono­ scenze. Si possono avere opinioni diverse, o an­che diametralmente opposte, circa i mede­ simi fatti o eventi politici. Però le regole del discorso devono essere uguali per tutti per­ ché universali e le regole del gioco devono essere rispettate da tutti perché pattuite. La conoscenza di ciò che è negati­vo in una de­ terminata situazione non è lo scopo ultimo dell’educazione sociopolitica; occorre anche sapere perché si ritiene ne­gativo questo o quello. Se è inammissibile una pedagogia di Stato, è altrettanto illeci­to che la classe p. contraddica con i suoi in­terventi le linee di sviluppo, scientifica­mente fondate, dell’azio­ ne educativa. Di qui la necessità di definire i compiti degli attori politici nel campo della formazione. Non occorre che costoro siano esperti di pedagogia: è necessaria la consa­ pevolezza da parte loro dei rapporti tra scopi e scelte, tra scelte e risultati, tra risultati e successi­vi interventi in un campo specifico dell’a­z ione p. Neppure si chiede che diri­ genti scolastici e insegnanti siano scienziati della p. per il fatto di svolgere una funzione pub­blica che, in quanto tale, ha rilevanza p. Si chiede però che siano consapevoli di tale rilevanza. I problemi della scuola rimango­ no velleitari se vengono ignorate quelle premesse politiche che sole permettono di affrontarli. 2. La scienza p. dell’educazione. La scien­ za p. dell’educazione rappresenta un netto

progresso rispetto alla p. educativa, gene­ ricamente intesa. Essa studia la funzione educativa degli atti politici e i risvolti poli­tici dei fenomeni educativi. È una disci­plina ap­ plicata a quelle istituzioni e a que­gli interven­ ti che possono favorire per tut­ti i cittadini la migliore educazione possibi­le. Pertanto per scienza p. dell’educazione si intende l’insie­ me ordinato di dottrine e teorie che regolano sia le scelte di grande rilievo (programma­ zione, riforme, investi­menti, ecc.) sia i prov­ vedimenti concreti (organizzazione, gestio­ ne, dirigenza delle scuole, ecc.) per l’educa­ zione dei singoli e l’elevazione culturale dei gruppi sociali. Essa è una specializzazione della scienza p. generale. Con l’espressio­ ne onnicompren­siva volontà p. possiamo denominare sia l’imperio della classe p. sia l’influenza del­la classe dominante sulle isti­ tuzioni forma­tive, scolastiche ed extrascola­ stiche. La clas­se p. è composta dalle persone collocate in sedi politiche (parlamento, go­ verno, parti­ti politici). La classe dominante è compo­sta da coloro che, pur non ricopren­ do cari­che politiche, esercitano le loro atti­ vità en­t ro istituzioni non-politiche ma con indub­bi riflessi politici (grande finanza, in­ dustria culturale, ordini professionali, corpi ac­cademici, centri di informazione, ecc.). Possiamo usare l’espressione valenza p. per denotare gli aspetti politici dell’educazio­ne, per quanto riguarda sia gli educatori (eserci­ zio di un’autorità legittimata da de­terminati principi e regolata da una legisla­zione specia­ le), sia gli educandi (arricchi­mento delle loro capacità e abilità con con­seguente arricchi­ mento della loro persona­le forza contrattua­ le; riconoscimento del loro status di studenti con diritti di parteci­pazione e integrazione; flessibilità dei pia­ni di studio con «crediti» e opzioni). Il di­r itto all’educazione, in tutte le sue forme, è il riconoscimento globale di questi aspet­t i politici dell’educazione. Nei Paesi di con­solidata tradizione democratica la forma­zione tende ad emancipare le per­ sone e ad esaltarne le caratteristiche. Di qui lo spa­zio concesso a percorsi mobili (uscite e rientri, curricoli individualizzati, sistema dei crediti, ecc.). Nei Paesi del socialismo reale, fino alla fine degli anni Ottanta, gli in­ teressi individuali erano subordinati a quelli collettivi. Di qui una stretta correla­zione tra programmazione educativa e pianificazione economica. Per comprende­re la varietà dei 895

POLITICA

modelli e delle strutture occorre rifarsi a ra­ gioni storico-politiche. 3. Prospettive di sviluppo. Lo scopo della scienza p., nella mente dei suoi fondatori, consiste nella scoperta e dimostrazione di quelle leggi o tendenze costanti che rego­ lano l’ordinamento politico (Mosca, 1895). La sua natura, oltre che teorica, è operati­va. La scienza p. dell’educazione, un suo setto­ re tendenzialmente autonomo, ne condivide la vocazione pragmatica (Izzo, 1994). Dalla scienza p. generale essa acqui­sisce l’approc­ cio sistemico a particolari aspetti della realtà sociale. Pertanto essa prende l’avvio dai temi di fondo: i rapporti di potere, la formazione delle decisioni, la legittimità delle leggi, la legalità delle nor­me, la discrezionalità degli atti. Riprende anche alcune distinzioni ca­ tegoriali, quali consenso, assenso e dissen­ so; classe p., do­minante e dirigente; potere, autorità e do­minio, ecc. Sotto questo profilo si arricchi­scono di significato e divengono com­prensibili alcune espressioni pedagogi­ che, come educazione compensatrice, pari op­portunità, libertà didattica, ecc. Gli studi sulla p. educativa, condotti fino a farne una scienza, sono stati incrementati dallo Sta­to sociale e dalla conseguente evoluzione delle politiche sociali. Per comprendere il passag­ gio da condotte empiriche ai fonda­menti di una vera e propria scienza p. dell’educazio­ ne, si può partire da una clas­sificazione che di recente si è andata preci­sando nel campo della politologia. È uf­ficio della p. generale (politics) gestire in­terventi ordinari e af­ frontare eventi stra­ordinari. Alle singole condotte politiche (policies) spetta garantire unitarietà d’in­dirizzo e di programmazione nei singoli settori specifici (difesa, interni, esteri, ecc.), con buone approssimazioni cir­ ca gli effetti prevedibili. Però è da preven­ tivare anche l’imprevedibile, giacché non è sop­primibile ogni elemento di accidentalità o di disordine. Ciò che è precario costituisce elemento costitutivo dell’esperienza socia­le e p. Per quanto concerne la realtà edu­cativa, va detto che essa è fatta di persone consa­ pevoli, ciascuna a sua misura, dei propri bi­ sogni. Rimangono inavvertite spesso le reali necessità. Lo scopo politico è quello di sol­ lecitare nelle persone la co­scienza dei propri bisogni reali e di elevare i livelli delle loro aspettative, mediante in­terventi coordinati 896

di natura sociale. Ri­spondere soltanto a do­ mande esplicite, an­corché arretrate, significa consolidare l’e­sistente. L’educazione rientra nelle mate­r ie delle social policies (insieme all’assi­stenza, alla sanità, alla previden­ za socia­le, ecc.), dando luogo appunto alla cosid­detta educational policy. Con quest’ul­ tima espressione non si intende «p. educati­ va» nel senso comune (l’opera dei ministri o degli amministratori), bensì condotta p., basata scientificamente, a proposito di ciò che è «educazionale». E per educazionale si intende la somma degli interventi o dei prov­ vedimenti che, pur non essendo di­rettamente educativi (per es., la valutazio­ne della «pro­ duttività» scolastica), pro­muovono l’azione educativa in ogni sua espressione. Fondare o gestire razional­mente le istituzioni formati­ ve sono atti squisitamente politici. La razio­ nalità delle istituzioni lascia campo all’atti­ vità profes­sionale dei dirigenti e dei docenti. La p. educazionale non detta precettistiche pe­dagogiche. Designa e assegna ruoli (attori politici, funzionari amministrativi, esperti, e via di seguito). Ogni policy ha un’importanza equivalente rispetto a tutte le altre. Tuttavia la educa­tional policy, a giusto titolo, può essere considerata preminente e prioritaria per­ché permette al cittadino di fruire al meglio dei servizi erogati da tutte le altre condotte poli­ tiche. Questa affermazione è convali­data da una recente teoria circa la massi­mizzazione dei fini. I fini delle varie con­dotte politiche sono molteplici e, oltre cer­ti livelli di incre­ mento, divengono tra loro contraddittori. Per es., «i processi sociali congruenti con la massimizzazione del va­lore di sicurezza non sono necessariamente adeguati anche come strumenti per la rea­lizzazione del valore di libertà o di ugua­glianza» (Fisichella, 1994, 52). Fanno ecce­zione i fini educativi, che non presentano alcuna contraddizione con nes­ sun altro fi­ne sociale, ma addirittura, quando sono perseguiti nel modo migliore possibile, permettono di regolare e valutare tutti i fini sociali. Bibl.: L aporta R., «P., pedagogia, scienza dell’edu­cazione», in F. Bertoldi et al., Pedago­ gia fra tra­dizione e innovazione, Milano, Vita e Pensiero, 1979,145-154; Mosca G., Elementi di scienza p. (1a ediz. 1895), Torino, UTET, 1982; K ing E., «Educational policies in the European Region», in M. Debeauvais (Ed.), National edu­

POSITIVISMO E EDUCAZIONE

cational research, Paris, Unesco, 1990, 30-47; Fis­ ichella D., Epistemologia e scienza p., Roma, NIS, 1994; Izzo D., L’educazione come p. sociale, Napoli, Liguori, 1994; Delors J. et al., Nell’edu­ cazione un tesoro, Parigi/Roma, Unesco/Arman­ do, 1997; Izzo D., Organizzazione, formazione e dirigenza scolastica, Pisa, ETS, 1999; Bertolini P., Educazione e p., Milano, Cortina, 2003; Bellatalla L. - G. Genovesi - E. M arescotti, La scuola in Italia tra pedagogia e p. (1945-2003), Milano, Angeli, 2004; M azzoni V. - M. Schenetti, Educazione e p. Che fare?, Bologna, CLUEB, 2004.

D. Izzo

POLITICA DELLA GIOVENTÙ → Giovani POLITICHE SOCIALI → Politica POPOLAZIONE → Demografìa → Statistica PORNOGRAFIA → Devianza

portfolio 1. Il p. nasce da riflessioni e problematiche sorte nel vissuto sco­lastico e nella società degli ultimi decenni. I rapidi cambiamenti hanno portato a una revisione del concetto di → apprendimento tradizionale che appare ormai troppo ristretto all’ambiente entro il quale è prodotto e valutato. Molti autori in questi anni hanno sottolineato l’importanza di avvicinare il concetto di apprendimento così come è inteso nel mondo della scuola al concetto di apprendimento così come è in­ teso nella vita reale. In questa nuova scuo­ la gli studenti dovrebbero essere impegnati ad apprendere conoscenze ma soprattutto a dimostrare come le sanno usare in contesti veri, concreti. 2. Il p. è uno strumento utilizzato nella vita reale da professionisti per raccogliere la documentazione del lavoro che hanno svol­ to. Introdotto nella scuola, ha assunto una ricchezza di connotazioni e di descrizioni estremamente ampia. Il p. è una raccolta e una antologia sistematica, organizzata, fina­ lizzata, di prestazioni e lavori dello studente in una o più discipline scolastiche, di criteri utilizzati per selezionarli e per giudicare il loro valore accompagnati da autoriflessio­ ni dello studente, ricchezza di evidenza ri­ guardo a ciò che lo studente è in grado di

fare e come è in grado di farlo, commenti dell’insegnante. Il suo scopo è quello di rac­ contare la storia dell’impegno, del progresso e del miglioramento dello studente, per con­ trollare lo sviluppo delle conoscenze, delle abilità e delle attitudini da acquisire in una specifica disciplina, per manifestare interes­ si, sforzi e per illustrare vari aspetti connessi al processo di apprendimento. Alla raccolta possono contribuire più persone: insegnante, studente, genitori o altri. Lo scopo è quel­ lo di incoraggiare nello studente l’attitudine all’autovalutazione del proprio progresso, lo sviluppo del senso di autoefficacia, l’auto­ percezione delle proprie abilità, le attribu­ zioni di successo e di fallimento, la scelta di obiettivi e di attività, la responsabilità nel proprio apprendimento. Bibl.: A rter J., Using portfolios in instruction and assessment: State of the artsummary, Port­ land, OR, Northwest Regional Educational Labo­ ratory, 1990; Paulson F. L. - P. R. Paulson - C. A. Meyer, What makes a p. a p., in «Educational Leadership» 48 (1991) 60-63; A rter J.- V. Spandel, Using p. of student work in instruction and assessment, in «Educational Measurement: Issues and Practices» 11 (1992) 36-44; Johnson N. J. - L. M. Rose, Portfolios: Clarifying, constructing and enhancing, Lancaster, PA, Techonomic Publish­ ing, 1997; Wiggins G., Educative assessment. Designing assessments to inform and improve student performance, San Francisco, CA, JosseyBass Publishers, 1998; Comoglio M., Insegnare e apprendere con il p., Milano, RCS-Fabbri Edi­ tore, 2003; Johnson R. S. - J. S. Mims-Cox - A. Douyle-Nichols, Developing portfolios in edu­ cation. A guide to reflection, inquiry and assess­ ment, Thousand Oaks, CA, Sage, 2006.

M. Comoglio

PORT-ROYAL → Giansenismo → Petites Écoles de Port-Royal

POSITIVISMO E EDUCAZIONE 1. Il P. come movimento culturale. Il com­ plesso movimento culturale che si è soliti de­ finire con il termine di P. si sviluppò a partire dai primi decenni del XIX sec. in Francia, in Inghilterra, in Germania e infi­ne anche in Italia, riflettendo e intrec­ciandosi con i 897

POSITIVISMO E EDUCAZIONE

processi di modernizzazione che stavano trasformando in modo radica­le la vita pro­ duttiva e sociale. Si trattò di un’epoca com­ plessivamente pacifica sul piano dei conflitti militari e segnata da im­portanti scoperte in campo scientifico e tecnologico che determi­ narono un forte rinnovamento e incremento della produ­zione, dall’ampliamento dei mer­ cati e il po­tenziamento dei trasporti, dal mol­ tiplicarsi del fenomeno dell’urbanesimo, dai pro­g ressi in campo medico che debellarono antichi flagelli e migliorarono le condizioni di vita specie dei ceti popolari. Questi im­ portanti mutamenti socio-economici si ac­ compagnarono alla definitiva affermazio­ne della borghesia imprenditoriale sia sul piano politico sia sul piano del costume e dei va­ lori. 1.1. Sotto il profilo teorico alcuni tratti di fondo comuni consentono l’identificazione del P. come movimento culturale. Il primo ca­rattere è rappresentato dal primato asse­ gnato al «fatto» inteso come unica espe­ rienza verificabile: ciò che è, è ciò che ap­ pare come osservabile. La realtà non è che un tessuto di fatti, cioè di accadimenti veri­ ficabili. Ne consegue che il modello di co­ noscenza sperimentale basato sulla capa­cità di previsione secondo leggi scientifiche co­ stituisce il modello positivo di tutto il sa­pere (non solo, dunque, delle scienze natu­rali, ma valido anche per lo studio dell’in­dividuo e della società). Si profila così la possibilità di una nuova era storica e di una nuova società organizzata secondo il mo­dello scientificosperimentale concepito come alternativo e, dunque, incompatibile con altri modelli culturali e sociali di tipo, per es., religioso o metafisico (Saint-Simon, Comte). Il secondo tratto caratteristico è dato dalla concezione evolutiva a base na­t uralistica dei fenomeni umani e sociali. La storia dell’uomo e del­ la società non sareb­be che un ininterrotto processo evolutivo che è via via passato da forme di vita e di organizzazione sociale più semplici a for­me via via sempre più com­ plesse (Spencer, Darwin). L’età positivistica è pervasa da un ottimismo generalizzato che scaturisce dal­la convinzione di un progresso inarrestabi­le (talvolta pensato come frutto dell’inge­gnosità umana, talaltra come neces­ sità automatica) verso condizioni di benesse­ re diffuso in una società pacifica e percorsa dal principio della solidarietà. Salvo qual­che 898

eccezione (per es. Stuart Mill), il P. è dun­ que segnato da una fiducia spesso acri­tica, sbrigativa e superficiale nella stabilità e nella crescita senza ostacoli governata dalla scien­ za. 1.2. Al → naturalismo evolutivo corrispondo­ no sul piano etico-sociale istanze antimetafi­ siche ed anti-confessionali, fortemente critiche e liberistiche, ma che tuttavia non sfuggono, a loro volta, a esiti deterministi­ci (→ Ardigò, Lombroso). L’uomo è visto quasi come un epifenomeno della natura. L’etica è ridotta per lo più a socialità, ovvero alla di­ sposizione a seguire le leggi che governano la società e a viverle come do­vere (→ Dur­ kheim). Sul versante politico la cultura po­ sitivista manifesta aspetti non meno ambiva­ lenti, d’un lato valorizzando gli ideali uma­ nitari e progressisti tipici del­la democrazia e, dall’altro, imprimendo nei fatti alla società liberale uno sviluppo con­dizionato dagli in­ teressi della borghesia produttiva, per lo più di sentimenti mode­rati e conservatori. 2. Il P. come movimento pedagogico. Nel P. si coglie un forte interesse per l’educazione e la pedagogia e molti dei suoi più autore­voli esponenti si occupano di tematiche forma­ tive (Spencer, Durkheim, Bain, Ardigò). La pedagogia è concepita come scienza sociale per eccellenza ed è reputata come una delle forme scientifiche della tra­sformazione so­ ciale nella misura in cui essa sa ristrutturarsi in senso positivo e speri­mentale. La scuola, a sua volta, è conside­rata in maniera stretta­ mente funzionale con l’organizzazione della società ed è per­ciò vista come lo strumento attraverso cui è possibile promuovere i pro­ cessi di moder­nizzazione sia sul piano della mentalità in­dividuale sia a livello di compor­ tamenti collettivi. L’analisi pedagogica non si svol­ge tuttavia in quelle forme lineari che l’a­dozione del metodo sperimentale e i pro­ tagonisti stessi potrebbero far ritenere, ma si articola sul piano teorico in forme al­quanto complesse, oscillando tra tendenze dogmati­ che e istanze critiche. Anche in se­de pedago­ gica si registrano due linee di svi­luppo della pedagogia positivistica: una li­nea dogmatica in cui prevale l’identifica­zione della scienti­ ficità con la scienza evolutiva, intesa come unico criterio di ve­r ità, con la congruente riproposizione di una nuova metafisica al po­ sto di quella che si voleva combattere (per

POSITIVISMO E EDUCAZIONE

quanto riguarda l’Italia all’interno di questo orizzonte culturale si collocano autori come Ardigò, Angiulli, De Dominicis, Siciliani). Un’altra linea di sviluppo privilegia invece il meto­do critico, la dimensione sperimentale, il confronto con la realtà in vista dello svi­ luppo dell’uomo e della società e non per la scienza presa per se stessa, con un approccio, dunque, più umanistico e storico (→ Gabelli, Marchesini, Pasquali, → Villari) e meno con­ dizionato da pregiudiziali di tipo ideologico. Gli studi e le ricerche più re­centi individuano in questa seconda linea di sviluppo l’esito più significativo e pro­duttivo del P. pedagogico sul piano storico. 3. La valutazione storiografica del P. È op­ portuno, a questo punto, aprire una breve pa­ rentesi per accennare al fatto che in cam­po storiografico la valutazione del P. sia co­me fenomeno culturale sia, più specifica­mente, come movimento pedagogico è sta­t a a lun­ go controversa ed è ancora oggi motivo di discussioni. Su di esso sono pe­sati il giudi­ zio di netta e complessiva con­danna dell’ → idealismo, le riserve del → marxismo che lo ha a lungo guardato con diffidenza in quan­ to ideologia tipicamente borghese (anche se non sono mancate ve­nature positiveggianti più che significative nei movimenti socialisti europei) e, infine, le critiche ad una visione spesso acritica della scienza e del metodo scientifico avanzate negli ambienti scien­ tifici del primo Novecento ben più scaltriti dei positivisti tardo-ottocenteschi sul piano epistemolo­gico. Né hanno giovato sul piano della ricostruzione e dell’analisi storica, a loro volta, i tentativi compiuti da una parte del­la storiografia di formazione tardo-posi­ tivista volti ad una acritica e un po’ scontata difesa del movimento. Il graduale stempe­ rarsi delle polemiche anche contingenti e il moltiplicarsi delle ricerche su singoli aspet­ti hanno contribuito, con il trascorrere del tem­ po, a sgombrare il campo da molti frainten­ dimenti e sospetti e, soprattutto, hanno con­ sentito una migliore conoscenza del P. non solo in quanto pura teoria, ma nei suoi vari apporti specifici in campo so­ciale, giuridico, medico, pedagogico e così via. Ciò ha per­ messo una valutazione più serena dei risulta­ ti effettivamente raggiun­ti e, dunque, meno condizionata da pregiu­dizi di parte. Anche per quanto riguarda il campo dell’educazione

e della scuola gli studiosi sono concordi nel rilevare che gli apporti più significativi sono venuti non tanto sul piano dall’elaborazione teorica (spesso esposta a tendenze dottrina­ rie) quanto dall’individuazione e dall’appro­ fondimento di alcuni nuovi ambiti di ricer­ca che hanno consentito alle prassi educa­t ive di compiere significativi progressi. In pri­ mo luogo va ricordato che le ricerche speri­ mentali in medicina e in psicologia ap­plicate all’educazione hanno, per es., per­messo di aprire la strada ad una conoscen­za più pun­ tuale e meno approssimativa del fanciullo, dal funzionamento della sua in­telligenza ai meccanismi di apprendimen­to. Se certe semplificazioni e riduzioni del­le funzioni intellettive ci sembrano oggi sconcertanti e improponibili, non si può di­menticare che i fondamentali apporti della scuola psico-pe­ dagogica di → Binet, → Claparède, → Decro­ ly e, più tardi, → Piaget non sarebbero stati possibili se non aves­sero potuto avvalersi dei risultati raggiunti per via sperimentale nell’ultimo Ottocen­to in campo neuro-fisio­ logico. Per restare ancora sulla conoscenza del fanciullo, va inoltre richiamato come la cultura positivi­sta abbia opportunamente valorizzato la dimensione che oggi diremmo della corpo­reità promuovendo, da un lato, migliori pratiche igieniche, maggiori cure alimenta­r i, una più avvertita attenzione alla salute fisica (in sostanza una concezione più sana dell’esistenza) e, dall’altro, sostenendo con grande vigore (in ciò aiutata da una vi­ sione militar-nazionalista del quadro politico complessivo) l’introduzione dell’educazio­ne fisica nella scuola, giudicata necessaria inte­ grazione dell’educazione intellettuale e mo­ rale. Sul piano dei metodi didattici la valo­ rizzazione delle pratiche induttive pro­mosse una visione meno libresca e mnemonistica della scuola, più vicina alle «co­se» e meno basata sulle parole e sul ragio­namento astrat­ to, andando oltre le con­suetudini didattiche di metà Ottocento an­cora in larga misura affidate alla ripetizio­ne e alla memorizzazio­ ne. Occorre peral­t ro avvertire che non tutte le realizzazioni furono all’altezza delle affer­ mazioni di principio e delle esperienze dei maestri più esperti e competenti. Non a tor­ to → Lom­bardo-Radice avrebbe denunciato agli ini­zi del nuovo secolo una diffusa men­ talità «pedagogistica», incapace di alzarsi al di sopra della semplicità dell’esperienza, 899

POSTMODERNO/ POSTMODERNITÀ

po­lemicamente contrapposta alla mentalità «pedagogica» capace invece di misurarsi anche con la riflessione teorica. L’ottimismo progressista del P. congiunto con le scoperte mediche e quelle psicologiche consentirono, infine, un approccio scientificamente più corretto e articolato al problema dell’handi­ cap mentale e fisico e una visione meno pu­ nitiva e più rieducativa (anche se l’esperien­ za pratica non andò oltre il per­fezionamento delle forme di segregazione) della devianza infantile e giovanile. 4. L’interesse per la scuola. Resta da richia­ mare un’ultima questione e cioè il forte in­ teresse che la cultura positivista manifestò in genere per il problema scolastico. La ra­ gione va ricercata in alcuni dati storici: le trasformazioni tecnologiche e produttive che sollecitavano una manodopera più istruita; la sempre maggiore circolazione della cultura scritta; le spinte emancipative (spesso di ma­ trice anarchica e socialista) che agitavano, talora in modo disordinato, i ceti popolari; le resistenze della Chiesa al­la modernità laica giudicata come un peri­colo per la fede religiosa; il bisogno di sta­bilità della società borghese impegnata nell’espansionismo co­ loniale; la legittima­zione dei valori borghesi come valori sociali egemoni. La scuola fu prospettata sia come potente occasione di modernizzazio­ne sia come strumento di so­ cializzazione politica collettiva e, dunque, nel medesimo tempo fattore di progresso, eman­ cipazione e di controllo sociale. L’analisi del → fun­zionalismo sociologico si può conside­ rare a tal riguardo esemplare: attraverso la scuola, opportunamente ristrutturata su basi scientifiche, era possibile orientare e guidare i comportamenti individuali e so­ciali libe­ randoli da quegli atteggiamenti e sentimenti che non risultavano funzionali alla civiltà moderna (ignoranza, super­stizioni, senso fa­ talistico della vita) e pro­muovendo quelli che ne erano invece ele­mento costitutivo (fiducia nel progresso, disponibilità al nuovo, inizia­ tiva persona­le). Alla scuola era inoltre fatto carico di sostenere i sentimenti di lealtà, or­ dine e di­sciplina necessari per lo sviluppo ordinato della società borghese sia mediante la cir­colazione e interiorizzazione dei valo­ ri na­zionali (con il passaggio dalla fedeltà al gruppo, al clan, alla famiglia alla fedeltà al­la nazione) e sia attraverso la promozione 900

di quei codici di comportamento anche in­ dividuali che la borghesia liberale aveva po­ sto a base del suo accreditamento come clas­ se egemone (lealtà, rispetto delle apparenze, laicità nel modo di guardare all’esi­stenza, paternalismo). Da queste premes­se scatu­ rirono le politiche scolastiche del secondo Ottocento destinate a segnare un tornante significativo nella storia sociale e civile dei paesi europei e anglosassoni: affermazione e generalizzazione dell’ → ob­bligo scolastico inteso come «minimo ga­rantito» di sapere per ciascun cittadino; netta distinzione tra la scuola per tutti e la scuola destinata alle élites dirigenti; diretto intervento dello Sta­ to in campo scolastico (con la creazione, in alcuni casi, di veri e propri sistemi scolastici statali, come in Francia e in Italia); laiciz­ zazione dei pro­g rammi; potenziamento del sapere scienti­fico pur in un quadro di perdu­ rante prima­to ancora assegnato alla cultura classica. Bibl.: Spirito U., Il pensiero pedagogico del P., Fi­renze, Giuntine-Sansoni, 1956; Bertoni-Jovine D. - R. Tisato (Edd.), P. pedagogico italiano, 2 voll., Torino, UTET, 1973-1976; Cambi F., La pe­ dagogia borghese nell’Italia contemporanea, Fi­ renze, La Nuova Italia, 1974; Santucci A. (Ed.), Scienza e filosofia nella cultura positivistica, Mi­ lano, Feltri­nelli, 1982; Papa E. R. (Ed.), Il P. e la cultura ita­liana, Milano, Angeli, 1985; Chiosso G., «La que­stione scolastica in Italia: l’istruzio­ ne popolare», in R. Lill - F. Traniello (Edd.), Il «Kulturkampf» in Italia e nei paesi di lingua tedesca, Bologna, Il Mulino, 1992, 335-388.

G. Chiosso

POSTMODERNO/ POSTMODERNITÀ Più che una delimitazione cronologica, sia l’aggettivo sostantivato che il sostanti­ vo astratto, starebbero ad indicare una si­ tuazione, uno stato, una condizione, una sensibilità letteraria, artistica, filosofica e culturale in genere che si va distanziando dalla → modernità. 1. Il condizionale è d’obbligo, in quanto si ha a che fare con un termine, carico di emo­ zionalità contrapposta, quasi una pa­rola

POVEDA PEDRO

d’ordine, di indubbia presa sui mass media e sull’immaginario collettivo, a cui vengono assegnati significati diversi fino all’ambi­ guità. Usato già in saggi letterari spagnoli e statunitensi di critica letteraria degli anni ’30-40 e dallo storico A. Toynbee nel 1947 in A study of history, per indi­care una nuo­ va fase storica successiva al­l’età moderna, il termine ha avuto fortuna con il saggio del filosofo francese J.-F. Lyo­tard (La condition postmoderne, 1979) e in sede letteraria con il saggio del critico sta­t unitense I. Hassan (The question of post-modernism, 1981). 2. Secondo i teorici del p. la cultura moder­ na, vale a dire la visione del mondo e della vita, tipica della vicenda storica delle so­ cietà dell’Occidente post-medioevale, sa­ rebbe giunta al suo tramonto. La condizio­ne postmoderna renderebbe manifesti i li­m iti e le sue configurazioni culturali ispirate al­ l’umanesimo antropocentrico, che ha nel­ la scienza e nella tecnica le sue massime espressioni di razionalità e nella capacità di trasformazione industriale e di azione po­ litica le vie per costruire il proprio desti­no storico ed intramondano; ed evidenziereb­ be la non assolutezza delle sue grandi nar­ razioni («meta-racconti» nella terminologia di Lyotard), specie quelli dell’ → illumini­ smo, dell’idea­lismo, del positivismo e del marxismo, che a loro modo le­gittimavano filosoficamente, eticamente e politicamente l’egemonia culturale dell’Occidente. O per­ lomeno metterebbe in risalto che, rispetto a una «modernità solida», con le sue strutture consolidate, prevarrebbe una «modernità li­ quida», caratterizzata dai flussi, dai proces­ si, dalla costante innovazione, conseguente all’irrompere del­le tecnologie informatiz­ zate, dalla globalizzazione dell’esistenza e del mercato e culturalmente dal declino della metafisica. Il sapere risulterebbe irri­ mediabilmente frammentato, ipotetico, si­ tuato, costituzionalmente in itinere, insor­ montabilmente sto­r ico-culturale. Contenuti­ sticamente assisteremmo alla motiplicazione delle Weltanschauung e delle fedi, che dan­ no spettacolo di sé e che di­ventano piuttosto merce di consumo mass­mediologico, senza che nessuna possa di di­ritto imporsi alle altre come più vera. Al massimo può trovare prag­ maticamente maggior accoglienza rispetto alle altre. Più che un sapere che definisce,

avremmo a che fare con un sape­re che parla, narra, racconta delle cose-eventi o di sé, che interpreta e produce nuove o rinnovate com­ prensioni (che «sfondano» le comprensioni precedenti, più che «fondare» posizioni) o semplicemente che opera «tecnologicamen­ te» sul reale o lo «simula virtualmente». 3. Considerato da Habermas come segno della crisi in cui versa il progetto emanci­ pativo della modernità, esaltato o bollato come «pensiero debole» (che si appoggia ed oltrepassa la critica culturale di Nietz­sche e Heidegger), tacciato di rimettere in corso posizioni pre-moderne o reazionarie, il p. esprime a suo modo il vasto → plurali­smo e la complessità sociale contempora­nea. In tal senso costituisce un utile termi­ne di con­ fronto per la pratica educativa e la ricerca pe­ dagogica, chiamata oggi, sem­pre più, a non fermarsi a soluzioni tecni­che, ma a ripensare globalmente la cultura formativa. Bibl.: Lyotard J.-F., La condizione postmoder­ na, Milano, Feltrinelli, 1981; Vattimo G. - P. A. Rovatti (Edd.), Il pen­siero debole, Ibid., 1983; Vattimo G., La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1985; H abermas L, Il discorso filoso­ fico della modernità, Roma/Bari, Laterza, 1987; Bauman Z., Modernità Liquida, Ibid., 2002; Chiurazzi G., Il p., Milano, Mondadori, 2002; A mbrosi E., Il bello del relativismo, Venezia, Marsilio, 2005; Bauman Z., Il disagio della p., Milano, Mondadori, 2007.

C. Nanni

POTERE → Autorità educativa → Società

POVEDA Pedro n. a Linares nel 1874 - m. a Madrid nel 1936, sacerdote ed educatore spagnolo. 1. Fonda scuole per emarginati a Guadix (1902); propone la creazione di un’Istituzione che dia impulso all’educazione a li­vello na­ zionale (Ensayo de un proyecto pe­dagógico para la fundación de una Institución Católi­ ca de Enseñanza, Gijón, 1911); fonda l’Isti­ tuzione Teresiana ad Oviedo (1911). L’an­ tropologia pedagogica di P. parte dalla sua spiritualità di incarnazione: «la persona di 901

PRAGMATISMO

Cristo, la sua natura e la sua vita costitui­ scono la norma sicura per arri­vare ad essere santo... essendo allo stesso tempo con l’uma­ nesimo verità» (1965, 249-250). La persona umana raggiunge il suo massimo, cioè l’esse­ re «eminentemente umana», nella sua unio­ ne con Dio. Da qui deriva l’insistenza sulla immagine di Dio in Cristo: sulla vocazione, Consejos a las profesoras y alumnas de las primeras Academias de Santa Teresa (1912); Andad como conviene a la vocación, in Je­ sús Maestro de oración (1922); e sulla tem­ poralità, Alrededor de un proyecto (1913); El estudio de la pedagogía en los seminarios (1916). 2. La riflessione sul suo tempo sensibilizza P. sui conflitti tra individuo e società, sulla problematica tra fede e scienza e sulle nuo­ve caratteristiche della condizione femmi­nile. Ad essi ispira la sua proposta pedago­gica che si sviluppa a partire dai punti se­g uenti: il principio della comunicazione, come rispo­ sta alla socialità umana, concre­tamente alla necessità di relazione e parte­cipazione, Ha­ blemos de las alumnas (1935); il principio di libertà-responsabilità come spazio umano in cui, attraverso la forma­zione ai valori, si de­ cide l’educazione e il significato della vita; il principio della pa­rità-differenza, fatta salva l’uguaglianza on­tologica e teologica riguar­ do all’origine, al­la natura e al fine dell’uomo e della → don­na, come pure alla loro diffe­ renza. P. dà la priorità al clima formatore costantemente ricostruito a partire dai valori della fortez­za e dell’allegria. Bibl.: a) Fonti: P.P., Obras. Creí por esto hablé; edición crítica y estudio de M.ª D. Gómez Molle­ da, Madrid, Narcea, 2005. b) Studi: Galino Carrillo A. ( Ed.), Humanismo pedagógico de P.P. Algunas dimensiones, Ibid., 2000; Valle López Á. del, La pedagogía de inspiración católica, Madrid, Síntesis, 2000.

Á. Galino - Á. Del Valle

POVERTÀ → Sviluppo: educazione allo

PRAGMATISMO Il termine fu coniato nella seconda metà dell’Ottocento, ed è principalmente asso­ 902

ciato alla filosofia degli americani Peirce, → James e → Dewey, anche se pensatori co­me l’inglese Schiller, gli spagnoli → Una­muno e → Ortega y Gasset, i francesi Bergson e Le Roy, il tedesco Vaihinger e gli ita­liani Papi­ ni, Aliotta, Vailati e Calderoni sono stati a vario titolo partecipi del movi­mento di idee che ha questo nome. A in­t rodurre il termi­ ne P. fu appunto Peirce col saggio del 1878 How to moke our ideas clear e fu successi­ vamente James, con mo­dalità che Peirce vi­ vacemente disapprovò, a diffonderlo (cfr. il vol. Pragmatism, a new name for some old ways of thinking, del 1907, preceduto da The will to believe del 1886). Fu principalmen­ te con Dewey, che ne propose la versione «strumentalistica», che il P. assunse rilevan­ za pedagogica, po­nendosi mediatamente a fondamento del­l’attivismo e contribuendo a stabilire i pre­supposti teorici della scuola «progressiva» (→ Scuole Nuove). 1. In una sua accezione tecnica e ristretta, molto spesso fraintesa, il P. indica una con­ cezione dei metodi e degli statuti cono­scitivi che pone l’accento non solo sulla funzione pratica del conoscere ma anche – e in un cer­ to senso preminentemente – sul­la sua legit­ timazione pratica. La tesi, molto criticata e spesso fraintesa (per es. da Ber­t rand Russell, per il quale essa era so­prattutto in armonia con l’industrialismo e con lo spirito di intra­ presa americano, in­terpretazione a cui De­ wey reagì vivace­mente), che il valore della conoscenza de­r iva dalla sua utilità e che il vero si identifi­ca, appunto, con ciò che è utile e convenien­te, ne è l’espressione estrema e più esplici­ta. La figura concettuale jamesia­ na della «volontà di credere» la esemplifica, seppu­re in modo rovesciato, assai chiara­ mente. Il credere è volitivo e non constata­ tivo ed in quanto è voluto sottostà a regole prati­che, più che logiche o epistemologiche. Un’idea è vera in quanto il crederla è «uti­ le» e «conveniente» e produce effetti posi­ tivi per la vita individuale e associata. In una accezione più larga il P. riprende moti­vi della cultura e del pensiero filosofico oc­cidentale maturati e riproposti nel corso dei secoli, e riconducibili alle posizioni dot­t rinali nel cui ambito si afferma il primato della voluntas, della caritas ecc. sulle deter­minazioni del­ la razionalità conoscitiva, da quelle di Paolo di Tarso a quelle agostinia­ne giù giù fino ai

PRATICHE EDUCATIVE

francescani del tardo → Medioevo, e in par­ ticolare a Duns Scoto a cui il pragmatista Peirce si riferiva come a un antesignano e a un maestro. 2. Non c’è da stupirsi che il P. abbia contri­ buito a generare un particolare tipo, molto significativo e influente, di filosofia dell’e­ ducazione. In realtà il P. era un modello di filosofia pedagogica e tale si rivelò, in anni più recenti, nella sua versione strumentali­ stica, proposta e argomentata da Dewey. Tale strumentalismo non aveva a che fare, ovviamente, con la mediocre e banale stru­ mentalità dell’operare motivato da interes­si pratici immediati, ma poneva l’accento sulla posizione sovraordinata della prassi umana complessivamente assunta rispetto alle varie e settoriali pratiche teoriche. Le formule di rivisitazione e di riabilitazio­ne del P. (cfr. R. Rorty, The relevance of pragmatism) propo­ ste negli ultimi decen­ni, costituiscono una conferma diretta o in­diretta delle origini di questo orientamento filosofico e delle sue ca­ ratteristiche più in­t rinseche ed autentiche, al di là di una ca­ratterizzazione – simpatetica o critica – in termini di concetto d’epoca, matu­ rato sullo sfondo della scientificità modernocontem­poranea, e connesso a esigenze di produtti­vità materiale con mezzi tecnici. Va anzi ri­levato che molto dello spirito del P. è da porre in relazione all’opposta esigenza di dare alla strumentalità razionale e tecnica il più ampio respiro di una ricerca sul senso ul­ timo e radicale dell’agire umano. Bibl.: Papini G., P., Firenze, Vallecchi, 1920; Ayer A. J., The origins of pragmatism. Studies in the philosophy of C.S. Peirce and W. James, San Francisco, Freeman 1958; Bosco N., La filo­ sofia pragmatica di C.S. Peirce, Torino, Edizio­ ni di Filosofia, 1959; Sant­ ucci A., Il P. in Italia, Bologna, Il Mulino, 1963; Roggerone G. A., W. James e la crisi della co­scienza contemporanea, Milano, Marzorati, 21967; Santucci A. (Ed.), Il P., Torino, UTET, 1970; Sini C., Il P. americano, Bari, Laterza, 1972; Murphy J. P., Il p., Bologna, Il Mulino, 2001.

A. Granese

PRASSI/PRATICA EDUCATIVA → Azione educativa → Pratiche ducative PRATICA RELIGIOSA → Educazione religiosa → Religione

PRATICHE EDUCATIVE Le p.e. sono forme coerenti e complesse di p. umana collaborativa, attuate in un contesto so­ ciale, caratterizzate da specifica intenzionalità formativa. Una p.e. è di conseguenza guidata teoreticamente, storicamente e culturalmente da ideali di bene da perseguire in favore di coloro ai quali è rivolta (Pellerey, 1999) e si distingue da p. umane di altro tipo per la coe­ renza che segue rispetto alla definizione di → educazione dalla quale trae ispirazione. 1. Le p.e. possono descrivere il senso della cultura civile di un gruppo, di una società, di una popolazione, di una nazione. Ad es., P. Freire (2004) sottolinea come la p.e. esige dei saperi necessari e obbliga a rivisitare l’etica e l’estetica dell’insegnamento, l’«agire» edu­ cativo, il rigore metodologico, la ricerca, il rispetto delle diversità etniche e culturali, l’accettazione della novità e della critica… per affermare che questi aspetti si ritrovano nella fase di osservazione della p.e. stessa. In altre parole, più semplicemente, l’espres­ sione «p.e.» si usa in senso generale per in­ dicare l’attività in quanto insieme di azioni e di influenze di insegnamento, condotta da un insegnante a favore di studenti in un luogo per un certo periodo di tempo, al fine di pro­ muovere lo sviluppo e la crescita di abilità, comportamenti, conoscenze. 2. Spesso le buone p.e. seguono modelli (sistemi o metodi) educativi di riferimento all’interno dei quali si possono individuare concetti e principi che riguardano livelli lo­ gici differenti che coinvolgono il piano scien­ tifico, quello operativo o progettuale, ecc. Tra le espressioni che possono assumere un significato analogo a p.e. si trovano il «fare educativo» o il «fatto educativo». Inoltre non è infrequente sentire trattare di p.e. quando una istituzione scolastica indica le prassi, le consuetudini, le tradizioni e le innovazioni che la caratterizzano. In tal contesto si pro­ ducono p.e. nel significato di documentazio­ ne di qualità che spesso una istituzione di tipo scolastico o formativo ritiene importan­ te ai fini della propria certificazione, autova­ lutazione o promozione. 3. In ultima analisi l’espressione «p.e.» per alcuni può essere impropriamente usata per 903

PREADOLESCENZA

descrivere e presentare esperienze didattiche o metodologie che rispondono a requisiti di qualità svolte in un contesto istituzionale. Questo significato negli ultimi anni è sta­ to talvolta anche attribuito all’espressione «buone prassi», o «buone p.» (best practi­ ces), che soprattutto all’interno di una strut­ tura pone un accento particolare agli aspetti più di cultura organizzativa, di collaborazio­ ne tra esperti in didattica o in metodologica di successo. Bibl.: M acI ntyre A., After virtue. A study in moral Theory, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1981; Guardini R., Le età della vita. Loro significato educativo e morale, Milano, Vita e Pensiero, 1986; Pellerey M., L’agire educativo. La p. pedagogica tra modernità e postmodernità, Roma, LAS, 1988; M eirieu P., Le choix d’édu­ quer, Paris, ESF, 1991; M acario L., Imparare a vivere da uomo adulto. Note di metodologia dell’educazione, Roma, LAS, 1993; M eirieu P., La pédagogie entre le dire et le faire, Paris, ESF, 1995; Lombardo P., Educare ai valori, Verona, Vita Nuova, 1996; Pellerey M., Educare. Ma­ nuale di pedagogia come scienza pratico-proget­ tuale, Roma, LAS, 1999; Milani L., Competenza pedagogica e progettualità educativa, Brescia, La Scuola, 2000; Freire P., Pedagogia dell’auto­ nomia, Torino, Ega, 2004.

M. Bay

PREADOLESCENZA L’età situata tra la fine della fanciullezza (→ fanciullo) e l’inizio dell’ → adolescenza vera e propria è una fase di transizione particola­ re che presenta aspetti di difficile interpreta­ zione e pone soprattutto problemi educativi e sociali di notevole rilevanza. 1. Il segmento p. nell’arco evolutivo. Non più bambini e non ancora adolescenti: ecco la condizione dei ragazzi dai 10 ai 14 anni. Su di loro è concentrata una mole di inter­ venti educativi che è senza pari in qualsiasi altra fase dell’intero arco evolutivo. Eppure il mondo psicologico della p. appare ancora un «continente sommerso». La p. infatti, usual­ mente poco nota come periodo a se stante, sembra indicare una fascia d’anni piutto­ sto fugace, un’età dai confini incerti e con 904

«crescite» più nascoste che appariscenti. In concomitanza con l’evoluzione puberale, si assiste (lungo il breve volgere di 3-4 anni) ad un susseguirsi di profonde e rapide trasfor­ mazioni fisiche, psicologiche e sociali che segnano in modo globale e irreversibile lo sviluppo della personalità. È l’età delle gran­ di «migrazioni». Tra esse ricordiamo: l’addio al corpo del bambino, con lo sviluppo fisico e puberale; l’uscita dalla famiglia e l’entrata nel mondo dei coetanei; la crisi della «reli­ gione di chiesa», con la caduta di apparte­ nenza e l’avvio ad una religiosità più sogget­ tiva e personalizzata; la «presa delle distan­ ze» dalla scuola, con crescente aumento (per ampie fasce di soggetti) della demotivazione all’apprendimento; il passaggio lento e gra­ duale dalla logica operativa a quella formale; il transito dalle identificazioni ad un primo avvio verso l’identità personale e sociale. 2. La configurazione attuale della p. La p. oggi sembra delinearsi per le seguenti carat­ teristiche: è un’età caratterizzata da un mo­ vimento di uscita dalla famiglia e da uno di «entrata nel mondo sociale»; è una nuova età di scoperta; rappresenta una fase di nuova re­ lazionalità amicale; è ancora un’età di multi­ forme dipendenza; si configura come «tran­ sito dalle identificazioni verso l’identità»; in essa la progettualità è in un timido avvio; lo → sviluppo morale appare ancora in bilico fra eteronomia ed autonomia. Il preadolescente pone problemi alla società e alle istituzioni perché dispone di una identità frammentata e disarmonica. È un soggetto disarmonico in quanto le principali dimensioni dello svi­ luppo sono anticipate o posticipate rispetto all’età cronologica. La crescita non arriva cioè in modo sincronico, ma si instaura in una disparità di tempi, in una «asincronicità» tra aspetti dello sviluppo. In questa disarmo­ nia evolutiva appaiono precoci o anticipate le dimensioni dello sviluppo percettivo, psico­ motorio, sociale e affettivo-sessuale, mentre risultano in ritardo alcuni aspetti dello svi­ luppo logico, in particolare lo spirito critico, e quello morale e religioso. Tuttavia in forza di un sistema di accomodamento dinamico, tipico di tutte le situazioni in forte crescita, il preadolescente dispone di un notevole po­ tere di recupero e adattamento. Un’età come questa godeva tradizionalmente di «buona salute». Oggi, per una certa percentuale di

PREADOLESCENZA

soggetti, essa è esposta al rischio di moltepli­ ci forme di disadattamento. Il mancato adat­ tamento inizia in famiglia, prosegue nella scuola, si accentua nei gruppi sociali di rife­ rimento e può confluire in forme di devianza che aumenteranno durante l’adolescenza. È per questa ragione che l’accompagnamento educativo a questa età deve essere mirato ed accurato, avere obiettivi specifici e disporre di metodologie atte alla → prevenzione e al → recupero. 3. Le «domande» dei preadolescenti alle → istituzioni educative. Indagini psico-socio­ logiche indicano che i preadolescenti chie­ dono alla famiglia: dialogo educativo più ampio e profondo; spinta all’autonomia, non iper-protezione o negazione delle energie e risorse dei ragazzi; educazione affettiva e sessuale e non silenzio o trascuratezza; guida spirituale nel cammino della crescita e non solo soddisfacimento dei bisogni pu­ ramente materiali; orientamento nelle scelte non solo scolastiche ma culturali ed esisten­ ziali. Alla scuola i preadolescenti chiedono: ambiente di vita e di educazione, non solo luogo dove si può fare istruzione; accoglien­ za di tutte le esigenze della crescita; un in­ segnante autorevole, educatore, modello di riferimento; stimolo alla creatività e non solo acquiescenza ripetitiva di apprendimenti co­ dificati; educazione sessuale vera e propria e non solo parziale e sporadica informazio­ ne; valorizzazione positiva della persona e non valutazione del rendimento scolastico; orientamento scolastico e professionale con­ tinuato e strutturato, e non solo episodico e frammentato, in vista delle «preiscrizioni». Similmente alla comunità ecclesiale (→ Chie­ sa) i preadolescenti chiedono un’iniziazione cristiana «vitale» e non formale o ritualisti­ ca; protagonismo effettivo, con assunzione di compiti e responsabilità compatibili con l’età e non solo passività e dipendenza; una catechesi esperienziale che inserisca il van­ gelo e i sacramenti nella vita; un inserimento comunitario che faccia sentire i ragazzi parte importante e viva dell’intera comunità. Agli animatori dei gruppi i preadolescenti chiedo­ no: guida educativa vera e propria e non solo assistenza passiva o stimolo esteriore; soste­ gno affettivo, cioè sentirsi amati, stimati, in­ coraggiati a livello profondo, come persone in una delicata fase della vita; creatività per

superare la routine dell’ambiente materiali­ stico e consumistico di vita e per affronta­ re prospettive di sviluppo secondo le doti e le inclinazioni di ciascuno; coinvolgimento operativo e non pura e semplice esecutività, stimolando l’autonomia, lo spirito di inizia­ tiva e di partecipazione a progetti elaborati insieme. Nei confronti della comunità civile i preadolescenti avanzano richieste di atten­ zione e ascolto alle proprie aspirazioni e in­ clinazioni di ragazzi; di prevenzione socia­ le delle forme di degrado ambientale e del disadattamento sociale; di uso educativo e non solo consumistico dei mass media, con iniziative mirate specificamente alle esigen­ ze della formazione integrale; di spazi per lo sport e l’espressività ludica e sociale; di centri educativi per incrementare le forme associative e rispondere ai bisogni non solo del recupero ma soprattutto dell’educazione sociale. 4. Per una pedagogia della p. Nel contesto culturale e pedagogico attuale è necessario accogliere la p. come età specifica, distinta dalla fanciullezza e dall’adolescenza e con­ notata di caratteristiche evolutive proprie. Non più dunque «età negata», ma ricono­ sciuta, valorizzata e incrementata secondo i compiti di sviluppo tipici di una importan­ te e fondamentale stagione della vita. Nella comunità e nelle istituzioni occorre consi­ derare e valorizzare i preadolescenti come soggetti sociali importanti e attivi, dando loro la parola, accogliendo le loro richieste, stimolando iniziative che possono essere af­ frontate e compiute anche da loro a favore della comunità. Alla disarmonia e frammen­ tazione dell’età deve far fronte un progetto educativo unitario e unificante, per facilita­ re un cammino meno disagiato e rischioso nella costruzione dell’incipiente identità. Educare, a questa età, vuol dire il più delle volte animare, far cioè crescere stimolando l’interesse, la partecipazione e il coinvolgi­ mento dei ragazzi stessi, in modo che non siano concepiti come soggetti passivi, bensì come attori e in molti casi anche protagonisti del loro divenire. Infine occorre tenere vigile e sostenere la dimensione dell’orientamento: è un’età infatti che prefigura il futuro della persona, età di intuizioni e di desideri, in cui non si chiede di decidere il futuro personale, professionale, esistenziale, ma di mettere le 905

PREGHIERA: EDUCAZIONE ALLA

basi (i «prerequisiti») per le scelte future at­ traverso le piccole decisioni di ogni giorno. Bibl.: Cospes (Ed.), L’età negata, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1986; De Pieri S. - G. Tonolo, P. Le crescite nascoste, Roma, Armando, 1990; Tonolo G. - S. De P ieri, Educare i preadolescenti, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; De Pieri S., Preadolescenti tra domanda e risposta, in «Note di Pastorale Giovanile» 26 (1992) 4, 72-80; Secchiaroli G. - T. M ancini, Percorsi di crescita e processi di cambiamento. Spazi di vita, di rela­ zione e di formazione dell’identità dei preadole­ scenti, Milano, Angeli, 1996; Della giulia A. - P. Gambini, L’influenza delle relazioni familia­ ri sull’avvio della costruzione dell’identità, in «Orientamenti Pedagogici» 52 (2005) 951-974; M aggiolini A. (Ed.), P. e antisocialità. Preven­ zione e intervento nella scuola media inferiore, Milano, Angeli, 2005; D’Alessio M. - R. Baiocco - F. Laghi F., I modelli in tv: quale influenza sui preadolescenti? Congresso Nazionale della Se­ zione di Psicologia dello Sviluppo, AIP, Verona, 15-17 settembre 2006; Televisioni e minori. Be­ nefici e rischi. Valutazioni giuridiche, mediche, psicologiche, Roma, Società Italiana di Pediatria, 2007; D’A lessio M. - F. Laghi, La p. Identità in transizione tra rischi e risorse, Padova, PiccinNuova Libreria, 2007; Gambini P., La sfida edu­ cativa dei preadolescenti, in «Pedagogia e Vita» (2007) 2, 89-110.

richiede un atteggiamento di progettuale continuità della proposta educativa. La con­ tinuità ha senso quando si pone all’interno di un quadro di riferimento cui converge e da cui prende senso lo specifico cammino edu­ cativo: la evangelizzazione e la liturgia. La prima è la base per le iniziali esperienze di p. (lode, ringraziamento, benedizione, suppli­ ca). La seconda è un’esperienza più raffina­ ta e impegnativa di p. cristiana, in quanto il sacramento, l’anno liturgico, la liturgia delle Ore e la pietà popolare costituiscono ambiti privilegiati di p., che realizzano un contatto più o meno profondo con il Dio dell’allean­ za.

Le numerose definizioni di p. rispecchiano altrettante forme con cui la persona si rap­ porta con il soprannaturale; anche in ambito cristiano la p. assume connotazioni diverse secondo l’atteggiamento spirituale del fedele, le sue motivazioni, il rapporto tra p. e vita, la relazione che intercorre tra p. personale e p. comunitaria.

2. La p. cristiana. È ascolto di Dio che parla; contemplazione dei segni della sua presenza nei fratelli e nelle più diverse realtà; dialogo con Chi per primo si è già mosso per veni­ re incontro; progressiva comunione con il Tutt’Altro che già è presente nell’intimo di ogni persona. Alla precisazione dell’essenza della p. cristiana si accompagnano cinque interrogativi: Chi prega? Il fedele che ha re­ alizzato un minimo di conoscenza del Dio di Gesù Cristo. Come pregare? Le modalità sono diversificate; la storia arricchisce l’og­ gi con una pluralità di forme che rispondono all’ampia gamma di attese spirituali del sin­ golo. Dove pregare? I luoghi più adatti pos­ sono essere in rapporto con situazioni perso­ nali o con occasioni comunitarie e ufficiali. Quando pregare? La p. cristiana ufficiale ha ritmi orari, ma il fedele prega sempre quan­ do fa delle scelte ordinarie della propria vita una risposta sincera e totale al Dio dell’al­ leanza. Perché pregare? La comprensione delle dimensioni della p. cristiana (ascolto, contemplazione, dialogo, comunione) offre la risposta più convincente: nella p. il cri­ stiano accoglie la voce di Dio, trasfigura le realtà quotidiane dando loro il più genuino significato, intesse un rapporto con Dio e con le realtà create contribuendo a realizzare quella comunione che la storia della salvez­ za esprime e declina attorno alla categoria dell’alleanza.

1. Un quadro di riferimento. Il cammino di educazione alla p. va visto in un contesto che tenga presenti le tappe che iniziano con il fanciullo e l’adolescente, per continuare poi con i giovani, gli adulti, gli anziani. Ciò

3. Alcuni punti fermi. Nell’ambito cristiano il culmine e insieme la fonte della p. è l’Euca­ ristia, perché lì la proposta divina e la rispo­ sta umana trovano il loro punto d’incontro. Non per nulla la p. eucaristica, che racchiu­

S. De Pieri

PRECONCETTO → Pregiudizio PREDISPOSIZIONE → Abilità

PREGHIERA: educazione alla

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PREGIUDIZIO

de tutti i temi della p. cristiana, è chiamata da sempre la p. per eccellenza. In secondo luogo, il nutrimento della p. è dato principal­ mente dalla Parola divina sia per l’esperienza esemplare che essa offre, sia perché aiuta a leggere le situazioni della vita riportando­ le nella prospettiva del progetto originario dato da Dio ed espresso nelle condizioni dell’alleanza. In terzo luogo, va evidenziato il ruolo del silenzio come condizione di in­ contro, spazio di ascolto, occasione di dia­ logo e motivo di approfondimento. In questo dinamismo non può essere trascurato l’aiuto offerto dal corpo, dallo spazio, dalle «cose» che stanno intorno, dai tempi e dai ritmi del­ la vita. Nessuna lezione teorica, comunque, potrà mai esaurire tutta la problematica, le attese, i timori, le sconfitte che si incontrano in questo itinerario. Le esperienze porteran­ no ad una sintesi personale in cui il fedele troverà un modo di rapportare le diverse si­ tuazioni della propria esistenza nella logica del Dio Trinità che si è fatto storia perché l’uomo potesse realizzare un cammino di di­ vinizzazione. Bibl.: Bianchi E., «P.», in M. Sodi - A. M. Triacca (Edd.), Dizionario di omiletica, Leu­ mann (TO)/Gorle (Bg), Elle Di Ci/Velar, 2002, 1249-1252; Calati B., «P.», in L. Borriello et al. (Edd.), Dizionario di Mistica, Città del Vati­ cano, LEV, 1998, 1033-1038; Castellano J., «P. e liturgia», in D. Sartore - A. M. Triacca - C. Cibien (Edd.), Liturgia, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2001, 1492-1511; Wright J. H., «P.», in M. Downey - L. Borriello (Edd.), Nuovo Di­ zionario di Spiritualità, Città del Vaticano, LEV, 2003, 564-574.

M. Sodi

PREGIUDIZIO In senso filosofico p., specie dopo la feno­ menologia e l’ermeneutica, è venuto a si­ gnificare il mondo delle conoscenze previe, spesso allo stato di ovvietà, che precedono la presa di coscienza o la categorizzazione concettuale e con cui partiamo a «leggere» e «comprendere» la realtà, i fatti, gli even­ti e le persone. In senso comune tuttavia il p. è un’immagine mentale con connotazio­ni af­ fettive di segno negativo verso un gruppo o

una persona esterna fondato sugli stereotipi o immagini che ognuno si fa nel­la propria mente di persone e gruppi. Dai p. possono derivare dei modi di agire parti­colari non de­ siderati dalle persone e grup­pi; a questi modi di agire viene dato il no­me di discriminazio­ ni. Quando i p. non ri­flettono né le capacità e i meriti individuali né i comportamenti di persone o gruppi specifici, allora sfociano in attività di­scriminatorie che negano ai grup­ pi e alle persone la parità di trattamento e diventa­no strumenti di incomprensione, di divisio­ne e di conflitto. 1. Origine dei p. Secondo le teorie coerciti­ve i p. deriverebbero da processi di compe­tizione tra i gruppi a causa della scarsezza di risorse (Campbell, 1965; Sherif, 1967); la minaccia esterna nei riguardi delle risorse disponibili avrebbe l’effetto di potenziare la solidarietà del gruppo o della persona minacciata. Al­ tri sostengono che i processi di discrimina­ zione dovuti ai p. potrebbero sorgere anche nella completa assenza di conflitto e conse­ guente coercizione: lo → status del gruppo di appartenenza sarebbe uno strumento im­ portante per l’attuazione e il mantenimento dell’identità sociale. Quindi si attuerebbero processi di p. per fuggire dai gruppi di bas­ so status e di raf­forzamento dello status dei gruppi accetta­ti. I favoritismi verso il pro­ prio gruppo d’i­dentificazione aiuterebbero ad operare ap­propriate differenziazioni dal gruppo esterno. Il denaro disponibile po­ trebbe es­sere una dimensione importante per il con­f ronto tra i gruppi. Secondo le teorie del­l’apprendimento sociale i p. sarebbero il ri­sultato di → apprendimento, di effettiva osservazione di ruoli e differenze presenti nei gruppi o derivanti da influenze di mass media, della scuola, dei genitori e dei coe­ tanei. A queste spiegazioni interpersonali si possono contrapporre o aggiungere spie­ gazioni intrapersonali di natura psicologi­ ca. Secondo le teorie psicodinamiche, che danno peso agli aspetti motivazionali, il p. e quindi lo stereotipo, sarebbe il risultato di conflitti e di disadattamento nella psiche della persona; e pertanto rappresenterebbe il sintomo di profondi conflitti di persona­lità. Ad es. secondo la teoria del capro espiatorio, l’aggressività verso il gruppo esterno, sareb­ be uno spostamento dell’ag­g ressività da un frustratore potente, una fantasia dentro la 907

PREMI

mente, verso un inerme gruppo minoritario. Le teorie cognitiviste danno maggiore im­ portanza alla limitatez­za della mente umana a gestire i processi informativi. Tali limiti provocano fallimen­t i in ambito percettivo e cognitivo e quindi valutazioni errate dei fatti. Di qui nasce­rebbero correlazioni illu­ sorie, cioè il vede­re coincidenze tra partico­ lari caratteristi­che visibili perché sono meno comuni. Ad es. sarebbero particolarmente visibili i comportamenti negativi rispetto a quelli positivi o i gruppi minoritari rispetto ai gruppi di maggioranza; per cui più facil­ mente si attribuirebbero ai gruppi mi­noritari le caratteristiche negative. Secon­do un mo­ dello di categorizzazione-individuazione le persone si formerebbero delle impressioni partendo da categorizzazioni sommarie per allargarle poi muovendosi lungo un continuo che va verso il reperi­mento di informazio­ ni individuanti che permettono maggiori distinzioni. Gli aspet­t i referenziali usati per creare le impressio­n i di partenza, che servono per definire e organizzare gli altri attributi, costituiscono l’etichetta categoria­ le; gli altri aspetti refe­renziali costituiscono gli attributi. L’etichetta richiamerebbe dalla memoria carat­teristiche con essa collegate e influenze­rebbe in modo sproporzionato il processo di formazione delle impressioni prima an­cora che si abbiano informazioni specifiche sulle persone e sui gruppi. Di tali modalità e processualità si avrebbe cospicua espres­sione nell’etichettamento di una perso­ na, «bollata» ad es. come deviante, tossicodi­ pendente, contestatrice, «bastian contra­ria». Secondo la teoria della congruenza dei valo­ ri e delle convinzioni, i membri dei gruppi esterni sarebbero discriminati e ri­fiutati non sulla base della presenza di con­vinzioni e at­ teggiamenti e valori diversi o in disaccordo con i propri. Secondo questo modo di vede­ re, il p., e poi la discrimina­zione, sarebbero una derivazione abba­stanza diretta degli ste­ reotipi. L’assenza di certi valori, o profonde diversità nella gerarchizzazione dei valori, porterebbe alla delegittimazione di persone o gruppi fino al punto di considerarli non più umani e quindi non più meritevoli di essere trattati come tali. 2. P. e intervento educativo. Secondo le teo­ rie cognitive sembrerebbe che un interven­ to correttivo per attutire le conseguenze 908

negative del p. richiede di informare, per­ ché alla base delle tensioni tra gruppi e per­ sone ci sono gli stereotipi causati soprat­t utto dall’ignoranza e dalla disinformazio­ne. Una condizione necessaria per generare com­ prensione e valutazione positiva tra i grup­ pi è che i membri di essi capiscano le reci­ proche caratteristiche culturali attra­verso un’adeguata informazione, soprat­t utto con l’aiuto dei mezzi di comunicazio­ne di massa e del sistema educativo. Altri ritengono che l’approccio informativo sia insufficiente e che sia importante tener conto dei modelli di apprendimento diretto attraverso il contatto e l’incontro per cono­scersi e capirsi (Allport, 1954). Dalle con­cezioni psicodinamiche il correttivo derive­rebbe dall’affrontare si­ stematicamente nel­le persone i conflitti in­ trapsichici e quindi occorrerebbe presentare programmi per raggiungere l’obiettivo di cambiare le per­sone nel loro mondo psichi­ co attraverso la comprensione di se stessi e della propria mentalità; strumenti importanti sarebbero la → psicoterapia e i gruppi di for­ mazione. Le teorie coercitive infine presup­ pongono un correttivo attraverso l’attuazione della giustizia sociale. Bibl.: A llport G. W., The nature of prejudice, Reading, Addison Wesley, 1954; Campbell D. T., «Ethnocentric and other altruistic motives», in D. Levine (Ed.), Symposium on motivation, Lin­ coln, University of Nebraska Press, 1965; Sherif M., Group conflict and cooperation, London, Routledge and Kegan, 1967; Schwartz S. H. - N. Struch, «Values, stereotypes, and integroup an­ tagonism», in D. Bar-Tal et al. (Edd.), Stereotyp­ ing and prejudice: Changing conceptions, New York, Springer, 1989; Scilligo P., «L’incontro tra per­sone e gruppi: aperture e barriere», in C. Nanni (Ed.), Intolleranza, p. e educazione alla solidarietà, Roma, LAS, 1991; De Caroli E., Ca­ tegorizzazione sociale e costruzione del p., Mila­ no, Angeli, 2005.

P. Scilligo

PREMI Insieme ai → castighi, entrano nei → mezzi educativi come binomio classico per moti­ vare o rinforzare il consenso educativo, pro­ muovere maggiore impegno, generalmente

PREVENZIONE

in stretto riferimento con i → valori educa­ tivi. Tale rapporto è indebolito oggi in molta educazione, specie in quella familiare, per il largo uso di incentivi legati al consumo, al­ l’edonismo, al piacere, nel migliore dei casi al successo, ma per lo più alla richiesta di prestazioni «dovute»: spesso in sostituzione di reale vicinanza e → impegno educativo ge­ nitoriale. 1. Il p. può essere un’aggiunta a sorpresa; può essere una gratificazione abbinata al conse­ guimento di un risultato che viene voluto in relazione al p. Esso può costituire il motivo del fare, può semplicemente evidenziarne, sostenerne, dichiararne il va­lore. Il massimo potenziale educativo viene liberato quando la stessa attuazione assu­me la qualifica di p. per averlo eseguito o conseguito con e per il suo stesso valore in­t rinseco, oggettivo, sog­ gettivo, personale. Ma, come si è accennato, se inflazionato ed estrinseco, può non aiutare a penetrare e fissare il valore dell’impegno educativo, anzi può risul­tare fuorviante e ri­ duttivo se non eticamente e educativamente negativo. La stessa criti­ca vale anche se la tensione premiante è concentrata su conte­ nuti e fini diretti, quan­do questi rispondono a una concezione gretta di sé e della vita, individualistica e privatistica, materialista, consumista, di potenza e dominio, di emer­ genza fatua. 2. La pedagogia del p. rientra all’interno di un’antropologia generale, vale a dire di una visio­ne globale della vita e della condotta, e al­l’interno di essa, di che cosa è educativo della persona. P. collaterali di natura piace­ vole, utile, affettiva, concessiva, possono essere ammessi se iniziali, ma transitori e parziali rispetto alla promozione di un’e­ sperienza motivante di p. connessa con il conseguimento degli esiti validi e vitali per­ sonali, sociali, culturali, etici, religiosi, uni­ ca connessione sostanzialmente educante. È educativo premiare anche l’intenzione e l’impegno, riconoscendo che il valore per­ sonale non è unicamente limitato all’esito. Sono p. educanti il riconoscimento e la lo­ de, il dono di stima, fiducia, responsabilità a chi fa qualsiasi cosa buona. Si può tacere il biasimo, mai la lode. Al di là dell’utopia del dovere puro, la pedagogia cristiana ac­cetta i p. del risultato, del compimento di sé, del

riconoscimento sociale, della soddi­sfazione personale. Anche in rapporto ai p. è impor­ tante essere educatori coerenti, co­stanti, giu­ sti nella distribuzione. Bibl.: Froidure E., P. e castighi nell’educazione giovanile, Torino, SEI, 1963; Zulliger H., Helfen und Strafel, Stuttgart, Klett, 1965; Ducati A., P. e castighi, Milano, Anonima Edizioni Viola, [s.d.].

P. Gianola

PRE-TEST → Lezione

PREVENZIONE La p. è un aspetto della metodologia edu­ cativa che tende a preservare le giovani ge­ nerazioni da carenze rilevanti sul piano della strutturazione della personalità e del­la socia­ lizzazione e che inoltre mira ad in­dividuare eventuali fattori di rischio nello sviluppo evolutivo del soggetto al fine di evitare l’in­ sorgere di comportamenti disa­dattanti, come l’assunzione di droghe e al­cool, atti di van­ dalismo, abbandono scola­stico (→ dispersio­ ne scolastica), passività nei confronti dei → mass-media, disturbi psichici, condotte sui­ cidarie (→ suicidio). Etimologicamente il ter­ mine pre-venio può assumere più significati. In questo conte­sto, facciamo riferimento a due di essi in particolare: 1) arrivo prima; 2) anticipo, impedisco, ostacolo, evito qualcosa che ri­tengo comunque negativo e pericoloso. La p. si colloca in una dimensione temporale di tipo lineare e, specie nella seconda acce­ zione, sembra nascere da finalità negative esplicitandosi attraverso azioni di controf­ fensiva, di sfida contro qualcosa o qual­cuno che non è manifesto ma di cui si ipo­tizzano scenari futuri. 1. Riferimenti storici. La p. affonda le sue ra­ dici nell’origine stessa del Cristianesimo, il cui influsso si è esteso, soprattutto nella cul­ tura occidentale, nel corso dei secoli. È però nell’Ottocento che, sia a causa della trauma­ tica esperienza della Rivoluzione francese e sia a motivo del sovvertimento dell’ordi­ ne antico causato da Napoleone, l’Europa sembra orientarsi con decisione verso l’idea «preventiva». E la p. investe il campo politi­ co come orientamento a re­staurare l’antico, 909

PREVENZIONE

conservando però quanto di positivo aveva­ no portato i tempi nuovi; entra nel tessuto sociale, esprimendosi in una molteplicità di interventi a favore dei poveri (ospedali, isti­ tuti per vecchi, vedo­ve, orfani...); propone in campo penale principi e sensibilità nuove (si pensi ad es. a C. Beccaria per il quale è me­ glio prevenire i delitti che punirli...). Ma in modo ancor più chiaro la p. tende a identifi­ carsi con l’i­dea stessa di → educazione che è p. prima ancora della modalità di approccio meto­dologico: preventivo appunto o repres­ sivo. In questo contesto la → religione che da sempre, almeno come tensione ideale, ave­va fatto suo questo approccio, viene identi­ficata come mezzo privilegiato di p. perso­nale e sociale, garanzia di ordine e di pace. Don → Bosco ne diventa uno dei rappre­sentanti più significativi, sia per la sua personalità che per la sua attività. Emble­matico il suo scritto sul → sistema preventi­vo. 2. Attività e obiettivi. L’attività preventi­ va in campo educativo si esplica attraverso opere di informazione e divulgazione scien­ tifica ma soprattutto di carattere formati­vo (intendendo con ciò l’instaurarsi di un rap­ porto tra individuo-individuo o indivi­duooggetto che si influenzano reciproca­mente interagendo in un determinato con­testo sto­ rico ed ambientale). In tal senso la p. deve essere intesa come un atto che si fa «con» i destinatari dell’intervento e non «per» loro (da una concezione lineare della p. ad una circolare o processuale); nella p., pertanto, l’azione deve essere sinergica e non è pen­ sabile la dele­ga. Gli obiettivi verso i quali agire (individuazione ed integrazione degli indicatori di rischio, dei fattori protettivi, miglioramento della qualità di vita) devono essere esplicitamente condivisi dai soggetti che vi partecipano (giova­ni educatori, utenti, operatori, collettività); obiettivo ultimo è il miglioramento della condizione esistenziale dei giovani nella prospettiva di un loro mag­ gior benessere ma, a differenza del concetto di cura, il be­nessere perseguito nell’ambito dell’educa­zione è simultaneamente di due destinata­ri diversi: la persona bisognosa e la collet­tività. L’idea di → benessere sottesa in­ fatti considera la persona nella sua globalità e interezza, non nella parte malata da curare. Nel contempo si prefigge di evitare che al­t ri membri della collettività si possano tro­vare 910

in simili situazioni di disagio o possa­no, in qualche misura, avere ricadute nega­tive, in­ cappare in condizioni sfavorevoli determina­ te dall’azione del soggetto in dif­ficoltà. 3. Livelli di p. La ricerca di indicatori di ri­ schio capaci di offrire elementi utili ad una classificazione e definizione di possibili per­ corsi preventivi, pone in evidenza la ne­cessità di operare una distinzione termino­logica e di contenuto di diversi possibili li­velli entro i quali collocare un progetto mi­rato. A cia­ scun livello corrispondono obiet­tivi, carat­ teristiche, metodologie e destina­t ari diversi che ne determinano il segno e l’andamento, pur non dovendoli conside­rare in maniera statica e chiusa. 3.1. Primo livello: p. potenziale o promo­zione. In esso si colloca ogni tipo di inter­vento ca­ pace di influire in modo positivo sulla qualità della vita giovanile promuo­vendo salute, cul­ tura, socializzazione. En­t ra in gioco la de­ finizione di un quadro di riferimento di più ampio respiro rispetto a quello della pura p.: la promozione. Pro­muovere vuol dire infatti un andare da qualche parte, probabilmente attraverso cammini sconosciuti, un fare per, ma anche un fare con, orientato alla costru­ zione di qualcosa che non è preesistente. Nel «pro­muovere» restano ostacoli e il problema di trovare delle vie per affrontarli o aggirarli; ma diventa importante il di-venire, da dove e in che modo si arriva a certi appunta­menti: il «pro» diviene premessa e orientamento. Rientrano in questa categoria le at­tività di carattere sportivo, ricreativo, cul­t urale o di socializzazione generica rivolte a minori e/o giovani, e i problemi di ag­giornamento ge­ nerale rivolti ad adulti che rivestono un ruolo educativo. 3.2. Secondo livello: p. specifica del disa­ dattamento. Ad esso corrispondono interven­ ti legati a progetti mirati su fattori di di­sagio personale e/o sociale che possono fa­vorire l’instaurarsi di situazioni di disadat­tamento e devianza giovanile. Appartengo­no a que­ sta categoria servizi e interventi volti ad al­ leviare condizioni di deprivazio­ne culturale, affettiva e sociale e ad orien­tare la persona in fasi e momenti di cam­biamento cruciale. 3.3. Terzo livello: p. specifica primaria. In essa si collocano interventi centrati su fat­ tori-rischio tipici dei fenomeni di di­pendenza giovanile. A questa categoria appartengono i

PREVENZIONE

progetti di educazione alla sa­lute, di sensibi­ lizzazione e formazione orientati all’uso di sostanze, alla manipola­zione del corpo, ecc., promuovendo nel­l’individuo senso critico, maturità affetti­va, autonomia di pensiero e azione, ecc. 3.3. Quarto livello: p. specifica secondaria. In essa si situano interventi rivolti diretta­mente a soggetti già coinvolti, in diverso grado, in situazioni ormai compromesse, in qualche «subcultura deviante» (es. consu­matori o ex-consumatori di droghe, con­sumatori di alcool, attori di episodi legati alla microcri­ minalità, ecc.). Fanno capo a questa catego­ ria attività di carattere psicologico come il → counseling, il sostegno psi­copedagogico, la risocializzazione, la psi­coterapia breve, e attività di carattere so­ciale volte a prevenire processi di stigma­tizzazione ed emargina­ zione, come ad es. il reinserimento lavorati­ vo e le iniziative di aggregazione. 4. I modelli. Se nell’ambito della p. sanita­ria è possibile individuare un buon livello di ela­ borazione teorica ed una specifica identifica­ zione di differenti procedure me­todologiche, non altrettanto è possibile fa­re a proposito del tema p. nell’ambito del­le scienze sociali e dell’educazione. In es­so, infatti, l’introdu­ zione di tale concetto e la conseguente me­ todologia sono di recen­te concezione e defi­ nizione; come sostiene Colecchia (1995), la ricerca in campo psi­cosociale non ha ancora raggiunto livelli di definizione chiara cir­ ca le tipologie dei comportamenti a rischio che possono pro­vocare, a breve o a lungo termine, effetti nocivi per il soggetto che li metta in atto. La natura stessa del periodo evolutivo in cui sono coinvolti i soggetti a cui è rivolta l’attività di p., è all’origine delle difficoltà di definizione esatta non solo dei compor­tamenti indicatori di disagio, ma an­ che del­le relative strategie preventive attua­ bili. I modelli interpretativi dei fenomeni di di­sagio giovanile e le corrispondenti strate­ gie preventive, possono essere tanti quanti i potenziali destinatari per cui occorre fon­ damentalmente creare chiarezza intorno all’approccio teorico che si intende utiliz­ zare. Generalmente contemplano al loro in­ terno differenti prospettive ed approcci. È da pensare ad una prospettiva medico-­biologica entro l’apporto specifico dell’isti­t uzione sco­ lastica con attenzione puntata sull’indivi­

duazione precoce e di recupero dei casi più conclamati. Così pure occorre certamente un approccio psicologico, in cui l’attenzione è centrata sulla ricerca di mec­canismi che si trovano alla base dei rap­porti distorti fra l’in­ dividuo e la collettività, l’individuo e le cose, gli oggetti di consu­mo, l’individuo e le figure genitoriali ecc. L’indagine è cioè portata più che sugli agenti manifesti del disagio, sulle latenti di­sfunzioni psichiche cui è andato in­ contro il soggetto. Né si può trascurare un approc­cio sociologico, in cui l’attenzione è volta alla ricerca delle motivazioni e dei disa­ gi individuali posti in relazione con il conte­ sto sociale e culturale all’interno del quale l’individuo si colloca. Anche se in genere a ciascun approccio corrisponde un modello di p., non si dimostra di alcuna efficacia il con­ siderarli come interpretazioni contra­stanti o escludentesi. Appare invece meno riduttivo utilizzare alcune categorie con­cettuali capa­ ci di offrire letture più inte­grali ed integrate dell’idea di p. e della sua possibile progettua­ lità. Ciò comporta aver chiari: in primo luo­ go la rappresentazione che si ha dell’oggetto verso il quale si in­tende volgere la propria at­ tenzione (droga, dispersione scolastica, mi­ crocriminalità, televisione, ecc.); in secondo luogo l’area d’intervento verso cui si vuole orientare la propria iniziativa (il singolo, la comunità ecc.); in terzo luogo i contenuti dell’inter­vento (promozione di cambiamenti di or­dine culturale, psicologico, sociale); in quarto luogo le finalità «negative» (evita­re i processi di emarginazione sociale, interve­ nire precocemente su fattori che po­t rebbero dar luogo a comportamenti auto­distruttivi); infine le finalità «positive» (creazione di op­ portunità più consone ai bisogni dei giovani e capaci di favorirne una più concreta ed at­ tiva integrazione nel­la società adulta). I più recenti orientamenti preferiscono puntare sugli elementi positivi attraverso il rinforzo delle doti e competenze dell’individuo (em­ powerment, coping, autoefficacia, ecc.), fa­ vorendo un ambiente positivo che favorisca lo sviluppo di tali capacità. Pertanto, anche a livello metodologico, la p. richiede che, accanto ai fattori di rischio, da combattere o contenere, si sviluppi una corrispondente analisi dei fattori protettivi, su cui far leva per migliorare la situazione. Ciò significa sostenere la prosocialità più che combattere l’antisocialità. Da una filosofia che tende a 911

PROATTIVITÀ

contenere e gestire i rischi ad una che vuo­ le promuovere e migliorare le condizioni di partenza e le risorse iniziali del ragazzo, che guarda con favore alle potenzialità attuali che il ragazzo possiede. 5. La metodologia. In tal senso l’obiettivo ul­ timo di una p. davvero efficace dovrebbe es­ sere quello di produrre un cambiamento sia a livello individuale che sociale in cui i punti di riferimento costanti siano: la di­mensione temporale (perché un progetto di p. sia davve­ ro tale occorre un lasso di tempo mediamente lungo, seppur delimi­tato, capace di garantire la piena attuazio­ne e di consentire l’operare di opportune verifiche in tappe intermedie); la dimen­sione della consapevolezza (ogni progetto mirato di p. deve avere chiari e defi­ niti gli obiettivi che intende perseguire, deve sfor­zarsi di conoscere al meglio la realtà su cui intende intervenire ma soprattutto non de­ve considerare «oggetto passivo» coloro verso e per i quali il progetto è studiato); e la dimensione della coerenza (verso se stessi, verso il giovane e verso il progetto). D’altro canto lo stesso termine p. richiama ad una idea concreta centrata sul fare, sul­la prati­ ca attiva, sul coinvolgimento e l’in­terazione tra colui che propone (educato­re) e colui che indica la strada sulla quale immettersi per raggiungerlo in maniera reale e totale (edu­ cando), in un continuo feedback fatto di re­ gressioni e avanzamen­ti, di aggiustamenti e ripensamenti che ne garantiscono la qualità e l’autenticità. Ogni progetto di p./promozione si prefigge di combattere un nemico che sa di non poter sconfiggere totalmente ma che spera di in­debolire attraverso il «rinforzo», inteso co­me l’elaborazione di strategie non distrut­tive e di soluzione dei problemi, che può offrire al giovane in fase evolutiva. Po­ tremmo perciò concludere affermando che proprium della pedagogia è la p. in quanto coincidente con l’azione educativa, cioè con il «venire prima», e con l’essere ef­ficace at­ traverso una connotazione positiva che offra al giovane l’opportunità di rea­lizzare il più compiutamente possibile il suo progetto di vita. Bibl.: Braido P., Breve storia del «sistema preven­tivo», Roma, LAS, 1993; R egoliosi L., La p. del disagio giovanile, Roma, NIS, 1994; Id., La p. possibile, Milano, Cortina, 1995; Colecchia N.

912

(Ed.), Adolescenti e p., Roma, Il Pensiero Scien­ tifico, 1995; Braido P., Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco, Roma, LAS, 2000; Milan G., Il disagio giovanile e strategie educative, Roma, Città Nuova, 2001; Cusson D. P. M., Prévenir la délinquance. Les méthodes ef­ ficaces, Paris, PUF, 2002; Farrington D. P. - J. W. Coid (Edd.), Early prevention of adult anti­ social behavior, Cambridge, CUP, 2003; Nizzoli U. - C. Colli (Edd.), Giovani che rischiano la vita. Capire e trattare i comportamenti a rischio negli adolescenti, Milano, McGraw-Hill, 2004; Barbagli G. - U. Gatti, Prevenire la criminalità, Bologna, Il Mulino, 2005.

D. Castelli - G. Vettorato

PREVISIONE → Statistica PRINCIPI → Concetto → Valori PRIVATO/PUBBLICO → Pubblico/Privato

PROATTIVITÀ Gli psicologi umanisti lamentano che la per­ sona dai comportamentisti e dalla → psico­ analisi è considerata prevalentemente come passiva, capace solo di reagire al­l’ambiente e agli impulsi inconsci. Essi ri­tengono inve­ ce che una descrizione reali­stica dei processi della condotta umana de­ve tener conto anche della capacità origi­nale che il soggetto ha di progettare il pro­prio futuro. Nella voce → mo­ tivazione le due correnti, proattiva e reattiva, sono de­scritte con un qualche dettaglio. 1. La capacità di progettare si fonda princi­ palmente sulla maturazione cognitiva, che prospetta alla persona orizzonti di → valo­r i; questi possono venir percepiti come «beni per me», e diventare scopi della con­dotta. Come si vede, la p. è collegata alla teoria cognitiva della motivazione: gli au­tori che sottolineano la dimensione della p. si richia­ mano alla dimostrata forza moti­vante delle intenzioni e dei progetti a lunga portata. La p. può anche essere considerata come un tratto della personalità, e un indi­zio di matu­ rità e sanità psichica: la condot­ta proattiva è plastica, si adatta alla realtà, contrariamente alla rigida condotta reatti­va; essa è accompa­ gnata da un sentimento di gioiosa conquista, mentre in quella reat­tiva vi è rassegnazio­ ne a una costrizione in­terna o esterna; nel­

PROBABILITÀ: CALCOLO DELLE

la condotta proattiva gli altri e la realtà in genere sono visti come buoni e termine di possibile collaborazione, mentre la persona fondamentalmen­te reattiva si chiude in se stessa, nel tenta­tivo di difendersi da un mon­ do esteriore ed interiore che percepisce come un minac­cioso nemico. 2. La p. è perciò una dimensione che può essere utilmente tenuta in conto in psico­ terapia, come avviene nella → logoterapia di → V. Frankl. Ma anche l’educazione viene qualificata dall’attenzione alla p., vista co­me fondamento del sentimento di respon­sabilità e di un impegno a lunga portata. In varie ri­ cerche il test «Purpose in Life» (PIL, Uno scopo nella vita) di V. Frankl si è dimostra­ to un buon predittore di varie di­sposizioni che condizionano il raggiun­gimento di mete educative. Bibl.: Frankl V. E., Uno psicologo nei Lager, Mi­lano, Ares, 1967; A llport G. W., Psicologia della personalità, Roma, LAS, 1977; Ronco A. - L. Pian ­ o, L’atteggiamento dei giovani verso la morte, in «Orientamenti Pedagogici» 37 (1990) 296-313; Ronco A., Introduzione alla psicologia, Roma, LAS, 1991.

A. Ronco

PROBABILITÀ: calcolo delle L’aggettivo probabile (dal lat. probabilis, meritevole di approvazione, ma anche ve­ rosimile, credibile) viene usato in riferi­ mento a qualcosa che può essere vero, es­sere accaduto o accadere, ma su cui non si è in grado di pronunciarsi con sicurezza. Il so­ stantivo p. può essere quindi usato per indi­ care la «qualità» di ciò che è probabile e, in modo più rigoroso, il grado di attendi­bilità (espresso numericamente) di ciò che è consi­ derato probabile. 1. Origini del calcolo delle p. L’interesse per i problemi posti dai risultati del gioco (dei dadi in particolare) si sviluppa nel sec. XVII e vede impegnati uomini famosi. Se ne occu­ parono occasionalmente G. Galilei e N. Tar­ taglia. Il punto di partenza per lo sviluppo di un’organica teoria della p. è però rappre­ sentato da alcuni problemi, sempre relativi ai

giochi d’azzardo, posti da un assiduo gioca­ tore, il Cavaliere de Meré, a Pascal. Questi non solo risolse i proble­mi proposti ma ne fece oggetto di scambi epistolari con Fermat, ponendo le basi per la riflessione sul con­ cetto di p. e per la sua sistemazione in quel grandioso edificio ma­tematico che è l’attuale calcolo delle p. L’argomento fu sviluppato in modo organico da G. Bernoulli, la cui ope­ra Ars conjectandi apparsa postuma nel 1713. Le riflessioni sulla p. trova­no una sistema­ zione teorica nelle opere di P.S. Laplace, in particolare nella Théorie analytique des pro­ babilités del 1812. 2. Interpretazioni della p. La nuova disci­ plina ha posto all’attenzione degli studiosi diversi problemi: il significato da attribuire al concetto di p.; il modo di esprimere nu­ mericamente (misurare) i valori di p.; la co­ struzione del calcolo delle p. Le principali soluzioni proposte si possono così riassu­ mere. L’interpretazione classica afferma che la p. di un evento è data dal rapporto tra il nu­ mero dei casi favorevoli (successi) all’evento stesso e il numero dei casi possi­bili, supposti ugualmente possibili. La defi­nizione, presen­ te in Bernoulli, è stata teo­rizzata da Laplace e largamente adottata fino ai primi decenni del Novecento. L’interpretazione frequenti­ sta vede la p. co­me il «limite» della frequen­ za relativa di un evento casuale in una serie di prove ripe­t ute nelle stesse condizioni, al crescere del numero delle prove. Si tratta di un punto di vista da tempo applicato in → statistica (previsione della mortalità, assicu­ razioni, ricerche in campo fisico, medico...). Sup­ponendo la ripetizione delle prove, que­ sta definizione non è applicabile ad eventi iso­lati (es.: previsione del successo di una squadra in una determinata partita). Inol­t re non sempre è facile giustificare la co­stanza delle condizioni nella ripetizione di prove e anche il concetto di «limite» (che non coin­ cide con quello matematico) su­scita qualche perplessità. L’interpretazione logicistica: la p. viene considerata come una relazione tra proposizioni, che per­mette di estendere il campo di applicazione della logica formale. La principale diffi­coltà al riguardo sembra quella dell’assegnazione di una «misura» (p.) dell’aspetta­tiva di un evento. L’interpretazio­ ne sogget­tivistica: la p. viene definita come grado di fiducia che una persona manifesta 913

PROBABILITÀ: CALCOLO DELLE

nei con­f ronti dell’aspettativa di un evento. Essa rappresenta l’interpretazione più ampia di p. (ingloba le precedenti). L’impostazione assiomatica: rappresenta il tentativo di co­ struire su basi solide l’edificio del calcolo delle p., assumendo come primitiva la no­ zione di p. ed enunciando alcuni assiomi che permettono di procedere in modo lo­gico e coerente, come accade in altri campi della matematica (geometria, aritmetica). Suo ini­ ziatore qualificato il russo A.N. Kolmogorov, che la propose in una pubblica­zione del 1933. Essa è utilizzabile nel con­testo delle diverse interpretazioni di p. so­pra ricordate. 3. Le distribuzioni di p. Per la descrizione teorica e lo studio di fenomeni aleatori so­no importanti le distribuzioni di p. Tra esse si indicano in particolare: 1) La distribu­zione binomiale: è la più semplice da co­struire, poiché basta utilizzare le «sempli­ci» pre­ messe ricordate sopra e ricorrere al­l’algebra e precisamente allo sviluppo delle potenze di un binomio (di qui il nome di di­stribuzione binomiale) per i calcoli. A que­sta distribu­ zione si perviene considerando prove che ammettono solo due risultati A o B (come nel lancio di una moneta: testa o croce). Ese­ guendo n prove nelle stesse condizioni e con p. costante (e quindi q = 1 - p), la p. di ottene­ re x risultati (0 ≤x ≤ n:) favorevoli, per es. ad A (uscita di testa nel lancio di una moneta) è data da p(x) = (n) pxqn”x, termine generico dello sviluppo del binomio (p + q)n. Di que­ sta distribuzione è possibile calcolare il va­ lore medio (o atte­so), che si dimostra essere μ = np e la di­spersione dei risultati attorno ad esso for­nita da σ = √npq. 2) La distribu­ zione nor­male: a differenza delle precedenti, si applica alla descrizione di variabili ca­ suali continue. Ad essa si può giungere sia considerandola come approssimazione della distribuzione binomiale (teorema di De Moi­ vre-Laplace) o come modello matema­t ico unificatore per presentare l’andamen­to degli errori di misura di fenomeni natu­rali (Lapla­ ce e Gauss – dal nome di que­st’ultimo deriva anche l’appellativo di distribuzione gaus­ siana). Essa è caratteriz­zata dalla media μ e dalla varianza σ2 . Da­ta la sua fondamentale importanza essa è stata tabulata [sono stati calcolati, per di­versi valori di z (→ statistica), le aree com­prese fra la media (0) e i punti z stessi]. 914

4. Modelli probabilistici. Il ricorso a questi modelli, interessa ormai tutti i campi della ricerca e rappresenta l’insostituibile fonte a cui at­t inge abitualmente la statistica infe­ renziale per risolvere i suoi problemi. An­ che un modello apparentemente semplice e rela­tivamente facile da costruire come quel­ lo binomiale può prestarsi a molte applica­ zioni: nascite in famiglia (M o F); risposte a domande del tipo Giusto - Sbagliato; com­ portamento di un ratto in un labirinto (De­ stra - Sinistra). Di particolare importanza è la distribuzione normale. In primo luogo perché l’esame delle distribuzioni empiri­che di alcuni fenomeni naturali (la distri­buzione degli errori accidentali di misura in partico­ lare) suggerisce spesso il ricorso al modello normale come il più adatto per lo studio della situazione. Ma l’importanza della distribu­ zione normale è sottolineata soprattutto dal fatto che essa si propone come buona appros­ simazione ad altre di­stribuzioni teoriche, la­ boriose e difficili da trattare. 5. Significato educativo. Nel ricorso ai mo­ delli probabilistici occorre tuttavia conside­ rare, oltre all’utilità pratica, il valore teorico. Le distribuzioni teoriche di p. de­scrivono l’andamento di fenomeni in situa­z ioni di incertezza. Ciò permette di offrire un rife­ rimento sicuro per la valutazione delle si­ tuazioni di vita (tra esse quelle edu­cative), in vista di scelte (decisioni) tese a ridurre al minimo le possibilità di errore (non ad esclu­ derlo, ovviamente). Di qui l’utilità di appro­ fondire il significato del ri­corso ai modelli probabilistici e di creare per tempo (anche e soprattutto a livello di scuola) interesse al­la loro conoscenza e utilizzazione. Bibl.: De Finetti B., Teoria della p., voll. 1-2, Tori­no, Einaudi, 1970; Costantini D., Introdu­ zione alla p., Torino, Bollati Boringhieri, 1977; D’A more B., P. e Statistica, Milano, Angeli, 1986; Boffa M. - C. Caredda, P. e insegnamento elementare, Torino, SEI, 1990; Ottaviani M. G., Una bibliografia ragionata sulla didattica della P. e della Statistica nella scuola, in «Induzioni», 1991, n. 2; Baldi P., Calcolo delle p. e statisti­ ca, Mi­lano, McGraw Hill, 1992; Scozzafava R., Primi passi in p. e statistica, Bologna, Zanichel­ li, 1995; Orsi R., P. e inferenza statistica, Bo­ logna, Il Mulino, 1995; Dacunha-Castelle D., La scienza del caso: Previsioni e p. nella società

PROBLEM SOLVING

contemporanea, Bari, Dedalo, 2001; Bergamini M. - A. Trifone, Elementi di p. e statistica de­ scrittiva, Bologna, Zanichelli, 2001; P rodi R. - M. T. Sainati, Scoprire la matematica: P. e sta­ tistica, Milano, Corbi e Ghisetti, 2003; Negrini P. - M. M agagni, La P., Roma, Carocci, 2005.

S. Sarti

PROBLEM SOLVING La capacità di saper affrontare problemi è da tutti riconosciuta come una manifesta­zione tipica dell’ → intelligenza umana. General­ mente per problema si intende una situazione iniziale complessa da cui un in­dividuo deve partire per raggiungere uno scopo trovando mezzi e strumenti idonei. 1. Il tema del p.s. non è certo di oggi e dal­ l’inizio del secolo è stato affrontato da mol­ti punti di vista. Vanno ricordate in parti­colare le riflessioni di → Dewey e di → Pia­get. In questi ultimi anni l’approccio della psicolo­ gia cognitivista ha sviluppato un’am­pia at­ tività di ricerca con l’ausilio di meto­dologie anche nuove (ad es. la simulazione del pro­ cesso di soluzione sul computer), ha esami­ nato il comportamento al variare del­la natu­ ra dei problemi e ha analizzato le differenze nelle competenze di esperti e non esperti. 2. Sono stati individuati diversi procedi­menti euristici o strategie per la soluzione dei pro­ blemi. Uno di questi procedimenti consiste nel procedere in modo casuale verso la solu­ zione. Un esempio è dato dal modello di ri­ cerca per prova ed errore non accompagnato dalla pianificazione dei ten­t ativi effettuati, spesso seguito dai bambini. Un altro modo di procedere è quello di cer­care una possibi­ le strada che può condurre alla soluzione e percorrerla fino in fondo. Tuttavia in caso di difficoltà è sempre pos­sibile in ogni momen­ to ritornare indietro fino ad un certo punto e tentare di proce­dere da quel punto in avan­ ti e così di se­g uito. Un altro procedimento euristico molto utilizzato è quello definito degli stru­menti e fini. Esso si è dimostrato molto ef­ficace quando si è voluto costruire un pro­g ramma al computer capace di risol­ vere qualsiasi problema (il programma è ge­ neralmente conosciuto come GPS: General

P. Solver, di Newell-Simon, 1969). Il proce­ dimento consiste nell’osservare la situa­zione problematica e lo scopo da consegui­re e se­ lezionare un passo che riduce la di­stanza tra il punto iniziale e la soluzione. Questo modo di procedere alle volte è sta­to anche detto ri­ cerca a ritroso o in avanti. Nel primo caso si parte dallo scopo e si seleziona l’operazione da svolgere per con­seguirlo. Nel secondo si parte da una situa­zione iniziale e si sceglie la via per raggiun­gere lo scopo. 3. Nel corso delle ricerche sono stati pro­posti un certo numero di modelli e descri­zioni di processi che vengono attivati per raggiungere la soluzione di un problema. Ne ricordiamo due particolarmente signi­ficativi in contesto pedagogico. Schoenfeld (1987) ha suggerito di insegnare quattro at­tività per migliorare la capacità di risolvere i problemi: analizzare e comprendere il problema disegnando un dia­ gramma (quan­do possibile), esaminando casi specifici per esemplificare il problema e per esplorare la gamma di possibilità attraverso casi che lo circoscrivano al fine di trovare uno sche­ma solutorio induttivo da un nume­ ro finito di casi, cercando di semplificare il proble­ma attraverso un confronto che scopra la corrispondenza simmetrica tra gli uni e gli altri senza perdere di vista la globalità; di­segnare e pianificare una soluzione gerar­ chicamente, sapendo spiegare in ogni mo­ mento che cosa si sta facendo, il perché e che cosa si vuol fare con quanto ottenuto; esa­ minare le soluzioni date a problemi dif­ficili prendendo in considerazione dei pro­blemi simili e prestando attenzione alle di­versità riscontrate; verificare la soluzione ponen­ dosi questi interrogativi: sono stati utilizzati tutti i dati? la soluzione è ragio­nevolmente conforme alle previsioni? poteva essere otte­ nuta in altro modo? Bransford e Stein (1984) parlano di cinque componenti (IDEAL): identificazione (iden­tifica l’esistenza di una situazione proble­matica); definizione (cerca di precisarla e di descriverla nel modo più accurato possi­bile); esplorazione (esplora le possibili so­luzioni alternative: per fare que­ sto spezza il problema in sottoproblemi più affrontabili, richiama casi speciali già incon­ trati, lavora a ritroso); azione (agisci svilup­ pando le ipotesi fatte); osservazione (osserva i risul­tati ottenuti dalle operazioni eseguite e se si adattano bene ai termini del problema). 915

PROBLEMATICISMO PEDAGOGICO

Bibl.: Polya G., How to solve it, New York, Doubleday, 1957; Newell A. - H. A. Simon, Hu­ man p.s., Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1972; Brans­ ford J. D. - B. S. Stein, The IDEAL p. solver, Belmonte, Wadsworth, 1984; Schoenfeld A., Cognitive science and mathematics educa­ tion, Hillsdale, Erlbaum, 1987; Smith M. U. (Ed.), Toward a unified theory of p.s. Views from content domains, Ibid., 1991; Sternberg R. J. - P. A. Frensch, Complex p.s.: principles and mecha­ nisms, Ibid., 1991; M ayer R. E., Thinking, p.s., cognition, New York, Freeman, 21992.

M. Comoglio

PROBLEMATICISMO PEDAGOGICO Sono dette genericamente problematicistiche quelle posizioni fi­losofiche pragmaticistiche, storicistiche, immanentistiche, esistenzialisti­ che che ri­fiutano assolutezze di tipo metafisico e pretese dogmatiche di verità sovrastoriche e di valori eterni. Lo scetticismo e il nichi­lismo vengono evitati, perché la problematicità e non definitività della ricerca vengono connes­ se con le potenzialità di apertura universale e critica della ragione. Essa, come ragione tra­ scendentale, può fa­re opera di demistificazio­ ne antidogmatica e di comprensione pratica della realtà sto­rica umana. 1. In un senso più specifico, il termine è ve­nuto alla ribalta nell’ambito della filosofia italiana del ’900 con U. Spirito (1896-1979) e con A. Banfi (1886-1957). Di fronte alle contraddi­ zioni della metafisica occidenta­le e dell’at­ tualismo di → Gentile (di cui era stato disce­ polo), U. Spirito vede nel p. l’u­nica posizione teoretica possibile. Penserà di superarla con una prospettiva di vita co­me ricerca, come arte, come amore e, da ultimo, affidandosi alle potenzialità critiche ed operative della scienza. Rispetto alle pretese assolutistiche del neo-idealismo crociano e gentiliano, il p. di Banfi, di­scepolo di Martinetti, si pone come razio­nalismo critico, ispirato al kanti­ smo della Scuola di Marburgo, al pensiero di Simmel (di cui fu amico) e alle suggestioni teoretiche della fenomenologia husserlia­na. Nel suo pensiero, di respiro europeo, in ana­ logia con la prospettiva kantiana, la ra­gione ha una funzione critico-trascenden­tale, non 916

fondativa; ma insieme assolve ad una fun­ zione unificativa dell’infinita pro­blematicità dell’esperienza, mantenendo aperta la ricer­ ca e sostenendo «praticamente» l’impegno dell’«uomo copernica­no», costruttore di sé e del suo mondo nel­la storia. In questa linea, il Banfi, da sem­pre antifascista, nel secondo dopoguerra aderirà al partito comunista e si avvicinerà a posizioni etico-politiche ispirate ad un marxismo non dogmatico e visto come strumento di critica sociale e civile. 2. Lo stesso Banfi, ma soprattutto il suo di­ scepolo → Bertin (1912-2002), hanno of­ferto una versione problematicistica della pedago­ gia, che stimola a prendere coscien­za della relatività e problematicità dell’esi­stenza ed in particolare dell’esperienza educativa. Ri­ spetto ad esse viene eviden­ziata la necessità di affrontare i problemi in chiave di una ra­ zionalità aperta e dina­mica (che nell’ultimo Bertin si avvicina al­la «lievità» e alla libertà nietzscheiana). L’aderenza alla realtà e la fe­ deltà alla ra­gione si esprimono pedagogica­ mente in una «educazione alla ragione», per favorire l’autonomia, il coraggio, la dispo­ nibilità, l’impegno socio-politico, l’apertura all’oltre, al bello, al nobile e agli altri con l’ami­cizia, la simpatia, la solidarietà. Tale posi­zione pedagogica, da parte spiritualisti­ ca e neotomista, è stata accusata di assolutiz­ zare a sua volta la problematicità e di cadere quindi nel dogmatismo e nel relativismo; e da parte marxista è stata tacciata di ideo­logismo borghese. Tuttavia, nel pluralismo attuale, il p.p. ottiene considerazione per le sue stimo­ lazioni di una libertà in senso democraticosolidale e per prospettive educative aperte a valori esistenziali personalizzati. Bibl.: Miano V., Il p. e l’educazione, Roma, PAS, 1960; Banfi A., La problematicità dell’educazio­ ne e il pensiero pedagogico, a cura di G. M. Ber­ tin, Firenze, La Nuova Italia, 1961; Bertin G. M., Edu­cazione alla ragione, Roma, Armando, 1968; Spirit­ o U., Dall’attualismo al p., Firenze, Sanso­ ni, 1976; Bertin G. M., Nietzsche. L’inattuale: idea pedago­gica, Firenze, La Nuova Italia, 1977; Bertin G. M. - M. G. Contini, Progettualità esistenziale, Roma, Armando, 1981; Beseghi E., «P.p.», in M. Laeng (Ed.), Enciclopedia pedago­ gica, vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 9405-9413; Baldacci M., Il p., Lecce, Milella, 2004.

C. Nanni

PROCESSO DI BOLOGNA

PROCEDIMENTO DIDATTICO Il termine p. (dal lat. procedere, comp. di pro, avanti, e cedere, andare) indica un comples­ so di operazioni con cui si risolve un proble­ ma, si conduce un’esperienza. Per p.d. si può intendere la via seguita nel­lo svolgimento di un’unità didattica, o nel­l’applicazione di un metodo, o nella realiz­zazione di un obiettivo in sede didattica. Per questo nella → program­ mazione i p. spesso vengono identificati con le attività da prevedere, che devono rispondere ai cri­teri di scelta metodologica relativi a: obiet­ tivi-contenuti-soggetti in situazione, sem­pre tenendo presenti i principi didattici. 1. Una definizione di p.d., di frequente ri­ ferimento nei trattati di didattica, è quella di R. Titone che lo considera come «la via par­ ticolare seguita nell’applicazione di un me­ todo o una forma d’insegnamento» (Ti­tone, 1975, 384) e ne indica 6 tipi com­plementari e variamente combinabili a se­conda della necessità dello svolgimento di una lezione: induttivi (osservazione, spe­r imentazione, comparazione, astrazione, generalizzazio­ ne) e deduttivi (applicazio­ne, verifica, di­ mostrazione), sintetici (con­clusione, defini­ zione, riassunto, ricapitola­zione) e analitici (divisione, classificazio­ne), espositivi e in­ terrogativi. 2. I p.d. possono indicare, inoltre, sia il per­ corso da seguire da parte dell’insegnante nella conduzione didattica della propria di­ sciplina di studio: pre-test (analisi della si­ tuazione) - programmazione - realizzazio­ne - verifica (post-test), sia le modalità pro­ cedurali da seguire in corrispondenza alle fasi del processo assimilativo del soggetto che apprende, che vanno dal momento glo­ bale o intuitivo, al momento analitico di ri­ cerca e al momento sintetico (d’integrazio­ne - organizzazione - sistematizzazione - col­ legamento). I p.d., ovviamente, variano a seconda che la didattica sia centrata o sul­la materia da insegnare, quindi sull’insegnante, o sull’alunno e sul suo apprendi­mento. 3. Oggi, con il supporto dell’informatica, i p.d. dispongono di un ricco ventaglio di sussidi didattici che vanno dalla possibilità di presentare il materiale delle lezioni, alla scelta delle strategie e degli interventi de­

siderati, ecc. Con l’editoria multimediale, soprattutto con l’→ e-learning e l’apprendi­ mento virtuale, la didattica digitale sta ormai rivoluzionando i p.d. Bibl.: Titone R., Metodologia didattica, Roma, LAS, 31975; Motos Teruel T., Las técnicas dra­ máticas: procedimiento didáctico para la ense­ ñanza de la lengua y literatura en la educación secundaria, Valencia, Universitat de València, Servei de Publicacions, 1993 De Corte E., Les fondements de l’action didactique, Bruxelles/Pa­ ris, De Boeck/Larcier, 31996.

H.-C. A. Chang

PROCESSI SOCIALI → Società PROCESSO DECISIONALE → Educazione morale → Organizzazione scolastica

PROCESSO DI BOLOGNA Per P.d.B. s’intende la creazione entro il 2010 dello Spazio Europeo dell’Istruzione Supe­ riore, delimitato dalla conoscenza, arricchi­ to dalla cittadinanza europea, scandito da competenze e consapevolezze valoriali. Il P.d.B. nasce con la Dichiarazione di Bologna del 19 giugno 1999 firmata da 29 Ministri dell’Istruzione che impegnano i propri Paesi a partecipare alla riforma dei loro sistemi di istruzione superiore per facilitare la traspa­ renza e la cooperazione. 1. Gli obiettivi principali del P.d.B. sono l’incremento di competizione, la mobilità, l’occupazione attraverso il raggiungimento da parte di ogni sistema dei seguenti sei tra­ guardi: 1) rilascio di titoli di laurea, master e dottorato, facilmente leggibili e comparabili (Diploma Supplement); 2) introduzione del doppio ciclo di formazione universitaria; 3) riconoscimento e trasferimento dei crediti formativi; 4) mobilità di studenti e profes­ sori; 5) accertamento dei livelli di qualità con comparazione di criteri e metodologie; 6) promozione della dimensione europea. Nell’incontro di Praga (2001) si aggiungono tre obiettivi: 7) educazione permanente; 8) partecipazione degli studenti; 9) capacità di attrazione. A Berlino (2003) si aggiunge un altro obiettivo: 10) favorire la ricerca e la for­ mazione (dottorato). 917

PROCESSO EDUCATIVO

2. La struttura denominata The Bologna Fol­ low-up group (BFUG), prepara gli incontri semestrali, le iniziative connesse ed esamina lo stato di avanzamento del P.d.B. Nell’esta­ te 2000 viene lanciato il Tuning Educational Structures in Europe project che offre alcu­ ne linee generali di azione per orientare le università, soprattutto per il trasferimento dei crediti. Le università di Deusto-Bilbao (Spagna) e Groningen (Olanda) sono i centri di elaborazione del progetto di sintonia dei si­ stemi educativi, vengono rivisti gli obiettivi e precisate le aspettative di ciascuna disciplina (competenze generali e specifiche), senza che le università perdano specificità e autonomia. I discorsi si concentrano su curricoli e chia­ rezza dei risultati di apprendimento. I Con­ sigli europei di Lisbona (2000) e Barcellona (2002) convergono sul P.d.B. Entrando nel si­ stema di convergenza le università accettano di condividere l’obiettivo comune e lo realiz­ zano a livello nazionale (riforme strutturali), internazionale (incontri e verifiche europee), istituzionale (Facoltà, Dipartimenti). Nel 2007 sono 46 i Paesi che partecipano al P.d.B. Le nuove priorità riguardano: la sinergia tra ricerca e formazione; la dimensione sociale; la mobilità; le relazioni con il resto del mon­ do. Nel bilancio di Londra, Stocktaking Re­ port (2007), si sollecita la predisposizione di percorsi di istruzione superiore flessibili, con il riconoscimento di apprendimenti maturati in vari contesti. Le sfide correnti per il siste­ ma italiano sono: la dispersione negli studi; il conseguimento del titolo entro i tempi pre­ scritti; il miglioramento dei livelli di occupa­ zione di chi ha conseguito la laurea triennale; l’internazionalizzazione del sistema universi­ tario. Bibl.: H aug G., Tuning educational structures in Europe. Project launching event. The Tuning project in the context of main trends in higher education in Europe, Brussels, European Uni­ versity Association (EUA), 4 May 2001; Europa, Ricerca e formazione. Verso uno spazio euro­ peo della ricerca, in http://europa.eu/scadplus/ leg/it/lvb/i23010.htm, 2005; R auhvargers A. et al. (Edd.), Bologna Process Stocktaking Report from a working group appointed by the Bologna Follow-up Group to the Ministerial Conference in London, May 2007, London, Department for Education and Skills, Socrates, 2007.

S. Chistolini

918

PROCESSO EDUCATIVO Per p. si intende in generale una successio­ne di fatti o fenomeni o attività aventi tra loro un nesso più o meno profondo. A vo­ler essere più circostanziati, specie quando si parla di p. storici, in cui oltre agli anda­menti fisici, naturali, interviene anche l’a­zione umana libera, nell’idea di p. è conte­nuta anche l’im­ plicanza di una sequenzia­lità rivolta verso qualcosa che si pone, più o meno cosciente­ mente, come fine e che por­ta a organizzare l’insieme, e persino a sot­toporre a regole e norme le soggettività che intervengono o in­ teragiscono nel p. In pe­dagogia l’idea di p. è anzitutto connessa con il divenire e con la crescita delle perso­ne. In tal senso il termine si applica alla → formazione. Il concetto di p. è poi ap­plicato all’azione e all’intervento di educa­tori (e degli stessi educandi) sul dive­ nire personale. In tal senso si parla di p.e. (→ educazione). 1. L’educazione come p. L’educazione, in­fatti, non si risolve in un atto singolo o in un’azio­ ne di breve durata. Necessita di dispiegarsi nel tempo e di agire su piani articolati e di­ versi; e di organizzarsi secondo un certo di­ segno o progetto, più o meno manifesto o più o meno cosciente, ma non per questo meno impegnativo o strutturan­te l’azione concreta (→ curricolo). In senso più largo l’educazione è p. perché parte dalla carica di vitalità insita nell’organismo totale, la sviluppa e la inve­ ste nelle situa­zioni relazionali in cui viene a vivere e operare. Essa, infatti, per un verso funziona come una con­centrazione interna di strutture e dinami­che germinali corporee e psichiche, spiri­t uali e di grazia, e per al­ tro verso come svilup­po evolutivo genetico di personalità, di vita, di comportamenti, di un sistema di rela­zioni verso sé, gli altri, il mondo, la società, la cultura, la storia, la tra­ scendenza. 2. Proposte diverse. Il behaviorismo insiste sul p. d’apprendimento sociale rinforzato. La → psicoanalisi mette a fuoco il p. di rien­t ro nelle profondità inconsce, di gioco dinamico tra es, ego e super-ego, di funzione media­ trice dell’io, di patologia e di sublima­zione. L’ → umanesimo, classico e nuovo, definisce preferibilmente p. cognitivi, elet­tivi, cona­ tivi, proattivi e progettuali virtuo­si. L’indi­

PROCESSO EDUCATIVO

rizzo esistenziale ed esperienziale è attento ai p. fattuali, relativi, contestuali e storici. Indirizzi di → psicopedagogia e sociopeda­ gogia si spartiscono accentuazioni intime e ambientali, relazionali formali e contenuti­ stiche. Qualcuno aggiunge p. di trascenden­ za etica, storica, religiosa. 3. P.e. formali. Il p.e. globale si articola in molti p. formali e so­stanziali. Tra i primi si possono include­re p. di → liberazione della vitalità interio­re, fino alla massima espan­ sione organica, funzionale e operazionale. Centrale è il p. di liberazione delle condi­zioni di uso abituale della libertà persona­le come fatto e valore psicologico, etico, sociale, re­ ligioso. La pedagogia recente ha dato molti nomi e contenuti a questo p.e. fondamentale: realizzazione di sé e del po­tenziale vitale (→ Rogers, Karkhuff), → au­toeducazione (Sch­ neider), → personalizza­zione (García Hoz), ominizzazione e cristificazione (Teilhard de Chardin), coscientizzazione (→ Freire), epigenesi o divenire dell’io (→ Erikson, → Allport, Rapaport, Guindon), liberazione popolare (Pedagogia terzomondista). I p. di → socializzazione guidano l’inserimento della persona nelle relazioni interpersonali, nei sistemi culturali di interpretazione, di valori, di progetti, nei sistemi politici, eco­ nomici, professionali lavorativi, religiosi, in quelli del mondo fisico e virtuale. Oggi i p. di → comunicazione hanno aperto nuove vie, offerto potenti strumenti, per­messo miglio­ re conoscenza e uso delle di­namiche, delle leggi, delle condizioni di ap­prendimentoinsegnamento, messo a disposizione infor­ mazioni variegate: non senza l’insorgenza di specifici problemi umani, esistenziali, edu­ cativi. Così pure, oggi si è molto attenti e si provano strategie specifiche per p. di cambia­ mento, correzione, → conversione, recupero, rieducazione. Ma per essi oltre il curare c’è il rimotivare e l’esercitare in positivo persone e comunità di riferimento. In tal senso dovrà essere necessaria la critica relativa ai sistemi culturali e valoriali di appartenenza; e ma­ gari occorrerà impegnarsi a far evolvere e cambia­re radicalmente non solo persone, ma anche contesti di vita. 4. P.e. sostanziali. Tra essi si può anzitutto includere la → identificazione personale che è conquista di una identità personale, culturale

e sociale, autoco­sciente ed articolata, di una buona imma­gine di sé, tra reale, profondo e idealità, aper­ta a sviluppi e consolidamenti. La → appar­tenenza è presa di coscienza, de­ finizione, sviluppo relazionale centripeto e centrifu­go, dell’essere con e in relazione ai si­ stemi contestuali naturali, personali, sociali, et­nici, politici, religiosi, ma anche generazio­ nali, locali e mondiali, intimi e pubblici. In tal senso è p. di­namico da interpretare, da assimilare e in­tegrare nelle sue molte dimen­ sioni. La → partecipazione operativa at­tiva, consegue dalla sintesi dina­mica delle diverse facce dell’identità e della plura­lità delle ap­ partenenze. Esige un’ampia articolazione di sotto-processi educativi soggettivo-oggetti­ vi, di percezione, valutazio­ne, giudizio, de­ cisione, preparazione, dive­nire complesso e realistico. È unitaria ri­spetto alla soggettività olistica impegnata; è pluralistica rispetto alla molteplicità con­temporanea di ruoli e compi­ ti. Rischia con­flitti e richiede composizioni e integrazioni impegnative, ge­rarchie di verità e valori, priorità di impegni e di urgenze. 5. Il cammino processuale. Una sequenza di p. chiede riflessione e attuazione competen­ te. L’ → azione educativa parte impegnan­do il soggetto in un p. di esperienza cono­scitiva delle realtà interiori e di contesto, del­le rap­ presentazioni di valore e di verità, di norme e di modelli di atteggiamento e di compor­ tamento. Passa attraverso un p. de­cisivo di valorizzazione oggettiva e sogget­t iva, per­ sonalizzata. Genera → amore che è tensione affettiva e morale, tendenzial­mente irresisti­ bile. Sviluppa il dovere, non come necessità esterna, ma come tensione interiore. Con­ clude con la volontà dei fini e dei mezzi, di consenso e di coe­renza. Segue l’attuazione fedele. Global­mente vi è un p. unico di inte­ riorizzazione di fattori reali, ideali e modali educanti e di investimento integratore di sé e dei propri poteri vitali personali e contestua­ li. Il p. di organizza­zione personale cogniti­ va, affettiva, pro­gettuale, resta sempre solo relativamente finalistico in quanto è sempre aperto a ulteriori ag­giunte e dilatazioni, mi­ glioramenti di qua­lità e perfino correzioni, cioè sempre criti­co e disposto a p. continui di ristrutturazione del campo e di riorganiz­ zazione più avanzata di esso. 6. Quando i. p. sono educativi? Lo sono per 919

PROFESSIONALITÀ

alcune qualità: in quanto sono consapevoli e intenzionali, vale a dire rivolti all’effetti­va educazione della personalità; in quanto sono direzionali, vale a dire dotati di spin­ta e ten­ sione intenzionale umanamente significativa; in quanto sono complessi, vale a dire libera­ tori di vitalità, relazionali a realtà, genera­tori di buone forme dell’essere, dell’agire virtuo­ so, dell’operare valido, del vivere solidale con gli altri; ed infine in quanto sono biso­ gnosi di media­zione e di guida. Bibl.: A llport G. W. Divenire. Fondamenti di una psicologia della personalità, Firenze, Barbe­ ra, 1968; Gianola P., Il campo e la domanda, il progetto e l’azione. Per una pedagogia metodo­ logica. Edizione a cura di C. Nanni, Roma, LAS, 2003; García Hoz V., L’educazione personaliz­ zata, Brescia, La Scuola, 2005.

P. Gianola

PROFESSIONALITÀ Acquisire nuova p. è un’esigenza sentita for­ temente dalle società moderne ad alto svilup­ po tecnologico. È un termine che non si trova in tutte le lingue e non è in realtà facile defi­ nirlo, anche perché esso è molto legato ad un certo modello organizzativo del mondo del → lavoro e a volte ad una vi­sione settoriale di chi svolge una determi­nata attività. 1. Una realtà composita. La p. si evolve nel tempo seguendo l’evolversi del sistema di rapporti tra mondo produttivo e società, istruzione e sviluppo economico-sociale di un Paese. Quando parliamo di p. potrem­ mo comunque intendere l’insieme unitario di conoscenze e competenze operative me­ diante le quali l’uomo si pone intenzional­ mente di fronte alla vita attiva riferita ad un preciso contesto storico «possedendo» in termini positivi un suo lavoro (Chiosso, 1981, 153). Il termine p. non abbraccia solo una di­ mensione oggettiva che riguarda esclusiva­ mente il posto di lavoro, ma anche una di­ mensione soggettiva più attenta alla qualità e ai valori richiesti alla persona che lavora. Tutto ciò rende la p. una realtà composita che coinvolge dimensioni cono­scitive e ca­ pacità operative, atteggiamenti nei confronti del lavoro e delle stesse strut­t ure interessate 920

alla produzione e forma­zione. Per p. quindi si potrebbe anche in­tendere il processo at­ traverso il quale l’uo­mo, mediante il lavoro, costruisce il suo progetto di vita, qualunque esso sia. In que­sto senso la p. non esprime soltanto la qua­lificazione dell’attività, ma anche la qualificazione dell’uomo che lavora. Essa dun­que non è uno stato, ma un processo che si sviluppa tra l’uomo e la realtà dina­ mica og­gettiva in una società in evoluzione. Una definizione di p. può quindi assumere sfu­mature e caratteristiche alquanto diver­ se in base ai modelli presi come riferimento sull’organizzazione del lavoro. 2. Modelli di p. Restringendo l’analisi al sec. XX, un primo modello di p. è quello che fa riferimento all’or­ganizzazione scientifica del lavoro elabo­rata da Taylor dove i compiti complessivi di un’organizzazione vengono assolti da compiti individuali ben distinti, analizzati in dettaglio, in modo da scomporli in sem­plici operazioni facilmente eseguibili lega­te ad un posto di lavoro ben definito. È questo un modello che l’evoluzione tecnolo­ gica tende oggi a superare, sostituendo la lo­ gica della mansione con quella del ruolo che nel lavoro, oltre alla parte esecutiva, consi­ dera anche le aspirazioni, le attese e i com­ portamenti con i colleghi, le proble­matiche aziendali e sociali. Un secondo modello di p. deriva dalla teoria delle rela­zioni umane che vede non solo le proble­matiche del posto di lavoro ma anche delle persone che lo occu­ pano, che devono esse­re motivate e indotte a partecipare al siste­ma di comportamento or­ ganizzativo in mo­do da riuscire, per quanto è possibile, a co­niugare il raggiungimento de­ gli obiettivi personali con quelli del mondo esterno. La p., vista in quest’ottica, non è più legata unicamente ai processi tecnologicoproduttivi, ma anche ad altre istanze sociali e personali. Si vuole giustamente accentua­re che è opportuno tenere ben presente nell’or­ ganizzazione del lavoro il problema produt­ tivo non staccato da aspetti legati al com­ portamento umano, ma legato ad aspetti at­ titudinali, motivazionali e di at­teggiamento. Un terzo modello di p. mette in particolare rilievo gli aspetti razionali e intellettivi del comportamento organizza­tivo. Esso si ritro­ va oggi con sempre mag­giore frequenza in opere di economisti, di studiosi dei processi di pianificazione, di sociologi e psicopedago­

PROFILO EDUCATIVO

gisti industriali, di filosofi e di teologi socia­ li. Secondo questo modello, ancora da appro­ fondire, la p. può essere definita da una serie di elementi ba­sati sulla capacità di prendere decisioni e risolvere problemi; sulla capacità di defini­re di volta in volta gli atteggiamenti voluti, gli obiettivi da perseguire e i para­ metri quantitativi e qualitativi necessari per rag­giungerli. In questa nuova concezione, p. significa non solo capacità di capire e gui­ dare gli scopi, di collaborare con membri del proprio gruppo nel lavoro, di comuni­care con tutti e sviluppare positive azioni di influenza sociale, ma soprattutto si­gnifica nuovo modo di organizzare il lavo­ro. Questo modello sup­ pone di organizzare gli interventi in cui si utilizza la propria ca­pacità professionale sul massimo decentra­mento possibile, cercando di coordinare la più larga partecipazione per armonizzare e anche potenziare, nei rapporti di produzione e di lavoro, l’efficienza con la democra­zia. 3. Caratteristiche della p. Nel definire la p. è quindi necessario tener presente un insie­ me di dimensioni soggettive e oggettive che riguardano sia le qualità e i valori ri­chiesti alla persona, sia i problemi di inte­razione con strutture e persone nel suo rap­porto con il mondo esterno. Un insieme di fattori che caratterizzano la p., legati al­l’acquisizione di conoscenze sul ruolo da assumere e sulle principali caratteristiche richieste dal lavo­ ro che si intenderà svolge­re, alla capacità di risposta ad una do­manda tecnologica e cul­ turale sempre più esigente ed alla capacità d’immaginare so­luzioni diverse dalle attua­ li. Una peculia­r ità della nuova p. riguarda però la sua di­namicità, il suo evolversi nel tempo, pro­vocato anche dalla necessità di un continuo confronto con la realtà odierna. In questo contesto si evidenzia come una delle prin­cipali caratteristiche la predisposizione al cambiamento, alla formazione perma­ nente e alla capacità di collaborazione in un con­testo pluralistico. Non è ormai pensabi­ le poter acquisire tutto a 20/30 anni, ma è ne­cessario continuare a confrontare quanto acquisito con il mondo in rapido cambia­ mento, essere attenti alle osservazioni e ai rilievi che via via vengono fatti da studiosi sull’argomento. La capacità di aggiornarsi è diventata ormai un elemento caratteriz­zante della nuova p.

Bibl.: Chiosso G., Cultura, lavoro e professio­ ne, Milano, Vita e Pensiero, 1981; M argiotta U. et al., La p. docente nell’istruzione secondaria: Syllabus, Lecce, Pensa Multimedia, 2004; Cambi F. et al., Le p. educative: tipologia, interpretazio­ ne e modello, Roma, Carocci, 2003; Fontana U., Senza perdersi: p. e relazioni pastorali, Padova, Messaggero, 2005; Negri M. P.- M. Castoldi, P. formativa empowerment per le scuole, Milano, Angeli, 2007.

N. Zanni

PROFESSIONE DOCENTE → Formazione de­ gli insegnanti PROFESSIONE EDUCATIVA → Educatore → Pedagogista PROFESSORE → Insegnante

PROFILO EDUCATIVO Per p.e. si intende la descrizione sintetica delle caratteristiche personali di natura co­ gnitiva, affettiva, motivazionale e sociale, tracciata in generale al fine di impostare, condurre e valutare un intervento educativo. 1. In psicologia dell’educazione. Il p. di un soggetto viene definito sulla base dei proble­ mi educativi che devono essere affrontati. Le variabili prese in considerazione possono es­ sere variabili di personalità (come sistema di valori personali, autostima), variabili di at­ teggiamento (come disponibilità verso un’at­ tività o una relazione), variabili di compe­ tenza (come capacità strategiche di controllo delle emozioni), variabili cognitive (come struttura della conoscenza), variabili affetti­ ve (come ansia di base, livello di emotività) ecc. La descrizione delle caratteristiche di un soggetto viene espressa generalmente per mezzo di scale che indicano i livelli o valo­ ri assunti dalle variabili prese in considera­ zione. Per giungere a queste descrizioni si possono usare strumenti diagnostici diffe­ renti come → test, → questionari, → colloqui, → osservazione sistematica, ecc. Nel caso di disturbi, evidenziati da livelli bassi nei valori rilevati per le diverse variabili, il p. assume il ruolo di diagnosi funzionale per impostare un’azione terapeutica e/o rieducativa. In psi­ cologia comportamentale la definizione di un p. di base serve a evidenziare i compor­ 921

PROFILO PROFESSIONALE

tamenti «bersaglio» e quindi gli obiettivi di modifica del comportamento da conseguire. 2. In didattica. Il p.e. assume caratteristiche analoghe a quelle di un p. psicologico, ma in questo caso le variabili considerate si riferi­ scono prevalentemente alle conoscenze effet­ tivamente disponibili (concetti e abilità), agli atteggiamenti verso le discipline e in genere verso la scuola, alle competenze strategiche relative all’ → apprendimento. Per redigere un p. possono essere usati sia i risultati scolasti­ ci, sia dati desunti dall’applicazione di test e questionari, sia elementi derivati da colloqui e da osservazioni sistematiche. Il risultato di questa descrizione serve da base di appoggio per impostare l’azione didattica. Anche in questo caso un p. che faccia emergere debo­ lezze o particolari doti segnala l’esigenza di impostare percorsi di insegnamento più indi­ vidualizzati e rivolti a rispondere alle caren­ ze o punti di forza emersi. 3. In campo educativo. Il termine è stato usato in una pluralità di accezioni: a) come descrizione di un modello di riferimento per l’azione educativa sia dal punto di vista dell’educando (modello ideale di giovane educato), sia da quello dell’educatore (perso­ naggi o modelli ideali ispiratori per imposta­ re l’azione educativa); b) come descrizione di modello di pratica educativa oppure di uno stile educativo particolare; c) come de­ scrizione, talora categorizzata per tipologie distinte, di soggetti per i qua­li si deve impo­ stare un’azione educativa. Secondo quest’ul­ tima categoria può essere ricondotta la pro­ posta di de La Garanderie (1991) che tratta appunto di «p. pedagogici» nel senso di ca­ ratteristiche personali degli educandi da in­ dividuare, evidenziando più che i lati deboli, le qualità positive al fine di potenziare queste ultime e far leva su di esse per promuovere una crescita equilibrata che tenga conto an­ che delle altre qualità necessarie. Bibl.: Scurati C., P. nell’educazione, Milano, Vita e Pensiero, 1977; Suggett D., Guidelines for descriptive assessment, Melbourne, VISE, 1985; Broadfoot P. (Ed.), Introducing profiling: a practical manual, London, Macmillan, 1987; La Garanderie de A., I p. pedagogici, Scandic­ ci (FI), La Nuova Italia, 1991; Calonghi L., P. e livelli nella valutazione del profitto, in «Orien­

922

tamenti Pedagogici» 39 (1992) 605-616; CalonL. - C. Coggi, P. e valutazione formativa, in «Orientamenti Peda­gogici» 39 (1992) 977-990; Center D. - L. Allison, Il p. psicologico, Roma, Carocci, 2004. ghi

M. Pellerey

PROFILO PROFESSIONALE 1. Introduzione. Rappresenta la descrizione delle caratteristiche di un ruolo professio­ nale, ed in particolare la collocazione orga­ nizzativa ed i compiti che caratterizzano tale ruolo, così da costituire riferimento per la progettazione – e la certificazione finale – di un percorso che miri a formare persone do­ tate di competenze adeguate. L’utilizzo dei p.p. risponde alla necessità di finalizzare le attività di istruzione e formazione tecnicoprofessionale alle reali necessità del mondo del lavoro, così da consentire l’occupabilità delle persone formate e la loro valorizzazio­ ne entro il contesto economico. 2. Spiegazione. Esistono tre grandi scuole di pensiero circa il modo in cui elaborare il p.p.: a) La scuola granulare che pone al centro dell’analisi le attività lavorative sotto forma di mansioni. Tale visione ha le sue origini nel modello di organizzazione scientifica del lavoro di F.W. Taylor che prevede la verti­ calizzazione della decisione, la definizione scientifica delle mansioni, la selezione del­ la persona più adatta, l’addestramento della stessa in modo efficiente, il controllo della produttività. b) La scuola istituzionale che enfatizza l’importanza dell’organizzazione al fine di delineare ruoli che corrispondano alle reali professioni aziendali; queste devo­ no essere pensate come vere e proprie «strut­ ture sociali» ovvero famiglie professionali identificate da figure omogenee per compe­ tenze maturate e skill effettive realizzate. c) La scuola olistica che mira a ricomporre le figure professionali intorno ad aree di re­ sponsabilità ed a situazioni problematiche che convergono verso il ruolo in oggetto ed enfatizzano l’apporto individuale. In questo senso, la competenza è tale quando mobilita aspetti significativi del comportamento della persona, generando in tal modo prestazioni eccellenti, accettabili o insufficienti, oltre a

PROGETTAZIONE EDUCATIVA/DIDATTICA

competenze di soglia e distintive. Se pure la letteratura converge sulla necessità di supe­ rare rigide descrizioni di ruoli e mansioni, nel momento propositivo il ventaglio delle posizioni si apre rischiando in tal modo di cadere in uno scenario caotico e difficilmen­ te gestibile. D’altro canto, anche coloro che mirano a ricostruire tutte le figure di lavoro a partire da una mappa globale di competenze paiono destinati ad un esito deludente, vista l’impossibilità di costruire repertori validi in generale, indipendentemente dalle condi­ zioni di esercizio del lavoro. In questo senso, l’unica via percorribile potrebbe essere costi­ tuita da un’intesa di massima su p.p. essen­ ziali, lasciando all’azione formativa specifica il compito di contestualizzare l’intervento e di validarne concretamente i risultati. Bibl.: Taylor F.W., Principles of scientific management, Norton, New York, 1911 (trad. it. L’organizzazione scientifica del lavoro, Roma, Athenaeum, 1920); Parsons T., Structure and process in modern societies, Glencoe, Ill., Free press, 1960; ; Scott W. R., Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1994; Spencer L. M. - S. M. Spencer, Competenza nel lavoro, Milano, Ange­ li, 1995; Boam R. - P. Sparrow, Come disegnare e realizzare le competenze organizzative. Un ap­ proccio basato sulle competenze per sviluppare le persone e le organizzazioni, Milano, Angeli, 2002; Trigilia C., Sociologia economica, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 2002; Boldizzoni D. (Ed.), Management delle risorse umane, Milano, Il Sole 24 ore, 2003.

D. Nicoli

PROFITTO SCOLASTICO Con il termine p.s. (dal lat. proficere, pro­ gredire) viene designato il progresso nell’ap­ prendimento. In luogo di p.s. alcuni prefe­ riscono parlare di → risultati scolastici, di rendimento. Sono legati a questo concetto alcuni problemi: come interpretarlo (→ risul­ tati scolastici), quando il p. può esser con­ siderato soddi­sfacente (→ standard), come incrementarlo (→ didattica), che fare con chi non raggiun­ge livelli soddisfacenti (→ in­ successo scola­stico). Giudici del p.s. sono abitualmente i docenti. Le modalità di va­ lutazione del p.s. hanno suscitato perplessi­

tà e sono state oggetto d’uno stu­dio critico sistematico (→ docimologia). Il p.s. non può essere visto solo come funzione della capa­ cità e/o dell’impegno dell’alunno; sono molti i fattori che lo condizio­nano e gli accorgi­ menti da adottare per mi­gliorarlo. Sono stati studiati in particolare gli effetti sul p.s. delle deprivazioni culturali socio-ambientali, e le carenze linguistiche e mentali conseguenti. La scuola, privilegiando l’intelligenza ver­ bale, può avvantaggiare indirettamente gli alunni che provengono da famiglie colte e agiate. Non basta una scuola identica per tutti per ovviare a questi fenomeni. Un me­ todo otti­male o proficuo su alcuni o sui più non può diventare il trattamento da usare con tutti: si deve arrivare alla → personaliz­ zazione dell’insegnamento, perché tutti pos­ sano effettivamente conse­g uire i traguardi essenziali al loro sviluppo umano e cultura­ le, partendo però dalla si­t uazione d’ognuno, seguendo strategie e ritmi adatti, graduando e variando le espe­r ienze, il tempo di rifles­ sione sulle medesi­me, le vie alla formalizza­ zione e alla siste­mazione. Nell’ambito d’una → educazione permanente, il p.s. non denota solo una cali­brata crescita del patrimonio culturale, ma anche l’apprendimento dei me­ todi e dei linguaggi tipici delle discipline, il consoli­d amento d’una motivazione, cioè delle con­dizioni che consentono una crescita conti­nua. Bibl.: Postlethwaite T.N., Monitoring educa­ tional achievement, Paris, UNESCO, 2004; Lessard C. - P. M eirieu, L’obligation de résultats en éducation: évolutions, perspectives et enjeux internationaux, Bruxelles, De Boeck, 2005.

L. Calonghi - C. Coggi

PROGETTAZIONE EDUCATIVA/DIDATTICA Elaborazione del progetto educativo che deve fare da guida ideale a tutta l’attività educativa e didattica che si svolge in una istituzione formativa, fornendo a tutte le sue componenti un riferimento prospetti­co chiaro e condiviso di → valori, mete forma­ tive, principi d’azione, sistemi di re­lazioni interpersonali e istituzionali e modalità di → valutazione. 923

PROGETTAZIONE EDUCATIVA/DIDATTICA

1. P. e orientamenti normativi. L’attività di p.e. e didattica porta a definire quello che nella Carta dei servizi della scuola viene identificato come «Progetto Educativo di Isti­t uto», cioè quadro delle «scelte educative e organizzative» e dei «criteri di utilizza­ zione delle risorse». L’istanza progettuale è stata ripresa negli anni novanta dalla nor­ mativa riguardante l’autonomia della scuola e il riconoscimento delle cosiddette scuole paritarie. Il Piano dell’Offerta Formativa è un impegno previsto dalla legge e dal suo regolamento attuativo al fine di presentare non solo l’identità della istituzione, ma an­ che gli impegni che essa intende prendere nei confronti degli utenti. Il POF dovrebbe derivare da un lavoro progettuale, che parte dalla scelta di un orizzonte di valori di rife­ rimento, si confronta con la realtà culturale e sociale della popolazione, studenti e genito­ ri, a cui si rivolge, propone specifici percor­ si formativi, curricolari ed extracurricolari, prevede opportune soluzioni di carattere or­ ganizzativo e didattico. Ne deriva metodolo­ gicamente l’adozione di uno schema di lavo­ ro che dall’analisi dei bisogni formativi degli studenti, considerati nel loro contesto di vita, giunge alla definizione e formulazione di un quadro di obiettivi formativi, sulla base dei quali si prospettano percorsi didattici validi ed efficaci, modalità organizzative coeren­ ti, forme e tempi di verifica e valutazione. Tutto ciò dovrebbe essere realizzato quanto più possibile in rapporto con il territorio e le aspirazioni di sviluppo culturale, sociale e produttivo in esso presenti. Di qui il concetto di programmazione territoriale della scuola. In un senso più legato al concetto di → cur­ ricolo per p. si può in­tendere l’impostazione previa dell’ → azio­ne educativa e/o didattica che ne prefigura gli obiettivi, i contenuti, i metodi e le mo­d alità di valutazione. La p. può essere svol­t a a vari livelli: nazionale, regionale, locale, di singola classe e discipli­ na. Essa può ri­g uardare una singola lezione, un’ → unità didattica, un testo scolastico, un program­ma didattico audiovisivo, un → software di­dattico multimediale, l’impianto stesso cul­t urale ed educativo dei programmi di stu­dio nazionali. In senso più personale e sog­gettivo la p. riguarda il significato, i va­ lori, lo stile e le scelte di vita che ciascuno si propone di far propri come prospettiva o orientamento esistenziale. In questo senso 924

si parla di «progetto di vita», che fa da rife­ rimento alla propria autoeducazione. 2. Origine e rilievo in campo educativo. Di progetti educativi più o meno esplicita­mente formulati nelle loro assunzioni teo­r iche e pratiche è ricca la letteratura peda­gogica, anche se il termine «progetto» ha avuto una diffusione generalizzata in que­sti ultimi tempi. Molto spesso veniva usata l’espres­ sione → sistema educativo in senso analogo, anche se ovviamente oggi siamo più avvertiti circa il preciso senso di que­st’ultimo termi­ ne. Con significati simili è stata anche utiliz­ zata la parola metodo educativo. Così spesso si usano oggi in ma­niera interscambiabile le espressioni: «si­stema educativo preventivo», «metodo edu­cativo preventivo», «progetto educativo preventivo». Occorre tuttavia es­ sere av­vertiti circa gli slittamenti di signifi­ cato che si hanno nell’utilizzazione delle tre espres­sioni, che concettualmente non risul­ tano del tutto equivalenti. Ciò premesso, un progetto educativo rimanda ai destinatari, ai valori, ai principi, alle indicazioni di me­todo, alle modalità di rapporto educativo, alle doti personali, culturali e morali, ne­cessarie nell’educatore, che ne costitui­scono i carat­ teri peculiari. 3. Origine e sviluppi in campo didattico. An­ che nell’ambito dell’ → insegnamento, me­ todi di p. dell’azione didattica sono sem­pre stati presi in considerazione in modo più o meno esplicito. L’insistenza attuale sul mo­ mento progettuale dell’azione di­dattica può essere fatto risalire agli appor­t i della tec­ nologia dell’educazione, che a partire dagli anni venti, ha progressiva­mente delineato una metodologia di lavoro sempre più chiara e definita. In particolare la p. di un percorso didattico può essere collegata all’idea di poter identificare con una certa precisione ed effi­ cacia i passi suc­cessivi che gli allievi dovreb­ bero percorre­re per conquistare determinate conoscen­ze e competenze. L’avvento delle macchine per insegnare e dell’ → istruzione program­mata ha dato un nuovo impulso alla p.d., in quanto dovevano essere identifica­ ti con grande precisione i singoli obiettivi didatti­ci parziali, le modalità di presentazio­ ne e di consolidamento delle conoscenze e com­petenze da questi richiesti, le forme di valutazione del loro raggiungimento, i per­

PROGETTAZIONE EDUCATIVA/DIDATTICA

corsi alternativi nel caso di non consegui­ mento. Tale spinta è stata ulteriormente sol­ lecitata dalle ipotesi più recenti di svi­luppo di percorsi istruttivi gestiti da sistemi infor­ matici (→ tecnologia dell’educazione), in cui la p. e sviluppo dei programmi didat­tici ha un rilievo ben più importante della loro som­ ministrazione. Ciò è particolar­mente eviden­ te nei percorsi formativi svi­luppati con tecni­ che di → insegnamento a distanza. 4. Critiche e distinzioni. Critiche a una in­ sistenza eccessiva sull’importanza del mo­ mento progettuale sono venute da chi, come L. Stenhouse (1977), pensa che il cuore dell’attività formativa consista nell’organiz­ zare attività ricche di potenzialità edu­cative da cui ciascuno possa trarre vantag­gi perso­ nali, anche diversi da quelli degli altri. Al­ tre critiche possono derivare dal mettere in evidenza i pericoli di una sotto­valutazione dell’importanza dell’azione educativa con­ creta e della relazione educa­t iva effettiva­ mente instaurata con tutte le problematiche decisionali e di rapporti so­ciali che queste comportano. In ambito scolastico una p.e. e didattica corretta do­v rebbe essere conside­ rata come la formu­lazione di un’ipotesi di intervento formati­vo sufficientemente orga­ nizzato nelle sue componenti essenziali, ma suscettibile di continui adattamenti flessibili alle situazio­ni concrete man mano che que­ ste lo esigo­no. D’altra parte nel contesto sco­ lastico la p.e. può essere distinta da quella didattica in quanto la prima è più attenta alla pro­mozione della crescita personale e sociale dell’educando, mentre la seconda si con­centra prevalentemente sulle componenti di natura culturale e professionale. La pri­ma deve es­ sere considerata come il riferi­mento ideale e valoriale che forma l’oriz­zonte educativo en­ tro cui deve essere svi­luppata la p.d. relativa alle varie discipline di insegnamento. Infine sia la p.e. che quel­la didattica vanno distinte dalla program­mazione degli interventi, cioè dalla predi­sposizione concreta dei tempi, delle risorse e delle singole azioni formative da impo­stare all’inizio di ogni anno o ciclo di studi. Tuttavia nei documenti ufficiali sco­ lastici si nota una certa ambiguità di defini­ zione tra p. e programmazione. Come criteri ope­rativi di distinzione si possono assumere i seguenti: a) criterio temporale: la p. consi­ dera un respiro temporale più ampio del solo

anno o quadrimestre scolastico, in ge­nere pluriennale; b) criterio sostanziale: la p. ri­ guarda il quadro generale di identifica­zione educativa o formativa che la comu­n ità in­ tende assumere come riferimento stabile per la sua azione mentre la pro­g rammazione si riferisce a scelte più pun­t uali e di natura pre­ valentemente orga­nizzativa. In altre parole la programmazio­ne elabora, entro il quadro fornito dal Progetto Educativo di Istituto e dai pro­g rammi scolastici o formativi in vi­ gore, un piano di lavoro limitato a un anno scolasti­co o formativo, che indica nel concre­ to i tempi, le risorse, le attività da sviluppare per rendere operativo tale Progetto. 5. Elementi costitutivi della p. In una p.e. le articolazioni portanti sono costituite in pri­ mo luogo dai fini, o valori di riferimento, che sono chiamati a formare l’orizzonte educati­ vo entro cui acquista senso e vali­dità l’azione formativa. Questo orizzonte deve appoggiar­ si sulla visione antropologi­ca assunta dagli educatori, o dalla comu­n ità educante, cioè su una concezione del­l’uomo, della società e del loro bene, non astratta, bensì connessa strettamente con il contesto culturale e so­ ciale di riferimento. Il secondo elemento co­ stitutivo di ogni progetto educativo riguarda i destinatari dell’azione formativa e la loro condizione umana, culturale, sociale ed eco­ nomica. La lettura attenta e l’interpretazione di tali condizioni alla luce dei valori o ideali edu­cativi di riferimento permette di indivi­ duare da una lato la domanda educativa presente, cioè bisogni di formazione emer­ genti, e dall’altra la scelta e definizione de­gli obiettivi educativi da assumere come in­tenti operativi per l’azione formativa. Il terzo pas­ saggio riguarda la prefigurazione dell’azione formativa, la scelta e organiz­zazione delle ri­ sorse formative, cioè delle pratiche educative (attività ed esperienze, loro contenuti, meto­ di e strumenti) dispo­n ibili e che appaiono valide ed efficaci: va­lide nei riguardi degli obiettivi e dei valori di riferimento, effica­ ci nei confronti dei ri­sultati che si intendo­ no conseguire. Si trat­t a della componente strategica della p., cioè della prefigurazione di un percorso formativo che può essere re­ alizzata solo in riferimento a un concreto e specifico con­testo educativo, orchestrando in maniera conveniente le differenti risorse for­ mative disponibili in vista di mete educative 925

PROGRAMMAZIONE EDUCATIVA/SCOLASTICA

de­terminate. Il quarto e ultimo passaggio è costituito dalla impostazione di un sistema di regolazione dell’azione formativa, cioè di valutazione continua e finale. L’istanza valu­ tativa ha un ruolo e un significato per­manente e puntale nel guidare l’azione. In effetti, sia nel momento di analisi della si­t uazione ini­ ziale, sia in quello di conduzio­ne dell’azione progettata, sia in quello di verifica dei suoi risultati è presente sempre l’esigenza di in­ terpretare e valutare quanto si riscontra nella realtà educativa. Di qui la necessità di pre­ figurare i dispositivi da mettere in atto per rendere presente e ope­rante tale istanza. 6. Prospettive teoriche. Sono state elaborate nel passato, e vengono tutt’oggi prospettate, teorie sistematiche relative alla p. di inter­ venti didattici di varia natura, dalla confi­ gurazione di azioni formative scolastiche, alla redazione di testi e manuali di autoistru­ zione, alla predisposizione di programmi multimediali o di costruzione di ambienti di insegnamento a distanza e di e-learning. In genere queste teorie progettuali valorizzano teorie di riferimento relative all’apprendi­ mento, alla motivazione, alla comunicazione, ecc. In questi ultimi anni è stata valorizzata una metodologia di ricerca educativa basata su progetti, i cosiddetti esperimenti proget­ tuali, che mette in luce l’esigenza di parti­ re da un progetto sufficientemente definito nel suo impianto, ma sensibile alla esigenze emergenti nel contesto dinamico della realtà educativa scolastica. Le scelte di modifica e adattamento del progetto, tuttavia, vanno adeguatamente giustificate e documentate (Pellerey, 2005). Bibl.: K aufman R. A., Educational system plan­ ning, Englewood Cliffs, Prentice Hall, 1972; Stenhouse L., Dalla scuola del programma alla scuola del curricolo, Roma, Armando, 1977; K ell­ er J. M., «Motivational design of instruc­ tion», in C. M. R eigeluth (Ed.), Instructional design theories and models: An overview of their current status, Hillsdale, Erlbaum, 1983; Vecchi J. - J. M. Prellezo (Edd.), Progetto edu­cativo pastorale: Elementi modulari, Roma, LAS, 1984; Merrill M. D., Instructional design theory, En­ glewood Cliffs, Educatio­nal Technology Publica­ tions, 1994; Pellerey M., P. didattica, Torino, SEI, 21994; Semeraro R., La p. didattica. Teorie, metodi, contesti, Firenze, Giunti, 1999; Pelle-

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M., Verso una nuova metodologia di ricerca educativa. Per una Ricerca Basata su Progetti (Design based research), in «Orientamenti Peda­ gogici» 52 (2005) 721-737.

rey

M. Pellerey

PROGETTO EDUCATIVO D’ISTITUTO → Progettazione educativa/didattica

PROGRAMMAZIONE EDUCATIVA/SCOLASTICA In campo scolastico, elaborazione del pro­ gramma degli interventi educativi e didat­ tici da attuare durante l’anno scolastico, spe­cificato nei tempi, nelle risorse e nelle sin­gole azioni formative da sviluppare; in campo informatico, traduzione di un pro­ cedimento di elaborazione di dati in un lin­ guaggio artificiale che il computer è in gra­do di interpretare ed eseguire. 1. La p.e. e didattica. Il concetto è diventato comune dagli anni settanta, da quando cioè esso ha fatto la sua comparsa nei documenti ufficiali scolastici. Ad es. nei Decreti Delegati del 1974 a proposito del Collegio dei docen­ ti si afferma che esso «cura la p. dell’azione educativa». Nel seguito si è in­t rodotta e sot­ tolineata una distinzione, ora assai diffusa, tra programma di studi e p. Quest’ultima in­ dica l’adattamento dei pro­grammi scolastici ufficiali alle caratteristi­che peculiari della popolazione scolastica presente. È diventa­ ta comune l’espressione programmazione curricolare, come elaborazione del curricolo di studi sia al livello nazionale, sia al livello locale. 2. P.e. e piani di studio personalizzati. Con gli sviluppi della L. 28 marzo 2003, n. 53 in­ sieme ad altre novità terminologiche, sono entrate nel vocabolario della scuola anche le espressioni: «piani di studio personalizzati», «unità di apprendimento», «obiettivi specifi­ ci di apprendimento», ecc. Con ciò si inten­ deva probabilmente tematizzare una svolta di mentalità il cui nucleo fondamentale stava nell’abbandonare «l’uniformità delle presta­ zioni progettate a priori». Nelle indicazioni nazionali si prospetta un insieme di passaggi metodologici. I piani di studio personalizza­

PROGRAMMI SCOLASTICI

ti mirano a tradurre le finalità generali del processo educativo espresse nel Profilo edu­ cativo, culturale e professionale (PECUP) e gli Obiettivi specifici di apprendimento (OSA) in Obiettivi formativi, cioè in obiet­ tivi di apprendimento effettivamente adatti ai singoli allievi. Le Unità di apprendimen­ to costituiscono lo strumento principale di strutturazione pratica dell’offerta formativa. Gli obiettivi formativi vengono tradotti in passaggi concreti dell’azione didattica e le singole unità di apprendimento mirano a tra­ sformare le conoscenze e abilità proposte in competenze individuali, tenendo conto delle personali capacità di ciascuno. Esse vanno a costituire poi gli effettivi Piani di studio personalizzati. 3. Progettazione e p. La p.e. e didattica de­ ve essere distinta dalla → progettazione in quanto quest’ultima riguarda l’elabora­zione del progetto educativo che deve fare da guida ideale a tutta l’attività educativa e didattica che si svolge in un’istituzione for­mativa, for­ nendo a tutte le sue componen­ti un riferimen­ to prospettico chiaro e con­diviso di valori, mete formative, principi d’azione, sistemi di relazioni interpersona­li e istituzionali e mo­ dalità di valutazione. L’attività di p. elabora, entro il quadro for­nito dal piano dell’offerta formativa e dalle indicazioni nazionali, un piano di lavoro limitato a un anno scolastico o formativo, che indica in concreto i tempi, le risorse, le attività formative da sviluppa­re per rendere operativo tale progetto. In que­ sto senso si è introdotto il concetto di Piano dell’Offerta Formativa (POF) come identi­ tà dell’istituzione scolastica e impegno che essa intende assumere nei confronti dei suoi utenti, mentre alla p. curricolare si affida il compito di tradurre tale piano in concrete modalità di attuazione. 4. Programmi e p. Il concetto di p. è stato introdotto anche per segnalare la necessità da parte della comunità scolastica, e in par­ ticolare dai Collegi dei docenti e dai Con­ sigli di Istituto, di rileggere e interpretare i programmi di insegnamento ufficiali alla luce della domanda educativa della popola­ zione gio­vanile effettivamente presente nel­ la scuola e delle risorse formative disponibi­ li. In ef­fetti le indicazioni nazionali si pre­ sentano, per quanto concerne l’articolazio­ne

dei contenuti specifici e la loro distribu­zione annuale, in gran parte come indi­cativi, la­ sciando quindi un notevole margi­ne discre­ zionale alle decisioni collegiali della scuola. Di qui la necessità di svilup­pare accurata­ mente ogni anno un corretto lavoro pro­ grammatorio. Bibl.: M aragliano R. - B. Vertecchi, La p. di­ dattica, Roma, Editori Riuniti, 1978; Tartarotti L., La p. didattica, Teramo, Giunti-Lisciani, 1981; Ballanti G., La p. didattica, Ibid., 1986; Frabboni F., Dal curricolo alla p., Ibid., 1987; Giugni G., La p. didattica in prospet­tiva sociale, Ibid., 1987; Titone R., P. nella scuola, Roma, Arman­ do, 1988; Pellerey M., Progettazione didattica, Torino, SEI, 21994; Baldacci M., La p. per modu­ li, Bari, Laterza, 2003.

M. Pellerey

PROGRAMMI SCOLASTICI Generalmente per p.s. s’intendono i docu­ menti di carattere normativo, emanati dal­ l’autorità scolastica centrale, relativi all’edu­ cazione/insegnamento nei diversi gradi e ordini scolastici di un determinato Paese, con le loro note caratteristiche di genera­lità, universalità e comunicabilità. 1. La nozione è passata dal riferimento al­ l’opuscolo indicativo del quantum delle va­ rie materie da insegnare/apprendere anno per anno, ad un concetto propriamente ed essenzialmente pedagogico. Nell’accezio­ne pedagogica odierna, i p.s. contengono non solo l’indicazione generale dei contenuti didat­t ici distribuiti per classi, come avve­ niva nel passato, ma anche la finalità e gli obiettivi istituzionali di ogni specifico ordi­ ne e gra­do scolastico e per ogni disciplina di studio: finalità e obiettivi generali, conte­ nuti di­dattici, criteri metodologici, di valu­ tazione, programmazione e organizzazione educativo-didattica. Tuttavia, a seconda dei Pae­si, la loro ampiezza e prescrittività varia­ no: vanno da un’indicatività molto generale (li­vello minimo standard) ad un’indicazione dettagliatissima. Di fatto, a seconda dei Pa­ esi, i p.s. ufficiali vengono chiamati in modo vario: → piani di studio, → curricolo, syllabus, indicazioni nazionali. 927

PROPOSTA EDUCATIVA

2. I p.s. sono il risultato di un lavoro impe­ gnativo di elaborazione e di periodica revi­ sione, a livello nazionale, a cui concorrono diverse competenze (pedagogisti, politici, sociologi, psicologi, esperti in diverse di­ scipline di studio, insegnanti e altri). La lo­ ro elaborazione deve contemperare l’istan­za logico-epistemologica con l’istanza psi­cosocio-pedagogico-didattica. 3. Sebbene non tutti siano d’accordo sulla ne­ cessità dei p.s. ufficiali, resta incontesta­bile il loro valore unificante e orientativo a livel­ lo del contesto interessato. Le loro funzioni principali riguardano appunto il valore unifi­ cante della cultura e la facilita­zione del con­ trollo, della comunicazione e collaborazione tra diverse categorie di per­sone implicate, della continuità educativo-didattica, nonché della professionalizzazione dei docenti. Quei pochi Paesi (come ad es. l’Inghilterra) in cui non esistevano p. ufficiali, hanno introdotto recentemente p. minimi. 4. È importante non solo l’elaborazione e la periodica revisione dei p. ma anche la lo­ ro realizzazione effettiva attraverso inse­ gnanti qualificati e competenti nel rispetto della libertà didattica, espressione del rico­ noscimento della progettualità della scuo­la. Bibl.: M acure S., L’élaboration des program­ mes d’études. Question de styles, Paris, OCDE, 1972; OCDE, Guide pour l’innovation pédago­ gique. Élaboration des programmes scolaires, Ibid., 1975; P usci L. (Ed.), L’enseignement pri­ maire en Europe. Évaluation des nouveaux pro­ grammes dans les 10 pays européens, Frascati, CEDE, 1990.

H.-C. A. Chang

PROGRESSO → Società → Sviluppo PROIETTORE → Tecnologie dell’informazione e della comunicazione PROMOZIONE UMANA → Sviluppo

PROPOSTA EDUCATIVA L’educazione nella sua globalità e nel suo contenuto comunicativo può essere intesa come una lunga e vasta p., vale a dire co­me una indicazione significativa di senso, che 928

qualcuno dall’esterno fa a qualcuno nelle profondità delle sue attese interiori, in un dialogo che media autorità e libertà. 1. Nella «pedagogia di campo» la p. si col­ loca nel quadro della comunicazione edu­ cativa, completa i momenti della risposta alle domande emergenti dall’interno di es­so e garantisce la compiutezza progettua­le. La vita e la sua educazione non possono uscire unicamente dalla persona come espansio­ ne delle attitudini di → domanda. Devono integrarsi con il profondo di sé e l’altro da sé. La risposta educativa è ogni intervento formale, contenutistico e processuale che corrisponde alla condizio­ne di bisogno e di possibilità del → soggetto, presente a livello di coscienza, varia, ma sufficiente per espri­ mersi e integrarsi atti­vamente. La p.e. per sé va al di là delle do­mande emergenti da bisogni, interessi, pos­sibilità già coscienti e espresse o facilmen­te stimolabili e provoca­ bili nel soggetto. Si pone in contatto dinami­ co con le profon­dità di bisogni e possibilità non consapevo­li, non immediate, o consiste in offerte to­talmente esterne, in primo luogo dell’educatore, che media e presenta possi­ bilità e istanze del patrimonio di cultura o dell’ambiente socio-storico. La pedagogia religiosa cristiana trova nel Van­gelo una p.e. che trascende ogni possibilità di intuizione e di domanda umana. 2. Pedagogicamente la p.e. è un contenuto non chiesto, né spontaneamente atteso, ma a suo modo capace di risuonare dentro, meri­ tevole di comprensione e di apprezzamento, in quanto sentito vero, valido, bello, vitale, motivante, cioè interiorizzabile e integrabile con il proprio mondo personale, le sue inten­ zionalità e aspirazioni. Condizioni più pros­ sime della p.e. sono la libertà e la fortezza. Una p. non libera non è più tale. È una impo­ sizione, un ricatto, un condizionamento vio­ lento o dolce. La p. entra per via di coscienza nelle intimità af­fettive, emozionali, virtuose e vi dialoga in termini di esplorazione, per­ cezione, valutazione oggettiva, soggettiva, personale, avviando e stimolando, ma non necessitando consensi. La conclusione edu­ cativa è di natura deliberata e consensuale e magari creatrice. Ma questa libertà non in­ debolisce il circolo di effi­cacia educativa se la p.e. è dotata di fortezza, cioè di capacità

PROTESTANTESIMO

di suscitare la risonanza delle forze vitali profonde della persona e di provocarle per la validità dei contenuti che presenta e prospet­ ta. In questa linea – e non solo come fatto socio-giuridico con funzione di condizione di possibilità – acquista il suo senso quello che viene detto «contratto educativo». Bibl.: Filloux J., Le contrat pédagogique, Paris, Dunod, 1974; Santelli Beccegato L. (Ed.), Bi­ sogno di valori, Brescia, La Scuola, 1991; Bertagna G. - P. Cattaneo, Progetto educativo d’isti­ tuto e carta dei servizi, Ibid., 1996; Bertagna G. - S. Govi - M. Pavone, POF. Autonomia delle scuole e offerta formativa, Ibid., 2001.

P. Gianola

PROSSEMICA Il termine p., coniato da E.T. Hall, indica quell’area del → comportamento umano (e la disciplina relativa) che ha per oggetto il modo secondo cui si percepisce e si strut­t ura lo spazio. 1. In particolare le ricerche hanno messo in luce le differenze esistenti in proposito nel­ le diverse culture. La p. evidenzia il «pro­ spettivismo dei fenomeni», vale a dire una sorta di centramento psicologico del mon­do a partire dal punto di vista, dall’u­bicazione e dal sentire soggettivo, preso a termine di riferimento percettivo, emotivo, valoriale; generalmente con una valoriz­zazione del vicino (del «prossimo») a de­t rimento del di­ stante (del «lontano»). 2. Un ambito particolare della p. è quello che riguarda le relazioni interpersonali. Es­so in­ daga specificamente i modi con cui le per­ sone si relazionano fisicamente con gli altri, vale a dire come vivono e strutturano i con­ tatti, la vicinanza, la distanza nel corso delle interrelazioni faccia a faccia con altre per­ sone, attribuendo significati a tali rela­zioni e risentendone psicologicamente in maniera più o meno positiva o negativa. In tal senso essa contribuisce alla compren­sione della → comunicazione e in partico­lare del → rap­ porto educativo, ma è rile­vante nello studio dell’habitat, della pia­nificazione urbana e nel sistema della comunicazione sociale.

Bibl.: Hall E. T., Il linguaggio silenzioso, Mila­ no, Bompiani, 1969; Watson O. M., Comporta­ mento prossemico, Ibid., 1972.

C. Nanni

PROSTITUZIONE GIOVANILE → Devianza → Educazione sessuale

PROTESTANTESIMO La connessione storica e sistematica, in­ tenzionale e funzionale tra P. ed educazione comprende sia l’educazione religiosa sia in generale l’educazione sotto la responsa­bilità evangelica, specificamente in rappor­to con la Chiesa, la società e l’individuo. Perciò vi appartengono anche i compiti particolari che a seconda del caso si chia­mano catechesi, in­ segnamento cristiano, educazione religiosa familiare, educazione della coscienza, for­ mazione del carattere, educazione etica, ecc. 1. La connessione tra P. ed educazione è già fondata in modo permanente nella Riforma del XVI sec. Nell’epoca moderna e nell’Il­ luminismo subisce però una tra­sformazione, che conduce alla sua forma attuale. Il ri­ formatore e teologo tedesco Martin Lutero (1483-1546) sottolinea assai presto il signi­ ficato che spetta all’educazio­ne nel crescente rinnovamento della fede e della vita a parti­ re dal Vangelo. Una edu­cazione alla fede è esclusa, mentre una educazione alla luce del­ la fede appare una conseguenza necessaria della coscienza li­berata in forza del Vangelo. Da un lato Lu­tero si impegna per l’insegna­ mento cristia­no di tutti, specificamente con l’aiuto di ca­techismi e di esami catechistici; dall’altro richiede la fondazione di scuole, che servo­no per il mantenimento della pace e della giustizia nello Stato e nella società. Ambe­due le forme di educazione scaturisco­ no a suo parere dalla volontà di Dio. Lutero le interpreta nella loro distinzione e connes­ sione ricorrendo all’immagine di due pote­r i di Dio (mondano/spirituale), da distin­g uersi secondo il modello della Legge e del Van­ gelo. La Chiesa, lo Stato e la famiglia sono considerati in uguale misura respon­sabili dell’educazione. Nell’epoca della Riforma la fondazione cristiana dell’edu­cazione da parte di Lutero era largamente condivisa da 929

PROTESTANTESIMO

parte protestante. Anche i riformatori signi­ ficativi a livello interna­zionale, cioè Ulrich Zwingli (1484-1531) a Zurigo e Jean Calvin (1509-1564) a Gine­vra seguono la medesima linea. Calvino comunque sottolinea più for­ temente la con­nessione diretta tra Vangelo ed educazio­ne. La trasformazione nell’epoca moderna si prepara nel XVII sec. Contro le distru­zioni della guerra dei trent’anni si rea­ gisce con un grandioso progetto di riforma del­l’educazione e della società; per es. da par­te del teologo ceco → Comenio, ma anche da parte del → Pietismo e soprattutto da parte del teologo e pedagogista tedesco → Fran­ cke e del riformatore austriaco-tede­sco, più rilevante a livello internazionale, Nikolaus Ludwig Graf von Zinzendorf (1700-1760, fondatore dei Fratelli Moravi di Herrnhut) provengono impulsi per un’educazione al servizio della conversione e del rinnova­ mento. Anche se il motivo del­la conversio­ ne svolge un ruolo notevole, ulteriormente accentuato nei movimenti di rinnovamento spirituale degli Stati Uniti, alla fine risultano tuttavia le sfide connesse con l’Illuminismo (Inghilterra: → Locke; Francia: → Rousseau; Germania: → Kant) quelle che conducono a una profonda tra­sformazione del pensiero educazionale protestante. In forma esem­ plare tale tra­sformazione diventa visibile nel teologo e pedagogista tedesco Friedrich Schleiermacher (1768-1834), il quale ricolle­ ga l’educa­zione religiosa allo sviluppo della sog­gettività. Nello stesso tempo egli ritiene che la religione cristiana sia fondamento del­ la formazione di una mentalità. L’edu­cazione religiosa comprende, accanto alla sua dimen­ sione ecclesiale, una dimensione culturale al­ trettanto rilevante, che irradia molto al di là della Chiesa. Da allora, so­prattutto nel XIX sec. la connessione di P. ed educazione trova il suo centro nella «formazione etico-religio­ sa» della «personalità», di modo che educa­ zione e scuola possano essere considerate nel loro insie­me come espressione di educazione cristia­na. Accanto ad essa a partire dal XIX sec. guadagnano in importanza istituzioni di ti­po diaconale e sociale-pedagogico (case di rifugio per la gioventù, giardini d’infanzia). Allo scadere del XIX sec. si formano asso­ ciazioni religiose giovanili, che spesso rap­ presentano un P. non legato alla Chiesa. Il P. ha bisogno del mondo della formazione ed è esso stesso un potente motivo per de­dicarsi 930

alla formazione. Anche laddove c’è separa­ zione tra Chiesa e Stato il duplice orienta­ mento del P. sulla Chiesa e sullo Stato rima­ ne intatto. In Paesi come la Ger­mania, dove l’insegnamento della religione nelle scuole statali è di tipo confessio­nale, ciò documenta l’idea di un cristiane­simo culturale; in paesi dove non c’è l’inse­gnamento religioso scola­ stico, soprattutto negli Stati Uniti, la rilevan­ za dell’educa­zione religiosa per la cultura e la società viene assicurata da parte della Chiesa (scuole domenicali). Nello stesso tempo la pedagogia religiosa che è orientata su com­piti culturali manifesta sovente una specie di tendenza autonomista dalla Chiesa e dalla catechetica. 2. La sintesi pedagogica tra cultura e cri­ stianesimo è stata messa in questione da si­ stemi politici ostili alla religione, ma anche nell’ambito della teologia da parte di una determinata teologia della rivelazione. Da allora il rapporto tra cristianesimo e cultu­ra si pone giustamente in chiave maggior­mente critica, senza che il P. nelle sue cor­renti prin­ cipali abbia tuttavia rinunciato al­l’apertura culturale. L’atteggiamento cri­tico di fronte alla modernità – oggi il post­moderno – al più tardi a partire da Schleiermacher, appartiene alle caratteristiche fondamentali del rappor­ to tra P. ed educa­zione. Comunque di fronte alle crisi della modernità appare progressi­ vamente più difficile garantire la connessio­ ne tra cri­stianesimo culturale ed ecclesiale ed in generale tra → cultura e → religione. Lo stretto collegamento tra P. e formazione ge­ nerale o pedagogia (scientifica), tipico nella storia del P. è progressivamente scomparso; infatti discussioni parallele in Europa e negli Stati Uniti mettono in luce le sfide rivolte al P. da parte dei processi di secolarizzazione culturale e religiosa. Dal­la possibilità di su­ perare questi processi dipende in modo de­ cisivo il futuro di un’e­ducazione protestante nella pluralità. Bibl.: Asheim I., Glaube und Erziehung bei Lu­ ther. Ein Beitrag zur Geschichte des Verhältnisses von Theologie und Pädagogik, Heidelberg, Quel­ le und Meyer, 1961; Hull J., Studies in religion and edu­cation, London/New York, Falmer, 1984; Nipkow K. E., Bildung als Lebensbegleitung und Erneuerung, Gütersloh, Gütersloher Verlagshaus, 1990; Osmer R., R., A Teachable Spi­rit. Recover­

PRUDENZA

ing the teaching office in the Church, Louisville, Kentucky, Westminster/John Knox, 1990; Francis L. J. - A. Tachter (Edd.), Christian perspec­ tives for education, Leominster, Fowler Wright, 1990; Nipkow K. E. - F. Schweitzer (Edd.), Reli­ gions-pädagogik. Texte zur evangelischen Erzie­ hungs und Bildungsverantwortung seit der Refor­ mation, München/Gütersloh, Kaiser/Gütersloher Verlags­haus, 1991-1994, 3 voll.; Ploeger A. K., Inleiding in de godsdienstpedagogiek, Kampen, Kok, 1993; Canotto P., Cattolicesimo, p. e ca­ pitalismo: dottrina cristiana ed etica del lavoro, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2005.

F. Schweitzer

PROVE OGGETTIVE Strumenti per la → valutazione del profitto scolastico costruiti secondo la metodologia dei → test (test di profitto). 1. All’inizio del sec. XX gli studi critici sulla scarsa oggettività e validità degli stru­menti tradizionali per la valutazione del profitto (interrogazioni, «saggi», proble­mi...) stimo­ larono l’introduzione nel sistema scolastico di strumenti più «oggettivi», cioè tali che potessero essere usati da qualsiasi operatore producendo costantemente gli stessi risultati. Gli accorgimenti usati per ottenere oggettivi­ tà di valutazione, all’inizio, erano solo la par­ cellizzazione dei contenuti, la preferenza per i quesiti corredati da risposte «a scelta mul­ tipla», l’adozione di «griglie di correzione» a cui vincolare tutti gli utenti, l’adozione di un sistema di assegnazione del punteggio ugua­ le per tutti gli operatori. Successivamente, il riferimento alla metodologia generale dei test indusse l’uso di metodologie statistiche standard (per es. l’analisi degli item) e pose il problema della verifica empirica della validi­ tà e del riferimento a norme statistiche. 2. La preoccupazione della «validità di con­ tenuto», fondamentale per i test utilizzati in ambito educativo e didattico, indusse prima a segnalare la necessità che le p.o. esplicitas­ sero analiticamente i contenuti disciplinari esaminati e successivamente, in connessione con gli sviluppi della didattica, fu segnalata la necessità di esplicitare gli obiettivi didatti­ ci e le metodologie didattiche di riferimento.

3. In Italia le p.o. sono state costruite e pro­ poste agli insegnanti da un limitato numero di centri di ricerca universitaria, individua­ bili dalla bibliografia. Attualmente, si prefe­ risce il termine test di profitto, anche se gli strumenti così denominati non sembrano più sofisticati psicometricamente delle vecchie p.o. Le prove di «competenza minima» e di «cultura generale» usate nelle procedure se­ lettive sono simili tecnicamente alle p.o., ma ne differiscono in quanto non si basano su un intervento didattico definito a cui ancorare la validità del contenuto. Bibl.: Visalberghi A., Misurazione e valutazio­ ne nel processo educativo, Milano, Edizioni di Comu­nità, 1955; Calonghi L., Test e esperimenti, Torino, PAS, 1956; Id., Sussidi per la conoscenza dell’alunno, Zürich, PAS-Verlag, 1963; id., «I test di acquisizione e di profitto», in C. Scarpellini E. Strologo (Edd.), L’orientamento. Aspetti teo­ rici e metodi operativi, Brescia, La Scuola, 1976, 767-840; Boncori L., Teoria e tecniche dei test, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Id., I test in psi­ cologia, Bologna, Il Mulino, 2006.

L. Boncori

PRUDENZA Si chiama in causa il termine p. nella misu­ra in cui la pedagogia e la sua storia vi fan­no riferimento. Tanto più che sembra in at­to un volenteroso ricupero del sistema del­le → vir­ tù e con esse della p. [1]. 1. Né il tema, né le sue variazioni possono passare per specificamente cristiani. Allor­ ché Ambrogio nel suo De officiis (I, 24; I, 27) propone come cardinali le virtù prima­ rie della riflessione stoica, lo fa ispirandosi al modello ciceroniano. Il ricupero di Ma­ crobio lungo il sec. XII ha fornito al siste­ ma nuovi assetti, riesumandone le remote ascendenze platoniche e stoiche [2]. I libri IX e X dell’imponente Speculum universale di Randolfo Ardens rappresentano di cotali tradizioni la più esuberante rivalutazione. P., giustizia, fortezza e temperanza, sono, con la fede, virtù discretivae, diverse dalle virtù oditivae e da quelle contemplativae. Come tale la p. resta pericolosamente so­stanziata di conoscenza: memoria, disposi­t io e pro­ 931

PRUDENZA

videntia sono le sue parti, e la sapientia, la intelligentia e la scientia, le sue specie. È ancora virtù morale? [3]. Anche Alberto Ma­ gno, prima di leggere → Aristo­tele, fa della p. una virtù discretiva e ne riassume la dinami­ ca nei termini adusti del sillogismo: «Omne bonum est faciendum. Sed hoc est bonum. Ergo est faciendum» [4]. Certo esso esprime discrezione senten­ziale; ma come farne un esercizio di virtù morale? 2. L’acquisizione, lungo il sec. XIII, dell’Eti­ ca Nicomachea di Aristotele [5] reca me­ ticolosa precisione semantica e inedite ispi­ razioni. Lo studio della virtù comincia con il c. 13 del L. I, in cui il filosofo avverte che, essendo la virtù qualità dell’anima, non si può dirne adeguatamente senza prima co­ noscere quella. Orbene l’anima ha costitu­ zione complessa. In parte è razionale e in parte no; e la quota irrazionale è in parte principio di passioni, voglie e suscettibilità, e in parte fermento di mero metabolismo. Ora è ovvio che mentre quest’ultima quota risulta radicalmente indisponibile, l’altra, per la complessiva sostanziale contiguità con la parte razionale, non può non riusci­ re suscettibile di discrezione: tra l’eccesso e il difetto può essere di caso in caso ricon­ dotta alla misura espediente. L’appetito è disciplinabile, e la p. ne è la disciplina [6]. → Tommaso d’Aquino dispone di Aristo­tele fin dagli esordii del proprio impegno, però nel suo tacito ma sicuro itinerare non può non esprimere assestamenti differen­ziati [7]. Convenzionalmente si accredita alla Sum­ ma theologiae la decantazione de­fi nitiva. Per quel che immediatamente ci interessa, mentre proprio l’Etica Nicoma­chea ricusa all’anima umana ogni sopravvi­venza, Tom­ maso ne sostiene pervicace­mente l’assoluto buon diritto, integrando, nella virtualità di un unico principio, le par­ti cui Aristotele accre­ dita certa rilevanza; intelligenza compresa. Unica forma del sinolo umano, l’anima, im­ materiale, concor­re dialetticamente, in unità sostanziale, con la potenzialità erosiva della materia. Gli è che l’uomo non sussiste come valore asso­luto, ma si realizza, frantumato e disperso, in tempo e spazio, nella molteplici­ tà del numero. Della specie, per ciò stesso, il sin­golo è come uno scarto, o come tecnica­ mente si dice, una parte soggettiva. E ciò sia per l’essere, sia conseguentemente per l’agi­ 932

re: a nessun singolo il mestiere d’uomo può riuscire pervio per natura (Ia IIae, q. LXIII, a. 1; IIa IIae, q. LXVII, a. 15). I suoi dinamismi restano, tutti e ciascuno, un av­vio avventura­ to; costituiranno promettente espressione solo se concorrenti in indole e misura. Disciplinare le propensioni è però, della p., compito preli­ minare (IIa IIae, q. XLVII, a. 6); non può di fatto esaurirne l’impegno. Ponderata, infatti, in funzione della esecuzione espediente, la di­ sciplina in parola deve consecutivamente so­ stenere codesta promessa fino ad esecuzione con­sumata: «Prudentia est recta ratio agibi­ lium, unde oportet quod ille sit praecipuus ac­ tus prudentiae qui est praecipuus actus ratio­ nis agibilium. Cuius quidem sunt tres ac­tus. Quorum primus est consiliari, quod pertinet ad inventionem, nam consiliari est quaerere. Secundus actus est iudicare de in­ventis; et hic sistit speculativa ratio. Sed practica ratio, quae ordinatur ad opus, procedit ulterius, et est ter­ tius actus eius praecipere. Qui quidem actus consistit in applicatione consiliatorum et iudi­ catorum ad operandum; et quia iste actus est propinquior fini rationis practicae, unde est quod iste est principalis actus rationis prac­ ticae et per consequens prudentiae» (IIa IIae, q. XL­VII, a. 8). 3. L’idea d’una virtù che cavalca le propen­ sioni, onde imporre ad esse misura, e defi­ nitiva rettitudine alla loro complessiva con­ correnza nell’esercizio terminale che insie­ me esprimono, non è di facile assimilazione [8]. Così la p. di invenzione tomistica cede tosto l’onore della successiva cronistoria ad accezioni meno intrepide e sicuramente ar­ ruffate; quella dantesca ad es.: «Bene si po­ne p., cioè senno, per molti essere morale virtù; ma Aristotele dinumera quella intra le intel­ lettuali, avvegnaché essa sia condut­t rice del­ le morali virtù e mostri la via per che elle si compongono e senza quella es­sere non pos­ sono» (Conv. IV,17). Nella sua originale ela­ borazione, la p., per quanto ardua, costituisce alea indeclina­bile per chi vuol correre con qualche de­g na speranza l’avventura umana [9]. Una straordinaria provocazione per ogni peda­gogia. Vi si trova, questa, sollecitata e ad attenzioni assolutamente personalizzate, vista la perentoria originalità d’ogni singo­lo, e a inesauste persistenti cure, vista la fa­tale estenuazione del suo beneficiario tra nascita e morte.

PSICODRAMMA

Bibl.: [1] Nelson D. M., The priority of pru­ dence. Virtue and natural law in Thomas Aqui­ nas and the implications for modem ethics, Park, 1992; [2] Lapidge M., «The stoic inheritance» (in A history of Twelft-Century western philosophy, Ed. P. Dronke), Cambridge, 1988; [3] Grundel J., Die Lehre des Randulfus Ardens der Verstan­ destugenden auf dem Hintergrund seiner Seelen­ lehre, München, 1976; [4] Payer P. J., Prudence and the principles of natural law. A medieval development (in «Speculum» LIV, 1979, 55-70); [5] Gauthier R. A., «Ethica Nicomachea» (in Aristoteles Latinus, 26, 1-3, vol. I: Praefatio), Leiden, 1974; [6] Westberg D., Right practical reason. Aristotle, action, and prudence in Aqui­ nas, Oxford, 1994; [7] A bbà G., Lex et virtus. Studi sull’evoluzione della dottrina morale di S. Tommaso d’Aquino, Roma, 1983; [8] Pinckaers S., in «Bulletin Thomiste» IX, 1955, 345-362; [9] Buehler W. J., The rote of prudence in educa­ tion, Washington, 1950.

P. T. Stella

PSICHISMO Termine che in senso indeterminato indica riferimento alla vita psichica nel suo insie­ me, senza particolari specificazioni. 1. Con esso si esprime la convinzione che ciò che è psichico sia sostanzialmente e geneti­ camente autonomo. Oggi si preferisce usare l’accezione più concreta di attività psichica o mentale (quest’ultima mediata dalla psicoa­ nalisi), per indicare l’insieme delle funzioni psichiche e delle caratteristiche della → per­ sonalità (sensazioni, percezioni, rappresen­ tazioni mentali, memoria, pensiero, intelli­ genza, vita emotiva e affettiva, motivazioni, condotte sociali, linguaggio, comunicazione, disturbi psichici, ecc.). 2. Nella storia della filosofia e, più recente­ mente, della psicologia, la struttura dello p. si presenta nelle configurazioni più dispara­ te, a seconda dei presupposti su cui si fonda la distinzione e la interazione tra soma e psi­ che (animale o umana). L’insieme dei proces­ si psichici costituisce il campo di studio della psicologia scientifica che si è estesa in grandi settori di interesse, con oggetti ben distinti di investigazione. Lo → psicologo si occupa

ampiamente dell’esperienza e del compor­ tamento psichico, dei molteplici modi di manifestarsi della psiche, nonché delle cau­ se e delle condizioni che li determinano. P. diviene pertanto sinonimo della globalità del → comportamento o della condotta psichica umana, a tutti i livelli e in tutte le dimensioni in cui essa si pone e si esplica. Bibl.: Tisseron S. et al., Lo p. alla prova delle generazioni, Roma, Borla, 1997; Searle J. R., La riscoperta della mente, Torino, Bollati Borin­ ghieri, 2003.

S. De Pieri

PSICOANALISI → Freud → Psicoterapie: scuole PSICODIAGNOSTICA → Test psicologici

PSICODIDATTICA A differenza della → psicopedagogia, la p. si rivolge agli aspetti psicologici dei pro­ cessi di istruzione, specificamente in sede scolastica. Studia particolarmente l’azione dell’insegnante, concretata non soltanto nel­ le forme di interazione verbale (la → le­zione) con l’alunno, ma anche negli atteg­giamenti verso l’alunno e l’insegnamento, l’influsso della sua struttura di personalità sugli esiti didattici, le forme di valutazione impiegate nel corso dell’azione didattica, e simili. In al­ cune accezioni più specifiche, include anche le modalità psicologiche dell’insegnamento di specifiche discipline, anche se la psicolo­ gia dell’insegnamento/apprendimento delle materie linguistiche è oggi tendenzialmente delegata a una nuova disci­plina scientifica, la → psicolinguistica applicata all’educazione, o psicolinguistica pedagogica. Bibl.: Titone R., Lineamenti di didattica specia­ le, Roma, PAS, 1959; Id., P., Brescia, La Scuola, 1985.

R. Titone

PSICODRAMMA Forma di → psicoterapia individuale e di gruppo inventata e così designata da J.L. Mo­ reno negli anni ’20 del sec. XX, nel quadro 933

PSICOLINGUISTICA

del «Teatro della spontaneità» (Das Stegreif­ theater) che egli aveva aperto a Vienna e in cui proponeva, a degli attori volontari, di im­ provvisare una rappresentazione sceni­ca dei diversi fatti d’attualità (tecnica del «giornale vivente»). Moreno ha definito lo p. come «il fatto di mettere in atto la pro­pria vita sulla scena» (to act out one’s life on the stage). 1. Nello p. classico, il metodo consiste, dun­ que, nel far giocare scene arcaiche, attuali o future in rapporto a situazioni personali reali o immaginarie. L’improvvisazione dramma­ tica di queste scene richiede uno spazio di gioco, la liberazione della sponta­neità degli attori, la replica prestata da psicodrammatisti che fungono da «io ausilia­ri», la presenza del pubblico che funge da cassa di risonanza de­ gli affetti vissuti sulla scena, il tutto sotto la regia dello psicodrammatista che promuove l’azione. L’ef­ficacia terapeutica dello p. deri­ va dalla ca­tarsi, diretta negli attori, indiretta negli spettatori. La sua efficacia formativa si fon­da, invece, su uno sfruttamento migliore dei ruoli che costituiscono la personalità. 2. Lo p. di Moreno ha generato numerose varianti a seconda dei soggetti coinvolti, dei contenuti trattati e dei diversi modelli teorici e clinici sottostanti. Già Moreno di­stinse lo p. dal sociodramma. Il primo af­f ronta i proble­ mi personali o i conflitti in­terpersonali che nascono nella vita priva­ta, mentre il secondo tratta gli aspetti sociali o collettivi dei pro­ blemi e dei con­flitti che sorgono tra gruppi o sottogruppi nella vita sociale e professionale. Origina­r iamente rivolto agli adulti, lo p. è stato esteso anche ai bambini e agli adole­ scenti. Le problematiche affrontate sono le più varie: familiari, culturali o più specifica­ mente etniche e razziali (etnodramma). Lo p. viene utilizzato anche come strumento di formazione professionale e di animazio­ne educativa (gioco di ruolo). 3. Oltre al modello classico, si possono di­ stinguere tre orientamenti: lo p. analitico, lo p. triadico e lo p. fenomenologico. Lo p. analitico traspone le regole e i concetti del­la psicoanalisi ai giochi psicodrammatici che si svolgono allora senza architettura scenica e senza spettatori. Può essere indi­viduale (un solo paziente, generalmente psicotico, con più psicodrammatisti secon­do la tecnica di 934

S. Lebovici), o di gruppo (con un’alternanza di sessioni di analisi di gruppo e di sessioni di gioco, secondo la tecnica di D. Anzieu). La triade dello p. triadico, elaborato da Anne A. Schützenberger, significa un’integrazione degli approcci di → Freud, → Lewin e Moreno. Oltre agli strumenti offerti dallo p. classico, vengono utilizzati il transfert e l’interpre­ tazione, la dinamica di gruppo, il linguag­gio del corpo e la comunicazione non-ver­bale. L’approccio fenomenologico mira a descri­ vere, comprendere e cambiare gli schemi rigidi e ripetitivi che sono alla base dei com­ portamenti disfunzionali. Bibl.: Moreno J. L., Hypnodrama and psycho­ drama, Boston, Bacon House, 1950; Id., Gruppen­ psychotherapie und Psychodrama. Einleitung in die Theorie und Praxis, Stuttgart, Thieme, 1959; I d., Principi di sociometria, di psicoterapia di gruppo e sociodramma, Milano, Etas Kompass, 1964; I d., Il teatro della sponta­neità, Firenze, Guaraldi, 1973; K aeppelin Ph., Le psychodrame instrument de formation, Paris, Centurion, 1977; Schuetzenberger A. A. - M. J. Sauret, Il corpo e il gruppo, Roma, Astrolabio, 1978; Anzieu D., Lo p. analitico del bambino e del­l’adolescente, Ibid., 1979; Moreno J. L., Manuale di p., Ibid., 1985; Gasseau M. - G. Gasca, Lo p. junghiano, Torino, Ibid., 1991; Padilla Pérez J., Bibliogra­ fía del psicodrama, Madrid, Fundamentos, 1999; R amírez A., Psicodrama: teoría y práctica, Bil­ bao, Desclée de Brouwer, 2002.

E. Gianoli

PSICOLINGUISTICA II termine ricorre per la prima volta in Osgo­ od e Sebeok (1954) per indicare lo studio del rapporto fra i fatti linguistici e quelli psico­ logici, nonché dei processi sottostanti alla comprensione e alla produzione del → lin­ guaggio. 1. In concreto la p. si propone di individuare che cosa sanno della loro lingua i parlanti e come usano questa loro conoscenza quando ascoltano o quando parlano. Detto altrimenti, la p. va intesa come lo studio del linguaggio e della mente. Come tale essa si è dissociata molto presto dalle interpretazioni antimenta­ listiche o behavioristiche del comportamen­

PSICOLINGUISTICA PEDAGOGICA

to generale del soggetto e, in particolare, del comportamento linguistico, rifiutando ogni descrizione dell’acquisizione e dell’uso del linguaggio in termini fisiologici, quali pro­ dotti di semplici processi fisici o di abiti ri­ conducibili agli schemi stimolo-risposta e ai condizionamenti connessi. 2. La p. si è riconosciuta pertanto sempre più nelle concezioni cognitivo-mentalistiche, e segnatamente in quelle che hanno rivolto le loro indagini allo studio del comportamento linguistico. Fra queste figura in particolare il generativismo di Chomsky, secondo il quale l’acquisizione della lingua, che è esempio del processo più generale dell’acquisizione delle conoscenze, è libera dal condizionamento di stimoli linguistici e non linguistici, in quan­ to prodotto della creatività del soggetto, go­ vernata da regole iscritte o innate nella sua mente. Al generativismo di Chomsky si può associare la concezione del costruttivismo di → Piaget, il quale spiega l’acquisizione del linguaggio partendo dai diversi stadi dello sviluppo cognitivo del soggetto; questi infat­ ti perviene alla manipolazione di parole e di frasi (stadio operatorio) grazie alla manipo­ lazione precedente di oggetti concreti (stadio senso-motorio). 3. Significativo anche il contributo al progres­ so della p. dato da Bruner; avendo presente la teoria dell’«area potenziale di sviluppo» di → Vygotskij, egli afferma che l’accesso al linguaggio da parte del soggetto avviene attraverso l’accesso alla cultura: «trovare il senso» e «creare significati» sarebbe, infatti, un processo sociale, un’attività che è sempre situata all’interno di un contesto storico-cul­ turale. Fra le aree principali in cui opera la p. si segnalano in particolare l’acquisizione e l’uso della prima e della seconda lingua, la pratica della lingua scritta e della lingua parlata, nonché l’interesse alle diverse pato­ logie del linguaggio, quali 1’ → afasia e la → dislessia. Bibl.: Osgood Ch. - Th. A. Sebeok (Edd.), Psy­ cholinguistics. A survey of psycholinguistics re­ search, Baltimore, s.e., 1954; Piaget J., Lo strut­ turalismo, Milano, Il Saggiatore, 1979; Garman M., Psycholinguistics, Cambridge, University Press, 1990; Matthei E. - Th. Roeper, Elementi di p. Comprensione e produzione del linguaggio,

Bologna, II Mulino, 1990; Chomsky N., Linguag­ gio e problemi della conoscenza, Ibid., 1991; Bruner J. S., La ricerca del significato, Torino, Bollati Boringhieri, 1992; Tabossi P., Il linguag­ gio, Bologna, Il Mulino, 1999; Cacciari C., Psi­ cologia del linguaggio, Ibid., 2001.

G. Proverbio

PSICOLINGUISTICA PEDAGOGICA Nelle università italiane è stata denomina­ta psicopedagogia del linguaggio e della co­ municazione. In altri Paesi, va sotto la de­ nominazione generica di p. applicata (Psy­ cholinguistique appliquée in Francia, Ap­ plied psycholinguistics in Inghilterra e Stati Uniti, Educational psycholinguistics in Ca­ nada, Angewandte Psycholinguistik in Ger­ mania). Il suo contenuto è dato dallo studio dei processi psicologici dell’appren­dimento della lingua materna e delle altre lingue, del → bilinguismo, e, almeno in cer­te interpre­ tazioni e modalità d’insegna­mento (come nella Facoltà di Psicologia dell’Università di Roma), estensivamente anche ai problemi di sviluppo linguistico nel bambino, come i ritardi del linguaggio, le patologie della pa­ rola (diagnosi e tera­pie, ossia i problemi della logopedia). Ma la sua estensione nel mondo scientifico e accademico è ancora assai li­ mitata, come pure la letteratura in proposi­ to, se si eccet­t ua la vastissima bibliografia sulla psicolo­gia del bilinguismo (soprattut­ to nei Paesi anglofoni, in primo luogo nel Canada). Bibl.: Titone R. - M. Danesi, Applied psycholin­ guistics, Toronto, University of Toronto Press, 1985 (trad. it.: Introduzione alla psicopedagogia del lin­g uaggio, Roma, Armando, 1990); Anula Rebollo A., El abecé de la psicolingüística, Ma­ drid, Arco/Libros, 2002; Drévillon J. - J. Vivier - A. Salinas, La psycholinguistique, science multidisciplinaire de 2000: quelles implications, quelles applications?, Paris, Éditions Europa, 2004; tra le riviste: «Rassegna Italiana di Lin­ guistica Applica­ta» (Roma, Bulzoni, 1968-); «In­ ternational Journal of Psycholinguistics» (edita dall’International So­ciety of Applied Psycholin­ guistics).

R. Titone

935

PSICOLOGIA CLINICA

PSICOLOGIA CLINICA La p.c. è un’area della p. applicata intenta ad intervenire sui problemi concreti, individua­ li o collettivi, utilizzando le conoscenze e le metodologie della p. teorica legati oltre che al disagio e al disadattamento al benessere mentale. 1. La nascita della p.c. è largamente debitrice alla → psicopatologia e alla psichiatria. Alla lettera la parola «clinico» significa «al letto del paziente», e già questo ci fa comprendere quanto questa disciplina intenda accostarsi alla persona sofferente. In effetti la p.c. si occupa di individui o gruppi che presenta­ no problemi di ordine mentale, ma non solo. Questo tipo di competenza, infatti, non ha a che fare unicamente con situazioni di tipo psicopatologico. Visto che oggi la gente co­ mune, ma anche certi studenti ed alcuni psi­ cologi, tende ad identificare erroneamente la p. con quella clinica (fenomeno dovuto anche al largo numero di psicologi che svolgono la loro attività professionale in questa area), è importante sfatare questo vecchio pregiudi­ zio per il quale la p.c. si occupi solamente di soggetti malati o disturbati psichicamente. Il suo campo d’azione è, infatti, assai più va­ sto. È più corretto dire che essa si interessa anche della salute e del benessere mentale degli individui. Infatti, sempre più frequen­ temente, le persone che si rivolgono ad un servizio di p.c. chiedono di essere consiglia­ te e sostenute in un problema psicologico, e non psicopatologico, relativo a una partico­ lare situazione della vita in cui si presenta un disagio esistenziale che tocca l’individuo come singolo e/o come parte di un sistema relazionale (istituzione sociale, famiglia, coppia, gruppo, ecc.). 2. Il metodo privilegiato in questo ambito ap­ plicativo è quello clinico. La particolarità del metodo clinico è quella di affrontare la real­ tà, sia individuale che sociale, nel modo più globale possibile. Chi lo utilizza in ambito individuale se ne serve per conoscere e pro­ muovere il cambiamento del soggetto nella sua specificità (in ciò che lo contraddistingue dagli altri) e nella sua totalità (in relazione al suo passato, al suo presente, alle sue aspetta­ tive future, alla sua famiglia, al suo ambiente di lavoro, ai suoi valori, ecc.). Chi lo usa in 936

ambito sociale si propone di favorire il cam­ biamento promuovendo il reciproco scambio fra tutte le forze presenti. Strumento privi­ legiato del metodo clinico è il → colloquio che consiste in una vera e propria tecnica di ricerca descrittiva basata sull’osservazione e lo studio del comportamento umano all’in­ terno di un processo di comunicazione ver­ bale. Si tratta di un procedimento di raccolta, di analisi e di elaborazione di informazioni per trovare alcuni indizi sui quali costruire un’ipotesi conclusiva. Il primo obiettivo del colloquio è quello di stabilire un buon rap­ porto di condivisione tra lo psicologo e il cliente. I due, da sconosciuti che sono, de­ vono essere in grado di costruire un’alleanza ai fini diagnostici, terapeutici, orientativi o educativi. L’obiettivo non è quello di sape­ re cose sul soggetto, ma di «sapere» con il soggetto. Questa modalità di «conoscere in­ sieme», infatti, oltre che fornire delle infor­ mazioni più ricche ed approfondite, innesca già di per sé un processo di cambiamento. Tutto ciò presuppone che psicologo e cliente riconoscano i reciproci ruoli e le reciproche competenze. Il cliente metterà in gioco se stesso, il proprio mondo interiore e la pro­ pria situazione. Lo psicologo, invece, oltre alle sue competenze specifiche, impiegherà la sua capacità empatica per cogliere ed ac­ cogliere i pensieri e gli stati d’animo dell’al­ tro pur mantenendo quella distanza che gli permetterà di restare obiettivo. 3. Nella pratica clinica la diagnosi rappre­ senta il primo passo del percorso. Questa ha lo scopo di reperire informazioni qualitative sulla persona o sulla situazione da affrontare in modo da rilevare gli elementi di problema­ ticità e individuare possibili vie di risoluzio­ ne. In alcuni casi questa prevede l’utilizzo di tecniche psicometriche specifiche strutturate e/o proiettive. Quando il percorso clinico ri­ guarda un individuo, può proseguire con un cammino di sostegno psicologico o con una vera e propria → psicoterapia il cui orienta­ mento è determinato dalle caratteristiche del cliente e delle sue problematiche e dall’ap­ proccio teorico dello specialista; quando ri­ guarda una comunità può proseguire invece con uno specifico progetto d’intervento. Bibl.: Carli R. - R. M. Paniccia, La formazio­ ne in p.c., Bologna, Il Mulino, 1999; Sanavio E.,

PSICOLOGIA DELLA FAMIGLIA

P.c., Ibid., 2001; Gambini P., Introduzione alla p., Milano, Angeli, 2006; Verrastro V. - F. Petruccelli, P.c. La storia, i metodi, gli strumenti, Ibid., 2006.

P. Gambini

PSICOLOGIA DEL LAVORO Settore della p. applicata che sviluppa un cor­ po di conoscenze rivolte allo studio delle at­ tività lavorative umane, al fine di soddisfare le persone e nel contempo migliorare le loro prestazioni. Il frequente conflitto tra le due istanze ha portato la p.d.l. a sviluppare, nel corso della sua storia, concezioni spesso po­ larizzate o verso la produttività (soprattutto agli inizi) o verso lo sviluppo delle persone. 1. Apparsa agli inizi del ’900 (formalmente nel 1913 con il testo La p. e l’efficienza indu­ striale di Hugo Munsterberg) si è caratteriz­ zata dalla sua connotazione di p. industriale, in un contesto in cui prevaleva l’attenzione all’efficienza dei mezzi della produzione. In questa logica si è andata sviluppando la «psicotecnica» come disciplina tendente ad un migliore adattamento dell’uomo al pro­ cesso produttivo. Successivamente al «tay­ lorismo», che interpretava questa visione, il movimento delle «Relazioni umane» mo­ difica radicalmente la prospettiva di ana­ lisi valorizzando gli atteggiamenti verso il lavoro e le relazioni nel gruppo operativo. Una svolta significativa, da un punto di vi­ sta metodologico, è stata generata dal lavoro del Tavistock Institute of Human Relations, che ha applicato al comportamento sociale i fondamenti della psicoanalisi freudiana. Questo contributo ha portato alla definizione del modello organizzativo dell’azienda come sistema aperto, ricco di sviluppi e di applica­ zioni sia teoriche sia pratiche. Attualmente la p.d.l. è direttamente connessa con la p. delle organizzazioni, dalla quale non si distingue nettamente nei temi di intervento. 2. Le principali aree tematiche trattate dal­ la disciplina sono: gli atteggiamenti verso il lavoro (gratificazione, alienazione, → mo­ tivazione), l’organizzazione del lavoro (re­ sponsabilità, significatività, conoscenza dei risultati, divisione, conflitti, decisioni, lea­

dership, ruoli), l’orientamento al lavoro e l’ → orientamento professionale (la dinamica delle scelte), lo stress, la selezione. 3. Oggi si stanno delineando nuove prospet­ tive nelle tematiche affrontate dalla p.d.l. In particolare risulta interessante lo studio sulla ricerca di senso e di significato nel la­ voro e nelle organizzazioni (sensemaking), grazie anche ai contributi di studiosi come K. Weick. Un’altra prospettiva stimolante è l’analisi del lavoro secondo un approccio cul­ turale, sviluppata tra l’altro da autori come C. Schein. Quindi, oltre al tema dei bisogni (tradizionalmente indagato nel passato), appaiono rilevanti le prospettive dei valori della persona e più in generale della cultu­ ra, come elementi influenzanti l’agire pro­ fessionale. Questa lettura rimanda ad alcu­ ne problematiche ancora aperte nella p.d.l.: necessità di una maggiore integrazione con altre discipline affini (per es., la p. delle or­ ganizzazioni, l’ → antropologia culturale, l’etica, la → p. sociale), una maggiore ricerca e approfondimento su tematiche determinate dall’evoluzione delle relazioni sociali più in generale (per es., il mobbing o il già citato stress, l’innovazione e il processo creativo, il ricambio generazionale, la diversità etnica). Nei prossimi anni un tema di studio impor­ tante sarà quello di sviluppare la conoscenza disciplinare per comprendere come armoniz­ zare la dimensione economica e produttiva dell’impresa e lo sviluppo e l’armonia della persona che opera in essa. Bibl.: Avallone F., P.d.l., Roma, Carocci, 1998; Spaltro E. - P. De Vito Piscicelli, P. per le or­ ganizzazioni, Milano, Angeli, 1990; Pedon A. R. Maeran, P. e mondo del lavoro, Milano, LED, 2002; Sarchielli G., P.d.l., Bologna, Il Mulino, 2003.

G. Tònolo

Psicologia della famiglia 1. Lo scopo della p.d.f. è quello di studiare le dinamiche relazioni interne alla famiglia e di questa in rapporto con la comunità socia­ le in cui è inserita. Solo recentemente la p. si è occupata di studiare la famiglia e i suoi dinamismi. Nonostante ciò, in questi ultimi 937

PSICOLOGIA DELLA PERSONALITÀ

decenni, l’interesse della p.d.f. sta prenden­ do sempre più piede sia a livello di ricerca che a livello di intervento preventivo, promo­ zionale e terapeutico. Visti i numerosi cam­ biamenti della famiglia è diventata sempre più pressante la necessità di approfondirne lo studio, anche per individuare le diverse possibilità di sostenerla. La p. può offrire un importante contributo alla comprensione dei dinamismi familiari implicati dagli attuali mutamenti sociali. Può aiutarci, per es., a de­ finire la sua identità, a comprendere la sua trasformazione in una pluralità di forme fa­ miliari, ad interpretare le transizioni da una fase di sviluppo all’altra del suo ciclo di vita, a studiare i vari tipi di relazione che compor­ ta come quello coniugale, genitoriale, tra le generazioni, con la società, ecc. 2. Varie sono le prospettive attraverso le quali all’interno della p. ci si occupa della famiglia (quella evolutiva, quella psicoanalitica, quel­ la comportamentista, quella transazionale, ecc.) ma quella che ha offerto maggiori con­ tributi in questo campo è certamente quella sistemico-relazionale. Anzi possiamo dire che questo orientamento teorico si è svilup­ pato proprio focalizzandosi sull’osservazio­ ne delle relazioni familiari. Esso permette di cogliere la famiglia nella sua complessità e al di là di ogni semplificazione, sia come sistema relazionale in continuo interscam­ bio con l’ambiente esterno, sia come spazio primario nel quale l’individuo in modo at­ tivo costruisce la propria identità, cresce e cambia. 3. L’approccio sistemico-relazionale, pur sviluppandosi attorno alle teorie sistemiche, tiene conto e si arricchisce grazie agli appor­ ti delle teorie psicoanalitiche sviluppatesi in ambito clinico, delle ricerche in ambito psico­ sociale e delle teorie dello sviluppo applicate alla famiglia. In questo modo, infatti, le teo­ rie sistemiche riescono a favorire un’accurata osservazione dei processi interattivi in corso e del contesto che li qualifica con il supporto delle teorie psicoanalitiche che consentono di approfondire il vissuto emotivo e la qualità dei legami familiari, degli studi psicosociali che permettono di comprendere il ruolo del sociale e della relazione nei processi identi­ tari, delle teorie dello sviluppo che aiutano a comprendere la costruzione delle relazioni in 938

una dimensione longitudinale, offrendo così un ulteriore contributo alla comprensione di ciò viene osservato nel presente. Bibl.: Cusinato M., P. delle relazioni familiari, Bologna, Il Mulino, 1988; Scabini E. - V. Cigoli, Il famigliare, Milano, Cortina, 2000; M alagoli Togliatti M. - A. Lubrano Lavadera, Dinami­ che relazionali e ciclo di vita della famiglia, Bo­ logna, Il Mulino, 2002; Andolfi M., Manuale di p. relazionale, Roma, Accademia di Psicoterapia della Famiglia, 2003; Gambini P., P.d.f., Milano, Angeli, 2007.

P. Gambini

PSICOLOGIA DELLA PERSONALITÀ Disciplina specifica dell’ambito psicologi­ co che studia in particolare il costrutto per­ sonalità, le sue caratteristiche, la sua gene­ si, il suo divenire, la sua formazione. In tal senso è particolarmente rilevante per la ri­ flessione pedagogica. 1. Partendo dalla considerazione che il di­ venire individuale non dipende tanto dalle singole unità analitiche (tratti, motivi, abiti, ecc.), né costituisce un semplice pro­cesso di crescita spontaneo, ma piuttosto è il risulta­ to della totalità organizzata (cioè dell’indi­ viduo inteso in relazione al suo mondo), è necessario indagare su quelle questioni che regolano il comportamento della persona nei suoi rapporti col mon­do. Per quanto riguarda l’origine della p.d.p. possiamo trovare all’ini­ zio contribu­ti culturali, in particolare studi antropolo­gici, in cui si riflette sulla natura dell’essere umano. Tuttavia uno sviluppo propriamen­te scientifico della p.d.p. si ha in­ torno al 1920. 2. Guardando ai risultati delle ricerche ef­ fettuate si arriva alla conclusione che a tutt’oggi gli studi del settore rivelano uno stato di complessità. Nono­stante le numerose ricerche, le conclusioni finora raggiunte sono parziali e spesso di­vergenti, principalmente a causa della me­todologia di indagine adot­ tata e dei presupposti antropologici degli studiosi. Per quanto concerne la metodolo­ gia di indagi­ne, bisogna dire che i principi

PSICOLOGIA DELLA PERSONALITÀ

su cui si im­posta una ricerca hanno una dop­ pia origi­ne: una dalla discussione sul modo di stu­diare la singolarità dal punto di vista nomotetico, in base all’affermazione di → Aristotele secondo il quale la «scientia non est individuorum», e l’altra dalla riflessione su come studiare in genere il comporta­mento individuale. Sono così nate tipiche proposte per studiare la personalità nella sua origi­ nale singolarità: l’approccio idiografico e l’approccio nomotetico. Secondo l’approccio idiografico la personalità risul­ta fondamen­ talmente dalla visione biogra­fica, mentre se­ condo l’approccio nomotetico lo studio della personalità avviene in due modi: mediante la classificazione nomotetica (descrivere la singolarità secondo categorie, tratti, fattori) e me­diante la riduzione nomotetica (descri­ vere e interpretare le differenze individuali). Un altro fattore che concorre ad aumentare le divergenze nello studio della personalità deriva dalla stessa impostazione metodolo­ gica, nell’adozione cioè del metodo feno­ menologico o di quello operazionalistico nella ricerca sulla personalità. Ciò che dif­ ferenzia fondamentalmente questi due tipi di procedimento metodologico è il modo in cui le fonti d’informazione sono considera­ te ed utilizzate. Più concretamente, mentre l’impostazione fenomenologica raccoglie i dati psichici mediante la semplice descri­ zione (ossia la descrizione dei fatti psichici secondo il linguaggio co­mune) del compor­ tamento manifesto in si­t uazioni naturali e dalle esperienze comu­nicate personalmente, l’impostazione operazionalistica privilegia i dati ottenuti me­diante l’osservazione dei comportamenti manifesti e universalmente definiti in si­t uazioni controllate. Circa l’ul­ timo metodo è da osservare che questo esige per lo stu­dio della personalità, analogamen­ te alle scienze naturali, dei criteri rigidi di osser­vazione e quantificazione per cui può esse­re chiamato scientifico, positivistico o an­che oggettivistico. Oltre ai fattori legati di­rettamente all’impostazione metodologi­ ca, anche le prospettive antropologiche, se­ condo cui i ricercatori considerano la natu­ra umana, vengono a costituire un’altra fonte di divergenza nello studio della per­sonalità. Infatti, come fa notare → Allport (1957), il modello uomo non viene concepi­to in modo univoco nello studio della personalità. Men­ tre nel passa­to in Inghilterra e negli Stati

Uniti ha predominato la tradizione di → Lo­ cke, nel continente ha avuto il sopravvento la tra­dizione di Leibniz e di → Kant. L’adesione a uno di questi modelli di uomo ha avuto ne­ cessariamente delle conseguenze nello stu­ dio della personalità sulla scelta dell’og­getto di ricerca. 3. Volendo dare un apporto critico riguar­ do ai fattori che causano le divergenze nel­lo studio della personalità, riteniamo che una p.d.p. che non voglia essere né parzia­le né unilaterale debba partire da presupposti an­ tropologici che rispettano la tota­lità dell’es­ sere umano e che, coerentemen­te, debba se­ guire principi metodologici che consentano di tenere fede a questa pre­messa. Per una maggiore comprensione della collocazione della p.d.p. nell’ambito delle discipline psi­ cologiche, possiamo so­stenere che questa appartiene alle discipli­ne teoriche fonda­ mentali della p., a cui si rifanno le diver­ se discipline della p. appli­cata (per es. p. clinica, p. del lavoro). Ri­manendo sempre nel campo delle discipli­ne di orientamento teorico vediamo che, mentre la p. generale studia le leggi gene­r ali del comportamen­ to umano (per es. ri­g uardo alla percezione, motivazione) e la p. dello sviluppo ha come oggetto di studio i cambiamenti e i condi­ zionamenti del com­portamento individuale nel tempo, la p.d.p. si occupa delle diffe­ renze individuali e dei principi di fondo del divenire individuale. Bibl.: Allport G. W., «European and American theories of personality», in H. P. David - H. V. Bracken (Edd.), Perspectives in personality the­ ory, New York, Basic Books, 1957, 3-24; Frant­ a H., P.d.p.: Individualità e formazione integrale, Roma, LAS, 1982; Carrara G. V. - G. Accursio, P.d.p. e delle differenze individuali, Bologna, Il Mulino, 1992; I dd., P.d.p., Ibid., 1994; I dd., P.d.p.: storia, indirizzi teorici e temi di ricerca, Ibid., 1999; McM artin J., P.d.p.: un approccio centrato sullo studente, Milano, Guerini, 1999; Allport G. W. et al., I fondamenti storici della p.d.p., Torino, Bollati Boringhieri, 2000; Cano García F. J., Introducción a la psicología de la personalidad aplicada a las ciencias de la edu­ cación: manual teórico, Alcalá de Guadaíra, MAD, 2005; Ruiz Caballero J. A., Psicología de la personalidad para psicopedagogos, Madrid, Sanz y Torres, 2006; Moreno Jiménez B., Psico­

939

PSICOLOGIA DELLA RELIGIONE

logía de la personalidad, Cizur Menor (Navarra), Thomson, 2007.

H. Franta

PSICOLOGIA DELLA RELIGIONE Settore della p. che prende in considera­zione comportamenti e atteggiamenti che la per­ sona o il gruppo qualificano come religiosi, perché collegati con la fede in un Essere so­ prannaturale oppure con una vi­sione della → vita che non esclude la di­mensione del sacro, e cerca di compren­derne i fattori motivazio­ nali. 1. Punto di partenza della p.d.r. è l’indivi­ duazione di criteri che consentano una cor­ retta lettura dell’atteggiamento religioso. Essi sono: il significato intenzionale che la persona attribuisce a ciò che fa; l’orizzonte di totalità e di integrità esistenziali in cui essa colloca ciò che fa; il rapporto tra il vis­suto religioso e gli stadi del processo evo­lutivo in prospettiva sia cronologica che lo­gica; le co­ ordinate culturali del contesto storico in cui la persona vive. 2. Per una lettura realistica e globale del­ l’atteggiamento religioso, all’interno della complessità esistenziale, occorre tenere pre­ senti cinque dimensioni. La prima è quella emotiva che comprende sensazioni, perce­ zioni, uno stato di benessere legato a una ricompensa promessa, un senso di disagio in conseguenza di una punizione prospettata. La seconda dimensione è quel­la ritualistica che concerne le pratiche reli­giose riguardan­ ti il culto, l’adorazione del­la divinità, la pre­ ghiera o la partecipazione ai sacramenti. La terza è quella sociale che riguarda il ruolo dell’ambiente in cui la persona vive e matu­ ra le sue scelte (fa­miglia, scuola, istituzioni religiose, associa­zioni, gruppo di amici). La quarta è quella cognitiva che si riferisce sia alle informa­zioni circa le credenze basilari della pro­pria fede e dei propri riti, sia alla loro ac­coglienza e rielaborazione personale in conseguenza dei ritmi di sviluppo e di ma­ turazione. La quinta dimensione è quella mo­ tivazionale che prospetta un ampio spettro di possibilità: ricerca di risposte rassicuranti dinanzi alle frustrazioni quoti­diane; tentati­ 940

vo di difesa di un sistema di comportamenti e di scelte morali; pura cu­riosità intellettuale mai sufficientemente appagabile né appaga­ ta; rifugio dinanzi al­l’angoscia che scaturi­ sce dal vivere situa­zioni di emarginazione, d’isolamento, di ri­fiuto familiare, di depres­ sione; ricerca umi­le e costante del senso di tutto ciò che si fa attraverso un atteggiamen­ to di apertura e di accoglienza, prendendo le distanze da una pura ricerca di soddisfazioni e di grati­ficazioni e assumendo con coraggio la re­sponsabilità di un compito mai portato a termine in maniera perfetta o completa. 3. Un nucleo tematico che negli ultimi anni sta risultando di particolare interesse tra gli psicologi della religione è quello del «po­ tenziale terapeutico» dell’atteggiamento re­ ligioso, ossia degli effetti positivi, a livel­lo sia di salute psichica che di guarigione fi­sica, derivanti dall’incontro coinvolgente con una comunità in cui è visibile la carità nelle rela­ zioni interpersonali, oppure da celebrazioni cariche di emotività al cui cen­t ro sono posti gesti impetratori, oppure an­cora da interven­ ti di presunti capi carisma­tici che, facendo leva sulla facile credulità e suggestionabilità, portano le masse ad ade­rire in forma passiva e acritica a compor­t amenti pseudoreligiosi dalle forme strava­ganti. È appena da rile­ vare la valenza pe­d agogica di tali ricerche sia per ciò che riguarda l’ → educazione reli­ giosa in parti­colare, sia per ciò che riguarda l’identità e la ricerca del senso della vita, sia in rap­porto all’opera di prevenzione e di ri­ cupero, che spesso hanno nella loro eziolo­ gia disturbi, effettivi o possibili, dovuti a di­storte forme di socializzazione religiosa e di → catechesi. Bibl.: Grom B., Religionspsychologie, MünchenGöttingen, Kösel Verlag-Vandenhoeck & Rup­ recht, 1992; Dunde S.R. (Ed.), Wörterbuch der Religionspsychologie, Gütersloh, Gütersloher Verlagshaus Gerd Mohn, 1993; Fizzotti E. - M. Salustri, P.d.r. con antologia dei testi fonda­ mentali, Roma, Città Nuova, 2001; Hood R.W. et al., P.d.r. Prospettive psicosociali ed empiriche, Torino, Centro Scientifico Editore, 2001; Frankl V.E., Dio nell’inconscio. Psicotera­pia e religio­ ne, Brescia, Morcelliana, 52002; Fizzotti E., Psi­ cologia dell’atteggiamento religioso. Percorsi e prospettive, Trento, Erickson, 2006; Frankl V.E. - P. Lapide, Ricerca di Dio e domanda di senso.

PSICOLOGIA EDUCATIVA/SCOLASTICA

Dialogo tra un teologo e uno psicologo, Torino, Claudiana, 2006.

E. Fizzotti

PSICOLOGIA DELLA SALUTE → Salute: educazione alla

PSICOLOGIA DIFFERENZIALE 1. Oggetto della p.d. è lo studio oggettivo e quantitativo delle differenze individuali nel comportamento e delle differenze tra grup­pi dal punto di vista psicologico. Tralasciando le constatazioni di diffe­renze tra individui e tra gruppi, da sempre esistite, i primi studi sistematici di ap­proccio psicologico sulle differenze indivi­duali e tra gruppi, anche con tentativi di misurazione di tali differen­ ze, risalgono al­la fine dell’ottocento. Al di là degli studi settoriali di → Galton sulla → ereditarietà del genio (1869) e di J. M. Cattell sui test men­t ali (1890), il primo lavoro che tenta un’im­postazione globale dello studio delle diffe­renze individuali è l’articolo di → Binet e V. Henri del 1895, seguito nel 1900 dall’o­pera di → Stern. Binet e Henri si sono sof­fermati particolarmente sullo studio della natura delle differenze individuali nei pro­cessi psicologici e delle interrelazioni tra processi mentali. Stern parlava, principal­mente, di na­ tura, problemi e metodi della p.d. Da queste due pubblicazioni nascono i nomi con cui è stato indicato lo studio del­le differenze psico­ logiche tra individui e tra gruppi. Per evitare confusioni terminologi­che ha prevalso, per questo ambito di stu­dio, la denominazione di p.d. rispetto a quella di p. individuale. 2. L’attuale p.d. ha potuto progredire no­ tevolmente grazie allo sviluppo di altre bran­ che scientifiche direttamente o indi­rettamente collegate alla psicologia. La → statistica, la → biologia, lo studio tra ereditarietà e → am­ biente, i → test psicologici, l’an­t ropologia cul­ turale, ecc. hanno permesso alla p.d. di fare notevoli passi avanti. No­nostante i progressi in un secolo di studi e ricerche sulle differen­ ze psicologiche, pos­siamo tuttavia dire che il campo di studio della p.d. è limitato ai tre grossi settori già indicati da Stern: natura ed estensione del­le differenze nella vita psicolo­ gica degli in­dividui e dei gruppi; fattori che

determina­no e influenzano queste differen­ ze; come si manifestano queste differenze. Sotto questi vari aspetti vengono studiate le differenze intellettive e di carattere, le diffe­ renze dovute a culture diverse, legate al ses­ so o alla razza, ecc. 3. La convenienza e l’utilità dello studio di queste differenze per l’educatore è eviden­te. Ad una p.d. devono corrispondere, in termi­ ni metodologici, una pedagogia diffe­renziale ed una → didattica differenziale. Occorrerà dunque tener conto non solo delle differenze esistenti, ma anche dei fat­tori che le determi­ nano: capire se le diffe­renze ad un certo mo­ mento dello sviluppo sono dovute a fattori contingenti o a fatto­ri strutturali, consiglierà modalità diverse di intervento e permetterà anche una pre­visione sui risultati che si po­ tranno rag­giungere con l’ → azione educativa o l’azio­ne didattica. Bibl.: Binet A. - V. H enri, Psychologie indi­ viduelle, in «Année Psychologique» 2 (1895) 411-465; Stern W., Über Psychologie der in­ dividuellen Differenzen, Leipzig, Barth, 1900; A nastasi A., P.d., Firenze, Editrice Universita­ ria, 1965; R euchlin M., La p.d., Roma, Paoline, 1971; Bariatti A., Lezioni di p.d., Milano, Vita e Pensiero, 1976; Shackleton V., Individual diffe­rences: theories and applications, London, Methuen, 1984; Eysenck M. W., Individual dif­ ferences: normal and abnormal, Hove, Erlbaum, 1994; Lucio R., Storia della p., Bari/Roma, La­ terza, 2000.

M. Gutiérrez

PSICOLOGIA EDUCATIVA/ SCOLASTICA È il ramo della p. che si occupa dei proces­ si educativi e in particolare di quelli che si riferiscono: a) allo sviluppo intellettuale, emozionale, sociale e morale degli educandi; b) all’acquisizione di conoscenze e di abilità generali e specifiche; c) all’interiorizzazione di valori e alla formazione di atteggiamenti; d) alle interazioni e relazioni interpersona­ li tra gli educandi e gli educatori e tra gli educatori e gli educandi stessi. La p.s., in particolare, studia i processi psicologici che hanno luogo nel contesto scolastico. Talvol­ 941

PSICOLOGIA EDUCATIVA/SCOLASTICA

ta viene denominata p.e. quella parte della p. che dovrebbe conoscere un educatore e, parallelamente, p.s. quella parte della p. che dovrebbe conoscere un insegnante. Può es­ sere genericamente designata anche con al­ tre denominazioni tra cui: psicopedagogia, p. pedagogica, p. dell’educazione. La p.s. viene spesso anche denominata p. dell’istru­ zione. In ingl.: Educational psychology, School psychology, Instructional psychol­ ogy. In fr. è comune: Psychopédagogie. In sp. Psicopedagogía. In ted. Erziehung Psy­ chologie, Unterricht Psychologie e Pädago­ gische Psychologie. 1. Natura. Si usa affermare che la p. dell’edu­ cazione è una scienza applicata. Tuttavia tale affermazione può prestarsi a qualche equivo­ co. Infatti, non si tratta tanto di applicare le leggi generali della p. all’educazione, anche se questo può e deve essere fatto per alcuni aspetti, quanto di studiare i processi educati­ vi secondo apparati concettuali, metodologie di indagine e forme di discorso di natura psi­ cologica. I suoi campi di interesse possono essere identificati secondo due grandi aree: → istruzione e interazione. Tuttavia sarebbe pe­ ricoloso designare la prima area come quel­ la che interessa la scuola e la seconda come quella che interessa l’educazione. Processi istruttivi e rapporti interpersonali hanno luo­ go sia in seno alla famiglia, sia nella scuola, sia nelle varie comunità di appartenenza dei bambini e dei giovani. 2. Storia. Il primo volume di Educational psychology si deve a Thorndike (1903), an­ che se a → James si deve un volume precur­ sore dal titolo Talks to teachers (1899). In Italia il primo volume pubblicato di P. peda­ gogica si deve a P. Romano (1906). Tuttavia a lungo si è trattato più di applicazioni di concetti e principi sviluppati nel contesto della p. sperimentale che di svi­luppi propri di una scienza autonoma. Nei Paesi di lingua fr. questa disciplina ha concentrato la sua attenzione sui problemi dello sviluppo del bambino e del fanciullo (R. Zazzo, → Wal­ lon) e dello scolaro (→ Claparède, → Buyse). Negli anni quaranta e cinquanta negli Stati Uniti è prevalso un approccio comporta­ mentale che ha portato a una p.e. e s. ispira­ ta a tale approccio, che ha fatto da supporto allo sviluppo di un’impostazione psicotec­ 942

nologica solo a poco a poco svincolatasi da riduttivismi comportamentisti (teorie degli → obiettivi educativi, teorie curricolari, → istruzione programmata, Mastery learning). In Europa prima, e negli Stati Uniti dopo, ha avuto un grande influsso la lezione pia­ getiana, soprattutto a partire dagli anni ses­ santa. Una sintesi magistrale delle principali ricerche a valenza educativa è stata offerta alla fine degli anni sessanta da D.P. Ausubel (1968) che ha centrato il discorso sul concet­ to di apprendimento significativo. Apporti di grande interesse sono stati dati da autori come → Bruner, → Rogers e in genere dalla p. umanista. Dagli anni settanta in poi si as­ siste a uno sviluppo di natura cognitivista che valorizza l’analisi dei processi cognitivi esplorati sotto la metafora dell’uomo elabo­ ratore di informazioni (Gagné, 1989). Gli anni ottanta e novanta vedono una ripresa degli studi sulla p. della volontà di inizio secolo e, più in generale, sulla p. dell’azio­ ne. Oggetto di indagine diventano l’azione educativa considerata come azione sociale (Amerio, 1995), l’azione di apprendimento degli studenti considerata come costruzione di significati e l’interazione tra le due azioni. Gli anni del nuovo millennio sono segnati da una particolare attenzione alla affettività e alla dinamica emozionionale presente nei contesti educativi e scolastici. 3. Contenuti. Occorre distinguere tra quanto è contenuto nei manuali di p. dell’educazione e ciò che costituisce l’oggetto più specifico di studio e di ricerca di questa disciplina scien­ tifica. Nel primo caso si nota spesso come sotto la dizione di p. dell’educazione entrino tutte le conoscenze psicologiche fondamen­ tali necessarie a un educatore e, più speci­ ficatamente, a un insegnante per svolgere la propria azione: i processi di sviluppo degli allievi alle varie età, i processi cognitivi e af­ fettivi implicati nell’attività di insegnamento e di apprendimento, le basi psicologiche dei vari metodi di insegnamento, le relazioni so­ ciali attivate nella comunità scolastica o edu­ cativa, la valutazione dell’azione educativa e dei suoi risultati, ecc. Nel secondo caso si è in genere più precisi e puntuali e le tematiche affrontate riflettono lo stato di avanzamento delle discipline psicologiche e i diversi para­ digmi di ricerca che via via si susseguono: dall’associazionismo, alla p. della → Gestalt,

PSICOLOGIA EVOLUTIVA

al comportamentismo, al cognitivismo, alla p. dell’azione e alla p. sociocognitiva. Temi di grande interesse sono: a) i processi di costruzione delle conoscenze e di sviluppo delle competenze di natura scolastica e pro­ fessionale; b) le relazioni interpersonali e il loro influsso sulla crescita personale e socia­ le dei bambini e degli studenti; c) la natura e la dinamica dei processi motivazionali, emozionali e volitivi nei contesti scolastici, familiari e sociali; d) lo sviluppo dei processi di autodeterminazione e di autoregolazione nell’apprendimento. Un particolare settore di interesse è quello dedicato alla p. dell’ap­ prendimento dei contenuti delle diverse di­ scipline di insegnamento. 4. Metodi. Nella prima metà del sec. XX ha prevalso nettamente una metodologia di tipo sperimentale che valorizzava dati rilevati empiricamente ed elaborati statisticamente. In questi ultimi decenni si è accentuata la tendenza a privilegiare metodi di tipo quali­ tativo o interpretativista. Inoltre si è progres­ sivamente passati da indagini svolte preva­ lentemente in laboratorio e in situazioni ap­ positamente progettate a indagini svolte in contesti reali, come la classe, il gruppo asso­ ciazionistico, la famiglia, favorendo l’uso di metodi idiografici. La centralità dello studio dell’azione sociale ha comportato un’atten­ zione specifica per l’intenzionalità educativa e quindi la valorizzazione di metodi basati sulla narrazione. Dagli studiosi più esperti e consapevoli si insiste sulla necessità di con­ siderare i vari approcci metodologici come complementari. Bibl.: Pontecorvo C., P. dell’educazione, Tera­ mo, EIT, 1973; Ausubel D. P., Educazione e pro­ cessi cognitivi, Milano, Angeli, 1978; Lumbelli L., P. dell’educazione: comunicare a scuola, Bologna, Il Mulino, 1982; Pontecorvo C. - M. Pontecorvo, P. dell’educazione. Conoscere a scuola, Bologna, Il Mulino, 1986; Glover J. A. - R. R. Ronning (Edd.), Historical foundations of educational psychology, New York, Plenum Press, 1987; Gagné E., P. cognitiva e apprendi­ mento scolastico, Torino, SEI, 1989; Lesgold A. - R. Glaser (Edd.), Foundations for a psychol­ ogy of education, Hillsdale, Erlbaum, 1989; Petter G., La preparazione psicologica degli inse­ gnanti, Firenze, La Nuova Italia, 1992; A merio P., Fondamenti teorici di p. sociale, Bologna, Il

Mulino, 1995; M. Pressley - C. B. Mc-Cormick, Advanced educational psychology, New York, Harper Collins, 1995; Pontecorvo C. (Ed)., Ma­ nuale di p. dell’educazione, Bologna, Il Mulino, 1999; Carugati F. - P. Selleri, P. dell’educa­ zione, Bologna, Il Mulino, 2005; Boscolo P., P. dell’apprendimento scolastico. Aspetti cognitivi e motivazionali, Torino, UTET, 2006; Schutz P. A. - R. Pekrun, Emotion in education, Amster­ dam, Elsevier, 2007.

M. Pellerey

PSICOLOGIA EVOLUTIVA La p.e. è il settore della p. che si occupa dello studio delle continue modificazioni fisiche, emotive, cognitive e comportamentali che intervengono nella persona lungo l’intero arco vitale. 1. Tipicamente, l’arco vitale è suddiviso in stadi di sviluppo che fanno riferimento all’età cronologica (diversamente considerata): fase prenatale (dal concepimento fino alla nasci­ ta), infanzia (0-3 a. ca.), fanciullezza (3-6 a. ca.), preadolescenza (6-12 a. ca.), adolescen­ za (12-20 a. ca.), età adulta iniziale (20-40 a. ca.), età adulta intermedia (40-65 a. ca.), età adulta avanzata (oltre i 65 a. ca.), vecchiaia (oltre i 75 a.). Se la p.e. si occupa dei cam­ biamenti che coinvolgono tutte le sfere della persona, compiti delle teorie dello sviluppo saranno: descrivere le modificazioni che in­ tervengono nel tempo in uno o più aspetti dell’attività umana; descrivere le modifica­ zioni di un particolare periodo di sviluppo e in relazione a più periodi di sviluppo; defi­ nire principi e regole che spieghino influssi e modalità delle modificazioni descritte. 2. Pur nella loro estrema varietà in quanto a natura, contenuti e metodi, le teorie dello sviluppo si trovano accomunate dalla presa di posizione che assumono relativamente a quattro aspetti dai quali è impossibile pre­ scindere se si vuole intraprendere uno studio evolutivo della persona. Ogni teoria dovrà indicare il concetto d’uomo da cui intende muovere (antropologia di base); dovrà spe­ cificare se lo sviluppo va inteso in termini di modificazioni di tipo qualitativo o quan­ titativo o di entrambi in interazione; dovrà, 943

PSICOLOGIA GENERALE

poi, indicare se queste modificazioni, qua­ litative o quantitative che siano, dipendono da fattori ereditari o da fattori ambientali o da entrambi in interazione; infine, ogni te­ oria dello sviluppo dovrà specificare quale aspetto essenziale del comportamento viene ritenuto più rilevante dalla propria prospetti­ va. Si avanza la proposta di considerare l’uo­ mo come un essere molto ricco (che sfugge a qualsiasi etichettamento riduttivo), aperto (tendente verso un equilibrio sempre più maturo), competente (con capacità e abilità che vanno valutate relativamente al livello di sviluppo che attraversa) e attivo (capace di dare senso alle cose e alle proprie esperien­ ze). Una tale ricchezza e complessità saranno meglio comprese ricorrendo ad una pluralità di prospettive teoriche che, debitamente inte­ grate, consentiranno un avvicinamento il più completo possibile alla persona in sviluppo. Ogni scelta di studio comporta un’esclusione e, quindi, non consente una comprensione della totalità della persona; perciò si propone di prendere in considerazione i tre aspetti del­ la persona che sembrano maggiormente signi­ ficativi e le tre teorie che si occupano più di­ rettamente di ognuno dei tre aspetti. La scelta cade sugli aspetti cognitivi, comportamentali e affettivo-motivazionali della persona e, pa­ rallelamente, sulle teorie cognitiva, dell’ap­ prendimento sociale e del profondo.

Psicología del desarrollo. El ciclo vital, Madrid, McGraw-Hill, 2006.

A. Arto

PSICOLOGIA GENERALE Ambito della p. relativo alle questioni di fon­ do e di quadro orientativo ed epistemo­logico di tale disciplina. È pur vero che il termine ha indicato, nel corso degli ultimi decenni, due diverse realtà. 1. Fino agli anni ’60 del sec. scorso, seguen­ do la ten­denza tedesca di offrire manuali de­ finitivi, la p.g. indicava lo studio organico e completo di quelli che si ritenevano i proces­ si psichici fondamentali, quali la → percezio­ ne, la → memoria, l’ → apprendimento, il → pensiero e la → motivazione. L’Handbuch der Psychologie, curato dal Thomae nel 1964-66, dedicava ben 2700 pagine a questi temi. In seguito all’esplosione delle ricer­che, oggi è necessario seguire di giorno in giorno gli sviluppi nei singoli settori, e un manuale generale diviene presto obsoleto o almeno incompleto.

3. Da un punto di vista educativo, la p.e., oltre a fornire elementi per una conoscenza della persona, offre un quadro di riferimento ed una adeguata mentalità per leggere tutta la realtà e per costruire uno stile di vita, che permetta di avvicinare l’ambiente circostan­ te e l’ambiente macroscopico con una tipica sensibilità, che possiamo chiamare «evoluti­ va». Un atteggiamento evolutivo favorisce il modo di relazionarsi con gli altri in quanto rispetta il livello di sviluppo raggiunto, qua­ lunque esso sia, comprende il diverso ritmo di sviluppo e il modo diverso di camminare verso le mete proprie di ogni persona.

2. La p.g. si è perciò trasformata in una in­ troduzione alla p., con il compito di offrire un quadro generale dei contenuti e dei pro­ blemi delle ricerche psicologiche, dei co­ strutti e delle principali teorie proposte per comprendere la condotta. Tale quadro do­ vrebbe permettere allo studioso di colloca­re problemi e ricerche singole nel contesto più generale, per dare loro il giusto signifi­cato. Nei testi attuali di p.g. o di introduzione al­la p. si ritrova perciò lo studio preliminare dei processi psichici fondamentali, sopra indica­ ti; spesso si incontrano pure altri te­mi, quali fondamenti epistemologici e di metodo, ele­ menti di storia della p. e di fi­siologia della condotta, e principi di → p. evolutiva e della → personalità.

Bibl.: Berger K.S., Lo sviluppo della persona: periodo prenatale, infanzia, adolescenza, ma­ turità, vecchiaia, Bologna, Zanichelli, 1996; Newcombe N., Lo sviluppo del bambino e la personalità, Ibid., 2000; Sugarman L., P. del ciclo della vita. Modelli teorici e strategie d’in­ tervento, Milano, Cortina, 2003; Santrock J.W.,

Bibl.: Thomae H. (Ed.), Handbuch der Psycholo­ gie. voll. 1-2. Allgemeine Psychologie, Göttin­ gen, Hogrefe, 1964-1966; Schoenpflug W. - E. Schoenpflug, Istituzioni di p.g., Roma, Città Nuo­va, 1993; Ronco A., Introduzione alla p. I. P. dina­mica; II. Conoscenza e apprendimento, Roma, LAS, 1991-1994; Bottone M., P.g., Na­

944

PSICOLOGIA SOCIALE

poli, Ellissi, 2000; Gambini P., Introduzione alla p., vol. I: I processi cognitivi, Milano, Angeli, 2006.

A. Ronco

PSICOLOGIA SOCIALE G. W. Allport, nella terza ediz. (1985) del­ l’Handbook of social psychology, definisce la p.s. come la scienza che è tesa a capire e spiegare come i pensieri, i sentimenti e il comportamento degli individui sono influen­ zati dalla presenza effettiva, immaginata o implicita degli altri. 1. Storia. La p.s. si presenta tipicamente con due anime: la p.s. sociologica e la p.s. psicologica. La p.s. sociologica privilegia spiegazioni che si rifanno prevalentemente alle strutture organizzative e ai sistemi so­ ciali; gli studiosi più noti di questa linea di pensiero sono H. Mead, Goffman, French, Homans e Bales. La p.s. psicologica privi­ legia spiegazioni legate al vissuto personale e ai processi interpersonali; gli studiosi più noti di questa linea sono → Lewin, Festin­ ger, Schachter, Asch, Campbell e → Allport (Wilson e Schafer, 1978). Storicamente i due approcci si possono far derivare da Platone, che era più orientato al sociologico e ad Ari­ stotele, che era più orientato all’individuo. In ambito filosofico più recente il sociologi­ co si rifà a G. W. Hegel (1770-1831) e alla sua mente di gruppo, mentre lo psicologico si rifà piuttosto all’individualismo nelle sue varianti dell’utilitarismo e dell’edonismo di B. Bentham (1748-1832). In tempi ancora più moderni hanno contribuito allo sviluppo del­ la p.s. il pensiero sociologico di A. Comte (1798-1857) e il suo positivismo. Tuttavia lo sviluppo sistematico della linea sociolo­ gica è attribuito a → Durkheim (1858-1917) con la sua rappresentazione collettiva della società, pensiero ripreso in parte in Francia da S. Moscovici (1961). Un forte impatto, soprattutto verso la linea psicologica, han­ no avuto le teorie darwiniste, soprattutto attraverso l’opera di Darwin sull’espressio­ ne delle emozioni nell’uomo e negli animali e che ha influenzato significativamente gli etologi (vedi Hinde, 1974) e i sociobiologi (Wilson, 1975).

2. Evoluzione della p.s. La p.s. moderna per molti ha inizio con la pubblicazione di due libri di testo americani: quello di E. Ross (1908), focalizzato sul ruolo del contesto strutturale sociale sui processi dell’indivi­ duo, e quello di W. McDougall (1908), con il suo approccio individuale alla p.s. fonda­ ta sulla teoria degli istinti. La tradizione di Ross venne assorbita prevalentemente dalla sociologia mentre la p.s. si sviluppò di più lungo la traiettoria delle realtà individua­ li. Soprattutto con F. H. Allport (1924) e i suoi esperimenti sugli effetti del lavoro alla presenza di altri individui, la p.s. divenne la scienza che studia il → comportamen­ to dell’individuo in quanto questo serve da stimolo per altri individui o esso stesso è la reazione al medesimo comportamento. La focalizzazione sull’individuo, sul compor­ tamento e sui procedimenti sperimentali trasformò la p.s. in una disciplina scienti­ ficamente fondata. Troviamo in questo le radici europee della tradizione di → Wundt. Negli anni ’30 e ’40 del sec. scorso dominò nella p.s. lo studio, la misurazione e il cam­ biamento degli atteggiamenti, senza grandi progressi e innovazioni, fino ad arrivare agli anni ’70 durante i quali la p. venne sottopo­ sta a forte critica per essere una scienza di scarsa rilevanza sociale. Attraverso Lewin iniziò il ritorno forte al sociale attraverso la sua teoria del campo e il lavoro sperimentale con i gruppi per cambiare pregiudizi, atteg­ giamenti, condotte, stili di comando nella vita quotidiana: quella che venne in seguito chiamata ricerca-azione. Sotto l’influenza di Lewin ed altri scienziati europei emigrati negli USA la p.s. gradualmente passò da un orientamento comportamentale ad un orien­ tamento cognitivo e dall’uso di mini teorie a teorie più ampie. In Europa la p.s. moderna ebbe come rappresentanti vivaci H. Tajfel (1984) che approfondì la dimensione sociale e S. Moscovici (1984) noto per i suoi studi sulle rappresentazioni sociali e sull’influen­ za delle minoranze nel cambiamento sociale. Questi studiosi non hanno ancora avuto un impatto forte sulla p.s. europea, che è ancora influenzata sistematicamente da quella nor­ damericana, trasformata dai cervelli fuggiti dall’Europa al tempo di Hitler. 3. La p.s. oggi. Oggi la p.s. studia in modo specifico la formazione del sé nel contesto 945

PSICOLOGO

sociale, i processi di attribuzione di signifi­ cati intenzionali e causali all’agire delle per­ sone, gli atteggiamenti e il loro cambiamen­ to, la comunicazione interpersonale, le rela­ zioni sociali, il comportamento prosociale e di responsabilità sociale, il comportamento aggressivo, il conflitto e la collaborazione, l’influsso sociale dei gruppi e le relazioni tra i gruppi ed è seriamente orientata ver­ so tematiche importanti per la convivenza umana. Bibl.: McDougall W., Introduction to social psy­ chology, London, Methuen, 1908; Ross E., Social psychology, New York, McMillan, 1908; Allport F. H., Social psychology, Boston, Houghton Mif­ flin, 1924; Moscovici S., La psychanalyse: son image et son public, Paris, PUF, 1961; Wilson D. W. - R. B. Schafer, Is social psychology in­ terdisciplinary?, in «Personality and Social Psy­ chology Bulletin» 4 (1978) 548-552; Moscovici S., Psychologie sociale, Paris, PUF, 1984; Tajfel H. (Ed.), The social dimension: European devel­ opments in social psychology, vol. 2, London, Cambridge University Press, 1984; A llport G. W., «The historical background of modern social psychology», in G. Lindsey - E. A ronson (Edd.), Handbook of social psychology, New York, Ran­ dom House, 1985; Molinari L., P. dello sviluppo sociale, Bologna, Il Mulino, 2002.

P. Scilligo

PSICOLOGO La L. italiana 56/1989 regola l’esercizio della professione dello p.: colui che è capa­ ce di utilizzare gli strumenti diagnostici, di intervenire in funzione della prevenzio­ ne, abilitazione-riabilitazione e sostegno in ambito psicologico in favore della persona, del gruppo, degli organismi sociali e delle comunità; è capace di realizzare attività di sperimentazione e di ricerca (art. 1). Lo p. sa descrivere il → comportamento umano con i relativi processi intrapersonali, interperso­ nali, sociali, interpretare quanto ha descrit­ to e programmare interventi psicologici, in funzione dell’ottimizzazione delle risorse della persona situata nelle sue coordinate psico-socio-culturali. 1. Lo p. necessita di adeguata preparazione 946

per svolgere autorevolmente il suo ruolo. La situazione italiana, a livello strutturale, offre un modello in due cicli, che tiene conto della problematica nazionale ma con uno sguardo al panorama internazionale, in particolare a quello europeo. Il primo ciclo (attualmente 3 anni) offre una preparazione nel campo delle «scienze e delle tecniche psicologiche»; cer­ ca di garantire una formazione che consenta l’acquisizione di conoscenze teoriche ben fondate e di elementi operativi nei diversi campi della psicologia. Il secondo ciclo (2 anni), «laurea magistrale in psicologia», pre­ vede l’acquisizione di conoscenze e compe­ tenze specialistiche nei vari campi psicolo­ gici. Gli obiettivi formativi possono riguar­ dare uno o più ambiti di intervento (più di una quindicina). In entrambi i cicli, oltre alla presenza di laboratori e attività pratiche, che sono parte integrante dei rispettivi curricoli, sono richiesti tirocini da svolgere sul campo di lavoro come preparazione alla formazio­ ne pratico-lavorativa. Sono previsti, infine, due tipi di esame di Stato relativi ad ogni ciclo, consistenti in diverse prove teoriche e pratiche. L’iscrizione al rispettivo Albo, dopo il superamento dell’esame, garantisce «ufficialmente» l’idoneità all’esercizio della professione. Lo p. iscritto all’Albo A (primo ciclo) non ha una totale autonomia nell’esple­ tamento della sua professione ma necessita della supervisone di uno p. iscritto all’Albo B (laurea magistrale). 2. L’azione dello p. si svolge in svariati cam­ pi, che vanno dalla normalità alla anormalità, dal campo scolastico a quello del lavoro, dalla riabilitazione alla promozione del benessere, della prevenzione e della salute, dall’azione sul singolo a quella con i gruppi e con la co­ munità, da un’impostazione clinica ad una di tipo educativo, ecc. Il lavoro psicologico si esplica in una molteplicità di contesti quali: ospedali e strutture di salute mentale, centri per soggetti diversamente abili, consultori di vario tipo, sportelli di orientamento, in strut­ ture di ricerca, nei diversi tipi di scuola, nelle aziende e in tanti altri tipi di istituti pubblici e privati. L’iscrizione all’Albo B permette, tra l’altro, l’iscrizione alle Scuole Superiori di Specializzazione in Psicologia Clinica o Psicoterapia (attualmente tre universitarie e numerose scuole private riconosciute dal Ministero competente).

PSICOMETRIA

3. Il ruolo svolto dallo p. richiede che l’Albo ne garantisca una azione corretta. Esiste il Codice deontologico degli p. italiani e inoltre una «Commissione deontologica» che pro­ muovono: la preparazione, l’aggiornamento, lo svolgimento del lavoro, i rapporti con le persone, ecc. Oltre alle normativa «ufficia­ le», ogni p. è chiamato a costruirsi una com­ petenza che gli consenta di svolgere autore­ volmente il proprio compito. Indichiamo al­ cuni aspetti che ci sembrano particolarmente significativi nella costruzione di tale compe­ tenza: la formazione di una mentalità aperta alle diverse teorie per poter leggere meglio la realtà umana, il rispetto di una antropologia di base attenta a tutti gli aspetti della persona al di là delle proprie credenze, il rispetto del­ la singola persona e del suo ritmo di cambia­ mento che richiede di non andare oltre ciò che l’individuo è disposto a «condividere» o ad accettare in un momento concreto della sua vita, l’adattamento delle conoscenze e delle tecniche alle esigenze concrete della perso­ na, la condivisione con gli altri professionisti con cui viene a trovarsi. Conviene, infine, ri­ cordare che quella di p. è una professione di aiuto che richiede una sana → igiene mentale (psicologica) per facilitare l’ottimizzazione delle risorse delle persone ponendosi come modello nell’uso delle proprie risorse, senza cadere nello stress lavorativo.

za di migliorare la validità delle valutazioni «ingenue» (voti e giudizi scolastici, diagnosi psicologiche e psichiatriche ecc.) e di rendere il processo di valutazione più rapido ed eco­ nomico. Più o meno contemporaneamente, e contestualmente all’elaborazione delle teorie psicologiche, vennero sviluppate metodo­ logie matematico-statistiche per la verifica della validità dei test, per l’ottimizzazione della «correzione», per la standardizzazio­ ne dei punteggi ecc. Le metodologie erano in parte desunte da altre scienze sperimen­ tali (per es. i metodi di scaling dalla fisica, l’analisi della varianza dall’agricoltura, le statistiche descrittive dalla demografia ecc.), in parte erano ideate o notevolmente rielabo­ rate da psicologi (per es. l’analisi fattoriale) e venivano riferite indifferentemente a test psicologici o di profitto scolastico.

Studio dei procedimenti matematico-stati­ stici attinenti alle misurazioni psicologiche; studio dei → test mentali.

2. All’inizio la p. includeva l’area discipli­ nare attualmente chiamata «Statistica psico­ metrica». Già alla metà del sec. scorso però era avvenuta una differenziazione fra le due discipline: la p. aveva assunto il ruolo preva­ lente di inquadrare teoricamente i fenomeni, di formulare operativamente le esigenze del testing, di discutere l’appropriatezza dell’uso delle varie tecniche statistiche, di introdurre e verificare nuove metodologie, di descrive­ re criticamente i test esistenti. Le trattazioni attuali di p., rispetto a quelle di metà Nove­ cento, dedicano poco spazio all’illustrazione delle tecniche, ormai gestite da packages computerizzati, e più spazio alla discussione dei fondamenti teorici e dell’appropriatezza delle varie metodologie. Le aree trattate in­ cludono i modelli di scaling (settore in cui è più rilevante l’apporto matematico e in cui è presente l’importante aspetto operativo della costituzione di norme per la standardizza­ zione dei punteggi), la validità, la struttura interna delle misure, l’uso dell’analisi multi­ variata (con particolare attenzione all’«ana­ lisi fattoriale», esplorativa o confermativa), l’analisi degli item con metodi tradizionali o più recenti (statistiche d’informazione, IRT) l’effetto di variabili contingenti sulla misura­ zione (per es. effetto della rapidità, dell’indo­ vinare a caso, dello «stile di risposta»).

1. L’introduzione di test oggettivi in cam­ po educativo e psicologico risale alla fine dell’Ottocento e risponde alla duplice esigen­

3. Negli ultimi trent’anni ha acquisito im­ portanza crescente, ed è prossima a staccarsi dalla p., l’area applicativa che studia le cor­

Bibl.: Lombardo G. P., Storia e modelli della formazione. Le teorie sul ruolo dello p., Milano, Angeli, 1994; Sarchielli G. - F. Fraccaroli, Le professioni dello p., Milano, Cortina, 2002; Moderato P. - F. Rovetto, P.: verso la professione, Milano, McGraw Hill, 2006; Giandomenico D., La professione dello p. Ordinamento, deontolo­ gia, responsabilità, Milano, Mondadori Univer­ sità, 2007.

A. Arto

PSICOMETRIA

947

PSICOMOTRICITÀ

rette modalità per integrare l’atto valutati­ vo nell’intervento educativo, psicologico o sociale. Questa problematica parte dal mo­ mento della pianificazione dell’intervento, includendo quindi una conoscenza critica degli strumenti esistenti e delle variabili in­ tervenienti, affronta il momento in cui i dati del profilo testologico e di tutte le altre infor­ mazioni attinenti al soggetto devono essere integrati fra loro e commentati (spesso ormai anche con l’aiuto di software, di cui bisogna verificare la validità) e si conclude con la co­ municazione dei risultati al soggetto o a un interlocutore sociale (per es. il consiglio di classe) in un quadro generale d’intervento. Bibl.: Guilford J. P., Psychometric methods, New York, McGraw-Hill, 1936, 1954; Thorndike R. L., Educational measurement, Washington D.C., American Council on Education, 1951,1971; Rubini V., Basi teoriche del testing psicologico, Bo­ logna, Patron, 1975; Boncori L., Teoria e tecniche dei test, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Nunnally J. C - I. H. Bernstein, Psychometric theory, New York, McGraw-Hill, 31994; Barbaranelli C. - E. Natali, I test psicologici: teorie e modelli psicometrici, Roma, Carocci, 2005; Boncori L., I test in psicologia, Bologna, Il Mulino, 2006.

L. Boncori

PSICOMOTRICITÀ La p. è motricità attivata psichicamente; la motricità è dimensione del → comporta­ mento, come la corporeità lo è dell’essere umano. 1. Lo sviluppo del potenziale psicomotorio fa parte del sistema dello sviluppo umano. La p. è complessa in sé e nell’interazione col mondo: a livello conoscitivo, in quanto va dalle sensazioni all’idea; a livello emoti­vo, in quanto va dai piaceri al sentimento; a livello motivazionale, in quanto va dalle reazioni spontanee e impulsive all’auto­controllo; e in genere, dal movimento in­cosciente alla libertà cosciente. Nel siste­ma dei bisogni (→ Maslow), la p. è correla­ta a tutte le compo­ nenti della persona umana, ed è base di sol­ lievo fisico, è stru­mento di socializzazione, è riferimento del­lo psichismo superiore, che si completa nell’auto-realizzazione. 948

2. Il bisogno d’auto-realizzazione trova at­ tivazione psicomotoria sensorio-affettiva di risonanza multipla. L’interazione è base di coscienza del mondo e coscienza di sé, che configurano l’immagine psicomotoria nel sistema dell’immagine dell’io. Nel pro­cesso di auto-realizzazione, la p. viene a definir­ si sotto forme di determinazione fi­sica e di atteggiamenti sociali, razionali, «estetici», di senso esistenziale (Maslow). Lo sviluppo dell’immagine psicomotoria dà luogo a mo­ delli che orientano nella di­namica corpora­ le (schema corporale), negli spazi (schema spaziale), nel tempo (schema temporale), nella società e nel mondo (schemi espressivi d’identità perso­nale e sociale). La p. implica interattività e promuove l’auto-realizzazione nelle espe­rienze di coordinazione e ritmo di armonia integrale e, in senso complesso, di maturità personale psicomotoria. Nella p. c’è l’in­contro e la sintesi tra dinamica psicofisica per lo sviluppo e l’espressione soma­ topsichica dell’armonia dinamica e interat­ tiva nel mondo. L’immagine psicomotoria del­l’io è una componente espressiva della creatività dell’io personale e un indice del­ lo sviluppo di libertà fisica e psichica, per­ sonale e sociale. 3. I programmi di sviluppo del potenziale psicomotorio prevedono interventi per sti­ molare e promuovere la maturità e l’espres­ sività della persona integrale. I programmi generali rispondono a dei bisogni comuni; casi particolari sono curati secondo precise diagnosi somatopsichiche. Ci sono inoltre le attività comuni della vita e le varie forme di perfezionamento dal punto di vista fisico (educazione fisica, gioco, sport, apprendi­ mento strumentale, disegno e tecnologia). 4. I disturbi della p. hanno origine biologi­ ca oppure psichica. La riabilitazione riatti­ va il potenziale biopsichico e rimedia a de­ ficienze di personalità, di comportamento e di rendimento, antecedenti o conseguenti alla limitazione motoria. Il terapeuta o co­ munque il diagnostico decide sulle terapie. La p. sta alla base della coscienza di sé, del­la comunicazione interpersonale e della presenza attiva nel mondo, ma non ogni di­ minuzione psicomotoria impedisce o ren­de difficoltosa o limitata l’esperienza co­sciente del senso della vita. La p. non esaurisce la

PSICOPATOLOGIA

potenzialità psichica: ma certo la p. è segno di vita. Bibl.: Boulch J., Vers une science du mouvement humain. Introduction à la psychocinétique, Pa­ ris, ESF, 1971; Ajuriaguerra J., Manuel de Psy­ chiatrie de l’Enfant, Paris, Masson, 1974; R igal R., Motricité humaine, Vigot, Pr. de l’Université du Qué­bec, 1985; Sánchez S., Expresión psico­ motriz, Ma­d rid, Santillana, 1987; Wille A. - M. - C. A mbrosini, Manuale di p. in età evolutiva, Napoli, Cuzzolini, 2005; Fonseca V. da, Psico­ motricidad: paradigmas del estudio del cuerpo y de la motricidad humana, México, Trillas, 2006; Mendiara Rivas J., La psicomotricidad: evolu­ ción, corrientes y tendencias actuales, Sevilla, Wanceulen, 2007.

A. Sopeña

PSICOPATOLOGIA Studio della sintomatologia, eziologia, evo­ luzione e terapia dei disturbi mentali. 1. Cenni storici. Nel mondo occidentale le radici della p. risalgono ai contributi di Ip­ pocrate (460-377 a.C.) e dei suoi seguaci che spiegano la genesi delle malattie attra­ verso la teoria degli umori. Tra il IV e III sec. a.C. vengono introdotti termini psichia­ trici tuttora usati quali: isteria, ipocondria, melanconia, mania, angoscia. Altro grande contributo da segnalare è quello di C. Ga­ leno (129-201 d.C.) il quale procede ad una sistemazione globale di tutte le conoscenze medico-psicologiche dell’antichità. Su tale sistemazione poggiano successivamente la medicina romana, la bizantina, quella ara­ ba e quella monastica dell’epoca medievale. Nella medicina rinascimentale si trovano richiami sia agli insegnamenti ippocrati­ ci, che galenici e neoplatonici. Ma è verso la fine del sec. XVIII che, sotto l’influsso dell’illuminismo ed il proliferare di nume­ rose società scientifiche, vengono gettate le basi della p. moderna, superando, tra l’altro, definitivamente la convinzione che l’origine della malattia mentale sia da ricercarsi nella possessione demoniaca. Tale impostazione apre la strada al concetto che la follia è un disturbo comprensibile e trattabile in modo scientifico. Ciò evidentemente stimola il

campo medico a muoversi entro il quadro di una costante osservazione e raccolta dei dati, al fine di giungere ad una sistematizzazio­ ne e classificazione dei sintomi e delle varie manifestazioni del disturbo mentale. La con­ seguenza è che, rispetto all’epoca precedente in cui era punita, s’inizia ad interpretare la follia non solo come un’espressione di non­ ragione, ma anche come un’alterazione del­ la capacità morale. Da ciò l’elaborazione di programmi terapeutici al fine di recuperare il malato mentale all’autocontrollo e alla stima di sé. In questo campo sono da con­ siderarsi senz’altro pionieristici gli studi di Ph. Pinel (1745-1826), il quale sostiene che l’ospedale deve essere un luogo di cura e non di reclusione e che inoltre alcuni disturbi mentali dipendono da fattori psico-sociali e non invece da fattori organici. Nel sec. XIX, con il progredire delle conoscenze nel cam­ po della medicina, la malattia mentale viene interpretata come conseguenza di disturbi dell’area cerebrale. Ciò rafforza la tendenza, già dominante, verso una concezione orga­ nicistica. Contemporaneamente, si fa strada la convinzione che il folle deve essere recu­ perato, isolandolo dal mondo esterno con il rafforzamento dell’istituzione manicomiale. Tuttavia, man mano che gli studi sull’anato­ mia cerebrale avanzano, si verifica parados­ salmente anche un progressivo disinteresse clinico verso i singoli pazienti, considerati come incurabili, dal momento che si ritie­ ne che la malattia mentale è determinata da una debolezza costituzionale. Va regi­ strato in questo periodo un affinamento del metodo di raccolta dei sintomi e di classifi­ cazione delle malattie che raggiunge il suo apice con E. Kraepelin (1855-1926). Egli in particolare individua un tipo di disturbo, che denomina psicosi endogena, causato da fat­ tori genetico-costituzionali e perciò non su­ scettibile di un trattamento terapeutico. Tale psicosi viene suddivisa in due grandi cate­ gorie: la dementia praecox e la psicosi ma­ niaco-depressiva. Ma è con S. → Freud che si determina una svolta radicale nello studio della malattia mentale. Egli, rifacendosi agli studi di → Charcot e di P. Janet (1859-1947), evidenzia che i disturbi mentali dipendono più che da fattori organici da fattori psico­ dinamici. Nasce così una p. rigorosamente psicologica, dove viene sottolineato che non esiste uno iato, ma un continuum tra nor­ 949

PSICOPATOLOGIA DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA

male e patologico e che inoltre è possibile impostare una psicoterapia per curare tutti quei disturbi che vanno sotto il nome di → nevrosi. Attraverso poi la ricerca clinica e la riflessione teorica di → Klein (1882-1960) viene compiuto un ulteriore passo in avanti nella comprensione della patologia psichica. In particolare, viene gettata una nuova luce sulla comprensione e la curabilità delle → psicosi. Va segnalato infine che, accanto ai modelli teorici biomedico e psicologico, si è man mano sviluppato, soprattutto in questi ultimi decenni, il modello socio-culturale, portato alle sue estreme conseguenze da T.S. Szasz (1961) il quale sostiene che il concetto di malattia mentale non è altro che un mito di comodo, una pura metafora. A suo avviso, la maggior parte dei disturbi psichici non è causata da fattori organici, ma da conflitti morali e sociali, che l’individuo sperimenta nelle relazioni umane. 2. Modelli teorici attuali. Esistono diversi modelli teorici circa l’eziologia e, di con­ seguenza, il trattamento terapeutico delle condotte psicopatologiche. Ciascuno di essi contempla poi dei sottogruppi, che tuttavia qui non citiamo. a) Il modello organicistico. Esso, a seconda dei casi, fa risalire il distur­ bo mentale a fattori genetici o biochimici, a lesioni cerebrali o a menomazioni congenite o acquisite della funzionalità del sistema ner­ voso. Attualmente tale approccio ha ripreso vigore soprattutto per spiegare la genesi del­ le schizofrenie e delle depressioni maniacodepressive. b) Il modello psicoanalitico. Esso pone l’accento sulle vicende intrapsichiche passate ed inconsce dell’individuo. Più pre­ cisamente, fa risalire la genesi della patolo­ gia allo strutturarsi nei primi anni di vita di relazioni oggettuali prevalentemente di tipo negativo. c) Il modello comportamentistico. Esso sostiene che i disturbi del comporta­ mento sono appresi attraverso una serie di condizionamenti, di rinforzi e di punizioni. Più precisamente, le condotte patologiche non sono altro che delle abitudini inadegua­ te, apprese attraverso stimoli ansiogeni. d) Il modello cognitivo. Esso si rifà a una vi­ sione dialettica, transazionale, del rapporto individuo-ambiente, in cui l’uomo elabora le informazioni che riceve e crea delle teorie che condizionano il suo comportamento e lo portano a costruirsi e a mantenersi una sua 950

propria nicchia ambientale. La patologia è da fare risalire alla formazione di stili cogni­ tivi distorti di base. e) Il modello sistemico. Esso afferma che la patologia dell’individuo, denominato «capro espiatorio» o «pazien­ te designato», non è altro che il risultato di un’interazione distorta tra i vari membri del­ la famiglia. f) Il modello sociale o ecologico. Secondo tale approccio i disturbi psichici derivano dall’interazione tra le capacità del soggetto e le richieste della comunità in cui è inserito. In particolare, esso sostiene che ci sono individui patologici, perché ci sono sistemi sociali disturbati. Bibl.: A rieti S., Manuale di psichiatria, Torino, Bollati Boringhieri, 1969, 3 voll.; Ellenberger H. F., La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica, Ibid., 1976; Foucault M., Storia della follia nell’età classica, Milano, Riz­ zoli, 1977; Trattato italiano di psichiatria, 3 voll., Milano, Masson, 1992; Sims A., Introduzione alla p. descrittiva, Milano, Cortina, 1997; Cassano G. - A. Tundo, P. e clinica psichiatrica, Tori­ no, UTET, 2006; Borgogno F. - A. Ferro (Edd.), Funzioni analitiche, stati primitivi della mente, p., Roma, Borla, 2006; Gabbard G. O., Psichia­ tria psicodinamica, Milano, Cortina, 2007.

V. L. Castellazzi

PSICOPATOLOGIA DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA Studio della sintomatologia, eziologia e tera­ pia dei disturbi mentali riscontrabili nell’in­ fanzia e nell’adolescenza. 1. Si può far risalire la genesi della p.d.i. e d.a. agli studi pionieristici fioriti in Francia nell’Ottocento per merito di J. Itard, E. Se­ guin, J. Esquirol. Questi si dedicarono so­ prattutto allo studio e al recupero dei ritardati mentali, sottolineando il ruolo determinante dei deficit, acquisiti per mancanza di stimo­ lazioni e di esperienze sensoriali. Veniva così contrastata la posizione dominante, ri­ gidamente organicistica, della psichiatria uf­ ficiale. All’inizio del Novecento, in questo campo si distinsero alcuni psichiatri italiani come S. De Sanctis, G. Ferreri e E. Medea, i quali pubblicarono i risultati delle loro ri­

PSICOPEDAGOGIA

cerche sulla rivista «Infanzia Anormale» (oggi «Psichiatria dell’infanzia e dell’ado­ lescenza»), da loro stessi fondata. Ciò con­ tribuì alla nascita della p.d.i. e d.a., come disciplina autonoma e a sé stante, rispetto a quella degli adulti. 2. È stata comunque la psicoanalisi ad im­ primere una svolta decisiva in questo cam­ po. Oltre ai contributi fondamentali di S. → Freud, tra cui l’Analisi della fobia di un bam­ bino di cinque anni (Caso clinico del piccolo Hans) del 1909, furono decisivi gli apporti di → Klein, di A. → Freud, di → Winnicott. Essi permisero, tra l’altro, di superare il rischio di un’ottica adultomorfa e di adottare invece quadri di valutazione e d’intervento più fles­ sibili e più sfumati, rispetto a quelli su cui si fonda la p. degli adulti. Man mano che le ricerche progredivano, emerse infatti sempre più chiaramente l’incompiutezza dell’appa­ rato psichico dell’individuo in età evolutiva e quindi la non necessaria irreversibilità dei disturbi psichici. Soprattutto, ci si è resi con­ to del ruolo fondamentale che nell’infanzia e nell’adolescenza riveste l’ambiente familiare sia per la genesi della patologia che per il suo superamento. Bibl.: Castellazzi V. L., P.d.i.ed.a.: Nevrosi, psicosi, depressione, Roma, LAS, 2000, 3 voll.; A mmanniti M. (Ed.), Manuale di p.d.i., Milano, Cortina, 2001; Id. (Ed.), Manuale di p.d.a., Ibid., 2002; Birroux A., P. del bambino, Roma, Bor­ la, 2004; Fonagy P. - M. Target, P. evolutiva. Le teorie psicoanalitiche, Milano, Cortina, 2005; Bracconier D. - A. Bracconier, Adolescenza e p., Milano, Masson, 2006.

V. L. Castellazzi

PSICOPEDAGOGIA La p. studia lo statuto epistemologico-con­ cettuale e sintattico-procedurale che ha il suo oggetto nella ricerca-intervento sulle condi­ zioni psicologiche caratterizzanti il processo educativo, dentro le trame relazionali dello spazio di vita personale del soggetto (bambi­ no, adolescente, anziano). 1. Analizza, perciò, tale soggetto nella con­ figurazione dinamica delle sue diverse di­

mensioni evolutive (esperienza, progettua­ lità, immagine di sé e del sé) che sono le garanzie del percorso di sviluppo in chiave teorico-pratica, in grado di costruire mo­ delli di ricerca e di intervento, operaziona­ lizzandoli e definendone percorsi coerenti e congruenti rispetto ai modelli. La ricerca di uno statuto epistemologico, con l’analisi di­ sciplinare che ne discende, rappresenta per­ ciò per tale disciplina un compito comples­ so, per la difficoltà di identificarne l’identità sia all’interno della bipolarità teoria/appli­ cazione, che nelle modalità pedagogiche conseguenti. 2. La p. è quindi la disciplina scientifica che si occupa di individuare e controllare i fattori che influiscono sullo sviluppo del soggetto e che possono facilitarne o ostacolarne la maturazione (apprendimento, motivazione, crescita affettiva e sociale, relazione con gli altri). L’educazione, partendo dalle situazio­ ni reali della persona e mirando alla sua ma­ turità secondo il modello uomo che si vuole costruire, crea le condizioni positive e ne li­ mita gli ostacoli. 3. Se la p. è interessata ai pro­cessi di forma­ zione della → personalità in generale (percet­ tivo-motori, cognitivi, affettivi, relazionali e so­ciali), i processi specifi­ci di apprendimen­ to linguistico vengono studiati dalla → psico­ linguistica pedagogi­ca; mentre altri processi di settori speciali dell’apprendimento (scien­ tifico, artistico, storico, ecc.) sono demandati alla psico­didattica e alla → didattica speciale. In particolare, la p., come scienza applica­ ta, con­corre a studiare il sistema bio-psicosociale proprio dell’educazione, in concorso con la psico-biologia e con la psico-sociolo­ gia. In tal modo la p. fa da ponte tra la psico­ logia e la pedagogia, intesa come sistema teorico-pratico il cui oggetto specifico è il buon funzionamen­to psichico della persona, positivamente nella figura del bene-essere e della salute e più largamente in quella delle capacità e dell’apprendimento; e all’opposto nella fi­g ura clinica di studio dei disturbi di perso­nalità e dei correttivi necessari. Infatti, co­me in generale la pedagogia, così in parti­ colare la p. è orientata al miglior dover-esse­ re, al miglior sapere, al miglior poter-fare, al funzionamento ottimale. In tal sen­so è alla base della triplice forma dell’orientamento 951

PSICOPEDAGOGISTA

(personale, scolastico, professionale) e sti­ mola anche interventi e programmi di dia­ gnostica e di recupero. Interessa e richiede la formazione e la competenza dell’edu­catore e dello → psicopedagogista. Bibl.: Trombetta C., Genesi e sviluppo della psi­ cologia dell’educazione in Italia, Cosenza, Due Em­me, 1993; Farneti A., Elementi di psicologia dello sviluppo: dalle teorie ai problemi quotidia­ ni, Roma, Carocci, 1998; Pontecorvo C., Ma­ nuale di psicologia dell’educazione, Bologna, Il Mulino, 1999; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi, Educazione e Pedagogia nei solchi della storia, Torino, SEI, 2004; Carugati F. - P. Selleri, Psicologia dell’educazione, Bologna, Il Mulino, 2005; Briulotta G. C., Manuale di psicologia dell’educazione. Una prospettiva ecologica per lo studio e l’intervento sul processo educativo, Palermo, McGraw Hill, 2005.

G. Morante

PSICOPEDAGOGISTA Di recente formazione, questa figura profes­ sionale si è precisata con l’affermarsi della → pedagogia co­me scienza e sua relativa epi­ stemologia. Le funzioni dello p. sono svolte in diversi servizi sociali, scolastici e sociosanitari pubblici e privati, nonché in libera professione. Nel campo sanitario «il Pedago­ gista è equiparato allo Psicologo», come da Sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 13 luglio 1994, n. 763. «Le posizioni funzionali di pedagogista, p. e simili, sono equiparate al profilo professionale dello psicologo di cui all’art. 2 del D.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761». I soggetti che le rivestono devono es­ sere in possesso della laurea, acquisita nelle Facoltà Universitarie che ne hanno predispo­ sto i curricoli. 1. Fin dall’antichità la pa­rola «pedagogo» in­ dicava chi si pren­deva cura dei minori per istruirli ed educarli. A poco a poco, l’in­ teresse per tale impegno si è amplificato con il diffonder­si delle scuole, e, gradualmente, ha preso corpo l’esigenza di sviluppare una «scien­za», appunto → la psicopedagogia che se ne occupasse. Ha iniziato il pedagogista → Herbart, nella prima metà del sec. XX, ri­ conoscendole specifiche connotazioni; si è 952

quindi avviato un di­scorso epistemologico in continua ricerca nei confronti della «pe­ dagogia», dando la possibilità di creare spazi per chi si dedica a un approfondimento teo­ rico ed ai problemi che ne derivano sui fron­ ti dell’edu­cazione (famiglia, scuola, gruppi, ambienti sociosanitari, formazione, recluta­ mento, orientamento di risorse umane, affi­ do, adozione, sport e tempo libero, cultura, servizi all’infanzia e alla terza età…). 2. Poi con l’articolarsi della pedagogia in «scienze dell’educazione» e impegni edu­ cativi in ambienti nuovi (comunità terapeu­ tiche, luoghi di lavoro...), si è utilizzato il termine p. in un senso più comprensivo, con funzioni proprie e compe­tenze specifiche (di pedagogia, psicologia, didattica, tecnologia educativa), che appartenevano al pedago­ gista. Oggi, lo p. è colui che si dedica alla riflessione teorico-critica sulla natura della scienza pedagogica e sui fattori personali ed ambientali che vi contribuiscono. Il suo ruo­ lo, negli ambienti educativi non è «solitario», ma, pur con qualche difficoltà, deve essere affiancato da un’équipe di altri competenti. Egli in modo particolare ha il compito di pre­ disporre un intervento analitico e progettuale da affidare agli operatori diretti (insegnanti, genitori, operatori pedagogici). A lui com­ pete la preparazione di un progetto organico personalizzato, in situazioni definite, dove si colloca il suo ruolo di figura specialistica. Bibl.: Auriemma O., Nuove figure professionali nella scuola, in «Prospettiva Educazione Perma­ nente» 1-2 (1993) 32-38; Tomisch M., La funzione dell’operatore psicopedagogico nella scuola: area ponte dell’organizzazione, Atti del Seminario di studio dell’IRRSAE Lombardia, Milano, IRR­ SAE, 1995; Provveditorato agli Studi di Bergamo, Il servizio psicopedagogico, Bergamo, Pro­ vincia di Bergamo, 2000; Trisciuzzi L. (Ed.), Le nuove attività della funzione docente nella scuola della riforma, Firenze, La Nuova Italia, 2001.

G. Morante

PSICOSI Disturbo psichico caratterizzato da una mas­ siccia regressione dell’Io con conseguente grave disorganizzazione della personalità,

PSICOSI

per cui viene perduta la capacità dell’esame di realtà. Attualmente, con il termine p. ci si riferisce ad un quadro patologico piuttosto vasto ed articolato. Esso comprende tutta una gamma di disturbi mentali che vanno dalle sindromi cerebrali, alla schizofrenia, agli stati paranoidi, alle p. maniaco-depres­ sive. 1. Cenni storici. Il termine p. viene usato per la prima volta verso la metà del XIX sec. da parte di E.V. Feuchtersleben (1845). È co­ munque E. Kraepelin (1883) a fornire i pri­ mi contributi significativi. Egli sostiene che esiste un disturbo psichico, da lui denomina­ to p. endogena, causato da fattori geneticocostituzionali e non invece da una lesione cerebrale dimostrabile, da un agente tossicochimico o da disturbi metabolici e ormonali. La p. endogena a sua volta è suddivisa in de­ mentia praecox e in p. maniaco-depressiva. Secondo Kraepelin, e di riflesso secondo la psichiatria classica, tale patologia ha come conseguenza il deterioramento fatale del­ la personalità dell’individuo, per cui non sono possibili interventi terapeutici. L’uni­ ca soluzione rimane il ricovero definitivo nell’ospedale psichiatrico. E. Bleuler (1911) suggerisce di sostituire il termine dementia praecox con il termine schizofrenia (dal gr. schizein = dividere e phrén = mente), poiché esso mette meglio in evidenza le caratteristi­ che della malattia ed in particolare l’azione del meccanismo della scissione. Bleuler inol­ tre, diversamente da Kraepelin, ipotizza una base psicodinamica del disturbo psicotico. Determinante al riguardo è poi il contribu­ to di S. → Freud. Egli mette in evidenza una sostanziale unità tra i processi psichici della p. e della → nevrosi, senza tuttavia trascurare le notevoli differenze tra i due tipi di patolo­ gia. In Nevrosi e p. (1923) egli afferma che mentre la nevrosi è il risultato di un conflit­ to tra l’Io e l’Es, la p. rappresenta l’analogo esito di un perturbamento nei rapporti tra Io e mondo esterno. Più precisamente, men­ tre nella nevrosi l’Io, avendo a che fare con pulsioni avvertite come angoscianti, perché disapprovate dal Super-Io, finisce per porsi a servizio del Super-Io e della realtà, nel­ la p. invece, restando in balia dell’Es e in parte del Super-Io, esso perde gravemente i contatti con la realtà e, attraverso il delirio, giunge alla costruzione di una nuova realtà

e di un nuovo mondo interno. Diversamente dalla nevrosi, dove è presente la rimozione delle pulsioni ed il ritorno di esse in forma distorta (formazione del sintomo), la p. com­ porta un disinvestimento dalla realtà ed un successivo tentativo di riguadagnare il senso perduto di essa. Inoltre, mentre nella nevrosi l’Io è cosciente del suo conflitto e lo vive a livello di compromesso con la realtà, nella p. invece non tollera la negoziazione, per cui lavora contro il conflitto e cerca di espeller­ lo dalla psiche attraverso i → meccanismi di difesa della scissione, della negazione e del­ la proiezione. La conseguenza è l’assenza di coscienza della situazione conflittuale, la perdita dell’esame di realtà e la distruzione delle strutture fondamentali dell’ordine sim­ bolico. Secondo l’ottica freudiana la p. non è considerata accessibile al trattamento psi­ coterapeutico e ciò a causa della presenza di disordini narcisistici che impediscono al paziente di vivere il transfert. Successiva­ mente i contributi fondamentali di → Klein sulla genesi delle p., collocata nel primo anno di vita, gettano una nuova luce sulla comprensione e sulla curabilità dei disturbi psicotici. La Klein sostiene che oltre ad un transfert nevrotico, esiste un transfert psico­ tico, su cui è possibile agire. In particolare, sottolinea che alla base della schizofrenia e della paranoia c’è un non adeguato supera­ mento della posizione schizo-paranoide, che il bambino sperimenta nei primi mesi di vita, mentre la genesi della depressione psicotica va individuata nella fissazione alla posizione maniaco-depressiva, propria della seconda parte del primo anno di vita. 2. Nosografia. Abitualmente viene posta la distinzione tra p. organiche, derivanti da una qualche lesione o disfunzione fi­ sica, specie cerebrale, e p. funzionali. Tra quest’ultime sono da segnalare la depres­ sione maniaco-depressiva, la schizofrenia e gli stati paranoidi. 3. Sintomi. I sintomi generali più significativi della p. sono: a) grave distorsione percetti­ va della realtà (deliri, allucinazioni) e quin­ di perdita dell’esame di realtà; b) rapporto non efficace con la realtà o ritiro massiccio da essa (appiattimento affettivo, comporta­ menti catatonici, chiusura sociale); c) regres­ sione a stati narcisistici primitivi; d) netta 953

PSICOSOMATICA

prevalenza del processo primario su quello secondario e quindi dominanza del pensiero irrazionale su quello razionale (discorso biz­ zarro, pensiero magico); e) ricorso alla scis­ sione dell’Io e dell’oggetto; f) proiezione di proprie parti «cattive» nell’oggetto e relativa identificazione con esso; g) assenza di auto­ critica; h) annullamento dei confini tra il Sé e il non-Sé e quindi negazione dell’alterità; i) confusione tra l’immaginario e il reale, tra il mondo interno ed il mondo esterno; l) ir­ requietezza motoria; m) comportamento ec­ centrico; n) depressione con idee suicidarie; o) ipocondria. 4. Eziologia. Circa le cause della p. esistono diverse posizioni teoriche. Alcuni insisto­ no di più sui fattori organici, altri su quelli ambientali. Per un chiarimento si rimanda a quanto detto alla voce → psicopatologia. Bibl.: Freud S., «Nevrosi e p.», in Opere, vol. 9, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, 611-615; R acamier P. C, Gli schizofrenici, Milano, Cortina, 1983; K lein M., Scritti 1921-1958, Torino, Bolla­ ti Boringhieri, 1986; Feinsilver D. B. (Ed.), Un modello comprensivo dei disturbi schizofrenici, Milano, Cortina, 1990; Castellazzi V. L., Psi­ copatologia dell’infanzia e dell’adolescenza: Le p., Roma, LAS, 1991; Lenzenweger M. F. - R. H. Dworkin, Le origini e lo sviluppo della schizo­ frenia, Roma, CIC Edizioni Internazionali, 2001; Ballerini A., Patologia di un eremitaggio. Uno studio sull’autismo schizofrenico, Torino, Bollati Boringhieri, 2002; Borgna E., Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofreni­ ca, Milano, Feltrinelli, 2002; R esnik S., Clinica psichiatrica della p. Seminari padovani, Milano, Angeli, 2005; Lorenzi P. - A. Pazzagli, Le p. bianche, Ibid., 2006; De M asi F., Vulnerabilità della p., Milano, Cortina, 2006.

V. L. Castellazzi

PSICOSOMATICA Il termine p. sostanzialmente sta a sottoli­ neare il rapporto strettissimo tra emozioni e malattia. In senso più largo sottolinea l’inter­ connessione tra psiche e soma che formano un’unità strutturale e funzionale con eviden­ te influenza reciproca. Da ciò deriva la con­ siderazione che qualsiasi fe­nomeno psichico, 954

cosciente o inconscio, ha delle inevitabili ri­ percussioni sulla compo­nente somatica e vi­ ceversa; questo sia in si­t uazione normale che patologica. La situa­zione normale spieghe­ rebbe come un buon funzionamento organi­ co può dare sensa­zioni di benessere psichico e viceversa; mentre la situazione patologica ci spieghe­rebbe come conflitti psichici pos­ sano pro­vocare disfunzioni o danni organici e viceversa. 1. Cenni storici. Sembra che il termine sia stato coniato dal poeta, filosofo e dramma­ turgo inglese S.T. Coleridge verso il 1790. In medicina però è stato introdotto da psi­ chiatri, abbastanza orientati in senso psi­ coanalitico, nel 1930, ma alcuni anni prima la dottoressa Flanders Dunbar aveva trat­ tato diffusamente l’argomento. Nel 1932 F. Alexander fondò il Chicago Institute for Psychoanalysis e con i suoi collaboratori condusse approfondite indagini psicoana­ litiche sui pazienti fisicamente malati. Erano del parere che tutti i pazienti psicoso­matici presentino conflitti relativi alla di­pendenza. Nel 1939 è stata fondata la ri­vista «Psycho­ somatic Medicine» e all’ini­z io degli anni ’40 l’American Psychosoma­t ic Society. Oggi mentre alcuni medici vor­rebbero non usare questo termine o perché convinti che ogni malattia ha una causa or­ganica o per­ ché convinti che in molte ma­lattie la psiche viene comunque coinvolta, si va facendo sempre più strada la teoria della causalità multipla almeno per molte malattie. Nume­ rosi sono gli psicologi pro­pensi a mantenere la terminologia p. in quanto valida e signi­ ficativa. 2. Premesse teoriche. Possiamo distinguere tre principali posizioni teoriche a questo ri­ guardo. Una prima posizione identifica l’Io con il proprio soma, quindi i disturbi psi­ chiatrici di qualunque tipo sono disturbi ce­ rebrali e non si fa distinzione tra somati­co e psichico. Una seconda considera il so­matico e lo psichico come due aspetti della stessa re­ altà, come due versanti della stes­sa struttura, quindi si può usare una termi­nologia diversa per ognuno di essi, tenendo però presente che non si tratta di realtà di­verse. Una terza posi­ zione li considera in­vece come realtà diverse ma così ben ar­monizzate da costituire una realtà unica: «Homo sapiens». Si deve usare

PSICOTERAPEUTA

allora ter­minologia diversa e trattamento dif­ ferenziato ma complementare. A queste diffe­ renti premesse antropologiche conseguono modi differenti di accostamento psicologi­co e psicoterapeutico. Qualsiasi medico o psicolo­ go o psicoterapeuta ha una sua vi­sione antro­ pologica che implicitamente o esplicitamente è presente nei suoi rapporti con se stesso, con gli altri e in particolare con i pazienti. 3. Uso di tecniche. Quanto all’uso delle tec­ niche, l’antropologia ha un ruolo molto più secondario che non nella scelta di esse per cui tutto dipende dall’abilità di chi le im­ piega e anche dalla scuola che segue. 4. Conclusioni. Si potrebbe rapidamente concludere che al momento attuale convie­ ne distinguere: malattie in cui la preponde­ ranza diagnostica e terapeutica è decisa­ mente medica e il contributo dello psicolo­ go, semmai, è di appoggio soltanto; distur­bi in cui il ruolo dello psicologo è primario e quello farmacologico è accessorio; forme miste in cui la collaborazione degli specia­ listi è indispensabile. A quest’ultima cate­ goria appartengono le cosiddette malattie psicosomatiche, fra cui classiche: l’ulcera peptica, in cui bisogna tener conto della presenza dell’Helyco Bacter; l’asma bron­ chiale; l’artrite reumatoide; l’ipertensione essenziale; la colite ulcerosa; le neuroder­ matiti e forse alcune forme di cancro. Col progredire degli studi certamente si chiari­ ranno tanti particolari ancora non ben de­ finiti e si potrà offrire un aiuto più consi­ stente ai sofferenti di tali disturbi. Bibl.: A lexander F., Medicina p., Firenze, Giunti-Barbera, 1972; Deutsch F., Il misterioso salto dalla mente al corpo, Firenze, Mar­t inelli, 1975; A nochin P. K., Biologia e neurofisio­logia del riflesso condizionato, Roma, Bulzoni, 1975; A mmon G., P., Roma, Borla, 1977; Pancheri P., Stress, emozioni, malattia, Milano, Mondado­ ri, 1980; Guyton A. C., Neurofisiologia umana. Roma, Il Pensiero Scientifico, 1984; Oliverio A., Biologia e comportamento, Bologna, Zanichel­ li, 1986; Ruggieri V., Semeiotica dei processi psicofi­siologici e psicosomatici, Ibid., 1987; Taylor G., Medicina p. e psica­nalisi contemporanea, Roma, Astrolabio, 1993; Pastore L. (Ed.), P. e salute, Roma, Di Renzo, 2001.

V. Polizzi

PSICOTERAPEUTA Si definisce tale colui che esercita la → psi­ coterapia. Il termine è entrato nell’uso co­ mune solo da qualche decennio e il suo si­ gnificato rimanda al complesso dibattito che negli ultimi cinquanta anni si è svolto attor­ no al concetto stesso di psicoterapia. 1. La figura dello p., dotata di ruolo e for­ mazione professionale propri, inizia a deli­ nearsi alla fine dell’800, paralle­lamente allo sviluppo della psicoterapia. Già agli inizi del ’900, accanto ad una figu­ra di p. che segue il tradizionale approccio medicalistico – se­ condo cui il paziente è vi­sto come portato­ re passivo della malattia, mentre il dottore è l’autorità che esamina «scientificamente» il disturbo e interviene per «controllarlo» – troviamo una figura di p. che, grazie al cam­ biamento di prospetti­va operato dalla → psi­ coanalisi, orienta la propria attenzione sulla vita interiore del paziente, sulle fantasie e sulle resistenze da lui prodotte, ne interpre­ ta il transfert e le libere associazioni. Dagli studi sull’apprendimento, inoltre, emerge una figura di p. che «addestra» il paziente a usare com­portamenti socialmente adeguati. Comun­que, in ambedue questi modelli non ci si accosta più alla malattia col rigido distac­co della tradizione psichiatrica, ma si cerca di evidenziare nella personalità del pazien­te le formazioni nevrotiche, allo scopo di convo­ gliarle in attività socialmente più adeguate, con la funzionale collaborazione dell’Io ma­ turo del paziente. In epoca successiva, sotto l’influsso dei fer­menti culturali e dell’intenso dibattito filo­sofico propri della prima metà di questo se­colo, lo p. si ispira ai principali as­ sunti dell’esistenzialismo. Considerando la psi­coanalisi troppo neutra e passiva, troppo focalizzata sulle fantasie e sugli elementi sessuali, poco attenta alla realtà, ai valori e ai rapporti sociali, lo p. degli anni Cin­quanta è interessato più al significato del­l’esistenza del paziente, che alla canalizza­zione in atti­ vità adeguate degli impulsi che producono conflitti sociali. Libero da pre­concetti dia­ gnostici o da mirate aspettati­ve terapeuti­ che, egli partecipa con profon­da intensità ai sentimenti del paziente, al suo «esserci», non avendo altro obiettivo se non quello di star­ gli accanto come un compagno di viaggio. Negli anni Sessanta, poi, gli studi sulla co­ 955

PSICOTERAPIA

municazione umana e sui sistemi relazionali fanno sì che l’inte­resse dello p. si allarghi dal disagio del sin­golo paziente al disagio dell’intero conte­sto relazionale in cui egli è inserito. Accan­to all’obiettivo di guardare alla vita inte­r iore del paziente e di aiutarlo a trovare un significato soddisfacente per la sua esisten­za, lo p. si pone anche l’obiettivo di miglio­rarne la qualità delle relazioni. 2. Al di là dell’evoluzione del ruolo dello p. rimangono a tutt’oggi numerose questioni aperte attorno al significato stesso di questa attività professionale. Qual è il com­pito dello p. nella società del terzo millen­nio? È quello di proteggere la società dalla presenza in­ quietante del diverso? O, al contrario, di di­ fendere il singolo individuo di fronte all’azio­ ne «normalizzante» pro­dotta dalla società? In altre parole, il pon­te che lega la funzione dello p. come ope­ratore di cambiamento nel microsistema (individuo, famiglia, gruppo, ecc.) alla fun­zione dello p. come operatore del cambia­mento sociale (nel macrosistema) non sem­pre viene esplicitato nei vari modelli di psi­coterapia, col rischio di banalizzare o con­siderare meccanico il compito di questo professionista, rendendolo così funzionale al sistema sociale e non alla salute del sin­golo e della comunità. A questi interrogativi lo p. non può fare a meno di risponde­re, pena il rischio di manipolare inconsape­volmente, sul piano sociale e politico, l’ir­riducibile di­ versità del singolo. La defini­zione del ruolo e delle qualità proprie del­lo p., è pertanto inevitabilmente legata al modello teorico di riferimento, e quindi al­le relative teorie della personalità e dello sviluppo. Questo proble­ ma aperto porta ad un altro aspetto crucia­ le del compito dello p., che è la diagnosi (e quindi la definizione) di nor­malità/patologia. È diventata sempre più accreditata, dagli anni ’50 del sec. scorso in poi, la convinzio­ ne che non esiste un unico mo­dello di salute/ maturità psichica, dato che tale definizione è in effetti influenzata da fattori socio-cul­ turali del peculiare periodo storico a cui ci si riferisce e dai tentativi in­dividuali del pa­ ziente di far fronte alle dif­ficoltà. Ciò che in­ vece è unanimemente ac­cettato oggi (anche in seguito alle normati­ve in merito che van­ no delineandosi nei vari Paesi europei) è la necessità di un iter di formazione personale e professionale dello p., che da una parte lo 956

renda consa­pevole delle dinamiche proprie e altrui, connesse ai vari temi della vita e al proprio potere, e dall’altra gli assicuri quelle abilità indispensabili per svolgere adeguata­ mente la propria professione. Bibl.: Giorda R., Come dovrebbe essere lo p.?, Ro­ma, Città Nuova, 1981; Lewis J. M., Fare il terapi­sta. Come si insegna, come si impara, Firen­ ze, Mar­tinelli, 1981; Batacchi M. W., «Problemi di identi­tà e di formazione in psicologia clinica», in P. C. Kendall - J. D. Norton-Ford, Psicologia clinica, Bologna, Il Mulino, 1986; De Silvestri C., Il mestiere dello p., Roma, Astrolabio, 1999.

P. Cavaleri

PSICOTERAPIA I vari tentativi di definizione unanime del­la p. (Bazzi, 1970; Cancrini, 1982) sono andati da un estremo che tende a comprendere in modo ampio qual­siasi processo d’induzione intenzionale di cambiamento del vissuto e del comporta­mento della persona (dal con­ siglio dell’a­mico all’esperienza di estasi) a definizioni più restrittive, limitate alla reale esistenza di un setting terapeutico. 1. Riferendoci a questa seconda imposta­ zione, possiamo dire che occorrono almeno tre condizioni perché un intervento di mo­ dificazione del vissuto e del comportamen­to possa essere definito p.: innanzitutto la do­ manda da parte del soggetto di modifi­care qualcosa di sé; secondo, la scelta da parte del soggetto di raggiungere tale sco­po con l’aiuto professionale di uno → psi­coterapeuta; terzo, il consenso del terapeu­ta designato ad aiutare il soggetto in que­st’impresa, consen­ so che in genere si ac­corda all’interno di un quadro normativo di riferimento, specificato nel contratto tera­peutico (tempi, luogo, pe­ riodicità degli in­contri, gestione delle assen­ ze, ecc.). Quan­do esistono queste condizioni, esiste anche una relazione terapeutica e quin­ di esiste la p. Potremmo dire pertanto che la p. è una crescita della persona all’interno di una re­lazione, a prescindere dal modello di rife­rimento usato per gestire terapeuticamen­ te questa relazione. In tutti quei casi in cui, per qualsiasi motivo, non può esistere que­ sta particolare relazione così definita (an­che

PSICOTERAPIA

implicitamente) non ci si può riferire a un intervento psicoterapeutico. Nei casi di inva­ lidazione grave delle capacità relazio­nali del soggetto non si può impostare un intervento psicoterapeutico su di lui, per­ché la p. ha bi­ sogno di basarsi su un con­t ratto tra due o più persone, da cui si evin­ca la volontà condivisa di perseguire gli obiettivi terapeutici. 2. Il concetto di p. si è evoluto dalla fine dell’800, periodo in cui si cominciò a con­ cepire l’idea della psiche, a oggi. A cavallo del secolo, infatti, abbiamo due grandi pro­ spettive sulla cura psicologica, comple­ mentari tra loro ma rispondenti allo stesso paradigma culturale: la psicoanalisi e il comportamentismo. Il paradigma cultu­rale era quello di un insanabile conflitto tra spon­ taneità dello sviluppo individuale ed esigen­ ze del vivere sociale. Mentre per la psicoa­ nalisi la cura del disagio consisteva in una presa d’atto della sua irrisolvibilità, con il conseguente passaggio, necessario al­lo svi­ luppo della civiltà, dal principio di piacere al principio di realtà, per il com­portamentismo la p. era una forma di ap­prendimento più o meno attivo delle rego­le sociali. Tali modi di pensare il rapporto individuo/società, e quin­ di la cura del disa­gio psicologico, videro la propria crisi nei primi decenni del ’900. Ciò che accadde fu l’inizio di un pensiero nuovo, il dubbio lan­cinante che la realtà non fosse una norma da rispettare ma una costruzione percettiva e quindi, come tale, potesse anche essere destrutturata e ricomposta. Il sen­ so stesso della prassi psicoterapica veniva profonda­mente toccato da problemi di que­ sto tipo. Era infatti il concetto di normalità in sé a essere messo in discussione, insieme con la plausibilità di ogni pretesa definizione og­gettiva del reale. La crisi di prescrittività della norma conduceva ad un modo nuovo di guardare il vissuto e la storia personale del paziente. Quest’ultimo reclamava ora dignità di significato e di valore indipen­dentemente dalla capacità di adeguarsi a parametri pre­ costituiti, mentre diveniva a mano a mano inaccettabile l’idea che la cura do­vesse con­ sistere nell’adeguarsi acritica­mente a un mo­ dello univoco di salute. La p. non poteva più proporsi come stru­mento di normalizzazio­ ne del disagio psi­chico, ma al contrario di­ ventava il mezzo di una sua valorizzazione, di attribuzione ad esso di un significato quasi

salvifico per l’essere umano che, rifiutando di appiattir­si nella routine dell’adattamento sociale, crea un disturbo. La p. diventa ricer­ ca di un’espressione socializzata del disturbo (si pensi al movimento dell’anti-psichiatria e alla chiusura dei manicomi); il vivere so­ciale non può essere impostato soltanto su criteri di adattamento alle norme prestabi­lite. ma deve anche basarsi su di un tentati­vo di com­ prendere ciò che appare incom­prensibile, ciò che non è socializzato. La p., in particolare l’insieme delle p. umanisti­che, negli anni Sessanta assunse questo compito quasi «sa­ cerdotale» di innalza­mento, traduzione e collocazione sociale della diversità. 3. Passato il fervore di quegli anni, vedia­mo oggi i frutti, sia positivi che negativi, di una prospettiva sulla cura psicologica che dava estrema centralità ai valori dell’auto­nomia, al fare esperienza in sé e per sé, al­le infinite possibilità dell’essere (non a ca­so si è parlato di società narcisistica: Larsch, 1981), a sca­ pito dei valori dell’ap­partenenza, del limite, dell’esserci, dello stare fino in fondo nei ruoli sociali, della ri­nuncia insita in ogni scelta. È nata così l’e­sigenza di ricollocare il vissu­ to psicologico all’interno dei suoi confini spazio-tempo­rali, in prospettiva sincronica (la relazione a cui appartiene) e in prospetti­ va diacroni­ca (la storia in cui è inserito). La p. è vista allora come un modo di ripristinare una spontaneità di crescita interrotta, come un sostegno specifico da dare alla persona che attraversa una crisi di passaggio da una fa­se evolutiva all’altra, e che affronta questa crisi con modalità disfunzionali. L’idea è che la p. debba inserirsi nella vita della persona in un momento in cui questa ha biso­gno di un sostegno ambientale per ritrova­re la pro­ pria capacità, momentaneamente perduta, di orientarsi nel mondo e prende­re da esso ciò che le serve per vivere, dan­do al contem­ po il proprio contributo origi­nale e creativo. Questa concezione della p. non toglie dignità alla vita (siamo ben lon­tani dal pessimismo freudiano circa il dua­lismo insanabile tra esigenze individuali ed esigenze sociali), né al significato esisten­ziale insito in ogni sin­ tomo, come sottoli­neato negli anni Sessanta, e inoltre attri­buisce al disagio psichico una intenziona­lità di contatto con il mondo che va appunto ripristinata attraverso una rela­ zione, la relazione terapeutica. Potremmo dire 957

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che la p., alla fine del suo percorso, so­stituisce la funzione che i riti avevano nelle società tribali: concludere una fase evoluti­va ormai passata, sancire l’inizio di nuove competen­ ze relazionali, accogliere nel gruppo sociale la persona che ha saputo as­similare la novità di una crescita (in questo senso la p. è anche momento socializzante per chi vi ricorre). Bibl.: Bazzi T., Le p., Milano, Rizzoli, 1970; Larsch C., La cultura del narcisismo, Milano, Bompia­n i, 1981; Cancrini L., Guida alla p., Roma, Edito­r i Riuniti, 1982; Temerari Bari A., Storia, teorie e tecniche della p. cognitiva, Bari, Laterza, 2004.

M. Spagnuolo Lobb

PSICOTERAPIE: scuole Orientarsi tra le scuole di p. è fondamen­tale per chi si avvicina ad esse, sia in qualità di apprendista che di fruitore o paziente. D’altra parte, l’evoluzione continua che i vari mo­ delli psicoterapici hanno subito e continuano a subire non rende facile que­sta impresa. Si cercherà qui di fornire un quadro di riferi­ mento storico-evolutivo delle varie scuole: gli approcci principali verranno considerati nel loro nascere co­me anche nella loro ar­ ticolazione successi­va. Si rimanderà invece alle voci specifiche per un’analisi dettagliata dei contenuti. 1. La psicoanalisi e i modelli psicoanalitici. Fu fondata alla fine dell’800 da S. → Freud e fu da lui sviluppata in quasi cinquanta an­ ni di ricerca. Nata come una teoria unita­ria, e mantenuta coerente a se stessa per qual­ che decennio dalla personalità sinteti­ca del fondatore, si suddivise presto in una grande varietà di scuole e di indirizzi. Già → Adler intorno al 1910 sviluppò una teo­ria della ne­ vrosi che divergeva da quella freudiana, in quanto in luogo della libido sessuale egli postulava la «volontà di po­tenza» come for­ za direttiva della vita uma­na. → Jung vide l’inconscio non come un in­sieme di tensioni istintuali in contrad­dizione tra loro, ma come un insieme di po­tenzialità dotato di una certa struttura e di una finalità di compensazione dell’even­t uale unilateralità della coscienza. Per Jung, inoltre, l’inconscio non consiste 958

solo di precipitati di esperienze infantili, ma anche di profili innati di attività (archetipi), che costituirebbero il deposito di esperien­ze ancestrali, perché comuni a tutti gli in­dividui in tutte le culture (inconscio collet­tivo). Uno dei contributi fondamentali di Jung alla me­ todologia terapeutica è certa­mente l’elabora­ zione del concetto di con­t rotransfert, come chiarificazione del significato che la persona del paziente riveste per l’inconscio terapeuti­ co. Jung diede co­sì all’analista la possibilità di scoprire in se stesso un potente strumento terapeutico. O. Rank, con la sua teoria sul trauma della nascita, è da considerarsi come il pioniere di tutte le teorie pregenitali del di­ sagio psi­chico e come colui che per primo ha foca­lizzato l’importanza del rapporto ma­ dre-bambino nella prima infanzia. Inoltre, la sua considerazione della volontà autono­ ma del soggetto lo condusse a stabilire uno dei capisaldi della terapia moderna: l’im­ portanza che il paziente faccia nel transfert nuove esperienze affettive, e non soltanto si limiti a ricordare e riconoscere. Anche Rank, come Adler e Jung, limitò il valore dato da Freud alla sessualità infantile e considerò la nevrosi come un iperadattamento a un con­ testo sociale patologico che rende difficile l’espressione della vo­lontà autonoma e della creatività artistica del soggetto. W. Reich, come si dirà, è il padre delle te­rapie corporee e lo scopritore della «ne­vrosi del carattere», una forma di nevrosi che, a differenza della psiconevrosi, non è caratterizzata da sintomi specifici (come ossessioni, fobie, conversioni isteriche), ma da disturbi del carattere. Egli fu tra i primi a reagire alla teoria freudiana dell’istinto di morte e a sostenere la necessità che la psicoanalisi liberasse dalla repressio­ ne ses­suale sociale (tesi sostenuta da Reich nel suo rapporto su «La prevenzione sociale delle nevrosi» con tale forza da provocare la risposta freudiana ne «Il disagio della ci­ viltà»). Alcuni seguaci di Freud, come Hor­ ney, → Fromm e Sullivan, influenzati dalla teoria adleriana, diedero maggiore rilevanza al conflitto attuale e, di conseguenza, otten­ nero che nella terapia si prestasse attenzio­ ne non tanto al passato quanto al presente. La loro scuola è conosciuta come Neoana­ lisi. Per l’accento posto sull’adattamento alle condizioni sociali vigenti, e per aver li­ mitato l’obiettivo del processo terapeutico ad una conoscenza di sé appena sufficiente per

PSICOTERAPIE: SCUOLE

adattarsi alle situazioni conflittuali, i neoa­ nalisti furono accusati di conformismo dai freudiani ortodossi. Negli anni Cinquanta del XX sec. lo sviluppo della psi­coanalisi è legato al cosiddetto «gruppo di New York», che, soprattutto attraverso H. Hartman, E. Kris, R. Loewenstein, diede importanti con­ tributi alla psicologia dell’Io ed evidenziò, specie con Hartman, il ruolo della intenzio­ nalità. I meccanismi di di­fesa non furono visti soltanto in termini pa­tologici, ma anche come normali stadi del processo di sviluppo. Molti altri autori si sono distinti negli ulti­ mi anni. Citiamo, tra gli altri, Reik, Federn, Alexander e Lacan. A sua volta la Terapia psicoanalitica delle relazioni oggettuali, sviluppatasi negli ulti­m i trent’anni, consi­ dera i conflitti come una manifestazione di strutture psichiche interne, definite relazioni oggettuali. La nascita di questo approccio non trova collocazione in un’opera specifica, in quanto avvenne in maniera progressiva, dall’ela­borazione di alcuni aspetti della teo­ ria di M. Klein (in particolare gli studi sulla fase pre-edipica dello sviluppo del bambino) e di alcuni spunti forniti da H. Hartman. Si possono fare risalire gli inizi di questa scuo­ la a due movimenti di ricerca svilup­patisi parallelamente: quello di Winnicott (che in Inghilterra aveva fondato la «terza scuola» psicoanalitica, dopo le due antagoniste di M. Klein e di A. Freud) e quello rappresen­ tato dalla Mahler e da Jacobson negli Stati Uniti. Attualmente, l’au­tore fondamentale di questa scuola è Kernberg, mentre Kohut è considerato in parte l’esponente di un pen­ siero autonomo. La terapia delle relazioni oggettuali, paral­lelamente ad altri modelli contemporanei, ha consentito di affrontare nuove patolo­gie quali la sindrome borderline e il narci­sismo. 2. Le terapie corporee. Le terapie corporee si prefiggono l’obiettivo di cambiare il vis­suto e il comportamento della persona agendo sul corpo. Tutte si rifanno al paral­lelismo messo in luce da W. Reich tra ten­sioni psichiche e tensioni corporee, e sotto­lineano l’importan­ za di liberare l’uomo dalle repressioni cultu­ rali per riportarlo al­lo stato di funzionalità primordiale. Esse si sono sviluppate in due articolazioni fonda­mentali: gli approcci ela­ borati dai diretti al­lievi di Reich e i modelli che si prefiggono di raggiungere il cambia­

mento della perso­na attraverso un’attività di rilassamento, di ampliamento della con­ sapevolezza del corpo e d’integrazione tra corpo e mente o tra corpo, mente e spirito (Schützenberger-Sauret, 1978). A questo se­ condo gruppo appartengono tutte le tecniche di rilassamento, più o meno corrispondenti a una ar­ticolata elaborazione teorica, dal → training autogeno di Schultz, all’eutonia di G. Alexander, al metodo Feldenkrais, al rebirthing, all’urlo primario, ecc. Al primo gruppo appartengono invece fondamental­ mente la bioenergetica di A. Lowen, che sviluppa l’analisi del carattere di Reich in termini clinici strutturati, e la teoria psico­ somatica di S. Keleman. 3. L’approccio cognitivo-comportamentale. Per quanto riguar­d a il comportamentismo rimandiamo al­la voce specifica su questo di­ zionario. Le scuole cognitive nacquero negli anni sessanta dallo sviluppo degli studi sulle cognizioni e sui pensieri dell’individuo come fonte principale dei disturbi psicologici. Come le terapie comportamentali, esse assu­ mono che l’individuo impara dall’e­sperienza passata e usa tale apprendimento come gui­ da per il comportamento futuro, che risulta dettato quindi dalla rappresen­t azione co­ gnitiva formatasi nel soggetto ri­g uardo alle situazioni interpersonali e fisi­che e alle pro­ spettive ipotizzabili. La tera­pia cognitiva si propose pertanto di mo­dificare sentimenti e comportamenti del paziente modificandone i pensieri e si in­serì − in maniera originale rispetto alle te­rapie emozionali − nel quadro culturale e filosofico di metà secolo, dove si sentiva forte la necessità di rafforzare l’Io. Anche se possiamo rintracciare una con­ notazione «cognitiva» negli orientamenti terapeutici più tradizionali (come la psicoa­ nalisi), la terapia cognitiva ha una sua auto­ nomia di definizione in quanto si concentra sui sin­tomi evidenti, presta meno attenzione al­l’infanzia del paziente e al processo tran­ sferale. Attualmente i tre orientamenti rap­ presentativi della terapia cognitiva so­no: la terapia razionale-emotiva di Ellis, la tera­ pia cognitiva per la depressione di Beck e i costrutti personali di Kelly. Le teorie co­ gnitive e quelle comportamen­tali sono state di recente integrate nella forma di interventi terapeutici cognitivo-comportamentali e co­ gnitivo-costruttivisti (Kendall-Hollon, 1979; 959

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Meichenbaum, 1977). Tale integrazione par­ te dal presupposto che l’organismo umano reagisce alla rappresentazione cognitiva dell’ambiente, non all’ambiente in sé, che queste rappresentazioni cognitive sono cor­ relate ai processi di apprendimento, che la maggior parte dell’apprendimento uma­no è mediato da strutture cognitive e che pensieri, sentimenti e comportamenti inte­ragiscono tra di loro in modo causale (Mahoney, 1974). Tra i vari approcci, citia­mo la tecnica della vaccinazione allo stress di Meichenbaum, la tecnica della ristrut­turazione razionale sistematica, una strate­gia simile alla RET, i metodi autoistruttivi con i bambini e infine la teoria dell’effica­cia personale di Bandura. 4. L’approccio esistenziale. Intorno al 1930 si sviluppò, fondamentalmente in Europa, un approccio filosofico e psicoterapico che si opponeva al dominio del razionalismo e del­ le scienze empiriche. Mentre la scienza, in­ fatti, guarda all’individuo in quanto so­stanza o meccanismo, questo approccio so­stiene che l’uomo deve essere capito in quanto esi­ stenza (nel significato letterale di ex-sistere). Influenzata dalla fenomenolo­gia di Husserl e radicata nel pensiero di Kierkegaard, la fi­ losofia esistenziale nasce con Heidegger e si sviluppa poi nel pensie­ro di Sartre, di → Bu­ ber, di Jaspers e di altri. Essa è stata applicata al campo clinico da alcuni psichiatri europei, per es. Binswanger, → Frankl, Boss, e da Rol­ lo May negli Sta­ti Uniti. Più che un approccio psicoterapi­co, l’esistenzialismo rappresenta un orien­tamento verso la comprensione della natu­ra e del significato dell’esistenza umana. Secondo questo approccio la p. è essenzial­ mente un incontro. Il terapeuta deve esse­re capace di relazionarsi al paziente, come ha sottolineato Binswanger, come «un’esi­stenza che comunica con un’altra». L’idea­le dell’in­ contro autentico è espresso nei termini di Buber come «io-tu». È una relazione fondata sull’apertura fiduciosa e sul rispetto per la soggettività dell’altro. Il te­rapeuta, vedendo il paziente come un part­ner esistenziale piut­ tosto che come un og­getto di ricerca, gli dà la possibilità di non percepirsi più come un oggetto controllato da forze esterne. L’obiet­ tivo ultimo della p. è far sì che il paziente sperimenti il limi­te imposto dalla realtà della propria esistenza come ciò che lo definisce, lo concre­tizza e lo arricchisce. 960

5. Le p. umanistiche. Si comprendono con questa denominazione alcune scuole di p. sorte sotto l’ispirazione di un movimento culturale degli anni Cinquanta, il Movi­mento per lo Sviluppo del Potenziale Uma­no. Esso fu costituito da molti analisti e professionisti colti del tempo (in gran par­te europei emi­ grati durante la Seconda Guerra Mondiale negli Stati Uniti), che fa­cevano riferimento dal punto di vista an­t ropologico alle idee di Martin Buber, e si collocavano nello sfondo epistemologico delle terapie esistenziali. Il nascere delle terapie umanistiche è caratte­ rizzato anche dal fenomeno degli incontri di gruppo che emerse per esigenze legate alla Seconda Guerra Mondiale e al Dopoguerra e diven­ne poi molto comune in quegli anni. Le at­tività di gruppo si diffusero in vari cam­ pi clinici ed educativi, da gruppi di psicotici a gruppi di crescita per nevrotici, ai gruppi autogestiti per alcolisti, ai T-groups, ai sen­ sitivity groups, ai gruppi terapeutici. Non si possono considerare qui le innume­revoli tec­ niche e gli approcci psicoterapici nati in que­ gli anni. Rimandiamo alle voci relative alle tre scuole fondamentali che si inserirono in questo movimento con un corpo teorico e una metodologia della pras­si strutturati: la terapia centrata sul cliente fondata da C. → Rogers; la p. della → Gestalt fondata da F. Perls; l’ → ana­ lisi transazionale, fondata da E. Berne. 6. La terapia della famiglia. Negli ultimi trent’anni si è assistito ad un crescente in­ teresse per la terapia familiare. Essa è sta­ta oggetto di considerazione da parte di un mo­ vimento che si avviò contemporanea­mente in diverse parti degli Stati Uniti, ad opera di terapeuti di notevole prestigio, in un clima (quello degli anni a cavallo tra il ’50 e il ’60) di grande fermento di studi spe­rimentali sul modo di affrontare i proble­m i psichiatrici dei pazienti adulti come an­che i problemi di adattamento sociale dei bambini immigra­ ti o appartenenti a strati sociali emargina­ ti. Una particolarità della nascita di questo movimento, che ne in­fluenzò certamente i contenuti e la meto­dologia, fu il fatto che i suoi fondatori era­no per lo più accademici, antropologi e filosofi (come G. Bateson), o psichiatri im­pegnati nella cura di pazienti gravi (come N. Ackerman). Ciò consentì alla terapia familiare di affrontare problemi gra­ vi, spesso considerati insolubili, in maniera

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nuova dal punto di vista epistemologico e con quel coraggioso atteggiamento speri­mentale che le situazioni difficili a volte sti­molano. La pubblicazione della rivista «Family Pro­ cess», nel 1962, segna la nascita ufficiale della terapia familiare. I fondatori furono N. Ackerman, uno psichiatra infantile fon­datore dell’Istituto di New York e D. Jack­son, uno degli psichiatri dell’Istituto di Pa­lo Alto. Tra gli autori fondamentali di que­sto approccio citiamo Murray Bowen, uno psichiatra spe­ cializzato nel trattamento di bambini psi­ cotici che focalizzò il proprio interesse sui processi di simbiosi (massifi­cazione) e di differenziazione (individua­zione) all’interno della famiglia; C. Whithaker, il più strava­ gante tra i fondatori, che estese la definizio­ ne clinica della famiglia fino a comprendervi la terza generazione; G. Bateson, che ispirò uno dei gruppi più importanti per la nascita della terapia fami­liare, quello di Palo Alto, e che attraverso lo studio degli aspetti para­ dossali della co­municazione e delle gerar­ chie di tipi logici aveva notato come questo tipo di comuni­cazione è alla base dell’umo­ rismo, dell’ip­nosi e delle verbalizzazioni apparentemen­te assurde degli schizofrenici. Nel 1956 Ba­teson, assieme a J. Haley, un esperto di co­municazione, e J. Weakland, un ingegnere chimico che si interessava di antropologia, e a D. Jackson, pubblicò un articolo che sa­rebbe divenuto storico, To­ ward a theory of schizophrenia, in cui gli autori introduce­vano il concetto di doppio legame. Un altro importante gruppo di que­ sto ap­proccio è il Mental Research Institu­ te, fon­dato da D. Jackson nel 1959 a cui si asso­ciò V. Satir che, pur essendo fortemente in­fluenzata dal gruppo di Palo Alto, nel cor­ so degli anni se ne distaccò per coinvol­gersi sempre di più nel Movimento per lo Sviluppo del Potenziale Umano. Anche il gruppo del Family Institute of Philadelphia contribuì in modo rilevante alla fondazione della Tera­ pia Familiare. Al suo interno la­vorarono L. Boszormenyi-Nagy, uno psi­chiatra, e i suoi collaboratori, tra cui J. Framo e G. Zuk. Essi organizzarono il primo programma struttu­ rato di formazio­ne in Europa e formarono migliaia di pro­fessionisti. Tra il 1960 e il 1980 nacquero numerosi centri di formazio­ ne ed è impos­sibile rendere giustizia a tutti i programmi e a tutte le personalità che emer­ sero in questo periodo (Gurman-Kniskern,

1995). Originariamente centrate solo sulla prospettiva si­stemico-relazionale del disagio psichico, le terapie familiari tendono oggi a integrare competenze sulle dina­m iche psi­ cologiche individuali, affinché il terapeuta riesca a orientarsi sia tra i vissuti dei mem­bri della famiglia che tra i propri. Bibl.: M ahoney M. J., Cognition and behavior modification, Cambridge, Mass., Ballinger, 1974; Meichenbaum D., Cognitive-behavior modifica­ tion: an integrative approach, New York, Ple­ num, 1977; Schutzenberger A. A. - M. J. Sauret, Il corpo e il gruppo, Roma, Astrolabio, 1978; K endall P. C. - S. D. Hollon (Edd.), Cognitivebehavioral interventions: theory, research, and procedures, New York, Academic Press, 1979; Horner A. J., Rela­zioni oggettuali. Teoria e trat­ tamento, Milano, Cortina, 1993; Gurman S. - D. P. K niskern (Edd.), Manuale di terapia della fa­ miglia, Torino, Bollati Boringhieri, 1995; Nuzzo M. L. (Ed.), Costruttivismo e p. Cinque scuole a confronto, Ancona, Pequod, 2002.

M. Spagnuolo Lobb

PUBBLICITÀ È una forma di → comunicazione con esplici­ ti intenti persuasivi adottata principalmente dalle imprese industriali e commerciali (p. commerciale) per farsi conoscere o far co­ noscere i propri prodotti e, in generale, per influenzare atteggiamenti e comportamenti relativi all’acquisto e al consumo di beni e all’utilizzazione di servizi. Il ricorso alle tec­ niche pubblicitarie di comunicazione messe a punto dalle imprese avviene anche, con cre­ scente frequenza, da parte di organizzazioni non commerciali: si parla, in questo caso, di p. non profit o non commerciale e, in partico­ lare, di p., di volta in volta, sociale, politica, elettorale, pubblica, religiosa, a seconda dei soggetti che vi fanno ricorso e dell’oggetto dei messaggi. 1. Caratteri. La p. assume caratteristiche for­ mali, di contenuto e diffusive del tutto par­ ticolari. Si presenta generalmente sotto for­ ma di messaggi brevi o brevissimi, sintetici, semplici, accattivanti e spesso fortemente emotivi, parziali nella scelta contenutistica a favore del committente e sovente sconfinanti 961

PUBBLICITÀ

in una più o meno evidente ingannevolez­ za, ripetuti sistematicamente fino a ricadere nell’eccesso, diffusi con ogni mezzo utile e fortemente intrusivi, talora in modo irritante come accade con le interruzioni televisive. 2. Educazione e p. Strumento indispensabile per le imprese, la p. – per le sue caratteristi­ che tipiche – non esaurisce la sua influenza sul piano che le è originariamente proprio, non si limita, cioè, ad agire su atteggiamenti e comportamenti di consumo. Essa, nel suo continuo sforzo persuasivo, coinvolge in pra­ tica tutti gli aspetti della realtà, sfruttandoli, selezionandoli, deformandoli. Finisce così per proporre, nei singoli messaggi e col loro insieme, una certa visione dell’esistenza, per esaltare modelli di comportamento fun­ zionali (e subordinati) all’acquisto e all’uso dei beni materiali, per costruire una scala di valori che privilegia, insieme al consumo (concorrendo all’espandersi della sua forma esasperata, il consumismo), il successo, la ricchezza, la competizione sociale, l’esibi­ zione fine a se stessa: non solo degli oggetti, ma anche del corpo umano degradato a mero elemento di richiamo. In tal modo si configu­ ra come una «grande impresa pedagogica», così definita un po’ ambiguamente da Mar­ shall McLuhan. Essa, in effetti, assume un ruolo importante nel far conoscere (imprese e prodotti), nel suggerire modelli di com­ portamento (anche non relativi a prodotti), nel proporre valori (generalmente estranei ai prodotti): dunque, nell’esercitare, a suo modo, una funzione didattica, educativa e anche ideologica. La p. televisiva – con i suoi «testi» brevi o brevissimi, continuamente ripetuti e quindi ampiamente conosciuti, a volte anche divertenti e formalmente prege­ voli – si presta ad un efficace lavoro didat­ tico, che può addirittura costituire il primo approccio per una più ampia educazione ai media collegata all’esperienza vissuta con­ cretamente, ogni giorno, dai minori. La pro­ posta di lavorare sulla p. risulta generalmen­ te gradita ai ragazzi, come dimostrano le or­ mai numerose esperienze compiute anche in molte scuole italiane. La p. viene addirittura definita come «il tema per eccellenza di cui l’insegnante dispone per preparare il ragazzo alla vita adulta. Infatti, più tardi costui sarà lettore, spettatore, telespettatore, consuma­ tore; dovrà effettuare delle scelte. Come si 962

accorgerà di poter essere manipolato? Avrà i mezzi per scoprire la frode? Saprà orientar­ si fra la moltitudine di messaggi quotidiani? La scuola deve avvertire il ragazzo che nella vita tali messaggi possono connotare il con­ trario di quanto denotano, talvolta abilmen­ te dissimulati dietro la falsa scientificità, la falsa referenza, la falsa ingenuità» (Martin, 1982). Il «lavoro sulla p.» è in grado anche di mostrare ai ragazzi la grande ragnatela ideologica che i messaggi commerciali co­ struiscono giorno per giorno, e può aiutarli a individuare gli artifici, le finalità, i pericoli, il vero e proprio «assalto all’infanzia» spesso perpetrato dal marketing e dalla comunica­ zione commerciale (Linn, 2005), senza che ciò suoni condanna radicale per una forma di comunicazione che, se rettamente concepita, realizzata e diffusa, può giovare al progresso delle imprese e dell’economia in generale. 3. Etica nella p. Nel documento «Etica nella p.», emanato nel 1997 dal Pontificio Consi­ glio delle Comunicazioni Sociali, si afferma che la p. «si rivela nel mondo contemporaneo forza persuasiva e potente che influisce sulla mentalità e il comportamento», si delineano «benefici» e «danni» che essa può produrre, si indicano tre principi morali fondamentali «che si applicano specificamente alla p.»: la veridicità, la dignità della persona umana e la responsabilità sociale. Infine, il documen­ to espone alcune misure da adottare per un esercizio responsabile della p.: il migliora­ mento dei codici volontari di deontologia; l’intervento del potere pubblico per regola­ mentare contenuti e prassi della p. «al di là della semplice interdizione della p. falsa, in senso stretto»; la diffusione di informazioni critiche sulla p. da parte dei media; la for­ mazione ai media, come parte integrante dei piani pastorali della Chiesa, che contenga «l’insegnamento circa il ruolo della p. nel mondo contemporaneo»; l’impegno dei pro­ fessionisti della p. perché «ne elimino gli aspetti socialmente dannosi e adottino regole morali di alta qualità». Bibl.: M artin M., Sémiologie de l’image et pé­ dagogie. Pour une pédagogie de la recherche, Paris, PUF, 1982; K apferer J. N., L’enfant et la publicité, Paris, Dunod, 1985; Zanacchi A., Con­ vivere con la p., Leumann (TO), Elle Di Ci, 1999; Id., P.: effetti collaterali, Roma, Editori Riuniti,

PUBBLICO/PRIVATO

2004; Linn S., Il marketing all’assalto dell’in­ fanzia. Come media, p. e consumi stanno trasfor­ mando per sempre il mondo dei bambini, Milano, Orme, 2005.

A. Zanacchi

PUBBLICO/PRIVATO Usati in generale per mettere in risalto due ambiti della vita sociale, i due termini so­ no qui assunti in riferimento specifico al­ l’istruzione e al → sistema formativo scola­ stico. 1. Il sistema del servizio scolastico/formati­vo è infatti indirizzato alla piena realizza­zione del diritto all’istruzione, nel quadro dell’at­ tuazione del dovere-diritto dei geni­tori di mantenere, istruire, educare i figli. La fun­ zione dello Stato è quella di «detta­re le nor­ me generali sull’istruzione», in un contesto in cui la → libertà d’insegnamento si esprime non solo sul piano individuale, ma anche sul piano collettivo, riconosciuta come è – insie­ me con tutti i diritti fonda­mentali – anche alle comunità o formazio­ni sociali (→ legisla­ zione scolastica). La li­bertà d’insegnamento si pone a fondamen­to – insieme con la libertà di intrapresa – della libertà di istituire scuole ed istituti di educazione. Come lo Stato, per adempiere al suo compito di rendere effetti­ vo il dirit­to all’istruzione dei propri cittadini, istitui­sce proprie scuole per tutti gli ordini e i gradi, così enti e privati possono istituire scuole, per realizzare il medesimo servizio pubblico, onde rendere altresì effettivo il di­ ritto di libera scelta scolastica che com­pete ai genitori, quale corollario necessa­rio della loro responsabilità in ordine all’i­struzione dei figli. In questa concezione che è comune a tutte le costituzioni democratiche ed alle indica­zioni di tutti i documenti internazionali concernenti la tutela dei diritti delle perso­ne e dei popoli, sembra superata la distin­zione p./p. che fa perno sull’appartenenza per dire così «catastale» delle singole istitu­zioni sco­ lastiche e sul loro stato giuridico (se di diritto pubblico o di diritto privato), per distinguere l’istruzione pubblica dall’i­struzione privata. In realtà – come ricono­sciuto dalla maggior parte degli ordina­menti – si tratta di un unico servizio pub­blico esplicato sullo stesso piano

da sog­getti di diritto pubblico e soggetti di diritto privato. 2. Se è vero che, in questo contesto, «l’istru­ zione non potrebbe più qualificarsi –come invece ancora tradizionalmente si fa – quale istruzione pubblica o privata», ma «pubbli­ che o private invero sono ormai sol­t anto le scuole, a seconda che ad esse prov­veda lo Stato ovvero i privati, mentre l’i­struzione resterebbe sempre la stessa» (Pototschnig, 1961), sembra allora assai più appropriato – come fa la Cost. italiana – usare le espressio­ ni scuole pubbliche stata­li e scuole pubbli­ che non statali, graduando tra queste ultime diversi livelli di «pubbli­cità» (cioè partecipa­ zione all’espletamen­to del servizio pubblico scolastico/formati­vo), a seconda della mag­ giore o minore incisività e rilevanza della loro adesione al sistema di diritti ed obblighi stabiliti dallo Stato con la posizione delle «norme gene­rali sull’istruzione» (né pubbli­ ca né priva­ta), riguardanti la determinazione di requi­siti e condizioni oggettive (standard) per la corretta esplicazione di tale servizio. Si tratterà, cioè, di stabilire i requisiti e le condizioni – validi sia per le scuole istitui­ te da parte dello Stato sia per quelle istitu­ ite da soggetti di diritto privato – in base ai quali l’istruzione impartita in esse raggiun­ ga livelli qualitativi e usufruisca di risorse e strumenti (sia sul piano umano sia su quel­lo materiale) oggettivamente uguali o quan­ to meno equiparabili in ordine al ri­sultato di istruzione che si prevede di otte­nere ed alle garanzie di realizzazione dei diritti cui si intende dare attuazione. All’interno delle «norme generali sul­l’istruzione» (e verifi­ cati i requisiti e le con­dizioni da esse posti) non è possibile giuri­dicamente individuare alcuna differenzia­zione tra scuole statali e non statali, che non sia fondata su ragioni e differenziazio­ni di contenuto e di progetto educativo. Ma ogni discriminazione di tal fatta è esplicita­mente negata in nome della libertà ed uguaglianza dei cittadini di fronte alla leg­ge da ogni costituzione democratica e da tutti i documenti, dichiarazioni e conven­ zioni internazionali sul riconoscimento e sulla salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo e dei popoli. 3. Il Parlamento Europeo, con una risolu­ zione votata a grande maggioranza il 14 963

PUDORE

marzo 1984 ha affermato che «il diritto al­la libertà d’insegnamento implica per sua na­ tura l’obbligo per gli Stati membri di rende­ re possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accor­dare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compi­ti e all’adem­ pimento dei loro obblighi in condizioni eguali a quelle di cui beneficia­no gli istituti pubblici corrispondenti senza discrimina­ zioni nei confronti degli organiz­zatori, dei genitori, degli alunni e del per­sonale». Viene così in luce l’aspetto più problematico – per lo meno per alcuni (co­me in Italia) – della questione: il problema del finanziamento delle scuole pubbliche non statali. Esso è stato da tempo risolto da molti or­dinamenti democratici prendendo come base dell’in­ tervento perequativo della ma­no pubblica e della sua graduazione la maggiore o minore adesione ai requisiti ed alle condizioni poste dalle «norme genera­li sull’istruzione». Essi riguardano: l’aper­t ura delle scuole non stata­ li a tutti, senza discriminazioni; il possesso da parte dei do­centi dei medesimi requisiti culturali e pro­fessionali; l’equipollenza dei programmi scolastici con quelli stabiliti dalle pubbli­che autorità, pur tenendo conto che si va diffondendo una sempre più ampia auto­nomia didattica e programmatica anche per le scuole statali; la partecipazione delle scuole non statali alla programmazione ter­ ritoriale del sistema di istruzione; l’attiva­ zione di strutture ed organismi di parteci­ pazione con attenzione al coinvolgimento delle famiglie nella gestione dell’istruzione dei figli; la mancanza di scopo di lucro (noprofit) e la pubblicità dei rendiconti relativi all’utilizzazione dei finanziamenti (o la pub­ blicità dei bilanci); l’idoneità del­le strutture edilizie e delle dotazioni stru­mentali se­ condo gli standard previsti dalle particolari normative, valide per tutte le scuole, statali e non statali. La maggiore o minore adesione a questi requisiti e caratteristiche, decide del mag­giore o minore inserimento – salva sem­ pre la libertà di istruzione – e decide altresì della possibilità delle istituzioni non stata­li di accedere al finanziamento pubblico del servizio da loro reso. Recentemente la L. n. 62/2000 ha introdotto in Italia il principio di un sistema nazionale di istruzione che non si identifica con la sola scuola dello Stato e degli Enti locali, ma del quale sono parte in­ 964

tegrante scuola statale e scuola non statale paritaria, riconoscendo il servizio pubblico svolto dalle scuole paritarie, private e degli Enti locali. Bibl.: Pototschnig U., Insegnamento istruzione scuola. Milano, Giuffrè, 1961; Garancini G., La scuola cattolica in Italia - tra parità ed uguaglian­ za e tradizione e cambiamento, in «Aggiornamenti So­ciali» 44 (1993) 272-292; Malizia G., «La legge 62/2000 e la libertà di educazione. Quali prospet­ tive?», in Cssc-Centro Studi Per La Scuola Cattolica, A confronto con le riforme: problemi e prospettive. Scuola cattolica in Italia. Quar­ to Rapporto, Brescia, La Scuola, 2002, 57-72; Palma A., Sussidiarietà e formazione in Italia: profili giuridici, in S. Versari (ed.), La scuola nella società civile tra Stato e mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, 59-87; Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 10 marzo 2000, n. 62, Roma, Ministero dell’Istru­ zione, dell’Università e della Ricerca, 2004.

G. Garancini

PUBERTÀ → Adolescenza → Preadolescenza

PUDORE È quell’insieme di vincoli e di interdetti comportamentali ed espressivi che ogni cul­ tura pone intorno al mondo della ses­sualità, per tutelare, insieme con la riservatezza e l’intimità dei rapporti, i valori più profondi di tenerezza, amore, rispetto del­la sacralità delle sorgenti della vita, aper­t ura a una certa trascendenza che la ses­sualità può esprime­ re, ma anche tradire at­t raverso la banalizza­ zione e il consumismo delle sue espressioni. L’educazione, insieme con la pressione del­le convenzioni sociali è lo strumento attra­verso cui questa difesa si impone e si perpetua nel­ la società. Per il fatto di essere culturalmente condizionato, il senso del p. assume forme ed espressioni anche molto diverse nello spa­ zio e nel tempo. In una so­cietà come la no­ stra, segnata da un forte → pluralismo cultu­ rale e dalla caduta di mol­ti modelli etici che strutturavano in passato il comportamento sessuale socialmente ac­cettato, il «comune senso del p.» si è no­tevolmente ridotto, fa­ vorendo forse una maggiore spontaneità nel comportamento sessuale, ma anche una ba­

PUDORE

nalizzazione dei valori implicati nella gestio­ ne della sessua­lità (→ educazione sessuale). Gli educatori che operano in controtenden­ za, per un ricupero, fosse pure solo parziale di questi valori, incontrano in questa caduta del co­mune senso del p. un ostacolo non fa­ cile da superare. Bibl.: Chimirri G., La prudenza dell’eros: i fonda­menti etico-antropologici del p., Atripalda,

WM Editrice. 1987; Choza J., La supresión del pudor, signo de nuestro tiempo, Pamplona, Uni­ versidad de Navarra, 1990; Selz M., La pudeur, un lieu de liberté, Paris, Buchet/Chastel, 2003.

G. Gatti

PUEROCENTRISMO → Adultismo → Indivi­ dualizzazione PUNIZIONI → Castighi

965

Q QUADRIVIUM → Arti liberali QUALIFICAZIONE PROFESSIONALE → Educazione permanente → Professionalità

QUALITÀ DELL’EDUCAZIONE È il complesso delle caratteristiche che l’e­ ducazione deve possedere per soddisfare i bisogni degli educandi. 1. La polisemia del termine q. Parlare di q. vuol dire per un verso riferirsi all’insieme di elementi concreti che costituiscono la natura di qualcuno o di qualcosa. Ma nel termine italiano si aggiunge un’altra connotazione che dice il grado di capacità, di utilità, di perfezione di qualcuno o di qualcosa. Risul­ ta subito chiaro che ci troviamo di fronte ad un termine polisemico e oggi, in aggiunta, la parola q. assume tanta rilevanza cultura­ le nelle sue due grandi specificazioni di «q. della vita» e di «q. totale». Con la prima si viene ad indicare l’insieme delle condizioni ambientali, sociali, culturali, lavorative che concorrono a determinare una vita umana­ mente degna. Con la seconda si intende un modello di gestione aziendale volto a miglio­ rare l’efficienza del sistema in relazione alla soddisfazione del cliente. 2. La q.d.e. Di questa si può parlare a priori alla luce di un concetto ideale di uomo e di educazione In tale caso si tratterà di stabilire le condizioni essenziali che occorrono per­ ché si realizzi il fine educativo, inteso come

promozione umana della persona. In questa linea di rapporto tra azione e finalità educati­ va la q.d.e. appare in primo luogo come affer­ mazione dell’integralità dell’educazione con­ tro ogni suo riduzionismo ed unilateralismo. In secondo luogo, la q.d.e. si manifesta come ricerca di coerenza dell’azione educativa, nel senso che essa tenga il passo con lo svi­luppo personale dell’educando; ordini i suoi inter­ venti secondo esigenze concrete dell’esisten­ za; commisuri se stessa all’importanza ed ai valori personali che sono in gioco, senza stravolgimenti per difetto o per eccesso, per sottovalutazione o sopravvalutazione; ricer­ chi le relazioni e i rapporti tra interventi edu­ cativi e tra fattori della personalità. Inoltre, la q.d.e. può essere intesa come pertinenza ed efficacia dell’azione educativa, nel senso che sia adeguata al fine da raggiungere. 3. La q. totale. È un modello organizzativo che nasce negli Stati Uniti nella prima metà del sec. scorso e si sviluppa poi nel Giappo­ ne per affermarsi infine in tutto il mondo. Nell’industria, dove si è originata, la q. vie­ ne intesa in base a una prospettiva non più interna all’azienda, ma esterna e si caratte­ rizza per i seguenti spostamenti di accento: la priorità passa alla produzione della q. e alla sua programmazione rispetto al control­ lo; la q. come soddisfazione del cliente di­ viene più importante della q. come assenza di difetti; non importa tanto raggiungere dei requisiti prefissati e statici quanto puntare al miglioramento continuo; la q. non va consi­ derata come una prerogativa esclusiva degli addetti ai lavori, quanto come un valore per 967

QUALITÀ DELL’EDUCAZIONE

l’intera umanità. Di fronte ai gravi problemi dell’educazione, molti pensano sia utile rifar­ si al modello della q. totale. Infatti, secondo alcuni, esso avrebbe una prima ricaduta po­ sitiva .sull’educazione perché risulterebbe in piena consonanza con due principi pedagogi­ ci, tipici della coscienza pedagogica contem­ poranea: 1) che l’educando occupa il centro del sistema formativo; 2) e che l’autoforma­ zione è la strategia principe del suo appren­ dimento. Ma contrasta con questa prospetti­ va il fatto che nel modello della q. totale si tratta di cliente e il fine di tutto è il successo dell’azienda nel mercato e non certo il «suc­ cesso formativo» del soggetto che apprende, cresce e si sviluppa per essere pienamente persona. L’approccio della q. totale fornisce pure una linea di azione chiara per assicurare la efficacia e l’efficienza del sistema educati­ vo, in quanto la validità dell’offerta e dei pro­ cessi è ottenuta perseguendo la q. Con la sua logica dei rapporti interni, consente di moti­ vare i formatori più adeguatamente: infatti, la strategia della q. totale si pone l’obiettivo di soddisfare pienamente i bisogni del lavo­ ratore ai diversi livelli oltre che quelli dei clienti. Dal punto di vista procedurale, poi, con il principio, secondo il quale si deve far bene le cose la prima volta, in quanto è mol­ to più dispendioso dover intervenire in un secondo momento per correggere un’azione non riuscita, l’approccio della q. totale mette in risalto il «costo della non q.» inteso come spreco di risorse per riparare le carenze di ciò che è stato già realizzato male. All’oppo­ sto di questa situazione, vi è l’altro principio del miglioramento continuo che significa una sollecitazione costante a non accontentarsi mai dei risultati raggiunti per cui il progres­ so è sempre dietro l’angolo. Ancora più radi­ calmente è avanzata l’idea della prevenzione che significa superare la logica di contare gli insuccessi alla fine dell’intervento edu­ cativo per sostituirla con quella di prevedere fin dall’inizio le condizioni che consentono di evitare gli insuccessi. E tutto ciò è pos­ sibile perché la creatività è presente in tutti almeno come capacità di dare risposta a una esigenza. Contribuiscono anche nella mede­ sima direzione sia il formare le persone a ri­ solvere i problemi con i dati e i fatti piuttosto che sulla base di impressioni e di sensazioni, sia l’abituarle a ragionare per cause anziché per colpe. La q. totale fa molto affidamento 968

sulle sinergie, sulla concentrazione di forze. È la logica che sottostà ai circoli della q. e ai gruppi di miglioramento, nella convinzio­ ne che un gruppo di persone che opera unito ottiene senz’altro esiti più soddisfacenti di un medesimo numero di soggetti che lavorano individualmente. Al tempo stesso ai singoli è chiesto di sviluppare responsabilità e auto­ controllo. Da questo punto di vista è decisi­ vo il superamento della separazione tra chi decide, chi esegue e chi controlla a favore della logica che chi esegue deve controllare le proprie prestazioni e deve contribuire con la propria esperienza al miglioramento con­ tinuo del funzionamento dell’organizzazione, operando insieme. Ma rimane che la trasposi­ zione del modello della q. totale in educazio­ ne non è senza problemi. Oltre a quello già accennato sopra, resta che la soddisfazione del cliente non può essere l’unico criterio di validità di un intervento educativo. I bisogni dell’educando da soddisfare non sono sempre e solo quelli che egli percepisce, ma è neces­ sario spesso «educare»la sua domanda. In al­ tre parole la q. totale è esposta al pericolo di dare ansa al soggettivismo e al relativismo. Ma più radicalmente, è da precisare che l’edu­ cazione non si può ridurre al soddisfacimento dei bisogni dell’educando. In questo quadro assumono una particolare rilevanza concetti come: la certificazione della q., cioè l’accer­ tamento della congruenza di una specifica realtà scolastica con un insieme di requisiti di q. definiti e verificati da soggetti di parte terza (agenzie accreditate alla certificazione); l’assicurazione q., cioè l’insieme delle azioni necessarie per dare adeguata confidenza che un prodotto o servizio corrisponda a deter­ minati requisiti di q.; la normativa ISO 9000 che definisce q. e assicurazione q. e dà indi­ cazioni per la scelta del sistema q. più adatto per ogni tipo di impresa e di prodotto. Bibl.: Negro G., Q. totale a scuola, Milano, Il Sole 24 Ore, 1995; M alizia G. - C. Nanni, La q.d.e.: gli antecedenti e le teorie attuali, in «Orientamenti Pedagogici» 48 (2001) 4, 580-606; Sallis E., Total quality management in Education, London, Kogan Page, 3 ediz 2002; Ceriani A. - P. Giaveri, I ruoli della q. nella scuola, Mi­ lano, Angeli, 2005.

G. Malizia

QUALITÀ TOTALE → Qualità dell’educazione

QUESTIONARI

QUESTIONARI Insieme di quesiti, più o meno elaborati psi­ cometricamente, su uno o più argomenti. Il q. è una delle forme più antiche di → test di personalità, nato per integrare, standardiz­ zare e rendere più oggettivo il → colloquio psichiatrico e psicologico. 1. Tipi di q. Attualmente, i q. sono il tipo di strumento più diffuso per la misurazione di tratti della personalità normale, di psicopa­ tologie, di stati di disagio, di interessi scola­ stici e professionali, di atteggiamenti sociali. Le loro caratteristiche strutturali li rendono particolarmente adatti ad essere utilizzati nella fascia di età compresa fra i 10 e i 70 anni, con costi gestionali minimi perché si prestano bene alla somministrazione collet­ tiva e computerizzata e consentono un mas­ simo di automatizzazione nell’attribuzione del punteggio e nell’elaborazione dei dati. Per la misurazione di caratteristiche della personalità normale, i q. più usati in cam­ po internazionale sono il CPI (California Psychological Inventory) di H. Gough, che misura numerose caratteristiche descritte in termini di vita quotidiana e attinenti a com­ portamenti che interessano il lavoro e la so­ cialità; il 16 PF. di R.B. Cattell per adulti e le analoghe forme per adolescenti (HSPQ), ragazzi (CPQ) e bambini (ESPQ), che mi­ surano la «sfera della personalità normale», con riferimento a 16 variabili (o poco meno, a seconda dell’età dei soggetti) individuate fattorialmente; q. riferiti alla teoria dei Big Five (Comrey, Caprara e coll.). Accanto ai q. appena citati, che ambiscono a fornire una descrizione completa della personalità, nu­ merosi strumenti hanno ambito più ristretto. Per es. si trovano q. che misurano dinamiche psicologiche in riferimento a varie teorie, che valutano le difese dell’Io o altri costrutti desunti dalla teoria psicoanalitica, che si ri­ feriscono al costrutto psicologico del Sé, che valutano il → locus of control, i ruoli sessua­ li, il machiavellismo, la personalità «di tipo A», l’aggressività ecc. Il disagio psicologico viene valutato da altri q., il più famoso dei quali è il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI, MMPI 2, MMPI A), che considera varie patologie, applicando sistemi di assegnazione del punteggio che si sono an­ dati accumulando nel corso di mezzo secolo

(le «scale aggiuntive» di cui esiste almeno qualche verifica di validità sono decine). Q. che valutano disturbi clinici e di personalità in riferimento a nosografie contemporanee (DSM-IV e ICD-10) sono il Millon Clinical Multiaxial Inventory Manual, distribuito solo nei Paesi anglosassoni, e le varie forme dell’italiano TALEIA. Molto numerosi sono i q. per la valutazione di patologie specifiche o di stati di disagio particolari: ansia di sta­ to e di tratto, ossessività, paure, problemi, depressione, stress, → burn-out ecc. I q. at­ tinenti al disagio psichico per bambini sono pochissimi: si può citare il CDS e il CDI (depressione), lo STAIC, le Scale psichiatri­ che di autosomministrazione per fanciulli e adolescenti (SAFA), il Q. Scala d’Ansia per l’età evolutiva (ansia). Quasi esclusivamente per ragazzi e adolescenti sono invece i q. che misurano → interessi scolastici professiona­ li. In Italia i q. d’interessi più utilizzati, so­ prattutto in orientamento, sono quelli di G. F. Kuder, di J. L. Holland e di M. Viglietti. Tra i q. che misurano i → valori, si possono citare lo «Studio dei valori» di Allport, Ver­ non e Lindzey e la «Rassegna dei valori» di Rokeach, ambedue prevalentemente usati a scopo di ricerca. I q. che misurano → atteg­ giamenti sono per lo più costruiti in funzione di ipotesi di ricerca particolari. Fra quelli di interesse più generale si possono citare il Pa­ rental Attitude Research Instrument (PARI) e la scala di «Dogmatismo educativo» di De Grada, Ercolani, Ponzo ispirata al costrutto di dogmatismo di Rokeach. I q. sono anche utilizzati a scopo esplorativo, per raccogliere informazioni di varia natura, in alternativa a interviste standardizzate. In questo caso, di solito la sofisticazione psicometrica de­ gli strumenti è minima: viene curata solo la validità di contenuto e non viene compiuta una verifica preliminare sperimentale della validità. 2. Le scale di controllo. I primi q. si colloca­ vano nella tradizione della psicologia intro­ spettiva: si ipotizzava che la risposta al que­ sito fosse una descrizione autentica e atten­ dibile della realtà intrapsichica. Presto questa ipotesi fu abbandonata, principalmente per effetto delle ricerche sulle distorsioni indotte dalla «desiderabilità sociale» della risposta. Vennero conseguentemente introdotte varie forme di controllo: alcune prevalentemente 969

QUESTIONARI

finalizzate a eliminare gli effetti della desi­ derabilità sociale (per es. «scelta forzata»), altre principalmente finalizzate a eviden­ ziare l’entità e la presenza di distorsioni di vario tipo. Nell’approccio della «scelta forza­ ta», introdotto nel 1953 da Edwards nel suo Personal Preference Schedule (P.P.S.: misura l’intensità relativa di dinamiche psichiche riferite alla teoria di Murray), ogni quesito contiene due affermazioni, che si suppo­ ne siano di pari desiderabilità sociale ma diverse qualitativamente: il soggetto deve scegliere quella preferita. Questo metodo, adottato in alcuni q. di interessi (per es. Ku­ der) estendendo il gruppo di affermazioni a tre per item, probabilmente elimina l’effetto della desiderabilità sociale, ma suscita altri inconvenienti. Il soggetto deve esprimere una valutazione di gradimento relativo sulle affermazioni che gli sono presentate: ogni risposta è una graduatoria, che non dice la distanza di gradimento fra un elemento e l’altro. Il punteggio che ne risulta viene det­ to «punteggio ipsativo» e possiede caratte­ ristiche metrologiche peculiari (per es. non è appropriato su questi punteggi calcolare coefficienti di correlazione o analisi fattoria­ le), in quanto espressione di una graduatoria interna agli interessi del singolo soggetto e non misura oggettiva e «trasversale». Ad es., se un q. a scelta forzata sugli interessi sportivi viene sottoposto a ragazzi e ragazze, può darsi che Maria, a cui di sport interessa molto poco, metta comunque al primo posto il calcio; Gianni invece, interessato a tutti gli sport, mette al primo posto la pallacanestro, al secondo il ping pong e al terzo il calcio, ma l’interesse che Gianni ha per il calcio è certamente superiore all’interesse che per il calcio ha Maria, costretta a scegliere fra og­ getti di cui non le importa gran che. La tecni­ ca della scelta forzata è stata abbandonata da Edwards, che pure l’aveva introdotta per pri­ mo, nella più recente edizione del suo q. di personalità (1967). Più largamente diffuso è il ricorso a scale di controllo, rivelative di ri­ sposte «non autentiche» per l’una o l’altra ra­ gione. I prototipi delle scale di controllo sono le scale L e F introdotte nella prima edizione del MMPI (1940), successivamente integrate dalla scala K. La scala L segnala la tendenza del soggetto ad autoelogiarsi, la F ad auto­ denigrarsi. La scala K, analogamente alla L, segnala la tendenza ad autoelogiarsi, ma si 970

basa su affermazioni più «sottili», meno esa­ geratamente assertive di perfezione. I proto­ colli che hanno punteggi molto più alti della media in L o F vengono considerati inatten­ dibili e i punteggi nelle altre scale non sono interpretati. I punteggi nella scala K possono invece essere utilizzati per «correggere» i punteggi di altre scale. Quest’ultima prassi è lasciata peraltro alla decisione dell’interpre­ te del q., dato che la validità della scala K è stata provata una sola volta, su un campione statunitense, circa sessanta anni fa e, per es. in Italia, non è stata mai sottoposta a verifica. Scale di controllo analoghe sono presenti nel CPI e, limitatamente alla L, in alcuni dei q. di Cattell e di Eysenck. Le scale L, F e K si basano su una stima di incongruenza fra ri­ sposte al q. e realtà osservata nella media di più campioni della popolazione. Altre scale si basano sulla «coerenza» tra risposte date allo stesso quesito o tra risposte date a que­ siti di significato opposto, oppure sulla fre­ quenza «abnorme» di un particolare tipo di risposta: moltissimi «Vero», moltissimi «Fal­ so», moltissimi «Non so». Scale di questo tipo sono state introdotte nel MMPI-2 (1990) e nei TALEIA (2007). Nella seconda edizio­ ne del CPI (1987) vengono presentate delle equazioni, derivate da ricerche su campioni statunitensi, che consentono l’individuazio­ ne di tre tipi di scarsa affidabilità: a) Imbro­ gliare per sembrare migliori (Fake good), b) Carenza di validità per altri motivi, c) Ri­ sposte a casaccio contrapposte a imbrogliare per sembrare peggiori. Le scale di controllo sono uno dei punti di forza della diffusione dei q. rispetto ad altri tipi di strumento (per es. i test proiettivi) che danno per scontata sia l’assenza o l’impossibilità di inganno, sia l’assenza di risposte date «a casaccio». Allo stato attuale, non solo è stata invece larga­ mente provata la possibilità di rispondere in modo ingannevole a qualsiasi tipo di test o d’intervista, ma sono anche sempre più dif­ fusi «libri di testo», corsi di preparazione per rispondere ai test più usati nei concorsi e nel­ le perizie e addirittura guide per la contraf­ fazione della propria calligrafia. Bibl.: Nunnally J. C. - I. H. Bernstein, Psychometric theory, New York, McGraw-Hill, 31994; Weiss D. J. (Ed.), New horizons in testing. Latent trait test theory and computerized adaptive testing, London, Academic Press, 1983; Lanyon R. I.

QUINTILIANO MARCO FABIO

- L. D. Goodstein, Personality assessment, New York, Wiley, 31997; Boncori L., Teoria e tecniche dei test, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Id., I test in psicologia, Bologna, Il Mulino, 2006; Roccato M., L’inchiesta e il sondaggio nella ricerca psicosociale, Ibid., 2006; Boncori L., TALEIA400A, Trento, Erickson, 2007.

L. Boncori

QUINTILIANO Marco Fabio Vissuto tra il 35/40 e il 95 d.C., retore roma­ no, n. a Calahorra in Spagna. 1. Vita. Dopo aver compiuto gli studi a Roma esercita in Spagna l’insegnamento della Re­ torica. Condotto a Roma dall’imperatore Galba nel 68, è il primo maestro di Retorica stipendiato dallo Stato. È pure educatore dei pronipoti dell’imperatore Domiziano. Coro­ na il suo insegnamento con la pubblicazione della Institutio oratoria, l’opera che gli asse­ gna un posto di particolare importanza nella storia dell’educazione umanistica. 2. L’ideale dell’oratore. Q. è uno dei più fe­ deli interpreti di quell’ideale di Humanitas, che ha nell’Orator il suo paradigma più com­ pleto, e che alla tradizionale virtus romana associa l’apporto determinante della → paideia greca. Continua così la tradizione di cui fu grande maestro → Cicerone (che Q., Inst. 10,1,112, dice non più solo nome di una singola persona, ma della stessa oratoria). È importante il contributo di Q. per il concetto stesso di Orator, vale a dire per la dignità, la figura culturale e morale, la missione che gli è affidata. In lui Q. vuol raggiungere, per quanto umanamente possibile, la perfezione della formazione («Oratorem instituimus illum perfectum... qualis fortasse nemo adhuc fuerit»). Per questo torna ripetutamente sulla completezza della sua formazione, accen­ tuandone singolarmente due aspetti, ritenuti inscindibili, che perciò entrano nella stessa definizione dell’Orator: quello culturale (vir vere sapiens), che fiorisce nell’arte oratoria (dicendi eximia facultas) e quello etico (omnes animi virtutes; ratio rectae honestaeque vitae); anzi con una esigenza prioritaria del­ la componente etica, tanto da ritenere che la stessa oratoria o sia virtù, o non sia neppure

oratoria. Rivendica così per l’Orator alcune caratteristiche che, in particolare gli stoici, attribuivano ai filosofi. Ciò è visto anche come un’esigenza della missione sociale che, secondo Q., compete all’Orator e che, con una certa enfasi, sintetizza così: «regere consiliis urbes, fundare legibus, emendare iudiciis». La sua concezione della dignità dell’Orator e della stessa oratoria ci fa pa­ ragonare la posizione di Q. nella Roma del I sec. d.C. a quella di Isocrate nell’Atene del IV sec. a.C. 3. La formazione dell’oratore. L’oratoria, così considerata, costituisce la meta dell’educa­ zione nella quale Q. si sente personalmente impegnato. Passati i tempi della Repubblica, in cui l’impegno politico dell’oratore era più immediato, e la formazione avveniva (come ci dice Tacito, Dial. 34) nel contatto con i più famosi oratori nel vivo della lotta (pugnare in proelio disceret), ora è la scuola la palestra di quella formazione. Ma, oltre che essere meta, l’oratoria, liberata dal formali­ smo e dedita ai grandi valori, è per Q. anche dotata di per se stessa di una eccellente for­ za educatrice. Proprio in questa dimensione educativa Q. ci lascia l’eredità più preziosa. Un primo rilievo da fare è la visione globale e unitaria della formazione dell’oratore, che porta Q. a valorizzarne tutte le fasi; per cui non si accontenta di presentarci la metodo­ logia dell’insegnamento della Retorica, che pure occupa la maggior parte della Institutio oratoria, ma si preoccupa anche della forma­ zione precedente, come pure della fase ulti­ ma della vita dell’oratore, in cui, oltre a dar risalto all’influsso costante della sua saggez­ za, suggerisce anche un prezioso coronamen­ to come educatore a sua volta dei giovani. In questo quadro unitario cogliamo l’originali­ tà di Q. nell’importanza data all’educazione nell’infanzia, che vede come condizione in­ dispensabile alla stessa formazione dell’ora­ tore (minora illa sed quae si neglegas non sit maioribus locus / Proem.). Nell’infanzia evidenzia la malleabilità della natura, la for­ za e la persistenza delle prime impressioni. Di qui l’importanza dei primi anni; la fiducia nelle capacità della natura (pater de nato filio spem optimam capiat); la ricerca anche di una metodologia adatta attraverso il gioco; la scelta, per qualità morali e culturali, del­ le persone che si occupano del bambino; la 971

QUINTILIANO MARCO FABIO

stessa istanza sull’importanza della vita fa­ miliare e dell’influsso che essa esercita sulla prima educazione, destinato a durare tutta la vita. La fiducia nella natura umana (di rado totalmente refrattaria all’azione dell’educa­ zione) si associa alla considerazione dell’arte dell’educazione. Essa non può essere efficace se non basandosi sulle doti di natura in ogni singolo individuo. Conoscerle e adeguarvisi è compito del maestro. Nella relazione maestro-discepolo va cercata anche la risposta di Q. al problema della disciplina: la formazio­ ne dell’oratore non può venire che dall’azio­ ne concorde del maestro e del discepolo. Ciò si estende a un altro settore, in cui Q. si mette intenzionalmente in contrasto con una prassi da molti giustificata: quella delle punizioni corporali. Vi si oppone energicamente non solo perché essa può ottenere l’effetto con­ trario a quello voluto (cioè provocare odio anziché amore allo studio); ma in conside­ razione della dignità personale dell’alunno («in aetatem infirmam et iniuriae obnoxiam nemini debet numium licere»). Osserva pure che ciò può dipendere dalla cattiva scelta dei maestri. Un ultimo rilievo circa la scuola è la preferenza da Q. attribuita alla scuola pub­ blica su quella familiare, per il vantaggio of­ ferto dal confronto con altri compagni, per il

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diverso dinamismo della vita scolastica, per lo stimolo dell’emulazione usata anche co­me mezzo disciplinare. 4. Incidenza e risonanza. L’influsso esercita­ to da Q. si estende a tutta la successiva peda­ gogia umanistica. A lui si ispira s. → Girola­ mo nella sua Lettera a Leta sull’educazione della figliola Paola. In particolare costitui­ sce un punto di riferimento privilegiato de­ gli Umanisti rinascimentali nel loro ritorno alla classicità. Sulla sua Institutio oratoria si basa soprattutto → Guarino Guarini nella sua organizzazione della scuola umanistica del ’400. Bibl: a) Fonti: Q., Institutio oratoria. Ediz. con testo a fronte a cura di A. Pennacini, Torino, Ei­ naudi Gallimard, 2001, 2 voll. b) Studi: Cerruti F., Una trilogia pedagogica ossia Q., Vittorino da Feltre e don Bosco, Roma, Scuola Tip. Salesiana, 1908; Gerini G. B., Le dottrine pedagogiche di Cicerone, Seneca, Q., Torino, Paravia, 1914; Cousin J., Études sur Quintilien, 2 voll., Paris, 1936; Bianca G., La pedagogia di Q., Padova, CEDAM, 1963; Galino M. Á., Historia de la educación. Edades antigua y media, Madrid, Gredos, 1988.

M. Simoncelli

R RABANO MAURO → Medioevo

stamento, educazione fisica (equitazione, corsa, nuoto, scherma), sto­ria e medicina gr., lat. e araba.

RABELAIS François

2. La pedagogia di R. era sostenuta dai gran­ di pedagogisti del suo tempo e dai me­todi in­ tuitivi che essi preconizzavano. La sua abba­ zia di Thélème, simbolo dell’uto­pia di R., che aveva come motto «Fai ciò che vuoi», prelu­ deva ai principi naturalisti­ci di → Rousseau. Eudemone, protagonista ideale dell’opera di R., educato secondo i suoi principi pedago­ gici, sa pensare con giudizio e parlare con buon senso; non è superbo, ma è sicuro del­ le sue idee e del suo modo di agire. Quando Gargantua lo conosce, si rende conto di non aver impa­rato a parlare e piange disperato, copren­dosi il volto con il cappello: il tempo im­piegato per la sua educazione era stato inu­tile e doveva cominciare di nuovo.

n. a Chinon nel 1494 - m. a Parigi nel 1553, umanista francese e critico dei costumi del suo tempo. 1. Ammiratore di → Erasmo, fa parte della generazione di umanisti come Agrippa, → Vi­ ves e Budé, che tentano di fissare le basi per l’educazione dell’uomo nuovo. La sua origi­ nalità brilla nel suo stile esilarante e sarcasti­ co. R. utilizza la lingua popolare dei chierici erranti del basso → Medioevo. At­t raverso i giganti protagonisti della sua fa­mosa opera Gargantua e Pantagruel (1533-1564) ridico­ lizza l’educazione medievale impartita nelle scuole e nelle università. Gargantua fu edu­ cato da un famoso sofista della Sorbona chia­ mato Thubal Holofernes, che gli fece appren­ dere il Donato, il Faceto e l’Alanus in parabolis, fino ai tre­dici anni. Con questi studi Gargantua di­venne ogni giorno più pedante e vanitoso, cosa che non passò inosservata a suo padre. Quella educazione ottundeva la gioventù e non era utile all’apprendimento; la solu­zione era cambiare sistema e iniziare la rieducazione di suo figlio. Il nuovo mae­ stro Ponocrate gli fece un lavaggio del cer­ vello per eliminare le conoscenze apprese in pre­cedenza. Il suo programma era quello so­stenuto da tutti gli umanisti del tempo: gr., lat., ebreo e arabo, → arti liberali (lasciando da parte l’astrologia), studio dell’Antico Te-

Bibl.: a) Fonti:, Oeuvres complètes, par M. Hu­ chon, Paris, Gallimard, 2002. b) Studi: Giraldi A., R. e l’educazione del principe, Milano, APE, 1954; Leonarduzzi A., F.R. e la sua pro­spettiva pedagogica, Trieste, Tip. Moderna, 1966; Cooper R., R. et l’Italie, Genève, Droz, 1991; Bajtin M., La cultura en la Edad Media y en el Renacimiento: el contexto de F.R., Madrid, Alianza, 2005.

B. Delgado

RACCONTO → Narrazione RADIO → Insegnamento a distanza → Mass Me­ dia RAGAZZI → Preadolescenza RAGAZZI DELLA STRADA → Educativa di strada → Emarginazione

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RAGIONAMENTO

RAGIONAMENTO Se un tempo il r. umano è stato ordinaria­ mente campo di indagine della riflessione filosofica oggi è diventato anche oggetto di studio della ricerca psico-pedagogica inte­ ressata a scoprire le modalità concrete e le strategie per migliorare le potenzialità sog­ gettive del r. 1. Il r. sillogistico. Sebbene la capacità di r. sia molto complessa, variegata ed estesa, la ricerca si è focalizzata spesso sul r. sillogi­ stico perché permette un esame più con­ trollato delle capacità razionali dell’uomo. Il sillogismo è un r. che si compone di due premesse ed una conclusione e si è soliti evidenziare la distinzione esistente tra r. in­ duttivo e deduttiv