Divoratori di celluloide: 50 anni di memorie cinematografiche e non

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Divoratori di celluloide: 50 anni di memorie cinematografiche e non

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RICCARDO FREDA

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50 ANNI DI MEMORIE CINEMATOGRAFICHE E NON

EMME EDIZIONI

La collana H Formichiere è diretta da Stefano latini.

© Copyright 1981 by Edizioni il Formichiere sjr.l. Pubblicato in Italia da Emme Edizioni S.p.A., Milano tutti i diritti riservati Copertina di Gino Napoli

SOMMARIO

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Omaggio a Riccardo Freda di Goffredo Foli e Patri zia Pistagnesi Premessa 1. Gli anni del Duce 2. A Napoli con Longanesi 3. Ritorno al ciak 4. Cos’è il cinema 5. Animali e attori 6. Produttori, registi e altri... 7. Per finire 8. Filmografia

OMAGGIO A RICCARDO FREDA di Goffredo Fofi e Patrìzia Pistagnesi

Vedendo alcuni vecchi film di Riccardo Freda, viene spesso da chiedersi cosa un regista come lui avrebbe potuto darci in un contesto industriale diverso, per esempio nella Hol­ lywood dei grandi studios, sorretto da una organizzazio­ ne produttiva adeguata. Troppo spesso, infatti, la sua mae­ stria ha dovuto adattarsi a condizioni finanziarie e tecni­ che insufficienti o miserrime e a copioni approssimativi, ed è stato probabilmente quando almeno uno di questi due elementi (il denaro o la sceneggiatura) non era carente che egli ha saputo dare il meglio di sé. Ma contro un terzo e più insidioso elemento egli ha do­ vuto lottare: la sordità della critica alla sua opera, e quel particolare tipo di conformismo estetico che non ha sa­ puto riconoscere un talento che non si piegava alle mode. Tra tutti i registi degli anni Quaranta, soltanto Freda, for­ se, non ha flirtato in nessun momento con il neorealismo — arroccandosi, forte dapprima del successo di pubblico e poi soltanto di una sdegnosa coerenza, in un isolamento sofferto. Il rifiuto degli accomodamenti estetici cui si pie­ gavano tanti registi della sua generazione o della prece­ dente, il rifiuto delle nuove poetiche e delle nuove ten­ denze, gli hanno imposto un costo ben grande, colmato solo in parte da tardivi riconoscimenti francesi; e sempre più difficile gli è stato, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, mantenere una coerenza e un controllo su ope­ razioni accettate di necessità, risolte con la serenità di un VII

grande mestiere, ma più raramente partecipate, appassio­ nate. D'altronde, si ha l'impressione che alla metà degli anni Cinquanta, con due film del ’56 all'apparenza diver­ sissimi tra loro — Beatrice Cenci e I vampiri — qualco­ sa muti nell'atteggiamento stesso di Freda di fronte alla vita, che sembra farsi più disincantato, meno battagliero, più nevrotico e ossessivo. Il gusto di Freda per il cinema « eroico » non è stato soli­ tario, nel cinema italiano. Sulla base di una ricca tradizio­ ne di letteratura popolare, o di letteratura europea alta che aveva voluto essere popolare ed era riuscita a esserlo, e in cui si incontravano Dostoevskij e Sue, Hugo e Dumas, Scott e Bulwer-Lytton, Manzoni e Cantù, Tolstoj e Wasser­ mann, la Beatrice Cenci di Stendhal e quella di Guerraz­ zi, le Pia de' Tolomei di Dante e quella del Sensini, il conte Ugolino di Dante e quello del Bonelli, avevano di preferenza lavorato i registi italiani del muto, e negli anni Trenta soprattutto il pur eclettico Blasetti. A questa tra­ dizione — cosi viva ancora nella cultura popolare italia­ na perlomeno fino alla prima metà degli anni Cinquanta (le date < quadrano », dunque) — si rifarà Freda, con un gusto preciso per quelle strutture narrative e per quegli eroi, per quegli ambienti e per quelle azioni. Da Don Ce* sare di Balzan (al cui soggetto tornerà nel *62 per Le sette spade del vendicatore) di Dumanois e Dennery ad Aquila nera, dal Dubrovsky di PuHcin, da I Miserabili di Victor Hugo al Cavaliere misterioso da Casanova, dal Conte Ugo­ lino di Dante-Bonelli alla Beatrice Cenci, dal dumasiano Figlio di D’Artagnan allo Spartaco derivato — ma pur­ troppo avvilito dalla censura — dal « romanzane » di Giovagnoli, la fonte maggiore dell’ispirazione di Freda è quel­ la di una cultura su cui, sinora, solo Gramsci ha saputo scrivere pagine d'analisi convincente. Ma a fianco vi sta — ed è qui l'interesse e lo scatto spet­ tacolare di quest'opera — la lezione del cinema america­ no, da nessuno assorbita cosi bene come da Freda e cosi bene « trapiantata ». Bene, e con originalità. Il gusto di Freda per le scenografie vaste ed esatte, nel cui interno si muove con agili ed essenziali movimenti di macchina a scoprirle partendo dal personaggio; per il particolare, spes­ so inatteso, rivelatore; per la tensione tra la progressiva definizione del carattere dell’eroe e la latente minacciosità delle situazioni, che s’invera e sospende in splendidi vni

momenti di pericolo reale, quando l'eroe si confronta con la concreta possibilità della propria sconfitta e morte; per lo sfociare di piani lunghi e distesi, lunghe e distese se­ quenze, in improvvisi momenti risolutivi dove il montaggio velocemente equilibra e scioglie le attese; per l’uso ardito di uno spazio che è, soprattutto, luce — Freda dà al cine­ ma d’azione un movimento tutto suo, atto a sorreggerne la drammatica corposità degli accadimenti. Brani di straordinaria intensità esaltano allora il film (ho in mente, tra tanti, l’inseguimento sulla neve nel finale del Cavaliere misterioso), che bensì sono parte necessaria di un tutto, mentre altrove e più tardi, nei film successivi al ’57 e con l’eccezione di L’orribile segreto, Lo spettro e quel Roger-la*Honte che si avvale di una intelligente sce­ neggiatura di Jean-Louis Bory e che riporta Freda al me­ glio delle sue capacità d’uso del romanzo ottocentesco, si tratterà di rigorosi brani a sé stanti, in un tutto incerto, incontrollabile per le carenze di mezzi o per la povertà delle sceneggiature o per la minore congenialità dei generi (penso al poliziesco). Si direbbe però che in quest’ultimo Freda, i vantaggi del colore, che egli arriva a usare come elemento drammatico e narrativo sostitutivo d’altre pez­ ze d’appoggio, vadano a volte a discapito del movimento, della precisione dei movimenti. In questo periodo si ha l’impressione che anche Freda sia cambiato. La consonanza con un pubblico in cui ricono­ scersi sembra essersi incrinata, e il percorso del regista farsi più individuale e nevrotico. La sofferta innocenza di certe sue creature (Cosetta e Fantina, l’Elisabetta del Ca­ valiere misterioso, le eroine di La leggenda del Piave e di Spartaco, Beatrice Cenci, certi bambini e bambine travolti da destini drammatici e, in genere, preferibilmente teneri personaggi femminili contrapposti ad altre figure di don­ ne altere, bellissime, con un sospetto di sadismo), l’inte­ gra solarità di certi eroi lasciano il posto a una visione più nera e più ambigua. Beatrice Cenci chiude, a mio parere, un periodo e ne apre un altro, consacrato immediatamente da quel film strano, surreale nel senso in cui i surrealisti definivano tale il Judex di Feuillade, che è I vampiri. Beatrice è l’ultima eroina innocente di Freda, circondata da oscure e morbose passioni, ed è come se anche del suo sangue, nella vo­ lontà terribile di non cedere al tempo e alla vecchiaia, si nutrisse la stupenda Gianna Maria Canale dei Vampiri, IX

mai altrove altrettanto bella e ieratica. Ritroveremo que­ st*ossessione di giovinezza nei Giganti della Tessaglia, que­ sta paura della morte nei due film con Barbara Steele, e perfino Giulietta e Romeo, nell’incerto film omonimo, per­ fino « le due orfanelle » ne sono immediatamente toccati. Nel suo libero ricorso a un leggendario che si muove nel tempo e nello spazio con una eclettica agilità, è esempla­ re che il Maciste di Maciste all’inferno diventi in qualche modo anch’egli, imprevedibilmente, una sorta di eroe nor­ dico, la cui impresa parte da una Scozia di streghe e pau­ re e scende nelle profondità della terra e dei miti. Un certo sadismo si fa strada, in un gioco di eros-thanatos intrecciato e morboso. La forza di L’orribile segreto del dottor Hichcock e di Lo spettro, film controllatissimi e sa­ pienti, sta nella loro claustrofobica e ristretta scenografia, nell’impasto sontuoso e cupo dei colori, ma soprattutto, per il primo, nella precisione analitica della descrizione di una perversione concreta, la necrofilia, e, nel secondo, nel­ la concretezza di un « a porte chiuse », di un gioco al massacro di quattro personaggi, dove il mistero si rivela beffa macabra, ma pienamente terrestre. Per Freda, ormai, i mostri sono tra noi, siamo noi, dominati dalle ambizio­ ni e dalle paure.

Qualcuno ha parlato del cinismo di Freda, riferendosi so­ prattutto al suo secondo periodo. Altri potrà parlare, leg­ gendo queste memorie e queste riflessioni, anche di un cer­ to cinismo del regista di fronte alla politica. Credo tutta­ via che, se di questo si tratta, esso sia di segno molto di­ verso per gli anni Quaranta e i primi Cinquanta rispetto agli anni successivi. Il primo è il prodotto di un’epoca e di una cultura particolari, quell’epoca e quella cultura che, di fronte a un regime non privo di aspetti risibili oltre che tragici, ha prodotto i Longanesi e i Malaparte — non a caso « personaggi » diretti di queste memorie (si veda, per capirne di più, l’ottima biografia di Malaparte pub­ blicata di recente da Giordano Bruno Guerri presso Bom­ piani e, per un utile, divertente raffronto con le memorie napoletane di Freda, il diario dello stesso periodo e degli stessi avvenimenti tenuto da Leo Longanesi, pubblicato dalla sua casa editrice nel ’19 col titolo Parliamo dell’ele­ fante, che si conclude con un’illuminante autodefinizione dello scrittore: « conservatore in un paese in cui non c’è nulla da conservare! »). X

Ma Longanesi e Malaparte erano abilissimi ed emeriti tra­ sformisti, e Freda non lo è mai stato. Impressiona, anzi, la sua coerenza di regista e di uomo, pur all’interno di una visione di ironico scetticismo sulle vicende della sto­ ria e della politica che ha certo qualcosa in comune con la visione di un Longanesi. Se dunque di cinismo si può par­ lare, esso concerne il cinema di Freda, e soltanto quello del secondo periodo, ed esso deriva dalla amarezza di un’esperienza divenuta vieppiù solitaria, dal confronto di­ retto e frustrante con un sistema del cinema che, invece di consolidarsi e sfociare in una più serena organizzazione produttiva, è degenerato fino al caos attuale. Deriva an­ che, io credo, dalle prevenzioni estetiche e ideologiche di una critica o settariamente chiusa all’esaltazione dei cosid­ detti « grandi », che più pretenziosi erano e più erano sti­ mati tali, o di disordinata superficialità e banalità « da quo­ tidiano ». L’omaggio che oggi da più parti viene reso a Freda, « auto­ re» a pieno titolo, e certo tra i più interessanti nella sto­ ria del nostro cinema, giunge tardivo, ma è sicuramente tra i più meritati e giustificati che, guardando a ritroso, sia possibile fare. Il cinema italiano sopravvive malamente a se stesso, non ha forse un futuro, ma ha senz’altro un passato, che solo da pochi anni si è cominciato a studiare con occhi più attenti e più esperti. Di questo passato, Fre­ da è una personalità di grande rilievo ma, è l’augurio che gli estimatori di Freda si fanno e gli fanno, il suo dovreb­ be poter essere un nome ancora importante per il presente e futuro. È scandaloso che la TV italiana non abbia realiz­ zato il suo progetto di riduzione da un romanzo che gli è congeniale (e che è tra i più belli della letteratura det­ ta popolare), Z’Ascanio di Dumas, mentre produce i più ignobili e vacui e antispettacolari degli sceneggiati. Freda può dare ancora molto al nostro cinema, ed è doveroso e importante metterlo in condizione di poter dare. Goffredo Fofi

L’anno appena trascorso ha visto il ritorno al cinema di Freda. Si tratta di uno di quei rarissimi casi in cui, senza togliere nulla alla volontà e alla costanza dell’autore, Pat­ teggiamento rumoroso e giustamente settario di una parte della critica, quella meno compromessa con gli establisheXI

ment della pseudocultura di massa, si può alla fine ricono­ scere in un risultato concreto, un film. Questo horror dal colore giallo che è Murder Obsession, si presenta come un evento strano, anomalo nel panorama ag­ ghiacciante della filmografia nazionale, segnata dalla dege­ nerazione della commedia all’italiana e dalle deludentissi­ me prove dei cosiddetti autori, i famosi « registi che fini­ scono in i ». Il cinema di genere, malgrado gli abruzzesiani tentativi di nobilitare comicacci e gallinone varie, unico supporto di un’industria seria, oggi in Italia non c’è: e i li­ stini megagalattici della televisione italiana non lasciano spazio a un impegno nella produzione media. E si che una bella serie diretta da Freda qualche regola elementare di mise en scène e di ritmo l’avrebbe messa in testa anche ai nostri registi di sceneggiati... Cosi, anche quest’ultimo film del nostro ha un destino incerto, pubblicitariamente e distributivamente parlando. Forse è l’immaginario della paura che non va piti di moda, malgrado i tentativi di papa Wojtila di popolare il nostro mondo contemporaneo di in­ ferni, demoni e castighi. In questa quotidianizzazione dell’effettaccio che è la socie­ tà di massa, stupida, permissiva, oscenamente rivelatoria, e priva di mistero come una sgualdrina a gambe aperte, si è perso l’amore del Simbolico come esperienza dell’Altro. Esperienza del resto tutta terrestre, legata, al cinema come nella vita, al linguaggio, alla finzione, alla messa in scena, intesa come la situazione obbligata, senza scampo in cui si viene a trovare il Soggetto. Il Soggetto che non può fare che quella cosa, che non può reagire che in un modo, que­ sta è la figura del cinema di Freda. Non solo il perverso, più spesso la perversa, dei suoi film dell’orrore, ma anche gli eroi efo le vittime dei mitologici e degli avventurosi: sia Maciste che Jean Valjean sono retti da un Destino che li costringe, calato nel meccanismo perfetto della narrazione cinematografica. La figura del perverso, cara all’immaginario dell’horror freudiano, necrofili, feticisti o ninfomani che siano, sfug­ ge, nella sua irriducibilità, all’onniveggenza e all’onniscien­ za dell’io tecnologo, ancora oggi mito imperante della cul­ tura di massa, malgrado le forti spinte teoriche contrarie: « La modernità, rispetto alla perversione, è molto timida; spesso si contenta di legalizzarla. Legalizzare la perversio­ ne o tentare di farlo, poiché bisogna ben contare sui per-: versi affinché la cosa non sia poi cosi facile! Legalizzare la XII

perversione è dunque un modo di ignorare la domanda che essa pone alla legge umana. È un modo di passare sullo scandalo che la perversione ha potuto costituire in altre epoche che non la nostra». Cosi, a proposito dei tempi moderni, si esprimeva felicemente durante una recente con­ ferenza romana lo psicanalista francese Eric Laurent. In quel cinema vengono dunque a essere privilegiati i nodi della significazione: momenti ridondanti che contengono l’annuncio di ciò che si deve compiere, occhi spalancati, quelli indimenticabili di Barbara Steele, passi che si avvi­ cinano, luci che si spengono, incendi che si accendono im­ provvisi. Nel cinema dell’orrore contemporaneo, se si può ancora chiamare cosi, del resto abbondantemente marginalizzato dal mercato, da Dario Argento ai kings of the Bs americani, quelle inquadrature-chiave vengono sostituite dalle immagini-chiave: non piò significanti o simulacri, ma solo accozzaglia di elementi piò o meno repellenti, formi­ che e teste mozzate, sangue ed escrementi, in una specularità piatta e idiota della violenza degli stimoli della socie­ tà dello spettacolo. Si produce cosi, fra vita e spettacolo, un perfetto assordamento e accecamento dei sensi e del senso. Proprio in Murder Obsession, dove il discorso sul ci­ nema e sul suo genere prediletto è insolitamente esplicito, Freda mette in scena questa de-generazione, affidando a una fotografia da cui * si vede tutto » parte della soluzio­ ne del mistero. Tranne nei Maciste, dove i mostri hanno una realtà mito­ logica, Freda non ha mai frequentato troppo i mostri. In un mondo in cui l’orrore è terreno, il mostro è eccentrico. Stando sempre il mostro al posto di qualche altra cosa, Freda preferisce trattare subito dell’altra cosa. In questo si avvicina a Hitchcock, che ostentava lo stesso disprezzo per i mostri e per quel tanto di soprannaturale che permane anche negli esempi di simbolizzazione piò perfetta, da King Kong all’Elephant Man. Come Hitchcock, è nella famiglia, luogo privilegiato della Norma, che si sviluppa il terrore, tanto piò sconvolgente perché proviene, altro, dal nostro simile. Piu radicalmente è nella coppia, l’uomo e la donna, e nella madre che si sviluppano le perversioni piò spaventose, tragiche, dante­ sche. « Il terrore è sessuale », ha detto Barbara Steele in una recente intervista in televisione, e nel chiuso delle espe­ rienze erotiche fondamentali, come nell’albergo di Shining. nasce la follia. La donna è matrigna per definizione nel­ xin

l’immaginario misogino di Freda, perché non mantiene le promesse prenatali e costringe l’uomo adulto a cercare in mille modi lo stato di soddisfazione perduto, conducendo questo gioco di promessa e inganno fino alle estreme con­ seguenze: i vampiri, come nell’omonimo film, sono in real­ tà donne vecchie e orribili che si servono del sangue altrui per apparire belle e giovani. La pietà michelangiolesca su cui si chiude Murder Obsession è una composizione infer­ nale: nell’armonia rinascimentale, come sempre cara al Fre­ da pittore e scultore, e nell’immagine più rassicurante, la madre con il figlio, come nella bellezza delle sue interpreti, prosperano le mostruosità terrene. Quando non è mediato dalla letteratura o dal mito, l’uni­ verso di Freda è profondamente pessimista: nel suo af­ fresco della perversione non c’è spazio per la cura e la gua­ rigione. L’odissea hitchcockiana del nevrotico è più felice perché si risolve nell’acquisizione di una Legge che per­ mette di superare la sofferenza edipica. Gli uomini e le donne di Freda, invece, eterni adolescenti, sono costretti a cercare una soddisfazione immaginaria ripetendo sempre lo stesso peccato: unico mezzo che hanno di sfuggire alle for­ me della mancanza che li minacciano: povertà, solitudine, vecchiaia, bruttezza, morte e perdita dell’amore.

Patrizia Pistagnesi

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Ringraziamo per la loro collaborazione l’Officina Film Club di Roma, il Centro Sperimentale di Cinematografia e la Ci­ neteca Nazionale, i signori Franco Mariotti, Lorenzo Pellizzari e Angelo Pennoni per Valuto offerto e per la ricerca iconografica; Simon Mizrahi e Giancarlo Bertolino che ci hanno fornito dati per la filmografia.

PREMESSA

La regia cinematografica è il mestiere degli imbecilli... e se ve lo dico io!

Malgrado cerchi di scacciarle, sono sempre di cinematografo le pazze memorie che affollano le mie notti agghiac­ cianti... Stavo discendendo via Veneto verso piazza Barberini quan­ do all’altezza di un fioraio, più o meno presso l’Albergo Ambasciatori, scorsi una ragazza che stava acquistando una rosa, una sola, scarlatta. La ragazza si volse e i nostri occhi si incontrarono. Era gio­ vanissima bella e dolce. Si accorse dell’ammirazione immediata che provavo per lei e sorrise impercettibilmente. Poi cominciò a risalire la stra­ da verso l’alto. Io, come facevo sempre quando incontravo una bella don­ na, cominciai a seguirla anche se una inguaribile timidez­ za mi impediva il più delle volte di « abbordare » le donne. Stavo a pochi passi di lei. Al semaforo si girò per un atti­ mo sempre con lo stesso sorriso un po’ leonardesco: era un invito? una semplice civetteria? una constatazione com­ piaciuta?... chissà. Attraversò la strada e dopo qualche me­ tro sull’altro marciapiede, quello dell’Hòtel Excelsior, si in­ filò in un portone dove è situata una pensione. Indugiai ancora qualche istante poi tomai sui miei passi. Il giorno dopo lessi che poco dopo la ragazza, salita alla pensione, aveva aperto la finestra e sempre con la sua rosa 3

stretta nel pugno si era gettata nel vuoto andando a sfra­ cellarsi nel cortile. Un noto regista le aveva promesso una parte e poi, « otte­ nuto » il suo scopo, si era rimangiato la parola. Un rimorso sottile, gelido come la lama di un pugnale, si insinuò in me per molto tempo. Se le avessi rivolto la parola se l’avessi distratta, se an­ ch’io le avessi promesso del lavoro, mantenendo poi come sempre ho fatto la mia parola, forse quella splendida dolce ragazza non sarebbe morta in quel buio cortile con una rosa ormai non piu tanto spavaldamente rossa in mezzo a tanto sangue.

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L_____________________ GLI ANNI DEL DUCE

Tutti i bambini e le bambine hanno sognato prima o poi di fare del cinema. Questo è stato vero anche nel mio caso. Devo questa vocazione a mia madre. Era fanatica di cine­ ma, ed è grazie a lei che ho visto, sin dall’età di cinque anni, quasi tutti i film importanti e quasi dagli inizi del cinema, da prima della Grande guerra. Mi trascinava al cinema con sé, in Egitto, tutti i giorni. Entravamo in ima sala, ne uscivamo, entravamo in un’altra. Certamente, se­ condo i dettami della psicanalisi, questo mi ha dato il de­ siderio di riprodurre i film che vedevo, senza un’idea pre­ cisa di come farlo. Un’altra ragione del mio interesse per il cinema è stata l’im­ pressione che, sempre in Egitto, ho avuto dalla folla degli spettatori. Le sale — una volta, e dubito che sia cosi ancora oggi — erano divise in tre parti. Nella prima classe c’era la borghesia, come sui treni; in mezzo c’erano gli europei, la gente di un livello di vita diciamo operaio; poi, oltre una balaustra di legno, c’erano gli arabi. E gli arabi erano lo spettacolo nello spettacolo. A impressionarmi era il loro grado di partecipazione al film. Quando, per esempio, il cattivo faceva qualcosa a danno dell'eroe, si sollevava una confusione incredibile, grida, urla per mettere l’eroe sul­ l’avviso: « Attenzione, sta arrivando, è dietro di te, dietro la porta, sta’ attento, imbecille, che ti prende alle spalle! » Se per caso, prima dell’happy end, il cattivo riusciva a col­ 5

pire l’eroe, allora molti si precipitavano sotto lo schermo, ci sputavano sopra, mostravano i pugni al cattivo. Tutto questo, visto evidentemente dagli occhi di un bambi­ no, ha fatto nascere in me il desiderio di fare dei film che appassionassero la folla. Non mi interessano i film freddi, i film letterari, i film privi di partecipazione, i film, insom­ ma, che non tengono conto della folla. Quelli che ho vo­ luto fare sono film ai quali la folla partecipi, film capaci di entusiasmarla. Questo è stato il primo seme di una voca­ zione. Poi c'è stata la guerra, ci siamo trasferiti a Milano, e mia madre continuava ad accompagnarmi al cinema tutti i gior­ ni. Ero appassionato del cinema in generale, non perdevo un film, e quelli che più mi piacevano erano i film d’avven­ tura, di fantasia: Douglas Fairbanks, Valentino, i western... Film come Don Cesare di Bazan e L’aquila nera, che più tardi dovevo rifare, li ho visti, chissà, quindici o venti volte. Tutti i giorni, in prima fila, ero li appena il cinema apriva, ci restavo fino a sera, e quasi dovevano cacciarmi via. Oggi ancora ricordo di quei film sequenze intere.

Ci fu in Germania una corrente cinematografica che certa­ mente piò mi ha influenzato: la serie dei vampiri, e poi l’espressionismo, Nosferatu, il Golem, il film di Dreyer, tutti film di genere fantastico. £ un luogo comune dire che i film lasciano un'impronta sul bambino che li vede, ma certa­ mente su me hanno fatto grande impressione: non mi face­ vano paura, mi piacevano. In Italia c’erano soltanto film « spaventosi », certamente molto ingenui, con un sopran­ naturale un po’ a buon mercato, alla Carolina Invernizio. Il cinema italiano non si era mai avventurato sulla strada del soprannaturale, non aveva mai tentato un Faust di Murnau, di cui ho ancora un ricordo nitidissimo... un film fa­ voloso. Registi della forza di Murnau noi non ce li sogna­ vamo nemmeno. Tra i migliori, come Camerini o Gallone, con tutto il rispetto per loro, e un Murnau c’era qualche secolo di forza espressiva. Neanche Fritz Lang ha mai fatto del fantastico nel senso in cui ne parlo, ha fatto Metropolis, ma era già fantascienza: parlo invece del fantastico, di quel mondo che aleggia nel soprannaturale, tra i fantasmi e gli spettri... Chissà per quali strane « analogie » il termine film western mi richiama spesso alla memoria un cinematografo di Mi­ fi

lano ora scomparso. Si chiamava paradossalmente Silenzio­ so — forse a causa del cinema muto — e si trovava di fronte all’attuale Odeon. Al termine di un lungo cortilebudello si entrava nella « sala », che era un grande stan­ zone rettangolare con scomodi sedili in legno e all’estremità uno schermo di dubbio candore, ai piedi del quale era col­ locato un pianoforte verticale. Al Silenzioso si davano nor­ malmente film western o avventurosi, che avevano una loro affezionata clientela. Al Silenzioso, come in una specie di ghetto, si davano anche le comiche di Chariot, allora total­ mente ignorato dalla critica ufficiale. Il pubblico seguiva con interesse morboso sia le vicende avventurose sia quelle comiche e non tollerava di essere disturbato o distratto nella sua concentrazione visiva. Ma anche il pianista aveva le sue esigenze, tra le altre quella di rispettare l’impegno nei confronti dell’impresario della sala, per cui pretendeva di commentare con il suo piano i film in programma. Ma ogni qualvolta azzardava un ac­ cordo, dapprima sommesso poi seguito da altri piu so­ nori, magari conditi con qualche tremolo, il pubblico in­ sorgeva inferocito urlando minacce e costringendo il mal­ capitato ad arrestarsi, per poi, a distanza di molti minuti, provare nuovamente ma senza successo i suoi tentativi in­ terpretativi, e cosi fino alla fine della pellicola. In un certo senso questo confermerebbe la mia tesi che quando l’im­ magine prevale e prevarica essa assorbe e suggestiona to­ talmente lo spettatore, che è disturbato da qualsiasi intru­ sione esterna, anche di natura musicale!

A proposito del pianista del Silenzioso, ricordo alcuni espe­ rimenti di sonoro ante litteram. Il primo riguarda il famoso film americano La grande pa­ rata, sulla prima guerra mondiale. Per ottenere qualche effetto suggestivo, i proprietari del Dal Verme a Milano installarono nella fossa dell’orchestra alcuni grossi motori a nafta che venivano messi in azione nella famosa scena della ragazza (Renée Adorée) che insegue l’innamorato (John Gilbert), che è a bordo di uno dei camion. Il frago­ re dei motori scuoteva la sala nelle sue fondamenta, men­ tre i miasmi degli scappamenti appestavano gli spettatori, ma un certo effetto era raggiunto. Intanto al pianista o alla sparuta orchestrina erano già stati sostituiti dei dischi a 78 giri con un effetto molto piò sug­ gestivo. Era necessario però una specie di arrangiatore per 7

tali commenti. A Napoli, chissà per quali vie, l’impresario aveva messo le mani su Vittorio Metz, il famoso umorista. Questi, da uomo intelligente, sapeva « concertare » dei commenti veramente efficaci, affidandosi naturalmente solo alla conoscenza dei classici, accompagnata da una ignoran­ za assoluta del significato specifico delle crome e delle bi­ scrome. Era stato battezzato « il maestro Metz ». Un giorno l’impre­ sario gli andò incontro trionfante e gli comunicò che, per l’indomani sera, aveva preparato una grande sorpresa per il « maestro »: invece dei dischi gli metteva a disposizione un’autentica orchestra di trenta elementi, con la quale il « maestro » avrebbe potuto mettere in luce tutto il suo ta­ lento. Metz si senti mancare: era il crollo, e la fine soprattutto di uno stipendio. E l’indomani mattina il « maestro », con aria di circo­ stanza e con un braccio al collo — il destro, naturalmen­ te — si presentò all’impresario dicendogli di essere cascato per le scale. Potè cosi per qualche tempo ancora sopravvi­ vere grazie ai dischi!

Finito il liceo mi ero dato, come romanticamente allora si diceva, alla scultura. Ero entrato nello studio dello scul­ tore Prendoni, un simpatico e scanzonato artista sui cinquant’anni, della cosiddetta « scuola lombarda » di cui oggi si è persa ogni traccia. Non si può dire che m’insegnasse granché, preso com’era mattina e sera dallo studio di mi­ rabolanti sistemi per vincere alla roulette. Né io d’altra parte sollecitavo particolarmente la sua dottrina, in quanto sentivo, sia pure confusamente, una grande attrazione per il cosiddetto « Novecento », movimento che invece suscitava nel Prendoni la più profonda avversione. Scambiavo le mie idee con Fiorenzo Tornea, che doveva poi diventare famo­ so, il quale mi incoraggiava nella mia inclinazione. Conobbi allora quella che doveva diventare la prima com­ pagna della mia vita, una ragazza molto intelligente ma dall’equilibrio psichico precario. Era pittrice, e anche di­ screta, e se non altro mi incoraggiava a non lasciarmi se­ durre dalla comodità di un buon impiego col relativo sicuro stipendio. Devo certamente a lei la rinuncia a un posto di archivista al comune di Milano che mi era stato proposto tramite una sua zia. Continuammo quindi a fare « la fa­ me » e a vivere solo dell’Arte. 8

Una sera, passando davanti alla galleria Barbaroux, gettai uno sguardo distratto alla vetrina e mi fermai come para­ lizzato. La galleria apparteneva a un intelligente tipo di gentiluo­ mo, appunto il Barbaroux, tenace e convinto assertore della cosiddetta « nuova arte ». Aveva tra l’altro creato una spe­ cie di cenacolo per giovani artisti, ai quali forniva tutto il materiale necessario e che aiutava in ogni senso, sicuro delle loro capacità. Tra questi giovani vi erano Manzu, Sassu e altri, altrettanto dotati. E scusate se è poco. Fermo davanti a quella vetrina, non riuscivo a togliere gli occhi da una grande statua in terracotta, illuminata a ef­ fetto da un piccolo proiettore collocato ad arte in alto. Era una scultura completamente diversa da tutto ciò che ero abituato a vedere e a contemplare nei musei o nelle gallerie dove passavo la più parte delle mie giornate. Emanava da una incredibile semplicità di modellato una forza di sug­ gestione profonda ed eccitante. Non mi accorsi nemmeno, rapito com’ero in quella contemplazione, che la porta a vetri della galleria che dava sulla strada si era aperta e che qualcuno mi si era accostato dicendo: « Te piase? » Senza guardarlo annuii, rimanendo fermo a contemplare la statua della Convalescente fino a che il suo autore, Arturo Mar­ tini, non mi prese gentilmente per il braccio invitandomi a entrare. Fu questo l’inizio di un’amicizia dalle radici profonde e che ancora oggi mi fa sentire tutta l’amarezza per la scom­ parsa di questo grande artista, che dovevo perdere di vista con la mia partenza per Roma e il simultaneo abbandono della scultura. Nelle sale superiori della galleria vi erano altre sue opere, tra cui La lupa, e tutte mi dettero il medesimo senso di commozione che uno prova solo alla rivelazione di un sa­ cro mistero. Alle pareti, anche le acqueforti avevano la stessa impronta di originalità. Ricordo che in uno slancio sincero Martini si offri di regalarmene qualcuna. Rifiutai, pago solo dell’amicizia che sentivo che mi stava donando. Da quella sera ci incontrammo quasi tutte le notti, o intor­ no al piccolo tavolo di una modesta trattoria o al caffè; io tacevo quasi sempre e lo ascoltavo affascinato parlare d’arte, di scultura soprattutto. Qualche volta si univa al no­ stro tavolo, timidamente, Marino Marini, la cui scultura era allora ben diversa dall’attuale, che ha ricevuto lievito da quella di Martini, anche se non lo riconoscerà mai. 9

Di solito anche Marini si limitava ad ascoltare: però tal­ volta azzardava un giudizio su qualche opera o su qual­ che artista. Allora Martini lo fulminava con un: « Ti tase..., ti de scultura non capisse gnente! » Al che Marini diven­ tava rosso tramonto e senza osar ribattere parola, sotto gli occhi di fuoco di Martini, si chinava sul suo piatto. Del resto nessuno osava tener testa a quell’indemoniato. Ne aveva già fatta l’esperienza un critico veneto che aveva osa­ to parlar male della sua prima mostra e Martini l’aveva fatto ruzzolare per tutte le scale del palazzo dove si teneva la mostra stessa. Non ho mai più incontrato nessuno che avesse una fede piu assoluta nel proprio genio, non talento, intendiamoci bene, ma Genio. Di cui del resto usava dare una strana definizione, ironizzando su quello che lui defi­ niva un certo ebetismo del suo sorriso: « Il genio », dice­ va, « cioè un genio come mi, xè per tre quarti genio e per uno un vero imbecille ». Ogni tanto Martini spariva. Sapevo poi che si faceva lette­ ralmente murare, intendo proprio con mattoni e calce, nel suo studio, lasciando solo un piccolo pertugio perché gli venisse passato del cibo che poi normalmente trascurava di mangiare. E li stava rinchiuso per giorni e giorni a lavo­ rare, e ne usciva, esausto, solo a opera compiuta. Si autoscriveva cartoline perché l’indirizzo potesse essere letto da tutti con intestazioni come: « Al più grande genio vivente Arturo Martini », o « Al grande Maestro », ecc. Ricordo an­ che che usava cosi definire il processo che preludeva nor­ malmente alla creazione di una sua scultura: « Sono come un barbiere che incomincia a insaponare una faccia. Per abitudine, inizialmente ogni movimento, come quello di intingere il pennello nel sapone e passarlo poi sulla guan­ cia del cliente, è puramente meccanico. Poi, a poco a poco, mentre la schiuma comincia ad arrotolarsi sul viso in pic­ cole onde, in riccioli capricciosi, ecco che la mano del bar­ biere comincia “a prendere gusto” al gesto e i suoi tocchi si fanno ispirati, e l’artigiano segue con gli occhi socchiusi il procedere del suo lavoro. E cosi è per lo scultore, che prima impasta la creta attorno al supporto senza convin­ zione, comprimendola schiacciandola assestandola qua e là. Poi, a poco a poco, nei rientri e nei gonfiori della materia comincia a intravedere i segni dell’opera che inconscia­ mente prende man mano forma nella sua mente. E via via, accalorandosi proprio come il barbiere, dà via libera e sfo­ go all’ispirazione ». 10

Doveva morire come « un barbone », semiassiderato in una strada di Milano senza che nessuno dubitasse, se non molto più tardi alla guardia medica, che sotto quegli stracci e quel viso stravolto dalla barba incolta si celava uno dei più grandi artisti del suo tempo. All’epoca in cui ero scultore a Milano, come tale, in com­ pagnia di mia moglie o più spesso solo, partecipavo a lun­ ghe conversazioni notturne in un ristretto cenacolo di arti­ sti alla birreria Pedavena, nei pressi della Galleria. Ci si accalorava in discussioni che vertevano quasi sempre sullo stesso punto: l'incomprensione dell'ambiente borghese nei confronti dell'arte che noi rappresentavamo, o che perlo­ meno eravamo certi di rappresentare: il cosiddetto « Nove­ cento ». Nato sulla scia degli impressionisti francesi, questo movimento era in netta antitesi con l’« arte ufficiale » del­ l’epoca, che vedeva i suoi epigoni in Piacentini per l’archi­ tettura, Maraini per la scultura e un ormai dimenticato Pa­ lanti per la pittura. Quest'ultimo, una specie di Achille Beltrame grande formato, doveva la sua fama e i suoi quat­ trini a una sistematica esaltazione pittorica dei grandi eventi del regime. Vi era insomma un'insanabile frattura tra due modi di concepire l’arte, uno dei quali, purtroppo, era quello appoggiato dal governo. Ci si accaniva sempre più nelle discussioni, che assume­ vano talvolta toni drammatici e toni epici da barricata, mentre il cerchio degli ascoltatori e dei « seguaci » conti­ nuava ad allargarsi. Fino a che si giunse alla conclusione più logica. Dato che rappresentavamo la parte più cospicua della « nuova arte », tanto valeva ufficializzare la nostra posizione costituendoci in accademia: e cosi, tra l’entusia­ smo generale, fu fondata l’Accademia di Sant’Ambrogio che comprendeva tutti, ripeto tutti, i più bei nomi dell’arte contemporanea: da Achille Funi, che ne era il presidente (io, il più giovane, ero il segretario), a Sironi, da Casorati a Tornea, da Giò Ponti a Rogers, ecc. Compilammo uno statuto e soprattutto compilammo un ma­ nifesto lungo e complesso in cui, oltre a ribadire i fini che l’Accademia si proponeva, esprimevamo ferme critiche al­ l’operato delle sfere ufficiali nel campo dell’arte quanto a organizzazione di mostre, assegnazione di premi, concorsi, ecc. Il tutto espresso in termini netti, ma senza mai oltrepassare i confini di una prudente osservazione critica. Il manifesto, 11

approvato in seduta plenaria da tutta l'Accademia, fu pub blicato la sera dal giornale « L'Ambrosiano ». La risposti non tardò. L’indomani stesso da Roma arrivò all’indirizzo dell’Ao cademia un telegramma ministeriale con queste sempli­ ci parole: « Sciogliere immediatamente Accademia ». Il pomeriggio stesso ci si riuni in un’atmosfera da Comune francese: solo che, invece di udire grida di rivolta e deci­ sioni eroiche di resistenza, fu il panico. Tutti erano lividi e sfuggivano lo sguardo l’uno dell’altro, quasi avessero rice­ vuto la piu infamante delle condanne. Pochi gli interventi, e tutti per la resa senza condizioni. Unico sereno, come un dio dell’Olimpo, Achille Funi. (Il grande pittore era lo; stesso che durante la guerra ’15-’18, quando più infuriava: la campagna disfattista, scrisse dalle trincee al pontefice d’allora una cartolina con le parole « Viva la guerra » e la sua firma per esteso.) Nella canea generale degli artisti ter­ rorizzati ricordo che uno dei più esagitati si rivolse a Funi dicendogli: « Perché, capisci... qui tra poco grandina! » e Funi, serafico, fu pronto a ribattergli: « Apriremo l’om­ brello! » Per farla breve se la squagliarono tutti. Funi ebbe la tenta­ zione di continuare da solo con me come segretario, ma poi l’inconsistenza di un’iniziativa del genere lo dissuase, e cosi l’Accademia, che aveva vissuto il tempo di un mat­ tino, si dissolse.

Una sera Edoardo Anton mi disse: « Ti porto a conoscere un personaggio straordinario ». Ci avviammo a via Margutta e lui suonò a uno degli studi. Ci apri un tipo piuttosto comune, mi pare rossiccio, che, riconosciuto Anton, ci fece entrare nello studio. Fatte le presentazioni, Anton mi spiegò che si trattava di Alceo Dossena, uno scultore che aveva sbalordito il mondo con le sue contraffazioni. Infatti, guidati dallo scultore, passammo in rassegna la più stupefacente galleria che si possa imma­ ginare: da un Donatello a un Desiderio da Settignano, da un Nicolò Pisano a un Antelami, e cosi via. Dossena era in grado di scolpire con la stessa maestria di questi grandi del passato, non copiandone le opere ma ri­ creandone lo stile e la maniera. Questo particolare talento era stato scoperto a suo tempo da alcuni disonesti intral­ lazzatori, che avevano riempito, facendosi pagare monta­ gne di dollari, le più famose gallerie del mondo, compen12

canHo Dossena con quel tanto che gli era sufficiente per tirare avanti Dossena era alla ricerca continua di « vecchi » marmi: bloc* chi mal scolpiti, antichi lavatoi, ecc., e su questi ricreava le sue opere con maestria. Quando sorgeva qualche dubbio venivano effettuate delle analisi sulla materia prima, che però risultava realmente antichissima. Stanco però di essere sfruttato, un giorno, prima della nostra visita, Dossena si decise a smascherare i disonesti mercanti. Figuratevi lo sconforto e l’imbarazzo dei vari sovrintendenti internazio* nati! Le opere erano tuttavia talmente ammirevoli che non furono distrutte e vennero conservate con la scritta « alla maniera di... ». Alla fine della nostra « passeggiata » nello studio, Dossena ci disse: « E ora vi faccio vedere come scolpisce veramen­ te Dossena ». E ci mostrò un altorilievo, se ben ricordo sul tema « La marcia su Roma ». Ebbene, quando scolpiva alla Dossena, scompariva d’incanto tutta la sua incredibile mae­ stria. Il marmo che ci mostrava con tanto orgoglio era vol­ gare e dozzinale e... scolpito male! Ci sedemmo e volle parlarmi di una sua idea cinematografi­ ca. Ricordo ancora che la storia — estremamente banale — cominciava in modo curioso e sorprendente. Un tale entra­ va in un palazzo e prendeva l’ascensore, premendo il pul­ sante dell’ultimo piano. L’ascensore saliva, ma giunto al­ l’ultimo piano non si arrestava, bensì, sfondato il tetto del palazzo, continuava la sua corsa nel cielo. Dopo qualche convenevole a lettura finita ci congedammo. La mattina dopo ricevetti una telefonata di Anton: « Sai, Riccardo... stanotte Dossena è morto! » È nel periodo in cui mi dedicavo alla scultura che rico­ minciò la mia passione per il cinema. Nel 1933 fu fondato a Roma il Centro Cinematografico Italiano, più tardi di­ ventato una specie di ministero del Cinema, e io avevo un amico che aveva scolpito le statue del Centro. Quando que­ st’amico fu chiamato a Roma a dirigerlo, mi chiamò per collaborare con lui. A partire da quel momento, non ci furono particolari dif­ ficoltà. Mi chiamarono per collaborare a sceneggiature, per fare dei montaggi. Lavorai tra l’altro per un film che si chiamava Piccoli naufraghi, partecipando alla sceneggiatu­ ra, alla regia, e perfino al montaggio. E recitando inoltre nel ruolo principale (senza occhiali!). Era il primo film 13

italiano interpretato da bambini ed ebbe un notevole suc­ cesso. Mi volevano ancora come attore, mi chiesero perfino come partner di Doris Duranti! £ in questo periodo che pensai fosse meglio abbandonare l’amministrazione e passare alla pratica.

Fu Raffaele Colamonici a introdurmi nel cinema. Ci era­ vamo incontrati al ministero della Cultura Popolare e ave­ vamo subito simpatizzato. Era un omone cordiale, estro­ verso, pronto sempre alla battuta tipo Peppino Amato e... alla fregatura. Aveva avuto una giovinezza piuttosto spregiudicata, tra­ scorsa per lo più all’estero, ed era quello che allora veniva, considerato un bello, alla Mario Bonnard per intenderci; e non avevano tardato a ingaggiarlo come attore sotto if nome di Guido di San Giusto. Una volta stava girando un film a Capri. Una delle scene doveva rappresentare ima sua « audace » arrampicata sulla parete rocciosa per una] sessantina di metri. 1 fondi a disposizione erano scarsi ei quindi c’era la necessità di risparmiare negativo. Il regista] chiamò Colamonici e gli spiegò che avrebbe filmato la sca­ lata « a sezioni »: al suo grido « Va’ », l’attore avrebbe do­ vuto issarsi per un paio di metri e non di più... per poi arrestarsi al grido « Stop! », come avrebbe fatto anche la macchina da presa. A macchina ferma Colamonici avrebbe, dovuto poi arrampicarsi per qualche metro per poi ripar-' tire al nuovo « Va’ » e riformarsi al nuovo « Stop! », natu­ ralmente insieme alla macchina da presa che si sarebbe sin­ cronizzata su di lui. Poi, nuova arrampicata a macchina; ferma, nuova ripresa, fino alla sommità. La scena fu cost girata, e un paio di giorni dopo ci fu la proiezione della stessa. Tra lo stupore generale si vide solo una lenta e piuttosto bizzarra panoramica a roccia deserta, senza che apparisse la minima traccia dell’attore. Era successo che l’operatore si era confuso in quella ridda di « Va’ » e di « Stop! » e aveva girato e panoramicato quando Colamo­ nici era fermo e nascosto, mentre non lo aveva mai ripre­ so nei suoi movimenti... Fu quindi Colamonici ad affidarmi la mia prima sceneggia­ tura, Lasciate ogni speranza, insieme a Edoardo Anton, che fu diretta da Gennaro Righelli. Costui era un regista in voga. Abitava, solo, in una stanza di un albergo del cen­ tro dove tra nuvole di fumo ci riunivamo per discutere le scene. Righelli era rimasto all’età della pietra in fatto di 14

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tecnica, ed era perciò contrario a ogni « americanata » che io ed Edoardo tentavamo di contrabbandare nelle nostre sceneggiature. Era un feroce assertore della cosiddetta « spezzettatura ». Quando pronunciò per la prima volta questa parola, noi ci guardammo perplessi, ma lui amabilmente ci spiegò. Era inconcepibile che un personaggio, dopo aver detto per esempio: « Ci troviamo... al bar! », fosse visto nella sequenza successiva in quel bar. Mica volava, per­ dio! Occorreva quindi una « spezzettatura », cioè una sce­ na intermedia con altri interpreti, per dar tempo a quel personaggio di arrivare fino al bar!

Al ministero della Cultura Popolare vi erano, come è noto, delle commissioni di censura, capeggiate ognuna da un capodivisione. Alla testa della seconda commissione vi era un prefetto del regno, un certo Binna, bravissima persona ma di vedute assai ristrette, e soprattutto nemico delle co­ siddette « grane ». Per mettersi al sicuro, Binna o bocciava o castrava tutti i film che gli passavano sotto. Ricordo il caso di Nina Petrovna, interpretato dalla superstar dell’epo­ ca, Isa Miranda. Alla fine del film la Petrovna si suici­ dava. Ora il suicidio durante il fascismo era assolutamente off limits: non si poteva accennarne sui giornali, figuria­ moci in un film! La sequenza del suicidio era cosi articolata: Nina si sede­ va a un tavolo, scriveva su un foglio « sono stanca... la vita... », ecc., apriva un cassetto dove era custodita la pi­ stola, la sua mano afferrava l’arma uscendo con la stessa di campo... e la macchina inquadrava un magnifico levrie­ ro nero, che alla detonazione balzava in aria. I produttori insorsero contro il taglio totale della scena, che avrebbe lasciato il film senza un finale, e allora il no­ stro prefetto ebbe una brillante pensata: si sarebbe tolto il dettaglio del cassetto con la pistola, per cui il pubblico avrebbe dato al finale l’interpretazione che più gli conve­ niva. La Petrovna partiva?... se ne andava?... fatti suoi! Comunque, non si suicidava. E cosi fu fatto. Ora avvenne che alla proiezione in pubblico si vedeva, dopo che Nina aveva vergato la lettera, il suo cane balzare letteralmente in aria come morso da una tarantola, facendo esplodere di risate le sale intere! Tutti si lamentavano della severità di Binna, per cui Freddi, direttore della cinematografia, gli raccomandò una maggiore longanimità. Punto sul vivo, Binna scese nella saletta dove 15

era pronta per lui la proiezione di Le due città con Ronald Colman. Detto fatto, il film viene approvato. Apriti cielol La nobiltà romana si senti insultata da quella cruda rap­ presentazione dell’aristocrazia francese e ricorse all’amico dei nobili, Galeazzo Ciano. Questi, infuriato, telefonò a Freddi e questi a Binna, che da quel giorno bocciò a occhi chiusi tutti i film, obbligando persino i distributori di un film svedese dal titolo Regina (che era la storia di una ser­ va con questo nome) a cambiare titolo, con la motivazione che « non è ammesso che una serva si chiami come la mo­ glie del Re »! Quando feci Spartaco, avevo ricavato le basi del mio film dalla storia di Tito Livio, descrivendo i romani per quello che erano e per come ce li aveva tramandati il grande sto­ rico, e cioè come corrotti bustarellari, secondo le nostre migliori tradizioni. A una settimana dall’inizio, la sceneg­ giatura fu bloccata da Nicola De Pirro con queste parole, che trovo leggendarie: « Fino a che io siederò a questo po­ sto non permetterò che si parli male dei romani » (sic!). E fui costretto, per non rovinare i produttori, ad annac­ quare tutto, per cui il film si salvò unicamente per le scene spettacolari. Molto tempo prima avevo incrociato un giorno nei cor­ ridoi del ministero Ettore Petrolini, di cui ero un acceso ammiratore. Lo avevo accompagnato per qualche passo esprimendogli la mia stima. L’attore mi aveva ascoltato sorridendo, poi si era arrestato di fronte alla porta aperta dell’ufficio di De Pirro, che aveva la testa completamente e fascisticamente calva. De Pirro sentita la nostra presen­ za si era voltato verso Petrolini. Petrolini aveva allora esclamato: « Quanto sei bello, Nico’... » Sorriso compia­ ciuto dell’altro. « Sembri un foro romano! » Questa volta De Pirro era sembrato interdetto, mentre Petrolini incal­ zava: « ...Si, perché sotto sei tutto ’na rovina! » Alla direzione musicale avevano messo, chissà come e per­ ché, un colonnello, un certo Tiby. Passati i primi mesi, questi si sentiva sempre più permeato di competenze mu­ sicali. Un giorno Pietro Mascagni dovette per ragioni am­ ministrative passare dall’ufficio di Tiby. Nel veder entrare il grande musicista nel suo ufficio, Tiby si alzò premuro­ samente e tendendo la mano esclamò: « Permetta, maestro Tiby », e Mascagni, pronto: « Colonnello Mascagni! » Ricordo anche un « giallo ». Il direttore generale del turi­ le

sino, un certo Rava, che era uno dei funzionari più ap­ prezzati. aveva raccolto le prove per incriminare due o tre maneggioni altolocati del ministero stesso. Aveva pre­ parato il dossier da portare sul tavolo del ministro e atten­ deva solo di fare la sua quotidiana iniezione prima di andarci. Fu la sua ultima iniezione! Fu trovato morto e il dossier contemporaneamente (?) sparito. Durante la mia permanenza alla direzione per la cinema­ tografia accadde un fatto che riguarda un mio caro amico scomparso, Raffaele Matarazzo. Direttore della cinematografia. Luigi Freddi era uomo di vedute abbastanza elastiche. Il « censore » vero e proprio alle sue dipendenze era allora Esodo Fratelli, pittore di un certo talento, ma uomo di vedute assai ristrette. Natural­ mente godeva nell’ambiente di scarsa stima e considera­ zione soprattutto per il modo con cui intendeva e appli­ cava « la legge ». Un giorno Oreste Biancòli, noto scrittore e giornalista del­ l’epoca portò al ministero per la lettura di rito — lettura che precedeva obbligatoriamente la concessione del nulla osta per le riprese — una sceneggiatura, consegnandola brevi manu a Freddi, di cui era amico. Questi la prese, dicendo: « Lasciala pure. Ora la dò a Fratelli ». « E per­ ché non a Camera? » ribattè Biancòli. « Perché a Came­ ra? » fu la replica stupita di Freddi. « E perché a Fra­ telli? » concluse Biancòli provocando la risata di Freddi e la promessa di una lettura diretta del copione. Matarazzo aveva consegnato alla lettura ima sceneggiatura ricavata dalla commedia dei De Filippo Sarà stato Giovan­ nino. La commedia racconta le gesta di un giovane scape­ strato, Peppino, che quando si vede colto in castagna ad­ dossa la colpa dei suoi misfatti a un innocuo parente che vive sotto lo stesso tetto, Eduardo. Produttore del film era Giuseppe Amato. Avendo avuto sentore che il copione in­ contrava sorprendenti ostacoli in sede di censura, i quattro decisero di recarsi da Fratelli. Si sedettero in fila di fronte a lui ascoltando con mal dissimulata meraviglia l’aspra re­ quisitoria del « professore » — cosi era chiamato Fra­ telli — che bollava con parole di fuoco la sostanza e i dettagli tutti della vicenda, che trovava condannabili e in ogni caso ben lontani da quell’etica fascista che egli era demandato a difendere. Un particolare lo aveva scioccato oltre ogni limite, ed era quello del giovane « depravato » 17

che sottraeva qualche spicciolo dal cassettone della madre, facendone poi ricadere la colpa come sempre sul candido Giovannino. Ciò superava ogni limite! I quattro si guardarono sbigottiti, dopo di che, ripreso fia­ to, Amato cominciò la difesa dicendo: « Io... professo'... non ci vedo nulla di strano », e poi senza dare tempo a Fratelli, soffocato dalla rabbia di interloquire, si rivolse agli altri tre: « Né, Peppi’... dimme 'a verità. Nun hai mai scippato dinare a mammeta? » Peppino sospirò sussiegoso, annuendo. « E, tu, Edua’...? » La risposta di Eduardo fu più brutale: « Ihhh... e chissà quante vote! » « E tu, Raffae’... hai da dicere ’a verità, però! » Matarazzo, che era timidissimo, superò la naturale ritrosia a parlare di certe cose, e si limitò con gesti e sospiri inequivocabili... che anche lui... eh si... purtroppo! A questo punto Amato, autointerrogandosi prosegui: « Qquanto a rame.,, nun ne parlammo propio! » Poi, a bruciapelo, investi Fratelli: « E... lei?... Professo’! » Congestionato come morso da un aspide. Fratelli dette un pugno sul tavolo alzandosi e urlò: « liiooo?... Mai! » A questo punto i quattro, neanche si fossero messi d’ac­ cordo prima, scattarono in piedi simultaneamente compren­ dendo che era come cozzare contro un muro, mentre Ama­ to concludeva: « lammuncenne, guaglio’... U professo* è troppo onesto! » e senza aggiungere altro infilarono la porta. Poi, come quasi sempre, Freddi concesse il nulla osta. Incontrai Eduardo De Filippo qualche tempo prima della realizzazione di un suo film, In campagna è caduta una stella, del quale era il regista nonché, in società col fra­ tello Peppino, il produttore. Avrei dovuto essere il suo col­ laboratore tecnico. Passai qualche tempo a Napoli per lavorare alla sceneg­ giatura, e devo dire che il lavoro procedeva con reciproca soddisfazione. I nostri rapporti si deteriorarono durante la lavorazione del film, in quanto Eduardo rifiutava osti­ natamente qualsiasi suggerimento. Eduardo mi parlava spesso dell’innata capacità espressiva di tutti i napoletani, tanto da fare di loro sempre dei perfetti attori, e sulla scena e nella vita. Ricordo ancora vari episodi che mi raccontò. Il famoso Perito, celeberrimo Pulcinella, amava continuare lo « spettacolo » anche dopo il calar del sipario. Aveva 18

in compagnia due caratteristi vecchissimi, che tutte le sere, finita la recita, si facevano accompagnare a casa da una carrozzella. Durante una recita Petito fece in modo che un piccolo manipolo di operai da lui assoldati modificas­ sero totalmente la fisionomia della strada in cui i due vecchi abitavano: spostarono tutte le insegne, cambiarono i numeri civici, ecc. A spettacolo finito, Petito, con qual­ che amico, si recò sulla strada. Ed ecco spuntare la car­ rozzella che si fermò al numero indicato dai due. Senonché né il portone né i negozi adiacenti corrispondevano in alcun modo alla loro casa. E cosi, per più di un’ora, i due malcapitati percorsero avanti e indietro la strada nell’inutile ricerca della casa, con incredibile spasso di Petito. Come è noto, Petito mori durante l’intervallo di uno spet­ tacolo. Ma il pubblico era talmente abituato ai suoi scherzi che non volle credere al letale annuncio fatto da imo dei comici della compagnia. Anzi, tutti si sbellicavano dalle risa, ancor più quando, per convincerli, il cadavere di Pe­ tito fu posto su di un tavolo sul palcoscenico, con le can­ dele accese attorno. Anche il padre di Eduardo, il famoso Scarpetta, amava recitare nella vita. Un giorno il garzone del fornaio suonò alla sua porta. Que­ sta si spalancò e, allo sguardo attonito del ragazzo, ap­ parve Scarpetta, la camicia inzuppata di sangue. Fissando il malcapitato con occhi da folle egli si mise a gridare: « L’aggio accisa!... L’aggio accisa!... » Il ragazzo, sconvolto dalla tragedia, si precipitò in strada... ma quando poco dopo un delegato di polizia si presentò in casa Scarpetta, trovò il grande attore che in vestaglia consumava la sua colazione, mentre in tutta la strada accorrevano da ogni parte vicini e curiosi.

Il mio passaggio alla regia fu in un certo senso occasio­ nale. Un giorno fui avvicinato da un amico che mi rac­ contò come dei suoi conoscenti si trovassero impegolati fino al collo in un’avventura cinematografica. Si trattava di due ricchi possidenti del Sud che erano stati trascinati nell’impresa da un certo Renato Angiolillo, che li aveva convinti a investire un po’ di denaro nella realizzazione di un Caravaggio. Come sempre, quel po’ di denaro si era trasformato in emorragia e minacciava di distruggere la florida situazione economica dei due. 19

Fui presentato ai due: un certo Francesco Curato e un certo Carbone. Simpatizzammo... Esposi le mie idee pro* duttive, chiedendo naturalmente carta bianca. Devo dire che per una strana combinazione mi ero trovato alcuni giorni prima al bar dell’Albergo Maestoso, in via Veneto, in compagnia di un simpatico gentiluomo mode­ nese, il marchese Campori, che io ignoravo fosse tra Feltro presidente della Elica Film, la società di produzione del Caravaggio. Nel bar aveva fatto il suo ingresso un certo Verga di Milano, scrittore a tempo perso, ubriacone a tem­ po pieno. Con la cordialità tipica dei bevitori ci aveva rivolto immediatamente la parola, e senza alcun invito da parte nostra aveva iniziato una furibonda e sconnessa filip­ pica contro Roma — era milanese — e il cinematografo. Scivolò rapidamente sull’argomento Caravaggio — era Fau­ tore del soggetto — e ci elencò la sequela di ruberie che, si effettuavano alle spalle dei produttori. Ci disse tra l’al­ tro che il cosiddetto « producer » intascava una percen­ tuale fìssa del dieci per cento su qualsiasi prestazione, dal soggetto all’assunzione dell’ultima comparsa. Presi in mano il timone di quella barca che faceva acqua da tutte le parti, applicai una rigorosa sorveglianza ammi-j ni st rat iva: l’effetto fu che tutti, dico tutti gli esponenti della produzione, da Angiolillo all’ultimo segretario, se nel andarono sui due piedi ritenendo insopportabile che si po-l tesse mettere in dubbio la loro onestà. Il film procedette ugualmente, fu portato a termine, ed ebbe un successo cla­ moroso. Cosi i produttori vollero che il film successiva fosse da me diretto e fu il Don Cesare di Bazan. Fui anche il produttore per la Elica Film di un film con Matarazzo regista, L’avventuriera del piano di sopra. Ero legato a Matarazzo da vincoli di amicizia e di simpatia. Era un uomo di intelligenza e di cultura superiore, troppa per poter « navigare » nel cinematografo, ma afflitto da ima timidezza morbosa, che gli impediva di esprimere compiu­ tamente sia i suoi sentimenti sia le sue idee, che ripu­ diava quasi sempre non appena le aveva espresse. Il Don Cesare fu realizzato a Tirrenia, che allora era un. feudo di Giovacchino Forzano. Ebbi pochi incontri coni lui scambiando poche parole. Del resto ero all’inizio, ei lui era l’amico di « Benito », posizione che gli conferiva prestigio e possibilità di far fronte a qualsiasi difficoltà finanziaria. Era uno dei pochi uomini che poteva prem 20

dere il telefono e chiamare direttamente palazzo Venezia. Devo dire che, per la verità, non faceva pesare affatto que­ sta sua situazione di privilegio. Rincontrai Forzano alla fine della guerra. Viaggiavo con un colonnello americano sulla sua jeep, diretto a Milano. Passando per Lucca mi venne in mente Forzano, che ave­ va una tenuta nei pressi, alla Perticata. Lo dissi al colon­ nello e questi fece la necessaria deviazione. Fu una serata allucinante. Era già buio quando giungem­ mo alla casa di Forzano. Mancava la luce. Rispose proprio lui, dopo reiterati colpi di clacson. Era smarrito, impau­ rito alla vista della jeep americana. Poi mi riconobbe e si rasserenò. Entrammo, accolti con una cordialità esage­ rata. Aveva passato molti guai, lo avevano accusato di col­ laborazionismo per la sua amicizia con Mussolini, ma in definitiva non lo avevano maltrattato troppo. Mentre parlavamo nel salotto, alzando gli occhi scorsi sul pianerottolo superiore un volto spettrale che ci fissava. Se­ guendo il mio sguardo, Forzano e il colonnello scorsero anch’essi quella figura inquietante. Ma Forzano pronto: « Non ci fate caso... gli è mia moglie... le ha dato di volta il cervello, poveretta! » La conversazione riprese con più disagio. Poco dopo lo scricchiolio del legno della scala tornò a richiamare la mia attenzione. Questa volta era il volto di un uomo, lo sguardo febbrile, che ci fissava. E For­ zano: « Non ci fate caso... gli è mio figlio... poveretto... » E fece un gesto con la mano per indicare la demenza. A questo punto il colonnello si alzò e, adducendo dei pre­ testi, disse che dovevamo riprendere il viaggio. Forzano insistè per trattenerci ma l’americano, evidentemente a di­ sagio, fu irremovibile. Giovacchino volle però mostrarci prima qualche altra cosa. Aperto un cassetto ne estrasse un voluminoso manoscritto. Si trattava di un dramma, Giulio Cesare, scritto da Mussolini di suo pugno. L’americano gli offri di parlarne a due suoi amici produttori, ma Forzano gentilmente declinò l’offerta. Anche molti anni dopo, quan­ do versava in condizioni economiche non certo brillanti, Forzano non volle mai separarsi dal manoscritto dell’ami­ co. Chissà che fine avrà fatto!

Improvvisamente il regime fascista, in un rigurgito di mo­ ralismo, indisse una crociata contro gli omosessuali. Per la verità la repressione si ridusse a ben poca cosa: pochis­ simi quelli inviati alle miniere di Carbonia in Sardegna, 21

e poche decine quelli destinati, piò che altro per fare sce­ na per i pochi curiosi, a spalare terra sugli argini del Te­ vere. Ricordo tra l'altro un noto commerciante di stoffe che, per sfottere gli « aguzzini », si presentava ogni giorno in un immacolato abito di lino bianco che costava certa­ mente più di un mese di stipendio dei sorveglianti, aven­ do cura di insozzarselo totalmente. Tuttavia, all'inizio, come succede sempre in Italia, le « retate » ebbero luogo, e secondo i severi ordini ricevuti « non si guardava in fac­ cia a nessuno! » Oh Dio, certo con alcune persone biso­ gnava usare un certo tatto nel sincerarsi della fondatezza delle accuse circa « l’attività », o nella più parte dei casi « la passività » della persona. Tra i notabili figurava il regista russo Pietro Sharoff, al­ lievo di Stanislavski] — diceva lui — che si era ben ar­ rampicato nell’ambiente certamente più per il nome esoti­ co che per un reale talento. Tuttavia, come dicono i fran­ cesi, era « qualcuno ». Il commissario di via Frattina si trovò quindi in un certo imbarazzo. Non poteva certo im­ putargli brutalmente la pederastia, bisognava prendere il discorso alla larga. E a questo punto il suo vice ebbe un lampo di genio. Al commissariato esistevano degli album di « schedati » corredati da relative fotografie, quasi sem­ pre in costume semi-adamitico. Convocato il regista Io si sarebbe fatto accomodare in un salottino al centro del qua­ le, su di un tavolo, sarebbe stato collocato il famoso al­ bum. Sharoff, lasciato solo e convenientemente spiato, dopo qualche minuto di attesa sarebbe stato inevitabilmente at­ tratto da quell’album, e lo avrebbe certamente sfogliato. Se era un « normale », lo avrebbe rapidamente scorso sen­ za interesse; altrimenti... E cosi fu fatto. Non solo il regista ne fu interessato, ma al di là di ogni previsione. Rompendo gli indugi il commissario, sorridente e cordiale, entrò nel salottino scusandosi per l’attesa e... Ma Sharoff lo troncò netto, e nella sua parlata che, mal­ grado una ormai lunga permanenza in Italia, Io faceva rassomigliare a un attore della TV quando vuole imitare la pronuncia russa, disse: « Nuo... nuo... nuo! Prima di dire cosa tu vuole... tu... commissario... duevi dare me... indirizzo di questo meraviglioso giuovanotto biondo! », e cosi dicendo puntò il dito sulla foto di un efebo, dal volto vizioso. Un altro episodio riguarda l’arredatore Pierino Stucchi, che per il suo talento era diventato l’architetto ufficiale 22

di alcune delle più alte gerarchie dello Stato, per cui era estremamente arduo contestargli un’accusa del genere. Il commissario di Capri, dove allora il nostro soggiornava, convocò lo Stucchi e iniziò una lunga perorazione costei* lata da « si dice » e « le solite carogne » e « calunnie cui sia ben chiaro io non presto la minima fede », di fronte a Stucchi, che avendo subodorato le ragioni dell’invito, si imporporava sempre di piu di rabbia aumentando il disa* gio del funzionario, che a tanto sdegno per l’accusa sen­ tiva il terreno mancargli sotto i piedi. A un certo punto Stucchi scattò in piedi, ed ergendosi orgogliosamente fissò un annichilito poliziotto che già sen­ tiva piombargli sulla testa la fatidica frase: « Ne parlerò a Ciano o a chi so io ». Ma invece, scandendo ben bene le parole, Stucchi sibilò: « Che cos’è tutto questo ridicolo sparlacchiare. Per sua norma e regola, io sono il pederasta più famoso d’Italia! » Il regista Sharoff mi richiama alla memoria, e non certo per gli stessi motivi, un altro regista: Blasetti. Viaggiava­ mo insieme in vagone letto diretti a Berlino nel ’42, invi­ tati con altri dalla cinematografia tedesca. Eravamo partiti da Roma che era già sera e perciò ci apprestammo quasi subito a dormire. Blasetti scelse la cuccetta superiore. No­ tai che prima di salire, dopo avermi dato un’occhiata fur­ tiva, aveva preso dalla tasca del cappotto un libriccino nero, e tenendolo ben nascosto era salito sulla sua cuc­ cetta. Avevo pensato si trattasse di una Bibbia o di un libro di preghiere. L’indomani mattina Blasetti moriva dalla voglia di comu­ nicarmi qualcosa, ma fingevo di non capire. Alla fine sbot­ tò e, fissandomi negli occhi, mi disse: « Sai, quel libricci­ no... hai visto, no? » Mentii spudoratamente. Lui, ponen­ domi una mano sulla spalla, disse gravemente: « Caro Fre­ da, ho scoperto un poeta con due coglioni cosi! » e lascian­ domi la spalla allargò le mani a una notevole distanza l’una dall’altra a significare la portata di quei testicoli! Francamente incuriosito chiesi: « Chi è? » E lui, scanden­ do il nome: « Dante Alighieri! » Più tardi doveva darmi un altro saggio della sua cultura « cadendo dalle nuvole » — io stavo con Giorgio Vecchietti — quando apprese che esistevano altri pittori prima di Raffaello, che lui in buo­ na fede considerava il padre della pittura italiana! Sempre di Blasetti — il suo storiografo ufficiale è il gran­ 23

de scenografo Nino Novarese — racconterò un altro epi­ sodio. Un giorno fu convocato al commissariato di zona, e in quel­ l’epoca la cosa era tutt’altro che gradevole. Poteva trattarsi di una denuncia anonima per una presunta attività antifasci­ sta e il nostro, che non è mai stato un eroe, si presentò al commissariato con l'animo in tumulto. Dopo una lunga atte­ sa, che non fece che aumentare la sua angoscia, fu finalmen­ te ammesso alla presenza del commissario, che al suo in­ gresso nella stanza lo squadrò severamente con cipiglio d’epoca, e in modo quindi che a Blasetti parve francamente minaccioso. 11 poliziotto entrò subito in argomento, e pun­ tato il dito verso il regista scandi: « Lei è... lei fa... se non sbaglio il regista cinematografico! » Blasetti si strinse nelle spalle come per minimizzare la sua attività. L’altro incalzò veemente: « No... no... non faccia cosi. Direi che lei è un noto regista... ben conosciuto e... » Il cuore del regista cominciò ad allargarsi e, con un timido sorriso non scevro di orgoglio, annui. Ma l’altro ormai « partito » riprese: « Che dico, noto... do­ vrei dire famoso... celebre... famosissimo! » Blasetti avvam­ pò di gioia, ed ergendosi sul torace fissò compiaciuto il so­ lerte funzionario, che ora tornò a fissarlo corrugando la fronte nello sforzo di ricordare qualcosa per poi esplodere: « Ma certo... lei è... Carmine Blasetti! » E fu il crollo per il regista. Il dubbio diventava atroce. Il poliziotto inten­ deva lui o... Carmine Gallone?

Non si può dire che La corona di ferro fosse un film fan­ tastico. Non è un film definito, non è un film mitologico né una grossa ricostruzione mitica sul tipo dei Nibelunghi di Lang. Non ho mai capito bene cosa volesse fare Blasetti, e non so se lo sapeva nemmeno lui. Blasetti ha sempre avuto idee poco chiare, ha avuto molti meriti da un punto di vi­ sta spettacolare, ma gli mancava la chiarezza del racconto, che nel cinema è sempre una cosa essenziale. O un film lo si può seguire letteralmente, nei più minimi particolari, o ci si perde per strada e non ci si può emozionare. Perfino il Salvator Rosa Blasetti è stato incapace di raccontarlo con chiarezza, eppure sembrava il suo film migliore, se si esclu­ de Quattro passi fra le nuvole che non è suo né come idea né come concezione e qualche volta, dicevano, neanche come ripresa. Salvator Rosa è un film confuso, a un certo punto non si riesce neppure a capire chi è il bandito e chi 24

è Salvator Rosa, è un film che si perde per strada, e allora ne rimangono solo i valori « cromatici », i valori spettacolari puri e semplici, le bellissime scene in costume, il modo di inquadrare le scene. Lo stesso Fabiola non è un film di completa coerenza visiva, ha belle scene, ma è ima cosa diversa. Tra i registi dei primi anni Quaranta, Poggioli era un uomo estremamente intelligente. Ho fatto il montaggio nel suo pri­ mo film partecipando anche alla sceneggiatura, l’unico in cui ho inoltre fatto l’attore, Piccoli naufraghi. Era un uomo intelligente, ma non di grande respiro espressivo, più portato a film tipo Sorelle Materassi, precisi calligra­ ficamente. I suoi film più belli sono i due con Roldano Lupi, Gelosia e II cappello del prete. Se non fosse morto cosi giovane avrebbe indubbiamente dato molto, perché aveva una grande preparazione culturale e un gusto raffi­ nato. Alida Valli, all’epoca deliziosa ventenne piena di fascino, si era fidanzata con Giancarlo Cappelli, di professione mon­ tatore, al secolo marchese Cappelli di Firenze, figlio di un estroso e scorbutico gentiluomo che viveva « confinato » in una sua proprietà toscana. Per un gentiluomo di razza come Giancarlo occorreva il consenso paterno per convolare a nozze. Per cui si « imbarcò » con Alida alla volta di Fi­ renze. Furono accolti con gentilezza di antico stampo dal­ l’anziano marchese, che tra l’altro si produsse per loro in una prolungata seduta al pianoforte, strumento in cui ec­ celleva. Tutto, pertanto, sembrava mettersi per il meglio: il padre cortese e ospitale anche se riservato, il pranzo ec­ cellente, ecc. Giancarlo era al settimo cielo. Finita la cola­ zione il vecchio marchese prese il figlio sottobraccio e lo pilotò verso il salotto, mentre Alida si era assentata per qualche istante. Giancarlo trepido chiese: « Allora, papà? » II padre lo fissò benevolo, poi: « Deliziosa... deliziosa... Ma hai visto che piedi?! » Giancarlo restò come folgorato: Alida stava intanto rien­ trando in salotto e naturalmente lo sguardo di Giancarlo si fissò sui piedi della promessa e... per la prima volta notò delle scarpe degne di un granatiere di Sardegna. Bastò que­ sto dettaglio e... La Valli aveva tra le altre una qualità eccezionale: quella di poter far sgorgare dai suoi occhi, a volontà, fiumi di la­ crime. E dato il genere di film da lei normalmente inter­ 25

pretati, questa era una facoltà veramente preziosa. In un film Steno era aiuto di Mattòli. D’accordo con il fonico fece in modo che il telefono di scena fosse in qualche modo ef­ fettivamente collegato con la cabina del fonico. Quando Ali­ da staccò il cornetto per ricevere la telefonata — normal­ mente inesistente — senti distintamente la voce di Steno che la gratificava di numerosi e scollacciati epiteti. Ma con gran delusione degli artefici del complotto Alida continuò imperturbabile la scena — figurava ima telefonata di ad­ dio estremamente drammatica — profondendo i consueti fiumi di lacrime... Un altro scherzo ebbe come protagonista Caterina Boratto, allora diva assoluta. Era un film di Brignone, un drammone dell’ottocento. La Boratto doveva girare un primo piano per cui la sua truccatura e l’acconciatura, data l’estrema vicinanza dell’obiettivo, necessitavano di una cura parti­ colare che normalmente durava circa tre quarti d’ora. Gino Carpentieri, aiuto di Brignone, architettò una beffa atroce. Per riprendere un primo piano è necessario battere il ciak davanti al volto stesso dell’attore. Il ciak è quell’ordigno di legno nero su cui in bianco sono scritti i dati del film, e dell’inquadratura in particolare, per permettere, in un se­ condo tempo, di rintracciare facilmente la ripresa. Il ciak è composto di un pezzo grande — quello appunto dei dati in questione — e di un’asticella mobile che il ciacchista batte con forza contro quella fissa per incidere sulla co­ lonna sonora il rumore del ciak stesso. Con una pazienza da certosino Carpentieri praticò una miriade di fori nel corpo del ciak stesso, tutti collegati con una grossa cavità centrale che perfidamente riempi di nerofumo. Accolta dal brusio cortigianesco degli astanti, la diva fece il suo splendido ingresso sul set, seguita dal consueto nu­ golo di sarte, parrucchiere e acconciataci. Nel silenzio se­ polcrale la Boratto si collocò dinnanzi alla macchina da presa. Al comando di Brignone il capomacchinista, cui com­ peteva l’onore, collocò il ciak tra il volto perfetto dell’attri­ ce e l’obiettivo vicinissimo. Poi, con un colpo secco, azio­ nò il ciak stesso. Immediatamente si levò nell’aria una den­ sa nuvola nera: quando si diradò la Boratto aveva assunto l’aspetto di una delle protagoniste di Radici. Neanche a dirlo, Carpentieri, che si era prudentemente nascosto a contemplare da lontano gli effetti della sua opera, fu li­ cenziato in tronco. 26

Il fascismo non arrivò mai allo sconcio nepotismo che oggi contraddistingue fattuale « cinematografia di stato », cioè la televisione, che è solita affidare miliardi a registi di indubbia mediocrità. Non esistevano casi, che io ricordi, per cui ingenti capi­ tali dovessero essere messi a disposizione di un regista in quanto « marcia su Roma » o squadrista. E se capitò che venisse affidata una regia a un tizio perché amico di Ciano o che so io, il tizio in questione doveva sempre varare il suo progetto basandolo per lo meno su un attore di gran­ de rinomanza. E fu questo il caso di un certo Corrado D’Errico che riuscì a metter su un Processo e morie di Socrate, tratto dal Fedone, che Ermete Zacconi, il santone per eccel­ lenza, recitava in teatro. Il film fu realizzato alla Scalerà. Si doveva girare la prima inquadratura: si trattava in so­ stanza di un lungo monologo di Zacconi-Socrate rivolto agli allievi. Il regista D’Errico si accostò al vegliardo e gli spiegò che quella prima inquadratura era un totale della scena: Socrate seduto in mezzo agli allievi che dava inizio al suo discorso. D’Errico spiegò a Zacconi, indicandogli il copione, che lui doveva in sostanza dire solo le prime venti parole del discorso: si sarebbe poi passati ai mezzi primi piani, poi ai primi piani alternati con i primi piani e i mezzi totali degli allievi in ascolto, per continuare sul discorso. Zacconi Io ascoltava scuotendo la testa infastidito. Poi, bruscamente, interruppe il regista e, con quel suo vocione un po’ tremolante ma poderoso, fece capire all’allibito D’Errico che lui non intendeva sottomettersi alla schiavitù della tecnica cinematografica e che ogni volta, ogni volta, lui avrebbe recitato il discorso per intero. D’Errico capi che era inutile insistere e dette le opportune disposizioni. Dato il motore e raggiunto da Zacconi il punto del discorso — era l’inizio, come ho detto — che a lui interessava, il regista in punta di piedi, seguito da gran parte della troupe, si avviò al bar del teatro, dove doveva raggiungerlo la segretaria di edizione non appena Zacconi avesse consumato le trenta e più pagine del copione. Naturalmente anche la macchina da presa veniva arrestata al punto stabilito. E così fu per tutto il film. D’Errico fa­ ceva « partire » Zacconi, sempre dall’inizio, e lo raggiun­ geva poi sul set, facendo contemporaneamente partire la macchina da presa solo quando il vegliardo aveva « rag­ giunto » la battuta dell’inquadratura prefissata. Per poi, 27

girata la battuta, riallontanarsi dal teatro lasciando Zacconi tuonare a vuoto fino alla fine. Un altro caso interessante fu quello di Renato Simoni, ce* lebre critico teatrale e commediografo. Girava Sant’Elena con Ruggero Ruggeri. Sistemato l’arredamento, la posizione dei personaggi, ecc., Simoni, invitato dall'operatore, « con* frollava » il tutto appoggiando l'occhio all’oculare della macchina da presa. Una volta, estasiato per la composi­ zione, si rivolse a Ruggeri dicendo: « £ un quadro magni­ fico... Vieni a vedere come stai bene! »

Mussolini non aveva certo gran senso dell'umorismo. Ma devo in ogni modo ricordare una sua battuta felice. Quan­ do si realizzò Scipione l’Africano, un colossal che doveva essere l'orgoglio della cinematografìa del regime, il Duce fu invitato a una proiezione molto privata di alcune delle prime scene del film. Nel silenzio della saletta del ministe­ ro scorrevano sullo schermo le scene. Mentre però i carta­ ginesi apparivano adeguatamente bardati, il costumista del film aveva affibbiato ai romani degli strani cimieri, in cima ai quali, in una specie di calamaio, era conficcata una pen­ na bizzarramente ondeggiante. A un certo punto Mussoli­ ni, sconcertato dall'insolita mise dei « suoi » guerrieri, sbottò: « Qui ho capito come va a finire... che finiranno col vincere i cartaginesi », raggelando con la sua battuta gli ossequiosi personaggi che gli sedevano accanto. Di tutt’altro sapore fu invece una battuta di Edda Ciano, battuta che mi fu riferita da un personaggio che me ne assicura, con la sua personalità, tutta l’autenticità. A un ri­ cevimento Edda, a una persona che garbatamente le rim­ proverava la sua condotta di vita piuttosto spiegiudicata, rispose secca: « £ meglio prendere la vita per quello che ci può dare... tanto noi finiremo tutti impiccati! » E questa frase fu detta molti anni prima del fatale epilogo! Di Italo Balbo voglio ricordare due episodi che ne eviden­ ziano il carattere; il secondo di essi, poi, potrebbe servire a chiarire le circostanze che ne determinarono la morte. Il primo mi fu riferito dal fratello di un noto ministro del­ l’epoca, il secondo da Longanesi, che ne fu testimone di­ retto. Da qualche tempo — siamo verso gli anni cruciali della guerra — Balbo non nascondeva le sue critiche, e nella for­ ma più spregiudicata, all’operato di Mussolini. Questi deci­ 28

se quindi di impartirgli una lezione, di ridimensionarlo, insomma, agli occhi di tutti, e lo invitò a colloquio a pa­ lazzo Venezia. Per poter mettere in soggezione l’esube­ rante quadrumviro, il Duce architettò un espediente a suo parere diabolico: fece togliere dall'usciere la poltrona che era situata di fronte alla sua, e sulla quale appunto pren­ devano normalmente posto i suoi « invitati ». Cosi, co­ stretto a stare in piedi in una scomoda posizione, il suo tracotante avversario si sarebbe sentito certo in difficoltà, e avrebbe subito con maggior umiltà la dura requisitoria che Mussolini aveva preparato. All’ora fissata, Balbo entrò nella famosa sala del mappa­ mondo: i suoi occhi colsero immediatamente l’immagine del Duce al lato opposto dell’immensa stanza, avvolto nel­ l’alone luminoso della lampada da tavolo, ma notarono su­ bito la mancanza della solita poltrona dirimpettaia, intuen­ do immediatamente le ragioni di quella defezione. Si ac­ costò lentamente al tavolo mentre Mussolini, il volto cor­ rucciato, fìngeva di essere sprofondato nell’esame di impor­ tanti documenti. Giunto alla scrivania Balbo, dopo averne brutalmente sgombrato un angolo con una manata, si se­ dette sopra chiedendo brusco: « Che vuoi? » Preso in contropiede il Duce non potè far altro che rifu­ giarsi nel corner delle battute più innocue e convenzionali, sotto il fuoco dardeggiante degli occhi dell’altro, che ave­ vano il potere di svuotarlo di ogni velleità dispotica. Qualche tempo dopo Mussolini si rifece inviando Balbo come governatore in Libia. Non per questo cessò di te­ merlo, fu talmente invidioso dei successi che l’altro ottene­ va in colonia da diminuirne sempre la portata e il rilievo. Si deve, forse, a questo cieco livore, se l’Italia non sfruttò il petrolio libico che Balbo aveva trovato; ne aveva anzi inviato in patria un campione che, sempre per ordine di Mussolini, fu « insabbiato » senza dar seguito alle ricerche, e che deve trovarsi ancora sperduto nello scaffale di qual­ che nostro istituto. Cosi per lo meno mi è stato assicurato. La seconda guerra mondiale era già scoppiata con l’Italia all’inizio prudentemente e saggiamente neutrale. Senonché il servizio segreto inglese doveva aver avuto sentore che Mussolini si era ormai deciso a sedere al tavolo di quello che il Duce considerava un lauto banchetto, da cui avreb­ be ricavato, mercé la benevolenza del caro Adolfo, colonie a non finire. Degli emissari inglesi avvicinarono quindi Balbo nella più gran segretezza facendogli presente quale 29

sarebbe stata la fine inevitabile alla quale la politica dissen­ nata di Mussolini avrebbe condotto l'Italia. Su questo pun­ to Balbo concordava perfettamente con gli inglesi, per cui le trattative ebbero un seguito a livello sempre più alto. In sostanza, gli inglesi proponevano a Balbo di diventare il De Gaulle italiano. Allo scoppio delle ostilità, che ai loro occhi pareva certo, Balbo avrebbe dovuto innalzare su tut­ ta la Libia gli stendardi italiani e inglesi accomunati sulla stessa asta, o per lo meno ondeggianti insieme alla brezza del Mediterraneo; doveva poi proclamare l’indipendenza della Libia, cioè il suo distacco dalla madrepatria, invi­ tando inoltre, come De Gaulle aveva già fatto, tutti i dis­ sidenti che si trovavano in Italia o nel mondo a raggiunge­ re la Libia e arruolarsi nelle armate di liberazione. Pur rispettando sempre l’assoluta sovranità del governo di Bal­ bo, la flotta inglese sarebbe andata ad ancorarsi a Tripoli mentre i suoi aerei sarebbero andati a posarsi accanto ai nostri negli aeroporti. Era un’idea grandiosa, che tentò a lungo Balbo. Longanesi assistette a tutti i conciliaboli — era ospite, come gli suc­ cedeva spesso, del governatore — che Balbo tenne con i suoi collaboratori più intimi e fidati. Ma alla fine prevalse probabilmente la lealtà dell’uomo, cui ripugnava in un certo senso « tradire », non forse Mussolini che ormai di­ sprezzava, ma la patria. E fu un rifiuto che gli inglesi ac­ cettarono con molto fair play. È certo che qualche cosa doveva essere trapelata e giunta agli orecchi del Duce. Per cui quanto ho riferito deve es­ sere stato senza possibilità di dubbio determinante nel pro­ vocare il « fatale » errore che causò la distruzione dell’ae­ reo di Balbo in volo. Purtroppo su quell’aereo volavano tutti quei collaboratori, compreso il suo fedele segretario, che avrebbero potuto poi testimoniare su quella vicenda!

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2.____________________________ A NAPOLI CON LONGANESI

Era il settembre del 1943! Camminavamo già da qualche ora quasi sempre « stocco stocco », cioè secondo U linguaggio locale lungo il solco arato, e stavamo attraversando il greto asciutto del fiume quando improvvisamente Leo disse con decisione: « Mi scappa ». Ci fermammo di colpo voltandoci a fissarlo con rabbia. Eravamo secondo i nostri calcoli e le informazioni, sia pure sommarie e talvolta contraddittorie dei contadini, vi­ cini alla « frontiera » che divideva l'Italia occupata dai tedeschi dal territorio già in mano agli americani avan­ zanti e quindi non intendevamo perdere nemmeno un mi­ nuto. E questo facemmo capire chiaramente a Longanesi. Ma lui, dopo averci fissato con i suoi grandi occhi in cui si mescolavano odio e ironia, scrollò le spalle invitandoci pure ad abbandonarlo: lui, certo, non avrebbe perso l’oc­ casione che il suo intestino tardo e restio improvvisamente gli offriva, e senza piu degnarci di un solo sguardo si calò rapidamente i calzoni accoccolandosi in equilibrio sulle pietre. In quell’occasione, come molte altre volte nella vita, do­ vetti constatare come il nostro destino subisca svolte im­ provvise per fatti del tutto marginali e occasionali. Sen­ za quello spiraglio nella cronica stitichezza del nostro ami­ co, saremmo caduti nelle mani dei tedeschi con tutte le conseguenze che era facile prevedere. 31

In casi del genere le « sedute » di Leo si prolungavano considerevolmente. Noi, muti e scocciati, stavamo a qual­ che passo da lui, gettando occhiate distratte al paesaggio che ci era divenuto ormai talmente familiare da non risve­ gliare più in noi nessun interesse. Ci giungeva da lontano un grido, che si rinnovava a pause regolari ora più forte ora più debole. L'insistenza di quel richiamo ci fece al­ zare la testa verso una piccola cresta distante circa cinque­ cento metri. Su quel piccolo rialzo di terreno un uomo agi­ tava freneticamente un braccio nella nostra direzione, cer­ to per richiamare la nostra attenzione. Uno di noi rispose istintivamente a quel richiamo col suo braccio, e a quel gesto l'agitarsi dell’uomo divenne ancora più frenetico. Leo intanto stava finalmente abbottonandosi i pantaloni. Potemmo cosi dirigerci verso quell’uomo. Quando lo rag­ giungemmo, il contadino, abbassando la voce quasi temes­ se di essere udito, ci sibilò indicandoci qualcosa in lonta­ nanza: « i germanesi ». Scrutammo meglio l’orizzonte e potemmo individuare delle minuscole siluette nere che si stagliavano in lento movimento su una cresta delle monta­ gne vicine. Apparivano numerose e inevitabilmente, dato che si trovavano proprio sul cammino che intendevamo fa­ re, senza quel provvidenziale arresto e quell’ancora più provvidenziale contadino, saremmo certamente cascati nel­ le mani di quei soldati. Avevamo deciso di lasciare Roma improvvisamente, tro­ vandoci perfettamente d’accordo tra noi anche se per moti­ vi diversi: Longanesi era stato condannato a morte dai fa­ scisti; io, ufficiale, avrei dovuto presentarmi al cosiddetto bando Graziani; Steno si era unito a noi sia per l’amicizia che ci legava sia perché probabilmente si sarebbe sentito sperduto e abbandonato in nostra assenza. Avevamo poi deciso di prendere con noi anche Enzo, un ex quasi cam­ pione del mondo di boxe, illudendoci che le sue vantate amicizie a ogni livello nel mondo americano (tra l’altro aveva sposato una delle donne più aristocratiche di Bo­ ston) avrebbero facilitato il nostro inserimento nell’arma­ ta americana. La partenza dalla stazione Termini, che avevamo raggiun­ to tra la confusione e anche il disinteresse generale deil tedeschi e dei militi che la presidiavano, avvenne normal­ mente. Ben più avventurosa e movimentata, come appren­ demmo poi da lui stesso, era stata la partenza di Talarico insieme a Diego Calcagno. I due amici avevano già pre­ 32

so posto nel treno quando improvvisamente, sotto le fer­ ree volte della stazione, aveva tuonato una voce alta e ter­ rìbile come quella di un profeta dell'Apocalisse. La vo­ ce, famosa del resto per sonorità e timbro, era quella di una nota attrice, Giovanna Scotto, amante di Calcagno, che dopo aver accettato in un primo tempo le ragioni per abbandonare Roma espostele dal poeta, le aveva in segui­ to attribuite, per un tortuoso meccanismo cerebrale ali­ mentato solo dalla gelosia, a un preciso disegno di Diego per allontanarsi da lei e raggiungere qualche altra donna. La voce rimbombava minacciosa nella stazione: « Diego Calcagno! £ inutile che scappi! Non mi sfuggirai! Vieni fuori! » ecc. ecc. Calcagno e Talarico, lividi di paura, si erano rincantucciati nell’angolo del loro per fortuna gremi­ to scompartimento, mentre l’attrice, come impazzita, la terrìbile voce ora più vicina ora più lontana, percorreva correndo i marciapiedi dei vari treni con grida sempre più forti e minacce sempre più esplicite, che trasformavano tra l’altro l’innocente e semisvenuto poeta in un bieco de­ linquente nemico dei tedeschi. Per fortuna tedeschi e fa­ scisti non le prestarono la minima attenzione, prendendola forse per una pazza, e cosi il loro treno si mise in moto mentre la voce continuava ancora implacabile a formulare le accuse e le minacce più assurde. Tornando al nostro treno, anch’esso si era messo in moto. Nello scompartimento ci eravamo accomodati alla meglio dopo esserci scambiati qualche parola: eravamo solo noi quattro — non molti prendevano infatti quel treno pre­ ferendo (cosa che apprendemmo con sbalordimento) quel­ lo diretto a Napoli, che raggiungemmo invece dopo un as­ surdo peregrinare attraverso Lucania e Irpinia. Ero stan­ co, dopo molti giorni di tensione, e mi assopii rapidamen­ te. A un certo punto mi risvegliai bruscamente e con un sottile senso di angoscia — il solo fatto di essere insieme tra amici ci dava una certa sicurezza — mi accorsi di es­ sere rimasto solo nello scompartimento. Senza alzarmi detti un’occhiata fuori. II treno era fermo. Eravamo più o meno all’altezza dell’aeroporto dell’Urbe: sulle case e sugli al­ beri si muoveva un riflesso rossastro. Mi alzai, uscii nel corridoio, scesi dal treno. Il riflesso era dovuto a qualcosa che bruciava e che ancora non capivo cosa potesse essere. Mi incamminai in quella direzione certo di ritrovare i miei amici. Passavo lungo i molti scompartimenti in una lunga carrellata. Dai finestrini si sporgevano urlanti in 33

vari dialetti i viaggiatori. Mescolati a loro molti soldati te­ deschi anch’essi agitati. Giunsi al locomotore: era quello a bruciare, di li partiva il riverbero. La mia attenzione fu attratta da un soldato tedesco che, il volto congestionato dalla rabbia, puntava il suo mitraglia­ tore verso qualcosa o qualcuno accanto al locomotore. Se­ guendo quello sguardo o meglio la canna di quel fucile vidi con enorme stupore, mentre il tedesco come impazzito urlava « spignere... spignere », Longanesi e Steno, le schie­ ne arcuate, le mani appoggiate in alto ai grossi respin­ genti del mostruoso locomotore che era stato evidentemen­ te staccato dai vagoni. Leo e Steno tutti e due di modesta statura, più tracagnotto Longanesi piti etereo Steno, arrivavavano appena ai respingenti; ma il tedesco in preda a un vero raptus che ne aumentava irrimediabilmente la già congenita ottusità, alzando sempre più la voce continua­ va a intimar loro di spostare l’enorme locomotore. La cosa più comica, anche se quell’aspetto della situazione emerse ben più tardi, era che sia Leo sia Steno a ogni rabbiosa in­ timazione del soldato inarcavano le schiene mimando uno sforzo assurdo, cercando di sembrare il più convincenti possibile, roteando gli occhi verso il germanico come a dir­ gli: « Un momento, un momento... un po’ di pazienza, che diamine... ora ci riproviamo ancora ». Intervenni pronunciando confusamente le poche parole di tedesco che conoscevo, cercando di spiegare al soldato che ciò che pretendeva dai due era impossibile: « Unmòglich... unmòglich », ripetei più volte. Come dovetti constatare an­ che più tardi, il fatto di sentirsi interpellare sia pure som­ mariamente nella loro lingua rappresentava per i tedeschi un ponte immediato di simpatia e di cameratismo. Il sol­ dato si volse verso di me abbassando l’arma e scambiam­ mo ancora qualche parola. Il tedesco si voltò, forse in cer­ ca di un superiore con cui comunicare, e io lanciai uno sguardo veloce verso i respingenti: i miei amici erano spa­ riti. Senza attendere altro anch’io tomai sui miei passi per raggiungerli nello scompartimento ancora pallidi e stra­ volti benché, per il loro innato senso di umorismo, anche divertiti per l’assurda avventura.

Avevo partecipato alla difesa di Roma senza troppa con­ vinzione con un ristretto gruppo di amici tra i quali, come sempre, Longanesi e Pannunzio. Giravo con una picco!? rivoltella nella tasca, più per darmi un certo cipiglio eh? 34

altro, poiché all’occorrenza non avrei saputo servirmene. Passavamo dall'euforia più ingiustificata, sorretti dalla pre­ senza di una divisione corazzata a villa Borghese di cui con mia grande meraviglia non ebbi mai più sentore nem­ meno nelle memorie postume dei maggiori interessati, alla depressione più nera quando ci giungevano le più dispara­ te notizie circa rincalzare dei tedeschi alle porte della cit­ tà. Uno dei colpi di grazia alla nostra fiducia ci venne dato un pomeriggio alla vista di un nugolo di carabinieri che fuggivano disordinatamente a piazza Colonna al solo gri­ do di: « I tedeschi... i tedeschi », grido che tra l’altro non ebbe alcuna conferma. Una delle cose che ricordo ancora con maggior nitidezza è l’atteggiamento di Ercole Patti. Disorientato, confuso, al­ larmato o forse peggio per le notizie contraddittorie sul­ l’implacabile avanzata dei tedeschi, Patti scriveva in quei giorni dei corsivi (se non vado errato sul « Giornale d’Ita­ lia ») nei quali, facendo appunto riferimento a tali notizie, si premurava di smentirle categoricamente invitando i let­ tori ad aver fiducia nella resistenza del nostro esercito. Quando poi incontrava qualcuno che gli comunicava al contrario il procedere catastrofico dei fatti, Patti lo ram­ pognava invitandolo a leggere « le notizie sul giornale » sdoppiandosi in buona fede, quasi che non fosse lui stes­ so l’autore delle note incoraggianti. Cominciarono a passare per le vie della città camion gre­ miti di giovanotti più o meno in divisa, agitanti grandi tricolori. Si pensò dapprima si trattasse di partigiani, ma si seppe subito che erano invece le prime squadracce fa­ sciste che rialzavano la cresta. E questo fu determinante per la nostra fuga da Roma.

Avevo conosciuto Leo Longanesi quattro anni prima, poco dopo l’uscita del mio primo film come regista, Don Cesare di Bazan. Il film aveva avuto un grande successo commer­ ciale ma era stato accolto, diciamo cosi, tiepidamente dalla critica ufficiale. Il proprietario del cinema Imperiale, Vassarotti, aveva voluto vederlo e aveva organizzato una mat­ tina una visione privata. Longanesi come è noto aveva una larga fama — a parte il suo enorme talento, che nessuno discuteva né osava discutere — di uomo spietato e di cri­ tico addirittura feroce. Lui stesso amava definirsi, ironiz­ zando sulla sua bassa statura, « un carciofino sott’odio ». E se lo diceva lui!... 35

Nel buio della sala vidi un’ombra scivolare fra le poltrone di legno e venirsi a sedere al mio fianco. Guardai, nel­ la penombra della sala, e riconobbi con una certa ap­ prensione Longanesi. Mi guardò a sua volta, mi sorrise e mi disse: « L’ho già visto, mi è piaciuto molto ». Credetti a una sua feroce ironia ma egli, certo comprendendo il mio stato d’animo, si affrettò a rassicurarmi. Poco tempo dopo doveva infatti ripetere e confermare questo suo giudi­ zio in una piccola enciclopedia dello spettacolo da lui com­ pilata, nella quale allargava i termini del suo elogio fino a indicare nel mio film un primo valido esempio di film a spettacolo, mettendo in risalto lo sforzo da me compiuto nel cercare di ricreare l’atmosfera della grande pittura spa­ gnola. Fu questo il primo passo verso un’amicizia che do­ veva durare, malgrado nei suoi ultimi anni ci si dovesse incontrare molto poco dato il suo trasferimento a Milano, fino alla sua morte prematura. Avevamo continuato a incontrarci al cinema Imperiale, che ora non esiste più. Si entrava da corso Umberto. Do­ po una piccola antisala dove era la cassa, si apriva un lun­ ghissimo corridoio che portava alla sala, nel fondo. A metà circa del corridoio si apriva quella che pomposamente era definita la direzione: una piccola stanza con una scriva­ nia e qualche sedia. Li ci incontravamo quasi tutti i giorni assieme a Mario Pannunzio, intercalando discorsi più o meno profondi sul cinema a serrate partite a tresette. Il « patron » del cinematografo era, come ho già detto, Vassarotti, un uomo sempre sorridente e che aveva fatto una montagna di soldi producendo film commerciali. Parteci­ pava alle nostre discussioni azzardando qualche intervento e annunciandoci sempre l’imminente realizzazione da par­ te sua di una grande produzione. Faceva i nomi più pre­ stigiosi come sicuri interpreti dei suoi film, Gary Cooper, Clark Gable, e noi gli davamo spago già sapendo che poi, data « l’indisponibilità » degli stessi, avrebbe finito col ri­ correre di tutto cuore a mediocri attori italiani di terza ca­ tegoria. Poveretto, il giorno che fini col decidersi veramen­ te ad affrontare le grandi produzioni perse tutto il suo de­ naro, la magnifica villa, e tutti gli aristocratici di cui ama­ va circondarsi. Lo ricordo per un altro fatto, che mi pare ancora assolu­ tamente straordinario. « L’ingegnere », come era comune­ mente chiamato, era anche un bell’uomo, piuttosto intra­ prendente in campo, diciamo cosi, sentimentale, circostan­ 36

za nota alla bellissima e gelosissima moglie che lo sotto­ poneva a un controllo spietato, marcandolo più strettamen­ te che non Burgnich il suo avversario. Telefonava durante il pomeriggio a cadenze sempre diverse per accertarsi della sua presenza nel cinematografo, e di tanto in tanto com­ piva improvvise sortite e irruzioni nella fortezza dell’Imperiale. Per eludere le une e le altre Vassarotti aveva esco­ gitato un espediente infernale. D’accordo col direttore del cinema, certo Cappelli, aveva allestito nella sala, dietro la tela dello schermo, una vera e propria garsonnière colle­ gata con un telefono interno alla direzione. Qui egli scambiava le sue effusioni amorose e relativi amplessi con le belles de jour. Ma dato che lo schermo era per cosi dire trasparente, le immagini del film proiettato erano trasfe­ rite di peso anche all’interno della garsonnière per cui gli amplessi avvenivano sotto lo sguardo truce di Humphrey Bogart o le feroci sparatorie dei gangster, che giungendo talvolta improvvise — anche gli altoparlanti erano situati nella garsonnière — non mancavano di far sussultare l’esu­ berante ingegnere facendogli talvolta rater le coup. Natu­ ralmente quando la moglie arrivava o telefonava, « l’inge­ gnere era in giro per il cinema ». In verità una pronta te­ lefonata lo faceva schizzare in piedi e rivestire con la pron­ tezza di un pompiere per presentarsi in sala alla moglie, che Io attendeva nervosa, col piu disarmante dei suoi sor­ risi.

Trascorremmo la notte nella fattoria del nostro salvatore — ho dimenticato di dire che insieme a noi viaggiava uno dei tanti soldati che ritornava a casa e che avevamo « rac­ colto » lungo la strada. Questi camminava sempre con un fazzoletto strettamente legato attorno alla testa, come era uso di qualche giocatore di foot-ball come Calligaris, e quando gliene avevamo chiesto la ragione ci aveva detto che era a causa della fame, di una fame perenne e feroce « che gli apriva la capa in due »: col fazzoletto, aveva la sensazione di reggere le pareti frananti del suo cranio. Nella nottata, dopo un pasto succulento cui aveva parteci­ pato solo il padrone di casa — le figlie erano rintanate, al sicuro dai forestieri, in qualche munito scantinato — ave­ vamo senza saperlo e senza alcun rischio « attraversato le linee ». I tedeschi della vigilia erano la retroguardia del­ l’esercito in ritirata e ci avevano quindi « oltrepassato ». La notizia, portataci insieme al latte dal padrone di casa, 37

ci dette nuova spinta e dopo esserci informati sull'esatta ubicazione del primo villaggio che avremmo incontrato, partimmo con lena rinnovata e anche assai piu tranquilli. Strada facendo ricapitolammo nell’euforia che ci aveva as­ salito i pericoli corsi: quando, incontrando i soldati di qualche pattuglia tedesca avvistati da lontano sulle loro grigioverdastre motociclette, ci ponevamo tutti e quattro attorno a un albero fingendo, in una stagione del tutto con­ traria a operazioni del genere, di potarlo, non senza aver prima afferrato di malagrazia il feltro impeccabile e piatto di Steno e aver cercato di dargli, malgrado le sue prote­ ste, una forma paesana rialzandone il cocuzzolo; quando una notte avevamo oltrepassato senza rendercene conto una zona militare tedesca, inseguiti dai tedeschi a colpi di mi­ tra, la corsa pazza nel buio, il terrore e infine il tuffo dietro un grosso tronco d’albero atterrato. E poi il crepi­ tare delle foglie già rinsecchite sotto gli scarponi di un sol­ dato tedesco che mitra alla mano — lo sbirciavamo al di sopra del tronco — avanzava sicuro verso di noi. Il mio impulso di alzarmi rovesciando tutt’assieme sul tedesco il mio scarso vocabolario, per dargli in italo-germanico una spiegazione del tutto incredibile — che eravamo cineasti... in cerca di esterni... poi gli spari... la paura... ed eccoci qui — il tedesco aveva atteso che quel fiume di parole in­ coerenti cessasse e poi bonariamente ci aveva chiesto: « Schlafen? » A quella parola, afferrata da tutti, era seguita una nostra valanga collettiva di nuove parole, di sigarette offerte a gara seguendo il soldato, che ci aveva condotto a un pagliaio dove avevamo passato il resto della notte cer­ cando di allontanarci poi al più presto alle prime luci dell’alba. C’erano stati ancora altri episodi. Ricordammo come, mal­ grado le nostre decise asserzioni contrarie, tutti i contadini ci avessero sempre preso per ufficiali inglesi o americani certamente inviati in missione speciale. Una volta, per far felice una famiglia particolarmente ospitale — tra l’altro io e Leo improvvisandoci barbieri avevamo sconciamente rettificato la chioma di un ragazzetto della cascina che per la vergogna si era calzato subito dopo un cappello fino alle orecchie — al momento degli addii, prevedendo una loro ulteriore domanda in quel senso, ci eravamo congedati bat­ tendo i tacchi e presentati finalmente ai loro volti beati co­ me: Captain Warner, Colonnello Metro, Tenente Erkaio e Caporale Universal. 38

A questa mania di voler vedere in noi a tutti i costi degli agenti segreti alleati dovemmo l’incontro e la conoscenza con un personaggio straordinario, la cui vicenda è degna di Kafka, un certo Squillante. Stavamo percorrendo il centro di una cittadina scambian* do tra di noi impressioni e propositi, quando fummo bru­ scamente avvicinati da un tizio che rivolgendoci la parola in tono misterioso ci costrinse a seguirlo. Quando dico ci costrinse intendo dire che ci fece balenare la prospettiva di una cena succulenta a casa sua. Cammin facendo, sem­ pre a voce bassissima e sempre guardandosi prima attor­ no, ci confidò di aver individuato in noi degli agenti al­ leati, e cioè proprio le persone con cui cercava di mettersi in contatto. La prospettiva delle tagliatelle fumanti fece tacere in noi ogni scrupolo e dopo pochi minuti eravamo a casa sua, attorno a un tavolo, mentre la moglie di Squil­ lante, una donna smunta triste e silenziosa, dava gli ul­ timi tocchi alla cena. Alle prime nostre avide forchettate Squillante, la cui rab­ bia in corpo impediva ogni partecipazione al pasto, comin­ ciò a passeggiare avanti e indietro cominciando il suo rac­ conto: « Sono uscito dalla galera una settimana fa... ». Quest’inizio ebbe il potere di far fermare a mezz’aria le nostre forchette dense di tagliatelle come bandiere a mez­ z’asta, ma Squillante si affrettò a rassicurarci con un sor­ riso mesto: « Si, di galera... dopo esserci stato per sedici anni ». La moglie annui mestamente. E questa è la storia di Squillante. Era un solerte e zelante impiegato dell’esattoria di una cit­ tà vicina a Torino. Ho detto zelante ma non ho detto tutto. Egli univa allo zelo una perfetta e profonda conoscenza di tutta la legislazione fiscale, conoscenza che non mancava di approfondire sempre più consultando vecchi testi, col­ lezioni di gazzette ufficiali, biblioteche... una vera mania, insomma. Un giorno, leggendo un vecchio scartafaccio si accorse che ormai da qualche decennio non veniva piu ap­ plicata una certa aliquota di un 0,02 per cento su certe tasse, per cui a suo avviso Io Stato veniva a subire un dan­ no che, se anche circoscritto, era pur certo. Per essere assolutamente sicuro il nostro si diede a consul­ tare tutta la casistica riguardante l’aliquota in questione, fino a che non raggiunse la certezza assoluta: quell’aliquo­ ta, certo per la trascuratezza di qualche suo predecessore, non veniva più applicata. 39

Non perse tempo e redasse un circostanziato esposto irto di dati e di elementi inconfutabili che inoltrò al capuffi* ciò. Dopo qualche giorno questi lo fece chiamare, e lo elo­ giò facendogli presente però che il gioco non valeva la can­ dela. Allora Squillante si irrigidì, non per il danno di qual­ che migliaia di lire in tutto che ne derivava allo Stato, ma per una questione di principio, invitando il capufficio a far seguire alla pratica il normale iter amministrativo. Passò circa un mese. Squillante bolliva, quando gli fu comunicato che il prefetto, nientedimeno, accettava di riceverlo. A Torino, dopo una breve attesa, Squillan­ te venne ammesso alla presenza del prefetto: questi elo­ giò convenientemente la relazione di Squillante, cui il cuo­ re si fondeva dall’emozione, per concludere poi patemamente che « non valeva la pena di mettere a soqquadro tutto un sistema tributario » per quello che definì sorri­ dendo « un piccolo peccato veniale ». Squillante si irrigidì e « con tutto il rispetto... io insisto... il ministro... » scio­ rinò le sue ragioni di zelante tutore della legge che il pre­ fetto ascoltò assentendo di continuo, dopo di che con un « certo... certo... avete ragione voi » gli fece cenno di ac­ comodarsi nella stanza accanto. Finalmente soddisfatto, Squillante si avviò, ma appena oltrepassata la soglia si senti afferrare dalle robuste braccia di due carabinieri che senza perdere tempo lo tradussero alle carceri locali. Furono mesi d’inferno, i primi, perché Squillante non po­ teva darsi pace per l’enormità dell’ingiustizia. Poi le natu­ rali forze di reazione prevalsero, e fattosi dare carta e pen­ na redasse una memoria indirizzata al sottosegretario della giustizia nella quale, più che rivendicare la sua innocenza, pretendeva che gli fosse data ragione in campo ammini­ strativo. A quella supplica ne seguirono altre con vaghe minacce di ricorrere a Mussolini, e finalmente un giorno le porte della sua cella si aprirono e Squillante venne por­ tato alla presenza del direttore della prigione. Per capire in pieno questa storia incredibile occorre sot­ tolineare che nel racconto di Squillante nulla faceva pre­ vedere i suoi drammatici risvolti: quando per esempio ri­ cordò « ...e il prefetto mi disse: vada... vada di là », lui lo raccontava col tono di entusiastica e cordiale approva­ zione usato dal prefetto stesso, per cui nulla poteva far presagire l’agguato dei carabinieri. E cosi questa volta: « Il direttore mi fece accomodare premurosamente... mi offri una sigaretta e mi disse... eh, caro Squillante, quando ci si 40

rivolge in alto... ci siamo capiti... prima o dopo si ottiene soddisfazione... vedrà vedrà... ». Dopodiché Squillante fu accompagnato fuori dal carcere, alla stazione, e prima col treno, poi in cellulare e finalmen­ te con un vaporetto, venne « tradotto » in un’isola come galeotto. Potete immaginare lo sconforto e l’amarezza del nostro ospite che sputava sdegno e rabbia quando la situazione si capovolgeva, mentre qualche attimo prima con toni dolciastri ci aveva fatto immaginare che tutto si era chiarito. Quindi l’isola dove gli anni passarono lenti. Per fortuna — sono parole sue — il direttore del penitenziario aveva potuto valutare il suo nuovo detenuto di cui aveva ascol­ tato la storia inorridito. Tanto inorridito da suggerirgli di narrarla in un lungo esposto, che lui garantiva sarebbe sta­ volta finito nelle mani giuste e precisamente in quelle del­ l’onnipotente capo della polizia Bocchini, di cui egli era lontano parente. Spronato dalla speranza, Squillante si mise al lavoro redi­ gendo cartelle su cartelle. Il plico parti per Roma e per mesi non se ne seppe niente. Poi, un giorno, e qui il rac­ conto di Squillante, la sua voce, la sua espressione raggiun­ gevano punte di incredibile soddisfazione... « Squillante... Squillante! La voce del direttore mi chiamava: lo vidi ve­ nirmi incontro agitando nelle mani una grossa busta gialla. Era certo la fine del mio incubo. E invece quei maledetti mi comunicavano di avermi trasferito in un’isola ben più lontana, dove sarei stato sottoposto a una vigilanza più ri­ gorosa. Fu li che mi trovarono e mi liberarono gli ame­ ricani! » Qui finiva il racconto di Squillante. Voltandosi di scatto verso di noi tuonò: « Ma voi non sapete cosa farò io do­ mani. Ho saputo che sarà in città un pezzo grossissimo americano. Cercherò di avvicinarlo, perché io voglio, devo avere soddisfazione ». Passato un attimo di stupore per quell’incredibile pervi­ cacia, noi cominciammo a ridere tutt’insieme rischiando di restare soffocati, mentre Squillante rivolgeva occhiate per­ plesse alla moglie. E che, come ci succedeva spesso, lo stes­ so pensiero ci aveva colpito: la protesta assillante, il gene­ rale sorpreso e riluttante, e finalmente il nuovo e questa volta definitivo arresto di Squillante, inguaribile donchi­ sciotte dell’ufficio tasse. 41

Camminavamo verso la nostra meta in quattro, l’ex pugile ci aveva lasciati da un pezzo preferendo albergarsi dietro qualche sottana che non andare incontro alla riesumazione delle sue glorie transoceaniche. L’ultimo fatto degno di nota di questo nostro amico perduto per strada avvenne una sera in uno sperduto paese dell’Abruzzo, dove ci era­ vamo fermati a passare la notte. Eravamo a pochi chilo­ metri da San Benedetto del Tronto. Stavamo sorbendo un caffè nella « saletta » della trattoria, quando la porta si spa­ lancò di colpo e irruppe il pugile, sconvolto da una grossa emozione. Riusciva a stento a balbettare: « È fatta... è fat­ ta... tra poche ore gli americani saranno qui ». Lo guar­ dammo inebetiti e increduli. Ma lui con forza ripetè: « Lo ha detto la radio adesso. Hanno liberato Benedetto Cro­ ce... deve essere vicino a Benedetto del Tronto». Parole irripetibili seguirono la sua sortita, e fu anche il nostro atteggiamento di disprezzo che contribuì ad allontanarlo per sempre, almeno allora, dal nostro cammino... Come ho già detto, marciavamo, naturalmente « stocco stocco », in una pianura sconfinata, contornata da alte montagne all’orizzonte, quando a una certa distanza ma sul nostro stesso « stocco » o solco scorgemmo tre persone che ci venivano incontro. Noi quattro, data la ristrettezza del solco, camminavamo in fila indiana come del resto fa­ cevano anche i tre che avremmo dovuto fatalmente incro­ ciare. Leo, che era il primo, aguzzò gli occhi e quando i tre furono a una trentina di metri da noi ci sibilò parlando coll’angolo della bocca come spesso era solito fare: « Ma è Callari! » Callari, noto critico cinematografico romano, era per una curiosa coincidenza odiato da tutti noi tre. Callari peraltro ci conosceva personalmente restituendoci nelle sue critiche la nostra avversione. Meglio di tutti conosceva Leo. E a questo punto Longanesi usci in una delle sue battute che ci fece piò tardi torcere dal riso: « Facciamo finta di non vederlo! » Anche gli al­ tri due erano da noi conosciuti, sebbene meno, e avvenne cosi che ci incrociammo in quella specie di Sahara sfio­ randoci i gomiti e fissando gli occhi senza espressione su un punto indeterminato dell’orizzonte. Del resto, anche da parte dei « nemici » l’atteggiamento fu il medesimo. E tutto ciò malgrado quel tragico momento che spingeva in genere ad affratellarsi subito col primo venuto! Eravamo alle porte del paese e costeggiavamo un vigneto 42

quando vedemmo uscire all’improvviso un soldato ameri­ cano, il primo. Alto, dinoccolato, i fianchi grossi su cui penzolava l'im­ mancabile Colt, ci guardò distrattamente per poi prosegui­ re. La nostra reazione di sorprendente indifferenza sarebbe stata forse diversa se Leo non ci avesse ancora una volta bloccato con un « Cominciamo bene! » indicando con la mano il grosso elmo che il soldato portava sotto il brac­ cio arcuato, ricolmo di grappoli d’uva. Non demmo però soverchio peso a quella modesta razzia e accelerando il passo raggiungemmo Torcila dei Lombar­ di. Il paese aveva un aspetto assolutamente normale: nes­ suna traccia di guerra, gruppetti di paesani al sole sulla piazza, galline razzolanti, qualche donna che si recava in chiesa. Era come se la guerra fosse distante migliaia di chilometri. Ci sentivamo persi, smarriti, e adocchiato un piccolo caffè vi entrammo per bere qualcosa. Dentro, un piccolo bancone dietro al quale armeggiava attorno a una problematica macchina da espresso un uomo che ci guar­ dò senza particolare interesse. Dietro a lui, una modesta scansia su cui si raggruppavano i soliti sciroppi e un paio di bottiglie di anice. E forse alla vista di quelle bottiglie che nacque più tardi una delle battute di Leo: « Un paese dove il cognac si chiama Pallini e il whisky Martinazzi non ha diritto di esistere ». Non so come, in quel piccolo caffè cominciammo a parlare di cinema. Questo era un argomento che non era mai af­ fiorato tra noi durante la fuga benché fosse parte integran­ te della nostra esistenza. Anche Leo, fuggendo, aveva do­ vuto abbandonare la regia del suo primo film di cui, appu­ rammo dopo il nostro ritorno, si era purtroppo persa qua­ si ogni traccia. Alle nostre parole poco convinte imo dei due clienti del bar rivolse la sua attenzione verso di noi e buttò li: « An­ che lu nepote mio fa lu cinema ». Demmo un’occhiata di­ stratta al nostro interlocutore che poi trascurammo imme­ diatamente. Ma quello insistette: « Isso sta a Roma, ma ora sta accà ». Per troncare l’argomento, mentre uno di noi pagava i caffè, chiedemmo tanto per farlo contento: « E chi è suo nipote? » « De Laurentiis... Dino de Laurentiis ». Il suo nome destò questa volta in noi un immediato inte­ resse anche se all’epoca, benché già tutti gli preconizzas­ sero un brillante avvenire, Dino era solo agli albori della 43

sua mirabolante carriera. Felice di aver ridestato in quegli apatici e sbrindellati forestieri un po’ di interesse, « lo zio » concluse: « Tiene nu palazzo accà... a Torcila ». Pochi istanti dopo irrompemmo nel « palazzo » festosa­ mente accolti. « Lu palazzo » in verità era solo un mode­ sto appartamento, ma l’ospitalità che ci fu accordata era all’altezza di qualsiasi palazzo. Mentre scambiavamo con Dino le prime impressioni una voce acuta e sgranata at­ trasse la nostra attenzione: « È Mario! » ci disse sorriden­ do Dino, « Soldati. È qui da me, a letto, afflitto da caca­ rella ». E poco dopo fece il suo ingresso, studiato e teatrale come sempre, Mario Soldati, papalina in testa e avviluppa­ to in una coperta. Ci salutammo con effusione. Quasi subito Mario ci raccontò che due o tre giorni prima, lui già sofferente, erano arrivati gli americani in paese: un reggimento di pellirosse. Alle prime urla di evviva Soldati aveva realizzato di cosa si trattava e, camicione bianco fino ai piedi, coperta sulle spalle e papalina in testa, si era precipitato in strada arrancando verso « i liberatori ». I quali, nel vederlo avanzare verso di loro ieratico e solen­ ne — tra l’altro gli occhiali d’oro a stanghetta potevano alimentare l’equivoco — cominciarono a urlare sbigottiti: « The Pope... the Pope! » Travolto dal suo irrefrenabile impulso di commediante nato, Soldati cominciò a trincia­ re nell’aria segni benedicenti e a offrire la mano al bacio dei piu devoti, genuflettentisi. Una scena del genere do­ veva ripetersi qualche tempo dopo a Napoli quando Mario si lasciò benevolmente credere il cardinale della città. Passammo qualche giorno a Torcila sempre ospiti mattina e sera della famiglia di Dino che ci rimpinzava di taglia­ telle e di carne con commovente generosità. Le notti erano più dure, quando nella nostra fredda camera del piccolo albergo io riandavo al mio passato e i ricordi si accalca­ vano ingombranti, accavallandosi disordinatamente. Partimmo per Napoli servendoci tra l’altro di uno speciale lasciapassare americano — datoci per aver segnalato la presenza di un grosso contingente di prigionieri alleati bi­ sognosi d’aiuto, che avevamo incontrato durante il nostro viaggio — e che ci consentiva anche di servirci dei mezzi militari americani. Prima con camion, poi con un moto­ scafo raggiungemmo Sorrento e poi Capri. A Sorrento era rientrato dopo la sua « liberazione » Bene­ detto Croce, e una visita al grande filosofo si imponeva. 44

L’incontro fu interessante anche se in un certo senso de­ ludente. La presenza forse tra noi di Longanesi metteva in guardia Croce, malgrado che Leo per una volta tanto si astenesse da interventi polemici, limitandosi ad ascoltare. Per la verità tutti noi eravamo andati dal filosofo piu che altro per ascoltare, compreso Soldati che si era unito a noi. E Croce parlò quasi sempre lui, chiedendoci notizie sul nostro viaggio, sulla situazione a Roma, esprimendo sdegno sull’atteggiamento del re che chiamò Chechiebbe, alla napoletana, e « sciaboletta » come Vittorio Emanuele era normalmente definito. Le definizioni ci parvero franca­ mente di dubbio gusto, malgrado la nostra scarsa fede mo­ narchica, e soprattutto perché in bocca a un grande fi­ losofo. Croce ci raccontò poi la sua odissea tra i germano-ameri­ cani. Come è noto Sorrento, dove risiedeva appunto il fi­ losofo, è una penisola, o meglio, in termini militari, una sacca. Normalmente quindi sia i tedeschi durante la loro occupazione sia poi gli americani, percorrendo vie dirette, trascuravano di « girare dentro » la penisola. Tuttavia av­ venne che in un paio di circostanze i tedeschi avessero in­ viato alla casa di Croce, di cui certo non sottovalutavano l’importanza, delle pattuglie comandate da ufficiali all’al­ tezza della situazione per invitare il filosofo a seguire le sorti « tedesche » al Nord. Invito che amabilmente Croce era sempre riuscito a declinare, ma che probabilmente da un momento all’altro sarebbe stato rinnovato con piu de­ cisa energia. Tra un intervento germanico e l’altro gli ame­ ricani, che avevano avuto sentore di questa iniziativa te­ desca, decisero di inviare a loro volta via mare una loro pattuglia con il preciso intento di sottrarre Croce al caro Adolfo. II racconto di Croce continuò senza che egli evidente­ mente si rendesse conto del grottesco epilogo che non man­ cò di farci sorridere per molto tempo. Una sera a casa Croce piombarono gli americani, che dopo aver spiegato al fiolosofo tutta l’urgenza della loro iniziativa lo invitarono a seguirli e mettersi in salvo. Ma una volta ancora, con grande e socratica dignità, Croce rifiutò e all’ufficiale ame­ ricano, sbigottito più che ammirato, spiegò che lui non si muoveva perché... Che cosa mai poteva capitargli... che i tedeschi lo portassero via... ebbene?... che forse lo avreb­ bero internato... magari anche ucciso?! Ebbene, anche in questo evento tragico e doloroso lui non avrebbe deflettuto 45

perché... in fondo quale destino migliore per un filosofo che non quello di morire per le proprie idee?! Ma — è sempre Croce che racconta — a questo punto era interve­ nuta la moglie che con parole acconce e messa una coper­ ta di lana sulle spalle del riluttante filosofo lo « obbligò » amorevolmente a seguire l’americano e a risparmiarsi il martirio con evidente vantaggio e della famiglia e del ge­ nere umano. Il che Croce, rinunciando ai suoi ideali, do­ cilmente fece.

Arrivammo a Capri dove trovammo un’atmosfera incredi­ bile. L’isola era governata da un maggiore americano che, malgrado l’insistenza degli antifascisti, si era rifiutato di arrestare chicchessia sotto l’accusa di « fascista ». Quando gliene chiedemmo, stupiti, la ragione ci rispose sorridendo che la ragione era molto semplice, e cioè che sui tremila abitanti dell’isola, se ricordo bene, la metà accusava l’altra di essere fascista e naturalmente l’altra metà ritorceva la stessa accusa contro la prima; per cui l’americano, tra il disgustato e il divertito, aveva deciso salomonicamente di non mettere dentro, dopo una breve sfuriata delle prime ore, piu nessuno. Di quella sfuriata aveva fatto le spese Curzio Malaparte, che dopo quel primo arresto caprese e la conseguente libe­ razione, doveva in seguito essere regolarmente arrestato a turno dagli americani, dagli inglesi, dai francesi, dai po­ lacchi e infine persino dagli italiani, e sempre con la stes­ sa accusa: « aver contribuito all’affermarsi del partito fa­ scista ». Longanesi era amico di Curzio, anche se non so fino a che punto. I loro incontri comunque erano sempre cor­ diali. In seguito a uno di questi Leo mi raccontò di quan­ do Malaparte era caduto in disgrazia e Mussolini lo aveva fatto inviare al confino. Trascorso qualche tempo, sia per l’intervento di qualcuno sia perché effettivamente le impu­ tazioni a carico di Malaparte erano piuttosto vaghe, Mus­ solini ne aveva ordinato la liberazione senza peraltro vo­ lerlo più ricevere e malgrado che gli amici di cui sopra fossero intervenuti anche in questo senso. Un riawicinamento ufficiale col Duce però si imponeva per poter far riaprire i giornali e le riviste a una collaborazione malapartiana. Si stava per inaugurare una Quadriennale: gli « amici » riuscirono a far scivolare Malaparte all’interno del palazzo proprio il giorno della visita di Mussolini. 46

Quando questi sbirciò in una sala lo scrittore, gli si avvicinò col solito cipiglio a labbra sporgenti e mani sul fianco, e dopo averlo squadrato lo interpellò burberamente con que­ ste parole: « Malaparte, Malaparte. Cosa avreste fatto voi se invece vi foste chiamato Bonaparte! » Fulmineo Cur­ zio, cui certo non mancava la battuta, gelò il dittatore: « Avrei perso ad Austerlitz e avrei vinto a Waterloo ». Anche se Mussolini mancava totalmente di ogni senso di umorismo non mancò certo « giornalisticamente » di ap­ prezzare la battuta. E la pace fu fatta.

La Napoli dell’epoca. Ne hanno scritto troppo e troppo bene perché mi debba dilungare: qualche ricordo alla rin­ fusa a guisa di quei flash back di cui sono infarciti i film di oggi per parere più intelligenti, e Io sono in un certo senso perché confondono talmente le idee del « let­ tore-spettatore » che questi, sommerso da un complesso di inferiorità di fronte all’ermetismo del racconto, è costret­ to a trovarli profondi e pieni di significato, anziché sgram­ maticati e confusi... Ecco... ... Un nero gigantesco appollaiato nella vetrina su strada di una boutique, con la padrona disperata che tentava in­ vano di rimuoverlo afferrandolo per un braccio. ... Un irlandese colossale, parente stretto di John Wayne certamente, che sul marciapiede opposto al nostro, dopo essersela sfilata dalla tasca posteriore dei pantaloni si por­ tava di colpo alla bocca, nella classica posa del trombet­ tiere, ima bottiglia di « anice », ne ingurgitava due o tre golose boccate per poi bloccarsi stralunato e immobile, per un istante ancora, il collo della bottiglia stretto fra i denti, fino a realizzare che l’anice, di cui certo il venditore gli aveva magnificato purezza e gradazione alcoolica, non era che acqua, irrimediabilmente acqua, e scaraventare la bot­ tiglia a infrangersi sul marciapiede volgendo attorno de­ gli occhi resi folli dalla rabbia, mentre di fronte a quel King Kong i radi passanti si disperdevano in tutte le dire­ zioni... fissare poi quegli occhi esorbitanti su di noi, restati incoscienti e divertiti sul marciapiede opposto, e individua­ re chissà perché nella sua mente ottenebrata in Steno — ho già detto quanto minuto sia — il succitato venditore della bottiglia fraudolenta... attraversare la strada in due balzi con un ruggito e afferrato Steno per il collo, questione di un attimo, sollevare in alto a guisa di maglio l’altro enor­ 47

me pugno, continuando a proferire in un americano impa­ stato le più orrende minacce. Riuscimmo a togliergli Steno dalle mani parlando tutti insieme e promettendogli, oltre a giurargli l'assoluta estraneità del nostro amico all’imbro­ glio, l’acquisto di un’altra bottiglia... ...Un ragazzino napoletano che suonava il flauto a fianco della cabina di guida di un colossale camion alleato, dove l’autista nero si era accoccolato, il volto appoggiato alle braccia incrociate sul bordo del finestrino aperto, i grandi occhioni umidi fissi sulle agili dita del suonatore, affasci­ nato come un serpente uscito da un paniere indiano... mentre nel retro un gruppetto di « compari » del ragazzi­ no svuotava il camion con una rapidità e una destrezza incredibili... ... La ricerca affannosa nei primi giorni di un tetto e di una minestra fino a quando, grazie a un meraviglioso dise­ gno di Longanesi eseguito di getto di fronte agli occhi in­ creduli e poi ammirati di un certo capitano Manley che comandava la sezione propaganda dell’armata america­ na, fummo assunti per essere poi dirottati a un non ben precisato centro italiano di propaganda e da quell’istante nutriti e splendidamente alloggiati in una ricca e comoda abitazione. Il nostro compito era quello di « metter su » una rubrica radiofonica a carattere satirico, cosa che pun­ tualmente fu fatta con il titolo di Stella bianca. Longanesi, Steno e io ne eravamo autori e qualche volta interpreti. La sede della stazione radio si trovava a non molta di­ stanza da « casa nostra » per cui, finito il lavoro, tornava­ mo a piedi. Una sera Longanesi si era attardato più di noi e fu quindi costretto a tornarsene da solo. Imboccò la lunga strada che portava, con un breve dedalo di viuzze e brevi scalinate, fino al nostro alloggio e fatta una ventina di metri Leo scorse, nella quasi totale oscurità della via e all’altra estremità della stessa, la sagoma dalle proporzio­ ni impressionanti di un « qualcuno » che muoveva verso di lui. Era, come potè realizzare subito dopo, un nero dalla statura e dalla sbornia imponenti. Avvenne allora una scena — che Leo ci riprodusse poi con mimica e pa­ role da farci contorcere, irresistibile narratore quale era — da « strada della paura » di Chariot: Leo, piccoletto e sgomento, gli occhioni angosciati fissi sul lontano barcol­ lante avversario, e il nero immane che aveva a qualche de­ cina di metri individuato o forse no quel Davide bianco che gli « sbarrava » la strada. Superati angoscianti secon­ 48

di di incertezza, Leo si decise e si portò rapidamente sul marciapiede opposto, ma il nero — qui era il dramma — o per intuizione della mossa del « nemico » o per pura casualità decise a sua volta e nello stesso istante di attra­ versare barcollando la strada, venendosi quindi a trova­ re nuovamente sullo stesso marciapiede di Leo. Negli istanti successivi, questa serpentina si ripetè diverse volte fino a portare i due uomini a contatto di respiro... finché Leo, chiudendo gli occhi, decise con la forza della disperazione di passare sotto le manone brancicanti nel buio del nero per oltrepassarlo e fuggire correndo col cuo­ re in gola, fino a casa... A Napoli era sopravvenuto il freddo — quello fu un in­ verno particolarmente rigido — e noi che eravamo partiti da Roma convinti di un pronto rientro insieme agli ameri­ cani vittoriosi eravamo del tutto sprovvisti di indumenti, maglie di lana o cappotti. Eravamo convinti che nel gran­ de e confortevole appartamento che ci ospitava avremmo trovato di tutto negli armadi o nei cassettoni, ma ci ripu­ gnava l’idea di forzare, sia pure per impellenti ragioni, quei mobili. Io e Leo vivevamo nella stessa stanza dove oltre ai due letti contigui campeggiava un grande armadio, di quelli la cui porta è costituita da uno specchio. E su quello specchio, e non certo per vanità, quando più forte mor­ deva il freddo, i nostri sguardi indugiavano sempre di più. A una certa ora dal piano superiore del palazzo scen­ deva al nostro appartamento un incaricato del già citato centro italiano di propaganda di cui facevano parte Garosci, Cianca e altri, per venire a raccogliere i fogli che noi preparavamo per la radio. In genere l’incaricato era un tale che si faceva chiamare Ugo Stille; fra l’altro era il più simpatico di tutti, doveva poi morire su una mina attraversando le linee verso Roma. Una sera in cui il freddo era particolarmente rigido Leo e io decidemmo di mettere da parte ogni scrupolo e dare l’assalto a quell’armadio, che ci guatava ironicamente con la sua specchiera. Volevamo però, in un ultimo rigurgito di gentilhommerie, « salvare la faccia » evitando l’effrazio­ ne o, più platealmente, lo scasso del mobile. Si trattava di un armoire fine Ottocento; ed esempla­ ri o antenati di questo tipo di mobile riempivano ogni an­ golo della vecchia casa romagnola di Leo, che ne conosce­ 49

va quindi perfettamente la struttura, d’altra parte assai; semplice: le quattro lignee pareti dell’armadio erano « co­ ronate » in cima da un « cappello », sul davanti del qua­ le campeggiava un fregio rococò. Longanesi mi spiegò che era sufficiente sollevare « quel cappello » per penetrare dall’alto nell’interno dell’armadio, prendervi quello che ci era necessario, e venirne fuori ricollocando infine il cap­ pello al suo posto. Avremmo salvato cosi e la nostra pelle, e la nostra faccia. Non esitammo un secondo: con le mani livide riuscimmo non senza sforzo a sollevare quel pesante coperchio, che collocammo a terra, per poi agilmente is­ sarci fino all’apertura in alto e lasciarci cadere dall'altra parte, all’interno dell’armadio, sollevando tenui nuvole di naftalina. Nella frenesia di quell’ardita decisione ci eravamo com­ pletamente dimenticati dell’appuntamento con Ugo Stille, che difat^i, quasi contemporaneamente, mentre noi tocca­ vamo « terra », apriva la porta della stanza arrestandosi perplesso sulla soglia. Avvenne allora una cosa incredibi­ le. Mentre Stille, che era uomo molto riservato, arrossiva confuso per quella che considerava un’intrusione, io e Leo ci eravamo affacciati, a differenti livelli data la differen­ te altezza, al bordo superiore dell’armadio e, come se quel­ la fosse una nostra situazione abituale, cominciammo a rispondere disinvoltamente alle domande di Stille, che dal canto suo cercava invece di ridurle all’essenziale per po­ tersi e poterci liberare da quell’assurda situazione. Fu solo quando finalmente tornò a uscire, richiudendo la porta, che ci rendemmo conto della grottesca situazione, crollan­ do fra le risate sul fondo dell’armadio. Un altro ricordo preciso riguarda quella che io e Leo ave­ vamo definito scherzosamente la « congiura delle duches­ se ». Eravamo entrati in contatto con un gruppo di gentil­ donne della più pura aristocrazia napoletana, naturalmente grazie alla fama di cui, anche in quei momenti difficili, Longanesi godeva. E io ero sempre associato a lui per sin­ cera amicizia e per profonda ammirazione, credo altret­ tanto sinceramente ricambiate (il fatto che vivessimo ad­ dirittura nella stessa stanza aveva certo contribuito a ce­ mentare maggiormente i nostri rapporti). Leo, dunque, era riuscito a mettersi in contatto con queste dame, che ave­ vano introdotto lui e quindi me nei loro salotti. Tra un sorso di autentico cognac e qualche petit four, qui nacque 50

un’esilarante congiura antirepubblicana di cui Leo e io fummo protagonisti per circa un mese. Devo anzitutto premettere che non era certo uno spirito filomonarchico quello che spingeva Longanesi a cercare di minare le basi della futura repubblica: era certamente, in­ vece, un insopprimibile spirito di contraddizione, quello stesso che spingeva, anzi obbligava, Leo a schierarsi sem­ pre dalla parte « opposta », qualunque fosse la classe do­ minante. Era certamente per questo che egli fu fascista « della prima ora », in antitesi alla tracotanza rossa di al­ lora; che divenne antifascista, tanto da essere condannato a morte, quando il fascismo sfociò nel grottesco e nell’im­ becillità dominante; che ritornò poi fascista quando le co­ siddette istituzioni democratiche mancarono completamen­ te alla sua attesa. Ma soprattutto era sempre controcorren­ te per qualcosa in lui che ve lo obbligava, sempre. Ricordo che a Napoli, il pomeriggio dopo la colazione, ci si riuniva in salotto insieme agli altri per fare due chiac­ chiere, e Leo, come era sua abitudine, pur partecipando al­ la conversazione, disegnava continuamente su dei fogli di carta macchiette e figure. Durante i primi tempi la sua fu­ ria satirica si appuntava in genere su personaggi o figure fasciste o naziste di cui di volta in volta accentuava la stupida protervia, la pomposa goffaggine, la crudele e gla­ ciale fisionomia. Io seguivo con interesse lo scorrere lieve della sua penna nera sul biancore della carta, che si ani­ mava via via di questi personaggi e un giorno, improvvi­ samente e senza nessun motivo plausibile, la sua penna co­ minciò a disegnare figure di soldati e ufficiali americani dalle espressioni balorde, allampanati, i fianchi larghi e i culi bassi gonfi di bottiglie infilate nelle tasche, una galle­ ria impressionante di idioti sui cui volti potevi leggere la stessa ottusità che si rifletteva sugli « altri ». Leo comin­ ciava ad averne abbastanza dei « liberatori »! Tornando alla nostra congiura « pro monarchia » devo dire che, per quanto mi riguardava, la cosa semplicemente mi divertiva, soprattutto la presenza di Longanesi. Dun­ que, accoccolati comodamente sui divani buoni, comin­ ciammo a tessere le trame diaboliche delle nostre proposte atte a proteggere il sacro istituto che governava l’Italia. Leo, come un piccolo Robespierre, esponeva il nostro pro­ gramma, che strappava a quelle dame dabbene gridolini di raccapriccio e di terrore. Dopo la prima seduta cominciò a intervenire anche qual­ 51

che ammiraglio, probabilmente messo sull’avviso da qual* cimo e incaricato di riferire « a chi di dovere ». Ogni tan­ to noi due ci scambiavamo rapide occhiate che non face­ vano altro che rinfocolare il nostro entusiasmo. La prima proposta che colpi quelle aristocratiche come un’autentica sferzata e che doveva dare l’avvio a tutta « la campagna » fu: « È necessario uccidere il re! » Spiegammo come gli italiani reagissero sempre a favore delle vittime di un attentato. Il re è vecchio, negli ultimi tempi la sua misantropia e l’odio per il prossimo si sono accentuati al punto da farlo vivere a Villa Savoia appol­ laiato sugli alberi, non crede più in niente e soprattutto non crede nell’Italia. Uccidendolo, avremmo permesso al figlio di essere nominato sovrano, circondato dalla simpa­ tia che accompagna sempre gli orfani in ogni cuore di ita­ liano. Passato il primo momento di raccapriccio, le nobili signore cominciarono a considerare la proposta sotto un angolo possibile. Intanto noi incalzavamo con altre. È necessario che Umberto si faccia paracadutare al Nord, tra le bande più antimonarchiche, per partecipare, sia pure con la do­ vuta prudenza, alla guerra di liberazione. II fatto di avere il principe o meglio il re fra le loro file scompaginerà tutti i piani antimonarchici dei comunisti. Inoltre Umber­ to, con la sua condotta da libro di scuola elementare, si riallaccerà d’un colpo solo al quadrato di Custoza, al re galantuomo, ecc. Quando poi sarà ferito!... Fu un urlo di costernazione e di raccapriccio, come se im­ provvisamente Umberto fosse caduto agonizzante su quei cuscini di velluto irrorandoli del suo sangue. Certo, ferito! riprendemmo implacabili noi due... perché insieme a Um­ berto verrà paracadutato un suo sottufficiale, guardia del corpo e tiratore scelto che, approfittando della prima inno­ cua scaramuccia, tirerà da lontano alla gamba del principe procurandogli una sanguinosa seppur non invalidante fe­ rita. « Vi immaginate voi », incalzammo, lirici, « le bande partigiane che sfilano per Roma, e tra queste bande, anzi alla testa di esse, eroicamente zoppicante, appoggiato su robuste stampelle, Umberto? La folla in delirio sarà tutta per lui e i voti dei repubblicani andranno a farsi fottere ». « È vero, è vero », fu il salmodiente coro delle aristocra­ tiche che, certo ormai convinte, ci fecero fissare, tramite il solito ammiraglio, un appuntamento con Umberto in per­ sona. 52

La mattina dell’appuntamento eravamo nella hall di uno dei grandi alberghi in attesa dell’ammiraglio. Giunse invece una telefonata che annullò, sia pure in termini garbati, l’udienza semiregale. Ci guardammo in faccia delusi. In fondo, e ne sono convinto anche oggi, i seguaci del re ave­ vano perso l’ultima opportunità di salvare la loro monar­ chia. Quanto a noi, prima di abbandonare definitivamente il no­ stro gioco antirepubblicano, ricordo che per puro spirito di contraddizione facemmo un ultimo, sia pure diverso, tentativo. Era stato organizzato per una certa data, che ora non ricor­ do, il primo congresso ufficiale cui anche Badoglio da Bari, seppur obtorto collo, aveva dovuto consentire. Il congres­ so si fece ed ebbe luogo all’università, dove i congressisti, per raggiungere la sala del convegno, dovettero farsi largo tra torme di cucinieri neri intenti a preparare il rancio per le truppe. Santoni del congresso erano l’immancabile conte Sforza e Benedetto Croce. Accertata la presenza del filosofo, congegnammo un piano diabolico per far « salta­ re » il congresso stesso. A tutti era nota l’ammirazione che la principessa Maria José nutriva per l’anziano pensatore, che la contraccam­ biava con una sincera stima e amicizia. La principessa si trovava all’epoca in Svizzera con i suoi figlioli. Eravamo certi che, per far naufragare nella certa commo­ zione e nel probabile ridicolo il congresso, sarebbe stato sufficiente che, una volta esauriti i preamboli d’occasione e proprio un istante prima che la parola venisse solenne­ mente data a Croce, dalla porta della sala di fronte al tavolo dei santoni facesse il suo ingresso, bionda eterea elegantissima, Maria José che, tenendo per mano il suo Vittorio Emanuele, allora biondo come un cherubino e bel­ lissimo, e scivolando tra le due ali di spettatori stupefatti, fosse venuta a sedersi in un posto da noi diabolicamente riservato in prima fila, per poi fissare i suoi occhi in quelli del filosofo pronto a parlare. Questi, senza dubbio, sareb­ be rimasto siderato dapprima, commosso poi, e lacrimoso si sarebbe certo alzato per « prostrarsi » di fronte all’amica Maestà, facendo cosi colare a picco ogni suo acceso pro­ posito di repubblicano e travolgendo le sorti della riu­ nione. Avevamo avuto sentore che Maria José non sarebbe stata 53

contraria all'idea: il pilota disposto a recarsi in Svizzere! a prelevarla era uno spericolato gentiluomo lombardo, già noto per altre imprese alpinistiche e aviatorie, coraggioso e simpatico menefreghista. Erano state fissate le date del decollo e del segreto « rientro » in Italia, tutto insomma era ormai pronto... quando giunse in Svizzera diretta* mente e a noi, aviatore compreso, indirettamente il veto superiore. Che nessuno di noi, animati soprattutto da bef­ fardo spirito di contraddizione e non certo da ideali da' Giovane Italia, si senti di controbattere. Non ci restò che la soddisfazione, intervenuti al congresso, di ghignare aper­ tamente e un po' sconciamente al conte Sforza che, ini­ ziato il suo solenne dire, la testa fieramente retta col bian­ co pizzetto puntato come uno stiletto contro un nemico im­ maginario, non si era accorto di avere i pantaloni comple­ tamente sbottonati sul davanti! Prima di lasciarci a Napoli — io partii per Bari con l’Intelligence Service, Leo rimase sul posto — Leo e io fum­ mo protagonisti di un altro sconcertante episodio di cui non posso che garantire l’autenticità, anche se non manche­ rà di sorprendere e forse ferire qualcuno. Quel capitano Manley di cui ho già parlato ci convocò una mattina nel suo ufficio, e senza preamboli ci affidò un in­ carico oscillante tra l’inchiesta giornalistica e l’indagine giudiziaria: dovevamo cioè, per incarico degli inglesi, ac­ certare con assoluta obiettività e con prove inconfutabili, i crimini commessi dai tedeschi in loco prima dell’arrivo degli alleati. Stavamo già per uscire quando Manley ci bloccò e gelò con una categorica affermazione: per lui, e quindi per il comando inglese, erano da considerarsi cri­ mini solo quelli « gratuiti » poiché non era da conside­ rarsi tale ogni specie di rappresaglia per l’eventuale ucci­ sione di un militare germanico « ché questo rientrava nella legge di guerra cui anche loro, gli inglesi, si sottomette­ vano ». Mossi più che altro dal bisogno di rompere la monotonia della esasperante attesa del « rientro a Roma », ci buttam­ mo sui fatti più eclatanti che ci erano giunti all’orec­ chio. E cominciammo con la famosa fucilazione di un marinaio sulle scale dell’università. Il fatto è noto: vi erano stati dei parapiglia, dei colpi di fuoco nella piazza, ed erano intervenuti i tedeschi che, individuato chissà perché come 54

uno dei facinorosi un giovane marinaio, lo avevano ag­ guantato e collocato sulla gradinata dell’edifìcio per fuci­ larlo tout court. Il fatto aveva provocato la giusta e gene­ rale indignazione, anche perché la rappresaglia apparve del tutto sproporzionata ai fatti, e perché si era centrata su un disgraziato giovane, certo del tutto innocente. Non era facile né ricostruire i fatti né risalire alla persona­ lità dell’ucciso perché ogni tentativo da noi fatto, ogni nostra domanda sollevava negli ascoltatori urla e minac­ ce contro i tedeschi — che potevano ora essere profferite a piena gola — o lamenti e pianti, che si intrecciavano confondendo le nostre già scarse idee in proposito. Finalmente riuscimmo a sapere dove il poveretto aveva abitato: una stanza in un modestissimo alloggio adiacente la piazza. E li potemmo avvicinare la « padrona di casa », una vecchietta. Non appena le chiedemmo notizie del ra­ gazzo fummo investiti, come sempre e per molti minuti, dalle solite contumelie antigermaniche condite da un pian­ to convulso che copriva le parole a fiotti della vecchia. Pazientemente attendemmo che la donna si sfogasse re­ stando a corto di fiato, e potemmo infine porle domande piti perentorie: « Possibile che non avesse fatto niente... niente?! » La risposta fu un urlo: « Niente!... Povero figlio... niente... che poteva fare ’stu povero guaglione?... Niente! » e giù ancora invettive, lamenti e lacrime da noi forse sconside­ ratamente ancora provocati. Finalmente, certi ormai di non poter avere alcun elemento che potesse minimamente coinvolgere il marinaio nell’atro­ ce rappresaglia, cambiammo, tanto per concludere, il gene­ re di domande: « Quando era arrivato da lei... era solo?... Aveva con sé bagagli?... che so... un qualche cosa? » Asciugandosi gli occhi la vecchia mugugnò: « Aveva ’na valiggia ». E noi, già con un piede fuori della porta: « ... e che c’era nella valigia? » Con un urlo che avrebbe voluto ancor più conclamare l’innocenza del giovane, la vecchia lacrimò: « ... era cchiena ’e bombe! »

La nostra inchiesta prosegui per far luce sull’eccidio di cinque preti a Giugliano, un paese vicino a Napoli dove appunto, o almeno cosi risultava, erano stati fucilati dai tedeschi cinque sacerdoti. La faccenda « prometteva bene » e ci costrinse, con i mez­ 55

zi di fortuna dell’epoca, a spostarci in quella contrada naf poletana. Le prime domande, i primi cori di lamentazione colletti­ va, ci aprirono subito e sorprendentemente uno spiraglio per giungere alla verità. Potemmo appurare insomma che vi era tuttora in paese il « sesto prete », e cioè un sacerdo­ te miracolosamente sfuggito alla strage. Ci recammo da lui e non tardammo a vincere le sue titu­ banze, quando restammo soli dopo aver allontanato i par­ rocchiani accompagnatori. E questo fu il racconto del prete. Erano partiti in sei, tutti sacerdoti, da un paese limitrofo, distante una ventina di chilometri, per raggiungere appun­ to Giugliano. La strada era lunga, ingombra e faticosa, e i sacerdoti, un paio in età avanzata, arrancavano penosa­ mente. C’era però un mezzo per abbreviare e strada e fa­ tiche, e cioè tagliare attraverso i campi. Cosi fu infatti deciso di fare. Percorso però poco piu di un chilometro, i preti caddero praticamente nelle braccia di una senti­ nella tedesca, perché in quei campi, dissimulati tra teli mimetici e fronzuti rami, erano nascosti mezzi di guerra germanici. La sentinella chiamò un maresciallo al quale i preti, smarriti c frastornati, esposero le ragioni della loro presenza in loco. Le spiegazioni convinsero il maresciallo che « lasciò anda­ re » i sacerdoti invitandoli però perentoriamente a ripren­ dere la provinciale da loro abbandonata. E cosi fecero. Senonché, percorso un altro paio di chilometri sempre piò arrancanti e indolenziti, i preti, dopo un breve conciliabolo colorito partenopeamente da vari « echi ce ’o face fa » di percorrere la strada più lunga, decisero di ributtarsi attra­ verso i campi. La sfortuna però castiga gli audaci, e fatte poche centinaia di metri, quando già all’orizzonte si profi­ lavano lontane le case di Giugliano, i nostri caddero nelle braccia di una seconda e a quanto pare più burbera senti­ nella. Ora impauriti, i sacerdoti balbettarono tutti insieme e confusamente le loro scuse. Il sottufficiale sopraggiunto telefonò al comando e fatalità volle che incocciasse proprio nel maresciallo che tre quarti d’ora prima aveva interrogato i malcapitati diffidandoli dal percorrere la zona militare nei boschi, che non tardò a identificare il gruppetto e, certo or­ mai di trovarsi di fronte a delle spie mascherate, ne ordi­ nò telefonicamente la fucilazione. I sei, barcollanti e piangenti, vennero trascinati a ridosso 56

di una siepe, di fronte a una squadra di soldati. Un attimo prima della scarica il prete superstite, spinto dalla dispera­ zione, si gettò d’istinto attraverso la siepe e giù poi a pre­ cipizio rotolando per i campi a dirupo, inseguito dalle svo­ gliate fucilate dei tedeschi. per gli inglesi fu una « fucilazione tecnicamente ineccepi­ bile ».

Anche Mario Soldati era venuto con noi a Napoli. Si era installato nello stesso appartamento e collaborava con noi a Stella bianca. Premetto che quanto sto per raccontare non vuole intac­ care minimamente l’indiscutibile talento del Soldati scrit­ tore. Vuole solo essere un ritratto, ovviamente parziale, del Soldati uomo. Fin dal nostro primo incontro, e soprattutto fin dal nostro primo viaggio a Sorrento, Soldati volle apertamente mani­ festare una netta separazione tra lui e « gli altri ». « Gli altri » era soprattutto Longanesi, che Mario riteneva per sempre compromesso col fascismo e quindi « da evitare ». Il suo scostarsi da noi si manifestava apertamente persino quando camminavamo per strada: io, Steno e Leo su un marciapiede e Soldati su quello opposto, per far vedere che lui non aveva niente a che fare con noi. Questo atteggia­ mento gli attirava naturalmente le nostre contumelie, che lui sopportava gesuiticamente. Il suo atteggiamento cambiò soltanto a Napoli, quando vide che gli inglesi tenevano in considerazione l’indiscu­ tibile talento di Longanesi e non già il suo passato politico. Si associò quindi a noi toto corde. Oltre ad associarsi a noi nella redazione della nostra spregiudicata e fortunata rubrica, era riuscito — probabilmente grazie alla sua per­ fetta conoscenza dell’inglese e a una lettera scrittagli dalla moglie americana (divorziata) giuntagli tramite la Croce Rossa, che lui esibiva in ogni istante cruciale — era riu­ scito a ottenere un’altra ben retribuita collaborazione che lo impegnava negli « studi » della radio. Noi mangiavamo ver­ so le nove con abbondanza di scatolette americane, e ci doleva molto che il povero Mario dovesse ritardare la cena fino a quasi mezzanotte, quando rientrava. Mossi a com­ passione, mettevamo da parte per lui abbondanti razioni del pasto sulle quali, ululando di gioia e di riconoscenza, si gettava famelico. Va da sé che erano porzioni sottratte in parte a noi. Ma lo facevamo di tutto cuore. 57

Per puro caso una sera tornammo alla radio, dopo il pa­ sto. Girammo per i corridoi per arrivare alla nostra stan­ za quando, passando davanti a una porta semiaperta, udimmo un inconfondibile tintinnio di posate e bicchieri. Spiammo dalla porta: il nostro Soldati, brandendo come Gargantua forchetta e coltello, stava affondandoli nel te­ nero corpo di un pollo, accompagnato su altri piatti da un paio di contorni, formaggi e frutta. Non ricordo se ci fos­ se il dolce. Si ingozzava e beveva, il porco! Ci informammo con discrezione. Venimmo a sapere che questo avveniva tutte le sere per ordine del maggiore co­ mandante. Decidemmo di vendicarci. Tornati a casa, riunimmo tutte le provviste che avevamo pazientemente messo da parte in modo da crearci una dispensa piuttosto fornita e variata. Accatastammo tutte le « portate » in un armadio, su vari ripiani, collocandole in bella evidenza. Quando Soldati rien­ trò, barba lunga e sguardo febbrile dell’affamato, si di­ resse come sempre verso la sala da pranzo, ove trovò la tavola spoglia e noi seduti intorno e ghignanti di di­ sprezzo. Mario, commediante raffinato, ci rivolse uno sguardo umi­ do di lacrime e di speranza; ma fu accolto da una raffica di ingiurie irripetibili che gli buttavano in faccia il suo tradimento alimentare. Prima tentò di difendersi, di scu­ sarsi in qualche modo, ma fu presto sopraffatto. A que­ sto punto uno di noi si alzò e, teatralmente, spalancò le due ante dell’armadio, quasi dovesse mettere in mostra il tesoro di San Pietro. Mario si alzò con un ruggito di avi­ dità e fece per gettarsi verso il mobile per afferrare almeno uno di quei gioielli, ma con perfetta scelta di tempo le due ante si richiusero, la chiave spari e le contumelie tor­ narono a fioccare. Dopo di che lo lasciammo solo e falsa­ mente disperato. L’indomani, all’ora della colazione o se volete del pranzo di mezzogiorno, mentre eravamo già seduti a tavola, Sol­ dati si presentò reggendo tra mani tremanti alla Zacconi un grosso pacchetto con un nastro: « Sono dei dolci... ho pensato li avreste graditi ». Potete immaginare le nostre risposte volgari e definitive. Mario finse di farsi prendere da una crisi isterica, urlandoci « che non avevamo il di­ ritto... che tutti eravamo li per lo stesso scopo », ecc., pro­ vocando da parte nostra pernacchie e nuovi insulti. Poi ci rimettemmo a mangiare ignorando completamente e lui 58

Don Cesare di Bazan ( 1942)

/ miserabili ( 1947)

(Pagina a fronte in alto) Il cavaliere misterioso (1948) (Pagina a fronte in basso) Spartaco (1952) (Sopra) Teodora, imperatrice di Bisanzio (1953)

Beatrice Cenci (1956)

Beatrice Cenci (1956)

I vampiri (1956)

Nel segno di Roma (1958): Freda con George Marshall

Maciste all'inferno ( 1962)

Maciste all'inferno (1962)

Lo spettro (1963)

Roger la Monte (1967)

Murder Obsession (1980) Riccardo Freda con la figlia

e il pacchetto che continuava a reggere con la devozione di un antico cortigiano per la corona ferrea. Vedendoci irremovibili ebbe una nuova esplosione di rab­ bia, e gridando: « visto che non le volete ecco che ne fac­ cio », andò alla finestra e, spalancatala, gettò il pacchetto nel lurido prato sottostante, quattro piani più sotto. Poi usci di scena come un cattivo attore filodrammatico. Continuammo a mangiare come se nulla fosse. Poi, di col­ po, lo stesso pensiero attraversò la nostra mente: « vuoi vedere che... ». E come un solo uomo, saltellando sulla punta dei piedi per non far rumore, andammo alla fine­ stra, che aprimmo altrettanto silenziosamente. Come tutti avevamo previsto, nella spianata sotto la casa ingombra di calcinacci e d’immondizie, Mario Soldati, chi­ no come uno scout in cerca delle tracce degli odiati cheyenne, stava « ripescando » una dopo l’altra le sue paste. Le nostre urla e le nostre ingiurie lo inchiodarono in quel gesto, mentre sollevava verso di noi un viso palido, tre­ mebondo e rabbioso insieme!

A proposito di pranzi... Avevamo saputo che era appena arrivato a Napoli Sforzi­ no Sforza, figlio di quel conte Sforza per il quale noi tutti nutrivamo una spiccata antipatia. Tuttavia, seguendo il con­ cetto che le colpe dei padri..., e soprattutto desiderando avere notizie fresche e inedite sull’America, invitammo a cena Sforzino, che accettò di buon grado. La tavola fu allestita come meglio si potè, dando dentro a tutte le risor­ se della nostra dispensa. Al centro, tutt’attomo a un pic­ colo vaso di fiori, era un cerchio di sette o otto portate in ognuna delle quali scintillavano come diamanti Wurstel, salsicce nostrane, fette di prosciutto a capannina indiana, e altre ghiottonerie rimediate con grossi sacrifici. Prima di andare a tavola ci si accomodò in salotto, fa­ cendo cerchio attorno al nostro ospite, alto, smilzo, ele­ gantissimo e impomatato, un vero giovin signore. A noi si era associato anche Gabriele Baldini, oltre al già più volte citato sempre famelico Soldati. A turno facevamo domande a Sforzino sia sulla vita ame­ ricana sia sulla situazione italiana vista dal punto di vista americano. A tutte il nostro ospite rispondeva di buon grado, anche se le sue risposte non brillavano certo per competenza e profondità. Avevamo notato tra l’altro che sempre, ripeto sempre, prima di rispondere, Sforzino 59

si premeva l'indice e il medio contro i due occhi, che cosi naturalmente venivano « sigillati », dopo di che rovescia­ va per alcuni secondi la testa all’indietro in modo che il viso veniva a trovarsi parallelo al soffitto della stanza; compiuto questo rito che durava qualche secondo, rimet­ teva la testa a piombo sul collo, dissigillava gli occhi, e con voce pacata esponeva il suo parere che, inutile dirlo, cadeva nell’indifferenza generale. Durante uno di questi rovesciamenti all’indietro, Leo si rivolse a me storcendo la bocca, e con un lampo maligno negli occhi, mi sussurrò: « Mi sa che questo Sforzino è una testina di manzo fatta bene! » Passammo alla tavola imbandita sedendoci in cerchio. La cosa stupefacente di ciò che segui è che tra noi non era intercorso nessun accordo. Leo, con voce graziosa e sua­ dente, aveva rivolto all’ospite la domanda: « E quale sarà secondo lei l’avvenire dell’industria automobilistica? » Come sempre, prima di rispondere, Sforzino procedette al suo rito di concentrazione rovesciando la testa e chiuden­ dosi gli occhi con le dita. Istantaneamente, come per una parola d’ordine e con la velocità di un film girato a dodici fotogrammi, le nostre mani si avventarono su imo dei piat­ ti di portata, facendo sparire come per magia tutti i salsic­ ciotti che vi erano annidati, che vennero immediatamente triturati sminuzzati polverizzati e trangugiati, con velocità supersonica. Intanto Sforzino riprendeva l’assetto normale e cantilena­ va la risposta, che ci limitammo ad approvare con cenni del capo mentre gli ultimi residui di salsicciotto venivano sospinti giù dai gargarozzi. Qualche attimo di attesa, più che altro per riprender fiato, dopo di che fu il turno di Steno di rivolgere una nuova domanda, fatta come la prima in perfetta malafede, per­ ché della risposta non ce ne fregava proprio niente. So­ lare invece era l’intendimento di provocare la mistica astrazione all’indietro del nostro Sforzino, cosa che egli puntualmente fece, mentre sulla tavola picchiettavano fu­ ribonde le nostre dita per accaparrarsi i Wurstel. Di domanda in domanda le superfici delle portate appari­ vano ora desolatamente vuote e lucenti: ancora solo un piatto, su cui si appuntavano tutti i nostri occhi quasi fosse una polla d’acqua nel deserto. Malgrado tutto, la sparizione sistematica e progressiva dei cibi non era sfug­ gita nemmeno al nostro ospite. Quindi, all’ennesima do­ 60

manda di Longanesi, Sforzino frenò bruscamente il mo­ vimento della mano e del capo, che era per lui un riflesso condizionato, e dandoci un’occhiata piena di significato, tirò a sé il piatto superstite e se ne servi una generosa por­ zione, per risospingerlo poi al suo posto e abbandonarsi infine al suo « rito » in tutta tranquillità.

Di ritorno a Napoli dopo una breve parentesi con l’Intelligence Service a Bari, dove tra l’altro conobbi alcuni mem­ bri del commando che aveva fatto saltare i famosi depositi tedeschi d’acqua pesante in Norvegia impedendo cosi a Hitler di preparare la sua atomica, fui ospitato al Vomero da un agente americano del controspionaggio, un certo David C. Era questi un curioso personaggio dall’aspetto di un mite pastore protestante, convinto tra l’altro di dissimulare alla perfezione la sua appartenenza ai cosiddetti servizi segreti. Aveva un piccolo appartamento costituito da una sola grande camera da letto e da un paio di altre minuscole stanze, oltre a bagno e cucina. Contemporaneamente a me erano ospiti dell’americano Carlo Ahnagià, un noto indu­ striale romano ed ebreo, un assicuratore sempre romano e altre due persone. Insomma eravamo in cinque e tutti « a carico » dell'americano, e dovevamo dormire tutti nel­ lo stesso grande letto, costretti a incredibili acrobazie per non disturbarci a vicenda e poter in qualche modo ripo­ sare. Io ero rimasto sorpreso dall’incredibile generosità dell’ame­ ricano che sacrificava in tal modo e privacy e stipendio per mantenere degli sconosciuti. La verità è che quel David annetteva, bontà sua, una grande importanza alle infor­ mazioni e ai giudizi che noi gli fornivamo generosa­ mente su fatti e uomini italiani. Il tutto avveniva attra­ verso un pacato e tranquillo « interrogatorio » cui, con l'aria piò distaccata e innocente possibile, il C. ci sotto­ poneva la notte, al momento precedente la buonanotte, quando tutti ci trovavamo riuniti giocoforza sotto le stes­ se lenzuola. Un pomeriggio, trovandomi solo in casa, cominciai ad ag­ girarmi annoiato frugacciando qua e là. In un armadio il mio sguardo cadde su dei fogli « protocollo » battuti a macchina, ai quali probabilmente non avrei fatto gran caso se il mio occhio non si fosse focalizzato sull’indirizzo: « A Sir Winston Churchill », ecc. Una insopprimibile curiosità 61

mi spinse a leggerli. Era un’istanza di riconoscimento da parte dello scrivente, che lo reclamava per il fatto « di aver per tutta la durata della guerra da Napoli, mediante una radio clandestina, informato gli inglesi su tutti i movimenti della flotta italiana sia mercantile che militare riuscendo a provocare (sic) l’affondamento di numerose navi con gra­ ve », ecc. ecc. Seguivano per ben cinque fogli dati e no­ tizie atti a sottolineare l’autenticità e l’importanza della collaborazione. Infine la firma, quella di un personaggio che avevo ripetutamente sentito citare come molto vicino all’ambiente politico del momento, essendo il governo re­ sidente a Salerno. Rimasi disgustato per tanta abiezione e cinismo e fui ten­ tato di sottrarre una copia del documento al nostro ospite. Ma poi ci rinunciai, accontentandomi di imprimere il nome del firmatario nella memoria. Non ebbi mai la possibilità di incontrarlo. Più tardi seppi che a Roma era stato nominato sottosegretario di quella marina che aveva tanto contribuito a far affondare.

Del mio passato di « agente segreto » ci sono ricordi che mi fanno ancora sorridere. Assoldato e assegnato a una sezione comandata da un oriundo, un certo Costantino, gi­ ronzolavo una mattina nel « covo ». Penetrai nella stanza del capo e il mio occhio cadde sulla scrivania su cui spic­ cava una cartella con stampigliato il fatidico Top Secret. La tarantola della mia curiosità mi spinse, non senza es­ sermi prima assicurato della mia perfetta solitudine, ad accostarmi a quella cartella come affascinato. La aprii, avendo cura di non spostarla nemmeno di un millimetro dalla sua posizione sulla scrivania. Il mio sguardo rapace cadde su un foglio su cui a macchina era scritto: « Invi­ tare Luciana al cocktail di venerdì. È ’bbona e disposta! » La mia permanenza in quell’ufficio non durò a lungo per­ ché dopo poco tempo il mio boss, l’oriundo, fu arrestato per abusiva requisizione di autoveicoli civili, che poi ri­ vendeva. Fu inviato a Padula e vi trascorse un paio d’anni intrecciando amicizie che gli furono poi utilissime. Questi arresti dei capisezione si susseguirono senza posa, e comprendevano in genere l’intero staff e per le motiva­ zioni più diverse, intendo diverse per l’articolo trattato perché l’imputazione era sempre la stessa: furto o appro­ priazione indebita. Dato che siamo in tema di furti, di condanne e quindi di 62

tribunali civili o militari voglio ricordare quello che avven­ ne a Napoli i primi tempi dell’occupazione americana. Passata la prima euforia dell’arrivo, con la consueta e lar­ ga distribuzione di sigarette e candies, gli americani si irri­ gidirono e cominciarono i primi arresti per furto o sottra­ zione di materiale appartenente all’armata americana. I col­ pevoli erano autori di piccoli colpi di mano, di furti con destrezza, gesta insomma da modesta manovalanza del cri­ mine. I « signori del crimine », i grandi camorristi, avevano su­ bito capito l’antifona e si erano associati ad alto livello con gli immancabili colonnelli, con cui trattavano partite da capogiro. Mentre i piccoli venivano trascinati di fronte alla Corte, seguiti in aula da codazzi di parenti singhiozzanti e di testimoni. Per parecchi giorni i processi terminarono tutti con la pie­ na assoluzione degli imputati, che venivano portati in trion­ fo fuori dall’aula tra la gioia e l’incredulità generale, es­ sendo agli occhi di tutti i presenti la loro colpevolezza cer­ ta e assoluta. Ma ecco ciò che avveniva. Il reo era posto di fronte al pre­ sidente, in genere un ufficiale superiore, che tra lo sba­ lordimento generale iniziava l’interrogatorio con la clas­ sica formula americana: « Siete innocente o colpevole? » Passato il primo attimo di stupore il ladro, perché di tale in genere si trattava, erompeva in un grido straziante: « In­ nocente... innocente! » Il tutto seguito da un fiotto di sin­ ghiozzi, di giuramenti e di lamentele da intenerire un bue. Si continuava poi con l’escussione dei testi e qui si scate­ nava un’orgia, una litania di falsi giuramenti, di alibi lerci, di testimonianze categoriche quanto fasulle condite sempre da lamenti, da svenimenti di false madri, di spose imbot­ tite di cuscini per simulare avanzate gravidanze con rela­ tivi gemiti, e cosi via in un crescendo impressionante. In breve la Corte finiva col credere di essere composta non da giudici, ma da feroci persecutori di vittime innocenti. E quindi l’imputato veniva regolarmente assolto. Naturalmente il gioco durò poco perché l’inflazione di in­ nocenti fece capire persino agli americani da che parte sta­ va la verità. Ricordo anche un altro episodio di « giustizia americana ». Passavamo per una delle strade del cosiddetto Pallonetto 63

— io, Sforza e Almagià — quando notammo un piccolo as­ sembramento davanti a una pasticceria. fi titolare del negozio pareva particolarmente agitato, qua­ si in lacrime, e stava evidentemente esponendo qualche evento sciagurato agli astanti. Ci fermammo incuriositi, « indagando » discretamente, e venimmo a sapere che un sergente della polizia militare americana, ritenendosi per oscuri motivi truffato dal pasticciere, aveva promesso cate­ goricamente che si sarebbe recato alle cinque del pomerig­ gio a devastare il negozio. Il pasticciere, che probabilmen­ te lo conosceva bene, assicurava che non erano minacce da prendersi alla leggera. Decidemmo di intervenire, e qualche minuto dopo erava­ mo al comando della polizia americana seduti di fronte a un capitano, che ci aveva ricevuti probabilmente grazie al nome di Sforza. Esponemmo il caso e l’ufficiale ci rassicurò con un gesto. Poi, individuato attraverso la nostra descri­ zione (che seguiva fedelmente quella fatta dal pasticciere), fu chiamato l’interessato, cioè il poliziotto energumeno. Qualche istante dopo un gigante lentigginoso e rosso di pelo entrò nell’ufficio. Dopo averci rapidamente e sdegno­ samente squadrato, il gigante si irrigidì sull’attenti di fron­ te all’ufficiale. Questi, in tono bonario e suadente, gli rie­ pilogò « la nostra denuncia » concludendo sorridente che era certo che si trattava di una minaccia senza esito. Quan­ do il capitano, sempre sorridente, fini di parlare, noi, fran­ camente soddisfatti, rimanemmo a fissare « il delinquen­ te ». Ma questi, senza minimamente scomporsi, replicò che lui, alle cinque, non appena « smontato », si sarebbe re­ cato al negozio di quel figlio di buona donna che gli aveva rifilato dei pasticcini alla panna acidi, e avrebbe sfasciato ogni cosa. Rimanemmo piuttosto perplessi. Ci rinfrancammo un po’ quando udimmo il capitano riprendere la paternale senza scomporsi e dire pressappoco cosi: « Dici che gli sfascerai ogni cosa? Ti conosco bene. Siamo o non siamo irlandesi tutti e due? Prima delle cinque la rabbia ti sarà sbollita e tutto sarà dimenticato, vero? » E sempre sorridente, con noi più sorridenti che mai, tornò a fissare il suo uomo. Che impassibile, e senza alterare minimamente il tono del­ la voce ribattè: « No, sir, io alle cinque scendo e gli sfa­ scio ogni cosa a quel figlio di puttana, anche il grugno ». Questa volta l’ufficiale scosse a lungo il capo. Ma senza alterarsi, riprese, con noi sempre meno sorridenti: « Vedi, 64

figliolo, so che non lo farai perché so che tu sai che se lo facessi io sarei costretto a punirti molto, molto severamen­ te, e tu questo certo non lo desideri, come non lo desidero nemmeno io, non è cosi? » Il gigante attese paziente la fine della filippica, molto piu lunga di quanto io non la ricordi. Poi, sempre con lo stesso tono impersonale e calmo: « Io smonto alle cinque e gli fracasso ogni cosa, a quel gran figlio », ecc. ecc. Dopo di che, a un cenno di congedo dell’ufficiale, batté i tacchi e usci dopo averci rifilato un’altra occhiata torva. Sempre più perplessi, ci rivolgemmo al capitano chieden­ do: « Ma questo ha dichiarato che Io farà! Perché non glie­ lo impedisce, magari “consegnandolo” qui in ufficio? » Il capitano ci fissò perplesso, anzi francamente stupito, per poi concludere: « Se lui sfascerà il negozio, e sono certo che lo farà, allora soltanto io agirò. Prima... mai! » Il gigante fini poi col rinunciare alla sua devastazione per­ sonale, come apprendemmo il giorno dopo. Voglio terminare i miei ricordi napoletani ancora con Lon­ ganesi e con un altro episodio raccontato da lui. Era nor­ male che, lontani da casa come eravamo ormai da mesi, i nostri pensieri fluttuassero spesso intorno alle donne del­ la nostra vita: relazioni coniugali, più spesso extraconiu­ gali, alle quali ognuno accennava con molto riserbo. Leo apparteneva a una famiglia patriarcale dove venivano ancora rigidamente rispettati usi e tradizioni. Come per esempio quello del rigido orario del pranzo e della cena, che vedeva riuniti attorno al tavolo sia Leo con la moglie e i figli sia i genitori. Il padre, soprattutto, non tollerava ritardi di sorta a questo cerimoniale; e anche Leo, per evi­ tare polemiche e noiosi strascichi di rimbrotti, si sforzava di essere puntuale. Avveniva però, e per fortuna raramente, che Leo, inguari­ bile e non sempre fortunato coureur de femmes, fosse co­ stretto per non perdere un’insperata avventura, a ritardare notevolmente il suo rientro a casa, dove naturalmente tutti lo aspettavano a fucile spianato. Per superare l’angosciosa impasse allora Leo, senza servirsi dell’ascensore, che col suo rumoroso arresto al piano avrebbe messo in allarme il nemico, saliva silenziosamente come un ladro le scale fino alla porta di casa. Giuntovi e servendosi di una tecnica da Arsenio Lupin riusciva ad aprire « silenziosamente » la porta esterna e immettersi nell’anticamera, ove sostava 65

per riprendere fiato e per orientarsi verso le vetrate della sala da pranzo, dietro alle quali indovinava in agguato tutti i familiari corrucciati. Si accostava allora a passi di lupo fino alla porta, che poi spalancava di colpo irrompendo nella sala al grido: « Han­ no arrestato Malaparte! » La notizia cosi improvvisa e sensazionale — Malaparte era molto benvoluto anche dai vecchi di casa — gettava lo scompiglio nelle « file nemi­ che » che, trascurando ormai ovviamente banali doman­ de sul ritardo di Leo, lo investivano angosciosamente da ogni lato per avere dettagli e precisazioni disperate che Leo dispensava prodigo, inforchettando i primi tortellini. Quando il giorno dopo la notizia veniva « smentita », Leo si limitava a stringersi nelle spalle bofonchiando di essersi limitato a riferire quanto appreso da Aragno o in sala stam­ pa. E d’altra parte nessuno si sarebbe più sentito di rivan­ gare su quel ritardo. A proposito di Malaparte ho letto recentemente che vi è stato un seminario, mi pare a Capri, nel quale si è cercato di stabilire quali spinte ideali, quale « rivolta ideale », qua­ le insomma fu la molla che spinse Curzio ad abbracciare l’ideologia comunista. Menti eccelse e spiriti baconiani per sottigliezza hanno cercato di individuare nel seminario in questione le ragioni di questo sensazionale processo di con­ versione. So di recare a queste menti eccelse un dispiacere, mitigato dal fatto che le mie « rivelazioni » saranno da loro con­ siderate con disdegno, ma purtroppo, amicus Plato..., e io sono obbligato a dire come stanno le cose. Tra me e Malaparte gli incontri erano stati scarsi anche se sempre cordiali. Fu quindi con un certo stupore che ac­ colsi una mattina Malaparte nella mia casa di Trinità dei Monti. Ero a letto con una leggera influenza e Curzio si sedette di fronte a me su una poltroncina. Scambiammo i soliti convenevoli, poi lui tacque fissandomi a lungo con quei suoi occhi accesi e penetranti. Finalmente si decise e si sfogò: era « perseguitato » ancora per le note vicende. Giornali e riviste rifiutavano cortesemente la sua collaborazione (eravamo in pieno clima di epurazione). « Che co­ sa devo fare? » concluse Curzio. Io a bruciapelo gli ri­ sposi: « Iscriviti al partito comunista! » Curzio fu eviden­ temente disorientato, malgrado il suo cinismo a tutta pro­ va. Ma non gli lasciai il tempo di ribattere e continuai: 66

« Ti accoglieranno a braccia aperte... una penna come la tua », e poi cinicamente: « Cosa ti può succedere? Se vin­ ceranno i comunisti tu sarai a cavallo come il Mussolini della tua ballata... Se vinceranno i democristiani, quel po­ co di cristiano che esiste in loro impedirà che infieriscano su di te. Ma da domani, protetto dai comunisti, nessuno oserà toccarti! » Malaparte si limitò a rispondere con un grazie, e dopo qualche minuto lasciò la mia casa. E divenne una colonna dell’* Unità ». Mi dispiace, ripeto, ma cosi sono andate le cose!

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3.__________________ RITORNO AL CIAK

Rientrai a Roma l’indomani dell’ingresso trionfale delle truppe alleate. Ero vestito da ufficiale americano ed ero riuscito attraverso il « servizio » a ottenere una jeep che mi portò fino in città. Ricordo il viaggio nella sera e nella notte, rincorrendo e oltrepassando interminabili e frago­ rose colonne di camion e di carri armati con fari spenti... l’attraversamento di città praticamente distrutte... a Fra­ scati, nel paesaggio lunare della piazza solo una vecchiet­ ta su una sedia impagliata, abbandonata... in attesa chis­ sà di cosa. Poi, l’arrivo a Roma, alla mia casa in piazza Trinità dei Monti, quella col balcone rotondo che si affaccia sulla sca­ linata. Il piccolo appartamento sovraffollato da partigiani jugoslavi, l’imbarazzo piu che la gioia di mia moglie, che del capo di quei partigiani era diventata l’amica. Dimo­ strando una certa sensibilità lo jugoslavo si scusò con me in un discreto italiano per « l’occupazione » del mio allog­ gio, allontanandosi con i suoi. E cosi rientrai nella mia casa praticamente intatta; ritrovai una moglie intelligente, pazza e infedele, ma non ritrovai la nostra domestica, Mim­ ma. Ormai il mio passato di « agente segreto » era già lon­ tano, cancellato. Pieno di entusiasmo « epurativo », nei primi giorni del mio rientro a Roma entrai in contatto con un personaggio piut­ tosto singolare. 68

Si chiamava P. ed era uno dei rari autentici esemplari di partigiano romano. Alto, robustissimo, due occhi neri pene* tranti raramente sorridenti. Era un tiratore di pistola ec­ cezionale, e questa qualità gli servi più di una volta per uscire da imprese disperate. Fu tra l’altro « l’esecutore » del famoso Gobbo del Quarticciolo, la cui uccisione fu invece attribuita con grandi elogi al maresciallo dei cara­ binieri Tozzi. Il P. aveva già il dente avvelenato col Gob­ bo ed era stato protagonista di un precedente significati­ vo. Beniamino Gigli, il famoso tenore — tra l’altro il P. me lo fece conoscere e il tenore mi confermò l’autenticità del racconto — cominciò a essere ricattato dal Gobbo che, profittando del fatto che Gigli non aveva mai negato la sua presenza alle serate organizzate dai tedeschi, lo aveva accusato di collaborazionismo. Gigli non era certo un leo­ ne e preferì pagare, ma quando la cosa cominciò a diven­ tare sistematica e oppressiva ne parlò con P. Occorre qui sottolineare che il Gobbo era il vero e proprio nemico pub­ blico numero uno che tutti, persino i poliziotti, preferi­ vano evitare data la sua pistola « facile » e infallibile. P. lo attese per la strada nei pressi della casa di Gigli: piombò addosso al Gobbo esterrefatto e, a calcioni nel sedere, te­ nendolo per la collottola, lo trascinò davanti a Gigli nella sua villetta obbligandolo a inginocchiarsi, a chiedere per­ dono e a giurare di non riprovarci più. Molto tempo dopo il P. si trovava al terzo piano di un pa­ lazzo di via Fomovo, ora sede di un sindacato e allora sede di un nuovo partito fondato da un lestofante, un certo Salvarezza, che in breve tempo aveva attirato attorno a sé le simpatie di una larga fetta di scontenti. Si sapeva che il Gobbo, forse per tentare uno dei suoi ricatti o forse per organizzare una milizia annata agli ordini dell’intra­ prendente capopartito, si sarebbe recato nel palazzo nelle prime ore del pomeriggio. Anche i carabinieri lo sapevano e avevano predisposto un appostamento per catturare il delinquente. Il P., incuriosito ma ignaro, osservava dalla finestra il movimento degli uomini nella via. A un certo punto giunse una macchina e da questa discese il Gobbo, che si avviò rapidamente verso l’entrata del pa­ lazzo. Il P. lo riconobbe immediatamente, cosi come rico­ nobbe il maresciallo Tozzi che si era portato alle spalle del Gobbo intimandogli probabilmente la resa. Il Gobbo si era voltato fulmineo impugnando ima pistola, mentre il Tozzi era restato sorpreso e interdetto. Ma dalla finestra 69

del terzo piano, con una precisione micidiale, P. aveva già sparato facendo stramazzare al suolo il Gobbo fulminato, con ancora in mano la sua infallibile arma. In realtà il Toz­ zi avrebbe voluto rivelare di non essere stato lui l’esecutore del Gobbo, ma i suoi superiori glielo impedirono, né d’al­ tra parte il P. aveva particolare interesse a farsi attribuire quell’omicidio. Non è però per le sue gesta di partigiano che voglio parla­ re di P., ma per un altro episodio che merita la pena di essere riferito. Come ho già detto, tutti all’epoca cercavano di organizza­ re affari e P. non si agitava certo meno degli altri, anche se quelli che lui prospettava non potrebbero essere citati come esempio di correttezza e di probità. Un giorno ven­ ne a casa mia — abitavo ancora a Trinità dei Monti — e mi parlò in termini entusiastici di un nuovo affare grandio­ so e sicuro. Ormai lo conoscevo bene e mi azzardai a chiedergli di cosa si trattava, ottenendone la stupefacente risposta che si trattava di vendere il contenuto di tutti i vagoni di un intero treno americano che doveva arriva­ re a giorni, colmo di ogni ben di Dio. Un affare di miliar­ di, insomma. II P. era eccitatissimo e mi ci volle del bello e del buono per ricondurlo con i piedi per terra. Dopo tutto depredare un treno, anche trascurando l’aspetto criminale, non era impresa da poco. Ma poi... come... dove? E non mi vergogno di dire che la cosa mi allettava, anche se ne vedevo purtroppo difficile la realizzazione. Il P. mi fissò con i suoi inquietanti occhi neri e poi ghi­ gnò. « Tu dimentichi che mio fratello è un pezzo grosso delle ferrovie! » « E con questo? » Il P. scosse la testa ripetutamente di fronte alla mia incapacità di comprende­ re e ribadi: « Con questo vuol dire che è in grado di or­ ganizzare al ministero una riunione ad alto livello per ri­ solvere tutti i problemi inerenti al nostro treno ». E l’incredibile avvenne. In una sala al primo piano del mi­ nistero in questione, attorno allo stesso tavolo si riuniro­ no, insieme a me, P. e suo fratello, tutti i più alti papaveri del ministero, come se si trattasse di discutere il tracciato di un nuovo tronco ferroviario o l’apertura di una nuova sta­ zione. Le domande furono molte, tutte precise e pertinenti, e a esse il P. rispondeva con chiarezza estrema, consultan­ do dei fogli stesi dinnanzi a lui. II treno conteneva effet­ tivamente i tesori di Ali Baba. Avrebbe dovuto partire da Reggio Calabria il giorno x, e cioè l’indomani della no­ 70

stra riunione, per arrivare nelle prime ore del pomeriggio in una stazione del quadrilatero Napoli, Battipaglia, Sa­ lerno, ecc. A questo punto era facile per non dire elemen­ tare farlo « dirottare » per una stazione meno importante della regione, e farlo sostare su un binario morto allestito per l’occasione. A treno fermo, il P. si sarebbe occupato del resto, e cioè del suo fulmineo alleggerimento. Dopo di che il treno, con nuovi documenti e un nuovo carico certo assai meno prezioso, avrebbe ripreso la sua corsa verso il Nord, dove sarebbe « naufragato ». E qui iniziò l’allucinante discussione. Occorreva designare la stazione e soprattutto il capostazione compiacente. Ti­ zio proponeva un nome che cadeva nel silenzio generale, ma non tardava la violenta reazione di Sempronio: « Tu proponi quello sfaccimme di x... ma quando mai quello accetterà!...», e poi con cattiveria: « Quello è ’nu pigno­ lo... vuol fare le cose in regola... ma per l’amor di Dio! » e cosi il pignolo veniva scartato tra il disprezzo generale. A questo punto un altro faceva un nuovo nome di capo­ stazione, ma anche questo veniva rabbiosamente confutato con argomenti come: « Chi?... quello là?... ma tu sei mat­ to a proporlo... quello è un onesto... è un ligio... sarebbe ca­ pace di avvertire i carabinieri », e cosi anche il secondo nome veniva affossato. La delirante discussione continuò per circa due ore tra la rabbia crescente del P. che vede­ va svanire miliardi e sogni, perché in tutto il personale di stazione i grandi capi non riuscivano a scovarne nemmeno uno degno della loro fiducia! Avevo dato « le dimissioni » dall’O.S.S., ma ero rimasto in amichevole contatto con certuni dei suoi alti esponenti. Si era in piena caccia alle streghe, nella fattispecie le stre­ ghe erano i fascisti, e la cosiddetta « epurazione » stava toccondo i vertici più alti soprattutto per il fuoco sacro che animava e stimolava chi ne era a capo, un noto personag­ gio strettamente imparentato con un attuale ancor più auto­ revole personaggio che non può in alcun modo essere qua­ lificato come elemento di « destra ». La mannaia da lui im­ pugnata si abbatteva implacabile su chiunque rivestisse una certa qualifica e tale qualifica avesse derivato dal bieco re­ gime. Mi imbattei un giorno in una vecchia conoscenza, un gio­ vane aretino spregiudicato e cinico che aveva bazzicato ai margini del cinema, del quale anche oggi è un espo­ 71

nente. Tra una chiacchiera e l’altra l’aretino, che porta tra l’altro il nome famoso di un altro aretino, mi confidò una ghiottoneria: aveva temporaneamente ceduto uno studio da lui abitato in via Margutta a un esponente del Se* cret Service americano, di una branca però indipendente da quelle ufficiali e più note. Era entrato in confidenza col suo provvisorio inquilino, peraltro di origine italiana, in modo da ottenere di tanto in tanto delle rivelazioni più o meno curiose. Aveva avuto cosi agio di sapere come « l’a­ mericano » custodisse nell’appartamento una lettera del nostro epuratore spietato e incorruttibile, ma anche sme­ morato in quanto non ricordava di aver scritto a Mussoli­ ni in tempi sospetti sollecitando « l’onore di rivestire la camicia nera ». Sia che fossi stimolato dalla rivelazione o spinto a punire l’ipocrita atteggiamento del castigatore, il fatto è che prov­ vidi a informarne immediatamente i miei amici, che non credevano alle loro orecchie. La notte stessa però provvi­ dero a « perquisire » l’abitazione di via Margutta entran­ do in possesso del documento incriminato. Forse per coin­ cidenza, o meglio ancora per una cortese pressione delle autorità americane che fin d’allora preferivano simpatiz­ zare con gli ex fascisti, non più tardi di qualche giorno l'epuratore rassegnava le sue dimissioni.

Conobbi un produttore romagnolo, un certo Adolfo S. La sua qualifica gli serviva per coprire un’attività ben più pro­ ficua, lo strozzinaggio. Del resto il mestiere del « cravatta­ io » fu ed è frequentato a livello di suicidio (di terzi) da molti membri della nostra consorteria, che lo praticano re­ golarmente sotto diverse coperture. Tra i clienti più as­ sidui del nostro usuraio Adolfo — nome fatale per un vecchio fascista — c’era uno dei nostri più famosi registi, che ha sempre unito al talento un’inclinazione prepotente a divorare ingenti sostanze. Quanto sto per raccontare mi è stato riferito da Vitaliano Brancati durante uno dei no­ stri incontri per la sceneggiatura di un Orlando che poi non fu realizzato. Tornando all’usuraio e al regista, si dava il caso che il se­ condo fosse imparentato alla lontana con il primo, il che, se permetteva al regista di godere di una certa intimità e dimestichezza col cravattaio, imponeva al secondo un cer­ to freno nell’applicazione dei tassi d’interesse, ben lontani da quelli mortiferi « normali ». Un giorno però il regista, 72

preso più che mai alla gola da impegni impellenti, richiese un nuovo prestito, ma si senti rispondere lamentosamente da S. che purtroppo in quel momento non gli era pos­ sibile, malgrado l’affetto e la parentela. Alla gelata coster­ nazione del regista, Adolfo si affrettò però ad aggiungere che non doveva preoccuparsi, perché proprio in quei gior­ ni era di passaggio a Roma un banchiere milanese suo amico, che certo non avrebbe negato il suo intervento. C’era però un ma piuttosto grave e qui la voce di Adolfo si riempi di sconforto. Il milanese non era come lui, era un vero e proprio strozzino che praticava normalmente tassi a dir poco vergognosi. Quindi era piuttosto perplesso se presentarglielo. Il regista ribattè che non gliene fregava niente: aveva bisogno di quei soldi e basta. S. organizzò rincontro a casa sua. Mentre lui e il regista sorbivano il caffè, sopraggiunse il milanese, efficiente fret­ toloso e sbrigativo, occhiali pince nez sul naso e grande borsa di pelle vera sotto il braccio. Non perse tempo in chiacchiere inutili, chiese una garanzia che S. si affrettò a offrirgli con grande sollievo del regista, richiese un tas­ so da infarto, e subito estrasse dalla borsa un fascio di bi­ gliettoni che il regista intascò senza nemmeno controllare. Poi il banchiere si alzò e, congedandosi con un rapido sa­ luto, si precipitò verso Fiumicino per non perdere l’aereo per Milano. Qualche tempo dopo, trovandosi il regista a passare per caso davanti al palazzo di S., decise di fargli una visita, per una volta tanto disinteressata. Suonò alla porta e fu ri­ cevuto dal cameriere di S., in giacca a righe. Macchinal­ mente il regista lo fissò: nessun dubbio possibile... lo stesso viso, la stessa espressione cinica ed efficiente, a volte, come in questo caso, più servile... infine gli stessi occhiali a pin­ ce nez. II « banchiere » apparve per un attimo sconcertato, ma solo per un attimo: poi, indicata al regista la porta del salotto, scomparve nelle retrovie recando sul braccio il so­ prabito. Il « milanese » era solo un paravento per poter stran­ golare finalmente anche il prodigo e affezionato parente! Venne il crollo del fascismo e vennero i tedeschi. Malgrado le catastrofi nazionali, S. aveva allargato sempre più la sua sfera d’azione, facendo raggiungere ai suoi conti in banca vette da capogiro. E con i tedeschi a Roma egli eseguf il suo capolavoro. Allacciò rapporti di stretta collaborazione con tutti i capoccioni, ai quali offriva donne e percentuali ricavandone utili fantasmagorici. Fu insomma un collabo­ 73

razionista fedele, tenace e infaticabile, tanto che notizie della sua attività oltrepassarono i confini della Repubbli­ ca sociale e ci raggiunsero a Napoli, dove noi compilava­ mo appunto un elenco di persone compromesse coi nazi­ fascisti, da eliminare non appena agguantate. Cadde Roma e il piano di epurazione scattò, sia pure con i modestissimi risultati che tutti conoscono: uno dei primi a essere ricercato fu il nostro Adolfo, ma grande fu la me­ raviglia degli investigatori quando, recatisi alla splendida dimora sulla Cassia di proprietà del nostro, si videro apri­ re la porta da poliziotti militari yankee, mentre dalle sale interne giungeva la festosa eco di un festino che Adolfo stava offrendo ai big americani. Era diventato un intoccabile. Che cosa era successo? Quando fu chiaro che i tedeschi si apprestavano a lasciare la capitale, il nostro romagnolo offri una serata d’addio a tutti i capoccioni germanici. Il festino durò a lungo, e lo champagne e il whisky annegarono praticamente gli ospiti, che dopo qualche ora rotolarono letteralmente sotto il gran­ de tavolo. Adolfo si accertò che fossero tutti fuori combattimento. Fuori, intanto, la Cassia rombava e tremava sotto i cingoli degli ultimi giganteschi « tigre » in ritirata. Dalla parte op­ posta della città stavano entrando invece, tra il delirio del­ la folla, gli americani. Adolfo si diresse verso una jeep che conteneva un mazzo di « tre-quattro stelle » e si offri di consegnare loro patriot­ ticamente un bouquet di generali tedeschi da lui catturati con l’astuzia. Increduli, gli americani accompagnarono S. alla villa, fi­ nendo col farvi una delle piò belle retate di tutta la cam­ pagna d’Italia. E da quel momento Adolfo fu posto sotto la stella bianca americana! Dopo il mio ritorno a Roma, nei primi tempi abitavo al Babuino: cioè a un paio di centinaia di metri da piazzale Flaminio e da una delle entrate di villa Borghese. I pomeriggi li avevo tutti liberi e ne approfittavo per con­ durre il mio cane a correre nei prati della villa, in quei tempi veramente a completa disposizione di cani, cavalli e persone amanti deH’aria libera. Mi recavo quasi sem­ pre vicino a un minuscolo laghetto — meglio sarebbe definirlo vascone — che si trova appena saliti da piazzale Flaminio, dopo un breve declivio erboso. 74

Scambiare quattro chiacchiere tra cinofili era cosa norma­ le e non tardai a prendere un vivo piacere dalla conversa­ zione con uno strano personaggio che incontravo quasi tutti i giorni in compagnia di un minuscolo fox terrier vi­ vacissimo. Era un signore alto e magro dal viso da fanno, la testa coperta da un feltro a forma di caciotta, la bocca abbondantemente sdentata. Provai immediatamente per lui una viva simpatia, credo alimentata soprattutto dal suo mo­ do di esprimersi su ogni argomento che affrontava. Mi stupì anzitutto il suo eloquio piuttosto libero e la sua critica sfer­ zante, mordace, corrosiva sul regime che ci governava e i suoi capi. Devo dire che sentire qualcuno esprimersi in quei termini sui santoni ufficiali, Mussolini compreso, in­ cuteva una certa preoccupazione, poiché spesso ci si tro­ vava di fronte a degli agenti provocatori. Ma, superata la prima diffidenza, presto mi associai alle parole del nuovo amico, anche se le sue critiche erano ben piu profonde e fondate delle mie, del tutto epidermiche e superficiali. Era un uomo di una cultura incredibile, soggiogante. Poteva parlare per ore di Goethe o di cani, di D’Annunzio o di lepidotteri, rovesciando torrenti di parole, di concetti e di idee. Era stato professore all’università di Napoli, ma ne era stato radiato per non aver voluto, da socialista con­ vinto, prestare giuramento di fedeltà al fascismo. Filosofo com’era, nel senso piu esteso della parola, aveva accettato la sua situazione, e ora viveva modestamente a Roma in un piccolo appartamento del centro. Sue uniche divagazioni i cani, di cui amava circondarsi — arrivò ad averne fino a sei o sette, tutti sempre intorno a lui, infilati persino nel letto — e le conquiste ancillari. Era Panfilo Gentile. La nostra amicizia semplice e disinte­ ressata è durata fino alla sua morte. Naturalmente, quan­ do lasciai Roma 1’8 settembre, persi ogni traccia anche di Gentile. E fu quindi uno dei miei primi pensieri al ritorno quello di rintracciarlo. Ci rincontrammo con reciproco piacere, e cominciammo a vederci piò assiduamente. In quell’epoca collaborava a « Risorgimento Liberale » e io, che pure avevo lasciato il servizio, ero rimasto sempre in contatto con qualche alto ufficiale americano dell’Intelligence. Si doveva procedere alle elezioni legislative e De Gasperi appoggiò la scelta del sistema proporzionale, dichiarando agli interlocutori americani che allora sopras­ sedevano a ogni decisione di carattere politico, che que­ sta era la determinazione preferita da tutti gli uomini po­ 75

litici di un certo peso. In uno dei nostri incontri invece, Panfilo mi disse che i rappresentanti piò significativi del mondo politico erano per Ù collegio uninominale. La pro­ spettiva, che in tutta la mia vita mi ha sempre sedotto, di dimostrare il contrario di quanto ufficialmente affermato o convenuto o legalizzato, mi spinse a chiedere all’amico se aveva la certezza della sua affermazione. Avutane confer­ ma, gli replicai che in questo caso mi sentivo in grado di mandare per aria tutto il piano degasperiano. Mi ero infatti già recato da un amico, il colonnello ame­ ricano Mario Brod, comandante di una importante bran­ chia dell’Intelligence, esponendogli quanto stava succeden­ do. Mi rispose che se avessi potuto dimostrargli per iscrit­ to quanto affermavo a voce, lui sarebbe stato in grado di far esplodere tutta la macchinazione elettorale democri­ stiana. Naturalmente riferii questo a Panfilo Gentile, che seduta stante compilò una dichiarazione scritta che espri­ meva in termini inequivocabili il dissenso per la politica elettorale adottata e l’approvazione della contraria. Dopo di che, attraverso il Partito liberale e il suo santone Bene­ detto Croce, in un tempo rapidissimo ottenne la firma in calce di tutti gli uomini politici piu rappresentativi, dallo stesso Croce a Labriola. Io figuravo in calce al documento. Ricuperai il foglio con le firme da Gentile e lo mostrai agli occhi, prima increduli e poi allibiti, del colonnello ameri­ cano. Questi prese il foglio, mi assicurò che si sarebbe re­ cato l’indomani dall’ammiraglio Stone, reale e unico « pa­ tron » d’Italia per consegnarglielo. Durante la visita dell’in­ domani, De Gasperi si sarebbe sentito domandare dall’am­ miraglio se era veramente certo del consenso di tutti gli uomini politici importanti; alla sicura riconferma di De Gasperi, l’ammiraglio gli avrebbe sciorinato sotto il naso il « nostro » foglio e l’avrebbe messo a K.O. Purtroppo le cose andarono diversamente. Gentile non ave­ va previsto una cosa. Aveva mostrato — ed era ovvio, per ottenere le firme necessarie — il foglio a Pannunzio e a « Risorgimento Liberale » di cui Pannunzio era direttore. Il foglio aveva suscitato sbalordimento ma, all’insaputa di Gentile, aveva offerto una ghiotta esca all’ingordigia dei giornalisti. E il giorno dopo, prima dell’abboccamento Stone-De Gasperi, il giornale usci con la riproduzione del fo­ glio e delle famose firme. La rabbia di De Gasperi fu gran­ de ed egli impose direttamente o indirettamente a tutti i firmatari di « annullare » la loro firma. Quello che segui fu 76

lacrimevole e indegno. Se cosi si può dire, « piagnucolan­ do » tutti quegli uomini, cosiddetti insigni, ritrattarono la firma con dichiarazioni più o meno oscene che rasentava­ no talvolta una dichiarazione di estorsione. E ora dopo quasi un anno ero tornato a Roma. Avevo la­ sciato il mio « servizio segreto » e cercavo di orientarmi al­ la meglio per riprendere la mia attività. Mi arrabatta­ vo, per tirare avanti, vendendo qualche libro prezioso e cercando di fare, come tutti, qualche piccolo affare. Ma malgrado quello fosse un momento in cui tutti riuscivano in qualche modo a rivendere a dieci quello che due giorni prima avevano comprato per cinque, si trattasse di un tubo di aspirina o di un pacco di chiodi, per me si verificava esattamente il contrario. Qualunque cosa intraprendessi si rivelava un affare disastroso, per cui in breve tempo de­ cisi di rinunciare a qualsiasi iniziativa commerciale. La situazione si faceva sempre più precaria anche perché ogni tentativo per cercare di convincere i rari produttori a finanziare il soggetto che avevo scritto, Aquila nera, si era rivelato assurdo. Nessuno credeva che in Italia si po­ tesse riprodurre l’ambiente russo e cosacco dell’ottocento. Avevo finito anch’io col convincermi che forse la mia era una presunzione balorda e cacciai il soggetto in un casset­ to. Mia moglie era certa ormai che questa mia persistente sfortuna fosse dovuta al malocchio e aveva finito per con­ vincere anche me. Dovevamo correre ai ripari, ma come? Scrivemmo a Mim­ ma, la nostra domestica, che in diverse circostanze ci era servita da « veggente ». Dopo qualche giorno ricevemmo la visita di una linda e simpatica vecchietta che sembrava uscita da una novella di Andersen. Era la madre di Mim­ ma, e nel paese esercitava la funzione della « strega » o fattucchiera. La sua attività precipua era individuare e togliere « gli occhi cattivi ». Come ebbe a spiegarci in se­ guito, quando trovò in noi fertile terreno d’ascolto, non le era possibile « tramandare » le sue facoltà ai familiari. Ma se avesse « sentito » un neonato in paese « adatto » a ricevere l’investitura, quello sarebbe stato il nuovo inizia­ to. Un po’ insomma, in scala minore, come avviene per la designazione del Dalai Lama in Tibet. Senza perdere tempo, si fece dare una bacinella con del­ l’acqua nella quale gettò alcuni grani di riso. Poi, dopo aver mormorato delle preghiere mentre noi stavamo in un 77

angolo in silenzio, versò qualche goccia d’olio nell’acqua. Restò fissa a osservarla, richiamandoci poi con un gesto del capo presso di lei. Per quanto incredibile possa parere, l’olio si era sciolto completamente, non ve n’era piu trac­ cia. Segno di malocchio particolarmente forte. Devo con­ fessare che, malgrado il fatto dell’olio, ero piuttosto scet­ tico. Assistetti contro voglia alle varie sedute che, data la virulenza della « maledizione », si protrassero per ben nove volte. Alla nona la vecchia, dopo aver gettato l’olio nel­ l’acqua, finalmente sorrise e ci richiamò presso di lei: l’olio galleggiava nelle chiazze consuete sull’acqua. Ricordo ancora: erano circa le tre del pomeriggio e il sole batteva forte su Trinità dei Monti e sulla scalinata. Io, tanto per fare due passi, scesi sulla piazzetta di fronte l’Hótel Hassler. Ero appena uscito dal portone di casa quando intravidi una persona, sola anch’essa nel deserto estivo, che attraversava la piazza dirigendosi verso la sca­ linata. Riconobbi Mario Del Papa, un vecchio amico che non vedevo da anni. Qualche effusione, dopo di che scam­ biammo quattro chiacchiere. Alle sue domande sulla mia attività risposi contrariato, esponendogli la situazione con particolare riferimento alla mia idea di Aquila nera. Do­ po avermi ascoltato, Mario mi disse: « Hai provato con Ang... ». lo mi misi a ridere, tanto il consiglio di Del Papa sembrava persino sfottente. Il personaggio in questione era sempre stato un modesto pedalatore nella giungla del cine­ ma; l’avevo anzi conosciuto in occasione di certi doppiag­ gi di problematici film ungheresi. Uno squattrinato di scar­ se idee. Presi la cosa come una boutade o come un tenta­ tivo di Del Papa per liberarsi di me. Ma lui insistette, di­ cendomi che avevo torto e che il tizio in questione si era associato con un gruppo di Temi, carico di soldi anche se povero di idee. Finii a malincuore per farmi convincere, e dopo qualche minuto telefonai ad A. Questi mi riconobbe immediata­ mente e mi invitò ad andarlo a trovare nel suo ufficio al Tritone. I locali non avevano un aspetto incoraggiante, ma tant’è, ormai ero li, e dopo pochi attimi eccomi alla pre­ senza del produttore. Che ascoltò cercando di assumere un tono importante che a me sembrava caricaturale. Prese un foglietto da un notes e vi annotò: « Aquila nera, Freda, Cervi, Rossano Brazzi, e... ». Poi, dopo un sussiegoso « un attimo, per favore », prese il telefono e chiamò Temi, par­ lando a lungo sempre fissandomi negli occhi e annuendo. 78

per farla breve, dopo altri dieci minuti uscivo da quel sor­ dido ufficio con un compromesso firmato e un anticipo per quello che doveva rivelarsi come il film commercialmente piu riuscito della mia carriera. Aquila nera esplose come una bomba per scacciare i fe­ tidi miasmi del neorealismo. Se l’Italia cinematografica fa­ scista era legata al cordone ombelicale dei telefoni bian­ chi, in una squallida sequela di insipide commedie e di drammoni nostrani, l’Italia post-liberazione era sommersa da film esaltanti i mercati rionali con relativi ladri di bi­ ciclette o, nel migliore dei casi, le gesta nefaste di nazisti tipo Olocausto. Il mio film fu finalmente il primo film « americano » del genere, con la trionfale cavalcata dei cosacchi al finale, che travolse le ultime resistenze di un cinema perpetuamente ancorato alle sordide miserie umane. Del resto il cinema italiano non è nuovo a queste prodezze. Ha avuto un ge­ nio come Pastrone che ha creato il grande spettacolo ci­ nematografico insegnandolo anche nei dettagli agli ameri­ cani, e gli italiani lo hanno buttato da una parte per get­ tarsi a capofitto, fin da allora, nel genere spicciolo del dramma e della commedia borghese. Anche oggi occorre­ rebbe un’altra Aquila nera per gettare nella pattumiera, unico posto che merita, la cosiddetta « commedia all’italia­ na », che ci ha relegato all'ultimo posto nei mercati mon­ diali dopo il Giappone e l’india. Ricordo al cinema Imperiale, alla prima dell’Aquila, Peppino Amato e Aldo Fabrizi tuonare nell’esaltazione del mio film di cui dicevano, bontà loro, che non aveva nien­ te da invidiare ai colossi d’oltreoceano. Ricordo che ci scrisse un esercente di Civitavecchia pregandoci di preav­ vertirlo nel caso di un nuovo film del genere perché il pub­ blico, per l’entusiasmo, si era scatenato scardinandogli le poltrone del locale. Il che non doveva certo avvenire per Umberto D.

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4._________________ COS’È IL CINEMA

Ho appena terminato da poco di girare, dopo dodici anni di assenza dal set, Murder Obsession. Perché un’assenza tanto prolungata? Forse per la dilagante pornografia, che ha rotto gli ultimi argini contro la stupidità permettendo a chiunque di af­ frontare il mestiere più facile del mondo, quello del regi­ sta, o forse perché la mentalità corrente ritiene validi solo quei registi che hanno la fortuna di fare dei film con buoni attori e di sicuro successo commerciale. Forse anche per il mio carattere estremamente difficile che era sopportato solo da Riccardo Guaiino, che preferiva il talento al carattere, tanto da accettare perfino di essere co­ stantemente derubato dai suoi producer purché il furto av­ venisse « con destrezza ». Ho cercato per la verità negli anni passati di realizzare un film su Francesco Baracca, una figura esaltante, roman­ tica, eroica e avventurosa: un film con scene di straordi­ naria potenza espressiva, con battaglie apocalittiche (non lo dico a caso). Ma, prima il progetto fu bocciato da quella fabbrica di debiti propinatrice di inutili film ungheresi che era l’Italnoleggio, poi dalla Rai, prima e seconda rete, che non lo ha ritenuto degno dei suoi programmi malgrado che la televisione francese fosse pronta alla coproduzione. Il mio film è un thriller basato più sull’atmosfera e i per­ sonaggi che non sugli effetti che, peraltro, non mancano. Nel realizzarlo ho pensato spesso al mio amico Bava, usci80

to di scena recentemente con discrezione, come con discre­ zione vi era entrato. Era un grande del cinema, conside­ rato tale non solo da me, ma in tutti Paesi seri, come gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia. La televisione, que­ sta mostruosa pattumiera del nostro cinematografo che bada piu all’aumento del canone che alla qualità dei pro­ grammi, non ha creduto di dovergli dedicare nemmeno una serata o, magari, un tardo pomeriggio, proponendoci il suo allucinante Maschera del demonio. La morte di Bava e quella di Hitchcock hanno lasciato un vuoto incolma­ bile per chi considera il cinematografo fantasia, evasione dalla realtà e non piatta riproduzione di squallide vicende quotidiane. Mi è stato chiesto se ho incontrato delle difficoltà per montare il mio film. Enormi, se si pensa che in questo squinternato Paese di tutto si occupa la classe politica, fra i metalmeccanici e i vari Agnelli, tranne che del cinema. In Italia non esistono più produttori e soprattutto manca totalmente una rete di distribuzione, che è sempre stata il tessuto connettivo di questa nostra fortunata industria. Credo di essere nato per fare del cinema. Questo non è un luogo comune di quelli che fanno torcere il naso, come i miei film agli intellettualoidi. Credo fermamente che per riuscire a esprimere qualcosa si debba avere qualcosa nel sangue. Il cinema non lo si può insegnare. Sono sem­ pre andato in bestia quando ho letto che avrei fatto parte del Centro Sperimentale di Cinematografia, perché non è vero: non avrei mai potuto far parte di un organismo di cui ho sempre proclamato la perfetta inutilità. Forse l’equi­ voco è stato generato dal fatto di aver io dichiarato di essere stato chiamato a Roma al Centro Cinematografico, e cioè alla Direzione del Cinematografo. Ho sempre odiato qualsiasi scuola sotto qualsiasi forma; figuriamoci una che pretende di insegnare a diventare registi. Tutt’al più il Cen­ tro può dare un modesto insegnamento di base su alcuni aspetti della cinematografia quali a esempio l’ottica e la scenografia. Se consideriamo la cinematografia come un’arte, perché dovrebbe esserci una differenza tra essa e le altre arti con­ sacrate nei secoli? Uno o nasce regista o non lo diventerà mai. Oh Dio, sotto un certo aspetto, fare il regista cine­ matografico è il mestiere più facile del mondo. Qualsiasi imbecille può improvvisarsi tale. Dicendo questo, rischio 81

anche una facile battuta... ma basta guardarsi attorno, nello sconsolante panorama del nostro cinema per averne la conferma. Persino gli attori riescono a dirigere un film. Un buon copione, un operatore che sappia collo­ care la macchina al punto giusto e conosca i raccordi tra un quadro e l'altro, una musica suggestiva e un perfetto montaggio fanno di chiunque un regista, il quale a volte, con un po’ di fortuna o con un forte partito politico alle spalle, potrebbe persino ricevere un premio dello Stato per l'opera prima, soprattutto se il suo film è una noiosa disa­ mina della miseria e della degradazione morale di qualche dimenticata regione italiana. Con un pizzico di antifasci­ smo, poi, ci scapperà anche qualche grolla d’oro. Questa totale nullità dei registi — la dilagante pornografia ha fornito pennelli a più di un imbecille nostrano — può essere tranquillamente estesa anche ai registi americani. In USA, nella quasi totalità dei casi, il regista è un sem­ plice coordinatore, cui, è vero, spetta di diritto una sedia particolare, ma che ha un campo d'azione limitato: gli vie­ ne consegnata una sceneggiatura alla quale non ha parteci­ pato e che deve controfirmare pagina per pagina, impe­ gnandosi in tal modo a non cambiare nemmeno una vir­ gola... Alle sue spalle, durante le riprese, vi è una segre­ taria di edizione che, cronometro alla mano, controlla che ogni inquadratura venga girata nel tempo prefissato al se­ condo... Infine un operatore che riprenderà la scena da ogni angolo possibile. Tutto il girato viene poi affidato al montatore che lo « ordinerà » secondo il suo esclusivo cri­ terio personale, escludendo categoricamente ogni tentativo di intervento del cosiddetto regista. Ho visto più volte noti registi imprecare e scongiurare inutilmente di entrare nella stanza dove si montava il loro film. Ogni volta che ho avuto l'occasione di collaborare con qualcuno di loro, dapprima come « seconda unità » e poi come solo regista del film, ho potuto constatare la loro as­ soluta incapacità a « vedere » una scena o a intuire la mi­ gliore posizione per la macchina da presa. Mario Bava, che ha girato con Toumeur, mi confermava la stessa cosa. In certi film poi, di particolare importanza, collabora un pit­ tore che immagina e disegna ogni inquadratura, che il regi­ sta dovrà riprodurre nei minimi dettagli. Si può cominciare a pretendere al titolo di regista quando dalla nostra fantasia nasce il film già in sede di soggetto e di sceneggiatura e già deve essere concepito come se­ 82

quenza di immagini e non di parole o di concetti. E deve nascere per un impulso misterioso che nessuno potrà mai definire, come nessuno potrà mai spiegare cosa abbia « spin­ to » Giotto a dipingere, Michelangelo a scolpire o Mozart a comporre, anche se paragoni del genere sono un po’ az­ zardati. Nessuno potrà mai insegnare il gusto di una inqua­ dratura o le ragioni di una carrellata, che non è una scar­ rozzata tra le pareti di un teatro, ma lo strumento per sco­ prire in successione cose, oggetti e persone, collocate in modo da sorprendere, interessare, commuovere lo spetta­ tore. L'ultima cena fu inquadrata da Leonardo secondo l’u­ nica angolazione possibile per poter avere sott’occhio in un colpo solo tutti i personaggi e le loro reazioni. Qualun­ que altra inquadratura, che so, per esempio alle spalle di Giuda, sarebbe stata meno efficace e quindi errata. E cosi è per la posizione della macchina da presa, che non può es­ sere che una e non centouna all’americana, con scelta a posteriori in sede di montaggio di quella buona. Il cinema deve dare sensazioni e emozioni diverse da quelle di qualsiasi altra forma di « narrativa », altri­ menti si fa del teatro o della letteratura. In molti film di Bergman due o tre personaggi ci espongono staticamente e confinati in una stanza i loro problemi, e questo modo di raccontare, a parte l’inevitabile rottura di corbelli, ben poco ha a che vedere con il cinematografo e troverebbe ben piti valido spazio in un libro o su un palcoscenico. Il cinema è « muto » e visivo. Il suono, che in effetti gli fu appiccicato molto dopo, deve essere un complemen­ to, a volte straordinario, ma sempre subordinato alla for­ za dell’immagine. E invece si scivola sempre piti nella de­ scrizione del « quotidiano » con i suoi problemi, che sug­ gestionano un Pirandello, ma non suggeriranno mai un solo fotogramma a un genio dell’immagine come John Ford. Noi, essendoci ormai autocastrati, siamo un Paese che ci­ nematograficamente non esiste più. Anche l’America ave­ va corso questo pericolo di autodistruzione quando ave­ va creduto alla favola degli undergrounds, ma se ne è ac­ corta in tempo ed è tornata ad adagiarsi fiduciosa fra le braccia villose di King Kong. Ricordo che a Parigi si dava nel ’64 all’Unesco il mio film d’avventure Sette spade per il re. Tra gli spettatori vi era anche l’ambasciatore degli Stati Uniti che alla fine della proiezione doveva recarsi a un cocktail, per cui quando si accese la luce, dopo qualche minuto di convenevoli con 83

i vicini, si avviò all’uscita. Stavano intanto già intervistan­ domi e io mi ero già scagliato con la solita foga contro l’in­ tellettualismo cinematografico, che avevo indicato come il dissolutore della genuina espressione cinematografica, ed ero cosi scivolato in un’aspra disamina del film americano dell’epoca, cosi diverso da quello da me tanto ammirato. Alle parole « cinema americano », l’ambasciatore quasi alla porta si era bloccato, per poi tornare lentamente sui suoi passi, mettersi a sedere e... perdere il suo cocktail. Stavo citando quale esempio il western, una delle più autentiche espressioni del cinema USA, che originariamente era un racconto epico e semplice sullo sfondo di meravigliosi e unici paesaggi: un racconto nel quale vi era da una parte un eroe « buono » che era semplicemente un buono, e op­ posto a lui un malvagio che altro non era se non un malva­ gio a diciotto carati. Ma poi a poco a poco il buono non era più un buono tout court: era qualcuno che avendo avuto esperienze negative e scioccanti, pur essendo di na­ tura malvagia, lottava contro questa sua natura per potersi reinserire fra i « normali ». Quanto al malvagio — certo era un malvagio — lo era perché da bambino aveva avuto esperienze traumatizzanti che ne avevano deviato la sensi­ bilità e quindi la natura. La mia conclusione era che il pubblico se ne fotte delle esperienze negative infantili del malvagio. Ma vuole sem­ plicemente che nel film i caratteri siano netti e divisi, con il suo eroe da una parte e dall’altra la carogna, che deve morire ammazzata.

Stavo girando Maciste alla corte del Gran Khan — un film cui tengo molto perché sono riuscito a riprodurvi la Cina dei Ming con un impressionante terremoto finale con mez­ zi di personale invenzione — quando mi dissero che un giornalista francese desiderava parlarmi. Fosse stato un giornalista italiano non avrei perso nemmeno un minuto. Trattandosi di uno straniero acconsentii a sentirlo. Era un giovane, con occhi neri mobili e furbi da orientale. Si chia­ mava Simon Misrahi ed era accompagnato da una nota montatrice. Li ascoltai con scetticismo crescente mentre si professavano miei ammiratori, ma il mio sbalordimento fu all’apice quando mi comunicarono di essere riusciti a or­ ganizzare alla Cinémathèque di Stato parigina una « mo­ stra » completa dei miei film. A Parigi incontrai il direttore della Cinémathèque, Henri 84

Langlois. Andammo a pranzare in un piccolo, tipico ri­ storante sui quai. Ricordo che parlammo di Giovanni XXIII che consideravo come un « distruttore » del presti­ gio della chiesa e di cui pronosticai azzardatamente una rapida « fine ». Mi disse che Rossellini era rimasto deluso e seccato àeWhommage a me dedicato, che riteneva ingiu­ stificato. Gli risposi che ritenevo la reazione di Rossellini normale, in quanto egli si considerava, e a torto, a parer mio, come un intoccabile santone del nostro cinema mentre, sempre a mio parere, era solo un uomo estremamente intelligente, non un grande regista, la cui opera ave­ va avuto la fortuna di « coincidere » con una guerra disa­ strosa e una ancora piu disastrosa e feroce occupazione te­ desca: e questo gli aveva valso un successo e una riso­ nanza mondiali. Per me il cinema è il cinema americano, non esiste altro cinema che quello. Andando per paradossi, naturalmente, voglio dire che tra Raoul Walsh e Ingmar Bergman non esiste un secondo: uno parla cinema, l’altro è un uomo intelligentissimo, forse mostruosamente intelligente, ma che non fa del cinema. Il cinema è azione, emozione, ten­ sione, velocità. Sono stato spesso accusato della velocità con cui giro. Per esempio, il campo e il controcampo li faccio dalla stessa parte, cambiando il fondo ma non le luci — e risparmiando un’ora e mezzo di fastidi tecnici. Adopero tre-quattro macchine. Eccetera. Ma c’è una ragio­ ne che non è solo quella di risparmiare sui costi. £ perché più veloce si va e più si segue l’ispirazione del racconto. Il cinema è azione anche per un regista.

L’uomo banale, l’uomo quotidiano, non m’interessavano per niente. Sono cinico, quanto a questo. Neanche nella vita reale m’interessano. Mi interessa invece l’eroe. L’uo­ mo che vive epoche grandiose, di grandi conflitti. Ci sono, a cercare nella storia, possibilità di soggetti appassionanti. L’essenziale è ritrovare i momenti decisivi. Mi interessa l’esploratore spaziale, non il tipo che ha costruito la car­ linga o il missile su cui l’esploratore viaggia. De Sica, al­ l’epoca dei suoi trionfi, si sarebbe entusiasmato all’idea di mostrare un omino, un operaio, che dedica la vita a pian­ tare dei chiodi nell’astronave che porterà un Gagarin sul­ la luna, e che la sera toma a casa, tutto unto, a ritrovare la solita minestra, la nipotina... E un giorno finalmente la 85

grande macchina parte, con grande gioia per lui, che vi ha lavorato... Tutto questo non mi interessa, mi interessa seguire la splen­ dida avventura dell’esploratore in un mondo unico. Se si potesse rendere ciò che ha provato, ciò che ha visto, sa­ rebbe stato questo il grande film. Ho citato il nome di De Sica senza nessuna intenzione offensiva, è perché è stata per anni un’abitudine citare i maestri, i padri, i nonni e i pontefici massimi del neoreali­ smo. Se viaggio attraverso il mondo, mi entusiasmano gli spettacoli della natura, le cascate del Niagara o del Kenya, una diga, un uragano... Mi sconvolgono molto di piu che non la visione dell’uomo della strada, dell’uomo che passa la giornata a spaccare pietre. Lo guardo, partecipo alla sua pena, ma non è uno spettacolo. È una cosa banale, e quest’immagine banale dovrebbe essere trasportata all’in­ terno di un’opera d’arte, in un film! Nell’Ottocento italiano c’è stato un pittore celebre che si chiamava Teofilo Pattini, che forse potrebbe essere con­ siderato come l’antesignano dei registi neorealisti. C’era grande entusiasmo per quello che Pattini faceva, per esem­ pio, per la Tragedia del minatore, un quadro che mi ricor­ derò sempre: una casupola scurissima, un morto per ter­ ra coi piedi verso chi guarda come in Mantegna, una bam­ bina piangente in un cantone. Di questo quadro si magni­ ficava la dimensione tragica: la capanna senza luce, il morto ricoperto da un paltò militare, la bambina in lacri­ me — e nessun altro essere umano, perché il mondo egoi­ sta sta fuori dalla capanna. Si sono scritti volumi su Pat­ tini, su questo quadro sconvolgente che dava il brivido della realtà. Oggi se si parla a qualcuno di Pattini nessuno sa chi è, e chi lo sa lo deride: un poveraccio che ha pas­ sato la vita a riprodurre qualcosa che oggi non interessa a nessuno. Un genere in cui pare che io sia particolarmente versato è quello normalmente definito « film dell’orrore », benché preferisca la qualifica francese di film d’épouvante. Ho scritto piu di una volta che cosa intenda per horror. Nulla a che fare o a che vedere con la rappresentazione oggettiva di qualche mostro. È un espediente che ritengo di qualità inferiore, quasi da carnevale di Viareggio della cui cartapesta ci si serve per incutere spavento ai più sprovveduti... L’orrore vero è quello radicato dentro di 86

noi fin dalla nascita. £ un terrore atavico che probabil­ mente risale ai primordi dell’uomo delle caverne, quan­ do gli esseri che formavano ancora un anello di transizio­ ne fra la scimmia e i primi umanoidi si rintanavano nel profondo delle loro grotte, malamente illuminate dallo stan­ co bagliore di qualche focolare, mentre fuori, nel buio im­ menso di quelle notti senza fine, si scatenavano tempeste di violenza apocalittica (« diluvio universale ») ed echeg­ giavano spaventosi barriti e ruggiti di mastodontiche fiere. E quei poveri esseri praticamente indifesi si rattrappivano agghiacciati dallo spavento l’uno contro l’altro. Il primo terrore è quindi quello del buio... dell’oscurità! Ricordo ancora i miei terrori di fanciullo quando qualche volta venivo lasciato solo la notte. Nella grande villa di Milano, a San Siro — allora una landa pressoché deser­ ta — tutti erano usciti. E io nella stanza, a letto, gli occhi spalancati nel buio nell’attesa di un sonno che non ve­ niva. Bastava il tonfo di una porta o lo sbatacchiare di una persiana a gelarmi il sangue nelle vene. E nella mia fantasia, allora, un impercettibile scricchiolio sulle scale si tramutava nel passo di un assassino che veniva a sgoz­ zarmi. È questo il vero terrore, l’angoscia di ciò che non si vede, il rumore che scatena il terrore fino allora represso. In tutti i miei film vi sono porte che si aprono nel buio senza rumore, scricchiolìi e fruscii raggelanti, il picchiettare di un ramo contro un vetro che sembra la mano scheletrica di un fantasma. I fantasmi... l’al di là... quest’altro angoscioso enigma che quasi tutti si sforzano di ignorare. I FANTASMI... i revenants, come li chiamano i francesi con termine appro­ priato... COLORO CHE RITORNANO! Molti, con suffi­ cienza mista alla loro ignoranza, negano o ignorano il pro­ blema. Ma è invece una realtà che ci circonda e ci avvi­ luppa con le sue morbide braccia di velluto, ma tali da po­ terci soffocare. Ed ecco allora... I MORTI... GLI SPETTRI. Qui si scatena una nuova serie di effetti che, quando poi « lo spettro » è « fabbricato », assumono un carattere ancor più angoscioso. Ma il terreno su cui operano, veri o falsi che siano, entità mistificatrici o autentiche anime di tra­ passati, il terreno su cui operano, ripeto, è sempre lo stes­ so: la nostra paura dell’ignoto e soprattutto dell’oscurità, che è per noi simbolo di morte. 87

Inevitabile condimento a questi effetti — forse perché istintivamente mi riallaccio al « Grande terrore » di cui parlavo prima, e cioè quello deH’ambiente esterno in tem­ pesta — sono i temporali, che nel momento culminante deir/iorror si scatenano in tutta la loro violenza. E lo spettatore che, malgrado tutto, sobbalza sulla poltrona della « prima visione », non sa che per un istante si lega a filo doppio a un villoso antenato che si appiattiva contro le umide pareti di una grotta. Insomma, il terrore vive con­ tinuamente dietro e dentro di noi, anche se per esorcizzar­ lo adoperiamo, e quasi sempre invano, i mezzi piu diver­ si, che vanno dal whisky all'abbrutimento televisivo che ci consente un sonno profondo. Ma qualche volta siamo traditi anche nel sonno, perché la nostra fantasia — ma è la fantasia, poi? — popola questi nostri sonni di orrendi incubi da cui ci risvegliamo raggelati. È il demonio che popola le nostre notti, ed è lui, sempre lui, che governa ogni nostro atto. Accende le nostre cupi­ digie e invidie, infiamma le nostre lussurie, ci spinge con ogni mezzo satanico verso il peccato nelle sue forme più orrende che possono giungere fino all'incesto, al matrici­ dio, a ogni forma più depravata di delitto. Ecco quindi l'altra piattaforma su cui si muovono « le mie creature »: l’uomo demoniaco. L'uomo che riesce sotto una vernice di società a mascherare la sua vera natura, i suoi istinti, ma che quando viene solleticato dal demonio è capace dei crimini più assurdi! Mi sono sempre appassionato di problemi esoterici, di ma­ gia, leggendo, invece di Cappuccetto Rosso, i manuali di Elifas Levi. La mia adolescenza è stata costellata di sigilli di Salomone e di ramoscelli di sambuco colti nelle notti senza luna. Tra i fenomeni che più mi hanno appassionato vi è stato quello del vampirismo, cosi straordinariamen­ te estrinsecato nell’irripetibile Dracula. I vampiri esisto­ no e si agitano vicini a noi in ogni momento, anche se non sono riconoscibili dagli incisivi, e anche se per farli morire basta un tempestivo infarto. Essere vampiro significa vivere accanto a qualcuno estre­ mamente più giovane di noi e « succhiarne », senza che lui o lei se ne avveda, il meglio: intelligenza, spirito vitale e soprattutto freschezza, freschezza di idee, di sentimenti, di reazioni. Guai a vivere accanto a delle persone anziane: si è allora trascinati irrimediabilmente verso il baratro del­ l’angosciosa attesa della morte. Di qui l’idea moderna di un 88

vampiro che deve essere oggettivata, per farla comprende­ re agli spettatori, attraverso l'aspirazione del sangue di una donna giovane da parte di una vecchia. Ma, credetemi: il mondo è popolato di vampiri che, an­ che se voi non ve ne rendete conto, vi succhiano il me­ glio della vostra essenza. E cosi, mescolando di volta in volta « gli ingredienti » che qui rapidamente e forse ne­ bulosamente ho enunciato, si riesce a costruire delle sto­ rie che, pur variando in quello che è definito l’intreccio, si basano pur sempre sulla Grande Angoscia che ci segue sempre: da quando, piangendo, apriamo gli occhi sul mon­ do, fino a quando, agghiacciati dal terrore per quello che ci aspetta, restiamo ad attendere la morte! Se in un film racconto la storia di un ragazzo che possie­ de la madre e dopo si uccide, la sequenza che descrive quest’azione è una sequenza drammatica. L’elemento di choc della scena è evidentemente morale. Intimamente, non possiamo tollerare che un ragazzo violenti la propria madre. In questo tipo di scena non è la forza del regista a esprimersi. Si può girare la scena con una camera fìssa in qualche posto, e seguire i personaggi con tre o quattro obiettivi per i primi piani, e tutti diranno che è girata dal più grande regista del mondo. Eppure è una scena che non richiede nessuna abilità particolare. E molto più faci­ le che girare, mettiamo, una scena della Kermesse eroica, una grande kermesse in un villaggio olandese del sedicesi­ mo secolo alla maniera di Rembrandt. Qualsiasi Paese, qualsiasi epoca — la Spagna, la Russia, l’Italia o la Grecia antica... — possono essere interessanti da ricostruire. La principale difficoltà è quella di non far ridere il pubblico, come succede alla proiezione di certi film in costume. Si tratta insomma di girare qualcosa di eccezionale in modo credibile e accettabile. Omero, uno dei più grandi poeti del mondo, non ha fatto che racconta­ re imprese eroiche ma, se non fossero narrate con tutta la sua forza di convinzione, sarebbero fatti e leggen­ de che non accetteremmo. È per questo che è molto più difficile girare un film in costume che non un film mo­ derno — più difficile e più interessante. Questo è un test che pochissimi registi celebri potrebbero ai nostri giorni superare con successo. Anni fa ci si provò Antonioni, collaborando a Nel segno di Roma. Non era fatto per questo. La difficoltà è quella di rendere verosimili e vicini a noi 89

personaggi che si muovono in costumi molto diversi dai nostri, in ambienti del tutto estranei. Bisogna riuscire a dar loro un modo di parlare, di agire, che sia in accordo sia con la nostra sensibilità sia con quegli elementi scenografi­ ci che, allora, invece di funzionare contro l'eroe, non fan­ no che accrescere la precisione dell'ambiente in cui egli evolve. Il segreto del cinema è la scoperta progressiva della scena, del mondo che circonda i personaggi; l’im­ magine dev'essere una sorpresa continua per gli occhi, la camera non deve mai rivelare la scena tutta in un colpo, ma farla scoprire lentamente, rivelandone progressivamente la bellezza. Bisogna cercare l'equilibrio della scena, e ci vuole un gusto preciso per ottenere risultati adeguati. C'è nei registi italiani un malinteso, che consiste nel di­ sprezzo per la materia che trattano, e questo non può che dare i risultati che si sono visti. Penso invece che, contra­ riamente a ciò che si pensa, le possibilità del film storico sono state appena sfiorate. Quel che io stesso ho fatto, in Beatrice Cenci o nel Cavaliere misterioso (e cito due dei miei film migliori), è niente di fronte a ciò che è possibile fare. Per procedere, bisognerebbe che il sistema produtti­ vo italiano fosse meno stupido, meno étriqué. Per un gran­ de film storico, bisognerebbe non dover lottare come in Italia si è dovuto fare di solito, perdendo il proprio tempo e le proprie energie in cose che dovrebbero andare da sé. Ci sono troppi intralci. E ci vorrebbero collaboratori di talento, che comprendano di che si tratta, che abbiano voglia di lavorare col regista più da vicino. Ma soprattut­ to bisognerebbe spingersi piti in avanti, oltre la superfi­ cie delle cose, perché c'è ancora tantissimo da esplorare. E naturalmente una maggior disponibilità di mezzi non guasterebbe affatto. In generale penso che si gira troppo lentamente. Perfino in America. Il tempo va speso nella preparazione ma quan­ do la lavorazione di un film dura troppo si perde d'entusia­ smo, e il ritmo del film ne risente, si crea in tutti ima cer­ ta stanchezza. Per i film di avventure che ho girato, se la storia era buona ho sempre cercato di lavorare velocemen­ te. L'ideale sarebbe di mettere la bobina nella macchina da presa, dare il via all'azione, e non fermarsi più. E in questo modo che ho girato Agi-Murad in diciotto giorni, I vampiri in dodici: se avessi avuto piu tempo, il film non sarebbe migliorato più che tanto, ci sarebbero state certo delle differenze, ma l'essenziale non sarebbe cambiato. 90

E allora preferisco darci sotto. Il regista dev’essere l’ulti* mo a esitare. Sul set non ci si può permettere il lusso di riflettere. Su una scena ormai nota, la riflessione va fatta a casa. Io arrivo sul set avendo in testa tutte le inquadra­ ture. Blasetti, per esempio, faceva spesso sgombrare lo studio per mezz’ora e più, e rimaneva solo con l’operato­ re a ripetere i movimenti di macchina dell’inquadratura successiva una quarantina di volte, e a studiare una sceno­ grafìa che non riusciva a ricordarsi. Credo che non sia un metodo serio. Attualmente il cinema attraversa una crisi molto grave, si fanno film come se si stampassero libri all’epoca di Gutenberg. Sin dai miei debutti, ho sempre cercato di girare velocemente. Se ho fatto tanti film d’avventura è, da un lato, perché mi appassionavo profondamente, e dall’altro perché volevo dimostrare che in Italia si potevano fare film d’avventura riusciti quanto quelli che venivano dall’America. Nessu­ no credeva che fosse possibile, ma io credo di esserci riu­ scito in qualche modo, senza avere a disposizione i vantag­ gi pratici ed economici degli americani. Bisogna ricreare, reinventare quasi tutto ogni volta. Nella scena finale di Aquila nera, durante il duello sulla scalinata, c’è un taglio quasi brusco quando Rossano Brazzi si trova in una si­ tuazione difficile e la cavalleria spinge a tutta forza alla riscossa. Avevamo una piccola jeep che andava a velocità folle e che arrivava a malapena a stare all’altezza dei ca­ valli. £ stato un miracolo se non siamo stati rovesciati, ma ogni volta che il film è stato proiettato nelle sale, a que­ ste scene si è sempre scatenato nel pubblico un entusia­ smo incredibile. Più di trent’anni fa tutti deliravano per Roma città aperta. Si diceva che questa era la strada che il cinema avrebbe dovuto seguire. Io ci ridevo su, perché consideravo questo modo di fare il cinema come qualcosa di accidentale e as­ solutamente ininteressante. Ho espresso quest’opinione mol­ te volte e in molte sedi, e so di non essere amato per que­ sto. Ma continuo a considerare, e lo dico con tutta fran­ chezza, che il realismo in generale è la peggior forma di espressione artistica possibile. Su questo punto non nutro nessun dubbio, e c’è tutta l’esperienza dei secoli che ci stanno alle spalle a dimostrarlo, se si sostiene che il reali­ smo non è altro che la riproduzione meccanica della vita reale. L’arte in generale è la metamorfosi del reale vista attraverso il prisma della fantasia dell’autore. 91

Che si tratti di un regista, di un pittore, di un musici­ sta, di uno scrittore, è sempre lo stesso. Si sa cosa è suc­ cesso in pittura. Si correva appresso al realismo, al trompel’oeil. Il grande pittore era colui che riusciva a riprodurre fedelmente un paesaggio, o le patate, o un bicchiere, o un bue, o un leone o una leonessa, o una donna nuda vera­ mente vera, come si diceva. Tutti contenti di aver l’im­ pressione di poter toccare con mano ciò che veniva rap­ presentato. Si diceva: « Questa è carne vera... » Poi è ve­ nuta la crisi, la grande crisi dell’impressionismo. E i pit­ tori dell’impressionismo vennero presi per pazzi, per la loro concezione della luce. Le ombre violette, le terre nere, i verdi dei prati — che forse non erano verdi, ma rossi, per problemi di accostamento dei colori. E l’impressioni­ smo ha totalmente schiacciato in pittura il realismo. Poi ci sono stati i fauves, i cubisti, le grandi correnti moderne, e il realismo è finito. E buffo che in cinema ciò che già era in stato di avanzata putrefazione abbia potuto diventare una grande forma di espressione nuova. Dal punto di vista della regia, non mi stancherò mai di ri­ peterlo, girare in un ospedale o riprendere una prostituta all’angolo della strada è la cosa piu facile che ci sia al mondo, perché non richiede niente alla fantasia di un ar­ tista. Questa è la mia opinione, forse sono fuori strada, ma resta la mia opinione. Nessuno s’interessa più seriamente al problema del realismo, cosi come nessuno s’interessa più seriamente a un poeta che riesce a rendere coi versi il becchettio degli uccelli o il glu-glu dei ruscelli... Oggi la poesia non cerca più queste equivalenze, e lo stesso è per la musica. Nel secolo scorso, c’erano musicisti consi­ derati grandi perché rendevano la tempesta coi violini. Oggi se chiedete a un musicista moderno di rendere la tempesta coi violini vi tira una sedia addosso. Per parte mia, cerco di continuare a fare film di fantasia, di grande fantasia, e nient’altro che questo. Non si può parlare di una fase eroica del cinema italiano semplicemente perché, allora, si era tutti d’accordo, si par­ tecipava dello stesso tipo di entusiasmo o di costanza. Non è che l’operaio fosse una specie di schiavo, si diverti­ va anche lui. Non era l’operaio della Fiat o della Marelli che deve stare dalla mattina alla sera legato alla catena di montaggio. Entrava in questo strano gioco di movimenti, di illuminazioni, di azzardi, si divertiva a certe riprese... 92

Abbiamo avuto operai straordinari, nel cinema, che spes­ so trovavano soluzioni a tutti i problemi che si ponevano, che contribuivano davvero alla creazione del film. Spesso un capomacchinista — e ne ho avuti di intelligenza al di sopra della media — ti può avvertire di qualcosa che è suc­ cesso durante una ripresa e che lui ha osservato meglio di te. Il duca di Montherlant si è messo, nel salotto, le dita nel naso mentre tu stavi pensando all’espressione dell’at­ trice, e tu non te ne sei accorto, per esempio. I sindacati si sono messi in moto partendo da una legitti­ ma rivendicazione, perché c’era certamente chi esagerava, c’era chi faceva ventiquattro ore di fila, come me che sono arrivato a fame quarantotto di fila, notte e giorno, per la ragione molto precisa che in un film Gino Cervi doveva partire e nelle quarantotto ore dovevo finire di girare la sua parte. Sinceramente, si abusava un po’, ma da quello si è passati, come sempre succede in Italia, al­ l’esagerazione opposta, all’orario con il sabato di riposo che non è compatibile con il lavoro cinematografico. Adesso, come succede sempre in questo strano Paese al­ trimenti sarebbe la fine del mondo, di sabato si lavora di nuovo, ci sono gli espedienti per farlo: invece di girare a Roma basta che si giri a Frascati, e il sindacato ti conside­ ra fuori zona. Ci sono scappatoie per cui si può lavorare come prima, si possono fare gli straordinari e molta acqua è stata messa nel tino della severità sindacale... Tutto di­ pende dalla rapidità di esecuzione del regista, in otto ore si può fare il lavoro che un altro fa in tre giorni.

Un punto che bisogna sottolineare soprattutto per i giova­ ni è che il cinema della mia epoca o, per dir meglio, il modo di fare il cinema allora era totalmente diverso. In­ tendo parlare della tecnica della ripresa. Innanzitutto il cinema italiano era in un certo senso ancora fermo e an­ corato a Gabriele D’Annunzio e a Cabiria. Pastrone aveva inventato e applicato per primo il carrello e il primo pia­ no: ebbene, i suoi successori non erano andati molto ol­ tre. La sintassi cinematografica era rigida e non ammetteva deroghe. Per dare subito un esempio, quando feci il Don Cesare di Bazan chiesi all’operatore di passare direttamen­ te da un campo lungo dei due protagonisti a figura inte­ ra, al primo piano. Mi guardò sbalordito scuotendo la te­ sta, eppure era Craveri, un operatore abile e dotato di un 93

certo gusto. E quando io, altrettanto perplesso per la sua perplessità, gliene chiesi il motivo, pazientemente mi rispo­ se: « Un salto sull’asse?! Impossibile! » Io seccato ribat­ tei: « Ma gli americani? » Rispose con un cenno vago, non so se per accennare alla follia degli americani o alla loro incoscienza tecnica. Io ero considerato un regista « americano ». Dovetti aspet­ tare ancora due o tre film prima di poter violentare l’ope­ ratore e di fare il mio « salto sull’asse ». Per andare insom­ ma dal campo lungo al primo piano bisognava « saltare » obliquando la macchina in favore di uno o dell’altro pro­ tagonista. Era proibito tagliare un carrello inserendovi una panoramica, e cosi via. Un’altra mostruosa differenza era la ridotta sensibilità della pellicola. Oggi qualsiasi dilet­ tante con un certo gusto può eseguire una ripresa con le lampadine sottratte al salotto di casa. Allora un ambiente di una certa importanza era investito da ogni lato dalla luce dei proiettori da seimila o cinquemila watt, e occor­ reva una preparazione notevole e specifica per poter equi­ librare i vari proiettori onde fame sortire l’effetto voluto. Un altro canone deH’illuminazione — canone negativo — era che a ogni attore, in qualsiasi punto della scena si tro­ vasse, occorreva applicare un controluce, che aureolava ogni testa come l’alone di un santo. E non c’erano cristi: l’operatore non girava se l’attore non veniva collocato dal regista in modo da venire santificato. E non dico di quan­ do si girava in ambienti dal vero, con impalcature a pres­ sione per sorreggere i proiettori che facevano sudar freddo i malcapitati proprietari dei locali. E poi venne il colore! Ricordo i primi esperimenti di un certo Gualtierotti di Milano, che sbalordi per qualche tem­ po e i suoi finanziatori e i funzionari del ministero con la proiezione di alcuni suoi favolosi provini: delle angurie tagliate a metà, delle rose rosse, e le vetrate del duomo di Milano. Occorse del tempo e colarono milioni prima che si rendessero conto che si trattava solo di una bicromia, cioè di verde, azzurro più rosso, e quindi non applicabile a un film. Una volta a Cinecittà assistetti a un provino. Sdraiata su un divano in un piccolo ambiente stava una generica, e su di lei era accesa una selva di giganteschi proiettori. Si do­ vette arrestare il provino perché la disgraziata andava let­ teralmente a fuoco — le fumavano i capelli! Oggi tutto è più facile e risolto. Dalla fotografia, anche a colori, che 94

non rappresenta piu un problema, al racconto in sé, che piò è scombinato e sgrammaticato e più chances ha di ri­ scuotere il consenso dei nostri critici. Sono certo che se si proibissero per legge il ralenti, lo zoom, il flash back e la luce in macchina, assisteremmo a una vera ecatombe di registi! Il modo di produzione e realizzazione di un film è sem­ pre dipeso dai registi. Il normale modo di produzione consisteva nell’aver una troupe ben selezionata, con tecnici assolutamente specializzati nel loro particolare ramo. Ave­ re soggettisti e sceneggiatori di tutto rispetto, organizza­ tori in grado di preparare un piano di produzione, una solida troupe di luci, dal direttore della fotografia agli ope­ ratori, montatori di primissimo ordine... Si è sicuri cosi che sul piano tecnico il risultato non riserberà nessuna in­ cognita, anche se il successo del film resta imprevedibile poiché dipende dalla moda, dal capriccio del pubblico, dal gusto del pubblico. Questo sistema, con piccole differenze, è uguale in tutto il mondo. Ma ci sono tuttavia delle varianti. Se vai a dire ai tedeschi di girare un film in due settimane, gli prende un accidente, perché sono lenti, non possono seguire, non possono neanche concepire questa rapidità, e credo che non sia mai stato fatto in Germania un film in due setti­ mane. Gli inglesi sono invece molto più elastici; prepara­ tissimi sul piano tecnico, quindi questa rapidità li eccita e li diverte. Lo stesso i francesi, con i quali non ho avuto nessun problema, come con i brasiliani, come con gli spa­ gnoli. Ho fatto film in Spagna con questa velocità, in un Paese dove si ritiene normalmente che il ritmo di lavoro sia len­ tissimo, e invece gli spagnoli si divertivano talmente che mi seguivano meglio degli italiani. Del resto, può sembra­ re presunzione, ma è indubbiamente il pilota che imprime il ritmo. La Spagna è un Paese in cui il regista è di solito qualcuno che si sveglia tardi la mattina (come Sergio Corbucci, che è molto intelligente ma che è un pigro), che va in teatro all’una e che fa con grande fatica la prima inqua­ dratura, dopo di che va a prendere il caffè e sta via mez­ z’ora o tre quarti d’ora... Quando arrivò una specie di pazzo come me, che non ha fatto a tempo a girare un’in­ quadratura e già la macchina è schierata al lato opposto del set, e bisogna fare la seconda, la terza, la quarta e cosi 95

via al ritmo di quarantacinque, quarantasette spostamenti di macchina al giorno, sul primo momento gli spagnoli re* stavano sconcertati, ma poi si divertivano al gioco e mi seguivano. Il film era Agguato a Tangeri. Il produttore, un giovane ambizioso e di scarsi scrupoli, aveva spedito a Tangeri me e il direttore di produzione Emimmo Salvi, che doveva poi diventare un produttore di qualche successo, assicurandoci di avere provveduto alle spese del nostro soggiorno laggiù attraverso l’agenzia Cook. Il nome fatidico della celebre agenzia, che riecheggiava fastigi da Orient Express e da corti danubiane, aveva finito col rassicurarci, ed eravamo partiti. Si era unito a noi, proveniente dalla Spagna, an­ che l’operatore — il film era una coproduzione. Arrivati a Tangeri fummo subito ferocemente disillusi. Cook non voleva nemmeno sentire parlare del nostro film. Ci erava­ mo frattanto alloggiati in uno dei migliori alberghi. Io ero scarsamente preoccupato, perché ero uso a viaggiare con scorte di denaro personali. Non cosi Salvi né tantomeno il malcapitato spagnolo. Avevamo cominciato intanto, all’indomani stesso del no­ stro arrivo, a cercare gli esterni accompagnati da un arabetto che fin dal nostro arrivo si era installato sulla porta dell’albergo, con quel sesto senso che fa accorrere miriadi di formiche dove si sia versata una sola goccia di miele, per venirci incontro sorridente offrendo ai « taliani » i suoi servizi. Alle cinque del pomeriggio di ogni giorno nella hall si svolgeva un piccolo show che finiva col radunare gli spar­ pagliati clienti dell’albergo. Nella cabina telefonica, che si trovava appunto nella hall, Salvi si metteva in contatto col produttore a Roma, al quale prospettava la « nostra » drammatica situazione. Ma dall’altro capo del filo, con una faccia di bronzo ammirevole, il produttore rispondeva pun­ to per punto alle rimostranze del Salvi, la cui voce assu­ meva toni altissimi, dando le assicurazioni più assurde che poi si rivelavano prive di ogni fondamento. Tutto finiva con il Salvi che, congestionato in volto e furioso per tanta improntitudine, urlava: « Ma che cazzo dici... qui non ab­ biamo più manco una lira! » e con l’altro — come ci ve­ niva poi riferito — che ribatteva agghiaccianti « Sta’ tran­ quillo!... sta* tranquillo! » La pellicola negativa non era arrivata, le macchine nem­ meno — persino il ragazzino arabo ci aveva abbandonato 96

con un gesto significativo per sottolineare la nostra indi­ genza — per cui, raggranellando tutti i nostri averi (io pagai per lo spagnolo) raggiungemmo Madrid. Qui la situazione anziché migliorare peggiorò. Salvi fu costretto a fuggire dal suo albergo calandosi con un len­ zuolo dalla finestra nel cuore della notte. Il tempo passa­ va: ci trovavamo ogni giorno al Palace Hótel, i produttori spagnoli da un lato sempre più scettici, quello italiano dal­ l’altro sempre piu sprovveduto. A volte la discussione as­ sumeva toni accesi cui facevano contrasto le dolci melo­ die viennesi che l’orchestrina dell’albergo ci propinava. La produzione spagnola era una società dell’Opus Dei — pro­ prio quella! C’era un contratto con Edmund Purdom, che allora era una vedette famosa, e con Geneviève Page, al­ tra vedette, dal 1° luglio al 15 agosto, quarantacinque gior­ ni. Il produttore italiano era nell'impossibilità materiale di cominciare il film. Ci si trovava tutti i giorni all’albergo in inutili discussioni, con il già citato produttore italiano che cercava di convincerci che c’erano degli assegni in viag­ gio, come se questi assegni fossero strani personaggi con le ali che avevano difficoltà ad arrivare per via del mal­ tempo, e invece naturalmente non esistevano affatto. Si arrivò che mancavano diciotto giorni allo scadere del con­ tratto dei due attori e non si era ancora girato niente. Al­ lora quelli dell’Opus Dei, gente di primissimo ordine, pre­ sero la decisione di estromettere dal film con metaforici calci nel sedere il produttore italiano, di cui non faccio il nome per carità di patria, e mi chiesero: « Mancano sol­ tanto diciotto giorni, in diciotto giorni lei potrebbe tentare di fare ancora qualcosa per salvare il film? » Erano sicuri di una risposta negativa. « Non c’è neanche una costruzio­ ne fatta », dissero, e io: « Ma a cosa serve una costruzio­ ne? » Naturalmente mi presero per pazzo, ma siccome era gente che sapeva valutare, decisero di buttarsi lo stesso. Non essendoci nessuna costruzione, cominciai a girare usando come ambiente il teatro di posa, senza costruzioni di sorta, per una scena che si svolgeva nei magazzini di un porto. Il film venne fatto in quindici giorni, con grande rabbia di Purdom che si aspettava chissà quanti dollari di risarcimento, e invece al sedicesimo giorno il film era finito.

Ciò che fondamentalmente impedisce al cinema di essere una forma assoluta d’arte è il fatto che nel cinema è sem­ 97

pie presente e necessaria una parte di collaborazione. Se faccio una scultura sono solo a farla, sia quando la ideo, sia quando colo il bronzo o scolpisco la materia. E il me­ glio è col marmo, perché non ho bisogno di aiuto per la fusione, e perché la fusione può dar luogo a degli impre­ visti. Si può considerare il cinema come un’arte solo a una condizione: se (come succede a me, e non so se è un bene o un male) l’idea del soggetto, la regia, la sceneggiatura, il montaggio, la fotografia vengono assunti dalla responsa­ bilità di una stessa persona, anche se ci sono altri a lavo­ rarci. E anche la musica. Ma nel caso in cui ci sia un sog­ getto di x, una sceneggiatura di y, e la regia fatta da un signore pagato, come succede in America, per arrivare sul set i primi giorni di lavorazione, prendere la sceneggia­ tura e girare quel che c’è scritto filmando la scena sotto tutti i possibili angoli, e dopo il tutto finisce nelle mani di un montatore che sceglie lui tra il materiale girato — dal suo punto di vista di montatore — in questo caso c’è da discutere a lungo per sapere se il cinema è o no un’arte. In quanto regista, giro da un unico punto di vista. L’ho scelto io, e non lo cambio. Che possa apparire buono o cattivo non m’interessa. È solo allora che la creazione è veramente mia. Ogni film richiede un suo modo di espres­ sione. Non si può raccontare Spartaco come si racconta Il dottor Hichcock. C’è un sistema di ripresa per un film spettacolare e uno per il film dell’orrore. Certi effetti di luce, certi effetti fotografici sarebbero assurdi in una com­ media sentimentale, che ha bisogno di un’illustrazione al­ l’americana, rosa. Il momento piti importante della vita di un film è la sce­ neggiatura. Ma bisogna intendersi su questo termine. In America si chiama sceneggiatura un testo in cui tutto è stabilito esattamente — la durata di ogni inquadratura, gli angoli di ripresa, le carrellate, le panoramiche, ecc. E spes­ so questa sceneggiatura è scritta da qualcuno che non è il regista. Questo genere di sceneggiatura per me non ha senso. Io non uso sceneggiature tecniche, le detesto, le ri­ fiuto, e questo fa la disperazione dei miei assistenti. Ho una sceneggiatura in cui la scena è descritta brevemente con i dialoghi. La forma in cui la scena dev’essere girata la trovo nella mia fantasia. E questo che considero come una vera sceneggiatura. Essa dev’essere fatta sul set, dal regista stesso. Il giorno prima di girare una scena determi­ nata, la divido nella mia testa, in inquadrature, e quando 98

il giorno dopo arrivo in studio, la prima ripresa è già pre­ vista col posto della macchina da presa, e cosi la seconda, la terza, le altre. Quel che in Italia è chiamata sceneggia­ tura non è altro che la vaga descrizione di una scena. La seconda cosa importante è la scenografia. Io collaboro sempre da vicino alle scenografie. Ne faccio gli schizzi, ar­ rivo fino a indicare i colori, gli accessori... Nel Gigante della Tessaglia ho fatto io stesso la grande statua che com­ pare nel film, cosi come le sculture di Spartaco e le pic­ cole statue nel tempio di Maciste alla corte del Gran Khan. In generale non lascio agli architetti la minima libertà. Se l'architetto mi suggerisce una modifica che mi piace, l’ac­ cetto. La scenografia deve sottostare alle mie idee. Ho vi­ sto registi che scendono sul set senza nessun’idea della col­ locazione di una porta o di una finestra. Devono improv­ visare, sono indecisi. Dicono: « Credevo che la porta fosse là », e l’architetto risponde: « Ma era previsto che fosse li! » E il regista: « È un bel guaio, perché adesso che la porta è li, il personaggio deve arrivare da là, e non posso più fare l’inquadratura che avevo in mente ». Sono cose ridicole. Tutto dev’essere fissato prima. C’è una sola posi­ zione possibile per quella porta, non ce ne sono dieci o venti. E quando decidete dove deve stare, pensate alla por­ ta che si vedrà sullo schermo, alla luce su questa porta, a un effetto speciale se deve essercene uno.

Lo zoom ha eliminato molte difficoltà. I carrelli orizzon­ tali non li ha potuti eliminare, ma tutti i carrelli verticali, che a volte comportavano difficoltà notevoli, si. Nei film americani si vedevano, che so, tavolate di trecento ufficiali della guardia che facevano un brindisi, e bisognava pas­ sare attraverso tutta la tavola e arrivare al protagonista... Non era uno scherzo, su quel carrello aereo da cui ci si spenzolava, una specie di piccola teleferica che faceva per­ dere molto tempo! Ora con lo zoom una scena cosi la si fa tranquillamente. Lo zoom ha eliminato molti problemi di carattere meccanico, ma l’espressività dell’effetto dello zoom non è certo maggiore di quella che si poteva otte­ nere con un rapido carrello avanti. Nel Don Cesare di Bazan c’era un carrello ottenuto girando a quattordici fo­ togrammi, già di per sé veloce, che praticamente aveva lo stesso effetto dello zoom. Oggi dello zoom si abusa, ci sono registi che per mostrare uno che si soffia il naso ricorrono allo zoom, convinti che 99

dia un effetto particolare, mentre lo zoom dev'essere usato soltanto per determinati effetti. Certo, se uno apre la por­ ta e si trova di fronte a una scena terrificante, è chiaro che l’effetto lo si ottiene meglio se si salta su quegli occhi rapidissimamente, perché si dà una specie di scossa psi­ chica allo spettatore. Nel film dell’orrore lo zoom è uno strumento quasi indispensabile perché permette quest'ac­ celerazione, utile proprio ad accelerare i battiti del cuore dello spettatore. Bava ne faceva abuso; non tanto nella Maschera del demonio, dove se ne serve con parsimonia, ma in un film che si chiamava Lisa e il diavolo e che è stato distribuito come Operazione paura. La casa dell’esor­ cista era fatta in ogni inquadratura con quattro o cinque zoom, e a quel punto si perdeva di efficacia per assuefa­ zione all’effetto. Ci sono poi dei dissennati che non sanno neanche che cosa sia lo zoom e lo adoperano senza sapere perché.

Qualche volta sono stato chiamato a sistemare dei film altrui. Ne ricordo imo con una cantante famosa, la Pacetti, girato da uno sprovveduto con il denaro dell’amante di quella, padrone di un grande albergo romano. Il film non era in grado di uscire e mi chiamarono per vedere di sal­ varlo. Riuscii per lo meno a farlo proiettare, sconvolgendo col montaggio tutta la storia. C’era un’unica scena che fun­ zionava, l’incendio su un piroscafo, e allora feci un pastiche per cui quella scena ricorreva due o tre volte: all'ini­ zio, alla fine, a metà. Non si può imparare a montare cosi come non si può imparare a disegnare. Il professore di disegno potrà insegnare determinate cose di superfìcie, e cosi l’insegnante di montaggio. Non esiste una regola di montaggio, oggi meno che mai: un film può essere mon­ tato da dieci montatori diversi in dieci modi diversi, an­ che nei dettagli. Il montaggio è una cosa personale, e il grande montatore ha un concetto soggettivo del montaggio, come si fa a insegnarlo? Trenta, vent’anni fa c’erano determinati canoni da rispet­ tare, per esempio i raccordi, che erano considerati indi­ spensabili. Oggi si può saltare da un piano all’altro; un tempo se saltavi da un campo lungo a un primissimo piano eri considerato un eretico. Oggi si può girare un film dalla fine o dall’inizio, ma lo si può montare come si vuole, a salti, a sincopi, c’è la libertà piu assoluta e in un certo senso il montaggio è diventato molto più sogget­ tilo

tivo di una volta. Oggi si può mostrare uno che sta par­ lando, e un’immagine di lui a Brooklyn che chiede: « Dove abita Stevenson? », poi con un taglio netto si torna sull’at­ tore che continua a parlare perché il problema di dove abi­ ta Stevenson è per lui una specie di ossessione che gli vie­ ne da un precedente viaggio nel quale ha ammazzato pro­ prio questo Stevenson: lui continua a parlare con qualcu­ no, poi sale le scale di una strana casa, poi parla ancora con qualcuno, poi spara a Stevenson... Questa specie di montaggio un tempo sarebbe stata considerata una mo­ struosa eresia. Righelli sarebbe piuttosto morto, nessuna tortura glielo avrebbe fatto accettare, e dico Righelli per­ ché è stato uno dei registi con cui ho lavorato di più e con cui mi sono divertito di più appunto per queste sue manie, ma qualunque film dell’epoca doveva avere questo tipo di coerenza didattica. La stessa dissolvenza, che del resto ho adoperato anch’io, era ritenuta indispensabile. Non si poteva passare da un luogo all’altro se non attra­ verso una dissolvenza. Oggi si può fare qualunque cosa, e chiunque può montare a suo gusto perché non c’è più nessun canone da rispettare.

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5.___________________ ANIMALI E ATTORI

Ho già parlato delle difficoltà intrinseche che si presenta* vano ai produttori di coraggio subito dopo la guerra. Una delle principali era la quasi totale mancanza di pellicola. Rossellini girò Roma città aperta a furia di spezzoni di ne­ gativi rimediati alla meglio. Pietro Francisci aveva avuto l'idea di realizzare delle can­ zoni sceneggiate. Credo anzi sia stato lui il primo. Una di queste era imperniata su un carrettiere. Per movimentare un po' la canzone — per non renderla cioè la fastidiosa ripresa del cantante che sciorinava a piena gola i suoi ver­ si — Francisci « montò » una piccola sequenza. Si vedeva il cantante a cassetta — davanti a un approssimativo « tra­ sparente » — che incitava a schiocchi di lingua un ipote­ tico destriero. Un ragazzino doveva raggiungere di corsa il calesse e interpellare il carrettiere, un noto baritono d’o­ pera, con un semplice « Ehi! ehi! » Il cantante doveva vol­ tarsi verso il ragazzino e rispondere: « Beh?! » Tutto 11. Si predispongono pochi proiettori e si dà inizio alla ripre­ sa. Prima di cominciare Francisci fece presente la neces­ sità di girarla in una sola ripresa, data la carenza di nega­ tivo. Il cantante sembrò offeso per l’osservazione, e Pie­ tro passò senz'altro all’azione. Parte il trasparente, « par­ te » idealmente il calesse (sospeso in realtà per aria con le ruote roteanti sotto i colpi dei macchinisti) e il nostro baritono schiocca la frusta. A un cenno di Francisci il ra­ gazzino, correndo praticamente sur place, si porta all’altez­ 102

za della cassetta e grida il suo « Ehi!... ehi! », ma il bari­ tono, sguardo fisso dinnanzi a sé, non lo degna di un sol cenno d'attenzione. Contrariato, Francisci arresta la ripresa e si accosta al can­ tante, che a sua volta lo fissa stupito. Apparentemente cal­ mo, Francisci toma a spiegare che quando il ragazzino grida « Ehi! », lui deve rispondere « Beh?! » L’altro an­ nuisce, seccato, e dopo nuove raccomandazioni si dà ini­ zio alla seconda, poi alla terza, poi alla quarta ripresa, con un ragazzino sempre piti inviperito a urlare il suo « Ehi! » e l’altro sordo a ogni richiamo. Francisci fuori di sé — il negativo era calato paurosamente nello chassis — si acco­ sta al cantante chiedendogli perentoriamente cosa gli suc­ ceda. L’altro lo fissa interdetto e risentito, dopo di che balza giti dalla cassetta e si dirige verso un angolo della strada con le due o tre paginette della scena. Si volta e grida a Francisci: « Fatemi studiare la sceneggiatura... e poi si gira! » Ancora Francisci: girava un film ambientato in un campo di prigionieri italiani in Inghilterra, Natale al campo 117. Aveva un cast eccezionale, con tutti i piu rinomati attori del momento, da De Sica a Fabrizi, da Taranto a De Fi­ lippo e cosi via. Vi erano inquadrature « di gruppo » e Francisci sistemava gli attori in modo che l’inquadratura risultasse armonica. Naturalmente qualcuno doveva essere collocato di spalle alla macchina, qualcuno di tre quarti, altri di profilo e finalmente due o tre di faccia. Gli attori detestano mostrare la schiena all’obiettivo, come i grognards di Napoleone al nemico, e perciò non appena avvertivano il ronzio della macchina da presa iniziavano un sordo lavorio di piccole gomitate e passetti laterali, impercettibili rotazioni di piede, in modo da finire col vol­ to rivolto davanti. Inutilmente Francisci arrestava la ripre­ sa e rimetteva ognuno al suo posto. Al nuovo ciak succe­ deva esattamente lo stesso, tanto da obbligare Pietro a cambiare radicalmente l’impostazione della ripresa.

Mario Bonnard, che era stato un famoso attore del muto divenuto poi un regista di un certo mestiere, dirigeva un film con Aldo Fabrizi. Durante tutta la durata delle ripre­ se, Fabrizi, allora particolarmente in auge, non perse occa­ sione per tormentare professionalmente Bonnard, trovando da ridire su ogni situazione del film, su ogni inquadratura e su ogni battuta. 105

Bonnard, come si dice a Roma, « abbozzava » sempre, cioè sopportava filosoficamente. Si giunse cosi all'ultimo giorno di ripresa. Girata l’ultima inquadratura del film Bonnard si rivolse all’operatore: « Com’è? » « Buona », rispose l’o­ peratore. « Ne vuoi girare un’altra per sicurezza? » L’altro disse che non ce n’era bisogno e Bonnard si rivolse allora alla segretaria di edizione, pregandola di controllare se ef­ fettivamente il film era finito. Per scrupolo, la giovane controllò il copione e rispose che effettivamente si, il film era conlcuso. Ma Bonnard insistè: « Abbiamo girato pro­ prio tutto? Non c’è un dettaglio... che so?... una piccola cosa che ci può essere sfuggita ?» Ma l’altra ribadi reci­ samente che tutto era completato. Allora, cambiando com­ pletamente tono e atteggiamento, Bonnard si rivolse a Fabrizi e, davanti a tutta la troupe sbalordita, lo apostrofò violentemente con tutto l’abbondante, volgare e colorito vo­ cabolario romanesco di cui era in possesso, gratificando l’attore di tutte le contumelie possibili. Dopo di che, sod­ disfatto, lasciò il teatro. A me accadde qualcosa del genere con Amedeo Nazzari. Stavo girando Tradimento. Fin dalla prima ripresa del film Nazzari, che peraltro era un uomo generoso e umanissimo, si era creduto in dovere di metter becco nelle mie decisio­ ni, cercando di interferire ironicamente sulle posizioni di macchina da me decise, forse perché in qualche precedente film i registi avevano accettato, probabilmente obtorto col­ lo, questa sua collaborazione. La faccenda si trascinò per due o tre giorni. Il quarto gior­ no stavamo girando a Borgo Pio, vicino a San Pietro. Naz­ zari, che forse era anche un po’ su di giri per il troppo tè ingurgitato (in verità la sarta al posto del tè metteva nel thermos, su ordine detrattore, del cognac), interferi a un certo punto pesantemente, chiedendomi ironicamente un chiarimento sulla posizione della macchina da me disposta. Persi la pazienza, lo mandai all’inferno e mi avviai verso la mia automobile abbandonando il luogo delle riprese. Nazzari mi rincorse per qualche metro per convincermi a ritornare, ma senza dargli retta partii a razzo. L’indomani comunicai ai produttori che avrei abbando­ nato il film, o perlomeno che sarei stato disposto a conti­ nuarlo senza però girare più un solo metro con Nazzari. I produttori erano costernati, soprattutto perché ritenevano un’idea folle quella di girare il film senza il protagonista assoluto. « Questo è affar mio », ribadii. « Continuerò tut104

to il film con una controfigura. Alla fine un altro regista girerà con Nazzari i primi piani da inserire nelle varie sequenze ». Mi presero per pazzo, ma dovettero accon­ sentire. Nazzari si serviva di una controfigura, un certo Di Carlo, che gli somigliava straordinariamente; ne mimava anche gli atteggiamenti, ma non certo le espressioni del volto. L’indomani girai una delle sequenze più impegnative del film, quella in cui Nazzari si carica sulle spalle il cadavere dell’uomo da lui ucciso (Gassman) e lo getta nel Tevere. Di Carlo mi raccontò poi che la sera, come sempre, si era recato « a rapporto » da Nazzari che gli aveva chiesto cosa avessi girato. « La sequenza del fiume », aveva risposto Di Carlo. « Da lontano, naturalmente », aveva osservato Naz­ zari. « Macché... mi ha fatto passare a un metro dalla mac­ china! » La cosa si ripetè il giorno dopo con lo stesso pro­ cedimento, con il consueto rapporto serale e con crescente sgomento dell’attore, che capi che avrei effettivamente con­ tinuato cosi fino alla fine. Il terzo giorno Nazzari venne a trovarmi al teatro e, chie­ dendomi scusa, mi promise che non avrebbe più aperto bocca. Divenimmo anzi ottimi amici, e voleva addirittura fondare una grande società con me... e anche se questo non si fece, restammo da allora in buoni rapporti. Non faccio mai prove con gli attori. In linea di principio, l’attore deve presentarsi sul set sapendo già la sua parte. Ma, mi spiace dirlo, è molto raro che un attore si presenti con un’idea chiara di quello che deve fare. Vede la parte solo attraverso la propria personalità, che è d’abitudine molto espansiva. Esagera gli effetti e l'importanza del suo ruolo, e allora la prima funzione del regista è di riportare il ruolo di ogni personaggio alla sua giusta dimensione. AH’intemo dei giusti limiti, l’attore può dare il meglio di sé, proprio perché questi limiti ci sono e il personaggio è definito. Con i cattivi attori, la miglior cosa sarebbe di non scritturarli, ma quando si ha la disgrazia di averli sulle spalle, è sempre difficile ottenere ciò che si desidera. Nel peggiore dei casi, aggiro la difficoltà puntando nella stessa scena su un altro attore più solido e più efficace, che di­ venta cosi l’asse portante. Mi è stato a volte rimproverato di non occuparmi abba­ stanza della direzione degli attori. Ma in Italia non ci sono attori, o quasi. Da molto tempo non c’è più una tradizione 105

teatrale, e gli attori sono privi di scuola, con ben rare ec­ cezioni. In Francia si può andare in qualsiasi teatro e vi si trovano ottimi attori, ce ne sono a dozzine. Ma a Roma una qualsiasi persona con una faccia sopportabile può fare Fattore cinematografico. Non c’è disciplina, non c’è pro­ fessionalità, c’è un grande disordine... qualcosa di di­ sperante. I nostri attori sono i più pigri di tutti, e tuttavia la parola cultura, nella cinematografia nostrana ma anche in quella americana, è una parola da evitare come la peste perché ritengo che tutti, anche gli attori del calibro di un Gary Cooper, di cultura dovessero averne poca. La cultura al­ l’attore non serve a niente, è un fatto abnorme che un Gassman sia anche un uomo colto. Però anche se non fos­ se colto non significherebbe niente perché sono la sua tec­ nica e la sua natura a portarlo a essere bravo. Se il nostro migliore attore è senza dubbio lui, si spiega facilmente il perché: è quello che ha faticato di più, e nel modo più intelligente, con una disciplina di ferro. Per questo molti non lo amano, ne sono gelosi. Nel Cavaliere misterioso era un piacere lavorare con lui. Durante ima ripresa, potevo permettermi di dargli un’indicazione improvvisa, e la co­ glieva al volo, senza affatto sentirsi a disagio, aveva già una padronanza prodigiosa dei suoi mezzi. Devo dire di essere stato soddisfatto di Edmond Purdom, un attore molto disciplinato, e naturalmente di Cervi. Inkij inoff, in Maciste alla corte del Gran Khan, era di una sobrietà straordinaria. I francesi mi hanno sempre dato molta soddisfazione, soprattutto Micheline Preste in Bea­ trice Cenci. Mireille Granelli non aveva fatto nulla prima di questo film, ma è stata molto docile, e credo che il risultato sia stato buono. La disgrazia, con gli attori, è che in Italia hanno un regi­ stro che varia da una a tre espressioni al massimo. Come lavorare, in queste condizioni? Vuol dire perdere tempo prezioso. Un regista intelligente deve sapere subito con chi ha a che fare. Tra te attrici, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, la situazione era meno grave. Eleonora Rossi Drago era molto brava, e la Canale, con la quale ho fatto undici film e che era una donna incredibilmente bella, avrebbe potuto essere migliore se non avesse avuto paura della macchina da presa. Si sottostimava troppo, ed era un peccato. Una delle attrici con cui ho lavorato più volentieri è stata Yoko Tanti, con lei non ho mai avuto 106

bisogno di girare piti di una o due riprese, e ho visto rara­ mente una tale disciplina e coscienza professionale in una attrice. Gli americani girano diversamente da noi. Di una scena qualsiasi fanno dozzine di riprese dai piti diversi punti di vista, e il regista, seduto in poltrona, dice: « No, un po’ meno forte, un po’ più forte ». È il montatore che sceglie­ rà il ritmo della scena attraverso le inquadrature che con­ sidera più riuscite. Di una di queste fanno a volte trecen­ to metri, e se non hanno scelto proprio il peggior attore del mondo, ci sarà pure un momento in cui avrà negli occhi qualche piccola luce! Il montatore sceglierà i due metri in cui questo accade, buttando via gli altri duecentonovantotto in cui l’attore ha l’aria di un ebete. Perché per­ fino in un cattivo attore si può finire col trovare un mo­ mento significativo, ma è ridicolo obbligarlo e obbligare tutti quanti a restare là per undici minuti di ripresa nella speranza di strappargli un’espressione valida, mentre il re­ gista, da dietro la macchina, dice: « No, non cosi, guardi da questa parte, guardi in alto! » E c’è poi un altro ri­ schio: se non si gira solo ciò che si desidera e nella lun­ ghezza che si desidera e nella posizione che si desidera, c’è il rìschio di vedere una delle inquadrature girate collocata dal montatore in un altro punto del film, o in un altro mo­ mento della scena. Ma di fatto in una scena a più personaggi, se ce n’è uno che non rende e lo si fa sparire, non è molto grave; per­ fino in una scena a due personaggi è meglio non fare in­ tervenire elementi estranei. Chaplin aveva una tecnica che considero assolutamente vera e sicura. Diceva che, quando l’interesse di una scena è centrato su due attori, bisogna fare in modo che essi siano messi assolutamente in evi­ denza, che i personaggi secondari stiano il più possibile immobili, che tutto il resto serva da sfondo. Questo è cosi vero che se per caso c’è una comparsa, qualsiasi essa sia, in terza fila, in quarta fila, che fa un movimento suo — se per esempio si muove per dimostrare di essere d’accordo con quello che dice l’attore e crede cosi facendo di far bene — l’interesse del pubblico si dirigerà fatalmente su di lei. Sparisce ogni concentrazione: è la stessa cosa che se in scena ci fosse un oggetto luminoso o brillante, si è sicuri che una parte del pubblico guarderà quest’oggetto. Se si osserva un quadro di Rembrandt si noterà che tutto è in ombra salvo l’oggetto che il pittore vuol mettere in 107

evidenza. Non sono quadri alla Velazquez, dove lo sguar­ do può posarsi su tutta una folla di personaggi; Rembrandt concentra tutta la sua attenzione su uno o due personag­ gi, e tutto il resto si perde nell’oscurità, come nella Ronda di notte. Naturalmente si tratta di due tecniche diverse, ma nel cinema è più produttivo seguire la tecnica, diciamo, di Chaplin, che non quella in cui tutti prendono parte alla scena. D’altra parte in Italia gli aiutoregisti devono fatica­ re non poco per tenere a bada la folla delle comparse. In Italia ci sono tipi che si sentono in dovere, dato che sono pagati, di mettersi in evidenza, e cosi rovinano e demoli­ scono completamente una scena. Se si vuol girare una sce­ na di tribunale, bisogna che da un lato ci sia il giudice e dall’altro il colpevole, e per quanto possibile bisogna cer­ care di avere sullo schermo solo questi due personaggi, nelle scene di dialogo. Se nell’inquadratura del colpevole c’è un carabiniere in secondo piano, bisogna fare in modo che se ne stia assolutamente immobile, altrimenti l’interes­ se si sposterà su di lui.

Ho sempre avuto un culto per la bellezza e mi sono sem­ pre circondato nella mia vita di donne belle. Anche le mie segretarie lo dovevano essere. Sceglievo le mie generiche una per una. Ho avuto come generiche la Lollobrigida e la Sanson in Aquila nera. Alla Sanson, che aveva già il bi­ glietto per tornare in Grecia, impedii di partire assicuran­ dole una carriera, cosa che prontamente si verificò. « Life » fece un servizio sulle mie generiche di Teodora. Come ho detto, le sceglievo personalmente per impedire ogni ricatto sessuale-erotico-economico da parte dei segre­ tari. Non avrei mai fatto lavorare donne brutte come la Melato o la Streisand, infischiandomi del loro eventuale talento. £ la bellezza che deve trionfare nell’immagine di un film. Per il talento basta e avanza il palcoscenico, che ce le allontana e non ci contamina. Le donne devono essere splendide anche se nella vita sono poi volubili e infedeli. Mi auguro solo che, quando creperò abbandonato nel let­ to di una clinica, sia una bella infermiera a chiudermi gli occhi, come a quel personaggio del Cielo può attendere di Lubitsch.

Ci sono attori incapaci di scindere la loro personalità « fi­ sica » dal personaggio che interpretano. Nazzari si inquie­ tò con me, produttore esecutivo del film, perché Caravag108

gio nel film omonimo non baciava mai una donna dicendo­ mi: « Che figura ci faccio IO! » Con Gino Cervi ci furono un paio di curiose situazioni. Nei Miserabili Jean Valjean viene condannato, come tutti sanno, per aver rubato un pezzo di pane, il che presuppo­ ne nell’autore del furto una condizione di estrema indi­ genza. Dario Cecchi aveva preparato un costume ad hoc, convenientemente lacero. Non ci furono santi. Per nessuna ragione l’attore volle indossare quei panni, e si presentò in scena agghindato come un damerino. Risolsi la situazione girando Valjean solo in primo piano davanti alla vetrina del fornaio, sfruttando l’indiscutibile bravura dell’attore che esprimeva da par suo una rabbia famelica. Più avanti nella storia, Valjean diventa il sindaco Madelei­ ne e abbandona quindi i panni del forzato, ma la sua iden­ tità viene scoperta ed è obbligato a fuggire nuovamente. Nuovo dramma: Cervi si impuntò e non volle abbandonare l’elegante redingote per indossare panni confacenti a un la­ titante. Riuscii a stento, facendolo distrarre, a fargli get­ tare addosso del talco da una sarta a carponi, per sottoli­ neare almeno un po’ ed evidenziare, quasi fosse polvere, la precarietà della sua rinnovata situazione di evaso. Gli attori hanno anche strane, inspiegabili debolezze. Nazzari per esempio che pure è stato un ottimo attore an­ che nelle sequenze più drammatiche, come nella sce­ na del processo per omicidio di Tradimento, non girava se prima del ciak non si sistemava con civetteria un ciuffo di capelli sulla fronte. Prima di girare una delle più impor­ tanti scene di Spartaco mi accorsi che Massimo Girotti dava evidenti segni di nervosismo e preoccupazione. Chia­ mava ripetutamente presso di sé la moglie onnipresente e confabulava concitatamente con lei. Ritenni che fosse pre­ occupato per la lunga e difficile battuta che doveva dire, e per « confortarlo » mi avvicinai. L’attore mi fissò negli occhi e, chiaramente alterato, mi bisbigliò: « Le cosce... le cosce! » Lo fissai interdetto. Spazientito, mi trafisse con queste testuali parole: « Ho paura che la luce che Pogany (l’operatore) ha messo, mi caschi sulle cosce e me le in­ grossi ». Sic!

Avevo nera il nerale. quanto

ripescato Brazzi all’Eliseo per affidargli in Aquila ruolo di Dubrovsky, e questo tra lo scetticismo ge­ (Fu il successo di questo film, contrariamente a ha asserito l’attore in diverse interviste, con la ti­ 109

pica irriconoscenza della sua categoria, ad aprirgli la stra­ da di Hollywood. Prima di decidersi Zanuck, quello vero, visionò alla Lux il mio film sette volte!) Ora dovevo rea­ lizzare I miserabili e avevo ancora libero il ruolo di Mario, lo studente rivoluzionario. Avevo manifestato a Ponti l’in­ tenzione di usare Brazzi ed egli lo convocò. Brazzi si pre­ sentò, e con il suo eloquio vagamente toscaneggiante si di­ chiarò felice, accettando sui due piedi l’offerta di Ponti. Ma l’indomani si presentò alla Lux la moglie di Brazzi, la colossale e sorridente signora Lydia, che dopo aver gratifi­ cato la sprovvedutezza del marito con epiteti efficaci, dichiarò che gli avrebbe fatto accettare solo una som­ ma convenientemente aumentata. E Ponti accettò. Ma ceco che l’indomani si riprescnta Brazzi corrucciato. Dopo aver sottolineato l’incapacità giuridica della moglie disse che, visto che si voleva — chissà poi perché — giocare alle sue spalle, lui era disposto a firmare, ma a una cifra diver­ sa e maggiore di quella accettata dalla moglie. Il giochetto del rilancio pokeristico fra i coniugi si trascinò ancora per un paio di giorni, dopo di che Ponti mi mise al corrente della situazione. Gli ribattei che, stando cosi le cose, non avrei più preso Brazzi nemmeno gratis. E Ponti: « Si, ma chi pigliamo allora? » E io: « ... il primo fesso che incontro per strada! » Ponti sali da Guaiino e gli espose la situazione dicendo che, se ci fosse stato Brazzi, io non avrei diretto il film. Guaiino ne concluse che l’ulti­ ma parola spettava a me. Si presentava però il problema dell’attore, e mancavano solo due settimane all’inizio della lavorazione. Ricordai allora di aver incontrato un mese o due prima una puttanella, una certa Virginia, con uno splendido ragazzo. Ripescai Virginia e le chiesi dell’uomo, ma la donna fece un gesto vago, a significare che non era facile per lei districarsi fra la selva di volti e altre cose che costellavano la sua vita avventurosa. Ma la mia descrizio­ ne fu cosf precisa che si ricordò infine del giovanotto: era un signore di Viterbo che a tutto pensava fuorché a far del cinema. Fu cosi che Aldo Nicodemi ebbe il ruolo di Mario.

Stavo girando I mongoli con Jack Palance, altro stupefa­ cente rompiballe. Questi pretendeva, prima di ogni ripre­ sa, di entrare a modo suo nel personaggio, caricandosi ar­ tificialmente. A inquadratura pronta cominciava a fare del­ le flessioni, a respirare ritmicamente per poi esplodere in 110

un perentorio « Sono pronto! » che significava, secondo lui, l’immediata messa in moto della macchina da presa. Il che non sempre, per vari motivi, poteva avvenire. Ave­ va inoltre a che dire sulle battute e cosi via, fino a rag­ giungere il massimo dichiarandomi tout court che non avrebbe mai acconsentito a suicidarsi nel finale, in quanto non riteneva questo gesto degno del personaggio di Gengis Khan, da lui interpretato. Questo fatto colmò la misura. Avevo già adocchiato una comparsa che somigliava con qualche ritocco a Palance in modo impressionante. Lo feci tenere pronto, e l’in­ domani eliminai Palance dall’ordine del giorno facendo comunicare all’attore che avrei girato scene alle quali lui non partecipava. Completai cosi il film e le scene più im­ portanti con la comparsa, che fotografai anche in primis­ simo piano. E nessuno si accorse della sostituzione. Quan­ do Palance « capi »... era troppo tardi. Il film era finito e Gcngis Khan si era suicidato, e in primo piano! Ricorsi a controfigure per Brazzi in Aquila Nera — l’at­ tore accusava dolori reumatici — e per Gianna Maria Canale in Vedi Napoli e poi muori — l’attrice si era ammalata. Completai le sequenze degli illustri assenti con qualche primo piano successivo. Un altro episodio, che ricordo per ragioni del tutto diver­ se, riguarda un altro attore, uno dei cosiddetti, ma cosi preziosi, « secondari »: Ugo Sasso. Ex sottufficiale dei ca­ rabinieri, biondo, prestante, il Sasso riusciva ad accapar­ rarsi diversi ruoli, dato anche il malvezzo italiano del dop­ piaggio che consente a chiunque di esprimersi a posteriori con dizione impeccabile che va a sostituire l’incomprensibile gorgoglio dell’originale. Tutti sanno che a volte certi attori si limitano a declamare enfaticamente soltanto dei numeri, sui quali, in sede di doppiaggio, verranno sovrap­ poste le sillabe delle battute. Aprendo una piccola paren­ tesi ricordo che durante la lavorazione di una manifesta­ zione garibaldina a piazza San Giovanni, una delle piazze più vaste di Roma, la folla seguiva le riprese di un film d’epoca e ascoltava allibita il proclama del Garibaldi d’oc­ casione — credo si trattasse proprio di Sasso! — che si rivolgeva enfaticamente ai suoi Mille declamando, più o meno: « Otto... ventiquattro... settantadue. Cinque... qua­ ranta... cento... », e cosi via! Ma torniamo a quello che mi riguarda direttamente: du111

tante la carica di cavalleria dei Miserabili il Sasso fu inve­ stito da un cavallo e proiettato a terra senza grave danno. L'attore approfittò dell'incidente per mettersi sotto assicu­ razione, il che gli avrebbe impedito però di prendere parte alla scena delle barricate di cui egli era il « pivot ». Non potevo rimandare la scena, e pregai quindi il Sasso, per la verità ancora non poco indolenzito, di partecipare « in incognito » alla scena stessa, che tra l'altro, per la sua sta­ ticità, si confaceva anche al suo stato di salute. Non lo avrei fatto figurare sull'ordine del giorno, e quindi la sua copertura assicurativa sarebbe continuata! E Sasso ac­ cettò. I rivoluzionari furono attestati sulla barricata sulla quale dovevano arrivare i colpi di cannone della gendarmeria, nella fattispecie innocue esplosioni con molto fumo, abil­ mente predisposte dall’uomo degli effetti speciali. Questi, un certo Battistelli, la cui mano parzialmente monca per lo scoppio di un petardo avrebbe dovuto sconsigliarne l’im­ piego, mi assicurò che le cariche da lui predisposte non avrebbero recato alcun danno agli attori. Anzi, aggiunse, non dovevo inquietarmi se l’effetto sarebbe risultato mo­ desto! Avevo scarsa fiducia nell’uomo e all’ultimo momen­ to pregai Sasso di scostarsi ancora di un paio di metri dal punto di una delle cariche. Cosi facendo gli salvai la vita! L’esplosione fu tremenda. Basti dire che una sbarra di ferro volò nella mia direzione passando a qualche centime­ tro. Tra il fumo denso e i lamenti reali dei barricadieri, più per lo spavento che per il danno subito, vidi il Sasso continuare bravamente la sua scena — malgrado il parrucchino fosse stato spazzato via dall’esplosione — e affron­ tare concitatamente Cervi. Al mio stop Sasso si immobilizzò e, senza una parola, vol­ tatosi verso di me, si sollevò dapprima la camicia per ca­ larsi poi le brache: era letteralmente coperto di sangue! Per fortuna si trattava solo di una miriade di scheggette di legno che poi al trucco gli furono tolte una a una con una pinzetta da sopracciglie. In Aquila nera mi erano state vivamente raccomandate due ragazze. Giunsero proprio il giorno della carica dei cosac­ chi: questi irrompono da porte e finestre nel castello di Kirila, mentre si sta svolgendo una festa con relativo bal­ lo, seminando panico che, per il modo con cui avevo congegnato la ripresa, era assolutamente autentico. Le due H2

ragazze sembravano sconcertate all’idea di trovarsi in mez­ zo alla massa dei generici terrorizzati, ma le rassicurai: non avevano che da mettersi sul grande scalone che sali­ va al piano superiore — e cioè sui praticabili con lam­ pade ed elettricisti — e sarebbero state al sicuro. Mi rin­ graziarono e si collocarono prudenzialmente a metà dello scalone. Ma non avevo fatto i conti con l’audacia e la pe­ rizia del maresciallo Opes — poi diventato un asso del­ l’equitazione — e di un suo degno emulo, un certo Marra. Dopo essere penetrati con gli altri al galoppo, i due si av­ ventarono letteralmente sullo scalone salendovi ancora al galoppo e facendo ondeggiare paurosamente ponti e lam­ pade. Le due ragazze si gettarono terrorizzate al di là della balaustra, fortunatamente con pochi danni. Non dimenti­ cherò mai il loro sguardo carico di odio e di disprezzo! Erano certe che l’avessi fatto apposta! Un altro incidente con i cavalli avenne in La vendetta dell’Aquila nera. Il ruolo di un vecchio dottore era ancora libero e il produttore timidamente avanzò la candidatura di suo suocero che tra l’altro, egli asseriva, era stato un brillante ufficiale di cavalleria. Il ruolo contemplava in effetti una fuga a cavallo, e dopo tutto il volto dell’inte­ ressato era aderente al personaggio. Prospettai le difficoltà della galoppata, ma l’interessato mi fissò, con evidente iro­ nia: certamente ignoravo il suo passato in cavalleria! Malgrado alcune precedenti esperienze in cui dei sedicenti Tom Mix non appena messo il culo sulla sella erano rovi­ nosamente precipitati a terra, diedi il mio assenso. E si giunse al giorno della ripresa. Aquila nera, cioè Brazzi, ga­ loppava avanti, e per la verità con sufficiente brio, ma die­ tro di lui il complice nella fuga, e cioè il suocero calvo, arrancava in un ridicolo trotto. Alle mie rimostranze il vec­ chio ufficiale bofonchiò qualche scusa, ma decisi di ricor­ rere come sempre a energici rimedi. Presi il capomacchi­ nista e gli misi in mano una specie di mazza da baseball intimandogli di colpire — acquattato dietro una roccia — il culo del cavallo non appena lo avesse « sentito passare » davanti a sé. Con uno « stia tranquillo, dotto’... », che avrebbe gelato il sangue nelle vene del suocero, il mio « si­ cario » andò ad appostarsi. I due cavalli si mossero in direzione della macchina da presa. E questa volta inspiegabilmente anche il cavallo del suocero accennò a un timido galoppo. Forse preoccupato per l’insolita andatura dell'animale o forse perché a caval­ li

lo non ci era veramente salito mai, fatto sta che il tizio cominciò a ondeggiare paurosamente sulla sella fino a mol­ lare le redini e a tuffarsi letteralmente testa in avanti. Il macchinista, che aveva già visto passare Brazzi, senten­ do lo zoccolio del secondo cavallo calcolò mentalmente Vattimo del passaggio e sferrò il colpo, che invece di col­ pire il deretano del cavallo centrò la testa del cavaliere, per fortuna senza irrimediabili conseguenze! Gli animali hanno spesso giocato un ruolo considerevole nei miei film: oltre ai cavalli, naturalmente, ho abbondan­ temente sfruttato leoni, tigri, pantere, orsi, serpenti, ecc. Per una delle scene centrali di Spartaco mi ero accordato con Darix Togni, che aveva trasportato a Verona una ven­ tina di superbi esemplari tra leoni e leonesse. Avevamo inondato l’arena con una ottantina di centimetri d’acqua e avevamo collocato al centro una nave d’epoca, sulla qua­ le Ludmilla Tcherina avrebbe dovuto danzare prima del­ l’arrivo dei leoni scatenati dal tiranno, che sarebbero saliti fin sulla tolda della nave stessa. La scena era articolata in due tempi. Nel primo, nel sotterraneo dell’arena, avrei dovuto riprendere l’uscita delle belve dalle gabbie per se­ guirle in panoramica fino alla grande porta sbarrata che immetteva nell’arena stessa, e che avrebbe dovuto aprirsi al mio ordine. Comunicavo con l’arena attraverso un mi­ crofono, e gli altoparlanti facevano risuonare i miei ordini indirizzati al capomacchinista, che avrebbe dovuto, tiran­ do ima corda, far saltare il cavicchio di legno che teneva uniti i due battenti della porta. Tutto predisposto, do l’or­ dine di far uscire i leoni. Con l’operatore Bava e un altro macchinista ci eravamo sistemati in una gabbia di ferro. Per una volta tanto si erano invertite le situazioni... gli uomini in gabbia e le belve libere. Queste, aperte le gab­ bie, si avviarono verso di noi mentre la macchina da pre­ sa ronzava a tutto spiano. Ci annusarono, disgustate un istante, poi si avviarono verso la porta, che evidentemente le incuriosiva. A questo punto scattò il mio fatidico e at­ teso urlo: « Aprite la porta! » Ma la porta restò inspiega­ bilmente e implacabilmente sbarrata. Cosa era successo? Come venni a sapere dopo, il macchinista aveva tirato la corda forse con troppa energia e questa si era spezzata la­ sciando il cavicchio al suo posto. A questo punto le belve, non potendo uscire, tornarono sui loro passi e per forza di cose cominciarono a interessarsi alla nostra gabbia e a noi. 114

Una delle leonesse saltò addirittura sulla gabbia facendola oscillare, mentre io, con quanto fiato avevo in gola e di* menticando totalmente che gli altoparlanti diffondevano la mia robusta voce per tutta la piazza e le vie adiacenti im* precavo sfornando parole da trivio e da caserma, come si usava dire un tempo. Sistemata la prima parte della scena, in un tempo succes* sivo occorreva girare la seconda: i leoni che, percorrendo un passaggio obbligato all’asciutto, salivano sulla nave. Per poter però riprendere questa « passeggiata » efficace­ mente, dovevo dislocare le varie macchine da presa lungo il percorso. Mi consultai con Togni, che mi disse che per garantire la sicurezza assoluta dei numerosi cameramen, avrei dovuto costruire nell’acqua delle « isolette ». Lo fis­ sai stupito, ma con assoluta sicurezza ribattè che i leoni hanno orrore dell’acqua, e che quindi per nessuna ragione al mondo vi sarebbero entrati. Girai l’assicurazione agli operatori e tutti, benché poco convinti, presero posto al­ l’interno delle loro postazioni. Al ciak la grande porta tor­ nò ad aprirsi e comparvero i leoni. Venti leoni sono qual­ cosa di impressionante! Fissarono distrattamente la nave lontana e poi, imo dopo l’altro, senza esitare, si tuffarono nell’acqua e nuotando passarono accanto alle varie « isolette », dove i cameramen erano pili morti che vivi... Avevo sceneggiato per Colamonici produttore e Righelli regista L'allegro cantante. In una delle scene, che riecheg­ giava la famosa sequenza del circo di Chaplin, il comico del film doveva trovarsi senza saperlo a tu per tu con un leone. Il comico era il famoso De Rege. La gabbia sarebbe stata divisa in due scomparii, al centro dei quali, in asse con la macchina da presa e quindi « invisibile », sarebbe stata collocata una grossa lastra di cristallo di tale spes­ sore, assicurava l’« esperto », che solo una cannonata avrebbe potuto infrangerla. De Rege avrebbe dunque po­ tuto tranquillamente mimare il suo terrore mentre dall’al­ tra parte il leone, vedendolo, avrebbe certamente espresso con grande effetto la sua rabbia per quell’esca irraggiungi­ bile. De Rege pretese però che si facesse una prova del cri­ stallo, facendo entrare il solo leone. L’esperto scosse la testa infastidito, ma tant’è... bisognava accontentare quel fifone. E il leone fu fatto entrare. La belva si guardò at­ torno, incuriosita da tutta quella gente che si assiepava all’esterno della gabbia, dopo di che si accostò al cristallo 115

fiutandolo; poi, senza alcuno sforzo, mollemente, allungò una zampa... e il cristallo volò in mille pezzi! Qui la scena rappresentava invece una « fossa » dove un giovane principe indonesiano era legato a un palo. Nella fossa veniva immessa una tigre — grande come uno scom­ partimento ferroviario — che Maciste affrontava e uccide­ va. Per la prima parte della sequenza non vi erano proble­ mi perché si trattava di un insieme di immagini staccate — cioè con principe e tigre separati — poi abilmente mon­ tate a contrappunto insieme. Il guaio veniva dopo, quando cioè figurava che il felino era ormai a ridosso del principe e Maciste interveniva. Per permettere la fase finale e più importante della scena non vi era che un mezzo: addormentare la belva con il pentotal e poi rapidamente « accosciarla » presso l’indone­ siano allibito, e immediatamente fare intervenire il Maci­ ste di turno, Gordon Scott. La sequenza richiese più di ima ripresa e più di un’iniezione. Evidentemente l’effetto della droga si faceva ogni volta più blando, tanto che al­ l’ultima la tigre spalancò la bocca smisurata in una specie di terrificante sbadiglio. Ma Scott le era già sopra, c da autentico atleta quale era l’aveva già afferrata, sollevata in alto e scaraventata in un angolo, sempre dormiente. Poi si precipitò sul principe e lo prese in braccio. Nel gesto mi accorsi che l’attore contraeva il volto in una strana e poco eroica smorfia, tuttavia continuò la sua azione arram­ picandosi fuori dalla fossa sempre col « principe » in brac­ cio. Allo stop mi accostai a lui e gli chiesi spiegazioni per quella smorfia « non inclusa » nei miei suggerimenti. Gor­ don, indicandomi l’indonesiano che ancora appariva scon­ volto, mi ribattè ad alta voce: « Ma quello... si è cacato sotto! »

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6._______________________________ PRODUTTORI, REGISTI E ALTRI...

Peppino Amato, ecco un personaggio veramente straordi­ nario del nostro cinema, una prova « vivente » di come la cultura non sia affatto necessaria per essere un produt­ tore di film, e che anzi in qualche caso possa essere per­ sino controproducente. È stato un caso senza precedenti e quasi certamente irripetibile per la serie quasi ininter­ rotta di successi. Bello, di una bellezza smargiassa maliosa aggressiva, l’occhio grande luminoso e intelligente, un sor­ riso accattivante, pronto alla battuta insolente mordace di­ struttiva. Siamo stati in relazione per circa vent’anni. Non ci incon­ travamo spesso, ma quando capitava il piacere era reci­ proco. Non abbiamo mai fatto un film insieme e questo forse ha contribuito a mantenere inalterati i nostri rapporti su un piede di naturale cordialità. Non sono mai stato sicu­ ro se lui mi vedesse con piacere per le mie qualità: ero spesso, per non dire sempre, in compagnia di donne bel­ lissime per le quali, come per tutte le donne belle in ge­ nerale, egli sentiva un’inclinazione immediata. A pace conclusa, Amato fu uno dei primi a recarsi negli Stati Uniti dove si può dire « era di casa ». In una di queste occasioni — è lui stesso che me lo ha raccontato — doveva partecipare a una cena piuttosto importante anche se mondana. Si accorse all’ultimo momento che la sua bar­ ba — bruno com’era — era « rispuntata a fior di pelle » rendendolo in un certo senso impresentabile. Era abituato 117

a farsi radere, e a quell’ora in albergo il barber shop era già chiuso. Gli venne incontro il portiere suggerendogli che forse avrebbe avuto la chance di trovare ancora aper­ ta una bottega a poca distanza dal Plaza, gestita da un italiano che soleva trattenersi normalmente oltre i limiti di chiusura. Peppino piombò in negozio e il figaro, un oriundo napoletano, si dichiarò felice di poter aiutare un paisà. Come sempre accade durante la rasatura, il barbiere co­ minciò a chiacchierare vorticosamente. Era di origine ita­ liana, è vero, ma nato in America, e quindi conservava del­ l’Italia un’immagine ricavata dai racconti dei genitori, pro­ babilmente dei poveri emigrati da qualche paese dell’inter­ no del napoletano. Senza peraltro fermarsi mai nel lavoro, cominciò a chiedere ad Amato informazioni sul nostro Pae­ se: « Ma wui in Italia ce li avete gli autobussi? » Peppi­ no, non certo per amor di patria, si infastidì per quella domanda assurda e rispose — e anche alle domande suc­ cessive continuò a rispondere con la sua voce forte dalle intonazioni stridule che gli erano congeniali, « in crescen­ do » quando qualcosa lo irritava — « Gli autobussi? Ma cche vai dicendo? Nui tenimmo degli autobussi che sem­ brano treni, velocissimi, luminosi, con la musica », e cosi via. L’altro, un po’ contrariato, tacque per un istante per poi riprendere: « Ma wui, in Italia, li tenete li market? » e Peppino, sempre più aggressivo: « Li market? Nui tenimmo dei supersupermarket grandi come ’nu quartiere de Nuovayorke: tu entri nudo e esci in cadillacche, e tutto a cre­ dito, mi capisci, a credito! » Confusione crescente del po­ vero barbiere, che poi timidamente riprese: « Ma wui, in Italia, li tenete li cinematografi come accà? » « Ihhh... co­ me accà? Nui tenimmo dei cinema grandi come tutta Manataan... con teatro, ballerine... show... gelati, ma che ti sei messo in capo... nui tenimmo tutto...tutto! hai capito? » L’altro, confuso, tacque per un po’, ferito nel suo orgo­ glio di nuovo yankee. Mentre spazzolava il soprabito di Amato, prima che que­ sti uscisse dopo aver elargito una mancia degna di Rocke­ feller, il malcapitato azzardò un’ultima domanda: « Ma allora, se wui tenite tutto... perché noi americani dobbia­ mo continuare a mandare dei soldi a voi? » alludendo evi­ dentemente al piano Marshall. E Amato, uscendo e ur­ lando sempre più forte come era uso fare: « Ma nun l’hai 118

capito ancora? È per andare in culo a voi... hai capito... in culo a voi! » Ancora Amato a New York, al Plaza. Il produttore, che amava vestire con un’eleganza raffinata anche se talvolta eccessiva, aveva per l’occasione comperato in Italia un paio di scarpe di coccodrillo che oltre a valere una fortuna era­ no tutto il suo orgoglio. La sera del suo arrivo mise, come era solito fare in Italia, le scarpe fuori della porta dell’ap­ partamento in modo che ricevessero un trattamento ade­ guato alla loro importanza. Aveva però dimenticato che in America si suole mettere fuori della stanza oggetti e cose da gettare, per cui il facchino, passando, si era fatto un dovere di sbarazzare il nostro di quella « mondezza ». L’ira di Amato il mattino dopo raggiunse parossismi inconsueti, ma urla proteste e minacce non servirono a nulla. Ormai delle sue scarpe si era persa ogni traccia! Indignato, Ama­ to lasciò sui due piedi l’albergo. Ogniqualvolta, i mesi e gli anni seguenti, si trovava a pas­ sare per New York, appena arrivato, il primo indirizzo che Amato dava al taxi era quello del Plaza. Giunto al­ l’albergo « sbarcava » ed entrava nella hall: e qui, tra lo sbalordimento generale, iniziava un Amato-show. Urlando a perdifiato con la sua voce a volte stridula per l’ira si rivolgeva agli astanti che gremivano sempre la hall, grati­ ficando l’albergo e la sua direzione dei peggiori epiteti: a nulla servivano gli interventi del personale per cercare di moderare la furia. Imperterrito Amato continuava a « raccontare » a modo suo la storia delle scarpe... « che gli erano state fottute in quell’albergo di merda », e non se ne andava a riprendere il suo taxi senza essersi conve­ nientemente sfogato! Ai suoi inizi come produttore, quando tra l’altro i mezzi finanziari erano scarsi, Amato era duro e restio a sborsare il dovuto ai suoi collaboratori, in primis gli sceneggiatori. Costoro, dopo avergli fatto la posta per giorni e giorni, final­ mente lo incocciavano nel cortile dello studio. Prevedendo comunque una tale evenienza, Amato aveva l’abitudine di infilarsi nel taschino della giacca banconote da cinquanta lire (una quarantina di mille lire del giorno d’oggi). « Af­ frontato » da quello che lui considerava uno spregevole postulante, dapprima Amato invocava la sua « attuale » assoluta indigenza. L’interlocutore però, ben sapendo quan­ to difficilmente si sarebbe ripresentata una simile occasio­ ne, non mollava la presa e reiterava fastidiosamente la ri­ 119

chiesta del pagamento. E finalmente Amato fingendo, da consumato attore quale era, di ricorrere a un’estrema ri* sorsa, infilava una mano nel famoso taschino e ne estraeva una spiegazzata « cinquantatre ». Naturalmente all’altro era giocoforza accontentarsi del modesto anticipo. Avven­ ne una volta, chissà per quale fatale distrazione, che Amato tra le cinquanta lire infilasse anche un foglio da mille, che dopo la solita moina estrasse con riluttanza. L’altro glielo strappò dalle mani, e solo in quell’istante Amato realizzò il fatale equivoco. Ne scaturì un inseguimento tra i mean­ dri dei teatri, conclusosi con la fuga del fortunato scrit­ tore.

E Raffaele Colamonici, altro glorioso alfiere del cinema partenopeo? Ai primordi di una folgorante carriera di pro­ duttore, « don Fafele » d'accordo con un amico operatore, credo un Caracciolo, aveva proposto la realizzazione di un film strappalacrime a un danaroso bottegaio, che si era la­ sciato convincere facilmente soprattutto dalle esuberanti grazie della « prima donna ». Ma i due compari « produt­ tori-registi », pur continuando a incassare i congrui versa­ menti del finanziatore, a tutto pensavano tranne che a girare il film. Night, donne, dolce vita, e senza l’ombra di un ciak. Senonché, trascorse due o tre settimane di versa­ menti, il negoziante, forse messo in allarme da qualche spiata, anziché accontentarsi dei mirabolanti racconti di « riprese » sensazionali che i due compari gli propinavano generosamente, pretese di vedere il girato. Per i due era il crollo... la rovina... probabilmente la pri­ gione... Ma don Fafele non si perse d’animo. A un’enne­ sima e ultimativa richiesta del produttore finse di « uscire pazzo » per l’affronto: ma come!... allora si dubitava della sua parola... lo si riteneva un infame... un farabutto... Il tutto in un crescendo di toni drammatici. Poi, confidando nell’ignoranza del finanziatore, intimò all’operatore-compare di portare di fronte all’uomo del denaro le scatole del girato. E fu una valanga di « pizze » metalliche, accurata­ mente sigillate con nastro adesivo come si usa fare col più prezioso dei negativi, e Caracciolo la rovesciò ai piedi dell’allibito negoziante. A questo punto, come morso da una tarantola e in una perfetta crisi di scespiriana follia, Cola­ monici si dette a scardinare i coperchi delle scatole (conte­ nenti solo della volgare « coda bianca ») per strappare il contenuto e gettarlo srotolato ai piedi del malcapitato pro­ 120

duttore, che invano cercava di impedirgli lo scempio, se­ condato da un falsamente premuroso Caracciolo. E mentre la « coda » si srotolava a cataste sul pavimento. Colamonici urlava «Ah... nun vi fidate?!... Chista è ’a scena du banchetto... chista è quella d’amore... quattro ggiorni per girarla!... quattro ggiomi!... chista... ah si... cchista è ’a scena di Capri... » e cosi via fino all’ultima scatola... Ho avuto a che fare una volta anche con « l’onorata so­ cietà ». Dovevo realizzare con Uotamonici La leggenda del Piave, un soggetto che in passato >veva interpretato con successo come attore. Senonché il ministero della Difesa ci negò ogni apporto sia di uomini sia di vecchie divise e fucili, di cui aveva pieni i magazzini, dicendoci chiaramente che si considerava offensiva per il prestigio delle forze armate la rappresentazione della disfatta di Caporetto. Ogni ten­ tativo di convincerli che era difficile descrivere l’epopea del Piave, se non era preceduta dalla ingloriosa ritirata, fu inutile. Il problema era grave, non tanto per le divise e le armi, reperibili altrove, ma per gli uomini: occorrevano almeno mille soldati e un centinaio di cavalieri. A questo punto Colamonici ebbe un lampo di genio. At­ traverso amici comuni — si vantava di forti aderenze nel­ la camorra napoletana — si mise in contatto in Calabria con qualche uomo di rispetto e... ci mettemmo in viaggio con una troupe ridottissima, formata soprattutto da opera­ tori e relative macchine da presa. Colamonici aveva con sé una valigetta dentro la quale vi erano due milioni in contanti — parlo di venticinque anni fa — che non ab­ bandonava mai, nemmeno quando si coricava. Arrivammo a Reggio e nel pomeriggio avemmo il primo ap­ puntamento in un boschetto fuori città con un certo Cariddi (il nome esatto non lo ricordo). Attendemmo in au­ tomobile qualche minuto. La località era deserta e inquie­ tante e dava piu di un motivo a Colamonici per scherza­ re sulla famosa valigetta, che aveva naturalmente con sé: « Mo* ci danno ’na mazziata in capo, e... », e dal bosco, come in ogni racconto che si rispetti, sbucò improvvisa­ mente un uomo che si accostò alla macchina. « Siete quelli del cinema », ci disse squadrandoci. Annuimmo. « Io sono Cariddi », concluse lui. Poi, precedendoci, aggiunse rapi­ damente: « Ci vediamo alle cinque al vostro albergo », 121

e portatasi una mano alla scoppoletta si rimbucò nel folto. Alle cinque, nel bar del nostro albergo, comparve un altro tizio che si accostò a noi dicendo: « Sono Cariddi ». Fummo sorpresi di trovarci di fronte a un altro Cariddi, ma quello si limitò a spiegare: « Cariddi sono io e sono io che dispongo. Quell’altro doveva solo controllare se era­ vate proprio quelli del cinema ». Colamonici espose rapi­ damente le sue esigenze: mille uomini, cento cavalieri. Fu stabilito prezzo — di molto inferiore a quelli praticati a Roma — e località della ripresa. La sera, sulla piazza, Cariddi ci avrebbe fatto conoscere i « capireparto » cui il mio aiuto — oggi il notaio Di Vita — doveva dare le ultime istruzioni. La sera alle sette ci recammo in piazza. Vi era del tram­ busto. A un tratto, sirena ululante, passò una jeep della polizia. Sulla jeep il mio aiuto, che avendomi visto urlava: « Dotto*, mi hanno arrestato... mi portano in prigione... dottore! » Era successo che la polizia, vedendo raccogliersi in piazza gruppi di persone probabilmente schedate come maliose, aveva pensato a una pericolosa riunione sediziosa e ne aveva arrestato l’organizzatore, cioè il mio aiuto. L’equivoco fu chiarito poco dopo e Di Vita rilasciato. All’indomani ci furono le riprese. Che lo crediate o no, un vero e proprio esercito con i suoi ufficiali e i suoi sot­ tufficiali si mosse alla perfezione sotto i miei ordini. Se qualcuno — ben raramente — dava segni di insofferenza e malcontento per la paga, veniva richiamato all’ordine con un gesto del suo superiore diretto, che gli diceva: « Se hai qualcosa da dire, ce la vediamo poi io e te. Questi si­ gnori non c’entrano ». E tutto rientrava nell’ordine.

Colamonici apparteneva a quella schiera di produttori co­ siddetti napoletani, ai quali si devono le sia pure alterne fortune del cinema italiano al suo nascere. Gli epigoni di questo cinema d’anteguerra — ante prima guerra mon­ diale, naturalmente — erano Gustavo Lombardo, non Goffredo, sia ben chiaro, e Barattolo. Sia l’uno che l’altro basavano i loro film su di un presupposto e una convin­ zione incrollabili: le storie raccontate dovevano commuo­ vere interessare entusiasmare, non contenere messaggi o sostenere tesi, come purtroppo doveva verificarsi in epoche posteriori. Mi raccontava Longanesi di aver assistito una volta a una seduta di lettura nell’ufficio di Barattolo, invitatovi da que­ 122

sti. Si doveva vagliare l’opportunità di varare una certa sceneggiatura, opera di un personaggio raccomandato in alto loco. Questi arrivò, sussiegoso e distinto, con la pre­ ziosa cartella che conteneva la sceneggiatura. Dopo uno scambio formale di complimenti, si dette inizio alla lettura. Era una storia « densa di significati » e di lampeggiamenti intellettuali, che Fautore leggeva con lenta e ponderata gra­ vità. Ma alla quarta o quinta pagina Barattolo interruppe la lettura per dire: « Nèh... ma nella vostra storia ce sta ’nu piccirillo che va sotto n’automobile... ’na madre che chiagne all’ospedale... e ’na carogna che mmore dopo aver inguaiato ’na femmena?! » L’autore lo fissò perplesso e inorridito, poi scosse lentamente e gravemente la testa. Al che Barattolo, alzandosi, concluse che la storia non lo in­ teressava.

A distanza di anni e su un altro piano, un altro produttore degno di questo nome doveva imporsi alla mia ammirazio­ ne: Riccardo Guaiino. Creando la Lux, Guaiino dette un volto e una dimensione nuova e intemazionale al nostro cinema. Tutti i migliori produttori italiani, compresi Ponti e De Laurentiis, furono « allevati » da lui. Io personalmente ho passato molte ore con lui parlando soprattutto di pittura e di scultura. Aveva una competenza straordinaria e una cultura profonda e moderna, che gli aveva permesso di creare una delle più favolose raccolte d’arte che ci fossero in Italia. Quando Mussolini, con una delle sue stolte impennate, lo aveva inviato al confino, ac­ cusandolo di pericolose acrobazie finanziarie che metteva­ no in pericolo tutta l’economia italiana — doveva poi af­ frettarsi a richiamarlo a Roma per ottenere da lui suggeri­ menti per ristabilire tale economia, dissestata per tutt’altri motivi — il suo patrimonio artistico (e non solo quello) fu messo sotto sequestro. Ricordo che fra l’altro nella raccolta figuravano tre favolosi Modigliani, che dopo il sequestro furono esposti per qualche giorno al Poldi Pezzoli di Mi­ lano. Durante una mia visita assistei, tra l’altro rimanen­ dovi coinvolto, a un discutibile intervento di Giorgio De Chirico, che pretendeva negare ogni talento pittorico al grande livornese. Caduto il fascismo il governo repubblica­ no decise di restituire a Guaiino la sua raccolta. Ma questi la rifiutò tout court (si parla di miliardi!) regalandola al museo di Torino. Non vi era argomento che non conoscesse a fondo: aveva 123

creato e svilupato le basi per le materie plastiche e le fibre artificiali e dirigeva più di cinquanta industrie, tutte di importanza nazionale e internazionale. Aveva anche un’al­ tra rarissima qualità per essere un italiano e di quel livello. Quando aveva fissato un appuntamento non faceva atten­ dere il visitatore neanche un minuto oltre l’ora fissata: e se per caso succedeva, la porta del suo ufficio si apriva e lui stesso usciva nell’anticamera per scusarsi del ritardo, che del resto non si protraeva mai oltre uno o due minuti ancora! Devo dire che nello squallido panorama dei cosiddetti pro­ duttori italiani, che senza eccezioni sono ignoranti o vel­ leitari intellettualoidi, Guaiino rappresentò veramente una rarità, anche perché, malgrado ne avesse la possibilità — fine e forbito scrittore come era — quando aveva scel­ to un regista lo lasciava arbitro assoluto del suo film.

Tra i produttori potrei ancora citare Attilio Riccio, che aveva soltanto il difetto di essere troppo cerebrale, distac­ cato e rarefatto. Fu protagonista tuttavia nei miei confronti di un episodio che ricordo sempre con favore. In Spagna ero stato intervistato da un giornale, « E1 Pueblo », e ave­ vo fornito spietatamente un mio punto di vista sul nostro ambiente che potrei sintetizzare cosi: le attrici, se cosi vo­ levamo definirle, avevano fatto carriera per meriti tutt’altro che artistici; gli attori erano di rango provinciale; i pro­ duttori senza denaro e senza specifico talento e i registi, infine, tranne rare eccezioni, non erano da meno dei pro­ duttori. Questa intervista scatenò in Italia un putiferio. Il presiden­ te dell’Anica, Eitel Monaco, propose la mia radiazione da­ gli albi (quali, poi?) dei registi e dei produttori, e telefonò la sua decisione a Riccio, che era amico suo e mio. Atti­ lio, che ignorava l’intervista, gli chiese: « Ma insomma, che ha detto, poi? » E Monaco ripetè sinteticamente il mio giu­ dizio. Al che Riccio, serafico come sempre, ribattè: « Ma sai che ti dico... che non ha torto, dopo tutto », scatenan­ do l’ira di Monaco. Il mio giudizio riguardava anche De Sica. Quando arrivai in Francia mi chiesero se avessi cambiato opinione sul De Sica regista. Ma ribadii il mio concetto: il nostro, senza lo squallore di certe vicende, era incapace, dal punto di vista dello spettacolo, di far vibrare Io spettatore. Dopo un paio di film realizzati da De Sica in Francia, il più im­ 124

portante critico francese, Jean-Louis Bory, affermò: « Dopo tutto penso che Freda avesse ragione». Naturalmente, e anche per una legittima reazione per l’isolamento e il di­ sprezzo di cui la critica italiana mi gratificava, i miei giu­ dizi peccavano per eccesso, come quando dicevo che Bla­ setti era noto unicamente perché portava sempre gli stivali. Ma c’è un fatto per me incontrovertibile: che vi è più ci­ nema in un fotogramma di Ford che in tutti i film di Risi, Comencini e Salce messi insieme. Ricordo anche due altri produttori con i quali peraltro non ho mai lavorato. Uno era Misiano, uno dei « minori » napoletani. Fu invi­ tato « all’italiana » a Londra assieme ad altri produttori, attori, registi e attrici, certamente più per le sue relazioni personali che per aver segnato una tappa o una svolta nel­ la storia della cinematografia. Il soggiorno culminò con la presentazione dei convenuti alla famiglia reale: nel fa­ stoso salone erano schierati da una parte i reali al com­ pleto, mentre dall’altra comparivano da una grande porta, uno alla volta, gli invitati. Sul limitare della stessa era il ciambellano, all’orecchio del quale l’invitato di turno sus­ surrava il suo nome, che il funzionario ripeteva ad alta voce annunciandolo alla Corte. Quando fu il turno di Mi­ siano — questi, è bene sottolineare, era un omone robu­ sto, carnoso, dai lineamenti simpatici ma non certo « fi­ ni » — egli, accostatosi al ciambellano, gli bisbigliò som­ messamente: « So’ Misiano », intendendo « Sono, mi chia­ mo Misiano ». E il funzionario stentoreo ripetè frainten­ dendo: « Sir Misiano! » Gli italiani, colti in contropiede come da una volée a rete di Panatta, esplosero in una risa­ ta: che si comunicò, seppure in forma regalmente conte­ nuta, anche ai sovrani che dopo una rapida occhiata al nuovo arrivato realizzarono l’equivoco del ciambellano. Manenti, o meglio il Commendator Giulio, era un bell’uo­ mo simpatico e cordiale. Malgrado fosse ricco e fosse un produttore di successo, continuava a « servire » i clienti nella sua piccola tabaccheria di via Uffici del Vicario. Il locale era angusto ed era diviso da un tramezzo dal retrobottega: If, mentre il commendatore serviva nella tabacche­ ria le tre Macedonia e il pacchetto di cerini, si svolgevano le sedute di sceneggiatura. Manenti era famoso per le sue battute, che denunciavano una solida base culturale, come per esempio: « Mica posso vivere con questa spada di Te­ 125

mistocle sulla testa », oppure « Questo film sarà una pie­ tra emiliana della cinematografia », oppure « « Pro formia ». (Un altro personaggio del cinema, detto « il marche­ se », aveva in casa un salottino di Rimini [vimini] e un lampadario di ferro sbattuto, e avendo fatto soldi non ve­ deva l’ora di comprarsi uno yoghourt [yacht] per farsi finalmente una bella crociata!) Ma era famoso anche per una formula di soggetto da cui non demordeva, e bisogna dire a ragione. La formula si compendiava in due parole che avevano anche fornito il titolo a un film di successo: Labbra serrate, o per dirla alla Manenti, Labra serate} Ciò significava i drammi umani più angosciosi: il tizio o la tizia, per una ragione o per l’altra, non potevano rivelare la verità, che so io... che un ragazzino scoperto casual­ mente da un marito e da questi creduto figlio segreto e adulterino della moglie e quindi di un altro uomo, non era in realtà della moglie, ma della sorella di questa; che l’uomo con cui era stata vista la moglie in circostanze am­ bigue non era il suo amante, ma un fratello latitante e ricercato dalla polizia... e sarebbe insomma bastato aprire bocca per sciogliere contrasti e liti traumatiche. Ma allora addio dramma, addio successo e addio soprattutto « labra serate », che dovevano restare sigillate fino agli ultimi cin­ quanta metri di pellicola! Edoardo Anton, o meglio Antonelli, era figlio di due let­ terati oggi considerati, in certo senso, minori. Il padre, Luigi, era un commediografo di successo e la madre Lu­ cilla scriveva romanzi più o meno rosa e novelle. Cresciuto in quella serra letteraria, Edoardo doveva ben presto sen­ tire i morsi della vocazione e cominciò appena diciasset­ tenne a scrivere le sue prime novelle. Ne aveva appena finita una, che considerava la migliore, quando rientrando a casa trovò che la sorella aveva impiegato le sudate carte del suo parto artistico per fabbricare barchette o cose del genere. Edoardo andò naturalmente su tutte le furie e si precipitò nello studio del padre. Congestionato, furente espose al genitore che lo ascoltava serafico le ragioni del suo furore, esprimendosi alla fine con un « Ne ha fatto delle barchette, capisci... delle barchette... della mia mi­ gliore novella! » Il padre lo fissò e rispose gravemente: « Che intelligenza... quella figliola! » Sentendosi offeso, Edoardo abbandonò la casa patema sui due piedi, e riuscì grazie al suo precoce talento a sfamarsi da solo. 126

Eravamo stati compagni di liceo al Parini di Milano, ma ci eravamo poi persi di vista per ritrovarci a Roma in oc­ casione della mia prima sceneggiatura. Con lui scrissi almeno una mezza dozzina di sceneggia­ ture, poi ci perdemmo di vista per rincontrarci di nuovo in circostanze avventurose. Anton era già allora un disce­ polo del teosofo Alberti ed era dedito alle pratiche magi­ che. Portava sempre su di sé una specie di astrolabio d'oro miniaturizzato sul quale calcolava i giorni e le ore in cui poteva affrontare con successo un problema. E devo dire che non l'ho mai visto fallire una volta sola il bersaglio, per arduo che fosse l’obiettivo da raggiungere. Ci rincon­ trammo a Napoli in quella specie di bolgia nero-ameri­ cana. Io già lavoravo alla radio e sollecitai Edoardo a fare lo stesso, ma mi rispose che non poteva presentarsi a chiedere un posto di prestigio prima di una quindicina di giorni. Cosa che poi regolarmente fece, e con esito po­ sitivo. Aveva anche scritto delle commedie di successo, ma la sua attività precipua la svolgeva sempre nel cinema e fu sempre questo mezzo che ci forni i motivi dei nostri reiterati incontri negli anni. Ci rivedemmo a Roma, dopo Aquila nera, e il nostro in­ contro fu cordiale come sempre. Lui, che si era separato dalla moglie, l’attrice Fabbri, viveva ora con una irlandese dai capelli rosso fuoco come Maureen O’Hara e con un temperamento adeguato al colore dei capelli. La donna ave­ va avuto due figlie dal matrimonio precedente. L’impres­ sione che ebbi da questa nuova situazione di Edoardo fu piuttosto curiosa, anche se lui sembrava essersi adattato perfettamente alla nuova famiglia. Dopo qualche tempo però la « moglie », sfogandosi con degli amici, lamentava una certa attenzione da parte di Edoardo per una delle figlie, piuttosto bruttina a mio parere. Le preoccupazioni della madre erano dettate soprattutto dal fatto che era sem­ pre Edoardo che si offriva a fare le iniezioni alle « crea­ ture », come dicono a Roma, e durante questa delicata ma semplice funzione indugiava eccessivamente nel massaggia­ re il tenero deretano della figlia. L’irlandese non si sba­ gliava. Non molto tempo dopo infatti Anton abbandonò il tetto coniugale insieme alla figlia in questione! Lo incontrai qualche tempo dopo, sereno e soddisfatto co­ me sempre. Si preparava a partire per Katmandu avendo deciso di troncare netto con le miserie materiali del no­ stro mondo: sarebbe partito in compagnia della figliastra 127

ora sua compagna. E cosi fu. Vendette tutto, assolutamen­ te tutto... e spari. Da allora, sono passati almeno dieci anni, non ho piu avuto sue notizie. Certamente avrà rea­ lizzato il suo sogno isolandosi in una religiosa comunità indiana. Ho conosciuto Fellini quando era ancora un redattore del « Bertoldo ». Partecipava a qualche sceneggiatura; me lo presentò Metz, che lavorava con me a Tutta la città canta. Il film era un ignobile canovaccio che aveva soltanto il pregio di essere il primo tentativo di un « musical spa­ ghetti ». La musica era uno scatenato jazz. Eravamo nel ’43 e il fascismo, per quanto agonizzante, imperava anco­ ra, e imperando aveva tra l’altro messo al bando, insieme al caffè, la stretta di mano e il « lei », anche il jazz, que­ sta « espressione giudaico-massonica » come si amava allo­ ra definire tutto ciò che non era « puro romano ». Ricordo che l’incisione delle musiche venne fatta alla Fono Roma di fronte a dei tecnici attoniti che non credevano alle loro orecchie, e con dei piantoni all’estemo dell’edificio pronti a segnalarci l’arrivo di qualche « nero ». In tal caso il Louisiana Blues si sarebbe trasformato all’istante in Funicult-Funiculà. Fellini partecipò, per modo di dire, a due o tre sedute. Ascoltava disattento, continuando a vergare foglietti su fo­ glietti con una penna. Non si trattava né di suggerimenti né di note: Federico si limitava a disegnare, e a disegnare donne grossissime e nude, vere e proprie gigantesse. Credo che la donna grossa fino al parossismo sia una delle sue recondite ossessioni. Poi, probabilmente a ragione disgu­ stato, spari. Lo incontrai molto tempo dopo, stranamente in un night: io ero con la Canale, lui con la sua donna, si, la Masina, con quella inconfondibile sgradevolissima voce. Ricordo che mi propose di fare il produttore dei suoi film: proba­ bilmente fu la presenza della Canale, allora magnifica, che gli suggerì l’idea. Poi non ci incontrammo più, se non di sfuggita. Una volta, casualmente, a Parigi per la strada. Mi abbracciò con la consueta ipocrita e insincera affettuo­ sità, poi, mai più. Gli telefonai una o due volte. Si fece sempre negare. Come si è sempre fatto negare, con tipica mentalità italiana, anche Mario Monicelli, al quale mi .le­ gava una vecchia amicizia e un vantaggioso, per lui, anti­ co rapporto di lavoro. Al contrario dei francesi, che quàn128

do ti accettano come amico lo resti per sempre e ti conser­ vano stima e affetto. Cosi Tavernier e Boisset, per non par­ lare di molti altri. Fellini lo ricordo indirettamente per un altro episodio. Sta­ va girando non so quale film dove aveva bisogno giornal­ mente di un certo numero di generici, vestiti da cardinali. Questi erano scelti e truccati oltre che vestiti con estrema cura. Da Cinecittà venivano poi trasportati al luogo delle riprese con un apposito torpedone. A San Giovanni c’era una manifestazione popolare e il torpedone si fermò, bloccato sulla piazza. Un motociclista bloccato anche lui adocchiò quel prezioso carico di prelati altolocati, e con la moto si accostò a uno dei grandi fine­ strini, dietro al quale sedeva ieratico e severo un « cardi­ nale » sul cui petto splendeva una croce tempestata di gem­ me. Il giovinastro cominciò ad apostrofare il « principe della chiesa » con termini irriferibili, addossandogli tra l’altro, chissà perché, la colpa del blocco della piazza. Il cardinale, che era naturalmente un generico truccato se­ condo schemi canonici, contemplava ironicamente il giovi­ nastro che continuava a blaterargli contro le sue insolenze. Finalmente il prete abbassò con calma il finestrino e, dopo aver vaffanculato l’importuno, accompagnò l’insolenza con un inequivocabile gesto osceno del braccio che lasciò di pietra « l’aggressore ». Dopodiché rialzò il finestrino tor­ nando a leggere il « Corriere dello Sport ». A Marrakesh ho conosciuto Erich von Stroheim. Simpatiz­ zammo subito e diventammo amici. Recitava nella solita parte del vilain, in cui da tempo era confinato, in un film di Gianna Maria Canale. Io ero li come amico dell’attrice e come turista. Quando non lavorava — e per fortuna, mia s'intende, gli capitava spesso — facevamo lunghe pas­ seggiate o escursioni con la sua gigantesca automobile, che richiamava quella di Viale del tramonto. Con lui c’era sempre la moglie, che non partecipava ai nostri discorsi, in­ timidita certo dalla soverchiarne personalità del marito. Stroheim mi confidò di aver scritto un lungo diario della sua vita. Alla sua morte sarebbe stato pubblicato, e sareb­ be stato una bomba. Vi raccontava la vera Hollywood sot­ to il profilo più sordido e abbietto. Quando Erich mori, attesi invano la pubblicazione del famoso diario. Poi capii. La moglie fruiva della pensione che un fondo speciale elargito da attori e registi contribuiva a finanziare. Se le 129

note del marito fossero state pubblicate, la « pensione » sa­ rebbe stata certamente revocata. E cosi la voce del grande Stroheim è stata finalmente messa a tacere per sempre! Ho lavorato diverse volte con Mario Bava. Era sempre di buon umore e il suo carattere si accordava perfettamente al mio. Dotato di una capacità tecnica straordinaria, si di­ vertiva ad affrontare e a risolvere i problemi più ardui. Ricordo che una volta — la pellicola non aveva la sensi­ bilità odierna — mi girò una scena di tramonto con per­ sonaggi in primo piano, andando al di là di quelli che era­ no considerati i limiti della pellicola. Maestro di « truc­ chi », era in grado di risolvere qualsiasi problema, per difficile che fosse. Nei Vampiri facemmo a gara nel ricrea­ re gli esterni di Parigi nell’angusto cortile-giardino della Scalerà Film. A Parigi si rifiutarono di credere che quella Montmartre e quel Lungosenna fossero stati girati in un cortile con l’aiuto di qualche cristallo! Fu lui a inventare il mostro di Kaltiki usando — me ne stupii anch’io — della semplice, modesta trippa. Tutti i trucchi di questo film sono dovuti alla sua abilità; il mio contributo in questo caso fu piuttosto modesto. Gli altri registi si servivano di lui anche per le riprese « normali » e Mario, col sorriso sulle labbra, superava per loro le difficoltà più ardue, come quella di creare un’ar­ mata di soldati con una cinquantina di comparse soltanto! Poi — mi raccontava — alla prima visione facevano il possibile per relegarlo e isolarlo in una galleria del cine­ matografo, in modo che complimenti ed elogi piovessero solo a loro, i registi. Mi raccontava questo, ricordo, alla fermata di un autobus, in occasione della prima di un film di Francisci, la cui riuscita era dovuta per il settanta per cento al suo talento. Ne rimasi urtato e gli posi un ultimatum: o lui smetteva di collaborare con questo tipo di registi o io non avrei più lavorato con lui. Mi ascol­ tava sorridendo, un po’ beffardo, come sempre. Ma non collaborò però con Francisci che lo voleva per Archimede. E Dio sa se ci sarebbe stato bisogno di lui: il film fu un tonfo pauroso! Forse con Kaltiki fui io a dargli l’ultima spinta e a deci­ derlo a diventare regista. Ci vedemmo poi spesso senza più lavorare insieme. Mi sfidava a bazzica o scopa, un gicfco di cui era appassionatissimo... Gli intervalli si facevamo sempre più lunghi. E poi... Purtroppo non è certo l’Itaia

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che può apprezzare un tecnico come Bava. Anni fa, per esempio, ignorato da tutti, morì Piccoli — da non confon* dere per amor suo col democristiano! — il più grande creatore di miniature di tutti i tempi. Nessuno se ne ac* corse. In questo dannato Paese ben pochi si sono accorti di Bava. E non potrebbe essere altrimenti! Il cinema: questo moderno bizzarro Far West dove al posto dei cercatori d’oro vi sono i cercatori di cambiali e al posto degli sceriffi i notai per i protesti; questa terra di nessuno dove approdano non i pellegrini della Mayflo­ wer, ma gli avanzi di altre attività... Si è tentato dispera­ tamente di definirlo un’arte, ma che arte ci può essere quando l’opera è il prodotto di più cervelli — quando cer­ velli ci sono — ed è uno strano miscuglio di idee, di note musicali, di luci e di ombre « mixate », e quindi opera di diversi individui, a volte distanti fra loro per cultura, gu­ sto, senso artistico, estrazione sociale? L’ho ripetuto più volte: quanti registi sarebbero stati ado­ perati con maggiore utilità alla FIAT, o in bande di rapi­ natori, se i loro film non fossero stati sostenuti da una sceneggiatura valida, interpretati da attori di sicuro suc­ cesso, fotografati da un operatore come Gabor Pogany e infine conditi da musiche di Mahler, Caikovskij o Bee­ thoven? Ogni tanto, certo, esplode il « genio », o per lo meno il creduto tale. Come per esempio Antonioni, che capi o for­ se intuì che più ermetico, insensato, « incomunicante » sa­ rebbe stato e più avrebbe ottenuto consensi entusiastici so­ prattutto da parte della critica, che pretendeva scoprire messaggi di una profondità sconvolgente in quei criptofo­ togrammi, quella stessa critica che anni addietro aveva considerato Chaplin e Keaton alla stregua di due divertenti buffoni e ancora si ostina a ignorare registi come Mata­ razzo. E poi Fellini. Balzato a sicura fama con I vitelloni, tipo di film che Mario Camerini con mezzi ben più modesti aveva realizzato qualche lustro prima, si è imbattuto in Amato, che vincendo la riluttanza di Rizzoli — quello vero (all'anteprima del film l’editore milanese sentenziò profeticamente: « Questo film non farà una lira! ») — gli fece realizzare La dolce vita, squallido panorama di vita romana che fece di Fellini il genio universale. Ma poi... Tranne la parentesi di Amarcord, ennesima rievocazione 131

autobiografica (il nostro non sa trovare di meglio), che squallore e che noia in quel pazzo rigurgito di miliardi che sono i suoi film! Per realizzare le sue opere Fellini gira per mesi e mesi con­ sumando interi convogli ferroviari di negativo. Prova e riprova, gira e rigira, dopo aver visto il materiale in proie­ zione, si dà il caso che da quella valanga di celluloide e sotto le forbici di un sapiente montatore qualche sequenza si salvi, ma a prezzo di quanta noia e presunzione! Quan­ do poi il genio tenta un'incursione nel cinema che mi è piò caro, col Casanova, allora il naufragio è totale. Mal­ grado i miliardi e i semestri di lavorazioni, il film de­ nuncia ima carenza totale di gusto e di forza espressiva, oscillando tra il pomo-bordello e la noia, riuscendo perfi­ no a devastare quel magnifico attore che è Sutherland, sot­ toponendolo tra l'altro a una grottesca truccatura. Forse il suo film più notevole è Toby Dammit, il breve « orrore » che faceva parte di una trilogia, ma risultati ben maggiori abbiamo raggiunto Bava e io, spendendo tra l'altro quello che Fellini spende per cestini e acqua minerale. In defini­ tiva, si può identificare meglio Fellini in Renato Fucini che non in Verga, in Alphonse Daudet piuttosto che in Balzac! Come ho già detto, Fellini gira e rigira le scene riprenden­ dole « all’americana » da diversi punti. Questo significa non avere il senso dell’inquadratura e fa della ripresa qual­ cosa alla portata di tutti. Sarà il montatore a « salvare » le sequenze tuffandosi con la perizia di un Di Biase in quell'oceano di pellicole. Affidarsi al montaggio è, per far­ mi capire meglio dai « non addetti », come se un poeta scrivesse incoerentemente delle parole su un foglio, tipo, che so, « sincero gentile amore s’accosta rapido s’attacca veloce ratto fulmineo s’apprende », ecc. e poi ne suben­ trasse un altro che forbici alla mano selezionasse e attaccas­ se quelle parole cosi: « amor che a cor gentile ratto s’ap­ prende »... £ una semplificazione certo banale, ma credo che possa rendere l'idea. Purtroppo ho toccato più volte il tasto della critica, che ha sempre fuorviato il pubblico fabbricando falsi profeti e ignorando modesti rabdomanti. Non dissimile in questo dal­ la critica d’arte che ha ignorato per mezzo secolo l’imprtssionismo francese — incensando i nostri dell’Oca Bianca — e per un ventennio e più il « Novecento » italiano, risdo132

prendo poi dopo piu di mezzo secolo pittori come Fattori, Lega e Signorini. In questo panorama di fuorilegge, i più importanti sono i cosiddetti produttori: sono loro i capi, i cervelli, i « wan­ ted » su cui occorrerebbe una grossa taglia per poterli eli­ minare. Il produttore, questa figura mitica consacrata da Fitzgerald, è in realtà quasi sempre uno squallido perso­ naggio. Parte all’avventura senza una lira, ma ha il fiuto — lo stesso che permetteva allo scout di individuare da un’erba pestata di quale tribù indiana erano le tracce — per « sentire » da lontano quale sia la preda migliore da azzannare. Entrato nelle grazie del grande finanziere, trop­ po occupato ad amministrare delle vere aziende, lo deruba coscienziosamente per qualche anno maggiorando i preven­ tivi dei film in modo da costituirsi finalmente una propria base finanziaria. Se poi il suo fiuto lo aiuta a scoprire la maggiorata di successo, appoggiandosi sui suoi seni attra­ versa l’Oceano ottenendo miliardi e consensi dalle stelle e strisce. Sono convenientemente ignoranti, ma ciò per loro è un pre­ gio e non un difetto. L’intelligenza e la cultura sta agli altri metterla. Ricordo di aver parlato a uno di questi gran­ di, che mi chiedeva dei soggetti, di Omero e di Tolstoj. Per quanto riguardava l'autore dell’odissea, mi guardò con un certo sospetto in quanto riteneva che quell’omero fosse il « sor Omero », un oste da cui andavamo spesso a cena. Se non fosse esistito il cinema, questi artefici di grandi produzioni avrebbero fatto i magliari ad Amburgo. E invece affidando le loro produzioni a scrittori di succes­ so e ad attori di cassetta e registi « sicuri », si creano una fama solida e imperitura, e soprattutto conti cifrati in Sviz­ zera. Altri, pochi altri, meno astuti, partendo con soldi veri ma con ambizioni « sbagliate », finiscono col divorare le sostanze accumulate per decenni da padri o suoceri, ba­ sate su forme di gorgonzola, montagne di biscotti, cachet antinevralgici! E poi... gli altri, le mezze tacche furbastre ma che hanno capito anche loro il meccanismo — scrittori, attori, registi — e con qualche cambiale e un santo protet­ tore alle spalle possibilmente socialista, navigano felici tra i flutti biancastri degli effetti bancari — e la benevola assi­ stenza di Mamma RAI.

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7.__________ PER FINIRE

Abbiamo vissuto in un'epoca meravigliosa e non ce ne sia* mo resi conto! Vivevamo in case sontuose con dei Bruegel appesi alle pa­ reti senza che Reviglio ci spiasse dalle finestre.. Viaggiava­ mo in automobili vaste come un salone della « Leonar­ do » senza che nessuno ci tagliasse le gomme, ci incen­ diasse la vettura o ci rapisse i figli. Frequentavamo i cosid­ detti tabarin e rientravamo a casa all’alba con le ossa an­ cora intatte e senza essere né scippati né rapinati, mal­ grado i visoni delle nostre donne. Le uniche « tavole ro­ tonde » erano quelle del ristorante San Carlo, che anche durante la guerra e in pieno « proibizionismo » ci serviva bistecche alla fiorentina grandi come un foglio protocollo e di vero manzo perugino non ormonizzato! Le uniche dro­ ghe in circolazione erano il pepe di Caienna e la cannella di Ceylon. C’erano i seminari, è vero, ma erano quelli veri per aspiranti preti, che ora pare chiudano per mancanza di clienti. Il bollettino dei protesti era poco più di un qualsiasi bollettino parrocchiale anziché un duplicato gi­ gante della guida Monaci... Persino durante il cosiddetto bieco ventennio nessuno ci ruppe le scatole. Non ero iscritto al partito e lavoravo al ministero per la Cultura Popolare. Denunziai due funzio­ nari che rubavano e questi furono arrestati! C’era certo qualche problema di libertà per gli intellettuali, ma ricor­ do che un giorno Vitaliano Brancati, riferendosi ai colle­ glli che smaniavano perché non potevano esprimere le lo­ 134

ro idee, mi disse: « Preghino Dio e lo ringrazino, perché il giorno che li lasceranno liberi di esprimersi, si scoprirà che non avevano niente da dire! » E poi c'era il cinema, una specie di bunker fortificato do* ve gli aiutoregisti si chiamavano Soldati Castellani Lattuada Zeffirelli, e non gli scarsi attuali pedicellosi e igno­ ranti. Il cinema! Ce lo siamo visto nascere e crescere sotto gli occhi come un meraviglioso giocattolo. Prima il film muto con le sue didascalie che la gente leggeva ad alta voce nel­ le sale buie quasi sgranasse un rosario. Poi i primi « colo­ ri » che talvolta cambiavano a ogni inquadratura. Poi il sonoro e infine ancora il colore, quello vero, e poi il cine­ mascope, lo stereofonico, il cinerama... fino alla televisio­ ne, piccolo orrido microbo che minaccia di far morire per sempre il nostro impareggiabile giocattolo. La nostra vita è finita allora... su quei set popolati solo di belle donne... di magnifiche donne, perché per noi la bel­ lezza era un’esigenza fondamentale. I cinematografi sembravano stadi di calcio superaffollati e il presidente del consiglio si chiamava De Gasperi e non Forlani, e il suo segretario si chiamava Andreotti! Avevamo tutto questo e, ahimè, non ce ne rendevamo conto!

Che altro potrei raccontare ancora. Del mio viaggio di nozze a venti chilometri dalla mia città... della mia prima notte di matrimonio con la giovane sposa che non era certo una verginella piangente e invocante la mamma, sf, proprio come nei romanzi dell’ottocento... di quando lei, sf, sempre la prima moglie, con altri cosid­ detti esoterici aveva costituito le milizie celesti, indecisa lei stessa se essere la reincarnazione di Giovanna D’Arco o della vergine Maria, propendendo poi forse per ragioni intime di pudore per la prima... di come io sia stato costretto, attraverso una nota informa­ trice dell’Ovra, a informare Bocchini, il capo della poli­ zia, in modo che se mai gli fosse giunta all’orecchio la no­ tizia di queste milizie celesti non se ne preoccupasse... di quando insieme a un ristretto clan di sognatori all’Hdtel Ambasciatori a Roma, nell’appartamento di un certo colon­ nello Perfetti, immaginammo di organizzare un film sulla marcia su Roma per poter girare debitamente autorizzati alcune scene a piazza Venezia, e di come in queste scene insieme ai camion di comparse dovesse trovare posto un 135

camion pieno di italici kamikaze, naturalmente in camicia nera « per le esigenze del copione », e di come finalmente questi « suicidi » avrebbero dovuto penetrare nel Palazzo fino alla storica sala dello storico balcone e li imposses­ sarsi di un certamente tremebondo Duce per servirsene co­ me ostaggio per la richiesta di ripristino di uno Stato de­ mocratico... e infine il racconto di tanti tanti anni... trenta?... quaran­ ta?... trascorsi nel dorato regno della celluloide, tra attrici che non sono generalmente attrici anche se oggi in compen­ so lo sono sempre meno... attori che di attore hanno solo la qualifica... produttori di scarso intelletto ma con una grande predisposizione all’allestimento di film basati su as­ segni a vuoto o su protesti cambiari. Un ambiente in cui l’unica parola che conta non è quella d'onore ma la pa­ rola « ciak ». Eppure non avrei nessuna ragione per lamentarmene, an­ che se nessuno o quasi nessuno mi ha pagato le percen­ tuali che mi spettavano su vari film! Ne ho ricavato una vita brillante, mi ha permesso di girare quasi tutto il mon­ do e infine di avvicinare e in qualche caso possedere le più belle donne del creato. Le donne! Queste imprevedibili magnifiche creature che per fortuna non sono mai sincere e che prima o dopo, sempre per fortuna, ti abbandonano! Non sarebbe generoso parlarne qui, anche perché sareb­ bero facilmente individuate e, quel che è peggio, tutte smentirebbero sdegnate le mie parole. Quel che conta oggi è che mi ritrovo solo con questi ricor­ di che non sono ingombranti, e che ho messo su carta per paura che l’arteriosclerosi li cancellasse per sempre. Invece mi diverte rivivere certi momenti della mia vita. Solo ed emarginato. Pensate, un uomo che ha guidato le cariche folli della cavalleria cosacca, che ha scatenato a un suo cenno uragani e terremoti, affrontato tigri e leoni, che premendo un pulsante ha fatto piombare dall’alto gi­ gantesche cascate d’acqua, ha rovesciato degli imperi, vi­ sto morire sotto i suoi occhi efferati tiranni come Tamerlano, realizzato il sogno di tutti (quello di attraversare le strade di una città come Roma in pieno traffico cittadino a centoventi chilometri l’ora), suscitato incendi spaventosi e scontri cruenti di eserciti e questo sempre a un suo sem­ plice cenno... ora quest’uomo è un modesto pensionata, ignorato da tutti, che sta come quel cinese in riva al fiume a veder passare i cadaveri dei suoi nemici nelle acque vor­ 136

ticose della morte. A uno a uno se ne vanno tutti... e pur­ troppo anche i pochissimi amici, insieme ai tanti ne­ mici... E io sono qua come Chessmann, nella sua cella della mor­ te, ad ascoltare la voce del secondino che scandisce i no­ mi uno dopo l’altro. Rabbrividendo penso: quando sarà il mio turno?! Mi ha raccontato Primo Zeglio, il pittore-regista, che la notte precedente la sua morte Leo Longanesi era a Roma e che voleva vedermi a ogni costo, cercandomi dappertut­ to! Forse sentiva che quella sarebbe stata la sua ultima sera e voleva incontrare di nuovo chi aveva diviso con lui sconforto e risate nell’esilio napoletano. Povero caro Leo, grande e ignorato! Ecco... il mio domani sarebbe meno triste se potessi avere la certezza di rincontrarmi con lui e di passare in rassegna con lui uomini cose e fatti di que­ sto nostro pazzo stupido inutile mondo! E invece, ma l’ho già detto — purtroppo noi vecchi ci ripe­ tiamo monotonamente — mi ritrovo « derelitto e abbando­ nato», come nel titolo di un cattivo romanzo dell’Ottocento e di un buon film Sull’Ottocento.

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8._____________ FILMOGRAFIA

1937

LASCIATE OGNI SPERANZA Regia: Gennaro Righelli. Sceneggiatura: Camillo Mariani dell’AnguUlara, Riccardo Freda, da una commedia di Athos Setti; Produ­ zione: Juventus; Distribuzione: CINF. Interpreti: Antonio Gandusio, Rosina Anseimi, Maria Denis, Guido e Giorgio De Rege, Elli Parvo.

1938 LA VOCE SENZA VOLTO Regia: Gennaro Righelli. Soggetto: Corrado D’Enrico; Sceneggia­ tura: Corrado D’Enrico, Aldo De Benedetti, Ivo Penili (e Riccardo Freda); Produzione: Juventus. Interpreti: Giovanni Manurita, Laura Nuoci, Vanna Vanni, Cario Romano, Elsa De Giorgi.

FUOCHI D’ARTIFICIO Regia: Gennaro Righelli. Sceneggiatura: Luigi Chiarelli, Gennaro Righelli (e Riccardo Freda), dalla commedia di Chiarelli; Produzio­ ne: Juventus; Distribuzione: ICI. Interpreti: Amedeo Nazzari, Gery Land, Vanna Vanni, Giuseppe Porcili. IL CAVALIERE DI SAN MARCO Regia: Gennaro Righelli. Soggetto: Alessandro De Stefani; Sce­ neggiatura: Luigi Chiarelli, Gennaro Righelli (e Riccardo Freda); Produzione: Juventus; Distribuzione: Artisti Associati. Interpreti: Mario Ferrari, Dria Paola, Vanna Vanni, Laura Nucci, Sandro Ruffini, Renato Cialente.

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PICCOLI NAUFRAGHI Regia". Flavio Calzavara (e Riccardo Freda). Soggetto". Giuseppe Zucca; Sceneggiatura". Riccardo Freda, Leo Bomba, Claudio Cal­ zavara; Fotografia". Arturo Gallea, Aldo Tonti; Scenografia". Italo Cremona; Montaggio: Ferdinando Poggioli (e Riccardo Freda); Mu­ siche: Renzo Rossellini; Produzione: Alfa-Mediterranea; Distribu­ zione: CINF. Interpreti: Giovanni Grasso (il «comandante»), Riccardo Santelmi (pseudonimo di Riccardo Freda: il professore), Carlo Duse, Antonio Cuffaro, Mario Tarchetti, Romolo Aglietti, Mario Atte­ se (Colella), Mario Angelini (Grandi), Roberto Pironti (De Renzio), Nello De Rossi (Silvestri), Rolando Mona (Pisani), Remo Casta­ gnoli, Luigi Lucifera, Ali Ibrahim.

1939

IL BARONE DI CORBÒ Regia: Gennaro Righelli. Scenografia: Luigi Antonelli, Riccardo Freda, Gennaro Righelli, dalla commedia di Antonelli; Produzio­ ne: Juventus; Distribuzione: ENIC.

IN CAMPAGNA È CADUTA UNA STELLA Regia: Eduardo De Filippo. Soggetto: Peppino De Filippo; Sceno­ grafia: Eduardo De Filippo, Riccardo Freda; Produzione: Defilm; Distribuzione: Tirrenia. Interpreti: Eduardo De Filippo, Peppino De Filippo, Rosina Law­ rence, Oretta Fiume, Elena Altieri, Guido Notati. 1940 LA GRANDUCHESSA SI DIVERTE Regia: Giacomo Gentilomo. Scenografia: Riccardo Freda, Giaco­ mo Gentilomo, Mino Candana (e Mario Monicelli, Aldo De Bene­ detti), da una commedia di Ugo Falena; Produzione: Fiocine; Di­ stribuzione: Tirrenia. Interpreti: Paola Barbara, Sergio Tofano, Carlo Campanini, Erne­ sto Almirante, Rosetta Tofano, Otello Toso.

CENTO LETTERE D’AMORE Regia: Max Neufeld. Soggetto e sceneggiatura: Alberto Consiglio, Mino Candana, Riccardo Freda, Alessandro De Stefani; Produzio­ ne: Fiocine; Distribuzione: Tirrenia. Interpreti: Armando Falconi, Vivi Gioi, Lilian Herman, Maria Jacobini, Giuseppe Porcili, Enzo Biliotti. CARAVAGGIO, IL PITTORE MALEDETTO Regia: Goffredo Alessandrini. Soggetto: Bruno Valeri, Vittorio Verga; Scenografia: Riccardo Freda, Akos Tolnay, Bruno Valeri, Gherardo Gherardi; Produzione: Elica (Riccardo Freda); Distribu­ zione: Minerva. Interpreti: Amedeo Nazzari, Clara Calamai, Lamberto Picasso, Ol­ ga Vittoria Gentili, Nino Crisman, Beatrice Mancini.

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1941 L’AWENTURIERA DEL PIANO DI SOPRA Regia: Raffaello Matarazzo. Soggetto: Raffaello Matarazzo; Sceno­ grafia: Raffaello Matarazzo, Riccardo Freda, Edoardo Anton; Mon­ taggio: Riccardo Freda; Produzione: Elka (Riccardo Freda); Distri­ buzione: Artisti Associati. Interpreti: Vittorio De Sica, Clara Calamai, Giuditta Rissone, Ol­ ga Vittoria Gentili, Camillo Pilotto, Carlo Campanini, Paolo Stoppa.

1942 BUONGIORNO, MADRID! (MADRID DE MIS SUENOS) Regia: Max Neufeld (e Gian Maria Cominetti). Soggetto: Alberto Vecchietti; Scenografia: Enrique Dominguez Rodifio; Produzione: Elica (Riccardo Freda), Secolo XX; Distribuzione: Artisti Associati. Interpreti: Mmia Mercader, Anita Farra, Roberto Rey, Carlo Cam­ panini, Giovanni Grasso.

DON CESARE DI BAZAN Regia: Riccardo Freda. Sceneggiatura: Sergio Amidei, Cesare Zavattini, Vitaliano Brancati, Riccardo Freda, dalla commedia di Dumanois e Dennery; Fotografia: Mario Craveri; Scenografia: Gasto­ ne Medin; Costumi: Gino C. Sensati, Maria De Matteis; Musiche: Franco D’Achiardi; Produzione: Etica (Riccardo Freda), Artisti Associati; Distribuzione: Artisti Associati; Durata: 78’. Interpreti: Gino Cervi (Don Cesare di Bazan), Anneliese Uhlig, Enrico Glori, Paolo Stoppa (valletto di Don Cesare), Enzo Bilioni (Filippo V), Guido Celano, Ermanno Donati (Velasquez), Giovan­ ni Grasso, Carlo Duse.

1943 L’ABITO NERO DA SPOSA Regia: Luigi Zampa. Sceneggiatura: Riccardo Freda, Luigi Zam­ pa, Mario Pannunzio, Ennio Flaiano, Gherardo Gberardi, dal dram­ ma The Cardinal di Louis N. Parker; Produzione: Vi-Va (Vittorio Vassarotti); Distribuzione : Produttori Associati. Interpreti: Fosco Giachetti, Jacqueline Laurent, Enzo Fiermonte, Carlo Tamberlani. NON CANTO PIU Regia: Riccardo Freda. Soggetto e sceneggiatura: Riccardo Freda, Steno (Stefano Vanzina); Fotografia: Tony Frenguelli; Scenografia: Enrico Verdozzi; Musiche: Nuccio Fiorda; Produzione: Vi-Va (Vit­ torio Vassarotti); Distribuzione: Variety; Durata: 80’. Interpreti: Enzo Fkrmonte, Vera Bergman, Virgilio Rknto, Paola Bortoni, Giuseppe Porcili, Lamberto Picasso, Arturo Bragaglia, Olinto Cristina, Giuseppe Pkrozzi.

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1943-45

TUTTA LA CITTÀ CANTA Regia’. Riccardo Freda. Soggetto e sceneggiatura: Steno (Stefano Vanzina), Riccardo Freda, Marcello Marchesi, Vittorio Metz (e Fe­ derico Fellini); Fotografia: Tony Frenguelli; Scenografia: Savino Fini; Costumi: Angela Freda; Musiche: Gorni Kramer, Giovanni D’Anzi, Gino Filippini, Oscar De Mejo; Montaggio: Riccardo Fre­ da; Produzione: ICI, SAPIR, Appia; Distribuzione: Effebi; Dura­ ta: 87’. Interpreti: Vivi Gioì, Natalino Otto, Nino Taranto, i tre Fratelli Bonos, Nanda Primavera, Maria Pia Arcangeli, Umberto Silvestri, Piero Camabuci, Edoardo Tomolo, Alfredo Tupini, Erminio Nazzaro. 1946

AQUILA NERA Regia: Riccardo Freda. Sceneggiatura: Mario Monicelli, Steno, Riocardo Freda, dal racconto Dubrovskij di Aleksandr PuSkin; Foto­ grafia: Rodolfo Lombardi; Scenografia: Arrigo Equini; Musiche: Franco Casavola; Montaggio: Otello Colangeli; Direttore di pro­ duzione: Dino De Laurentiis; Produzione e distribuzione: CDI; Du­ rata: 109*. Interpreti: Rossano Brazzi (Vladimir Dubrovskij), Irasema Dilian (Masha Petrovic), Gino Cervi (Kirila Petrovic), Rina Morelli (Ire­ ne), Harry Feist (Serge Ivanovic), Paolo Stoppa (un bandito), Inga Gort (Marie), Pietro Sharoff, Luigi Pavese, Angelo Calabrese, Ce­ sare Polacco, Yvonne Sanson, Gina Lollobrigida. 1947

I MISERABILI, in due episodi: Caccia all'uomo e Tempesta su Parigi Regia: Riccardo Freda. Sceneggiatura: Mario Monicelli, Steno, Ric­ cardo Freda, Nino Novarese, dal romanzo di Victor Hugo; Foto­ grafia: Rodolfo Lombardi; Scenografia: Guido Fiorini; Costumi: Dario Cecchi; Musiche: Alessandro Cicognini; Montaggio: Otello Colangeli; Direttore di produzione: Clemente Fracassi; Produzione: Carlo Ponti per la Lux; Distribuzione: Lux. Interpreti: Gino Cervi (Jean Valjean), Valentina Cortese (Cosetta Fantina), Andreina Pagnani (la monaca), Giovanni Hinrich (Javert), Rina Morelli, Aldo Nicodemi, Luigi Pavese (Thénardier), I. Val Hulsen, Gabriele Ferzetti, Marcello Mastroianni, Duccia Giraldi, Jone Romano, Gino Cavalieri. 1948

IL CAVALIERE MISTERIOSO Regia: Riccardo Freda. Sceneggiatura: Riccardo Freda, Mario Mo­ nicelli, Steno; Fotografia: Rodolfo Lombardi; Scenografia: Piero FiUppone; Costumi: Nino M. Novarese; Musiche: Alessandro Cico­

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gnini; Montaggio: OteHo Colangeli; Produzione: Dino De Laurentiis per la Lux; Distribuzione: Lux; Durata: 93*. Interpreti: Vittorio Gassman (Giacomo Casanova), Maria Mercader (Elisabetta), Yvonne Sanson (Caterina H)< Gianna Maria Ca­ nale (Contessa Lehmann), Elli Parvo (la Dogaressa), Sandra Mamis, Giovanni Hinrich, Dante Maggio, Guido Notari, Vittorio Duse, Antonio Certa, Aldo Nicodemi. GUARANY (girato in Brasile) Regia: RiccArdo Freda. Sceneggiatura: Riccardo Freda, dalla bio­ grafia di Carlos Gomez; Fotografia: Rodolfo Lombardi, Ugo Lom­ bardi; Musiche: Carlos Gomez; Produzione: Universalia (Salvo D’Angelo); Distribuzione: Victor Film. Interpreti: Antonio Vilar (Carlos Gomez), Mariella Lotti, GiannaMaria Canale, Luigi Pavese, Anita Vargas, Dante Maggio.

L’ASTUTO BARONE (OVVERO L’EREDITÀ CONTESA) e TE­ NORI PER FORZA, cortometraggi comici in una bobina. Regia: Renato Dery (Riccardo Freda). Sceneggiatura: Riccardo Freda, Paolo Panelli, Tino Buazzelli; Fotografia: Rodolfo Lom­ bardi; Musiche : Franco Mannino; Montaggio : Riccardo Freda (fir­ mato da Otello Colangeli); Direttore di produzione: Attilio Riccio; Produzione: gli interpreti e Riccardo Freda; Distribuzione: Docu­ mento Film. Interpreti: Paolo Panelli, Tino Buazzelli, Nino Manfredi, Rossella Falk, Bice Valori, Luciano Salce, Orazio Costa. 1949

O CAQOULHA DO BARULHO (IL RAGAZZO DELLE RISSE) Regia e sceneggiatura: Riccardo Freda. Fotografia: Ugo Lombar­ di; Montaggio: Riccardo Freda; Produzione: Luiz Severiano Ri­ beiro. Interpreti: Gianna Maria Canale, Oscarito, Grande Othelo, Ansei­ mo Duarte.

IL CONTE UGOLINO Regia: Riccardo Freda. Sceneggiatura: Riccardo Freda, Mario Monicelli, Steno, da Luigi Bonelli e Dante; Fotografia: Sergio Pesce; Scenografia: Alberto Bocciarti; Costumi: Maria De Matteis; Musi­ che: Alessandro Cicognini; Montaggio: Roberto Cinquini; Produ­ zione: API Film (Carlo Caiano-Momi), Forum Film (Raffaele Colamomci); Distribuzione: Forum Film. Interpreti: Carlo Nicchi (il conte Ugolino della Gherardesca), Gianna Maria Canale (Emilia), Peter Trent (Ruggieri), Carla Calò (Haydée), Luigi Pavese (Sismondi), Piero Palermini (Calduccio Ubaldini), Ugo Sasso (Fortebraccio), Ciro Berardi (Lanfranchi), Ar­ mando Guarnieri (Gualandi). IL FIGLIO DI D’ARTAGNAN Regia: Riccardo Freda. Sceneggiatura: Dick Jordan (Riccardo Fre­ da); Fotografia: Sergio Pesce; Scenografia: Alberto Boccienti; Mu­ siche: Umberto Pipistrelli, Carlo Jachino; Produzione: API Film,

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Augustus Film (Raffaele Colamonici); Distribuzione: Augustus Film; Durata: 86*. Interpreti: Piero Palermini (il figlio di D'Artagnan), Carlo Ninchi (D’Artagnan), Gianna Maria Canale (Linda), Franca Marzi (la con­ tessa), Paolo Stoppa (Paolo), Peter Trent (Duca di Malvoisin), Enzo Fiermonte, Nerio Bernardi

1951 IL TRADIMENTO, o PASSATO CHE UCCIDE Regia: Riccardo Freda. Soggetto: Mario Monicelli; Sceneggiatura: Riccardo Freda, Mario Monicelli, Ennio De Concini; Fotografia: Enzo Serafin; Scenografia: Sergio Baldacchini; Musiche: Carlo In­ nocenzi; Montaggio: Otello Colangeli; Produzione: SAFA Palati­ no; Distribuzione: Variety Film; Durata: 85’. Interpreti: Amedeo Nazzari (Pietro Vanzelli), Vittorio Gassman (Salvi), Gianna Maria Canale (Luisa Vanzelli), Armando Francioli (Stefano Soldani), Caterina Boratto (Clara Vanzelli), Camillo Pilotto (Guido Soldani), Anoldo Foà, Nerio Bernardi.

LA VENDETTA DI AQUILA NERA Regia: Riccardo Freda. Sceneggiatura: Riccardo Freda, Ennio De Concini, Alessandro Continenza; Fotografia: Tony Frenguelli e Anthony Scots; Scenografia: Piero Filippone; Musiche: Renzo Ros­ sellini; Montaggio: Otello Colangeli; Produzione e distribuzione: API Film; Durata: 82’. Interpreti: Rossano Brazzi (Vladimir Dubrovskij), Gianna Maria Canale (Tatiana Cernicevskij), Peter Trent (Igor Cernicevskij), Vit­ torio Sanipoli (Principe Boris Yuravleff), Franca Marzi (Katia), Gui­ do Sissia (Andrej Dubrovskij), Giovanni del Panta (Ivan), Ughetto (Kurin), Nerio Benardi (lo Zar), Fausto Guerzoni. VEDI NAPOLI E POI MUORI Regia: Riccardo Freda. Soggetto: Alberto Vecchietti; Sceneggiatu­ ra: Ennio De Concini, Alberto Vecchietti; Fotografia: Gabor Pogany; Scenografia: Piero Filippone; Musiche: Carlo Innocenzi; Mon­ taggio: Otello Colangeli; Produzione e distribuzione: API Film; Durata: 82*. Interpreti: Gianna Maria Canale (Marisa), Renato Baldini (Giaco­ mo Marini), Vittorio Sanipoli (Roberto Sanesi), Carletto Sposilo, Duccio Sissia, Franca Marzi, Claudio Villa.

1952 LA LEGGENDA DEL PIAVE Regia: Riccardo Freda. Soggetto: Riccardo Freda; Sceneggiatura: Riccardo Freda, Giuseppe Mangione; Fotografia: Sergio Pesce; Mu­ siche: Carlo RustichelÈ; Montaggio: Mario Serandrei; Produzio­ ne: API Film, Colamonici-Tupini; Distribuzione: API Film. Interpreti: Gianna Maria Canale, Carlo Giustini, Renato Baldini, Edoardo Tomolo, Enrico Viarisio.

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SPARTACO Regia: Riccardo Freda. Soggetto: Maria Bori; Sceneggiatura: Jean Ferry, Riccardo Freda, Gino Vicentini; Fotografia: Gabor Pogany; Scenografia: Franco Lolli; Musiche: Renzo Rossellini; Direttore di produzione: Ludmila Goulian; Produzione: API Film, Consorzio Spartaco (Roma), Rialto Films (Parigi); Distribuzione: API Film; Durata: 110*. Interpreti: Massimo Girotti (Spartaco), Ludmilla Tcherina (Amytis), Gianna Maria Canale (Sabina), Carlo Ninchi (Marco Licinio Cras­ so), Yves Vincent (Ocnomas), Carlo Giustini (Artorige), Nerio Bernardi, Teresa Franchini, Vittorio Sanipoli, Cesare Beccarmi, Umberto Silvestri. 1953

TEODORA, IMPERATRICE DI BISANZIO Regia: Riccardo Freda. Soggetto: André-Paul Antoine, Riccardo Freda; Sceneggiatura: René Wheeler, Claude Accursi, Ranieri Cochetti, Riccardo Freda; Fotografia : Rodolfo Lombardi (Pathécolor); Scenografia: Antonio Valente, Filiberto Sbardella; Costumi : Verne­ rò Colasanti, John Moore; Musiche: Renzo Rossellini; Montaggio: Mario Serandrei; Produzione: Lux (Roma), Lux (Parigi); Distribu­ zione: Lux; Durata: 118*. Interpreti: Georges Marchal (Giustiniano), Gianna Maria Canale (Teodora), Renato Baldini (Areas), Irene Papas (Saidia), Carlo Sposito (Scarpios), Henri Guisol (Giovanni di Cappadocia), Roger Pigaut (Andrea), Nerio Bernardi (Belisario), Olga Solbelli (Egina), Alessandro Fersen (metropolita), Loris Gizzi (Smirnos), Umberto Silvestri (il boia), Mario Siletti (un magistrato), Oscar Andriani, Gio­ vanni Fagioli. 1955

DA QUI ALL’EREDITÀ Regia: Riccardo Freda. Soggetto e sceneggiatura: Riccardo Freda, Carlo Veo, Carlo Moscovini; Fotografia: Mario Albertelli; Produ­ zione: API Film, Centauro Film; Distribuzione: API Film. Interpreti: Beniamino Maggio, Tina Pica, Nerio Bernardi, Pina Bottin, Pietro Cartoni, Luigi De Filippo, Domenico Modngno.

1956 BEATRICE CENCI Regia: Riccardo Freda. Soggetto: Attilio Riccio; Sceneggiatura: Fi­ lippo Sanjust, Riccardo Freda, Jacques Remy; Fotografia: Gabor Pogany (Technicolor, Cinemascope); Scenografia: Arrigo Equini; Costumi: Filippo Sanjust; Musiche: Franco Mannino; Montaggio: Riccardo Freda, Giuliano Taucer; Produzione: Electra Conpagma Cinematografica, Attilio Riccio (Roma), Franco-London Film (Pa­ rigi); Distribuzione: Cei Incom. Interpreti: Micheline Preste (Lucrezia), Mireille Granelli (Beatrice

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Cenci), Gino Cervi (Francesco Cenci), Fausto Tozzi (Olimpio Cai* vetri), Frank Villard (il giudice Ranieri), Claudine Dupuis (Marti* na), Antonio De Teffé (Giacomo Cenci), Emilio Petacci, Isabella Raffi, Guido Barbari, Carlo Mazzoni, Vittorio Vaser. I VAMPIRI Regia: Riccardo Freda. Soggetto: Piero Regnoli; Sceneggiatura: Riccardo Freda, Piero Regnoli; Fotografia: Mario Bava (Cinema­ scope); Scenografia: Beni Montresor; Musiche: Roman Vlad; Mon­ taggio: Roberto Cinquini; Produzione: Titanus, Affiena Cinemato* grafica (Ermanno Donati, Luigi Carpentieri); Distribuzione: Tita­ nus; Durata: 85*. Interpreti: Gianna Maria Canale (Giselle Du Grand e Duchessa Marguerite Du Grand), Antoine Balpétré (Dottor Julien Du Grand), Paul Muller (Joseph Seignoret), Dario Michaelis (Piene Valentin), Wandisa Guida (Laurette), Carlo D’Angelo (Santel), Re­ nato Tontini (assistente del Dott Du Grand), Riccardo Freda (un medico), Charles Fawcett, Miranda Campa, Angiolo Galassi, Gi­ selda Mancinotri.

AGGUATO A TANGERI Regia: Riccardo Freda. Soggetto: Alessandro Continenza, Vitto* riano Petrilli; Sceneggiatura: Alessandro Continenza, Vittoriano Petrilli, Paolo Spinola, Riccardo Freda; Fotografia: Gabor Pogany (Superdnescope); Scenografia: Gii Panondo; Musiche: Lelio Luttazzi; Montaggio: Marguerite Ochoa; Produzione: Antonio Cervi (Roma), Yago-Ariel Films, Rodas Film (Madrid); Distribuzione: Euro international; Durata: 112’. Interpreti: Edmund Purdom (John Milwood), Geneviive Page (Mary), Gino Cervi (Henri Bolevasco alias Nick Dobelli), Amparo Rivelles (Lola), Luis Pena (Gonsales), Felix Dafauce (ispettore Ma­ thias), Mario Moreno (capo della polizia), Antonio Molino (Perez), José Guardiola, Enrique Pelayo, Alfonso Rojas, Juan Olaguibel. 1958

NEL SEGNO DI ROMA Regia: Guido Brignone (in realtà Michelangelo Antonioni per gli interni, Riccardo Freda per gli esterni). Soggetto e sceneggiatura: Fitaroesoo Thellung, Francesco De Feo, Sergio Leone, Giuseppe Mangione; Fotografia: Luciano Trasatti (Eastmancolor, Dyaliscope); Scenografia: Ottavio Scotti; Costumi: Nino Novarese; Musiche: Angelo Francesco Lavagnino; Montaggio : Giovanni Baragli; Produ­ zione: Glomer Film (Enzo Merolle, Roma), Société Cinématographique Lyre (Parigi), Tele-Film (Monaco); Distribuzione: Glomer Film; Durata: 93’. Interpreti: Anita Ekberg (Zenobia), Georges Marchal (Marco Va­ lerio), Folco Lulli (Semanzio), Jacques Sernas (Giuliano), Lorella De Luca (Bethsabea), Chelo Alonso (Erika), Alberto Farnese (Mar­ cello), Mimmo Palmara (Lator), Alfredo Vaselli (Ito), Sergio Saura (Tullio), Paul Muller (il Grande Sacerdote), Gino Cervi (l’imperato­ re Aureliano), Remo De Angelis.

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AGI MURAD, IL DIAVOLO BIANCO Regia: Riccardo Freda, Sceneggiatura: Luigi De Sanctis, Akos Tol* nay, dal racconto di Lev Tolstoj; Fotografia: Mario Bava; Scenogra­ fia: Kosta Krivopavic, Aleksandar Milovic; Costumi: Filippo Sanjust: Musiche: Roberto Nicolosi; Regia della seconda équipe: Leo­ poldo Savona; Fotografia della seconda équipe: Frano Vodopivec; Produzione: Majestic Films (Mario Zama, Roma), Lovcen Film (Belgrado); Distribuzione: Lux Film; Durata: 98*. Interpreti: Steve Reeves (Agi Murad), Georgia Moli (Saltanet), Scilla Gabel (Principessa Maria Vorontzova), Renato Baldini (Ah­ med Khan), Gerard Herter (Principe Sergej Vorontzov), Milivoj Zivanovic (lo Zar Nicola I), Jovan Gee (Aslan Bey), Niksa Stefani* ni (Ganzolo), Milivoj Mavid Popovic (Eldar), Nicola Popovic (il re Shamil), Marija Tocinoski, Pasquale Basile, Goffredo Ungaro.

1959 CALTIKI, IL MOSTRO IMMORTALE Regia: Robert Hampton (Riccardo Freda). Sceneggiatura: Philip Just (Filippo Sanjust), da una leggenda messicana; Fotografia e ef­ fetti speciali: John Foam (Mario Bava); Musiche: Robert Nicholas (Roberto Nicolosi); Montaggio: Sir Andrews (Mario Serandrei); Produzione: Galatea Film, Climax Pictures; Distribuzione: Lux; Durata: 75’. Interpreti: John Merivale (John Fielding), Didi Sullivan (Ellen), Gerard Herter (Max Gunther), Daniela Rocca (Linda), Gay Pearl 0a ballerina), Daniel Vargas (Bob), Giacomo Rossi Suart (Rodri­ guez), Victor Andrée (l’assistente), Black Bernard (Nerio Bernardi : il commissario), Arthur Dominick (Arturo Dominici: Nieto), Da­ niele Pitani, Rex Wood.

1960 I MONGOLI Regia: André De Toth (e Riccardo Freda), (firmata da Leopoldo Savona). Soggetto e sceneggiatura: Ugo Guerra, Luciano Martino, Ottavio Alessi, Alessandro Ferrati; Fotografia: Aldo Giordani, Re­ nato Del Frate (Eastmancolor, Cinemascope); Scenografia: Ottavio Scotti; Costumi: Enzo Bulgarelli; Musiche: Mario Nascimbene; Montaggio: Otello Colangeli; Produzione: Royal Film (Guido Giambartolomei, Roma), France Cinéma Productions (Parigi); Di­ stribuzione: Cineriz; Durata: 115*. Interpreti: Jack Palance (Ogotai), Anita Ekberg (Huluna), Anto­ nella Lualdi (Amina), Franco Silva (Stefan de Cracovie), Roldano Lupi (Gengis Khan), Gabriella Ballotta (Lutezia), Pierre Cressoy (Igor), Gabriele Antonini CTemugin), George Wang (Sabotai), Gian­ ni Garko (Henri de Valois), Lawrence Montaigne.

I GIGANTI DELLA TESSAGLIA Regia: Riccardo Freda. Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Masi­ ni, Ennio De Concini, Mario Rossetti, Riccardo Freda; Fotogra­ fia: Vaclav Vich, Raffaele Masciocchi (Eastmancolor, Totalsco-

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pe); Scenografia: Franco Lolli; Costumi: Mario Giorsi; Musiche: Carlo Rustichelli; Montaggio: Otello Colangeli; Produzione: Ale­ xandra Produzioni Cinematografiche (Virgilio De Blasi, Roma), Société Cinématographique Lyre (Parigi); Distribuzione: Filmar; Du­ rata: 87’. Interpreti: Roland Carey (Giasone), Ziva Rodann (Creusa), Alber­ to Farnese (Adraste), Nadine Duca (Gaia), Luciano Marin (Euristeo), Cathia Caro (Angiae), Gii Deiamare (Alceo), Alfredo Va­ rchi (Argo), Massimo Girotti (Orfeo), Maria Teresa Vianello (la sorella di Gaia), Raf Baldasare (Antineo), Alicia Clements, Taki Karas, Lilia Landi, Pietro Tordi, Nando Tamberlani, Paolo Gozlino, Nando Angelini, Alberto Sorrentino.

1961 CACCIA ALL’UOMO Regia: Riccardo Freda. Sceneggiatura: Dino De Palma, Marcello Coscia, Luciano Martino; Fotografia: Sandro d’Èva; Scenografia: Piero Filippone; Musiche: Marcello Giombini; Montaggio: Otello Colangeli; Produzione : Fair Film (Mario Cecchi Goti); Distribuzio­ ne: Paramount; Durata: 100’. Interpreti: Eleonora Rossi-Drago (Clara Ducei), Yvonne Furneaux (Maria), Umberto Orsini (brigadiere Maimonti), Andrea Checchi (brigadiere Inzirillo), Riccardo Garrone (Commissario Nardelli), Alberto Farnese (Paolo Carosi), Philippe Leroy (Mazzarò), Geor­ gia Moli (Anna), Aldo Bufi Landi (barone Platania), Peter Dane (Schultz), Vincenzo Musolino (Pardino), Mario d’Auria (Filicudi), Vera Besusso, Franco Ressel, Luigi Visconti, Nando Angelini, Franco Balducci, il cane Dox.

MACISTE ALLA CORTE DEL GRAN KHAN Regia: Riccardo Freda (alcune scene girate da Piero Pieroni e Er­ manno Donati). Soggetto: Oreste Biancolo; Sceneggiatura: Duccio Tessari, Oreste Biancòli; Fotografia: Riccardo Pallottini (Eastman­ color, Isoscope); Scenografia: Piero Filippone; Costumi: Massimo Bolongaro; Musiche: Carlo Innocenzi; Montaggio: Ornella Miche­ li; Produzione: Panda Film (Ermanno Donati e Luigi Carpentieri, Roma), Gallus Film (Georges Agiman, Parigi); Distribuzione: Unidis. Interpreti: Gordon Scott (Maciste), Yoko Tani (principessa LiLing), Dante di Paolo (Bayan), Gabriele Antonini (Chu), Leonardo Severini (il Gran Khan), Valery Inkijinoff (il Grande Sacerdote), Hélène Chanel (Liutai), Chu-Lai-Chit, Luong-Ham-Chau, Franco Ressel, Antonio Cianci, Ely Yeh, Giacomo Chang.

IL RE DEI SETTE MARI Regia: Rudolph Maté, Primo Zeglio. Soggetto: Filippo Sanjust; Sceneggiatura: Filippo Sanjust, Sabatino Ciuffini, George St. Geor­ ge, Lindsay Galloway (découpage della battaglia navale di Ric­ cardo Freda); Produzione: Adelphia; Distribuzione: Titanus. Interpreti: Rod Taylor, Hedy Vessel, Keith Mitchell, Mario Girot­ ti, Esmeralda Ruspoli, Marco Guglielmi, Arturo Dominici, Gianni Cajafa.

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MARCO POLO Regia’. Ugo Fregonese (alcune inquadrature della battaglia sono di Riccardo Freda). Soggetto’. Piero Pierotti, Oreste Bianchi; Sceneg­ giatura: Piero Pierotti, Oreste Biancoli, Duccio Tesseri, Antoinette Pellevent; Produzione: Panda (Roma), Transfilmorsa (Parigi), Di­ stribuzione: Unidis. Interpreti: Rory Calhoum, Yoko Tani, Camillo Pilotto, Robert Hundar.

1962 MACISTE ALL’INFERNO Regia: Riccardo Freda. Soggetto: Eddy H. Given; Sceneggiatura: Piero Pierotti, Oreste Biancoli, Ennio De Conciai; Fotografia: Ric­ cardo Pallottini (Technicolor, Cinemascope); Scenografia: Luciano Spadoni, Andrea Crisanti; Montaggio: Ornella Micheli; Musiche: Carlo Francia; Produzione: Panda Film; Distribuzione: Interfilm; Durata 90*. Interpreti: Kirk Morris (Maciste), Hélène Chanel (Martha Gunt, Fa­ nia), Angelo Zanolli (Carlo), Andrea Bosic (il giudice), Charles Fawcett (il dottore). Vira Sdenti (Martha Gunt giovane), Gina Me­ scetti, Donatella Mauro, Antonio Ciani, John Karlsen, Antonella Della Porta, John Francis Lane, Remo De Angelis, Evar Maran, Howard Rubian, Neil Robinson. L’ORRIBILE SEGRETO DEL DOTTOR HICHCOCK Regia: Robert Hampton (Riccardo Freda). Soggetto e sceneggia­ tura: Julyan Perry (Ernesto Gastaldi); Fotografia: Donald Green (Raffaele Masciocchi) (Technicolor e Scope); Costumi: Inoa Starly; Montaggio: Donna Christie (Ornella Micheli); Scenografia: Frank Smokecocks (Franco Fumagalli); Musiche: Roman Vlad; Direttore di produzione: Lou D. Kelly (Livio Maffei); Produzione: Louis Mann (Luigi Carpentieri e Ermanno Donali) per la Panda Film; Distribuzione: Warner Bros; Durata: 88*. Interpreti: Barbara Steele (Cynthia), Robert Flemyng (Di. Bernard Hichcock), Montgomery Glenn (Dr. Lang), Teresa Fitzgerald (Ma­ ria Teresa VianeUo: Margareta), Harriet White (Martha), Spencer Williams (un assistente), Al Christianson, Evar Simpson, Nat Har­ ley, Howard Rubian, Ned Robinson. SOLO CONTRO ROMA Regia: Herbert Wise (Luciano Ricci; le scene dell’arena sono di Riccardo Freda). Sceneggiatura: Ennio Mancini, Marco Vicario e Gianni Astolfi, dal romanzo The Gladiators di Gastad Green; Foto­ grafia: Luciano Trasatti (Eastmancolor, Totalscope); Montaggio: Roberto Cinquini; Musiche: Armando Trovajoli; Produzione e di­ stribuzione: Atlantica Produzione Films (Marco Vicario). Interpreti: Rossana Podestà (Fabiola), Jeffries Lang (Brenno), Phi­ lippe Leroy (Lucio Sdla), Gabriele Tinti, Luciana Angelillo.

LE SETTE SPADE DEL VENDICATORE Regia: Riccardo Freda. Soggetto : Fdippo Sanjust, dalla cornine*

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dia di Dumanoìs e Dennery e dalla sceneggiatura di Dan Cesare di Bazan (1942) di Riccardo Freda; Sceneggiatura: Riccardo Fre­ da, Filippo Sanjust; Fotografia: Raffaele Masciocchi (Technicolor, Totalscope); Musiche: Franco Mannino: Produzione: Adelphia (Roma), Comptoir Fran$ais du Film (Parigi); Distribuzione: Del Duca; Durata: 94’. Interpreti: Brett Halsey (Don Carlos di Bazan), Giulio Bosetti (Du­ ca di Saavedra), Béatrice Altariba (Isabella), Gabriele Antonini (Fi­ lippo IH), Mario Scaccia (cardinale inquisitore), Gabriele Tinti (Corvo), Alberto Sorrentino (Sancho), Jacques Stany, Anita To­ pesco. ORO PER I CESARI Regia: André De Toth (firmata da Sabatino Ciuffini; gli esterni so­ no diretti da Riccardo Freda). Sceneggiatura: Arnold Perl, Saba­ tino Ciuffini, dal romanzo di Florence A. Seward; Fotografia: Raf­ faele Masciocchi (Eastmancolor, Totalscope); Scenografia: Ottavio Scotti; Montaggio: Franco Fraticelli; Produzione: Adelphia (Roma), CICC (Films Borderie, Parigi); Distribuzione: Columbia; Durata: 100’. Interpreti: Jeffrey Hunter (Lacer), Mylène Demongeot (Penelope), Ron Randell (centurione Rufo), Massimo Girotti (generale Caio Cornelio Massimo), Ettore Marini (Luna), Giulio Bosetti (Scipio­ ne), Furio Meniconi (Dax), George Lycan, Jacques Stany. 1963

LO SPETTRO Regia: Robert Hampton (Riccardo Freda). Soggetto: Robert Da­ vidson; Sceneggiatura: Robert Davidson, Robert Hampton; Foto­ grafia: Donald Green (Raffaele Masciocchi, Technicolor); Scenogra­ fia: Samuel Fields (Mario Chiari); Montaggio: Donna Christie (Or­ nella Micheli); Musiche: Frank Wallace (Franco Marmino); Diretto­ re di produzione: Louis Mann (Luigi Carpentieri, Ermanno Donati); Produzione: Panda (Roma); Distribuzione: De Laurentiis; Durata: 97*. Interpreti: Barbara Steele (Margaret Hichcock), Peter Baldwin (Dr. Charles Livingstone), Leonard G. Elliot (Elio Jotta: Dr. John Hichcock), Harriet White (Catherine), Raoul H. Newman (Umber­ to Raho: il pastore Canon), Charles Kechler (il prefetto di poli­ zia), Reginald Price Anderson (il notaio Fisher), Carol Bennett. IL MAGNIFICO AVVENTURIERO Regia: Riccardo Freda. Soggetto: Filippo Sanjust; Sceneggiatura: Filippo Sanjust, Antoinette Pellevent; Fotografia: Raffaele Mascioc­ chi, Julio Ortas (Technicolor, Scope); Scenografia: Aurelio Gragno­ la, Teddy Villalba; Montaggio: Ornella Micheli, Rosa Salgado; Mu­ siche: Francesco De Masi; Produzione: Panda (Roma), Hispamer (Madrid), Les Films du Centaure (Parigi); Distribuzione: Interfilm; Durata: 90*. Interpreti: Brett Halsey (Benvenuto Cellini), Claudia Mori (Piera), Fran$oise Fabian (Lucrezia), Bernard Blier (Clemente VII), José Nieto (Conestabile di Borbone), Rossella Como (Angela), Jacinto

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Sanemeterio (Francesco I), Elio Pandolfi (Fattore), Diego Michelotti (Carlo V), Umberto D’Orsi (Granduca di Firenze), Rafael Iba­ nez, Andrea Bosic (Michelangelo Buonarroti), Carla Calò, Dany Paris (Fiammetta), Félix Dafauce (Frangipani), Giampiero Littera (Francesco Cellini), Bruno Scipioni, Sandro Dori. 1964

GIULIETTA E ROMEO Regia: Riccardo Freda. Sceneggiatura: Riccardo Freda, da William Shakespeare; Fotografia: Gabor Pogany (Eastmancolor, Scope): Scenografia: Piero Filippone, Teddy Villalba; Montaggio: Anna Amidei; Musiche: Piotr J. Caikovskij, Sergej Rachmaninov; Produ­ zione: Imprecine (Roma), Hispamer (Madrid); Distribuzione: Titanus; Durata: 90’. Interpreti: Geronimo Meynier (Romeo), Rosemarie Dexter (Giu­ lietta), Tony Soler (la nutrice), Carlos Estrada (Mercurio), José Mar­ co (ribaldo), Andrea Bosic (padre di Giulietta), Franco Balducci, Umberto Raho (il frate). GENOVEFFA DI BRASANTE Regia: Riccardo Freda (firmato in Spagna da José Luis Monter). Soggetto e sceneggiatura: Riccardo Freda; Fotografia: Stelvio Mas­ si, Julio Ortas (Eastmancolor, Scope); Musiche: Carlo RusticheUi; Produzione: Imprecine (Roma), Hispamer (Madrid); Durata: 90'. Interpreti: Alberto Lupo, Maria J. Alfonso (Genoveffa di Braman­ te), Andrea Bosic, Antonella Della Porta, Stephen Forsyth.

1966

LES DEUX ORPHELINES (LE DUE ORFANELLE) Regia: Riccardo Freda. Sceneggiatura: Riccardo Freda, Michel Wichard, dal romanzo di Adolphe D’Ennery; Fotografia: Jean Tournier (Eastmancolor, Scope); Scenografia: Jacques Mavart; Mon­ taggio: Jean Marie Grimel, Patrick Clement Bayard; Musiche: René Sylviano; Produzione: Comptoir Frangais du Film (Parigi), Cioè Italia (Roma); Distribuzione: Indipendenti Regionali; Dura­ ta: 97’. Interpreti: Valeria Ciangottini (Louise), Sophie Darès (Henriette), Mike Marshall (Roger de Vaudry), Simone Valére (contessa di Linières), Jean Desailly, Jacques Castelot, Michel Barbey, Denis Ma­ nuel, André Falcon, Jean Carmet, Alice Sapritch, Roger Fadet, Marie-France Mignal.

COPLAN F X 18 CASSE TOUT (AGENTE 777 MISSION» SUMMERGAME o FERMATI, COPLAN!) Regia: Riccardo Freda. Sceneggiatura: Claude Marcel Richard, Riccardo Freda, dal romanzo Stoppez Coplan di Paul Kenny; Fo­ tografia: Henri Persin (Eastmancolor, Superscope); Scenografia: Jacques Mavart; Montaggio: Renée Lichtig; Musiche: Michel Ma­ gne; Produzione: Comptoir Fran^ais du Film (Parigi), Camera Film e Cinerad (Roma); Distribuzione: Fida; Durata: 83’.

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Interpreti: Richard Wyler (Francis Coplan), Robert Manuel (Har­ tung), Jany Clair (Gelda), Maria Rosa Rodriguez, Gii Deiamare (Shemon), Jacques Dacqmine, Robert Favart, Christian Kerville, Bernard Lajarrice, Guy Marly, Valeria Ciangottini.

1967

ROGER LA MONTE (TRAPPOLA PER L’ASSASSINO) Regia: Riccardo Freda. Sceneggiatura: Jean-Louis Bory, dal roman­ zo di Jules Mary; Fotografia: Jean Tournier (Eastmancolor, Cinescope); Montaggio: Riccardo Freda; Musiche: Antoine Duhamel, Georges Jean Luc; Produzione: Comptoir Frangais du Film (Pa­ rigi), Mancori Chretien (Roma); Distribuzione: Indipendenti Re­ gionali; Durata: 105*. Interpreti: Georges Geret (Roger Laroque), Irene Papas (Julia), Jean Topart (Luberzan), Jean-Pierre Marielle (Noirvillc), Anne Ver­ non, Marie-France Boyer, Jean Carmet, Gabriele Tìnti, Paul Mul­ ler, Jacques Modot, Roger Fradet. COPLAN OUVRE LE FEU AU MEXICO (MORESQUE: OBIET­ TIVO ALLUCINANTE) Regia: Robert Hampton (Riccardo Freda). Sceneggiatura: Bertrand Tavernier, dal romanzo Coplan fait peau neuve di Paul Kenny; Fotografia: Paul Solignac, Juan Gelpi (Technicolor, Techniscope); Montaggio: Claude Gros, Vincenzo Tornassi, Teresa Alcocer; Mu­ siche: Jacques Lacome; Aiutoregista: Yves Boisset; Produzione: Comptoir Frangais du Film (Parigi), Fida (Roma), Balcazar (Bar­ cellona; Distribuzione: Fida; Durata: 94*. Interpreti: Lang Jeffries (Coplan), Sabine Suo, Luciana Gilli, Lee Burton (Guido Lollobrigida), Silvia Solar, Guy Marly, Osvaldo Genazzani, José M. Caffarel, Robert Party, Frank Oliveras.

LA MORTE NON CONTA I DOLLARI Regia: George Lincoln (Riccardo Freda). Soggetto: Giuseppe Ma­ sini; Sceneggiatura: Giuseppe Masini, George Lincoln (Freda); Fo­ tografia: Gabor Pogany (Cromoscope, Eastmancolor); Sceneggiatu­ ra: Piero Filippone; Montaggio: Anna Amedei; Musiche: Nora Orlandi, Robby Poitvin; Aiutoregista: Yves Boisset; Produzione: Cinedi (Roma); Distribuzione: Warner Bros; Durata: 93’. Interpreti: Mark Damon (Laurence White), Luciana Gilli (Jane), Pamela Tudor (Lisbeth), Alan Collins (Luciano Pigozzi: giudice Warren), Pedro Sanchez (Ignazio Spalla: Pedro Rodriguez), Gio­ vanni Pazzafini (dr. Lester), Hardy Reichelt, Lydia Biondi, Stephen Forshy (Harry Boyd), Spartaco Conversi, John Gottlieb, Renato Chiantoni, Dino Strano.

1969

A DOPPIA FACCIA - DAS GESICHT IM DUNKELN Regia: Robert Hampton (Riccardo Freda). Soggetto: Romano Mi­ gliorini, Giovan Battista Mussetto, Lucio Fulci; Sceneggiatura: Ro­ bert Hampton (Freda), Paul Hengge; Fotografia: Gabor Pogany

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(Eastmancolor, Scope); Scenografia : Luciano Spadoni; Montaggio: Anna Amidei, bitta Hering; Musiche: Joan Cristian; Produzio­ ne: Colt Produzioni Cinematografiche e Mega Film (Roma), Rial­ to (Berlino); Distribuzione: Panta; Durata: 91’. Interpreti: Klaus Kinski (John Alexander), Annabella Incontrerà (Liz), Sidney Chaplin (Brown), Kristiane Kruger (Christine), Mar­ garet Lee (Elen Alexander), Gunter Stool (ispettore Gordon), Bar­ bara Nelli (Alice), Gastone Pescucci (Peter), Claudio Trionfi, Lu­ ciano Spadoni, Carlo Marcolini, Ignazio Dolci. 1970 L’IGUANA DALLA LINGUA DI FUOCO Regia: Willy Pareto (Riccardo Freda); Soggetto: Richard Mann; Sceneggiatura: Willy Pareto (Freda), Alessandro Continenza, Gun­ ther Ebert; Fotografia: Silvano Ippoliti (Eastmancolor, Scope); Montaggio: Willy Pareto (Freda), Bruno Micheli; Musiche: Stelvio Cipriani; Produzione: Oceania (Roma), Les Films Corona (Nan­ terre), Terra Filmkunst (Berlino); Distribuzione: Euro Internatio­ nal; Durata: 95*. Interpreti: Luigi Pistilli (John Norton), Dagmar Lassander (Helen), Anton Diffring, Dominique Boscbero, Renato Romano, Arthur O’Sullivan, Werner Pochat, Sergio Doria, Ruth Durley, con la par­ tecipazione di Valentina Cortese.

1971

TAMAR, WIFE OF ER (LA SALAMANDRA DEL DESERTO) Regia: Riccardo Freda. Soggetto e sceneggiatura: Ygal Mossenson; Fotografia: Peter Baumgartner (Technicolor, Cinescope); Montag­ gio: Jordan B. Matthews, Bruno Mattei; Musiche: Gianfranco Plinizio; Produzione: Films Studios of Israel; Distribuzione: Indipen­ denti Regionali; Durata: 85’. Interpreti: Wlaudia Wiedekind (Tamar), Ettore Manni, Yosef Shiloah, Lea Nanni, Sabi Dor, Arien Itzaik, Gideon Eden, Paul Smith, Ntsim Aharon. 1980

MURDER OBSESSION Regia: Riccardo Freda. Soggetto: Antonio Corti, Piccioni; Sceneg­ giatura: Riccardo Freda, Antonio Corti; Fotografia: Cristiano Pogany (Eastmancolor); Scenografia: Giorgio Desideri; Montaggio: Riccardo Freda; Musiche: Franco Mannino; Direttore di produzio­ ne: Pino CoHura; Produzione: Dionisyo Cinematografica (Roma), Gurvitch (Parigi); Distribuzione: Indipendenti Regionali; Durata: 105’. Interpreti: Stefano Patrizi, Silvia Dionisio, John Richardson, Ani­ ta Strindberg, Martine Brochard, Laura Gemser, Henri Garcin.

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Stampa Grafica Sipiel - Milano