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Anthropine sophia 8
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Anthropine sophia 8 Collana diretta da: CALTAGIRONE CALOGERO (Università LUMSA Roma)
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Comitato Scientifico ABBATE FABRIZIA (Università Campobasso) CESARONE VIRGILIO (Università Chieti) CESCON EVERLADO (Universidade de Caxias do Sul Brazil) COSTA COSIMO (Università LUMSA Roma) COSTANZO GIOVANNA (Università Messina) GIOVANOLA BENEDETTA (Università Macerata) DE SIMONE GIUSEPPINA (Facoltà Teologica dell’Italia meridionale, Sez. S. Luigi Napoli) FANCIULLACCI RICCARDO (Università Bergamo) MANNINO GIUSEPPE (Università LUMSA Roma) MIANO FRANCESCO (Università Federico II Napoli) NEGRO MATTEO (Università Catania) OPPES STÉPHANE (Pontificia Università Antonianum Roma) PAGLIACCI DONATELLA (Università Cattolica “Sacro Cuore” Milano) PUGLIESE ALICE (Università Palermo) RASINI VALLORI (Unimore Modena) ROMEO MARIA VITA (Università Catania) SANTASILIA STEFANO (Universidad Autónoma de San Luis Potosí Mexico) SCHIRRIPA VINCENZO (Università LUMSA Roma) SCOPPETTUOLO ANTONIO (Università Europea Roma) TOMMASI FRANCESCO VALERIO (Università La Sapienza Roma) TORBIDONI MICHELA (Maimonides Centre for Advanced Studies, Universität Hamburg) ZANARDO SUSY (Università Europea Roma)
I volumi pubblicati in questa Collana sono sottoposti a double-blind peer review
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Roberta Gambardella
DIVERSO.
Günther Anders. La filosofia della tecnica come occasione
Salvatore Sciascia Editore Caltanissetta-Roma 2024
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PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA © Copyright 2024 by Salvatore Sciascia Editore s.a.s. Caltanissetta-Roma
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ISBN 978-88-8241-555-6
Progetto grafico copertina
Gianluca Merlo
Stampato in Italia / Printed in Italy
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Introduzione «Il mio filosofare è stato di tipo diverso»1.
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Una storia «diversa»: da Günther Stern a Günther Anders Il pensiero filosofico di Günther Anders presenta degli elementi che lo hanno reso “diverso” dai filosofi a lui contemporanei. L’attributo “diverso” alla speculazione andersiana non è stato tuttavia desunto dai tratti pessimisti, distopici o finanche nichilisti che l’autore presenta rispetto al rapporto uomo-mondo a causa della tecnica, giacché questa interpretazione sarebbe eccessivamente riduttiva. Nei suoi ultimi scritti, infatti, Anders si definì come un «“conservatore ontologico”, poiché ciò che oggi conta è più di tutto conservare il mondo qualunque esso sia»2. La filosofia di Anders, pertanto, non si presenta come una filosofia statica che resta ferma sotto le macerie e le rovine degli orrori del XX secolo. Si tratta piuttosto di una filosofia che, prendendo consapevolezza della devastazione antropologico-sociale, non si ferma al non-esserci-più, bensì trova fondamento in un «esserci-ancora-appena»3. Nonostante questa precarietà ontologica, Anders ha sviluppato un paradigma filosofico che, in superficie, non sembrerebbe lasciare alcuna possibilità alla speranza di un futuro, mentre tra le righe – un po’ con stile nietzschiano – nasconde una qualche possibile occasione per l’esserci, appena o, nonostante ciò, ancora. G. Anders, Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza, a cura di L. Pizzighella, Mimesis, Milano 2008, p. 77, (corsivo mio). 2 Ibidem, p. 78. 3 G. Anders, L’uomo è antiquato II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, tr. it. M.A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino 20153, p. 14. 1
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«Coraggio? Non ne so nulla […]. E il confronto? Non ne ho bisogno. E la speranza? A questo posso solo rispondere, fondamentalmente non la conosco, poiché il mio principio è: quando, nell’orrenda situazione in cui ci siamo ridotti, esiste anche la minima opportunità di intervenire aiutando, allora bisogna farlo»4.
L’interventismo andersiano, pertanto, consiste in una forma di «resistenza atomica», in cui Anders fa emergere lo stato di necessità e la difesa teorico-pratica perché la minaccia della fine del mondo non lasci indifferenti, in quanto «non c’è una “vita di riserva”. Ecco perché la minaccia contro la vita è l’unica minaccia seria»5. Per questo Anders sente la necessità di ribaltare i soliti paradigmi sociopolitici usati dalla stessa filosofia per leggere l’uomo e la sua posizione nel mondo. La diversità data anche dalle schegge esplosive del filosofare andersiano, infatti, è stata nel portare allo scoperto il non detto: «lo strato sottostante, le frasi secondarie, quelle che, come dice, i censori non leggono e che spesso rivelano le infinite maschere del potere, quei sotterfugi linguistici che rendono impercettibile il male, lo avvolgono in cartigli verbali che addolciscono come le bombe pulite e intelligenti catastrofi devastanti, offrendo la quotidiana razione di pillole menzognere di un pensiero codificato, verticale, che distoglie l’attenzione dalle contraddizioni della realtà, dai suoi dilemmi»6.
Questi sono solo alcuni dei tratti generali della proposta di Anders, una proposta in cui l’idea di diversità va interpretata come alterità, come tentativo vale a dire di trovare una relazione di senso affinché l’uomo non resti un «colpevole innocente»7 e un «assassino indiretto»8 dell’umanità. La diversità andersiana costituisce pertanto la G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 85. Ibidem, p. 30. 6 G. Anders, Stenogrammi filosofici, a cura di S. Fabian, Bollati Boringhieri, Torino 2022, pp. 8-9. 7 G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 74. 8 Ibidem. 4 5
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cifra dell’esperienza personale di un autore che dalla lettura ed interpretazione della posizione dell’uomo nel cosmo nell’età della tecnica ha fatto della filosofia – prima e seconda – un’occasione, nonostante l’estraniazione degli stessi uomini dal mondo in cui vivono. “Diverso” si dice in molti modi nella vita e nell’avventura filosofica di Anders. “Diverso”, infatti, è lo stile della speculazione andersiana, un ibrido tra il giornalismo e la filosofia pura; “diverso” è l’incalzare della sua scrittura; “diverso” è il suo sguardo lucido su una realtà che sembra giunta alla soglia dell’autodistruzione. Anders è altresì “diverso” per le molteplici e divergenti esperienze storicobiografiche caratterizzate dalle differenti fasi lavorative e dai diversi ambienti e contesti in cui ha vissuto: Anders è stato letterato e giornalista, scrittore di testi didattici e di favole, critico e interprete, ma anche operaio, sceneggiatore e attivista antinucleare. “Diverso” in tedesco si traduce – proprio e non a caso – con “anders” e, per riprendere l’antica locuzione latina nomen omen, nel nome è segnata la storia, filosofica e biografica, di un determinante pensatore del Novecento. Una storia personale molto complessa e per certi aspetti anche sofferta. Günther Anders, pseudonimo di Günther Stern, nacque a Breslavia il 12 luglio del 1902, da una famiglia di origine e tradizione ebraica. In casa Stern la cultura e la vivacità intellettuale erano dominanti. Il nonno era uno scrittore di storia tedesca mentre i genitori, Clara e Louis William Stern, erano due pionieri della psicologia sperimentale9. Il giovane Günther, dunque, ebbe un’infanzia che i Cf. G. Anders, Il mondo dopo l’umano, p. 51 e Id., Stenogrammi filosofici, p. 11. William Stern, padre di Günther Anders, è ricordato come tra i fondatori dell’Università di Amburgo; tra i principali nomi nel campo della scienza psicologica di quegli anni. Nonostante il fervore intellettuale che animava la famiglia Stern, che sia nella ricerca scientifica sia negli interessi umanistici guardava con fiduciosa speranza alle possibilità e capacità della persona umana, Günther si trovò ben presto a disattendere gli entusiasmi paterni scrivendo, in L’uomo è antiquato, le «tristi pagine sulla devastazione dell’uomo», consapevole del suo progresso verso l’impersonalità. 9
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suoi biografi hanno definito essere «privilegiata», giacché «immerso in un pluralismo culturale fecondo»10 fondato su valori morali solidi. La formazione umanistica che acquisì negli anni giovanili lo portò a diventare un cultore di pittura, di musica, di materie letterarie e di filosofia, studiando quest’ultima con Edmund Husserl e Martin Heidegger11, maestri che forgiarono la sua produzione filosofica. Seppur promettente e pieno di talento, la carriera accademica dell’allora non noto Stern non fu per nulla semplice. Nel 1929, infatti, tentò l’abilitazione per la cattedra di filosofia della musica a Francoforte, che però non ottenne per il giudizio negativo del filosofo Theodor W. Adorno. In quello stesso anno sposò tra le più promettenti allieve di Heidegger, la filosofa che di lì a poco avrebbe avuto un ruolo di significativa importanza nell’accusa e nella decostruzione ideologica del Nazionalsocialismo e delle forme totalitarie: Hannah Arendt12.
G. Anders, Stenogrammi filosofici, p. 11. Anders si laureò con Husserl nel 1924. Così ne parla in un’intervista: «Andavamo molto d’accordo. Una volta alla settimana, prima della laurea, andavamo a passeggiare insieme. Era un uomo vecchio e molto brutto, gli faceva piacere che qualcuno gli camminasse accanto. Facevamo insieme, alla maniera peripatetica, delle analisi fenomenologiche, per lo più dei sensi, cosa che lui aveva trascurato». G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 57. Il partire dalle «cose stesse» della fenomenologia husserliana ha plasmato il pensiero di Anders. Nel 1921, quando Anders era studente a Berlino, conobbe un altro grande pensatore del Novecento, Hans Jonas (1903-1993). I due, si rincontrarono nuovamente nel 1925, per le lezioni del maestro Heidegger, rimanendo amici per tutta la vita. Oltre alla vicinanza ad Husserl ed Heidegger, Anders si avvicinò all’esistenzialismo Jean Paul Sartre durante l’esilio a Parigi; nelle visite a Vienna incontrò Adorno; mentre a Santa Monica strinse uno stretto contatto con Herbert Marcuse sebbene non entrò mai a far parte ufficialmente della Scuola di Francoforte. Infatti, pur essendo vicino al marxismo, non vi aderì mai in modo totale. 12 Cf. G. Anders, La battaglia delle ciliegie. La mia storia d’amore con Hannah Arendt, a cura di G. Oberschlich, Donzelli Editore, Roma 2012. Nell’introduzione al testo, il curatore ricostruisce il percorso filosofico e di coppia dei coniugi Stern-Arendt, usando per loro l’appellativo di «sinfilosofi». Cf. Ibidem, p. VIII. 10 11
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Gli anni Trenta furono per il giovane Stern anni culturalmente fecondi, ricchi di nuove possibilità e aperture accademiche. Furono gli anni in cui la rivista francese Recherches Philosophiques pubblicherà due suoi saggi su Une interprétation de l’aposteriori e Pathologie de la liberté13, riconoscendo nella libertà la patologia che stava condannando l’uomo alla sua distruzione. Infatti, il clima di distensione e progresso nell’Europa successivo al primo conflitto mondiale, si rivelò ben presto un’illusione: eppure, «a cosa sono serviti i nostri padri e zii, i medici e gli avvocati e i professori […] se già dopo alcuni anni si sono potuti trasformare in individui così incredibilmente ingenui»14. Il 1930 è stato un anno significativo nell’esistenza di Stern, egli iniziò a dedicarsi alla stesura di testi didattici nella forma di favole, racconti utopici e distopici, poesie e, scrisse «se mi avessero chiesto che professione facessi avrei risposto: insegnante»15. Anche lo pseudonimo «Anders» (diverso) ebbe origine in quell’anno. Dopo la delusione per la mancata abilitazione accademica in filosofia della musica a Francoforte, si stabilì a Berlino con la moglie Hannah16. Nella città tedesca grazie all’aiuto di Bertold Brecht venne assunto come cronista del Berliner Börsen Kurier, scrivendo sui temi più disparati, dalle violenze sui bambini a un racconto poliziesco e, finanche il resoconto per un congresso su Hegel. Ma i troppi articoli con la firma Stern – palesemente ebraica – iniziarono ad essere un “problema” tanto che il suo editore gli avrebbe urlato: «“Basta! Così non si può andare avanti! Non possiamo far uscire la metà dei nostri articoli firmati Günther Stern!”. “E allora mi chiami in modo diverso (anders)” gli proposi. “Bene”, disse, “ora lei si Alla traduzione francese dei due saggi lavorerà con Emmanuel Lévinas. G. Anders, Discesa all’Ade, Auschwitz e Breslavia, p. 96, in Id. Stenogrammi filosofici, p. 11. 15 G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 62. 16 In una sua testimonianza Anders così la descrisse: «a quell’epoca ero sposato con una ragazza che a ragione era una famosa filosofa». G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 62. 13 14
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chiama Anders”»17. Anders, ovvero “altro”, “diverso”, «una scelta insieme di diversità e di affrancamento definitivo dal passato»18.
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La conditio humana come erranza Nell’arco di pochi anni, con l’ascesa del Nazionalsocialismo di Adolf Hitler in Germania, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e l’Olocausto, anche la famiglia Anders non fu più al sicuro in Germania. Era il 27 febbraio del 1933 quando Anders lasciò la Germania, ormai invasa dalle violenze naziste, per scappare a Parigi. In quegli anni stava dando vita al suo, illuminato ma incompreso, romanzo distopico antinazista Die molussische Katacombe (La catacomba di Molussia). Il manoscritto, ormai pronto per essere pubblicato, per una serie di eventi fortuiti sfuggì al sequestro della Gestapo. Come raccontò in seguito lo stesso Anders nel corso di un’intervista: «Il contenuto del libro era la meccanica fascista. Vi si raccontano le storie di prigionieri rinchiusi in una cella sotterranea della Gestapo “molussiana” […] Questo libro antifascista era già pronto nella sua prima versione anteriormente alla salita al potere di Hitler; chiesi a Brecht di farlo avere al suo editore Kiepenheuer, cosa che egli fece, e astutamente Kiepenheuer continuò a tenerlo nascosto, avvolto in una vecchia carta geografica dell’Indonesia, sulla quale fece segnare un’isola di noma “Molussia”. Non appena Kiepenheuer fece questo, arrivò la Gestapo e requisì tutti i manoscritti. Tra i quali anche il mio. Caduti subito nella trappola di Kiepenheuer, i censori esaminarono solo superficialmente lo scritto e rispedirono all’editore quelle che, a loro avviso, erano “favole dei Mari del Sud”. L’editore a sua volta lo restituì a Brecht, il quale, me lo ridiede. Poi […] lasciai l’esemplare a degli amici che lo avvolsero in carta pergamena e lo appesero, vicino a salami e prosciutti, nel loro affumicatoio. Il manoscritto rimase appeso lì per mesi e, in qualche modo, “stagionò”, prendendo lo stesso buon odore dei suoi vicini. Ero solo a Parigi. Quando mia moglie mi raggiunse, portò con sé il manoscritto […]: siccome in quel periodo non eravamo esattamente sazi, usai il manoscritto come “salsa odorosa”. Lo annusavo 17 18
Ibidem. G. Anders, Stenogrammi filosofici, p. 14.
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mentre mangiavo la mia baguette. In simili circostanze nacque il manoscritto di seicento pagine sui principi del nazionalsocialismo»19.
Si tratta di uno scritto profetico che solo quarant’anni dopo la sua prima stesura assunse il riconoscimento che Anders sperava e desiderava. Infatti, il romanzo filosofico-letterario, ambientato nel regno inventato di Molussia, è stato interpretato come la «parabola di una crisi tematizzata attraverso l’uso di molteplici registri narrativi: la prigione di Molussia esprime l’emblema del buio della ragione attraverso l’illuminata dialettica fra verità e menzogna, suolo e sottosuolo, arretratezza e modernità»20. Dal primo esilio in Francia la vita di Anders fu caratterizzata da una continua erranza, da un vagare verso altri confini, dello spazio e della mente, in cui trovare approdo e possibilità di vita. Dall’homo viator è passato pertanto al paradigma dell’homo migrans. Eppure, più che di una sola vita, la condizione esistenziale del migrante è nelle vitae, in senso molteplice. In L’emigrante, infatti, Anders ha tentato di riflettere filosoficamente sulla condizione di chi si trova a scappare senza méta a causa della guerra e delle persecuzioni. Il profugo è colui che va alla ricerca di una dimensione altra e diversa; tuttavia, in questa esperienza esodale non si può avere la pretesa di una sola vita ma di più vite (vitae), in senso universale: «non ci sono biografie che non si suddividano in fasi»21. La conditio migrantis dell’uomo su cui riflette la filosofia andersiana ne lascia trasparire G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 63. La distruzione del futuro è la parte del saggio che riporta il dialogo di Anders con Mathias Greffrath. Anders, infatti, fuggì per la Francia senza la moglie, la quale lo raggiunse in un secondo momento. Tuttavia, come riportato in alcuni testi monografici, la convivenza della coppia durante l’esilio fu dovuta all’indigenza e alle difficoltà del momento. Infatti, i due erano ormai «diventati estranei». C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt: schizzo di una relazione, in G. Anders, La battaglia delle ciliegie, p. XXIII. 20 M. Rizzardini, Prefazione, in G. Anders, La catacomba molussica, tr. it. A. Mantovani, Lupetti, Milano 2008, pp. 5-6. 21 G. Anders, L’emigrante, tr. it. E. Sciarra, Donzelli, Roma 2022, p. 15. Questo scritto è stato pubblicato nel 1962. Richiama in parte un’opera di Hannah 19
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la forzatura e la privazione di libertà. L’emigrante, infatti, è colui che emigrando viene a trovare «a mezza parete»22 tra il paese d’origine ed il paese straniero, in cui spesso la vita (la propria storia, la propria identità) è negata. Esistenze sospese ed in bilico; uomini e donne condannati al non riconoscimento e alla vergogna di non avere nessuna vita alle spalle23. Con l’emigrazione si fa l’esperienza del non esserci più. Il soggetto migrante, infatti, è un esser-gettato (Geworfenheit) in senso heideggeriano, eppure questa gettatezza anonima e senza motivo è qualcosa di umanamente «svilente»24. La condizione di esule, di profugo e di migrante è la misera condizione di un essente che diventa a-ssente, giacché perde la concordanza con sé stesso25. Con queste riflessioni Anders ha elaborato una vera e propria filosofia della migrazione – ancora poco nota e riconosciuta – ma grazie alla quale, la condizione di sofferenza dell’homo migrans viene a trovare una ratio. Tuttavia, in questa dimensione spesso diArendt, Noi profughi pubblicato nel 1943, due anni dopo il suo arrivo a New York. Nonostante la vicinanza nel titolo e nel tema, la Arendt in questo scritto «tratteggia un quadro di teoria politica e del diritto entro una cornice storica», mentre «L’emigrante fornisce studi di dettaglio fenomenologico-psicologici su come, nell’emigrazione, vengono vissuti il tempo, lo spazio e la lingua, e in tutto ciò la propria identità». Ibidem, p. 63. 22 Ibidem, p. 11. 23 Cf. Ibidem, p. 16 e p. 36. 24 Ibidem, p. 60. «Contemporaneamente al suo allontanamento dalla Germania, Anders si impegna a elaborare in forma scritta quanto gli è accaduto. Attraverso il genere della poesia si innesca un processo di comprensione e autoconoscenza dall’effetto terapeutico su cosa significhi essere “privati della cittadinanza come un delinquente”». F. Grosser, «Mi si pensa, dunque sono». Günther Anders sull’emigrazione e sul rischio della perdita del sé e del mondo, in G. Anders, L’emigrante, p. 57. In quegli anni, infatti, oltre al romanzo La catacomba molussica, Anders compone diverse poesie come Hinter der Grenze (Dietro il confine) e, sempre nel 1933, il racconto Learsi (acronimo di Isreael); mentre al 1935 risale la novella Der Hungermarsch (La marcia della fame). 25 Ibidem, p. 11. 12
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sumana, quale prova dell’esistere come uomo? Tra i passaggi speculativi più alti di Anders c’è il superamento autoreferenziale del cogito cartesiano al passivo «cogitor, ergo sum» (mi si pensa, dunque sono)26. È il passaggio dall’io alla relazione intersoggettiva iotu, in cui l’io si riconosce in virtù di una alterità, di una diversità estranea27. Questo punto, che non è il proprium della filosofia di Anders, forse influenzato dalla conoscenza di Lévinas28, apre tuttavia ad un orizzonte di speranza positiva alle tristi pagine della storia
«Ciascuno di noi fa esperienza di esserci, di esserci senza ombra di dubbio, solo nel momento in cui lo chiamiamo in causa in quanto esistente. Diversamente dal cartesiano cogito ergo sum, la prova dell’esistenza valida, di fatto, nella vita dovrebbe recitare: cogitor ergo sum, “mi si pensa, dunque sono”. Ibidem, p. 22. 27 Testo rivolto ad un “tu” non ben identificato, in cui ogni lettore può riconoscersi. Tra le critiche al cogito cartesiano colto sic et simpliciter c’è senz’altro l’autoreferenzialità di un soggetto che prova la sua esistenza a partire da sé stesso. Come scrive Caltagirone «è possibile notare che il riconoscimento del Cogitor nel processo di identificazione del cogito, ovviamente deve portare al superamento della riduzione della soggettività a mera strumentalità della ragione e alla assolutizzazione scettica e nichilista, per rivalorizzare una sua comprensione interale che tiene conto di tutte le dimensioni costitutive dell’umano in quanto tale. […] Perché l’io che dubita della sua realtà naturale e non solo degli enti del mondo, è un io che esiste in sé». C. Caltagirone, Dal Cogito al Cogitor. Il definirsi della soggettività dal “Dio pensato” al “Dio pensante”. Per una “inversione” della metafisica cartesiana, Studium, Roma 2022, p. 147. 28 Nel recente testo di Caltagirone sull’inversione della metafisica cartesiana dal cogito al Cogitor, si articola una riflessione in senso onto-teo-logico, dal Dio pensato al Dio pensante, in cui l’autore propone una «rilettura dell’imprescindibilità del cogito nella originarietà del Cogitor». Ibidem, p. 146. Nello stesso testo, poche pagine prima, si richiama proprio a Lévinas che, in Totalità e Infinito scriva: «Il cogito cartesiano mostra infatti di fondarsi, alla fine della terza meditazione, sulla certezza dell’esistenza divina, in quanto infinita e rispetto alla quale si pone e si concepisce la finitezza del cogito e del dubbio». Ibidem, p. 131. Nonostante questo salto alla trascendenza, in Cartesio manca quel riferimento all’alterità soggettiva che, seppur in modo imperfetto, innesca per mezzo dell’essere-in-relazione quella dinamica di riconoscimento di sé che porta alla costruzione della propria identità personale.
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del Novecento di cui Anders è stato testimone oculare. Un’altra, ulteriore, diversa, occasione filosofica per l’esserci-ancora. Negli anni in cui il Nazionalsocialismo andò consolidandosi, prima della separazione dalla Arendt nel 193729, Anders lasciò Parigi – che non gli portò alcun successo sperato – per trasferirsi negli Stati Uniti. Lì resterà per un lungo esilio che, dal 1936, durerà fino al 1950. Anders raggiunse la famiglia nel Nord Carolina, dove molti intellettuali ebreo-tedeschi trovarono rifugio in quegli anni e, per un certo periodo fu ospitato da Marcuse. Nel periodo di esilio americano, tra Los Angeles e New York, Anders sperimenterà l’essere un esule sospeso nel provvisorio, trovando un rifugio e riscoprendo la propria identità solo nella lingua madre, il tedesco30. Nel tempo dell’esilio, a differenza di altri filosofi emigrati, Anders non avviò alcuna carriera accademica, anzi si accontentò di svolgere diversi lavori e, come scrive nei suoi Stenogrammi filosofici, «adatte sono sempre solo le professioni sbagliate: esse rendono esperti»31. Gli anni dell’esilio, Il divorzio tra i due venne annunciato con una lettera il 9 agosto del 1937 a Berlino. Anders si trovava già a New York, mentre la Arendt era rimasta a Parigi. 30 G. Anders, Stenogrammi filosofici, p. 16. Infatti, nei diciassette anni di esilio americano scriverà solo un saggio in lingua inglese; si trattò di un saggio critico su Heidegger intitolato On the pseudo-concreteness of Heidegger’s Philosophy. 31 Ibidem, p. 39. Anders «sarà operaio in fabbrica, dove sperimenta la parcellizzazione tayloristica del lavoro e l’automazione alienante, sarà insegnante privato, improbabile sceneggiatore hollywoodiano, lettore di filosofia dell’arte […]. Gli anni americano sono sì faticosi, ostinati, orgogliosamente ai margini, ma i lavori precari, la difficile sopravvivenza, la caduta d’ogni garanzia gli offrono l’opportunità di un viaggio all’interno di una società-laboratorio composta di individui isolati e dispersi, che lo obbligano a confrontarsi con la parte insieme ruvida e scintillante di quella realtà, con le devastanti aporie della società di massa, con la sua natura lucida e artificiale, la sua sovrabbondanza paralizzante, con le innumerevoli “occasioni” sparse lungo la trama del negativo che, con i suoi interrogativi spesso irrisolti, costituiranno l’ordito della sua opera principale Die Antiquiertheit des Menschen». Id., Stenogrammi filosofici, p. 18. Altrove si ricorda che: «sulla base della novella Learsi si propone – con una certa ingenuità, come riconosce successivamente – come sceneggiatore per Charlie 29
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la frustrazione per una carriera accademica mai portata a pieno compimento e la lontananza dalla Germania, stamparono sul volto di Anders un «tratto di amarezza»32, come riconobbe l’amico Jonas, «tutto aveva congiurato contro di lui. L’America lo aveva trattato male»33. Conclusa la guerra e con essa l’esperienza dell’esilio statunitense, Anders si trasferì a Vienna nel 1950, città natale della sua seconda moglie, la scrittrice austriaca Elisabeth Freundlich. Egli decise di vivere «in una zona che non fosse né qui né là»34, né in Germania né in America. Dagli anni Cinquanta in poi riprenderà le comunicazioni con la Arendt la quale, tuttavia, in un incontro che ebbero a Monaco il 23 maggio 1961, trovò Anders molto diverso, non solo per alcune deformazioni fisiche dovute all’invecchiamento ma, in particolare, per gli atteggiamenti di esasperato nervosismo e stravaganza, al punto da pensare che fosse psichicamente malato. Arendt era oltretutto convinta che il suo ex marito fosse un megalomane, «non pensa ad altro che alla sua fama»35. Qualche anno prima Anders aveva pubblicato il primo volume della sua opera di maggior successo, Die Antiquiertheit des Menchen (L’uomo è antiquato, 1956), che ricevette gli apprezzamenti anche della stessa Arendt ma al contempo lo richiusero in un modello di pensiero che, a giudizio della stessa, lo facevano vivere «al di fuori della realtà»36. Con questa opera, prima di due volumi, egli raggiunse quel riconoscimento filosofico che aveva desiderato per Chaplin. Con i capi degli studi di Hollywood vuole spingere un nuovo genere di film […]. La presentazione fallisce proprio come l’adattamento di Learsi: “la filosofia non si sposa con Hollywood”». C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt: schizzo di una relazione, in G. Anders, La battaglia delle ciliegie, p. XXXI. 32 Ibidem, p. XXXV. 33 Ibidem. 34 Ibidem. «Qui sfonda come autore radiofonico, traduce pezzi teatrali dall’inglese e s’impegna nel movimento antiatomico, di cui è uno dei fondatori». Ibidem. 35 Ibidem, p. XXXVII, è la descrizione che la Arendt fa di Anders a Blücher. 36 Ibidem. L’unica opera di Anders citata dalla Arendt in La condizione umana. 15
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un’intera esistenza, ancora una volta con uno stile e in modo diverso. Günther Anders morirà, in solitudine, all’età di novant’anni in una casa di cura di Vienna, il 17 dicembre del 1992, al termine di una lunga malattia. Sopravvivrà altri diciassette anni alla morte della Arendt, stroncata da un infarto, nella sua casa di New York, nel dicembre del 1975; perdita che segnò profondamente l’animo del filosofo tedesco37.
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Una filosofia allo scoperto L’elaborazione filosofica di ciascun autore porta sempre in sé – anche se in minima parte – i segni dei tempi in cui si trova a vivere, di cui fa esperienza e che, attraverso lo strumento del pensiero, cerca di re-interpretare come sfida, svolta o estraniazione. Le esperienze che hanno segnato la filosofia del tempo in cui ha vissuto Anders furono tra le più drammatiche per l’umanità: gli orrori della Seconda Guerra Mondiale e il tragico avvenimento dell’Olocausto, la produzione dell’energia nucleare e, soprattutto, l’esplosione della bomba atomica sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki (il 6 e il 9 agosto del 1945). Questi tristi eventi che segnarono l’umanità del XX secolo, non furono lontani nello spazio e nel tempo ma globali e sempre ripetibili; non furono il riflesso di un momento limitato ma estendibili nella storia tanto da influenzare la natura e la cultura degli anni a seguire. Ciò che ad una prima analisi stupisce è che il Dopo la morte della Arendt, nel Natale del 1975, Anders riprenderà gli appunti degli anni trascorsi a Drewitz negli anni Trenta, con Hannah. Da lì nascerà la breve raccolta, che avrà forma compiuta tra il 1984 ed il 1985, Die Kirschenchlacht. Dialoge mit Hannah Arendt (La battaglia delle ciliegie). «Sedevamo su un minuscolo balcone l’uno di fronte all’altra, tra un cesto colossale pieno di ciliegie e secchi vuoti alla nostra destra e alla nostra sinistra, perché snocciolavamo i frutti sodi e scuri per farne marmellata […] e questo non c’impediva neppure di studiare a fondo insieme molto intensamente la nostra occupazione quotidiana e preferita raramente interrotta, ovvero il synphilosophein». G. Anders, Monadi in Id., La battaglia delle ciliegie, pp. 10-11. 37
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secolo scorso, come riconosciuto anche da Anders, è stato il secolo delle grandi trasformazioni ed innovazioni nel campo della tecnica e della tecnologia. La nascita delle grandi industrie, il passaggio dalla seconda alla terza rivoluzione industriale con forme di produzione e meccanizzazione sempre più autonome, l’ideazione di primordiali dispositivi basati su intelligenza artificiale, l’invenzione strumenti a definizione sempre più alta per scrutare (e conquistare) il macroscopico (l’Universo) ed il microscopico (la biologia e la neurologia), furono solo alcuni dei traguardi che l’uomo prometeico del XX secolo riuscì a raggiungere con l’uso della propria ragione. La stessa ragione che, come sosteneva Kant, con l’Illuminismo era uscita fuori dalla mediocrità e che aveva indagato i suoi limiti e le sue possibilità, si è ritrovata vittima del suo stesso “creare” immanente e che, nella distopia andersiana, ebbe come esito più che possibile l’annichilire dell’umanità, nel suo spazio (la Terra) e nel suo tempo (l’oggi). Il discorso di Anders non è moralistico – che «decisi di scrollarmi di dosso»38 – ma fortemente realistico, nonostante i toni negativi che si riscontrano nei suoi scritti. C’è una consapevolezza logicamente fondata sulla deduzione (dal particolare all’universale) che se gli uomini sono mortali, allora anche l’umanità tutta è mortale. In un breve scritto del 1990, dal titolo L’ampliamento, Anders affermava: «Forse che la mia affermazione “l’umanità tutta, o in quanto tale, è mortale”, la quale già si presenta come un ampliamento dell’affermazione “tutti gli uomini sono mortali” debba essere di nuovo ampliata? E che sia giunta l’ora di dover prendere in considerazione l’affermazione, ancora più profondamente spaventevole e che si lascerebbe ancora più profondamente indifferenti: “il mondo in quanto tale, l’essere in quanto tale è mortale”? e perché il costatare che “in futuro noi non ci saremo più”, e perciò anche che “non saremo mai stati”, dovrebbe essere insopportabile e più “impossibile del fatto che “in passato non c’eravamo (ancora)”? Che cosa viene accettato come auto-evidente?»39. G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 61. G. Anders, Brevi scritti sulla fine dell’uomo, a cura di D. Colombo, Asterios, Trieste 2016, p. 87. 38 39
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La posizione assunta da Anders è che, dinanzi al male mortale dell’indifferenza, un’Apocalisse possa ancora essere possibile; il motto di Anders, infatti, era «Hiroshima è dappertutto»40, ovvero «quel che è accaduto a Hiroshima, può accadere anche in qualsiasi altro luogo del globo»41. La fine del mondo per il filosofo della tecnica è alla soglia, sebbene non sia ancora avvenuta. Non si tratta di uno strumento euristico, come «l’euristica della paura»42 di Jonas, ma di una condizione di possibilità reale e concreta. Il fine, infatti, potrebbe corrispondere alla fine. Si comprende, pertanto, che ciò che racconta Anders è diverso e altro rispetto ad ogni altra riflessione, in ragione del fatto che il suo sguardo sulla realtà supera le capacità dell’uomo di poter contenere la distruzione dell’umanità, passando dal “come” esisterà il mondo al “se” esisterà l’umanità. Anders non amava definirsi un filosofo, piuttosto egli di sé diceva di essere «uno scrittore che lavora nell’ambito della filosofia»43. Tra i tratti particolari della sua filosofia c’è il suo caratterizzarsi come Gelegenheitsphilosophie, ovvero come filosofia d’occasione. Questa caratteristica è stata mutuata dalla poesia d’occasione (Gelegenheitsdichtung) di Goethe. La filosofia d’occasione, dal segno provocatorio e paradossale, parte proprio dall’aver sperimentato quegli eventi drammatici del Novecento che, nel loro accadere distruttivo, sono diventati l’occasione e la spinta propulsiva per una riflessione filosofica profonda e al contempo dolorosa. La radice, ovvero l’occasione tra tutte, su cui si è fondata ed articolata la filosofia di Anders è da collocare con lo scoppio della bomba atomica. Anders, infatti, ha fatto di quell’evento terribile il suo racconIbidem, p. 86. Su questo argomento, Anders dedica un saggio del 1982 che porta proprio il titolo Hiroshima è dappertutto in G. Anders, I morti. Discorso sulle tre guerre mondiali, Medusa, Milano 2022, pp. 51-84. 41 Ibidem. 42 H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 20094, p. 285. 43 G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 70. 40
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to e testamento intellettuale44 per riflettere filosoficamente sul che cosa l’uomo ha prodotto e sul chi sia l’uomo dopo tali eventi. L’abominio della bomba atomica ha costituito la massima manifestazione dello sviluppo di una tecnica che l’uomo non è riuscito a contenere e gestire nelle sue potenzialità distruttive, rendendo l’asimmetria – o dislivello prometeico – tra uomo e le sue creazioni sproporzionata ed incolmabile. La ragione umana è così (ri)caduta in un sonno che le ha impedito in modo irreversibile di avere qualsiasi sguardo sul futuro, perché dalla distruzione a causa dell’atomica al trionfo della tecnica ha corrisposto la sconfitta di ogni speranza45. Tale evento paradossale per la sua insensatezza, al contempo provoca, ovvero chiama, l’umanità ad una crisi e ad interrogarsi sul come e quanto poter abitare in quella condizione di orrore e di morte da cui nessuno sembra possa sfuggire. Le occasioni che portano allo scoperto la filosofia di Anders hanno anche un carattere «sovraliminale»46. Questo termine sta ad indicare che, gli avvenimenti e le azioni storiche che il filosofo di Breslavia ha analizzato nel corso della sua esistenza, sono risultati talmente grandi e al contempo gravi da restare incomprensibili per l’essere umano. Partendo da questi eventi, la filosofia d’occasione di Anders rifletterebbe, in prima istanza, su ciò che impedisce sostanzialmente all’umanità di vivere una vita buona47.
Cf. G. Anders, Diario di Hiroshima e Nagasaki. Un racconto, un testamento intellettuale, Ghibli, Milano 2014. 45 Cf. G. Anders, Stenogrammi filosofici. «Per Anders è la sconfitta definitiva di ogni sussulto di speranza, la svolta estrema, l’ontica terribilità del non-più, che può annullare nel suo bagliore accecante ogni attesa di redenzione […]. “Siamo noi i signori dell’Apocalisse. L’infinito siamo noi”». Ibidem, p. 19. Cf., anche, Id. L’uomo è antiquato I. Considerazione sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it. L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 225. 46 G. Anders, Il mondo dopo l’umano, pp. 76-77. 47 G. Anders, Brevi scritti, p. 10. 44
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A margine di questa riflessione sulla filosofia dell’occasione andersiana, sembra riecheggino alcuni passi dello Heidegger dei Sentieri interrotti e de La questione della tecnica48. La provocazione (Herausfordern) dell’umanità, come «disvelamento che vige nella tecnica moderna»49, pretende che la natura sia un fondo impiegato per l’estrazione e l’accumulo di energia. Il Dasein heideggeriano si trova ad essere problematizzato da Anders, giacché alla tranquilla e pacifica teorizzazione dell’esser-ci di Heidegger si sostituisce quell’«esserci – ancora – appena» andersiano che fa trasparire la contingenza, fortuita e circostanziata, di essere (ancora) sopravvissuti. «Ormai viviamo in un’era che non è più un’epoca che ne precede altre ma una “scadenza”, nel corso della quale il nostro essere non è più altro che un “esserci-ancora-appena” […] Comunque la nostra èra è e rimane, Tutto ciò che appartiene alla natura è un fondo disponibile all’impiego (Bestand), dall’aria al suolo con i suoi minerali. «La Terra e la sua atmosfera divengono materie prime. L’uomo stesso diviene materiale umano, impiegato secondo piani prestabiliti. L’organizzazione incondizionata dell’imposizione integrale della produzione progettata di tutto secondo i voleri dell’uomo è un processo che scaturisca dall’essenza ancora nascosta della tecnica. Solo nel mondo moderno tutto ciò comincia a palesarsi come destino della verità dell’essere dell’ente nel suo insieme; prima, le manifestazioni e i tentativi sporadici della tecnica non esorbitavano dalla sfera della cultura e della civiltà». M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti (Holzwege), tr. it. P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 267. La provocazione, spiega Heidegger, avviene attraverso il concatenarsi dei modi del disvelamento: mettere allo scoperto, trasformare, immagazzinare, ripartire e commutare. Si passa, cioè, ad una diversa idea di disvelamento nel momento in cui, l’uomo si sente provocato a provocare le energie stesse della natura, sottolineando un richiedere (Stellen) che invoca le risorse della physis, e che le fa emergere e le immagazzina in vista de loro successivo impiego. 49 M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e Discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 2014, p. 11. «L’aria è richiesta per la fornitura di azoto, il suolo per la fornitura di minerali, il minerale ad esempio per la fornitura di uranio, l’uranio per l’energia atomica, la quale può essere utilizzata sia per la distruzione sia per usi di pace». Ibidem. 48
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che finisca o che continui, l’ultima, perché il pericolo che abbiamo provocato con il nostro prodotto “spettacolare”, e che adesso è diventato il segno di Caino definitivo della nostra esistenza non potrà più finire, tranne che con la fine stessa»50.
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Il nichilismo, pertanto, è la forma ontologica del mondo a partire dalla bomba atomica. Se, infatti, l’evidente dislivello prometeico tra l’uomo e la tecnica è divenuto incolmabile allora sembra inevitabile la distruzione dell’umanità; l’ultima azione dell’uomo sarà una reductio ad nihil. Gli scritti di Anders manifestano una forte preoccupazione per la fine del mondo e dell’umanità51, rispetto a cui nessuna capacità oltre-umana può evitarla o controllarla. «Come si può passare la propria vita ad occuparsi di ontologia e quindi della domanda sull’essere, se non sappiamo nemmeno se domani esisteremo o no? […] La differenza tra ontologia ed etica è invalidata dalla situazione odierna»52.
La riflessione di Anders in L’uomo è antiquato, la sua opera principale in due volumi, sembra non lasciare spazio a nessuna prospettiva metafisica. Se così fosse, la filosofia stessa non avrebbe più alcun ruolo di interpretare la realtà per trovare quegli elementi per la realizzazione di una buona vita. Il maestro Husserl, ad esempio, aveva colto la vocazione interiore e la responsabilità personale del filosofo nel suo essere un «funzionario dell’umanità»53, la stessa che Anders vedeva disumanizzata. A partire dalla sua teorizzazione Anders, oltre che fondatore e sostenitore del movimento antiatomico, è stato a lungo considero come il filosofo della bomba atomica, con G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 14 (corsivo mio). Anders critica il concetto di uomo al singolare giacché configurerebbe un «mono-antropismo». Piuttosto, egli sosteneva che l’uomo esiste solo al plurale, in quanto uomini. Cf. C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt: schizzo di una relazione, in G. Anders, La battaglia delle ciliegie, p. LVIII. 52 G. Anders, La battaglia delle ciliegie, p. 78. 53 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 20082, p. 289. 50 51
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la conclusione necessaria che la sua filosofia terminasse con la fine del mondo. Il difetto di questo giudizio consiste nel rendere lo stesso filosofare andersiano passivo rispetto gli eventi e fortemente deterministico. La filosofia che nasce come amore per la sapienza, con gli eventi del XX secolo si è ritrovata a dinanzi a condizioni storico-esistenziali che non sono legate né alla parola amore né alla parola sapienza. Si tratta piuttosto di avvenimenti storici di mors, di morte. Non è forse un caso che etimologicamente la parola amore abbia nell’α privativa l’eliminazione del morire, dell’annullamento, dell’annichilire. Anders stesso si trova a descrivere un mondo che tende alla distruzione, o meglio, che ha realizzato tutti gli strumenti per una autodistruzione. Eppure, la filosofia dell’occasione non termina con la drammatica consapevolezza degli orrori del Novecento giacché permette al pensiero di tornare alla metafisica, quel luogo speculativo in cui le domande generali ed insieme fondative trovano una propria collocazione e giustificazione. In seconda istanza, la possibilità di considerare una meta-riflessione come quella condotta da Devis Colombo in cui negli scritti andersiani non si esclude la permanenza centrale dell’uomo tra metafisica e morale: «ossia tra la contingenza dell’uomo e l’istituzione di un codice d’azione capace di regolare gli influssi esercitati su tale conditio humana dallo sviluppo tecnico-scientifico. La comprensione del pensiero andersiano deve pertanto affrancarsi da una rappresentazione troppo riduttiva di un Anders “filosofo della bomba atomica”, sostenitore in modo univoco di un “principio disperazione” e seccante moralista di professione” […] perché accanto all’Anders intimorito dalla constatazione che a partire dallo scoppio nel 1945 delle prime bombe atomiche non è più soltanto valida l’affermazione “tutti gli uomini sono mortali” ma anche “l’umanità tutta, in quanto tale, è mortale”, troviamo anche un Anders costruttivo che, nonostante la gravità e la serietà della situazione apocalittica […] considera l’insistenza sul pensiero del morire una “perdita di tempo”»54. G. Anders, Brevi scritti, pp. 15-16. Cf. il breve scritto L’ampliamento del 3 agosto 1990, in cui il problema del futuro riguarda (ovvero si amplia a) tutta l’umanità. 54
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La narrazione andersiana sul mondo non è esterna al mondo stesso, per tale ragione appare tanto disfattista. Fuggire, infatti, da un mondo continuamente minacciato dalla potenza tecnologica è sostanzialmente impossibile. Lo sguardo di Anders è uno sguardo nel mondo e sul mondo che non va interpretato da una prospettiva orizzontale (e piatta) bensì verticale (e prospettica). È come se egli avesse osservato il mondo come da una “torre” per scorgere, oltre l’offuscamento morale e l’impotenza antropologica, un segnale di sopravvivenza. «Quando la signora Glü dalla più alta torre panoramica gettò lo sguardo verso il basso, dalla strada sottostante, simile a un minuscolo giocattolo ma riconoscibile inequivocabilmente per il colore del cappotto sbucò suo figlio; e un secondo dopo, questo giocattolo venne travolto e distrutto da un autocarro rassomigliante anch’esso a un giocattolo […] e il tutto si svolse solamente tra giocattoli. “Io non vado giù!”, urlò a quel punto la signora Glü, rifiutandosi di scendere le scale, “io non abbandono la torre! Lì sotto potrei disperarmi!»55.
In questo breve racconto datato al 1932, lo “sguardo dalla torre” metaforicamente sta ad indicare lo sguardo della filosofia che, dall’alto, si trova ad osservare che cosa significa essere-nel-mondo nel XX secolo. Il vulnus di questa osservazione è che l’uomo si ritrova travolto dalle macchine che agiscono in modo deterministico e non dialogico; le macchine cioè mancano di comunicazione e riflessione che invece appartiene all’uomo. La sfida della filosofia è di osservare il mondo ma anche di uscire dalla torre ed essere praxis, fare dell’occasione una nuova occasione di resistenza al continuo impoverimento (linguistico, morale, ontologico) dell’uomo. La sfida di Anders è di trovare una nuova veste alla filosofia che, G. Anders, Lo sguardo dalla torre. Favole con le illustrazioni di A. Paul Weber, a cura di D. Colombo, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 15. Lo sguardo dalla torre è una raccolta di favole scritte tra il 1931 ed il 1968, in cui l’autore evidenzia la profonda asimmetria esistente tra il lento cammino dell’umanità e la velocità dello sviluppo tecnologico. 55
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tuttavia non va ricercata nel tentativo di dare una definizione alle cose; più che per il definire Anders stesso propende verso l’essere – l’è – delle cose. «Se quindi la filosofia in questa fase di rinnovata alienazione e disumanizzazione delineata da Anders, vuol continuare a essere un mezzo di emancipazione – e non rischiare all’opposto di ridursi a un inservibile mazzo di chiavi di cui gli uomini si accorgeranno solo dopo la catastrofe – deve sforzarsi di rendere evidente il dislivello cruciale nella nostra epoca […] deve diventare una “critica dei limiti dell’uomo, dunque non soltanto della sua ragione, ma di tutte le sue facoltà […]”. In un mondo dove tutto si è reso terribilmente oscuro, alla filosofia viene affidato il compito salvifico di trovare una nuova luce con cui l’uomo possa farsi strada nella lotta per riaffermare la propria posizione di soggetto libero e riacquistare coscienza delle qualità che lo rendono un essere sensibile, umano, morale e irrimediabilmente diverso dagli apparati e dagli strumenti del totalitarismo tecnico»56.
L’orizzonte in cui si muove l’analisi di Anders è rivolto sia alla catastrofe della bomba atomica e alla distruzione di massa, sia ad una nuova forma di potere, la tecnocrazia, che tra le soglie del quotidiano, ha capovolto e sottomesso l’uomo stesso. La necessità di un recupero delle fondamenta ontologiche, si fa dunque spazio a partire dalla domanda antropologica «chi sono io mai?».
D. Colombo, Un sorriso di disperazione, in G. Anders, Lo sguardo dalla torre, pp. 172-173. Il riferimento alle chiavi rimanda ad un’altra favola Le chiavi del 1945, Ibidem, pp. 121-122. 56
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Anders e l’«antiquatezza» dell’uomo. Esistere nell’era tecnocratica
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«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche d’interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi». (G. ANDERS, L’uomo è antiquato II)
La tecnicizzazione dell’esistenza Per una filosofia della tecnica «La domanda “che cosa è l’uomo” (o in modo più pretenzioso, per così dire esistenziale: “chi è”), domanda che anche Heidegger ha posto ancora senza esitazione, non ha senso finché non si chiariscono i presupposti (cosa che non ha fatto neppure lui, Heidegger) su quello che si intende con il “che cosa” (o con il “chi), cioè quale tipo di risposta ci aspettiamo o crediamo di doverci aspettare»1.
Accostarsi alla filosofia e al linguaggio di Günther Anders non è così semplice come sembra. Classificato spesso come autore inferiore ai grandi della sua epoca (Husserl, Scheler, Heidegger, ecc.), Anders ha tentato, con una ratio filosofica talvolta sarcastica, di mettere in luce la grande domanda antropologica. Eppure, l’antropologia andersiana presenta un uomo diverso da quello che l’Umanesimo, per razionalità ed operosità, aveva posto al centro del cosmo e come motore della storia. L’individuo contemporaneo, infatti, non è un soggetto storico attivo; la sua posizione, piuttosto, è quella di un individuo mediocre che si lascia travolge1
G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 117. 25
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re dalla storia, dai suoi eventi e dalle sue rivoluzioni, come la rivoluzione tecnologica. Si tratta piuttosto di un «eremita di massa»2, ovvero di un soggetto a-relazionato e confuso nella massa di un totalitarismo (tecnocratico) morbido3. Questo aggettivo è paradigmatico per cogliere la cornice storico-culturale in cui si incarna l’uomo dell’analisi di Anders. La società contemporanea, infatti, trova nelle tecnologie (dalle più semplici alle più complesse) un confort tale da ridurre la maggior parte degli sforzi4. Il problema è che in questo morbido accomodamento non ci si è resi immediatamente conto di essere stati declassati. Questa, al contrario dell’orizzonte scheleriano, è la posizione dell’uomo nel cosmo (finché gli è concesso di esistere); una posizione che appare di assenza o – come scrive Rasini – di rinuncia, una non-posizione perché l’umano non sembra avere più un ruolo in questo mondo5. «Questa conditio humana dell’uomo spodestato dal ruolo di motore della storia – una condizione che “non è per lo più né solo spingere, né solo essere spinto; né solo agire, né solo venir azionato; ma è attiva-passivaneutra” – appartiene ai concetti fondamentali della filosofia andersiana»6.
La linea di demarcazione tra omologazione e omologarsi non è più individuabile, secondo Anders, generando così un senso di conformismo che si traveste come buono7. In un certo senso, in G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 100. Cf. G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 119. 4 «Se mai c’è qualche cosa che lo disturba nella “disumanizzazione”, è tutt’al più il fatto che, di quando in quando, si fanno vivi degli stravaganti a cui salta il ticchio di affibbiare a quel che egli fa il brutto epiteto “disumanizzante”. Ma tutt’al più questo. Perché in genere non si accorge della comparsa di questi stravaganti. La domanda che cosa […] ne sarà di lui uomo […] non lo turba». G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 49. 5 Cf. V. Rasini, Il potere della violenza. Su alcune riflessioni di Günther Anders in «Etica & Politica», XV, 2013, 2, p. 265. 6 D. Colombo, Un sorriso di disperazione, in G. Anders, Lo sguardo dalla torre, p. 168. 7 Cf. G. Anders, L’uomo è antiquato II, pp. 126-130. 2 3
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epoca contemporanea, è cambiata completamente la struttura del mondo, un mondo in cui l’uomo fatica a riconoscersi8. Si può dire che Anders sia arrivato a considerare queste conclusioni in quanto attento osservatore della sua epoca. Egli, infatti, ha come riferimento delle esperienze ben precise, in particolar modo quelle urgenze non sempre riconosciute ma che segnano la società tardomoderna, quali l’ascesa illimitata della tecnica, ormai unico soggetto della storia, con la conseguente tecnicizzazione del vivente; il senso di dislivello tra l’uomo e i suoi prodotti meccanici; la discrepanza di capacità delle varie facoltà umane; la trasformazione o eliminazione dell’uomo a causa dei suoi prodotti; il potere di disporre dell’apocalisse affidato a governanti inesperti; l’erosione della prossimità; la neutralizzazione della responsabilità e l’indifferenza etica; la saturazione e l’omologazione dell’immaginario; la scomparsa degli spazi pubblici e la contestuale affermazione di una nuova forma di terrorismo, quale il «terrore morbido»9. La riflessione antropologica di Anders e le sue argomentazioni sulle condizioni dell’agire umano nell’epoca della seconda e terza rivoluzione industriale, sono mutuate dai decisivi eventi storici del XX secolo10. Tre furono gli eventi che Anders considerò decisivi per la formazione del suo pensiero: la fine della Prima Guerra Romano Guardini, in un passo de La fine dell’epoca moderna del 1950, è stato molto chiaro e a tratti profetico su questo cambiamento di prospettiva. Egli, infatti, ha sostenuto: «L’età moderna si compiaceva di basare le norme della tecnica sull’utilità che ne derivava per il benessere umano, dissimulando così le distruzioni che la sua mancanza di scrupoli veniva preparando. I tempi che avanzano, io credo, terranno diverso linguaggio. L’uomo che ne è protagonista sa che, in ultima analisi, non si tratta né di utilità né di benessere, ma di dominio; dominio nel senso estremo della parola, che si esprime in una nuova struttura del mondo». R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, tr. it. M. Paronetto Valier, Morcelliana, Brescia 201512, p. 58. 9 G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 119. Der sanfte Terror (Il terrore morbido) era il titolo originale del saggio L’individuo scritto tra il 1932-63. 10 Durante l’esilio statunitense, Anders venne a conoscenza di quanto stesse accadendo oltre oceano. L’America degli anni ’30, l’America di Roosevelt, viveva del 8
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Mondiale, l’ascesa in Germania del nazionalsocialismo e il lancio della prima bomba atomica su Hiroshima (e poi Nagasaki) nell’agosto del 1945. La violenza e la spersonalizzazione operate nella prima metà del XX secolo, infatti, furono la drammatica rivelazione di come anche dalla democrazia e dalla partecipazione delle masse alla politica potessero nascere le forme più atroci di dominio totalitario. A partire da questi eventi, il filosofo tedesco comprese che quanto stava accadendo nel corso della seconda metà del Novecento non fosse meno violento e disumano. Lo sviluppo tecnologico e l’educazione di massa, infatti, costituivano la forma embrionale di una nuova forma di totalitarismo, un terrore che Anders stesso non esitò a definire «morbido»11. Anders era convinto che l’industria di massa avesse trasformato profondamente e progressivamente l’animo dell’uomo moderno, i cui ritmi esistenziali ormai venivano scanditi da una produzione che riconduceva ogni cosa a sé. A partire da questi punti di non ritorno, all’interno del percorso dell’umanità, Anders matura la sua riflessione su quelle che definisce le «tristi pagine sulla devastazione dell’uomo»12, pagine contenute nella sua celebre opera L’uomo è antiquato, un’opera unica nel suo genere. Le intuizioni di Anders che danno vita all’opera – tra l’altro accessibile anche ad un pubblico di non specialisti – aiutano a stabilire un nuovo quadro sullo status degli esseri umani e dell’umanità tout court nell’era tecnica. Un’umanità che sembrerebbe essere senza settore industriale e, lo stesso Anders per potersi sostenere lavorò per diverso tempo come operaio in fabbrica, venendo così a conoscenza della realtà dell’industria di massa e del dominio tecnologico da questa istaurato. Il lavoro in fabbrica dominato dalla realtà tecnologica, gli incessanti ritmi richiesti dalla produzione, oltre agli avvenimenti di Hiroshima e Auschwitz sono inquadrati nel pensiero di Anders come prodotti dello sviluppo tecno-scientifico e del suo carattere pervasivo. 11 G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 119. 12 G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 9. Questo passaggio è inserito nella dedica di Anders al padre William Stern. 28
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speranza. Il mondo visto e raccontato con gli occhi di Anders, infatti, è sull’orlo di un’Apocalisse che, è già in atto e di cui la specie umana non si rende conto. L’opera è strutturata in due volumi, di cui il primo venne pubblicato per la prima volta nel 1956, aprendo spazi problematici sulla questione della tecnica che, sebbene fossero già stati considerati in precedenza, con Anders vengono esplorati attraverso una mentalità nuova ed un linguaggio assolutamente radicale, in una dialettica tra consenso sottomesso e drammatica disperazione. Queste sono le sole due possibilità per l’umanità, entrambe estreme e con esiti apocalittici, date all’uomo dell’era tecnocratica, tertium non datur. Il secondo volume de L’uomo è antiquato, invece, venne pubblicato nel 1980, ed è composto da venticinque saggi scritti a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Sebbene tra i due volumi ci sia una distanza temporale notevole, Anders continua sulla scia di quel ragionamento iniziato nelle dense pagine del primo volume, in cui espone delle rilevanti considerazioni rispetto alla possibilità di un’antropologia filosofica nell’era della tecnocrazia. Infatti, mentre la prima rivoluzione industriale fu caratterizzata dalla introduzione del macchinismo e la seconda dalla produzione dei bisogni, con la terza rivoluzione industriale, a causa dell’incessante progresso tecnico, ci si trovò dinanzi ad una trasformazione irreversibile dell’ambiente a danno dell’umanità. «Se qualcosa mi ha indotto al silenzio filosofico, è stata la convinzione e la sensazione che, di fronte al pericolo di un reale naufragio dell’umanità, non solo preoccuparsi della sua “mera disumanizzazione” era un lusso, ma che persino occuparsi esclusivamente del pericolo di una fine effettiva, se ciò si limitava a un lavoro filosofico-teoretico, restava cosa inutile»13.
La fase storica descritta da Anders è la fase della tecnocrazia, una fase definitiva e irrevocabile il cui esito è individuato nella distruzione dell’umanità e nel possibile annientamento del genere 13
G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 5. 29
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umano. Questa fase, tuttavia, non poteva essere percepita come un dato della natura umana ma uno stato artificiale in cui l’uomo si è trovato a vivere; «cosa di cui siamo stati capaci solo perché la capacità di cambiare il nostro mondo […] e noi stessi, appartiene paradossalmente alla nostra “natura”»14. Tuttavia, è bene precisare che in Anders il termine «tecnocrazia» non è da intendere nel senso di un dominio da parte dei tecnocrati, ma si riferisce al fatto che il mondo attuale in cui si realizza l’umana esistenza sia un mondo tecnico, in cui tutto si decide sopra le proprie teste, senza la possibilità di dire che esiste tra le altre cose anche la tecnica. Si può solo dire che la storia ora si svolge in una condizione del mondo chiamata, appunto, tecnica. «Tali cambiamenti riguardano tutte le nostre attività e passività, il lavoro come l’ozio, i nostri rapporti interpersonali e persino quelle che chiamiamo categorie aprioristiche. Chi, oggi ancora, sostiene la “modificabilità dell’uomo” […] è una figura di ieri, perché noi siamo mutati. E questo esser mutati è così fondamentale, che chi parla oggi del suo “essere” […] è una figura dell’altro ieri»15.
In questa situazione storica, la sola filosofia possibile allora è la filosofia d’occasione, un approccio filosofico che parte da esperienze precise e con una teorizzazione dal carattere en plein air, simil-impressionistico. Obiettivo di questa sua decisione stilistica, è dato dalla non-volontà di anticipare un’armonia prestabilita o una precisa costruzione. Il filosofo considera il fatto empirico quale punto di partenza per le sue riflessioni. Le esperienze, infatti, da cui parte Anders sono maturate nella vita quotidiana: dal mondo del lavoro, del divertimento e della vita domestica che sono tutte concrezioni dell forme pratiche del vivere all’interno delle quale l’umano prende forma e consistenza attraverso una molteplicità di esperienze relazionali significanti e significative. 14 15
Ibidem, p. 4. Ibidem, p. 3.
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La tecnica: (s)oggetto e destino della storia La situazione presentata da Anders nei due volumi de L’uomo è antiquato, tra seconda e terza rivoluzione industriale, dice di un’alterazione irreversibile dell’ambiente, a causa dell’incessante progresso tecno-scientifico, compromettendo altresì la stessa sopravvivenza dell’umanità e, in definitiva, del genere umano. Il problema al centro della discussione di Anders consiste nella consapevolezza che, in un mondo dominato dalle macchine, la tecnica viene innalzata quale nuovo “soggetto” della storia, mentre gli uomini, ormai demodé, diventano «costorici»16. Se nel 1815 si diceva che fosse la politica il destino dell’uomo per poi passare, nel 1845, all’economia, dal 1945 il destino dell’uomo è riconosciuto nella tecnica. Rispetto a questa condizione, ribaltata rispetto al passato, è possibile soltanto dire che la storia ora si svolge nella condizione del mondo chiamata “tecnica”, in cui l’uomo è ridotto ad un qualcosa (un oggetto e non più un soggetto, qualcuno) di superato e di «antiquato». È evidente che con l’assunzione della tecnica a ruolo di soggetto storico, si generano delle conseguenze di non poca importanza in quanto, tutto ruota attorno alla tecnica e tutto dipende da essa. In tal senso, in un’esistenza condizionata dalla tecnocrazia, Anders evidenzia che tanto l’uomo quanto il mondo vengono ridotti a materia prima, indefinitamente manipolata e manipolabile da una prassi tecnica sfuggita ad ogni forma di controllo. La condanna dell’uomo contemporaneo, atrofizzato nelle sue capacità intellettive-volitive-deliberative, è altresì di essere soggiogato e manipolato dalle sue stesse invenzioni e, come un maldestro apprendista stregone, attraverso i mezzi distrugge qualsiasi fine (o finalità) nell’agire17. In considerazione dei cambiamenti che «hanno subito e continuano a subire sia gli individui singoli che l’umanità nel suo 16 17
Ibidem. «I mezzi distruggono i fini». G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 36. 31
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insieme»18, il problema di fondo è che ormai l’umanità non si trova più nell’età del «non ancora», ma del «giusto ancora», davanti alla possibilità tecnica dell’apocalisse. La storia, dunque, deve rinunciare a considerare l’uomo (le nazioni, o le classi o la stessa umanità) come suo soggetto, dato che «ci siamo detronizzai (o lasciati detronizzare) e al nostro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia»19, anzi un solo altro soggetto: la tecnica. Ma la storia della tecnica, a differenza della storia dell’arte o della musica, non è una fra le tante, bensì è la storia, dal cui accadere dipendono l’essere e il non essere dell’umanità. L’assunzione della tecnica al ruolo di soggetto della storia, tuttavia, secondo Anders viene abitualmente dissimulata20. Ciò attraverso le scelte terminologiche sia dei politici che dei media, i quali vorrebbero far intendere che siano gli uomini i soggetti della storia, e che dalla loro buona volontà dipende l’uso della tecnica. Con questa menzogna si vuol ancora far credere all’uomo di essere il «signore» della tecnica e, dunque, anche della storia stessa. Eppure, Anders, in L’uomo è antiquato, descrive un mondo diverso; non un mondo apparente, ma un mondo drammaticamente reale in cui l’uomo si ritrova ad essere gettato senza possibilità di fuga, ed in cui la macchina e gli oggetti prodotti in serie si elevano a nuovi dominatori della storia, rispetto ai quali l’uomo è ridotto a consumatore. Il trionfo del mondo degli apparati, infatti, ha cancellato la differenza tra forme tecniche e forme sociali. “Mondo” allora, diviene solo il nome di un potenziale territorio di occupazione di energie e di cose; mentre gli uomini, non più attori sociali, sono ridotti a consumatori o a materiale disponibile da sfruttare. In tale senso, va aggiunto che per Anders non G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 3. Ibidem, p. 258. 20 In questo passo Anders riprende la dialettica hegeliana: «Dopo che il “servo” d’un tempo (la macchina) era arrivato a essere il nuovo “signore” e il signore d’un tempo […] era stato degradato a “servo”, il “servo” tentò di nuovo a sua volta di farsi “signore del signore” (della macchina). Questa è la storia dell’umiliazione; almeno la storia ipotetica». G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 67. 18 19
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ha alcuna importanza che gli apparati usino l’uomo come materia prima o come consumatore, dal momento che «sia la materia prima che il consumatore fanno parte del processo macchinico»21, sono cioè anch’essi pezzi di macchina. Il dislivello prometeico
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«Credo di essere capitato sulle tracce di un nuovo pundendum; di un nuovo motivo di vergogna che non esisteva in passato. Lo chiamo per il momento, per mio uso, “vergogna prometeica”, e intendo con ciò “vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi”»22.
Anders legge nell’esistenza tecnocratica dell’uomo le tracce di un nuovo motivo di vergogna, che nel primo volume del testo L’uomo è antiquato indica con il concetto di «vergogna prometeica»23. La vergogna di cui tratta Anders è una vergogna prometeica che riprende l’antico mito greco di Prometeo, un titano che rubò il fuoco agli dèi per consegnarlo agli uomini, sfidando così il re dell’Olimpo, Zeus. Secondo un’altra versione del mito Prometeo avrebbe anche derubato la dea Atena della saggezza e, non è un caso che «Prometeo» significhi dal greco «colui che pensa prima di agire», diversamente dal fratello Epimeteo il cui nome indica «colui che pensa dopo aver agito». Prometeo è divenuto il simbolo del progresso umano, fino ad arrivare all’epoca tecnocratica in cui assume una posizione di sudditanza sia di pensiero che d’azione. La tecnica, infatti, precede l’agire umano mentre il pensiero su quanto è stato compiuto assume un ruolo a posteriori. «Anders, infatti, evidenzia come si profili una distanza per certi versi irraggiungibile tra le funzioni proprie degli artefatti tecnologici e le limitate capacità umane […]. È alla luce di una “comparazione” tra la potenza degli artefatti tecnologici e la condizione umana che può, allora, G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 101. G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 31. 23 Ibidem. 21 22
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essere ripresa e valutata l’originale espressione andersiana di “vergogna prometeica”»24.
La novità della vergogna prometeica, mai esistita prima, non riguarda un disagio tra uomo e uomo, piuttosto tra l’uomo e la macchina, tra l’uomo e il suo prodotto. Non si tratta cioè di reificazione, poiché l’uomo non si vergogna di essere ridotto a cosa, bensì di non esserlo. Ciò che caratterizza la vergogna prometeica consiste nella dissociazione dalle cose e nella perdita di senso dell’esistenza25. Questo senso di a-sincronizzazione dell’uomo rispetto ai suoi prodotti ha generato un sentimento insieme di distanza e vergogna; distanza dalla perfezione della macchina e vergogna per non essere all’altezza di tale perfezione26. L’uomo si considera una costruzione imperfetta e difettosa perché, a differenza delle macchine, sa di essere molto più impreciso e dunque, inferiore e antiquato. L’homo faber, infatti, non reagisce rispetto alla sua reificazione a oggetto; al contrario, egli avverte un estremo sentimento vergogna a causa dell’umiliante inferiorità del genere umano, a dispetto della perfezione di quegli oggetti prodotti e fabbricati dall’uomo stesso. Il novello Prometeo, l’uomo protagonista della «vergogna prometeica», è consapevole della propria subalternità e inadeguatezza; è cosciente dell’incommensurabile distanza tra l’uomo e il suo prodotto, ma anche della perfezione con cui gli oggetti sono stati prodotti e rispetto ai quali l’uomo è necessariamente e costitutivamente imperfetto. Questa visione non genera nell’uomo orgoglio, quanto piuttosto auto-degradazione dato che egli non riconosce a sé stesso di essere il creatore di quegli oggetti ma, al contrario, prova un senso di vergogna per il fatto di non essere perfetto come loro. La vergogna, spiegava già Anders A. Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine 2023, p. 18. 25 Cf. G. Fofi, Prefazione, in G. Anders, Lo sguardo dalla torre, p. 9. 26 Cf. G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 25. 24
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nel 1930, deriva dal riconoscimento della propria realtà come contingente.
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«Lo stato di shock del contingente come condotta di vita, e spogliato il più possibile di qualsiasi carattere scioccante, si chiama vergogna. All’origine la vergogna non è vergogna di aver fatto questo o quello, anche se questa forma di vergogna già significa che io non mi identifico con qualcosa che viene da me, la mia azione, e con la quale tuttavia dovrei, nel senso che vi sono costretto, identificarmi […] Nella vergogna l’io vuole liberarsi, nella misura in cui si sente esposto a se stesso in maniera definitiva e irrevocabile, ma, ovunque si nasconda, esso rimane nell’impasse, resta alla mercé dell’irrevocabile, dunque di se stesso […]. Così, la vergogna è soprattutto vergogna dell’origine»27.
All’obiezione secondo cui questa non si può provare vergogna davanti ad un proprio prodotto ma solo orgoglio, Anders risponde che l’uomo non può identificarsi in colui che le produce giacché, la maggior parte degli uomini non partecipa alla produzione totale di tali macchine, ma solo a delle sue parti. La vergogna, oltretutto, è invisibile dal momento che sorge nel commercio tra l’uomo e l’oggetto, in assenza dunque di un interlocutore umano. Ci si vergogna di vergognarsi e, si fa sfoggio di superiorità e spudoratezza per fingere che tale vergogna non esista. «Chiamiamo “dislivello prometeico” l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, la distanza che si fa ogni giorno più grande. […] Effettivamente […] non è del tutto escluso che noi, che fabbrichiamo questi prodotti, siamo sul punto di edificare un mondo con cui non siamo capaci di mantenerci al passo e, per “afferrare” il quale, si pongono esigenze assolutamente esorbitanti dalle
G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, a cura di L.F. Clemente e F. Lolli, Orthotes, Napoli-Salerno 2015, p. 41. È come se l’io avesse sperimentato un «disgusto di sé» per la troppa familiarizzazione con sé stesso. Cf. Ibidem, p. 36. Nel corso della storia, l’uomo occidentale è stato assuefatto da uno spazio, quello del principium individuationis, dal quale vuole emanciparsi e non essere prigionieri del proprio-qui. Cf. Ibidem, pp. 45-46. 27
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capacità della nostra fantasia, delle nostre emozioni e della nostra responsabilità»28.
Il dislivello prometeico diviene una chiave interpretativa dell’antropologia andersiana, che indica un ritardo temporale della metamorfosi dell’uomo rispetto all’evoluzione a cui sono invece giunti i prodotti. In questo senso, l’uomo vive in un mondo che, sebbene sia stato da lui progettato, è diventato talmente smisurato da non esserne più o ancora all’altezza. Le cose stesse hanno raggiunto una perfezione tale da divenire il modello cui gli uomini vogliono e devono soggiacere, una perfezione talmente impeccabile da umiliarli, dato che davanti ad esse le loro vite appaiono marcate dall’imprecisione, dai limiti e dalle fragilità creaturali. Si realizza pertanto una «discrepanza di capacità» tra le diverse facoltà, uno scarto tra la limitatezza di ciò che si può concepire, e l’illimitatezza di ciò che si può produrre; tra quello che è possibile immaginare, e quello che si è in grado di fare; tra l’imprevedibilità e l’enormità degli effetti, e la paralisi davanti a essi dell’esercizio della capacità critica e della responsabilità morale. Anders sottolinea con insistenza l’analfabetismo emotivo nel quale la potenza incontrollabile della tecnica ha gettato il genere umano per cui quanto più grandi sono gli effetti della produzione e quanto è più intricata la struttura degli apparati, tanto più rapidamente la percezione e umana immaginazione non riescono a stargli dietro e, tanto più rapidamente si diventa ciechi. La vergogna sperimentata dall’uomo dinanzi alla superiorità dei prodotti ha causato un turbamento dell’identità e di autoidentificazione. L’uomo pertanto «antiquato», pertanto, è «vittima» e prigioniero dei suoi prodotti. I soggetti sono scomposti e scissi al loro interno tra funzioni parziali, modellando il proprio essere avendo come metro di misura prodotti e macchine. Affascinati dalla regolarità – priva di incertezze – e dalla precisione dei congegni da loro stessi inventati, aspirano a divenirne parte o 28
G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 25.
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organi, a servirli fedelmente, rimuovendo ogni residuo di individualità che possa intralciare l’aspirazione degli uomini a diventare cosa tra le cose. L’imperfezione del soggetto umano rispetto alla perfezione dell’oggetto meccanico diventa un forte ostacolo alla capacità umana di poter avere un’utilità. Ancor più costrittivi e obbliganti sono però i vincoli posti ai soggetti dal corpo nudo, non lavorato e preformato erroneamente. Il corpo umano, infatti, diversamente dal corpo macchinico, costituisce un peso insopportabile perché inchioda e condanna ciascuno a un’esistenza imperfetta, imprigionandolo in un’individualità avvertita come patologica e peso insopportabile del quale è necessario liberarsi. Il rapporto di asincronizzazione e dislivello tra l’uomo e le macchine avvenuta con la rivoluzione tecnologica ha anche causato «un offuscamento del mondo, che ci impedisce di comprenderlo e organizzarlo»29. È come se l’uomo si venisse a trovare in una fase profondamente infantile in cui si trova inconsapevole e impossibilitato a comprendere il valore ed il significato morale di questo dislivello. In questa condizione di ribaltamento, se l’uomo è nella fase dell’infanzia, allora è superato dalla macchina che contrariamente ha raggiunto un tale livello di maturità da essere, in un certo senso, “autonoma”. «E per il moralista […] tutto ciò sbocca naturalmente e semplicemente nella catastrofe. Effettivamente ciò che l’uomo spera di ottenere con i suoi esperimenti è il climax di ogni possibile disumanizzazione. E dico “climax” perché quella disumanizzazione e privatizzazione della libertà che per cent’anni erano state considerate le massime immaginabili […]. Ormai l’uomo odierno […] pensa che la disgrazia sta nelle sue limitate possibilità di essere utilizzato, nell’eventualità che la sua passività, la sua utilizzabilità, insomma la sua mancanza di libertà abbia dei limiti definitivamente segnati»30.
D. Colombo, Un sorriso di disperazione, in G. Anders, Lo sguardo dalla torre, p. 171. 30 G. Anders, L’uomo è antiquato I, pp. 47-48. 29
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Nascere e morire nell’era della tecnica
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Il “peccato originale” In un mondo non determinato in cui i prodotti evolvono continuamente raggiungendo sempre nuovi livelli di perfezione, ciò che resta invariato e refrattario al cambiamento è il corpo dell’uomo, ottuso ed antiquato. L’uomo, così com’è stato creato dalla natura è una costruzione difettosa, «sub specie delle macchine». È innegabile, infatti che, per forza, velocità e precisione, l’uomo sia di gran lunga inferiore ai suoi apparecchi e che, anche le sue prestazioni mentali, in confronto alle macchine calcolatrici fanno «una figura meschina»31. L’essere umano è inadeguato, inappropriato, non lavorato secondo misura; è solo informe, non plasmato, pura materia grezza. Eppure, non basta per definire l’uomo perché tutte queste caratteristiche non sono altro che la conseguenza obbligatoria della sua dimensione creaturale, «perché è preformato, è plasmato, ha la sua forma: ma appunto una forma errata»32. Non potendolo lavorare secondo misura, l’uomo è morfologicamente costante. Il “peccato originale” che l’esistenza tecnocratica mette in primo piano è nella sua nascita ed origine. Nonostante ciò, l’uomo odierno cerIbidem, p. 39. Rispetto all’umiliazione dell’uomo rispetto agli apparati meccanici, Anders cita il caso storico del generale McArthur il quale, fu sostituito da un Electric Brain per compiere delle scelte e tattiche militari all’inizio del conflitto coreano. In questo avvenimento degradante, si compie l’umiliante apoteosi della macchina di fronte all’uomo. La responsabilità decisiva di azioni scelte dall’uomo venne in tal modo inoltrate ad un “cervello elettronico”. Anders spiega che, se la decisione fu sottratta al generale McArthur, non lo fu in quanto era McArthur, ma in quanto era un uomo. E, se il cervello meccanico fu preferito a quello del generale non fu perché si dubitasse della sua intelligenza, ma perché anche McArthur possedeva un cervello solo umano. Tuttavia, a privare l’uomo di una responsabilità del genere, non fu un’istanza superiore bensì, l’uomo stesso. Cf. Ibidem, pp. 63-64. 32 G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 39. 31
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ca di sfuggire a questa sua calamità naturale, adeguandosi fisicamente alle macchine. Anders cerca di farsi interprete della drammatica condizione che l’uomo dell’età tecnologica si trova a vivere: il suo essere gettato-nel-mondo, nella finitezza e contingenza non solo della naturaambiente, ma soprattutto della propria natura è vissuto in modo angosciante. In questo senso, la tecnica è la risposta ai difetti e ai limiti connaturali all’essere umano. L’artificiale, infatti, è ciò che permette di superare i limiti creaturali, dal nascere al morire. Anzi, modificando e agendo in modo diretto sul nascere e il morire stessi. Ma, se anche l’origine e la fine perdono la loro naturalezza, cosa resta dell’uomo? «Del fardello liberarci si potesse! Ed alla fine come ferree longarine se potessimo incastrarci, come protesi aderire l’uno all’altro, ed il peccato fosse cosa del passato, l’onta ancor da scoprire. Se tal giorno ci sarà per vedere tanta aurora, troppo poco soffri ancora, sofferente umanità»33.
L’onta è la macchia a causa di cui l’uomo prova vergogna. Il peccato dell’uomo è un “peccato originale” giacché posto ontologicamente all’origine dell’esistenza umana e, dunque, non è modificabile in senso proprio. In questa riflessione Anders legge non solo un’antiquatezza nell’uomo, ma un’antiquatezza nella stessa antropologia filosofica34. Per tale ragione la «vergogna prometeiG. Anders, Alle ruote dentate, in Id., Inni molussici all’industria, Ibidem, p. 43. «Si capisce come L’uomo è antiquato faccia parte di una teoria sull’antiquatezza della “antropologia filosofica»; che il lamento sulla “fine dell’uomo” debba basarsi su un’idea ben determinata dell’uomo. […] perché, simile a un medico […] ho visto nell’uomo l’essere che fondamentalmente non può essere sa33 34
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ca» non è una semplice metafora per descrivere la conditio humana, come si obietta ad Anders, ma un turbamento dell’identità che nasconde una duplice intenzione negativa: il vergognarsi in senso riflessivo che contiene il suo «coram», ovvero la vergogna di vergognarsi35. «Doversi presentare al cospetto di quei meccanismi perfetti nella sua goffaggine di essere di carne, nella sua imprecisione di creatura, gli era realmente insopportabile; si vergognava davvero. Se cerco di approfondire questa “vergogna prometeica”, trovo che il suo oggetto fondamentale, ossia la “macchia fondamentale” di chi si vergogna è l’origine. […] La sua onta consiste dunque nel suo “natum esse”, nei suoi bassi natali; che egli […] giudica “bassi” perché sono natali»36.
L’uomo è goffo, è impreciso, è carne, è creatura, è (pro)creato. Diversamente dagli apparati meccanici, ai quali viene riconosciuta l’appartenenza ad una superiorità, ad una «più elevata classe dell’essere»37, l’uomo nasce e non è prodotto, è creato e non fabbricato. L’uomo, dunque, che si vergogna dei suoi bassi natali, rifiuta sé stesso auto-rifiutandosi, soprattutto se di questa imperfezione non è il diretto responsabile. Dunque, la vergogna prometeica non deriva dall’essere responsabile ma, dal non esserlo. La vergogna sorge quindi nel momento in cui il soggetto comprende che tutto ciò che è pre-individuale gli è stato dato in dote. Infatti, il suo peccato originale si rivela nel «natum esse» ovvero nella sua propria origine naturale e, la sua vergogna è nell’essere stato originato attraverso l’arcaico processo, cieco e non calcolato, della procreazione e della nascita. La «dotazione ontica»38 è individuata in ciò che costituisce l’uomo ma di cui non ne è responsabile, non essendo no e non vuole essere sano, insomma l’essere che non può essere determinato, l’essere indefinito, che sarebbe un paradosso voler definire». G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 117. 35 Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 68. 36 Ibidem, p. 32. 37 Ibidem, p. 31. 38 Cfr. Ibidem, p. 71. 40
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stata da lui stesso determinata. Infatti, non si risponde di ciò di cui non si è responsabile, perché ciò che è sottratto alla libertà personale, rientra nella sfera del fato. L’umanità senza libertà e responsabilità è moralmente sconfitta. In effetti, per l’uomo tecnologico, il fatto di avere un corpo imperfetto, difettato e obsoleto, è qualcosa di fatale in senso negativo, in quanto lo pone nella sfera dell’impotenza, nel senso più alto. Il problema principale dell’uomo dell’età della tecnica, quindi, consiste proprio nel suo esser-divenuto, nel non-essere-fatto diversamente dai prodotti. In un ambiente altamente tecnologizzato, l’uomo è chiamato al confronto con un’infinità di prodotti perfetti, una fabbricazione calcolata nei minimi dettagli che si trova in contrasto con l’imprevedibilità della nascita. È chiaro, dunque, che la colpa dell’uomo di essere nato, si traduce in ultima analisi nella colpa di essere figlio, naturale e procreato. La vergogna prometeica non va identificata come manifestazione della ben nota (soprattutto negli ambienti socialisti) reificazione dell’uomo a cosa39. Al contrario, la vergogna dell’uomo non è di esser stato ridotto a cosa, ma precisamente di non-esserlo. In questi termini, la prospettiva della reductio dell’uomo a res è capovolta in quanto il novello Prometeo non prova indignazione per essere stato fatto da altri (Dio, dei, natura), ma perché non vuole essere qualcosa di non-fatto. Diversamente dalle macchine, infatti, l’uomo non è fatto per nulla e, nella sua qualità di non-fatto Per Anders la riduzione a cosa è una «autoriduzione» che avviene anche nella vita quotidiana. L’esempio è quello del make-up: «La possibilità di presentarsi in pubblico senza make-up non è nemmeno presa in considerazione dalle girls. Ciò non significa soltanto che esse si vergognano […] determinante è il quando, cioè in quale veste si sentono a posto, quando si considerano “curate”, quando non credono di doversi vergognare. Risposta: quando si sono trasformate […] in cose, in oggetti di artigianato, in prodotti finiti […] quando possono rinnegare la loro precedente vita organica; cioè quando danno l’impressione di essere fabbricate […] E ci si vergogna di questo corpo “nudo” in senso nuovo anche quand’è coperto». G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 38. 39
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è inferiore a tutti i prodotti da lui stesso fabbricati. La fierezza prometeica, dunque, si contraddistingue nel rifiuto di essere debitori di qualche cosa, persino di sé stessi. Alla luce di questa analisi si potrebbe, oltretutto, individuare una variante del classico, ma al contempo aberrante, scambio tra fattore e cosa fatta. Un chiaro esempio si trova in Agostino di Ippona il quale, nelle Confessioni, vi si riferisce per segnalare «l’errore religioso»40 della creatura che adora un creatum (del mondo, o di una sua parte), piuttosto che adorare unicamente il Creator. Altro errore, è nella raffigurazione di Dio a immagine di un creatum. Anders spiega in questi termini il parallelismo tra le due posizioni aberrazioni: «anche nella “vergogna prometeica”, infatti, l’uomo preferisce la cosa fatta al fattore; anche in questo caso attribuisce alla cosa fatta il rango superiore nell’essere. Naturalmente l’analogia finisce qui: perché nella “vergogna prometeica” all’uomo è assegnata una parte totalmente diversa: mentre per sant’Agostino l’uomo apparteneva eo ipso alle creature, nel nostro caso si presenta esclusivamente nella sua veste di homo faber, cioè come l’essere che fabbrica i suoi prodotti»41.
Infatti, mentre nell’idolatria, l’uomo preferisce la cosa fatta al Suo fattore, attribuendo alla cosa una posizione superiore nell’essere, nel caso della vergogna prometeica all’uomo è assegnato un ruolo diverso: il creatore degli oggetti e delle cose (l’uomo e non Dio), è un homo faber, è l’essere che fabbrica i suoi prodotti, che vorrebbe essere come questi ultimi. L’uomo della vergogna prometeica, inoltre, vorrebbe non solo essere una cosa ma desidera perfino di essere trattato come le macchine. Il fatto di non essere ridotto a res, infatti, è per l’uomo dell’era tecnica un difetto; il suo esserci come essere-nel-mondo un peccato originale. Con la vergogna prometeica l’uomo oscilla tra due atteggiamenti, di rifiuto e di accettazione. Egli, de facto, riconosce, e dunque accetta, la superiorità delle cose ma, al contempo, disprezza sé stesso come 40 41
G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 33. Ibidem.
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lo disprezzerebbero le macchine, se potessero. In questo drammatico rifiuto dell’umana condizione, l’atteggiamento dell’uomo verso le macchine non sarà di superbia o orgoglio, bensì di autodegradazione. Questa radicale presa di posizione, dunque, tra accettazione e rifiuto, è attuata non sul piano del giudizio ma del sentimento. La hybris greca, come l’orgogliosa tracotanza che porta l’uomo a ribellarsi contro l’ordine costituito (sia divino che umano), qui è trasformata in un’umiliante subordinazione dell’uomo alle macchine rispetto a cui l’uomo non reagisce col primato della propria natura, ma desiderando di voler essere anch’egli “macchina”. Oltre i limiti. Artificiale come naturale La sofferenza dell’uomo consiste nel senso di inferiorità che egli quotidianamente sperimenta di fronte alle macchine, giacché nei suoi tentativi di adeguarsi alle macchine e di fare di sé una parte di queste, si rende conto di costituire una materia di pessima qualità, perché disgraziatamente è già morfologicamente preformato. Benché gli venga riconosciuta la sua illimitata capacità di produrre – che non è detto che sia per forza un bene – per il resto costituisce un tipo morfologico erroneamente costituito, più o meno determinato e di adattabilità limitata. Come osserva Devis Colombo: «non sono più gli uomini che servendosi dei mezzi di produzione foggiano il mondo in un contesto di produzione totale determinandone la libertà, trasformandolo in un “pezzo di macchina”: è lui ora ad appartenere a loro. Un capovolgimento che rispecchia subito analogamente della teoria dell’homme machine del filosofo francese Lamettrie: non vale più il postulato per cui noi uomini siamo simili a macchine, ovvero trasformarci in macchine o in pezzi di macchine più grandi e infine nella macchina”. L’individualità umana viene forzatamente resa superflua dal decadimento dell’uomo a puro ingranaggio»42. D. Colombo, Un sorriso di disperazione, in G. Anders, Lo sguardo dalla torre, pp. 165-166. 42
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Il mondo delle cose, pertanto, sarebbe superiore al suo creatore in quanto da un lato nessun individuo ha fabbricato singolarmente le macchine, ma ci si limita a consumarle in quanto prodotti. Dall’altro, c’è la facile deteriorabilità dell’uomo a causa del suo essere procreato e, dunque, non-fatto. È a causa della sua condizione organica che, l’uomo desidererebbe diventare uguale alle divinità da lui adorate – vale a dire gli apparecchi – e di essere compartecipe della loro natura. A questo proposito, Anders parla della «consustanzialità strumentale»43, ovvero del sogno dell’uomo che cerca un’integrazione con le macchine, una «imitatio strumentale, una riforma di sé stesso»44 nel tentativo di un miglioramento rispetto all’evento che lo ha ontologicamente sabotato: la nascita. La paura dell’uomo contemporaneo non è quella di essere sfruttato o strumentalizzato, bensì di non esserlo, di rimanere cioè passivo, inutilizzato e dunque di non riuscire ad oltrepassare quei limiti imposti dalla sua condizione di essere umano. L’individuo non teme di apparire disumanizzato, dato che è proprio questo ciò che egli desidera, perché è proprio questo stato di disumanizzazione a renderlo prossimo alla condizione di macchina. La risposta all’antiquatezza antropologica, alle situazioni fisiche di inferiorità, al dislivello incolmabile tra uomo e prodotti nel vago supporre del proprio essere-limitato per Anders non è più sufficiente. Riconoscendo negli apparecchi una costituzione ontologicamente superiore alla propria, consapevole dei suoi punti deboli che lo arretrano rispetto alle macchine, l’uomo tenta la via di una metamorfosi antropologica. «Questa è dunque la situazione: le anime di questa nostra epoca, proprio a causa del “dislivello”, sono in parte […] non ancora finite; in parte sono refrattarie a ricevere un’impronta definitiva, quindi non saranno mai finite. Se, ciò nonostante, si cerca di disegnare un ritratto di queste
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G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 43. Ibidem.
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anime, […], si corre evidentemente il pericolo di prestare una fisionomia troppo definita ai volti in realtà ancora informi e indeterminati, di dar loro un rilievo che non spetta loro, […], di presentare caricature come ritratti. Dunque di esagerare. Ma se si rinuncia a questa esagerazione, […], si corre il pericolo opposto, di rendere irriconoscibili le fattezze e persino la direttrice di marcia. Tale esagerazione è tanto più legittima, in quanto la tendenza di fatto della nostra epoca è addirittura di forzare la metamorfosi con mezzi esagerati, per esempio a mezzo dello Human Engineering»45.
Con lo Human Engineering, ovvero l’ingegneria applicata all’uomo, l’uomo sperimenta la via della metamorfosi, sottoponendo il proprio fisico a condizioni innaturali, a situazioni limite fisiche quali margine estremo di sopportabilità. Lo scopo è la scoperta di qualche lato debole della propria natura corporea e i punti nei quali è rimasta amorfa, che si prestano ad essere modellati al fine di essere adatti alle esigenze degli apparecchi. Allo Human Engineering, dopotutto, non interessa come il fisico è, quanto piuttosto verificare l’estremo margine di quel che potrebbe essere; non come sia cresciuto, ma quali sollecitazioni anormali sarebbe in grado di sopportare. Chiaramente, queste situazioni-limite sono create artificialmente, per mezzo delle quali l’uomo sposta i propri confini sempre oltre, allontanandosi sempre più da sé stesso trascendendo sé oltre i propri limiti naturali, sebbene non si inoltri in una regione soprannaturale. Varcando pertanto i limiti congeniti della sua natura, passa in un confine che non è più naturale, bensì dell’ibrido e dell’artificiale. «Il fatto che “l’uomo non è un essere fisico”, cioè che l’uomo non ha una natura definitiva e vincolante; per esprimerci positivamente: la sua continua autoproduzione, la sua ininterrotta trasformazione storica rende impossibile determinare che cosa in lui vada considerato “naturale” e cosa “innaturale”. Già l’alternativa è errata. “Artificialità è la natura dell’uomo”»46. 45 46
Ibidem, p. 27. Ibidem, pp. 289-290. 45
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L’artificiale diviene una seconda natura dell’uomo. Egli cercherà di adeguarsi da sé a questa novità anche nella sfera dei sentimenti al fine di rendere il nuovo mondo artificiale, in cui doveva vivere, il mondo a lui naturale: «questo suo adeguarsi all’artificiale si dice “abituarsi”»47. Scopo degli esperimenti, pertanto, sarà quello di sottoporre il fisico ad una metamorfosi per privarlo, in tal modo, della sua fatalità e di quanto ha di umiliante. Alla teoria dell’organismo e subentrata la prassi fisiotecnica. La fisiotecnica, non di tipo medico, è rivoluzionaria nel senso che vuole capovolgere il sistema vigente della fisicità, creando condizioni corporee radicalmente nuove. Riformulando l’XI tesi su Feuerbach di Marx, non basta interpretare il corpo, bisogna anche modificarlo, in modo diverso per ogni apparecchio. È sempre la macchina, ciò che la macchina esige e che stabilisce cosa deve diventare corpo. Ma, in questa perversione, l’uomo non è più considerato il soggetto del bisogno. Diventa ciò che sei! «Ciò che è “maturo” ha ora il valore di “dovuto”. La massima: “diventa quello che sei” è la massima riconosciuta delle macchine; e il compito dell’uomo si limita ora a garantire la riuscita di tale massima mediante l’offerta, la preparazione e la messa a disposizione del proprio corpo. Una generazione fa esistevano numerose massime […] le quali affermavano che tutte le “attitudini” dell’uomo erano sacrosante eo ipso […]. Quel che allora valeva per l’uomo vale oggi per la macchina; è un dovere favorire le sue “attitudini”; soffocarle è un’azione immorale. Le macchine sono i “talenti” di oggi»48.
Inevitabilmente, anche la questione identitaria appartiene alle macchine. Sono esse, e non più l’uomo, a raggiungere la loro piena realizzazione mentre l’uomo, ontologicamente inferiore, è il mezzo per la realizzazione delle macchine. È sempre la macchina, ciò che la macchina esige e che stabilisce che cosa deve diventare corpo. 47 48
Ibidem, p. 290. Ibidem, p. 46.
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In tal senso, il rapporto tra domanda e offerta subisce un «pervertimento» rispetto al curioso fatto che è la domanda a precedere l’offerta, e non il contrario; la stessa domanda è fabbricata e, dunque, rappresenta un prodotto. In questo pervertimento, non è più l’uomo ad essere il soggetto del bisogno e della domanda, bensì la macchina. La macchina, infatti esige che le venga dato ciò di cui ha bisogno, mentre l’uomo deve sforzarsi di esibire un prodotto sempre migliore. L’uomo cioè deve – nel senso di un’obbligazione morale – offrire ciò che la macchina richiede e di cui ha bisogno per funzionare così come potrebbe funzionare; per essere così come deve essere, nella pienezza della sua realizzazione. Ostacolare, bloccare o impedire una tale richiesta è immorale. Si passa, in tal modo, dalla sacralità del corpo umano alla sacralità del corpo artificiale. Gli esperimenti dello Human Engineerig sono secondo Anders dei nuovi «riti di iniziazione» nell’epoca dei robot, identificabili come macchine adulte per cui attraverso il superamento dell’educazione del genere umano, si realizza il superamento dello stesso essere uomini. La speranza dell’uomo di oggi, per Anders, è riposta in questi esperimenti, la cui tragica conseguenza è nella disumanizzazione e privazione della libertà. Eppure, sempre perché la tecnicizzazione ha circondato la dimensione sociale a vari livelli in modo morbido, l’uomo odierno non sembra temere né fatiche né tormenti, poiché legato alla “speranza” tecnica di «forzare i limiti minacciosi della sua mancanza di libertà per acquistare finalmente il summum bonum dell’utilizzabilità totale»49. Il dilemma in questa disumanizzazione dell’umano riguarda il fatto che l’uomo non è affatto turbato dalla domanda «che cosa ne sia di lui?» 50, anzi, egli risponderà con un superficiale «his business»51.
Ibidem, p. 48. Cfr. Ibidem, p. 49. 51 Ibidem. 49 50
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Un mondo «platonicoide» L’uomo di Anders è un uomo che soffre profondamente per la sua unicità. Anders lo chiama il «malaise dell’unicità»52. All’unicità dell’uomo pertiene sia ciò che è legato al dato biologico e, dunque, lo sviluppo comune ad ogni vivente che porta dalla nascita alla morte, sia ciò che supera la dimensione puramente naturale e riguarda l’identità personale di ciascun individuo. Questa unicità imbarazza l’uomo; le macchine, diversamente, non godono dell’unicità giacché in serie sono tutte uguali. Questo malessere fa sorgere nel novello Prometeo il desiderio di diventare un self-made-man, un prodotto, un qualcosa di fatto, disconoscendo il proprio essere creaturale e con un’identità personale. Questa paradossale ed inconsapevole condizione antropologica nasce da quella profonda vergogna rispetto al non-voler-essere qualcosa non-fatto. L’inferiorità rispetto alle macchine, dunque, non solo si riferisce all’umana condizione di essere stato preformato erroneamente, ma anche perché l’uomo che si deteriora facilmente è stato escluso dalla «reincarnazione industriale»53. Anders attraverso il rapporto tra l’uomo e la macchina, riprende i principali e decisivi elementi della metafisica per capovolgerli – come il novello Prometeo – rispetto all’uomo e trasferirli alla macchina. Sembrerebbe che l’uomo, nella progettazione e programmazione, abbia dato in eredità alle macchine la propria dimensione corporeo-spirituale privando, tuttavia, la macchina, della contingenza umana. Infatti, sebbene l’uomo risulti essere il più ottuso tra tutti i suoi prodotti, è anche colui che ha vita più corta, poiché diversamente dagli apparecchi, l’essere umano non gode dell’immortalità. Chiaramente gli oggetti non si danno da sé l’immortalità, ma è l’uomo a conferire loro la reincarnazione industriale che, de facto, come nuova immortalità, in-
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Ibidem, p. 55. Ibidem.
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dica l’esistenza in serie dei prodotti. Nelle fabbriche del neocapitalismo occidentale si assiste, pertanto, ad un fenomeno particolare che Anders indica come «platonismo industriale». «Certo, questo platonismo industriale, questa “immortalità per mezzo della reincarnazione” non è un merito dei prodotti; non c’è bisogno di spender parole sul fatto che essi devono a noi questa loro virtù. Ma ammetterlo non conta nulla contro il nostro assunto. Perché il fatto che noi ci sentiamo inferiori ai nostri prodotti, sebbene li produciamo, è appunto l’oggetto di questa trattazione. Anche in questo caso quel che conta è dunque soltanto la nostra inferiorità: soltanto il fatto che noi stessi […] dobbiamo continuare a portare a compimento il tempo che ci è destinato in antiquata unicità. Ed è proprio questo che costituisce […] un motivo di vergogna»54.
Il rimando ad una terminologia platonica è molto presente nella prima parte dell’opera L’uomo è antiquato I, non solo per la perfezione delle macchine in sé ma anche per la produzione seriale di cui fanno parte. Sebbene questo mondo non sia il mondo delle idee di Platone, è però vero per Anders una tendenza che definisce «platonicoide»55 perché gli oggetti in serie partono da un’idea, dunque sono copie di un modello unificato. La differenza rispetto a Platone è che mentre nel mondo, a causa della materia e della contingenza, le cose risultavano imperfette, nel mondo della tecnica la perfezione e l’immortalità delle macchine sembrerebbe un ostacolo superato. Nell’epoca del «platonismo industriale», dunque, l’esistenza in serie dei prodotti è perpetuata mediante l’idea di garantire ai singoli oggetti la reincarnazione. Ma, di questo aspetto l’uomo non può beneficiarne, spiega Anders (almeno non ancora). Tuttavia, anche se nell’ambito della produzione e del consumo, gli uomini sono considerati interscambiabili («spare man»), l’identità del singolo non può essere sostituita da quella di un altro individuo. A nessun uomo, infatti, è dato di poter sopravvivere a sé stesso 54 55
Ibidem, p. 57. Ibidem, p. 56. 49
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in un suo nuovo esemplare, dal momento che «io sono io» e il «mio proprio io» resterà insostituibile, «credo di ogni humanitas»56. È chiaro che l’uomo non giudica positivamente questa sua condizione. Al contrario la considera come una «spina nella carne», appunto come il «malaise dell’unicità», il malessere dell’unicità, reso ancor più visibile dalla mortalità. «Io ci sono una volte sola, io non torno più»57, diversamente dai prodotti in serie che, riescono a sottrarsi alla morte proprio mediante la loro continua sostituibilità, rispetto alla quale l’uomo rimane escluso. Per l’essere umano, spiega Anders, non è possibile né immaginare un’esistenza in serie, né pensare alla possibilità di sottrarsi alla morte. In un certo qual modo, la consapevolezza di non essere una merce in serie dovrebbe avere l’effetto di un memento mori58. Eppure, nonostante questi “richiami” l’uomo cerca comunque di fuggire dal «malaise dell’unicità» mediante l’iconomania, ovvero la mania delle immagini per cui, il mondo degli uomini diventa un recipiente e occasione di possibili immagini, a cui ci si conforma annullando ogni possibile differenza ontologica. «Ci siamo appena lasciati alle spalle un’epoca in cui la morte naturale era quella innaturale, o perlomeno quella meno comune, in cui il morente che semplicemente spirava era ritenuto una persona invidiabile che […] Ibidem, p. 60. Ibidem. 58 Eppure, oggi, a discapito di quanto scriveva Anders sul finire degli anni ’60, la situazione è piuttosto cambiata. Oggi, infatti, anche per l’essere umano è data la possibilità di un’esistenza in serie, attraverso le nuove tecniche di clonazione artificiale della vita. Ovviamente con la clonazione la morte non è sconfitta, ma si tenta in qualche modo di ovviarla. La ricerca tecno-scientifica, tuttavia, che ripone il suo imperativo categorico nel «se puoi, devi!», non esclude la possibilità di tecniche come l’ibernazione per criogenesi che secondo alcuni potrebbe realizzare una reincarnazione futura, per poter guarire da malattie oggi non curabili. Rispetto, invece, al miglioramento dei difetti che l’umana natura possiede, una possibilità reale consiste nell’eugenetica detta positiva, orientata a migliorare dei caratteri genetici per ragioni non strettamente mediche o terapeutiche, ma per degli “abbellimenti”. 56 57
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sapeva sottrarsi al destino comune del venire ammazzato e che quindi, anche in un’epoca apocalittica, si poteva permettere il lusso, degno del tempo di pace, di una morte individuale»59.
Il problema insito nelle idee platoniche, esplicitato da questo passo di Anders, consiste nel rendere immortale la possibilità stessa del genocidio. Per il filosofo «la maledizione»60 dell’uomo è nell’impossibilità di fermare l’immortalità «degli effetti del nostro agire. L’onnipotenza è il nostro più fatale difetto»61.
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Trasformare e ri-creare l’uomo. Le possibilità della tecnica La rivoluzione che nel corso del XX secolo hanno scosso l’umanità intera, sono definite da Anders nei termini di rivoluzioni interne alla terza rivoluzione industriale. In modo particolare, egli si riferisce a due momenti particolari. Il primo è il fatto spaventoso che l’uomo si sia trasformato in un homo creator; il secondo, ma meno incredibile, è che può trasformare sé stesso in materia prima,
G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 228. In questo passo, Anders si riferisce chiaramente ai campi di concentramento nazisti, in cui le macchine di morte lavoravano con precisione talmente assoluta che della vita non rimaneva neanche un residuo. Ma, oltre ai campi di sterminio, il pensiero di Anders si rivolge alla bomba atomica, «sotto la cui minaccia viviamo». Nell’epoca dell’industria di massa, l’orrore dei campi di concentramento testimonia il fatto anche la morte costituisce un oggetto di produzione. Gli eventi atomici, invece, di Hiroshima e Nagasaki comprovano l’avvento dell’uomo nuovo, la cui produzione consiste prima di tutto nell’autodistruzione. Anders è convinto che, nonostante la brutalità di tali eventi, è possibile che questi siano rimossi dalla memoria; benché non sia detto che sia rimossa la loro ripetibilità. Le pagine di Anders sono davvero della «tristi pagine» sulla condizione umana del XX secolo perché egli si rende conto che qualcosa al suo tempo è cambiato, il problema è che il cambiamento è in peggio. Oggi, infatti, ad essere eliminabile non solo sono “tutti gli uomini” bensì l’umanità intera. Cosicché, anche il sillogismo aristotelico si trova alterato, laddove tutti gli uomini sono mortali, tutti gli uomini sono eliminabili, dunque, l’umanità intera è eliminabile. 60 L. Pizzighella, Introduzione, in G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 21. 61 Ibidem. 59
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ovvero in un homo materia62. Quando Anders parla di homo creator intende l’uomo che non è reso capace di generare prodotti culturali, ma prodotti della natura stessa. È possibile, dunque parlare di “seconda natura” poiché per mezzo della techne si è prodotta la physis63. Infatti, ciò che oggi può essere scoperto e prodotto attraverso la tecnica è un ente che rappresenta un «nuovo tema»64. Oltre al mondo, ad essere oggetto di trasformazione in materia prima è stato anche l’uomo, e ciò ha avuto luogo, per la prima volta, ad Auschwitz. «È noto che dai cadaveri degli internati dei lager […] si estraevano […] i capelli e i denti d’oro, probabilmente anche il grasso, per poi far uso di questi materiali. Così com’è noto che i soldati americani tornavano dal Pacifico portando con sé denti d’oro giapponesi: ho visto con i miei occhi sacchetti pieni di denti, i GIs me li mostravano – lo so quanto suona incredibile – ingenuamente. Sì, ingenuamente perché per loro era naturale vedere nel mondo una materia prima e altrettanto considerare come parte di questo mondo i loro simili giapponesi»65.
Queste modalità disumane di “usare” l’uomo come se fosse una fonte di preziosa materia prima, è rimasto un fenomeno eccezionale. Molto più frequenti, invece, sono quelle azioni in cui gli uomini producono da altri uomini «qualcosa di vivente in sé e per sé»66 e non materia morta. In tali circostanze, l’homo creator e l’homo materia coincidono. Creator e materia non coincidono, Cf. G. Anders, L’uomo è antiquato II, pp. 14-15. Cf. Ibidem, p. 15. Anders specifica che «non è solo il mondo ad essere trasformato in modo rivoluzionario da questa possibilità di fabbricare delle “novità rivoluzionarie”, bensì anche l’uomo che in tal modo si è innalzato dallo stadio di homo faber a quello di homo creator, e se questa non è una rivoluzione, allora io non so davvero cosa significa questa parola. Che anche questa rivoluzione apocalittica che ci mette in grado di distruggere il mondo abbia preso le mosse nei laboratori della fisica atomica, non è certo un caso». Ibidem. 64 Ibidem, p. 15. 65 Ibidem, p. 16. 66 Ibidem. 62 63
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però, a livello personale; tuttalpiù l’uno funge da creator e l’altro da materia. L’odierna difficoltà, tuttavia, è che non ci si accontenta semplicemente di trasformare gli esseri viventi, quanto piuttosto di creare esseri viventi da altri esseri viventi e che, in un certo senso, spiega Anders, è già in uso, ad esempio, con l’inseminazione artificiale. Per mezzo dell’inseminazione artificiale nell’utero della donna, infatti, gli embrioni che si sviluppano diventano degli uomini normali; pertanto, ad essere “artificiale” è solo la strada, diretta o indiretta che sia. «Ma oggi non ci si accontenta più di un tale artificio. E con ciò vengo a parlare di un modo di produzione che dovrebbe essere classificato come una tale novità nella tipologia dei modi di produzione umani e come ulteriore “rivoluzione industriale” […]. Parlo qui del cosiddetto cloning, della manipolazione dei geni; cioè della possibilità di produrre nuovi “inauditi” e non previsti generi e specie, o persino duplicati d’individui esistenti. Io non so se la clonazione dei geni sia già stata realizzata. Ma poiché sappiamo che l’imperativo odierno dice: “Ciò che si può, si deve fare”, ovvero: “il fattibile è obbligatorio”, ciò che fino ad oggi era solo possibile è presente come un presagio mozzafiato»67.
Prima della clonazione, gli esseri viventi venivano trasformati entro una gamma di variazioni concesse a tutte le specie; con la clonazione, invece, gli attuali cloners tentano di trasformare il tipo fisiologico dell’essere vivente. Il che significa «miscelare»68 insieme esseri non previsti dalla natura. Di questi, oltretutto, non si Ibidem, p. 17. La prima clonazione, risale al 1997 (diciassette anni dopo la pubblicazione dell’opera). Il 27 febbraio di quell’anno la rivista Nature, annunciò l’avvenuta clonazione di una femmina di pecora: Dolly. Poiché si trattava di un animale (il primo nella storia a ricevere un nome proprio), non si sentì l’urgenza di discutere sulle implicazioni legali ed etiche connesse con la possibilità di clonare l’uomo. Il trasferimento di quella tecnica dalla zoologia all’antropologia non era visto come un pericolo. Tuttavia, questa clonazione è il risultato di ricerche precedenti, che erano oltretutto già note allo stesso Anders. Come le sperimentazioni compiute sulla cellula uovo di una rana, compiute dagli statunitensi R. Biggs e T. King nel 1952. 68 Ibidem, p. 18. 67
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sa se includerli tra le specie ancora sconosciute, o in quelle capaci di abolire l’unicità di altri individui69. Se da un lato la guerra atomica significa la distruzione degli esseri viventi, uomini inclusi, la clonazione significa la distruzione della specie “uomo” attraverso la produzione di nuove specie. Pertanto, la domanda antropologica circa la natura dell’uomo si risolve nel fatto che egli non ha alcuna natura; con la tragica conseguenza che l’uomo un giorno, potrebbe essere usato ad libitum come materia. Profeticamente, Anders aveva intravisto quanto sarebbe accaduto qualche decennio più tardi. Infatti, l’applicazione delle odierne tecnologie alla vita umana e le sperimentazioni sui viventi, permette di utilizzare l’uomo come materia prima (in senso fisiologico) da manipolare, trasformare, perfezionare e, insomma ri-creare; cercando di legittimare la bontà di tali operazioni qualificandole come terapeutiche. La massima kantiana che chiedeva di agire sempre considerando la persona mai semplicemente come un mezzo, ma sempre come un fine, nell’era tecnocratica non sembra avere più alcun valore, in quanto oggi risulta antiquata quanto l’uomo, non perché si sia superato il problema della strumentalizzazione dell’uomo, ma per quello che si è verificato nel frattempo. Lo sfruttamento dell’uomo nell’era della tecnocrazia, il suo utilizzo in qualità di materia prima, non è poi così diverso dall’idea di uomo che si è sviluppata nel corso della storia delle scienze meccanicistiche, in cui l’homme machine è considerato come macchina70. Quella condizione, di fatto, oggi si ripete su un altro piano
In questo modo, la terrificante chimera della mitologia greca, diventa realtà: «Quale chimera è dunque l’uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio?». B. Pascal, Pensieri, § 438, a cura di A. Bausola, Bompiani, Milano 20125, p. 237. 70 L’idea dell’«uomo macchina» è possibile incontrarla già con Cartesio a partire dal XVI secolo. Cartesio, infatti considerava il vivente come un automa ti tipo inerziale. Il principio di inerzia, fondamento di tutte le leggi della meccanica moderna, era sufficiente per Cartesio per fondare lo specifico della vita, ad 69
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e, dal momento che il mondo è considerato innanzitutto come materia prima partendo dal presupposto che «non esiste nulla che non sia sfruttabile»71, anche l’uomo – un pezzo del mondo – deve essere considerato come tale. L’uomo, considerato come superfluo, come materia prima sfruttabile e manipolabile, sostituisce il suo lavoro con l’automatismo di apparecchi, al fine di realizzare una condizione nella quale è necessaria la minor quantità possibile di lavoratori. Il compito della scienza odierna, allora, non sarà di rintracciare l’essenza segreta o le leggi immanenti del mondo delle cose, piuttosto di scoprirne la loro segreta usabilità. Il nesso mondo-io è chiaro quindi laddove il mondo non è semplicemente un mero prototipo da cui si potrebbe dare qualcosa ma, il prototipo «di ciò di cui siamo obbligati a fare qualcosa»72; insomma un «mondo per noi»73 non in un senso idealistico ma idealistico-programmatico, per cui l’essente è correlato da ciò che è usabile. Oltre la vergogna del morire «Non siamo ancora arrivati a questo punto; ma non è un’esagerazione il sostenere che sono sempre meno quelli di noi che muoiono semplicemente per la stanchezza di vivere o per la debolezza della vecchiaia. Semplici casi di morte sono ormai antiquate rarità. Per lo più la morte viene prodotta. Si è fatti morire. Noi uomini d’oggi non siamo mortali; piuttosto, in primo luogo, uccidibili»74. eccezione delle operazioni intellettive (la res cogitans). Questa teoria venne ripresa nel XVII da un altro francese, de La Mettrie, il quale sosteneva che gli uomini sono simili a macchine. Egli, infatti, legava la teoria cartesiana alla fisica newtoniana e alla versione del principio di inerzia come azione/reazione. A differenza di Cartesio, però, de La Mettrie estende il concetto di automa inerziale all’uomo nel suo complesso, superando in tal modo il dualismo cartesiano che identificava solo il corpo dell’uomo come automa inerziale, attribuendo le funzioni intellettive alla sostanza spirituale dell’anima. Cf. G. Basti, Filosofia dell’uomo, ESD, Bologna 20083, pp. 144-145. 71 G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 20. 72 Ibidem, p. 26. 73 Ibidem. 74 Ibidem, p. 226. 55
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In questo passo non solo si coglie la profondità della riflessione antropologica andersiana, ma emergono anche questioni bioeticamente rilevanti come la medicalizzazione della morte. Oltre alla vita nascente anche la vita morente è stata privata del proprio naturale accadimento. Pure la morte è prodotta tecnicamente; l’uomo non è più morente ma uccidibile. Questo avviene nell’era in cui il fare sostituisce l’essere; ed in questa metafisica del fare non possono esistere eventi esterni al fare stesso, tantomeno può esistere qualcosa che non sia utilizzabile in qualche evento della produzione. Il fatto che si diano ancora avvenimenti che esistono in sé e per sé, e che non servono come materiale o come fonte di energia, dall’uomo dell’era tecnocratica, sarebbe il più scandaloso degli sprechi. La morte costituisce il limite per eccellenza dell’uomo, la massima certezza della sua vita, dalla quale tuttavia non può sottrarsi. Non si può non morire, la morte fa parte dell’esistenza umana al punto tale che ogni vita nascente porta in sé già il vestigium della morte. Ma, nell’era del fare tecnico, anche la morte ha ormai perduto la sua naturalezza, anche la morte può essere rimossa. Ciò che Anders intende dire, non riguarda la possibilità di una reincarnazione (in serie) per l’uomo come per le macchine. Egli, piuttosto, si riferisce ai modi del morire, anch’essi trapassati dal naturale all’artificiale. Secondo il giudizio di Anders, allora, l’uomo non muore (di morte naturale, per età o malattie) bensì muore perché è ucciso, se non dal napalm, dalla radioattività o dai gas; perché si muore anche concentrati nelle fabbriche cromate della morte. In queste ultime, infatti, gli uomini non vengono propriamente assassinati, ma sono così strettamente inseriti nell’apparato da diventare una parte di quell’apparato e così, «il nostro morire diventa una parte delle funzioni dell’apparato e la nostra morte un evento momentaneo all’interno dell’apparato stesso»75. Oltre a questo resoconto, che chiaramente Anders riprende da un contesto storico ben 75
Ibidem, p. 227.
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preciso, egli tenta, benché inutilmente, di mettere d’accordo progresso e mortificazione della morte, con la conseguenza di spogliare la morte del suo orrore, occultando la vergogna del morire. Per quanto non si possa impedire che si continui a morire, ciò che riesce al progresso tecno-scientifico è di spogliare la morte del suo orrore e di occultare la vergogna di morire. Detto altrimenti, è possibile fabbricare un mondo tutto positivo, privo di suture e di fessure attraverso le quali si possono intrufolare spiacevoli domande sulla morte76. «Dov’è o morte, la tua vittoria? Dov’è o morte, il tuo pungiglione?» (1Cor 15, 55), diventeranno domande superflue, proprio come l’uomo. L’uomo non solo è mortale ma, a differenza dei suoi prodotti, non conosce la data della propria “scadenza”, mentre la nuova virtù che l’uomo attribuisce al mondo delle cose è nella loro riproducibilità, della quale l’uomo però non può partecipare, in quanto condannato alla sua specifica malattia mortale: la sua unicità. Dietro a questo drammatico resoconto di Anders, vanno rintracciati alcuni aspetti più profondi, tra i quali l’assenza del fine che, la fede nel progresso ha tolto dall’uomo. Manca cioè quella dimensione teleologica che gli consentiva di prendere in considerazione un fine e, dunque, la sua stessa morte: «non si crede più a una fine, non si vede una fine»77. Se prima, nelle epoche passate, alcuni eventi storici talvolta sollevavano ondate di speranza escatolo-
Anders argomenta questo aspetto del discorso, portando come esempio concreto gli USA in cui, la morte è ormai divenuta introvabile. Pertanto, è ritenuto realmente essente solo ciò che diventa sempre migliore. Della morte l’uomo non sa che farsene, a meno che non la si releghi in qualche posto in cui partecipi indirettamente della legge universale del miglioramento qualitativo. Ormai, il vivente non è più un «moriturus», semmai «il defunto è uno che, dopo un certo change of residance, continua altrove l’esistenza che aveva condotto qui». Tuttavia, questa immortalità non consiste nell’eternità ma, nel non finire la vita di questo mondo. Cf. G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 264. 77 G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 260. 76
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gica, accompagnate dal terrore apocalittico, ora il lato apocalittico rimane nell’ombra, o addirittura cancellato. Per il credente nel progresso, infatti, la storia è a priori e senza fine, in quanto vede in essa una lieta predestinazione verso un continuo miglioramento, un processo che dunque avanza in modo imperturbabile e inarrestabile. Pertanto, alla luce di questa credenza, il negativo diviene l’irreale in quanto esiste solo il meglio, non c’è buono e non c’è cattivo e, se c’è il cattivo esso non è altro che qualcosa di non-ancora migliore. Per il credente nel progresso questo eterno non-finire, questa cattiva eternità, costituisce una legge fondamentale di validità universale che, pertanto, si estende anche alla sua vita personale. Non potendo così prendere in considerazione la sua vita personale, egli «storna da sé la sua propria morte»78. Con la speranza tecnologica – applicata anche in campo medico – è resa possibile finanche l’espropriazione della morte79. «Per quanto fosse precipitosa la nostra corsa verso il mondo del progresso, correvamo da miopi e la nostra effettiva visione del futuro, […], rimaneva di una ristrettezza addirittura provinciale. […] Perché il futuro non “viene più”; non lo consideriamo più come qualche cosa “che viene”; lo facciamo. E lo facciamo in modo tale, che contiene in sé la sua propria alternativa: la possibilità della sua cessazione, la possibile assenza di futuro»80.
Altro grande assente nell’epoca dell’homo technicus sarà allora anche il futuro. Il borghese credente nel progresso – e non il rivoluzionario escatologico – dinanzi al futuro era «più o meno» cieco. Una volta posti davanti al dislivello prometeico, il proprio compito è di superarlo, di non rimanere indietro, per non rimanere «inferiori a noi stessi»; il futuro, dice Anders cercando di farsi
Ibidem, p. 263. A. Pessina, Eutanasia. Della morte e di altre cose, Cantagalli, Siena 2007, p. 73. 80 G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 265. 78 79
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spazio in un modo che sembra destinato alla fine, deve essere «captato da noi»81. Quale angoscia dinanzi ad un’umana esistenza resa totalmente passiva dal fare tecnico? La risposta di Anders è, nessuna. L’angoscia stessa è stata mercificata e, mentre molti «parlano di angoscia» pochi parlano «per angoscia»82, nel senso che pochi provano questo sentimento. L’angoscia, infatti, non c’è perché «siamo semplicemente degli analfabeti dell’angoscia»83. L’uomo è ormai diventato incapace persino di provare angoscia e indignazione, non si sente più provocato ma solo programmato. L’uomo, insomma, non è più reso in grado di esercitare la propria libertà, tantomeno è capace di individuare il pericolo. Tutto ciò, dunque, affonda le sue radici in una particolare qualità della natura umana, ovvero il dislivello prometeico, per cui «prometeica» non è solo la vergogna dell’uomo dinanzi agli oggetti, poiché c’è anche una differenza che si manifesta a livello fondamentale tra le stesse facoltà umane. Riguardo a tali osservazioni, ciò che dovrebbe mettere agitazione non è tanto il fatto che l’uomo non sia onnipotente e onnisciente ma che «nel sentire siamo inferiori a noi stessi»84. L’epoca dell’immagine del mondo Una sorte già decisa Altro tema che Anders affronta ne L’uomo è antiquato è la questione della massificazione delle immagini a causa della cultura di massa. Attraverso la riproduzione smisurata delle immagini, per mezzo della fotografia, dei film, delle immagini-fantasma della televisione e dei cartelloni pubblicitari, sarebbe consentito all’uomo
Ibidem, p. 266. Ibidem, p. 248. 83 Ibidem, p. 249. 84 Ibidem, p. 253. 81 82
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il superamento del difetto della sua unicità, per trasformarsi in produzione riprodotta, acquistando un’esistenza multipla, di massa. Se da un lato le immagini riescono a oltrepassare l’unicità portando la rappresentazione del corpo oltre i limiti spazio-temporali del reale, tuttavia, ciò avviene sempre attraverso le immagini, che diversamente dai prodotti in serie riescono ad espandersi ovunque nella loro concretezza e perfetta identità. L’uomo, dunque, non è plasmato solo dalle macchine e dai prodotti ma, soprattutto, dai mezzi di comunicazione di massa, radio e televisione, che con la loro funzione definiscono lo stile di vita degli individui e che decidono al suo posto. In questo senso non si può scegliere se farne un buon uso o meno, ma nella loro totalità, nell’essere rivolti a tutti, questi riescono a oscurare la distinzione tra mezzo e fine. L’uomo, tra realtà ed apparenza, tra familiarizzazione e alienazione, è convinto di essere sovrano del mondo, di possederlo e di conoscerlo ma, in realtà, ne è totalmente estraniato. Il vero problema è che non se ne rende conto, perché tutto agisce all’ombra della neutralità. L’esistenza umana in un mondo dominato dalla tecnica e dal neocapitalismo, per Anders, è analoga a quella di un uomo condannato a morte, a cui è data la possibilità di scegliere cosa mangiare come ultimo pasto prima dell’esecuzione85. Questa illusione di libertà, in realtà, non sembra essere molto diversa dalla libertà vissuta dall’uomo del XX secolo, poiché anche «noi siamo liberi di decidere se preferiamo che il nostro oggi ci venga servito sotto forma di esplosione atomica o sotto forma di gara di bobsleigh»86. In altri termini, per quanto all’uomo sia data una possibilità di scelta, quest’ultima è già condizionata dal “sistema” in cui si trova a vivere. La sua scelta, dunque, è già stata scelta, e della sua sorte è già stato disposto da quel “sistema”, il quale ha deciso che, ciò che «Per il loro ultimo pasto i condannati a morte hanno la libertà di scelta tra i fagioli serviti con lo zucchero o con l’aceto». Questo passo citato all’inizio dell’introduzione al testo da Anders è un resoconto giornalistico. Cf. Ibidem, p. 11. 86 Ibidem. 85
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l’uomo sceglie, lo sceglie in qualità di consumatore. Questa, infatti, è la nuova humanitas dell’uomo moderno: l’essere un consumatore. All’uomo-consumatore di prodotti, di apparecchi, di trasmissioni televisive o radiofoniche, tuttavia, non è più data l’esperienza diretta del mondo. Il mondo è ridotto ad un ambiente che, all’insegna del progresso tecnico e industriale, mette sul mercato prodotti che gli uomini sono chiamati a consumare. Questo ambiente/sistema è senza via di scampo, perché è ormai diventato un’abitudine, una mentalità comune, uno stile di vita. Pertanto, come già denunciato dai francofortesi e soprattutto da Marcuse, gli uomini neppure si accorgono di essere prigionieri di una tale nonlibertà ma, se qualcuno dovesse rendersi conto di questa condizione, anche se rifiutasse il suo ruolo di consumatore, non cambierebbe lo stato attuale del mondo. «Ebbi occasione di enunciare queste idee a un convegno culturale e mi sentii obiettare che in fin dei conti si è liberi di chiudere il proprio apparecchio, anzi persino di non comperarne, e di rivolgersi al “mondo reale” e solo a quello. Cosa che io negai. E precisamente perché è stato disposto di chi si astiene non meno che del consumatore: infatti, che noi si voglia partecipare o no, partecipiamo, perché siamo fatti partecipare. Qualsiasi cosa facciamo o rinunciamo a fare – il nostro sciopero privato non cambia nulla al fatto che ormai viviamo in un mondo per il quale non hanno valore il “mondo” e l’esperienza del mondo, ma il fantasma del mondo e il consumo di fantasmi»87.
Inutile risulterebbe opporvisi. La dura critica di Anders è evidentemente rivolta agli innovativi mezzi di comunicazione di massa e, in particolar modo, alla radio e alla televisione che veicolano il mondo reale, il mondo degli “accadimenti”, in immagini fornite a domicilio. Questi apparecchi, però, non rappresentano semplicemente dei mezzi giacché, per essenza il mezzo è qualcosa di secon-
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Ibidem. 61
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dario, di successivo alla libera determinazione del fine da raggiungere, esso è «introdotto ex post allo scopo di “mediare” quel fine»88. Gli apparecchi, in questo caso, non sono mezzi ma «la decisione preliminare» presa «nei nostri riguardi prima che tocchi a noi decidere»89.
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«Sì, proprio la. Al singolare. Perché non esistono apparecchi singoli. La totalità è il vero apparecchio. Ogni singolo apparecchio è, dal canto suo, solo una parte di apparecchio, solo una vite, un pezzo del sistema degli apparecchi; un pezzo che in parte soddisfa i bisogni di altri apparecchi e in parte impone a sua volta, con la sua esistenza, ad altri apparecchi il bisogno di nuovi apparecchi»90.
Il mondo, dunque, è ormai individuabile in un sistema di apparecchi e, qualunque sia il loro scopo, sono realtà che plasmano l’uomo, benché egli non vi prenda parte come protagonista attivo, ma consumandone solo l’immagine. Anders parla per l’appunto dell’«odierna inondazione globale di immagini»91, per cui l’uomo contempla le immagini del mondo intero. L’essere umano è plasmato e alterato, formato e deformato, non da oggetti mediati da mezzi ma, dagli stessi congegni. Questi, non sono solo oggetti di un possibile impiego, in quanto hanno una propria struttura e una funzione che determina il loro impiego, «e con ciò lo stile delle nostre occupazioni e della nostra vita, insomma: noi»92. Solitudini di massa «L’uomo non è più un essere responsabile che possa esprimere con la propria bocca una propria opinione. Egli è molto più un succube, il quale infatti ascolta sempre e soltanto; e precisamente, ascolta quello che viene somministrato attraverso la radio e la televisione, ma su cui egli, rimanendo la relazione unilaterale, non può rispondere. Questo ascolto è caratteristico Ibidem, p. 12. Ibidem. 90 Ibidem. 91 Ibidem, p. 13. 92 Ibidem, p. 98. 88 89
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della non libertà che l’uomo ha prodotto attraverso la propria tecnica e della quale poi egli stesso cade vittima […]. Noi siamo esseri “d’occhio” e “d’orecchio”, e non esseri responsabili. Con i mass media si è inventato anche l’eremita di massa»93.
Il processo di massificazione, oggigiorno, ha un andamento contrario alle tendenze del passato, che Anders non esita a definire «solistico»94. Ciò accade, quando ognuno può consumare la propria merce «tra le proprie quattro pareti»95. Il consumatore, infatti, è declassato alla condizione di lavoratore a domicilio non stipendiato, nel senso che lavora e coopera alla produzione dell’uomo di massa. Ma dov’è allora la massa? Anders risponde che essa non è in alcun luogo. “Massa” come “massificazione” ormai va intesa come una qualità di milioni di singoli; infatti, ad ogni singolo individuo non solo viene consegnata la propria de-individualizzazione ma, con ciò, anche l’illusione della privatezza. Per impedire il formarsi di una vera e propria massa, spiega Anders, composta da migliaia o milioni di individui, viene prodotta massificazione per altrettanti individui, attraverso il consumatore isolato, in modo tale da sostituire il substrato “massa” con l’attributo “massificato”96. Un esempio di consumo di merce di massa da parte di una massa è il cinematografo, rispetto al quale la merce fabbricata è prodotta in stereotipi, ma senza che si realizzi la perfetta congruenza tra produzione di massa e consumo di massa. Ai produttori, tuttavia, non interessa tanto la «massa ammassata», quanto piuttosto la massa suddivisa nel maggior numero di acquirenti: «non la possibilità che
G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, pp. 92-93 (corsivo mio). Già Heidegger, diversi anni prima in Essere e tempo, affermava che con l’avvento della tecnica e, con la conseguente massificazione solistica, l’individuo avrebbe raggiunto un’esistenza impersonale, che egli indentificava nel «si» («Man») anonimo, generico, impersonale. 95 G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 71. 96 Cf. Ibidem, pp. 72-73. 93 94
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tutti consumino una stessa cosa, ma che ognuno spinto da uguale bisogno […] comperi la stessa cosa»97. Oltre a constatare che l’individuo appartiene ad una massa che consuma prodotti in massa, Anders riconosce nell’esistenza umana una nuova condizione: quella dell’«eremita di massa»98. Sebbene la definizione sembri contraddittoria, questa condizione appartiene a milioni di uomini. L’eremita di massa, infatti, si contraddistingue per il fatto stesso di essere separato da ogni altro suo simile, pur essendo tuttavia «uno uguale all’altro, a guisa di eremiti nel loro guscio […] per non perdere, […], nemmeno una briciola del mondo in “effige”»99. In un certo qual modo tutti sono impiegati e occupati come lavoratori a domicilio, un genere certamente inconsueto che, «paga per vendersi», ovvero lui stesso paga i mezzi di produzione, impiegando i quali si lascia trasformare in uomo di massa. «Ma anche se ci si rifiuta di compiere questo passo sconcertate, […], non si potrà negare che per foggiare il tipo oggi richiesto di uomo di massa non è più necessario l’effettivo ammassamento in forma di riunione di massa. […] Non c’è bisogno della strategia di massa nello stile di Hitler: se si vuole ridurre l’uomo a uno zero […] non occorre più affogarlo in maree di massa, non occorre cementarlo in una costruzione massiccia fatta di masse. Non c’è modo migliore di togliere all’uomo la sua personalità, la sua forza di uomo, di quello che preserva apparentemente la libertà della personalità e il diritto all’individualità»100.
L’uomo, pertanto, non è più soggetto libero di pensiero e azione ma, consumatore e compartecipe di un sistema che ha già deciso per lui e per le sue stesse scelte. Questo processo, oltretutto, ha luogo in casa propria, in solitudine, o meglio, tra milioni di solitudini. Ovviamente, queste esistenze isolate che consumano in massa non sono chiamate con il loro nome proprio; al contrario le si presenta G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 99. Ibidem, p. 100. 99 Ibidem. 100 Ibidem, p. 101. 97 98
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come un’opportunità di rinascita per la famiglia e la vita privata. In realtà, questo tipo di consumo è destinato a disgregare l’intero nucleo familiare e, a rendere individualista la vita privata. Ormai, ciò che domina in casa per opera della televisione è il mondo esterno, reale o fittizio che sia, mentre la realtà della casa perde ogni validità, diventando una «pallida larva»101. Il paradosso è chiaro: i nuovi mezzi rendono vicino ciò che è lontano, nel tempo e nello spazio; ma a causa di questi mezzi, la casa, regione di prossimità, diventa luogo asettico di lontananza. La struttura familiare diventa quella di un pubblico in miniatura, che assorbe il mondo esterno trasformato in immagini e fornito a domicilio. Tutto diviene presente, hic et nunc, ma senza sostanza. «Già da alcuni decenni si era potuto notare che il mobile simbolo sociale della famiglia, il massiccio tavolo centrale della stanza di soggiorno, che riuniva la famiglia intorno a sé, cominciava a perdere la sua forza di attrazione, sembrava antiquato, anzi era già scomparso nei nuovi arredamenti. Ma soltanto ora esso ha trovato un suo vero successore, per l’appunto nel televisore […] l’apparecchio rappresenta e incarna proprio il decentramento della famiglia, la sua eccentricità; esso è il desco familiare di segno negativo. Mentre il desco rendeva centripeta la famiglia […], lo schermo imprime alla famiglia una direzione centrifuga»102.
I membri della famiglia non sono più seduti l’uno di fronte all’altro, bensì l’uno accanto all’altro; non più volti, ma solo uno schermo; non più persone, ma solo spettatori. In questo modo, «la possibilità di vedersi l’un l’altro, di guardarsi, è dovuta solo a una svista; quella di parlarsi […] soltanto a un caso»103. La condizione Ibidem, p. 102. Trent’anni più tardi, durante un’intervista con Mathias Greffrath, contestò che esistesse ancora la democrazia, sostituita dai mass media che creano un contesto di confuse opinioni. La greca δόξα sostituisce ancora una volta la conoscenza profonda del reale. «Da quando ci sono i mass media e da quando i popoli del mondo siedono confinati davanti al televisore, vengono riempiti di opinioni». G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 92. 102 G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 103. 103 Ibidem. 101
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di «solisti del consumo di massa», tuttavia, non è un’eccezione ma è una condizione condivisa con milioni di individui. La stanza di soggiorno si è trasformata così in un locale in miniatura e il cinematografo è ormai diventato il modello della casa. Agli eremiti di massa, non solo è tolta ogni libertà di agire, ma sono anche privarti della loro parola. Gli apparecchi, infatti, parlano al loro posto a coloro che siedono davanti allo schermo, annullando la loro capacità di esprimersi, l’occasione di parlare e, forse, anche la stessa voglia di parlare. Insomma, «gli apparecchi, togliendoci la parola, ci trasformano in minorenni e subordinati»104. Non si può più dire che si soffermano l’uno con l’altro, perché vengono intrattenuti da una terza persona, l’unica ad avere voce. I nuovi analfabeti, dunque, sono coloro per i quali la parola non è più qualcosa che si fa ma che si riceve. Il loro logos è del tutto differente da quello che Aristotele aveva voluto indicare con ζὧα λόγον ἒχοντα e il risultato sarà ovunque il medesimo, ovvero un tipo d’uomo che, non essendo più lui a parlare, non ha più nulla da dire, ma si limiterà – perché limitato – a udire, sarà soltanto un «ubbidiente», «un subordinato»105. «Non solo, anche il sentire è diventato più rozzo e più povero, e dunque l’uomo stesso; e ciò perché l’“intimo animo” dell’uomo – la sua ricchezza e la sua finezza – non ha consistenza senza finezza e ricchezza di linguaggio; perché non è vero soltanto che il linguaggio è l’espressione dell’uomo, ma anche che l’uomo è il prodotto del linguaggio; insomma perché l’uomo è tanto articolato quanto egli stesso articola; e tanto inarticolato quanto non articola»106.
La condizione eremitica dell’uomo contemporaneo fa evincere il senso antropologico della solitudine. L’eremita è l’esule, un
Ibidem, p. 104. In un sistema conformato dalla tecnica, pertanto, la «differenza specifica» dell’uomo, ovvero λόγον ἔχειν, il possedere la parola, sparisce. 106 Ibidem, p. 106. 104 105
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essere errante declassato rispetto all’homo viator che si trova a vagare in modo anonimo e nel nascondimento verso una nuova mèta. Ma l’eremita esprime anche l’essenza della condizione umana bloccata dai ritmi dell’industria delle macchine in cui ciascun individuo è al pari di una monade. L’oggetto della metafisica di Leibniz fu argomento di discussione tra Anders e la moglie Hannah Arendt negli anni Trenta. In un’accesa discussione tra due coniugi sulle monadi leibniziane, Anders sosteneva non solo un approccio di tipo ateista ma anche acosmistico per cui il mondo tenderebbe alla disgregazione: «Si tende infatti a parlare di “individuale” e ci si sente tranquillizzati da questo vocabolo piacevole e altisonante […]. E anche l’affermazione che queste monadi, nonostante la loro totale cecità reciproca, stiano bene insieme le une con le altre grazie a un’“armonia prestabilita” […] non può essere accettato da nessun uomo sensato […]. Nessuna cellula del corpo sa come mi chiamo, che io ho un nome. A nessun viene in mente chi io sono, che io sono»107.
Alienazione, neutralizzazione e familiarità. Il mondo fornito a domicilio La cecità reciproca delle monadi si riflette sulla cecità reciproca degli uomini a cui viene meno sia la domanda antropologica che etica (dell’essere e dell’agire). Il mondo nel quale l’uomo è, in senso heideggeriano, gettato è un mondo alienato, offertogli come se esistesse per lui, facendolo sentire il suo sovrano, sebbene gli sia servito attraverso immagini. E, di questo mondo, l’uomo è sostanzialmente un consumatore. Rispetto ai ragionamenti esposti da Anders sulla condizione della società attuale, ne consegue che sono gli avvenimenti che vanno incontro all’uomo e non il contrario, cosicché «non siamo più “nel mondo”, ma soltanto consumatori di 107
G. Anders, La battaglia delle ciliegie, pp. 17-19. 67
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esso»108 che, si presenta sotto forma di immagine, e dunque, di fantasma. Ma se il mondo è ridotto a fantasma, il consumatore è altresì da considerare un idealista. Ciò che ne deriva è che, dato che il mondo entra direttamente nelle case degli uomini-consumatori, è ormai superflua ogni scoperta ed esperienza diretta del mondo stesso. «Certo, a prima vista, questa immagine del nostro contemporaneo può apparire deformata. Di solito, infatti, simboli dell’uomo odierno sono considerati, al contrario, l’automobile e l’aeroplano e lo si è persino definito homo viator, l’essere che viaggia […]. Ma ci si domanda se ciò sia giusto. L’importanza del viaggiare non consiste per lui nell’interesse per il paese che attraversa o per luoghi dove si fa spedire o spedisce sé stesso come un pacco espresso; non viaggia per acquistare esperienza, ma perché è affamato di onnipresenza e di rapido mutamento in sé e per sé»109.
Sebbene l’uomo, eremita tra molti, ormai viva in un mondo alienato e fornito in casa, questo mondo resta comunque un mondo familiarizzato, per cui anche la res più estranea risulterà familiare. L’estraneità gli diventa familiare, annullando ogni differenza tra ciò che è distante e ciò che è più prossimo, cosicché tutto diventa vicino senza differenza alcuna. Dietro questa (pseudo)familiarizzazione del mondo si mostra quella che Anders definisce una «democratizzazione dell’universo»110, il cui senso risiede nel fatto che, in un universo in cui ogni cosa risulta essere familiare sono applicati gli stessi principi della parità dei diritti e della tolleranza di tutti. È, tuttavia, evidente che questa familiarizzazione opera in qualità di fenomeno di neutralizzazione del mondo: «anche la democrazia […] è una forza di neutralizzazione»111. È il caso, ad esempio, della bomba a idrogeno fatta esplodere il 7 marzo 1955, chiamata «Grandpa», ovvero «nonnino». La forza neutralizzante fondamentale del giorno d’oggi non G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 107. Ibidem, p. 111. 110 Ibidem, p. 116. 111 Ibidem, p. 117. 108 109
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è naturalmente di natura politica, bensì di natura economica, è il carattere di merce di tutti i fenomeni. La familiarizzazione, pertanto, si rivela essere una forma raffinata di mascheramento dell’alienazione stessa. L’uomo infatti è convinto di essere sovrano del mondo, di possederlo e di conoscerlo ma, in realtà, ne è totalmente estraniato e non se ne rende conto. La familiarizzazione, in questo caso, veste la maschera dell’alienazione, presentando un mondo fatto di immagini familiari caratterizzate dal benessere e dalla comodità. Alienazione e familiarizzazione lavorano insieme, nella misura in cui «nella ferita dell’alienazione inferta da una mano, l’altra versa il balsamo della familiarità»112. Anche se la familiarizzazione non derivasse dall’opera di mascheramento e di inganno, resterebbe comunque innegabile che essa sia alienante. Infatti, sia che si allontani ciò che è vicino, sia che si renda intimo ciò che è lontano, in entrambi i casi l’effetto della neutralizzazione risulterebbe essere il medesimo. La neutralizzazione, infatti, distorce il mondo e la posizione dell’uomo in esso. Il suo essere-nel-mondo, infatti, è strutturato in modo tale che il mondo sia suddiviso intorno all’uomo. Il rapporto uomo-mondo, a tal punto, diventa indubbiamente un rapporto unilaterale ed univoco, per cui il mondo che non sarà né presente né assente, diventerà un fantasma. «Non è prerogativa della reale presenza che il rapporto uomo-mondo sia reciproco? Questo rapporto non è qui mutilato? Non è diventato unilaterale: nel senso cioè che l’ascoltatore può percepire il mondo, il mondo invece non può percepire l’ascoltatore? L’ascoltatore non è diventato unilaterale: nel senso cioè che l’ascoltatore può percepire il mondo, il mondo invece non può percepire l’ascoltatore? L’ascoltatore non è condannato per principio al don’t talk back? Questo mutismo non significa impotenza?»113.
L’uomo, attraverso il consumo solistico delle immagini trasmesse da ogni punto del globo e fornite a domicilio, pensa di essere 112 113
Ibidem, p. 120. Ibidem, p. 125. 69
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ovunque ma, il consumo di molteplici “ovunque”, tra loro diversi, lo abitua ad una simultaneità schizofrenica. Questa condizione emotiva, lo rende incapace di gestire il proprio tempo libero, l’otium dal lavoro di consumatore a domicilio. Eppure, da un altro punto di vista, si potrebbe interpretare l’unilateralità in senso opposto e dunque, come garanzia di libertà, grazie a cui è possibile prendere parte a ogni avvenimento a distanza, restando tuttavia invulnerabili. Si potrebbe altresì obiettare che radio e televisione forniscono solo immagini e rappresentazioni, ma nulla di effettivamente e concretamente presente. L’immagine, insomma, crea difficoltà per la sua stessa struttura. Essa, infatti, è costituita da una «ambiguità ontologica»114, in quanto gli avvenimenti trasmessi sono al tempo stesso presenti e assenti, reali e apparenti, «ci sono e al tempo stesso non ci sono: perché sono fantasmi»115. L’immagine totale del mondo, pertanto, si presenta allo scopo di far scomparire il mondo dietro la sua immagine che, mentre informa inganna. Tra realtà e apparenza Il difetto fondamentale che Anders presenta nel saggio sulla vergogna prometeica riguarda l’umana incapacità di immaginare non solo tutto ciò che è nelle possibilità umane di produzione ma anche tutti i danni che si possono essere originati da tali produzioni. Non va dimenticato che a causa del «fatale dislivello»116 esistente tra immaginazione e percezione del reale ci si fida dei malaugurati apparecchi prodotti ed utilizzati dall’uomo stesso. Sarebbe pertanto insensato dire, spiega Anders, che i loro effetti apocalittici siano cosa imprevedibile dato che, al contrario, è l’uomo a perseguire tali effetti anche quando non è possibile immaginarli. Il difetto chiave, dunque, dell’esistenza umana oggi, nell’universo della tecnica, è
Ibidem, p. 126 Ibidem. 116 G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 27. 114 115
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stato prodotto dall’uomo stesso. Tuttavia, a questo difetto ne corrisponde anche uno, che sta dalla parte dalle cose fabbricate dall’uomo e che, non riguarda solo le cose singole ma anche ed in particolar modo l’intero sistema di apparecchi: l’apparenza.
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«Se noi siamo ciechi nella nostra capacità di immaginazione, gli apparecchi sono muti; con il che voglio dire la loro apparenza non rivela più affatto la loro reale potenzialità. A dire il vero l’espressione “muti” non è proprio esatta, dato che non si può negare la loro percettibilità. E tuttavia essi restano, anche se in qualche modo percettibili, non riconoscibili. Essi fingono un’apparenza che non ha nulla a che fare con la loro vera natura, sembrano meno di ciò che sono»117.
Vale a dire che a causa della loro apparenza troppo modesta, non si è più in grado di capire ciò che sono. Molti di questi, come ad esempio le bombole di gas “Cyclon B” usate nei campi di concentramento nazisti, si differenziavano di poco dai barattoli per la conserva di frutta. Pur avendo un’apparenza «da nulla»118, questa millanteria negativa, questo «essere più dell’apparire» nella storia non sia era mai verificato prima di allora. Ciò che Anders intende dire in altre parole è che, a questi apparecchi manca la capacità o volontà di esprimere ciò che sono; non “parlano”, sono silenziosi menzogneri ideologici, per cui la loro apparenza non coincide con la loro essenza. Questi apparecchi non si mostrano più, non sono più dei «fenomeni»119. Al contrario, la loro prestazione consiste nel fatto che essi non mostrando più la loro essenza, ovvero ciò che sono, si nascondono. Il «misterium» di oggi, per Anders, sta nei complessi e colossali apparecchi, dal momento che questi ultimi sono visibili soltanto apparentemente ma che, de facto, restano invisibili. Nell’epoca dell’immagine del mondo, Anders si rende perfettamente conto – con lucido disfattismo – che l’immagine è diventata la categoria principale della vita umana. Nella fattispecie, nel corso della Ibidem, pp. 27-28. Ibidem, p. 28. 119 Ibidem, p. 29. 117 118
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sua lunga trattazione sulla vergogna prometeica, elenca i diversi motivi per i quali l’uomo – o forse sarebbe meglio usare il «noi» in riferimento alla massa – si trova defraudato dalla realtà. Innanzitutto, «veniamo defraudati»120 della capacità di distinguere tra realtà e apparenza per cui, l’apparenza viene rappresentata da trasmissioni radiofoniche e televisive come se fosse la realtà mentre, al contrario, la realtà assume l’aspetto di una mera esibizione. È come trovarsi confusamente ipnotizzati da un’illusionista ma, questa volta, l’intera immaginazione della vita degli individui diviene una tecnica dell’illusione. La realtà diventa uno show, con la conseguenza che non solo l’interpretazione della realtà appariva poco seria, ma la realtà stessa lo diventava. Il mondo, ormai, diviene rappresentazione121. In secondo luogo, continua Anders, «veniamo defraudati»122 dell’esperienza e della capacità di prendere posizione, dal momento che la conoscenza del vasto orizzonte del mondo in modo diretto è reso impossibile dal conoscerlo solo attraverso le sue immagini. Ciò che è importante, pertanto, lo si ritrova sotto forma di fantasma e di apparenza. In questa versione il mondo svuotato di realtà, è chiaro che si riduce ad un oggetto di consumo. In fondo, è scomparso il mondo esterno consumato ormai come occasione di una possibile rappresentazione a domicilio. Ci si nutre di immagini tali per cui nella propria casa si consuma un’esplosione atomica, sotto forma di immagine in movimento, fornita a domicilio. Infatti, «noi formiamo il nostro mondo»123 sulla base delle immagini del mondo,
Ibidem, p. 232. A questo proposito, Anders allude al fatto che i presidenti (della sua epoca) Kennedy e Nixon si facessero truccare per apparire più giovani per le loro dispute televisive. Ciò dimostrava il fatto che il pubblico spettatore li attendeva allo stesso modo in cui si attende uno show, per cui la loro effettiva possibilità politica dipendeva dalla qualità del loro show. Il problema, però, era che con questo “show” politico spesso si decise delle sorti dell’umanità. Cf. Ibidem, p. 233. 122 Ibidem. 123 Ibidem, p. 234. 120 121
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venendo così «passivizzati»124 nella misura in cui si è trasformati in consumatori permanenti.
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«Mentre, per esempio, come lettori siamo ancora autonomi, cioè possiamo sfogliare un libro all’indietro e determinare noi stessi il tempo che ci serve per assimilarlo, come ascoltatori e spettatori a tempo pieno siamo ormai incessantemente tenuti al guinzaglio; quando consumiamo, dobbiamo farlo anche secondo il ritmo fornitoci con il rifornimento […] poiché gli spectacula ci corrono davanti senza tregua incanalando, proprio per questa mancanza di pause, la nostra mancanza di autonomia»125.
Anders intende sottolineare che il rapporto che nell’era tecnocratica l’uomo ha con il mondo viene letteralmente «addestrato»126 ad una dimensione unilaterale. Nel senso che si è abituati a vedere e non ad essere visti, ad ascoltare ma non ad essere ascoltati. Eppure, chi ascolta soltanto senza parlare e, di conseguenza, senza poter contraddire, non solo è passivizzato, ma è anche e soprattutto reso succube e schiavo. L’abitudine ad un’esistenza in cui si è defraudati della metà del proprio essere uomini è dovuta in particolar modo a questa perdita di libertà la quale, tuttavia, procede in modo talmente naturale che, a differenza degli schiavi, a questa tecnocratica schiavitù l’uomo apre le porte della sua casa. La sovranità tecnocratica, dunque, non può che essere in tal senso ideologica. Solo un’ideologia, infatti, è capace nel suo complesso di far credere che sia buono e positivo qualcosa che, in realtà, è fortemente dannoso e rischioso per l’umanità. Le immagini, spiega acutamente Anders, sono «le ideologie di oggi»127, perché le diverse immagini del mondo che vengono offerte (ad esempio attraverso la pubblicità), impediscono la possibilità di una immagine del mondo. La sopraffazione di migliaia di immagini nasconde il contesto del mondo, soprattutto laddove ogni immagine rimane frammentata 124
Ibidem. Ibidem. 126 Ibidem. 127 Ibidem. 125
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rendendo «ciechi alle causalità»128. In ultimo, conclude Anders, «veniamo “macchinalmente infantilizzati”»129.
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«Non diversamente dai neonati che si attaccano alle mammelle materne, ci attacchiamo alle mammelle inesauribili degli apparecchi; infatti tutto il bisogno di consumo, il mondo così come il cosiddetto “mondo dell’arte”, ci viene servito allo stato liquido. Anzi: non ci viene servito affatto, ma fornito in modo talmente diretto da poter essere usato e consumato; essendo liquido, il prodotto già finisce nell’atto di essere consumato, dunque viene liquidato»130.
In altri termini, ciò che è fornito «viene disinnescato»131, poiché la merce dev’essere consumata dal maggior numero possibile di consumatori e possedere anche un «mass appeal»132. Chiaramente ciò vale al massimo grado per il cinema e la televisione. Proprio perché il contenuto delle trasmissioni vengono forniti a domicilio, essi vengono disinnescati nel senso che viene presentato un altro mondo. Le trasmissioni, creando una situazione di ambiguità, confondono realtà e irrealtà, ciò che è serio e ciò che non lo è. L’uomo, in tal senso, non è più in grado di riconoscere la realtà che lo circonda. Ma in questa condizione di «serietà non-seria»133, di una seria mancanza di serietà, il consumatore si abitua ad un’ambiguità e indecisione che lo rende un sicuro uomo di massa incapace di prendere una decisione. Anche se non appartenne mai in modo ufficiale alla Scuola di Francoforte, Anders conobbe ed ebbe modo di dialogare con Andorno e Marcuse, anche negli anni dell’esilio americano. Tra questi autori è comune la denuncia ad un sistema sociale tecnologizzato che ha portato ad una oppressione della condizione umana. Già Ibidem, p. 135. Ibidem. 130 Ibidem, p. 235. 131 Ibidem, p. 236. 132 Ibidem. 133 G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 143. 128 129
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nella Dialettica sull’Illuminismo, Adorno e Horkheimer avanzarono una critica alla logica del dominio della tecnica. Da un punto di vista sociale, mentre per Anders gli uomini sono eremiti di massa, per Adorno e Horkheimer la tecnica trasformato la cultura in una «industria culturale» divenendo cioè «un inganno per le masse»134. Come già teorizzato da Anders la tecnica «è arrivata alla standardizzazione e produzione in serie»135 generando una cultura fortemente impersonale. Anche in L’uomo a una dimensione di Marcuse, si rintracciano alcuni tratti della filosofia andersiana. Innanzitutto, come Anders ha fatto emergere, in L’uomo è antiquato, le immagini come rappresentazione mediatica del mondo sono una forma di ideologia. Non troppo lontana è la posizione di Marcuse che considera la società industriale avanza una nuova forma di ideologia. L’uomo ridotto ad una dimensione dallo sviluppo tecnologico per Marcuse oscilla tra la repressione di ogni mutamento qualitativo per il futuro da un lato, e l’esplosione della società dall’altro oltre ogni forma di repressione136. La «coscienza infelice»137 dell’uomo a una dimensione è simile al malessere dell’uomo andersiano che riconoscendo la propria antiquatezza verso ciò che è artificiale, prova un forte sentimento di vergogna. L’uomo a una dimensione, pertanto, è quel soggetto che non riesce più ad avere la percezione del possibile, in quanto non vive più lo scarto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere creando, oltre ad un interrogativo antropologico, anche la domanda etica sul chi è l’uomo che agisce e sul come agisce.
M. Horkheimer - T. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, tr. it. R. Solmi, Einaudi, Torino 20105, p. 50. 135 Ibidem, p. 128. 136 Cf. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia di una società industriale avanzata, a cura di L. Gallino, Einaudi, Torino 19992, p. 9. 137 Ibidem, p. 96. 134
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Il (tentato) suicidio dell’umanità Inquietudini apocalittiche
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«Talvolta guardo la mia mano, pensando di avere in mano il destino dell’umanità: lo spezzo invisibilmente in due parti, prima di me, dopo di me». (F. NIETZSCHE, Frammenti postumi) «Non sappiamo esattamente […] fino a che punto l’umanità sia oggi cosciente dell’Apocalisse; ma non c’è dubbio che lo dovrebbe essere […] perché quegli uomini che sono ora di fatto signori dell’infinito non sono all’altezza di questo loro possesso, […], come non lo siamo noi, vittime predestinate; perché continuano a essere incapaci di vedere nel loro ordigno nient’altro che un mezzo per conseguire interessi limitati». (G. ANDERS, L’uomo è antiquato I)
Chi sono io mai? Da «pastori dell’essere» a «pastori di apparecchi» La dittatura del consumo «Che per natura esistano esseri singoli discreti è veramente un increscioso difetto del creato e, presumibilmente, non saremo mai incapaci di abolirlo. Ma non c’è motivo di disperare. Gli esseri singoli sono lacune nel nostro sistema totale, come sono lacune i buchi nel setaccio. Nonostante che questi ultimi non siamo fatti col materiale del setaccio, funzionano tuttavia come pezzi del setaccio, addirittura come la parte più importante di esso. E sono e restano incapaci di offrire qualsiasi servizio che non sia imposto loro dalla misura, dal materiale e dalla forma del setaccio»1.
Tra gli anni 1962-63, Anders concepì un saggio, Il terrore morbido (Der sanfte Terror), che poi inserì in L’uomo è antiquato con 1
G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 119. 77
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il titolo L’individuo. Il «terrore morbido» è quella nuova forma di potere, di fatto totalitaria, che discretamente conduce «noi, i figli dell’era totalmente tecnicizzata»2 ad essere conformisti di questo mondo del futuro. Il totalitarismo «morbido» o del piacere, infatti, provoca un asservimento dell’uomo attraverso delle «sirene seduttrici», a cui il cittadino contemporaneo non è in grado di opporre resistenza, e che incanta e incatena l’uomo conformandolo al sistema. In un contesto del genere, la domanda «che cos’è l’uomo?» secondo Anders non avrebbe senso, fintantoché non si chiariscono i presupposti su ciò che si intende per «che cosa». Heidegger, senza molte esitazioni, rispose a tale domanda positivamente, chiamando poeticamente l’uomo il «pastore dell’essere», secondo un linguaggio ancora biblico e antropologico. Tuttavia, nell’era di un’esistenza tecnologizzata e in un sistema conformista, Anders non vede più nell’uomo un «pastore dell’essere» come Heidegger, perché ormai «ci consideriamo i pastori del nostro mondo di prodotti e apparecchi, che ha bisogno di noi, per quanto ci sovrasti per potenza, in qualità di servitori»3. Gli uomini, ormai, fungendo da custodi di apparecchi, credono nell’idea che i prodotti siano ontologicamente e assiologicamente superiori alla sua antiquatezza. La critica di Anders si rivolge ad un sistema conformistico che, nella sua abitudinarietà, acriticità e neutralità, rende gli uomini servi del sistema tecnologico. Anders, infatti, sostiene che mediante gli apparecchi l’uomo, seppur in modo non violento, di fatto viene forgiato. Tale trasformazione è tanto più efficace quanto più morbida ed inconsapevole. Il sistema conformista che appare moralmente un bene per essere riconoscibile come tale, dato che funziona come un sistema armonico, benché prestabilito. «Naturalmente di questo “vivere e agire come un tutto unico” non fanno parte solo i nostri rapporti interumani, anzi esso sono addirittura retrocessi al secondo posto; al primo posto stanno oggi i rapporti tra noi e il mondo 2 3
Ibidem, p. 123. Ibidem, p. 260.
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delle cose, cioè quello dei nostri apparecchi. Al nostro mondo siamo omologati in prima linea per il fatto che ci regoliamo secondo le migliaia d’istituzioni che nell’insieme formano il nostro “mondo”; e che serviamo (come se fosse la nostra seconda natura) i meccanismi di manovra dello strumento amministrativo e tecnico che ci è indispensabile, così da esserne a nostra volta serviti»4.
Dato che nessuno è libero di scegliersi la propria epoca e, di conseguenza, il proprio mondo fra i tanti mondi possibili; siccome, in fin dei conti, nessuno può vivere senza l’epoca in cui è nato, allora non esisterà alcuno che non sia affatto omologato. Anche se qualcuno decidesse di prendere le dovute distanza da questo mondo e, di appellarsi al «gran rifiuto» indicato da Marcuse, tutto ciò sarebbe inutile, visto che l’essenza dell’odierno mondo conformista consiste proprio nel non lasciare prosperare interessanti outsiders. La morale del conformismo, dunque, sarà considerare immorale colui che non accoglie ciò che è stato prodotto per lui. Le offerte di oggi sono i comandamenti di ieri: ciò che si deve acquistare determina quello che l’individuo deve o non deve fare. Se il consumatore acquista un oggetto, deve utilizzarlo pienamente e, se non lo facesse sarebbe uno spreco e un’azione immorale. La logica coercitiva alla base di questa modalità di sistema, introdotta nelle menti degli ingenui consumatori, indica che agli uomini non è dato ciò che vogliono per bisogno. Essi dovranno, piuttosto, consumare ciò che è il sistema ha prodotto. Riprendendo alcuni concetti già esplicitati, per Anders l’uomo conformista è colui che per ragioni di comodo o di viltà, decide di omologare le sue azioni, le sue opinioni, i suoi sentimenti, in breve, il suo stile di vita in un tipo di società in cui, la linea di demarcazione tra omologato e omologarsi, viene neutralizzata. In tal senso l’asservimento e la non esistenza della persona, può essere già considerato un fatto compiuto e non qualcosa che forse potrebbe compiersi. In questo stadio di sviluppo della società contemporanea, la 4
Ibidem, p. 128. 79
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distanza tra la forma riflessiva del conformarsi – che richiede un minimo di autonomia – e la forma passiva dell’essere conformato per Anders rappresenta il raggiungimento del più perfetto stadio di coercizione, mai raggiunto prima di allora. Rispetto al passato, infatti, in cui dominava lo stadio della privazione apertamente dittatoriale e della coercizione, nell’era tecnocratica, si apre il nuovo stadio della passività in cui la personalità è cancellata. Infatti, i regimi totalitari del passato, al fine di conformare le masse, erano costretti a forme di esortazione e di incitamento, per cui erano comunque obbligati, per avere consenso, a riconoscere nell’individuo un certo grado di personalità e, dunque, di libertà. Ma, la situazione attuale rispetto al passato è molto cambiata. Se, infatti, un tempo era necessario ricorrere ad un’opera di convincimento creando l’illusione della libertà oggi, secondo Anders, non sono più necessari né ordini né divieti, giacché risulta esplicita l’obbedienza del “servo”. Questo, in virtù del raggiungimento di quel perfetto stadio coercitivo in cui, la personalità è annullata. Questo pezzo della realtà odierna, questa condizione di illibertà degli attori sociali, Anders lo definisce «agnosticismo sociale»5. Tale espressione è adottata dal filosofo tedesco al fine di evidenziare il fatto che i detentori di ruoli della società, non si riconoscono a vicenda nei loro ruoli. Anders, infatti, sostiene che non è solo il dominato-consumatore a non riconoscersi in quanto tale, ma anche il dominatore, ovvero il produttore di prodotti-fantasma. Entrambi non riconosceranno l’altro come tale, sebbene il consumatore non si senta derubato della sua libertà di scegliere, poiché non comprende che il rifornimento continuo a cui è sottoposto gli impedisce di fare esperienza e, quindi, di accumulare capacità di esprimere giudizi. Di tale condizione, tuttavia, non se ne renderà conto neppure il produttore, dato che l’assenza di una mancanza determina nel consumatore una condizione di incoscienza delle norme e dei divieti che sembrano non esserci ma che, in realtà, sono insiti nei prodotti stessi. 5
Ibidem, p. 179.
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«Dell’ideale dell’epoca odierna non fa parte soltanto che noi consumiamo in modo che l’atto del consumare e il cibo consumato non vengono percepiti: quindi nel modo più liscio, più privo di sforzo, più privo di residui, più narcotico possibile. […] Dobbiamo cioè – e questo fa parte dell’essenza della situazione odierna – essere consumati in modo che il nostro essere consumati non sia percepito neanche da noi: quindi nel modo più liscio, più privo di sforzo, più privo di residui, più narcotico possibile»6.
L’uomo, dunque, viene conformato attraverso un processo il cui effetto ci resta impercettibile e di cui è quasi impossibile accorgersi; Anders la definisce «la chiara immagine di una non-chiarezza»7. Nella tecnica, infatti, è presente un circolo vizioso che ruota tra potere e invisibilità. Si tratta di quattro forme di cecità articolata: «Prima cecità: il dominatore (ovvero il violentatore) non riconosce nel dominato (ovvero nel violentato) colui che viene dominato (ovvero violentato) da lui. Seconda cecità: il dominatore non riconosce in sé stesso il dominatore. Terza cecità: il dominato non riconosce nel dominatore colui che lo domina. Quarta cecità: il dominato non riconosce in sé stesso il dominato»8.
Quanto più totale è un potere, tanto più muto è il suo comando. Quanto più muto un comando, tanto più naturale l’obbedienza. Quanto più è naturale l’obbedienza, tanto più è assicurata l’illusione di libertà. Infine, quanto più è assicurata l’illusione di libertà, tanto più totale è il potere. Questo processo circolare è, per l’appunto, il circolo vizioso della società – agnosticamente – conformista. In questo modo l’essere conformista dell’uomo è nell’essere impiegato, al punto che all’individuo è tolta ogni curiosità di cercare; soprattutto laddove tutto diventa a portata di mano, fornito ininterrottamente, in casa propria. Le azioni, i sentimenti, le opinioni, sono già predeterminati e la tranquilla obbedienza è garantita senza che l’individuo si renda conto degli ordini che riceve e dell’obbedienza Ibidem, p. 181. Ibidem, p. 179. 8 Ibidem, p. 180. 6 7
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che consuma. L’uomo non possiede neanche più la libertà di lamentarsi della propria condizione servile, perché corteggiato dai raggiri delle pubblicità, incantato dal canto sirenico9 dei prodotti che gridano «Prendimi!», «Obbedisci alle mie voglie!», «Lasciati coinvolgere!»10, senza rendersi conto che, in realtà, tali lusinghe sono incarichi imposti e ordini impartiti. In breve, il mondo degli apparecchi omologa gli individui in modo più dittatoriale, irresistibile e irreversibile di quanto il terrore – o la visione del mondo sottomesso al terrore di un dittatore – avrebbe mai potuto fare: «Oggigiorno, Hitler e Stalin sono superflui»11. Tra lavoro e tempo libero: la conditio dei «miserandi» «La maggioranza di coloro che conducono una vita insensata non è ancora per nulla consapevole di questa sventura. Proprio il tipo di vita che viene loro imposta impedisce di accorgersi della sua insensatezza. Perciò essi non fanno assolutamente nulla per combatterla. […] Voglio dire, dato che essi sono defraudati della loro autonomia, ossia della chance di diventare autonomi, restano dipendenti anche durante il cosiddetto “tempo libero”»12.
Anders non solo parla di coercizione al tempo libero ma anche di coercizione al lavoro, individuando le radici dell’insensatezza in una società conformista come quella attuale. Partendo dal lavoro in fabbrica, egli riconosce il fatto che nella produzione di oggetti, gli individui si limitano a co-produrre pezzi e pezzi di pezzi, restando così privi di εἶδος. La mancanza di εἶδος e la trascendenza dei prodotti, sono le caratteristiche essenziali del lavoro odierno contro cui non c’è nessun rimedio. Il problema, tuttavia, è che non solo l’uomo accetti una tale coercizione, ma che la accetti e assecondi volentieri. L’azienda, pertanto, è il luogo ideale per la nascita del Cf. M. Horkheimer - T. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, p. 45. G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 130. 11 Ibidem, p. 188. 12 Ibidem, p. 348. 9
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conformista, ovvero di un tipo d’uomo mediale e senza coscienza. L’uomo mediale, infatti, che opera in un sistema conformista, è l’uomo la cui “azione” è «attiva-passiva-neutrale» perché non vede quello che fa e, qualunque sia il prodotto del proprio lavoro, questo sarà sempre «al di là del bene e del male»13. «Non è davvero senza motivo che parliamo della “mancanza di senso della vita odierna”. Ciò che intendiamo innanzitutto con questo, o meglio ciò che sta in fondo a questo nostro sentimento ben giustificato, è qualcosa che si potrebbe chiamare accademicamente “struttura intenzionale negativa del lavoro odierno”. Con questo intendo […] il fatto che (a differenza dell’artigiano, per esempio il calzolaio che sa e vede ciò che fa, e che fin dall’inizio e per tutto il corso del suo lavoro pensa al suo prodotto finale bello e pronto), noi mentre lavoriamo non ci vediamo davanti il prodotto finale che stiamo fabbricando»14.
Il fatto che la struttura del lavoro odierno sia intenzionalmente negativa dipende dall’infinita mediazione del percorso tra il primo gesto dell’individuo nella catena di montaggio e il suo prodotto finale. Nel prodotto finito, infatti, convergono innumerevoli prestazioni e contributi personali che, però, nell’insieme del processo non sono visibili. Il lavoratore in fabbrica, dunque, deve concentrarsi su quel pezzo del pezzo a cui è obbligato a lavorare, senza pensare, criticare, giudicare o addirittura sabotare i prodotti. Tuttavia, la negatività del lavoro odierno non si limita solo alla mancanza dell’εἶδος e alla trascendenza del prodotto; l’individuo, infatti, è escluso dalla libertà di disporre del loro uso e dalla possibilità di giudicare ed essere responsabili dei loro effetti (come il genocidio). Tutto ciò, non solo non è dall’uomo saputo ma nemmeno gli è lecito poterlo sapere, in breve «non lo facciamo. Il prodotto del nostro lavoro non ci riguarda»15. Il senso del lavoro odierno allora sarà un senso artificiale, un senso prodotto artificialmente che non va inventato, ma solo G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 271. G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 337. 15 Ibidem. 13 14
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trovato. Questo avviene nella maggior parte degli individui della società conformista. La miseria odierna, pertanto, trova la sua radice proprio in quella insensatezza della vita e del mondo a causa del fatto che l’uomo trascorre la propria vita facendo lavori che di fatto non sopporta affatto. Per i malati del «dolore universale», tanto la vita quanto il mondo sono privi di senso perché sono «miserandi»16; mentre per «noi contemporanei» la vita e il mondo sono miserandi perché privi di senso. Ciò in cui entrambi concordano non è solo una reazione apocalittica, ma anche nell’essere rivoluzionari frustrati. Dal momento che il malato di «dolore universale» non teneva in considerazione – in realtà non doveva e, di conseguenza, non poteva neppure prendere in considerazione – la situazione per la quale soffriva, «modificava» la miseria sociale. Vale a dire che egli sostituiva l’oggetto reale della sua critica con qualcosa d’altro di più generale rispetto alla sua vita e, dunque, di paradossalmente più innocuo: il mondo. Ad essergli insopportabile non era il regime reazionario o la miseria della popolazione, ma l’universo. Si realizza, pertanto, un meccanismo di sostituzione in cui i «miserandi» diventano tali per l’insensatezza del loro lavoro a causa della tecnica, e per il loro essere solo mezzi in un «universo di mezzi»17. Questi «rivoluzionari frustrati»18, tuttavia, falsificano la loro miseria poiché, invece di riconoscere e combattere la radice dell’attuale condizione di malessere identificato con la tecnica, la cancellano prendendo così le distanze dal vuoto di senso. L’esistenza umana condizionata da un mondo artificiale e dall’universo di mezzi, si mostra come un’esistenza priva di senso in quanto non c’è azione o mezzo il cui scopo non sia quello di garantire produzione o manutenzione di altri mezzi. Infatti, nell’epoca
Ibidem, p. 350. Ibidem, p. 351. 18 Ibidem. 16 17
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del self-made-man la formula tipica è che «ognuno è fabbro del proprio senso»19.
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«Mai, o per lo meno raramente, ci si è chiesti a che scopo esiste il mondo nella sua totalità, qual è il suo senso […]. Ma perché? Esiste infatti qualcosa di positivo sul cui senso ci si è interrogati e sul cui senso non sembra insensato interrogarsi: l’uomo. […] Dal punto di vista della storia delle idee, questo antropocentrismo è certo facilmente spiegabile con il richiamo all’antropologia dell’Antico Testamento, viva ancor oggi, che non solo ha innalzato l’uomo a Signore di tutte le cose, ma anche come quell’Essere per il quale tutte le cose sono state create e che perciò è anche il “senso” di esse»20.
Tuttavia, per Anders, è difficile pensare che qualcosa di così fondamentale come il “senso” possa essere attribuito proprio all’uomo, e che dunque l’umanità sia in qualche modo il «popolo eletto» tra tutti gli enti, l’unico γένος della «buona provetta metafisica»21. È chiaro che il concetto di “senso” appare Anders ancora molto «oscuro», al punto che la sua comprensione potrebbe essere possibile solo rendendosi conto che, originariamente, il “senso” non è qualcosa di astratto bensì di radicalmente antropologico. Vale a dire che, senza la supposizione che qualcuno abbia in mente qualcosa, l’uso originario della parola “senso”, sarebbe insensata: «persino a noi atei riesce difficile concepire il “senso” senza questa ipotesi»22. Pertanto, è necessario usarla con la massima precauzione. L’uomo prometeico o dell’apprendista stregone «Allora, quando mezzo secolo fa, […], imparavamo a memoria Der Zauberlehrling, naturalmente non potevamo prevedere che certi esiti sarebbero diventati più veri di quanto non lo fossero il giorno in cui vennero scritti; che la ballata di Goethe era già molto più realistica di quanto non lo fosse allora, e che, pressappoco nel giro di centocinquant’anni, l’intera umanità si Ibidem, p. 341. Ibidem, p. 356. 21 Ibidem. 22 Ibidem, p. 357. 19 20
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era trasformata in un esercito di “spiriti”. […] Oggi, noi, apprendisti stregoni, non solo non sappiamo di non sapere la formula magica della ritrasformazione, o che non ce n’è alcuna; ma non sappiamo neppure che siamo apprendisti stregoni»23.
Per parlare del rapporto dell’uomo con l’odierno mondo tecnologizzato, Anders si richiama alla famosa ballata di Goethe, L’Apprendista stregone. Questa operetta venne composta nel 1797 risultando, tuttavia, profetica per i secoli successivi. La morale della favola, infatti, è che sarebbe meglio non iniziare qualsiasi cosa che poi non si è in grado di governare. Anders, pertanto, richiamandosi alla famosa ballata la attualizza con lo scopo di sottolineare la presenza di un «irrazionalismo» causato dal fatto di non sapere cosa «facciamo quando lavoriamo»24. L’irrazionalismo attuale, pertanto, è incomparabilmente peggiore di ogni altra sua espressione passata, perché gli individui con imprudenza, e senza previsione alcuna, conferiscono ai moderni «manici di scopa» le più avventurose funzioni da spiriti. Ma una volta evocati, questi spiriti, non avranno per loro alcun riguardo. La ballata, dunque, ha lo scopo di interdire gli uomini dal fare cose che non sono in grado di fermare. Sotto la forma di un avvertimento, Goethe si riferisce ad un evento che genera davvero paura ed angoscia e che per tale ragione è difficile che si realizzi; quasi fosse un’utopia, o forse sarebbe meglio dire una distopia. Lo scarto tra il passato e il presente è che nel mondo degli apprendisti stregoni di oggi, una tale situazione, singolare ed anormale, «a noi accade senza tregua»25. Ciò che rende l’epoca tecnocratica «avventurosa», secondo Anders, è nel fatto che – contrariamente al passato – invece di dare nell’occhio come qualcosa di straordinario (come fuori dall’ordinarietà), risulta come regola, come presenza quotidiana, come stile di vita. A questa condizione ordinaria, però, non ci si ribella. L’uomo, al contrario, Ibidem, p. 371. Ibidem, p. 372. 25 Ibidem, p. 374. 23 24
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tende ad individuare nell’automa, qualcosa di assolutamente normale, anzi persino qualcosa «che ci rallegra»26, togliendo una volta per tutte dall’uomo il peso della responsabilità. Descritta da Anders in questi termini, la figura goethiana dell’apprendista stregone, potrebbe trovarsi inserita in una curiosa ed interessante dialettica con la figura del Prometeo capovolto, presentata da Anders nel primo volume de L’uomo è antiquato. Secondo la tradizione mitica Prometeo, «colui che pensa prima di agire» fu il titano che, amico del progresso e dell’umanità, osò sfidare gli dèi, rubando loro il fuoco per donarlo agli uomini, affinché potessero gestire e governare le forze della natura a lui ostili. La fierezza prometeica consisteva, infatti, nel rifiuto di essere debitori di qualche cosa, persino se stessi, ad altri. L’orgoglio prometeico, la hybris dell’uomo fatto da sé, in questo senso consiste nel dovere tutto, anche se stessi, esclusivamente a sé stessi. Nell’epoca del progresso tecnologico, ci sono residui di questa tendenza, ma non costituiscono più una caratteristica propria dell’uomo. Partendo dal mito di Eschilo, Anders vede nell’uomo odierno, identificato nel riduzionistico self-made-man, il capovolgimento dell’originario Prometeo. Al suo posto, infatti, sono subentrati sentimenti e atteggiamenti di altro genere, derivati da un prometeismo piuttosto curioso. Se, infatti, un tempo Prometeo era in grado di gestire la fiaccola del progresso, ora le è sfuggita di mano; similmente a quell’apprendista stregone, che si appropria degli incantesimi del maestro in sua assenza. La dialettica tra Prometeo e l’apprendista stregone si mostra, tuttavia, rispetto al fatto che entrambi riescono ad ottenere qualcosa sottraendolo, chi con l’inganno chi con il furto, a colui che ne riesce a tenere il controllo. Tanto nel mito di Eschilo quando nella ballata di Goethe, infatti, successivamente interviene una istanza superiore: Zeus incatena Prometeo mentre lo stregone ferma il moltiplicarsi incessante delle scope. Il problema odierno, come rivela lo stesso Anders, però risiede nel fatto che la crescita della 26
Ibidem, p. 375. 87
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tecnica è sfuggita dalle mani dell’uomo che, de facto, non riesce più ad arrestarla, l’apprendista stregone infatti non sa come gestirla. L’unica possibilità che potrebbe fermarne il corso sarebbe l’autodistruzione dell’umanità. Prometeo come l’apprendista stregone aveva osato troppo. Tuttavia, il Prometeo odierno, incarnazione della scienza baconiana, si trova capovolto, dominato da quel fuoco (la tecnica) che ora non è più in grado di gestire. Il Prometeo antico, infatti, oggi ha subito un capovolgimento realmente dialettico poiché, in un certo senso, spiega Anders, Prometeo ha riportato una vittoria troppo trionfale ed ora, «messo a confronto con la sua propria opera, comincia a deporre l’orgoglio che gli era tanto naturale nel secolo passato»27. L’antica hybris è sostituita dal senso della propria inferiorità e, il novello Prometeo oggi non aspira ad un suo progresso bensì ad una sua regressione allo stato di macchina, ad essere cioè un self-made-man, è capovolto ed incatenato perché non più signore della techne, bensì suo servo. Tra il Prometeo e l’apprendista stregone, Anders vuole evidenziare, inoltre, quell’ostinata tentazione, tipica di una cultura occidentale, a voler essere come Dio al fine di creare, plasmare e governare sul mondo e sull’uomo stesso. Ma, evidentemente, non vi riesce rimanendo prigioniero, vittima e carnefice, del suo stesso potere. Il Prometeo capovolto, non è più colui che pensa prima di agire, ma agisce senza pensare. La metamorfosi dell’apprendista stregone Quelli di Goethe, tuttavia, secondo Anders, erano ancora tempi felici, in cui poteva rappresentare il robot come qualcosa di orribile, ma che non era il modus operandi del mondo. Erano tempi felici, perché c’era la possibilità dell’intervento di un maestro che padroneggiando l’antidoto rendeva ancora possibile «lo happy ending»28.
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G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 32. G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 375.
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«Tempi felici davvero! Paragonato a noi, uomini d’oggi, persino l’Apprendista stregone, […], è ancora una figura invidiabile […]; perché ancora non capisce che esiste un motivo di disperazione; e perché, per tale motivo, fa ancora il tentativo di fermare ciò che provocato o che è sul punto di provocare. Confrontata con la nostra situazione attuale, quella dell’Apprendista stregone di Goethe era una semplice calamità; un episodio eccitante»29.
L’apprendista stregone dell’era tecnocratica, invece, minaccia la sopravvivenza del mondo perché, anche con la coscienza migliore, non solo non sa cosa fa quando fabbrica i prodotti ma anche perché non gli è chiaro che cosa vogliono questi prodotti una volta che sono scivolati dalle sue mani. In questo senso, è ancora possibile parlare dell’uomo nei termini di un apprendista stregone nell’era del domino tecnico? Rispetto alla ballata De Zauberlehrling di Goethe, Anders nota che qualcosa è cambiato. Se rispetto al passato il Prometeo d’oggi si trova capovolto, l’apprendista stregone dell’epoca tecnocratica subisce una «metamorfosi»30. E non solo perché oggi realmente l’uomo ha nelle sue mani poteri che in passato potevano solo essere oggetto di fantasia, ma anche perché non è in grado di gestirli. La trasformazione o metamorfosi a cui Anders intende riferirsi, è che nell’era della tecnica si sono verificate due mutazioni imponenti ed importanti, che hanno coinvolto l’uomo in modo più o meno diretto. La prima mutazione riguarda l’uomo in prima persona, il quale pur restano produttore, si inserisce in una dinamica in cui diviene carnefice e vittima di sé. L’altra mutazione che avviene nel mondo tecnico, invece, l’ha subita il mondo stesso, attraverso la propria tecnicizzazione. Ebbene, per Anders queste sono le due metamorfosi che, nella loro natura fondamentale, sono i concetti che aiutano ad analizzare il rapporto che l’uomo oggi ha con un mondo tecnicizzato. L’apprendista stregone di un
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Ibidem, pp. 375-376. Cf. Ibidem, p. 369. 89
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tempo non si preoccupava delle conseguenze delle sue azioni, perché interessato solo al godimento del potere nell’immediata utilizzazione di ciò che ha trasformato. Egli pronuncia la parola magica ordinando così all’utensile di fare ciò che comanda. E l’utensile trasformato esegue, si mette da solo al lavoro. Anzi, dice Anders, «obbedisce troppo bene»31, al punto che alla fine obbedisce terribilmente bene. «Infatti, anche se può eseguire da solo il suo nuovo lavoro, non è abbastanza autonomo per rinunciare alla sua autonomia. In breve: il cammino inverso egli lo conosce altrettanto poco del suo padrone, cioè l’Apprendista che lo ha messo in moto. Automaticamente, ciecamente, e senza minimamente curarsi degli effetti di ciò che fa, la scopa si precipita verso la fontana per riempire i suoi secchi, poi indietro per versarli, avanti e indietro, senza fine»32.
Iniziando ad avere coscienza di ciò che ha messo in moto, è troppo tardi per potersene liberare. Ma, questo tardivo riconoscimento e il panico in cui egli cade sono ormai inutili. Anzi, ogni tentativo arrestarlo, moltiplica il pericolo. In questo senso, il mondo attuale si è trasformato in un «esercito di apprendisti stregoni»33, ma è un’illusione il fatto che gli uomini se ne rendano conto, a causa della frammentazione della produzione, per cui mentre lavorano gli individui non hanno davanti a sé il prodotto da fabbricare nell’insieme, ma solo un pezzo o pezzi di pezzi di altri pezzi. L’apprendista stregone di oggi non immagina che questi prodotti, una volta funzionanti, devono continuare a funzionare, raggruppandosi automaticamente per raggiungere il massimo del loro potere, anche se supera quello umano. Inoltre, come ogni altro prodotto o merce, tali apparecchi sono avidi di essere usati per non bloccare la produzione di nuovi prodotti. Essere «apprendisti stregoni»,
Ibidem, p. 370. G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 370. 33 Ibidem, p. 371. 31 32
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pertanto, significa non sapere quello che si fa; non sapere che produrre significa agire; non immaginare e non temere – e dunque, in un secondo momento, neanche pentirsi – per ciò che si potrebbe provocare tramite ciò che si produce o che si è prodotto. L’uomo, esasperando l’argomentazione, non è neanche più un «apprendista stregone» perché non sa nemmeno di sapere che cosa fa quando lavora. Ma allora, si chiede Anders, chi si pone la domanda circa i rischi per l’intera umanità? Forse gli scienziati o quanti forniscono alla tecnica e alla prodizione fondamenti teorici, sottolineando di praticare una scienza pura? Per Anders, fatta eccezione per una piccola minoranza di scienziati, il resto non si pone questo problema di coscienza. «O forse che gli operai si pongono questo problema? Gli operai che vengono assunti solo per fare particolari gesti manuali, che spesso non vedono neppure il prodotto finito, e non si possono biasimare se non s’interessano affatto agli scopi cui il prodotto è destinato, ai suoi effetti e agli effetti degli effetti»34.
Se si vive in un mondo di totale irrazionalità, come apprendisti stregoni, nessuno si pone questo problema. Imprudentemente e senza previsione vengono conferiti ai prodotti, gli odierni “manici di scopa” le più avventurose funzioni da “spiriti”; non ci si rende chiaramente conto che questi “spiriti”, una volta evocati, «non avranno mai più riguardi per noi»35. Eppure, chi è responsabile di una produzione che giunge finanche alla distruzione? In un esercito di apprendisti stregoni, nessuno. Perché nessuno sa cosa fa, non riconosce l’opera delle sue mani. L’umanità si gioca così tra un prometeismo capovolto, per il senso di dislivello alle macchine, e un essere apprendisti stregoni, nel non sapere cosa si fa, quando si fa. Nella riflessione andersiana questa condizione apre dei seri interrogativi
34 35
Ibidem, p. 373. Ibidem. 91
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sia sulla dimensione cognitiva che su quella morale degli uomini contemporanei. La fine dei tempi: l’Apocalisse autoprodotta
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La potestà di annichilire La situazione presentata da Anders riflette la realtà a lui contemporanea, drammaticamente complessa e fortemente caotica. Dalle sue «tristi pagine» si mostrano diversi aspetti, lati diversi di un quadro che nel suo insieme risulta ancora confuso. È come trovarsi dinanzi alla Guernica di Picasso, ed assistere ad un evento drammatico, disordinato ma chiaro. In effetti, tanto nelle pagine di Anders quanto nella Guernica, si esibisce con chiarezza fin dove potesse arrivare l’ideazione e produzione tecnica dell’uomo: «la nostra esistenza sotto il segno della bomba»36. Questo terreno, tuttavia, non è al centro delle preoccupazioni dell’uomo, al contrario, «sembra che gli uomini di oggi vi abbiamo creato intorno una congiura del silenzio»37. La mancata presa di posizione dell’uomo di fronte alla bomba, la sua cecità dinanzi all’imminente Apocalisse, l’assenza di una responsabilità etica, fa emergere in Anders la domanda se l’umanità continuerà a esistere o meno. «Non ci è consentito di far finta di non sentire questo mostruoso “se”. Minaccioso e infausto incombe sulle parole di questo scritto; gli antichi avrebbero detto: come una “luna sanguinante”. E spero che, perlomeno mentre legge queste pagine, il lettore non riesca a dimenticare che cosa è che ci sovrasta»38.
I novelli apprendisti stregoni non sanno cosa fanno. Ma se nessuno risponde delle proprie azioni, non c’è responsabilità. Che non sia stata forse trasferita anch’essa alle macchine? Tutto è possibile. Il mondo quotidiano con cui gli uomini hanno a che fare nell’era Ibidem, p. 221. Ibidem, p. 222. 38 Ibidem, p. 224. 36 37
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del progresso tecnico, è innanzitutto un mondo di cose e di apparati meccanici, in cui esistono anche altri uomini, e non un mondo umano nel quale esistono anche cose e apparati. La priorità è chiaramente spostata alle macchine, rendendo l’uomo un qualcosa di superfluo, oltre che di antiquato. Il trauma dell’era industriale potrebbe essere rintracciato, secondo Anders, nell’odio dell’uomo per la macchina, motivato dal fatto che la macchina inganna l’uomo. Tuttavia, anche questa motivazione appare ormai obsoleta in quanto è stata risollevata ripetutamente nel corso degli ultimi decenni. L’uomo contemporaneo, infatti, che lavora alla macchina non è defraudato né della sua salute fisica, né della sua sopravvivenza, bensì del suo stesso fabbricare, nel senso che il suo non è più un vero fabbricare. Ne consegue allora che, se la natura dell’uomo è di essere homo faber, egli è defraudato nella sua stessa natura. «Infatti, le parole “fare” o “agire” non sarebbero davvero adatte, già per il semplice motivo ch’egli non solo non aveva inteso l’effetto del suo “fare” e nemmeno avrebbe potuto intenderlo (causa la limitatezza della sua capacità di immaginazione); ma anche perché neppure una volta gli era stato permesso d’intenderlo o anche solo di poterlo intendere. La “morale della favola” consiste dunque nel fatto che gli era stato impedito d’intendere realmente l’esito dell’azione per la quale era stato usato e di partecipare alla moralità o immoralità di quest’ultima»39.
In altre parole, ciò che intende dire Anders è che nell’odierno fabbricare tanto la causa quanto l’effetto sono ormai staccati l’uno dall’altro. Ormai il “fabbricare” non è più un fabbricare e l’“agire” non è più agire. Ci si trova, piuttosto, dinanzi ad un unico evento, per il quale entrambe le forme di attività sono cadute vittima del medesimo nemico, ovvero di una terza forma di attività che ha «monopolizzato del tutto la prassi: il “servire”»40. Tra gli squilibri caratteristici dell’odierna umanità, oltre alla sproporzione tra il potere di immaginazione e quello di produzio39 40
G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 61. Ibidem, p. 60. 93
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ne dell’uomo («dislivello prometeico»), è possibile individuare anche la formula di dislivello tra la forza di distruzione e costruzione dell’uomo. Con la produzione della bomba atomica, infatti, l’uomo è diventato incapace di annullare ciò che, un tempo, aveva creato. Il non-potere sintetizza l’incapacità dell’uomo di non poter più ristabilire e riprodurre lo stato di perduta innocenza atomica e, dunque, di non potere più ciò che un tempo ebbe avuto. Partendo da queste argomentazioni Anders, in modo del tutto singolare, riconosce all’interno della situazione atomica una dimensione religiosa. «E ora vi chiederete: “Che cosa ha a che fare tutto questo con la religione?”. La risposta che do a questa domanda sarà, […], di tipo diverso da quello che voi probabilmente vi aspettate. Anche se forse sarebbe importante chiarire l’atteggiamento che le religioni esistenti prendono nei confronti del nostro status di “apprendisti stregoni” e della trasformazione del nostro mondo in un mondo di robot, è incomparabilmente più importante, mi sembra, dire chiaramente che la situazione nella quale siamo andati a finire è di per sé un “fatto religioso”»41.
Anders intende riferirsi ad una trasformazione fondamentale, per caratterizzare la quale non basterebbero neppure le categorie prese in prestito dalla teologia. Innanzitutto, con la creazione degli apparecchi, non solo quelli atomici, gli uomini sono diventati simili agli dèi, addirittura uguali a Dio ma, in senso negativo. Infatti, mentre Dio crea ex nihilo, l’uomo al contrario è capace di una totale reductio ad nihil. Al posto della creatio ex nihilo, è subentrata una forza opposta: la potestas annihilationis. Quella onnipotenza un tempo desiderata, ora è stata realmente acquistata, ma in una forma diversa da quella sperata. «E per “onnipotenza” intendiamo che noi (o meglio: i nostri “manici di scopa”, gli apparecchi evocati) […] possiamo annichilire il nostro intero “essere stati” da Adamo in poi, il nostro passato; e che siamo capaci di superare persino il terribile “futuro anteriore” di Salomone (“noi saremo stati”) con il futuro privo di futuro “noi non saremo stati”. Di fatto, 41
Ibidem, p. 376.
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tutto quello che da un secolo a questa parte si è fatto passare per un presunto “nichilismo”, se confrontato con questa possibilità di “annichilimento”, altro non è che ciancia culturale. Nietzsche e anche il serissimo Heidegger, sullo sfondo di questa possibilità, ci appaiono tutt’altro che seri»42.
Questa onnipotenza, tuttavia, è chiamata a fare i conti con quella “impotenza” costitutivamente umana, che è la morte. L’essere umano, infatti, è sempre e comunque un essere mortale sebbene, questo accenno alla provata immortalità viene, generalmente, proprio da coloro che intendono nascondere la «mostruosità» di tale condizione. Tuttavia, non tutte le morti hanno la stessa dignità e la stessa qualità: «con ciò intendo che oggi noi non siamo in primo luogo esseri “mortali” ma “uccidibili”»43. Con gli eventi di Auschwitz e con la bomba atomica, infatti, le possibilità del definitivo annientamento umano e la definitiva distruzione delle sue possibilità è tutt’altro che un’illusione. Infatti, l’altro carattere religioso dell’odierna situazione è dato dal fatto che l’uomo è stato anche privato della consolazione di morire. Oggi, infatti, si muore per colpa delle azioni, per mezzo di apparecchi privi di occhi e cervello. Il religiosum in Anders non è nulla di positivo, dato che la drammatica condizione in cui versa l’umanità intera non è da attribuire al peccato originale (storico imputato), bensì è l’effetto della storia umana, «che passa sopra le nostre teste»44. Tuttavia, questo tempo finale si differenzia dall’Apocalisse cristiana in cui il giorno ultimo non era prodotto e causato dall’uomo, ma dall’intervento di Dio e, con un senso tutt’altro che negativo. L’Apocalisse cristiana, infatti, che significa “rivelazione”, indica la manifestazione gloriosa di Cristo alla fine dei tempi di cui, però, l’uomo non conosce né il giorno né l’ora. Ma la laica Apocalisse di Anders non è legata alla speranza di una fine ultima gloriosa in cui ogni catena sarà spezzata; essa, al contrario, rivela una disperazione inconsapevole per il Ibidem, pp. 376-377. Ibidem, p. 377. 44 Ibidem, p. 379. 42 43
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progressivo annichilirsi del mondo, per la graduale e silenziosa autodistruzione dell’umanità, ad opera delle macchine volute tuttavia dall’uomo. Il pericolo dell’Apocalisse, dunque, oggi è incomparabilmente più serio di quanto non siano mai stati i precedenti pericoli della fine ultima. Nel 1964 Anders pubblicò un saggio dal titolo I morti. Discorso sulle tre guerre mondiali. Dopo i due conflitti mondiali, l’ulteriore definizione andersiana degli uomini contemporanei fu di essere dei «superstiti»45, gli «avanzi delle due generazioni mandate a morte, noi che probabilmente siamo i morti previsti della prossima guerra»46. Dinanzi all’assurdità di questi eventi di morte e distruzione Anders sottolinea che la guerra non è semplicemente scoppiata, bensì «è stata fatta scoppiare da coloro che l’avevano freddamente pianificata»47. Il senso stesso della guerra, dopo quanto accaduto nella prima metà del Novecento, si trova profondamente cambiato al punto che ogni successiva guerra «potrebbe liquidare l’umanità»48; questo è quanto potrebbe accadere con un terzo conflitto mondiale. La cecità dell’uomo all’Apocalisse Gli avvenimenti che si sono susseguiti nel corso del XX secolo, hanno contribuito a creare in Anders l’angosciosa idea di un’Apocalisse autoprodotta. La distruzione dell’umanità non è causata da un pericolo esterno, ma è provocata dall’uomo stesso, o meglio, da ciò che l’uomo ha voluto produrre. Anders sottolinea che «viviamo […] in un’epoca nella quale gestiamo la produzione della nostre stessa distruzione»49 a causa dell’umana incapacità di cogliere il pericolo per superare il totalitarismo delle macchine. Non c’è porzione di umanità, infatti, che non sia stata conformata. Ma il G. Anders, I morti. Discorso sulle tre guerre mondiali, p. 9. Ibidem. 47 Ibidem, p. 10. 48 Ibidem, p. 12. 49 G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 13. 45 46
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vero paradosso è che nessun individuo sembra essere capace di riconosce e reagire al pericolo, perché tutti omologati in un unico e pervasivo sistema di controllo, che rende incapaci di comprendere consapevolmente la drammatica fine dell’umanità per orientare la propria azione al fine di arrestarne il processo. La mancanza di coscienza insieme alla sospensione della responsabilità, rendono l’uomo cieco all’Apocalisse, cieco allo scopo. Dato che le sue attività non trovano mai conclusione in un telos, l’uomo vive senza tempo e senza quell’orizzonte entro il quale potrebbe apparire la fine del futuro. In questo senso, per Anders tutti gli elementi dell’esistenza mediale hanno congiurato per impedire che l’uomo afferrasse la natura della bomba atomica e, senza comprendere il senso della parola «fine», egli lavora freneticamente e con indolenza a preparare la propria fine, a produrre la propria morte, a causare la propria auto degradazione; in una sola parola: a suicidarsi. L’intenzione di Anders, pertanto, è di denunciare l’orrore di una nuova forma di dominio e il pericolo che l’uomo possa diventare sterminabile perché superfluo. Nel corso dell’epoca contemporanea, con la tecnicizzazione dell’esistenza, si è verificato che la libertà di coscienza dell’individuo e la connessa responsabilità siano venute meno, a causa del fatto che tutti gli uomini sono stati sollevati dalla responsabilità di compiere una qualsiasi scelta perché, questa capacità, è stata trasferita alle macchine. Ciò che Anders mette in discussione, tuttavia, non è la possibilità etica di modificare o meno l’uomo secondo il principio per cui è buono ciò che è, perché è così com’è. La base morale da cui partire è un’altra, ovvero «se puoi, devi». La tecnica, infatti, portando con sé quel carattere di ineluttabilità, introduce un nuovo imperativo morale tale per cui, il possibile vale come obbligatorio. L’attuale principio di produzione, infatti, consiste nel produrre oggetti da gettare, programmando per questi una vita piuttosto breve, così da suscitare nuovi bisogno e nuovi acquirenti. Il meccanismo del cosmo industriale, consiste ormai nella produzione di prodotti che mirano 97
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alla produzione di altri prodotti e così via, finché «un’ultima macchina “butta fuori”, di volta in volta dei prodotti finali»50. Questi ultimi, tuttavia, non sono più mezzi di produzione ma di consumo che, devono essere consumati attraverso il loro essere usati «pane o granate che siano»51. Solo all’inizio e alla fine di queste catene di produzione, ci sono gli esseri umani. È chiaro che in un tale sistema, viene limitato in modo vergognoso il ruolo dell’uomo di essere umano, in quanto ridotto ad atti di consumo. «Se fossimo sinceri, non dovremmo pregare: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, ma “dacci oggi la nostra fame quotidiana”, […] affinché la fabbricazione del pane rimanga quotidianamente assicurata. Anche se la preghiera dovesse uscire ancora dalle nostre bocche umane, in realtà a pregare sono i prodotti: “Dacci oggi i nostri mangiatori quotidiani…” […] Poiché la maggioranza dei prodotti […] hanno fame di essere consumati, […] per poter consumare prodotti, è necessario che ne abbiamo necessità»52.
In tal modo, essendo la tecnica il nuovo soggetto della storia, si ha anche un nuovo imperativo morale: «agisci in modo che la massima della tua azione possa coincidere con quella dell’apparato, di cui sei o sarai parte»53. Gli imperativi morali dell’epoca contemporanea derivati dalla tecnica, rendono irrisori i postulati morali degli antenati della morale, come nel caso di Kant. La condizione che, infatti, rendeva possibile la morale kantiana era la libertà; oggi una tale condizione non è più reale. L’uomo che si scopre «passivizzato» e neutralizzato dagli apparecchi che lo sovrastano e Ibidem, p. 9. I prodotti in serie, infatti, sono nati per morire; sono destinati alla transitorietà, che è definita dalla loro data di scadenza. Più precisamente, poiché i prodotti vecchi vengono sostituiti da quelli nuovi, sarebbe più corretto dire piuttosto che morire, i prodotti vengono uccisi dalla produzione stessa che usa gli uomini, in qualità di consumatori, a consumare esemplari usandoli e, a sfruttarli utilizzandoli. 51 Ibidem. 52 Ibidem, p. 10. 53 Ibidem, p. 268. 50
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che lo rendono morfologicamente costante, che in senso morale significa non-libero, refrattario, ottuso. In definitiva, i soggetti della libertà e della mancanza di libertà sono invertiti, sebbene questa mancanza di libertà, quando è avvertita, appare come piacevole e comoda. Tuttavia, questa mentalità divenuta (cattiva) abitudine di soddisfare il bisogno della tecnica di fare tutto ciò che si può fare e di realizzare tutto ciò che è realizzabile, si sono prodotte armi che rendono ripetutamente possibile la fine dell’umanità. Secondo Anders, infatti, non solo non è stata ideata alcuna arma che poi non sia stata effettivamente prodotta, ma anche che non ne è stata prodotta alcuna che non sia stata effettivamente usata, come nel caso della bomba atomica. Ciò che vuole sostenere Anders non è tanto una passività originaria dell’uomo, quanto piuttosto un essere stato reso passivo dalla schiavitù in cui lo ha indotto il totalitarismo tecnocratico. L’uomo «passivizzato» dunque è conseguenza dell’estraneità dell’uomo dal mondo e rispetto a ciò che nel mondo accade, ed in cui gli uomini sono gettati in modo occasionale. Nel 1930 il ventisettenne Anders scrive una relazione in tedesco proprio sulla non identificazione dell’uomo rispetto al mondo – Die Weltfremdheit des Menschen – tradotta nel 1936 in francese – Pathologie de la liberté – pubblicata nelle Recherche Philosophiques. Nell’antropologia originale di Anders emerge l’aver constatato la non appartenenza dell’uomo al mondo, il suo sentirsi estraneo e «la sua impossibilità di integrarsi in esso»54. Secondo la prospettiva andersiana essere libero significa «essere straniero; non essere legato a niente di preciso; non essere legato a niente di preciso, non essere tagliato per niente di preciso; trovarsi nell’orizzonte del qualunque; in una postura tale per cui il qualunque può anche essere incontrato in altri qualunque. Nel qualunque, che posso trovare grazie alla mia libertà, è anche il mio proprio io che incontro; questo pur
54
F. Lolli, Introduzione, in G. Anders, Patologia della libertà, p. 6. 99
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appartenendo al mondo, è straniero a sé stesso. Incontrando il contingente, l’io è per così dire vittima della propria libertà»55.
Anders oppone all’essere-nel-mondo del maestro Heidegger un essere-escluso dal mondo, trovandosi estraneo e contingente «tanto rispetto a sé stesso quanto rispetto ad ogni altra parte del mondo»56. La libertà, pertanto, secondo Anders è assenza di legami e relazioni precise, che siano costituite cioè per natura. Per questo l’uomo andersiano non ha alcun orizzonte sul futuro; infatti, l’assenza di relazione specifica, l’impersonalità di legami artificiali e l’alienazione di un essere tra enti in serie e indistinguibili non lascia scampo a speranzose possibilità sul futuro; «nella vergogna, l’uomo si scopre abbandonato a se stesso»57. Vista al contrario la patologia della libertà come libertà illusoria e condizionata, è una non libertà. Anders scrive che «il punto di partenza della libertà sta nel fatto che l’uomo, straniero al mondo, è staccato dal mondo, è abbandonato al sé stesso. La libertà non è inizialmente né una decisione né un’autonomia morale»58. L’uomo asservito alla tecnica non si sente parte del mondo perché nella sua alienazione non riesce a dire «io sono» all’indicativo, ma resta sempre al condizionale, in una posizione quasi liquida, mai definita. In questo «malessere della vertigine»59 come prova della propria esistenza ne consegue che l’uomo non sarà in grado di sperimentare una libertà autentica come libertà da, ovvero come quella assenza di costrizione che apre ad una libertà per (un’alterità personale e non artificiale). È nella libertà per, positivamente intesa, che l’uomo decide di agire in vista di uno scopo e, in questa decisione intenzio-
G. Anders, Patologia della libertà, p. 36. Ibidem, p. 10. 57 Ibidem, p. 42. 58 Ibidem, pp. 24-25. 59 Ibidem, p. 44. 55 56
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nale, coinvolge non solo la sua dimensione cognitiva ma anche affettivo-emotiva. Fintanto che l’uomo resta estraneo a sé stesso resta in una inconsapevole condizione di non-libertà. Partendo da questa condizione antropologica, Anders vede nel nichilismo una posizione coerente alla condizione di «non appartenenza dell’uomo al mondo»60. In particolare, in questo saggio egli contrappone l’uomo nichilista all’uomo storico. Nel definire il ritratto del nichilista Anders spiega che è colui che talvolta si sente di questo mondo, talvolta no. Il nichilista perde ciò che gli appartiene, dimentica il principio di individuazione e la propria origine; così facendo spera di perdere finanche sé stesso61. In antitesi all’uomo nichilista c’è l’uomo storico che «continua la sua vita»62 perché consapevole dell’andamento storico, nonostante la contingenza; non teme il fato dell’esistenza, perché è un uomo hegelianamente razionale63. Dunque, per Anders per il nichilista il paradosso dell’esperienza della libertà consiste in un’esistenza non Ibidem, p. 13. Cf. Ibidem, p. 45. 62 Ibidem, p. 50. 63 Per Maria Zambrano (1904-1991), invece, l’uomo è un essere storico ed ha una «coscienza storica». A partire da questo dato ontologico, l’uomo può assumere un posto nella storia attivo o passivo. La forma attiva, spiega la filosofa spagnola, «si realizza pienamente solo quando si accetta la responsabilità o quando la si vive moralmente». M. Zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, tr. it. C. Marseguerra, SE, Milano 2020, p. 13. Anders, diversamente, considera proprio l’assenza sia di un ruolo attivo dell’uomo nella storia a causa del sentimento di vergogna, sia di un atteggiamento eticamente responsabile rispetto alla propria posizione nella storia. In un certo senso, se l’uomo non è più protagonista della storia e se non gli appartiene più una coscienza storia, allora ne deriverebbe anche l’essere moralmente passivo. Secondo la Zambrano è solo per mezzo di una coscienza storica che «si potrà raggiungere più lentamente quello che la speranza chiede e quello che la necessità reclama» (Ibidem, p. 14). Mentre l’umanità descritta da Anders soggiogata inconsapevolmente dalla tecnica che interviene sulla storia modificandola velocemente, sembra essere ritratta da quest’altro passo della Zambrano in cui, tuttavia, tanto la persona quanto una forma politica basata 60 61
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storica o antistorica, mentre la vita storica si colloca «oltre il paradosso»64. Entrambi, spiega Anders «hanno bisogno di identificazione»65, ma da un lato i tentativi di salvataggio dell’uomo storico e dall’altro l’atteggiamento del nichilista «testimoniano entrambi la loro identica posizione: l’estraneità al mondo»66. E questo dato è molto interessante, non tanto l’essere estranei dal mondo ma al mondo, ovvero non trovare la propria posizione e, «senza il mondo, l’identificazione risulta impossibile»67. Tra uomo nichilista e uomo storico, tuttavia, è possibile intravedere un’altra posizione: quella dell’uomo che agisce e produce intenzionalmente una trasformazione; quest’uomo è l’uomo del “fare”, dell’atto e della prassi che, tuttavia, lasciata alla sola tecnica non troverà più il senso di porre la domanda antropologica. Ed è in questa posizione che si trova l’umanità descritta da Anders, in cui l’uomo a-storico, pur non essendo completamente passivo (o nichilista), lascia tuttavia che il suo fare sia orientato dalla tecnica, senza che abbia più alcuna responsabilità. Infatti, all’uomo a-storico, segue un uomo a-morale e aresponsabile; pertanto, alla «cieca tecnocrazia» segue una «deresponsabilizzazione morale»68. Quale possibile conclusione, dunque, può elaborare il pensiero filosofico dinanzi a questa estraneazione e non riconoscimento dell’uomo al mondo? Anders fornisce una risposta all’inizio del suo saggio sostenendo: sulla responsabilità di ciascun individuo (come nella democrazia), non trova realizzazione alcuna: «In modo passivo, tutti gli uomini sono stati portati, spinti e perfino trascinati da forze estranee, chiamate a volte “destino” e a volte […] divinità. E niente può svilire e umiliare l’uomo più che l’essere mosso non si sa da cosa, non si sa da chi, essere mosso da qualcosa al di fuori di sé. […] Ebbene, il primo modo di fare i conti con una realtà umana è sopportarla, subirla semplicemente. E in questa situazione, molte volte si è come dei giocattoli nelle sue mani» (Ibidem, p. 13). 64 G. Anders, Patologia della libertà, p. 52. 65 Ibidem, p. 58. 66 Ibidem. 67 Ibidem, p. 60. 68 L. Pizzighella, Introduzione, in G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 12. 102
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«A differenza dell’animale che conosce d’istinto il mondo materiale che gli appartiene e che gli è necessario […] l’uomo non prevede il proprio mondo. Ne possiede solo un a priori formale. L’uomo non è fatto per nessun mondo materiale, non può anticiparlo nella sua determinazione, deve piuttosto imparare a riconoscerlo […] ha bisogno dell’esperienza. La sua relazione con una determinazione fattuale del mondo è relativamente fragile, egli si trova nell’attesa del possibile e del qualunque. Nessun mondo gli è effettivamente imposto […], al contrario, egli trasforma il mondo e, con mille varianti storiche e come una sorta di sovrastruttura, vi edifica ora un “secondo mondo”, ora un altro. Infatti, per offrirne una definizione paradossale, l’artificialità è la natura dell’uomo e la sua essenza è l’instabilità»69.
Nessuna responsabilità. L’esplosione della bomba atomica «Lo sgomento in cui mi aveva gettato il famoso annuncio radiofonico del 6 agosto 1945, per molti anni non ho potuto né vincerlo né addolcirlo. Solo nei primi anni Cinquanta (1952-1953), molto tempo dopo l’esilio americano mi è riuscito un primo passo insicuro. […] Ma quello che riuscii a mettere insieme […] fu poco più che la consapevolezza della mia incapacità, anzi della nostra incapacità anche soltanto a immaginarci ciò che “noi” qui avevamo provocato e prodotto. Il primo risultato dunque fu soltanto questo: nella confessione del fallimento […]. Soltanto un paio di giorni più tardi mi baluginò l’idea che l’orrore della nostra situazione, cioè la possibilità, anzi la probabilità di una nuova Hiroshima o Nagasaki si fondava su questa discrepanza tra la nostra capacità d’immaginazione e la nostra capacità di produzione»70.
La visione apocalittica della condizione umana espressa da Anders e il timore che un nuovo evento atomico possa verificarsi, dunque, apre a delle questioni complesse non solo di ambito antropologico ma anche etico che, tuttavia, non lasciano ben sperare. I dilemmi morali che vengono suscitati dalla diagnosi di Anders, ed in modo particolare la questione della responsabilità, è presente tra le righe dei due volumi de L’uomo è antiquato. Anders non si sottrae
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G. Anders, Patologia della libertà, p. 34. G. Anders, I morti, p. 56. 103
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alla responsabilità di dire l’indicibile e, al contempo, di dare forma e unità ai molteplici frammenti in cui l’umanità si è ridotta.
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«Supponiamo che la bomba venga impiegata: Non sarebbe appropriato continuare a parlare di “agire”. Il processo attraverso il quale una simile “azione” finirebbe con l’essere effettuata sarebbe così indiretto e impenetrabile, consterebbe di tanti passi che nessuno sarebbe il passo, che alla fine, ognuno avrebbe fatto soltanto qualcosa, ma nessuno lo avrebbe “fatto”. Alla fine non sarà stato nessuno»71.
L’esempio riportato da Anders è sicuramente di grande efficacia per rafforzare la sua argomentazione. Egli, infatti, si riferisce all’evento del rilascio della prima bomba atomica, avvenuto prima su Hiroshima e poi su Nagasaki, rispettivamente il 6 e il 9 agosto del 1945 e, in particolare modo al pilota che avrebbe sganciato la bomba72. Quel pilota, infatti, avrebbe premuto “solo” un pulsante. La sua fatica, dunque, fu talmente minima rispetto all’enormità delle conseguenze da affermare che egli non fece nulla. Causa ed effetto sono così separate e, diversamente dalle etiche del passato in cui si supponevano azioni reali, oggi non ci sono più né azioni G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 230 L’esplosione della bomba atomica (originariamente Bomba A), causa una reazione a catena di fissione dei nuclei in forma incontrollata (cioè rapidissimamente divergente) in una massa di “materiale fissile”, (uranio 235 o plutonio 239) con sufficiente grado di purezza. Questi particolari materiali, elementi radioattivi dal nucleo instabile, hanno la proprietà di generare una reazione nucleare a catena, cioè un fenomeno a cascata in cui lo spezzarsi di un nucleo atomico produce come effetto la scissione (rottura di un legame fisico) di altri nuclei di atomi vicini. Ciò avviene statisticamente solo quando il numero di atomi è sufficientemente grande cioè la quantità di materiale supera una certa “massa critica”. Nell’istante in cui la massa viene resa “super-critica” essa libera una quantità di energia enorme in un tempo brevissimo. L’esplosione è devastante proprio per le enormi quantità di energia liberate nelle reazioni nucleari. La prima bomba, all’uranio, denominata Little Boy fu sganciata sul centro della città di Hiroshima il 6 agosto 1945. La seconda bomba, al plutonio, denominata in codice Fat Man, fu sganciata invece su Nagasaki il 9 agosto 1945. Questi sono stati gli unici casi d’impiego bellico di armi nucleari, nella forma del bombardamento strategico. 71 72
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reali né attori che avrebbero un diritto alla responsabilità. Dinanzi ad una tale situazione, avrebbe ancora senso chiedersi di chi sia la responsabilità della catastrofe? Pur di prevenire l’estremo pericolo di un richiamo alla coscienza, si è pensato di costruire delle macchine-oracolo, degli «automi di coscienza elettronici», degli “esseri” dunque a cui addossare ogni responsabilità. Questi automi altro non sono che macchine calcolatrici cibernetiche e che, oggigiorno costituiscono la quintessenza del progresso scientifico, ma sotto ogni riguardo della morale. La responsabilità, pertanto, è trasferita alle macchine, mentre l’uomo si tiene in disparte e, «per metà grato per metà trionfante» se ne lava le mani73. «Naturalmente non c’è nessuno che non sappia in certo modo che cosa la bomba “è”. Ma la maggior parte lo “sa” appunto soltanto: nel modo più vacuo; senza afferrare realmente ciò che sa. Anzi, in un certo senso, sa addirittura cose errate. […] Che, se anche pensiamo la bomba, la pensiamo in una categoria errata. […] Perché la bomba non è un “mezzo”»74.
La bomba non è un mezzo giacché nel concetto di mezzo è implicito il fatto che il «mezzo» mediando il suo scopo si esaurisca in esso, che sparisca come quantità nel momento in cui lo scopo è raggiunto. Ma, ciò non appartiene alla bomba perché, se venisse impiegata, il minimo dei suoi effetti sarebbe più grande di qualsiasi scopo. Inoltre, per quanto sia possibile migliorare la potenza e il raggio d’azione dell’ordigno, non si potrà migliorare il suo effetto75. G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 130. Ibidem, pp. 233-234. 75 Le macchine, per lo natura, sono espansioniste tanto che Anders arriva a dire che ad ogni singola macchina è innata la «volontà di potenza». Ogni macchina, che lo voglia o meno, è intenzionata a diventare maggiore di se stessa, tendendo ad una condizione in cui i processi esterni indispensabili al suo funzionamento e alla durata delle sue prestazioni, si svolgono con precisione macchinica. In un certo qual modo, già solo questa tendenza all’espansione delle macchine crea alcuni problemi ma, il problema aumenta ancora di più laddove si constata che questo loro impulso espansionistico è insaziabile e iterata senza che questo processo abbia un limite. 73 74
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L’effetto resterà il medesimo, sempre solo la stessa fine del mondo. Eppure, dinanzi a quest’epilogo drammatico, l’uomo resta cieco. L’autodistruzione dell’umanità non genera la minima paura e, non c’è angoscia che tenga. In ordine morale, invece, secondo l’interpretazione andersiana, quando l’organizzazione è in funzione, «l’idea della moralità dell’azione viene sostituita da quella della bontà del funzionamento»76; ciò che ciascun lavoratore specializzato vede è «il passo che spetta a lui di compiere […] quindi per lui non esiste immoralità fin dove spazia la sua vista»77. Ma, l’assenza di angoscia e di paura che dovrebbe mobilitare gli uomini a reagire alla propria distruzione, è contrastato proprio da quel «terrore morbido» dei reggitori dell’universo dei mezzi. Essi, infatti, cercano di impedire che si esorti a guardarsi dalla bomba, temendo che un precedente del genere metta in pericolo il mondo intero. L’obiettivo, allora, sarà quello di distogliere l’attenzione della massa dal fatto che, se non viene criticata, la bomba mette in pericolo il mondo e la vita degli uomini. Questa tattica tipica di governanti incompetenti, mediocri e grotteschi, consiste nel continuare a minimizzare la portata e gli effetti dell’ordigno, facendolo sembrare del tutto inoffensivo, al fine di presentarlo come un mezzo tra altri mezzi. Lo spostamento della responsabilità dal soggetto all’oggetto porta Anders a formulare una tesi che non riprenderà oltre L’uomo è antiquato, ma che tuttavia non va sottovalutata nella sua portata speculativa. Secondo Anders all’antiquatezza antropologica si arriva anche ad una antiquatezza morale giacché la responsabilità è sostituita «con un “response meccanico”»78. Anders argomenta in pochi passaggi questa metamorfosi morale, ma che sta ad indicare il culmine del dislivello prometeico, giacché l’essere umano non è più soggetto chiamato a rispondere della propria azione in quanto G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 231. Ibidem, pp. 231-232. 78 Ibidem, p. 231. 76 77
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propriamente non agisce ma, nella massa, si occupa solo di gestire un pezzo dell’organizzazione. In una realtà parcellizzata e frammentata, la morale perde la dignità. Infatti, lo scopo di un’azione – come lo sgancio delle due bombe atomiche – non sarà imputabile a nessuno. La non-responsabilità, dunque, non sarà più la irresponsabilità ma la a-responsabilità (assenza). Per il singolo lavoratore, inserito nel suo posto di lavoro col dovere di eseguire la propria operazione, non esiste immoralità fin dove spazia la sua vista, perché la sua vista non spazia affatto. Questa mancanza di coscienza, tuttavia, non si riferisce al fatto che chi agisce, agisce contro la propria coscienza; questa sarebbe una confortante possibilità, perché ancora umana. Significa piuttosto che da quell’individuo è esclusa la possibilità di avere una coscienza. Quindi, ciò che gli manca non è solo la morale bensì, anche l’immoralità. È, pertanto, chiaro che non c’è nulla che si opponga all’ordigno, «perché è proprio il grande numero dei partecipanti e la composizione dell’apparato che impedisce di impedire»79. Globocidio «Ma, d’altra parte, sembra che anche il pensiero della “iterazione ad infinitum”, il pensiero che io non so quale sarà l’ultima conseguenza del mio fare; dunque quale “senso” avrà infine il mio fare e di che cosa infine io sia responsabile, anche questo pensiero è demoralizzante perché chi ne è vittima e cede ad esso si priva poi della capacità di agire ancora. Così sembriamo condannati a scegliere tra un orizzonte troppo stretto e uno troppo vasto, tra la puntualità del vivere e la prospettiva infinita, tra limitatezza morale e “dismisura morale”. Questa è veramente un’alternativa terribile, un’aporia, che non si può sciogliere ma soltanto tagliare […]. Tuttavia, […] se non siamo obbligati a vivere e lavorare sub specie infiniti, noi comunque, […] dobbiamo uscire dall’“ora” e porci dentro uno spazio molto ampio, spesso non percepibile, ma solo immaginabile, […], di previsione e responsabilità»80.
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Ibidem, p. 232. G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 361. 107
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L’interrogativo sulla responsabilità del fare e dell’agire dell’uomo nell’epoca della terza rivoluzione industriale, per Anders giunge alla domanda su quale sia l’effetto dell’effetto dell’uso del pezzo di prodotto che il singolo individuo co-produce e la cui produzione finge di dare senso alla sua vita. Il senso reale del suo fare, per quanto limitato e momentaneo, è l’effetto ultimo, quello cioè che arriva dopo una catena di iterazioni. Anders parla anche di una «dialettica delle macchine»81 per indicare che ciò che si realizza in positivo (la collaborazione tra i vari pezzi), allo stesso tempo ha anche un senso negativo (perché ogni pezzo dipende da un altro). L’errato funzionamento di un singolo pezzo minaccia la macchina nel suo complesso. Nonostante l’integrazione dei pezzi nel tutto, il pezzo deve proteggersi dal tutto ma anche il tutto deve proteggersi dai pezzi; «i pezzi dal fallimento del tutto, il tutto dal fallimento dei pezzi»82. La dialettica della tecnica, inoltre, sta anche nel fatto che non basta affermare che bisogna utilizzare la tecnica per scopi buoni invece che cattivi, per compiti costruttivi invece che distruttivi. Piuttosto, ci si deve chiedere «se disponiamo così liberamente della tecnica»83. In altre parole, si potrebbe anche rispondere che il pericolo che minaccia l’uomo non consista nel cattivo uso della tecnica ma, nell’essenza della tecnica in quanto tale. Uno dei compiti della filosofia, pertanto, sarà di scoprire il punto dialettico e determinare dove «il nostro sì alla tecnica debba trasformarsi in scetticismo o in un no nudo e crudo»84. «È vero, la massima “nessun fine giustifica i mezzi” […] conserva, come prima la sua validità. Tuttavia, non meno importante, se non addirittura più importante, è il suo capovolgimento: “nessun mezzo giustifica il fine”. Esempio: il fatto che esiste il mezzo di distruzione e di ricatto “bomba
Ibidem, p. 113. Ibidem, p. 111. 83 Ibidem, p. 113. 84 Ibidem, pp. 113-115. 81 82
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atomica” non giustifica che questo mezzo venga utilizzato per gli scopi in esso incorporati»85.
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Anders, inoltre, si chiede quale possa essere il senso del lavoro di colui che collabora alla produzione di un pezzo di macchina necessaria per produrre un’arma di distruzione di massa, il cui senso a sua volta è nella liquidazione di milioni di uomini. Il senso ultimo di colui che lavora a quel primo e minuscolo pezzo, apparentemente innocuo e lontanissimo da lui nel tempo e nello spazio, consiste nell’effetto finale del prodotto finale. Detto altrimenti, il senso ultimo di un modesto gesto manuale può chiamarsi «genocidio»86. «Come si vede, non c’è bisogno di continuare ad infinitum l’iterazione. Il senso del mio lavoro non sta nell’infinito, ma solo in qualcosa di molto lontano. La verità morale sta a metà tra l’“ora” e l’infinito. […] Se noi riconosciamo come senso ultimo di un prodotto alla cui produzione collaboriamo la distruzione dell’umanità, sappiamo bene ciò che dobbiamo fare ovvero tralasciare di fare»87.
Ma questa catastrofe, che ha radice nell’antiquatezza della natura umana, costituisce un difetto e una mancanza cognitiva o morale? Questa è la medesima domanda posta da Mathias Greffrath in una discussione sulla distruzione del futuro. Nella sua risposta, Anders cerca di chiarire che la tecnica divenuta tecnocrazia ha modificato le strutture del reale, compreso l’uomo. Per cui in questa condizione di dislivello, distanza e asincronizzazione dal reale a causa delle macchine, è l’uomo ad essere oggetto e non più soggetto: «Le conseguenze di quanto noi possiamo causare oggi con l’aiuto della nostra tecnica altamente perfezionata, non sono in una certa misura, colpa nostra. Nel mio scambio di lettere con Eatherly, il pilota di Hiroshima, ho Ibidem, p. 364. Qui si aprirebbe anche il problema relativo all’eccesso di energia. La necessità di limitarsi quindi non è in considerazione della scarsità ma della sovrabbondanza. 86 Ibidem, p. 362. 87 Ibidem. 85
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creato il concetto di “colpevole innocente”. Non affermo che l’“essere umano” sia oggi peggiore di quanto non lo sia stato in passato, ma che le sue azoni sono divenute enormi a causa dell’enormità dei suoi stessi strumenti»88.
La tecnica sembra essere indifferente sia alla destinazione finale dei prodotti che al loro valore morale, senza che esiti a scatenare il suo potenziale distruttivo. Le invenzioni tecniche, infatti, non sono mai soltanto invenzioni tecniche dal carattere neutrale, per cui l’unica cosa sarebbe il come queste vengono usate; ovvero se il loro uso sia morale o immorale, umano o disumano, democratico o antidemocratico. La tesi della neutralità morale è un’illusione a cui, però, l’homo technicus si abbandona solo perché sente il bisogno di conservare una buona coscienza nei confronti dell’insieme dei suoi apparecchi che aumentano di giorno in giorno fino a sopraffarlo. L’esistenza umana è ridotta a insieme di esseri controllabili, tanto che per essi è già stabilito il modo del loro essere-nel-mondo, diverso dai modi precedenti. Essi, infatti, correggono o cancellano un evento di portata ontologicamente rilevante, ovvero l’essere dell’uomo in quanto è come discretum, qualcosa di isolato (principio d’individuazione). Ciò che manca dunque è la responsabilità umana e non la tecnica negli effetti. Tuttavia, la domanda successiva rispetto al senso che dovrebbe avere il fatto che esista un’umanità e non piuttosto che non ne esista alcuna, non presenta alcun interesse per la ragion pratica che non riguarda il moralista, tutt’al più – ma senza certezza alcuna per Anders – potrebbe averne nel campo teorico. Fin dal primo volume de L’uomo è antiquato, Anders non esclude la fabbricazione dei prodotti dal timore che per mezzo di questi l’uomo possa edificare un mondo con il quale non riesce a tenersi al passo e che, per afferrarlo si pongono delle esigenze esorbitanti: «dalle capacità della nostra fantasia, delle nostre emozioni e 88
G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, p. 74.
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della nostra responsabilità»89. Nella società conformista, pertanto, la discrepanza dell’uomo rispetto ai suoi prodotti si fa sempre più evidente a causa di un modo di produzione che ha trasformato l’uomo sia nel suo relazionarsi con se stesso che con il mondo da lui creato. Nell’illusoria sincronia con la realtà tecnologica, l’essere umano non riesce a comprendere la vasta portata del dislivello prometeico, e ciò a causa del fatto che ormai sono i prodotti a plasmare l’uomo e non l’uomo a plasmare i prodotti. Ormai l’uomo non si trasforma più per sé, come tutti gli altri esseri viventi, ma per amore delle macchine e avendo queste ultime come termine di misura, rinuncia alla propria libertà e permettendo che l’uomo sia ridotto a potenziale territorio di occupazione. Questi oggetti, di fatto, hanno un carattere pervasivo, mentre lo strumento non è più inattivo o isolato ma tutt’uno con la pelle dell’uomo. Il novello Prometeo, che si vergogna dinanzi ai prodotti da lui creati ma che gli sembrano così superiori tanto da non trovare la forza per assumersi la propria responsabilità, apre alla questione morale sulle precarie condizione di agire dell’umanità. A causa della persuasione operata dal sistema tecnocratico, l’uomo è spossessato della propria personalità e razionalità, dell’esercizio della sua individualità per diventare soggetto conforme ad un sistema nel quale, si sentirà sempre più a disagio e, nel quale proverà un senso di profonda vergogna per il fatto di non essere all’altezza dei prodotti che lui stesso ha contribuito a produrre. Segnata dalla minaccia atomica e dalle ferree leggi della tecnica, l’umanità si trova costretta a sospendere la sua coscienza responsabile e, schiacciandola nella dimensione unica del conformismo consumistico disumanizzante, in cui come direbbe Nietzsche si va al di là di un riconoscimento sia del bene che del male. «Bei tempi erano quelli, quando il male si manifestava ancora nel malvagio o nel maligno e quando si poteva sperare di poter combattere il 89
G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 25. 111
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male lottando contro il male. […] Oggi noi non minacciamo la sopravvivenza del mondo perché saremmo divenuti peccatori per natura o per una “caduta”; ma perché siamo degli apprendisti stregoni, cioè perché, anche con la coscienza migliore, non sappiamo che cosa facciamo quando produciamo i nostri prodotti […]. Che cos’è la nostra “capacità” di rubare, o di commettere adulterio, o di bestemmiare Dio, o di assassinare in confronto alla nostra “capacità” di commettere […] “globocidio”? […] Il diavolo si è trasferito in una nuova dimora. E anche se siamo incapaci di cacciarlo fuori […] perlomeno dobbiamo sapere dove si nasconde»90.
In questo passo, dal tono incisivo e deciso, Anders riassume nel concetto di «globocidio» la radice che sta autodistruggendo l’umanità intera. Si tratta di un male secolarizzato che, come un «diavolo», divide, separa e porta alla morte. Anders non vuole farsi profeta di sventura, ma con il suo linguaggio intende esprimere ancora una volta la radice che ha dato origine alla condizione umana da lui osservata: è nella «vergogna», la parola chiave da cui prende avvio la trattazione filosofica più organica e sistematica di Anders. «Occorre, infatti, riconoscere a Anders il coraggio teorico di aver tentato di trasformare la consueta qualificazione dell’impresa prometeica […] in termini di arroganza, superbia, hybris, in “vergogna”. Interpretazione teorica non semplice, quella di Anders, perché la vergogna è esperienza umana difficile da far emergere di fronte al rapporto con degli artefatti meccanici»91.
Dall’orgoglio alla vergogna92. In questo passaggio si evidenzia la percezione umana – troppo umana – di inadeguatezza. La vergogna, infatti, è un concetto che indica di fondo il trovarsi in una posizione sbagliata; si tratta cioè di un sentimento che l’individuo prova su di sé e dunque chiama in causa l’autoconsapevolezza di ciò che si è ma anche di ciò che si vorrebbe essere. Dietro la vergogna andersiana, pertanto, si cela molto di più di un dislivello ontico, dato dal confronto tra la perfezione delle macchine e la scarsa G. Anders, L’uomo è antiquato II, pp. 381-382. A. Pessina, L’essere altrove, p. 19. 92 Cf. Ibidem, p. 21. 90 91
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perfettibilità dell’uomo. Si tratta di una vergogna ontologica, ovvero di non-essere come gli oggetti tecnici. In questo processo di reificazione, l’io perennemente insoddisfatto è come se si lasciasse addomesticare dalla tecnica. Secondo l’interpretazione di Adriano Pessina: «Questa immagine sintetizza con efficacia un aspetto della dinamica psicologica ed esistenziale dell’insoddisfazione: l’io non trova nessuna consistenza in sé perché è continuamente chiamato a progettare la propria vita per rispondere delle aspettative che ha su di sé, anche quando sono semplicemente le richieste che gli vengono rivolte dalla società in cui vive. In attesa della liberazione di Prometeo, cioè dell’avvento di un futuro in cui le sue capacità fisiche, intellettuali, morali e le sue condizioni di vita saranno all’altezza di quelli che ritiene essere i suoi desideri, si trova costretto a fare i conti con un sé che non gli piace, con una vita che considera incatenata»93.
La vergogna prometeica ha alcuni tratti simili alla vergogna adamitica, sebbene per molti altri tratti se ne discosti. Se alla base c’è il comune sentimento della vergogna, ovvero della consapevolezza dell’errore, Adamo ed Eva provano vergogna per aver desiderato d’essere come Dio. L’uomo dell’età della tecnica, però, è erede del grido dell’uomo folle nietzschiano che ha ucciso Dio94. Mentre la religione è secolarizzata, la tecnica è divinizzata al punto che la vergogna, dinanzi a qualcosa di completamente impersonale, è di non essere tale. Pertanto, si lascia addomesticare. «L’insoddisfazione dell’io, però viene presentata non soltanto come il risultato psico-sociologico della società della prestazione, storicamente condizionata dall’articolazione dei processi tecnologici, ma come una vera e propria condizione antropologica, che appartiene, per così dire, alla stoffa dell’umano così come è andato a costituirsi nel corso dell’evoluzione. Se questa tesi è vera, allora si capisce perché le tecniche di miglioramento A. Pessina, L’io insoddisfatto. Tra Prometeo e Dio, Vita e Pensiero, Milano 2016, p. 171. 94 «Got is tot!»: F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, § 125, a cura di G. Colli, Aldelphi, Milano 197725, p. 129. 93
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e di perfezione che vengono proposte non esitino a ipotizzare un cambiamento della natura dell’uomo. Soltanto potenziando il fare dell’io si potrà modificare il suo modo di essere che risulta insoddisfatto e che come tale non avrebbe nulla di amabile in sé»95.
Quel sentimento di vergogna, sebbene nella sua forte espressività stia ad indicare una forma di abbassamento dell’uomo rispetto alla propria natura, tuttavia fa sì che l’uomo resti uomo. Dunque, la vergogna è all’origine del dislivello rispetto alla tecnica, ma la riflessione autocosciente dell’uomo su questo sentimento gli ricorda la propria natura umana. Partendo da questa consapevolezza, l’uomo può (ri)trovare la propria strada e la propria posizione nel mondo in senso etico-antropologico e politico-sociale. Pertanto, sebbene l’uomo sia antiquato, comunque l’uomo è.
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A. Pessina, L’io insoddisfatto, p. 193.
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Conclusioni
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Nel segno dell’umano. Oltre la paura dell’artificiale
La filosofia andersiana si presenta come una filosofia diversa ma al contempo originale, nonostante i caratteri preoccupanti con cui Anders ha descritto l’umanità. Probabilmente l’espressività spesso apocalittica dell’autore è dipesa dal timore concreto di una distruzione in senso ontologico, ovvero lo sprofondare nel nihil. Eppure, l’autodistruzione o implosione dell’umanità è stata solo tentata, restando tuttavia ancora una possibilità. Dinanzi a questa possibilità, dunque, la filosofia si presenta come un’occasione affinché quella fine possa essere solo immaginata e non concretamente realizzata, come Anders esprime nel concetto dell’«esserci-ancoraappena». La dialettica uomo-mondo con l’avvento della tecnocrazia, ha evidenziato che, oltre alla vergogna, l’essere umano ha fatto esperienza anche di un senso di estraneità rispetto al mondo, una sorta di non cura che lo ha esonerato da ogni responsabilità. In fondo, questa estraneità sarebbe dipesa dal fatto che l’uomo ha spostato la sua priorità ontologica dal naturale all’artificiale. Dunque, non vedendo ciò che lo accomuna alla natura del mondo e alla sua possibilità di esserne custode, si vergogna per il fatto di non essere completamente artificiale e determinato ontologicamente come le macchine. Così anche la capacità naturalmente artificiale dell’essere umano di homo artifex elimina la natura umana lasciando solo quella di artefatto, purtuttavia sentendosi sempre inadeguato. Dunque, come sentenziato da Anders, la natura dell’uomo sarebbe nel suo «non essere naturale»1. Da questo disconoscimento della propria 1
F. Lolli, Introduzione, in G. Anders, Patologia della libertà, p. 7. 115
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natura e dall’assenza di un’identità a causa della massificazione, l’uomo eremita, prova vergogna al punto da desiderare non più di essere come Dio, ma come le macchine. Infatti, come scrive Anders, «per offrirne una definizione paradossale, l’artificialità è la natura dell’uomo e la sua essenza l’instabilità»2. Questo passo riprende in modo molto simile una citazione di Emmanuel Mounier che ne La petite peur du XXe siècle scrisse che «la natura dell’uomo è l’artificio»3. Sebbene l’uso di queste parole sembri una forzatura – sia in Anders che in Mounier – è altresì vero che ciò consente al filosofo personalista di decostruire quel sistematico discredito nei confronti dell’artificiale – che ha origine proprio da una visione radicalmente distorta dell’uomo – e, di superare dualismi esasperati ed esasperanti tra natura e artificio, tra uomo e macchina. Mounier, infatti, sottolinea che l’artificio non è un male, a condizione però che venga usato per realizzare l’umanità, e non per avvilirla. In questo senso, oltrepassando la paura di un dominio tecnico e il timore angosciante per un progresso irrefrenabile, Mounier immagina e spera nella realizzazione di un mondo umano, cioè «ad altezza d’uomo»4, mentre Anders sembra individuare un abbassamento e una asincronizzazione. Il tema dell’apocalisse, della catastrofe, del rapporto tecnica-nichilismo, della macchinizzazione del mondo e della dimenticanza come negazione, sono presenti anche in Mounier. Ma, diversamente da Anders, Mounier riconosce nei progressi del macchinismo anche la sua stessa limitazione5. Il
Ibidem, p. 34. E. Mounier, La paura dell’artificiale. Progresso, catastrofe e angoscia, a cura di F. Riva, Città Aperta, Troina 2007, p. 88. Questo testo nasce da una raccolta di conferenze tenute tra il 1946 ed il 1948 sul tema della paura contemporanea. 4 Ibidem, p. 90. 5 «Arriverà un momento in cui un certo numero di invenzioni di base raggiungerà l’optimum, l’attrezzatura collettiva e familiare arriverà al limite, la meccanizzazione spinta farà diminuire il numero di macchine necessarie per produrre, il soddisfacimento del bisognoso, raggiunto molto velocemente, attenuerà il desiderio che agita an2 3
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problema fondamentale è nell’esigere dalla macchina delle capacità che non le competono, tanto da rimproverarle di non dare quello che invece le viene richiesto. Ma, sarebbe «dissennato» chiedere alla macchina quanto non può dare, e folle ed ingenuo pensare che la macchina possa rimpiazzare la virtù, ma «non per questo deve essere poi rimproverata di non rispondere alla loro ingenuità»6. Il mondo della tecnica dovrebbe consentire ad un’apertura verso l’esterno e non ad isolare in modo massivo gli uomini. La depersonalizzazione del mondo e la decadenza dell’idea comunitaria, invece, corrispondono ad un’unica degradazione che individuano l’umanità come sottoprodotto sfruttabile e manipolabile. La società del senza volto, del si impersonale è il mondo delle imposizioni e, da questo mondo del “si dice” e del “si fa” che dipendono le masse e gli agglomerati umani, «scossi a volte da moti violenti ma senza responsabilità differenziata»7. Le società, pertanto, possono moltiplicarsi e le comunicazioni ravvicinare gli individui ma, non è possibile alcuna comunità in un mondo senza un prossimo, dove rimangono solo simili tra simili. Nel discorso andersiano il “fare” dell’uomo attraverso la tecnica, infatti, non solo è isolato e frammentato rispetto alla struttura comunitaria del costruire per il bene comune, ma è anche un fare senza sentire. L’assenza di responsabilità, in fin dei conti, segna proprio la mancanza di un’etica del sentire in prima persona (singolare dell’io, plurale del noi) degli effetti che possono derivare dall’uso esasperato della tecnica. Del resto, uno strumento tecnico, dal più rudimentale al più innovativo, manca della capacità antropologica ed etica del sentire8. Questo sentire, che parte dai sensi, è una sensibilità cognitiva, emotiva ed anche etica giacché cora la nostra società svezzata con ogni sorta di comodità. […] Non si tratta di scommettere alla leggera su un’ipotetica saggezza umana: il macchinismo e i suoi effetti hanno sicuramente in sé stessi le premesse della loro limitazione». Ibidem, p. 103. 6 Ibidem, p. 104. 7 Ibidem, p. 138. 8 In Noi figli di Eichmann Anders afferma che l’uomo si è trasformato in un «analfabeta emotivo». Ibidem, p. 267. 117
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nessuna scelta umana – in condizioni neuropsicologiche di salute – divide il pensare dal sentire.
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«Il dislivello prometeico rappresenta la disparità tra la facoltà del sentire e quella del fare, cioè l’incapacità dell’uomo di prevedere le conseguenze della sua illimitata capacità di produzione. La mancanza di coerenza tra il produrre e il sentire dell’uomo determina ciò che Anders definisce come Antiquiertheit, il nostro essere antiquati in quanto uomini»9.
La libertà, infatti, in queste circostanze diventa un limite o, come direbbe Anders, una «patologia» poiché è la libertà posseduta dagli uomini nel fare che li chiama ad una doppia responsabilità: ontologica di restare umani e morale di essere consapevoli del proprio agire. Realizzare tutto questo in una situazione di crisi globale come l’ha descritta Anders è molto complesso. In termini antropologici questa crisi significa che l’uomo non ha più i propri punti di riferimento, perdendo di vista la propria attitudine e la propria posizione nel mondo10. Le argomentazioni di Anders nel corso del Novecento non costituiscono una speculazione ontologica esplicita e dichiarata, eppure il quadro generale del suo pensiero fa emergere proprio questo tratto filosofico a partire da cui si snoda la questione etico-antropologica e pragmatico-sociale. La dimensione precaria dell’ontologia, infatti, in Anders si incarna nella domanda “chi sono io mai?”, trovando nell’avverbio “mai” non una negazione, ma qualcosa che oltrepassa i limiti temporali per cercare una risposta metafisica. Solo la distruzione completa del mondo, il «globocidio», potrà portare ad un annullamento totale e all’ipotesi andersiana di un mondo senza uomo, o dopo l’uomo, in cui anche quello spiraglio di esistenza – L. Pizzighella, Introduzione, in G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, pp. 10-11. L’idea della persona come «attitudine» appartiene all’antropologia personalista di Paul Ricoeur che, riprendendo Erich Weil, scrive: «penso che la persona sia il centro di una “attitudine” […] per la quale la nozione di crisi è il segno di riferimento essenziale della sua situazione». P. Ricoeur, Muore il personalismo ritorna la persona in Id., La persona, Morcelliana, Brescia 1997, p. 28. 9
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«l’esserci-ancora-appena» – sarà esaurito. Dall’analisi andersiana sembrerebbe che l’uomo dell’età della tecnica sia l’uomo peggiore mai esistito prima. Non è questa la prospettiva antropologica che Anders intende evidenziare. Il grande dramma è nel lasciarsi distruggere dalla tecnica. In senso metastorico questa prospettiva ricalca l’esito di ogni estremismo che ricade nell’estremo opposto: dal forte antropocentrismo alla centralità del prodotto dell’uomo spodestato dal suo prodotto (il tecnocentismo)11. Nella condizione umana descritta da Anders, in realtà, è la relazione umana ciò che manca e che non permette all’uomo di riconoscersi come tale per sganciarsi dalla vergogna della propria dotazione ontica. Eremita nella massa, burocrate nelle ideologie, produttore di pezzi, consumatore di prodotti in serie o spettatore passivo di radio e TV, l’uomo contemporaneo sembra vivere un’esistenza plurale ma in realtà è completamente isolato in rapporti unilaterali dall’io all’oggetto, divenendo incapace di rispondere. A caratterizzare la società contemporanea, infatti, è il conformismo delle omologazioni che domina tanto sul vivere (dimensione ontologico-antropologica) quanto sull’agire (dimensione etica): «Naturalmente, di questo “vivere e agire come un tutto unico” non fanno parte solo i nostri rapporti interumani, anzi essi sono addirittura retrocessi al secondo posto; al primo posto stanno oggi i rapporti tra noi e il mondo delle cose, cioè quello dei nostri apparecchi. Al nostro mondo siamo omologati in prima linea per il fatto che ci regoliamo sulle migliaia di prodotti che ci circondano con le loro voci da sirena»12.
Alla relazione interpersonale è sostituita, infatti, l’omologazione in massa e il rapporto a-personale con gli oggetti, con la conseguente reificazione dell’uomo stesso. Nel mondo tecnocratico Questa estremizzazione è tipica nella storia del pensiero occidentale e che in parte si rispecchia nello sviluppo che ha portato a superare l’eccesso naturalistico con un eccesso culturalistico. 12 G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 128 (corsivo mio). La metafora della tecnica come «sirena» si ritrova anche nella Scuola di Francoforte, in particolare in M. Horkheimer - T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, pp. 55-56. 11
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non si parla più di relazione all’altro ma regolazione ai prodotti, non è contemplata l’azione soggettiva e comunitaria ma la produzione a-soggettiva e massiva. Aristotele, nel libro VI dell’Etica Nicomachea, offre delle indicazioni preliminari ma fondamentali per comprendere il senso di che cosa sia la techne: «La techne, infatti, non ha per oggetti le cose che sono o vengono all’essere per necessità, né le cose che sono o vengono all’essere per natura, giacché queste hanno in sé il loro principio. Poiché produzione e azione sono cose diverse, è necessario che la techne riguardi la produzione e non l’azione. E in certo qual modo hanno gli stessi oggetti il caso e la techne, come dice anche Agatone: “La techne ama il caso e il caso ama la techne”. Dunque, la techne, come s’è detto, è una specie di disposizione, ragionata secondo verità, alla produzione; la mancanza di techne, al contrario, è una disposizione, accompagnata da ragionamento falso, alla produzione, sempre relativa alle cose che possono essere diversamente da quelle che sono»13.
La tecnica è una disposizione umana alla produzione, dunque non sostituisce l’uomo. Infatti, se la natura dell’uomo è l’artificio e l’artificialità è essa stessa connaturale all’uomo (come homo artifex), allora ne deriva che «la natura dell’uomo è l’uomo»14. L’uomo, in tal senso, possiede una naturalità tecnica in virtù del fatto che la tecnica (techne), come espressione pratica della natura razionale (logos) dell’uomo, nel suo procedere (tecno-logico) di per sé non dovrebbe costituire una negazione, bensì affermare la natura umana e manifestarne l’identità. Rispettare la circolarità responsabile tra natura e cultura, significa riconoscerne quel carattere virtuoso che si identifica con la responsabilità di non snaturare ovvero, di non dissociare l’alleanza tra la “prima” e “seconda natura” dell’uomo. La tensione dialettica tra natura e cultura è possibile nella misura Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 20138, VI, 4, 1140a 14-23. Al posto della parola arte, come riportato nella traduzione del volume, si è preferito lasciare la parola greca τέχνη usata da Aristotele. 14 F. Riva, Paure dell’artificiale, in E. Mounier, La paura dell’artificiale, p. 58. 13
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in cui la techne quale “seconda natura” (o natura seconda) non può prescindere dal logos quale “prima natura” (o natura prima) ovvero struttura dell’esistente che trascende e penetra l’operare. Infatti, un logos senza techne resta idea, pura facoltà astrattiva; senza una realizzazione pratica il logos resta incompiuto. Mentre la techne, se prescinde dal logos, porta ad un agire non pensato e non pensante, automatico. Ma questi non è l’uomo bensì un automa, un robot, un burattino sofisticato e aggiornato. Partendo dalla consapevolezza di questa essenziale natura artificiale dell’uomo, la grande sfida che non chiama in causa solo il pensare critico della filosofia, ma un pensiero capace di pensare liberamente, senza costrizioni, senza violenza, che dimora nella riscoperta delle radici umanistiche della tecnica e nel recupero di una dualità e tensione dialettica tra la natura e l’artificio, che oltrepassi ogni dualismo naturalista e culturalista fatto di timori apocalittici e illusioni salvifiche. Il recupero di una tale differenza nei termini di distinzione e non separazione oppositiva non solo rende verità all’identità della persona umana ma consente anche l’autentica crescita dell’uomo e dell’umanità, come presenza di prossimità, di un “noi”, di un “io” ed un “tu” l’uno accanto all’altro. Un confronto reale e sincero, responsabile e giusto con l’altro rende possibile la rinuncia a identificare il bene con ciò che si vuole, per interrogarsi sulla possibilità di un bene che deve essere voluto. «Umanità dell’uomo tra l’uomo. Responsabilità, quindi. […] Il fondo di questa responsabilità che si rivolge (e che si capovolge) ora alla natura ora all’artificiale è però un altro. Anzi, è l’altro: è l’uomo accanto all’uomo, luogo del senso della responsabilità»15.
Anders solo nel secondo volume de L’uomo è antiquato, scritto alla fine degli anni Cinquanta, esprime in modo chiaro lo scacco che non solo l’uomo ma che anche le relazioni interumane hanno
15
Ibidem. 121
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avuto a causa del primato tecnocratico sull’uomo. Anche se Anders non riserverà mai una trattazione compiuta al tema della “relazione”, essa emerge più volte nella filigrana delle sue opere, sempre caratterizzate da questo stile ibrido tra metafisica e giornalismo. In L’uomo è antiquato, le argomentazioni sull’individuo, sulla massa, sull’apparenza, sulla diserzione umana e sulla cecità dell’uomo sono tutte espressioni dell’assenza di una dinamica relazionale. La catastrofe della bomba atomica, emblema di una esistenza meccanizzata, è stata provocata in fondo dall’invisibilità del volto dell’alterità personale, ridimensionata a cosa. Non riconoscere l’altro, ovvero l’umano che ci è comune, corrisponde al non riconoscimento della responsabilità che gli è dovuta16. La tecnica, dunque, può essere strumento di rottura dell’integrità ed interalità umana che «non si trova più al passo con il lavoro dei propri prodotti»17. E, come suggerisce Vallori Rasini, non può che trovarsi a servire come un pezzo. «L’artificialità mette a nudo l’insopprimibile carenza del bios. L’uomo non è “originariamente carente” (come ad esempio sosteneva Arnold Gehlen); al contrario, è divenuto carente, incapace o insufficiente proprio in relazione allo sviluppo della tecnica, che accompagna l’evoluzione dell’homo faber nel segno della più spietata competizione. Constatata la propria inadeguatezza, dinanzi alla funzionalità, alla molteplicità di prestazioni, alla sostituibilità ecc. delle macchine, l’uomo comincia ad assumere una posizione dimessa e ammirate e un atteggiamento incline all’imitazione. Questo atteggiamento sembra avere molteplici attestazioni nella civiltà occidentale contemporanea: la dotazione organica viene
Cf. C. Vigna, Sostanza e relazione. Indagini di struttura sull’umano che ci è comune, Voll. I-II, Orthotes, Napoli-Salerno 2016; C. Caltagirone, «Sono me grazie a te». Per un’antropologia e un’etica delle relazioni umane, Studium, Roma 2022. Sul tema della responsabilità si fa riferimento alla ricca argomentazione presente nelle note 89, 90 e 91 di C. Caltagirone, «Sono me grazie a te», pp. 121-123. 17 V. Rasini, Il potere della violenza, p. 262. 16
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vissuta come un impedimento, mentre l’apporto tecnologico rappresenta una liberazione»18.
Queste occasioni, sovraliminali, hanno forgiato il pensiero di Günther Anders che, nonostante il reale pericolo di una fine del mondo autoprodotta, non perde la possibilità che l’umanità continui ad esserci. La filosofia stessa, infatti, anche come filosofia della tecnica, è occasione pratica per questa possibilità. Non come negazione dell’uomo, ma come sua affermazione. Si tratta altresì di una occasione di novità, di un novum – e non di semplice innovazione tecnologica – che può essere anche un segno di rinnovamento, e non solo e necessariamente di sventura. Come scriveva Guardini, molto prima di Anders, «non abbiamo bisogno di ridurre la tecnica ma di accrescerla»19 non tanto come qualcosa che sia estraneo all’uomo, quanto piuttosto come ciò che gli appartiene e gli sia comune. «Il nostro tempo è dato a ciascuno di noi come terreno sul quale dobbiamo stare e ci è proposto come compito che dobbiamo eseguire. E, in fondo, noi non vogliamo che sia altrimenti. Il nostro tempo non è una via sulla quale dover procedere esteriore a noi stessi. Noi stessi siamo il nostro tempo! Nostro sangue e nostra anima, questo è il nostro tempo. Siamo in rapporto col tempo come lo siamo con noi stessi, lo amiamo e lo odiamo in un medesimo sentimento. […] Noi amiamo la forza intensa di questo tempo e la sua volontà di assumere le proprie responsabilità»20.
La filosofia, dunque, è la «torre» da cui l’uomo è chiamato ad avere uno sguardo dall’alto che gli permetta di scorgere orizzonti lontani (di futuro); poiché nel macchinismo tecnocratico valgono un hic et nunc disumanizzanti. La filosofia pertanto assume per Anders un ruolo salvifico che consente all’uomo:
Ibidem, p. 264. R. Guardini, Lettere dal lago di Como. L’uomo e la tecnica, Morcelliana, Brescia 20134, p. 98. 20 Ibidem, pp. 95-96. 18 19
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«di trovare una nuova luce con cui l’uomo possa farsi strada nella lotta per riaffermare la propria posizione di soggetto libero e riacquistare coscienza delle qualità che lo rendono un essere sensibile, umano, morale e irrimediabilmente diverso dagli apparati e dagli strumenti del totalitarismo tecnico»21.
Appunto, “diverso”, sia perché l’uomo è diverso dalla macchina, sia perché la complessità della persona umana non è riproducibile dalla macchina; semmai può essere simulata o emulata ma parzialmente22. Infatti, l’interalità dell’essere uomo e donna non è replicabile artificialmente, mentre è l’uomo che in virtù di una naturale capacità di artificio rende possibile la tecnica. La diversità speculativa di Anders, dunque, non porta ad un giudizio catastrofico tipico dei moralisti dal tono pessimistico. Il pensiero sul mondo di Anders, piuttosto, nonostante lo snaturamento e disumanizzazione del regime totalitario e tecnocentrico, non si conclude in una visione rassegnata di paralisi e staticità rispetto ad una possibilità di salvezza23: «Il mio consiglio è completamente diverso: “Sii spensierato, dico”»24. L’indagine filosofica, dunque, consente di avere una chiave di lettura sulla condizione tecno-umana ovvero sul rapporto dell’uomoD. Colombo, Un sorriso di disperazione, in G. Anders, Lo sguardo dalla torre, p. 173 (corsivo mio). 22 Sul tema cf. E. Agazzi, Alcune osservazioni sul problema dell’intelligenza artificiale, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 59, 1697, pp. 1-34; Id. Operazionalità e intenzionalità: l’anello mancante dell’intelligenza artificiale (1991), in M.C. Amoretti (a cura di), Natura umana e natura artificiale, Franco Angeli, Milano 2015. 23 Cf. V. Rasini, Il potere della violenza, p. 266. «Nell’antropologia sui generis di Anders rimangano indispensabili concetti come dignità, stimabilità, onorabilità, originarietà umana. Consapevolezza e sensibilità possono innestarsi solo su simili attributi, e l’agire morale deve poterne garantire la combinazione. Se dunque Anders userà toni forti, infrangendo ogni rispetto di certo buonismo etico, sarà solo per trovare il giusto registro, la potenza in grado di affrontare e abbattere un potere disumanizzante». Ibidem, p. 269. 24 G. Anders, Mariechen, p. 68, in Id., La battaglia delle ciliegie, p. LXXV. 21
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soggetto rispetto alla tecnica-oggetto e non il contrario. La stessa filosofia, pertanto, ha una responsabilità da cui non può sottrarsi, in particolare una «responsabilità antropologica ed etica […] non può rinunciare all’ambizione di dare un senso pieno alle conquiste tecnologiche»25. Il filosofo non deve lasciarsi ingannare dalla tecnica, ma è chiamato a indicare il discrimine tra l’essenziale e l’inessenziale, per tornare fenomenologicamente al fondamento delle cose stesse, così come proprio Anders scrisse nel racconto del 1954 Il filosofo ingannato:
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«Un giorno il molussico dio creatore Bamba scoprì un eremita che stava filosofando. “Ma che cosa fai lì?” Gli domandò. “Faccio filosofia”, rispose l’eremita. “E che cosa fai all’incirca, quando fai filosofia?”, domandò Bamba. “Beh”, rispose l’eremita, “per esempio separo l’essenziale dall’inessenziale” […]. “Ho sentito bene allora!”, esclamò Bamba. “Che strano! Le parole ‘essenziale’ e ‘inessenziale’ mi sono quasi sconosciute. E non riesco a ricordarmi di aver creato l’inessenziale. Per quale motivo poi avrei dovuto fare anche questo? Dunque esiste solo l’essere”. “Dite il vero?”, chiese l’eremita, ora che cominciava improvvisamente ad angosciarsi. “Perché stavo proprio pensando di tornare alle fondamenta delle cose, tracciando il confine tra essenziale e inessenziale”»26.
C. Caltagirone - L. Cucurachi, Introduzione, in C. Caltagirone - L. Cucurachi (eds.), La condizione tecno-umana tra eccesso ed eccedenza, Morcelliana, Brescia 2021, p. 13. 26 G. Anders, Lo sguardo dalla torre, pp. 42-43. 25
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Bibliografia AGAZZI E., Alcune osservazioni sul problema dell’intelligenza artificiale, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 59, 1697, pp. 1-34. AGAZZI E., Operazionalità e intenzionalità: l’anello mancante dell’intelligenza artificiale (1991), in M.C. AMORETTI (a cura di), Natura umana e natura artificiale, Franco Angeli, Milano 2015. ANDERS G., Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza, a cura di L. Pizzighella, Mimesis, Milano-Udine 2008. ANDERS G., L’uomo è antiquato I. Considerazione sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it. L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2003. ANDERS G., L’uomo è antiquato II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, tr. it. M.A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino 20153. ANDERS G., Brevi scritti sulla fine dell’uomo, a cura di D. Colombo, Asterios, Trieste 2016. ANDERS G., Diario di Hiroshima e Nagasaki. Un racconto, un testamento intellettuale, Ghibli, Milano 2014. ANDERS G., I morti. Discorso sulle tre guerre mondiali, Medusa, Milano 2022. ANDERS G., L’emigrante, tr. it. E. Sciarra, Donzelli, Roma 2022. ANDERS G., La battaglia delle ciliegie. La mia storia d’amore con Hannah Arendt, a cura di G. Oberschlich, Donzelli, Roma 2012. ANDERS G., La catacomba molussica, tr. it. A. Mantovani, Lupetti, Milano 2008. ANDERS G., Lo sguardo dalla torre. Favole con le illustrazioni di A. Paul Weber, a cura di D. Colombo, Mimesis, Milano-Udine 2012. ANDERS G., Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, a cura di L.F. Clemente e F. Lolli, Orthotes, Napoli-Salerno 2015. ANDERS G., Stenogrammi filosofici, a cura di S. Fabian, Bollati Boringhieri, Torino 2022. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 20138. 127
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Indice
Introduzione
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Una storia «diversa»: da Günther Stern a Günther Anders La conditio humana come erranza Una filosofia allo scoperto
Anders e l’«antiquatezza» dell’uomo. Esistere nell’era tecnocratica La tecnicizzazione dell’esistenza Per una filosofia della tecnica La tecnica (s)oggetto e destino della storia Il dislivello prometeico
5 5 10 16 25 25 25 31 33
Nascere e morire nell’era della tecnica Il “peccato originale” Oltre i limiti. Artificiale come naturale Diventa ciò che sei! Un mondo «platonicoide» Trasformare e ri-creare l’uomo. Le possibilità della tecnica Oltre la vergogna del morire
38 38 43 46 48
L’epoca dell’immagine del mondo Una sorte già decisa Solitudini de massa Alienazione, neutralizzazione e familiarità. Il mondo fornito a domicilio Tra realtà e apparenza
59 59 62
Il (tentato) suicidio dell’umanità. Inquietudini apocalittiche
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Chi sono mai? Da «pastori dell’essere» a «pastori di apparecchi» La dittatura del consumo
51 55
67 70
77 77
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Tra lavoro e tempo libero: la conditio dei «miserandi» L’uomo prometeico o dell’apprendista stregone La metamorfosi dell’apprendista stregone
82 85 88
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La fine dei tempi: l’Apocalisse autoprodotta 92 La potestà di annichilire 92 La cecità dell’uomo all’Apocalisse 96 Nessuna responsabilità. L’esplosione della bomba atomica 103 Globocidio 107
Conclusioni. Nel segno dell’umano. Oltre la paura dell’artificiale
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Bibliografia
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Anthropine sophia Volumi pubblicati 1. 2.
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3. 4. 5. 6. 7. 8.
Antonella Iacono (ed.), Educare al diventare ciò che si è. La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire. (2022). Francesca Terrasi (ed.), Racconti dal secolo scorso. Raccogliere storie di vita al liceo. (2022). Massimo Gargiulo - Giuseppina Rosati - Angelo Tumminelli (edd.), L’affettività. Orizzonte di compimento umano, Prefazione S.E. Cardinale Pietro Parolin, Postfazione S.E. Mons. Claudio Maria Celli. (2022). Gaspare Pitarresi (ed.), Oltre i limiti delle distanze. L’impatto delle tecnologie digitali nelle relazioni in tempo di pandemia. (2022). Calogero Caltagirone - Antonio Carnevale, Moralità, eticità, libertà. Elementi hegeliani per un’etica cosmopolita. (2023). Il militare filosofo o difficoltà sulla Religione, Introduzione e traduzione a cura di Simone Billeci, Prefazione di Nicola Filippone (2023). Antonio Carnevale, La stima sociale tra vergogna, rabbia e bisogno di riconoscimento. La ragione pratica tra etica e politica. (2023). Roberta Gambardella, DIVERSO. Günther Anders e la filosofia (della tecnica) come occasione (2024).
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Finito di stampare nel mese di Marzo 2024 per conto dell’Editore Salvatore Sciascia Caltanissetta-Roma
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