Divagazioni 8867085751, 9788867085750

Uno degli ultimi testi scritti da Cioran in romeno - e probabilmente l'ultimo concepito come libro -, Divagazioni r

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Divagazioni
 8867085751, 9788867085750

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divagazioni

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Uno degli ultimi testi scritti da Cioran in ro­ meno - e probabilmente l'ultimo concepito come libro - , Divagazioni rappresenta uno spartiacque nella sua carriera letteraria. A circa trentacinque anni, l'autore inizia a esi­ tare nella scelta della formula più efficace per dare espressione ai propri pensieri. Si avverte che la punta della penna stilografi­ ca vorrebbe scivolare verso un'altra lingua. Nel passaggio dal romeno al francese, que­ sto libro segna l'orlo di un precipizio che Cioran avrebbe poi felicemente superato posando il piede oltre, su un terreno che si sarebbe rivelato particolarmente fertile. A differenza dei testi precedenti, caratteriz­ zati da un entusiasm o solidale con la filo­ sofia, o dal fascino esercitato su di lui dalla formula lirica sottilmente intrecciata con l'espressione aforistica, qui lo scrittore, or­ mai trapiantato a Parigi, sem bra scegliere una nuova via, m eno spettacolare e m eno eccentrica. La frenesia di Al culmine della disperazione e il tono poetico di Breviario dei vinti sono orm ai abbandonati e sostituiti da un dire malinconico, m onocorde e dimis­ sionario, da parte di colui che non intrave­ de più nessuna soluzione all'«ineffabile» dell'esistenza. Egli porge l'orecchio al si­ lenzio assoluto che avvolge l'universo e scopre il vuoto, quell'enorm e baratro in cui la m ateria rarefatta non ha alcuna giustifi­ cazione, com e del resto nem m eno la vita, manifestazione improbabile dello stesso principio del non essere. Si p rean nu n cia un nuovo cam m in o, in cui svan irà anche il sentim ento di inuti­ lità pred om in an te in Divagazioni, per far posto ad altri concetti che su sciterann o in C ioran insospettabili energie: decomposi­ zione, amarezze, squartamenti, anatemi e una congerie di altri inconvenienti.

Sen za fron tiere

In copertina: Caspar David Friedrich, Der Triiumer, 1835, Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo Titolo originale: Razne, Humanitas, Bucuresti, 2012 Pubblicato in accordo con il Centre National du Livre © 2016 Edizioni Lindau s.r.l. corso Re Umberto 37 - 10128 Torino Prima edizione: ottobre 2016 ISBN 978-88-6708-575-0

Emil Cioran

DIVAGAZIONI Traduzione e cura di Horia Corneliu Cicortas

Premessa all'edizione italiana di Moria Corneliu Cicortas/

Il libro che presentiamo ai lettori italiani è la traduzione del volume Emil Cioran, Razne, a cura di Constantin Zaharia (Humanitas, Bucuresti, 2012), comprensiva dei relativi ap­ parati critici (prefazione, nota all'edizione e varianti testua­ li). Delle 338 note a piè di pagina dell'edizione originale, che segnalano le lezioni varianti presenti nel testo manoscritto di Cioran, abbiamo conservato, traducendole e inserendole in corsivo nelle note, quelle che evidenziavano differenze semantiche o sfumature stilistiche significative, tralascian­ do invece tutte quelle che rappresentavano soltanto cambia­ menti grammaticali minori, i quali perdono inevitabilmen­ te, nell'atto traduttivo, la loro rilevanza. L'intento principale di questa versione è stato quello di restituire il più fedelmente possibile il pensiero e lo stile di quest'opera - per molti versi uno spartiacque nella pro­ duzione letteraria di Cioran - comprese talune spigolosità espressive che, corroborate dalla lettura delle varianti, ci consentono di entrare nel laboratorio vivo di queste Divaga­ zioni, che vengono ora pubblicate per la prima volta in una lingua straniera. Considerando il genere letterario di questo testo di Cio­ ran, le sue dimensioni e le caratteristiche della collana che

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MORIA CORNELIU ClCORTA$

lo ospita, abbiamo preferito non appesantirlo con ulteriori apparati (postfazioni, commenti personali ecc.) tali da osta­ colarne la fruizione. Pertanto abbiamo limitato i nostri inter­ venti a poche note bibliografiche, contrassegnate da paren­ tesi quadre. Per aver contribuito al buon esito di questo lavoro con informazioni, letture, suggerimenti, un grazie particolare a Massimo Carloni e Constantin Zaharia.

Prefazione all'edizione romena di Constantin Zaharia

Ecco un nuovo libro scritto da Cioran in lingua romena, verso la fine dell'ultima guerra mondiale \ In mancanza di precisazioni che consentano una datazione esatta, si può supporre che il manoscritto sia stato redatto tra 1945 e 1946. Opera imperfetta, potremmo dire, se consideriamo l'am ­ massarsi di pensieri - cupi, pessimisti, amari - raccolti in un coacervo desolante, in un insieme arbitrario, senza linee di forza che lo strutturino in profondità e in superficie. Da qui anche il titolo del volume: che altro sono, infatti, queste Divagazioni se non diversioni da strade battute, deviazioni dalle norme del cammino naturale, smarrimenti a scapito delle forme letterarie e della ricerca filosofica? Tutto, a cominciare dal dizionario, avvalora una simile ac­ cezione del titolo. Se a o lua razna significa «avviarsi a caso, 1II curatore dell'edizione romena originale (2012), che ha lavorato direttamen­ te sui manoscritti di Cioran custoditi presso la Biblioteca letteraria Jacques Doucet di Parigi, aveva pubblicato nel 2011 altri due testi di Cioran, apparte­ nenti alla stessa «famiglia» spirituale, scritti ancora in romeno, nei primi anni '40, e rimasti a lungo inediti; si tratta di Despre Franta e Indreptar pàtimas II, en­ trambi tradotti e pubblicati dapprima in Francia e poi in Italia, per i tipi delle edizioni Voland di Roma (Sulla Francia, traduzione e cura di Giovanni Rotiroti, 2014 e Breviario dei vinti II, traduzione e cura di Cristina Fantechi). \N.d.C.]

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senza meta» o peggio ancora «prendere una strada sbagliata» (vocabolario DEX della lingua romena) o addirittura, nella lingua contemporanea, «fare o dire cose a vanvera», mentre razna, termine raramente utilizzato, è sinonimo di «dispersio­ ne» o «digressione», allora nulla ci vieta di vedere in questa raccolta un florilegio di divagazioni, di smarrimenti o, persino, di elucubrazioni, il tutto all'insegna di un disordine dominan­ te. Cioran ha cercato per questo libro un titolo che colpisse, promuovendo l'avverbio {razna) alla dignità di sostantivo {razna). Non ha inventato nulla, si potrebbe dire a prima vista, ma ha dato nome a tentativi incompatibili con qualsivoglia idea positiva di letteratura e filosofia. È come se l'autore aves­ se voluto segnalare, una volta in più, di essersene separato, giacché dar forma letteraria o filosofica all'orrore non avrebbe alcun senso: non si può fare cultura a scapito della sofferenza vissuta giorno per giorno e notte dopo notte. «Noi diamo voce solo ai dolori senza nome» sono le pri­ me parole di questo libro. Esse hanno valore di esordio, benché si presterebbero bene anche al ruolo di un epitaffio. Annunciano programmaticamente un obiettivo difficile da raggiungere e circoscrivere in una forma estetica o cultura­ le. Il legame tra parola e sofferenza ritorna ossessivamente nelle pagine di questo testo, non per dire che i dolori senza nome ne prenderanno uno ma, al contrario, per denunciare l'assurdità di un tentativo del genere: G e tte rò le m ie p a ro le n ello sp a z io , affin ché nel lo ro e rr a re c a ­ o tico n e ssu n o p o s s a p iù ra c c o g lie rle in u n sig n ifica to ; co sì ch e finisca p e r se m p re lo s fo rz o di sco n fig g e re l'e n o rm e stu p o re o di a lle g g e rire il g e m ito d e llo sp irito s b a lo rd ito n elle d iste se in co n so lab ili, e n e s s u n a m e n te p o s s a m ai p iù ra d u n a re il v o ­ ca b o la rio s c a ra v e n ta to n el v u o to p e r tro v a re a n c o ra u n n o m e

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alle co se d el m o n d o e u n n o m e al m o n d o ste sso , e c h e tu tto rito rn i al te m p o in cu i n e s s u n a p a ro la lim ita v a n e s s u n a c re ­ a tu ra , ch e tu tto rito rn i a ll'in d icib ile g e n e ra le in cu i g ia c e v o , q u a n d o n o n m i e ro a n c o ra in c a m m in a to v e rs o l'in u tile s u p e r­ b ia d ella p a ro la , (p. 6 4 )

Questa è la risposta di Cioran alla serie di domande che lo assillano e che gli confermano l'inutilità di ogni gesto cul­ turale. Che sia una pura coincidenza il fatto che nel primo libro uscito in francese, Précis de decomposition - pubblicato nel 1949, ma scritto in una prima versione (che portava il titolo Exercices négatifs) già nel 1946 - , abbondino i passi in cui l'autore denuncia l'insufficienza del linguaggio e l'inuti­ lità della filosofia? Niente affatto, visto che vi è almeno una recidiva, sotto forma di conclusione di una serie di sentenze ironiche nel loro susseguirsi, in fondo destinate ad alleggeri­ re il calvario dell'esistenza: «Spingere il filosofare fino all'ul­ timo vocabolo, all'ultim a parola dell'inefficacia e del ridico­ lo» (p. 101). Scrivere in questo modo, affermando l'inutilità del linguaggio e il lato derisorio del pensiero, adottando un atteggiamento beffardo sul piano delle lettere e della filoso­ fia, non è soltanto una conferma del titolo scelto da Cioran per il suo libro, ma anche una testimonianza del fatto che se ne è distaccato, della necessità di trovare altre vie per formu­ lare in modo diverso l'orrore dell'esistenza. La prima di tali vie sarebbe la concisione. Da sempre, Cio­ ran è stato tentato dall'espressione aforistica, e la scrittura frammentaria, presente già nel suo libro d'esordio, sarebbe diventata in seguito uno dei campi prediletti di riflessione. «Una giornata in cui non ho formulato definizioni è svanita senza rimedio» (p. 39), dice Cioran. Similmente, i pensieri dovrebbero avere «la concisione fatale del lampo» (p. 31).

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Certamente, la filosofia o l'esercizio confortevole delle bel­ le lettere non potrebbero esprimerli. Da qui ne consegue la dimensione duplice del frammento, che da un lato è situato ai confini del silenzio, cioè dell'inazione e della singolarità, mentre dall'altro può dischiudere la via all'estasi, il doppio intensivo del silenzio che comprende la conoscenza nella sua totalità, rivelata tramite esercizio mistico o tramite ac­ cidente, ma in nessun modo tramite il discorso sistematicoanalitico, articolato secondo le regole della grammatica e della retorica. La seconda via è un cambio di registro linguistico. Diva­ gazioni rappresenta probabilmente il libro-cerniera, l'orlo di un precipizio che Cioran ha superato felicemente posando il piede oltre, su un terreno che si dimostrerà fertile per la sua condizione di scrittore. Il passaggio dal romeno al francese, perché di questo si tratta, non è qui annunciato in maniera altisonante, ma lo è certamente in modo discreto. Una serie di costruzioni e forme della frase rivelano in modo evidente l'influenza della lingua francese. A circa trentacinque anni, Cioran inizia a esitare nel trovare la formula più felice per dare vita ai propri pensieri. Si avverte che la punta della penna stilografica vorrebbe scivolare verso un'altra lingua. Come dire che l'episodio Mallarmé a Dieppe non è lontano. Eppure, questa trasgressione delle barriere linguistiche apprestata ora, non si produrrà così repentinamente come ci si può immaginare. Cioran aveva pubblicato due articoli in francese già nel 1943, Mihail Eminesco e Le «dor» ou la nostal­ gie, entrambi sulla rivista «Comoedia». Allo stesso tempo, dopo l'accettazione del Sommario di decomposizione da parte dell'editrice Gallimard, egli continua a pubblicare in rome­ no (sotto pseudonimo) alcuni testi dai titoli Fragmente e Razne, che escono nei primi numeri della rivista «Luceafàrul»,

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edita dall'emigrazione romena parigina, nel 1948 e 1949. La rottura, di cui Cioran parla nelle interviste, si rivela meno radicale di quanto faccia credere, e lo spettro della lingua romena lo seguirà sempre, coniugandosi perfettamente con i timori provocati dalla grammatica e dalle regole di una lin­ gua fatta per esprimere, apparentemente, in maniera geo­ metrica sfumature indefinibili, sulla scia di Descartes. Ritorniamo, però, a Divagazioni. Cosa ci dice Cioran in questo libro? Nulla di nuovo, a prima vista, giacché non emergono differenze im portanti, rispetto alle idee dei libri anteriori. Finanche il tono sembra essere lo stesso, seppure solo fino a un certo punto. In altre parole, vi si dice che il mondo nella sua essenza è assurdo e il tumulto che lo agita non porta i segni di alcun senso. Il m ovimento non è evolu­ zione, e l'uom o, se compie uno sforzo di lucidità, scoprirà quanto sia arbitraria la sua presenza nel bel mezzo degli eventi che egli stesso ha scatenato, privi però di orienta­ mento e di compimento. Quel che immagina sia creazione lo spinge, in realtà, verso la distruzione, verso il punto di convergenza delle paure e delle sofferenze che lo hanno generato e che lo incoraggiano a discendere sullo stesso versante. E, se per miracolo, tutto si ferma, sopraggiungo­ no la noia, la malinconia, la solitudine e la disperazione. Egli porge l'orecchio al silenzio assoluto che avvolge l'un i­ verso e scopre così il vuoto, queU'enorme baratro in cui la materia rarefatta non ha alcuna giustificazione, come del resto nemmeno la vita, m anifestazione im probabile dello stesso principio del non essere. Giacché, qualsiasi cosa si dica, l'essere non è che parvenza: «Quando, con un setac­ cio ideale, separiam o l'esistenza da tutto quel che è, l'ulti­ ma tappa della regressione ci consente di concepire il nul­ la. Come mai avviene che, giunti a questo punto, indefini­

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bile nel campo della ragione e immemore, non siamo più in grado d'im m aginare l'esistenza? La creazione del mondo è inconcepibile; e così la sua eternità» (p. 52). Sfiancato da ciò che vede e sente, lo spirito si dissocia dal mondo, ri­ nunciando alla propria funzione essenziale, che consiste nel trovare una giustificazione all'universo e all'esistenza. Non c'è nulla da fare, ci dice Cioran con un tono che è quel­ lo dell'abdicazione definitiva, tutto è perduto. Occorre osservare che, a differenza dei libri precedenti, in cui si lasciava prendere da un entusiasmo solidale con la filo­ sofia, o era affascinato dalla formula lirica sottilmente intrec­ ciata con l'espressione aforistica, Cioran sembra scegliere qui una nuova via, meno spettacolare e, da questo punto di vista, meno eccentrica. La frenesia di Al culmine della disperazione2 e il tono poetico del Breviario dei vinti3 sono ormai abbandonati e rimpiazzati da un dire malinconico, monocorde e dimissio­ nario, da parte di colui che non intravede più nessuna solu­ zione all'«ineffabile» dell'esistenza. Siamo tutti destinati allo stesso esito, afferma chi ha perso ogni illusione su di sé e su... tutto il resto, ivi compresi Dio, l'universo, la società, la cul­ tura, la nazione ecc. Solo l'io sopravvive tra questi rimasugli inutili di ciò che un tempo poteva ancora apportare una vaga speranza, e Cioran riesce ancora a restare stupito di fronte alla testardaggine di quest'ultimo a permanere:

2Pe culmile disperàrii, primo libro di Cioran, pubblicato nel 1934 (ed. it.: E.M. Cioran, Al culmine della disperazione, trad. di Fulvio Del Fabbrio e Cri­ stina Fantechi, Adelphi, Milano 1998). [N.d.C.] 3II libro di aforismi Indreptar pdtimas [Breviario appassionato], redatto nei primi anni '40, rimase inedito fino al 1991, quando fu pubblicato da Humanitas. Una versione in francese, firmata da Alain Paruit, è uscita presso Gallimard col titolo Bréviaire des vaincus. Il libro è tutt'ora inedito in italia­ no, a differenza di Breviario dei vinti II (vedi supra, nota 1). [N.d.C.]

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C h e co sa ci sp in g e a g ira re a tto rn o a noi stessi, tra s fo rm a n d o gli stati fluttu anti della c o s id d e tta a n im a nella m a te ria stessa di tu tto quel ch e è? Il m istero d ell'io è p iù sch ia ccia n te di tu t­ te le o scu rità e p iù in so n d ab ile di tu tto ciò ch e la te o lo g ia h a e sco g ita to sul p ian o d ell'in so lu b ile. L a m e n te ci d ice ch e l'io è n ulla, e q u est'io ci risp o n d e - co m e ? lo ig n o ria m o - ch 'e g li è tu tto , (p. 52)

Diversamente, esiste la soluzione radicale del suicidio, evocata più volte nelle pagine di questo libro. Non dimenti­ chiamoci che il malinconico è tentato dal suicidio, anche se non vi ricorre. Per Cioran, esso è la possibilità, naturalmente l'ultima, della libertà: T utto il c a rico a m a ro d e ll'e siste n z a sv a n isce d a v a n ti al pensiero ch e p o ssia m o a rre sta rlo in q ualsiasi m o m e n to , ch e c u s to d ia m o d e n tro di noi l'im m e n sa libertà d ella n o stra a sse n z a e ch e p o s­ siam o risca tta re la n o stra c a d u ta in d o lo ri sterili o nella b an ali­ tà, g ra z ie alla gen ialità n e g a tiv a del su icid io , (p. 102)

Ciò nonostante, è una soluzione estrema che il recente di­ sertore delle lettere e della filosofia non metterà mai in prati­ ca, pur essendo attraversato dal pensiero di poter porre fine ai propri giorni. A ogni modo, essa resta «il pozzo sprangato su cui geme la nostra sete» (p. 107). Di conseguenza, non sorprende se l'universo tematico di Divagazioni comprenda la gamma di sentimenti specifici della malinconia: la tristezza innanzitutto, ma anche il sen­ timento greve della morte, la nostalgia, il tempo e il suo co­ rollario negativo, la noia - sono assi che reggono la struttura del medesimo discorso descritto poco prima. Come sempre, Cioran trova anche in questo registro l'occasione di prò-

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porre formule memorabili, sorprendenti per i cortocircuiti retorici dell'espressione aforistica: «La morte è un mistero esatto; solo gli spaventi a essa ispirati sono vaghi» (p. 104). Oppure, questa presa di distanza dagli ideali condivisi non molto tempo prima: «La nazione è la forma assunta dal pec­ cato originale, con il sostegno della polizia» (p. 88). È chiaro che ritroviamo qui gran parte delle prese di po­ sizione di Cioran note già dal suo primo libro. Tuttavia, in questo volume c'è qualcosa in più, un'aggiunta che prefigu­ ra una risposta alle domande che ciascuno dei suoi lettori si pone: qual è l'origine delle sofferenze che Cioran ha tra­ sformato in una magistrale non filosofia e in una stupefa­ cente non letteratura? Da dove proviene la sua malinconia, talvolta virulenta, altre volte più profonda e torbida delle acque morte delle fiabe? Come può essere spiegata la sua ambivalenza nei confronti della fede e di Dio, di volta in vol­ ta, Luna come l'altro, ricusati e riconosciuti? Tutto quel che è paradossale in Cioran si raccoglie in questo punto centrale, difficile da definire e da razionalizzare. Per poter abbozzare una risposta senza abbandonare l'orizzonte affettivo della m alinconia, prendiamo in esame questo frammento: «La tristezza è il risuonare agrodolce e infinitam ente prolungato di una ribellione defunta, l'eco di un sogno doloroso nato sulle rovine di ogni protesta» (p. 30). Strana, questa messa in relazione della tristezza con la «ribellione». Cioran la spiega col fallimento della «prote­ sta». Ma di che genere di protesta si tratta? Fortunatamente, diversi passi di Divagazioni rinviano a questo motivo. Ecco­ ne uno, che ci sembra esemplare: A v ere u n 'a n im a in cline alle ribellioni; o d ia re co n v u lsa m e n te le in giu stizie so tto il sole; sco n v o lg e rsi so tto il fiato b estiale

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d ei p ro p ri sim ili; essere a cco ltellati d al g h ig n o assassin io d e l­ la cre a tu ra e m aled ire il C re a to , solid ificazio n e tro p p o visibile d ell'id ea di in giu stizia; [ ... ] e, in v irtù di u n re sid u o di filosofia e d egli in seg n am en ti d e ll'e sp e rie n z a , n o n p o te r fare n u lla, ri­ n u n ciare alla rivo lta, ca p ito la re n ell'in co n so lab ile e n elle c o n ­ solazion i v an e. (p. 80)

Si tratta, qui, di un'ingiustizia fondamentale, legata all'at­ to primordiale della Creazione: fin da principio, il mondo è stato costituito in malo modo. E a questa genesi raffazzona­ ta, l'uomo non ha nulla da dire, né da aggiungere. La rivolta è inutile, giacché egli non può essere reintegrato nell'ordine che dapprincipio gli era stato riservato. Egli non avrebbe mai dovuto conoscere la morte, esser inseguito da lei, raggiunto dalla sofferenza della propria sparizione. Quei pochi com­ menti che Cioran fa in margine di Genesi (soprattutto nelle interviste rilasciate) contengono spesso una precisazione: si tratta dell'episodio biblico che spiega meglio di tutti la con­ dizione umana: per lui, il peccato originale è un'immagine mitologica, non il contenuto di un atto di fede. La posizione ambigua, di negazione e accettazione del cristianesimo, può essere spiegata con quest'oscillazione perpetua tra un mito delle origini e un'estraneità all'orizzonte religioso, che egli non può tollerare. Di conseguenza, non c'è più nulla da fare. Tutto è per­ duto. In siffatte condizioni, non si può più fare filosofia, né letteratura. Punto finale. Punto finale per la carriera di scrittore romeno. Perché qualcosa avviene a cavallo degli anni 1945-46: Cioran si trova a Dieppe, cerca di tradurre, in romeno, alcuni po­ emi di Mallarmé, e si rende conto della futilità di questa impresa. La conclusione s'im pone da sé: d'ora in poi seri­

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vera solo in francese. Il resto è risaputo. Incomincia per lui una nuova carriera, con cui svanirà anche il sentim ento di inutilità predom inante in Divagazioni, per far posto ad altri concetti che suscitano in lui insospettabili energie: decom­ posizioni, amarezze, squartamenti, anatemi e una congerie di altri inconvenienti.

Nota all'edizione romena di Constantin Zaharia

Questa è la prima pubblicazione di Razne, uno degli ul­ timi libri scritti da Cioran in lingua romena. Fino a questo momento, il libro non è stato edito in traduzione, né france­ se né in altre lingue. I testi pubblicati dall'autore sulla rivi­ sta «Luceafàrul» (Parigi, n. 2, maggio 1949) sotto lo stesso nome, firmati con lo pseudonimo Z.P., non si ritrovano qui. Essi, unitamente ad altri Frammenti usciti sulla stessa rivista (n. 1, novembre 1948, con lo stesso pseudonimo), sono sta­ ti ripubblicati da Nicolae Florescu in un supplemento del 1995 della rivista «Jurnalul Literar». È possibile che Razne del 1949 sia l'ultim o testo di Cioran in lingua romena. Il m anoscritto di Razne è depositato presso la Biblioteca letteraria Jacques Doucet di Parigi, sotto la segnatura CRN Ms. 9. Si tratta di 120 pagine num erate dall'autore da 1 a 117 (alcune riportano lo stesso numero), scritte con inchio­ stro perlopiù nero, a penna stilografica, tranne le pp. 65 e 66 che sono scritte con inchiostro blu. La prima pagina contiene solo il titolo, senza essere numerata. La carta è di formato e qualità diversi, simile all'A4 (generalmente, 267 x 212 mm). Pur non contenendo alcuna notazione che consenta una sua datazione, si può ipotizzare che il m ano­ scritto sia stato redatto tra la seconda metà dell'anno 1945

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C O N ST A N TE Z AH ARIA

e i primi mesi del 1946, naturalm ente con un m argine di imprecisione. Per stabilire il testo, abbiamo seguito le norme ortogra­ fiche attuali. La punteggiatura è stata restituita secondo le regole in vigore. Considerato il numero importante di corre­ zioni e variazioni del manoscritto, ho scelto, come nel caso delle edizioni realizzate in precedenza (Despre Franta [Sulla Francia] e tndreptar pàtimas II [Breviario dei vinti II]), di tra­ scrivere in nota quelle varianti (indicate con l'abbreviazione «var.:») che possono suscitare l'interesse del lettore assiduo, tralasciando le parole incomplete e gli elementi di relazione. Gli sviluppi che precedono o seguono un'unità lessicale, ma ai quali l'autore ha rinunciato, sono stati segnati come tali nelle relative note. In pochissimi casi, là dove il senso della frase lo richiede, abbiamo fatto ricorso a modifiche minime, segnalate perlo­ più con parentesi quadre. I vocaboli non adatti al contesto, e che tuttavia ho preferito non sopprimere o sostituire, sono stati messi in evidenza dall'indicazione [sic!]. Ho riscontrato un'unica lacuna, segnalata in nota, la quale però non pregiu­ dica la comprensione del senso della frase. La preoccupazione generale è stata quella di rispettare le caratteristiche del manoscritto e del suo contenuto, offrendo allo stesso tempo, al lettore come allo studioso, l'accesso a un libro che può essere in egual misura documento di lavo­ ro o fonte di una lettura appassionante.

DIVAGAZIONI

I

Noi diamo voce solo a dolori senza nome; gli altri, che formano l'ordito e la trama degli istanti, li gettiamo nella pattumiera dell'evidenza. Quando osservo il silenzio ultramondano dei paesaggi, l'impassibilità sublime degli alberi, lo sperpero 1 del sole sopra cristallizzazioni verdi che stupiscono e sconvolgono lo spirito, quando dai giacimenti della sensibilità risale alla superficie del cuore una nostalgia senza contenuto, che ab­ braccia lo spazio con una maestosità soave e funebre, allora la bellezza mi appare come il veleno più forte mai assapora­ to dall'anima. Non v'è in noi l'istinto di morire. Solo così si spiega per­ ché tra la vita e la morte, in fondo ugualmente insopportabi­ li, la prima è privilegiata mentre la seconda è screditata. La vita è un'intollerabilità che abbiamo ereditato, che conoscia­ mo tramite il sangue; la morte, invece, la impariamo, senza arrivare mai a conoscerla - e per di più: senza essere interes­ sati a conoscerla.

1Var.: l'irruzione.

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EMIL CIORAN

Ho accettato la mia fine solo quando sono stato sorpreso da quell'accettazione, che sembrava provenire da una voce estranea al sangue come alla veglia2. Nelle città ho incontrato la morte negli occhi degli uomi­ ni; in natura, nel fremito delle foglie. E l'ho incontrata anco­ ra più spesso nei silenzi del cuore. Avere la sensazione netta della propria sterilità, in mezzo a un frutteto... La sterilità è un'isteria dell'essenziale. Ogni cosa sembra priva di valore, tutto si equivale; e ciò 3 che è più importante, impossibile a trovare. Gli argomenti del mondo giacciono esangui e rancidi alle falde dello spirito4. L'ultima nostalgia: credere di aver sognato tutti i mondi possibili. L'essere straniero in ogni Paese, in ogni mondo: elevare la tua condizione giuridica a una dignità metafisica. L'irruzione della sfortuna rafforza la resistenza dello spirito; tempra la fierezza e accende gli istinti. Nelle sue ra­ gnatele, non concepiamo di non essere, giacché il pericolo è troppo vicino per concederci il lusso di lusingarla. La sfor­ tuna è combattimento. Al contrario, vi sono aliti estatici che sembrano disarmarci per sempre; le nostre forze diventano

2Var.: alla lucidità. 3Preceduto da: cerco. 4Segue la frase: Nessuno di essi prende forma, soppressa dall'autore.

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zoppicanti sotto il brivido e la tentazione di un canto ine­ briante e muto. Nulla meglio della felicità ci ispira il desi­ derio di sopprimerci, come se l'essere fosse un dono troppo grande per le nostre forze, e la rivelazione suprema del cuo­ re, dolcemente sprofondato nel grembo d ell'essere5, fosse inseparabile dal non essere. Che il suicidio sia soltanto l'ine­ vitabile conseguenza del nostro esilio nell'estasi6? Appare indubbio che la felicità non sia uno stato positivo. Ogni generazione tende a trovare qualcos'altro. E così ogni individuo. Eppure, facendo il bilancio di tutte le aspirazioni che si sono avvicendate nella storia, d iven ta7 impossibile manifestare una preferenza o un rifiuto. Nessun ideale pesa più degli altri. A tenerli in vita sono state l'ingenuità, la stu­ pidità o la generosità. Nessuno era in errore, come nessuno era nel vero8. Ogni epoca sperimenta la propria forma di vita come un assoluto9. E ognuna di esse è irrimediabilmente frammenta­ ria. Nelle epoche pacifiche, si muore di noia; in quelle agita­ te, di terrore. Gli esseri umani si definiscono rispetto ai loro contemporanei, non all'eternità. Tutto quel che fanno non può essere fatto altrimenti. L'esistenza di ciascuno è un in sé, la coincidenza perfetta col proprio agire e pensare. Quel che 5Var.: dell'esistenza. 6 Var.: soltanto la forma suprema di paura di fronte alla felicità. Inizialmente, la frase incominciava così: Può darsi che il suicidio non sia altro che la via difuga che intravediamo [...], ma l'autore ha soppresso quest'incipit. 7Preceduto da: difficilmente. “Segue la proposizione: Tanto Napoleone quanto Vlad l’Annegato hanno avu­ to ragione, soppressa dall'autore e rielaborata alla fine del capoverso suc­ cessivo. 9II capoverso incomincia con la frase: Il destino dell'umanità è di macerarsi in una nostalgia assurda, rielaborata nel capoverso successivo.

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è stato e quel che sarà, sono delle finzioni. Sicché tutti hanno ragione, compresi Napoleone e Vlad l'Annegato. Ma tutti, pur vivendo in un presente assoluto, sono mace­ rati da una nostalgia assurda, che fa loro concepire incessan­ temente qualcos'altro, in fin dei conti riducibile alla realtà ultima dell'istante presente e all'illusione di quello a venire. Chi ha perso la gioia ingenua della banalità, non ha più nulla da assaporare nella vita. La noia profonda, fredda e priva di lirismo, rid u ce10 il mondo alla modalità iniziale, lo spoglia di tutte le sfumatu­ re cromatiche del tempo, lo semplifica fino all'assenza pura. Essa ritira il credito che l'anima ha assegnato alle apparen­ ze; un'essenza incomprensibile si mostra all'occhio liberato dalle fascinazioni dell'essere; l'universo è spogliato di tutti i contenuti che non rientrano in una formula vuota. La noia è un'astrazione assassina, elaborata dalle sventure11 interiori e dall'avvelenamento filosofico delle categorie, è l'ultima paro­ la della ragione impigliata nelle incombenze dell'affettività. Ho letto, senza convinzione, tutti i libri della tristezza umana. Mi ha convinto invece il sangue che inoculava alle idee la stanchezza per il proprio colore... L'unica speranza dell'uomo è di trovare la speranza. Il sonno ci restituisce alla materia. Questo è il senso gene­ rale del riposo. La vita è la tormenta, la follia della materia.

10Var.: semplifica. 11Var.: dagli inconvenienti.

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La morte quotidiana delle notti è l'unico rimedio trovato dalla natura per guarire dalla vita. Quando si trascorrono giornate intere senza scambiare parola con un essere vivente, quando si dimenticano i pro­ pri simili e perfino la condizione umana, l'io si rivela una forza grande quanto il mondo. La conversazione ci offre la misura della nostra piccolezza; la solitudine la intensifica, ma in modo tale che la nostra piccolezza non è minore di quella del mondo. Quelle mattine in cui l'anima, appesantita dai gemiti del­ le notti, sobbalza come un vulcano, pronta a riversare sull'u­ niverso la lava della demenza e dell'infelicità... Alla fine il Diavolo sputerà comunque sulle nostre ceneri, benché nel mondo esistano tanti fiori e, al suo esterno, tanti Dei. Certamente la vita non ha alcun senso; ma è ancora più certo che noi viviamo come se ne avesse uno. La nostalgia è la forma più dolce dell'alienazione men­ tale, della nostra inclinazione a concepire un altro mondo. Stare nel tempo, con meno profitto di Dio che precedeva la Creazione - è immaginare e raggiungere il limite assoluto dell'inutilità. Nell'attesa di verificare tramite gli avvenimenti l'assur­ dità della vita, la nostra sensibilità la conosceva già, senza il coraggio di confessarlo.

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Quella sensazione di solitudine, il cui vortice ci risucchia lontano, in profondità, oltre le radici stesse della Divinità. Ogni punto nello spazio è un crocevia di strade12 che por­ tano tutte alla morte, così come ogni punto nel tempo è la misura della distanza che ci separa da essa. Qualunque stra­ da si voglia prendere, è lo stesso. I passi, comunque orien­ tati, hanno sempre la stessa direzione. Come mai le ossa dei morti non si sono incendiate in quest'universo che corre sul carro funebre? Quanto al rosicchiare il midollo della vita, vi è un verme più spietato di tutti gli altri, più efficace degli animali stri­ scianti, più diligente delle tarme e più crudele dei lombrichi visibili e non - è l'Inferno trapiantato in te, è la Tristezza. La vita è sopportabile solo per il fatto che nessuno s'iden­ tifica col dolore altrui. Il sentimento dell'impermanenza ripete continuamente: tutto passa - nel senso che tutto è passato. Per chi è contagiato dalla malattia di vivere, i rimedi non sono meno dannosi dei veleni, trattandosi sempre di espressioni e arnesi di questo mondo. Quand'anche fossero di un altro, non c'è cura che possa addolcire quella consape­ volezza. Essendo consustanziale all'esserci, quel male può cessare solo insieme a esso. Riusciamo a dimenticarlo solo riposando nella nostra cenere. La tomba è l'unica farmacia della malinconia.

12Var.: sentieri.

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Registriamo tutte le cose attraverso le nostre mancanze. Po­ tremmo mai sapere cos'è un corpo sano senza le pause nello stato di salute? Cos'è la notte, senza i vuoti del sonno; cos'è il tempo, senza le lungaggini sfibranti della noia; cos'è l'amore, senza i momenti di disgusto? O come potremmo conoscere la rivelazione del fatto sconvolgente13 di vivere, senza la tenta­ zione del suicidio? La coscienza145dell'esistenza deriva dalla stanchezza nutrita nei suoi riguardi; siamo solamente grazie alle difficoltà di essere. L'ora in cui non abbiamo sofferto è sva­ nita nell'atmosfera anonima dell'inesistenza, dell'incoscienza. Gli istanti propizi sono altrettanti schiaffi rivolti allo spirito. Esistiamo grazie alla putredine che è in noi, che ci rende vulne­ rabili, grazie alle virtualità cadaveriche del corpo e agli aliti di decomposizione che rinfrescano la vitalità dello spirito. La no­ stra «profondità» è la somma delle tentazioni con cui il nulla ci insidia, e cos'è la coscienza, se non il risultato del giardinaggio 15delle nostre possibilità di non essere quel che siamo? Quando in ogni istante siamo estranei a quel che sembriamo essere, ci rigiriamo in misteri conosciuti, sebbene inspiegabili; è la traspa­ renza assurda verso cui ci spinge l'ostinazione crudele della co­ scienza; la quintessenza della lucidità estrema cui pervengono i nostri difetti. Tutte le cose ci diventano allora presenti, poiché tutte sono state16 macinate dal mulino astratto dello spirito, il cui orgoglio è la polverizzazione della materia. E questa polve­ rizzazione è lo spettacolo stesso della conoscenza. Chi ha immaginato tutto il male possibile nel mondo non ha più bisogno dell'im magine del diavolo, così come 13Var.: orrendo. 14Var.: il sentimento. I5Var.: della cura. 16Segue: trasformate.

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chi ha setacciato nel pensiero le varie forme di sofferenza non trova più gusto nel mito dell'inferno. Similmente, chi ha esaurito gli appagamenti della terra, continua a vivere sen­ za attendere il supplemento consolatorio, leggendario del paradiso. Tutto dev'essere concluso quaggiù, una volta e per sempre. L'esistenza in sé è una metafisica della fisiologia, la cronistoria dell'ultimo riverbero degli organi. Quel che disgusta nelle religioni è il loro sforzo di legaliz­ zare a ogni costo l'aspirazione illegittima a vivere. La stupidità, che mette in moto gli istinti, definisce la sto­ ria in generale e ogni evento particolare. Ciò che costituisce la sostanza della vita ordinaria, ciò che fa sì che gli uomini si comprendano e si odino, persi­ stano nell'essere e prendano gusto alle apparenze, indivi­ dualizzandosi nel mondo, è la meschinità - fondo eterno del loro respiro. La «virtù» è insipida e inverosimile; è astorica e irreale. Gli esseri si trascinano in bassezze che com­ pongono il loro dramma. Una volta soppresse, nel verme umano non resta più nulla di appassionante. L'invidia, l'a­ varizia, l'operosità, la superbia - semplici variazioni della stessa caduta essenziale! La meschinità è il sale della vita. È unicamente la sua soppressione, tramite la sofferenza pro­ vocata dal suo rifiuto, a rendere interessanti gli individui virtuosi. Chi oserebbe, conoscendo i propri simili, parlare di una grande anima? Una cosa del genere è inverosimile. Nel­ le opere di fiction, nel romanzo e nel dramma, tutto quel che non è sozzura morale è soporifero. L'irrealtà del bene e della benevolenza non produce alcuna fascinazione. Gli elementi costitutivi del male sono identici a ciò che è reale e

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veridico negli atti dell'uomo. Tutto ciò che richiama l'istinto di conservazione rende l'uom o qualcosa di essenzialmente diverso dalla possibile somiglianza all'im magine e all'icona di Dio. La vita si può manifestare solo attraverso le meschi­ nità dell'anima. Se in un qualche anfratto del cuore non si nascondesse­ ro le lucidità di Cassandra, la nostra tendenza a dare libero corso alle illusioni17 e a costruire ali alla stupidità, ci fareb­ be credere di sopravvivere al sole. La passione dell'eternità rende l'uomo simile a una talpa che costruisca la propria tana in cielo. Tutte le carenze del mondo non provengono dalla pigri­ zia e dalla noncuranza, bensì dall'eccesso di operosità. La condizione normale della vita implica un ritmo lento, una cadenza pacata. Viceversa, l'uom o ha accelerato il suo tem­ po, creando sulla base della successione degli istanti uno spazio dell'ansare e del sudare. Nella sua corsa, smanioso di chissà cosa, non riesce a fermarsi, animale agile, desideroso di fatalità ed ebbro di sgobbare18. Il lavoro immenso di cui è capace è possibile solo perché nessuno si rende conto del motivo per cui lavora. A giudicare dai risultati, c'è almeno un argomento a suo favore? La distruzione è come minimo equivalente alla creazione. Lo sforzo produce una tensione statica; è un'identità vorticosa. Le nazioni19 contagiate dalla sciagura dell'operosità si sono esaurite ed estinte più rapi­ damente di quelle lente e pacifiche. A che prò lavorare, se

I7Var.: a lusingarci. 18Var.: di lavorare. ,9Seguito da: come gli individui, versione soppressa dall'autore.

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non per dimenticare l'eterna domanda: a che prò? Può darsi che l'operosità sia alla base del tracollo delle nazioni e degli individui in azione, per evitare quella risposta; è la brama di collezionare i mali per non guardare in faccia il Male. È il destino di ogni formicaio. La società è qualcosa di più: un formicaio che crolla per eccesso di zelo; formiche impazzite dal fardello delle proprie virtù... La tristezza è il risuonare agrodolce e infinitamente pro­ lungato di una ribellione defunta, l'eco di un sogno doloro­ so nato sulle rovine di ogni protesta20. È il suggerimento di un canto che ripete: tutto quel che esiste, lo è per l'ultim a volta - ritornello reversibile con cui l'anima depone le armi, consolandosi con quello della sparizione. Cos'è l'anima? Tutto ciò che in noi rifiuta di far parte del mondo. Uno straripamento illimitato di s é 21. Il suo unico ruolo è di divorare sé stessa22, di essere il proprio cannibale. Attraverso l'immaginazione funebre, esercitandomi a traspormi nelle forme negative del mio essere, ho esaurito a tal punto tutte le varietà cadaveriche, da rendere inconce­ pibile ogni tipo di decomposizione e da non avere più posto in qualsivoglia bara. Le azioni, i gesti, le ispirazioni degli uomini, valutate sin­ golarmente, non svelano alcun significato e alcuna ragione d'essere; insieme, però, formano il «progresso». Allo stesso 20Segue l'inizio di frase: Dopo aver deposto le armi, ci resta ancora la forza di sopportare passivamente, soppresso dall'autore. 21Seguito da: una fonte che si rifiuta di diventare ruscello. 22Var.: fino all'ultima briciola.

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modo, ogni istante della nostra vita appare insopportabi­ le, ma lo sguardo retrospettivo ci fa accettare il passato. In fondo, siamo contenti della nostra esistenza, benché non lo ammettiamo mai. Gli «ideali» sono possibili solo grazie al limite che una misteriosa e oscura speranza pone alla gene­ ralizzazione. Se da qualsivoglia gesto23 traessimo le ultime conseguenze, quel gesto sarebbe l'ultimo. Può darsi che il desiderio recondito di ogni individuo sia quello che non esista più nessun altro essere umano. Il de­ stino nascosto di ognuno è di odiare tutti i propri simili. Che il mistero ultimo di ciascuno sia forse una virtualità dell'o­ micidio? Chi ha compreso la realtà irreale del tempo, continuando a valutare le cose nell'ottica della loro utilità, è condannato a restare estraneo al più elementare atto filosofico, che è la percezione della vanità. Le cose sembrano tutte utili e al loro posto, ma il quadro in cui accadono24, il tempo, ne smasche­ ra la futilità e l'inopportunità. Se qualcuno riflettesse per almeno un'ora - senza fermarsi neppure un secondo - alle conseguenze e al significato della successione crudele degli istanti, diverrebbe incapace di vivere per il resto della vita. Giacché la coscienza del tempo è la rovina di tutto ciò che avviene nel tempo. I pensieri dovrebbero avere l'im passibile perfezione del­ le acque m orte25, o la concisione fatale26 del lampo. 23 preceduto

da: da ogni intuizione o esperienza. 24 Var.: divengono. 25Var.: stantie. 26Var.: mortale.

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Il tedio che si espande nell'animo, supera la luce che il sole sprigiona nello spazio, così come il dolore dissipato nel tempo pesa sulla bilancia più del calore perso dall'astro im­ memore. Dopo aver cercato invano nei libri e negli uomini risposte alle domande, ci rivolgiamo agli oggetti, che ci offrono una soluzione lim pida27 e profonda: quella del silenzio. Osser­ vate un albero, affascinati dalla sua impassibilità, dalla le­ zione di tale impassibilità: è la dimostrazione verticale della mancanza di desiderio. Esso non vuole essere un'altra cosa - mentre l'uom o non mira che a questo. Non è l'albero a prendere possesso dell'aria, quanto piuttosto il contrario. Il suo «essere» sembra consapevole di non rappresentare altro che un divertimento offerto dalla terra a sé stessa. Le stagio­ ni sono la sua storia; e le radici non gli iniettano nella linfa il veleno della ribellione. Esso è l'eternità dell'accettazione - indifferente al gemmare come al perire. Tutti i problemi che ci poniamo sono insolubili, fintanto­ ché non accettiamo la morte. L'idea di civilizzazione, di progresso, il culto dell'um ani­ tà e del futuro sono miti con cui l'essere umano lusinga sé stesso, è la sua fuga dalla propria inutilità. B asta28 gettare uno sguardo sul nostro «profondo», per perdere la fiducia in quelle fantasie. L'uomo non può nulla - tranne che elevar­ si alla contemplazione del proprio nulla. Ma l'intera storia, l'intera successione dei suoi sforzi, non è altro che la devia­

27Preceduto da più chiara e. 2SA tali invenzioni ridicole, incipit soppresso dall'autore.

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zione da tale contemplazione. Per orgoglio, egli ha voluto scardinare l'universo, ma è riuscito solo a perdere il senno, uccidendo - ammaliato dall'io - la conoscenza di s é 29. Ogni fede è il frutto di una confusione dello spirito, una maschera sotto la quale si sta sviluppando una malattia, un male che inganna sé stesso, perché non si conosce. La salute è l'assenza di ogni fede, senza la coscienza dell'irreparabile. La vertigine dello spirito è quest'assenza unita a questa coscienza. Il grado di inadeguatezza in cui viviamo può essere valu­ tato secondo il ruolo che il sole svolge nelle nostre preoccu­ pazioni, secondo i nostri mancati riconoscimenti. Iniziamo a pensare più o meno dallo stesso istante in cui non gli siamo più riconoscenti. Il nostro cuore è il nostro proprio castigo 30; è l'avvoltoio di Prometeo. Per il suo tramite espiamo l'essere incatenato nel tempo e nella pietrificazione della sventura, che è la no­ stra roccia. I fulmini di Giove sono dentro di noi, maneggiati dalla nostra ira. Spronati da nostalgie insaziabili, essi hanno acceso in noi un fuoco che ci consuma le interiora, il sangue e la mente, e lo spirito stesso crea la propria cenere31, non avendo altro dio all'infuori di sé. ... È lo stadio soggettivo, dunque l'ultimo, della mitologia.

29Var.: conoscenza essenziale. 30Seguito da: e riscatto. 31 Var.: ci accende / ci trasforma in cenere.

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Ciò che è vile è quanto di più profondo e sincero ci sia dentro di noi. La nobiltà pura è artificiale, inverosimile; nella letteratura, le anime sono creazioni riempitive. Le confessio­ ni «elevate» infondono una noia mortale; non appena, però, vi si insinua qualcosa proveniente dall'autenticità della bas­ sezza, il nostro interesse si rianima, rendendocele affidabili. Tutto quel che emana da un io deve avere una provenienza dal basso. L'unica scusante del sublime è di non essere vero. Da qui la sua prossimità al ridicolo. Quando la tristezza si è impadronita degli istanti e ti ac­ compagna non solo nelle distese del tempo, ma persino nei presagi di eternità, costituendo la m ateria32 delle sensazioni forti o fluttuanti, è 33 come se, dagli inizi fino a oggi, l'avessi sperimentata solo tu, è come se ti avesse aspettato lei, gravata dai secoli che non l'hanno vissuta, affinché per mezzo di te ri­ empisse l'universo e lo mettesse a lutto. Per quanto consape­ vole fossi del fatto ch'essa fu il veleno e il vanto di tante menti e spiriti, non vi potrai trovare consolazione alcuna. Giacché, scoprendo il mondo per il suo tramite, le attribuisci, senza vo­ lerlo, l'estensione e il valore del mondo. Del resto, non furono altri a svelartela - poiché non c'è una scuola della tristezza né ci sono maestri a insegnarcela - , bensì fu la tua natura34 a pla­ smarla dall'indicibile delle tue stesse solitudini, dalla fatalità di non avere nulla a che spartire con le apparenze. Lo spirito raggiunge la condizione di libertà quando si muove in un universo in cui qualsiasi sistema di riferimento

32Seguito da: e il nutrimento. 33Preceduto da: allora. 34Var.: furono i tuoi anni.

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è soppresso. Esso assomiglia allora a una forma aerea il cui unico appoggio è la sua ubiqua inanità. Senza legami, sen­ za radici e senza la superstizione di un valore qualunque. Una trasparenza più pura e più quieta dell'inesistenza; un deliziarsi nell'ultim a sfumatura dell'assenza di desiderio, nella palpitazione finale dell'istinto spento. È una brama di estremi che sconfigge qualsiasi altra brama, un cielo senza nubi sopra una terra non più assetata, in un tempo guarito dal delirio della successione. Eppure, è un universo che con­ serva un sistema di riferimento: il deserto, in cui lo spirito, libero persino da sé stesso, svolge la funzione di miraggio. L'esercizio della mente non può avere che un'unica di­ rezione: arrestare l'inclinazione del cuore a comunicarsi di tutte le parvenze dell'essere, respingere il mondo che la stol­ tezza del sangue esige. La furia di quest'ultimo ravviva le vene dell'universo-cadavere; sarà placata dalla mente, la cui unica nostalgia è la pace del sangue35. Ogni desiderio partorisce un'apparenza; e ogni pensiero è un'apparenza in meno. Il vuoto immenso creato attorno a noi dall'espansione del pensiero, toglie al mondo la sua par­ venza di necessità. Sopprimendo gradualmente oggetti, for­ me ed evidenze, arriviamo quindi a un limite in cui lo spiri­ to, perfettamente padrone del suo potere di annullamento, apprende che il mondo avrebbe potuto non esserci, evitan­ do di scivolare36 sul pendio dell'inesorabile disfacimento. Questo coronamento fatidico in cui tutte le cose trovano una

35 Var.: Conosceremo mai quel punto di equilibrio in cui la pace del sangue è la sua unica nostalgia? 36Var.: di entrare.

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conclusione - e al quale l'anim a non può affatto contribuire, poiché i colori della tristezza o della gioia sono lasciati alle spalle, quali stadi elementari e impuri - è la solitudine teorica, l'ultim a potenza a cui può elevarsi lo spirito. Le credenze forgiate dagli uomini, nella loro inconscia brama di illusione, non tendono che a raggirare i rigori e le conseguenze della conoscenza di sé. Colui che si vota a un «ideale» lo fa per non restare faccia a faccia con sé stesso. Lo sguardo fisso sugli abissi dell'intimità paralizza lo slancio della creatura. Sorge così il bisogno di credere, cioè di es­ sere quel che non siamo. È la paura di restare con sé stessi e di non sapere cosa fare. L'egoismo è il più grande nemico dell'io, ma anche la sua salvezza attraverso ciò che esso non è; è l'invenzione di interessi e fedi per conservarlo, è la sua riduzione a oggetto. A tirarci fuori dal baratro dell'io è pro­ prio l'egoismo, vero strumento della non conoscenza di sé, arnese antifilosofico della vitalità. L'io rappresenta la possi­ bilità inconcepibile di un qualcosa che non è tutto, di essere questo tutto; è un universo interiore che di quello esteriore accetta soltanto l'idea. Pertanto, qualsiasi ente, per il solo fat­ to di essere, non lo interessa affatto. Quando giunge a pren­ dere coscienza di sé, esso non vede che sé stesso - e l'assenza generale. Come non spaventarsi, quindi, di fronte a questo limite in cui lo ha collocato la propria natura e la propria funzione? Come potrebbe non scivolare via la consapevo­ lezza della propria impossibilità? Nulla di più innaturale di questa consapevolezza, nulla di più contrario all'evoluzio­ ne naturale della «vita». Che nessuno arrivi al limite ultimo di sé stesso senza correre pericoli, deriva dall'astuzia della natura, che ci ha suggerito e imposto la voluttà delle ragne che ci sovrastano. Ogni attenzione a quel che non siamo è

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una carenza dello spirito e un trionfo dell'eterna banalità dell'esserci. La conoscenza di sé crea una frattura tra io e mondo che nulla può piii colmare, e che finisce per svuotare questo mondo stesso. Chi oserebbe fare a meno del dolce terrore dell'obiettività, per assaporare il proprio rifiuto e de­ liziarsi nell'ebbrezza di essere la propria divinità periclitata? Giunti a questo limite, sorge un nuovo pericolo: l'io rischia di diventare un credo, adottando in grande l'errore che vo­ leva evitare in piccolo. Perfino nella regione in cui la nostra purezza si fonde col nulla è in agguato la tentazione della mitologia. E cos'è il mito in questa zona in cui le fedi non sono più valide? È lo sfogo dell'anima che non accetta la periferia che le è stata imposta dallo spirito. L'anima vuole credere, è la sua legge; lo spirito è il precipitato delle assen­ ze di fede. L'anima è l'agente dell'impurità, è il fattore che m acchia37 l'estasi intellettuale con vaghe tracce sentimentali e mondane. La nostra pietrificazione in una luce innaturale è sconvolta da un grido remoto del sangue, protesta mate­ riale dell'anima con cui essa ci fa evitare la perdizione finale nell'indistinzione estatica e l'assorbimento delle categorie in una nitidezza superiore alla loro trasparenza. Se tutta la noia che ho accumulato negli anni si convertis­ se in energia, e quand'anche l'universo fosse rimasto impie­ trito, lo metterei in moto. C oltivando a dism isura desideri scarnificati fino all'o s­ so, desideri oggettivi e neutri, arriverò infine a sopprim e­ re anche l'anim a. Giacché, che altro sarebbe questa in un individuo separato dalla seduzione delle inclinazioni e

37Var.: turba.

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delle preferenze, che non si abbassa più a scegliere, conti­ nuando invece a soffrire in uno spazio incolore, piatto, in­ finitam ente nullo e identico? Sono preda di una tristezza qualsiasi; l'ultim a esalazio n e38 di tutti i pronom i; espira­ zione oggettiva; riservato a un destino intransitivo, senza predicati e senza ideale, esattam ente com e un eterno zero in cui i num eri gem ono ingiustificati, nella speranza di com parire un giorno. Dobbiamo aderire alla terra come le nuvole al cielo: sen­ za radici - e tramite un'illusione dal basso. La vita è un accidente... permanente - che sembra reale solo grazie all'alternanza continua di monotonia e orrore. I dolori sono incompatibili col sole - e il sole illumina tutto. Ciò che abbiamo nascosto nelle notti, le possibilità di sospirare e tutti i sospiri, si estendono a un tratto alla sua vi­ sta, i suoi raggi si spezzano e lo abbandonano, accecato dal nostro dolore, nella tomba della propria luce. Di coloro che non spargono attorno a sé un aroma di fal­ limento 39, difficilmente si può dire che abbiano vissuto. La decomposizione è l'unica traccia che i passi lasciano in dote alla vita, questo strano putridume della materia. La creazio­ ne e la distruzione sono diverse direzioni della stessa so­ stanza, che si afferma disfacendosi.

38Var.: il lutto. 39 In due versioni abbandonate dall'autore, appare la variante decomposi­ zione, ripresa nella frase seguente.

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Una giornata in cui non ho formulato definizioni è svani­ ta senza rimedio. Tranne queste, non abbiamo alcun mezzo con cui smentire il nostro nulla. Quando ne avrò trovate mi­ gliaia per la morte, mi sembrerà che non sia più importante morire. La saggezza è l'ultim a stanchezza a cui approda l'eserci­ zio delle definizioni. La noia s'insinua in m aniera crim inale nei nostri tes­ suti, rodendoli fino all'ultim a fibra. È una lotta seg reta40 cui dobbiamo resistere fino in fondo e in cui il corpo paga la stravaganza del nostro orgoglio. Sensazione di nuota­ re in una suppurazione cosm ica - tale è l'eroism o assurdo dell'annoiarsi. È vero che oltre a ciò, cosa altro potrebbe essere il Tedio? Un inferno che il Diavolo è incapace di im­ m aginare41, e che invece la demenza lucida della carne ela­ bora con cura assassina. In ognuno di noi si nasconde un profeta. L'ossessione del futuro, che ci fa intervenire nel reale per cambiarlo, getta un contenuto falso nelle sensazioni presenti. Giacché tutti gli uomini credono di avere una missione, tutti vogliono rime­ diare qualcosa, se non addirittura tutto. Il bisogno di proporre a ogni costo avvelena il ritmo della vita. Dovremmo vivere in maniera normale, obiettiva, fuori dal tempo come le piante, invece sostituiamo la vista con la visione e l'attimo con gli istanti susseguenti. Alimentandosi dall'illusione di un eterno altro e sostenendosi sul male letale della nostalgia, l'orgoglio trasforma i nostri giorni in una fuga verso un'imprecisata ri­

40Var.: misteriosa. 41 Var.: abbandonato persino dal diavolo.

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forma dell'eterno irreparabile in cui siamo nati. La profezia emana da una degradazione dell'istinto per l'essenziale, dal­ la febbre che rimpiazza la conoscenza, dalla valanga di bri­ vidi che oscurano lo spirito. Sennonché, essa appartiene alle apparenze umane in maniera altrettanto profonda di ogni istinto. Giacché, richiedere di nuovo l'uccisione42 del profeta, che altro è se non profezia? Nessuno è risparmiato dai vizi umani. Perfino chi propone il nulla non si distingue da chi vuole riformare un m unicipio43. Solo un'assenza assoluta di volontà ci proietterebbe al di fuori dei nostri simili: una volta ucciso il profeta in noi, saremmo talmente al di sopra dell'es­ sere, da non esistere più. Non c'è alcuna soluzione per nulla, ecco la premessa dal­ la quale tutti dovremmo partire, nel progettare azioni e pen­ sieri. In realtà, tutto quel che facciamo e pensiamo procede dalla negazione di questa premessa. L'esistenza umana, di per sé insolubile, si basa esclusivamente sull'idolatria della Soluzione, cioè su una concezione morale del tempo. Ogni trionfo della vita segna una crisi nel rigore dello spirito. Cosa vuol dire essere scettico? Non credere di essere il centro del mondo. Ma basta un attimo di disattenzione, un istante di fragilità della coscienza, per reinstallarsi di colpo nel più antico e vitale errore. Ogni uomo - nei momenti di ottundimento, cioè nella qua­ si totalità della successione temporale - procede come se fos­ se l'inizio e la fine di tutto l'esistente. La vigilanza sui nostri limiti è quanto di più innaturale ci possa essere, contraddi­

42 Var.: la soppressione. 43Var.: una legge.

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cendo i riflessi e le azioni. L'uomo è una piuma che si dissolve nell'assoluto, tranne nei momenti in cui è consapevole. Allora si ferma, s'irrigidisce e non si dissolve più. L'agire è sabotare la Divinità, poiché ogni atto, dal momento che lo compiamo, ci appare quanto di più importante possa esserci sotto e oltre il sole. Senza questa illusione, non potremmo compierlo. Tra il dubbio e il gesto, di qualsiasi natura, vi è una op­ posizione maggiore che tra il suicidio e il matrimonio. Fare qualcosa significa isolare una possibilità44 e investirla di uno statuto speciale, promulgarla nell'incondizionato. Vicever­ sa, nel dubbio livelliamo le differenze di rilievo percepite dal nostro desiderio. Non appena preferiamo qualcosa, ci preferiamo - senza la riserva di un punto di riferimento che umilierebbe, con la sua esteriorità, la nostra condizione. E se anche aderissimo a qualcosa, l'orgoglio ci costringereb­ be ad aderire a noi stessi, giacché esso è più forte, sempre, della consapevolezza chiara di sé e delle cose. Se talvolta, in una breve assenza di vanità, arriviamo a vederci per come siamo, questa rivelazione passeggera è solo il frutto di una crisi, e non di una situazione normale dell'essere. La sensa­ zione della nostra importanza è più prossima alla follia, a cui gli esseri umani sono più vicini che alla lucidità. Occor­ re, in effetti, essere pazzi, o quasi, per trovare una ragione in ciò che facciamo, per sacrificare il tempo vuoto a un atto qualunque, quando la mente rivela la fatalità banale di ogni gesto; né potrebbe essere diversamente. D'altra parte45, una volta soppressa tale follia, l'esistenza umana diventa priva di interesse e di mistero.

44Var.: non avere dubbi su ciò che vogliamo fare. 45 Preceduto da: Finché l'uomo continuerà a credere nella virtù e nella necessità del gesto, incipit soppresso dall'autore.

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La mia presenza nel mondo è quella di non essere in nes­ sun luogo. Da tutto mi separa qualcosa. Ogni sentimento è prossimo a quel che non è. I paesaggi e gli oggetti perdono il loro profilo nella prospettiva della loro assenza46; la vista di­ venta il fattore distruttivo delle cose viste; l'occhio distrugge l'ultim a parvenza di realtà; l'orecchio ascolta l'icona sonora della mancanza di suono. E l'amore s'attornia47 della morte per una brama d'infinito - che lo nega. Il divenire dell'ani­ ma è il suo successivo annullamento. L'eroe è un vigliacco che, spinto dalla paura, corre verso il pericolo. È curioso come la tristezza, che possiede un'infinità di ar­ gomenti e una giustificazione schiacciante, sia, nel contem­ po, la via più diretta e sicura verso la dem enza48. La frivolezza o la rinuncia sono le uniche posizioni che può assumere uno spirito affrancato dalle illusioni. Non vi è «re­ altà», ma soltanto apparenza o nulla. Ti puoi dedicare a tutt'e due; non occorre essere seri, poiché non si opera nell'è. Essere è un verbo che si coniuga nell'irrealtà, e che perviene alla dignità di sostantivo solo con l'abolizione del nostro desiderio. Provo un'immensa pietà per tutto quel che esiste - e per tale ragione non nutro alcuna speranza. Il filo del tempo si 46Seguito da: possibile. 47 L'amore è circondato da tutto ciò che non vi rientra, versione abbandonata dall'autore. 48 Segue l'aforisma: Impedendo ai sentimenti di radicarsi, la noia ci rende di­ sponibili nei confronti di tutto, tranne di ciò che siamo. Frammento eliminato successivamente dall'autore.

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dipana come un commento a un sospiro privo di significato. Il desiderio di vivere è u n'infinita49 sofferenza grazie alla quale sopportiamo, però, il resto delle sofferenze. Da tutto ciò che in natura è piacere e dolore, l'uom o ha tratto ancor più grandi piaceri e dolori. Che altro è l'a ­ more se non una spremitura dei sensi e della sensibilità fino all'ultim a goccia di succo, una torchiatura del corpo e dell'anim a? Ecco perché nei suoi sussulti sembriam o tan­ to pieni, e nel suo crepuscolo tanto vuoti. L'insensibilità al piacere e al dolore espelle l'uom o dall'universo. Una sen­ sazione in meno è un lato dell'esistenza in meno. Esauren­ do la nostra essenza, esauriam o im plicitam ente quel che nell'essere sembra essenziale. Da qui il vuoto al termine della voluttà e del patimento. Giacché abbiam o portato il piacere e il dolore lontano, là dove essi non si accordano più con i ritmi del mondo, avendo superato la resistenza del sentire e dei sensi. Ogni sentimento che s'impadronisce dell'io lo trasforma nel centro di tutto l'esistente. Per questo, quando ci posizio­ niamo, grazie a uno sforzo spirituale, al di fuori della nostra sensibilità, questa è sminuita fino all'annullamento, e insie­ me a essa, la nostra illusione di assoluto. Sono due le cause50 che c'impediscono di portare fino in fondo un pensiero, di seguirne i meandri e di definirne le conseguenze: la pigrizia e la paura della banalità.

4qVar.: la più grande. 50 Var.: ostacoli.

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L'estasi e la ripugnanza; la folgorazione e la nausea; il sole e l'orrore - presenti simultaneamente, in una dirom­ pente e infinitamente fausta-infausta contraddizione, nel­ lo stesso istante di un apocalittico crocevia! È la ricchezza dell'anima insolubile, che dal ciel sereno si scatena in tem­ porale e, scossa da ondate di brividi, deplora, avvolgendo l'intero spazio, di non avere più dove disperdersi. È la fine nell'eccesso, l'annullamento sovrannaturale, l'espirazione al di sopra della musica, l'ultim a resistenza degli ostacoli. Nel frattempo, lo spirito si fonde con tutto quel che ha immagi­ nato, con tutto quel che nel mondo era la sua negazione e pur tuttavia il mondo stesso... Credo di aver intravisto sotto il sole splendori che eclis­ sano il sole e le stesse luci dei santi, quando ogni figura si tramutava nell'icona di un paradiso esasperato, quando le illusioni con cui l'anim a costruì il cielo, divenivano realtà schiacciante, e luccichii misteriosi s'innalzavano nella fiam­ ma, esaltati da non so quale fuoco nascosto. Allora il cuo­ re rivaleggiava con la mancanza d'oggetto dell'infinito, la delizia di una divina solitudine superava l'assenza di limiti della deità, il pianto del proprio fremito eclissava la corsa di tutte le nubi mai esistite, e la materia sbalordita nel vuoto si assottigliava nel gemito, piangendo il proprio peso e carico. Perché, Signore, non hai esteso il castigo51 di questo maesto­ so presagio a tutte le occasioni52 della mia vita, lasciandomi invece per sempre sotto di Te, e solo talvolta al di sopra e al di là di Te?

51 Seguito da: celeste. 52 preceduto

da: tutti gli istanti e.

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Gli individui - e le nazioni ancor più di essi - soffro­ no di com plessi di superiorità. G iacché ogni individuo e ogni popolo si preferiscono in m odo assoluto. La leg­ ge della vita è esclusione totale di tutto quel che non è vita. Da qui proviene l'au tom atism o del disprezzo, che contraddistingue all'u nanim ità gli esseri. Lo svolgersi degli a c c a d im e n ti53 si radica nell'incom patibilità orga­ nica degli individui, delle tribù, delle nazioni. Spettacolo penoso eroso dal rid ico lo54, com e ogni cosa derivante dal sentim ento della propria im portanza dentro la sconfinata futilità. Dalla nascita dell'essere fino a ora, dal tentenna­ mento del verm e fino alle ironie della coscienza, non vi è evento estraneo all'area della tristezza. L'ossessione delle preoccupazioni quotidiane o il tram onto55 di un impero, la gam ma che si estende dalla sventura all'orrore o al subli­ me, tutto si espande e si cancella nell'indistinzione della nullità. La storia è una tragica inezia. Quando, riposando nella tomba quotidiana, faccio il bi­ lancio dei tentativi di brivido che m 'im pediscono di arros­ sire per il fatto di esistere, o essere esistito, al di fuori della solitudine e del ricordo dell'amore, mi scervello rimprove­ rando la mancanza di utilità degli altri attraverso l'esempio della mia inutilità. Affondo nella sterilità come in un'estasi. Al sangue ste­ rile e a idee sterili si aggiunge la sterilità dell'amarezza. Il succo del tempo è spremuto e, in istanti pesanti e vani, sol­

53Var.: della storia. 54 Var.: dal tragico e dal ridicolo. 55Var.: l'agonia.

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tanto lo srotolarsi dell'anima nel nulla ricorda ancora il sen­ so dell'accadimento e del tempo. Un pensiero muore quando non lo eserciti oltre. Allo stesso modo, esso muore quando lo hai pensato al di là dei confini del pensare. La filosofia non può fare a meno della mediocrità senza annullarsi. Il pensiero portato fino al li­ mite delle sue potenzialità n eg a56 sé stesso, uccide i propri poteri nel contatto con mondi compatibili solo con la poe­ sia, la musica, il silenzio, la rassegnazione, l'estasi o la follia. Lo spirito è un rifugio; un pensiero che lo rincorre rimane scoperto, perduto nello spazio e più spiazzato dell'assurdo della sensibilità. La sua diserzione dal cortile della ragione è la più feconda e fatale impresa della ragione. La tentazione che offre a sé stesso raggiunge la profondità di un peccato di curiosità. Amare la vita fino alla furia - ed essere da lei destituito; sciorinare balbettìi patetici nel lirismo dell'ammirazione e portare la tristezza fino alla sfrenatezza! E non trovare più alcuna parola nell'esistente che sia un eufemismo per le per­ secuzioni del cuore! Solo sfortuna palese con cui la demenza della felicità si fonde crudelmente, e lo spirito che paga, tor­ mentato, i ritornelli di quest'equivoco! Delle fedi che io abbia provato o propagato mi è rimasto soltanto il loro veleno, che mi riempie l'anim a di una linfa suicida. Di ogni fede ho assaporato solo la sua rovina, e la vergogna di condividere l'infantilism o57 di un «ideale» mi

56Var.: uccide. 57Var.: la primizia.

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ha spinto verso la voluttà della sua decomposizione, verso la sua unica serietà. Davanti a certi occhi brilla solo ciò che muore; la misura del morire definisce la natura di ogni in­ cantesimo. Giacché in ogni individuo si nasconde un boia che ognu­ no intrattiene con una raffinatezza profonda e inconscia, l'u­ nico percorso nobile è imparare a essere vittima. Quando in ogni tuo simile vedrai il nemico mortale, solo allora avrai la certezza che nessuno ti ucciderà o infangherà la tua solitudine. La donna è l'angelo custode della nostra sterilità58. Se ognuno di noi osasse guardare fino in fondo alla pro­ pria vita, stupefatti da tanta bassezza e dall'inesistenza di un pizzico di bellezza, non avremmo il coraggio di compiere un solo atto nell'arco temporale. Le nostre azioni derivano da mancanza di nobiltà, da nescienza e volgarità. Attraverso la storia sguazziamo, dapprima per natura e poi per volon­ tà, nella schiuma del male. Quando la materia è triste per essersi separata da Dio, piangiamo insieme a essa la nostra incapacità a ritornare in Lu i... La vita è possibile solo in funzione di qualcosa che la superi; la fonte del vigore è nel sogno - e l'inizio di tutti i nostri sogni dimora in Dio, fantasma in iziale59 verso cui 58Var.: In ogni donna non ho mai visto altro che l'angelo custode della mia pro­ pria sterilità. 59 Seguito da: a cui si abbeverano tutte le illusioni, versione abbandonata dall'autore.

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s'indirizzano tutte le nostre delusioni, per negare sé stessi nell'illusione. Ho trovato migliaia di motivi che mi legano alla terra, ma mai tutti insieme, bensì snocciolandoli nel corso dei giorni. Nessuno di essi è stato abbastanza forte e convincente da uccidere in me la tentazione della non appartenenza, o al­ meno da diminuire il prestigio dello sradicamento. Dalle contraddizioni interiori, come da quelle teoretiche, non è la ragione a salvarci, bensì un minimo di assennatez­ za, di mediocrità ancestrale. Se restassimo prede di noi stes­ si, non ci ritroveremmo mai più. La tristezza non è timore ma bisogno di infelicità; è il pre­ sentimento torbido e divorante di una voluttà nella sfortuna. Un astronomo constatava la presenza della vita su Marte, in cui ha pensato di identificare60 certi fenomeni di decomposizio­ ne nella superficie del pianeta. La sua è la più profonda dedu­ zione61 mai fatta sulla vita, il più semplice e rivelatore dei ragio­ namenti che spiegano tutto. Giacché tutto quel che vive ha un unico segno: la necessità ineluttabile62 di non essere più in vita. L'uomo ha fatto dell'attività un principio distruttivo più che creativo. Ha convertito l'operosità in dannazione, il lavoro in sfortuna e la fretta in anatema. L'uomo è una formica bestiale.

60Var.: ha osservato. 61 Var.: è la più profonda osservazione. 62Var.: la possibilità / la tendenza sicura.

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Concepire la morte perfino in paradiso, ecco il limite estremo raggiunto dal coraggio del pensiero amaro, il limite verso cui s'indirizzano il rifiuto dell'innocenza e la visione del clima di dolorosa colpevolezza in cui si muove il cuore. A volte comprendo tutto quel che ha a che fare con l'esi­ stenza, ma non sono mai riuscito a chiarirmi cosa significhi l'esistenza stessa. Nessun labirinto dei pensieri mi è sembra­ to inaccessibile in maniera assoluta, ma sono rimasto sempre perplesso e confuso dinanzi a questa evidenza incompresa e indimostrabile: io so n o 63. La coniugazione di essere, del verbo più banale e più enigmatico, è un ardimento assurdo, un salto quotidiano e mortale della mente che, pensato fino in fondo, scervellerebbe anche lo spirito più equilibrato. Ci affatichiamo nelle faccende della vita solo dedicandoci ani­ ma e corpo ai suoi ondeggiamenti. Se partissimo dall'analisi di è, c'im pantanerem m o64 per sempre sulla soglia del primo atto. Viviamo tutti nelle forme dell'esistenza, perché se ci fermassimo al suo fondamento, a quel che è, perderemmo l'equilibrio della mente e il coraggio di qualunque gesto; lo stupore minerebbe la nostra fiducia insensata nel futuro del tempo, diventando follia. Essere ci si impone come una necessità ultima, che ciononostante non realizziamo. Giac­ ché non esiste alcuna ragione perché l'esistenza sia, nessun argomento per la sua «esistenza», nemmeno per la nostra. I motivi che invochiamo sono pretesti, un gioco poco onore­ vole dinanzi alla luce dello spirito. E questa luce viene scon­ volta, smembrata non appena l'io ripete a sé stesso: io sono, io sono - come se l'inizio della coniugazione in generale,

63Var.: esisto. 64Var.: ci fermeremmo.

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dell'accenno di vita, ci posizionasse d'un tratto, insieme agli elementi più semplici della conoscenza, nella nullità di quest'ultima e nella nullità in quanto tale. Un uomo ha «anima» solo nella misura in cui può esa­ gerare. Conferendo contorni inverosimili alle cose, gonfian­ dole fino all'ultim o limite, quando divengono simboli; at­ tribuendo agli esseri dimensioni che trascendono il quadro della resistenza umana; facendo dei nostri stati d'anim o e capricci fenomeni cosmici; elevando la gioia o il rammarico al rango di principi direttivi; promuovendo i battiti del cuo­ re a polso dell'universo; creando con le parole una legisla­ zione paragonabile alle Tavole della Legge; invitando65 ogni istante al duello con l'eternità e curando il delirio con una minuziosità da giardiniere - ecco altrettanti atti che umilia­ no le evidenze della materia. Quando apprezziamo le cose nelle loro «giuste» proporzioni, persino il fulmine è medio­ cre. L'esagerazione è il segno della nostra presenza nel mon­ do. Un'anim a al suo posto è un'anim a che non ha posto nello spazio; un'anim a è folle, o non è. Dobbiamo sottrarci tutti alla tentazione della vita coniu­ gale nel mondo, alla tenera sensazione di trovarci a casa, av­ volti dall'aria malsana domestica. Le ali dello spirito cresco­ no solo nel disgusto del camino, del focolare, del calore. Vi è qualcosa di più nobile delle delizie del delirio? Della vita condividiamo solo l'esercizio, sfortunatamente mai consu­ mato, del suicidio della ragione. Ho riflettuto sull'am ore più implacabilmente dell'Ecclesiaste, eppure sono riuscito a giustificarlo come unico mezzo

65 Var.: trasformando.

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per respirare in un mondo asfittico, come unico soffio nella cristallizzazione del deserto, come protesta demente della nostra pienezza contro il vuoto esteriore e l'im minenza del vuoto interiore, come unica illusione grazie alla quale smen­ tiamo la vacuità, pur sapendo che, alla fine, questa trionferà. Giacché essa è lo sforzo supremo di non varcare la soglia della vanità, di non ammettere la sua sicurezza schiacciante; è un'illusione effettiva nel tempo, che c'impedisce di ince­ dere prematuramente in quell'assenza che è la nostra vo­ cazione finale. Se la donna spunta sul sentiero della nostra desertificazione, è per arrestare la nostra marcia frettolosa, per moderare i nostri passi nella fuga verso la crudele pre­ destinazione. Senza il suo fascino scivoleremmo dritti ver­ so il traguardo fatale; offrendoci l'amore, essa ci fa arrivare negli abissi dell'essere tramite una deviazione. Per Adamo, come per tutti noi, Èva è la via più lunga verso la morte. Se c'è qualcosa di sovrannaturale, terribile, insolito, che sfiora la stregoneria e la maledizione, è l'individuo mentre percorre lo spazio che lo rifiuta, pensando continuamente a sé stesso, alle proprie faccende, ai propri guai e alla pro­ pria importanza. L'eventualità che ognuno di noi, dall'alba al tramonto, possa affondare nell'ossessione di sé stesso, che l'io diventi nella nostra coscienza più importante del sole, della terra e del cielo, è un mistero più colossale della so­ litudine degli astri o del processo latente della demenza. E questo mistero si aggrava tanto più quanto, rendendoci conto della nostra assurda superbia cosmica, della nullità del nostro punto nello spazio, ci ostiniamo con rinnovata energia a proiettarci quale unica realtà del mondo e di noi stessi. Niente, nessun argomento e nessuna evidenza ci im­ pediscono di essere il centro di tutto. Quando camminiamo

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in paesaggi dove avvertiamo che la nostra presenza non ha alcuna necessità e non è stata affatto prevista dalla natura, che cosa ci spinge a girare attorno a noi stessi, trasformando gli stati fluttuanti della cosiddetta anima nella materia stes­ sa di tutto quel che è? Il mistero dell'io è più schiacciante di tutte le oscurità e più insondabile di tutto ciò che la teologia ha escogitato sul piano dell'insolubile. La mente ci dice che l'io è nulla, e quest'io ci risponde - come? lo ignoriamo ch'egli è tutto. La nostra spersonalizzazione - che sarebbe la conclusione norm ale66 di qualunque riflessione filosofica - è rifiutata da tutto ciò che in noi è più normale. Nessun argomento o filosofia può impedirci di non essere tutto per noi stessi. Qualunque direzione prendessero, tutte le strade portano a noi, come se il nostro io fosse la Roma della no­ stra storia. Se viviamo, è perché un accecamento assurdo e divino fa della nostra inutilità una Città eterna. L'incapacità metafisica dell'io di non essere io è la chiave stessa dell'esi­ stenza, chiave che non apre l'ingresso verso alcun mistero, poiché è essa stessa il mistero. Quando, con un setaccio ideale, separiamo l'esistenza da tutto quel che è, l'ultima tappa della regressione ci consente di concepire il nulla. Come mai avviene che, giunti a questo punto, indefinibile nel campo della ragione e immemore, non siamo più in grado d'immaginare l'esistenza? La crea­ zione del mondo è inconcepibile; e così la sua eternità67. Giunti qui, la mente sospende la sua funzione, e nel suo sonno intravede un niente che sogna da secoli l'universo. 66Var.: logica e normale. 67Segue la frase, successivamente soppressa dall'autore: La realtà non può essere, il nulla la immaginaisogna soltanto, dato che il sogno è l’unica forma di mitologia.

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Riprendendo invece il suo esercizio, essa trova nel dolore l'unica prova dell'esistenza del mondo, immaginando così, di nuovo, tale esistenza. Osservando la malvagità degli esseri umani e l'assurdità degli eventi, e sfogliando le pagine della storia, tristi fino all'indecenza, arriviamo a nutrire una nostalgia, rappresen­ tata dalle ambizioni dello spirito: la nostalgia della banalità. Se tutto ciò che in noi è preoccupazione e problematicità ossessiva, se tutta l'energia che spendiamo per lusingare l'io minore, fossero da noi canalizzate verso la purificazione in­ teriore, alimentando così un anelito oltremondano, l'inten­ sità che raggiungeremmo annullerebbe la religione. Poiché normalmente ogni uomo è l'idolo esclusivo di sé stesso, non diventerebbe egli a maggior ragione68 idolo per Dio? Non è forse in nostro potere farci adorare dall'oggetto della nostra adorazione, superare perfino Dio? La possibilità di immaginare il nostro orgoglio oltre ogni ragionevole limite è la risorsa69 intermittente che ci difende dalla dissoluzione nelle evidenze dello scetticismo. Se l'ulti­ mo granello di follia scomparisse, il dubbio ucciderebbe non solo l'anima, ma abolirebbe perfino la materia, la cui assenza scaverebbe la nostra fossa. Ogni lucidità trasforma in tomba gli oggetti grazie ai quali vogliamo elevarci. La nostra follia di crederci esistenti, che ci proietta nell'utopia della realtà, è una forza metafisicamente irrefutabile70 che combattiamo razionalmente, con migliaia di argomenti e nessun risultato.

68 Var.: in via eccezionale. 69Preceduto da l'unica, successivamente soppresso dall'autore. 70Var.: dinamica.

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Il dubbio divora ogni singola cellula del futuro e rende il tempo un tumore, mentre l'istinto di esistere71, seguendo una via contraria, costruisce l'eternità. Il conflitto72 fra ciò che sappiamo di essere e ciò che siamo senza saperlo,73 è l'irrisolvibile stesso - che eleva la dignità dell'uomo al tragico equivoco di buffone sospeso tra due impossibilità. A volte mi sembra di essere il più grande eroe mai esisti­ to, per aver preso la decisione assurda, che supera la follia e qualsiasi avventura mai vissuta da un essere: la decisione di vivere sulla terra. La vanità non è un'impressione o il risultato di una con­ siderazione sul mondo, ma il mondo stesso e la legge sotto la quale lo comprendiamo. Quando penso a tutte le rivolte tentate, al fatto che non ci fu nulla nell'ambito della natura o dell'immaginazione che non abbia fatto insorgere la mia mente o i miei sensi, che tutto quel che si svolge tra banalità e orrore fu fonte di protesta e sconvolgimento, che nessuno contraddisse il mio disgusto attivo per l'uomo, e che persino gli angeli insan­ guinarono il mio pensiero - e quando penso poi al fatto che tutte queste rivolte dovettero essere soffocate, nascoste sot­ to la maschera della filosofia, attenuate da dubbi e da una cura per la distinzione o la dignità, addolcite dal timore del patetico o del ridicolo, quando penso al fatto che porto in me tanto odio irrealizzato, tanta vendetta incompiuta, tanto

71 Var.: in cui il nostro rifiuto. 72 Incipit soppresso: Così, tutto ciò che è va verso la distruzione. 73Var.: ciò che sappiamo e ciò che siamo.

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caos fallito e tanta anarchia controllata, quando penso a tut­ te queste rivolte mi rendo conto quale disastro implichino la rassegnazione, lo scetticismo e il disinteresse nei confronti degli esseri umani. Nessuna rivolta muore in noi, ma tutte le rivolte vanno sconfitte, poiché sono impossibili, non ap­ portano alcun rimedio, resta tutto da rimediare. Così, non potendo cambiare in alcun modo la configurazione stessa del mondo, ho dovuto accettarlo pienamente, per non perire di amarezza o rendermi ridicolo. Accettare il mondo per timore del ridicolo, significa ele­ vare il buon senso a una dignità metafisica. Lo scorrere del tempo, col suo miscuglio di monotonia e stupore inutile, evoca l'immagine di un ritornello irreversibile. La storia della materia era anonima e indefinita prima della comparsa del dolore: l'unico evento grazie al quale se­ gniamo i momenti del tempo, altrimenti irreparabili, vuoti e insipidi. La mancanza di cronologia del paradiso lo tra­ sforma in un simbolo vuoto, perché non siamo in grado di rappresentarci come reale l'assenza di qualsivoglia sofferen­ za. Come realizzare l'icona di una vita che non contraddica sé stessa e l'estasi atemporale di un'esistenza sommamente conciliata con la propria identità? Il dolore è il respiro ge­ niale della materia, la tentazione luciferina nella banalità dell'eterno, è il tempo che nasce dallo spasmo dei suoi istan­ ti, che si isolano e lo superano, il salto di livello rispetto alla monotonia e alla mediocrità cosmica; il dolore è lo spaven­ to per il mondo omogeneo degli angeli, lo spavento per la loro fedeltà priva di logorio e di sarcasmo; il dolore è infine la suprema immaginazione della materia, che trasforma il

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supplizio nell'aspirazione a non annullarsi nella tristezza e nella monotonia di un Paradiso senza peccato. Quando, frequentando gli esseri umani e, passando in rassegna le varie ingiustizie, arrivi a comprendere l'Ingiu­ stizia stessa, la sua schiacciante immensità ti rende troppo anarchico per credere ancora nell'anarchia. E allora sogni un Diavolo artificiere che raffini la materia in esplosivo74, e che la rispedisca, grazie a un salutare fiammifero, nel nulla da cui ebbe origine. Dal Principio del Bene non abbiamo più nulla da sperare. Giacché quel Dio sembra una talpa nasco­ sta dalla luce che ha creato, affidandola al Satanasso, che se n'è stancato. A immagine di chi siamo stati fatti75? La Bib­ bia va rivista; miti tenebrosi dovranno rimpiazzare le storie diafane della nostra somiglianza col Creatore e, se non sia­ mo capaci di costruirci una sorte giusta, le mura di questo mondo - in cui nessuno si trova al proprio posto - dovran­ no essere demolite con la dinamite. La rivolta dello spirito, portata ai suoi estremi, troverà riposo solo nella cenere della Genesi. Ogni crescendo - del cuore o del pensiero - raggiunge il sublime e finisce nell'orrore della mancanza di gusto. La tragedia, che non conserva certi limiti, è irritante e falsa. Il patetico non è più dolore, ma interpretazione del dolore. Tutto sta nel fermarsi finché si è in tempo. Beethoven stesso diventa pretenzioso e vuoto. Il limite estremo, di qualunque genere sia, non è una categoria letteraria; le nostre vette non sono materia di espressione. Solo la mediocrità è distaccata

74Var.: che trasformi la materia in veleno. 75 Var.: creati.

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- e tra gli individui falliscono tutti tranne i neutri, coloro che non hanno «preso parte» e hanno sopportato il tempo e le sue variazioni. La rivolta, come anche la rassegnazio­ ne 76 fredda, conduce al limite più basso. L'umanità vera e propria, quella che ha sopportato il giogo dell'esistenza, è composta dagli uomini tiepidi ai quali Dante impediva di attraversare l'Acheronte, condannandoli a vagare al di qua dell'inferno e del paradiso. L'Inferno è più verosimile della vita quotidiana; il noioso Purgatorio è come un'allusione all'esistenza. Il Paradiso è il­ leggibile e inverosimile, pari a ogni ostentazione della felici­ tà. La trilogia di Dante è l'esem pio vivente dell'incapacità77 dell'uomo di sopportare la salvezza senza noia, la più gran­ de riabilitazione del Diavolo mai concepita da un cristiano. Dall'impossibilità di ognuno di immaginare altro dalla propria vita, deriva la nostra solitudine totale e incurabile. La cosa più difficile da immaginare è che l'altro esista. Ci com portiam o78 come se gli altri non ci fossero, ignorandone l'esistenza. L'uomo è impenetrabile all'uomo, e l'individuo riduce l'universo alla respirazione di una sola anima. L'os­ sessione di sé è il fatto fondamentale all'origine di tutti gli errori - e della possibilità - della vita. La sensazione della propria esistenza è l'unico dato assoluto dell'io; senza di essa l'edificio del mondo svanirebbe79 come una chimera. Ma questa sensazione, osservata dall'esterno, è essa stessa una chimera, non eliminabile attraverso l'esercizio della lu­ 76 Var.: 77Var.: 78Var.: 79 Var.:

tristezza. dell'impossibilità organica. viviamo. crollerebbe.

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cidità. Essa persiste come unica realtà; è una resistenza al non essere, da cui discendono tutti gli aspetti in cui siamo coinvolti e tutti i malintesi che ci lusingano. Per quanto ci sforziamo di sottoporre la nostra natura all'analisi, nessun percorso razionale ci consentirà di arrivare a gettare luce sulle radici dell'io, che emana da una sensazione di realtà ir­ riducibile80, costituendo il territorio irrazionale che nessuna mente può ridurre a una propria funzione. Il nostro punto di partenza, la costruzione dell'individuo, l'emergenza del nostro esistere, ci restano preclusi; tramite il pensiero, pos­ siamo fare a meno d i81 tutto quel che abbiamo aggiunto per suo tramite, ma nessun ragionamento potrà estinguere la fonte a cui si disseta la sensazione di essere. È un ostacolo supremo, che lusinga l'orgoglio e umilia lo spirito. Attribuire all'anima le attività dello spirito; elevare il sen­ timento al rango di categoria e il brivido alla funzione di giudizio; evadere dalla logica verso un universo cardiologico ... Ecco gli elementi del caos! Cosa potrebbe fermare più l'orgia della sensibilità e del sangue? A un tratto le Tavole della Legge sono state frantumate nello spazio del pensare; nessun limite, nessun argine per i postumi dell'ebbrezza o della passione; nessuna pausa per il sospiro o il sorriso. Sei triste, la terra e il cielo sono tristi; sei allegro, insieme a te ride l'intera materia. L'anima generalizza con una velocità mai raggiunta da nessuna deduzione; un fremito trae con­ clusioni che spaventano il sillogismo. Ciò che è più sogget­ tivo in noi diventa come per incanto la legge e la materia del mondo; il capriccio colora le cose più rapidamente e più

80Var.: incondizionata. 81 Var.: annientare.

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violentemente di ogni spiegazione, per quanto precisa, e nel ribollio di un umore l'universo si accende e si spegne con un'arbitrarietà istantanea, che sconfigge per eccesso le usanze dello spirito e disonora il buon senso della chiarezza. L'anima non ha regole, e tra le profusioni sublunari è la più grande e la più indomabile. Se l'aria svuotasse lo spazio, la tristezza lo riempirebbe ancora, lei che diffonde dappertutto un aroma di non essere e compone nel mondo una sorta di landa incerta, che pure sembra reale nel sogno di questa realtà. Il desiderio impicca l'uom o sopra il nulla universale fa­ cendolo precipitare, una volta essiccato, nella finalità ultima della gravitazione, nel nu lla82. Non c'è angolo sotto il sole o sotto la notte in cui disten­ derci, stanchi di qualunque nostalgia, ma soltanto una vacu­ ità ultramondana con cui la musica ci alletta, consolandoci per una terra impossibile e un cielo deserto. È un territorio intermedio tra due vuoti, e che li riassume da qualche parte al crocevia di una doppia impossibilità. La terra non è più isolata del cielo - sicché quel che anela ancora in noi, scivola verso un'insicurezza partecipe di tutt'e due. Nella miseria, l'uom o desidera l'indispensabile; nell'in­ dispensabile, il necessario; nel necessario, il superfluo; nel superfluo, il vizio - e dal vizio ricade nella miseria. Questo è 82Var.: Ogni cosa sembra impiccata nel nulla universale fino a quando vi precipi­ ta, nella finalità ultima della gravitazione. E ogni essere appeso per istinto o per desiderio all'apparenza dell’esistenza, è esattamente come una marionetta che si regge a un filo, fino a quando [...].

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il ciclo di ogni singolo individuo e dell'umanità in generale. Tutti i passi compiuti ci conducono verso l'annullam ento83, estremità a cui tendiamo quando nessuna condizione ci è favorevole o piacevole. Il sogno ultimo di ogni creatura è il paradiso, ma ogni suo atto ne è la negazione. È come se tutto quel che è fatto di terra e anima mostrasse un'inattitudine organica alla felicità e all'equilibrio, come se sul fascio di temporalità che compone ogni essere aleggiasse un'ombra di sortilegio e di diabolica precarietà. Le vene, i nervi, ogni singola cellula sono canne in cui riecheggiano brividi istigati che l'uom o non può raccogliere in un fascio dotato di senso. Finché restiamo nel mondo, dobbiamo tendere la mano al Diavolo; è la capitolazione senza la quale non si può respi­ rare. Oltre il mondo, Dio ci tenderà forse le sue braccia, ma il respiro non avrà più un senso e nemmeno posto. C'è vita vera e propria solo in assenza del paradiso. Questo è l'unico assioma dell'esistenza. Il resto è libertà... Nell'istante in cui gli uomini non forgeranno più idoli, si uccideranno a vicenda, fino all'ultimo. Non è possibile pre­ vedere quando raggiungeranno tale stadio. Ma il risultato certo del divenire storico è che essi non possono vivere sen­ za idoli, senza culto, senza l'accecamento dell'adorazione. Sia che s'inchinino ai fantasmi religiosi o a quelli politici, storditi dal simulacro di assoluto di un feticcio, di un dio o di un partito, essi devono piegare la loro ragione dinanzi a qualcosa. Non c'è nessun oggetto e nessuna idea che, nel corso dei tempi, non siano stati, seppure per un attimo, il bersaglio supremo del pensiero e del cuore. Tutte le appa­ renze sono state di volta in volta vicarie della divinità. L'i­

83Var.: la decadenza.

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stinto di schiavo che dimora in ogni creatura ha trasformato i vari aspetti del creato in realtà tiranniche sotto le quali si è piegata la sua superbia. C'è mai stato un solo momento nel­ la storia senza un capo, senza un ideale, senza una chime­ ra? Le stesse epoche di disgregazione hanno trasformato la decadenza in un mito e si sono prosternate davanti alla loro mancanza di avvenire. Coloro che non credono, credono nel fatto di non credere; i dubbi nutrono esattamente come le certezze. L'uomo è l'essere dogmatico per eccellenza. Nulla è più insopportabile all'uomo dello scetticismo sterile, uni­ versale, tollerante e amaro-sorridente. Egli vuole sangue in tutto quel che fa e spera, vuole sangue per avere l'illusione di non essersi ingannato, per provare che la sua illusione è seria e indiscutibile. Quando la conversazione, con la sua arte di ammorbidire le verità e di ridurle a semplici conven­ zioni della vita in comune, rischia di stritolare le fondamen­ ta della sicurezza quotidiana, allora sorgono i profeti, e la folla li segue, imbracciando le armi. Le discussioni cessano come per incanto, le verità eterne s'installano, l'ironia di­ venta fatale e minacciosa. L'idolo sostituisce - con l'aiuto della polizia o dell'ideologia - gli ex re o imperatori, le ex leggende e gli ex padroni. S'imm aginano difficilmente i branchi umani rimasti d'un tratto senza alcuna superstizione. Quale legge, codice o au­ torità potrebbe fermarli? La fine della stirpe umana, se non sarà provocata da un cataclisma dall'esterno, si produrrà in occasione - impossibile da prevedere, ma comunque proba­ bile e perfino sicura - della scomparsa dell'ultim a supersti­ zione. Quando l'ultimo vitello d'oro sarà demolito, nessuna forza fermerà più il caos. Ma quanti saranno i beati che po­ tranno contemplare l'agonia dell'ultimo idolo?

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Dalla putredine misteriosa degli organi sorge una melodia che risuona nel nostro animo. E questa melodia è la Tristez­ za. Una volta che cresce e muore, dimentichiamo che nasce dalla precarietà del corpo, affibbiandole così un nom e84 pre­ so dal vocabolario della sensibilità, battezzandola secondo le coordinate del cuore, senza renderci conto che in ogni cellula geme un succo avvelenato. Il fatto che c'inganniamo sull'ori­ gine dei sospiri, che non possiamo tradurre immediatamente la sventura del nostro nucleo, che nessun tormento del mi­ dollo abbia un aspetto immediato e chiaro, ma il tutto vada setacciato attraverso l'anima, sembra chiarire perché ciò che è più vicino a noi entra nella luce della coscienza solo grazie alla deviazione della parola, in cui tutto è chiaro anche da lon­ tano, ivi compreso il nostro marciume evidente. Non trovare nella natura neanche un filo d'erba o un gra­ nello di sabbia con cui sentirsi solidale, ecco l'infinito rove­ sciato della solitudine. Nel mondo, l'unica attività legittima con cui apprendere che non c'è nulla da fare nel mondo, è il pianto. Ma siccome la discrezione e il consumo interiore hanno prosciugato la fonte delle lacrime, non ci resta altro che accompagnare la successio­ ne degli atti con un sospiro invisibile, che ci consuma più ener­ gie della parata degli istinti e della follia del desiderio. Il sospi­ ro attraverso cui scorre via la nostra vitalità! Ci sarà mai una fatica più grande e giustificata di quella di piangere il nostro destino fino a quando in noi non rimarrà più nulla da piangere, fino a quando gli occhi s'accecheranno per l'assenza di lacrime, nella cui sorgente annegammo fin dalla nascita?

84Seguito da: spirituale, soppresso dall'autore.

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L'amore, come l'odio, assegna troppa im portanza all'uo­ mo. La religione, al pari del cinismo, sbaglia; Gesù esagera quanto il Diavolo. In ogni creatura dimorano nella stessa misura la bontà e la malvagità. Un'anim a pura non potreb­ be vivere nem meno un g io rn o 85; l'esistenza è possibile a causa della nostra com posizione impura. Nel clima della vita, le ali degli angeli si staccano, m entre a nostra volta crediamo di elevarci quando invece facciamo una semplice resistenza alla caduta - la legge non scritta, ma eterna di tutte le creature. Se la sapienza avesse un senso, essa sa­ rebbe un pattinaggio elegante, nella fredda impassibilità dell'affossam ento. L'esistenza è più una convenzione che un sogno. Ci sia­ mo accordati tra noi di com portarci come se ci fosse, rim a­ nendo fedeli a un giuram ento che ci procura solo pene e spaventi. Solo che questi, provocati da una «irrealtà», sono som mam ente reali - e arriviam o così a sanzionare l'accor­ do iniziale con attributi di vigorosa efficienza. Le sofferen­ ze della carne e le inquietudini dello spirito richiamano ad alta voce il reale, chiedendone violentem ente l'assevera­ zione. Per quanto la mente vi si opponga, esse trionfano. Il dolore reclama il supporto della natura; noi dobbiamo dar­ glielo, sacrificando le considerazioni della teoria. Il mondo è entrato nel campo della coscienza con il primo dolore; in precedenza, nulla la registrava - ed era come se non ci fosse. Più soffriamo, e più furiosam ente esistente essa si svela, fino a che il dolore la avvolge com pletam ente e la sostituisce, per scomparire, alla fine, esso stesso. È il dolore che l'ha creata e l'ha annullata.

85Var.: Nessuno, assolutamente nessuno potrebbe vivere con un'anima pura.

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Quando in nessun territorio [ . . . ] 86 reale o apparente, e in nessun angolo del globo im pantanato nel peccato e nel­ la m aledizione, trovo una sorgente di grazia, ma solo le cose deturpate accanto a cuori in m acerie e, dappertutto, la m ancanza dei m isteri avversi alla luce, mi avvolge una bra­ ma di pietrificazione tale che solidificherei il mio lam ento com e un masso ruvido che sfida la pioggia, il vento e l'a­ marezza. Perché tutto quel che sembra essere, esiste senza che sia a noi favorevole? E perché tutto ciò che accade non è altro che una macchia sulla nostra superbia, e l'universo intero solo una funesta menzogna dell'io? E perché il sole sorge ancora quando tutti i nostri pensieri lo smentiscono, e insiem e a lui è smentito il nostro respiro? Getterò le mie parole nello spazio, affinché nel loro errare caotico nessu­ no possa più raccoglierle in un significato; così che finisca per sempre lo sforzo di sconfiggere l'enorm e stupore87 o di alleggerire il gem ito dello spirito sbalordito nelle distese inconsolabili, e nessuna mente possa mai più radunare il vocabolario scaraventato nel vuoto per trovare ancora un nome alle cose del mondo e un nome al mondo stesso, e che tutto ritorni al tempo in cui nessuna parola limitava nessuna creatura, che tutto ritorni all'indicibile generale in cui giacevo, quando non mi ero ancora incamminato verso la vana superbia della parola88. La possibilità di diffamare l'universo è il dono più pre­ zioso che lo spirito abbia fatto al cuore inconsolato.

^P aro la cancellata dall'autore, indecifrabile. 87Var.: di forgiare ancora un nome. 88Var.: dell'espressione.

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Sentirsi esattamente come un epitaffio scettico, che dal dogmatismo del cimitero sia evaso nel m ondo... Tutto quel che non tende alla purezza del Nulla è imbe­ vuto di una terribile volgarità, ma quanto più vi tendiamo, tanto più reagiscono le brame che dimorano in noi, ripor­ tandoci più potentemente nella sozzura89 dell'esistenza. La sete di assoluto porta nel suo infinito l'ombra dell'approssi­ mazione, e niente è più prossimo al nostro limite superiore dell'istinto animale in agguato. Tranne la vita, ogni soluzio­ ne è irretita dalla vita stessa. In questo mondo ci sono solo due forze avverse che, neu­ tralizzandosi a vicenda, creano l'apparente e instabile equi­ librio che permette il simulacro di vita del nostro divenire: la follia e la polizia. Tutto ciò che non è pura visione del nulla è un castello in aria. L'universo è ordito dalla stolta operosità90. Arte, Stato, religione, amore e odio - tutte forme della stessa nescienza. La cosmogonia è frutto del brivido immenso dell'ignoranza. Non c'è cristianesimo in grado di fermarci dalla tentazio­ ne della perdizione che sorge dal finale interminabile di un andante. Giacché la dispersione dell'anima è l'ultima parola della nobiltà. Ogni uomo fa causa comune solo con sé stesso.

89Var.: nella trivialità. “ Seguito da: e dalla nescienza.

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Nelle prigioni dello spirito vi sono stordimenti che ci di­ schiudono a un tratto una porta verso non so quali mondi, lasciandoci poi del tutto inutili sulla terra, vittime di ciò che si è intravisto91. All'improvviso, la stessa terra si apre sotto i nostri piedi insicuri, lasciandoci intravedere sotto di noi solo la caduta nell'assenza di tutti i mondi possibili. Niente spaventa di più l'uomo come il tempo puro. Se la vacanza di una domenica fosse prolungata per una settima­ na, due settimane o un mese, se tutti gli uomini fossero co­ stretti a contemplare, privi di ogni altra occupazione, il dive­ nire del tempo e la nudità92 dell'esistenza, perfino l'omicidio sembrerebbe loro di una banalità paurosa. Senza operosità, senza sudore, senza l'assenza di problemi del mestiere e dell'«ideale», su una terra vuota come un paradiso senza estasi, ogni istante assurgerebbe a incubo interminabile93. L'uomo deve fare per non vedere; qualsiasi cosa è preferibile al tutto; l'at­ to è il segno con cui l'anima sconfigge e soffoca l'infinito; può l'immaginazione concepire una Domenica senza fine? Get­ tando l'uomo nell'inferno quotidiano, Dio non lo ha punito; lo castigherebbe, invece, irrimediabilmente se stendesse sotto i suoi passi l'orizzonte negativo del paradiso. Perfino il pen­ satore più lucido intravede94 solo accidentalmente resisten­ za pura, l'esistenza senza oggetto e atemporale. Una povera frazione di minuto al giorno - ma a cui, scosso e spaventato, sfugge. Togliete all'uomo il dono del sudore - e si decompor­ rà all'istante. Il tormento è l'impiego, il mestiere essenziale di tutti noi. Sopprimetelo - e la storia è finita. 91 Var.: nell'abbandono estatico di quella visione. 92 Var.: il vuoto. 93Var.: schiaccerebbe l'anima. 94 Var.: sperimenta.

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Siamo in condizione di afferrare la verità, di abbracciare il mondo in una visione priva di illusioni, solo se ci rendia­ mo conto, con gli occhi m ummificati, fissi per sempre sul­ la tem poralità e col cuore privo di battito, che il possibile non è più possibile, che ogni potenzialità è sospesa. Ogni speranza ossificata implica una verità in più. L'esistenza è il fru tto 95 di un'utopia - la fede negli istanti, la demen­ za ingenua della successione. Che altro si può aggiungere all'universo per renderlo sopportabile? Il tempo, che crea e annienta, senza moltiplicare assolutamente 1'esistente, annullando invece, una dopo l'altra, le forze che sembrano portare la novità assoluta - è lo sfregio tragico dell'eterno, l'icona inutile deH'immobilità. La verità è che nulla accade, che vivere adesso o in qualsiasi altro tempo è perfettamente inutile, che ogni istante rispecchia irrimediabilmente quel che esiste da sempre, che l'universo è una lapide su cui il tempo scrive un epitaffio fin dai primordi, sotto il cui peso giacciono i cuori mai esistiti, illusi di poter decifrare il senso funebre dell'evoluzione96. La vita comunitaria e individuale degli uomini è possi­ bile solo grazie all'attenzione assoluta che essi nutrono per le cause secondarie. Per cogliere la natura intrinseca di un evento e la sua causa essenziale, dovrebbero staccarsene e osservarlo dall'esterno. Ma allora, irretiti97 nelle insidie, nei pericoli della non partecipazione, non potrebbero più agire; i riflessi s'impigrirebbero; il gesto diventerebbe claudicante. Tutti gli avvenimenti sarebbero giustificati - eppure, senza

95 Var.: La fede negli istanti è il fondamento. 96Var.: il senso funebre del tempo. 97 Var.: entrati.

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preferenza, nessun atto diventa realtà. La vita prospera nelle periferie della verità. I miei nervi sono corde di lacrime su cui la storia stende i suoi panni. Dopo aver negato tutto quel che si può negare sotto il sole - a cominciare dal sole stesso... Ogni rumore, sgominando il nulla e il suo silenzio con­ cepito dalla mente, mi sconquassa come un terremoto uni­ versale. Lo spavento è il riflesso di ogni atto esistenziale, l'om bra di ogni ente, il fenomeno naturale e coesistente alla Creazione, il volto invisibile della Genesi. Tutto ciò che non abbia un accento doloroso - uno sguar­ do, una parola98, un libro o una voce - mi provoca una noia mortale. Ciò che rende l'odio una sensazione così malsanamente voluttuosa, è l'ebbrezza della solitudine e la superbia san­ guinante di essere il padrone, e poi l'uccisore, del proprio cuore e di tutti i cuori. Fra tutte le passioni che si siano impossessate dell'uomo o lo abbiano dominato, la più incontrollabile e irriducibile a qualunque significato è la passione per Dio. Sarà il frutto di una disarticolazione dello spirito, di un delirio della sensi­ bilità, o la perversione ultima della nostalgia? Tanto calore del cuore sprecato in un brivido senza oggetto! Nessun ele­

98Var.: un sorriso.

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mento della mente co n o sce" la temperatura alla quale deb­ ba germogliare il seme di una simile tentazione, e nessun argomento dello spirito giustifica l'ardore verso una vetta razionalmente assente. L'invenzione di Dio è la macchia se­ gnata dall'anima nella storia della mente. La sterilità interiore è il mezzo di difesa più sicuro contro la follia. Il sospiro come negazione del progresso99100... Viviamo tutti in un indefinito che ha term ine101 in ogni momento, in una sospensione senza orizzonte - e l'icona della nostra vita non trova posto in alcun significato, come un punto dopo una congiunzione. Nei dubbi con cui ho preso in giro i simboli nobili di quest'universo vuoto, ho tuttavia lasciato immacolata la classica Corona di spine, come per incoronare l'ironia e rive­ stire lo scetticismo di un abito patetico. Dio è una malattia del nostro cuore. Il bisogno di trovare un supporto ha forgiato quest'appiglio insicuro, che sorreg­ ge gli individui deboli e incapaci di sopportare la propria debolezza. I forti - coloro che portano sulle loro spalle le proprie insicurezze e hanno il coraggio di vivere senza un fondamento - restano per sempre distaccati da Lui; essi vi­ vono senza la superstizione delle maiuscole, sapendo fin

99Var.: contiene. 100Var.: Non conosco, oltre al sospiro, una negazione più grande del progresso. 101Var.: che sembra terminare.

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troppo bene quanto sia difficile per ogni creatura, persino quando si sia elevata al piano del pensiero, appiattire i con­ cetti o le cose sulla catena di realtà sostituibili, nell'orizzonte della futilità universale. Una città, e ancor più un cuore, non abitati da idoli, sono simboli del deserto e della desolazione. Tutto in noi chiede - e crea - la prominenza di un idolo. Il granello di assoluto è sem inato102 nella stessa cellula generante dell'essere; esso precedeva il sangue. Qualcosa deve essere il tutto, ecco il postulato 103 inconsapevole di ogni creatura. La varietà del­ le formule con cui esprimiamo il bene supremo, rispecchia quest'inclinazione profonda, celata dall'apparente diversità delle espressioni. Dio o gli dei; lo Stato o la civiltà; l'autorità o il progresso; la nazione, il ceto o l'individuo; l'immortalità o il paradiso terrestre - volti differenti dell'eterno Vitello d'o­ ro. Il desiderio di isolare un concetto da una interdipenden­ za astratta, o un oggetto dal mondo concreto, incoronandolo con una maiuscola, è il frutto di una brama profonda; il suo risultato: la Storia. Dalla concatenazione universale, qualcu­ no o qualcosa deve elevarsi all'indipendenza; uno degli anelli deve sganciarsi dagli altri. È la protesta del cuore contro il de­ terminismo. Da qualche parte nel passato, nel futuro o nel so­ gno del presente, l'uomo improvvisa la negazione di qualsi­ asi improvvisazione, creando un simbolo della libertà da cui dipenda tutto. È così che ci garantiamo il confort nel cosmo, raggirando la nostra debolezza. Sgorgando da quel che è più profondo in noi, l'assoluto è il fondotinta che stendiamo sul­ la vacuità nostra e delle cose, il lato superficiale della nostra profondità, il nimbo metafisico di una viltà costitutiva. Dio è

102Var.: inoculato. 103Var.: la vocazione.

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nient'altro che la fuga dalla luce incurabile e sterile di questo mondo, il nostro rifugio in un'oscurità calda e germinativa, infinitamente produttiva e inaccessibile, la nostra difesa dalle tentazioni che ci divorano e rodono, che ci svelerebbero una verità irrespirabile e un cielo senza consolazione. Non siamo abbastanza forti da sopportare il tormento delle visioni lu­ cide. La salute perfetta della ragione, contemplante il nulla onnipresente, e 104 la compagnia che lo spirito 105 fa al vuoto onnipervasivo, sono fatali all'anima. Allora essa escogita Dio e tutti i suoi surrogati terrestri, per mantenere il proprio equi­ librio, che nell'ottica della mente è un errore, una compren­ sione malata. Vi è un apostolato negativo, ma infinitamente seducente, che consiste nella voluttuosità di cagionare la rovina di un mito o, nel peggiore dei casi, semplicemente di assistervi. Demolire le false costruzioni sotto le quali gli uomini metto­ no al riparo le loro giornate e intrattengono la menzogna del futuro, richiede una tecnica semplice: rivelare la fragilità for­ male della «verità» e, successivamente, attraverso sarcasmo e invettiva, svuotare lo slancio che l'ha sostenuta. Il mito è un errore che si nutre delle calorie dell'anima. Le quali, di­ minuite e prosciugate, mettono ulteriormente in evidenza la nullità dell'architettura logica che hanno animato. Che senso ha accelerare la rovina dei miti, quando niente può fermare lo zelo mitologico dell'uomo, quando l'intero divenire è semplicemente una sostituzione ineluttabile di finzioni, che s'impongono con ardore e terrore, scomponen­

104Seguito da complice, ulteriormente soppresso dall'autore. 105Var.: la mente.

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dosi per far posto ad altre finzioni? Eppure, un senso ce l'ha: lo spirito respira davvero solo nei momenti di decadenza di un mito, quando nessuna fede sostiene più alcuna istituzio­ ne, e quando l'aurora di un'altra fede non ha preso forma per soggiogarci con la sua falsa luce universale, per paraliz­ zare la nostra solitudine, il gioco dell'intelligenza o l'eserci­ zio capriccioso dell'amarezza. Ogni istante è un supplemento di degradazione con cui la durata nutre il suo proprio scorrere. La macchia lasciata nell'animo da un'ora trascorsa tra gli uomini non potrà essere cancellata nemmeno da un anno di solitudine, e per quella provocata da una v ita 106 di respira­ zione in comune, non c'è abbastanza tempo nell'inferno o nel paradiso da poterla dimenticare. La cosa più difficile non è fare qualcosa, ma vivere. Una difficoltà di essenza, non di accidente. Tutti troviamo una qualche occupazione - perché la sussistenza è la supersti­ zione dell'atto - , ma l'essere in quanto tale è un esercizio straziante, una combustione senza scampo. La rivelazio­ ne dell'esistere c'intralcia il passo, ci toglie il respiro e ci fa impietrire al centro di un mondo senza orizzonte. L'incon­ veniente di esistere non è un risultato degli anni maturi e autunnali, ma un difetto originario, la sorgente stessa a cui attinge la nostra mancanza di fondamento. Questa rivela­ zione del semplice fatto di essere, diventa così un termine equivalente al peccato originale, eternamente rinnovato in noi grazie alla funzione stessa del tempo.

106Seguito da: insudiciata.

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Quando non credi che nel mondo qualcosa ti sia dovu­ to, sprofondi nel sonno di ogni notte con una stanchezza da proscritto. Tutti gli istinti ci difendono dalla morte; ma nulla ci di­ fende dalla vita. Tra i due mali, la nostra posizione appare insolubile. L'assenza di sofferenza della morte è una prospettiva che ci terrorizza; ma la realtà dolorosa della vita è il terrore stesso. Concepire un mondo estraneo all'una e all'altra? Da quando pensa e soffre, l'uomo non ha fatto altro. Vi ha ag­ giunto solo il suo ruolo - e il proprio fallimento. Quando la mente immagina tutte le preghiere svanite nello spazio, ridotte a povere vibrazioni di banalità; tutte le schiere di dèi sordi dispersi nei cieli107 delle varie mitologie; l'immen­ so ardore dell'animo per leggende improbabili; il sangue ver­ sato per ridicole approssimazioni - allora l'universo sembra un mattatoio universale delle illusioni, la quantità schiaccian­ te delle quali s'impone come unica sostanza e realtà. Dal gesto più grave fino all'evidenza più volatile, dall'an­ damento fatale degli imperi alla piccolezza arbitraria di una sventura qualunque - tutto quel che è accaduto finora sa­ rebbe potuto non accadere o accadere diversamente. Ma l'idea della contingenza radicale è talmente sconvolgente, da spingerci, per timore di trarne le estreme conseguenze, a rifugiarci nel culto della sorte e della necessità. La saggezza non è altro che la paura decente di queste conseguenze - e la negazione della loro premessa.

107Seguito da: sotterranei.

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A seconda di come guardiamo le cose - attraverso una mente fredda o attraverso le reazioni in consce108 della sen­ sibilità - la nostra posizione nel mondo cambia totalm en­ te. È im possibile, dopo un'analisi imparziale, non rendersi conto della nostra m eschinità radicale, così com 'è im pos­ sibile non considerarci, sotto la spinta nascosta della no­ stra natura, il centro e la meta di tutto. La differenza tra pensiero e azione è abissale 109. Giacché non vi è nessun punto comune tra essere consapevole ed essere. Se ogni uomo non fosse per sé stesso l'ultim o uomo, cioè il corona­ mento finale del tempo, l'adesione agli avvenim enti e agli atti sarebbe talmente debole, che l'intervallo fra intenzione e azione aprirebbe un baratro di passività e stupore tale da ridurre la vita a una vacanza fatale. Il mistero dell'esisten­ za risiede nella nostra incapacità di portare a termine l'evi­ denza della nostra insignificanza. L'irrazionale resistenza a una deduzione così ovvia contiene il nocciolo irriducibile del fatto di esserci. La coscienza di essere nulla e il nostro com portarci come se fossimo qualsiasi cosa, ci espongono a una dualità essenziale, il cui irresolubile110 definisce, con intensità diverse, il nostro essere. L'essere, in cui non dimori come germe o come attualità l'equivalente di tutti gli aggettivi disponibili nel vocabola­ rio, è solo approssimativamente vivo. Se la nobiltà immaco­ lata, estranea alla gamma ampia di bassezze, esistesse in un individuo, lo renderebbe più stupido di una bassezza pale­ se. Giacché niente è più innaturale di una scimmia angelica. 108Var.: immediate. 109II frammento comincia con questa proposizione, soppressa dall'autore: Un abisso totale separa i modi di reagire di fronte alla vita. 110Var.: paradosso.

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La purezza rischia di essere vuota e di comunicare soltanto con l'aria e l'irrealtà, mentre la bassezza è sempre profon­ da, non foss'altro che per la sua vicinanza alle profondità dell'essere. Poiché in ognuno di noi, nella misura in cui sia­ mo davvero vivi, coesistono le più contraddittorie caratteri­ stiche, quel che ci divide111 è solo l'ascendente di alcuni sugli altri, e non un'essenza irriducibile. L'educazione e la viltà ci hanno abituati a vedere solo quel che vorremmo essere, non quel che siamo. La super­ stizione della «bellezza morale» ha costruito un uomo su­ perficiale 112. Ma quando diventiamo impassibili al modello di vita che vorremmo seguire, allora niente di ciò che cre­ devamo di non essere ci resta più estraneo. La volgarità, la meschinità, l'invidia e tutto quel che è collegato al ribollio nascosto del sangue, diventano gli elementi reali dell'ani­ ma in cui sguazziamo con rinnovata passione, perché non abbiamo il coraggio di confessarli, tranne che negli ideali «nobili». L'uomo è in sintonia con sé stesso solo se ignora la propria dose di bassezza. Ma siccome essa è infinitamente più grande di quanto siamo inclini a credere nei momenti di reale lucidità, la conoscenza di sé rimane un problema inso­ lubile. La psicologia è stata inventata per quanto d'infernale c'è nell'uomo, per i lati non onorevoli delle sue tendenze nobili, non riuscendo a venirne a capo, e si protrae così in un esercizio interminabile quanto l'inferno. Gesù è imputridito sulla croce solo per tre giorni; noi, per una vita intera, e quel Dio, eterno e immutabile, più com­ plice che autore della Genesi, ha compromesso la sua per­

111Seguito da: gli uni dagli altri. 112Preceduto da: artificiale e.

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fezione fin dal suo primo giorno, avendo preso parte alla decomposizione generale nel tempo. La teologia delle men­ ti ferite immagina una divinità infinitamente corruttibile, che consuma la propria sostanza a immagine e somiglianza dell'uomo. Finora abbiamo proiettato nel cielo soltanto la superficie del cuore. Ma è possibile che esso sia la terra idea­ le del nostro ruzzolare nella tragedia, e non lo spazio di una eternità rancid a113? I nostri peccati non hanno più nulla da correggere nell'icona del Diavolo; hanno invece il compito di rinvigorire la ban alità114 di una divinità insipida. Fino a quando il Satanasso sarà il solo a godere di tutte le preroga­ tive dell'anima, fino a quando resterà l'unico specchio in cui vedere i nostri nascondigli e la forza della nostra superbia? È come se tutto quel che di meglio e di peggio c'è in noi, tutto quel che è più vero, l'avessimo proiettato in lui - e per plasmarne il nemico e il padrone, abbiamo inventato, impo­ tenti ed esausti, un'immagine fievole tratta dagli attributi della nostra anemia. Troveremo mai le fo rz e 115 necessarie per plasmare finalmente un Dio? Se per miracolo la speranza sopravvivesse al sole, niente cambierebbe nel percorso delle cose, essendo essa stessa il miracolo, l'unica forza che smuove gli istanti, conferendo loro struttura e significato. La sua scomparsa 116 riduce gli astri a decori inutili, trasformando la luce e il buio in facce equivalenti dello stesso nulla. Nella prospettiva della vita in quanto tale, la disperazione è il peccato capitale, rispet­ to al quale l'om icidio e l'intera serie di vizi sono semplici 113Var.: il prototipo assoluto del nostro destino rancido, purificato... 114Seguito da: e le assenze eterne. 115Preceduto da: vecchie. 116preceduto da: decrescita e.

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occasioni, prive di conseguenze. Per questo, tutto quel che sorge dalla speranza è il «bene», e il «male» è tutto quel che la nega. Affascinato dal futuro, un omicida resta ancora una creatura morale; un angelo, ossessionato dalla nullità del tempo, occupa l'ultimo gradino nella gerarchia delle cadute. E cosa significa sperare? Associare l'idea di possibile al cancro universale; essere, nell'evidenza dell'incurabile, la vittima grandiosa di una possibile guarigione dell'evidente incurabile; coprirsi gli occhi nel nonsenso della luce; un gio­ co da ciechi sull'orlo del precipizio. La noia è la penitenza di coloro che non vivono o non muoiono per una fed e117. Tutte le azioni della nostra vita sono delle crudeltà nei confronti dei sim ili118; soltanto il suicidio è una crudeltà nei confronti di sé stessi. In generale, l'eroe è un essere impuro incapace di togliersi di mezzo; così, rischia tutto, pienamen­ te consapevole, all'esterno; vuole distruggersi, ma gli manca il coraggio fondamentale della lotta contro sé stesso e del proprio annientamento. Egli si sacrifica, perché ha bisogno d i119 una giustificazione esteriore per la sua decisione di non essere più. L'eroismo è una forma oggettiva di suicidio. Un patetico esteriore. Il suicida è padrone assoluto della propria vita. L'eroe è ancora schiavo del mondo esteriore; egli vuole sopravvi­ vere negli altri, essere un esempio fruttuoso, mentre colui che pone fine ai propri giorni si è elevato alla dignità della

117Var.: che vivono e muoiono senza fede. 1,8 Var.: degli altri. 119Var.: solo così trova.

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solitudine, avendo sconfitto per sempre l'attrazione volga­ re dell'utilità. Bestemmiato, sputato e crocifisso, Gesù non ha certamente conosciuto quel brivido di suprema dissocia­ zione 120 che ha spinto Giuda verso l'estrema conseguenza. Eppure, Gesù non è stato un vero eroe, perché è risorto, e nemmeno Giuda un suicida modello, perché ha tradito. Ci sono troppi presupposti alla radice dei loro atti: gli ideali e gli uomini li hanno messi in movimento troppo profonda­ mente 121. Sicché, l'esem pio delle loro vite è troppo ricco di motivazioni per essere convincente. Ma di chi è la colpa se l'errore della pietà e dell'ingiuria lo hanno reso classico? Una mente filosofica deve respingere come volgare qual­ siasi idea di progresso. La vita fa di ognuno di noi un proscritto, e di ogni nostro simile un boia. Tutte122 le vicende di questo mondo non sono modi, bensì mode del tempo. E il tempo stesso sembra essere solo una moda dell'eternità. Il divenire è un logoramento continuo dell'esistenza. Gironzoliamo tutti tra frivolezze tragiche, offrendo l'esem pio tipico di quest'equivoco. E siccome il senso di tutto è quello di diventare moda e poi fuori moda, la morte esula da quell'impermanenza frivola, isolandosi

120Seguito da: dal mondo. 121 Frase aggiunta in calce alla pagina del manoscritto. 122Le lacrime che sono [...], incipit soppresso dall'autore. Questo paragrafo è preceduto da un altro inizio: Dalle cose che sono, e da un altro frammento abbandonato: Poiché l'uomo ha messo nell'idea dell'incorruttibile divino tutto ciò che non ha trovato dentro di sé, risulta che egli stesso non è altro che corru­ zione. Infatti, lo spettacolo che offre [...].

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come unica eccezione nella farsa generale. Il sublime passa; le gioie si prosciugano; lo spavento stesso si attenua; solo la morte sfugge a lle 123 certezze dell'improbabile. In ogni gioco l'unica cosa seria è la sua fine. Finché balliamo, non notiamo le macchie di sangue che abbiamo sulle mani; finito il ballo, la vita è ormai un simbolo v u oto124, e siamo spacciati prima di aver avuto tempo per i rimorsi. Non vi è umanità se non nel clima mite e comprensivo dei dubbi. Avviluppando l'anim a e il mondo in un dolce e interminabile disfacimento, essi ci difendono dalla brutalità delle credenze e dall'intolleranza implicita in ogni delirio. È vero che il fanatismo è il motore della storia; ma il ritmo che esso impone agli eventi e agli uomini è pagato a un prezzo così caro e il risultato è così fragile, che una dissoluzione in­ terminabile è assolutamente preferibile all'epilessia 125 eter­ na del falso rinnovamento. Mentre lo scetticismo permette e sopporta la follia di ciascuno, il fanatismo converte la furia individuale in norma. L'istinto convulsivo diventa autorità, e la patologia, legge. Nella religione, nella politica, nella mo­ rale, esso crea assoluti mostruosi, surrogati sanguinari della divinità. Chiunque creda in qualcosa, senza riserva e sen­ za timore per l'eventualità di un confronto, diventa schiavo della propria ispirazione o follia - e un pericolo126 immedia­ to per gli altri. Giacché l'uom o veramente malvagio è colui che non dubita della propria fede, a cui la «verità» si è mani­ festata tramite un miracolo, tramite la propria incapacità di soppesare i valori. Chi non ha simultaneamente un sorriso e 123Var.: 124Var.: 125Var.: 126Var.:

è risparmiata dalle. restiamo soli con i nostri rimorsi tardivi. alla creazione. una minaccia.

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un ghigno per il proprio «ideale», si colloca necessariamen­ te al di fuori dello spirito. Solo una venerazione ironica nei confronti d elle127 nostre brame ci può salvare dalla volgari­ tà. Per le sue conseguenze, una fede incontrollata è più be­ stiale di una passione, per quanto riprovevole. Questa può condurre al rimorso, mentre l'altra porta di sicuro all'intol­ leranza. È l'aspetto feroce di ogni adesione alla vita... In ogni ideale vi è qualcosa di impudente. Avere un'anim a incline alle ribellioni128; odiare convulsi­ vamente le ingiustizie sotto il sole; sconvolgersi sotto il fia­ to 129 bestiale dei propri simili; essere accoltellati dal ghigno assassino della creatura e maledire il Creato, solidificazione troppo visibile dell'idea di ingiu stizia;... e, in virtù di un re­ siduo di filosofia e degli insegnamenti dell'esperienza, non poter fare nulla, rinunciare alla rivolta, capitolare nell'in­ consolabile e nelle consolazioni vane. La contraddizione tra la reazione130 spontanea della nostra natura, e la pietrificazione derivata dalla riflessione e dal disin­ canto, è totale. Lucifero è stato l'angelo meno filosofo. Le sue ali non sono state piegate da un volo lucido; le sue conoscenze non gli hanno consumato quella freschezza da cui sorge l'in­ genuità sublime di ogni protesta. Un angelo senza esperienza, nobile preda di amarezze curabili. Giacché credere che qual­ cosa possa essere rimediato, che la creatura e la creazione pos­ sano essere ordinate in un ordine diverso, vuol dire conoscere solo l'amaro temporale e immaginare al suo termine un'uscita 127Preceduto da: nei confronti di tutto quel che siamo e. 128Var.: a tutte le ribellioni. 129Var.: restare impietrito sotto l'alito. 130Var.: natura.

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che non sia illusoria. I suoi compagni rimasti in seno all'Onni­ potente, loro sono quelli che hanno saputo tutto, perché hanno sperimentato l'inutilità di ogni tentazione, riposando nel son­ no dolce dell'eternità irrimediabile, protetti dal tepore eterno e insipido, ma rassicurante, delle loro ali reazionarie. Essi dimo­ rano ancora nel bene invecchiato di Dio, nel nostro male. Non possiamo rovesciare il mondo; accettarlo, ancora meno. Questo conflitto è la formula della vita sulla terra, dove l'irreparabile appare l'unica soluzione. Gli uomini si dividono in due categorie: quelli che traggo­ no le conseguenze dei loro atti e quelli che non ne traggono alcuna. La maledizione fa sì che alcuni di essi paghino tutto; gli altri, sono salvati dalla fortuna. Quest'assurda discrimi­ nazione operata dalla sorte porta il nome di ingiustizia. Essa separa i mortali senza alcun criterio ideale e senza una ne­ cessità morale. Alcuni vegliano su un giaciglio di spine; altri sognano su uno di petali. Al pari della felicità, il castigo è irra­ zionale. Sulla fronte cartilaginosa nelle viscere è scritto131 ciò che avverrà e, a seconda se ci è dato d'indossare i cenci dell'e­ sistenza o di portare una corona132, abbiamo da percorrere un cammino di colpa o di vantol33, di cui non abbiamo alcuna re­ sponsabilità o merito. È come se fossimo venuti al mondo in un momento sbagliato, senza poter trovare un luogo adatto a noi, destinati ingiustamente a fortuna e sfortuna. Un gioco di marionette, di cui non sappiamo chi muova i fili, cosicché sorridiamo stupidamente ai nostri gesti, per dimenticare il ri­ dicolo della nascita, la follia della vita e lo sconcerto della fine. 131 Seguito da: tutto. 132 Var.: sia che siamo gettati nella pattumiera della Creazione, sia che portiamo una corona. 133Var.: superbia.

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La quantità di amarezza che ognuno porta in sé non è tra­ ducibile in nessun numero, tanto meno in una definizione, ma solo in quegli sguardi senza oggetto, grevi di un freddo anelito, che planano sulle rovine di tutti i significati. Quando non trovi in te nessun fondamento e nessuna fonte di consolazione, la disperazione altrui ti lascia indif­ ferente, la guardi impotente e ti sembra incomprensibile. La misericordia, risultata da un sangu inam ene immediato della sensibilità, diventa col tempo astratta; ti addolora la sofferenza di tutto l'esistente, ma non ne senti più nessu­ na in particolare. È un silenzio134 in cui perfino una lacrima assume proporzioni di tumulto, è un'impassibilità in cui un semplice dispiacere prende l'aspetto di una baraonda. È l'impossibilità di immaginare ancora il tuo cuore l3\ Ogni forma di nostalgia racchiude in sé un'aspirazione inconscia, voluttuosa e vagamente dolorosa, a scomparire. È il male duraturo dell'anima, vittima che sogna un riparo diverso dalla v ita 136, anelando a una terra meno reale e più vicina all'inesistenza. Poiché ogni individuo è per s é 137 non tanto un universo in piccolo, quanto l'universo stesso, la lotta tra gli uom ini138 somiglia a un'apocalisse contratta, apparentemente conven­

134Var.: un'indifferenza. 135Seguito da: e altri cuori. 136Var.: che non riesce a consolarsi per non aver trovato / inconsolata per non aver trovato altro luogo/riparo che la vita. 137Seguito da: l'ossessione suprema. 138Seguito da: assume le proporzioni di.

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zionale 139, ma infinitamente tragica in profondità. Tenere il passo con loro vuol dire dimostrare un cuore di marmo, un'impertinenza brutale e un indurimento dell'epidermide e della mente tali, da chiederti se, dal momento che continui a essere, non faccia parte anche tu di quell'orda generale, tanto crudele quanto ridicola. Nella mischia o da semplice spettatore, respirare140 l'acredine impietosa della vita è la te­ stimonianza di un'anima bestiale141, dalle zanne più o meno consumate. Per il semplice fatto di accettare di vivere, ogni essere vivente merita la propria condanna. Eppure, una differenza c'è, ed è sfavorevole all'uomo: mentre ogni animale predatorio è vittima di un altro gene­ re di animale, l'uomo resta preda dell'uomo. Caino e Abele prefigurano la storia universale; sono il simbolo di tutto ciò che è accaduto dopo. Ogni istante del tempo è scandito dall'i­ nimicizia. E come potrebbe essere altrimenti, quando ciascun uomo è l'ossessione suprema di sé stesso, quando l'orgoglio è un eufemismo della bestialità, per non parlare di un pericolo più grave, la falsa modestia? A eccezione di coloro che rinun­ ciano a tutto con l'ascesi, il suicidio, la santità o il disgusto, e di coloro che si macchiano del proprio sangue, il resto degli uomini costituisce un branco di criminali banali, in mezzo ai quali portiamo a passeggio la nostra stanchezza e la nostra nausea, fino a quando i loro sguardi e le loro azioni esauriran­ no la nostra capacità di condividere una qualsivoglia sorte. Scontentezza - ultima parola della terra e del cuore. Nulla quaggiù e nulla lassù riesce a placare il desiderio o a colma­

139Var.: che rispetta certe convenzioni. 140Var.: condividere. 141 Var.: da sciacallo.

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re il vago che circonda142 la polpa spremuta dell'esistenza. Il tedio - con la sua sensazione di slancio frenato e di ali super­ flue - provoca nelle articolazioni dell'essere una passione per 10 smarrimento verso orizzonti che trascendano tutto. Nel mondo ammuffisce tutto, perfino il sublime, giacché ogni suo aspetto conferma la vanità universale, tranne le inesistenze impermeabili della geometria - disciplina refrattaria alla futi­ lità. Nessuno scopo plasmato dall'uomo, o trovato già pronto sotto il sole, riesce a soddisfare la brama che ci rode, smisu­ rata per le nostre forze come per quelle della natura. Tutto in noi nasce infatti sotto il segno della scontentezza; e questo dramma della virtualità trova la sua espressione continuamente rinnovata nella tristezza143, risposta del nostro essere alla mancanza d'oggetto del mondo e del cuore. Essere morto non dim ostra144 nulla. Ma sopportare145 il tempo in una pietrificazione priva di parole; percepire l'ani­ mo serrato e, insieme a esso, la lin gu aI46, l'occhio e la vista; passare accanto a parole, paesaggi e voci come in un cimite­ ro della stupidità; giacere giorno e notte con l'impassibilità di un sospiro sordo, sinistro e muto per sempre; sapere che 11 sangue non risponde a nessun sussulto della Creazione e che nessuna linfa del mondo s'insinua nei nostri sentieri; che il corpo si sorregge nello spazio come una statua de­ capitata e sprecata - un simbolo che nessuno cerca né si fa intravedere; balbettare una preghiera senza parole come un verme affamato in un universo impietrito; non trovare ab­ 142Var.: permea. 143Var.: nel dolore. 144Var.: significa. 145Var.: trascorrere. 146Var.: bocca.

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bastanza liquido nel deserto degli organi per secernere una lacrima; trascinare la propria tomba come la lumaca fa con la propria casa; bussare alle porte della mente per essere soccorsi da un'idea, mentre le idee stendono le loro ali come delle cornacchie morte sul pascolo assente del cervello; sca­ vare nelle distese del cu ore147 senza trovare altro che la ce­ nere dei vecchi sentimenti e un ultimo luccichio del tempo; essere il testimone solitario di questo spegnimento, quando l'ultim o raggio spezzato del sole marcisce sulla terra nemica - questo significa che essere morto non dimostra nulla, e che morire significa tutto. Chi non ha il dono della sottomissione e non può piegare la ragione, e nemmeno i sensi, a un rito intellettuale o a un ordine esteriore, chi vede perfino nell'utopia o nell'apoca­ lisse un programma, e in qualsivoglia ideale o finzione una prefigurazione da comma legislativo - a costui non resta altro che il tormento della superbia 148; con un unico pun­ to d'appoggio: la sofferenza149; con un solo riferimento: la solitudine. Il caos sarebbe intollerabile senza il riferimento potenziale racchiuso nell'immediatezza e nella certezza del dolore. Il dolore è concreto e sicuro. Dal dolore qualcosa do­ vrà pur spuntare150. Quest'attesa di una comparsa indefinita conferisce all'anima, più o meno separata da tutto il resto, l'illusione di un equilibrio. È un balzo verso la salvezza e nel contempo una spinta di segno contrario. La contraddizione si neutralizza nell'ipostasi presente del nulla, miscuglio di estetica del caos e di amarezza sublimata. 147Var.: chiedere al cuore. 148Seguito da: addolorata. 149Var.: il dolore. 150Var.: risultare.

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È impossibile accettare una qualunque legge del mon­ do; d'altra parte, è impossibile che tu diventi la sua legge. Spinto fino in fondo, tale conflitto ha un solo esito: la fine dell'uomo. Per quale motivo l'idea che quest'essere infimo sia desti­ nato all'annientamento - come una conclusione già scritta nell'irrisolvibile delle sue premesse, e non per un accidente della natura - ci duole più della scoperta dell'inesistenza di Dio? Forse perché l'universo resterà solo, cessando di essere consapevole della propria sofferenza? Questo trionfo asso­ luto del destino muto e cieco, ci terrorizza più dei comandamenti della coscienza. La musica mi ha sconquassato gli istinti, la volontà e i nervi. Il suo effetto è accresciuto dalla spinta di quella deli­ quescenza generale chiamata V ita151. Ogni atto di vita è un atto di preferenza, che converte l'apparenza in idolatria. L'individuo sceglie qualcosa e ri­ fiuta il resto; una nazione, che è un'astrazione, nell'odiare un'altra nazione diventa concreta e viva, mentre l'uomo, op­ ponendosi incessantemente a sé stesso e alla natura, si nutre di un conflitto che, in fin dei conti, gli è costitutivo. L'essere vivente è la negazione dell'oggettività. Se perveniamo ad at­ tribuire alle cose e agli esseri il loro prezzo intrinseco, in­ dipendente dal nostro interesse, vuol dire che ce ne siamo distaccati, e che l'im pulso dei nostri gesti non proviene più da ciò che è vivo. Non condividere le illusioni della tribù, i pregiudizi della nazione e le fascinazioni umane, diven­ tare roccia pensante, purificarsi tramite l'ossessione devita­

151 Var.: dall'opera di ciò che chiamiamo vita.

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lizzante dell'imparzialità, fare dei propri istinti ardenti una fonte di voluttuosità fredda, non degradata da alcun fremi­ to, non permettere più allo spirito di accettare le complicità di nessun brivido, sconfiggere il gusto e il disgusto, la rivol­ ta e la rassegnazione - ecco le premesse iniziali per un giu­ dizio non insudiciato da quel che in noi è c ittà I52, nazione, riforma, futuro e tutta la sequela di menzogne inseparabili dalla patologia dell'esistenza. La comprensione della veri­ tà rende possibile ciò. Solo che, spingendoci al conflitto con tutti e con tutto, essa ci fa ricadere nella situazione sconfitta e negata; ci costringe a scegliere noi stessi, quando nulla e nessuno ci giustifica e ci accetta più. L'imparzialità diventa un ideale, una passione che ci getta, tramite una deviazio­ ne, nella serie di atti rifiutati in precedenza. Ogni posizione, compresa quella contraria alla vita, è infettata dalla vita. Gli stati contraddittori si distinguono per il loro contenuto, non per l'aspetto esteriore. Due nemici sono la stessa persona in due modalità. Solo chi, in maniera organica, è estraneo a tutto e riesce ingenuamente a non vivere, è davvero accanto, al di sotto o al di sopra della natura. Persino l'abbandonarsi a considerazioni sulla vita dimostra affinità misteriose con essa. L'oggettività è un ideale più difficile da raggiungere della santità, poiché essere oggettivi significa essere in con­ flitto con tutti gli attributi e i surrogati della vita, pur con­ tinuando a respirare; viceversa, la santità presuppone un accordo con un mondo che abbiamo creato, un mondo mio o di Dio, una terra gettata nel cielo, una terra che prediligo, che mi soddisfa in modo assoluto. L'oggettività è quanto di più estraneo si possa immaginare al bisogno di salvezza, questa nobile trasposizione dei nostri riflessi e del rifiuto di

152Preceduto da: cittadino riformatore.

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vedere le cose come sono. Vedere quel che è così com 'è - è la morte, vedere quel che è come dovrebbe essere - è la vita. L'imparzialità assoluta e la morte sono la stessa cosa; l'i­ deale dell'imparzialità è una forma di orgoglio perverso 153 che anela all'inaccessibile154. L'esistenza dell'uomo ha qualcosa di infinitamente com­ movente. È un animale che ha imparato a ridere e a piangere, e ha pagato a un prezzo così caro quest'esercizio apparente­ mente contraddittorio, ma in fondo identico. Forse la materia sopravvivrà a tutte le lacrime finora versate, quelle che non si sono riversate in Dio, prosciugandosi nel tempo! Se doves­ simo sognare uno storico immaginario e non umano, che al compimento dei tempi scriva la storia dei mondi, che cosa potrebbe annotare al capitolo uomo? Sicuramente nulla più di questo: «Un essere vivente uscito per breve tempo dal no­ vero degli altri esseri viventi tramite il riso e il pianto, la cui utilità e il cui significato non vale la pena decifrare». La differenza tra essere e non essere è quella tra la nausea e la sua assenza. La nazione è la forma assunta dal peccato originale, con il sostegno della polizia155. La società è la moltiplicazione, sul piano dell'ordine, della Caduta primordiale, non abbastanza forte da rendere eterno il caos.

'“ Seguito da: e curioso, ulteriormente soppresso dall'autore.

154Var.: all'infinito. 155Variante abbandonata

dall'autore: La nazione è uno stato collettivo di pec­ cato, la moltiplicazione sul piano dell’ordine del [...].

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Ogni istante della vita è una crudeltà inconscia156. Qual­ cuno, senza che ce ne rendiamo conto, soffre in qualche luogo a causa del nostro avanzare nel tempo. La storia uni­ versale non è tanto il conflitto tra tiranno e vittime, quanto l'annullamento reciproco tra i boia. E cos'è la storia di ogni individuo? È l'aspirazione dell'agnello a diventare lupo, la morale rovesciata della favola. Giacché ogni creatura sogna solo le zanne che non possiede. La devozione avvolge l'inutilità del mondo nel mistero, mentre la noia ci svela la sua nudità per sempre. Quando non vi è alcuna utilità nel corso generale delle cose, quando esso non nasconde nulla, nemmeno la sventura di un signi­ ficato come nelle tragedie, quando gioia e sofferenza sono soltanto forme tem porali157 dello sperpero e il tempo diven­ ta l'idolo negativo del nostro sperperarci, quale mistero po­ tremmo scoprire nella semenza della natura e al limite delle cose? Il tedio è l'espressione dell'anima ridotta a una funzio­ ne meramente descrittiva, registrante, quando non ha più la forza di rinvigorire le apparenze del mondo e di riconoscere loro un qualche fascino o senso. L'universo ridiviene 158 il tutto come tale; la storia, un divenire puro, una furia assur­ da della mobilità, una catena di istanti deliranti disgiunti da qualche Creazione o Giudizio finale. La vacuità interiore trova così corrispondenza nel vuoto esteriore, facendo sor­ gere la n o ia159 come una sorta di consacrazione dell'assenza di fondamento del cuore e del mondo. È il processo opposto alla devozione, che scopre il tutto dove non c'è niente. La 156Var.: una vittoria ottenuta con una crudeltà di cui non ci rendiamo conto. 157Var.: hanno un unico ruolo. 158 Preceduto da: È la materia in quanto tale. Seguito da: esso stesso. 159Var.: costituendo insieme il fondamento [...].

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noia rifiuta, però, il rischio dell'illusione. E così, scopre il nulla in tutto. Ogni realtà sofferente che travalica i lim iti naturali diventa spettacolo. La m isericordia non vi ha più posto, e nem m eno la filosofia. In un'apocalisse non ci sono più sentim enti. Per questo, le grandi catastrofi della storia possono essere com prese solo esteticamente; se le vives­ simo 160 sul piano um ano e sprofondassim o in dettagli truculenti, im pazzirem m o. In fondo nessuno, ma proprio nessuno riesce a farsi carico delle sofferenze altrui; tanto meno delle sofferenze della storia. Tutto quel che possia­ mo fare è contem plare le onde dei sospiri, se non vi vo­ gliam o annegare. Tutto quel che addolcisce la visione implacabile del male è u top ia161. Tutto ciò che vive è definito dalla virtualità di non vive­ re. L'intero carico di non essere, consustanziale alla nostra non consustanzialità, costituisce l'equilibrio instabile che ren d e162 la vita una realtà ambigua, separata e indipenden­ te dall'A ssoluto. In questo senso, la vita non è che un rin­ vio sottile e indefinito del nostro deflusso in Dio. I nostri attributi sono quelli di una tragica provvisorietà, che non possiam o sconfiggere con strumenti esistenziali, poiché la nostra esistenza non è quella vera, e la sua configura­ zione è determ inata dal rifiuto di quest'ultim a. La vita è

160Var.: se pensassimo. 161 Var.: Tutto quel che non è visione sconsolata del male è utopia. 162Var.: lo stimolo che mantiene.

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un'accoglienza della Caduta e di tutte le sue conseguenze in termini di nobiltà, sofferenza e lotta. È un'arena sangui­ nosa, recintata dagli artigli della morte e della divinità, e in cui ci dim eniam o fino a quando cadiamo preda dell'una o dell'altra. L'aseità degli stolti e di D io... Possiamo odiare solo ciò che un'ossessione così pericolosa.

è.

Ecco perché il nulla è

Che la teologia163 abbia concepito l'uomo a im m agine164 di Dio è la cosa più incomprensibile nella storia dell'im ma­ ginazione165. È il sacrilegio consacrato dalla fede. Gli avvenimenti sono tumori del tempo; gli uomini - agen­ ti della suppurazione, e la storia - la suppurazione stessa. I passi del Diavolo calpestano il formicaio umano e lo disperdono, terrorizzato. E da questo terrore nasce166 la pre­ ghiera e la devozione a Dio. Vi è una tristezza dell'impotenza e una della conoscenza. In entrambe, la creatura sconta i propri lim iti167. La vita è una melodia dell'espirazione. Perfino in quel che in essa è inno, vi è una voce della vanità pervertita in 163Var.: la mente umana abbia potuto [...]. 164Seguito da: e somiglianza. 165Seguito da: e del pensiero. '“ Seguito da: la nostalgia e. 167Var.: Entrambe esprimono il fallimento della creatura.

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urlo, mentre quel che è vittoria è, nel migliore dei casi, un accordo in la maggiore della nu llità168. La novità nel mondo è l'illusione del nuovo. Ma tale illu­ sione è tutto, è tutto ciò che chiamiamo mondo. Rispetto al nulla, la Creazione è un'aggiunta maestosa di futilità, dove l'essere trova consolazione in una sorta di grandezza fra­ stornata e inutile. La vita rende ognuno di noi uno straccio; con gli anni, i nostri sogni e i nostri organi invecchiano; il contatto con gli uomini uccide la freschezza e lo z e lo 169 sciocco per «l'idea­ le»; l'amore diventa un gioco sterile e oggetto di scienza; gli istinti s'annacquano; il cuore è una pompa scricchiolante; gli sconforti si chiudono in sé stessi, per la stanchezza170 delle numerose e indubbie conferme; il dolore smette di essere curioso nei propri confronti, e così non feconda più lo spiri­ to; le articolazioni non legano più gli organi relegati all'ana­ tomia; quando tutto è uno scompiglio pietoso, l'universo è ridotto a uno straccio e la nostra speranza a una toppa inuti­ lizzabile e impercettibile, solo il nostro smarrimento sembra conservare una traccia di logica e di senno. Ogni uomo che creda fermamente in qualcosa è nemico mortale della «verità» e della «realtà». Il fanatismo - stupidità vibrante stregata da un Incondi­ zionato ridicolo. La trasformazione di un volto del divenire in realtà unica; la conversione di un aspetto dello spirito in pun­

168Var.: Le vittorie e i suoi inni sono una futilità in la maggiore. 169Var.: l'aspirazione. 170Var.: la sicurezza.

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to fisso di riferimento; la promozione dell'«evento» al rango di simbolo incontestabile - ecco il meccanismo di violazione della diversità che definisce l'intolleranza di qualsiasi fede. Il cristianesimo divide la storia in due parti, come se pri­ ma e dopo Gesù il tempo non fosse più lo stesso. Una morte sulla croce non può cambiare la vita 171 - e ancor meno la morte. Eppure, per un credente, Gesù resta l'Evento. Sen­ nonché, la storia non conosce niente in sé. Il partigiano di una setta politica vive l'ossessione della maiuscola, esattamente come ogni credente. Tutto il male e quel po' di bene che conosciamo nel tempo, deriva dalla vi­ sione faziosa del fanatismo. Le trasformazioni sociali - sotto il pretesto dell'inqualificabile «progresso» - sono possibili grazie all'incapacità di vedere e accettare la contraddittorie­ tà dell'esistenza, grazie alla soppressione dello spirito de­ scrittivo. Le epoche feconde sono fatali allo spirito, giacché ogni «creazione» viene fatta a scapito della comprensione e dell'imparzialità 172. Prendere parte a qualcosa vuol dire ridursi a un sistema di atti che escludono tutti gli altri; sop­ primere il simile divergente; ricorrere allo Stato o alla polizia, in ogni caso a u n 'uniforme, per dirimere controversie che hanno causato il fallimento dei filosofi; imprimere, infine, una direzione unica al respiro. Ecco perché si può respirare solo nelle epoche sterili - in cui ogni individuo s'interessa tutt'al più di sé stesso. «Infinito», «anima», «universo»173 - sono parole che non nascondono niente, parvenze nobili che ci aiutano a sfuggire

171 Var.: natura. 172Var.: complessità. 173Seguito da: «amore», soppresso dall'autore.

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alle situazioni di fatto174. A celarsi sotto il vuoto delle parole sono la nostra impotenza di essere in sintonia col mondo e la tensione che ne segue, fino a che la morte ci uccide, o siamo noi a ucciderci. L'uomo è un essere estraniato: da Dio, dalla materia e da sé stesso. Sfogando la propria vitalità nell'esilio, egli è lo straniero175 in quanto tale, peregrinando su una terra che nega e deliziandosi nel vizio della propria eccezionalità. I rimedi che escogita non gli fanno onore: cielo, felicità, Cre­ atore, progresso - che mediocre farmacia! Le negazioni del­ lo spirito sono il suo unico apporto originale. Il resto è un protrarsi degli istinti, trionfi volgari dell 'oggetto. L'essenza dell'uomo risiede nell'opposizione a ogni cosa. Amare la cenere com e una fenice che disdegni la risur­ rezion e... Nulla, nemmeno il pianto può spezzare o colorare la du­ rata incessante, avversa all'alchimia. Gli ondeggiamenti che muovono la monotonia costitutiva della vita si livellano nel­ la morte, senza che dall'impurità dell'una o dell'altra l'ani­ ma possa estrarre un m etallo più puro. Ci muoviamo su una terra in cui le cose hanno lo stesso prezzo, in cui l'idiozia regge l'equilibrio universale e in cui il fine delle trasforma­ zioni è il fumo. È più facile che tutti gli elementi si conver­ tano in oro, che la sostanza umana in motivi di speranza. Giacché noi non viviamo nella speranza (che è tutto e dalla cui benedizione nessuno è stato toccato), bensì nell'illusione della speranza. Un essere completamente posseduto dalla

174Var.: L'uomo è il grande straniero. 175Var.: la finzione.

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speranza non avrebbe più nulla da invidiare a Dio. Ma è più difficile da immaginare un simile essere che il nonsenso del paradiso. Dove non c'è spavento e incompiutezza, il pen­ siero non è di casa. Esso è figlio naturale di questa vita che divora sé stessa in uno spasmo dell'inutilità e con pretesti sinistri di significato. Una nemesi tra valzer e mattatoio. Tutto ciò che è «profondo» deriva dalla sensibilità; la stes­ sa mistica non è che una esasperazione nervosa. Percepiamo le regioni inverificabili e lontane176 nei momenti d'intensità paralleli allo spirito. «L'assoluto» è il frutto di una crisi, di una vacanza dell'esame critico. È stata mai ottenuta una certezza col bilancino? E si dà per caso una pienezza che non sorga dal brivido - furia temperata dalla vaghezza che la origina? Le luci e le ombre, che ci deliziano o ci tormentano, sono sospet­ te; la loro origine non è nobile; il loro risultato non è racchiu­ so in alcuna formula limpida e duratura. I fremiti hanno una fonte oscura, e conducono solo a una grandezza da periferia. Essi muoiono nella loro mancanza di definizione, come tutto quel che risulta dagli strombazzamenti dell'anima. Nell'arte, come nella vita, ogni svolazzo finisce nella volgarità. Solo nel dubbio lo spirito è veramente puro. «Maledizione» - parola estremamente misteriosa, che svela un'immensa realtà, che esprime tutto, e non spiega n u lla177. Lo scetticismo - ovvero la smentita di qualunque riflesso...

176Seguito da: a cui tendiamo. 177Frammento seguito da una frase abbandonata: Sono stato maledetto / Es­ sere condannato a domandarsi, e fare della domanda il proprio castigo.

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Il problema non è tanto come si possa morire per qual­ cosa, ma come si possa vivere per niente. Il ruolo apparen­ te dell'uomo è quello di servire, sgobbare ridicolmente per uno scopo, agitarsi nella bassezza dell'utilizzabile. Tutto concorre a fermarlo dall'affrancamento da ogni scopo, dal­ la liberazione dall'utilità. Il coraggio non consiste nel fare qualcosa, bensì nel non fare, nel rifiuto di servire, nella vo­ lontà di non servire; o nell'accettare la lotta con la coscienza di un suicida, e non di un eroe. L'umanità ha compiuto fino­ ra, nel bene come nel male, troppe cose perché l'uomo possa mettere un punto con svogliatezza e cinismo o, se il tempo lo converte in virgola, impegnarsi ancora in uno sforzo nato dal disprezzo e da esso incoronato. Quando tutti chiedere­ mo scusa per ogni atto, potremo parlare di progresso senza vergognarci. Il bisogno di salvezza provoca nel mondo tanto male quanto quello causato dalla tendenza distruttiva. Entram­ bi, con mezzi diversi, provocano danni identici178. Un uomo che cerca la propria salvezza è tollerante quanto uno che cal­ pesta tutto 179. Ogni meta conduce alla tirannia. Nel nome del regno dei cieli non sono stati compiuti meno crimini che in quello del paradiso terrestre. Escludere qualcosa - in fun­ zione di checchessia - significa desiderare la soppressione automatica di tutto ciò che non ci appartiene. Ogni esisten­ za custodisce in sé un fanatismo incurabile; ogni essere è avido di vittime. Quale atto non è implicitamente un atto di intolleranza? Se i nostri impulsi si tramutassero in pas­

178 Nel manoscritto, diversi. Evidentemente si tratta di una svista dell'au­ tore. 179Seguito da: senza nessuno scopo.

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si, resterebbe forse qualcosa sotto il sole non disonorato da essi? E tutto quel che viene fatto da noi e dagli altri, non è una ferita per quei dubbi con cui dovremmo addomesticare e nobilitare gli atti? La vita non è che il lutto perenne dello scetticismo. Tra un'affermazione e una negazione c'è solo una dif­ ferenza di onorabilità. Logicamente e affettivamente, esse sono convertibili. Chi è capace di qualcosa è capace di qualsiasi cosa. Dal momento stesso in cui abbiamo fatto un passo nel mondo, abbiamo virtualmente aderito a tutti i suoi aspetti. Il fatto di essere non è una scusante, e nessuno è esentato dal privile­ gio di tale condanna. Giacché la banalità del respiro confina con l'Apocalisse. Ogni giorno, tutti i giorni, più nel pomeriggio che verso sera, partecipo ai funerali indefiniti della luce, poiché l'ani­ ma non sembra poter trovare altri ornamenti all'infuori del­ la cerimonia finale del sole, ripetuta quotidianamente dal fasto rovesciato del cuore dinanzi180 al tramonto legale181. Gli unici m omenti che non ci um iliano ai nostri occhi sono quelli in cui abbiam o liquidato l'ossessione del tem ­ po 182 e la complicità con la Creazione, e in cui abbiamo in­ travisto una luce più pura del nulla e quella musica emersa dalla rovina di tutti i silenzi.

'“"Seguito da: alla cronologia impassibile della natura. 181Var.: impassibile. 182Var.: della vita.

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Percepire il tempo: pausa intima e delicata della vitalità. L'aspetto più profondo del cristianesim o è la rivelazio­ ne della carne. La scienza l'ha sostituita con la m ateria, neutralizzando così una realtà m ultipla e com plessa. La m ateria non rende conto di nulla; in essa non vi è piace­ re, né peccato, né purezza. Alla scienza sfugge l'essenza dell'uom o, che un poem a vedico ci svela m olto più di tut­ ti i risultati del calcolo e delle esperienze. Su quel che sia­ mo, non abbiam o bisogno di «sapere» niente, dobbiam o solo sprofondare nelle palpitazioni segrete o vagam ente visibili di questa carne, in cui tutto avviene e che tutto pa­ tisce, la cui esaltazione o m acerazione ci proietta talvolta fuori dal m ondo e ci fa sem pre affondare. Essa si insinua persino nelle m enti più astratte, intrattenendo le nostre fantasie vane o nobili, in una m elassa peccam inosa. È il nutrim ento prelibato dell'im perm anenza, se non l'im perm anenza stessa. Dal momento che i pregiudizi sono forti quanto gli istinti, prendere parte all'agitazione del formicaio umano è, per certi versi, il significato ultim o di ogni esistenza. Ma quando la loro mancanza di fondam ento183 si rivela all'oc­ chio perspicace e al cuore liberato dall'incanto, il mondo diventa una Valle di Noia. Allora restiamo spettatori smar­ riti in mezzo alla fuga generale; la città diventa un m ani­ comio; gli interessi e le ambizioni di ognuno e di tutti sono sintomi di un'agitazione cieca, e i loro tormenti e spasmi, una banalità assurda. E, sotto lo sguardo arido del Tedio, perfino i sospiri della creatura perdono il loro significato

183Var.: il vuoto.

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in questo ex universo lacrim oso, in questa disertata Valle di Lacrime. Poiché un uomo non può salvare un uomo, poiché l'uo­ mo è il più grande nemico dell'uomo, una forma qualsiasi di deificazione184 rimarrà per sempre la tentazione più pro­ fonda dell'individuo. La condizione di chi è nauseato dei propri simili è para­ gonabile solo a una natura che abbia rinnegato le proprie stagioni. Per quanto grande, ogni presenza nutre il sogno di un'as­ senza equivalente, e tutto quel che è, cospira per diventare la propria icona rovesciata. Dall'universo intero ricaviamo l'idea della m ancanza185 di tutto, per ottenere il riscatto logi­ co 186 dalla nostra cattività nell'esistenza e dall'incapacità del cuore a liberarsi dal sangue. Solo un miracolo può guarirci dal ted io187. Tutto ciò che sorge dall'entusiasm o è un errore, e ciò che non sorge da esso, è una negazione della vita. Non potrei dire di non avere speranze; solo che, non essendo legate tra loro, esse non possono dare colore alla 184Var.: religione. 185Var.: assenza. 186Var.: come unica consolazione giustificata logicamente, preceduto da: trami­ te la negazione. 187Var.: Siccome il tedio è il male per eccellenza dell'esistenza nel mondo, il suo rimedio non può che essere sovrannaturale [...].

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vita né organizzarne gli atti in un sistema. L'anima è un ar­ cipelago di speranze solitarie188, che si contraddicono fino a quando vengono erose dalle onde che le circondano, con l'ostinazione dell'unico obiettivo, isola dopo isola, poiché le speranze nascono e svaniscono, ma la disperazione resta. Alle radici della nostra linfa c'è la sua negazione; le illusio­ ni coesistono o si sostituiscono rapidamente tra di loro, alla rinfusa189 o a caso. Vi è del metodo solo nell'elemento che le fa nascere e le annulla, nel mare di sconforto in cui sguazza­ no, col prestigio190 di essere tutto, mentre in realtà sono solo crisi191 passeggere192, deliri o bisogni di magnificenza nutriti dalla disperazione. Mi lega alla terra solo l'impossibilità di appartenerle. La vita è un pregiudizio alimentato perfino dalla tristezza. In mezzo a tanto insolubile, il pregiudizio è promosso al rango di mistero. Essere al di sopra di ogni verità; oltre ogni convinzione; nel dolore, proiettarsi al di fuori di esso; fare della coscien­ za un esercizio parallelo al proprio spirito, sorridendo 193 da lontano dei limiti di quest'ultim o; trovare sempre un punto d'appoggio esterno a tutto quel che siamo; escogita­ re continuamente un riferim ento estraneo o avverso all'io;

188Var.: Circondata da tutte le parti dalla sicurezza monotona e irrefutabile di un mare di sconforto che inghiottisce [...]. 189Preceduto da: sono senza metodo. ,90Var.: con l'apparenza. 191 Var.: malanni scusabili. 192Var.: di un istante. 193Preceduto da: osservando o.

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spingere194 il filosofare fino all'ultim o vocabolo, all'ultima parola dell'inefficacia e del ridicolo. Da quando ho rinunciato a correggere me stesso e gli altri, la vita mi sembra un esercizio in sé, decisam ente più sopportabile del sogno di una trasform azione e d ell'in ­ ganno di un «altro» uomo. Com e si può essere ancora schiavi dell'incanto 195 di una vita «nuova»? La storia è una p a ra ta 196 che ispira sensazioni inedite per quel perdi­ giorno che è in ognuno di noi. Ma una mente ridestata vede, in ogni luogo dello spazio e del tempo, lo stesso sangue, lo stesso sfoggio, lo stesso tormento e la stessa ironia. Perfino le mode e gli ideali cambiano solo di colore e di nome. A uno psicologo attento, basterebbero poche parole e gesti del no­ stro antenato primigenio per una trattazione esaustiva del capitolo «uomo». Ogni evento ci sembra senza pari - e tale illusione ci spinge a prendervi parte. La verità è che tutte le cose e vicende sotto il sole sono vecchie quanto il sole stes­ so, e che ogni sofferenza che ci appare inaudita - giacché altrimenti non potremmo subirla - è solo una variante della sofferenza stessa, legata a tutto quel che è, è stato e sarà. Cre­ diamo che le vittorie e i tracolli siano unici, perché altrimen­ ti come potremmo gioire o angustiarci? Quest'incantesimo dell'unico ci aiuta a vivere, a gonfiare con un sogno falso ogni momento del tempo, apparentemente senza pari, ma in fondo nullo come tutti gli altri.

194Preceduto da: ... e non affannarsi nello [...]. 195Var.: credere nell'incanto. 196Seguito da: ridicola.

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Tutto il carico amaro dell'esistenza197 svanisce davanti al pensiero che possiamo arrestarlo in qualsiasi momento, che custodiamo dentro di noi l'immensa libertà della nostra as­ senza e che possiamo riscattare la nostra cad u ta198 in dolori sterili o nella banalità, grazie alla genialità negativa del sui­ cidio. Se non fossimo in grado di immaginare - consolan­ doci in questo modo - l'opportunità di toglierci di mezzo, Tatto infinito della liberazione di sé, l'esistenza non avrebbe alcuna via di uscita da sé stessa, e la galera del respiro non potrebbe supporre alcun cielo. Quest'idea fa di ognuno di noi un padrone, e il fatto di non tradurla in pratica non ci rende schiavi. Sarà vero che i veri suicidi sono quelli non consumati? Conoscere la cura sicura del male e, ciò nono­ stante, portarlo ancora oltre... Dopo anni di sregolatezza triste, inavvertita o tormenta­ ta, i legami con la vita sono ormai sciolti199 e ci troviamo a un tratto spogliati di tutto200, in mezzo a un presente che nega il nostro divenire e quello del tempo. È la vita senza più attri­ buti; il cuore glieli ha rapiti uno dopo l'altro, fino a quando entrambi si sono prosciugati, vittime di un disaccordo pro­ lungato e tenebroso. Ai tempi in cui il sangue imitava l'inno misterioso della speranza, quando Terrore era lo spavento nobile che avvolgeva la volgarità delle azioni, quando non sapevamo che l'amarezza potesse dare frutti e che essa fosse l'unico frutto, che tutto ciò che sotto il sole ha sapore sareb­ be passato per il suo torchio201, spremendo dalla Creazione 197Var.: di questa nostra vita. 1,8 Var.: mediocrità. '"S egu ito da: uno dopo l'altro. 200Preceduto da: in mezzo alla vita / alle cose ancora. 201 Seguito da: sarà inginocchiato.

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senza colpa202 solo mosto avvelenato - a quei tempi non im­ maginavamo 203204queste lande in cui labbra secche farfuglia­ n o 2114 verità assassine, l'avvenire non ci appariva come uto­ pia degli istanti presenti, né il presente ci sembrava il passo finale di tutto ciò che è stato. A quei tempi il corso delle cose fluiva in maniera delicata o altezzosa verso l'ignoto, mentre adesso, intrappolato in una sosta non dovuta a curiosità né al richiamo di un altro cielo, esso si ritorce contro sé stesso sospendendo, cristallizzato, il proprio destino. Se non ci esercitassimo stabilmente nei dubbi, se non ci istruissimo con ostinazione nella nobile cultura dello scettici­ smo, se non accompagnassimo l'ingenuità di ogni atto con una corrispondente205 ironia, i difetti della natura206, il ghigno delle iene circostanti, la peccaminosità della creatura romperebbero gli argini dell'anima, e la furia ci farebbe annegare nel nostro proprio diluvio. L'ingiustizia e la stupidità entro i confini del mondo hanno contagiato perfino gli astri; da tempo ormai, il cielo non è più un limite alla caduta immanente. Non rimane che esercitarci nella padronanza di sé, curare un'educazione contrita e assumere l'atteggiamento riservato delle tristezze tramontate. Un ideale di eleganza nell'infem o... Dobbiamo rendere la vita un sonetto - oppure impiccarci. Gli accordi della vita sono com posti da una m iscela in­ discernibile di vaudeville e orazione per i defunti. È una 202 Var.: dall'innocenza. 20:!Seguito da: di trovarci mai in. 204Var.: sorridono a. 205Var.: equivalente. 20hSeguito da: e degli uomini.

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commedia dall'accento funebre; un'interm inabile cerim o­ nia di esequie al suono di un organetto di Barberia; è una collana di lacrime il cui sale è stato annientato dal ridicolo; uno scambio continuo di farsa e soffio vitale; una melodia che, pur non appartenendo a nessuna musica, è cantata da tutte le voci. La stanchezza che penetra a fondo nel cervello e nell'u­ niverso ci mette dinanzi alla presenza contraddittoria della religiosità e del cinismo. È lo stadio in cui l'anima non cer­ ca più soluzioni, accettando la propria impasse; è lo stadio dell'insolubile affettivo. Tutte le verità - persino quelle strappate al tempo - co­ minciano dalla lotta contro la polizia e finiscono in questura. Non vi è stato finora un martirio che non sia stato ufficializ­ zato, e nessun eroismo che non sia stato sepolto in qualche istituzione. Alla fine, tutte le sofferenze sono state prese in consegna dallo Stato; le visioni più bizzarre, per le quali fu versato sangue assurdo, si sono ammuffite nei codici. La sto­ ria universale è una legalizzazione successiva di burle vitali. I paragrafi hanno inghiottito tutto, fuorché i dubbi... Questi sono rimasti esclusi, insieme a coloro che li hanno pensati. La morte è un mistero esatto; solo gli spaventi a essa ispi­ rati sono vaghi207. Tutti i sentimenti che proviamo o che subiamo, hanno, in gradi diversi, un oggetto limitato e dunque una possibilità

207 Var.: La vita snocciola spaventi incerti e rimorsi vaghi per un punto preciso: la morte.

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di estinguersi, a eccezione della tristezza, la cui sfera 208 è il mondo e tutto ciò che può essere immaginato al di sopra del mondo, impossibile a estinguersi in un qualsivoglia mo­ mento o luogo. L'agitazione del formicaio umano è sostenuta da due cose: dal sole e da una cieca speranza. Entrambi non sono mai stati oggetto di commedia, a differenza di Dio e di tutti gli altri inganni superiori, che sono passati per le sfumature della caricatura e del grottesco. All'uomo sono sfuggiti tut­ ti i principi della sua temporalità, tranne quello cosmico e quello vitale. Così, l'anim ale malato ha conservato il rispet­ to per un orizzonte di salute che gli permette di perseverare nelle due illusioni essenziali senza rischiare troppo mentre calpesta tutte le altre209. Quando hai impiegato il tempo per decifrare il senso profondo delle vicende e hai visto l'inanità delle cose che nascono e muoiono, e quando sei morto insieme a ognu­ na di esse, allora la parte che hai avuto nel loro divenire, spogliata di ogni significato, ti getta al loro esterno e arrivi a essere tu stesso l'uomo di fuori. Così, non sei più dentro nessun avvenimento, nella sfera e nella trappola di nessuna «storia». La fascinazione delle presenze temporali si assotti­ glia fino a scomparire; l'anim a coincide soltanto con sé stes­ sa e, non assimilando più il mondo, perde il suo oggetto. A trionfare è il dubbio in quanto tale, il dubbio nei confronti di tutto. Non portando più sulle spalle il peso di nessun er­

208Var.: che si racchiude nella sua sfera. 209Var.: e di calpestare tutte le illusioni tranne le due essenziali.

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rore, finisci p e r210 essere l'uom o privo di ogni convinzione. Le menzogne perdono il loro gusto, non ti deliziano più, e la vita non può più fiorire sulla morte della menzogna. Nel fermento generale, soltanto lo sconfitto è - grazie alla virtù filosofica della delusione - capace di obiettività211. Ogni trionfo significa alterigia, vanagloria e chiusura totale dell'orizzonte intellettuale. A chi nulla riesce, la conoscenza appare come l'unica ricompensa del fallimento. Ogni insuc­ cesso è un risveglio dall'incoscienza della vita, è la rivelazio­ ne di una situazione, non uno stato creato da un sentimento. Questo è il senso dell'obiettività: l'impossibilità di recitare la parte di noi stessi e di voler falsificare la realtà. Diventiamo imparziali con tutte le cose, perché non partecipiamo più a nulla. Guardiamo in faccia tutto, con occhi ormai estranei. Vi sono pomeriggi che hanno la tristezza di un omicidio mancato - quando il cuore sembra aver serrato i suoi ingres­ si, affinché il sangue non gli macchiasse più i sogni. Quei momenti in cui la vitalità ha pronunciato la sua ul­ tima parola, in cui non ci articoliamo più nell'essere poiché non abbiamo più nulla con cui legarci a esso, quando an­ che la piuma sembra un simbolo materiale e un segno che schiaccia l'esistenza, quando tutto tace in noi e attorno a noi, e nessun impulso visibile o nascosto è più in grado d'im pri­ mere il ritmo che congiunge gli esseri nell'essere, quando la creazione è muta e frastornata come una strega che non spera più negli incantesimi, stupefatta dall'evidenza e dalla

210Var.: arrivi a. 211 Var.: obiettivo.

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vacuità delle cose - quei momenti in cu i212 vorremmo con­ vertirci istantaneamente a qualsiasi negazione della nascita e in cui il pensiero spazza via tutte le credenze che giusti­ ficano il respiro e tutti i simboli che rinviano213 la tomba o estendono la mente. Non è più 1'esistenza, quanto piuttosto la sua mancanza di mistero, a essere svelata dalla noia. L'esistenza non può essere altro da ciò che è; non può nascondere nulla; è pura esistenza - e nient'altro. La noia è il positivismo di un'anima poetica; l'insoddisfazione tra apparenze equivalenti. L'uomo è un fallito, p erché214 dispone delle risorse del suicidio senza metterle a profitto. Il suicidio è il pozzo sprangato su cui geme la nostra sete. Nasciamo per attaccarci alle cose e alle idee; viviamo per congedarci dalle une e dalle altre. La vita è la morte quotidiana della Convinzione.

212Seguito da: spaventati / lo sconforto diventa spavento. 213Var.: nascondono. 214 Preceduto da: L'uomo è l'unico animale che [...], incipit abbandonato dall'autore.

Indice

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Premessa all'edizione italiana, di Moria Corneliu Cicortas/ Prefazione all'edizione romena, di Constantin Zaharia Nota all'edizione romena, di Constantin Zaharia

19

D

iv a g a z io n i

Finito di stampare nel mese di ottobre 2016 presso La Grafica Nuova s.c.r.l - Torino per conto di Lindau - Torino

Filosofo e sag g ista, m a e stro in d iscu s­ so d ell'afo rism a,

Emil Cioran

n a sce in

T ran silvan ia nel 1911. D u ra n te gli s tu ­ di a irU n iv e rs ità di B u ca re st co n o sce E u g è n e Ion esco e M ircea E liad e, co n i quali strin ge u n 'a m iciz ia d e stin a ta a d u ­ rare p er tu tta la v ita. G razie a d elle b o r­ se di stu d io, negli an ni 1 9 3 3 -3 5 so g g io r­ na d a p p rim a a B erlino e M o n a co di B a­ v iera, e su cce ssiv a m e n te a P arig i, d o v e risied erà d alla fine d el 1 9 3 7 in poi. A l term in e d ella se co n d a g u e rra m o n d ia le ricev e lo

status di

ap o lid e ch e co n s e rv e ­

rà p er tu tta la v ita. L a lin g u a d elle su e p rim e o p ere è il ro m en o , ch e ab b an d o n a v e rso la fine d egli an ni '4 0 p e r scriv e re in fran cese. M u o re a P arig i nel 1995. F ra

La tenta­ zione di esistere, L'inconveniente di essere nati, Sommario di decomposizione, tutti i suoi libri più noti rico rd ia m o :

ed iti d a A d elp h i.

ISBN

9

9 7 8 -8 8 -6 7 0 8 -5 7 5 -0

788867

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€ 14,00 Iva assolta dall'Editore

Non v'è in noi l'istinto di morire. Solo così si spiega perché tra la vita e la morte, in fondo ugualmente insopportabili, la prima è privilegiata mentre la seconda è screditata. La vita è un'intollerabilità che abbiamo ereditato, che conosciamo tramite il sangue; la morte, invece, la impariamo, senza arrivare mai a conoscerla - e per di più: senza essere interessati a conoscerla.

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