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Italian Pages 576 [574] Year 2005
Francesco
Grelle
DIRITTO E SOCIETÀ NEL MONDO ROMANO a cura
«L'ERMA»
di
Lucia
Fanizza
di BRETSCHNEIDER
FRANCESCO GRELLE Diritto e società nel mondo romano a cura di Lucia Fanizza
© Copyright 2005 by «L'ERMA» di BRETSCHNEIDER Via Cassiodoro, 19 — 00193 Roma
Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione di testi ed illustrazioni senza il permesso scritto dell'Editore
Grelle, Francesco Diritto e società nel mondo romano : scritti di Francesco Grelle / a cura di Lucia Fanizza. - Roma : «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2005. - XVI, 561 p. ; 21 cm. - (Saggi di storia antica ; 26) ISBN 88-8265-324-2 CDD
21.
340.54
1. Diritto romano - Studi
2. Società - Impero romano - Studi I. Fanizza, Lucia
Premessa
Non riesce facile fornire di questi scritti un quadro adeguato alla vastitä ed alla varietä degli interessi che li hanno ispirati. Non cadrö dunque nella tentazione di raccontarli, quasi a voler colmare il vuoto di un mancato quanto inopportuno bilancio; si raccontano da soli proprio perchè segnano i momenti significativi, le tappe o semplicemente 1 transiti di un itinerario intellettuale. Le istituzioni giuridiche nel quadro politico e sociale di riferimento emergono come filo conduttore di un programma, un disegno interiore che si forma in continua osmosi e di pari passo con il tenace impegno speso dall’autore nella politica attiva, nelle sedi sindacali, di
partito o di governo universitario. Una visione larga dei problemi e non solo per l’estensione cronologica in cui le tematiche vengono affrontate: il mondo romano nella sua configurazione più articolata e complessa è fatto oggetto di studi analitici che attraverso gli osservatori prescelti — la disciplina dei costumi, i modi dell’appartenenza alla civitas, gli ambiti di governo territoriale, le classificazioni del suolo, i po-
teri pubblici — svelano processi, scelte, dinamiche più ampie di volta in volta affermatesi, momenti di linee programmati-
che. Metodi rigorosi ma diversi, in campi disparati, connotano questa visione dei problemi, e rivelano l’unità di prospettiva che collega tra loro gli scritti. L'attenzione alle fonti è un segno precipuo di queste ricerche. I dossiers si costruiscono attingendo nelle direzioni più svariate, nel convinto rifiuto di selezioni aprioristiche come di improbabili gerarchie: piuttosto la ricerca dei testi utili per la formazione di una base documentaria che può perciò nella sua ampiezza suggerire V
ipotesi, chiavi di lettura tanto piü convincenti quanto piü siano staccate dalle scelte dell’interprete. I saggi appaiono qui secondo la redazione originale, non sono state introdotte modifiche nel testo; nelle note sono
state adottate in linea di massima le abbreviazioni de L’annee philologique, anche se lo scritto non & stato spersonalizzato e la penna dell’autore si ritrova a volte in talune singolari modalità di citazione. Sergio Alessandri ha controllato con pazienza le fonti e l’indice. Le capacità tecniche di Andreina hanno risolto i problemi che il lavoro al computer protratto per un anno ha ripetutamente posto. LUCIA FANIZZA
Roma 21 maggio 2005
VI
INDICE
Premessa ........2nncnenennensnnnnnesnnnnennneennnnnennsnnnennsnenssannn
Elenco delle pubblicazioni di Francesco Grelle ........
XI
Il patronato nel basso impero (recensione di L. Harmand, Libanius.
Discours sur les patronages,
Paris, 1955)... sse Libanio
ad Antiochia
(recensione
»
di P. Petit, Liba-
nius et la vie municipale à Antioche au IV° siècle aprés J.-C., Paris, 1955)... sese
»
Datio tutoris e organi cittadini nel basso impero .......
»
Munus publicum. Terminologie e sistematiche ..........
»
Obsequium temonariorum e munus temonis ..............
»
Adsignatio e publica persona nella terminologia dei QIOMALICI PRRRRRRRRRE
»
85
»
93
La signoria sul suolo provinciale nella Parafrasi di Teofilo............. iene
»
101
Consoli e datio tutoris in Inst. Iust. 1.20.3.................
»
113
Le relazioni internazionali dei romani (recensione di M. Lemosse, Le régime des relations internationales dans le Haut-Empire Romain, Paris, 1967)....
»
121
I catasti di Arausio (recensione di A. Piganiol, Les
documents cadastraux de la colonie d'Orange, Paris, 1962)...
VII
La giurisdizione municipale in età repubblicana (recensione di A. Torrent, La iurisdictio de los magistrados municipales, Salamanca, 1970) ...................... Recensione. M. Mazza, Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo d.C., Roma-Bari, 1973...
» 141
Recensione. W. Simshäuser, Iuridici und Munizipalgerichtsbarkeit in Italien, München, 1973 ..........
» 146
Recensione. J. Gascou, La politique municipale de l’Empire Romain en Afrique Proconsulaire de Trajan à Septime-Sévère, Roma, 1972.................
» 155
La correctio morum nella legislazione flavia.............
» 163
Stato e province nell'analisi mommseniana: dalla Schleswig-Holsteinische Zeitung alla Rómische Geschichte .................. iene
» 197
Le categorie dell'amministrazione tardoantica. Officia, munera, honores ........eeeeeeeeeeee eee ee eene nennen nennt
L'organizzazione e la disciplina del passaggio nel Lapis Aesinensis...........eeeeeeeeseee esee eene eene nennen
Arcadio Carisio, l'officium del prefetto del pretorio e i munera civilia.................. esee Le dottrine gromatiche nell’opera di Biagio Brugi.... L'appartenenza del suolo provinciale nell'analisi di Gaio 2.7 e 2.21....... iii Città e trattati nel sistema imperiale romano.............. Provinciali e sudditi fra Augusto e Vespasiano: le dottrine giuridiche....................... cesse I poteri pubblici e la giurisprudenza fra Augusto e gli Antonini ..............eeeeeeeeeeeee reete μιν, La forma dell'impero ................................. esses Patroni ebrei in città tardoantiche .............................. L'esegesi dell'edictum de pretiis dioclezianeo e i fondamenti dell'attività normativa imperiale ...... VIII
» 221
Antiqua forma reipublicae revocata: il principe e l’amministrazione dell’impero nell’analisi di Velleio Patercolo ....................... rin L’archeologia dello Stato in Savigny e Mommsen .... I munera civilia e le finanze cittadine ........................ Il senatus consultum de Cn. Pisone patre .................. I giuristi, il diritto municipale e il Codex Gregorianus ... Il titolo De paganis sacrificiis et templis nel Codice di Giustiniano .............. essen
entente
L'ordinamento delle città nel Codex lustinianus: la sistematica e le fonti ..................eeeeeeeeeeeeneeee nenne
IX
PUBBLICAZIONI DI FRANCESCO GRELLE (FINO AL 2003) I saggi inclusi in questo volume sono indicati con asterisco
* Il patronato nel basso impero (recensione di L. Harmand, Libanius. Discours sur les patronages, Paris, 1955) Labeo 4, 1958, 189-196.
Capitatio, Novissimo Digesto Italiano (da ora in poi NNDI) 2, 1958, 914-915. Celibato, NNDI 3, 1959, 83-89. Comitia, NNDI 3, 1959, 601-607. Conciliabulum, NNDI 3, 1959, 962. Concilium (Commune) Provinciae, NNDI 3, 1959, 964-965. Congiarium, NNDI 4, 1959, 89-90. Contio, NNDI 4, 1959, 407-408. Conventus, NNDI 4, 1959, 801-802. Coronarium Aurum, NNDI 4,1959, 853-854. * Libanio ad Antiochia (recensione di P. Petit, Libanius et la vie
municipale à Antioche au IV siècle après J.-Ch., Paris, 1955) Labeo 5, 1959, 226-236. * Datio tutoris e organi cittadini nel basso impero, Labeo 6, 1960, 216-225.
Cronaca. Studi sull’ Alto Medio Evo a Spoleto, Labeo 6, 1960, 150-151. Scheda. S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano, Labeo 6, 1960, 292-293. Cura, NNDI 5, 1960, 46-48. Curatores, NNDI 5, 1960, 55-56. Decuria, NNDI 5, 1960, 308-309. Decuriones, NNDI 5, 1960, 309-311. Diocesi, NNDI 5, 1960, 644-645. Duoviri, NNDI 6, 1960, 325-327.
1959,
XI
Edictum de pretiis, NNDI 6, 1960, 375-376. Glebalis collatio, NNDI 7, 1961, 1136-1137.
* Munus publicum. Terminologie e sistematiche, Labeo 7, 1961, 308-329. Stipendium vel tributum. L’imposizione fondiaria nelle dottrine giuridiche del II e IIT secolo, Napoli, 1963. * Obsequium temonariorum e munus temonis, Labeo 9, 1963, 1-17. * I catasti di Arausio (recensione di A. Piganiol, Les documents cadastraux de la colonie d'Orange, Paris, 1962) Labeo 10, 1964, 427-432. * Adsignatio e publica persona nella terminologia dei gromatici, in Synteleia Arangio-Ruiz, Napoli, 1964, 1136-1141.
In margine alla sentenza sull’obiezione di coscienza, /l tetto 1,2, 1964, 66-68. Azione cattolica e azione politica nell'Università, 11 tetto 1,4-5,
1964, 64-72. Scheda. H. Bengston, R. Werner, Die Vertrige der griechisch-ròmischen Welt von 700 bis 338 v. Chr., München, role e le idee, 23/24, 1964, 348.
1962, Le pa-
Scheda. Ch. Saumagne, Une colonie latine d’affranchis: Carteia (NRHD 40, 1962, 135) Le parole e le idee 23/24, 1964, 349-350. Scheda. V. Bellini, Foeduset sponsio dans l'évolution du droit international romain (NRHD
40, 1962, 509-530) Le parole e le
idee 23/24, 1964, 350. L'obiezione di coscienza e i cattolici italiani. Testimonianze di un dialogo, Il tetto 2,8, 1965, 55-59.
La crisi della JEC e il documento programmatico dell’ Azione Cattolica Italiana, 7I tetto 2,9, 1965, 55-61. (con L. Labruna) L'Università in Europa: l'Ungheria, Nord e Sud 12, 1965, 52-62. Scheda. A.N. Sherwin-White, Roman Society and Roman Law in the New Testament. The Sarum Lectures 1960-1961, Oxford, 1963, Le parole e le idee 27/8, 1965, 298-299. Scheda. H.I. Bell, V. Martin, E.G. Turner, D. van Berchem, The Abinnaeus Archiv, Oxford, 1962, Le parole e le idee 27/8, 1965, 299. Scheda. F. De Visscher, Le droit des tombeaux romains, Milano, 1963, Le parole e le idee 27/28,1965, 299-300.
* La signoria sul suolo provinciale nella Parafrasi di Teofilo, Labeo 12, 1966, 209-218. (con L. Labruna) L'Università in Europa: la Francia, Nord e Sud
12, 1966, 57-65. Scheda. F. Bona, Contributo allo studio del De verborum significatu di Verrio Flacco, Milano, 1964, Labeo 12, 1966, 407.
XII
* Consoli e datio tutoris in Inst. Just. 1.20.3, Labeo 13, 1967, 194-200. * Le relazioni internazionali dei romani (recensione di M. Lemos-
se, Le régime des relations internationales dans le Haut-Empire Romain, Paris, 1967) Index 1, 1970, 321-328.
L'autonomia cittadina fra Traiano e Adriano, Napoli, 1973. * La giurisdizione municipale in età repubblicana (recensione di A. Torrent, La iurisdictio de los magistrados municipales, Salamanca, 1970) Labeo 20, 1974, 125-132. * Recensione. M. Mazza, Lotte sociali e restaurazione autoritaria
nel III secolo d.C. (Roma-Bari, 1973) RFIC 481.
103, 1975, 476-
* Recensione. W. Simshäuser, Iuridici und Munizipalgerichtsbarkeit in Italien, München, 1973, Iura 26, 1975, 144-152.
* Recensione. J. Gascou, La politique municipale de l'Empire Romain en Afrique proconsulaire de Trajan à Septime-Sévére, Roma, 1972, PP 159, 1976, 336-344. * La correctio morum nella legislazione flavia, ANRW 2,16, 1980, 340-365. Una carriera municipale a Canusium, Labeo 26, 1980, 327-335 = Canosa romana, Roma, 1993, 107-118. Canosa: Le istituzioni, la società, in A. Giardina, A. Schiavone (a cura di) Società romana e produzione schiavistica 1, Ro-
ma-Bari, 1981, 181-225 = Canosa romana, Roma, 1993, 51106. Politica e cultura per la ricostruzione del Mezzogiorno, (a cura di F. Grelle, F. Grandolfo), Roma, 1981.
(con A. Giardina) La tavola di Trinitapoli. Una nuova costituzione di Valentiniano I, MEFRA 95, 1983, 249-303 = Canosa romana, Roma 1993, 193-253.
* Stato e province nell'analisi mommseniana:
dalla Schleswig-
Holsteinische Zeitung alla Rómische Geschichte, QS 19, 1984,
81-108. Le epigrafi romane di Canosa, I (a cura di) M. Chelotti, R. Gaeta, V. Morizio, M. Silvestrini, coordinatori F. Grelle e M. Pani,
Bari, 1985. * Le categorie dell'amministrazione tardoantica. Officia, munera,
honores, in A. Giardina (a cura di) Società romana e impero tardoantico
1, Istituzioni, ceti, economie,
Roma-Bari,
1986,
37-56; 634-638. * l'organizzazione e la disciplina del passaggio nel Lapis Aesinensis, Picus 6, 1986, 63-60. Canosa e la Daunia tardoantica, VetChr, 23,1986, 379-397 = Cano-
sa romana, Roma, 1993, 161-179. * Arcadio Carisio, l'officium del prefetto del pretorio e i munera civilia, Index 15, 1987, 63-77.
XIII
* Le dottrine gromatiche nell’opera di Biagio Brugi, Index 16, 1988, 281-297. L’ordinamento territoriale della Peucezia e le forme della romanizzazione, in A. Ciancio (a cura di) Archeologia e territorio: l'area peuceta. Atti del seminario di studi, Gioia del Colle, 1989,
111-116 = Canosa romana, Roma, 1993, 33-47. Iudices e tribunalia nella documentazione epigrafica della regio secunda, in C. Castillo (a cura di) Epigrafia juridica romana, Actos del Colloquio International AIEGL, Pamplona, 116-123 = Canosa romana, Roma, 1993, 181-189.
1989,
La geografia amministrativa della regio secunda e il riordinamento tardoantico, Arti dell’Accademia pugliese delle Scienze 46, 1989, 23-32. La Daunia tra le guerre sannitiche e la guerra annibalica, in G. Uggeri (a cura di) L'età annibalica e la Puglia. Atti del II conve-
gno di studi sulla Puglia romana, Mesagne, 1989, 29-42. Geografia amministrativa, in M. Chelotti. V. Morizio, M. Silvestrini (a cura di), coordinatori F. Grelle e M. Pani, Bari, 1990, . 175-184 = Canosa romana, Roma, 1993, 145-157.
* L'appartenenza del suolo provinciale nell'analisi di Gaio 2.7 e 2.21, Index 18, 1990, 167-183. * Città e trattati nel sistema imperiale romano, in L. Canfora, M. Liverani, C. Zaccagnini (a cura di) / trattati nel mondo antico. Forma ideologia funzione, Roma, 1990, 237-256.
* Provinciali e sudditi fra Augusto e Vespasiano: le dottrine giuridiche, in Gouvernants et Gouvernés dans l'Imperium Romanum. CEA 26, 1990, 137-143.
Scheda. Studies in Roman Law in Memory of A. Schiller, Leiden, 1986, QS 31, 1990, 223-226. * I poteri pubblici e la giurisprudenza fra Augusto e gli Antonini, in M. Pani (a cura di) Continuità e trasformazioni tra repubblica e
principato. Istituzioni, politica, società, Bari, 1991, 249-265. Il municipio, la colonia. La città tardoantica, in R. Cassano (a cura di) Principi, imperatori, vescovi. Duemila anni di storia a Ca-
nosa, Venezia, 1991, 683-691, 821-823. Una nuova iscrizione da Sant' Agata di Puglia, MEFRA
104, 1992,
169-175. (con M. Mazzei) Le città murate della Daunia e una nuova iscrizione da Sant' Agata di Puglia, Taras 12, 1992, 29-55. Struttura e genesi dei libri coloniarum, in O. Beherends, L. Capo-
grossi Colognesi (hrsg.) Die rómische Feldmefkunst. Interdisciplinüre Beitrüge zu ihrer Bedeutung für die Zivilizationsgeschichte Roms, Göttingen, 1992, 67-85. * La forma dell’impero, in Storia di Roma diretta da A. Schiavone 3,1, L'età tardoantica. Crisi e trasformazioni, Torino, 1993, 69-82.
XIV
Canosa romana, Roma, 1993. *Patroni ebrei in cittä tardoantiche, in M. Pani (a cura di) Epigrafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità romane III,
Bari,1994, 139-158. (con G. Volpe) La geografia amministrativa ed economica della Puglia tardoantica, in C. Carletti, G. Otranto (a cura di) Culto e
insediamenti micaelici nell'Italia meridionale fra tarda antichità e medioevo, Atti del convegno internazionale di studi, Bari, 1994, 15-81. La centuriazione di Celenza Valfortore, un nuovo cippo graccano e la romanizzazione del Subappennino dauno, Ostraka 3, 1994,
249-258. * L’esegesi dell'edictum de pretiis dioclezianeo e i fondamenti dell’attività normativa imperiale, Annali di storia dell’esegesi 12,
1995, 253-260. . La parabola della cittä, in M. Mazzei (a cura di) Arpi, l’ipogeo della Medusa e la necropoli, Bari, 1995, 55-72.
Ordinamento municipale e organizzazione territoriale della Puglia romana, in A. Storchi Marino (a cura di) L'incidenza dell’antico, St. Lepore 1, Atti del Convegno Internazionale, Napoli, 1995, 241-260. * Antiqua forma reipublicae revocata: il principe e l’amministrazione dell’impero nell’analisi di Velleio Patercolo, in F. Milaz-
zo (a cura di) Res publica e princeps, Atti del Convegno Internazionale di diritto romano, Napoli, 1996, 323-341.
* L’archeologia dello stato in Savigny e Mommsen, in B. de Gerloni (a cura di) Problemi e metodi della storiografia tedesca contemporanea, Torino, 1996, 133-142.
(con G. Volpe) Aspetti della geografia amministrativa ed economica della Calabria in età tardoantica, in M. Pani (a cura di) Epi-
grafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità romane IV, Bari, 1996, 113-155. Un mecenate greco a Canosa, in R. Cassano, R. Lorusso Ronito,
M. Milella (a cura di) Andar per mare. Puglia e mediterraneo tra mito e storia, Bari, 1998, 245-248. * I munera civilia e le finanze cittadine, in 1 capitolo delle entrate nelle finanze municipali in Occidente e in Oriente. Actes de
la Xe rencontre franco-italienne sur l’épigraphie du monde romain, Roma, 1999, 137-153. Forme insediative, assetto territoriale e organizzazione municipale nel comprensorio del Celone, in Atti del 17° convegno nazionale sulla preistoria, protostoria, storia della Daunia, San Severo, 1999, 387 = M. Pani (a cura di) Epigrafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità romane V, Bari,
1999, 77-96. XV
(con M.Silvestrini) P.Babullius C.F.H[or] Sall[uvius...] e la dedu-
zione delle colonie nel principato, in Atti dell'XI congresso internazionale di epigrafia greca e latina, Roma, 1999, 181-191. Ordinamento provinciale e organizzazione locale nell'Italia meridionale, in L'Italia meridionale in età tardoantica. Atti del XXXVIII convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto, 1999, 115-139. La formazione dell’identità regionale, in A. Massafra, B. Salvemini (a cura di) Storia della Puglia, 2, Bari, 1999, 1-9. * Il senatus consultum de Cn. Pisone patre, SDHI 66, 2000, 223-
230. L’epigrafe in onore di Frode Attico conservata a Stoccolma, in G. Paci (a cura di) Epigraphai. Miscellanea epigrafica in onore di Lidio Gasperini, Roma, 2000, 455-462.
(con M. Silvestrini) Lane apule e tessuti canosini, in M. Pani (a cura di) Epigrafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità romane VI, Bari, 2001, 91-136.
Hannibal's Legacy trent'anni dopo, in E. Lo Cascio, A. Storchi Marino (a cura di) Modalità insediative e strutture agrarie nell’Italia meridionale in età romana, Bari, 2001, 27-31, 649-654.
* I giuristi, il diritto municipale e il Codex Gregorianus, in Juris Vincula. St. Talamanca, 4, Napoli, 2002, 317-342.
L'ordinamento della Puglia tra la guerra annibalica e la guerra sociale, in S. Alessandrì, F. Grelle (a cura di) Dai Gracchi alla fi-
ne della repubblica. Atti del V convegno di studi sulla Puglia romana, Galatina, 2002, 19-30. * Il titolo De paganis sacrificiis et templis nel Codice di Giustiniano, VetChr 39, 2002, 61-67. * [ordinamento delle città nel Codex Iustinianus: la sistematica e le fonti, in J.-M. Carrié, R. Lizzi Testa (a cura di) Humana
sapit. Etudes d’antiquité tardive offertes à Lellia Cracco Ruggini, Tournai, 2002, 405-409. * Ad municipalem, Labeo 49, 2003, 32-48.
XVI
Il patronato nel basso impero*
1. L'esortazione che il Palanque! aveva rivolto, nel 1943,
agli storici del mondo tardoromano, invitandoli ad un attento riesame delle opere retoriche del IV secolo per una piü profonda comprensione dello spirito dell'epoca, ha trovato eco, a dodici anni di distanza, nel commento dell
Harmand
al Περὶ τῶν προστασιῶν, di Libanio (Or. 47). All'invito lo Harmand si rifà esplicitamente nella premessa al suo studio
dal titolo Libanius. Discours sur les patronages (Paris, 1955) che, riproponendo all'attenzione degli studiosi i problemi del De Patrociniis, attesta, colla mirabile analisi che il Mazzarino di recente ha dato del De Rebus Bellicis nei suoi “Aspetti”, e col saggio in data 1955, ma apparso solo qualche mese fa, del Petit”, un interesse nuovo per questa lette-
ratura politica tanto spesso, a torto, ignorata. L’orazione, come è noto, è tra le più conosciute del retore antiocheno: da quando nel XVII sec. Gothofredus? ne rilevò per primo il valore documentario per la storia del Basso Impero, essa ha continuato a suscitare l’interesse degli studiosi, che hanno cercato anche, con varia fortuna, di chiarire
* Labeo 4, 1958, 189-196 ! J.-R. PALANQUE, Du Bas Empire en général, in Memorial des Etudes Latines, 1943.
? S. MAZZARINO, Aspetti sociali del IV secolo, 1951; P. PETIT, Libanius et la vie municipale à Antioche au IV? siècle après J.-C., 1955. ? J. GOTHOFREDUS, Libanii sophistae seu oratoris Antiocheni orationes IV, 1632.
le incognite che in molti punti presenta. Ora Harmand raccoglie le opinioni che Gothofredus, Le Nain De Tillemont, Juster, Martroye, de Zulueta, Rostovtzeff sono venuti elaborando nei secoli, accettandole criticamente o respingendole,
ed in ogni caso integrandole con i dati della più recente indagine archeologica, filologica e papirologica, in un commento organico, certo discutibile nelle sue singole parti, ma
indubbiamente di grande utilità. 2. Premessa tario dei retori espressa già da mand riproduce
una breve introduzione sul valore documendel IV Secolo (l'A. richiama l'opinione Piganiol* a proposito dei panegiristi), Haril testo critico del II. τ. π. fissato da Foerster
per l'edizione di Teubner, con alcune piccole varianti, corre-
dandolo di una breve analisi ed una lunga traduzione, non sempre fedele al testo. Il commento si articola in sei capitoletti ed una conclusione, da p. 46 a p. 206. Nel primo capitolo l’A. affronta il problema della datazione del discorso e quello della localizzazione del latifondo del retore, che fa da scena all'episodio richiamato nel $14;
analizzati accuratamente tutti i possibili elementi di datazione che l'orazione presenta e criticate minuziosamente le opinioni che si dividono il campo, Harmand conclude identificando l'imperatore ricordato al $35 con Teodosio? e riconoscendo in Cod. Theod. 9.33.1 la disposizione che questi avrebbe emanata per reprimere il patronato dei militari e che Libano chiede sia richiamata in vigore.
L'orazione sarebbe stata composta perció tra il 384, data della costituzione, ed il 392, anno in cui si presume sia mor-
to il retore. Nei caratteri paesistici della campagna del IT. τ. x. egli crede infine di poter ritrovare 1 tratti del contado di Antiochia e di poter quindi affermare che il latifondo doveva trovarsi nei pressi della città. Dalla determinazione dei limiti cronologici e territoriali del discorso, l'A. passa, col Il cap., all'esame del mondo
spirituale del retore: egli ne sottolinea pertanto le credenze religiose, animate da un senso profondo della provvidenza,
^ A. PIGANIOL, Histoire de Rome,
1939, 455.
> L’A. riprende una vecchia tesi già avanzata da Gothofredus e condivisa oggi dalla maggior parte della dottrina.
2
che attesta quanto piena ormai fosse l’assimilazione di motivi cristiani da parte del neoplatonismo pagano, l’avidità di ricchezze, il geloso attaccamento ai privilegi acquisiti (il timore di vedersi soppiantare dal patrono militare nei diritti che accampa sui contadini è l’anima del discorso), la solidarietà di classe per i curiali, la profonda orgogliosa coscienza della funzione dei retori, depositari del retaggio culturale del passato, nella vita dello Stato, l'umana comprensione che ne illumina le parole, ed infine l'ostilità profonda, che serpeggia in tutta la sua opera, per burocrati e militari. Completa l'analisi una breve indagine sulle idee politiche, il concetto di Stato e la giustificazione del potere imperiale (cap. III).
Naturalmente la ricerca non si limita ai dati ricavabili dal IL τ. π., insufficienti da soli a puntualizzare pensieri ed atteggiamenti di Libanio, che può ritenersi, nella sua mancan-
za di slanci creativi e nell'acquiescenza alle opinioni comuni, specchio fedele della società colta del tempo, ma attinge ampiamente a tutta la copiosa produzione sua, inquadrandola nella fervida vita spirituale del secolo e sottolineandone i punti di contatto con l'opera di Temistio, di Giuliano, di S. Giovanni Crisostomo. Ma l'interesse del II. τ. x. è soprattutto nei problemi sociali che affronta e ci ripropone con immediatezza drammatica: proprietari, contadini liberi, contadini ormai legati alla terra che coltivano, burocrati si agitano sullo sfondo della
questione dei patronati in uno scritto che ha il vantaggio, nei confronti delle opere coeve, di riunire intorno ad un unico problema tutti gli elementi della vita provinciale tardo-romana. La contrapposizione tra potenti, detentori di δύναμις, ed umili che cercano appoggio presso di essi rivive nel IV cap.: l’A. sottolinea la lotta sorda tra i curiali proprietari di terre da un lato ed i burocrati ed i militari dall'altro, per imporre la propria supremazia ai contadini, e la contrapposizione che nelle strutture amministrative locali si viene determinando tra κῶμαι μεγάλαι (vici di contadini liberi solida-
mente responsabili per l'imposta, facile preda delle lusinghe dei militari) e ἀγροὶ οἷς εἰς ὁ δεσπότης (latifondi coltivati da contadini sui quali sempre piü grava la mano del padrone) ed indugia infine nella descrizione della vita quotidiana di questi proprietari terrieri, divisi tra città e campagna, e di questi soldati legati alle terre che difendono da vincoli di origine oltre che di solidarietà sociale.
Precisato l’atteggiamento di Libanio verso i patronati, atteggiamento di ostilità assoluta quando l’istituto significhi una limitazione dei poteri del dominus, ma di riconoscimento della sua necessità se esso si traduca in un rafforzamento di quei poteri stessi (cap. V), l'A. esamina, nel cap. VI, i problemi giuridici che il II τ. x. propone: il fondamento dell’azione intentata dal retore contro i suoi contadini, problema questo strettamente connesso con quello della posizione dei contadini nei confronti dei proprietari di terre nella Siria del IV sec., la procedura seguita, il tribunale adito. Infine, concludendo, l’A. accetta il giudizio negativo che
Libanio dà dei patronati, facendolo proprio. 3. Il commento può idealmente scomporsi in tre parti, la prima dedicata ai problemi filologici, la seconda alla ricerca politico-sociale, la terza alle questioni giuridiche. Ricco di citazioni testuali e di un’abbondante bibliografia (non priva però di gravi lacune: tra l’altro lA. ignora lo studio del Mazzarino sugli aspetti sociali del quarto secolo, l’analisi che l'Alfóldi ha nel 1952 dedicato al contrasto tra senato ed imperatore nell’età di Valentiniano I, la nota del Baynes alla storia del Rostovtzeff$, ecc.) si presenta sensibilissimo ai problemi di storia sociale, accurato, ma non sem-
pre, nell’indagine filologica, sommario e confuso nella ricerca giuridica. (a) Determinare gli elementi oscuri del discorso — la da-
ta, la disposizione misteriosa ricordata al ὃ 35, la regione in’ cui si estendeva il latifondo del retore — potrebbe sembrare mera ricerca erudita, fine a se stessa; in realtà essa presenta
un profondo interesse per lo storico, in quanto la delimitazione territoriale e la determinazione cronologica dei fenomeni illustrati dal IT. τ. x. permetterebbe di delineare con maggior precisione le fasi dell’evoluzione del patronato e del colonato nelle province d’Oriente (fatta eccezione per Cod. Theod. 11.24.1 non ci sono pervenute disposizioni sui patronati militari; d’altra parte l’orazione dà un quadro dei rapporti tra contadini e proprietari notevolmente diverso da
6 in the Army 1955,
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S. MAZZARINO, Aspetti sociali, cit.; A. ALFÖLDI, A Conflict of Ideas Late Roman Empire, 1952; N.-H. BAYNES, The Peasantry and the in the Third Century, JRS, 19, 1929, 229 ss. = Byzantine Studies, 307 ss.
quello che tradizionalmente la dottrina configura, in base ad alcune disposizioni del Cod. Theod., si che sarebbe necessario determinare entro quali limiti le attestazioni del Codice siano valide per la Siria del IV sec.). Purtroppo però, se l’attribuzione del discorso all’età di Teodosio sembra piuttosto attendibile, vani si rivelano gli sforzi degli studiosi per attribuire un qualche significato concreto ai vaghi riferimenti all'imperatore τὸν σβέσαντα μὲν τυραννίδα, στήσαντα δὲ Σκυθικὴν φλόγα del $ 35: né mi sembra che miglior successo arrida ai tentativi dell’Harmand. Tanto meno sembra possibile riconoscere Cod. Theod. 9.33.1 nella misteriosa disposizione sui patronati: la costituzione è diretta a reprimere i tumulti popolari, come ben vide l’interprete visigoto; plebs, d’altra parte, non indica, come ritiene l’A., esclusivamente la plebe rustica, ma
anche gli strati più umili della popolazione urbana; il termine torna 27 volte nel Cod. Theod. ma solo in 4 casi ha il significato esclusivo di contadiname, due in connessione con domini e possessores e due in unione a rustica. Inoltre la
disposizione è nel Cod. Iust. riportata proprio sotto il titolo de seditiosibus, con una di Leone che sancisce gravi pene per coloro che provocassero disordini nelle città. La costituzione cui il retore si riferisce deve quindi considerarsi perduta, come
già concludeva il Tillemont, o, al più, essere
identificata con quella Cod. Theod. 11.24.1 che reprime i patronati dei militari in Egitto, ma che, essendo diretta al
prefetto del pretorio, ebbe probabilmente portata molto più vasta: in tal caso, bisognerebbe però ammettere che il destinatario dell’orazione non è l’autore della disposizione. Alla localizzazione del latifondo nei pressi di Antiochia mi sembra infine ostare la presenza di contingenti di limitanei, giustificata, in modo
non certo soddisfacente, dall’H.
con una pretesa ritirata degli stanziamenti romani verso l’Oriente, di cui non trovo traccia nelle fonti. (b) Sottolineato l’eccezionale valore che l’orazione ha
per la storia sociale tardo-romana, l’A. nei capitoli centrali del suo commento ricerca i diversi interessi che nel problema dei patrocini convergono e li individua in quelli contrastanti dei proprietari terrieri e dei militari, dei curiali e dei contadini. Profondamente influenzato dall’opinione di Rostovtzeff, che aveva visto nel II. τ. x. documentato per il IV sec. quel contrasto tra città e campagna che egli aveva posto come fon5
damento della sua interpretazione della grande crisi del terzo secolo, l’A. complica il quadro delineato dallo storico russo rilevando, accanto ai moventi di ordine sociale che spingono i contadini verso i militari, il carattere politico del conflitto tra
curiali e strateghi, quasi antagonismo tra potere civile e militare: i militari che offrono il loro appoggio ai contadini, attirandosi l’odio dei proprietari minacciati nei propri interessi, sono anch'essi dei latifondisti, o almeno sono sul punto di diventar-
lo. L'appoggio da essi prestato ai coloni non è solo dettato da solidarietà di classe, ma, e soprattutto, dall’aspirazione a sosti-
tuirsi ai vecchi proprietari, ad assorbire nella propria orbita i contadini: una feroce rivalità divide le vecchie famiglie curiali e questi proprietari di fresca data, feudalità militare in formazione. In questa luce 1° A. riesce a spiegarsi anche il contrasto tra disposizioni come Cod. Theod. 1.14.1 e le attestazioni del II. τ. x.: i militari si sentono autonomi nei confronti della burocrazia imperiale e le disposizioni emanate dagli organi centrali, essendo morte sul nascere, non danno alcuna luce sui
reali rapporti tra contadini e soldati. L’analisi del mondo spirituale in cui il II. τ. x. nacque e del quale fu espressione tra le più significative, conferma, per la Siria del IV secolo, l’esistenza di una profonda frattura tra campagna e città, già rilevata nell’opera famosa del Rostovtzeff, e sottolinea anche la parallela antitesi tra burocrazia imperiale ed aristocrazie cittadine che l’Alföldi, avendo soprattutto lo sguardo ai rapporti tra senato romano ed imperatore durante il regno di Valentiniano I, aveva delineato. Non altrettanto riuscito mi sembra il tentativo dell'A. di caratterizzare in senso protofeudale e fondiario il patronato dei militari: le affermazioni dell’H., inserite a forza nel com-
mento in quanto non hanno alcun fondamento nelle parole di Libanio, non sembrano trovare conferma nelle fonti che
ricordano il rigoglioso fiorire della vita urbana almeno in Oriente, durante il IV secolo; né certo in senso feudale può
interpretarsi la trasformazione dei limitanei in contadini-soldati, tentata all’inizio del secolo seguente da Teodosio II,
ché anzi essa ebbe proprio un profondo carattere antilatifondistico e piccolo-contadino, o l'assorbimento da parte dei funzionari militari di poteri civili che, sotto la spinta di varie esigenze, ora con l’appoggio ora ostacolato dal governo centrale, si veniva maturando. (c) Come è noto, Libanio inserisce nella sua polemica sui
patronati un episodio personale: dei suoi contadini, stanchi di 6
essere quello che erano, si ribellarono al padrone, chiedendo di coltivare 1 fondi loro affidati a proprio arbitrio. Il retore li citò in giudizio, ma essi, forti dell’appoggio di uno stratega che ne aveva assunto il patronato, ebbero causa vinta. Qual fosse la natura del rapporto controverso, ed in forza di quali norme potesse Libanio chiedere la condanna dei riottosi hanno cercato di determinare, già da molti anni, il de Zulueta, il Martroye e lo Juster, concludendo infine col sot-
tolineare il carattere pubblicistico del vincolo che lega i contadini al dominus e di cui L. chiede il riconoscimento al giudice. Harmand riesamina le loro teorie e rileva, accanto ai
pubblicistici, gli elementi privatistici del rapporto: il retore avrebbe invocato contro i suoi contadini il principio che vietava a chiunque di abbandonare il proprio status, o la violazione dell’obbligo che li legava al padrone (obbligo che sarebbe scaturito da un’obligatio verbis degli avi dei contadini attuali, trasformatasi in rapporto consuetudinario) ed infine il reato di danneggiamento verso il dominus. Ma un crimine generico di abbandono del proprio status non esiste nel Basso Impero:
l’affermazione dell’A., non
corredata da fonte alcuna, è espressione tipica di quell’opinione che nello Stato romano-bizantino vede l’esasperazio-
ne dei vincoli di classe e la trasformazione di queste in caste, preconcetto continuamente smentito dalle testimonianze coeve. Il Cod. Theod. punisce invece, ed in vario modo,
e
con attenuazioni ed inasprimenti che si inquadrano nella politica sociale dei singoli sovrani, avendo soprattutto di mira l’interesse fiscale dello Stato, i decurioni che si sottraggono ai loro compiti, ed i figli dei veterani che sfuggono alla milizia, ed i coloni che abbandonano la terra.
Ma nel II. τ. 1. non è questione di abbandono di terre: i coloni di Libanio continuano a coltivare i loro fondi, pur riconoscendo di non esser tenuti ad obbedire al dominus. Un rapporto privatistico deve aver legato quindi il retore ai contadini, ma certo per esso non può parlarsi di obligatio verbis stipulata dagli avi dei coloni attuali ed estesa consuetudinariamente ai loro discendenti: è assurdo pensare ad un’obligatio verbis che si rinnovi tacitamente, né mi sembra che dopo quattro generazioni il vincolo stipulato dagli avi possa aver ancor legato i discendenti, in conseguenza della trasmissione ereditaria dell’obbligazione. Non merita critica il crimine di danno cui fa cenno l’autore alla fine del suo discorso: nessuna fattispecie riferibile 7
al danno iniuria datum & ravvisabile invero nel comportamento dei contadini. Ma un riesame del testo può forse chiarire almeno in parte il problema: l’origine della controversia è nella pretesa di non voler più esser ciò che erano e voler coltivare i fondi a proprio arbitrio; a tale richiesta Libanio replica col chiamare in giudizio i riottosi. E probabile che molto egli si aspettasse dalla sua posizione di membro influente della curia, e ad un ossequio verso i potentiores, che va oltre le intenzioni del destinatario, potrebbe attribuirsi lo arresto preventivo di una
parte dei coloni; ma è indubbio che un qualche appiglio alla sua tesi la legislazione dell’epoca dovesse offrirlo. L’intervento dello stratega inverte 1 rapporti di forze che si urtano dietro la maschera del processo ed i contadini riescono vincitori: ma anche in questo caso il giudice avrà ben dovuto giustificare il suo operato. Ora che i contadini fossero liberi affittuari secondo il giudice’, e coloni asserviti al dominus secondo Libanio, è possibile solo se si ammette che il fon-
damento del loro vincolo col dominus sia stato in origine in un rapporto privatistico, forse consuetudinario (ma che comunque non ha nulla a che fare con l’obligatio verbis) e che Libanio invochi invece le disposizioni sul lavoro e lo status dei coloni, intervenute nel frattempo. Libanio ed i suoi contadini parlano insomma due lingue diverse, e gli uni cercano di resistere all’assorbimento, difendendo il carattere privatistico del rapporto — la Siria del IV sec. conosce accanto ai coloni legati alla terra numerose forme di rapporti in cui tale legame non c’è — l’altro vuol trarre il massimo partito da una legislazione che, costretta da esigenze fiscali, riconosceva uno stato di fatto ormai perdurante da gran tempo, dando così ai proprietari terrieri lo strumento giuridico per il raggiungimento delle loro mire. Quali disposizioni in particolare invocasse il retore a sostegno della sua tesi e soprattutto di quali mezzi processuali si avvalesse per tutelare questo rapporto di patronato così estraneo al mondo giuridico romano-classico, e così difficile pertanto ad inquadrare negli schemi processuali preesistenti che le scuole e la legislazio-
7 In questo senso deve aver deciso la sentenza, dal momento che il ti-
tolo per il quale la prestazione viene compiuta, non la prestazione stessa né la proprietà dei beni in relazione ai quali essa si compie, & oggetto della controversia.
ne postclassica sembrano aver conservati sia pur con mutato valore, è difficile dire. Fino alla fine del IV sec. la legislazione imperiale, se concede al dominus del fondo di chiede-
re la restituzione del colono fuggitivo, tace i mezzi attraverso i quali la restituzione stessa può esser richiesta; nel 400 Arcadio ed Onorio applicano al colono il procedimento sommario che ha sostituito l'utrubi e che ne conserva il nome (Cod. Theod. 4.23. 1) assimilando in tal modo i coloni ai
mancipia vaga. E probabile che l'analogia si spingesse ormai fino al punto da usare della vindicatio in servitutem anche per il colonato (una quaestio colonatus è ricordata in Cod. Theod. 12.19.2). D’altra parte non bisogna dimenticare che la prassi orientale aveva escogitato una generale actio extra ordinem cognitionis (P. Leipz. 33) che avrebbe potuto, credo, contenere facilmente la pretesa di Libanio?. Non condivido l’identificazione del giudice del II. τ. x. con un magistrato municipale locale: i magistrati dei villaggi non hanno competenze giurisdizionali proprie; d’altra parte, se sembra accertato che i funzionari municipali hanno ancora nel IV sec. conservato funzioni giurisdizionali — ma i limiti ed il fondamento e l’estensione di esse vanno ancora indagati —, mai
tornano
nelle costituzioni imperiali per le
questioni relative ai rapporti tra contadini e padroni altri giudici che i presidi. Piuttosto che innanzi al praeses stesso il giudizio sembra si sia svolto innanzi ad uno dei pedanei di questi: difficile riesce infatti immaginare così prono ai voleri del retore prima, dello stratega poi, il preside della provincia, mentre molto più facilmente si spiega il gioco delle influenze e la trepida cura con cui il magistrato cerca di giustificare il suo operato se si pensa ad un giudice scelto tra i maggiorenti del luogo. Sforzato infine appare il tentativo di delineare attraverso il racconto di Libanio le varie fasi del procedimento per postulatio simplex. 4. L'Harmand,
concludendo
il suo commento,
crede di
poter accogliere il giudizio che già Libanio dava dei patronati: l’istituto non è stato altro che fonte di rovine per lo Stato, causa di diminuzione dell’autorità degli organi statali, di
8 P. COLLINET, La nature des actions des interdicts et des exceptions dans l' oeuvre de Justinien, 1947, 57.
disordine sociale, di rivoluzione del regime fondiaria: in definitiva, un «fait redoutable».
Ma l'opera di Libanio non è che la testimonianza di uno stato d'animo, quello dei proprietari terrieri d'Oriente, arroccati a difesa delle loro posizioni di privilegio, e come tale va accolto: interessantissimo documento di vita sociale, ma non certo opera di storico. Lo storico invece, che voglia spiegarsi il fenomeno dei patronati, non potrà non riconoscere in essi una esigenza profondamente sentita in quest’epoca e che trapela anche attraverso le parole del retore, l’assicurare cioè alle classi umili la tutela dei propri interessi contro il prepotere delle abbienti: esigenza che trova profonda risonanza anche nella legislazione degli imperatori più sensibili alle istanze del proletariato rurale, che ai patroni terrieri, ai patroni in funzione antistatale, cercano di con-
trapporre i patroni funzionari di stato, i defensores.
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Libanio ad Antiochia*
1. Gli scritti di Libanio sono una delle fonti più vive ed interessanti per la storia dell’organizzazione municipale nella Siria del IV sec.: curiale per tradizioni familiari, formazione spirituale, censo, ma esonerato dai munera grazie alla sua professione, il retore partecipò attivamente, anche se in posizione di favore, alla vita pubblica di Antiochia per oltre 40 anni condividendo aspirazioni e timori di quell’ordo cui
da tanti vincoli era legato, facendosi portavoce nelle orazioni dello stato di disagio che la classe attraversava, riflettendone i bisogni nelle epistole. La città anzi, nei suoi multiformi aspetti, con i suoi contrasti e le sue difficoltà, fiorente economicamente ma minata da
un male inguaribile, la trascuranza per le tradizioni, agli occhi di questo epigono dell’ellenismo, è la vera protagonista di gran parte delle opere libaniane. Tale senso profondo della civilitas urbana! suona riaffermazione nello stesso tempo di quei valori culturali che nel libero sviluppo delle autonomie municipali avevano trovato completa espressione, e dell’ideale politico-sociale dei ceti curiali che mal sopportano il sempre più completo inserimento nell’ordinamento burocratico dello stato. Ed in esso il Petit (P. PETIT, Libanius et la vie municipale à Antioche au IV? siècle après J.-C., 1955) crede di
poter ravvisare il leit-motiv del pensiero politico del retore. * Labeo 5, 1959, 226-236. ! Comune a tanti esponenti dell'ultima letteratura romana pagana, da Ausonio a Rutilio Namaziano, ad Ammiano Marcellino. La crisi della scuola nel IV sec. d.C., 1952, 66 ss.
Cfr. M. PAVAN,
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Rivive in Libanio la lotta quotidiana per la difesa delle tradizioni cittadine”, venata di profonda amarezza per l'indifferenza dei giovani e l’ostilità dello Stato, che si traduce, poi, in incomprensione per le esigenze nuove, culturali e sociali, ed in incondizionata adesione al tentativo di restaura-
zione giulianeo. Condotta su un piano sociale più ancora che religioso, la difesa accomuna il retore antiocheno agli esponenti del circolo classicheggiante romano in una astiosa polemica sotterranea colla burocrazia, strumento della politica imperiale e bersaglio dell’animosità di tutti i ceti curiali dell’impero, i quali nel comune pericolo per i propri interessi di classe superano anche l'antagonismo cristiano- -pagano?. La vita municipale di Antiochia, che assorbe ed esaurisce quella dell'ordo, appare pertanto colta da una particolare prospettiva, deformata dai preconcetti con cui i curiali sentivano e vivevano le profonde trasformazioni coeve: ma proprio in questo carattere di testimonianza parziale e polemica della crisi di una classe, che non riesce a trovare in sé altra
ragion d'essere se non quella della sterile custodia di un retaggio culturale immune da ogni trasformazione, è l'interesse più profondo di questi scritti: si spiega in tal modo la sensibilità nuova degli storici contemporanei per essi. Ammirato ed imitato dai bizantini prima, dagli umanisti poi come maestro di eleganze stilistiche*, Libanio fu scoperto alla storiografia sul Basso Impero dal Gothofredus, che scrisse un accurato commento storico-giuridico a quattro sue
orazioni nel 16327; difficoltà di ordine filologico, però”, ed il disinteresse per il momento sociale nella storia dell’impe-
? Proprio sul conservatorismo dei ceti curiali Giuliano fonda la sua politica di restaurazione. 3 Così in Antiochia cristiani e pagani appaiono uniti contro Gallo prima, Giuliano poi (P. PETIT, Libanius et la vie municipale à Antioche au IV? siècle après J.-C., 1955, 212 ss., 236 ss.). A Roma, si crea durante il regno di Valen-
tiniano I una strana solidarietà tra clero cristiano ed aristocrazia senatoria (A. ALFÖLDI, A Conflict of Ideas in the Late Roman Empire, 1952, 83 ss.
^ Celebre è la falsificazione delle sue orazioni da parte dell'umanista bolognese Zambeccari nel XV sec.). J. GOTHOFREDUS, Libanii sophistae seu oratoris Antiocheni orationes IV, 1632.
$ Fino all'inizio del ?700 mancò una raccolta delle epistole. La prima edizione delle opere sue condotta con intenti critici è del Reiske e risale alla fine del XVIII sec. Solo all’inizio del nostro secolo poi è stata completata l’edizione critica del Foerster che abbraccia tutti gli scritti di Libanio.
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ro romano-bizantino, ne resero la conoscenza superficiale ed incompleta fin oltre la metä dell’Ottocento, quando una vera fioritura di ricerche prosopografico-erudite sull’argomento trovö il suo clima spirituale nella storiografia positivistica, per culminare, poi, nello studio del Seeck'. 2. Di questa storiografia sembra avvertire la suggestione questo bel saggio del Petit, per il rigore scientifico nella ricerca e nell’analisi dei dati, la malcelata simpatia per il metodo statistico nella loro valutazione, pur sempre, però, controllato e sorretto da un vigile senso storico, l’interesse per lo studio prosopografico della società antiochena, la sistematica stessa dell’opera, che tende ad incasellare i risultati delle singole indagini in uno schema, piuttosto che a cogliere la vita municipale nella sua dinamica. Ed, invero, non è
facile sottrarsi a suggestioni di tale genere quando si opera in un campo, come questo degli studi su Libanio, in cui alla abbondanza dei materiali si accompagna la scarsezza o l’inesistenza degli strumenti di lavoro (mancano indici e vocabolari, manca una prosopografia del Basso Impero e quella stessa del Seeck® è incompleta ed insufficiente per l’ordo di Antiochia), così da imporre allo studioso di essere, prima ancora che storico, sistematore erudito dei dati. Difficoltà
intrinseche allo stile del retore — il suo atticismo e l’antipatia per i termini del vocabolario giuridico-amministrativo romano — rendono su questo piano ardua l’opera di chi si accinga a ricostruire i tratti della vita amministrativa di Antiochia attraverso la sua testimonianza. Con un paziente lavoro di analisi, condotto su tutti gli scritti di Libanio, il Petit ha escerpito, da 51 orazioni e 90
epistole, oltre quattrocento attestazioni inerenti alle istituzioni, alla società, all’economia antiochene, e le ha interpretate
e commentate, riunendole in uno schema forse un po’ troppo rigido (istituzioni, problemi della vita municipale, rapporti tra stato e città, vita politica, società e città)”, ma che costi-
tuisce uno strumento di lavoro prezioso per chi non sappia o 7 O. SEECK, Die Briefe des Libanius zeitlich geordnet, 1906. ® L’opera citata accoglie un Basso Impero. ? Vedi i titoli delle cinque Les grands problémes de la vie dans la vie municipale; IV - La
vero e proprio saggio di prosopografia sul parti: I - Les institutions municipales; II municipale; III - Les problémes impériaux vie politique; V - Société et cité.
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non possa muoversi nel pelago dell’opera libaniana con l’abilità dell’A. e completa, integrandole in relazione ad un tema particolare, le ricerche del Seeck. Gli indici amplissimi che corredano il volume (ben sette), e le cinque appendici ne sottolineano il carattere di sussidio indispensabile per lo studio delle istituzioni municipali tardo-romane. Le omissioni, che altri ^ ha voluto segnalare nelle ricer-
che prosopografiche sull'ordo antiocheno (App. I), appaiono assolutamente irrilevanti nei confronti di un'opera di tanta mole e di cosi vasto respiro. 3. Il Petit, infatti, della ricerca erudita fa solo il presupposto per lo studio del concreto atteggiarsi nello spirito del retore dei problemi che la vita municipale pone; ed & evidente, nella sua cura per il momento sociale del fenomeno urbano, il ricollegarsi ad una tendenza viva nella storiografia contemporanea, che dall'analisi di Libanio muove per una più profonda comprensione del mondo municipale romano-
bizantino!!.
Il saggio procede di pari passo nella determinazione degli elementi strutturali della città nel IV sec. e nell'esame del pensiero di Libanio nei loro confronti, rilevandone le ostilità per il nuovo e l'avversione per determinati ceti o classi, o illustrandone le giustificazioni del potere imperiale. Tale analisi si inserisce in un generale panorama del mondo cittadino nell'oriente romano, che I’A. traccia integrando le
attestazioni del retore con quelle di scrittori coevi anch'essi legati, sia pure solo in via di contrasto, coll'ambiente cultu-
rale siriaco, e precisandole in relazione alla politica legislativa imperiale, grazie ai dati del Cod. Theod. L'indagine si allarga cosi a vera storia municipale delle province d'Asia, con generalizzazioni forse a volte un pó troppo affrettate per chi consideri quanto lontana dal quadro accademico di una uniformità costituzionale appaia la condizione delle città nel Basso Impero, attraverso le stesse fonti giuridiche, anche se
innegabili sono, d'altra parte, le tendenze alla omogeneità. ΓΟ JRS 47, 1957, 237 ss., il NORMAN (rec. a Petit) rileva che mancano dalle liste prosopografiche dell'appendice I i nomi di Germano (or. 27. 42), Melesippo (or. 28. 24), Eusebio (or. 54. 73). !! Ad esempio le opere di RosTOVTZEFF, PACK, ROBERT, PAVAN, MAZZARINO, ricordate nell'amplissima bibliografía del volume (ne ometto pertanto le indicazioni bibliografiche).
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Individuato nello spirito civico il motivo dominante della problematica politica di Libanio — espressione tipica dello stato d’animo della classe curiale — il problema della civiltà urbana nel mondo romano-bizantino si precisa all’A. in problema dei rapporti tra curiali e città e della sopravvivenza di quello spirito o della sua crisi e scomparsa. Nell’ Antiochia di Libanio la continuità spirituale della classe curiale appare con carattere di particolare evidenza: prendendola a paradigma delle città dell’oriente il Petit giunge da essa ad una valutazione complessiva del fenomeno cittadino nel IV sec., e finisce coll’accettare la tesi sostenuta da ultimo dalla De-
mougeot e sottolineare la vitalità delle città e dello spirito civico in oriente, e la loro scomparsa in occidente, innanzi a
fenomeni protofeudali!?,
4. Dare un quadro, sia pure sommario ed incompleto, dei vari temi che l’A. affronta e delle soluzioni che offre per gli innumerevoli problemi che si pongono a chi studi le municipalità del Basso Impero, è cosa ardua; valutarne criticamente Je conclusioni non è possibile se non nell’ambito di una vera e propria storia della città nel IV sec., quando si voglia condurre la discussione su un piano di concreta indagine
storica. Mi limiterò, pertanto, a tfacciare un breve disegno dell’opera, per poi riprendere alcuni temi particolari, che mi sembrano imporre un qualche approfondimento. Premessa l’analisi del concetto di politéia in Libanio — concetto che non si allarga se non eccezionalmente ad abbracciare lo stato romano, mentre di solito rimane circoscritto alla civitas - l’A. esamina (cap. I) l'ordo antiocheno sotto il profilo giuridico, identificando, sulla scia del Gaudemet!3,
curiales e decuriones; sottolinea il rilievo che hanno i munera nella vita della curia; spiega coll’ereditarietà della funzione l’omogeneità della classe, conservatasi immune da inquinamenti durante tutto il secolo Il problema dei munera, della loro natura, delle classificazioni, della fonte che li crea e li impone, è uno dei più im-
portanti per la storia delle municipalità romane, a torto tra-
12 E. DEMOUGEOT, De l’unite à la division de l’Empire romain, 1952, 494 ss. . 13 jJ. GAUDEMET, Constantin et les curies municipales, Iura 2, 1951, 44 ss.
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scurato dagli studiosi. L'A. ha cercato (II cap.), di ricostruire lo sviluppo dell’istituto tra la fine del III ed il IV sec., lumeggiando le confuse ed imprecise attestazioni del retore con i dati dei codici. Il concetto unitario di munus, accolto nella legislazione, non troverebbe rispondenza nel pensiero del retore, che usa il termine classico di liturgia per le funzioni curiali, mentre adotta espressioni o perifrasi varie per tutte le altre. La volontarietà della spesa oggetto della liturgia municipale, che, sebbene imposta coattivamente, viene
pur sempre determinata da ciascun onorato in misura rispondente al proprio senso civico, ed il carattere requisitorio del munus mixtum, il cui contenuto è invece determinato a posteriori in relazione alle esigenze dello Stato, appaiono, infatti, inconciliabili agli occhi di Libanio. Non molto di nuovo porta alle nostre conoscenze sull’amministrazione municipale romana la descrizione del procedimento di nomina ai munera (fine del cap. II) e la ricostruzione del funzionamento e delle competenze della curia (cap. II): notevole sembra tuttavia l’uso da parte del re-
tore, del verbo ψηφίζειν per le decisioni della βουλή, che sottolinea il suo sogno autonomistico. Di maggior rilievo è la scomparsa delle magistrature municipali, le cui funzioni sono ripartite come munera tra i curiali; anche il defensor ed il curator sembrano aver perduto i loro poteri a vantaggio della curia, che li esercita attraverso i πρῶτοι, i principales. Conclusa la descrizione delle istituzioni cittadine sottolineando la vitalità con cui lo spirito evergetico greco reagisce all’inserimento nei munera, il P. passa (parte 2*) a ricercare le fonti delle entrate municipali, distinguendo, nel patrimonio delle città, i beni pubblici da quelli posseduti a titolo privato: solo una tale distinzione permette, infatti, di comprendere le affermazioni di Libanio, che ricorda ancora nel 355 1 curiali
coltivare i campi della città, nonostante i provvedimenti eversivi di Costantino. Nel cap. II è, invece, affrontato il pro-
blema del vettovagliamento urbano, che di solito è lasciato alla libera iniziativa mercantile, mentre in caso di necessità (e Libanio ricorda ben tre carestie tra il 354 ed il 385) viene a
gravare sulla curia, la quale cerca con provvedimenti di emergenza di far fronte alla gravità della situazione. Il fenomeno critico rimane però eccezionale, mentre la prosperità
del contado assicura dì solito il benessere della città. E nota l'importanza che nella vita bizantina rivestono i pubblici spettacoli: Libanio ricorda i giuochi olimpici, che si 16
svolgevano periodicamente in Antiochia (cap. IIT), grazie ad apposite liturgie imposte ai βουλευταί, ma il suo animo di raffinato aborre dalla partecipazione a quelli delle masse, mentre guarda con compiacenza i giuochi ginnici, che si ricollegano alla tradizione classica, e solo lamenta la laicizzazione che di essi tentano 1 funzionari imperiali, ampliando la sede delle gare ed ammettendovi la plebe infima, ed in definitiva staccandole dal loro substrato religioso. Significativo può essere, per la comprensione dello spirito che anima le classi curiali nel IV sec., l'ostinato tentativo
di mantenere pura dai termini tecnici romani la propria lingua: nel secolo della iugatio-capitatio, Libanio ignora iugum e caput ed i loro equivalenti greci, e continua a parlare di φόρος e di εἰσφορά indifferentemente, rendendo in tal modo pressocché impossibile riconoscere la natura dei tributi cui accenna (cap. IV). Minori difficoltà offrono i pochi dati che il retore fornisce sul sistema di esazione: è facile, infatti, individuare nei curiali incaricati di valutare le terre del
contado a fini fiscali i peraequatores del Cod. Theod. e nei πρακτόρες di altre orazioni i susceptores, responsabili solidalmente con la curia per le esazioni, secondo la communis
opinio che il Petit accetta nel suo tentativo di ricostruzione della prassi fiscale tardo-romana. E invece singolare la posizione spirituale del retore nei confronti del fiscalismo imperiale, che l’A. sottolinea: Libanio non protesta contro le im-
poste, che, anzi, sono da lui tollerate di buon grado quando conservino tracce dell’antico evergetisino, ma contro le funzioni esattoriali attribuite ai curiali, che giustificano il controllo dei burocrati sulla curia. I problemi dell’impero nella vita municipale, le ripercussioni che nei ceti curiali hanno le trasformazioni politiche ed amministrative del secolo, la rivoluzione religiosa sono esaminati dal Petit nella terza parte del suo lavoro. Indifferente all’attività imperiale che la città è chiamata ad esplicare nel seno della diocesi d’oriente, geloso solo della fortuna tocca-
ta a Bisanzio, il retore ignora il rilievo amministrativo di cui Antiochia gode nell’organizzazione provinciale romana, passa sotto silenzio il κοινόν della provincia, rimanendo legato ad un mondo in cui i rapporti sono ancora tra città e città, e non già tra città e regione, e sogna impossibili ritorni allo stato patrono di libere città di Antioco HI il Grande. Non meno anacronistica è la sua ostilità per i militari, che si ricollega a tutta una tradizione culturale greca, e l’antipatia 17
per i barbari, che lo contrappone a Temistio, campione, invece, del compromesso (cap. I). La comunità d’interessi con le grandi famiglie cristiane, la solidarietä di classe, posta in luce per un agitato periodo della Roma del IV sec. giä dal-
l’Alf6ldi!*, la mescolanza continua nella vita di ogni giorno
di cristiani e pagani, spiegano, invece, (cap. II) la tolleranza venata di scetticismo cui i curiali di Antiochia ispirano la propria attività politica in campo religioso, e la incomprensione di Libanio, pagano, per le manifestazioni di profondo sincero misticismo del suo eroe, Giuliano.
Che il peso politico della curia sia nel mondo tardo romano ridotto a ben poca cosa è opinione comune: il P. la accetta, nella quarta sezione, dedicata all’illustrazione della vita politica municipale, pur richiamando la attenzione sulla varietà delle funzioni che ancora competono all’ordo e che questo continua ad esercitare, tra l’incomprensione e l’ostilità della burocrazia imperiale. Il popolo non ha alcun rilievo nella vita amministrativa urbana, ed il retore, pur così ligio alle tradizioni classiche, non riesce mai a vedere in esso al-
tro che il soggetto passivo dell'attività della βουλή (cap. I). La plebe, d’altra parte, sembra rassegnata a questa sua posizione di secondo piano; sarebbe, infatti, ben difficile ricono-
scere nei torbidi che trovano eco nell’opera di Libanio, dei fermenti di spirito rivoluzionario o di lotta di classe, mentre è molto più semplice ricondurli a cause contingenti: carestie, fiscalismo o improvvisi moti di simpatia per personaggi sfortunati. Molte delle funzioni della curia sono passate ai funzionari imperiali (cap. IE), il cui numero aumenta sempre più, ma la crisi che il retore avverte nel mondo municipale non è riconducibile ad un mero contrasto di competenze: essa è nel sistema, quantunque nessuno degli imperatori del IV sec., nemmeno
Costanzo, sia in senso assoluto ostile all’ordina-
mento municipale. Il totalitarismo post-costantiniano, il trionfo dello spirito di requisizione sull’evergetismo, che segna la vittoria del munus romano sulla coregìa greca, privano la vita delle municipalità del loro contenuto più profondo (cap. MI). Questa crisi spirituale non ha, però, un sottofondo mera-
mente economico (parte V, cap. I): la fertilità del territorio e 14 A. ALFOLDI, A Conflict, cit., cap. IV.
18
la frequenza degli scambi, fondati su una abbondante circolazione aurea, che pongono Antiochia all’incrocio delle grandi vie di comunicazione
con l’oriente, assicurano alla
città una grande prosperità. I decurioni non appartengono äi ceti mercantili — e la conclusione del Petit è di particolare rilievo per la storia sociale della città nel IV sec., e dà nuova
luce sul conservatorismo economico delle curie in oriente — ma le condizioni generali della loro classe sembrano rimanere buone. Un attento esame, però, dei dati di Libanio rivela anche all’interno dell’ordo un fenomeno di polarizzazione verso gli estremi termini della scala dei valori sociali: anche la curia conosce i suoi potentiores, i protoi, ed 1 suoi humiliores,
mentre scompaiono i medi possessores, con rimpianto del retore che ne vede turbata da interessi egoistici l'unità sptrituale (cap. I).
D'altra parte, questi principales sentono sempre piü profonda l'influenza dell'aristocrazia imperiale, di origine burocratica, ma anch'essa legata alla terra, e finiscono con l'abbandonare la vita politica cittadina per le carriere statali. Ma questo fenomeno, che Libanio denunzia in termini asperrimi (cap. III), è per la sopravvivenza delle città meno pericoloso di quanto sembri: vecchi e nuovi potentiores si inseriscono nella vita urbana, condividono il gusto della paidéia classica, ed anche se sfuggono alla curia non rinunziano alla città. Non esiste in oriente il fenomeno dell'abbandono delle città che in occidente è uno dei prodromi del feudalesimo. La classe curiale sopravvive al IV sec., e con essa gli ideali cittadini ancorati alle élites colte delle province. 5. a) Il Petit divide con il Mazzarino il merito di aver ri-
chiamato l’attenzione degli storici del Basso Impero sui munera!?. Sembra, però, che la ricostruzione che egli tenta dello sviluppo dell'istituto, avendo soprattutto lo sguardo alla decaprotia, vada profondamente modificata. La decaprotia,
egli afferma, era un m. personale alla fine del Il sec. Un te-
15 Manca ancora uno studio che ricostruisca le trasformazioni dell’istituto, pure di tanta importanza per la storia delle municipalità. Sulla protostasia e prototipia S. MAZZARINO, Aspetti sociali del IV secolo, 1951, 2776 ss.; in genere M.L. LEPRI, Saggi sulla terminologia e sulla nozione di patrimonio in Diritto Romano, Il, Munera patrimonii (età repubblicana), 1950.
19
sto di Ulpiano, Dig. 50.4.3.10, denunzia una profonda evo-
luzione: decaprotos etiam minores annis viginti quinque fieri, non militantes tamen, pridem placuit, quia patrimonii magis onus videtur.
Il P. traduce: “on à récemment décidé de désigner des decaprotoi ágés de moins de vingtcinq ans en les dispensant cependant du travail, parce que cette apparait plutót comme patrimonial". E ne deduce che in tal modo si viene implicitamente affermando quel carattere misto del munus che Modestino avrebbe poi teorizzato, cosi come ricorda Arcadio Carisio in Dig. 50.4.18.26. Diocleziano, con Cod. lust. 10.42.8, avrebbe arrestato la trasformazione, sancendo il ca-
rattere esclusivamente patrimoniale (non piü misto, né tanto meno personale) della decaprotia: nec protostasiae... vel decaprotiae munera corporalia sunt, sed patrimonii esse non ambigitur. ' Il risultato dell'opera diocleziana sarebbe stato lo spezzarsi di tutti i vecchi munera mixta in due elementi, il corporale ed il patrimoniale, dei quali il primo sarebbe stato imposto ai curiales, più poveri ed incapaci pertanto di sostenere oneri pecuniari, il secondo ai soli decurioni, i ricchi membri
della curia. La prova di tali trasformazioni sarebbe in un discusso brano dell'orazione 48 di Libanio: Or. 48, 3: Ἦν, ὅτ᾽ ἦν ἡμῖν ἡ βουλὴ πολλή τις, ἄνδρες ἑξακόσιοι. οὗτοι μὲν ἐλειτούργουν τοῖς οὖσιν, ἕτεροι δὲ τοσοῦτοι τὸ κελευόμενον ἐποίουν τοῖς σώμασι. Costantino, riunificando 1 due elementi del munus in un unico onere ed imponendo a tutti i membri dell’ordo pesi
contemporaneamente patrimoniali e personali, cioè misti, avrebbe richiamato in vigore il principio già posto da Modestino, ma avrebbe anche provocato l’assimilazione dei curiali ai decurioni. La tripartizione dei munera non sembra tuttavia possa in alcun modo farsi risalire all’età dei Severi: il munus mixtum è ricordato una sola volta in un testo di Arcadio Carisio, ampiamente alterato (Dig. 50.4.18). Il brano di Carisio richiama
Modestino come autore della classificazione che il
giurista
del IV sec. adotta, ma la citazione, anche se autentica!9, deve
16 S. SOLAZZI
ritiene alterato tutto il brano
(Miscellanea, AG
1925, 37 estr.), soprattutto interpolato il riferimento a Modestino.
20
94,
ritenersi inesatta, perché non trova alcuna rispondenza né nei frammenti pervenutici degli Excusationum libri, in cui pure tante volte sono affrontati problemi connessi ai munera, né nelle opere dei giuristi coevi. Dig. 50.4.3.10, che riporta un
frammento delle Opiniones, e non già di un’opera originale di Ulpiano, nulla dice di una pretesa tripartizione dei munera, o, tanto meno, di una scissione dell’onere nelle sue com-
ponenti patrimoniali e personali: non militantes non significa certo “les dispensant cependant du travail”, ma, più semplicemente, “purché non prestino servizio militare”. Il compilatore delle Opiniones non faceva che accogliere il principio di Cod. Iust. 10.42.8 cit.: la decaprotia non è un munus personale ma patrimoniale. La ratio della innovazione, di origine legislativa (la tradisce nelle Opiniones il placuit), è nella necessità di assoggettare anche i minores viginti quinque annorum al munus, aggirando l’ostacolo contenuto nella clausola edittale commentata da Ulpiano in Dig. 50.4.8.. Nulla prova Or. 48.3 di Libanio: è naturale che si cercasse, nell’interno di ciascun ordo, di raggiungere la miglior
distribuzione possibile degli oneri, chiamando i più ricchi, che saranno stati di solito decurioni, a sostenere quelli patrimoniali, i più poveri a prestare la sola opera personale; ma
si sarà sempre trattato di munera diversi, in cui l'uno o:l’altro carattere fosse prevalente, mai dello stesso onere, spezzato in due tronconi. Cade cosi la ricostruzione che il Petit ha tentato delle tra-
sformazioni dei munera, e con essa la giustificazione della assimilazione dei curiales ai decuriones. D'altra parte, che curiales e decuriones siano sinonimi per tutto il IV sec. é ancora da dimostrare: se infatti il Declareuil sbagliava, tra-
scinato forse dalla foga polemica!”, quando affermava che durante il Basso Impero le due categorie rimasero distinte, non meno errano coloro che, cercando di irrigidire la storia
delle città in schemi aprioristici uniformi, ne affermano la fusione in un corpo unico dall’età di Costantino, per tutte le curie, in tutto l’impero. Nelle costituzioni costantiniane, fat-
ta eccezione per Cod. Theod. 12.1.19, giuntaci profondamente alterata, in varie lezioni, i curiali sembrano esser sem-
1?
J. DECLAREUIL, Quelques problémes d'histoire des institutions mu-
nicipales au temps de l’empire romain, Paris, 1911, 219 (già in NRHD
31,
1901, 475).
21
pre cosa diversa dai decurioni La distinzione, col passare degli anni, si attenua fino a scomparire, ma la trasformazione, consuetudinaria e non legislativa, deve esser avvenuta in tempi diversi nelle diverse città. Il Petit ha dimostrato che
Libanio ignora la distinzione, ma le affermazioni del retore non sono suscettibili di eccessive generalizzazioni. La ricerca concreta attraverso le fonti coeve andrebbe fatta, con la
stessa meticolosa cura che l’A. ci ha insegnato ad usare verso i testi di Libanio, anche per le altre regioni dell’impero, e coordinata con lo studio della politica legislativa imperiale. b) L’A. distingue nel patrimonio delle città 1 beni posseduti a titolo pubblico, costituiti dall’antica γῆ βασιλική seleucida, concessa alla città all’atto della sua fondazione, e le
proprietà private comprate con i fondi municipali o ereditate. Costantino avrebbe espropriato, con i provvedimenti eversivi delle possessiones civitatum, a noi non pervenuti, ma imputati a lui dagli autori pagani del IV sec., solo i beni della prima categoria, lasciando che le città continuassero a godere quelli della seconda. Ma la tesi dell’A., originalissima, non sembra trovar conferma nelle fonti, che non accennano mai a due diverse arcae cittadine. Le costituzioni che il P. adduce per afferma-
re l’esistenza di un patrimonio fondiario municipale anche dopo i provvedimenti eversivi sono del 319: ma i provvedimenti stessi potrebbero essere posteriori. E proprio il decennio 317-328 che merita, nella storiografia anticostantiniana, all’imperatore l'epiteto di latro, per l'opera di spoliazione
dei templi!? e, probabilmente, delle città (Ps. Aur. Vict. epit.
14.2). D'altra parte ancora nel 325 egli concedeva alle civitates un quinto della res de qua agitur, quando l'attore non rispettasse la procedura imposta con Cod. Theod. 2.18.3. Se non si voglia pertanto respingere la datazione di Foerster, e spostare la pro Rhetoribus (Or. 31), che ricorda i curiali godere dei campi della città,ad epoca posteriore alla restaurazione giulianea, bisognerà cercare la spiegazione del problema in una più profonda comprensione della politica municipale dei secondi Flavi, e rintracciarla, probabilmente,
in quella apparente contraddizione per cui Costantino da un lato accresce le entrate delle città (Cod. Theod. 2.18.3; 5.2.1),
18 A. ALFÖLDI, The Conversion of Constantin and Pagan Rome, 1948, cap. VII.
22
dall’altro viene accusato come loro depredatore. Le depredazioni di Costantino e Costanzo (che concesse alle cittä d’A-
frica un quarto dei vectigalia per la riparazione delle mura: Cod. Theod. 4.13.5) si limitarono probabilmente ‘a sottrarre alle città la gestione dei beni pubblici, (corrispondendo forse per essi una pensio annua) ma dovettero ammettere delle eccezioni, così come avrebbero fatto più tardi Valentiniano e
Valente!?, non volendo gli imperatori privare del loro patri-
monio le città, ma solo assicurarsene il controllo. c) Non credo si possa parlare per il IV secolo di una responsabilità solidale della curia per gli obblighi dei susceptores: la communis opinio, che il Petit accoglie, rifacendosi allo studio del Déléage sulla capitatio??, si fonda su un "interpretazione di Cod. Theod. 12.6.20, che, a mio avviso, non può difendersi: ...Et animadvertant quicumque nominaverint (susceptores), ad discrimen suum universa quae illi gesserint re-
dundare. La costituzione dichiara responsabili per 1 susceptores iloro nominatores, secondo il principio classico (v. Cod. lust. 11.36.2, dell'età dei Gordiani), non la curia in blocco.
Confermano una tale lettura della disposizione di Teodosio e Valentiniano due costituzioni del Cod. Theod.: l’una di Costantino, l’altra di Giuliano, anteriori quindi alla pretesa disposizione di Graziano, che avrebbe per Eme sancito il principio della responsabilità dei susceptores”°. Afferma Costantino: Si quem susceptorem evertisse constiterit rationem...
creator eius hac necessitate teneatur ut... de propriis rebus compellatur damnum omne sarcire... (Cod. Theod. 12.6.1,
320). Solo il creator è tenuto per il susceptor: il singolare non lascia dubbi sul carattere individuale della responsabilità. Nel 362, Giuliano richiama il principio: Providendum est eorum novitati decurionum, qui nuper nomen curiis addiderunt, ne praeteritis debitis susceptorum onerentur...: i
decurioni venuti a far parte della curia dopo che siano state fatte le nominationes dei susceptores non possono esser chiamati a rispondere per coloro che non hanno nominati. E probabile che molto spesso tutti i decurioni presenti alla nominatio siano stati considerati, di fatto, nominatores””, ma
1? SCHULTEN citato dal Petit, Libanius, cit., 99 n. 4.
20 A. DÉLÉAGE, La capitation du Bas-Empire, 1945, 35 s. 21 Ivi, 36.
22 In questo senso A. PIGANIOL, L’empire chrétien, 1947, 341 n. 99. 23
un principio giuridico della responsabilita solidale della curia non esiste. d) Il Petit nega che possa parlarsi di una comunità di tendenze, di gusti, di abitudini tra i ceti curiali dell’oriente,
composti in prevalenza da piccoli e medi proprietari urbanizzati, e le aristocrazie latifondiste dell’occidente, e sottolinea
il profondo senso della civilitas urbana che anima i primi in netto contrasto colla rusticitas protofeudale dei secondi. Ma in realtà una profonda comunità di spiriti unisce le curie di Gallia e di Siria, di Italia e d’Africa, nonostante le
diversificazioni sempre più profonde: permane vivo in occidente il gusto per la vita urbana, l’amore geloso per la patria cittadina, che si ritrova in Libanio, ma che fa anche sentire
Ausonio cittadino di Burdigala prima ancora che di Roma?” e spinge verso le Gallie Rutilio Namaziano alla notizia delle sventure dei Galloromani?*, tra tutti i popoli dell’impero SOprattutto suoi cives. Sono proprio 1 circoli senatorii romani che tengono vive in occidente le tradizioni della paideia classica e nella lotta contro la burocrazia imperiale, a volte anche cruenta? riassumono l’insofferenza di tutti i ceti curiali dell’impero (il senato di Roma è la più grande di queste curie, il loro modello ideale) per lo stato accentratore e la politica sociale ed amministrativa degli imperatori di spiriti costantiniani. L’unità spirituale delle curie, al di là delle di-
versità determinate dalle condizioni sociali economiche politiche che le condizionano localmente (ma tutti i curiales,
grandi, medi e piccoli proprietari, appaiono legati al possesso fondiario e dalla terra traggono i loro redditi), è una costante della storia tardo-romana: le aristocrazie occidentali,
a differenza di quanto accade per la nobilitas orientale di origine burocratica, esprimono nella fedeltà alle tradizioni locali la loro insensibilità verso lo Stato.
23 C. JULLIAN, Ausone et son temps, U, La vie dans une cité galloromaine à la veille des invasion, RH 48, 1892, 1 ss.; E. SESTAN, Stato e
nazione nell’Alto Medioevo, 1952 cap. I e soprattutto 67 SS. 24 Rut. Nam. 20 ss. 25 A. ALFÖLDI, A Conflict, cit., cap. VII.
24
Datio tutoris e organi cittadini nel basso impero*
1. La tesi del Mommsen sull’inesistenza di un autonomo ius tutoris dandi dei magistrati municipali è stata, come è noto, difesa dal Solazzi a più riprese, con argomentazioni esegetiche che infirmano la classicità delle fonti portate a sostegno dell'opposta opinione dal Mitteis!; il ricordo di
* Labeo 6, 1960, 216-225.
! Th. MOMMSEN, Stadtrecht der Salpensa und Malaga, in Gesammelte Schriften 1,1904, 330 ss., negò che i magistrati mun. delle comunità romane avessero il diritto di dare il tutore, e sostenne che solo su delega del
praeses potessero procedere alla datio: in mancanza di apposito mandato (iussum) avrebbero dovuto solo presentare (nominare) un candidato, che
sarebbe stato poi investito dell'ufficio dal magistrato romano. Tale tesi, non del tutto nuova (già accennata in E. SCHRADER, Institutiones Iustiniani imp., 1832, 122 nt.) venne combattuta da O. KARLOWA, R. Rechtsgeschichte, 1, 1885-1901, 596; 2, 286 e dal MrrTEIS, Ueber die Kompetenz zur Vormundschaftsbestellung in den róm. Provinzen, ZRG 29, 1908, 390
ss., ma gistrati mento D'ORs,
fu poi raccolta nel 1917 da S. SOLAZZI (Sulla competenza dei mamunicipali a dare il tutore, in Scritti 2, 1957, 211 ss.). Il rinvenidi nuovi frammenti della Lex Coloniae Genetivae Iuliae (A. Epigrafia juridica de la Espafia romana, 1953, 243 ss.) e la lettura
di due tavolette ercolanensi (V. ARANGIO-RUIZ, Due nuove tavolette di Ercolano, in St. De Francisci, 1, 1956, 1) hanno determinato un atteggiamento di revisione verso la teoria Mommsen-Solazzi (A. ARANGIO-RUIZ,
Lc. e BIDR 62, 1959, 243; E. SERRAO, Stud Rom 5, 1957, 441, 6, 1958, 590) che in precedenza aveva goduto di consensi pressocché unanimi (bibl. in V. ARANGIO-RUIZ, in St. De Francisci, cit., ed ivi anche per la storia del pro-
blema). Contro le nuove ipotesi tuttavia il vecchio maestro ha sempre dife-
25
una datio autonoma che affiora sporadicamente nei Dig. e nel Cod. Iust. andrebbe attribuito ad un aggiornamento compiuto da Triboniano, in connessione con un provvedimento
innovativo giustinianeo del 5312.
Ma una nuova lettura delle fonti tardo-romane sembra imporre una revisione di tale ricostruzione. 2. L'ordinamento costantiniano riconosce ai magistrati municipali la competenza a dare il tutore: lo documenta, senza possibilità di dubbio, una costituzione del 335 che estende ai navicularii Orientis, addetti all’annona di Costan-
tinopoli, privilegi già da Callistrato ricordati per quelli di Roma?.
Tra l'altro, Costantino concede che Cod. Theod. 13.5.7: ... Ab administratione etiam tutelae, si-
ve legitimae sive eius, quam magistratus aut provinciae rectores iniungunt, habeantur immunes...
L'aut contrappone magistratus e provinciae rectores, ne sottolinea l'autonomia reciproca. La disposizione documenta la prassi usuale, non introduce un principio nuovo, che risulterebbe d'altronde stranamente in contrasto con la tradizionale politica costantiniana di diffidenza verso gli organi municipali. Sessanta anni piü tardi, nel dicembre del 389, Teodosio, da Milano, ove sosta dopo la sconfitta di Massimo“, regola
la datio tutoris in Costantinopoli”. La costituzione, indiriz-
so la tesi giovanile (La datio tutoris nelle tavolette di Ercolano, Labeo 2, 1956,
1 ss.; Magistrati municipali alla ricerca di tutori idonei, Labeo 4,
1958, 150 ss.). 2 Cod. Iust. 1.4.30: il provvedimento avrebbe esteso ai magistrati municipali la datio entro il limite di 500 solidi. 3 È dubbio se l'immunità si estendesse, nel II secolo, anche alla tutela: Dig. 27.1.17.2; 3; Dig. 50.6.6.3; 4. Cfr. anche, per i privilegi dei navicularii, Cod. Theod. 13.5.5 (326: per la data O. SEECK, Regesten, 180). 4 Per i movimenti di Teodosio e Valentiniano II nell’inverno 389-90,
O. SEECK, Regesten, 275. Incerto sulla paternità delle due costituzioni sembra M.A. DE DOMINICIS (ἢ problema dei rapporti burocratico-legislativi tra Oriente ed Occidente, RIL 87, 1954, 387). Sui rapporti tra questa legislazione, destinata all’Oriente, e la prefettura (l'Italia, amministrata in
questo momento da Teodosio, vedi anche J. GAUDEMET, Le partage legislatif, in St. De Francisci, cit., 2, 350).
5 Non sembra dubbio che solo con questo provvedimento si sia concessa al praefectus urbi di Costantinopoli (per quello di Roma il problema non é stato ancora affrontato) la competenza a dare il tutore (S. SOLAZZI,
26
zata al praefectus della nuova Roma, Proculo, nel Breviarium Alaricianum & monca del brano finale, conservato in-
vece nel Cod. Just. Ma proprio l'ultimo paragrafo, omesso dai compilatori visigoti forse perché considerato inutile ripetizione di principi ben noti, ha un rapido richiamo alle funzioni degli organi municipali: Cod.
Theod.
3.17.3
(Valentinianus,
Theodosius
et Arca-
dius AAA. Proculo p.u.). Inlustris praefectus urbi, adhibitis decem viris
e numero
senatus amplissimi et praetore claris-
simo viro, qui tutelaribus cognitionibus praesidet, tutores curatoresve ex quolibet ordine idoneos faciat retentari. Et sane id libero iudicio expertesque damni constituent iudicantes. 1. Et si ... singuli creandorum pares esse non possunt, plures ... conveniet advocari,
ut, quem coetus ille administrandis ne-
gotiis pupillorum dignissimum iudicarit, sola sententia obtineat praefecturae (Cod. lust.: super cuius nomine sollemnitate servata postea per praetorem interponatur decretum). 2. Itaque hoc modo ... parvulis adultisque [clarissimis] iusta defensio... proveniet... 4.Ceterum alia quae in causis minorum antiquis legibus causa sunt manere
intemerata decerni-
mus. Cod. lust. 5.33.1. In provinciis autem curiales in nominandis? tutoribus et curatoribus clarissimarum personarum exhibeant debitam cautionem, et discriminis sui memores co-
gnoscant indemnitati minorum obnoxias etiam suas deinceps
esse facultates".
Istituti tutelari, 1929, 8 e n. 5). Il carattere innovativo della disposizione era stato avvertito dal GOTOFREDO (Codex Theodosianus cum perp. comm., 1, 1665, 319 che tuttavia tratto in inganno da Dig. 27.1.45.3 (interpolato: S. SOLAZZI,
l.c.), non aveva potuto trarre dal suo rilievo tutte le
conseguenze. $ T] Solazzi ritiene che nominare abbia qui il valore di dare (cfr. Scritti, cit. 218 n. 23); in realtà il senso della distinzione tra nominatio
e datio
(creatio per le funzioni pubbliche), già nel III secolo spesso inavvertito, si perde del tutto nel IV. Cfr. per le funzioni pubbliche Cod. Just. 11.34.1 e 2 (creare-denominare:
Gordiano),
Cod. Just. 10.2.3
(nominare per creare:
Diocleziano), Cod. Iust. 10.32.2 (idem: Diocleziano), Cod. Theod. 12.6.1 (creator per nominator: Costantino) etc.
? | giustinianei hanno distinto la sfera di competenze del praefectus da quella del praetor (S. SOLAZZI, Istituti, cit.). Ma non si comprende perché avrebbero aggiunto un intero paragrafo, non pertinente alla questione, il 5; l'ipotesi & d'altra parte in contraddizione con i limiti che il
SOLAZZI riconosce alla competenza a dare il tutore degli organi cittadini: il patrimonio dei clarissimi, di norma, è di gran lunga superiore ai 500 solidi.
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Il Solazzi ha denunciato l’interpolazione di clarissimis nel ὃ 2 della redazione del Cod. lust. ed ha attribuito ai com-
pilatori giustinianei l'intero $5, senza peraltro spiegare quali motivi rendano necessario un'espunzione cosi radicale. Invero, se la limitazione clarissimis, cosi nel secondo come nel
quinto paragrafo, & manifestamente interpolata, mancano ragioni sufficienti per giustificare l'aggiunta della pretesa appendice; i giustinianei hanno regolato ex novo i rapporti tra competenza del prefetto e competenza del pretore, hanno limitato la prima ai soli clarissimi e, per completomania, hanno inserito anche nell'ultimo paragrafo il riferimento a costoro. Ma il brano, nel suo complesso, & parte integrante del discorso di Teodosio. L'accenno all'opera che i curiali svolgono nelle province, parallela a questa di cui il praefectus urbi viene ora investito, rivela la trasformazione delle strutture amministrative locali, ed il ricadere sulla curia delle funzioni tra-
dizionali dei magistrati. La datio tuttavia rimane pur sempre di competenza di organi cittadini. L'accenno è troppo breve perché si possa ricostruire la procedura seguita: oscuro è soprattutto il senso dell’exhibere cautionem, che non sembra vada inteso nel senso tecnico di cavere, ma
piuttosto nell’altro, frequente nell’uso letterario, di praestare cautelam?. Notevoleè l’analogia che il procedimento sembra avere con quello di designazione ai munera che si adempiono verso lo Stato (cfr. Cod. Theod. 12.6.20, singolarmente vicina, anche nell’espressione, alla disposizione milanese di Teodosio, non ostante il triennio che le
separa)!?. Qualche mese più tardi, nel febbraio del 390, con un editto a Tatiano, lasciato in Oriente come prefetto del pretorio, l’imperatore! concede che la madre vedova possa assumere l’officium tutelae per i figli, dando riconoscimento legislativo ad una diffusa prassi orientale.
8 Forse anche perché l’adattamento permetteva di precisare la disciplina della datio per i clarissimi nelle province, problema che aveva assunto gran rilievo dopo la limitazione della giurisdizione prefettizia ai soli residenti in Costantinopoli [cfr. E. STEIN, Histoire du Bas-Empire, 1949, 2, 70 cn. 4].
? TLL V 2, 1939, exhibeo e soprattutto I, b. 10 Et animadvertant quicumque nominaverint ad discrimen suum uni-
versa quae illi gesserint redundare... (386). HT, WENGER, Zur Vormundschaft der Mutter, ZRG 26, 1905, 449 ss.
28
Precisando la procedura da seguirsi, la costituzione sancisce: Cod. Theod. 3.17.4 (Valentinianus, Theodosius et Arcadius
AAA. Tatiano p.p.) ... Quod si feminae tutelas refugerint et praeoptaverint nuptias neque quisquam legitimus ad pares possit causas vocari, tum demum vir inlustris praefectus urbi, adscito praetore... sive iudices, qui in provinciis iura resti-
tuunt, de alio ordine per inquisitionem dari minoribus defensores iubebunt.
La madre che voglia assumere la tutela dei figli deve impegnarsi apud acta iudicis a non passare a nuove nozze; in tal caso l’iudex, e solo l’iudex, può investirla della tutela. Qualora ella rifiuti, l'iudex sollecita dagli organi municipali la nomina di un tutore ex alio ordine. Nella redazione del Breviarium, la costituzione non fa esplicita menzione degli organi locali destinatari dell’iussum del preside (iubebunt): ma non si vede a chi altro mai possa questo esser rivolto. I Nomoi saeculares, che nella seconda metà del
quinto secolo parafrasano la disposizione, affermano competenti alla datio i principes civitatum, i principales (FIRA II, 763, 1.7): Leges saeculares 8 (FIRA II, 762-763): Si decesserit vir et reliquerit filios pueros et sit ei uxor et non scripserit διαθήκην et velit uxor eius mater pupillorum pro eis administrare, decet eam certiorem facere iudicem regionis et coram eo statuere
pactum se viri alius non futuram...'?. Si vero neque uxor velit onus suscipere filiorum orphanorum praecipit νόμος στρατή-
1? Probabilmente lasciandosi guidare dalla ricostruzione della datio prospettata dal Mommsen, il Sachau traduceva (BRUNS-SACHAU, Syr. Róm. Rechtsbuch, 1889, 6, 47: L. 8: «... so befiehlt das Gesetz den otpamyotg der Provinz...». P 3d «... so befieblt das Gesetz den στρατηγοῖς der Provinz». Ed il BRUNS commentava (188) «... die στρατηγοί oder Vorsteher der Provinzen sind die Praesides provinciae die nach Inst. Iust. 1.20.4 damals die tutoris datio hatten...». Ma il MITTEIS nel 1904 correggeva provincia in città (un unico termine rende in siriaco i due concetti; L. MITTEIS, Ueber drei neue Handschriften des syrisch-römischen Rechtsbuchs, 1904), e giä il FERRINI nella traduzione latina di P(ZRG 23, 1902,
101 ss.) aveva interpretato στρατηγοί civitatis (più tardi, di nuovo nella traduzione di L in FIRA ID. Nelle edizioni di R;, R2 ed Rs (Syrische Rechtsbücher, 1907)i1 SACHAU ha accolto la correzione: Rj 4 «... den Ersten der Stadt...»; Ro 4 «... den Strategen, d.i. Principes des Ortes...»; R4 8 «... bestellen die Behörden fuer die Kinder einen ἐπίτροπον».
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γοις civitatis, qui principes sunt, ut hi adhibeant eis ἐπίτροπον vel κουράτορα, dantes ei mercedem certam.
Nell’uso dei giuristi di lingua gre ca, stratega & la traduzione di magistratus (municipalis)}3; nella lingua letteraria e nella terminologia della cancelleria imperiale, che vi ricorre molto di rado, indica un funzionario militare!^. Per il compilatore dei Nomoi i magistrati-strateghi, cui la costituzione teodosianea faceva forse cenno, sono i maggiorenti della città, i primates delle costituzioni coeve: come è noto, gli esponenti più ricchi ed autorevoli delle aristocrazie municipali costituiscono un ceto di privilegiati nell’ambito della curia e ne formano, dopo l’esaurimento delle magistrature tradizionali, il direttorio, finendo col sostituirsi ad essa in
molti dei compiti di amministrazione locale!”. Così, le scuole orientali rendono in termini attuali princìpi che altrimenti non avrebbero più senso. La competenza di organi della città rimane fuori di discussione: il nomos stesso praecipit agli strateghi di dare il tutore; l’ordine del preside, che viene passato sotto silenzio, non può essere presupposto indispensabile della competenza dei primates, ma deve avere solo un valore di sollecitazione, che ben si inserisce nel potere di controllo sempre più ampio riconosciuto al governatori provinciali già dall'età dei Severi!?, in tema di imposizione di
13 Già in Modestino (Dig. 27.1.6.16; 15.9). I Bizantini rendono sempre magistratus con στρατηγός (così Theophil. Paraphr. 1.4. 20; il compilatore del Prochiron,
in 3.6.7 (Zepos); ancora l’imperatore Leone VI, di-
stinguendo accuratamente i magistrati municipali dagli omonimi funzionari militari: Novella 47, ed. ZACHARIAE VON LINGENTHAL, in Ius Graeco
Romanum, I, 116). Nella lingua d’uso, già negli Acta Apostolorum, 16 (cfr. CAUSABON, Deipnosophistae Athenaei, 1621, 372). 14 La lingua letteraria conserva invece il significato tradizionale (TLG VII.3, s.v. στρατηγός, coll. 843-844) ancora in Libanio. Nel Cod. lust. torna una sola volta in una costituzione di Leone I Cod. Just. 1.3.29): il SEECK (Regesten, indice dei funzionari) rende con magister militum.
15 Per tale fenomeno 1. DECLAREUIL, Quelques problemes d'histoire
des inst. mun. rom., NRHD 31, 1907, 612 ss.; P. PETIT, Libanius et la vie municipaleà Antioche au IV? siècle aprés J. -C., 1955, 94 ss. 16 Dig. 50.4.9, Ulp. libro tertio de officio consulis .. . per praesides munus agnoscere cogendus est remediis, quibus tutores quoque solent... cfr. Dig. 50.4.3.15, Ulp. libro secundo opiniunum: praeses provinciae provideat munera et honores in civitatibus aequaliter... iniungi...
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munera. L’iussum del preside rientra nella sua opera di amministratore e di controllore: può in pratica rendersi indispensabile, ma non vale a trasformare una competenza autonoma in facoltà delegata!”. L'ordinamento teodosiano conserva dunque ad organi delle città la competenza a dare il tutore, pur riconoscendo solo al praeses la facoltà di investire della tutela una donna. I Nomoi saeculares attestano ancora vivo il sistema a metà del V sec., pur tra le profonde modificazioni che la vita municipale, nelle strutture sociali e negli ordinamenti amministrativi, subisce: la sclerosi delle magistrature, il subentrare ad esse della curia e l'emergere in questa dei principales sono motivi comuni nella storia delle città tra il IV ed il V sec., esi riflettono nelle fonti relative alla datio. In Occidente, le interpretationes con cui i compilatori vi-
sigoti postillano il Breviarium documentano una storia analoga, pur nella diversità delle istituzioni cittadine. Descrivendo il sistema vigente, l'interpretatio a Cod. Theod. 3.17.3 riconosce ai primi patriae, che hanno nelle città del regno visigoto una posizione analoga a quella dei principales orientali, il compito di dare il tutore, cum iudice: Interpr. Cod. Theod. 3.17.3: Quotiens de pupillorum tutela tractatur, debent primi patriae cum iudice secundum aetates minorum
aut tutorem
aut curatorem
eligere.
L'interpretatio a Cod. Theod. 3.17.4 ribadisce il principio: Interpr. Cod. Theod. 3.17.4: Si mater tutelam suscipere noluerit, tunc, sicut prius constitutum est, electio iudicis vel pro-
vincialium tutores minoribus deputabunt.
L'iudex è un funzionario regio con competenze delimitate alla città, forse l'antico defensor? che altrove è annovera17 Lo scolio sinaitico 19 (KRÜGER) ai libri ad Sabinum di Ulpiano, riferito dalla dottrina dominante ai magistrati municipali, sembra muoversi in tale ordine di idee: kai ὁ το[π]ο[τηρητὴς τῶν στρατηγῶν ἐπ]ίτρο]πον... Un principio già classico, recetto dai giustinianei, e che pertanto è lecito supporre vivo nella prassi amministrativa tardo-imperiale, esclude che si possa mandare la propria iurisdictio quando se ne goda alieno beneficio (Dig. 2.1.5). Nel pensiero postclassico la datio tutoris è officium ius dicentis (F. DE MARTINO, La giurisdizione romana, 1937, 268, 275): lo scoliaste
quindi, nel riconoscere agli strateghi la facoltà di delegarla, sottolineerebbe implicitamente in essa una facoltà autonoma. 18 Cosi già il SAVIGNY,
Geschichte des roem. Rechts,
1, 1834, 303; e
ora J. DECLAREUIL, NRHD 32,1908, 59, cit. alla nota seguente.
31
to proprio tra i mediocres iudices!?; come organo di Stato controlla gli atti dei principales. Ma proprio la sua collaborazione alla datio, svolgendosi su uno stesso piano con gli organi della comunità, esclude la possibilità di configurare come mandata la competenza dei primi patriae e ne conferma, in definitiva, il carattere autonomo. In Italia, a metà del VI secolo, i gesta della curia di Ri-
eti raccolgono il verbale di una seduta in cui l'ordo è chiamato a dare un tutor ad litem a due fanciulli, impegolati in una lunga causa. Il verbale ci & noto attraverso una copia redatta nel 557; purtroppo, non possiamo datarne l'originale per la scomparsa di alcune linee del documento (P. Ital. L7 = P. Marini 79)?°. Gundihild, inlustris femina, rimasta vedova di Gundahald, invia un petitorium all'ordo reatino chiedendo: ἰ. 20: ... Flavianum v.h. in designatis negotiis tutorem specialem filiis ipsius ordinetis... La curia, accertata l'autenticità della petizione, decreta: ll. 63-71:
... Horanius, Anthonius atque Volusianus, sed et
cunctus ordo: ... specialem te Lendarit atque Landarit cl(arissimis) p(ueris) in causis in quibus pater eorum ab inlustri viro
Adiut et a Rosemud connominato Faffone, vel a Gundirit inl. v. per narrationum tenore pulsatus est, specialem te tutelam decernimus administrare, cui ut legitima firmitas iniungatur, fideiussorem de tuae administrationis integritate, sicut legalia constituta sanciunt, ante praebere idoneum non desistas, cuius accessu minorum possit utilius negotia ministrari...
La datio si esaurisce nel decreto della curia; nessuna
altra formalità é richiesta. Secondo la prassi tradizionale, il tutor presta la cautio rem pupilli salvam fore. La competenza autonoma degli organi cittadini acquista, in questo tardo documento, singolare evidenza. Si & sottolineata la situazione di eccezionale disagio in cui verserebbe la curia reatina in questo periodo di transizione tra il dominio
19 J. DECLAREUIL, cif. alla nota precedente; cfr. Intepr. Cod. Theod. 2.1.8. 20 G. MARINI, I papiri diplomatici raccolti ed illustrati,
1805,
121;
J.-O. TJADER, Die nichtliterarischen lateinischen Papyri Italiens aus der Zeit 445-700,
1955, 228. MARINI,
264, ritiene l’originale di alcuni anni
anteriore alle copia, TIADER non avanza alcuna ipotesi.
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goto ed il ritorno all'impero?!: ma il documento non presenta tracce di una procedura affrettata o sommaria. L'assenza dei magistrati, che compaiono ancora in atti ravennati coevi, non
permette alcuna illazione: ridotti a vuote dignità essi si conservano in talune comunità quando già in altre sono scomparsi da tempo, ed ogni generalizzazione sembra arbitraria. 3. Lungi dall’introdurre innovazioni radicali nell’ordinamento preesistente, la costituzione del 531 si limita ad inserire il defensor tra gli organi investiti della datio, accanto ed in parte in sostituzione del praeses. Nel sistema amministrativo pregiustinianeo il defensor ha una struttura ibrida, né burocrate né magistrato municipale, ed anzi tenuto accuratamente distinto da questi ultimi??; la politica amministrativa di Giovanni di Cappadocia vede nell’istituto lo strumento per rinsaldare le amministrazioni locali e ne accresce 1 compiti, cercando nello stesso tempo di sottrarlo all’influenza dei praesi-
des col creargli nuovi legami con la prefettura del pretorio?3.
Organo di Stato, vicario nelle città del preside e, nello stesso
tempo, freno ed ostacolo alla sua ingerenza nell’amministrazione delle civitates, il defensor non diventa però burocrate nemmeno
con la Novella
15, che
conclude
le riforme,
in
quanto l’ufficio viene imposto come munus ai possessores di ciascuna comunità?*. La disposizione del 531 avvia questa politica, che sembra fallire con la caduta di Giovanni: Cod. Iust. 1.4.30: (Αὐτοκράτωρ Tovotiviavòg A. Ἰωάννῃ en. np.) Θεσπίζομεν ταῖς κηδεμονίαις τῶν νέων... εἴπερ
21 Ch. DIEHL, L’administration byzantine dans l’exarchat de Ravenne, 1889, 96. Il DIEHL ritiene l’ordo ridotto a soli sei membri, i firmatari dell’atto, dimenficando la linea 13, ove compare un Luminosus, che non sot-
toscrive il documento. 22 E. CHÉNON, Étude hist. sur le defensor civitatis, RH SS.; J. DECLAREUIL, cif. a n. 18.
13, 1889, 542
23 E, STEIN, Histoire, cit. 467 ss.
241. DECLAREUIL, cit. a n.18. Forse un tentativo di assimilazione alle magistrature locali tradizionali può scorgersi nella doppia titolatura ἐκδίKoc ἢ στρατηγός. Ma i compilatori tornano alla distinzione scolastica (Inst. Iust. 1.20.5 (KRUEGER, piü vicino alla Parafrasi di HUSCHKE); Parafrasi 1.20.5). Giustiniano stesso, nella Novell. Just. 15, ribadisce la con-
trapposizione, avvicinando il defensor ai burocrati provinciali anche sul piano terminologico: 3.1 τὴν τῶν ἀρχόντων ἐπέχειν τάξιν; cfr. proem. I pr. Il SOLAZZI invece (Scritti, cit., 211) considera evidentemente il defensor magistrato municipale.
33
ἄχρι πεντακοσίων κρυσῶν καὶ μόνον τὰ τῆς περιουσίας εἴη τῶν νέων, μὴ τὴν τῶν ἀρχόντων τῶν ἐπαρχιῶν περιμένειν χειροτονίαν μηδὲ δαπάναις μεγάλαις περιβάλλεσθαι, τῶν ἀρχόντων ἴσως οὐδὲ ἐνδημούντων ταῖς πόλεσιν ἐκείναις... ἀλλὰ παρὰ τῷ τῆς πόλεως ἐκείνης ἐκδίκῳ ἢ στρατηγῷ, κατὰ τὴν Ἀλεξανδρέων παρὰ τῷ ταύτης iuridico, ἅμα τῷ θεοφιλεστάτῳ ταύτης ἐπισκόπῳ, ἢ καὶ δημοσίοις προσώποις, εἴγε εὐποροίη τούτων ἡ πόλις, γίνεσθαι τάς χειροτονίας τῶν κηδεμόνων... Entro il limite di 500 solidi, il defensor ὃ sostituito al
praeses nella datio; la sostituzione non si limita alla creazione del tutore dell'impubere, ma si allarga a tutti 1 casi per 1 quali l'ordinamento prevede la costituzione di un tutore o di
un curatore?5: nella formulazione amplissima rientra anche
la datio curatoris furiosi, già regolata in modo diverso l'an-
no innanzi’9.
Il defensor è designato con la strana formula ὁ ἐκδίκος ἢ στρατηγὸς τῆς nöAewg, che non sembra ritorni mai altrove; l’accostamento dei due termini fa pensare ad un superamento, da parte della cancelleria, della contrapposizione tradizionale, priva di senso ormai dopo l’esaurimento delle magistrature: i maggiorenti locali, chiamati a fungere da consultori
e
testimoni,
sono
semplicemente
dei
δημοσία
πρόσωπα. Ma nella parafrasi conservata dalle Istituzioni giustinianee, come in quella offerta dalle Istituzioni di Teofilo, la distinzione
ritorna: al defensor (£xöixog semplicemente) si giustappongono le publicae personae, id est magistratus (δημοσιεξύοντες πρόσωποι τουτέστι στρατηγοί). Così mentre nelle publicae personae si ravvisano gli eredi dei magistrati municipali, il defensor torna ad essere escluso dal novero di questi. Di singolare interesse per la storia del defensor, la riforma del 531 ha un rilievo di gran lunga inferiore per la ricostruzione dei compiti degli organi cittadini tradizionali; le publicae personae, che le Istituzioni dicono magistrati, e che forse non sono che i primates”? di cui parla la costituzione dell’anno innanzi per la datio 25 Cod. Iust. 1.4.30: ἢ καὶ ἕτεροί τινες oic ὁ νόμος δίδωσι κηδεμόνας... 26 Cod. Iust. 1.4.27.2: ...in provinciis apud praesidem... et virum religiosissimum episcopum civitatis nec non tres primates creatio procedat...
27 Vedi nota precedente. 28 Ridotti ad una mera funzione di assistenza e testificazione.
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curatoris furiosi, rimangono in secondo piano??. Le collezioni ufficiali bizantine ignorano la costituzione giustinianea fino al IX secolo, pur ricordando tralaticiamente il diritto a dare il tutore degli strateghi, che fanno però discendere da un frammento di Ulpiano (Dig. 26.5.3): Prochiron 36.7 (Zach.) οἱ στρατηγοὶ πάντες ἐπιτρόπους διδόασιν, ἀλλὰ μόνους τοὺς ὄντας ἐκ τῶν πόλεων αὐτῶν ἢ τῶν ὑπ αὐτοὺς ἀγρῶν. Cfr. Epanagoge 38.10 (Zach.).
La conservano invece le raccolte ecclesiastiche, per l’interesse che presenta per la delimitazione dei compiti
dei vescovi??.
Le Istituzioni di Giustiniano (e la parafrasi di Teofilo) riprendono la costituzione in un capitolo che riassume lo sviluppo storico della datio tutoris: Inst. Iust. 1.20.4: Sed hoc iure utimur,
ut Romae
quidem
praefectus urbis vel praetor secundum suam iurisdictionem, in provinciis autem praesides ex inquisitione tutores crearent,
vel magistratus iussu praesidum, si non sint magnae pupilli facultates.
5 Nos autem per constitutionem nostram et huiusmodi difficultates hominum
resecantes nec exspectata iussione praesi-
dum disposuimus, si facultas pupilli vel adulti usque ad quingentos solidos valeat, defensores civitatum una cum eiusdem civitatis religiosissimo antistite vel apud alias publicas personas, id est magistratus,
vel iuridicum Alexandrinae civitatis
tutores col curatores creare...
Il $4 introduce l’esposizione del sistema vigente, del sistema fissato da ultimo nelle costituzioni di Teodosio cio&??, in cui la disposizione giustinianea viene ad inserirsi. Il discorso è opera dei compilatori, che hanno centonato frammenti di varia provenienza, come denuncia la sconcor-
danza delle proposizioni (ufimur... crearent... sint). Il Solazzi pensa escerpita da un’opera classica la menzione del pretore ed il frammento vel magistratus iussu praesidum. Qua-
lunque ne sia la provenienza, l'iussum acquista qui un rilievo che non si riscontra mai non solo negli scarsi accenni
29 Collectio viginti quinque capitulorum; per il carattere e l’epoca, N. VAN DER WAL, Les commentaires grecques du Code de Justinien, 1953, 37. 30 Diversamente E. SCHRADER, cif.
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dei classici (che non conoscono, in questa accezione, il ter-
mine?!) ma nemmeno nella costituzione teodosiana del
390: la prassi di rimettere agli organi municipali la datio, che un paragrafo interpolato di Dig. 27.8.1 (il 5; cfr. l’inte-
grazione del 6)” estende al curator, diventa istituto tipico
solo nelle Istituzioni che coniano o adattano anche la specificazione iussu praesidum. L'esposizione, rigidamente fedele allo schema istituzionale gaiano, si limita agli organi di stato, ignora la superstite competenza degli strateghi, che le interpolazioni del Cod. Iust., gli scoli alla parafrasi di Teofilo e le posteriori fonti bizantine do-
cumentano costanti??: i magistrati municipali sono ricordati so-
lo per l’opera di collaborazione che svolgono in quanto coadiutori del praeses, destinatari del suo iussum, quasi per costituire
il precedente storico della cooperazione del defensor. Il problema delle loro competenze rimane fuori di questa prospettiva: risolverlo partendo dalle Istituzioni è pertanto impossibile. Il $5 parafrasa in latino la costituzione del 531, in modo piuttosto infedele; vi introduce il richiamo all’iussum, che
manca nel testo greco, riduce a funzione di mera assistenza l’opera dell’iuridicus Alexandriae, assimila le publicae personae ai magistrati tradizionali, ne disgiunge lo stratega, ed 31 I giuristi classici conoscono interventi del praeses nella datio ad opera dei magistrati municipali, ma non usano in tal caso la perifrasi iussu praesidum. D’altra parte, che l’intervento (o ordine) del preside sia configurabile come un mandato è ancora da dimostrare. Ulpiano sembra escluderne la possibilità allorquando afferma che la tutoris datio... ei soli competit cui nominatim hoc dedit vel lex vel senatus consultum vel princeps (Dig. 26.1.6.2) ricordando che al legato del proconsole tale potere fu concesso ex oratione Divi Marci (Dig. 26.5.1.1), nec mandante praeside alius
tutorem dare poterit (Dig. 26.5.8.1). In età di Giustiniano, l’assimilazione della datio tutoris alla giurisdizione ribadisce il principio. 32 S. SOLAZZI, Minore età, 1913, 72, 148. 33 Cod. Iust. 5.33.1 cit.; Theophil. Paraphr.
1.20.5, cit.; scolio a Theo-
phil. 1.24.4: £v κωνσταντίνου πόλει ... oi ταξεῶται καὶ ὁ σκρίβας: £v δὲ ταῖς ἐπαρχίαις ὁ ἔκδικος καὶ οἱ στρατηγοὶ καὶ ὁ iurichiens ἀλεξανδρείας (C. FERRINI, Scritti, I, cit., 166). (Nelle province, defensor e magistrati ricevono le garanzie e quindi, danno il tutore: lo stesso non può dirsi di Costantinopoli, ove tale compito è demandato agli officiales dei due funzionari, praefectus e praetor, Cod. Iust. 5.75.6). La Parafrasi lascia cadere l’oscuro inciso neque quis alius cui tutoris dandi ius est, che le Istituzioni avevano raccolto da Dig. 27.8.1.1, Ulp. libro trigesimo sexto ad edic-
tum, perché non ha nessun senso nel sistema giustinianeo. Per il significato originario, V. ARANGIO-RUIZ, in $1. De Francisci, cit.)]. Prochiron cit. Nello stesso senso già SCHRADER, cif.
36
infine dä a tutta la disposizione quel senso radicale del sistema precedente che ha tratto storici (huiusmodi difficultates resecantes). non cambia tuttavia, nei confronti del par.
di innovazione in inganno gli La prospettiva precedente: si
tratta pur sempre di modificazioni che avvengono nell’ambi-
to dell’ordinamento amministrativo dello stato, nella piü completa indifferenza per quanto rimane delle competenze antiche della città. 4. Concludendo, si può riconoscere che l’ordinamento giustinianeo prevede un autonomo ius tutoris dandi degli organi cittadini superstiti, che le fonti indicano ancora, di norma, con l’antico titolo di strateghi. Tale diritto non è però conseguenza di un’anacronistica concessione di Giustiniano, ma è piuttosto quanto rimane alle città di vecchie
competenze, che la legislazione in materia di Teodosio aveva già riconosciuto e sancito, e che la prassi così occidentale come orientale attesta sopravvivere nel corso del V secolo. Il complesso di interpolazioni che il Solazzi ha creduto di poter denunziare nei testi classici, alla luce di Cod. Just. 1.4.30, non trova fondamento nella storia postclassica dell’istituto, mentre ne esce rafforzata e precisata l’ipotesi dell’ Arangio-Ruiz?4
34 Così, per lo meno, interpreta Teofilo in Parafrasi 1.20.5.
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Munus publicum
Terminologia e sistematiche*
1. Nelle fonti giuridiche della tarda repubblica munus publicum non ha un significato tecnico ma conserva le tante sfumature che l’uso letterario gli conferisce. La rielaborazione dommatica dell’istituto, sollecitata dal-
la politica legislativa imperiale, si compie solo più tardi, tra il primo ed il terzo secolo, e si conclude coi giuristi dell’età dei Severi, che sottolineano quei caratteri di onerosità ed obbligatorietà giuridica, in cui la dottrina moderna ravvisa
ancora il paradigma del munus!.
* Labeo 7, 1961, 308-329. ! Nello sforzo di costringere entro gli schemi elaborati dai giuristi severiani le molteplici accezioni del termine, la dottrina moderna si é preclu-
sa la comprensione del fenomeno. Il tentativo di ridurre all’unitä le diverse sistematiche dei giuristi fu iniziato già dai lessicografi umanisti (vedi per tutti B.PH. VICAT, Vocabularium iuris utriusque, 1759, condotto sulle ope-
re di BRISSONIO, SCOTO, CALVINO, EINECCIO; tra queste, interessante soprattutto il Lexicon iuridicum del CALVINO, 1670, munus). La dottrina posteriore lo ha perseguito costantemente (B. KUEBLER, Munus, RE, 16, 1,
1932). La contrapposizione del munus all honor, sulla scia del MOMMSEN (Staatsrecht, 3, 1, 1887, 224), il richiamo alla sua onerosità ed obbligato-
rietà giuridica, la confusione dei munera civilia con i municipalia sono ormai tralatici (cosi le ricerche sul significato di municipium partono tutte dal presupposto, o dalla constatazione, dell’onerositä del munus: da ultimo J. PINSENT, The Original Meaning of Municeps, CQ 4, 1954, 158 ss., con
bibl
a cui aggiungi
E. SCHÓNBAUER,
Munizipien
und Doppelbür-
gerschaft, Iura 1, 1950, 141 s.). Non si salva il recente studio della LEPRI
(Saggi sulla terminologia e sulla nozione di patrimonio, 2, Munera publi-
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2. a) L’etimologia che Varrone dà di munus nel De lingua Latina può costituire il punto di partenza per intendere qual valore il termine assuma nell’età ciceroniana: Varro ling. 5.179: Munus quod mutuo animo qui sunt dant officii causa. Alterum munus quod muniendi causa imperatum.
La connessione di munus con munitio, cui i glottologi negano in genere fondamento scientifico?, rispecchia nel ricordo erudito un momento del piü antico ordinamento romano; tracce di prestazione d'opera ad muniendum si ritrovano ancora nella lex Coloniae Genetivae Juliae, in un capitolo che conferisce una singolare impronta arcaicizzante allo statuto?. Posteriore di mezzo secolo, la definizione di Verrio Flac-
co nel De verborum significatione si presenta più ampia, più comprensiva di questa di Varrone, e nello stesso tempo più unitaria, in quanto riporta ad una unica matrice le due accezioni di munus, nel De lingua latina erroneamente riferite a due etimi diversi“. Paul. Fest. 125 Lindsay: Munus significat «officium?» cum dicitur quis munere fungi; item donum quod officii cau-
sa datur. Munus è sinonimo di officium, ma ha una più ampia gamma di accezioni; designa un facere, una prestazione di attività (officiosus ab efficiendo, rileva altrove il grammaticof), ma passa anche ad indicare, per metonimia, i beni prestati, i doni. La formula riflette i significati che il termine ha nelle opere letterarie coeve, che Flacco dovette aver presenti: ufficio, compito, funzione”, ed, in senso traslato, onori ca, 1952) le cui premesse di rigorosa ricerca storica sono in evidente con-
trasto con le conclusioni che, nell’uso ingiustificato di attestazioni di Pomponio e Marciano per la ricostruzione dell’istituto nel I sec. a.C., tradiscono invece solo un’esigenza sistematica. 2 A. ERNOUT et A. MEILLET, Dict. et. de la langue lat., 1951, moene e munis; discutibile per A. WALDE-J.B. HOFFMANN, Lat. et. Woerterbuch, 1939-1954, Communis, Moene.
3 Lex Coloniae Genetivae Iuliae XCVIL (FIRA I, 189); TH. MOMMSEN, Gesammelte Schriften 1, 1905, 215. ^ J. COLLART, Varronis de lingua Latina I. 5, 1954, 258.
5 Officium è integrato dagli editori, ma l'integrazione è sicura: editio maior del LINDSAY in Glossaria Latina, 1930, 261 s. 6 Paul. Fest. 211; cfr. 137 (moenia), 127 (munem). 7 In Cicerone, munus designa indifferentemente i compiti dei funzionari tolemaici o dei re peregrini, le prestazioni onerose dei provinciali o l'adempimento dell'ufficio assegnato all'uomo da Dio: Rab. Post. 28: oderat
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funebri, ludi, doni, tributi?, tutte variazioni di quell’unico te-
ma colto nel De verborum significatione.
Manca, nella definizione di Flacco, ogni accenno alla ne-
cessità giuridica di questo facere che & l'essenza del munus; piuttosto, la connessione con /'officium ne sottolinea la convenienza, l'opportunità, al di fuori di qualsivoglia rapporto di diritto positivo. Il richiamo, già in Varrone, ha particolare rilievo nelle opere filosofiche di Cicerone, in cui l'officium acquista i caratteri del καθῆκον stoico, traducendo nei ter-
mini dell'etica di Panezio rapporti sociali romani!?.
Nel Cato maior, i due termini si uniscono a significare tutta l'attività dell'uomo nella sfera dell'eticamente opportuno, conveniente: Cato 72: Senectutis autem nullus est certus terminus recteque in ea vivitur quoad munus officii exsequi et tueri possis (cfr. 29, 35). vestitum etiam illum, sed sine eo nec nomen illud (diocetae) poterat nec munus tueri, Verr. YI. 1.25.65: ostendit munus illud suum non esse (ospitare
legatorum adseculas); cfr. 5.20.51 munus = apprestamento di una nave, 5.21.52 munus = fornitura di grano a prezzo di calmiere. Cato 34: Masinissa omnia exsequi regis officia et munera; rep. 6.15: quare et tibi, Publi, et piis omnibus retinendus animus est in custodia corporis nec iniussu.eius a quo ille est vobis datus, ex hominum vita migrandum est, ne munus humanum adsignatum a deo de fu gisse videamini. Ed infine munera sono le funzioni degli organi, i compiti che questi svolgono per la loro conformazione fisica: Tusc. 3.15: et quemadmodum oculus conturbatus non est probe adfectus ad suum munus fungendum, et reliquae partes totumve corpus, statu cum est motum, deest officio suo et muneri, sic conturbatus animus non est aptus ad exsequendum munus suum... In Cesare, in Livio munus & l'opera,
il compito scelto o imposto: Caes. civ. 1.57.1: qui sibi id muneris depoposcerant; 1.33.1: quisque ... id munus legationis recusabat. Liv. 24.35.7: munera belli. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito. 8 Onori funebri: Catull. 101.3; ludi: CIL I 1199, Cic. off. 2.57; tributi:
Cic. Verr. Il. 3.6.15. ? I lessicografi moderni, sensibili soprattutto all'uso classico, che cer-
cano proprio negli autori della tarda repubblica, sottolineano anch'essi nella prestazione, Leistung, l'essenza del munus: da ultimo GEORGES, L.-D. Handwoerterbuch, 1913, e FORCELLINI, Lexicon totius Latinitatis, IV,1868, munus; quest'ultimo tuttavia considera il munus-donum separato
dalle altre accezioni. Manca ancora la voce nel TLL (ora TLL VII, 1966, munus, coll. 1662-1667). 10 Sul valore di officium nelle opere ciceroniane, E. BERNERT, De vi ac usu verbi officii, 1932, 74 ss.; M.O. Lisqu, Etude sur la langue de la philosophie morale chez Cicéron, 1930, 214 ss. Per i rapporti tra l'etica della media Stoa ed il pensiero ciceroniano, da ultimo M. VALENTE, L'éthique stoicienne chez Cicéron, 1956, 146 ss., 170 ss.
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Ma il senso di necessitä etica nasce dall’accostamento all’officium, non è inerente a munus, e può pertanto mancare:
di per sè, il termine ha un valore meramente oggettivo, che
si colora in modo diverso nelle diverse espressionil!.
b) Nella terminologia legislativa munus torna di rado,
per designare una prestazione gratuita, un dono!?; più spesso, come munus publicum, nelle formule di esenzione dalle
funzioni onerose che peregrini e cives sostengono a pro del-
lo Stato romano!*. Il cumulo di sinonimi per significare
l’esonero da tali compiti, le oscillazioni, nell’uso di munus,
tra singolare e plurale, l’aggiunta a munus, nella clausola di
esenzione, di militia e tributum!* (che nell’uso letterario so-
no dei munera!°) sottolineano l’incertezza terminologica del legislatore. Nel V editto di Augusto ai Cirenei i munera sono funzioni pubbliche, di patrono nelle quaestiones repetundarum, di giurato nel consiglio di una quaestio, di incaricato dei sacra publica!$;
!! E, BERNERT,
De vi ac usu, cit., rileva che munus est ea vox quae
personam quae munere fungitur non respicit, officium autem spectat semper ad hominem qui munus subit: il primo sarebbe «Amt an sich», il secondo «Amt das zu verwalten jemandem obliegt». Piuttosto che di Amt parlerei tuttavia di opera, di prestazione.
1? Ad es. s.c. de Asclepiade Clazomeno sociisque 8 (FIRA I, 311);
Lex Coloniae Genetivae Iuliae XCIII, CXXXII (FIRA I, 186-187, 197198); cfr. B. BIONDI, Success. testam. e donazioni?, 1955, 634-35 e n. 1 ivi. 13 Già nella lex Acilia (?) repetundarum 78 (85) (FIRA I, 101-102); più tardi nella lex Coloniae Genetivae Iuliae LXVI
(FIRA I, 181), per i
munera da adempiersi verso la colonia, assimilati a quelli verso la res publica romana (infra). La clausola & di stile nelle concessioni di cittadinanza; Epistulae Octaviani Caesaris de Seleuco navarcha 2.1 (FIRA I, 311), nella traduzione greca λειτουργία δημοσία; Edictum Caesaris Octaviani triumviri de privilegiis veteranorum. : 14 Lex repetund. 79 (86) (FIRA I, 102): militiae munerisque poplici in δία quoiusque ceiv]itate [vocatio immunitasque esto] (per i socii nominis
Latini), Edictum Caesaris Octaviani triumviri de privilegiis veteranorum 11 (FIRAI, 316): immunes sunto, liberi sunto militiae, muneribus publicis fungendi vocatio; Epistulae Octaviani Caesaris de Seleuco navarcha 2.1 (FIRA I, 311): [στρατείας λειτ]ουργίας ce δημοσίας ἁπάσης πάρεί[σις ἔστω] (per il nuovo civis); Lex Coloniae Genetivae Iulliae LXVI (FIRA I, 181): ...militiae munerisque publici vacatio sacro sanctius esto... 15 Cic. off. 2.21.74; Liv. 9.3.5.
16 Edicta Augusti ad Cyrenenses V.104: dx ἐκ τῶν νόμων παραίτησις
ταύτης τῆς λειτουργίας δέδοται; 114 ταύτην τὴν λειτουργίαν λειτουργεῖν; 136 πάσης λειτουργίας δημοσίας ἐκτὸς ἱερῶν δημοσίων παρίσθωσαν.
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incerto è il significato del termine nei frammenti della lex Tarentina (FIRA 1,166)!”. I giuristi del I secolo a. C. ebbero, sembra, un vivo inte-
resse per gli officia!®, ma ignorarono il munus: i giureconsulti imperiali, impegnati un po' tutti tra il primo ed 1l terzo secolo nella sistemazione della materia, passano concordi
sotto silenzio 1 predecessori repubblicani, evidentemente di nessun aiuto nella rielaborazione. Solo Ulpiano ricorda che in età di Augusto Labeone, precisando i rapporti tra munus e donum, aveva affermato: Dig. 50.16.194 (Ulp. libro quadragensimo tertio ad edictum) Inter 'donum' et 'munus' hoc interest quod inter genus et speciem: nam genus esse donum Labeo a donando dictum, munus speciem: nam munus esse donum cum causa, et puta natalicium, nuptalicium.
Il rilievo si limita alla recezione di una giustificazione corrente
(cfr. Varrone,
Flacco),
che viene inserita nello
schema genus-species, tipico della logica giuridica romana; l'interesse del giurista non va oltre il caso del donum, e la
riduzione del munus a species di questo genus tradisce il suo disinteresse per le altre accezioni del termine (Marcia-
no dovrà invertire il rapporto per dare una definizione unitaria del munus!?). In conclusione, sembra arbitrario discernere un particolare significato giuridico tra le molteplici sfumature che munus assume nella vita di ogni giorno, e che passano anche nel linguaggio giuridico, senza alcuna rielaborazione; né é
Nell'editto III (FIRA I, 408) λειτουργία indica i munera verso la comunità greca (infra nota 21). Λειτουργία, λειτουργεῖν sono nell'uso della cancelleria la traduzione di munus, muneribus fungi; tuttavia, la liturgia ha caratteri propri (J. OEHLER, Leiturgie, RE 12,1925) e la storia dei due istituti si sviluppa secondo linee diverse, nonostante la reciproca, progressiva assimilazione [ancora nel IV sec. la liturgia si presenta, agli occhi di Libanio, in forme ben diverse da quelle fissate dai giuristi romani per il munus; P. PETIT, La vie municipale à Antioche au IV” siècle ap. J.-Ch., 1955, cap. 2, e la mia rec., Labeo 5, 1959). L’analisi delle liturgie esula dai fini di questa ricerca: considero quindi il termine solo quando sia la traduzione dell'equivalente latino.
17 Tab. Tarentina, in Epigraphica 9, 1947, 1, 1. 10: ...munus faciat neive imperato neive advorsum provocationem...
18 E CANCELLI, Saggio sui concetto di officium, RISG, 1957-58, 27
estr., che raccoglie ed analizza le testimonianze su questa letteratura.
19 Infra.
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possibile riconoscere nella necessitas, di cui sporadicamente
si colora, i tratti del vinculum iuris?® c) Tra le specificazioni che aderiscono a munus, publicum sottolinea il rapporto dell’opera, dell’ufficio con la vita della res publica romana?! Munus publicum, munus rei publicae si contrappongono in Cicerone agli studia, agli otia letterari??, nell’uso corrente per la gestio rei publicae, l'amministrazione urbana o provinciale. Nel De officiis, munus publicum & assimilato a negotium per indicare l’attività pubblica del civis, il momento politico della vita sociale: Off. 2.75: Caput autem est in omni procuratione negotii et muneris publici ut avaritiae pellatur et minima suspicio.
La dottrina dominante generalizza affermazioni sporadiche dei giuristi classici, recette spesso dalla prassi della cancelleria, e contrappone munera (cioé munera publica) ad honores, xavvisando il fondamento della dicotomia nella asserita onerosità, obbligatorietà giuridica del munus, che non sussisterebbe invece per l'Aonor?. Ma l'uso costante di mu20 Diversamente la LEPRI, Saggi, cit., 31 ss., 35 ss. Anche il CANCELLI parla di prestazione in adempimento di un dovere, ma non necessariamente giuridico (Saggio, cit., 19).
?! Publicum nelle fonti & usato solo in riferimento alla res publica romana. Le funzioni locali nelle comunità di peregrini sono munera, Aevτουργίαι ma mai munera publica: così di λειτουργία si parla nelle conferme di precedenti immunità da oneri locali che i rappresentanti di Roma, eredi di una tradizione ellenistica, concedono a membri di collegi greci (M. SEGRE, Epistulae Sullae, RFIC 16, 1938, 253 ss.; S. ACCAME, Il dominio romano in Grecia, 1946, 44 ss., con le fonti citt. Anche il Agvtovp-
γεῖν dell'editto di Augusto ai Cirenei mi sembra pertanto vada riferito a funzioni dovute alla comunità greca dai nuovi cives, rimasti, nonostante la concessione della cittadinanza, membri anche di questa [in tal senso F. DE
VISSCHER, da ultimo in Nouvelles études de droit romain, 1949, 111; contra, ma non per la connessione del λειτουργεῖν V. ARANGIO-RUZZ, in St. Carnelutti, 1955, 63).
con funzioni
locali,
22 Cic. off. 3.1.2: ille enim requiescens a pulcherrimis rei publicae mu-
neribus otium sibi sumebat; div. 2.4.7: naturales esse quasdam conversiones rerum publicarum ... quod cum accidisset nostrae rei publicae tum pristinis orbatis muneribus haec studia renovare coepimus; Tusc. 5.38.112: nec privato nec publico muneri defuisse.
cfr. fam. 9.6.5;
23 TH. MOMMSEN, B. KUEBLER, citt. Per la LEPRI, Saggi, cit., il munus avrebbe acquistato, dopo le riforme serviane, caratteri analoghi alle
obbligazioni privatistiche, si che potrebbe per esso parlarsi di un’obligatio di diritto pubblico.
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nus per l’opera di consoli, proconsoli, questori, praefecti urbi esclude l'antinomia tra i due termini^*. Honor e munus sono concetti diversi ma non antitetici, e colgono spesso da due punti di vista uno stesso fenomeno; l' honor sottolinea la
posizione di supremazia, la dignitas di chi gestisce Ia cosa pubblica, il munus il momento. dell'operare. Naturalmente, non ogni munus é accompagnato da un honor; non ne sono investiti gli iudices privati, i membri dei consilia quaestionum, ed il problema non si pone neppure per le mille attività onerose imposte ai provinciali dai governatori. Anche l'opera del senato & un munus? Verr. 11. 3.41.98: Multa sunt imposita huic ordini munera
.. multa pericula non solum legum ac iudiciorum sed etiam rumorum ac temporum.
L'antitesi munus-honor non ha quindi ragion d'essere alla luce delle fonti tardo repubblicane; esclusa peró l'antinomia, non si esclude per ció stesso che il munus possa costituire un'attività dovuta ex lege, un obbligo giuridico. Varie constatazioni potrebbero provare anzi il contrario: la clausola di stile che sancisce l'immunitas per cives e peregrini in riconoscimento di particolari meriti verso la res publica, o per i sacerdotes municipali, estendendo loro un privilegio proprio dei Romani?$, l'inserimento nell’editto di una clausola che prevede I’ excusatio del iudex unus in talune circo-
?* Cic. Manil. 62: tanta in eo rei publicae bene gerendae spes constituebatur ut duorum consulum munus unius adulescentis virtuti committeretur; Cic. fam. 10.12.3: qui quod consules aberant, consulare munus sustinebat more maiorum; Cic. div. in Caec. 19.61: a maioribus nostris accepimus,
praetore quaestori suo parentis loco esse oportere; nullam neque iustiorem neque graviorem causam necessitudinis posse reperiri quam coniunctionem
sortis, quam officii, quam muneris publici societatem; Cic. Vatin. 35: non ministros muneris provincialis senatus ... deligere posset? etc.
25 Ma la dignità senatoria non sembra, in quest'epoca, un honor: TH.
MOMMSEN,
Staatsrecht, 3.2. cit., 870 e n. 4.
26 Sopra n. 14; anche nella tabula Tarentina, secondo la ricostruzione dell'editore: /. 3, te omnium rerum/«militiae eis vacatio mu»nerisve esto
atque aera militaria stipendiaquel«eis omnia merita sunto». Ma questa lettura lascia dubbiosi per vari motivi: a) in tutte le clausole analoghe, munus è accompagnato da publicum; b) la clausola, di solito, suona miliatiae
munerisque publici... vocatio solo qui l'ordine sarebbe invertito: c) ve ha valore alternativo: ma una possibilita di scelta tra il munus e la militia (militiae munerisve) & da escludersi.
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stanze?’, le disposizioni, già nella lex Acilia, atte a costringere gli iudices dei consilia quaestionum a compiere il pro-
prio dovere?®, le concessioni di immunità per il primo ed i secondi, regolate dalla Jeges Iuliae sull'ordinamento processuale??. Excusatio, vacatio trovano la loro ragion d'essere in un obbligo dal quale liberano. Sembrerebbe in definitiva uscirne rafforzata la teoria del Savigny, che nei munera come negli honores ravvisava degli obblighi giuridici, e distingueva gli uni dagli altri in virtü della dignitas, che avrebbe aderito ai primi, ma non ai secondi?? Ma una conclusione di tal genere falsa la prospettiva tardo-repubblicana: munus ed immunitas non si fronteggiano in simmetrica giustapposizione, perché per la maggior parte delle funzioni pubbliche non & neppure concepibile un desiderio di esonero. I munera publica da cui i nuovi cives vengono liberati sono i compiti onerosi che i magistrati addossano a peregrini e cives; l'immunità viene concessa anche a peregrini che conservano il proprio status civitatis, ma essa sarebbe evidentemente un non senso se riguardasse quelle attività che Cicerone considera gestio rei publicae, espressione massima della libertà del popolo?!, e che sono, ipso iure, precluse ai peregrini. Certo, i munera imposti ai sudditi, come quelli del civis nelle province, e lo stesso munus iudicandi in Roma (i cui caratteri di onerosità sono sottolinea-
ti già dal II sec. a. C.??) riposano tutti su un iussum del ma27 0. LENEL, Ed. 167 ss.
28 Lex repetund. Schriften 1, cit., 56.
42.6
(FIRA
I, 94); TH.
MOMMSEN,
Gesammelte
2? P-F. GIRARD, Les leges Iuliae iudiciariae etc., ZRG, 34, 1913, 333, 335; 1. MAZEAUD,
La nomination du iudex unus,
1913, 84, 94; G. Pu-
GLIESE, Il processo formulare, 1947-1948, 1, 232; 2, 274. 30 ἢ) SAVIGNY, Sistema del dir. rom. attuale (tr. it. a cura di V. Scialoja, 1898) 8, 75, sostenne che munera ed honores presentano entrambii caratteri dell’obbligo giuridico ma non si confondono in un’unica categoria in quanto solo i secondi conferiscono una dignitas a chi ne & investito. Al Savigny si ricollega il LECRIVAIN (Munus in DS 3,2, 1900) che distingue un significato ampio di munus, che abbraccia anche gli honores, da uno più ristretto, di onere senza dignitas.
31 Cic. rep. 2.57: id enim tenetote, quod initio dixi, nisi aequabilis haec in civitate compensatio sit et iuris et officii et muneris ut te potestatis satis
in magistratibus et auctoritatis in principum consilio et libertatis in populo sit, non posse hunc incommutabilem rei publicae conservari statum. 2 J. MAZEAUD, La nomination, cit., 86 n. 1, 103; cfr. Cic. Brut. 31, 117.
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gistrato?5; evidente ne è quindi la necessità giuridica. Ma essi non esauriscono il fenomeno. Rimangono liberi nell’adempimento i compiti dei magistrati, le funzioni del senato, durante tutta l’età repubblicana: la costituzione repubblicana non conosce i mezzi per costringere il magistrato a compiere i munera del suo ufficio, ma si limita a creare gli strumenti per delimitarli: precisa ciò che non deve fare, non ciò che deve compiere, né prevede sanzioni per il magistrato inadempiente”* . Il rapporto tra magistrato e Stato rimane sul
piano dell’o cium, del dovere morale, ma non assume rilievo giuridico. Ancor meno si può parlare di necessità giuridica per l'opera del senato. Publicum, rei publicae sottolinea solo il fine, la destinazio-
ne alla cosa pubblica di talune attività, compiti: rimane estranea alla specificazione la natura giuridica dell'ufficio svolto. d) Munus publicum & locuzione frequentissima nell'uso ciceroniano; di rado invece si riscontra nelle opere letterarie
la perifrasi munus civile, del tutto ignota alle fonti giuridiche. Cicerone e Livio distinguono qualche volta compiti di pace ed attività di guerra, munera civilia e militaria: Cic. off. 1.34: ...ut eorum et in bellicis et in civilibus officiis vigeat industria... Liv. 9.5.3: ...iam is (Herennius Pontius) gravis annis non
militaribus solum sed civilibus quoque abscesserat muneribus.
Civilia sono dunque i munera del civis, contrapposti a quelli del miles; ridurre l'espressione a significare le sole funzioni dei municipes & in contraddizione con queste attestazioni delle fonti, cosi come identificare munus civile e munus publicum?$. Le definizioni di municipium, municeps,
municipes nel De verborum significatione, diverse di epoca, ma tutte riportabili in sostanza al pensiero di Flacco"', ri-
33 M. WLASSAK, Der Judicationsbefehl der r. Prozesse, 1921, passim; peri giurati delle quaestiones 52-55; 129-133. 34 T] giuramento che precede la renuntiatio non fa nascere un obbligo giuridico, ma religioso, etico-sociale: K. LATTE, Meineid, RE,15.1, 1931.
35 R. HEINZE, Fides, in Hermes, 64, 1929, 162 s.; vedi anche E. DE
MARTINO, Storia della costituzione romana 1, 1951, 422.
36 La dottrina fa dei munera civilia una sottospecie dei munera publica, e li identifica con gli oneri municipali. 7 Così E. MANNI, Storia dei municipi fino alla guerra sociale, 1947, 18.
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chiamano la partecipazione dei municipes ai munera dei cives Romani,
cioè ai munera publica (altra questione, che
esula da questa ricerca, è determinare se tale partecipazione si estenda a tutti i munera o si limiti agli onerosi): Fest. 155 Lindsay: Municipium id genus hominum dicitur .. qui participes tamen fuerunt ad munus fungendum una cum Romanis civibus... (cfr. Municeps).
Non sappiamo se anche i compiti assolti dai municipes verso il proprio municipio fossero detti munera publica: certo lo sono i munera dei coloni nelle colonie civium Romanorum: Lex Coloniae
Genetivae Iuliae 61 (FIRA I, 181):
iisque
pontificibus auguribusque qui in quoque eorum collegio erunt liberisque eorum militiae muneris publici vacatio sacro sanctius esto...
Potrebbe pensarsi ad un esonero dai munera imposti dai governatori provinciali, ma l'uso di publicum, nella stessa legge, per le finanze, 1 Sacra, οἱ beni comuni della colonia? non lascia dubbi in proposito”° 3. Nell'uso letterario, munus s publicum é ancora, alla fine
del I secolo, ogni funzione pertinente alla vita pubblica, trovi o non trovi la sua ragion d'essere in un obbligo giuridico. Cosi sono munera publica i tributi dei provinciali, le prestazioni richieste da Galba ai senatori ed ai cavalieri, Äi compiti dei magistrati repubblicani e quelli del principe'°. Ma un frammento di Giavoleno già tradisce la rielaborazione giurisprudenziale Dig. 50.4.12, Iavol. libro sexto ex Cassio: cui muneris pu-
blici id ad quae rum,
vacatio datur, non remittitur ei, ne magistratus fiat, quia honorem magis quam ad munera pertinet. Cetera omnia, ad tempus extra ordinem exiguntur, veluti munitio viaab huiusmodi persona exigenda non sunt.
38 Capp. LXV, LXVI, LXXVII (FIRAI, 180-182), etc. ?? | privilegio riguarda naturalmente le sole funzioni onerose, non tutte le funzioni pubbliche: bisognerebbe altrimenti pensare che il legislatore abbia voluto esonerare i pontefici anche dal facere sacra publica, che è un munus publicum (cfr. Edicta Augusti ad Cyrenenses III, cit., FIRA I, 408); diversamente TH. MOMMSEN,
Gesammelte Schriften], cit., 249 s.
^9 Ad es., Tac. ann. 3.53.3: ut ceteros quoque magistratus sua munia
implere velim; 6.11.1: qui consulare munus
usurpet;
1.7.4: de honoribus
parentis consulturum neque abscedere a corpore idque unum ex publicis muneribus etc.
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Le magistrature municipali sono ormai spesso un onere, ed il brano riflette una situazione analoga a quella di cui troviamo eco nella lex Malacitana: la preoccupazione di assicurare candidati alle magistrature e di ridurre le diserzioni, che ispira le disposizioni del cap. LI di quello statuto (FIRA I, 209), detta a Giavoleno la soluzione restrittiva.
La vacatio dai munera publica non può validamente invocarsi da chi è chiamato a rivestire una magistratura, perché
la magistratura è un honor. Necessità di politica amministrativa suggeriscono di scindere il munus dalla dignitas che talora lo accompagna, di tracciare i limiti tra honor e munus, in
un tentativo che è anche sforzo di cogliere la natura del munus publicum e di precisarne i caratteri sul piano giuridico. Il munus è in genere una attività onerosa, sembra affermare Giavoleno; pertanto, se ne dà vacatio. Nelle magistrature, pe-
rò, l’onere è congiunto con un honor che esclude ogni possibilità di esonero. La distinzione considera separatamente 1 due aspetti della magistratura, non contrappone magistratura a munus; il cetera omnia ricongiunge in un corpo unitario le funzioni onorifiche, da cui non si può pretendere vacatio, e le onerose, come la munitio viarum. Queste ultime poi si caratterizzano in Giavoleno per la temporaneità ed il carattere eccezionale che ancora conservano (ad tempus extra ordinem).
Ignoriamo se Giavoleno ricalchi un pensiero di Cassio: ma lo sforzo evidente nel ragionamento, le titubanze, le incertez-
ze depongono a favore della novità dell'argomentazione. Pomponio,
mezzo
secolo piü tardi, pone in rilievo un
altro elemento dei munera publica: Dig. 50.16.239.3 (Pompon. libro singulari enchiridii): Munus publicum est officium privati hominis ex quo commodum ad singulos universosque cives remque stratus extraordinarium pervenit.
eorum
imperio magi-
Il munus publicum è V ufficio che un privato, non investito di alcuna dignità, assolve verso la comunitä*!. Le magistrature rimangono fuori di questa definizione che approfondisce e trasforma in canone sistematico la distinzione accen4 Il KARLOWA, Röm. Rechtsgeschichte, 1, 1885, 603, contrappone la definizione di Pomponio a quella di Callistrato e rileva che il primo pone come criterio discretivo tra munus ed honor il carattere di civis privatus dell'onerato (l'investito di un honor & invece un magistrato), il secondo la desi-
gnazione popolare che si avrebbe per le magistrature, ma non per i munera.
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nata appena in Giavoleno. Ma la differenza tra le due categorie di funzioni pubbliche rimane estrinseca, formale, senza fondamento nella regolamentazione legislativa dei munera che sembra ancora unitaria‘. Il problema della natura giuridica del munus rimane estraneo a Pomponio: l'imperium magistratus è la condizione del commodum civitatis piuttosto che la fonte dell’onere. Il giurista lo rileva appena; la lex, il mos, che negli autori posteriori sono considerati altre fonti di munera, vengono qui lasciati in silenzio. Né in Giavoleno né in Pomponio le funzioni assolte dai municipes a pro della propria comunità sono distinte terminologicamente dalle altre. Anche in Gaio le funzioni municipali sono munera publica: Dig. 50.1.29, Gaius libro primo ad edictum provinciale: Incola et his parere debet apud quos incola est, et illis apud quos civis est: nec tantum municipali iurisdictioni in utroque municipio subiectus est, verum etiam omnibus publicis muneribus fungi debet.
Chi dimora in una comunità diversa da quella da cui trae origine, non solo è assoggettato alla giurisdizione municipale in entrambe, ma anche tenuto ai munera utriusque muni-
cipii. (Dal contesto è evidente che si tratta di munera verso le municipalità). Non sappiamo invece se Gaio limiti munus, nel senso di Pomponio, alle sole funzioni dei privati cives; ma l’esclusione degli incolae, dalle magistrature, che nel principato sembra sia la norma ?, legittima il dubbio. 4. Il tentativo di definizione del liber singularis si arresta alle funzioni pubbliche, del civis verso la comunità. Alla fine del secondo secolo l'esigenza sistematica di Callistrato trova concreta espressione in uno schema unitario di tutti i munera, che la dottrina moderna ha accolto e fatto proprio,
ravvisandovi il fondamento per l'antinomia munus-honor e la configurazione del munus come onere giuridico, obbligo.
42 Ancora in Callistrato le disposizioni di Adriano sull'imposizione dei munera sono riferite agli honores (Dig. 50.4.34.6).
43 TH. MOMMSEN, Staatsrecht, cit., 3.804; J. DECLAREUIL, Quelques
problemes d'histoire des inst. mun. rom., RHD 31, 1907, 58.
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Distinti quattuor genera nella congerie delle cognitiones presidali (numerus ergo cognitionum in quattuor fere dividi potest: aut enim de honoribus sive muneribus gerendis agitatur, aut de re pecuniaria disceptatur, aut de existimatione alicuius cognoscitur aut de capitali crimine quaeritur)^^, il giurista raccoglie in uno schema organico le attività in cui si articola la vita sociale dei cives, siano esse pubbliche o private: Dig. 50.4.14.1, Call. libro primo de cognitionibus: Honor
municipalis est administratio rei publicae cum dignitatis gradu sive cum sumptu sive sine erogatione contingens. Munus
aut
publicum aut privatum est. Publicum munus dicitur quod in administranda re publica cum sumptu sine titulo dignitatis subimus.
Il criterio discretivo tra munus ed honor & ancora in un elemento spirituale, la posizione di prestigio di cui chi administrat la res publica puó essere investito o meno. Nella dignitas il De cognitionibus ravvisa il dato tipico degli honores, facendosi cosi espressione degli ideali borghesi delle aristocrazie provinciali; ogni considerazione patrimoniale è esclusa esplicitamente (sive cum sumptu sive sine erogatione contingens).
All' honor si giustappongono le
funzioni senza dignitas, l'officium privati hominis di Pomponio; ma honor e munus, pur nella diversa valutazione sociale, conservano una identica natura, sono entrambi administratio rei publicae. Nel Dig. manca la definizione del munus privatum; non
sappiamo se l'abbia omessa Callistrato o se sia stata amputata dai compilatori: ma la seconda ipotesi sembra la piü probabile se si considera la poca fortuna incontrata nella giurisprudenza posteriore dalla categoria e la definitiva assi-
milazione dei munera che Callistrato considera privata? ai
publica nel sistema giustinianeo (cfr. /nst. Iust. 1.25.1 nam et tutelam... placuit publicum munus esse). Nuova è, nei confronti del liber singularis enchiridii,
l’assenza di ogni cenno
alla straordinarietà del munus
4 Dig. 50.13.5. 4 Dig. 27.1.17.4: is qui aedilitate fungitur potest tutor dari: nam aedilitas inter eos magistratus habetur qui privatis muneribus excusati sunt. L'integrazione del non, proposta già dagli umanisti, è ritenuta necessaria dal SOLAZZI, Minore età, 1912, 275 n. 4. Nello stesso senso anche il KUHN, Die staedtische und buergerliche Verfassung etc., 1864, 1.35.
51
(commodum extraordinarium aveva detto Pomponio, richiamandosi al cetera quoque extraordinaria di Giavoleno), che riflette le condizioni in cui si svolge il mirabile sviluppo della vita cittadina sotto gli Antonini, strettamente connesso proprio all’aumento ed alla normalizzazione delle funzioni non onorifiche (basta leggere le disposizioni imperiali che ricorda Callistrato stesso, quasi tutte di Adriano o dei divi fratres, per accorgersene). La stanchezza incipiente delle borghesie cittadine e l’insofferenza in cui comincia a tradursi il loro esaurimento suggeriscono le espressioni che danno invece un contenuto oneroso all’administratio rei publicae: il subimus in Dig. 50.4.14.1, il compellendos nel par. 6 dello stesso frammento, il cui senso di sottoposizione faticosa & accentuato dal ricordo delle vexationes domesticae, della vexatio corporis che torna in
tema di immunità^e.
Honor e munus sono dunque delle prestazioni obbligatorie: per l’honor, tuttavia, l'obbligatorietà rimane, nei pensie-
ro di Callistrato, appena accennata, nella possibilità di costringere i riluttanti ad accollarsi la gestio rei publicae, che & poi la generalizzazione del principio già posto nel cap. LI della lex Malacitana. Per il munus, l'ampia trattazione che Callistrato sembra riservasse all’immunitas dai munera municipalia (Dig. 50.6.6) presume una ormai acquisita coscienza della natura giuridica della prestazione imposta al privato. L'ufficio privati hominis di Pomponio, sostanzialmente volontario, e comunque impreciso nella sua configurazione giuridica, diventa in Callistrato onere patrimoniale, vexatio et sumptus (Dig. 50.6.6.3).
Tuttavia la definizione di Dig. 50.4.14.1 non analizza il munus sotto il profilo dell’obbligo; l’interesse per le fonti della prestazione rimane estraneo alla ricerca. Il problema di Callistrato è il rapporto tra munus ed honor (non l’indagine in sè degli elementi del munus, la cui obbligatorietà egli presuppone); rapporto che è colto sotto il profilo della dignitas. Nuovo è anche lo sforzo di abbracciare in una sintesi organica tutte le funzioni prive di dignitas: munus aut publicum est aut privatum. La dicotomia sembra escludere ogni alternativa (aut ... aut), ma il tentativo non può dirsi coronato da risultato: dal munus-administratio il giurista sente 46 Dig. 50.6.6.3; 13. 52
estranei quei compiti che Ermogeniano asserirä rei proprie cohaerere*’, le munitiones viarum, le collationes praediorum. Giavoleno non aveva esitato ad assimilarli agli altri uffici pubblici, Pomponio, nel silenzio, sembra non avvertire il problema: Callistrato, sebbene legato soprattutto al mondo
spirituale degli Antonini (non senza significato & che egli, scrivendo sotto Settimio Severo e Caracalla, nel primo decennio del III secolo, ricordi in tema di diritto municipale costituzioni per la maggior parte del II secolo) avverte di-
versi i due nuclei di funzioni e, pur non sapendo rinunziare a ridurre il munus ad administratio, deve, per una esigenza di completezza, aggiungere alla contrapposizione iniziale la precisazione: Dig. 50.4.14.2, Call. libro primo de cognitionibus: Viarum munitiones, praediorum collationes non personae sed locorum munera sunt.
La frase nei Digesta costituisce un paragrafo autonomo formalmente, ma logica integrazione del primo, che precisa e completa. L'appendice però toglie efficacia all'antitesi iniziale e denuncia il limite della sistematica di Callistrato: il munus & administratio nel primo binomio, non in questo secondo (munera personarum-munera locorum); e tuttavia la
prima proposizione non esaurisce il fenomeno se non integrata dalla seconda.
La ricerca di una sistematica generale dei munera non va oltre questo schema, il più complesso offertoci dalla giurisprudenza romana; nel corso dell'esposizione, nel De cognitionibus, la disciplina giuridica dei munera e degli honores & presentata come un complesso unitario e le costituzioni imperiali riguardanti i munera servono di fondamento a principi che regolano l'assunzione agli honores, o viceversa. Il vel, il sive che uniscono nell'esposizione i due termini confermano sul piano filologico la prospettiva unitaria in cui vengono colti i due istituti. Anche in Callistrato le funzioni municipali non hanno particolare rilievo, né terminologico né sistematico; di solito il giurista usa la perifrasi munera civitatis, municipalia: Dig. 50.6.6.1, Call. libro primo de cognitionibus: circa mu-
nera quoque municipalia subeunda...
47 Dig. 50.5.11. 53
ma la specificazione può mancare, o si può trovare il generico munus publicum: Dig. 50.2.12, Call. libro sexto cognitionum: inhonestum tamen puto esse huiusmodi personas... in ordinem recipi, et maxime in eis civitatibus, quae copiam virorum honestorum habeant: nam paucitas eorum qui muneribus publicis fungi debeant necessario etiam hos ad dignitatem municipalem, si facultates habeant, invitat.
Manca invece la specificazione civile, sporadicamente riscontrata nelle fonti letterarie tardo-repubblicane. Due costituzioni del 196 e del 205 documentano per la prima volta l’uso di questa locuzione da parte della cancelleria‘; negli stessi anni Papiniano, funzionario dello scrinium libellorum e poi prefetto del pretorio, introduce, col primo libro dei Responsa, i munera civilia nella problematica della giurisprudenza. La singolare coincidenza permette di sospettare in civile un altro papinianismo, accanto a quelli già segnalati nelle costituzioni di Settimio Severo”. In ogni caso, la recezione della specificazione dall’uso letterario si è compiuta nell’ambiente della cancelleria; attraverso l’opera di Papiniano l’espressione è poi passata ai giuristi del terzo secolo, incontrando singolare fortuna nella sistemazione dell’ordinamento municipale. Accolta nel significato comune, per designare i compiti che si assolvono verso la propria comunità, giustapposti alle funzioni militari, la perifrasi è, già nei Responsa e nelle Quaestiones, frequentissima, ma non sembra oggetto di
particolare rielaborazione: ne manca ogni esegesi, ogni definizione esplicativa (e mancheranno anche nei giuristi posteriori, che pure tante ne danno dei munera, dei munera patrimonialia, degli extraordinaria). Nel pensiero comune, nella vita di ogni giorno, 1 munera civilia trovano la loro ragion d’essere, né hanno bisogno, agli occhi di Papiniano, di altra giustificazione: piuttosto, il giurista cerca il fondamento del rapporto tra onerato e civitas, rapporto che la locuzione in questione sottolinea, e lo ritrova nell'origo e nel domicilium?°. Origo e ^8 Cod. Just. 4.26.1; 9.12.1. 4 E. Cosma, Papiniano 1, 1890, 310, e lo studio del LEIPOLD, Über die Sprache des Juristen Aem. Papinianus, 1891. Cfr. A. VISCONTI, Note preliminari sull’origo, in St. Calisse 1, 1940, 87; V. TEDESCHI, Contributo allo studio del domicilium, RISG 7, 1932, 213 ss. e dello stesso VISCONTI, Note preliminari sul domicilium, in
St. Ferrini, I, 1947, 429.
54
domicilium sono chiamati a giustificare ogni imposizione di munera civilia non solo, ma si precisa che l’essere possessor nel territorio di una cittä non & motivo sufficiente per esser tenuto ai munera di tal genere: Dig. 50.1.17.5, Papin. libro primo responsorum: sola ratio possessionis civilibus possessori muneribus iniungendis citra privilegium specialiter civitati datum idonea non est.
Il principio frena le mire delle civitates nei confronti degli externi, isolando nel corpo delle funzioni locali queste, più strettamente civiche. Pur allargando (probabilmente sulla scorta di analoghe disposizioni legislative) agli incolae l’onere della soggezione ai munera civilia, Papiniano si ricollega in fondo alla tradizione del munus-admnistratio, privilegio dei cives ed espressione massima dell’autonomia locale. Ma il munus dei responsa e delle quaestiones è una funzione obbligatoria, i cui caratteri di necessità sono sottolineati dal richiamo alla fonte, legge o comando del magistrato: Dig. 50.5.8.3, Papin. libro primo responsorum: qui muneris publici vacationem habet, per magistratus ex improviso collationes indictas recte recusat; eas vero quae e lege fiunt recusa-
re non debet.
Il problema è ripreso in termini più generali in Dig. 50.5.6, Papin. libro secundo quaestionum: hi qui muneris publici vacationem habent ad ea quae extra ordinem im-
perantur compelli non solent.
Il giurista limita la vacatio agli oneri imposti dal magistrato, la esclude per gli obblighi e lege; il principio, che in questa formulazione assoluta, generale, torna qui per la prima volta, è significativo per la storia dell’immunitas, sempre più minutamente regolata man mano che al munus si vengo-
no riconoscendo i caratteri dell’obbligatorietà giuridica?!.
Ma soprattutto colpisce il rilievo che nelle due proposizioni hanno la legge ed il comando del magistrato; Callistrato aveva avvertito l’onerosità del munus, ma la considerazione 51 Manca ‘ancora uno studio storico dell’immunitas; cenni nelle vecchie trattazioni sui munera (soprattutto E. KUHN, Die staedtische und
buergerliche Verfassung, cit.). Il principio affermato in Dig. 50.5.6 sarà ripreso da Gordiano in Cod. lust. 10.46.1.
55
era rimasta nel De cognitionibus appena accennata, colta solo sotto il profilo dell’immunitas. In Papiniano l’onerositä nasce invece dalla considerazione della fonte. Giavoleno, Pomponio, Callistrato avevano visto nelle funzioni pubbliche solo il momento
attivo, l’administratio,
non si erano posti il problema della natura giuridica del compito, avevano ignorato la fonte del munus. Nei Responsa come nelle Quaestiones il contenuto dell'attività prestata, l’administratio, non ha alcun rilievo: il munus é un vincolo (in
Dig. 50.2.6.4 Papiniano afferma: muneribus civilibus... non tenebitur), giuridico perché nella legge o nel comando del magistrato ne & ravvisabile la fonte, valutabile patrimonialmente. Come l'analisi della fonte suggerisce Ja distinzione tra funzioni ordinarie ed extra ordinem, cosi la valutazione patrimonialistica & il fondamento della giustapposizione dei munera che incidono sul patrimonio agli altri (non si trova ancora in Papiniano la specificazione personalia). Anche in questo caso, la rielaborazione del giurista va di pari passo con le innovazioni legislative (e probabilmente terminologiche) della cancelleria: Dig. 50.5.7, Papin. libro trigesimo sexto quaestionum: a muneribus quae non patrimoniis indicuntur veterani post opti-
mi nostri Severi Augusti litteras perpetuo excusantur.
I veterani non sono esonerati dai pesi patrimoniali??; il principio non sembra andar oltre il caso in esame (la legislazione e la dottrina ne faranno invece una norma genera-
le, fondamento dell'intero sistema delle vacationes??), né se ne tenta la conciliazione coll'altro, enunciato in tema di
munera extraordinaria, in Dig. 50.5.8.3, la cui formulazione non sembra ammettere eccezioni. Gli schemi che il giurista abbozza, e che la dottrina posteriore sviluppa, rimangono autonomi l'uno dall'altro, espressioni di esigenze diverse; la sistemazione unitaria, incompleta, é solo nei dioclezianei.
Il rilievo sociale dell’opera del soggetto passivo, che è al centro della ricerca di Callistrato, viene in considerazione una sola volta, per contrapporre talune funzioni, le sordide,
52 Per l'immunità ai veterani e la politica di Settimio Severo al riguardo, E. SANDER, Das Militiaerrecht der Römers, RhM,
53 Infra n. 63.
56
1958, 203 ss.
alle rimanenti, nella divisione degli obblighi pro qualitate personarum, che la legislazione dei Severi accentua?^: Dig. 50.1.17.7, Papin. libro primo responsorum: exigendi tributi munus inter sordida munera non habetur et ideo decurionibus quoque mandatur (cfr. Dig. 50.5.8.4).
Le brevi secche note di Papiniano, nate per lo più da problemi pratici, contingenti, non offrono una rielaborazione organica dei munera; tuttavia, nella radicale novità della concezione, esse condizionano, con la riconosciuta giuridi-
cità dell'onere, con la valutazione quasi esclusivamente patrimoniale, tutto lo sviluppo della dottrina posteriore. Gli scarsissimi accenni ai munera publica in Paolo non permettono di riconoscergli una autonoma impostazione dei problemi relativi. Invece, particolare interesse presenta la definizione del munus in Dig. 50.16.18. Paul. libro nono ad edictum: Munus tribus modis dicitur: uno donum, et inde munera dici dari mittive; altero onus, quod cum remittatur, [vacationem
militiae munerisque praestat]? inde immunitatem appellari; tertio officium unde munera militaria et quosdam milites munificos vocari; igitur municipes dici, quod munera civilia capiant.
Come i grammatici tardo-repubblicani, e ricalcandone in parte lo schema, Paolo sottolinea i momenti tipici del munus; le sue conclusioni sono sostanzialmente quelle di Verrio Flacco; il munus & una funzione polivalente, che egli tenta di cogliere nella sua essenza grazie ai tre sinonimi, attento soprattutto alla terminologia dei giuristi. Nuovo, nei confronti del De verborum significatione, & il secondo ter-
mine della triplice esemplificazione: anche Flacco aveva sottolineato il donum e l'officium. Paolo aggiunge l'onus, proprio perché nel munus l'età sua coglie soprattutto il senso di peso, di obbligo, che é costante in Papiniano, torna in
Ulpiano e trova in Marciano una formulazione sintetica di singolare evidenza. Il munus & dono, quando si presta al di 54 G. CARDASCIA, L’apparition dans le droit des classes d’honestiores et d'humiliores, in RH 28, 1950, 468. 55 L'inciso, che mal si inserisce nel periodo e turba la simmetria con le
altre due proposizioni esplicative, potrebbe essere una glossa finita nel testo: si spiegherebbe così l’incongruenza del discorso per cui la militia, che qui è distinta dal munus, torna invece come munus nella terza proposizione.
57
fuori di ogni preesistente vincolo giuridico?$, è onere nell'istituto dell'immunitas e nella considerazione sociale ^
quando nasce da una norma giuridica, è opera, ufficio nel-
l'uso atecnico, tradizionale. In tal senso i milites che non siano muniti di privilegio, dirà Vegezio”’, spiegando il termine cui Paolo fa ricorso nella sua esemplificazione, i soldati che compiano le opere militari, sono detti munifices. Cosi anche i cives, che nei municipia svolgono gli officia civilia, le opere civili, sono municipes. La giustapposizione tra munera civilia e munera militaria ed i] valore identico attribuito a munus, come il significato della specificazione civilia, & evidentissimo nella costruzione simmetrica delle
due etimologie: munificos-municipes. Munera municipalia e munera civilia appaiono in connessione strettissima, ma non sinonimi (civile indica anche l'opera del civis in Roma, non necessariamente quella di un civis in una comunità provinciale, nell'affermazione di Dig. 16.1.1.1, Paul. libro tri-
gensimo ad edictum, stereotipa nel pensiero dei giuristi),
anche nel frammentario Frg.Vat. 247, in cui al municipalia munera del commento fa riscontro il civilia munera nel testo della costituzione: Frg. Vat. 247: Paulus l. I editionis secundae de iurisdictione tutelaris: Qui tres pluresve liberos habent superstites, excusari solent idque compluribus constitutionibus cavetur tam divorum Marci et Luci... quam dominorum nostrorum. Sed hic numerus in Italia cives Romanos liberat. Nunc ex constitutione principum nostrorum nec in Italia, sed Romae tantum, exemplo municipalium munerum; nam... scripserunt: sicut in Italia cives Romani
consistentes numero quattuor liberorum incolumium a civilibus (Cod. lust. 5.66.1) muneribus excusantur, ita qui ad tutelam vel
curam vocantur, Romae quidem trium liberorum incolumium numero... in Italia vero quattuor, in provinciis autem quinque,
habent excusationem.
Più vasta e complessa la problematica di Ulpiano, non aliena da tentativi, sia pur parziali, di schemi e di sistemazioni organiche. Anche per Ulpiano il munus publicum è un comportamento giuridicamente obbligatorio che vincola
56 B. BIONDI, Success. testam. e donazioni?, cit.
57 Neg. mil. 2.7: munifices appellantur quia munera facere coguntur; cfr. 2.19.26.
58 Moribus civilia officia adempta sunt feminis. 58
(obstringit)” l'onerato; anzi munus diventa qualche volta sinonimo di obbligo: Dig. 50.4.3.12, Ulp. libro secundo opinionum: cura frumenti comparandi munus est et ab eo aetas... excusat.
Munus qualifica l'opera del curator f. c.: il termine appare al giurista cosi pregnante da non richiedere altra specificazione; da solo, individua una situazione giuridica. Il rap-
porto strettissimo con l'excusatio ne sottolinea il carattere obbligatorio. In questo senso torna qualcbe volta anche officium, che nella lingua dei giuristi rimane termine atecnico, dalle piü diverse sfumature: Dig. 50.5.13.1-2, Ulp. libro vicensimo tertio ad edictum: praetor eos, quoscumque intellegit operam dare non posse ad iudicandum, pollicetur se excusaturum: forte quod in perpetuum quis operam dare non potest, quod in eam valetudinem incidit ut certum sit eum civilia officia subire non posse... Duo genera tribuendae muneris publici vacationis sunt, unum plenius, cum et militiae datur, aliud exiguius, cum nudam muneris vacationem. Qui autem non habet excusationem etiam invitus iudicare cogitur.
La vacatio dai munera publica può essere invocata come motivo di scusa avverso il munus iudicandi, che & un officium civile; nella stesura attuale la connessione tra il richia-
mo alla vacatio muneris publici e l'excusatio pretoria non è molto chiara. Il brano & stato evidentemente ridotto: comunque, la digressione duo genera-vacationem, che potrebbe apparire non pertinente al commento alla clausola edittale, trova invece la sua ragion d'essere nella procedura di esoneτοῦθ, Naturalmente, anche nel caso di Ulpiano civilia sono i munera che si assolvono verso la propria comunità. I munera possono accompagnarsi ad un honor, nelle magistrature, o possono essere imposti da soli, senza dignitas: Dig. 50.5.2.1, Ulp. libro tertio opinionum: numerus liberorum... ab honoribus aut muneribus his cohaerentibus excusationem non praestat, sed a muneribus tantum civilibus...;
59 Dig. 50.1.2.1. 60 1 a vacatio, che nasce da un privilegio, viene fatta valere nel corso
del procedimento di imposizione dei munera.
59
cfr. Dig. 50.4.9, Ulp. libro tertio de officio consulis: si quis magistratus in municipio creatus munere iniuncto fungi detrectet, per praesides munus adgnoscere cogendus est... Il munus aderisce all’honor, ma rimane distinto da que-
sto: così Ulpiano precisa il rapporto tra i due concetti, che già aveva costituito un problema per Giavoleno, scindendo il nesso organico che ancora in Callistrato li unifica in momenti diversi di un unico fenomeno, l’administratio, per ve-
dere invece in essi due istituti autonomi. Nell’uso dei giuristi coevi ed in quello della cancelleria la scissione è portata alle ultime conseguenze e munus finisce per designare le sole funzioni onerose, honor i munera cum dignitate. I munera
sono un obbligo per colui al quale vengono imposti, dal momento della creatio; pertanto, la mora nell’adempimento tor-
‘na a rischio dell’inadempiente, afferma Ulpiano generalizzando il principio posto in un rescritto dei divi fratres?! Dig. 49.10.1, Ulp. libro tertio de officio consulis: si qui ad munera publica nominati appellaverint... scient ad periculum suum pertinere si quid damni per moram appellationis rei publicae acciderit.
Per i munera dei magistrati, come per la tutela, il giurista prevede la possibilità dell’intervento extra ordinem del praeses, che costringa a riconoscere l’obbligo (cfr. Dig. 50.4.9); non più sul vincolo metagiuridico della fides repubblicana poggia per lui il rapporto tra comunità e magistrato, ma su questa possibilità di coercizione, che è un’altra manifestazione del contenuto obbligatorio del munus. Tra i munera publica Ulpiano, come Papiniano e Paolo,
distingue 1 civilia, gli oneri, le opere che si richiedono da ogni comunità ai suoi sottoposti, ma l’uso della specificazione municipale accanto a questa civile è più frequente che in Paolo” (Papiniano la ignora) e tradisce una non compiuta assimilazione delle funzioni municipali a quelle che si assolvono in Roma, una diversa valutazione della posizione del municeps e del civis Romanus di Roma nei confronti delle rispettive comunità. 61 Dig. 49.1.21.2: imperatores Antoninus et Verus rescripserunt... Si magistratus creatus appellaverit... eum qui non iuste appellaverit damnum adgniturum si quid damni res publica passa sit. 62 Cfr. Dig. 2.11.2.1; 50.4.3.1; etc.
60
Ma Ulpiano è attento soprattutto all’incidenza del munus sulla sfera patrimoniale del singolo: il problema dei Severi è ancora problema di esaurimento economico, sebbene già si avvertano i primi sintomi di quella che sarà la fuga dei curiali nel IV secolo. Di solito, ci si sottrae ai soli munera patrimonialia, e questi soprattutto, quindi, richiamano la vigile cura degli imperatori e l’attenzione dei giuristi. Il principio che i veterani non sono esonerati dagli oneri patrimoniali diventa canone generale con Antonino ed Alessandro? . Ulpiano si affretta a raccoglierlo: Dig. 49.18.2, Ulp. libro tertio opinionum: vectigalia et patrimoniorum onera sollemnia omnes sustinere oportet (cfr. Dig. 49.18.4, Ulp. libro quarto de officio proconsulis. Gli oneri sono accuratamente distinti, ordinati in sistema,
assumendo come canone proprio la loro incidenza: Dig. 50.4.6.3-5, Ulp. libro quarto de officio proconsulis: sciendum est quaedam esse munera aut personae aut patrimo-
niorum, itidem quosdam esse honores. Munera quae patrimoniis iniunguntur vel intributiones talia sunt ut neque aetas ea excuset neque numerus liberorum nec alia praerogativa quae solet a personalibus muneribus exuere. Sed enim haec munera .. duplicia sunt; nam quaedam possessoribus iniunguntur, sive municipes sunt, sive non sunt, quaedam non nisi municipibus
vel incolis. Intributiones, quae agris fiunt vel aedificiis, possessoribus indicuntur; munera vero quae patrimoniorum habentur non aliis quam municipibus vel incolis.
Il munus personae non interessa il giurista; egli ne riconosce l'essenza nell'administratio rei publicae, come già Callistrato, e ne sottolinea la comune natura con l’honor: Dig. 50.4.8, Ulp. libro undecimo ad edictum: ad rem publicam administrandam ante vicesimum quintum annum,
vel ad
munera quae non patrimonii sunt vel honores admitti minores non oportet.
Ma essi rimangono in secondo piano, non gli pongono problemi. Gli oneri patrimoniali vengono invece minuta-
63 Cod. Iust. 10.42.2. Imp. Antoninus A. Materno. Munera quae patrimoniis publicae utilitatis gratia indicuntur ab omnibus sustinenda sunt; Cod. Iust. 10.42.3 Imp. Alexander A. Atilio. Qui immunitatem munerum publicorum consecuti sunt onera patrimoniorum sustinere debent.
61
mente analizzati e classificati, separando i pesi che gravano sui beni immobili, e che quindi colpiscono anche coloro che non siano né cives né incolae (i munera locorum di Calli-
strato) e i munera che incidono invece su tutto il patrimonio mobiliare ed immobiliare dell’onerato, sulla sua attività produttiva, si potrebbe dire, e che pertanto richiedono l’esistenza di un particolare rapporto, di origo o almeno di incolato, tra la comunità ed il soggetto passivo del munus. Anche in Modestino munera ed honores appaiono nettamente disgiunti, ancor più che in Ulpiano: Dig. 50.4.10, Mod. libro quinto differentiarum: honorem sustinenti munus
imponi non potest; munus sustinenti honor
deferri potest.
La contrapposizione, che nei giuristi del III secolo, da Callistrato a Modestino, é diventata sempre piü netta e cosciente, è l'aspetto formale della restrizione dell'administra-
tio rei publicae ai membri dell'ordo; l'esclusione dei noncuriali dalle magistrature, progressivamente attuata in tutto l'impero nei primi decenni del terzo secolo, nel tentativo di ritrovare in una maggiore compattezza delle borghesie cittadine difesa contro l’esaurimento sempre più grave del sistema municipale tradizionale, si manifesta sul piano terminologico in questa distinzione delle funzioni cum dignitate, riservate ai soli decurioni, e dei munera tantum civilia, aperti
anche ai plebeii, agli humiliores. Ma di Modestino soprattutto ha avuto rilievo, nella dottrina, un oscuro frammento latino del De excusationibus,
probabilmente escerpito ed epitomato da una costituzione: Dig. 27.1.6.15, Mod. libro secundo excusationum: tutela non est rei publicae munus, nec quod ad impensam pertinet, sed civile; nec provinciale videtur tutelam administrare.
La dottrina ha voluto trovare nel brano un documento
della pretesa contrapposizione dei munera civilia ai publica. Ma il significato dell'affermazione di Modestino é un altro: riconoscendo nella tutela dativa un munus, il giurista si pone il problema della sua natura e constata che ci si trova innan‘zi ad una funzione civile, quantunque non si abbia gestio rei publicae: altro, il passo nelle condizioni attuali non permette
di dire. I caratteri del munus, l’onerositä sua, la giuridicitä del
munus publicum, la sostanziale unità del fenomeno pur nel 62
diverso rilievo dei vari momenti, tornano con singolare evi-
denza in una definizione di Marciano nel libro primo publicorum iudiciorum; i problemi che dottrina e legislazione affrontano nel IV secolo sono diversi da questi, presuppongono ormai precisati i concetti in questione, definito l’istituto. Con essa sembra si possa quindi chiudere questa ricerca. Dig. 50.16.214, Marcian. libro primo publicorum iudiciorum: munus proprie est quod necessarie obimus lege more imperiove eius qui iubendi habet potestatem. Dona autem proprie
sunt quae nulla necessitate iuris «vel» officii sed (Mommsen: iuris officiis et) sponte praestantur: quae si non praestantur, nulla repraehensio est et, si praestentur, plerumque laus inest. Sed in summa in hoc ventum est, ut non quodcumque munus, id et donum accipiatur, at quod donum fuerit, id munus recte dicatur.
La lezione di F sembra preferibile alla correzione del Mommsen: officium non & concetto assimilabile a sponte, come propone l'editore, ma antitetico a questo, ció che si presta officii causa, officio, non & donum, ma munus, affer-
mano concordi i grammatici, dal primo al quarto secolo”. II munus & in Marciano una funzione obbligatoria; il pregio della definizione, che ricalca sostanzialmente le precedenti,
di grammatici e giuristi, è nell'organicità della costruzione cui la necessitas, fondata di volta in volta sulla lex, sul mos
o sull’imperium, dà unità. La necessitas acquista un rilievo giuridico, diventa necessitas iuris, nelle funzioni la cui fonte
è considerata fonte dello ius (ed è significativo il parallelismo con le fonti dell'ordinamento in Gaius 1.2), rimane su un piano sociale quando derivi dal mos, in cui trovano fon-
damento i munera-dona. Nel primo caso il munus (in questo caso publicum) abbraccia, nella formulazione amplissima di Marciano, ogni obbligo di diritto pubblico (quod necessarie obimus); come munus-donum,
invece, si limita alle presta-
zioni compiute more: nell'uso comune, tuttavia, si é giunti all'assimilazione di ogni donum ad un munus. Il capovolgimento del rapporto che Labeone aveva posto tra munus e donum
si impone, con l'acquisita coscienza dell'unità del
fenomeno: munus e il genus, donum la species. 64 Ancora in Char. gramm. 5.5.394 Barwick, Munus et donum; munus quod amicus vel cliens vel libertus officii causa mittunt vel munus gladiatorium: donum quod dis datum... Vedi anche le fonti ricordate in J. PınSENT, The Original Meaning, cit., 159 n. 4.
63
Nella definizione del De iudiciis publicis l’elaborazione plurisecolare della giurisprudenza può dirsi conclusa; il munus si presenta unitario, omogeneo, tipicizzato da un vincolo
obbligatorio e da una prestazione di opere e, per estensione, di beni. Non ogni munus tuttavia è un obbligo giuridico, un vinculum iuris; l'elaborazione si arresta al riconoscimento
della necessità giuridica del munus publicum. I problemi che affrontano Arcadio Carisio ed Ermogeniano, le soluzioni che ne danno partono da questa constatazione (che essi accolgono concordi, sorretti da interessi diversi); sono episodi della storia amministrativa dello stato burocratico del IV secolo e vanno esaminati in questa.
64
Obsequium temonariorum e munus temonis*
1. Analizzando nel 1889 i caratteri dell'ordinamento militare post-diocleziano!, il Mommsen
riconosceva il fonda-
mento del reclutamento coatto tardo-romano nell’obbligo generale e personale alla militia, che era già stato in età repubblicana gelosa prerogativa dei cives, ma che Augusto aveva poi esteso a tutti i sudditi dell’impero: solo a metà del IV secolo le riforme di Valentiniano I, pur lasciando formalmente in vigore il principio della prestazione personale, avrebbero aperto la via alla sostituzione, nella prassi amministrativa, dell’antico Dienstpflicht con una vera e propria contribuzione in natura. La ricostruzione mommseniana riusciva a spiegare la singolare sopravvivenza delle vacationes militiae ancora in età di Valentiniano”, incomprensibile in un sistema fondato solo su prestazioni patrimoniali, e dava anche ragione (non senza qualche incertezza) dell’obbligo alla militia dei coloni, riconducendolo all’originario Wehrpflicht generale; non teneva però in alcun conto la stretta connessione che proprio la disposizione innovativa di Valentiniano ravvisa tra l’onere dei contribuenti chiamati alla praebitio tironum ed una nuova figura di munus publicum, l’obsequium temonariorum. Appena un de-
* Labeo 9, 1963, 1-17. ! Das röm. Militürwesen seit Diocletian, in Hermes 24, 1889, 246 ss.,
poi in Gesammelte Schriften, 6, 1904, 253 ss. ? Cod. Theod. 13.3.3; 10; 16.
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cennio piü tardi, delineando le trasformazioni del munus da Diocleziano a Teodosio, il Seeck finiva col capovolgere le
conclusioni del Mommsen?: la costituzione di Valentiniano sarebbe stata solo una tappa nella lunga storia del reclutamento parafiscale, sostanzialmente ridotta a quella del munus temonariorum. Ponendo l’accento sull’attività del reclutatore piuttosto che sui fondamenti giuridici del reclutamento, il Seeck descriveva, con esplicito richiamo ai principi dell’imposizione fondiaria, un complesso sistema per cui già alla fine del HI secolo i fondi rustici sarebbero stati riuniti, ai fini del-
l’esazione delle reclute, in grandi consorzi coattivi (capitula sive temona) responsabili ognuno per uno o più firones. I proprietarii consociati avrebbero a turno assunto la rappresentanza fiscale del capitulum (capitularii sive temonarii) e con essa, di norma, anche l'onere di fornire la recluta (protostasia),
acquistando allo stesso tempo un diritto di rivalsa nei confronti dei consoci; altre volte il capitulum avrebbe invece anticipato al capitularius la somma per l'acquisto di una recluta fuori del consorzio (prototypia), riducendo in tal modo la prestazione del temonarius ad un mero munus personale. Nel 378 Valente, dichiarando illecita la pratica della prototypia, avrebbe imposto a tutto l'impero la protostasia. I risultati delle ricerche del Seeck sono stati sostanzialmente accolti dalla dottrina piü recente, con poche marginali correzioni^. Tuttavia, essi appaiono tutt'altro che sicuri,
3 Capitulum, RE 3, 1899 e, piü tardi, Geschichte der Unt. 2?, 1921,
47, 493.
^ Nella scia del Seeck si muove il GROSSE, Röm. Militärgeschichte,
1920, 211 ss. e, più di recente, il GIGLI, Forme di reclutamento militare nel B.I., RAL 1947, 268 ss. Senza eco il tentativo di riprendere la tesi del
Mommsen, compiuto dal SANDER nel 1940 (Praebitio, protostasia, Erbzwang, in Hermes 75, 1940, 192): critica in MAZZARINO, Aspetti sociali del IV sec., 1951, 276. Ha cercato di sanare lo schematismo del sistema delineato dal Seeck, senza alterarne le linee maestre, il SESTON (Dioclétien et
la tétrarchie, 1946, app. 2): contro la giustapposizione della protostasia, Reallast, alla prototypia, Personallast, il Seston ha affermato il carattere fondiario della prototypia, che differirebbe dalla protostasia solo perché in essa il liturgo fisserebbe egli stesso la somma da versarsi da ciascuno dei consorti. In una brillante analisi della legge di Valente il Mazzarino ha ripreso il rilievo dello storico francese e ne ha tratto le estreme conseguenze, fino
a sostenere la fungibilità dei due termini. Nuoce anche allo studio del Mazzarino la fiducia iniziale nello schema del Seeck: e tuttavia le pagine che delineano le trasformazioni della collatio tironum rimangono preziose per la storia del reclutamento nel B.I., punto di partenza per ogni ulteriore ricerca.
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ad una attenta lettura delle fonti: si smarrisce infatti, nel-
l’identificazione della protostasia con il munus patrimoniale del capitularius, un prezioso rilievo del Gothofredo, che aveva posto accuratamente in luce 1’ estraneità dell’istituto
all’ordinamento della pars Occidentis?^; con la riduzione del capitulum a multiplo del caput fiscale si postula per capitulum (e per temon) un significato singolare sotto il profilo etimologico e stranamente in contrasto con il valore che il termine riceve nelle parafrasi greche delle costituzioni lati; si delinea infine una giustapposizione simmetrica di protostasia, munus patrimoniale, e prototypia, munus personale, che non trova fondamento
alcuno nelle fonti. Una
nuova esegesi delle attestazioni in materia non sembra pertanto inopportuna. 2. Imposizioni di contributi per l'esercito, in uomini o in denaro, a comunità provinciali sono ricordate in fonti epigrafiche sin dall'inizio del III secolo”, e possono in qualche modo ricondursi alla vecchia prassi del reclutamento coatto, ancora ricordata da Arrio Menandro, ma oramai quasi del tutto soppiantata dall’arruolamento volontario?. Il sistema che a Menandro
appariva anacronistica so-
pravvivenza dell'età traianea; l'età delle grandi campagne di
5 Codex Theodosianus cum perpetuis commentariis Iacopi Gothofredi 4, 1740, 175. $ Cod. Theod. 11.16.15 ...Capituli atque temonis necessitas = Basilica 54.6.19 (citato dal CUIACIO nel commento a Cod. Just. 10.48.12) κεφαλικαὶ συντέλειαι; Cod. Theod. 6.35.3 ...obsequium temonariorum... = Basilica 6. 33. 5....«κεφαλικὰ τέλη..: il capitulum è un tributo (τέλος) importante la prestazione di un caput (κεφαλικόν); nello stesso senso, già il GoTHOFREDO,
cit., 2, 1737, 235. Una sola attestazione, estranea alla lettera-
tura giuridica, suffragherebbe l'ipotesi del Seeck, Amm. 16.5.14: pro capitulis singulis tributi nomine vicenos quinos aureos repperit flagitari. Ma la lezione, offerta dall'edizione del CLARCK non regge alla critica: da ultimo gli argomenti del MAZZARINO, Aspetti sociali, cit., 401 n. 36. Il capitulis
va corretto in capitibus (cosi già le edizioni dell’Eyssenhardt e del Gardthausen).
? M. ROSTOVZEFF, Συντέλεια τιρώνων, JRS 8, 1918, 26, su cui W. KUBITSCHEK,
Temonarius, RE 5A1. Cfr. per l'Egitto A. DÉLÉAGE, La ca-
pitation du Bas-Empire, 1945 119. 8 Dig. 49.16.4.10, Men. libro primo de re militari: qui ad dilectum olim non respondebant, ut proditores libertatis in servitutem redigebantur. Sed mutato statu militiae recessum a capitis poena est, quia plerumque voluntario milite numeri supplentur.
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guerra”, trova nuova e sempre più vasta applicazione nella restaurazione dioclezianea: scrivendo alla fine del primo decennio costantiniano, in una parentesi di pace civile che suggerisce fugaci illusioni di imminenti riduzioni degli oneri militari, Lattanzio ricorda ancora con profondo sgomento le
immani esazioni di iuvenes imposte dalla prima tetrarchia
alle borghesie cittadine!°. Sebbene non risparmi di solito
l’accusa di novità alla politica amministrativa di Diocleziano, il retore si limita in questo caso a denunciare l’esosità delle pretese imperiali, che riconduce quindi implicitamente ad una prassi ben nota, lamentandone solo l’applicazione su così vasta scala.
Gli atti del martirio di S. Massimiliano (BHI 5813)", il
più antico documento per la storia del temonarius, offrono ? Risalgono a Traiano i provvedimenti più recenti che Menandro ricordi in tema di renitenza (Dig. 49.16.4.12). Qualche decennio innanzi lo scritto gromatico cui avrebbe poi attinto Agennio Urbico aveva sottolineato l'incidenza della leva sulla vita amministrativa delle civitates: Agenn. grom. 45 'THULIN: res publicae controversias de iure territorii solent movere, quod aut indicere munera dicant oportere in ea parte soli, aut legere tironem ex vico; cfr. S. MAZZARINO, Aspetti sociali, cit., 307. 10 T act. mort. pers. 7.5 e il commento di J. MoREAU, Commentaire,
1954, 241. Il La Passio Sancti Maximiliani è conservata da tre manoscritti, che offrono lezioni leggermente diverse. Il più antico (prima metà del XII sec.) apparteneva alla cattedrale di Salisbury, ed & ora conservato nella Bodleyan Library, Oxford (ms. Fell. 3 foll. 29" 307); fu utilizzato per l'editio princeps della passio (Lactantii, De mortibus persecutorum liber. Accesserunt passiones..., Oxonii 1680) e letto poi dal MABILLON per la sua riedizione (Vetera analecta,
IV, 1685). Una lezione molto vicina a quella del
ms. di Oxford offre il passionario collazionato dal RUINART per gli Acta martyrum, Parisiis 1689: attribuito al XIII sec. si trovava, quando il Ruinart lo vide, nella biblioteca dell'abbazia di Mont-Saint-Michel; da questa
passó poi, all'inizio dell'Ottocento, nella biblioteca comunale di Avranches (n. 167). Un terzo passionario, anch'esso del XIII sec., riporta invece una redazione un po' diversa degli Acta, con qualche aggiunta e talune amputazioni; ancora inedito, questo testo, di cui non si conosce la storia,
appartiene alla Trinity College Library, Dublino (ms. B 1.16). L'edizione del Ruinart, condotta controllando le precedenti sul ms. francese, è stata riprodotta dal HARNACK, Militia Christi, 1905, e dal KNOPF, Ausgewälte Martyrerakten, 1913, ma necessita già da tempo di una revisione (cfr. H. DELEHAYE, Les passions des martyrs, 1921, 104 n. 8); per
i brani esaminati nel testo si è pertanto fatto ricorso ad una nuova lettura e collazione dei mss. La lezione accolta &, di norma, quella del Fell. 3; le va-
rianti sono indicate in nota; i segni di interpunzione sono stati aggiunti nella trascrizione, non potendosi in alcun modo tener conto di quelli del ms.
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una testimonianza di singolare drammaticità per queste leve dioclezianee: Passio Sancti Maximiliani: Tusco et Anulino consulibus", IV id. Martii, Theveste, in foro!3. Inducto!* Fabio Victore una cum Maximiliano? et admisso!ó Pompeiano advocato idem dixit: Fabius!” Victor temonarius est constitutus cum Valeriano
Quintiano praeposito caesariensi cum bono
temo-
ne Maximiliano!?. Filium Victoris quem!” probabilis est rogo ut incumetur?®.
La prima fase del procedimento ha come protagonisti l'advocatus Pompeiano ed il temonarius Vittore, e si esaurisce con la presentazione di Massimiliano al proconsole, nel foro. Purtroppo ignoriamo donde tragga la legittimazione all'azione Pompeiano; non sembra tuttavia difficile riconosce-
re nella sua richiesta di probatio per il bonus temo (©)?! V’atto conclusivo della ricerca delle reclute e del loro conferimento agli organi amministrativi provinciali. La connessione del compito del temonarius con il reclutamento ne scaturisce sicura: la richiesta dell'advocatus ha come oggetto Massimiliano, ma in tutta l'esposizione convenuto é Vittore,
e non già il giovane probabilis; Vittore & evidentemente responsabile per la presentazione di un candidato ai reclutatori provinciali, e questa responsabilità deve nascere proprio dal-
12 usco et anolino: Fell.; Tusco et anolino: B 1.16; Tusco et aquilino: Avr.167. 15 Theveste, in foro: manca in B 1.16. 14 ducto: B 1.16.
15 filio eius in foro: B. 1.16. 16 et admisso... incumetur: manca in B 1.16.
7 Fabianus: Fell. ed Avr.167. 18 cum bono timore maximiliano: Fell.; cumbonem teronem maximilia-
no: Avr.167. RUINART leggeva: combonem tironem Maximilianum; interpretava: cum bono tirone Maximiliano. La lettura di Avr.167 (fol. 80) è stata compiuta per nostro conto dalla Direttrice della Biblioteca, che si ringrazia vivamente. 1? qm: Fell.; qm: Avr.167. Ruinart interpretava: quoniam.
20 incoumetur: Fell. ?! La lettura proposta, preferibile per molti motivi a quella del Rui-
nart (è suggerita dal ms. più antico, riflette la lectio difficilior, ipotizza un minor numero
di errori) offre un nuovo,
decisivo argomento
contro l’i-
dentificazione del capitulum sive temo delle costituzioni con un consorzio di collatores.
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la sua qualità di temonarius, che l'advocatus richiama esplicitamente nel preambolo, a giustificazione della solidarietà tra padre e figlio, e ricorda ancora indirettamente nell’affer-
mazione che il giovane è un bonus temo (quasi a precisarne la posizione nel procedimento). Non sembra necessario pensare, per l’intervento del proconsole, ad un controllo amministrativo: la probatio delle reclute è compiuta di frequente, nel III secolo, dal governatore investito del dilectus, e la presenza dell’advocatus potrebbe spiegarsi con l’opportunità che la comunità tenuta alla presentazione delle reclute sia rappresentata da un defensor in questi procedimenti, spesso sfocianti in veri giudizi
amministrativi”,
Con l’inizio dell’interrogatorio di Massimiliano, Vittore
e Pompeiano hanno esaurito il proprio compito: il dibattito li ignora, si svolge solo tra probandus e magistrato: Dion Proconsul dixif: quis?* vocaris? Maximilianus respondit: quid? autem? vis scire nomen meum? Dion? proconsul dixit: militia imperatori. Maximilianus respondit: mihi non licet militare quia christianus sum...
La probatio ha inizio secondo il rito consueto; ma l'intransigenza rigorista di Massimiliano non trova possibilità di contemperamento tra militia Christi e militare principi,
ed il procedimento precipita in una coercitio tanto piü aspra in quanto martire:
intesa a scoraggiare
ogni possibile emulo
del
Dion dixit: quia indevoto animo militiam recusasti congruentem accipiens sententiam?? ceterorum exemplum; et
decretum ex tabella recitavit??: Maximilianum eo quod indevoto animo sacramentum militiae recusaverit gladio animadverti placuit. Maximilianus respondit: Deo gratias.
22 Sul tema F. GILLIAM, Enrollement in the Roman Imperial Army, in Eos 48, 1957, 207 ss.
23 dix: Fell.; dix ad maximilianum: B 1.16.
24 quid: B 1.16. 25 quis: Fell. 26 autem: manca in B 1.16. 27 Dion proconsul dixit: milita imperatori. Maximilianus respondit: manca nel Fell. e nell’ Avr. 167.
28 ad: Avr. 167 (in RUINART). 29 recitatum est: B 1.16.
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Il reato nasce con la recusatio militiae, che è esplicita-
mente richiamata a motivare la sentenza??, Il dovere genera-
le al servizio militare sembra un vagheggiamento retorico, cui Dione fa ricorso nel tentativo di convincere il giovane (militia: hoc enim decet iuveni), ma che non ha ormai rile-
vanza giuridica fuori del comando del magistrato, la cui violazione determina la condanna. La passio conferma la tesi del Mommsen sul fondamento giuridico del reclutamento tardo-romano, ma ne denuncia al tempo stesso i limiti: la difficoltà di reperire nuove reclute fa passare in secondo piano l’onere del prescelto ed accentua invece sempre più il rilievo che hanno nel dilectus 1 responsabili locali della presentazione di iuvenes. Nessun argomento suffraga invece l’ipotesi di un consorzio di proprietari, di cui il temonarius sarebbe il rappresentante; Vittore adempie evidentemente un onere personale, impostogli probabilmente dalla sua comunità. Le disposizioni legislative che intervengono, nella prima metà del IV secolo, a regolare l’istituto confermano il carattere personale e municipale del munus dei reclutatori. Qualche decennio dopo il processo di S. Massimiliano una costituzione costantiniana, la più
antica in materia, conosce una pluralità di funzioni liturgiche connesse con il dilectus: Cod. Theod. 6.35.3: Constantinus ad Rufinum pp. (= Cod. Just. 12.28.2). De cubiculis nostris vacatione donatos vel di-
versis obsequiis palatinis aut scriniis... vel officio largitionum comitatensium singularumve urbium, sed et officio admissionum, ad legum nostrarum privilegia volumus pertinere, ut nec
ipsi nec filii nec nepotes eorum ad curiam vel honores vel munera municipalia devocentur... Quibus omnibus condonamus
ne exactorum vel turmariorum, quos capitularios vocanf?!, curam subeant, vel obsequium temonariorum vel prototypiae...
30 Diversamente il DELEHAYE, Les passions, cit.; ivi anche per altra letteratura. Cfr. da ultimo il SESTON, Diocletien, cit., 301 n. 2, che ricono-
sce in Valeriano Quinziano un praepositus limitis Caesariensis interessato al reclutamento per il rinnovamento delle guarnigioni alle sue dipendenze: ma la distanza tra Proconsolare e Mauretania Cesariense oppone notevoli difficoltà all' ipotesi.
3! Il SEECK, Capitulum, cit., espunge la proposizione, ma la correzio-
ne non trova alcun fondamento nell'analisi del testo; dubbioso il MAZZARINO, Aspetti sociali, cit., 424 n. 29.
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Personalibus etiam et corporalibus muneribus liberentur...
(319 Seeck)??. Exactio, cura turmariorum, obsequium temonariorum e prototypia non sono momenti distinti di un procedimento unitario, ma sembrano piuttosto forme diverse che una mede-
sima funzione assume in conformità a tradizioni locali. La costituzione insiste sulla molteplicità di munera per accentuare l'ampiezza del beneficio concesso, ma cerca allo stesso tempo di dare organicità all’elencazione raggruppando insieme le liturgie simili: così gli oneri inerenti al dilectus sono costituiti in categoria autonoma, disgiunti e dai munera municipalia e dai personalia, cui vengono tuttavia ricondotti in
disposizioni posteriori??. Questa autonomia sistematica vuole
probabilmente essere una sollecitazione ad un’evoluzione in senso patrimoniale della liturgia e ad uno sganciamento dalle funzioni municipali, ma non va al di là dell’apertura della prospettiva: contenuto del munus rimane l’attività di ricerca e presentazione degli iuvenes, come il termine stesso denuncia nel caso degli exactores?^. Una costituzione giulianea ribadisce nel 362 il carattere curiale della prototypia: Cod. Theod. 11.23.2: Iulianus A. Sallustio pp. Prototypias et exactiones in capitatione plebeia curialium munera et quidem inferiora esse minime dubitatur, atque ideo a senatoriis eadem domibus submoveri oportet.
Il ricordo della prototypia in una disposizione destinata al
prefetto del pretorio delle Gallie? è singolare: tuttavia, può
forse spiegarsi pensando ad una traduzione in termini propri degli ordinamenti municipali ellenistici di istituzioni analoghe occidentali (la cura turmariorum e V obsequium temonariorum della costituzione costantiniana); l’ipotesi diventa ancor più probabile se si ritiene che la costituzione abbia avuto carattere 32 Regesten 58. Diversamente il MOMMSEN nel commento alla costituzione 2.9.1. 33 Infra. 34 Cfr. la parafrasi della disposizione nei Basilici, che la raccolgono attraverso Cod. Iust. 12.28.2: Basilica 6.33.5 ...unte... ἢ oi τὰ κεφαλικὰ τέλη ὑποδεχόμενοι ἢ τὸ τῆς TEVTATPOTIAG ... γινέσθωσαν. 35 Sallustio è il pp. delle Gallie, non l'omonimo che seguirà Giuliano nella guerra persiana: e capitatio plebeia si dice in Gallia, e solo in Gallia, la valutazione a fini fiscali della capacità contributiva di lavoratori liberi. Cfr. A. DELEAGE, La capitation, cit., 212.
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generale, e che la compilazione ne abbia per caso conservato la copia destinata ad un funzionario occidentale. In ogni caso, la
connessione della prototypia con l’exactio del tributo ne denuncia in modo inequivocabile il contenuto personale?6. Ha invece, evidentemente, carattere patrimoniale l’onere di fornire iuvenes ai reclutatori (capitularii, temonarii, exac-
tores)??. È difficile dire in che modo venga in età dioclezia-
nea distribuito questo peso, che gli organi cittadini tradizio-
nalmente addossano ai vici del territorium?®: né sono di alcuna utilità per la ricostruzione dell’istituto gli atti del processo di S. Massimiliano, in quanto l’esposizione di Pompeiano non chiarisce i motivi che inducono il temonario Vittore a presentare ἢ] proprio figlio. Mezzo secolo più tardi, il munus è ripartito pro capitibus seu iugis, come le cedole del tributo fondiario, cui viene tuttavia giustapposto per il suo carattere di prestazione straordinaria: Cod. Theod. 11.16.6: Constantius et Constans AA. ad Beronicianum vic. Asiae. Palatini et Constantinopolitani cives pro - capitibus seu iugis suis tantum pensitationem atque obsequia
recognoscant, extraordinariis et temonariis oneribus liberati (346? 335 Seeck)””.
La costituzione, riferita dai compilatori a Costanzo, ma che sembra invece da attribuirsi a Costantino, concede ai ci-
36 Non è facile spiegarsi perché la disposizione, abrogata con tutte le altre in tema di prototypia da Valente, sia stata salvata dai compilatori ed inserita nel titolo de protostasia del Cod. Theod. La cosa meravigliò già il GOTHOFREDO,
4, 1740,
178, ed è ora per il MAZZARINO
ulteriore argo-
mento per affermare la fungibilità di protostasia e prototypia (Aspetti sociali, cit., 280). Scartata tale soluzione per i motivi esposti nel testo, il problema può esser risolto ravvisando in Cod. Theod. 11.23.2 una lex fugitiva, destinata al titolo de exactoribus od a quello de susceptoribus. 37 Così, sostanzialmente il CUIACIO, Opera 2, 1732, 887, nel commento a Cod. Iust. 12.1.4, pur confondendo protostasia e prototypia (2, 740). Meno
chiara la distinzione in J. GOTHOFREDO,
2, 1727, 253, 381,
che riferisce all'attività di esazione dei temonarii anche le disposizioni relative al tributo da essi riscosso (onus temonis). Allo stesso modo dei capitularii, in Egitto κεφαλαιωταί provvedono all'esazione di tributi nelle κῶμαι. Arbitrario sembra il riferimento ai capitula in A. DÉLÉAGE, La capitation, cit., 119, evidentemente suggestione del SEECK (πιττάκιον in SB
442.2 è pittacium, non «consorzio», o «group contractuel»).
38 Agenn. grom. 45, raccoglie il riferimento probabilmente proprio per
il carattere di attualità che ancora riveste in età sua. 39 Regesten 41, 89.
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ves di Costantinopoli ed ai palatini l'esonero dai temonaria onera nelle province. Naturalmente, queste prestazioni patrimoniali sono, non ostante la denominazione equivoca, ben di-
verse dal munus personale dei temonarii, di cui costituiscono in certo modo l’oggetto: temonarius non indica qui, evidentemente, la pertinenza della funzione ai reclutatori ricordati dalla disposizione del 319, ma piuttosto precisa il contenuto dell'onere imposto ai contribuenti, l'offerta del capitulum sive temo (κεφαλικὸν τέλος nei commentatori bizantini). Si spiega così, senza far ricorso all’artificioso sistema del Seeck, il
riferimento alla solidarietà coattiva degli onerati, di antica consuetudine per le prestazioni patrimoniali”, e che l’imperatore esclude, per palatini e cives Constantinopolitani, anche in relazione alle prestazioni fondiarie ordinarie; e si spiega anche il conferre temonaria onera da cui un’altra costituzione di Costanzo libera i patrimoni dei senatori orientali: Cod. Iust. 12.1.4: Constantinus et Constans AA. Philippo pp. Senatorum substantias, quas in diversis locis et provinciis possident, et homines eorum tam a temonariis oneribus conferendis quam a ceteris praestationibus, quas iudices describunt,
nec non etiam ab omnibus sordidis extraordinariisque et vilioribus muneribus liberos esse praecipimus nullaque sorte co-
stringi functionis indignae. Per le substantiae senatoriae, cui vengono ormai assimilati anche i coloni, non potrebbe certo pensarsi all'esonero da
un munus personale: il patrimonio dei clarissimi & escluso da ogni onere patrimoniale straordinario e, tra gli altri (cetera), dalla prestazione degli iuvenes per l'esercito. La distinzione tra temonaria onera ceteraque quae iudices describunt e munera extraordinaria sordida et viliora, in apparente contradizione con la stretta connessione che di norma si riscontra tra funzioni temonarie ed oneri straordinari,
é un mero artificio
retorico: tra le funzioni che i governatori describunt, in ossequio alle disposizioni costantiniane, sono certamente i munera extraordinaria (Cod. Theod. 11.16.3; 4). Ad una preoccu-
pazione di altro genere sembra invece rispondere il diretto rapporto che la costituzione pone tra substantiae e munera, e che sottolinea sul piano formale la generale tendenza della legislazione a trasformare i munera patrimonialia in munera locorum, superate le incertezze della giurisprudenza classica. ^9 Già in Dig. 50.15.5, Papin. libro nono decimo responsorum. 74
Il privilegio concesso al senato di Costantinopoli non venne mai esteso a quello di Roma: una costituzione del 372 sembra anzi presumere che i senatori stessi fungano da temonarii per i propri beni: Cod. Theod. 6.4.21*!:Valentinianus, Valens et Gratianus AA. ad Bapponem pu. Tempore quo temonarii designantur
etiam so«lita»^? nominatio celebretur fiatque conventio, quam «per officium pu. curari oportet, ut si ita res expetit
«et of>*ficiis provinciarum ad pervestigandum fide**utiguam conmodatur, ipsi potissimum super «de»?
signatorum nominibus consulamur, quo missis «viris» strenuis
obligatisque iudicibus non modo temonarii, verum complices quoque eorum in exhibitionem p«ro»prii muneris urgueantur. Fingamus enim pos*® fieri ut designati primo et secundo vel tertio an subterfugere inquirentium sollicitudinem po, certe septem reliquis haut dubie poterunt rep«periri».
Denique,
ut prius
statuimus,
eorum
qui per
anngulos ad candidatum atque honores certos notur in scientiam nostram post designation A. PIGANIOL, La pluralité des cadastres d'Orange, RIDA 2, 1953, 302.
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evidenti, avrebbe aperto alla sua comprensione anche quegli insegnamenti dei trattati di ars gromatica che la sola lettura lasciava irrimediabilmente oscuri. Da qualche decennio la sollecitazione, cui giä le ricerche del Fraccaro nel nostro
secolo avevano riconosciuto contenuto profetico, è venuta acquistando nuovo significato per le prospettive che ad essa apre, senza limiti territoriali, la fotografia aerea, con la ric-
chezza di suggestioni che le sono proprie. Le pagine dell’introduzione e del commento a questa edizione dei catasti di Orange mostrano ora, col fortunato incontro di mezzi di do-
cumentazione moderna e di rilievi cartografici antichi, quanto possa essere fruttuosa una nuova analisi, così illustrata,
degli scritti gromatici. Purtroppo l’uso della vecchia edizione del Lachmann, per le opere degli agrimensori, anche quando si sarebbe potuto far ricorso alla più recente del Thulin, e l’acritica accettazione della paternità di Frontino per gli scritti che vi appaiono sotto il suo nome, limita notevolmente il valore della lettura comparativa di fonti gromatiche e di documenti epigrafici, per l’insicurezza, non solo cronologica, che all’analisi ne deriva. D’altra parte non tutte le esegesi proposte dall’editore appaiono allo stesso modo persuasive. Così, lascia poco convinti l’ipotesi che i Tricastini cui vengono redditi alcuni lotti del catasto B, siano i cives della colonia Flavia Tricastinorum, nata dalla trasformazione della civitas celtica in colonia romana, e che tale redditio vada intesa come reinte-
grazione di quella comunità nel possesso di una parte del suo territorium originario. I lotti sarebbero dovuti rimanere per oltre un secolo vacanti, in potestate eius qui adsignare potuerit remanet potestate (Frontin. grom. 3 Thulin), perché ogni sistemazione, sia pure provvisoria, avrebbe impedito di ripristinare i rapporti fondiari preesistenti senza far ricorso ad un nuovo spossessamento, e quindi ad un adsignare ex novo che, nell’uso gromatico, è cosa diversa dalla redditio
cui fanno cenno le inscriptiones del catasto B. Ricorda infatti Siculo Flacco, grom. 119 Thulin, che nec tamen omnibus personis... ablati sunt agri; nam quorundam dignitas aut gratia aut amicitia victorem ducem
movit,
ut eis concederet
$ Non riprodotto nella seconda edizione, 1830, è conservato nella traduzione francese del GALBÉRY 4, 1835, 442.
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agros suos... inde supscriptum et nomen, cui concessum est,
inscriptione tali: redditum illi tantum... Una volta trasferiti a privati (o alla res publica populi Romani, od a quella stessa della colonia) i terreni espropriati, non & piü possibile dar luogo a redditio, ma, tutt’al più, ad una serie di atti diversi
che ne conseguano lo stesso fine patrimoniale. Tuttavia, & ben difficile pensare che le particelle restituite ai Tricastini siano rimaste così a lungo in una condizione di incertezza patrimoniale, comune per i subseciva, ma in-
spiegabile per porzioni di centurie nel bel mezzo dell’ager limitatus: gli scrittori di agrimensura vedono nella redditio, come nella datio, due momenti, contemporanei, della adsi-
gnatio Hyg. grom. 80 Thulin... divisi et adsignati agri... aut dati sunt aut redditi... Alla redditio consegue di norma una restaurazione dei rapporti territoriali preesistenti (Hyg. grom. 81 Thulin): ma proprio questa incidenza territoriale della restituzione rende ancor meno credibile che ad Arausio porzioni di suolo possano essere tornate a metà del I sec. alla comunità dei Tricastini, rimanendo nel frattempo escluse così dall’organizzazione territoriale della civitas celtica come da quella della colonia romana.
Invece, l'identificazione della zona riprodotta nella mappa con il territorio a nord della città, ai piedi delle colline ed a notevole distanza dal centro urbano, rende preferibile la spiegazione che l'editore esclude, per la presenza di queste terre nel solo catasto B: la regione, a causa della lontananza dalla città e della scarsa fertilità dei luoghi, dovette essere poco appetita dai milites, si che il fondatore della colonia la restitui in gran parte agli indigeni, ridotti ad incolae, come in tanti altri casi. Anche l'identificazione, nel catasto A, delle centurie che
portano la scritta R(ei) P(ublicae) con porzioni di suolo pubblico del popolo romano appare tutt'altro che sicura. Sembra: infatti ben strano che in documento ufficiale di una colonia si sia fatto ricorso ad una sigla cosi ambigua, riferibile indifferentemente al patrimonio della comunità o a quello del populus Romanus; Igino, per indicare l'ager publicus, sentirà di dover precisare, grom. 79 Thulin: R(ei) P(ublicae) P(opuli) R(omani).
Considerazioni di economia agraria concorrono d'altronde nel sollevare dubbi sulla interpretazione dell'editore: le fonti ignorano una ripartizione dell'ager publicus in piccoli 98
lotti, inframmezzati ai privati nella centuriazione. I gromatici fanno riferimento a adsignationes alla res publica populi Romani solo per porzioni di suolo non centuriate o non centuriabili: extraclusa, Frontin. grom.
3 Thulin; subseciva,
Frontin. grom. 2 Thulin. Invece per le colonie già Frontino ricorda (accanto ai loca relicta et extraclusa in agris adsignatis, grom. 9 Thulin) anche /oca rei publicae data adsignata, che il gromatico accosta, ma non identifica con i subseciva (grom. 8 Thulin); e la fonte di Agennio Urbico fa cenno di un Fundus Septicianus Coloniae Augustae Concordiae che ben potrebbe risultare dalla fusione di più centurie adsignatae coloniae: grom. 46 Thulin; si confronti la fig. 125 Thulin ove il Fundus Manilianus cum silva datus adsignatus Coloniae Iuliae Constantiae insiste nel bel mezzo della centuriazione, con i cui limiti i suoi confini coincidono
per buon tratto (la figura è tratta dalla Constitutio limitum del secondo Igino, che non la illustra tuttavia con sufficiente
chiarezza). Ancor meno si può condividere l’asserzione che la sigla extrib. = ex tributario solo, designi le terre ‘relevées du pays tributaire’ ed assegnate ai veterani. Arausio non è mai ricordata come colonia immune: Plinio ignora questo suo privilegio”, pur essendo, di solito, attento a registrare i benefici di
cui godono le città ed 1 popoli che descrive. D'altra parte, se veramente il territorio coloniario fosse stato escluso dalla provincia, si sarebbe avuta una concessione di ius Italicum, non una mera immunità. Immunità ed ius Italicum, avrebbero in ogni caso giovato
così ai lotti assegnati a privati come ai reliqua coloniae (ed a quelli indicati con la sigla RP nei catasti): non si vede pertanto quale motivo avrebbe indotto i gromatici a scegliere la generica indicazione della qualifica tributaria del suolo per designare proprio quello distribuito ai coloni. L'espressione si chiarisce invece se si pensa che essa individuava una caratteristica originaria del suolo, che 1 lotti assegnati a privati avrebbero conservato, ma che i fondi pubblici avrebbero smarrito, diventando immuni. L'immunità infatti, sicura per l'ager publicus populi Romani, era probabilmente condizione comune anche alle terre
pubbliche coloniarie, alla fine del I sec. d.C.: ció che é pub? Plin. nat. 3.5.6.
99
blico perché di pertinenza di una colonia non sembra, in questa età, chiaramente distinto da ciò che lo è in quanto appartiene al populus Romanus. Ex tributario solo avrebbe pertanto espresso, piuttosto che l'immunità, proprio l’appartenenza al suolo tributario dei lotti distribuiti ai privati, sia che l'ex abbia valore partitivo, sia che indichi invece la separazione delle centurie dal complesso del terreno sottoposto a tributo (ma senza che perciò vadano smarriti i caratteri originari: il solum tributarium assegnato come universus modus alle città peregrine in Frontin. grom. 1 Thulin rimane evidentemente imponibile anche dopo l’adsignatio). Maggiore approfondimento avrebbe anche richiesto l’analisi della procedura di assegnazione, che nei trattati dei
gromatici non appare semplicisticamente ridotta ad un mutamento della condizione giuridica o patrimonialistica del suolo, da ager publicus ad ager divisus adsignatus. Una maggiore cura per la terminologia delle fonti al riguardo avrebbe evitato l’identificazione dell'ager publicus con il territorium populi Romani (che & evidentemente una svista) ed avrebbe suggerito l'uso di altre espressioni in luogo di quest'ultima, che sembra ignota al vocabolario tecnico romano. Questi rilievi non investono, naturalmente, la magistrale restituzione dei documenti, non ne toccano il rigore filologico, né sminuiscono l’amorosa cura con cui per anni lo storico illustre ha atteso alla certosina ricomposizione delle tavole antiche. Perplessità e dubbi sono d’altra parte pressoché inevitabili per il lettore di un’opera che a tanti, e così complessi problemi propone soluzioni: accanto a quelli qui esaminati, altri ancora potrebbero essere discussi dagli storici delle istituzioni, o dagli studiosi di discipline affini per gli aspetti paleografici, epigrafici, archeologici della ricerca. Ma proprio la continua sollecitazione a riconsiderare i testi ora editi, che nasce dal commento, il suo proporsi come stimolo alla discussione è pregio non ultimo di un’analisi che programmaticamente vuole offrire solo «une première élaboration» dei nuovi dati.
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La signoria sul suolo provinciale nella Parafrasi di Teofilo*
1. Una dottrina ancor oggi molto diffusa, non ostante le critiche vivaci cui viene da qualche decennio sottoposta, riconosce in Gaius inst. 2.7 la più esplicita configurazione del rapporto fra suolo provinciale e popolo romano (o principe) come rapporto patrimonialistico!. In termini ancora più recisi questo insegnamento sarebbe stato ripreso, tre secoli piü tardi, dal parafraste bizantino? delle Istituzioni giustinianee (Theophil. inst. Iust. 2.1.40 Ferrini).
* Labeo 12, 1966, 209-218. ! G.I. LUZzATTO, La riscossione tributaria a Roma e l'ipotesi della proprietà-sovranità, in Atti congresso Verona, IV 1953, 65 ss., e bibliogra-
fia citata alla n. 1; cfr.
F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana,
2, 1954, 301: 3, 1958, 339; 4,2, 1965, 775 ss. Mentre perö la manualistica fa di solito risalire questa concezione, nella scia del MOMMSEN, Róm. Staatsrecht 3, 1887-1888, 731 n. 4, alle riforme graccane, o la deduce sen-
z'altro dai principi del diritto di guerra del mondo antico, riprendendo la tesi del FE KLINGMÜLLER, Die Idee des Staatseigentums etc., Philologus 69,
1910, 71 ss., il Luzzatto precisa che l'elaborazione della dottrina è
opera della giurisprudenza classica, sollecitata dalla singolarità del rapporto che viene a crearsi, dopo la conquista dell’Egitto, fra quella regione e l'amministrazione imperiale: nelle Istituzioni, Gaio avrebbe per primo ten-
tato di definire in questa prospettiva la condizione del suolo provinciale. ? L’identificazione dell'autore della Parafrasi con il Teophilus antecessor ricordato nelle costituzioni introduttive del primo Codice, delle Istitu-
zioni e del Digesto fu, come é noto, ripetutamente contestata dal FERRINI, Delle origini della parafrasi greca delle Istituzioni, AG 37, 1886, 353 (= Scritti 1, 1929, 105); Scoli inediti allo pseudo Teofilo contenuti nel mano-
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Ma un’analisi del passo gaiano che non prescinda dal contesto, e tenga d’altra parte conto della riflessione pubblicistica contemporanea, permette una diversa lettura, e nel dominium in solo provinciali attribuito al popolo romano, o a Cesare, lascia intravvedere, non ostante, l'ambiguità del termine, solo un potere pubblico di signoria?. In questa prospettiva, anche il ricordo della proprietà del popolo (o del principe) sulle province, che la Parafrasi teofilina inserisce nella trattazione delle cose, acquista un significato nuovo per la storia delle dottrine pubblicistiche antiche: escluso infatti l’antecedente gaiano, quel ricordo rimane l’unica testimonianza di una elaborazione in termini patrimonialistici della signoria sul suolo provinciale*. 2. In un ampio excursus filologico-storico, traendo spunto dalla disciplina giustinianea della fraditio, Teofilo illustra il significato di stipendiarius e tributarius. Dopo aver precisato, ricalcando quasi letteralmente Gaius inst. 2. 20, che stipendiaria δὲ καὶ tributoria λέγεται τὰ κτήματα £v ταῖς ἐπαρχίαις διακείμενα, il maestro bizantino ricorda come quel dualismo della terminologia am-
scritto Gr. Par. 1364, RIL 9, 1886, 15 (= Scritti 1, cit., 139); ma è accolta in modo pressoché unanime dalla dottrina (L. WENGER,
Die Quellen der
ròm. Rechts, 1953, 683, e bibliografia ivi citata) che fa propri i rilievi del KÜBLER, Theophilus, RE SA, 1934, 2147. Il problema comunque è irrilevante ai fini di questa ricerca, in quanto non investe la datazione dell’opera al VI sec., indiscutibile anche per il Ferrini. 3E Grelle, Stipendium vel Tributum, 1963, 9 ss. ^ Talune equivoche espressioni ciceroniane (vestra [populi Romani] ... praedia: Cic. leg. agr. 3.15: cfr. 1.2; 4; 2.47; 48; aratores populi Romani: Cic. Verr. 2.3.57; 102; 228) troppo spesso richiamate a questo proposito, hanno un evidente carattere retorico, o si riferiscono ad agri publici insistenti sul suolo provinciale: così già il LUZZATTO, La riscossione tributaria, cit., 93 n. 59, che accoglie per queste attestazioni i risultati dell’analisi del FRANK, Dominium in solo provinciali, JRS 17, 1927, 141. Ma nemmeno il passo ben noto di Tertulliano ricordato dal LUZZATTO, 95 n. 61, come
documento della nuova dottrina sviluppatasi nel principato può riferirsi ad una concezione patrimonialistica della signoria sulle province: Tert. apol. 13.6: sed enim agri tributo onusti viliores, hominum capita stipendio censa ignobiliora, nam hae sunt notae captivitatis... Bisognerebbe altrimenti pensare che Tertulliano assimili i sudditi provinciali agli schiavi, che è tesi manifestamente insostenibile. Piuttosto, l’ Apologeticum attesta come, in una prospettiva polemica nei confronti dell’impero, uno stretto nesso congiunga soggezione al tributo e servitù politica.
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ministrativa abbia tratto origine dal riordinamento augusteo dell’impero: Theophil. inst. Iust. 2.1.40: ... ὁ πάλαι Ῥωμαίων βασιλεὺς πάσης KTPATNOOG γῆς... διεῖλε τὰς ἐπαρχίας, koi τὰς μὲν αὐτὸς ἐκράτησεν ἑαυτῷ, τὰς δὲ ἀφώρισε τῷ δήμῳ.
Le province del popolo furono allora dette stipendiarie
perché (come aveva rilevato già Ulpiano°) stipes ἐστὶν ὁ ἔρα-
voc καὶ ἡ κατὰ μικρὸν γενομένη τοῦ dpyovpiov καὶ τῶν ἄλλων συλλογή: ed i provinciali concessi al popolo dovevano conferire, dei prodotti dei loro campi (£k τῶν παρ αὐτοῖς yevouévav), solo una piccola parte, τῷ δήμῳ ἐπὶ τῷ ταῦτα daπανᾶν εἰς οἰκείας χρείας τε καὶ τέρψεις. Le province imperiali invece si videro addossato tutto il peso del vettovagliamento dell’esercito: tributón ἐστὶ τὸ βαρὺ τέλος ... ὧς πολλὰ δαπανῶν περὶ τὴν τῶν στρατιωτῶν ἀποτροφήν. Nessuna differenza intercorreva tuttavia fra le due categorie di fondi, sotto il profilo della rilevanza giuridica del rapporto possessorio: οἱ tà stipendiaria καὶ oi tributoria ἔχοντες πάλαι... οὐκ ἦσαν δεσπόται᾽ ἡ yàp δεσποτεία αὐτῶν ἦν ἢ παρὰ τῷ δήμῳ, ἢ παρὰ τῷ βασιλεῖ. Un intervento legislativo di Giustiniano ha però, oramai, tolto ogni rilievo alla classificazione, assimilando il suolo provinciale all’italico: ἀλλὰ ταῦτα μὲν τὸ παλαιόν, σήμερον δὲ διάταξις τοῦ εὐσεβεστάτου ἡμῶν βασιλέως οὐδεμίαν βούλεται εἶναι διαφορὰν italichn καὶ stipendiaríon καὶ tributarion. ἀλλ᾽ εἰ μὲν δεσπότης fraditeis n μοι τὸ οἰκεῖον πρᾶγμα ... ἀνανφόι-
βόλως μεταφέρει τὴν δεσποτείαν ἐπὶ ἐμέδ. 3. Nella redazione in cui ci è giunto, l’excursus appare opera di Teofilo: la cornice storica in cui sono inserite le due > Dig. 50.16.27.1, Ulp. libro septimo decimo ad edictum: stipendium a stipe appellatum est, quod per stipes, id est modica aera, colligatur. Idem hoc etiam tributum appellari Pomponius ait. Et sane appellatur ab intributione tributum vel ex eo quod militibus tribuatur. $ La disposizione che Teofilo ricorda è riconosciuta in quella che conserva Cod. Iust. 7.31.1.5, in appendice al provvedimento con cui si estendono alle res in Italico solo i tempi di prescrizione propri del suolo provinciale, fondendo l’antica usucapio con la longi temporis praescriptio: cum etiam res dividi mancipi et nec mancipi sane antiquum est et merito antiquari oportet, sit et rebus et locis omnibus similis ordo, inutilibus ambiguitatibus et differentiis sublatis (a. 531).
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etimologie tradisce il gusto filologico-erudito del maestro bizantino', e il conferimento ad Augusto di un titolo— βασιλεύς τῶν Ῥωμαίων — che solo in questa etä entra nell’uso ufficiale conferma l’attribuzione. Il riferimento alle innovazioni giustinianee, con cui l’ampia parentesi si chiude, traduce fedelmen-
te il passo parallelo delle Istituzioni giustinianee?. La rielaborazione non impedisce però di individuare i materiali provenienti dalle Istituzioni gaiane e dal commento all’editto di Ulpiano, come si è visto. Anche la singolare affermazione che il tributo imposto dal principe sia apparso ai contribuenti più gravoso dello stipendium potrebbe forse derivare da una fonte classica: il rilievo contrasta con quanto conosciamo dell’incidenza dei prelievi fiscali nel principato!?, e si giustificherebbe appieno in una tradizione storiografica ostile al principe, di ispirazione senatoria, risalente ai primi secoli dell’impero. Più probabile è però che la definizione di tributo sia stata costruita in età tarda, su quella di szi-
pendium, per antitesi, in un tentativo ingenuo di dar ragione del dualismo terminologico dei testi antichi. Teofilo tuttavia, che ben conosce il significato tecnico di demos, ed usa il ter-
mine per rendere il non meno tecnico populus Romanus!!,
? Significativo può essere il confronto con il titolo De testamentis ordinandis (Theophil. inst. Iust. 2.10 Ferrint) che inizia anch'esso con un'etimologia, e continua con la lunga storia della successione testamentaria: 1. tva δὲ μηδὲν ἡμῖν τῶν πάλαι πολιτευομένων ἄγνωστον ein, κἂν ἡ τούτων ἄγνοια οὐδένα φέρει κίδυνον, ἀλλ᾽ οὖν πρὸς ἱστορίαν καὶ τὸ μαθεῖν πῶς κατὰ μικρὸν προϊόντος ἠμείφθη τοῦ χρόνου, εἰπεῖν οὐκ ἄτοπον. Cfr. su questo testo C.A. MASCHI, Punti di vista per la ricostruzione del dir. class. da Adriano ai Severi attraverso una fonte bizantina,
ATRI 18, 1945, 101. $ Cfr. L. BREHIER, L'origine des titres impériaux de Byzance, ByzZ 15, 1906, 170. ? Inst. Iust. 2.1.40: itaque stipendiaria quoque et tributaria praedia eodem modo alienantur. Vocantur autem stipendiaria et tributaria praedia quae in provinciis sunt, inter quae nec non Italica praedia ex nostra constitutione nulla differentia est.
10 G.H. STEVENSON, The Imperial Administration, CAH 10, 1934, 189
Ss.; cfr. Ε DE MARTINO, Storia della costituzione romana 4.2, cit., 719.
!! Ad es. Theophil. inst. Just. 1.2.4 (Ferrini): ἕξ παρὰ ῥωμαίοις εἰσιν
oi νομοθέται. δῆμος χυδαῖος δῆμος σύγκλητος βασιλεύς ἄρχοντες τῆς ῥώμης σοφοί... dove è significativa la distinzione fra il δῆμος (populus), ed il χυδοῖος δῆμος (plebs); 1.2.12: ὅσα δέ ἐστιν iurisciuilia... ἀμείβεσθαι πολλάκις εἴωθεν... σιωπηρᾷ τοῦ δήμου συναινέσει... etc. Cfr. G. NOCERA, Saggi esegetici sulla parafrasi di Teofilo, RISG 12, 1937, 53.
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non avrebbe potuto confondere il popolo signore delle province con la plebe urbana alimentata dalle elargizioni imperiali: ed a questa proprio sembra invece pensare l’autore della chiosa alla etimologia ulpianea di stipendium, quando asserisce che il popolo consuma per i suot bisogni e per i suoi svaghi le
contribuzioni delle province assegnategli!?, e contrappone tale destinazione a quella del tributo, che alimenta l'esercitoP. Un redattore giustinianeo, d'altra parte, difficilmente avrebbe considerato
abituale il ricorso all'imposizione in natura che,
istituzionalizzato nel sistema dioclezianeo!^, già dalla fine del V sec. era sempre più di frequente sostituito, in Oriente, dalla
prassi dell’adaeratio!”: ed invece il chiosatore della definizio-
ne ulpianea sembra illustrare come conferimenti in natura an-
che i modica aera del giurista classico!9. Queste singolarità possono piuttosto spiegarsi ipotizzando una prima redazione, in età pregiustinianea, di due glosse esplicative di stipendiarius (ager) e tributarius in margine ad una copia dei commen-
tarii gaiani!”: il compilatore bizantino le avrebbe utilizzate 12 Δῆμος nel significato di plebe urbana è comune nell’uso linguistico protobizantino: E.A. SOPHOCLES, A Greek Lexicon of the Roman and Byzantine Periods,1900, s. v. δῆμος. Δῆμοι sono anche le fazioni del circo, a Costantinopoli. Allo stesso modo in Procopio, il praefectus urbis Constantinopolitanae diventa ἡ τῷ δήμῳ ἐφεστῶσα ἀρχή: Procop. Arc. 20. Nella stessa accezione δῆμος torna anche in Procop. Pers. 1.24.7.
13 Theophil. inst. Iust. 2.1.40 Ferrini: ... πολλὰ δαπανῶν περὶ τὴν τῶν στρατιωτῶν ἀποτροφήν. Per δαπάνη = τροφή negli scrittori protobizantini cfr. L. DINDORF, in TLG IL3, δαπάνῃ, col. 900. 14 S. MAZZARINO, L'impero romano 2, 1956, 385; 415, con bibl.; cfr. A.H.M. JONES, The Later Roman Empire, 1964, 449 ss.
15 E. STEIN, Histoire du Bas-Empire 2, 1949, 199, 201. La coemptio & il mezzo più comune per rifornire di vettovaglie l’esercito, in età giustinianea: Procop. Arc. 23.11, che ignora del tutto la possibilità di far ricorso ad una imposizione in natura. 16 Nella definizione di stipendium, ... τοῦ ἀργυρίου καὶ τῶν ἄλλων συλλογή, si incontrano due elementi, τὸ ἀργύριον, le specie monetate, secondo l’uso comune del termine, e tà ἄλλα, in cui si dovranno riconoscere
di necessità i prodotti naturali, le «altre cose» che, con le monete, possono essere conferite come tributo. 17 Glosse del genere avrebbero ben potuto trovare luogo nella catena di scoli in cui il Collinet proponeva di riconoscere la fonte pregiustinianea della Parafrasi (P. COLLINET, Histoire de l'Ecole de droit de Beyrouth, 1925, 291 s.), modificando la tesi ferriniana, secondo cui il compilatore
avrebbe invece ampiamente utilizzato un preesistente κατὰ πόδα del manuale gaiano. Ma l'ipotesi proposta nel testo non contrasta neppure con l’altra opinione, che all'opera di Teofilo dà tanto maggior rilievo in quanto
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senza modifiche sostanziali. Una conferma di tale ipotesi potrebbe vedersi poi nella coincidenza fra la definizione di stipendium ed una delle glosse torinesi alle Istituzioni giustinianee!5, se si escludesse senz ‘altro ogni dipendenza di queste glosse dalla parafrasi teofilina!? 4. La ricerca delle fonti cui Teofilo ha attinto per il suo excursus non è tuttavia sufficiente a chiarire le origini della dottrina patrimonialistica sui rapporti fra popolo (o principe) e suolo provinciale, che il compilatore riporta come notizia erudita, priva di rilevanza per la sua epoca. Anche in questo caso, la Parafrasi riprende un ben noto passo gaiano (inst. 2. 4) — ... in eo solo dominium populi Romani est vel Caesaris, nos autem possessionem tantum vel usumfructum habere videmur... che integra a suo modo. Nella traduzione dominium riceve peró un significato ben diverso dall'originale: sebbene infatti anche il greco δεσποτεία sia termine ambiguo, di uso comune per situazioni patrimonialistiche non meno che
pubblicistiche?, tuttavia il parallelismo, che la Parafrasi attribuisce al parafraste una diretta utilizzazione delle Istituzioni di Gaio (F. WIEACKER, Über das Gaiusexemplar der Theophilusparaphrase, in Festschr. Gierke, 1950, 306 s.). Sulle fonti della Parafrasi vedi anche L. WENGER, Die Quellen, cit., 83 s., e bibliografia ivi, n. 30 s. 18 Glossa torinese 134: Stipendiaria praedia apellantur que ad stipem hoc est ad victum pauperum proficiebant. Tributaria que onera tantum fiscalia persolvebant: nam tributum est gravis pensio quae persolvitur Cesari (ed. di A. ALBERTI, La “glossa torinese” e le altre glosse del MS D.IH.13 della Biblioteca Nazionale di Torino, 1933, 37); cfr. Ip., Problemi relativi alla glossa torinese, RSDI 7, 1934, 79.
1° Il problema dei rapporti reciproci è tuttora irrisolto, sebbene la dottrina più recente propenda, contro l’ipotesi già difesa dal FERRINI, La glossa torinese e la parafrasi dello pseudo-Teofilo, RIL 17, 1884, 714 (= Scritti 1, cit., 41), a riconoscerne la dipendenza dalla compilazione bizantina: così, da ultimo, l' ALBERTI, Problemi, cit., 116-17, per il gruppo di
glosse cui appartiene la 134, e che costituirebbe il nucleo più antico del commento. Per più ampia letteratura sull’argomento, L. WENGER, Die Quellen, cit., 730.
20 Cfr. TLG II. 4, δεσποτεία (col. 1014) e δεσπότης (coll. 10141015); e E.A. SOPHOCLES, A Greek Lexicon, cit., δεσποτεία e δεσπότης (p. 352). Anche la terminologia delle fonti giuridiche è incerta, Il glossario conservato nel Cod. Harleianus 5792, e falsamente attribuito a Cirillo, rende δεσποτεία con dominatus, dominatio, eritudo, proprietas (Gloss. II 268). Come & noto, questo lessico, il cui manoscritto risale al VII sec.,
attinge spesso a fonti giuridiche classiche (anche alle Istituzioni gaiane), e presenta d'altra parte singolari analogie con la Parafrasi teofilina
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ravvisa, fra la despoteia del principe (e del popolo), e quella del privato sul suolo italico, precisa inequivocabilmente il senso che il vocabolo ha in questo contesto. E difficile determinare se il parafraste abbia risolto in modo del tutto ori| ginale il problema di interpretazione posto dal brano gaiano, o se invece si sia avvalso di una traduzione più antica”. Anche nella seconda ipotesi, però, la cura con cui Teofilo evita altrove Seonörnc, δεσποτεία per designare la signoria pubblicistica del principe”? esclude che la recezione possa essere stata inavvertita, casuale: il compilatore ha senz'altro creduto di leggere in Gaio l'assimilazione del rapporto popolo (o principe) - suolo provinciale ai rapporti di proprietà privata, ed ha scelto (o ripetuto) un termine che non lasciasse
dubbi in proposito. Si potrebbe attribuire il fraintendimento del discorso di Gaioad un tentativo di aggiornare il pensiero del giurista antoniniano, adattandolo ad una nuova diversa concezione
dei rapporti territoriali nelle province: ma Teofilo afferma recisamente, come si e visto, l’inattualità di quell’insegnamento, con la sua triplice divisione del suolo dell’impero.
D'altra parte, rimanendo ancorata ad una concezione diarchica dell’ordinamento provinciale, e confinando il dominio
del principe (e del popolo) al suolo extraitalico, la problematica di Gaius inst. 2. 7 ben difficilmente avrebbe potuto offrire un qualche interesse per la pubblicistica giustinianea, che postula invece l’ecumenicità e l’esclusività della signo-
ria del basileus?3, comunque risolva il problema, tuttora
(G. GOETZ, De glossariorum Latinorum origine et fatis, in Gloss. I 39): la pluralità di significati che riconosce al vocabolo appare tanto più significativa proprio per questa sua probabile connessione con l’attività dei traduttori di scritti giuridici latini.
?! La cui esistenza, in glosse interpretative o in un κατὰ πόδα non può
essere esclusa nemmeno se si accolga la tesi secondo cui Teofilo avrebbe direttamente rielaborato il testo gaiano.
22 Purtroppo manca un indice della Parafrasi che permetta lo spoglio
completo delle espressioni in cui il termine torna: ma già una semplice lettura del primo libro, il più interessante per l’analisi delle concezioni pubblicistiche del parafraste, permette di concludere che l’uso dei termini con
cui si indicano rispettivamente i rapporti patrimonialistici e quelli di signoria politica non è casuale.
23 L’ecumenismo è un dogma della ideologia imperiale bizantina: F.
DÒLGER, Byzanz und die europ. Staatenwelt, 1953, 10; cfr., per la storia dell’idea O. TREITINGER, Die ostroem. Kaiser- und Reichsidee, 1956, 164
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aperto, della natura, e dei fondamenti giuridici, del suo potere. Negli anni in cui può collocarsi la redazione della Parafrasi l'ideologia politica ufficiale continua infatti a ricollegare le polestà dell’imperatore ad una originaria delega popolare? xSebbene siano avvertibili sollecitazioni in senso diverso”, le Istituzioni imperiali, seguite da queste di Teofilo, fanno derivare da una lex regia l’archè imperiale?$, senza ss. Per gli influssi di questa dottrina sulla legislazione, ad es. Novell. Just. 9 pr.; Novell. Iust. 62 pr.; cfr., per la sua recezione nella scuola, proprio Theophil. inst. Just. 2.1.40, in cui la signoria universale è già predicato di Augusto: ὁ πάλαι ῥωμαίων βασιλεὺς πάσης κρατήσας γῆς. In genere, sulla pretesa universalistica in etä giustinianea, Ρ DE FRANCISCI, Arcana Imperii 3, 2, 1948, 192 s.; 124, anche per i rapporti fra designazione divina del principe ad esclusività del suo potere nelle concezioni politiche tardo-romane. 24 Sui fondamenti del potere imperiale nelle dottrine protobizantine, J. KARAYANNOPOULOS, Der fruehbyzantinische Kaiser, ByZZ 49, 1956, 369 ss., in particolare 383 s.; B. RUBIN, Das Zeitalters Iustinians, 1960, 126 s.
25 Già nei Capita admonitoria del diacono Agapeto, elaborati nei pri-
mi anni del principato giustinianeo, la concezione dell’investitura divina, senza alcuna mediazione degli organi tradizionali, è affermata con gran vigore: ad es. IIap. 61 (PG 86, col. 1182); cfr., per le dottrine politiche di Agapeto, B. RUBIN, Das Zeitalters Iustinians, cit., 171 e n. 389. Essa sembra affiorare anche all'inizio della Constitutio Deo auctore, Cod. Iust. 1.17.1, a. 530, in cui coesiste peró con l'altra tradizionale (7): P DE FRAN-
CISCI, cit. a n. 23, 206, che tuttavia sembra accentuare troppo il rilievo di questa, e di simili tracce rilevate in costituzioni del 534, per la storia costituzionale della prima età gustinianea. 26 Inst. Just. 1.2.6: sed et quod principi placuit, legis habet vigorem, cum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem concessit. Le Istituzioni riprendono letteralmente un passo di Ulpiano, Dig. 1.4.1, 1 inst., proiettando però nel passato, e riducendo ad una delega definitiva di poteri quell' investitura da cui il giurista classico vede invece sorretta, di momento in momento, la normazione imperiale: R. ORESTANO, I! potere normativo degli imperatori e le costituzioni imperiali, 1937, 20 e n. 36; F. DE MARTINO,
Storia della co-
stituzione romana, 4.1, 1962, 436 e n. 20, con ampia bibliografia su questo testo. Nella stessa linea si muove la Parafrasi: Theophil. inst. Just. 1.2.4 (Ferrini): ... «opu$atótatog ὁ δῆμός ἐστι τῶν νομοθετῶν; 1.2.6: βασιλεύς ἐστιν ὁ τὸ κράτος τοῦ ἄρχειν παρὰ τοῦ δήμου λαβών. Diverso il significato dell’insegnamento pubblicistico della Parafrasi per il NOCERA, oc. 58 ss., che vi riconosce invece un significativo documento della dottri-
na assolutistica bizantina; cfr. anche La teoria dell'assolutismo imperiale in un testo giur. bizantino, RISG
12, 1937, 251 ss.: ma se è incontestabile
che Teofilo e Giovanni Lido (la cui trattazione sul principato «completa, come rileva il Nocera, il pensiero di Teofilo») pagano un tributo alla realtà politica della loro epoca, non sembra tuttavia possa misconoscersi il loro
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neppure tentare la conciliazione di tale principio con l’altro per cui il basileus è investito provvidenzialmente della sua funzione (come si riscontra già di frequente negli scrittori
del IV e del V sec.)?". La signoria, che il popolo ha trasferito
al principe, è esercitata senza limiti, né personali né territoriali, su liberi e schiavi, sull’Italia e sulle province; coesiste
quindi con i poteri patrimoniali dei privati, o del principe stesso, ed è da essi chiaramente distinta. Il dominio augusteo sulla terra non esclude, nel racconto
della Parafrasi, che in Italia già in quei tempi lontani il rapporto fra suolo e privati fosse concepibile come δεσποτεία. né il riconoscimento che il principe ... καὶ αὐτῶν τῶν σωμάτων ἐστὶ κύριος appare di ostacolo alla ἐλευθερία dei
cittadini”.
Proprio questa aderenza alle prospettive della pubblicistica contemporanea può avere condotto inconsapevolmente il compilatore a deformare il pensiero gaiano. Teofilo non avrebbe potuto riconoscere nel dominium populi Romani vel Caesaris, limitato al suolo provinciale, la signoria del basileus, senza comprometterne implicitamente la pretesa universalistica: reintegrata pertanto l’unità del potere, che la distinzione fra province del popolo e province del principe incrina nel discorso gaiano, attraverso il rimando al dominio ecumenico di Augusto, il maestro bizantino avrà avvertito la necessità di svalutare a rapporto patrimoniale il dominio del sforzo di ridurre questa realtà entro le forme costituzionali consacrate dalla tradizione classica. L’identificazione della volontà del principe con quella del demos che gli ha trasferito, una volta per tutte, il suo potere normativo (Theophil. inst. Just. 1.2.6 Ferrini) è un patetico tentativo di salvare i fon-
damenti umanistici del principato; così come patetico è nel De magistratibus lo sforzo di conservare l’antica collaborazione fra principe e patres, pur nel riconoscimento della provvidenzialità della signoria imperiale: Lyd. mag. 1.3: ἴδιον δὲ βασιλέως ἐστί ... μηδὲν μὲν Kat αὐθεντίαν ἔξω τῶν νόμων πράττειν, τὸ δὲ τοῖς ἀρίστοις τοῦ πολιτεύματος συναρέσκον ψήφοις οἰκείαις ἐπισφραγίζειν... 27 J. KARAYANNOPOULOS, Der fruehbyzantinische Kaiser, cit., 375 s.
28 Theophil. inst. Just. 2.1.40 Ferrini: cfr. Theophil. inst. Just. 1.2.7 Ferrini, che afferma l’imperatore padrone dei beni come delle persone: faσιλεύς ... οὐ μόνον τῆς ἡμετέρας περιουσίας ἀλλὰ καὶ αὐτῶν τῶν σωμάτων ἐστὶ κύριος...
29 Come attesta il confronto fra il brano ricordato alla nota precedente
e le esposizioni
De
ingenuis
(Theophil.
inst. Just.
1.4), De
libertinis
(Theophil. inst. Just. 1.5) etc., che esplicitamente asseriscono la libertà degli εὐγενεῖς e degli ἀπελεύθεροι.
109
popolo e del principe sulle rispettive province, per evitarne la confusione con il dominio πάσης γῆς dell’imperatore. 5. Una siffatta lettura di Gaius inst. 2.7 avrebbe d’altra parte permesso al maestro bizantino di prendere posizione nel contrasto incipiente che incrina la pubblicistica contemporanea, dietro lo schermo prudente di una nota erudita. Dopo la grande rivolta del 532 infatti, facendo propria la concezione provvidenzialistica dell’impero che ai primordi del principato giustinianeo già il diacono Agapeto aveva accolto nei suoi Capita admonitoria, anche la cancelleria im-
periale verrà sempre più sottolineando, nella signoria del basileus, V’investitura divina ai danni della delega popolare? L'insegnamento classico, che le Istituzioni avevano riproposto con sconcertante fedeltà, eliminando persino gli aggiornamenti introdotti con la cristianizzazione dell’impero sarà ostentatamente messo da parte. Allo stesso tempo, la di-
stinzione fra appartenenza patrimonialistica e signoria pubblicistica più di una volta apparirà pericolosamente minacciata, nelle asserzioni programmatiche del principe non meno che nelle strutture amministrative in cui il riordinamento dei territori occidentali riconquistati verrà prendendo corpo?! Sebbene da secoli oramai il principe venisse designato come δεσπότης non solo nella lingua viva??, ma anche nei formulari degli uffici provinciali, in Oriente?5, i circoli cul30 J, KARAYANNOPULOS, Der frühbyzantinische Kaiser, cit., 383 e n. 75; cfr. H. HUNGER, Prooimion. Elemente der byz. Kaiseridee in den Arengen der Urkunden, 1964, 51 ss., che analizza accuratamente le prefazioni delle Novelle giustinianee rilevando, fra altre costanti, l'insistenza sulla «Herr-
schaft aus Gott». 31 Ad es. Novell. Iust. 7.2.1 (Imp. lustinian. A. Epiphanio archiepiscopo et patriarchae Const.): ti yàp àv kai αἰτιάσαιτο βασιλεὺς πρὸς τὸ μὴ
δοῦναι τὸ κάλλιον; ᾧγε πολλὰ μὲν δέδωκεν ὁ θεὸς ἔχειν, πολλῶν δὲ
κύριον καθεστάναι, καὶ ῥᾳδίως διδόναι... La stessa «conception exorbitante du pouvoir impérial» sembra ispirare i provvedimenti con cui, fra il 536 ed il 537 la Sicilia riconquistata viene inserita nell’ordinamento provinciale dell’impero (Novell. Iust. 75), demandandone l’amministrazione tributaria ad un comes sacri patrimonii per Italiam, quasi tutta l'isola sia
patrimonio del basileus: E. STEIN, Histoire du Bas-Empire 2, 1949, 424. ?? L. BREHIER, L'origine des titres impériaux, cit., 168; cfr. TLG IL 4, δεσπότης, col. 1014-1015; Ε DÖLGER, Die Entwicklung der byz. Kaiserti-
tolatur in St. Robinson 2, 1953, 985 s. 33 1 documenti
ricordati in F. PREISIGKE,
Papyrusurkunden 1, 1924, n. 7.
110
Wörterbuch
der griech.
turali legati all’ideologia politica classica, con le loro propaggini nelle scuole e nella stessa burocrazia?*, vedranno riassunto questo sovvertimento dell’ordine tradizionale nella legittimazione che l’uso del titolo di despota troverà nel cerimoniale di corte, auspice o, per lo meno,
consenziente
l’imperatore”. Il rifiuto perciò di quell’appellativo, o la contestazione della sua liceità, diverranno nella polemica
antigiustinianea altrettante manifestazioni di intolleranza per 34 Analizzando l’opera di Agatia, cautamente ma decisamente polemica verso la politica di aggressioni giustinianea, il LAMMA, Ricerche sulla storia e la cultura dal VI sec., 1950, passim, rilevava come stretti vincoli leghino taluni ambienti della burocrazia imperiale e le aristocrazie cittadine: colti ed esperti di diritto, questi funzionari rimangono fedeli, pur nella nuova condizione sociale, al mondo culturale di origine, di cui conservano ideali ed aspirazioni; le scuole di diritto in cui, come Agatia ricorda per Be-
rito (Agath. 2.15), i giovani εὐπατρίδαι te καὶ παιδείας ἄριστα ἔχοντες completano la loro formazione, assicurano l’osmosi fra élites provinciali ed
uffici imperiali. Le rapide notazioni del giovane storico, immaturatamente scomparso, andrebbero per più versi approfondita. Comunque, l’omogeneità sociale e culturale fra aristocrazia cittadine e burocrazia (in alcuni suoi settori) riceve a prima vista conferma dalla carriera degli storici burocrati giustinianei che, giungendo dalla Palestina, dalla Lidia, dall’Epiro a Costantinopoli, spesso dopo una più o meno lunga attività di causidici (ῥήτορες), sono immessi, proprio grazie alla loro preparazione umanistica e giuridica, negli organi centrali della macchina statuale (E. STEIN, Histoire, cit., 709 ss., per Procopio, Pietro il patrizio, Giovanni Lido; cfr. B. RUBIN, Das Zeitalters Iustinians, cit., 168 ss., per i rapporti fra questa storiografia e la politica giustinianea). Il «classicismo» dei professori preposti alla compilazione si chiarisce, in questa prospettiva, come un aspetto del tradizionalismo culturale delle classi abbienti delle città, mentre acquista al tempo stesso una precisa dimensione politica, nel complesso equilibrio di forze del principato giustinianeo; la pluralità di indirizzi che la storiografia giuridica viene scoprendo all’interno stesso del Corpus Iuris (da ultimo G.G. ARCHI, Metodologia e problematica etc., SDHI 26, 1960, 333 s.) trova un interes-
sante parallelismo con questa considerazione più articolata della burocrazia; d’altra parte, la problematica ideologica degli storici bizantini, con le aspettative, i timori, le ostilità che esprime, pone in evidenza atteggiamenti che non si possono limitare ai circoli conservatori della capitale ma che, in, questa linea, appaiono comuni ai ceti colti dell’impero. 5 Procop. Arc. 30.26: ἢν δέ τις τούτοιν ὁποτέρῳ £c λόγους ξυμμίξας βασιλέως ἢ βασιλίδος ἐπιμνησθείη, ἀλλ οὐ δεσπότην τε ἀποκαλοίη καὶ δέσποιναν, ἢ καὶ μὴ δούλους τῶν τινας ἀρχόντων ὀνομάζειν πειρῷτο τοσοῦτος δὴ ἀμαθής τε καὶ τὴν γλῶτταν ἀκόλαστος ἐδόκει εἶναι ... Piü moderato Lyd. mag. 1.6: ἀλλ᾽ ἤδη πρότερον ὥσπερ ἐν τιμῇ τῆς ὕβρεως εἰσαχθείσης, ἀνέχεται 7| τοῦ ἡμερωτάτου βασιλέως ἡμῶν ἐπιείκεια, καΐπερ ὑπὲρ πάντας τούς πώποτε βεβασιλευκότας μετριάζοντος, καὶ δεσπότης, οἷον πατὴρ ἀγαθὸς, ὀνομάζεσθαι...
111
l’assolutismo bellicista e popolareggiante che caratterizza la politica imperiale di questi anni. L’accusa di aver per primo preteso l’odiosa qualifica, con cui si chiude l’Historia Arcana, ed il cavilloso discettare del De magistratibus sui titoli dell’imperatore, così attento a non suscitare risentimenti, si
comprendono entrambi in questa prospettiva, non ostante le divergenze di impostazione e di tono. Nella stessa linea, di un classicismo che ripropone la dottrina antica come modello ideale di elaborazione ideologica,
e si rifiuta di trarne invece suggerimenti per risposte originali ai problemi del suo tempo, sembra collocarsi anche la Parafrasi teofilina: quasi agli inizi della lunga, vivacissima
lotta, in tanti suoi momenti ancora oscura?$, essa oppone ai
fermenti innovatori, con l’autorità che deriva al suo autore
dalla cattedra costantinopolitana e dal favore del principe, una rigida adesione all’insegnamento pubblicistico classico, che l’attenta limitazione di δεσπότης ai rapporti privatistici ribadisce sotto il profilo terminologico. Riportando Gaius inst. 2.7 in una interpretazione che ne altera il significato originario, ma dichiarandone al tempo stesso l’inattualità e
la contradittorietà con le innovazione giustinianee, Teofilo potrebbe pertanto aver voluto opporre ai sostenitori delle nuove tendenze ideologiche il diverso atteggiamento della legislazione, o ammonire indirettamente il principe, col sottolineare l’inconciliabilità fra gli indirizzi della politica legislativa in atto ed una eventuale adesione a così diversi
principi”.
36 AI contrasto può forse riferirsi anche la notizia di Procopio, secondo cui Giustiniano avrebbe mostrato particolare animosità nei confronti degli avvocati, dei professori di arti liberali e dei medici, se essa non fa che
esemplificare attraverso i rapporti con queste categorie la frattura determinatasi fra il principe e le aristocrazie cittadine (Procop. Arc. 26); di particolare rilievo sarebbe in tal caso il riferimento ai ῥήτορες, formati in queste stesse scuole, a questa stessa tradizione culturale che Teofilo mostra sua. 37 Sotto altro profilo, rileva l'atteggiamento conservatore di Teofilo anche l’ ARCHI, Metodologia, cit., a n. 34.
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Consoli e datio tutoris in Inst. Iust. 1.20.3:
1. In 7nst. do consoli e disposizioni regolamento desuetudine:
Iust. 1.20 i compilatori ricordano come, avenpretori iniziato a dare il tutore secondo nuove imperiali, le vecchie leggi repubblicane, ed il di nomina da esse predisposto, cadessero in
Inst. Iust. 1.20.3: sed ex his legibus pupillis tutores desierunt dari, posteaquam primo consules pupillis utriusque sexus tutores ex inquisitione dare coeperunt, deinde praetores ex constitutionibus. Nam supra scriptis legibus neque de cautione a tutoribus exigenda rem salvam pupillis fore neque de compellendis tutoribus ad tutelae administrationem quidquam cavetur.
Ancora agli inizi del secolo, il racconto nel suo complesso non sembrava dare adito a dubbi, pur apparendo evidenti talune sue sconnessioni, ed il Ferrini poteva senz’altro attribuirlo alle Istituzioni di Marciano, nella palingenesi delle
fonti escerpite da Triboniano, Teofilo e Doroteo!.
Ma, qualche decennio più tardi, le ricerche di diritto tutelare del Solazzi incrinavano profondamente questa fiducia. Le Istituzioni giustinianee avrebbero giustapposto arbitrariamente alla datio ex lege Atilia (Iulia et Titia) la datio
ex inquisitione introdotta dalle costituzioni, ed avrebbero a
* Labeo 13, 1967, 194-200. ! C. FERRINI, Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano, 1901, ora in Scritti 2, 1929, 347.
BIDR
13,
113
torto fatto dipendere dalla concessione dello ius tutoris dandi a consoli ed a pretori il venir meno della disciplina più antica. In realtà, le leggi repubblicane sarebbero rimaste ancora per lungo tempo in vigore, e il nuovo tutore dato ex inquisitione si sarebbe affiancato all’atiliano, senza soppiantarlo, in età classica. Per offrire un motivo plausibile alla pretesa abolizione del regime atiliano, i compilatori avrebbero amputato un brano di autore classico, e lo avrebbero ridotto ad asserire che le leggi antiche non offrivano garanzie al pupillo, né prevedevano mezzi di coazione nei confronti del tutore riottoso. Quest’ultima asserzione sareb-
be senz'altro falsa, ed apparirebbe pertanto maestri bizantini, che autonomi, il paragrafo
il nam che congiunge i due periodi «affatto privo di senso». Opera dei avrebbero cucito insieme due passi delle Istituzioni conserverebbe per-
tanto solo nel brano finale un frammento classico, che ori-
ginariamente si sarebbe riferito a modifiche consolari dell'ordinamento tutelare preclaudiano; nella redazione antica,
esso avrebbe infatti detto pressappoco: neque de cautione a tutoribus legitimis exigenda rem salvam pupillo fore neque de compellendis tutoribus testamentariis ad tutelae administrationem quidquam cavetur...? 2. Le critiche del Solazzi non spiegano per quale motivo i compilatori avrebbero attribuito ai consoli un rilievo diverso da quello avuto di fatto, nella storia della tutela dativa: i consoli non hanno piü da secoli alcuna ingerenza nella datio tutoris, in età di Giustiniano, ed i giustinianei, rileva proprio il Solazzi, ne hanno cancellato ogni traccia dai frammenti
del Digesto?.
La lettura proposta, d'altra parte, non riesce a dare al nam suprascriptis legibus... cavetur un senso coerente con
? Da ultimo in S. SOLAZZI, Istituti tutelari, 1929, 65 ss.: «Chi arresta la lettura a questo punto, scorge un'antitesi fra le parole ‘ex his legibus" ed ‘ex inquisitione'... I compilatori sbagliano...; i bizantini... sono caduti in questo equivoco e coerentemente allo loro idea hanno mutato i testi classici». Cfr. 17 ss., in particolare 21: «Per ora, ci basta di aver reso verosimile la congettura che il testo del giurista classico... dicesse: “de cautione a tutoribus legitimis exigenda’. Non è una congettura, ma una certezza, che il testo dovette parlare di compellendis tutoribus testamentariis ad tutelae administrationem.
3 S. SOLAZZI, Istituti tutelari, cit., 77 ss.
114
-
i principi del diritto tutelare giustinianeo: i compilatori non avrebbero potuto asserire che la cautio introdotta dalle riforme imperiali sarebbe stata richiesta a tutti i tutori, come sembra ritenere il Solazzi dal momento che per i bizantini inquisitio e cautio si escludono oramai a vicenda”. Né si comprende perché mai i riferimenti alla cautio ed al compellere tutorem, ancora attuali nell'ordinamento del VI
sec., sarebbero stati introdotti nell'esposizione di un regolamento della prima età imperiale che il passo successivo implicitamente afferma abrogato, contrapponendogli il nuovo, definito dalle costituzioni di Teodosio e, da ultimo,
dai provvedimenti giustinianei: ... sed hoc iure utimur...3.
Nell'economia del capitolo, il ricordo della cautio e della coercizione magistratuale nei confronti dei tutori riottosi non sembra possa in alcun modo spiegarsi con l'intento di far risalire alle riforme imperiali della datio tutoris gli istituti attuali: e l'esegesi del Solazzi aggrava l'incongruenza del racconto, anzi che sanarla, in quanto non lo riconosce aderente né alla disciplina classica della tutela, né alla giu-
stinianeà. Il confronto con la parafrasi teofilina esclude poi decisamente che i compilatori abbiano voluto costruire una antitesi fra datio ex lege Aquilia e datio ex inquisitione. Teofilo rileva infatti che: Theophil. inst. Iust. 1.20.3 Ferrini: ἀλλὰ ταῦτα μὲν τὸ παλαιὸν: μέτα δὲ ταῦτα ἡ τῶν atiliandn καὶ iuliotitianòn ἀνῃρέθη δόσις (P: δόξα). ἥρξαντο γὰρ κατὰ μὲν πρώτην τάξιν (mss. ὄψιν) οἱ ὕπατοι ... ἐπιτρόπους κατὰ inquisitíona
διδόναι, τουτέστι ζητοῦντες εἰ ἄποροί εἰσιν οἱ ἐσόμενοι ἐπίτροποι..., μετὰ δὲ τοὺς ὑπάτους καὶ οἱ praétores ἐκ τῶν διατάξεων ταὐτὰ ἐποίουν.
La distinzione fra ex inquisitione (= κατὰ inquisitiona) ed ex constitutionibus (= ἐκ τῶν διατάξεων) non lascia adito a dubbi: le due espressioni apparivano eterogenee al maestro bizantino, e sarebbe arbitrario pensare ad un fraintendimento del testo che egli stesso aveva, con altri, redatto.
4 Così il SOLAZZI, Studi sulla tutela, in Pubblic. Fac. Giur. Reale Univ. Modena 9, 1925, poi Scritti 3, 1960, 106 n. 14, correggendo la dottrina che tale antinomia faceva risalire ad età classica. 5 Cfr. E GRELLE, Datio tutoris ed organi cittadini nel basso impero, Labeo 6, 1960, 223, e bibl. ivi cit.
115
D’altronde, la parafrasi ignora che la datio ex lege Atilia non implicava una preventiva inquisitio: Theophil. inst. Just. 1.20.1 Ferrini: £v τῇ Ῥώμῃ ὁ praetor ὁ urbanös μετὰ τοῦ μείζονος μέρους τῶν δημάρχων ... τουτέστι μετὰ ξ ἢ G ἐπιζητήσας ...
L’affermazione è priva di fondamento storico, ed appare singolare. Le Istituzioni giustinianee, nel passo corrispondente, la ignorano, fedeli all’insegnamento gaiano. Probabilmente, essa era già penetrata, forse come glossema, nel Gaio greco cui Teofilo attinge (qualunque forma abbia tale redazione assunta in concreto”), ma aveva risparmiato l’esemplare latino che i compilatori del manuale imperiale utilizzano. Teofilo infatti inserisce senza alcun rilievo lo ἐπιζητήσας all'inizio del capitolo, mentre si dilunga ad illustrare il significato di inquisitio nella parafrasi di Inst. Iust. 1.20.3, proprio perché nel primo caso la recezione deve essere stata pressoché inavvertita (e la mancanza di una revisione deve avere impedito di correggere l’incongruenza di un discorso che rinvia il chiarimento dei termini usati alla fine dell’esposizione). Ma l’equivoco in cui incorre Teofilo non si sarebbe certo verificato, sarebbe stato anzi impossibile, se la dottrina bi-
zantina avesse riconosciuto il fondamento della datio rispettivamente nella /ex o nell’inquisitio, se la datio ex inquisitio-
ne fosse apparsa così recisamente giustapposta a quella ex lege Atilia (o Iulia et Titia) come vuole il Solazzi.
Le Istituzioni giustinianee, che la Parafrasi segue in 1.20.3 pedissequamente, individuano nella legge repubblicana e nella costituzione imperiale (ex his legibus... ex constitutionibus) la fonte dello ius tutoris dandi del pretore atiliano e di quello tutelare, con una evidente anticipazione storica nel primo caso"; lasciano invece indeterminato il fonda-
6 Sul problema cfr. da ultimo B. SANTALUCIA, Contributi allo studio della Parafrasi di Teofilo, SDHI 31, 1965, 171, che data il «modello», sulla cui struttura non si pronunzia, alla fine del IV sec. Ma una risposta unitaria non sembra molto soddisfacente. 7 Le leggi repubblicane regolarono un'attività che era già di competenza del pretore, non la crearono ex novo: ancora in età classica sopravvivono due tutori, il 7. praetorius ed il 1. mulieris, di nomina magistratuale, preatiliani: cfr. S. SOLAZZI, Il consenso del tutor mulieris alla sua nomina nei
papiri e nei testi romani, Aegyptus 2, 1921, 154 poi in Scritti 2, cit., 413.
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mento della datio consolare, tale probabilmente anche nel-
l'opera da cui riprendono la notizia?. 3. La notizia che consoli e pretori urbani sostituirono nella datio tutoris del principato il collegio predisposto dalla legge Atilia si presenta, nell'economia di Inst. Iust. 1.20, come una mera precisazione antiquaria: spiega come l’ordinamento descritto nel passo escerpito dalle Istituzioni gaiane sia stato soppiantato da quello che delinea, il successivo ὃ 4, riunendo elementi di diversa provenienza?. Per dar ragione della scomparsa delle leggi antiche, il cui ricordo èè accuratamente eliminato dal Digesto e dal Codice!?, i compilatori ne affermarono la desuetudine, non potendo far riferimento ad
alcun provvedimento formale di abrogazione. Utilizzarono a tal fine una fonte anteriore, che ricordava come le riforme di
Claudio e di Marco Aurelio avessero fatto sparire il ricorso al collegio predisposto dalla lex Atilia, pur senza togliere valore alla legge nel suo complesso", ma diedero al testo un significato molto piü ampio dell’ originale, fino a dedurne la totale scomparsa 4611 ordinamento atiliano!?. Il ricordo dei consoli è prova indubbia della dipendenza da un autore classico: i giustinianei non avrebbero inserito il
8 Svetonio ricorda che Claudio sanxit ur pupillis extra ordinem tutores a consulibus darentur (Suet.
Claud.
23): ma sancire è termine generico,
nell’uso svetoniano, e non permette di precisare quali forme il provvedimento abbia assunto. Sembra da escludersi, per questa epoca, un diretto intervento normativo del principe, a regolare le competenze della più alta magistratura repubblicana. L'abolizione della tutela agnatizia perpetua sulla donna fu sancita da una lex Claudia, probabilmente un plebiscito: G. ROTONDI, Leges publicae populi Romani, 1912 (rist. 1962) 467. Può pensarsi ad un provvedimento dello stesso tipo o, forse, ad un'oratio in senatu habita. L'evoluzione costituzionale del principato e l’analogia sostanziale con le posteriori disposizioni di Marco Aurelio debbono avere rapidamente obliterato il ricordo del carattere originario del provvedimento. ? Datio tutoris, l.c. 10 S. SOLAZZI, Studi sulla tutela, cit., 103.
!! Entro questi limiti, coglie nel segno la critica del SOLAZZI, Istituti
tutelari, cit., 54, che riafferma il perdurare della datio atiliana accanto alla
consolare: ma la dimostrazione data non puó escludere che un testo classico sia stato frainteso o artatamente modificato dai compilatori, fino a significare la totale abrogazione della legge. ? Conferma questa interpretazione Theophil. inst. Iust. 1.20.3 (Ferrini): ἡ τῶν atiliandn καὶ iuliotitianòn ἀνῃρέθη δόσις: la datio (ma δόξα, secondo i mss.: l'apparenza) del tutore atiliano e iuliotitiano scomparve.
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riferimento solo per affermare subito dopo l’attuale incompetenza dei magistrati (sed hoc iure...). Già il Ferrini, come si è ricordato, attribuiva tutto il brano alle Istituzioni di Mar-
ciano: e per il periodo ex his legibus... ex constitutionibus tale ipotesi può trovare ulteriore conferma proprio nel rilievo che il passo dà alla tutela consolare. Tuttavia, potrebbe pensarsi anche ad una redazione definitiva più tarda: uno scolio latino all’esemplare delle Istituzioni gaiane utilizzato dai compilatori ne potrebbe avere aggiornato ed integrato l'esposizione, singolarmente incompleta in questo caso. In Gaius inst. 1.185 manca infatti ogni riferimento ai consoli ed al pretore tutelare: e se l'omissione di quest'ultimo puó ben comprendersi riportando la redazione dell'opera, secondo la cronologia piü sicura, agli ultimi anni del principato di Antonino Pio, rimangono invece oscuri i
motivi del silenzio sull’opera dei consoli'^. Il confronto con
la Parafrasi sembra invece escludere che l'integrazione possa essere sorta da una retroversione in latino di un brano analogo contenuto nel prototipo dell'opera teofilina, come pure si potrebbe astrattamente ipotizzare: non si spiegherebbe infatti, in tal caso, lo smarrimento, nel testo greco, del senso della
successione cronologica fra datio consolare e datio del pretore tutelare; soprattutto, non si giustificherebbe la traslittera-
zione κατὰ inquisitiona per inquirentes, che il prototipo rendeva invece senza perplessità con ἐπιζητήσας 7. Più difficile è determinare se anche la fonte classica facesse riferimento a tutte le leggi sulla datio, o ricordasse la sola lex Atilia. Certo, le innovazioni introdotte da Claudio
e, oltre un secolo più tardi, da Marco Aurelio non modifi13 J'omissione è tanto più singolare in quanto Gaio non ignora che il console dà il curatore (Gaius inst. 1.200). Né soddisfa la tesi del Solazzi che il giurista esponga «la dottrina delle fonti e dei casi della tutela dativa, non la dottrina dei magistrati competenti a dare il tutore»: /stituti tutelari, cit., 178. Rimane infatti insoluto il problema del perché mai tale esposizione non sia stata aggiornata, sostituendo (o affiancando) i consoli al pretore. L'indubbio rilievo che in Roma doveva aver acquistato la datio consolare nei confronti della pretoria rendeva necessaria siffatta modifica in un manuale didattico per studenti dell’ Urbe. Invece l'omissione potrebbe spiegarsi nell'opera di un maestro provinciale: per la datio nelle province le modifiche di Claudio apparivano ben poco rilevanti, ed un'esposizione istituzionale poteva ancora incentrarsi intorno alla descrizione del regime atiliano, da cui apparivano regolate le competenze del governatori in materia. 14 Theophil. inst. Just. 1.20.1 Ferrini.
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cavano direttamente il regime della datio nelle province, per quanto possiamo accertare: le stesse Istituzioni giustinianee sono esplicite nel limitarne l’incidenza ai consoli ed al pretore urbano. Ma anche per le province, in età tardoclassica, è attestata una datio ex inquisitione che non poteva trovare il suo fondamento nella legislazione repubblicana, ma che doveva essere stata introdotta dalla prassi dei governatori provinciali ad imitazione del nuovo
regola-
mento della datio urbana!°. Pertanto, ben si sarebbe potuto asserire, già in epoca severiana, che la datio ad opera del pretore e del collegio tribunicio in Roma, del governatore provinciale (senza preventiva inquisitio) nelle province era venuta meno in seguito alle riforme imperiali del I e II sec. Sotto il profilo formale, il posteaquam sottolinea proprio come il rapporto fra i due momenti nella storia dell'istituto (desuetudine delle leggi Atilia, Iulia e Titia — regolamentazione imperiale della datio ex inquisitione magistratuale) sia stato visto dall'autore del brano come meramente temporale, e non già causale! Di ben diversa origine appare invece il periodo finale del paragrafo (nam... cavetur). I compilatori — e Teofilo lo riconferma nella sua parafrasi!” — ravvisarono nell'omissione
di norme sulla cautio r.p.s.f. e sulla coazione dei tutori recalcitranti, da parte della lex Atilia, il motivo per cui, una volta introdotta nella prassi urbana la datio ex inquisitione, le vecchie leggi caddero in desuetudine. Convinti che il regime atiliano non offrisse al pupillo alcuna garanzia nei confronti del tutore, essi dovettero evidentemente ritenere che nello scontro con il sistema della datio ex inquisitione 11 vecchio
ordinamento fosse stato rapidamente soppiantato da questo nuovo, imperiale, che a tale esigenza soddisfaceva proprio attraverso l'inchiesta magistratuale: per i maestri bizantini infatti il tutor datus ex inquisitione & garantito dal preventivo accertamento del magistrato, che rende pertanto superflua la cautio r.p.s.f., richiesta quando invece manchi l'in15 In questo senso già Nerazio, in un passo forse alterato, ma certo non per quanto attiene alla menzione del proconsole: Dig. 26.3.2.1, Nerat. libro tertio regularum, su cui SOLAZZI, Istituti tutelari, cit., 58. Cfr. Dig. 27.10.8,
Ulp. libro sexto de officio proconsulis. $ Cfr. Theophil. inst. lust. 1.20.3 παλαιὸν’ μέτα δὲ ταῦτα..
Ferrini:
ἀλλὰ
ταῦτα
μὲν
τὸ
1? Theophil. inst. Tust. 1.20.3 Ferrini. 119
quisitio!?. Se le leggi repubblicane avessero in qualche modo predisposto per il pupillo garanzie analoghe a quelle che offrono cautio ed inquisitio, sembra affermino i compilatori, il regime atiliano sarebbe sopravvissuto alle innovazioni di Claudio e di Marco Aurelio. Il nam vale proprio ad introdurre nel racconto di età classica (o della prima età postclassica) quei motivi che ai giustinianei apparivano come i piü plausibili per la scomparsa dell'ordinamento repubblicano:
le sue deficienze tecniche, il suo carattere antiquato'?. Natu-
ralmente, i presupposti di un siffatto discorso sono storicamente inesatti, come ha rilevato il Solazzi: la cautio rem pu-
pilli salvam fore è sorta molto probabilmente in connessione con la tutela legittima, la coazione del tutore riottoso sarebbe stata possibile anche per il pretore atiliano?®. L'estensore del passo doveva avere solo un ricordo erudito, impreciso dell’ordinamento che critica; ma per la comprensione del brano interessa poco che le sue convinzioni non abbiano fondamento nella disciplina antica della tutela dativa. In un sistema che non avesse contrapposto nettamente inquisitio e cautio, come ancora accade in età di Dioclezia-
no^, che avesse esitato a considerare la tutela munus publicum, onere di diritto pubblico, il rilievo sarebbe stato inintelligibile; invece, si comprende appieno, e tutto il brano ritrova una sua logica unità, nella prospettiva delle Istituzioni imperiali, per le quali et tutelam et curam placuit publicum munus esse??, ed i tutori ed i curatori ex inquisitione... dati satisdatione non onerantur, quia idonei electi sun£??.
18 Inst. Just. 1.24.1. 19 Lo riteneva privo di senso il Kübler, nella recensione alla palingenesi del Ferrini (ZRG 23, 1902, 513); nello stesso senso SOLAZZI, Istituti tutetari, cit., 18 n. 2.
20 Così SOLAZZI, Istituti tutelari, cit., 25.
21 Cfr. l’accurata analisi delle fonti in S. SOLAZZI, Studi sulla tutela,
cit.,
per i rapporti fra cautio ed inquisitio nelle fonti classiche. 2 Inst. Just. 1.25.1. La tutela era considerata munus privatum in età
classica:
cfr. Dig. 27.1.17.4, Call. libro quarto de cognitionibus
su cui
R. BONINI, 1 libri de cognitionibus di Callistrato, 1964, 40 n. 40.
23 Inst. Iust. 2.24.1: è significativo il confronto con Gaius inst. 1. 200:
qui vel a consule vel a praetore vel a praeside provinciae dantur, plerumque non coguntur satisdare.
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Le relazioni internazionali dei Romani*
Le ricerche intorno alle strutture organizzative dell’impero romano vengono da qualche tempo analizzando con insistenza le istituzioni collettive dei sudditi e la loro posizione nell’ambito del sistema imperiale: appare infatti insoddisfacente e, in fondo, equivoco spiegare quella posizione facendo ricorso alle categorie dell’autogoverno e dell’autonomia locale, strettamente legate ad una esperienza storica diversa.
Il problema era stato avvertito già dal Mommsen che, nel terzo volume dello Staatsrecht, aveva riconosciuto caratteri statali non solo alle comunità alleate di Roma (Bundesstaaten, Bundesgenossen), ma anche alle comunità che, in segui-
to a deditio, fossero prive di qualsivoglia riconoscimento formale ed avessero pertanto una mera esistenza di fatto (Quasi-Staaten). Persino le comunità di cives, nella loro forma più complessa, i municipia, avrebbero conservato «talu-
ni caratteri della sovranità», «gli attributi dell’autonomia (politica) che si ritiene opportuno lasciare alla parte nell’interesse del tutto». Certo la terminologia mommseniana, l’applicazione all’esperienza antica di concetti moderni, lo stesso modo di considerare taluni di questi concetti, ed in particolare la «sovranità» — concepita come somma di facoltà fruibili anche separatamente l’una dall’altra — possono lasciare perplessi. D'altra parte la distinzione fra i diversi modi di presentarsi della sovranità, piena nell’impero, limitata ma garantita giuridicamente nelle civitates foederatae, tolle* Index 1, 1970, 321-328.
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rata nelle civitates stipendiariorum propone una gerarchia di condizioni giuridiche che postula una inferioritä strutturale delle organizzazioni dei sudditi nei confronti dell’impero, e finisce col togliere in certa misura significato al riconoscimento del carattere «statale» di tali organizzazioni. Rimane tuttavia attuale, nelle pagine del Mommsen, l’interesse di fondo, l’attenzione per la struttura composita del sistema imperiale, il suo pluralismo e la sopravvivenza in esso di una molteplicità di organismi politici originari, non riducibili, come spesso ha fatto la dottrina posteriore, a sem-
plici enti amministrativi investiti di poteri di autonomia e di autogoverno. Le ricerche contemporanee, pur rinunciando a porre in termini di sovranità il problema delle organizzazioni dei sudditi, ne riaffermano recisamente il carattere originario e la dimensione politica, e si muovono pertanto nella linea tracciata dallo Staatsrecht mommseniano. Esse però, nella subordinazione
a Roma
delle comunità provinciali,
non avvertono più un ostacolo alla sopravvivenza di relazioni «internazionali» fra tali comunità e l’impero, in quanto non ravvisano più nel riconoscimento della piena «sovranità» il necessario presupposto dei rapporti intercomunitari nel mondo
antico. Allo stesso modo, il fondamento
dei limiti
che il Mommsen riteneva coessenziali alla condizione di comunità inserita nell’impero viene ritrovato nei vincoli particolari imposti da Roma ai suoi alleati, in virtù del predominio politico di cui gode. In questa prospettiva si colloca anche l'analisi del Lemosse (Le régime des relations internationales dans le haut-em-
pire Romain,1967). Per lo studioso francese infatti i rapporti fra le comunità dell'impero e Roma non presentano sostanzialmente alcuna differenza dalle relazioni fra Roma e le collettività esterne all'impero. Egli nega anzi che la distinzione dei due àmbiti abbia un qualche fondamento giuridico per il periodo che va da Augusto ad Adriano («Introduzione»). Il limes non costituirebbe infatti un confine nel senso moderno del termine, ma individuerebbe semplicemente una linea di difesa militare; né d’altra parte il problema dei fines imperii sarebbe stato oggetto di elaborazione giurisprudenziale: i giuristi affrontano il tema in modo del tutto incidentale, in relazione allo ius postliminii, e senza raggiungere risultati univoci. Nella riflessione giuridica come nella prassi organizzativa la distinzione fra territorio dell’impero e territori limitrofi appare incerta, fluttuante: si conoscono bene i confini della 122
città, delle province, ma si ignora dove siano e in che cosa
consistano 1 fines imperii. Tanto meno costituisce per il Lemosse criterio di individuazione del territorio imperiale l’inserimento delle collettività peregrine nell'organizzazione provinciale (redactio in formam provinciam). Esaminando i rapporti fra impero. e gentes externae, il Lemosse ritiene infatti di potere riconoscere una piena identità fra tali relazioni ed il sistema di rapporti che sussiste fra città provinciali - qualunque sia il loro status — ed il potere metropolitano (cap. I). I rapporti con le gentes externae appaiono, nella loro stragrande maggioranza, fondati sulla deditio; ridottissimo è il ricorso al foedus. La deditio ha però smarrito il significato originario e si è venuta accostando sempre più nella sostanza ad un trattato. Essa continua a sottolineare il carattere unilaterale del vincolo con Roma, la sua origine in una benevola concessione della dominante, ma non esclude più per il populus deditus la possibilità di conservare i propri costumi, la propria organizzazione. Foedus e deditio permettono oramai di conseguire risultati analoghi, ma la deditio presenta vantaggi notevoli in quanto consente tra l’altro il decentramento delle trattative ai comandanti militari. Allo schema della deditio vanno ricondotte anche le relazioni con popoli mai sottomessi con le armi, come i Parti. La deditio costituisce infine il fondamento
teorico dei rapporti con i cosiddetti «regni clienti» (l’a. nega che il concetto di clientela colga appieno la loro condizione), sebbene il contenuto di tali rapporti sia oltremodo eterogeneo. Infatti i re clienti possono vedersi assimilati a funzionari romani, come Giuba II di Mauretania, che in tale qualità fu
investito degli ornamenti trionfali; possono svolgere i compiti ed assumere il titolo di praefecti civitatium, come Cozio, senza che ciò muti la condizione del regno. D'altra parte i re clienti rimangono sottoposti all’auctoritas dell’imperatore che la esercita anche laddove le competenze lasciate al monarca escluderebbero l’intervento romano. La situazione nascente dalla deditio non viene meno per il riconoscimento al re o al popolo che la hanno compiuta dell’amicitia populi Romani; tale riconoscimento però apre la strada allo stabilirsi di relazioni bilaterali, che l’originaria deditio rendeva impossibili, per l’antinomia sussistente fra resa e trattato. L’amici-
tia — talvolta la fides, nel caso di popoli soggiogati in guerra — sono riferite dalle fonti al populus Romanus anche quando vengono concesse per intervento del principe; diverso è il ri123
conoscimento della qualità di amico del principe o di Roma, conferito a re clienti: l’attribuzione di tale qualità, ancora molto rara in età augustea, incide profondamente sulla con-
dizione del monarca, in quanto crea a suo vantaggio un vincolo di solidarietà con l’imperatore, della cui discrezionalità viene a costituire una autolimitazione. Sorgono così rapporti personali che, pur lasciando nella loro condizione subalterna i popoli, promuovono l’assimilazione culturale e giuridica dei sovrani mentre le relazioni fra Roma e le gentes externae vengono ad acquistare i caratteri della egemonia ellenistica. In queste linee il sistema dei rapporti fra l’impero e le gentes externae risalirebbe ad Augusto: il Lemosse ne segue le vicende fino all’età dei Severi, sottolineando come orga-
nizzazione egemonica e redactio in provinciam si siano bilanciate durante il primo secolo, offrendo due modelli antitetici, ma praticamente equipollenti, all’ordinamento dell'impero. L'egemonia avrebbe conosciuto il suo massimo sviluppo in età neroniana; da Traiano in poi — in taluni casi già dai Flavi — l’equivalenza fra i due indirizzi viene meno,
e la politica imperiale non può più scegliere liberamente fra di essi, ma subisce il peso di circostanze esterne. Una politica di espansione non può più essere altro che annessionistica, una politica di contenimento deve favorire i rapporti di egemonia. Con i Severi, il limes si irrigidisce in un confine chiuso, compatto, mentre l’organizzazione di regni clienti viene respinta fuori dell’impero, limitata alle regioni che si rinuncia a romanizzare. Il sistema di relazioni internazionali, così analizzato nei
suoi fondamenti e nel suo sviluppo, si estenderebbe anche ai rapporti fra le città dell’impero e Roma, come si è detto. La contrapposizione fra regni clienti e province sembra infatti al Lemosse estranea alle concezioni romane, in contrasto
con il carattere empirico che i problemi dell’organizzazione provinciale avevano per i Romani, e che li induceva in taluni casi a sfumare al massimo i tratti distintivi dei due tipi di ordinamento (cap. II). Particolarmente significativi appaiono in questo senso la prefettura di Cozio nelle Alpi e la legazione di Cogidumno in.Britannia. In genere, la provincia è caratterizzata dalla presenza di truppe romane (che vi compiono anche il proprio reclutamento), dalla sottoposizione ad imposta dei beni fondiari, in virtù di un diritto eminente riconosciuto al popolo romano, dalla soggezione ai poteri giu‘ risdizionali dei governatori. Ma questi tratti caratterizzano 124
esclusivamente le regioni sottoposte al diretto controllo dei funzionari romani, non quelle in cui si conservi l’organizza-
zione cittadina. Il territorio delle città è sottratto al dominium populi Romani, e le comunità cittadine hanno propri organi giurisdizionali, che applicano gli iura locali. Sotto tale profilo, città e provincia si contrappongono nettamente, né ha rilievo la condizione particolare delle singole città: se le città federate sono infatti estranee alla provincia per il foedus che le lega a Roma, tutte le altre lo saranno grazie alla concessione di conservare la propria originaria organizzazione, che automaticamente le escluderà dalla provincia. Questa libertà dall’ordinamento provinciale non è solo pertanto delle comunità cui viene formalmente conferita tale condizione, ma appare propria di ogni collettività cui sia riconosciuta una esistenza giuridica autonoma, anche se in modo indiretto, fra l’altro attraverso un’imposizione che gravi sulla collettività nel suo complesso, e non sui suoi singoli membri. Manifestazioni di tale libertà appaiono il diritto di legazione e quello di coniazione (meno significativo dell'altro, in quanto esercitato anche da organi romani di governo provinciale). Con la redactio in provinciam le relazioni fra impero e città non mutano pertanto natura, rimangono
rapporti internazionali: il giuramento di fedeltà all’imperatore, che nelle formule pervenuteci si presenta come un vero giuramento di alleanza e contiene un esplicito riconoscimento dell'egemonia, ne costituisce una conferma. Il sistema di rapporti internazionali sviluppatosi fra impero e città sarebbe entrato in crisi nel corso del secondo secolo, a causa della progressiva estensione della cittadinanza ai provinciali e della intensa opera di urbanizzazione dell’impero (cap. III). Le città nuove create dai Romani non si riconoscono libere, ma si pongono invece come organi di un meccanismo unitario e livellatore. La loro influenza, il modello di relazioni con l'impero che propongono incide profondamente sulle concezioni tradizionali, toglie valore all'indipendenza cittadina, determina una rapida assimilazione
delle istituzioni preesistenti all'ordinamento municipale romano. Dell'antico regime di rapporti internazionali in breve rimarrà qualche traccia solo nella pratica delle legazioni al principe. Talvolta, il ricordo ne riaffiorirà anche in cerimonie prive di qualsivoglia valore giuridico, come il rinnovamento dei trattati fra Roma e 1 Camerti o 1 Capenati: ma oramai l’impero è divenuto uno stato territoriale unitario, all'in125
terno di frontiere ben definite. Ne rimangono fuori, al di qua
del limes, solo piccoli gruppi non assimilabili, con i quali si continua la pratica dei rapporti internazionali, richiamando talora in vita l’uso del foedus.
Il sistema concepito da Augusto trova la sua apologia nell’Encomio a Roma di Elio Aristide: ma quando il retore scrive il suo discorso, la politica imperiale ha già rinunciato a quel programma, è ripiegata su posizioni difensive, e viene concentrando all’interno delle frontiere le energie impegnate per l’innanzi nell'espansione egemonica fra i barbari. L'impero oramai non è più la «comunità internazionale»: la conquista romana — conclude il Lemosse — non è stata opera delle legioni né conseguenza di annessioni che in fondo salvavano l'individualità dei popoli annessi, ma si & compiuta attraverso il livellamento burocratico dell'organizzazione amministrativa imperiale. Purtroppo manca per il principato una raccolta organica di documenti della prassi internazionale; la collezione curata
dal Bengtson presenta solo ora il secondo volume (terzo della serie) relativo alla repubblica. Il Lemosse ha dovuto pertanto selezionare un materiale vastissimo ed eterogeneo, orientandosi in una bibliografia sterminata, che egli mostra
di avere ben presente, sebbene riduca i riferimenti alle voci che gli appaiono piü significative, e solo per i problemi piü strettamente inerenti alla sua ricerca. Programmaticamente, le fonti sono state prese in esame «dans le domaine et avec l'ésprit de notre discipline», senza indugiare in analisi secondarie, «en particulier dans la critique de sources». Il metodo suscita qualche perplessità: le fonti storiografiche, alle quali lo studioso francese fa in massima parte ricorso per ricostruire il regime dei rapporti internazionali, presentano i fatti nella particolare prospettiva dello storico antico. Per risalire dal racconto agli eventi, come sono stati concretamen-
te vissuti nella pratica dei rapporti fra popoli dai protagonisti, sarebbe stato necessario individuare caso per caso il significato ed il valore di ciascuna notizia nell'àmbito dell'opera in cui è inserita. Questa esigenza critica non sembra sia stata avvertita dal Lemosse, che pure esclude dalla sua analisi la poesia «civile», in particolare augustea, in quanto ritiene che «la propagande et la phraséologie de l'époque ne
correspondent pas exactement aux faits concrets». Cosi, avendo trascurato il carattere di propaganda che riaffiora anche nel racconto delle sue fonti — le Res gestae, Tacito, Sve126
tonio, Cassio Dione — egli finisce spesso col passare inavvertitamente da un piano all’altro della ricerca, dalla ricostruzione dei principi che hanno guidato le relazioni internazionali all’analisi degli schemi interpretativi che questa sto-
riografia proponeva per i problemi nascenti dai rapporti con i peregrini, fondendo insieme regole della prassi e formule ideologiche. Una piü chiara distinzione dei diversi livelli della ricerca avrebbe sollecitato ad ampliarne i confini per cogliere altre prospettive accanto a quelle degli storici esaminati, altrettanto significative per la conoscenza delle ideologie politiche, sotto il particolare profilo dei rapporti fra i popoli. Lo studio della poesia augustea non sarebbe cosi apparso deviante, ma avrebbe illuminato concezioni che negano il pluralismo politico, presupposto dalle fonti considerate dal Lemosse, e tendono piuttosto ad identificare impero e comunità politica universale. D'altra parte, distinguendo le costruzioni teoriche dai modi in cui concretamente si è venuta atteggiando la pratica intercomunitaria si sarebbero potute cogliere le connessioni reciproche e ricostruire la dialettica fra posizioni di pensiero e formazione di regole di condotta nei rapporti fra l'impero e le collettività di peregrini. Ne sarebbe stata meglio chiarita anche la funzione della giurisprudenza, i cui scarsissimi accenni in materia appaiono invero troppo sbrigativamente considerati nell'Introduzione, ed in qualche nota.
Una più articolata lettura delle fonti avrebbe certo giovato anche all'analisi della deditio nei rapporti fra impero e gentes externae, che appare poco persuasiva nel suo tentativo di assumere quell'istituto come modello di ogni rapporto internazionale facente capo all'impero. Il ricorso alla deditio nelle fonti considerate dal Lemosse & di grande interesse per la storia delle concezioni che hanno sorretto, da parte roma-
na, la pratica dei rapporti intercomunitari, ed andrebbe spiegato attraverso lo studio della particolare letteratura, prevalentemente storiografica, che ne fa uso, le sue fonti, le con-
cezioni politiche che esprime, gli scopi che si propone. Ma sembra invece difficile che i rapporti fra l'impero e i popoli finitimi si siano adattati sempre ed in ogni luogo, durante il principato, a quello schema, sia pure con i temperamenti che lo studio del Lemosse mette in evidenza: che uno stesso regime abbia regolato, nella forma come
nella sostanza, le re-
lazioni fra Roma ed i suoi minuscoli vassalli occidentali — Cozio, Cogidumno,
lo stesso Giuba II — e la plurisecolare 127
convivenza dell’impero con il regno degli Arsacidi. Né la ricerca offre argomenti che sciolgano il dubbio. Perplessitä non meno profonde suscita la tesi, d’altronde suggestiva, che risolve l’impero in un sistema di stati egemonizzati da Roma, sistema privo di confini verso l’esterno,
e quindi esteso a tutte le comunità che in qualche modo vengono a trovarsi nella zona di influenza romana. In realtà, non ostante le analogie formali che possono sussistere fra i diversi rapporti che fanno capo a Roma - tutti troverebbero il loro fondamento più comune nella deditio, secondo il Lemosse —, le relazioni di Roma con le comunità dell’impero, e di queste fra di loro, individuano un àmbito particolare, si
collocano all’interno di un sistema che presenta tratti distintivi propri. I popoli dell’impero esprimono una comune politica di rapporti verso l’esterno, né sembra siano documentabili relazioni fra i singoli membri del sistema imperiale e gentes externae, eccezione fatta per Roma
stessa, che in cer-
to modo li rappresenta tutti; confluiscono in strutture militari comuni; vengono elaborando forme omogenee di organizzazione sociale; un’unica politica monetaria. In relazione ad essi — ma non in modo esclusivo — le fonti latine fanno ancora ricorso alla vecchia categoria dei socii populi Romani. In situazione fluida, l’ordinamento imperiale si presenta,
agli inizi del principato, come un’organizzazione intercomunitaria che tende a trasformarsi, più o meno rapidamente, in organismo politico unitario. Le gentes externae invece non
partecipano di tale situazione, né il carattere aperto del sistema imperiale, la sua elasticità che permette di considerarne fluttuanti i confini potrebbe offrire argomenti per sostenerne l’identità con la sfera di azione diplomatica romana. Per il principato, andrebbe innanzi tutto dimostrato che nell’ambito di tale sfera i rapporti con le gentes externae possano ricondursi tutti ad un sistema uniforme di principi, e non individuino piuttosto una molteplicità di ordinamenti, tanti quanti i diversi modi in cui la sopravvivenza dei popoli confinanti è stata riconosciuta e regolata da Roma. Ma anche se i rapporti fra Roma ed i popoli estranei al sistema imperiale apparissero tutti riconducibili ad un unico ordinamento, come sembra ritenere il Lemosse, anche se potesse affermarsi la permanenza di quella società internazionale che lo Heuss riconosceva nella repubblica, sistema imperiale e sistema internazionale rimarrebbero sempre nettamente distinti. Ancora una volta si pensi ai rapporti fra Roma ed Atene, o Utica, 128
o Malaca, da un lato, e dall’altro alle relazioni fra impero romano e regno dei Parti. Allo stesso modo, la dottrina inter-
nazionalistica distingue gli ordinamenti particolari che sorgono fra gli stati moderni dalla comunitä internazionale. Problema diverso è naturalmente quello della possibilità di riconoscere una soggettività internazionale al sistema imperiale in quanto tale, in luogo o accanto al populus Romanus. I rilievi mossi all’analisi del Lemosse non mettono in discussione la tesi che pone in evidenza come nell’impero sopravvivano rapporti fra organizzazioni politiche primarie, come anzi l’impero stesso costituisca in un certo senso un sistema di «Stati», ma ne richiedono piuttosto un approfondimento. Va tuttavia sottolineato come tale tesi non imponga affatto di considerare in antinomia organizzazione provinciale ed ordinamenti cittadini. La contrapposizione postulata dal Lemosse è ignota alle fonti romane, e tutt'al più può trovare qualche spunto nelle costruzioni teoriche di autori greci che, soprattutto dalla fine del primo secolo, accentuano le analogie fra il sistema imperiale e le strutture federative elleniche, in una prospettiva che esalta il rilievo delle comunità ad organizzazione costituzionale di tipo greco, per ridurre l’incidenza delle altre. Nella prospettiva delle fonti romane invece l’identificazione delle province con i territori direttamente amministrati da funzionari romani appare improponibile per la maggior parte di esse, in cui tali territori si riducono, durante il principato, a saltus più o meno estesi, alle dipendenze di procuratori imperiali estranei al governo pro-
vinciale: nelle province senatorie la tesi condurrebbe a conclusioni paradossali. La situazione dell’Egitto e di alcune province procuratorie — Tracia, Cappadocia ecc. — rimane marginale e tende più o meno rapidamente ad evolversi in forme vicine a quelle delle altre regioni dell’impero; in altre, così senatorie come imperiali, amministrazione attraverso funzionari ed organizzazione cittadina coesistono. Accanto alla sfera di competenze del magistrato, provincia individua in questa epoca anche l’àmbito territoriale in cui il governatore esercita il suo potere, ma non designa una particolare forma di esercizio del potere, una particolare intensità. L’opera del governatore si esplica in quegli àmbiti, caso per caso diversi, che sono preclusi alle civitates dai foedera con Roma, dagli accordi informali trasfusi poi nella lex provinciae, dalla prassi amministrativa provinciale; solo in casi particolari, o marginalmente, è diretta attività di governo di 129
sudditi. D’altra parte la «cittä» che il Lemosse giustappone alla provincia è concetto sconosciuto alla riflessione ed all’esperienza giuridica romana, la quale fa riferimento invece alla civitas, ma usa il termine così per le organizzazioni peregrine di tipo greco come per le barbare, applicandolo sia a comunità formalmente libere, sia a comunità stipendiarie, e
persino a quelle prive — più o meno provvisoriamente — di autogoverno, in quanto sottoposte a prefetti romani. Civitas sembra individuare cioè ogni organizzazione politica originaria inserita nel sistema imperiale, qualunque sia il suo status nei confronti di Roma. Le civitates coesistono con l’apparato di governo provinciale — il governatore stesso risiede in una civitas — senza che ciò pregiudichi il carattere originario degli ordinamenti locali.
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La giurisdizione municipale
in età repubblicana*
1. L'ordinamento giudiziario dell’Italia romana permette di riconsiderare dall’interno la storia dell’organizzazione amministrativa e costituzionale della penisola, fra il quarto ed il primo secolo a.C. I rapporti municipali delle origini, con il loro accentuato carattere intercomunitario, federativo, escludono che la di-
sciplina più antica della giurisdizione locale possa essere stata uniforme. Le attività svolte dai magistrati dei municipi appaiono regolate in modo diverso dalle diverse costituzioni cittadine, che i vincoli con Roma - riassunti o meno in foe-
dera — lasciano sopravvivere, con modifiche più o meno profonde. L'articolazione intercomunitaria della civitas populi Ro-
mani viene progressivamente scomparendo dalla fine del IV secolo a. C., durante le guerre per l’egemonia nell’Italia peninsulare. Il sistema municipale assume sempre più i caratteri di un’organizzazione unitaria e gerarchica delle comunità incorporate da Roma, e il ricorso ai praefecti iure dicundo per amministrare la giustizia fuori dell’urbe delinea di pari passo un ordinamento centralizzato ed uniforme dello ius dicere. Restano però in ombra i limiti che ha incontrato l’attuazione di questo ordinamento; il modo in cui le prefetture hanno modificato le istituzioni locali cui si sono sovrapposte, là dove il potere dei magistrati rimaneva ancora unitario, e * Labeo 20, 1974, 125-132.
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non lasciava isolare le facoltä giurisdizionali dai compiti di governo; l’incidenza che la subordinazione ai prefetti ha avuto sui rapporti formali fra i municipi e Roma. D'altra parte le tracce, rare ma non per questo meno significative, di istituti e tradizioni giuridiche locali, estranee allo ius civile, pongono il problema dei contenuti della giurisdizione nelle comunità municipali, della sopravvivenza dei diritti antichi, della loro
collocazione nei confronti degli iura populi Romani, dei modi e dei tempi infine in cui si è venuta compiendo la romanizzazione giuridica dell’Italia municipale. Estesa l’organizzazione in municipi a tutta la penisola, negli anni che seguono la guerra sociale, le competenze dei magistrati municipali si generalizzano e diventano omogenee; scompaiono le prefetture, e gli organi di governo locale si vedono attribuiti o riconosciuti poteri più o meno vasti di giurisdizione nell’ambito di un sistema che riserva tuttavia ai magistrati urbani le controversie più importanti e 1 provvedimenti più gravi. Nonostante la ricchezza delle testimonianze molti aspetti di quella vicenda sono però tuttora incerti; i singoli provvedimenti in cui essa si è articolata sembrano difficili da riconoscersi anche fra i documenti pervenuti; è ancora in buona parte da ricostruire la dialettica delle
dottrine e degli atteggiamenti politici attraverso i quali il disegno di una comunità unitaria e centralizzata è prevalso nei confronti delle esigenze di una organizzazione pluralistica, rispettosa delle individualità municipali; vanno infine riconsiderati gli strumenti tecnici attraverso i quali si sono rese uniformi pressoché dovunque nella penisola le istituzioni locali, una volta caduto il mito di una legge municipale gene-
rale, opera di Cesare. 2. Elude molti di questi problemi una recente monografia
del Torrent (La iurisdictio de los magistrados municipales, Acta Salmanticensia,
1970), condizionata in parte da una
impostazione metodica che considera in modo del tutto isolato le due prospettive, della storia amministrativa e dell’analisi delle categorie processuali, che si aprono alla ricerca; ma soprattutto preoccupata di rendere conto della bibliografia sui temi affrontati, piuttosto che di un diretto confronto con le fonti. Nei due lunghi capitoli iniziali il Torrent esamina le origini e lo sviluppo dell’assetto municipale, a partire dal conferimento a Caere della civitas sine suffragio, e dalla successiva 132
incorporazione di Tusculum, che ottenne però la civitas optimo iure. Il sistema municipale pertanto avrebbe avuto alle origini una struttura federativa, come dimostrerebbero d’altra
parte anche le definizioni di municipium e municipes in Festo, non meno di quella di municipes in Gellio. In realtà l’ipotesi «federativa» è largamente condivisa dalla dottrina moderna (il Torrent ignora però le voci discordanti, dal Bleicken al Dahlheim); ma non è certo resa più
credibile dalle ardite esegesi di Festo e di Gellio (p. 20, 42, 59) con cui il Torrent cerca di convalidarla, riconoscendo tra
l’altro in noct. att. 16.13.6 «una definicion generalisima» del municipium, ben riferibile in particolare alla situazione delle civitates sine suffragio fra il 384 e il 338 a.C. Né l’ese-
gesi è rafforzata dalla disinvoltura filologica con cui si attribuisce a Servius filius l'integrazione della glossa municeps in Festo 126 (Lindsay), che gli editori riprendono dall'epitome paolina (p. 19).
I municipi possono essere istituiti attraverso un foedus, rileva il Torrent (cap. II), una legge, o il fundus fieri, la sottomissione volontaria cioé di una comunità straniera all'ordinamento romano. In linea di massima le comunità incorporate conservano le proprie magistrature, nell'età anteriore alla guerra sociale; con le magistrature tradizionali, esse
fruiscono anche dell’autonomia giurisdizionale, entro i limiti posti da Roma, quando ottengano lo statuto municipale. L'autonomia viene invece rifiutata nei casi in cui si preferisce inviare un delegato del pretore, praefectus iure dicundo; la subordinazione al praefectus non priva tuttavia la comunità assoggettata «de su individualidad», in quanto riconosce ad essa una giurisdizione, se non autonoma, per lo meno
decentrata. Fino agli inizi del primo secolo a.C. «el régimen autönomo municipal y el régimen fiscalizador de la praefec-
tura» si affiancano l’uno all’altro (p. 71, 127). Nel corso dell’ultimo secolo della repubblica i prefetti vengono sostituiti dai magistrati municipali, e l’ordinamento municipale
viene esteso alla intera penisola, secondo un modello uniforme che prepone ai municipi i quattuorviri ed alle colonie i duoviri, gli uni e gli altri investiti di poteri giurisdizionali autonomi. La giurisdizione di questi magistrati «encuentra su fundamento en la ley institutiva del municipio, que lo que hizo muchas veces fue reconocer la autonomia preexistente dindole ahora un cauce romano a traves del esquemaey-municipal» (p. 79). 133
La distinzione che il Torrent ravvisa fra il fundus fieri e
la legge come procedimenti formali di istituzione dei municipi € in realtä ignota alle fonti legislative romane, che fanno discendere lo status municipii esclusivamente da un atto in-
tercomunitario (il foedus), o da un atto normativo del populus Romanus
(la lex, il senatusconsultum,
il plebiscitum).
Qualunque significato si attribuisca d’altra parte all’espressione, fundus fieri indica evidentemente l’accettazione degli iura populi Romani nel loro complesso, 0, comunque, un’accettazione di specifiche disposizioni legislative, tale da integrare il conferimento unilaterale della condizione municipale (compiuto attraverso l’atto normativo del populus Romanus), ma in nessun caso configurabile come una auto-organizzazione in municipio. Predisposta verosimilmente dalla lex Iulia de civitate, la clausola del fundus fieri definiva un procedimento per adeguare le forme organizzative locali alle direttive romane attraverso la recezione degli iura populi Romani da parte degli ordinamenti delle comunità italiche, che vedevano riconosciuta per questa via la loro autonomia formale. L’inserimento di una clausola di tale genere nella /ex Iulia costituisce un episodio del confronto fra prospettive federative e unitarie nel riordinamento della penisola, rapidamente obliterato dal prevalere di tendenze opposte, nella legislazione. Proprio in quanto tale, esso non sembra possa essere generalizzato, andando al di là delle circostanze per le quali è documentato, e che probabilmente gli hanno dato origine. La contrapposizione fra il sistema delle prefetture e quello dei municipi sembra contrastare con i dati delle fonti, per l’età anteriore alla guerra sociale, in quanto i municipi, come le colonie, appaiono in più casi inseriti nelle prefetture. Comunque, essa avrebbe richiesto un nuovo esame dei dati
relativi alla-storia dei due istituti, ed ai loro rapporti reciproci, per apparire giustificata. D’altra parte, proprio la presenza di prefetti a Capua dal 318 a.C., sia pure con carattere provvisorio, dovrebbe escludere l’asserita incompatibilità delle prefetture con ogni forma di autonomia giurisdizionale (al limite, anche se Livio o la sua fonte avessero compiuto una anticipazione, la notizia dimostrerebbe pur sempre la
conciliabilità teorica fra i due sistemi nelle prospettive degli ‘antiquari repubblicani). Infine, la permanenza dell’autonomia giurisdizionale nelle comunità organizzate in forme municipali non sembra 134
si possa in alcun modo dedurre dalla sola sopravvivenza delle magistrature tradizionali, delle quali bisognerebbe riconsiderare analiticamente le competenze e il fondamento formale dei poteri esercitati. Non si vede infatti perché mai la municipalizzazione avrebbe dovuto garantire in ogni caso l’autonomia della giuridizione locale, se per «autonomia» si intende l’esercizio di poteri magistratuali nell’ambito di un sistema normativo distinto dagli iura populi Romani, ed assunto come autosufficiente anche se condizionato dalla subordinazione politica della comunità che lo esprime. In questo senso Cicerone in una ben nota lettera ad Attico (Cic. Att. 6.2.4) afferma che ... omnes (civitates) suis legibus et
iudiciis usae αὐτονομίαν adeptae revixerunt. Naturalmente, con «autonomia» si può anche designare il solo esercizio di attività amministrative e giurisdizionali da parte di magistrati eletti localmente, e in particolare, in riferimento alla giurisdizione, l’autogoverno giudiziario. Ma in tale caso non si
individua un aspetto tipico dell’organizzazione municipale. Ci si sofferma piuttosto su un carattere che è anche delle colonie, forse sin dagli inizi dell’ordinamento duovirale, e cer-
to dopo la guerra sociale, e si rischia pertanto di anticipare di secoli un’assimilazione fra le due forme organizzative
che di fatto si verifica compiutamente solo nella tarda repubblica, in Italia, e non senza incertezze e ripensamenti. 3. Nei due capitoli centrali del suo lavoro (il III e il IV),
il Torrent analizza natura e caratteri della giurisdizione municipale, che gli appare sostanzialmente riconducibile al modello della giurisdizione pretoria, nei termini in cui la definisce il Luzzatto, come «indicación vinculante de la norma o
del ritual a seguir en relación al caso concreto». Anche l’attività giurisdizionale dei magistrati municipali si fonderebbe sull’idea dell’actio come potestas agendi, e recepirebbe il sistema processuale edittale. Una conferma di tale ipotesi sarebbe offerta dal mancato riconoscimento ai magistrati municipali della competenza a compiere quegli atti che i giuristi severiani definiscono magis imperii quam iurisdictionis. Quel rifiuto troverebbe infatti spiegazione nell’esigenza di delimitare l’attività degli organi locali, riservando al pretore gli atti di maggiore rilevanza pratica: ma «esta exclusión supone una idea de iurisdictio en cuanto basada en la actio que a finales de la Repüblica era una potestas agendi iudicio, y en cuanto aquellos remedios no podían hacerse 135
valer por medio de actiones, la iurisdictio municipal era incapaz de tomar providencias al respecto». I giuristi severiani avrebbero rievocato la vecchia idea dell’imperium, di cui i magistrati municipali erano privi, e se ne sarebbero serviti per ribadire i limiti alle competenze dei magistrati stessi in un’epoca in cui, con lo sviluppo della cognitio extra ordinem, si veniva delineando una nozione di iurisdictio che as-
sorbiva anche gli atti rimasti at margini della categoria, nella prospettiva antica. La fluidità del concetto di iurisdictio nel sistema processuale tardo repubblicano lascerebbe ancora tracce evidenti nelle considerazioni dei giuristi dell’età dei Severi: si spiegherebbe così l’incertezza nell’individuare gli atti per 1 quali si richiede l'imperium, l’isolamento di un complesso di atti neque imperii neque iurisdictionis. Anche la problematica relativa all’imperium merum e mixtum, e alla delega dell’imperium quod iurisdictioni cohaeret si sarebbe sviluppata proprio in stretto rapporto con i problemi posti ai giuristi tardo classici dall’attività giurisdizionale dei magistrati provinciali e municipali. In essa si rifletterebbe infatti lo sforzo di classificare un complesso di facoltà riconosciute ai magistrati municipali, inerenti così alla giurisdizione civile come, e ancor più, alla coercizione penale, e che si
presentavano come manifestazioni di imperium, ma che non potevano essere ricondotte ad esso, in quanto per altra via si escludeva che 1 magistrati municipali ne fossero partecipi. Si sarebbe venuta così enucleando l’idea di una potestas coer-
cendi degli organi locali. Le leges Iuliae iudiciariae o, per meglio dire, la lex Iulia
iudiciorum privatorum — l'altra si riferiva ai processi penali; é da escludere una terza legge relativa alla giurisdizione municipale — distinguevano gli iudicia in legitima e imperio continentia. I procedimenti che si svolgono innanzi ai magistrati municipali mancano dei requisiti formali propri degli iudicia legitima: essi sarebbero pertanto imperio continentia, sebbene 1 magistrati municipali siano privi di imperium, in quanto la distinzione fra le due categorie non individuerebbe un diverso fondamento dello iudicium, né implicherebbe una diversa articolazione procedurale, ma si limitereb-
be a sottolineare l'inesistenza delle condizioni proprie dei procedimenti urbani. L'ipotesi che l'attività giudiziaria nei municipi si sia svolta secondo lo schema procedurale che si era venuto consolidando in riferimento all'attività dei pretori romani appa136
re plausibile se viene ricondotta al momento conclusivo della municipalizzazione della penisola, anche se andrebbe corroborata da un attento reperimento delle testimonianze relative, e chiarita nei suoi aspetti tecnici, una volta escluso che
siano mai esistiti editti municipali ad imitazione di quello pretorio. Nella formulazione astratta e assolutizzante che le conferisce il Torrent essa ignora tuttavia la storia di quella unificazione procedurale, la presenta come compiuta da sempre, senza chiedersi in che modo le forme del processo civile urbano siano venute diffondendosi nelle comunità italiche, dal momento che a buon diritto si esclude l’esistenza di una generale lex Iulia iudiciaria relativa ai municipi. Il processo di adeguamento a quelle forme investe infatti non solo le comunità che ricevono, dopo la guerra sociale, lo sta-
tuto quattuorvirale, e per le quali la riorganizzazione costituzionale avrebbe forse potuto offrire l’occasione per regolamentare l’attività processuale, ma anche i municipi duovirali, nei quali, come è noto, più accentuata è la permanenza
degli istituti locali preesistenti, e persino quei municipi, anteriori alle leggi de civitate, in cui permangono le strutture costituzionali antiche. Allo stesso modo, asserire che la giurisdizione municipale viene « encuadrada en el Edicto y precisamente en la parte introductiva», riconoscere generica-
mente che la «iurisdictio municipal constitufa un sector de la iurisdictio como problema juridico-administrativo de Roma» (p. 104 s.), e non tentare l’analisi della formazione di quelle clausole, e delle altre che inquadrano in modo ancora più recisamente unitario le esperienze municipali nel loro complesso, dissolvendone l’individualità, significa precludersi la comprensione dell’uso che dell’editto pretorio è stato fatto nel corso del primo secolo a.C., come strumento di politica amministrativa. Il tentativo di chiarire la natura delle competenze giurisdizionali degli organi municipali nella tarda repubblica attraverso: il dibattito giurisprudenziale severiano intorno ai rapporti fra imperium e iurisdictio è di qualche interesse, ma appare compromesso da un presupposto che difficilmente può condividersi: che cioè la giurisprudenza tardoclassica abbia inteso restaurare o comunque tutelare l’autorità «del pretor de Roma a quien debian abocar todas las causas im-
portantes que se produjeran en el mundo dominado por la urbs» (p. 103). L'organizzazione giudiziaria del secondo e
del terzo secolo ignora questa esaltazione del pretore, e co137
nosce piuttosto, nell’ambito provinciale, la necessitä di deli-
mitare i confini reciproci fra giurisdizioni cittadine e giurisdizione dei governatori, in particolare da quando la concessione generalizzata della cittadinanza ha trasformato le civitates peregrinorum in comunità di cives, imponendo una nuova definizione delle competenze degli organi locali. Poco probante sembra anche il tortuoso discorso attraverso cui il Torrent riconosce ai magistrati municipali una potestas coercendi: i testi esaminati, Dig. 2.1.13 (Ulp. libro quinquagensimo primo ad Sabinum) e Dig. 2.2.1.1 (Ulp. libro tertio ad edictum), non offrono alcun riferimento esplicito agli organi dei municipi; piuttosto, essi sembrano. indicare, accostando magistratus a potestas, così i governatori provinciali di rango senatorio come gli equestri, che non rivestono formalmente una magistratura. Dig. 2.1.13 esemplifica d’altra parte chiaramente: ... vel alii qui provincias regunt. In realtà un amplissimo potere coercizionale è sicuramente attestato per i magistrati coloniari, nell’ultimo secolo della repubblica, dalla /ex locationis di Puteoli edita di recente dal Bove (Due nuove iscrizioni di Pozzuoli e Cuma,
RAAN 41, 1966, 207 ss.). La legge ricorda supplizi imposti dai magistrati coloniari (2.11-14), probabilmente nei con-
fronti di peregrini (Kunkel). La testimonianza può forse dare anche nuova luce sull’uso di imperium in riferimento ai poteri dei duoviri nella lex Coloniae Genetivae Iuliae, troppo sbrigativamente spiegato come un arcaismo terminologico a p. 177; e tuttavia sembra difficile trarne conclusioni troppo ampie, e soprattutto automaticamente estensibili anche ai municipi. 4. La iurisdictio dei magistrati municipali trova il suo fondamento, afferma il Torrent, nella legge istitutiva di ciascun municipio: l’esame della documentazione epigrafica tardo-repubblicana e degli inizi del principato confermerebbe questo assunto, sebbene la dimostrazione non possa rag-
giungersi «en forma clarisima», e risulti piuttosto dalla documentazione nel suo insieme che non da singoli testimonianze. In questa prospettiva il Torrent riconsidera, nel capitolo conclusivo del suo lavoro, la legislazione relativa a colonie e municipi, dalla lex Mamilia Roscia Peducaea Alliena
Fabia agli statuti flavi di Salpensa e Malaca. In particolare, egli sottolinea che la lex Mamilia Roscia nelle linee iniziali dei capp. 53 e 55 riconosce competenze giurisdizionali ai 138
magistrati locali per le violazioni di confini: essa allargherebbe pertanto poteri giä previsti in forma piü limitata dallo statuto di ciascuna comunità. Anche la lex Rubria de Gallia Cisalpina amplierebbe competenze già riconosciute ai magistrati locali quando nel cap.19 (FIRA I, 170-171) prevede per essi, in riferimento alle denunce di nuova opera, la possibilità di richiedere la satisdatio o di emanare l’interdictum demolitorium;
allo stesso modo
nel cap. 20 (FIRA I, 171-
173) la legge concede la facoltà di imporre la cautio damni infecti, secondo lo schema predisposto dall’editto del pretore peregrino, con un parallelo ampliamento dei limiti di valore per i procedimenti svolti innanzi ai magistrati locali. Il fragmentum Atestinum 1. 10 ss. prevede che non si possano revocare a Roma i processi celebrati nelle città italiche, per i quali una precedente lex Roscia aveva concesso tale possibilità, purché non superino il valore di diecimila sesterzi. La differenza fra questo limite e quello — di quindicimila sester— fissato dalla /ex Rubria si spiegherebbe con la rapida svalutazione della moneta nel corso del primo secolo a.C., che avrebbe imposto l’aggiornamento. Di minore interesse per i problemi giurisdizionali sarebbero la tabula Heracleensis (FIRA I, 140) e la lex Tarentina (FIRA I, 166). Infi-
ne, gli statuti coloniari e municipali confermerebbero anch’essi che la legge istitutiva di ciascuna comunità è il fondamento formale della giurisdizione locale: così la lex Coloniae Gentivae Iuliae nel cap. 94 (FIRA I, 187) conferisce esplicitamente facoltà giurisdizionali ai duoviri; la /ex Salpensana (FIRA I, 202) prevede la creazione di magistrati giusdicenti; la lex Malacitana (FIRA I, 208) conosce anch’essa competenze giurisdizionali dei magistrati locali, e
ne ricorda i limiti di valore. L’analisi del Torrent sottolinea opportunamente come il fondamento dei poteri giurisdizionali dei magistrati locali, nella prassi costituzionale tardo-repubblicana, vada ricercato nella norma che istituisce il municipio o crea la colonia. Proprio il fragmentum Atestinum sembra offrire quella conferma esplicita dell’ipotesi che lo studioso spagnuolo crede di non potere trovare in queste fonti. Alle //. 10-15 (FIRA I,
177) il frammento infatti afferma: ... quoius rei in quoque municipio colonia praefectura quoiusque Ilvir(i) eiusve qui ibei lege foedere pl(ebei)ve scito s(enatus)ve c(onsulto) institutove iure dicundo praefuit... iuris dict[i]o... [fuit]... Il
frammento si riferisce, sembra, alla legge che conferisce la 139
condizione municipale, e che qualche volta sarà andata distinta dallo statuto locale, quando l’elaborazione di questo sarà stata demandata dalla legge stessa a uno o più commissari. Una conferma ulteriore, ma per le sole colonie, è offer-
ta dalla lex locationis di Puteoli, che riconosce esplicitamente nella lex coloniae il fondamento dello iudicium reciperatorium concesso dai magistrati cittadini nel caso di controversie fra l’appaltatore dei servizi funerari della colonia e gli utenti: 2.1 ss. deq(ue) earum (= ea re) magistrat(us) recipe-
ratorium iudicium e lege coloni(ae) cogito»; cfr. 2.30 ss. Ma la tabula Atestina (FIRA I, 176) non ricorda solo la legge come presupposto formale della giurisdizione locale: essa rinvia agli altri atti normativi del populus Romanus, al foedus, e all’institutum, riconoscendo evidentemente una molteplicità di giustificazioni alle competenze degli organi municipali, ancora a metà del primo secolo a.C. In questa prospettiva, i municipi costituiti anteriormente alla guerra sociale avranno conservato il foedus a garanzia della propria giurisdizione (e, in generale, della propria autonomia amministrativa); le comunità divenute municipi in virtù della lex lulia de civitate, usufruendo della clausola che prevedeva il fundus fieri, avranno trovato in quella legge un riconoscimento della giurisdizione esercitata dagli organi locali (e che questi avranno continuato ad esercitare pur nelle nuove forme costituzionali). In altri casi invece, per gli Italici che più a lungo avranno resistito nelle ostilità contro Roma, come per i municipi organizzati senza continuità con precedenti insediamenti autonomi, la legge istitutiva del municipio avrà anche predisposto e giustificato formalmente l’attività giurisdizionale degli organi locali. La ricerca del fondamento formale della giurisdizione municipale non sembra pertanto possa ricevere una soluzione unitaria, se ci si arresta a considerare la legislazione tardo-repubblicana. Essa rinvia al problema della collocazione formale dei municipi nel sistema organizzativo dell’Italia romana: un problema cui la lex Iulia de civitate, le leggi posteriori che hanno diffuso l’ordinamento municipale e regolato nelle linee generali la giurisdizione dei magistrati locali, la stessa normativa edittale hanno proposto soluzioni diverse, talora contrastan-
ti, nell’ambito di un discorso politico che si è prolungato per decenni con alterne vicende, fino a ridurre di fatto le autono-
mie municipali in Italia nei limiti di un più o meno ampio decentramento amministrativo e giurisdizionale. 140
RECENSIONI M. MAZZA, Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo d.C., 1973*
Pubblicata già a Catania nel 1970, in una collana universitaria di ristretta diffusione, quest'opera viene ora ripresentata dalla casa Laterza nella sua ‘Collezione storica’. La nuova edizione lascia sostanzialmente inalterato il discorso, aggiorna i riferimenti bibliografici, riunisce le note in fondo al volume, si arricchisce di un indice
dei nomi che si limita purtroppo al solo testo. Manca, come nella prima edizione, un indice delle fonti, pressoché indispensabile per consultare utilmente lavori di tanta mole. Una maggiore cura editoriale avrebbe evitato mende fastidiose in un volume dall’indubbio pregio grafico, e avrebbe reso più leggibili le modifiche apportate alle note, senza sommergere il lettore con un cumulo di segni.
Tuttora centrale nella riflessione intorno al mondo
antico,
l’analisi del terzo secolo sembra al Mazza condizionata, anche nelle
sue più recenti formulazioni, dal ricorso alla «metafora biologica della crisi», con «quel che di equivoco, di approssimativo, di deterministico essa sottende». Per chiarire la genesi ed i limiti di una siffatta impostazione, il Mazza ripercorre l'itinerario lungo il quale la storiografia moderna è venuta definendo i termini del problema, ne pone in evidenza la sostanza ideologica, ne sottolinea i frainten-
dimenti. I capitoli iniziali del volume seguono così la «visione della decadenza nei momenti più significativi del suo sviluppo, dalla formulazione «aristocraticistica» e occidentalizzante del Gibbon a quella liberale del Rostovzeff, e ne constatano il rifiuto nelle ricer-
che degli ultimi decenni. Muovendo lungo linee parallele, antichisti e medievisti sono venuti infatti riformulando l’indagine sul terzo secolo in termini di continuità e di trasformazione, mentre resti-
tuivano alla tarda antichità una sua autonomia storiografica. La trasformazione è stata però rilevata, osserva il Mazza, soprattutto da studiosi dei fenomeni culturali, a livello sovrastrutturale, in una
prospettiva del «breve periodo» che privilegia gli aspetti singolari, irripetibili degli avvenimenti, e che per ciò stesso induce a drammatizzare l’oggetto dell’analisi, a porre l’accento sulla crisi, sulla «catastrofe storica». Il confronto con metodi e tecniche di ricerca elaborati in altri settori suggerisce invece un approccio diverso. Facendo sua la lezione di metodo di Εἰ Braudel, ma accentuandone la formulazione antinomica e la diffidenza per l''evento', il Mazza
sottolinea la necessità che lo storico del mondo antico adotti un’ottica della lunga durata, perché solo attraverso di essa «si possono * RFIC 103, 1975, 476-481. 141
scorgere le reali trasformazioni della società, i suoi cicli di cambia-
mento, il pulsare lento e regolare della sua più intima vita». Certo, l’antichista non può verificare i suoi modelli interpretativi attraverso il confronto con la documentazione statistica cui ricorrono gli storici per altri periodi; ma può «provare modelli che... non presuppongano prevalente l’analisi quantitativa dei dati». Già il Braudel nel suo saggio richiamava l’attenzione sui modelli offerti alla ricerca di lungo periodo dal marxismo; la loro efficacia nell’analisi
delle vicende dell’Europa in età moderna è stata e viene tuttora riproposta con insistenza dal Vilar. Alle considerazioni metodologiche del Vilar, e di W. Kula, il Mazza si richiama esplicitamente per
superare i limiti della descrittiva e dell’empirismo, e recuperare le possibilità di una storia economica e sociale del mondo antico. «La dialettica di sovrastruttura e struttura... può (per lo storico marxista)... ripetere la dialettica di tempo breve della storia événementielle e di longue duree della storia strutturale». Il III secolo si presenterà dunque, a chi lo indaghi nella sua storia ‘reale’, «come un
processo di destrutturazione di una società in cui le forze produttive sono entrate in contrapposizione con i rapporti di produzione esistenti e con le forme giuridiche che li contrassegnano...; ed insieme l’epoca in cui sorgono nuove forme produttive e si riformano nuovi rapporti di produzione...». Maturerebbe infatti in questo periodo la trasformazione del modo di produzione antico in quello feudale, secondo la classica analisi marxiana delle forme economi-
che che hanno preceduto il capitalismo. Di quella trasformazione, il Mazza considera ora gli aspetti economici e sociali — le strutture e la loro dinamica —, riservando ad una successiva analisi l’esame delle emblematiche vicende dell’età dei Gordiani. Il sistema economico imperiale è presentato come un organismo unitario, altamente strutturato, ma segnato da profonde contraddizioni. Lo sviluppo dell’economia, nei primi secoli del principato, ha un tono inflazionistico, poggia sull’apporto esogeno di beni e di forza lavoro a basso costo, sullo sfruttamento imperialistico, sulla colonizzazione interna. I movimenti di beni determinano una concentrazione nelle mani delle classi dominanti;
invece non si sviluppano forze produttive nuove, la scienza si chiude in sé stessa senza alimentare una tecnologia, la manifattura
non si trasforma in fabbrica. Nel quadro ‘liberistico’ tracciato dalla politica imperiale le attività imprenditoriali restano prive di supporti finanziari e creditizi adeguati, né d’altra parte si incrementa in alcun modo il potere di acquisto delle masse. Il sistema conserva una dimensione prevalentemente agricola; all’agricoltura si affiancano, in misura assai limitata, attività di trasformazione a livel-
lo preindustriale ed attività finanziarie a carattere speculativo. Quando l’espansione territoriale si arresta, il sistema non riesce più a sopportare il peso della burocrazia ed i crescenti oneri milita142
ri. Alle difficoltà strutturali dell’organismo imperiale, le classi possidenti tracciano una soluzione politica — con l’accentuata pressione sulle classi subalterne, l’incremento della tassazione, la degra-
dazione formale della condizione dei lavoratori. Nello stesso tempo, esse introducono profonde modifiche nell’agricoltura e nei rap-
porti di produzione relativi. Gli schiavi sono sostituiti in misura sempre più massiccia da lavoratori liberi, impiegati su vaste concentrazioni fondiarie, ma per coltivazioni su piccola scala, secondo un processo di razionalizzazione già avviato nell’età degli Antonini. L'apparato statale interviene talora come mediatore per attenuare gli antagonismi nascenti dalla ristrutturazione, ma più di frequente sancisce la nuova dipendenza del colono ed il suo legame alla terra, in aderenza ai bisogni del fisco non meno che a quelli dei grandi possessori. L'arresto dell'espansione imperialistica e lo sforzo enorme per la difesa, a partire dalle guerre marcomanniche, non furono certo le cause determinanti della destrutturazione della società romana, ma
agirono come catalizzatori di quel processo, attraverso la distruzione di beni e servizi e il conseguente calo della produzione, la dislocazione delle manifatture alle frontiere, il decentramento economi-
co e la frattura fra Oriente e Occidente. La dinamica delle forze sociali nell’età della trasformazione si presenta con particolare evidenza attraverso le vicende monetario. Il sistema bimetallico augusteo, ritoccato da Nerone e da Traiano, privilegiava il denario, a
vantaggio delle finanze imperiali non meno che dei piccoli risparmiatori. Il corso parzialmente forzoso della moneta argentea determind però, con l’andare del tempo, un'inflazione strisciante, che si
accelera a partire dagli ultimi Antonini, in connessione con le generali difficoltà economiche del momento. Settimio Severo e Caracalla intervengono con energia sulla circolazione monetaria: la moneta
divisionale subisce drastici tagli nel fino, ma il suo corso fiduciario viene difeso con decisione ed abilità, anche grazie ad un rigoroso dirigismo ed al fiscalismo nei confronti dei ceti abbienti. La circolazione si gonfia ed i prezzi aumentano, ma in modo controllato, senza impennate verticali. La riduzione severiana del fino del denario, nel 194, sembra fra l’altro tendere empiricamente ai risultati
oggi calcolabili attraverso l’equazione di Fischer, a stimolare cioè la produttività in declino attraverso l’immissione di circolante; la creazione dell’ Antoniniano rende possibile, «genialmente», un nuovo taglio all’argento della moneta divisionale senza che ne sia messo in crisi il corso fiduciario. La manovra dei mezzi monetari non può tuttavia eliminare le cause strutturali del processo inflazionistico sfugge al controllo dei promotori, ed alla metà del terzo secolo si
presenta oramai con un andamento a spirale. Gli interventi di Aureliano ridanno una certa stabilità alla moneta divisionale con l’introduzione di un nuovo pezzo da cinque denarii che di fatto sostituisce 143
l'Antoniniano, ridotto a suo sottomultiplo. Si salva così l'economia monetaria, ma si pagano per essa enormi costi sociali. Il potere d’acquisto del circolante argenteo precipita; i prezzi hanno una brusca, rapidissima impennata. Esercito, burocrazia e plebe urbana sono preservati dai contraccolpi del riassesto monetario attraverso la generalizzazione dell’annona; il contenimento dei salari scarica invece sui ceti produttivi Ie conseguenze della riforma. All’economia monetaria della maggioranza si affianca l’economia naturale dei ceti privilegiati, che vengono per tale via recuperati agli interessi della conservazione. Un’articolata combinazione degli elementi del salarium, in natura ed in specie monetarie diverse per titolo e composizione metallica, permette poi ulteriori discriminazioni all’interno delle stesse categorie privilegiate. In questo contesto va riconsiderata l’incidenza dell’apparato militare sulla dinamica economica e sociale. La politica di favore per l’esercito si riduce di fatto a tutelare i militari, e soprattutto i più alti in grado, dalle conseguenze dell’inflazione, addossate ai contribuenti. D'altra parte gli insediamenti di truppe non costituiscono solo una spesa o un congelamento di ricchezza, ma inducono di frequente notevoli attività di produzione e di scambio; e il processo di «militarizzazione» significa spesso recupero delle competenze specialistiche sviluppatesi in seno all’esercito, per una razionalizzazione dell’apparato amministrativo imperiale. Nei conflitti interni che dividono le città dell’impero con particolare virulenza in tempi di carestie e di inflazione, i corpi militari assumono la difesa degli interessi costituiti, dell’ordine so-
ciale preesistente. Gli ufficiali restano solidali agli ambienti in cui vengono reclutati, alle oligarchie cittadine; nello stesso tempo, sotto la pressione di un contrasto che assume i caratteri di un vero conflitto di classi, i ceti dirigenti locali si trasformano profondamente. All’etica sociale dello stoicismo romano, che aveva orientato le oli-
garchie del principato, subentra l’accettazione di un forte potere centrale e di un forte esercito che tutelino e garantiscano il privilegio. La ‘città’ è sconfitta; si forma una nuova concezione del potere, il Dominato, in cui l’assolutismo imperiale trova limite solo negli interessi personali e di gruppo dei ceti dominanti, secondo una prospettiva che la moralistica rielabora e ripropone nel delineare lo ‘specchio delle virtù’ imperiali. Più in generale, le tradizioni culturali ellenistico-romane, che le classi egemoni dell’impero avevano assunto e fatto proprie, si incrinano e si trasformano. Operano su di esse, col modificarsi delle basi strutturali della società imperiale, fattori interni di disgregazione; ma soprattutto il confronto con le culture provinciali in cui le classi subalterne si riconoscono e si esprimono in modo sempre Più vivace. Il fenomeno investe la Gallia e l'Africa, la Siria e l’Egitto; le province si ‘decolonializzano’, rifiutano il dominio romano; si avvia un processo di *democratizzazione della cultura’. 144
L’analisi del Mazza riprende e controlla i risultati di innumerevoli ricerche sul principato, li integra con ulteriori indagini particolari, li ricompone in un ampio disegno della società antica durante il dominio romano, e delle sue trasformazioni alle soglie della tarda antichità. Inevitabilmente, un’analisi di tanta mole e di co-
sì vasto respiro non può non suscitare dubbi e dissensi nel lettore per l’uno o per l’altro dei suoi risultati particolari; taluni dati appaiono suscettibili di ulteriore verifica, altri suggeriscono una diversa lettura. Più in generale, lascia perplessi il tono ‘modernista’ delle pagine dedicate alle strutture economiche imperiali ed alla loro dinamica, un tono sorprendente per chi lo confronti con talune
riserve che il Mazza stesso altrove avanza nei confronti del «modernismo» dello Heichelheim; così come non può non deludere il mancato confronto con le ipotesi di ricerca sulle economie primitive formulate dal Polany e dalla sua scuola, un confronto sulla cui opportunità ed urgenza per la storiografia di formazione marxista già da qualche anno ha richiamato l’attenzione il Lepore. Ma tentare sin d’ora un bilancio critico complessivo sarebbe frettoloso e riduttivo per un’opera che gli studiosi del tardo principato dovranno riconsiderare a lungo, nel loro lavoro. Piuttosto, avviandosi ora-
mai all’esaurimento il dibattito metodologico aperto nel 1958 da un celebre saggio del Braudel, non è forse inopportuno rilevare come la ricerca del Mazza ne appaia datata e condizionata, in talune
affermazioni programmatiche e nello stesso impianto, molto più di quanto non fosse percepibile al momento della prima edizione. Come già il Vilar, il Mazza ha tratto da quel dibattito la sollecitazione ad una lettura di Marx che permetta di fondare una storiografia dei tempi lunghi, privilegiando di fatto, nella dialettica di avvenimento e di lunga durata che dovrebbe ripetere la dialettica marxiana di sovrastruttura e struttura, il secondo termine del rapporto. Negli scritti teorici del Vilar, quell’opzione si è tradotta talora in una esplicita diffidenza per ricerche orientate a «trovare le mediazioni che permettono di generare il concreto singolare, la vita, la lotta reale e datata, la persona, in base alle contraddizioni generali
delle forze produttive ed ai rapporti di produzione», secondo la prospettiva che Sartre aveva indicato agli studiosi marxisti con le Questioni di metodo, nello stesso anno in cui appariva il saggio braudeliano sulla lunga durata. Nell’opera del Mazza le premesse teoriche non fanno certo velo all’intelligenza delle mediazioni: ma determinano un singolare sdoppiamento fra la storia strutturale del terzo secolo, di cui si ricostruisce ora la dinamica, e una storia (sovrastrutturale?) dei Gordiani, che si rinvia ad una trattazione suc-
cessiva. D'altra parte, la considerazione del terzo secolo come epoca di destrutturazione sociale», secondo il modello interpretativo di lunga durata proposto dal Mazza, introduce una significativa aporia fra il tempo interno all'oggetto della ricerca, saldamente an145
corata ai limiti cronologici del periodo in esame, pur se integrata da opportune indagini retrospettive, ed il tempo postulato dal modello. Lo schema della «destrutturazione della societä classica» investe infatti, nell’ottica del Mazza, tutta la Spätantike, e la unifica nell’analisi, cosi da non giustificare un isolamento del terzo seco-
lo. In realtà, il terzo secolo sembra acquistare una dimensione storiografica solo in un’ottica dei tempi brevi (o dei tempi intermedi). W. SIMSHAUSER, Iuridici und Munizipalgerichtsbarkeit in Italien, 1973* 1. Fra le riforme costituzionali di Silla, la Römische Geschichte
mommseniana ricorda l'assetto organizzativo dato all’Italia, «una delle innovazioni più degne di nota e ricche di conseguenze» di quel governo. Vero «artefice dell’unità italica», Silla combinò sapientemente condizione federativa e incorporazione, nel definire i rapporti fra le comunità dei nuovi cives e il populus Romanus. Il riordinamento in municipi «innestò» le comunità italiche sullo stato romano, attraverso una subordinazione che garantiva allo stato il carattere di organismo politico primario, ma lasciava a ciascuna comunità una sua propria dimensione politica. Il concorso di organi statali ed organi municipali fu un pregio piuttosto che un limite di quel sistema organizzativo, in quanto stimolò fra gli uni e gli altri una fertile gara di attività. Il sistema municipale prefigurò così uno dei «principi fondamentali delle organizzazioni politiche moderne, in quanto realizzò di fatto uno stato fondato sulle comunità», sebbe-
ne ancora non associasse all’istituto la corrispondente denominazione, «che certamente in tali questioni è la metà della cosa». Il riconoscimento di una dimensione politica alle comunità italiche inserite nell’ordinamento municipale è una felice intuizione della Geschichte, e sembra rompere decisamente con le prospettive che avevano orientato negli anni anteriori l’analisi mommseniana
delle formazioni politiche, e la costruzione siste-
matica dei loro rapporti formali. Non molto tempo prima, intervenendo vivacemente nel dibattito che accompagnava i lavori del parlamento di Francoforte, il Mommsen aveva sostenuto dalle pagine della Schleswig-Holsteinische Zeitung l’impossibilità di ricondurre ad una stessa categoria istituzionale i comuni, le province e
lo Stato. Secondo un'ottica in cui lo Heuss crede di riconoscere una sicura matrice hegeliana, gli articoli mommseniani respingevano province e comuni nei limiti della società civile, prospettando per essi meri compiti di gestione locale, con un’aderenza alle articolazioni so* Jura 26, 1975, 144-152.
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ciali che proprio la loro sostanziale eterogeneitä rispetto allo Stato avrebbe reso possibile. Gli antichi Stati tedeschi, e lo Schleswig-
Holstein tra gli altri, smarrita la fisionomia originaria col costituirsi del Reich, si sarebbero ridotti anch’essi alle dimensioni di «eine grosse Comiine». Nel confronto con il modello sistematico che emerge da quegli articoli — e, sia pure in forma meno incisiva, dal commento a Die Grundrechte des deutschen Volkes, preparato alla fine dello stesso anno — lo schema organizzativo cui la Geschichte commisura la modernità degli interventi sillani mostra di recuperare (o di conquistare) una concezione articolata e policentrica della politica e delle sue istituzioni. Le comunità concorrono con lo Stato a costituire i luoghi nei quali si sviluppa l’agire politico, definiscono anche esse ciascuna un organismo politico, secondo la metafora biologica che il Mommsen predilige. Lo Stato assume certo, in questa analisi, una posizione preminente, e garantisce il coordinamento fra le diverse formazioni politiche: ma la maggiore latitudine nei poteri non ne altera la sostanziale omogeneità di struttura e funzioni con le comunità minori. Lo sviluppo del ripensamento che emerge dalla Geschichte resta oscuro nei suoi referenti teorici, non meno che nelle motiva-
zioni immediate. L’intuizione d’altra parte non lascia traccia nelle ricerche successive, tranne forse un’eco nel commento alla lex Rubria, nel 1858. Già nel 1860 infatti la Geschichte des Römischen
Miinzwesens riduce le comunità di cives a semplici aggregazioni corporative all’interno dello stato, e motiva così l’impossibilità di riconoscere ad esse un proprio Miinzrecht, in quanto il diritto di battere moneta sarebbe espressione di poteri sovrani riferibili solo allo stato. Nel terzo volume dello Staatsrecht l’analisi del sistema municipale appare sorretta da una concezione dello Stato assorbente e totalizzante, nonostante incertezze e oscillazioni nella ter-
minologia. In quelle pagine, la riflessione mommseniana denuncia un singolare isolamento (del quale andrebbero ricercate le ragioni) nei confronti dell’elaborazione dommatica con cui, pur da posizioni diverse, la pubblicistica tedesca veniva collaborando all’unifica-
zione della Germania sotto l’egemonia prussiana. La sistematica dello Staatsrecht sembra ignorare infatti la formula gerberiana della sovranità frazionabile, per cui Stato federale e Stati membri partecipano ad uno stesso potere, secondo ambiti predeterminati; né conosce la distinzione fra sovranità e signoria pubblica che il Laband veniva proponendo da qualche anno, in riferimento all’assetto costituzionale del Reich. Con questa pubblicistica l’analisi del Mommsen
divide però la difficoltà a coniugare insieme organizza-
zione statale e forme organizzative locali, in quanto manifestazioni di poteri normativi originari, pertinenti alle singole comunità: una difficoltà che il Gerber aveva manifestato già nel System des deut147
schen Privatrechts,1848, e riproposto poi nei Grundzüge eines Systems des deutischen Staatsrechts,1865. Misurato al parametro dello Stato, l’assetto organizzativo e costituzionale imposto all’Italia romana dopo la guerra sociale viene presentato dallo Staatsrecht come un compromesso «pratico» fra «unitari e federalisti», raggiunto attraverso un accordo precario che non avrebbe potuto, alla lunga, superare le resistenze dei «Mucii e gli altri giuristi influenti dei tempi di Cicerone», e che si sarebbe quindi smarrito, per dare luogo a formule sempre più decisamente unitarie. Il compromesso avrebbe però condizionato solo la morfologia degli apparati di governo, senza mettere in discussione le forme teoriche dell’organizzazione politica, nel loro disegno unitario e totalizzante. Così, mentre la Geschichte aveva costruito il rapporto fra Stato e comunità nei termini di una subordinazione fra «organismi» politici di livello diverso, lo Staatsrecht propone come modello sistematico per quella relazione il nesso intercorrente fra le parti e il tutto: la comunità di cittadini è «Ja comunità lasciata, al momento
della soppressione dell’autonomia, nel possesso di quelle competenze autonome che si pensò di potere teoricamente e praticamente attribuire alla parte nel tutto». L'autonomia è qui assunta come una manifestazione della sovranità (eine selbstverständliche Trivialitàt, avrebbe osservato il Laband), ed è pertanto negata alle comunità
che, attraverso l’incorporazione, abbiano perduto il carattere della statalità. Per le comunità di cives inserite nell’organizzazione politica romana lo Staatsrecht ricorre invece alle categorie della «autonomia dipendente», della «quasi autonomia», della «quasi sovranità». L'ordinamento municipale nasce «attraverso la conservazione di talune conseguenze della sovranità soppressa con l’ingresso della città nello stato romano».
Pertanto, le comunità di cives non
hanno un diritto diverso da quello dello Stato: lo statuto locale «si fonda giuridicamente di necessità su una decisione dei comizi romani»; la giurisdizione municipale, l’unica espressione possibile del diritto di supremazia dei municipi e, sotto il profilo politico, il
risultato più significativo del compromesso fra «unitari» e «federalisti», si presenta anch'essa nei suoi aspetti formali come una facoltà delegata dallo Stato alla comunità («formalmente, anche la giurisdizione comunale è legalizzata attraverso i comizi romani e probabilmente è concepita come una delega della giurisdizione pretoria disciplinata legislativamente»). 2. La dommatica dello Staatsrecht ha esercitato, come è noto, una profonda influenza sulla storiografia giuridica, fino ad anni recenti. Gli epigoni del Mommsen ne hanno per lo più ripreso meccanicamente gli schemi sistematici, rinunciando spesso ai correttivi che lo stesso discorso mommseniano introduce nell’accostare considerazioni «formali» e rilievi «di fatto»; hanno invece modifi-
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cato o integrato, in modo non sempre convincente, la morfologia dell’assetto istituzionale dell’Italia romana dopo la guerra sociale e, soprattutto, hanno proposto una diversa valutazione politica de-
gli avvenimenti, per ricollegare a Cesare, piuttosto che a Silla e alla sua generazione, la riorganizzazione della penisola in uno Städtereich (Rudolph). Il confronto con le persuasioni teoriche che sorreggono la dottrina tradizionale, con le sue ascendenze mommseniane, indica una
linea di grande interesse per riconsiderare i problemi dell’ordinamento municipale in Italia. Ne avverte la suggestione il Simshäuser nella sua ampia ricerca su «Juridici und Munizipalgerichtsbarkeit in Italien», un lavoro che offre più di quanto il titolo non dica, perché traccia un articolato profilo della storia della giurisdizione municipale in Italia fra l’età di Silla e quella dei Severi. Per il Simshäuser gli studi sull’origine e lo sviluppo della giurisdizione nei municipi sono tuttora condizionati negativamente dal dogma ottocentesco della Staatseinheit, che costituirebbe anche uno dei postulati della riflessione mommseniana intorno all’assetto organizzativo dell’Italia e delle province. Egli riconsidera pertanto le conclusioni del Mommsen, riprese in modo più o meno tralaticio dalla dottrina posteriore, e ne pone in evidenza difficoltà ed aporie, indotte dall’osservanza del dogma: così per l’affermazione che il pretore con 1 suoi delegati, i praefecti iure dicundo, abbia da solo assicurato
la giurisdizione
nell’intero
ager Romanus
sino alla
guerra sociale; ed ancora per la formula secondo la quale le competenze giurisdizionali riconosciute ai magistrati municipali dopo la guerra si costruirebbero come funzioni pretorie delegate legisla-
tivamente. L’analisi tuttavia non si spinge oltre una prima rapida osservazione delle convergenze riscontrabili fra la dommatica dello Staatsrecht e le dottrine pubblicistiche contemporanee; trascura i mutamenti che la riflessione sistematizzante del Mommsen presenta nel lungo arco del suo sviluppo; né tanto meno ricerca i modi nei quali quella riflessione si è intrecciata con ideologie ed esperienze politiche dei ceti colti tedeschi nell’età dell’unificazione. Il Simshäuser si preclude così una piena comprensione dei limiti ermeneutici inerenti agli schemi mommseniani,
e finisce anzi col
rimanerne in certa misura prigioniero, nelle sue ipotesi ricostruttive, non ostante la sua polemica contro lo Staatseinheitprinzip. Il saggio definisce infatti 1 municipia civium Romanorum come città-stato che, smarrita la sovranità con l'incorporazione nello Sta-
to romano, ottenevano dal populus Romanus un'autonomia implicante la Fühigkeit eigenes Recht zu besitzen. Le colonie civium Romanorum, in origine prive di autogoverno, sin dagli inizi del II secolo sarebbero venute acquistando caratteri non diversi da quelli dei municipi. Piuttosto che presentarsi come una sopravvivenza parziale o limitata della sovranità originaria, resa possibile formal149
mente da una delega legislativa di competenze pretorie, secondo lo schema mommseniano dello Staatsrecht, la giurisdizione dei magistrati municipali e coloniari avrebbe tratto la sua legittimazione formale proprio dall’autonomia delle comunità di cives, qualitativamente non diversa da quella riconosciuta alle comunità di peregrini. In quanto manifestazione dell'autonomia municipale (o coloniaria), la giurisdizione renderebbe superfluo cosi il rinvio alla sovranità statale come quello alla delega pretoria. Ma «Stato» e «sovranità» sono parametri costanti anche per l'analisi mommseniana
delle istituzioni municipali; il riferimento
all' «autonomia» locale d'altra parte costituisce una innovazione rispetto alla dommatica dello Staatsrecht, non a quella dell’Abriss
des rómischen Staatsrechts. Appena qualche anno dopo il compimento dell'opera maggiore l’Abriss (per questo aspetto trascurato dal Simsháuser nella sua pur ampia bibliografia mommseniana) mette infatti da parte la tripartizione dello Staatsrecht in comunità autonome, non autonome (o «ad autonomia tollerata») e di diritto
municipale (o «quasi autonome»), e riconduce invece le diverse forme di organizzazione del territorio nel mondo romano al principio dell'autonomia locale: «wie verschieden auch die staatrechtliche Grundlage jener munizipalen Selbstverwaltung ist... immer und überall bildet diese Autonomie die Grundlage des rómischen Regiments». Certo, nel sistema dell'Abriss l'autonomia concorre con la delega legislativa nel giustificare formalmente la giurisdizione municipale: la delega viene cosi a configurare lo strumento formale attraverso cui si attua in questo particolare settore l'autonomia delle comunità di cives. Il Mommsen sembra cioé accentuare l'aspetto dell’autogestione nella categoria, che presenta, come & noto, contorni piuttosto fluidi, nelle dottrine ottocentesche non me-
no che in quelle contemporanee. Per il Simshäuser invece l'autonomia esclude la delega, in quanto implica la competenza a produrre (ed applicare) un proprio diritto, conferita a tutte le comunità dell'impero. Ma la distanza fra i due modi di costruire la categoria — e le due diverse concezioni dello stato ad essi sottese — non è sufficiente a dissolvere le perplessità sul valore ermeneutico del concetto, in riferimento alle esperienze giuridiche romane. Anche il Simshäuser infatti risolve l'autonomia in un rapporto di derivazione, e quindi in una relazione di dipendenza formale da un ordinamento «statale». Ora, proprio questa configurazione sembra poco utile, se non del tutto deviante, per ricostruire la pratica delle istituzioni municipali in Italia, nell'ultimo secolo della repubblica,
o per chiarirne i fondamenti teorici — mentre ben diversamente efficace potrebbe essere la costruzione dell'autonomia come rapporto fra ordinamenti estranei l'uno all'altro e formalmente paritari, secondo un'altra delle specificazioni che la categoria ha ricevuto nella sua lunga storia. 150
La dipendenza formale dagli iura populi Romani è indubbia per la condizione coloniaria, ma appare estremamente incerta per i municipi, dato che ancora dopo la guerra sociale si continua a ricordare il foedus accanto alla lex come fondamento dell’organizzazione locale: così nelle linn. 10-12 del fragmentum Atestinum (FIRA I, 177), ma anche nel lib. 86 delle Storie liviane, se la periocha
ne ha conservato la terminologia originaria (Sylla cum Italicis populis, ne timeretur ab his velut erepturus civitatem et suffragii ius nuper datum, foedus percussit [Liv. perioch. 86]). D'altra parte la dimensione intercomunitaria dei rapporti fra ordinamenti locali e ordinamento romano, e il carattere originario degli ordinamenti municipali avevano ricevuto assai verosimilmente un riconoscimento esplicito dalla clausola qui fundus factus erit, inserita nelle leggi che avevano esteso la cittadinanza ai socii italici. Certo, nel corso del primo secolo a. C. il dibattito ideologico, più ancora forse che i singoli interventi normativi, promuove l’integrazione delle comunità italiche nel popolo romano anche sotto il profilo istituzionale. Sarebbe però assai difficile ricondurre nei confini dell’autonomia, così come sono assunti dal Simshäuser, Ie diverse concezioni, notevolmente divaricate, che è tuttora possibile riconoscere
in quel dibattito. In particolare, ciò non sarebbe senz'altro possibile per la complessa costruzione che il De verborum significatu festino ha conservato sotto il lemma Municipes (Fest. 126 Lindsay),
attribuendola ad un Servi(li)us in cui il Simshäuser improbabilmente riconosce S. Sulpicio Rufo. Infine, va rilevato come l’integrazione, nella misura in cui riduce gli ordinamenti municipali a manifestazioni di autonomia normativa nell’ambito dell’ordinamento generale del popolo romano, e ne sviluppa per tale via la fungibilità con quelli coloniari, nella stessa misura distacca la condizione formale delle comunità italiche da quella delle civitates peregrinorum. Proprio per queste ultime, come è noto, Cicerone in due lettere dalla Bitinia (Cic. Att. 6.1.5; 6.2.4) ricorre al termine
αὐτονομία nel descrivere la condizione di cui le città greche della provincia fruiscono in virtù del suo editto giurisdizionale: ma il contesto chiarisce senza dubbi come nell’ottica ciceroniana le leges e gli iudicia del greci di Bitinia individuino ordinamenti eterogenei ed autosufficienti nei confronti degli iura populi Romani, e come l’editto del governatore venga solo ad autolimitare il potere del magistrato romano, non già a fondare formalmente la adtovopta dei provinciali. 3. Non ostante i suoi limiti, il rapporto che il Simshäuser stabilisce fra autonomia e giurisdizione municipale, ed il correlativo rifiuto dello Staatseinheitprinzip permettono di recuperare indicazioni delle fonti che la dottrina tradizionale smarrisce o trascura. Riprendendo le conclusioni del Kunkel sullo sviluppo del processo crimi151
nale presillano, il Simshäuser formula l’ipotesi che in età anteriore alla guerra sociale competenze giurisdizionali in materia criminale siano state riconosciute ai praefecti iure dicundo non meno che agli organi preposti ai municipi; in circostanze eccezionali agli uni e agli altri si sarebbero affiancati organi investiti dal senato di funzioni repressive straordinarie. Nella tarda repubblica ed agli inizi del principato, scomparse le prefetture, la repressione criminale nei municipi sarebbe stata esercitata nella duplice forma del processo recuperatorio per multe e del processo innanzi a quaestiones locali. Il Simshäuser ricostruisce attentamente la procedura per l’irrogazione delle multe, combinando insieme i dati delle fonti che si rife-
riscono a Roma con quelli pertinenti ai municipi, forse con troppa fiducia nell’uniformità dello schema processuale ipotizzato. Contro l’affermazione del Mommsen, che nei municipi le quaestiones fossero sostituite da un «geschärftes Zivilverfahren», egli raccoglie poi e discute analiticamente le testimonianze sulla pratica di iudicia publica municipali: in particolare, il capitolo 102 della Jex Coloniae Genetivae Iuliae (FIRA I, 190) e le disposizioni della tabula Hera-
cleensis (FIRA I, 140) sull'appartenenza al senato municipale e sull'eleggibilità alle magistrature (linn. 117 ss.; 135 ss.). Per i decurioni, nei casi di reati capitali, il procedimento avrebbe condotto all'espulsione dall'ordo ed al bando dalla comunità, con conseguenze non molto dissimili da quelle provocate dalle condanne innanzi alle quaestiones romane; per i rei provenienti dagli strati sociali piü umili della popolazione, la lex locationis di Pozzuoli attesterebbe ora, non ostante le perplessità del Kunkel, la competenza dei magistrati locali a fare eseguire condanne a morte. Ad un procedimento innanzi ad una quaestio municipale andrebbe ricondotto anche l'episodio ricordato da Svetonio, Claud. 34.1, in cui il Mommsen ritrovava invece le ultime tracce di un'antica procedura magistratuale-comiziale del municipio. In un cosi diffuso e accurato riesame delle fonti sorprende tuttavia che non siano in alcun modo ridiscussi i problemi posti dalla lex Osca tabulae Bantinae (FIRA I, 163), sebbene il frammento Ada-
masteanu ne permetta ora con relativa sicurezza la datazione ad un momento posteriore alla fine della guerra sociale (M. TORELLI, Arch. Class. 21,1969,1 ss.). Nel secondo capitolo della legge infatti Si disciplina, come é noto, un procedimento coercitivo comiziale in
cui il Mommsen ritrovava significative analogie col stratuale-comiziale ipotizzato per Roma. L’ipotesi non è più facilmente riproponibile, dopo le ricerche processo presillano; ma la procedura attestata dalla
processo magimommseniana del Kunkel sul tabula Bantina
(ne traccia un’analisi molto interessante H. GALSTERER, Chiron 1,
1971, 211 ss.) suggerisce una maggiore articolazione nel ricostruire la tipologia dei procedimenti repressivi nei municipi, e una maggiore attenzione alla distanza intercorrente fra le procedure locali e 152
quelle praticate in Roma, fra gli iura dei municipi e gli iura del populus Romanus, sotto il profilo processuale. Un fenomeno, questo, al quale il Simshàuser non attribuisce sufficiente rilievo nella sua ricerca, ma che dovette avere dimensioni significative negli anni
immediatamente susseguenti alla municipalizzazione della penisola, per attenuarsi poi nel tempo fino a scomparire (in Italia, non nelle province). Nella stessa linea andrebbe forse riconsiderata la disposizione del fragmentum Tudertinum (CIL XI 4632) 1. 6: [...] po-
puli iudicio petere vel in sacrum iudicare licet[o...], anch'essa trascurata dal Simsháuser; il Mommsen vi ritrovava infatti un riferimento al processo magistratuale-comiziale, indicato in modo impreciso con populi iudicio petere. Il frammento andrebbe riconsiderato insieme all'altro conservato nella biblioteca trivulziana a Mila-
no (CIL 12 603 = V 5803), che ricorda un iudicium populi in un contesto non dissimile da quello del Tudertinum, e quindi verosimilmente in rapporto ad una comunità italica: i dubbi a suo tempo avanzati dal Tibiletti, che proponeva dl riconoscere in entrambi i documenti due leggi romane, pertinenti all'organizzazione urbana, non sembra possano condividersi senza riaffrontare la discussione. Le difficoltà che il Mommsen
manifestava nel ricondurre il petere
populi iudicio di queste fonti allo schema del supposto procedimento magistratuale-comiziale urbano potrebbero essere una riprova della origine municipale della procedura. La dottrina tradizionale riduce l'attività giurisdizionale degli organi municipali nelle controversie civili ad una funzione sussidiaria della giurisdizione pretoria, di scarsa rilevanza pratica, contenuta entro ben definiti limiti di valore. Anche in questa impostazione il Simshäuser ritrova la perdurante influenza dello Staatseinheitprinzip. In realtà le disposizioni delle leggi tardo-repubblicane — quella del fragmentum Atestinum, la Lex Rubria de Gallia Cisalpina (FIRA I, 169) — non definivano, secondo il Simsháuser, l'ambito di
esercizio dei poteri giurisdizionali degli organi locali, ma tracciavano piuttosto un confine alla disponibilità delle parti nel fissare il foro della controversia, imponendo la giurisdizione locale al di sotto di un certo livello di valore. Ma piü interessante di questa esegesi, che puó sollevare qualche perplessità [la discute analiticamente M. TALAMANCA,
in BIDR 16,1974,499 ss., é il rilievo in fondo margi-
nale attribuito alle due leggi per la ricostruzione del sistema giurisdizionale nel primo secolo a.C.; l'occasione particolarissima, il contesto politico, la destinazione a territori urbanizzati di recente avrebbero tuttavia richiesto maggiore attenzione. Allo stesso modo, avrebbe richiesto un più ampio discorso l'innovazione, attribuita alle leggi giudiziarie augustee, per cui le competenze degli organi municipali avrebbero ricevuto precisi, rigidi limiti di valore. La libera disposizione delle parti era esclusa, osserva il Simsháuser, già in età repubblicana per le azioni infamanti e per le cau153
sae liberales. Non erano invece del tutto preclusi ai magistrati municipali gli atti che una sistematica più tarda classificherà magis imperii quam iurisdictionis: la lex Rubria infatti avrebbe riconosciuto la competenza degli organi locali alla cautio d.i. (cap. 20); nel cap. 21 (FIRA I, 173-174) avrebbe previsto un procedimento penale recuperatorio per chi non prestasse il vadimonium (o non presentasse un vindex locuples) in ottemperanza al decreto del magistrato municipale; il cap. 55 della lex Mamilia Roscia lascia intravvedere qualche possibilità di esecuzione patrimoniale; la conclusione del cap.19 della lex Rubria sembra riconoscere la competenza ad emanare interdetti. Più tardi, queste possibilità sarebbero venute di fatto a cadere, di fronte alla concorrente attività del pretore, anche perché i magistrati municipali non sarebbero riusciti a conservare il controllo delle complicate procedure richieste. Infine, gli organi locali avevano la datio tutoris e, in talune comunità, esercitavano la giurisdizione volontaria, in quanto era ad essi riconosciuta la competenza alla legis actio. Negli studi sull’ordinamento municipale di Salpensa e di Malaca il Mommsen proponeva di collegare l'apud magistratum esse legis actionem alla permanenza degli iura locali: la competenza alla volontaria giurisdizione sarebbe stata cioé attributo dei magistrati dei municipi latini e di quei municipi di cives nei quali sopravvivessero gli iura indigeni; ne sarebbero stati privi gli organi delle colonie e dei municipi che avessero adottato gli iura del popolo romano. Il Simshäuser rifiuta questa ipotesi, perché ritiene inverosimile che i magistrati delle comunità latine avessero poteri piü ampi dei magistrati coloniari, ma non riesce a dare una diversa spiegazione della disciplina. In questo caso invece l'analisi mommseniana, che risale agli stessi anni nei quali la Rómische Geschichte proponeva la sua lettura pluralistica del sistema municipale, individuava acutamente nell'uti suis legibus un carattere peculiare dei municipi ancora durante il principato, nelle province, e ne faceva discendere l'eterogeneità fra istituti municipali e istituti coloniari, con un'attenzione al particolarismo municipale che non sempre si ritrova nella ricostruzione del Simshäuser. Nei primi anni del principato di Marco Aurelio — il problema della data è ridiscusso da G. CAMODECA, Labeo 20,1974,141
s. —
funzioni giurisdizionali per Italiam furono affidate a iuridici di rango pretorio, secondo un modello di riassetto organizzativo che riprendeva e sviluppava una breve esperienza adrianea. Negli iuridici il Wlassak proponeva di riconoscere il tramite attraverso cui la prassi giudiziaria provinciale sarebbe venuta a condizionare l'ordinamento processuale italico e, più tardi, quello stesso dell’Urbe. Competenti così per la cognitio extra ordinem come per il procedimento formulare, gli iuridici avrebbero sostituito in buona parte dei loro compiti gli organi giurisdizionali urbani, già investiti della 154
giurisdizione nella penisola accanto ai magistrati municipali. Una nuova, accurata lettura delle fonti permette tuttavia al Simshäuser di respingere questa ipotesi: l'intervento degli iuridici si arrestò alla cognitio extra ordinem, nel disegno originario dell’innovazione; il nuovo organo integrò l’apparato di governo imperiale, senza in-
cidere direttamente sul sistema della giurisdizione urbana, né su quella municipale. (Ma cfr. ora W. Eck, ZPE 18, 1975, 155 ss. per
un'analisi complessiva dell'ufficio e delle sue competenze). Solo nel corso del terzo secolo gli iuridici assorbirono anche le funzioni sino ad allora svolte dagli organi della giurisdizione ordinaria. J. GASCOU, La politique municipale de l'Empire Romain en Afrique Proconsulaire de Trajan a Septime-Sévére, 1972*
1. Gli studi sulle origini e lo sviluppo degli ordinamenti municipali e coloniari nelle province occidentali dell’ Africa sono stati condizionati per decenni dai cataloghi delle fondazioni romane compilati fra la fine del secolo scorso e gli inizi di questo dal Toutain, dai Mesnage e, per le sole colonie, dal Kornemann. Sebbene
non sempre costruite con sufficiente acribia, e per molta parte rapidamente invecchiate in conseguenza del moltiplicarsi dei ritrovamenti epigrafici e delle ricerche archeologiche, quelle esposizioni proposero un panorama amministrativo della regione destinato a
resistere per oltre cinquanta anni, nelle sue linee di fondo. Per l'età di Cesare e di Augusto un nuovo disegno, sorretto da un esame
analitico dei dati disponibili, é stato tracciato solo da qualche decennio, nei lavori, pur divergenti nei risultati finali, del Vittinghoff e del Teutsch. Per il principato dopo Augusto, il bellissimo articolo con cui il Pflaum ripercorreva nel 1970 le tappe della romanizzazione nel territorio di Cartagine viene ora integrato, a distanza di due anni, da questa attenta ricerca del Gascou sulla politica municipale nella Proconsolare, fra i Flavi e gli Antonini. Articolato in tre parti, diverse per ampiezza e per interesse, il saggio si apre con una rapida analisi delle condizioni che avrebbero permesso, nel corso di un secolo o poco più, la generalizzazione dell’ordinamento municipale nella provincia; traccia, quindi, un minuto esame delle fondazioni coloniarie e municipali che possano essere ricondotte agli ultimi decenni del I o al II secolo; propo. ne, infine, un sintetico profilo degli indirizzi politici che emergerebbero dagli interventi imperiali.
* PP 159, 1976, 336-344. 155
La rapida e massiccia espansione delle forme organizzative di origine romana, dopo la pausa imposta dagli immediati successori di Augusto, & ricondotta dal Gascou alle particolari condizioni economiche, politiche e culturali in cui viene a trovarsi la regione dall’età dei Flavi. L’assenza di guerre, l’estensione del controllo militare, il progresso economico e l’accumulazione di ricchezza, la formazione di una cultura romano-africana, l'esigenza di istituzioni di autonomia cittadina individuerebbero altrettanti fattori della municipalizzazione. Muovendo da una concezione dello sviluppo urbano che sembra identificare la nascita delle città con il loro riassetto in forme municipali, l’analisi accosta, pertanto, l’uno all’altro fenomeni eterogenei, dei quali non ricerca né chiarisce, come
pure sarebbe opportuno, i nessi con le imponenti trasformazioni strutturali che in questo periodo modificano profondamente le forme di vita associata nella Proconsolare, fino a promuovere l’implosione urbana anche in comunità tribali, talora appena insediate stabilmente sul territorio. Ancora meno il saggio del Gascou individua le complesse vicende per le quali l’urbanizzazione assume di frequente, ma non sempre, né immediatamente le forme istituzio-
nali dei municipi e delle colonie; né spiega la fortuna dei modelli statutari romani nelle comunità di preesistente urbanizzazione, numidica o punica. 2. La ricerca sulle singole fondazioni municipali e coloniarie raccoglie le comunità esaminate secondo la successione cronologica degli imperatori, da Traiano a Settimio Severo, e le ripartisce nei distretti territoriali per i quali è documentabile un interesse dell’amministrazione imperiale. Per ogni intervento, sicuro o probabile che sia, un’accurata scheda critica motiva l’attribuzione attra-
verso il riesame di tutto il materiale documentario, con particolare cura per quello epigrafico, spesso suggerendo interessanti soluzioni a problemi filologici tuttora controversi. In un’appendice all’introduzione l’analisi è spinta indietro nel tempo sino agli inizi della dinastia flavia, cosicché questi capitoli centrali del libro, certo 1 più interessanti e convincenti, costituiscono un utilissimo, aggior-
nato repertorio dei municipi e delle colonie della Proconsolare, tra la fine del I e gli inizi del III secolo. Accanto alle fondazioni sicure (Hadrumetum, Leptis Magna, Thamugadi,
Thubursicu Numidarum),
il Gascou riconduce con
buoni argomenti a Traiano gli interventi riorganizzativi di Thelepte, Cillium, Capsa, Theveste, Diana Veteranorum,
Calama;
con
qualche incertezza, e in modo meno persuasivo, quelli di Mascula e di Cuicul. La deduzione di veterani a Cuicul avrebbe indotto un riordinamento generale delle comunità contribute a Cirta, che avrebbero conseguito il rango di colonie ‘nominales’, secondo un’artificiosa distinzione fra colonie di veterani, colonie onorarie e
156
colonie nominali ignota alle fonti e priva di qualsivoglia utilità per la conoscenza delle tecniche organizzative romane. Il Gascou esclude invece la paternità traianea per le colonie di Sabratha, di Oea e di Leptis Minus; ma sul problema di quest’ultima fondazione egli ritorna in AA 6, 1972, 137 ss. per modificare il punto di vista originario. Le fondazioni che non abbiano nella titolatura un esplicito riferimento ad Adriano pongono, come è noto, difficili problemi di attribuzione, in quanto l'appellativo Aelius potrebbe derivare anche da Antonino Pio. Il Gascou dimostra tuttavia in modo persuasivo che i municipi e le colonie connotati dall’epiteto Aelium - Aelia vanno ricondotti ad interventi adrianei. In età adrianea possono essere collocati pertanto il riassetto in municipi di Thizika, Avitta Bibba, Bisica Lucana, e quello in colonie di Lares e Thaenae, oltre
all’intervento ad Aelia Ulisippira, della quale non si può accertare se sia divenuta municipio o colonia (ed oltre, naturalmente,
alle
fondazioni indiscusse di Bulla Regia, Utica, Turris Tamalleni, Zama Regia, Abthugni, Thuburbo Maius). A distanza di qualche anno, conclusioni analoghe sulla titolatura delle fondazioni adrianee sono raggiunte, in modo del tutto indipendente, dal Pflaum ZPE 17, 1975, 260 ss.
Ad Antonino Pio il Gascou riconosce solo la fondazione del municipio di Gigthis. Per Marco Aurelio, una ricerca preliminare sull’onomastica dei municipi e delle colonie di sicura paternità permette di affermare che l’epiteto Aurelium-Aurelia, usato da so-
lo, caratterizza esclusivamente le fondazioni di questo principe (nello stesso senso è ora anche il Pflaum, nell’articolo già ricordato). All’imperatore filosofo sono quindi ricondotti gli interventi organizzativi di Vina, di Segermes e, con qualche perplessità, di Sufes. Alla correggenza di Marco Aurelio con Commodo è riferita la fondazione di Colonia Aelia Aurelia Augusta Mactaris: gli appellativi alluderebbero in questo caso ad entrambi 1 principi, in quanto Aelius & un elemento presente cosi nell'onomastica di Commodo, in questo periodo, come in quella del padre, prima dell'assunzione all’impero. Con maggiore aderenza alle modifiche subite dall'onomastica di Commodo il Pflaum fa discendere invece il doppio appellativo dai nomi che il principe assume dopo il 191 (L. Aelius Aurelius Commodus).
Secondo il Gascou Ja concorrenza di piü elementi permetterebbe di attribuire a Marco Aurelio anche la trasformazione in municipi di Lambaesis, di Gemellae e, con maggiori perplessità, di Verecunda: ma le difficoltà poste dalle denominazioni delle curie lambesitane resistono agli ingegnosi tentativi di spiegazione dello studioso francese. In particolare, non é facile attribuire ad Antoni-
no Pio la creazione di una curia premunicipale intitolata a Sabina: cf. M. Torelli, QAL 6, 1971, 109, che suggerisce per il municipio 157
un intervento adrianeo, e riporta la fondazione della colonia all’etä di Marco Aurelio.
A Commodo, fondatore delle colonie di Thuburbo Maius e di
Pupput, il Gascou propone di attribuire anche l’organizzazione del Municipium Aurelium CI...], attestato in un'iscrizione frammenta-
ria di Henchir Bou Cha. Il riordinamento in colonia di Lambaesis dovrebbe continuare ad essere riferito a Settimio Severo, sebbene il documento epigrafico sul quale ci si fondava per la datazione non offra più alcun elemento utile in tale senso, dopo la ricomposizione e la nuova lettura di I. Marcillet-Joubert. A Vaga, lo stanziamento dei veterani
severiani sarebbe stato preceduto dal conferimento dello status di colonia onoraria: il ricordo della condizione coloniaria in CIL VII 14394 (= CIL VII 10569), del 197, si concilierebbe così con l’indicazione di CIL VIII 14395, che porrebbe la deduzione nel 207-8.
Ma la restituzione di quest’ultimo documento appare tutt’altro che sicura, e merita di essere riconsiderata; d’altra parte, l’epigrafe potrebbe celebrare il momento conclusivo di una riorganizzazione sviluppatasi in fasi diverse per più anni. La scissione fra il conferimento dello status di colonia, a titolo onorifico, e lo stanziamento dei veterani riproduce uno schema comune nelle ricerche moderne, ma arbitrario, e di nessun ausilio per l’interpretazione delle fonti. Settimio Severo avrebbe anche condotto a termine lo smembra-
mento della pertica di Cartagine, unificando in municipia i pagi di cives Romani, ancora formalmente dipendenti dalla colonia, e le civitates peregrinorum ad essi giustapposte. In questo disegno rientrerebbero; con Thugga, Thignica e Thibursicum Bure, sicuramente municipi severiani, anche Numluli e Agbia, la cui riorganizzazione non può tuttavia essere datata con sicurezza sulla base delle fonti epigrafiche. Nella valle del Bagrada Settimio Severo avrebbe trasformato in municipi Sululos, Avedda, Aulodes,
il Municipium
Septimium ricordato in CIL VII 14793, la gens Severiana attestata in CIL VIII 883 (da cfr. con CIL VII 12386). In quest'ultimo caso il municipio avrebbe conservato la denominazione di ‘gens’: ipotesi singolare, già suggerita dal Pflaum, AA 4,1970, 95, ma altamente
improbabile. Gens infatti, seguito di solito dall’etnico al genitivo plurale, individua nell’uso tecnico non meno che nel linguaggio comune un’ organizzazione politica del tutto estranea alla civitas populi Romani — anche se gravitante nell’àmbito dell’imperium populi Romani — ed irriducibile perciò alla dimensione municipale. Correttamente G. Meyer, compilando la voce gens per il TLL, aveva riconosciuto nell’iscrizione il ricordo di una civitas peregrinorum (TLL VI 2,1929, gens, col. 1851, 20). A tale riconoscimento non pone
ostacolo l’ordinamento magistratuale di tipo romano, che deriva evidentemente dall’assimilazione ai modelli organizzativi delle comunità di cives, né l’appellativo Severiana, manifestazione del fa-
158
vore del principe, analogo agli appellativi tratti dall’onomastica imperiale per le civitates peregrinorum.
Nel sud della provincia, Settimio Severo trasforma in municipio Thysdrus. Infine, in età severiana ottengono lo ius Italicum le colonie di Cartagine, Utica e Lepcis Magna. A chiusura della parte centrale del saggio un’appendice raccoglie le notizie sulle colonie e sui municipi dei quali non si può determinare con sicurezza il fondatore, ma che appaiono comunque riconducibili all’età degli Antonini. 3. La ricerca e lo studio delle testimonianze che illustrano le trasformazioni istituzionali in ciascuna comunità non intendono solo fondare criticamente la cronologia dei municipi e delle colonie nell’età degli Antonini, ma affermano in modo esplicito un proposito più ambizioso. L’esame analitico degli interventi dovrebbe ricomporre la trama secondo la quale si sarebbe sviluppata la ‘romanisation juridique’ della provincia — un fenomeno, il cui àmbito non senza arbitrio è programmaticamente ridotto dal Gascou al solo profilo delle forme statutarie. In poche, rapide pagine, la terza parte del saggio riprende dunque le notazioni disperse nei corso dell’opera e le ricompone in un discorso unitario. Gli interventi traianei diffusero, secondo il Gascou, l’assetto municipale soprattutto in territori al di fuori dell’ Africa Vetus, in stretto collegamento con la politica espansionistica del principe. Conferendo lo status di colonia a titolo onorario, Traiano introdusse una distinzione di rango fra municipi e colonie. Con Adriano, la municipalizzazione si propose invece il pieno livellamento formale fra immigrati ed indigeni, in comunità di risalente romanizzazione culturale. Nello stesso tempo, il principe concesse il titolo di colonia a città di antica origine e significativo sviluppo, per assicurare loro l’equiparazione formale ed una preminenza di prestigio sui nuovi municipi. Antonino Pio arrestò l’espansione delle forme organizzative romane, che riprese vivace con Marco Aurelio e con Commodo, secondo le linee già segnate da Adriano. Settimio Severo infine sviluppò con decisione la politica dì riordinamento in municipi, mentre liquidö definitivamente il modello cesariano di cittàstato, dissolvendo la pertica della colonia dedotta a Cartagine secondo il progetto del dittatore.
In questo tentativo di risalire dal catalogo delle fondazioni alla
storia della politica amministrativa nella Proconsolare del II secolo, il lavoro dei Gascou lascia tuttavia per diversi aspetti insoddi-
sfatto il lettore, nei singoli giudizi non meno che nell’impostazione di fondo e nei risultati finali. I modelli amministrativi ai quali fa ricorso il governo imperiale nelle province appaiono oggi sempre meno riducibili ai pochi schemi, uniformi e costanti, della sistematica mommseniana, men-
159
tre da piü parti si rileva la flessibilitä con cui quei modelli vennero adattati alle diverse situazioni. Un prezioso lavoro del Braunert ha così distinto le civitates nelle quali, sia pure in via transitoria, si
fruisce dello ius Latii come ‘Personenrecht’ dai municipi latini. La civitas peregrinorum ed il vicus, pur nell’incerta definizione dei rapporti reciproci, si precisano come istituti tutt'altro che ignoti alla prassi organizzativa imperiale — così come la polis nei territori di cultura ellenistica. Nuova attenzione ricevono le dimensioni amministrative delle canabae e del territorium legionis. Le curie africane si propongono come interpretatio Romana di preesistenti istituzioni puniche. Tutt'altro che omogenee, né tanto meno fungibili, queste formule istituzionali postulano tecniche organizzative diverse, anche
se non sempre contrapposte. E le tecniche a loro volta appaiono sostenute e guidate da concezioni e disegni che mutano col mutare dei rapporti di forza all’interno del gruppo dirigente dell’impero (soprattutto ma non solo in coincidenza con la successione imperiale); e riflettono da vicino il modo in cui nel ‘centro del potere” si progetta il futuro dell’ordinamento politico romano, rispondendo tra l’altro alle pressioni, alle esigenze, alle aspettative emergenti nelle province. L'analisi dei profili formali assunti dal riordinamento delle comunità provinciali individua così un terreno di straordinario interesse per seguire i processi attraverso i quali gli interventi imperiali operano sulle istituzioni politiche preesistenti, secondo linee di acculturazione che non si lasciano ricondurre ad un modulo uniforme, né appaiono sempre orientate ad una romanizzazione totale,
senza residui. L'esperienza amministrativa conosce infatti, nelle province, fenomeni non dissimili da quella volgarizzazione degli istituti di origine romana sulla quale così di frequente hanno richiamato l’attenzione gli storici del pensiero giuridico. Nello stesso tempo, una lettura non formalistica dei meccanismi istituzionali permette di verificare come le trasformazioni degli iura locali introdotte dai mutamenti statutari si innestano sui fenomeni strutturali in atto nelle comunità che ne sono investite;
dà quindi conto del diverso modo in cui gruppi e ceti si rapportano alla riorganizzazione ed ai suoi molteplici esiti, secondo un arco di possibilità che vanno dal livellamento nell’uniformità degli iura populi Romani fino all’articolazione pluralistica. La ricerca del Gascou muove invece da una considerazione dell’ordinamento territoriale nelle province troppo angusta e schematica per cogliere nella loro complessità le vicende della politica amministrativa nell’età degli Antonini. Assimilando i caratteri formali dei municipi a quelli delle colonie essa si preclude la comprensione dei contenuti specifici delle due formule organizzative, e del diverso significato che assume il ricorso all’una o all’altra: 160
ignora infatti la dimensione gromatica che è propria di ogni fondazione coloniaria, e trascura il rilievo assunto dall’uti suis legibus nell’assetto municipale. Accentua invece gli aspetti onorifici nel conferimento dello statuto municipale o coloniario, e generalizza per tale via una considerazione puntuale e ben datata dell’ordinamento municipale, di cui peraltro non ricerca i rapporti con le ideologie e Ia prassi dei ceti di governo delle comunità africane, né con quelli del gruppo dirigente dell’impero. Esclusi alcuni interventi di Traiano, nei quali il Gascou ravvisa un interesse militare,
la storia delle forme organizzative di origine romana nella Proconsolare è ridotta così ad una monotona successione di riconoscimenti onorifici. Una storia cui nemmeno l’osservazione dei mutamenti intervenuti negli indirizzi organizzativi Imperiali — in polemica con lo Sherwin-White — riesce a dare concretezza.
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La correctio morum
nella legislazione flavia*
I. Gli interventi domizianei e i dati della tradizione
La biografia svetoniana di Domiziano sviluppa la tesi che il principe circa administrationem... imperii aliquamdiu se varium praestitit, mixtura quoque aequabili vitiorum at-
que virtutum, donec virtutes quoque in vitia deflexit!. In questo schema, interventi e progetti domizianei, rimasti so-
stanzialmente inalterati alla scomparsa della dinastia flavia, possono essere recuperati dal biografo come manifestazioni positive di un principato che pure é condannato nel suo complesso in quanto ambiguo e contradittorio, già prima di precipitare verso la crisi finale?. A merito del principe, ap-
* ANRW 2, 16,1980, 340-365. Le indicazioni bibliografiche sono solo orientative; di massima si rife-
riscono ai lavori piü recenti su ciascun problema, apparsi entro il 1975. L'articolo & stato consegnato nel febbraio 1976. ! Suet. Dom. 3.3. Per la struttura della biografia si veda, da ultimo. I. LANA, Le vite dei Cesari di Svetonio (lezioni), 1972, 119 ss., e in partico-
lare 128 ss.: il racconto avrebbe sostanzialmente l'andamento di uno psogos. ? La continuità fra talune prospettive della politica domizianea e gli indirizzi di governo traianei è stata di recente sottolineata da K.H. WATERS, Traianus Domitiani continuator, AJPh 90, 1969, 385 ss. Il gruppo dirigente dell'impero non conosce modifiche di rilievo; i cavalieri preposti da Domiziano agli uffici centrali dell'apparato amministrativo perpetuano le direttive, se non la memoria, dell'ultimo dei Flavi. I rapporti fra Svetonio
e questi ambienti della burocrazia imperiale sono analizzati in F. DELLA CORTE, Svetonio eques Romanus?,
1967, 165 ss., 180 s.
163
plicando forse un insegnamento dell ''Istituzione oratoria’ quintilianea, che suggeriva di illustrare nell’encomio quae... quis... primus fecisse dicetur?, Svetonio ricorda fra l’altro come
Domiziano... multa etiam in communi
rerum usu no-
vavit: in particolare .. . castrari mares vetuit, spadonum qui residui apud mangones erant pretia moderatus est^. In un'ottica profondamente diversa la notizia & ripresa, circa un secolo più tardi, dalle Storie dionee?. Per Dione Cassio il divieto di castrazione é in realtà un episodio della polemica retrospettiva che Domiziano avrebbe condotto contro il fratello Tito, secondo una tradizione che si ritrova
anche in Svetonio, ma in tutt'altro contesto?. Sfruttando in-
fatti la fama della incontenibile passione che Tito aveva nutrito per gli spadones”, Domiziano avrebbe emanato il divieto, non ostante 1 vincoli che lo legavano all’eunuco Earino,
per ostentare il suo distacco dagli atteggiamenti del predecessore, e colpirne così la memoria. Svetonio ignora Flavio Earino, e non accenna mai a rapporti di Domiziano con eunuchi, pur soffermandosi a descrivere con minuzia, come è solito fare, i costumi sessuali del
principe®. Anche se si riconosce pertanto nell’opera di Dione Cassio un’utilizzazione diretta delle biografie svetoniane?, si
Come le altre vite della seconda esade, la biografia di Domiziano sembra sia posteriore alla caduta in disgrazia di Svetonio: già R. SYME, Tacitus, 1958, 780 s. e, con ulteriori argomentazioni, G.B. TOWNEND, The Date of Composition of Sueton's Caesares, CQ 9, 1959, 285 ss. ne avevano proposto una datazione agli anni successivi alla scomparsa di Domizia, intorno al 130. Nella stessa linea è ora il LANA, Le vite, cit., 125 ss. Il giudi-
zio del biografo sul principato domizianeo riflette quindi una tradizione che si è venuta sviluppando e consolidando fra Traiano e Adriano ai vertici della burocrazia equestre, tradizione diversa e talora contrastante con la vulgata senatoria.
? Quint. inst. 3.7.16. ^ Suet. Dom. 7.1.
5 Cass. Dio 67.2.3 (Xiphil. 217. 31 ss.). 6 Suet. Dom. 2.6: defunctumque (fratrem) nullo praeterquam consecrationis honore dignatus, saepe etiam carpsit obliquis orationibus et edictis. ? Anche Svetonio ne fa cenno, nella biografia di Tito: Svet. Tit. 7.1; 5.
Cfr. infra, p. 356en. 51.
„a 8 particolare Suet. Dom. 22.1.
? «An attrative possibitity» per F. MILLAR, A Study of Cassius Dio, 1964, 85 s., che attenua lo scetticismo della dottrina più antica, senza tuttavia nascondersi le difficoltà dell’ipotesi.
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dovrà pur sempre ipotizzare l’apporto (anche) di altre fonti, per l’episodio domizianeo. Da quelle fonti lo storico greco avrà tratto, col ricordo dei vincoli fra il principe e Flavio Earino, anche la riduzione dell'intervento imperiale ad un atto di calcolata ipocrisia, in aderenza ad un modulo interpretativo della politica di Domiziano che si rintraccia già in età traianea, nella polemica contro l’ultimo dei Flavi!?. Il racconto delle Storie integra pertanto la biografia svetoniana sotto un duplice profilo. Esso conserva una tradizione radicalmente antidomizianea — ben lontana quindi da quella accolta nei Libri de vita Caesarum —, che esclude la
sincerità del principe, senza mettere in discussione l’opportunità del provvedimento. Probabilmente, questa tradizione si era consolidata nei termini in cui è raccolta da Dione Casslo già prima che Svetonio avesse steso la seconda esade delle sue biografie!!. Nello stesso tempo, il racconto dioneo suggerisce una collocazione cronologica del provvedimento
che trova prezioso riscontro in quella conservata dal *Chronicon’ eusebiano. Nella forma epitomata in cui ci è pervenuto, il libro 67 delle Storie, pur non avendo più elementi
espliciti di datazione, inserisce con sufficiente chiarezza il
10 Così in Iuv. 2.29-35; 63, su cui G. HIGHET, Juvenal the Satirist. A Study, 1954, 249 ss., che ne analizza i modelli e le fonti, e ne riconduce la
pubblicazione ad un momento di poco posteriore al 96. Lo HIGHET sottolinea i rapporti fra i motivi ispiratori della satira ed i temi cari alla filosofia popolare (nello stesso senso, già The Philosophy of Juvenal, in TAPhA 80, 1949, 264 ss.); ma in realtà le accuse di Giovenale a Domiziano riprendo-
no formule care alle vituperationes senatorie contro quel principe, come ha mostrato per la quarta satira W.S. ANDERSON, Juvena! and Quintilian, YCIS 17, 1961, 47 s., rilevando le coincidenze che essa presenta con il panegirico di Plinio il giovane. Anche le invettive contro l’ipocrita censore che dat veniam corvis, vexat... columbas (Iuv. 2.63) trovano un significativo riscontro in Plin. paneg. 20.2: adventum tuum non pater quisquam, non maritus expavit: adfectata aliis castitas, tibi ingenita et innata.
!! Nonostante le perplessità formulate a suo tempo da S. GSELL, Essai
sur le régne de l'empereur Domitien,
1894, 348 n. 2, si puó forse pensare
ad una dipendenza dalle Historiae tacitiane. L'ipotesi che Dione Cassio abbia letto Tacito, per il racconto dei principati dei Flavi, é stata riproposta dal SYME, Zacitus, cit., 271 n. 4; 688 ss.
Come reminiscenza di una notizia tacitiana il divieto è probabilmente ricordato da Amm. 18.4.5; i rapporti fra l’opera di Aramiano e quella di Tacito sono stati riconsiderati di recente da R.C. BLOCKLEY, Tacitean Influence upon Ammianus Marcellinus, Latomus 32, 1973, 63 ss., che non studia tuttavia questo passo.
165
provvedimento fra gli atti iniziali del nuovo principe. Il ricordo dell’ostilità manifestata da Domiziano imperatore verso il padre ed il fratello, ostilità non contraddetta dalla con-
ferma dei privilegi che essi avevano concesso, e l’accenno alla polemica postuma con Tito dovevano aprire la narrazione delle vicende domizianee, in Dione Cassio, proprio perché si riferivano ai primissimi anni del principato. Parallelamente il Chronicon eusebiano, così nella redazione geroni-
miana come in quella armena, pone il divieto di castrazione nel secondo anno di Domiziano, riprendendo la notizia da
una narrazione scandita cronologicamente, che può essere
quella stessa da cui dipende Dione Cassio??.
Il secondo anno del principato domizianeo, 2098 dell’era di Abramo, individua nel sistema cronologico eusebiano un periodo che va all’incirca dal primo ottobre 81 al trenta set-
tembre 8215. La suggestione di un'immagine di Stazio ha ta-
lora indotto a ricollegare il provvedimento all’esercizio della
potestà censoria, assunta dal principe agli inizi dell'85!^, Ma
12 Hier. chron. 190 Helm; Eus., Die Chronik aus dem armenischen übersetzt 217 K. Anche in questo caso, come per le altre notizie di storia imperiale conservate da Eusebio, si dovrà riconoscere la mediazione di S. Giulio Africano: R. HELM, De Eusebii in Chronicorum libro auctoribus,
Eranos 22, 1924, 39 ss. Naturalmente la fonte di Giulio Africano avrà indicato la data consolare del provvedimento che poi Eusebio (o forse già Giulio Africano, avrà ridotto all’anno di principato, attraverso il computo che assume come base il calendario antiocheno, con inizio dell’anno all’e-
quinozio di autunno, e calcola come anni interi le porzioni di anno, secondo la ricostruzione di A. VON GUTSCHMID, De temporum notis quibus Eusebius utitur, in Kleine Schriften 1, 1889, 454 ss.
13 era di Abramo è segnata per decenni nella redazione geronimiana, con continuità in quella armena la sua riduzione all’era cristiana è possibile — solo «mit Vorbehalt», avvertiva EK. GINZEL, Handbuch der mathematischen und technischen Chronologie 3, 1914, 174 s. — grazie alle for-
mule elaborate dal von GUTSCHMID e riprese dal GINZEL stesso, 1.c. Entrambe le redazioni del Chronicon indicano anche il ciclo olimpico, con inizio al 777 a. C. per la redazione armena, al 776 a.C. per la geronimiana; l’anno olimpico eusebiano coinciderebbe con l’anno giuliano, secondo un’osservazione di A.E. SAMUEL, Greek and Roman Chronology, 1972, 194 n. 2. La riduzione della data olimpica — 215.2 nella redazione latina, 215.3 in quella armena — indicherebbe,
secondo
l’ipotesi del SAMUEL,
l’anno che va dal primo gennaio al trentuno dicembre 82. L’82 è anche indicato dallo HELM al margine della sua edizione del Chronicon (E. HELM,
Hieronymi Chronicon?, 1956). 14 La data eusebiana, accolta dal GSELL, Essai, cit., 84. è ripresa dal WEYNAND, RE VI 2, 1909, 2552 s., Flavius n. 77. e da G. CORRADI, DE
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il riferimento alla censura, per il divieto di castrazione, non
ha nel carme di Stazio un significato tecnico-giuridico: esso documenta piuttosto come il tema della censura sia stato assunto più tardi dai poeti di corte per unificare sotto il profilo delle motivazioni ideologiche atti diversi, talora anteriori all’85, e non sempre assimilabili alle funzioni censorie, an-
che se tutti pertinenti in qualche modo alla politica dei costumi. Quel riferimento non consente dunque di mettere in crisi la data eusebiana, né di riconoscere al divieto un fondamento
costituzionale diverso dai poteri normativi imperiali!. Ignorate dalla letteratura giuridica, probabilmente perché sostituite dopo breve tempo da nuove disposizioni di Nerva e di Adriano!®, le norme domizianee sulla castrazione possono tuttavia essere ricostruite, nelle loro linee generalissime, attraverso le scarne notizie pervenuteci al di fuori della tradizione giurisprudenziale. Il confronto fra queste testimonianze, certo attente piuttosto agli aspetti etici e politici dell’intervento domizianeo che non ai suoi caratteri
JI 3. 1922, 1974, Domitianus. Invece J. JANSSEN, nel commento alla biografia svetoniana (C. SUETONI TRANQUILLI, Vita Domitiani, ed. 1. JANSSEN, 1919) ha ricondotto il provvedimento alla censura, richiamando Stat. Silv. 4.3.13, su cui infra n. 31. Il FANSSEN collocava l'assunzione della censura alla fine dell’84, riprendendo un’indicazione del WEYNAND, ivi,
2560 s.; ma ricerche posteriori hanno confermato invece l’ipotesi che il principe assunse una potestas censoria agli inizi dell’85, probabilmente in aprile, e solo alla fine di quell’anno divenne censor perpetuus: M. HAMMOND,
The Antonine Monarchy,
1959, 86; 121 ss. In modo del tutto indi-
pendente dalla tradizione eusebiana, un termine ante quem per l'emanazione del divieto della castrazione & rappresentato dalla pubblicazione del secondo libro degli Epigrammi di Marziale, nel quale ricorre un implicito ma chiaro accenno al provvedimento: Mart. 2.60. Il libro sarebbe apparso fra la fine dell'85 e gli inizi dell'86 secondo il FRIEDLANDER: M. Valerii Martialis, Epigrammaton libri ed. L. FRIEDLANDER 1, 1886, 50 ss.; propone ora invece una data fra l'86 e 1’87 il CITRONI: M. Valerii Martialis, Epigrammaton liber I, a cura di M. CITRONI, 1975, XIV ss.
15 Tnfra, alla n. 17.
16 Naturalmente, il carattere parziale e frammentario delle nostre informazioni su questa letteratura non permette conclusioni troppo recise. Comunque va rilevato che nei brani escerpiti dai compilatori giustinianei i giuristi del II e del III secolo non risalgono oltre un s.c. del 97, Neratio
Prisco et Annio Vero consulibus, nel delineare la disciplina della castrazione: Dig. 48.8.6, Venul. libro primo de officio proconsulis, Dig. 48.8.3.4 Marcian.
libro quarto decimo
institutionum; Dig. 48.8.5, Paul.
libro se-
cundo de officio proconsulis; Dig. 48.8.4.2, Ulp. libro septimo de officio proconsulis.
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formali, permette comunque di riconoscere nell’atto imperiale un editto, che avrä vietato la pratica della castrazione in tutti i territori gravitanti nell’orbita dell’egemonia romana, anche oltre i confini formali della civitas populi
Romani". L'editto avrà proibito non solo la mutilazione
degli uomini liberi ma anche quella degli schiavi; nello stesso tempo, avrà introdotto il calmiere ricordato da Svetonio, per disincentivare il commercio degli eunuchi già presenti sul mercato!®. La tutela del divieto ed il rispetto del calmiere saranno stati affidati alla cognitio extra ordinem dei governatori nelle province, del praefectus Urbi e dei praefecti praetorio a Roma e in Italia!?.
1? Svetonio, Dione Cassio ed Eusebio usano perifrasi che non permet-
tono deduzioni sugli aspetti formali dell'atto. Un riferimento esplicito all'attività normativa del principe & invece in Stat. silv. 4.3.10: qui limina bellicosa Iani iustis legibus et foro coronat, in immediata connessione col ricordo del provvedimento contro la castrazione. Ad un atto normativo fa allusione anche Philostr. VA 6.42: Δομετιανοῦ... εὐνούχους TE μὴ ποιεῖν νομοθετήσαντος. Infine Amm.
18.4.5 ricorda una lex imperiale, evidente-
mente una costituzione. Una norma imperiale destinata ad una applicazione vastissima ed uniforme in tutto l’ambito dell’egemonia romana avrebbe potuto assumere la forma di un editto generale, o articolarsi in una se-
rie di mandati: ma la seconda alternativa spiegherebbe solo con difficoltà la diffusa conoscenza del provvedimento fuori dell’ambito dei possibili destinatari. 18 La destinazione del provvedimento a tutte le comunità dell’impero è postulata dall’uso del plurale populi, urbes, in Mart. 6.2; 9.5 (6). Nel carme per la chioma di Flavio Earino, originario di Pergamo (PIR? F 262, cfr. H. FRERE in Stace, Silves 12, 1961, 96 n. 1), Stazio presuppone l’estensione dell’editto alla città (68 ss.), che tuttavia era ancora libera: D. MAGIE, Roman Rule in Asia Minor, 1, 1950, 474. Un’eco del dettato originario
della costituzione si può forse percepire in Cass. Dio 67.2.3: μηδένα ἔτι £v τῇ τῶν Ῥωμαΐων ἀρχῇ ἐκτέμνεσθαι (Xiphil. 218.1). I rapporti fra ordinamenti locali e norme imperiali sono stati analizzati di recente da D. NÖRR,
Imperium
und Polis“,
1969, 26 ss.
e da ἘΞ GRELLE, L'autonomia
cittadina fra Traiano e Adriano, 1972, 137 ss.; 153 s. L'applicazione in Egitto è forse attestata da BGU V 112: W.L. WESTERMANN, The Slave Systems of Greek and Roman Antiquity, 1955, 144 n. 88. 1? L'ipotesi di una repressione extra ordinem può spiegare l'intervento del senato che, appena quindici anni più tardi, provvederà di nuovo a punire la castrazione: infra e n. 64. La decisione senatoria sarebbe incomprensibile se già l’editto domizianeo avesse represso il crimine poena legis Corneliae, come farà il senatoconsulto. Assimilando la castrazione alle figure criminose previste dalla lex Cornelia de sicariis et veneficis il senato solo delimiterà e renderà uniforme l’azione punitiva dei governatori provinciali, ma recuperera alla quaestio de sicariis compiti che il ‘tiranno’
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L’editto contro la castrazione ed il commercio degli eunuchi costituisce solo il primo atto a noi noto di una politica di controllo sui costumi che verrä sviluppandosi con continuitä, in forme diverse, nel decennio successivo. La biogra-
fia svetoniana ne sottolinea la rilevanza, in una analisi per categorie del principato domizianeo, raggruppando insieme provvedimenti eterogenei sotto il profilo formale e lontani nel tempo, ma tutti riconducibili al comune denominatore della correctio morum — un'attività che nella riflessione svetoniana non implica alcun necessario riferimento alle fun-
zioni censorie??.
Come pontefice massimo, probabilmente già nel corso dell'82, Domiziano interviene a reprimere severamente gli incesta delle Vestali,
e condanna a morte tre sacerdotesse,
Varronilla e le due sorores Oculatae?!. All'esercizio della
aveva demandato a funzionari imperiali, nell’Urbe. I rapporti fra gli organi della giurisdizione criminale durante il principato sono riconsiderati ora in un lucido capitolo dell’opera postuma di A.H.M. JONES, The Criminal Courts of the Roman Republic and Principate, 1972, 91 ss.
20 Suet. Dom. 8.4-5. Naturalmente, la rubrica accoglie solo i dati per i
quali il biografo non abbia già scelto una diversa collocazione: ne resta pertanto fuori l’editto sulla castrazione, già ricordato fra le ‘novità’ domizianee.
Le edizioni moderne non isolano la rubrica, e ne distribuiscono gli elementi in due paragrafi: ma l’esemplificazione della correctio morum ha una sua unità interna, e si presenta d’altra parte autonoma così nei confronti della trattazione dello ius dicere, con cui si apre il capitolo, come del
breve accenno alla religio, con cui si chiude. Per l’indipendenza della correctio morum dalla censura, nell’ottica di Svetonio, cfr. Suet. Tib. 33.2; 42.3: Tiberio non fu mai censore.
21 Suet. Dom. 8.4-5 cit.; Cass. Dio 67.3.3? (Xiphil. 218.17 ss.):
67.3.4!. La redazione geronimiana del Chronicon eusebiano ricorda la condanna nel terzo anno del principato, 82-83 (Hier. chron. 190 Helm); la redazione armena la colloca invece nel secondo, 81-82 (217 K.). L'assenza
del principe da Roma per la guerra contro i Chatti, dalla primavera alla tarda estate dell’83 (secondo un’ipotesi del BRAUNERT ripresa ora da J.K. Evans, The Dating of Domitian's War against the Chatti Again, Historia 24, 1975, 121 ss.), o già dalla primavera dell’82 all’estate dell’83 (come ha proposto, in modo meno convincente, B.W. JONES, The Dating of Domitian's War Against the Chatti, Historia 22, 1973, 79 ss.) dovrebbe co-
munque fare escludere 1’83, se non si vogliono collocare denuncia, inchiesta e procedimento nel difficile periodo di preparazione della guerra (accogliendo la cronologia dal BRAUNERT), 0 comprimerli nel solo mese di settembre. Un momento anteriore alla campagna germanica è suggerito anche dalla collocazione dell’episodio nell’epitome di Xifilino. La data dell’Eusebio armeno
è ripresa dal WEYNAND,
RE VI 2, 1909, 2555; incerti fra
169
potestä censoria, assunta agli iinizi dell'85 e divenuta perpetua alla fine di quell'anno?^, possono essere ricondotti i provvedimenti di epurazione di un senatore, allontanato dalla curia quod gesticulandi saltandique studio teneretur, e di un cavaliere, rimosso dall’albo dei giurati per avere ripreso con sé la moglie dopo averla accusata di adulterio??. Ad un atto normativo imperiale, verosimilmente anche in questo caso un editto, va attribuita la rinascita della lex Iulia de adulteriis, che Marziale celebra nel sesto libro „gegli Epigrammi, edito nell'estate o nell’autunno del 90°4. L’editto avrà contenuto anche la disposizione, ricordata da Svetonio, per cui probrosis feminis lecticae usum ademit iusque capiendi legata hereditatesque: la norma esaspera infatti il regime dell’incapacità successoria introdotto dalla legislazione augustea come incentivo ai matrimoni, e ne fa un mezzo di pressione contro manifestazioni del costume femminile, soprattutto ma non esclusivamento sessuale, che il principe intende reprimere?. L'inasprimento nella persecuzione de-
1°82 e1’83 il GSELL, Essai, cit., 80,
e CORRADI, DE II 3. 1922, 2014; col-
loca il processo fra l'ottobre 82 e gli inizi della guerra, che pone nell'estate dell’83, il JANSSEN, C. Suetonii Tranquilli, Vita Domitiani, 44; infine, riferisce il processo all’83 A. GARZETTI, L’impero da Tiberio agli Antonini, 1909, 289. 2 Sopra, n. 14.
23 Suet. Dom. 8.4, cit., Cass. Dio 67.13.1 (Xiphil. 222.31 ss.) riferisce
senz'altro all'attività censoria l'intervento nei confronti del senatore, Caecilius Rufinus, un questorio di cui non sappiamo nulla (PIR? C 73): £npa£e δέ τι xai ὡς τιμητὴς ἀξιόλογον' Καικίλιον γὰρ ‘Povgivov ἀπήλασεν ἐκ τοῦ συνεδρίου cfr. F. DE MARTINO, Storia della Costituzione romana,
4.12, 1974, 560 n. 37. La cancellazione del cavaliere dalle liste dei giurati potrebbe essere anche una conseguenza dell’inspectio esercitata dal principe durante la transvectio annuale, senza alcun collegamento con i poteri censori: DE MARTINO, ivi, 542, n. 79; cfr. 537 ss. 24 Mart. 6.2; 7; cfr. 4; 22; 91, da leggere con il commento del FRIED-
LÄNDER. La cronologia é quella proposta dal FRIEDLÄNDER 57 s. L’accenno ad un matrimonium legis causa, in Mart. 5.75, sembra invece spie-
garsi con una generica allusione alle leggi matrimoniali augustee. L’intervento sui costumi familiari lascia intravvedere una preminenza dei problemi di politica interna nelle prospettive del gruppo dirigente domizianeo, alla fine dell’89, quando il trionfo sui Chatti e sui Daci sembrava avesse allontanato le minacce più incombenti, alle frontiere. 25 Suet. Dom. 8.4, cit., La categoria delle feminae probrosae era stata costruita dalla legislazione augustea, a diversi fini; tra l'altro, la lex Iulia de adulteriis aveva probabilmente formulato un elenco di situazioni alle quali ricollegava quella qualifica, nel definire quali fossero le donne in
170
gli adulterii, promosso dall’editto, ha lasciato una traccia nell’accusa della tradizione senatoria, confluita in Dione
Cassio, secondo la quale Domiziano avrebbe colpito le fa-
miglie dei ricchi, punendo ἐπὶ μοιχείᾳ uomini e donne?9, A
decisioni di carattere giurisdizionale, non databili, va riferita
la notizia svetoniana di condanne pronunciate in applicazione dell’antica Lex Scantinia, che aveva represso lo stuprum
in virum?’. Alla fine del 90 o nel corso del 91 si celebra il
processo contro la Vestale massima Cornelia, accusata di incesto; riconosciuta colpevole, la Vestale è condannata dal
principe, pontificis maximi
iure, a subire la pena more
veteri, seppellita viva nel campus Sceleratus??. L'impressio-
quas stuprum non committitur. Le leggi matrimoniali, integrate piü tardi da un senatoconsulto, avevano vietato a tali donne il matrimonio con i mem-
bri dell'ordine senatorio in alcuni casi, con tutti gli ingenui (ma non con i libertini) in altri; nello stesso tempo,
sembra che avessero fissato ad un :
quarto la loro capacità successoria quando fossero lecitamente coniugate. Rifiutando ad esse ogni capacità a succedere, Domiziano rende piü onerosa la loro condizione, ma non rafforza il sistema delle leggi matrimoniali, in quanto elimina l’incentivo al matrimonio che la femina probrosa trovava nel riconoscimento di una sia pur limitata capacità successoria; piuttosto, il principe si muove nell'ottica della /ex Iulia de adulteriis, e tende a reprimere i comportamenti che determinano la turpitudine, rendendo piü onerosa la sanzione. Un'ampia ricostruzione della disciplina augustea e delle innovazioni domizianee è ora in R. ASTOLFI, La lex Iulia et Papia, 1970, 133 ss., in particolare 140 ss.
26 Cass. Dio 67.12.1 (Xiphil. 221.28 ss.). La notizia in Xifilino & in stretta connessione col ricordo del consolato di M. Ulpius Traianus e M. Acilius Glabrio, nel 91, e rimanda quindi al periodo immediatamente
successivo alla rinascita della lex Julia de adulteriis.
27 Suet. Dom. 8.4, cit.: quosdam ex utroque ordine lege Scantinia con-
demnavit. Il carattere giurisdizionale dei provvedimenti è affermato recisamente dal biografo; cfr. DE MARTINO, Storia, cit., 506 n. 49. La storia della repressione della omosessualità maschile, e lege Sca(n)tinia, è tracciata
da W. KUNKEL, Untersuchungen zur Entwicklung des ròm. Kriminalverfahrens in vorsullanischer Zeit, 1962, 72 s. e n. 275. La legge risalirebbe a metà del II secolo a.C. BERGER, RE Suppl. 7, 1940, 411, Lex Scatinia. 28 Suet. Dom. 8.4-5, cit.; Plin. epist. 4.11, e il commento di A. N.
SHERWIN-WHITE, The Letters of Pliny, 1966, 280 ss. Nella redazione geronimiana il Chronicon eusebiano (Hier. chron. 191 [Helm]), colloca il processo e l’esecuzione nell’undicesimo anno di Domiziano, 1 ottobre 9030 settembre 91, dopo avere ricordato il trionfo sui Daci e sui Chatti alla fine dell’anno precedente; nellä redazione armena, 217 K., l'episodio è at-
tribuito al decimo anno del principe, 2106 di Abramo, e precede graficamente la notizia del trionfo. Propende per una datazione alla fine dell’89 il CORRADI,
DE
II, 3, 2014 s., riprendendo l’opinione del GSELL;
difende
171
ne enorme che provoca il ritorno al rituale arcaico, con tanto inesorabile zelo voluto dal principe dopo una sospensione plurisecolare, lascerä ancora una traccia profonda, anni piü tardi, in una celebre lettera di Plinio il giovane. Negli ultimi tempi del principato si colloca infine un provvedimento imperiale diretto a reprimere la prostituzione infantile dei maschi: ricordato da Marziale nel nono libro degli Epigrammi, è probabile che anche esso abbia assunto la forma di un editto, sebbene non possa del tutto escludersi l’ipotesi di un gruppo di mandati?” II. L'ideologia del princeps pudicus Probabilmente l’editto sulla castrazione suggeriva già attraverso le sue motivazioni ufficiali una lettura che ne ponesse in evidenza la destinazione alla correctio morum. In ogni caso, questa interpretazione appare diffusa, alla fine degli anni 80, nell’ambito del gruppo dirigente domizianeo, se Marziale e Stazio possono riprenderla e rielaborarla in componimenti encomiastici ai quali le esigenze stesse del genere letterario avranno imposto una stretta aderenza agli indirizzi della propaganda imperiale. Così nel sesto libro degli Epigrammi, apparso nel 90, Marziale associa l’editto,
invece il riferimento del Chronicon geronimiano il WEYNAND,
RE VI 2,
1909, 2573 s., seguito dal GARZETTI, L'impero da Tiberio agli Antonini, cit., 289. In realtà, la cronaca armena sembra manifestamente in errore nel
proporre l’anteriorità del processo rispetto al trionfo: Domiziano fu lontano da Roma per buona parte del 90, né è verosimile il processo alla fine dell’89 quando già era in atto la seconda campagna dacica e il principe si apprestava a raggiungere il fronte delle operazioni. Per gli aspetti formali del procedimento, E. GUIZZI, Aspetti giuridici del sacerdozio romano, 1968, 141 ss., in particolare 156 n. 8. L’ultima esecuzione secondo il rituale arcaico risaliva alla fine del II secolo a.C.: G. DE SANCTIS, Storia dei
Romani 4.2.1, 1953, 322 s. Nell’82 il principe aveva lasciato alle colpevoli liberum mortis... arbitrium.
29 Mart. 9.5(6); 7 (8). La pubblicazione del nono libro degli ‘Epigram-
mi’ fu riferita dal FRIEDLANDER, 61 s., al 94; andrebbe invece posticipata
alla primavera del 95 secondo R. HANSLIK, Die neuen Fastenfragmente von Ostia in ihrer Bezihbung zu gleichzeitigem epigraphischem und literarischem Material, WS
63, 1948, 124 ss. in relazione ai nuovi dati che 1 fa-
sti ostiensi hanno offerto per ricostruire la carriera di A. Bucius Lappius Maximus, che lo HANSLIK identifica col Norbanus ricordato in Mart. 9.54 (ma cfr. in senso diverso PIR L 84; W. Eck, Lappius, RE Suppl. 14, 1974, 219 ss.).
172
oramai in vigore da tempo, alle norme che richiamano in vita la lex Iulia de adulteriis, e qualche anno più tardi, nel nono libro, ricongiunge nella lode del princeps pudicus quei provvedimenti ai nuovi che ora avviano la lotta alla prostituzione degli infanti??. Allo stesso modo, nel 90, il carme di Stazio per l’apertura della via Domitiana riassume emblematicamente nel divieto di castrazione tutta la legislazione sui costumi emanata negli anni dal principe censor^!. Nel carme per la chioma di Flavio Earino la correctio morum esercitata attraverso il divieto della castrazione & ricondotta alla pulchra clementia ducis. La clemenza, la virtü imperiale che tempera la potestas ulciscendi nella definizione senechiana, viene ora assunta da Stazio a motivare l'editto
sugli eunuchi e, con esso, più in generale, tutta l'attività nor-
mativa attinente alla disciplina dei costumi??. Nelle disposi-
9? Mart. 6.2: Lusus erat sacrae conubia falere taedae,/lusus et immeritos execuisse mares,/utraque tu prohibes, Caesar, populisque futuris/succurris, nasci quod sine fraude iubes; Mart. 9. 5(6): Tibi, summe Rheni domitor et parens orbis,/pudice princeps, gratias agunt urbes;/populos habebunt; parere iam scelus non est,/non puer avari sectus arte mangonis/virilitatis damna maeret ereptae,/nec quam superbus computet stipem leno/dat prostituto misera mater infanti. Cfr. Mart. 9. 7(8). Per la datazione sopra n. 24; n. 29. Singolarmente, in un recentissimo articolo E. SzELEsT, Domi-
tian und Martial, Eos 62, 1974, 105 ss. ha proposto di vedere in alcuni di questi componimenti del sesto libro (Mart. 6.7; 45) una improbabile polemica contro la moralizzazione domizianea.
?! Stat. silv. 4.3.9 ss.: qui limina bellicosa Ianiliustis legibus et foro
coronat, ... quis fortem vetat interire sexumlet censor prohibet mares adultos/pulchrae supplicium timere formae. Il poema fu composto nei primi mesi del 95: H. FRERE, in Stace, Silves, cit., XXIV e 142, n. 1.
Gli editti sulla viticultura e sulla castrazione sono assunti a simbolo di tutta l'attività normativa del principe. Nell'associazione alle /eges il riferimento alla censura smarrisce ogni significato tecnico-giuridico (il censore non aveva mai svolto attività normativa) per acquistare invece il valore di una connotazione etica. Nello stesso senso il termine si ritrova di frequente in Marziale: Mart. 6.4; 91 etc. Naturalmente, la rilevanza della censura co-
me strumento di pressione sui comportamenti, nella pratica di governo flavia, favorisce l’uso traslato del vocabolo.
32 Stat. silv. 3.4.73: nondum pulchra ducis clementia coeperat ortulintactos servare mares; nunc frangere sexum/atque hominem mutare nefas, gavisaque solos/quos genuit natura videt, nec lege sinistra/ferre timent famulae natorum pondera matres. Per la datazione (fra la metà del 93 e la fine del 94) H. FRERE, in: Stace, Silves, cit., XXIII e 121 nt. 1; cfr. R.R. HANSLIK, fragmente, cit., 128 s. (autunno del 93).
Die neuen Fasten-
173
zioni che intervengono a servare mares, a proibire pulchrae supplicium... formae, il poeta riconosce cioè quella stessa capacità salvifica che, più di frequente, è attribuita alla giurisdizione di un principe virtuoso. Le Silvae trovano così accenti patetici nel celebrare le leggi che ridanno serenità alle gestanti e permettono loro di guardare con serenità alla procreazione: ... nec lege sinistra / ferre timent famulae natorum
pondera matres. Toni non diversi hanno gli Epigrammi nel ricordo dei teneri ephebi, degli immeriti mares che il principe sottrae ai tormenti di una saeva libido, anche se in Marziale il riferimento alla clementia resta implicito, appena accennato nell'uso frequente del termine succurrere. Nell'ottica dei suoi apologeti la clementia domizianea non si esaurisce comunque nella tutela dei neonati o degli efebi, ha una dimensione ben piü ampia di quegli episodi, per quanto rilevanti essi siano: con i suoi interventi in realtà il principe restituisce alla natura l'assetto che le & proprio, sicché, rileva Stazio, ... gavisa... solos quos genuit natura vidit. In quanto restauratrice e garante dell'ordine biologico della natura, la clemenza acquista in Marziale i connotati della paternità: non tulit Ausonius talia monstra pater, / idem qui teneris nuper succurrit ephebis. La repressione della saeva libido, Veliminazione della fraus dai rapporti familiari, il richiamo della pudicitia fra le pareti domestiche costituiscono altrettante manifestazioni della paternità universale del principe, in quanto conferiscono alle comunità dell'impero la sicurezza del proprio futuro: ... populos habebunt; parere iam scelus non est. Parens orbis, Domiziano allontana con i
suoi provvedimenti lo spettro dell'estinzione demografica dalle città, riversa sul mondo intero i benefici delle sue facol-
tà rigeneratrici, soccorre le generazioni venture??. Nella corIl concetto di clementia nella Tebaide & stato analizzato da D. W.T.C. VESSEY, Statius and the Thebaid, 1973, 308 ss. Nella Tebaide tuttavia la
virtù è riferita ad attività coercitive, secondo l'uso di gran lunga prevalente. Temperantia animi in potestate ulciscendi vel lenitas superioris adversus inferiorem in constituendis poenis è la ben nota definizione senechiana, Sen. clem. 2.3.1. Su di essa, e più in generale sulla riflessione sene-
chiana intorno a questo tema, TRAUTE ADAM, Clementia principis, 1970, soprattutto 31 ss., 53 ss. La clementia nell’ideologia dei Flavi è analizzata da L. WICKERT, RE XXII 2, 1954, 2242 Princeps.
33 La paternità del principe è motivo che ritorna insistente anche in
Stazio, sebbene in contesti non riferibili alla correctio morum. Per il rilievo della categoria nell'ideologia domizianea, e le sue implicazioni religio-
174
rectio morum la paternitä imperiale si manifesta come pudor, come riserbo nei confronti dell’ordine inerente alla struttura biologica dell’individuo, un riserbo che & imposto d’altra parte dalle stesse esigenze di sopravvivenza dei popoli e delle città. In quanto partecipa della clementia, il pudor si fa nel principe virtü attiva, si traduce in modelli di comportamento
imposti coattivamente, se necessario”.
La correctio morum si motiva dunque, nell’ideologia sottesa alle celebrazioni di Marziale e di Stazio, con l’impegno del principe a restaurare l’ordine naturale nei rapporti umani ed a tutelarlo nei confronti della libido, di quell’arbitrio cioè che mette in pericolo la sopravvivenza e la perpetuazione dei singoli non meno che dei gruppi umani; Stazio pone l’accento soprattutto sui destini individuali, Marziale su quelli collettivi. La rilevanza politica dei costumi privati, lo stretto nesso intercorrente fra atteggiamenti individuali e prosperità comune erano stati d’altra parte motivi ricorrenti già nella pubblicistica repubblicana, sin dall’età delle guerre puniche. Più tardi il moralismo augusteo aveva sottolineato gli elementi di stabilità e di continuità che ad un assetto politico fondato sul predominio dei ceti abbienti romano-italici avrebbero dovuto offrire la famiglia, il matrimonio, la procreazione”, L'esperienza au-
se, è ancora molto utile F. SALTER, Der ròm. Kaiserkult bei Martial und
Statius, 1934, 28 ss.; cfr., per l’omen di fecondità garantito dal pater augustissimus, D.W.T.C.
VESSEY,
Statius to Julius Menecrates, AC
43, 1974,
257 ss. Nei suoi profili generali il motivo della paternità nella pubblicistica romana è studiato da A. ALFÒLDI, negli articoli ora raccolti in: Der Vater
des Vaterlandes im ròm. Denken, 1971; per la dimensione cosmica della paternità imperiale 122 ss. Cfr. anche H. TEMPORINI, Die Frauen am Hofe Trajans. Ein Beitrag zur Stellung der Augustae im Principat, 1978, 61 ss. su Augusta mater patriae in corrispondenza a Augustus pater patriae da Augusto ai Severi.
34 L'analisi del pudor (della pudicitia) è trascurata nelle ricerche sul-
l’ideologia imperiale: L. WICKERT lo omette nell’elenco di virtutes che richiama per illustrare il Tugendkanon del principe: RE XXII 2, cit., 2231. In riferimento al linguaggio politico tardo-repubblicano un rapido cenno è in J. HELLEGOURCH, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la république, 1963, 283.
35 La disciplina matrimoniale augustea è stata analizzata di recente
nelle sue prospettive politiche da P.A. BRUNT, Italian Manpower, 1971, 558 ss., che ne ha sottolineato il carattere censitario. Per gli aspetti più strettamente tecnico-giuridici cfr. R. ASTOLFI, La lex Iulia et Papia, cit. (cfr. anche L. RADITSA, Augustus’ Legislation Concerning Marriage, Love Affairs and Adultery, ANRW II 13).
175
gustea è certo presente alla riflessione ideologica non meno che alla prassi domizianea, in un rapporto che permette tra l’altro anche il recupero della lex Iulia de adulteriis. Ma i termini nei quali è compiuto il ripristino della legge sembrano accentuare, si è visto, la repressione del probrum anche ai danni dell’incentivazione dei matrimoni; nella lettura di
Marziale poi la lex Iulia rinasce per tutti i popoli, con una connotazione ecumenica che certo era estranea al suo disegno originario. Probabilmente Marziale va in questo caso oltre il dettato dell’editto che richiama in vigore le norme augustee, e ne estende arbitrariamente l’ambito di applicazione, in analogia agli altri editti che vietano la castrazione e
la prostituzione infantile. Comunque, la lettura proposta dagli ‘Epigrammi’ sottolinea efficacemente la distanza che separa il moralismo augusteo da questo domizianeo, nella stessa considerazione dei poeti di corte. L'incremento demografico del populus Romanus non è più, di per sé solo, un valo-
re; la perpetuazione è riconosciuta necessaria per tutti i gruppi umani, indipendentemente dalla posizione di ciascuno all'interno dell’organizzazione politica generale, in quanto viene dedotta dalla stessa struttura biologica dell'uomo, ed è assunta come un dato naturale, che il principe riconosce e tutela, perché il mondo affidato alle sue cure non sia intima-
mente contradittorio. I provvedimenti domizianei si estendono alle civitates peregrinorum, nell'impero; per di piü, essi investono anche gli strati sociali più umili, rimasti ai margini della politica demografica augustea, quegli strati in cui si reclutano gli infanti per la prostituzione, e che forniscono 1
fanciulli al mercato degli eunuchi?®; si spingono fino a difendere l’aspettativa alla procreazione dello schiavo, non ostante lo sfavore con cui di solito il gruppo dirigente flavio guarda alla condizione servile?’. Tutti, anche gli schiavi, suggerisce Marziale nel quinto epigramma del nono libro,
36 La pratica dell’esposizione dei neonati crea di fatto un ampio varco nella barriera che separa i liberi dagli schiavi, ed alimenta in modo significativo il ceto servile, nell’Italia della tarda repubblica del principato: P.A. BRUNT, Italian Manpower, cit., 148 ss.; cfr. anche, per un’analisi generale del fenomeno, W.L. WESTERMANN,
The Slave Systems, cit., 86; 118 per la
destinazione degli schiavi alla prostituzione. 37 Cfr. G. CORRADI, DE II, 3.2013, Domitianus, cit., W.L. WESTERMANN, The Slave Systems, cit., 114, per il divieto di insegnare agli schiavi la medicina.
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concorrono a formare i popoli, le città, e meritano pertanto l’attenzione del princeps pudicus. Le diversità di temperamento e di formazione, come le differenze dei generi letterari praticati, non incrinano la sostanziale omogeneità del discorso ideologico che Marziale e Stazio sviluppano nel motivare la correctio morum. La formulazione degli atti imperiali può avere contribuito in certa misura allo sviluppo parallelo dell’elaborazione celebrativa, predeterminando i temi che i due poeti riprendono ed articolano?8. Comunque, quei temi rispondono a concezioni diffuse, nei circoli colti della Roma dei Flavi. Una riproposizione più organica di questo moralismo naturalistico si ritrova così in un lungo excursus del quinto libro dell Institutio quintilianea, nel confronto fra le declamationes ... ad solam composi-
tae voluptatem, e le formae puerorum che i mercanti di
schiavi ... virilitate excisa lenocinantur??. Polemizzando con-
tro l’oratoria edonistica, Quintiliano cacia il tema del carattere innaturale cipiorum negotiatores considerano, pregio quae natura proprie maribus
svolge con grande effidella castrazione. I manegli avverte, di scarso dedit, ma il modo in cui
essi intervengono sui fanciulli offende in realtà il carattere provvidenziale dell'assetto naturale, crea un monstrum: ... mihi naturam intuenti nemo non vir spadone formosior erit,
nec tam aversa umquam videbitur ab opere suo providentia ut debilitas inter optima inventa sit, nec id ferro speciosum fieri putabo quod si nasceretur monstrum erat. Solo la libido può compiacersi di un inganno che produce cose di alto prezzo, ma non le rende migliori: libidinem iuvet ipsum effeminati sexus mendacium, numquam tamen hoc continget malis moribus regnum, ut si qua pretiosa fecit fecerit et bona.
38 Anche se non va esclusa, naturalmente, la possibilità di un’influenza reciproca fra i due autori: per i loro rapporti, e per gli scambi di temi e motivi, F. DELARUE,
Stace et ses contemporains, Latomus 33, 1974, 539
ss. La posizione subalterna, sostanzialmente passiva, dei poeti domizianei nei confronti della politica (e dell’ideologia) Imperiale, è stata già rilevata da H. BARDON, Les Empereurs et les lettres Latines d’ Auguste à Hadrien, 1940, 313; cfr. ora A.J. GOSSAGE, Statius, in Neronians and Flavians, 1972, 208 ss.
39 Quint. inst. 5.12.17-19. La stesura dell'opera & attribuita agli anni
93-96 da I. LANA, Quando fu scritta l'Institutio oratoria di Quintiliano, in AAT 85, 1950-51, e piü di recente da M.L. CLARKE, Quintilian: a Biographical Sketch, G&R 36, 1967, 33 s.; è anticipata al periodo 92-94 (o 95) da G. KENNEDY, Quintilian, 1969, 28 ss.
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Scritta negli stessi anni in cui Marziale e Stazio levano piü alte le lodi al principe censore ed alla sua attivitä moralizzatrice, l’Institutio tace dei provvedimenti che si susseguono da un decennio e più, proprio nella direzione auspicata dal suo autore, perché sia sottratto ogni spazio ai mali mores. Fattori diversi avranno determinato una così singolare omissione. Quintiliano è spesso poco informato sulle modifiche apportate all’ordinamento, forse per scarso interesse alle nuove norme; i suoi riferimenti appaiono talora
leggermente anacronistici*. Questa disattenzione, e più in generale l’atteggiamento di distacco dai problemi politici del momento possono avere indotto il retore a non dare rilievo alla correctio morum domizianea, non ostante la con-
sonanza con le motivazioni di quei provvedimenti”. Certo,
la pagina quintilianea non può essere ricondotta ad una diretta suggestione degli editti imperiali, ed esclude, nel suo silenzio, ogni intento encomiastico. Proprio per ciò, tuttavia, essa costituisce un documento significativo di un modo di sentire comune fra gli uomini di cultura del nuovo ceto di governo flavio, ai quali l’Institutio si propone, e fra i quali trova il suo pubblico; lascia intuire quanto ampia risonanza abbia trovato in quegli ambienti il moralismo imperiale, e ne attesta allo stesso tempo la rispondenza ad aspettative diffuse. 40 Così in Quint. inst. 8.5.19 non sembra tenere conto delle modifiche domizianee al sistema delle leggi matrimoniali augustee: R. ASTOLFI, La lex Iulia et Papia, cit., 154 ss. In Quint. inst. 4.2.69 lo stuprum in virum non è punito e lege Scatinia, non ostante la riesumazione domizianea di
quell’antica norma (n. 27), ma con una pena pecuniaria che il KUNKEL, Untersuchungen, cit., 73 n. 75, ritiene «eine rhetorische Fiktion». 41 Domiziano è ricordato esplicitamente solo due volte, nelle Institu-
tiones. Nel prohoemium dei quarto libro (2-3) Quintiliano accenna, come è noto, all’incarico di curare l’educazione dei figli di Flavio Clemente, intervenuto durante la stesura dell’opera, ed inserisce una rapida lode del principe sanctissimus censor... in eloquentia quoque eminentissimus... studiis propitium numen (Quint. inst. 4. pr. 3). La celebrazione è molto più enfatica ed adulatoria nel decimo libro (Quint. inst. 10.1.91-92) dove peró si riferisce esclusivamente all'attività letteraria giovanile del principe. Questo Scarso interesse per l'azione di governo non significa tuttavia disimpegno, né tanto meno nasce da un atteggiamento di fronda nei confronti dell’ultimo dei Flavi. I rapporti fra concezioni politiche e dottrine retoriche nelle Institutiones sono stati analizzati da G. KENNEDY, An Estimate of Quintilian, AJPh 83, 1962, 130 ss., che riprende i risultati di quel lavoro in Quintilian, cit., 55 ss.; cfr. R. SYME, Tacitus, cit., 114 s.
178
III. Il moralismo nella politica di Vespasiano e di Tito La moralizzazione dei costumi è motivo ricorrente nella propaganda flavia, sin dagli inizi della dinastia. Il regime vespasianeo si propone come portatore di un sistema di valori in cui le oligarchie municipali, giunte con la nuova dinastia al governo dell’impero, possono facilmente riconoscere i propri canoni ideali di comportamento. La polemica contro i costumi praticati dai ceti egemoni in età giulio-claudia, la denuncia di uno stile di vita per cui nihil utique homini sic quomodo naturae placet ispirano, come è noto, molte pagine della Naturalis Historia pliniana, in una prospettiva che assume come parametri di giudizio il rifiuto della Zibido e del luxus ad essa strettamente associato, la fedeltà ai modelli del tradizionalismo italico. È assai probabile che con animo non diverso Plinio rievocasse le vicende dei nobiles nei libri a fine Aufidii Bassi: una suggestione pliniana può forse rintracciarsi ancora nel profilo di storia del luxus disegnato da Tacito nel terzo libro degli Annales, in un contesto che tuttavia restava certamente fuori della
narrazione pliniana*, Commentando i tentativi di porre un fre-
42 ἢ lusso nelle imbandigioni, da cui muove Tacito nella sua analisi, è
denunciato da Plinio in un passo ben noto, Plin. nar. 19. 52-56, in cui tuttavia il fenomeno é avvertito come ancora attuale; ma in Plin. nat. 9.67 si ri-
sale al principato di Caligola per un caso celebre di prodigalità gastronomica, e in età giulio-claudia si collocano per lo piü gli aneddoti che illustrano la polemica contro l'ostentazione delle ricchezze, lo sperpero, gli artifici imposti da un costume che si compiace di stravolgere la natura: Plin. nat. 9.117-118; 14.56; 33. 140, 145; 35.3; cfr. R.E. NEWBOLD, Social Tension at
Rome n. 72. l'altro lusso
in the early Years of Tiberius! Reign, Athenaeum 52, 1974, 130 ss. e Una registrazione critica dei prezzi raggiunti dagli schiavi e tra dagli spadones & in Plin. nat. 7.128 s. Per 1 tentativi di controllo del e le polemiche da essi sollevate vedi D. NÖRR, Rechtskritik in der
römischen Antike, in Bayr. Akad. d. Wiss., Phil.-hist. Kl., 77, 1974, 73 ss.
Naturalmente, degli episodi ricordati nella Naturalis Historia solo quelli che si collocano in età di Claudio e di Nerone potranno essere stati narrati anche nei libri a fine Aufidii Bassi. Al tema di Vespasiano restauratore dello stato la Naturalis Historia fa rapidamente cenno in 2.18, senza peró un riferimento puntuale ai costumi: Vespasianus Augustus fessis rebus subveniens. la prospettiva ‘borghese’, equestre, che sorregge la storiografia pliniana è sottolineata in rapide ma suggestive notazioni da S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.23, 1973, 81, 118. I rapporti fra l’opera storica di Plinio e gli Annali sono stati attentamente indagati da C. QUESTA, Studi sulle fonti degli Annales di Tacito?, 1963, 175 ss., che esclude per Plinio la funzione di «bacino collettore della tradizione storica sull’età di Nerone», ma ne riconosce la profonda influenza sulla vulgata.
179
no al dilagare del lusso in età tiberiana, Tacito sottolinea come una profonda frattura separi l’etica di ceto della nobiltà giulioclaudia dai modelli di comportamento dell’aristocrazia flavia. In un’analisi singolare per il suo taglio schematizzante, 'sociologico’, gli Annales riconoscono nelle guerre civili e nell’avvento della nuova dinastia una vera rivoluzione del costume,
protagonisti gli homines novi e municipiis et coloniis?. Fedeli alla domestica parsimonia pur nella mutata fortuna, i personaggi allora emersi ai vertici dell'organizzazione politica avrebbero reintrodotto nella vita quotidiana dell'Urbe virtù antiche, conservatesi inalterate presso le aristocrazie municipali. Riprendendo un motivo che si può già ritrovare in Plinio, Tacito individua l’avvio alla trasformazione, l’inizio dell’inversione
di tendenza nel principato di Vespasiano, antiquo ipse cultu victuque; non senza un'implicita polemica verso i modi del correctio morum domizianea, lo storico sottolinea come obse-
quium in principem et aemulandi amor si dimostrassero allora più efficaci di ogni intervento repressivo. Il rilievo della disgregazione morale che aveva preceduto l'avvento di Vespasiano ritorna anche nella biografia svetoniana, alla quale sarà pervenuto dalla stessa fonte filovespasianea riconoscibile in Tacito, direttamente o attraverso la mediazione degli Annali^^. Questa
43 Tac. ann. 3.55, da leggere con il commento di E. KÓSTERMANN, Tacitus, Annalen 1,1963, 525 ss.
in:
L'idea di un ciclo economico secolare (/uxusque mensae a fine Actiaci belli ad ea arma, quis Servius Galba rerum adeptus est, per annos centum
profusis sumptibus exerciti. [Tac. ann. 3.55]), connotato dal luxus senatorio, è avvicinata dal MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.23, cit., 80 ss., al-
la intelligenza dei fenomeni economici e sociali in Plinio il vecchio e ricondotta, più in generale alle esperienze maturate attraverso la ‘rivoluzione’ borghese di età flavia; cfr. L'impero romano, in: G. GIANNELLI-S. MAZZARINO, Trattato di Storia Romana 22, 1962, 139 ss. La periodizzazione tacitiana era
stata già ripresa da L. FRIEDLANDER, Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms, 1922, 284 s., nell’ottica riduttiva di una storia del lusso.
44 Suet. Vesp. 11: libido atque luxuria coercente nullo invaluerat; auctor senatui fuit decernendi ut quae se alieno servo iunxisset ancilla haberetur; neve filiorum familiarum faeneratoribus exigendi crediti ius umquam esset; cfr. 12.1: ceteris in rebus statim ab initio principatus usque ad exitum civilis et clemens, mediocritatem pristinam neque dissimulavit umquam ac frequenter etiam prae se tulit. L’utilizzazione nella biografia di una pluralità di fonti, e la difficoltà di provare l'eventuale dipendenza da Tacito sono poste in evidenza dal SYME, Tacitus, cit., 502, 781 s. L'età neroniana è già connotata dall'esplosione della libido e della luxuria nel lungo monologo di Seneca nell’ Octavia, in particolare 427 ss.
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pubblicistica flavia si appunta soprattutto contro uomini e idee di etä neroniana, e raccoglie e consolida l’annedotica scandalistica che più tardi sarà ripresa, in tutt’altra prospettiva, da talune satire di Giovenale; ma risale anche indietro nel tempo, ai
predecessori di Nerone, e perfino ad Augusto, di cui rileva i li-
miti nella legislazione matrimoniale. La critica si indirizza
con virulenza soprattutto contro le manifestazioni di prodigalità, le spese improduttive, alle quali si contrappongono i criteri di saggia ed oculata amministrazione dei nuovi potentes. Ma libido e luxus appaiono strettamente interconnessi, nella polemica, secondo un modulo comune nella moralistica del primo secolo (lo si incontra fra l’altro in Valerio Massimo9). Nella descrizione svetoniana (e già nella fonte del biografo, verosimilmente) l'età di Nerone è quella in cui libido atque luxuria coercente nullo invaluerat, e gli atteggiamenti ‘neroniani’ di Tito, durante la correggenza col padre, si caratterizzano tra l'altro per la luxuria e la libido di cui il giovane principe dà prova. In modo meno esplicito la Naturalis Historia pliniana aveva sottolineato l’interdipendenza fra luxus e libido, fra l'altro nella denuncia dei prezzi raggiunti dagli spadones, in età tiberiana. Il recupero flavio dei valori tradizionali non si esaurisce pertanto in una contrapposizione di modelli economici, ma investe i comportamenti familiari e sociali del ceto di governo, si organizza in un'ideologia dell'austerità che celebra Vespasiano come praecipuus adstricti moris auctor.
Vespasiano tuttavia aveva evitato di tradurre in una organica disciplina dei costumi gli incentivi al ripristino dell'antiquus cultus victusque, o la dissuasione dai comportamenti che gli sembravano aberranti. La vita svetoniana dedica una rubrica alle iniziative moralizzatrici del principe; ma l’attenta ricerca del biografo riesce ad individuare appena due atti normativi da riferire a quel titolo, mentre lascia del tutto sot-
^5 Cosi in Quint. inst. 8.5.19, dove l’ironia investe proprio il sistema della disciplina matrimoniale augustea, sotto questo profilo corretta poi da Domiziano:
D. NÖRR,
Reclitskritik in der röm. Antike, cit., 77 e n. 129.
Cfr. n. 40 per la singolare ignoranza, in questo passo, delle innovazioni di età flavia. 46 Val. Max. 9.1: de luxuria et libidine. Blandum etiam malum luxuria; iungatur illi libido, quoniam ex isdem vitiorum principiis oritur. La rubrica, piü tarda del testo, aderisce ad esso perfettamente. La valutazione della
luxuria come blandum malum riflette appieno un sentire comune nell’etä del luxus senatorio, prima del rovesciamento di prospettive flavio.
181
to silenzio, come poco significativa nell’ottica della moralizzazione, l’esercizio della censura. D’altra parte i due provvedimenti ricordati, due senatoconsulti, non sono né
originali nelle loro prescrizioni (riprendono principi già affermati da Claudio), né molto significativi per la disciplina dei costumi dell’aristocrazia senatoria. Uno dei due infatti, il
senatoconsulto che la tradizione giurisprudenziale chiama Macedonianum, ripropone gli ostacoli già frapposti da un plebiscito rogato da Claudio ai mutui a favore dei figli di famiglia”. L'altro senatoconsulto rende più gravi le sanzioni con cui un s.c. Claudianum aveva punito la donna libera quae se alieno servo iunxerit: un fenomeno che non può essere stato rilevante, negli strati più alti della società urbana, e per la sua rarità, e per le difficoltà dell’accertamento, in quell'ambito^*. Non per caso, esso resta ignoto alla pur ricca e articolata fenomenologia che della /ibido tracciano 1 moralist del primo secolo. Svetonio non ricorda invece il s.c. Pegasianum che, nel disciplinare 1 fedecommessi di eredità prevede, fra l'altro,
l'estensione ad essi delle incapacità già disposte dalle leggi augustee per 1’ acquisto di eredità e di legati, ai danni dei caelibes e degli orbi?. Restaurando la disciplina matrimo-
#7 Il s.c. è detto Macedonianum dal nome del protagonista dell'episodio che diede luogo all'intervento senatorio: fonti e bibliografia sono indicate in B. VOLTERRA, Novissimo Digesto Italiano 16, 1969, 1071, senatus
consulta n. 125. Il riferimento alla disciplina dei costumi puó essere stato suggerito a Svetonio da un'espressione del testo che ricorda in modo piuttosto generico, nella redazione conservata da Dig. 14.6.1, Ulp. libro vicensimo nono ad edictum, i mali mores ai quali il credito troppo facile offre materiam peccandi. 48 Il s.c. è ricordato solo da Svetonio, che attribuirebbe per errore a Vespasiano il provvedimento di Claudio. Secondo il VOLTERRA, Novissimo Digesto, cit., 1068. Ma già Th. MOMMSEN, Römisches Strafrecht, 1899, 854 n. 6 aveva ipotizzato un rinnovamento del s.c. Claudianum, che
ne rendesse più efficace la disciplina; cfr. ora il commento a Gaius inst. 1.84 di M. Davıp e H.L.W. NELSON, Gai Institutionum Commentarii IV, Kommentar 1, 1954, 105 s. ^? Il s.c. è noto solo attraverso la letteratura giuridica. Gaius inst. 2.254, e le Inst. Iust. 2.23.5 lo datano Pegaso et Pusione consulibus; ma la coppia consolare non é stata ancora ricollocata con precisione nei fasti, anche se oramai la si può attribuire ai primi anni del principato vespasianeo: infra nt. 57. L'estensione dell'incapacità successoria ai fedecommessi è studiata da P. VOCI, Diritto ereditario romano ASTOLFI, La lex Iulia et Papia, cit., 79 ss.
182
27, 1963, 346 ss.; cfr. R.
niale augustea, abbastanza facilmente aggirata nelle sue conseguenze patrimoniali dalla pratica dei fedecommessi, il senato vespasianeo colpiva in particolare i ceti abbienti, ai quali riproponeva implicitamente i canoni di morale familiare delineati dal primo principe. L’intervento doveva apparire sotto questo profilo tanto più incisivo in quanto qualche decennio innanzi il s.c. Trebellianum, intervenendo a regolare la successione fedecommissaria, ne aveva ignorato la collisione col regime matrimoniale augusteo. Il silenzio di Svetonio appare dunque singolare: forse, può spiegarsi ipotizzando una iniziativa in certa misura autonoma del magistrato che aveva richiesto il senatoconsulto, non riferibile imme-
diatamente a Vespasiano. L'iniziativa del console Pegaso lascia infatti intravvedere una linea e uno stile non del tutto omogenei, né per i mezzi, né per gli obiettivi, col sorridente
paternalismo di cui il principe ama fare mostra nel corrigere disciplinam. In realtà, il complesso equilibrio fra i gruppi che confluiscono nel partito flavio, durante il decennio vespasianeo,
doveva suggerire al vecchio imperatore estrema prudenza nel punire e nel reprimere. Muciano, l’artefice del successo flavio, come egli stesso affermava, raffinato e gaudente, non
nascondeva la sua insofferenza per il moralismo del principe; e Muciano in molti suoi atteggiamenti si proponeva come continuatore delle prospettive giulio-claudie, e costituiva un punto di riferimento per quanti nel gruppo dirigente del*„uppero volessero attenuare la cesura col regime preesisten°. All'interno stesso della famiglia imperiale Tito, parti-
La riduzione ad uno dei opera di Tito (Dig. 1.2.2.32, re una conseguenza indiretta forma di disposizione mortis
due pretori fedecommissari creati da Claudio, Pompon. libro singulari enchiridii), può essedel. s.c., che avrà ridotto l’interesse per questa causa, in certi ambienti della capitale.
50 L’impudicitia di C. Licinius Mucianus (PIR? L 216), ed i contrasti
che ne nascevano con Vespasiano sono ricordati da Suet. Vesp. 13.2. Nel profilo che ne traccia in hist. 1.10, anche Tacito ricorda Licinio ... luxuria industria, comitate adrogantia, malis bonisque artibus mixtus. Il vanto di avere donato l'impero a Vespasiano & in Tac. hist. 4.4.1. La posizione di Muciano nel partito flavio & analizzata da A. GARZETTI, L'impero da Tiberio agli Antonini, cit., 225, 239, 244 s., cfr. R. SYME, Tacitus, cit., 195, 212.
All'influenza di Muciano puó attribuirsi in parte il recupero di personalita neroniane, che il GARZETTI ha studiato in L. Cesennio Peto e la rivalutazione flaviana di personaggi neroniani, in Mélanges Piganiol 2, 1966, 777 ss., e piu di recent da E.D. MıLns, The Career of M. Aponius Saturninus,
183
ceps atque etiam tutor imperii, era ben lontano dal condividere l'austerità paterna: affine a Muciano per formazione culturale e gusti, qualunque fosse in atto lo stato dei loro rapporti, egli avrebbe lasciato nella tradizione il ricordo di una luxuria e di una libido che il „triennio di principato avrebbe riscattato, ma non cancellato?! Un documento significativo degli ostacoli fra i quali si afferma il moralismo flavio può forse rintracciarsi nel commento all’editto edilizio di Celio Sabino. Sabino era stato assai verosimilmente una figura di rilievo nel senato neroniano, durante gli ultimi anni del principato, e fra le più accette al principe, non ostante i legami con l’esule C. Cassio Longino, di cui era discepolo. Nel 68, Nerone lo aveva in-
fatti designato al consolato per l’anno successivo insieme a T. Flavio Sabino, figlio del prefetto di città dello stesso nome, e nipote di Vespasiano, allora legato in Giudea; e molti
elementi lasciano ritenere che nelle previsioni neroniane la coppia dei due Sabini dovesse ricoprire il consolato ordinario. Celio Sabino aveva poi rivestito il consolato nella primavera del 69, quando Othone aveva dato effetto alle designazioni di Nerone. Più tardi, aveva aderito al partito flavio, riacquistando ben presto influenza e prestigio??. Nel suo
Historia 22, 1973, 284 ss.; cfr. JA. CROOK,
Titus and Berenice, AJPh 72,
1951, 162 ss. L'espulsione dei filosofi stoici da Roma era attribuita alle insistenze di Muciano dalla tradizione confluita in Cass. Dio 65.13.18.
5! Svetonio sottolinea lo stile ‘neroniano’ dei comportamenti del prin-
cipe riprendendo,
afferma, opinioni diffuse in età flavia: Suet. Tir. 7.1:
praeter saevitiam suspecta in eo etiam luxuria; nec minus libido propter exoletorum et spadonum greges propterque insignem reginae Berenices amorem; denique propalam alium Neronem et opinabantur et praedicabant. Le affinità di Tito con Muciano sono rilevate da Tac. hist. 2.5.2: Titus .. natura atque arte compositus adliciendis etiam Muciani moribus; cfr. 74.1: Muciani animus nec Vespasiano alienus, et in Titum pronior; T1.1.
Naturalmente, questa consonanza non esclude la possibilità di contrasti come quelli ipotizzati dal CROOK, Titus and Berenice, cit., e più di recente da B.W. JONES, Preparation for the Principate, PP 26, 1971, 264 ss.: ma rifiuta ad essi ogni fondamento ideologico, li riduce a meri conflitti di po-
tere ai vertici del partito flavio. La formazione nobiliare, ‘neroniana’ di Tito, educato in aula con Britannico è sottolineata da A. GARZETTI, L'impero da Tiberio agli Antonini, cit., 269 s. cfr. R. SYME, Tacitus, cit., 509 s.
?? Origine, ambiente di formazione e carriera di Cn. Arulenus Caeliuis
Sabinus sono studiati da W. KUNKEL, Herkunft und soziale Stellung der röm. Juristen?, 1967, 131 ss. Un'eventuale parentela con il martire stoico
Q. Iunius Arulenus Rusticus (PIR? I 730), come ipotizza il KUNKEL, non
184
profilo storico della giurisprudenza romana Pomponio ne sottolinea proprio il potere che gli derivava dai rapporti con la nuova dinastia: temporibus Vespasiani plurimum potuit. Noi non sappiamo se anche Sabino, come altri senatori compromessi col regime neroniano, si sia avvalso della protezione di Muciano per il suo reinserimento nel gruppo dirigente dell’impero: ma un frammento del Liber de edicto aedilium curulium lascia intravvedere un atteggiamento che doveva rendere il consolare potentissimo più accetto al potentissimo Muciano, o al giovane Tito, che non all’imperatore ed ai suoi consiglieri dì austerità. Commentando forse la clausola edittale de iumentis vendendis, Celio Sabino osservava in-
fatti che ... non omnia animalia castrata ob id ipsum vitiosa esse, nisi propter ipsam castrationem facta sunt imbecilliora; grazie al criterio di valutazione proposto, il giurista poteva riprendere un parere di Ofilio e concludere: ... equum castratum sanum, sicuti spado quoque sanus est. Qualche decennio innanzi, in età augustea, Antistio Labeone
aveva
espresso sulla rilevanza della castrazione un ben diverso parere: lo schiavo eunuco
doveva essere considerato quasi
morbosus ai fini dell'esercizio dell'actio redhibitoria da parte dell'acquirente ignaro, in quanto morbus est habitus cuiusque corporis contra naturam, qui usum eius facit dete-
riorem. Nel commento all'editto degli edili Sabino utilizzava di frequente materiali labeoniani, forse provenienti da un'opera dello stesso tipo. Tra l'altro, egli riprendeva e faceva sua la definizione di morbus, se Ulpiano, ricordandola a
sua volta, gliela attribuisce, sia pure in forma un pó ambigua. A Labeone potrebbe anche risalire lo schema classificatorio per cui il morbosus & di necessità vitiosus, il vitiosus costituisce un ostacolo al riconoscere atteggiamenti e concezioni ‘neroniane’ al giurista, più vecchio di una generazione circa. I rapporti fra T. Flavius Sabinus, console nel 69, e la famiglia di Vespasiano sono stati chiariti da G.B. TOWNEND, Some Flavian Connections, JRS 51, 1961, 54 ss. E del TOWNEND anche il rilievo che i due Sabini era-
no stati destinati al consolato ordinario: The Consuls of AD. 69-70, AJPh 83, 1962, 113 ss. Pomponio ricorda Celio Sabino come successore di C. Cassio Longino a capo della scuola sabiniana in Dig. 1.2.2.53, Pomp. libro singulari enchiridii:... Cassio Caelius Sabinus successit, qui plurimum temporibus Vespasiani potuit. Cfr. J. KODREBSKI, Rechtsunterricht im Republik und Prinzipat, ANRW 2,15, 1976, 190 ss., 192 ss.; D. LIEBS, Rechtsschulen Rechtsunterricht im Prinzipat, ivi., 198 ss.; e Index 1, 1970, 284 ss.
und
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puö non essere morbosus. E tuttavia Celio Sabino si rifiutava di considarare vitiosus lo schiavo castrato, come si è vi-
sto: escludeva cioè che la mutilazione deteriorasse lo schiavo, ne alterasse la natura, sotto il profilo delle possibili destinazioni di uso; e rovesciava pertanto la valutazione negativa del fenomeno, implicita nel parere labeoniano. L’opinione di Labeone era però ricordata anch’essa, nel commento di Celio all’editto, sebbene in un contesto diverso: il dis-
corso doveva pertanto avere un andamento critico, talora polemico, nei confronti del maestro augusteo in cui Pegaso e la sua scuola riconoscevano il loro capostipite ideale””. Ma in Muciano, uomo
notae impudicitiae, o nell'erede particeps
imperii, ben noto anch'egli per la sua libido propter exoletorum et spadonum greges, quella polemica doveva trovare attenzione e consensi. Piü tardi, passando dalla correggenza ai principato, Tito mutó profondamente stile di vita e di governo. La biografia svetoniana sottolinea il carattere imprevedibile e radicale 53 La definizione labeoniana di morbus e il parere (un responsum, sembra) sulla valutazione dell'eunuco sono conservati nella lunga analisi che Aulo Geilio dedica, nel quarto libro delle Noctes Atticae, alla clausola con
cui l'editto degli edili curuli prescriveva fosse indicato fra l'altro, per lo schiavo offerto in vendita, quid morbi vitiive cuique sit (Gell. 4.2.3; 7). Ma Gellio ha come unica fonte per i primi dodici paragrafi di questo capitolo il Liber de edicto aedilium curulium di Celio Sabino, esplicitamente ricbiamato agli inizi (Gell. 4.2.3): C. Hosius, in A. Gellius, Noctes Atticae, 1903, XXX. Pertanto, tutte labeoniane inserite nel discorso dall'erudito saranno
state riprese da quell'opera: cosi R. MARACHE, in Aulii Gelle, Les Nuits Attiques I-IV, 1967, XXXVI ss.; cfr. già F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana (tr. it.) 1968 (I ed. inglese, 1946) 339 e n. 5. La definizione di morbus & ricordata anche da Ulpiano, che la leggeva apud Sabinum: Dig. 21.1.1.7, Ulp. libro primo ad edictum aedilium curulium. Nel commento di Celio Sabino, Ulpiano trovava anche l'opinione che lo spadone non è vitiosus: Dig. 21.1.38.7, Ulp. libro secundo ad edictum aedilium curulium: Caelius... scribit non omnia animalia castrata ob id ipsum vitiosa esse nisi propter ipsam castrationem facta sunt imbecilliora... idem refert Ofilium existimasse equum castratum sanum esse sicuti spado quoque sanus est. I rapporti fra vitium e morbus nella riflessione giurisprudenziale sono stati rapidamente studiati da R. MONIER, La garantie contre les vices caches dans la vente romaine, 1930, 32 ss.; cfr. pravendita in diritto romano 2, 1914, 363 ss.
V. ARANGIO-RUZZ, La com-
Non ostante l'adesione formale al modo in cui Labeone definisce il morbus, Celio Sabino sembra distaccarsi dal giurista augusteo nella considerazione di ciò che è «naturale»: ma la ricerca non può essere sviluppata qui.
186
della trasformazione, che ebbe il suo simbolo più appariscente nel distacco da Berenice, quam statim remisit ab Urbe, invitus invitam. Il mutamento era venuto in realtà matu-
rando già negli ultimi anni di Vespasiano, fuse notizie sui contrasti interni al partito di cogliere. La crisi nei rapporti con gli insorta o precipitata dopo la scomparsa fortune flavie, la congiura di Marcello e
per quanto le conflavio permettono amici di Muciano, del creatore delle di Cecina avevano
imposto al correggente la ricerca di nuovi consensi, anche in
ambienti lontani od ostili alla dinastia. La liquidazione di Eprio Marcello, fra 1 neroniani più invisi all’aristocrazia stoicheggiante, apriva una strada per un riavvicinamento agli amici di Elvidio Prisco: e il richiamo di Musonio Rufo dall’esilio, nel primo anno di principato, attesta come Tito l’abbia seguita con rapidità e decisione. Più che una conversione al moralismo degli homines novi, l’ostentata rottura del principe col suo passato ‘libertino’, il rifiuto della formazione nobiliare ricostruiscono a Tito un volto accettabile per i circoli in cui serpeggia l’opposizione filosofica alla dinastia. In questa ottica si comprende meglio il rilievo attribuito dalla propaganda imperiale all’episodio di Berenice, difficilmente riconducibile ad un generico atteggiamento di moralizzazione dei costumi. L’ostilitä alla regina, già esplosa intorno al 75 nelle clamorose proteste dei predicatori popolari, dietro i quali non è tuttavia difficile individuare altre forze, appare infatti animata da motivazioni politiche, piuttosto che moralistiche. La polemica trova alimento nei sospetti dai quali è circondato un rapporto che potrebbe imporre a Roma una principessa orientale, e per di più ebrea, ed accentuare per tale via i caratteri ‘monarchici’ e tirannici’ del regime, piuttosto che nell’irregolarità della relazione; le dicerie sull’intenzione che Tito avrebbe manifestato di trasformare il rapporto in matrimonio accentuano infatti le ma-
nifestazioni di rifiuto, non le placano”“.
541 rapporti fra Tito, il partito flavio e l’aristocrazia senatoria sono stati analizzati dal CROOK, Titus and Berenice, cit., con risultati non sempre condivisibili, soprattutto perciò che attiene all’ipotizzato contrasto fra il correggente e Muciano: sopra, n. 52. Cfr. A. GARZETTI, L’impero da Tiberio agli Antonini, cit., 268 ss., 646 s.
La polemica dei cinici contro Berenice è attestata da Cass. Dio 65(66).15.3
(Xiphil. 209.16 ss.); accuse di βασιλεία
a Vespasiano e per
estensione a Tito, correggente del padre, da parte di Elvidio Prisco sono ri-
187
IV. Gli homines novi e la polemica sui costumi La disciplina dei costumi & invece sin dagli inizi del principato domizianeo uno dei settori in cui gli interventi imperiali si susseguono con maggiore organicità e frequenza. Non ostante le incertezze che permangono intorno alla cronologia di quegli atti è possibile attribuire, come si è visto, l’inizio della correctio morum agli stessi mesi — un anno o poco più — nei quali, fra la fine dell’81 e gli inizi dell’83, viene profilandosi un nuovo assetto al vertici dell’impero. La condanna di Flavio Sabino, il breve divorzio da Domizia sottolineano le difficoltà che il nuovo principe incontra nei
suoi rapporti con molti dei collaboratori di Tito”. Invece
Pegaso diviene ora, sembra, praefectus urbi; Cornelio Fusco, fra i flaviani della prima ora nel 69, e più tardi probabilmente caduto in disgrazia o messo da parte, riemerge alla
prefettura del pretorio. Claris natalibus, Fusco prima iuventa senatorium ordinem exuerat, sordo al fascino del ceto e del suo prestigio,
cordate
in Cass.
Dio
65(66).12.2,
da parte
di Ostiliano
in Cass.
Dio
65(66).13.2 (Xiphil. 208.7). Lo sviluppo dell’opposizione filosofica ai Flavi anche fra gli homines novi, e quindi negli stessi ceti nei quali si reclutano i sostenitori organici della dinastia, è posta in evidenza da O. MURRAY, JRS 59, 1960, 261 ss., nella recensione
a
R. MACMULLEN, Enemies of the
Roman Order, 1966. di cui interessa in particolare Il modo improvviso ed imprevedibile in cui teggiamenti alla morte del padre è notato da Suet. 55 Il conflitto con gli amici di Tito, raccolti
il cap. 2. Tito trasformó i suoi atTit. 6.4-7.2. intorno a Flavio Sabino,
è stato analizzato da B. GRENZHEUSER, Kaiser und Senat in der Zeit von Nero bis Nerva, 1964, 109 ss., su cui vedi tuttavia le riserve di O. MURRAY, JRS 57, 1967, 250 s. In particolare, l'uccisione di Flavio Sa-
bino va ricondotta ad un momento immediatamente successivo al consolato, rivestito nei primi mesi dell’82. Agli inizi del 83, prima dell’apertura delle ostilità contro i Chatti, deve essere ricondotto il divorzio del principe da Domizia: H. CASTRITIUS, Zu den Frauen der Flavier, Historia 18, 1969, 264 ss. Per il CASTRITIUS il divorzio va senz'altro
riferito ai conflitti insorti nell’93 fra i diversi gruppi al vertice dell'impero; la riconciliazione esprimerebbe il compromesso raggiunto fra Domiziano e il partito che aveva suscitato le manifestazioni popolari per il ritorno dell' Augusta. Più in generale, i rapporti fra il principe e l'aristocrazia senatoria sono illustrati da B.W. JONES, Domitian’s Attitude to the Senate, AJPh 94, 1973, 79 ss. Fra i funzionari imperiali emarginati
dal nuovo principe un'iscrizione di Efeso pubblicata di recente (AE 1972, 574) permette di riconoscere Ti. Claudius Classicus, a cubiculo et
procurator castrensis di Tito.
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quietis cupidine?^; Pegaso, homo novus, forse provinciale, si era già distinto per il suo moralismo di stampo augusteo nel proporre il senatoconsulto che da lui avrebbe preso il nome"'. Fra gli amici di Tito che sin dagli inizi si schierano 56 Tac. hist. 2.86.3, da leggere con il commento di H. HEUBNER, in P. Cornelius Tacitus, Die Historien II, 1968, 288 s.; cfr., 263. Quietis cupidine è la lezione dei mss., difesa dal SYME, da ultimo in Tacitus, cit., 683 s., contro
inutili correzioni: quies esprime assai bene l’ideologia «equestre» di Fusco. Nel 69 Fusco era procuratore di Pannonia e Dalmatia; nel corso del conflitto con Vitellio assunse poi il comando della flotta ravennate. H.-G. PFLAUM, Les carrières procuratoriennes équestres 1,1960, n. 34. Originario di una colonia di cui Tacito non dà il nome, ma che il SYME, !. c., pro-
pone di identificare con Forum Iulii, era stato fra i più accesi fautori di Galba nella sua città di origine. Ostile a Nerone, lo sarebbe stato ancor più a Vitellio: Tac. hist. 3.4; 66. Fra i promotori del partito flavio nell’Illirico,
aveva collaborato efficacemente con Antonio Primo nella preparazione e nella guida della spedizione contro i vitelliani. Dopo la sconfitta di Vitellio, premiato con le insegne pretorie, scompare, probabilmente
travolto dalla disgrazia di Antonio
A. GARZETTI, L'impero da Stazio lo ricordava fra nico cui attinge Giovenale rimento alla preparazione
Tiberio agli i consiglieri per la quarta della guerra
Primo,
su cui
Antonini, cit., 244 s. di Domiziano nel De bello Germasatira (Iuv. 4.110 s.), forse in rifecontro i Chatti; diversamente ora
B.W. JONES, Fabricius Veiento Again, in AJPh 92, 1971, 476 ss., ma cfr. J.G. GRIFFITH, Juvenal. Statius and the Flavian Establishment, G&R 16,
1969, 134 ss. 57 Un’iscrizione pubblicata di recente, AE, 1967, 355, dà le ultime lettere del gentilizio di Pegasus, [...]tius, e permette di attribuirgli il governo della Dalmatia, come legato consolare, durante il principato di Vespasiano: W. Eck, RE Suppl. 14, 1974, 375 Pegasus n? 4. Secondo 1.1. WILKES, Dalmatia, 1969, 444, la legazione potrebbe collocarsi già negli anni 7174; comunque il consolato di Pegaso e di Pusione (L. Cornelius Pusio Annius Messala) va ricondotto oramai agli inizi del principato vespasianeo. Agli anni di Vespasiano risalirebbe anche la designazione a p. u., secondo la notizia di Pomponio in Dig. 1.2.2.53, Pompon. libro singulari enchiridii: Proculo (successit) Pegasus, qui temporibus Vespasiani p. u. fuit. Ma la quarta satira di Giovenale lo ricorda come prefetto, nominato di recente, nel consiglio domizianeo: Iuv. 4.76 ... Pegasus attonitae positus modo vilicus urbi. E assai verosimile pertanto che l'ufficio gli sia stato conferito in realtà da Domiziano,
fra 1’81 e 1'83: R. SYME,
Tacitus, cit., 761,
805. Nel passo di Pomponio, attraverso la tormentata tradizione testuale dell' Enchiridion, puó essere caduta l'indicazione del consolato: Pegasus qui temporibus Vespasiani «consul, et postea p. u. fuit. Homo novus, Pegaso assomma in sé molti caratteri tipici dei personaggi che emergono con i Flavi: filius trierarchi... iuris studio gloriam memoriae meruit, ut liber vulgo, non homo diceretur, ricorda lo scolio a Giovenale, Iuv. 4.75, 59 W., riprendendo la notizia da una fonte storica sconosciuta: G.B. TOWNEND, The Earliest Scholiast of Juvenal, CQ 22, 1972, 378 ss.
189
accanto a Domiziano, Fabrizio Veientone, console per la ter-
za volta nell’83, secondo un’ipotesi molto verosimile, era ben noto per la diffidenza e le polemiche nei confronti della nobiltà neroniana°®. Lontani per formazione culturale, collocazione sociale, precedenti esperienze politiche, Pegaso, Fusco e Veientone appaiono tuttavia concordi nel rifiuto del costume nobiliare, dei modelli di comportamento che avevano informato il ceto di governo in età giulio-claudia, e che conservano ancora una notevole suggestione, anche per taluni gruppi confluiti nel partito flavio. Il comune atteggiamento di rifiuto avrà anzi contribuito non poco, pur nell’autonomia delle motivazioni di ciascuno, a ricongiungere i tre personaggi nella collaborazione al nuovo principe. Come per essi, il dibattito sui costumi, innescato ed alimentato da clamorosi provvedimenti imperiali — l’editto sulla castrazione, il processo alle tre vestali, lo stesso divorzio del principe — avrà offerto un terreno di scontro e di riaggregazione a molti, all'interno del ceto di governo flavio, negli anni difficili in cui si consolida il principato domizianeo. Per taluni sostenitori delusi della nuova dinastia, provenienti dai gruppi più diversi, la radicalizzazione della polemica moralistica sarà apparsa come una via per rimettere in
discussione rapporti troppo presto consolidatisi fra il gruppo dirigente uscito dalle guerre civili e Je vecchie famiglie ai potere. In disparte durante i principati del padre e del fratello, Domiziano avrà tratto profitto dalla sua inattività per re-
58 Homo novus, forse originario della Narbonese, A. Didius Gallus Fabricius Veiento era entrato per adozione nella famiglia di A. Didius Gallus,
console in età tiberiana, e più tardi proconsole d' Africa o d' Asia e governatore di Britannia fra il 52 e il 58. Pretore agli inizi del principato neroniano, era stato poi inviato in esilio per i suoi attacchi a personalità della nobilitas: Tac. ann. 14.50. Console agli inizi del principato vespasianeo, aveva iterato il consolato nell’80, subentrando nella carica 81} imperatore. Nell’83 riveste il terzo consolato, con Vibio Crispo, secondo una convincente ipotesi di W. ECK, Senatoren von Vespasian bis Hadrian, 1970, 61.
Nello stesso anno, è comes di Domiziano nella guerra contro i riferisce ad essa CIL XIII 7253. Stazio lo ricordava comunque lo Germanico fra 1 consiglieri del principe: cfr. Tuv. 4.113 ss.; ad Iuv. 4.94(61 W.). Provenienza sociale, formazione culturale
Chatti, se si nel De belSchol. Vall. e carriera di
Veientone sono state analizzate di recente da W.C. MCDERMOTT, Fabricius Veiento, AJPh 9, 1970, 129 ss., che ne ha sottolineato in particolare la
competenza ed il vivo interesse per i problemi religiosi; cfr., per la cronologia della carriera, B. W. JoNES, Fabricius Veiento Again, cit.
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spingere ogni coinvolgimento nella politica compromissoria dei predecessori, mentre scioglieva 1 vincoli familiari con la
figlia di Corbulone, ed avrà potuto attribuire ad una rigorosa, intransigente fedeltà al mos antiquus taluni suoi comportamenti giovanili, e in particolare il rifiuto di sposare la nipote Giulia, non ostante il precedente di Claudio??. Fra gli scontenti e 1 delusi per la politica di Vespasiano e di Tito può essere stato anche Fusco, se il silenzio sulla sua carriera
prima della prefettura copre un lungo periodo di eclisse: l’antica ripulsa per il ceto di origine è verosimile che si sia allora tradotta in un atteggiamento di ostilità aperta e di rivalsa. Quello di Fusco d’altra parte non è un caso isolato: la lunga permanenza fra i pretorii di alcuni dei consoli domizianei mostra come anche più tardi il principe abbia ricercato e ottenuto consensi fra l’altro da personaggi rimasti ai
margini della vita pubblica con i suoi predecessori?°. D'altra
parte è probabile, anche se gli scarni dati prosopografici non offrono per il momento sufficiente conferma all’ipotesi che nei primi processi contro le Vestali la restaurazione della disciplina antica abbia voluto soprattutto esporre al sospetto ed alla riprovazione quei gruppi familiari che avevano avuto qualche rilievo negli equilibri compromissori di Vespasiano
e di Tito®!.
Neppure in questi anni iniziali del principato il moralismo si riduce però ad esprimere esclusivamente le frustrazioni dei vecchi partigiani dei Flavi delusi nelle loro aspetta-
3? Suet. Dom. 22.2; Cass. Dio 67.3.2 (Xiphil. 218.10). Nelle notizie sui rapporti fra Domiziano e Giulia H. CASTRITIUS, Zu den Frauen der Flavier, cit., 498, individua un po’ riduttivamente solo l’eco della tradizione senatoria antidomizianea. Invece K.H. WATERS, The Character of Do-
mitian, Phoenix 18, 1964, 59 s., aveva spiegato il rifiuto delle nozze con Giulia anche con i condizionamenti della morale tradizionale. I rapporti coniugali fra zio e nipote erano considerati con biasimo anche fuori del ceto di governo romano-italico: Philostr. VA 7.7 ricorda le deprecazioni di Apollonio di Tiana per le presunte nozze di Domiziano con Giulia. Qualche anno più tardi l’intolleranza diffusa per queste unioni avrebbe indotto Nerva ad abrogare il s.c. Claudianum che le aveva permesse: infra, n. 64.
60 Cfr. W. Eck, Senatoren, cit., 65 ss. 61 Varronilla potrebbe essere figlia di Cingonius Varro, fatto uccidere da Galba: PIR? C 736; le sorelle Oculatae sono forse figlie di L. Aelius Oculatus, console nel 73, sembra, PIR? A 223; la Vestale massima Corne-
lia molto verosimilmente apparteneva alla grande famiglia dei Cornelii Lentuli: PIR? C 1480, 1481.
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tive di potere; né la correctio morum costituisce solo uno strumento di rivalsa all’interno del ceto di governo flavio. In Pegaso, nella sua duplice veste di consigliere del principe e di prefetto dell’Urbe, l’impegno alla moralizzazione sembra ritrovare, come si è visto, accenti augustei che non incidono
tuttavia in modo significativo sulla formazione dell’ideologia imperiale. Non ignoto nemmeno ad altri fra i collaboratori dei Flavi — si pensi in particolare a Frontino ed alle concezioni che ne sorreggono l’elaborazione gromatica — questo
atteggiamento riflette forse nel giurista l’ideologia «di frontiera» di un provinciale cittadino romano, emerso da un ambiente di vivaci contrapposizioni culturali. Per Veientone, esiliato nel principato neroniano per le sue accuse a patres e sacerdotes, la polemica nei confronti del costume nobiliare avrà acquistato probabilmente una dimensione religiosa, nel sofferto tentativo di ritrovare uno spazio per i rituali arcaici, per i culti tramandati da secoli. Già il conflitto con gli amici di Nerone sembra infatti fosse insorto su questo terreno, per il giovane pretorio che si era proposto come custode delle tradizioni sacrali, delle quali aveva una singolare conoscenza. Alla sua influenza può verosimilmente attribuirsi il peso che nella correctio morum assume sin dagli inizi la tutela della castità delle Vestali. Veientone e Pegaso individuano figure sociali di rilievo, nel ceto di governo flavio; la loro partecipazione al consilium domizianeo, attestata dalla parafrasi di un componimento smarrito di Stazio che Giovenale traccia nella quarta satira, permette di cogliere apporti significativi alla formazione dell’ideologia, non meno che alla pratica della moralizzazione domizianea. Ma l’impegno collettivo del gruppo dirigente che si raccoglie intorno al nuovo principe è soprattutto una risposta all’egemonia ideologica dei ceti emersi al governo dell'impero attraverso le guerre civili, e propone Domiziano come custode e garante del sistema di valori di
cui essi sono portatori. La polemica contro il luxus e la libido, la repressione degli aspetti del costume nobiliare che appaiono più irritanti per gli homines novi recuperano ed unificano infatti le esigenze di un Pegaso o di un Veientone nella riproposizione di modelli di comportamento che generalizzano l’etica di ceto delle aristocrazie municipali e ne canonizzano le esperienze. La pratica delle virtù familiari, lo zelo
per la religione avita integrano il disegno di un ceto di governo che costruisce il suo potere attraverso la parsimonia 192
domestica, l’impegno professionale, l’abilitä individuale e la valorizzazione del proprio ingenium, rifiutando di cimentarsi nello studium magnificentiae per cui dites... familiae nobilium... prolabebantur, secondo l’analisi degli Annales. Nel Dialogus de oratoribus Apro illustra una delle categorie che concorrono a formare la nuova aristocrazia flavia, quella de-
gli oratori di professione, ricordando le esperienze esemplari di Eprio Marcello e di Vibio Crispo: di origine municipale, provenienti da famiglie modeste, privi di beni di fortuna, privi anche di quelle doti fisiche e di quei tratti nel costume che contribuivano a formare il prestigio del nobile, i due oratori sono emersi fra 1 potentes grazie all'esercizio dell’avvocatura, ed hanno portato alla dinastia il sostegno di un potere autonomo, che ne amplia la base dei consensi9?. Probabilmente il disegno di Apro altera i connotati dei due personaggi di quanto é necessario per adeguarli alle caratteristiche del tipo che sono chiamati a rappresentare; Eprio Marcello appare in realtà omogeneo, per lo meno sotto il profilo politico, alla nobiltà neroniana. Ma proprio per la sua prospettiva schematizzante il disegno tratteggiato da Apro sarà stato riproponibile, con qualche modifica, anche per altre categorie fra quelle che confluiscono nel nuovo ceto di governo — i marescialli di Muciano e di Vespasiano, i funzio62 Tac. dial. 3.1. Il fenomeno si è venuto sviluppando da anni. al momento in cui si colloca il dialogo, nel 75, osserva Apro: sine commendatione natalium, sine substantia facultatum, neuter moribus egregius, alter ha-
bitu quoque corporis contemptus per multos iam annos potentissimi sunt civitatis. Con una lucidità nella caratterizzazione sociologica che anticipa il tono di Tac. ann. 3.55, il disegno dei due oratori rovescia lo schema consolidato delle virtü nobiliari per connotare una categoria che é venuta emergendo dai municipi col solo strumento delle sue capacità naturali, viribus ingenii. L'avvento di Vespasiano ha conferito ad essa il riconoscimento della sua dimensione politica, in quanto essa porta alla dinastia il sostegno di un potere che nasce fuori della gestione dello stato: .Vespasianus... bene intellegit ceteros quidem amicos suos iis niti quae ab ipso acceperint... Marcellum autem et Crispum attulisse ad amicitiam suam quod non a principe acceperint nec accipi possit.
Scomparso Marcello alla fine del principato di Vespasiano. L. Iunius Q. Vibius Crispus restava eminente fra gli amici del principe. Stazio, ripreso da Giovenale nella quarta satira, lo ricordava nel consilium domizianeo: Schol. Vall. ad Iuv. 4.94 (61 W.). I] nome, la carriera, la provenienza socia-
le ed i rapporti familiari di Crispo sono stati di recente riconsiderati da A.B. BOSWORTH,
Vespasian and the Provinces, Athenaeum,
70 ss. e da
W. ECK, RE Suppl. 14, 1974, 852 Vibius n. 28.
193
nari equestri colleghi dli Plinio e di Cornelio Fusco. Vibio Crispo partecipa anch’egli al consilium domizianeo, sin dai mesi che precedono la campagna contro i Chatti; la sua presenza nel ristretto gruppo dei collaboratori politici del principe, con quella di altri homines novi, e per altro verso dello stesso Cornelio Fusco, può essere stata pertanto uno dei tramiti attraverso i quali Domiziano ha fatto sua l’esigenza di un avallo istituzionale ai mutamenti indotti nelle relazioni sociali dai nuovi ceti. La correctio morum resterà anche più tardi una costante nelle prospettive del principato, non ostante i mutamenti che gli anni apportano alla composizione del gruppo dirigente e l’insorgere e il moltiplicarsi di resistenze ed ostilità alla gestione domizianea del potere. La presenza di homines novi alla prefettura di città — Aurelio Fulvo, Rutilio Gallico? — perpetua senza interruzioni l’opera di Pegaso in un settore dell’amministrazione imperiale che appare determinante per il controllo dei costumi nell’urbe. Alla repressione della libido e del luxus il principe ed i suoi consiglieri ritornano con rinnovato impegno nei momenti di maggiore attrito con le opposizioni, quasi a rinsaldare per mezzo di essa 1 consensi intorno alla Clementia del pater Ausonius, a riproporne l'immagine che si ritiene piü efficace per attenuare polemiche e cancellare rancori. Di fatto, sostenitori ed avversari del
principe provengono dagli stessi ambienti, si reclutano in un ceto sempre piii fortemente condizionato dagli apporti municipali, e che tra l'altro vede ora giungere al consolato gli adlecti in senatu vespasianei: essi si riconoscono pertanto in modelli etico-politici comuni, fino a consentire, gli uni e gli altri, nell'ideale dell'uomo di governo che Quintiliano traccia nelle sue lezioni, e consegna poi alla Institutio. L'opportunità ed 1 contenuti di una disciplina dei costumi appaiono cosi indiscussi. Piuttosto, gli oppositori avranno rifiutato le forme, i modi della repressione facendone carico al tiranno,
secondo una prospettiva che puó ancora cogliersi, anni piü $$ G. VITUCCI, Ricerche sulla praefectura urbi in età imperiale, 1956, 69 s., 115 s., per le carriere di Q. Iulius Cordinus C. Rutilius Gallicus, che sarehbe divenuto prefetto intorno all’86, e di T. Aurelius Fulvus, la cui
prefettura si potrebbe forse collocare dopo quella di Rutilio Gallico; cfr. per Rutilio Gallico W. ECK, Senatoren von Vespasian bis Hadrian, cit., 57,
60, 81 s. e A.B. BOSWORTH, Vespasian and the Provinces, cit., 63 ss.; per Aurelio Fulvo W. Eck, RE Suppl. 14, 1974, 63 Aurelius n° 136.
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tardi, in Plinio il giovane non meno che in Tacito: o avranno denunciato l’incoerenza fra la vita privata del calvus Nero e il suo impegno censorio. La congiura che travolge l’ultimo dei Flavi non determina, come è noto, un rovesciamento degli indirizzi di governo, garantiti dalla sostanziale continuità del gruppo dirigente. Nella politica dei costumi, il principato di Nerva ribadisce il rovesciamento dell’etica nobiliare attraverso il rinnovo del divieto di castrazione, e il rifiuto delle nozze fra zio e nipote
già rese possibili da Claudio®*.
$^ T] s.c. sugli eunuchi era ricordato dalla fonte di Dione Cassio (Cass. Dio 68.2.4; Xiphil. 227. 20 ss.). I giuristi lo conoscono e Io citano ancora alla fine del II ed agli inizi del III secolo, sebbene la repressione della castrazione sia stata regolata di nuovo da Adriano, attraverso uno o più interventi normativi: Dig. 48.8.6 Venul. libro primo de officio proconsulis, Dig. 48.8.3.4 Marcian. libro quarto decimo institutionum; la disciplina adrianea
è ricordata in D. 48.8.4.2, Ulp. libro septimo de officio proconsulis. Il divieto di nozze fra zio e nipote, probabilmente anch’esso un senatoconsulto, è ricordato solo in Cass. Dio 68.2.4, ed ha avuto breve durata: Gaius inst. 1.62, lo ignora, considera tuttora valido il s.c. Claudianum che le aveva
permesse.
195
Stato e province nell’analisi mommseniana; dalla Schleswig-Holsteinische Zeitung alla Römische Geschichte *
1. La prima «rivoluzione» tedesca, nel marzo del 1848, investe e coinvolge, come è noto, anche 1 ducati dello Schle-
swig e dello Holstein dove l’antica e intricata controversia sui rapporti con la corona di Danimarca riceve ora una soluzione traumatica. Il 24 marzo gli esponenti dei gruppi che da
anni animavano e dirigevano la polemica antidanese, riuniti a Kiel, lanciano un proclama in cui dichiarano il duca, re a
Copenaghen, impedito nel libero esercizio dei suoi poteri di signore territoriale, lo sostituiscono con una reggenza provvisoria, affermano la propria adesione al movimento per l’unità e l'indipendenza della Germania!. La reggenza si insedia a Rendsburg, chiede che lo Schleswig sia ammesso al Deutscher Bund, accanto allo Holstein, nella confederazione
dal 1815, e avvia i preparativi per le elezioni dei rappresentanti locali all’assemblea nazionale tedesca, convocata per il
maggio a Francoforte. Alla vigilia delle elezioni la Schleswig-Holsteinische Zeitung, organo ufficiale del nuovo governo, propone in un
* QS 19, 1984, 81-108. ! In E.R. HÜBER, Dokumente zur deutschen Verfassungsgeschichte, 13, 1978, n. 229; lo sviluppo della questione dei ducati, dalla fine del Sacro Romano Impero, è tracciata dallo HÜBER, Deutsche Verfassungsge-
schichte, 22, rist. 1975, 660 ss.
197
redazionale anonimo i criteri secondoi „quali gli elettori sono invitati ad esprimere : il proprio voto?. Contrassegnato da una sigla, l’articolo ,puó essere attribuito con sicurezza a Theodor Mommsen?, che il responsabile del giornale, il pubblicista Theodor Olshausen, ha chiamato a far parte della redazione. Qualche tempo addietro l'Olshausen era stato propugnatore del separatismo filotedesco attraverso le pagine del suo Correspondenz Blatt, e aveva perció subito critiche vivaci e pungenti dai sostenitori dell'appartenenza di entrambi i ducati alla Germania. Fra gli altri, aveva polemizzato con il Correspondenz Blatt il giovane Mommsen, allora al termine degli studi universitari a Kiel, ed alle prime esperienze giornalistiche. Memore di quelle prove, delle quali avrà apprezzato la vivacità e la forza di persuasione, l'Olshausen, divenuto uno
dei reggenti in rappresentanza dei circoli liberaldemocratici, richiama al giornalismo lo studioso, da qualche mese di nuovo in patria dopo un lungo soggiorno in Italia, e lo affianca al redattore capo della Zeitschrift, persona di consumata esperienza professionale ma inadeguata ai problemi di un
momento eccezionale?^.
? Unsere Wahlen zum Nationalparlament,
SHZ 24 aprile 1848, n? 8;
siglato con una M. E riprodotto con altri interventi giornalistici da L.N. HARTMANN, Theodor Mommsen - Eine biographische Skisse, 1908, in appendice al volume, 162 ss. 5 L.M. HARTMANN, Theodor Mommsen,
cit., riproduce solo articoli
per i quali la sigla a stampa o una annotazione manoscritta nell'esemplare della collezione della SHZ già del Mommsen, poi nella biblioteca imperiale di Berlino, permettono di individuare con sicurezza l'autore. Un ampio indice degli articoli che possono essere attribuiti allo storico per i loro caratteri stilistici o per il contenuto & compilato da C. GEHRCKE, Theodor Mommsen als Schleswig-Holsteinischer Publizist, 1927, 62 s.; dubita tutta-
via dell'attendibilità di questo elenco L. WICKERT, Theodor Mommsen. Eine ; Biographie 3, s.d., ma 1969, 10, 423. 4A. HEUSS, Theodor Mommsen und das 19 Jahrhundert, 1956, 140 s., 262, segnala la presenza dell’Olshausen nel dibattito politico-culturale già intorno al 1840. Per i rapporti col Mommsen L. WICKERT, Theodor Mommsen,
cit.,1, s.d., ma 1959, 175 ss.; 3, cit., 4 ss.. Un’analisi della sua
attività nella reggenza è tracciata da W. AHLMANN, che gli succede nella direzione della SHZ, in Ohlshausens Rücktritt, SHZ 29 agosto 1848, n? 117, ora in C. GEHRCKE, Theodor Mommsen,
cit., 193 ss. Interessanti no-
tazioni sulle diverse linee politiche emergenti nel governo provvisorio sono nella lettera che i1 Mommsen invia a J.G. Droysen il 19 aprile, ora in J.G. DROYSEN, Briefwechsel 1,1929, 412 ss.
198
2. Di grande interesse per la biografia politica e letteraria del Mommsen, l’articolo offre anche preziose indicazioni sulle categorie che sorreggono l’analisi dello storico, in questa fase della sua attivitä, e permette di cogliere significative interferenze fra l’elaborazione teorica e le vicende della politica contemporanea. Tra l’altro, esso lascia intravvedere le linee di una teoria dei rapporti fra stato e organizzazioni territoriali minori che si preciserä meglio in successivi interventi, ma che resterà sostanzialmente immutata durante la
collaborazione alla Schleswig-Holsteinische Zeitung. «Il costituendo parlamento nazionale», afferma con enfasi il redazionale, «non é in alcun modo un congresso di pace per l'insieme degli interessi particolari, dove i commercianti e i fabbricanti, i contadini e i possessori fondiari cerchino un accordo fra i contrastanti desideri attraverso concessioni reciproche, dove si tenti di moderare il concorrente egoismo,
l'eterna lotta di tutti contro tutti». Una rappresentanza di categorie economiche può essere utile nelle assemblee provinciali, alle quali compete «la decisione sugli interessi materiali di ogni tipo»; é invece inconciliabile con gli scopi di un parlamento nazionale, «destinato a realizzare l'unità finora
ideale della Germania». In quanto cittadini, é necessario «avere innanzi agli occhi solo il significato politico delle elezioni»; proprio per ciò si potranno eleggere deputati di ogni convinzione, monarchici o repubblicani, ma si dovrà
sbarrare il passo «ai sostenitori della sovranità provinciale, a quelli della monarchia assoluta e agli anarchici». I candidati dovranno impegnarsi «a sottrarre agli attuali stati federali ogni funzione diplomatica e militare», e a trasferirla alle au-
torità centrali che verranno ad istituirsi. Un mese più tardi, avviati i lavori dell'assemblea a Francoforte, il Mommsen riprende l'analisi dei rapporti fra l'ordinamento unitario della Germania e le istituzioni regionali, esaminando le conseguenze che l'insediamento del parlamento nazionale avrebbe determinato sull'assetto organizzativo preesistente, e quindi anche sulla posizione giuridica degli Stände dei ducati?. Il parlamento gli appare ora «l'uni-
> Die schleswig-holsteinischen Stände in Beziehung zur constituirenden Nationalversammlung I, SHZ 29 maggio 1848, n? 38, ora in L.M. HARTMANN, Theodor Mommsen, cit., 172 ss. Nell'esemplare berlinese l'articolo è attribuito al Mommsen da un'annotazione manoscritta.
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co detentore del potere statale tedesco; ... i principi e i parlamenti territoriali, con l’abolizione della sovranitä dei singoli Stati tedeschi, hanno perduto anche il proprio fondamento giuridico». La posizione formale del governo locale dovrä essere ridefinita «attraverso la costituzione dei poteri provinciali in armonia col potere centrale»; ma quali debbano essere le linee del nuovo ordinamento, come debbano confi-
gurarsi i rapporti fra l’entità politica creata a Francoforte e gli stati regionali è già anticipato, sia pure in modo implicito, dall’osservazione per cui la nascita dello Stato nazionale
tedesco ha prodotto l’estinzione delle sovranità preesistenti. La convocazione degli Stände dei ducati, indetta dalla
reggenza per il 14 giugno, spinge il Mommsen a ritornare con decisione sul tema della legittimazione formale e dei poteri di un’assemblea che, come rileverà successivamente,
non è la «rappresentazione» del popolo dello Holstein. Un articolo apparso nella SHZ. del 9 trappone pertanto la sopravvivenza degli stati l’ordinamento statale della nazione tedesca che
Schleswiggiugno conregionali alsi viene ela-
borando a Francoforte, e invita l'assemblea dei ducati a ri-
conoscere i propri limiti istituzionali”: essa infatti è chiamata a rappresentare solo una «provincia» dello Stato nazionale, non più uno Stato. In quanto tale, l'assemblea locale ha come suo compito «la fondazione della libertà della comunità» che d’altra parte è «la base di ogni libertà». Nei comuni rurali e urbani la libertà assume peraltro forme diverse da quelle proprie alla provincia nel suo insieme, «la quale anch’essa, da quando non è più uno Stato, non è altro che un grosso comune». È perciò necessario predisporre un nuovo
ordinamento dei comuni non meno che una costituzione provinciale; quest’ultima dovrà prendere in considerazione i ceti e le classi in cui si articola la società dei ducati) assicu-
rando un’adeguata rappresentanza a tutti gli interessi materiali e territoriali individuabili nella provincia, senza cedere alle suggestioni dei «dottrinari politici per i quali la libertà 6 Die schleswig-holsteinischen Provinzialstände, SHZ: 9 giugno 1848, n° 49, ora in L.M. HARTMANN,
Theodor Mommsen, cit., 183 ss.: attribuito
al Mommsen da un’annotazione manoscritta, Il riferimento alla rappresentatività degli Stände è in Rendsburg, vom 16 Juni, SHZ 17 giugno 1848, n° 55, ora in L.M. HARTMANN,
Theodor Mommsen, cit., 200 ss. I rapporti
fra il Mommsen e gli Stände dei ducati sono studiati in particolare da C. GEHRCKE, Theodor Mommsen, cit., 91 ss.
200
non è altro che la tirannia di un’assemblea centrale, e l'uguaglianza niente altro che il livellamento di tutte le più naturali e vitali differenze». Il vero politico infatti deve fare in modo che «la libertà si sviluppi all’interno degli ambiti naturali e necessari, e che il capofamiglia attraverso il comune, la provincia e lo Stato, il comune attraverso la provincia e lo Stato, la provincia attraverso lo Stato vengano certamente limitati,
ma non privati della loro libertà». 3. Famiglia, comune, provincia e Stato costituiscono dunque la trama delle forme secondo le quali si sviluppa l’organizzazione sociale, una trama che l’analisi mommseniana propone in riferimento implicito ma evidente all’immagine geometrica dei cerchi concentrici, e spiega con i criteri della necessità e della naturalità. La considerazione riprende e rielabora schemi aristotelici, secondo una linea di pensiero comune in Germania frai teorici del costituzionalismo organico”, ma utilizza anche apporti di altra origine. La polis della morfologia antica diventa così lo Stato, alla kome è sostituito il comune, e il ben vivere, criterio ordinatore del modello classico, è tradotto nella indicazione storicistica dello sviluppo della libertà. Il riferimento infine alla provin-
cia introduce un livello di organizzazione intermedio fra il comune e lo Stato — la kome e la polis —, e trasforma pertanto la tipologia tripartita tradizionale in una formula più complessa, quadripartita. Naturalmente, la «provincia» dell’analisi mommseniana non è la ripartizione dello Stato che caratterizza i sistemi amministrativi di modello francese. Il termine designa invece un’aggregazione spontanea di antica tra-
dizione e di notevole ampiezza e complessità, o la sua proiezione territoriale: un «grande comune», connotato da tratti peculiari che ne escludono così l’identificazione con lo Stato come la riduzione al livello delle comunità minori?.
7 E.W. Böckenförde, Die deutsche verfassungsgeschichtliche Forschung im 19 Jahrhundert, 1961, tr.it. 1970,128 ss. sottolinea l’influenza del pensiero aristotelico sulla riflessione del Dahlmann e del Waitz, l’uno e l’altro in diverso modo presenti nella formazione del Mommsen. Per l’aristotelismo nella cultura giuridica tedesca dell’epoca vedi anche N. FIORAVANTI, Giuristi e costituzione politica nell’ottocento tedesco, s.d., ma 1979, 39 ss.
8 Nella stessa accezione il termine si trova già nella recensione a G. BESELER, Volksrecht und Juristenrecht, 1843, apparsa nel Volksbuch für das Jahr 1845 mit besonderer Riicksicht auf die Herzogtiimer Schleswig,
201
La costatazione delle peculiaritä della provincia, aggregato intermedio fra il comune e lo Stato, non & nuova, nella
riflessione tedesca di questi anni. Nel suo celebre saggio su La Politica Friedrich Cristoph Dahlmann, polemizzando contro le indicazioni del centralismo livellatore, aveva mes-
so in evidenza i caratteri propri alle comunità di provincia, e ne aveva dedotto l'opportunità di prevedere rappresentanze di ceto per ciascuna di esse, accanto ai Reichsstände, in un
disegno armonico di istituzioni rappresentative?. Ed è assai probabile che il saggio di Dahlmann, nel 1847 alla terza edizione,
abbia
contribuito
a
orientare
le
considerazioni
mommseniane nel momento in cui le vicende dei ducati ripropongono il tema delle interferenze fra la tutela delle specificità locali e la costruzione dello Stato nazionale, un tema
peraltro di interesse generale, per l’intreccio con le questioni poste dal riordinamento dei domini prussiani e l’assetto territoriale della Germania unita. L'influenza culturale e politica del Dahlmann nell’ambiente in cui era maturata la formazione del giovane Mommsen rimaneva profondissima ancora molti anni dopo il trasferimento in altre sedi dell’antico professore di Kiel. Il prestigio acquisito come difensore dei diritti tedeschi sui ducati si era rinnovato e accresciuto nella
vicenda che nel 1837 lo aveva contrapposto, fra i sette di Göttingen, al monarca dell’ Hannover, e la multiforme attività letteraria ne aveva diffuso l’insegnamento ben oltrei cir-
coli degli specialisti!?. Così, durante le sere invernali la fa-
Holstein und Lauenburg,
1845, ora in Gesemmelte Schriften 3,1907, 494
ss., in particolare 496: «Ogni vero patriota dovrebbe respingere nel più profondo dell’animo la formazione di un diritto territoriale dello Holstein come l’allentamento di un importantissimo vincolo fra le province tedesche». Più oltre, la provincia è assimilata al Gau controllato dalla Sippe, nell’antica organizzazione germanica: «La vita si è ampliata quando dagli antichi distretti si sono sviluppate province» (Gesammelte Schriften, 498). ? EC. DAHLMANN, Die Politik auf den Grund und das Mass der gegebenen Zustände zurückgeführt 15, 1847 (la prima edizioneè del 1835), 172 ss. 10 Le origini e gli sviluppi del confronto fra Federico VI di Danimarca e i suoi sudditi tedeschi, l’opposizione alle riforme istituzionali proposte dal re e la protesta inoltrata nel 1822 alla Dieta della Confederazione Ger-
manica sono analizzate da E.R. HUBER, Dokumente, cit., 1°, 648 ss., 22, 662. I profili costituzionali dell’episodio di Göttingen sono chiariti dallo BUBER, 0.c., 22, 91 ss.; cfr. M. FIORAVANTI, Giuristi e costituzione, cit., 53 ss.; H. BOLDT, "Deutsche Staatslehre im Vormärz, 1975, 180 ss. studia le dottrine politiche e costituzionali elaborate dal Dahlmann nella sua lunga
202
miglia Mommsen aveva letto e discusso nella casa di Oldesloe le due opere sulle rivoluzioni di Inghilterra e di Francia, apparse qualche anno innanzi, racconta il pastore Jurge in una lettera al figlio in Italia per le prime ricerche epigrafiche!!. Con quelle trattazioni storiografiche, è verosimile che
fossero entrati nella biblioteca della casa paterna altri scritti, e forse lo stesso saggio sulla politica. Certo, le posizioni del Dahlmann costituiscono un riferimento costante nei primi lavori politici mommseniani, e sono richiamate di frequente, in adesione o come termine di confronto necessario, nella
corrispondenza del periodo di attività giornalistica!
Ma anche se muove dal rilievo formulato in Die Politik,
la riflessione mommseniana si sviluppa secondo linee assai diverse da quella accennata nella pagina dahlmanniana. Il Dahlmann aveva rilevato infatti, con notazione distaccata e
priva di enfasi, come il particolarismo provinciale tenda a chiudere l’intera storia del mondo nel ristretto orizzonte delle singole comunità. Gli articoli della SHZ aggrediscono invece con veemenza la miopia reazionaria dei patriottismi locali, per escludere che le province possano costituire spazi adeguati a veri «interessi politici». Le aggregazioni provinciali dedurrebbero la propria necessità dagli antagonismi dei gruppi e delle categorie economiche, dal confronto e dalla
attività accademica e letteraria; L. WICKERT, Theodor Mommsen, cit., 1, 137 s., 176 s., 463 ne attesta la diffusione nei circoli antidanesi di Kiel. C.
GEHRCKE, Theodor Mommsen, cit., 67 s., ricorda che per la campagna elettorale per l'assemblea nazionale di Francoforte Dahlmann, Droysen e Waitz furono candidati dal Mommsen attraverso la SHZ, come rappresentanti dei ducati.
!! La lettera è parzialmente riprodotta da L. WICKERT,
Mommsen,
cit., 1, 288; gli scritti del Dahlmann
Theodor
in essa ricordati sono la
Geschichte der englische Revolution, 1844, e la Geschichte der franzòsiche Revolution, 1845.
1? Già la presentazione dei «Neuen Kieler Blätter», diretti da H. Carstens, richiama, nell’«Altonaer Mercur»
del 1 settembre
1843, l’insegna-
mento del Dahlmann contro l’ipotesi della separazione dello Holstein dallo Schleswig, propugnata da Theodor Olshausen nel suo «CorrespondenzBlatt»: L. WICKERT, Theodor Mommsen, cit., 1, 176 s., 464. Il Dahlmann è
indicato come uno degli uomini «dei quali Germania e Schleswig-Holstein sono con diritto orgogliosi» nella recensione a G. Beseler (sopra, n. 8). I riferimenti nella corrispondenza del 1848 sono segnalati da L. WICKERT, Theodor Mommsen, cit., 3, 20, 549 n. 30, 644 n. 122, 645 n. 125. Anche la
prolusione al corso di diritto romano a Lipsia, nell’ottobre, ha un riferimento al Dahlmann (Gesammelte Schriften 3, cit., 581; cfr. n. 15 infra).
203
ricomposizione di «interessi materiali» che la considerazione monmseniana esclude dalla politica. D’altra parte, proprio in quanto territorialmente determinati i «concorrenti egoismi» delle categorie economiche, gli interessi che aggregano e contrappongono «i commercianti e i fabbricanti, i contadini e i possessori fondiari» troverebbero possibili e opportune mediazioni in assemblee locali, fondate su rappresentanze di ceto. In questa prospettiva, il mondo delle particolarità regionali verrebbe pertanto a coincidere in buona misura con l’area sociale in cui il Mommsen vede esplodere e riprodursi «l’eterna lotta di tutti contro tutti». In termini più generali e in forma meno incisiva l’immagine hobbesiana del bellum omnium contra omnes era stata ripresa dal Mommsen già nella recensione al Volksrecht und
Juristenrecht di Carl Georg Beseler, nel 18459. Ai conflitti
fra 1 gruppi e le corporazioni, che rendevano inopportuno il ricorso alle giurie popolari, la recensione aveva opposto la neutralità del giudice di professione che attraverso lo studio del diritto romano attuale «è per sua vocazione condotto ad una conoscenza mediata della vita del popolo, e si colloca al
di fuori degli interessi dei ceti»!*. Nella polemica fra germa-
nisti e romanisti della scuola storica, lo scritto aveva preso così decisamente posizione, riaffermando l’insostituibilità
dello Juristenrecht e della mediazione dei giuristi nel ricomporre le fratture e sanare i dissidi del corpo sociale. Gli articoli della SHZ sembrano ora riconoscere questo compito alle assemblee provinciali: ma non si tratta di un ripensamen-
13 È forse eccessivo ricostruire per l’uso di questa immagine risalenti genealogie, attraverso le letture universitarie della Filosofia della storia hegeliana o le lezioni di diritto privato dell’hegeliano Kierulff: cfr. L. WicKERT, Theodor Mommsen,
cit., 1, 118, 140, 403 n. 53 per il primo tema;
164, 448 ss., 451 n. 202 per il secondo. La dipendenza dalla riflessione hegeliana è accentuata da A. HEuss, Theodor Mommsen, cit., in particolare 76, 132 ss., 147 ss. Tra l’altro, sarebbe di provenienza hegeliana la distin-
zione delle province dallo Stato, in quanto riproporrebbe la dislocazione dei bisogni nella società civile (espressione peraltro estranea al vocabolario di questi scritti mommseniani). Nella stessa linea, con qualche attenuazione, J. KUCZYNSKI, Theodor Mommsen-Porträt eines Gesellschaftswissenschaftlers, 1978, 41 ss.
14 Gesammelte Schriften 3, cit., 499. Per un’analisi complessiva dell’intervento G. LIBERATI, Mommsen e il diritto romano, Materiali per una storia della cultura giuridica 6, 1976, 223 ss.; cfr. M. FIORAVANTI, Giuristi e costituzione, cit., 109 e n. 228.
204
to. Le rappresentanze dei ceti, riunite in assemblee, svolgono un’attività legislativa limitata al proprio territorio e agli interessi delle categorie rappresentate; il giurista invece, attraverso la conoscenza del diritto romano attuale, attinge i fondamenti comuni della vita della nazione e ne promuove l’unità giuridica. In questa linea, la prolusione al corso di diritto romano, tenuta a Lipsia nell’ottobre, riafferma: «...noi che non ci occupiamo dei diritti particolari possiamo certamente offrire alle diverse stirpi tedesche solo per così dire uno ius gentium, che costituisce senza dubbio lo spirito e il
nucleo di tutti i diritti particolari ma in molti casi per la concreta applicazione nei dettagli trova la sua realizzazione esterna, la sua limitazione amministrativa e formale nelle
leggi dei singoli stati. Tanto più è allora giustificato se noi, poiché non esiste ancora un’unità giuridica esterna per la
Germania, perseguiamo un'unità politica interna... Accenti drammatici sottolineano, nelle pagine della SHZ,
l’ineluttabilità e l'asprezza del confronto fra gli «interessi materiali», lasciando intravvedere la preoccupazione con cui lo storico osserva le tensioni che accompagnano lo sviluppo di nuove forme di economia nei paesi di lingua tedesca. Ma l'ottica che dirige l'analisi & decisamente riduttiva, attenta a
cogliere 1 profili tradizionali della dinamica sociale e il suo intreccio con le specificità locali, piuttosto che le dimensioni nuove da essa assunte. La crisi che colpisce le attività artigianali e ne avvilisce gli operatori sembra lasciare in queste considerazioni un segno ben piü profondo che non l'emergere di una nuova geografia dei bisogni, irriducibile all'assetto regionale preesistente, disegnata da figure sociali che non si lasciano ricondurre nei confini degli Stände!®
1? Gesammelte Schriflten 3, cit., 580 ss., in particolare 583 ss. Il discorso é tradotto in appendice al saggio di G. Liberati ricordato alla n. 14, che ne discute i rapporti con la recensione a G. Beseler e la dipendenza dall'insegnamento del Savigny (228 ss.). 16 Nella SHZ del 22 maggio, n? 32 un articolo senza indicazione dell'autore, ma attribuito da C. GEHRCKE, Theodor Mommsen, cit., 170 ss., al Mommsen, affronta i problemi de « miglioramento della classe lavoratrice». L'intervento non propone uno schema teorico diverso da quello individuato negli scritti di sicura paternità già esaminati, ma ne mostra 1 limiti e le contraddizioni all'impatto con le questioni poste dai tessitori della Slesia o dai giornalieri dello Holstein. L’opera del parlamento nazionale si intreccia infatti e si sovrappone alle iniziative del governo locale negli
205
I compiti di mediazione riconosciuti alle assemblee provinciali ne definiscono lo spazio istituzionale, e ne pongono allo stesso tempo in evidenza il limite, in quanto «un adeguamento... attraverso concessioni reciproche» non risolve la frammentazione particolaristica delle categorie antagoniste. Lo sviluppo di relazioni a carattere limitato, in aree territoriali ristrette, conferma la necessitä della provincia, e impone la ricerca di forme organizzative adeguate. Ma la qualitä degli interessi coinvolti nelle aggregazio-
ni provinciali, e i modi stessi della loro ricomposizione escludono per altro verso che si possa a ragione difendere la condizione di Stati per le entità territoriali minori. In tutte le questioni che riguardano lo stato infatti, osserva la SHZ del 9 giugno, «abitanti della città e della campagna, uomini di religione e uomini d’arme, tutti vengono in considerazione solo come appartenenti allo Stato, e dovrebbero perciò avere interessi del tutto identici; chi si lascia qui determinare dal suo interesse di ceto viola il suo dovere quale cittadino». La comune condizione di cittadino dissolve moralisticamente, in questa prospettiva, le diversità di ceto e di categoria; le divergenze sui mezzi e le proce-
dure da adottare nell’organizzazione dello Stato, i contrasti sull’assetto costituzionale non avrebbero alcuna connessione con i problemi posti dalla complessità sociale in quanto «se la Germania debba avere un imperatore ereditario o un capo federale eletto a termine..., su ciò abbiamo
noi tutti
un’opinione non come fabbricanti o operai, dotti o mercanti, ma come cittadini»!?. 4. Questo Stato mommseniano, così dichiaratamente estraneo al mondo dei bisogni e degli interessi materiali da essi indotti, è uno Stato nazionale, postula cioè a suo fondamento l’identità della nazione. Il vocabolario, le imma-
gini, gli schemi teorici con i quali opera il redattore della
avvenimenti
non
meno
che
nelle
attese
dell’autore,
che
ammonisce
comunque a guardarsi da interventi di autorità «di tipo francese», e dichiara il suo fastidio per il «duro egoismo» che impone una determinazione legislativa dei salari «indegna di uomini liberi», laddove rapporti di tal genere dovrebbero essere regolati attraverso il confronto e l’autodisciplina, sorretti dalla «moderazione di tutte le parti».
17 Sopra, n. 5. 18 Sopra, n. 2.
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SHZ non si discostano da quelli comuni nella letteratura politica contemporanea, che alla razionalitä e all’autosufficienza dell’esperienza statale viene sostituendo o sovrapponendoi tratti ambigui della nazionalità, lungo un itinerario che conduce da Hegel a Bismarck!?. Notazioni personali del Mommsen tendono comunque a definire i rapporti fra stato e nazione sottolineando la distanza che intercorre fra il riconoscimento dei caratteri naturalistici della nazionalità e Ia risposta alle esigenze di un’organizzazione politica. Così una lettera al Droysen del 19 aprile, denunciando i ritardi e le angustie del dibattito in corso nei ducati, osserva: «Per abilità tutta privata il nostro popolo (nello Schleswig-Holstein) ha compreso nondimeno i principi elementari della politica, la nazionalità; che questa è solo la materia dello Stato, ciò qui non si sa»?°. Il riferimento alla «materia» sembra implicare una considerazione dell’ordinamento statale come forma, secondo uno schema logico che ritornerà di frequente nelle opere sistematiche della tarda maturità. In termini non molto diversi, un arti-
colo apparso qualche giorno più tardi nella SHZ, ed attribuito per più indizi allo storico, indica nello stato il fine e il compimento della storia delle nazioni?': «Che un popolo diventi stato, e invero Un popolo Uno Stato, ciò è divenuto comune sentire politico, e si attuerà sempre più»; e prosegue, dopo avere ammonito contro i pericoli di un nuovo legittimismo: «Messi da parte tali errori, la nazionalità e la sua (piena) realizzazione, lo Stato nazionale,è il santuario
1? Così F. ROSENZWEIG, Hegel und der Staat, 1920, tr. it., 1976, 468 ss., riassumendo le considerazioni di F. MEINECKE, Weltbürgertum und Nationalstaat, 1907. In tappe successive le opere del Dahlmann, dello Stahl e del Treitsche avrebbero indotto «a fondare lo Stato non semplicemente sulla sua volontà, ma sulla nazione esistente al di fuori e prima an-
cora di esso». La lettura del Rosenzweig è ricollocata nel contesto delle interpretazioni del pensiero politico hegeliano da M. Rossi, La formazione
del pensiero politico di Hegel”, 1970, 31 ss. 20 Cfr. sopra n. 4. Il passo richiamato nel testo è analizzato da A.
Heuss, Theodor Mommsen, cit., 153 ss., in una diversa prospettiva. Il rapporto fra nazionalità e stato, sotteso al rilievo mommseniano,
sembra ri-
echeggiare quello tracciato dal Savigny fra popolo e stato, per cui lo stato è la «manifestazione visibile e organica», la «forma corporea della comunanza spirituale del popolo»: System des heutigen römischen Rechts 1, 1840, 21 ss.
21 SHZ 21 aprile 1848, n° 6 = Gehrcke, 154 ss. 207
del presente». La nazionalitä resta ancorata a considerazioni etnico-linguistiche, ai danni degli aspetti psicologici del fenomeno, secondo una linea di analisi peraltro dominante nella pubblicistica tedesca coeva. Ma il principio di nazionalità è fortemente ridimensionato dal contemperamento con altri postulati, dedotti dai caratteri essenziali dell’ordi-
namento statale. L’ipotesi che i confini della Germania unita siano determinati ricalcando le aree linguistiche è vigorosamente criticata, in quanto determinerebbe incongruenze nell’organizzazione militare del territorio intollerabili per uno Stato: «... noi non facciamo un torto se sosteniamo con ogni forza l’annessione di ogni abitante non tedesco della Germania; perché la legittimità della nazione della quale ci si fa forti in questa estensione è una chimera». Certo «non siamo così folli da voler fare di ogni parlante tedesco un cittadino, con o senza la sua volontà: ma non vogliamo nemmeno lasciar perdere ogni alloglotta. Abbiamo da pensare in primo luogo all’unità e sicurezza della Germania, e questa esige tutto lo Schleswig, tutto il Tirolo, tutta la Posnania, tutta l’ Austria». L’attenzione ai
problemi della sicurezza esterna dello Stato ritorna più volte negli articoli della SHZ, acuita probabilmente dalle operazioni militari avviate al confine settentrionale dei ducati, contro i danesi. Essa non attenua comunque il profilo necessitato ed eterodiretto dell’organizzazione statale, in quanto intreccia o sostituisce, non senza contraddizioni, l'automatismo delle nazionalità con determinazioni geofisiche, suggerite da esigenze militari. L'indipendenza, garantita dalla forza militare, costituisce
un carattere essenziale dell’ordinamento statale. Proprio per ciò, l’articolo sulle elezioni al parlamento di Francoforte rivendica all’assemblea il controllo degli eserciti regionali e la rappresentanza diplomatica della nazione??. D'altra parte «è una verità riconosciuta che solo gli Stati di primo rango posseggono realmente autodeterminazione e individualità politica», afferma la SHZ del 16 maggio, analizzando il diverso rilievo degli Stati preunitari in Germania; sotto questo 22 SHZ 24 aprile 1848, n° 8 (sopra, n. 2): «nessuno dei principi tedeschi deve più far marciare un soldato, nessuno deve intrattenere relazioni con Stati esteri. Con ciò, l'indipendenza provinciale è spezzata verso l’esterno; quanto ampiamente sia da limitare nelle questioni interne, è problema aperto».
208
profilo «la Prussia & uno Stato; tutte le altre terre tedesche sono solo stati titolari, ma di fatto province»? Ma lo Stato non è solo difesa esterna della nazione; es-
so é anche cittadino. Mommsen Parlamento sto profilo
garanzia reciproca dei diritti fondamentali del La nota introduttiva all'opuscolo in cui il illustra la dichiarazione dei diritti da parte del di Francoforte?^ sottolinea in particolare quedell'assetto statale. La delibera del parlamento,
«attraverso la garanzia reciproca di 40 milioni di liberi tedeschi», riafferma «l'intimo legame della libertà e comu-
nione statale tedesca» in quanto rende stabili e sicuri «i diritti che sono considerati necessari per fondare una libera esistenza per ogni cittadino tedesco, un felice fiorire di tutte le grandi e piccole comunioni all'interno dei confini tedeschi». L'idea dello Stato come garanzia reciproca si ritrova anche in un articolo della SHZ attribuito al Momm-
sen per i suoi caratteri stilistici??. Tracciando un paradig-
ma esemplare dei compiti statali l'articolo afferma: «Ancor sempre lo Stato & ciö che fu ai suoi primordi: una garanzia reciproca per cui a ciascuno deve essere assicurata l'esistenza non solo contro 1 predoni assassini ma anche contro la fame, ancor piü sterminatrice; l'educazione della sue energie...; il libero uso delle stesse...». Rilevata già
nella più remota antichità, la garanzia statale si trasforma nel tempo, per assumere modalità e contenuti nuovi:
«1 do-
veri dello Stato verso i singoli, che in età precristiana era-
23 SHZ 16 maggio 1848, n° 27 = Gehrcke, 166. «La nostra vita statale nei piccoli principati è una falsità, prosegue l’articolo, nella quale solo infanti politici e frivoli uomini di corte possono trovare piacere; noi desideriamo essere parte di un grande insieme statale». L’intervento analizza il progetto di costituzione del Reich elaborato dalla commissione dei diciassette; un primo articolo sullo stesso argomento era apparso il giorno innanzi (Gehrcke,162 ss.). Né l’uno né l’altro hanno indicazione dell’autore, ma il tema dell’unificazione tedesca intorno alla Prussia, introdotto dal secon-
do, è sviluppato nella SHZ del 29 agosto, n° 117, in uno scritto di attribuzione sicura: A. HEUSS, Theodor Mommsen, cit., 151 s., 263 s. Per altri confronti C. GEHRCKE, cit., 73 n. 4.
24 Th. MOMMSEN, Die Grundrechte des deutschen Volkes mit Belehrungen und Erläuterungen, 1969 (ristampa dell’edizione anonima di Lipsia, 1849), 7 s. La paternità mommseniana dell’opuscolo è stata riconosciuta dal Wickert: cfr. la postilla alla ristampa, 84 ss.
25 Die Verbesserung der Lage der arbeitenden Klassen, SHZ 24 mag-
gio 1848, n° 34, su cui n. 16 sopra.
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no puramente negativi, che poi si facevano valere come opera di caritä, come ulteriore elemosina e consiglio efficace per la beatitudine, ma non all’interno dello Stato, noi
ora li vogliamo apertamente proclamare doveri politici». La trasformazione non implica comunque rotture, sembra anzi svilupparsi per necessitä interna all’ordinamento statale, con una lettura dei fenomeni istituzionali cui forse
non è estraneo l’insegnamento della pandettistica contemporanea e la sua dottrina dell’istituto giuridico. L’implicito riconoscimento di una necessità di tal genere permette al redattore della SHZ di presentare altrove, in un intervento di sicura attribuzione, «lo specifico patriottismo peninsulare (dei ducati) come antichità da rispettare, come punto di
vista per il presente da combattere»? 5. Nel confronto di opinioni che precede e accompagna i lavori del parlamento nazionale a Francoforte, le considerazioni mommseniane su stato e province si collocano in una prospettiva accentuatamente unitaria, sia pure con talune concessioni verbali agli avversari, secondo le indicazioni comuni ai gruppi liberal-democratici, dalle quali si differenziano tuttavia per una maggiore flessibilità nei confronti del-
l'opzione repubblicana, e per la diffidenza verso à modelli organizzativi riconducibili all’ esperienza francese?" Lo stato nazionale tedesco puó assumere, in questa ottica, un assetto unitario o federativo, ma non puó lasciare in
vita gli ordinamenti territoriali preesistenti. «La riunione dell'assemblea del Reich germanico approvata da tutti i reggenti e le rappresentanze di ceto degli stati tedeschi» ha fatto estinguere | gli antichi Stati regionali, rileva la SHZ del 9 giugno” ; «noi (nei ducati dell’Elba) siamo da allora divenuti una provincia e in tutte le questioni politiche dipendiamo dal parlamento di Francoforte». I detentori dei poteri sovrani hanno deciso essi stessi il mutamento della propria condizione giuridica, ed hanno con ciò legittimato la creazione 26 SHZ 18 giugno 1848, n° 56 = L.M. HARTMANN, Theodor Mommsen, cit., 203 ss. Il testo prosegue: «Chi tiene vista, colui per il quale lo Schleswig-Holstein provincia tedesca, egli è un particolarista e combattuto, e sta per esserlo». 27 Cfr. L. WICKERT, Theodor Mommsen,
28 N. 6 sopra. 210
ancora fermo questo punto di è qualcosa di diverso da una un reazionario; deve essere cit., 3, 11 ss.
dello Stato nazionale, ricorda un altro articolo??: «...i principi e i parlamenti territoriali con la sottrazione della sovranità ai singoli Stati hanno perduto anche il proprio fondamento giuridico»; ora, ne dovranno ricevere uno diverso «attraverso la definizione costituzionale dei poteri provinciali in armonia col potere centrale». Un’ipotesi rigorosamente federativa è tracciata invece dal progetto di costituzione del nuovo Reich preparato dalla commissione dei diciassette, e si avvia a prevalere nel dibat-
tito parlamentare. La maggioranza dell’assemblea cerca così di aggirare difficoltà e resistenze incontrate dal processo di unificazione, elaborando un disegno di Bundesstaat che con-
tempera opposte esigenze e conserva taluni attributi statali alle organizzazioni territoriali minori, all’interno dello Stato nazionale??. In aperto dissenso, la SHZ in due interventi successivi, il 15 e il 16 maggio, sottolinea la contradittorietà del tentativo. Non ostante il suo radicalismo antiparticolaristico, la polemica rinuncia tuttavia agli argomenti che potrebbe trarre da una recisa affermazione del principio della sovranità popolare, proclamato dai gruppi della sinistra radicale?!. Il riferimento più esplicito in questa direzione si ritrova forse più tardi, in un diverso
contesto, nell’introduzione
all’opu-
scolo sui diritti fondamentali, dove si dichiara enfaticamente
che «il sommo potere della nazione» impone ora il rispetto delle libertà individuali. Ma il rilievo teorico dell’affermazione è assai dubbio: anche Heinrich von Gagern, nel discorso
di apertura dell’assemblea di Francoforte, aveva affermato la sovranità della nazione, senza per ciò assumere in alcun modo il popolo come titolare del potere sovrano??. La diffidenza verso la dottrina della sovranità popolare è peraltro comune 29 Die schleswig-holsteinischen Stände in Beziehung zur constituirenden Nationalversammlung I, SHZ 29 maggio 1848, n° 38 Beil. = L.M. HARTMANN,
Theodor Mommsen, cit., 172 ss.
30 Le vicende del progetto di costituzione elaborato dalla commissione
dei diciassette, e il successivo dibattito parlamentare sono ricostruiti in E.R. HÜBER, Dokumente, cit., 2, 767 ss., 791 ss.; il contributo dei giuristi
della scuola storica è analizzato da W. SIEMANN, Die Frankfurter Nationalversammlung 1848/49 zwischen demokratischem Liberalismus und konservativer Reform, 1976, 188 ss.
31 Cosi nell’intervento di Fr. ENGELS su L’assemblea di Francoforte, Neue Rheinische Zeitung, 1 giugno 1848, n. 1 (= MARX-ENGELS, Opere complete 7,1974, 14).
? La citazione è in E.R. HÜBER, Dokumente, cit., 2, 621.
211
fra i giuristi che si richiamano all’insegnamento della scuola storica: «il popolo unità naturale» acquista per essi rilevanza istituzionale attraverso lo Stato, cui una celebre formulazione
dell’ Albrecht aveva riconosciuto personalità giuridica?*. Acquisita dai teorici del costituzionalismo organico non senza resistenze e critiche, questa teoria prevale nelle discussioni
alla Paulskirche, tra l'altro per l'influenza del Dahlmann??.
Singolarmente, la concentrazione dei poteri nel parlamento nazionale viene però delineata dal Mommsen in termini nei quali è ancora evidente l’influenza di dottrine patrimonialistiche: il parlamento «è dunque al presente l’unico possessore del potere statale tedesco; chi nega obbedienza ai suoi or-
dini è un ribelle...»?6.
6. Fra la tarda primavera e l’estate del 1848, le posizioni emerse nell’assemblea di Francoforte vengono consolidan-
33 W. SIEMANN, Die Frankfurter Nationalversammlung, cit., 110 ss., 253 s., attribuisce loro lo svuotamento della categoria, attraverso il rinvio ad
una nozione storico-culturale di «popolo», o il collegamento della sovranità con la salus populi, suggerito in particolare dal Dahlmann. I fondamenti teorici di queste posizioni e il loro confluire nella dottrina del costituzionalismo organico sono studiati da H. BOLDT, Deutsche Staatslehre, cit., 176 ss.; cfr. M. FIORAVANTI, Giuristi e costituzione, cit., 50 ss., per una considerazione d’insieme. A. HEuss, Theodor Mommsen, cit., 153 ss., accentua il rilievo
che il tema della sovranità popolare avrebbe nella riflessione mommseniana, senza indicare tuttavia le attestazioni sulle quali fonda il suo convincimento; il richiamo della lettera al Droysen, ricordata alla n. 4, non è pertinente, in
quanto quello scritto affronta i problemi connessi all’esercizio dei diritti elettorali, non già quelli relativi alla titolarità dei poteri statali. 34 Recensendo R. MAURENBRECHER, Grundsätze des heutigen deutschen Staatsrechts, nei Göttingische Gelehrte Anzeigen,
1837,
1489 ss.,
1508 ss. (non vidi). 35 Cfr. E.R. HUBER, Dokumente, cit., 2, 376 s., 792. Ancora nel 1852 il GERBER, Ueber öffentliche Rechte, tr. it. in Diritto Pubblico, 1971, 17
ss., 47, esclude che si possa fare ricorso alla categoria della personalità per lo stato, utilizza piuttosto quella di organismo, ma confina anch'essa nell’ambito della «teoria generale della politica e dell’etica», negandone il carattere di «concetto giuridico». Una penetrante analisi dei rapporti fra le teorie gerberiane e gli sviluppi del costituzionalismo organico a metà del secolo è in M. FIORAVANTI, Giuristi e costituzione, cit., 193 ss. Anni più
tardi, anche il Gerber avrebbe assunto a fondamento del diritto pubblico la personalità dello stato: Grundziige eines Systems des deutschen Staatsrechts, 1865, tr. it. in Diritto pubblico, cit., 95 ss.; cfr. 109 n. 1, 200 ss., su cui vedi ancora M. FIORAVANTI, 0.c., 243 ss.
36 SHZ 29 maggio 1848, n° 38, su cui sopra n. 5.
212
dosi in il tema gionali ne del
programmi di partiti che recuperano e ripropongono della compatibilità fra sopravvivenza degli stati ree unità politica della nazione tedesca. Così la frazioCasino, il gruppo di centro-destra cui aderiscono
maestri e interlocutori autorevoli del Mommsen, dal Dahlmann stesso al Waitz, al Droysen, a G. Beseler, in un docu-
mento diffuso agli inizi di giugno afferma l’esigenza di garantire «la più ampia libertà» alle comunità e agli Stati nel Reich, limitando le funzioni del Reich a «ciò cui le comuni-
tà e gli stati non potrebbero provvedere», soprattutto nell’organizzazione militare e nei rapporti internazionali?”. In termini non diversi il documento organizzativo del Nationaler Verein riconosce nel novembre una sostanziale omogeneità fra ordinamento statale e ordinamenti regionali, legittimati l’uno e gli altri dalla sovranità popolare, proclamando che «il popolo tedesco e il popolo di ogni singola terra tedesca ha il diritto alla libera autodeterminazione politica (sovranità popolare). L'esercizio di essa nei singoli Stati è limitato dal
carattere di Stato federale che ha il Reich tedesco»?5.
Professore di diritto romano a Lipsia dall’ottobre, dopo l’interruzione dell’esperienza giornalistica, il Mommsen aderisce al Deutscher Verein locale, una delle leghe confluite nel Nationaler Verein ai congresso di Kassel, e con esso
partecipa alle vicende che travagliano il regno sassone nel-
l'inverno, e alla «rivoluzione» del maggio 18499”, Sorretta e
in qualche modo provocata dall'affettuoso confronto con gli amici del «circolo di Lipsia», per la maggior parte attestati
37 Il documento è riprodotto da W.
Bor pr, Die Anfänge des deutschen
Parteiwesens, s.d., ma 1971,166 ss.; l'origine del gruppo che lo esprime, le indicazioni intorno alle quali si raccoglie, i dati sugli aderenti sono studiati da N. BOTZENHART,
Deutscher Parlamentarismus
1848-1850,
s.d.,
ma 1977, 420 ss. 38 Il documento è in W. BOLDT, Deutsche Staatslehre, cit., 107; la creazione del Nationaler Verein e le vicende del congresso di Kassel sono studiate da M. BOTZENHART, Deutscher Parlamentarismus, cit., 389 ss. 39 Le notizie per la biografia del Mommsen in questo periodo sono minutamente ed attentamente raccolte ed esaminate da L. WICKERT, Theo-
dor Mommsen, cit., 3, 25 ss. per il trasferimento a Lipsia, 35 ss. per il circolo degli amici, 152 ss. per l’attivitä politica. Il «passaggio dall’idealismo politico al realismo politico» nell’esperienza del Droysen, per taluni aspetti parallela a questa del Mommsen, è studiato da I. CERVELLI, Droysen dopo il 1848 e il concetto di Cesarismo,
QS, 1, 1976, 15 ss., in particolare 21 ss.
213
sulle posizioni del centro liberale, la riflessione politica mommseniana riaffronta ora in una nuova prospettiva i temi dell’unificazione nazionale, trae dagli insuccessi e dalle sconfitte una dura lezione di realismo, riconduce nei limiti
di un disegno piccolo-tedesco il suo progetto di unità. Nella seconda metà del 1849 lo storico ritorna per qualche tempo al giornalismo, sia pure in modo episodico e non più professionale. Il foglio volante che egli cura con gli amici e colleghi Otto Jahn e Moritz Haupt, il Fliegendes Blatt aus Sachsen, esprime con decisione i suoi nuovi orientamenti, favorevoli alla lega dei tre re e al programma di Gotha, al quale hanno aderito i più illustri esponenti della frazione del Casi-
no^ Non ostante i giudizi che si possono dare sull’opera
dei sovrani prussiani nelle vicende contemporanee, «la Prussia rimane la Prussia, e la pietra angolare della Germania» afferma perentoriamente il primo numero del giornale”. Nella scelta, che ormai si impone fra Austria e Prussia, «potremo dubitare di ciò che è da fare? Dubitare che la realizzazione della lega dei tre re certo non è il compimento delle nostre speranze, ma l’inizio di un futuro compimento?» E ancora nell’ultimo numero, il nono, l’opzione prussiana è riaffermata con enfasi: «La Sassonia non deve unirsi alla Prussia perché un plenipotenziario ha detto sì in quel giorno (il 26 maggio, stipulando il trattato con la Prussia e il Württenberg), ma perché da più di un secolo la stella della Prussia è la stella della Germania; perché il nostro futuro tedesco risale alle gesta del grande elettore, del vecchio Fritz e di
Blücher; perché ora che gli elementi si separano più nettamente e le grandi nazionalità si consolidano, una politica di
“ La storia della nuova iniziativa giornalistica è tracciata da L. WicKERT, Theodor Mommsen, cit., 3, 159 ss.; l'adesione al partito prussiano è discussa da A. HEUSS, Theodor Mommsen, cit., 162 ss.
^! Ogni foglio, di due o quattro pagine, presenta un solo articolo, privo di titolo e anonimo. I fogli non sono datati, ma contraddistinti da un nume-
ro progressivo, fatta eccezione per il primo, che non ha alcun elemento di identificazione. Ringrazio la direzione della biblioteca universitaria di Lipsia per avermi sollecitamente inviato la riproduzione in microfilm dell’esemplare in essa conservato. Il WICKERT,
Theodor Mommsen, cit., 3, 160 s., 165 s., restituisce con
sicurezza al Mommsen gli articoli del primo, del terzo e del nono foglio, ma riconosce la mano dello storico anche in altri numeri. L'ipotesi di una revisione, se non quella di una redazione collettiva, sembra pertanto la più probabile.
214
dilatoria irresolutezza è assurda e rovinosa; perché noi ab-
biamo solo la scelta se vogliamo essere croato-cosacchi con l’ Austria o tedeschi con la Prussia». Il ripiegamento su un disegno di ordinamento federale, limitato ad alcune regioni, e promosso dai governi preesistenti piuttosto che dalla rappresentanza della nazione attraverso il parlamento di Francoforte, sollecita nello storico una maggiore attenzione ai particolarismi territoriali, il riconoscimento della loro dimensione politica, la revisione dei modelli della SHZ. per definire i rapporti fra Stato nazionale e organizzazioni regionali. L'ipotesi che l'ordine giuridico anteriore alla convocazione del parlamento nazionale sia estinto è lasciata cadere, e il quarto numero del Fliegendes Blatt chiarisce come nemmeno la partecipazione alla lega dei tre re, e il Bundesstaat che ne deriverebbe costituiscano
una minaccia all’assetto preesistente. «Entri la Sassonia in questo Stato federale, nulla ha da perdere dell’autonomia che ad essa secondo la natura della cosa è destinata». Le diversità culturali fra le stirpi tedesche sono osservate con attenzione, per i loro riflessi nella politica degli Stati regionali verso l’Austria. Si rifiuta fondamento teorico allla pretesa di legittimare gli Stati regionali come custodi della «particolarità e coesione» delle singole stirpi, ma si riconosce comunque ad essi una dimensione politica meritevole di tutela, e si propone il Bundesstaat come «custodia dell’ordine legale e dello sviluppo legale». Nella stessa linea, il settimo numero del giornale propone una lettura della costituzione di Francoforte che ne accentua i caratteri federativi ai danni degli
unitari, rovesciando il giudizio espresso poco più di un anno avanti nella SHZ: «Se il regno di Sassonia fosse uno Stato che può stare da solo in modo indipendente, sarebbe dovere del popolo e del governo cercare solo in sé forza e difesa. Ma la Sassonia dipendeva dal Bundestag, che non ha adempiuto il suo compito per la Germania; il parlamento nazionale non volle imporre ai singoli Stati alcuna più ampia dipendenza, nel momento in cui introduceva, al posto del Bundestag disciolto col consenso dei governi, un potere centrale consistente di un’autorità, una camera degli Stati e una camera
del popolo». 7. Alle esperienze di Lipsia, agli interessi e ai problemi di quegli anni indimenticabili riconducono nel loro impianto teorico anche le pagine della Römische Geschichte sull’as215
setto istituzionale dell’Italia romana. La stesura dell’opera si prolungò infatti, come è noto, durante l’esilio di Zurigo e dopo il ritorno in Germania, a Breslavia; ma il lavoro ebbe
avvio già nel 1850, e nell’estate dell’anno successivo la pubblicazione del primo volume poteva sembrare all’autore oramai imminente”. Anche la Geschichte, come gli articoli della SHZ, riconosce nello Stato un’esigenza primordiale della vita umana, secondo l’insegnamento del Dahlmann, e ne scopre pertanto
le prime tracce nell'età delle origini indoeuropee, in quanto «risalgono a questi tempi i concetti fondamentali sui quali riposa in ultima analisi lo sviluppo» delle istituzioni poste-
riori?. Coerentemente con questa premessa, al paradigma
statale é poi ricondotta l'intera morfologia delle organizzazioni politiche antiche, pur nel riconoscimento delle specificità locali. Si osserva infatti che nel mondo greco e in quello romano «famiglia e Stato, arte e religione sono stati sviluppati dai due popoli in modo cosi particolare, cosi pienamente nazionale che il fondamento comune... & per i nostri occhi del tutto cancellato». In Italia, la vicenda dello stato prende l'avvio dai gruppi gentilizi che si stanziano in un distretto, intorno ad una fortezza: «agli inizi ogni distretto, comunanza a un tempo di stirpe e di territorio, costituiva da solo un' unité politica». Nella storia di Roma «la comunità del popolo nacque dalla fusione, mai completamente riuscita, di quelle antiche stirpi dei Romilii, Voltinii, Fabii e cosi via, lo spazio territoriale
romano dai territori uniti di queste stirpi...»**. Uno sviluppo
4 Le vicende esterne della Römische Geschichte sono ricostruite da L. WICKERT, Theodor Mommsen, cit., 3, 399 ss. Il contratto di edizione è del
primo ottobre 1850; i! primo volume, pubblicato nel 1854, sarebbe dovuto apparire prima della Pasqua del 1852: L. WICKERT, o.c., 3, 671 n. 1, 620 ntt. 6e 7.
^ RG 1,1854, 17 s. Il riferimento alle origini indoeuropee dello stato, el-
littico nella prima edizione, assume piü tardi Ia formulazione riprodotta nel testo (dalla settima edizione, 1881, 22). Puó essere interessante il confronto con le pagine iniziali di G. WAITZ, Deutsche Verfassungsgeschichte 1, 1844, 44, su cui E.W. BÖCKENFÖRDE, Die deutsche verfassungsgeschichtliche, cit., 142 ss.: nella considerazione del Waitz Stato e popolo si sviluppano dalla famiglia, ma la storia ha inizio quando questo sviluppo si è compiuto. Per i rapporti fra il Waitz e i1 Mommsen, allievo del germanista a Kiel, vedi L. WICKERT, Theodor Mommsen, cit., 1, 164 s., 480 n. 310; 3, 498.
^ RG 1, cit., 52.
216
lineare conduce dalla comunitä domestica allo Stato nazionale, secondo lo schema giä proposto nella SHZ: le leghe di cantoni organizzate per la difesa comune costituiscono infatti «il primo germe per le federazioni di cittä il cui ulteriore sviluppo forma il contenuto della storia italica fino al raggiungimento dell’unitä nazionale». Popolo e territorio, l’uno e l’altro essenziali allo Stato, secondo una considerazione anch'essa già rintracciabile negli scritti politici del 1848, si formano attraverso un processo di aggregazione che si sviluppa durante la preistoria della comunità romana. In età arcaica lo Stato romano inserisce oramai genti e famiglie in un’ organizzazione unitaria, che peraltro si innesta sulle strutture domestiche: «come gli elementi dello Stato sono le genti che si fondano sulle famiglie, così anche la forma della comunione statale è ricalcata nei particolari e nell’insieme sulla famiglia». Il parallelismo fra ordinamento domestico e ordinamento politico è soprattutto evidente nell’istituzione regia: come «alla casa la natura stessa dà il padre, con cui essa nasce e muore», così la co-
munità del popolo si affida al re «che è il signore nella casa della comunità romana».
Con una formula ambigua che
tradisce ancora suggestioni patrimonialistiche, il potere regio è descritto in termini di proprietà: «il principe rappresenta giuridicamente questa unità del popolo romano, e perciò anche la sua veste è quella del dio supremo; il re non è il dio del popolo, ma piuttosto il proprietario dello Stato»^9. Ma poi questo potere, «eticamente e giuridicamente nei più remoti fondamenti diverso dall’attuale sovranità», è di fatto ri-
costruito nei suoi contenuti e nei suoi limiti secondo i modelli proposti dai teorici del costituzionalismo organico. Così «il diritto di legiferare è qui sin dai tempi più antichi un diritto della comunità, non del re», e «un comando in con-
trasto con la tradizione e non approvato dal vero sovrano, il
popolo, non produceva effetti giuridici»^". La dottrina della sovranità popolare viene pertanto riproposta nella forma attenuata che il Dahlmann aveva suggerito alla Paulskirche. ^5 RG 1, cir., 43.
46 RG 1, cit., 55. In termini di proprietà aveva costruito i rapporti fra
Sovrano e potere statale 11 Maurenbrecher, con una formulazione contro cui svolge in questi anni una serrata critica il GERBER, Rechte, tr. it. in Diritto pubblico, cit., 48 ss., 55.
Ueber öffentliche
4 RG 1, cit., 61.
217
Gli elementi comuni alle considerazioni sviluppate negli articoli della SHZ si fermano qui. L’organizzazione sociale dell’Italia arcaica è invece delineata secondo uno schema tripartito -famiglia, gente, popolo - che rinuncia a individuare un livello corrispondente a quello della provincia, utilizzato in quegli scritti per le aggregazioni regionali, ma lasciato poi cadere nel Fliegendes Blatt aus Sachsen. Rovesciando la tesi proposta dalla SHZ, per cui la nazione si completa nello Stato, la vicenda dell’Italia romana suggerisce un an-
damento diverso, dall’unità politico-istituzionale a quella nazionale. La nazionalità unitaria diventa ora la sedimentazione di scelte politiche ripetute nei secoli dalle comunità italiche, che sono le protagoniste del processo di unificazione ma non perdono per ciò stesso le proprie connotazioni specifiche, non decadono automaticamente alla condizione
di «province»^?. E infatti «...la comunità romana era stata
costruita come una comunità cittadina.. intorno alla quale si stringevano da un lato la federazione italica come un complesso di comunità cittadine piü libere delle romane, essenzialmente di uguale tipo e della stessa stirpe, dall'altro l'alleanza extra-italica come un complesso di libere città greche
e di popoli e signori barbari»*°. Questo pluralismo linguisti-
co e culturale del mondo italico si attenua col passare .del tempo, nel lungo e talora aspro confronto con la nazione la-
tina che finisce con l’imprimere il suo carattere alla nazionalità unitaria. La «rivoluzione italica», con la quale «l’Italia venne a Roma e Roma all’Italia», secondo la formula che ri-
calca l'auspicio del partito borussico per l’unità tedesca”,
48 La considerazione naturalistica delle nazionalità, messa da parte in queste pagine per un'analisi più articolata del fenomeno, attenta a coglierne gli aspetti-opzionali, riemergerà invece più tardi, in particolare nelle polemiche antifrancesi del 1870. Nella terza delle Lettere agli Italiani, ripubblicate in QS 4, 1976, pp. 197 ss. con una nota di G. Liberati, l’idea di una nazione naturale è delineata con particolare evidenza. ^? RG 2,1855, 361. 5° La proposizione su Roma e l’Italia si incontra in RG 3, 1856, 523; ritornerà corretta — «l’Italia in Roma o piuttosto Roma in Italia» — nella Geschichte des Ròmischen Munzwesens,
1860, 339, e del tutto rovesciata,
per evidente influsso degli avvenimenti, nella conferenza sulla politica germanica di Augusto, del 1871, ora in Reden und Aufsätze, 1905, 317: «... l’Italia si è più ancora in Roma dissolta che Roma in Italia...». La storia della formula nella pubblicistica tedesca è tracciata da F. MEINECKE, Weltbiirgertum und Nationalstaat, cit., tr. it. 2, 1930, 30 ss.
218
segna in modo traumatico la fine dell’assetto instaurato durante le guerre contro 1 Galli, in quanto «livellò tutte le nazionalità non latine della penisola»?!. E tuttavia proprio il riordinamento costituzionale dell'Italia romana dopo la guerra sociale delinea un'organizzazione statale che combina sapientemente il criterio federativo e quello unitario, confermando la condizione di «organismi politici» ai municipi. Opera di Silla, o comunque di età sillana, la nuova costituzione collega 1 municipi allo stato in una posizione che conferisce a quest'ultimo la condizione di «organismo politico primario», ma lascia alle comunità municipali autonomi
poteri di intervento negli stessi ambiti di attività: «... per quanto attiene al rapporto fra questo organismo politico secondario e quello primario dello Stato, in generale spettano
a questo come a quello tutte le competenze politiche»??.
Nel suo impianto teorico il sistema cosi ricostruito postula «l’idea di innestare organicamente la comunità come un'entità politica subordinata alla superiore entità dello stato», una idea che sarebbe peraltro ignota ad altre forme di organizzazione antiche, e propria invece della «vita statale attuale»??. Con tensioni ed aperture smarrite nelle opere della più tarda maturità,
l’analisi mommseniana
coglie ora una sostanziale
omogeneità fra lo Stato e le aggregazioni territoriali minori, e ritrova nell’ordinamento sillano uno sconcertante precursore dei sistemi organizzativi moderni: «ad eccezione del nome, che certamente in tali questioni è la metà delle cose, quest’ultima costituzione della libera repubblica ha introdotto il sistema rappresentativo e lo stato fondato sulle comunità».
5! RG
2, cit., 407. Come è
noto, il quarto libro della Römische
Ge-
schichte tratta le vicende della «rivoluzione» — così nel titolo — nell’età fra i Gracchi e Silla, rivoluzione cui il dittatore avrebbe posto fine assicurando a tutti gli Italici l’uguaglianza dinanzi alla legge, e proponendosi pertanto come «il vero e ultimo autore della piena unità statale d’Italia» (373). Il significato della categoria nell’uso mommseniano è studiato da E. TORNOW, Der Revolutionbegriff und die späte römische Republik - Eine Studie zur deutschen Geschichtsschreibung im 19. und 20. Jh., s.d., ma 1978, 9 ss.
52 RG 2, cit., 346.
55 RG 2, cit., 344.
>4 RG 2, cit., 347. Un cenno agli sviluppi successivi della riflessione mommseniana sul tema & nella mia recensione
a W. SIMSHAUSER, Juridici
und Munizipalgerichtsbarkeit in Italien, Iura 26, 1975, 145 ss.; ma l'argomento merita ulteriori, analitiche indagini.
219
Le categorie dell’amministrazione tardoantica. Officia, munera, honores*
1. Le considerazioni che la letteratura giurisprudenziale dell’età degli Antonini sviluppa intorno all’assetto politico contemporaneo si muovono in un orizzonte teorico ancora saldamente definito dalle categorie della città e della magistratura. Città — o popolo — e magistrato costituiscono termini di confronto
costanti,
talora espliciti, più spesso
sottesi,
così delle esposizioni manualistiche di Gaio e di Pomponio come delle monografie sull’officium del console e del proconsole che negli stessi anni vengono elaborando Venuleio Saturnino e Ulpio Marcello. Coordinate in trame complesse e articolate, le due categorie ricompongono il polimorfismo istituzionale del mondo romano in un sistema di poteri commensurabili malgrado la loro eterogeneità; nello stesso tempo, esse risolvono l’anomalia della posizione del principe negandone la specificità e riconducendola, non senza forzature e incorenze, al modello magistratuale riproposto con arditi interventi come paradigma di ogni funzione di governo. Nella letteratura pubblicistica di questa età il Liber singularis enchiridii di Sesto Pomponio costituisce, com’è noto, un riferimento obbligato per l’organicità e l’ampiezza del profilo di storia istituzionale che vi si delinea. Alla fine del principato di Adriano, o tutt'al più nei primi anni di quello di Antonino Pio, il giurista ripercorre le vicende del* A. GIARDINA (a cura di) Società romana e impero tardoantico Istituzioni, ceti, economie, Roma-Bari, 1986, 37-56; 634-638.
1,
221
l’organizzazione giuridica del populus Romanus, dalle origini romulee ai tempi suoi. L’analisi si sviluppa, per lo meno nelle articolazioni iniziali, conservate da un lunghissimo frammento nei Digesta giustinianei!, secondo uno schema tripartito. Un primo capitolo considera l’origo atque processus iuris?, tracciando la successione cronologica delle iuris constituendi viae?, cioè dei procedimenti attraverso i quali il populus è venuto costruendo nel tempo le sue istituzioni. Un secondo illustra nomina e origo dei magistrati",
nella dichiarata convinzione che l'effetto del diritto si raggiunge attraverso l'opera di coloro che sono preposti alla giurisdizione: per eos qui iuri dicundo praesunt effectus rei accipitur?. Un terzo capitolo propone infine la successio auctorum, la genealogia ideale di quanti maximae dignationis apud populum Romanum fuerunt, professando la scientia iuris civilisó; il complesso delle norme che costituiscono l'ordinamento non puó infatti «tenersi insieme» (constare), se non vi sia un qualche giurista per quem possit cottidie in melius produci. Pur prendendo l'avvio dall'osservazione dell'interdipendenza fra attività giusdicente e produzione del diritto, il capitolo sulle magistrature non si limita a considerare di esse il profilo giurisdizionale, e a tracciarne la vicenda dalle origini. Sin dall'impianto della trattazione un interrogativo retorico (quantum est enim ius in civitate esse, nisi sint qui iura regere possint?) corregge l'angolazione della ricerca e la
amplia, spostando l'analisi dallo ius dicere allo iura regere. La formula, senza riscontro nella tradizione giurisprudenziale ma non priva di assonanze letterarie, individua come compito precipuo del magistrato il dirigere e l’indirizzare le norme, in una valutazione complessiva dunque che, supe-
! Dig. 1.2.2, Pomp. libro singulari enchiridii. 2 Ivi, pr.--12. 3 Cfr. ivi, 1.2.2.11: novissime sicut ad pauciores iuris constituendi vias transisse ipsis rebus dictantibus videbatur per partes, evenit ut... 4 Ivi, 1.2.2.13-34. ? Ivi, 1.2.2.13: post originem iuris et processum cognitum consequens est, ut de magistratuum nominibus et origine cognoscamus, quia, ut expo-
suimus, per eos qui iuri dicundo praesunt effectus rei accipitur: quantum est enim ius in civitate esse, nisi sint, qui iura regere possint?.
$ Ivi, 1.2.2.35-53.
7 Ivi, 1.2.2.13, cit.
222
rando i confini dell’amministrazione della giustizia, investe la totalità delle funzioni di governo e ne sottolinea l’inestricabile intreccio con l’ordinamento giuridico della civitas. In una direzione non diversa già il racconto degli inizi della città, nella prima parte del frammento, aveva rievocato un indistinto unitario manu gubernare dei re per ritrovare in esso i primordi stessi del processus iuris®. Nella ricognizione delle magistrature, si ripercorrono le tappe attraverso le quali il potere magistratuale viene via via definendo le sue forme nel tempo, e ci si sofferma puntigliosamente su ciascuna variazione nel disegno degli istituti di governo, anche quando le interferenze con l’assetto delle attività giudiziarie siano assai labili, o del tutto inesistenti. Solo alla fine della lun-
ga analisi un esplicito, brusco restringimento di ottica (ergo ex his omnibus decem tribuni plebis, consules duo, decem et octo praetores, sex aediles in civitate iura reddebant?) ri-
conduce il discorso al tema di partenza, proponendo uno schema sintetico dei magistrati investiti di funzioni giudiziarie. Malgrado la tormentata e per più aspetti oscura tradizione dello scritto pomponiano, è dunque possibile ritrovare nel passo escerpito dai compilatori giustinianei tracce evidenti di una considerazione unitaria e onnicomprensiva della potestas magistratuale, riassunta e risolta nel regere iura, e di cui l'amministrazione della giustizia costituisce solo una delle possibili espressioni. Nell’esposizione delineata dall’Enchiridion, la storia del-
la magistratura muove dai re, assumendo la monarchia arcaica come archetipo del potere magistratuale: initio civitatis huius constat reges omnem potestatem habuisse!®. Anche
se il testo dell' Enchiridion non offre, e forse non ha mai offerto, indicazioni esplicite sull origine e sul fondamento del potere regio, peraltro pienamente acquisito alla morfologia delle istituzioni del populus Romanus, la teoria della magistratura sottesa all'analisi pomponiana emerge con piena evidenza nel racconto dell'origine del consolato. Espulsi i re, ricorda il giurista, furono istituiti due consoli, ai quali
8 Ivi, 1.2.2.1: et quidem initio civitatis nostrae populus sine lege certa, sine iure certo primum agere instituit omniaque manu a regibus guberna-
bantur. ? Ivi, 1.2.2.34.
10 Ivi, 1.22.14. 223
una legge rogata conferi un summum ius, sostanzialmente identico al potere regio se un’altra legge dovette intervenire a sospenderne l’efficacia nei confronti dei cives che provocassero al popolo: ne per omnia regiam potestatem sibi vin-
dicarent, lege lata factum est ut ab eis provocatio esset!. Il potere consolare trova dunque, nell'ottica di Pomponio, la sua genesi formale e il suo fondamento istituzionale nella legge comiziale. La legge crea il potere dei consoli come supremo potere di governo nella comunità (summum ius); ne investe i designati dal popolo (i due momenti sono tenuti distinti dal giurista, che ferma la sua attenzione sul primo piuttosto che sul secondo); ne subordina l'esercizio allo iussum
populi per le questioni de capite civis Romani. Nella considerazione pomponiana quel potere é assunto pertanto come unitario, autosufficiente, insuscettibile di limiti che non sia-
no quelli relativi all’ambito in cui va esplicato. Il magistrato lo acquista a titolo originario in virtü della legge, non lo deriva come mandatario dall'assemblea (nella stessa linea, con
formulazioni piü esplicite, il tema sarà sviluppato in età se-
veriana nei dibattiti sulla iurisdictio mandata)"^, lo gestisce
discrezionalmente nell'ambito di un generico plurimum consulere rei publicae. Gli officia, i compiti che il magistrato è chiamato a svolgere nell’ambito della sua attività di governo, esercitando il
potere di cui è titolare, sono espressioni discrezionali di questo potere, e appaiono perciò a Pomponio pressoché irrilevanti per costruire la tipologia delle magistrature. Il riferimento a uno degli officia in cui può esplicarsi il potere consolare, l’agere censum, è così introdotto in modo
del tutto
incidentale nel racconto dell’origine dei censori, senza implicare peraltro un mutamento di prospettiva nell’analisi, che continua a snodarsi attraverso la rilevazione dei poteri
piuttosto che delle funzioni!*. Allo stesso modo, questa im-
postazione metodica non é alterata nelle sue linee di fondo dal ricordo dell’officium dei magistri equitum e dal suo accostamento a quello dei prefetti del pretorio, in un contesto
11 Ivi, 1.22.16. 12 Cfr. Dig. 1.21.1, Papin. libro primo quaestionum; 1.21.2 (Ulp. libro tertio de omnibus tribunalibus); etc.
13 Dig. 1.2.2.17: post deinde cum census iam maiori tempore agendus
esset et consules non sufficerent huic quoque officio, censores constituti sunt.
224
che presenta indizi di rimaneggiamenti formali, pur nella sostanziale fedeltà all’originale pomponiano!^. La complessitä della lettura che l’Enchiridion dispiega nell’analizzare il consolato si attenua nel corso dell’esposizione, che prosegue comunque nella stessa prospettiva, registrando il moltiplicarsi dei titolari di poteri di governo e lo specificarsi delle aree di intervento attraverso i secoli, fino
all’età di Nerva e all’istituzione del pretore fiscale!°. Il ri-
chiamo alla legge è sostituito, per le nuove figure organizzative, dal rinvio a provvedimenti normativi indeterminati 0,
per gli episodi più recenti, ad atti imperiali, gli uni e gli altri unificati nella costruzione di un ordo magistratuum, di un sistema graduato cioè di titolari di poteri pubblici. L'individuazione della categoria, esplicita nel confronto fra il prae-
fectus urbi feriarum Latinarum e i prefetti imperiali all’annona e ai vigili, i quali non sunt magistratus sed extra ordinem utilitatis causa constituti sunt!®, appare di fatto sottesa
a tutta la trattazione, alla quale conferisce un'organicità e una compattezza teoriche assenti invece nel discorso sugli iura, svolto nella prima parte del frammento. Alla serie diacronica di stratificazioni eterogenee in cui si risolve la vicenda delle iuris constituendi viae 1n quel contesto, subentra
ora una considerazione unitaria del sistema magistratuale, dell'ordine delle magistrature osservato nel suo svolgimento
storico. Il carattere ellittico, in qualche passaggio frammentario, dell'esposizione pomponiana come la leggiamo nella raccolta giustinianea, non permette di riconoscere con sicurezza i criteri assunti dal giurista per definire l'ordo: e potrebbe anche pensarsi alla passiva adesione a un canone an-
14 Ivi, 1.2.2.19: et his dictatoribus magistri equitum iniungebantur sic, quo modo regibus tribuni celerum: quod officium fere tale erat, quale hodie praefectorum praetorio, magistratus tamen habebantur legitimi. Per l'analisi del testo cfr. F. GRELLE, Arcadio Carisio, l'officium del prefetto del pretorio e i munera civilia, in corso di stampa negli Scritti in memoria di G. Boulvert, Index, 15, 1987.
15 Ivi, 1.2.2.32: divus deinde Augustus sedecim praetores constituit.
Post deinde divus Claudius duos praetores adiecit qui de fidei commisso ius dicerent, ex quibus divus Titus unum detraxit: et adiecit divus Nerva
qui inter fiscum et privatos ius diceret. Ita decem et octo praetores in civitate ius dicunt. 16 Ivi, 1.2.2.33; cfr. 1.2.2.19, cit., per la parallela esclusione dalle magistrature del prefetto del pretorio, sia pure con motivazione un po’ diversa.
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tiquario. Ma è più verosimile che la categoria implichi una meditata scelta sistematica, per cui il carattere magistratuale sarebbe riconosciuto solo alle figure organizzative aventi particolari connotazioni, quelle riconducibili alle forme tradizionali, preaugustee, del consulere rei publicae. In questa direzione orienta il fatto che manca fra i magistrati proprio il principe, evidentemente restituito alla molteplicità delle potestates di cui è investito, secondo
una linea antitetica a
quella delle coeve Istituzioni gaiane!”; e ne sono esclusi i prefetti all’annona e ai vigili, con argomentazioni che nel testo tramandatoci dai Digesta restano appena accennate, ma che potrebbero avere sottolineato l’incompatibilitä della magistratura con i compiti, predeterminati e subalterni, attribuiti ai due funzionari, se il confuso riferimento a esigenze di utilità, istituzionalizzate extra ordinem, conserva ancora una
traccia del discorso originario. In ogni caso, la riproposizione del canone tradizionale dei magistrati determina un evidente divario fra l’indagine delle iuris constituendi viae, conclusa nel primo capitolo delP Enchiridion dal riconosci-
mento al principe di una sua propria capacità normativa!5, e l’analisi dei poteri di governo, così rigorosamente fedele agli schemi dell’organizzazione cittadina, e rafforza pertanto l’ipotesi di una opzione sistematica sorretta da una decisa, consapevole scelta ideologica. La considerazione potestativa della magistratura e la parallela riduzione delle attività di governo al modello della potestas magistratuale non significano per gli intellettuali adrianei uno stanco adeguarsi a canoni di veneranda antichità, o un loro recupero arcaicizzante. L’ordo magistratuum
individua una serie graduata di poteri formalmente omogenei, anche se diversi per ampiezza e spazio di esplicazione, attribuiti ai titolari in forma diretta e personale, assunti come originari e autosufficienti, e perciò gestiti discrezionalmente nei limiti fissati per ciascuno. Ma un sistema istituzionale di tal genere riflette nell’architettura delle forme giuridiche l’assetto politico che i ceti di governo realizzano nella pratica contemporanea e ripropongono come modello ideale.
17 Gaius inst. 1.5: constitutio principis est quod imperator decreto vel edicto vel epistula constituit. Nec umquam dubitatum est, quin id legis vicem optineat, cum ipse imperator per legem imperium accipiat.
18 Dig.1.2.2.11.
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L'egemonia di un blocco di forze eterogenee nella legittimazione e composite nelle connotazioni strutturali trova nell’equilibrio dinamico delle potestà magistratuali meccanismi adeguati a custodire e sviluppare i profili tradizionali del proprio potere, nonché a mediare e ricomporre nello stesso tempo i conflitti indotti da particolarismi di ceti, gruppi ed etnie; a combinare la frammentazione delle clientele personali e familiari con l’unità della decisione politica; a contemperare l’attività normativa del principe col governo oligarchico degli iura. Il collegamento con la potestas contrappone, nell’analisi pomponiana, i compiti, gli officia del magistrato agli officia svolti da un privato, da chi non sia titolare di poteri pubblici, anche nella apparente identità dello scopo che si persegue. La definizione del munus publicum che i compilatori hanno escerpito dall’Enchiridion afferma infatti: munus publicum est officium privati hominis ex quo commodum ad singulos universosque
cives
remque
eorum
imperio
magistratus
extraordinarium pervenit'”. Il passo è inserito in un contesto che presenta, nella redazione giustinianea, una marcata articolazione lessicografica, ma che nell’originale pomponiano potrebbe avere avuto struttura e andamento diversi. Certo, esso integra per i suoi contenuti l’analisi delle magistrature,
spingendosi a considerare l’insieme delle attività che costituiscono
la trama
della vita organizzativa della civitas,
ma
che non possono essere ricondotte all’espletamento dl poteri magistratuali. Ancora agli inizi del principato queste attività venivano elencate alluvionalmente nei documenti senatorii,
se la parafrasi marcianea della lex Iulia repetundarum riprende il dettato di un senatoconsulto nell'estendere l'ambi-
to di applicazione della legge, secondo la convincente ipotesi del Ferrini: Lex Iulia repetundarum pertinet ad eas pecunias quas quis in magistratu potestate curatione legatione
vel quo alio officio munere ministeriove publico cepit”. Pomponio ne propone invece una riclassificazione unitaria, riconducendole tutte alla categoria del munus publicum, elevato a genus degli officia che non implicano un honor, in
1? Dig. 50.16.239.3, Pomp. libro singulari enchiridii. 20 Dig. 48.11.1, Marcian. libro quarto decimo | institutionum; cfr. C. FERRINI, Diritto penale romano, in Enciclopedia del Diritto penale italiano, dir. da E. Pessina, 1905, 460.
227
quanto chi li assume resta nella condizione di privatus homo, operatore di funzioni pubbliche non per potestà propria ma imperio magistratus. Officium appare dunque, in queste riflessioni pomponiane, termine dal significato assai ampio, riferito indifferentemente ai compiti svolti dal magistrato in modo autonomo e discrezionale, in virtù del potere di cui è investito, non meno che a quelli gravanti sul privato in conseguenza di un comando giuridicamente vincolante. Le diverse accezioni sembrano tuttavia trovare un comune denominatore nel riferimento costante e sottolineato a un fa-
cere più o meno doveroso, per la diversa fonte dell’obbligo, ad attività e comportamenti personali diretti a produrre un commodum per i cives. Destinata assai verosimilmente alla didattica elementare,
l'operetta pomponiana sistema e ripropone concezioni diffuse, orientamenti consolidati nella cultura giuridica dei ceti di governo, che gli interventi dell'autore non modificano in misura determinante, nelle linee di fondo. La concezione
potestativa delle attività di governo, la considerazione indistinta degli atti politici e degli adempimenti amministrativi, il disconoscimento della specificità del potere imperiale costituiscono i] nucleo di un patrimonio comune, cui attingono senza variazioni significative anche le monografie nelle quali, a partire da età adrianea, i giuristi vengono delineando analiticamente i compiti (gli officia) di magistrati e funzionari imperiali. Repertori sistematici di norme derivanti in prevalenza da interventi degli imperatori, e nello stesso tempo trattati di buon governo, ricchi di indicazioni e suggerimenti che spaziano dal cerimoniale alla finanza pubblica, e si ricompongono in veri «specchi di virtü» dell'amministratore, tutti questi scritti escludono una nuova e diversa formalizzazione delle attività di governo, e in particolare l'elaborazione di un concetto di officium diverso da quello pomponiano. Il termine appare qui riproposto ad indicare comportamenti formalmente eterogenei, ma tutti riportabili all'esercizio, solo in taluni casi giuridicamente dovuto, dei poteri del magistrato o del funzionario; e appare pertanto irriducibile cosi al significato soggettivo di «competenza» o, ancor meno, di «complesso di doveri» del funzionario, come a quello oggettivo di «coordinamento funzionale di prestazioni e cose». E tuttavia la rete di condizionamenti, più o meno vincolanti sotto il profilo formale, ma certo determinanti politica228
mente,
stesa intorno all’arbitrium del magistrato?!
rende
sempre meno evidente il carattere potestativo della sua attività, ne riduce drasticamente la discrezionalità, incrina la
stessa indipendenza e autosufficienza del suo potere. Inadeguato a esprimere in tutta la sua complessità la trama delle attività di governo, chiuso alla comprensione delle loro dinamiche, il paradigma pomponiano della magistratura entra così in crisi nella pratica amministrativa prima ancora che nella riflessione giuridica, attraverso le vicende che fra
l’età di Marco Aurelio e quella di Diocleziano imprimono una singolare accelerazione ai tempi lunghi della società antica. Pur senza esprimersi in una rilettura organica delle istituzioni di governo dell’impero, la crisi emerge tuttavia nella riflessione giurisprudenziale, determinando in essa illuminanti aporie. Un passo delle Disputationes ulpianee, agli inizi del III secolo, afferma che si minor praetor, si consul ius dixerit sententiamve protulerit, valebit: princeps enim, qui
ei magistratum dedit, omnia gerere decrevit??. Il passo potrebbe non essere immune da sospetti di rimaneggiamenti; Ulpiano stesso si muove nel de officio proconsulis con ben altra prudenza, nell'analizzare 1 poteri del governatore. Ma proprio il frammento col quale il Lenel chiude Ja palingenesi di questa opera lascia intravedere una nuova considerazione del potere magistratuale, profondamente diversa dal modello tradizionale, e raccordabile in certa misura al suggerimento delle Disputationes: meminisse oportebit usque ad adventum successoris omnia debere proconsulem agere, cum sit unus proconsulatus et utilitas provinciae exigat esse aliquem per quem negotia sua provinciales explicent??. I] proconsolato appare ad Ulpiano unitario pur nel mutare dei magistrati che ne sono investiti; la funzione è separata dal concreto esercizio del potere, per divenire centro di riferimento impersonale del governo provinciale. L'operazione, qui appena accennata, rimanda comunque a un ripensamento radicale dell’ordinamento delle province e dei poteri che in esse si esercitano, riconsiderati come un attributo della funzione 21 L'uso del termine è ulpianeo: Dig. 1.16.6.1, Ulp. libro primo de officio proconsulis: sicut autem mandare iurisdictionem vel non mandare est in arbitrio proconsulis, ita adimere mandatam iurisdictionem licet quidem
proconsuli, non autem debet inconsulto principe hoc facere. 22 Dig. 42.1.57, Ulp. libro secundo disputationum. 23 Dig. 1.16.10, Ulp. libro decimo de officio proconsulis.
229
più che della persona, predeterminati nelle modalità di esercizio e negli obiettivi. Il rilievo dell’unità del proconsolato pur nel succedersi dei proconsoli può infatti essere avvicinato a quanto si legge in un altro passo della stessa opera, che separa le attività di governo dal magistrato a esse preposto, contrapponendo l’uzilitas officii all’usus proprius: plerumque etiam inde (ex bonis damnatorum) conrasas pecunias praesides ad fiscum transmiserunt: quod perquam nimiae diligentiae est, cum sufficiat si quis non in usus proprios verterit, sed ad utilitatem officii patiatur deservire”*. Malgrado la novitä di talune considerazioni, il de officio
proconsulis ulpianeo non propone tuttavia, come si è già osservato, una rielaborazione sistematica dei profili istituzio-
nali del governo provinciale, ma lascia senza esiti quei rilievi, contraddittoriamente inseriti in un disegno che nelle linee di fondo non si discosta dal modello tradizionale dei poteri magistratuali. 2. La militarizzazione del personale di governo, nel corso del III secolo, conferisce ritmi traumatici alla dinamica
delle forme istituzionali. Il distacco del governo dall’amministrazione, l’ordinamento gerarchico dei funzionari, lo svi-
luppo di carriere fondate sull’anzianità e sullo scrutinio, il corrispettivo economico per le prestazioni amministrative — unificato nelle forme dello stipendium e dell'annona — dissolvono quanto resta del sistema magistratuale. Non per caso, lo Staatsrecht mommseniano,
imperniato intorno alle
categorie istituzionali della città-stato, e in particolare intorno alla magistratura, dispone in un disegno senza rotture le articolazioni della morfologia costituzionale dalla mitica età di Romolo agli sconvolgimenti del III secolo, ma lascia fuori dal sistema così delineato gli istituti del riordinamento dioclezianeo-costantiniano. La rinuncia del Mommsen, non meno significativa per la sua storia intellettuale di quella compiuta trent'anni prima, con l’interruzione della Römische Geschichte alle soglie del principato, trova nel 1893 un chiarimento nell’Abriss, che riassume e aggiorna, con im-
portanti modifiche, l’opera maggiore. Al di fuori del piano organico
della trattazione, in un capitolo non numerato,
l’Abriss presenta, come avverte la prefazione, «in un rapido 24 Dig. 48.20.6, Ulp. libro decimo de officio proconsulis. 230
sguardo anche la restaurazione dioclezianea». In essa, afferma l’autore, «è per così dire tutto nuovo. Forse, dacché mondo è mondo, le istituzioni vigenti non sono mai state
travolte e mutate da un capo all’altro con tale energia e con tale pienezza, e si può anche aggiungere, con uno spirito così autoritario e logico» Alla considerazione mommseniana,
l’ordinamento tar-
doantico appare radicalmente diverso dal tuzioni della città, tanto da richiedere una teraria autonoma, slegata dalla sistematica l’opera. L’Abriss non cita le sue fonti, ma do» del Mommsen
sistema delle istipresentazione letcomplessiva delil «rapido sguar-
può essere stato influenzato da un noto
passo dell’Epitome de Caesaribus, che in quegli stessi anni lo storico viene leggendo per gli Ostgothische Studien?® Malgrado la povertà e il semplicismo della schematizzazione, l'Epitome mostra infatti, nel delineare i tratti essenziali
del principato di Adriano, una singolare comprensione dei fenomeni organizzativi tardoantichi, indotta forse da esperienze amministrative dell’autore. Le istituzioni di governo contemporanee appaiono all’anonimo compilatore caratterizzate da un’articolazione in officia, le cui linee maestre risalirebbero all’imperatore del II secolo: officia sane publica et palatina nec non militiae in eam formam statuit quae
paucis per Constantinum immutatis hodie persevera Officium conserva ancora, nell’uso linguistico del IV secolo, un ampio ventaglio di significati, ma il contesto in cui è qui inserito non lascia dubbi sul valore che vi assume: gli officia militiae sono infatti i compiti dei reparti militari, alla cui disciplina Adriano aveva dedicato cure ben note alla tradizione storiografica tardoantica. Parallelamente, gli officia publica et palatina sono le attività dei funzionari che operano nei diversi settori nei quali si articola il servizio imperiale: un riferimento al personale subalterno, secondo un’altra ac-
cezione del termine, non infrequente nel linguaggio legislativo dell’epoca, è esclusa proprio dall’accostamento agli 25 Th. MOMMSEN, Disegno del diritto pubblico romano, tr. di P. Bonfante, a cura di V. Arangio-Ruiz, 1943”, 414.
26 Th. MOMMSEN, Ostgothische Studien, Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde 14, 1889, 467 = Gesammelte Schriften, 6, cit., 404 s.
27 Ps. Aur. Vict. epit. 14.11; cfr. Hist. Aug. Hadr. 22.1: disciplinam
civilem non aliter tenuit quam militarem; cfr. anche 22.8.
231
officia militiae. È anche possibile che la formula sintetica dell’epitomatore riassuma nel termine officium l’intero assetto di ciascun settore dell’organizzazione amministrativa e militare, dalla predisposizione del personale alla determinazione degli obiettivi, con un uso traslato del vocabolo ben individuabile nella legislazione coeva. Le attività civili e militari dispiegate nella gestione dell’impero sembrano cioè ricomporsi per l’autore dell’ Epitome in un sistema, una forma cui tratti essenziali sarebbero stati delineati già da Adriano,
e rinnovati parzialmente da Costantino. Certo, leggere Adriano come precursore di Costantino è un rozzo anacronismo, e impedisce la comprensione della politica istituzionale adrianea. Ma l’ottica del tardo epitomatore, inadeguata a cogliere la specificità delle esperienze del principato, riesce invece a discernere, sia pure confusamente, i prodromi della crisi e della riorganizzazione emergenti fra le ambiguità e le incertezze dell’età degli Antonini. Illuminata dagli sviluppi di una vicenda organizzativa non prevedibile né auspicata al suo inizio, l' Epitome può cosi ritrovare nell’assetto amministrativo adrianeo l'archetipo di un sistema di governo che all'equilibrio dinamico dei poteri magistratuali sostituisce la scomposizione funzionale delle attività di gestione e il conseguente riaccorpamento gerarchico negli uffici. L'attenzione del Mommsen è attratta proprio da questa polarità, per cui l'assetto dioclezianeo-costantiniano 6 caratterizzato, nel profilo che egli ne traccia, dall'enorme rilievo
assunto dall'amministrazione attraverso funzionari. «Soltanto la monarchia dioclezianea — afferma l'Abriss — ha svolto un ordine generale vero e proprio di istanze, e questo è il fondamento precipuo della burocrazia che domina intera-
mente il nuovo regime pubblico»?8. La considerazione del-
l'impero tardoantico come forma organizzativa connotata da una sua propria architettura, contrassegnata dalla burocratizzazione delle attività di governo non meno che dal potere decisionale assoluto del monarca, trova cosi in queste pagi-
ne una prima formulazione organica, in stretto collegamento con un'analisi dei fini del sistema politico che privilegia su tutte le esigenze della difesa esterna e del drenaggio fiscale. Lo schema mommseniano resta per molti aspetti suggestivo assai più delle versioni stemperate nella trattatistica 28 TH. MOMMSEN, Disegno del diritto pubblico romano, cit., 419.
232
posteriore. Sono tuttora utili l’indicazione del distacco fra politica e amministrazione, nell'ordinamento tardo imperiale, e il rilievo dell’incidenza che acquisiscono in esso le attività di mera amministrazione; i cenni alla professionalità dei funzionari costituiscono interessanti anche se rapidissime anticipazioni delle celebri analisi che Max Weber, in quegli anni allievo del Mommsen, svilupperà più tardi; l'embrionale sociologia dell’amministrazione qui tracciata riafferma la sua efficacia interpretativa di pari passo con il nuovo interesse per i caratteri specifici, così profondamente diversi, dell’agire politico nel principato, e in particolare con la riscoperta del rilievo che in esso ha la clientela e la sua cultura. Tuttavia il modello di Stato assoluto, burocratico-milita-
re, disegnato dal Mommsen è per più versi inadatto alla comprensione dei fenomeni istituzionali che caratterizzano il mondo romano della tarda antichità. Gli elementi di novità (si potrebbe dire di modernità) che accompagnano l’accentramento del potere politico e il suo accentuato decisionismo appaiono in quel sistema ambigui. L'uniformità, 1] livellamento, la spersonalizzazione dei rapporti fra governanti e governati, la prevedibilità dei comportamenti amministrativi, il controllo centralizzato degli apparati costituiscono fenomeni limitati, se non del tutto estranei a un mondo che non conosce né le forme dello Stato, né il loro concreto
operare nella ricomposizione sociale. 3. Le linee secondo le quali si sviluppa la riflessione tardoantica intorno alle istituzioni di governo appaiono già net-
tamente segnate nel lungo passo che i compilatori giustinianei hanno tratto dal Liber singularis de officio praefecti
praetorio del magister libellorum Aurelio Arcadio Carisio. Autore anche di una monografia de muneribus civilibus che più indizi inducono a collocare nella prima età dioclezianea, Carisio può avere retto lo scrinium incaricato dell’elaborazione dei rescritti imperiali fra la fine della tetrarchia dioclezianea e il consolidamento del regime costantiniano. Se l’ipotesi è fondata, egli ha partecipato per qualche tempo — fra i protagonisti o come esecutore di indicazioni altrui — alle vicende attraverso le quali si è venuto definendo in questo periodo il nuovo assetto istituzionale dell’impero. Fra l'altro, le riforme hanno investito, come è noto, l'organizzazione dei servizi di cancelleria, hanno sottratto l’antico
procuratore a libellis al suo rapporto diretto con l’imperato233
re, lo hanno inserito in un complesso apparato, unitario e gerarchico, alle dipendenze di un nuovo funzionario, un tribu-
nus et magister officiorum, che nella stessa titolatura lascia intravedere il modello militare sul quale il riordinamento & ricalcato. Attraverso il magister officiorum & assai probabile che il personale della cancelleria sia stato sub dispositione del prefetto del pretorio, fino a quando tarde innovazioni costantiniane non vennero progressivamente trasformando l'antico collaboratore del principe nel piü alto funzionario dell'amministrazione periferica. Il Liber singularis de officio praefecti praetorio ignora peτὸ quest'ultimo riassetto costantiniano, come anche l'istituzione dei magistri militum, che sembra lo avesse preceduto di oltre un decennio, sottraendo al prefetto le sue competenze militari. La monografia colloca invece il funzionario ai vertici dell’intera organizzazione di governo, e continua a riconoscergli, tra le altre funzioni, quelle di comando degli eserciti, in un rapporto di totale fungibilità con l’imperatore, pur nella sottolineata subalternità gerarchica, come suggerisce il recupero dell'assimilazione pomponiana agli arcaici magistri equitum: ... nam cum apud veteres dictatoribus ad tempus summa potestas crederetur et magistros equitum sibi eligerent, qui adsociati participales curae ad militiae gratia [ad curas militiae gratia: Mommsen]
secundam post eos potestatem gererent, regimen-
tis rei publicae ad imperatores perpetuos translatis ad simili-
tudinem magistrorum equitum praefecti praetorio a principibus electi sunt; data est plenior eis licentia ad disciplinae publicae emendationem??. In forma ancora più esplicita, la traduzione greca che Giovanni Lido inserisce nel suo de magistratibus, muovendo forse da un testo leggermente diverso, afferma: καὶ δέδοται αὐτῷ μείζων ἢ κατ ἐκεῖνον ἰσχὺς. τῆς τε διοικήσεως τῶν πραγμάτων τῆς τε καταστάσεως καὶ ue σεῶς τῶν στρατευμάτων καὶ ἐπανορθώσεως ἀπάσης" 9 L’o-
peretta di Carisio potrebbe perciò riflettere la primissima fase della storia tardo-antica della prefettura, quella in cui si consolidano e si articolano le funzioni di governo del prefetto, e costituire forse un tentativo di intervento nella definizione formale dei poteri prefettizi, indotto dalla duplice esperienza, di giurista e di funzionario, dell’autore.
29 Dig. 1.11.1.1. 30 Lyd. mag. 1.14. 234
Il passo tramandato dalla compilazione giustinianea conserva un frammento
del prologo della monografia, insuffi-
ciente per ricostruire l’andamento dell’intero scritto, ma illuminante per la lucida consapevolezza dei mutamenti che vengono
verificandosi nell’assetto istituzionale dell’impero,
l’attenzione a cogliere la rottura con le forme del principato, il superamento dell’antinomia fra magistrature e procuratele, la derivazione di tutti i poteri pubblici dal principe, il riordinamento gerarchico delle attività e del personale. Certo, il discorso si sviluppa in un serrato anche se sotterraneo dialogo con la tradizione giurisprudenziale, gli scriptores coperti dall’anonimato in una citazione in cui non è comunque difficile ritrovare il Pomponio dell’ Enchiridion: ad vicem magistri equitum praefectos praetorio antiquitus institutos esse a
quibusdam scriptoribus traditum est’. La dipendenza dall'Enchiridion nell'assimilazione del magister equitum al prefetto, cosi come piü in generale il recupero di temi e categorie della riflessione pubblicistica soprattutto ma non esclusivamente di età severiana non costituiscono tuttavia una passiva acquiescenza ai modelli precedenti, e accentuano piuttosto, nel confronto, la novità del giurista tardoantico, e il divario intercorrente fra la cultura istituzionale che
ne sorregge l’analisi e la teoria dei poteri pubblici ancora rintracciabile in quegli scritti. Carisio lascia così cadere la riserva pomponiana per la quale i prefetti sono esclusi dal canone dei magistrati legitti-
mi?^, e trasforma il parallelismo funzionale suggerito da
Pomponio in un nesso genetico, collegando senza soluzione di continuità la prefettura augustea alla magistratura arcaica. Magistrati e prefetti — ma l’osservazione non può non essere estesa a tutti i funzionari imperiali — sono implicitamente ricomposti in un disegno unitario e onnicomprensivo delle attività di governo, un disegno che consente il ricorso alla ter-
minologia magistratuale anche per le attività dei subalterni dell’imperatore, pur se dissolve la specificità delle categorie tradizionali nella considerazione indistinta di potestas e auc-
31 Dig. 1.11.1.1; cfr. 1.2.2.19 (Pomp. libro singulari enchiridii). Cfr. n. 14.
32 Ivi, 1.11.1.2: subnixi sunt etiam alio privilegio praefecti praetorio,
ne a sententiis eorum minores aetate ab aliis magistratibus nisi ab ipsis praefectis praetorio restitui possint.
235
toritas”. La potestas dei magistri equitum diventa infatti l'immediato precedente storico dell’auctoritas dei prefetti del pretorio, e quest'ultima si risolve in una plenior licentia o, nella traduzione di Giovanni Lido, in una μείζων... ἰσχύς: un potere enorme, ma assai lontano nella sua configurazione giuridica dal modello classico della potestas magistratuale. Ancora in età adrianea il magistrato era riproposto dall' Enchiridion pomponiano come tramite necessario fra il momento della produzione dello ius e il suo tradursi in esperienza concreta della collettività (per eos qui iuri dicundo praesunt
effectus rei accipitur^^) e in quanto tale si vedeva riconosciu-
ti poteri diversi per ampiezza, ma in ogni caso originari, autosufficienti, nei propri limiti indipendenti e discrezionali. Istituiti e regolati da provvedimenti imperiali che Carisio richiama di continuo, intessendo il suo discorso di insistenti
rinvii, i prefetti del pretorio sono invece designati dagli imperatori (a principibus electi) per assumere poteri che sembrano trovare anch'essi un fondamento immediato nella norma istitutiva (data est plenior eis licentia), secondo il model-
lo delineato da Pomponio per i magistrati, ma che dalla norma stessa sono funzionalmente collegati a quelli del principe. I funzionari infatti appaiono al giurista tardoantico preordinati a integrare con l'esercizio delle proprie facoltà l'attività di governo imperiale, o del tutto a sostituirla, producendo gli stessi effetti, se il principe lo disponga. In questa prospettiva l’interpretazione autentica dell'imperatore ha potuto troncare il dibattito sull'appellabilità delle sentenze prefettizie respingendo una tesi tutt'altro che insostenibile (cum... appellare et iure liceret et extarent exempla), e ha proibito l'appello al principe (credidit enim princeps eos... non aliter iudicaturos esse pro sapientia ac luce dignitatis suae, quam ipse foret
iudicaturus)?. L'appello produrrebbe una duplicazione del procedimento, dal momento che il principe si riconosce nelle sentenze dei funzionari chiamati ad amministrare la giustizia.
33 Ivi, 1.11.1: magistros equitum... qui adsociati... secundam post eos potestatem gererent: regimentis rei publicae ad imperatores perpetuos translatis ad similitudinem magistrorum equitum praefecti praetorio a principibus electi sunt. Data est plenior eis licentia ad disciplinae publicae emendationem. His cunabulis praefectorum auctoritas initiata in tantum meruit augeri, ut... 34 Dig. 1.2.2.13, cit. 35 Dig. 1.11.1.1.
236
Nella stessa linea, il contemporaneo Ermogeniano motiva l’esclusione dell’appello con l’impossibilità di rilevare nelle sentenze prefettizie iniquità impugnabili, in quanto evidentemente postula per esse una completa assimilazione alle ma-
nifestazioni di volontà imperiali”.
Più che analizzare i poteri del prefetto, il proemio del Liber singularis de officio praefecti praetorio si propone tutta-
via di sviluppare la ricerca delle origini dell’istituto, quasi a riaffermare l’ininterrotta continuità della sua storia contro
modifiche troppo radicali nell'assetto o nelle funzioni: breviter commemorare necesse est, unde constituendi praefectorum praetorio officii origo manaverit. L'interesse del giurista si concentra sull'origo constituendi officii, & diretto cioé a indagare la sistemazione normativa
originaria dei
compiti e delle attività prefettizie, i1 modo in cui esse sono state definite dalle più antiche decisioni imperiali, utilizzando officium in un'accezione che sembra qui registrata per la prima volta nella letteratura giurisprudenziale, e che cancel-
la ogni valenza soggettiva del termine, portando cosi a compimento un processo le cui prime tracce sono peraltro già percepibili in età severiana. Nel discorso di Carisio officium acquista infatti un valore traslato, e viene ad indicare non
già il dovere del prefetto — non si comprenderebbe in tale ipotesi il riferimento al constituere — ma l'opera spersonalizzata e stilizzata del funzionario, della quale le disposizioni imperiali tracciano i contorni essenziali, assumendola nello stesso tempo come autonomo centro di imputazione, distinto
dalla persona che è ad essa chiamata. Il tema dell’origo così come l’attenzione per il constituere riconducono
a sugge-
stioni pomponiane, come si è detto; ma il magister libellorum rielabora le indicazioni del suo modello attraverso un procedimento di astrazione che traduce in categorie le modalità del servizio imperiale, un procedimento parallelo a quello che per altra via e in altri contesti è venuto introducendo una considerazione entificante del personale addetto
ai diversi settori del servizio, espressa peraltro anch’essa attraverso un uso traslato del termine officium?’. La ricerca
36 Dig. 4.4.17, Hermog. libro primo iuris epitomarum. 37 Già nell’esposizione di un caso da parte di Cervidio Scevola in Dig. 13.7.43.1, Scaev. libro quinto digestorum: missus ex officio annonae centurio; e in un epistola dei divi fratres ricordata da Ulpiano in Dig.
237
pomponiana dell’origine dei poteri magistratuali, indagati nel loro intreccio col costruirsi della comunitä in ordinamento, si risolve cosi per il giurista tardoantico nel ripercorrere a ritroso nei secoli il disegno organizzativo imperiale, attraverso il suo rivelarsi nei mutamenti degli uffici che ne costituiscono le strutture elementari, in modo da attingerne le linee di fondo, guida per l’interprete e limite alla discrezionalità del legislatore. La nostra conoscenza dell’opera di Carisio è contenuta entro termini insuperabili dall’esiguità dei testi pervenutici — sei frammenti, per meno di quattro colonne a stampa, nella
palingenesi del Lenel —, e impone pertanto estrema prudenza nel generalizzare le indicazioni in essi rintracciabili. Non sappiamo così se, e in quale misura, la monografia sul prefetto del pretorio sviluppasse il tema del prologo, assumendo l’ufficio, inteso come entità organizzativa del servizio imperiale, a paradigma dell’intera esposizione, gl rilievo conferito alla fides e alla gravitas del funzionario??, per motivare l'equiparazione delle sue sentenze a quelle del principe, può tuttavia suscitare qualche dubbio, in quanto sembra implicare un aggiustamento di ottica, e il recupero di caratteri individuali nella definizione delle attività del prefetto. Una coerente riduzione di tutte le attività di governo al-
lo schema dell'officium incontra peraltro nella riflessione di Carisio ostacoli assai rilevanti nell’impatto con 1 particolarismi territoriali. L'assenza di riferimenti all’officium nel lunghissimo frammento del Liber singularis de muneribus civilibus conservato in Dig. 50.4.18 appare infatti (sebbene l'opera sia di qualche anno anteriore al de officio praefecti 48.18.1.27, Ulp. libro octavo de officio proconsulis: eum per officium distrahi. Successivamente in Ulpiano, Dig. 1.18.6.5, Ulp. libro primo opinionum; Dig. 2.8.7.2, Ulp. libro quarto decimo ad edictum; Dig. 10.4.11.1, Ulp. libro vicensimo quarto ad edictum), contesti tuttavia non immuni da sospetti di alterazioni; cfr. anche Modestino, Dig. 47.2.73, (72), Mod. libro
septimo responsorum bro secundo
infine in Ermogeniano, Dig. 21.2.74.1, Hermog. li-
iuris epitomarum)
e, con particolare frequenza, nelle Pauli
Sententiae, Dig. 2.4.17, Paul. libro primo sententiarum; Dig. 11.4.4, Paul. libro primo sententiarum; Dig. 49.14.45.8, Paul. libro quinto sententiarum; Paul. sent. 1.6a.6; Paul. sent. 5.1.3.
38 Dig. 1.11.1.1: credidit enim princeps eos qui ob singularem indu-
striam explorata eorum fide et gravitate ad huius officii magnitudinem adhibentur, non aliter iudicaturos esse pro sapientia ac luce dignitatis suae, quam ipse foret iudicaturus.
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praetorio??) il risultato di una consapevole scelta teorica piuttosto che il riflesso di un’incompiuta maturazione, o addirittura il prodotto involontario della selezione compilatoria. Il passo, l’unico a noi giunto di quel libro, offre una variegata, a tratti pittoresca ricognizione delle forme secondo le quali si articola l’amministrazione delle civitates nell’impero, e
riconduce la molteplicità degli istituti cittadini all’antico schema dualistico dell’honor e del munus,
continuando a
porre in evidenza per l’uno e per l’altro soprattutto la dimensione del facere, pur nella tripartizione dei munera in personalia, patrimoniorum e mixta. La gestione delle civitates at-
traverso gli istituti dell’autogoverno locale appare, in questa prospettiva, estranea e irriducibile a un sistema di uffici, sebbene la connotazione pubblica delle attività nelle quali si specifica l’administrare individui un denominatore comune al governo cittadino e al servizio imperiale: nam personalia et patrimoniorum et mixta munera civilia seu publica appellantur*°, afferma infatti il giurista avviandosi a concludere la sua analisi. L’amministrazione locale resta cioè ancorata ai modelli tradizionali di attività pubbliche, trasmessi da un complesso di norme tuttora decisamente connotato dal pluralismo cittadino: et quaestura in aliqua civitate inter honores non habetur sed personale munus est'*; ; elemporia , et pratura apud Alexandrinos patrimonii munus existimatur? ; praete-
rea habent quaedam civitates praerogativam ut... 43. Si hi qui Junguntur ex lege civitatis suae vel more etiam de proprüs facultatibus impensas faciant**.
I] modo impersonale e astratto secondo cui Carisio considera le attività di governo, riflesso nell'uso di officium, non
resta un episodio isolato nella cultura giuridica di età dioclezianeo-costantiniana, prodotto di una riflessione particolarmente sensibile alle novità istituzionali del tempo suo. Se potessimo riferire al primo libro del Codice Gregoriano anche alcuni titoli de officio, avremmo un consistente indizio per riconoscere al compilatore dioclezianeo una nozione dell'istituto non lontana da quella del magister libellorum: sarebbe 39 ^9 ^1 #2 43 ^5
Cfr. F. GRELLE, Arcadio Carisio, cit., n. 16 (2269 n. 16). Dig. 50.4.18.28. Ivi, 50.4.18.2. Ivi, 50.4.18.19. Ivi, 50.4.18.25. Ivi, 50.4.18.27. 239
infatti difficile attribuire all’autore del Codice un’utilizzazione delle rubriche diversa da quella che si riscontra piü tardi nella sistematica del Teodosiano,
dove troviamo riaf-
fermata e consolidata una teoria dell’officium assai vicina a quella di Carisio. Purtroppo, ignoriamo quasi tutto dell’ordine del primo libro del Gregoriano, in quanto la possibilitä di ricostruire l'archetipo dioclezianeo attraverso le compilazioni successive è per questa parte quanto mai dubbia, e l’ipotesi mommseniana di un titolo de officio praefectorum praetorio, che avrebbe raccolto le costituzioni precostantiniane confluite poi nel titolo omonimo del Codice di Giustiniano, è stata fortemente incrinata dalle ricerche del Rotondi” Comunque, una pur rapida lettura delle costituzioni di età costantiniana pervenuteci attraverso il Codice Teodosiano permette di ritrovare officium in contesti che non consentono letture persuasive se non nella direzione suggerita dall’uso del de officio praefecti praetorio. Uno degli esempi più interessanti è nel lungo provvedimento con cui nell'aprile del 324 Costantino disciplina l’esonero dei minori dal controllo dei curatori. Indirizzata al praefectus urbi Verinus la costituzione prevede fra l’altro che per fruire del beneficio concesso dalle nuove norme i membri dell’ordine senatorio offrano adeguati elementi di valutazione all’officium del prefetto stesso, dove il termine indica evidentemente l’unità amministrativa di cui il funzionario preposto è considerato
parte integrante*9.
Il riferimento ai senatori e il confronto
con altre disposizioni della legge, che prevedono analoghe
procedure per gli equites Romani, apud praefectum vigilum,
4 G. ROTONDI, Scritti giuridici, 1922, 148 ss. 46 Cod. Theod. 2.17.1: Imp. Constantinus A. ad Verinum. Omnes adulescentes qui honestate morum praediti paternam frugem vel maiorum patrimonia urbana vel rustica conversatione rectius gubernare cupiunt et imperiali auxilio indigere coeperint, ita demum aetati veniam impetrare audeant cum vicesimi anni clausae aetas adulescentiae patefacere sibi ianuam coeperit ad firmissimae iuventutis ingressum [...] Ita ut senatores apud gravitatis tuae officium de suis moribus et honestate perdoceant, perfectissimi apud vicariam praefecturam, equites Romani et ceteri apud praefectum vigilum, navicularii apud praefectum annonae [...] Data V Id. April. Thessalonica. Proposita III Kal. lun. Romae, Crispo II et Constantio II CC. conss. La data del 9 aprile 321 è corretta dal Mommsen nel 9 aprile 324: scribendum est Crispo III et Constantino III cum propter magistratum tum propter locum; cfr. O. SEECK, Regesten der Kaiser und Päpste, 1919, 173.
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e per i navicularii, apud praefectum annonae, escludono che in tale contesto officium possa indicare l'insieme del personale a disposizione del prefetto, secondo un'altra accezione del termine non infrequente nel linguaggio della cancelleria tardoantica. Un'ulteriore conferma dell'interpretazione si ritrova nella parafrasi del passo che i compilatori inseriscono nel Codice di Giustiniano, sem p ificando: «apud sublimitatem tuam |scil. praefecti urbi]»
Naturalmente sarebbe arbitrario ricondurre questa costituzione, e le altre che nello stesso periodo attestano un uso simile di officium, alla presenza di Carisio nella cancelleria. La produzione delle leges generales raccolte nel Teodosiano non ha implicato in alcun modo, per quanto ne sappiamo, una partecipazione dello scrinium libellorum; sino a
quando nuovi dati prosopografici o, per lo meno, indicazioni di analisi stilistiche quantitativamente attendibili non renderanno plausibile l'ipotesi di un'ingerenza del giurista nella stesura di quei provvedimenti è opportuno arrestarsi al solo rilievo della coincidenza, già di per se stessa significativa. 4. Il vocabolario amministrativo del Codice Teodosiano richiede un metodico, minuzioso lavoro di analisi filologica
e di ricostruzione sistematica per giungere a recuperare in tutta la loro complessità le vicende attraverso le quali nel corso di un secolo si affermano e si consolidano le forme teoriche
dell'amministrazione
tardoantica,
e si costruisce
una nuova cultura delle istituzioni. Nell'attesa di un'indagine di tal genere, che supera evidentemente i limiti di questa ricerca, una prima, sommaria analisi delle costituzioni con-
servate dal Codice puó comunque offrire elementi di qualche interesse. Riproponendo e generalizzando considerazioni già rintracciabili in taluni interventi della giurisprudenza severiana, e piü tardi di quella dioclezianea, i documenti imperiali del IV secolo insistono nell' indicare tratti comuni al servizio dei funzionari e alla gestione dei munera e degli honores, ricorrendo per l'uno e per l'altra a una terminologia che ne sotto-
4? Cod. Iust. 2.44.2. 48 Cfr. Cod. Theod. 1.2.1: officium gravitatis tuae observet (30 dicembre 313 Seeck); Cod.Theod. 6.35.4: gravitas tua ex officio rationum aeris speciem postulet (15 marzo 318 Seeck).
241
linea la comune pertinenza alla sfera dell’administrare. Il verbo e i suoi derivati sono riferiti all’opera svolta nel servizio imperiale non meno che ai compiti di amministrazione
locale imposti ai curiali??, secondo un uso del termine non del tutto ignoto alla tarda letteratura giurisprudenziale, ma
rimasto in essa sporadico e marginale?” I compilatori del Teodosiano consolidano l’implicito riconoscimento di una categoria unitaria dell’amministrazione pubblica, inserendo nel libro ottavo una rubrica de his quae administrantibus vel publicum officium gerentibus distracta sunt vel donata, che raccoglie le disposizioni limitatrici della capacità negoziale di quanti esercitano attività pubbliche, senza distinguere in alcun modo, per questo profilo, fra l'assunzione di ho-
nores o munera e lo svolgimento di compiti nel servizio di funzionario. La formula amplissima del titolo sembra cosi ricondurre ogni administrare a un publicum officium gerere, dove peraltro il termine officium ripropone il significato tradizionale di compito, attività più o meno doverosa, sempre presente, accanto ad altri — e in particolare a quello di ufficio, struttura organizzativa — nell’uso della cancelleria tardoantica e in quello stesso dei commissari di Teodosio II°. Ma la considerazione unitaria si arresta a questo punto: all’uso — non sappiamo quanto meditato — di uno stesso denominatore per prestazioni di attività eterogenee nei fondamenti 4° Nel primo senso cfr. administratio in Cod. Theod. 12.1.5 (317); 1.32.1 (333); 6.22.3 (340); 6.22.5 (381); 1.5.11 (398), ecc.; administratiuncula in Cod. Theod. 8.4.10 (365); 1.31 R; administrator in Cod. Theod. 13.5.14 (371); 1.32.2 (377), ecc.; administrare in Cod. Theod. 8.1.1 (343 Mommsen, Seeck); 8.1.6 (362); 9.30.1 (364); 8.15.6 (380), ecc. Nel secondo senso administrare si ritrova in Cod. Theod. 8.15.1 (età costantiniana); 14.25.1 (318 Seeck); 12.1.171 (412 Mommsen, Seeck), etc.
50 Per administrare in riferimento a funzioni imperiali cfr. per es. Dig.
18.1.46, Marcian.
libro singulari de delatoribus; 23.2.38, Paul. libro se-
cundo sentententiarum; 49.14.46.2, Hermog. libro sexto iuris epitomarum. In riferimento
ai munera
1l termine si ritrova in Arcadio Carisio, Dig.
50.4.18. cit., e in Ermogeniano, Dig. 44.3.13.1, Hermog. libro sexto iuris epitomarum.
5! Cod, Theod. 8.15. ?? Cosi in Cod. Theod. 6.22.6: officiis publicis atque militiae muneri-
bus expertes (381); 1.10.5 (400) ecc. Nelle rubriche composte o comunque rielaborate dai compilatori si ritrova in questa accezione in Cod. Theod. 12.10: Ne praefectianus exactoris vel curiosi vel horreorum custodis fungatur officio. Per gerere officium, Cod. Theod. 8.4.14 (383); 12.6.27.2 (400); 6.33.1 (416), etc.
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giuridici; al rilievo della comune destinazione pubblica di quelle attività; all’uniformità del regime predisposto per evitare interferenze fra gestione pubblica e rapporti privati. Attraverso i provvedimenti conservati dal Teodosiano servizio imperiale e funzioni curiali (o senatorie) vedono invece assai di
frequente riaffermati e accentuati i propri caratteri differenziali, in linea con l’orientamento dualistico già individuato nelle analisi di Arcadio Carisio. Così l’ordinamento dei funzionari trova sempre più di frequente un nuovo centro di riferimento formale nell’officium, assumendo il termine nell’accezione già propria a Carisio, per indicare un settore funzionale del servizio; mentre al contrario l’autogoverno più o meno coatto
dei curiali continua a disporsi nelle antiche forme dell’honor e del munus. Certo, la terminologia dei documenti della cancelleria è talora meno rigorosa nella distinzione fra le due aree di quanto non si riscontri nei frammenti del giurista; honor e più spesso munus sono riferiti con qualche frequenza anche a prestazioni di funzionari o di militari??. Ma le oscillazioni del lessico, indotte probabilmente dall’uso comune,
atecnico, dei
due termini, non sembrano intaccare la consapevolezza del divario che separa il servizio dei funzionari — per lo più, ma non necessariamente, militantes negli officia” — e la gestione degli honores e dei munera; né tanto meno esse implicano un attenuarsi delle differenze nella disciplina fra le due aree di amministrazione pubblica. I compilatori del Teodosiano assimilano i munera extraordinaria sive sordida ai tributi, e ne collocano perciò la
53 In età costantiniana munus designa le attività militari alle quali sono chiamati i figli dei veterani: di essi quidam ut desides recusant militarium munerum functionem: Cod. Theod. 7.22.1 (313 Seeck). Per i compiti dei palatini Cod. Theod. 6.35.5: palatini nostri expleto munere fidelis obsequii [...] nihil de concessis privilegiis perdant (328). Per i veterani, protectoria dignitate cumulati aut qui honores varios pro meritis suis consecuti sunt:
Cod.
Theod.
7.20.5
(328
Seeck), é cosi attestata l'accezione
atecnica di honor. 5 T’espressione è già della cancelleria costantiniana, in Cod. Theod. 12.1.22: cum decuriones decurionumque filii deque ex his geniti ad diversas militias confugiant, iubemus eos in quibuscumque officiis militantes exemptos militia restitui curiae (336). Ma ancora a metà del secolo i numerarii sono esclusi dalla militia ad opera di Giuliano o di Gioviano, per esservi riammessi piü tardi da Valentiniano I: Cod. Theod. 8.1.8 (363) e Cod. Theod. 8.1.11 (365). D'altra parte mancano nel Codice Teodosiano
riferimenti espliciti alla militia degli alti dignitari.
243
trattazione nel libro undicesimo??, distaccandola da quella dei munera civilia, che trova posto nel dodicesimo, in stretto
collegamento con altri istituti dell’autogoverno curiale”. Pur separati fra di loro, munera extraordinaria sive sordida e mu-
nera civilia sono comunque tenuti ben distinti dalle attività di amministrazione svolte dai funzionari imperiali, che sono
esaminate nei primo e nel sesto libro del Codice??. Anche all’analisi dei commissari di Teodosio II l'organizzazione delle attività amministrative appare dunque tutt’altro che unitaria: la rete degli uffici, che coordinano prestazioni professionali e ‘risorse fiscali, organizzandole in centri impersonali di impu-
tazione giuridica, è giustapposta al complesso delle funzioni svolte a proprio onere e rischio da rappresentanti di aggregazioni territoriali e/o personali, più o meno coatte. D’altra parte la stessa area del servizio imperiale non sembra risolversi totalmente, né per i provvedimenti legislativi del IV secolo né per la compilazione di Teodosio II, nel sistema degli uffici. Certo il primo libro del Teodosiano raccoglie le costituzioni in titoli il cui paradigma classificatorio è proprio l’officium, il settore organizzativo nel senso attestato anche da talune delle leges qui raccolte?*. Solo il riferimento all’officium come coordinamento funzionale di mezzi
e prestazioni permette anzi di individuare un’unitä sistematica negli eterogenei provvedimenti riproposti in ciascun titolo, e di riconoscere nelle rubriche negotiorum certa vocabula e indices rerum, secondo le indicazioni di Teodosio??. Cosi, nel titolo de officio praefectorum praetorio, fra i meglio conservati del libro, i compilatori accolgono, accanto a norme sulla giurisdizione prefettizia, provvedimenti sulle species annonarie corrisposte ai funzionari, sul reclutamen55 Cod. Theod. 11.16 de extraordinariis sive sordidis muneribus. 56 Cod, Theod. 12.5 quemadmodum munera civilia indicantur.
57 Nei titoli 5-34 del primo libro (secondo la ricostruzione del Mommsen), sotto il profilo dell'organizzazione degli officia, e nei titoli 6-36 del sesto, sotto il profilo dell’assetto del personale, con ritorni sull'argomento nel settimo e soprattutto nell'ottavo.
58 Dal titolo 5, de officio praefectorum praetorio, al titolo 22, de offi-
cio
iudicum
omnium,
secondo
la
ricostruzione
mommseniana;
cfr.
F. GRELLE, Arcadio Carisio, cit., n. 19 per il problema dei rapporti con la sistematica del Codice Gregoriano.
3? Cod. Theod. 1.1.5: tituli, quae negotiorum sunt certa vocabula, separandi ita sunt, ut... (429); Cod. Theod. 1.1.6 pr.: omnes edictales generalesque constitutiones [...] indicibus rerum titulis distinguantur, ita ut... (435).
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to dei subalterni, sui rapporti fra prefetto e governatori provinciali$?: un coacervo di precetti, il cui unico denominatore comune è costituito dalla destinazione all’ordinamento dell’ufficio. Gli officia presi in esame dai compilatori non organizzano tuttavia l’intera area delle attività amministrative imperiali: sviluppando un’indicazione implicita nell’ordine dell’editto giulianeo, e già ripresa in qualche misura dal Codice Gregoriano, lo schema sistematico del primo libro del Codice Teodosiano si limita infatti a ricalcare l’assetto dell’organizzazione giudiziaria, e lascia pertanto da parte i settori del servizio per i quali non siano previsti compiti di tal genere. Fra le administrationes ricordate dalla Notitia dignitatum non trovano pertanto corrispondenza nelle rubriche del Codice quelle pertinenti alla domus divina — i servizi affidati cioè al praepositus sacri cubiculi e al castrensis sacri palatii —, e quella stessa del primicerius notariorum, come sembra?!. Le ‘attività più strettamente inerenti alla vita di corte, con la significativa inclusione di quelle svolte dalla schola dei notarii sfuggono dunque, nella prospettiva dei compilatori, allo schema classificatorio dell’officium, forse
proprio perché esse ignorano o contengono entro limiti assai ristretti, nella pratica e nella teoria i caratteri di spersonalizzazione e tipizzazione del servizio che connotano invece altri settori, più articolati e complessi, dell’amministrazione. Ma anche per i settori per i quali la sistematica adottata dai commissari di Teodosio II sembra implicare un assetto in officia consolidato da tempo, l’adozione della categoria appare in realtà tutt’altro che generale e incontrastata, nei provvedimenti legislativi del IV secolo come nell’opera stessa dei
compilatori, per questo aspetto tutt'altro che univoca nei suoi orientamenti. Le costituzioni raccolte nel Codice indicano infatti con officium non solo il coordinamento funzionale dei mezzi e delle prestazioni necessarie a ciascun settore del servizio imperiale ma anche, secondo un uso linguistico risalente ad età severiana, l'insieme del personale subalterno che
60 Cod, Theod. 1.5.5; 1.5.6; 1.5.7 per l'erogazione dell’annona; Cod. Theod. 1.5.8 per il reclutamento del personale; Cod. Theod. 1.5.9; 1.5.10 per il controllo sugli iudices sottoposti al prefetto. 61 Cfr. Not. dign. or. 1.9, 18, 19; XVI; XVII; Not. dign. occ. 1 8, 16,
17; XIV; XV; XVI. La tormentata, frammentaria tradizione del primo libro del Codice Teodosiano non consente di trarre conclusioni troppo recise dal raffronto.
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opera in ciascun ufficio. In questa linea, la terminologia legislativa sembra rifiutare tenacemente ai funzionari responsabili dei singoli settori la qualifica di officiales, che distingue invece i loro subalterni, e tende anche ad evitare per essi
allusioni alla militia (che si ritrovano solo in provvedimenti tardi), mentre accentua invece il rilievo della dignitas e della
potestas inerenti all’administratio da essi svolta; parallelamente, la disciplina del servizio riconosce agli officiales organizzati in ciascuna unità operativa i caratteri di un corpus,
scindendo così nettamente le attività che essi producono dalle administrationes dei dignitari loro preposti. Le due nozioni di officium, l'una più astratta, spersona-
lizzante, l’altra sorretta da una considerazione corporativa del servizio imperiale, sono certamente inconciliabili fra di loro, e tuttavia non sembra possano ricondursi ad ambienti o momenti diversi della produzione normativa confluita nella compilazione. Esse appaiono coesistenti nella cultura giuridica dei gruppi dirigenti, e sembrano esprimere le disomogeneità irrisolte nell’organizzazione del personale amministrativo e nell’assetto delle attività di governo, la distanza intercorrente fra le modalità secondo le quali si esplica l’administrare degli officiales e quelle proprie alle administrationes dei dignitari: i limiti cioè che il processo di formazione di un apparato di amministratori professionali conosce nella teoria e nella pratica della tarda antichità. La fungibilità e l’anonimato che caratterizzano l’operare dei funzionari
€2 Così Cod. Theod. 11.30.4 (314 Seeck); 1.16.3 (318 Seeck); 14.24.1 (328); 1.16.7 (331); 6.22.6 (381) etc.; nelle rubriche di Cod. Theod. 8.7, de diversis officiis et apparitoribus et probatoriis eorum e di Cod. Theod. 8.9, de lucris officiorum. Cfr. sopra n. 37 per i precedenti tardo classici. 63 Nelle costituzioni in cui si ritrova, il termine officialis sembra riferito esclusivamente al personale sub dispositione del funzionario preposto all’ufficio. Militia non sembra mai riferito, esplicitamente, nel Codice, ai
prefetti del pretorio e dell'urbe, ai quaestores sacri palatii, ai magistri officiorum, ai comites sacrarum largitionum e rei privatae, ai vicarii; il cingulum & attestato per i prefetti del pretorio dalle Novelle di Teodosio II: cfr. Novell. Theod. 15.2 (444). Il rilievo della dignitas nell'organizzazione delle potestates trova un riconoscimento legislativo nel provvedimento di Va-. lentiniano I, conservato frammentariamente
in Cod.
Theod.
6.7.1; 6.9.1;
6.11.1; 6.14.1; 6.22. 4 (372); pex l'accostamento dignitas-potestas cfr. anche Cod. Theod. 1.15.7 (377); 6.2.13 (383); per l’uso di potestas in questo senso Cod. Theod. 1.6.5 (365 Mommsen, Seeck); Cod. Theod. 1.7.3 (398); Cod. Theod. 1.12.2 (319); Cod. Theod. 8.15 (380).
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subalterni, e che trovano fra l’altro un riconoscimento legislativo nella commerciabilità delle cariche, si contrappongono al rilievo conferito agli elementi personali nella considerazione dell’opera dei dignitari, proprio per ciò isolati e distinti dal corpus degli officiales, dall’officium posto a loro disposizione. Nella sistematica adottata dai compilatori del Teodosiano 1] divario fra l'administrare degli officiales e le administra-
tiones dei dignitari è apparentemente superato nel libro primo, attraverso il riferimento all’officium come astratta cate-
goria organizzativa, in cui si ricompongono le eterogenee prestazioni degli uni e degli altri. Ma quel divario riemerge all’interno del libro stesso, attraverso le singole leges che ripropongono la nozione dell’officium come corpus di funzionari subalterni, e condiziona per altro verso lo schema complessivo del Codice. Esso infatti determina la collocazione delle norme sul personale amministrativo, che sono distac-
cate dalla trattazione degli uffici e distribuite secondo collegamenti diversi, in riferimento alla disciplina della dignitas nel sesto libro, all'assetto della militia nel settimo, all’organizzazione in corpora dei subalterni nell’ottavo, dove le rubriche stesse accolgono officium in questa accezione. Estraneo all’area, tuttora consistente, delle funzioni gestite come munera (o come honores), il modello dell'ufficio non costi-
tuisce dunque per i compilatori un paradigma esclusivo nemmeno in riferimento all'area dell'amministrazione imperiale, dove & affiancato al sistema fiduciario dei dignitari e all'assetto corporativo degli officiales. Inadeguato a imporre una centralizzazione uniforme e senza residui delle attività amministrative, generalizzando il modello dell'ufficio, l'or-
dinamento imperiale denuncia cosi, in una giustapposizione di forme organizzative che il consolidamento
nel Codice
non risolve appieno nemmeno sotto il profilo sistematico, i limiti del sistema politico tardoantico, l'articolazione della sua base territoriale, la frammentazione degli interessi collettivi, la debolezza delle risorse finanziarie.
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L organizzazione e la disciplina del passaggio nel Lapis Aesinensis*
Il testo conservato dal Lapis Aesinensis documenta un
complesso di atti di liberalità, coordinati allo scopo di rendere possibile l'apertura di un raccordo diretto fra due assi stradali, la Salaria Gallica e la Salaria Picena, e di regolame l’utilizzazione comune da parte delle collettività circostanti!. Come
hanno ben visto gli editori dell’epigrafe, l’inter-
vento del provvido evergeta, un ignoto M. Octavius M. f. Asialt(icus)], attiene ad un’area della media valle 461]
Esino
investita da massicce ristrutturazioni fondiarie in età triumvirale ed augustea. Proprio il nuovo documento attesta che all'epoca dell'iscrizione, ricondotta da Lidio Gasperini agli ultimi decenni del primo secolo a.C.?, coesistono in quest'area i territori di tre colonie, Aesis, il cui statuto coloniario, sinora solo ipotizzato, trova conferma nell'epigrafe, Ancona e Pisaurum. Ma mentre le prime due distendono nella valle le loro perticae per la terza, Pisaurum, il cui oppidum & dislocato alla foce del Foglia, a notevole distanza dalla valle esinate, si dovrà pensare ad un distretto isolato, senza continuità con il nucleo centrale del territorio, come sottolinea
* Picus 6, 1986, 63-69. ! Il testo è stato edito, annotato e commentato da N. ALFIERI, L. GASPERINI, G. PACI, M. Octavii lapis Aesinensis, Picus 5, 1985, 7 ss., dei quali accolgo, con piccolissime varianti, Ja lettura, la datazione, la rico-
struzione del contesto politico e dell'assetto topografico. ? Picus, cit., 15-17.
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Nereo Alfieri?, a un distretto che costituisca cioè una praefectura, secondo la terminologia degli scrittori di agrimensura^. L’ipotesi di una praefectura pesarese trova conferma nell’assetto amministrativo della parallela valle del Cesano,
intorno a Suasa, dove i cippi segnalati da Gianfranco Paci sembrano attestare un altro distretto di tale Προ"; la centuriazione dei luoghi é presupposta dall'epigrafe stessa, in un contesto di non facile lettura ed interpretazione, alle linee 7-9, dove il riferimento a un limes decumanus appare l'elemento caratterizzante il paesaggio agrario locale. All'interno del reticolato della limitatio il paesaggio della centuriazione conosce tuttavia, come è noto, settori più o meno ampi che la benevolenza dell'auctor divisionis et adsignationis sottrae alla ripartizione o restituisce comunque ai preesistenti possessori: sono i fundi excepti e i fundi concessi, descritti da
Igino, il secondo gromatico di questo nome, nella sua Constitutio agrorum 160 (Thulin), e illustrati in due limpide miniature del Corpus agrimensorum, figg. 123, 124 Thulin. Il latifondo attraverso il quale M. Octavius apre la strada celebrata dall'epigrafe sembra derivare anch'esso il suo assetto agrimensorio e istituzionale da un privilegio, di cui potrebbe avere fruito l'evegeta stesso, o un suo immediato predecessore, nell'ambito degli interventi triunvirali e augustei
richiamati da Gianfranco Paci?.
Il testo prime due contenuto, zione della
epigrafico si articola in tre parti, delle quali le rimandano a procedimenti diversi per forma e mentre la terza potrebbe costituire una integraseconda, o richiamare alcuni punti qualificanti
l'intero documento.
In un primo periodo, che gli editori chiudono alla linea 9 ma che potrebbe forse concludersi già alla fine della linea 6, dopo instituit! , il documento ricorda che il munifico benefat-
tore ha istituito un raccordo stradale largo sedici piedi dalla Salaria Gallica alla (Salaria) Picena per suum privatum, fatta eccezione per un tratto dislocato in finibus Pisaurensium, che attraversa cioè — sembrerebbe — la prefettura pesarese, o 3 Picus, cit., 49. 4 Cfr. Frontin. grom. Thulin.
14 Thulin; Sic. Flacc. grom.
? Picus, cit., 24, n. 38; cfr. 49, n. 102. 6 Picus, cit., 23 ss.
? Infra, n. 12.
250
124 Thulin; fig. 32
muove da essa. L’istituzione è motivata honoris causa Anconitanorum et Pisaurensium et Aesinensium, ed 1 Pesaresi so-
no pertanto considerati destinatari della munificenza allo stesso modo delle altre due collettività: tutti interessati al passaggio attraverso il latifondo di M. Octavius, un latifondo che peraltro, se organizzato come fundus exceptus, sarebbe esterno ai ferritoria delle altre colonie, sciolto da ogni vincolo amministrativo con esse®. Il verbo instituit è parzialmente reintegrato, ma si tratta di una restituzione assai persuasiva, né le altre proponibili muterebbero il senso del discorso. M. Octavius conferisce dunque agli Anconitani, ai Pisaurenses e agli Aesinenses la facoltà di passare attraverso i suoi possedimenti, lungo un percorso sistemato a tal fine e del quale sono indicati la larghezza, il punto di partenza e quello di arrivo. L’accenno assai rapido e indeterminato al tratto che si snoda nel territorio della prefettura pesarese non consente di accertare se la strada apprestata dall’evergeta si innesti su quel tratto, o si articoli invece in due tronconi, alle
due estremità del segmento pesarese, o assuma altre possibili forme?. Ma il problema, di grande interesse per la topografia amministrativa dei luoghi, non sembra invece rilevante per l’analisi dei profili giuridici dell’atto di liberalità. Piuttosto, potrebbero essere di qualche rilievo, in questa prospettiva, i dati già ricordati sull’ampiezza e gli estremi del percorso stradale, nonché le indicazioni topografiche delle linee 7-9, se esse si riferissero alla via per suum privatum, come propongono gli editori. Indicazioni di tal genere infatti, ha osservato Luigi Capogrossi Colognesi esaminando un complesso di documenti affini, rispondono all’esigenza di delimitare la porzione di suolo destinata al passaggio e trasferita agli utenti di esso per separarla nettamente dallo spazio circostante rimasto nella piena disponibilità del concedente!®. Si dovrebbe perciò pensare che M. Octavius ab-
bia ceduto congiuntamente alle tre colonie onorate la striscia di suolo con la strada apprestata su di essa: il suolo sarebbe 8 Hyg. lim. grom. 160 Thulin; cfr. A. RUDORFF, Gromatische Institutionen, in E. BLUME, K. LACHMANN, römische Feldmesser IL, 1852, 387 ss.
A. RUDORFF,
Die Schriften der
? Per un’ipotesi assai articolata N. ALFIERI, Picus, cit., 45 ss.
10 Cfr. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà e la
formazione dei «iura praediorum» nell’età repubblicana, U, 1976, 197 ss., in particolare 215 ss.
251
cosi divenuto patrimonio delle tre universitates, una sorta di res publica coloniarum!!, in una situazione in cui l’appartenenza sarebbe comune, e disgiunta dalla pertinenza al territorio. L’ipotesi è proponibile, ma piuttosto macchinosa, e non sembra trovare confronto nelle fonti. Si può tuttavia tentare anche un’altra ricostruzione del procedimento formale utilizzato e delle sue conseguenze per l’assetto patrimoniale dei luoghi, in una linea forse più aderente all’indirizzo che sembra orientare la seconda parte del documento, dove un altro atto di liberalità, strettamente coordinato con il
primo, trova limiti e vincoli assai puntuali nelle minute disposizioni dell’evergeta. Si può cioè ritenere che il benefattore abbia limitato la sua munificenza alla sola concessione della facoltà di passare per suum privatum, ed abbia conservato la piena disponibilità del suolo e della strada. In questa ipotesi l’epigrafe stessa avrebbe reso noto ai possibili utenti l’esistenza di un permesso di transito e della parallela, implicita autolimitazione del proprietario; i riferimenti alle dimensioni e ai confini della strada avrebbero definito le modalità del passaggio e sottolineato allo stesso tempo la cospicuità e l’impegno dell’opera stradale. La parte centrale del testo epigrafico richiama i provvedimenti grazie ai quali M. Octavius ha reso possibile la prosecuzione della strada anche al di fuori delle sue terre, ed ha
ottenuto il completamento del raccordo. Egli ha acquistato i luoghi necessari (linea 9: ea loca) e li ha trasmessi agli An-
conitani e agli Aesinenses!?; la sequenza in publicum emit... dedit, alle linee 10-11, di incerta lettura per l'elemento cen-
trale!3, mette in evidenza i tre atti distinti, ma collegati fra di 11 La qualifica di publicus è attribuita già dalla Lex Coloniae Genetivae Iuliae ai beni appartenenti alla colonia, i luoghi (cap. XCIII), il denaro (cap. LXXXD) le vie (cap. LXXIIX) (FIRA I, 187, 185, 184). Naturalmente il carattere «pubblico» delle vie della colonia va distinto da quello che Ulpiano in Dig. 43.8.2.21-22, Ulp. libro sexagensimo octavo ad edictum), attribuisce alle viae consulares; GNESI, La struttura, cit., 17 ss.
sul frammento
L. CAPOGROSSI
COLO-
12 I riferimenti topografici delle linee 7-9, mal precisabili anche per le
difficoltà della lettura, potrebbero individuare sul terreno questi loca, piuttosto che riferirsi alla strada per suum privatum, già bene indicata. 13 Accanto ad emere e dare ci si attende il riferimento ad un altro degli atti attraverso i quali si è articolata l'acquisizione del suolo da parte delle colonie. Limitare, suggerito dagli editori, mi sembra poco pertinente e duplica la successiva delimitazione cippis et seris oleagineis conlocatis, alla linea 11.
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loro e unificati nello scopo, attraverso i quali il benefattore ha articolato il suo intervento, e ne sottolinea il risultato
complessivo, il conferimento cioè del suolo al patrimonio delle due colonie, secondo il significato che la formula in publicum ha in contesti di tal genere!^. Ma a differenza di ciò cheè previsto nella prima parte del documento per il passaggio attraverso i possedimenti del benefattore, questo secondo gesto di liberalità vincola i beneficiari a precisi comportamenti, attentamente elencati nelle linee 11-18. Sebbene le condizioni della lapide non consentano un completo recupero del dettato originario del testo, è comunque possibile riconoscere in queste linee una serie di clausole, tutte dipendenti dalla congiunzione ut della linea 11, secondo un modulo stilistico peraltro comune nei formulari degli atti di munificenza che attraverso la collaborazione del gratificato si propongano di realizzare anche fini di interesse più ampio ^. In primo luogo, si dispone pertanto che Anconitani ed Aesinenses curino la delimitazione della fascia di terreno acquisita e compiano le opere necessarie per trasformarla in un percorso stradale: linee 11-13. Il coinvolgimento delle amministrazioni locali e il parallelo onere finanziario che ne deriva possono chiarire perché la liberalità di M. Octavius si sia indirizzata in questo caso solo a due delle colonie, la-
sciando da parte i Pesaresi, verosimilmente poco interessati alla costruzione del tratto di strada nell'ambito della propria prefettura. Si precisa quindi che anche il segmento costruito dalle due colonie deve essere ampio sedici piedi, come l'altro o gli altri che attraversano 1 possedimenti di M. Octavius: linea 14. Si richiede poi che i decurioni delle due colonie, e forse anche 1 magistrati, godano con le loro famiglie del passaggio gratuito lungo tutto il percorso, anche laddove si deve fare ricorso a un guado o a un natante, come sembra determinare la sequenza finale della linea 16, dove puó essere recuperata l'indicazione della via: ... vadu nave [- — —] via... Si afferma cosi, indirettamente ma non meno
chiaramente,
1^ La formula è da Liv. 44.16.10, riferita a un provvedimento del censore T. Sempronius Gracchus, nel 169 a.C., il quale ex ea pecunia quae ipsi adtributa erat aedes P. Africani... et tabernas in publicum emit. In Dig. 3.5.29 (30), Iulian. libro tertio digestorum, il giurista la utilizza per un curatore municipale. 15 G. LE BRAS, Les fondations privées du haut-empire, in St. Riccobono, 1936, 23 ss., in particolare 39 ss.
253
la possibilità che l’uso del raccordo sia sottoposto a un pedaggio. Il ricorso ad un vectigal da parte di amministrazioni cittadine che predispongano percorsi stradali non è privo di riscontri, sebbene essi siano tutt'altro che numerosi!9. Comunque, il prelievo di un vectigal viae silice stratae è attestato a Tuficum, nell alta valle dell’Esino, da un'iscrizione di età imperiale!”. Nel caso tuttavia della strada approntata dagli Anconitani e dagli Aesinenses sul suolo offerto da M. Octavius costituisce un'anomalia il fatto che le due colonie non hanno poteri di amministrazione sul percorso dislocato in finibus Pisaurensium,
ma esercitano su di esso solo le
facoltà derivanti dalla liberalità del benefattore. Il complesso delle disposizioni alle quali M. Octavius collega il conferimento del suolo per la strada si chiude con una clausola di non facile interpretazione e che sembra comunque distaccarsi dallo schema della donazione modale, riconoscibile nell'insieme dell'atto. La clausola sembra affermare infatti per 1 beneficiari della munificenza i diritti (linea 17: reliqua iura) del dominus possessionum, considerati come residuali a causa evidentemente degli oneri ai quali 1 beneficiari stessi sono sottoposti, oneri avvertiti più come limitazioni alla proprietà che come vincoli per il proprietario. L'espressione dominus possessionis è attestata nella letteratura giurisprudenziale dalla tarda età degli Antonini!? ma non ha riscontri in questa epoca, mentre sembra del tutto : priva di confronto l'espressione dominium possessionis, che pertanto è forse lettura da escludere; comune è invece già in Cesare e jn Cicerone l'uso di possessio per indicare i beni fondiari'?, e il plurale possessionum potrebbe essere stato suggerito in qualche misura dal plurale /oca della linea 9. Anche l'ultimo periodo del testo presenta qualche problema di interpretazione. Esso riassume infatti le liberalità di M. Octavius affermando, alla linea 18, ita populo dedit, laddove ci si attenderebbe il plurale, in relazione alle tre (o due) colonie destinatarie dei provvedimenti. Il singolare può tuttavia spiegarsi attraverso uno slittamento per il quale il 16 Ne ricorda alcuni G. WiLLMANNS in CIL VIII 1, 1881, 894, nell’introduzione ai miliari ad Milev; cfr. S.J. DE LAET, Portorium, 1949, 428, n. 3.
17 CIL XI 5694 = ILS 26662. 18 Dig. 47.9.7, Call. libro secundo quaestionum; Dig. 7.1.62, Tryph. libro septimo disputationum.
19 Cic. leg. agr. 3.7a; Phil. 13.12; fam. 13.76.2 etc.; Caes. civ. 1.17.4 etc. 254
discorso non prenda più in considerazione le collettività organizzate, i populi delle colonie destinatarie dei benefici, ma
l’insieme delle popolazioni che ne avrebbero fruito, con un uso di populus individuabile forse già in documenti legislativi del primo secolo a.C., e comunque bene attestato dalla fine del primo secolo d.C.?°. Più difficile è invece accertare se l'affermazione vada riferita al periodo immediatamente precedente nel testo, ed abbia perciò ad oggetto il tronco stradale in finibus Pisaurensium, o si proponga come sintesi dell’intero documento, nell’una e nell’altra delle sue parti. In questa seconda ipotesi però il rilievo finale et pontes de suo fecit costituirebbe forse una nota in qualche misura dissonante: esso si spiega infatti se intende mettere in evidenza l’intervento di M. Octavius anche per il tratto di strada costruito dagli Anconitani e dagli Aesinenses, ma sembra riduttivo se viene riferito all’intero raccordo stradale, dal momento che un lungo tratto di esso, quello attraverso il
latifondo del benefattore, è tutto opera di lui.
20 Cfr. R. ORESTANO, Il problema delle persone giuridiche in diritto romano,1968, 295 ss., in particolare 307 ss.; con ampia analisi delle fonti.
255
Arcadio Carisio, l’officium del prefetto
del pretorio e i munera civilia*
1. Il primo libro dei Digesta giustinianei, nei titoli che vanno dal decimo al ventiduesimo (ed ultimo), offre, come &
noto, una trattazione degli officia connessi ad attivitä in senso ampio giurisdizionali, secondo uno schema che appare desunto nelle linee generali dalle preesistenti raccolte di leges imperiali, ma che sembra qui rielaborato e nella sistematica complessiva e nella formulazione delle singole rubriche. La trattazione si apre con un titolo de officio consulis che, per quanto possiamo accertare, ha modelli solo indiretti nelle compilazioni anteriori, ma che è invece ben documentato nel-
la letteratura giurisprudenziale classica; e continua presentando al secondo posto della sequenza l’officium del prefetto del pretorio, per il quale riprende, con piccole varianti, la rubrica già proposta dal codice Teodosiano, e riprodotta nel codice Giustiniano con la limitazione Orientis et Illyrici! .
* Index 15, 1987, 63-77.
Riprendo e sviluppo alcuni temi della ricerca su Le categorie dell'amministrazione tardoantica. Officia, munera, honores, apparsa in A. GIARDINA (a cura di) Società romana e impero tardoantico l. Istituzioni, ceti, economie, Roma-Bari,1986, 37 ss.
ΤῊ tema dei rapporti fra la tipologia e la sistematica degli officia adottate dai compilatori per i Digesta e i modelli offerti dalle raccolte di costituzioni preesistenti è affrontato solo marginalmente da A. SOUBIE, Recherches sur les origines des rubriques du Digeste,
1960, 84 s., 108 ss., che
comunque contiene entro limiti assai ristretti l'influenza di quei modelli, postulando un'immediata dipendenza dalle elaborazioni della giurispru-
257
Il titolo consta di un solo frammento, un passo alquanto lungo estratto dal proemio dell’unica opera che nella letteratura giurisprudenziale a noi nota abbia esaminato monograficamente questa prefettura, il Liber singularis de officio praefecti praetorio del magister libellorum Aurelio Arcadio Carisio. E perciò probabile che proprio il titolo della monografia abbia indotto i redattori a modificare per i Digesta la rubrica tradita dai codici, sostituendo il singolare al plurale,
e adeguando anche in questo caso la trama della compilazione alla specificità dei materiali raccolti”. 2. Sola fra le tre opere di Carisio utilizzate, la monografia sulla prefettura conserva nell’inscriptio del passo (Dig.1.11.1) l’indicazione dell’ufficio cui il giurista era stato preposto nell’amministrazione imperiale. Il riferimento costituisce una nota del tutto singolare per i criteri secondo i quali sono redatte le inscriptiones dei frammenti escerpiti dai compilatori, e non ha riscontro altrove nei Digesta. Quale che ne sia la motivazione, quel ricordo implica comunque che il dato emergeva con particolare evidenza nella struttura originaria dell’operetta, forse in una dedica o, meno verosimilmente, nell’inscriptio
del libro. Nell'insieme della produzione letteraria di Carisio lo
denza classica. Ma il tentativo di A. DELL’ORO, / libri de officio nella giurisprudenza romana, 1960, 290, sembra ben poco convincente nel ricondurre
all’Enchiridion pomponiano lo schema dei Digesta, per le troppe e assai rilevanti discordanze che l’autore stesso non manca di osservare; cfr. anche i ri-
lievi critici formulati nella recensione di J. Gaudemet, SDHI 28, 1962, 411. Sembra più facile pertanto pensare che i compilatori, ai quali la const. Deo auctore insieme all’editto indicava come modello anche il Codex Iustinianus (il rilievo è di G. ROTONDI, Scritti giuridici I, 1922, 159), abbiano rimaneggiato l’ordine del codice, anteponendo gli officia urbani a quelli provinciali, e ripristinando forse per gli uni e per gli altri la gerarchia che credevano di ritrovare nelle loro fonti. La trama così rielaborata sembra sia stata resa più aderente al materiale giurisprudenziale attraverso molte omissioni e l’integrazione del titolo De officio consulis, desunto forse dalla rubrica De consu-
libus ... in Cod. Iust. 12. 3; il titolo De officio procuratoris Caesaris vel rationalis rimanda invece ai titoli De ... procuratoribus metallorum in Cod. Just. 11.7, e De ... procuratoribus gynaecii ... in Cod. Iust. 11.8. Il tema, di grande interesse per la conoscenza delle dottrine pubblicistiche e della cultura antiquaria dei compilatori, richiede comunque ulteriori approfondimenti. 2 La rubrica dipenderebbe esclusivamente dal titolo dell’opera di Arcadio Carisio per A. SOUBIE, Recherches, cit., 85 (cfr. 111, dove Dig. 1.11
non è ricordato fra i titoli che hanno correlazioni col Cod. Theod. e col Cod. Iust.), e per A. Dell’ORO, I libri de officio, cit., 289.
258
scritto sulla prefettura appariva pertanto caratterizzato da un esplicito, compiaciuto collegamento con l’attività di funzionario del suo autore, quasi a sottolineare l’intreccio fra elabo-
razione teorica ed esperienza amministrativa nell’attività di un giurista impegnato pressoché totalmente nel servizio imperiale, e giunto oramai alla fine della sua carriera?. Di Aurelio Arcadio Carisio sappiamo solo ciò che ci dicono i passi dei suoi scritti raccolti dai compilatori giustinianei^; ma l’analisi della prefettura del pretorio in Dig. 1.11.1 può forse offrire una preziosa traccia per delimitare l’arco cronologico in cui si dispongono la stesura dell’opera e la carriera del suo autore. Nell’ottica del testo infatti il prefetto del preto-
3 A. Dell'ORO, 1 libri de officio, cit., 233 ss., ritiene che l'indicazione
dell’ufficio cui Carisio è preposto sottolinei il «carattere ufficiale» dell’opera, la quale avrebbe raccolto le «costituzioni dei prefetti che da non molto avevano ottenuto l’equiparazione a quelle dei principi». Ma riferimenti alla dignitas e all’officium dell autore si ritrovano non di rado in dediche di opere letterarie tardoantiche, senza che in alcun modo esse possano essere ricondotte a un'attività di ufficio: così il Breviarium che Eutropio, vir clarissimus magister memoriae, dedica a Valente, o l'Ars Grammatica
che Flavio Sosipatro Carisio, vir perfectissimus magister (urbis Romae: Keil), dedica al figlio. Frequenti sono anche le indicazioni della dignitas nelle inscriptiones, per le quali tuttavia si puó e in qualche caso si deve pensare a interventi degli editori. ^ L’identificazione con il Charisius praeses Syriae nel 290 (Cod. Iust. 9.41.9 e 11.55.1), proposta da A. Dell'Ono, Aurelio Arcadio Carisio nel Digesto e nel Codice, in St. Betti I, 1962, 333 ss., non trova alcuna confer-
ma nei dati relativi agli altri praesides a noi noti per lo stesso periodo: per quanto sappiamo, la Siria resta affidata a senatori, che ne assumono l’amministrazione dopo una lunga e prestigiosa carriera di governo provinciale. Un cursus emblematico & quello di L. Aelius Helvius Dionysius, praeses Syriae in un periodo imprecisabile fra il 290 e il 296, per il quale ILS 1211. I fasti della provincia in età dioclezianea sono ricostruiti da T.D. BARNES,
The New Empire of Diocletian and Constantine,
1982, 153 s. Il
magister officiorum invece e, di conseguenza, i funzionari preposti agli scrinia alle sue dipendenze ricevono solo dai figli di Costantino la dignità senatoria; ancora a metà del quarto secolo i governi provinciali seguono, non precedono, il servizio come magister officiorum nella carriera di Am-
pelius: M. CLAUSS, Der magister officiorum in der Spätantike, 1980, 13 s.; 100 e n. 5; 145. Puó essere utile anche il confronto con la carriera di Eutropius, forse magister epistularum di Costanzo II, poi magister memoriae di Valente, infine proconsole d'Asia: PLRE I 317 Eutropius 2. Il praeses Syriae & distinto dal magister libellorum anche in PLRE I 200 Charisius 1 e Charisius 2. Indicazioni utili non emergono, né per questo né per gli altri problemi affrontati, dal saggio di M. BALESTRI FUMAGALLI, I libri singulares di Aurelio Arcadio Carisio, MIL 36, 1978, 53 ss.
259
rio è un funzionario dell’amministrazione centrale, collocato al vertice dell’intero complesso dei servizi imperiali, investito
di funzioni civili e militari, e completamente fungibile con l’imperatore, pur nella sottolineata subalternità. Un disegno di tal genere non solo è incompatibile con i provvedimenti che, a partire dal secondo decennio del principato costantiniano, determinano un progressivo distacco del prefetto dall’imperatore per trasformarlo in un funzionario regionale, sia pure di altissimo livello”; esso non si concilia neppure con il riordinamento dei comandi militari e l’istituzione dei magistri militum, realizzati forse ancor prima, già negli anni immediatamente successivi alla sconfitta di Massenzio”. Dopo la creazione dei magistri militum non si sarebbe potuto più indicare nel prefetto uno stretto collaboratore milita5 I primi prefetti regionali di Costantino sono attestati per l' Africa e, forse transitoriamente, per l'Oriente dopo la sconfitta di Licinio. Assai verosimilmente, essi coesistono fino alla morte del l’imperatore con prefetti «ministeriali» (la terminologia è del Palanque) in servizio presso il principe e i figli: da ultimo ricostruisce i fasti e tenta un’analisi delle funzioni di ciascun prefetto T.D. BARNES, The new empire, cit., 131 ss., in particolare 134 s., C. DUPONT, Constantin et la préfecture d'Afrique, in St. Grosso II,
1968, 517 ss.; EAD., Constantin et la préfecture d'Italie, in Et. Macqueron, 1970, 251 ss.; EAD., Constantin et la préfecture d'Orient, in St. Scherillo
II, 1972, 819 ss., preceduta da una dinarie avrebbero $ Le funzioni
ritiene che in ciascuna fase preparatoria in cui anticipato l'istituzione militari dei prefetti del
circoscrizione la riforma sia stata funzionari con competenze straordelle prefetture territoriali. pretorio in età tetrarchica sono ana-
lizzate da W. ENSSLIN, Praefectus praetorio, RE XXII, 1954, 24009 ss.; cfr. T.D. BARNES, The New Empire, cit., 125 s. Il trasferimento ai magistri mili-
tum delle loro competenze in questo settore dell'amministrazione imperiale è sottolineato già dagli storici antichi, in particolare da Zosimo, 2.33.3: da ultimo
l'accurata ricostruzione di A. DEMANDT,
Magister militum,
RE
Suppl.1970, 560 55. Il Demandt colloca l'istituzione dei magistri verso la fine dell’impero di Costantino, e quindi in concomitanza con la regionalizzazione della prefettura: ma l'argomento più convincente della sua analisi — il fatto che la riforma è ignorata da Cod. Theod. 7.20.2, attribuita dal Seeck al
326 attraverso una correzione della subscriptio — & ora posto in crisi da T.D. BARNES, The New Empire, cit., 69; 94 n. 14, che anticipa il provvedimento di Cod. Theod. 7.20.2 al 307. Una datazione agli anni immateriamente successivi alla sconfitta di Massenzio € invece proposta dalla maggior parte degli studiosi: cfr. E. STEIN, Histoire du Bas-Empire 1, 1959, 122 ss.; A.H.M. JONES, The Later Roman Empire I, 1964, 97; F. DE MARTINO, Storia della
costituzione romana, 5?, 1975, 439 ss. (con l'indicazione della bibliografia anteriore). Per il gusto arcaicizzante di Costantino e dei suoi collaboratori nel riprendere antiche denominazioni per nuovi funzionari M.T.W. ARNHEIM, The Senatorial Aristocracy in the Later Roman Empire, 1972, 51 s.
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re del principe; soprattutto, non si sarebbe potuto ritrovare un antecedente immediato del prefetto imperiale nell’arcaico magister equitum, conlega minor del dictator, ignorando il recupero e il declassamento che Costantino aveva compiuto di quella titolatura, da secoli di oblio richiamata ora a designare il comandante della cavalleria, nell’ordine delle dignitä
al terzo o al quarto posto, in posizione notevolmente inferiore a quella del prefetto stesso. Il De officio praefecti praetorio riprende invece un accostamento già suggerito da una rapida notazione dell’Enchiridion pomponiano (Dig. 1.2.2.19), in una prospettiva che collima ancora con le forme istituzionali di età tetrarchica, ma che non potrebbe essere in alcun modo attribuita ad un alto funzionario dell’amministrazione centrale, dopo il consolidamento delle riforme costantiniane: Dig. 1.11.1: ...nam cum adsociati participales curae ad militiae gratia (qui adsociati participales ad curas militiae gratia: Mommsen) secundam post eos potestatem gererent, regimentis rei publicae ad imperatores perpetuos translatis ad similitudinem magistrorum equitum praefecti praetorio a principibus electi sunt. Data est eis plenior licentia ad disciplinae
publicae emendationem...
In forma ancora piu’ esplicita la traduzione greca del brano che Giovanni Lido inserisce nel suo De magistratibus, muovendo forse da un testo leggermente diverso’, afferma: Lyd. mag. 1.14: ... koi δέδοται αὐτῷ μείζων ἢ κατ᾽ ἐκεῖνον ἰσχὺς τῆς TE διοικήσεως τῶν πραγμάτων τῆς TE καταστάσεως καὶ ἀικήσεως τῶν στρατευμάτων καὶ ἐπανορθώσεως ἀπάσῃς...
7 Riprendendo un’ipotesi già avanzata da P. KRÜGER, F SCHULZ, Sto-
ria della giurisprudenza romana, 1968 (tr. It. dall’edizione inglese, 1953) 444, attribuisce a Lido un’utilizzazione del Liber singularis de officio
praefecti praetorio indipendente dai Digesta, ma risalente alla stessa edizione usata dai compilatori; nella stessa linea E. WIEACKER, Textufen Klassischer Juristen, 1959, 411 e nn. 115, 116. Diversamente già il Mommsen
nella prefazione all’editio maior dei Digesta, 1868, XXXXVII,
e il KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte 1, 1885, 754; in questa prospettiva J. CAIMI, Burocrazia e diritto nel De magistratibus di Giovanni Lido, 1984, 147 ss., in particolare 186 ss., riesamina tutte le citazioni giuri-
sprudenziali di Lido per concludere che assai verosimilmente l’erudito dipende per esse dalla compilazione giustinianea, ma che potrebbe averne integrato la consultazione con quella delle schede predisposte da una delle sottocommissioni preparatorie. Per Lyd. mag. 1.14 va comunque osservato
261
Un limite oltre il quale sembra invece difficile risalire per la redazione del Liber & costituito dalla istituzione dioclezianea delle diocesi e dei vicari. Il testo infatti ricorda una sententia principalis, publice lecta, come fonte del divieto di appellare dal prefetto all’imperatore. Sebbene la notizia, di solito riferita a un provvedimento costantiniano del 331, sia in realtà insufficiente per identificare l’atto imperiale5, è tuttavia difficile sottrarsi alla suggestione di ricondurre anche quel divieto al riordinamento territoriale disposto nei primi anni della tetrarchia, e alla conseguente definizione dei rapporti fra prefetti e vicari, e delle relative competenze
nell’amministrazione della giustizia?.
che il riferimento analitico ai compiti militari del pleonastico, come ritiene il Caimi; che esso non 2.6, dove Lido parafrasa il passo di Carisio senza sembra assai difficile pensare a un’interpolazione tradito dai Digesta. 8 L’identificazione della sententia ricordata da dell’editto costantiniano
del
1 agosto
331,
prefetto è tutt’altro che si ritrova in Lyd. mag. indicare la fonte; e che di Lido stesso al testo Carisio con una norma
conservata
in Cod.
Theod.
11.30.16 è stata più volte suggerita, nella scia di un’indicazione di J. Gothofredus, nonostante le evidenti difformità fra i due provvedimenti: tra gli ultimi D. LIEBS, Römische Provinzialjurisprudenz,
ANRW
2, 15, 1976,
321 e n. 214; cfr. 358, che riprende gli argomenti non molto persuasivi addotti più ampiamente in Hermogenians Iuris Epitome, 1964, 14 n. 2, secondo i quali il giurista parafraserebbe la legge punto per punto. In modo singolare, il Liebs ritiene invece indipendente dal provvedimento costantiniano e ad esso anteriore l'indicazione di Ermogeniano (Dig. 4.4.17, Hermog. libro primo iuris epitomarum: praefecti etiam praetorio ex sua sententia in integrum possunt restituere, quamvis appellari ab his non possit) che colloca in età dioclezianea: infra n. 13. La diversità fra l’editto di Costantino e la sententia ricordata da Carisio, già posta in evidenza da L. RAGGI, La restitutio in integrum nella cognitio extra ordinem,
1965, 205
n. 67, e E. DE MARINI AVONZO, L'organizzazione giudiziaria di Costantino, in StudUrb 34, 1965-6, 209 n. 127, è stata decisamente riaffermata da
W. LITEWSKI, Origine del divieto di appellare contro le sentenze del prefetto del pretorio, RISG 99, 1972,.272. Nello stesso senso, ma con argo-
menti diversi e meno stringenti, A.H.M. JONES, The Later Roman Empire, cit. IU, 3 n. 1. ? L’ipotesi di un intervento dioclezianeo, ripreso da Costantino nell'ambito di una piü generale regolamentazione dell'assetto giudiziario territoriale, concorda con le trasformazioni dell' appello contro le sentenze vice sacra, delineate da F. DE MARINI AVONZO, L'organizzazione giudiziaria, cit., 208 ss., anche in riferimento ai nuovi dati offerti dalla carriera di L. Caesonius
Ovinius Manlius Rufinianus
Bassus
(su cui ora W. ECK,
Caesonius, RE Suppl. 14, 1974, 81 ss.), che fra il principato di Probo e quello di Carino fu iudex sacrarum cognitionum vice Caesaris sine appel-
262
Carisio potrebbe allora avere elaborato la sua monografia e diretto, al tempo stesso, lo scrinium libellorum fra la fine
della tetrarchia dioclezianea e l’assestamento del regime co-
stantiniano!°. Se così fosse, il giurista avrebbe partecipato di
persona, di scelte si veniva l’impero
come protagonista o anche come semplice esecutore altrui, alle vicende organizzative attraverso le quali delineando in quegli anni la forma istituzionale deltardo antico. La stessa organizzazione dei servizi di
cancelleria fu, come
è noto, profondamente modificata, e
l’antico procuratore a libellis, sottratto al rapporto immediato e personale con l’imperatore, divenne uno dei funzionari intermedi in un complesso apparato, unitario e gerarchico, posto alle dipendenze di un tribunus et magister officiorum che nella stessa titolatura lascia intravedere il modello militare sul quale il nuovo assetto è ricalcato. Attraverso il magister officiorum è assai probabile che il personale della cancelleria sia stato per qualche tempo sub dispositione del prefetto del pretorio, fino a quando le riforme costantiniane non ebbero trasformato il diretto collaboratore del principe nel più alto
funzionario dell'amministrazione regionale!!. L’operetta del magister libellorum potrebbe perciò riflettere la primissima
fase della storia tardo antica della prefettura, quella in cui si
consolidano e si articolano le funzioni di governo del prefetto, e costituire forse un tentativo dell’autore indotto dalla sua
duplice esperienza, di giurista e di funzionario, a intervenire per condizionare la ridefinizione dei poteri prefettizi. latione, per una concessione personale che implica evidentemente un diverso, generale regime di appellabilità. L'istituzione delle diocesi, già collocata nel 297-8 dal Seston, è ora anticipata ai primordi della tetrarchia da T.D. BARNES, The New Empire, cit., 224 ss.
10 Una conferma indiretta può venire dalla ricostruzione dei fasti degli
a libellis proposta da T. HONORÉ, Emperors and Lawyers, 1981, per il quale Carisio potrebbe avere rivestito l’ufficio durante il principato di Diocleziano o quello di Costantino; mancano infatti riferimenti testuali per collocarlo con sicurezza in età dioclezianea, ma la ricostruzione lascia in essa numerose lacune nell'ultima decade. 11 La riorganizzazione della cancelleria agli inizi del IV secolo, l'istituzione del magister officiorum (tribunus et magister in Cod. Theod. 16.10.1 del dicembre 320 e in Cod. Theod. 11.9.1 del dicembre 323), i suoi rapporti col prefetto del pretorio nella fase di transizione alle prefetture regionali sono stati riesaminati di recente da M. CLAUSS, Der magister officiorum, cit., 7 ss.; la dipendenza del magister dal prefetto era stata già affermata, in modo più reciso, da Aer. BOAK, The Master of the Offices in the Later Roman and Byzantine Empires, 1919, 28 s., richiamando Lyd. mag. 2.10.
263
3. Nel frammento del Liber singularis de officio praefecti praetorio conservato dai Digesta giustinianei emerge, con una lucida consapevolezza dei mutamenti che si vengono verificando nell’assetto istituzionale del potere imperiale, l’attenzione a cogliere la rottura con le forme del principato, il superamento dell’antinomia fra magistratura e procuratele, la derivazione di tutti i poteri pubblici da quello del principe, il riordinamento gerarchico delle attività e del personale.
Certo, il discorso si sviluppa in un serrato anche se sotterraneo dialogo con la tradizione giurisprudenziale, gli scriptores coperti dall’anonimato in una citazione in cui è possibile intravedere il Pomponio dell’Enchiridion: Dig.
1.11.1 pr:
... ad vicem magistri equitum praefectos
praetorio antiquitus institutos esse a quibusdam scriptoribus traditum est; nam... ad similitudinem magistrorum equitum praefecti praetorio a principibus electi sunt...
La dipendenza dall' Enchiridion nell'assimilazione del
prefetto del pretorio al magister equitum", così come più in generale il recupero di temi e categorie della riflessione pub12 Cfr. Dig. 1.2.2.19, Pomp. libro singulari enchiridii: ... et his dictatoribus magistri equitum iniungebantur sic, quo modo regibus tribuni celerum: quod officium fere tale erat quale hodie praefectorum praetorio, magistratus tamen habebantur legitimi. Nella redazione conservata dai Digesta il discorso presenta qualche incongruenza di struttura. Il confronto con un passo successivo del lungo frammento, in Dig. 1.2.2.33 (...nam praefectus annonae et vigilum non sunt magistratus, sed extra ordinem utilitatis causa constituti sunt...) rafforza i sospetti di rimaneggiamenti formali, per la singolare disomogeneità terminologica fra le due notazioni parallele sull'estraneità delle prefetture all'ordo magistratuum, ma conferma al tempo stesso la derivazione dei due passi da un originale pomponiano, comunque si risolvano i problemi posti dalla storia dell' Enchiridion (per essi da ultimo D. NÓRR, Pomponius oder «Zum Geschichtsverstündnis der rómischen Juristen», ANRW II, 15, 1976, 512 ss.; cfr. M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani?, 1982, 209 ss.; 219 ss.; 363; B. ALBANESE, D. 12.2.12 e il problema della sua attribuzione, Scritti Pugliatti YV, 1978, 3 ss.), in quanto la distinzione fra magistrature e funzioni imperiali extra-
magistratuali si smarrisce già in età dioclezianea, come mostra proprio il frammento di Arcadio Carisio sulla prefettura: Dig. 1.11.1.2: ... subnixi sunt etiam alio privilegio praefecti praetorio ne a sententiis eorum minores aetate ab aliis magistratibus nisi ab’ ipsis praefectis praetorio restitui possint. Una interessante analisi lessicale e stilistica del brano di Carisio fu proposta da W. KALB, Roms Juristen, 1890, 144 ss.; per l’uso di «similitudo» cfr. A. STEINWENTER, Prolegomena zu einer Geschichte der Analogie
II, in St. Arangio Ruiz II, 1953, 173 ss. n. 29.
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blicistica soprattutto ma non esclusivamente severiana, sfug-
gono tuttavia ad una passiva acquiescenza ai modelli, e anzi accentuano nel confronto la novità del giurista tardo antico, e il divario intercorrente fra la cultura istituzionale che ne sorregge le considerazioni e la teoria dei poteri pubblici presente ancora nelle sue fonti. Carisio lascia così cadere la riserva pomponiana per cui i prefetti sono esclusi dall’ordo dei magistrati, e trasforma il parallelismo funzionale suggerito da Pomponio in un nesso genetico, collegando senza soluzione di continuità la prefettura augustea alla magistratura arcaica. Magistrati e prefetti — ma il rilievo non può non essere esteso a tutti i funzionari imperiali — sono implicitamente ricollocati in un disegno unitario delle attività di governo, un disegno senza fratture, onnicomprensivo, che consente il ricorso alla terminologia magistratuale anche per i subalterni dell’imperatore, pur dissolvendo la specificità delle categorie tradizionali nell’uso indifferenziato di potestas e di auctoritas: Dig. 1.11.1.2: ... ne a sententiis eorum minores aetate ab aliis magistratibus, nisi ab ipsis praefectis praetorio, restitui possint.
La potestas dei magistri equitum diventa cosi l'immediato antecedente storico dell'auctoritas dei prefetti, che si risolve poi in una plenior licentia o, nella versione di Giovan-
ni Lido, in una μείζων ... ἰσχὺς (Lyd. mag. 1.14): un potere enorme, ma assai lontano nella sua configurazione giuridica
dal modello classico della potestas magistratuale. Ancora in età adrianea infatti il magistrato era riproposto dall' Enchiridion pomponiano come tramite necessario fra la produzione dell'ordinamento e il suo tradursi in esperienza concreta della collettività (Dig. 1.2.2.13 ... per eos qui iuri dicundo praesunt effectus rei accipitur...), e in quanto tale si vedeva
riconosciuti poteri diversi per ampiezza, ma in ogni caso originarii, autosufficienti, nei propri limiti indipendenti e discrezionali. Istituiti e regolati da provvedimenti imperiali che Carisio richiama di continuo, intessendo il suo discorso di insistenti rinvii, i prefetti del pretorio sono invece desi-
gnati dall'imperatore — a principibus electi — per assumere poteri che sembrano trovare anch'essi un fondamento immediato nella norma istitutiva — data est eis licentia —, secondo
il modello delineato da Pomponio per i magistrati, ma che dalla norma stessa sono funzionalmente collegati a quelli 265
del principe. I funzionari infatti appaiono .al giurista tardo antico preordinati a integrare con l’esercizio delle proprie facoltà l’attività di governo imperiale, o del tutto a sostituirla, con gli stessi effetti, se 11 principe lo disponga. In questa prospettiva l’interpretazione autentica dell’imperatore ha potuto troncare il dibattito sull’appellabilità delle sentenze prefettizie, respingendo una tesi tutt'altro che insostenibile, nel silenzio di una esplicita disciplina: Dig. 1.11.1.1: ... cum... appellare et iure liceret et extarent exempla... ed ha proibito l'appello al principe: credidit enim princeps eos... non aliter iudicaturos esse pro sapientia ac luce dignitatis suae quam ipse foret iudicaturus.
L'appello produrrebbe una duplicazione del procedimento, dal momento che il principe si riconosce nelle sentenze dei funzionari chiamati ad amministrare la giustizia. Nella stessa linea il contemporaneo Ermogeniano motiva l'esclusione dell'appello con l'impossibilità di rilevare nelle sentenze prefettizie iniquità impugnabiliP, in quanto evidentemente postula per esse una completa assimilazione alle manifestazioni di volontà imperiali. Più che analizzare i poteri del prefetto, il proemio del Liber singularis de officio praefecti praetorio si propone di sviluppare la ricerca delle origini dell’istituto, quasi a riaffermare l’ininterrotta continuità della sua storia contro modifiche troppo radicali nell’assetto o nelle funzioni: Dig.1.11.1pr.: breviter commemorare necesse est unde constituendi praefectorum praetorio offici origo manaverit.
13 Dig. 4.4.17, Hermog. libro primo iuris epitomarum: praefecti etiam praetorio ex sua sententia in integrum possunt restituere, quamvis appel-
lari abhbis non possit: haec idcirco tam varie quia appellatio iniquitatis sententiae querellam, in integrum vero restitutio erroris proprii veniae pe-
titionem vel adversarii circumventionis allegationem continet. Il passo è analizzato con grande efficacia da L. RAGGI, La restitutio in integrum, cit., 199 ss., che sottolinea la differenza funzionale fra le due forme di impu-
gnazione, e le implicazioni per i caratteri costituzionali della prefettura. Ermogeniano è collocato in età dioclezianea da D. LIEBS, Hermogenians
luris Epitomae, cit., 13 ss., in particolare 35 s. per l’identicazione con un prefetto del pretorio di Massimiliano operante nel 304; ma per questa identificazione vedi i dubbi di ΤΙ. BARNES, The New Empire, cit., 136 s.,
in particolare nn. 58, 61. La presenza del giurista nella cancelleria dioclezianea è individuata anche, per il periodo 293-295, da T. HONORÉ, Emperors and Lawyers, cit., 129 ss.; 145.
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L’interesse del giurista si concentra sull’origo constituendi officii, è diretto cioè ad indagare la sistemazione normativa originaria dei compiti e delle attività prefettizie, il modo in cui esse sono state definite dalle più antiche decisioni imperiali, utilizzando officium in un’accezione che sembra qui registrata per la prima volta, nella letteratura
giurisprudenziale!*, e che cancella ogni valenza soggettiva
del termine, portando così a compimento un processo le cui prime tracce sono peraltro già percepibili in età severiana. Nel discorso di Carisio officium acquista infatti un valore traslato, e viene ad indicare non già il dovere del prefetto — non si comprenderebbe in tale ipotesi il riferimento al constituere —, ma l'opera spersonalizzata e stilizzata del funzionario, di cui le disposizioni imperiali tracciano i contorni essenziali, assumendola nello stesso tempo come autonomo centro di imputazione, distinto dalla persona che è ad essa chiamato. Il tema dell’origo così come l’attenzione per il constituere richiamano, come si è detto, suggestioni pomponiane; ma il magister libellorum rielabora le indicazioni del
suo modello innestandole in un procedimento di astrazione che traduce in categorie le modalità del servizio imperiale, un procedimento parallelo a quello che per altra via e in altri
contesti introduce una considerazione entificante del personale addetto ai diversi settori del servizio, espressa peraltro anch'essa attraverso un impiego traslato del termine offi-
14 Per A. DELL'ORO, I libri de officio, cit., passim, in particolare 18,
284: il termine indicherebbe così nelle opere dei giuristi classici come nelle rubriche delle compilazioni postclassiche e giustinianee «l’ambito nel quale si esplica la funzione del magistrato e del funzionario», «il com-
plesso di attribuzioni del titolare di una carica». L’interpretazione proposta è certamente inadeguata a chiarire l’uso della giurisprudenza predioclezianea che, pur accanto ad altre accezioni, privilegia quelle implicanti un riferimento alla doverosità, etica o giuridica, del facere di cui si tratta:
così anche J. Gaudemet nella recensione in SDHI 28,1962, 413; più analiticamente F. CANCELLI, Saggio sul concetto di officium in diritto romano, RISG 9,1957-58 in particolare 26 ss.; F. GRELLE, Munus publicum. Terminologia e sistematiche, Labeo 7,1961, 309 s.; 324 s.; 329 (sul tema ritorno in Le categorie dell'amministrazione tardoantica, cit., 41 s.). Ma
la considerazione dell’officium come complesso di attribuzioni è anche insufficiente per cogliere le novità delle prospettive tardoantiche, in particolare di quelle che, tra l’altro nell’ analisi di Carisio, tendono a distacca-
re le funzioni dal funzionario e a farne autonomo oggetto di regolamentazione giuridica.
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cium!°. La ricerca pomponiana dell’origine dei poteri magistratuali, indagati nel loro intreccio col costruirsi della comunità in ordinamento, si risolve così per il giurista tardo antico nel ripercorrere a ritroso nei secoli il disegno organizzativo imperiale, attraverso il suo rivelarsi nei mutamenti degli uffici che ne costituiscono le strutture elementari, in
modo da attingerne le linee di fondo, guida per l’interprete e limite alla discrezionalità del legislatore. 4. La nostra conoscenza dell’opera di Carisio è contenuta entro limiti ristretti dall’esiguità dei testi pervenutici — sei frammenti, per meno di quattro colonne a stampa, nella palingenesi leneliana —, ed impone pertanto estrema prudenza nel generalizzare le indicazioni rintracciabili in quei testi. Non sappiamo così se e in quale misura la monografia sul prefetto del pretorio sviluppasse l’assunto del prologo, assumendo l’ufficio, inteso come entità organizzativa del servizio imperiale, a.paradigma dell’intera trattazione. Il rilievo conferito alla fides e alla gravitas del funzionario in Dig.1.11.1, per motivare l’equiparazione delle sue sentenze a quelle del principe può tuttavia suscitare qualche dubbio, in quanto sembra implicare un aggiustamento di ottica, e il recupero di
caratteri personali nella definizione delle attività del prefetto. Una coerente riduzione di tutte le attività di governo allo schema dell’officium incontra peraltro nella riflessione di Carisio ostacoli assai rilevanti nell’impatto con i particolarismi territoriali. L'assenza di riferimenti all’officium nel lun-
15 Ne traccia la storia G. CERVENCA, Sull’uso del termine officium nella legislazione postclassico-giustinianea, in St. Grosso III, 1970, 205 ss., in un’attenta ricerca le cui conclusioni sono tuttavia in certa misura compromesse da un approccio che elude la formalizzazione dei fenomeni analizzati. La considerazione dell'officium come «complesso di funzioni inerenti a una carica» (p. 207), nel senso proposto dal Dell’Oro, è infatti antitetica a quella che dal termine stesso vede sottolineata la doverosità del comportamento, «il significato di dovere o complesso di doveri» (p. 227); d'altra parte «il significato di complesso degli impiegati addetti, in qualità di dipendenti, a un determinato magistrato o funzionario» (p. 207) costituisce certo un dato rilevante nell’uso tardo antico, ma non può essere avvicinato al «senso attuale del termine» se non riducendo l'insieme ad uno solo dei suoi elementi: cfr. M.S. GIANNINI, Organi (teoria generale), ED 31, 1981, 41 ss., con ampia bibliografia. Piuttosto, quell’accezione sottolinea il carattere corporativo inerente all’assetto del personale amministrativo tardo antico e ne costituisce una nota specifica.
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ghissimo frammento del Liber singularis de muneribus civilibus conservato in Dig. 50.4.18 appare infatti — sebbene l’opera sia di qualche anno anteriore al De officio praefecti
praetorio!® — il risultato di una consapevole scelta piuttosto che il riflesso di una incompiuta maturazione, o del tutto il prodotto involontario della selezione dei compilatori. Il passo, l’unico a noi giunto di quel libro, offre una variegata, a
tratti pittoresca ricognizione delle forme secondo le quali si articola l’amministrazione delle civitates nell’impero, e riconduce la molteplicità degli istituti cittadini all’antico schema dualistico dell’honor e del munus, continuando a porre
16 Il Jones, The Later Roman Empire, cit., III, 3 n. 1, indica come termine ante quem per la composizione dell’opera il 307/8, quando sarebbero scomparsi in Egitto i decaproti, ricordati come tuttora operanti in Dig. 50.4.18.26; l’eliminazione del munus è stata anticipata al 302 da J. LALLEMAND, L'administration civile de l'Egypte de l’avènement de Dioclétien à la création du diocese (284-382), 1964, 206 s. Ma D. LIEBS, Römische Provinzialjurisprudenz, cit., 321 n. 214; 327 s., riprendendo argomenti già sviluppati analiticamente in Ulpiani Opinionum
libri VI, RHD
41,1973,
288 ss., ritiene il rilievo superabile, in quanto i decaproti risultano ancora operanti in altre province dopo la scomparsa in Egitto (sebbene non sia documentato un loro coinvolgimento in attività fiscali), e richiama piuttosto l'attenzione sul fatto che Carisio ignora le esenzioni per il clero cristiano, largamente concesse dopo il 313, nella trattazione delle cause di immunità in Dig. 50.4.18.7 e 24; considera comunque il De muneribus civilibus posteriore alla costituzione dioclezianea conservata in Cod. Just. 10.42.8, da-
tabile al 293 o al 294 in quanto trasmessa dal codice Ermogeniano (cfr. Hermogenians Juris Epitome; cit., 23 ss., Römische Provinzialjurisprudenz, cit., 328 n. 240), con la quale Carisio polemizzerebbe nel passo sui decaproti, collocando la decaprotia fra 1 munera mixta, attraverso un richiamo all'autorità di Modestino, invece che fra i patrimonalia, secondo
l'indicazione imperiale. Per quanto suggestiva la ricostruzione del Liebs non è tuttavia convincente nell'attribuire a un funzionario imperiale — sia pure di età costantiniana, come crede il Liebs — una sotterranea polemica contro un intervento normativo dioclezianeo in difesa di un'opinione espressa, più generazioni innanzi, da un giurista severiano. Ricondotta la stesura del Liber singularis de officio praefecti praetorio al primo o al secondo decennio del quarto secolo, il De muneribus civilibus può essere fatto risalire ad un momento anteriore alla decisione dioclezianea conservata in Cod. Just. 10.42.8, agli inizi della carriera di Carisio come funzionario, quando la questione del carattere della decaprotia, se munus patrimoniale, corporale o mixtum, era tuttora aperta, e soluzioni alternative era-
no ancora proponibili senza contrapporsi al parere imperiale, che di li a poco sarebbe intervenuto a troncare la discussione: nec protostasiae vel sacerdotii vel decaprotiae munera corporalia sunt, sed tantum patrimonii esse non ambigitur.
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in evidenza per l’uno e per l’altro soprattutto la dimensione del facere, pur nella tripartizione dei munera in personalia, patrimoniorum e mixta. La gestione delle civitates attraverso gli istituti dell’autogoverno locale appare in questa prospettiva estranea e irriducibile a un sistema di officia, sebbene la connotazione pubblica delle attività nelle quali si specifica l'administrare individui un denominatore comune fra governo cittadino e servizio imperiale: ... nam personalia et patrimoniorum et mixta munera civilia seu publica appellantur..., afferma infatti il giurista avviandosi a concludere la
sua analisi (Dig. 50.4.18.28)!7. L'amministrazione locale re-
sta cioè ancorata ai modelli tradizionali di funzioni pubbliche, trasmessi da un complesso di norme ancora decisamente connotato dal pluralismo cittadino: Dig. 50.4.18.2: ... et quaestura in aliqua civitate inter honores non habetur sed personale munus est..., 19 ... elemporia et pratura apud Alexandrinos patrimonii munus existimatur...; 25 ... praeterea habent quaedam civitates praerogativam..., 27
... Si hi qui funguntur ex lege civitatis suae vel more etiam de propriis facultatibus impensas faciant...
5. Il modo impersonale e astratto secondo cui Carisio considera le attività di governo, riflesso nell’uso di officium,
non resta un episodio isolato nella cultura giuridica di età dioclezianeo-costantiniana, prodotto di un’esperienza particolarmente sensibile alle novità istituzionali del tempo suo. Se potessimo riferire al primo libro del codice Gregoriano anche dei titoli de officio, avremmo un consistente indizio
per riconoscere al compilatore dioclezianeo una nozione dell’istituto non lontana da quella del magister libellorum: sarebbe infatti difficile attribuire all’autore del codice un’utilizzazione delle rubriche diversa da quella che si riscontra più tardi nella sistematica del Teodosiano, dove troviamo ri-
affermata e consolidata una concezione dell’officium assai vicina a quella di Carisio. Purtroppo, ignoriamo quasi tutto 17 H carattere dei munera, come forma di partecipazione attiva alla cosa pubblica, secondo i modelli tradizionali di organizzazione cittadina; e il
suo perdurare ancora nelle analisi di Arcadio Carisio e di Ermogeniano sono stati da me discussi in Stipendium vel tributum. L'imposizione fondiaria nelle dottrine giuridiche del II e II! secolo,
1963, in particolare 87 ss.; il
tema è ripreso e approfondito per l’età dioclezianea da W. GOFFART, Caput and Colonate: Towards a History of Late Roman Taxation, 1974, 22 ss.
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dell’ordine del primo libro del Gregoriano, in quanto la possibilitä di ricostruire l’archetipo dioclezianeo attraverso le compilazioni successive & per questa parte quanto mai dubbia, e l’ipotesi mommseniana di un titolo de officio praefectorum praetorio, che avrebbe raccolto le costituzioni precostantiniane confluite poi nel titolo omonimo del Codex Iustinianus, è stata fortemente incrinata dalle ricerche del Roton-
di!® Comunque, una pur rapida lettura delle costituzioni di età costantiniana pervenuteci attraverso il codice Teodosiano permette di ritrovare officium in contesti che non consentono letture persuasive se non nella direzione suggerita dal De officio praefecti praetorio. Fra i molti esempi uno dei più
interessanti è offerto dal lungo provvedimento con cui nell’aprile del 324 Costantino disciplina l’esonero dei minori dal controllo dei curatori. Indirizzata al praefectus urbi Verinus la costituzione prevede fra l’altro che per fruire del beneficio concesso dalle nuove norme i membri dell’ordine senatorio offrano adeguati elementi di valutazione all’officium del prefetto stesso, in un’accezione del termine che indica evidentemente l’unità amministrativa, della quale il funzio-
nario preposto è considerato parte integrante
^. Il riferimen-
18 Nei Prolegomena in Theodosianum (Theodosiani libri XVI... voluminis I pars prior, 1904) XIII ss., il Mommsen segnala due costituzioni preteodosiane nel titolo de officio praefectorum praetorio Orientis et Illyrici del codice di Giustiniano (Cod. Iust. 1.26), in cui confluiscono anche le co-
stituzioni del titolo de officio praefectorum praetorio del codice Teodosiano (Cod. Theod. 1.5), e ne suggerisce la provenienza da una collocazione parallela nel codice Gregoriano. Il ROTONDI, Scritti, cit., 148 s., ha tuttavia mostrato come il libro primo della compilazione dioclezianea difficilmente possa avere contenuto un'articolata trattazione degli officia, in quanto le indicazioni sulle rubriche (Cod. Greg.
1.10 de pactis = Cod. Just. 2.3) non
lasciano uno spazio adeguato. Il tema attende ancora ulteriori ricerche. 1? Cod. Theod. 2.17.1: (Imp. Constantinus A. ad Verinum). Omnes adulescentes qui honestate morum praediti paternam frugem vel maiorum patrimonia urbana vel rustica conversatione rectius gubernare cupiunt et imperiali auxilio indigere coeperint, ita demum aetatis veniam impetrare audeant cum vicesimi anni clausae aetas adulescentiae patefacere sibi ianuam coeperit ad firmissimae iuventutis ingressum... Ita ut senatores apud gravitatis tuae officium de suis moribus et honestate perdoceant, perfectissimi apud vicariam praefecturam, equites Romani et ceteri apud praefectum vigilum, navicularii apud praefectum annonae... (Data V Id. April. Thessalonica. Proposita III Kal. Iun. Romae, Crispo II et Constantio II CC. conss.). La data del 9 aprile 321 & corretta dal Mommsen nel 9 aprile 324: scribendum est Crispo III et Constantino III cum propter magistratum tum propter locum; cfr. O. SEECK, Regesten der Kaiser und Päpste, 1919, 173.
to ai senatori e il confronto con altre disposizioni della legge, che prevedono analoghe procedure per gli equites Romani, apud praefectum vigilum, e per i navicularii, apud prae-
fectum annonae, escludono che in questo contesto officium possa indicare l’insieme del personale a disposizione del prefetto, secondo un altro impiego del vocabolo non infrequente nel linguaggio della cancelleria tardo antica. Un’ulteriore conferma dell’interpretazione si ritrova nella parafrasi del passo che i compilatori inseriscono nel codice di Giustiniano, semplificando: Cod. Just. 2.44.2: ... apud sublimitatem tuam (scil. praefecti urbi)...
Naturalmente, sarebbe arbitrario ricondurre questa costituzione, e le altre che nello stesso periodo attestano un uso
simile di officium?”, alla presenza di Carisio nella cancelle-
ria. La produzione delle leges generales raccolte nel Teodosiano esclude interventi dello scrinium libellorum, e sino a
quando nuovi dati prosopografici, o gli apporti di analisi stilistiche quantitativamente rilevanti non renderanno plausibile un’ingerenza del giurista nella stesura di quei provvedimenti è opportuno arrestarsi al rilievo della coincidenza, già di per se stessa significativa.
20 Cfr. Cod. Theod. 1.2.1: ... officium gravitatis tuae observet... 30 dicembre 314 (?; 313: Seeck); Cod. Theod. 6.35.4: ... gravitas tua ex officio rationum aeris speciem postulet... 15 marzo 321 (ma O. SEECK, Regesten, cit., 62; 171 per una possibile datazione al 318), etc.
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Le dottrine gromatiche nell’opera di Biagio Brugi*
1. Di ritorno a Pisa da un soggiorno di perfezionamento in Germania, ove aveva ascoltato, fra le altre, le lezioni
di Carl Georg Bruns, il giovane Brugi, allora ventiquattrenne, partecipava nel 1879 al seminario di esegesi della
facoltà giuridica pisana, diretto da Filippo Serafini, già suo maestro nel corso degli studi universitari, e vi presentava uno studio /ntorno al concetto di servitù prediale secondo
l'odierno diritto romano. Un resoconto dell' Archivio Giu-
ridico avverte che l’impegno non venne tuttavia condotto a termine, né tanto meno
ebbe un risultato a stampa, in
quanto dopo qualche mese lo studioso fu chiamato ad Urbino, alla cattedra di Diritto Romano di quella università
* Index 16, 1988, 281-297. ! Un rapido profilo biografico del giurista è in A. COLETTI, Biagio Brugi, Dizionario biografico degli italiani XIV, 1972, 491 ss.; utilissime indi-
cazioni offre l’accurata bibliografia di G. MARINO, Gli scritti di Biagio Brugi (1855-1934), Index 9, 1980, 265 ss., redatta in preparazione del volu-
me su Positivismo e giurisprudenza. Biagio Brugi alla congiunzione di scuola storica e filosofia positiva, sd. ma 1986, una monografia orientata in particolare all'analisi degli interessi teorici del Brugi, ma che raccoglie anche dati preziosi per la conoscenza dello studioso delle istituzioni romane. Sulla facoltà giuridica pisana vedi un rapido cenno in F. CASAVOLA, Breve appunto ragionato su profili romanistici italiani, Sodalitas VIII, sd. ma 1984, 4133 ss., in particolare 4138; il programma e le attività del seminario storico-giuridico voluto e in buona misura organizzato dal Serafini sono brevemente presi in esame da G. MARINO, II positivismo, cit., 25 s. e n. 15.
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libera?. La breve cronaca del seminario si limita a registrare lo schema della ricerca in corso, e accenna solo di sfuggita all’attenzione con la quale già questo primo lavoro scientifico del Brugi si sofferma a considerare l’assetto gromatico del suolo. Nello stesso anno però la monografia su 1 fasti aurei del Diritto Romano? delinea di quell’interesse una motivata giustificazione metodologica. Dedicati «a Filippo Serafini, maestro e duce di una nuova scuola del diritto romano in Italia», i Fasti ripercorrono i grandi momenti della storia della tradizione romanistica e analizzano le «odierne tendenze della scienza del diritto» per sviluppare un’appassionata, a tratti enfatica perorazione delle possibilità che si aprono alla ricerca giuridica, ove sia sorretta da «una sana filosofia positiva»: «Se, come ci sembra, il perno fondamentale sta nello stringere amorosamente l'economia al diritto, si tenga a mente che quel vecchio corpus iuris è pronto a dare norme attissime a regolare tutti i nuovi rapporti giuridici». In questa linea l’ex allievo delle università di Pisa e di Berlino — la qualifica è nel frontespizio del volume — dichiara tutta la sua insofferenza sia per l’indirizzo «idealistico» dello Jehring sia per quello «materialistico» del Leist, e propugna «una terza tendenza» che individua «coll’epiteto di scuola economico-giuridica». Collocandosi in continuità ideale con la scuola storica, essa ne correggerebbe l’astrattezza, secondo un’indicazione giä tracciata dal Padelletti^, e ne integrerebbe e svilupperebbe
2 Cfr. E. SERAFINI, Relazione intorno agli studi fatti nel seminario storico-giuridico di Pisa durante l’anno 1879, Sezione I, Esegesi sul Corpus Iuris Civilis, AG 25, 1880, 7 ss. 3 I fasti aurei del diritto romano Studi preliminari dell’avv. Biagio Brugi, già alunno delle università di Pisa e Berlino, 1879. 4 Cfr. I fasti, cit., 280 e n. 1, dove si rinvia a «Padelletti, Manuale di
storia del d.r., cap. I n. 2»; per questa considerazione del Brugi G. MARINO, Positivismo, cit., 99 ss. e n. 150. Professore a Roma dal 1872 alla mor-
te prematura, appena trentacinquenne, nel 1878, e prima a Perugia, a Pavia e a Bologna, Guido Padelletti aveva conservato profondi legami con la terra d’origine e coltivava rapporti di devota amicizia per Filippo Serafini, che ne aveva incoraggiato e sostenuto l'avvio all'insegnamento universitario: vedo il cenno biografico di C. Fontanelli in G. PADELLETTI, Scritti di diritto pubblico, 1881, XXIV ss. Non sorprende pertanto che il Brugi a sua volta ne ricordi la frequentazione e gli insegnamenti come di uno dei maestri più cari; cfr. 1 fasti l.c.: «Mi sia lecito di ripetere ancora una volta la mia pubblica gratitudine per i consigli e la benevolenza di cui mi onorò.
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l’insegnamento. «La scuola storica ci ha annunciato che il diritto scaturisce dalla coscienza nazionale del popolo», ricordano i Fasti; «Ma questo è un concetto astratto che essa [la scuola storica] non ha determinato e che pure ha bisogno
di ricevere una concreta spiegazione. Orbene quali sono i caratteri esterni ove rivelasi il genio di un popolo come fattore del suo diritto?». E il Brugi chiarisce: «La relazione giuridica che poi sale a configurare uno speciale istituto di diritto è un meccanismo parziale nel meccanismo generale della società; in ciascuno istituto giuridico è quindi da ravvisarsi il veicolo dell’equa ed economica trasmissione della ricchezza. A seconda del raggrupparsi di questa in centri privilegiati o dello spandersi nelle masse tutte, a seconda delle industrie predominanti, a seconda del pregio maggiore o minore dei beni immobili i diritti dei popoli assumono speciali e differenti caratteri». Proprio sotto questo profilo, lo studio del diritto romano offre ammaestramenti preziosi: «Il gius romano palesa caratteri eccezionalmente economici; possia-
mo trovare tracce di dottrine economiche presso gli stessi giureconsulti; ma, ciò che più conta, la configurazione medesima dei più importanti istituti giuridici ha una prima matrice nel culto mirabilmente economico della terra, perocché
l’agricoltura fosse la ricchezza originaria di Roma. L’ager diviso dà ai primi rapporti giuridici romani quella saldezza e gravità propria delle relazioni agricole e delle famiglie di per sé stesse capaci di provvedere ai propri bisogni. Ma nello stesso tempo la terra ha in Roma rispetto ai tempi ed ai
Invano sperammo di vederci sui nostri bei monti senesi! Una mattina mi giunse in Germania il triste annuncio della morte di lui...». Sul manuale del Padelletti e la sua fortuna, vedi la presentazione di R. Martini in G. PADELLETTI, Storia del Diritto Romano. Manuale ad uso delle scuole, 1878
(r. a. sd. ma 1983). Il riferimento ad una «scuola economico-giuridica» di cui egli stesso sarebbe un esponente è ripreso dal Brugi anche negli anni successivi; vedi ad es. Studi sulla dottrina romana delle servitù prediali. I. Esame dei principi riguardanti il passo necessario in relazione al concetto di servitù prediale nel diritto classico, AG 27, 1881, 254. Tace di questo precedente B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono 1L1947, (la prima edizione è del 1920) 143, quando denomina scuola economico-giuridica quella del Salvemini e del Volpe e di altri «giovani educatisi agli studi storici tra il 1890 e il 1900, e tutti o quasi tutti, dal più al meno, infervorati pel socialismo e che tutti ricevettero dalla dottrina del
materialismo storico profonda impressione, la quale rimase determinante per la loro vita intellettuale».
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precedenti diritti asiatici quella mobilitä che noi oggi le de-
sideriamo...»?
Il riferimento all'ager divisus et adsignatus e, più in generale, alle qualità gromatiche del suolo acquista in questa pagina un carattere programmatico, delinea un approccio agli istituti giuridici romani che ne ricerca le determinazioni concrete nella «costituzione economica», secondo l’insegnamento del Padelletti. Negli anni a venire, impegnato in un fitto dialogo con giuristi e sociologi e filosofi, il Brugi avrebbe riaffermato e precisato l’intuizione della continuità fra scuola storica e pensiero contemporaneo, avrebbe ritrovato in quegli studiosi «i veri precursori della filosofia positiva oggi restaurata», ed avrebbe messo in evidenza nei loro discepoli una irrealizzata tensione verso l’approntamento di una sociologia del mondo antico”. Parallelamente, riprese le ricerche sulla disciplina delle servitù prediali, egli avrebbe maturato una sua personale revisione dell’astrattezza della scuola, sottoponendo ad un serrato confronto le testimonianze dei giuristi e quelle della letteratura gromatica. 2. L’attenzione agli scritti degli agrimensori è fenomeno non isolato né marginale fra i romanisti degli ambienti nei
5 I riferimenti sono a 1 fasti, cit., 280, 282, 283 (ancora con un rinvio al Padelletti, alla n. 2). 6 G. PADELLETTI, Storia, cit., 10 (Storia del diritto romano? con note di P. Cogliolo, 1886, 13): «... Ma se ben si rifletta la coscienza popolare, la
coscienza giuridica di un popolo sono espressione di concetti troppo indeterminati... Chi rispondesse che (la coscienza popolare) è determinata dal genio, dal carattere particolare del popolo cadrebbe in una evidente tautologia. No, anche la coscienza giuridica di un popolo è il prodotto di certe condizioni positive e di fatto..., e queste condizioni di fatto sono quelle che offrono la materia, l’oggetto del diritto... La costituzione economica di un popolo determina dunque la più gran parte del suo diritto privato. Ma anche il diritto pubblico è una conseguenza mediata di quella costituzione,
perché gli ordini economici determinano direttamente gli ordini sociali, sui quali si fonda Ia costituzione politica». La nota del Cogliolo, /.c., riduce e stempera arbitrariamente l’incisività del discorso. I romanisti della scuola storica e la sociologia contemporanea, Il circolo giuridico 14, 1883, 151 ss., in particolare 157, 161. Il tema sarà ripreso, vent'anni più tardi, in un secondo articolo dallo stesso titolo nella Rivi-
sta Italiana di Sociologia 6, 1902, 228 ss. Il dibattito sui rapporti fra scuola storica e positivismo, assai vivo nella cultura giuridica italiana alla fine del secolo, è accuratamente ricostruito, in particolare attraverso il dialogo fra Brugi e Vanni, da G. MARINO, 1] positivismo, cit., 13 ss., 41 ss., 53 ss.
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quali si avvia e matura la formazione scientifica del Brugi. Nella seconda edizione,1871, dei Fontes iuris Romani antiqui il Bruns, che tanto fascino avrebbe esercitato sul. giovane studioso a Berlino, aveva integrato la terza sezione della sil-
loge, dedicata agli scriptores... qui... maiorem quandam in iuris doctrina habent auctoritatem, con un capitolo relativo agli agrimensori, dove raccoglieva passi di Frontino e di Igino; alle fonti gromatiche egli stesso faceva ricorso, in quegli anni, nella ricerca sull’autenticazione®. Qualche anno più tardi il manuale di storia del diritto romano del Padelletti, pubblicato nel 1878, segnalava le opere dei gromatici fra quelle alle quali lo studioso deve attingere la conoscenza della società antica”. Proprio in questa linea, il primo degli Studi sulla dottrina romana delle servitù prediali, portato a termine dal Brugi nell’estate del 1880, utilizza metodicamente gli scritti degli agrimensori attraverso le antiche edizioni del Rigaltius e del Goesius, per ricostruire l’assetto originario dell’organizzazione fondiaria antica. Il saggio muove infatti dal postulato della estrema risalenza della proprietà privata, pur senza prendere esplicitamente posizione nel dibattito in corso sulla forma più antica dello sfruttamento, se collettivo o individuale, e assume la divisio et adsignatio come presupposto naturale e necessario del dominium ex iure Quiritium;
deduce pertanto dalla asserita prevalenza ideale — se non statistica — di quel tipo di organizzazione rurale l’inesistenza di una dottrina del passo necessario, «dacché il sistema econo-
mico-politico dell’occupazione dei terreni togliesse occasione al Diritto stesso di occuparsene»; individua quindi nel passaggio legale «un bisogno che non potea essere sentito»,
e chiarisce come in un siffatto contesto le servitù di passaggio non rispondessero ad una necessità del fondo dominante, ma ne accrescessero piuttosto le utilità. Sottoposte ad un minuzioso vaglio, le testimonianze gromatiche si ricompongono a delineare un mitico paesaggio ru-
8 Cfr. Die Unterschriften in den ròmischen Rechtsurkunden, ABAW 1876 (Kleinere Schriften II, 1882, 62 s.). Per i rapporti fra il Brugi e il Bruns, ancora nel 1897 ricordato — come «un mio caro maestro», vedi / fasti, cit., 291 n. 3: «Io non potrò giammai dimenticare le sue dotte lezioni...
Io ritrovava a Berlino le dolci rimembranze di Pisa nella somiglianza fra il chiarissimo prof. Bruns e il mio principale e illustre maestro, il chiarissimo prof. Serafini». G. PADELLETTI, Storia, cit., 4.
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rale, nel quale si sarebbe formato «il concetto tipico e caratteristico del dominio romano antico», un concetto destinato
ad esercitare la sua influenza ben oltre l’ambito originario, nella stessa organizzazione dell’ager arcifinius, assimilato progressivamente all’ager limitatus «nella possibilità di appartenere al dominio privato»? . Ma soprattutto un concetto ritenuto valido e vitale: in modo assai piü scoperto, e senza le cautele del saggio romanistico, una recensione apparsa nell' Archivio Giuridico appena qualche mese innanzi lo ave-
va dichiarato esplicitamente, rifiutando il modello di un altro modo di possedere e le sue implicazioni politiche, e recuperando in pieno, a tratti anche nelle forme espressive, l'insegnamento del Padelletti nella Storia. «Se la maestosa civiltà latina (cui sebbene tardi e degeneri nepoti noi volgiamo sempre lo sguardo) ebbe a base inconcussa la proprietà individuale — si legge nella recensione —, e per secoli si è combattuto affine di ritornare al tipo romano della libera proprietà privata, potrà egli mai violentarsi tutta la nostra istoria per innestarvi la proprietà collettiva? Non lo crediamo possibile». Una considerazione della società civile e dei fermenti che in essa si agitano orientata «ai sani principi del positivismo», consapevole perció del carattere organico degli aggregati sociali e attenta ai ritmi naturali del loro sviluppo, dovrà piuttosto «opporre la buona alla cattiva istruzione e mostrare alle classi povere, che piü sono vittime del sofisma, quanto utile vi sia per loro nel conservare anziché nell'abolire le isti-
tuzioni fondamentali della società»!!. La fedeltà alla tradizio-
10 Studi sulla dottrina romana delle servità prediali. Y. Intorno all'asserita mancanza nel Diritto classico dei principi relativi al passo necessario, AG 25,1880, 322 ss.; i riferimenti sono alle p. 325, 373, 377, 379. La
ricostruzione del Brugi è puntualmente riconsiderata da L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà e la formazione dei iura praediorum in età repubblicana 11, 1976 in particolare 88 ss., 96, dove si sottoli-
nea l'insufficiente storicizzazione come limite metodico della ricerca; cfr. anche Proprietà e signoria in Roma arcaica, s.d. ma 1985, 239 ss. !! La recensione a P. BARSANTI, La socialità nel sistema della proprietà privata in AG 24, 1880, 500 ss.; i riferimenti sono alle pagine 502, 503. Qui, & anche interessante l’esplicito collegamento fra limitatio e caratteri originari del dominio, assoluto ed esclusivo, che riprende e sviluppa un'affermazione de I fasti 286: «Sebbene alcuni dotti tedeschi quali il Niebuhr, il Puchta, il Mommsen forse sotto l'influsso delle patrie reminiscenze abbiano voluto sostenere che anche in Roma vi fosse da principio la comunione del suolo ossia la proprietà collettiva, pure una seria indagine ...
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ne romanistica e il rifiuto di ogni rottura traumatica con essa non implicano tuttavia per il Brugi un attardamento nel recupero del passato che neghi «la evoluzione dei principi giuridici attraverso la istoria». Il ricorso «al concetto oggi fondamentale della evoluzione nelle scienze sociali» costituisce anzi per il giurista uno dei meriti della scuola storica, fra gli apporti piü rilevanti che essa abbia offerto al pensiero contemporaneo, sottolineato con insistenza cosi negli interventi
in difesa dell’insegnamento del diritto romano come nel di-
battito sui rapporti fra sociologia e romanistica"". Nella re:
censione all’opera del Cimbali su La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali, apparsa nell’Archivio Giuridico del 1885, il Brugi potrà così affermare che «non vi è chi non veda che tutti andiamo a poco a poco accettando i più sani principi del socialismo e vogliamo che lo stato non rimanga inerte, e si imponga all’egoismo individuale...; il nuovo risveglio degli studi romanistici non può essere d'ostacolo alle riforme perché il diritto romano ci mostra una continua evoluzione (per me cosciente nei giuristi classici) parallela alla evoluzione economica e sociale del mondo ro-
mano»P. La ricerca romanistica acquista dunque, in questa
prospettiva, il senso di un impegno civile: offre un convinto supporto teorico a quella «fiducia in una operosa trasformazione sociale secondo lo spirito dei Romani» che avrebbe già caratterizzato l’intervento della scuola storica nei problemi
ci fa certi che il tipo primordiale e continuo del dominio romano fu quello della proprietà privata; l’ager orientato e limitato dagli auguri riflette la personalità dispotica del pater familias, e le più antiche istituzioni religiose (fratres arvales) giuridiche e anche economiche (servitutes, actio aquae pluviae arcendae) si rannodano al fondo e sorgono in base alla proprietà divisa». L'intervento del Brugi è ricollocato nel dibattito contemporaneo sulla forma dei rapporti fondiari da P. Grossi, Un altro modo di possedere, 1977, 228; per gli ulteriori sviluppi della riflessione del giurista intorno al tema della proprietà cfr. anche A. DI MAJO, E. Cimbali e le idee del socialismo giuridico, Quaderni Fiorentini 3/4,1974/5, 409 55.
12 Cfr. I romanisti della scuola storica e la sociologia contemporanea
cit., 162. Qualche anno più tardi il tema è ripreso nella polemica a difesa dell’insegnamento del diritto romano: vedi La guerra al diritto romano. La scienza del diritto privato II, 1894, 460 s. su cui cfr. G. MARINO, Positivismo, cit., 135 ss.
13 Cfr. E. CIMBALI, La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali con proposte di riforma della legislazione civile vigente, 1884, recensione di B. Brugi, AG 34, 1885, 188 ss.; il riferimento è a p. 190.
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politico-giuridici del suo tempo (e che il Brugi rievoca con una palese autoidentificazione) e giustifica al tempo stesso il solidarismo irenico e pedagogico in cui si esprime l’adesione
dello studioso al socialismo giuridico!^.
Professore ad Urbino fino al 1881, e poi a Catania, fino al
1884, il Brugi continua per oltre un quinquennio a porre al
14 I romanisti della scuola storica e la sociologia contemporanea, cit., 155: «E mentre lo spirito filosofico sdegnava il terreno pratico e non contribuiva alla formazione del pensiero politico, i romanisti erano entrati in lizza in problemi politico giuridici, quale quello della codificazione, della costituzione, ed avevano fiducia in una operosa trasformazione sociale secondo lo spirito dei Romani così entusiasticamente descritto dal Savigny nel suo famoso libro Vom Beruf etc.». Il tema dei rapporti fra la riflessione del Brugi e le istanze del socialismo giuridico richiederebbe un’indagine che esula dai limiti di questa analisi. Un documento del modo in cui il giurista stesso definiva i suoi rapporti con quelle istanze è offerto, verso la fine del secolo, dalla affettuosa polemica col Buonamici, un altro dei mae-
stri pisani, in La guerra al diritto romano cit. In quel saggio, il Brugi attenuerà la considerazione del dominio come potere assoluto e inviolabile, espressa nella recensione al Barsanti (supra n. 11) e ripresa in Studi sulla dottrina romana delle servità prediali II. Scopo e forma della servitus aquaeductus e delle affini nel diritto classico, AG 32, 1884, 248; la corre-
zione non gli impedirà tuttavia di ironizzare su «quel vantato codice privato sociale che deve spuntare coll’alba dei tempi nuovi» (p. 458), e di replicare decisamente agli avversari del diritto romano, ai quali toccherebbe «dimostrare che la sociologia può fare a meno di analizzare questo adattamento secolare del gius romano a tante civiltà... e che in tutto e per tutto si può qui rinnegare il concetto della tanto decantata evoluzione per creare un nuovo ordine giuridico ab imis fundamentis» (p. 462). Dopo avere precisato che «a dire uno socialista si fa press’a poco la stessa determinazione che a dirgli uomo, supposto, beninteso, che non sia una donna», egli sottolineerà con forza:
«se ho mostrato di accettare alcune idee dei socialisti,
non sono ascritto a qualsiasi scuola di essi» (p. 450). Per gli ulteriori sviluppi di queste linee, attraverso la polemica contro gli scioperi dei braccianti agricoli (considerati un delitto nella prefazione a A. RAGGHIANTI,
Gli uomini rossi all’arrembaggio dello Stato, 1914 e nell’articolo su Società e Stato, Rivista Italiana di Sociologia 18, 1914, 353 ss.), e la riaffer-
mazione dell’interesse del proprietario come «forza vitale» dell’assetto sociale (nell’articolo sulla Definizione legale della proprietà, con cui si apre il secondo fascicolo della Rivista di Diritto Agrario 1, 1922, 118 ss.) vedi in questo stesso vol. di Index l’analisi di L. LABRUNA, Stato e società civi-
le in Biagio Brugi. Un utile confronto con la vicenda ideologica e politica del Brugi è offerto dall’itinerario culturale di un altro storico del diritto, anch'egli ascritto fra gli esponenti del socialismo giuridico, il Salvioli, su cui P. COSTA, Il solidarismo giuridico di G. Salvioli, Quaderni Fiorentini 3/4, 1974/5, 488 ss., e soprattutto l’introduzione di A. GIARDINA
stampa di // capitalismo antico. Storia dell’economia romana, 1985.
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alla ri-
centro della sua riflessione giuridica la disciplina dei rapporti fondiari, sotto il particolare profilo dell’ordinamento delle servità prediali, nell' intento di «ritornare alle pure fonti del diritto
romano liberando... le classiche forme di questo dalle sconce sovrapposizioni scolastiche»!?. I risultati della lunga ricerca sono raccolti nei quattro Studi sulla dottrina romana delle servitù prediali, apparsi nell’ Archivio Giuridico fra il 1880 e il 1885, e in alcuni interventi minori, tutti sorretti da una metico-
losa esplorazione della compilazione gromatica, esaminata ora nell’edizione del Lachmann e con la guida delle Gromatische
Institutionen del Rudorff!9. Le testimonianze degli agrimenso-
ri sono utilizzate per ricostruire il sistema fondiario nel quale affonderebbero le radici degli istituti classici, in quanto «conviene... cercare lo scopo di ogni istituzione giuridica, e questo coincide coll’origine storica di essa»; l’assetto documentato dalle opere dei gromatici permetterebbe infatti di risalire alla fase originaria dell’ordinamento del suolo, anteriore alle elaborazioni dei giuristi!”. «Ma come spingere lo sguardo oltre la
teoria scientifica dei giureconsulti nostri intorno alle servitù
15 Studi sulla dottrina romana delle servitù prediali. II. Esame dei principi riguardanti il passo necessario in relazione al concetto di servitù prediale nel diritto classico, AG 27, 1881, 256: «La scuola storica tedesca si propose di ritornare alla pura fonte del diritto romano liberando... le classiche forme di questo dalle sconce sovrapposizioni scolastiche. L’effetto fu raggiunto per molte dottrine... La dottrina delle servitù prediali, se io non erro, trovasi all’opposto nella condizione di innamorare a nuove e
fruttuose indagini...». Cfr. anche Studi sulla dottrina romana delle servitù prediali III cit., 258: «... se è noto che sani concetti economici ritrovansi
nel Diritto Romano non è forse abbastanza osservato che l’istituto della servitù prediale ha motivi strettamente economici i quali ricevettero la migliore e più esatta formulazione dai giuristi classici: ad essi appunto han dovuto tornare i moderni codici dopo le tristi aberrazioni medioevali così dannose all’economia». 16 I primi tre Studi sono stati già richiamati sopra n. 10, 15; l’ultimo articolo della serie, Studi sulla dottrina romana delle servitù prediali. IV. Il
requisito dell’utilità nelle servitù prediali secondo il diritto romano e il diritto odierno, è in AG 33, 1884, 237 ss. Sugli stessi temi appaiono in questi anni L’opinione di Teofilo intorno alla servitù di passo nel diritto romano, AG
29, 1882, 521
ss.; Le servitù prediali secondo l’antico diritto ro-
mano. Una opinione del Voigt, il Gravina,1883; Ancora del passo necessario in confronto alla servitus itineris, AG 34,1885, 141: cfr. G. MARINO,
Gli scritti di Biagio Brugi, cit., 267 ss.
17 I riferimenti sono tratti da Studi sulla dottrina romana delle servitù
prediali II, cit., 258, 260.
281
prediali?», si chiede il Brugi nel secondo degli Studi, e risponde fiduciosamente: «Possiamo tentarlo con le testimonianze della vetusta divisione dei terreni che ci sono conservate negli scritti degli agrimensori romani: questa può disvelare i motivi delle servitù prediali». E più avanti: «Incredibile è il vantaggio che essi (gli agrimensori) possono arrecare alla conoscenza della dottrina romana dei diritti reali: si resuscitano le condizioni agrarie in mezzo alle quali il gius nostro si svolse». Ma, oltre che per la storia dell’organizzazione rurale, i gromatici costituiscono una fonte preziosa per «indagare il sentimento caratteristico delle varie stirpi che va riflettendosi nelle grandi come nelle piccole manifestazioni della vita loro», secondo un’ esigenza emersa nell’articolo del 1883 su 7 romanisti della scuola storica e la sociologia contemporanea"*. Nota infatti l’autore nel terzo degli Studi, elaborato nello stesso anno: «Oltre i gromatici veteres possediamo gli scriptores rei rusticae; questi pure giovano assai per ritrovare le condizioni topografiche in mezzo a cui si è formato il Diritto classico, e più per conoscere le opinioni, i pregiudizi, i desideri degli agricoltori di quei tempi: tutto quel complesso insomma di comuni precetti della vita pratica il quale in ogni periodo storico fa parte integrante del carattere degli individui e dei popoli ed opera in modo assai energico nelle determinazioni della relativa coscienza giuridica»!?. Ma per questo aspetto la ricerca non va oltre l'affermazione del problema, che verrà ancora riproposto anni più. tardi, nel 1900, in una breve nota sulla Rivista Italiana di So-
ciologia, muovendo dalla necessità di «rompere il mistero di quella coscienza popolare che la scuola storica ci lasciò come terreno quasi vergine»? Accanto a questi studi, per i quali le dottrine gromatiche costituiscono un'integrazione e un completamento della documentazione piü strettamente giuridica, una breve monografia,
Delle alluvioni e dei cambiamenti nel letto dei fiumi secondo i libri dei gromatici veteres confrontati con il Digesto, pubblicata a Catania nel 1885, quando già il Brugi era stato chiamato alla cattedra di Istituzioni di Diritto Romano dell'Università di Padova, sembra proporre una diversa linea di lettura per gli 18 Cfr. Il circolo giuridico 14, 1883, 167. 19 Cfr. Studi sulla dottrina romana delle servitù prediali III, cit., 216.
20 Di alcuni caratteri psicologici della proprietà fondiaria romana nel suolo diviso dallo Stato o appartenente ad esso, Rivista Italiana di Sociologia 4, 1900, 35.
282
scritti degli agrimensori. Come precisa infatti il sottotitolo, Saggio di un commento giuridico ai gromatici veteres, le opere degli agrimensori non vengono qui in considerazione solo per ricostruire «il sistema economico politico delle assegnazioni», ma appaiono suscettibili anche di una indagine piü direttamente orientata all’analisi della disciplina giuridica dei rapporti fondiari. In questo ämbito, esse sembrano offrire la possibilità di uno studio sistematico delle teorie giuridiche dei loro autori, con uno spostamento di ottica dalle indicazioni delineate dal Padelletti ai suggerimenti impliciti nei Fontes del Bruns. L'impianto del lavoro riceve l'immediato consenso del Cogliolo, che in una nota alla seconda edizione (1886) della
Storia del Padelletti lo segnala come esemplare, «un saggio del modo di servirsi dei gromatici»?!; intanto, il Brugi ne riprende l’impostazione in un articolo apparso nell’Archivio Giuridico del 1886, Dei pascoli accessori a più fondi alienati secondo i libri degli agrimensori romani commentati col Digesto, con il sottotitolo Saggio giuridico sui gromatici veteres. Nel 1887 la feconda bibliografia del Brugi sembra registrare una rinnovata attenzione per il tema delle servitü ma già nell'anno successivo Guido Carle, professore di Filosofia del diritto a Torino e sin dall'attivazione dell'insegnamento incaricato anche della Storia del diritto romano, in una nota del volume che esprime i suoi nuovi interessi scientifici, Le origini del diritto romano, puó annunciare che «ora poi sta preparando un lavoro di lena sugli agrimensori
il prof. Biagio Brugi»?.
21 G. PADELLETTI, Storia del diritto romano", cit., 6 n.d.
22 La ricerca del MARINO, Gli scritti di Biagio Brugi, cit., 269, segnala per questo anno In tema di servitü. L'ambitus e il pariés communis nella storia e nel sistema del diritto romano, RISG 4, 1887, 161 ss., 363 ss.; Per
la dottrina del passo necessario secondo il diritto romano. Note esegetiche, AG 39, 1887, 433. 23 G. CARLE, Le Origini del Diritto Romano, 1888, 86 n. 1. Guido Carle, ordinario di filosofia del diritto a Torino dal 1878, accademico dei
Lincei, é tra gli interlocutori che il Brugi predilige nei suoi saggi metodologici. Nel 1885 assume per incarico anche l'insegnamento del nuovo corso di Storia del Diritto Romano, istituito in quell’anno. La prolusione allora pronunciata é recensita con favore dal Brugi, AG 36, 1886, 591. Per la
partecipazione del Carle al dibattito sulla struttura dei rapporti fondiari, proprio attraverso le lezioni romanistiche, cfr. P. GROSSI, Un altro modo di possedere, cit., 216 ss.; L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Proprietà e signoria in Roma arcaica, cit., 122 ss.
283
3. Il lavoro al quale allude il Carle veniva in quell’anno 1888 presentato manoscritto al premio reale per le scienze giuridiche e politiche, bandito dall’ Accademia
otteneva un giudizio incoraggiante, commissione giudicatrice infatti non opere prese in esame, e si limitava meriti del Brugi e del Vivante, un
dei Lincei, e
ma interlocutorio. La premiava nessuna delle a mettere in evidenza i altro dei concorrenti:
«sebbene nessuno dei due lavori possa, allo stato attuale,
meritare il premio, ciò nondimeno potrebbero venir messi entrambi in condizione di meritarselo, non trattandosi infine
che di un lavoro di revisione»?4. La commissione suggeriva
pertanto all’ Accademia di prorogare il concorso per un biennio, riaprendone i termini. Alla nuova scadenza, lo scritto
del Brugi era stato integrato con ulteriori ricerche particolari e con la lunga introduzione che presenta tuttora, ma non aveva raggiunto la sua forma definitiva. Chiuso il concorso nel 1893 il libro, sebbene avesse conseguito il premio, rima-
se a lungo inedito, rivisto e aggiornato in riferimento agli studi che venivano apparendo in Germania e in Francia sulla letteratura gromatica, e fu licenziato alle stampe solo nel
1897, dopo una sedimentazione ultradecennale?.
E assai verosimile che a rallentare l’elaborazione, e a pro-
lungarne oltre misura la fase finale abbiano contribuito motivi diversi, almeno in parte estranei alle esigenze della ricerca. La stesura definitiva del saggio viene infatti a cadere in un momento in cui il Brugi appare oramai impegnato a condensare in opere manualistiche, orientate alla didattica, i risultati della sua intensa attività di insegnamento, di revisione critica,
di partecipazione al dibattito metodologico, e trova forse difficile sottrarsi a tante sollecitazioni per condurre a termine i vecchi studi. Nel 1891 appare così la fortunata Introduzione enciclopedica alle scienze giuridiche e sociali, pervenuta nel 1898 alla terza edizione, e nel 1897 è pubblicato il primo volume delle Istituzioni di diritto privato giustinianeo. Ma nelle
titubanze e nelle perplessità registrate dalla breve avvertenza preposta al volume può forse cogliersi anche una nota di in24 La Relazione della Commissione giudicatrice per il concorso al premio reale nelle Scienze giuridiche e politiche, non conferito nel 1888 e prorogato a tutto il
1890, RAL 1, 1893, 84.
25 B. BRUGI, Le dottrine giuridiche degli agrimensori romani comparate a quelle del Digesto, 1897. Una breve nota traccia la storia dell’opera, VII ss.
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soddisfazione per i risultati raggiunti, il rimpianto per un esito che si sarebbe voluto diverso. Il confronto con i lavori del Weber, del Mommsen e del Beaudoin, apparsi dopo la presentazione del manoscritto al concorso, ma utilizzati per la sua revisione, doveva essere risultato tutt'altro che tranquillizzante?; d’altra parte, anche il giudizio della commissione nominata dall' Accademia dei Lincei non aveva nascosto l’inadeguatezza dell’opera alle attese da essa suscitate, pur ritenendola meritevole del premio. Al concorso, riaperto e prorogato fino alla fine del 1890, aveva partecipato questa volta anche Contardo Ferrini, che presentava tre articoli sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano ed un quarto sulla palingenesi delle Istituzioni di Marciano?’. Nel confronto fra i due studiosi la commissione, relatore il Carle, aveva preferito sen-
z’altro il più anziano Brugi, motivando tra l’altro la sua scelta con la speciosa osservazione secondo la quale appariva dubbio «se l’investigazione (del Ferrini), certamente erudita, non
avesse più un carattere filologico che non giuridico», un argomento destinato purtroppo a riemergere di frequente nelle vicende accademiche della romanistica italiana?®. I commis-
26 Nel 1891 era stata pubblicata la memoria di M. WEBER, Die ròmische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fur das Staatsund Privatrecht, 1891; nel 1892 l'articolo di TH. MOMMSEN, Zum römischen Bodenrecht, Hermes 27, 1892, 79 ss. (= Gesammelte Schriften V 85 ss.); nel 1894 il
saggio di BEAUDOIN, La limitation des fonds de terre dans ses rapports avec la proprieté, 1894. Una preziosa analisi dell’opera del Weber è ora in L. CAPOGROSSI
COLOGNESI,
Max
Weber e le società antiche I, 1987, in
particolare cap. 1.
27 Intorno ai passi comuni ai Digesti e alle Istituzioni, RIL 22, 1889,
825 ss. (= Opere II, 189 ss.); De Iustiniani Institutionum compositione coniectanea, ZRG 11, 1890, 106 ss. (Opere II 291 ss.); Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano, MIL 23, 1890, 131 ss. (una seconda redazione è in BIDR 13, 1901, 101 ss. (2 Opere II 307 ss.); Sulla palingenesi delle Istituzioni di Marciano, RAL 6, 1890, 326 ss. (= Opere II 277).
28 Relazione, cit., 91. Mezzo secolo piü tardi, nel Ricordo con cui si apre il volume di Scritti di Diritto Romano in onore di Contardo Ferrini pubblicati dalla R. Università di Pavia, 1946, il de Francisci sottolinea in-
vece come «... fra questi studi (sulle fonti giuridiche romane) merita la palma quello sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano, che costituisce un modello insuperato di padronanza delle fonti, classiche e bizantine, di sen-
sibilità filologica, di finezza di analisi e di sicurezza di induzione». Con generoso,
sereno distacco dal confronto concorsuale,
il Ferrini recensirà
alla pubblicazione il saggio del Brugi in RISG 24, 1897, 222 ss. (2 Opere II, 517), tessendone ampie lodi.
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sari avevano però compiuto un’analisi senza pregiudizi, a tratti impietosa, anche della memoria premiata. Messa così in evidenza «l’idea geniale ... di addivenire ad un raffronto accurato delle più importanti dottrine giuridiche degli agrimensori con quelle contenute nei digesti», essi constatavano come la revisione compiuta fra il primo e il secondo giudizio non avesse sanato i difetti del lavoro, né eliminato il suo carattere frammentario. «Anche oggi — osserva la relazione — [il
Brugi] non ha cercato di ricavare dalle trattazioni speciali un concetto sintetico e riassuntivo del contributo che i pazienti: suoi studi sugli agrimensori possono recare alla storia della proprietà pubblica e privata di Roma. Debba ciò attribuirsi alla natura degli scritti che forse non contenevano quella ricca miniera che sarebbesi creduto di trovarvi, o invece al metodo strettamente analitico ed esegetico dell’autore, che sembra ri-
trarsi da qualsiasi ricostruzione, anche quando questa si presenta ovvia e spontanea, questo è certo che il lavoro del Brugi lascia in chi lo legge forse più l’impressione della fatica paziente che egli ha dovuto fare, che non la soddisfazione dei risultati veramente importanti a cui egli perviene». E poco innanzi, in un rapido confronto con la monografia del Weber sulla storia agraria romana, il relatore non aveva nascosto di
subire la suggestione di quel «punto di vista più sintetico e generale», e della sua «unità di concezione», pur sottolinean-
do i pericoli insiti in «risultati, che possono talora apparire arditi», e ponendo in evidenza come gli esiti dello studioso italiano fossero «forse più modesti, ma anche più sicuri»??. Certo, già nella scansione dei capitoli e nel disegno complessivo in cui essi si ricompongono la memoria del Brugi appariva tuttora lontana dal proposito di «tentare una ricostruzione fin dove è possibile dogmatica e organica delle dottrine di diritto privato degli agrimensori», un proposito sostanzialmente riaffermato nella precisazione: «Io non poteva né volli forzare il tutto in un sistema; il mio libro è non-
dimeno, all’incirca, un trattato, della proprietà e delle servitù e acquista così qualche unità»??, Non ostante le tre successive revisioni, l’opera restava frammentaria e dispersiva: la trama intreccia accostamenti più o meno casuali intorno ad un piccolo nucleo di temi pertinenti alla qualificazione gro-
29 Relazione, cit., 92 s. 30 Le dottrine, cit., 95.
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matica del suolo, e aggrega contributi diversi per impianto e prospettive, in parte ricalcati su studi più ampi degli anni innanzi, spaziando dall’economia agraria alla disciplina giuridica dei corsi d’acqua. Più che in un limite dell’autore, ben altrimenti efficace nelle sue prime opere istituzionali, o nella qualità delle testimonianze analizzate, come sospettava 1l Carle, la trattazione sembra urtarsi di continuo nella irrisolta
difficoltà di individuare i caratteri specifici della rilevanza giuridica delle dottrine gromatiche, e di determinarne parallelamente un angolo di osservazione adeguato. Proprio per questo profilo il Brugi aveva dichiarato la sua insoddisfazione verso le Gromatische Institutionen del Rudorff, alle quali peraltro riconosceva di dovere molto, sostenendo che il vecchio studioso tedesco, «eminente storico e mirabile per dovizia di fonti romanistiche, non ebbe forse eguale maestria e sicurezza nel ravvisare il lato giuridico delle dottrine e talune giuridiche conseguenze di fondamentali principi degli
agrimensori»?!. La critica sembra implicare il riconoscimen-
to di una dimensione normativa nell’attività dei teorici dell’agrimensura non meno che la consapevolezza di interferenze ricorrenti fra le procedure di sistemazione territoriale messe in atto dai mensores e la disciplina dei rapporti fon-
diari. Nel contesto della lunghissima introduzione al saggio, questi rilievi vengono però decisamente stemperati, se non del tutto smarriti nel cumulo di riferimenti eterogenei alle possibilità di lettura offerte dagli scritti degli agrimensori. Si oscilla così fra l’interesse per i dati strutturali tramandati da quella letteratura, e l’attenzione alle possibilità di raggiungere attraverso di essa una presunta coscienza popolare. «Gli auctores spiegano le condizioni reali in cui sorsero e da cui ricevettero figura dogmatica molti istituti sapientemente regolati dal diritto classico ... Ci conservano gli agrimensori
le più interessanti pagine della storia della proprietà fondiaria romana, ci mostrano che il suo concetto è meno egoistico di quanto si crede, ci fanno assistere a quella lenta e continua assimilazione del suolo provinciale all’italico, del limitatus all’arcifinius della quale vediamo il compimento nel diritto giustinianeo. Mentre poi noi siamo desiderosi di ravvisare il diritto romano come organismo vivente e vorremmo, a così dire, immedesimarci di nuovo con la coscienza
31 Le dottrine, cit., 92.
287
giuridica del popolo romano, ci si offre negli agrimensori un inaspettato sussidio: essi, uomini tecnici e non giuristi, ci presentano spesso i principi giuridici come li sentono e come forse apparivano al popolo, quasi materia prima non lavorata dal giureconsulto»??. Come per le ricerche sulle servitù prediali, le opere gromatiche ritornano qui a costituire un catalogo di notizie al quale attingere per illustrare le determinazioni concrete della coscienza giuridica e risalire alla «costituzione agraria del popolo», secondo l'auspicio del Padelletti; nello stesso tempo, ma in modo del tutto indipen-
dente esse sono presentate come un repertorio di esperienze popolari che integrano, con la loro immediatezza ingenua, il sapere specialistico dei giuristi, in una linea in cui è facile ritrovare l’eco di suggestioni della scuola storica. Sarebbe tuttavia ingeneroso, e assai poco utile per la comprensione dell’opera, insistere sulla debolezza e le incongruenze di
questo approccio, peraltro così pesantemente datato. Va invece messo in evidenza come in esso si smarrisca, insieme alla felice intuizione dell’autonoma rilevanza giuridica dell’ars gromatica, anche il progetto di una sistematica aderente alle peculiarità del tema. Come avverte infatti il Brugi, il saggio avrebbe dovuto utilizzare lo schema delle contro-
versiae agrorum tramandato dalla letteratura agrimensoria; quel disegno era stato poi accantonato «per evitare un artificioso richiamo di molti principi, per abbracciare tutto il contenuto degli auctores, per scuotere il pregiudizio che solo nelle controversie trattino di argomenti giuridici»??. Si era preferito cioè spostare l’ottica dalla considerazione dell’influenza che le dottrine degli agrimensori avevano esercitato
sull’assetto dei rapporti fondiari alla generica ricognizione delle conoscenze giuridiche dei mensores,
con risultati tut-
t'altro che felici per la coerenza e l'organicità del lavoro. Il saggio rinuncia dunque ad assumere come indirizzo centrale della ricerca il modo in cui teoria e pratica dell’agrimensura avevano contribuito a determinare l’assetto istituzionale del suolo, £ avevano perciò assunto la funzione di «fonti giuridiche»?^; riprende invece dalla compilazione
32 Le dottrine, cit., 93. 33 Le dottrine, cit., 95.
34 Secondo una prospettiva che il Brugi stesso peraltro ritrovava nelle
sue ricerche anteriori; cfr. Le dottrine, cit., 40: «Già sin dal 1879, indi in
288
giustinianea, in particolare dai Digesta, i modelli dei rapporti fondiari ai quali intende «comparare» quelli elaborati dai gromatici. Il procedimento era assai rischioso, per le possibilità di deformazioni ad esso inerenti, come aveva già mo-
strato lo studio sui compascua apparso nell’Archivio Giuri-
dico del 1886°°. In quell’articolo l'assimilazione dei pascoli comuni alla comunione civilistica, coerente peraltro con i pregiudizi dell'autore nei confronti delle forme di sfruttamento collettivo del suolo, aveva offerto un facile bersaglio
alla decisa confutazione dello Schupfer. «Il prof. Schupfer mi fece l'onore di combattere ben due volte la mia tesi, invi-
tandomi a più maturo esame degli agrimensori, che mi condusse a mutare opinione», ricorda il Brugi ne Le dottrine, correggendo la tesi allora sostenuta, e piü oltre avverte: «Lo Schupfer non dubita che anche sulle communiones restasse il diritto eminente della colonia si da costituire un rapporto
di diritto pubblico»?$. Forse anche perché messo sull’avviso
da quell'errore, il Brugi sottolinea ne Le dottrine, con un'insistenza spesso monotona e talora dispersiva, il distacco in-
tercorrente fra gli schemi gromatici e le categorie giuridiche,
apposito saggio del 1885, e per le servità prediali e per le alluvioni cercai di valermi degli agrimensori come fonte giuridica». Ma anche Le dottrine, cit., 106 s.: «Altro è chiedere se la dottrina delle condiciones agrorum
abbia pure un significato giuridico... Il significato giuridico deriva già dal fatto che una figura impressa nel suolo può meglio di altre rappresentarne la condizione giuridica. Inoltre la divisione del suolo dà origine ad una serie di rapporti giuridici di vicinanza di cui l’agrimensore deve essere consapevole...». Nell’ottica prescelta dal saggio si comprende come restino sostanzialmente estranei all'analisi 1 contributi delle ricerche sui resti delle centuriazioni compiute dal Lombardini, dal Rubbiani e dal Legnazzi, che pure il Brugi mostra di conoscere: Le dottrine, cit., 234 n. 6, 241 n. 24, 250 n. 41. D'altra parte il Legnazzi insegnava geodesia a Padova negli anni nei quali il giurista veniva chiamato alla facoltà di Giurisprudenza: la monografia Del catasto romano, 1887, sviluppa la lezione inaugurale del corso 1885-6. Non ostante i vivi interessi istituzionali del cartografo (cfr. Del catasto, cit., 7: «Il catasto unico e la perequazione delle imposte mi apparivano come splendida promessa di giustizia e di prosperità per l'Italia») le due esperienze furono di fatto prive di influenze reciproche. 35 Dei pascoli accessori a più fondi alienati secondo i libri degli agrimensori romani commentati col Digesto. Saggio giuridico sui gromatici veteres, AG
37, 1886, 57 ss. Sui pregiudizi e sui condizionamenti ideolo-
gici della ricerca, e sulle critiche dello Schupfer vedi la penetrante analisi di P. GROSSI, Un altro modo di possedere, cit., 229 ss.
36 Le dottrine, cit., 326.
289
rovesciando l’impostazione dei saggi più risalenti, senza peraltro che l’analisi sia sempre coerente con l’assunto metodico. Così il preteso sviluppo per cui da una prevalenza antica degli agri limitati si sarebbe pervenuti nel corso dell’impero alla generalizzazione degli arcifinii porta a identificare, per l’età più risalente, l’ager divisus adsignatus con quello in dominio ex iure Quiritium Pur ridimensionata drasticamente, la trattazione delle con-
troversiae agrorum costituisce uno dei capitoli più interessanti della memoria presentata ai Lincei, sostenuto da un’esposizione sobria e chiara quale non è facile ritrovare nell’opera. Tra l’altro, analizzando il rapporto fra controversiae e actiones, l’autore riconosce nella inspectio agrimensoria un mezzo
di intervento nella disciplina dei rapporti fondiari, un meccanismo di collegamento fra pratica dell’ars e organizzazione giuridica, anche se esclude, in polemica col Rudorff, che
possa configurare una procedura diversa dall’iudicium?*
In modo forse anche più limpido e persuasivo il tema dei rapporti fra controversiae agrorum e procedimenti giudiziari, così come l’analisi dei singoli tipi di controversiae vengono ripresi, qualche anno più tardi, in un articolo per l’otta-
vo volume del Digesto Italiano”. Contemporaneamente, la lunga riflessione del giurista intorno alle servitù prediali trova forma definitiva nelle appendici alla traduzione dell’ottavo libro del Commentario alle Pandette di F. Gliick, apparsa nel 190049 Nello stesso arco di tempo, fra il 1898 e il 1903, tre brevi
note riprendono la tesi dell’indipendenza dell’ordinamento fondiario dall’organizzazione gromatica del suolo, con una particolare, nuova attenzione ai dati epigrafici e alle tracce degli interventi degli agrimensori, indagate dai topografi e valorizzate ora dagli studi dello Schulten*!. Proprio le conti-
37 Cfr. in particolare Le dottrine, cit., 257 ss. 38 Le dottrine, cit., 213. 39 Controversiae agrorum, Digesto Italiano VIII, 3, 1898-1900, 544 ss. 4° E. GLUCK, Commentario alle Pandette, libro VIII tradotto ed annotato dall’avvocato Biagio Brugi professore all’università di Padova, 1900. ^! Le tracce della divisione romana del suolo specialmente in Italia. Nota, AIV 58, 1898-9, 59 ss.; Nuovi studi sugli agrimensori romani, RAL 11, 1902, 334 ss.; Nuovi studi sugli agrimensori romani, RAL 12, 1903,
293 ss. Una memoria dello Schulten su Die ròmische Flurteilung und ihre Reste era apparsa nel 1898.
290
nue eccezioni alle quali lo Schulten è costretto a subordinare l’asserita corrispondenza fra figure geometriche e disciplina giuridica dei rapporti fondiari sembrano al Brugi una conferma delle tesi sostenute nella monografia: «uno degli intenti del mio libro sugli agrimensori era appunto quello di mostrare che le diverse dimensioni geometriche del suolo presso i Romani non corrispondono necessariamente a diverse condizioni giuridiche di esso»*. Il rilievo era stato formulato anche dal Mommsen, nell’ articolo del 1892 giä ricordato, e reagiva alle artificiose connessioni fra forme istituzionali e moduli gromatici delineate dal Weber e, giä prima, dal Rudorff. Nella insistita sottolineatura esso tende perö a divenire un postulato, e preclude per ciö stesso la comprensione dei rapporti intercorrenti fra assetto del suolo e ordinamento fondiario, dell’intreccio attraverso il quale
deduzioni coloniarie o stanziamenti viritani intervengono parallelamente a modificare il paesaggio rurale e a definirne la forma istituzionale. Paradossalmente, quella insistenza finisce col privare di interesse per lo studioso italiano proprio «le condizioni reali in cui sorsero e da cui ricevettero dommatica figura molti istituti giuridici», indicate come campo d’indagine ne Le dottrine, e riconduce anche il loro autore ai
«laboriosi schemi di gius privato o pubblico che, isolati dalla costituzione agraria del popolo, valgono press’a poco
quanto quelli degli antichi scolastici»^?. Forse nasce anche
da qui, da un contrasto a torto avvertito come insanabile fra i risultati della ricerca e le prospettive di avvio, la stanchezza che dagli inizi del secolo il Brugi manifesta per le indagini attinenti all’agrimensura romana.
Certo, esse scompaiono
ora pressoché completamente dal suo orizzonte di lavoro‘
4 Cfr. Nuovi studi sugli agrimensori romani, RAL 12, 1903; 294; il lavoro dello Schulten preso in esame è L’arpentage
romain
en Tunisie,
Bull. Arch. 1902, 129 ss. 43 Cfr. Le dottrine, cit., 93, 233.
44 La bibliografia redatta da G. Marino conta 539 numeri, dei quali 208 si collocano fra l’inizio della produzione scientifica del giurista e la fine del 1903; di essi, circa una ventina sono pertinenti a temi gromatici.
Dei 330 numeri posteriori solo quattro o cinque brevissime note riconducono ai vecchi studi. Un più generale mutamento di interessi avrebbe portato, quindici anni più tardi, lo studioso dalla cattedra di Istituzioni di Diritto Romano a quella di Introduzione alle scienze giuridiche e istituzioni di diritto civile, insegnamento professato a Pisa dal 1918.
291
Cosi il primo volume della monografia Della proprietà, apparso nel 1911, restringe a pochi, incidentali rinvii in nota i riferimenti alla letteratura gromatica, nel lungo capitolo dedicato alla storia del concetto, e muove
invece dall’analisi
delle dottrine giustinianee al recupero della tradizione romanistica intermedia, per fondare su di essa «l’accordo dei diritti e delle facoltà individuali col bene comune», il contem-
peramento della riaffermata assolutezza del dominio con i limiti legali richiesti dai compiti cdi mediazione e ricomposizione dell’ordinamento giuridico^.
45 Cfr. B. BRUGI, Della proprietà I, 1911, parte quarta del trattato 1]
diritto civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza... per cura di P. Fiore; il primo capitolo, 8-46, delinea Ia «Storia della definizione del
diritto di proprietà accolta nel Codice civile italiano». L’opera ebbe una seconda edizione nel 1918. Il riferimento è a p. 45; ma vedi anche 100 ss., e in particolare 101 n.1: «Ma quando si persuaderanno i profani che, mentre il diritto giustinianeo aspira ad un unico tipo teorico di proprietà, lo sottopone ai bisogni della coesistenza sociale? I romanisti non possono dimenticare di avere ereditato anche questo concetto».
292
L’appartenenza del suolo provinciale nell’analisi di Gaio, 2.7 e 2.21*
1. Il secondo commentario delle Istituzioni di Gaio si apre, come
è noto, con un rapido cenno alla collocazione
delle res in riferimento al patrimonio - ... vel in nostro patrimonio sunt vel extra nostrum patrimonium
habentur —, e
prosegue delineando una summa divisio fra res divini iuris e res humani iuris, che peraltro sembra intrecciarsi con la prima distinzione!. Nell’esame delle res divini iuris il giurista si sofferma poi a indicare le condizioni e le modalità necessarie perché le cose acquistino i caratteri di sacrae o di religiosae, secondo le due specificazioni che egli privilegia per la categoria”. Il discorso si prolunga qui in una digressione piuttosto ampia su ciò che nelle province pro religioso habetur, o pro sacro habetur, e sottolinea in particolare che per la maggioranza dei giuristi (placet plerisque) il suolo pro-
* Index 18, 1990, 167-183.
! Gaius inst. 2.1-2. Per la storia della summa divisio A. WATSON, The
Law of Property in the Late Roman Republic, 1968, 1 ss.; l'intreccio e la sovrapposizione dei due schemi classificatori sono attentamente ricostruiti da G. BRANCA, Le cose extra patrimonium humani iuris, 1940 (2 Annali triestini di diritto, economia e politica 12, 1941, 222 ss.). Ulteriori riferimenti e Ciscussione della letteratura sono in A. GUARINO, Diritto privato romano°, 1981, 296 ss. 2 Gaius inst. 2.3-6. La tripartizione tradizionale & recuperata in parte attraverso il riferimento alle res sanctae nel successivo $ 8, sospettato peraltro dal Solazzi, da ultimo in Ritorni su Gaio. 1. Gaio e le res sanctae, Iura 8,1957,1 ss., ora in Scritti di Diritto Romano VI, 1972, 39 ss.
203
vinciale non diviene cosa religiosa in quanto grava su di esso il dominium del popolo Romano o di Cesare, mentre i privati ne hanno solo il possesso e il godimento?. Il passo è fra i più discussi nella letteratura romanistica,
sin dagli anni della prima edizione del palinsesto veronese delle Istituzioni — il Codex Veronensis rescriptus XV (13) -,
quando il Savigny lo propose all’attenzione degli studiosi nell’àmbito dei suoi studi sulla natura del tributo fondiario romano*. Nel corso di un dibattito che dura oramai da oltre un secolo, la ricerca si è sviluppata in molteplici direzioni e si è arricchita di innumerevoli ipotesi, senza peraltro che i risultati raggiunti, frammentari e talora contrastanti, riescano a comporsi in una esauriente, organica analisi della testimo-
nianza gaiana. Per di più, il lavoro di ricognizione sul palinsesto compiuto dallo Studemund a più riprese fra il 1866 e il 18839, e assunto a fondamento delle successive edizioni del manuale gaiano, è stato di recente sottoposto a estese, massicce critiche da parte del Böhm, che ha dato tra l’altro una nuova, diversa lettura anche per alcune delle linee del I foglio 63r pertinenti alla problematica del suolo provinciale”. Sebbene siano stati respinti sbrigativamente, con decisione e fastidio, dal Nelson?, i dubbi sull’affidabilità dell'apografo stu-
? Gaius inst. 2.7: la divisione in paragrafi è quella dell’editio maior di M. DAVID e H.L. W. NELSON, Gai institutionum commentarii IV, 2, 1960. ^ In una nota alla seconda redazione del saggio Ueber das ius Italicum, nella Zeitschrift für geschichtliche Rechtswissenschaft 5, 1825, 242 ss., ora in Vermischte Schriften I, 1850, 29 ss.: il riferimento a Gaius inst.
2.7 e 2.8 è a p. 46 n. 1. In una stesura piuttosto diversa, e naturalmente senza alcun rinvio alle Istituzioni gaiane, il saggio era stato presentato all'Accademia delle scienze prussiana nella seduta del venti gennaio 1814, e pubblicato negli ASAW 1814-1815, 1818, 41 ss. 5 Il lungo lavoro si tradusse, come è noto, in un nuovo apografo: Gai Institutionum commentarii quattuor. Codicis Veronensis denuo collati apographum confecit et iussu Academiae Regiae Scientiarum Beroliniensis edidit G. Studemund, 1874. Dieci anni piü tardi apparvero i Supplementa ad Codicis Veronensis apographum studemundianum, raccolti nella Collectio librorum iuris anteiustiniani 12, 1884, XVII ss. 6 R.G. BÖHM, Gaiusstudien 1-16, 1968-1977; i sedici fascicoli sono
distribuiti in dieci volumi. Sul disegno complessivo dell'opera Gaiusstudien 1. XIII. 7 R.G. BöHM, Gaiusstudien 6-7, 1974. 8 Cfr. la stroncatoria recensione a R.G. BÖHM, Gaiusstudien 8-9,1975,
RHD 48, 1980, 259 ss. e la breve nota in Überheferung, Aufbau und Stil von Gai Institutiones, 1981, 22 n. 48, dove le ricerche del Böhm
294
sono tacciate
demundiano non possono comunque non consigliare una maggiore cautela nella lettura dei dati testuali dai quali hanno preso l’avvio molte proposte interpretative del passo. Essi offrono pertanto l’occasione per riprendere l’esegesi del testo. 2. Come ho ricordato, agli inizi del paragrafo 7 del secondo commentario Gaio osserva che in provinciali solo placet plerisque locum religiosum non fieri. La tradizione testuale e la restituzione della frase non sono immuni da problemi, che tuttavia non intaccano il senso complessivo del discorso. Alle linee 15-16 del foglio 63r l’apografo di Studemund trascrive infatti solum religiosum non fieri, una lectio che l'edizione a cura del David e del Nelson ha ritenuto di dovere emendare
per motivi stilistici e sintattici, sosti-
tuendo locum a solum”. Ora il Böhm riconosce nei segni corrispondenti a solum le lettere
N B L O C, ne individua
due nessi, e propone di scioglierli in nobis locum, struendo l’intera frase in questo modo: in provinciali placet plerisque nobis locum religiosum non fieri. La posta & suggestiva, elimina la discordanza fra solum e
ricosolo proreli-
giosus e sembra introdurre una limitazione, nobis, che trova riscontro in un rilievo di Paolo, conservato in Dig. 47.12.4, Paul. libro vicensimo septimo ad edictum praetoris: sepulch-
ra hostium religiosa nobis non sunt. Tuttavia gli argomenti addotti per sostenere la nuova lettura dei primi due elementi del gruppo di lettere - N B — mi sembrano molto più deboli di quelli prodotti contro l'apografo dello Studemund. Facendo perció tesoro di un avvertimento metodico di quelli insuperato conoscitore del manoscritto veronese!! & forse piü di dilettantismo. Va comunque rilevato che il duro giudizio del Nelson sembra cogliere nel segno soprattutto per ció che attiene alle nuove letture proposte dal Bóhm, ma non riesce a dissolvere i dubbi sull'attendibilità di quelle accolte nelle nostre edizioni. ? Tra l'altro solum, neutro, imporrebbe di correggere il maschile religiosus alla fine del paragrafo, come suggeriva già l’edizione a cura dello Studemund e del Kriiger, 1877. Cfr., nell’edizione del David e del Nelson,
il commento ad h.l. 233. 9 Cfr. R.G. BÖHM, Gaiusstudien 6-7, cit., 393 ss., che tra l'altro richiama l'apografo di G. Studemund, 55 I. 13, per lo scioglimento di Loc in
Locum. !! Vedi la praefatio all'edizione delle Istituzioni, in Collectio librorum iuris anteiustiniani 12, cit., VII n. 4: artem igitur nesciendi multo etiam fortius quam a nobis factum est, in futurum exercendam mihi constat.
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prudente sospendere il giudizio sulla decifrazione dei due segni, indicare una lacuna nella trascrizione, e aderire inve-
ce alla lettura locum. Gaio nota dunque che secondo un’opinione ampiamente diffusa (placet plerisque) un locus situato in suolo provinciale non puö divenire religioso, e distingue cosi implicitamente il solum delle province da quello italico. La distinzione diviene esplicita nel successivo paragrafo 27, dove, in un contesto assai frammentario, dopo il rilievo provincialis soli nexum
non e(sse) si osserva: solum Italicum mancipi est, provinciale nec mancipi est. Un terzo riferimento al solum Italicum, forse al di fuori della contrapposizione al solum provinciale, è nel paragrafo 14, anch’esso gravemente lacunoso: item aedes in Italico solo. Queste tre formulazioni esauriscono i richiami allo statuto giuridico del «suolo», nel manuale e in quella parte del materiale gaiano che ci è pervenuto dalle altre
opere!. In altri contesti delle Istituzioni, muovendosi forse
con maggiore autonomia nei confronti delle sue fonti, il giurista preferisce una terminologia che qualifica come italici o provinciali i praedia — le strutture di base dell'economia agraria —, piuttosto che il solum che li accoglie!5. Si tratta di un mutamento di prospettiva che sembra tendere a una considerazione più complessiva dell’assetto provinciale e della sua incidenza sull’ordinamento patrimoniale, in particolare fondiario, secondo una linea che peraltro anticipa orienta-
menti diffusi nella giurisprudenza severiana!*. Nello stesso
senso verosimilmente si muove anche la precisazione item quod in provinciis non ex auctoritate populi Romani consecratum est, proprie sacrum non est, tamen pro sacro habetur,
con cui il giurista postilla il rifiuto dei plerique a considerare religioso il suolo provinciale. Egli passa così dall’osservazione dell’inadeguatezza del suolo a quella dell’inefficacia dei procedimenti di consacrazione posti in opera da provinciali, sacerdoti e magistrati locali, al di fuori dello ius sacrum. Certo, la specificazione in provinciis era stata espunta dal 12 Cfr. VIR V, solum, coll. 609-610. 13 Gaius inst. 2.21, 31, 46, 63.
14 Come mostra una rapida analisi dei passi registrati dal VIR V, solum, coll. 609-610, i nessi solum Italicum, solum provinciale sono ignoti
a questa letteratura, che sottolinea invece la connotazione provinciale dei praedia, delle possessiones, delle facultates, del patrimonium, dell’administratio e dei munera.
296
oltre che
Mommsen come un glossema, forse in quanto restringerebbe arbitrariamente le conseguenze della consacrazione irrituale, non ex auctoritate populi Romani'.. Ma lo slittamento dal solum alle provinciae può costituire invece un indizio di autenticità. Piuttosto che introdurre un limite assai poco plausibile anche per un ipotetico glossatore, il riferimento alle province sembra correggere l’ottica dei plerique spostandola dalle caratteristiche del suolo a una considerazione più generale delle attività sacrali compiute in provincia e della loro rilevanza giuridica: si tocca così, tra l’altro, la condizione dei
simulacra, dei donaria e delle suppellettili che arricchiscono 1 santuari provinciali!° . Purtroppo, i plerique con i quali Gaio intreccia qui il dialogo e la polemica restano per noi privi di identità, consegnati come sono a questa sommaria, anonima notazione. Né abbiamo riscontri adeguati per verificare la diffusione e l’incidenza della dottrina sui limiti del fieri religiosum che Gaio riprende dai suoi interlocutori, e di cui è per noi l’unica testimonianza, sebbene essa si presenti in sostan-
za come una riaffermazione, per i sepolcri provinciali, del
15 Il glossema è segnalato nell'edizione dello Studemund e del Krüger, che accoglie nell’apparato i suggerimenti del Mommsen ai due curatori; cfr. Th. MOMMSEN, Römische Staatsrecht IP, 1887, 48 n. 3; G. KARLOWA,
Religion und Kultus der Römer”, 1912, 408 ha invece ipotizzato che Gaio intendesse riaffermare la limitazione all'ager Italicus della consacrazione,
ed ha perció suggerito di espungere il «non». La correzione fu ampiamente discussa e respinta dal SOLAZZI, Glosse a Gaio, in St. per il XIV Centena-
rio della Compilazione giustinianea, 1938, ora in Scritti di Diritto Romano VI, cit., 282 ss., che sostenne il carattere insiticio dell'intero periodo. Esso intenderebbe infatti sottolineare che «nelle province v'erano templi ed altre cose, che i peregrini consideravano come sacre secondo il loro diritto e
la loro religione, sebbene non fossero state consacrate ex auctoritate populi Romani... Ma queste idee il glossatore ha accennato nella maniera più infelice. Non ha detto che... deve tuttavia essere intervenuta una pubblica consacrazione da parte del sacerdote o di altra autorità del popolo peregrino...». Ma
il carattere ellittico del discorso, indubbio,
si stempera
se la
frase viene riconsiderata all'interno del contesto in cui è inserita. Comunque, il limite non è tale da indurre a espungere il passo. Nella sua lettura attuale, il testo & accolto dall’edizione del David e del Nelson, che ne chiariscono le ragioni nel commento, p. 235 ss. Nello stesso senso, cfr. ora J.W. TELLEGEN, Religio occupavit solum, in RHD 54, 1986, 79 s.
16 I] problema sarà stato avvertito, in particolare, per le statue imperiali, che Gaius inst. 1.54, prende in considerazione come rifugio degli schiavi che si sottraggono alla saevitia dei padroni. In generale, sulla consacrazione delle cose mobili, G. WISSOWA, Consecratio, in RE 4, 1900, 898.
297
principio tradizionale che delimita l’applicabilità dello ius
sacrum all’ager Italicus?
Piuttosto, & possibile cogliere una significativa ambiguità nel modo in cui il giurista registra l'opinione attribuita a «i più». Se si esclude infatti la qualità di religiosus per il locus che accoglie il defunto, quando si trovi in solo provinciali, non si rinuncia tuttavia a rilevarne la particolarissima destinazione, e a definirlo perció pro religioso!?. Questo uso di pro nelle Istituzioni si ritrova, fra l'altro, in riferi-
mento ai figli postumi che in compluribus. causis Sono considerati, alla morte del padre, pro iam nati'?: nell'uno e nell’altro caso la espressione pone in evidenza l’identità di disciplina giuridica per situazioni di fatto eterogenee. I sepolcri provinciali vengono cosi a costituire per Gaio un'area di cose non identificabili totalmente con quelle religiose, ma che sembrano concorrere con esse a costituire la categoria
delle res divini iuris?.
E assai verosimile che su questo atteggiamento gaiano abbiano esercitato una decisa influenza gli interventi impe!7 E. DE VISSCHER, Le droit des tombeaux romain, 1963, 54 e n. 36; cfr. G. Wıssowa, Religion und Kultus, cit., 408. La limitazione è attestata solo da Gaio, ma ad essa si puó forse ricondurre anche il principio ricordato da Paolo, Dig. 47.12.4, Paul. libro vicensimo septimo ad edictum praetoris. Il limite non doveva essere incontrovertibile, come lascia intravedere la forma stessa del riferimento gaiano: placet plerisque. In un caso sottoposto da Plinio a Traiano, Plin. epist. 10.68,69, così il legato come l’imperatore riconoscono la competenza dei pontefici per le sepolture nelle province, affermandone implicitamente il carattere religioso. Il rifiuto traianeo di iniungere necessitatem provincialibus pontificum adeundorum & suggerito, in quel carteggio, da ragioni di opportunità amministrativa, non dall’infondatezza giuridica dell' ipotesi prospettata da Plinio. 18 Gaius inst. 2.7: utique tamen etiamsi non sit religiosus pro religioso habetur. Va forse sottolineato il tono concessivo col quale Gaio accede alla dottrina che ritiene dominante, e la decisione (utique tamen) con cui afferma la qualità di luogo pro religioso per la sepoltura provinciale. ? Gaius inst. 1.147: cum
tamen in compluribus aliis causis postumi
pro iam natis habeantur, et in hac causa placuit non minus postumis quam iam natis testamento tutores dari posse... Sull'uso di pro, e i suoi rapporti con ac si, nel discorso gaiano, R. QUADRATO, La persona in Gaio. Il pro-
blema dello schiavo, Iura 37, 1986, 20 s.
20 In Gaius inst. 2.2 peraltro l’affermazione divini iuris sunt veluti res
sacrae et religiosae sembra conferire alle due categorie delle res sacrae e delle res religiosae un valore esemplificativo, non esaustivo, proprio in riferimento all’analisi svolta nei successivi paragrafi 7 (locus pro religioso; id quod pro sacro habetur) e 8 (res sanctae).
298
riali che sollecitano le cure dei governatori per il controllo e la difesa extra ordinem dei sepolcri esistenti nelle aree ad essi affidate?!, non meno che l’accoglimento nell'editto provinciale (non sappiamo da quando) delle clausole predisposte dal pretore a tutela dei sepolcri italici?” In adesione agli indirizzi innovativi della legislazione, il giurista mette in crisi, indirettamente ma non meno
nettamente, l’idea stessa
della impossibilità di disporre del suolo provinciale per renderlo divini iuris. Le perplessità ancora emergenti dalla trattazione del manuale saranno d’altronde risolte anche sotto il profilo terminologico nel libro 19 del commento all’editto provinciale, che considera senz'altro religiosus il locus della sepoltura, in un contesto nel quale il riferimento al proconsole elimina ogni dubbio sulla connessione del caso con una provincia? La considerazione del luogo di sepoltura in solo provinciali come pro religioso trova per Gaio un riscontro in quanto accade riguardo a ciò che nelle province non è consacrato ex auctoritate populi Romani
e quindi non è pro-
priamente sacro, ma pro sacro habetur”*. La proposta ter-
21 Cfr. Plin. epist. 10.68,69, già ricordato (sopra n. 17); vedi anche Dig. 47.12.3.4, Ulp. libro vicensimo quinto ad edictum praetoris, per provvedimenti di Marco Aurelio e di Settimio Severo.
22 O. LENEL, Edictum perpetuum? 1927, 9 s., 226 ss., per l’esistenza nell’editto provinciale di un titolo De religiosis, che Gaio analizza nel libro 19 del suo commentario, in una collocazione anomala sotto il profilo sistematico, e che prevede actiones in factum a favore di colui che prohibetur mortuum ossave mortui inferre nel luogo di sua pertinenza (Dig. 11.7.9, Gaius libro nono decimo ad edictum provinciale) e contro colui che intulit mortuum in alienum locum (Dig. 11.7.7, Gaius libro nono decimo ad edictum provinciale).
23 Dig. 11.7.9, Gaius libro nono decimo ad edictum provinciale; il rife-
rimento
al proconsole
è in Dig.
11.7.7.1, Gaius.
libro nono decimo
ad
edictum provinciale ma i due frammenti sono strettamente interconnessi. Cfr. O. LENEL, Edictum perpetuum? cit., 10 e n. 12. Nella redazione pro-
vinciale, le formule avranno lasciato irrisolto il problema della qualificazione del locus.
24 Per i rapporti fra consecratio e inauguratio e i limiti territoriali al-
l’inauguratio vedi P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, 1960, 249 ss., in particolare 269 n. 89. Una limpida impostazione del problema è già in E. DE RUGGIERO, Aedes, in DE I, 1875, 159 ss. Un do-
cumento ben noto del regime sacrale del solum peregrinae civitatis è nella lettera di Traiano a Plinio sul tempio della Magna Mater a Nicomedia, Plin. epist. 10.50, su cui J.W. TELLEGEN, Religio, 76 ss.
299
minologica e sistematica delineata per i sepolcri — unica, per quanto possiamo accertare, nella letteratura giuridica latina — trova così una ulteriore conferma. Il riferimento alle province esclude che Gaio alluda a consacrazioni da parte di privati, possibili anche in Italia ma prive di rilevanza ai fini della summa divisio fra res divini iuris e res humani
iuris. Sembra evidente che il giurista si riferisca invece
all’universo dei culti locali extraitalici??, sempre più ampiamente investiti e disciplinati dall’attività di governo imperiale. Come avverte l’agrimensore che costituisce la fonte di Agennio Urbico, De controversiis agrorum (Agenn. grom. 48 Thulin), nihil enim magis in mandatis etiam legati provinciarum accipere solent, quam ut haec loca quae sacra sunt custodiantur: e la notizia, che si può riportare alla prassi amministrativa della fine del primo secolo, trova conferma in innumerevoli testimonianze letterarie ed epigrafiche attestanti l’interesse e la cura dei principi per i cul-
ti provinciali?’. Ma questa attenzione, anche quando si fos-
se tradotta in provvedimenti che assicurassero ai templi e agli oggetti di devozione dei provinciali la stessa tutela delle res sacrae, non doveva apparire sufficiente a cancellare ogni differenza fra i due gruppi di cose. In particolare, per santuari frequentati e venerati da secoli doveva costituire un ostacolo assai grave l’assenza di una consecratio conforme ai principi dello ius sacrum del popolo romano. L’espediente terminologico gaiano, che assimila ma non identifica le cose e i rituali che le consacrano, è il segno di una tensione tuttora irrisolta fra il nuovo diritto imperiale e la disciplina tradizionale. Una tensione analoga emerge peraltro anche dal modo in cui, nello stesso contesto, in Gaius inst.
25 Come ricorda ancora Marciano, Dig. 1.8.6.3, Marcian. libro tertio institutionum.
26 Così, in polemica con P. BONFANTE, Corso di Diritto Romano II, 1, 1926, 16 (= rist. 1966, 21), già il SOLAZZI, Glosse a Gaio, cit. (= Scritti VI, cit., 282) che tuttavia attribuiva l’intero riferimento a un glossatore
postclassico. 27 Per la cronologia della fonte di Agennio F. GRELLE, Stipendium vel tributum, 1963, 33 s. Un'accurata rassegna della politica imperiale nei confronti dei culti e dei santuari provinciali nell'età degli Antonini & in J. BEAUJEU, La religion romaine à l'apogée de l'Empire, 1955, passim. L'elenco degli dei che si possono istituire eredi senatus consulto constitutionibusve principum, conservato da Ulp. reg. 22.6 (FIRA II, 285), enumera divinità e santuari provinciali, con la sola eccezione di Juppiter Tarpeius.
300
2.5, si limita il sacrum a ciò che è consacrato ex auctoritate populi Romani, si ricordano come mezzi di consacrazione
la legge e il senatoconsulto, e si ignora la costituzione im-
periale?®. Nonostante la certezza che l’atto normativo del principe legis vicem optineat, affermata in Gaius inst. 1.5, nelle battute iniziali delle Institutiones, il giurista sembra
qui arrestarsi di fronte a un elenco tassativo, tuttora custo-
dito e trasmesso dai rituali dello ius sacrum??.
3. A motivare l’impossibilità di rendere religioso un luogo in solo provinciali i plerique adducevano ragioni che Gaio riassume in una breve frase, fra le più tormentate delle Istituzioni, e per le vicende grafiche, e per le ipotesi esegetiche alle quali ha dato luogo. Nell’edizione a cura del David e del Nelson, come già in quella a cura dello Studemund e del Kriiger, si legge: quia in eo solo dominium populi Romani est vel Caesaris, nos autem possessionem tantum vel usumfructum habere videmur. Fino alla rilettura del codice
veronese da parte dello Studemund, la trascrizione si presentava però lacunosa in due punti: dopo quia in, dove gli editori integravano eo solo, confermato poi dalle revisioni del palinsesto; e dopo tantum, dove essi colmavano una lacuna
di tre lettere con «et ut», completando il riferimento all’usufrutto e restituendo il discorso secondo il modello offerto dalla parafrasi di Teofilo 2.1.40 (116 F), che ha: εἶχον τὴν
28 Per il SOLAZZI, Glosse a Gaio, cit. (= Scritti VI, cit., 270 e n. 7) ilri-
ferimento alla legge e al senatoconsulto sarebbe interpolato in quanto non si potrebbe parlare di auctoritas populi Romani per un atto del senato. Ma populus Romanus è nell’uso gaiano espressione dal significato oscillante, utilizzata ora per indicare gli universi cives riuniti in assemblea (Gaius inst. 1.3, 95, 98, 99 etc.), ora invece, con più forte astrazione, la collettività co-
me entità politica organizzata (Gaius inst. 1.53 etc.). Singolarmente, al Solazzi sfugge la seconda accezione, che è quella di Gaius inst. 2.5, ma è anche quella per cui in Gaius inst. 1.1 il giurista aveva potuto affermare: Populus itaque Romanus partim suo proprio, partim communi omnium iure utitur. Sul tema vedi anche F. GRELLE, Stipendium vel tributum, cit.,
135. Sui rapporti fra legge e senatoconsulto nella consacrazione vedi ora M. FIORENTINI, Ricerche sui culti gentilizi, 1988, 331 ss., 351 ss., con attenta analisi delle dottrine più risalenti.
2° Un superamento della difficoltà gaiana può forse cogliersi in Dig.
1.8.9.1, Ulp. libro sexagensimo octavo ad edictum): sciendum est locum publicum tunc sacrum fieri posse, cum princeps eum dedicavit vel dedicandi dedit potestatem. Sul passo M. FIORENTINI, Ricerche, cit., 354.
301
ET αὐτοῖς χρῆσιν xoi ἐπικαρπίαν καὶ πληρεστάτην κατοχήν. Ora il Böhm corregge l’apografo studemundiano in
due tratti, all’inizio e alla fine della linea 17 del foglio 63r”°.
All’inizio della linea egli osserva che il segno letto dallo Studemund (ma già anche dal Göschen e dai suoi revisori) come V consta in realtà di due elementi, nei quali può riconoscersi l'abbreviazione A T per aut. La correzione, se pure argomentata sotto il profilo grafico, non è tuttavia incontrovertibile, e rimane in buona misura sottratta ad una verifica,
per chi conosce le condizioni del codice Veronese; d’altra parte essa trova un ostacolo di qualche rilievo nell’uso linguistico gaiano, che non presenta riscontri per l’uso della particella disgiuntiva aut nella sequenza populi Romani aut Caesaris, ma conosce invece il ricorso all’alternativa ve/ in
Gaius inst. 1.5: quod ius... datum est vel a populo Romano vel a senatu vel a Caesare. Dubbi molto più gravi solleva la nuova decifrazione della seconda parte della linea 17: POSSESSION SUPFICIFI UBI GLU. La critica assai stringente dell’apografo studemundiano, tra l’altro anche per il gruppo di segni che ha dato luogo al dibattutissimo vel posto nelle edizioni moderne fra possessionem e usumfructum, si accompagna purtroppo ad una eccessiva disinvoltura nell'interpretare le tracce recuperabili e nell'integrarne le lacune. L’inserimento di SUPFICIEI dopo possession(em) mi sembra del tutto arbitrario, in quanto è fondato sul riconoscimento di solo due o tre lettere. Poco convincente é anche la decifrazione dei quattro segni che seguono, interpretati come elementi di note tachigrafiche. Tra l'altro, l'abbreviazione L per vel non ha confronti, a quel che sembra, nel Veronese, ed é attestata in altri codici simili
solo in un'età notevolmente piü tarda?!. Si deve infine avvertire che il testo letto dal Bóhm?? non serve ad evitare, ed anzi contribuisce forse a rendere più grave lo «scandalo» denunciato più volte con tanta veemenza e convinzione dal Solazzi, in quanto conferisce a ususfructus un significato che
30 R.G. BÖHM, Gaiusstudien 6-7, cit., 315 ss. 31 Gli esempi raccolti da W.M. LINDSAY, Notae Latinae, 1915, 310 s.,
ai quali rinvia il Böhm, provengono da manoscritti dell’ottavo e del nono secolo. 32 Cfr. Gaiusstudien 6-7, cit., 319: ... nos autem possessionem superficiei verbi gratia vel usumfructum tantum habere videmur.
302
non ha riscontri in Gaio, e che & improponibile per un giurista nel descrivere, in modo
sia pur i
pressionistico, i rap-
porti dei privati col suolo provinciale??. Ancora una volta, mi sembra opportuno rinunciare a una lettura mal controllabile e assai poco aderente alle caratteristiche dello stile gaiano; ma anche dismettere nello stesso tempo una troppo facile acquiescenza all'apografo dello Studemund; accettare per il momento il testo come lacunoso nei punti controversi^^; utilizzare infine per l'analisi i soli elementi indiscussi, non pochi né di secondario interesse. Cosi, é indubbio che nel resoconto gaiano i plerique affermano l'insistenza sul suolo provinciale di un dominium parallelo del popolo romano e di Cesare. Si puó ridiscutere sul modo in cui il passo raccordava i due termini, se populi Romani aut Caesaris o populi Romani vel Caesaris, e accentuare o ridurre il valore del confronto con Gaius inst. 1.5 già ricordato, ma non si puó naturalmente dimenticare che, qualunque forma abbia assunto, quel raccordo, in quanto rielaborato e fatto suo da
Gaio, deve avere espresso un'alternativa, non una contrapposizione. Nell'analisi gaiana dei poteri imperiali infatti, per come essa emerge da piü luoghi dell'opera del giurista, e in particolare dalla celebre descrizione degli iura populi Romani in Gaius inst. 1.2-7, ıl principe e il popolo-comizio appaiono sempre strettamente coordinati, in quanto individuano istituti particolari nell'ordinamento complessivo del po-
33 Lo «scandalo» di Gaius inst. 2.7 era stato individuato dal Solazzi già nelle Glosse a Gaio,
cit., (= Scritti VI, cit., 277 ss.). Con
maggiore
veemenza, la denuncia & riproposta nelle pagine iniziali del saggio sull'Usus proprius, SDHI 7, 1941 (= Scritti IV, 1963) 205 ss.); in particolare 206: «Lo scandalo maggiore è vel»; peraltro, l'ipotesi che il giurista facesse riferimento all’usus proprius non ha trovato nel VIR V, ususfructus, coll. 1529-1536, la conferma che il Solazzi si auspicava. Cfr. anche Saggi di critica romanistica, BIDR 49-50, 1947 (= Scritti IV, 683 ss.). Un tenta-
tivo di salvare la lettura tradizionale del passo è stato compiuto da G. Grosso, La condizione del suolo provinciale negli schemi giuridici della giurisprudenza del principato, in I diritti locali nelle province romane con particolare riguardo alla condizione giuridica del suolo,
1974, 68 s., in
modo peraltro piü brillante che persuasivo, e senza discutere i rilievi del Solazzi, che sembrano conservare tutto il loro peso. 34 Nell'attesa che nuove ricerche, con l'ausilio di tecniche moderne,
consentano di recuperare elementi grafici oggi smarriti. Un'indagine sul palinsesto & allo studio di un gruppo di ricerca del CNR, coordinato da B. Santalucia.
303
polo-collettività??. Proprio il riferimento al principe e alla divisione del controllo sulle province fra l’imperatore e il popolo esclude che nel testo populus individui l’intera collettività, la quale si presenta invece come centro unitario di imputazione dell’imperium, all’interno del sistema di potere romano, in Gaius inst. 1.53: ... sed hoc tempore neque civibus Romanis nec ullis aliis hominibus qui sub imperio populi Romani sunt licet... in servos suos saevire. L'attribuzione congiunta al popolo e al principe del governo provinciale ritorna altre due volte nelle Istituzioni, in Gaius inst. 1.6, dove
si precisa che le province imperiali non hanno questori, e in Gaius inst. 2.21, nella classificazione dei praedia provincialia, dei quali si nota che alia stipendiaria, alia tributaria vo-
camus. Nell’un caso e nell'altro i contesti rimandano alle province, non al suolo, e non offrono alcun elemento per far sospettare che il giurista abbia passivamente ripreso una formula risalente alle sue fonti, come pure si potrebbe ipotizzare per Gaius inst. 2.7. Certo, il dualismo populus-princeps non sembra avere un riscontro nella letteratura giuridica e storiografica dell'età degli Antonini, ma riecheggia piuttosto motivi diffusi nella riflessione politica di età augustea?6. In anni vicini alla stesura delle Istituzioni gaiane, l' Enchiridion
di Pomponio ricostruisce invece le vicende del 27 a.C., e il riordinamento dell'impero, assumendone a protagonisti il principe e il senato, non il popolo, secondo uno schema pe-
raltro comune nella pubblicistica coeva?". Ma l'insistenza con la quale Gaio recupera e ripropone il modello diarchico piü antico, oramai anacronistico, sembra escludere ogni casualità; al contrario, essa lascia scorgere una piü o meno
35 Singolarmente, la pluralità di accezioni di populus nel vocabolario gaiano era sfuggita a un pur rigoroso e acuto esegeta come il Solazzi: cfr. sopra, n. 28. In modo
altrettanto unilaterale, ma in direzione opposta, E.
Lo Cascio oblitera l'aspetto comiziale del populus, nella lettura che egli propone nei due bei saggi su Patrimonium, ratio privata, res privata, in Annali dell’istituto it. per gli studi storici 3, 1975, 72 ss., e su La struttura fiscale dell'impero romano, in L'impero romano e le strutture economiche e sociali delle province,
1986, 40 ss. e n. 38. Un'articolata ricostruzione
dell'uso di populus come centro di imputazione unitario del sistema politico romano, e dell'intrecciarsi di questa prospettiva con una considerazione «totalistica» o «corporativa» della collettività organizzata è in R. ORESTANO, Il problema delle persone giuridiche in diritto romano I, 1968, 196 ss. 36 Cfr. F, GRELLE, Stipendium vel tributum, cit., 15 s.
37 Cfr. Dig. 1.2.2.11, Pomp. libro singulari enchiridii.
304
definita propensione ideologica, complementare a quella compiuta con l'assumere la lex publica a paradigma dell’atti-
vità normativa, nella trattazione degli iura populi Romani**.
Il vocabolario e gli schemi concettuali di più o meno remoti, o attardati, interlocutori possono avere influito anche
sul modo in cui Gaio qualifica le relazioni fra il popolo (o il principe) e il suolo provinciale, ricorrendo al termine dominium. Anche per questo uso la letteratura giuridica pervenutaci non offre confronti, allo stesso modo di quanto accade per il binomio principe-popolo??; per di più, riscontri diretti di esso non sono rintracciabili nemmeno nelle stesse opere gaiane, per quanto è possibile accertare, mentre qualche assonanza si ritrova solo nel linguaggio di scrittori che non sono tuttavia dei giuristi”. Se non è tuttavia risultato di una autonoma ricerca lessicale, Gaio utilizza certo dominium
aderendo alla terminologia dei plerique, con i quali sotto
questo profilo riterrebbe di poter concordare*', Risultato di una ricerca autonoma o adesione alla terminologia di fonti per noi irrecuperabili, l’uso gaiano va analizzato comunque per il valore che esso assume nella riflessione del giurista, con un’indagine che rimanga all’interno delle Istituzioni, in modo da ricostruire nella sua specificità questo singolare, isolato momento della cultura giuridica del secondo secolo.
Dominium non è termine frequente nelle Istituzioni: lo si ritrova in due passi per indicare il potere sui servi; in tre, in collegamento generico con res; nel nostro, in rapporto col
suolo provinciale‘. I tre casi nei quali dominium è riferito a 38 Gaius inst. 1.2-7; per la funzione della legge nella sistematica gaia-
na delle fonti del diritto, e per le implicazioni teoriche complessive di questo recupero vedi M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani?, 1982, 27 s., 229 ss.
39 Theophil. inst. Just. 2.1.40, traduce la formulazione gaiana, che in-
terpreta e adegua alle controversie del suo tempo, quando rende dominium con δεσποτεία. Sul passo e le sue possibili implicazioni politiche F. GRELLE, La signoria sul suolo provinciale nella parafrasi di Teofilo, Labeo 12, 1966, 209 ss. 40 Vedi i testi analizzati in Stipendium vel tributum, cit., 11 n. 32, 12 n. 33. ^! Diversamente A.M. HONORÉ, Gaius, 1962,124 s., per il quale Gaio riferirebbe l'opinione dei plerique con distacco ironico, senza pronunciarsi sulla sua attendibilità. 4 Dominium
sui servi: Gaius
inst. 1.54; 3.59. Dominium
sulle cose:
Gaius inst. 2.40; 2.44; 4.16.
305
res non sono tuttavia univoci. In due di essi il vocabolo esprime un potere di carattere patrimoniale, una disponibilità piena ed assoluta sulla cosa, che non esclude comunque la possibilità di un duplex dominium, in relazione al dualismo ius civile — ius honorarium. Nel terzo caso dominium presenta invece singolari, fortissimi connotati politico-militari, sebbene la trattazione in cui il termine è inserito riguardi le attività giudiziarie dei privati. Gaio ricorda infatti che, secondo il rituale prescritto per la legis actio sacramenti in rem... qui vindicabat, festucam tenebat, e colla festuca toccava la
cosa oggetto della controversia, dichiarandola sua. Ma la festuca, precisa Gaio, veniva utilizzata quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii, quando iusto dominio ea maxime sua esse credebant quae ex hostibus cepissent". In questa rievocazione storica — di cui poco interessa qui accertare la credibilità — l'archetipo del dominium assume dunque 1 tratti dell'esercizio della forza armata, si presenta come momento individuale del potere collettivo fatto valere contro gli hostes. Molto piü ricorrente di dominium, anche il vocabolo dominus presenta nelle Institutiones un ventaglio assai ampio di significati. I riferimenti al proprietario, meno di una ventina, sono in numero di gran lunga minore di quelli relativi al padrone dello schiavo, oltre quaranta. Il termine ritorna anche per indicare il dominus negotii nei confronti del procuratore (sei volte), gli heredes sui in rapporto all'eredità (una volta), il dominus fundi nei confronti dei coloni (una
volta): una pluralità di relazioni dai contenuti e dai caratteri più diversi, si da richiedere in almeno due casi la specifica-
zione proprietatis per restringerne l'impiego alla posizione
del proprietario”.
43 Il tema del duplex dominium in Gaius inst. 1.54 e 2.40 è ora riesaminato e decisamente ridimensionato nel suo rilievo per la riflessione gaiana da L. VACCA,
Il cd. duplex dominium
e l’actio publiciana, in La
proprietà e le proprietà, 1988, 39 ss. Ma cfr. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Dominium e possessio, conclusive, 1vi, 102 s.
ivi, 174 s.,
e M. TALAMANCA,
Considerazioni
44 Gaius inst. 4.16, di cui vedi la convincente esegesi che propone R. SANTORO, Potere e azione nell'antico diritto romano, in ASGP 30, 1967, 278 ss.; cfr. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Proprietà (Diritto romano),
in ED 37, 1988, 18 e n. 94. ^ Dominus negotii: Gaius inst. 4.84, 86, 87, 97, 98, 101. Eredi ed eredità: Gaius inst. 2.157. Proprietario e colono; Gaius inst. 4.147. Dominus
proprietatis: Gaius inst. 2.30, 2.91. 306
Un uso cosi vario ed articolato dei due vocaboli, dominium e dominus, esclude che in Gaius inst. 2.7 la signoria
sul suolo provinciale debba di necessitä essere ricondotta allo schema del rapporto patrimoniale‘. Piuttosto, l’analisi terminologica lascia aperto il problema della natura e dei caratteri di quella signoria, i cui profili formali in qualche misura possono tuttavia essere chiariti attraverso un riesame delle considerazioni gaiane sulle res religiosae. Come si è visto, Gaio estende la disciplina delle res religiosae al suolo provinciale, sia pure col ricorrere all’artificio
del luogo che pro religioso habetur. Implicitamente, egli riconosce al privato i necessari poteri di disposizione, e ne afferma la compatibilità col coesistente dominium del popolo romano o di Cesare. Per il giurista, cioè, 11 seppellimento nel
suolo provinciale probabilmente è irrilevante sotto il profilo dello ius sacrum, e non produce perciò l'abbandono del luo-
go ai Mani; impone tuttavia di applicare alla sepoltura il regime delle res divini iuris,
e ne determina cosi l'esclusione
dai beni che in nostro patrimonio sunt, senza peraltro intac-
46 Ciò, naturalmente, non significa che tale signoria vada di necessità costruita in termini di «sovranità», una categoria certamente estranea alla
riflessione giurisprudenziale romana. D'altra parte l'antinomia «proprietà» — «sovranità», che orienta tuttora assai di frequente l'indagine sul testo gaiano, irrigidisce arbitrariamente la lunga e complessa elaborazione dei modelli di appartenenza e dei loro contenuti, di cui Gaio stesso è testimone e protagonista: cfr. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Proprietà, cit., 186 ss.; vedi anche R. SANTORO, Potere e azione, cit., 278 ss. Resta all'interno
della polarizzazione «proprietà» — «sovranità» G.I. LUZZATTO, Sul regime del suolo nelle province romane, in I diritti locali, cit., 23 s., quando esclude che Gaio abbia ragionato «al di fuori degli schemi privatistici», e 1dentifica la signoria pubblicistica alla quale faccio riferimento in Stipendium vel tributum, cit., 11 ss., con la «sovranità», espressione che peraltro non
ricorre nelle pagine discusse. L'impostazione del Luzzatto & sostanzialmente ripresa da E. Lo CASCIO, La struttura fiscale dell'impero, cit., 30 s., 40 s. Ben diversa da quella del Luzzatto era stata, nello stesso con-
vegno, la posizione del GROSSO, La condizione del suolo, cit., per il quale il dominium gaiano «ha il significato generico di proprietà», ma «assume una diversa determinazione in rapporto al soggetto; non & specificamente né dominium ex iure Quiritium né distinto in bonis habere», è «appartenenza che, per essere attribuita al popolo romano o a Cesare, assume una propria individualità». Di recente, ha riaffermato invece l'identità fra dominium ex iure Quiritium e potere del popolo o del senato sulle province B. ALBANESE, Le situazioni possessorie nel diritto privato romano,
1985,
145 ss.
307
care, sembra, la signoria del popolo o del principe. Allo stesso modo il seppellimento non configura evidentemente per Gaio l’ipotesi dell’immissione di un cadavere in locum alte-
rius, ai danni del popolo o dell’imperatore”. In questa otti-
ca, il dominium che Gaio riferisce al popolo e all’imperatore non può consistere nell’affermazione dell’appartenenza del suolo provinciale al patrimonio dell’uno o dell’altro, ma deve di necessità individuare una relazione di tipo diverso, e ricondurre ai poteri di supremazia che il popolo e il principe esercitano attraverso il governo delle province. Dominium populi Romani e dominium Caesaris esprimono cioè, nella considerazione gaiana, le due forme in cui, sotto il profilo dell’esercizio del potere, si articola l’imperium, attribuito
unitariamente al populus come astratto soggetto politico in Gaius inst. 1. 53, già ricordato. Una conferma di questa interpretazione è offerta dalla formula utilizzata in Gaius inst. 2.21 per indicare l’inerenza delle province all’ambito dell’amministrazione imperiale o a quella del popolo: in eadem causa sunt provincialia praedia, quorum alia stipendiaria alia tributaria vocamus. Stipendiaria sunt ea quae in his provinciis sunt quae propriae populi Romani esse intelleguntur; tributaria sunt ea, quae
in his provinciis sunt quae propriae Caesaris esse creduntur. Affermando che le province sono propriae del popolo o di Cesare il giurista si riferisce, come & evidente, alla stessa
relazione che ha già qualificato dominium, e la considera dal punto di vista dell'oggetto del potere, che peraltro amplia, dal solum alla provincia nella sua totalità. Ma la provincia, come àmbito di governo territoriale, puó essere considerata oggetto del dominium solo se con questo termine non ci si limiti ai rapporti patrimoniali, e si ricomprenda invece l'insieme dei poteri di governo su uomini e cose. Una lettura riduttiva di provincia, che scinda il territorio dalla sua organizzazione amministrativa, non sembra possa trovare conferma nel vocabolario gaiano. D’altra parte, una tale lettura si avvolgerebbe in difficoltà insuperabili: dovrebbe ricondurre le province del popolo al regime delle res publicae, quelle del principe al regime delle res singulorum, con una divaricazio-
^? l'ipotesi dell'immissione è invece presa in esame da Gaio, nel libro 19 del commento all’editto provinciale (sopra n. 25), ma per il danno che ne può subire il privato cui il fondo provinciale appartenga.
308
ne di cui non è traccia alcuna in Gaio; spiegare poi come. l’affermazione che le cose pubbliche nullius videntur in bonis esse possa coesistere col rilievo che i praedia provincialia sono res nec mancipi,
o vengono comunque
ad esse assi-
milati; dovrebbe infine ammettere che i praedia provincialia, pur essendo res publicae o res fiscales in quanto parti del territorio provinciale, possano divenire ipsa traditione pleno iure alterius, senza che ciò pregiudichi il dominium del popolo o del principe, o entri in conflitto con esso” 4. I fondi provinciali, annota Gaius inst. 2.21, si dicono
gli uni stipendiari, gli altri tributari: essi prendono nome dall’imposta da cui sono gravati, diversa per le due categorie di province, del popolo e dell’imperatore??. Nell’annotazione gaiana, la soggezione all’imposta costituisce uno degli elementi che caratterizzano la dipendenza delle province, il più significativo per connotare e distinguere terminologicamente le due grandi aree in cui si articola il dominium. Sia pure in modo implicito, la signoria sulle province viene dunque considerata anche — o soprattutto — come potere di prelievo e di gestione della ricchezza provinciale, un potere certo assai rilevante economicamente, ma che è irriducibile, come si
è visto, allo schema dei diritti patrimoniali”. Esso resta di 48 Per le res publicae vedi Gaius inst. 2.11, su cui cfr. G. BRANCA, Le
res extra patrimonium, cit., 225 s.; per i fondi provinciali fra le res nec mancipi vedi Gaius inst. 2.15 e 2.21, analizzati da F. GALLO, Studi sulla distinzione fra res mancipi e nec mancipi, 1958, 206 s. e n. 14, che propo-
ne di superare la divergenza fra le due formulazioni, posta in evidenza dal SOLAZZI,
Glosse a Gaio,
cit. (= Scritti VI, cit., 300
ss.), riconducendo
l'una alla fonte delle Istituzioni, e attribuendo l'altra alla rielaborazione gaiana. Cfr. anche L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Proprietà, cit., 205 s. e n. 144; M. TALAMANCA, Considerazioni conclusive, in La proprietà e le
proprietà, cit., 197 s. 45 Gaius inst. 2.21: in eadem causa sunt provincialia praedia, quorum alia stipendiaria alia tributaria vocamus. Stipendiaria sunt ea, quae in his provinciis sunt, quae propriae populi Romani esse intelleguntur; tributaria sunt ea, quae in his provinciis sunt, quae propriae Caesaris esse creduntur. 50 Come pone lucidamente in evidenza P. CERAMI, Il rapporto giuridico d'imposta nell'esperienza tributaria romana: obbligazione e condono, in Jura 37, 1986, 41 s. il tributo viene prelevato con un atto di imperio, sul quale le fonti insistono ripetutamente, sottolineando cosi la distanza che intercorre fra un prelievo di tal genere, e quello del proprietario che raccoglie frutti, trae utilità dai suoi beni.
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ordine diverso da quello che i privati esercitano sulle proprie cose, in quanto appare inscindibile dalla supremazia politica e dall’esercizio dell’imperium che le & connesso; si distingue altresi nettamente dai poteri — di natura patrimoniale — che il Cesare stesso esercita attraverso il fisco, 9 il popolo quando opera come soggetto di attività negoziali”.
La signoria del popolo e dell'imperatore sulle province limita e comprime la parallela disponibilità dei privati sulle aree in ordine alle quali essa si afferma: ne dequalifica il titolo di appartenenza, ne rende oneroso e mal definibile il godimento. Ancora alla fine del secondo secolo Tertulliano puó ribadire: agri tributo onusti viliores, hominum capita stipendio censa ignobiliora??. Ma le connotazioni negative del suolo provinciale vanno ben al di là del suo regime tributario, affondano le radici nei mores maiorum e nella con-
dizione di inferioritä che si era venuta delineando nei secoli per i territori extraitalici. Inadatto alla maggior parte delle attività sacrali; escluso dalla mancipatio e dalla usucapio; in quanto estraneo alla disciplina dello ius civile ininfluente ai fini della determinazione della classe e della tribü dei cives, e privo perció di rilevazione da parte dei censori, il suolo provinciale sembra riflettere nel suo statuto piü antico una condizione di precarietà ed estraneità all'organizzazione dei cives?3. Certo, nell'assetto del principato quella normativa perde via via il significato e la portata originari, attraverso il graduale livellamento fra l'Italia e le province; e tuttavia, nella misura in cui sopravvive,
essa continua a proporre
l'immagine di una signoria sulle province, di un dominium, come dice Gaio, anche in contrapposizione polemica con un diverso modo di costruire i rapporti fra governati e centro
5! TI fisco è soggetto di rapporti patrimoniali in Dig. 21.2.57 (Gaius Üibro secundo ad edictum curulium); Dig. 29.5.9 (Gaius libro septimo deci-
mo ad edictum provinciale); Dig. 44.6.3 (Gaius libro sexto ad. legem XII tabularum) etc. Per rapporti esclusivamente patrimonialistici dei quali è parte il populus vedi Gaius inst. 2.61. 32 Tert. apol. 13.5-6. Cfr. Stipendium vel tributum, cit., 73 ss., per i precedenti di questa concezione.
53 Per l'antica esclusione dal censimento dei beni fondiari che i cives
possedessero al di fuori dell'ager Italicus vedi Fest. 50 Lindsay: censui censendo agri proprie appellantur, qui et emi et venire iure civili possunt». Cfr. Cic. Flacc. 32.80: illud quaero sintne ista praedia censui censendo? Habent ius civile? Sintne res mancipi?
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del potere. Cosi i plerique, nel racconto gaiano, possono individuare un nesso causale — quia in eo solo dominium populi Romani est vel Caesaris — fra l'impossibilità di rendere religioso un locus nelle province e la soggezione di quelle terre al dominio romano: il suolo provinciale appare inadeguato a divenire religioso non perché sia cosa di altri, ma perché è soggetto alla signoria politica romana, anche se si trova nella disponibilità dei privati. Per definire il rapporto che i privati stabiliscono con il suolo provinciale, Gaio rinuncia a una formula sintetica e
preferisce ricorrere invece a una perifrasi descrittiva, assai verosimilmente desunta dalle sue fonti. Nell'ultimo tratto della linea 17 del foglio 63r e nel primo della linea 18, l'apografo studemundiano presenta infatti una sequenza di tre accusativi, possessionem,
usum, fructum, inattaccabili
anche per il Böhm, che pure ridiscute la lettura complessiva della frase, come si é detto. I tre termini 1solano e sottolinea-
no alcune delle possibilità concesse al privato sul suolo, le più rilevanti per il giurista, sotto il profilo patrimoniale. In modi e con termini non diversi, secondo il Lenel°4, doveva
presentarsi la clausola dell’editto provinciale che assicurava la tutela dei praedia stipendiaria, prevedendone la vindica-
tio. Secondo l’ipotesi leneliana la formula edittale avrebbe ripreso il dettato della legge agraria epigrafica risalente alla fine del secondo secolo a.C., ed avrebbe perciò riconosciuto al privato un habere possidere frui licere. In documenti posteriori tuttavia l’indicazione è più articolata: il senatoconsulto de Aphrodisiensibus (FIRA I, 272) dispone che la città e 1 cittadini di Afrodisia ἔχωσιν κρατῶσιν χρῶνται xapniGovται quanto avevano al momento dell'ingresso nell'alleanza con il popolo romano, e associa pertanto al frui del dettato della legge agraria anche un uti, avvicinabile all'usus della frase gaiana”. Fosse o meno già presente in tutti i suoi elementi nel testo edittale, la formulazione gaiana doveva co-
munque presentare con esso una stretta affinità di vocabolario e di struttura logica. Sebbene infatti i problemi posti dalla decifrazione del manoscritto possano trovare risposte assai diverse, sembra indubbio che l'andamento complessivo del discorso non differisse da quello di un passo già ricorda-
54 O. LENEL, Edictum perpetuum), cit. 188 ss. 55 FIRA I, 272.
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to della parafrasi di Teofilo. Afferma Teofilo°®, saldando insieme citazioni gaiane di provenienza diversa, che una volta coloro che avevano fondi stipendiari o tributari per concessione del popolo o dell’imperatore non erano proprietari ma εἶχον τὴν ἐπ᾿ αὐτοῖς χρῆσιν καὶ ἐπικαρπίαν καὶ πληρεστάτην κατοχήν. La parafrasi suggerisce dunque una ricostruzione della frase che coordini in qualche modo i tre accusativi, possessionem, usum, fructum o, meno verosimilmente, li colleghi per asindeto, in più stretta adesione al modello edittale. Non si vede infatti per quale ragione il maestro bizantino, riprendendo l’elencazione gaiana, avrebbe ri-
solto la disgiuntiva vel, che la sua fonte avrebbe inserito fra possessionem e usumfructum, come propongono le edizioni moderne, nella copulativa kat, che egli colloca fra ἐπικαρπίαν e πληρεστάτην κατοχήν. Tanto meno sembra credibile che, traslitterando ususfructos quando deve indicare il diritto
di godimento su cosa altrui, il parafraste abbia in questo caso scisso arbitrariamente in χρῆσιν e ἐπικαρπίαν un usumfructum del testo gaiano. Infine, la qualificazione della καzoxn come πληρεστάτη sembra ricalcare la plena possessio di Gaius inst. 2.26, e potrebbe forse aprire anche uno spiraglio per una possibile integrazione della lacuna che si riscontra nella parte finale della linea 17. Collocando i praedia provincialia fra le res nec mancipi Gaio riconosce, sia pure indirettamente, che essi sono suscet-
tibili di appartenere pleno iure ai privati. E tuttavia, nel porre in correlazione il potere del popolo romano e dell'imperatore con i poteri dei privati sul suolo provinciale il giurista rinuncia a qualificare anche questi ultimi come dominium. Egli sviluppa qui la sua riflessione secondo una linea assai piü prudente di quanto non appaia altrove, nel considerare l’in bonis habere come dominium. Ancora una volta, l'analisi
gaiana lascia cosi intravedere un condizionamento ideologico, una difficoltà a superare l'antico confine fra agri censui censendo, inseriti nelle tribà rustiche, e praedia extraitalici,
irrilevanti per l'organizzazione costituzionale dei cives, in una riaffermata separazione fra l'Italia e le province: una linea che ripropone anch'essa temi e modelli augustei.
56 Teophil. inst. Iust. 2.1.40. 312
Città e trattati nel sistema imperiale romano*
1. Verso la fine del 32 a.C., al termine di un convulso periodo di violenze fra le fazioni e di confuse vicende costituzionali, narra Cassio Dione che «i Romani... dichiararono la
guerra a Cleopatra... e, recatisi presso il tempio di Bellona, compirono tutti gli atti introduttivi secondo le prescrizioni, svolgendo Cesare le funzioni di feziale»!. La cerimonia, ripristinata dopo secoli di oblio, reintroduceva nella disciplina delle relazioni fra i popoli norme di veneranda antichità, che una tradizione diffusa faceva risalire ad Anco Marzio. Secondo la versione ripresa di lì a qualche anno da Livio, e divenuta successivamente in certo modo canonica, quel re aveva desunto dagli Equicoli lo ius... quo res repetuntur, e
ne aveva demandato la cura ai feziali per formalizzare l’apertura delle ostilità, cosicché nec gererentur solum, sed etiam indicerentur bella aliquo ritu?. Il recupero della pro-
* L. Canfora, M. Liverani, C. Zaccagnini (a cura di) 7 trattati nel mondo antico. Forma ideologia funzione, Roma, 1990, 237-256.
! Cass. Dio 50.4.4-5. ? Liv. 1.32. Il passo è attentamente analizzato da R.M. OGILVIE, A
Commentary on Livy, Books 1-5, 1965, 127 ss., che ricostruisce la vicenda del rito e individua le possibili fonti del racconto liviano, ripercorrendo le diverse tradizioni della leggenda. Un’iscrizione ritrovata sul Palatino nel corso degli scavi del 1862, databile all'età di Claudio, ILLRP 447 = In-
scriptiones Italiae XIII, 3.66 propone anch'essa la versione accolta da Livio sull’origine del rito, e ne attribuisce l’istituzione a Fertor Resius, rex
Aequeicolus: is primus ius fetiale paravit; inde populus Romanus discipleinam excepit. L’epigrafe, con altre rinvenute nello stesso luogo, sembra
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cedura arcaica permetteva ora ad Ottaviano di rivestire il confronto armato con la fazione antoniana delle forme della guerra all’Egitto, legittimava la guerra sotto il profilo dello ius sacrum, conferendole il carattere di bellum iustum, e sa-
nava per questo aspetto gli ambigui procedimenti dl quel-
l'anno difficile?
Il ritorno all’osservanza dello ius fetiale è episodio né isolato né marginale, nella politica istituzionale di Ottaviano: per quanto molti elementi di valutazione ci sfuggano, esso sembra per piü aspetti proporsi come l'avvio di quella riscoperta attualizzante degli exempla maiorum che si svilupperà con tempi accelerati dopo Azio, e che verrà costruendo l’assetto formale dei poteri del principe attraverso sapienti interpretazioni e ricomposizioni di modelli tradizionali. Tra l'altro, l'accosta-
mento fra l'investitura straordinaria del dux attraverso il giu-ramento delle città italiche e la formalizzazione della guerra attraverso lo ius fetiale anticipa un nesso ricorrente nelle vicende costituzionali successive, e prefigura un motivo centrale nell’elaborazione ideologica sottesa alle Res Gestae*. al DEGRASSI, Inscriptiones Italiae XIII, 3,42, copia di un documento antico; il MOMMSEN, Gesammelte Schriften 4, 1906, 15, aveva invece pensato ad un'imitazione arcaicizzante. — Secondo OGILVIE, Commentary, cit., 128-
129, cfr. 110, la procedura sacrale della rerum repetitio sarebbe scomparsa nel corso del III secolo a.C., mentre il ricorso ai feziali per formalizzare gli i
accordi internazionali, attestato ancora per la pace con Cartagine nel rebbe entrato in crisi nel corso del II secolo, dal momento che III.25.6 mostra di averne una conoscenza assai confusa nel resoconto zo trattato romano-cartaginese. Nello stesso senso ricostruisce le
201, saPolibio del tervicende
dello ius fetiale W. DAHLHEIM, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts, 1968, 171 ss. Piü di recente C. SAULNIER, Le róle des prétres
fétiaux et l'application du ius fetiale à Rome, RHD 58, 1980, 171 ss., ha invece tracciato uno sviluppo del tutto diverso delle istituzioni sacrali attinenti ai rapporti internazionali: le procedure dello ius fetiale, di origine arcaica, sarebbero indipendenti dall'esistenza di un collegio sacerdotale, che sarebbe probabilmente innovazione augustea, parallela al recupero delle antiche procedure; il rituale della rerum repetitio si sarebbe applicato solo alla rottura del rapporti fra foederati. Per piü aspetti suggestiva, questa ricostruzione appare tuttavia fondata sui silenzi piuttosto che sulle testimonianze della nostra documentazione; comunque, essa non altera il disegno complessivo del recupero augusteo, ma ne accentua piuttosto il carattere attualizzante. 3 Il susseguirsi degli avvenimenti è delineato da R. SYME, The Roman Revolution, 1939, 278 ss.
4 Cfr. per il rapporto fra auctoritas personale e potestas istituzionale nell'assetto del potere augusteo F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, 42,1974, 263 ss.
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Nella stessa linea, la chiusura del sacello di Giano Quirino, nel gennaio del 29 a.C., a conclusione della guerra,
reintegra anch’essa una norma antichissima dell’ordinamento delle attività esterne del popolo romano, la disposizione dello ius institutum a Pompilio, che aveva richiesto quel rito ogni qualvolta per totum imperium populi Romani terra marique esset parta victoriis pax, come recita la formula sacrale conservata dalle Res Gestae”. La cerimonia del 29 a.C., e le due successive, del 25 e forse del 10 a.C., ricordate dallo stesso passo delle Res Gestae, sottolineano alcuni momenti, i più rilevantiper la propaganda della pax Augusta, in un diffuso ricorso agli schemi e alle procedure dello ius sacrum per definire i profili formali dei rapporti fra le entità politiche del mondo romano, e delinearne modelli e regole di coordinamento. Integrati nel più generale rinnovamento delle tradizioni religiose, orientati anch'essi al potenziamento del lealismo verso il principe ed alla legittimazione del suo potere, gli interventi augustei nella disciplina delle relazioni fra i popoli assumeranno un valore paradigmatico ed eserciteranno una duratura influenza sulle attività di governo non meno che sulle elaborazioni dottrinali, per più generazioni. Così ancora nell’estate del 178 d.C., in un momento di drammatiche incertezze per l’impero, Marco Aurelio celebra, per l’ultima volta secondo la do-
cumentazione in nostro possesso, la riapertura delle ostilità contro i Quadi e i Marcomanni nell’osservanza del rito feziale, con il lancio dell’asta nel territorio nemico, dai tempi
di Pirro simboleggiato da un’area presso il tempio di Bello-
na, in campo Marzio.
Le due cerimonie, quella per la guerra all’Egitto nel 32
a.C., e questa per la campagna contro le genti danubiane alla fine del II secolo, possono essere assunte come i limiti cronologici per una rilettura dei rapporti fra le organizzazioni politiche coesistenti nel sistema romano, in una prospettiva che privilegi i profili formali dell’assetto imperia-
3 Res
Gest. div. Aug.
13, su cui cfr. il commento
di J. GAGÉ,
Res
Gestae divi Augusti, 1950, 95 ss. La formula sarebbe invece una creazione augustea secondo OGILVIE, Commentary, cit., 94. — Il riferimento a Numa Pompilio è in Varr. ling. 5.165: ibi positum Iani signum et ius institutum a Pompilio ut scribit in annalibus Piso, ut sit aperta semper (porta Ianualis), nisi cum bellum sit nusquam.
6 Cass. Dio 71.33.2-3, su cui A. BIRLEY, Marcus Aurelius, 1966, 283.
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le e restituisca pertanto il necessario rilievo agli istituti dello ius sacrum, e in particolare al foedus, il trattato solenne arcaico. 2. Alla considerazione degli studiosi di diritto internazionale il trattato e, più in generale l'accordo — i due termini sono pressoché sinonimi nell'uso tecnico — si propongono oggi come atti giuridici collettivi, manifestazioni di volontà di enti sovrani che attraverso essi disciplinano i propri rapporti reciproci. Messa da parte la distinzione fra trattati normativi e trattati negozi, le dottrine più recenti riconoscono a tutti gli accordi un’efficacia vincolante fra le parti contraenti, e attribuiscono perciò all’accordo il carattere di fonte dell’ordinamento internazionale”. Il diritto particolare così prodotto, di natura pattizia, integra quello generale, affiancando ai princìpi che vincolano l’intera collettività degli Stati altre regole, limitate ai soggetti che in esse concordano. Sotto il profilo della gerarchia delle fonti queste disposizioni, le più frequenti nell’assetto attuale delle relazioni internazionali, sono
comunque subordinate alle norme primarie dell’ordinamento, che definiscono i criteri di condotta inerenti all’esistenza
stessa dell’organizzazione collettiva degli Stati. Anche la validità del diritto pattizio è desunta, in questa prospettiva, da una norma primaria sovraordinata, il principio che impone il rispetto dei patti, per taluni di natura consuetudinaria, per altri più realisticamente posto dalle forze dominanti nella comunità internazionale. Queste elaborazioni muovono dall’analisi del sistema degli stati, assumono cioè come oggetto di indagine le forme istituzionali che sono venute emergendo in Europa occidentale dalla crisi dell’impero medievale, e sono divenute suc-
cessivamente modello comune per tutte le organizzazioni politiche a base territoriale. Esse postulano un ordine fondato sul concorso di entità sovrane formalmente equipollenti, una «comunità internazionale» nella quale tutti gli Stati siano allo stesso modo soggetti di diritto, chiamati a partecipare alla formazione dell’ordinamento collettivo e capaci di ope-
7 Cfr. in generale l’oramai classica trattazione di R. QUADRI, Diritto internazionale pubblico, 1968, 5, 139 ss.: per le tendenze più recenti, L.
FERRARI BRAVO, Lezioni di diritto internazionale, 1966, 48 ss.; in particolare, 54 ss.
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rare liberamente in esso?. Il disegno che ne risulta è certamente incompatibile con un’articolazione gerarchica dell’assetto interstatale non meno che con un cosmopolitismo in cui si dissolvano le sovranità territoriali. Tributario delle ideologie che hanno orientato e sostenuto lo sviluppo capitalistico nell’età della formazione del mercato mondiale, que-
sto modello razionalizza e traduce in forme giuridiche gli antagonismi politici ed economici delle entità statali, ma appare sottoposto a tensioni crescenti dall’incremento di fenomeni sociali che per più aspetti sfuggono all’ambito istituzionale dello Stato: il rilievo che in talune analisi viene assumendo la connotazione della comunità internazionale come ente giuridico, sovraordinato agli Stati, può essere anch’esso un indizio di questa difficoltà? Per la comprensione dell’assetto del mondo romano nell’età del principato il modello della comunità degli Stati e del suo diritto è poco utile, se non del tutto deviante. Come è noto, non molti anni fa una suggestiva ricerca del Lemosse,
ripercorrendo analiticamente le testimonianze pervenuteci, faceva coincidere i confini dell’impero colla sfera di azione diplomatica del potere imperiale, ed escludeva per ciò stesso la possibilità di isolare dei rapporti «esterni» al sistema romano, e di identificare uno specifico ordinamento!®. In una linea
non diversa, il saggio sulle relazioni internazionali dall’antichità ai nostri giorni al quale Gérard Boulvert ha dedicato le
8 Il tema è stato sviluppato in modo sistematico da M. GIULIANO, La comunità internazionale e il diritto, 1950, in particolare 221 ss.; cfr. dello stesso autore, Rilievi sul problema storico del diritto internazionale, in Comunicazioni e studi dell’istituto di diritto internazionale dell’università di Milano, II, 1950, 105 ss.
? Vedi in particolare P. PICONE, Obblighi reciproci e obblighi erga omnes degli stati nel campo della protezione internazionale dell'ambiente marino, a cura di V. Starace, 1983, 21 ss., 26 ss., per l’analisi dei processi di verticalizzazione in atto nella comunità internazionale, e dei meccani-
smi istituzionali attraverso i quali essi vengono consolidandosi; cfr., anche, dello stesso autore, Diritto internazionale dell’economia e costituzione economica dell’ordinamento internazionale, in Comunicazioni e studi dell'istituto di diritto internazionale dell'università di Milano, XVI, 1980,
147 ss., e di E. TRIGGIANI, II trattamento della nazione più favorita, 1984, 223 ss. (per l’intreccio con le ristrutturazioni dell’assetto economi-
co internazionale). 10 M. LEMOSSE, Le régime des relations internationales dans le HautEmpire romain, 1967, su cui cfr. la mia recensione Index 1, 1970, 321 ss.
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sue ultime riflessioni ripropone il problema se l’ordinamento imperiale abbia esaurito in sé quello internazionale, o se non ne abbia piuttosto costituito un elemento, accanto ad altri!!. Certo, non sempre le conclusioni del Lemosse appaiono totalmente persuasive; l’esperibilità in ultima istanza dell’autotutela attraverso la guerra — su cui richiama l’attenzione Boulvert!? — può indurre a separare l'ambito dei rapporti per i quali il ricorso alle armi resta, nel mondo romano, praticabile, da quello per i quali è escluso dai fatti ed appare impensabile. E tuttavia, nemmeno sotto questo profilo sembra possibile ricondurre a uno schema unico il complesso di rapporti che intercorrono fra le istituzioni del potere centrale e le entità periferiche, nell’assetto imperiale, e conferire per tal via rilevanza territoriale ai fines imperii. La diffusa presenza di conflitti armati difficili da qualificare per le fonti pervenuteci!3, insorti all’interno di territori saldamente inseriti nel sistema organizzativo provinciale, rende il criterio inutilizzabile per connotare talune relazioni come «esterne», di carattere
internazionale, e distinguerle da quelle interne. In realtà l'aggregato imperiale raccoglie intorno al suo nucleo centrale un
complesso articolato e fluttuante di rapporti che scivolano gradualmente dal livello della relazione politica a quello del-
la dipendenza amministrativa, e rendono così impossibile la ricerca di una linea di confine unitaria con altri sistemi orgaIl G. BOULVERT, Souverainetés et imperialisme, 1984, 91 ss. Il problema fu già a lungo dibattuto dalla romanistica ottocentesca: per una sintesi dei temi da essa affrontati, vedi G. BAVIERA, Il diritto internazionale dei Romani, 1898, in particolare 7 ss., 44 ss.; i fondamenti ideologici e gli
obiettivi pratici del dibattito sono posti in evidenza da V. ILARI, L'interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo,
1981,
127 ss., in particolare
161 ss., in riferimento al
saggio del Baviera. Un’accurata ricognizione delle dottrine è in K.H. ΖΙΕGLER, Das Völkerrecht der römischen Republik, ANRW 1.2, 1972, 68 ss. 12 Souverainetés et impérialisme, cit., 100. 13 Così Ulpiano, nei primo libro delle Istituzioni, in un frammento conservato in Dig. 49.15.24, riprende un’antica distinzione, forse risalente a Q. Mucio Scevola (cfr. Dig. 50.16.118, Pomp. libro secundo ad Quintum
Mucium), fra hostes, quibus bellum publice populus Romanus declaravit, vel ipsi populo Romano, e latrunculi vel praedones, con i quali evidentemente il conflitto non è aperto da una formale dichiarazione di guerra. La considerazione ulpianea per un verso esclude ogni rilevanza della situazione territoriale nella qualifica della guerra; per l’altro, negando la necessità del postliminium nei conflitti con i latrones, sembra polemizzare con un’opposta dottrina, che implicherebbe una diversa valutazione del fenomeno.
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nizzativi. L’assetto di questi rapporti, per i caratteri istituzionali delle entità collegate, l’articolazione gerarchica, i meccanismi sanzionatorii, riflette da vicino la segmentazione parti-
colaristica del mondo romano, ed esclude pertanto una ricomposizione complessiva in quella forma della comunità paritetica di enti sovrani, che la scienza del diritto internazio-
nale ritrovava nel mondo degli Stati moderni, unificati dal mercato, prima che gli sviluppi più recenti le aprissero nuove prospettive. L’eterogeneità fra il sistema imperiale romano e l’organizzazione internazionale odierna rende improponibile un approccio a quel sistema che ripercorra le linee tracciate dalle dottrine internazionalistiche e ricerchi, quindi, nella va-
riegata casistica delle convenzioni attestate dalle fonti, o anche solo nei foedera, i profili che caratterizzano gli accordi
fra gli Stati, la produzione, cioè, di norme pattizie all’interno di un ordinamento collettivo espresso dall’organizzazione spontanea delle entità politiche primarie. Invece, emerge dalle testimonianze delle fonti — nonostante il carattere atecnico della maggior parte di esse — il perdurare di un’antica polarità fra il foedus ed altri tipi di accordi, oscillanti nelle forme e nella terminologia, ma tutti riconducibili al comune denomi-
natore della deditio in fidem!*. Il foedus si propone cioè, e con un particolare rilievo, come meccanismo istituzionale di
raccordo fra entità organizzative eterogenee, in un assetto complessivo che sfugge cosi allo schema dello Stato come a quello della comunità internazionale. 3. Il racconto
della guerra fra Roma
e Alba Longa,
nel
primo libro delle Storie liviane, offre una meticolosa de-
scrizione della procedura con la quale si istituisce un foedus, e conserva la formula del giuramento, che è certamente l’atto centrale dell’intero rito. Secondo la descrizione di Livio, il procedimento è avviato da uno iussum del magistrato (nel racconto il re) al feziale, e si scompone in due
fasi, una prima, introduttiva, in cui il magistrato compie l’investitura del feziale come nuntius populi Romani Quiritium, e questi a sua volta crea un pater patratus, ed una se-
14 Cfr. W. DAHLHEIM, Struktur und Entwicklung, cit. 25 ss., su cui P. FREZZA, Le relazioni internazionali di Roma nel terzo e secondo secolo a.C., SDHI 35, 1969, 351 ss.; cfr. anche ZIEGLER, Das Völkerrecht, cit.,
90 ss.; per gli sviluppi posteriori, M. LEMOSSE, Le régime, 20 ss.
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conda, conclusiva, in cui si celebra il foedus ferire. La cerimonia si articola in quattro momenti, che hanno tutti come protagonista il pater patratus: la recita di un lungo carme di apertura, che Livio non riproduce, la pronuncia delle condizioni (leges) che regolano l'accordo, un solenne giuramento di esecrazione, e il sacrificio di un porco, colpito con l'arcaico coltello di pietraP. È opinione comune che Livio riferisca all'età di Anco una procedura e delle formule assai piü tarde, molto verosimilmente ricostruite verso la fine del II secolo a.C., quando
le vicende dell'assedio di Numanzia risvegliarono l'interesse di antiquari e annalisti per i feziali e la loro attività. I rilievi di Cicerone sul foedus Gaditanum,
ad avviso dell'ora-
tore irrilevante per la publica religio, in quanto privo di autorizzazione comiziale, potrebbero trarre occasione dalle incertezze di una disciplina riscoperta di recente e tuttora oscillante, piuttosto che dall'inosservanza del rito feziale!é
15 Liv. 1.24.4-7: tum ita factum accepimus, nec ullius vetustior foederis memoria est. Fetialis regem Tullum ita rogavit: «Iubesne me, rex, cum patre patrato populi Albani foedus ferire?» Iubente rege, «Sagmina» inquit «te rex, posco». Rex ait: «Puram tollito». Fetialis ex arce graminis herbam puram attulit. Postea regem ita rogavit: «Rex, facisne me tu regium nuntium populi Romani Quiritium, vasa comitesque meos?» Rex respondit: «Quod sine fraude mea populique Romani Quiritium fiat, facio». Fetialis erat M.Valerius; is patrem patratum S Fusium fecit, verbena caput capillosque tangens. Pater patratus ad ius iurandum patrandum; id est, sanciendum fit foedus; multisque id verbis, quae longo effata carmine non operae est referre, peragit. Legibus deinde recitatis, «Audi», inquit, «Juppiter: audi, pater patrate populi Albani; audi tu, populus Albanus. Ut illa palam prima postrema ex illis tabulis cerave recitata sunt sine dolo malo, utique ea hic hodie rectissime intellecta sunt, illis legibus populus Romanus prior non deficiet. Si prior defexit publico consilio dolo malo, tum illo die, Iuppiter, populum Romanum sic ferito ut ego hunc porcum hic hodie feriam; tantoque magis ferito quanto magis potes pollesque». Id ubi dixit porcum saxo silice percussit. Sua item carmina Albani suumque ius iurandum per suum dictatorem suosque sacerdotes peregerunt. Il passo & stato accuratamente studiato da OGILVIE, Commentary,
cit.,
109 ss., che ricorda la bibliografia più risalente. 16 Cic. Balb. 15.34-35: tum est cum Gaditanis foedus vel renovatum vel ictum: de quo foedere populus Romanus sententiam non tulit, qui iniussu suo nullo pacto potest religione obligari. Ita Gaditana civitas quod beneficiis suis erga rem publicam nostram consequi potuit, quod imperatorum testimoniis, quod vetustate, quod Q. Catuli summi viri auctoritate, quod iudicio senatus, quod foedere, consecuta est; quod publica religione sanciri potuit, id abest; populus enim se nusquam obligavit.
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Certo, Varrone nel quinto libro del De lingua Latina considera l’istituzione di un accordo fra popoli nella forma del foedus procedimento esclusivo dei feziali: per hos etiam
nunc fit foedus!?. Allo stesso modo Livio sottolinea il valore
esemplare della vicenda che narra e la sua attualità, presentando la procedura sacrale come tuttora vigente: foedera alia aliis legibus, ceterum eodem modo omnia fiunt!®. Un’epigrafe di Mitilene che riproduce, nella traduzione greca, alcuni documenti relativi a un foedus concluso nel 25 a.C. fra la polis e il popolo romano sembra conservare, nella colonna d, un esempio delle disposizioni pattizie alle quali fa riferimento Livio, e che permettono di adattare lo schema comune del procedimento alle diverse situazioni nelle quali è utilizzato. L’epigrafe, frammentaria, proviene dal
mausoleo di Potamone, che era stato uno dei protagonisti della vita diplomatica della città, e fa parte di un’ampia trascrizione che riproduce sulle pareti del monumento il carteggio relativo ai rapporti fra Roma e Mitilene nella seconda metà del I secolo a.C.!°. Accanto a documenti di età cesariana la trascrizione propone, secondo l’ordine ricostruito da Mommsen
e Paton, due senatoconsulti del 25 a.C., deli-
berati in preparazione del foedus, e alcune clausole di un atto normativo, redatto in forma imperativa e costruito attraverso la giustapposizione di norme parallele per le due parti coinvolte, secondo la struttura letteraria che il resoconto liviano lascia intravedere per le leges che il pater patratus
recita ex... tabulis cerave^'
. Il procedimento descritto da Li-
17 Varro ling. 5.15.86: fetiales quo fidei publicae inter populos praeerant... ex his mittebantur, ante quam conciperetur (bellum), qui res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus, quod fidus Ennius scribit dictum.
18 Liv. 1.24.3.
19 IG XII 235, riedita da ultimo in R.K. SHERK, Roman Documents from the Greek East, 1969, n. 26, con revisione della letteratura e un commento assai utile. Nella bibliografia più risalente, ricordata dallo Sherk, in particolare V. ARANGIO RUIZ, Senatusconsulta Silaniana de Mytilenensi-
bus, RFIC 20, 1942, 125 ss. 20 IG XII 235, colonna d: ‘O é[au]o[s 6] Μυτιληναίων ἀρχὴϊν Kal ἐπικράτειαν ἣν μέχρι νῦν Eoxev(?)] φυλασσέτω οὕτως ὧς àv τι κ[ρατῆται ἀρίστωι Siam ἀρίστωι ve νόμοι]. Τοὺς πολεμίους τοῦ δήμου τ[οῦ Ῥωμαΐων ὁ δῆμος ὁ Μυτιληναίων διὰ τῆς ἰδίας £-] πικρατείας μὴ ἀφειέτωζι) δημοσίίαι βουλῆι διελθεῖν, ὥστε δήμωι τῶι]
321
vio, infatti, prevede che ciascuno dei due attori del rito, il
pater patratus del popolo romano e quello della controparte, dichiari in modo solenne quali comportamenti i federati intendano tenere per il futuro e invochi la punizione divina Ῥωμαίων ἢ τοῖς ἀρχομένοις or [αὐτοῦ ἢ τοῖς συμμάχοις τοῦ δήμου τοῦ Ῥωμαί-] ὧν πόλεμον ποιῆσαι, μήτε αὐτοῖς [ὅπλοις χρήμασι ναυσὶ βοηθείτω.] Ὁ δῆμος ὁ Ῥωμαΐων τοὺς πολεμίους τοῦ δήμου τοῦ Μυτιληναίων διὰ τοῦ ἰδίου] ἀγροῦ καὶ τῆς ἰδίας ἐπικρατεία[ς μὴ ἀφειέτω δημοσίαι βουλῆι διελθεῖν,] ὥστε τῶι δήμωι τῶι Μυτιληνα[ίων ἢ τοις ἀρχομένοις ὑπ᾽ αὐτοῦ ἢ τοῖς συμμά-] χοις τοῦ δήμου τοῦ Μυτιλην[αίων - - - πόλεμον ποιῆσαι, μήτε αὐτοῖς] ὅπλοις χρήμαϊ[σι ν]αυσὶ Bone[sito.] vacat Ἐάν τις πρότερος πόλεμον πο[ιτήσηι τῶι δήμωι τῶι Μυτιληναίων ἢ τῶι δή-] por τῶι Ῥωμαίων [καὶ] τοῖ[ς συμμάχοις τοῦ δήμου τοῦ Ῥωμαίων, βοηθείτω] [ὁ δῆμος ὁ Ῥωμαίων τῶι δήμωι τῶι Μυτιληναίων καὶ ὁ δῆμος ὁ Μυτιληναί-]} [ὧν τῶι Suor τῶι Ῥωμαίων καὶ τοῖς συμμάχοις το]ῦ δήμου τοῦ Ῥωμαίων" [- --------------402 ] βέβαιός te ἔστω.
Εἰρήνη
[ἔστω εἰς τὸν ἅπαντα χρόνον.] vacat [- --------- -------------- -- 1 ἑαυτοῦ ἔστω. Ὁμοίως [ὅσα -------------------- ὁ δῆμος Ῥωμαίω]ν δήμωι Μυτιληναίων ἔδω[κεν - - - - -------------------- ] τοῦ δήμου τοῦ Μυτιληναΐων ἔστω [καὶ ὅσα --------------------- MovnAn]vatov ἐγένοντο ἐν νήσωι [Aéopar καὶ ὅσα ------------------- πρὸ καλ]ανδῶν Tavoapiov, αἵτινες [------------------------------ , τού]τοις ἐγένοντο εἴτε ταύτηι [τῆι νήσωι εἴτε ἄλληι --------------- Ἰς, ὡς ἕκαστον τούτων τῶν
[----------------------- 2222220220020 -- τε οὗτοι ἐκράτησαν ἔσχον [------------------------2-22 222000 - ] οὗτοί τε
Μ]νυτιληναίων ἔστωσαν.
322
sul trasgressore, con l’identica formula sanzionatoria. L’e-
ventuale disuguaglianza delle prestazioni non altera la simmetria delle dichiarazioni né modifica in altro modo la procedura. Per l’uno e per l’altro popolo i modelli di comportamento delineati nelle dichiarazioni diventano vincolanti in virtù dell’invocazione del proprio sacerdote, che è corroborata dal sacrificio: e ciò nell’ambito dei propri rapporti con gli dei, nei confronti dei quali si assume l’obbligo, e dai quali si attende la sanzione dell’inadempiente. Pertanto, piuttosto che produrre norme comuni attraverso l’incontro delle
volontà
delle parti, il foedus
collega
meccanismi
paralleli di autolimitazione, che per ciascuno dei federati operano, secondo le prospettive romane, nella sfera dello ius sacrum“.
Il racconto liviano delle origini dell’istituto colloca la vicenda nell’ambito dei rapporti fra i popoli latini, uniti anche dalle credenze religiose e dal culto, e per i quali il formulario rituale poteva senza difficoltà prevedere, all’interno di uno stesso ordinamento sacrale, la partecipazione di un pater patratus e il compimento di una cerimonia identica a quella romana anche per la controparte. Nel resoconto dello storico, peraltro, i feziali del popolo Albano sono detti sem-
plicemente sacerdotes, con una qualifica generica che riflette forse l’estensione della procedura a collettività estranee alle tradizioni alle quali viene ricondotto il formulario: a quelle collettività, la fruizione della disciplina sacrale dei rapporti fra i popoli era stata estesa già dall’età dell’espansione in Italia, con un ampliamento «sovranazionale» che ne
aveva reso possibile la sopravvivenza, e ne facilita ora il re-
cupero augusteo?”
21 Cfr, P. CATALANO,
Linee del sistema sovrannazionale
romano,
1,
1965, 193 ss.; cfr. anche 40 ss., con una diversa valutazione del giuramento, estranea peraltro al racconto liviano; BOYANCÉ, Fides et le serment, in Hommages à A. Grenier, 1, 1962 = Et. sur la religion romaine,1972, 95 ss. Nella letteratura più risalente, è ancora interessante l’analisi di G. FUSINATO, Dei Feziali e del diritto feziale, MAL 13, 1884, 532 ss.
22 Il tema è ampiamente sviluppato da CATALANO, Linee, cit., per il
quale il carattere sovranazionale del diritto feziale sarebbe tuttavia originario; cfr. il dibattito con P. FREZZA, In tema di relazioni internazionali nel mondo greco-romano, SDHI 33, 1967, 337 ss. In qualche caso, il riferi-
mento al foedus non implicherebbe il rito feziale, ma alluderebbe ad un semplice accordo giurato di pace: cfr. S. TONDO, Profilo di storia costituzionale romana, I, 1981, 246 ss.
323
4. Sotto il profilo organizzativo, Mitilene è una polis, saldamente inserita nell’assetto della provincia d’Asia, che in questi anni è già stata restituita all’amministrazione del senato. La polis non ha pertanto né possibilità concrete di svolgere una sua propria politica estera, né timori realistici di aggressioni belliche. Ciò nonostante, le leges sanzionate dal foedus configurano un’alleanza militare con la quale ciascuno dei due popoli si impegna a rifiutare ogni aiuto al nemici dell’altro, secondo uno schema evidentemente tralati-
cio che considera le parti contraenti in primo luogo come potenze armate. E tuttavia assai verosimile che altre clausole integrassero quelle pervenuteci, e presentassero una maggiore aderenza ai problemi attuali; i frammenti dell’ultima colonna del testo tramandato dall’epigrafe sembrano infatti conservare tracce di norme disciplinanti il raccordo fra le giurisdizioni delle due parti, per ciò che attiene all’esercizio nei confronti dei cittadini della controparte. Un'altra clausola può avere riaffermato l’indipendenza dei due ordinamenti giuridici, riconoscendo solennemente a Mitilene la conservazione del proprio potere normativo — l’uti suis legibus moribusque —, con una formula che ritorna di frequente nei documenti diplomatici romani del I secolo a.C.: la clausola si ritrova, come sembra, in un altro foedus di età augustea,
quello con la polis di Amiso in Bitinia, del quale abbiamo notizia dalla corrispondenza fra Traiano e Plinio, legato del-
l’imperatore nella provincia?3.
L'adattamento agli scopi di un accordo di giurisdizione, sia pure in un contesto dilatabile sino all’alleanza militare,
avrà caratterizzato anche gli altri foedera con poleis dei quali si ha qualche notizia in riferimento all’ampio riassetto delle province orientali dopo Azio. Una più decisa connotazione strategica presentano invece i foedera con le civitates celtiche attestate lungo il basso Reno, anch'essi collocabili in età augustea: la notizia di questi accordi è data incidentalmente dai libri geografici della Naturalis 23 Plin. epist. 10.93: Amisenos, quorum libellum epistulae tuae iunxeras, si legibus istorum, quibus beneficio foederis utuntur, concessum est eranum habere, possumus quo minus habeant non impedire, eo facilius si tali collatione non ad turbas et inlicitos coetus, sed ad sustinendam tenuiorum,
inopiam
utuntur. In ceteris civitatibus, quae nostro iure obstrictae
sunt, res huius modi prohibenda est. Un’analisi della formula suis legibus uti è nel mio L'autonomia cittadina fra Traiano e Adriano, 1973, 137 ss.
324
Historia pliniana, nella descrizione della Gallia renana, ma alle stesse civitates sembra riferirsi anche Svetonio, nel-
l’analizzare le iniziative diplomatiche del principato augusteo, quando ricorda i capi di genti barbare (barbarorum principes) persuasi pacificamente a entrare nel sistema di alleanze romano e a giurare nel tempio di Marte Ultore... mansuros se in fide ac pace quam peterent. Il giuramento allude verosimilmente al rito feziale, e la definizione for-
male dei rapporti con le civitates celtiche si adatta al rife-
rimento di Svetonio meglio di altre letture, pur possibili?4.
I foedera augustei non si limitano a disciplinare i rapporti con città di provincia, o a definire alleanze di frontiera; in
un ambito assai diverso da quello del raccordi fra organizzazioni militari o fra ordinamenti giudiziari essi continuano ad assicurare il collegamento fra l’assetto istituzionale,
in particolare sacrale, di talune comunità municipali che vedono riemergere per l’occasione il proprio latente carattere di popoli, e l’insieme della civitas populi Romani, della quale si manifesta invece la struttura composita e il perdurante distacco dalla forma del populus. Nei rapporti con 1 Laurentes Lavinates il trattato che dalla fine del IV secolo a.C. renovatur... quotannis post diem decimum Latina-
rum... come attesta Livio per l’età sua, disciplina lo svolgimento dei culti comuni al populus Romanus e al populus Laurens. Il foedus era anteriore alla dissoluzione della lega latina, quando sembra che i Laurentes Lavinates fossero stati accolti nella cittadinanza come municipes, ed è tuttora
considerato operante dallo storico augusteo. Un’iscrizione di Pompei ne riconferma l’attualità durante il principato di Claudio, e ne attesta il rinnovo secondo la prescrizione dei
libri Sibillini, che avevano richiesto quel procedimento perché fosse assicurata la perpetuazione dei sacra princi-
24 Svet. Aug. 21.2: nec ulli genti sine iustis et necessariis causis bellum intulit, tantumque afuit a cupiditate quoquo modo imperium vel bellicam gloriam augendi, ut quorundam barbarorum principes in aede Martis Ultoris iurare coegerit mansuros se in fide ac pace quam peterent, a quibusdam vero novum genus obsidum, feminas, exigere temptaverit, quod neglegere marum pignera sentiebat; et tamen potestatem semper omnibus fecit, quotiens vellent obsides recipiendi. Cfr. Plin. nat. 4.106; da ultimo, ha studiato queste testimonianze il LEMOSSE, Le régime, cit., 20 ss. Per un
uso di foedus che non si riconduce al procedimento feziale cfr. S. TONDO, Profilo, cit., 247.
325
pia populi Romani Krim
nominisque Latini, quai apud
Laurentes coluntur? Anche in questo caso l'attenzione di Livio per la sopravvivenza dell'arcaico istituto può essere stata sollecitata da un intervento del principe diretto a ripristinare o consolidare il procedimento, nell'ambito della rinnovata attenzione per il mito troiano e la leggenda sulle origini della gens Iulia. Il trattato esclude naturalmente che i sacra dei Laurentes possano essere considerati dei sacra municipalia, rientrino cioè nell'ambito delle procedure religiose che i pontefici... observare eos [sc. municipes] voluerunt, secondo la definizione di
Festo risalente ai libri de iure pontificio di Ateio Capitone”®. Assunto evidentemente in un quadro in cui il populus non & totalmente riassorbito e dissolto nell’unitä della civitas, il trattato postula che il populus Romanus e il populus Laurens conservino ciascuno una propria identità nell’ambito dello ius sacrum, e concorrano, come entità indipendenti, a regolare i riti di comune interesse? Nel corso del principato il ricordo di nuovi foedera si fa meno frequente. A Claudio la biografia svetoniana attribuisce esplicitamente l’uso dell’antico procedimento, con un’enfasi che pone in evidenza la rarità dell’avvenimento: cum regibus foedus in foro icit porca caesa ac vetere fetialium praefatione adhibita. Anche questi reges, come i barbarorum principes della biografia di Augusto, sono evidentemente da individuarsi nei capi delle aggre-
25 ILS 5004: S Turranius L. f. S n. L. pron. Fab. / Proculus Gellianus / praef. fabrum II, praif. curatorum alvei / Tiberis, praif. pro pr. i. d. in urbe Lavinio, / pater patratus populi Laurentis foederis / ex libris Sibullinis percutiendi cum R.; / sacrorum principiorum R. Quirit. nominis / que Latini, quai apud Laurentis coluntur, flam. / Dialis, flam. Martial., salius praisul, augur, pont.; / praif. coh. Gaitul., tr. mil. leg. X / Loc. d. d. d. Ctr. Liv. 8.11.15: cum Laurentibus renovari foedus iussum renovaturque ex eo quotannis post diem decimum Latinarum. Il tema dei municipi federati è stato ampiamente ridiscusso da M. HUMBERT, Municipium et civitas sine suffragio, 1978, 251 ss., in particolare 267, per i Laurentes Lavinates, con risultati assai persuasivi: sfumerei solo la contrapposizione fra foedus e civitas, riproposta a 270. Fest. 146 Lindsay= C. Atei Capitonis Fragmenta, ed. W. Strzelecki, 1967, Suppl. frag. 69, dove si riprende un'indicazione di R. Reitzenstein. 2! Un profilo della vicenda di queste dottrine, in riferimento all' Oratio de ltalicensibus adrianea, è nel mio L'autonomia
144 ss.
326
cittadina, cit., 120 ss.,
gazioni tribali stanziate alla periferia del sistema difensi-
vo romano”®.
La narrazione tacitiana degli avvenimenti del 69 attesta invece un uso del foedus simile a quello che Augusto aveva praticato con le poleis, per ridefinirne la posizione nell’assetto organizzativo imperiale. Ricordano le Historiae che Vitellio, per rafforzare i consensi intorno al suo regime, festinare comitia, quibus consules in multos annos destinabat; foedera sociis, Latium externis dilargiri; his tributa dimitte-
re, alios immunitatibus iuvare”. Più comune è il riferimento a foedera già esistenti, richiamati per sottolinearne la validità o per discuteme l'ambito di applicazione. Cosi accade per il foedus augusteo con Amiso, nella corrispondenza fra Traiano e Plinio, e per altre poleis, che vantano la propria condizione di federate, ostentata con orgoglio nell'epigrafia cittadina??. Il ricordo dei vincoli federativi col popolo romano, l'attenzione ai trattati
che li garantiscono non costituisce tuttavia una prerogativa delle città greche; anche antichi municipi italici ripropongono i foedera che in momenti diversi della propria storia ne avevano disciplinato la collocazione nel sistema di alleanze romano. Il recupero è attestato nel I secolo per Capena, in epoca piü tarda per Tarquinii, che si dichiarano municipia foederata nei documenti epigrafici, e in età severiana per Camerinum, che celebra in una dedica a Settimio Severo la
conferma del foedus risalente al ΠῚ secolo a.C.?!. In quest'ultimo caso 1 Camerti esprimono la propria gratitudine all'imperatore caelesti eius indulgentia in aeternam securitatem adque gloriam iure aequo foederis sibi confirmato, con
un documento cioé che sembra alludere ad un rinnovo del trattato e ad una convalida della posizione giuridica da esso definita. E peró assai difficile accertare se e in quali termini il provvedimento severiano abbia seguito le indicazioni dello ius fetiale. Un frammento delle Regulae di Marciano, appena di qualche decennio posteriore, attesta l'uso dei sagmi-
28 Suet. Claud. 25.5, su cui TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, III, I, 1888, 654 n. I.
22 Tac. hist. 3.55. 30 Cosi Tiro, metropolis foederata in CIL X 1601; cfr. l'elogio di Ul-
piano in Dig. 50.15.1. pr., Ulp. libro primo de censibus: ... (Tyriorum colonia) foederis quod cum populo Romano percussit tenacissima...
31 Cfr. M. HUMBERT, Municipium, cit., 260 ss.
327
na da parte dei legati populi Romani, secondo un costume che riprende certo l’antico rituale della creazione del pater patratus, ma ne altera profondamente i profili procedurali e ne distorce
i contenuti
e gli scopi (sunt autem
sagmina
quaedam herbae quas legati populi Romani ferre solent, ne quis eos violaret, sicuti legati Graecorum ferunt ea quae vo-
cantur cerycia)”-.
L’osservazione di Marciano riflette assai probabilmente pratiche diplomatiche nelle quali la disciplina arcaica si viene dissolvendo in procedure nuove, che preparano oramai quelle tardoantiche. Ma le relazioni federative e l’assetto dei rapporti da esse nascenti avevano lasciato tracce di ben diverso rilievo nella considerazione dei giuristi fra l’etä di Augusto e quella di Marco Aurelio, particolarmente in relazione all’analisi del postliminium. Agli inizi del I secolo d.C., forse durante il principato di Tiberio, Proculo aveva così discusso in una celebre lettera le conseguenze prodotte dal foedus nei confronti degli appartenenti ad una delle comunità federate, quando fossero venuti a trovarsi nella sfera di esercizio dei poteri dell’altra, ed aveva escluso in tal caso l’applicazione delle norme regolanti il postliminium: non dubito quin foederati et liberi nobis externi sint, nec inter nos atque eos postliminium esse: etenim quid inter nos at-
que eos postliminio opus est, cum et illi apud nos et libertatem suam
et dominium
rerum suarum
retineant et eadem nobis apud eos che il giurista esprime, replicando del suo interlocutore, rovescia un to, ripreso in età augustea dal De
aeque atque apud se
contingant??? L'opinione verosimilmente ai dubbi insegnamento consolidaverborum significatu di
Verrio Flacco, nella scia di un’indicazione di Elio Gallo. 32 Dig. 1.8.8.1, Marcian. libro quarto regularum; per la presenza di inserti postclassici nell'opera, F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana (tr. it. dell'ed. inglese del 1953), 1968, 325.
33 Dig. 49.15.7. pr., Proc. libro octavo epistularum. Il passo è stato
analizzato da C. KRAMPE, Proculi Epistulae, 1970, 88, con una puntuale discussione delle letture anteriori. Contro il BONA, Postliminium in pace,
SDHI 21, 1955, 253 ss., che aveva suggerito una radicale amputazione del periodo iniziale, ridotto all'affermazione non dubito quin foederati liberi sint, il Krampe ha riaffermato l'autenticità del passo, limitandosi a proporre l'integrazione di puto dopo nec per rendere più scorrevole il discorso: un completamento convincente, ma non indispensabile, se si pensa a un andamento volutamente ellittico. Nello stesso tempo il Krampe respinge l'inopportuna integrazione di ac prima di nec, proposta dall' Heuss.
328
L’epitome festina, che ci ha tramandato le linee essenziali del passo di Verrio, formula il principio in modo assai reciso: cum populis liberis et cum foederatis et cum regibus postliminium nobis ita est, uti cum hostibus?4. Le situazioni giuridiche soggettive, afferma implicitamente il testo, si
estinguono o, per lo meno, cadono in quiescenza quando il loro titolare si colloca stabilmente nell’ambito di una organizzazione politica diversa dal popolo romano; né alla loro scomparsa è di ostacolo l’esistenza di un foedus. Ma l’ap-
plicazione del postliminium nei rapporti con i foederati appare a Proculo inaccettabile, in quanto contrasta con la prassi operante nell’ambito del sistema imperiale, nel quale i federati fruiscono del riconoscimento reciproco della libertà e della proprietà, senza che perciò vengano meno l’estraneità e l’indipendenza degli ordinamenti coordinati dal Joedus. Per quanto sospetto di rimaneggiamenti più o meno ampi, il passo conserva il nucleo centrale della riflessione proculiana, che analizza evidentemente la posizione degli stranieri appartenenti alle organizzazioni politiche alleate, 1 soli per i quali operi, oramai da secoli, la reciprocità dei riconoscimento, e tralascia così i cittadini del municipi federati (esclusi dal postliminium in quanto partecipi della cittadinanza), come gli stranieri delle entità politiche sfuggenti alle relazioni diplomatiche col popolo romano, e per le quali pertanto l’applicabilità del postliminium non può dar luogo a dubbi. In questi limiti, il giurista sottolinea la coesistenza della condizione di popolo libero con quella di federato anche laddove un trattato disuguale disponga un esplicito riconoscimento della superiorità romana, e porta a so-
stegno della sua argomentazione il confronto con la clientela, che implica anch’essa la coesistenza di libertà e subal-
ternità: liber autem populus est is qui nullius alterius potestati est subiectus:
sive
is foederatus
est,
item sive aequo
foedere in amicitiam venit, sive foedere comprehensum est ut is populus alterius populi maiestatem comiter conserva-
ret...; et quemadmodum clientes nostros intellegimus liberos esse... sic eos qui maiestatem nostram comiter conser-
34 Fest. 244 Lindsay, su cui L. AMIRANTE,
Captivitas e Postliminium,
1950, 9 ss., che riafferma in modo persuasivo l’unità del postliminium nella considerazione di Elio Gallo e, va aggiunto, ancora di Proculo; cfr., anche
Ip., Prigionia di guerra, riscatto e postliminium, 1970, 11 ss.
329
vare debent liberos esse intellegendum est”. L'estraneità degli ordinamenti peraltro non esclude la perseguibilità dei crimini: at fiunt apud nos rei ex civitatibus foederatis, et in
eos damnatos animadvertimus.
Oltre un secolo piü tardi, durante il principato dl Antonino Pio, Pomponio riprende l'insegnamento di Quinto Mucio
sul postliminium, commentando
i Libri iuris civilis
dell'antico maestro, ma limita l’applicabilitä dell’istituto in pace alle entità con le quali non esista alcuna relazione diplomatica: in pace quoque postliminium datum est: nam si cum gente aliqua neque amicitiam neque hospitium neque
foedus amicitiae causa factum habemus, hi hostes quidem non sunt, quod autem ex nostro ad eos pervenit illorum fit, et liber homo noster ab eis captus servus fit et eorum: idemque est, si ab illis ad nos aliquid perveniat. Hoc quoque igitur casu postliminium datum est. Parallelamente, il giurista riconosce che in bello, ai fini del postliminium, il captivus... tunc autem reversus intellegitur, si aut ad amicos
nostros perveniat aut intra praesidia nostra esse coepit: le relazioni di amicitia fra popoli non solo escludono il postli-
35 Dig. 49.15.7.1, Proc. libro octavo epistularum. L'alternativa fra il populus qui nullius potestati est subiectus e quello foederatus era apparsa in contraddizione con il contesto già al Mommsen,
che nelle edizioni dei
Digesta suggerisce in nota di eliminare il primo dei tre sive dai quali é scandito il passo nella redazione pervenutaci: una correzione che sembra tuttora la piü persuasiva fra le tante indicate per il brano. In una linea non diversa il Lenel ha proposto, nella palingenesi delle Epistulae proculiane (Palingenesia iuris civilis II, 1889, 166 nota), l'integrazione sive is foederatus est sive non est, eliminando cosi la giustapposizione fra il popolo libero e il federato, ma conferendo alla definizione una prospettiva troppo ampia, estranea al contesto, che muove dalla considerazione dei popoli liberi et foederati. Piü di recente il BONA,
Postliminium,
cit., muovendo
dall'ipotesi del carattere postclassico dell'intera trattazione delineata nel passo, ha tentato anche per questa parte un radicale intervento di restauro leggendo: ... sive is foederatus non est item, sive.... Yn polemica col Bona, il Krampe ricostruisce il discorso secondo uno schema simmetrico di due distinzioni e due sottodistinzioni, inserendo una seconda relativa dopo il primo sive: Liber autem populus est is qui... sive is qui foederatus est; item sive... sive... Ma l'integrazione non elimina l'alternativa fra popoli liberi e popoli federati e, di conseguenza, un sia pure implicito rifiuto della libertà per i federati, in contrasto con l'assimilazione proposta all'inizio del frammento (populi liberi et foederati), e con il confronto con la clientela, sviluppato di seguito. 36 Dig. 49.15.7.2, Proc. libro octavo epistularum.
330
minium
reciproco,
ma
costituiscono
nei confronti dei nemici?”.
una frontiera comune
Il frammento di Pomponio ha, tra l’altro, un particolare rilievo nella nostra documentazione per l'articolata tipologia di rapporti fra popoli alla quale fa riferimento, e per il modo in cui emerge in questa varietà il foedus, distinto dalla generica amicitia, alla quale sembra conferire una particolare solennità. Il valore tecnico del termine foedus appare smarrito in un rapido cenno del quarto libro delle Disputationes di Claudio Trifonino, un giurista operante nel consiglio di Settimio Severo ed ancora attivo durante il principato di Caracalla. Estratto da un'opera ampiamente rimaneggiata in età postclassica il passo qualifica foedus ogni accoxdo che ponga fine allo stato di guerra, e che disciplini in tale contesto la sorte degli stranieri sorpresi dall'inizio delle ostilità in paese nemico, e divenuti perció schiavi di guerra, quibus ius postliminii est tam in bello quam in pace nisi foedere cautum fuerat ne esset his ius postlimini? 5. Una presenza attiva del principe nell'istituzione e nel rinnovo dei foedera & riconoscibile sin dagli inizi del principato; nella lex de imperio Vespasiani essa trova un'esplicita
conferma formale attraverso la clausola foedusve cum quibus volet facere liceat ita uti licuit divo Augusto, Ti. Iulio Caesari Augusto, Tiberioque Claudio Caesari Augusto Gen-
nanico??. Si tratta, come è chiaro, di una disposizione che conferisce i poteri magistratuali necessari per l’avvio della procedura feziale, e nello stesso tempo rende superflui l’intervento del senato e la delibera comiziale, richiesti dalla
37 Dig. 49.15.5, Pomp. libro trigensimo septimo ad Quintum Mucium. Anche per questo frammento il BONA, Postliminium, cit., 258 ss., sospetta
profonde alterazioni postclassiche, che avrebbero introdotto in esso la distinzione fra postliminium in bello e postliminium in pace; in particolare, sarebbe totalmente insiticio il brano /n pace... datum est, qui riprodotto,
per il quale il Mommsen espungeva, nelle edizioni dei Digesta, et innanzi ad eorum. Gli argomenti formali e sostanziali del Bona richiederebbero una lunga discussione, che esula dai limiti di questo lavoro, ma mi sembrano tutt'altro che decisivi per escludere l'attribuibilità a Pomponio delle considerazioni sviluppate nel passo.
38 Dig. 49.15.12, Tryph. libro quarto disputationum: dubita dell’auten-
ticità delle Disputationes, che comunque dovrebbero essere state rielaborate in età postclassica, lo SCHULZ, Storia, cit., 420. 39 CIL VI 930 = FIRA I, 154.
331
tradizione, ma ancora oggetto di valutazioni contrastanti in etä ciceroniana. In quanto collega dei feziali e partecipe del sacerdozio, il principe non ha invece bisogno di particolari concessioni per prendere parte ai riti e sancire attraverso di essi il foedus. L’intervento imperiale, sia che esplichi le facoltà conferite dalla lex de imperio, sia che ponga in opera i poteri sacerdotali, non altera la simmetria delle posizioni che si fronteggiano nel procedimento feziale, né modifica in altro modo lo schema arcaico del trattato. Quel procedimento sembra invece entrare in crisi quando il principe conferma il foedus beneficio indulgentiae (suae), come accade ad Amiso, secondo le attestazioni della corrispondenza fra Traiano e Plinio: il beneficium imperiale si affianca infatti al foedus e ne trasfonde i contenuti in una nuova relazione, nella quale il principe si sostituisce al popolo e vincola a sé la controparte. Fra benefattore e beneficiato si crea così un rapporto di scambio ineguale, in cui all’effusione dell’indulgenza imperiale corrisponde la gratitudine riconoscente dei confederati. Nella documentazione relativa ad Amiso il riferimento ai beneficium principis concorre col richiamo del beneficium foederis, e l'indipendenza dell'ordinamento cittadino viene cumulativamente ricondotta all’uno e all’altro. Ma nella dedica dei Camerti a Settimio Severo quel precario equilibrio è oramai dissolto: per quanto è possibile dedurre dal breve testo epigrafico, l’indulgenza celeste del principe è assunta a fondamento della situazione giuridica di parità definita nel trattato, un fondamento tale da garantire perpetua sicurezza e gloria. Il foedus è oramai l’oggetto di un’elargizione imperiale, secondo un modello che lascia già intravedere gli svi-
luppi tardo-antichi^?.
^ Per la natura e i caratteri dei trattati nel sistema imperiale della tarda antichità cfr. B. PARADISI, Dai foedera iniqua alle crisobulle bizantine, SDHI 20, 1954, 1 ss., in particolare 72 ss.
332
Provinciali e sudditi fra Augusto e Vespasiano: le dottrine giuridiche*
1. La documentazione letteraria del secolo circa che intercorre fra il consolidamento del regime augusteo e l’avvio di quello flavio lascia scorgere modi assai diversi, talora contrastanti, di considerare l’assetto provinciale, i suoi fondamenti istituzionali, i suoi fini. Una rassegna delle testimonianze, episodiche e frammentarie, che conservano le
tracce di questo laborioso approccio a una teoria giuridica del sistema imperiale può prendere l’avvio dall’analisi del termine provincia
che Verrio Fiacco proponeva
nel suo
glossario. La glossa è andata perduta nella tradizione diretta dell’epitome di Festo che ci consente di conoscere tanta parte dell’opera del grammatico augusteo, ma può essere ricostruita nei suoi elementi essenziali attraverso l’escerto
che Paolo Diacono ha tratto dal De verborum significatu festino!. Ricorda infatti Paolo Diacono: provinciae appellantur quod populus Romanus eas provicit, id est ante vicit. Non ostante la sua schematicità, il testo permette di affermare che Verrio Flacco illustrava il vocabolo assumendo come originario l’uso traslato del termine, lo riferiva all’ordinamento dei domini extraitalici del popolo romano e postulava una netta divaricazione fra dominanti e dominati. Priva di attendibilità sotto il profilo etimologico, l’analisi costituisce un documento assai interessante di opinioni dif-
* CEA 26, 1990, 137-143.
! Fest. 253 Lindsay.
fuse negli ambienti che l’erudito frequentava, e che egli riprendeva e faceva sue. Nella considerazione che sorregge l’etimologia di Verrio Flacco le province perpetuano, attraverso il vocabolo stesso che le designa, una nota di inferioritä istituzionale, il ricor-
do della sconfitta dalla quale & stato determinato l’assetto attuale. L’escerto di Paolo Diacono non consente di accertare se nel contesto originario il termine avesse un significato territoriale, designasse cioè gli spazi sui quali si esercita il dominio del popolo romano, secondo un uso linguistico attestato già dal secondo secolo a.C., o fosse riferito piuttosto alle popolazioni insediate in quegli spazi, con un’accezione certo più rara, ma non priva di riscontri. Tra
l’altro, la seconda direzione potrebbe essere suggerita dal fatto che il collegamento fra provincia e pro vincere, delineato dal grammatico, è certo più comprensibile se si pensa alle genti vinte e divenute suddite del popolo romano che se ci si riferisce invece alle terre nelle quali i vinti sono stanziati. In questo senso, per indicare le genti sottomesse piuttosto che i territori controllati, provincia è utilizzato da Velleio Patercolo nel tracciare il rapido disegno dell’espansione extraitalica del popolo romano, inserito nel capitolo trentottesimo del secondo libro delle Storie. Delineato in anni non lontani da quelli nei quali Verrio Flacco formulava la sua definizione, il disegno di Velleio si propone di percurrere quae cuiusque ductu gens ac natio redacta in
formulam provinciae stipendiaria facta sit. La rassegna intende cioè annotare le genti e le nazioni ridotte in forma di provincia e rese tributarie in quanto, evidentemente, l’as-
setto provinciale si risolve per lo storico nell’ordinamento delle collettività — gentes e nationes — sottomesse attraverso le guerre e rese tributarie. .
2. Il collegamento dell’assetto provinciale al diritto di conquista, sotteso alle considerazioni di Verrio Flacco e di Velleio Patercolo, costituisce un luogo comune che la letteratura augustea eredita da una tradizione risalente, e che sarà
ancora riproposto per secoli, in contesti assai diversi. Non si tratta tuttavia di un atteggiamento esclusivamente letterario, in questa età. Episodi di arbitrio e di crudeltà regia, come quello che ha per protagonista Voleso Messala, proconsole d’Asia nell’11 o 12 d.C., ne mostrano la forza di suggestione e la concreta incidenza sullo stile di governo e sulla prassi 334
amministrativa”. Depurato dagli aspetti patologici sui quali pone l’accento il ricordo di Seneca, il comportamento del proconsole riconduce anch’esso ad una concezione dell’ordinamento provinciale che prolunghi indefinitamente la discrezionalità regale del conquistatore nei confronti dei sottoposti. Una prospettiva di tal genere, impropria anche per momenti più risalenti dello sviluppo del sistema provinciale, è certamente inadeguata a cogliere i tratti specifici dai quali esso appare caratterizzato nell’età della riorganizzazione augustea. In particolare, il postulato dell’estraneità reciproca fra il popolo romano dominatore e le genti provinciali ridotte in sudditanza è posto in crisi dalla presenza, fra quelle popolazioni, di una molteplicità di statuti personali — individuali e collettivi —, grazie ai quali i cittadini romani si affiancano agli stranieri nell’ambito della stessa comunità, e colonie e municipi coesistono con le istituzioni collettive indigene all’interno degli stessi territori. D'altra parte, le forme del do- : minio del popolo romano si articolano in una gerarchia assai complessa di rapporti di supremazia e si dispiegano nello spazio in modo del tutto indipendente dai fines provinciarum, che nella loro puntuale definizione territoriale non coincidono con gli elastici e fluttanti fines imperii, cosicché anche
sotto questo profilo l’organizzazione della dipendenza politica appare irriducibile all’ordinamento in province. Una concezione del sistema provinciale più aderente alla realtà organizzativa contemporanea sembra emergere in qualche tratto proprio dalle Res gestae di Augusto, dove peraltro coesistono prospettive diverse senza trovare alcun coordinamento teorico, per questo aspetto. Il capitolo 25 del documento augusteo associa infatti le province all’Italia nell’indicare il giuramento da esse prestato ad Ottaviano come fondamento istituzionale dei poteri con i quali il dux aveva condotto la guerra aziaca?, e attribuisce perciò alle genti provinciali un rapporto col dux stesso e una partecipazione alla politica non diversi da quelli propri degli Italici. Allo 2 Sen. de ira 2.5.5: Volesus nuper sub divo Augusto proconsul Asiae, cum trecentos uno die securi percussisset, incedens inter cadavera vultu superbo, quasi magnificum quiddam conspiciendumque fecisset, graece proclamavit: «O rem regiam!». 3 R. Gest. div. Aug. 25.2: ... Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me belli quo vici ad Actium ducem depoposcit. Iuraverunt in eadem verba provinciae Galliae Hispaniae Africa Sicilia Sardinia...
335
stesso tempo, le popolazioni delle province appaiono unificate nell’affidamento al condottiero e nell’impegno di fedeltä, indipendentemente dagli statufi personali e collettivi dei singoli e delle comunità. Ma il riferimento all’unitä indifferenziata che attraverso il giuramento si era costituita per la guerra viene meno nei successivi capitoli 26 e 27 dove le province, sia pure in riferimento a momenti diversi, appaiono come mere entitä territoriali, suscettibili di occupazione e di possesso da parte del popolo romano, o comunque scenario delle azioni militari e diplomatiche, del principe che in esse esercita l'imperium populi Romani*. Il termine provincia riacquista così anche nel discorso augusteo la sua accezione più diffusa, quella per la quale dall’indicare la sfera di attività dei magistrato è passato a designare gli spazi in relazione ai quali quelle attività sono esercitate. Il traslato d’altra parte implica un richiamo più o meno accentuato al diritto di conquista anche in autori poco propensi a ridurre la condizione del provinciale a quella del vinto in guerra. Così già Cicerone aveva delineato l’immagine ben nota, quasi quaedam praedia populi Romani sunt vectigalia nostra at-
que provinciae?, sebbene egli stesso preferisse mettere in
evidenza1 rapporti di collaborazione inerenti all'assetto provinciale e qualificare perciò socii i provinciali”, con un'ambiguità che riemerge ora nei riferimenti augustei. 3. L'insediamento del cittadino romano in territorio provinciale acquista rilievo, sia pure in modo indiretto, in una
nota di Labeone sul problema del foro competente per tali persone: ma già Alfeno Varo si era interrogato sui rapporti intercorrenti fra patria, domus e provincia. Nel sessantesimo libro del suo commento all’editto, Ulpiano ricorda come Labeone avesse sostenuto che un homo provincialis è tenuto a presentarsi al magistrato in Roma per tutte le controversie che nascano in relazione alle attività di uno schiavo institore,
* R. Gest. div. Aug. 26.1: Omnium provinciarum populi Romani, quibus finitimae fuerunt gentes quae non parerent imperio nostro, fines auxi...; 27.2: ... Armeniam maiorem interfecto rege eius Artaxe cum possem facere provinciam malui maiorum nostrorum exemplo regnum id Tigrani regis Artavasdis filio, nepoti autem Tigranis regis, per Ti. Neronem tradere, qui tum mihi privignus erat... > Cic. Verr. II 2.3.7. $ Cic. Lig. 1.2; Verr. 1 14.42; 2.1.22.59; 2.3.10.25 etc.
336
preposto ai commerci in quella città”. Il parere del giurista augusteo doveva essere intervenuto a risolvere il dubbio che al provinciale sottrattosi al processo non potesse applicarsi la clausola edittale qui absens in iudicio defensus non fuerit proprio perché residente in provincia. Nel contesto che UIpiano richiama, postillando a sua volta la clausola, provincialis avrà indicato il cittadino stabilmente insediato in una regione extraitalica, per avervi trasferito i propri interessi o per esserne originario, secondo l’accezione che il termine ha nel-
l’uso di Cicerone®. Nulla suggerisce invece di pensare che Labeone si riferisse a uno straniero, e che il passo utilizzato
da Ulpiano discutesse l’editto del pretore peregrino. Il riferimento labeoniano costituisce la prima attestazione di una lunga e articolata ricerca che la giurisprudenza verrà sviluppando intorno al tema dell’incidenza del domicilio nella disciplina dei rapporti fra privati, e in particolare sulla dislocazione in provincia di attività giuridicamente rilevanti. In questa linea, essa estenderà la qualifica provincialis ad atti e situazioni, e parlerà così di contractus provincialis, facultates provinciales, administratio provincialis, creditor provincialis". Certo, si tratta di un uso documentato da autori assai piü tardi, dell'età degli Antonini e di quella dei Severi, ma sembra indubbio che l'attenzione al fenome-
no si sia sviluppata con continuità, a partire dalla testimonianza labeoniana. La nozione di provincialis accolta da Labeone e riproposta dalla letteratura giurisprudenziale successiva assume l'insediamento nei territori extraitalici come un elemento di rilievo per caratterizzare l'attività negoziale del cittadino — e, più in generale, di qualsivoglia operatore giuridico — senza peraltro che tale determinazione spaziale implichi in alcun modo un condizionamento o un limite per il cittadino. Invece, alcune norme della legislazione augustea che definisce lo ius liberorum!?; altre, di incerta origine, sull'ac-
7 Dig. 5.1.19.3, Ulp. libro sexagensimo ad edictum: apud Labeonem quaeritur si homo provincialis servum institorem vendendarum mercium gratia Romae habeat: quod cum eo servo contractum est ita habendum atque si cum domino contractum sit: quare ibi se debebit defendere. 8 Cic. fam. 15.20.2; ad Q. fr. 1.1.15; Catil. 4.23 etc.; Caes. Bell. Alex. 55; cfr. 53. ? Cfr. VIR IV, provincialis, col. 1289.
10 Fre. Vat. 247; Cod. Iust. 5.66.1. La disposizione potrebbe tuttavia non essere augustea.
337
cesso al senato, richiamate da Claudio nell’oratio de iure
honorum Gallis dando!!; altre ancora, sulla formazione del-
le decurie dei giudici, alle quali fa riferimento Plinio nella Naturalis Historia? configurano una disciplina che discrimina i cittadini di origine provinciale nella loro attività pubblica e ne connota negativamente la condizione personale. Nel discorso con il quale ne chiede l'abrogazione Claudio riconduce le norme discriminatorie a un disegno dei rapporti fra l'Italia e le province che, non ostante la comune cittadi-
nanza, perpetua nei confronti dei cives provinciales la diffidenza per i vinti, in una prospettiva cioè assai vicina a quella che si ritrova in Verrio Flaccoe in Velleio Patercolo.
La distanza che intercorre fra lo statuto di un civis Romanus, sia pure di origine provinciale, e quello di uno straniero insediato in provincia avrà tuttavia frapposto ostacoli insormontabili alla individuazione di elementi comuni e alla elaborazione di una categoria unitaria di provincialis. D'altra parte, le disposizioni che discriminano 1 cittadini originari dalle province vengono meno nel corso dell'età giulioclaudia pressoché integralmente. Non sorprende pertanto che nell’analisi dei rapporti di supremazia e di sudditanza la riflessione giurisprudenziale, per quanto possiamo accertare, eviti di dare rilievo alle province, e riconduca invece le situazioni personali e collettive degli stranieri stanziati in esse agli schemi di riferimento propri delle relazioni «intercomunitarie». Così una ben nota epistola di Proculo offre un esa-
me del postliminium che mette in evidenza le connessioni dell’istituto con l’organizzazione del sistema di alleanze del popolo romano, ma ignora l’ordinamento in province dei
territori extraitalici, e la sovrapposizione o comunque le iinterferenze fra assetto provinciale e rapporti federativil?. Il giurista individua invece una categoria di popoli qui maiestatem nostram comiter conservare debent, e cioè un’area di
popoli liberi che riconoscono e tutelano la supremazia roma-
11 CIL, XIII 1688 (= FIRA I, 281), col. IT.
12 Plin. nat. 33.30.
13 Dig. 49.15.7, Proc. libro octavo epistularum: non dubito quin foede-
rati et liberi nobis externi sint, nec inter nos atque eos postliminium esse... Liber autem populus est is, qui nullius alterius populi potestati est subiectus: sive is foederatus est item, sive aequo foedere in amicitiam venit sive
foedere comprehensum est ut is populus alterius populi maiestatem comiter conservaret...
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na, e ne traccia i contorni in assoluta indifferenza per i fines provinciarum, che gli appaiono evidentemente irrilevanti per delimitare l'ambito del dominio romano, i fines imperii. Un secolo piü tardi Pomponio, nel commento a Quinto Mucio, si muoverà all'interno dello stesso orizzonte nel descri-
vere il postliminium in pace come quello che sussiste con le genti con le quali neque amicitiam neque hospitium neque foedus amicitiae causa factum habemus!^, in una ricognizione dei possibili rapporti di alleanza che si attarda ancora ad ignorare l'assetto provinciale. Naturalmente resta fuori da queste analisi, orientate a determinare l'applicabilità del postliminium, il tema dei popoli che hanno perso la propria libertas e sono alienae potestati subiecti, secondo la formu-
la suggerita da Proculo; nel silenzio delle fonti & tuttavia difficile ipotizzare che per essi il collegamento con l’ordinamento provinciale possa avere avuto nella riflessione dei giuristi un rilievo maggiore e un'incidenza diversa da quello che accade per i popoli liberi. A differenza di ció che avviene per le situazioni personali, individuali e collettive, delle genti provinciali, il regime
del suolo sembra connotato in modo determinante e unitario dall'organizzazione in provincia, nelle analisi dei giuristi.
Un celebre passo delle Istituzioni di Gaio può così affermare che sul solum provinciale grava il dominium populi Romani vel Caesaris, la signoria del popolo e dell'imperatore, e ne comprime la disponibilità da parte dei privati!?. Il discorso mostra qualche affinità con quello svolto nel capitolo 27 delle Res gestae augustee, che delineano anch'esse una su-
premazia sulle province concepita nei termini di una signoria sul territorio — le Res gestae la qualificano imperium, invece che dominium — e ne attribuiscono la gestione al principe, per conto del popolo. Nelle Istituzioni peró il potere del popolo e del principe viene preso in esame in riferimento a texritori già sottomessi, e per 1 quali pertanto esso costituisce un limite al godimento da parte di possessori che spesso fruiscono della cittadinanza romana, come singoli o collettivamente, piuttosto che esprimere una posizione di supremazia nei confronti di stranieri.
14 Dig.
49.15.5
(Pomp.
libro
trigensimo
septimo
ad
Quintum
Mucium).
15 Gaius inst. 2.7. 339
Il passo di Gaio andrebbe naturalmente escluso dall’ambito di una ricerca limitata alle testimonianze augustee e giulio-claudie: ma il giurista afferma che la dottrina del dominium in solo provinciali è condivisa dalla maggioranza degli ignoti interlocutori con i quali egli intreccia il dialogo nella sua opera, si presenta cioè come risalente e consolidata. Sia pure con prudenza, essa può perciò essere utilizzata per colmare la lacuna nelle nostre informazioni per il primo principato. 4. Nel quarto capitolo del primo libro delle Storie Tacito osserva che la fine di Nerone e gli avvenimenti ad essa seguiti avevano disvelato un arcanum imperii, avevano cioè messo in evidenza come il principe potesse essere creato alibi quam Romae. Con una notazione di straordinaria efficacia interpretativa lo storico individua così una cesura profonda nella storia del potere imperiale, un mutamento dei suoi presupposti sociologici e istituzionali, e l’avvio di una fase nuova. Il principe è ora espresso da un’aggregazione di forze in gran parte esterne a Roma e all’Italia, è legittimato dal riconoscimento di ceti e gruppi e fazioni radicate nelle province. Più analiticamente, la crisi dell’egemonia italica e la
trasformazione dei provinciali da governati in governanti sono riproposte dal discorso che Petilio Ceriale, nel quarto libro delle Storie, rivolge ai Treviri e ai Lingoni che minacciano di insorgere contro il dominio romano. Piuttosto che costituire un ordinamento fondato sullo ius victoriae, avverte Ceriale, l’organizzazione provinciale persegue l’interesse degli amministrati alla tutela della quies gentium, e assicura la difesa comune attraverso le spese militari coperte dal prelievo tributario!®. Gli abitanti delle province partecipano essi stessi al governo del sistema imperiale, senza discriminazioni: ipsi plerumque legionibus nostris praesiditis, ipsi has aliasque provincias regitis; nihil separatum clausumve. Forse troppo anticipatrici per gli uomini delle partes Flavianae impegnati nella costruzione del principato vespasianeo, le idee che Tacito attribuisce a Petilio Ceriale vengono comun-
que maturando in questo periodo, per assumere forma compiuta e divenire patrimonio comune del gruppo dirigente dell’impero in età traianea. Esse impongono una considera16 Tac. hist. 4.74.1-2.
340
zione nuova delle province, un riferimento ad esse come a distretti amministrativi che organizzano in modo unitario cives Romani e peregrini, e concorrono con l’Italia a costituire il sistema imperiale. Riconoscibile nelle testimonianze letterarie non senza contraddizioni e ritardi, questa novità si isti-
tuzionalizza attraverso gli interventi imperiali!” e giurisprudenziali!* che vengono individuando il provincialis come destinatario di una sua specifica disciplina.
17 Fragmentum de iure fisci 1. 6 (FIRA II, 627): Edicto divi Traiani cavetur, ne qui provincialium
cum servis fiscalibus contrahant nisi absi-
gnante procuratore... 18 Dig. 48.3.11, Cels. libro trigensimo septimo digestorum: non est dubium quin cuiuscumque est provinciae homo qui ex custodia producitur cognoscere debeat is qui ei provinciae praeest in qua provincia agitur.
341
I poteri pubblici e la giurisprudenza fra Augusto e gli Antonini*
1. Un passo estratto dal quindicesimo libro del Commento all’editto di Ulpiano, in Dig.
1.17.1, attesta che al-
l’arrivo del successore ad Alessandria il prefetto d’Egitto deponit praefecturam et imperium quod ad similitudinem proconsulis lege sub Augusto ei datum est. Il passo riconduce pertanto la disciplina dei poteri prefettizi ad una legge rogata di età augustea, ma il riferimento è sembrato in contrasto con una notizia che Tacito, in ann. 12.60, inserisce in
una rapida rievocazione delle vicende relative alle competenze giudiziarie degli equites. Secondo lo storico infatti di-
vus Augustus apud equestres qui Aegypto praesiderent lege agi decretaque eorum perinde haberi iusserat ac si magi-
stratus Romani constituissent. La notizia di una costituzione imperiale che aveva conferito al prefetto d’Egitto la competenza a sovrintendere alla legis actio, e quindi a dirigere i procedimenti di manomissione vindicta, trova conferma in un’osservazione di Modestino, nel primo libro delle * M. Pani (a cura di) Continuità e trasformazioni tra repubblica e principato. Istituzioni, politica, società, Bari, 1991, 249-265.
! Per i problemi posti dall'organizzazione della provincia e lo statuto del prefetto da ultimo G. GERACI, Genesi della provincia romana d’Egitto, 1983, 163 ss., con ampia discussione delle fonti e della bibliografia. L'ipotesi della legge rogata era già in TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht 13, 1887, 935, n. 1. A una lex data pensa B. BIONDI, Leges populi Romani, in Acta divi Augusti, 1945, 107 = ID., Scritti giuridici 2, 1965, 192.
343
sue Pandette (Dig. 40.2.21). Muovendo dal presupposto che i due provvedimenti siano identici, alcuni studiosi hanno dubitato dell’attendibilita e dell’autenticitä del passo attribuito ad Ulpiano, ne hanno espunto il ricordo della legge e hanno attribuito ad un atto normativo del principe anche il riconoscimento dell’imperium al prefetto. Ma l’ipotesi di «un glossema, o un emblema di Triboniano»?, che avrebbe costruito una falsa genealogia dei poteri prefettizi, appare per piü aspetti insostenibile. Tra l'altro, non si vede per quale ragione al prefetto sarebbe stato attribuito dall'ipotetico glossatore un imperium... ad similitudinem proconsulis, dal momento che l'imperium & categoxia estranea all'esperienza costituzionale e amministrativa
tardoantica,
ed il
proconsolato ha smarrito nel riordinamento dioclezianeo il carattere di paradigma delle forme di governo provinciale che ha per la giurisprudenza del principato. E invece assai plausibile che Ulpiano, nel commentare il titolo De iudiciis dell'editto perpetuo, abbia trattato anche dei problemi posti. dall'avvicendamento dei governatori, investiti della giurisdizione nelle proprie province, e in quel contesto abbia inserito l'accenno al fondamento legislativo dello statuto del prefetto d'Egitto. D'altra parte la preesistenza di una legge non esclude che Augusto possa essere intervenuto a precisarne le implicazioni per ció che attiene alla competenza alle manomissioni, forse attraverso un rescritto, o un editto.
La possibilità che i magistrati preposti al governo delle province dirigano procedimenti di manomissione (e di adozione), secondo lo schema della legis, actio sacramenti, sembra sia stata definita legislativamente?, ma può avere richiesto un’ulteriore conferma da parte del principe per una figura istituzionale dal profilo nuovo e ambiguo come è il prefetto d’Egitto.
? Così S. SoLAZZI, Di una pretesa legge di Augusto relativa all‘Egitto, Aegyptus 9, 1928, 301 = Ip., Scritti 3, 1960, 273. Una serrata critica dei sospetti avanzati dal Solazzi, e successivamente da H.M. LAST, The Praefectus Aegypti and His Powers, JEA 40, 1954, 68 ss., è in A.H.M. JONES, Studies in Roman Government and Law, 1960, 121 ss.
3 T. SPAGNUOLO VIGORITA, Imperium mixtum. Ulpiano, Alessandro e la giurisdizione procuratoria, Index 18, 1990,
142 s.; 161, in riferimento
alla cd. Lex de piratis persequendis (FIRA I, 121). Cfr. anche F. BONIFACIO, Judicium legitimum e iudicium imperio continens, in St. Arangio-Ruiz 2, 1953, 222 en. 23.
344
Pur nella sua stringatezza, alla quale potrebbe non essere estraneo l’intervento dei compilatori giustinianei, il passo di Ulpiano conserva dunque un’informazione attendibile e preziosa sull’ordinamento della prefettura. Esso permette infatti di attribuire ad un provvedimento normativo di tipo tradizionale, una legge comiziale, la definizione dei poteri del prefetto inviato a governare la nuova provincia, e ne riconduce ad Augusto l’iniziativa politica, se non la paternità della proposta. Il riferimento ad una legge emanata sub Augusto sem-
bra infatti suggerire una generica connotazione temporale, piuttosto che indicare nel principe l’autore della rogatio". Va comunque avvertito che il riferimento non potrebbe invece essere facilmente condiviso se avesse il valore di una puntuale determinazione cronologica, se attribuisse cioé la legge a un momento successivo alla seduta senatoria del 13 gennaio 27 a.C., nella quale Cesare Ottaviano assunse il cognome di Augusto. Orientata a consolidare il disegno organizzativo delineato da Ottaviano dopo la conquista, e a renderlo allo stesso tempo formalmente compatibile con l’assetto tradizionale dei domini del popolo romano, la legge deve essere collocata in un periodo assai vicino al ritorno del conquistatore a Roma, verso la metà del 29, mentre apparirebbe singolarmente in ritardo due anni più tardi”. L'intervento dei comizi, chiamati ad approvare l’anomalo ordinamento del governo della nuova provincia, avrà sottolineato la funzione centrale e determinante che le assemblee popolari conservano per la disciplina dei poteri pubblici, secondo l’indirizzo di accentuato ritorno alla normalità che caratterizza la politica costituzionale di Ottaviano in questi anni. La ratifica comiziale delle decisioni assunte nel riordinamento dell’Egitto avrà consentito di integrare nel sistema provinciale le scelte del conquistatore, modificandone il fondamento istituzionale e sostituendo all’autoregolamentazione del generale vittorioso la decisione dell’assemblea. La legge non costituisce solo un episodio di rilievo nel
progressivo ripristino delle istituzioni di governo del popolo ^ Allo stesso modo Tac. ann. 11.25 attribuisce il reclutamento di nuovi patrizi compiuto nel 30 a.C. al princeps Augustus, lege Saenia. ? Per la cronologia e le tappe del ritorno di Ottaviano a Roma A. STEIN, Untersuchungen zur Geschichte und Verwaltung Aegyptens unter ròmischer Herrschaft, 1915, 74 ss. Sui profili politici della decisione di ricorrere ai comizi cfr. G. GERACI, Genesi, cit., 140 ss.
345
romano, e nello sviluppo di un loro funzionamento coerente con gli indirizzi e le prospettive del regime cesariano. Per i suoi aspetti normativi essa propone un intreccio non privo di abilità tecnica fra il recupero di elementi caratterizzanti il sistema delle magistrature e l’accoglimento di modelli organizzativi emersi al di fuori di esso, nell’esperienza parallela e indipendente delle factiones in lotta per il controllo del mondo romano. Il provvedimento offre così una testimonianza significativa e piuttosto risalente di un approccio concettuale che consentirà al gruppo dirigente augusteo di ricollegare poteri e funzioni nuovi all’ordinamento preesistente senza determinare rotture, e senza entrare pertanto in conflitto con le forze che si riconoscono nell’assetto tradizionale della civitas. Come ricorda Ulpiano, la legge conferisce al prefetto un potere modellato su quello di cui sono investiti i magistrati preposti alle province, un imperium ad similitudinem proconsulis. L'assimilazione della prefettura al proconsolato può avere, nella stesura attuale del passo, un tono più accentuato
di quanto non accadesse nel discorso originario, forse più articolato e disteso, ma risale certamente ad una considerazio-
ne ulpianea. Il proconsolato costituisce infatti per il giurista severiano una categoria generale di riferimento nell’analisi
delle forme di governo provinciale, tanto più funzionale in quanto le distanze fra poteri originari e poteri delegati, e le differenze fra le diverse istituzioni, vengono ora attenuandosi fino a scomparire. Il giurista avrà preso in esame gli aspetti
comuni ai poteri proconsolari e a quelli prefettizi, e ne avrà dedotto la similitudo, trascurando le diversità tuttora percepibili. Ma il prefetto, in età severiana simile al proconsole nell’esercizio dei poteri, non è tuttavia un magistrato, come la
stessa formulazione ulpianea (ad similitudinem) lascia scorgere, e come confermano le indicazioni delle altre fonti. Pur conferendo l’imperium al governatore dell’Egitto, la legge non ha dunque istituito una magistratura; piuttosto, essa ha utilizzato la possibilità di attribuire l'imperium a un privato che sostituisca il magistrato assente, una possibilità ben nota all'ordinamento della civitas in altri momenti della sua storia”, ma da tempo desueta. Nell’adattamento alle esigenze
6 Sul conferimento dell’imperium a privati cfr. Th. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht 13, cit., 681 ss.; vedi anche 657; cfr. W.F. JASHEMSKI, The Origin and History of the Proconsular and the Propraetorium
346
della normalizzazione perseguita da Ottaviano, il ricorso a un privato cum imperio perde il carattere di rimedio eccezionale all’assenza del magistrato; esso diventa invece un mezzo a ausiliario dei poteri che Ottaviano stesso conserva nelle province dopo la fine del triumvirato, in quanto console, come sembra”. Il dettato legislativo avrà riconosciuto esplicitamente l'imperium a chi venisse preposto al governo dell’Egitto — lege ei datum est, nota Ulpiano — , e avrà rinviato alla designazione discrezionale da parte di Ottaviano per individuare il titolare del potere, secondo una formula non lontana da quella delineata dalla lex Gabinia per i legati. di Pompeo, e ripresa dalla Jex Vatinia per i legati di Cesare®. Il provvedimento avrà così ratificato, sia pure in forma indiretta, l’affidamento della nuova provincia a Cornelio Gallo, che il conquistatore aveva lasciato come suo prefetto alla partenza per l’Italia, e avrà ricollegato a quell’incarico l’assunzione e
l’esercizio dell’imperium da parte del cavaliere. La disciplina delineata, e perpetuata attraverso 1 successori di Cornelio Gallo, fa del prefetto una figura singolarissima fra gli operatori di funzioni pubbliche: un cavaliere investito di imperium, per disposizione di una legge ma su designazione e per mandato del principe, sotto i cui auspicia opera?. Proprio questa singolarità può
spiegare come
sia stato necessario un
intervento augusteo per dissipare ogni dubbio sulla compe-
Imperium,
1950, 36 ss. Nessuna fonte conforta invece l'affermazione, in
Römisches Staatsrecht 1?, cit. 247, n. 1, secondo la quale il prefetto non andrebbe considerato come praefectus Augusti, ma come praefectus regis. Una diversa ricostruzione del provvedimento legislativo € suggerita da G. GERACI,
La genesi, cit., 145;
164, dove sembra tuttavia trascurato il
fatto che Ottaviano è titolare dell'imperium consolare. Un collegamento fra i poteri consolari di Ottaviano e il controllo della nuova provincia è suggerito anche dalle coniazioni che nel 28 e nel 27 celebrano la conquista dell’Egitto ricordando Cesare come console: H. MATTINGLY, Coins of the Roman Empire1, 1965, 106, nn. 650-655. ? La fine dei poteri triumvirali nel 33 a.C. è sostenuta in modo assai persuasivo da F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana 4,1°, 1974, 92 ss., 146 ss. Diversamente da ultimo D. KIENAST, Augustus, 1982, 67 ss., ma senza una argomentata confutazione della tesi del De Martino.
Sulla lex Gabinia, TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht 13, cit.,
656 s., cfr. 244 s. ? Cosi le R. Gest. div. Aug. 26.5 ricordano esplicitamente per le campagne condotte dai prefetti d'Egitto in Etiopia e in Arabia come esse fossero state gestite meo iussu et auspicio.
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tenza prefettizia ai procedimenti per legis actionem, e quindi alle manomissioni. 2. La ricerca di una legittimazione giuridica attraverso i procedimenti istituzionali propri dell’ordinamento della civitas, il recupero e il rafforzamento delle forme organizzative tradizionali, lo sviluppo delle possibilità in esse implicite, piegate agli interessi delle forze al potere, costituiscono solo una delle direttrici secondo le quali si svolge il consolidamento della factio cesariana, dopo Azio. Accanto alle istituzioni cittadine, ma al di fuori di esse, il principe organizza
un sistema parallelo di governo, assai più complesso e ramificato di quello della civitas, e attraverso di esso controlla, integra o sostituisce l’amministrazione pubblica. Così per l’Egitto stesso la ratifica legislativa della creazione della prefettura appare solo come un episodio, per quanto rilevante, nell’assetto complessivo conferito alla provincia, alla cui gestione si provvede piuttosto al di fuori delle procedure tradizionali, ricorrendo, per il governo del territorio, all’opera di procuratori ingenui e liberti, rappresentanti del principe privi di qualsivoglia qualifica pubblica nell'ordinamento della civitas!?. Fondato su una rete di rapporti personali di dipendenza e di collaborazione, secondo le forme proprie all'organizzazione delle grandi casate dell'oligarchia e alle loro clientele, questo sistema perpetua e generalizza l'ordinamento che la factio era venuta assumendo nel corso delle lotte civili, e le assicura l'egemonia nella vita politica, men-
tre il ripristino delle strutture istituzionali cittadine e del loro funzionamento riapre antichi spazi alla contentio dignitatis. La duplicità degli ordinamenti su cui insiste la normalizzazione augustea!!, e la complessità istituzionale del regime che ne deriva restano piuttosto in ombra nei documenti di
10 Cfr. H.G. PFLAUM, Les procurateurs équestres sous le Haut-empire romain, 1950, 6 ss.; G. BOULVERT, Esclaves et affranchis imperiaux, 1970, 40 ss., in particolare, 72 s.; per l'Egitto, 50 s. e n. 238.
H Sulla coesistenza di due ordinamenti indipendenti, anche se connessi da molteplici interferenze reciproche, insiste in particolare l'ampia e articolata analisi del DE MARTINO, Storia della costituzione romana 4,12, cit., 272 ss.; con qualche attenuazione, e il recupero dello schema del governo misto, 304 ss.; vedi anche ID., Una rivoluzione mancata? , Labeo 26,
1980, 95 ss. La duplicitä è tratteggiata con grande efficacia anche nel rapido disegno di FREZZA, Corso di storia del diritto romano), 1974, 292 ss.
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propaganda che si rivolgono ad alcune delle componenti romane e italiche del blocco di forze raccolto intorno al principe; tali documenti mettono invece in evidenza la continuitä nell’assetto della civitas populi Romani, in una ricerca del consenso che tende a rinsaldare i rapporti con i ceti dominanti tradizionali. Cosi nella rievocazione apologetica della sua lunga opera che Augusto stesso traccia con l'/ndex rerum a se gestarum, verso la fine della sua vita, l’ascesa al
potere del principe è delineata secondo un itinerario tutto interno all’ordinamento della res publica oligarchica, o che comunque ricerca e ritrova in quell’ordinamento la misura della sua legittimità. Per questo aspetto, le Res gestae appaiono sorrette da una teoria dei poteri pubblici non lontana da quella che, quasi mezzo secolo innanzi, aveva orientato la legge sulla prefettura d’Egitto e che, più tardi, aveva suggerito il recupero della disciplina dell’imperium proconsulare di Pompeo,
delineata dalla lex Gabinia, per dare assetto
formale al controllo imperiale sulle province!?. Nonostante La continuità dell’ordinamento della civitas è stata di recente riaffermata, in modo assai spesso convincente, da H. CASTRITIUS, Der römische Prinzipat als Republik, 1982, 10 ss., ma i risultati della ricerca non esclu-
dono, e anzi in certa misura confermano l’esistenza di un diverso ordinamento per il sistema di potere che si costruisce direttamente intorno al principe, al di fuori delle istituzioni cittadine. In una prospettiva diversa da quella del Castritius, una considerazione unitaria è riproposta anche da P. CERAMI,
Potere e ordinamento nell’esperienza costituzionale romana,
1987, 177 ss., con argomentazioni ben condotte e di grande interesse, ma che finiscono col sottovalutare proprio la continuità della civitas e il concreto rilievo istituzionale della restaurazione augustea; cfr. 186, n. 21, per
un significativo rifiuto del giudizio che Vell. 2.89.3, esprime sull’opera di Augusto: prisca illa et antiqua rei publicae forma revocata. La coesistenza di ordinamenti diversi in una stessa organizzazione politica & stata analizzata in riferimento allo Stato nazionalsocialista, ma con implicazioni di grande rilievo per la teoria generale del diritto pubblico, nel saggio di E. FRAENKEL, Der Doppelstaat, 1974 = ID., Il doppio Stato, 1983.
1? E ciò, comunque si risolvano i problemi posti dall’individuazione
dell'atto di investitura e dai nelle province, nonché dai 27 a.C. e quello del 23 a.C. sta l'esistenza di una legge non sembra consentire una
caratteri dell' imperium che il principe esercita rapporti fra l'assetto istituzionale definito nel I] confuso racconto di Cass. Dio 53.12.1, attecomiziale per la sistemazione del 27 a.C., ma puntuale ricostruzione dei profili formali del
suo dettato; per divergenti ipotesi cfr.
F DE MARTINO, Storia della costi-
tuzione romana 4.12, cit., 153 ss., e H. CASTRITIUS, Der römische Prinzipat als Republik, cit., 34 ss.
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alcune significative incertezze nella considerazione delle province, le Res gestae identificano l'ordinamento politico con la res publica populi Romani, le istituzioni di governo con quelle proprie all'organizzazione della civitas, e assumono il mos maiorum come criterio di qualificazione istituzionale. Cosi il populus, l'assemblea comiziale, conferisce le magistrature tradizionali e il pontificato massimo, e istituisce poteri magistratuali nuovi: il triumvirato rei publicae constituendae, la cura morum et legum, rifiutata da Augusto
in quanto contra morem maiorum ^. Per legem & attribuita al pxincipe la tribunicia potestas; l'indifferenza alla distinzione fra attività legislativa ed elettorale dell'assemblea sembra recuperare 1’ antico insegnamento per cui iussum populi et suffragia esse'*. I poteri pubblici sono indicati come potestates, anche quelli di particolare ampiezza ed incidenza come la cura morum et legum, che implicherebbe una summa potestas; il riferimento all’imperium magistratuale si τίtrova solo per i poteri propretorii di Ottaviano nel 43 a.C.!° L'uso terminologico sembra cosi sostanzialmente adeguarsi alle indicazioni di una ben nota glossa del De verborum significatu di Verrio Flacco, tramandata purtroppo solo attraverso l'epitome di Paolo Diacono: per Verrio Flacco infatti cum imperio est... cui nominatim a populo dabatur impe-
rium, mentre cum potestate est... qui a populo alicui negotio praeferebatur"®. Nel costante riferimento della res publica al popolo e al senato, le Res gestae affermano piü volte e con decisione la supremazia dell’una e dell’altra assemblea sui magistrati, che ne dipendono non solo per l’investitura del potere ma anche nell'esercizio di esso. Così la tribunicia potestas di Augusto è lo strumento attraverso il quale il senato svolge la sua politica dei costumi!”, e i poteri consolari di Augusto sono
ZZ
per scegliere nuovi patrizi iussu populi et sena-
8, Anche l’inizio del celebre capitolo 34 sembra muoveree nella stessa direzione quando afferma che il vincitore del-
13 R. Gest. div. Aug. 6.1. 14 Liv. 7.17.12. 15 R. Gest. div. Aug. 1.2; cfr. 34.1; 34.3.
16 Fest. 43.15 Lindsay.
17 R. Gest. div. Aug. 6.2: ... quae tum per me geri senatus voluit...
18 R. Gest. div. Aug. 8.1.
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le guerre civili, per consensum universorum potitus rerum omnium, aveva trasferito la res publica dalla sua potestas nella disponibilità discrezionale — arbitrium — del senato e del popolo!?. Certo, potestas ha in questo contesto un significato sfuggente, in quanto sembra sovrapporre i poteri di fatto del capo della fazione vittoriosa a quelli del console; comunque, il ripristino della normalità costituzionale assume anche qui la forma della subordinazione della potestà consolare all’arbitrium del senato e del popolo, una subordinazione tanto più emblematica in quanto il console, potitus rerum omnium, ha un controllo dell’organizzazione collettiva che esorbita dai limiti dei suoi poteri istituzionali, ma che è confortato dal consenso generale, per consensum universorum. Restano invece piuttosto indeterminati, nel discorso
delle Res gestae, i rapporti reciproci fra popolo e senato per ciò che attiene alla gestione della res publica e all’investitura dei poteri. La rievocazione augustea associa infatti il popolo e il senato in sequenze che sembrano alternare di solito in modo indifferente i due termini. Il senato precede però il popolo nella formulazione con la quale il capitolo 34 esprime la fine dell’emergenza, ed è ricordato da solo per le decisioni nella politica dei costumi e per il conferimento della tribunicia potestas ai colleghi di Augusto, in conformità peraltro alle procedure di fatto seguite. Alle leges, e quindi indirettamente alle assemblee popolari, è attribuita d’altra parte la definizione dei modelli comuni di comportamento
—
exempla — che per iniziativa di Augusto vengono desunti
dall’insegnamento dei maiores””.
Il sistema dei poteri pubblici delineato dalle Res gestae
non si discosta dunque dai principi e dai modelli secondo i quali si è venuto articolando l’ordinamento della res publica nell’età della crisi dell’oligarchia. Accanto alle istituzioni cittadine il racconto augusteo lascia però scorgere anche la
19 R. Gest. div. Aug. 34.1: in consulatu sexto et septimo, postquam bella civilia exstinxeram, per consensum
universorum potitus rerum omnium,
rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium transtuli. Cfr. l’analisi del passo svolta da P. FREZZA, Corso, cit., 296 ss. e n. 10, dove tuttavia la critica alla lettura del Berve sembra urtare contro
l’affermazione augustea della qualità di console anche prima e durante la restitutio: in consulatu sexto et septimo... In senso un po’ diverso DE MARTINO, Storia della costituzione romana 4,12, cit., 150 ss.
20 R. Gest. div. Aug. 8.5.
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presenza, in qualche momento prorompente, in altri più contenuta, di poteri che non si lasciano ricondurre all’ordinamento pubblico della civitas. Così già nel primo capitolo la res publica, oppressa dal dominio di una fazione, è liberata attraverso l’intervento extraistituzionale di Ottaviano e dell esercito che egli raccoglie privata impensa et privato consilio?. I riferimenti all'esercizio di poteri estranei alle istituzioni cittadine, fondati su rapporti personali o familiari o di gruppo, si susseguono nella rievocazione con diversa frequenza, ma si infittiscono negli accenni alle finanze pubbliche, per le quali le Res gestae sottolineano le molteplici integrazioni fatte da Augusto attingendo al suo patrimonio privato^?. Un particolare rilievo per la teoria dei poteri e delle loro interrelazioni presenta, nel capitolo 5, il ricordo della curatio annonae che Augusto aveva amministrato assumendone a proprio carico gli enormi oneri economici: qui infatti la formula impensa et cura mea sembra mettere in evidenza il coordinamento di elementi personali e patrimoniali nell’organizzazione privata che il principe appresta per liberare la città metu et periculo praesenti”” 3. La distinzione fra il governo della res publica e le attività che il principe svolge in settori rilevanti per l'assetto complessivo del dominio romano, ma al di fuori dell'ordinamento della civitas & riaffermata con forza da Tiberio, in un
intervento in senato di cui abbiamo notizia attraverso una rapida indicazione di Tacito. Un procuratore imperiale, Lucilio Capitone, preposto al patrimonio imperiale nella provincia d'Asia, era stato accusato dai provinciali al senato, nel 23 d.C., in quanto aveva fatto ricorso alla forza e all'uso delle armi dell'esercizio delle sue funzioni di amministrato-
re dei beni del principe. Per dissolvere preliminarmente ogni dubbio sui caratteri e l'ampiezza dei compiti affidati a Capitone, all'apertura del procedimento innanzi all'assemblea senatoria, il principe avrebbe dichiarato, secondo la parafrasi tacitiana: non se ius nisi in servitia et pecunias familiares 21 R. Gest. div. Aug. 1.1. Sul carattere «privato» di questo intervento e degli altri ricordati successivamente (nn. 22, 23) M. PANI, Principe e magistrati a Roma fra pubblico e privato, in ID., (a cura di) Epigrafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità romana, 1987, 196 ss.
22 R. Gest. div. Aug. 17-8. 23 R. Gest. div. Aug. 5.2.
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dedisse; quod si vim praetoris usurpasset manibusque mili-
tum usus foret, spreta in eo mandata sua”*. Tiberio separa dunque nettamente lo ius in servitia et pecunias familiares, il diritto di gestione patrimoniale e familiare, conferito al procuratore attraverso i mandati, e lo ius praetoris, ἀρχή nella traduzione di Cassio Dione, l'imperium magistratuale cioè, che Capitone ha esercitato senza esserne in alcun modo investito. Sia pure in modo implicito, l’orazione riafferma la persistenza del modello augusteo, la separazione fra gli ordinamenti nei quali si colloca il principe, su fondamenti e con modalità assai diverse. Il ricorso al patrimonio imperiale per finanziare attività di governo della civitas e le interferenze fra le due amministrazioni, pubblica del populus e privata del principe, possono avere indotto in errore Lucilio Capitone sulla natura e i caratteri dei poteri conferitigli, ma appaiono a Tiberio irrilevanti per la qualificazione formale delle attività del procuratore, escluse da ogni commistione con la res publica. Naturalmente, ciò non significa che i col-
legamenti fra gli ausiliari del principe e l’organizzazione della civitas siano considerati impossibili, ma rimanda alle forme specifiche della delega dell’imperium da parte del principe. Il senatoconsulto con il quale Claudio, nel 53 d.C., rior-
ganizza l’attività giudiziaria dei suoi procuratori presuppone la duplicità degli ordinamenti, e costruisce fra di essi un rac-
cordo che ne riduce ma non ne annulla la distanza?°. Pur-
24 Tac. ann. 4.15.2, su cui E. KÖSTERMANN, C. Tacitus, Annalen 2, 1965, 78; Cass. Dio 57.23.4. Per Cn. Lucilius Capito, procurator patrimonii provinciae Asiae, PIR?, L 381. H.-G. PFLAUM, Les procurateurs, cit., 33, a torto e non senza entrare
in contraddizione con lo sviluppo complessivo che egli stesso delinea per le funzioni procuratorie, ha ritenuto che Capitone fosse stato accusato de repetundis e ne ha desunto il carattere pubblico della sua attività. Contra,
P.A. BRUNT, Charges of Provincial Maladministration, Historia 10, 1961, 193, n. 15a, per il quale l'accusa sarebbe stata de vi: ma cfr. anche F. DE MARINI AVONZO, La funzione giurisdizionale del senato romano, 1957, 17 ss.; 88 ss., per la flessibilità della cognitio senatoria e la sua indi-
pendenza dalla definizione legislativa dei crimina. 25 Tac. ann. 12.60, su cui E. KÖSTERMANN, C. Tacitus, Annalen 3, 1967, 211 ss.; Suet. Claud. 12.3. Sul senatoconsulto e la giurisdizione procuratoria cfr. PA. BRUNT, Procuratorial Jurisdiction, Latomus 25, 1966, 461 ss.; T. SPAGNUOLO VIGORITA, Bona caduca e giurisdizione procuratoria agli inizi del III secolo, Labeo 24, 1978, 147 ss.
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troppo né il resoconto di Tacito, attento soprattutto ai profili politici e sociali della delibera senatoria, né il riferimento,
assai sbrigativo, di Svetonio offrono elementi sufficienti per ricostruire analiticamente i contenuti giuridici del provvedimento. E comunque assai poco verosimile che il senatoconsulto abbia conferito ai procuratori funzioni magistratuali, così come aveva fatto la legge per il prefetto d’Egitto. Tacito accosta infatti i due episodi, in quanto li considera l’uno e l’altro momenti di una progressiva equiparazione dei cavalieri ai senatori nel controllo dei processi, ma sembra rilevare fra di essi una diversità di disciplina, cosicché solo per il prefetto afferma l’assimilazione ai magistrati: Divus Augustus apud equestres qui Aegypto praesiderent lege agi de-
cretaque eorum perinde haberi iusserat ac si magistratus Romani constituissent. Per i procuratori Claudio chiede invece e ottiene: parem vim rerum habendam a procuratoribus suis iudicatarum ac si ipse statuisset, una parificazione cioè fra le sentenze procuratorie e quelle imperiali. Una tale parificazione implica da parte del senato il riconoscimento che i procuratori esercitano per autorizzazione imperiale gli stessi poteri giudiziari dei quali fruisce il principe: ma si tratta di poteri certamente estranei alla iurisdictio magistratuale e, più in generale, all’ordinamento della civitas, deri-
vati forse dall’auctoritas imperiale e gestiti comunque extra ordinem, al di fuori dell’organizzazione degli iudicia definita dalle leggi augustee. L’intervento del senato sembra superfluo, se si considera l’efficacia dell’autorizzazione nei rapporti interni, fra il principe e i suoi rappresentanti; può invece essersi reso opportuno, per evitare conflitti con i magistrati competenti per territorio e per assicurare validità generale di cosa giudicata alle sentenze procuratorie, rimuovendo resistenze ed ostacoli, se la richiesta di Claudio
accompagna un riordinamento complessivo delle competenze dei procuratori e l’attribuzione indifferenziata di quelle giudiziarie?°. Associandosi al principe nel conferire validità alle sentenze procuratorie, il senato integra la legittimazione che 26 Cfr. A.H.M. JoNES, Studies, cit., 125; T. SPAGNUOLO VIGORITA, Bona, cit., 147ss.; W. ECK, Die Leitung und Verwaltung einer prokuratori-
schen Provinz, in La valle d’Aosta e l’arco alpino nella politica del mondo antico, 1988, 110 ss., attribuisce ai procuratori governatori poteri formalmente identici a quelli del prefetto d’Egitto, un’affermazione che non sembra peraltro trovare conferma nelle fonti.
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ai procuratori deriva dall’ordinamento delle attivitä imperiali e determina in una certa misura un collegamento fra 1 procuratori stessi e il sistema dei poteri cittadini. Si tratta peraltro di un risultato i cui profili formali restano ambigui, sfuggenti. Per un verso infatti è assai probabile che proprio dal senatoconsulto claudiano prenda l’avvio il riconoscimento ai procuratori imperiali della giustificazione dell’assenza rei publicae causa, riconoscimento attestato dai giuristi severia-
ni, ma certo ben più risalente?”. Per il verso opposto le attività procuratorie restano ancora nettamente distinte dalle funzioni pubbliche nella considerazione dei contemporanei,
escluse dall’ordinamento della civitas nelle analisi della giurisprudenza. 4. Gli scarni resti della letteratura giurisprudenziale di età giulioclaudia non offrono molti elementi per ricostruire i modi in cui la riflessione dei giuristi affronta i problemi posti dall’ordinamento imperiale e dai suoi rapporti con quello della civitas. Possiamo ipotizzare l’intervento e il contributo dell’uno o dell’altro fra gli amici del principe esperti di diritto per alcuni provvedimenti di particolare rilievo, per la legge sulla prefettura d’Egitto, quella sui poteri di Augusto nelle
province o il senatoconsulto claudiano sulla giurisdizione procuratoria, ma non abbiamo la possibilità di una verifica.
In anni non lontani dal senatoconsulto claudiano sulla giurisdizione procuratoria un breve estratto dalle Epistulae di Proculo, conservato nel titolo De officio praesidis del pri-
mo libro dei Digesta giustinianei, suggerisce una piena adesione del giurista alle categorie pubblicistiche tradizionali e una più o meno consapevole resistenza a riconoscere poteri pubblici anche agli ausiliari del principe, se non siano promagistrati. Osserva infatti Proculo: sed licet is qui provinciae praeest omnium Romae magistratuum vice et officio fungi debeat, non tamen spectandum est quid Romae factum
est quam quid fieri debear”®. Non sappiamo in quale conte-
sto fosse inserita l'osservazione, che appare comunque chia27 Dig. 4.6.35.2, Paul. libro tertio ad legem Iuliam et Papiam; Dig. 4.6.32, Mod. libro nono regularum, sui quali confronta P.A. BRUNT, Procuratorial Jurisdiction, cit., 466.
?5 Dig.1.18.12, Proc. libro quarto epistularum. Il passo & ricordato so-
lo incidentalmente da C. KRAMPE, Proculi Epistulae, 1970, che rinuncia ad un esame analitico a causa del suo carattere frammentario.
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ramente orientata a definire i compiti dei governatore provinciale attraverso un confronto con quelli dei magistrati urbani. Ma la limitazione ai magistrati urbani e il silenzio sugli ausiliari del principe che partecipano all’amministrazione dell’urbe senza essere magistrati implicano una correlativa limitazione ai governatori che siano titolari di poteri magistratuali e lasciano da parte i procuratori governatori, per i quali peraltro difficilmente avrebbe avuto senso assumere come paradigma dell’attività di governo l’opera — officium — dei magistrati urbani. Un particolare interesse riveste anche il riferimento cumulativo alle magistrature esercitate nell’urbe, le quali sembrano così restituite a una loro interna, originaria unità, tuttora riconoscibile, per il giurista, nel governo delle province??. Proculo ferma dunque la sua attenzione sui governatori promagistrati, ed esclude dall’analisi, o ignora del tutto, il fenomeno dei governatori cavalieri, privi di poteri propri rilevanti per l'ordinamento cittadino. Il confronto con un passo tratto dal De officio proconsulis ulpianeo, anch’esso in tema di comparazione fra governo urbano e governi provinciali, mette ancor meglio in evidenza il senso della scelta e delle omissioni proculiane, e ne sottolinea la
distanza da quelle che saranno le concezioni diffuse nella giurisprudenza dell’età dei Severi. Dopo avere descritto rapidamente i diversi compiti che attendono il proconsole nelle sue ispezioni attraverso la provincia, Ulpiano passa a considerarne l’attività giudiziaria
e ammonisce?°: cum plenissi-
mam autem iurisdictionem proconsul habeat, omnium partes qui Romae vel quasi magistratus vel extra ordinem ius dicunt ad ipsum pertinent. Per il giurista severiano, il governatore proconsole riassume in sé competenze giudiziarie che in Roma appaiono divise fra titolari di poteri magistratuali e funzionari investiti extra ordinem dell’amministrazione della giustizia. La distanza fra le due categorie, così come le articolazioni interne a ciascuna di esse sfumano qui fino a scomparire, e le diverse figure istituzionali sono unificate nel riconoscimento a tutte di uno stesso potere di giurisdi?? Singolarmente, il testo è sfuggito a F. LEIFER, Die Einheit des Gewaltgedankens im ròmischen Staatsrecht, 1914, sebbene presenti qualche assonanza con la tesi sostenuta dallo studioso.
30 Dig. 1.16.7.2, Ulp. libro secundo de officio proconsulis, su cui la
convincente analisi di
113 ss.
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T. SPAGNUOLO
VIGORITA, Imperium mixtum, cit.,
zione nel senso amplissimo che il termine assume in questo contesto, con una rassegnata acquiescenza ad un uso comune altrove da Ulpiano stesso criticato?!. Il superamento della duplicità degli ordinamenti e la costruzione di categorie unitarie nell’analisi delle attività di governo sono prospettive faticosamente emergenti, più che risultati acquisiti, per la stessa giurisprudenza severiana?? Ció non ostante, un lungo e accidentato percorso separa gli approcci dei giuristi dell'età dei Severi dalle dottrine di età augustea e tiberiana, un percorso di cui é difficile ricostruire
le tappe, e talora lo stesso andamento, ma che presenta una significativa dilatazione negli ultimi decenni del secondo secolo. Ancora alla fine del principato di Adriano o agli inizi di quello di Antonino Pio, l'assetto delle istituzioni politiche non si discosta invece dallo schema augusteo e dal dualismo ad esso inerente nel disegno che ne propone Pomponio nel suo Enchiridion,
sebbene la coerenza dell'insieme presenti
più di un’incrinatura. Nel secondo dei tre capitoli nei quali può dividersi il lungo passo conservato in Dig. 1.2.2, il giurista ripercorre la storia delle magistrature del popolo romano, che egli identifica con quella dell’amministrazione della
giustizia nella civitas, ma lascia programmaticamente fuori della narrazione le vicende delle competenze giudiziarie del principe e dei suoi ausiliari?. Muovendo dall'analisi della monarchia arcaica, che assume come archetipo dei poteri pubblici, Pomponio si sofferma in particolare a ricostruire origine e disciplina del summum ius del quale sono investiti i consoli. Potestas e, per i consoli, ius indicano infatti nel-
l’uso dell’Enchiridion i poteri magistratuali, mentre imperium si ritrova una sola volta, in un contesto poco significativo sotto questo profilo, per indicare genericamente un atto di comando?^. Il potere consolare e quelli che ne derivano
31 Così T. SPAGNUOLO VIGORITA, Imperium mixtum, cit., 117 ss., in riferimento anche a Dig. 42.1.5. pr., Ulp. libro quinquagensimo nono ad edictum.
32 Così T. SPAGNUOLO VIGORITA, Imperium mixtum, cit., in particola-
re 121 ss.
33 Per un'analisi complessiva nel discorso pomponiano F. GRELLE, Le
categorie dell'amministrazione tardoantica: officia, munera, honores, in A. Giardina (a cura di) Società romana e impero tardoantico. 1 Istituzioni, Ceti, Economie, 1986, 36 ss. [Ora in questo vol., p. 221 ss.].
34 Dig. 50.16.239.3, Pomp. libro singulari enchiridii.
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trovano il loro fondamento formale, per il giurista, nella de-
cisione dell’assemblea popolare, che appare determinante così per la creazione della magistratura come per l’investitura dei poteri e per la disciplina del loro esercizio. I poteri magistratuali sono originari e autosufficienti,
e vengono
gestiti discrezionalmente, nei limiti definiti dagli interventi legislativi. Essi individuano un ordo magistratuum, un canone oramai chiuso; in questo canone non hanno posto né il principe né i procuratori suoi ausiliari. Il principe, sebbene abbia una posizione di rilievo negli altri due capitoli dell'estratto pomponiano, come fonte di norme giuridiche e come garante dei pareri dei giureconsulti, viene ignorato nella ricognizione dei soggetti chiamati ad amministrare la giustizia (regere iura) in quanto assai verosimilmente secondo Pomponio non riveste una magistratura, ma assume una somma di poteri che nell'ottica pomponiana vanno riportati alla loro molteplicità. Per gli ausiliari dell'imperatore, la negazione dei caratteri magistratuali è formulata in termini espliciti riguardo ai prefetti dell'annona e dei vigili, per i quali un ellittico riferimento alle modalità di istituzione sembra sottolineare, come discriminante nei confronti dei magistrati, la dipendenza dalla discrezionalità imperiale nella genesi e nel-
l'esercizio delle proprie attività: nam praefectus annonae et vigilum non sunt ma istratus, sed extra ordinem utilitatis causa constituti sunt.
In modo
meno reciso, i caratteri ma-
gistratuali sono negati ‘anche per il prefetto del pretorio, che Pomponio ricorda incidentalmente, nel descrivere i rapporti fra dittatore e maestro dei cavalieri: et his dictatoribus magistri equitum iniungebantur sic, quo modo regibus tribuni celerum: quod officium fere tale erat quale hodie praefectorum praetorio, magistratus tamen habebantur legitimi?°. Nella redazione attuale, che sembra perö risentire notevolmente della tormentata vicenda testuale dell'operetta pomponiana, il discorso non manca comunque di ambiguità: negando infatti che i prefetti del pretorio siano magistrati legittimi, il passo sembra ridurne la distanza dai magistrati alla diversità di legittimazione formale, piuttosto che porne in evidenza le differenze funzionali, come per le prefetture dell'annona e dei vigili. L'improbabile rapporto di colleganza, ?5 Dig. 1.2.2.33, Pomp. libro singulari enchiridii. 36 Dig. 1.22.19, Pomp. libro singulari enchiridii.
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sia pure impari, fra il principe e il prefetto, che nella formulazione pervenutaci sembra suggerito dall’accostamento dei
prefetti ai maestri dei cavalieri, può tradire d’altra parte uno sforzo, piuttosto maldestro e difficilmente attribuibile a Pomponio stesso, per ampliare il paradigma della magistratura estendendolo anche a talune delle funzioni create dal principe nell’ambito della sua sfera di organizzazione. Mentre nell’analisi pomponiana il principe viene dissolto nella somma dei poteri pubblici che assume all’interno dell’ordinamento della civitas, le Istituzioni di Gaio, qual-
che decennio più tardi, alla fine del principato di Antonino Pio, tracciano un profilo unitario del potere imperiale, modellato su quello dei magistrati. Afferma infatti il giurista?”: Constitutio principis est quod imperator decreto vel edicto vel epistula constituit. Nec umquam dubitatum est quin id legis vicem optineat,
cum ipse imperator per legem impe-
rium accipiat. Secondo Gaio, il popolo conferisce l’imperium al principe attraverso una delibera comiziale che nello stesso tempo istituisce il potere e lo attribuisce al prescelto:
un procedimento piuttosto lontano da quello al quale fa riferimento Pomponio nel ripercorrere la storia delle magistrature, ma ben noto alle vicende
costituzionali della civi-
tas. Assai verosimilmente, l'osservazione gaiana muove dal ricordo della legge relativa all’imperium proconsulare del
principe, della quale qualche traccia può essere rimasta nel rituale di investitura dell’età negli Antonini, e ne dilata l’ef-
ficacia fino a ravvisare in essa un procedimento formale attraverso il quale l’insieme dei poteri imperiali sarebbe stato ricondotto all’ordinamento del popolo romano e vi avrebbe trovato la sua legittimazione. Sebbene non sia esplicitamente indicato come magistrato, il principe viene considerato come titolare di un potere unitario, generale e assoluto di
governo, di quello stesso imperium cioè che Gaio riconosce ai magistrati, e al popolo come organizzazione politica, secondo l’insegnamento tradizionale. L’uso gaiano di imperium, nei pochi contesti che lo documentano, riferisce infat-
ti il termine al popolo, al principe e ai magistrati, e ne mette in evidenza in particolare le implicazioni normative e giuri-
37 Gaius inst. 1.5. Per i rapporti fra lex de imperio, imperium del principe e poteri normativi imperiali nella considerazione gaiana F. GALLO, Sul potere normativo imperiale, SDHI 48, 1982, 445 ss.
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sdizionali**. Nello stesso senso sembra ricorrere anche auctoritas, che viene così ad indicare un
potere istituzionale
nell’ordinamento del populus Romanus??. Fra i magistrati, l’imperium è riconosciuto,
sia pure in modo
indiretto, ai
maggiori, in una precisazione con la quale il giurista integra lo schema bipartito dell’adozione, delineato in Inst. 1.98: adoptio duobus modis fit, aut populi auctoritate aut imperio magistratus, veluti praetoris. Il potere di sovrintendere al procedimento di adozione e di compiere l’addictio dell’adottando, che i giuristi severiani costruiranno come autonoma competenza alla legis actio o ricondurranno alla iuri-
sdictio*, è invece per Gaio espressione dell’imperium del
pretore e dei magistrati a questi assimilabili. Fra i magistrati dotati d'imperium 1l giurista ricomprende senz'altro i proconsoli e i legati imperiali governatori di province, come si desume dal fatto che l'adozione compiuta apud proconsulem legatumve & ricondotta alla categoria dell'adozione imperio magistratus. Il riferimento al proconsole e al legato è sostituito in un paio di casi dall'indicazione sintetica del praeses provinciae, ma l’alternanza delle due formulazioni nelle stesse pagine dedicate all'analisi delle forme di adozione, sembra escludere che fra i praesides il giurista
abbia inteso ricomprendere anche i procuratori governatori, dal momento che essi non hanno la /egis actio, almeno in questa epoca. Nei limiti nei quali ne abbiamo conoscenza, la riflessione gaiana trascura il settore dell’ammininistrazione imperiale gestito dai procuratori governatori; allo stesso modo, essa non prende in esame gli aspetti organizzativi delle attività finanziarie del principe, sebbene affronti in più modi i problemi posti dalla disciplina del fisco imperiale e dei suoi rapporti con i privati. Non é cosi possibile
38 Per l'imperium del popolo romano vedi Gaius inst. 1.53; per quello del principe Gaius inst. 1.5; per i magistrati Gaius inst. 1.98, 99; 3.181; 4.80, 103, 105, 106, 109. 39 Cosi in Gaius inst. 1.98, 99; 2.5, 7a; 3.224; in particolare 4.139. Diverso il significato in Gaius inst. 1.47; 2.57. Sull'uso del termine nella letteratura giurisprudenziale del principato v. l'accurata e persuasiva ricerca di F. GALLO, Sul potere normativo, cit., 433 ss.
40 T. SPAGNUOLO VIGORITA, Imperium mixtum, cit., 127 e nn. 107, 108, 109.
^! Gaius inst. 1.100, 105: negli stessi limiti andrà inteso il termine in
Gaius inst. 1.6 e 2.24, 25.
360
verificare se il riconoscimento al principe dell’imperium e il conseguente, anche se implicito, inserimento nel sistema dei poteri pubblici implichino un piü generale ripensamento dei rapporti fra l’ordinamento imperiale e quello del populus Romanus, se cioè il giurista abbia avvertito l’esigenza di riconsiderare in modo unitario l’assetto complessivo dei poteri di governo, superando il dualismo del modello augusteo. Un tentativo così ambizioso assai difficilmente tuttavia avrebbe potuto evitare di mettere in discussione 1 caratteri e i contenuti tradizionali dell’imperium, e di rimodellare la categoria, per renderla più aderente alle specificità dell’amministrazione imperiale. Proprio per questa strada si muoverà,
non senza resistenze e contraddizioni, la giuri-
sprudenza severiana. Ma per Gaio, come per Pomponio, non abbiamo tracce di una elaborazione di tal genere: l’orizzonte teorico dei due giuristi antoniniani sembra tuttora definito dalle nozioni tradizionali di magistratura e di potere pubblico, e dalla oramai risalente contrapposizione di esse alle categorie proprie del sistema di governo imperiale. Né si tratta di una stanca ripetizione di formule anocronistiche; nel mondo culturale e politico degli Antonini il richiamo al modello augusteo suggerisce una possibilità di equilibrio fra autonomia e centralizzazione, una possibilità me-
diata dal sapere dei giuristi”.
#2 Cfr. F. GRELLE, Le categoria dell'amministrazione tardoantica, cit., 41.
361
La forma dell’impero*
1. Potere imperiale e ordinamento giuridico L’editto con il quale, fra il novembre e il dicembre del 301, i tetrarchi fissavano un calmiere per tutti i beni negoziabili nel mondo romano non costituisce solo un documento di straordinario interesse per la storia delle vicende economiche!. Il testo del provvedimento legislativo che introduce l’assai più noto tariffario offre infatti indicazioni preziose sul modo in cui viene sviluppandosi la riflessione intorno al sistema imperiale nell’ambito della cancelleria dioclezianea, e del gruppo dirigente che la esprime. In un lungo ed elaborato dialogo con i destinatari del provvedimento, il redattore dell’editto ne argomenta le ragioni, ne rivendica la necessità e l’urgenza, riafferma il primato della legislazione imperiale nel costruire l’ordine sociale e tutelare gli interessi comuni. Il discorso si articola nelle forme consuete alla retorica contemporanea, assumendo cadenze ora autocelebrative, ora invece paternalistiche e pedagogiche, e intreccia motivi tradizionali nella giustificazione del principato con temi nuovi, o di rinnovata attualità.
* Storia di Roma diretta da A. Schiavone, 3.1. L’età tardoantica. Crisi e trasformazioni, Torino, 1993, 69-82.
Questo saggio è dedicato a Mario Lauria, nel ricordo del suo insegnamento.
! Le indicazioni dei passi rimandano all’edizione dell’ Edictum Diocle-
tiani et collegarum a cura di M. Giacchero, 1974; la traduzione è stata in qualche caso modificata.
363
Nella considerazione dell’autore il regime imperiale organizza la convivenza umana sull’orbe intero, restituito alla pace grazie alla estinzione delle genti barbare che ne avevano fatto campo delle loro scorrerie?. In quanto si pretende ecumenica, una organizzazione di tal genere esclude l’esistenza di altre entità dello stesso tipo, e riduce pertanto gli antagonisti a nemici interni, ribelli all’ordine nel quale sono potenzialmente inseriti e al quale vanno ricondotti con la forza delle armi. Nonostante questa decisa prospettiva universalistica il documento continua a designare l’organizzazione complessiva res publica, ‘patrimonio del popolo (Romano), e ripropone così la formula antichissima che aveva espresso per secoli la coessenzialità fra l’ordinamento politico e la collettività che in esso si era organizzata originariamente. Si tratta tuttavia di una sopravvivenza terminologica che non sembra implicare né il riferimento a un popolo come necessario presupposto dell’ordinamento politico, né tanto meno una particolare connessione con una singola collettività. Il redattore del testo manifesta infatti una decisa propensione a usare «pubblico» nel senso di «comune», mentre attribuisce di solito questa seconda qualifica a tutto ciö che attiene alla vita associata, anche nei suoi profili organizzativi?. Populus è categoria esplicitamente richiamata dal documento, ma in contesti che escludono una sua valenza politica: accanto a civitas e a provincia, il termine indica un livello di aggregazione intermedio, all’interno dell’«orbe» unificato nella res publica". Per questo aspetto, l'editto partecipa dunque di quella eclisse del concetto di «popolo Romano» come categoria giuridica che è possibile osservare anche nella lettera-
? Edict. de pretiis 16 ss.: Fortunam rei publicae nostrae cui - iuxta immortales deos bellorum memoria, quae feliciter gessimus, gratulari licet tranquillo orbis statu et in gremio altissimae quietis locato, etiam pacis bonis, propter quam sudore largo laboratum est — disponi fideliter adque ornari decenter honestum publicum et Romana dignitas maiestasque desiderant, ut nos, qui benigno favore numinum aestuantes de praeterito rapinas gentium barbararum ipsarum nationum clade compressimus, in aeternum fundatam quietem debitis iustitiae munimentis saepiamus. 3 Cfr. in particolare, per l'uso di communis, Edict. de pretiis 37, 46, 94. ^ Cfr. Edict. de pretiis 148: ...cum eiusmodi statuto non civitatibus singulis ac populis adque provinciis, sed universo orbi provisum esse videatur...
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tura pubblicistica contemporanea, in particolare nei panegirici di etä tetrarchica, e lascia scorgere un parallelo consolidamento di un generico carattere collettivo della res publica: il retore Nazario, nell’orazione per i quinquennali di Co-
stantino, la dirà ex singulis... coagmentata, cosicché quidquid in eam confertur ad omnes pro portione permanat et vicissim necesse est, quod singillatim omnes adipiscuntur, in
commune rei publicae redundare?. La res publica non & dunque piü la proiezione istituzionale di un singolo popolo, ma dell’intera umanitä: il riferimento al genus humanum come elemento costitutivo dell’organizzazione imperiale ritorna con insistenza nell’editto, e culmina nell’autocelebrazione dei tetrarchi come parentes generis humani, un attributo estraneo alla titolatura ufficiale dei principi e piuttosto raro anche nell’encomiastica, ma che trova una significativa corrispondenza in un panegirico a Massimiano”. L'umanità non si presenta peraltro come un insieme amorfo, nella considerazione del redattore del docu-
mento, ma appare articolata in comunità cittadine, popoli e province, come si è detto. Il collegamento con una provincia, l'inserimento nell’organizzazione provinciale costituisce anzi, nella prospettiva dell’autore, il connotato più
evidente dell’appartenenza all’entità politica imperiale. L’editto è indirizzato infatti ai provinciales, con una formula che unifica i governati nel riferimento ai distretti territoriali,
superando le distinzioni degli statuti personali, e lo stesso confine fra cives e peregrini. Sotto questo profilo, l’editto dioclezianeo presenta una delle attestazioni più risalenti di un uso terminologico che prende atto dell’estensione dell'assetto provinciale all’Italia”, registra la scomparsa di ogni accento discriminatorio nella qualifica di provinciales, e la
assume come formula sintetica per indicare l'insieme di coloro che concorrono a costituire la collettività imperiale. Sin dal suo avvio, il discorso edittale delinea una stretta correlazione fra le sorti della res publica e provvedimenti
imperiali che «cingano con 1 dovuti bastioni della giustizia
5 Paneg. 10 (4).33.7.
6 Edict. de pretiis 44: cfr. Paneg. 4(8).20.1: ...o perpetui parentes et domini generis humani... Un precedente remoto è in Plin. paneg. 6.1. 7 Cfr., A. GIARDINA, La formazione dell'Italia provinciale, in Storia
di Roma, 3.1., cit., 51 ss.
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una pace fondata per l’eternitä»®; piü oltre, l’editto insiste sulla funzione integrativa e di supplenza che le nuove disposizioni svolgeranno nei confronti della carente autodisciplina dei consociati. Esse consentiranno infatti che «la giustizia intervenga come arbitra, in modo che, dove il senso di uma-
nità non ha conseguito risultati a lungo medi approntati dalla nostra previggenza peramento comune di tutte le cose»”. La gli interessi individuali in conflitto trova normativa del principe gli strumenti che
sperati, grazie ai risi giovi al contemricomposizione dedunque nell’attività l’autodisciplina dei
singoli, facendo leva sul senso di umanità, non riesce ad
approntare: e l’impossibilità di assicurare l’ordine sociale attraverso uno spontaneo rispetto reciproco legittima il ricorso a un moderatore che intervenga a porre le regole della convivenza e a impedire o sanare i conflitti. Nella prospettiva del redattore dell’editto il tema tradizionale della necessità del principato perde pertanto la sua ambientazione consueta, all’interno della vicenda del sistema di potere romano e come rimedio alle sue difficoltà, e si colloca piuttosto in un orizzonte metastorico, delineato dai limiti della natura
umana e dalle possibilità di un’esistenza associata. Parallelamente, la norma imperiale smarrisce i tratti dell’exemplum, che l’avevano resa compatibile con i modelli oligar-
chici di controllo sociale!®, e assume quelli dello statutum,
dettato al genere umano dalla lungimirante provisio di un
padre universale!!, senza peraltro che l’autore del testo indulga in alcun modo
al luogo comune
della sacralità del
principe, così frequente in altri documenti della tetrarchia. Questa fondazione per così dire ontologica del regime imperiale lascia irrisolto il problema dei meccanismi attra-
? Edict. de pretiis 43 ss.: ... convenit prospicientibus nobis, qui parentes sumus generis humani, arbitram rebus intervenire iustitiam, ut, quod speratum diu humanitas ipsa praestare non potuit, ad commune omnium temperamentum remediis provisionis nostrae comferatur.
10 Cfr. R. Gest. div. Aug. 8,5: legibus novis me auctore latis multa exempla maiorum exolescentia iam ex nostro saeculo reduxi et ipse multarum rerum exempla imitanda posteris tradidi; Fronto 1. 6: ...tuis autem de-
cretis, imperator, exempla publice valitura in perpetuum sanciuntur...
!! Per statutum cft. Edict. de pretiis, 135: ut si quis contra formam sta-
tuti huius conixus fuerit audentia capitali periculo subiugetur. Cfr. Edict. de pretiis, 140, 148.
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verso 1 quali giungere all’individuazione del titolare dei poteri di governo, l'imperium, secondo la terminologia di un altro testo dioclezianeo'?. Come
& noto, si tratta di un tor-
mentoso problema di ingegneria costituzionale, emerso giä in età augustea e periodicamente riproposto nel corso del principato. Ad esso, la formula tetrarchica cerca, ancora una volta, di dare una risposta che combini la scelta del migliore con il principio dinastico, sostituendo peraltro il senato con l’assemblea dell’esercito come luogo istituzionale per la verifica e l’investitura del candidato, in conformità al rilievo
assunto dai militari nell’esprimere il gruppo dirigente dell'Impero. L'edictum de pretiis non sembra offrire elementi utili all'analisi delle procedure di selezione e investitura dell imperium; invece, appare ben presente al redattore del documen-
to il problema del raccordo fra 1 poteri imperiali e l'organizzazione politica complessiva, sebbene le indicazioni offerte dal testo non si lascino facilmente ricondurre a uno schema sistematico coerente e univoco. La res publica appartiene all’imperatore: nostra, dicono di essa i tetrarchi, così come
dicono nostri gli eserciti, i provinciali, l’orbe intero, con un rovesciamento radicale, anche se non privo di precedenti,
della prospettiva a suo tempo indicata dalla restituzione au-
gustea?3. Naturalmente, si tratta di un’appartenenza che si colloca su di un piano diverso da quello dei rapporti patrimoniali; non di meno, essa implica una dipendenza, un ‘es-
sere in potestà'!^ del principe che esclude ogni autonomia
della collettività organizzata, e la rende oggetto, piuttosto
che soggetto di decisioni. Per altro verso, tuttavia, il potere 1? Coll. Mos. 6.4.1: ...cunctos sub imperio nostro agentes..., può essere utile il confronto con Gaius inst. 1.53: ...qui sub imperio populi Romani sunt... L’idea di uno specifico imperium del principe è però attestata, già nell’età degli Antonini, proprio da Gaio, fra i giuristi: cfr. oltre, nota 20; naturalmente, è frequentissima nei panegirici di età tetrarchica.
13 Edict. de pretiis 16, 84, 94, 103, 157 ecc. Per uno slittamento assai
interessante, posteriore di qualche decennio, cfr. l'anonimo De rebus bellicis, ed. R. Schneider, 1908, praef. 1: Caelesti semper instinctu felicis rei publicae vestrae commoditas...
14 Cfr. la gratiarum actio del console Claudio Mamertino, in età giu-
lianea (Paneg. 11(3).17.3: cum in aliorum principum esset potestate res publica, diu inanem sine spei solaciis fovi. In un celebre passo di R. Gest. div. Aug. 34.1, Augusto aveva invece proclamato: ...rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium transtuli.
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imperiale non viene riferito a un’entitä esterna alla res publica, e sovrimposta ad essa, ma si propone piuttosto come un elemento costitutivo dell’organizzazione politica, nella
quale trova la sua ragione d’essere, e quindi anche una disciplina e un limite. Cosi il discorso edittale insiste nel ricondurre le scelte dei principi al criterio dell’interesse comune, quasi a ritrovare in esso il fondamento della loro legittimitä: gli eserciti, che sono detti dai principi nostri, vengono perö dislocati in vista della «comune sicurezza di tutti», cosicché
l’arroganza degli affamatori dei soldati si presenta come un attentato alle «utilità pubbliche»; la communis humanitatis ratio impone di intervenire contro gli speculatori, essendo stato superato il confine della communis animorum patientia; il commodum publicum costituisce il principio ispiratore del provvedimento". Certo, potrebbe essere avventato desumere da questi e da altri sporadici riferimenti dell'editto una compiuta teoria giuridica del potere imperiale, la consapevolezza del modo in cui esso concorre (in misura determinante) a costruire un
ordine che tuttavia lo trascende e lo regola, in quanto potere costituito. Nulla consente infatti di ritenere che il redattore del documento si sarebbe espresso con la chiarezza e l'efficacia con la quale, oltre un secolo piü tardi, l'estensore di una costituzione di Valentiniano II affermerà: «è formulazione degna della maestà del regnante che il principe si dichiari vincolato alle leggi: fino a tal punto dall’autorità del diritto dipende la nostra autoritä»!°, Il tema della subordinazione del principe alla legge, che sia pure in forma approssimativa e sfuggente segnala l’inerenza del potere imperiale all’ordinamento giuridico, non è comunque estraneo alla cultura istituzionale di età tetrarchica, come lascia scorgere l’attenzione ad esso mostrata dal compilatore delle Sentenze apocrife attribuite al giurista Paolo. Tra l’altro, le Sentenze parafrasano una costituzione di Alessandro Severo che aveva affermato: «sebbene la legge d’investitura dell’imperium
15 Edict. de pretiis 91 ss., 84 ss., 146.
16 Cod. Iust. 1.14.4: Impp. Theodosius et Valentinianus AA. ad Volusianum pp. Digna vox maiestate regnantis legibus alligatum se principem profiteri: adeo de auctoritate iuris nostra pendet auctoritas. Et re vera maius imperio est submittere legibus principatum. Et oraculo praesentis . edicti quod nobis licere non patimur indicamus. D. III id. Iun. Ravennae Florentio et Dionysio conss. (429).
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abbia sciolto l’imperatore dall’osservanza del diritto, niente tuttavia è così proprio dell’imperium come vivere secondo
le leggi»!”. Ma la costituzione di Alessandro, un rescritto del 232, non è ignota nemmeno ai giuristi della cancelleria: noi la conosciamo infatti proprio per opera di uno di essi, un certo Gregorio, verosimilmente preposto all’ufficio a libellis nei primi anni del principato dioclezianeo, e autore di una raccolta di provvedimenti
normativi
imperiali,
il codice
Gregoriano, dal quale i compilatori del codice di Giustiniano attinsero ampiamente, riprendendo tra l’altro il rescritto di Alessandro Severo. In una linea non diversa si muove infine la riflessione di una altro giurista funzionario, il magister libellorum Aurelio Arcadio Carisio, operante anch’egli in età dioclezianea o agli inizi del principato constantiniano. Non sappiamo se Arcadio Carisio abbia in qualche misura affrontato direttamente il tema dei rapporti fra il principe e l’ordinamento; un lungo estratto dal prologo di una sua monografia sulla prefettura del pretorio, tramandato dai Digesta giustinianei, offre tuttavia indicazioni sufficienti per ricostruire il pensiero dell’autore. Per il magister libellorum il potere imperiale — la summa potestas, come egli si esprime — non è sostanzialmente diverso da quello dei magistrati nella organizzazione istituzionale preaugustea; in particolare, egli assimila gli imperatores perpetui agli antichi dittatori, dai quali essi si distinguerebbero per la durata della loro funzione!8. Ma l'assi-
17 Cod. Just. 6.23.3: Imp. Alexander A. Antigono. Ex imperfecto testamento nec imperatorem hereditatem vindicare saepe constitutum est. Licet enim lex imperii sollemnibus
iuris imperatorem
solverit, nihil tamen
tam proprium imperii est, ut legibus vivere. Pp. XI K. lan. Lupo et Maximo conss. (232). Cfr. Paul. sent. 4.5.3: Testamentum, in quo imperator heres scriptus est, inofficiosum argui potest: eum enim qui leges facit pari maiestate legibus obtemperare convenit; Paul. sent. 5.12.9: Ex imperfecto testamento legata vel fideicommissa imperatorem vindicare inverecundum est: decet enim tantae maiestati eas servare leges, quibus ipse solutus esse videtur.
18 Dig. 1.11.1. pr., Aur. Arc. Char. magister libellorum libro singulari
de officio praefecti praetorio: ...cum apud veteres dictatoribus ad tempus summa potestas crederetur et magistros equitum sibi eligerent, qui adsociati participales curae ad militiae gratia [Mommsen: qui adsociati participales ad curas militiae gratia] secundam post eos potestatem gererent; regimentis rei publicae ad imperatores perpetuos translatis ad similitudinem magistrorum equitum praefecti praetorio electi sunt...
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milazione del principato contemporaneo alle antiche magistrature cittadine implica per il giurista che i poteri del principe, non diversamente da quelli dei magistrati, trovino nell’ordinamento la loro genesi formale e la loro disciplina. 2. Dalla duplicità all’unità Per i giuristi che a diverso titolo collaborano alla gestione del potere, fra Diocleziano e Costantino, il regime imperiale si sviluppa senza fratture sulle fondazioni augustee, se è possibile generalizzare e assumere come indicativa di un atteggiamento diffuso la ricostruzione della vicenda della prefettura delineata da Arcadio Carisio. Si tratta, come è evidente,
di una lettura fortemente ideologica della storia costituzionale, orientata a stemperare le novità e a nascondere le fratture nell’assetto del sistema istituzionale. Tra l’altro, questa considerazione ignora o assume come irrilevante l’esclusione del senato dal governo dell’Impero, un processo che la tradizione storiografica confluita alla metà del IV secolo in Aurelio Vittore ripercorrerà invece con particolare enfasi per gli episodi in cui si era articolato fra la riforma militare di Gallieno e l’assassinio di Probo. La presa del potere da parte di Caro ha infatti nel racconto di Aurelio Vittore un valore epocale,
proprio per i suoi profili istituzionali: «da allora, — afferma il Libro dei Cesari, si è convalidata la potenza militare ed è stato strappato al senato, fino a nostra memoria, il potere di
comando e il diritto di creare il principe». Ma l’avvenimento che turberà così profondamente lo storico, inducendolo ad amare considerazioni sulla passiva acquiescenza dell’aristocrazia senatoria, non lascia traccia di
sé nella riflessione di Arcadio Carisio, per il quale la sottrazione al senato del potere di investitura del principe — lo ius creandi principis, nella terminologia di Aurelio Vittore —
non costituisce un ostacolo all’assimilazione del principato alle magistrature. Già nell’età degli Antonini la giurisprudenza era venuta elaborando una teoria del regime imperiale che riconduceva i poteri del principe allo schema tradizionale dell’imperium 19 Aur. Vict. Caes. 37.5: Abhinc militaris potentia convaluit ac senatui imperium creandique ius principis ereptum ad nostram memoriam, incertum, an ipso cupiente per desidiam an metu seu dissensionum odio.
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magistratuale e avvicinava la posizione giuridica del principe stesso a quella di un magistrato della civitas populi Romani^?. | giuristi che si erano orientati secondo questa linea avevano cercato di superare la dualità di ordinamenti indotta dal compromesso augusteo riportando l’organizzazione del potere imperiale all’interno del sistema istituzionale del popolo romano, di cui riaffermavano la vigenza e riproponevano i caratteri consueti. Il riconoscimento al principe di poteri magistratuali aveva perciò implicato una rielaborazione dell’antico assetto teorico dei poteri pubblici e un ampliamento del canone delle magistrature. La prospettiva del magister libellorum dioclezianeo è diversa; le sue considerazioni sul
principato non alludono più a un’integrazione nel sistema delle magistrature, ma sembrano invece sorrette dall’idea di un trapasso di poteri e di funzioni, e di una nuova configurazione della magistratura suprema, senza peraltro conseguenze per l'ordinamento complessivo. «Trasferite le redini della cosa pubblica a imperatori permanenti — afferma infatti Arcadio Carisio — a somiglianza dei maestri dei, cavalieri dai principi furono scelti dei prefetti al pretorio»?! L’avvento del principato avrebbe determinato un deciso mutamento nelle istituzioni di governo, nelle quali titolari duraturi dei poteri supremi avrebbero sostituito i magistrati annui. La rievocazione è senz'altro anacronistica per l'età augustea, per la quale ignora la dualità degli ordinamenti e postula una inesistente summa potestas del principe; ma essa costituisce anche una evidente forzatura delle dottrine dell’età degli Antonini e dei Severi dalle quali dipende. Arcadio Carisio anticipa agli inizi del regime imperiale, e unifica in un puntuale intervento di riforma, le profonde modifiche nell’assetto dei poteri pubblici intervenute progressivamente nel corso del III secolo, e consolidate dalla restaurazione dioclezianea.
In tal modo, egli registra inconsapevolmente la dissoluzione
20 Cfr. Gaius inst. 1.5: Constitutio principis est quod imperator decreto vel edicto vel epistula constituit. Nec umquam dubitatum est, quin id legis vicem optineat, cum ipse imperator per legem imperium accipiat. In età severiana questa posizione è ripresa e accentuata da Ulpiano, in Dig. 1.4.1 pr., Ulp. libro primo institutionum: quod principi placuit legis habet vigorem: utpote cum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem conferat. Il passo più tardi fu interpolato perlomeno nella qualifica della legge come «regia». Dig. 1.11.1 pr. cit., sopran. 18.
371
di un ordinamento del popolo romano indipendente e parallelo a quello che trova nel principe il suo riferimento centrale, e prende atto della scomparsa del dualismo istituzionale instaurato dal compromesso augusteo, la fine di quell’embrionale «doppio Stato». Nello stesso tempo, il giurista si fa espressione dei mutamenti intervenuti nelle strutture di governo imperiali, e in particolare mette in evidenza l’enorme concentrazione di poteri che le emergenze militari, annonarie e finanziarie hanno indotto nell’età della crisi. Al consolidamento di questo assetto le analisi di Arcadio Carisio portano il contributo di una legittimazione attraverso la tradizione, in quanto attribuiscono al nuovo sistema istituzionale, unitario e accentrato, un’origine augustea, e affermano il
perpetuarsi in esso dell’antico ordinamento della civitas populi Romani. Si tratta peraltro di un orientamento di pensiero che non è isolato nella letteratura giuridica tardoantica: gli possono essere ricondotti infatti anche quegli interventi sui testi classici che ne modificano il dettato per delineare una successione del principe al popolo nella titolarità dei poteri di governo, sebbene incertezze di cronologia e difficoltà
nell’individuare gli ambienti di provenienza non consentano più stringenti collegamenti. La legittimazione dell’assetto contemporaneo attraverso l'ideologia della continuità permette ai giuristi dioclezianei, in quanto esperti del sapere giurisprudenziale, di esercitare una decisa influenza sui profili istituzionali della restaurazione e ne tutela e rafforza la presenza ai vertici dell’apparato di governo imperiale. Tuttavia, sarebbe probabilmente riduttivo considerare la teoria della continuità come un mero espediente, suggerito da esigenze di autoconservazione del ceto; assai più verosimilmente, attraverso di essa i giuristi funzionari si fanno mediatori e organizzatori del consenso di più o meno ampi strati sociali di notabili, egemoni nel mondo
delle città, diffidenti o del tutto ostili nei con-
fronti di un riordinamento svincolato dai limiti dell’osservanza della tradizione. 3. L'organizzazione amministrativa
Nel prologo del libro sull’ufficio del prefetto del pretorio Arcadio Carisio pone in evidenza come il principe sia l’unico, più che il sommo titolare dei poteri di governo e, in quanto tale, costituisca la fonte di ogni potestà pubblica. Il 372
giurista rileva infatti che i prefetti del pretorio, qualificati senz’altro «magistrati» in coerenza con la ricomposizione unitaria dei sistemi organizzativi, sono «scelti» dall’imperatore che conferisce loro la «facoltà di correggere la disciplina collettiva», una «autorità» enorme, senza appello??. Il modello che il magister libellorum delinea per i rapporti fra principe e prefetto costituisce in realtà il paradigma dell’assetto complessivo delle «autorità» e delle funzioni di governo, come si viene costruendo nella teoria e nella pratica di età dioclezianea. Così nel panegirico a Massimiamo l’oratore può affermare dei tetrarchi: «...da voi prende l’avvio anche ciò che è amministrato attraverso altri»; e insistere: «...anche
le cose che sono gestite sotto la guida di altri, Diocleziano le fa, tu [Massimiano] conferisci loro efficacia»?. Ogni attività
di governo va dunque riferita al potere imperiale, del quale è espressione; coloro che in diverso modo e con diversa qualifica prestano la loro opera per lo svolgimento di funzioni pubbliche sono solo degli strumenti delle decisioni del principe, qualunque sia il livello e la qualità dell’impegno richiesto. Venuta meno ogni traccia della indipendenza e della discrezionalità proprie delle magistrature, tutte le facoltà di decisione e di indirizzo sono riservate al principe, e vengono così separate dai poteri di gestione conferiti ai collaboratori, secondo uno schema che sviluppa e generalizza i criteri propri dell’organizzazione dei procuratori imperiali, come si era definita sin dagli inizi del regime augusteo. La separazione delle funzioni amministrative da quelle di indirizzo politico è resa più netta ed evidente dal fatto che il personale addetto alla gestione della cosa pubblica è oramai militarizzato nell’organizzazione interna, nella disciplina, nella retribuzione,
e viene così a disporsi in strutture gerarchiche piramidali alle dipendenze dell’imperatore. Sotto il profilo funzionale questo personale è organizzato in «uffici», secondo l’accezione
del termine documentata per la prima volta da Arcadio Cari22 Dig. 1.11.1 pr.: ... data est plenior eis (praefectis praetorio) licentia ad disciplinae publicae emendationem; 1.11.1.1: his cunabulis praefectorum auctoritas initiata in tantum meruit augeri, ut appellari a praefectis praetorio non possit.
23 Paneg. 2(10).11.5: vestra haec, imperator, vestra laus est: a vobis
proficiscitur etiam quod per alios administratur; 2(10).11.6: ... sic omnibus pulcherrimis rebus, etiam quae aliorum ductu geruntur. Diocletianus facit, tu tribuis effectum.
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sio^^: in nuclei operativi, cioè, costituiti e regolati da disposizioni imperiali, nei quali l’attività spersonalizzata e stilizzata dei diversi operatori è dalle disposizioni stesse finalizzata a produrre un risultato unitario, ad adempiere i compiti attribuiti all’ufficio nel suo insieme, individuato attraverso il fun-
zionario che gli è preposto. Le modalità di organizzazione e di esercizio delle funzioni pubbliche assumono pertanto forme che potremmo dire burocratiche, se taluni aspetti dell’ordinamento e del funzionamento degli uffici non apparissero troppo lontani dai criteri di razionalità che regolano le burocrazie moderne. Il carattere fiduciario e personale che aveva connotato i rapporti fra il principe e i suoi procuratori, l'assenza di una valutazione tecnica delle competenze, la discrezionalità nelle promozioni come nelle rimozioni continuano a determinare la carriera dei funzionari, in particolare di quelli che assu-
mono mansioni direttive, e per i quali le fonti accentuano il profilo della «dignità» conseguita, piuttosto che quello della «milizia» svolta. Ma anche per i livelli inferiori, per i quali l’organizzazione del servizio conserva più a lungo e con maggiore vitalità taluni tratti delle sue origini militari, i criteri dell’ereditarietà della funzione e della venalità della carica rendono improponibile ogni analogia col reclutamento del personale in un sistema burocratico. Scrivendo qualche anno dopo la vittoria di Costantino su Massenzio un vigoroso polemista cristiano, il retore Lattanzio,
accusa Diocleziano di aver reso insopportabile il peso dell’amministrazione per i contribuenti, fino al punto che «il numero di coloro che ricevono aveva cominciato ad essere maggiore di
coloro che danno»??. Un’operetta anonima tramandata con il
Libro dei Cesari di Aurelio Vittore sottolinea invece, alla fine
del IV secolo, come Costantino abbia rimodellato gli «uffici» centrali istituiti da Adriano, conferendo ad essi la sistemazione
che tuttora presentavano, e assume perciò la sua opera come
determinante per l'ordinamento dell’Impero tardoantico?. In 24 Dig. 1.11.1 cit., sopra n. 18. 25 Lact. mort. pers. 7.3: adeo maior esse coeperat numerus accipientium quam dantium, ut enormitate indictionum consumptis viribus colonorum desererentur agri et culturae verterentur in silvam. 26 Ps, Aur. Vict. epit. 14.11: officia sane publica et palatina nec non militiae in eam formam statuit (Hadrianus), quae paucis per Constantinum immutatis hodie perseverat.
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realtà, la profonda riorganizzazione delle strutture e del personale, avviata da Diocleziano soprattutto per ciò che attiene agli uffici periferici, fu ripresa e condotta a termine da Costantino,
cosicché non sembra arbitrario fare riferimento a un sistema amministrativo dioclezianeo-costantiniano, pur senza ignorare le specificità degli apporti dei due riformatori, né trascurare gli aggiustamenti progressivi della loro opera. Gli interventi di Diocleziano toccano marginalmente, come si è detto, gli uffici centrali. In questo ambito essi consolidano le competenze che il prefetto del pretorio è venuto acquisendo nell’amministrazione della giustizia, come istanza
suprema di appello, alternativa all’imperatore stesso, e nell’organizzazione dei prelievi per l’annona, divenuta l’elemento di maggior rilievo nel gettito tributario. Nello stesso ambito, il funzionario preposto alla segreteria personale dell’imperatore, a memoria, assume ora il rango equestre già da secoli richiesto per gli altri segretari, a libellis, ab epistulis, a cognitionibus; per tutti si generalizza la qualifica di magister. A questi funzionari, che con i loro subalterni svolgono complessivamente compiti di assistenza e sostegno all’attività di govemo, continuano ad affiancarsi due contabili centrali, un rationalis rei summae per le attività imputate al fisco e un
rationalis rei privatae per la contabilità personale del principe. Tutti i funzionari direttivi centrali, con il personale addetto,
fra il quale cominciano ora a emergere con uno specifico rilievo gli scrivani, notarii, concorrono a costituire la «comiti-
va» imperiale, l’enorme e complesso corteggio che accompagna l’imperatore nei suoi trasferimenti e gli consente di conferire un carattere itinerante alle attività di governo, in modo
da essere presente ovunque le necessità lo richiedano. Ben più rilevanti appaiono le modifiche nell’organizzazione territoriale del sistema di gestione del potere. Qui, esigenze strategiche e criteri di funzionalità amministrativa suggeriscono una decisa ristrutturazione delle province, che vengono pressoché raddoppiate nel numero, quasi tutte ridotte di estensione e ridisegnate nei confini. L'ordinamento provinciale viene esteso all’Italia, per la quale, tuttavia,
l’uso della denominazione provincia per i distretti regionali incontra qualche resistenza nella terminologia ufficiale; già il Latercolo Veronese, un elenco ufficioso risalente verosi-
milmente all’inizio del principato costantiniano, unifica comunque le circoscrizioni amministrative sotto quest’unica qualifica, e l’edictum de pretiis, come si è detto, considera 375
«provinciali» tutti gli amministrati. Diocleziano prosegue nella separazione delle competenze civili dei governatori provinciali dalle funzioni militari, anche se non sembra abbia portato a termine il processo, giä in buona parte compiuto al suo avvento; consolida le funzioni tributarie assunte
dai governatori in relazione al prelievo dell’annona; generalizza l’investitura di governatori appartenenti all’ordine equestre e limita drasticamente i governatorati proconsolari. Le province sono riunite in dodici circoscrizioni, dioceses,
affidate alle cure di vicarii dei prefetti del pretorio. Sebbene la prefettura del pretorio continui ad essere una funzione complementare di quella del principe, come sottolinea Arcadio Carisio, e assuma perciò in età tetrarchica una accentuata
mobilità, l’istituzione dei vicari ne avvia un collegamento funzionale con l’amministrazione territoriale, e apre così la
strada a un suo dislocamento regionale. Lattanzio afferma polemicamente che le riforme dioclezianee avevano fatto sì che «molti governatori e ancor più uffici fossero addossati ai singoli distretti e quasi alle singole cittä»?’; ma l'amministrazione cittadina resta nettamente distinta da quella provinciale, nei suoi profili giuridici non meno che nelle sue implicazioni sociali. La «profondissima quiete» assicurata al mondo romano dalle fatiche belliche e dal favore dei numi consente ai tetrarchi di proporre, o imporre, uno stretto coordinamento fra le attese degli eserciti e quelle dei ceti egemoni nelle città, nello stesso tempo in cui si consolidano i privilegi degli uni e degli altri. Un breve estratto dal verbale di un’udienza del tribunale imperiale, conservato dal codice di Giustiniano,
esprime in modo emblematico la riaffermazione della distanza che contrappone i gruppi dirigenti locali e gli strati dai quali essi provengono (decuriones e curiales, Sotto il profilo istituzionale) ai ceti subalterni urbanizzati??. Alle
27 Lact. mort. pers. 7.4: et ut omnia terrore conplerentur, provinciae quoque in frusta concisae: multi praesides et plura officia singulis regionibus ac paene
iam civitatibus incubare,
item rationales multi et vicarii
praefectorum... 28 Cod. Iust. 9.47.12: Impp. Diocletianus et Maximianus AA. in consistorio dixerunt: Decurionum filii non debent bestiis subici. Cumque a populo exclamatum est, iterum dixerunt: Vanae voces populi non sunt audiendae: nec enim vocibus eorum credi oportet, quando aut obnoxium crimine absolvi aut innocentem condemnari desideraverint.
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nenti alla vita delle civitates e, tra le altre, il compito di esigere i tributi, che l’ordinamento provinciale lascia al-
l’autogestione cittadina, e che implica pesanti responsabilità patrimoniali per chi lo svolga. La rete dei funzionari di professione, organizzati negli officia, viene così integrata, a livello locale, dai notabili cittadini chiamati alla gestione della comunità nell’antica forma del munus, la funzione onerosa, generalizzata e divenuta
irrinunciabile per l’amministrazione periferica del sistema imperiale. Non per caso proprio di Aurelio Arcadio Carisio si ricorda, con la monografia Sull’ufficio del prefetto del pretorio, anche un'operetta Sulle funzioni cittadine, l'unica sull’argomento a noi nota. La permanenza di un’amplissima area di funzioni di utilità pubblica tuttora svolte attraverso prestazioni gratuite e talora coatte coinvolge con i curiali altri settori delle comunità urbanizzate, organizzati in corpora più o meno privilegiati, ma vincolati all’esercizio dei compiti loro assegnati, anche attraverso l’ereditarietà del servizio.
Viene così in evidenza un altro aspetto del sistema degli uffici, il suo carattere, cioè, di forma organizzativa limitata e
insuscettibile di essere generalizzata per gli ostacoli frapposti dai particolarismi locali, dalla frammentazione degli interessi collettivi, dalla inadeguatezza delle risorse finanziarie
pubbliche. Gli interventi costantiniani consolidano e accentuano, con qualche correzione, gli indirizzi dioclezianei. E probabi-
le che poco dopo la vittoria su Massenzio si avvii il riordinamento dei servizi della cancelleria imperiale, unificandone tre sezioni dipendenti dal magister memoriae, dal magister libellorum e dal magister epistularum e ponendole «a disposizione» di un fribunus et magister officiorum, attesta-
to dal 320, e che nella stessa titolatura riflette l’archetipo militare dal quale la nuova istituzione deriva. Attraverso il tribunus et magister, più tardi semplicemente magister offi377
M
proteste della folla che chiede a gran voce il supplizio delle belve per alcuni criminali figli di decurioni Diocleziano e Massimiano, insieme forse per uno dei loro rari incontri, oppongono un netto rifiuto, suggerito verosimilmente dall’antica esclusione delle pene infamanti per i decurioni, e proclamano: «le vuote voci del popolo non debbono essere ascoltate». Il privilegio costituisce tuttavia solo un aspetto di una disciplina che parallelamente impone ai curiali di assumere a proprio carico le funzioni amministrative atti-
ciorum, è probabile che l’intera segreteria sia stata per qualche tempo a disposizione del prefetto del pretorio, con un'ulteriore ampliamento delle competenze di questo funzionario, fino a quando, dopo la sconfitta di Licinio, la prefettura verrà radicalmente riformata e trasferita dal governo centrale all’amministrazione territoriale. Con l'istituzione del magister officiorum gli antichi segretari imperiali, una volta diretti collaboratori del principe, diventano dei funzionari intermedi di un complesso apparato, unitario e gerarchico; al magister officiorum, che gli & preposto, fa capo anche l'insieme dei coadiutori della cancelleria: tra gli altri, i notarii e gli agentes in rebus. Una parte delle attività preparatorie per le funzioni normative e giudiziarie svolte dall'imperatore assai probabilmente viene assunta già in età costantiniana da un nuovo funzionario, un consigliere giuridico, comes et quaestor, piü tardi quaestor sacri palatii; ad età costantiniana risale anche il riordinamento del personale domestico della corte, posto alle dipendenze di un praepositus sacri cubiculi. Infine, Costantino riordina la comitiva imperiale, ripartendo secondo tre livelli di comites i funzionari che ne fanno parte; assumono cosi il titolo di conti anche 1 due contabili centrali, che
si dicono ora comes sacrarum largitionum l'uno e comes rei privatae l’altro.
Di assai maggior rilievo è la riforma della prefettura del pretorio; avviata dopo la vittoria su Licinio ma portata a termine solo dopo la morte del principe, dai suoi successori. E probabile che le competenze militari dei prefetti fossero già state decisamente ridimensionate quando si avvia la riforma se, come si ritiene dalla maggior parte degli studiosi, essa era stata preceduta dalla riorganizzazione dei comandi dell’esercito di campagna, affidati ora a un magister peditum e a un magister equitum. Certo, il nuovo ordinamento della
prefettura ne elimina ogni residua competenza militare, portando così a termine la separazione fra funzioni civili e funzioni militari avviata da Gallieno, e la colloca al vertice del-
l’amministrazione territoriale. Separati dall’imperatore e dalla comitiva imperiale — con eccezioni e oscillazioni che non alterano tuttavia i nuovi profili dell’istituto — i prefetti vengono preposti ad amplissime circoscrizioni nelle quali esercitano poteri enormi di gestione e di controllo, nell’amministrazione della giustizia, nella tutela dell’ordine pubblico, nelle operazioni tributarie, nell’applicazione della nor378
mativa imperiale, avendo «a disposizione» le diocesi e le province assegnate a ciascuna prefettura, secondo una gerarchia di articolazioni territoriali della quale la Notizia delle dignità, un documento degli inizi del V secolo, conserva un tardo consolidamento. Si sottraggono alla dipendenza solo le province proconsolari d'Africa e d’ Asia, perpetuando la posizione di particolare rilievo amministrativo che le caratterizzava da secoli.
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Patroni ebrei in città tardoantiche*
1. L’elenco dei patroni di «collettività pubbliche» nell’impero romano redatto dallo Harmand!, e oramai invecchiato, è stato di recente sottoposto a revisioni e aggiornamenti in due lavori, l’uno sull’amministrazione dell’Italia
tardoantica, l’altro sul patronato nella tarda antichità”. Né l’uno né l’altro tuttavia mostrano di conoscere le attestazioni di patroni ebrei a Venusia, in Italia, nell’ Apulia et Calabria, la provincia dioclezianea in cui è confluita l’antica regio secunda, e a Magona, in Spagna, nelle insulae Baleares, sepa-
rate dalla Carthaginiensis e riorganizzate anch’esse in provincia nel corso del quarto secolo. Si tratta di testimonianze ignorate dallo Harmand, ma ben note agli studiosi della presenza ebraica nel mondo romano, e che è opportuno ripren-
* M. Pani (a cura di) Epigrafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità romane, III, Bari, 1994, 139-158.
Questo lavoro & dedicato alla memoria di A.F. Panzera ed apparirà anche nel volume che la facoltà di Giurisprudenza dell'università di Bari prepara in ricordo del collega cosi prematuramente scomparso. ! L. HARMAND, Le patronat sur les collectivités publiques des origines au Bas-Empire, 1957, 188 ss. ? EM. AUSBÜTTEL, Die Verwaltung der Städte und Provinzen in spàtantiken Italien, 1988, 49 ss.; J.-U. KRAUSE, Das spätantike Stüdtepatronat, Chiron 17, 1987, 58 ss.; cfr., dello stesso autore, Spätantike Patronat-
sformen im Westen des Rómischen Reiches, 1987, del quale il primo saggio costituisce un' integrazione. Per il patronato di comunità nella regio secunda vedi ora, il contributo di E. FOLCANDO, in Epigrafia e territorio, cit.
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dere in considerazione per svilupparne l’analisi sotto il profilo istituzionale?. 2. A Venosa, il patronato sulla città tardoantica è sinora attestato esclusivamente da tre iscrizioni funerarie in greco che, con una quarta in latino, costituiscono il corredo epigrafico di un ipogeo scoperto per caso, nel 1930, alle pendici del colle della Maddalena, ed ora di nuovo interrato. Pur-
troppo, l’ipogeo non è stato mai oggetto di indagine scientifica e le lapidi, che al momento della scoperta chiudevano ancora le nicchie ricavate lungo l’ambulacro, furono dopo qualche tempo divelte e vandalicamente distrutte. Ciò non ostante, l’accurata descrizione di uno dei primi visitatori‘, rapidi cenni di altri che hanno potuto successivamente osservare il sepolcreto prima dell’interramento totale”, alcune
3 Le testimonianze epigrafiche di patroni ebrei a Venosa, sulla vicenda delle quali infra nn. 4 e 5, furono ampiamente analizzate già nel primo dei due fondamentali studi di L. RUGGINI,
sugli ebrei nell’Italia tardoantica,
Ebrei e orientali nell’Italia settentrionale fra il III e il VI secolo d.C., SDHI
25,
1959, 238
ss. Nel secondo
lavoro della RUGGINI,
Note sugli
ebrei in Italia dal IV al XVI secolo, RSI 76, 1964, 926 ss., l'analisi venne ripresa ed estesa all'Epistula de Iudaeis di Severo vescovo di Minorca, che informa sui notabili ebrei coinvolti nell'amministrazione di Magona. Fra gli studi successivi sulle epigrafi venosine vedi in particolare C. COLAFEMMINA, Gli ebrei in Basilicata, Bollettino storico della Basilicata 7, 1991, 14 s.; le iscrizioni sono ora raccolte in D. Nov, Jewish Inscriptions of Western Europe, 1993, 144 ss., (in seguito JIWE), con ampia bibliogra-
fia e accurato commento. L' Epistula de Iudaeis è stata utilizzata tra gli altri da A.H.M. JONES, The Later Roman Empire 2,1964, 947 ss.
* W. FRENKEL, Nella patria di Q. Orazio Flacco. Guida di Venosa, 1934, 182; 190 ss. Il Frenkel, autore di numerose guide turistiche alle anti-
chità campane, disegnó una dettagliata mappa dell'ipogeo e ne trascrisse per primo con grande precisione le epigrafi. Ignorato per decenni dagli studiosi, il lavoro del Frenkel è stato scoperto da B. LIFSHITZ, Les Juifs à Venosa, RFIC 40, 1962, 367 ss., che ne ha messo in evidenza la scrupolo-
sità; piü tardi il Lifshitz ne ha utilizzato le trascrizioni nel Prolegomenon alla ristampa di J.B. FREY, Corpus Inscriptionum Judaicarum Y, 1935 = Corpus of Jewish Inscriptions 12, 1973. L'ipogeo fu detto «Lauridia» dal cognome del proprietario del fondo in cui era situato; & indicato anche come «catacomba nuova» in riferimento alla catacomba ebraica vicina, nota
dalla metà del secolo scorso. > Verso il 1950 l'ipogeo fu visitato da G.P. BOGNETTI, che copiò tre delle quattro iscrizioni, credendole inedite, e descrisse rapidamente il se-
polcreto nel saggio su Les inscriptions juives de Venosa et le probléme des rapports entre les Lombards et l'Orient, CRAI, 1954, 193 ss. Dieci anni
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fotografie fortunosamente ritrovate® consentono di avviare una considerazione complessiva, sia pure provvisoria e lacunosa, dell’impianto funerario e della sua documentazione
epigrafica. Scavato nel fianco della collina, a un centinaio di metri
dall’ingresso della celebre catacomba ebraica, l’ipogeo venne descritto concordemente come opera di notevole impegno e ricercatezza, un sepolcreto di notabili, assai diverso dalla diffusa modestia con la quale si presentava allora la vicina catacomba, prima della successiva, recente scoperta di un corridoio che ospita un ricco arcosolio affrescato”. Un paio di fotografie conservano l’immagine di un ingresso accuratamente rifinito con grossi blocchi ed elementi architettonici di reimpiego, una sistemazione che non trova con-
fronti nell’area”. Ai lati di un ampio ambulacro a gomito, la cui escava-
zione sembrava si fosse arrestata all’improvviso contro una parete vuota, dopo un secondo gomito, sei arcosoli accoglievano ciascuno una o due tombe, in un solo caso tre, con una
più tardi L. LEVI compì un ultimo sopraluogo nella galleria oramai diffi-. cilmente accessibile e descrisse le penose condizioni del monumento, dando anche notizia della distruzione delle epigrafi: Ricerche di epigrafia ebraica nell’Italia meridionale, La rassegna mensile di Israel 28, 1962, 132 ss.; cfr. Le iscrizioni della catacomba nuova di Venosa, La rassegna mensile di Israel 31, 1965, 358 ss.
€ A illustrazione delle sue Ricerche di epigrafia ebraica, cit., 151, il Levi ha pubblicato una fotografia dell’ingresso dell’ipogeo nel 1932, opera di F. Luzzatto, e la fotografia dell’unico frammento superstite dell’epigrafe apposta al sepolcro principale del complesso. Successivamente C. COLAFEMMINA, Archeologia ed epigrafia ebraica nell'Italia meridionale, Italia Iudaica, 1983, tavole 3-5, ha fatto conoscere altre tre fotografie del sepolcreto, due della galleria di accesso ed una terza di una lapide colloca-
ta presso l’ingresso. ? Il diverso livello di cura e di ricchezza nei confronti della catacomba è messo in evidenza dal FRENKEL, Nella patria di Q. Orazio Flacco, cit., 191 ss., dal BOGNETTI, Les inscriptions juives, cit, 194, e soprattutto da L.
LEVI, Ricerche di epigrafia ebraica, cit., 147 ss. Per il nuovo braccio della catacomba C. COLAFEMMINA, Nuove scoperte nella catacomba ebraiche di Venosa, VetChr 15, 1978, 369 ss. 8 Cfr. L. LEVI, Ricerche di epigrafia ebraica, cit., 151, e C. COLA-
FEMMINA, Archeologia ed epigrafia ebraica, cit., tav. 3. Bisognerebbe tuttavia verificare se non si tratti di una sistemazione moderna: L. LEVI, o.c., 147, considera l’assetto originario, ma W. FRENKEL, Nella patria, cit., non
ne fa cenno. Le due fotografie differiscono in alcuni particolari.
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distribuzione dello spazio ben lontana dall’affollamento della catacomba. Al centro della parete piü ampia, in una nicchia isolata, in posizione di onore, era sistemato il sepolcro
di un Marcello, padre dei padri e patrono della cittä, come dichiarava una epigrafe marmorea in greco, in eleganti caratteri”. Al lato opposto della galleria un altro arcosolio ospitava i due sepolcri di un Auxanio, padre e patrono della città, e della moglie Faustina, anch’essi individuati da epi-
grafi marmoree in greco, meno ricercate tuttavia di quella di Marcello!®. Quasi all’ingresso del sepolcreto, all’inizio del corto braccio di accesso, nel suolo stesso della galleria era
ricavata invece una tomba, parallela a un arcosolio, ma esterna ad esso, con epigrafe latina, in memoria di un Mar-
co, un ragazzo quindicenne, qualificato theuseues!!. Presso l’ingresso, ma all’esterno di esso, fu rinvenuto in-
fine un cippo funerario con un’iscrizione latina in ricordo di una Quarta, schiava di un Tulliano. Il blocco, ritenuto a lun-
go di pertinenza dell’ipogeo, è in realtà assai più antico, proviene da un sepolcro allo scoperto esistente verosimilmente nei dintorni, e finì per caso all’ingresso della galleria, non sappiamo quando, né come!?. Di recente, nei pressi dell’an-
? CIJ 1°, 619 b = JIWE, 114: ode κειτε Μαρκελλος πατερ notepov καὶ πατρον τες noAeoc. Una fotografia di un frammento è in L. LEVI, Ricerche di epigrafia ebraica, cit., 152.
10 CIJ 17, 619 e = JIWE, 115: «ὧδε κεὶτε / Αὐξάειος πατὴρ Kai
πάτρων τῆς πόλεως». CU 12, 619d = ΠΙ͂ΝΕ, 116: «ὧδε κεῖτε / Pavoteiva/
μήτηρ, yv / vn AdÉa / viov πα / τρὸς καὶ / πάτρονος τῆς πόλεως». La differenza fra i caratteri di queste epigrafi e quella di Marcello fu rilevata dal Frenkel, che parlò di «lettere simili a quelle dipinte nella catacomba».
11 CIJ 12, 619a = ΠΙ͂ΝΕ, 113: Marcus / theuseues / qui vixit / annu qui / ndecim hic / receptus est / in pac. Cfr. JIWE, tav. XVII, che riproduce
la fotografia pubblicata da C. COLAFEMMINA, Archeologia e epigrafia ebraica, cit., tav. 5; accolgo la lettura proposta da C. Colafemmina. La tomba, allineata alla parete destra della galleria, era posta innanzi all’arcosolio ricavato su quel lato, che ospitava due sepolture. La collocazione anomala non era stata indotta da mancanza di spazio: secondo il disegno di W. FRENKEL, Nella patria, cit., 190, restavano del tutto vuote la parete di
fondo del braccio maggiore della galleria nonché quella contro la quale l’ambulacro si arrestava.
12 Il cippo rovesciato a terra innanzi all’ingresso, è visibile nella foto-
grafia pubblicata dal Levi (sopra, n. 6). L'iscrizione, già trascritta dal Frenkel, fu ripubblicata dal LIFSHITZ, Les Juifs a Venosa, cit., 370, come perti-
nente a una schiava ebrea e ripresa, con qualche perplessità, nel Prolegomenon al Frey, cit., 619 e. Una nuova lettura, che corregge quella del Lifs-
384
fiteatro è stata rinvenuta un’altra epigrafe proveniente dalla stessa tomba, una stele che ne delimitava il perimetro!9. Sebbene non presentasse i simboli che ornano molte sepolture della catacomba ebraica, anche l’ipogeo è stato attri-
buito per lo più alla comunità israelitica, per la prossimità alla catacomba e per il formulario delle iscrizioni!*. La scoperta di altri sepolcreti sotterranei lungo le pendici della collina, alcuni dei quali senz’altro cristiani, ha però tolto valore
all’argomento topografico, in quanto ha escluso che l’area ospitasse i cimiteri di una sola confessione religiosa, nella
tarda antichitàl?.
Si può anzi sospettare una presenza, o al-
meno una preesistenza nello stesso luogo di un sepolcreto pagano allo scoperto, come sembrano suggerire taluni rinvenimenti epigrafici'®. Tuttora persuasive appaiono invece le indicazioni desunte dalle quattro epigrafi funerarie pervenutaci. Esse non sembrano invero offrire la possibilità di una diversa, coerente lettura se vengano considerate unitariamente, come peraltro impone il contesto archeologico in cui hitz in due punti, e l’attribuzione a un monumento funerario del primo secolo sono il risultato della revisione di M.R. TORELLI, Contributi al supplemento del CIL IX, Venusia, RAL 29, 1974, 626.
13 Cfr. ΜΙ. TORELLI, Contributi, cit., 625.
14 Il FRENKEL, Nella patria, cit., 194, aveva rilevato con sorpresa l'as-
senza di elementi decorativi ebraici e aveva perciò avanzato qualche dubbio sulla pertinenza del sepolcreto; successivamente perplessità erano state avanzate dal Luzzatto, citato dal LEVI, St. di epigrafia ebraica, cit.; infine
V. COLORNI, L'uso del greco nella liturgia del giudaismo ellenistico e la novella 146 di Giustiniano, Annali di storia del diritto 8, 1964 (= Iudaica
minora,1983), n. 86 ha osservato: «...che si tratti di tombe ebraiche è estremamente probabile data la vicinanza con la necropoli... Ma manca qualunque simbolo atto a fornire la prova decisiva...». Hanno invece considerato senz'altro ebraico l'ipogeo il Bognetti (cfr. sopra, n. 5), la Ruggini (cfr. sopra, n. 3), il Levi (cfr. sopra, n. 5) per il quale peró i defunti avrebbero costituito «un gruppo di proseliti ex-mitraisti», il Lifshitz (cfr. sopra, n. 4), il Colafemmina (cfr. sopra, n. 5). Da ultimo il Noy, Jewish Inscriptions, cit., XVII, ricorda, nell'introduzione alla raccolta, che l'ebraicità delle epigrafi,
sebbene ampiamente affermata, non è del tutto sicura; ciò nonostante, ripubblica le iscrizioni e le commenta come ebraiche, osservando solo, per l’epitaffio di Marcello (CIJ 12, 619b = JIWE, 114), che «there is a slight possibility that Marcellus was a Mithraist pater patrum rather than a Jewish one». 15 Cfr. C. COLAFEMMINA, Gli ebrei in Basilicata, cit., 11 s. 16 Una conferma è nei ritrovamenti di epigrafi funerarie: cfr. CIL IX 495, 530, 598 etc. Debbo la segnalazione a C. Colafemmina, che ringrazio per la generosa disponibilità e collaborazione.
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erano inserite. L’impianto funerario appare infatti compatto e organico nella distribuzione delle sepolture intorno a quella di Marcello, forse il capostipite del gruppo raccolto nell’ipogeo, e certo il suo rappresentante di maggior rilievo. 3. L’epigrafe apposta alla tomba del giovane Marco può offrire un utile avvio per un esame del complesso. Essa ci è nota non solo in trascrizione, ma anche attraverso una foto-
grafia che consente di osservarne le peculiarità grafiche, comuni ad altri documenti dell’ Apulia settentrionale a partire dagli ultimi decenni del quarto secolo!”. La conferma di una datazione non anteriore è anche nell’uso della formula finale hic receptus in pace. Si può pertanto ipotizzare una sincronia fra le deposizioni del sepolcreto e la fase iniziale dello sviluppo della catacomba ebraica, per la quale è ora proposto un avvio fra la fine del quarto e i primi decenni del quinto secolo!? . L'ipotesi è rafforzata dall’uso dell'espressione od£ Kette così nelle più risalenti epigrafi funerarie greche della catacomba!” come nelle tre ritrovate nell’ ipogeo, per le quali peraltro i riferimenti al patronato suggeriscono di non discendere oltre gli ultimi anni di Valentiniano III, come vedremo.
Il testo dell’epitafio non lascia molti dubbi sulla confessione religiosa del defunto. L'appellativo theuseues infatti è una traslitterazione dell’attributo Teooeßeo, compiuta secondo i modi propri all’ uso volgare delle iscrizioni latine della vicina catacomba??: si tratta di un termine che
17 La A spezzata si ritrova già in un’iscrizione di Lucera in onore del corrector Consius Quartus, databile alla prima metà del IV secolo: AE 1983, 247. Ma i tratti divaricati della M, l'occhiello ridotto della P e la li-
nea della S presentano strette affinità con le forme di un’altra epigrafe lucerina dell'età di Valentiniano T (edita da A. Russi, Attività giudiziaria ed edilizia pubblica a Luceria al tempo di Valentiniano I e Valente, in Miscellanea greca e romana 16, 1991, 299 ss.), nonché con quelle dell'epigrafe canosina in onore del consolare Cassio Ruferio, agli inizi del quinto secolo (FRC, 26). 18 D. Nov, Jewish Inscriptions, cit., XIX ss. 1? D. Nov, Jewish Inscriptions, cit., XX. Cfr., per l'uso della formula, C. CARLETTI, Nuove iscrizioni greche del cimitero di S. Ermete, RAC 58, 1982, 137 ss.
20 Le caratteristiche linguistiche delle epigrafi sono state analizzate da H.J. LEON, The Jews of Venusia, JQR 44,1953-54, 275 ss., in particolare
271 n. 31 per lo scambio O/U, e n. 32 per quello B/V.
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ha una particolare fortuna nel vocabolario dell’ebraismo ellenistico per indicare soprattutto i proseliti, ma anche tutti i fedeli, e che viene ripreso dal linguaggio epigrafico e letterario cristiano?!. L'espressione receptus in pace raffor-
zal attribuzione del documento ad ambienti giudaici o cristiani”? L'afferenza religiosa di Marco si definisce peró piü puntualmente come adesione all'ebraismo attraverso le indicazioni desumibili dalle altre epigrafi dell'ipogeo, che contribuisce a sua volta a chiarire: l'esclusivismo religioso che connota i sepolcreti della collina della Maddalena permette infatti di escludere la coesistenza di tombe riferibili a confessioni diverse nello stesso cimitero, e consente invece di inte-
grare reciprocamente i dati delle lapidi funerarie. In particolare, sembra improponibile il dubbio che il titolo «πατερ πατερον» nell’epigrafe di Marcello indichi un grado di iniziazione del culto mitraico?3: quel titolo, come è stato osser-
vato, si ritrova anche in iscrizioni latine della catacomba, 21 Per la storia del termine, in particolare nell’uso ebraico e cristiano, G. BERTRAM,
ϑεοσεβής,
Grande
lessico del nuovo
testamento,
Brescia,
473 ss. Sull’uso epigrafico del vocabolo e delle espressioni latine equivalenti D. Nov, gomenon, cit., patizzante non nosa, 1973, 15
Jewish Inscriptions, cit., XVII 21, 145. Il LIFSHITZ, Prole47, riteneva che l'appellativo indicasse di necessità un simcirconciso; contra, C. COLAFEMMINA, Apulia cristiana. Vee n. 31.
22 Per riferimenti veterotestamentari vedi da B. LIFSHITZ, Prolegomenon, cit., 47; cfr. D. Nov, Jewish Inscriptions, cit., 145, per esempi cristia-
ni; vedi anche J. JANSSENS,
Vita e morte del cristiano negli epitaffi di
Roma anteriori al sec. VII, 1981, 90 s. ?3 Secondo L. LEVI, Le iscrizioni della catacomba nuova di Venosa, cit., 362 ss., il titolo, proprio delle comunità mitraiche, per analogia o per
influenza di ebrei provenienti dal mitraismo sarebbe passato a indicare il «capo del consiglio comunale o maior civitatis», in quanto la comunità ebraica si sarebbe identificata con la civitas. Nella stessa linea, il Levi, nel
suo primo articolo sugli ebrei di Venosa, aveva proposto di riconoscere un simbolo mitraico nella decorazione della colonna utilizzata come architra-
ve per l'ingresso all'ipogeo: Ricerche di epigrafia ebraica, cit., 152. In realtà, l'elemento architettonico solo per caso è stato reimpiegato nel sepolcreto, ma proviene evidentemente da un monumento anteriore di alcuni secoli, forse esistente nell'area. Pulvini con decorazione identica nel museo archeologico di Venosa mi sono segnalati dal prof. L. Todisco, che rin-
grazio. L'inattendibilità della fantasiosa ricostruzione del Levi è stata messa in evidenza già da L. RUGGINI, Note sugli ebrei in Italia, cit., 935 ss.;
l'indimostrabilità
delle pretese
influenze
mitraiche
& riaffermata
da
D. Nov, Jewish Inscriptions, cit., 91, 146 (dove à peró meno reciso).
387
nella forma abbreviata?^. Esso costituisce evidentemente una qualifica che la comunità ebraica conferisce a personalità eminenti fra i suoi notabili, non sappiamo con quali procedure. Un documento letterario coevo, l' Epistula de Iudaeis di
Severo vescovo di Minorca, attesta la diffusione di uesta prassi anche in altre comunità dell'impero occidentale”°. Ri-
24 Così già G.P. BOGNETTI, Les inscriptions juives, cit., ripreso da B. LIFSHITZ, Prolegomenon, cit., 48. 25 Il LEVI, Le iscrizioni della catacomba nuova di Venosa, cit., e il LIFSHITZ, Les Juifs a Venosa, cit., 370 s. e Prolegomenon, cit., 48, hanno
ritenuto che il titolo indicasse una funzione di governo locale, per il Lifshitz quella di poter civitatis o «πατὴρ τῆς πόλεως»; secondo questo autore infatti a Venosa i patres civitatis sarebbero stati organizzati in una gerarchia che avrebbe avuto al vertice il pater patrum. Ma l' istituto al quale fa riferimento il Lifshitz è disciplinato per la prima volta da una costituzione dell’imperatore Leone, nel 465, un provvedimento che recupera precedenti consuetudini delle città ellenizzate, ma che non trova applicazione nella pars Occidentis. Qui il pater civitatis sembra attestato solo in Sicilia, nell’aggiornamento giustinianeo, dopo la riconquista bizantina dell’isola: Nov. Just. 75.2 = 104.2 (537). Sul tema C. ROUCHE, A New Inscription from Aphrodisias and the Title «πατὴρ τῆς πόλεως», GRBS 20, 1979, 172 ss.; per l’indicazione pater civitatis nei documenti altomedioevali di Ravenna,
priva oramai di ogni riferimento alle funzioni originarie, cfr. C. DIEBL, Etudes sur l’administration byzantine dans l’exarchat de Ravenne, 1888, 108 s. Improponibile è anche l’identificazione, suggerita dal Lifshitz, 1. cir., dei patres con i maiures civitatis di CU 12, 611 = JIWE 86, su cui infra n. 44. La pertinenza delle qualifiche di pater potrum e di pater alla organizzazione interna della comunità israelitica fu già sostenuta con decisione da L. RUGGINI, Note sugli ebrei in Italian, cit., 936, che riprendeva ed estendeva un’intuizione di H.J. LEON,
The Jews of Venusia, cit., 271 s. Nello stesso
senso si esprime ora D. Nov, Jewish Inscriptions, cit., 77 s., 91, 146, che resta incerto sulle implicazioni delle qualifiche, se meramente onorarie o relative alla partecipazione al consiglio degli anziani. 26 Il collegamento fra le testimonianze epigrafiche di Venosa e l’attestazione dell’Epistula fu già proposto da L. RUGGINI, Note sugli Ebrei in Italia, cit., 93 s., con una convincente difesa dell’autenticità dell’Epistula contro i dubbi di B. BLUMENKRANZ, Juifs et chrétiens dans le monde occidental, 430-1096, 1960, 76 s. II BLUMENKRANZ, Les auteurs chré-
tiennes latin du Moyen age sur les juifs et le judaisme, 1963, 106 ss. ha successivamente riaffermato la falsità dello scritto e la sua attribuzione al VII secolo, ma le sue affermazioni sono rimaste indimostrate: cfr. 107 n. 2 per il rinvio a un successivo lavoro di analisi. Inconciliabile con l'ipotesi di una falsificazione appare tra l'altro la perfetta conoscenza dell'assetto istituzionale previsigotico; tutt'al più, si potrebbe pensare a una rielaborazione, dipendente da una fonte coeva alla vicenda. Nello stesso senso
A.M. RABELLO, Gli ebrei nella Spagna romana e ariana-visigotica, in Atti dell'accademia romanistica costantiniana 4, 1981, 816 ss.
388
corda infatti il vescovo: Judaeorum populus (la comunità di Magona, nell’isola di Minorca) maxime cuiusdam Theodori
auctoritate atque peritia nitebatur, qui (...) et censu et honore saeculi praecipuus erat. Siquidem apud illos legis doctor et, ut ipsorum utor verbo, pather patheron fuit?” Anche il titolo «πατερ» sulla tomba di Auxanio va letto insieme alla decina di attestazioni identiche, per lo più in latino, tramandate dalle epigrafi della catacomba, dove esso segnala le deposizioni di notabili, forse investiti di funzione di governo nella comunità, accanto al pater patrum. A Magona, l Epistula de Iudaeis associa al pater patrum Teodoro due patres Iudaeorum, i fratelli Ceciliano e Florino; di essi, Ceciliano si dichiara esplicitamente in honore synagogae post Theodorum primus? Infine, l’uso del greco per tre delle quattro iscrizioni dell’ipogeo — quelle di Marcello, di Auxanio e della moglie di questi Faustina, come si è detto — è privo di confronti nell’epigrafia funeraria pagana di Venosa e dell’area circostante, mentre trova significative affinità nelle testimonianze della catacomba, in quanto esse sono per la maggior parte espresse in quella lingua, talora associata a brevi formule in ebraico. Solo assai lentamente, dalla metà del quinto secolo, come sembra, il latino viene sostituendo in esse il greco” ?. La comunità ebraica tardoantica costituisce peraltro l’unico aggregato per il quale sia documentabile un uso collettivo del greco, sia pure esclusivamente in ambito religioso, nell’intera Apulia, in età romana? 27 SEVERUS
EP., Ep. de ludaeis 72 ss. Utilizzo l'edizione critica di
G. SEGUÍ VIDAL, La cartaenciclica del Obispo Severo, 1937, 147 ss. 28 SEVERUS EP., Ep. de Iudaeis 510. 29 Per i rapporti fra il greco, il latino e l’ebraico nella pratica religiosa delle comunità israelitiche vedi l’ampio studio di V. COLORNI, L’uso del greco nella liturgia del giudaismo ellenistico, cit., in particolare 19 ss. per le testimonianze venosine; cfr. D. Nov, Jewish Inscriptions, cit., XX. 30 Naturalmente, ciò non esclude la presenza di singoli grecoloquenti, come lo schiavo Sagaris, actor di Bruttius Praesens, che pone una dedica
in greco in onore di Mitra (IG 14, 688), ma anche una in latino a Mercurio (CIL IX, 425), verosimilmente alla fine del Il secolo: cfr. M. CHELOTTI,
Proprietari e patroni fra Canosa e Venosa, 1993, 445. Nella contigua Canosa un'epigrafe ta letta in una catacomba cristiana scoperta di tabile al V sec.: A.C. CAMPESE SIMONE, Un no nell'area di Lamapopoli a Canosa, RAC
in L'epigrafia del villaggio, bilingue greca e latina è starecente e verosimilmente danuovo sepolcro paleocristia69, 1993, 112 ss. Come per
l'unico altro epitafio canosino in greco, ERC
I, 282, della fine del II sec.,
sembra che anche per questa iscrizione si debba pensare ad un allogeno.
389
L’assenza di un’indagine archeologica del complesso funerario, la scomparsa della maggior parte delle lapidi che dovevano chiudere le sepolture, la distruzione di quelle pervenuteci rendono limitati, parziali e talora male decifrabili gli elementi che possiamo utilizzare per ricostruire la vicenda dell’ipogeo. È tuttavia difficile sottrarsi all’impressione che l’impianto cimiteriale sia stato progettato come sepolcro di un gruppo di notabili legati da vincoli di parentela e di matrimonio, un sepolcro di famiglia che perpetuava in forme e con tecniche nuove antiche consuetudini autocelebrative del ceto di governo locale. Incerto appare invece il rapporto del complesso con la deposizione del pater patrum Marcello, se allestito in funzione della centralità della sua tomba, o adeguato successivamente a un tale disegno, sebbene i pochi dati disponibili facciano propendere per la prima ipotesi. L'interruzione improvvisa dello scavo potrebbe infine far pensare a una rapida estinzione del gruppo, nel corso di un paio di generazioni. Per Marcello e per Faustina l’identità dei nomi ha suggerito anche collegamenti con personaggi di rilievo che conosciamo attraverso le iscrizioni della catacomba, dove la supremazia delle grandi famiglie si esprime spesso in articolate genealogie dei defunti?!. Si tratta tuttavia di ipotesi alle quali l’ampia diffusione dei due nomi, in particolare di Faustinus/a, non offre sufficiente sostegno, e che incontrano talora rilevanti difficoltà cronologiche??; d'altra parte, non si vede per quale ragione discendenti di notabili illustri avrebbero dismesso il sepolcreto che ne esprimeva simbolicamente la lunga egemonia sulla comunità, per ridursi a riafferma-
re il proprio prestigio, nell'affollamento della catacomba, attraverso il ricordo degli avi.
Irriducibile ad una considerazione unitaria dell'impianto potrebbe apparire proprio la deposizione di Marco, in quan-
31 Cfr. D. Nov, Jewish Inscriptions, cit., 127. 32 Fatistinus/a è attestato nelle iscrizioni delta catacomba diciassette volte, Marcellus due; l'uno e l'altro sono comuni anche fra gli ebrei di Roma: H.J. LEON, The Jews of Venusia, cit., 280. Non ha invece riscontri nel-
l'epigrafia locale Auxanius, su cui H. SOLIN, Die griechischen Personennamen in Rom, 1982, 1263, 1264, 1276: nella forma AvÉdvov è attestato soprattutto in Asia minore, ma si ritrova anche su un vetro dorato ebraico
(CIJ 1?, 732 a) a Roma. Per possibili collegamenti familiari, peraltro suggeriti con grande prudenza, B. LIFSHITZ, Prolegomenon, cit., 48; D. Nov, Jewish Inscriptions, cit., 146, 148.
390
to consegnata ad una umile tomba terragna nella galleria d’ingresso, come si & detto. L’uso del latino per l’epigrafe, peraltro anch’essa su una lapide di marmo come tutte quelle delle quali abbiamo notizia per l’ipogeo, potrebbe far pensare ad una fase successiva nell’utilizzazione del sepolcreto, dopo che il latino aveva sostituito il greco nella liturgia. Ma un’ipotesi di tal genere spingerebbe probabilmente la datazione dell’epigrafe troppo in avanti per i suoi caratteri paleografici e non spiegherebbe comunque l’anomala collocazione della sepoltura, così decisamente al di fuori dello schema complessivo | dell’ impianto, non ostante l’ampia disponibilità di spazio”. Forse, la voluta contrapposizione alle sepolture negli arcosoli e la scelta del suolo dell'ingresso potrebbero indicare piuttosto un inserimento incompleto nella comunità, la condizione di proselito non circonciso, con la quale potrebbero ben concordare cosi l’attributo theosebes"" come lo stesso uso della lingua parlata piuttosto che di quella liturgica. Né stupirebbe di trovare traccia di convertiti rimasti formalmente estranei al giudaismo all'ingresso di un sepolcreto di notabili, meglio di altri in grado di farsi propagatori della propria fede fra schiavi e clienti, ma piü di altri vincolati all'osservanza delle disposi-
zioni legislative che perseguitano duramente il proselitismo
giudaico”.
4. Marcello ed Auxanio sono personalità di rilievo fra gli ebrei venosini, forse in due generazioni successive, ma godono di un prestigio e di un potere che superano l’ambito della comunità e, come Teodoro
a Magona,
ricevono un
esplicito riconoscimento dalle istituzioni cittadine attraverso la cooptazione fra i patroni locali?®. Il conferimento del patronato costituisce peraltro un "ulteriore, stringente determinazione della cronologia dei personaggi e dell'intero ipogeo.
33 Cfr. sopra, n. 11. 34 Cfr. sopra, n. 21. 35 Sulla repressione del proselitismo Gli schiavi degli Ebrei nella legislazione to, 1992, 164 ss. 36 Sul procedimento, che non sembra nato dalle leggi municipali del principato, crees of the Roman
v. in particolare G. DE BONFILS, del IV secolo. Storia di un diviemolto lontano da quello discipliR.K. SHERK The Municipal De-
West, 1970, 88 ss.; cfr. EM. AUSBÜTTEL, Die Verwal-
tung der Städte und Provinzen, cit., 40 e n. 102.
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Come è noto, un provvedimento di Costantino aveva eliminato, nel 321, il privilegio per il quale gli ebrei erano esonerati dai munera curialia, e ne aveva promosso in tal modo una diffusa e ampia partecipazione alle attività amministrative delle cittä?”. Alla fine del quarto secolo una costituzione di Onorio attesta che i decurioni ebrei sono determinanti per la sopravvivenza stessa delle curie, e quindi dell'or fanizzazione urbana, in molti centri dell’ Apulia et Calabria”
La notizia trova conferma nelle testimonianze epigrafiche di presenze ebraiche a Venosa, a Taranto, a Otranto, qualche tempo piii tardi a Lecce?? La partecipazione degli ebrei al governo delle città attraverso l'inserimento nelle curie e il conferimento degli honores e dei munera propri dei decurioni subiscono una pesante
limitazione da parte di Teodosio II, nel 438‘, Nel gennaio
?7 Cod. Theod. 16,8,3, Imp. Constantinus A. decurionibus Agrippiniensibus: Cunctis ordinibus generali lege concedimus Judaeos vocari ad curiam... (11 dicembre 321). Per gli oscillanti sviluppi successivi della disciplina è ancora utile J. JUSTER, Les Juifs dans l'empire romain 2, 1914,
258 ss., ma il tema meriterebbe un approfondimento.
33 Cod. Theod 12.1.158, Impp. Arcadius et Honorius AA. Theodoro
pp.: Vacillare per Apuliam Calabriamque plurimos ordines civitatum comperimus quia Iudaicae superstitionis sunt et quadam lege, quae in Orientis partibus lata est, necessitate subeundorum munerum aestimant defendendos... (Milano, 13 settembre 398). Per i rapporti con la costituzione che la precede immediatamente nel codice (Cod. Theod. 12.1.157), un provvedi-
mento di contenuto analogo ma formulato in termini generali, anch'esso emanato da Onorio a Milano, il 13 febbraio 398, vedi G. DE BONFILS,
Cod. Theod. 12.1.157-158 e il prefetto Flavio Mallio Teodoro, 1994, 3 ss. 39 Cfr. C. COLAFEMMINA, Archeologia ed epigrafia ebraica, cit., 202 Ss. A Lecce, l'esistenza di un insediamento ebraico nel quinto secolo & at-
testata indirettamente da una epigrafe venosina del 521, letta di recente da C. COLAFEMMINA,
Nuove scoperte nella catacomba
ebraica di Venosa,
VetChr 15, 1978, 376 ss.; cfr. D. Nov, Jewish Inscriptions, cit., 139 ss.
40 Nov. Theod. 3, Impp. Theodosius et Valentinianus AA. Florentio pp:
2 Quam ob rem, cumi sententia veteri desperatis morbis nulla sit adhibenda curatio, tandem
ne ferales sectae in vitam, inmemores
nostri saeculi,
velut indiscreta confusione licentius evagentur, hac victura in omne aevum lege sancimus nullum Iudaeum, neminem Samaritam neutra lege constantem ad honores et dignitates accedere, nulli administrationem patere civilis obsequii, nec defensoris fungi saltem officio. Nefas quippe credimus ut supernae maiestati et Romanis legibus inimici ultores etiam nostrarum legum subreptivae iurisdictionis habeantur obtentu et adquisitae dignitatis auctoritate muniti adversum Christianos et ipsos plerumque sacrae religionis antistites velut insultantes fidei nostrae iudicandi vel pronuntiandi
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di quell’anno l’imperatore introduce infatti una netta separazione fra l’inserimento nell’ordo decurionum, con la responsabilità per i munera personalia e patrimonialia ad esso connessi, e l’accesso agli honores e alle dignitates, in particolare a quella di defensor civitatis, che costituisce oramai la più importante funzione di governo locale. Agli ebrei è consentita, anzi imposta, l’ascrizione agli ordines decurio-
num^', ma sono preclusi honores e dignitates. La disciplina introdotta da Teodosio II sarà poi ripresa dalla novella con la
quale Giustiniano ridefinirà lo statuto dei curiales ebrei nel settembre del 537, e sarà resa ancora più onerosa‘? Emanata per la pars Orientis, la costituzione di Teodosio Il non ha immediata efficacia nei domini di Valentiniano II;
in essi, il provvedimento diviene operativo dieci anni più tardi, quando l’imperatore fa propria la raccolta di leges novae trasmessagli da Teodosio II. Da questo momento tuttavia il divieto trova ampia applicazione anche nei territori dell’impero occidentale, come attestano l’interesse di cui
è fatto oggetto nell’insegnamento del diritto in Gallia, e l’inserimento nella Lex Romana svisigothorum che Alarico II emana per il suo regno, nel 506%
quod velint habeant potestatem... (Costantinopoli, 31 gennaio 438). Per le funzioni del defensor civitatis v. F.M. AUSBÜTTEL, Die Verwaltung der Städte und Provinzen in spätantiken Italien, cit., 38 ss.
^! Cfr. Nov. Theod. 3: 6 Et quoniam decet imperatoriam maiestatem ea provisione cuncta complecti ut in nullo publica laedatur utilitas, curiales oniniuni civitatum nec non cohortalinos, onerosis quin etiam militiae seu
diversis officiis facultatum et personalium munerum obligatos, suis ordinibus, cuiuscumque sectae sint, inhaere censenius, ne videamur hominibus
execrandis contumelioso ambitu inmunitatis beneficium praestitisse, quos volumus huius constitutionis auctoritate damnari...
42 Nov. Just. 45: cfr. in particolare le disposizioni finali della praefac-
tio, che nella versione dell'Authenticum afferma: Et quoniam leges plurimas praebent curialibus privilegia, et ut non caedantur et non exhibeantur neque ad aliam deducantur provinciam et atia plurima, horum nullo fruantur (Iudaei), sed quidquid scriptum est de curialibus quod non confert privilegium, hoc etiam in his valeat...
43 Nella Lex Romana Visigothorum la costituzione è accompagnata da
un’interpretatio, il sommario in cui, come & noto, i compilatori della legge riprendono precedenti rielaborazioni prodotte nelle scuole galliche: da ultimo N. KREUTER, Römisches Privatrecht im 5 Jh. n.C., 1993, 19 ss., 70 ss.
La presenza dell'interpretatio consente di affermare che la novella di Teodosio era stata studiata (e applicata) nella regione, negli anni nei quali si estingueva il dominio imperiale e si affermava quello visigoto.
393
Non ostante la simpatia che il governo di Teodorico mostra per gli ebrei* anche nell’Italia gota sembra improbabile una generale inosservanza delle norme discriminatrici. Una disposizione dell’editto attribuito a Teodorico, se il docu-
mento è riferibile al regno ostrogoto, presume un regime | di netta separazione giurisdizionale per le comunità ebraiche”
del tutto incompatibile con una partecipazione diretta degli ebrei al governo delle città, almeno attraverso l’ufficio di defensor civitatis. Il fatto che proprio a Venosa in un’epigrafe del sesto secolo, forse di età gotica, 1 notabili ebrei siano indicati come «maiores civitatis» non costituisce un'indicazione in senso contrario. L'espressione non trova infatti riscontro nelle fonti legislative ed indica pertanto, nella sua genericità, una condizione di | preminenza sociale indipendente dallo statuto giuridico*’; questo comunque, fino alla riforma giustinianea del 537, conserva ai maggiorenti ebrei ascritti alle curie 1 privilegi e le distinzioni della categoria,
^ Cfr. L. RUGGINI, Note sugli ebrei in Italia, cit., 938 ss. ^5 Edictum Theodorici 143: Circa Judaeos privilegia legibus delata serventur: quos inter se iurgantes et suis viventes legibus eos iudices ha-
bere necesse est quos observantiae habent praeceptores. La paternità dell’editto e la sua pertinenza al regno ostrogoto, messe in discussione dal VISMARA, Romani e goti di fronte al diritto, in I Goti in Occidente, 1956, 409 ss., che riprendeva e sviluppava un'indicazione del RASI, Sulla paternità del cd. Edictum Theoderici regis, AG 145, 1953, 113 ss., sono da ultimo difese da D. LIEBS Die Jurisprudenz im spätantiken Italien, 1987, 191 ss.,
con discussione della bibliografia sulla questione. 46 CIJ 12, 611 = JTWE 86.
47 Nello stesso senso D. Noy, Jewish Inscriptions, cit., 119. Un’acce-
zione specifica, se non proprio tecnica, «maiores» sembra avere in talune costituzioni del codice Teodosiano relative agli ebrei (Cod. Theod. 16.8.1. 16.8.23, 16.9.3; vedi anche Itp. Vis. ad Cod. Theod. 2.1.10), dove già I. Go-
THOFREDUS, nel commento a Cod. Theod. 16.8.1, suggeriva di riconoscere l'indicazione dei membri dei sinedri locali; in modo non difforme J. JUSTER, Les Juifs dans l'empire romain, cit., 1, 441. Poco pertinente sembra
l'accostamento dei «maiores civitatis» venosini al maior populi attestato a Napoli da Gregorio Magno, Ep., 9.47.76, qualificato anche patronus e curator: proposto con qualche riserva dal TAMASSIA, Stranieri ed ebrei nell'Italia meridionale, AIV 63, 1903, 757 ss., che ne desumeva la possibilità di ri-
conoscere anche nei «maiores» venosini dei curatores civitatis o dei patroni, esso è riaffermato di frequente, sebbene nulla attesti il carattere tecnico e la risalenza delle espressioni del pontefice. Esclude invece che nel patronus napoletano possa riconoscersi un indizio della sopravvivenza del patronato di città, scomparso in Italia alla fine del V secolo, ΕΜ. AUSBÜTTEL, Verwaltung der Städte und Provinzen, cit., 46 e n. 142.
394
Die
pur discriminandoli per ciò che attiene all’assunzione di honores et dignitates. Così andrà spiegata pertanto la qualifica vir laudabilis, propria dei decurioni, „in un’epigrafe del 521, scoperta di recente nella catacomba" I mutamenti che la legislazione apporta allo statuto degli ebrei fra l’età costantiniana e quella giustinianea, in particolare per ciò che attiene allo svolgimento di attività negli uffici imperiali e nel governo delle città, permettono dunque di delimitare l’arco cronologico durante il quale ai notabili ebrei si è offerta la possibilità di essere cooptati fra i patroni locali. Sebbene infatti il patronato non sia esplicitamente ricordato tra le funzioni vietate agli ebrei dalla novella di Teodosio II, né possa essere in alcun modo assimilato sotto il profilo formale alle attività di amministrazione alle quali essa fa riferimento, sembra tuttavia assai difficile che venisse
escluso dalla proibizione generale di accedere ad honores et dignitates, se solo si considera l’enfasi con la quale le tabulae patronatus tardoantiche sottolineano il carattere onorifico della cooptazione^? . Certo, il divieto di Teodosio II non ha sanzioni esplicite, e si presta pertanto ad essere aggirato con relativa facilità. Ma va anche osservato che l'allontanamento dei funzionari ebrei dagli uffici e la discriminazione dei curiali ebrei, pur nelle sue alterne vicende, debbono ave-
re reso poco efficace e quindi poco appetibile il patronato di notabili ebrei, scoraggiandone la cooptazione.
Gli sviluppi della polemica antiebraica e le sue conseguenze istituzionali concorrono dunque con gli indizi archeologici ed epigrafici nell'indicare per i patronati di Mar-
cello e di Auxanio la metà del quinto parte coincide con attesta il patronato
una collocazione fra la fine del quarto e secolo, in un arco di tempo che almeno in quello per il quale l' Epistula de Iudaeis di Teodoro a Magona.
5. Secondo la costituzione di Onorio già ricordata°, alla
fine del quarto secolo la partecipazione degli ebrei alle curie è irrinunciabile per le città dell'Apulia et Calabria. Con una #8 Cfr. C. COLAFEMMINA. Nuove scoperte nella catacomba ebraica di Venosa, cit., 376 ss. (2 JIVE 107).
42 Vedi gli elementi del formulario dei decreti di conferimento isolati da M. BUONOCORE, C. Herennius Lupercus patronus Larinatium, Tyche 7, 1992, 19 ss., in particolare 23.
59 Cfr. sopra, n. 38.
395
decisione non facile, l’imperatore si rifiuta infatti di estendere ai suoi territori l'esonero dai munera curialia?., concesso
agli ebrei nella pars Orientis, in quanto esso sarebbe destabilizzante per l’amministrazione locale, farebbe vaccillare plurimos ordines civitatum. A Venosa, l’affermazione di Onorio trova nel sepolcro di Marcello e dei suoi congiunti un significativo riscontro archeologico. I notabili dei quali l’ipogeo perpetua la memoria, secondo il costume tradizionale delle aristocrazie cittadine, costituiscono per più di una generazione un elemento di rilievo nel ceto di governo locale. Sebbene le epigrafi tacciano sulla loro appartenenza all’ordo decurionum, non sembra dubbio che, come Teodoro a
Magona, Marcello e Auxanio siano stati ascritti alla curia venosina e che in quanto eminenti fra i decurioni siano stati investiti del patronato. La qualifica di patrono può essere stata considerata infatti assorbente nei confronti dell’indicazione degli honores cittadini e dello stesso statuto di curiale, nei sintetici epitafi che si limitano a sottolineare il prestigio del defunto nella comunità ebraica e nella città; assai diffi-
cilmente le iscrizioni avrebbero potuto omettere invece il ricordo di uffici imperiali, o di attributi comunque più rilevanti del patronato stesso. Marcello e Auxanio possono pertanto essere inseriti con sufficiente sicurezza fra i patroni provenienti dai gruppi dirigenti locali, quei patroni che costruiscono le proprie benemerenze e affermano la propria capacità di protezione all’interno del ristretto orizzonte della vita cittadina??. Si tratta di una categoria abbastanza bene attestata nell’Apulia et Calabria tardoantica, se si tiene conto
dell’esiguità della documentazione complessiva, e che offre un interessante indizio sulla solidità delle aristocrazie della provincia. Tre tabulae patronatus hanno conservato infatti il ricordo di C. Herennius Lupercus, optimus dominus, patrono
di Larino nel 344, di M. Sal(vius) Balerius, vir splendidus,
patrono dell’emporium Nauna nel 341, e di Fl(avius) Successus, hornatus et explendidus vir, patrono di Ginosa nel
395?3. Per tutti, i decreti di cooptazione mettono in eviden51 Per una rassegna dell’ampia letteratura sul problema delle relazioni legislative fra le due partes imperii G. DE BoNFILS, CTh. 12.1.157-158 e il prefetto Flavio Mallio Teodoro, cit., 25 s.
:
?? Vedi per un’analisi della categoria J.-U. KRAUSE, Das spätantike
Städtepatronat, cit.
396
za, piuttosto che la gratitudine per atti di evergetismo o di filantropia, un’attesa di tutela e di intervento contro oscure minacce alla vita associata, e quindi l’inadeguatezza degli assetti istituzionali, in difficoltà senza l’impegno aggiuntivo dei potenti locali. Le città minori della provincia sembrano così trovare risposta al proprio bisogno di protezione rifugiandosi nella clientela di concittadini eminenti auctoritate et peritia (come si esprime il vescovo Severo per Teodoro), allo stesso modo in cui le città maggiori ricorrono al patrocinio della iustitia del governatore?*, secondo una gerarchia che riflette quella della geografia amministrativa regionale. A Venosa, il conferimento del patronato ai maggiorenti della comunità ebraica sottolinea il rilievo che questa componente della società locale ha assunto nella vita cittadina,
sebbene essa abbia acquistato rilevanza solo da qualche generazione. Le testimonianze più risalenti di una presenza ebraica nella città sono offerte infatti dall’impianto della catacomba e dalle prime deposizioni in essa, nella seconda metà del quarto secolo”. Naturalmente, si tratta di un dato suscettibile di essere modificato da nuovi ritrovamenti, e comunque tutt'altro che risolutivo; esso acquista peró maggiore consistenza se viene inserito nel contesto regionale, che non ha offerto sinora attestazioni di insediamenti ebraici anteriori al quarto secolo. La formazione di nuclei di immigrati ebrei a Venosa e a Taranto, l'una e l'altra divenute sedi di
manifatture imperiali nel riordinamento dioclezianeo delle attività produttive che fanno capo alle sacrae largitiones, potrebbe non essere casuale, ed offrire un indizio per l'avvio degli insediamenti. Una singolare disposizione di Costanzo II proibisce infatti esplicitamente alle gyneciariae, le lavora53 Cfr. M. BUONOCORE, C. Herennius Lupercus patronus Larinatium, cit., sopra, n. 48, per Larino; CIL IX 259 per Ginosa; CIL IX 10 per Nauna. Un notabile locale, destinato ad emergere fino a divenire il primo governatore del Sannio, sarebbe anche Antonius Iustinianus, patrono di Lari-
no subito prima dei terremoto del 346, secondo l'analisi di una nuova epigrafe onoraria larinate proposta da S. De CARO, Base di statua con iscrizione opistogrofa da Larinum, in Samnium. Archeologia del Molise, 268 ss., ma il testo dell’epigrafe fa chiaramente riferimento ai compiti di un governatore: la dedica andrà perciö riferita a un momento successivo alla nomina di Antonius Iustinianus a praeses. 54 Cfr. J.-U. KRAUSE, Das spätantike Städtepatronat, cit., 25 ss. 55 Da ultimo D. Nov, Jewish Inscriptions, cit., XIX ss., con una convincente analisi dei dati archeologici ed epigrafici sinora disponibili.
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trici degli opifici imperiali, il matrimonio con gli ebrei, nell'ambito di un piü generale divieto delle nozze fra essi e donne cristiane??. L'intervento, orientato evidentemente a
limitare le possibilità di influenza e di proselitismo, attesta indirettamente una diffusa simbiosi di collettività ebraiche e di ginecei, promossa dalle manifatture stesse. Anche l'insediamento di Magona potrebbe essersi sviluppato in connessione con il bafium imperiale delle Baleari, insediato non
sappiamo in quale delle isole??. Si può pensare ad una con-
vivenza indotta dalle specializzazioni artigianali di alcune collettività orientali, particolarmente esperte nella tessitura e nella tintura delle stoffe, e a un loro coinvolgimento nella riorganizzazione dioclezianea delle manifatture imperiali; meno probabile è un collegamento indiretto con gli opifici, per le attività di approvvigionamento delle materie prime e di
commercializzazione dei prodotti??. Pur senza escludere del
tutto sporadiche e isolate presenze in età predioclezianea, insediamenti di rilevante dimensione di ebrei ellenizzati?? po-
56 Cod, Theod. 16.8.6, 37 Cfr. Notitia dign. Occ. XI 71: Procurator bafii insularum Balearum in Hispania.
55 Andrebbe pertanto ampliata e integrata l’osservazione di L. RUGGI-
NI, Ebrei e orientali nell' Italia settentrionale, cit., 227 ss.; Note sugli ebrei in Italia, cit., 939 ss., sulla coincidenza fra insediamenti ebraici e dislocazione della corte imperiale, estendendo il rilievo ad alcune sedi dell’orga-
nizzazione manifatturiera delle sacrae largitiones e della res privata. Una conferma della presenza ebraica nelle campagne meridionali, già indicata dalla RUGGINI, Note sugli ebrei in Italia, cit., 932, è offerta, già per il quarto secolo, dalla recente scoperta di una sinagoga rurale a Bova Marina, sulla costa ionica dell'attuale Calabria: L. COSTAMAGNA, Lo sinagoga di Bova Marina, MEFRM 103, 1991, 611 ss.
3? Per i rapporti fra area ebreo-ellenistica e area ebreo-aramaica nelle regioni orientali dell'impero e nella stessa Palestina V. COLORNI, Il greco ‚nella liturgia del giudaismo ellenistico, cit., 11 ss.; la precoce latinizzazio-
ne delle comunità dell’Italia settentrionale è posta in evidenza da L. RUGGINI, Ebrei e occidentali nell' Italia settentrionale, cit., 229 ss. Una traccia
della provenienza degli ebrei venosini dalle province orientali potrebbe cogliersi nell'uso di «absida» nelle epigrafi della catacomba, che sembra
ricalcare quello di «ἄψις» a Beth She’arim, in Palestina: D. Nov, Jewish Inscriptions, 77. Va anche osservato come la percentuale di nomi semitici nelle iscrizioni sia, secondo l'analisi di H.J. LEON, The Jews of Venusia, cit., 279 s. molto più alta che a Roma, sebbene sia notevolmente inferiore quella dei nomi greci: a Roma metà dei nomi sarebbero latini, oltre un terZo greci e meno di un sesto semitici, mentre a Venosa due terzi dei nomi
sarebbero latini, un decimo greci e un quarto semitici.
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trebbero cosi essere stati attratti nell’Apulia et Calabria dalle riforme dioclezianee del sistema produttivo imperiale, dando avvio alla diffusione delle comunitä nella provincia. Nel corso di qualche decennio gli immigrati non solo avrebbero esteso la loro presenza, ma anche articolato notevolmente il loro insediamento sociale, fino a integrarsi pro-
fondamente con le aristocrazie cittadine. Più che al reclutamento di plebeii, agri vel pecunia idonei, per colmare i vuoti degli ordines, la costituzione di Onorio più volte ricordata sembra riferirsi alle difficoltà create dall’esonero di una categoria di decurioni che si presenta come una componente ordinaria e naturale delle curie, una categoria cioè che concorre a costituirne il nucleo ereditario e ad assicurarne così la sopravvivenza. Il provvedimento sembra pertanto implicare una significativa partecipazione di notabili ebrei al ceto dei possessori fondiari vincolati alle funzioni curiali, e fa risalire indirettamente il loro radicamento attraverso il possesso terriero almeno alla metà del quarto secolo. A Venosa, agli inizi del quinto secolo, la nascente discriminazione antiebraica non impedisce a Marcello e ai suoi congiunti di esercitare un’influenza determinante nell’amministrazione della città, se il gruppo dirigente della curia
venosina ne istituzionalizza il patrocinio, muovendo verosimilmente da persuasioni che l’Epistula de Iudaeis può contribuire a chiarire attraverso l’analoga vicenda di Teodoro, a Magona. A Magona
Teodoro,
non
solum
inter Iudaeos,
verum
etiam inter Christianos et censu et honore saecli praeci-
puus, percorre la carriera delle funzioni di governo locale 0 fino a divenire defensor civitatis. Assolto anche questo ufficio, continua a controllare la sua città come patrono: patronus municipii habetur, afferma di lui il vescovo Severo. Nel-
lo stesso tempo, un altro esponente della comunità ebraica, Ceciliano, in honore synagogae post Theodorum primus, diviene a sua volta defensor civitatis. Come il racconto del vescovo consente di intravvedere,
Teodoro appartiene ad una famiglia solidamente insediata in più centri della regione, dotata di un consistente patrimonio fondiario, collegata per matrimonio con un alto funzionario imperiale, già governatore delle Baleari. Ai suoi protetti, il 60 SEVERUS EP., Ep. de Iudaeis 499, 510.
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notabile offre un’immagine di rassicurante, consolidata au-
torità: securus et honoratus et dives®, A costruirla, concorrono le ricchezze avite e le esperienze maturate nell'amministrazione cittadina — cunctis curiae muniis exolutis, os-
serva di Teodoro 1’Epistula®? —, ma soprattutto le possibilità di accesso agli uffici provinciali e la facilità di rapporti con 1 funzionari che a Teodoro appaiono precostituite dai suoi rapporti di parentela. In un assetto istituzionale in cui la gerarchia dei poteri amministrativi e la loro distribuzione territoriale rendono oltremodo raro, se non del tutto impraticabile, ogni collegamento diretto con il centro del sistema imperiale, per lo meno per le civitates di minore rilievo, i patroni sono chiamati a svolgere attività di rappresentanza e mediazione presso il governatore provinciale e i suoi uffici, quasi allo stesso modo in cui il governatore rappresenta a sua volta il capoluogo e l'intera provincia ai livelli più alti dell'amministrazione imperiale. Con i tratti consueti all’acquisizione dell’egemonia da parte dei notabili cittadini, il racconto del vescovo Severo mette però in evidenza, nella supremazia di Teodoro, anche
elementi più strettamente inerenti ai caratteri della comunità ebraica e del suo insediamento in una collettività pluriconfessionale. Il gruppo di personaggi dei quali l'Epistula rievoca la conversione al cristianesimo è costituito da esperti conoscitori delle sacre Scritture; Teodoro è anzi un dottore della Legge, Legis doctor. In quanto tali essi primeggiano nella sinagoga, orientano i correligionari, ne esprimono e ne motivano le ragioni nei confronti verbali con i cristiani: assumono la guida della comunità, e la rappresentano nel contesto cittadino. Il prestigio acquisito attraverso lo studio della Legge e il sapere religioso concorrono così a costruire l’autorità dei decurioni ebrei e ne favoriscono il primato in città nelle quali le comunità ebrai-
61 Per la diffusione territoriale della famiglia Ep. de Iudaeis 365 ss.; i rapporti con Liforius «qui nuper hanc provinciam rexit et nunc comes esse dicitur», 629; per una possessio a Maiorca, 86; la caratterizzazione di Teo-
doro è delineata da uno dei suoi protetti che gli suggerisce la conversione per ripristinare una situazione messa in crisi dalla fedeltà al giudaismo: «Quid times, domine Theodore? si vis certe et securus et honoratus et dives esse in Christum crede, sicut et ego credidi. Modo stas et ego cum episcopis sedeo. Si tu credideris, tu sedebis, et ego ante te stabo...» 327 ss.
62 SEVERUS EP., Ep. de Iudaeis 77. 400
che contano centinaia di correligionari, in tutti i settori del-
la società locale®°.
Dei patroni ebrei di Venosa, di Marcello e di Auxanio le epigrafi dicono assai meno di quanto apprendiamo su Teodoro e su Ceciliano dall' Epistula de Iudaeis: ma la stretta connessione fra il patronato sulla città e la qualifica di pater patrum (o semplicemente di pater) da esse attestata consente di ipotizzare una situazione non diversa, la presenza ai vertici della civitas di alcune famiglie ebree, potenti per ricchezza e per collegamenti col governo provinciale, ma anche per la supremazia esercitata sui correligionari.
63 A Magona i convertiti sarebbero stati cinquecentoquaranta secondo l'Epistula de Iudaeis 732.
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L’esegesi dell’edictum de pretiis dioclezianeo e 1 fondamenti dell’attività normativa imperiale*
1. Verso la fine di novembre o l’inizio di dicembre del 301, nel tentativo di ‘arrestare l’inflazione che minacciava l’assestamento delle riforme dioclezianee, i tetrarchi emanavano un editto che fissava il livello massimo raggiungibile dai prezzi di tutti i beni negoziabili nel mondo romano). L’editto e il gigantesco calmiere che lo accompagnava sono stati ricostruiti pressocché integralmente attraverso i frammenti delle trascrizioni epigrafiche a noi giunti”, e costituiscono un riferimento obbligato per gli studiosi delle vicende politiche ed economiche della tarda antichità. Ma il testo edittale offre un grande interesse anche per l’analisi della legislazione tardoantica, così nei suoi profili letterari come negli aspetti ideologici. Il redattore dell’editto illustra infatti in lunghe e articolate argomentazioni i motivi che avevano indotto i tetrarchi ad intervenire, e ne sottolinea la coerenza
* Annali di storia dell’esegesi 12, 1995, 253-260. ! Le circostanze e i motivi che indussero Diocleziano a imporre il calmiere sono riesaminati da ultimo da J.-M. CARRIÉ, Le riforme economiche da Aureliano a Diocleziano, in Storia di Roma, diretta da A. Schiavone,
3.1, L'età tardoantica. Crisi e trasformazioni, 1993, 301 ss., in particolare 305 s.; cfr. anche S. WILLIAMS, Diocletian and the Roman Recovery, 1985,
128 ss.
e F. DE MARTINO,
Storia economica
di Roma
antica,
2,
1979, 387 ss. ? L’edizione più completa, redatta utilizzando 132 frammenti, dei quali tre inediti,