Dire l'indicibile. L'ultima parola della vita
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Maud Mannoni

Dire

'indicibile L'ultima parola della vita

Maud Mannoni

DIRE L'INDICIBILE L'ultima parola della vita

ARMANDO EDITORE

MANNONI. Maud Dire l'indicibile. L'ultima parola della vita/ Maud Mannoni Roma : Armando, © 1999 128 p.; 24 cm.- (Psicoanalisi e psichiatria dinamica) ISBN 88-7144-918-5

I. La morte - effetti psicologici

CDD 155.9

Titolo originale La nommé et l'innommable. Le dernier mot de la vie © Éditions Denoel, Paris,1991

Traduzione di Laura Franco © 1999 Armando Armando s.r.l.

Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] 14-01-016 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i paesi. L'editore potrà concedere a pagamento l'autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate a: Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell'ingegno (AIDRO), via delle Erbe 2. 20121 Milano, tel. e fax 02/809506.

Sommario

Capitolo primo: La vecchiaia oggi La vecchiaia oggi Aspetto sociale dell'invecchiamento Invecchiare non è affatto ciò che si crede Corpo malato. Spazio sociale La vecchiaia, verità della condizione umana

9 9 14 16 18 23

Capitolo secondo: L'uomo di fronte alla morte I progressi della menzogna La speranza esclusa L'idealizzazione o il diniego della morte Segregazione Ipocrisia della società

31 31 40 44 48

Capitolo terzo: Freud, la malattia e la morte La malattia e la morte La colpa del sopravvissuto Lutto e malinconia Date in cui Freud sarebbe dovuto morire Sono entrato nella vera vecchiaia

69 69 72

Capitolo quarto: L'ultima volta La meditazione della morte

93 93

Indice analitico Indice degli autori Bibliografia

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75 80 84

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Alla memoria di Octave «Nel successo ricordatevi di me morto, sarete sempre felici». Edipo a Colono

Capitolo primo

La vecchiaia oggi

La vecchiaia oggi Moriamo, amava dire Françoise Dolto, quando abbiamo finito di vivere. Essendo vivere, per lei, sinonimo di attività. Collegata da tubi a bombole di ossigeno, ha ugualmente continuato, negli ultimi mesi di vita, a ricevere, stando a letto, allievi e colleghi, temendo che l'evolversi della malattia le togliesse il tempo di trasmettere alle generazioni future l'essenziale di una battaglia che era stata la sua ragion d'essere: la difesa dei diritti del bambino. La carta dei diritti del bambino non era ancora stata redatta per intero quando la morte la sorprese in piena attività, ali' età di ottanta anni. La malattia (seri problemi di cuore) ha posto fine bruscamente anche alla vita di Fedor. Fu costretto ad andare in pensione nel 1981, pensionamento che suonò come un rintocco a morto. Fedor si isolò; per pudore non poté condividere il dramma della sua solitudine con la sua cerchia. Per quanto parenti e amici gli assicurassero la loro presenza, Fedor, a tratti, interrompeva ogni relazione. Abituato a commisurarsi con una intensa vita lavorativa - i pazienti, gli alÌievi, la sete di leggere e imparare - l'inattività professionale e l'aspetto invalidante della malattia furono da lui assimilate all'indicibile in quanto tale, vale a dire alla morte. In questa vita "a riposo", che oramai doveva diventare la sua, né la parola, né il sogno riuscivano più a trovare posto. Questa vita non aveva altro senso che ritornare alla morte, ritornarci gioiosamente. Finito il suo ultimo libro, Fedor chiese che le sue ceneri facessero ritorno alla sua terra d'origine e fossero gettate in mare. Chiese agli amici di sottolineare la sua dipartita con danze (su una nave) e con un pasto ben innaffiato, nel ristorante preferito dalla famiglia a Cannes. Nel 1987, si può dire che Fedor abbia lasciato Parigi per arrivare in tempo a morire a Cannes, in una casa comperata trenta anni prima per acco9

gliere quella che avrebbe dovuto essere la vecchiaia felice di una coppia circondata da bambini. .. Il sogno di una pensione-ritorno in un posto di vacanza eterna (la felicità ritrovata dell'infanzia) chi di noi non lo ha fatto una volta? La realizzazione è lungi dall'essere sempre conforme al principio di piacere1 presente all'origine nella fantasia. Il conflitto che sorge sotto i tratti dell'impossibile, è il reale (ciò per cui non c'è riparo) che non può allora essere riconosciuto come tale dal soggetto. Accade così che la persona si aggrappi alle vie del non piacere, per il fatto di non potere mettere in parole il vissuto di un presente nel quale il soggetto non trova più il suo posto. Lo sguardo dell'altro, lungi dall'essere un sostegno lo .scompone. Françoise metteva in luce l'esemplarità di un coraggio: è morta lavorando come muoiono i combattenti, oscillando tuttavia tra il desiderio di non venire meno a una tradizione di parola (come insegnante) e il desiderio di ritrovare Boris, il cui lutto era stato difficile. La sua morte l'aveva lasciata amputata di una parte di sé. Octave Mannoni aveva chiesto di mettersi in pensione in anticipo, come insegnante, per potersi consacrare alla psicanalisi e al suo desiderio di scrivere. Benché si descrivesse volentieri come pigro, l'inattività non faceva parte del suo universo. Della vecchiaia non parlava, ma ogni tanto faceva riferimento al nonno còrso della sua infanzia che gli raccontava delle storie davanti al camino. Non camminava più, ma la sua età ne faceva il saggio che si ascolta e la cui presenza è essenziale per tutti. Il percorso di Octave tra il 1975 e il 1989 fu segnato da successivi atti di rinuncia (il tennis, l'automobile, il ristorante, i viaggi, la sessualità). Le uscite si limitarono presto alle sole conferenze nel quadro del C.F.R.P. di cui fu nel 1982 uno dei membri fondatori. Poiché non usciva più, gli amici venivano da lui. La sua vecchiaia la immaginava come se un giorno dovesse finire tranquillamente su una sedia a rotelle. Questa eventualità tuttavia non doveva privarlo dei suoi allievi, colleghi e amici. In una parola Octave si era "preparato" alla vecchiaia pensando a quella di un saggio, fosse anche privo della locomozione. L'orrore della malattia (la sua operazione d'urgenza per un ematoma subdurale), le sequele invalidanti, un coma dovuto a un errore medico (I' abbandono del cortisone per t 50 di Haldol2 bastò un giorno a stroncarlo), il ritorno a una vita mutilata, il combattimento condotto per ri-situarsi come soggetto e strapparsi a una dipendenza da chi lo 1

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J. Lacan, Séminaire, 6 maggio 1964 (inedito). Aloperidol.

curava, a tutto questo, a questo orrore del quotidiano, Octave non aveva mai pensato. Ritrovando la vita dopo dieci giorni di coma, mi disse: «Sono fottuto, bisogna mettermi in una casa della M.G.E.N»3. «Finirai la tua vita circondato dagli amici» fu la mia risposta. Octave ritrovò istantaneamente i riferimenti del nonno còrso della sua infanzia: «Ecco, ho la mia pipa a portata di mano, manca il camino». Della morte non parlammo più, se non per dire, la vigilia del decesso, che «il diavolo non lo avrebbe avuto». Infatti, da qualche parte, Octave ritrovò un posto come essere immortale (compreso nello stesso diniego della morte). Il suo stato migliorò, ma scoppiò in seguito un'infezione virale: la morte lo sorprese dollìcnica 30 luglio, alle otto di sera, quando gli amici, suo figlio, e suo nipote erano presenti. Tuttavia non poteva non sapere che sarebbe morto, visto che l'ultima notte mi aveva tanto parlato d'amore, «ti ho tanto, tanto amata ... », facendomi poi un rimprovero che mi lasciò impietrita e che ha in seguito alimentato le auto-accuse durante il lutto: «Non avresti mai dovuto sputare su tuo padre all'età di sei anni». Questo rimprovero mi lasciò senza voce ... Octave non è morto rassegnato ma incollerito. La morte «lo aveva avuto». Impietrita dal suo rimprovero non ho saputo ascoltare la sua confessione d'amore (lui che era stato così segreto e avaro di dichiarazioni), né la sua richiesta di dirgli fino a che punto anche io lo amavo. Mi sentii ·parlare su tutt'altro registro: «È proprio perché tu mi hai dato tanto che ti accompagno fino alla fine della vita». Ma di morte, Octave non voleva sentire parlare. Ciò che cercava di riafferrare non era forse la forma di un amore quale l'aveva inizialmente ricevuto da sua madre?4 Era proprio la dea della morte che avrebbe, l'indomani, occupato il terreno, obbligando Octave a rinunciare all'amore, a rifiutarlo. Perché Octave voleva vivere. L'ultima parola della sua vita fu un grido di rivolta, come uno scongiuro molte volte ripetuto: «il diavolo non mi avrà». La morte non è stata una sua scelta. La morte di Françoise Dolto fu più serena. Anche questa arrivò troppo presto, amputando la realizzazione di un'opera rimasta incompiuta\ Ma, essendo creqente, Françoise era persuasa che avrebbe presto ritrovato Boris. Morì accettando che così fosse. 1 -

Mutuelle Générale Enseignement National. S. Freud, Le thème des trois coffrets (1913), in Essais de Psychanalyse appliquée, Paris, Gallimard Idées, p. 103. 5 Françoise tuttavia partì, ci disse Catherine, sua figlia, con il sentimento di avere adempiuto il suo compito. ~ Cfr.

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Non è raro che, prima di dovere abbandonare la vita che si desidererebbe continuare, il soggetto dia vita al sogno di una relazione di compiutezza di tutti i desideri, soddisfazione magica che ha luogo in un universo di minacce permanenti (l'evoluzione inesorabile della malattia); la risoluzione di quest'immenso miraggio avviene allora su uno sfondo di rottura catastrofica della relazione con l'essere amato. Accade così che si lasci la vita con un sentimento di tradimento, la padronanza perduta restituisce il soggetto alla certezza di essere stato ingannato. I vivi possono, in effetti, assistere chi sta per morire, ma è da solo che quest'ultimo compie l'ultimo passo, "minimizzato" spesso in barba a chi gli sta intorno. In questo caso la morte si comporta da "ladro gentiluomo". Quando diventiamo vecchi?6 Se è il brusco deterioramento dello stato fisico che fa capire al soggetto la dipendenza in cui è proiettato (o in pericolo di esserlo), questa disgrazia (la malattia) che esclude ogni speranza può sopraggiungere a tutte le età. La ripercussione non sarà la stessa a venti e a ottanta anni. La "condanna a morte" c'è, presente fin dalla nascita. Finiamo per dimenticarla. La vecchiaia non ha nulla a che vedere con un'età cronologica. È uno stato d'animo. Ci sono dei "vecchi" di venti anni, dei giovani di ottanta anni. È una questione di generosità di cuore, ma anche una maniera di conservare dentro di sé una sufficiente complicità con il bambino che si è stato. Chi si è identificato da giovane con un signore serio e rispettabile, chi ha voluto impersonare molto presto la signora: costoro saranno senz'altro dei nonni rispettabili, ma la "rinuncia" (a un ruolo) non sarà per loro necessariamente più facile. Rinunciare a ciò che si è stati, questo tutti vorrebbero rimandarlo a più tardi, più tardi possibile. È per questo che la nozione di vecchiaia fissata arbitrariamente a 60-65 anni, con la "pensione" e assimilata alla fine della vita attiva, può avere, per qualcuno, effetti traumatici devastanti. È l'obbligo di lasciare la vita attiva che segna allora per il soggetto l'entrata nella vec.chiaia. Questo non è il caso di chi ha la fortuna di trovare a quell'età delle attività sostitutive. «Un vecchio - diceva Sartre 7 - non si sente mai vecchio. Capisco dagli altri ciò che la vecchiaia implica in chi la guarda dal di fuori, ma non sento la mia vecchiaia». I cambiamenti fisiologici (diminuzione progressiva dell'efficienza delle diverse funzioni dell'organismo) sono vissuti (come la menopausa per le donne) in Cfr. B.L. Mishara e R.G. Riedel, Le Vieillissement, Paris, PUF, 1984. Nouvel Observateur», 1980 citato. in B.L. Mishara e R.G. Riedel, Le Vieillissement, op. cit., p. 17. 6

7 «Le

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maniera molto diversa da un individuo all'altro. I fattori economici, sociali e culturali non sono estranei al fatto che l'invecchiamento sia vissuto bene o male. Il limite tra il normale e il patologico non è facile da stabilire. Ed è ciò che ha portato Ajuriaguerra a dire che «invecchiamo come abbiamo vissuto», postulando con ciò la portata degli anni che precedono l'invecchiamento. Una vita piena e ricca schiude più facilmente una vecchiaia serena, ma è lungi dall'essere la regola. Quando la passione di una vita si è fusa con l'azione o la creazione in qualsiasi dominio, non si rinuncia dall'oggi al domani così facilmente al posto che si occupava nella società. I governanti, in Francia, in Russia, in Giappone o negli Stati Uniti, hanno molto spesso ampiamente superato l'età della pensione imposta ai loro concittadini. Gli studi condotti da Bartley (1977) 8 rivelano del resto che l'assenteismo, come gli incidenti sul lavoro, sono molto meno numerosi nel lavoratore anziano che nel giovane. Non è dunque solo nel mondo privilegiato della politica, degli intellettuali e degli artisti, che il piacere nel lavoro rimane un piacere che si desidera portare fino al termine (la morte). Vi sono anche molti lavoratori, in particolare artigiani o contadini, che possono ancora sentirsi talmente legati alla loro funzione che perdendola, abbandonano una parte di loro stessi, perché non hanno più altra prospettiva che aspettare la morte, "passando il tempo" negli svaghi. I viaggi organizzati in bassa stagione per la terza e la quarta età (per iniziativa del comune e di certe mutue) se sono prima di tutto un eccellente affare per gli alberghi, possono tuttavia ugualmente aiutare moralmente coloro che il desiderio di vivere mantiene in vita. Una mia ex donna di servizio, Marie-France, non era andata veramente in pensione fino a ottant'anni. Di origine contadina, era venuta a Parigi dopo la morte di un marito alcolizzato. Lasciando la fattoria ai figli ne aveva ricevuto in cambio un appartamentino a Parigi. Aveva aspettato gli ottanta anni per autorizzarsi a curarsi (una cataratta che avrebbe potuto essere operata più presto), e per fare il necessario per ritrovare la vista. Assistetti alla sua metamorfosi: si concesse (beneficiando dei servizi offerti dalla mutua agricola) il piacere di fare una serie di viaggi in alberghi di lusso. Fece conoscenza con altre donne della sua età con le quali rimase in contatto. Ritornò al paese (dai figli) solo dieci anni dopo, per morire avendo cura di non disturbare nessuno. Tale non fu il caso di Amélie che, relativamente giovane (settanta anni), cominciò a perdere l'uso della parola, a non potersi più vestire, né lavarsi. Ripiegata su se stessa, incontinente, era diventata estranea alla cerchia familiare. Le 8

D. Bartley, Compulsory Retirement: a Re-Evaluation, «Personnel», 1977, 54, pp. 62-67.

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rimaneva il sorriso e uno sguardo indagatore che sembrava chiedervi scusa. Annientata dal fallimento che la sopraffaceva e che sfiniva la famiglia, muta, Amélie, mostrava l'intollerabilità dell'annientamento. Visse così dieci anni, prigioniera di uno spazio tra la vita e la morte. Era già entrata nel regno dei morti prima di avere effettivamente abbandonato i vivi.

Aspetto sociale dell'invecchfamento Una teoria del disimpegno 9 suppone acquisita l'idea che gli anziani si ritirino spontaneamente dalla vita sociale. Non ci si chiede volentieri se sia la società a mettere gli anziani in condizione di doversi ritirare dalla vita attiva. Le ripercussioni non sono le stesse se si tratta di persone sole (vedovi, vedove, scapoli) o di persone indipendenti che abbiano una famiglia e interessi politici o culturali (senza contare le risorse affettive che possono derivare da una certa forma di volontariato). Ogni volta che una persona anziana soffre senza saperlo di depressione (fissata sulla sensazione di "vuoto" della vita), cerco, con il suo aiuto, di attuare nella realtà un quadro di vita sopportabile. Questo obbliga il soggetto a fare dei progetti, a incontrare persone ed egli ritrova spesso per ciò stesso la capacità di sognare che aveva perduto. Se la famiglia è inesistente, gli amici possono prenderne il posto. Se la famiglia esiste, si sa bene che i rapporti migliori sono quelli in cui ci si tiene a distanza ... I nipoti e i pronipoti servono peraltro spesso come legami tra le generazioni. Giovani e vecchi non desiderano tuttavia, oggi, vivere sotto lo stesso tetto. Così quando il vecchio genitore non può più ragionevolmente vivere da solo e, per mancanza di risorse sufficienti, non può beneficiare di un aiuto a domicilio, i figli lo "piazzano" in un istituto (e questo senza considerazione dell'età: a settanta come a novanta anni ... ). Si stima oggi a 20-25% la percentuale di anziani destinati a finire la loro vita in un istituto. La vecchiaia di un dirigente non sarà però uguale a quella di un suo operaio. Non rischiano di ritrovarsi accanto nello stesso luogo (mentre ciò potrebbe accadere per esempio nel caso di un'operazione al cuore in un ospedale di fama). La gamma delle collocazioni in istituto va in effetti dall'ospizio riservato agli infermi senza risorse finanziarie, alle quattro stelle, passando per le "famiglie ospitanti" aperte agli anziani. In questa varietà di sistemazioni, il peg9

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Cfr. G. Badou, Les Nouveaux Vieux, Paris, Seuil, 1989, p. 249.

gio sta accanto al meglio, svelando spesso abissi di disumanità e solitudine10. Vi sono vedove (con entrate modeste) che vivono rinchiuse da più di vent'anni. Ciò che manca loro è il calore umano, così come il contatto fisico. «Ma da quanto tempo, diceva una di queste donne, laureata, rispettata, nessuno mi ha presa tra le braccia?( ... ) I nostri figli, aggiungeva, li abbiamo educati male. Hanno fatto carriera, vengono a trovarmi, ma non sanno più giocare. Ho intorno a me solo persone più serie, avrei bisogno di una granello di follia ... ». Ciò che chiedeva questa donna, dopo vent'anni di vedovanza, era non solo un contatto fisico, ma uno sguardo. Tuttavia questa ricerca non poteva che fallire dato che ciò che lei guardava non era mai ciò che sperava di vedere. Nel momento stesso in cui si volgeva alla ricerca di uno sguardo, vale a dire di un supporto che la aiutasse a vivere, si sentiva, dal posto dove stava, come fotografata, e avveniva una divisione tra il suo essere e il suo apparire. Nel gioco dell'inganno che si instaurava non era sicura allora di potere ritrovare il gusto del gioco. Ciò che emergeva come "impedimento" nella sua relazione con l'altro era il pudore (nascondere la sua profonda disperazione) e il rifiuto di essere compatita. Il piacere di ritrovarsi con i figli, gli amici, la spingeva a sua insaputa a un percorso di arretramento? Ciò che desiderava era una lusinga, ovvero l'impossibile ritrovamento dell'oggetto perduto (nella persona del suo congiunto). Questo lutto impossibile a farsi la spingeva a introdurre la figura della morte nell'opera della vita. I suoi figli, quanto a loro, erano ben lungi dal sospettare che lei vivesse la loro presenza in maniera negativa. È vero che la sua "sistemazione" in un istituto nei mesi successivi alla morte del marito non aiutò questa donna a reinventarsi la vita. L'isolamento contribuì a farla scivolare in un immaginario regressivo in cui, di fatto, solo il ricordo del passato poteva darle soddisfazioni, mentre i rapporti con l'altro erano come votati a deteriorarsi con il tempo. Il sentimento di estraneità che invadeva tutto lo spazio relazionale la lasciava con un sentimento di vuoto interiore, di rivolta e di disorientamento. La persona anziana, quando si rende conto che non può più agire come in passato sul mondo esterno, non ha più, apparentemente, altra scelta che ritirarsi (dal mondo) nella depressione. Accade che l'angoscia si traduca in agitazione, in interpretazioni paranoidi, mentre assistiamo parallelamente a un rallentamento delle funzioni vegetative. La distruzione del corpo, vissuta nella modalità di un castigo eterno, può allora essere associata all'idea di immortalità.

° Cfr. G. Badou, op. cit., p. 249.

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Invecchiare non è affatto ciò che si crede Quando si parla di vecchiaia, si comincia generalmente a fare l'elenco di tutto ciò che si affievolisce con l'età: la vista, l'udito, le difficoltà a camminare, la memoria che vacilla, i rapporti sessuali che si fanno sempre più rari, a causa spesso dell'impotenza del congiunto. Non si parla affatto della sessualità che si trasforma in tenerezza, dei contatti da mantenere con la voce, lo sguardo, il tatto. Eppure sognare l'amore rimane possibile fino alla fine. A ogni lutto per le capacità perdute si deve accompagnare la possibilità di altri tipi di stimoli e di reinvenzione permanente di sé con l'altro. Questo implica che ci sia un minimo di presenza dell'altro. Vi è là, per ogni essere vivente sessuato, una ricerca infinita e illusoria del complemento di sé nell'altro. «Il vivente - ci dice Lacan - soggetto al sesso, cade sotto il colpo della parte individuale»11. È questa parte di sé persa per sempre che fa del vivente sessuato un essere mortale. Ma sono i pregiudizi che ci fanno credere che ciò che si chiama "andropausa" per l'uomo sia all'origine delle difficoltà sessuali. La diminuzione dell'ormone maschile non interviene affatto nel meccanismo dell 'erezione 12 • Ma alcuni uomini, per paura di non sentirsi più onnipotenti, rinunciano dall'oggi al domani a ogni rapporto sessuale. La donna, a partire dalla menopausa, si è sbarazzata della paura di una gravidanza. La sua vita sessuale guadagna spesso in serenità, può perfino essere più gradevole di prima. In effetti i veri ostacoli a una vita sessuale sono soprattutto di ordine psicologico e sociale. Per esempio, le vedove sono più numerose dei vedovi, e le istituzioni sopportano male che gli anziani si concedano delle relazioni amorose. Così si dimentica che ciò che mantiene in vita un essere umano è l'affetto, la tenerezza, un luogo di sogno in cui possa esserci uno spazio per la presenza di qualcuno che lo ascolti. In un quartiere popolare di Parigi, un anonimo 0 ha scritto con la pittura nera su una palizzata: «Vedi Amelia, la nostra decrepitudine, la nostra vista che diminuisce, l'udito che diminuisce. Sai, questo si chiama invecchiare, Amelia. La nostra pelle avvizzisce, i nostri passi che sono come altrettanti sforzi. I risvegli ogni mattina più difficili. L'incontinenza che ci minaccia. La memoria che si indebolisce. Vedi Amelia, moriremo». Si direbbe un grido d'amore e un richiamo al tempo stesso. J. Lacan, Séminaire del 27 maggio 1964 (inedito). P. Guillet, l'Aventure de l'tige, Paris, Hatier, 1989, p. 124, trad. it. ° Citato da G. Badou, op. cit., p. 263. 11

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Un richiamo per esorcizzare ogni pericolo di solitudine, di segregazione e di morte. Il fatto è che, nell'inconscio, ci dice Freud 14, tutti siamo persuasi dell'immortalità. La vecchiaia (con il corpo che si trasforma) potrebbe costituire un momento felice della vita in cui la memoria può esercitarsi come "ricordo" di una storia passata da trasmettere alle generazioni future. Ciò che è stato vissuto acquista allora un senso in funzione degli altri. Ma il dramma di molti vecchi che hanno perduto i loro riferimenti è che nessuno parla più con loro. Non trovano allora più le parole per dire il loro sgomento. Esistono così delle forme di demenza che sono il risultato di una doppia chiusura: quella del soggetto all'interno di se stesso e quella degli altri che non cercano più di comunicare con lui. L'ambiente esterno non è mai completamente estraneo all'evoluzione della demenza di un individuo e quest'ultima sarà tanto più invalidante quanto il soggetto si troverà tagliato fuori dal mondo. All'inizio del secolo, gli anziani (speranza di vita 45 anni) trovavano un posto in seno alla famiglia. Ma, per lungo tempo, i vecchi sonò stati poco numerosi in confronto al maggior numero di bambini e genitori attivi. L'allungamento della durata della vita è diventato, col passare degli anni, un handicap in quanto la società ha cominciato a lamentare il numero crescente delle persone improduttive. La pensione è stata fissata nel 1945 1' arbitrariamente a 65 anni (la speranza di vita era all'epoca di 62 anni). La durata di questo meritato "riposo" non era lunga. Pensione e morte quasi coincidevano. Da poco si sa che l'uomo biologicamente può vivere fino a cento anni e morire in buona salute. Questa prospettiva di longevità (1.115.000 anziani nel 2000) crea attualmente un problema alla società che teme di dovere fronteggiare i bisogni di una "società di vecchi" handicappati, poveri e mal alloggiati ... Una mentalità certamente va cambiata: nell'interesse degli anziani (e nel nostro) bisogna, ripetiamolo, studiare il modo di aprire e mantenere loro delle possibilità di esperienze arricchenti. Sono colpita dal modo in cui gli anziani (isolati) che vengono a consultazione per uno stato depressivo cambino rapidamente non appena abbiano recuperato qualcosa, nel reale, qualcosa dell'ordine di un'autostima (lezioni date a bambini ammalati, ricerca di un secondo lavoro, incontri conviviali di quartiere, corsi per la terza età all'Università). Mi interrogo anche sul modo in cui, quando la malattia si instaura, gli anziani si trovino trascinati nel ciclo infernale della sovracompensazione di droghe corrette 14 S. Freud, Considérations actuelles sur la guerre et la mort (1915), in Essais de psychanalyse, Paris, Payot, PbP, trad. it. 15 Cfr. P. Guillet, op. cit., p. 18.

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da altri farmaci. Vi sono anziani che ne muoiono. È l'angoscia di chi sta loro intorno che porta il medico ad angosciarsi a sua volta fino a perdere, talvolta, la testa. Manchiamo crudelmente, in Francia, di specialisti in medicina interna, che soli, hanno la preoccupazione di "curare" in maniera globale (e non organo per organo). In ogni caso, non tutto può essere curato. Accade per esempio, che un'operazione di cataratta, una volta effettuata, faccia scoprire che le retine sono state alterate da un'altra malattia e che allora il soggetto rimarrà collegato al mondo dei vivi solo attraverso delle cassette registrate ... Perché sia sopportabile, questo suppone che esista intorno un ambiente caloroso e attento. Ben lungi dall'essere sempre questo il caso.

Corpo malato. Spazio sociale Nel Medio Evo, all'epoca delle epidemie, di peste in particolare, la malattia appariva come l'orrore visibile di un corpo trasformato 16 diventato mostruoso per sé e per gli altri. I progressi della medicina (l'emodialisi, per esempio, per le insufficienze renali) permettono di rendere esteriormente più discreta l'offesa del corpo da parte della malattia: "non si vede" e questo rassicura il paziente (e le persone intorno a lui). Protesi e macchine, così come molte procedure terapeutiche quotidiane, fanno le veci, ai nostri giorni di un corpo che viene meno 17 • Se l'alterazione dell'apparire diminuisce, l'incapacità di un "fare" (le difficoltà motorie tra le altre) costituisce per l'individuo il vero segnale della malattia. Il corpo malato, se ci fa meno paura ai nostri giorni, fa risorgere tuttavia, al livello del dolore e della decadenza, la stessa angoscia, anche se cerchiamo di occultarne l'orrore. Lo spazio della malattia si è spostato verso l'interno del corpo. I malati parlano delle loro radiografie, dei loro esami di laboratorio, della scoperta degli anticorpi del virus H.I.V., scoperta che ha creato una nuova categoria di malati, i "sieropositivi", tra gli individui sani. Il "corpo della malattia" e il "corpo malato" tendono a separarsi. Da una parte la decodificazione della malattia rinvia a messaggi infracorpora1i forniti dal sapere medico (non è più nel solo visibile che dobbiamo circoscrivere la verità clinica 18 ) e, d'altra parte, una verità preme 16 Cfr. C. Herzlich, J. Pierret, Maladies d'hier, malades d'aujourd'hui, Paris, Payot, 1984, trad. it. 17 Dal corpo orribile allo spazio della malattia, in «La Quinzaine Littéraire», n. 514, agosto 1988, pp. 23-26. 18 Cfr. M. Foucault, Naissance de la clinique, Paris, PUF, 1963, pp. 94-95, trad. it.

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nell'essere del malato che percepisce l'esistenza di un male che non si fa leggere dall'osservatore. La decodificazione rinvia oggi la malattia e

il corpo malato a uno spazio sociale definito in termini di integrazione o di non-integrazione sociale, di dipendenza o di indipendenza. Un rapporto dell 'INSERM 19 elenca diciotto categorie di handicap cui "porre rimedio" sul piano medico-sociale. Questi handicap coprono tanto l'insufficienza renale cronica quanto l'infermità grave e invalidante, passando per gli handicap fisici e sensoriali (un posto è riservato alla "tecnologia salvifica" degli organi da riparare). Il vero interrogativo qui è quello dell'accettazione riservata dal! 'uomo della strada a ciò che può essere designato come anormale 20 • E là le reazioni sono diverse: i media hanno dato risonanza al caso del ristoratore che ha rifiutato il tavolo ad un poliomielitico; per altri, l'handicap fisico "non si vede", è l'anormalità mentale e la decadenza mentale che fanno paura. In Inghilterra, quando fu rifiutata l'emodialisi a un barbone senza reddito, un quartiere intero si è mobilitato per pagargliela ... Nel numero delle decadenze "scomode" vanno inclusi oggi gli anziani malati. Il "nonniboom" non era stato previsto. Non siamo lontani, oggi dal renderlo responsabile dell'attuale squilibrio del sistema sanitario. Nel 1990 si contano, in Francia, due milioni di persone di più di ottanta anni. Si teme che la cifra raddoppi nel 2020. Attualmente vivono in Francia cinquecentomila infermi costretti a letto21 e ci sono solo settantamila posti per lunghe degenze. Ora le 'lunghe degenze' ospitano solo gli anziani più validi, per una somma mensile, sborsata dalla famiglia, di dieciquindicimila franchi al mese. I centri convenzionati rifiutano i "troppo handicappati", i "troppo poveri", i "troppo vecchi" ... I bocciati delle lunghe degenze tentano le "medie degenze" (durata massima coperta dalla Sécurité Sociale: 80 giorni). Poi, partenza: il pronto soccorso, dove le famiglie si sbarazzano dei loro vecchi, e la ricerca da parte di un assistente sociale di un luogo disposto ad aprire una porticina. Alcuni anziani finiscono così da soli la loro vita, trasportati dalle barelle delle ambulanze in letti di ospedali, per arrivare alla fine a un ospedale psichiatrico quando gli altri reparti sono al completo. Persone dipendenti si ritrovano attaccate alla loro poltrona22 , il che rischia di provocare, nelINSERM, Réduire /es handicaps, «La Documentation française», 1985. Cfr. L. A van, M. Fardeau, H.J. Sticker, L 'Homme réparé. artifices, victoires, Paris, Gallimard, coll. Découvertes, 1988. 21 Le crépuscule des vieux, «T.F.1», 22, 35 1° sett. 1989. Cfr. S. Luret, Le parcours de fa lwnte, «Le Nouvel Observateur», 31 agosto - 6 settembre 1989. 22 Cfr. R. Chamballon, La camisole gériatrique, "Le Monde" 22-23 luglio 1990. 19

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le persone fobiche, severe turbe psicopatologiche. La "contenzione meccanica" oggi sembra avere preso il posto della "contenzione chimica" e nel contesto in cui si trovano solo due ausiliari per trentasei malati, il numero di persone attaccate alla poltrona o al letto il week-end e i giorni festivi diventa proporzionale alla diminuzione di un personale già insufficiente nel reparto. Questi luoghi, se è vero che sono asettici e tecnologici, ignorano spesso tutto del semplice scambio umano. Gli anziani "con buoni voti" sono quelli passivi, che dormono tutto il giorno. Non si vuole sapere di quelli che disturbano e la cui protesta ha tuttavia valore di verità (concernente una concezione normativa della gerontologia che riduce l'individuo a null'altro che puro oggetto di "cura", essendogli rifiutato il diritto alla parola). In una comunicazione all'Accademia di medicina di Parigi2J il prof. Robert Hugonot, primario di gerontologia clinica al centro Ospedaliero Universitario di Grenoble, stimava al 20% la proporzione di anziani sottoposti a sevizie psicologiche nella loro stessa famiglia, da 2 a 5% quelli che subivano sevizie fisiche. Tra le sevizie mediche subite, il prof. Hugonot contava la privazione di cure e gli abusi di neurolettici. Queste statistiche risultano da inchieste serie condotte in Svezia, in Norvegia, in Finlandia, negli Stati Uniti e in Canada. In Francia, le autorità amministrative chiudono gli occhi e si accontentano di salutare la devozione delle famiglie e del personale paramedico. Ma è evidente che in Francia gli anziani sono maltrattati quanto altrove. Secondo il prof. Hugonot, il 40% dei luoghi di accoglienza non offrirebbe ai loro ospiti condizioni di vita decenti. Dopo questa comunicazione, l'Accademia di medicina stessa ha costituito una commissione collegata con i Ministeri della Sanità e della Giustizia. Si tratta attualmente di studiare il modo di prevenire le sevizie morali e fisiche, di operare per l'istituzione di luoghi d'ascolto e di "numeri verdi" come è stato fatto per le donne che vengono picchiate. I comuni sono stati invitati ad aprire centri di accoglienza diurna per gli anziani, al fine di aiutare le famiglie a mostrarsi meno intolleranti nei riguardi dei loro genitori. .. Le prospettive della Sanità dopo il 1992 si annunciano molto inquietanti. Nei paesi europei le restrizioni di spesa programmate riguardano particolarmente gli anziani. Costano troppo e vivono troppo: è una constatazione. Si tenta dunque di operare, in modo arbitrario, una separazione tra il sociale e il sanitario, installando nuovi ghetti per gli 2·'

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M. Ambroise-Rendu, I nonni martiri, "Le Monde" 29 giugno 1990.

anziani2 4 • Assistiamo adesso a uno smantellamento della Sanità. I letti sono chiusi senza reimpiego del personale, senza creazione di nuove strutture (e questo sia per gli anziani che per i polihandicappati). Il 45% dei pazienti dovrebbe, a termine, essere escluso dai centri specialistici senza che si sia pensato, un solo attimo, alla creazione di altri tipi di strutture. I vecchi non si possono sopprimere. E tuttavia, l'unanimità delle politiche economiche europee riguardo ai tagli da realizzare sulla spesa sanitaria, a cominciare dall'assistenza agli anziani, non può non ricordarci le pratiche antiche evocate lungamente da Simone de Beauvoir 25 e che ricorderò qui solo in maniera sintetica. I lavori di Frazer hanno messo l'accento su] modo in cui, in certe società primitive, è importante per la sopravvivenza della società che il capo sia ucciso prima che le sue forze declinino, sicché possa vivere con tutto il vigore nel corpo del suo successore. Credenze simili portano i vecchi in altri luoghi (le isole Fiji) a darsi volontariamente la morte al fine di evitare che la decrepitudine li minacci per l'eternità. Nel NordEst siberiano, i figli, allevati duramente da un padre che aveva diritto di vita e di morte su di loro, si vendicavano su di lui, quando diventava vecchio. Maltrattati nell'infanzia, ]asciavano, per odio, i vecchi genitori morire per mancanza di cure. In Africa del Sud, i Tonga abbandonano più o meno i loro figli dai tre ai quattordici anni ai nonni. I bambini conoscono la fame, rubano e sottraggono la parte di cibo dei vecchi con i quali non sono teneri. Non vi è nessuna tradizione culturale e sociale, la memoria del passato non è trasmessa. Presso gli Hopi, i vecchi in fin di vita vengono lasciati in una capanna fuori dal villaggio. Li si abbandona con un po' di acqua e di cibo. Presso gli esquimesi, i vecchi vengono incoraggiati a sdraiarsi nella neve per aspettare che sopraggiunga la morte. In Giappone, si abbandonano i vecchi nelle "montagne della morte". Occorre aspettare lo sviluppo della magia e delle religioni, e una vita più agiata, perché la situazione preparata per il vecchio cambi completamente. In certe società, si installa addirittura una gerontocrazia. Il vecchio ispira rispetto, lo si teme. Presso i Lele (vicino al Congo) il potere degli anziani è stato considerevole fino agli anni Trenta. Avevano il monopolio del mestiere e ne trasmettevano il segreto a un giovane prima di ritirarsi. Restavano tuttavia indispensabili alla comunità per i riti religiosi, il segreto dei rimedi, ed erano anche indispensabili nelle 24

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Cfr. J.M. Toulouse, in Vie sociale et traitement, n. 15-16, nouvelle formule, agosto 1990. Cfr. S. de Beauvoir, La Vieillesse, Paris, Gallimard, 1970, pp. 52-213, trad. it.

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trattative di matrimonio. I giovani accettavano la tirannia dei vecchi, sapendo che, il giorno della loro morte, avrebbero ereditato le vedove e avrebbero avuto accesso a loro volta ai privilegi dell'età. I costumi sono molto diversi a seconda che le comunità siano delle bande poco strutturate o che le tribù si fissino su un territorio. Da quando la società diventa agricola vi sono delle regole che si applicano alla progenie che definiscono i diritti di successione, gli scambi matrimoniali. L'antenato non è rigettato nel passato. La comunità si interessa sia dei vivi che dei morti. L'antenato è uno spirito benevolo che abita sotto il tetto dei suoi discendenti. Il più anziano dirige le cerimonie che rendono all'antenato morto il culto che gli è dovuto. Simone de Beauvoir mette magistralmente in luce il modo in cui, nelle società primitive, un vecchio abbia maggiori probabilità di essere trattato bene e di sopravvivere presso i ricchi che presso i poveri, presso le popolazioni stabili, che presso i nomadi. Mostra altrettanto chiaramente che i popoli civilizzati applicano lo stesso trattamento, salvo l'omicidio che è vietato. Se, a partire dalla fine del XVIII secolo, la tradizione borghese perpetua la venerazione di cui è circondato l'avo, la letteratura del XIX secolo offre del vecchio una visione più realista e fa apparire la disparità delle situazioni a seconda che egli appartenga alle classi superiori o alle classi sfruttate. Nel XX secolo, la dissoluzione della cellula familiare porta la società a dovere a poco a poco sostituirsi alla famiglia, a instaurare una politica della vecchiaia. All'alba del 2000 la situazione si irrigidisce. Il problema che si pone oggi è chiaro e tondo: che cosa fare dei vecchi? Se vi è un crollo psichico nel vecchio malato, isolato o mal tollerato in famiglia o nell'istituzione, è perché, nel suo rapporto con l'altro, il vecchio non viene più trattato come un soggetto, ma diventa unicamente oggetto di cure. Non c'è più per lui un punto di ancoraggio del suo desiderio nel desiderio dell'Altro. Il vecchio, nella sua relazione con l'altro, mette in atto giochi di prestanza e di opposizione di puro prestigio. È il solo modo per lui di arrivare a farsi riconoscere in una rivolta affinché sussista la possibilità di parola. Ed ecco che, impreparati nel nostro rapporto con i vecchi, non riusciamo per nostra sordità a fornire ciò che potrebbe farli ripartire come soggetti desideranti. E questo è tanto più importante quando i vecchi abbiano subito operazioni mutilanti. Impegnato nella parola, l'essere parlante, se non può essere ascoltato nella sua miseria, si aggrappa per sfida a un significante velato dal linguaggio: è la morte. Freud ha messo l'accento sul fatto che la nostra morte non è rappresentabile; noi rimaniamo, di fronte ad essa, come spettatori2 6 • 26

S. Freud, Considérations actuelles sur la guerre et la mort ( 1915), in Essais de psychanalyse, op. cit., pp. 26-35.

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Riguardo al morto, celebriamo solo i suoi meriti. Abbiamo per il morto, il riguardo dovuto ali 'uomo vivo. La crisi più vecchia dell'umanità è stata, secondo Freud, il parricidio, l'omicidio del padre originario dell'orda primitiva, padre la cui immagine è stata trasfigurata in divinità. «Non ucciderai» aggiunge (riprendendo una parola della Bibbia), «ci dà la certezza che discendiamo da una stirpe di assassini che avevano nel sangue il desiderio di uccidere, come forse noi stessi ancora». Quest'osservazione, associata al chiarimento etnografico, dovrebbe renderci più attenti a ciò che avviene in noi riguardo agli handicappati, i vecchi, vale a dire gli improduttivi rigettati dalla società dei consumi (e per i quali, presto, il rimborso delle cure potrà solo diminuire).

La vecchiaia, verità della condizione umana «Che livello di bontà e di ironia occorre raggiungere per sopportare l'orrore della vecchiaia?» 27 scrive Freud a Lou Andréas-Salomé in una lettera del 16 maggio 1935. Aggiunge di essere diventato completamente dipendente da sua figlia Anna, e che ha fatto proprio bene a fare quella figlia ... Dieci anni prima" 8 aveva descritto alla stessa Lou il distacco che lo vince, la corazza di insensibilità che si va formando ... «Un modo, dice, di cominciare a diventare inorganico». Gli è difficile camminare ( 1929) e la lettura smette di interessarlo (28 luglio 1929). Ma nove anni prima, aveva perso sua figlia Sofia: «Nel profondo del mio essere, ravvedo» scrive allora a Ferenczi" 9 «il sentimento di un'offesa narcisistica irreparabile». Freud si scusa quasi di far pesare sul suo interlocutore il peso della sua pena. Lo rassicura piuttosto, citando Schi Iler e Goethe, per evocare l'ora invariabile del dovere e la dolce abitudine cli vivere che devono aiutarlo affinché tutto continui come al solito. Nel 1915, Freud, pur sottolineando che «il nostro inconscio è accessibile alla rappresentazione della nostra morte», suggerisce che «riserviamo alla morte il posto che le compete. Se vuoi poter sopportare la vita, aggiunge, sii pronto ad accettare la morte (si vis vitam para mortem)». Questa accettazione della morte viene per lui al posto della rimozione, ed è nella finzione e nel teatro che Freud consiglia di andan L. Andreas-Salomé, Correspondance avec Sigmund Freud, Paris, Gallimard, 1970, p. 255, lettera di Freud 16 maggio 1935, trad. it. 2 x S. Freud, Correspondance, 1873-1939, Paris, Gallimard, 1966, lettera del 10 maggio 1925, p. 390, trad. it. 29 lhid., p. 258, lettera del 4 febbraio I 920.

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re a cercare scampo. «È là - dice 30 - che troviamo ancora delle persone che sanno come morire, che addirittura si danno da fare per uccidere qualcun altro. Troviamo nella finzione, aggiunge ancora, la pluralità delle vite di cui abbiamo bisogno. Moriamo con l'eroe al quale ci identifichiamo, gli sopravviviamo e siamo pronti a morire con un altro eroe». Il giorno in cui un'amica scrittrice, che aveva più di ottanta anni, mi disse che il desiderio di leggere l'aveva abbandonata, capii che era il desiderio di vivere che si era spento in lei. Il soggetto stava elaborando il lutto di se stesso, della sua identità. Distrutta, spettatrice della propria caduta, chiamava la morte col desiderio. Le sembrava meno terribile dell'orrore di ciò che viveva. La sua parola si era infranta, crepe e falle si erano infilate nella matrice simbolica in cui ha origine l'Io dell'essere parlante e desiderante. Di cosa poteva ancora sostenersi, se non dell'amore che le rivolgeva chi le stava intorno? Ma l'odio dentro di lei faceva ritorno. Freud ci ha insegnato che l'odio il bambino lo ' incontra prima dell'amore, e che paradossalmente questo sentimento resta in seguito, come una difesa della conservazione dell'io. Nella vecchiaia avanzata" l'odio può assurgere a protezione del soggetto prima della morte, può perfino acquisire un carattere erotico e diventare il supporto della continuità di una relazione d'amore. Vi sono dei vecchi i quali, da vivi, obbligano gli altri a elaborare il lutto di ciò che hanno rappresentato per noi in un periodo della loro vita in cui la qualità degli scambi instaurati non aveva prezzo. Ciò che queste vecchie donne ignorano è che l'ambiente circostante è spesso disposto ad accettarle come sono, anche se la loro vita si dovesse ridurre a una vita puramente vegetativa. Sono loro che si ritirano dal gioco, prima del termine, ferite irrimediabilmente nel lutto dell'immagine brillante di loro stesse che si rifiutano di elaborare. Questo del desiderio è un problema che l'uomo deve situare, trovare12, per tutta la vita, molto spesso a sue spese. Il soggetto cerca di ricostituirsi in una richiesta rivolta ali' Altro. Cerca nell'Altro una sorta di garanzia che gli permetta di situarsi e ritrovarsi. Portato attraverso la questione di ciò che è, il soggetto, al livello di fantasmatica, alla fine del suo interrogativo si ritrova come dimezzato. I lutti successivi che è portato a elaborare avvengono sotto forma di oggetti che si strappano da lui, mammella, escrementi, sguardo, voce. La respirazione, nota Lacan, 111

S. Freud, Thoughts for the Times on War and Death, 1915, SE. XII, pp. 289-301, Considérations actuelles sur la guerre et la mort, in Essais de psychanalyse, cit. 11 · Cfr. C. Herfray, La Vieil/esse, Epi, Desclée de Brouwer, 1988, p. 95. 12 · J. Lacan, Séminaires dell' 11 marzo e 8 aprile 1959, inediti.

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quella, non si separa (sennò è il dramma), si ritma. Ciò che resta degli oggetti da cui il soggetto accetta di separarsi è un segno (di un significante che, continua Lacan, lo toglie da uno stato iniziale per portarlo, identificarlo a una potenza di essere differente, superiore). La mutilazione serve a orientare il desiderio in un aldilà simbolico (i riti di iniziazione garantiscono che è a partire di là che l'essere del soggetto si potrà designare come tale). Questa teoria del desiderio, nell'esperienza di Françoise Dolto, si basa anche sui lutti successivi da elaborare in ogni tappa della vita per potere accedere alla pienezza della tappa successiva. La tappa successiva ... un giorno, si troverà ad essere la morte, o l'asfissia mortale. Questo reale è difficilmente rappresentabile. Assistiamo alla nostra morte solo da spettatori. Il soggetto alla fine della corsa si trova disarmato rispetto all'esperienza di dipendenza assoluta che è chiamato a vivere. Di fronte al pericolo (di ciò che la malattia rinvia come minaccia al soggetto), il paziente può tuttavia difendersi in due modi: farsi lui stesso ostacolo a ogni possibilità di guarigione (sapendola ingannatrice, anticipa l'influenza della morte su di lui) oppure rimanere fuori gioco, rimandando all'indomani la problematica della morte che lo riguarda. Persiste sempre una sfasatura tra la concatenazione rimossa e il manifesto del discorso, il che rende difficile sapere a che livello si situa veramente il desiderio. Così, come il desiderio si trova ad essere sempre il desiderio del desiderio dell'Altro, un suicidio (o la morte chiesta all'altro) è ben lungi dall'essere semplice nel modo in cui ci sentiamo interrogati nella nostra impotenza. In ogni dramma si svelano piani sovrapposti all'interno dei quali può prendere posto la dimensione propria della soggettività umana. Ciò che il soggetto desidera veramente resta per un analista qualcosa di altamente problematico. L'isterico cerca di creare un desiderio insoddisfatto, l'ossessivo non si regge se non su un desiderio impossibile: le due vie comportano la loro verità. In quest'atto di parola è il presente che conta. In questo presente si pone una domanda che mira ali' ora dell'incontro del soggetto con ciò che vuole all'ultimo termine. Questa domanda appare con una risposta, quella di una verità senza speranza. Quest'ultima ha come sostegno una nozione di abbandono, di tradimento, parente della morte ricevuta dall'altro (perché non può più nulla per voi). Ogni morte (chiesta, voluta o subita) porta in effetti in sé la traccia di disperazione legata a una rivolta profonda. Come morire felici? è la domanda posta in contrappunto da Camus 33 ·'' A. Camus, La Mort heureuse, Paris, Gallimard, 1981, pp. 195-199, trad. it.

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in un contesto in cui si trova definita, nel suo romanzo, la nozione del ben-vivere (nel senso di una qualità della vita). «Non voleva morire come un malato ... non voleva che la malattia fosse ciò che è spesso, un'attenuazione e come una transizione verso la morte. Ciò che voleva ancora inconsciamente era l'incontro della sua vita piena di sangue e di salute con la morte. E non la messa in presenza della morte di ciò che era già quasi morto ... Questa morte che aveva guardato con lo smarrimento di una bestia, capiva che averne paura significava avere paura della vita. La paura di morire giustificava un attaccamento senza confini a ciò che è vivo nell'uomo». Nel Re Lear, in cui l'eroe è un vecchio, la vecchiaia si svela come la verità della condizione umana. Ed è a partire da essa che bisogna capire l'uomo' 4 • Nel dramma di questo vecchio, la cui vecchiaia assomiglia alla follia, Shakespeare ci fa sentire una verità che si imparenta con l'orrore di esistere. Condannato (dalla cattiveria dei suoi) all'esilio, si abbandona al suo smarrimento'\ Ciò che Lear chiede agli dei, è di potere, attraverso la forza di una collera, ritrovare, recuperare, la stima di se stesso: dare di sé lo spettacolo della follia, piuttosto che quello della miseria e della decadenza. In tutti i miti (Freud lo ricorda ininterrottamente), il figlio, dopo avere ammirato il padre, non ha che un'urgenza: sostituirglisi. La riconciliazione avviene dopo la morte del padre. Quanto all'inconscio, se tiene la morte in disparte, non dà certo spazio alla vecchiaia. Ciò che domina peraltro nella nostra società moderna, è il mito della bellezza e dell'eterna giovinezza. Quando la vecchiaia vi "prende", lo fa in maniera sempre inaspettata. I segni precursori ci sono, ma è quando un male incurabile vi assale che il desiderio di esistere bruscamente vi abbandona. In Fibrilles ( 1966)'6 Miche! Leiris spiega il deserto in cui si è trovato improvvisamente proiettato: «Quando la cancellazione da parte ·14

Cfr. S. de Beauvoir, La Vieillesse, op. cit., pp. 176-185 .

.1, W. Shakespeare, Tutte le opere, Firenze, Sansoni, a cura di Mario Praz (1964), p. 922. O cielo, dammi tu quella pazienza! quella pazienza che è il mio vero bisogno! Voi mi vedete qui, o dèi: un povero vecchio pieno di dolori e di anni; disgraziato in tutte e due le cose: se siete voi che aizzate il cuore di queste mie figliole contro il padre loro, non mi rendete così stolto da sopportarlo in pace; infiammatemi di nobile furore e non permettete che le lacrime, che sono le armi delle donne, bruttino le mie guance di uomo! No, streghe snaturate, io avrò di voi due tale vendetta, che tutto il mondo dovrà ... io farò tali cose ... quali sono non lo so ancora; ma saranno il terrore della terra. Voi vi credete di farmi piangere: no, io non piangerò ... avrei ben ragione di piangere, ma questo cuore si spezzerà in centomila schegge prima che io pianga. O mio matto, io finirò pazzo! v, Citato in S. de Beauvoir, La Vieillesse, op. cit., p. 401.

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della morte o della senilità non è più considerata come un destino, ma attesa come un male che si appresta a colpirvi, succede - ed è il mio caso - che si perda perfino il desiderio di intraprendere». La fine di una vita - in un'epoca in cui non serve a nessuno che gli uomini vivano troppo - rimanda in un certo senso a ciò che siamo stati, a ciò che abbiamo potuto realizzare e ai rimpianti di non avere terminato un'opera essere riusciti nella propria vita. Finché il vecchio rimane economicamente e psicologicamente indipendente, il desiderio di vivere permane, ma non è la stessa cosa quando la malattia si installa (e con essa la dipendenza, la solitudine, l'abbandono). Se ci sono delle morti tranquille, ci sono anche delle forme di rassegnazione vicine a una rivolta impotente. «Non mi sento vecchio, diceva un mio amico medico. La vecchiaia non vuole dire nulla, se non il dolore di una tappa in cui i compagni di una vita cominciano ad abbandonarvi. Quando un amico muore, è una parte di noi che se ne va con lui. Ancora uno - mi dico egoisticamente a ogni annuncio di decesso - ancora uno cui non potrò più telefonare, prendere la cornetta per dire: Come stai? - Sì, grazie, sto bene ... ». A partire dalla sessantina, Freud conobbe, ricordiamolo, la prova del lutto in ciò che ha di più irreparabile (la morte di alcuni dei suoi figli) e in seguito la prova della malattia. In una lettera a Ferenczi, gli scriveva il 4 febbraio 1920J7 : «Mi sono preparato per anni alla perdita dei miei figli e ora è mia figlia che è morta; poiché sono profondamente non credente, non posso accusare nessuno e so che non esiste nessun luogo in cui si possa andare a sporgere denuncia». Due anni dopo Freud cominciò ad avere problemi cardiacPx. Nel 1923 subì la prima operazione al palato e sospettò che si trattasse di un cancro. Un mese dopo perse il nipotino preferito, di quattro anni (il figlio di Sofia). Fu la sola occasione in cui fu visto piangere. Continuò a lavorare malgrado la malattia, le sofferenze fisiche e i lutti. Ciò che chiese agli amici fu di non parlargli del suo stato di salute. Ciò che chiese al suo medico fu di aiutarlo a morire con decenza, se le sofferenze fossero un giorno diventate intollerabili. Gli ultimi venti anni della vita di Freud sarebbero stati organizzati includendo lo spazio della malattia nel suo campo di lavoro. In una lettera a AbrahamJ 9 , datata 4 maggio 1924, gli disse: «Bisogna che vi mettiate al mio posto con una simpatia attiva, per :n S. Freud, Correspondances, 1873-1939, op. cit., p. 358 . .ix Prohlemi che iniziarono di fatto nel 1893 (lettera inedita a Fliess del 18 ottobre 1893), cfr. M. Schur, u1 Mort dans la vie di Freud, Paris, Gallimard, 1975, p. 62. w S. Freud, K. Abraham, Correspondence, 1907-1926, Paris, Gallimard, 1969, p. 366.

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non volermene. Per così dire in via di guarigione, ho profondamente impressa in me la convinzione pessimista della mia prossima fine, convinzione che si nutre delle piccole miserie e delle sensazioni sgradevoli provocate incessantemente dalla mia cicatrice, una sorta di depressione senile, che è centrata sulla distorsione tra un desiderio di vivere irrazionale e una rassegnazione di buon senso. Provo inoltre un bisogno di riposo e un'avversione contro il commercio degli uomini che non trovano il loro conto, né l'uno né l'altro, dato che non posso evitare sei, addirittura sette ore di lavoro quotidiano ... ». Ai lutti, alla sofferenza, si aggiunsero le difficoltà istituzionali. II Comitato Austriaco di psicanalisi fu minacciato di dissoluzione. Freud sopravvisse al Comitato che doveva succedergli, all'Associazione Internazionale che aveva creato, ma si chiese se la psicanalisi gli sarebbe sopravvissuta. Una corazza di insensibilità lo avvolse lentamente. Fu il suo modo di riuscire nel passaggio dall'organico all'inorganico: morì nel settembre 1939. La corazza di insensibilità (alternandosi con una profonda umanità nei suoi rapporti con coloro che amava) lo aiutò a superare l'angoscia dell'abbandono. La psicanalisi "lo tiene" tuttavia ed egli continuò a scrivere fino alla fine della sua vita, pur confessando nel 1935, nella postfazione a La mia vita e la Psicanalisi.ui, che sarebbe giusto dire che durante gli ultimi dieci anni della sua vita non portò più, sul piano creativo, nessun contributo decisivo. Il 21 settembre 1939, Freud ricordò al suo medico, Max Schur, la pro- . messa che gli aveva fatto, circa venti anni prima: «Mi avete promesso di non abbandonàrmi quando fosse arrivata la mia ora. Ora, non è altro che una tortura e questo non ha più senso» 41 • Secondo il suo desiderio, la figlia Anna fu messa al corrente della volontà del padre di porre fine all'insopportabile. II suo medico gli fece un'iniezione di due centigrammi di morfina. Alleviato Freud si addormentò. La dose fu ripetuta dodici ore dopo. Sfinito, Freud entrò in coma e non si risvegliò più. Sulla morte, Freud aveva scritto nel 1915: «Riguardo al morto stesso, abbiamo un comportamento particolare che assomiglia quasi all'ammirazione per colui che è riuscito in una cosa molto difficile ... Il riguardo che abbiamo per il morto e di cui non ha più bisogno passa per noi davanti alla verità e per molti di noi, certamente, anche davanti al riguardo dovuto all'uomo vivente» 42 • 40 S. Freud, Ma vie et la psychanalyse (1925), Paris, Gallimard, 1935, Postscript to an Autobiographical Study, pp. 71-74. 41 M. Schur, La mort dans la vie de Freud, cit., pp. 622-623. 42 S. Freud, Considerations actuelles sur la guerre et la mort (1915), in Essais de psyc/wnalyse, cit., p. 27.

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Freud accettò, dopo sedici anni di lotte e di sofferenze, lo sbocco ineluttabile della malattia - a meno del fatto di averne chiesto il dominio. Aveva deciso, per ciò che lo concerneva, che era arrivata l'ora di affrontare la morte in maniera decente, e il medico adempì al contratto. Morì da patriarca, rifiutando ogni manifestazione di sensibilità esagerata e di pietà. Abbreviò la sua vita per non offrire lo spettacolo intollerabile della sofferenza. I limiti erano stati raggiunti, intese rimanere padrone della sua scelta di lasciare la vita, lucido.

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Capitolo secondo

L'uomo di fronte alla morte

I progressi della menzogna Lasciare la vita nell'ora di propria scelta resta, oggi come ieri, un privilegio riservato agli iniziati. La morte, quando è lucidamente desiderata (all'infuori di uno stato depressivo e perché ci si trova già deprivati della propria vita) la si vuole "sicura e dolce". All'estero esistono (dal 1935 in Gran Bretagna, dal 1938 a New York, dal 1967 nei Paesi Bassi) delle associazioni per il diritto di morire nella dignità. Si è dovuto aspettare il 1980 perché una tale associazione si costituisse in Francia. Per il non-iniziato (e fisicamente valido) gettarsi dalla Torre Eiffel rimane la scelta radicale più "sicura"; ingerendo farmaci, se il dosaggio è mal calcolato, si rischia in effetti di essere portati in rianimazione. Ed è per fronteggiare il "buco" nella formazione medica che un'associazione olandese ha creato, nel 1973 1, un'associazione riservata ai medici, che fornisce loro le condizioni scientifiche necessarie per la pratica dell'eutanasia nella fase terminale delle malattie incurabili (quando il paziente che soffre ne abbia fatto domanda). In Gran Bretagna, un libro, Jeans Way1, dà nel dettaglio la composizione del cocktail medicinale (preparato con un medico) da conservare per il giorno in cui la malattia entrasse nella sua fase terminale. Nel 1990, il controllo del dolore (l'uso dei derivati della morfina, corticoidi, psicotropi, etc.) ha fatto tali progressi che la richiesta di eutanasia nella fase terminale delle malattie diminuisce di fronte alle possibilità di cure palliative eseguite bene, che portano l'assenza di dolo1

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"Nederlandse Vereniging voor vrywillige euthanasie". D. Humphcry, Jean 's Way, London, Fontana Collins, 1975.

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re nella quasi totalità dei casi. Ciò che si considera oggi, è la fine di una vita. Ciò di cui ci si rende conto oggi, è che la richiesta di eutanasia proveniente dalla famiglia o dal personale ausiliario corrisponde all'incapacità di tollerare il loro vissuto. Riprenderemo questa problematica verso la fine di questo libro. Di queste pratiche non è elegante parlare, perché nella nostra società si è arrivati al punto di distogliersi dalla malattia e dalla morte fino a ingannare lo stesso malato sulla gravità della sua condizione. È stato il caso di Freud': il Comitato (Abraham, Eitingon, Ferenczi, Jones, Rank, e Sachs) decise (con l'accordo del medico curante di Freud) di nascondergli la necessità di una nuova operazione perché potesse partire per Roma, ancora una volta con la figlia Anna (nel 1923). Durante l'ultimo anno della sua vita (1939) Jones comunicò a Freud la "sollecitudine" che il Comitato gli aveva manifestato in passato. Freud, furioso, gli domandò «con che diritto?». Infatti gli amici avevano deciso "per il suo bene" di soprassedere alla data di un'operazione, operazione che appariva a posteriori invece necessaria in quanto si verificò un'emorragia durante il tragitto in treno che portava Freud da Verona a Roma ... Al suo ritorno da Roma, quando il prof. Hans Pichler lo visitò e gli disse la verità, Freud accolse la diagnosi con sangue freddo. La sua ribellione a11' idea di essere stato ingannato rinviava il suo interlocutore a un problema di etica: si ha il diritto di disporre del corpo dei pazienti senza dare loro la possibilità di una scelta basata sui rischi che gli si fanno correre in caso di intervento o non-intervento chirurgico? Nel suo libro L'uomo davanti alla morte\ Philippe Ariès spiega in modo magistrale il cambiamento di atteggiamento della società davanti alla malattia e alla morte. Nel Medio Evo, la morte era regolata da un rituale. Lasciava il tempo dell'avvertimento'. I semplici erano osservatori dei segni su loro stessi. Quando l'ora era arrivata, morivano esattamente come dovevano. La morte maledetta (che si presenta sotto una figura terrificante) era la morte improvvisa (incidente, avvelenamento). Quella morte era marcata dal sigillo della maledizione, come se delle forze misteriose demoniache fossero state ali' origine del dramma; ed è a queste stesse forze demoniache che venivano attribuite, nel Medio Evo, l'origine dell'epilessia e della follia. La morte familiare (all'epoca in cui si moriva in pubblico) Philippe 'M. Schur, La Mort dans la vie de Freud, cit., p. 431. P. Ariès, L 'Homme devant la mort, Paris, Seui], 1977, Points, trad. it. 5 lhid., p. 13 (cfr. I cavalieri della Chanson de Roland).

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Ariès la chiama la morte addomesticata 6 • Nel XVIII secolo, o all'inizio del XIX, era consuetudine che i vicini, gli amici, i preti venissero ad assistere il moribondo. La casa era aperta a tutti. È stato a lungo così nelle campagne francesi. Poi venne, con il progresso della medicina, la morte che Philippe Ariès qualifica come selvaggia. Oggi, è difficile dare alla morte un nome. Fa paura e tutto accade come se non dovesse esistere. L'uomo in passato sapeva che un giorno sarebbe morto e vi si preparava, così come dalla separazione dai suoi beni. Il corpo del morto veniva esposto. In Bretagna, un inno bretone chiamava i fedeli a venire a vedere le ossa: i carnieri diventavano degli ostensori per essere visti1 • I testamenti erano spesso dei testamenti mistici, in cui l'uomo diceva il ricordo del tragitto di una vita che la morte gli rinviava. Colui che faceva il testamento tentava peraltro di lasciare un messaggio alla sua discendenza. Una tradizione si trasmetteva così dalla vita oltre la morte, alla generazione successiva. Le tombe avevano la funzione di conservare scritta sulla pietra tombale la memoria di una reputazione (e questo tanto più in quanto aveva potuto essere stata rifiutata dal defunto quando era in vita). Le iscrizioni sul pavimento e i muri delle chiese 8 sembravano dovere assicurare la gloria del defunto che voleva imporre il ricordo della sua vita alla posterità. Ai nostri giorni, questa tradizione non è del tutto persa. Conosco persone che hanno contratto dei debiti per farsi costruire nel villaggio di loro scelta una sorta di "casa-tomba". Un operaio ha scelto il villaggio natale di sua moglie per farsi erigere un monumento, mentre quest'ultima ha dato disposizioni per ricongiungersi con la propria madre in un altra tomba di famiglia ... Il divorzio dei cuori della coppia in vita riemerge così fin nella morte. Un'altra vecchia donna corsa si rifiuta di essere sepolta nella proprietà di famiglia per non ritrovare le sue sorelle ... e sceglie la tomba anonima senza cure, in una città in cui non ha legami familiari piuttosto che ricongiungersi al marito nel villaggio d'origine di quest'ultimo ... Poco alla lbid., p. 36. lbid., p. 67: «Andiamo all'ossario, o Cristiani, vediamo le ossa Dei nostri fratelli (... ) Guardiamo lo stato pietoso in cui sono ridotti (... ) Le vedete, sono rotte, sbriciolate( ... ) Ascoltate dunque il loro insegnamento, ascoltatelo bene ... ». (A Le Bras) 8 /bici., pp. 221-226. 6

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volta, come ricorda Philippe Ariès, l'arte di vivere è subentrata al posto dell'arte di morire. La meditazione sulla morte prende allora posto in una vita (ben riempita):

Per morire felici, a vivere occorre imparare, Per vivere felici, a morire bisogna imparare 9 • Questi versi ignaziani, ci ricorda Philippe Ariès, sono del calvinista Duplessis-Mornay. Se si ha fiducia in Dio, la preparazione alla morte non è necessaria. Erasmo per conto suo era violentemente contrario a)la scena tradizionale dell'assoluzione del morente. La chiesa della Controriforma ne conservò in seguito solo l'essenziale: il viatico e l'estrema unzione. Progressivamente i manuali del morire, sotto l'influenza dell'élite riformatrice della chiesa, scompaiono. Prendono il loro posto libri di pietà per la vita di tutti i giorni. È in effetti un'ipocrisia quella che l'élite ha tentato di denunciare opponendosi all'idea, nata nel XVI secolo 10 , che si possa contare su una buona morte per riscattare una vita cattiva. Nella vita quotidiana, la morte permane un momento importante, ma i I rigorismo dei riformatori peserà sulle tradizioni apportando più discrezione nelle cerimonie. Si dovrà attendere la seconda metà del XVIII secolo per vedere riapparire, tra i credenti e i non credenti, l'auspicio, per sé, di una "buona morte". Uno degli effetti della svalutazione della "buona morte" sarà la sua desacralizzazione. La banalizzazione della morte è in effetti assai vicina alla negazione (sulla quale Freud più tardi metterà l'accento). Ciò che l'uomo chiede, in effetti, è di poter partire dimenticando che la morte esiste. I riti della morte sono vieppiù semplificati. Le convenienze esigono che la persona colpita dal lutto ritorni a una vita normale, appena trascorso il tempo accordato dalla consuetudine. Si esige la rimozione del dolore al posto dello sfogo che si richiedeva in passato. Poco alla volta si è instaurata una forma di ascesi (il rinvio del piacere) che è stata la base del capitalismo. La vita non diviene più desiderabile della morte. All'inizio del XVIII secolo, le sepolture hanno luogo in cimiteri separati dalla chiesa e si manifesta un'ostilità verso quei curati che preferiscono continuare a seppellire i morti nella loro chiesa. È in questa stessa epoca che si disegna (con Sade) una sorta di vertigine del nulla e la ricerca di un ritorno alla natura. Philippe Ariès cita del resto un 9

lbid., t. II, p. 12. lbid., t. II, pp.16-19.

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romanzo del 1804-1805 in cui uno dei personaggi sul suo letto di morte si separa dai suoi con queste parole: «Nulla resterà di me. Muoio tutto intero, così oscuro come non fossi mai nato. Oh nulla ricevi dunque la tua preda» 11 • Essendo stata ostacolata l'elaborazione del lutto nel XVIII secolo per delle ragioni di "convenienza sociale" sono stati i tratti malinconici che, in seguito, hanno caratterizzato tutta un'epoca. La persona in lutto che non può nei tempi richiesti ritrovare la vita normale è invitata a rifugiarsi nel convento ... Poiché la reazione alla perdita di una persona amata non è più sostenuta da un gruppo sociale, si ha il sorgere di una depressione (che non dice il suo nome). Si verifica una perdita di un interesse per il mondo esterno, come per qualsiasi scelta di un oggetto nuovo che ricordi il defunto. Ora, se nella depressione 12 il mondo è diventato vuoto, nella malinconia è l'io stesso che si sente impoverito. Vi è allora un'identificazione narcisistica con l'oggetto perduto; sorge l'odio che fa soffrire l'oggetto sostituito ali' oggetto perduto ( o la stessa persona in lutto), non essendo mai del tutto estranea alla sofferenza una connotazione sadica. Non è affatto sorprendente, allora, che abbiamo assistito nel XIX secolo a una crescita del sadismo, prima inconscio e in seguito confessato". La natura, lungi dall'essere la Provvidenza, rimane un mondo ostile esterno all'uomo. L'uomo ci dice Philippe Ariès, ha contrapposto la società che egli ha costruito alla natura che ha represso. La morale e la religione hanno mantenuto la sessualità in divieti che variano da una società all'altra. La morte ha perso peraltro il suo aspetto selvaggio, si è ritrovata addomesticata (quasi assimilata alle diverse tappe della vita: infanzia, adolescenza, maggiore età, età adulta, vecchiaia e morte). L'uomo non è più considerato come un tutto. Alla sua morte, lascia un corpo destinato a ritornare polvere, la sua anima entra nella vita eterna. Presto, tuttavia, la natura assimilata alle forze demiurgiche diventa la rivale principale di Dio 14 • Per varie generazioni di medici (nel XVI, XVII, e XVIII secolo) la morte non era considerata reale che al momento della decomposizione del corpo. L'imbalsamatura prolungava, per così dire, qualcosa della 11

lbid.. t. Il. p. 62. S. Freud, Deuil et Mélancolie, in Métapsychologie, Paris, Gallimard, 1917, coli. Idées, pp. 148-165. 11 P. Ariès, L'homme devant la mort, cit., t. II, p. 79. 14 Jbid., t. II, p. I 03. 12

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vita. Per l'uomo del passato, la morte portava gioia all'agonizzante. Non era considerata (dai credenti) come unafermata della vita. Si trattava del passaggio a un'altra vita. Poi le sepolture si sono per lo più laicizzate, benché le funzioni confessionali siano tollerate. Il culto dei morti cambia: nel XIX secolo si raccomanda l'imbalsamazione e ci si preoccupa di rendere al morto la sua dignità. All'inizio del XX secolo la morte del singolo resta ancora un fatto di tutti. È il gruppo sociale che va consolato della perdita di uno dei suoi. Tuttavia la relazione tra il morente e il suo entourage subisce un ribaltamento fin dalla seconda metà del XIX secolo (e questo non senza coincidere con l'inizio della medicalizzazione). Il malato sa che morirà, ma intorno tutti fingono di ignorarlo. Il malato tace perché rifiuta di essere trattato da moribondo (vi ritorneremo in seguito a proposito della Morte di Ivan Illitch). Il medico si trova, il più delle volte, costretto alla menzogna. Si fa dunque come se la morte non esistesse. Il corpo, tuttavia, è là, ha bisogno di cure, esala degli odori e non è sempre bello da vedersi. Il malato assiste, piano piano, ad un diradarsi delle visite. Per decenza non si mostra più un uomo che agonizza. Non contento di frustrarlo con la sua morte (il medico ha piuttosto tendenza a fuggire, non appena si sente impotente a guarire) si isola allora il "condannato a morire" in ospedale, divenuto l'unico luogo dove si possa, in maniera decente, morire di nascosto. L'onere delle cure era, in passato, condiviso dalla famiglia, i vicini, gli amici. Oggi è diventato impossibile. Solo i privilegiati muoiono ancora a casa loro. La cosiddetta "ospedalizzazione a domicilio" esclude (nella pratica) dal suo campo i grandi malati nella fase terminale 15 • È sconveniente, oramai, dare a vedere la decadenza che accompagna la vecchiaia. Non appena un uomo reputato "brillante" è fortemente debilitato, lo si nasconde. Come contraccolpo gli amici si allontanano "per pudore" o per proteggersi essi stessi dal dolore di vedere la degradazione di una persona. Si può dire che i vecchi, quando sono malati, vengano scartati dalla vita, già da vivi. Non vengono più trattati da soggetti, ma da bambini, ogget15 Le strutture di Ospedalizzazione a domicilio (H.A.D.) si appoggiano su una famiglia estremamente disponibile (che interrompa ogni lavoro retribuito all'esterno). Se la famiglia continua la vita professionale, pur desiderando tenere il malato a domicilio, è da supporre che possa affrontare le spese di una persona che si occupi della casa più un'infenniera privata 24 ore su 24.

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to di cure e pregati di tacere. L'entourage, che sia familiare o ospedaliero, è così poco preparato a aiutare un proprio caro a finire confortevolmente la sua vita che solo un quarto delle persone colpite dal lutto ha assistito alla morte di uno dei suoi cari. La morte la si fugge, come anche la malattia. Quando Octave Mannoni, fu chiamato in Corsica, negli anni '60, al capezzale di sua madre morente, essa si spense prima dell'arrivo del figlio: nel momento stesso in cui le fu detto che stavamo prendendo l'aereo, chiuse gli occhi e disse: «Va bene così, sennò potrei turbarlo». Una sua vicina si occupò della toilette mortuaria, e ci aspettò per l'organizzazione dei funerali. Non avevo mai visto un morto, in vita mia (eccetto in sala settaria) e, essendo molto legata a mia suocera, ebbi veramente bisogno dell'aiuto dei vicini per entrare nella camera. Octave era perso, voleva essere già altrove. Ciò che ci aiutò fu il rituale corso, al quale non dovemmo fare altro che adeguarci per soddisfare la tradizione. Questo rituale permette al sopravvissuto di compiere il suo dovere, rispetto all'antenato che lo lascia. Questo è scomparso poco alla volta nelle grandi città. Il lutto è soppresso e la persona colpita dal lutto viene evitata dagli amici, se non riesce a vivere astenendosi di parlare dello scomparso. Tutto accade oggi come se parlare del morto rischiasse di portare sfortuna ai vivi. Si arriva così oggi, non solo a espellere il malato dall'ospedale, o a mascherare le sepolture, ma a fuggire le persone in lutto ... La "buona" morte di oggi corrisponde così alla morte maledetta di un tempo (la morte che passava inosservata). La "cattiva" morte è quella che turba l'entourage, sia che il malato si ribelli, sia che si ritiri dai vivi anticipando la sua ora. La resistenza dell'ambiente ospedaliero alla morte è proporzionale all'impotenza risentita dal medico quando non può prolungare la vita dei suoi pazienti. Il medico si sottrae spesso 16 • 1 "

L'ho sperimentato personalmente: un medico di guardia è letteralmente fuggito dicendo all'infermiera: «Mio Dio, il signor Mannoni sta per morire ... ». Per essere sincera se me lo avesse detto, non ne avrei tenuto nessun conto. Fortunatamente gli amici sono stati con Octave fino alla fine. Solo l'ultimo giorno un'infermiera mi ha detto: «Il signor Mannoni non sta bene bisogna metterlo a letto». Cosa che feci. Lei sapeva ciò che io non sapevo ancora. Ma non appena la sera annunciai all'aiuto infermiera che mi aiutava che Octave era appena morto, lei scappò terrorizzata... lasciandomi fortunatamente con gli amici e i figli che mi furono di grande aiuto. La governante originaria della Normandia, avvisata per telefono, era arrivata in mezz'ora preoccupata del modo in cui sarebbe stato "preparato" il padrone, vestirlo, farlo imbalsamare affinché, per otto giorni, amici e allievi potessero venire e dirgli addio. Queste tradizioni aiutano i sopravvissuti a sentirsi circondati ... La vita e la morte stanno gomito a gomito nell'appartamento, poiché fin dall'indomani ricevevo come al solito gli analizzandi, pur accompagnando in altri momenti gli amici che desideravano restare con Octave.

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La morte è sempre stata esclusa dal sapere medico (salvo in medicina legale); i medici non sono così affatto preparati ad aiutare i malati in fin di vita. I medici non ospedalieri sono, quanto a loro, messi poco a confronto con la morte, e il loro rifugiarsi nel silenzio è spesso identico a quello dei loro colleghi ospedalieri. La morte del paziente è lo scacco del medico e la sua prima reazione inconscia è di volergliene o di prendere la fuga ... Negli Stati Uniti è nato un movimento, negli anni '60, per rendere al morente la sua dignità. Nessun reparto ospedaliero accettava l'idea di potere ospitare dei moribondi ... Ora, psicologi, sociologi, psichiatri, desideravano parlare con loro, per rendersi conto delle condizioni riservate ai malati terminali. Occorse un certo tempo per ridurre la resistenza dei medici ... E quando Elisabeth Kilbbler-Ross, medico lei stessa, pubblicò negli Stati Uniti il suo libro On Death and Dying (1969) 17 questo ebbe una tiratura di più di un milione di esemplari. Ciò che il moribondo accetta male è l'idea dell'insignificanza del suo caso: morirà e si fa come se nulla fosse. Il minimo di attenzione amichevole scompare: il medico è infastidito. Pochi ospedali o cliniche convenzionate hanno delle nozioni di gerontologia. L'architettura non è concepita all'interno per la persona che non può più muoversi. Se dalla finestra si ha a volte una vista su un parco magnifico, la stanza piccola non permette al malato di avere alla sua portata un minimo di oggetti familiari: gli scaffali sono in alto, le prese multiple inaccessibili, le prolunghe portate dagli amici immediatamente "messe a posto" nell'armadietto dal personale; l'invalido non ha neanche accesso alla sua radio; quanto al telefono è irraggiungibile ... Il paziente viene sopportato se tace. E, in effetti, in quest'atmosfera asettica impara in fretta a tacere, a non alimentarsi più, a non bere più e a morire. L'architettura è bella, tutto è pulito, non importa che sia umanamente inadeguato: se il malato si disidrata, vuol dire che ha un brutto carattere. Vi sono molti posti di questo tipo: è così che un reparto specializzato nella rieducazione delle fratture del femore nell'anziano lascia morire una persona di settanta anni per un edema al polmone non diagnosticato in tempo; i medici

17 Citato da P. Ariès, op. cit., t. II, p. 299, Kiibbler-Ross, On Death and Dying, New York, Mc Millan, 1969, trad. it.

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"passano" per essere meno attenti ai pazienti dei controllori dei Wagonlits ai loro passeggeri 18 • Accanto a ciò si disegna la costruzione del futuro: quella di unità di cura che accolgano i moribondi per la loro ultima dimora: sonno assicurato fino al risultato finale. Almeno la sofferenza è esclusa, e l'incoscienza garantita. Perché non costruire un giorno anche degli ospedali in cui gli uomini vadano a morire perché hanno deciso che la loro ora è venuta? Candidati ce ne sono. Sembrano anche essere numerosi. «Il nostro modello della morte - secondo Philippe Ariès 19 - si è sviluppato là dove si sono succedute due credenze: prima la credenza in una natura che sembrava eliminare la morte, poi la credenza in una tecnica che sostituirebbe la natura e eliminerebbe la morte più certamente». Ciò che possiamo constatare, è che la generazione di oggi desidera a tal punto liberarsi dei suoi vecchi che, in un paese come gli Stati Uniti, si è arrivati a fabbricare dei dottori del lutto (doctors of grief) la cui funzione è di aiutare le famiglie colpite dal lutto ... per il tempo di un funerale. Il lutto aldilà dei funerali non è più di stagione. Oggi non si tratta più tanto di onorare i morti quanto di proteggere il vivo messo di fronte alla morte dei suoi. Il solo luogo in cui la morte sia relegata, attualmente, è l'ospedale (accade che vi si aggiunga, sul modello anglosassone, la casa dei morti: la cremazione viene seguita allora da un breve "memoria! service" in cui si rende omaggio allo scomparso). 18 Esiste un divario enorme tra ciò che è previsto dalla legge per le persone invalide della terza e quarta età e l'applicazione kafkiana dei testi in vigore. Se, in Belgio, una mutua tiene conto della realtà economica delle spese per il mantenimento a domicilio dei malati, in Francia una mutua (Mutua Generale dell'Insegnamento Nazionale) sceglie, nei fatti, una politica cli "cure" fondata sul suo sviluppo istituzionale. È così che i nostri amici poeti e scrittori, associati universitari, finiscono la loro vita alla Verrière, per non avere potuto affrontare la realtà parigina del costo degli infermieri. Il costo di un infermiere secondo le agenzie (che prosperano e si moltiplicano), varia da diecimila a dodicimila franchi a settimana. L'aiuto infermiere non diplomato costa, in altre agenzie, quattordicimila franchi al mese. Questi "ausiliari" si reclutano esclusivamente tra gli immigrati. Questo mercato parallelo colma il vuoto lasciato dai servizi pubblici che chiudono un occhio davanti a ciò che potrebbe essere chiamato lo sfruttamento della malattia e della disgrazia. Il ricovero, in Francia, è incoraggiato nei fatti laddove le mutue hanno bisogno, per la loro redditività, di malati che occupino i loro letti. La Sécurité Sociale non si sente chiamata in causa. Che noi lo vogliamo o meno, siamo, attualmente, nel mondo, di fronte a una scelta di civiltà. Jacques Ruffié concludeva in questi termini un articolo recente ("Le Monde", 25 maggio 1988) consacrato al rischio di sottosviluppo della medicina francese: «Questa disparità davanti alla sofferenza, la malattia e la morte, costituirebbe l'ingiustizia più sconvolgente di questa fine di secolo. Dieci anni dopo la morte di Robert Debré, il suo coraggio e quello dei suoi amici, non saranno serviti a nulla? Ecco arrivato il momento di porre fine a questa disperazione». 19 P. Ariès, op. cit., t. II, p. 305.

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La speranza esclusa Si dovrebbe stabilire un ponte tra la tappa in cui il paziente si sa condannato ma tiene ancora alla vita e la tappa in cui vi rinuncia perché sopraffatto dalla sofferenza. Questo tempo intermedio può essere lungo, durare a volte vari anni, e si ha troppo spesso la tendenza, a quel punto, a considerare il malato solo come oggetto di cure, mentre è essenziale per lui che siano privilegiati i momenti in cui può, in quanto soggetto, essere trattato come tale. Freud definisce l'angoscia come segnale20 articolato a un pericolo mortale. Fino alla fine l'essere umano si sostiene con la domanda: "cosa vuole l'altro?" È il non lo so (ciò che sono per l'altro) che è angoscioso. È là che lo sguardo dell'altro porta al paziente sicurezza o insicurezza. È in effetti nello sguardo e nella voce dell'altro che il soggetto trova un sostegno. Ali' origine della vita, il grido del neonato viene come un richiamo e riceve di ritorno una risposta "contenente" l'angoscia originaria. Imparerà in seguito, a un certo stadio, il gioco di staccarsi dal seno e riprenderlo. Questo primo oggetto (che prende un posto preciso nel legame con l'altro, la madre) è destinato a diventare, fin dall'origine, un oggetto abbandonato, situato in una relazione specifica con l'altro. Il desiderio, in quanto è tentazione (desiderio del desiderio dell'Altro), ci riporta sempre all'angoscia quale la incontriamo nella sua funzione originaria: l'affetto se ne va alla deriva 21 (perché ciò che lo ormeggia è rimosso). Ma in quanto soggetto dell'inconscio, la mancanza può essere desiderio, partecipante sempre di qualche vuoto che può essere riempito in diverse maniere. A ogni tappa della sua vita, l'uomo è così chiamato a elaborare il lutto della tappa precedente. Alla tappa della vecchiaia, non ha più la speranza di un guadagno (quello che procura per esempio il passaggio dall'adolescenza all'età adulta). Ciò che si profila per ultimo è una perdita radicale, ma, nel presente, ciò che preme, è la rimembranza di una vita vissuta con l'essere amato (i colleghi di lavoro, gli amici). Quest'elaborazione del lutto (di ciò che si è stati) ha bisogno di sostenersi di una dimensione narcisistica idealizzata, vale a dire che, anche deluso, il soggetto avrà l'assicurazione di trovare nell'Altro un garante, senza il quale attaccherà l'oggetto che è diventato attraverso la propria immagine delusa. 211 21

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Cfr. J. Lacan, Séminaire del 3 luglio 1963 (inedito). Cfr. J. Lacan, Séminaire del 14 novembre 1962 (inedito).

Lo spazio nel quale il soggetto avanza fa parte del reale 22 , e la realtà di questo spazio deve essere colta nelle sue tre dimensioni: reale, immaginaria, e simbolica. È attraverso la cornice del fantasma che si mantiene o prende forma qualcosa riguardante il desiderio. La costituzione del soggetto si fa sempre al posto dell'Altro, il sintomo ne è il risultato, l'effetto ne è il desiderio 23 • Il paziente, in fin di vita, anche se non parla più, è attento alla realtà di una vita che gli è imposta, agli effetti delle parole (effetti del significante) che fanno sorgere in lui una dimensione di significante dalla tonalità persecutoria o rassicurante. Tutte queste piccole cose che danno sale alla vita, costituiscono un apporto essenziale quando si comincia a sentirsi diminuiti, senz'altra speranza che una fine imminente. Perso nei suoi riferimenti, il malato arriva a chiedersi dove sia, perché vive ancora e se l'esistenza trascorsa meritava di essere vissuta. Il passato suppone un futuro che si rende presente nel presente. Quando non vi è più di che sognare l'avvenire, e il presente è diventato indifferente, permane un passato esso stesso sospeso ai ricordi quando non sono completamente cancellati; «chi non ricorda più - scrive Vietar Hugo - è più morto dei morti». Il soggetto in attesa (di morire) è come sospeso fino al momento in cui tutto improvvisamente sembra accendersi. È la malattia incurabile che porta via Ivan Illitch in qualche mese, la speranza bandita che si impone presso i disperati di Victor Hugo o presso i condannati di Dostoi"evski. Tutto per loro si giocherà in qualche ora 24. Il condannato conserva la speranza finché non si precisa l' hora certa. Le lancette del tempo non cessano di girare, poi viene il momento inesorabile in cui ogni rinvio è annullato, il momento in cui il tempo si riduce allo spazio in cui si è prigionieri. L'uomo, in generale, chiamato a morire un giorno, sine hora, ha di fronte due prospettive: la rassegnazione, o la rivolta fatta da un desiderio di vivere ciò che resta da vi vere. Tenta di aggrapparsi a ciò che del passato può ancora, nel presente, costituire un progetto per l'indomani. Egli spera allora di potere fermare il tempo. Ivan Illitch 2 \ fin dall'attacco del male, vive sospeso alla diagnosi medica; ciò che chiede è il nome della sua malattia, è sapere se l'esito sarà fatale o no. I suoi familiari sembrano non preoc22

Cfr. J. Lacan, Séminaire del 12 giugno 1963 (inedito). lbid. 24 V. Hugo, Veni, Vidi, Vixi, in Oeuvres poétiques complètes, Paris, Jean-Jacques Pauvert, 1961, p. 429. 25 L. Tolstoj, LA Morte di Ivan lllitch, Milano, Rizzali, 1976. B

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cuparsi di ciò che gli succede. I colleghi di lavoro e i suoi subalterni constatano, invece, l'aggravarsi dello stato del celebre giurista, che comincia ad accumulare le sviste e a confondere in maniera inestricabile i fatti giudiziari. Ivan Illitch lotta contro la menzogna e contemporaneamente vi si aggrappa. Egli si rende conto, tuttavia, che le cure non fanno altro che mantenere il dolore e che, alla fine, la morte lo aspetta. «Appendice ... rene fluttuante si dice, oh! non di questo si tratta( ... ). L'essenza vitale se ne va, e non posso fare nulla per trattenerla. Ma sì. Perché dunque illudersi? Non è dunque evidente per tutti tranne che per me, che in questo momento muoio, che tutto deve finire tra qualche settimana, qualche giorno( ... ) subito, forse» 26 • L'entourage aveva a cuore di continuare la vita come in passato. Ognuno entra oramai nella commedia per sostenere il morale di Ivan Illitch. Ci si persuade che i suoi disturbi non sono gravi. Ci manca poco che non venga trattato da malato immaginario. Ciò che è certo è che Ivan Illitch percepisce perfettamente che qualcosa è cambiato nei suoi rapporti con la famiglia, con gli amici: si sente trattato come un bambino, un bambino che viene sgridato a volte, se non prende bene le sue medicine. La complicità del silenzio è stata rotta una volta dal cognato. Spaventato dallo stato di deperimento del malato, si chiude in salotto con Praskovia Fédorovna, la moglie di Ivan, e le dice: «È un uomo morto( ... ) vedi i suoi occhi... non c'è luce ... Ma cosa ha esattamente?» 27 • Ivan Illitch sorprende la conversazione, accetta di consultare un medico famoso e si aggrappa per un certo tempo ali' idea che tutto finirà per rientrare nel l'ordine normale. Gli si chiede di curarsi e lui si sa morente. Si mette a odiare la moglie, e poi, a poco a poco tutti gli altri, eccetto il suo domestico Guérassim. Si rende ben conto, al terzo mese della sua malattia, che il peso della sua presenza è diventato tale per i suoi, che le domande relative a lui vertono unicamente intorno al momento in cui, finalmente, farà spazio, scomparendo (il suo supplizio essendo diventato il supplizio di tutti). Per lottare contro l'insonnia e il dolore, le dosi di oppio e di morfina vengono a poco a poco aumentate. Gli si prepara del cibo speciale, fetido. Ivan si sopporta sempre peggio in una situazione in cui la decadenza fisica lo porta a sporcarsi (a defecarsi addosso) e a puzzare: «Ti deve disgustare ... Scusami ... Non posso fare altrimenti, dice al suo domestico - Via signore!. .. Non è granché, siete malato, no?» 28 • 26 27 28

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Jbid., p. 53. !bid., p. 51. Jbid., p. 62.

La sofferenza cessa mentre Ivan Illitch sta con il domestico. È in effetti il solo a non mentire, a sentire la disperazione del padrone: «Moriremo tutti un giorno, non è vero? ... Allora perché non cercare di essere utili?». In certi momenti, Ivan si sorprende a voler essere preso tra le braccia, come un bambino, per essere compatito. Ma in altri momenti, prigioniero del suo personaggio, può parlare con un visitatore di una certa sentenza della Corte di Cassazione. Ivan è partecipe della menzogna dell'entourage. Il medico lo inganna, ma ogni volta Ivan si aggrappa al suo sguardo e tenta di leggervi una speranza. Speranza e disperazione sono talmente intrecciati che il paziente, quando chiede la verità, chiede anche di esserne protetto. Ivan Illitch assiste al suo declino e allo stesso tempo innalza una barriera tra una verità obieLtiva e il vissuto della sua sofferenza. Una voce ribadisce in lui: «Voglio vivere ... - Vivere come?» riprende la voce. Ivan Illitch si mette allora a rievocare la sua infanzia. Essa sola trova grazie ai suoi occhi. I suoi ricordi tuttavia hanno l'aria di riferirsi a un altro, non a lui stesso. Tutto accade come se fosse sul punto di sdoppiarsi. O piuttosto l'Io che porta dei ricordi concerne un altro. Un altro in lui si manifesta così come nunzio della sua morte imminente, ma è ancora la vita che Ivan Illitch reclama, non appena i dolori si placano. Si dice che la sua vita non è stata altro che una menzogna eterna destinata a mascherare le questioni di vita e di morte 29 • L'odio ritorna contemporaneamente al dolore. Vuole rimanere solo. Il dolore diminuisce, il figlio e la moglie si ritrovano al suo capezzale. Ha pietà di loro e si dice che è meglio per loro che lui scompaia. - Il dolore, dov'è? La morte dov'è? L'agonia si prolunga per due ore. «Finita, la morte! si diceva ... Non esiste più! Ivan Illitch inspirò una boccata d'aria, ( ... ) stirò le membra e morì» 30 • Il discorso sull'istante vissuto si spegne con l'ultimo sospiro. Ivan Illitch è morto senza rumore. La morte "sconveniente" di Illitch ci condurrà, abbiamo visto, in altri tempi ( 1930-1950), alla morte "nascosta" in ospedale. «La morte ed io - scrive Jankélévitch 31 - ci escludiamo l'un l'altro, e ci scacciamo reciprocamente; finché ci sono io, la morte è assente, e quando la morte è presente, non ci sono più io». Il vivente non si adatta alla morte. Quest'ultima lo coglie sempre di sorpresa. 29

311 .li

lbid., p. 87. lhid., p. 91. V. Jankélévitch, La Mort, Paris, Flammarion, 1977, p. 270.

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L'idealizzazione o il diniego della morte «L'idealizzazione - per Freud - concerne l'oggetto attraverso il quale questo è ingrandito e esaltato fisicamente senza che la sua natura sia cambiata»' 2 • Nella teoria kleiniana, l'idealizzazione è situata come processo di difesa'\ si tratta di difendere l'oggetto "buono" da ogni possibilità di attacco distruttore. L'idealizzazione della morte si trova prima di tutto presso coloro che hanno conosciuto una vita di privazioni. Essi intravedono la morte come ritrovamento di un'oasi di pace (come negli spirituals negri). La nozione di negazione'4 è stata sviluppata da Freud «in una preoccupazione costante di descrivere un meccanismo originario di difesa riguardo la realtà esteriore. La negazione riguarda non solamente un'affermazione che si contesta; ma un diritto o un bene che si rifiuta». Queste due posizioni partecipano del nostro atteggiamento riguardo la morte e il moribondo. Nel suo lavoro sul1'Idealizzazione della morte'\ Anna Witham rende conto in maniera illuminante degli effetti de] suo seminario su coloro che vi assistono (studenti in medicina, ausiliari, infermieri) a seconda che essa affronti la nozione del lutto o quella dell'accompagnamento del morente. Nel primo caso, si assiste a dibattiti liberi e animati, nel secondo caso, domina l 'evitamento a esporsi al suo argomento. È questo cambiamento di "umore" che lei cerca in seguito di analizzare. «Se, dice, si comincia oggi a denunciare gli effetti alienanti di interventi intensivi, ai quali sono sottoposti pazienti in fin di vita( ... ) qualcosa avviene, come se la morte prossima fosse taciuta o scartata». Un grande sforzo è stato compiuto (soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti) presso tutti coloro che si occupano dei malati affinché li aiutino durante la fine de11a vita e siano presenti a un certo smarrimento. I lavori di Elisabeth Kiibbler-Ross 36 hanno, lo ripetiamo, sensibilizzato l'opinione pubblica al diritto a morire nella dignità, facendo di questo passaggio dalla vita a11a morte un momento esaltante da includere nella dimensione della vita. I suoi colleghi arrivano a dire che la morte non 32 S. Freud, Pour introduire le narcissisme (1914), in La vie sexuelle, Paris, PUF, p. 98, trad. it. 11 · · Cfr. H. Segai, An introduction to the Work of Mélanie Klein, Hogarth, 1973, trad. it. 14 · J. Laplanche, J.B. Pontalis, Vocabulaire de psychanalyse, Paris, PUF, 1967, pp. 116-117 . 5 .1 A. Witham, The Jdealiwtion of Dying, London, Free associations, n. 3, 1985, pp. 80-92. .16 E. KUbbler-Ross, On Death and Dying, cit.

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esiste, che deve essere considerata come la cima idilliaca di una transizione da una tappa dell'esistenza a un'altra. Questa idealizzazione della morte si ritrova nei valori di numerose religioni e alla base dei sogni di salvezza presso i più poveri. Nelle fantasie concernenti l'esperienza della morte, troviamo sovrapposte due concezioni della vita: in una la morte è integrata; nell'altra la morte è esclusa. Ciò che ha colpito Anna Witham è il modo in cui gli infermieri si sentivano gratificati di potere esercitare una funzione di "nursing" dei pazienti terminali. Li si chiama (in contrappunto con l'accanimento terapeutico in voga in altri reparti) le Tender Loving care nurses. Questi infermieri, quando parlano dei loro malati, ne parlano in un contesto emotivo intenso. Il morente è veramente "sacralizzato". Si instaura presso l'infermiere una sorta di scissione (splitting) e il malato idealizzato si trova come protetto da1le forze di distruzione. Un processo di riparazione si mette in atto in seguito quando la morte è venuta a trionfare su1la vita. La situazione permane, tuttavia, ambigua, come illustra il seguente cason. L'autrice parla di un paziente, M.L. colpito da un tumore allo stomaco in fase terminale. L'infermiera viene a fargli un'iniezione di morfina. Incontra (in presenza della caposala) la famiglia del paziente. Uno scambio di parole ha luogo tra il paziente, la famiglia, le infermiere. Viene servito un tè. Bruscamente M.L. vomita e sembra in piena disperazione. Lo studente incaricato di prendere appunti ha fretta di andarsene e la sua osservazione finisce sullo smarrimento del malato. Una settimana dopo, M.L. muore. L'infermiera che si era occupata di lui con tanta devozione si rifiuta di andare nella stanza del morto per raccogliersi e arriva perfino a esprimere disgusto. La morte ha avuto qui ragione dei tentativi di "riparazione" inconsci riguardo alla protezione da assicurare a1l'oggetto buono esposto alla distruzione. Le difese riguardanti l'idealizzazione del morente si percepiscono nel modo in cui l'infermiere esprime il suo rapporto con il malato, nel corso del seminario, quando gli manca ogni distanza. L'infermiere e l'entourage sono alle prese con dei processi inconsci interni e dei processi che riguardano le relazioni interpersonali. Le strategie di difesa di un individuo possono così diventare quelle del gruppo in cui viene a trovarsi. Il tipo di difesa di un solo membro può, in seguito a uno ·17

A. Witham, The /dealization of Dying, cit., pp. 86-91.

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"sbandamento", avere effetto di gruppo e ritrovarsi allora istituzionalizzato. Di fatto le difese di un individuo in un dato lavoro lo aiutano a controllare l'angoscia e ad affrontare la situazione. Le cose cambiano quando la reazione individuale si muove come un sistema. Le strategie di difesa, di fronte a un malato in fase terminale, sono tuttavia diverse per le persone che ne hanno cura (oscillano tra la posizione depressiva e la posizione maniacale). Vi è in ognuno un tentativo di dominare l'angoscia di una perdita. Ma l'idealizzazione dell'esperienza della morte ha spesso per effetto un'accresciuta attenzione verso la persona del morente. Il diniego della morte che è ugualmente all'opera nelle nostre strutture sociali (e ospedaliere) porta tuttavia coloro che curano a una condotta di evitamento quando la morte è sopravvenuta e lui non ha più nulla da fare. Questa condotta rende impossibile l' accoglienza ai sopravvissuti (i parenti e la famiglia del morto). Ora, l'assistenza a una persona in lutto sembra tanto più necessaria in quanto spetta a lui ora intraprendere in se stesso un lavoro di "riparazione", attraverso il processo doloroso del lutto, reinserendo il morto nel suo stesso mondo interno, allargandolo e arricchendolo. Certi infermieri sono capaci di identificarsi sufficientemente alla persona in lutto da aiutarla. Anna Witham suggerisce che nelle strutture ospedaliere si abbia cura di accompagnare il morto e in seguito di assicurare una presenza alla famiglia. È in effetti perché la morte è vissuta come uno scacco della medicina che i reparti finiscono per dimenticare la famiglia (o a nascondersi da essa). La morte, allora si imparenta con l 'indicibile 38, lascia il soggetto senza parole per affrontare ciò che lo riguarda nella prova che condivide con la persona in lutto. Ciò che può essere detto si rivela nei sogni in cui ritroviamo il passaggio a una simbolizzazione con le sue leggi. La realtà vissuta passa attraverso delle mediazioni, delle formazioni immaginarie, delle disconoscenze al livello simbolico. Tuttavia, nell'ordine dell'intersoggettività, si incontra una specie di limitazione delle capacità individuali'9. Il campo vissuto del dramma umano come tale si pone altrove rispetto alla pura valutazione del reale. Non possiamo immaginare la tela di fondo sulla quale si svolge il dialogo con colui al quale parliamo. Il gioco è già giocato 41 ', i dadi sono tratti. Vi è così spesso confusione tra lo sconforto con cui il soggetto tenta di mettere in parole ciò che diviene per lui presa di coscienza e una sorta di concetto (punto ideale) sede di tutti 38

Cfr. J. Lacan, Séminaire del 12 maggio 1955 (note personali). lbid. 411 lbid.

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i miraggi possibili. Il diniego della parola sorge laddove non sia permesso parlare, le dee che non perdonano si nascondono in tale luogo 41 • Se capita a chi Io ha curato di fuggire la famiglia del morto e il morto stesso, è perché inconsciamente si sente "minacciato" dagli dei vendicatori. Ora, per Freud, la vita, lungi dall'essere una dea esaltante, si caratterizza per il suo atteggiamento verso la morte. La vita, aggiunge Lacan, non vuole guarire 41 • La vita congiunta alla morte ritorna alla morte. Ma questa realtà, nel fondo di noi stessi, la rifiutiamo. Quando vi siamo esposti, rimaniamo senza parole, pietrificati. Colette Audrr raccontò, nel I 962, in maniera magistrale la morte della sua cagna. E in effetti perché questa prova si era confusa con quella della morte dei suoi genitori, sopraggiunta nello stesso periodo, che l'inconscio si mise a parlare sul registro dello spostamento di un dolore. «È morta come tutti i cani, con il suo segreto di cane che non era neanche tale poiché essa stessa Io ignorava; e tutte le parole sono falsate quando parliamo di loro. Tutto ciò che descrivo, racconto, immagino, è falsato. Lei non mi ha mai potuto rinfacciare quello che pensava di ciò che io pensavo di lei, e che avevo fatto di lei. Poiché non pensava nulla di (su) tutto ciò che noi possiamo pensare, non ne sapeva nulla e non se ne preoccupava. E il solo fatto che io dica: se avesse potuto ... (cosa? parlare? pensare? essere un uomo in un corpo di cane) che io non possa non dirmi, mostra appunto che tutto è falsato. Completamente falsato.( ... ) In fondo all'acquietamento che ha pur finito per instaurarsi, una parte di me rimane inconsolabile. Come un dente malato, non posso toccarlo senza soffrire; e Io tocco. So (checché mi si possa dire e che io mi dica) perché l'ho trovata quella mattina in un angolino buio tra il muro e la vasca: all'ultimo momento si era sentita così male, così estranea a se stessa e denaturata fino al midollo, così sminuita, così alla fine di tutto, che non le restava che sentirsi in colpa. Una colpa sconosciuta la schiacciava. Allora è andata a morire di vergogna, in castigo, in un angolino, e io non c'ero» 4\ «( ... )Un cane - dice ancora Colette Audry - si piange sulla sua morte ... La morte di mio padre era la mia disperazione di non potergli perdonare la sua vita» 44 • Se i morti portano i loro segreti, essi forzano i vivi a confessare il loro. L'elaborazione del lutto dell'autrice apre su un racconto fatto di 41

Cfr. J. Lacan, Séminaire del 19 maggio 1955 (note personali).

41

Ibid.

4 ·1

C. Audry, Derrière la baignoire, Paris, Gallimard, 1962, p. 237, trad. it. Jbid.. p. 226.

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una violenza contenuta, di odio-amore, di tutta l'ambivalenza tessuta da lei, bambina, nel rapporto con i suoi genitori. I ricordi scorrono, si accavallano ... con i suoi auspici di morte, con il suo attaccamento a un animale che l'accaparrava, che invadeva la sua libertà ... perché lei aveva dato a lui ciò che aveva rifiutato agli uomini ... «Il mio turno finisce - scrive Colette Audry - il turno della sua vita e della sua morte» 45. Una proiezione di sé nel futuro, appare in seguito: il giorno in cui si sentirà veramente vecchia, non avrà bisogno di un cane? «Che l'amore di una vecchia non disturba, che ne sarà appagata( ... ) E, facendolo, mi crederò giovane. Per poco che non ci si senta troppo impotenti, la vita vi riafferra per la manica e si tiene stretta» 46 • Qui si tratta continuamente dell'intrecciarsi della vita e della morte, dell'odio e dell'amore. Il fantasma della vecchiaia proiettato nel futuro rinvia esso stesso all'infanzia (e alle braccia che vi accolgono). Ma sappiamo bene che il risultato finale, la morte, vi coglierà sempre alla sprovvista.

Segregazione Le nostre società, oggi, si difendono dalla malattia e dalla morte con la segregazione. «Vi è in essa qualcosa di importante: la segregazione dei morti e dei moribondi va di pari passo con quella dei vecchi, dei bambini ribelli (o degli altri), dei devianti, degli immigrati, dei delinquenti, etc. Le società di una volta, per divise che fossero sul piano sociale, non erano segregative, avevano le loro classi, i loro poveri, i loro mendicanti, i loro devianti, i loro colpevoli, i loro pazzi e i loro morti. Ho l'impressione, impossibile da giustificare, che è il cambiamento di atteggiamento rispetto alla morte che ha imposto gli altri cambiamenti» 47 • Senza saperlo, continuiamo, malgrado tutto oggi come ieri, a vivere con i morti. A vivere con loro, a nostra insaputa. Questo si legge nelle difficoltà psicologiche con le quali a volte i nevrotici hanno a che fare. Il tale non sospetta di ricalcare la vita su quella di un avo di cui sua madre gli ha parlato, un altro riproduce nella vita i fallimenti che rinviano a stati passati vissuti da suo padre, un altro ancora non passa sotto una scala per paura di provocare la morte di qualcuno. In psicaIbid., p. 236. lbid., p. 233. 47 O. Man noni, Des psychanalystes vous parlent de la mort, Paris, Tchou, 1979, p. 1O. 45

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nalisi, si ritrova nella nevrosi ossessiva l'impatto degli auspici di morte rimossi. Questi riappaiono sotto un'altra forma, fino a "impedire" al soggetto di vivere pienamente la sua vita: egli si vieta di vivere come se dovesse continuamente preservare, proteggere la vita di qualcuno. Ciò che non è più preso in carico in maniera collettiva si maschera così sotto forma di credenze e superstizioni che finiscono per governare la vita dell'individuo. Le tradizioni culturali - che sono ali' origine di ogni vita creativa hanno la tendenza, quando si perdono, a "ritrovarsi" anch'esse sotto forma di nevrosi private48 • Nei nostri sogni, continuiamo, come i popoli primitivi, a stare accanto alla morte. Nel nostro rapporto con l'inconscio, constatiamo continui scivolamenti ... Il desiderio di vivere porta in effetti in sé delle tensioni e una parte di perturbazioni che aprono tuttavia verso il piacere, una volta che la tensione si sia spenta. Freud vede ali' opera nel principio di piacere 49 le pulsioni di morte, come se il principio di piacere fosse al loro servizio. Questa ipotesi di Freud, concernente la tendenza nell'uomo a riprodurre il passato più antico, compreso quello della materia inerte concepita come anteriore alla vita, continua a imbarazzare un buon numero di analisti. Perché ciò che si constata nella pratica (ed è forse per questo che Freud ha inventato il concetto di pulsione di morte) 50 è il peso su un destino della ripetizione (da distinguere da ogni ricerca dell'oggetto perduto). Lo si vede all'opera non solamente nel racconto dei casi clinici negli analisti ma anche nei poeti. Nel I 979 due giovani donne, l'una etnologa, l'altra psicanalista, hanno pubblicato il risultato di un'inchiesta condotta per vari anni in un ospizio della regione parigina51 • Facendo parlare i pensionati e il personale ausiliario, sono riuscite a far sorgere una parola autentica che ci tocca nel più profondo di noi stessi. Ci sentiamo implicati in questa miseria che relega al riparo del nostro sguardo i vecchi della quarta età facendoci sentire ciò che abbiamo fatto di loro. Ognuno vive la sua vecchiaia in maniera singolare, vecchiaia che radica al di là di tutto un itinerario di vita nell'infanzia di ognuno. Ognuno conserva in sé come mediatrice di parola52 , l'immagine di chi lo ha inizialmente aiutato a vivere, a parlare, a amare. La sopravvivenza di ognuno è legata all'esi48

Cfr. O. Mannoni, op.cit., p. 12 S. Freud, Au-delà du principe du plaisir (1920), in Essais de psychanalyse, Paris, Payot, PbP, trad. it. 5° Cfr. O. Mannoni, op. cit., p. 8. 51 Cfr. M. Dacher, M. Weinstein, in Histoire de Louise, Paris, Seuil, 1979. 52 Cfr. prefazione di F. Dolto in M. Dacher, M. Weinstein, Histoire de Louise, cit, p. 14. 49

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stenza di un essere amato, che sia il padre idealizzato dell'infanzia o la madre idealizzata scomparsa. Ciò che vi è di vivente si ricollega così a un'immagine del passato, immagine di genitori morti o immagine di figli o nipoti che i vecchi hanno avuto o no. Ciò che, attraverso la storia di Luisa, è reso in maniera esemplare, è il modo il cui il sesso non è assolutamente assente nella quarta età. Se non c'è più la famiglia, permane ancora almeno la possibilità di incontrare al bar una persona da amare, con la quale si stabiliscano relazioni amorose clandestine. Oppure resta un'immagine, un essere che, nella sua assenza, vi faccia sognare e permetta pertanto di sopravvivere ... «Una società in cui gli esseri umani non abbiano nel loro cuore posto per questi vecchi lavoratori diventati improduttivi è una società che non ha più poesia, più anima» 5~. Le autrici di questo libro ci insegnano molto sulla perennità del desiderio, sull'amore che sostiene il desiderio di vivere e sulla disperazione che interviene quando si rivive nella quarta età l'abbandono che si è conosciuto nell'infanzia. Assistiamo qui meravigliati alla poesia, alla generosità del cuore che si fanno sentire a volte negli uomini più deteriorati: sono spesso, ma non sempre, dei vecchi che hanno avuto una prima infanzia felice e tentano di riannodare con ciò che in essi è sopravvissuto come risorsa di creazione. Alcuni, per non perdere la memoria canticchiano le canzoni della loro infanzia e aggiungono: «Non vorrei finire nella miseria, nella sporcizia e nel disprezzo su un giaciglio ... ho paura di finire nel disprezzo. Non si dovrebbe disprezzare chi è malato». Ciò che viene temuto è il rischio di perdere la testa. Ciò che viene denunciato è l'infantilizzazione di cui sono oggetto. L'ergoterapia, piace, ma più di uno desidererebbe guadagnare un po' di denaro, non foss'altro che per andare al bar fuori dall'ospizio e che costituisce un vero "luogo di vita" dove "ci si diverte" ... anche se è il solo legame con il mondo esterno. Facendo parlare il personale, le autrici del libro hanno anche potuto mettere a nudo la trama di ciò che sarebbe stato suscettibile di costituire un collettivo ... se il personale avesse avuto la volontà di far spostare verso la vita la "casa di piombo" 54, quella in cui il personale alle prime armi di fronte a tanta disumanizzazione si trova perduto nei punti di riferimento (si tratta di corsie comuni e corsie "specialistiche" in cui sono raggruppati i malati di cui si aspetta la morte). «Raggruppare la 5 ·1

5~

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lbid., p. 13. M. Dacher, M. Weinstein, Histoire de Louise, cit, p. 158.

gente in funzione della loro morte, è, per dei vivi, privilegiare la morte rispetto alla vita»", fanno notare, a giusto titolo, le autrici. L'elaborazione del lutto è in effetti resa difficile ai sopravvissuti non appena l'istinto di conservazione necessario alla pulsione di vita non ha più granché da fare nell'abitacolo della morte (luogo in cui l'attesa dell'evento mortale ... può durare per mesi). Per delle persone coscienti, quest'attesa ha qualcosa di intollerabile. La sorvegliante, vicina alla pensione, evoca il tempo in cui le condizioni di lavoro le permettevano di conoscere ogni malato. Conosceva il loro nome, il loro ambiente, le loro preoccupazioni. Questo non è più possibile, oggi, dice, in reparti sovraffollati in cui il personale manca. Se la caposala vicina alla pensione (e contenta di lasciare un luogo in cui ha dato tanto ai danni della propria famiglia: una domenica libera su sette ... ), parla in maniera umana dei vecchi di cui si occupa, la visione dell'ergoterapeuta, per caricaturale che sia, rende la verità di un'immagine molto più pessimista. I vecchi, per lei, sono delle larve, e lei li rende responsabili della loro infelicità. Proveniente essa stessa dal proletariato, identifica i malati di cui si occupa con il sotto proletariato. Nel suo rapporto con loro, si comporta come se avesse su di essi potere di vita e di morte. Essa ha della sua funzione una concezione gerarchica e disprezza "la gentucola ignorante". Nessuna convivialità, ma una concezione tutta burocratica di un mestiere centrato sull'obbligo di un.fare in un contesto in cui la sordità alla parola dell'altro è totale. Il cappellano, quanto a lui, sostituisce un confratello che se ne è andato per una depressione nervosa ... e ciò che lo motiva a tenere il posto che gli compete in questo luogo è una visione politica di una società che ha tendenza a sbarazzarsi dei suoi vecchi. Questo cappellano parla di ospizi "penitenziari" in cui vengono esiliati, per punirli, gli alcoolizzati rivendicanti e i deviantP 6 • Insiste sulla necessità, per i vecchi di conservare una sufficiente aggressività per sopravvivere alle condizioni che vengono loro offerte: «I vecchi ... non possono vivere se non attraverso la contestazione ... » 57. Egli sottolinea anche il fatto che il vecchio non abbia uno spazio privato: le confidenze, dunque, è costretto a farle in pubblico. Le camere individuali tuttavia esistono (nelle nuove costruzioni), ma non c'é il campanello e, tagliato dall'esterno, il vecchio è veramente condannato all'isolamento. Per rimediarvi (non si può fermare il progresso!) si costruì"lbid., p. 159. 56 !bid., p. 175. 57 !bid., p. 176.

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scono ora delle stanze a due o a quattro con microfoni a piedi del letto! Portato all'ospizio, il vecchio o vi mette radici, o muore entro un mese. «Ciò che rimprovero maggiormente, dice il cappellano, in quanto uomo, è la mescolanza dei dementi e dei vecchi ... io, se fossi in loro ... se non avessi la fede ... direi: mi chiedo perché non mi sopprimano ... »58. Quando un vecchio muore, non se ne parla, nessuno ne sa nulla. Ora qua ci sono 500 morti all'anno su 2000 59 e il 45% dei vecchi muoiono nei primi sei mesi dal loro arrivo all' ospizio60 • L'ospizio per il cappellano come per lo psicanalista, dicono le autrici del libro, è il luogo estremo della negazione dell'essere umano. Una dimensione della relazione con l'altro vi è uccisa. Il personale ha paura, i medici pure, e i vecchi temono di essere "spostati" in un altro luogo ... E le autrici del libro sognano la creazione conviviale di un luogo aperto all'esterno, in cui i pensionati possano comunicare tra di loro e arricchirsi l'un l'altro ... La storia di Luisa è esemplare. «Luisa - dice una delle autrici - è stata per me una storia d'amore. La sua morte, una morte vittoria, una morte speranza, una morte ideale, quelle di cui non si può parlare esplicitamente di altro che del suo luogo» 61 • Ciò che sembra avere particolarmente colpito le autrici di questo libro, è la rabbia di vivere di questa donna di settantasei anni, ricoverata una prima volta all'ospizio per una cirrosi epatica. Nel bar di fronte all'ospizio incontra Jean (cinquantenne). «I loro primi rapporti sessuali, intervenuti poco dopo, le lasciano un ricordo abbacinato» 62 • In questo bar, solo luogo conviviale per i pensionati dell'ospizio, Luisa regna nonostante la sua puzza. Offre da bere, fa ridere, canta, parla di sesso, e la sua gioia è comunicativa. Non appena è assente, regna la tristezza. Si tratta, lungo tutto questo racconto, di amore e di passione. Prima Luisa conserva della sua infanzia il ricordo idealizzato della sua educazione dalle suore. È stata riconosciuta intelligente e invitata a continuare gli studi, ma la sua relazione con la madre è stata pagata con un'impossibilità a procreare. Ha passato tutta la vita alla ricerca di un padre ideale, e i suoi amanti (in particolar modo Jean) incarnano la figura patema: Luisa ne è la figlia incestuosa. Scacciata dal bar, Luisa entrerà a Bicetre per ritornare tre anni dopo a istallarsi di fronte al bar-hotel, 58 59

Jbid., p. 180.

/bid., p. 181. S. de Beauvoir, La Vieillesse, op. cit., p. 273. 61 M. Dacher, M. Weinstein, Histoire de Louise, op.cit., p. 214. 62 lbid., p. 216. 60

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nell'attesa del ritorno di Jean. Ma Jean non l'ama più. Quanto alla padrona del bar, la sopporta. Luisa si svuota allora di tutta la gioia, e, abbattuta dalla cirrosi, viene raccolta per strada; direzione Bicetre. Sa che morirà e conserva il suo buonumore, restando riconoscente verso tutti quelli che vengono a trovarla (Jean, Paulo, Maxime etc.). «Sono nata - dice troppo presto in un mondo troppo vecchio». L'indomani muore. Libera, recita la sua verità 6'. Se questa storia ci interessa tanto, è perché ci fornisce una lezione, dal fondo stesso della miseria fisica e della decadenza. Come soggetto, Luisa è rimasta interpellabile fino alla fine. Ci dice la sua gioia di poter dare la felicità. Questa felicità la distribuisce a piene mani. Un giorno, si ritrova di fronte al vuoto, alla solitudine, all'egoismo umano: di questo muore, non senza avere realizzato prima un ultimo incontro "conviviale" intorno al suo letto di morte. Luisa, per la sua generosità di cuore, è riuscita a sovvertire l'ospizio, o piuttosto a fare accreditare la tesi: il solo modo di rimanere vivi e creativi all'ospizio è di trovare di fronte un bar-hotel, dove mettere al riparo i propri amori e la propria parte di sogno. Questa parte di sogno che invia il soggetto all'immagine di un essere amato resta a tal punto il sostegno della vita che certe rotture, nel loro effetto di rivelazione, destabilizzano il soggetto precipitandolo in un omicidio-suicidio. L'assenza tra una relazione e l'altra sulla quale si fondava, nel disconoscimento, tutta una vita, fa sorgere bruscamente nella fantasia la figura della morte. È in essa allora che il desiderio tenta di riconquistare l'oggetto perduto. Questa fascinazione per la morte non è altro «che un'affermazione disperata della vita» 64 • «Il soggetto dice: "No!" a questo ficcare il naso dell'intersoggettività in cui il desiderio si fa riconoscere un momento soltanto per perdersi in un volere che è volere dell'altro. Pazientemente sottrae la sua vita precaria alle accavallantesi aggregazioni dell'Eros del simbolo per affermarlo in una maledizione senza parola» 6\ L'identificazione con l'altro si effettua allora attraverso una figura mortale sotto i cui tratti oramai avrà luogo l'evocazione del proprio essere. Lacan ha rivelato altrove 66 il potere separativo dell'occhio: «Potere che ho rilevato in Sant' Agostino, quello del bambino che guarda suo fratello sospeso al seno delJa madre, con uno sguardo amaro che lo , lbid., p. 239. 64 J. Lacan, Ecrits, Paris, Seui I, 1966, p. 320, trad. it. 65 66

lbid. J. Lacan, Séminaire dell' 11 marzo 1964 (note personali).

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scompone e ha su di lui l'effetto di un veleno». Il desiderio si fonda così, sul timore che l'altro fruisca dell'oggetto desiderabile, e l'effetto è un impulso di distruzione; uccidendo l'altro, è la nostra stessa creatività che, per ciò stesso, distruggiamo. La generosità inesauribile può anch'essa avere come inverso la minaccia di annientamento di sé, là dove il soggetto è destabilizzato dall'angoscia di persecuzione che improvvisamente lo sommerge e lo annienta. Tuttavia un voto di morte inconscio cambia di natura quando diventa conscio. Prende allora posto nell'immaginario al punto di provocare il riso nello svelamento di cui è oggetto67 • «L'angoscia, le lacrime, la paura, la collera, formano un gruppo con il riso» 6x. Il riso appare allora come reazione a qualcosa di ostile o angosciante. Si tratta, a volte, di un ricorso disperato che si presenta nella forma più pura sotto i panni dell'umorismo. «L'umorismo fa ridere, l'umorista non ride» 69 • La persona toccata dalla sofferenza potrebbe, ci dice Freud 70 , ottenere il guadagno di piacere umoristico; ma è colui che non è implicato nella situazione affettiva dolorosa che può lasciarsi andare a ridere per piacere comico. E Freud ricorda la storia del condannato che, sul percorso che lo porta al la sua esecuzione, chiede una sciarpa per paura di prendere freddo. Questa maniera di essere è per il soggetto una maniera di distogliersi dalla disperazione. «L'umorismo - scrive ancora Freud - può essere considerato come la più alta di queste realizzazioni confuse» 71 • Ciò che mi è parso esemplare in questo studio intrapreso da M. Dacher e M. Weinstein sui vecchi all'ospizio è il modo in cui sono riuscite a delineare il luogo extraterritoriale dell'ospizio (il bar-hotel) in cui si riuniscono i poveri del quartiere e dell'ospizio per condividervi la gioia di vivere (con una risata mista a una passione che tiene lontana la disperazione e la morte). lntra-muros il vecchio è espropriato della sua esistenza, dato che l'amministrazione contribuisce con i suoi obblighi a accentuare l'assenza di orizzonti in cui questa massa di "persone spostate" è proiettata. Si crea una situazione estrema in cui l'individuo isolato arriva perfino a rinunciare a stabilire una relazione con se stes67

O. Mannoni, Le rire, in Un si vif étonnement, Paris, Seui I, 1988, p. 161. lbid., p. 163. 69 lbid., p. 164. 711 S. Freud, Le Mot d'esprit et sa relation à l'inconscient (1905), Paris, Gallimard, p. 400, trad. it. 71 lbid., p. 407. 6X

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so. Non fa già più parte dei vivi. La dialettica extralintra-muros ha il potere di reintrodurre il riso, l'amore, il sesso, su uno sfondo di morte, di alcool e di disperazione. La morte non dà solamente lezioni sulla vita che l'ha preceduta, ma anche interroga il potere medico e gli effetti di una diagnosi che annuncia I' hora certa di un fin di vita. La testimonianza di Mary Catherine Bateson sulla morte di genitori fuori dal comune (gli antropologi Gregory Bateson e Margaret Mead) è in questo del più grande interessen. Nel 1978 i medici fecero una diagnosi di tumore per entrambi i genitori. Margaret Mead morì nell'autunno 1978 (di un cancro del pancreas) e Gregory Bateson (di un cancro del polmone) nell'estate 1980. Nell'autunno 1977 Margaret Mead aveva già cominciato a dimagrire, ma animò con autorità un congresso dell 'American Anthropological Association in Texas. Era preoccupata soprattutto per il cancro di Gregory, poiché i medici avevano previsto - per lui - poco tempo da vivere. Egli subì dei trattamenti estenuanti, finì tre volte in rianimazione. Quando la figlia andò a trovarlo, era impegnato in un processo di convalescenza di lunga durata e affrontava in maniera beffarda la predizione medica di una morte imminente. Serbava, soprattutto, il ricordo degli esami spossanti per cui era andato a un passo dalla morte e stimava che la professione medica sembrava avere talento per creare nuove patologie. Fin dal suo ritorno a casa, la famiglia si diede da fare per aiutarlo a continuare il suo lavoro (un libro, delle conferenze). Dopo un mese il libro era quasi finito e Bateson firmava già un contratto per il libro successivo ... Fino allo stadio finale della sua malattia, recitò il ruolo dello scettico di turno 73 e continuò a fare conferenze. Per Margaret solo la malattia di Gregory era grave, sebbene il dolore impedisse a lei stessa di mangiare. Questo non le impedì di pianificare le sue attività per i cinque anni successivi. Margaret aveva, fin dagli anni '50, redatto un documento che doveva servire a evitarle inutili interventi medici. Lasciò istruzioni precise perché non ci si accanisse a farla vivere se le sue facoltà intellettuali fossero state intaccate. Voleva lasciare la vita non diminuita. Quando arrivò lo stadio finale della malattia e il tormento di un dolore sempre più acuto, Margaret si oppose alla morte (in una sorta di sfida lanciata a Gregory che, invece, era sempre vivo). Si circondò solo di amici che condividessero la sua illusione (che la sua ora non fosse venuta). 72 7J

M.C. Bateson, Regards sur mes parents, Paris, Seui), 1989, pp. 261-279, trad. it. lbid.. p. 267.

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Durante l'estate 1978, organizzò un Colloquio sul futuro a Chautauqua1·1, persuasa che gli anni '80 avrebbero visto i pericoli moltiplicarsi, le disparità economiche approfondirsi. La notte, Margaret si faceva coccolare dalla figlia che le portava tè o impacchi di ghiaccio. Di giorno, teneva il suo uditorio col fiato sospeso e continuava i suoi viaggi di lavoro (compreso il periodo in cui si spostava su una sedia a rotelle). Poi il suo stato di salute ebbe bisogno di un ricovero, ma lei cambiava medici. .. non appena mettevano in dubbio una possibilità di guarigione. Riceveva intorno al suo letto una folla di visitatori, negando di essere sul punto di morire; tenuta in vita da flebo, si batteva per rimanere in vita. Arrivò, alla fine, ad avere strette relazioni con una guaritrice. Era una donna allegra e calorosa, che allontanava da lei lo spettro della morte. Al momento di morire, Margaret si adirò contro la guaritrice che le aveva promesso la guarigione ... e la lasciò quando ogni speranza fu persa. Margaret cremata per sua volontà fu sepolta in un cimitero di campagna e ricevette, ci dice la figlia, a titolo postumo la medaglia della libertà. Gregory, dal canto suo, impiegò due anni a morire ... La sua voglia di vivere gli permise di riprendere una vita professionale. Alla fine prese una polmonite, fu ricoverato e imbottito di calmanti. Rimase solo due settimane in ospedale. Degli amici zen lo fecero uscire e lo accolsero in un loro ostello a San Francisco. Alcuni studenti fecero dei turni, si occupavano del suo corpo, rimanevano rispettosi della sua persona. Alcuni rituali marcavano le andate e venute di ognuno. Gli ultimi giorni, non poteva più mangiare, né parlare, ma riconosceva una presenza capace di amore. Sua figlia gli lesse dei passaggi del libro di Giobbe, che lui amava. La sua respirazione finì per fermarsi e la vita lo lasciò. Gli amici zen erano presenti i giorni seguenti la morte per sostenere la famiglia e dirgli addio nel crematorio cantando dei salmi. .. Si può dunque avere un cancro e morire a casa propria ... è la grande lezione che ci viene da questo racconto. La fortuna di Gregory è di avere rifiutato le predizioni mediche e di essersi riannodato con la vita. La sua seconda fortuna è di essere stato strappato ali' ospedale dagli amici zen e "restituito" a una vita conviviale in un contesto in cui la malattia non è più negata (le sue forze lo abbandonano), ma in cui fino alla fine gli è garantito un posto di soggetto (quella di un soggetto che si ascolta e cui si parla).

H

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lbid., p. 270.

Margaret Mead riesce a fare della sua stanza di ospedale un luogo di incontro tra colleghi, allievi, amici, e parenti. È la negazione della malattia che l'ha resa combattiva fino alla fine. È morta "naturalmente" nonostante avesse chiesto per iscritto che si mettesse fine ai suoi giorni se le forze l'avessero abbandonata. All'avvicinarsi dell' hora certa, è la sua ribellione verso la morte che si esprime. Accade così che si possa, nella fantasia, desiderare di abbreviare i propri giorni e che, nella realtà, "la vita vi acciuffi" al punto che si rinunci a abbreviarne il termine. Quando si è in buona salute, si può, lo abbiamo visto, desiderare di anticipare la morte lasciando per iscritto istruzioni precise affinché il medico ponga fine al dolore, anche se questo comporti di abbreviare il corso della vita. Vi si afferma una posizione contraddittoria, in quanto il soggetto può, all'ultimo minuto, volere "riprendere" la sua vita pur esigendo allo stesso tempo l'alleviamento del dolore. Il soggetto non vuole morire, ma è ugualmente cosciente che la vita gli sta sfuggendo. Margaret Mead, malgrado se stessa, aldilà della sua morte, apre con il suo esempio il dibattito sull'eutanasia attiva (servirsi di una siringa come nel caso di Freud) o l'eutanasia passiva (alimentare una flebo di un cocktail litico D.L.P.) che, secondo la portata reca la morte più o meno in fretta. Margaret Mead aveva auspicato di accorciare la vita, ma al momento ha cambiato parere, il che non ha impedito alla morte di avere ragione di lei. Ogni caso di paziente nella fase terminale del cancro, appare dunque nella sua propria singolarità. Il vero problema è quello del controllo del dolore: la morte sopraggiunge allora nell'appagamento. Le tecniche di cure palliative sono ancora poco conosciute in Francia (malgrado un opuscolo diffuso in maggio 1987 dal Ministero della Sanità) e negli Stati Uniti. Gli specialisti di questa questione si trovano perlopiù in Gran Bretagna e in Canada. Il controllo delle morfine si impara e vengono somministrate secondo protocolli particolari. Per certi pazienti, si aggiungono all'aumentare delle dosi di morfina dei corticoidi o dei barbiturici. La vita viene accorciata e la morte arriva come effetto, ma non è direttamente somministrata. Questa situazione corrisponde di fatto all'ambivalenza dei pazienti stessi. Non esigono più di essere "uccisi", non appena sono alleviati. Jean-Marie Gomas7\ specialista di cure palliative a domicilio, parla di un paziente seguito da un collega, cui aveva prescritto un trattamento di morfina. Il collega gli telefonò, 75

Cfr. J.-M. Gomas, Soigner à domicile des malades enfin de vie, Paris, Cerf, 1988, p.

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imbarazzato perché il malato soffocava. Orrore puro. Gomas gli consigliò di iniettare a brevi intervalli, due volte 120 mg. di Solumédrol. L'indomani, il paziente si era ristabilito. Rimase lucido fino alla fine, sotto morfina e corticoidi. Morì otto giorni dopo nel sonno. Il "trattamento" valido in un caso, non lo è dunque in un altro. All'ospizio St. Christofer 76 , a Londra, l'ottanta per cento dei malati di cancro richiedono, a un certo punto, un trattamento con un oppiaceo maggiore. A volte si tratta di eroina. L'impatto del dolore dipende strettamente dalla localizzazione delle lesioni cancerose: il dolore è più vivo nei tumori delle ossa e dell'utero (85%), nei tumori dello stomaco (75%), nel tumore del polmone (70%). L'espressione del disagio per il dolore sembra riguardare solo il 5% dei malati di leucemia. Questo problema del dolore concerne dunque seriamente coloro che devono curari i e che spesso non sono neanche in grado (per mancanza di una specializzazione sufficiente) di migliorare in maniera efficace la qualità della vita dei loro pazienti. L'effetto fisico del dolore finisce per intaccare il morale e modificare seriamente la personalità di un individuo. Questi ritrova il suo stato emotivo "normale" non appena il dosaggio adeguato di antalgico viene trovato (in certi casi, l'intervento di cordotomia a scopo antalgico) ... Se è importante evitare di dare fin dall'inizio delle dosi elevate di analgesici oppiacei, le ricerche hanno tuttavia mostrato che i malati di tumore curati con degli oppiacei maggiori, non diventano perciò dei tossicomani (dopo l'ottenimento della guarigione del cancro). Il controllo del dolore sembra dunque essere un elemento molto variabile da un paziente all'altro, particolarmente nel dolore cronico da tumore. Gli autori7 7 parlano di dosi di morfina orale variabili da 5 a 30 mg. ogni quattro ore, dosi che, ci dicono vengono portate a volte a più di 50 mg. ogni quattro ore. Questo suppone dei dolori sufficientemente forti da "assorbire" tali dosi. Utilizzando i mezzi appropriati, si ottiene il sollievo nell'87% dei casi. Accade che la dose di morfina sia portata a 800 mg/24 ore. Ma sembra che la resistenza dei medici a questo tipo di trattamento sia in discussione nella maggior parte dei paesi. Le ricerche di Cartwright7 8 e dei suoi collabo76 Cfr. J.-J. Bonica, lmportance of the Problem (of Cancer Pain), in J.-J. Bonica, V. Vcntafrida (Eds.) Advance in Pain Research and Therapy, t. II, New York, Raven Press, 1979. R.G. Twycross, The Brompton Cocktail, in ibid., t. II. R.G. Twycross, S.A. Lack, Symptom Contro! in Far Advanced Cancer: Pain Relief. London, Pitman Books, 1983. 77 R.G. Twycross, S.A. Lack, op. cit. 78 A. Cartwright, L. Hockey, A.B.M. Anderson, Life Before Death, London, Routledge & Kcgan Paul.

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ratori danno così delle statistiche molto diverse da quelle degli ospedali inglesi specializzati nelle cure palliative ai malati di tumore in fase terminale. Se presso gli uni, i malati soffrono prima di morire, presso altri i pazienti muoiono lucidi e in pace, circondati dai loro, e questo anche in ospedale (gli ospedali più conosciuti sono il St. Christopher's Hospice o St. Joseph's Hospice a Londra). In Francia sono stati aperti alcuni luoghi di cure palliative prendendo a modello il St. Chrisotopher di Londra: citiamo, tra gli altri, l'Ospedale di Saint-Malo (Dr. Lo"ic Révillon) e l'Ospedale Internazionale dell'Università di Parigi79 • L'approccio e il trattamento del dolore devono tuttavia essere situati in un contesto culturale e religioso, per potere capire perché è possibile in una tale cultura alleviare il dolore e perché, in un'altra, il medico rifiuta al paziente di rendergli sopportabile la fine della vita. Inoltre, è chiaro che, di fronte al trattamento del dolore, gli uomini oggi sono diversi. Esistono, ai nostri giorni, ancora molti luoghi in cui gli analgesici sono prescritti a dosi insufficienti (che gli infermieri, in più, "correggono"). Certi luoghi accolgono gli anziani affetti da un tumore gravissimo, lasciandoli moralmente in uno stato di totale abbandono, il che rasenta la non assistenza a persona in pericolo. Queste persone vengono abbrutite con neurolettici, antidepressivi, analgesici diversi prescritti senza tenere conto degli effetti secondari, in tal modo che i pazienti arrivano a non potere più mangiare. I fattori emotivi e la sofferenza morale possono così venire ad aggravare seriamente un quadro clinico organico già cupo. Negli Stati Uniti, gli individui hanno il diritto, per "testamento di vita", di opporsi a ogni accanimento terapeutico. La legge rifiuta, tuttavia, l'idea dell'eutanasia attiva. La morte finisce, nei fatti, con l'essere negoziata, in certi stati, caso per caso, tra i medici, i giudici, il paziente e la sua famiglia. Gli uomini di legge riconoscono che la storia ha ripreso il diritto. Ovunque il potere legislativo si sottrae, ma nella maggior parte dei paesi (in particolare nei Paesi Bassi e in Germania), il medico colpevole di eutanasia non viene perseguito. In Francia, l'Ordine dei Medici ha messo Leon Schwartzenberg sotto accusa; tutAggiungiamo che, nel 1990, la pozione antalgica, detta pozione di Brompton, non si prescrive più. Citiamo infine, da ricordare, l'Ospedale Corentin-Celton a Issy-lesMoulineaux. Il Dr. Jacques Arvieu, specialista in geriatria, si occupa con competenza e devozione degli anziani in fin di vita. Il reparto di gerontologia è animato da personale infermieristico caloroso (ma in numero insufficiente). 79

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tavia sono numerosi i malati che chiedono al loro medico di poter morire ricorrendo al metodo del famoso oncologo. Il vero problema, ripetiamolo, non è questo. Non verte tanto intorno alla scelta dell 'eutanasia attiva o passiva, quanto intorno a un vero accompagnamento umano dei malati disperati (il che suppone personale sufficiente), accompagnamento basato sul controllo degli antidolorifici, il che è lungi dall'accadere in Francia80 • Gregory Bateson, come abbiamo visto, ha finito la sua vita in una comunità zen, un altro amico, ha finito la vita a casa sua, circondato dai suoi e alleviato da un dosaggio sapiente di morfina e cortisonici. Lo scandalo scoppiato intorno a Schwartzenberg è quanto mai rivelatore della nostra non conoscenza di fronte alla morte. È perché non ne vogliamo sapere nulla che certi medici (dell"'Ordine") preferiscono allontanarsi da problemi che mettono la medicina in scacco. Ora, la medicina ha un ruolo da giocare quando si tratta di rendere sopportabile una fine della vita molto difficile. Non si tratta di sbarazzarsi con delle pillole rosa o blu di un malato che dà fastidio, si tratta di creargli intorno una consuetudine di presenza umana sullo sfondo di una terapia adattata all'anziano. In quei rari reparti di terapie palliative che esistono in Francia, sono sorti "gruppi di parola" animati da psicanalisti: vi partecipa soprattutto il personale paramedico. E perlopiù vi si discute del loro rapporto con la morte. Da questo in effetti dipenderà in seguito la possibilità per gli ausiliari in genere di accompagnare calorosamente un malato, parlandogli della vita (quella che ha avuto, gli amici, e i parenti, che gli restano, etc.). Alleviare la sofferenza, morire lucidamente, lo ripetiamo, è quanto chiedono i malati. Questo suppone da parte del medico una decodificazione corretta tra ciò che nel!' espressione del disagio tiene al dolore fisico, e ciò che rinvia a un dolore morale, senza minimizzare l'accumularsi dei disturbi, o addirittura il loro sovrapporsi. Le cure intelligenti suppongono dunque che ci si dia i mezzi di garantire al paziente una qualità di vita. La morte, anche programmata, sopraggiunge sempre troppo presto, - cosa di cui danno testimonianza i pazienti stessi quando, avendo chiesto la morte, si rivoltano in un ultimo soprassalto di vita. Ho Malgrado le disposizioni precise del Ministero della Sanità dal 26 agosto 1986, disposizioni riguardanti l'attenzione da porre nell'alleviare il dolore e l'accompagnamento dei pazienti in fin di vita. La nozione di cure palliative suppone che si cerchi, inizialmente di aiutare il paziente ad andare fino alla fine della sua vita, senza soffrire - quando la sofferenza diventa controllabile la richiesta di eutanasia scompare nella maggior parte dei casi.

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La nostra generazione ha reso popolare la contraccezione chimica e così facendo ha desacralizzato un dominio sul quale regnava in maniera assoluta il Dio dei cristiani. Ora, l'uomo che è riuscito a dominare la nascita desidera avere il diritto di dominare la morte. Dietro la desacralizzazione della morte si profila tuttavia il pericolo di tutte le manipolazioni dell'uomo da parte dell'uomo. Ed è davanti a questo pericolo che il legislatore esita a legiferare. Come codificare l'eutanasia?81 Leon Schwartzenberg stesso non è favorevole. La questione che ha voluto sollevare è quella della nostra concezione della vita, del nostro diritto di lasciarla quando essa stessa ci sta già lasciando. Alleviare il dolore, il Ministro della Sanità lo considera oggi come un dovere per il medico anche se la vita ne risulterà accorciata. Ciò che non viene minimamente tenuto in conto (la mancanza di personale non è irrilevante) è la necessità di una presenza accanto a una persona isolata in un ambiente estraneo (vissuto facilmente in una modalità persecutoria). Assicurare una presenza è anche sapere accarezzare un viso e trovare le parole che suscitano l'interesse del malato, il suo "attaccamento" alla vita. Ecco la vera questione etica. Perché oggi se le ricette letali vengono comunicate volentieri a chi deve curare, non si ha certo il tempo né la cura di creare intorno al malato l'ambiente di cui ha bisogno. Al livello ministeriale si è pronti a coprire tutte le forme di eutanasia, ma non a impiegare il personale necessario per assicurare una fine di vita decente ai pazienti condannati. Di fatto la Sécurité Sociale non rimborsa le persone della quarta età colpite da una malattia invalidante. Nel 1990, sette milioni e mezzo di pazienti hanno più di 65 anni. Tra di essi, 500 000 hanno bisogno di un'assistenza quotidiana. Questa assistenza riguarderà tra dieci anni un milione di persone. Le spese supplementari (il costo di ospitarle nelle strutture specia1izzate) sono di 15 000 franchi al mese a persona. Questo prezzo è ancora più alto se si vuole assicurare un mantenimento corretto a domicilio. La Sécurité Sociale non rimborsa queste spese. La famiglia è allora tenuta per legge a partecipare alle spese. Se non lo fa il costo sarà dedotto dall'eredità. Non bisogna dunque stupirsi della percentuale di suicidi fra gli anziani: essi si rifiutano di essere un onere per i loro 81

In un articolo apparso su "Le Monde" del 3 maggio 1991, Franck Nouchi ci fa sapere che una proposta «che ammette il principio di eutanasia, è stata adottata giovedì 25 aprile I 991 dalla commissione dell'ambiente, della sanità pubblica e della protezione dei consumatori del Parlamento europeo( ... ) in un'indifferenza quasi generale».

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discendenti e scelgono lucidamente la morte perché la qualità della vita dei loro figli e nipoti non sia colpita dalla sventura che tocca a loro. È una maniera per loro di alimentare la vita, con il loro stesso ritrarsi dalla scena.

Ipocrisia della società La politica della vecchiaia delle società occidentali è scandalosa. Riduce i suoi membri (compresi i servitori dello Stato) allo stato di rifiuto, non appena non possono più essere sfruttati. La società volta le spalle ai lavoratori non produttivi, la macchina sociale è una divoratrice di uomini. La Sécurité Sociale, sia essa francese o americana (il sistema di assicurazione-malattia), ragiona solo in termini di redditività. Improduttivi, i vecchi si sentono inutili e indesiderabili. I1 dirigente viene chiamato a mettersi in pensione a cinquanta anni (età in cui viene escluso dalla corsa alta promozione) e, negli Stati Uniti, l'operaioK 2 pensa al paese in cui andrà in pensione fin dall'età di quarantacinque anni. .. Si crea così una società in cui i giovani sono isolati dai vecchi. Per darsi buona coscienza, gli Stati sviluppano del1e istituzioni per gli anziani. Più della metà non corrisponde alle condizioni medico-psicologiche richieste. Le infermiere sono sottospecializzate e il personale sottopagato. Questi luoghi costituiscono tuttavia per gli investitori piazzamenti redditizi... La vita in queste nursing homes (il cui modello attualmente tende a essere importato in Francia) ha per effetto di uccidere il vecchio cui viene tolto ogni desiderio di vivere. Eppure la maggior parte delle persone anziane rimangono nei luoghi in cui hanno i loro ricordi, i loro oggetti personali. L'assistenza a domicilio è tuttavia limitata negli Stati Uniti a quattro ore al giorno. In Francia non vengono compiute neanche queste quattro ore effettive. Ciò che rimane redditizio è l'Istituzione, e tanto peggio per la persona se ne viene stritolata. Per i ricchi vengono costruite delle senior houses: appartamenti di lusso di due o tre vani, sale di bridge, salone e sala da pranzo comuni, pasti serviti in camera se si desidera, lavanderia assicurata, infermiere e medici sul posto ... ma le persone non indipendenti vengono mandate in ospedale. Oggi la terza e la quarta età sono diventate un mercato per gli investitori. Il rispetto della persona umana è così scarso che i poteri pubblici x~ R.E. Burger, Qui s'occupe des personnes agés?, in «Saturday Review» del 25-1-69, ripreso da S. de Beauvoir, La Vieillesse, op. cit., pp. 575-604.

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hanno finito per commuoversi (cfr. le clausole abusive dei regolamenti interni in cui si esercita, tra l'altro il diritto arbitrario di espulsione). Numerosi contratti negano ai pensionati il diritto di decorarsi l'alloggio secondo il proprio gusto, il diritto di scegliere i commensali. La loro posta viene aperta. Gli orari dei pasti e del sonno sono completamente sfasati rispetto agli orari tradizionali. Solo un'élite scelta secondo dei criteri morali ha accesso a questi luoghi tagliati fuori peraltro da ogni vita sociale. È l'aumento numerico degli anziani dipendenti durante questi due decenni che ha obbligato la collettività a fare fronte all'accoglienza e all'ospitalità che essi hanno il diritto di aspettarsi. I diritti degli anziani non sono tuttavia rispettati 8'. Nel 1985 il segretariato di Stato incaricato dei pensionati e degli anziani tenta di ammorbidire i regolamenti interni degli istituti nel verso di una maggiore umanità e cerca di fare sopprimere le clausole abusive dei contratti. Poi nel 1987 una Carta dei diritti e delle libertà della persona anziana dipendente viene pubblicata sotto l'impulso della Fondazione nazionale di gerontologia e del segretariato di stato incaricato della Sécurité Sociale. Yves Louage teme, a giusto titolo, che questa carta rimanga lettera morta. In effetti le istituzioni non sono le sole in causa. La ricerca del minimo costo ha portato i poteri pubblici a cercare delle famiglie ospitanti, a incoraggiare la creazione di piccole unità di vita, come le residenze di ospitalità temporanea, con un personale impreparato al compito che lo attende. Il vero problema è che la persona handicappata (mentale, fisica o anziana) ci rimanda un'immagine degradata e svilita di noi stessi. Ed è per questa insopportabilità che abbiamo creato la segregazione. Quest'ultima non concerne solo l'esclusione degli invalidi, ma soprattutto il non rispetto che viene testimoniato loro in seno alle istituzioni e alle famiglie. Gli anziani invalidi sono, ripetiamolo, deprivati del loro stesso essere. Vi è un fatto culturale che non è senza effetto sulla vita. Quando Pascal scriveva: «si muore da soli» pensava a una solitudine in mezzo a tutti. Non avrebbe immaginato una situazione in cui, al limite, ognuno finisce per essere il solo interessato alla propria morte 84 • Questa solitudine che conoscono i devianti, i malati e i vecchi invalidi costituisce l'altra faccia del neoutilitarismo che si è impossessato del8 -1 Y. Louage, segretario generale del'associazione "Les petits frères des pauvres", in N. Lépine, M.P. Nobécourt, Quand /es parents vieillissent, Acropole 1988, pp. 155-169. 84 O. Man noni, Un si vif étonnement, op. cit., p. 230.

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la vita pubblica. Così i nostri figli pagheranno sotto forma di nuove nevrosi private il nostro essere stati disumani nei confronti dei nostri ascendenti. Una bambina di dieci anni è diventata "folle" quando i genitori hanno ricoverato la nonna (diventata senile) che l'aveva cresciuta. Ciò che lei mise tragicamente in gioco è l'auspicio di morte dei suoi genitori verso questa nonna. «Ciò che aspettano è la sua morte per averne la casa». Ma aspettando la morte è la bambina che prende in modo devastante i tratti di una senilità "ripudiata". Un'altra coppia i cui membri hanno settanta anni si occupa di una ascendente di novantadue anni. Si ammalano entrambi. Il fatto è che avrebbero avuto bisogno per "andare avanti" dell'aiuto di una persona a tempo pieno specializzata nei problemi relazionali con gli anziani. Ma il ricovero a domicilio è lungi dall'offrire questa qualità di vita. Tutto poggia infatti sulla famiglia. Il che è lungi dall'essere evidente, soprattutto se il vecchio, per esempio, ha la malattia di Alzheimer. È dunque la famiglia allargata d'altri tempi che, ai nostri giorni, manca crudelmente agli adulti nella sventura. La famiglia nucleare ha generato i suoi propri limiti. Restringendo il suo spazio ha creato il suo ghetto. Le strutture sociali sono state, quanto a loro, incapaci di portare il testimone perché offrono solo dei luoghi istituzionali di sradicamento. Inoltre, quando la famiglia è sfinita dalla malattia di uno dei suoi, sorge la violenza; la scelta da compiere gira intorno al paradosso: la morte dell'uno o dell'altro. Un accompagnamento a domicilio competente ventiquattro ore su ventiquattro creerebbe, al contrario, uno spazi o suscettibile di ospitare un'altra logica: la vita per l'uno e per l'altro. In Malaise dans la civilisation 8' Freud cita questa frase di H. Heine: «( ... ) se il buon Dio vuole rendermi del tutto felice, che mi accordi di vedere più o meno sei o sette dei miei nemici impiccati a degli alberi. Col cuore intenerito perdonerei loro, prima della morte, tutte le offese che mi hanno fatto durante la loro vita. Certo, occorre perdonare i propri nemici, ma non prima che siano impiccati». Freud si ferma allora davanti all'amore per il prossimo in un mondo in cui Dio è morto per noi 86 • Egli svela una verità: l'uomo non è un essere rassegnato, bisognoso d'amore, ma «un essere che deve mettere x, S. Freud. Malaise dans la civi/isation (I 929), Paris, PUF, pp. 63-65, trad. it. 86

«Se Dio è morto per noi - ci dice Lacan - vuol dire che Io è da sempre. Non è mai stato il padre altro se non nella mitologia del figlio, quella del comandamento che ordina di amarlo, lui, il Padre, e che, nel dramma della Passione, ci mostra che c'è una resurrezione aldilà della morte» (J. Lacan, Séminaire marzo-maggio 1960, note personali).

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in conto i suoi dati istintivi e una certa dose di aggressività ( ... ). L'uomo è infatti tentato di soddisfare il suo bisogno di aggressione alle spese del suo prossimo, di sfruttare il suo lavorb senza indennizzi, di utilizzarlo sessualmente senza il suo consenso, di appropriarsi dei suoi beni, di umiliarlo, di infliggergli delle sofferenze, di martirizzarlo e di ucciderlo. Homo homini lupus: chi avrebbe il coraggio, di fronte a tutti gli insegnamenti della vita e della storia, di spezzare una lancia contro quest'adagio?». Questa ostilità primaria minaccia la società civilizzata e aizza gli uomini gli uni contro gli altri. È là, dichiara Freud, che la società fa intervenire la necessità di un'etica, di un ideale di amore contrario alla natura umana primitiva. Il posto lasciato nella nostra società ai devianti e ai vecchi risveglia così in ognuno di noi qualcosa di memorabile nella nostra storia al livello di un'esperienza della distruzione in quanto tale. Questa volontà di distruzione è anche una fantasia di poter ricominciare a partire dal nulla. (Lasciate, si dice a una famiglia, il vostro bambino in un ospedale in Svizzera, è fottuto, fatevene un altro, dimenticatelo. Mettete vostra madre all'ospizio, si dice a un altro, voi avete ancora la vostra vita da vivere, etc.). Questa volontà di ricominciare viene introdotta nella dimensione della storia, essa stessa sospesa, ci ricorda Lacan, all'esistenza della catena del significante. Al di là di questa catena, vi è come appoggiato un ex nihilo su cui si fonda e che introduce nel mondo un'organizzazione significante. Il dominio del Bene, insiste Lacan, è la nascita del potere. Disporre dei propri beni, è avere il diritto di privarne gli altri. Il potere di privarne gli altri, ecco dove nascerà l'altro come tale. La privazione, dice ancora Lacan, è una funzione istituita nel simbolico, nel senso che il reale è sempre pieno. L'importante è di sapere che il privato re è una funzione immaginaria (è il piccolo altro come tale). Il simile, quando è ridotto a un rapporto speculare, si presenta come un privatore. La dimensione del Bene erige così una muraglia sulla via del nostro desiderio. Possiamo pure, nel corso della storia, volere uccidere il Padre, per instaurare in seguito il ritorno dell'amore, una volta che l'ostacolo sia stato soppresso, il godimento non ne resta per questo meno vietato. Gli ostacoli che il soggetto incontra, quando intraprende la via di un godimento sfrenato, si leggono nella nevrosi individuale al livello del rinforzo delle esigenze del super-io. Quest'altro, nostro prossimo, che sorge a volte nella figura della vittima che sopravvive a tutti i maltrattamenti, ritorna sotto la penna di Sade con un'insistenza stereotipata.

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Questo rapporto con l'altro attraverso dei legami sadici ha tuttavia qualche rapporto con la psicologia dell'ossessivo, chiuso in un'armatura in cui riesce solo a pestare i piedi per impedirsi di vivere e di amare. Questo rapporto di cattiveria verso l'altro lo ritroviamo, in effetti, nel rapporto con noi stessi. L'incorporazione del padre, così come si ripete nella storia dell'umanità (e della nevrosi) ci rende cattivi con noi stessi, ma è così perché a quel padre abbiamo molti rimproveri da fare. Lacan distingue qui il padre reale e mitico, di cui parla Freud, e il padre immaginario che è alla base dell'immagine provvidenziale di Dio. Ma il super-io diventa così, a termine, odio di Dio, di avere fatto così male le cose. Per l'uomo comune, l'essere per la morte (morte reale rischiata, morte scelta, assunta) si presenta dunque sotto il velo dell'odio. È ciò che fa tutta l'ambivalenza dell'. amore e dell'odio. Quanto alla colpevolezza dell'uomo, essa è il riflesso di questo odio. Secondo Freud, «il comandamento "ama il prossimo tuo come te stesso" è inapplicabile, nasce come difesa contro l'aggressività. Quale ostacolo alla civilizzazione - aggiunge - deve essere l'aggressività se difendersene rende così infelici quanto assumerla!» 87 • L'accesso al desiderio si paga; ogni godimento, dice Freud, lo pago con una libbra di carne. Il superio collettivo ha elaborato di conseguenza le sue esigenze e le relazioni degli uomini tra loro rinviano a un'etica che si attacca al punto debole della civilizzazione. Vi si può vedere un tentativo terapeutico di ottenere con dei comandamenti (il super-io) ciò che non ha potuto essere ottenuto per altre vie. Ma la domanda posta da Freud è la seguente: la maggior parte delle civiltà non sono diventate "nevrotiche" sotto l'influenza della civiltà stessa? Ogni civiltà tende, sotto una spinta erotica intensa a unire gli uomini «in una massa retta da legami stretti; ma vi riesce solo rinforzando il senso di colpa»K8 •

Voi ci introducete alla vita; Voi infliggete all'infelice la colpa Poi lo abbandonate alla sofferenza, poiché ogni errore si espia quaggiù 89• 87

S. Freud, Malaise dans la civilisation, op. cit., pp. I 04-105. !bid., p. 91. 89 Goethe, Les chants dujoueur de harpe, in Wilhelm Meister 1821, citato da Freud in ibid., p. 92, trad. it. 88

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Questa imprecazione contro ]e potenze celesti esiste ne] cuore di ognuno di noi. Ed è proprio questo rapporto di ognuno di noi con l'odio, la violenza e 1' amore che bisogna potere evocare con chi consacra una parte della propria vita agli handicappati, ai malati, o ai vecchi. Perché, dietro il dono del1' amore vi è 1'appetito di un potere da esercitare sull'altro, cosa che nessuno meglio di Sade ha saputo illustrare. Poiché nei giochi del dolore, la vittima rimane un sostegno indistruttibile, il desiderio si sostiene allora con la fantasia di una sofferenza eterna.

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Capitolo terza

Freud, la malattia e la morte

La malattia e la morte In una lettera scritta il IO maggio 1923 a Lou Andréas-Salomé, Freud le confessa la sua stanchezza di fronte alle aggressioni fisiche subite a causa del suo cancro alla mascella che non smetterà di accrescersi e comporterà, in seguito, nel dolore, molteplici operazioni: