Diario di Hiroshima. 6 agosto - 30 settembre 1945

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Diario di Hiroshima. 6 agosto - 30 settembre 1945

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Diario di Hiroshima di Michihiko Hachiya tradotto da Francesco Saba Sardi ristmpato nell?Universale Economica dell'Editore Feltrinelli pagg. 236

documento totale: non solo di uno dei più tragici eventi della nostra storia moderna, ma anche di una città e di una nazione, colte nel momento più drammatico e scoperto della loro esistenza

Scientia

cartella clinica, rigorosamente scientifica, e romanzo nello stesso tempo

Pensiero medico

colpisce, nella parte narrativa, l'atmosfera di stupore, da catastrofe antica

L'Europeo

una "discesa agli inferi" della sofferenza umana Settimo giorno Il dottor Hachiya, direttore dell'unico ospedale rimasto in piedi ad Hiroshima il 6 agosto 1945, quando la città venne distrutta dalla prima bomba atomica, ha registrato in questo diario le sue vicende e le sue osservazioni da quell'orrida alba dell'era atomica al 30 set­ tembre 1945, quando arrivarono a Hiroshima le truppe d'occupaz1one amencane. .

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Universale Economica

Titolo dell'opera originale Hiroshima Diary The Journal of

a

Japanese Physician, August 6

-

September 30, 1945

Traduzione dall'inglese di Francesco Saba Sardi

Prima edizione: settembre 1955 Prima edizione Universale Economica: luglio 1960 Copyright by

@ Giangiacomo Feltrinelli Editore

Milano

Michihiko Hachiya

Diario di Hiroshima 6 agosto- 30 settembre 1945

Feltrinelli Editore

Milano

Premessa

Il dottor Hachiya cominciò il suo diario senza pensare ad un'eventuale pubblicazione e quindi non ritenne necessario de­ scrivere né /'ospedale dove lavorava, né � membri del personale sanitario, che pure erano i personaggi principali del suo racconto. L'ospedale era riservato ai dipendenti del Ministero delle Comu­ nicazioni per la zona di Hiroshima. Tale ministero, in Giappo­ ne, controlla i servizi postali, telegrafici e telefonici. La città di Hiroshima contava allora mezzo milione di abitanti ed era il capoluogo dell'omonima prefettura, e, di conseguenza, l'ospedale costituiva un complesso di una certa importanza. Facevano parte del personale una ventina di persone, e i letti erano centoventi­ cinque; tuttavia quest'ultima cifra non dà un'im magine abba­ stanza precisa della sua importanza, perché in Giappone il n u­ mero dei malati che ricorrono alle cure dell'ospedale senza farvisi ricoverare di solito supera quello dei degenti. Adiacente all'ospedale si trovava la sede centrale dell'Ufficio delle Comunicazioni; ambedue gli edifici erano solide costruzioni in cemento armato. Dopo il bombardamento /'ufficio fu adibito a ospedale di fortuna. l due edifici, che distavano circa mille­ cinquecento metri dall'ipocentro dell'esplosione, si trovavano al limite nord-orientale di una vasta zona militare occupata dai baraccamenti della guarnigione di Hiroshima, che andarono completamente distrutti. L'abitazione del dottor Hachiya distava qualche centinaio di metri dall'ospedale. Nel corso della guerra, Hiroshima non era stata mai bom­ bardata, ma, in previsione di possibili incursioni, le autorità mili­ tari qualche mese prima avevano dem olito alcune migliaia di case, in modo da creare degli spazi vuoti anti-incendio, e avevano fatto sfollare quasi tutti i militari. Da parte sua, il dottor Hachiya si era assunto /'iniziativa di trasferire i degenti all'interno del paese, sicché, quando avvenne l'esplosione, l'ospedale era prati­ camente vuoto. 5

6 agosto 1945. Erano le prime ore di una bella giornata tranquilla e calda. Le foglie degli alberi tremolavano, riflettendo la luce del sole che splendeva in u n cielo terso e, per contrasto, appariva piu fresco d'ombre il mio giardino, che io guardavo un po' distratto, dalla porta che dava a sud, i cui battenti erano spalancati. Avevo addosso solo le mutande e la maglietta e me ne stavo disteso sul pavimento della stanza di soggiorno, per riposarmi da una notte di veglia all'ospedale, dove ero stato di guardia. All'improvviso fui abbagliato da un lampo di luce, seguito immediatamente da un altro. A volte, di un avvenimento, si ricordano i piu minuti particolari : rammento perfettamente che una lanterna di pietra nel giardino si i lluminò di una luce vivi­ da, e io mi chiesi se era prodotta da una vampa di magnesio o non piuttosto dalle scintille di un tram di passaggio. Le ombre del giardino sparirono. La scena, che un momento prima m'era apparsa cosi luminosa e gaia di sole, s'oscurò, gli oggetti si fecero indistinti. Fra i nembi d i polvere, riuscivo a stento a distinguere una colonna di legno che prima serviva di sostegno ad un angolo della casa. Ora la colonna era tutta storta e il tetto pareva che stesse per crollare. Istintivamente mi alzai per fuggire, ma mi trovai il passo sbarrato da detriti e travi crollate. Con mille precauzioni, riuscii a farmi strada fino al roka* e scesi i n giardino. Mi sentivo straor­ dinariamente debole, e dovetti fermarmi per riprendere fiato. Con mia grande sorpresa, mi accorsi che ero completamente nudo. Stranissimo, pensai. Dov'erano andate a finire mutande e ma­ glietta? -

"' Stretto porticato che corre lungo delle case giapponesi.

1

lati meridionale e occidentale

7

Cos'era accaduto ? Lungo tutto il fianco destro, ero escoriato c sanguinante. Da una ferita aperta nella coscia, spuntava una grossa scheggia, e in bocca mi sentivo qualcosa di caldo. Avevo un taglio sulla guancia, me ne accorsi passandoci con cautela la mano, e il labbro inferiore era spaccato. Un frammento di vetro abbastanza grosso mi s'era infilato nel collo; riuscii ad estrarmelo e, reggendolo sulla mano insanguinata, rimasi a fissarlo col di stacco di chi è ancora intontito da uno shock nervoso. Dov'era mia moglie ? Fui colto all'improvviso dall'ansia e cominc1a1 a chiamare a gran voce : "Yaeko-san P Yaeko-san ! Dove sei ? " Il sangue cominciò a zampi llare. Temetti che l'arteria caro­ tide fosse recisa. Dovevo morire di ssanguato ? Per la paura, persi il controllo e ri presi a gridare :

"È una bomba da cin quecento tonnellate! Yaeko-san, dove sei ? È caduta una bomba da cinquecento tonnellate !" Yaeko-san, pallida d i paura, le vesti stracciate e sporche di sangue, sbucò dalle rovine della nostra casa, tenendosi il gomito con una mano. La sua vista mi tranquillizzò, il mio panico di­ minul e tentai di rassicurare pure lei.

"Ce la caveremo," le dissi. "Solo che dobbiamo andarcene di qua a.I piu presto." Yaeko-san annui e io le feci cenno di seguirmi. Per raggiungere la strada, il percorso piu breve era quello attraverso la casa dei nostri vici ni. E noi la traversammo cor­ rendo, incespicando e riprendendo a correre alla cieca, finché inciampammo in qualcosa e cademmo lunghi di stesi i n mezzo alla strada. Quando mi alzai, m'accorsi che quel qualcosa era l a testa di un uomo. "Mi scusi ! Mi scusi l" feci allora istericamente. Nessuno rispose. L'uomo era morto. Si trattava di un giovane uffici ale, che era stato schiacciato dalla caduta di un pesante uscio. Restammo i n mezzo alla strada, incerti e spauriti; in quella, una casa H di fronte cominciò a rovi nare e, un i stante dopo, sprofondò i n una nube di polvere. Altri edifici apparivano sfon­ dati o crollanti. Si manifestarono incendi e le fiamme, alimentate da un vento maligno, cominciarono a propagarsi.

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Alla fine ci rendemmo conto che non potevamo starcene H, sulla strada, e allora ci dirigemmo verso 1'ospedale.2 La nostra casa era distrutta; le nostre ferite dovevano essere medicate; inol� tre, il mio dovere mi chiamava all'ospedale. Quest'ultima idea era del tutto irrazionale : infatti, che aiuto poteva dare uno nelle mie condizioni ? Ci mettemmo in cammino, ma, dopo appena una ventina di metri, fui costretto a fermarmi. Il respiro mi mancava, il cuore mi pulsava fortissimo, mi sentivo mancare le ginocchia. Avevo una sete spaventosa, e pregai Yaek�san di cercarmi un po' d'ac� qua. Ma Yaeko-san non riusd a trovarne da nessuna parte. Dopo un po', tuttavia, le forze mi tornarono, e potemmo riprendere il cammmo. Ero ancora nudo, e non me ne vergognavo affatto, ma ero oltremodo sorpreso, constatando che avevo perso del tutto il senso del pudore. Girato un angolo, scorgemmo un soldato seduto i n mezzo alla strada. Sulle spalle aveva u n asciugamano, e io lo pregai di darmelo, perché potessi coprirmi. Il soldato me lo porse subito, senza dire una parola. Di H a poco, persi l'asci ugamano, e Yaeko-san si slacciò il grembiule e me lo .legò attorno alle reni . Procedevamo i n direzione dell'ospedale a passo lentissimo, ma anche cosi, dopo u n po' sentii che le gambe, irrigidite dal sangue coagulato, si rifiutavano di reggermi. Mi mancavano non solo le forze, ma anche la volontà necessaria per procedere, e allora dissi a mia moglie, le cui ferite erano gravi quasi quanto le mie, di continuare da sola. Lei non voleva !asciarmi, ma non c'era altra scelta. Doveva andare in cerca di qualcuno che venisse a soccorrermi. Yaek�san mi fissò i n volto per un i stante e poi, senza dir niente, prese a correre i n direzione dell'ospedale. Si voltò un momento per farmi cenno con la mano, e poi spari nel polve­ rone. L'oscurità adesso era fitta e, appena rimasi solo, fui colto da un senso di terribile sconforto. Devo essere caduto a terra svenuto, perché poi ricordo solo che la ferita nella coscia s'era riaperta e aveva ripreso a sangui­ nare. Vi premetti su la mano per qualche secondo : ii sangue si fermò e mi sentii meglio. Potevo cammi nare ? Mi ci provai. Era come i n un i ncubo: le ferite, l'oscurità, la 9

strada che mi s'apriva davanti. I m 1c1 movimenti continuavano ad essere lentissimi, ma la mia mente s'agitava febbrilmente. Capitai in uno spiazzo sgombro, dove le case erano state ab battute per creare una zona anti-incendio. Nella semioscurità distinsi, davanti a me, la sagoma dell'Ufficio delle Comunicazioni, una vasta costruzione in cemento armato,3 e, piu in là, l'ospe­ dale. Mi rianimai, perché sapevo che ora qualcuno sarebbe accorso i n mio aiuto e che, se dovevo morire, per Io meno avrebbero ritro­ vato il mio corpo. Mi f€rmai per riposarmi. Un po' alla volta, gli oggetti attorno a me presero consistenza. Scorgevo le sagome incerte di altre persone, alcu ne delle quali avevano l'aria di spettri che cammi­ nassero. Altri procedevano alla cieca, come degli spauracchi, bran­ colando con le mani stese in avanti. La loro vista m i lasciò per­ plesso, ma poi mi resi conto che avevano subito deHe scottature e tenevano le braccia levate per evitare di farsi male, strofinando le ferite sulla superficie scabra degli abiti. Mi passò davanti una donna nuda, che reggeva in braccio un bambino, del pari nudo. Distolsi lo sguardo. Pensai dapprima che, al momento dell'esplo­ sione, dovevano essersi trovati nel bagno, ma poi vidi u n uomo nudo, e mi resi conto che doveva essere successo qualcosa, per cui anche loro, come me, erano rimasti senza niente addosso. Una vecchia giaceva H vici no, col viso contratto dalla sofferenza, ma senza che dicesse niente. Una cosa avevano in comune tutti quelli che vedevo : agivano nel piu assoluto silenzio. Chi era i n grado di farlo, si dirigeva verso l'ospedale. Appena riuscii a ricuperare un po' di forze, mi unii al triste corteo e alla fine giunsi davanti al portone dell'Ufficio delle Comuni­ cazwru. L'ambiente m'era familiare, e altrettanto familiari i volti. C'erano il signor Iguchi e il signor Yoshihiro e il mio vecchio amico, il signor Sera, il capo dell'ufficio ammi nistrativo. Mi vi­ dero e, tutti contenti, mi corsero incontro per aiutarmi, ma i loro visi si rabbuiarono quando s'accorsero che ero ferito. Quanto a me, la felicità che provavo nel rivederli mi impediva di condi­ videre le loro preoccupazioni. Non perdemmo tempo in convenevoli. Mi adagiarono su una barella e mi portarono nell'edificio, benché io protestassi che ero in grado di cammi nare. Piu tardi, mi fu detto che l'ospedale ri-

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gurgitava talmente di feriti che l'ufficio aveva dovuto essere usato come posto di medicazione d'emergenza. Le stanze e i corridoi erano pieni di gente, e riconobbi fra essi parecchi miei vicini. Ebbi l'i mpressione che vi fosse convenuta l'intera città. I miei amici, attraverso una finestra, portarono la barella in una portineria trasformata i n posto di pronto soccorso. Il locale appariva in condizioni deplorevoli: il pavimento coperto da fram­ menti d'intonaco, pezzi di mobilio e rottami d'ogni genere; le pareti spaccate da fessure; .Ja pesante i ntelaiatura d'acciaio d'una finestra contorta e quasi divelta. Un bel posto davvero, per pre­ stare le cure ai feriti. Con mia grande sorpresa, ecco apparire la mia infermiera per­ sonale, la signorina Kado, e poi il signor Mizoguchi4 e la vecchia signora Saeki.5 Senza parlare, la signorina Kado cominciò ad esa­ minare le mie ferite. Nessuno diceva una parola. Chiesi che mi fosse dato un pigiama. Me lo procurarono, ma sempre senza apri­ re bocca. Perché mai erano tutti cosi silenziosi? La signorina Kado fini il suo esame e subito dopo mi. parve di avere il petto in fiamme. L'infermiera aveva cominciato a di­ sinfettarmi le ferite con la tintura di jodio e non accennava a smetterla, per quanto io protestassi. Non mi restava che rasse­ gnarmi alla medicazione, e per distrarmi mi misi a guardare fuori dalla finestra. Proprio di fronte avevo l'ospedale, di cui vedevo una parte del tetto e il solario del terzo piano; sollevai lo sguardo e scorsi qualcosa che mi fece dimenticare il bruciore alle ferite. Dalle finestre del solario, usciva del fumo. L'ospedale era in fiamme! "Al fuoco!" gridai. "Al fuoco! Al fuoco! l'ospedale brucia!" I miei amici guardarono i n quella direzione. Era vero, l'ospe­ dale stava andando a fuoco. Fu dato l'allarme e da tutte le parti risposero grida. Sopra le altre si .levava la voce acuta del signor Sera, il capo dell'ufficio amministrativo, e mi sembrava che la sua fosse la prima voce che udivo quel giorno. Lo strano silenzio era rotto. Il nostro pic­ colo mondo era sottosopra. Rammento che era entrato il dottor Sasada, primario del re­ parto pediatrico, il quale cercava di tranquillizzar mi, ma in quel­ la confusione riuscivo a stento ad udire le sue parole. Distinsi la voce del dottor Hinoi e poi quella del dottor Kovama. Am11

bedue gridavano, dando ordine di evacuare i feriti dall'ospedale, e lo facevano con quanto fiato avevano i n corpo, come se, a furia d i strilli, sperassero di smuovere anche i piu pigri. Dall'ospedale si levarono alte le fiamme, illuminando il cielo. Ben presto anche l'ufficio fu minacciato c i l signor Sera ordi nò di evacuarlo. La barella sulla quale mi trovavo fu trasportata in un giardino sul retro c deposta sotto un vecchio ciliegio. Altri feriti si trascinarono fin H da soli o vi furono portati a braccia e, i n breve, vi fu una tale ressa, che solo i piu gravi potevano star distesi. Nessuno parlava e il sinistro sile nzio era rotto solo da qualche sussurro i mpaurito ; tutta quella gente, stanca, soffe­ rente, preoccupata e spaventata, stava aspettando che succedesse qualcosa d'altro. Il cielo fu oscurato da un denso fumo nero misto a scintille. Si levarono lingue di fuoco e i l calore provocò delle correnti d'aria. Queste divennero cosi v iolente da sollevare in aria le la­ miere zincate dei tetti, che poi ricadevano qua e là vibrando e mulinando. Pezzi di legno ancora accesi venivano proiettati i n alto e poi piombavano giu come rondini infuocate. I o cercavo di spegnere le braci, ma una di esse m i scottò la caviglia. Se non volevo bruciare vivo, dovevo stare continuamente sul chi vive. L'ufficio cominciò ad ardere; una dopo l'altra, le finestre si trasformarono in riquadri di fiamme, finché l'intera costruzione non fu che u n inferno di scricchiolii e di sibili. Portate dalle ventate ardenti , polvere e cenere ci riempivano il naso e gli occhi. Avevamo la bocca secca, l a gola arida e dolente a causa del fumo acre che ci penetrava nei polmoni. Tossivamo senza riuscire a frenarci. Avremmo voluto allonta­ narci, m a l'i ncendio si appiccò ad una fila di baracche di legno6 poste alle nostre spalle, che presero a bruciare come zolfanelli . I l calore aumentò fino a diventare insopportabile e, per forza di cose, dovemmo andarcene dal giardino. Quelli che erano in condizioni di farlo fuggirono, gli altri rimasero a morire. Se non fosse stato per quei miei fedeli amici, sarei morto anch'io; per fortuna essi vennero a prendermi e portarono la barella davanti all'ingresso principale, dall'altra parte dell'edificio. Qui s'era già raccolto un gruppetto di persone, fra le quali mia moglie. S'unirono a noi anche il dottor Sasada e la signo­

rina K.ado. 12

Le fiamme si levarono da ogni dove: un vento violento pro­

pagava l'incendio da un edificio all'altro, e ben presto c i trovam� mo chiusi in un cerchio infernale. Il punto dove eravamo, davanti all'ufficio postale, divenne una specie di oasi i n un deserto d i fuoco. Man mano che le fiamme s'avvicinavano, il calore aumen� tava, e se uno dei presenti non avesse avuto l'accortezza di schiz� zarci addosso l'acqua7 di un idrante, ritengo che nessuno di noi ne sarebbe uscito vivo. Nonostante il calore, cominciai a tremare. Quella doccia m'era insopportabile. Il cuore prese a battermi precipitosamente; tutto cominciò a girare finché la v ista mi s'oscurò. "Kurushii,"8 mormorai con un fi1o di voce, "sono finito." ... udivo delle voci, che parevano provenire da grandissima distanza, e man mano divennero piu forti, come se qualcuno mi parlasse all'orecchio. Aprii gli occhi; il dottor Sasada era intento a tastarmi il polso. Cos'era accaduto? La signorina Kado mi fece un'iniezione, e un po' alla volta mi tornarono le forze. Dovevo essere svenuto. Presero a cadere pesanti gocce di pioggia. Qualcuno disse che doveva essersi levato un temporale e che questo avrebbe spento gli incendi. Ma furono solo poche gocce sparse: u n paio di spruz� zatine, e la pioggia finL9 Il primo piano de.U'ufficio era tutto in fiamme e il fuoco si propagava con rapi dità in direzione del portone, verso la nostra piccola oasi. Ma in quel momento non mi rendevo esattamente conto della situazione e non ero certo i n grado di far qualcosa. Alle nostre spalle si ud1 lo scroscio dell'intelaiatura metallica di una finestra che precipitava al suolo, logorata dal calore. Un frammento incendiato cadde sibilando e i miei indumenti pre� sero fuoco. Qualcuno mi gettò addosso dell'altra acqua. A par� tire da quel momento, non so con esattezza quello che accadde. Ricordo il male che provai quando il dottor Hinoi mi obbligò ad alzarmi in piedi. Ricordo ancora che mi facevano camminare o, meglio, mi trasci navano, mentre tutto il mio essere si ribellava al dolore che dovevo sopportare. Infine, ricordo, mi trovai su un terreno scoperto.10 Gli incendi dovevano essersi spenti. Ero vivo. Una volta di piu, chissà come, i miei amici erano riusciti a salvarmi. 13

Una testa fece capolino da un rifugio anti-aereo e udii una voce inconfondibile, quella della vecchia signora Saeki: "Co­ raggio, dottore ! Il pericolo è cessato. I quartieri settentrionali sono ormai tutti i n cenere. Non c'è piu da preoccuparsi per il fuoco." La vecchia mi parlava come se fossi un figlio suo, che biso­ gnasse calmare e consolare. E, a dire il vero, aveva ragione. Il cielo era ancora scuro, ma non riuscivo a capire se era già sera o ancora giorno. Forse era già il mattino dopo. Il tempo non aveva piu alcun significato. Quello che m'era accaduto poteva essere avvenuto in un brevissimo istante o anche essersi prolungato per tutta un eterruta. Il fumo continuava a le\'arsi dal secondo piano dell'ospedale, ma non si vedevano piu fiamme. Mi dissi che non doveva esser rimasto niente di combustibile, ma piu tardi seppi che il primo piano dell'edificio non era andato distrutto, e questo soprattutto per il coraggioso intervento del dottor Koyama e del dottor Hinoi. Per le vie, non c'erano piu che i cadaveri. Alcuni pareva che fossero stati irrigiditi dalla morte nell'atto di fuggire; altri erano schiacciati al suolo, come se un gigante ve li avesse scagliati da grande altezza. Hiroshima non era piu una città, ma una prateria bruciata. A est e a ovest, ogni cosa era stata spazzata via. Le montagne lontane mi parevano vicine come non le avevo mai viste. Le col­ line di Ushita 1 1 e i boschi di Nigitsu12 si profilavano oltre il velo di fumo, simili al naso e alle orbite di un volto umano. Come pareva piccola Hiroshima, adesso che le sue case erano sparite! I l vento mutò direzione e nuovamente i l cielo si copri di fumo. ,

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D'un tratto si levò un grido: "Gli aerei! Gli aerei nemici!" Era mai possibile, dopo tutto quello che era accaduto ? Cosa c'era ancora da bombardare? Il corso dei miei pensieri s'inter­ ruppe : avevo sentito pronunciare un nome familiare. Un'infermiera stava chiamando il dottor Katsube.B "È il dottor Katsube! È proprio lui!" gri dava la vecchia si­ gnora Saeki, con un tono di felicità nella voce. "È arrivato i l dottor Katsube l" Era effettivamente il dottor Katsube, i-1 primario del nostro reparto chirurgico; sembrava non si fosse accorto che eravamo 14

là, perché continuò per la sua strada, dirigendosi verso l'ospe­ dale. Gli aerei nemici furono dimenticati, tanto eravamo felici che il dottor Katsube fosse rimasto in vita e tornasse fra noi. Senza nemmeno darmi il tempo di sollevare qualche protesta, i miei amici mi avevano preso e portato nell'ospedale. Ne distavo forse un centinaio di metri, ma il tragitto bastò perché il cuore riprendesse a palpitarmi, provassi nausea e mi sentissi venir meno_ Ho ancora viva la sensazione della durezza del tavolo opera­ torio e del dolore che provai, quando mi suturarono le ferite al viso e al labbro; poi devo aver perso conoscenza, perché non ricordo come fu che, prima di sera, il dottor Katsube mi cud altre quaranta e piu ferite. Mi trasportarono in una stanza, e qui mi sentii invadere un po' alla volta dal sonno. Il sole era tramontato, il cielo era di un colore rosso cupo. Pareva che le fiamme della città incendiata avessero arroventato il firmamento. Stetti ad osservare il cielo, finché mi addormentai. Devo aver dormito profondamente perché, agosto 1945. quando riaprii gli occhi, il sole brillava già alto e faceva caldo. Non c'erano né persiane né tendine che attenuassero la luce, e a dire il vero nemmeno finestre. Mi giungevano alle orecchie i gemiti dei feriti. Pareva che ci fosse un gran trambusto. Il pavimento era cosparso di strumenti chirurgici, infissi di finestre e calcinacci. Le pareti e il soffitto apparivano bucherel­ lati, come se qualcuno si fosse divertito a scagliarvi contro man­ ciate di semi di sesamo. Alcuni di quei fori erano stati prodotti da frammenti di vetro, ma le scrostature piu grosse le avevano fatte strumenti chirurgici e pezzi di infissi scagliati in aria dal­ l'esplosione. Accanto alla finestra, giacpva rovesciata una vetrina di stru­ menti. Lo schienale della poltrona per gli esami otorinolaringoia­ trici era stato asportato e sul sedile si vedeva una lampada di quarzo fracassata. Non c'era un solo oggetto che non fo;se rotto o fuori uso. Alla mia sinistra era disteso il dottor Sasada, quello stesso che il giorno prima mi aveva prestato le prime cure. Avevo pen7

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sato che se la fosse cavata senza danni, ma m'accorsi invece che era gravemente ustionato. Aveva mani e braccia bendate, il viso infantile era talmente gonfio e sfigurato, che lo riconobbi solo alla voce. Dall'altra parte c'era mia moglie, col viso coperto di un un­ guento bianco che le conferiva un'aria spettrale, e il braccio destro al collo. Fra me e mia moglie c'era la signorina Kado, la quale aveva riportato solo qualche leggera ferita, e ci aveva assistiti per tutta la notte. Accortasi che ero sveglio, Yaeko-san mi disse: "Pareva che stanotte ti sentissi male." "Oh, sf," intervenne la signorina Kado. "Ho ascoltato il suo respiro non so quante volte." Seduta immobile su un banco accosto al muro, vidi la moglie del dottor Fujii.14 Sul volto aveva un'espressione di grande dispe­ razione. Chiesi alla signorina Kado cosa fosse successo e quella nspose: "La signora Fujii non ha riportato che qualche escoriazione, ma il suo bambino aveva una brutta ferita ed è morto durante la notte." "Dov'è il dottor Fujii?" le chiesi ancora. "La loro figlia maggiore è scomparsa," mi spiegò, "e il dottor Fujii è stato fuori tutta la notte a cercarla e non è ancora tor­ nato." Il dottor Koyama venne a sentire come stavamo. A vederlo cosf conciato, con la testa fasciata e un braccio al collo, gli occhi mi si riempirono di lacrime. Aveva lavorato tutta la notte e anche adesso continuava a pensare agli altri prima che a se stesso. Assieme al dottor Koyama, che ora a veva assunto la direzione dell'ospedale, c'erano il dottor Katsube, chirurgo, e la signorina Takao, assistente chirurgica. Apparivano tutti sfiniti dalla stanchezza, i camici erano mac­ chiati di sangue. Mi dissero che il signor lguchi, il nostro autista, era riuscito a costruire una lampada operatoria di fortuna, ser­ vendosi di una batteria e ·di un fanale d'automobile; con quella luce avevano operato tutta la notte, finché, verso l'alba, la batteria s era esaunta. ,

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Il dottor Koyama, vedendomi cosi sconvolto, cercò di conso­ larmi: "Suvvia, dottore, va tutto bene." Il dottor Katsube mi visitò, mi tastò il polso e concluse: "Ha ricevuto molte ferite, ma per fortuna erano tutte in punti non vitali." Passò poi a descrivermele e mi spiegò come erano state medi­ cate. Non sapevo affatto di avere una brutta ferita alla spalla, ma mi consolò il fatto che il dottor Katsube desse per certa la nua guang1 0ne. "Quanti feriti sono ricoverati all'ospedale? " chiesi al dottor Koyama. "Circa centocinquanta," rispose questi. "Qualcuno è morto, ma ce ne sono ancora tanti, che non si riesce a passare senza calpestarli. Sono sistemati dappertutto, perfino nei gabinetti." Il dottor Katsube annui e aggiunse: "Nel sottoscala ce ne sa­ ranno sei o sette, altri cinquanta li abbiamo messi nel giardino davanti all'ospedale." Fra loro discussero su come fare un po' d'ordine, almeno per rendere transitabili i corridoi. Nel corso di una sola notte, l'ospedale si era riempito di fe­ riti, che stavano stretti come i l riso nel sushi,• sistemati in ogni buco e angolino. Per lo piu, avevano riportato gravi ustioni, alcuni avevano profonde ferite, e tutti versavano in brutte condizioni. Molti si erano trovati nel centro della città, e avevano cercato di fuggire da Hiroshima, ma erano riusciti a trascinarsi a stento fino all'ospedale e qui le forze li avevano abbandonati. Altri, che .stavano nei pressi dell'ospedale, v'erano accorsi non solo per farsi medicare, ma anche perché consideravano l'edificio, l'unico rimasto in piedi fra le distruzioni, un solido rifugio. Erano arri­ vati a valanga, invadendo l'ospedale. Non c'erano né amici né parenti per assister-li e preparare loro il cibo. 1 5 Regnava il piu completo disordine. E, come se non bastasse, i pazienti erano stati colti da vomito e diarrea. Quelli che non potevano muoversi, orinavano e defecavano sui loro giacigli. Quelli che riuscivano a camminare, si tenevano fino alle porte e appena fuori rSi. scaricavano. Chi entrava o usciva •

Il sushi

è un piatto raffinato, a base di riso e pesce marinato, arro­ tolati in un involucro di alghe o nori.

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Jall'eJificio, Joveva, per forza di cose, mettere i piedi in quella sozzura, sparsa proprio davanti agli ingressi. Durante la notte, l'atrio dell'entrata principale s'era riem pito di escrementi, e non ,. 'era modo di ovviare all'inconveniente, dato che mancavano le padelle e, anche se ci fossero state, non v'era chi le portasse ai pazienti. Allontanare i cadaveri era un problema di secondaria impor­ tanza, d i fronte all'altro, insolubile, di ripulire le stanze e i corridoi dall'orina, le feci e il vomito. Chi soffriva di piu, erano quelli che avevano subito ustioni: essi per devano la pelle a brani e le pi aghe restavano esposte all'azione del calore e della polvere. Questo l'ambiente in cui i pazienti dovevano vivere, ed era una cosa da far ri zzare i capelli, ma non si trovava i l modo di mutare la situazione. Erano questi gli argomenti della conversazione che udivo standomene disteso. Una situazione assurda. "Quando crede che potrò alzarmi?" chiesi al dottor Katsube. "Potrei esservi di qualche aiuto." "Non prima che le siano tolti i punti di sutura," m i rispose. "E per questo ci vorrà almeno una settimana." Se ne andarono, e io continuai a riflettere su quanto avevo inteso. Ma non mi lasciarono a lungo coi miei pensieri. Uno alla volta, tutti i membri del personale vennero a dirmi quanto erano spiacenti che fossi ferito e a farmi i loro auguri di pronta gua­ rigione. Mi sentivo oltremodo imbarazzato: alcuni dei visitatori non stavano meglio di me, e avrei preferito non farmi vedere in quelle condizioni. Dalla mia città nata1e, distante centocinquanta chilometri, venne a farmi visita il dottor Nishimura, presidente dell'Asso­ ciazione Medica di Okayama. Avevamo frequentato assieme l'uni­ versità, dove Nishimura era stato i l capovoga della squadra di canottaggio. Appena mi vide gli si inumidirono gli occhi. Mi guardò un istante, poi esclamò: "Grazie al cielo sei ancora vivo! Ne sono felice. Come ti senti ? " Senza a ttendere risposta, riprese: "Ieri sera hanno comuni­ cato che Hiroshima è stata attaccata con un'arma di tipo nuovo. Parlavano di lievi danni, ma ho preferito rendermene conto da solo e poi volevo dare una mano, i n caso che fosse necessario

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l'aiuto di altri medici, e cosf ho trovato una macchina e sono venuto. Che visione spaventosa ci attendeva al nostro arrivo! Ma sei proprio sicuro di star bene ? " Anche questa volta non mi diede il tempo di rispondere. Ri­ prese a parlare descrivendomi le scene strazianti alle quali aveva assistito entrando i n città. Apprendevamo da lui i primi particolari sulla situazione e stavamo ad ascoltarlo con la massima attenzione. Le sue parole mi facevano pensare a mia madre, che viveva in campagna nei pressi di Okayama, e che doveva essere i n preda a vivissima preoccupazione per la mia sorte. Aspettai che avesse finito, e poi lo pregai di comunicare non solo a mia madre ma anche a una mia sorella, la quale viveva a Okayama, che tanto io quanto Yaeko-san eravamo sani e salvi. Mi promise di farlo e, prima di accomiatarsi, mi disse ancora che aveva inten­ zione di raggruppare alcuni medici e i nfermiere e, appena pos­ sibile, di i nviarli a prestare la loro opera a Hiroshima. Venne a trovarmi anche il dottor Tabuchi, un mio vecchio amico nativo di Ushita, il quale aveva subito leggere ustioni alle mani e al viso. Fatti i primi convenevoli, gli chiesi se sapeva cos era successo. "Quand'è avvenuta l'esplosione," rispose il dottor Tabuchi, "ero nel mio giardino, intento a potare gli alberi ; all'improvviso, ho visto un lampo di luce bianchissima e accecante, e sono stato investito da una vampata di calore. Ho avuto appena il tempo di chiedermi cos'era accaduto, che c i fu una tremenda esplo­ siOne. •

"La violenza dell'urto mi scaraventò a terra, ma per fortuna rimasi illeso, e anche mia moglie non s'è fatta niente. Ma doveva vedere casa mia! Non è che sia crollata, ma s'è tutta i nclinata su un fianco. Non ho mai visto nulla di simile. Dentro e fuori era tutto a pezzi. I n ogni caso, dobbiamo dirci fortunati di essere ancora vivi e, ciò che piu conta, che lo sia anche mio figlio Ryoji . Deve sapere che ieri mattina Ryoji era a ndato i n città per certe commissioni, ed è tornato a casa solo verso mezzanotte, quando ormai avevamo perso la speranza che fosse scampato agli i ncendi provocati dalla esplosione. Senta un po'," concluse, "perché non si trasferisce a casa mia ? Adesso non è certo un paradiso. ma sarà sempre meglio che all'ospedale." 19

Non me la sentivo di accettare i l suo i nvito, ma volevo trovare il modo di decHnario senza offenderlo. "Le siamo molto obbligati, -dottor Tabuchi," gli dissi. " Ma il dottor Katsube mi ha ordinato di restare assolutamente immo­ bile finché non mi si chiu dono le ferite." Il dottor Tabuchi fini per convi ncersi e, dopo un po', si alzò per andarsene. "Non se ne vada ancora," lo pregai, "ci racconti piuttosto quello che è successo ieri." "Oh, è stata una cosa terribile," cominciò a dire. "Davanti a casa mia sono passati centinaia di feriti che tentavano di arri­ vare fino alle colli ne, nella speranza di trovarvi scampo. Era uno spettacolo straziante. Avevano le mani e i volti ustionati e gonfi, la pelle che si staccava a brani e pendeva dai muscoli, come gli stracci di uno spaventapasseri. Andavano tutti i n fila come le formiche, e han continuato a passare tutta la notte ; l'esodo è finito solo stamane. Li ho trovati distesi ai due lati della strada, e ce n'erano tanti, che per passare si doveva calpestarli." Ascoltavo il dottor Tabuchi ad occhi chiusi , e riuscivo a raffi­ gurarmi gli orrori che andava descrivendo. Fu cosi che non m'ac­ corsi subito dell'arrivo del signor Katsutani, e fu soltanto quan­ do udii qualcuno singhiozzare, che riaprii gli occhi e lo vidi. Eravamo amici di vecchia data e quindi lo conoscevo bene; sa­ pevo anche che era un uomo molto emotivo; m a adesso appariva cosi sconvolto, che non riuscii io stesso a trattenere le lacrime. Era venuto da Jigozen16 apposta per cercarmi, ma, ora che m'ave­ va trovato, non sapeva frenare la commozione. Si rivolse al dottor Sasada e gli disse, con voce rotta: "Ieri era impossibile entrare a Hiroshima, altrimenti ci sarei venuto. Ancora oggi qua e là ci sono degli i ncendi. Dovreste vedere com'è cambiata la città. Stamane, quando sono arrivato al ponte Misasa, 17 non ho visto altro che distruzioni, non esiste piu nem­ meno i1 castello. Questi vostri sono gli unici edifici rimasti in piedi. Quello delle comunicazioni lo si ve deva a grande distanza, molto prima di arrivarci."

A questo punto il signor Katsutani fece una pausa per ripren­ der fiato, e poi riprese : "Per arrivare fin qui, ho dovuto proce­ dere sui binari della ferrovia, ma anch'essi erano i ngombri di cavi elettrici e di vagOfli hacas sati , e dappertutto c'erano morti 20

e feri ti . Arrivato al ponte, m'è apparsa una scena spaventosa. Non potevo credere ai miei occhi : seduto sul sellino di una bici­ cletta appoggiata al parapetto, c'era il cadavere stecchito di un uomo. È incredibile che siano accadute cose simili!" Ripeté due o tre volte, come per convincere se stesso, che quello che diceva era proprio vero, e poi riprese: "Da quel che ho visto, c'erano moltissimi morti sia sul ponte che sotto. Eviden­ temente molti feriti sono scesi al fiume per bere un po' d'acqua, ma qui li ha colti la morte. Se ne vedevano altri, ancora vivi, che si dibattevano fra i cadaveri trasportati dalla corrente. De­ vono essere stati a migliaia quelli che si sono precipitati nel fiume per sfuggire agli i ncendi, e sono morti annegati . "Ma ancora piu impressione che non la vista dei morti tra­ volti d alla corrente m'han fatto i soldati. Non so quanti ne ho visti, tutti coperti di ustioni da.Ue anche i n su ; la pelle era ca­ duta a brani, lasciando scoperta la carne viva, umi da di siero. Probabilmente, al momento dell'esplosione avevano il berretto i n testa, .perché i capelli sulla sommità del cranio n o n erano bru­ ciati, e pareva proprio che avessero il capo coperto da u na sco­ della di lacca nera. "Ma i loro volti non esi stevano piu. Occhi, naso, bocca, tutto era stato mangi ato dal fuoco, e pareva che le orecchie si fossero liquefatte ; non si capiva piu qual era i l volto e quale la nuca.

Ce n'era uno col viso irriconoscibile, senza labbra, si scorgevano i denti bianchi che gli spuntavano i n fuori ; m i chiese un po' d'acqua, ma non ne avevo. H o congiunto le mani e ho pregato per lui. Non ha detto niente, credo che la richiesta d'acqua sian state le sue ultime parole. Da com'erano ustionati, ritengo che, quando l a bomba è esplosa, dovevano essere a torso nudo." Sembrava che i l signor Katsutani trovasse u n certo sollievo, sfogandosi a descriverei le scene terrificanti che aveva visto, e nessuno di noi pensava a interromperlo : eravamo tutti come affa­ scinati dal racconto di quegli orrori . Mentre parlava, arrivavano altre persone e si fermarono anch'esse ad ascoltarlo. Gli chiesero cosa stesse facendo al momento dell'esplosione. "Avevo appena fi nito di fare colazione," rispose i l signor Katsutani, "e stavo per accendermi una sigaretta, quando, all'im­ provviso, c'è stato u n lampo bianchissimo, seguito subito dopo d a una tremenda esplosione. Non ho perso tempo in riflessioni, ma

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ho cacciato un urlo e mi sono precipitato verso un rifugio anti­ aereo. Non avevo mai sentito un'esplosione simile. Una cosa spa­ ventosa, v i dico. Sono corso fuori dal rifugio, ho afferrato mia moglie e ve l'ho spinta dentro. Poi mi sono detto che a Hiroshima doveva essere successo qualcosa di terribile, e allora sono salito sul tetto del mio magazzino per dare un'occhiata." Raccontando, il signor Katsutani era an dato animandosi sem­ pre piu e riprese a dire, gesticolando vi vacemente : "In direzione di Hiroshima, ho vi sto una gran nube nera che s'andava gon­ fiando, come il nembo di un temporale estivo. Ormai ero certo che i n città doveva essere accaduta una cosa terribile, e allora mi sono precipitato giu dal tetto e sono corso al comando d i Hatsukaichi.18 Ho cercato l'ufficiale di guardia, gli ho riferito quello che avevo visto e l'ho pregato d 'i nviare i suoi uomini a Hiroshima, per soccorrere la popolazione. Ma lui non m'ha preso sul serio. M'ha gu ardato un i stante con aria truce e poi, indovi­ nate cosa mi dice? 'Non c'è da preoccuparsi di niente,' mi fa. 'Un paio di bombe, cosa vuole che facc iano a Hi roshima?' Con quel cretino, era tutto tempo perso. "Non sapevo che pesci pigliare nemmeno io, che pure sono il presi dente della sezione di Jigozen dell'Associazione Ufficiali in congedo : proprio ieri i contadini al mio comando erano stati i nviati a Miyajima19 per il servizio del lavoro. Ho fatto di tutto per trovare qualcuno con cui formare una squadra di soccorso, m a non ci sono riuscito. Stavo ancora cercando gli uomini, quan­ d'ecco che al villaggio comi nciano ad affluire i primi feriti. Ho chiesto loro cos'era successo, ma non sapevano dirmi altro che Hiroshima era stata di strutta e che la popolazione l'abbandonava in massa. Allora ho preso la bicicletta e sono filato verso ltsu­ kaichi.20 Quando sono arrivato, non solo la strada, ma perfino i sentieri e i viottoli erano invasi dai fuggiaschi. "Ho chiesto ancora cos'era accaduto, ma nessuno era in grado di darmi un'informazione precisa. Se chiedevo a quella gente da dove venivano, facevano un gesto i n direzione di Hiroshima e dicevano : 'Da H.' E se chiedevo dov'erano diretti, allora pun­ tavano il dito verso Miyajima. 'Laggiu,' facevano. Dicevano tutti la stessa cosa. "Nei pressi di ltsukai chi , non ho visto né feri ti gravi, né ustionati, ma vicino a Kusatsu21 quelli che incontravo erano quasi

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tutti assai malconci. Il loro numero aumentava man mano che mi avvicinavo a Hiroshima e, all'altezza di Koi,22 erano tutti in condizioni tali, che non riuscivo a sopportare la vista dei loro volti. Dalla folla emanava un puzzo simile a quello dei capelli bruciati." Il signor Katsutani fece una breve pausa per riprender fiato, e poi riprese: "Nella zona attorno alla stazione di Koi non s'era­ no manifestati incendi, ma la stazione e le case vicine avevano subito gravi danni. La pensilina era letteralmente coperta di fe­ riti, alcuni dei quali in piedi, altri sdraiati, e tutti pregavano per un sorso d'acqua, e di tanto in tanto s'udiva la voce di un bam­ bino che invocava la madre. Un vero inferno, ve lo posso assi­ curare. Un vero inferno! "E la situazione è la stessa ancora oggi. "È venuto all'ospedale ieri il dottor Hanaoka. L'ho visto che traversava i binari del tram, a Koi, e si dirigeva verso Hiroshima, ma non credo che sia riuscito a passare attraverso quelle fiamme." "Infatti non s'è visto," rispose qualcuno. Il signor Katsutani annui con aria pensosa, e prosegui: "La­ sciata la stazione, mi sono diretto alla scuola elementare di Koi, che era stata subito adibita ad ospedale di fortuna, ed appariva già piena di feriti in condizioni disperate. Perfino il campo di giochi era coperto di morti e di moribondi, che parevano tanti merluzzi messi a seccare. Che pena, vederli cosi sdraiati sotto il sole ardente! Ci voleva poco a capire che nessuno di loro sa­ rebbe sopravvissuto. "Sul far della sera, mi dirigo nuovamente verso la strada mae­ stra, e chi ti incontro? Mia sorella. Io già pensavo che fosse morta, perché stava di casa a Tokaichi, e invece me la trovo davanti viva. Era cosi felice di vedermi, che non riusciva a par­ lare, non faceva che piangere, di gioia, s'intende, ma come una fontana. Con l'aiuto di certe persone gentili, ho arrangiato una barella, e l'abbiamo portata a casa mia a Jigozen, vicino a Miyaji­ ma Guchi. Perfino il mio piccolo paese, che pure dista parecchio da Hiroshima, era diventato un inferno. Cappelle, templi, dap­ pertutto c'erano feriti." Con questo, il signor Katsutani, che s'era ormai sfogato, se ne andò, ma non fece ritorno a casa, e restò invece a dare una mano a curare i feriti. 23

Dopo quanto avevo inteso, sia dal dottor Nishimura, che dal dottor Tabuchi e dal signor Katsutani, non potevo avere dubbi sulla distruzione di Hiroshima. Ne avevo visto abbastanza per capire che i danni erano gravi, ma quello che m'avevano rac­ contato aveva dell'incredibile. Se pensavo a quei feriti, distesi al sole, che i nvocavano una goccia d'acqua, mi sentivo in colpa, come se starmene a letto fosse un peccato grave, e m i facevano meno compassione perfino i pazienti ricoverati all'ospedale e che dovevano star distesi sul pavimento di cemento nei gabinetti. Mi misi a riflettere sulla mia situazione. "Se non fossi stato ferito,'' mi dicevo, "ora potrei fare anch'io qualcosa, invece di starmene a letto, curato dai miei compagni. Essere ferito e immobili zzato è davvero una disgrazia, se penso a tutto quello che ci sarebbe da fare qui dentro." Per fortuna, il corso dei miei tristi pensieri fu interrotto dal­ l'arrivo del nostro internista, il dottor Hanaoka, proprio lui i n persona, quello stesso che il signor Katsutani aveva visto d i sfuggita a Koi. "Dottor Hachiya, lei non sa come son felice di rivederla!" esclamò il dottor Hanaoka. "Con quello che è accaduto a Hi­ roshima, è un vero miracolo che qualcuno sia sopravvissuto." "Eravamo i n pensiero per lei, dottor Hanaoka," feci io. "Il signor Katsutani, che è andato via pochi minuti fa, ci ha rac­ contato che ieri l'ha visto alla stazione d i Koi, e poi lei è spa­ rito in direzione di Hiroshima. Dov'è stato finora ? E come ha fatto ad arrivare fin qua?" "Adesso che ci sono, me lo chiedo io stesso," ri spose il dottor Hanaoka. "Lasci che le racconti quello che so d egli avvenimenti. M'è stato d etto che una nuova bomba, d i tipo speciale, è stata sganciata nei pressi del santuario Gokoku.23 Se questa voce cor­ risponde a verità, deve essersi trattato di una bomba d i potenza spaventosa: si figuri che, dal santuario fino all'ospedale della Croce Rossa,24 tutto è andato completamente distrutto. L'ospe­ dale, però, benché gravemente danneggiato, è rimasto i n piedi e da quel punto fino a Ujina i danni sono lievi. "Strada facendo, mi sono fermato presso l'ospedale della Croce Rossa. Rigurgitava di feriti e, fuori, d'ambo i lati della strada,

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c'era una fi.Ia di morti e di moribondi, che arrivava fino al ponte Miyuki.25

·

"Fra l'ospedale e il centro della città, che i o abbia visto, non è rimasto niente d'intatto. A Kawaya-cho e a Kami ya-cho26 c'era­ no alcune vetture tranviarie ferme, con dentro dozzine di cada­ veri, neri e irriconoscibi li. Ho visto ci sterne per gl'i ncendi, piene fino all'orlo d i morti, come se ve Ii avessero bolliti dentro. Ac­ canto ad una di queste cisterne c'era un uomo, orribilmente ustionato, accoccolato vicino ad un cadavere, e l'uomo beveva l'acqua p iena di sangue. Se avessi tentato d'impedirglielo. non sarebbe servito a niente, perché aveva perso la testa. I n un'altra cisterna, i corpi erano cosi intasati, che non si riusciva a smuo­ verli. La morte deve aver sorpreso quei disgraziati mentre erano immersi nell'acqua. "Piena di cadaveri è anche la piscina della scuola media Nu­ mero Uno.27 Probabilmente si erano gettati nell'acqua per sfug­ gire all'incendio e devono essere morti soffocati, perché sui loro corpi non c'era tracci a di ustioni." Il dottor Hanaoka si schiarf la gola. "Sa, dottor H achiya," riprese, "il fatto è che quella piscina non era sufficiente per acco­ gliere tutti quelli che volevano entrarci ; e per capirlo bastava dare un'occhiata ai bordi:

non saprei dir.Je quanti sono stati

sorpresi dalla morte col capo penzoloni sull'orlo. I n u n'altra

pi­

scina, ho visto persone ancora vive, che galleggiavano sull'acqua frammezzo ai cadaveri, ma erano tanto deboli che non ce la fa­ cevano ad uscire. C'era chi cercava di aiutarli, ma sono sicuro che devono essere morti tutti. Certe cose non dovrei raccontar­ gliele, ma purtroppo sono vere, m i creda, e non capisco come qualcuno abbia potuto uscirne vivo.'' Il dottor Hanaoka s'interruppe. Si capiva che aveva fretta di mettersi al lavoro e sarebbe stato d a criminali tratten(Tlo in chiacchiere, con tutto quello che c'era da fare. Un po' alla volta, dai racconti di coloro che venivano a tro­ varmi, comi nciavo a vederci un po' piu chiaro. Basandomi sui commenti e le osservazioni dell'uno e dell'altro, riuscivo a for­ marmi un quadro abbastanza preciso di cosa era diventata Hi­ roshima. Appena uscito il dottor Hanaoka, arrivò il dottor Akiyama,

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primario del reparto ostetrico-ginecologico. Non era ferito, ma appariva stanchissimo. "Si sieda e si riposi un po'," lo consigliai. "Deve essersela vista brutta anche lei. Dove si trovava quando è avvenuta l'esplo­ sione?" "In quel preciso i stante," cominciò il dottor Akiyama con voce tremula, "stavo uscendo di casa. C'è stato un lampo acce­ cante, un'esplosione formidabile, ed io sono stato scaraventato a terra supino. Subito dopo, su Hiroshima ha cominciato a le­ varsi una grande nuvola nera, come se ne vedono d'estate prima dei temporali.

'Yarareta,''*'

ho gridato, ed era proprio cosi. Casa

mia era un vero macello. Soffitti, pareti, porte scorrevoli, tutto irrimediabilmente distrutto. "Pochi minuti dopo, i feriti han cominciato ad affollarsi alla mia porta . Ho provveduto a loro fino a poco fa, ma adesso ho esaurito i medicinali, no n ho piu nemmeno una goccia di disin­ fettante. In casa ci sarà a ncora una trentina di feriti, e non c'è nessuno che li possa soccorrere. Non ci sarà niente da fare, a meno che non trovi un po' di medici nali."

ll dottor Akiyama, di solito, era un buontempone, un uomo

che non se la prendeva per niente, ma ora pareva sconvolto.

Mentre parlava, era entrato il dottor Koyama, i l quale aveva udito quasi tutto il suo racconto. "La conosco troppo bene, per non capire quanto ha sofferto," commentò il dottor Koyama. "Meglio non parlarne," sospirò il dottor Akiyama. "Oggi è stato esattamente come ieri : a casa mia, continuano a d affluire dei disgraziati che chiedono aiuto. Tentano di raggiun�ere Kabe,28 ma non ce la faranno. Ed i o non posso aiutarli, nessuno può aiutarli." Riuscivo a farmi un'idea dell'aspetto di Nagatsuka,29 il sob­ borgo dove abitava il dottor Akiyama. Anche l à doveva essere come attorno a Koi. Mi raffiguravo i feriti che camminavano i n silenzio, come anime in pena, e, a chi li interrogava, rispon­ devano che venivano " da H" e andavano "laggiu." Li vedevo chiedere un sorso d'acqua, udivo i loro lamenti, era come



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"Siamo stati colpiti l"

se

assistessi alla loro agonia. Le scene descritte dai miei amici ave­ vano una tale evidenza, che mi pareva di assistervi di persona. Vennero a riferirmi che i degenti avevano perso tutti l'ap­ petito e che, uno dopo l'altro, venivano colti da vomito e da diarrea. Era possibile che la nuova arma di cui si parlava avesse diffuso un gas tossico o magari i germi di qualche malattia mor­ tale? Pregai il dottor Hanaoka di eseguire un sopraluogo, e di osservare se qualcuno dei pazienti presentava i sintomi di qual­ che malattia infettiva. Compiuta .}'ispezione, m'informò che molti dei degenti accusavano non solo diarrea, ma anche perdite di sangue e che qualcuno, durante la notte, aveva evacuato perfino quaranta o cinquanta volte. Questo mi convinse che avevamo a che fare con una dissenteria d'origine bacillare e che bisognava isolare quelli che ne apparivano infetti. Incaricai il dottor Koyama, che fungeva da direttore dell'ospe­ dale, di costituire un reparto d'isolamento. Egli scelse un appez­ zamento di terreno a sud dell'ospedale e, con l'aiuto di qualche soldato di passaggio, riusd a costruire una specie di primitivo padiglione. Con tutta probabilità, le nostre fatiche non sarebbero servite gran che, ma bastava il pensiero che qualcosa si faceva, per tirarci su di morale. Il dottor Katsube e il personale avevano un compito sovru­ mano. Per la stragrande maggioranza dei pazienti, si imponeva un immediato intervento chirurgico, e medici e infermiere erano tutti occupati ad assistere il dottor Katsube. Furono mobilitati perfino i religiosi addetti all'ospedale, i portieri e i ricoverati che potevano reggersi in piedi. Ma anche cosi la situazione non migliorava sensibilmente. Era già un miracolo che il dottor Kat­ sube riuscisse a fare quello che faceva. I corridoi furono sgombrati almeno in parte, per permettere il passaggio ma, dopo un po', erano nuovamente affollati. A com­ plicare le cose, continuava ad arrivare gente in cerca di amici o parenti. V'erano genitori, quasi folli dal dolore, che andavano in cer­ ca dei loro figli. I mariti cercavano le mogli, i bambini i loro genitori. Una povera donna, sconvolta dalla disperazione, si tra­ scinava senza méta per l'ospedale, chiamando il figlio per nome. Era una cosa che scuoteva i nervi dei pazienti, ma nessuno se la sentiva ·di farla smettere. Un'altra donna stava ferma all'in27

gresso, invocando disperata mente qualcuno che riteneva si tro­ vasse all'ospedale. E anche queste grida avevano un effetto de­ primente. Parecchi arrivarono dalle campagne in cerca di parenti o ami­ ci. Costoro si accostavano ai pazienti, li squadravano in viso a d uno a d uno, senza alcun ritegno; a lungo andare quei modi fini­ rono per stancare tutti, tanto che dovemmo proibire loro l'in­ gresso. Dal di fuori giunse voce, e la cosa mi fu confermata, che i l dottor Koyama aveva trovato una compagnia di soldati coi quali intendeva procedere allo sgombero dell'Ufficio delle Co!Tiunica­ zioni, danneggiato dall'incendio, per riadattarlo a succursale del­ l' ospedale. La farmacia ri prese a funzionare. I pochi medicinali che v i s i trovavano furono divisi e preparati all'uso, sotto l'attenta gui da del dottor Hinoi e del signor Mizoguchi. Si cominciava a vedere un po' d'ordine, finalmente si faceva qualcosa di positivo e, col tempo, saremmo forse riusciti a con­ trollare la situazione. Il signor Sera, il direttore amministrativo, venne a riferirmi che, durante la notte, erano morti sedici pazienti ; i cadaveri, avvolti in coperte bianche, li aveva deposti all'entrata di servi zio dell'ospedale. "Non era meglio ri sparmiarle, quelle coperte, i n un momento simile?" mi chiesi. Ma non me la sentivo di rimproverare il si gnor Sera, che evi­ dentemente era stato mosso da consi derazioni d'ordine i gienico e dal rispetto per i morti. Ma quando poi mi disse che i soldati del distaccamento i nvi ato a ri muovere i cadaveri li avevano presi e scaraventati , senza tante cerimonie, coperte e tutto, sulla piat­ taforma di un camion, approfittai della sua indignazione per far­

gli osservare che era meglio risparmiare le nostre coperte. I vivi ne avevano piu bi sogno dei morti. Da tutte le parti giungevano sempre nuovi pazienti e, dato che il nostro ospedale non era a molta distanza dal centro del­ l'esplosione, erano tutti i n brutte condizioni . se

Si comportavano molto bene. Benché all'ospedale non si stes­ certo molto meglio che all'esterno, si accontentavano di un

giaciglio in una corsia sovraffollata. Pareva che bastasse la vista

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dd camice bianco di un medico o di un'infermiera, perché si senti ssero meglio. Una parola gentile era sufficiente a farli scop­ piare in lacrime e il piu piccolo aiuto lo ricambiavano giungendo le mani e pregando per i loro soccorritori. Uniti com'erano dalla stessa sofferenza, avevano la certezza che i medici e le inff'rmiere avrebbero fatto per loro tutto quel che potevano. Piu tardi ci fu riferito che il nostro ospedale era considerato un ottimo rico­ vero. Questo c i fece piacere, ma, in pari tempo, avevamo l'im­ pressione di non fare ancora abbastanza. In mattinata, il signor lmachi e quelli che Io aiutavano in cucina prepararono riso che versarono in un secchio e distribui­ rono servendosi di grandi cucchiai di legno. Quel magro pasto bastò a darmi un momento di felicità. Un altro rancio fu distri­ buì to nel pomeriggio, e il piacere che provavo nel sentirmi sulla lingua i chicchi di riso mi diede la certezza che mi sarei rimesso. Ma molti erano troppo deboli o stavano troppo male per riuscire a mangiare. Gli effetti della denutrizione cominciavano a farsi sentire, peggiorando le loro condi zioni. Stava per scendere la notte, ma per letti non avevamo che stuoie di paglia distese sul nudo cemento. Il dolore delle ferite si faceva piu acuto e non c'erano abbastanza anestetici per cal­ mare le sofferenze. I pazienti, arsi dalla febbre, cominciavano a patire la sete, ma non c'era acqua fresca per calmarla. Fu ricoverato i l dottor Harada, uno dei nostri farmacisti, che aveva riportato gravi ustioni e, poco dopo, fu accolto anche il figlio della vecchia signora Saeki, il quale s i trovava nelle stesse condizioni. Una delle nostre infermiere, la signorina Hinada, dovette essere isolata, perché al mattino presto le si era mani­ festata una forte diarrea. Non c'era nessuno ad assisterla e do­ vette farlo sua ma-dre, benché anch'essa sofferente per le scotta­ ture riportate. Piu tardi, il signor Mizoguchi mi rifer1 che tanto la signorina Hinada quanto la madre erano peggiorate. "È difficile," conclu­ se, "che riescano a sopravvivere fino a domattina." Tutto il giorno non avevo fatto che udire racconti sulle di­ struzioni di Hiroshima e gli orrori ai quali i visitatori avevano assistito. I miei amici erano feriti, le loro famiglie disperse, le loro case -distrutte. Mi rendevo conto dei problemi che il perso­ nale dell'ospedale doveva affrontare, eppure conoscevo il loro 29

coraggio e sapevo che non si sa rebbero ritirati nemmeno d i fronte a difficoltà sovrumane. Mi rendevo anche conto di quello che i pazienti dovevano sopportare ; capivo che avevano una fiducia assoluta nei medici e nelle infermiere, ma sapevo che questi , in realtà, non erano meno impotenti di loro. A poco a poco, cominciai a fare l'abitudine ai dolori altrui, ad essere meno sensibile alle sofferenze e alla disperazione, e finii per accogliere tutto quello che mi si diceva con una tran­ quillità e un distacco di cui non mi sarei mai creduto capace. In due soli giorni, :lVevo fatto il callo a quella si tuazione di caotica disperazione. Mi senti vo solo, ma era una sensazione puramente fisica. Era come se fossi diventato anch'io una parte del buio e del silenzio della notte. Non c'erano radio, mancava l'elettricità, non ave­ vamo nemmeno candele. La sola luce era quella degli incendi lontani, che proiettavano ombre guizzanti sulle pareti. Gli unici rumori erano i gemiti e i singhiozzi dei pazienti. Di tanto i n tanto, uno d i essi, nel delirio, si metteva a i nvocare 1 a madre, o udivo la voce di uno in preda al dolore, che mugolava eraiyo ["non ne posso piu, il dolore è insopportabi le" ] . Che specie di bomba era quella che aveva distrutto Hiro­ shima? Che m'avevano raccontato stamane i miei visitatori? Qua­ lunque cosa fosse, non riuscivo a trovare una spiegazione. Senza dubbio gli aeroplani non potevano essere stati mol ti . E su questo punto anche i miei ricordi erano chiarissimi. Prima che fischiassero le sirene d'allarme, s'era inteso il rombo metal­ lico di un solo velivolo. Altrimenti, perché avrebbero dato il ces­ sato allarme? E perché le sirene non avevano ripreso a fischiare i n quei cinque o sei mi nuti prima dell'esplosione? Ma, per quanto lavorassi di cervello, non riuscivo a spiegar­ mi le distruzioni che ne �rano segui te. Forse era davvero un'ar­ ma nuova. Parecchi dei miei conoscenti avevano parlato, sia pu­ re in termini vaghi, di una "nuova bomba," di "un'arma segre­ ta," di una "bomba speciale," e qualcuno aveva anche detto che, al momento dello scoppio, la bomba era sostenuta da due para­ cadute. Ma non ri uscivo a farmene un'idea precisa. Non c'era una spiegazione logica per danni tanto estesi. Che altro avevamo a disposizione, se non i potesi prive di sostanza, come u na nebbia che si sfaldi in mano ?

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Una cosa era certa : Hiroshima era stata d istrutta ; e con la città erano stati distrutti i reparti militari che vi avevano stanza. Erano spariti i comandi, compreso quello della seconda divi­ sione, e con essi la scuola allievi ufficiali, il quartier generale della Zona Occidentale, i reparti del genio, l'ospedale militare d'armata. Erano crollate le speranze del Giappone. La guerra era persa. Gli dei ci avevano abbandonati. Fra poco le truppe americane sarebbero sbarcate e ne sareb­ bero seguiti combattimenti per le strade, il nostro ospedale sa­ rebbe diventato un caposaldo e .quindi un obiettivo militare. Non m'avevano forse detto stamane che un reparto doveva ac­ quartierarsi nel Palazzo de.Ue Comunicazioni ? E noi ne sarem­ mo stati cacciati ? C'era una risposta a queste domande ? Il dottor Sasada, la signorina Kado e mia moglie erano im­ mersi nel sonno e questo mi faceva piacere. Ma io non riuscivo a chiudere occhio. Udii dei passi, e un uomo apparve sulla soglia, un'ombra nera che si profilò nella semioscuri tà. Protendeva le braccia e te­ neva ,le mani cascanti, come gli ustionati che avevo visto mentre venivo all'ospedale. Si avvicinò e vidi il suo viso, o meglio quello che era stato il suo viso, perché i suoi lineamenti erano stati co­ me liquefatti dal fuoco. L'uomo era cieco e aveva perso l'orien­ tamento. "Non sei nella tua stanza!" gridai, preso da un terrore im­ provviso. Allora quel di sgraziato si voltò e spari nella notte. Provavo vergogna per essermi comportato a quel modo, ma avevo paura. Ero piu sveglio che mai, avevo i nervi tesi, non sarei piu riu­ scito a prender sonno. A oriente, il cielo cominciò a 5chiarirsi. Con quel grido dovevo aver svegliato mia moglie, perché si levò ed usd dalla stanza, forse per andare al gabinetto, e tornò quasi subito. "Che c'è, Yaeko-san ? " le chiesi. Avevo avvertito che qual­ cosa non an da va . . " �-t�san [padre], l'atrio è talmente pieno di pazienti, che non s 1 nesce a passare senza svegliarli," mi rispose tentando di dominarsi. "Ogni passo che facevo, dovevo chiedere scusa. Oh ! 31

È orribile ! E alla fine ho inciampato i n un piede e, quando ho chiesto scusa, nessuno ha risposto. Allora mi sono chinata per vedere, e sai cos'era accaduto?" "Che cosa?" "Il piede in cui avevo inciampato era quello di un morto," disse in fretta e, con un brivido, si strinse a me.

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agosto 1945.

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Ca.Ido intenso fin dal primo mattino. Il

sole era sorto da poco, che già il sudore aveva cominciato a co� larmi dalle ascelle e dalla superficie interna delle cosce. Dalle finestre del secondo piano non usciva piu fumo. Il dottor Sasada era piu gonfio in volto di quanto non fosse il giorno prima, e le bende che gli avvolgevano braccia e mani erano macchi ate di pus misto a sangue. Provai un senso di pe� na, pensando che, due giorni pri ma, mi aveva medicato con q uel� le stesse mani. Dalla finestra giu nse un rumore ; si trattava di un paziente di cui non è stato fatto cenno nel di ario d i ieri . Di tanto �n tanto. nel corso della notte, ne avevo udito il passo e adesso · lo sentivo ancora, soprattutto auando an dava a urtare contro la siepe o contro il muro dell'edificio. "Ha avuto da mangiare?" chiesi alla signorina Kado. "Non si preoccupi, dottore," rispose l'infermiera. "L'orto è pieno di foglie di patate e penso che non avrà fame. " I l paziente di cui stavamo parlando era u n cavallo che era stato ustionato e accecato dal fuoco. Non so com'era capitato H, ma nessuno aveva cuore di cacciarlo, e lo avevano messo nel� I'orto proprio sotto la mia finestra. Un tempo là sotto c'era stato un camoo di tennis, ma poi io avevo pensato che era meglio trasformarlo in orto e vi avevo pia ntato patate. I miei tentativi d i darmi al giardinaggio aveva� no fatto ri dere i colleghi e le mie patate erano divent::� te pro� . ' verbiali. . . . " non le pare ch e avremmo gta "S'tgnonna K a·d o," le c h'1es1, '

dovuto raccoglierle, quelle patate ? Devono essere bell'e grosse, ormai."

l miei compagni risero e per un momento le nostre pene fu�

rono dimenticate.

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La caviglia s 1 mstra cominciò a farmi male. La esaminai e m'avvi di che la fascia era impregnata di siero appiccicoso. La signorina Kado se ne accorse e volle rifarmi la medicazione; questo mi giovò, perché il dolore diminul. Notai però, me-ntre l'infermiera eseguiva la sostituzione, che avevo una grossa ve­ scica sul ginocchio sinistro. Ne fui sorpreso, perché non pensa­ vo di aver subfto alcuna ustione, ma poi mi ricordai di quella brace che m'era piombata sulla gamba, mentre mi trovavo nel giardino dietro il Palazzo delle Comunicazioni. Stamane avevo piu appetito e mi sentivo un po' in forze. Anche il morale era piu alto, i miei pensieri non erano piu co­ si: neri come quelli che mi avevano turbato durante la notte. Il dottor Katsube venne di buon'ora. I nvece di dargli il buongiorno, gli chiesi a bruciapelo quando avrei potuto alzar­ mi. Mi ripeté che ci voleva una settimana prima che si potesse­ ro togliere i punti e che, fino a quel momento, non c'era nean­ che da parlarne, di alzarsi. "Lei è troppo impaziente,'' mi disse. "Ri ngrazi piuttosto la sua buona sorte se è ancora vivo." Che fossi stato in pericolo di morte, era un pensiero che non m'era mai venuto fino a quel momento, ma le parole del dot­ tor Katsube erano state esplicite, e mi resi conto che dovevo aver subito traumi piu gravi di quanto non avessi supposto. "Ero tanto malconcio ? " chiesi, cercando di mostrarmi i ndif­ ferente. "Eravamo tutti molto preoccupati per lei," spiegò il dottor Katsube. "Forse lei non s'è reso · conto che ha perso molto san­ gue. Sa che è rimasto i n coma quasi tutta la notte ? Sua mo-­ glie, la signorina Kado, il dottor · Sasada, il dottor Koyama, io stesso, siamo stati fino all'alba al suo capezzale." "Be', non c'è da meravigliarsi se non ricordo cos'è succes­ so quella notte," commentai, per far credere che non davo trop­ po peso aUa cosa. Dovevo rassegnarmi a starmene a letto. Il dottor Kovama in veste di direttore, faceva senza dubbio un ottimo lavoro e non solo mi teneva i nformato di quanto succedeva, ma, per pu­ ra cortesia, chiedeva il mio parere anche su questioni che avreb­ be potuto risolvere da solo. Arrivò, ad esempio, un biglietto di uno dei nostri dentisti, .

'

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il dottor Chodo, in cui questi avvertiva di essersi rifugiato con la famiglia sulle colline dietro Ushita. I suoi erano tutti sani c salvi, ma lui era stato gravemente ustionato e ci chiedeva se potevamo farlo trasferire all'ospedale. Mandai a prenderlo no­ nostante l a scarsità d i persona.Ie. Ancora, fummo informati che al reparto assistenza dell'Uffi� cio delle Comunicazioni erano giacenti due o trecento stuoie o

tatamP0

che potevamo ottenere ad uso ospedaliero. Erano stuoie

di circa un metro per due e, dato l'affollamento, c'era d a chie� dersi come avremmo fatto a metterle sotto i pazienti. Ma i l si� gnor Sera ed io convenimmo che, sovraffollamento o no, con� veniva usare le stuoie, anche a costo di sgomberare tutti i cor� ridai. Trovò conferma la notizia della morte del si gnor Yoshida, capo ddl'ufficio postale. Il suo cadavere carbonizzato, trovato nei pressi dell'ospedale, fu identificato grazie alla fibbia della ci ntura ; i poveri resti furono c remati davanti al Palazzo delle Comunicazioni. Avevamo perd uto, con lui, un buono e leale amico. Aveva perso la vita anche un'altra emi nente personali� tà, il maggiore Otsuka. Appresi, con una certa meraviglia, che anch'io ero stato dato per m orto. Chi me .Io riferl furono due nostri vecchi amici, il signore e la signora Nagao di Nishihara,31 che in mattinata era no venuti a cercare Y aek�san e me. Da parte nostra, fummo ben lieti di poter smentire la notizia. Nel corso della giornata si fece il possibile per sistema re me� glia i pazienti, raggruppandoli secondo i l tipo e la gravità delle loro ferite ; mescolati ai vivi, si trovarono parecchi morti , benché

in numero m i nore del giorno prima. La notizia m'irritò; a mio avviso, i cadaveri dovevano essere allontanati al piu presto, per fare posto ai vivi . Questo è un altro esem pio dei cambi::J menti che ·le mie i dee avevano subito. Si moriva con tanta facil ità, che comi nciavo ad accettare la morte come un fatto normale e a non esserne piu turbato. Consi deravo già fortunate quelle famiglie che non avevano perduto piu di due membri. Con pensieri co� me questi, avrei avuto ancora il coraggio di andarmene a testa alta fra i miei concittadini ? Alcuni soldati ripresero il lavoro all'Ufficio delle Comuni­ cazioni . Ne discussi col dottor Koyama, prospettando la possi�

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bili,tà di ottenere il loro aiuto per sgombrare uno dei piani e 6i­ stemarvi i pazienti che ora erano alloggiati nei gabinetti e nei corridoi. Nel mezzo della discussione, il dottor Hanaoka ven­ ne ad avvertirci che i casi di diarrea accompagnata da emorra­ gie stavano aumentando e che alcuni pazienti avevano avuto fino a sessanta evacuazioni nel corso della giornata. Per il momento, dunque, quello di organizzare una suc­ cursale dell'ospedale nel Palazzo delle Comunicazioni era un problema meno urgente dell'altro, quello di allargare il reparto isolati,32 e quindi chiedemmo ai soldati di volerei aiutare in questo senso. Ormai, si poteva anche prendere in considerazione la pos­ sibHità di riutilizzare l'ospedale, dato che il secondo piano, dan­ neggiato dalle fiamme, s'era ormai raffreddato tanto da poterlo usare. Prima dell'incendio, il piano era suddiviso in quattordi­ ci s tanze, ma ora le pareti divisorie erano tutte crollate e ne era risultato un unico, vasto camerone. Vivaci discussioni sorsero su quali, fra i pazienti, dovevano essere trasferiti al piano superiore; in quel momento, infatti, ci sembrava che l'incendio avesse fatto del secondo piano un posto assai meno adatto del primo, nonostante il suo sovraffollamen­ to. Decidemmo alla fine che noi, come membri dd personale, saremmo stati i primi a trasferirei di sopra, lasciando agli altri pazienti l'ambiente migliore. Fui io il primo ad essere trasferito e, mentre passavo in ba­ rella per lo stanzone, contai i resti carbonizzati e contorti di trenta letti di ferro, sotto ognuno dei quali u n mucchietto d i cenere bianca era quanto restava dei pagliericci d i cui erano mu­ niti prima dell'incendio. I n tutto il piano non c'era un'unica intelaiatura intatta, ma per me che ero stato disteso due giorni sul cemento, la vista di quei letti bastava a consolarmi. Yaekcr san ed io ne trovammo due, uno accosto all'altro, che non era­ no troppo contorti. Le nostre stuoie furono stese sull'intelaiatu­ ra e, nella nuova residenza, ci trovammo subito a nostro agio. Arri varono poi il dottor Sasada e le signorine Susukida e Omoto e, uno alla volta, vi furono trasportati gli altri colleghi degenti e i l camerone cominciò ad affollarsi. Certo, i muri neri d i fuliggine, i mucchi di cenere, le tubazioni rotte e le aste del­ le tende che pendevano dal soffitto non erano belli a vedersi, 35

ma in nessun ospedale i pazienti potevano vantarsi di vivere i n un ambiente dove c i fossero meno baci lli d i quello, che era sta­ to steri li zzato .dal fuoco. Gli ampi finestroni praticati in tutte e quattro le pareti per­ mettevano un'ampia visuale. Non c'erano piu imposte, né tendi­ ne o vetri, e l'aria e la luce entravano liberamente. Verso est, sud e ovest, si godeva la vista di Hiroshima e, nella baia, a una d istanza di circa ci nque chilometri, appariva l'isola di Nino­ shima.33 Quasi nel centro della città, a forse millecinquecento metri da noi, si levav� no le rovine anneri te dei due maggiori edifici di Hiroshima, quello .dei magazzini compartimentali Fukuya34 e il Palazzo della Stampa Chugoku. La Hijiyama,35 la bella col­ lina sacra che si leva nella parte orientale della città, appariva cosf vicina da poterla toccare. Verso nord non restava in piedi nessun edificio. Mi rendevo finalmente conto di quello che i n tendevano dire i miei amici, parlando della ·distruzione di Hiroshima. Non esi­ steva piu niente, ad eccezione di pochi edifici in cemento armato, compresi i due che ho nominato sopra. Per chi lometri e chilo­ metri , la città sembrava un deserto : non ne restavano che muc­ chi di mattoni e di tegole. Dovevo riesaminare i·l significato che avevo dato finora alla parola di struzione, o cercarne un'altra che espri messe quello che vedevo. Devastazione è forse un ter­ mine piu esatto, ma i n realtà mi mancavano le parole atte a de­ scrivere il panorama che m'appariva dal mio lettuccio di ferro contorto nella corsi a sventrata dal fuoco. Vedevo i soldati che lavoravano ad allargare il reparto d'iso­ lamento. Uno di essi cominciò a cantare per ritmare il lavoro, e gli altri fecero coro, ri spondendo a ogni verso. I n brevissimo tempo, il recinto fu aumentato di circa .dieci tsubo. • Dietro, al di fuori del reci nto, costruirono una latrina con le pareti divi­ sorie costituite da stuoie. Da dove mi trovavo, però, si vedeva tutto nonostante le stuoie. Dalle finestre entrava il soffio della brezza, dando un po' di sollievo ai nostri corpi febbricitanti. Qui non c'erano il di•

Uno tsubo misura circa 1 , 1 0 metri quadrati. È un'unità di misura

fondiaria.

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sordine e il trambusto del piano inferiore. La luce abbondante la vista che si godeva ci .davano un senso di sollievo. La tran­ qui llità dell'ambiente, in contrasto col caos che regnava al pri­ mo piano, aveva un effetto calmante. C'eravamo trasferiti con l'intenzione di lasciare agli altri dc­ genti la parte migliore dell'ospedale, ma ora dovevamo ammet­ tere che chi stava meglio eravamo noi. Decisi quindi di mette­ re il camerone a disposizione degli altri degenti al piu presto possibile. Verso sera, dal ·sud, si mise a spirare sulla città un lieve ven­ ro,36 portando fino a noi un odore che si sarebbe detto di sardi­ ne arrosto. Non riuscivo a capire quale fosse la fonte dell'odo­ re, finché un altro, che lo aveva del pari avvertito, mi spiegò che i reparti sanitari stavano cremando i resti delle persone uccise dall'esplosione. Dalle finestre vedevo infatti numerosi falò ac­ cesi in vari punti della ci ttà, e che in un primo tempo avevo pensato servissero a bruciare le immondizie. Il piu grande era quello che si vedeva verso Nigitsu ; H i morti dovevano essere cremati a centinaia. La scoperta che si trattava di pire funerarie mi fece rabbrividire e mi sentii un po' stomacato. e

Il fuoco ardeva ancora negli edifici in cemento presso il cen­ tro della città; contro il cielo notturno, le costruzioni avevano un aspetto fiabesco. La vi sta di quelle rovine arroventate e dei fuochi funebri mi indusse a chiedermi se anche Pompei, nei suoi ultimi giorni, aveva un aspetto simile; ma non credo che vi fossero tanti morti quanti ce n'erano a Hiroshima. Il personale ospedaliero aveva lavorato quasi senza inter­ ruzione per ben tre giorni e aveva bi sogno di riposo; si provvi­ de quindi a fare un po' di posto nel camerone, per permettere a medici e infermiere di dormire qualche ora, a turno. I l dottor Koyama, prima di distendersi, venne a scambiare qualche parola con me, e mi riferl gli avvenimenti della gior­ nata. Al mattino, s'erano presentati alcuni soldati a chiedere del­ le bende per i reparti della seconda divisione e, benché il per� naie avesse fatto osservare che eravamo a corto di materiale sa­ nitario, i soldati le avevano requisite quasi tutte. Il loro con­ tegno era piu degno di briganti di strada che di militari. Inol­ tre, stavano facendo l'opposto di quello che ci saremmo aspetta-

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ti stando alle promesse piu volte ripetute dell'esercito di for­ nirci di medicinali in caso di attacco aereo. Era esduso che quei soldati appartenessero ai reparti ·di stanza a Hiroshima, di cui erano rimasti pochissimi uomini, che non bastavano nemmeno per trasportare all'ospedale i commilitoni feriti, e la guarnigio­ ne non era in grado di provvedere ai familiari del comandante della piazza, rimasti colpiti e che noi avevamo sistemati in un ga­ binetto. Qui li trovò l'aiutante di campo del comandante, ma non riusd a trovare un luogo piu adatto in cui trasferirli, e do­ vette esserci grato perché riuscimmo a far loro posto nella por­ tineria. I soldati che avevano prelevato i nostri bendaggi dove­ vano provenire da qualche altra località. Non erano queste le uniche preoccupazioni. Il dottor Koya­ ma mi raccontò che altri soldati, di chissà quale reparto, s'era­ no dati da fare tutto il giorno per sgomberare il Palazzo delle Comunicazioni, e correva voce che vi avrebbe trovato posto un comando militare, incaricato di organizzare la difesa di Hiro­ shima in caso ·di invasione. Convenimmo ambedue che, se que­ sto avveniva, l 'ospedale sarebbe diventato l'obiettivo di nuovi bombardamenti, e che nessuno di noi si sarebbe salvato. Andatosene il dottor Koyama, continuai a riflettere su quel­ le notizie, ma finii per irri tarmi e non riuscii a prender sonno. Nel silenzio notturno, avvertivo ogni piu lieve sospiro, udivo i pazienti chiedere acqua o gemere. Uno dei dissenterici, che era stato trasferito al reparto isolamento, ne usd e andò a cercare acqua dietro il Palazzo delle Comunicazioni . Udii un uomo rimproverarlo aspramente, ordinandogli di andarsene subito, se non voleva attaccare la dissenteria anche a lui. Una voce chiese piu volte dell'acqua, ma col passare delle ore si fece sempre piu flebile. Un'infermiera, alla quale chiesi chi era il paziente, mi rispose trattarsi di un giovane ufficiale; da quel che si capiva, doveva appartenere a una famiglia di­ stinta, perché ogni volta che lei gli dava da bere, la ringra­ ziava educatamente. Il giovane ufficiale mi richiamò alla mente una visita che Yaeko-san ed io avevamo avuto il 2 agosto. Un nostro cugino, il capitano Urabe, e sua moglie, avevano trascorso la giornata da noi. Il capitano era stato richiamato i n qualità di medico mili­ tare poco dopo .!a laurea, e per sei o sette anni aveva prestato

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serVIZIO neHa Cina centrale e settentrionale. Lo consideravo un uomo molto disciplinato e coraggioso. Gli avevo esposto i miei dubbi sulle sorti della guerra; se· condo me, gli avevo confidato, saremmo stati sconfitti perché le nostre risorse si stavano assottigliando, e l'indi sci plina ser· peggiava nelle file dell'esercito. Aggiunsi ancora che temevo che Hiroshima venisse bombardata, e che, in tal caso, l'artiglie· ria contraerea non sarebbe servita a niente. Le nostre difese pas· sive erano pr-ogettate per resistere alle bombe i ncendiarie e, a mio avviso, era assurdo pensare che il nemico usasse bombe in· cendiarie contro una città come Hiroshima, che aveva tanti cor­ si d'acqua e tanti spiazzi liberi. Mio cugino era rimasto ad ascoltarmi i n silenzio, e poi ave­ va risposto : "Niisan,* non farti cattivo sangue. Il capo di stato maggiore ha detto che le critiche della nazione non toccano l'esercito, ·perché la risposta dell'esercito sarà la vittoria." Ora, disteso al buio, borbottavo fra me e me : "La risposta dell'esercito sarà la vittoria." Dov'era a desso mio cugino ? Se Io avessi trovato, sarebbe stato i n grado di procurarci i medicina­ li di cui avevamo bisogno? Conclusi che il capitano Urabe do­ veva essere molto occupato, altrimenti sarebbe già tornato a trovarmi. .

9 agosto 1945. La giornata si preannunciò calda e sere­ na. Ma al secondo piano il sole non batteva di rettamente co­ me al primo. Inoltre, la brezza fresca che entrava dalle finestre rendeva l'ambiente molto piu sopportabile. La bocca non mi doleva piu come il giorno prima, e ne ar­ guii che le ferite al labbro e alla guancia stavano rapidament� cicatrizzandosi. Mi sentivo molto meglio, tanto che chiesi se potevano darmi un po' di riso asciutto, invece della solita mine­ stra. La signorina Kado, premurosa come al solito, andò a sca­ vare un po' ·delle patate dolci che avevo piantato e me le cuci­ nò. Quei tuberi non m'erano mai sembrati cos{ buoni. Mia moglie portava ancora il braccio al collo, ma si senti-



am1c1.

Fratello. Usato frequentemente quando

et

s1

rivolge a parenti

o

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va molto meglio, e poté prendersi cura di me. Mi venne da ri­ dere quando .} a sentii chiedere un po' d'unguento bianco, che si spalmò sulle ciglia, per non far vedere che erano bruciacchiate. Questo r itorno di vanità era un buon segno. Il dottor Sasada, i nvece, stamane stava peggio. La febbre gli era salita e si sentiva piu debole. Poco dopo che il ·sole era spuntato, cominciarono ad arriva­ re i primi vi sitatori. Uno dei piu gra diti fu un robusto soldato, piegato sotto un carico di bende e di a nestetici troppo . pesante per un uomo solo. Lo mandava il tenente Tanaka della divisio­ ne Akatsuki. Fui lietissimo per l'arrivo dei medicinali, di cui avevamo tanto bisogno, e ancor di piu perché il tenente Tanaka era in vita. Il giovane ufficia.Je m'era stato presentato d a mio cu­ gino Urabe. Tutti, all'ospedale, gli furono grati per la sua pre­ mura. Ebbi un'altra sorpresa, la visita di Sua Eccel lenza Okamoto, capo del Distretto Occidentale del Ministero delle Comunica­ zioni. Avevo inteso parlare molto di lui, ma non avevo mai fat­ to la sua conoscenza. Era un uomo socievole, molto alla mano, che riusciva a mettere subito a suo agio l'interlocutore. Quan­ do seppe che avevo frequentato, con sei anni di ritardo rispet­ to a lui, la stessa sua scuola a Okayama, disparve ogni residuo di tono ufficiale, e ci mettemmo a parlare dei vecchi tempi. Al momento del bombardamento, stava portandosi a Hiroshima, e si sarebbe trovato i n città, se non fosse stato punto da un'ape presso Kure, una località a quaranta chilometri a sud di Hiro­ shima, dove aveva dovuto fermarsi per farsi medicare. L'ape gli aveva salvato la vita. Conversando con Sua Eccellen za, senza accorgermene m'ero messo a sedere, in segno di deferenza per il mio insigne visita­ tore. Dopo 1a sua partenza, non tardai a rendermi conto del fatto che mettermi a sedere non m'aveva prodotto alcun dolore. Dato che riuscivo a farlo senza soffrirne, perché non potevo addirittura .Ievarmi ? Colsi un momento in cui nessuno poteva vedermi e mi ci provai. Ma le fitte alle suture furono cosr acute, che, pi uttosto scornato, dovetti rimettermi a letto. Tuttavia, la prova mi ridiede un po' di fiducia. Una volta tolte le suture, ne ero certo, avrei potuto rimettermi al lavoro. Il rapporto, che il dottor Hanaoka mi fece sulle condizioni

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dei degenti, stavolta fu piu ricco di particolari. Fui colpito so­ prattutto da un'osservazione : quasi tutti i degenti, qualunque fosse il tipo ·di trauma subito, presentavano gli stessi sintomi . Tutti avevano scarso appetito, la maggior parte aveva nausea e flatulenze, e piu della metà conati di vomito. In parecchi casi si constatava un miglioramento rispetto al giorno prima. Ma la diarrea conti nuava a d essere un grosso pro­ blema, e pareva anzi che stesse diffondendosi. Molto preoccu­ pante era la presenza di sangue nelle feci dei pazienti che pri­ ma avevano solo diarrea; isolarli risultava sempre piu diffici-le. Uno dei ricoverati, un uomo in gravi condizioni, il giorno prima si lamentava di dolori alla bocca, e stamane nel cavo ora­ le e sulla pelle erano visibili numerose piccole emorragie. Il suo caso era il piu misterioso di tutti perché, al momento del rico­ vero, gli unici sintomi erano stati vomito e debolezza generale e pareva che non avesse subito alcuna lesione. C'erano altri pazienti nei quali avevano cominciato a ma­ nifestarsi piccole emorragie sottocutanee, e parecchi tossivano e vomitavano sangue, oltre a quello che perdevano con le feci. Una povera donna perdeva sangue dai genitali. Fra questi pa­ zienti non ce n'era uno i cui sintomi fossero quelli di malattie a n oi note, a parte certuni che, prima di morire, davano segni di gravi disturbi mentali. Secondo il dottor Hanaoka, i pazienti si potevano dividere in tre gruppi : l . Quelli che avevano nausea, vomito e diarrea, e che mi­ glioravano.

2 . Quelli che avevano nausea, vomito e diarrea, e le cui condizioni permanevano stazionarie. 3. Quelli che avevano nausea, vomito e diarrea, e in cui cominciavano a manifestarsi emorragie sonocutanee o di altro tipo. Se questi pazienti avessero subito ustioni o altri traumi, avremmo tirato le conseguenze logiche, ammettendo che quegli strani si ntomi erano da ascriversi al trauma stesso; ma troppi erano i pazienti che, almeno apparentemente, non avevano su­ bito traumi di sorta, e quindi si doveva concluderne, per forza di cose, che si trattava di un male finora sconosciuto. C'era un'altra spiegazione per gli strani sintomi osservati : 41

un'improvvisa variazione .della pressione aunosferica. Avevo let­ to da qualche parte che saliti ad alta quota e in tino troppo rapidamente mi nato casi del genere, e

si manifestano emorragie in individui palombari d'alto mare, i quali rimon­ alla superficie. Ma non avevo mai esa­ non potevo dunque provare la mia tesi.

Tuttavia, continuavo a ritenere che la pressione atmosferi­ ca avesse a che fare in qualche modo coi si ntomi in questione. Quando ancora frequentavo l' Università di Okayama, avevo as­ sistito ad esperimenti condotti in una camera a pressione. Uno stato di sordità improvvisa e temporanea era uno dei sintomi che si manifestavano ogni qualvolta la pressione nella camera veniva bruscamente alterata. Di una cosa ero certo : due giorni prima, quando era avve­ nuto il bombardamento, non avevo udito niente che si potesse definire esplosione e, andandomene verso l'ospedale, avevo visto parecchie case crollare, ma non avevo avvertito alcun rumore. Era stato come se avessi camminato in uno spaventoso film mu­ to. Altri, da me interrogati, m i confermarono che avevano avu­ to la stessa esperienza. Coloro che avevano assistito al bombardamento standosene alla periferia della città, lo descrivevano con l'espressione pi­

kadon.• Per ·dare una spiegazione accettabile del fatto che tanto io che gli altri non avevamo udito alcuna esplosione, bi sognava dunque ammettere che v 'era stata un'improvvisa variazione di pressione atmosferica, la quale ci aveva resi temporaneamente sordi. Si potevano spiegare allo stesso modo anche le emorragie che cominciavano a manifestarsi ? Essendo andati distrutti libri e riviste, per controllare la va­ lidità della mia tesi non mi restava che l'osservazione dei pa•

Pika indica splendore, luce abbagliante, chiaro lampo di luce, ba­ gliore di fulmine. Don, letteralmente "bum," scoppio rumoroso. Insieme, le due parole, per la popolazione di Hiroshima, assunsero il significato di un'esplosione caratterizzata da un lampo e da uno scoppio : "lampo­ tuono." Quelli che ricordavano solo il lampo, parlavano di pika; quelli che si trovavano abbastanza lontani dall'ipocentro per poterli percepire tutti e due, dicevano pikadon. Un'altra parola usata meno di frequente, ma non meno espressiva, era gembaku, che letteralmente vuoi dire "il luogo della sofferenza."

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zienti. A tal fine incaricai i l dottor Katsube di raccogliere, ap-­ profittando delle visite in corsia, quanti altri dati poteva. Ero tutto soddisfatto perché notavo che mi stava tornando la curiosità scientifica, e non mancavo mai di chiedere, a tutti i visitatori, particolari sul bombardamento. Ottenevo risposte va­ ghe e incerte, che però concordavano tutte su un punto : era sta­ ta impiegata una nuova arma. Di che genere di arma si trat­ tasse, era una questione fondamentale. Purtroppo, non erano an­ dati in cenere soltanto libri e giornali, ma a nche i telefoni e. Je radio. Il dottor Chodo che, come ho detto, s'era rifugiato con la famiglia sulle colline di Ushita, fu trasportato all'ospedale e, con i suoi, si·stemato nella sala d'aspetto del reparto dentistico. Chiesi notizie sulle sue condizioni all'infermiera che era andata a prenderlo.

"Il dottor Chodo versa in gravi condizioni," mi rispose que­

sta. "Fa paura a veder.Io, è tutto ustionato e coperto di secrezio­ ne sierosa. Non credo che potrà sopravvivere." "E la moglie e la figlia ? " "Non hanno subito alcuna ferita," rispose l'infermiera. Povero dottor Chodo : proveniente da Okinawa, era arrivato da poco con la famiglia a Hiroshima, dove non aveva né parenti né amici. Cosa ne sarebbe stato dei suoi, se moriva ? Mentre riflettevo sui casi ·del dottor Chodo, la vecchia si­ gnora Saeki si avvicinò i n silenzio al mio letto. Mi bastò un'oc­ chiata al suo volto pallido e tirato per capire quello che voleva dirmi. H suo ragazzo era morto; era i l figlio maggiore, l'uni­ co che le fosse rimasto. Aveva nutrito tante speranze, il gi orno prima, quando l'avevano ricoverato, e ora i nvece il figlio se n'era an dato. La nuora e il figlio minore erano rimasti uccisi dal pi­ kadon. La signora Saeki si copri gli occhi con le mani e pian­ se i n silenzio. Per un po' non riuscii a parlare, avevo un nodo alla gola.

" Obasan [nonna]," le dissi infine, quando potci controllare la voce. "Non si disperi. D'ora in poi provvederò i o a lei." La vecchia signora Saeki continuò a piangere in silenzio ancora per qualche minuto, poi disse : "Oh, la prego, dottore, mi aiuti." E, senza aggiungere altro, si voltò ed usd. Riflettei al caso del dottor Harada. A parte la sommità del

cranio, era tutto coperto di ustioni, che gli avevano trasforma­ to il corpo in un'unica piaga purulenta. Un cerchio di capelli neri copri va la sola parte rimasta illesa. A distanza, sembrava che avesse la testa coperta da un pentolino. Anche lui, come il dottor Chodo, al momento dell'esplosione s'era trovato nei pressi del parco Asano Sentei.37 Mori prima di notte, e i familia­ ri della moglie ne portarono la salma a casa loro a Kabe. Il dottor Okura, un altro dei nostri dentisti, era uscito al mattino per cercare sua moglie, di cui non aveva 5aputo piu nulla dal giorno del bombardamento. Quando rientrò, aveva con sé alcune ossa, raccolte nel punto in cui la donna era stata vista l'ultima volta. Il signor Yamazaki dell'ufficio amministrati­ vo, era ancora alla ricerca della figlia, ma i suoi sforzi risulta­ vano inutili. Il dottor Fujii riusd i nvece a trovare sua figlia, ma la ragazza era in condizioni .disperate e mori a Midorii,38 i n casa d i amici. Purtroppo quel giorno non ci furono che cattive notizie. Il dottor Morisugi, addetto al reparto medicina interna, risultava tuttora mancante; poiché abitava nelle vicinanze del centro del­ l'esplosione, concludemmo che era morto con tutta la famiglia. Erano rimaste uccise tre nostre infermiere, e la signorina Hina­ da la quale, prima che le si manifestasse la diarrea, pareva fuori pericolo, era adesso in fin di vita. Verso sera mori il giovane ufficiale che, la. notte prima, ave­ vo inteso chiedere l'acqua. Sua madre, proveniente dalla lonta­ na Prefettura di Yamaguchi, giunse al suo capezzale pochi mi­ nuti dopo che era spirato. Il letto dell'ufficiale nel reparto isolati fu assegnato a una ragazzina, la quale piangeva in maniera straziante, i nvocando la madre. Scese la notte, e le uniche luci furono ancora quelle delle pire su cui si bruciavano i cadaveri . Si tornava a sentire l'odore di carne bruciata. L'ospedale era piu silenzioso, ma nel reparto isolati la quiete notturna era rotta di tanto in tanto dai gridi ddla ragazzina : "Mamma, che male ! Non ne posso piu! Eraiyo!'' Solo quando il cielo, a oriente, cominciò a schiarirsi, caddi m un sonno inquieto.

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10 agosto 1945.

Quando m i svegliai, spirava una brez­ za fresca. Diedi il buongiorno ai miei compagni, e c hiesi loro come avevano passato la notte. Alcuni alzarono la te,sta, altri, che non riuscivano a farlo, solo la mano. Per fortuna, nessuno era morto. In città, la gente frugava le rovine i n cerca di amici e pa­ renti. A sud, lungo la linea tranviaria che prima congiunge­ va Hatchobori a Hakushima, vi era un continuo passaggio di persone che andavano e venivano dalle colline e i paesi vicini, in cerca dei loro cari o dei beni perduti. Fui informato che la signorina Yama, capo-infermiera del re­ parto chirurgico, s i trovava in un rifugio antiaereo presso Yoko­ gawa,39 i n gravi condizioni. Ne informai a mia volta il dottor Katsube e la signorina Takao, ambedue intimi amici della Ya­ ma, i quali, appena seppero dove si trqvava, partirono per an­ darla a cercare. La signorina Takao, nella fretta, s'era dimenti­ cata di avere ai piedi un paio di vecchi sandali, che si sarebbe­ ro sfasciati dopo pochi passi. "Tomichan," le gridai dietro. "Non può uscire con quei sandali. Non arriverà mai piu a Yokogawa. Qua, prenda le mie 5carpe." -

La signorina Takao si tolse i sandali, s'infilò le mie scarpe, e segui ciabattando il dottor Katsube. Come facesse a non per­ derle per la .strada, è impossibile dirlo : nelle mie scarpe, i suoi piedi ci stavano due volte. Me la figuravo che sgambettava con la lingua di fuori per tenere il passo col dottor K.atsube, la fac­ cia piena grondante di sudore. Bonacciona e posapiano com'er� e poi grassa e piccoletta come Ebisu-sama, il dio della ricchez­ za, col dottor Katsube faceva davvero una bella coppia. Al mattino, mi diedero riso bollito invece di minestra. La differenza era notevole. Con un po' di cibo sostanzioso nello stomaco, senti vo il bisogno di muovermi. E perché non appro­ fittare dell'as·senza del dottor Katsube, per ripetere il tentativo di alzarm i ? Stavolta la mia felicità fu al colmo : riuscivo a cam­ minare, e le fitte alle suture erano molto piu sopportabili. Pochi passi bastarono a persuadermi che avevo bisogno solo d'un po' d'esercizio. Ero tutto i ntento a saggiare le mie forze, quando sen­ tii dei passi e, voltandomi, vidi il signor Mizoguchi che veniva verso il mio letto. 45

"Dottore,"' mi ammoni, "dovrebbe riguardarsi un po'. Lei vuole strafare, mi sembra. Potrei dirle due parole ? " "Sono a sua disposizi one," risposi, un po' seccato perché m'a­ veva trovato fuori dal letto. "Si tratta della scorta di medicinali," spiegò il signor Mi­ zoguchi, ignorando educatamente il mio imbarazzo. "È qua­ si esaurita, e ·quello che ne resta lo di stribuiamo equamente fra i degenti e gli esterni, ma quest'ultimi sono talmente aumen­ tati, che fra poco non ci sarà piu niente per nessuno. Il pacco di bendaggi arrivato ieri è l'unica aggiunta alla scorta dal gior­ no del bombardamento, e i depositi ·di Jigozen e di Yaguchi sono i ntoccabi li." "Preghi il dottor Koyama di venire da me, se è libero," rispo­ si. "È possibile che abbia qualche suggerimento da dare." Il dottor Koyama venne subito; gli riferii quanto avevo sa­ puto dal signor Mizoguchi e lo invitai a fare delle proposte. Rimase a lungo a riflettere, poi disse : "Mi dispiace, ma non vedo alcuna soluzione. Non resta che sperare in qualche inter­ vento dal di fuori . Lei sa che la Prefettura ha promesso il suo aiuto." "E allora," ribattei, "perché non chiudiamo l'ambulatorio ? Per lo meno, potremo tenere per i degenti quel che riusciremo

a risparmiare."

"Non possiamo farlo," obiettò il dottor Koyama. "Chi vie­ ne a farsi curare ha bisogno di medicinali né piu né meno dei degenti, e se noi li respingiamo, dove vuole che vadano ? �� A quest'uscita, mi saltò la mosca al naso. "Sono trascorsi quattro giorni ! " mi misi a gridare, "e an­ cora non abbiamo ricevuto niente ! Anche se la Prefettura terrà fede alle promesse, i medicinali che manderà non saranno suffi­ cienti. Lei ha già abbastanza da fare coi degenti per occupar­ si di tutti quelli che vengono a bussare alla porta. Deve chiu­ dere i l reparto esterni, le dico ; lo deve chiudere oggi stesso !" Il dottor Koyama parve rendersi conto che l'i nsonnia, le fe­ rite, le preoccupazioni per i problemi dell'ospedale mi avevano reso irragionevole, e tentò di calmarmi. Per un po' mi chetai e gli chiesi scusa per lo scatto, ma poi mi lasciai riprendere dal­ l'ira. Alla fine, forse per paura che perdessi il controllo dei miei

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nervi, si rassegnò e mi promise di appendere un cartello per comunicare la chiusura dell'ambulatorio. Ma il cartello era appena apparso, che si fecero vivi polizia e funzionari della Prefettura, a chiedere perché avevamo preso quel provvedimento. Il cartello aveva fatto il suo effetto : ci scongiurarono di mantenere in funzione l'ambulatorio, per il be­ ne di tutta la cittadinanza di Hiroshima. Saremmo stati ben lieti di poterlo fare, rispondemmo, ma non era possibile, data la scarsità delle nostre scorte e il fatto che nessuno aveva provveduto a rinnovarle. Le autorità si im­ pegnarono allora a fornirci il materiale, a patto che l'ambulatrta e facemmo del nostro meglio perché si sentissero come a casa loro. All'ora di pranzo, non me la sentii di mangiare e preferii tornare a letto con una tazza di matcha. Il sapore amarognolo del tè, il suo calore e il lieve stimolo che me ne venne, mi fecero sentire molto meglio. Nel pomeriggio, ebbi la visita di un collega della Associa­ zione Medica di Osaka, che si presentò come dottor Horie. Era sbalordito dei danni riportati da Hiroshima, molto maggiori, mi disse, di quello che. stando a Osaka, si poteva credere leggendo i corimnicati ufficiali. Mi espresse i l sud dolore per i l disastro e poi mi pregò di dirgli come, dopo il bombardamento, era­ vamo riusciti a far fronte alla terribile situazione sanitaria. "Deve sapere," gli spiegai, "che dei centonovanta medici pre­ senti a Hiroshima il giorno della p·ika, settantadue risultano uccisi o dispersi. Già questo le basterà per capire quali erano le condizioni sanitarie in città. Io però posso parlare con cognizio­ ne di causa solo dell'ospe dale. "Non fosse $lato per il coraggioso intervento di queHi, fra i · medici e gli impiegati delle comunicazioni, che avevano su-

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bito ferite meno gravi, nessuno di noi sarebbe sopravvissuto. Non può immaginare quale massa di feriti abbiano dovuto trat­ tare. E la loro opera è stata resa ancora piu d ifficile dal fuoco che ha devastato i due edifici." "V'erano degenti all'ospedale, quando la bomba è caduta ? " chiese il dottor Horie. "No, nessuno," preci sai. "Durante la prima settimana di giu­ gno, avevamo di messo o trasferito tutti i degenti in localid. piu sicura." "E perché l'avete fatto ? " "Perché mi preoccupavo della loro sicurezza," risposi. "Inol­ tre, .desideravo avere l'ospedale sgombro per far fronte a un'even­ tuale situazione d'emergenza." "Non era un provvedimento draconiano ? " obiettò il dottor Horie. "E quali erano i motivi che la spi ngevano ad agire i n quel ·senso ? " "Può darsi che i miei motivi non fossero sufficienti," ammisi. "Ma in ogni caso avvertivo che c'era qualcosa nell'aria, dal mo­ mento che la scuola allievi ufficiali, che aveva sede a due passi dall'ospedale, era stata trasferita all'interno, e che l•esercito aveva iniziato lo sgombero dei magazzini nella parte meridionale della città. Inoltre, ogni qualvolta suonava l'allarme, i soldati erano i primi a partire e i pochi che restavano nelle baracche non face· vano alcun preparativo di difesa. Vunica conclusione possibile era che l'esercito aveva deciso di abbandonare Hiroshima in caso di attacco. Ancora va notato che, sebbene le città principali fossero sottoposte a massicci bombardamenti, i giornali continua­ vano a parlare d i lievi danni. Era un modo di alterare la realtà dei fatti, che accresceva le mie preoccupazioni per Hiroshima. "Infine, queseospedale si trovava in posizione oltremodo pe­ ricolosa, circondato com•era da i nstallazioni militari. L'edi ficio poteva essere facilmente scambiato per la sede del comando di zona, e diventare cos{ l'obiettivo principale di attacchi aerei. Da tempo ero giunto alla conclusione che non esiste alcuna efficace difesa contro le i ncursioni aeree. E non le sembra che questi fos­ sero motivi sufficienti per giustificare i miei provvedimenti ? Ave­ vo perfino raccomandato agli ammalati che frequentavano l'am­ bulatorio, di lasciare, se possibile, la città. Al momento del bom-

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bardamento, l'ospedale era v uoto, ad eccezione di un distacca­ mento di territoriali, acquartierati al secondo piano." Il dottor Horie aveva seguito le mie parole facendo dei cenni d'assenso. "E, mi dica, come s'è prodotto la ferita al viso ? " chiese an­ cora, alzando gli occhi all'improvviso; era chiaro il suo desi derio di conoscere la mia storia. "Mi trovavo a casa mia, nella stanza di soggiorno," raccon­ tai. "Stavo riposando perché fino alle cinque del mattino ero rimasto all'ospedale per il servizio di protezione antiaerea. Dirò per inciso che casa mia adesso non esiste piu, perché è andata distrutta. Dunque, come ho detto, ero a riposare quando la bomba è caduta. Questa al viso non è l'unica ferita, altre ne ho riportate al corpo e agli arti." M'ero intanto aperto gli indumenti, per mostrare le cicatrici. "Lei è sopravvissuto per un vero miracolo !" commentò il dottor Horie. "La peggiore di tutte era la ferita alla coscia," ripresi. "In quel pu nto la carne m'era stata letteralmente strappata a brani. Queste altre mi furono prodotte da schegge di vetro e da fram­ menti di lacca nera, che sono poi stati eliminati con la fuoru­ scita del pw." "Straordinario l Che cosa mi racconta l" esclamò il dottor Horie; e intanto con lo sguardo percorreva le pareti scrostate, le intelaiature contorte delle finestre, le carcasse bruciacchiate dei letti. "Soltanto le pareti di cemento h3;nno potuto salvare questo edificio dalla distruzione," fece con aria pensierosa. "D'ora in poi dovremmo costruire tutti i nostri edifici in cemento annato perché sono gli unici che offrano qualche probabilità di salvezza." ,

Quella conversazione col dottor Horie, uomo intelligente, po5ato e ottimo ascoltatore, fu per me un vero piacere. Verso sera iniziai l'ispezione delle corsie; nel corridoio &a la sala radiologica e la portineria, incontrai i signori Kitao e Yamazaki e alcune infermiere che giocavano col bambino della povera signora Chodo. Mi dissero che stavano portando il piccolo a un nido d'infanzia a Ujina,81 dato che la signora Fujii, la madre adottiva, non aveva abbastanza latte da nutrirlo. Il signor

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Yamazaki avrebbe portato il bimbo a Ujina, mettendolo in u n cestino legato al portapacchi della sua bicicletta. Non seppi trattenermi e scoppiai a pia ngere. La sorte del pic­ colo, orfano di entrambi i genitori morti in maniera orribile, era per me una vera spina nel cuore, e m'era stato d i grande conforto la notizia che, almeno, avrebbe ritrovato una madre amorevole. Dopo cena ci trattenemmo a tavola, chiacchierando del piu e .del meno per ammazzare il tempo. Si commentarono soprat­ tutto le voci sull'esilio del i'Imperatore alle Ryuky u ; poi, uno alla volta, i miei compagni chiesero scusa e andarono a letto e alla fine rimasi solo. Allora m i ritirai anch'io ma non potevo prender sonno, per­ ché il giaciglio era ancora umido. E poi, non riuscivo a togliermi dalla mente il pensiero del bimbo della signora Chodo e, di riflesso, quello di altri bimbi che il bombardamento aveva pri­ vato dei genitori. C'era, ad esempio, una ragazzina di otto anni, la cui casa, mòrtale l'unica parente, la nonna, era diventata l'ospe­ dale. Due ragazzi, fratello e sorella, lui di tredici e lei di otto anni, erano venuti all'ospedale in cerca dei loro fami liari. Ave­ vano ritrovato Ia madre e il fratello maggiore, che però erano morti entrambi. I due bambini erano rimasti soli al mondo, e il signor Mizoguchi li aveva praticamente adottati ; i fratellini, belli, educati e intelligenti, erano .diventati i beniamini di tutto l'ospedale. Pensavo anche a mio figlio e a mia madre che lo teneva con sé, e mi sentivo tri ste e vuoto. Solo a notte tarda riuscii a prender sonno.

settembre 1945.

Ha piovigginato tutto il giorno. Il mattino, l'ospedale era silenzioso; restai a letto a lungo, fissando le pozzanghere sul terreno davanti alla finestra. Fu la signora Saeki che venne a interrompere quel mio stato di semi­ torpore : "Sensei, che le succede ? La colazione è pronta da un pezzo e lei se ne sta ancora a crogiolarsi a letto !" Mi alzai sbadigliando e stiracchiandomi, e seguii la signora Saeki alla mensa. Tentai di mangiare, ma niente aveva sapore. Mi versai una tazza di matcha, ma nemmeno questo mi diede alcun piacere. Non m'andava giu nulla, tutto quello che mettevo

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i n bocca mi dava la nausea. Alla fine, presi u n cordiale per lo stomaco e, con uno sforzo, m i alzai e tornai nella mia stanza. Il mio raffreddore era di quelli buoni, ma mi sentivo troppo nervoso per starmene seduto a lungo e mi diressi all'altro edi­ ficio. Qui, come all'ospedale, regnava la calma piu assoluta; ne chiesi la ragione e mi dissero che era domenica. Fino a quel momento, il susseguirsi dei giorni non aveva avuto alcun signi­ ficato, ed era la prima volta, dopo la pika, che sapevo i n che giorno della settimana eravamo. Dovevo riabituarmi al pensiero che la ·domenica era il giorno di riposo del personale, ma, per quanto mi riguardava, non era un'idea che m'andasse troppo a genio. Ero abituato al rumore e all'attività, e quel silenzio im­ provviso mi dava ai nervi. Il signor Ushio, capo dei servizi generali, sedeva tutto solo nella sua stanza. Pareva molto piu vecchio e malandato di quanto non fosse un mese prima e la stessa i mpressione la dava il suo ufficio. Prima della pika era stata una stanza accogliente, simpa­ tica, bene arredata, ma ora appariva tutta sconquassata, con le pareti nere di fuliggine come quelle di una casa di contadi ni; un vecchio rinsecchito dal fuoco, in una stanza devastata dal -,. fuoco. .,-

Tentai di mostrarmi allegro, nonostante i miei pensieri neri , e

feci i complimenti al signor Ushio per la bella cera che aveva,

e

perché il suo ufficio aveva sofferto meno di altri locali del

palazzo. "Eh, sf, sono fortunato," replicò il signor Ushio. "Per lo meno, ho un letto asciutto, perché, come vede, è sistemato vicino alla parete opposta alla finestra, dove la pioggia non arriva. Per­ ché non viene a stare con me ? Sarei felice di averla come com­ pagno." Lo ringrazi ai e gli dissi che, se la pioggia non cessava, avrei finito per accettare il suo invito. Scambiammo ancora qualche parola, poi io rientrai all'ospedale. Strada facendo , i ncontrai un ragazzino intento a litigare con una bimba, probabilmente sua sorella, la quale gli aveva lasciato cadere la pistola di legno i n una pozza fangosa. "Stupid a che sei ! " strillava il ragazzino. "Brutta stupida l Tira fuori di là la mia pistola !"

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"Non fare cosf," lo sgridai. I l ragazzino mi fissò, grattandosi la testa. "Sa, ha lasciato cadere la mia pistola!" spiegò, a mo' di giu­ stificazione per quei modi rudi. Poi scappò via, scomparendo dietro l'a ngolo, inseguito dalla sorella. Ma dopo un po' riap­ parve, raccattò il suo giocattolo e fece finta di spararmi. Poi lo puntò contro la sorella e sparò anche a lei. Quella si spaventò, e lui continuò a imitare gli spari, finché la bimba non corse via piangendo. Alla mensa trovai il dottor Tamagawa, che lavorava a certe sue annotazioni. Mi sbirciò da sopra gli occhiali e osservò : "Domani è il mio compleanno ed è anche il giorno i n cui do­ vrebbe arrivare il professar Tsuzuki." Senz'aggi ungere altro, tornò a sprofondarsi nelle sue note, come se quelle due affermazioni fossero tanto importanti da non aver bi sogno di ulteriori commenti. Per non disturbarlo, tornai in camera mia. n dottor Sasada e il signor Shiota parlavano del tempo. n signor Mizoguchi aveva trovato a Seno una casa adat­ ta per i l dottor Sasada, il quale voleva andarsene non appena il tempo si fosse un po' rimesso. Pure il signor Shiota si prepa­ rava a }asciarci. Cominciavo a provare anch'io il desiderio di andarmene, ma il mio posto era all'ospedale e ricacciai quel penstero.

3

settembre 1945.

-

Pioggia insi stente.

Il tempo, che non accennava a rimettersi, dava un senso di oppressione che gravava su tutto l'ospedale. L'umidità impre­ gnava tutti gli oggetti , e noi stessi eravamo bagnati fino alle ossa. Le pareti sgocciolavano, gli indumenti e i letti erano zuppi, e tutto emanava un odore di muffa. n giorno prima il signor lmachi e il signor Yamazaki avevano costruito un bagno vicino alla cucina per il personale ospedaliero. Non era un gran che : si trattava di una vecchia tinozza in ferro, di alcune pietre e un paio di lamiere di zinco; ma, se riuscivamo a procurarci abba­ stanza legna secca da scaldarlo, un bagno bollente ci avrebbe rimesso a posto moralmente e fisicamente. Molti di noi non lo avevano piu fatto, dopo la pika. Puliti, e con la prospettiva di

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un bel bagno caldo ogni giorno, anche la pioggia sarebbe stata piu sopportabile. Rientrando dalla solita visita al gabinetto, quel mattino ristet­ ti, al riparo della grondaia, a guardare il terreno imbev uto di pioggia. Passò un povero cagnolino tutto pelle ed ossa, che veniva dall'altro edificio. Aveva qualcosa in bocca e, quando mi fu piu vicino, vidi che si trattava di un torso di cavolo. Doveva averlo trovato nel bidone delle immondizie fuori dalla cucina. Che triste spettacolo, mi dissi, un cane ridotto a masticare dei resti vegt" tali ! Carnivoro per natura, povera bestia, era ridotto a campare di quel che trovava. Aveva perso quasi tutto il pelo e compresi che anche lui aveva subfto gli effetti delle radiazioni. In un cer­ to senso, quel cane era un simbolo. Il panorama dalla porta del­ l'ospedale era di una tetraggine infinita. : il cesso con le stuoie di paglia sotto il salice; un cielo triste che piangeva c piangeva ; i re­ sti delle baracche e dei depositi militari c un povero cane che si trascinava chissà dove, spelacchiato, le costole di fuori, la coda fra le gambe. Era un po' troppo presto per la colazione, ma andai lo stesso alla mensa e attaccai discorso con la vecchia signora Saeki. -

"Baba-san,"

le feci, mentre osservavo i suoi preparativi per la colazione. "Tutto quello che usa per cucinare è bruciato o am­ maccato. Riesce a tagliare con quel coltello ? "

"Sensei-san,"

mi rispose con un sorriso. "Questo è un coltello da macellaio. Il manico s'è bruciato e lei non lo riconosce, ma le assicuro che è proprio un coltello da macellaio e che taglia be­ ni ssimo." "Lei riesce a far funzionare tuuo, baba-san," le dissi con sin­ cera ammirazione; ammiravo il fornelletto a carbone, che s'era fatta lei stessa, praticando un buco sul fondo di un vecchissimo secchio e tappezzandolo all'interno di argilla. "Oh, è una cosa da niente l" si scherm1 la vecchia, con tono ' di modesto orgoglio. "È facilissimo da fare. Basta preparare un po d'argilla, praticare un buco nel secchio e poi con l'argilla se ne tappezza l'interno, ed ecco pronto un konro. Sensei-san, quando si farà una casa, ne fabbricherò uno per lei, vedrà. Uno cos{ non si rompe mai e sono sicura che piacerà anche a okasan." L'ottimismo e il buonumore della vecchia erano come un to-

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nico. Vicino a lei, si fìniva per perdere la musoneria, i malumo­ ri se ne andavano. Poiché il professar Tsuzuki doveva tenere quel pomeriggio la sua conferenza sulla patologia da radiazioni, dopo colazione mi recai nelle corsie e trascorsi gran parte della mattinata riveden­ do le anamnesi raccolte, interrogando i pazienti e prendendo an­ no�azioni, per poter intervenire, al caso, nella discussione. Erano stati accolti alcuni nuovi pazienti. Avevano le petecchie, ma dif­ ferivano dai casi precedenti perché dopo il bomba rdamento, a quel che affermavano, erano stati in ottima salute e i disturbi erano cominciati solo tre o quattro giorni prima. Alcuni di essi comin­ ciavano a perdere i capelli. Nel pomeriggio, con gli studenti e i medici, mi porta i alle rovine della banca Gei bi a Yamaguchi, il luogo scelto dal pro­ fessar Tsuzuki per tenere la conferenza. Era da parecchi giorni che non uscivo dall'ospedale e fui sorpreso dalla vista delle abi­ tazioni di fortuna che cominciavano a sorgere fra le rovine. Ti­ pica una capannuccia fra le rovine di Kyobashi-dori, fatta di quat­ tro sostegni di legno e alcune lamiere, inchiodate alla meno peg­ gio, che servivano da tetto e da pareti : non doveva essere una grande impresa, la costruzione di un affare del genere, pensai. Fummo i n breve alle rovine affumicate dell'edificio in cemento della banca Geibi, davanti alla fermata del tram, vicino al ponte lnari. La conferenza aveva luogo i n una stanza del secondo piano. Da una finestra si scorgeva, oltre la distesa di rovine, la baia di Hiroshima, con l'isola di Ninoshima che si profilava cosi: chia­ ra, da sembrare a portata di mano. A est, si vedevano i sobbor­ ghi di Ujina ed Eba e anch'essi sembravano vicinissimi. Anco­ ra una volta, ero meravigliato constatando quanto piccola sem­ brasse Hiroshima, ora che le case e i palazzi erano distrutti. So­ migliava piu a un piccolo villaggio di pescatori, che non alla bel­ la città che un tempo s'estendeva sulle rive della baia di Hiro­ shima. Non m'aspettavo di trovare cosi poca gente. Alcuni, certamen­ te, dovevano aver rinunciato a venirci per via della pioggia, ma la scarsità dell'uditorio era dovuta soprattutto al fatto che a Hi­ roshima non restavano abbastanza medici da riempire una stanza. Arrivarono, a due, a tre, alcuni vecchi amici, e ci congratu­ lammo a vicenda per averla scampata. 1 56

Arrivò il direttore Kitaj ima col professar Tsuzuki. Erano con loro il professar Miyake, un patologo, e pochi altri, d i cui non sapevo il nome. Dopo una breve introduzione, prese la parola i l professar Tsuzuki.82 Era u n uomo dall'a spetto imponente : s i te� neva diritto nella persona, l'aria sicura di sé; indossava una linda uniforme color kaki. Le pareti scrostate e annerite erano il mi­ glior commento al suo di scorso sulla bomba atomica. Esordi: espo­ nendo la teoria che aveva permesso la reali zzazione della bomba ; prosegui chiarendo il potere distruttivo dell'arma e quante perdi� te umane la sua esplosione poteva causare. Trattò delle conseguen­ ze dell'esplosione, delle ustioni prodotte dal calore e degli effet­ ti della radiazione. Infi ne, discusse la capacità di assorbi mento delle radiazioni. Quando il dottor Tsuzuki ebbe finito, fu la volta del dottor Miyake, il quale riferl sui risultati delle autopsie eseguite su ca­ daveri di pazienti uccisi dalle radiazioni. Quello che ci diceva corrispondeva su per giu alle osservazioni fatte nel nostro ospe� dale e per un momento mi sentii stizzitu perché eravamo stati preceduti nella pubblicazione delle osservazioni . Ma quando il dottor Miyake di sse delle difficoltà che aveva dovuto affrontare per giungere alle sue conclusioni, mi sentii meglio disposto nei suoi riguardi : erano le stesse difficoltà che avevamo dovuto affron� tare noi. Mi interessavano particolarmente le sue osservazioni sul­ la discrasia sanguigna da radiazioni ; su questa materia, per noi c'erano ancora molti punti oscuri, soprattutto sotto l'aspetto cli­ nico. I n conclusione, rimasi soddisfatto : le nostre scoperte tr� vavano conferma anche da altre fonti. Tornando all'ospedale, mi dissi che ormai era tempo di tira­ re le conclusioni delle nostre osservazioni e pubblicarle. Il dottor Tamagawa continuava le autopsie ; ma, conclusi, i l punto di vista patologico non doveva prevalere su quello clinico. In stanza, tirai fuori tutte le mie note e tentai di metterle un po' i n ordine. Ma piu m'affaticavo e piu difficile il lavoro risultava, e alla fine, esa� sperato, preferii rinunciare all'i mpresa. Avrei fatto meglio, forse, a tentare d i riassumere le osservazioni mediante un'analisi sta� tistica, pi uttosto che sforzarrni di dare un ordine alle mie an­ notazioni sparse. Dopo cena, riferii al dottor Sasada e al signor Shiota le con­ ferenze del pomeriggio.

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11 dottor Sasada, ormai impaziente di lasciar .l'ospedale, era sec­ catissimo por il perdurare della pioggia che gli impediva la par­ tenza.

"La prossima volta che se ne va, dottor Sasada," gli dissi scherzosamente, "faccia il possibile per non cadere fra le brac­ cia ddla polizia militare." Quella sera, mia moglie si sentiva meglio e fui contento di trovarla intenta a ridere con altri pazienti. Dissi alla signorina Kado di interrompere le iniezioni di trianone, ma di tenerla sotto osservazione ancora per qualche giorno.

4 settembre 1945.

Pioggia. Cielo coperto. Passai quasi tutta la mattinata ad ordinare le mie carte e a raccogliere i dati statistici necessari a convalidare le nostre osser­ vazioni. Anche s tavolta, finii per confondermi ; dominato dal­ l'impazienza di finire, buttavo giu il lavoro troppo in fretta. Ero convinto che le nostre osservazioni avrebbero costituito lo stu­ dio piu accurato fra quanti erano stati compiuti a Hiroshima : gli osservatori esterni si trattenevano per breve tempo, e quin­ di non erano in grado di formarsi un quadro completo della situazione, come invece coloro che erano rimasti sul posto per tutto quel periodo. Eppure, non ce la facevo. Stavo seduto, be­ vendo tè e fumando sigarette. -

Appena pranzato, mi rimisi a tavolino ma fui interrotto da una v isita inaspettata e molto gradita, quella del signor Hashi­ moto, il quale, in veste di volontario civile, ci era stato di gran­ de aiuto per parecchi giorni ·dopo la pika. Mi aveva prestato lui le prime cure, al mio arrivo all'ospedale, e piu tardi aveva as­ sistito il dottor Katsube che mi ricuciva le ferite. Al momento dell'esplosione, il signor Hashimoto si trova­ va sul tram della linea suburbana che porta dalla stazione di ltsukaichi83 a Hiroshima. Essendo mancata la corrente, s'era incamminato verso Koi e da qui era giunto a Hakushima se­ guendo le rotaie del treno. Aveva raggiunto l'ospedale un mo­ mento prima che l'intera città andasse a fuoco. Uno dei suoi primi incarichi fu quello di dare una mano al dottor Katmbe e alle infermiere, per sgomberare la sala operatoria. Poi s'era mes-

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so a raccogliere legna da ardere per far bollire l'acqua e sten­ lizzare gli strumenti chirurgici.

"Le devo moltissimo, signor Hashimoto," gli dissi con ca­

lore, dopo i primi saluti. "Senza il suo aiuto, molti di noi non sarebbero sopravvissuti." Si scherm{ con modestia, tentando di mi nimizzare la porta­ ta del suo intervento. Mi raccontò che tutti erano persuasi che sarei morto; se me l'ero cavata, dovevo proprio ri ngraziare le cure amorose di cui medici e infermiere m'avevano circondato. Accorgendomi che i miei ringraziamenti lo avevano messo un po' in imbarazzo, cambiai subito argomento e gli chiesi di rac­ contarmi quello che gli era accaduto il giorno del bombarda­ mento.



stata una cosa terribile," rispose. Fece una breve pausa, poi riprese : "Il tram era appena partito dalla stazione di Itsu­ kaichi, ed era giunto all'altezza della clinica chirurgica Miyake, quando si ud{ un tremendo don. Nello stesso istante il tram si fermò e i passeggeri si precipitarono fuori, correndo verso la stazione. Pensando che il pericolo venisse appunto da là, mi diressi verso la strada maestra. In quella vidi un'enorme nube che si levava mi nacciosa su Hiroshi ma; le facevano corona una serie di nuvolette color oro. Uno spettacolo stupendo, come non ne avevo mai visti in vita mia !" "E quando è arrivato a Hiroshima ? " gli chiesi ancora. "Raggiunsi Koi verso le dieci del mattino, e a mezzogiorno giunsi a Yokogawa. Attorno a questa stazione, non c'era ormai piu nulla che l'incendio non avesse ridotto in cenere. Presero a cadere pesanti gocce di pioggia e mi ricordo che sono andato dietro la stazione per ripararmi sotto il cornicione di u na casa che il fuoco aveva risparmiato. Incontrai una vecchia, la quale, a quel che si capiva, stava cercando qualcuno e continuava a ri petere : 'Kimi-san, Kimi-san, perché non sei tornata ? ' Dove­ va trattarsi di sua figlia, che probabilmente faceva parte di una squadra addetta al servizio del lavoro. "Quando giunsi al ponte ferroviario Misasa, alcune delle tra­ versine erano i n fiamme. Sul ponte, vicino al primo casello, scorsi il cadavere di un uomo. I serbatoi d'acqua erano pieni di gente che stava annegando. Uno spettacolo orribile. "Vediamo un po'," ri prese il signor Hashimoto, cercando di

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raccogliere i suoi pensieri. "Mi pare che, quando sono arrivato all'ufficio, erano circa le quattro del pomeriggio. Deve sapere che, sull'asfalto appiccicoso, le mie scarpe s'erano sfasciate e quando, alcuni giorni .dopo, furono distribuite calzature mili­ tari, ne richiesi un paio, per sostituire le mie ormai importabi­ li, ma non riuscii ad attenerle. "Dov'ero rimasto ? Ah, sL Questo che le dico a desso può sembrare una sciocchezza, ma quando la bomba fu sganciata - dico la bomba, ma non so quante ne furono sganciate in realtà - ho visto coi miei occhi scendere due paracadute. C'e1rano anche dei soldati, una trentina i n tutto, che osservavano la scena, battendo le mani dalla gioia, perché credevano che i l B-29 fosse stato abbattuto e che i piloti si fossero buttati dall'ap­ parecchio." "E questi soldati," lo interruppi, "si trovavano sul suo stes­ so tram ? " "Proprio cosi," rispose il signor Hashi moto, facendo dei gran­ di gesti. "Ah, che magnifica nuvola ! Non era esattamente né rossa né gialla, e la sua bellezza è indescrivibile." "E la nube, s'alzava perpendicolarmente ? " chiesi ancora. "Era perfettamente perpendicolare, come se nel cielo d'un azzurro tersissimo, fosse stata tracciata una linea verticale, e aveva contorni netti ssimi ." Cambiando argomento, i l mio visitatore riprese : "Come ho detto, arrivai all'ospedale verso le quattro del pomeriggio. Il dottor Fujii, servendosi di un registro, cercava di controllare il flusso dei pazienti. Egli e il dottor Koyama mi pregarono d i assumermi quell'incarico e per u n po' mi c i adattai, m a alla fine mi resi conto che potevo fare qualcosa di piu importa nte che non registrare i nomi e gli indirizzi dei ricoverati, e allora lasciai i l registro e andai ad ai utare i med ici. Dapprima fui i n­ caricato di spalmare le feri te con lo jodio, ma i pazienti mi ri­ compensavano con parolacce e grida di : 'ltai, itai' [Fa male] . Cosi non andava e provai allora col mercurio-cromo . . Con quel­ lo cominciai a disinfettare le ferite di una ragazza, vestita coi monpe,* che avevo scorto seduta vicino all'entrata e, con sor­ presa, m'ero accorto di conoscere. I tagli li aveva quasi tutti "

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Calzoni da lavoro usati dalle donne.

sulle natiche, ed era difficilissimo eseguire le fasciature : se si alzava dal lettuccio, le bende cadevano. Rifeci piu volte la fa­ sciatura, ma non c'era verso : lei si alzava, e le bende cadevano. Alla fine non .ne potei piu; le tirai giu i monpe un'altra volta, spennellai le ferite, tirai n uovamente su i monpe e stavolta i bendaggi glieli attaccai sui pantaloni, all'esterno." A quel racconto, non potei trattenere le risa e il signor Ha­ shimoto mi fece eco. riprese, "lei forse non mi crederà, ma non ero io l'unico .pesce fuor d'acqua. Le racconterò un fatterello. Non sa­ pendo piu che pesci piglian., andai ·dal signor Ishimaru, il capo­ contabile. Aveva assunto provvisoriamente la direzione dell'uffi­ cio. Bene : l'autorità gli aveva dato un po' alla testa e si senti­ va molto importante. A un certo punto portarono all'ospedale i l signor Okui, un i mpiegato, il quale aveva un'arteria carotidea recisa e mori quasi subito. Verso mezzanotte arrivarono i suoi familiari per reclamarne il cadavere, ma il signor lshimaru op­ pose un netto rifiuto, perché, chissà come, s 'era fitto in capo l'idea che nessun cadavere potesse essere rimosso prima che si fosse praticata l'autopsia; tentammo di farlo ragionare, ma non volle dare ascolto alle nostre parole.

"Sensei,"

"I familiari dell'impiegato, naturalmente, erano furibondi e minacciavano di procedere per altre vie, qualora il cadavere non fosse ·stato consegnato a loro sull'istante. L'atteggiamento del signor Ishimaru apparirà ancora piu ri dicolo, se si pensa che, anche ammettendo la necessità dell'autopsia, non c'era nessuno che potesse eseguirla. Non sapendo piu che pesci pigliare, an­ dai dal signor Ishimaru e gli proposi un compromesso : si trat­ tava ·di far figurare che il signor Okui fosse ancora vivo e che i familiari volevano portarselo a casa prima che morisse. Cos{ il signor lshimaru non rischiava di perdere il suo prestigio, e acconsenti. Anzi, con una decina di noi, si schierò sul�'attenti in segno di saluto, quando il cadavere fu rimosso. "Era la prima volta che tutti noi avevamo a che fare con un cadavere e non sapevamo come cavarcela. Non era poi tut­ ta colpa del signor lshimaru, perché c'era di mezzo la legge che prescrive che un corpo non può essere ri mosso, se prima non vengono presentati i documenti relativi al decesso. Ma dov'era­ no 1 documenti, e dov'era il pe.rsonale che li rilasciava ? Ci dis-

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sero che nel settore est, la gente aveva gravi di fficoltà coi corpi dei loro cari e sempre per lo stesso motivo. C'erano centinaia di famiglie disperate, perché, m ancando qualche stupida carta, non potevano provvedere a cremare i cadaveri. Dopo un paio di gior­ ni, i ca daveri accumulati erano tanti , che nessuno sapeva distin­ guere un morto dall 'altro e i l fetore era insopportabile. In quei giorni non si poteva fare un passo, senza inci ampare in un mor­ to. Erano corpi gonfi, sbiancati, con i l marciume che colava dal­ le bocche e dai nasi." Partito il signor Hashimoto, cercai di figurarmi l'aspetto dd cielo con la cortina d'oro che m'aveva descritto. Mentre lui era intento ad osservare il fenomeno, noialtri cercavamo di fuggire dalle case crollanti o stavano vagando nell'oscurità che era scesa su Hiroshima. Chi s'era trovato in città, dava della

pika

una

versione ben diversa da chi v'aveva assistito da lontano. I pri­ mi dicevano che il cielo pareva dipinto con del sumi• leggero; costoro non avevano visto altro che un lampo di luce accecan­ te ; per gli altri, i nvece, il cielo era apparso di un magnifico

co­

lor giallo, e s'era inteso un rombo assordante. La distanza fra Hiroshima e Itsukaichi era bastata perché le impressioni diffe­ rissero completamente. Il signor Hashi moto m'aveva fatto l'impressione di un acu­ to osservatore. Moltissimi avevano parlato di una grossa nube gonfia che si levava a forma di fungo o di una minacciosa nu­ vola che prima si alzava in cielo e poi assumeva la forma di un fungo nero, ma finora non ero riuscito a farmi un'idea precisa dell'aspetto del cielo in cui saliva la nube. Avevo già udito altri affermare che era uno spettacolo straordinario, specialmente quel­ li che si trovavano a Fuchu84 o a Furuichi e oltre, m a ora riu­ scivo finalmente a raffigurarmi la nube dai contorni nettissimi sullo sfondo del chiaro cielo d'agosto. Nel momento preciso i n cui si formava la nuvola dai mille colori mutevoli, veniva can­ cellata .dalla faccia della terra la città di Hiroshima ; il risultato di anni e anni di lavoro, s'era di ssolto nel cielo stupendo con la gente che l'abitava.



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Qui significa inchiostro di China nero.

5

settembre 1945.

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Cielo nuvoloso al mattino, che s'andò

man mano schiarendo. Il duecentodecimo giorno, che segna l'inizio della stagione dei tifoni, trascorse senza incidenti. Probabilmente a causa del� la pioggia, non ci fu nessuna tempesta, ma grandi masse di nubi corsero il cielo e il vento soffiò con violenza, scuotendo l'edi� ficio. Il rumore del vento mi svegliò mentre sognavo che qual� cuno m'inseguiva, ma, aperti gli occhi, non riuscii a ricordare altro dell'incubo. Feci colazione e ci aggi unsi una tazza d i matcha forte. Mi fu detto che erano arrivati alcuni giornali e andai all'uf� ficio, per vedere se c 'erano notizie sulla resa. Ma rimasi dc� luso: i giornali non c'erano e il signor Ushio aveva solo inteso dire che la resa incondizionata era stata accettata dallo Stato Maggiore e dal Ministero degli Esteri. Seppi ancora che la n� stra attività dopo la pika era stata segnalata al Ministero delle Comunicazioni. Ne fui lieto, sperando almeno in un elogio del ministro al mio personale : l'unica ricompensa che potevo at� tendermi per l'indefessa attività dei miei colleghi e dipendenti. Tornato nella mia stanza, lavorai alle mie note fino all'ora di pranzo. Assicurai il signor Matsumoto del Sangyo Kàzai,85 venuto in cerca di notizie, che di li a un paio di giorni avrei avuto qualcosa d'importante da comunicare alla stampa. Nel pomeriggio compilai un elenco dei reperti clinici, se� guendo la classificazione proposta il giorno prima dal professar Tsuzuki, vale a dire : traumi prodotti dallo scoppio, ustioni pr� dotte dal calore, effetti delle radiazioni. Mi mancavano i nforma� zioni sui primi pazienti che avevamo avuto in cura, perché in quei giorni non s'erano prese note e i degenti ai quali m'ero in� teressato, erano morti tutti. Avevamo circa duecento cartelle cliniche, ed era su queste che lavoravo, elencando i casi secondo i sintomi, le manifestazioni esteriori, i risultati degli esami san� guigni e il rapporto fra questi elementi e la d istanza dall'ip� centro. l dati raccolti dai dottori Tsuzuki e Miyake risultarono molto utili, perché la distruzione della biblioteca dell'ospedale e l'interruzione dei contatti col mondo esterno, ci avevano im­ pedito di tener conto di una somma di dettagli di natura tecni­ ca e scientifica, necessari per tirare le conseguenze delle nostre osservazioni. Lavorai l'intero pomeriggio, riportando le tabelle

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sratisùche su grandi fogli di cartoncino che m'ero fatto dare dal­ l'ufficio, interrornpendorni solo per salutare il dottor Sasada che partiva e per mangiare un boccone. Prima di notte cominciai a sentire le conseguenze di quel lavoro cosi intenso e gli effet­ ti .delle troppe sigarette. A ve vo la gola irritata e bruciori allo stomaco. Bastò un gargarismo perché il prurito alla gola cessas­ se; presi un po' di bicarbonato, feci un paio di sonori rutti, mi sentii lo stomaco libero e potei an dare a dormire tranquilla­ mente.

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settembre 1945.

vola appena.

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Finalmente cielo chiaro con qualche nu­

Per la prima volta dopo settimane, il sole riapparve, bril­ lando in u n cielo blu e terso. Una volta ancora, potevamo vede­ re e adorare il sole. Mettemmo ad asciugare i panni fradici di pioggia : coperte, lenzuola, perfino le bandierine colorate .del battaglione genio, le quali .davano una nota di colore, quasi di gatezza. I l signor Shiota approfittò subito del bel tempo per prepa­ rarsi alla partenza. Quei suoi progetti e la partenza del dottor Sasada, avvenuta il giorno prima, mi rendevano triste, benché sapessi che, fuori dall'ospedale, entrambi sarebbero stati meglio. Il signor Shiota parti nel pomeriggio, accompagnato dalla moglie e dalla signorina Miazaki, lasciando un vuoto che sen­ ùvamo di non poter colmare. Poco dopo la loro partenza ri­ cevemmo dall'esercito un regalo inaspettato : alc uni sacchi di zucchero, ciascuno dei quali pesava da cento a centocinquanta chili. Una manna del cielo, insomma : avevamo una vera e pro­ pria farne di roba dolce. Ed era un peccato che il signor Shiota e il dottor Sasada non potessero avere la loro parte. Verso sera, tornai alle mie carte. S u una pianta della città, considerando come corrispondente all'ipocentro il palazzo delle poste, tracciai dei cerchi con raggio equivalente a 500, 1000, 1 500 e 2000 metri. Tentai poi .di localizzare la posizione pre­ cisa .dei singoli pazienti dei quali possedevamo i dati clinici. Questo risultò piu ·difficile del previsto, perché a tale proposito le informazioni erano solo approssirnaùve, e sulla carta, stam­ pata malissimo, i nomi delle vie si leggevano a stento. Lavora-

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vo, è vero, ma continuamente altre idee mi si affacciavano al­ la mente, rendendo impossibile la concentrazione. Alla fine mi diedi per vi nto, presi un sonnifero e mi misi a letto. Mia moglie era ormai fuori pericolo, e la signorina Yama e la signora Susukida erano in via di guarigione. La mia serenità era turbata solo dal pensiero che il dottor Sasada e il signor Shi ota non erano piu fra noi.

7 settembre 1945.

Cielo nuvoloso. Mi svegliai con la mente limpida, la testa leggera ; i l sonno profondo, senza sogni, m'aveva tolto la stanchezza. Dal giorno della pika era la prima volta che mi sentivo in grado di con­ centrarmi sul lavoro; prima di colazione, avevo già riassunto i dati di ben dieci cartelle cliniche. Dopq colazione, completai l'esame di altri venti casi, prima che i vi sitatori arrivassero a interrompere la mia attività. Riu­ scii a stento a contenere l'impazienza che mi davano e, appena se ne furono andati , mi rimisi al lavoro. A mezzogiorno avevo completato l'esame di metà dei casi. Anche nel pomeriggio, tornai a buttarmi sul lavoro pieno di rinnovato entusiasmo. Ormai ero avviato, e l'esame dei casi di ventava una cosa divertente e interessante. Ritoccai la mia ta­ bella delle di stanze, fissandole come segue : da zero a 500 me­ tri, da 500 a 1 000 metri, da 1 00.0 a 2000 e oltre 2000, e mi ri­ sultò piu facile stabilire la posizione dei pazienti al momento dell'esplosione. Quando mi chiamarono per la cena, avevo de­ sunto i dati di ben centosettanta casi. Non c'era piu dubbio : il tasso .di leucociti diminuiva esat­ tamente i n rapporto inverso alla distanza dall'i pocentro. Compi­ lai per prima questa statistica, perché era la piu facile. Passai poi a confrontare i si ntomi con la distanza, dividendo i casi in due g·r uppi : gravi e lievi. Profittai del silenzio e della frescura notturna, per continuare fino alle tre del mattino, poi presi un sonnifero e mi misi a letto.

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settembre 1945.

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Cielo coperto, qualche

precipitazione. 165

Mi svegliai verso le otto del mattino, effettivamente riposa­ to e pronto a riprendere il lavoro. I n via di massima, riscontravo che coloro i quali si erano trovati piu vicini all'ipocentro presentavano i sintomi piu gravi e che quanto maggiore era stata la distanza dall'ipocentro, tanto meno imponenti erano i si ntomi. C'erano tuttavia delle eccezio­ ni : alcuni pazienti, pur essendosi trovati vicinissimi all'ipocen­ tro, presentavano sintomi lievi e un tasso leucocitico quasi nor� male. Esaminando uno a d uno tali casi, non tardai a scoprire la ragione : questi pazienti erano stati protetti dalle pareti di edi­ fici in cemento armato, da grandi alberi o da altre difese. In giornata giunsero parecchi giornali, ·tutti contenenti arti­ coli sulla patologia da radiazione. Uno era stato scritto dal dottor Tsuzuchi. Ero combattuto fra il desiderio di leggere gli articoli e la necessità di continuare il lavoro; alla fine quest'ultima pre­ valse e misi da parte i giornali, ripromettendomi di scorrerli con piu comodo. Nel pomeriggio tentai di riassumere i risultati delle mie os­ servazioni, ma questo lavoro risultò molto piu diflicile della rac­ colta dei dati. E, per quanto facessi, non riuscivo ad esprimere esattamente il mio pensiero. Scese la sera, ed io ero sempre a tavolino. Solo a notte alta, la mente mi si ·snebbiò e la mano si fece piu sciolta. Lo scri vere divenne un gioco e continuai a lavorare senza interrompermi, soddisfatto della chiarezza dei miei pensieri e della facilità con cui riuscivo a metterli sulla carta. Era quasi l'alba, quando giunsi alla fine del mio lavoro. Pensavo che avrei dormito bene, ma la mia mente conti­ rtuava ad agitarsi, e dovetti prendere una dose di barbital mag­ giore del solito per calmarmi i nervi.

9 settembre 1945.

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Cielo coperto con qualche schiarita.

Mi levai alle otto e fino all'ora di colazione riesaminai quello che avevo scritto. Durante la notte, nella fretta della stesura m'erano sembrate cose molto ben dette, ma ora, a mente fredda, parevano prive di sostanza. Ero partito come un razzo e tornavo a terra come una foglia morta o, meglio, mi era successo come dice il vecchio proverbio : "la testa è di dragone, la coda di serpe." Pertanto, provvidi a lavare la testa e a li sciare la coda,

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ma, anche cosi, quello che avevo scri tto valeva ben poco. Con­ tinuai la elaborazione del mio testo, finché prese forma, anche se questa era sempre ben lontana dalla perfezione. Quando arrivò il signor Matsumoto, i l giornalista, per a vere il manoscritto, mi sentii i n dotto a chie.dergli di lasciarmdo an­ cora un giorno, per darmi modo di elaborarlo ancora. Il gior­ nalista rise e volle dare un'occhiata al testo, e, a lettura finita, mi disse : "Sensei, questo pezzo è prezioso ! Lo terrò da conto e glielo restituirò appena sarà pubblicato." Prima di partire volle fotografarmi mentre leggevo il ma­ noscritto. Ecco il testo dell'articolo :

lA

bomba atom ica e i suoi effetti micidiali

"Qual era il potere della bomba atomica, che ha polverizzato la città ed i suoi abita nti, arso le colline e ucciso i pesci nei fiumi ? Si è trattato di u n lampo di luce abbagliante che è durato solo u n attimo, ma che pure possedeva un potere distruttivo straor­ di nario. Fortunosamente scampato alla morte, sono riuscito a trascinarmi a fatica fino all 'ospedale. Ero coperto del sangue co­ lato dalle ferite causate da frammenti di vetro, ed ero sepolto sotto le macerie della mia abitazione. Questa si trovava a circa 1 700- 1 800 metri dall'ipocentro, mentre l'ospedale era a 1 500- 1 600 metri di distanza. Pensavo d i dover morire i n seguito alle ferite e mi dicevo che, se questo doveva accadere, volevo essere nel mio ospedale. Quando vi giunsi, gli incendi non si erano �m cora svjluppati ; ricordo che le mie prime parole furono : 'Qualcuno è stato ucciso ? ' Da quel momento, rimasi come paralizzato. Di­ steso su una barella, divenni un peso morto per i miei colleghi e le infermiere che dovettero spostarmi di continuo per sottrarmi alle fiamme degli incendi dai quali eravamo circondati. Per for­ tuna, nessuno dei nostri sanitari restò ucciso, dato che l'ospedale si trovava a una certa di stanza dall'ipocentro ed era u n edificio solidamente costruito. Tutti, però, erano feriti, eppure, i n quel terribile frangente, diedero prova di altissimo coraggio e di ma­ gnifica solidarietà. Benché fossi sconvolto d allo spettacolo di mor­ te e di desolazione che mi circondava, riuscivo a d ammirare la loro fred dezza, e desidero esprimere loro pubblicamente rutta 167

la mia gratitudine. Avrei voluto saper affrontare il pericolo con la stes·;a calma dimostrata dalle i nfermiere. Dal giorno dello scoppio ad oggi, sono vissuto in u n ospedale, in cui l'unica cosa abbon